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§ 1 Valenza metaforica del concetto di ritmo - DAMS

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Il <strong>concetto</strong> <strong>di</strong> <strong>ritmo</strong> nella teoria greca<br />

Mena<strong>di</strong>smo


<strong>§</strong> 1 <strong>Valenza</strong> <strong>metaforica</strong> <strong>del</strong> <strong>concetto</strong> <strong>di</strong> <strong>ritmo</strong><br />

Cre<strong>di</strong>amo tutti <strong>di</strong> sapere cosa significhi <strong>ritmo</strong>, finché non proviamo a definirlo: se andassimo a<br />

cercare su un vocabolario una definizione <strong>di</strong> ritmicità, ci verrebbero incontro una serie <strong>di</strong><br />

definizioni vaghe, e velate da qualche ambiguità: l’espressione in generale, viene riportata<br />

imme<strong>di</strong>atamente ad uno svolgersi <strong>di</strong> fenomeni, secondo un determinato or<strong>di</strong>ne, oppure alla<br />

successione armonica <strong>di</strong> forme nello spazio (il <strong>ritmo</strong> che regola l’articolarsi <strong>di</strong> un e<strong>di</strong>ficio o le<br />

posizioni dei personaggi in una scultura, o in un <strong>di</strong>pinto). Avvicinandoci ad una definizione<br />

connessa più strettamente al musicale, verremo in<strong>di</strong>rizzati verso un succedersi <strong>di</strong> suoni, cadenze o<br />

<strong>di</strong> accenti all’interno <strong>di</strong> una frase, oppure verso la struttura <strong>di</strong> una battuta musicale:l’evocazione <strong>di</strong><br />

un movimento, mette in gioco l’idea <strong>di</strong> forte regolarità. Tutto ciò è molto chiaro, se non fosse che<br />

non ci viene mai detto su cosa si basino queste regolarità: non appena chie<strong>di</strong>amo come si passi da<br />

una formula matematica astratta come due quarti alla <strong>di</strong>mensione cinetica che pervade una forma <strong>di</strong><br />

musicalità, avvertiamo subito dei problemi, come uno scivolamento dal terreno <strong>del</strong> numero a quello<br />

<strong>del</strong> movimento e mentre danziamo, forse, non saremmo <strong>di</strong>sposti a <strong>di</strong>re che ci muoviamo in un dato<br />

modo solo perché la musica ci impone la misura due quarti, saremmo anzi piuttosto sorpresi se dal<br />

<strong>del</strong> carattere <strong>di</strong> un movimento ci dovessimo limitare ad in<strong>di</strong>care solo una forma matematica.<br />

Il problema <strong>del</strong> <strong>ritmo</strong> prende consistenza proprio sul tendersi <strong>di</strong> questa definizione, su u terreno<br />

in cui corporeo, numerico e musicale, in senso latissimo, coagulano uno sull’altro, creando una forte<br />

opacità. Sappiamo cogliere con imme<strong>di</strong>atezza le metafore ritmiche, ma non sappiamo estrinsecare<br />

puntualmente il senso cui mirano:le nostre definizioni si appannano imme<strong>di</strong>atamente, possiamo<br />

in<strong>di</strong>care un <strong>ritmo</strong>, ma la sua definizione ci sfugge subito dalle mani.<br />

La cultura greca ha colto imme<strong>di</strong>atamente questo lato <strong>del</strong> problema, e attraverso una serie <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>stinzioni sottili, ma essenziali, ci spinge a trovare una definizione rigorosa <strong>del</strong> <strong>concetto</strong> <strong>di</strong> <strong>ritmo</strong>.<br />

Proviamo ad avvicinarci, trattenendoci ancora su un piano generale, alla nascita <strong>di</strong> questo problema.<br />

Abbiamo parlato <strong>di</strong> regolarità, e nelle definizioni <strong>di</strong> <strong>ritmo</strong> si intrecciano strettamente due nozioni:<br />

la prima è quella <strong>di</strong> misura, la seconda è quello <strong>di</strong> processo.<br />

I presupposti che ci fanno riconoscere un’articolazione ritmica sembrano prendere spessore ne<br />

connettersi <strong>di</strong> almeno due operazioni, <strong>di</strong>stinte fra loro: perché si <strong>di</strong>a un or<strong>di</strong>ne ritmico nello<br />

svolgersi <strong>di</strong> fenomeni o nell’inseguirsi <strong>del</strong>le forme nello spazio, bisogna che sia stato fissato un<br />

criterio, che permetta <strong>di</strong> misurare la <strong>di</strong>stanza, l’intervallo temporale, fra un evento ed un altro, o fra<br />

un elemento spaziale e l’altro. All’in<strong>di</strong>viduazione <strong>di</strong> questa struttura modulare, deve affiancarsi la<br />

possibilità <strong>di</strong> ripeterla a piacimento, <strong>di</strong> iterarla come regola costruttiva che stringe fra loro gli<br />

elementi <strong>di</strong> un intero: un gruppo <strong>di</strong> suoni vengono tenuti in trama, grazie ad un rapporto matematico<br />

che continua a ripetersi, organizzandone i rapporti temporali.<br />

Esiste dunque una scansione, una <strong>di</strong>visione ed una misurazione <strong>del</strong>l’unità ritmicamente<br />

articolata: ed anche lì, il vocabolario sembra darci una mano, in<strong>di</strong>cando la ra<strong>di</strong>ce latina <strong>del</strong>la parola<br />

scan<strong>di</strong>re (scandere), con una trasparente allusione al salire ed allo scendere <strong>del</strong> piede, nel momento<br />

in cui misuriamo la quantità <strong>di</strong> sillabe in un verso: perché ci sia <strong>ritmo</strong>, bisogna trovarsi <strong>di</strong> fronte ad<br />

una struttura chiusa, tanto che si tratti <strong>di</strong> un palazzo, <strong>di</strong> un verso o <strong>di</strong> una frase musicale, e poterne<br />

misurare l’ampiezza, quasi isolandola dal contesto che la circonda.<br />

L’esistenza <strong>di</strong> un <strong>ritmo</strong> separa la cosa dal mondo, porta in rilievo un modo <strong>di</strong> guardare alla<br />

forma <strong>del</strong>la sua organizzazione: quando parliamo, ad esempio, <strong>del</strong> <strong>ritmo</strong> <strong>del</strong>le stagioni, è come se<br />

prendessimo una totalità, l’anno, la scomponessimo in quattro gran<strong>di</strong> quadranti, e guardassimo a<br />

quell’intero, secondo le articolazioni offerte da quella relazione numerica.<br />

Il tempo, unità infinita che assorbe dentro <strong>di</strong> sé infiniti istanti, può essere misurato, l’anno<br />

scan<strong>di</strong>to. Totalità aperta e totalità chiusa richiamano operazioni concettualmente <strong>di</strong>fferenziate. Nel<br />

tempo un’infinità <strong>di</strong> proiezioni <strong>del</strong> medesimo elemento, l’istante, nell’anno invece una totalità


chiusa, tagliata in quattro sezioni, che si abbracciano fra <strong>di</strong> loro. Abbiamo un intero, abbiamo <strong>del</strong>le<br />

parti, e la definizione <strong>di</strong> <strong>ritmo</strong> sembra imme<strong>di</strong>atamente volgersi al modo in cui quella relazione è<br />

stata misurata. L’anno è <strong>di</strong>ventato una totalità chiusa, il prodotto <strong>del</strong> succedersi <strong>di</strong> quelle quattro<br />

fasi. In qualche modo, organizzando una scansione, è come se in<strong>di</strong>cassimo esplicitamente il modo<br />

in cui un intero è andato costituendosi rispetto alle occorrenze <strong>del</strong>le sue componenti.<br />

L’intero si fa processo, sviluppo successivo <strong>di</strong> fatti o <strong>di</strong> fenomeni, che hanno fra <strong>di</strong> loro un nesso:<br />

quel nesso, quell’articolazione è stato fissato dalla misurazione stessa. In questo senso, il processo è<br />

il risultato <strong>di</strong> un’operazione, con cui abbiamo sezionato qualcosa, lo abbiamo organizzato, rispetto<br />

ad una nozione <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne, più o meno elementare. Si tratta <strong>di</strong> uno strato elementare, che dà ragione<br />

<strong>del</strong>la superficie <strong>del</strong> fenomeno, e che vorremmo tentare subito <strong>di</strong> complicare un poco.<br />

Vi sono, infatti, aspetti <strong>di</strong> questo modo <strong>di</strong> presentare la questione che sembrano non essere<br />

molto chiari, tanto più se an<strong>di</strong>amo a vedere la parola che, secondo il vocabolario, in<strong>di</strong>ca l’origine<br />

<strong>del</strong> termine <strong>ritmo</strong>: <strong>ritmo</strong> deriva dalla parola greca r(uqmoÍj.<br />

Si tratta <strong>di</strong> un’espressione complessa, che in<strong>di</strong>ca, in generale, il <strong>ritmo</strong>, o un movimento regolato,<br />

un modo per cadenzare, e quin<strong>di</strong>, in senso lato misura, una proporzione, fino ad in<strong>di</strong>care la forma<br />

<strong>del</strong>la calzatura, o la configurazione dei punti che scan<strong>di</strong>scono il prendere forma <strong>di</strong> una figura<br />

geometrica. La figura viene colta nel momento in cui viene tracciata, ed i punti in<strong>di</strong>cano una<br />

tendenza interna alla configurazione, al modo in cui quella figura verrà chiusa. Se <strong>di</strong>segno tre punti,<br />

il modo <strong>di</strong> congiungerli isolerà imme<strong>di</strong>atamente un piano, ed il r(uqmoÍj sembra in<strong>di</strong>care quella fase<br />

<strong>del</strong> movimento <strong>del</strong>la penna in cui la figura non è ancora <strong>di</strong>segnata fino in fondo, in cui vi è un gioco<br />

fra la flui<strong>di</strong>tà <strong>del</strong>la forma non ancora chiusa e la tendenza interna, che va rafforzandosi, tratto dopo<br />

tratto, nella configurazione <strong>del</strong> suo profilo. Siamo <strong>di</strong> fronte ad una forma in movimento, scossa<br />

ancora da una cineticità interna, anche se orientata verso una risoluzione.<br />

La soluzione prende corpo nel momento in cui giungo al limite <strong>del</strong>la chiusura, passando dalla<br />

configurazione o dalla <strong>di</strong>sposizione <strong>del</strong>le parti, all’articolazione determinata <strong>del</strong>l’intero.<br />

Il tema spaziale sembra coniugarsi ad un riferimento temporale, che ci parla <strong>del</strong>la modalità <strong>del</strong><br />

suo venire alla luce. Assumendo questa prospettiva, potremmo ripensare a tutti gli esempi che<br />

abbiamo finora citato, ed il <strong>concetto</strong> <strong>di</strong> <strong>ritmo</strong> sembra imme<strong>di</strong>atamente guadagnare una mobilità<br />

inaspettata, che le placide formulazioni che andavamo sciorinando tendevano a nascondere.<br />

Cosa significa, infatti, scan<strong>di</strong>re l’anno secondo le stagioni, se non tentare <strong>di</strong> creare un sistema<br />

mobile <strong>di</strong> organizzazione <strong>del</strong> tempo, che ci permetta <strong>di</strong> in<strong>di</strong>viduare una serie <strong>di</strong> cesure possibili, che<br />

possano frenare, ed articolare, la fuggevolezza <strong>del</strong> tempo?<br />

Dobbiamo chiederci su cosa si appoggi la convenzione che sostiene il passaggio da una stagione<br />

all’altra, cosa ha <strong>di</strong> mira quella relazione: il fatto che il ciclo <strong>del</strong>le stagioni abbia un andamento<br />

circolare, pone alcuni problemi: da un lato quella circolarità permette che quel mo<strong>del</strong>lo trovi nella<br />

ripetizione la possibilità <strong>di</strong> essere iterato a piacere, dall’altro esso ci pone <strong>di</strong> fronte ad un sistema <strong>di</strong><br />

transizioni, che ha come scopo catturare una trasformazione che segmenta una lunga unità <strong>di</strong> tempo,<br />

permettendone una sorta <strong>di</strong> organizzazione interna.<br />

Prendendo come asse d’orientamento l’idea <strong>di</strong> mutamento, le stagioni si legano infatti al mutare<br />

<strong>del</strong> tempo, <strong>del</strong> clima: ogni passaggio da una stagione ad un’altra in<strong>di</strong>ca il ra<strong>di</strong>calizzarsi <strong>di</strong> una<br />

tendenza. Il nesso interno è la trasformazione <strong>del</strong>l’una nell’altra, la morte <strong>del</strong>l’una nell’altra, in un<br />

processo <strong>di</strong> chiusura e risoluzione, scan<strong>di</strong>to dal mutamento. Il punto in cui avviene quella cesura,<br />

quel limite che devo toccare per articolare l’intero, è anch’esso in movimento, e sembra che abbia,<br />

in realtà, una consistenza tenue, una necessità logica ben opaca. Siamo <strong>di</strong> fronte ad una metafora<br />

ritmica, che si appoggia ad un’immagine, ma non appena cerchiamo <strong>di</strong> guardare dentro<br />

all’immagine, i concetti si appannano. Abbiamo solo arrestato la flui<strong>di</strong>tà <strong>del</strong> tempo, con una serie <strong>di</strong><br />

in<strong>di</strong>catori, che hanno una profonda flessibilità interna. Il senso <strong>del</strong>la costruzione, visto da vicino,<br />

sembra assai povero.<br />

La forma <strong>del</strong>la calzatura segue l’idea <strong>di</strong> una flui<strong>di</strong>tà intrappolata nel movimento. La calzatura<br />

deve adattarsi al movimento <strong>del</strong> piede, offrirgli un certo gioco interno, costruirsi e come un limite<br />

mobile, in grado <strong>di</strong> affrontare gli scarti impreve<strong>di</strong>bili <strong>del</strong> movimento. Quella formazione è fluida,


scossa da un continuo mutamento <strong>di</strong> assetto, come per un profilo che deve calzare attorno a<br />

qualcosa, senza poterlo irrigi<strong>di</strong>re: esiste così l’idea <strong>di</strong> una elasticità <strong>del</strong>la forma, che sembra<br />

avvicinare il rapporto fra <strong>ritmo</strong> e forma a quello che intercorre fra un luogo, ed uno spazio che lo<br />

circonda.<br />

Nell’idea <strong>di</strong> <strong>ritmo</strong> comincia così a farsi largo, accanto a quella <strong>di</strong> una scorrevolezza che deve<br />

essere frenata, misurata, per mantenere la flessibilità <strong>del</strong>l’andamento, una vaghezza scoraggiante.<br />

Lo stesso accade per la misura <strong>del</strong>la sillabe <strong>del</strong> verso: una volta che abbiamo in<strong>di</strong>viduato una<br />

scansione, la dobbiamo seguire, ma seguire una scansione ritmica nella parola significa comunque<br />

dover organizzare tutta la trama <strong>del</strong> <strong>di</strong>scorso, anche sul piano <strong>del</strong> significato, per non ridurre<br />

l’oggetto fuggevole, protetto da parola e metrica, ovvero il portato espressivo <strong>del</strong> <strong>di</strong>scorso, in pura<br />

meccanicità.<br />

Avevamo in mano poco, or sembra che i concetti vadano tutti sciogliendosi fa loro. La nozione<br />

<strong>di</strong> processo, è cambiata drasticamente <strong>di</strong> segno: non solo la connessione <strong>di</strong> elementi attraverso<br />

l’in<strong>di</strong>viduazione <strong>di</strong> un nesso, ma l’ostinata ricerca <strong>del</strong> senso interno <strong>di</strong> quel processo, per poterne<br />

mantenere intatta la configurazione nel tempo.<br />

Continuando la nostra lettura, troveremo un imme<strong>di</strong>ato riferimento allo stato d’animo, ad un<br />

carattere, alla natura <strong>di</strong> un modo <strong>di</strong> sentire, ad una <strong>di</strong>sposizione psicologica. Una <strong>di</strong>sposizione<br />

psicologica, un carattere, sono elementi che hanno proprio la possibilità <strong>di</strong> mutare nel tempo, <strong>di</strong><br />

trasformarsi, <strong>di</strong> produrre continui rivolgimenti. Un carattere, secondo Eraclito, in<strong>di</strong>ca già un<br />

destino, una storia possibile, ma quella storia è tutta da scrivere, non viene mai prescritta<br />

rigidamente.<br />

Il r(uqmoÍj comincia a mostrare una bivalenza interna, rafforzata dal fatto che quel termine deriva<br />

da un verbo assai noto ai filosofi, r(eÍw, che significa scorro, colo fluisco, stillo. Fluire, scorrere,<br />

colare in<strong>di</strong>cano un mutamento continuo, ed anche l’idea <strong>di</strong> un deca<strong>di</strong>mento: in Platone in<strong>di</strong>ca<br />

l’essere in una continua fluttuazione, in continuo mutamento, ma anche il decadere, il corrompersi,<br />

il non poter mantenere un assetto stabile.<br />

La nozione <strong>di</strong> <strong>ritmo</strong> sembra avere qualcosa <strong>di</strong> questo carattere, ed al tempo stesso, sembra voler<br />

<strong>di</strong>fendere, nella fluttuazione, l’acquisizione <strong>di</strong> una forma. Potremmo concluderne imme<strong>di</strong>atamente<br />

che esiste una <strong>di</strong>alettica interna a r(uqmoÍj, che mette sullo stesso piano, la flui<strong>di</strong>tà <strong>del</strong>l’accadere ed il<br />

vincolo attraverso cui conquistiamo una sua articolazione.<br />

Il modo <strong>di</strong> porre la questione porta con sé molte opacità, perché se il problema <strong>del</strong> <strong>ritmo</strong> giace<br />

nella coesistenza <strong>di</strong> questi aspetti, dobbiamo articolare un periplo complesso attorno al problema,<br />

per poterne decifrare meglio i tratti: siamo infatti ad una nozione che sembra avere almeno due lati<br />

e che prende consistenza nell’oscillazione fra due configurazioni.


