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Antologia 2010 - Iulm

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PREMIO SPECIALE UNDER19<br />

UNIVERSITA’ IULM<br />

A N T O L O G I A 2 0 1 0<br />

A cura di<br />

Andrea Chiurato e Lucia Rodler


4 MODI<br />

PER DIRE<br />

FUTUR .<br />

4 Facoltà,<br />

5 Corsi di Laurea Triennale, 6 Corsi di Laurea Magistrale, 13 Master.<br />

Università IULM è il polo di eccellenza nei settori di lingue, comunicazione, turismo e valorizzazione dei beni culturali.<br />

IULM garantisce infatti un imprinting culturale completo ai comunicatori di domani come nessun altro: fatto di insegnamenti,<br />

ma anche di “prove sul campo”, di lezioni ma anche di incontri con la business community.<br />

Università IULM. Qualunque sia il tuo futuro, noi lo abbiamo già presente.<br />

Interpretariato, traduzione<br />

e studi linguistici e culturali<br />

www.iulm.it<br />

Comunicazione, relazioni<br />

pubbliche e pubblicità<br />

Per maggiori informazioni: tel. 800363363<br />

Turismo, eventi<br />

e territorio<br />

Arti, mercati e patrimoni<br />

della cultura


PREMIO SPECIALE UNDER19<br />

UNIVERSITA’ IULM<br />

A N T O L O G I A 2 0 1 0<br />

A cura di<br />

Andrea Chiurato e Lucia Rodler


SUBWAY <strong>2010</strong> - Premio Speciale Università IULM Under19<br />

I racconti pubblicati in questa antologia sono i 10 finalisti del Premio Speciale<br />

Università IULM tratti dal corpus delle opere di Subway-Letteratura <strong>2010</strong>, la manifestazione<br />

letteraria ideata e realizzata da Subway Edizioni, grazie al patrocinio e al<br />

contributo del Comune di Milano (Assessorato allo Sport e Tempo Libero) e<br />

dell’Università IULM di Milano.<br />

Il presente volume, realizzato in esclusiva per l’Università IULM, è fuori commercio<br />

e la sua distribuzione avviene, gratuitamente, a cura del Servizio Orientamento<br />

Studenti dell’Ateneo (e-mail: iulm.orienta@iulm.it; numero verde 800363363).<br />

COPERTINA al TRATTO: Alberto Ghirardello<br />

Progetto Grafico: Michele Marchesi - Solaris Comunicazione<br />

Stampato in Italia presso Vela Web s.r.l. di Binasco (MI), nel mese di novembre <strong>2010</strong><br />

www.iulm.it www.subway-letteratura.org


INDICE<br />

Introduzione di Giovanni Puglisi 5<br />

La rapidità del quotidiano, prefazione di Lucia Rodler 7<br />

Dieci secondi di Alberto Biondi 11<br />

Un pezzo ogni fermata di Giulia Olivato 21<br />

Primo giorno di scuola di Alberto Alarico Vignati 27<br />

Racconto di un rapido incontro di Valentina Vono 33<br />

Délire di Leonardo Stella 43<br />

Bolla di Marco Ferrarini 51<br />

2002 di Pietro Cingi 57<br />

A caccia di pirati di Susanna Combusti 63<br />

Secrezioni di Gianluca Nativo 73<br />

Teodora in otto atti di Elisabetta Delprato 83<br />

Postfazione a cura di Paolo Giovannetti,<br />

Maria Cristina Assumma, Matteo Brega e Andrea Chiurato 91<br />

Giuria e Comitato di preselezione 96


INTRODUZIONE<br />

Giovanni Puglisi<br />

Rettore Università IULM<br />

“Nella vita pratica il tempo è una ricchezza di cui siamo avari; in letteratura<br />

il tempo è una ricchezza di cui disporre con agio e distacco: non si tratta di<br />

arrivare prima a un traguardo stabilito; al contrario l’economia di tempo è<br />

una buona cosa perché più tempo risparmiamo, più tempo potremo perdere.<br />

La rapidità dello stile e del pensiero vuol dire soprattutto agilità, mobilità,<br />

disinvoltura; tutte qualità che s’accordano con una scrittura pronta alle<br />

divagazioni, a saltare da un argomento all’altro, a perdere il filo cento volte<br />

e a ritrovarlo dopo cento giravolte”, così scrive Calvino nelle sue Lezioni<br />

americane quando si accinge ad annoverare la “rapidità” fra i valori fondamentali<br />

della letteratura.<br />

Occhio più che lungimirante il suo se si pensa che il libro, un breve ma prezioso<br />

saggio, fu scritto nel 1985 ed edito postumo nel 1988, quando appunto<br />

la rapidità letteraria, così in auge oggi, nell’era della webcultura e della<br />

scrittura digitale, era ben lungi dall'essere universalmente condivisa.<br />

È proprio sulle orme di Calvino che quest’anno ci siamo mossi nel pensare<br />

e nel proporre la sesta edizione del Premio Speciale Università IULM<br />

Under19, il concorso letterario che il nostro Ateneo promuove nell’ambito di<br />

Subway-Letteratura e che invita gli studenti delle Scuole Secondarie di<br />

Secondo Grado a cimentarsi nella scrittura di testi brevi, snelli e veloci da<br />

leggersi, per l'appunto.<br />

La rapidità: la novità di quest’anno, ovvero il tema a cui i ragazzi dovevano<br />

ispirare i propri elaborati per partecipare al concorso. Oltre cento le opere<br />

pervenute e sottoposte al vaglio attento della Giuria IULM e dieci, di cui una<br />

vincitrice assoluta, quelle selezionate e raccolte in questa ormai “tradizionale”<br />

antologia.<br />

Lo scorrere veloce dell'esistenza, la frenesia del vivere quotidiano, la fobia<br />

5


del ritardo e, per contrappasso, il “tutto e subito”, la bramosia di bruciare le<br />

tappe: questo terzo millennio pare andare davvero di fretta e i giovani,<br />

volenti o nolenti, devono imparare a seguirne i ritmi e i tempi. Tutto questo,<br />

inevitabilmente, emerge con chiarezza dagli scritti pervenuti.<br />

Emblematico il titolo del racconto vincitore: Dieci secondi. Sono quelli che il<br />

protagonista impiega per ricordarsi, in punto di morte, dell'intera sua vita.<br />

C'è sicuramente una rapidità calviniana in ognuna delle opere qui raccolte,<br />

tutte inedite, mai premiate prima e rivolte a un pubblico moderno e quanto<br />

mai eterogeneo.<br />

Calvino fu scrittore, giornalista, traduttore e responsabile comunicazione e<br />

pubblicità di una casa editrice. Un comunicatore nel senso più ampio della<br />

parola: per questo ci sentiamo in piena sintonia con lui, con quest'uomo<br />

colto, dalle tante sfaccettature che, senza alcun dubbio, nella sua giovinezza<br />

avrebbe potuto essere uno studente modello del nostro Ateneo.<br />

Prima di chiudere questa mia breve introduzione desidero spendere ancora<br />

poche parole per sottolineare l’ottima capacità di “scouting” che caratterizza<br />

la nostra Giuria che per ben due volte, negli anni addietro, ha assegnato il<br />

Premio Speciale Università IULM a un autore in erba, sconosciuto ai più,<br />

che ha poi confermato le sue capacità arrivando addirittura ad aggiudicarsi<br />

il Campiello Giovani.<br />

Questa antologia propone una raccolta di dieci brevi, talvolta brevissimi, racconti.<br />

Sono avvincenti, diretti e, l’uno dopo l'altro, si leggono d’un fiato. O<br />

meglio, rapidamente per dirla alla Calvino.<br />

6


LA RAPIDITÀ DEL QUOTIDIANO<br />

Prefazione di Lucia Rodler<br />

Docente Università IULM<br />

Nel 1985, in occasione di sei lezioni preparate per la Università Harvard di<br />

Cambridge (Massachusetts) su altrettante “qualità” della letteratura, Italo<br />

Calvino ragionava sul tempo narrativo, cioè sul modo in cui ogni racconto<br />

incatena una successione di avvenimenti con rapidità o lentezza, precisando<br />

di prediligere il primo valore che avrebbe a suo avviso dominato il nuovo<br />

millennio. Alla fine del primo decennio del nuovo secolo, l’Università IULM –<br />

che insegna la velocità mentale indispensabile per diventare professionisti<br />

nell’interpretazione di conferenza, nell’ uso agile dei media e della pubblicità,<br />

nella mobilità dell’industria turistica, nella comunicazione immediata tra<br />

arte e mercato – ha proposto il tema calviniano agli scrittori under 19, volendo<br />

verificare la realtà della previsione calviniana.<br />

Hanno accolto il suggerimento un centinaio di ragazzi, quest’anno particolamente<br />

motivati, iscritti al liceo classico (sette finalisti su dieci) e all’università<br />

(gli altri tre) e appassionati di classici della letteratura (nelle brevi autopresentazioni<br />

vengono citati Machiavelli, Leopardi, la Austen, le Brontë,<br />

Tolstoj, Rimbaud, Doyle, Apollinaire, Tolkien, Céline, Queneau, Neruda,<br />

Calvino, García Márquez, Kundera, Oz, Sepulveda), della musica (Battisti, i<br />

Beatles), del cinema e della televisione (Forrest Gump, Peter Pan, Alladin,<br />

Braccio di Ferro). Per la giuria è stata una sorpresa graditissima, anche<br />

quando Maria Cristina Assumma, Matteo Brega, Andrea Chiurato, Paolo<br />

Giovannetti ed io ci siamo accorti che i giovani scrittori hanno interpretato il<br />

tema nel duplice senso di una velocità fisica (spazio-temporale) e di una<br />

velocità mentale (il punto di vista, la distanza, l’economia espressiva), con<br />

cui percorrere il proprio vissuto quotidiano.<br />

A proposito della prima, i narratori testimoniano che la rapidità domina la<br />

vita, dalla nascita alla morte (Biondi), a partire dal risveglio (Olivato) che<br />

7


avviene in fretta, nell’ansia di essere in ritardo (Olivato, Vignati, Vono). Ogni<br />

giorno appare anzitutto una battaglia contro il tempo, contro gli ostacoli che<br />

impediscono o ritardano il compimento di un’azione, spesso mezzi di trasporto:<br />

autobus, metropolitane, motorini, macchine... Ma dove conduce la<br />

fretta psicofisica richiesta dal quotidiano? Nella metà dei casi a scuola,<br />

luogo scarsamente frequentato nelle precedenti edizioni e ritrovato quest’anno,<br />

forse perché bisogna arrivarci con qualsiasi mezzo proprio alle otto<br />

della mattina.<br />

Quanto poi alla velocità mentale con cui i narratori catturano e collegano le<br />

proprie avventure, a mio avviso vanno sottolineatati almeno due caratteri<br />

dominanti: la distanza e l’ironia. Andando di fretta, i protagonisti dei dieci<br />

racconti osservano cose e persone con un certo distacco, a partire dall’ambito<br />

familiare, dai genitori considerati lucidamente adulti sessuati che hanno<br />

“secrezioni”, cioè saliva, sudore, lacrime e liquido seminale, al pari dei giovani<br />

(Nativo). D’altronde, in accordo con l’antipsicologismo calviniano, gli<br />

scrittori under 19 preferiscono le azioni alle emozioni, relegate ai margini,<br />

dentro una bolla (Ferrarini), o segnate da diffidenza, panico, timidezza,<br />

aggressività (Olivato, Vignati, Delprato, Combusti, Cingi). Di più, questo<br />

sguardo distante assume spesso una tonalità ironica (Olivato, Vono), un<br />

poco alla Benni (altro autore prediletto dai giovani lettori). Ricordo ad esempio<br />

Teodora in otto atti (Delprato), esercizio originale di traduzione intralinguistica<br />

e insieme microstoria di una comunicazione sempre più laica (nella<br />

cattedrale le mani si sfiorano, nel cortile segreto si intrecciano, nel salotto ci<br />

si siede accanto, e infine si esprime il desiderio di stringere ed abbracciare)<br />

sino a quando il cellulare attua una sorta di aposiopesi delle relazioni (interruzione<br />

di un discorso avviato, marcata ad esempio dai puntini di sospensione).<br />

La velocità pare infatti predisporre a incontri sono tanto rapidi da non<br />

concedere neppure il tempo per un faccia a faccia identitario (Vono,<br />

Delprato). E non per caso i nomi vengono divorati da soprannomi contratti<br />

in modo da risultare intercambiabili anche dal punto di vista sessuale (sul<br />

tipo ibrido di Fede e Tero).<br />

La rapidità significa pertanto anche un’economia espressiva che riesce a<br />

saltare da un argomento all’altro senza perdere il filo (Stella), a risparmiare<br />

parole e sintagmi attraverso la ripetizione (Vignati, Stella, Biondi), prediligendo<br />

in ogni caso una scrittura concisa, parlata, telegrafica. Il vincitore<br />

dell’edizione <strong>2010</strong>, Alberto Biondi propone anche qualcosa in più, raccontando<br />

in “dieci secondi” il percorso fulmineo di una vita: una dispositio quasi<br />

ciclica che fa corrispondere inizio e fine tra chiasmo e antitesi. Alla nascita<br />

8


l’aria entra, brucia, “Piangiamo, e tutti attorno a noi sorridono”; alla morte<br />

l’aria esce, raffredda, “Sorridiamo, e tutti attorno a noi piangono”. Da una<br />

parte Biondi contrae un’esistenza reale in pochi momenti lontani nel tempo<br />

e nello spazio (nascita, infanzia, adolescenza, maturità, vecchiaia), e dall’altra<br />

stabilisce identità (tra primo e ultimo secondo) e differenze (“voci<br />

dalla melodia aliena”, “voci che ormai stento a riconoscere”). Con questo<br />

tempo narrativo Dieci secondi pare quasi un trattamento (per dirla con il linguaggio<br />

specialistico familiare agli studenti del corso di laurea in<br />

Comunicazione, media e pubblicità della IULM), cioè un contenuto per la<br />

produzione audio-visiva che sta tra il soggetto e la sceneggiatura. Per questa<br />

raffinata operazione sulla durata – “un incantesimo che agisce sullo<br />

scorrere del tempo”, secondo Calvino – Biondi ha meritato di vincere l’edizione<br />

<strong>2010</strong> dedicata alla rapidità.<br />

9


1 RACCONTO DA<br />

Racconto vincitore<br />

Premio Speciale Università IULM - Under19<br />

Alberto Biondi<br />

Dieci Secondi<br />

GENERE<br />

FRAMMENTI<br />

5 f<br />

e r m a t e


Alberto Biondi<br />

Liceo Classico “Giulio Cesare”, Rimini (RN)<br />

Mi chiamo Alberto Biondi, sono nato a Rimini l’11 marzo del ’92; ma questo<br />

dice poco di me.<br />

Da piccolo mi piaceva disegnare.<br />

Me la cavavo niente male, facevo proprio dei gran bei disegni.<br />

Poi, crescendo, mi sono avvicinato ai libri, interessato più dalle parole che dalle<br />

illustrazioni, ed è stato subito grande amore. Più leggevo, più gli scaffali di casa<br />

si riempivano, più calava la vista.<br />

A quattordici anni mi sono iscritto al liceo classico senza sapere di preciso cosa<br />

avrei fatto dopo.<br />

Oggi invece, che sono al quarto anno, posso affermare di esserne totalmente<br />

all’oscuro.<br />

Quando ho un po’ di tempo per me e voglio sgomberare la mente da ogni pensiero,<br />

mi siedo al computer e scrivo qualche storiella, un dialogo qui, una descrizione<br />

là, senza alcuna pretesa di tirarci fuori un romanzo, ma solo per il gusto<br />

di farlo.<br />

È come staccare la spina prima di ricominciare a correre.<br />

Scrivo perché amo le parole, il loro suono, il ritmo che battono sulla frase, e perché<br />

amo le storie, quelle vere, quelle che lasciano qualcosa dentro, quelle che ti<br />

cambiano per sempre.<br />

Le mie passioni? Cinema, jazz e rugby.<br />

Un mio difetto? Tendenza a lasciare le cose a metà.<br />

Vi risparmio l’elenco di tutti gli altri.<br />

12


Dieci secondi<br />

…without love, without anger, without sorrow, breath is just a clock ticking.<br />

Equilibrium, di Kurt Wimmer, USA, 2002<br />

UNO<br />

L’aria entra nei polmoni. Brucia.<br />

Il primo respiro è come fuoco nel petto.<br />

La vita ci accoglie in un abbraccio doloroso.<br />

Piangiamo, e tutti attorno a noi sorridono.<br />

La luce che mi circonda è fatta di ombre e suoni,<br />

voci dalla melodia aliena, e in questo caleidoscopio<br />

di immagini qualcuno mi abbraccia.<br />

Di nuovo caldo, questa volta però non fa male.<br />

Il caldo è sul mio corpo, non dentro.<br />

Sono stanco.<br />

Mi sono appena svegliato e già voglio dormire.<br />

Sono stanco, come se avessi nuotato nello spazio<br />

per milioni di anni, solo, nel buio.<br />

DUE<br />

Guardai le tre candeline conficcate sulla torta.<br />

«Dai Gigi! Soffia!».<br />

Soffiai, ma le fiammelle continuarono a tremolare.<br />

«Più forte! Soffia più forte!».<br />

Questa volta si spensero e tutti batterono le mani. Mamma mi baciò forte sulla<br />

guancia, lasciandomi il segno del rossetto, tutti risero a crepapelle.<br />

«Adesso facciamo una foto con il ragazzone!».<br />

A turno tutti mi presero in braccio.<br />

13


La zia Elsa, magra com’era, non riuscì a sollevarmi.<br />

Quando fu il turno del nonno, papà gli si avvicinò e disse:<br />

«Sta attento, fai piano».<br />

Il nonno mi fece sedere sulle sue spalle. Papà impugnò la macchina fotografica<br />

e fece click.<br />

«Adesso fammi scendere, non sono mica uno scoiattolo», balbettai, e il nonno<br />

ubbidì in silenzio. Con le sue mani grandi mi strinse forte, mi diede un bacio<br />

sulla testa e poi mi lasciò andare.<br />

Aveva gli occhi lucidi.<br />

TRE<br />

Il profumo della maestra era buonissimo. Ogni volta che passava accanto al<br />

mio banco respiravo ogni particella di quel vento dolce, ma piano, per non<br />

farmi sentire, altrimenti chissà cosa avrebbe pensato.<br />

Teo, accanto a me, disegnava gabbiani sul quaderno. A me non sembravano<br />

gabbiani, se per questo nemmeno uccelli, ma quando provai a farglielo notare<br />

lui diventò tutto rosso, più rosso dell’estintore della palestra e, corrugando la<br />

fronte, sbuffò:<br />

«E allora cosa ti sembrano?» .<br />

«A me mi sembrano delle zanzare».<br />

«Zanzare? Ma che cavolo dici? Non vedi che hanno il becco? Le zanzare non<br />

hanno il becco».<br />

«Sì, ma quello sembra un pungiglione».<br />

«Basta chiacchierare, voi due!», tuonò la maestra, che si avvicinò ai nostri banchi<br />

trottando con gli stivali sul pavimento.<br />

Di nuovo quel vento dolce come il miele.<br />

Inspirai profondamente.<br />

«Se non fate silenzio vi caccio fuori dalla porta, tutti e due, capito? E tu, Matteo,<br />

smettila di disegnare zanzare sul quaderno e vieni a scrivere una frase alla<br />

lavagna, svelto!».<br />

Da quel giorno, per tutta la vita, Matteo Buscherini non disegnò più gabbiani.<br />

QUATTRO<br />

«Cosa ci vuole mai? Guarda me».<br />

Renzo portò la sigaretta alle labbra, aspirò una profonda boccata, soffiò fuori<br />

14


la nuvola di fumo e con un gesto teatrale me la mise davanti alla faccia.<br />

«Tira!», esclamò, guardandomi con una serietà che mi fece rabbrividire.<br />

«Dai, Gigi, è solo una sigaretta!».<br />

«Provare non costa nulla».<br />

«Se poi non ti piace non lo fai più, no?».<br />

«Prova!».<br />

Tutti e cinque tenevano gli occhi puntati su di me. Era un affare di stato.<br />

Renzo se ne stava ancora lì, fermo, la sigaretta puntata alla mia bocca, in un<br />

invito che pareva tanto un’accusa.<br />

«Non voglio fumare, il fumo fa male ai polmoni», sentenziai.<br />

Scoppiarono a ridere. Mi vergognai, non so se per loro o per me stesso.<br />

«Ma non devi mica cominciare a fumare». Renzo sfoderò uno di quei sorrisi<br />

che si fanno ai bambini piccoli quando non capiscono un concetto semplicissimo.<br />

«È solo per provare. Scusa, quanti anni hai? Dodici? Io alla tua età avevo<br />

già provato. Dai, che ti costa?».<br />

Renzo aveva sedici anni. Era il più grande del gruppo. Insomma, era il capo.<br />

«Se fumo, dopo non nuoto più bene – tentai di giustificarmi – fumate voi, ragazzi.<br />

Io non posso».<br />

«No. Tu non vuoi. È diverso».<br />

«Già, sei un finocchio».<br />

«Cagasotto!».<br />

«Nemmeno un tiro, oh!».<br />

«Che sfigato…».<br />

La sigaretta era ancora lì, Renzo non l’aveva mossa di un millimetro e io cercavo<br />

di non guardarla.<br />

Dovevo davvero fare la figura del coglione?<br />

Presi la sigaretta e tutti si azzittirono.<br />

Chiaro, non si volevano perdere il gran finale.<br />

La mia mano era fredda, le pieghe del palmo umide di sudore.<br />

Non ci pensai troppo.<br />

Buttai la sigaretta nel gabinetto e tirai lo sciacquone.<br />

Il sorriso di compiacimento che si stava dipingendo sulla faccia di Renzo sparì<br />

in un lampo.<br />

Lo schiaffo risuonò contro le pareti scarabocchiate del bagno del terzo piano.<br />

Gli occhi mi si riempirono di lacrime, che prontamente asciugai con la manica<br />

della felpa.<br />

La guancia scottava.<br />

Scappai nel corridoio e mi rifugiai in classe, proprio nel momento in cui la campanella<br />

gridò, rauca, l’inizio della lezione.<br />

15


CINQUE<br />

«Tieni abbassata la frizione».<br />

«Così?», domandai, incerto, guardandola nei suoi occhi verde prato.<br />

«Sì, e adesso gira la chiave».<br />

Il motore si accese e sentii una leggera vibrazione appena sotto il sedile.<br />

Alice, quando sua madre non usava la macchina, era la mia istruttrice personale.<br />

Mi passava a prendere sotto casa, filavamo via dalla città e ci fermavamo<br />

in qualche stradina deserta di campagna.<br />

Lì spegneva il motore, scendeva dalla macchina e faceva cambio posto con me.<br />

