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Prov<strong>in</strong>cia di Brescia<br />

Vice Presidenza<br />

Assessorato alle Attività e Beni Culturali<br />

e alla valorizzazione delle Identità, Culture e L<strong>in</strong>gue Locali<br />

Cöntem sö töt<br />

dall’A alla Z<br />

Pensieri parole opere e … omissioni<br />

della l<strong>in</strong>gua bresciana<br />

<strong>Giacomo</strong> <strong>Danesi</strong>


<strong>Giacomo</strong> <strong>Danesi</strong> ®<br />

giacomodanesi@libero.it<br />

Tutti i diritti riservati<br />

E’ vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo<br />

(<strong>in</strong>ternet compreso), senza <strong>il</strong> consenso scritto dell’autore<br />

I quadri riprodotti sono di Eugenio Busi, al quale va <strong>il</strong> mio più vivo r<strong>in</strong>graziamento<br />

Progetto grafico: Alessandra Ra<strong>in</strong>eri<br />

F<strong>in</strong>ito di stampare nel mese di dicembre del 2005<br />

Presso l’azienda grafica della Società Editrice Vann<strong>in</strong>i – Gussago (BS)<br />

2


3<br />

Ai miei genitori<br />

Angelo e Ros<strong>in</strong>a Scorza


Prov<strong>in</strong>cia di Brescia<br />

Vice Presidenza<br />

Assessorato alle Attività e Beni Culturali<br />

e alla valorizzazione delle Identità, Culture e L<strong>in</strong>gue Locali<br />

“Mi rattrista sempre che vada persa una l<strong>in</strong>gua,<br />

perché le l<strong>in</strong>gue sono <strong>il</strong> pedigree delle nazioni.”<br />

Samuel Johnson: da Boswel, Giro delle Ebridi<br />

Secondo le statistiche ogni giorno sulla Terra spariscono una c<strong>in</strong>quant<strong>in</strong>a tra dialetti e l<strong>in</strong>gue. Un<br />

patrimonio di cultura, immenso e <strong>in</strong>commensurab<strong>il</strong>e, va così giornalmente perduto sia per le attuali generazioni<br />

sia per quelle future.<br />

La tendenza pare <strong>in</strong>arrestab<strong>il</strong>e anche nella nostra Italia. Nella nostra prov<strong>in</strong>cia, soprattutto nei paesi<br />

e nelle valli, fortunatamente molti parlano ancora <strong>il</strong> dialetto della propria zona. Sarà bene ricordare che <strong>il</strong><br />

dialetto bresciano, anzi, la l<strong>in</strong>gua bresciana, non è uniforme. Il modo di esprimersi del camuno è ben diverso<br />

da quello della bassa bresciana. Dunque, un patrimonio ancora più vasto da valorizzare e proteggere.<br />

Se f<strong>in</strong>o ad oggi <strong>il</strong> nostro dialetto ha mantenuto una certa valenza, lo dobbiamo ai poeti e autori di<br />

commedie. E’ grazie a loro se oggi certe espressioni, modi di dire e di fare, sono ancora <strong>in</strong>siti nel nostro<br />

l<strong>in</strong>guaggio, nel nostro modo di essere. Loro non si vergognano di parlare, di pensare, di agire <strong>in</strong> dialetto.<br />

5


Vorrei anche sfatare l’accusa che <strong>il</strong> nostro modo di esprimerci è brutto e volgare. Ci sono parole e<br />

modi di dire che portano con sé una melodia che lascia stupiti.<br />

Parliamoci chiaro, ogni l<strong>in</strong>guaggio è bello. Mi è di conforto un sonetto di un poeta dialettale m<strong>il</strong>anese<br />

e famosissimo: Carlo Porta. Nel suo “I paroll d’on lenguagg”, davanti all’obiezione che non sempre<br />

<strong>il</strong> dialetto è piacevole, così si espresse <strong>in</strong> un suo sonetto: “Le parole d’una l<strong>in</strong>gua, caro signor Gorelli, sono<br />

una tavolozza di colori che possono fare <strong>il</strong> quadro brutto e possono farlo bello, secondo la maestria del pittore”.<br />

Ho affidato al giornalista <strong>Giacomo</strong> <strong>Danesi</strong> di raccogliere e commentare da par suo, e nella massima<br />

libertà, un piccolo vocabolario di espressioni, tra le più o meno curiose, della nostra l<strong>in</strong>gua dialettale.<br />

“Cöntem sö töt dall’A alla Z - Pensieri, parole, opere e… omissioni della l<strong>in</strong>gua bresciana”, mi pare abbia<br />

colpito nel segno. Confesso che molte delle espressioni commentate da <strong>Danesi</strong> non le conoscevo.<br />

A conferma della necessità che occorre da parte di tutti fare un ulteriore sforzo per raccogliere, custodire<br />

e far conoscere sempre più la nostra l<strong>in</strong>gua. Occorre farlo, <strong>in</strong> primis, nelle scuole d’ogni ord<strong>in</strong>e e<br />

grado, favorendo anche gli autori di commedie dialettali e poeti. Ma, soprattutto, stimolare nelle nostre<br />

famiglie l’uso del dialetto <strong>in</strong>segnando ai bamb<strong>in</strong>i f<strong>in</strong> dalla primissima età, a parlare la l<strong>in</strong>gua dei nostri<br />

nonni. Senza remore, senza timori, senza pudori.<br />

Brescia, 13 dicembre 2005, Santa Lucia<br />

6<br />

Il Vice Presidente<br />

Massimo Gelm<strong>in</strong>i


INTRODUZIONE<br />

Se la l<strong>in</strong>gua muore, / se s’impesta / se perde le parole / e prende <strong>il</strong> lutto, / se nelle case cieche / nel cuore<br />

dei vecchi / s’imprigiona, /allora <strong>il</strong> paese è f<strong>in</strong>ito, / è senza storia.<br />

Ignazio Buttitta<br />

Bagheria 1899-1997<br />

(poeta sic<strong>il</strong>iano)<br />

“La parola è tutto. Il resto sono solo chiacchiere.” Così un noto umorista italiano. Quando <strong>il</strong> vice presidente<br />

della Prov<strong>in</strong>cia di Brescia Massimo Gelm<strong>in</strong>i mi ha chiesto di raccogliere e commentare <strong>in</strong> una<br />

pubblicazione pensieri, proverbi, modi di dire e quant’altro della l<strong>in</strong>gua bresciana, ho accettato con entusiasmo.<br />

Con entusiasmo perché quando nel dicembre del 2004 pubblicai una raccolta di Detti Dialettali<br />

nell’Industria Bresciana per conto dell’Aib (Associazione Industriale Bresciana), le reazioni furono molto<br />

positive. Dopo aver scritto alcuni capitoli del nuovo <strong>libro</strong>, sono stato preso dal panico. Il pensiero che la<br />

parola è tutto mi angosciava. Il pericolo, immanente, di sconf<strong>in</strong>are nelle chiacchiere era palese. Quando si<br />

parla si corre <strong>il</strong> rischio di pestare i piedi alla propria anima. Quando si scrive si rischia di pestare i piedi<br />

dell’anima altrui. Se ciò avvenisse non me lo potrei perdonare.<br />

Scrivere, commentare e pensare nella l<strong>in</strong>gua madre, <strong>il</strong> dialetto, è impresa ardua. Molto più diffic<strong>il</strong>e<br />

che scrivere <strong>in</strong> italiano, l<strong>in</strong>gua ormai imbastardita da neologismi e ferita da frasi e modi di dire importati<br />

da culture a noi lontane e quasi sconosciute. Il rischio, gravissimo, è che nel giro di pochi lustri l’<strong>in</strong>qu<strong>in</strong>amento<br />

sia talmente avanzato da rischiare l’est<strong>in</strong>zione di gran parte della nostra cultura. Il tutto a favore di<br />

7


una l<strong>in</strong>gua globale senza anima e riferimenti. Il dialetto, un tempo <strong>il</strong> solo modo di comunicare, a sua volta<br />

rischia di sparire (o forse è già sparito?), perché chi ha <strong>il</strong> dovere di custodirlo non ha ancora capito <strong>il</strong> pericolo<br />

mortale che l’oblio e <strong>il</strong> dis<strong>in</strong>teresse porta con sé.<br />

Il dialetto? Una l<strong>in</strong>gua per i bifolchi, ci raccontavano a scuola. Oggi, salvo nelle Valli, <strong>in</strong> Franciacorta<br />

e qualche paese della bassa bresciana, parlare la l<strong>in</strong>gua madre suscita pietose ironie, per non dire di peggio.<br />

Il risultato? I nostri giovani non conoscono nulla o quasi delle nostre tradizioni, del nostro modo di<br />

parlare, qu<strong>in</strong>di, di pensare. E’ <strong>il</strong> l<strong>in</strong>guaggio che tiene legato un nucleo fam<strong>il</strong>iare, una comunità, una nazione.<br />

Un patrimonio immenso di storie, riti, modi di dire, di fare, di pensare, di agire, rischia la totale est<strong>in</strong>zione.<br />

Un gravissimo danno non solo per i bresciani se muore <strong>il</strong> suo dialetto, ma per l’<strong>in</strong>tera umanità. Lo<br />

stesso vale per qualsiasi altro paese, prov<strong>in</strong>cia, regione d’Italia.<br />

Molti rimarranno delusi da questa mia fatica. I bagol<strong>in</strong>esi non troveranno <strong>in</strong> questo <strong>libro</strong> nessuna<br />

espressione dialettale a loro cara. Così anche per i gardesani, i bassaioli, i camuni, ecc. Ho priv<strong>il</strong>egiato <strong>il</strong><br />

dialetto che si parla <strong>in</strong> Franciacorta perché lì sono le mie radici. Non me ne vogliano. Sono certo che <strong>in</strong><br />

queste zone molti sono i cultori del dialetto locale. Sta a loro adesso aprire la porta della memoria e mettere<br />

su carta ricordi, modi dire, pensieri e, perché no, opere e … omissioni.<br />

Vorrei che questo mio modesto lavoro fosse anche di stimolo per chi ha <strong>il</strong> dovere di mantenere vive<br />

le nostre tradizioni. Soprattutto con <strong>il</strong> l<strong>in</strong>guaggio. Questo dovere è affidato alla famiglia, alla scuola, alle<br />

istituzioni. Le future generazioni hanno <strong>il</strong> diritto di sapere, conoscere e mantenere a loro volta l’immenso<br />

patrimonio che sarà loro trasmesso. Solo così possiamo sperare che la nostra cultura non abbia a morire.<br />

Se così non fosse prepariamoci ad un lento ma <strong>in</strong>esorab<strong>il</strong>e colpevole decl<strong>in</strong>o dell’<strong>in</strong>tera nostra civ<strong>il</strong>tà.<br />

8


A<br />

La tensione del f<strong>il</strong>o<br />

affari amicizia amore<br />

9


Affari<br />

Nòta nòta che tè troaré notàt!<br />

Nota nota che troverai annotato<br />

10


Lo ricordo bene quel libretto con <strong>il</strong> quale la mamma andava a fare la spesa da Neve e Stelli, titolari<br />

di un piccolo negozio d’alimentari <strong>in</strong> Via Pezzotti al numero 5 ad Adro, <strong>in</strong> Franciacorta. Lo ricordo perché<br />

ogni tanto sbirciavo per conoscerne <strong>il</strong> contenuto: un arido elenco di cifre che, sommate, a f<strong>in</strong>e mese determ<strong>in</strong>avano<br />

<strong>il</strong> debito da saldare con la busta del papà Angelo, operaio alla Falck a Sesto San Giovanni, <strong>il</strong><br />

solo a portare avanti la famiglia allietata da 5 bamb<strong>in</strong>i.<br />

Ghet ciapàt la busta? Hai preso i soldi, la paga, sì <strong>in</strong>somma, <strong>il</strong> salario? Sì la paga, perché lo stipendio<br />

lo prendevano solo gli impiegati. Sott<strong>il</strong>e dist<strong>in</strong>zione, vero? Ma aveva la sua valenza.<br />