<strong>§</strong> 2 Il <strong>ritmo</strong> come enigma<br />

Proviamo ad avvicinare la questione, assumendo, sulle prime, un punto <strong>di</strong> vista generale,<br />

volutamente pre-filosofico: potremmo <strong>di</strong>re che forse il <strong>ritmo</strong> è una nozione che ha qualche relazione<br />

con l’enigma.<br />

Un enigma non è una semplice domanda, ma un modo <strong>di</strong> presentare un oggetto, facendo<br />

emergere al suo interna una determinazione <strong>di</strong> tipo contrad<strong>di</strong>ttorio, per cui la stessa cosa si dà<br />

nell’opposizione fra più caratteri, fra più tendenze. La stessa presenta almeno due lati, e quei lati<br />

impongono una me<strong>di</strong>azione, che permetta alla cosa <strong>di</strong> mantenere un equilibrio fra gli aspetti, che la<br />

tirano ora da una parte, ora dall’altra. La cosa si configura così attraverso un’opposizione, che ne<br />

permette una scansione ritmica. La nozione <strong>di</strong> enigma rimanda imme<strong>di</strong>atamente alla filosofia<br />

presocratica. Ecco la formulazione caratteristica <strong>di</strong> un enigma, secondo Cleobulo 1 .<br />

ei) =j o( pathÍr, pai=dej de\ duwÍdeka tw=n deÍ e)kaÍstwi<br />

kou=rai e(chÍkonta <strong>di</strong>aÍn<strong>di</strong>xa ei)=doj e)Íxousai à<br />

ai)Í meÍn leukai\ e)Íasin i)dei=n, ai)Í d )au=)te meÍlainai<br />

a)qaÍnatoi deÍ t e)ou=sai a)pofqinuÍqousin a(Ípasai. 2<br />

Uno solo è il padre, mentre do<strong>di</strong>ci sono i figli, ciascuno<br />

dei quali ha sessanta fanciulle, che hanno un duplice<br />

aspetto:<br />

le une sono bianche a vedersi, le altre nere per contro,<br />

ed essendo immortali, tutte periscono.<br />

Le parole, sibilline, vogliono in<strong>di</strong>care un modo <strong>di</strong> guardare l’anno: ha do<strong>di</strong>ci figli, i mesi, e ogni<br />

mese è composto da sessanta mezze giornate, in cui si alternano giorno e notte, pur essendo<br />

immortali, perché giorno e notte sono in ciclo continuo, ogni volta periscono, per rinascere nel loro<br />

incrocio ritmico. Il tempo viene colto ora come ciclicità che conserva, nel ripetersi <strong>del</strong>la giornata,<br />

ora come flusso, in cui ogni istante viene <strong>di</strong>vorato nella transizione dal giorno alla notte. Quella<br />

transizione, la zona interme<strong>di</strong>a in cui il carro <strong>del</strong> giorno ed il farsi <strong>del</strong>la notte si incrociano lungo le<br />

bronzee porte <strong>del</strong> tempo, garantisce immortalità ad entrambe, perché una si risolve nell’altro e<br />

viceversa.<br />

Il passaggio, che ha valenza ritmica, in cui si alterna una configurazione che si spegne poco a<br />

poco, nell’altra, ci interessa particolarmente, perché fa emergere <strong>di</strong> nuovo un coesistere fra<br />

transizione, e rigi<strong>di</strong>tà, un passaggio fra due poli, che ha nel suo sviluppo un movimento che<br />

confonde le carte. L’ambiguità <strong>del</strong>la situazione si rispecchia nel passaggio da un modo <strong>di</strong> formulare<br />

all’altro: <strong>di</strong> particolare interesse, il fatto che le sessanta fanciulle abbiano un duplice aspetto, che in<br />

greco viene espresso con l’avverbio <strong>di</strong>aÍn<strong>di</strong>xa, che significa in due parti. Ogni nuova giornata è<br />

bipartita, ed il nesso che la separa prende forma nel passaggio da una configurazione all’altra. Vi<br />

sono linee che tagliano in due, ma vi è anche una continua metamorfosi, che sposta gli elementi fra<br />

<strong>di</strong> loro. Ogni e nuovo, iterazione ed evento, questo è il punto. L’aspetto <strong>del</strong> giorno nasce come<br />

<strong>di</strong>visione, il giorno è separatezza apparente, ma anche ripetizione che si ricompatta, formata da una<br />

serie <strong>di</strong> unità, che continuano a ripresentarsi secondo la sequenza logica (-a, +a).<br />

1<br />

Traggo il passo da Giorgio Colli, La sapienza greca, A<strong>del</strong>phi, 1977, Milano, pp. 340 - 342 e sgg. Colli osserva che<br />

sull’attribuzione <strong>di</strong> questo passo a Cleobulo <strong>di</strong> Lindo esistono pesanti dubbi da parte <strong>di</strong> Diehl. Per Wilamowitz, essi<br />

comunque sono molto antichi (G. Colli, Op. cit., p. 435).<br />

2<br />

Cleobulus, I, 129 - 130 Diehl, (Diog. Laert. I, 90 - 91 [feÍretai d au)tou= … kai\ ai)Ínigma toi=on] ; Stob. Ecl. I, 8,<br />

37; A. P. 14, 101).


Solo in questo modo quel passaggio, <strong>di</strong>venta unità, misura, che nel mese si fa sequenza, ed è in<br />

con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> iterarsi almeno sessanta volte, mentre l’anno equivale ora a sessanta volte per do<strong>di</strong>ci.<br />

La scansione crea un processo, ed al suo interno le cose possono essere lette secondo due<br />

determinazioni <strong>di</strong> tipo contrad<strong>di</strong>ttorio: solo in questo senso, le mezze giornate, pur essendo<br />

immortali, tutte periscono:<br />

a)qaÍnatoi deÍ t e)ou=sai a)pofqinuÍqousin a(Ípasai<br />

La formulazione mette in luce chi ciò che è immortale, come luminosità <strong>del</strong> giorno che<br />

continuamente si rigenera nel ciclo, inabissandosi nel buio, nel ciclo, nel processo stesso deve<br />

morire, per lasciar emergere l’altra parte <strong>del</strong> giorno: esiste un equilibrio fra le due configurazioni<br />

possibili, che garantisce il <strong>ritmo</strong>, la scansione da una fase all’altra: la misura, che ha una consistenza<br />

numerica, mette capo al sistema ciclico, che permette che ai due aspetti <strong>di</strong> coesistere, portando alla<br />

luce il modo attraverso cui bisogna pensare quella relazione. Ogni fase <strong>del</strong> giorno trova il proprio<br />

fondamento nel darsi <strong>del</strong>l’or<strong>di</strong>ne <strong>del</strong>l’altra. Mutamento e ripetizione sono in anello, e questo<br />

permette al sistema, che si chiude su se stesso, <strong>di</strong> non <strong>di</strong>sperdersi, <strong>di</strong> prendere una consistenza <strong>di</strong><br />

tipo formale, per quanto elementare esso possa essere. L’anno sta trasformandosi in una grande<br />

totalità chiusa, che vive in una fluttuazione continua da una configurazione all’altra.<br />

L’aspetto enigmatico, tuttavia, allude ad un problema più profondo, strettamente legato alla<br />

fluttuazione temporale: le fanciulle sono metà bianche e metà nere, ma mentre una loro separazione<br />

spaziale è possibile e netta, possono essere <strong>di</strong>stinte in due gruppi complementari, sul piano<br />

temporale le cose non stanno così, perché la transizione fra giorno e notte si dà sempre in un regime<br />

<strong>di</strong> penombra: proprio in quel momento, pur essendo immortali, ognuna perisce. Dove inizia una<br />

linea, dove finisce l’altra? Per quale sezione, in questa continua penombra, passa il <strong>ritmo</strong>? La<br />

ritmicità preserva, protegge, isola il giorno dalla <strong>di</strong>spersione con la sua scansione rigida, ma non<br />

sappiamo in che punto questo accada, perché la transizione è un gra<strong>di</strong>ente qualitativo, che muta <strong>di</strong><br />

giorno in giorno: è il motore nascosto <strong>del</strong>l’enigma<br />

Da questo punto <strong>di</strong> vista, anche se l’assetto <strong>del</strong>la configurazione è instabile, un netto punto <strong>di</strong><br />

transizione fra il giorno e la notte non esiste: il passaggio appartiene ad uno sfrangiarsi <strong>di</strong><br />

sfumature, fra ombra e luce, che ha la natura <strong>del</strong> continuo. La forma linguistica <strong>del</strong>l’enigma evoca<br />

con nettezza la bivalenza <strong>del</strong>la nozione <strong>di</strong> <strong>ritmo</strong>.<br />

Solo alla fine <strong>del</strong> processo, la bipartizione assume nettezza, sugli estremi logici <strong>del</strong>l’opposizione.<br />

Quel momento <strong>di</strong> transizione, regolare ma <strong>di</strong> <strong>di</strong>fficile definibilità, appartiene certamente a<br />

quell’ambito <strong>di</strong> problemi che evoca la parola r(uqmoÍj, ed il suo implacabile rapporto con uno<br />

schema che possa risolverlo. La forma precipita verso l’evento.<br />

Da quanto scriviamo, emerge una mentalità, un modo <strong>di</strong> cogliere la duplicità <strong>di</strong> un problema, che<br />

trova limpida eco nel mondo <strong>del</strong>la trage<strong>di</strong>a. Cre<strong>di</strong>amo tutti <strong>di</strong> conoscere, in qualche modo, E<strong>di</strong>po<br />

Re: nell’E<strong>di</strong>po Re si fa questione <strong>del</strong>l’enigma e <strong>del</strong> <strong>ritmo</strong>. E<strong>di</strong>po ha risolto una domanda mici<strong>di</strong>ale,<br />

proposta dalla Sfinge: quale sia la creatura che prima si muove a quattro zampe, poi, a due, infine, a<br />

tre. La risposta, ovviamente, è l’uomo, che passa da una configurazione all’altra. La misura è la<br />

stessa, il passo, ma esso viene percorso in tre mo<strong>di</strong> <strong>di</strong>versi: il bambino lo scan<strong>di</strong>sce veloce, a<br />

carponi, in rapida pulsazione, l’uomo con un andamento regolare, il vecchio lo trascina. Scansione e<br />

misurazione sono scisse, la misurazione si appoggia alla scansione, ma ogni scansione esprime un<br />

<strong>di</strong>verso stile nell’abitare la spazialità: implacabilmente, la sfinge chiede all’uomo <strong>di</strong> riconoscersi per<br />

quello che è, nel tempo, come quel nucleo che permane identico, rispetto a tre trasformazioni: lo<br />

stesso ora cammina a quattro zampe, ora a due, ora a tre. La stessa cosa, presa in tre momenti<br />

<strong>di</strong>versi <strong>del</strong>la sua costituzione, assume un aspetto <strong>di</strong>verso.<br />

Per rispondere a quella domanda, E<strong>di</strong>po ha dovuto tornare in<strong>di</strong>etro nel tempo, interrogare le<br />

proprie esperienze, ed il senso interno che sostiene la sua capacità <strong>di</strong> muoversi. Solo se hai<br />

strisciato, sai camminare e anche se molto hai camminato, arriverà il momento <strong>del</strong>la caduta, quello<br />

in cui le tue forze iniziano ad abbandonarti, ed avrai bisogno <strong>di</strong> un terzo piede, <strong>di</strong> un sostegno a cui


appoggiarti: in quell’enigma sta tutta la caducità <strong>di</strong> una vita umana, il senso <strong>di</strong> un percorso cru<strong>del</strong>e e<br />

sempre identico a sé stesso. Un limite che feconda, una finitezza che protegge. Un <strong>di</strong>scorso su una<br />

configurazione ritmica ben stabilizzata.<br />

Il modo <strong>di</strong> camminare è una forma espressiva, racconta il nostro rapporto con il mondo: abbiamo<br />

imparato a muoverci a carponi, ed allora il nostro sguardo andava dal basso verso l’alto.<br />

Il ra<strong>di</strong>camento <strong>del</strong>la cosa impone staticità, osservazione <strong>del</strong> movimento, orizzontalità che<br />

protegge. Strisciando non siamo ancora bersagli <strong>di</strong> Apollo, anche se il <strong>di</strong>o arciere ha il gusto <strong>del</strong>la<br />

vendetta efferata. Arrivati alla postazione eretta, guar<strong>di</strong>amo alle cose in modo frontale, ma non<br />

siamo in grado <strong>di</strong> avere una prospettiva aperta sul mondo: dobbiamo girare su noi stessi, rischiare la<br />

vertigine, cogliere sempre le cose secondo un lato. Lo spazio che ci circonda è ricco <strong>di</strong> punti <strong>di</strong><br />

fuga, ma noi possiamo seguire solo un orientamento, una prospettiva. Siamo il lato passivo<br />

<strong>del</strong>l’obliquità.<br />

Lo sguardo si piega per abbracciare un cerchio che promana dal movimento stesso: in centro<br />

concentrico, la soggettività occupa il proprio spazio e riverbera la sua presenza tutta intorno a sé.<br />

Quella circolarità, il poter coprire tutti gli orizzonti, tuttavia, dà vertigine, impone una terribile<br />

fatica. Infine, camminiamo spossati su tre pie<strong>di</strong>, ci siamo piegati, è <strong>di</strong>fficile tenere a lungo la<br />

postazione eretta, girare attorno alle cose logora, eravamo un bersaglio troppo visibile, il nostro è un<br />

cammino calante.<br />

I tre mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> camminare si flettono sul pensiero, lo orientano, danno il taglio attraverso cui<br />

l’enigma scan<strong>di</strong>sce l’ampiezza <strong>del</strong>la metafora ritmica. Il <strong>di</strong>namismo <strong>del</strong> <strong>concetto</strong> tiene insieme le tre<br />

rappresentazioni <strong>del</strong>l’uomo, le protegge dallo spappolarsi in una serie irrelata <strong>di</strong> rappresentazioni: il<br />

<strong>ritmo</strong> tiene in tensione, nel passaggio da una configurazione all’altra, la struttura <strong>del</strong> problema: si dà<br />

come scansione, nel passaggio da una fase all’altra, si dà come metro, come misura, per la forma <strong>di</strong><br />

ciascuno degli andamenti.<br />

Per rispondere a quella domanda, E<strong>di</strong>po deve allontanarsi dal presente e cominciare a scorrere in<br />

due <strong>di</strong>rezioni, il passato ed il futuro.<br />

Il presente è già in marcia verso il suo tramonto, mentre il passato incombe sul presente: si è<br />

formata una nuova catena, che il <strong>ritmo</strong> articola nelle sue transizione: il soggetto, ciò che non<br />

cambia è l’uomo, ma l’enigma ci parla proprio <strong>del</strong>l’uomo che cambia.<br />

La trage<strong>di</strong>a è appena iniziata, ma solo se conosciamo la domanda a cui ha risposto E<strong>di</strong>po,<br />

possiamo comprendere il senso <strong>del</strong>la prima scena: i tebani, i vecchi, sono andati al palazzo e seduti,<br />

inginocchiati, parlano con E<strong>di</strong>po, perché cerchi un modo <strong>di</strong> cacciare la pestilenza, l’orrido nemico<br />

interno che va sfigurando Tebe. I vecchi parlano, ma attorno a loro i giovani strisciano.<br />

La prima immagine <strong>del</strong>l’E<strong>di</strong>po Re è un enigma: un uomo in pie<strong>di</strong>, circondato da uomini seduti,<br />

<strong>di</strong> ogni età. Il suo nome è pie<strong>di</strong> gonfi, mentre gli uomini che gli stanno intorno non vogliono avere i<br />

pie<strong>di</strong> gonfiati dalla peste. Seduti, o inginocchiati, i tebani chiedono ad E<strong>di</strong>po <strong>di</strong> riportarli al<br />

movimento eretto.<br />

La peste porta il terrore per un evento che altera tutti ritmi tutte le configurazioni <strong>di</strong> senso, che<br />

tengono insieme la città e la fanno vivere. Una <strong>di</strong>sarmonia ritmica porta <strong>di</strong>rettamente verso il<br />

tragico, verso la rottura <strong>di</strong> ogni argine, verso la deformazione <strong>del</strong>la risposta <strong>di</strong> E<strong>di</strong>po: la flui<strong>di</strong>tà si<br />

trasforma così in morte, il passato spinge sul futuro, assumendo il carattere <strong>di</strong> una colpa, che<br />

prefigura un destino tragico.<br />

E<strong>di</strong>po è fuggito da Corinto perché l’oracolo gli ha predetto che ucciderà il padre e si congiungerà<br />

con la madre. E<strong>di</strong>po ha preso l’oracolo alla lettera, non ha chiesto a chi corrispondessero quei<br />

termini così generali: E<strong>di</strong>po risponde, ma non sa domandare, E<strong>di</strong>po salva ed infetta. E<strong>di</strong>po deve<br />

perdere la vista perché il mondo veda la sua <strong>di</strong>sgrazia. Le configurazioni in movimento hanno<br />

traiettorie impreve<strong>di</strong>bili, e chi ci cade dentro, ha destino tragico, e scisso.<br />

Il <strong>concetto</strong> <strong>di</strong> <strong>ritmo</strong> va pensato come vincolo, vincolo potente, che tenta <strong>di</strong> arginare il flusso <strong>del</strong><br />

tempo: formazione fuggente, meno riconoscibile <strong>del</strong> <strong>concetto</strong> <strong>di</strong> forma, perché legata ad una flui<strong>di</strong>tà<br />

che lega il carattere <strong>del</strong>la cosa al suo accadere nel tempo, meglio ancora all’organizzazione<br />

narrativa <strong>di</strong> una struttura, il <strong>ritmo</strong> è un <strong>concetto</strong> complesso, e pericolosamente ampio. Al tempo


stesso, pur mutando, il <strong>ritmo</strong> rimane identico a se stesso a va riconosciuto nelle cose. La qualità <strong>di</strong><br />

questo riconoscimento ha a che fare, come mostrano gli esempi che abbiamo citato, con la capacità<br />

<strong>di</strong> tracciare dei confini che fermano una forma nel tempo, e che, al tempo stesso, sanno riconoscere<br />

il modo attraverso cui essa fluisce. Il <strong>ritmo</strong> è un vincolo, che blocca la cosa nelle sue trasformazioni,<br />

de definisce l’ampiezza <strong>del</strong>le fasi, come accade per l’essenza <strong>del</strong>la natura umana vista attraverso lo<br />

scorrere <strong>del</strong>le età, e <strong>del</strong> modo <strong>di</strong> camminare. Il <strong>ritmo</strong> scioglie l’enigma, perché insegna ad<br />

affiancarsi alle mutazioni <strong>del</strong>la forma, a muoversi in parallelo con loro, e a sapere definire<br />

esattamente in che punto ci troviamo in una trasformazione in una fase. Possiamo correre da vecchi,<br />

anche con il bastone, ma usciamo da un piano or<strong>di</strong>nato <strong>del</strong>l’esperienza, possiamo cercare <strong>di</strong> alzarci<br />

in pie<strong>di</strong> , quando siamo ancora molto piccoli, ma la postazione eretta verrà conquistata<br />

lentamente:nel mo<strong>di</strong>ficarsi <strong>del</strong> mondo, la scansione <strong>del</strong> <strong>ritmo</strong> offre gli appigli per la misurazione:<br />

senza questo collegamento ritmico, pensare il mondo significa pensare il caos.<br />

Giovane che danza con una palla


<strong>§</strong> 3 Ritmo come riconoscimento <strong>di</strong> un vincolo<br />

Dovremmo cominciare a chiederci forse cosa significhi riconoscere un <strong>ritmo</strong>. Il tema, a <strong>di</strong>re il<br />

vero, è molto antico 3 e va molto oltre l’ambito <strong>del</strong>le riflessioni musicali. Un antico frammento <strong>di</strong><br />