Lei, la patente, l’aveva presa da qualche mese.<br />

Era strano farsi scarrozzare in giro dalla propria ragazza: in fin dei conti era<br />

nata a gennaio (io sono di aprile), ma il fatto che sapesse già guidare la faceva<br />

sembrare molto più grande.<br />

«Ora solleva il pedale. Piano, così. Adesso dai un filo di gas».<br />

La Panda fece uno scatto in avanti, tossicchiò, e si spense di colpo.<br />

«Oddio».<br />

«Sei il solito impedito!». La sua voce squillò nell’abitacolo. «Hai staccato troppo<br />

presto e ti si è spento il motore!».<br />

Mi voltai verso di lei.<br />

«Perché voi donne isteriche dovete sempre urlare?».<br />

«Per farci capire meglio da voi uomini imbranati!».<br />

Per un po’ restammo in silenzio. Non riuscivamo a litigare senza scoppiare a<br />

ridere come deficienti. Cominciò lei, e io le andai dietro.<br />

Era stupenda quando rideva. Agli angoli della bocca, sulle guance abbronzate,<br />

le si aprivano due piccole fossette. Il suo seno rotondo si alzava e abbassava<br />

sotto la canottiera bianco panna, come un’onda sulla battigia.<br />

Avevo caldo. Sudavo.<br />

«Non ti distrarre. Riprova. Questa volta solleva la frizione più piano e non accelerare<br />

troppo».<br />

Nuovo tentativo. Stesso risultato.<br />

«Piano, devi fare piano. È così difficile?».<br />

«Tu quanto ci hai messo?».<br />

«Mezza giornata! Ed è da due giorni che non riesci a spostare la macchina di<br />

un metro!».<br />

«Ok, maestrina, la prossima volta farò i compitini e sarò bravo bravissimo,<br />

come vuoi tu!».<br />

Alice si passò una mano nei capelli, sbuffando.<br />

«È inutile che sfotti, tanto lo so che ti brucia…».<br />

Colpito e affondato.<br />

16


«Cosa vuoi dire?», le domandai, pur sapendo già perfettamente la risposta.<br />

«Dico che il non saper ancora guidare la macchina ti fa sentire inferiore a me.<br />

Per questo sfotti: è una forma di autodifesa, il guscio in cui ti nascondi e ti senti<br />

a tuo agio».<br />

«Non metterti a fare la retorica. Piuttosto, riproviamo a far partire questa<br />

Panda del cazzo!».<br />

«Prego, faccia pure, Mister Creanza!».<br />

Abbassai di nuovo la frizione, girai la chiave e la Panda prese vita sotto di me.<br />

Questa volta non si spense dopo un metro. L’auto stava avanzando, lentamente,<br />

ok, ma si muoveva.<br />

Alice sgranò i suoi occhi verde prato, incredula.<br />

«Ecco, ora dai un filo di gas. Bravo, così. Vedi che alla fine ci sei arrivato, zuccone?<br />

Se mi stessi a sentire di più… Bene, ora frena all’incrocio. Spingi il freno.<br />

Gigi spingi il freno! Frena! Gigi, frena! Frena!, cazzo!, frena!».<br />

La Panda si arrestò al centro dell’incrocio. Erano strade di campagna, dove le<br />

macchine passavano un giorno sì e cinque no, ma quel giorno, su quell’incrocio,<br />

c’era un’altra macchina oltre alla nostra.<br />

Una forza invisibile mi fece sbattere la testa contro il finestrino.<br />

Rumore di uno specchio che cade sul pavimento.<br />

Qualcosa di caldo e bagnato pulsa dietro alla testa.<br />

Un grido. Poi il silenzio.<br />

SEI<br />

«E per Gigi che oggi si è laureato… Hip hip!?».<br />

«Hurrà!».<br />

«Hip hip!?».<br />

«Hurrà!».<br />

«Hip hip!?».<br />

«Hurrà!».<br />

SETTE<br />

«Ascolta Luigi, io non voglio abortire. Non riesco nemmeno a pensarci. So che<br />

sarebbe la soluzione migliore per entrambi, ma non voglio uccidere il nostro<br />

bambino».<br />

Monica cominciò a singhiozzare. Nascose la testa tra le mani affusolate, tirò su<br />

forte con il naso e fece un lungo respiro per calmarsi.<br />

17


Ero paralizzato. Non sarebbe dovuto succedere. Non poteva essere successo.<br />

«Io… io pensavo che tu fossi… me lo avevi detto tu, cazzo, tu mi avevi detto di<br />

essere sterile e invece è successo lo stesso! Com’è possibile, eh? E adesso cosa<br />

dico a mia moglie? Guarda, cara, qualche settimana fa ho messo incinta la mia<br />

amante anche se mi aveva assicurato di essere sterile!? Come…».<br />

«Stai zitto, Luigi, stai zitto! – gridò Monica prendendomi a pugni sul petto,<br />

come una bambina in un corpo di donna – non capisci? Questa è forse l’unica<br />

occasione che ho di diventare madre. Madre! Capisci? Io non so com’è potuto<br />

succedere, ma è successo. E io non voglio abortire».<br />

OTTO<br />

Non avevo mai avuto il coraggio di andare a trovarla.<br />

Una volta provai.<br />

Era una domenica mattina di metà ottobre. Nuvole basse e odore di pioggia<br />

nell’aria.<br />

Arrivai fino davanti al cancello di ferro battuto, ma poi tornai a casa. Non ero<br />

voluto entrare, le mie gambe si erano piantate lì, sull’ingresso, immobili.<br />

Quel pomeriggio volevo riprovare. Volevo vederla, dopo tanti anni.<br />

Il cancello era sempre lo stesso. Ferro battuto, un bel cancello.<br />

Questa volta le gambe non mi tradirono e continuarono a muoversi, in mano<br />

stringevo un croco dai petali lillà. Una vecchia dalla testa innevata mi guardò<br />

attraverso un paio di grossi occhiali da sole. Mi sorrise, in una ragnatela di<br />

rughe, e passò oltre.<br />

Il silenzio dei cimiteri non è un silenzio come gli altri. C’è qualcosa nei<br />

cipressi, nelle file bianche delle lapidi che amplifica quel silenzio, rendendolo<br />

assordante.<br />

Sapevo dov’era.<br />

Camminai sul sentiero di ghiaia finché non la vidi. Mi avvicinai alla pietra<br />

bianca che rifletteva i tiepidi raggi di un sole esangue e lì, nel vasetto pieno<br />

di fiori, feci scivolare il mio croco lillà.<br />

Alzai lo sguardo sugli occhi verde prato che mi sorridevano dalla fotografia.<br />

Rimasi a fissarli fino a quando non sentii pizzicare qualcosa lungo la spina<br />

dorsale, fino a quando la vista non si appannò e un respiro di vento mi gelò<br />

l’anima.<br />

18


NOVE<br />

Scrissi l’ultima frase del romanzo.<br />

Sapevo che doveva esser quella, e così la scrissi.<br />

Feci correre gli occhi sull’ultima pagina, corressi “nulla” in “tutto” e spensi il<br />

portatile.<br />

Mi alzai dalla scrivania. Il ginocchio andava sempre peggio e per poco non<br />

ricaddi sulla sedia.<br />

Cominci a perdere colpi, vecchio.<br />

Ho solo settantadue anni.<br />

Questo è l’ultimo romanzo che scrivi, sai?<br />

Fottiti.<br />

DIECI<br />

L’aria esce dai polmoni. Tiepida.<br />

L’ultimo respiro è come ghiaccio nel petto.<br />

La vita ci saluta in un abbraccio doloroso.<br />

Sorridiamo, e tutti attorno a noi piangono.<br />

La luce che mi circonda è fatta di ombre e suoni,<br />

voci che ormai stento a riconoscere,<br />

e in questo caleidoscopio di immagini qualcuno mi abbraccia.<br />

Ecco, adesso è di nuovo caldo.<br />

Il freddo se n’è andato, è già lontano un secolo.<br />

Sono vivo.<br />

Mi sono appena addormentato e già voglio risvegliarmi.<br />

Ma forse dovrò aspettare.<br />

19


Giulia Olivato<br />

Un pezzo ogni fermata<br />

1 RACCONTO DA<br />

GENERE<br />

SURREALE<br />

3 f<br />

e r m a t e


Giulia Olivato<br />

Liceo Classico R. Franchetti, Mestre - Venezia<br />

Giulia nasce a fine settembre del 1995 sotto il segno della Vergine.<br />

All’età di tre anni cominciò a rimproverare i genitori se, leggendole la storia serale,<br />

omettevano o cambiavano qualche parola.<br />

In seconda elementare fu iniziata al genere fantasy dal padre col quale lesse: Il<br />

mondo perduto: la valle dei dinosauri (di A. C. Doyle), Lo hobbit e Il signore<br />

degli anelli (di J. R. R. Tolkien). La passione per lo studio, invece, la prese tutta<br />

dalla madre.<br />

All’età di dieci anni vinse il premio della giuria in un concorso di poesia della<br />

municipalità. Nello stesso anno, durante una malattia, prese in mano per caso<br />

Orgoglio e pregiudizio e da allora si innamorò della letteratura dell’Ottocento.<br />

Dal professore di matematica delle medie veniva chiamata Monna Lisa a causa<br />

del sorriso indecifrabile che le compariva ogniqualvolta si perdeva nei propri<br />

pensieri.<br />

Agli esami di terza media presentò una tesina sul rapporto tra Jane Austen ed il<br />

femminismo. Fu licenziata dalle medie con la votazione complessiva di dieci.<br />

Frequenta la quarta ginnasio dell’unico liceo classico della sua città con la sua<br />

migliore amica. Non si è mai pentita della sua scelta. Adora il greco, e un po’<br />

meno la matematica. La sua maggiore abilità narrativa consiste essenzialmente<br />

nella capacità descrittiva: scrivere per pagine e pagine senza che accada sostanzialmente<br />

niente di rilevante. Continua ad amare Orgoglio e pregiudizio. Non<br />

penso smetterà mai. Una sua pecca, per alcuni, è quella di preferire Charlotte<br />

Brontë alla sorella Emily. Oltre, ovviamente, al fatto di non soffrire la solitudine,<br />

di essere spesso con la testa fra le nuvole e un po’ permalosa.<br />

Si dice brava nello scrivere nello “stile ottocentesco”. Il seguente testo è nato un<br />

po’ come sfida e divertimento personale. L’autrice prende ogni giorno l’autobus<br />

per raggiungere la propria scuola. Da lì le è venuta l’ispirazione: la storia di un<br />

uomo che perde la memoria nel tran-tran della vita. Un racconto con un finale<br />

tutto da immaginare.<br />

22


Un pezzo ogni fermata<br />

7.15. Ritardo, sempre. Ricordarsi di cambiare pile alla sveglia. Sonno. Dov’è la<br />

camicia? 7.20. Ciabattato fino alla cucina. Rapida scorsa al giornale di ieri: in<br />

prima pagina cinque morti. Chiuso giornale. Colazione. Stoviglie del giorno<br />

prima sul lavello. Prima o poi si laveranno da sole. 7.28. Bagno. 7.35. Ultima<br />

occhiata allo specchio. Veloce. 7.36. In corridoio sguardo all’orologio. Perso<br />

autobus delle 7.40. Rotto orribile vaso postmoderno di mamma. Nessun rimpianto.<br />

Rovesciata terra sul tappeto e sui pantaloni. Sfiga. Uscire di casa, subito.<br />

Infilato cappotto, preso borsa, chiuso casa. Catapultato in strada. Tempo nebbioso.<br />

Infilati, correndo, sciarpa e guanti. Perso un guanto. Raccattato guanto.<br />

Affanno.<br />

7.50. Preso l’autobus. Sollievo, tachicardia. Ansia. Preso tutto? Forse. Soffocato<br />

in mezzo al pigia pigia della gente.<br />

Movimento: dell’autobus, di tutti noi. Guardato fuori nello scorcio di finestrino<br />

tra una spalla e un cappello nel tentativo di pensare ad altro. Panificio, scuola,<br />

palazzo, edicola. Paesaggi sfumati e confusi fra loro. Destinati a rimpicciolire fino<br />

a svanire dietro alla curva. Beccato a riflettere sulla vacuità delle cose e dei punti<br />

di vista. Ma cosa mi succede stamattina?<br />

8.01. Quasi perso la presa sulla pensilina. Bambini che vanno a scuola. Le mie<br />

elementari. Ricordi confusi di figurine, alfabeto e scommesse con le biglie.<br />

Caramelle, penne colorate. I dinosauri, la maestra e lupo mangia frutta. O forse<br />

mangia colori? O era la strega mangia colori?<br />

Dimenticati. In un secondo. Ricordi di dieci anni. Batticuore, angoscia, sudori<br />

freddi. Il pullman accelera.<br />

8.10. Mi impongo la calma. 8.13. Mi sforzo di ricordare. Niente. 8.14. Rimasti<br />

pochi flashback delle medie. 8.15. Anche quelli spariti. Respirato a fondo e con-<br />

23


tato le fermate per rasserenarmi: 1, 2, 3, 4, 5. 8, 17. Non funziona. Sorpassati da<br />

una Vespa. Come la mia, è la mia, delle superiori. Giusto. Mi aggrappo alle superiori.<br />

Amici, matematica, ragazze, calcio.<br />

Perdo pezzi del mio passato. Un pezzo ogni fermata.<br />

Pensato al professor… di lui mi ricordo di certo. Trigonometria, bleah! Di solito<br />

funziona pensare alle cose sgradevoli. 8.20. Come si chiamava quella materia terrificante?<br />

Tri-tri-tri… Non mi viene. La studiavo ? Probabilmente sì. L’autobus è<br />

in ritardo.<br />

Aumento la concentrazione. Gocce di sudore lungo le tempie. È febbraio. Ero<br />

iscritto a Legge o a Economia? Vuoto mentale. I ricordi fuggono dalla mia testa.<br />

Li inseguo ma non li raggiungo; li cerco ma non li trovo, non posso trovarli.<br />

Perché non ci sono. Dove devo andare? Sensazione di essere in ritardo.<br />

Un’anima costantemente trafelata.<br />

8.30. Desiderio di scendere dall’ autobus, correre, non fermarsi: come un bambino.<br />

Bloccato dalla folla. Incapace di muovermi o dire qualcosa. 8.34.<br />

Smarrimento. Chi sono?<br />

Occhi chiusi. Per non vedere, non sentire la mia disperazione. 8.38. Una signora<br />

chiede se va tutto bene. Voglia di urlare che va tutto male. Invece ho sorriso.<br />

8.38. Bisogno di aiuto. Per cosa? Come spiegare? Domandare assistenza contro<br />

me stesso? Chiesto l’ora, causa donna con pelliccia non vedo più l’orologio. 8.39.<br />

Le porte si aprono. Il subconscio nota la mia fermata. 8.40. Si richiudono. Troppo<br />

tardi. 8.41. La mia vita è scandita dall’orologio del bus. Spero sia un sogno. 8.42.<br />

Tremo. Cosa fare? Ancora 8.42. Trascorsi due minuti a guardare l’orologio. 8.44.<br />

Sono preso dal panico, paura, spavento, terrore. Mi sembro un dizionario dei<br />

sinonimi e dei contrari.<br />

Fatto esercizi di respirazione orientali. Tentato di fare stretching ai polpacci.<br />

Rinunciato dopo occhiataccia dell’uomo dal soprabito nero.<br />

9.11. Rimasto solo nell’autobus.<br />

Arrivato al capolinea. Sceso dal pullman. Pensato di ritornare a casa. Dove?<br />

Raccolto il coraggio e chiesto all’autista a quale fermata sono salito. Guardato<br />

dall’autista come se fossi pazzo.<br />

Visto il conducente allontanarsi velocemente lanciandomi occhiate spaventate.<br />

24


9.20. Incamminato a piedi. Rapido. Smarrito.<br />

Confusione. 9.58. Ho soldi, prendo un taxi. Cerco un indizio circa il mio domicilio.<br />

Finalmente la carta d’identità. Corso Amsterdam 27. L’uomo nella foto non<br />

sono certo io, anche se mi somiglia. Paolo. Un uomo con affetti, amici, un lavoro<br />

dove lo staranno aspettando. Lo? Forse mi stanno aspettando? Stordimento.<br />

Fatto un salto quando mi accorgo che sono le dieci. Terrorizzato dal perdere una<br />

riunione. Non ricordo dove, quando e su che argomento. Sono in ansia. Mi<br />

accorgo di possedere un cellulare. Sei chiamate perse da: Ufficio. Pensiero: è la<br />

volta buona che mi licenziano. Non ne conosco l’origine. Ho la tentazione di<br />

richiamare ma rimando. A quando? A un momento più favorevole?<br />

Poi improvvisamente pensiero salvifico cui mi aggrappo con tutto me stesso: e<br />

se prendessi lo stesso autobus e facessi la stessa strada al contrario?<br />

25


Alberto Alarico Vignati<br />

Primo giorno di scuola<br />

GENERE<br />

RACCONTO BREVE<br />

1 RACCONTO DA<br />

15<br />

f e r m a t e


Alberto Alarico Vignati<br />

Liceo Classico Milano<br />

Alberto e Alarico sono nati il 10 Luglio del 1991. Ben presto i loro genitori si<br />

accorsero della rarità dei propri figli e scienziati ne studiarono la sorprendente<br />

caratteristica: gemelli siamesi al punto di essere la stessa persona. Mentre quindi<br />

Alarico cresceva, preso in giro per via del nome, Alberto lo doveva difendere,<br />

prendendo a pugni tutti i bulli.<br />

Com’è normale per tutti i fratelli, anche Alberto e Alarico svilupparono presto<br />

interessi differenti. Mentre Alarico, di carattere più mite e introverso, intraprendeva<br />

lo studio della chitarra classica, Alberto, più competitivo, cominciava<br />

a frequentare corsi di nuoto e di scherma, di pallavolo e atletica.<br />

Su di una cosa, però, entrambi erano d’accordo: la matematica non sarebbe mai<br />

stata il loro mestiere.<br />

Si gettarono nella lettura forsennata di libri: Alarico, più sentimentale e appassionato<br />

di narrazioni fantastiche, non riusciva a staccare gli occhi dai libri di<br />

Asimov, Tolkien, Rowling.<br />

Alberto, meno impressionabile, rimase incantato dai racconti di Poe, per non<br />

parlare poi di Orwell e Huxley.<br />

Alle scuole superiori, frequentate presso un liceo classico di Milano, si impegnarono<br />

entrambi nello studio della letteratura italiana ma con scarsissimi risultati.<br />

Sia Alarico che Alberto hanno sempre preferito leggere piuttosto che studiare.<br />

Adesso entrambi scrivono racconti tutti i giorni: Alarico batte sulla tastiera e corregge<br />

con suoi personali interventi le storie che Alberto gli detta.<br />

28


Primo giorno di scuola<br />

Il mio problema è che mi vergogno per tutto. O meglio. Che ho paura di tutto.<br />

Basta che però non lo diciate in giro. Non ho mai conosciuto uno che abbia più<br />

paura di me.<br />

Io credo che sia anche dovuto al fatto che ho sempre avuto brutte esperienze con<br />

gli altri. Però, per favore, adesso non dovete pensare che io sia un disadattato.<br />

No, per cortesia. Io sono solo uno che ha paura. Punto. E come vi dicevo secondo<br />

me è perché ho incontrato gente sempre cattiva.<br />

Ad esempio alle medie. Però non vorrei che, raccontandovi quella cosa, voi pensiate<br />

che io sia un vigliacco. Che poi lo sono anche, un vigliacco. Un vigliacco di<br />

prima categoria, se proprio ve la devo dire tutta.<br />

Come alle medie, vi stavo dicendo. Primo giorno di scuola. Entro in classe tutto<br />

contento. Sapete com’è no? Uno spera di fare un nuovo percorso. Possibilmente<br />

che sia migliore di quello che ha appena terminato. E sono incominciati gli scherzi<br />

degli altri. Per questo io dico che un po’ io sono pauroso per colpa mia, ma un<br />

po’ è anche perché sono gli altri che fanno di tutto per farmi avere paura. Per<br />

farmi degli scherzi. Come alle medie vi dicevo. Chi lo aveva visto quel palloncino<br />

sgonfio sulla mia sedia. Io mi ci siedo sopra e parte una pernacchia solenne che<br />

tutti quanti sentono in classe e per la quale tutti ridono della grossa. Sarà.<br />

E poi non vi dico. Nessuno mi sopporta perché io sono uno… insomma… uno…<br />

molto preciso. Incredibilmente preciso. In una parola? Pignolo. Ad esempio io<br />

ordino il mio zaino la sera prima di andare a scuola. Questo lo fanno tutti. Io però<br />

scrivo in un piccolo elenco tutti gli oggetti che metto in borsa in modo da sapere<br />

esattamente quali sono le cose che ho con me. E dispongo gli oggetti nel mio<br />

zaino secondo un criterio altamente definito: prima i libri più utilizzati, poi quelli<br />

mediamente utilizzati, infine i libri secondari. Ogni libro ha poi una sua etichetta,<br />

che appongo in copertina in modo da ricordarmi a quale categoria appartiene<br />

ogni singolo libro. Sono un insopportabile pignolo.<br />

E poi sono uno, lo ammetto, che tiene per principio all’ordine. Alla precisione.<br />

29


Non so se mi spiego.<br />

Non sopporto gli errori grossolani. Quando uno sbaglia in classe mentre sta parlando,<br />

magari durante un’interrogazione, non c’è verso – sissignori – io lo interrompo<br />

e chiarisco quale è stato il suo errore e, se possibile, lo correggo. Non sopporto<br />

gli errori. Non li sopporto proprio.<br />

E mi prendono in giro – non sapete quanto – per questo motivo. Storpiano il mio<br />

nome in modo che faccia rima con pedante.<br />

E poi sono anche basso. Estremamente basso. Meglio se dico che sono un<br />

nano. E anche su questo un po’ ci ho fatto l’abitudine per quanto riguarda le<br />

prese in giro.<br />

Così, sapete com’è, no? No. Forse non lo sapete.<br />

Adesso però non vorrei sembrarvi troppo patetico. Non sia mai! Io la gente patetica<br />

ce l’ho in odio.<br />

E così, mi dico, speriamo che andando avanti io mi sappia far rispettare.<br />

In questo modo chiedo che mi si cambi di scuola – sissignori – che mi si cambi<br />

di scuola.<br />

E poi aspetto come il Natale il giorno in cui mi promuovono alle superiori.<br />