Certo, per <strong>il</strong> bottegaio, ma questa valeva anche per <strong>il</strong> panettiere, <strong>il</strong> negoziante di tessuti e altri commercianti,<br />

era un rischio annotare <strong>il</strong> tuo debito sul libretto. Il rischio, appunto, di trovarsi con un libretto<br />

zeppo di numeri e poi non riscuotere nulla. Ma, <strong>in</strong> quei tempi, l’onestà faceva parte del Dna dei poveri.<br />

Cercate di immag<strong>in</strong>are la stessa scena ai giorni nostri. Non sarebbe più possib<strong>il</strong>e, anche perché i piccoli<br />

negozi stanno scomparendo. Fate una prova. Presentatevi alla cassa di un supermercato e chiedete di<br />

pagare con <strong>il</strong> libretto. Vi chiederanno <strong>il</strong> libretto degli assegni, naturalmente! Chiameranno anche la vostra<br />

banca per un controllo, statene certi. Per la verità <strong>in</strong> qualche bar ancor oggi qualche titolare accetta di<br />

segnare <strong>il</strong> vostro debito su un notes. Piccole cifre, f<strong>in</strong>o ad un massimo di 20-30 euro. Incredib<strong>il</strong>e a dirsi. Di<br />

solito perde i soldi e anche <strong>il</strong> cliente! Nòta, nòta che tè troaré notàt…<br />

11


Amicizia<br />

A dì dè sé tè fé amici<br />

a dì la verità tè è nemici<br />

Dicendo di sì ti fai amici<br />

dicendo la verità ti fai nemici<br />

12


Verità sacrosanta! E’ la vita, come sempre maestra, ad <strong>in</strong>segnarti che questo proverbio è tristemente<br />

vero. “E’ terrib<strong>il</strong>e per un uomo scoprire improvvisamente che per tutta la vita non ha detto altro che la<br />

verità”. Così Oscar F<strong>in</strong>gal O’Flaherthe W<strong>il</strong>ls W<strong>il</strong>de nel suo romanzo: “L’importanza di chiamarsi<br />

Ernesto”. Fac<strong>il</strong>e immag<strong>in</strong>are che quell’uomo avrà sicuramente pochi amici. Dove sta, a questo punto, <strong>il</strong><br />

paradosso? Nel fatto che puoi chiedere la verità solo ai nemici. Con <strong>il</strong> disagio che ne consegue.<br />

Cerco conforto nei sacri testi. Nell’Ecclesiaste ecco la famosa frase: “Qui <strong>in</strong>veni <strong>il</strong>lum (amicum) <strong>in</strong>veni<br />

thesaurum”. Ma la vita, per l’ennesima volta maestra, <strong>in</strong>segna <strong>il</strong> contrario. Se trovi un tesoro, <strong>in</strong>fatti, trovi<br />

tanti amici. Allora puoi anche permetterti di dire verità scomode senza pericolo di perderli. Nel dubbio non<br />

mi resta che fare mia un’altra massima di Oscar W<strong>il</strong>de: “La verità? Per cortesia, risparmiamocela.”<br />

R<strong>il</strong>eggendo “Tenera è la notte” di Francis Scott Fitzgerald, forse ho trovato la chiave di volta del<br />

problema <strong>in</strong> una frase bellissima e terrib<strong>il</strong>e. Eccola: “Fra i trent’anni e i quaranta sentiamo <strong>il</strong> bisogno di<br />

amici. Dopo i quaranta sappiamo che non ci salveranno più di quanto ci abbia salvati l’amore.”<br />

Ho superato da quattro lustri i fatidici quarant’anni, dunque…<br />

13


Amore<br />

E’l n’ha mangiàt dè carne dè còll<br />

Ne ha mangiato di carne di collo<br />

14


Aprite un <strong>libro</strong> di detti dialettali e cercate la parola Amore. Li troverete tutti datati. Con tanti saluti alla<br />

conv<strong>in</strong>zione che l’amore non ha tempo.<br />

Ho scelto questo proverbio perché sembra scritto secoli fa. Lo immag<strong>in</strong>ate un ragazzo dei nostri tempi<br />

che passa ore e ore sotto la f<strong>in</strong>estra o <strong>il</strong> balcone dell’amata, con <strong>il</strong> capo rivolto verso l’alto, nella speranza<br />

di vederla apparire? Perché poi un ragazzo dovrebbe perdere tempo quando, è notorio, sono ormai le<br />

ragazze a prendere l’<strong>in</strong>iziativa? No, la carne di collo, se permette, oggigiorno se la possono permettere<br />

(forse) solo le ragazze che aspettano <strong>il</strong> pr<strong>in</strong>cipe azzurro. Poi arriva <strong>il</strong> pr<strong>in</strong>cipe. Solo che, spesso, è di tutti i<br />

colori meno che azzurro.<br />

“Sono <strong>in</strong>namorato? – Sì, poiché sto aspettando.” Così Roland Barthes nel suo fondamentale saggio<br />

“Frammenti di un discorso amoroso”. Splendido Barthes quando racconta la storia d’amore tra <strong>il</strong> mandar<strong>in</strong>o<br />

e la cortigiana. “Un mandar<strong>in</strong>o era <strong>in</strong>namorato di una cortigiana. “Sarò vostra – disse lei, - solo quando<br />

voi avrete passato cento notti ad aspettarmi seduto su uno sgabello, nel mio giard<strong>in</strong>o, sotto la mia f<strong>in</strong>estra”.<br />

Ma, alla novantanovesima notte, <strong>il</strong> mandar<strong>in</strong>o si alzo, prese <strong>il</strong> suo sgabello sotto <strong>il</strong> braccio e se<br />

n’andò”.<br />

Se vi capita di trovare un ragazzo con <strong>il</strong> collo taur<strong>in</strong>o, non fatevi <strong>il</strong>lusioni. Nessuna ora passata sotto<br />

<strong>il</strong> balcone o f<strong>in</strong>estra <strong>in</strong> attesa dell’amata. Quasi sicuramente sta frequentando una palestra.<br />

15


B<br />

Neve su Brescia<br />

beghe<br />

17


Beghe<br />

En casa ghè sèmper piaghe<br />

Se ’l-òm èl gha ‘l bigaröl<br />

E la fòmna braghe<br />

In casa ci son sempre piaghe<br />

se l’uomo porta <strong>il</strong> grembiule<br />

e la donna le brache<br />

18


Il mondo è cambiato! Aveva ragione mia nonna Lucrezia quando sul letto di morte mi confidava che<br />

non voleva morire. Il motivo? “Giacom<strong>in</strong>o – mi sussurrava con un f<strong>il</strong> di voce – come vorrei cont<strong>in</strong>uare a<br />

vivere per sapere quante cose cambieranno <strong>in</strong> futuro. Invece…” Cara nonna Lucrezia, è vero. Ne avresti<br />

viste delle belle! Meglio che certe cose tu non le abbia ne vissute ne <strong>in</strong>tuite.<br />

Sapessi, nonna Lucrezia, quanti uom<strong>in</strong>i con ‘l bigaröl ci sono <strong>in</strong> giro oggigiorno! Tu sei sempre stata<br />

conv<strong>in</strong>ta che ci si sposa tra uom<strong>in</strong>i e donne. Questo per far nascere i bamb<strong>in</strong>i. Altri tempi! Oggi non è più<br />

così. Il mondo è cambiato, s’è evoluto. Non è più necessario per fare i bamb<strong>in</strong>i che i genitori siano un<br />

maschio e una femm<strong>in</strong>a. Oggi una coppia di sposi può essere formata da due uom<strong>in</strong>i o da due donne. No,<br />

non chiedermi come fa una coppia così assortita a fare i bamb<strong>in</strong>i, perché è troppo complicato spiegartelo.<br />

In virtù di questi epocali cambiamenti si modificano anche i proverbi. In teoria quello sopra citato<br />

vale f<strong>in</strong>o ad un certo punto. In casa ora ‘l bigaröl lo possono portare entrambi gli uom<strong>in</strong>i, e le braghe ambedue<br />

le donne. Non mi è noto se le piaghe <strong>in</strong> casa siano sparite per via di questo nuovo modo di concepire<br />

la coppia. Starò a vedere. In fondo chi vivrà vedrà.<br />

Una domanda. Henri Bergons riscriverebbe, come ha fatto <strong>in</strong> L’evoluzione creatrice, che: “La vita<br />

non procede per associazione e addizione di elementi, ma per dissociazione e divisione”? Ne dubito fortemente.<br />

19


C<br />

Canti all’osteria<br />

carità cimitero comandare<br />

21


Per tègner sö la sosta<br />

del còrp e dèl moràl,<br />

la regola piö giösta<br />

l-è chèsta sensa fàll:<br />

èl bé e ‘l bù notàl<br />

‘l brot desmentegàl<br />

Carità<br />

22<br />

Per tenere su la carica<br />

del nostro corpo e del morale<br />

la regola più simpatica<br />

è questa senza eguale:<br />

<strong>il</strong> bene e <strong>il</strong> buono segnalarlo<br />

e <strong>il</strong> brutto dimenticarlo


Esattamente <strong>il</strong> contrario di quanto avviene oggigiorno. Basta accendere la televisione o sfogliare i<br />

giornali per capire come gira <strong>il</strong> mondo. Splendido questo pensiero del più grande e conclamato poeta della<br />

l<strong>in</strong>gua bresciana: Angelo Canossi.<br />

Sembrano frasi scritte sulla sabbia quelle di San Paolo, quando nella sua lettera ai Cor<strong>in</strong>zi (12, 4-5)<br />

affermava: “La carità è paziente, la carità è benevola, non ha <strong>in</strong>vidia, la carità non si vanta, non si gonfia,<br />

non agisce disonestamente, non cerca <strong>il</strong> proprio <strong>in</strong>teresse, non si adira.” Ribadiva Sant’Agost<strong>in</strong>o, nei suoi<br />

sermoni, che la carità equivale all’<strong>in</strong>sieme di tutti i precetti.<br />

Perché allora nella nostra società sembra prevalere <strong>il</strong> male? Che abbia ragione la Genesi la dove si<br />

legge che l’ist<strong>in</strong>to del cuore umano è <strong>in</strong>cl<strong>in</strong>e al male f<strong>in</strong> dall’adolescenza (8, 21)?<br />

23


Cimitero<br />

Nà al nomer disissèt<br />

Andare al numero 17 di Via M<strong>il</strong>ano<br />

24


Quando si dice <strong>il</strong> caso! Il celebre cimitero “Vant<strong>in</strong>iano” di Via M<strong>il</strong>ano <strong>in</strong> Brescia è ubicato al numero<br />

civico 17. Per i superstiziosi non è proprio un numero simpatico. Il motivo? Semplice. Scrivete <strong>il</strong> numero<br />

17 <strong>in</strong> cifre romane. Eccolo: XVII. Ora dimenticate che è un numero e usatelo come fossero lettere dell’alfabeto.<br />

Fatto? Bene. Ora anagrammate <strong>il</strong> tutto. Il risultato? VIXI. Il suo significato <strong>in</strong> lat<strong>in</strong>o? Da brivido:<br />

“Ho vissuto”! In tema d’anagrammi non è da meno <strong>il</strong> famigerato numero 13. Infatti, se anagrammate la frase:<br />

“Al numero tredici”, <strong>il</strong> risultato non è certo meno <strong>in</strong>quietante: “I creduli tremano”! Può bastare, grazie.<br />

Perché “Vant<strong>in</strong>iano” e quando fu costruito <strong>il</strong> “Camposanto”? Da una piccola pubblicazione editata <strong>il</strong> 1°<br />

novembre 1877: “Tra le fabriche di Brescia recenti la più cospicua è <strong>il</strong> Camposanto, un ch<strong>il</strong>ometro circa discosto<br />

dalla porta a sera, costrutto sui disegni dell’architetto Rodolfo Vant<strong>in</strong>i. Vietata con decreto 5 settembre 1806<br />

la sepoltura nelle chiese e negli annessi sagrati (nelle chiese di Brescia numeravansi 1087 avelli), fu nel 1808<br />

comperato <strong>il</strong> terreno, benedetto ai 19 gennaio 1810 da mons. Gabrio Maria Nava di santa memoria, e si<br />

com<strong>in</strong>ciò a sepelirvi <strong>il</strong> giorno dopo, cont<strong>in</strong>uando a portar al Fopone, fuori porta S. Alessandro, i morti degli<br />

spedali. Al comune di Brescia erano allora uniti Fiumicello e Urago con porzione de’ comuni di S.Nazaro<br />