Archiloco (Fr 67 a), ci suggerisce <strong>di</strong> non seguire ciecamente le passioni che ci prendono nella gioia<br />

o nello sconforto, ma a riconoscere quale <strong>ritmo</strong> tenga vincolati gli uomini 4 (giÍgnowske d )oi)=oj<br />

r(usmo\j a)nqrwÍpouj e)Íxei).<br />

La conoscenza <strong>del</strong> <strong>ritmo</strong> non è imme<strong>di</strong>ata, riconoscere quale sia il <strong>ritmo</strong> che tiene gli uomini è<br />

uno sforzo, nel fluire <strong>del</strong>le loro passioni, dobbiamo in<strong>di</strong>viduare qualcosa che ad esso si<br />

contrappone, che non muta con il mutare <strong>del</strong>le loro emozioni.<br />

Un <strong>ritmo</strong> trattiene in una configurazione determinata, in una mobile regolarità un flusso: infatti,<br />

se il <strong>ritmo</strong> vincola o tiene assieme, dobbiamo pensare che se esso abbia riferimento proprio allo<br />

scorrere <strong>del</strong>le cose, e che la sua capacità sia quella <strong>di</strong> regolarne il flusso, <strong>di</strong> trattenerlo fornendogli<br />

una forma appropriata.<br />

Il <strong>ritmo</strong> ( r(uqmoÍj) presiede alla <strong>di</strong>sposizione <strong>di</strong>namica <strong>del</strong>le parti, rispetto a qualcosa che va<br />

muovendosi. Per questo motivo, continuiamo a volgerci (giÍgnowske, gignoskein significa<br />

continuare a guardare in una <strong>di</strong>rezione, compiere cioè un atto a carattere iterativo. Opponiamo al<br />

flusso la ricerca <strong>di</strong> una regolarità nella trasformazione. Quella forma tende a fuggire, a<br />

mimetizzarsi.<br />

In un saggio, profondamente <strong>di</strong>scusso da Giovanni Piana 5 , Benveniste osservava che per<br />

cogliere fino in fondo il significato <strong>del</strong> termine, dobbiamo prestare attenzione alla desinenza qmoÍj,<br />

che applicata alle parole astratte, implica un riferimento al modo in cui una nozione viene a<br />

realizzarsi: se qeÍsij è si riferisce all’atto <strong>del</strong> <strong>di</strong>sporre, qesmoÍj è la particolare <strong>di</strong>sposizione <strong>del</strong>le<br />

parti, la configurazione che essa assumono in un intero. Potremmo <strong>di</strong>re che si tratta <strong>di</strong> un<br />

movimento grazie a cui un intero si assesta, ma non si è ancora stabilizzato, in cui le parti stanno<br />

raggiungendo una configurazione spaziale, non pienamente raggiunto?<br />

In parte si ed in parte no. Scrive Benveniste, «[...] r(uqmoÍj [...] designa la forma nell’attimo in cui<br />

è assunta da ciò che si muove, è mobile, fluido, la forma <strong>di</strong> ciò che non ha consistenza organica: si<br />

ad<strong>di</strong>ce al pattern <strong>di</strong> un elemento fluido...a un peplo che si <strong>di</strong>spone a piacimento, alla particolare<br />

<strong>di</strong>sposizione <strong>del</strong> carattere e <strong>del</strong>l’umore 6 ».<br />

Il problema non si appoggia alla stabilità <strong>del</strong>l’assetto, o al semplice riconoscimento <strong>del</strong>la forma,<br />

ma all gioco che scuote il <strong>di</strong>sporsi <strong>di</strong> qualcosa che non abbia una consistenza organica, o spaziale: la<br />

caratteristica <strong>del</strong>la flui<strong>di</strong>tà nell’elemento scosso dal <strong>ritmo</strong> lo rende qualcosa che è soggetto a<br />

continue transizioni, a continui mutamenti. Esso, tuttavia, tende ad essere frenato dal <strong>ritmo</strong> stesso,<br />

che cerca <strong>di</strong> contenere, <strong>di</strong> frenare la flui<strong>di</strong>tà, attraverso un decorso <strong>di</strong> transizioni.<br />

3 Una <strong>di</strong>scussione più elaborata <strong>di</strong> tale <strong>concetto</strong> viene presentata su un libro de<strong>di</strong>cato alla componente musicale nei<br />

frammenti eraclitei, ed è stata usata anche per uno stu<strong>di</strong>o sulla musica <strong>di</strong> Conlon Nancarrow, <strong>di</strong> imminente<br />

pubblicazione.<br />

4 Cfr. Werner Jaeger, Paideia , (trad. italiana <strong>di</strong> Luigi Emery), Firenze, La Nuova Italia, 1953 vol I, pp. 240 - 241. Il<br />

tema è tratto da Benveniste (É. Benveniste, «La notion du «rythme» dans son expression linguistique», Journal de<br />

Psychologie, 1951, ripubblicato in: Émile Benveniste, Problèmes de linguistique generale Gallimard, Parigi, 1966. Cito<br />

dalla traduzione italiana <strong>di</strong> Maria Vittoria Giuliani: É. Benveniste, Problemi <strong>di</strong> linguistica generale, Il Saggiatore,<br />

Milano, 1971 p. 394. Per il linguista francese, si tratta d’inclinazioni comuni. Va quin<strong>di</strong> rilevato uno scarto <strong>di</strong> senso tra i<br />

due mo<strong>di</strong> d’interpretare il detto d’Archiloco. Per una <strong>di</strong>scussione sul <strong>concetto</strong> <strong>di</strong> <strong>ritmo</strong>, cfr. Giovanni Piana, Filosofia<br />

<strong>del</strong>la musica, Guerini e Associati, Milano, 1991, pp.153 - 157.<br />

5 Trattando <strong>del</strong> carattere fluido che caratterizza questo livello <strong>del</strong> configurarsi <strong>del</strong>lo strutturarsi <strong>del</strong>la forma, Giovanni<br />

Piana parla <strong>del</strong>la rigida precarietà <strong>di</strong> un movimento rappreso (cfr. Giovanni Piana Filosofia <strong>del</strong>la musica, Guerini e Associati,<br />

Milano, 1991, pp. 153 - 157).<br />

6 Émile Benveniste, La notion du «rythme» dans son expression linguistique, Journal de Psychologie, 1951, oggi in<br />

Émile Benveniste, Problèmes de linguistique generale Gallimard, Parigi, 1966, (Problemi <strong>di</strong> linguistica generale, (trad.<br />

italiana <strong>di</strong> M. Vittoria Giuliani, Il Saggiatore, 1971, p.396.)


Il <strong>ritmo</strong> emerge in situazioni <strong>di</strong> estrema mobilità, in cui vanno stringendosi <strong>del</strong>le relazioni: non<br />

abbiamo contorni niti<strong>di</strong>, ma il movimento <strong>di</strong> un peplo, che copre il frastagliarsi <strong>di</strong> un contorno,<br />

oppure l’agitarsi <strong>di</strong> una <strong>di</strong>sposizione <strong>di</strong> carattere, <strong>di</strong> uno stato d’animo che può mutare da un<br />

momento all’altro.<br />

Entriamo in un terreno liminare, scivoloso, sulla soglia <strong>del</strong> costituirsi <strong>di</strong> una forma, più che su<br />

quello <strong>del</strong>la forma già data, e dobbiamo pur trovare qualcosa che ci permetta almeno <strong>di</strong> localizzare<br />

le fasi <strong>del</strong>la trasformazione. Benveniste traccia il problema in modo ammirevole, quando osserva<br />

che se r(uqmoÍj ha a che fare con l’idea <strong>di</strong> una forma improvvisata, momentanea e mo<strong>di</strong>ficabile 7 , se<br />

deriva da una natura che è scorrimento e mo<strong>di</strong>ficazione, esso in<strong>di</strong>ca essenzialmente una maniera<br />

particolare <strong>di</strong> fluire, atta a descrivere <strong>del</strong>le configurazioni, <strong>del</strong>le <strong>di</strong>sposizioni senza necessità, che<br />

possono mo<strong>di</strong>ficarsi improvvisamente.<br />

Abbiamo però già visto che, per quanto la natura sia retta da uno scorrere continuo, quello<br />

scorrere può imme<strong>di</strong>atamente congiungersi all’idea <strong>di</strong> ripetizione <strong>di</strong> perio<strong>di</strong>cità, dando luogo ad un<br />

quadro assai più problematico <strong>del</strong>la nozione <strong>di</strong> <strong>ritmo</strong>.<br />

Un esempio tratto dal mondo <strong>del</strong>la percezione visiva, può esserci utile per cercare <strong>di</strong> dar ragione<br />

<strong>del</strong>le ambiguità che legano il rapporto intero - parti rispetto al definirsi <strong>di</strong> un r(uqmoÍj. Immaginiamo<br />

tre punti luminosi, che si <strong>di</strong>spongano in una configurazione caratteristica.<br />

Non ci sorprenderà che con il termine r(uqmoÍj si in<strong>di</strong>chi, nella filosofia atomista, il passaggio<br />

attraverso cui la forma <strong>del</strong>l’atomo va consolidandosi nello schema, il suo assumere identità<br />

attraverso una morfologia spaziale fissa. Nessuno avrebbe dubbi nel riconoscere in questa figura gli<br />

estremi <strong>di</strong> una figura triangolare: essa ha certamente pregnanti caratteri geometrici, anche se non<br />

abbiamo, ad esempio, tracciato lati, elementi caratteristici nella definizione <strong>del</strong>le proprietà continue<br />

<strong>del</strong>lo spazio geometrico.<br />

Siamo su una soglia, rispetto alla quale si va configurando una forma definita, colta, nel suo<br />

farsi e potremmo chiederci perché mai Benveniste sottolinei con tanta accuratezza il carattere<br />

mobile, fluido <strong>del</strong> <strong>concetto</strong> <strong>di</strong> <strong>ritmo</strong>, perché tutto sembra chiaro. L’insistenza sulla nozione <strong>di</strong> forma<br />

<strong>di</strong>stintiva che non si lascia ossificare nella determinatezza <strong>del</strong>lo sxh=ma, dovrebbe trovare un<br />

fondamento nel processo d’acquisizione <strong>del</strong>la forma tra una fase ancora sottoposta a mutamento ed<br />

un momento in cui l’in<strong>di</strong>viduazione si realizzi a pieno. Guardando ad una configurazione appena<br />

più complessa, incontriamo subito problemi che ci fanno cogliere il significato <strong>del</strong>la <strong>di</strong>stinzione<br />

appena proposta.<br />

7 Ibidem, pp.407 – 408<br />

.


In un primo momento potremmo riconoscere nella <strong>di</strong>sposizione spaziale dei quattro punti un<br />

quadrilatero, ma alla stessa stregua potremmo in<strong>di</strong>viduare gli estremi <strong>di</strong> una croce. Non riusciamo a<br />

sciogliere le ambiguità <strong>di</strong> una struttura tanto semplice, e <strong>di</strong> conseguenza a prendere una decisione.<br />

Basterebbe enfatizzare alcune tendenze interne alla raffigurazione, collocando un punto al centro<br />

<strong>del</strong>la figura per rafforzare il richiamo ad una croce oppure connettendo una fila <strong>di</strong> punti tra loro<br />

creando la traccia <strong>di</strong> un lato ed uscire dall’ambiguità iniziale. Mancano una serie <strong>di</strong> caratteristiche<br />

strutturali, orientabili secondo un unico vettore.<br />

Emerge così un livello <strong>di</strong> raffigurazione <strong>del</strong>la struttura caratterizzato da una flui<strong>di</strong>tà, che va<br />

dominata attraverso scelte e selezioni <strong>di</strong> materiali, facendoci oscillare fra due rappresentazioni<br />

possibili, che entrano in conflitto tra loro.<br />

Potremmo naturalmente investire <strong>di</strong> forti vettori immaginativi la presenza simultanea <strong>del</strong>le due<br />

figure nella forma ambigua, o intenderle come complementari. Nella figura si presenteranno<br />

opposizioni: nel momento in cui tracciamo i punti sul centro o lungo un lato, le con<strong>di</strong>zioni<br />

costitutive <strong>del</strong>la figurazione vengono finalmente in chiaro, e la figura <strong>di</strong>venta uno schema.<br />

Potremmo essere tentati <strong>di</strong> tracciare una curva, che passi per i quattro punti e verificare se è<br />

possibile tracciare una circonferenza.<br />

Solo avendo scelto una <strong>di</strong>rezione possibile, il r(uqmoÍj andrà a coincidere con lo sxh=ma. Il <strong>ritmo</strong><br />

è un primo passo per trattenere la forma.<br />

Il r(uqmoÍj si collega al <strong>di</strong>venire <strong>del</strong>la forma su un terreno che precede non solo cronologicamente<br />

l’avvento <strong>del</strong>l’identità <strong>del</strong>la figura, sxh=ma: r(uqmoÍj e sxh=ma sono momenti complementari nello<br />

squadernarsi <strong>del</strong>le relazioni che in<strong>di</strong>viduano una struttura ritmica, come mostra l’esempio tratto<br />

dalla psicologia <strong>del</strong>la forma 8 .<br />

Potremmo cominciare a costruirci un piccolo vocabolario portatile rispetto al <strong>concetto</strong> <strong>di</strong> <strong>ritmo</strong>:<br />

<strong>ritmo</strong> e schema, e vederli come due fasi nella costituzione <strong>di</strong> un intero: nel momento dominato dal<br />

<strong>ritmo</strong>, l’intero va costituendosi sul piano <strong>del</strong>le relazioni, viene colto da un’istantanea che ne in<strong>di</strong>ca i<br />

contorni, nel momento <strong>del</strong>lo schema l’intero si presenta mostrando in modo più nitido le proprie<br />

relazioni. E’ chiaro che il problema ritmico si muove tutto all’interno <strong>del</strong>le transizioni fra queste<br />

due fasi, che si rincorrono continuamente.<br />

Il momento <strong>di</strong> transizione potremmo definirlo come il momento <strong>del</strong>la raffigurazione. Il <strong>ritmo</strong> si<br />

oppone al flui<strong>di</strong>tà, la trattiene e nel suo trattenerla prepara l’avvento <strong>di</strong> una schematizzazione. Vi<br />

sono ambiti in cui la schematizzazione non è possibile, in cui il <strong>concetto</strong> <strong>di</strong> <strong>ritmo</strong>, nel suo articolare<br />

possibilità oppositive all’interno <strong>del</strong>le proprietà <strong>di</strong> un oggetto, o <strong>di</strong> una situazione, sfiora la<br />

<strong>di</strong>mensione <strong>del</strong> tragico, consegnandolo ad una sorta <strong>di</strong> scissione originaria in cui l’oggetto è<br />

contemporaneamente due cose e viene tirato in due <strong>di</strong>rezioni opposte.<br />

8 Cfr. Gaetano Kanisza, Grammatica <strong>del</strong> vedere, 1980 Il Mulino, Bologna, p.13.


Il riferimento alla trage<strong>di</strong>a <strong>di</strong>venta pertinente: il personaggio <strong>di</strong> E<strong>di</strong>po è salvezza ed infezione e<br />

va pensato lasciando che questi attributi si fondano tra loro, creando una <strong>di</strong>sarmonia che orienta il<br />

suo destino. La bivalenza tragica è così ambiguità ritmica, tensione all’interno <strong>di</strong> una figura che<br />

appartiene, contemporaneamente almeno a due or<strong>di</strong>ni <strong>di</strong>versi, come accade, <strong>del</strong> resto, anche per<br />

Antigone.<br />

<strong>§</strong> 4 Schema e figurazione nella filosofia eraclitea<br />

Il nostro periplo attorno alla nozione <strong>di</strong> r(uqmoÍj continua a porci <strong>di</strong> fronte ad una polarità fra<br />

forma ed evento piuttosto interessante: esiste un mo<strong>del</strong>lo per l’idea <strong>di</strong> pulsazione silente, che<br />

avevamo visto emergere nel carattere circolare che sostiene il movimento iterativo <strong>del</strong>la pulsazione<br />

platonica? Un esempio eracliteo, che molto può insegnare sulle relazioni che stringono <strong>ritmo</strong>,<br />

ripetizione e figura. Nel frammento D.K. 103 9 , leggiamo che:<br />

«Nel circolo principio e fine fanno uno.».<br />

Le interpretazioni più <strong>di</strong>ffuse, da Diano a Marcovich, vedono correttamente nella forma<br />

para<strong>di</strong>gmatica <strong>del</strong>l’armonia fra opposti (inizio e fine <strong>del</strong> cerchio, che sono lo stesso), una grande<br />

immagine cosmologica <strong>del</strong> <strong>di</strong>venire.<br />

Come chiarire il senso che sostiene quest’immagine? il frammento, alla fonte, suona: cuno\n<br />

ga\r a)rxh\ kai\ peÍraj e)pi\ kuÍklou perifereiÍaj 10 . Nella traduzione <strong>di</strong> Diano, si perde il<br />

riferimento al termine perifereiÍaj , la parola che in greco in<strong>di</strong>ca il movimento <strong>del</strong> punto lungo il<br />

cerchio. Marcel Conche, la inserisce nel testo originale, proponendo questa traduzione :"Chose<br />

commune que comencement et fin sur le circuit du cercle 11 ". Cosa muta nella formulazione?<br />

Viene in questione il significato da attribuire alla rivoluzione che il punto va compiendo attorno<br />

al cerchio mentre lo traccia. Sottolineare il richiamo al movimento <strong>del</strong> punto sulla circonferenza,<br />

porta in primo piano l’idea <strong>di</strong> una ciclicità, che va articolandosi nel movimento <strong>del</strong> punto, evocando<br />

il costruirsi <strong>del</strong> cerchio in termini <strong>di</strong>namici, secondo quanto suggerisce Conche.<br />

Il ragionamento eracliteo è interessante: inizio e fine, principio e limite scivolano lungo la<br />

circonferenza sono quando al figura è chiusa.<br />

Siamo all’interno <strong>di</strong> quella fase in cui la <strong>di</strong>sposizione degli elementi si è chiusa, sul terreno <strong>di</strong> un<br />

<strong>ritmo</strong> che non tiene più la configurazione aperta, eppure vi è un continuo trapasso tra inizio e fine,<br />

l’idea <strong>di</strong> origine germina per tutta la circonferenza.<br />

9<br />

Per la traduzione, Eraclito, I frammenti e le testimonianze, a cura <strong>di</strong> Carlo Diano, Fondazione Lorenzo Valla,<br />

Mondadori, Milano, 1980, pp.18 - 19.<br />

10<br />

Tratto da Porfirio, Quaestiones homericae ad Iliadem, XIV 200.<br />

11<br />

Héraclite, Fragments, texte établi, traduit, commentè par Marcel Conche, P. U. F., Paris, 1986, pp. 411 - 413. Contro<br />

tale interpretazione, che assume che la parola periphereias faccia parte <strong>del</strong> frammento eracliteo originale, si sono<br />

schierati gran<strong>di</strong> filologi, come Gigon, Marcovich (con un’acuta analisi grammaticale), Kirk. Carlo Diano, pur parlando<br />

<strong>del</strong> "moto inarrestabile e continuo <strong>del</strong>la periferia, dove ogni punto è principio e fine" (cfr. Carlo Diano, " Il pensiero<br />

greco da Anassimandro agli Stoici" in Stu<strong>di</strong> e saggi <strong>di</strong> filosofia antica, Padova, 1973, p.32), evita <strong>di</strong> tradurla. Non siamo<br />

in grado <strong>di</strong> affrontare una questione <strong>di</strong> tale portata in poche righe, ma ci sembra che in questo modo si perda un<br />

elemento essenziale per la nostra <strong>di</strong>scussione. Per l’uso <strong>di</strong> perifereias, ve<strong>di</strong> anche K. Deichgräber Rythmische Elemente<br />

im Logos des Heraklit, Akad., Mainz, 1962, pp.477 - 533.