Che mondo strano. Tutti quanti dicono che è una cosa diversa rispetto alle<br />

medie. Dicono che sono più difficili. Che la gente che c’è è più attenta. Che bisogna<br />

essere molto più preparati.<br />

Sarà. Ma che sono un fifone, alla fine, ve l’ho già detto.<br />

E così il primo giorno di scuola delle superiori io sono elettrizzato. Anzi. Sono un<br />

pezzo di legno. Di ferro.<br />

Non riesco a muovermi. Dico sul serio. Ho veramente paura.<br />

Ma bisogna rischiare, buttarsi e come va va. Lo dicono tutti. Anche in televisione.<br />

E così mi faccio un po’ di coraggio, a mio modo mi butto.<br />

Primo giorno di scuola del primo anno di liceo. Cerco veloce i miei vestiti, non<br />

trovo neppure più il mio zaino nel perfetto ordine che c’è in camera mia.<br />

Maledizione! Quando sono agitato anche nell’ordine certosino che ho imposto<br />

ai miei armadi (i vestiti sono catalogati e riposti secondo il tipo di materiale,<br />

della frequenza di utilizzo e del mio personale gusto) non riesco a trovare ciò<br />

che cerco. Sono in stazione e la metropolitana non arriva. Non è che io veda<br />

proprio bene – ve l’ho detto sono un nano! – e la gente davanti a me mi copre<br />

la visuale. Io da qui vedo solo schiene, borse, capelli. Oltre: il nulla. Odio il<br />

ritardo. Possibile che la gente non comprenda? Il ritardo è sinonimo di disordine,<br />

eccesso, sproporzione.<br />

Ma disgraziatamente sono in ritardo. La metropolitana tarda ad arrivare e sembra<br />

che tutti quanti intorno siano presi da una lentezza esasperante. Non vi dico<br />

la mia espressione sul viso. In ritardo il sottoscritto: assurdo. Così supero velocemente<br />

la fiumana di studenti che percorre tranquillamente questo marciapie-<br />

30


de. Possibile che nessuno si preoccupi dell’orario? Magari tra questa folla di studenti<br />

ci sarà pure qualcuno che sarà in classe con me. Mah. Non è che ci siano<br />

molte belle facce. Guardo l’orologio. Ritardo garantito.<br />

Non è possibile: già il primo giorno di scuola! Così corro come Forrest Gump.<br />

Non so se avete presente. Ecco. Io corro come nella scena in cui c’è lui con la<br />

ragazza che gli piace che stanno percorrendo il viale alberato e arrivano i bulli in<br />

bicicletta e incominciano a prenderlo in giro e a picchiarlo e lui incomincia a correre<br />

e lei gli urla dietro «corri Forrest!». In ogni caso corro in quel modo.<br />

Corro anche per le scale. Corro. Corro. Ma in che classe devo andare?<br />

Ovviamente questo lo so. Ho scritto il nome della classe – prima emme – su dieci<br />

piccoli foglietti che ho lasciato nelle tasche dei pantaloni e della giacca, in modo<br />

che, caso mai non dovessi ricordarmi il nome della classe, posso sempre ricorrere<br />

ad uno di quei dieci foglietti. E se li perdessi tutti e dieci, quei piccoli foglietti?<br />

Impossibile: ho calcolato infatti che ho lo 0,098% di possibilità di perderli tutti<br />

contemporaneamente, inserendo come variabili eventi lontani dalla mia quotidianità:<br />

insomma, perdere tutti i foglietti è cosa irrealizzabile.<br />

Ma quest’altra cosa ve la devo proprio raccontare. Corro per le scale e in chi mi<br />

imbatto? In chi?<br />

Mi appaiono prima delle scarpe di cuoio scuro ben lustrate. Poi dei bei pantaloni<br />

gessati. Una giacca. Una cravatta. Il preside? Il preside. Sissignori. Il preside in<br />

persona nella sua barbetta tutta curata che… mi sorride?<br />

«Buongiorno», mi dice. Sì, sì. Lo dice a me. Anche io saluto. Saluto e poi scappo,<br />

ovviamente. Ve lo detto che sono un vigliacco.<br />

La classe la trovo subito. Anche perché ho studiato la piantina della classe ieri<br />

sera, in modo che non mi possa trovare in una situazione tale per cui non sappia<br />

dove andare. Sono uno incredibilmente preciso, io. E nessuno mi sopporta<br />

per questo.<br />

Così rammento all’improvviso la posizione della classe e mi ci fiondo subito.<br />

Sento in lontananza delle urla. Ommioddio. Queste urla provengono dalla<br />

scuola in cui mi sto dirigendo. Chissà come saranno? Magari terribili come<br />

quelli delle medie. Speriamo di no. Intanto sento che le urla si fanno sempre<br />

più alte, più alte. E io ve l’ho detto: ho paura. Saranno tutti ragazzi antipatici che<br />

ti fanno una miriade di scherzi; come per esempio metterti lo zaino nel cestino,<br />

oppure scaraventare l’astuccio aperto fuori dalla finestra. E poi le prese in<br />

giro: HO PAURA!<br />

Entro o non entro? Entrare e trovarsi sicuramente male o scappare come faccio<br />

sempre? Ve lo detto che sono un vigliacco di prima categoria!<br />

Entro. Per forza. Facciamoci forza.<br />

Spingo la maniglia e…<br />

«Buongiorno ragazzi, sono il vostro nuovo professore di matematica».<br />

31


Valentina Vono<br />

Racconto di un rapido incontro<br />

GENERE<br />

RACCONTO CON RIFLESSIONE SULLA RAPIDITÀ<br />

1 RACCONTO DA<br />

7 f<br />

e r m a t e


Valentina Vono<br />

Istituto Comprensivo Unico D. Borrelli, Santa Severina, Crotone<br />

Mi chiamo Valentina Vono, ho diciassette anni e frequento il liceo classico.<br />

Autopresentarmi non mi è mai piaciuto, ma forse questa volta so che cosa scrivere<br />

di me stessa.<br />

Io sono quello scrivo, e scrivo quello che sono.<br />

In ogni mia frase c'è un pizzico del mondo che mi circonda, ogni personaggio è<br />

intriso dei miei sentimenti, delle mie passioni, delle mie speranze.<br />

Speranze che sono gelosamente nascoste in serie di parole che si susseguono dapprima<br />

a ruota libera, per poi formare il mio piccolo universo scritto.<br />

Il mio sogno, o forse è meglio precisarlo come obiettivo, è sempre stato scrivere un<br />

libro. Potrei anche continuare a ritenerlo un’utopia, ma una volta “credo di<br />

esserci persino riuscita”.<br />

Nel momento in cui scrivo mi sento felice, adoro la fluidità con cui di getto scrivo,<br />

con cui le mie parole si imprimono brucianti sulle pagine bianche, ma una<br />

volta passata “l'estasi dell’ispirazione” vorrei nasconderle .<br />

Ho un blog. Scrivo spesso. E molte volte lascio qualche verso sparso, strano, che<br />

stride col resto. Lo firmo con “W.W.”, sperando di celare la mia identità con quelle<br />

iniziali che apparentemente non mi appartengono. Vorrei proteggere il mio<br />

segreto.<br />

Non mi ritengo una scrittrice, sarebbe troppo presto, ma parafrasando il tutto,<br />

penso di essere abile con la penna, destreggiandomi tra le mie fantasie e il mondo<br />

reale che mi circonda.<br />

Pura esercitazione scolastica o puramente un lampo di genio allo stato puro?<br />

Direbbe Machiavelli che si tratta di un lampo di genio nell'esercizio.<br />

E anche a me piace pensare che sia così.<br />

34


Racconto di un rapido incontro<br />

Buongiorno mondo. In ritardo, come sempre.<br />

Spero solo di riuscire a prendere l’autobus in tempo. Cammina, corri. Corri,<br />

cammina. Ogni giorno il solito. Entro. I soliti ignoti. Il posto solitamente occupato<br />

da me è vuoto. Mi siedo.<br />

Ripenso improvvisamente al fugace incontro di stamattina, fin troppo rapido e<br />

fugace! Finalmente un uomo che mi è caduto letteralmente ai piedi. Un incontro<br />

bruciante di passione e intriso di elettricità. Povero Mammolo, o forse era<br />

Pisolo? Chi lo ricorda, andavo troppo di fretta persino per rialzarlo, spero solo<br />

che non si sia rotto qualcosa, tenere sei nani nel giardino porta male. Chi aveva<br />

detto questa cosa? Sono certamente sicura che è stato un filosofo, forse qualche<br />

tesi sull’assoluto dell’idea materiale e immateriale del numero sei. Filosofo<br />

a? Filosofo b? Credo che fosse c.<br />

«Mi scusi, saprebbe gentilmente dirmi l’ora?», chiede la dolce vecchina che<br />

odora di vaniglia e mandorla, con quello strano cappello floreale.<br />

«Sette e quaranta signora». Non hai molto tempo il traffico è lento nell’ora di<br />

punta, ecco le prime note che cominciano a farsi spazio nella mia mente. Avrei<br />

potuto risponderle canticchiando e improvvisando un balletto. Almeno avrei<br />

spaccato un po’ la monotonia che regna in questo autobus e…<br />

«Molto gentile. Lei conosce Battisti?».<br />

«Come scusi?».<br />

«Lei conosce Battisti? Sa, il cantante che ha scritto 7 e 40, cade a pennello non<br />

crede?».<br />

Panico. Panico. Panico. Mi sono messa a canticchiare senza accorgermene o<br />

legge nel pensiero? Sono davvero seduta vicino a una indiana indù che con un<br />

solo sguardo ti ipnotizza, che fuma pipe in onore di chissà quale divinità a<br />

forma di aquila e che crea pozioni magiche per ravvivare ormoni solitari?!<br />

Devo smetterla di vedere quei programmi prima di andare a dormire.<br />

«Sì signora, ha ragione. Non ci avevo proprio pensato!».<br />

35


E tutta entusiasmata per l’adeguato intervento si mette a guardare fisso davanti<br />

a sé, come se il suo sguardo fosse stato rapito da chissà quali arcani misteri.<br />

Mi piacerebbe sapere che pensa. Ho sempre avuto questa curiosità per i pensieri<br />

e le storie degli altri. Osservo la gente e, immaginando le loro storie, mi<br />

immedesimo in loro. Per chi non ha nulla da fare potrebbe anche essere interessante.<br />

E forse è per questo che per me non dovrebbe esserlo. O forse sì,<br />

insomma è da qui che prendo spunto.<br />

È tardi. È tardi. È tardi. In una prossima vita devo diventare un ingegnere aerospaziale<br />

o qualcosa del genere per creare l’autobus ultraplanetario a raggi<br />

intermolecolari e spaziotemporali, insomma qualcosa che mi faccia andare<br />

molto veloce. O devo rinascere autista…<br />

Ragionamento impeccabile. Devo annotarmi tutte queste idee geniali.<br />

A proposito dove ho messo l’agenda?<br />

La prendo dalla borsa e comincio a schematizzare il mio fantastico discorso<br />

sull’autobus ultraplanetario.<br />

Ma ancora una volta sono rapita da storie altrui. Ecco due ragazzi. Giovani, felici,<br />

con i libri in mano e che comunicano attraverso i loro codici.<br />

Baci, sguardi, carezze, risatine. Sembra un’antica danza indù (oggi sono proprio<br />

fissata con la tradizione indù!) che è la cornice portante di questi movimenti<br />

che si ripetono, si intensificano, ritornano allo stato iniziale e…<br />

Si sono accorti che li sto guardando! Che figuraccia!<br />

Beh potrei fingermi una ricercatrice, forse è meglio un’opinionista, ma no! Che<br />

dico? Una… ehm… osservatrice dei comportamenti adolescenziali. Esiste?!<br />

In ogni caso è meglio voltarmi dall’altra parte, almeno non c’è nessuno da fissare,<br />

il posto è vuoto. Che bello che è l’amore, anche nell’assoluta fretta di fare<br />

qualcosa riesce a rendere piacevoli quei tre minuti che possono sembrare eterni,<br />

ma che rapportati al tempo che scorre sempre più veloce sono una minima,<br />

infima parte.<br />

Mi immergo nei miei pensieri, per cercare di ricordare il filosofo che si occupava<br />

della dottrina dei nani. Fondamentalmente deve essere uno moderno,<br />

magari che viveva in campagna con un bel giardino e i nani. Sì, tanti nani. No,<br />

solo sette. E magari lui andando di fretta invece dei nani si trascinava per metri<br />

Biancaneve. Bah, credo sia andata meglio a me. Almeno quel nano era single!<br />

Penso e ripenso alla dottrina dei nani di chissà quale sconosciuto filosofo quando<br />

improvvisamente una brusca frenata mi getta in avanti.<br />

Che diamine succede?!<br />

Ecco, lo sapevo. Traffico. Mi sono sempre chiesta chi sia il primo della fila e<br />

che caspita faccia! Suona, suona. Suona che ti passa.<br />

Ho fretta. Ho decisamente fretta. Sette e quarantasette.<br />

36


E mentre penso di contare fino a undicimilasettecentocinquantatrè in aramaico,<br />

prima di mettermi a urlare come una pazza ecco che si apre la porta dell’autobus.<br />

«Prego?».<br />

«Ho perso quello della fermata precendente».<br />

«Ce l’ha il biglietto?».<br />

«Abbonato!».<br />

«Va bene, salga».<br />

Miracolo vivente. Stella cometa nel cielo diurno di marzo! Meraviglia delle<br />

meraviglie.<br />

Conteggio dei posti liberi. Rapidamente effettuato.<br />

Aggiornato. Posti liberi in numero di quattro.<br />

Primo posto libero: accanto al grosso signore che occupa un posto e mezzo.<br />

Decisamente da scartare.<br />

Secondo posto libero: vicino alla signora che canta Battisti.<br />

Terzo posto libero: oca giuliva con tanto di chewin-gum che si muove convulsamente<br />

nella sua bocca. Dopo la colazione non credo sia il massimo.<br />

Nemmeno lo stomaco di Mangiafuoco resisterebbe a tanto disgusto!<br />

Direi che io e la vecchiaccia ci contendiamo Apollo.<br />

È mio! È mio! È mio!<br />

Attendi. Attendi. Fai la vaga. Non guardare. Spia un pò. Non alzare lo sguardo<br />

dall’agenda. Attenzione.<br />

Speranze perse. Si sta per sedere vicino a quella brutta vecchiaccia bisbetica.<br />

E io che credevo fosse pure simpatica! Arraffa-Apollo dei miei stivali!<br />

Ah! È inutile sperare, ormai la mia vita è legata a quella del mio nanetto da giardino.<br />

Che continuo a sperare sia integro.<br />

«No mi scusi, giovanotto, ma questo posto è occupato. Sa, sta per salire mia<br />

nipote».<br />

Colpo di scena! Vorrei alzarmi e baciare quella dolcissima e buonissima anziana<br />

signora!<br />

«Non c’è problema signora, anzi mi scusi».<br />

«Guardi giovanotto, c’è un posto proprio lì vicino quella ragazza».<br />

«Perfetto, grazie».<br />

Non. Muoverti. As-so-lu-ta-men-te.<br />

E spera che la lunga coda del traffico si triplichi come per magia.<br />

Improvvisamente svanisce la fretta di andare al lavoro. La rapidità con cui sono<br />

uscita di casa travolgendo l’amore della mia vita (che ora giace lì inerme sul<br />

mio prato) non ha più senso. Vedo il mondo rallentare. Si rompono gli orologi<br />

e la frenesia di ogni giornata persa dietro al tempo è come sparita.<br />

Ecco che si siede. Si sta sedendo. Seduto!<br />

37


Il momento a rallentatore sembra essere finito. Sento i battiti del mio cuore<br />

accelerare di colpo. È vicino. Troppo vicino!<br />

Devi fare la vaga! Continua a leggere sulla tua agenda.<br />

Ma… ho preso una pagina vuota! Calma. Hai la penna in mano. SCRIVI qualcosa!<br />

Qualsiasi cosa!<br />

Inizio a scarabocchiare il nome del Centro, e mi invento una serie di appuntamenti<br />

fittizi.<br />

Sento l’autobus rimettersi in moto, e comincio a essere stanca di scarabocchiare.<br />

Mi volto verso di lui. Mi fa un sorriso e ricambio.<br />

Prima regola dell’approccio per la conquista nell’autobus: ogni lasciata è persa.<br />

Seconda regola: la vita è troppo breve per incontrare due volte un Apollo altrettanto<br />

meraviglioso, e con un fantastico brillantino che fa capolino dalla sua<br />

splendida bocca… Svelta! Più rapida sei, più occasioni hai per portartelo a<br />

cena giovedì, presentarlo ai tuoi venerdì, sposarti di sabato, fare la luna di<br />

miele la domenica e ritornare al lavoro lunedì.<br />

Buttati con qualsiasi argomento. Veloce!<br />

Popolazione indù?<br />

Ciao, hai visto la trasmissione sulla cultura indù ieri sera sulla rete locale? Era<br />

molto interessante, soprattutto la parte dedicata al matrimonio tra giovani.<br />

Non che io sogni sempre ad occhi aperti il matrimonio, sia chiaro… cioè non<br />

sono una di quella single disperate. Ma se può interessarti non sono nemmeno<br />

sposata, o fidanzata o comunque impegnata. Toh! Guarda ho pure l’agenda<br />

in mano… come dici? Libera di giovedì? Controllo subito. Potremmo anche<br />

vederci…<br />

Elimina pensiero. Elimina pensiero. Elimina pensiero.<br />

Nani?<br />

Lei conosce la teoria dei nani da giardino? Sa, non sono una stupida che mastica<br />

rumorosamente un chewin-gum, sono molto acculturata, è solo che mi sfugge<br />

il nome del filosofo. Ah è il filosofo non-sai-il-suo-nome-ma-sono-talmentestupenda-che-vuoi-invitarmi-a-cena-giovedì?<br />

Giusto! Ci avevo pensato stamattina solo che…<br />

«Scusa…», i miei esaltanti ed esaltati pensieri sull’approccio migliore vengono<br />

interrotti dalla voce soave del principe Aladdin. Il mondo è mio. Ma se vuoi te<br />

ne regalo un pezzetto, basta solo che tu pronunci la parola: “giovedì”.<br />

Il mondo rallenta ancora (o forse è l’autobus che sta facendo l’ennesima sosta<br />

per il traffico) ma importa poco.<br />

38


Quello che conta è la sua splendida voce che si è rivolta a me, accompagnata<br />

da una splendida melodia suonata al piano per me, e il senso delle sue parole<br />

sarà di voler trascorrere il resto dei suoi giorni con me!<br />

Dai, rispondi!<br />

«Ehm… Sì?». Occhi da cerbiatta. Mostra i tuoi splendidi occhi da cerbiatta.<br />

Come Olivia con Braccio di Ferro.<br />

«Ho qualcosa tra i denti?».<br />

E fu così che nella mia mente un sordo rumore di vetri infranti riechieggiò<br />

rumorosamente, persino la melodia che sentivo di colpo svanì.<br />

È scomparso Aladdin.<br />

È scomparso Apollo.<br />

Sento nuovamente i clacson suonare all’impazzata e le persone lamentarsi perché<br />

è decisamente tardi.<br />

«No», che amara delusione. E io che speravo nel giovedì sera!<br />

«Ah, okay. Perchè sembrava che mi fissassi… e allora io… sì insomma… ero<br />

imbarazzato».<br />

Blocca il ragazzo. Blocca uno, blocca due, blocca tre!<br />

«No scusami. Ero solamente distratta».<br />

«Non preoccuparti. Sono… ».<br />

… Apollo<br />

«… Matteo».<br />

… piacere, Venere!<br />

«Io sono Chiara».<br />

Bene. Benissimo. E ora? Vado con i nani? Popolazione indù?<br />

Ci prendiamo un caffè insieme? Sei libero questo giovedì? Oppure sventolandogli<br />

in faccia il mio anulare sinistro inizio a raccontare cosa mi piace più fare<br />

(in modo che sappia dove portarmi questo giovedì)?<br />

E ricordati di passare dal fioraio a comprarmi i girasoli, o un bel mazzo di rose,<br />

anzi facciamo rose e girasoli!<br />

Aspetta! Dove sta andando? Non ho detto adesso! Ancora mi devi chiedere di<br />

uscire!<br />

«È stato un piacere, questa è la mia fermata. Alla prossima», mi fa un sorriso<br />

e scende.<br />

Ma… ma come? E il nostro appuntamento? Il nostro giovedì? Il mio abito da<br />

sposa con lo strascico e la scollatura coperta dal velo?<br />

Digli qualcosa! Fermalo!<br />

«Ciao. T… t-u… tu hai…». Non faccio in tempo a finire la frase. È già sceso.<br />

Improvvisamente dalla mia gola esce fuori una risata grassa, che non riesco a<br />

trattenere. E rido come una bambina davanti a un teatrino. Tutti si voltano<br />

39


verso di me ma non importa. La dolce nonnina mi sorride e intanto abbraccia<br />

la nipote e le stampa un grosso bacio sulla fronte.<br />

Quello che avevo scambiato per un brillantino tra i denti era soltanto un pezzo<br />

di cornetto!<br />

Il povero Apollo è andato via con un pezzetto di ottimo cornetto tra i denti.<br />

E continuo a ridere. E rido di più pensando a quando si renderà conto del mio<br />

tradimento! Il nostro incontro è stato rapidamente breve per dirgli tutto!<br />

Addio Apollo.<br />

Sono le otto meno cinque. Stamattina l’autista è più lento del solito, e io in questa<br />

lentezza rapida ho perso il potenziale ottavo nano da giardino. Lo avrei<br />

messo accanto a Eolo. Eolo e Apollo. Suona bene.<br />

Inizio a mettere l’agenda nella borsa. La prossima fermata è la mia. E devo letteralmente<br />

scappare al Centro.<br />

Ora fermo i pensieri. Devo andare. La vecchina scrutando il mio volto mi<br />

sorride.<br />

Scendo dall’autobus ma, invece di correre, cammino lentamente. Assaporo<br />

ogni momento, non guardo, osservo. So che non durerà a lungo questa mia<br />

solitaria protesta contro il tempo, quindi cerco di godermi tutti i momenti che<br />

posso.<br />

Sono le otto e due minuti.<br />

Mi sforzo ancora una volta di pensare quale sia il filosofo. Ma finisco per stare<br />

un minuto in silenzio con la mia mente. Per una volta non sto pensando. Sto<br />

riflettendo. La vita è troppo breve per essere vissuta con la rapidità con cui ci<br />

imponiamo di conoscerla. Nella mia mente sta scorrendo una sequenza di<br />

immagini dei due ragazzi di prima.<br />

La lentezza di ogni loro carezza è impressionante. Vivono sfidando la rapidità<br />

con la loro lentezza. Sembra che vogliano sentire quel gesto, che vogliano eternarlo<br />

lentamente nella rapidità in cui il mondo vive. Rifiutano la velocità delle<br />

emozioni. Credono in quello che fanno. Non è un giovedì qualunque che gli<br />

cambia la vita, è la vita che gli cambia quel giovedì.<br />

Attraverso il vialetto che conduce all’ampio giardino e penso al mio nanetto<br />

caduto.<br />

Improvvisamente una voce familiare mi dice: «Sei... se-i li... li-bera gio-giovedì?».<br />