Mella, S.Alessandro, Mompiano e S.Bartolomeo; che per ciò usano ancora <strong>il</strong> cimitero della città. Era un quadrato<br />

c<strong>in</strong>to di muro, col lato di 150 metri: sorgea nel mezzo una gran groce di ferro; e una croce di ferro o di<br />

legno, col nome e qualche altra parola, si ponea sulla fossa di ogni sepolto. Ma già queste croci, dip<strong>in</strong>te, dorate,<br />

variamente adorne, faceano manifesta la pietà de’ congiunti: e quale per suo defunto sortiva la fossa appie’<br />

del muro di c<strong>in</strong>ta, v’<strong>in</strong>canstrava una pietra con epigrafe. Ne rammento alcuni cui mi fermava a r<strong>il</strong>egger fanciullo:<br />

e a canto un’aiuola sem<strong>in</strong>ata di fiori, su cui pioveva un salice i pallidi rami. Ugo Foscolo avea nel 1807<br />

<strong>in</strong> Brescia pubblicato <strong>il</strong> suo carme, e di Verona rispostogli P<strong>in</strong>demonte; e Federigo Borgno, maestro nelle nostre<br />

scuole, voltato que’ versi <strong>in</strong> esametri lat<strong>in</strong>i. Cantano i due poeti la religione de’ sepolcri naturale e antica quanto<br />

la civ<strong>il</strong>tà: scoppiava or essa da tutti i cuori”.<br />

25


Comandare<br />

E ché l’è la me cà ché, e ché cümande me ché<br />

e höi sai chi chè a ché e chi chè e ché<br />

Questa è la mia casa e qui comando io<br />

e voglio sapere chi va e chi viene <strong>in</strong> questo posto<br />

26


Dubito che le ultime generazioni di bresciani abbiano mai cantato (o sentito cantare) questa canzone.<br />

Il sabato e la domenica sera, poco prima di far ritorno a baita, gli uom<strong>in</strong>i (per farsi coraggio…) cantavano<br />

nei lic<strong>in</strong>sì o nelle osterie questa canzone. Volevano affermare, a parole, che a casa propria erano loro<br />

a comandare. Beata <strong>in</strong>genuità. Lo sapevano tutti che erano le mogli a comandare!<br />

Comandare. E’ evidente a tutti che questo desiderio è proprio <strong>in</strong>sito nella natura umana. Scriveva<br />

John K. Galbraith, nel suo saggio Il nuovo stato <strong>in</strong>dustriale, che entrando <strong>in</strong> qualunque forma d’attività<br />

organizzata, una chiesa, una banda, un ufficio governativo, una commissione parlamentare, una casa di piacere,<br />

<strong>il</strong> nostro primo ist<strong>in</strong>to è di chiedere chi comanda.<br />

Preferisco pensare come Goethe che, nel suo Götz von Berlich<strong>in</strong>gen, affermava conv<strong>in</strong>to: “Colui solo<br />

è felice e grande che per essere qualcosa non ha bisogno né di comandare nè di ubbidire”.<br />

27


D<br />

Lo spaventapassere<br />

debiti dio donna<br />

29


Debiti<br />

Va pör lènt a pagà<br />

i pöl desmentegà<br />

Va pure adagio a pagare<br />

si possono dimenticare<br />

30


Chi si dimentica? Lo Stato? Le banche? Ma mi faccia <strong>il</strong> piacere! “Paga le tasse e imposte con un sorriso”,<br />

affermava ammiccante, tempo fa, una campagna pubblicitaria del Governo per <strong>in</strong>durre i contribuenti<br />

a pagare <strong>il</strong> dovuto. Io sono andato all’Esatri per fare <strong>il</strong> mio dovere e pagare, appunto, <strong>il</strong> dovuto. Con un<br />

sorriso, naturalmente! Ma loro volevano i soldi! Così me ne sono andato.<br />

Lasciamo perdere, per carità di patria, le banche. Con quei maledetti computer che nel giro di pochi<br />

secondi sanno tutto, o quasi, di te, non ci sono più scorciatoie. “La vita sarebbe impossib<strong>il</strong>e se ricordassimo.<br />

Tutto sta a scegliere quello che si deve dimenticare”, affermava Maurice Mart<strong>in</strong> du Gard nel suo Petite<br />

suite de maximes et caractères. In verità, io da tempo ho scelto cosa dimenticare. Ma lor signori evidentemente<br />

no.<br />

Non mi resta che sperare che s’avveri quanto scritto da Jacques Ba<strong>in</strong>v<strong>il</strong>le <strong>in</strong> Lectures: “La facoltà<br />

di dimenticare, fortissima negli <strong>in</strong>dividui, lo è ancora di più nelle società umane”. Splendido pensiero!<br />

Speriamo che sia valido anche per le società di capitale, per azioni, Srl, Sas, e l’Esatri…<br />

31


Dio<br />

Signùr, vò ‘l si che mé sö ‘n tabalòre.<br />

Tignìm la mà söl cò, che nò ‘l mè sòre.<br />

Signore, voi sapete che io non sono <strong>in</strong>telligente.<br />

Tenetemi la mano sulla testa che non esca di senno.<br />

32


Che bellissimo atto di fede! Chiedere a Dio di rimanere um<strong>il</strong>i per non <strong>in</strong>superbirsi, perdere <strong>il</strong> contatto<br />

con la realtà di tutti i giorni e aspettarsi un aiuto per non uscire di senno. Che nò ‘l mè sòre! Stupenda<br />

espressione figurata che vuol rimarcare l’auspicio che la testa, esposta all’aria, non gli evapori. Sorare, dunque,<br />

sciorare, che deriva dal lat<strong>in</strong>o volgare (e)xaurare, esporre all’aria, appunto.<br />

C’è un altro term<strong>in</strong>e <strong>in</strong> dialetto bresciano con <strong>il</strong> quale si vuol identificare un tabalore, un fessacchiotto,<br />

ecco. È la parola Tananai. Secondo <strong>il</strong> Dizionario della L<strong>in</strong>gua Italiana di <strong>Giacomo</strong> Devoto e Gian<br />

Carlo Oli, significa: “Confusione prodotta da gente che parla ad alta voce, con concitazione”. Invece, nella<br />

l<strong>in</strong>gua bresciana, Tananai, significa essere <strong>in</strong>genuo, timido, imbranato.<br />

Chi non ricorda la storiella della pettoruta e provocante signora che, davanti al giovanotto timido e<br />

goffo, stanca di aspettare una sua avance mentre si trovavano sulla pista da ballo, non trovò di meglio che<br />

attirarlo a sè sussurrandogli <strong>in</strong> un orecchio, sulle note di una vecchia canzone di Frank S<strong>in</strong>atra: Strensem<br />

tananai…<br />

33


Donna<br />

“L’immag<strong>in</strong>azione delle donne è molto rapida; balza <strong>in</strong> un attimo dall’ammirazione all’amore, dall’amore<br />

al matrimonio”. Così Jane Austen <strong>in</strong> Orgoglio e pregiudizio (Darcy).<br />

Scegliere una frase dialettale per identificare nel bene e nel male la donna è impresa assai ardua.<br />

Sono tantissimi, e tutti con un fondo di verità, i proverbi e modi di dire <strong>in</strong>ventati negli anni dai nostri<br />

nonni. Per questo <strong>il</strong> lettore mi perdonerà se all’<strong>in</strong>izio di questo capitolo ho messo un pensiero sulla<br />

donna non <strong>in</strong> dialetto ma <strong>in</strong> l<strong>in</strong>gua italiana.<br />

Tra le tante frasi dialettali ne ho scelte alcune che, sono certo, attireranno la curiosità del lettore.<br />

34


La belèssa dè le fòmme la düra tré dé:<br />

fresca sbiadida e lassomela lé<br />

La bellezza delle donne dura tre giorni:<br />

fresca sbiadita e lasciamola perdere<br />

Spietata analisi della breve giov<strong>in</strong>ezza delle donne che abitavano <strong>in</strong> campagna, dedite ai lavori nei<br />

campi. Splendide nella loro giov<strong>in</strong>ezza prima del matrimonio; sbiadite poi per le numerose maternità e per<br />

<strong>il</strong> duro lavoro nei campi. Quasi dimenticate quando <strong>il</strong> corpo precocemente sfioriva sotto <strong>il</strong> sole cocente,<br />

per <strong>il</strong> lavoro nella stalla e <strong>in</strong> casa.<br />

Io le ricordo bene queste donne franciacort<strong>in</strong>e. Le ricordo quando venivano ad aiutare a bater. Ho<br />

ancora negli occhi quella curiosa macch<strong>in</strong>a che provvedeva a trebbiare <strong>il</strong> grano. Quell’aggeggio <strong>in</strong>fernale<br />

che pareva le fauci di un misterioso animale che, nel suo movimento dall’alto <strong>in</strong> basso, serviva per imballare<br />

i gambi del frumento <strong>in</strong> balle di paglia.<br />

Ma ricordo ancor di più le belle ragazze che arrivavano dal vic<strong>in</strong>ato per aiutare la mamma e la nonna<br />

nel preparare <strong>il</strong> cibo per i contad<strong>in</strong>i. Non mi sfuggiva certo la loro malizia e <strong>il</strong> loro nascondersi nel fien<strong>il</strong>e,<br />

con alcuni contad<strong>in</strong>i del luogo, durante qualche breve pausa dal duro lavoro. Poi si sposavano. Qualche<br />

anno dopo erano quasi irriconoscib<strong>il</strong>i.<br />

È la vita, bellezza!<br />

35


Quando la fòmna la mèt le braghe<br />

prega ‘l Signür che bé la tè aghe<br />

Quando la donna <strong>in</strong>dossa i pantaloni<br />

prega <strong>il</strong> Signore che te la mandi buona<br />

Un pensiero da far rabbrividire le femm<strong>in</strong>iste! Sicuramente datato questo modo di pensare, oggi quasi<br />

superato anche nel più retrogrado dei cervelli umani. Eppure non era così un tempo. Chi porta le braghe<br />

en chè la cà ché? urlavano i nostri nonni! Gli uom<strong>in</strong>i, solo gli uom<strong>in</strong>i.<br />

Ma <strong>il</strong> mondo cambia, le persone modificano <strong>il</strong> loro modo di essere, di pensare. Oggi, a ben guardare,<br />

le donne portano quasi niente…<br />

36


Grassessa fa belèssa<br />

Grassezza fa bellezza<br />

Raccontala alle donne d’oggi! Almeno sotto le nostre latitud<strong>in</strong>i. Non la pensano così, <strong>in</strong>vece, nei paesi<br />

arabi dove una donna <strong>in</strong> carne è <strong>il</strong> massimo della libid<strong>in</strong>e. Da noi la moda impone la quasi magrezza. Il<br />

risultato non può che essere l’aumento dell’anoressia. I terrib<strong>il</strong>i effetti di questa patologia li abbiamo sotto<br />

gli occhi.<br />

Donne italiane grasse, non disperate. Stiamo marciando a grandi falcate verso una società multietnica.<br />