L’enigma, che accosta il termine comune ad inizio e fine, e che allude ad un modo <strong>di</strong> intendere il<br />

problema in cui questo paradosso venga a sciogliersi (vi è un riferimento all’idea <strong>di</strong> comprensione,<br />

messa in gioco dalla parola cuno\n), trova il proprio fondamento sul piano <strong>del</strong>la costituzione <strong>del</strong>la<br />

figura stessa, <strong>del</strong> r(uqmoÍj: fino a quando il cerchio non viene chiuso, inizio e fine sono <strong>di</strong>stinguibili,<br />

quando il tracciato è compiuto che non li <strong>di</strong>stinguiamo più.<br />

Il riferimento al continuo è evidente, in qualsiasi segmento rettilineo possono essere in<strong>di</strong>cati un<br />

inizio ed una fine, estremi <strong>di</strong> quel tratto: qui la struttura circolare racconta appunto <strong>del</strong>la qualità <strong>del</strong><br />

moto <strong>di</strong> un punto, che <strong>di</strong>venta immagine <strong>di</strong> un’iterazione infinita attorno al centro.<br />

L’insistere sull’espressione lungo la circonferenza <strong>del</strong> cerchio sottolinea, tuttavia, anche la<br />

presenza <strong>di</strong> una <strong>di</strong>stinzione fra due strati temporali <strong>del</strong> processo, attraverso cui la figura viene<br />

<strong>di</strong>segnata e chiusa, secondo un mo<strong>del</strong>lo ritmico che già conosciamo.<br />

L’uso <strong>di</strong> e)pi\ traduce, in termini spaziali, una <strong>di</strong>stinzione <strong>di</strong> tipo qualitativo, che concerne la<br />

funzione <strong>del</strong> punto, mentre si traccia la figura, e lo statuto <strong>del</strong> passaggio da configurazione a<br />

schema. La <strong>di</strong>stinzione qualitativa non è, tuttavia, <strong>di</strong> tipo meramente temporale: qualcosa è<br />

cambiato grazie al formarsi <strong>del</strong>la figura. Potremmo pensare ad una mano che sta tracciando un<br />

cerchio, con una corda ed un perno oppure con una sorta <strong>di</strong> compasso: fino a quando il giro intorno<br />

al centro non è stato completato, inizio e fine sono <strong>di</strong>stinguibili, all’interno <strong>di</strong> un percorso basato<br />

sull’iterazione <strong>di</strong> una regola.<br />

Torniamo alla contrapposizione enigmatica più imbarazzante <strong>del</strong> frammento, cuno\n ga\r a)rxh\<br />

kai\ peÍraj, che sottolinea la comunanza fra principio e fine, fra principio e limite.<br />

La potremmo commentare <strong>di</strong>cendo che solo a cerchio ultimato, inizio e termine sono comuni, e<br />

quella proprietà passa, in modo traslato, su tutti i punti <strong>del</strong> cerchio, ma questo significa che, ina<br />

<strong>di</strong>alettica fra totalità ed infinito, gli opposti svaniscono nel darsi <strong>del</strong>la totalità <strong>del</strong>la figura.<br />

Il riferimento ad inizio e fine prende <strong>di</strong>versa così consistenza rispetto alle bivalenze adombrate<br />

dal termine peÍraj, che in<strong>di</strong>ca anche il <strong>concetto</strong> <strong>di</strong> limite, <strong>di</strong> confine tra una transizione e l’altra:<br />

ecco il paradosso, peÍraj ha portato il <strong>ritmo</strong> nello schema, ma mo<strong>del</strong>lo <strong>del</strong>la figura chiusa rimanda<br />

alle proprietà <strong>del</strong>l’illimitato. Solo in questo senso, possiamo <strong>di</strong>re che, se tutti i punti possono<br />

<strong>di</strong>ventare inizio e fine <strong>del</strong> cerchio, avremo un andamento ciclico, che può iniziare in qualunque<br />

punto <strong>del</strong>la circonferenza.<br />

Lo snodo è importante, perché ci fa passare dal come è tracciata la figura al quante volte sia<br />

possibile percorrerla, verso una ciclicità infinita. È peculiare l’idea che il cerchio sia concepito nella<br />

sua costruzione, evitando riferimenti <strong>di</strong> tipo numerico. L’unica regola sembra appoggiarsi alla<br />

chiusura <strong>di</strong> un ciclo, che è poi quello <strong>del</strong> <strong>di</strong>segno. Alla domanda " quante volte?", si può solo<br />

rispondere: "infinite". È un altro modo per segnalare il paradosso <strong>del</strong>la misura, che si ripete infinite<br />

volte nel farsi <strong>del</strong>la figura. L’infinità fa perdere <strong>di</strong> pregnanza al riferimento temporale, come<br />

accadeva nel presente immobile <strong>del</strong>la ripetizione.<br />

Solo all’interno <strong>di</strong> questa prospettiva nasce il problema <strong>del</strong> senso <strong>del</strong>l’opposizione fra inizio e<br />

fine. Nel nostro caso l’esser comune <strong>del</strong>l’inizio e <strong>del</strong> limite prendeva consistenza proprio nel<br />

tentativo <strong>di</strong> dar ragione <strong>del</strong> criterio costruttivo attraverso cui il cerchio è tracciato: i punti vengono<br />

ora compresi come opposti: questo passaggio è enfatizzato proprio da cuno\n, che ha riferimenti<br />

consistenti all’attività <strong>del</strong> comprendere, sul piano spaziale <strong>del</strong>la transizione continua da un punto<br />

all’altro, e su quello intellettuale <strong>del</strong> riconoscimento <strong>del</strong>la qualità <strong>di</strong> un <strong>ritmo</strong>.<br />

L’opposizione va stringendo ormai tutto il cerchio, risultato <strong>del</strong>la tensione armonica fra principio<br />

e fine: <strong>di</strong>remmo che i limite <strong>del</strong>la fine e <strong>del</strong> principio sono la stessa cosa, che principio e fine hanno<br />

effettuato una conversione reciproca.<br />

È chiaro che il legame fra punto finale e punto iniziale <strong>di</strong>venta oppositivo solo in questa<br />

prospettiva <strong>di</strong> tipo costruttivistico. L’armonia che permette che inizio e fine siano comuni è legata al<br />

conflitto che unisce la staticità <strong>del</strong> centro rispetto al movimento <strong>del</strong> punto.<br />

Emerge così nella riflessione eraclitea una componente relazionale che guarda al costituirsi <strong>del</strong>la<br />

figura, in senso processuale, ed alla figura ormai costituita: il fatto che inizio e fine, (limite)<br />

vengano pensati sulla circonferenza <strong>del</strong> cerchio, valorizzando l’idea <strong>del</strong> girare attorno, stabilisce


una continuità fra i due livelli legati dall’armonia: nessuno dei due può essere pensato senza l’altro,<br />

schema ed evento sono assolutamente complementari. Si allude così ad un rapporto fra limite e<br />

spostamento <strong>del</strong> limite, che va portato in evidenza, dando senso al doppio modo d’intendere ciò che<br />

sarebbe logicamente in<strong>di</strong>stinguibile.<br />

Solo dopo avere in<strong>di</strong>cato tale relazione, ed essersi soffermati sull’ambivalenza <strong>del</strong> nostro modo<br />

d’intendere il punto come inizio e come fine nel percorso e nel ciclo, si potrà pensare alla<br />

valorizzazione <strong>del</strong> problema <strong>del</strong>la circolarità in <strong>di</strong>rezione <strong>di</strong> un’interpretazione ciclica <strong>del</strong> tempo o<br />

<strong>del</strong>le strutture cosmologiche.<br />

Eraclito ci propone un modo esemplare <strong>di</strong> presentare la figura <strong>del</strong> cerchio: l’esibizione <strong>del</strong> luogo<br />

geometrico dei punti equi<strong>di</strong>stanti dal centro, il conchiudersi <strong>del</strong>la curva su se stessa, la roton<strong>di</strong>tà, si<br />

appoggiano sulla mobilità incessante <strong>del</strong> punto, che <strong>di</strong>venta, sotto i nostri occhi, inizio e fine <strong>del</strong>la<br />

figura, che esibisce le proprie regole costruttive. Il cerchio partecipa così, contemporaneamente a<br />

due <strong>di</strong>verse configurazioni <strong>di</strong> senso, Eraclito ci sta insegnando a pensarlo a cavallo <strong>del</strong>le due<br />

posizioni, che sono egualmente necessarie per la corretta comprensione <strong>del</strong> problema.<br />

In tal modo, la riflessione eraclitea tocca contemporaneamente due piani <strong>del</strong> <strong>di</strong>scorso, per<br />

<strong>di</strong>stinguerli mentre li congiunge: <strong>ritmo</strong> e ciclicità, me<strong>di</strong>ati dalla ripetizione, prendono consistenza<br />

solo quando il r(uqmoÍj ha chiuso la sua configurazione. Ritmo e schema sono posti nuovamente in<br />

parallelismo, come accadeva nella prospettiva platonica, <strong>di</strong> cui questo frammento segna un prezioso<br />

antecedente concettuale.<br />

<strong>§</strong> 5 Platone: il <strong>ritmo</strong> come limite<br />

Un tema <strong>di</strong> questa ampiezza non poteva che interessare i filosofi. All’idea <strong>di</strong> <strong>ritmo</strong> come<br />

opposizione, ed ai problemi che ad esso si intrecciano, fa riferimento Platone nel Simposio, quando<br />

fa <strong>di</strong>re ad Erissimaco (187b - d) che il <strong>ritmo</strong> deriva dal rapido e dal lento, prima in opposizione e<br />

poi accordatisi. Su cosa si basa quest’accordo, come è possibile che due elementi in varianza<br />

continua, come il lento ed il veloce, possano coagularsi in una relazione ritmica?.<br />

La definizione canonica <strong>di</strong> <strong>ritmo</strong> che rintracciamo nelle Leggi (664e – 665a), da cui le ricerche<br />

sul <strong>ritmo</strong> prendono, più o meno in<strong>di</strong>rettamente, le mosse contiene in sé aspetti tormentosi, che<br />

vorremmo <strong>di</strong>scutere: la constatazione iniziale dei filosofi in <strong>di</strong>alogo si lega all’esigenza <strong>di</strong> attribuire<br />

un andamento or<strong>di</strong>nato, attraverso <strong>ritmo</strong> ed armonia, al movimento: il <strong>ritmo</strong> or<strong>di</strong>na, organizza il<br />

movimento <strong>del</strong> corpo umano ed è elemento propedeutico ad ogni forma <strong>di</strong> educazione, ed al<br />

preservarsi <strong>del</strong> potere <strong>di</strong> controllo emotivo <strong>del</strong>la musica.<br />

Scelta <strong>del</strong> <strong>ritmo</strong> e selezione <strong>del</strong>le strutture melo<strong>di</strong>che che sostengono i sistemi scalari fanno parte<br />

<strong>del</strong>lo stesso problema <strong>di</strong> partizione <strong>del</strong> continuo: per il filosofo platonico bisognerà allora<br />

coglierne il senso, poterlo collocare in un percorso <strong>di</strong>alettico, e constatarne la portata concettuale . Il<br />

<strong>ritmo</strong> è l’or<strong>di</strong>ne <strong>del</strong> movimento: meglio, è il nome <strong>di</strong> quella misura, <strong>di</strong> quell’or<strong>di</strong>ne (taÍcij), che<br />

sostiene il movimento (kiÍnhsij).<br />

Dovremmo osservare da vicino la frizione suscitata dall’accostamento <strong>del</strong>le due parole: taÍcij<br />

in<strong>di</strong>ca una schiera, un or<strong>di</strong>ne rigido, che viene sollecitato, in opposizione al mutamento: il nocciolo<br />

semantico <strong>del</strong>la parola in<strong>di</strong>ca così la schiera militare, la classe sociale, ma anche il posto in una<br />

schiera, la localizzazione <strong>di</strong> un luogo o <strong>di</strong> un momento, che permette <strong>di</strong> ripartire le fasi <strong>di</strong> un<br />

processo, un muro che si costituisca ad ogni irrompere <strong>del</strong>la flui<strong>di</strong>tà.<br />

Il termine in<strong>di</strong>ca anche la posizione <strong>di</strong> un punto in una figura: con taÍcij cogliamo un perno<br />

immaginario, che determina le con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> or<strong>di</strong>nabilità <strong>di</strong> una molteplicità, e Platone,<br />

contrapponendolo nel Timeo, (30) all’a)taciÍa ha certamente in mente un riferimento ad un vincolo<br />

fecondo, che <strong>di</strong>spone, imponendo una regola, frena una sollecitazione, facendo mantenere una<br />

posizione all’interno <strong>di</strong> un andamento, rendendo feconda un’articolazione <strong>del</strong> movimento: in questo<br />

senso, la pregnanza <strong>del</strong>la scelta <strong>del</strong>la posizione, <strong>del</strong> momento <strong>del</strong> suo costituirsi va pensata<br />

contemporaneamente al tema <strong>del</strong>lo scorrimento, ponendo una relazione stretta fra il formarsi <strong>del</strong>la


una sequenza ed il presentarsi <strong>del</strong>la molteplicità. Se tutto questo è risaputo, meno semplice è trovare<br />

il senso <strong>del</strong>la correlazione con il termine scelto per esprimere il movimento.<br />

Platone in<strong>di</strong>vidua la nozione all’idea appoggiandosi al termine kiÍnhsij, parola che esprime non<br />

tanto il movimento in senso generico, ma la fonte <strong>del</strong> movimento, costituirsi <strong>del</strong> movimento<br />

stesso: kiÍnhsij si manifesta nel passo <strong>di</strong> danza, come nel moto da un punto ad un altro, nella<br />

mozione assembleare, o nel mondo <strong>del</strong>le emozioni, in<strong>di</strong>cando una commozione, lo sdegno, un<br />

brusco mutamento d’umore.<br />

Vi è quin<strong>di</strong> profonda tensione nell’accostare i due termini che pone il r(uqmoÍj come prodotto <strong>di</strong><br />

una me<strong>di</strong>azione fra processo in atto <strong>di</strong> costituzione <strong>di</strong> un intero e criterio <strong>di</strong> localizzazione ed<br />

organizzazione reciproca <strong>del</strong>le parti all’interno <strong>del</strong> processo stesso: il movimento <strong>del</strong> corpo, ad<br />

esempio, deve poter essere riportato ad una forma, che si articola nel movimento secondo regole<br />

canonizzabili, mettendo in opposizione fluire <strong>del</strong> movimento ed incanalamento nella sequenza.<br />

Il gesto va <strong>di</strong>sciplinato, ma la messa a norma non è affatto pacifica, perché mo<strong>di</strong>fica<br />

irreversibilmente lo statuto <strong>del</strong> movimento, ne trasforma i portati qualitativi, impone il presentarsi<br />

<strong>di</strong> qualcosa che resista alla flui<strong>di</strong>tà continua, morbida <strong>del</strong>lo scorrimento, rompendone<br />

l’in<strong>di</strong>fferenziazione interna.<br />

Il <strong>ritmo</strong> è con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> possibilità nella costituzione <strong>di</strong> una gerarchia, snodo che decide<br />

l’ampiezza dei no<strong>di</strong>, che tengono assieme il senso <strong>di</strong> una concatenazione. Ma la materia <strong>del</strong> <strong>ritmo</strong>,<br />

come la chiamerà la filosofia aristotelica, resiste, scalpita, esce dai bor<strong>di</strong> che abbiamo <strong>di</strong>segnato con<br />

l’iterarsi dei tagli.<br />

Platone in<strong>di</strong>vidua la flui<strong>di</strong>tà <strong>di</strong> questa situazione, la determinazione <strong>del</strong> senso <strong>del</strong> contenimento.<br />

Il senso <strong>del</strong> problema, dunque, non è affatto pacifico e non si esaurisce nella possibilità <strong>di</strong> vedere un<br />

movimento <strong>di</strong>sciplinato, ma <strong>di</strong> poterlo costruire secondo parametri armonici che ne mantengano<br />

tutta la tensione.<br />

Il nucleo pregnante <strong>del</strong>la definizione coincide con l’in<strong>di</strong>viduazione <strong>di</strong> un criterio <strong>di</strong> misurazione<br />

unitario, attraverso cui in<strong>di</strong>viduare e scan<strong>di</strong>re le singole fasi nel movimento, in un’accentuazione<br />

<strong>del</strong> carattere <strong>di</strong>screto <strong>del</strong>la pulsazione.<br />

L’idea <strong>di</strong> descrivibilità si collega imme<strong>di</strong>atamente a quella <strong>di</strong> <strong>di</strong>visibilità, secondo un<br />

proce<strong>di</strong>mento che abbia, per così <strong>di</strong>re, un numero finito <strong>di</strong> passi, e possa metterci sotto gli occhi il<br />

rapporto <strong>di</strong> partenza, il modulo, insomma, una volta per tutte. Le valenze semantiche si incontrano e<br />

mettono in luce un’interpretazione <strong>del</strong> movimento, come oggetto <strong>di</strong> commensurabilità e rafforzano<br />

l’idea <strong>di</strong> un <strong>ritmo</strong> che frena un flusso, che presiede e or<strong>di</strong>na il <strong>di</strong>venire, misurandone il profilo <strong>di</strong><br />

una forma che va costituendosi.<br />

Il vincolo è la prima possibilità <strong>di</strong> organizzazione <strong>del</strong>la forma e la forma musicale è movimento.<br />

Per questo la nozione <strong>di</strong> equilibrio è così decisiva: l’organizzazione temporale <strong>del</strong>la musica<br />

garantisce varietà nel potersi allontanare <strong>di</strong> molti passi da un mo<strong>del</strong>lo, da una scansione che viene<br />

data, e che va riportata alla misura originaria, che ne organizza tutte le variazioni.<br />

Alla definizione platonica, che si appoggia sul terreno mutevole <strong>del</strong>lo scorrere e che cerca <strong>di</strong><br />

ritagliarne i limiti <strong>del</strong>la decifrabilità, potremmo contrapporre il <strong>di</strong>sarticolarsi <strong>del</strong> movimento nella<br />

danza mena<strong>di</strong>ca, quel saltellare, quell’irrompere <strong>del</strong> gesto incontrollato che caratterizza la gestualità<br />

nel corteo e nella musica <strong>di</strong>onisiaca.<br />

Le mena<strong>di</strong> saltano flettendo una sola gamba (Baccanti, 940 – 944), incespicano, si muovono a<br />

balzi 12 , si muovono con bruschi scarti che descrivono l’irrompere <strong>del</strong> <strong>di</strong>onisiaco, come momento <strong>di</strong><br />

continuità che travolge ogni <strong>di</strong>scretezza, l’esplodere <strong>di</strong> una tensione che rompe ogni forma<br />

articolatoria nel movimento, bloccandosi nello spasmo. Esiste così, nella definizione platonica il<br />

riferimento ad un vuoto che si crea, una tensione che cerca <strong>di</strong> ritrovare i propri limiti nel<br />

movimento, nella continuità <strong>del</strong>la transizione. Fra i due estremi <strong>del</strong> platonico e <strong>del</strong> <strong>di</strong>onisiaco, si fa<br />

avanti la nozione <strong>di</strong> corpo e <strong>di</strong> volizione.<br />

12 Una analisi assai fine <strong>del</strong> movimento a sbalzi <strong>del</strong>la baccante, e <strong>del</strong> suo rapporto con l’idea <strong>di</strong> evento, apre Marcel<br />

Detienne, Dioniso a cielo aperto, Universale Laterza, Roma – Bari, 1986.