Sorrido. Mi volto e lo abbraccio calorosamente. Sono questi i momenti della<br />

giornata in cui non ti importa dell’ora, del minuto, del secondo. Lui è lì, davanti<br />

a me, con un sorriso stratosferico ed è felice di rivedermi.<br />

40


Claus. Il mio paziente. Ecco chi aveva detto la frase sui sei nani.<br />

Nessun filosofo. Solo lui: IL filosofo.<br />

«Dove vuoi andare Claus?».<br />

«Vo-voglio anda… voglio anda-andare a prende-ndere un na-nano».<br />

«Ne hanno rotto un altro?».<br />

«Sì, e co-così so… so… c-così sono s-sei».<br />

«Giovedì compreremo un altro nano e saranno sette. Non preoccuparti. Ora<br />

vai a fare colazione che io arrivo subito».<br />

Mi abbraccia di nuovo, lasciandomi stupita. E si allontana felice e spensierato.<br />

Sono le otto e dieci. In ritardo, come sempre.<br />

Ed è la prima volta per cui ne sono felice.<br />

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Leonardo Stella<br />

Délire<br />

1 RACCONTO DA<br />

GENERE<br />

SAGGIO<br />

3 f<br />

e r m a t e


Leonardo Stella<br />

Liceo Classico Umberto I, Palermo<br />

Credo che occorra dare una breve spiegazione del perché di un racconto di questo<br />

genere. Tutto è nato da numerose letture di componimenti dell’autore cui<br />

dedico il racconto, Raymond Queneau: I fiori blu, con la magnifica traduzione e<br />

le note di Italo Calvino; Esercizi di stile, tradotto superbamente da Umberto Eco.<br />

In questi romanzi l’autore francese non fa altro che giocare con la letteratura e<br />

con la retorica, prendendole in giro e divertendosi con esse. In qualche modo ho<br />

voluto rielaborare questo tipo di meccanica, aggiungendo però dei temi tipici<br />

della nostra modernità, per esempio il linguaggio di un gioco online (sloggare,<br />

ossia uscire dal gioco; expare, ossia prendere esperienza; aggrare, ossia attaccare<br />

il nemico affinché egli concentri i suoi attacchi su di noi; wippare, ossia perdere;<br />

loot, che è ciò che il nemico sconfitto lascia come ricompensa). Tra l’altro<br />

mi sono voluto divertire attingendo i nickname di questi fantomatici giocatori<br />

dalla filosofia, e quindi sono venuti fuori Noumeno, Übermensch, Clinámen.<br />

Non voglio dare un significato univoco al racconto, vorrei solo dire che esso è<br />

qualcosa che vuole rispecchiare la frammentarietà dell’attualità, con tutti i<br />

suoi pro e i suoi contro. Il titolo invece, e per dir tutta la genesi effettiva, è scaturito<br />

leggendo una sezione critica riservata a Tolstoj e alla sua La sonata a<br />

Kreutzer, dove si parlava della vita dell’autore russo e delle sue cavalcate sul<br />

suo stallone, il cui nome era appunto Délire, nome che ha catturato la mia<br />

immaginazione e da cui è venuto fuori questo piccolo delirio letterario.<br />

44


45<br />

Délire<br />

A Bernardo Puleio,<br />

un intellettuale colto,<br />

un grande insegnante,<br />

un buon amico.<br />

In onore di Queneau,<br />

un grande giocoliere di letteratura,<br />

un continuo spettacolo di retorica,<br />

linguaggio, grammatica,<br />

e poesia.<br />

Le nuvole si dipanarono all’orizzonte, mostrando un cielo tutto uguale, fino a<br />

dove lo sguardo potesse tendere.<br />

Mosè inarcò il sopracciglio e nella calma piatta di quell’alba fuori dal comune<br />

si sentì chiamare come da un presentimento. Si sollevò da terra poggiando i<br />

palmi e facendo successivamente leva sul bastone leggermente arcuato che<br />

teneva sempre con sé. Raggiunse i piedi della montagna e alzò gli occhi alla<br />

sommità.<br />

Mosè inarcò il sopracciglio e nella calma piatta di quell’alba fuori dal comune<br />

iniziò la scalata. Si sollevò poggiando i palmi nelle rocce a destra e sinistra e<br />

facendo successivamente leva sul bastone leggermente arcuato che teneva<br />

sempre con sé si dava lo slancio per superare le parti più ripide di quella montagna.<br />

Raggiunse più o meno la metà e alzò gli occhi alla sommità.<br />

Mosè inarcò il sopracciglio e nella calma piatta di quell’alba fuori dal comune<br />

terminò quella difficile salita indicatagli come da un presentimento. Aveva<br />

staccato i palmi dal terreno e stringeva il bastone leggermente arcuato che<br />

teneva sempre con sé. Era sulla sommità.<br />

«Sono qui!», gridò a più riprese mentre avanzava lentamente tra la lieve<br />

foschia.<br />

«Sono qui!», gridò a più riprese mentre ispezionava quello che gli appariva<br />

dalla nebbia.<br />

«Sono qui!», rispose l’eco a più riprese mentre il suono si rifrangeva tra i costoni<br />

della montagna.<br />

Quando finalmente tutto fu visibile, Mosè inarcò il sopracciglio e fece una cosa


che non aveva mai fatto prima: spalancò la bocca. Aveva davanti a sé una landa<br />

desolata, distrutta, con gente che viveva tra rovine tecnologiche ormai inutilizzabili,<br />

il sole cocente che li abbatteva uno dopo l’altro.<br />

Mosè si svegliò di soprassalto. Si grattò il capo, impugnò il bastone arcuato che<br />

teneva sempre con sé e si precipitò ai piedi della montagna che, senza pensarci<br />

su, e senza inarcare il sopracciglio, iniziò a scalare, passo dopo passo, fino a<br />

raggiungere la sommità.<br />

Non disse «Sono qui!» né l’eco della sua voce che non era rispose.<br />

Le nuvole si dipanarono all’orizzonte, mostrando un cielo tutto uguale, fino a<br />

dove lo sguardo potesse tendere, quando all’improvviso a Mosè capitò di<br />

inciampare su un qualcosa che, passeggiando a quell’altitudine, catturato dalla<br />

bellezza del panorama, non aveva visto. Si sollevò da terra e tornò a ispezionare<br />

l’oggetto che era stato causa dell’inciampo: un rettangolo di latta color blu<br />

metallizzato. Il dispositivo prese a vibrare e intonò, con il suono metallico tipico<br />

dei file midi, il Kyrie Eleison di Mozart, un compositore che Mosè, per quanto<br />

inarcasse il sopracciglio, non poteva conoscere. Dopo un istintivo moto di<br />

paura, seguì un’istintiva curiosità che spinse Mosè a raccogliere l’aggeggio,<br />

che alla luce solare che si intravedeva tra le nuvole che pian piano gli lasciavano<br />

il posto che ormai era completamente suo si rivelò per quello che era: un<br />

cellulare! Ma Mosè, per quanto inarcasse il sopracciglio, non lo poteva conoscere.<br />

Tuttavia lo sollevò e lo aprì istintivamente e altrettanto istintivamente<br />

posò il lobo sul lato appena aperto.<br />

«Sono il tuo Dio, non avrai altro Dio al di fuori di me!», disse una voce fortemente<br />

metallica ma al contempo profonda. Mosè indietreggiò spaventato e<br />

colpì senza ravvedersene un oggetto rettangolare posto in verticale senza infamia<br />

e senza lode che era laddove era appena indietreggiato.<br />

Uno schermo piatto di ultima generazione era al centro di quell’ellisse montana,<br />

mentre un filo che partiva dallo schermo si andava a gettare nel terreno in<br />

uno dei due fuochi, mentre nell’altro c’era, fino a poco tempo prima, il cellulare.<br />

Ma Mosè, per quanto inarcasse il sopracciglio, non aveva mai studiato geometria<br />

euclidea e quindi non poteva che ignorare che quella in cui si trovava<br />

era un’ellissi e così via…<br />

La cosa che colpì Mosè fu che all’interno di quello schermo poteva distinguere<br />

i caratteri della sua lingua, scritti con precisione certosina, certamente per<br />

quanto concerneva le caratteristiche tipiche di quella lingua sconosciuta a<br />

molti, ma non a Mosè. Lesse i dieci punti che lampeggiavano di luce bluastra<br />

ad alta voce, con voce stentorea, quasi gridando, a squarciagola. Poi gli venne<br />

in mente di avvicinarsi: allungò il braccio, dispiegò falange, falangina e falangetta<br />

e sfiorò lo schermo, che d’improvviso si increspò quasi come una superficie<br />

d’acqua che fu spruzzata ovunque fino a che colpì il viso di Mosè che si<br />

46


destò di soprassalto.<br />

«Chi sei, straniero?», gli chiedeva il beduino del deserto che aveva di fronte.<br />

«Che è successo?», domandò con cortesia Mosè.<br />

«Ti abbiamo trovato che avevi le allucinazioni mentre vagavi per il deserto. Ti<br />

abbiamo portato all’oasi più vicina…».<br />

«Grazie, ma io…».<br />

E spiegò al beduino la situazione, cosa aveva visto, finché ci fu luce; poi calò<br />

la notte e Mosè, dopo aver inarcato il sopracciglio per l’ultima volta andò a<br />

dormire.<br />

Iniziarono a scorrere i titoli di coda. Pensando ancora una volta a come Mosè<br />

inarcasse il sopracciglio, e tentando di imitarne il movimento, mi sono alzato e<br />

coi miei amici sono uscito dalla sala cinematografica.<br />

Il resto della sera l’abbiamo passato come noi ragazzi facciamo sempre: siamo<br />

andati alla Champagneria, abbiamo sorseggiato un drink e ci siamo messi a<br />

parlare del più e del meno, più del meno che del più, più che altro per parlare.<br />

Poco prima di tornare, però sentiamo un grido e ci giriamo: una ragazza urlava<br />

contro un uomo che correva a più non posso nella nostra direzione. Con una<br />

borsa in mano. Certo mi sono detto, certo vuole rapinare la ragazza, vediamo<br />

se riesco a fare colpo mi sono detto vediamo se riesco a fare colpo recuperandole<br />

la borsetta e mi sono sistemato al centro del marciapiede per bloccare la<br />

di lui fuga.<br />

«Spostati!», ha inveito quel bell’imbusto, ma io sono rimasto coi piedi per terra,<br />

e dove avrei dovuti averli?, saldo senza permettergli di passare. Quello si avvicina,<br />

è a due, un passo, vado per lanciarmi contro, mi dà una spallata e sbatto<br />

la testa.<br />

Ahi! Cacchio! Come ho fatto a cadere dal letto? Meglio rimettermi a sedere.<br />

Cos’è quella luce? È meravigliosa! Color indaco, sarà che sta per sorgere l’alba<br />

e tutto si colora di un po’ di rosa. Mah… No, è una fata! Queste cose succedono<br />

solo nei libri… non è possibile! Io…<br />

Noumeno chiuse il lettore DVD e passò oltre, considerando la mercanzia troppo<br />

scontata e soprattutto il mercante, per le sue frasi monotone e ripetitive e il<br />

suo avvicendarsi di avvenimenti aviti e avulsi dai suoi interessi. Ma che vuol<br />

dire questa frase?, pensò Noumeno guardando il soffitto. Uscì dal negozio con<br />

l’aria afflitta, quella di chi non trova quello che cerca, e si gettò per la strada<br />

rivolgendosi ai suoi due compagni d’armi Übermensch e Clinàmen: «Possiamo<br />

andare, qua non ho trovato niente di interessante, né nella sezione accessori<br />

tecnologici né tra le armi laser; vediamo di expare un po’, che tra un po’ devo<br />

sloggare!». I due fecero di sì col capo e montarono sui loro dinosauri, dopo<br />

aver opportunamente gruppato, mentre il loro amico comprava da bere per la<br />

battaglia che li attendeva.<br />

47


In groppa alle loro cavalcature, i tre uscirono fuori città, ricercando la creatura<br />

di cui avevano visto l’annuncio tra i Wanted nella bacheca della metropoli.<br />

Appena furono nei campi cibernetici infestati da mostri, scorsero in lontananza<br />

il loro bersaglio: una creatura alata dalle scaglie color rosso cremisi. I tre<br />

estrassero le armi e si prepararono alla battaglia con un coro di voci concitate<br />

tra «Di là, di là», oppure «Aggralo, aggralo che wippiamo», se no o ancora,<br />

«Ressa Clinàmen, svelto che sto per finire il mana!».<br />

Finalmente, dopo frasi ed esclamazioni di giubilo i tre presero quello che loro<br />

chiamavano loot e tornarono in città a consegnare la scaglia presa al nemico<br />

come prova della sua uccisione.<br />

«Adesso devo proprio sloggare… Ci vediamo stasera, belli!», esclamò<br />

Noumeno dopo essere entrato nell’hotel e aver opportunamente premuto il<br />

tasto per uscire.<br />

Lo scienziato spegne il computer e si allontana opportunamente sul lato destro<br />

del palco stringendo in mano dei fogli con aria soddisfatta. Poi si gira verso il suo<br />

assistente.<br />

Scienziato: «Abbiamo finalmente raggiunto il nostro obiettivo!».<br />

Assistente: «Ma, professore, questo può avere delle inaspettate conseguenze<br />

sul genere umano!».<br />

Scienziato: «L’uomo è andato avanti compiendo enormi sacrifici. Questo non<br />

sarà da meno!».<br />

Cala il sipario.<br />

«È orribile!», esclamò con aria di disgusto l’editore, «Il copione è a dir poco<br />

ridicolo, la sceneggiatura inesistente e i personaggi non hanno spessore…<br />

Bocciato!».<br />

Il ragazzo uscì dalla stanza con l’aria afflitta e sconsolata di uno che ha fallito<br />

tutto; dopo che la ragazza l’aveva lasciato, la madre, l’ultima dei suoi parenti<br />

rimasta in vita, era morta e di ciò lui in parte se ne addebitava la colpa, e adesso<br />

la sua unica speranza, il successo lavorativo, era crollata come un castello di<br />

carte.<br />

Il ragazzo guardò fuori il balcone con uno sguardo nostalgico e spalancò le<br />

ante della finestra. Poi, socchiudendo gli occhi, si arrampicò e volò di sotto con<br />

la leggerezza di una piuma. Mentre rimanevano sul palco, visibili e illuminati<br />

da una luce che proveniva dall’alto, i fogli rifiutati dall’editore. Quei fogli a cui<br />

aveva affidato la sua intera vita.<br />

Subito dopo si chiuse il sipario.<br />

Quello che vidi quella sera al teatro per lo spettacolo inaugurale del ventinove<br />

settembre della stagione autunnale fu a dir poco una delusione. L’opera era<br />

48


una delle più in vista ed il romanzo da cui era tratta aveva venduto centinaia di<br />

copie dopo essere risultato il vincitore di numerosi premi letterari. Tuttavia, la<br />

trasposizione sul palcoscenico non era riuscita.<br />

Così abbandonai la mia poltrona con rammarico pensando a quanti soldi avevo<br />

speso per vedermi in prima fila uno spettacolo in cui credevo. Mi gettai verso<br />

l’uscita reggendo la giacca sull’avambraccio perché indossarla avrebbe significato<br />

arrostire per il caldo e mi incolonnai insieme al resto della platea.<br />

In giro non c’erano che frasi che esprimevano il comune sentire, tutte però<br />

espresse in modo differente in base a ciò che il singolo spettatore aveva amato<br />

di più mentre leggeva il libro e a ciò di cui, vedendolo sul palco, era rimasto<br />

più deluso.<br />

Quando, dopo tanto soffrire, ebbi modo di aprirmi un piccolo varco tra la folla e<br />

assaporai nuovamente l’aria cittadina, seppur inquinata, mi parve di rinascere.<br />

Così tornai a casa e aprii il portone immettendomi nell’uscio. Passai frettolosamente<br />

dalla cassetta delle lettere pensandola vuota, ma subito dopo fui<br />

costretto a tornare indietro quando collegai che invece avevo visto un che di<br />

insolito: una cartolina. La estrassi e vidi la foto: c’era un paesaggio fotografato<br />

dall’alto, la terra rossastra assomigliava alle immagini del Pianeta Rosso, le<br />

macerie sullo sfondo, le baraccopoli in basso a sinistra, l’orizzonte con un cielo<br />

tutto uguale. Girai e, strizzando gli occhi a mandorla, iniziai a leggere le parole<br />

che il mio amico, in viaggio in quelle terre, mi inviava:<br />

Caro amico,<br />

Le nuvole si dipanano all’orizzonte, mostrando un cielo tutto uguale, fino a dove<br />

lo sguardo può tendere.<br />

Qua Mosè ha ricevuto molto tempo fa i comandamenti e ora… Mosè inarcherebbe<br />

il sopracciglio e farebbe una cosa che probabilmente non avrebbe mai fatto:<br />

spalancherebbe la bocca. Avrebbe davanti a sé una landa desolata, distrutta, con<br />

gente che vive tra rovine tecnologiche ormai inutilizzabili, il sole cocente che li<br />

abbatte uno dopo l’altro.<br />

Tra le macerie delle barbarie da un lato e la miseria della guerra dall’altro. Sia<br />

bandita la guerra e demitizzato quello sciocco di Hegel che tanto la osanna.<br />

Il tuo caro amico,<br />

E. G. G. M. R.<br />

Salii al mio piano e aprii la porta, posai la cartolina sul tavolo riflettendo un po’<br />

e mi avvicinai al balcone. Con l’aria pensierosa alzai la maniglia e spalancai l’anta.<br />

Una vista sulla città. E sul mondo…<br />

La ffinestfra! Yfawn! Cfhe ripofso…<br />

Cfosì mi risfeglio dopfo mefsi e mefsi di fsonno. Sono tfutfa affoltfa cfome mi<br />

49


ero lasciatfa pfrima di dormire. Quantfe stfrane cfose ho fsognato! Nepfure me<br />

le ricfordo pfiù…<br />

Tfolgo allora pfiano pfiano il bacfo che afefo tfutf’atforno e dispfiego le ali, cfolor<br />

cfremisi cfon due grandi ocfhi neri. Merafigliofsi!<br />

È arrifatfo il momentfo di afffacfiarmi al mondo anch’io! Cfon le mie aletfe e<br />

folare. Ecfo cfhe escfo ffuori e mi ritfrofo fsu una montfagna… Mi fsembra la<br />

cfartolina cfhe ho fsognatfo…<br />

Il giorno è pfassatfo e mi fsento già un pfo’ stfanca… Mi pfoggerò fsul quel ffiore…<br />

blu cfome la notfe… E pfenso cfhe… Yawn… Ripfoserò un pfo’ qui…<br />

Così si conclude la storiella, figlioli. La farfalla pensava di aver sognato di essere<br />

un cinese. Incredibile ma è così. L’unica cosa è che il cinese pensava al contempo<br />

di aver sognato lui di essere una farfalla. Dove stia la verità non lo si saprà<br />

mai, ma questo ci insegna, è questa la morale della favola, che bisogna fare attenzione<br />

quando si parla della verità, perché non è sempre facile da stabilire.<br />

«E ora… andate a fare il bagnetto, su, su!», li incitò il padre con affetto mentre<br />

fra sé e sé rimuginava qualche pensiero.<br />

Elisa chiuse il libro e si mise al piano, dopo aver aperto lo spartito alla prima<br />

pagina per poter provare il pezzo, per una volta ancora.<br />

Elisa fece qualche esercizio per sgranchire le dita tra arpeggi e scale, poi bevve<br />

un sorso d’acqua dal suo bicchiere riccamente cesellato che teneva sempre<br />

accanto al piano e si apprestò a suonare. Mise le mani sulla tastiera e alzò la<br />

testa a guardare lo spartito.<br />

Elisa fece ancora qualche esercizio per sgranchire le dita e iniziò a suonare il<br />

pezzo, passando velocemente le dita sulla tastiera con rapidità e decisione,<br />

cosa che solo la tecnica le aveva potuto dare; poi riempì il suo bicchiere riccamente<br />

cesellato che teneva sempre accanto al piano e si rimise a suonare. Mise<br />

le mani sulla tastiera e alzò un attimo il braccio destro per voltare la pagina<br />

dello spartito.<br />

Elisa fece una seconda volta il pezzo dall’inizio per sgranchire le dita, per poi<br />

continuare a seguire lo spartito nella pagina successiva; poi, appena ebbe terminato,<br />

bevve un sorso d’acqua dal suo bicchiere riccamente cesellato che<br />

teneva sempre accanto al piano e chiuse il piano. Mise le mani sulla tastiera per<br />

dispiegare il panno che serviva da copertura ai tasti.<br />

E intanto, dall’altra parte del mondo, Tolstoj posava con fare certosino lo stilo<br />

dopo averlo asciugato.<br />

E intanto, dall’altra parte del mondo, Tolstoj sistemava tutto con fare certosino<br />

e usciva dall’uscio di casa.<br />

E intanto, dall’altra parte del mondo, Tolstoj metteva gli stivali con fare certosino<br />

e montava per una cavalcata il suo possente stallone. Che si chiamava<br />

Délire.<br />

50


Marco Ferrarini<br />

Bolla<br />

GENERE<br />

RACCONTO DI CRESCITA<br />

1 RACCONTO DA<br />

4 f<br />

e r m a t e


Marco Ferrarini<br />

Diplomato nell’A.S. ‘07/’08 presso il Liceo Scientifico FAES Argonne, Milano<br />

Nato a Milano il 15 gennaio 1990; residente a Milano; iscritto al secondo anno<br />

del corso di laurea in Comunicazione, Media e Pubblicità presso la Libera<br />

Università di Lingue e Comunicazione IULM.<br />

Presenta Bolla, un racconto di crescita da 4 fermate.<br />

Un excursus metropolitano alla ricerca di una possibile legittimazione del vero<br />

narrativo costruito su misura rappresentato dalla bolla, la via di fuga più semplice<br />

verso la quale chiunque non accetti la propria condizione rischia di tendere.<br />