A prevalenza islamica. Dunque…<br />

37


La fòmna che gha nissü udùr<br />

la sènt dè bù<br />

La donna che non si profuma<br />

sente di buon odore<br />

L’odore della pelle! Unico e <strong>in</strong>confondib<strong>il</strong>e <strong>in</strong> ognuno di noi. Grande la sua valenza erotica <strong>in</strong> ogni<br />

corpo. Semmai <strong>il</strong> problema sta nel riconoscerlo questo profumo. Ah<strong>in</strong>oi! Tutto questo diventa ogni giorno<br />

più diffic<strong>il</strong>e, con grande gioia dei creatori di profumi. Di chi la colpa? Dell’<strong>in</strong>qu<strong>in</strong>amento certamente. Ma<br />

anche dell’uso e abuso dei profumi, saponi, bagnoschiuma e quant’altro. Uso e abuso che non permettono<br />

più al nostro odorato di percepire quei feromoni che <strong>il</strong> nostro corpo, splendido mediatore e messaggero<br />

di sensazioni, emana <strong>in</strong> ogni momento della giornata.<br />

Molti, penso, conosceranno l’aneddoto che riguarda Napoleone Bonaparte quando, tornando v<strong>in</strong>citore<br />

da una battaglia, mandò <strong>in</strong> avanscoperta un suo fido messaggero per <strong>in</strong>formare la moglie che stava<br />

tornando a casa. Non senza ricordagli d’<strong>in</strong>formare la consorte di non lavarsi! Certamente. Perché <strong>il</strong> corpo<br />

pulito e profumato avrebbe perso gran parte degli odori, gli umori e le percezioni che fanno <strong>in</strong>confondib<strong>il</strong>e<br />

e unica ogni pelle, ogni sentore.<br />

38


E<br />

Autoritratto<br />

eredità<br />

39


Eredità<br />

El pianzer dè l’erede,<br />

sotà la maschera ‘l-è ‘n rider<br />

Il pianto dell’erede<br />

sotto la maschera è un riso<br />

40


Accidenti! Adesso mi è chiara la scritta che spesso trovo sulle lapidi nei vari cimiteri che settimanalmente<br />

visito <strong>in</strong> città e d<strong>in</strong>torni. “Signore, non ti chiediamo perché ce l’hai tolto, ma ti r<strong>in</strong>graziamo per avercelo<br />

dato”. Giusto, anzi, giustissimo. Se ben ricordo più <strong>il</strong> morto è ricco e più le lacrime sono copiose. Bella<br />

forza, risponderebbe Teognide di Megara. Non era, <strong>in</strong>fatti, lui che nelle Sentenze affermava conv<strong>in</strong>to che<br />

non si piange un morto che non ha lasciato ricchezze?<br />

Avete notato queste vedove <strong>in</strong>consolab<strong>il</strong>i, piangenti sulla bara del marito, come nel giro di pochi mesi<br />

rifioriscono a nuova vita?<br />

Dubito che al mio funerale ci saranno lacrime e stridor di denti. Infatti, da tempo ho fatto mia la massima<br />

bresciana che dice: “Té a ma, tè a ma / che èrgu i maierà. / La ròba la resta, / e té tè tòca ‘ndà”. Vale<br />

a dire: risparmia, risparmia, vedrai che qualcuno godrà di questo. Le cose terrene restano, ma tu te ne<br />

dovrai andare. Me ne guardo bene di fare <strong>il</strong> risparmioso!<br />

Dicevano i nostri nonni che quando Maria magra la öl troàt, töte le porte la gha spalancàt. Bellissimo<br />

<strong>il</strong> nome dato alla morte: Maria magra. Curiosa anche la frase Tirà i sgarlècc, per significare la morte di una<br />

persona. Tutto questo per non pronunciare la parola morte! Per pudore, probab<strong>il</strong>mente. Come per pudore<br />

s’<strong>in</strong>dica con la frase Chèl de süra per <strong>in</strong>dicare Iddio.<br />

41


F<br />

La sigaretta con le cart<strong>in</strong>e<br />

f<strong>il</strong>astrocca furbizia<br />

43


F<strong>il</strong>astrocca<br />

Sere le che andae a Nae, go encuntràt el cüràt de Nae<br />

El ma dumandàt endo che nae<br />

Go dit che nae a Nae a truà el pret de Nae<br />

Stavo andando a Nave quando ho <strong>in</strong>contrato <strong>il</strong> curato di Nave.<br />

Mi ha chiesto dove andavo. Gli ho detto che stavo andando a Nave<br />

a far visita al prete di Nave.<br />

44


Bellissima questa f<strong>il</strong>astrocca-sciogl<strong>il</strong><strong>in</strong>gua per la verità poco conosciuta. Tutta giocata sul term<strong>in</strong>e<br />

“Nae”, <strong>in</strong>teso come comune di Nave, e “nae” come voce del verbo andare, è la dimostrazione che <strong>il</strong> dialetto<br />

bresciano non è per niente truce come molti pensano. Sembra perf<strong>in</strong>o melodioso!<br />

Con tanti saluti a chi denigra <strong>il</strong> nostro modo “barbaro” di esprimerci. Certo se appari <strong>in</strong> televisione,<br />

e ogni tre parole esclami “pota”, le cose cambiano. Di sicuro fai ridere. Purtoppo per <strong>il</strong> popolo bue è tutto<br />

ciò che conta.<br />

45


Furbizia<br />

Chi prèst galèl èl sé farà prèst i la capunérà<br />

Chi si fa presto galletto verrà altrettanto<br />

presto <strong>in</strong>capponato<br />

46


Oggi si fa un gran parlare del bullismo come fosse una conseguenza dell’attuale modo di vivere. Da<br />

che mondo è mondo nella comunità umana la presenza del bullo, del furbo, dell’astuto di turno è sempre<br />

stata presente. Sono numerosi i detti dialettali sulla furbizia, astuzia e superbia.<br />

Il detto proposto mi è piaciuto perché contiene un term<strong>in</strong>e che pochi conoscono. A meno che non<br />

abbia fatto <strong>il</strong> contad<strong>in</strong>o: capunèra. La capunéra è ancor’oggi la gabbia dove si racchiudono i polli. O,<br />

meglio ancora, i capponi per portarli all’<strong>in</strong>grasso. Deriva dal term<strong>in</strong>e capunà, ovvero castrare, evirare i galli.<br />

Un <strong>in</strong>tervento chirurgico, quello di evirare i galli, dove l’esperienza e la perizia erano fondamentali.<br />

Il term<strong>in</strong>e capunà ha anche un’altro significato, sicuramente più volgare. Chi? Che la gnàra là? Me lo<br />

zabèla capunado. Sì, <strong>in</strong>somma, me la sono già “fatta”. Oggi è una frase <strong>in</strong> disuso, e solo pochissimi, penso,<br />

ricorderanno questa espressione triviale.<br />

47


G<br />

Innamorati<br />

gioventù giustizia<br />

49


En bù zuenòt: che ‘l g’habe pà<br />

che ‘l sie sà<br />

che ‘l vègne dè lontà<br />

che l’sie ‘n bù cristià<br />

Gioventù<br />

50<br />

Un buon giovane (da sposare):<br />

che abbia pane<br />

che sia sano<br />

che venga da lontano<br />

sia buon cristiano


Accidenti, peggio che sottoporsi alla visita di leva! Avete notato come non era <strong>in</strong>dispensab<strong>il</strong>e che la<br />

ragazza fosse o meno <strong>in</strong>namorata del giovanotto?<br />

Abbia pane, ovvero che abbia un lavoro, ma soprattutto che abbia voglia di lavorare… Lo confesso.<br />

Questo concetto mi era terrib<strong>il</strong>mente ostico. Ma tant’è.<br />

Che sia sano. Ah sì? Per i rachitici, mi sembra di capire, nisba.<br />

Che venga da lontano. Per cortesia, non mettiamola giù dura. Bastava che fosse del paese vic<strong>in</strong>o.<br />

Pochi ch<strong>il</strong>ometri di distanza, ecco. Ma non c’era <strong>il</strong> detto: “Moglie e buoi dei paesi tuoi?” Oggi, comunque,<br />

nessun problema per le ragazze. I giovanotti non arrivano solo dai monti e dal piano, ma da m<strong>il</strong>le città<br />

lontane. Di tutti i colori, perf<strong>in</strong>o!<br />

E sia un buon cristiano. Immediato <strong>il</strong> ricordo va a un pensiero di Don Lorenzo M<strong>il</strong>ani tratto da<br />

Esperienze pastorali. Eccolo. “Dopo tutto l’istruzione religiosa che occorre per vivere da buon cristiano è <strong>in</strong><br />

fondo poca cosa”.<br />

Care ragazze e ragazzi d’oggi. Che (s)fortuna essere nati ai giorni nostri!<br />

51


Giustizia<br />

La talomora la tè le mosche<br />

ma la mòla le vespe<br />

La ragnatela trattiene le mosche<br />

ma lascia andare le vespe<br />

52


Bellissima questa sim<strong>il</strong>itud<strong>in</strong>e, molto sim<strong>il</strong>e ad un altro proverbio della nostra l<strong>in</strong>gua. Eccolo: “Le leggi<br />

je come le talamore, le mosche le resta ‘n trappola e i muscù le j-a sfondà”. Vale a dire: “Le leggi sono come<br />

le ragnatele, le mosche restano <strong>in</strong> trappola, ma i mosconi le sfondano”. Qualcuno se la sente di smentire<br />

queste due perle di saggezza? Affermare che la verità, alla f<strong>in</strong>e, si fa sempre strada, suona ai giorni nostri<br />

terrib<strong>il</strong>mente ironico.<br />

Prima o poi? Purtroppo poi! Quasi sempre si parla di lustri. A questo proposito faccio mio <strong>il</strong> pensiero<br />

di Louis Anto<strong>in</strong>e Lion Sa<strong>in</strong>t-Just quanto nei suoi Frammenti sulle istituzioni repubblicane scrisse:<br />

“F<strong>in</strong>ché vedrete qualcuno nell’anticamera dei giudici e dei tribunali, <strong>il</strong> governo non val nulla. E’ un orrore<br />

che si sia costretti a chiedere giustizia”.<br />

La storia delle talamore, ragni, mosche, moscer<strong>in</strong>i, vespe e via dicendo? Non mi resta che chiedere<br />

aiuto a Carlo Porta, poeta m<strong>il</strong>anese d’altri tempi, con un sonetto tratto da La giustizia de sto mond. Ecco<br />

<strong>il</strong> suo pensiero <strong>in</strong> proposito: “La giustizia de sto mond / la someja a quij ragner /ordii <strong>in</strong> longh, tessuu <strong>in</strong><br />

redond, / che se troeuva <strong>in</strong> di t<strong>in</strong>er. / D<strong>in</strong><strong>in</strong>guarda a mosch, moschitt / che barzega on poo arent; / purghe<br />

subet el delitt / malappena ghe dan dent. / All’<strong>in</strong>contra i galavron /sbusen, passen senza dagn, / e la gionta<br />

del scarpon / la ghe tocca tutta al ragn.” La traduzione? “La giustizia di questo mondo somiglia a quelle<br />

ragnatele ordite <strong>in</strong> lungo, tessute <strong>in</strong> tondo, che si trovano nelle t<strong>in</strong>aie. Dio guardi mosche e moscer<strong>in</strong>i che<br />

vi bazzicano un po’ vic<strong>in</strong>o; purgano subito <strong>il</strong> delitto non appena vi si impigliano. Invece i calabroni bucano,<br />

passano senza danno, e la giunta dello scarpone tocca tutta al ragno”.<br />

E’ poi vero che c’è <strong>in</strong> tutti noi quest’ansia di giustizia? E se avesse ragione Henry Louis Mencken<br />

quando, nel suo Prejudices, The Series affermò che l’<strong>in</strong>giustizia è relativamente fac<strong>il</strong>e da sopportare; quella<br />

che proprio brucia è la giustizia?<br />

53


H<br />

Il torrente<br />

hòi (<strong>in</strong> lumezzanese: soldi)<br />

55


Hòi<br />

Piöcc fa piöcc<br />

e hòi fa hòi<br />

I pidocchi fanno pidocchi<br />

i soldi fanno soldi<br />

56


Bello questo detto lumezzanese. Oh Dio, da tempo avevo <strong>il</strong> sospetto che fosse proprio così. La vita,<br />

come sempre maestra, s’è <strong>in</strong>caricata di dimostrarmelo anno dopo anno. Parlo dei soldi, naturalmente! Per<br />

i pidocchi basta salire su un treno.<br />

Invidio <strong>il</strong> mio collega e amico Egidio Bonomi che da buon lumezzanese saprà sicuramente l’orig<strong>in</strong>e<br />

del term<strong>in</strong>e hòi. Non vado da anni allo stadio “Mario Rigamonti” <strong>in</strong> Brescia, dove <strong>in</strong>contravo <strong>il</strong> buon<br />