Il farsi avanti <strong>di</strong> una tensione che preservi il movimento dalla spasticità, è la presa d’atto che<br />

esiste una <strong>di</strong>mensione espressiva che protegge la natura processuale <strong>del</strong> gesto rispetto alla<br />

continuità <strong>del</strong>lo spazio, e la possibilità <strong>di</strong> sud<strong>di</strong>viderlo or<strong>di</strong>natamente, nel movimento dalla rottura,<br />

dalla cesura improvvisa e gratuita, ovvero dall’avvilimento <strong>del</strong>la caduta.<br />

I riferimenti alla cura dei coribanti da parte <strong>del</strong>le nutrici, che vengono assimilate alle nutrici che<br />

tranquillizzano i bambini con un movimento circolare, emergerà nei passi successivi (790d – 791d).<br />

L’idea <strong>di</strong> una segmentazione non basta quin<strong>di</strong> minimamente a dar ragione <strong>del</strong>la complessità <strong>del</strong><br />

<strong>concetto</strong> platonico <strong>di</strong> <strong>ritmo</strong>: si tratta <strong>di</strong> una processualità che regola un flusso, ed in questo<br />

pienamente consapevole tanto <strong>del</strong>la mutevolezza <strong>del</strong> r(uqmoÍj, che <strong>del</strong>la staticità schematica.<br />

Platone non propone una semplice iterazione che misura, ma una tensione che preservi il<br />

movimento dai suoi stessi eccessi, e che permetta si passi dal piano cinetico a quello <strong>del</strong>l’evidenza a<br />

quel nucleo strutturale <strong>di</strong> gesti che in<strong>di</strong>cano, nella danza, l’articolarsi <strong>del</strong> movimento corporeo nello<br />

spazio e nel tempo.<br />

La cosa si comprende meglio se contrapponiamo allo sprizzare energetico <strong>del</strong>la danza mena<strong>di</strong>ca,<br />

all’irrompere <strong>del</strong>la continuità caotica, agitata <strong>del</strong> <strong>di</strong>onisiaco, il movimento cullante, circolare cui il<br />

filosofo ateniese allude quando ci parla <strong>del</strong>le donne che curano i coribanti, che ricorrono ad un<br />

movimento regolare, in cui i ritmi si assestano, rispetto ad un’unità <strong>di</strong> misura che si ripete.<br />

Quel movimento statico, questa ciclicità rasserenante, sono due immagini <strong>di</strong> un <strong>ritmo</strong> che si<br />

avvicina al rarefarsi <strong>di</strong> un periodare che precede un silenzio, alla morbidezza <strong>del</strong>la ninna nanna che<br />

calma gli animi stravolti: sul piano espressivo e su quello <strong>del</strong>le relazioni <strong>di</strong> durata il <strong>ritmo</strong> assume il<br />

valore <strong>di</strong> una preparazione al silenzio, <strong>di</strong> uno smussarsi <strong>del</strong> movimento che prepari l’avvento <strong>di</strong> una<br />

immobilità. E’ la fine <strong>del</strong>lo spasmo, attraverso il <strong>ritmo</strong> e la melo<strong>di</strong>a, che mutano il carattere <strong>del</strong><br />

movimento che scuote l’anima, calmandola. L’andamento oscilla fra lo statico, e l’infinito, non si<br />

spezza mai: la circolarità <strong>del</strong> movimento, fa sì che esso faccia mostra <strong>di</strong> sé come un’immagine <strong>del</strong><br />

perenne. Su cosa poggia questa perennità, nel paradosso <strong>di</strong> un movimento che è l’immagine<br />

qualcosa <strong>di</strong> immobile?<br />

Sulla logica interna <strong>del</strong>la sua costruzione: il movimento che culla non si ferma mai, e non lo fa<br />

perché la sua concettualizzazione trova la propria ra<strong>di</strong>ce in un problema espressivo: ti cullerò sino<br />

ad addormentarti, in un movimento sempre identico, che mantiene tutta la sua tensione nel durare.<br />

Punto <strong>di</strong> articolazione <strong>del</strong> movimento, articolazione nella transizione, protegge un passaggio che<br />

sul piano logico, stringe il fenomeno al suo momento costitutivo, nel configurarsi <strong>di</strong> un moto<br />

appena scan<strong>di</strong>to, che porta da una continuità all’altra, ciclicità rasserenante.<br />

Il problema <strong>del</strong>la stasi è quin<strong>di</strong> assimilabile allo spegnersi <strong>del</strong>la pulsazione nel rilassamento, ad<br />

un appropinquarsi progressivo ad una staticità cui possiamo abbandonarci, perché non sappiamo<br />

<strong>di</strong>stinguere le fasi <strong>di</strong> un moto perfettamente omogeneo ed identico a sé stesso. Paradossale nozione<br />

<strong>di</strong> limite: una transizione che si fa sempre più lenta, non raggiungendo mai l’immobilità, che<br />

continua a <strong>di</strong>latarsi attraverso sud<strong>di</strong>visioni successive, e non si può chiudere mai. Al movimento<br />

strappato <strong>del</strong>lo spasmo, corrisponde la continuità <strong>del</strong> circolo, al colpo, una risposta, che si fa, via<br />

via, sempre più silente.<br />

La <strong>di</strong>alettica ritmica messa in gioco da Platone è un gioco raffinatissimo fra vuoti e pieni, ed il<br />

giocare con l’idea <strong>di</strong> un movimento che culla, fino alla transizione <strong>del</strong> sonno, senza mai toccarlo, è,<br />

in fondo, l’idea sublimato <strong>di</strong> un procedere per pulsazioni tenui, colpi senza accento: che la prima<br />

riflessione sul <strong>ritmo</strong>, pur avendo come tema il movimento <strong>del</strong> corpo, abbia preso forma attraverso<br />

una sublimazione <strong>del</strong>l’elemento <strong>di</strong> scansione è assai interessante, perché permette alla definizione<br />

<strong>di</strong> muoversi su un piano <strong>di</strong> enorme generalità.<br />

L’idea <strong>di</strong> <strong>ritmo</strong> come regolarità, come freno che si oppone al flusso aveva trovato molte<br />

illustrazioni <strong>di</strong> alto profilo, ed una particolarmente bassa, che ci interessa riprendere: la metafora <strong>del</strong><br />

r(uqmoÍj come calzatura.<br />

In quell’immagine, infatti, ve<strong>di</strong>amo emergere una <strong>di</strong>alettica che mette in gioco il rapporto con il<br />

corpo: la calzatura greca, il calzare, è un insieme <strong>di</strong> corde che fascia e protegge un arto.


Esso si stringe attorno al piede, ne segue il profilo, ne avvolge il movimento: reticolo <strong>di</strong> lacci<br />

che lambisce con morbidezza l’arto, si mo<strong>del</strong>la sulla sua superficie. Il calzare ha la flui<strong>di</strong>tà che<br />

permette al piede <strong>di</strong> rimo<strong>del</strong>larne la forma dall’interno, tutti quei lacci hanno, d’altra parte, fra loro<br />

un rapporto armonico, che permette loro <strong>di</strong> seguire l’articolarsi <strong>del</strong> movimento. Guaina che si avvita<br />

su <strong>di</strong> una forma scossa nel mutamento, il <strong>ritmo</strong> oscilla fra una serie <strong>di</strong> posizioni fisse <strong>del</strong> piede,<br />

sostenendone l’orientamento.<br />

Organizzazione <strong>di</strong>namica, esso si mantiene nell’invisibilità, prendendo consistenza nel <strong>di</strong>sporsi<br />

degli sno<strong>di</strong> <strong>di</strong>namici <strong>del</strong>la relazione: vincolo invisibile, ma potentissimo, perché in<strong>di</strong>ca la linea<br />

<strong>del</strong>l’orizzonte oltre la quale il movimento non può spingersi. Tutta la spazialità pervasa dai vincoli<br />

ritmici, li mette in mostra nel momento in cui la ritmicità incar<strong>di</strong>na il movimento nelle regole<br />

concesse dalla sua elasticità. La stessa cosa accade, naturalmente, quando il <strong>ritmo</strong> mette in tensione<br />

l’andamento <strong>del</strong> tempo, orientandone la <strong>di</strong>rezionalità , e facendo valere le sue regole: quando la<br />

scansione gira a vuoto, quando an<strong>di</strong>amo sprofondando, come accade nei passaggi da una scansione<br />

all’altra, che spesso fanno mostra <strong>di</strong> sé nei nostri esempi musicali, per un momento il tempo - flusso<br />

ricomincia a scorrere e per<strong>di</strong>amo il nostro orientamento temporale, per ricadere subito dopo nelle<br />

maglie <strong>del</strong>le regole ritmiche. Possiamo incontrare lunghe sezioni temporali in cui l’orientamento<br />

temporale si appanna, come accade per le musiche in cui si apre una <strong>di</strong>alettica fra <strong>ritmo</strong> e<br />

continuità: dovremo interrogarci sul senso <strong>di</strong> questo orientamento espressivo.<br />

Nel Prometeo incatenato <strong>di</strong> Eschilo il titano si compiange, perché incatenato ad un <strong>ritmo</strong>: la sua<br />

possibilità <strong>di</strong> movimento è bloccata da un vincolo, egli può muoversi in molte <strong>di</strong>rezioni, ma arriva<br />

un punto in cui la trazione <strong>del</strong> suo movimento verrà implacabilmente portata in<strong>di</strong>etro. Anche in<br />

questo caso, la nozione <strong>metaforica</strong> <strong>di</strong> <strong>ritmo</strong> copre almeno due valenze.<br />

Su un primo strato, essa ci parla <strong>del</strong> vincolo spazio-temporale che la catena impone al<br />

prigioniero: per certi versi, all’interno <strong>del</strong>la incatenamento sono possibili molti movimenti<br />

vettoriali: dal circolare al <strong>di</strong>agonale.<br />

Arrivati ad un certo limite <strong>di</strong> <strong>di</strong>stanza, la catena <strong>di</strong>venta vincolo che inchioda <strong>di</strong> nuovo al punto<br />

<strong>di</strong> partenza, impedendo la fuga prospettica, che andava configurandosi nelle <strong>di</strong>rezioni possibili <strong>di</strong><br />

quel movimento. La vista ha <strong>di</strong> fronte a sé un enorme orizzonte <strong>di</strong> punti <strong>di</strong> vista, bloccato nel<br />

vincolo: l’occhio guarda verso una spazialità infinita, che lo chiama, l’attira con la sua profon<strong>di</strong>tà,<br />

ma il corpo è inchiodato un punto, in cui tutti i decorsi <strong>di</strong> senso evocati dallo spazio sono interrotti,<br />

dopo aver preso forma.<br />

In questo carattere <strong>di</strong> ostinatezza, che vincola nel movimento emerge allora l’altro aspetto<br />

metaforico: il titano è prigioniero <strong>di</strong> un destino, e <strong>di</strong> uno stato d’animo, che muta continuamente nel<br />

dolore, e che impe<strong>di</strong>sce la rassegnazione a causa <strong>di</strong> una sofferenza fisica continua, che crea spasmo.<br />

Il destino <strong>di</strong> Prometeo è un piano inclinato, che passa attraverso il vincolo <strong>del</strong>la sua con<strong>di</strong>zione<br />

<strong>di</strong> prigioniero <strong>del</strong>la libertà. La configurazione <strong>di</strong> quel mondo doloroso è, la tempo stesso,<br />

implacabile nella sua staticità e instabile nelle sue tendenze, mentre il destino <strong>del</strong> titano, lo<br />

sprofondamento, si configura sempre più dolorosamente.<br />

Per salvarci dall’eccesso tragico, dobbiamo imparare a stare nel vincolo ritmico, a muoverci,<br />

come ci insegna a Platone, nell’articolazione <strong>del</strong> movimento Questo piano prescrittivi non può che<br />

toccare l’orizzonte <strong>del</strong> corpo danzante .Il corpo <strong>di</strong>venta bello attraverso una pratica ginnica ma deve<br />

portare a rappresentazione l’idea <strong>di</strong> un equilibrio,<strong>di</strong> una grazia che trovi il proprio fondamento<br />

oggettivo nel senso <strong>del</strong>la misura. Il trapasso dalle forme <strong>del</strong>la danza a quello <strong>del</strong>la ginnastica<br />

dev’essere netto, ma va pensato attraverso un criterio che possa fondarle entrambe (Leggi, VII 795,<br />

d-e). Non è <strong>di</strong>fficile in<strong>di</strong>care in quale <strong>di</strong>rezione indagare, per trovare il senso <strong>di</strong> questa partizione: la<br />

<strong>di</strong>mensione <strong>del</strong> politico, <strong>del</strong>la tutela dei sacri vincoli che tengono assieme la polis, impone una<br />

gerarchizzazione <strong>del</strong>la danza, dove il grado più basso sarà occupato dalla <strong>di</strong>mensione <strong>del</strong> buffo, dei<br />

ri<strong>di</strong>colo, <strong>di</strong> tutto quello che precipita verso il deforme. Alle danze buffe, al limbo <strong>del</strong> grottesco dove<br />

viene la psyche viene avvilita nella deformazione <strong>di</strong> un mo<strong>del</strong>lo il filosofo platonico antepone le<br />

danze guerriere e le danze pacifiche.


La nettezza <strong>del</strong>la partizione non deve far perdere <strong>di</strong> vista la centralità <strong>del</strong>la categoria<br />

d’espressione, e quella, non meno importante, <strong>di</strong> economia <strong>di</strong> mezzi che gioca il suo ruolo con<br />

molta forza: nella danza guerriera per eccellenza, la pirrica (Leggi, 816 a) il corpo porta in scena la<br />

sua capacità <strong>di</strong> evitare colpi, si getta <strong>di</strong> fianco, si alza e si abbassa, in<strong>di</strong>etreggia, tende l’arco, lancia<br />

il giavellotto. Potremmo pensare ad un semplice portato <strong>del</strong> <strong>concetto</strong> <strong>di</strong> mimesi, ma soffermarsi su<br />

questo piano toglierebbe al gesto la sua essenzialità, la sua risolutezza. Platone cita gesti che hanno<br />

nettezza profonda, e dove la tensione che regge l’equilibrio viene fuori con la massima forza, in una<br />

danza attorno agli assetti fondamentali d’equilibrio <strong>del</strong> corpo, e alla loro per<strong>di</strong>ta, la cui rigidezza,<br />

per un lato rimanda ancora alla ginnastica.<br />

Questo piano elementare, aggressivo nella sua coor<strong>di</strong>nazione essenziale, che stilizza<br />

consapevolmente il caos <strong>del</strong>la rissa bellica, permette il ra<strong>di</strong>carsi <strong>di</strong> una categoria espressiva (Leggi<br />

814e - 815a), che trascende il mo<strong>del</strong>lo <strong>di</strong> quel movimento asciugato e che troverà pregnanza nella<br />

danza sacra, nell’emmeleia, una danza che porta dentro <strong>di</strong> sé un riferimento al canto, e alle capacità<br />

etiche <strong>del</strong> musicale.<br />

L’impulso alla danza quello verso la musica obbe<strong>di</strong>scono alla medesima tensione espressiva, una<br />

tensione lirica che non scade nella soggettività, ma nell’oggettività <strong>di</strong> uno stile. Il gesto armonico<br />

che pervade questa danza, per Platone, è il risultato <strong>di</strong> una tensione 13 che si esprime<br />

nell’ammorbi<strong>di</strong>mento <strong>del</strong> gesto, nella sua roton<strong>di</strong>tà.<br />

Le due qualità <strong>del</strong> gesto, fondano la visione politica <strong>del</strong> corporeo, e l’esemplarità <strong>del</strong>la danza. Si<br />

tratta <strong>di</strong> un passaggio essenziale, per comprendere il destino <strong>di</strong> quella forma d’arte, che <strong>di</strong>venta<br />

imme<strong>di</strong>atamente struttura rappresentativa <strong>di</strong> un or<strong>di</strong>ne politico- religioso e <strong>di</strong> una forma d’or<strong>di</strong>ne, al<br />

punto che la forma più stilizzata <strong>di</strong> danza, il balletto, nascerà all’interno <strong>del</strong>la corte, alla ricerca <strong>di</strong><br />

un’artificialità espressiva <strong>del</strong> gesto, che possa tradurre un’idea <strong>di</strong> bellezza, tagliando corto con<br />

qualunque forma <strong>di</strong> naturalismo, ma il problema <strong>del</strong>la canonizzazione <strong>del</strong>la danza non si esaurisce<br />

qui.<br />

L’elaborazione teorica <strong>del</strong>le Leggi (Leggi 816 e) presenta un platonismo ben consapevole <strong>del</strong>la<br />

pienezza <strong>del</strong> corporeo, <strong>del</strong>la ricchezza <strong>di</strong> quella <strong>di</strong>mensione espressiva e dei mo<strong>di</strong> atti a proteggerne<br />

l’annichilimento, un atteggiamento in cui il tema <strong>del</strong>la somatica, e <strong>del</strong> suo sentire, mette in scena la<br />

morbidezza <strong>del</strong> gesto, e <strong>del</strong>la sua flui<strong>di</strong>tà, come punto d’arrivo <strong>del</strong>la sua forza, risolvendo sul piano<br />