Roberto non è un ragazzo anormale, la sua malattia è vizio, è debolezza, è immaturità,<br />

tutti elementi da cui tutti siamo in una certa misura affetti.<br />

Proprio per questa sua vocazione, quasi educativa seppur complice, Bolla si presenta<br />

come racconto di crescita. La mancata sincerità di Roberto è il simbolo<br />

della reazione alla città: essa non si manifesta solo in quello che racconta agli<br />

altri e a sé stesso, ma anche nel suo giudizio critico nei confronti della rapidità e<br />

della frenesia della vita urbana che, anche se talvolta è vissuta come ostacolo,<br />

resta condizione necessaria all’“attività” del protagonista, senza la quale si ritroverebbe<br />

costretto ad affrontare le proprie miserie e la propria normalità, esperienza<br />

che non è in grado di sostenere.<br />

La “balla” che filtra dall’opacità della bolla diventa per Roberto l’unico modo per<br />

esprimere la propria creatività; egli è consapevole che così facendo è la sua vita<br />

vera a farne le spese, ma questo è un sacrificio accettabile, fintanto che non si<br />

risponde alla domanda fondamentale: cos’è vero?<br />

52


Buongiorno a tutti, mi chiamo Roberto e vivo in una bolla.<br />

Bolla<br />

Non so esattamente da quanto, ma soffro di pseudologia fantastica, una patologia<br />

divertente che mi fa sparare balle in continuazione e mi fa convincere che<br />

il ricordo che ho di queste sia di un fatto avvenuto realmente.<br />

Ho problemi di relazione sociale: chi vorrebbe mai frequentare una persona<br />

che ti racconta di essere stato tamponato dal SUV di Andreas Gilroy nel periodo<br />

immediatamente successivo al suo ritorno a Los Angeles?<br />

In realtà, un certo numero di persone.<br />

In effetti può sembrare paradossale, ma via via che le balle che ho raccontato<br />

crescevano, la gente ci ha creduto sempre di più. Perché?<br />

Perché la gente ha bisogno di emozioni… un bisogno disperato.<br />

Nella noia delle vite di tutte queste persone le emozioni sono pietre preziose<br />

incastonate da qualche parte dietro lo schermo del televisore. Vogliono conoscere<br />

persone famose, vogliono poterlo raccontare; quando non possono farlo<br />

si accontentano di potersi vantare di conoscere qualcuno che conosce persone<br />

famose. Come me, anche se non è vero.<br />

“Vero” è una parola ambigua. Cosa è vero? Vere sono le emozioni che provano<br />

le persone che ascoltano le mie storie, e vere in fondo sono le mie storie, vissute<br />

veramente nel mio intimo.<br />

Poi, però, la crescita esponenziale delle mie balle ha coinvolto le loro confidenze:<br />

allora sono stati guai.<br />

Così vivo in una bolla, la mia bolla, che non è propriamente un mondo parallelo;<br />

sarebbe più preciso definirla una stanza semovente senza rumori e senza<br />

tempo, un veicolo trasparente nel quale galleggio e dal quale mi connetto con<br />

la realtà.<br />

La cosa strana è che non ho mai “avuto bisogno” di dire balle, non sono stato<br />

il tipico ragazzo paffutello con una mamma iperprotettiva che non gli ha mai<br />

53


permesso di crescere come avrebbe dovuto; sono cresciuto invece molto rapidamente,<br />

ho avuto un discreto successo, e una famiglia unita alle spalle.<br />

Ho cominciato per gioco, per noia, per imitazione di quelli che il bisogno di raccontarne<br />

lo avevano eccome! Ero la versione artificiale di tutti quei miei amici<br />

che volevano accrescere la propria autostima, che avevano esperienze ingombranti<br />

da nascondere o che volevano rallentare la propria vita tempestandola<br />

qua e là di piccole costellazioni di informazioni assolutamente proprie… ma io<br />

ho sempre avuto più metodo.<br />

Risultavo essere più convincente di loro e così il ruolo di narratore, che mi<br />

sono trovato a ricoprire all’interno della mia compagnia e poi della mia società,<br />

è stata la mia rovina.<br />

Sono consapevole di raccontare balle, ma la sottile differenza tra cantastorie e<br />

contastorie mi ha reso ormai incapace di rendermene conto mentre lo sto<br />

facendo: quei momenti scompaiono troppo presto, fagocitati dal rincorrersi<br />

degli eventi, lasciando come unica traccia il ricordo dei miei racconti.<br />

In passato invece di tanto in tanto succedeva che, mentre stavo parlando,<br />

avvertissi un prurito, e mi chiedessi quanto il ricordo che stavo divulgando<br />

fosse reale e quanto ci fosse di mia rielaborazione; ma liquidavo il tutto giudicandolo<br />

divertente: un gioco, uno scherzo.<br />

La mia “attività” ha tratto miglioramento da − o dovrei dire ha risentito di − la<br />

mia familiarità con la frenesia violenta della metropolitana.<br />

In effetti è il momento che preferisco per viaggiare dentro le mie storie.<br />

Tutte le mattine fluttuo per tre quarti d’ora al di sopra della massa di storie tristi<br />

e scontate − rubate distrattamente da stralci di telegrafiche conversazioni al<br />

cellulare − alla ricerca di un pensiero interessante su cui lavorare all’interno<br />

della mia comoda bolla silenziosa, dove le possibilità sono infinite. Nel frattempo<br />

il mio corpo viene ignobilmente abbandonato in balìa della folla di quella<br />

processione laica che un tempo vivevo come un’angosciante lotta per la<br />

sopravvivenza, una gara a chi è più veloce secondo la legge della giungla, o<br />

meglio ancora, come un’interminabile ora di fegato amaro in cui se non insulti<br />

vieni insultato (e se insulti scatta la rissa), nella quale la gentilezza si dimostra<br />

debolezza agli occhi della massa pronta a condannare famelica ognuno dei<br />

tuoi movimenti.<br />

A pensarci mi sembra impossibile che ci sia stato un periodo di mezzo tra i due<br />

modi di vivere la giungla suburbana in cui consideravo la folla addirittura come<br />

mia amica.<br />

Era il periodo in cui la mia patologia dava solo i primi sintomi di scollamento<br />

dalla vita reale, e io la consideravo ancora, piuttosto, come un’abilità: allora la<br />

gente era uno straordinario affresco di vita, una compagnia di attori ignari che<br />

osservavo come al cinema, un pozzo cui attingere durante il mio gioco prefe-<br />

54


ito, che consisteva nell’immaginare le storie di alcuni eletti, selezionati casualmente<br />

nella moltitudine di volti a partire dai tratti somatici, dall’accento e dal<br />

modo di vestire.<br />

Oltre che essere divertentissimo, questo gioco aveva il vantaggio di far sì che<br />

il viaggio trascorresse rapido; il guaio era che le storie che portavo via si depositavano<br />

nella mia memoria come vere, autentiche, vendute anche a me stesso<br />

come diari realmente ricevuti da quegli sconosciuti.<br />

Ora che ci penso temo di aver perso anche il mio ascendente sull’altro sesso.<br />

Ricordo che, se durante uno dei conati che interrompevano violentemente la<br />

brusca corsa del verme urbano, saliva per caso una bella ragazza, io mi allertavo<br />

e mi facevo strada nella sua direzione, la raggiungevo e in maniera sempre<br />

nuova e sempre improvvisata rompevo il ghiaccio con una battuta o un<br />

complimento alla madre dirottando poi la conversazione dove volevo io, per<br />

poter scendere a Cadorna con un sorriso, un bacio, un numero di telefono.<br />

Era una difficile operazione, miscela alchemica di retorica e simpatia, cortesia<br />

e semiotica. Una tecnica fine in equilibrio tra problemi non da poco, quali ad<br />

esempio conciliare strategie di azione con le poche informazioni concesse ed<br />

elaborare poi un profilo psicologico nel pochissimo tempo a disposizione: quaranta<br />

minuti al massimo. Sempre troppo pochi.<br />

Ma quanto corre questa metro?<br />

Bei tempi, anche se a dirla tutta non saprei a quale epoca farli risalire precisamente.<br />

Temo sia già passato qualche anno; non posso dirlo con precisione, dopo<br />

tutto questi mesi sono stati tutti uguali, sempre di corsa e sempre negli stessi<br />

posti. Anche le vacanze, passate a lavorare, hanno perso la loro funzione di<br />

metronomo.<br />

Comunque sia, ora le cose procedono diversamente. Dalla prospettiva aerea<br />

della mia bolla sicura, dopo aver riposto il mio corpo su qualche sedile, mi vedo<br />

avvicinare la ragazza che non guardo nemmeno in faccia, e ogni volta che la<br />

narrazione mi sembra noiosa o convenzionale la resetto e la rivivo.<br />

Fino alla stazione di Cadorna, dove la voce femminile che annuncia le fermate<br />

rompe la mia bolla: io vivo quella sensazione di chi in dormiveglia immagina di<br />

cadere e scivolo rassegnato nel vorticoso movimento del mondo in cui le persone<br />

rumorosamente si ingozzano, si scontrano, guardano per terra, corrono<br />

anche per sport e per rilassarsi, fanno l’amore velocemente e si arrabbiano.<br />

Io invece l’ho sempre fatto in condizioni meravigliose come nei boschi di montagna<br />

o in collina al tramonto, in barca, sulla spiaggia o in una grande casa<br />

silenziosa.<br />

Anche se ora non ricordo bene nomi, date, né di chi fossero la casa silenziosa<br />

e quella barca.<br />

55


La foga della metro è stata la prima esperienza, ma ora viaggio anche in circostanze<br />

meno caotiche come lo studio, le lunghe cene di famiglia, le omelie di<br />

Don Gianni la domenica, i film la sera o al cinema, le sedute in bagno, le letture<br />

occasionali.<br />

Quanto è bello il mio mondo!<br />

Ciao a tutti sono Serena un’amica di Roberto che oggi è stata al suo funerale.<br />

Un funerale senza lacrime, se non le mie.<br />

Anche se non eravamo in molti, sono contenta di aver visto suo padre seduto in<br />

fondo, benché accompagnato dalla nuova giovanissima fiamma. Sua madre non<br />

se ne è neanche accorta, cosa prevedibile dato lo stato in cui si è presentata.<br />

Non mi sono piaciute le parole di Don Gianni: puzzavano di dovere e di riciclo.<br />

Non l’ha difeso. Non ha condannato il comportamento di coloro che ingenuamente<br />

chiamava amici, quegli avvoltoi che un tempo lo prendevano in giro<br />

prima per la pancia e poi per sua madre, e che più recentemente gli chiedevano<br />

sì di raccontare le sue favole, ma solo per potergli entrare in casa e fare i<br />

loro comodi.<br />

Io avrei parlato di quello che Roberto ci ha insegnato, cioè che non si può scappare<br />

da sé stessi in nessun modo, nemmeno con la morte.<br />

Roberto è morto da solo, ma circondato da tutti i suoi personaggi nelle vite dei<br />

quali lui è sempre stato così determinante. Roberto non è mai stato capito. In<br />

quello che tutti definivano un fenomeno da baraccone io ho sempre visto un<br />

adorabile Peter Pan che non è mai riuscito a volare, ma grazie alla cui fantasia<br />

potevano farlo gli altri. Io per prima. Io più di tutti.<br />

Non gliel’ho mai detto, forse per paura di quello che la gente avrebbe potuto<br />

pensare; tento di rimediare adesso in qualche modo sgangherato.<br />

Don Gianni dice che ci aspetta una vita dopo la morte, in cui nessuno deve recitare<br />

un ruolo perché si è tutti uguali e tutti felici in un eterno presente dove il<br />

tempo non esiste più.<br />

Spero che Don Gianni si sbagli o sia stato male informato.<br />

Perché Roberto non si merita questo.<br />

56


Pietro Cingi<br />

2002<br />

1 RACCONTO DA<br />

GENERE<br />

NOIR<br />

2 f<br />

e r m a t e


Pietro Cingi<br />

ITIS L. Nobili (Indirizzo scientifico tecnologico “Brocca”), Reggio Emilia<br />

Pietro Cingi non sa a modo chi è, ma ci proviamo. È un bambino che guarda di<br />

traverso un po’ tutto e tutti, si lascia trascinare da mille interessi, tra i primi la<br />

lettura e l’arrampicata sportiva, fino a non avere un attimo per annoiarsi. Vive<br />

la sua vita sempre di corsa, cullato da Rimbaud, Leopardi, Apollinaire, shakerato<br />

dall’avanguardia surrealista e tremendamente affascinato da Céline e<br />

Bukowski.<br />

La scrittura sicuramente occupa una posizione particolare nella sua vita da studente<br />

di Contrabbasso presso il Conservatorio e di Ingegneria Meccanica (nella<br />

speranza di poter frequentare Lettere Moderne tra qualche anno); si sviluppa<br />

soprattutto in ruvidi racconti, a ispirazione beat e frequenti digressioni oniriche,<br />

ambientati principalmente nella sua terra natale, l’Emilia.<br />

Visto però il tema del concorso e la sua trattazione da parte di Italo Calvino la<br />

scelta cade sul noir, genere che offre in generale la possibilità di ritmi più pulsanti<br />

e testi più concisi; tra Analisi 1 e una sonata di Capuzzi nasce così l’idea<br />

di 2002, più che un racconto un flash di vita di un personaggio fisicamente non<br />

ben definito, delineato però da una concezione abbastanza personale del rapporto<br />

tra civiltà e leggi di natura…<br />

58


Autunno, ottobre.<br />

2002<br />

Un altro fremito e un’altra Camel muore sul fondo di un’ultima tazzina di caffè.<br />

Stringo il filtro tra le dita; odio l’odore dei mozziconi, è lo stesso che trovi nelle<br />

case dei vecchi, troppo impegnati a macerare se stessi tra carte e parole crociate<br />

per darsi la dignità di fumare sul balcone, troppo rassegnati per impegnarsi<br />

un minimo nella propria autoconservazione.<br />

Per come la vedo io il mondo tende ad arrugginirti; la questione sarebbe solo<br />

non lasciarsi piovere addosso finché se ne ha la possibilità.<br />

Il bar è deserto: senza salutare l’ultimo camionista delle quattro meno dieci sta<br />

uscendo di scena.<br />

La porta scorrevole alle mie spalle richiude la notte fuori dalla luce troppo<br />

bianca dei neon.<br />

L’uomo dietro il bancone alza gli occhi all’orologio dietro di me, li abbassa sul<br />

mio viso.<br />

Distoglie subito lo sguardo, sente il mio su di lui.<br />

Riguarda nervosamente l’orologio.<br />

Lui non mi conosce. Io lo sento parlare spesso dei troppi risparmi persi scommettendo,<br />

del figlio in affidamento alla moglie, dell’ormai voglio solo divertirmi<br />

e dell’operazione al fegato; mi cullo nel suo imbarazzo, gli pianto gli occhi<br />

addosso.<br />

«Come sta Massimo?».<br />

«Come prego?».<br />

«Le sto chiedendo come sta suo figlio».<br />

«Ehm. Bene. Stiamo chiudendo ora, sono quasi le quattro e mezza».<br />

«Certo».<br />

59


Silenzio imbarazzato, qualche clacson disturba l’atmosfera pesante con cui, per<br />

qualche secondo, ero riuscito a coprire lo squallore del bar notturno.<br />

«Quanto conosce esattamente il pensiero del signor D.?».<br />

«Signor D.?».<br />

«Charles Robert Darwin».<br />

Per tutta risposta lui trova il coraggio di avvicinarsi, prendere la tazzina davanti<br />

a me e tornarsene interdetto dietro alla vetrina dei panini e delle paste da un<br />

euro.<br />

La bilancia ora pende visibilmente dalla mia parte. Prendo il portafogli dalla<br />

ventiquattrore e mi lascio sfuggire un sorriso. Un bel sorrisone da pubblicità<br />

delle chewing-gum, tutti i denti in vista a mo’ di squalo tigre.<br />

Lui si posiziona esattamente dove lo voglio.<br />

Apre il cassetto della cassa, la scarica di adrenalina lungo la colonna vertebrale<br />

apre le porte della mia euforia.<br />

Misuro ogni passo mentre mi avvicino al frigo. Quando entro nel vivo della<br />

questione è sempre così: nessun errore è perdonabile. La scelta cade su una<br />

bottiglia di chardonnay, opaca, dolcemente gelida nella mia mano sudata.<br />

Lui dev’essere ancora lì, gli occhi su di me, nervoso. Mi giro; lui c’è.<br />

«Se no addormentarsi diventa un dramma».<br />

Gli appoggio un altro sorriso, questa volta studiato, complice.<br />

Un passo, due, tre, tre e mezzo e sono a piedi uniti davanti al bancone.<br />

Il battere ritmico dei tasti della cassa scandisce il mio tempo: pronti, VIA.<br />

La prima sulla tempia sinistra, la seconda dove capita. Salto il bancone e gli<br />

sono sopra.<br />

Sempre più preciso baby.<br />

Rovescio tutto il mio disprezzo su quegli occhi a metà tra il «Non capisco» e il<br />

«Ti prego NO!».<br />

«Tranquillo, sono vegetariano».<br />

Una contro la lavastoviglie, vetri e vino un po’ dappertutto.<br />

L’ultima, definitiva.<br />

Mi godo il primo respiro pieno di questo minuto. Su, non posso rilassarmi proprio<br />

ora: rapidamente torno alla ventiquattrore, tiro fuori i nove euro e novanta<br />

di phon di stamattina e lo attacco alla presa più lontana dalla cucina.<br />

Passando dalla cassa recupero quei soldi. Penso. Ributto dentro un euro di<br />

caffè, lo chardonnay tutto sommato non l’ho bevuto.<br />

60


Sono fermo sotto un semaforo rosso a una discreta distanza quando sento l’esplosione.<br />

Compiaciuto alzo la radio, è proprio la canzone giusta.<br />

And when I awoke, I was alone, this bird had flown<br />

So I lit a fire, isn't it good Norwegian wood.<br />

61


Susanna Combusti<br />

A caccia di pirati<br />

GENERE<br />

HORROR METROPOLITANO<br />

1 RACCONTO DA<br />

6 f<br />

e r m a t e


Susanna Combusti<br />

Diplomata presso il Liceo Classico Ignazio Vian di Bracciano, Roma<br />

Buongiorno, mi chiamo Susanna Combusti e ho diciannove anni e mezzo, un’età<br />

in cui mi sembra di essere ancora troppo giovane per certe cose e troppo grande per<br />

altre. Sono l’autrice del racconto inedito A caccia di pirati.<br />

Nata a Roma nel 1990, ho vissuto sempre a Manziana (RM), tranne nell’anno<br />

2007-08 quando mi sono trasferita per dodici mesi a Monterey (California).<br />

Risiedo tuttora a Manziana, con i miei genitori, mio fratello Marino, tre San<br />

Bernardi e due cocker spaniel.<br />

Ho frequentato il Liceo Classico Ignazio Vian di Bracciano e partecipato a svariati<br />

concorsi letterari. Attualmente frequento il primo anno del corso di Lettere<br />

Moderne dell’Università di Bologna, con l’intenzione di specializzarmi poi in<br />

Sceneggiatura. È proprio dalla città di Bologna, una città ancora piccola ma<br />

con le paure e la violenza delle grandi metropoli, che ho preso spunto per scrivere<br />

il mio racconto. A volte può essere difficile trovare il tempo per scrivere, ma<br />

è ciò che più mi piace fare, e penso che, tra tanti obblighi, bisogna sempre prendersi<br />

uno spazio non per quello che t’impongono gli altri, ma per quello che desideri<br />

fare tu.<br />

Mi piacciono gli scrittori sudamericani: Gabriel Garcìa Marquez, Luìs<br />

Sepulveda, Pablo Neruda. Ogni volta che li leggo mi sembrano senza tempo,<br />

moderni anche se vissuti cent’anni fa. Mi piacciono le storie che si muovono<br />

all’interno della foresta amazzonica, tra la pioggia battente e gli alberi di banano.<br />

Amo molto anche gli scrittori americani, Milan Kundera e l’israeliano<br />

Amos Oz, che ho imparato ad ammirare leggendo il libro The same sea, un<br />

miscuglio di prosa e poesia. Sono felice quando riesco a trovare un libro che mi<br />

piace, che mi fa restare lì inchiodata alla pagina, ma purtroppo è diventato<br />

sempre più difficile trovare quel libro.<br />

Meravigliosi sono anche Lalla Romano, un’autrice che ho scoperto recentemente,<br />

e Stefano Benni.<br />

Scrivo da quando ho dodici anni e credo che sarà piuttosto difficile smettere.<br />

64


A caccia di pirati<br />

Sulla plastica sporca poggiavano centinaia di piedi. Erano così tanti che, a tratti,<br />

le macchie di fango e di pioggia sembravano quasi non vedersi più. In sottofondo,<br />

persisteva un brusio strano, che non pareva né parola né silenzio. Un<br />

rumore indistinguibile, universale, univa le bocche dei passeggeri, cosicché si<br />

avrebbe avuto l’impressione che su quell’autobus parlasse, in una lingua sconosciuta,<br />

un’unica grande voce. La maggior parte dei passeggeri se ne stava in<br />

piedi, tutti appesi come stecchi immobili alle maniglie, facendo attenzione a<br />

non stringerle troppo forte però, quasi che a toccarle per davvero lo sporco<br />

potesse passare dalle maniglie alle mani. Ma bastava una frenata un po’ brusca<br />

a far passare certe voglie: ed ecco che gli stessi passeggeri afferravano le<br />

maniglie, senza curarsi di chi le avesse toccate o di quante mani le avessero<br />

afferrate prima di loro. I più fortunati sedevano, comodi, sui sedili di un arancione<br />

squillante. A tratti si concedevano un sorriso sardonico, un po’ maligno,<br />

mentre con lo sguardo osservavano i poveretti che pendevano dalle maniglie.<br />

Durante il tragitto, ognuno scrutava l’altro. Con occhi apparentemente incuranti,<br />

facendo finta di guardare i cartelli pubblicitari appesi in alto, o il televisorino<br />

dove passava l’oroscopo della giornata, i passeggeri si scrutavano l’un<br />

l’altro, come animali che studino il proprio avversario. Ognuno di loro si perdeva<br />

ad immaginare l’umore dell’altro, con cui in fondo condivideva soltanto il<br />

fatto di andare nella medesima direzione nello stesso momento della giornata.<br />