Egidio <strong>in</strong>tento a preparare <strong>il</strong> suo articolo di colore sulla partita. Ora non saprei come r<strong>in</strong>tracciarlo per chiedere<br />

lumi. Caro Egidio, ricordi quante discussioni sul term<strong>in</strong>e L’èn giànde?<br />

Incredib<strong>il</strong>e la parlata dialettale lumezzanese! Senza alcun dubbio uno dei dialetti più <strong>in</strong>teressanti <strong>in</strong><br />

assoluto al mondo. Ho detto <strong>in</strong>teressante, non bello. Straord<strong>in</strong>ariamente diffic<strong>il</strong>e poi comprenderlo.<br />

Chi volesse approfondire questa tematica, consiglio la lettura del volume: “Proèrbe e modi di dì che<br />

ghe ree a hcomparì”, di Enzo Saleri e edito dal Comune di Lumezzane – Assessorato alla Cultura – “Felice<br />

Saleri” – 2003.<br />

Numerosi sono i proverbi lumezzanesi che esaltano sì <strong>il</strong> guadagno, ma soprattutto i soldi accantonati.<br />

Eccone tre. “Ol prom rehparmiat, l’è òl prom guadagnat”, <strong>il</strong> primo risparmiato è <strong>il</strong> primo guadagno;<br />

“Palanca rehpmarmiada, palanca guadagnada”, soldo risparmiato, soldo guadagnato; “Vàl de piò òna<br />

palanca rehpmarmiada che hènto guadagnade”, vale di più un soldo risparmiato che cento guadagnati.<br />

57


I<br />

Transumanza sotto la pioggia<br />

<strong>in</strong>vidia<br />

59


Invidia<br />

Se l’<strong>in</strong>vidia la fos féer<br />

tot èl mònt èl scòtarès<br />

Se l’<strong>in</strong>vidia fosse febbre<br />

tutto <strong>il</strong> mondo scotterebbe<br />

60


Vuoi vedere che l’aumento della temperatura del nostro bello ma malato pianeta è colpa dell’<strong>in</strong>vidia<br />

e non dell’effetto serra o della corrente del golfo?<br />

L’<strong>in</strong>vidia. Forse <strong>il</strong> più odioso dei vizi capitali. Non so se r<strong>in</strong>graziare Dio per avermi preservato da questo<br />

vizio. Faccio quest’affermazione dopo aver letto che per Bertrand Russel l’<strong>in</strong>vidia è la base della<br />

democrazia. Adesso capisco perché sir Wiston Leonard Spencer Church<strong>il</strong>l affermava che la democrazia<br />

è <strong>il</strong> peggior modo di governare una nazione! Sono <strong>in</strong>vece conv<strong>in</strong>to che avesse ragione Miguel de<br />

Cervantes y Saavedra quando, nel Don Chisciotte (parte II, cap. VIII), affermava: “O <strong>in</strong>vidia, radice di<br />

mali <strong>in</strong>f<strong>in</strong>iti, verme roditore di tutte le virtù!”<br />

Per quella legge non scritta per la quale molte volte è vero esattamente <strong>il</strong> contrario, vuoi vedere che<br />

aveva ragione Jules Renard quando nel suo Diario scriveva che l’<strong>in</strong>vidia è <strong>il</strong> sentimento più fortificante e<br />

più puro?<br />

Io però sto con Virg<strong>il</strong>io quando nelle sue Bucoliche (I. 11) affermava: “Non equidem <strong>in</strong>video; m<strong>in</strong>or<br />

magis”, ovvero: “Non ti <strong>in</strong>vidio; mi meraviglio, piuttosto.” Nonostante tutte queste dotte citazioni, che bella<br />

è la frase dialettale summenzionata con la quale i nostri nonni def<strong>in</strong>ivano l’<strong>in</strong>vidia!<br />

61


L<br />

La battitura della falce<br />

lavorare<br />

63


Lavorare<br />

L-è riàt còl mal dè la m<strong>il</strong>za<br />

E’ arrivato col male alla m<strong>il</strong>za<br />

64


Vale a dire era già stanco e distrutto ancor prima di com<strong>in</strong>ciare a lavorare. Parliamoci chiaro. Vero<br />

che l’articolo 1 della nostra Costituzione afferma perentorio che: “L’Italia è una Repubblica democratica<br />

fondata sul lavoro”. Non posso nemmeno dimenticare però quanto voleva significare Cesare Pavese affibbiando<br />

ad un suo capolavoro <strong>il</strong> titolo di: Lavorare stanca!<br />

Ho sempre guardato con simpatia, f<strong>in</strong> dai tempi del mio duro lavoro sulla catena di montaggio alla<br />

Fratelli Onofri di Renate Brianza, <strong>in</strong> prov<strong>in</strong>cia di M<strong>il</strong>ano, chi batteva la fiacca e prendeva <strong>il</strong> tutto con sana<br />

f<strong>il</strong>osofia. Mi dava sui nervi, <strong>in</strong>vece, chi pontificava con frasi tipo: L’òio dè gombèt l’-è sant e benedèt, ovvero<br />

è santo e benedetto colui che ha volontà di lavorare; oppure: laurà dè spala, <strong>in</strong>tendendo lavorare sodo.<br />

Laurà e unùr j-è nassìc ensèma, lavoro e onore sono nati assieme, mi faceva capire come certe nascite siamesi<br />

fossero assolutamente <strong>in</strong>opportune e dolorose!<br />

Ero, <strong>in</strong>vece, più propenso ad amare detti come questo: Ai pultrù passa mai l’ùra, la passa svelta<br />

‘nvece a chi laura. Accidenti a voi! Perché voler velocizzare <strong>il</strong> tempo quando già di per sé trascorre velocissimo<br />

senza possib<strong>il</strong>ità di fermarlo? Mistero.<br />

El laurà dè la festa, èl va föra dè la f<strong>in</strong>estra, cioè <strong>il</strong> lavoro festivo va fuori dalla f<strong>in</strong>estra, ovvero non<br />

rende. Devono sapere i lettori più giovani che nei tempi andati, quando <strong>il</strong> lavoro nei campi urgeva e non<br />

si poteva procrast<strong>in</strong>are, per poterlo svolgere <strong>in</strong> un giorno festivo occorreva <strong>il</strong> permesso del parroco, pena<br />

un peccato <strong>in</strong> più da confessare. Sia benedetto <strong>il</strong> nome di papa Giovanni Paolo II che durante <strong>il</strong> suo pontificato<br />

ha più volte esortato i cristiani ad onorare la domenica, giorno del Signore, astenendosi dal lavoro.<br />

Vi posso assicurare che nessun parroco dell’italico suolo potrà mai dire di essere stato da me <strong>in</strong>terpellato<br />

per ottenere <strong>il</strong> permesso di lavorare la domenica. Mai. E così sia.<br />

65


M<br />

Bucato al torrente<br />

mestieri modi di dire morire<br />

67


Mestieri<br />

Ghè riàt él peroloto<br />

È arrivato lo stagn<strong>in</strong>o<br />

68


Inconfondib<strong>il</strong>e la sua voce quando, con una pentola appoggiata ad una spalla, arrivava gridando:<br />

“Fomne, ghe riàt el peroloto”. Le donne accorrevano portando le pentole bisognose di riparazione. Lui, el<br />

peroloto, le portava via e poche ore dopo riappariva con le pentole tirate a lucido. Incuriosito un giorno lo<br />

seguii. Scoprii così che poco lontano aveva attizzato un fuoco alimentato da carbone. Seduto per terra, con<br />

la pentola tra le gambe, lavorava di p<strong>in</strong>za e stagno per tappare i buchi. Poi compiva <strong>il</strong> percorso all’<strong>in</strong>verso<br />

per consegnare le pentole lustre. Il tutto per poche lire.<br />

Qualcuno ricorda cos’è el perol? Era, anzi è, una grandissima pentola, riempita d’acqua, che i nostri<br />

nonni attaccavano ad una pesante catena, di buon matt<strong>in</strong>o, quando era stata presa la decisione di uccidere<br />

<strong>il</strong> maiale. L’acqua, portata ad ebollizione, serviva per pulire <strong>il</strong> maiale appena ucciso dal massadur che,<br />

a quei tempi, si serviva di uno scan<strong>il</strong> per uccidere la povera bestia con un colpo al cuore. Il tutto tra orrib<strong>il</strong>i<br />

grida di dolore del maiale. Oggi, grazie a Dio, è obbligatorio ucciderlo con un colpo di pistola alla testa<br />

per impedire che abbia a soffrire.<br />

Il mestiere del peroloto è scomparso, come tanti altri: Penso al ‘l moleta, alla facia töta ströta de ‘l<br />

spasacamì, ‘l frèr per ferà i cavalli e i muli. Dove sono f<strong>in</strong>iti i scarpulì ? Oggi per riparare le scarpe devi<br />

andare al supermercato da Mister M<strong>in</strong>t. Ma per favore! Dove sono i contad<strong>in</strong>i che batt la ransa? E la signora<br />

Giusepp<strong>in</strong>a perché non va più al fiume a laá i panisèi èn cül büsu?<br />

No, non vedrò più la copia di coniugi di Adro che abitavano <strong>in</strong> Via Roma al numero 56. Io li ricordo<br />

bene. In bicicletta, tra<strong>in</strong>ando un curioso trabiccolo andavano famiglia per famiglia a cardare la lana degli<br />

stremàss e delle prepònte. La loro professione? Sgarsì. Inut<strong>il</strong>e dire che i stremàss sono i materassi e le<br />

prepònte sono i piumoni.<br />

Sono passati pochi decenni ma sembra un secolo. Per ricordarli non ci resta che ammirarli nei quadri<br />

di Ottor<strong>in</strong>o Garosio ed Eugenio Busi e tanti altri bravi artisti bresciani.<br />

69


Modi di dire<br />

Ma va a Pifiù a ferà gli òch col mart<strong>il</strong>ì de pàja!<br />

Ma vai a Piffione a ferrare le oche con <strong>il</strong> martello di paglia!<br />

Bellissima ed elegante espressione <strong>in</strong>ventata dai bresciani per mandare un seccatore a quel paese. Il<br />

paese, anzi una frazione di Borgosatollo, è ed era, appunto, Piffione. Nell’immag<strong>in</strong>ario comune Piffione, <strong>in</strong><br />

verità posto nell’immediata periferia sud di Brescia, era un luogo lontano, privo d’<strong>in</strong>teresse, anonimo. Talmente<br />

privo d’<strong>in</strong>teresse e di attrazioni che nel 1996 <strong>il</strong> s<strong>in</strong>daco di Borgosatollo Giorgio Zanard<strong>in</strong>i, alla richiesta<br />

dell’Istituto Geografico De Agost<strong>in</strong>i di <strong>il</strong>lustrare sotto l’aspetto paesaggistico, culturale e quant’altro <strong>il</strong> suo comune,<br />

scrisse testualmente “…Il paese non offre spunti panoramici o attrazioni meritevoli di attenzione…”;<br />

“…Non vi sono fiere o mercati…”; “…Non si ricordano nomi di persone <strong>il</strong>lustri nate nel paese…”;<br />

“…Bibliografia locale: non esiste nulla…”. E via dicendo. Figuratevi la frazione Piffione!<br />

La storia di ferrare le oche con <strong>il</strong> martello di paglia? E’ un rafforzativo. Andare a Piffione, dunque un<br />

luogo lontano e disagiato, e per di più essere costretti a ferrare le oche con un martello di paglia, penso<br />

sia <strong>il</strong> peggio del peggio. In verità non si trattava di mettere a ferro le palme dei piedi delle oche, ma <strong>in</strong>chiodarle<br />

al suolo aff<strong>in</strong>ché non si muovessero. Il mancato movimento, come logico, impedisce ai poveri animali<br />

di disperdere energie, favorendo così un più veloce aumento del peso corporeo.<br />

Attenzione! Se per sbaglio pronunciate la fatidica frase <strong>in</strong> presenza di un borgosatollese, o di un abitante<br />

di Piffione, la risposta, immediata, sarà sicuramente questa: “Vero, però ferriamo solo gli òch di passaggio…”.<br />