<strong>di</strong>namico la statica <strong>del</strong>le categorie ritmiche, da cui eravamo partiti. Nel movimento armonico<br />

<strong>del</strong>l’emmeleia la transizione fra una postura e l’altra dev’essere appena avvertita, come accade per<br />

la nozione <strong>di</strong> limite all’interno <strong>del</strong>la categoria ritmica.<br />

La rilassatezza, omogeneità carica <strong>di</strong> tensione, si fa gesto, in movimento esemplare per una<br />

comunità politica, che sappia vedere nella tensione <strong>del</strong>lo sforzo la capacità <strong>di</strong> controllare l’energia<br />

corporea, in<strong>di</strong>rizzandola implacabilmente verso il gesto espressivo.<br />

Va osservato che, se la definizione platonica vuol salvare il corpo dai suoi stessi eccessi, nella<br />

ricerca <strong>di</strong> una giusta proporzione a cui il fenomeno ritmico dovrebbe guardare, l’idea <strong>di</strong> una<br />

articolazione pone al centro <strong>del</strong> problema una nozione <strong>di</strong> corpo senziente assai forte: vi è<br />

sublimazione nella scelta <strong>di</strong> una misura, che permetta <strong>di</strong> controllare la forma dalla <strong>di</strong>spersione nel<br />

<strong>di</strong>venire, non certo una negazione <strong>del</strong>l’aspetto corporeo, che si limita ad essere inserito in una sorta<br />

<strong>di</strong> reticolo, che ne moduli le possibilità <strong>di</strong> movimento in senso prescrittivo.<br />

Il precipitato <strong>di</strong> queste nozioni, che richiamiamo necessariamente in una sintesi violenta ed un<br />

poco semplificatoria, possono trovare una qualche analogia nella <strong>di</strong>mensione <strong>del</strong> musicale? L’idea<br />

<strong>di</strong> una configurazione che muta nel tempo e che rende visibile la caducità <strong>del</strong>la forma, ha<br />

certamente molti tratti analogici con la natura <strong>del</strong> suono, che è anzitutto processualità che si<br />

<strong>di</strong>spiega nel tempo, che permette alla percezione <strong>di</strong> avvertire il prender forma <strong>di</strong> un andamento <strong>del</strong>la<br />

temporalità.<br />

13 Ancora in pieno novecento lo spazio che si muove attorno al corpo <strong>del</strong> danzatore prende la forma <strong>di</strong> un solido<br />

platonico, l’icosaedro come accade in Rudolf Lablan, The Mastery of Movement on the Stage, Mac-Doanld and<br />

Evans, London, 1950


Flusso e <strong>di</strong>ga, tempo e <strong>ritmo</strong> sembrano continuamente tendersi la mano: nella definizione<br />

platonica vengono messi al bando due tipi <strong>di</strong> movimento, come ha messo bene in rilievo Curt<br />

Sachs 14 : movimenti <strong>di</strong> tipo caotico, come quello <strong>di</strong> una valanga, totalmente privi <strong>di</strong> una perio<strong>di</strong>cità<br />

interna, e movimenti troppo uniformi, con un carattere <strong>di</strong> continuità cinetica, come accade per il<br />

movimento <strong>di</strong> una barca a vela, o <strong>di</strong> un’automobile.<br />

La definizione <strong>di</strong> Platone, nell’interpretazione <strong>di</strong> Sachs, coglie i due estremi all’interno dei quali<br />

la nozione <strong>di</strong> <strong>ritmo</strong> può oscillare. Il carattere <strong>di</strong> regolarità, <strong>di</strong> segmentazione <strong>di</strong> una continuità qui<br />

prende pregnanza, perché <strong>di</strong>venta avvertibile: la forma ritmica deve potersi dare alla percezione,<br />

per poter essere riconosciuta, ed apprezzata. Vi è quin<strong>di</strong> l’idea <strong>di</strong> una ripetizione, che va separando<br />

le parti <strong>di</strong> un intero, e che dev’essere riconoscibile: ma cosa rende percepibile un tessuto che trova il<br />

proprio principio <strong>di</strong> articolazione nelle lacune che ne <strong>di</strong>stanziano i tratti?<br />

Il richiamo alla misura, infatti, va affrontato prima ci si metta a contare i tagli con cui elaboriamo<br />

il profilo che dà un andamento al continuo temporale. Tale aspetto <strong>del</strong> problema ritmico ci si fa<br />

innanzi prima ancora che si possa entrare nell’ambito <strong>del</strong>le esemplificazioni musicali, perché mette<br />

in gioco problemi legati al <strong>concetto</strong> <strong>di</strong> perio<strong>di</strong>cità: cosa vuol <strong>di</strong>re che un suono si ripete, ad esempio,<br />

e che si ripete, secondo un certo andamento?<br />

Si tratta <strong>di</strong> un problema essenziale, perché, se il <strong>ritmo</strong> è basato su una misura che determina<br />

l’andamento <strong>del</strong>le occorrenze <strong>di</strong> una certa figura, <strong>di</strong> un certo colpo, dobbiamo poter mostrare<br />

chiaramente quale sia il senso <strong>del</strong>l’articolazione, che cosa la sostenga.<br />

<strong>§</strong> 6 La funzione <strong>del</strong> <strong>ritmo</strong> nell’atomismo: lo sciogliersi <strong>del</strong>la forma nella figurazione<br />

All’interno <strong>di</strong> tutte le accezioni <strong>di</strong> r(uqmoÍj considerate, manca ancora quella che lega il termine<br />

alla nozione <strong>di</strong> atomo: nella filosofia degli antichi atomisti, r(uqmoÍj in<strong>di</strong>ca quel tracciato che<br />

l’atomo <strong>di</strong>segna nello spazio. Se ogni atomo si muove nello spazio, secondo una propria modalità,<br />

la qualità <strong>di</strong> quel movimento ne determina la forma e la modalità <strong>di</strong> congiunzione con gli altri<br />

atomi. La nozione ci interessa particolarmente, perché i titoli <strong>del</strong>le opere <strong>di</strong> Democrito vedono<br />

affiancarsi alla nozione <strong>di</strong> <strong>ritmo</strong>, come forma in movimento degli atomi, quella <strong>di</strong> <strong>ritmo</strong> musicale, e<br />

questo mostra che fa le due nozioni corre un’affinità profonda.<br />

Vorremmo comprendere meglio cosa si intenda con questo parallelismo, virando tutto il<br />

ragionamento sul piano <strong>di</strong> un approdo ad una filosofia <strong>del</strong>la musica.<br />

Se r(uqmoÍj in<strong>di</strong>ca la forma <strong>di</strong> una traiettoria in movimento, ed ha la possibilità <strong>di</strong> intervenire<br />

sulle modalità <strong>di</strong> aggregazione degli atomi fra loro, sembra imme<strong>di</strong>atamente tradursi nella nozione<br />

<strong>di</strong> schema, figura che descrive il modo in cui due materie <strong>di</strong>verse vengono costruite, grazie<br />

all’intreccio <strong>di</strong> due atomi <strong>di</strong>versi che hanno carattere <strong>di</strong> eternità, in un composto che è, per sua<br />

natura, instabile e sottoposto a generazione e corruzione.<br />

Nella Metafisica, Aristotele spiega quella relazione ricorrendo al una analogia con la posizione<br />

<strong>del</strong>le lettere nell’alfabeto:<br />

«(Gli atomisti) infatti asseriscono che l’essere <strong>di</strong>fferisce solo per la traiettoria, per modalità <strong>di</strong><br />

congiunzione, per modalità <strong>di</strong> rivolgimento (r(usmw=si kai\ <strong>di</strong>aqigh=i kai\ troph=i). In particolare,<br />

la traiettoria (r(usmo\j) è la figura (sxh=maÍ e)stin), la modalità <strong>di</strong> congiunzione 15 è l’or<strong>di</strong>ne (taÍcij)<br />

e la modalità <strong>di</strong> rivolgimento è la posizione. Infatti la A <strong>di</strong>fferisce dalla N per la figura, mentre AN<br />

<strong>di</strong>fferisce da NA per la posizione, e invece I si <strong>di</strong>fferenzia da H per la posizione 16 .».<br />

14 Curt Sachs, Rhytm and Tempo. A study in music history. Norton and Company, New York, 1953, p.15.<br />

15 Il testo aristotelico recita così: h) de\ <strong>di</strong>aqigh\ taÍcij, h) de\ troph\ qeÍsij<br />

16 Aristotele, Metafisica, A4. 985b 4 . Traggo la traduzione da Atomisti Antichi, Frammenti e testimonianze, a cura <strong>di</strong><br />

Matteo Andolfo, Rusconi, Milano, 1999, pp.98 - 99.


Il passo aristotelico sembrerebbe ricondurre le relazioni fra flui<strong>di</strong>tà <strong>del</strong>l’assetto e schematicità<br />

<strong>del</strong>la forma, decisamente dalla parte <strong>del</strong>la schematicità, quando sostiene che r(usmo\j e lo sxh=ma<br />

coincidono. Una simile lettura, tuttavia, proposta ossessivamente in molti manuali <strong>di</strong> storia <strong>del</strong>la<br />

filosofia, potrebbe rivelarsi troppo unilaterale, e se guar<strong>di</strong>amo con più cura la testimonianza<br />

aristotelica, collocandola cioè nel contesto <strong>di</strong> quello che sappiamo <strong>del</strong>la filosofia atomistica, il<br />

senso <strong>di</strong> quanto leggiamo muta completamente 17 .<br />

Aristotele scrive dapprima che A ed N hanno figura <strong>di</strong>versa, e quin<strong>di</strong> che la forma degli atomi,<br />

presa in sé, muta a seconda <strong>del</strong> tipo. In questo senso, lo schema è criterio <strong>di</strong> identità <strong>del</strong>l’atomo<br />

stesso, la sua forma caratteristica.<br />

Noi, tuttavia, non facciamo esperienza <strong>di</strong> atomi, ma <strong>di</strong> sostanze, <strong>di</strong> materia, costruita attraverso<br />

l’aggregarsi degli atomi, e tali aggregati non sono eterni, come l’atomo. Se la nozione <strong>di</strong> sostanza,<br />

sembrasse troppo legata ad un orizzonte aristotelico, il peso <strong>del</strong> problema non muta.<br />

L’intrecciarsi dei caratteri <strong>del</strong>la congiunzione degli atomi nello spazio, da cui si sviluppa la<br />

materia, fa uscire dalla staticità <strong>del</strong>lo schema, per avviarsi verso la nozione <strong>di</strong> <strong>ritmo</strong>. L’armonia che<br />

tiene insieme le cose, non è eterna.<br />

La sostanza è una strutturazione ritmica, sottoposta a corruzione, perché intreccio fra atomi, <strong>di</strong><br />

forma <strong>di</strong>versa: l’atomo configura una struttura che è forma in movimento, verso la propria<br />

degenerazione.<br />

La posizione, la taÍcij, quella relazione che sostiene le relazioni reciproche fra atomi nel loro<br />

contessersi, è ciò che si oppone al mutamento, ma quel mutamento avanza implacabile con il<br />

decorrere <strong>del</strong> tempo.<br />

Ogni sostanza è unità che vive in un decorso finito <strong>del</strong> tempo, in un’unità lunghissima, ma chiusa<br />

solo da un andamento che la tiene coesa. Essa rientra dunque in pieno nell’idea <strong>di</strong> una scansione,<br />

non <strong>di</strong> una misurazione. La schematicità è solo apparente, ed è dalla parte <strong>del</strong>l’atomo: per quanto<br />

attiene la <strong>di</strong>mensione degli elementi essa è ancora movimento, il mondo che ci circonda è<br />

configurazione che muta.<br />

Aria ed acqua <strong>di</strong>fferiscono per la <strong>di</strong>sposizione degli atomi nella loro costituzione: assumono<br />

forme <strong>di</strong>verse nella loro aggregazione, ma tali forme sono effimere.<br />

L’atomo, pur avendo una figura, muta in relazione alle strutture combinatorie con cui entra nella<br />

configurarsi degli elementi tra <strong>di</strong> loro: in un mondo dominato dal movimento, sospeso fra essere e<br />

non essere, fra pieno e vuoto, dove anche le immagini, gli odori o i suoni sono eidola, immagini<br />

riflesse <strong>del</strong>la materia, che si offrono ai sensi, il <strong>ritmo</strong> tiene insieme l’elemento nella configurazione,<br />

instabile tessitura <strong>del</strong> reale. Il <strong>concetto</strong> <strong>di</strong> simulacro rieccheggia in sé gli adombramenti <strong>di</strong> un<br />

<strong>di</strong>venire inquieto e corrosivo.<br />

Potremmo osservare che il <strong>ritmo</strong> determina le forme combinatorie degli atomi negli elementi e si<br />

basa su una <strong>di</strong>fferenza intrinseca, legata alle <strong>di</strong>fferenti forme degli atomi fra loro, e ad una modalità<br />

<strong>del</strong>la configurazione, legata al loro movimento, alla modalità <strong>del</strong> loro intreccio, all’affinità tra le<br />

traiettorie.<br />

Esiste così una serie <strong>di</strong> analogie fra il <strong>ritmo</strong>, che tiene uniti gli atomi nella materia e la forma<br />

<strong>del</strong>le lettere, combinazione grafica <strong>di</strong> tratti, che si consolida, e che può mutare nel tempo.<br />

La I e la H, spiega Aristotele, sono lo stesso carattere grafico. posto in posizione <strong>di</strong>versa: il che è<br />

vero se guar<strong>di</strong>amo alla grafia greca <strong>del</strong>le lettere e che mostra che la lettera oscilla nello spazio, si<br />

configura, consolidandosi in uno schema, soggetto a variazioni.<br />

Lo stesso grafema, posto <strong>di</strong>versamente nello spazio, configura due lettere <strong>di</strong>verse: in qualche<br />

misura, neppure la schematicità <strong>del</strong>la forma garantisce l’identità e la non mutevolezza <strong>del</strong>l’parola<br />

nel tempo: se la scrittura si basa su una combinazione <strong>di</strong> tratti, che configurano la parola, la<br />

combinazione stessa si trasforma, nel mutare dei sistemi grafici in cui l’aspetto <strong>del</strong>la lettera ci<br />

appare in nuova configurazione.<br />

17 L’orizzonte interpretativo che ci accingiamo a sviluppare è stato sviluppato, in una <strong>di</strong>rezione assai <strong>di</strong>versa dalla<br />

nostra, dal Deleuze <strong>di</strong> Logica <strong>del</strong> senso, dove il problema viene aggre<strong>di</strong>to a partire dalla nozione <strong>di</strong> simulacro.


La lettera ha consistenza apparente, è configurazione in movimento, trama che pone gli elementi<br />

in tensione tra loro, non armatura che li incar<strong>di</strong>na: nel senso <strong>del</strong>la costituzione <strong>del</strong> grafema si pone<br />

l’idea <strong>di</strong> una continua deformazione, rispetto ad un mo<strong>del</strong>lo che è, ancora, configurazione nel<br />

movimento: forma e deformazione scivolano sullo stesso piano, mentre continua ad emergere è una<br />

nozione <strong>di</strong> <strong>ritmo</strong> che resiste, in qualche modo, alla visibilità apparente che si presenta nelle sue<br />

manifestazioni <strong>di</strong> superficie. Possibilità <strong>del</strong>la schematizzazione, il <strong>ritmo</strong> continua a sfuggire a darsi<br />

attraverso una forma congelata, reticolare mentre la sua essenza si nasconde nel movimento che ne<br />

scuote le strutturazioni. Il <strong>ritmo</strong> vive così nel darsi <strong>del</strong>le sue variazioni, all’interno <strong>di</strong> una regola, <strong>di</strong><br />

una misura, che traluceva dalla forma scossa <strong>del</strong>la calzatura.<br />

Da questa prima immagine, dove la nozione <strong>di</strong> regolarità esce dalla rigi<strong>di</strong>tà un poco rappresa<br />

<strong>del</strong>la forma architettonica, per mettere capo ad un processo dove la misura assicura le con<strong>di</strong>zioni<br />

minime <strong>del</strong>l’oscillazione attorno a punti fissi, eravamo arrivati ad evocare l’immagine platonica<br />

<strong>del</strong>l’articolarsi nella transizione, <strong>del</strong> placarsi <strong>del</strong>le tendenze centrifughe e spasmo<strong>di</strong>che <strong>del</strong><br />

movimento <strong>di</strong>onisiaco, fino alla neutralizzazione <strong>del</strong>la pulsazione, <strong>del</strong> colpo placido, senza accento.<br />

Possiamo ora chiederci se questa formulazione sia stata, in qualche modo, riattraversata dalla<br />

tra<strong>di</strong>zione aristotelica, intenta a fornire criteri esplicativi rigorosi, che permettano <strong>di</strong> costruire <strong>del</strong>le<br />

teorie in gra<strong>di</strong> <strong>di</strong> dar ragione <strong>di</strong> quanto accade sul piano <strong>del</strong>l’esperienza: nel nostro caso, potremmo<br />

chiederci in che modo possiamo <strong>di</strong>re che siamo in grado <strong>di</strong> riconoscere un <strong>ritmo</strong>? Su cosa si basa il<br />

riconoscimento <strong>del</strong>la regolarità, una volta, che attraverso il lavorio concettuale <strong>del</strong> platonismo e<br />

<strong>del</strong>la filosofia presocratica, abbiamo compreso che la regolarità è essenzialmente protezione <strong>di</strong> una<br />

forma?