La ragazza con il baschetto in testa, calato fino alla fronte, aveva un’aria triste,<br />

gli occhi tirati in giù come se dovesse scoppiare a piangere da un momento<br />

all’altro; o forse era solo la sua espressione di tutti i giorni, un’espressione di<br />

eterna noia e tristezza; e quell’altro, l’indiano o pakistano con il passeggino e<br />

famiglia al seguito, la moglie dai capelli neri e unti, lunghissimi, il bimbo quieto,<br />

in perfetto silenzio, non emetteva neanche uno strillo; la coppia di anziani,<br />

moglie cotonata e marito con cappello, presbiti ma col corpo ancora funzionante<br />

e desideroso di andare in giro, di camminare, di essere insomma un<br />

65


corpo; e quella donna dai capelli neri? Com’era bella. Gli occhi, azzurri e piccoli,<br />

sembravano stanchi, e comunque continuavano a fronteggiare i movimenti<br />

delle cose con rapidità e grazia. Poi c’erano quei due. Mani ossute,<br />

unghie lunghissime, annerite dalla sporcizia. Uno reggeva una confezione di<br />

vino da tavola. Per fortuna il cartone del vino sembrava ancora chiuso. I due<br />

barboni parlavano tra di loro, come persone in fin dei conti normali, parevano<br />

quasi non accorgersi che tutti gli altri passeggeri li stavano fissando, con uno<br />

sguardo a metà tra la repulsione, l’odio e la pietà. I barboni avevano entrambi<br />

i capelli un po’ radi e un lungo pizzetto attorcigliato che pendeva giù dai loro<br />

menti come un uncino di ciuffi neri. Erano barboni magri, magrissimi, il corpo<br />

sembrava avere la stessa forma allungata e stretta delle loro unghie. Uno portava<br />

un grosso anello all’anulare destro, mentre il secondo aveva un tatuaggio<br />

sul polso, all’altezza delle vene, che a prima vista poteva sembrare solo un<br />

grumo di colore ma, guardandolo attentamente, si riusciva a scorgere un veliero<br />

un po’ invecchiato, con una scritta in latino che ormai neanche si leggeva<br />

più. Chissà, forse erano pirati. In fin dei conti un po’ lo sembravano: non tanto<br />

per il pizzetto lungo, né per i vestiti consunti o per i volti trascurati, quanto per<br />

l’aria sbarazzina, incurante, che avevano i loro occhi, una sorta d’incoscienza<br />

infantile che li rendeva insensibili agli altri. Erano dei veri fuorilegge, anzi, persone<br />

che alle leggi facevano delle sonore pernacchie.<br />

D’un tratto, a uno dei due pirati suonò il cellulare. Gli altri passeggeri rimasero<br />

sbalorditi.<br />

«Che vergogna… perfino i barboni c’hanno il telefonino!», esclamò un vecchietto<br />

all’amico a fianco, con fare cospiratorio.<br />

Il pirata impiegò un po’ di tempo a trovarlo, infine tirò fuori uno di quei modelli<br />

antichi che dovevano essere andati di moda forse dieci anni prima, o forse<br />

anche mai.<br />

«Pronto?», rispose il pirata. L’amico, nel frattempo, era riuscito a trovare un<br />

sedile libero e stava lì tranquillo, a ruminare mentre l’altro chiacchierava al cellulare.<br />

Il pirata non sembrava preoccuparsi che gli altri passeggeri potessero<br />

sentirlo. Strepitava a voce allegra come se sull’autobus ci fosse stato solamente<br />

lui.<br />

«Ma no… ma che dici… guarda che una soluzione c’è», ripeteva, tutto concitato<br />

e con voce incredibilmente gentile.<br />

Pareva quasi che il pirata avesse un amico. Qualcuno, sì, a cui dare consiglio,<br />

qualcuno di cui ascoltare i problemi, con pazienza.<br />

L’autobus si fermò, con un rumore tale che sembrava non doversi fermare più.<br />

Tra gli altri passeggeri, salì anche una signora con il suo piccolo cane al guinzaglio.<br />

Un cane di quelli né troppo belli né troppo brutti, un po’ insipido, col<br />

pelo corto, grigio, o forse bianco sporco, e due occhi enormi e nerissimi che<br />

66


parevano gli occhi di un polpo.<br />

Il cane-polpo trotterellò accanto alla padrona, una donna di mezza età, in realtà<br />

più vicina all’ultima metà che alla prima. Poiché non c’era posto, la donna e<br />

il suo cane furono costretti a rimanere nel corridoio, proprio davanti al sedile<br />

dov’era seduto il pirata più fortunato.<br />

Subito il losco fu attratto da quell’insolito cagnolino con gli occhi da polpo.<br />

«Ma che bello…», esclamò, posando la sua manona artigliata sulla testolina del<br />

cane. Quest’ultimo gli rivolse uno sguardo festoso e agitò la coda cortissima,<br />

come a dire: «Ne voglio ancora!».<br />

«Come si chiama?», s’informò il pirata, mentre con la mano andava su e giù sul<br />

pelo ispido del cane che, dal canto suo, sembrava tutto contento di ricevere<br />

finalmente delle attenzioni.<br />

«Tobia», rispose la padrona.<br />

«Tobia!», ripeté il pirata. La sua voce, i suoi gesti avevano un che di infantile,<br />

trasognato. Il cane-polpo alzò gli occhi verso di lui e scodinzolò. I due parevano<br />

intendersi alla perfezione. La donna s’irrigidì e lanciò un’occhiata all’uomo.<br />

Non sembrava infastidita, ma solo molto dubbiosa, come se non capisse che<br />

razza di uomo si trovasse di fronte, non riuscisse a capirlo. Poi tirò uno strattone<br />

al guinzaglio del cane e si girò per scendere. In quel momento l’uomopirata<br />

attaccò il telefono e fece cenno all’altro di scendere.<br />

La nebbia del giorno si andava già sciogliendo, colava giù, in una pioggia leggera,<br />

impercettibile, senza che nessuno se ne curasse troppo. La donna di<br />

mezza età si domandò se fosse il caso di aprire l’ombrello. Poi pensò: no, è solo<br />

la nebbia. Pensò anche che fosse una scocciatura. Il cane-polpo trotterellava un<br />

po’ indietro, pigro come al solito, e alla donna seccava il fatto di dover sempre<br />

star lì a tirare il guinzaglio, a strattonarlo. Di solito i cani sono veloci, saltano<br />

di qua e di là, corrono da tutte le parti. L’unico cane pigro era toccato a lei. La<br />

donna sbuffò. Ogni tanto lanciava uno sguardo ai lati della strada, per controllare<br />

i numeri civici. No, pensò, non ci siamo ancora. Ogni tanto, pure, si girava<br />

per controllare che non ci fosse nessuno dietro di lei, a parte quel cane<br />

pigro e bruttino.<br />

I due uomini camminavano con una certa velocità, un po’ per il freddo e un po’<br />

per la fretta. S’immaginano i barboni come degli uomini taciturni, troppo<br />

infreddoliti per riuscire a parlare, ma i due pirati parlavano eccome. Dalle loro<br />

bocche faceva capolino il disegno sgangherato dei denti: tante piccole schegge<br />

ingiallite infilzate nella terra rossastra delle gengive.<br />

I due chiacchieravano allegri e quella voce viva era l’unico suono che interrompesse<br />

il silenzio della nebbia che pian piano scivolava giù. Pareva quasi<br />

67


una pioggerella sottile.<br />

«Hai mai avuto un cane?».<br />

L’altro parve pensarci un po’ su.<br />

«Da piccolo», rispose.<br />

«Che cane?».<br />

«Cosa?».<br />

«Voglio dire, che tipo di cane?».<br />

«Boh. Mica me lo ricordo».<br />

«E come fai a non ricordartelo? Io, se ce l’avevo, il tipo di cane me lo ricordavo<br />

benissimo».<br />

«Ma non ce l’hai mai avuto».<br />

«No. Mia madre era allergica», disse il pirata. Sorrise.<br />

«Ogni volta faceva delle scenate quando entrava della gente col cane nel<br />

negozio».<br />

«Che strana».<br />

«Sì, era strana».<br />

La donna continuava a camminare, dando dei colpetti al cane per farlo muovere,<br />

quando d’un tratto sentì due voci in lontananza. Voci belle allegre, che<br />

diventavano sempre più vicine. All’improvviso l’animo della donna fu pervaso<br />

dall’inquietudine. Accelerò il passo, ma quel tonto del cane non voleva saperne<br />

di camminare più veloce e la rallentava con la sua lentezza canina. La donna<br />

si voltò per controllare se stesse arrivando qualcuno. Poi, d’un tratto, apparvero<br />

le figure magre e un po’ ciondolanti dei due barboni. La donna li riconobbe<br />

ed ebbe paura.<br />

«Mia madre era un’isterica».<br />

Il pirata fece una pausa, per dare più importanza a ciò che aveva detto.<br />

«Delle volte le prendeva una paura matta, così, senza motivo. Ma la cosa peggiore<br />

non è che lei aveva paura, è che avevamo paura anche noi. Era contagiosa,<br />

amico, contagiosissima».<br />

«Ma perché aveva paura?».<br />

«Perché stava male, poveretta. Guarda che l’isteria è una malattia vera e propria!<br />

Anche questa paura dei cani, così. Si vede che uno che ha paura dei cani<br />

ha qualcosa di sbagliato».<br />

Intorno a loro salivano diritti i profili delle automobili, delle scatole nere<br />

immerse nella nebbiolina.<br />

«Sai, penso che dovremmo prendere un cucciolo», disse d’un tratto l’altro pirata.<br />

«Che tipo di cucciolo?».<br />

«Hai presente quant’era bello quel cane sull’autobus? Ecco, ne voglio uno più<br />

68


o meno così».<br />

«A me non sembrava granché».<br />

«Be’, forse non ci hai fatto abbastanza attenzione. Hai passato tutto il tempo al<br />

telefono».<br />

«Era Nicoletta. Non potevo mica attaccare».<br />

Il pirata si fece pensieroso.<br />

«Beh, sì – ammise – hai ragione».<br />

La paura spinge verso le considerazioni più assurde, che in fondo non sono<br />

tanto considerazioni quanto proiezioni di fatti possibili e probabili, che risultano<br />

tanto più veri quanto più s’acuisce la paura.<br />

Ebbene, la signora di mezza età con un cane-polpo al guinzaglio era un bersaglio<br />

perfetto per questo tipo di proiezioni. Cominciò ad immaginarsi gli scenari<br />

più tragici e sanguinosi: immaginò che i due delinquenti volessero derubarla,<br />

portarle via la collana di perle che le aveva regalato Gianfranco tanti anni<br />

prima. Immaginò che il tutto si sarebbe concluso in una terrificante scena di<br />

violenza carnale. Non le passò neanche per la mente che una signora di sessant’anni<br />

come lei non avesse ormai molte probabilità di essere vittima di stupro.<br />

D’altronde, si leggevano certe cose sui giornali… Chissà, forse avrebbero<br />

tentato di prenderle perfino il cane! La signora tremò tutta e cominciò a fare<br />

l’inventario delle cose che teneva nella borsetta, come se le considerasse già<br />

ricchezza perduta. Il portafoglio. Quanti soldi teneva, nel portafoglio? Per fortuna<br />

la carta di credito l’aveva lasciata a casa. Ma c’era sempre l’orologio! Un<br />

esemplare antico e trasandato, ma di discreto valore. Delinquenti di quel genere<br />

avrebbero amputato perfino i polsi, pur di impossessarsi di un orologio!<br />

La signora di mezza età camminava veloce, ma non tanto veloce quanto i due<br />

barboni. Li sentiva avvicinarsi e aveva il cuore a mille.<br />

La prima impressione che i due pirati ebbero nel vederla fu quella di un animale<br />

braccato. La signora di mezza età si muoveva goffa e spaventata come un<br />

leprotto intrappolato in una tagliola.<br />

Ormai l’avevano raggiunta e l’osservavano con una certa curiosità.<br />

«Chi si vede!», esclamò uno dei due.<br />

«Come stai, Tobia?», domandò l’altro. Il cane strabuzzò gli occhi da polpo e<br />

prese a scodinzolare. Poveretto, era chiaro che non si rendeva conto della<br />

situazione. Il pirata si chinò ad accarezzare il cane ma la signora, con un gesto<br />

fulmineo della mano, tirò a sé il guinzaglio. Il cane fece un balzo all’indietro ed<br />

emise un uggiolio di protesta.<br />

«Ma è matta a tirarlo così? Guardi che si fa male, povera bestia!», protestò uno<br />

dei due.<br />

69


La signora non rispose.<br />

La signora di mezza età non rispondeva. Immobile nella sua quiete, era convinta<br />

che parlare con qualcuno avrebbe significato ammettere la sua effettiva<br />

esistenza. E lei, nell’esistenza di quei due ceffi, non ci voleva affatto credere.<br />

Ascoltò i suoni delle loro voci da ubriachi con fastidio, quasi rabbia. Al tempo<br />

stesso rimaneva immobile, come un animale braccato che respira appena mentre<br />

il predatore lo scruta con sguardo feroce. Tobia, al contrario, si divincolava<br />

alla ricerca di coccole. Stupido cane, pensò la signora, non capisci che siamo<br />

in una situazione di pericolo?<br />

Immobilizzata, inerte, la signora di mezza età era in trappola.<br />

«Lei è fortunata ad avere questo cane. Lo tratti bene».<br />

«Se lo prenda pure, il cane!», esclamò la signora tutto d’un fiato, come un compratore<br />

che abbia fatto un’offerta altissima durante l’asta.<br />

Entrambi i pirati la guardarono meravigliati. Poi, uno di loro le si avvicinò.<br />

«Ma che dice? Mica vogliamo il cane», disse.<br />

Il cuore le batteva forte, una valvola impazzita nel suo petto da donna di mezza<br />

età. Sembrava tutto così irreale, proprio come nei film horror del cinema. La<br />

signora lasciò andare il guinzaglio di Tobia, che ricadde nel silenzio della strada<br />

con un sonoro ploff. Bastò quel piccolo rumore a farla impazzire di paura.<br />

Poi sentì quella frase minacciosa «mica vogliamo il cane», che nella sua mente<br />

impaurita equivaleva a un terrificante «vogliamo derubarti! vogliamo stuprarti!<br />

ucciderti!». Poi vide l’uomo avvicinarsi e capì che era tutto finito.<br />

«Fabrizio!», urlò il pirata.<br />

E ancora: «Fabrizio!».<br />

La voce diventò sempre più alta. Cresceva il volume e la disperazione, esponenzialmente.<br />

La signora di mezza età rimase impietrita di fronte all’uomo. Poi<br />

si chinò a raccogliere il guinzaglio di Tobia, che s’era accucciato a terra, con<br />

gli occhi torvi ed inquieti.<br />

«Fabrizio!», gridò l’uomo, che pareva incapace di fare qualsiasi cosa, tranne<br />

gridare.<br />

«Che hai fatto? – ripeteva – che cazzo hai fatto?».<br />

La signora rimase ancora immobile. L’unica cosa a muoversi era la pancia del<br />

pirata disteso a terra, con l’occhio trapassato dalla punta dell’ombrello. Poi<br />

smise di muoversi anch’essa. Non c’era più alcun respiro.<br />

70


La signora di mezza età cominciò a muoversi, questa volta in modo veloce e<br />

deciso. Nessuno la rincorreva più: l’altro delinquente era rimasto inginocchiato<br />

a terra, continuava a urlare, imprecare. La signora non aveva più paura, sebbene<br />

in mano stringesse un ombrello dalla punta insanguinata. Che cosa avrebbe<br />

potuto fare quel derelitto? Chiamare la polizia? E poi cosa? Descriverla?<br />

L’avrebbero mai identificata? E anche se fosse, a chi avrebbero creduto, a un<br />

barbone o a una signora di mezza età? Lei stessa si meravigliò di tanta freddezza.<br />

La stupì il cambiamento, così repentino ed istintivo, nel suo modo di<br />

fare: non era più una preda, una signora di sessant’anni con l’orologio del marito<br />

e cane al guinzaglio. Era una persona che commette un omicidio e istintivamente<br />

pensa alla fuga, alla difesa. Perciò continuò a fuggire, a passo svelto e<br />

deciso. Al suo fianco, Tobia la seguiva rapido, veloce come mai era stato prima<br />

d’ora, la coda fra le gambette corte e gli occhi malinconici. La signora lo guardò<br />

di sfuggita e pensò che, in fondo, era un cane davvero bruttino.<br />

71


Gianluca Nativo<br />

Secrezioni<br />

GENERE<br />

RACCONTO INCROCIATO<br />

1 RACCONTO DA<br />

6 f<br />

e r m a t e


Gianluca Nativo<br />

Diplomato presso il Liceo Classico Vittorio Emanuele II, Napoli<br />

“La velocità, per esempio, de’cavalli o veduta o sperimentata, cioè quando<br />

essi vi trasporta […] è piacevolissima per sé sola, cioè per la vivacità, l’energia,<br />

la forza, la vita di tal sensazione.”<br />

Italo Calvino<br />

Nato e residente a Mugnano di Napoli (NA), Campania.<br />

Terzo classificato nella sezione prosa e menzione speciale nella sezione poesia al<br />

Premio Letterario Vittorio Emanuele II. Finalista Premio di Poesia Il forte.<br />

Menzione speciale Premio Il canto di Parthenope indetto dall’associazione<br />

Rotary Club Posillipo.<br />

Frequento il primo anno di Lettere Moderne all’Università Federico II di Napoli.<br />

Amo leggere e scrivere, tra i miei preferiti: Montale, Auster, Mc Ewan, Carver.<br />

Il racconto Secrezioni nasce come puro esercizio stilistico: un racconto rapido.<br />

Rapidità che non deve sconvolgere il modo di scrivere con assurdi virtuosismi ma<br />

grazie a semplici manovre.<br />

Così la velocità del racconto si è espressa nella concatenazione delle vicende di<br />

ogni membro di una famiglia qualunque, tutto nell’arco di un pomeriggio: i<br />

segreti di Lia, le delusioni di Fabio, l’intimità veloce di Marco e Flavia.<br />

Tutti legati da piccole cose tenute nascoste che stentano a rivelarsi. Ognuno scoperto<br />

nella propria intimità svelata solo al lettore, mai liberatoria per il personaggio<br />

che, anche di fronte alla tragedia, paradossalmente si ritrova ancora una<br />

volta a nascondere il proprio “secretum”.<br />

74


75<br />

Secrezioni<br />

Distesi l’uno di fianco all’altro provavano quasi ripugnanza per quegli organi<br />

verso cui avevano provato un desiderio morboso.<br />

Una volta Flavia in un pomeriggio piovoso proprio dopo una delle solite scopate<br />

furtive, lo aveva confessato a Marco.<br />

Le sorrise e le sussurrò che anche per lui valeva la stessa cosa.<br />

Non pensava di poter ricevere una reazione così da suo marito.<br />

Credeva fosse un enorme problema da curare, ma il sorriso di Marco cancellò<br />

via ogni timore, rendendo con la sua complicità tutto più semplice.<br />

Basta così poco, pensò.<br />

Girò la chiave in senso antiorario, puntando lo sguardo al terzo piano di una<br />

palazzina braccata da impalcature in alluminio.<br />

Non riusciva a vedere nulla dalle finestre ma a quell’ora Margherita non poteva<br />

trovarsi che a casa.<br />

Ne era certo, perché ormai conosceva ogni suo movimento.<br />

Restò sulla sella del motorino, mangiucchiando la nocca del pollice, in<br />

apprensione.<br />

Tra qualche minuto il portone si sarebbe aperto e Margherita ne sarebbe<br />

venuta fuori, con una borsa rossa piena di calze, scarpette e tutù.<br />

Si stupì della precisione delle sue previsioni quando la vide sbucare dal portone<br />

con il trench griffato e la borsa rossa sulla spalla.<br />

Il solito colpo allo stomaco, il respiro profondo, il cantilenante “mantieni la<br />

calma”, e il passo spedito.<br />

«Margherita!».<br />

Fece finta di non aver sentito, accelerando il passo.<br />

«Margherita!».<br />

Se lo ritrovò di fronte e abbassò lo sguardo.<br />

«Guardami».