Cioè voi!<br />

70


Gnurànt come le bòbe<br />

Ignorante come l’upupa<br />

Povero uccello! Sto parlando, naturalmente, dell’Upupa (Upupa epops), della famiglia degli Upupidi,<br />

appartenente all’ord<strong>in</strong>e dei coraciformi. Diffuso <strong>in</strong> Europa, Asia e Africa settentrionale, d’<strong>in</strong>verno migra verso i<br />

tropici. Considerato nella mitologia come presagio di sventura, per colpa del suo verso (un basso “pu-pu-pu”),<br />

a tutt’oggi nel sentire comune è identificato come “uccello del malaugurio”. Non la pensava così <strong>il</strong> grande<br />

Aristofane quando nella sua commedia “Gli Uccelli” affidò all’Upupa (secondo <strong>il</strong> mito <strong>in</strong> orig<strong>in</strong>e era un uomo<br />

- <strong>il</strong> re di Tracia Tereo - trasformato poi <strong>in</strong> un uccello), <strong>il</strong> ruolo di mediatore tra Pistetero, Evelpide e i volat<strong>il</strong>i.<br />

Per la cronaca Aristofane portò <strong>in</strong> scena la commedia, ancor oggi attualissima, nel 414 a.C.<br />

Splendido uccello l’Upupa! Tanto è vero che la L.i.p.u. (Lega Italiana Protezione Uccelli) l’ha <strong>in</strong>serito<br />

nel suo logo. Nel vocabolario camuno-italiano di Mauro Fiora (1997), alla parola bòbe la traduzione è:<br />

sempliciotto. Nella l<strong>in</strong>gua bresciana è fuor di dubbio che si usa <strong>il</strong> nome dialettale dell’Upupa (Bòba) per<br />

identificare una persona ignorante. Già mi sembra una forzatura considerarlo un uccello del malaugurio per<br />

via del suo canto notturno, figuriamoci portarlo a simbolo della stupidità!<br />

Un mio amico di Gussago di nome Cesare Paletti, cacciatore, mi ha dato questa chiave di lettura<br />

per tentare di dare un’ <strong>in</strong>terpretazione al detto dialettale. L’Upupa ha questa particolarità: scesa dall’albero,<br />

si posa sul terreno e può rimanere nel breve spazio di qualche metro, anche per ore, senza un’apparente<br />

motivazione se non quella di muoversi su se stessa compiendo piccoli passi, e nient’altro.<br />

Può bastare questo per essere etichettati come ignoranti? Aspetto lumi dagli specialisti della nostra<br />

l<strong>in</strong>gua bresciana per nuove <strong>in</strong>terpretazioni.<br />

71


Daghela mia a lüle che l’è ‘n magütt<br />

Non concedere le tue grazie a quel manovale<br />

Penso che <strong>il</strong> significato sia comprensib<strong>il</strong>e a tutti. Una breve precisazione è necessaria. Prima di tutto<br />

occorre rimarcare che magütt non fa parte del dialetto bresciano, ma m<strong>il</strong>anese. Nel dialetto bresciano è el<br />

manöàl, <strong>il</strong> manovale, l’aiutante del muratore. Ma, visto che moradùr e manöàl, che hanno costruito le varie<br />

M<strong>il</strong>ano Uno, Due, Tre, San Felice, Rodano e via di seguito, era e sono maestranze bresciane, logico e scontato<br />

che <strong>il</strong> term<strong>in</strong>e m<strong>il</strong>anese di magütt fosse successivamente fagocitato dal nostro e dagli altri dialetti lombardi.<br />

L’etimologia di magütt? Franco Ogliari nel suo <strong>in</strong>teressante volume: Questa nostra M<strong>il</strong>ano, edito da<br />

Mursia nel 1972, racconta che questo term<strong>in</strong>e nasce dal vizio dei m<strong>il</strong>anesi di usare parole abbreviate.<br />

Infatti, durante la costruzione del Duomo di M<strong>il</strong>ano, <strong>il</strong> monsignore addetto alla registrazione delle<br />

maestranze, stanco di scrivere <strong>in</strong> lat<strong>in</strong>o i nomi di una delle figure più importanti impiegate nell’edificazione<br />

del Duomo m<strong>il</strong>anese, ovvero <strong>il</strong> magister carpentarius, identificando con questo nome <strong>il</strong> carpentiere,<br />

<strong>in</strong>vece di scrivere ogni volta accanto al nome del carpentiere la parola lat<strong>in</strong>a, l’abbreviava scrivendo mag.<br />

(gister) ut (come sopra), ovvero magut. Aggiungere un’altra T f<strong>in</strong>ale, dunque magütt, e identificare <strong>in</strong> questo<br />

term<strong>in</strong>e (errando) l’aiuto muratore, fu una normale evoluzione del l<strong>in</strong>guaggio comune.<br />

72


Inut<strong>il</strong>e dire che la frase dialettale sopra citata era <strong>in</strong>dirizzata dai giovanotti alle ragazze che si accompagnavano<br />

con qualche manovale del paese o d<strong>in</strong>torni. Conv<strong>in</strong>ti di una loro supposta superiorità, dovuta<br />

al fatto di svolgere una professione come l’impiegato, geometra, ragioniere e via dicendo, cercavano di far<br />

desistere l’oggetto delle loro attenzioni dal cont<strong>in</strong>uare a frequentare un semplice magütt.<br />

Il maldestro epiteto quasi mai raggiungeva <strong>il</strong> suo scopo. Non avevano ancora capito quei ragazzotti<br />

che <strong>il</strong> muratore, <strong>il</strong> manovale, l’idraulico, lo scaricatore di porto o <strong>il</strong> camionista erano (e sono) ancor oggi<br />

gli uom<strong>in</strong>i più concupiti dalle donne (di qualsiasi estrazione sociale) per via dei feromoni che, sembra, riescono<br />

a produrre grazie al lavoro manuale, attirando di conseguenza <strong>il</strong> sesso femm<strong>in</strong><strong>il</strong>e. Chiedete all’endocr<strong>in</strong>ologo.<br />

O, meglio ancora, alle vostre amiche più <strong>in</strong>time…<br />

73


Va a fat encülà<br />

Va a farti <strong>in</strong>c…<br />

Classico modo di dire (o di fare?) <strong>in</strong> l<strong>in</strong>gua bresciana per mandare a quel paese un seccatore o un<br />

amico. D’accordo. Molto meno elegante che mandare qualcuno a Piffiù a ferà gli òch, ma certamente più<br />

<strong>in</strong>cisivo ed immediato.<br />

Ho un ricordo personale di questo curioso modo di mandare al diavolo qualcuno. Torbiato di Adro,<br />

<strong>in</strong> Franciacorta. Periodo estivo. Dalla città arriva <strong>il</strong> classico ragazz<strong>in</strong>o per bene, ben vestito, faccia da fighetto.<br />

Noi ragazzi eravamo vestiti poveramente. Ai piedi noi aveamo i tròcoi, sì <strong>in</strong>somma, gli zoccoli. Anche<br />

d’<strong>in</strong>verno. Questo ragazz<strong>in</strong>o ai piedi aveva i patt<strong>in</strong>i a rotelle! Mai visto una cosa sim<strong>il</strong>e. Ci pensò l’amico<br />

Alberto Nembr<strong>in</strong>i ad “<strong>in</strong>terrogarlo” a dovere. “Ehi gnaro, da che band egnet te?” Risposta: “Me sö de<br />

Brèsa”. Di rimando <strong>il</strong> bravo Alberto: “Caso ciaàt, le de Brèsa encülàt!”.<br />

Un modo di dire volgare? Quasi certamente sì. Anche se, a mio giudizio, volgare è quasi sempre la<br />

persona che la pronuncia; quasi mai <strong>il</strong> detto <strong>in</strong> se stesso. Thomas Edward Lawrence, nelle sue Lettere,<br />

affermava che un tocco di volgarità – nel senso migliore della parola – era <strong>in</strong>dispensab<strong>il</strong>e alla grande arte.<br />

Conv<strong>in</strong>to della bontà di quest’asserzione era anche <strong>il</strong> grande direttore d’orchestra rumeno, scomparso<br />

alcuni anni fa <strong>in</strong> Italia, Sergiu Celibidache. Memorab<strong>il</strong>i le sue direzioni d’orchestra con la Rai di Tor<strong>in</strong>o,<br />

accompagnato al pianoforte da Arturo Benedetti Michelangeli.<br />

74


Un giorno <strong>il</strong> maestro stava provando con la F<strong>il</strong>armonica di Monaco <strong>il</strong> primo movimento della S<strong>in</strong>fonia<br />

n. 1 <strong>in</strong> do maggiore, opera 25, di Sergej Seergevič Prokofev, s<strong>in</strong>fonia nota con <strong>il</strong> nome di “Classica”. I giovani<br />

orchestrali la stavano eseguendo <strong>in</strong> maniera troppo “pulita”, corretta, quasi perfetta. La cosa, come logico,<br />

non piacque al maestro. Con un gesto perentorio fermò l’orchestra e rivolgendosi loro ricordò che nella<br />

l<strong>in</strong>gua italiana c’è un term<strong>in</strong>e curioso: cafone, che significa uomo volgare nei gesti, nel modo di fare. “Ecco –<br />

cont<strong>in</strong>uò Celibidache – ci vuole un po’ di volgarità anche nella musica, soprattutto <strong>in</strong> questo movimento”. I<br />

suoi ragazzi sorrisero alla battuta, capirono cosa voleva da loro <strong>il</strong> maestro, e la prova f<strong>in</strong>ì <strong>in</strong> gloria.<br />

Qualcuno mi potrà obbiettare che una l<strong>in</strong>gua, un dialetto non ha nulla a che vedere con l’arte. Io<br />

non ne sarei così conv<strong>in</strong>to. Non posso dimenticare quanto affermava Karl Kraus nei suoi Detti e contraddetti,<br />

quando affermava che <strong>il</strong> l<strong>in</strong>guaggio è la madre, non l’ancella del pensiero. Cosa c’è di più artistico<br />

del l<strong>in</strong>guaggio, quando lo stesso suo rifiuto equivale a una morte? Mi sembra fosse Roland Barthes<br />

nelle sue Mitologie ad esprimere questo concetto.<br />

Se però fossi costretto a scegliere se essere mandato a quel paese da un bresciano o da un veneto,<br />

non avrei dubbi: sceglierei <strong>il</strong> veneto. “Ma va <strong>in</strong> mona” è, <strong>in</strong>fatti, <strong>il</strong> loro beneaugurante epiteto. Fatti salvi<br />

gli <strong>in</strong>alienab<strong>il</strong>i diritti e gusti personali, non ci possono essere dubbi: va <strong>in</strong> mona è tutt’altra cosa. Se non<br />

altro per questione di centimetri. O no?<br />

75


Morire<br />

Le nàt a sta bià<br />

Ha cambiato residenza<br />

76


Devo all’amico e collega carissimo Ton<strong>in</strong>o Zana questo pensiero, che ha <strong>il</strong> potere di rendermi triste<br />

non appena affiora nella mia mente. Chi abita nella bassa bresciana, e soprattutto nella zona d’Orz<strong>in</strong>uovi,<br />

comprende benissimo <strong>il</strong> suo terrib<strong>il</strong>e significato: ” E’ andato a star via e ora riposa <strong>in</strong> pace (almeno si spera)<br />

al cimitero.”<br />

A Borgosatollo, <strong>in</strong>vece, non aspettano nemmeno che siano gli altri a chiedere che f<strong>in</strong>e hai fatto. In<br />

prima persona ecco la terrib<strong>il</strong>e frase: “Nò ai pi”, per <strong>in</strong>dicare, appunto, la propria morte. Il perché di questa<br />

espressione è presto detto. Come tutti sanno f<strong>in</strong> dall’<strong>in</strong>izio del XIX secolo, <strong>il</strong> cimitero era sempre ubicato<br />

vic<strong>in</strong>o alla chiesa. Ci pensò Napoleone, con <strong>il</strong> famoso editto di Sa<strong>in</strong>t-Cloud del 5 settembre 1806 a<br />

vietare la sepoltura nelle chiese e vic<strong>in</strong>anze. L’amm<strong>in</strong>istrazione di Borgosatollo <strong>in</strong>dividuò la nuova area<br />

cimiteriale ai conf<strong>in</strong>i del centro abitato. Si provvide anche all’alberazione del viale d’entrata del cimitero<br />

piantumando numerosi esemplari di Cedro Deodara, comunemente chiamati <strong>in</strong> dialetto: “Pi”. La storia racconta<br />

della puntuale moria dei cedri durante <strong>il</strong> periodo estivo. Conv<strong>in</strong>ti che fosse un problema di clima,<br />

ogni anno con tenacia provvedevano a ripiantumarli. Fu un concittad<strong>in</strong>o di nome Guidetti a capire e risolvere<br />