<strong>§</strong> 7 Aristosseno e la materia <strong>del</strong> tempo<br />

Domande <strong>di</strong> tale tenore emergono dalla lettura degli Elementa Rhythmica 18 <strong>di</strong> Aristosseno (354<br />

– 300 a. C.), che si preoccupa imme<strong>di</strong>atamente <strong>di</strong> avvisarci che perché vi sia percezione <strong>del</strong> <strong>ritmo</strong>, è<br />

necessario che il fenomeno ritmico si articoli secondo rapporti che si ripetano e che possano essere<br />

mimati da gesti.<br />

Il <strong>ritmo</strong> fa tutt'uno con la regolarità <strong>del</strong>la scansione: ma la regolarità <strong>del</strong>la scansione prende<br />

corpo solo <strong>di</strong> fronte alla possibilità <strong>di</strong> in<strong>di</strong>viduare il movimento caratteristico <strong>di</strong> una figura che si<br />

ripete. Solo in presenza <strong>del</strong>la ripetizione, infatti, riusciamo a coor<strong>di</strong>nare un movimento, o una serie<br />

<strong>di</strong> gesti che ci permettono <strong>di</strong> decidere sull'efficacia nei rapporti fra durate che scan<strong>di</strong>scono una frase<br />

musicale o un verso. Il <strong>ritmo</strong> ha quin<strong>di</strong> natura gestuale: se siamo portati a battere le mani, o i pie<strong>di</strong> o<br />

a scuotere la testa, il <strong>ritmo</strong> funziona.<br />

L’aspetto paradossale <strong>di</strong> modo <strong>di</strong> procedere è che esso si basa su presupposti non imme<strong>di</strong>ati che<br />

vanno portati in evidenza. Il primo è che non basta una relazione matematica per misurare il<br />

movimento: se il tempo è caratterizzato dalla sua continuità, dall'essere una linea retta, qualcosa che<br />

non ha parti, che ha limiti comuni, per cui si trapassa continuamente da una fase all’altra, non<br />

possiamo accontentarci <strong>di</strong> isolarne dei frammenti, perché otterremmo <strong>del</strong>le semplici durate. Le<br />

durate <strong>di</strong>ventano percepibili ai sensi attraverso sillabe o note musicali. Il tempo è quin<strong>di</strong> la materia<br />

<strong>del</strong> <strong>ritmo</strong>, la prima cosa da sud<strong>di</strong>videre, per ottenere una serie <strong>di</strong> rapporti (protos chronos), <strong>di</strong> valori<br />

semplici, proporzioni matematiche, che organizzano tutta la struttura ritmica. Ma il tempo è anche<br />

un segmento immaginato, una forma che cerca la propria profilatura, per farsi avvertire mentre<br />

scorre. Dobbiamo isolarne dei frammenti che abbiano pregnanza, cioè che non siano né troppo<br />

lunghi, né troppo brevi: in questa operazione decide la scelta nasce dalla possibilità <strong>di</strong> cadenzare<br />

con il corpo il movimento, ovvero <strong>di</strong> trasformare il frammento ritmico in un gesto, che si possa<br />

iterare con facilità.<br />

Esiste quin<strong>di</strong> una <strong>di</strong>fferenza, fra l'attribuzione astratta <strong>di</strong> una misura nel flusso temporale,<br />

assimilabile all'in<strong>di</strong>cazione che troviamo ad apertura <strong>di</strong> un brano musicale o nella sud<strong>di</strong>visione<br />

offerta dalle sillabe <strong>del</strong> verso, e l'articolazione, il periodare degli eventi, dei suoni <strong>del</strong>le parole<br />

offerte da un <strong>ritmo</strong>, che si organizzano in strutture che hanno una vita autonoma che va<br />

riconosciuta. Non basta, in una concezione ritmica <strong>di</strong> tipo aristossenico la semplice scansione in<br />

sillabe <strong>di</strong> un verso, il ricercare le lunghe e le brevi, per applicarvi meccanicamente un metro. La<br />

natura <strong>di</strong> quelle sud<strong>di</strong>visioni, infatti, può sostenere accentazioni <strong>di</strong>verse: l'articolazione ritmica non<br />

si limita quin<strong>di</strong> ad una sud<strong>di</strong>visione o ad una organizzazione per gruppi, ma deve fornire<br />

un'architettura degli eventi temporali.<br />

Il terreno <strong>di</strong> esplicazione <strong>del</strong> <strong>ritmo</strong> è il battere ed il levare <strong>del</strong> piede, nella marcia o nella danza<br />

(pouÍj). Vengono così introdotti i concetti <strong>di</strong> arsi e <strong>di</strong> tesi: ogni volta che muoviamo un passo<br />

solleviamo un piede, e lo abbassiamo: quel movimento è <strong>di</strong>viso in due fasi: nella prima fase <strong>del</strong><br />

processo, il piede è sospeso in aria, nella seconda battiamo il colpo.<br />

Il <strong>ritmo</strong> nasce come un'alternanza <strong>di</strong> colpi, nascendo solo nella transizione da una fase all'altra<br />

<strong>del</strong> processo: il <strong>ritmo</strong> deve rimanere sempre riconoscibile mo<strong>di</strong>ficandosi, prenendo spessore a<br />

seconda <strong>del</strong> taglio che ne cattura i profili.<br />

Il suono isolato, non relazionato ad un altro, non costituisce unità ritmica. Rimane solo un colpo.<br />

Dovremo interrogarci su questo presupposto relazionale. Il risuonare <strong>del</strong> colpo non è<br />

schematizzabile, vive al <strong>di</strong> fuori <strong>di</strong> ogni relazione.<br />

18 Aristoxenus, Elementa Rhythmica. The Fragments of Book II and the ad<strong>di</strong>tional evidence for Aristoxenean Rhythmic<br />

Theory. Texts e<strong>di</strong>ted with introduction, transalation and commentary by Lionel Parsons, Clarendon Press, Oxford,<br />

1990. Ci occupiamo <strong>del</strong> secondo libro, l’unico che ci sia arrivato in una versione integrale.


Lo stesso vale per i fenomeni continui, o troppo <strong>di</strong>screti, come il canto <strong>del</strong>le cicale, o lo scorrere<br />

<strong>di</strong> un ruscello, che non sono modulabili attraverso l'in<strong>di</strong>viduazione <strong>del</strong> segmento che esprime la<br />

misura <strong>del</strong>l'alternanza. Quei fenomeni naturali hanno un andamento caratteristico, riconoscibile, ma<br />

la pulsazione che li caratterizza non può essere scan<strong>di</strong>ta attraverso il movimento, le fasi sono<br />

caratterizzate da fenomeni <strong>di</strong> addensamento o <strong>di</strong> rarefazione che non ne permettono una<br />

riproducibilità che possa essere controllata: non si possono utilizzare, né misurare in modo<br />

pregnante. Sono dunque degli indeclinabili: perché si possa plasmare ritmicamente qualcosa,<br />

bisogna che la sostanza <strong>di</strong> cui è costituito goda <strong>di</strong> proprietà, che trovano il loro fondamento nella<br />

ripetibilità modulare.<br />

Da quanto abbiamo detto per Aristosseno la proporzione matematica fra durate (ossia il chronos<br />

protos) deve rendersi percepibile attraverso il liberarsi <strong>del</strong>la tensione fra arsi e tesi, attraverso il<br />

cadere <strong>del</strong> colpo, che crea attesa per la caduta successiva.<br />

Nella metrica <strong>del</strong>la poesia l’unione <strong>di</strong> una sillaba breve e <strong>di</strong> una sillaba lunga viene denominata<br />

giambo. Non passeremo attraverso il terreno minato <strong>del</strong>la metrica, ma trasformare arsi e tesi<br />

<strong>di</strong>rettamente in durate ritmiche, cercando <strong>di</strong> farvi ascoltare le relazioni fra le durate. Di fronte alla<br />

raffinatissima concettualizzazione <strong>del</strong> problema <strong>del</strong> <strong>ritmo</strong>, che Aristosseno sviluppa in modo<br />

serrato, rapido, vi è un modo peculiare <strong>di</strong> riprendere l’aspetto legato al problema aritmetico, ossia<br />

alle relazione fra i valori <strong>del</strong>le durate, cui debbono essere condotti tutti i tempi primi. Non possiamo<br />

entrare nel vivo <strong>del</strong>la trattazione, ma dobbiamo notare come ogni rapporto numerico venga riportato<br />

al problema <strong>del</strong>la sua riconoscibilità, che consiste nella battuta <strong>del</strong> piede.<br />

Per Aristosseno, il numero anima il flusso <strong>del</strong> tempo attraverso dei colpi, e lo rende<br />

riconoscibile. L’intervallo fra i colpi, il silenzio, <strong>di</strong>venta quin<strong>di</strong> una struttura <strong>del</strong>l’attesa.<br />

Le possibilità sintetiche legate all’uso <strong>di</strong> queste cellule elementari sono notevoli, e basta<br />

pochissimo per elaborare un primo accostamento fra due cellule ritmiche elementari, per ottenere un<br />

<strong>di</strong>segno ritmico, in cui la funzione <strong>del</strong>la pausa crea già una prima, elementare, articolazione.<br />

Sulla base ritmica ve<strong>di</strong>amo prender piede ( è il caso <strong>di</strong> <strong>di</strong>rlo) una <strong>del</strong>le più sistematiche e<br />

raffinate applicazioni dei criteri <strong>di</strong> costruzione ritmica nel verso, ma non possiamo seguire questa<br />

<strong>di</strong>rezione. Osserviamo solo che la matrice ritmica, che si fa avvertire attraverso la <strong>di</strong>stribuzione<br />

degli accenti, ha evidentemente il valore <strong>di</strong> una sublimazione <strong>del</strong>la struttura ritmica, epurata, in<br />

fondo, <strong>di</strong> tutte le sue componenti più concrete. Eppure, basterebbe far risuonare la struttura ritmica<br />

<strong>di</strong> un verso omerico, per avere ben più <strong>di</strong> una sorpresa. La struttura iterativa <strong>del</strong>la <strong>di</strong>sposizione degli<br />

accenti, se da un lato sublima il colpo, riesce a mantenere tensione nell’iterazione, ovvero nella<br />

<strong>di</strong>alettica <strong>di</strong> attese e risposte che una relazione ritmica impone al periodare <strong>del</strong> tempo.<br />

Se il <strong>ritmo</strong> sceglie i propri oggetti, ha affinità con alcuni fenomeni e con altri no, e ci dev'essere<br />

la possibilità <strong>di</strong> verificare in qualche modo la capacità <strong>del</strong>le parole e o dei suoni <strong>di</strong> sostenere la<br />

sud<strong>di</strong>visione: il metodo è, apparentemente, molto semplice. Si deve <strong>di</strong>stinguere ciò che può essere<br />

plasmato dal <strong>ritmo</strong>, in questo caso gruppi <strong>di</strong> suoni o <strong>di</strong> parole, da ciò che non può essere sud<strong>di</strong>viso:<br />

una teoria <strong>del</strong> <strong>ritmo</strong>, secondo Aristosseno, deve anzitutto poter localizzare i propri oggetti, definire<br />

quali sono i limiti <strong>del</strong>la propria indagine, rispetto alle materialità che deve analizzare. Nel<br />

riprendere l’impostazione offerta dalla sistematizzazione aristotelica, che <strong>di</strong>stingue tra forma e<br />

materia, Aristosseno propone <strong>di</strong> definire gli oggetti che <strong>di</strong>vengono materia <strong>del</strong>la scienza ritmica<br />

come r(uqmiqoÍmena, strutture o sostanze che possono sostenere l'articolazione effettuata dal<br />

<strong>ritmo</strong>(rhythmizomena).<br />

Possiamo decidere quali essi siano solo attraverso un richiamo alla possibilità <strong>di</strong> cantare o <strong>di</strong><br />

scan<strong>di</strong>re un suono o una parola. La <strong>di</strong>stinzione fra <strong>ritmo</strong> (r(uqmoÍj) e ciò che va sud<strong>di</strong>viso è collocato<br />

sullo stesso piano <strong>di</strong> quella fra forma (sxh=ma) e materia plasmabile dalla forma stessa<br />

(sxhmatizoÍmenon).<br />

La <strong>di</strong>stinzione epistemologica viene riportata al sistema <strong>di</strong> classificazione <strong>del</strong>la logica<br />

aristotelica: l'uomo ed il bue sono entrambi animali, perché la definizione <strong>del</strong>la loro essenza ha tratti<br />

comuni: quest’essenza che permane la chiameremo sostrato. Ora, alcune cose, che fanno parte <strong>del</strong>lo<br />

stesso sostrato, non possono essere pre<strong>di</strong>cate l'una <strong>del</strong>l'altra: il che implica che il loro rapporto con il


sostrato comune vari e che vada ulteriormente specificato il senso <strong>del</strong>la loro relazione: la<br />

bianchezza può far parte <strong>di</strong> un corpo, ma il corpo non è bianchezza.<br />

Il <strong>ritmo</strong> esiste nella cose che possono essere plasmate dalle relazioni definite attraverso rapporti<br />

temporali, ma il <strong>ritmo</strong> non è una <strong>di</strong> quelle cose: il <strong>ritmo</strong> non è il movimento <strong>del</strong> corpo,<br />

l'articolazione <strong>del</strong>la melo<strong>di</strong>a, la lettura <strong>del</strong> verso, anche se tutte e tre queste cose fanno parte dei<br />

fenomeni governati dal <strong>ritmo</strong>. Questo <strong>di</strong>scorso, a <strong>di</strong>re il vero, viene sempre liquidato come<br />

un’ovvietà, a me invece è sempre sembrato molto misterioso: perché mai il <strong>ritmo</strong> non deve<br />

coincidere con quello che è stato <strong>di</strong>viso? Perché non posso in<strong>di</strong>carlo, se poi ammetto in partenza<br />

che si tratta <strong>di</strong> un rapporto fra segmenti temporali?<br />

Se ci fermassimo su questo livello <strong>del</strong>la <strong>di</strong>scussione, perderemmo forse lo spessore filosofico <strong>del</strong><br />

<strong>di</strong>scorso aristossenico, che ha, alle spalle, un problema consistente. Che tipo <strong>di</strong> quantità viene retta<br />

da un <strong>ritmo</strong>, che materia viene gestita ritmicamente?<br />

<strong>§</strong> 8 Aristosseno e il sigillo <strong>del</strong>la forma sulla quantità<br />

Se il <strong>ritmo</strong> è un’opera <strong>di</strong> sud<strong>di</strong>visione, dobbiamo capire che tipo <strong>di</strong> quantità sia quella cui il <strong>ritmo</strong><br />

mette capo: abbiamo dei suoni, <strong>del</strong>le parole, dei movimenti. E questi gesti coprono, ed animano, lo<br />

scorrerre <strong>del</strong> tempo. Ma cos’è, allora, una quantità?<br />

Nella logica aristotelica la quantità è il genere <strong>del</strong>le determinazioni che in<strong>di</strong>cano la <strong>di</strong>visibilità <strong>di</strong><br />

una cosa. Dobbiamo porre attenzione al fatto che, secondo Aristotele, il <strong>concetto</strong> <strong>di</strong> quantità va<br />

riportato alla <strong>di</strong>alettica fra un intero e parte: ha senso parlare <strong>di</strong> quantità, solo se ci troviamo <strong>di</strong><br />

fronte ad una sud<strong>di</strong>visione in cui risultino <strong>del</strong>le parti che siano interne alle cosa stessa e che siano,<br />

ciascuna, numericamente una e determinata. Se prendo il foglio e lo <strong>di</strong>vido in quattro quadranti, ho<br />

<strong>di</strong> fronte a me un’interpretazione pregnante <strong>del</strong> <strong>concetto</strong> <strong>di</strong> quantità aristotelica. Rispetto al foglio, i<br />

quadranti sono in<strong>di</strong>viduati e numericamente determinati. Naturalmente, potrei continuare a<br />

sud<strong>di</strong>videre i quadranti in ulteriori parti, sempre più piccole. Le parti in cui si <strong>di</strong>vide una quantità<br />

sono ancora quantità, quin<strong>di</strong> sono ulteriormente sud<strong>di</strong>visibili.


La <strong>di</strong>stinzione 19 che ci interessa è fra quantità continue e <strong>di</strong>screte. Delle quantità, scrive<br />

Aristotele, una è continua, l’altra è <strong>di</strong>screta (Tou= deÍ posou= to\ meÍn e)sti <strong>di</strong>wrismeÍnon, to\ de\<br />

sunexeÍj). Nella quantità <strong>di</strong>screta le parti hanno una posizione, sono cioè ben scan<strong>di</strong>te,<br />

in<strong>di</strong>viduabili, separate fra loro, mentre in quella continua le parti <strong>di</strong> cui è costituita hanno tutte un<br />

confine comune. Aristotele in<strong>di</strong>ca come esempi <strong>di</strong> quantità <strong>di</strong>screte il numero ed il <strong>di</strong>scorso parlato.<br />

I numeri, sono entità concrete, aggregati puntuali che in<strong>di</strong>viduano quantità, e tipologie <strong>di</strong> relazioni,<br />

e non godono <strong>di</strong> contiguità: allo stesso modo, il <strong>di</strong>scorso scan<strong>di</strong>to dalla voce , che è fatto <strong>di</strong> parole,<br />

cioè da aggregati <strong>di</strong> una quantità <strong>di</strong>screta <strong>di</strong> sillabe che vengono enunciate nella scansione. Il<br />

<strong>di</strong>scorso parlato è dunque il <strong>di</strong>scorso sillabato, che si esprime attraverso cadenze <strong>del</strong>la voce: esso<br />

esiste solo mentre risuona. Le parti <strong>del</strong> <strong>di</strong>scorso non permangono, ma, appena dette, si perdono:<br />

manca una sostanza che garantisca continuità. Tuttavia, vi è una tensione che mantiene l’intero.<br />

La linea, la superficie, il corpo, il luogo sono invece quantità continue, che hanno confini<br />

comuni: nella linea, il punto, nella superficie, la linea, nel solido geometrico, la linea come spigolo<br />

e la superficie come sezione, nel tempo, l’istante, per il luogo, il limite <strong>del</strong> corpo contenuto. Tutta il<br />

campo <strong>del</strong>la spazialità è così caratterizzato da un reciproco coimplicarsi, da un appartenersi <strong>del</strong>le<br />

parti, dall’impossibilità <strong>di</strong> separare qualcosa, senza perdere l’intero. Di fronte ad una quantità<br />

continua vista come forma <strong>di</strong> compenetrazione intima <strong>del</strong>le parti, la transizione non solo il carattere<br />

<strong>del</strong>lo scivolamento nell’omogeneità, ma quello <strong>del</strong>la transizione da una <strong>di</strong>mensione all’altra,<br />

nell’in<strong>di</strong>viduazione <strong>del</strong> <strong>concetto</strong> <strong>di</strong> luogo.<br />

Il <strong>di</strong>scorso, al contrario, è una quantità <strong>di</strong>screta, proprio perché è misurato da una sillaba lunga<br />

ed una sillaba breve: esse non hanno un limite comune, non convergono l’una verso l’altra. Fra <strong>di</strong><br />

loro c’è un vuoto vibrante, che separa qualcosa da qualcosa d’altro, in altri termini un intervallo.<br />

Nei commenti al passo <strong>del</strong>le Categorie si osserva spesso che una sillaba lunga equivale a due brevi<br />

e che quin<strong>di</strong>, in teoria, non vi dovrebbe essere cesura nella scansione. Questo è un buon modo per<br />

confondere l’istanza <strong>del</strong>la misurazione nell’intero, che si basa sull’in<strong>di</strong>viduazione <strong>di</strong> un unità<br />

minima <strong>di</strong> riferimento, la breve appunto, con l’articolazione ritmica <strong>del</strong>l’intero stesso, che vive nel<br />

pulsare che deve riempire un silenzio.<br />

Dovremmo allora chiederci su quale fondamento comune si appoggiano il movimento ritmato<br />