«Cosa vuoi?».<br />

«Ricominciamo da zero. Facciamo finta che non sia successo niente».<br />

«Perché cosa è successo?».<br />

Il tono era ironico.<br />

Fabio rimase interdetto, lo sguardo di Margherita era provocatorio.<br />

«Niente. Assolutamente niente».<br />

«Ma come!».<br />

Margherita si spazientì.<br />

«Ricominciamo? Ma perché, abbiamo iniziato qualcosa?».<br />

Fabio non riusciva a chiudere la bocca, assumendo l’aria di un ebete.<br />

Lo sguardo di Margherita si addolcì lievemente.<br />

«Scusami…».<br />

A Fabio venne il prurito alla gola.<br />

«È solo che non capisco cosa vuoi da me. Siamo stati bene insieme solo per<br />

quella sera, e non ti nego che sul terrazzino di Giulia ti avrei anche concesso<br />

un bacio. Ma non l’hai fatto, e sono anche rimasta delusa. Poi il tempo passa,<br />

e si dimentica un po’ di tutto, le cose perdono di interesse. Avresti dovuto<br />

cogliere quel momento, ma non l’hai fatto».<br />

Fabio annuì, quella frase l’aveva ascoltata troppe volte.<br />

«Mi dispiace ma vanno così le cose. Devi saperci fare».<br />

Gli abbozzò un sorriso, si mise in sella al suo motorino e se ne andò via.<br />

«Per me ha una ragazza».<br />

Marco si mise a sedere. La pancia aveva fatto alcune pieghe e Flavia iniziò a<br />

pizzicargliele.<br />

Dallo spiraglio della porta si infiltrò uno spiffero di vento che gonfiò le tende.<br />

La sinuosità dei movimenti appariva come il lento gonfiarsi del torace di un<br />

gigante dormiente.<br />

«Ha diciotto anni: sarebbe ora».<br />

«Sei il solito calcolatore. Non sono gli anni a creare le occasioni».<br />

Marco prese a grattarsi il collo con fare pensieroso.<br />

«Ieri ho trovato un preservativo nel suo cassetto».<br />

«Non dovresti sbirciare nella roba dei tuoi figli».<br />

Marco non riuscì a trattenere un sorrisetto malizioso. Flavia rise, gli si avvinghiò<br />

al collo morsicchiandogli il labbro inferiore.<br />

«L’avrà già fatto?».<br />

Flavia fece spallucce.<br />

Rimasero avvinghiati per un po’ entrambi figurandosi il corpo non proprio<br />

aitante di Fabio, disteso su quello di una ragazza paffutella, entrambi timidi e<br />

impacciati per la loro prima volta.<br />

76


«Lia sì, invece».<br />

«Non prendertela. In fondo Alessio è un bravo ragazzo. Meglio con lui che con<br />

uno sconosciuto, o con il solito pezzo di merda».<br />

«In fondo hai ragione. Spero non abbia preso la strana abitudine della mamma,<br />

che lo fa con la camicetta».<br />

Il tono era scherzoso e per niente seccato.<br />

«Ma Lia non parla mai con te?».<br />

Scuote il capo.<br />

«Una volta sì. Ma adesso è cresciuta. Forse non è più il caso di confidarsi con<br />

la mamma».<br />

«Non sono d’accordo».<br />

Lia non ne aveva voglia.<br />

Sedeva nella cucina di Alessio, sorseggiando il caffè che da poco il suo ’more<br />

aveva finito di zuccherare.<br />

Era il solito pomeriggio domenicale: verso le undici le arriva puntuale la telefonata<br />

di Alessio, le chiede cosa sta facendo, le sussurra qualcosa di dolce, e<br />

poi subito con la richiesta di andare da lui, approfittando dell’assenza dei suoi<br />

genitori rifugiatisi nel loro casolare in campagna.<br />

«Ho fame. Ce l’hai ancora quei biscottini?».<br />

«Tutto per il mio ’more».<br />

Le si avvicinò dandole un bacio sulle labbra. Tirò fuori dalla credenza un pacchetto<br />

colorato di biscotti al cioccolato e li mise al centro del tavolo.<br />

«Hai visto il telecomando?», chiese Alessio con la bocca piena. Poi iniziò a frugare<br />

tra alcune riviste accanto al forno microonde, trovandolo sotto un quotidiano<br />

di qualche giorno prima.<br />

Lo tenne stretto tra le mani guardando Lia trionfante per poi dirigersi in salotto<br />

sul sofà aspettando il suo arrivo. Ma stavolta si lasciò attendere più del solito.<br />

Guardava il fondo della tazzina e giocando con l’ultima goccia rimasta tracciò<br />

delle piccole linee sui lati facendola oscillare.<br />

Non avrebbe voluto rispondere alla sua chiamata, non voleva trovarsi lì in<br />

quel momento, ma non poteva mentire ad Alessio, sarebbero nate troppe<br />

complicazioni.<br />

Uscì sul balconcino della cucina smarrendo lo sguardo tra i tetti della città.<br />

Sul davanzale del bagno c’era un vasetto con una primula gialla.<br />

Ne accarezzò i petali.<br />

«Che fai non vieni?».<br />

Sobbalzò.<br />

«Ti sei spaventata?».<br />

Lia annuì.<br />

77


«Vieni, su!», la prese per mano e rientrarono in casa.<br />

«Preparo del caffè».<br />

Marco si alzò lasciando l’impronta del suo corpo sulle lenzuola.<br />

«Ehi…», sussurrò appena Flavia.<br />

Marco non la sentì lasciandola sospesa al suono flebile del suo richiamo.<br />

Avrebbe voluto chiedergli se aveva preso male la sua opposizione nel non voler<br />

togliersi la camicetta.<br />

Strisciando in silenzio si portò nella piazza di Marco .<br />

Affondò la testa nel suo cuscino inalando il più possibile il suo odore rappreso<br />

nella federa, provando un intenso piacere in cima al respiro.<br />

Le bastò per avere la certezza che non gliene fregava nulla della sua camicetta,<br />

e delle sue smagliature sotto le ascelle e sul ventre.<br />

Aveva capito qual era il problema, non si era opposto, per questo lo amava.<br />

Non aveva idea di quanto tempo avesse trascorso sotto il suo portone a fissare<br />

l’incrocio dove aveva svoltato, con ancora l’odore del tubo di scappamento<br />

sotto al naso.<br />

I minuti che seguirono furono vuoti, sorretti da una strana precisione nei gesti<br />

– accensione del motorino, fermarsi al rosso, parcheggiare, prendere un tè<br />

freddo, accomodarsi su una panchina – in cui si poteva distinguere una frantumazione<br />

fra la sua mente e il suo corpo.<br />

Nella sua mente si era abbattuta una nube oscura che non lasciava trapelare<br />

nulla, così immersa nel silenzio che avrebbe potuto ascoltare i suoni dei suoi<br />

organi.<br />

Provò la consapevolezza del fallimento, del vuoto, dell’istante prima del crollo.<br />

Era la prova che non poteva eludere la sua timidezza, che le sue convinzioni<br />

erano solo fantasie.<br />

Un istante ed era crollato tutto.<br />

Un improvviso istinto masochista fece scivolare la sua mano sulla tasca posteriore<br />

del jeans. Tirò fuori il portafoglio, lo aprì e fece scivolare fuori una bustina<br />

colorata con un marchio stampato a lettere cubitali al centro. Lo strinse con<br />

forza maledicendo se stesso e le sue stupide illusioni.<br />

Tentò di soffocare un singhiozzo, le guance gli si gonfiarono ma dalle linee sottile<br />

delle palpebre, dove Margherita abbondava col suo mascara, erano già<br />

pronte due grosse lacrime.<br />

Il mento iniziò a vibrargli violentemente e, senza riuscire a controllarsi, un singhiozzo<br />

sordo venne fuori strozzandogli la gola.<br />

Inter 1, Napoli 0.<br />

78


Al trentacinquesimo del primo tempo Lia si ritrovò distesa sul divano con la<br />

testa di Alessio tra le gambe. Fitte di piacere le attraversarono la schiena, fino<br />

a esplodere alla sommità del collo.<br />

Eppure dopo ogni brivido provava un lieve moto di disgusto, una doccia d’acqua<br />

sporca; non voleva farlo e stava sentendosi usata.<br />

Pensava già a come avrebbe dovuto contraccambiare, ai suoi gemiti, e alla sua<br />

incontentabilità.<br />

Bastava spingergli la testa più in basso, chiudere le gambe, mettere le cose in<br />

chiaro, ma la situazione avrebbe creato troppo imbarazzo.<br />

Oltre la curva del suo ventre vide sbucare la fronte di Alessio che riprendeva<br />

fiato. Le sorrise con dolcezza, lei lo ignorò.<br />

Si alzò con delicatezza e in punta di piedi si diresse verso la libreria a muro.<br />

Sulla mensola più alta, polverosa e dimenticata, tirò fuori alcuni libri accedendo<br />

al nascondiglio segreto dove teneva i profilattici.<br />

Frugò con attenzione senza trovarli.<br />

«Tu non ne hai?».<br />

Lia per un istante credé di poter fingere di non aver sentito. Continuò a fissare<br />

un punto indefinito della parete.<br />

«Ci sei?».<br />

Era inutile, già si trovava accucciata a frugare nella borsetta per estrarre la sua<br />

scorta.<br />

Si ritrovò a contare le volte che lo aveva fatto con Alessio e, alla fine, le risultò<br />

che dal pacchetto ne mancava uno.<br />

Non glielo disse ma la cosa la sconcertò. Era certa di averne usati solo due dall’acquisto<br />

della nuova confezione, anche perché li aveva utilizzati in due occasioni<br />

inusuali : uno sui sedili posteriori dell’auto del padre di Alessio, e l’altro<br />

di nascosto in camera sua mentre sua madre era in cucina a guardare la TV.<br />

Tra l’altro era la prima volta che li acquistava ed era stata molto attenta nel<br />

nasconderli.<br />

«Provvedi sempre a tutto!»<br />

Sfoggiò un sorriso raggiante.<br />

Lia aspettava che si accomodasse dentro di lei, ricordando con sollievo quanto<br />

fosse stato facile baciare Franco in spiaggia quell’estate senza pensare ad<br />

Alessio e a quel suo nomignolo sdolcinato.<br />

«Cosa credevi di fare? Allora non lo vuoi capire? Cosa ti passava per la testa stamattina?<br />

Davvero credevi che…».<br />

Piegò con forza il polso, sfogando la rabbia sulla manopola dell’acceleratore.<br />

«Che idiota! Sei sempre il solito, fai sempre gli stessi errori, e non imparerai<br />

mai perché sei un fottuto fallito!».<br />

79


Sfrecciava lungo la strada prestando poca attenzione alle altre auto e ai pedoni.<br />

«Che fai adesso? Vuoi ammazzarti vero? Quante volte hai pensato di farlo? Ma<br />

ne vale proprio la pena?».<br />

Allentò la presa e lasciò che il motorino decelerasse al ritmo dei suoi respiri<br />

profondi.<br />

«Ma sei impazzito! Che cazzo fai! Guarda a cosa ti riduci! Sei solo una dannata<br />

vittima! Vuoi soffrire perché godi nel sentirti vittima! Sei un vigliacco!».<br />

Il verde scattò, Fabio accelerò di nuovo con forza, stringendo i denti, mentre<br />

le lacrime iniziavano a inumidirgli gli occhi.<br />

Non vedeva quasi nulla, i contorni della strada tremanti, s’increspavano. Si<br />

portò il polso sugli occhi tentando di asciugarli. Non fece in tempo a notare<br />

una Fiat Panda sbucare in retromarcia dal parcheggio.<br />

Per anni aveva immaginato con timore alla possibilità di un incidente stradale,<br />

ma non aveva mai pensato di ritrovarsi incastrato tra tavolini di zinco e sedie<br />

di plastica, disteso accanto a un uomo che stava sorseggiando il caffè che ora<br />

gli scorreva lento sul viso.<br />

Avevano indossato le prime cose che gli erano capitate.<br />

Marco stava levigando le piastrelle incolori del corridoio con addosso una t-shirt<br />

stinta e spiegazzata con un papero e la scritta Berlin a lettere cubitali.<br />

Aspettavano con ansia che un qualsiasi uomo con un camice indosso gli portasse<br />

qualche notizia su Fabio.<br />

Flavia era seduta su un sedile di plastica, torturando con i denti un bicchierino<br />

monouso.<br />

Si era infilata una tuta di pile che indossava nei giorni in cui decideva di rassettare<br />

l’intera casa, sopra portava ancora la camicetta spiegazzata dal corpo di<br />

Marco e che esalava un odore intenso. Ma non ci aveva fatto caso.<br />

Un rumore sordo rimbalzò sulle pareti segnalando l’apertura delle porte dell’ascensore.<br />

Ne venne fuori Lia che, guardando intorno con circospezione,<br />

individuò i suoi genitori e corse verso di loro.<br />

Avevano tutti lo sguardo preoccupato; tranquillizzarono in fretta Lia con poche<br />

parole rassicuranti e una timida carezza, poi ognuno prese il suo posto.<br />

Cadde un silenzio appesantito dal suono dai loro respiri lunghi e profondi.<br />

Nessuno piangeva, nessuno faceva le dovute domande − «Con chi sei stata?<br />

Papà ma perché indossi quella maglietta se stavi a lavoro? Qualcuno sapeva<br />

dove era andato Fabio quel pomeriggio? Ma’, che ci fai con quella camicetta?»<br />

− mantenevano con diligenza il silenzio in una sorta di espiazione collettiva.<br />

Sul sedile accanto a quello di Flavia erano stati appoggiati gli oggetti personali<br />

di Fabio.<br />

«Quelli sono suoi?».<br />

80


Marco annuì.<br />

Lia andò a vederli. Timidamente sfiorò la tastiera del cellulare, lo schermo si<br />

illuminò e venne fuori una fotografia scattata qualche mese prima di Fabio col<br />

suo amico Gianni.<br />

«Per fortuna che aveva con sé i documenti», sussurrò Flavia.<br />

Lia prese il portafogli, lo aprì con cautela.<br />

Sul lato destro c’erano varie tessere che gonfiavano i taschini, ma dietro una di<br />

esse Lia vide sbucare lo spigolo di qualcosa di familiare.<br />

Tirò fuori la tessera per la biblioteca scaduta da due anni, e scoprì che nascondeva<br />

un preservativo.<br />

Rimase sorpresa, turbata, poi pensò che come li usava Alessio li avrebbe dovuti<br />

usare anche Fabio. Ma la cosa non la rincuorava. Sorrise nel vedere che<br />

usava la stessa marca di quelli che aveva comprato lei qualche giorno fa.<br />

«Che buffo», pensò.<br />

Lo rimise di nuovo al suo posto.<br />

«Potete entrare. Sta meglio ora».<br />

Nessuno si mosse. Esitanti nel fare il primo passo si guardavano, imbarazzati.<br />

«Entra prima tu Lia», disse Flavia, «Non avere paura».<br />

«Ti senti bene?», le chiese Marco mentre Lia si avvicinava con cautela al letto<br />

di Fabio.<br />

«Ho paura. Cosa gli hanno fatto?».<br />

«Stai tranquilla. Ha detto il medico che non c’è nulla di cui preoccuparsi».<br />

Flavia annuì. Appena Marco si girò Flavia sfiorò con le dita l’orlo inferiore della<br />

camicetta.<br />

Solo pochi istanti fa aveva notato un grosso alone disteso lungo tutto l’orlo e<br />

terminante all’inizio della cucitura della vita.<br />

Pensava si trattasse di sudore ma non aveva caldo.<br />

Al tatto le era apparsa simile a una crosta e dall’odore delle dita capì che non<br />

era sudore.<br />

In fretta si infilò la camicetta nei pantaloni nascondendo la macchia.<br />

Ecco, ora poteva entrare.<br />

81


Elisabetta Delprato<br />

Teodora in otto atti<br />

GENERE<br />

NON UN VERO E PROPRIO RACCONTO… UN GIOCO<br />

1 RACCONTO DA<br />

5 f<br />

e r m a t e


Elisabetta Delprato<br />

Frequenta il terzo anno al Liceo Classico Piccolomini di Siena<br />

Secondo Esiodo, la divinità corrispondente alla “discordia” possiede due anime:<br />

una è quella che conquista l’invidioso, distruttiva e malvagia; l’altra, che Giove<br />

ha posto alle basi del mondo, è la competitività, positiva e costruttiva, capace di<br />

trarre dal più misero materiale il miglior risultato.<br />

Queste due sorelle hanno nome di Eris.<br />

Quando non ero che una piccola hobbit dei boschi, incappai improvvisamente nel<br />

genio letterario di mia cugina, poco più grande di me. Capii che scrivere, e non<br />

solo leggere, non era che un altro modo di recitare: anche un personaggio da<br />

palco come me poteva esserne in grado.<br />

Da sette anni, a mia cugina sostituisco via via altri obiettivi, altri modelli da studiare,<br />

da raggiungere, da emulare. Sebbene sia conscia di non possedere del<br />

genio, continuo a sperimentare anche generi piuttosto difficili, ma spesso perdo<br />

parte di me: psicologia, follia, polemica, satira; per la loro gloria, ad esempio, il<br />

mio umorismo si è assottigliato.<br />

Nonostante sia, nel mio cuore, fanciulla, presto sarò legalmente donna: osservo<br />

come i miei sogni siano predisposti a divenire un piano per il futuro; il Classico,<br />

la musica, recitare, entrare ad Arte Drammatica… Possibile? Sul serio, Eris, è<br />

forse possibile avere così tanta fortuna da riuscire ad esaudire sogno per sogno<br />

tutto ciò che ci si è augurati (ma non solo!) per il quale si è lottato tutta la propria<br />

infanzia e adolescenza?<br />

La televisione insegna che basta forza d’animo e carattere, e io ci ho creduto sin<br />

troppo a lungo.<br />

Ebbene, ho finalmente compreso che il futuro non s’alza dalla poltrona per venirmi<br />

incontro, se io non gli corro addosso urlando e brandendo la spada della determinazione:<br />

mi sento pronta, forse scioccamente, a sfidare il mondo, che sembra<br />

sempre più esperto di te. E una delle mie sfide è questo concorso.<br />

Non sono una scrittrice: sono un’attrice che recita attraverso la tastiera o le<br />

penne.<br />

Sono confusionaria.<br />

Ma ai passionali come me, piace.<br />

Chiamatemi, sempre, Eris.<br />

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Teodora in otto atti<br />

PRIMO ATTO<br />

Amata mia,<br />

Teodolinda del mio cuor<br />

che più d’ogni altra luce alluminate la strada che lo mio passo seguitar<br />

dovrebbe se come ultimo lume avesse scelto Amore,<br />

Alfin, vi scrivo. Vi scrivo codesta lettera, conscio invero di simigliare quello<br />

amorato che, lontano da l’amata sua, si trovi afflitto a combatter la distanza,<br />

sebbene sappia senza dubbio alcuno ch’ ella non possa dimenticarlo, tamen si<br />

strugge e piagne e lagrima a la finestra, isguardando l’acque nere de l’oceano<br />

infinito che precipita ne lo più remoto orizzonte. Oh, come il mio cor vibra a lo<br />

pensier di tale pena! Potrei giammai, amor mio, soffrir tal fio, al qual, foss’anche<br />

lo peggior de li villani, non saprei condannare uomo alcuno! Soffrire, soffrire,<br />

amore mio, perché un amore senza dolore null’altro è che un sentimento<br />

senza core, ma se potessi altrui rivolgere questa mia dolenza, oh!, come lo<br />

farei! Se non fosse degno sol di un vile, se non fosse… Ma qui si vaneggia,<br />

colomba de lo cor meo, e mi lascio andare a sconci pensieri, indegni, piuttosto,<br />

dell’uomo valoroso che voi, divino angelo, meritate.<br />

Se, adunque, la causa del mio mal fosse la distanza, avrei di chi lamentarmi e<br />

chi insultare, impotente o meno, sventolando qual stendardo il mio disio invincibile<br />

di ribellione a tal condicio; così farei, sì.<br />

E tuttavia è un’altra la realtà, non questa la cagion del mio dolgermi sì forte!<br />

Sapete bene voi, cor mio, qual è il mio carceriere, il demone che lo mio cor tien<br />

prigioniero in quella gabbia ardente ch’è l’impotenza: la timidezza. Quel sentimento<br />

sì brado e pudico che tuttavia mi corrode fin dentro le ossa e come una<br />

muffa divora le mie membra, che mi si lega qual infido tralcio alle caviglie<br />

quand’io debba a voi, luce mia, avvicinarmi, che diviene aspe quand’io apra le<br />

mie labbre al cospetto vostro e le parole mi torciglia in su la lingua. E così,<br />

85


amor mio, al fin giungemmo a tal vergognosa rivelazione.<br />

Teodolinda, queste soavi lettere, che lo vostro nobil nome creano, risuonano<br />

nella mia bocca come le preghiere dei poveri e speranzosi mortali che, nell’invocare<br />

più alti consigli sfiorano loro stessi parte della divina essenza; amor<br />

mio, con queste umili, infime parole io m’avvicino a voi, con la speranza che el<br />

mio, oh vergogna!, riserbo sia in qualche modo da esse per voi risarcito, sebbene<br />

nell’incontrarvi non sappia far altro che tremare e fremere ne lo imbarazzo,<br />

e non è questa certo cosa de la qual andar fieri, anche quand’essa sia l’unica<br />

reazione cui la vostra beltade spinge!<br />

Voi vedete come, a questo punto, non abbia altra benignità cui rivolgermi che<br />

non sia l’Alto Protettore che ogne natura vegge e tutto sa e che lo mio cor prese<br />

in affetto quando in quella splendida mattina mostrommi il vostro gentile e chiaro<br />

aspetto, in quel vostro incedere leggiadro come angelo luminoso, quei vostri<br />

capelli fulgidi che nell’aere si sciolgono e disgiungono i boccoli dorati uno per<br />

uno, nel lor donare divini pensieri che dal ciel, senz’altro, provengono.<br />

Teodolinda, come vorrei queste parole sussurrarvi nell’intimità profonda di<br />

una cattedrale, in cui fra noi solo lo spirto divino agisce e sosta come docile<br />

colomba fra le mie e le vostre mani; e queste mani, nell’avvicinarsi a le vostre,<br />

fremerebbero come se gelide di fronte a lo fuoco. E lo nostro sentimento, che,<br />

sì casto, davanti a Dio sarebbe degno della sua benedizione, è suggellato da un<br />

vostro nobile sorriso, per ’l qual io, vostro indegno servitore, m’ innalzerei tra<br />

i più beati dei suoi angeli. Come quelle guglie che fra gli alti ruvidi pinnacoli si<br />

ergono a nome della Divina Sapienza, lo mio amore dall’alto della città vuole a<br />

voi, gioia mia eterna, cantare e proclamarsi, perché d’intorno ogn’uomo sappia<br />

che a voi, e voi soltanto, la mia vita ho destinata, pronta ad essere al vostro fianco<br />

servitrice per gli innumerevoli anni a venire.<br />

Prego ancora Iddio ché la sua Divina Misericordia assistami come fin d’ora ha<br />

fatto e che un giorno ci permetta, se questo alfine è il suo volere, di tenerci per<br />

la mano e in fronte a lui consacrare questo nobile suggello che sarà la nostra<br />

unione.<br />

Con questa speme mista a pudico ardore,<br />

io vi lascio, ancor per poco, amore mio<br />

Federico d’Ostia, figliuol di Terenzio il Giudice.<br />

SECONDO ATTO<br />

Amata Teodolinda del mio cor<br />

voi, che alluminate la strada che il mio passo seguiterebbe<br />

se come suo fine avesse scelto Amore,<br />

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Infine, vi scrivo. Vi scrivo come quell’innamorato che, lontano dalla sua amante,<br />

trovi a dolgersi per la distanza, anche se certo lei non lo può dimenticare,<br />

ma piange e si dispera e volge, alla finestra, lo sguardo verso l’acqua dell’oceano<br />

che s’imbrunisce all’orizzonte. Oh, come vibra al sol pensiero il mio<br />

animo! Come potrei, amore mio, soffrire una tale punizione, cui non condannerei<br />

nemmen il peggiore dei farabutti! Ma, certo, soffrire, soffrire è il sol<br />

modo che l’amore ha per essere, così come un sentimento necessita del cuore,<br />

ma se potessi riversare su altri questo dolore, sì, lo farei!, se non fosse indegno<br />

di un uomo coraggioso, se non… Ma qui si parla parole inutili, colomba mia, e<br />

mi lascio andare a pensieri indecenti di un uomo quale quello che un angelo<br />

come voi si meriterebbe.<br />

Se, dunque, la causa del mio crudo male fosse la distanza, saprei a chi rivolgere<br />

il mio biasimo, che vi sia da lamentarsi o no, menando a destra e a manca<br />

le mie proteste e la mia ribellione; così farei, sì. Ma… in realtà, ben mio, non è<br />

per questo che languisce il cor! Voi conoscete bene la mia condizione, chi mi<br />

tenga prigioniero nella prigione dell’impotenza: la timidezza. Questa mi corrode<br />

in dentro le ossa e mi divora le membra, mi allaccia le caviglie come una<br />

liana infida quando mi avvicino a voi, luce mia, che mi intreccia la lingua quando<br />

apro le labbra al vostro cospetto. E così, alfine, sono giunto a questa vergognosa<br />

rivelazione.<br />

Teodolinda, il vostro stesso nome, e così le sue lettere, risuonano nella mia<br />

bocca come preghiere di fedeli, e che sfiorano, nell’immolarsi al cielo, quella<br />

che è la più nobile essenza. Cuor mio, è con queste parole infime ch’io mi avvicino<br />

a voi, speranzoso che ogni mia timidezza, irrispettosa, certo!, poiché altro<br />

non mi permette di fare che tremare e fremere tacendo al vostro cospetto, sia<br />

perdonata da voi attraverso di esse. Non è, la mia pudicizia, cosa di cui andar<br />

fieri: ma è cosa necessaria, cui la vostra apparenza costringe!<br />

Ebbene, sarete oramai accorta di come io mi trovi senz’altrui speranze se non<br />

in Colui che tutto può, al quale mi affidai quando, in un glorioso e illuminato<br />

mattino, mi mostrò il vostro gentile e chiaro aspetto, voi che, angelo leggiadro,<br />

nel vostro incedere affrancavate nell’aere i boccoli dorati uno per uno, e con<br />

loro uno per uno i pensieri che paiono provenire dal Cielo.<br />

Oh, Teodolinda! Queste parole, sussurrarle nell’intimità profonda di un cortile<br />

segreto, in cui, sotto sembiante di colombella, verrebbe a giacere la protezione<br />

divina fra le nostre mani candidamente giunte; e fremerebbero le mie come<br />

se, a lungo gelide, fosse loro permesso di sciogliersi. E un vostro limpido sorriso,<br />

farebbe di me il più fiero fra i vostri angeli.<br />

E come San Francesco dall’alto del suo eremo che innalzava inni alla Parola del<br />