<strong>il</strong> problema. La colpa non era del clima ma della mancanza di terreno vegetale, essendo <strong>il</strong> sottosuolo<br />

costituito da sabbia e ghiaione. Il problema fu risolto, a spese del Guidetti, creando due profonde tr<strong>in</strong>cee<br />

riempite da terreno fert<strong>il</strong>e e profondo.<br />

“Nò ai pi” o “Le nàt a sta bià”, purtroppo bisogna morire. Non mi conforta nemmeno Foscolo con i<br />

suoi Sepolcri! Che assurdità chiedersi se all’ombra dei cipressi e dentro l’urne, anche se confortate di pianto,<br />

<strong>il</strong> sonno della morte fosse men duro. Il Foscolo, sempre lui, si permetteva di urlare:“Morte, tu mi darai<br />

fama e riposo”. Non m’importa nulla della fama. Mi basta <strong>il</strong> riposo, f<strong>in</strong>almente eterno, spero!<br />

Il pensiero di dover fare un giorno San Martì mi angoscia però ogni giorno di più.<br />

77


N<br />

L’arrot<strong>in</strong>o con la “Lambretta”<br />

noi<br />

79


Nòtèr - Noàltèr<br />

Noi<br />

80


Ho vissuto quasi quarant’anni <strong>in</strong> Franciacorta. In dialetto franciacort<strong>in</strong>o Noi si traduce con la parola<br />

Nòtèr. Ho sempre sorriso al modo con <strong>il</strong> quale i cittad<strong>in</strong>i lo traducono: Noàltèr! Questo plurale majestatis<br />

lo identificavo, e cont<strong>in</strong>uo ad identificarlo, come un rafforzativo quasi voluto per comunicare una loro supposta<br />

superiorità. Per questo mi ha sempre dato fastidio. Ma tant’è.<br />

Però che strano. Il Noàltèr e <strong>il</strong> Nòtèr mi fanno ricordare Luigi Pirandello quando nel “Sei personaggi<br />

<strong>in</strong> cerca d’autore” fa dire al padre: “Ciascuno di noi (…) si crede “uno” ma non è vero: è “tanti,” signore,<br />

“tanti,” secondo tutte le possib<strong>il</strong>ità d’essere che sono <strong>in</strong> noi: “uno” con questo, “uno” con quello – diversissimi!<br />

E con l’<strong>il</strong>lusione, <strong>in</strong>tanto, d’esser sempre “uno per tutti,” e sempre “quest’uno” che ci crediamo, <strong>in</strong><br />

ogni nostro atto. Non è vero! Non è vero!”<br />

Lo sospettavo. Che bello pensare che tutte le persone come noi sono Noi, mentre tutti gli altri sono<br />

Loro…<br />

81


O<br />

Il maglio<br />

odio<br />

83


Odio<br />

L’odio e l’<strong>in</strong>vidia<br />

i fa orbi i òm<br />

L’odio e l’<strong>in</strong>vidia<br />

rendono ciechi gli uom<strong>in</strong>i<br />

84


Dell’<strong>in</strong>vidia ho già detto. Strano che questo terrib<strong>il</strong>e vizio non lo si trovi segnalato nei sette peccati<br />

capitali. Sarà anche vero che l’odio molte volte appare come un difetto dell’immag<strong>in</strong>azione, ma io lo ritengo<br />

un peccato “odioso”. Di sicuro subdolo se è vero che Georges Bernanos, nel suo Diario d’un curato<br />

di campagna, scriveva: “E’ più fac<strong>il</strong>e di quanto si creda odiarsi. La grazia è dimenticare.”<br />

Che strano. Molti pensano che l’odio assomigli <strong>in</strong> maniera sputata all’amore. Ma per amare bisogna<br />

conoscersi. Mentre si può odiare e odiarsi senza conoscersi affatto! Questo concetto appare ancor più fondato<br />

nelle nostra società, dove i rapporti con gli altri sono sempre più lab<strong>il</strong>i e distanti.<br />

Esiste però un’altra corrente di pensiero che ha dell’odio una concezione diversa, quasi sublimale. E’<br />

<strong>il</strong> caso di Forster M. Edwuard, che nel suo <strong>libro</strong> Il viaggio più lungo, scriveva: “Tu pensi che sia bello non<br />

odiare nessuno. Io ti dico che è da crim<strong>in</strong>ali. Tu vuoi amare tutti allo stesso modo, e questo è peggio che<br />

impossib<strong>il</strong>e, è sbagliato”. Sulla stessa lunghezza d’onda Samuel Butler nei suoi Taccu<strong>in</strong>i: “Poco importa<br />

cosa odiamo, purché odiamo qualcosa”.<br />

Charles Baudelaire si sp<strong>in</strong>ge oltre. “L’odio è un liquore prezioso, un veleno più caro di quello dei<br />

Borgia; perché è fatto con <strong>il</strong> nostro sangue, la nostra salute, <strong>il</strong> nostro sonno e due terzi del nostro amore.<br />

Bisogna esserne avari”. Così nel lavoro: L’arte romantica.<br />

Eppure qualcosa di vero ci dev’essere se Svetonio nel suo Tiberius scrive che lo stesso imperatore,<br />

nei suoi commenti contro la sua persona, amava ripetere: “Oder<strong>in</strong>t dum probent”, ovvero: “Od<strong>in</strong>o, purché<br />

approv<strong>in</strong>o”. Sbaglio se affermo che questo pensiero di Tiberio potrebbe essere un efficace slogan per qualche<br />

personaggio politico alle prese con la prossima campagna elettorale?<br />

Che poi, come afferma <strong>il</strong> proverbio bresciano, l’odio <strong>in</strong>sieme all’<strong>in</strong>vidia renda ciechi gli uom<strong>in</strong>i, questo<br />

è un altro paio di maniche. Non è forse vero che <strong>il</strong> cieco attira compassione? Strano però che la cecità<br />

dello spirito provochi quasi sempre l’odio.<br />

85


P<br />

Preghiera <strong>in</strong> stalla<br />

povertà pregare<br />

87


Povertà<br />

Àrdel bè àrdel töt,<br />

‘l-òm senza sòlcc come ‘l-è bröt<br />

Guardalo bene guardalo tutto<br />

l’uomo senza denari come è brutto<br />

88


Essere poveri. Una dura condizione non solo fisica ma soprattutto morale. “Vi saranno sempre dei<br />

poveri <strong>in</strong> mezzo a voi, per la ragione che vi saranno sempre dei ricchi, cioè degli uom<strong>in</strong>i avidi e duri che<br />

cercano non tanto <strong>il</strong> possesso quanto <strong>il</strong> potere.” Così Georges Bernanos nel suo memorab<strong>il</strong>e Diario d’un<br />

curato di campagna.<br />

E’ proprio vero che l’uomo senza denari è anche brutto fisicamente? Temo che avessero ragione<br />

Edmond e Jules de Goncuourt quando nel loro trattato Idee e sensazioni affermarono conv<strong>in</strong>ti che: “La<br />

miseria ha i suoi gesti. Il corpo stesso alla lunga prende abitud<strong>in</strong>i da povero”. Badate a quelle affasc<strong>in</strong>anti,<br />

e nel contempo terrib<strong>il</strong>i, fotografie di gruppo di scolaresche e feste della classe degli anni del primo e<br />

secondo dopoguerra del secolo scorso, e vi conv<strong>in</strong>cerete quanto siano vere le parole di Edmond e Jules<br />

de Goncourt.<br />

Oggi la nostra società è colpita da un’altra terrib<strong>il</strong>e miseria e povertà, apparentemente meno visib<strong>il</strong>e<br />

di quella economica ma sicuramente più subdola: quella culturale. Se è vero, come è vero, che solo l’uomo<br />

colto è libero, ben si comprende l’attuale scarsità di uom<strong>in</strong>i liberi.<br />

89


Anime sante, anime purganti<br />

vòter séref come nòter<br />

nòter deenteròm come vòter.<br />

Preghì ‘l Signür pèr nòter<br />

nòter pregheròm pèr vòter<br />

chè podome na töcc en paradis<br />

Pregare<br />

90<br />

Anime sante, anime purganti<br />

voi eravate come noi<br />

noi diventeremo come voi.<br />

Pregate <strong>il</strong> Signore per noi<br />

noi pregheremo per voi<br />

aff<strong>in</strong>ché tutti possiamo<br />

andare <strong>in</strong> paradiso.


Bellissima questa preghiera <strong>in</strong>segnatami da nonna Lucrezia, donna piissima. Accanto alle preghiere<br />

ufficiali della Chiesa, quasi sempre <strong>in</strong> lat<strong>in</strong>o, c’era anche una devozione spicciola, quasi spontanea, composta<br />

da f<strong>il</strong>astrocche e preghiere che erano <strong>in</strong>segnate a noi bamb<strong>in</strong>i, tramandate da padre <strong>in</strong> figlio.<br />

Questa preghiera sulle Anime purganti mi aveva sempre spaventato. Ogni volta che la nonna recitava<br />

questa orazione, ne rimanevo terrorizzato. Perché? E’ presto detto. Colpa di due parole: Anime purganti.<br />

Mi ricordavano, <strong>in</strong>fatti, l’olio di ric<strong>in</strong>o, <strong>il</strong> famigerato purgante che <strong>in</strong> quei tempi era prop<strong>in</strong>ato a noi bamb<strong>in</strong>i<br />

come antidoto a tutti i mali.<br />

91


Un’altra preghiera-f<strong>il</strong>astrocca che mi metteva <strong>in</strong> agitazione era questa:<br />

Va salüde anime sante<br />

no va fo ‘l nome perché sif tròp<br />

èn tante.<br />

Voàltre séref come mè<br />

e mè deentarò come voaltre.<br />

Signür va r<strong>in</strong>grasie chè mif dünat la<br />

grasia de fa un bù dè.<br />

Va preghe dè fam la grasia de fa una<br />

bunö not<br />

a mé e a töcc i mé<br />

e a töcc j-àlter.<br />

92<br />

Vi saluto anime sante<br />

non vi chiamo per nome perché siete<br />

numerose.<br />

voi eravate come me<br />

e un giorno diventerò come voi.<br />

Signore vi r<strong>in</strong>grazio che mi avete dato<br />

la grazia di trascorrere<br />

una buona giornata.<br />

Vi prego di farmi la grazia di poter trascorrere<br />

una buona notte.<br />

a me e a tutti i miei fam<strong>il</strong>iari<br />

e anche a tutti gli altri.<br />

D’accordo. La preghiera si rivolge alle Anime Sante e non a quelle purganti, ma scoprire che<br />

un giorno sarei diventato come loro mi ha condizionato l’<strong>in</strong>tera vita.