<strong>del</strong> corpo nello spazio, la <strong>di</strong>alettica fra le sillabe lunghe e quelle brevi, le relazioni interne giocate<br />

dai suoni messi in rapporto ritmico, dobbiamo chiederci quale sia il sostrato comune a queste tre<br />

cose, quale sia l' u(pokeiÍmenon che le sostiene.<br />

La risposta aristossenica è semplice, quanto poco rilevata: non tanto il carattere <strong>di</strong> continuità <strong>del</strong><br />

tempo, presupposto ovvio, ma il modo in cui essi si danno nel tempo, ovvero il loro durare nel<br />

tempo, il loro non essere eventi istantanei, che non sorreggono una sud<strong>di</strong>visione ritmica, ma la loro<br />

possibilità <strong>di</strong> sostenere l'esser messi in sequenza per dar luogo ad un intero. Il <strong>ritmo</strong> non vive che<br />

nella sua transizione, nell’istaurarsi <strong>di</strong> una relazione retta dal numero.<br />

Intravve<strong>di</strong>amo ora il fondamento <strong>del</strong> <strong>di</strong>scorso sulla natura temporale <strong>del</strong> suono, che i<br />

commentatori <strong>del</strong> trattato sembrano vedere in modo confuso: un suono deve durare, deve avere una<br />

tensione interna che lo sostiene, che ne permette una segregazione dai fenomeni acustici che lo<br />

circondano, e dev'essere qualcosa che possa essere riportato al piano <strong>del</strong>la transizione fra colpi, che<br />

interpreta l'oggetto sonoro come una sequenza o un processo.<br />

Il tempo è un continuum, ma se vogliamo renderne percettivamente avvertibile la funzione <strong>del</strong><br />

<strong>ritmo</strong> nell'articolazione dei suoni, dobbiamo effettuare una serie <strong>di</strong> operazioni che <strong>di</strong>ano al flusso un<br />

andamento.<br />

Lo stesso vale per il movimento che si articola nello spazio: esso è un processo (qui sta la<br />

continuità con l'impostazione platonica <strong>del</strong> problema), che si esprime attraverso figure che<br />

propongono una partizione <strong>del</strong>la sequenza temporale e spaziale a scopo espressivo. Si tratta <strong>di</strong> una<br />

con<strong>di</strong>zione generalissima, che ancora non ci permette <strong>di</strong> modulare le relazioni fra durate in modo<br />

unitario: abbiamo <strong>di</strong> fronte un campo che va ancora messo a fuoco, ma l'idea <strong>del</strong> carattere<br />

19<br />

Aristotele, Le Categorie, introduzione, traduzione e note <strong>di</strong> Marcello Zanatta,Bur, Milano, 1989. Il passo cui mi<br />

riferisco è Cat6, 4b 20ce sgg.


processuale <strong>del</strong> suono, <strong>del</strong>la sua possibilità <strong>di</strong> articolazione prospettica, resa ancora più avvertibile<br />

dal movimento organizzato nello spazio, è affermata in modo prepotente. Perché una sequenza <strong>di</strong><br />

suoni risulti riconoscibile come dominata dal <strong>ritmo</strong>, è necessario selezionare un rapporto che<br />

organizzi la transizione da un colpo ad un altro, ma tutto ciò si appoggia sul carattere processuale<br />

<strong>del</strong>la durata temporale <strong>del</strong> suono.<br />

In secondo luogo, isolati due suoni, dobbiamo poterne segmentare le durate, ovvero porle in un<br />

ciclo temporale retto da un rapporto, in<strong>di</strong>viduando <strong>del</strong>le relazioni fra durate che abbiano pregnanza<br />

e che siano modulabili tra <strong>di</strong> loro. Per questo motivo, fin dall’inizio <strong>del</strong> suo trattato, Aristosseno ci<br />

invita a <strong>di</strong>stinguere ciò che può essere plasmato ritmicamente, la sostanza, dal <strong>ritmo</strong>, ovvero<br />

dall’operazione <strong>di</strong> plasmazione. Insomma, il <strong>ritmo</strong> si esprime solo in presenza <strong>di</strong> una sostanza che<br />

possa fungere da sostrato, <strong>di</strong> una continuità che duri, si mantenga nel tempo. Si tratta <strong>del</strong>la<br />

transizione fra due o più fasi.<br />

Questo è il fondamento non <strong>di</strong>chiarato su cui poggia l’operazione <strong>del</strong> sud<strong>di</strong>videre ritmicamente<br />

la materia dalla forma. Nei commenti al testo aristossenico si insiste molto sulla sud<strong>di</strong>visione fra<br />

una sostanza ritmica e l'operazione <strong>del</strong> sud<strong>di</strong>viderla, ma l'attenzione eccessiva a questa applicazione<br />

<strong>del</strong>la logica aristotelica, al porre cioè una <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> natura fra ciò che sud<strong>di</strong>vide, ossia il numero,<br />

e la sostanza cui si riferisce al sud<strong>di</strong>visione ritmica, che può essere il verso, il suono musicale o il<br />

passo <strong>di</strong> danza, quin<strong>di</strong> fra la materia e la forma, ha portato i commentatori a trascurare<br />

l'accentuazione fenomenologica <strong>del</strong>la durata <strong>del</strong> suono come fondamento <strong>del</strong>la sua permanenza. Ma<br />

qui riscopriamo il carattere attrattivo <strong>del</strong> suono stesso, il suo sopravanzare: non esiste un <strong>ritmo</strong> sulla<br />

carta: i suoni devono potersi muovere, questo è il problema fondamentale.<br />

All'inizio <strong>del</strong>la nostra <strong>di</strong>scussione sul <strong>ritmo</strong> abbiamo insistito sulla nozione <strong>di</strong> durata<br />

fenomenologica <strong>del</strong> suono, inteso come fondamento <strong>del</strong>l'apparire <strong>del</strong> suono stesso.<br />

In Aristosseno troviamo quest'ipotesi formulata in un altro modo: il <strong>ritmo</strong> musicale rende<br />

percepibile lo scorrere <strong>del</strong> tempo, e lo organizza a proprio, grazie al durare <strong>del</strong> suono. Il durare <strong>del</strong><br />

suono è il sostrato permanente che ne permette la sud<strong>di</strong>visione: il <strong>ritmo</strong> è un segmento, un segmento<br />

che non ha una durata assoluta, svincolata dall'attività <strong>del</strong>la coscienza. Quel segmento deve<br />

suscitare in noi qualche gesto, dev'essere riconosciuto nella sua pregnanza, per poter ritagliare nel<br />

campo <strong>del</strong>le durate una forma ben riconoscibile. La forma, tuttavia, viene isolata da una materia che<br />

è continuità che dura, flusso che continuamente si reintegra, materia che possa essere schematizzata.<br />

Ogni forma ritmica si staglia da questo fondo continuo a con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> poter essere riconosciuta,<br />

ovvero <strong>di</strong> poter esibire le regole <strong>del</strong>la propria sud<strong>di</strong>visione. Il durare va <strong>di</strong>sciplinato e reso fruibile,<br />

ma si esibisce all'interno <strong>del</strong> modo d'organizzazione <strong>del</strong>la durata stessa.<br />

Il richiamo al gesto, all'intonazione <strong>del</strong>la parola o al canto, il passaggio, <strong>di</strong>ciamo così, dalla<br />

potenza all'atto per decidere se un rapporto ritmico funziona o meno, mette in mostra non tanto un<br />

richiamo psicologico, ma il ruolo fondamentale attribuito al durare <strong>del</strong> suono ed all'esibizione <strong>del</strong>le<br />

caratteristiche strutturali <strong>di</strong> quel durare.<br />

Il durare messo in gioco dal rapporto ritmico <strong>di</strong>venta così una tensione fra due fasi <strong>di</strong>stinte: e qui<br />

emerge l’atro aspetto nel rilevato <strong>del</strong> problema: la tensione offerta dal <strong>ritmo</strong> viene ricondotta ad<br />

un’unità <strong>di</strong> misura, particolarmente elementare, il protos chronos, il tempo primo. Si tratta <strong>del</strong>l’unità<br />

minima che permette quel collegamento: ma tutto, in quel collegamento, si gioca nel mantenere in<br />

tensione, nel veder convergere i limiti <strong>del</strong>le durate da una transizione all’altra. Il <strong>ritmo</strong> visto da<br />

Aristosseno non coincide, come generalmente si crede, con l’isolamento <strong>del</strong>la figura e l’opera <strong>di</strong><br />

scansione fra una figura e l’altra, tanto che si tratti <strong>del</strong>la sillaba <strong>di</strong> una parola, <strong>del</strong> passo <strong>di</strong> una<br />

danza, o <strong>del</strong>l’articolazione fra le durate che connettono l’andamento <strong>di</strong> un gruppo <strong>di</strong> suoni<br />

organizzato. Il movimento, all’interno <strong>di</strong> questo fenomeni, rischia <strong>di</strong> far perdere la sostanziale<br />

tendenza all’unità, che emerge quando costruiamo un rapporto che metta in tensione i due oggetti.<br />

La continuità fra i gesti è <strong>ritmo</strong>, il legame che stringe i suoni è <strong>ritmo</strong>, la fusione fra le parole e gli<br />

accenti è ancora <strong>ritmo</strong>. Il <strong>ritmo</strong> fonde le singole fasi, e le stringe tutte fra loro.<br />

Quando ci chie<strong>di</strong>amo quale sia il soggetto <strong>del</strong>la scienza ritmica <strong>di</strong> Aristosseno, quale sia il suo<br />

soggetto, quale sia l’ u(pokeiÍmenon (upokeimenon) <strong>di</strong> una sud<strong>di</strong>visione ritmica non dobbiamo


pensare alle relazioni fra gruppi <strong>di</strong> suoni, <strong>di</strong> gesti, presi come oggetti che si presentano e poi<br />

spariscono, ma alla tensione che fa sì che l’uno <strong>di</strong>venga conseguenza <strong>del</strong>l’altro che la tensione<br />

accumulata nell’uno venga a a risolversi nell’altro. La <strong>di</strong>stinzione fra <strong>ritmo</strong> e ritmizzabili prende<br />

allora consistenza <strong>di</strong>versa: un verso contiene sempre lo stesso numero <strong>di</strong> sillabe, ma la scelta <strong>del</strong><br />

tempo giusto si lega, in sostanza, ad una scelta <strong>di</strong> tipo espressivo. L’importante è che si mantenga<br />

una tensione costante che non <strong>di</strong>pende certo dalla velocità, ma dalle figure che il testo mette in<br />

gioco. Ma al<strong>di</strong>là <strong>di</strong> questa parentesi, ovvia e contenutistica, quello che emerge con chiarezza dalla<br />

lettura aristossenica è proprio la <strong>di</strong>fficoltà a sostenere fino in fondo l’idea <strong>di</strong> un irrigi<strong>di</strong>mento nello<br />

schema: la figura pulsa, si muove nel tempo, ogni classificazione ora ha un carattere scientifico e<br />

mostra le proprie regole interne, perché nella figura ritmica il <strong>ritmo</strong>, materia, si è fatto forma in<br />

movimento, ma scan<strong>di</strong>ta.<br />

Quando abbiamo iniziato a parlare <strong>del</strong> <strong>ritmo</strong>, abbiamo continuato a giocare la carta <strong>di</strong> una<br />

contrapposizione fra schema e ruthmos, una contrapposizione che sembrava collocarsi all’interno <strong>di</strong><br />

una <strong>di</strong>alettica fra il configurarsi <strong>di</strong> una forma, il suo trattenere <strong>del</strong>le relazioni allo stato fluido, per<br />

contrapporla ad una nozione <strong>di</strong> schema molto definita, piena <strong>di</strong> regole. Si trattava <strong>di</strong> una<br />

accentuazione che all’interno <strong>del</strong> tema <strong>del</strong> <strong>ritmo</strong> deve ora essere fortemente ri<strong>di</strong>mensionata. Nelle<br />

forme ritmiche, e non nella misurazione, sentiamo farsi avanti un movimento <strong>di</strong> coesione fra parti<br />

che si articola nella tensione degli elementi all’interno <strong>del</strong>la transizione. Il gioco <strong>di</strong> valorizzazione<br />

metrica <strong>del</strong> <strong>ritmo</strong>, l’animazione legata all’alternarsi degli accenti non esprime più quella varietà che<br />

viene spesso postulata come momento accessorio nel gioco <strong>del</strong>l’espressione, ma giace proprio<br />

all’interno <strong>del</strong> configurarsi dei materiali in visto <strong>del</strong>la loro plasmazione. La forma si raggela nella<br />

tensione dei suoi costituenti.<br />

Facendo uso <strong>del</strong>la logica aristotelica, la sud<strong>di</strong>visione aristossenica porta l’accento sulla<br />

continuità <strong>di</strong> fenomeni acustici: i movimenti, i suoni musicali, i versi possono essere plasmati<br />

ritmicamente in più mo<strong>di</strong>. Ogni sequenza <strong>di</strong> suoni, ogni sequenza <strong>di</strong> parole, ogni sequenza <strong>di</strong><br />

movimenti può accettare più sud<strong>di</strong>visioni, partendo però dal fatto che tutti questi fenomeni possono<br />

essere scan<strong>di</strong>ti dal battito <strong>del</strong> piede. L’evocazione <strong>del</strong> <strong>concetto</strong> <strong>di</strong> arsi e tesi da parte <strong>di</strong> Aristosseno<br />

viene imme<strong>di</strong>atamente collegata al problema <strong>del</strong>la tensione fra colpi nella durata : un singolo battito<br />

non offre un’articolazione ritmica.<br />

All’inizio <strong>del</strong>la nostra esposizione, avevamo osservato che questa opzione teorica sembrava<br />

chiudere il problema <strong>del</strong> <strong>ritmo</strong> all’interno <strong>del</strong>lo schema, <strong>del</strong>l’iterazione <strong>del</strong>la cellula: ma anche qui<br />

dobbiamo stare attenti alle espressioni che Aristosseno sceglie, perché si sta facendo avanti un altro<br />

problema. Egli osserva che è la lunghezza <strong>del</strong> piede che fa sì che siano necessari più segnali.<br />

L’espressione che usa Aristosseno è shmei=on, il segnale che mette in luce la necessità <strong>di</strong> più<br />

pulsazioni nella lettura <strong>del</strong> verso, nel passo <strong>di</strong> danza, nel brano musicale.<br />

La sud<strong>di</strong>visione <strong>del</strong> tempo attraverso segnalatori ritmici implica però che il problema che si va<br />

configurando nell’ambito <strong>del</strong>la sud<strong>di</strong>visione non sia semplicemente quello <strong>del</strong> misurare, ma <strong>del</strong><br />

misurare mantenendo una tensione fra arsi e tesi. Aristosseno osserva infatti che i sensi hanno<br />

bisogno <strong>di</strong> molti segnali per poter riconoscere una sud<strong>di</strong>visione ritmica <strong>di</strong> un’unità molto lunga e<br />

che si <strong>di</strong>sperdono se vi sono troppi segnali per una corta.<br />

Ora, questa frase va capita a fondo perché, <strong>di</strong> per sé, il segnale non fa altro che in<strong>di</strong>care gli<br />

estremi <strong>del</strong>la pulsazione come semplice sud<strong>di</strong>visione fra tempi, e non come articolazione tensiva fra<br />

arsi e tesi. Per questo motivo, per evitare <strong>di</strong> mantenere solo un tono <strong>di</strong> astratta sud<strong>di</strong>visione<br />

matematica fra le durate che reggono la scan<strong>di</strong>rsi degli eventi ritmici, Aristosseno ricorre ad<br />

un’altra nozione, quella <strong>di</strong> ryhtmopoia, che ha <strong>di</strong> mira i nessi interni <strong>del</strong>l’articolazione ritmica, le<br />

forme legate alla quantità <strong>di</strong> colpi, e le possibilità espressive che giacciono dentro alla forma. In<br />

questo senso vanno lette le forme tassonomiche e gli elenchi <strong>del</strong>le figurazioni ritmiche che<br />

percorrono questo secondo libro. Anche in questo caso, vi è una ra<strong>di</strong>cale continuità con il pensiero<br />

platonico, ed è forse paradossale rilevare che comprendere a fondo la continuità con il platonismo ci<br />

spinge a riflettere su <strong>di</strong>stinzioni meno evidenti <strong>di</strong> quantici aspetteremmo.


Spieghiamoci con un esempio: per Aristotele il <strong>di</strong>scorso è il luogo <strong>del</strong>la <strong>di</strong>scontinuità, <strong>del</strong><br />

sezionamento <strong>del</strong>la parola attraverso la gabbia metrica. In Aristosseno, per tutte le ragioni che<br />

abbiamo elencato, il <strong>di</strong>scorso prende una piega <strong>di</strong>versa: la metrica determinata dalla scansione è la<br />

superficie <strong>del</strong> problema ritmico, il suo segno: ma l’aspetto decisivo nell’elaborazione musicale <strong>del</strong><br />

verso o nell’andamento ritmico <strong>del</strong> canto sta nella transizione fra le fasi <strong>di</strong> questa <strong>di</strong>scontinuità,<br />

come accade , ad esempio, quando passiamo da un vocale ad un’altra in una linea <strong>di</strong> canto sillabata.<br />

Il <strong>ritmo</strong> deve permettere che le sillabe si inanellino l’una nell’altra nella morbidezza <strong>del</strong>l’attacco,<br />

nella continuità <strong>del</strong> salto che ci fa passare da una vocale ad un’altra, come accade per il canto, che<br />

non deve dare l’idea <strong>di</strong> uno scalino, ma <strong>di</strong> un segmento continuo. In questo senso la rythmopoia<br />

sostiene la tecnica <strong>del</strong> canto, e smorza le cesure <strong>del</strong>l’accento, che la tra<strong>di</strong>zione metrica enfatizza: nel<br />

verso le frazioni <strong>del</strong>le parole si abbracciano tra loro, vengono scan<strong>di</strong>te, frenate, ma facendo<br />

collimare quelle <strong>di</strong>scontinuità nell’attacco <strong>del</strong> suono.<br />

Tutte le tassonomie dei tipi ritmici aristossenici sono pensate così, facendo emergere,<br />

platonicamente, la continuità nella transizione da una fase all’altra: si tratta <strong>di</strong> quel <strong>del</strong>icato<br />

passaggio che porta dalla metrica <strong>del</strong>la poesia alla metrica <strong>del</strong>la musica, in una civiltà che abbraccia<br />

entrambe, e che le fa germinare l’una dall’altra. La parola ritmata si tende come un arco, ma al suo<br />

interno i passaggi da una fase all’altra sono morbi<strong>di</strong>, anche se determinati, non dobbiamo avvertire<br />

scalini, ma un tendersi <strong>del</strong>la voce fra le sillabe, oltre che fra note <strong>del</strong>l’intervallo, e la <strong>di</strong>mensione<br />

ritmica sostiene la nettezza <strong>del</strong>la configurazione spaziale fra i centri <strong>del</strong>le note che caratterizzano un<br />

intervallo. Ritmo ed armonia ora si tendono la mano. La voce salta fra i punti sonori che limitano un<br />

intervallo, e canta: ma il suo canta è sorretta dalla danza, dal <strong>ritmo</strong> che le permette <strong>di</strong> transitare con<br />

or<strong>di</strong>ne da una sillaba all’altra:l’arte <strong>del</strong> canto è questo incontro raro.

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