Signore, così il mio Amore, desideroso di proclamarvisi e cantarsi a voi, cosicché<br />

d’intorno ogni uomo sappia che è mia unica gioia servirvi per sempre, e<br />

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per sempre amarvi.<br />

Prego ancora Iddio affinché la sua Divina Misericordia mi assista come fin<br />

d’ora ha fatto e che un giorno ci permetta, così voglia, di essere consacrati dal<br />

Lui nel nostro nobile Amore.<br />

Con queste infantili speranze, vi lascio, sol per ora<br />

Federico d’Ostia, figliuol di Terenzio il Giudice.<br />

TERZO ATTO<br />

Dolce mia Teodora<br />

A voi, che siete luce dei miei passi, come se seguissi la via dell’Amore,<br />

Scrivo. Finalmente vi scrivo, come un amante perduto nel baratro del proprio<br />

dolore, precipitato, ormai, nell’oceano della disperazione che oscura all’orizzonte.<br />

Oh, gelo e terrore! Credete, mia dolcezza, che potrei soffrire una pena<br />

del genere? Sfido il demonio stesso a soffrire tanto. Ma… Come, come vorrei<br />

non soffrire così! Se si potesse, amare senza morire di dolore… Ma non dilunghiamoci,<br />

amore mio, e torniamo a noi.<br />

Sapete, no?, se la causa del mio morire fosse la distanza…, che dico, potrebbe<br />

mai esserlo? Sarei da voi in un batter di mani, perché non è certo questa causa<br />

degna di tenerci separati. Piuttosto, sapete benissimo cosa mi trattiene, chi mi<br />

divora dentro e mi corrode: la timidezza. Ed è lei che mi costringe, quando,<br />

anche raramente, finalmente riesco a vedervi, che non mi permette di parlarvi,<br />

è lei! Ebbene, finalmente ho confessato.<br />

Teodora, questo nome… Mi risuona in bocca e cerca, come un sogno, di trasformarsi,<br />

raggiungere, mutare in un’idea. Eppure è qui tutto quello che ho da<br />

dirvi: non vi sono irrispettoso per mia colpa, vedete? Questa dannata vergogna<br />

mi trattiene, mi fa tremare al vostro cospetto e cuce la mia bocca! E come<br />

potrei andarne fiero? Non è che una conseguenza naturale, al sol vedervi.<br />

Cosa potrei fare? Abbandonarmi al Signore? Implorare Lui, come quella volta<br />

che mi permise di vedervi, scivolare lungo la strada trafficata, luminosa come<br />

lo stesso sole, come un angelo leggiadro che nel suo incedere abbandona dietro<br />

di sé boccioli di rose dorate?…<br />

Teodora mia, potrò mai, sarò mai in grado di confessarvi tutto ciò nel segreto di<br />

un salotto, a separarci un misero tavolino da cucito o una poltrona? Spero e sogno,<br />

mia colomba, sogno che le vostre candide mani sfiorino le mie e in quello sfiorarsi<br />

si nasconda un suggello di matrimonio, che, sacro davanti a Dio, mi renderebbe<br />

il più felice tra gli uomini che vi amano. E solo il mio e vostro viso esultati mostrerebbero<br />

a tutti gli uomini come io ami servirvi, e, per sempre, amarvi.<br />

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Supplico la Fortuna di assistermi tuttora, come sin d’ora ha fatto. Che ci sia<br />

permesso di divenire lieti complici nel nostro Amore.<br />

Vi lascio, seppure con tema di essere infantile<br />

Federico Terenzio del Giudice.<br />

QUARTO ATTO<br />

Teodora mia, luce della mia vita per l’Amore,<br />

Vi scrivo. Alla fine, vi scrivo e mi ritrovo, sperduto come un naufrago nel proprio<br />

dolore, sballottato dalle onde della disperazione. Come non vorrei questa<br />

condizione! Eppure, è proprio dell’amore, soffrire. Ma pensiamo a voi! Voi che<br />

oramai saprete: non è per la distanza fra noi che mi dolgo, non è essa un ostacolo<br />

in verità. Non è quella la colpa! La colpa è la mia: la mia timidezza. Sì, è<br />

lei! Quando vi vedo, non faccio che tremare e battere i denti, abbassare lo<br />

sguardo… Per questo non vi rivolgo parola.<br />

Teodora… Il tuo nome nella mia bocca, aspira a ben altri luoghi e si innalza<br />

come vorrebbe fare il mio amore: non è mia volontà risultare così irrispettoso.<br />

È questa maledetta vergogna! E non so comportarmi altrimenti… Ho forse la<br />

speranza, ancora, di implorare Dio? Lui che mi ha permesso di incontrarvi,<br />

così angelica e leggiadra… Potrò mai amarvi accanto a voi? Che ci separino<br />

solo le nostre mani? Come vorrei, adesso, sfiorare le vostre manine bianche…<br />

Mi affido a Dio. Che un giorno meraviglioso, io possa sinceramente dimostrarvi<br />

il mio amore.<br />

A presto, fremo come un bambino<br />

Federico del Giudice.<br />

QUINTO ATTO<br />

Dora, amore mio,<br />

Finalmente riesco a trovare il coraggio di scriverti! Soffro, e lo sai, ma non per<br />

la distanza! Non è quella… Il mio dolore, lo ammetto, è non essere capace di<br />

mostrarmi a te in vesti decenti: la mia timidezza! Tremare al tuo cospetto, balbettare,<br />

non guardarti negli occhi: ecco, ora sai perché. Teodora cara, come mi<br />

piace pronunciare il tuo nome! E come mi dispiace, di non riuscire ad amarti<br />

meglio… Prego spesso di divenire migliore, di avere il coraggio, un giorno, di<br />

stringerti a me e prendere le tue mani calde fra le mie, angelica come la prima<br />

volta che ti ho vista… Spero di riuscirci, un giorno, perché ti amo tantissimo.<br />

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Spero di rivederti presto<br />

Federico.<br />

SESTO ATTO<br />

Hey Teo,<br />

Eccomi qua. Mi dispiace, di non avere una scusa valida! È solo che sono timido…<br />

Per questo oggi non ti ho salutata. Scusa! Spero solo di divenire abbastanza<br />

coraggioso da riuscirci, perché vedi… Sono davvero innamorato di te!<br />

Moltissimo! Come vorrei abbracciarti, ora… Rivelarti tutto, come un segreto,<br />

come quando ti ho vista, leggerissima, passare nel mio orizzonte. Ti voglio<br />

bene<br />

Fede<br />

SETTIMO ATTO<br />

Ohi Tero, scusa per oggi!<br />

Non ti ho salutato perché sono un po’ timido, ma non c’entra niente! Mi disp<br />

tantissimo… Io ti voglio bene, ma mi vergogno così tanto! Spero che domani<br />

riesco a dirtelo meglio… Magari a voce! Tvb<br />

Fede<br />

OTTAVO ATTO<br />

Hey Tero scs x prima… nn t ho salutata, ma mi vergognavo, mi disp! Tvb ps:<br />

sxo k nn t 6 arrabbiata Fede<br />

La rapidità, concezione nella quale viviamo, immersi come in uno Stige dallo<br />

scorrere repentino, che ci divora e che trascina in sé tutti i significati e le realtà<br />

che altrimenti saremmo in grado di esprimere.<br />

La rapidità, ladra.<br />

La rapidità, seducente.<br />

La rapidità, ci ha ingannati.<br />

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La POSTFAZIONE<br />

Per gli appassionati del Premio Speciale Università IULM<br />

Under19 questa postfazione sarà una piacevole novità.<br />

Negli anni scorsi questo spazio era dedicato a un’analisi dei<br />

generi prediletti dai nostri giovani autori ma, viste le tante novità<br />

dell’edizione <strong>2010</strong>, abbiamo voluto fare qualcosa di diverso.<br />

Il risultato è un inedito spazio di discussione in cui i membri della<br />

giuria, tutti docenti IULM, hanno voluto condividere le loro impressioni<br />

e il loro personale punto di vista con il nostro pubblico.<br />

Per usare una formula di rito è quindi il momento di lasciare la<br />

“parola ai giurati”…<br />

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IBRIDI LETTERARI<br />

di Paolo Giovannetti<br />

C’è anche il videogioco. La cosa era ampiamente prevedibile, del resto.<br />

L’autore di Délire, Leonardo Stella, su questa sua scelta costruisce un’interessante<br />

serie di osservazioni; e la strumentalizzazione di un immaginario<br />

narrativo videoludico produce un bel sistema di incassi e fantasmagorie<br />

all’insegna di una procurata “frammentarietà”. Oggi, scrivere per raccontare<br />

significa insomma, sempre più spesso, contaminare la tradizione letteraria<br />

con le tecniche dei nuovi media. Ovviamente, possono esserci effetti più<br />

consolidati e in qualche modo più prevedibili: vedi per esempio il montaggio<br />

parallelo realizzato da Gianluca Nativo in Secrezioni (tra parentesi: un racconto<br />

sulla sessualità che non sembra davvero scritto da un giovane, per di<br />

più di genere maschile), secondo una procedura che solo in astratto –<br />

attualmente – consideriamo cinematografica, visto che da molti decenni a<br />

questa parte la letteratura la usa in modo diffuso. E tuttavia non c’è dubbio<br />

che la visione scorciata, sintetica, persino spastica della vita che, per esempio,<br />

è proposta dal racconto vincitore (Dieci secondi, di Alberto Biondi)<br />

sarebbe del tutto impensabile fuori della cultura televisiva del videoclip e<br />

dello spot. Gli esempi potrebbero essere molti altri, arrivando quasi a coprire<br />

la totalità dei racconti. E, in qualche caso, il criterio in questione potrebbe<br />

essere adottato per arricchire un testo: se Marco Ferrarini avesse realizzato<br />

meglio (cinematograficamente meglio, dico) la modulazione tra prima e<br />

seconda parte della sua storia, i risultati del lavoro sarebbero certo stati<br />

migliori.<br />

Come dire? Tutto ciò è scienze della comunicazione. Comunicare è anche<br />

e soprattutto adottare una strategia “tecnologica” che, attraverso la manipolazione<br />

di codici mediali differenti, realizzi un accadimento (in questo caso,<br />

un accadimento estetico). Cosa che può essere compiuta quasi istintivamente<br />

– i nostri racconti, nati da una scuola che a mala pena si è accorta<br />

dell’esistenza del cinema, sono lì a ricordarcelo – , ma che certo si può<br />

imparare a fare meglio se la comunicazione è studiata in modo sistematico.<br />

Con lo scopo di scrivere racconti sempre più belli. Ma non solo con quello<br />

scopo, naturalmente.<br />

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METAMORFOSI<br />

NELLO SPECCHIO DELL’AMORE<br />

di Maria Cristina Assumma<br />

Nel gioco riscritturale escogitato da Elisabetta Delprato in Teodora in otto atti,<br />

un’invariata fenomenologia dell’amore secondo un punto di vista maschile (la<br />

timidezza dell’amante e l’idealizzazione dell’amata) fa da sfondo a un’epistola<br />

declinata in otto atti conformi ai mutamenti epocali della sensibilità, del<br />

gusto e dell’immaginario: dal lento manierismo dell’amante cortese al velocismo<br />

sincopato dell’amante postmoderno. Elementi centrali della transtilizzazione<br />

sulla quale tale gioco anzitutto si esercita sono:<br />

a) una progressiva concisione, cioè il rimaneggiamento di parti tematicamente<br />

significative secondo una forma più succinta che, non necessariamente<br />

asservita alla letteralità dell’ipotesto (I atto), semplifica la sintassi, restringe il<br />

lessico, riduce le figure retoriche. È il caso dell’incipit, del segmento narrativo<br />

ove l’amante dichiara la sua timidezza e finanche del sistema onomastico, che<br />

finisce per slittare in svelti diminutivi (da “Federico d’Ostia, figliuol di Terenzio<br />

il Giudice” a “Fede”, passando per i gradi intermedi “Federico Terenzio del<br />

Giudice”, “Federico Del Giudice”, “Federico”; e da “Teodolinda” a “Teo”);<br />

b) una progressiva sfrondatura, fondata più drasticamente su escissioni diffuse<br />

del fiorito eloquio di stampo cortese dell’ipotesto, saturo, oltre che di epiteti,<br />

aggettivi e interiezioni, di ripetizioni, ridondanze, comparazioni, metafore estese,<br />

quale quella nucleare del servizio d’amore reso a una donna angelicata,<br />

luce di chi le professa un sentimento esclusivo, eterno, segreto, casto, ecc.<br />

Il risultato di questa duplice operazione di concisione e di sfrondatura è una contrazione<br />

espressiva che incide sulle dimensioni e sul tenore del testo, trovando<br />

il suo momento apicale nel linguaggio ellittico, abbreviato, nevrotico degli SMS.<br />

Al restyling della comunicazione si coniuga una sua parziale risemantizzazione,<br />

basata su una progressiva desacralizzazione dell’amore: l’invocazione di<br />

Dio affinché ne favorisca il suggello nel matrimonio degrada nella supplica rivolta<br />

alla Fortuna di divenirne complice, per sfociare, infine, in una speranza autoriflessa,<br />

che fa appello alle risorse dell’Io al fine di guadagnare al sentimento la<br />

carnalità dell’abbraccio. Ma ancor più della laicizzazione dell’amore, è l’accelerazione<br />

del ritmo espressivo ciò che dà il senso di una mutazione antropologica,<br />

che mai come nella postmodernità trova il suo principale vessillo nel prestissimo.<br />

A tal punto, da dovere escogitare antidoti all’insegna della lentezza.<br />

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INTERPRETAZIONE:<br />

PRESENZE E ASSENZE<br />

di Matteo Brega<br />

Leggere ciò che i partecipanti ad un concorso letterario vogliono si legga di loro,<br />

così come osservare ciò che i pittori vogliono si osservi della propria arte, obbliga<br />

coloro che vogliono trascendere i limiti imposti dalla forma ad azionare quel<br />

complicato meccanismo autogenetico che prende il nome di interpretazione. È<br />

solo così che si può giungere a ciò che sta dietro, a ciò che ispira lo scritto o il<br />

detto. Forse bisogna tralasciare volutamente ciò che viene esplicitato se si<br />

vogliono delineare i profili delle forme comuni che costituiscono gli immaginari<br />

retrostanti alle opere. Ma se vogliamo notare ciò che è senza dubbio sempre<br />

presente, in forma esplicita o in forma implicita, nei racconti che hanno partecipato<br />

a questo Concorso arrivando sino alla selezione finale, ci imbatteremo in<br />

quella che potremmo chiamare una sorta di “cupezza educata”, una generale<br />

sfiducia nel futuro che preferisce essere enunciata, abitare l’insieme dei contenuti,<br />

piuttosto che concentrarsi sperimentalmente o romanticamente nella fuoriuscita<br />

dalla forma. Una forma spezzettata senza essere schizofrenica, un<br />

insieme di frammenti preordinati che hanno interiorizzato il flusso di coscienza<br />

quasi, apparentemente, espungendone la trasgressività dell’informale. Le<br />

assenze: nei racconti selezionati per la fase finale non ricorre mai la parola<br />

“arte” – e questo potrebbe segnare un beneaugurante motivo di fuoriuscita dalla<br />

retorica – così come la parola “pittura”, “quadro” o “poesia”. Eppure l’arte è<br />

quasi sempre presente negli immaginari degli autori o dei personaggi delle storie.<br />

È forse la vita a dominare questi racconti ispirati al tema della rapidità ed è<br />

nella vita che l'arte viene ricompresa, entrandone senza fuoriuscirne, rimanendo<br />

quasi celata o protetta o nascosta; essa appartiene all'intimità o comunque<br />

ad un momento anteriore di elaborazione concettuale, sul quale gli autori spesso<br />

non vogliono tornare. L'ultima evidente assenza è l'incultura: non vi sono<br />

orfani in questa raccolta, vi sono solo lettori-scrittori con precisi riferimenti,<br />

rimandi e, forse, miti. Sembra quasi che su una piattaforma prettamente letteraria<br />

si sia instaurato, con tutta la sua potenza e la sua capacità di nutrire l'immaginario,<br />

un rapporto privilegiato con il cinema, le sue regole, la sua capacità<br />

di scandire il tempo. Forse è proprio attraverso questa forma d’arte che i racconti<br />

dei giovanissimi intendono costruire immagini, proprio quando il mezzo<br />

parola si fa grado zero al servizio di qualcos'altro.<br />

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I NUOVI NOMADI<br />

OVVERO QUELLO CHE RESTA DEL PAESAGGIO<br />

di Andrea Chiurato<br />

Secondo Zygmunt Baumann la condizione dell’uomo nella contemporaneità<br />

trova una delle sue più compiute metafore nella figura del “turista”. Una lezione<br />

che i giovani scrittori under 19 sembrano aver imparato bene. I loro racconti<br />

si snodano attraverso la realtà metropolitana con disinvoltura, ricomponendo<br />

un paesaggio frammentato, discontinuo, apparentemente perduto.<br />

Costringendoci a viaggiare, a volte anche un po’ scomodi, tra la calca di un<br />

autobus all’ora di punta e le banchine affollate della metropolitana. Ritagliando<br />

abilmente il tempo narrativo sui tempi morti dei piccoli spostamenti quotidiani.<br />

Un quadro in perenne movimento in cui, a stento, è possibile ricostruire una<br />

direzione, o meglio, un “senso”. Operazione difficile, difficilissima, anche perché,<br />

come ci ricorda Giulia Olivato, c’è il rischio di perdere “un pezzo ogni fermata”.<br />

Nel frattempo c’è chi si lascia trascinare dal flusso e chi cammina ai<br />

margini, pellegrini virtuali e intermediali contro nuovi flâneurs. Nuove tribù,<br />

pronte per essere studiate e analizzate dai sociologi e dagli antropologi di<br />

domani, ma per ora accontentiamoci di osservare come cambia il panorama<br />

fuori dal finestrino. Anche qui è difficile capire bene dove ci si trovi. Le impressioni<br />

fuggevoli che si accavallano danno sempre meno l’impressione di un<br />

“dove” e, spesso, non si è nemmeno sicuri del “quando”. Catapultati dal deserto<br />

infuocato alle pianure extraterrestri del Pianeta Rosso, per poi riposarsi un<br />

attimo in un caffè ai margini di una città senza nome di cui rimangono solo luci<br />

sfocate e nebbia. Per stare al passo le agenzie turistiche dovranno aggiornare<br />

i loro cataloghi. E forse avranno bisogno di occhi più attenti nel decifrare lo<br />

scarto crescente tra la “mappa” e il “territorio”. Perché per ritrovare se stessi<br />

non occorre più spingersi nelle profondità di un esotico cuore di tenebra. Le più<br />

inaspettate rivelazioni a volte si nascondono appena dietro l’angolo. Se ne<br />

accorse per primo un certo Leopold Bloom, dalle parti di Dublino, proprio agli<br />

inizi del secolo scorso. Un uomo senza troppe pretese, un borghese piccolo<br />

piccolo, che certo non si sarebbe aspettato di incontrare, uscendo di casa, un<br />

certo James Joyce. Un gran rompiscatole invero, sempre pronto a scambiarlo<br />

per un certo “Ulisse”. Da allora per il povero Leopold trovare la strada del ritorno<br />

si è dimostrato più difficile del previsto. Qualcuno per favore avvisi sua<br />

moglie: è ancora a casa, che lo aspetta…<br />

95


Giuria del Premio Speciale Under19<br />

Presidente Lucia Rodler<br />

Maria Cristina Assumma<br />

Matteo Brega<br />

Paolo Giovannetti<br />

Andrea Chiurato<br />

Comitato di preselezione<br />

Francesco Fava<br />

Laura Scarabelli<br />

Giuseppe Signorin<br />

Filippo Pennacchio<br />

Deborah D'Alessandro<br />

Giuseppe Marazzotta<br />

Marta Macchi<br />

Mariangela Lopopolo<br />

Anna Maria Esposito<br />

Oliviero Toscani<br />

Barbara Chitussi<br />

Lorena Martufi<br />

Giuseppe Carrieri<br />

Mattia Barro<br />

96


Tempo Libero<br />

Giunta alla sesta edizione l’antologia Premio Speciale Università IULM<br />

Under19 cresce e si rinnova.<br />

Per la prima volta i nostri giovani autori sono stati chiamati a misurarsi<br />

con un tema prescelto dalla giuria: la “rapidità”.<br />

Un omaggio a Italo Calvino certo, che la includeva tra le “proposte per<br />

il nuovo millennio” nelle sue Lezioni americane, ma anche un tentativo<br />

di leggere attraverso una prospettiva condivisa i mutamenti di una realtà<br />

in perenne accelerazione.<br />

Il risultato è un volume che spazia tra autobus all’ora di punta e metropolitane<br />

affollate, da deserti extraterrestri alle periferie più noir…<br />

Un vero e proprio invito al viaggio che potrete godervi restando comodamente<br />

seduti in poltrona.<br />

Un esperimento che speriamo incontri il favore del nostro pubblico.<br />

Lo scorrere veloce dell'esistenza, la frenesia del vivere quotidiano, la<br />

fobia del ritardo e, per contrappasso, il “tutto e subito”, la bramosia di<br />

bruciare le tappe: questo terzo millennio pare andare davvero di fretta<br />

e i giovani, volenti o nolenti, devono imparare a seguirne i ritmi e i tempi.<br />

Dall’Introduzione di Giovanni Puglisi, Rettore Università IULM<br />

La rapidità significa anche un’economia espressiva che riesce a saltare<br />

da un argomento all’altro senza perdere il filo, a risparmiare parole e<br />

sintagmi attraverso la ripetizione, prediligendo in ogni caso una scrittura<br />

concisa, parlata, telegrafica.<br />

Dalla Prefazione di Lucia Rodler, Docente Università IULM

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