Q<br />

Trasporto del letame<br />

quaranta<br />

93


Quaranta<br />

A quaranta èl tira ma èl stanta<br />

A quarant’anni funziona ancora ma con difficoltà<br />

94


Un modo triviale di manifestare <strong>il</strong> proprio disagio per l’età che avanza, con tutti i suoi crucci. Charles<br />

Pégy, nella sua Victor – Marie, comte Hugo, lo faceva con una certa eleganza scrivendo che: “Quarant’anni<br />

è un’età terrib<strong>il</strong>e. Perché è l’età <strong>in</strong> cui diventiamo quello che siamo”.<br />

Curioso <strong>il</strong> modo con <strong>il</strong> quale Edmond e Jules de Goncourt, nel loro Journal, descrivono una donna<br />

a quarant’anni. “La donna di quarant’anni cerca furiosamente e disperatamente nell’amore <strong>il</strong> riconoscimento<br />

del fatto che non è ancora vecchia. Un amante le sembra una protesta contro <strong>il</strong> suo atto di nascita.”<br />

Salvo le solite eccezioni, ancor oggi per la donna i quarant’anni sono un traguardo che ha <strong>il</strong> potere<br />

di mandarla <strong>in</strong> paranoia, terrorizzata di non contare più nulla se non per quelli che l’hanno amata da giovani.<br />

Incredib<strong>il</strong>e errore! Mai età è generosa con <strong>il</strong> mondo femm<strong>in</strong><strong>il</strong>e come quello della maturità. Ma, stranamente,<br />

loro le donne, sembrano non accorgersene!<br />

“Töcc i fröcc a là sö stagiù”, afferma un proverbio bresciano. Basta saperli cogliere e non lasciarli marcire<br />

sul terreno. A quarant’anni i frutti sono copiosi. Ma anche a sessanta, ottanta… Non c’è un altro proverbio<br />

che dice: “Col tép madüra pò i nespoi!” Basta saper aspettare.<br />

95


R<br />

A messa prima<br />

religione ricco<br />

97


Religione<br />

Dè ché a domà Dio proederà<br />

Da oggi a domani Dio provvederà<br />

98


Credere nella Provvidenza. Che grande dono! Quando giovanissimo, con pochissima voglia di lavorare,<br />

anzi, con nessuna voglia, ai miei denigratori ricordavo la Provvidenza e, soprattutto, quel passo del<br />

Vangelo di Matteo (6, 28) laddove Gesù ammoniva gli apostoli con questo splendido pensiero: ”Perciò vi<br />

dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche <strong>il</strong> vostro corpo, di quello<br />

che <strong>in</strong>dosserete; la vita forse non vale di più del cibo e <strong>il</strong> corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del<br />

cielo: non sem<strong>in</strong>ano, né mietono, nè ammassano nei granai; eppure <strong>il</strong> Padre vostro celeste li nutre. Non<br />

contate voi forse più di loro? E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua<br />

vita? E perché vi affannate per <strong>il</strong> vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non f<strong>il</strong>ano.<br />

Eppure vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora se Dio veste<br />

così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca<br />

fede? Non affannatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa <strong>in</strong>dosseremo?”<br />

Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; <strong>il</strong> Padre vostro celeste <strong>in</strong>fatti sa che ne avete bisogno. Cercate<br />

prima <strong>il</strong> regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date <strong>in</strong> aggiunta. Non affannatevi<br />

dunque per <strong>il</strong> domani, perché <strong>il</strong> domani avrà già le sue <strong>in</strong>quietud<strong>in</strong>i. A ciascun giorno basta la sua pena”.<br />

Forte di questa massima evangelica, m’<strong>in</strong>camm<strong>in</strong>ai per le vie del mondo sem<strong>in</strong>ando guai <strong>in</strong> quasi tutti<br />

i cont<strong>in</strong>enti. In occasione dei miei, sempre più rari, ritorni a casa, ricordo ancora i sorrisi di scherno e la<br />

terrib<strong>il</strong>e frase: “Và a laurà lasarù”. Tenni duro f<strong>in</strong>o a quarant’anni, quando ritenni che la Provvidenza avesse<br />

già fatto f<strong>in</strong> troppo per me.<br />

La massima evangelica e dialettale, <strong>in</strong> ogni caso, rimangono valide. Davanti a questa perla di saggezza<br />

bresciana, immediato <strong>il</strong> ricordo a Charles Dickens quando nel suo: Il Circolo di Pickwick scrive: “In<br />

tutto questo c’è una Provvidenza.” Disse Sam. “Certo”.” rispose suo padre, approvando gravemente col<br />

capo. “Senza una Provvidenza, che ne sarebbe degli impresari di pompe funebri, Sammy?”<br />

99


Ricco<br />

El fa ‘l mestér dèl Michelàs<br />

mangià béer e nà a spas<br />

Fa <strong>il</strong> mestiere del Michelaccio<br />

mangiare bere e andare a spasso<br />

100


Il sogno di tutti noi umani. O meglio, di noi poveracci. Perché, occorre dirlo, chi è ricco sfondato<br />

non sempre trova <strong>il</strong> tempo, o la voglia, di fare el Michelàs. Mangiare, bere e viaggiare (mi auguro che andare<br />

a spasso voglia dire questo) non è da tutti. Costa sacrificio, soldi, tempo. Dio sa quanto è prezioso <strong>il</strong><br />

tempo! Senza contare i soldi…<br />

Ebbi modo di notare, <strong>in</strong> passato, che el mestér dèl Michelàs spesso era prerogativa non del ricco sfondato<br />

ma del piccolo arricchito che, trovandosi improvvisamente con qualche palanca <strong>in</strong> tasca, <strong>in</strong>tuiva la<br />

fortuna che gli era capitata tra capo e collo. Con una certa fac<strong>il</strong>oneria spesso metteva a repentaglio la pace<br />

fam<strong>il</strong>iare e la stessa piccola impresa che gli era costata tanti sacrifici.<br />

No, non ho mai <strong>in</strong>vidiato le prime due prerogative dèl Michelàs, ovvero mangiare e bere. Troppo<br />

banale. Mi basta ancor oggi un pezzo di salame, formaggio o stracch<strong>in</strong>o, e un bicchiere di v<strong>in</strong>o rosso nella<br />

scodella bianca per sentirmi un re. Ma quel nà a spas sicuramente si. Per questo motivo quando mio papà<br />

Angelo, al mio ritorno dal servizio m<strong>il</strong>itare nell’ 8^ Reggimento Alp<strong>in</strong>i “Brigata Julia” a l’Aqu<strong>il</strong>a, nel lontano<br />

25 luglio 1965, mi <strong>in</strong>formò a muso duro che la vita consisteva nel lavorare, sposarsi e andare <strong>in</strong> pensione<br />

(<strong>in</strong> attesa della morte, mi è sembrato di capire), presi la valigia e scappai nomade per le vie del<br />

mondo! A modo mio per oltre 20 anni ho fatto la vita dèl Michelas. Ovvero, ho viaggiato, ero ricco. Guido<br />

Piovene, affermava che viaggiare dovrebbe essere sempre un atto di um<strong>il</strong>tà. Ah<strong>in</strong>oi! non sempre è stato<br />

così. Purtroppo.<br />

101


S<br />

La benedizione<br />

salute santi soprannome studiare<br />

103


Salute<br />

L’èn giànde<br />

In malora. Si è ridotto a mangiar ghiande<br />

104


Questa curiosa espressione, tanto cara ai nostri nonni e nonne, è tradotta da Angelo Albrici nel suo<br />

volume: Giöna piö dè Bertoldo con la frase: “In malora. Si è ridotto a mangiar ghiande”. In verità, almeno<br />

<strong>in</strong> Franciacorta, ma anche <strong>in</strong> altre parti della nostra vasta prov<strong>in</strong>cia, ha un significato più ampio. Oserei dire<br />

quasi diverso. Con quest’espressione, <strong>in</strong>fatti, è di solito identificata una persona che sta molto male fisicamente.<br />

Solo <strong>in</strong> senso traslato identifica ai giorni nostri, <strong>in</strong>vece, una persona mal messa sul piano economico.<br />

Nella maggior parte dei casi ancor oggi l’èn giànde vuol significare una persona gravemente ammalata,<br />

sofferente, quasi sempre fisicamente emaciata, magra, quasi <strong>in</strong>capace di stare <strong>in</strong> piedi e di svolgere le<br />

normali attività quotidiane.<br />

Le ghiande, frutto della pianta di Farnia, meglio conosciuta come quercia sotto <strong>il</strong> nostro cielo della<br />

Pianura Padana, cosa c’entrano? C’entrano perché le ghiande, <strong>in</strong> <strong>il</strong>lo tempore, erano raccolte, tostate e mac<strong>in</strong>ate<br />

per preparare un surrogato del caffè. Una brodaglia che Antonio Griffo Flavio Dicas Commeno<br />

Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio, Altezza Imperiale, Conte Palat<strong>in</strong>o, Cavaliere del<br />

Sacro Romano Impero, Esarca di Ravenna, Duca di Macedonia e di Illiria, Pr<strong>in</strong>cipe di<br />

Costant<strong>in</strong>opoli, di C<strong>il</strong>icia, di Tessaglia, di Ponte di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, Conte<br />

di Cipro e di Epiro, Conte e Duca di Drivasto e Durazzo, sì <strong>in</strong>somma, <strong>il</strong> mitico Totò, chiamava ciofeca,<br />

<strong>il</strong> caffè dei poveri.<br />

Dire che una persona l’èn giànde, dunque, vuol significare sì che sta male ed è malmessa; ma <strong>in</strong>direttamente<br />

vuol ricordare quei tempi lontani quando <strong>il</strong> contad<strong>in</strong>o era costretto a sottrarre ai su<strong>in</strong>i <strong>il</strong> prezioso<br />

frutto della quercia, tostarlo e mac<strong>in</strong>arlo nel famoso mac<strong>in</strong><strong>in</strong>o, che si trova ancora al mercat<strong>in</strong>o delle<br />

pulci, per <strong>il</strong>ludersi bevendo quella schifosa brodaglia di “sentire” <strong>il</strong> sapore del caffè, allora prezioso ed<br />

<strong>in</strong>trovab<strong>il</strong>e.<br />

105


Santi<br />

Acqua dè rane acqua dè bés<br />

Sant’Antone ‘l la benedés<br />

Acqua delle rane acqua delle serpi<br />

Sant’Antonio la benedice<br />

106


Era la preghiera che mio nonno <strong>Giacomo</strong> recitava quando mi accompagnava <strong>in</strong> campagna, al<br />

C<strong>in</strong>qu<strong>in</strong>o di Torbiato, una frazione del comune di Adro, prima di bere acqua dal fosso.<br />

Caro nonno <strong>Giacomo</strong>, penso che se tu ora fossi <strong>in</strong> vita, nemmeno l’<strong>in</strong>vocazione a Sant’Antonio<br />

potrebbe salvarti da morte certa se ti azzardassi a bere l’acqua che scorre nei fossi della nostra bella<br />

Franciacorta.<br />

Ma tant’è. Invocare l’aiuto dei santi era un tempo una delle prerogative di chi abitava <strong>in</strong> campagna e<br />

lavorava i campi. Il pane ed <strong>il</strong> companatico dipendevano esclusivamente dal raccolto che <strong>il</strong> buon Dio concedeva<br />

<strong>in</strong> ogni stagione.<br />

Chi ha la mia età ricorda sicuramente le Rogazioni, preghiere recitate dal sacerdote, dai chierichetti<br />

e dalle pie donne che accompagnavano <strong>il</strong> corteo attraverso le strade di campagna, soffermandosi a pregare<br />

davanti alle santelle. Ero particolarmente colpito dalle frasi <strong>in</strong> lat<strong>in</strong>o che <strong>il</strong> sacerdote e le pie donne recitavano.<br />

“A fulgore et tempestate” cantava <strong>il</strong> sacerdote. “Libera nos Dom<strong>in</strong>e” rispondevamo con le donne. E<br />

f<strong>in</strong> qui tutto bene, nel senso che capivo <strong>il</strong> significato. Il problema era l’<strong>in</strong>vocazione successiva: “A peste,<br />

fame et bello”. Bello? Perché mai un uomo bello doveva considerarsi un pericolo per la campagna, tanto<br />

da chiedere aiuto all’Essere Supremo? Un mistero f<strong>in</strong>o a quando, più tardi, mi fu spiegato che bello voleva<br />

dire guerra! Il dramma era l’<strong>in</strong>vocazione: “A morte perpetua”. Da noi chierichetti tradotta con: “A morte<br />

la perpetua”, <strong>il</strong> mio pensiero andava immediatamente alla signora Maddalena, la perpetua di don Giuseppe<br />

Ferrari, parroco di Torbiato, una signor<strong>in</strong>a tanto cara. Perché mai <strong>in</strong>vocare la sua morte? Assurdo! Intuì<br />

che questa strana l<strong>in</strong>gua aveva spesso significati ben diversi da quelli apparenti. A tal punto che… Ma questa<br />

è un’altra storia.<br />

La tradizione delle rogazioni è ormai quasi del tutto scomparsa. Come sta scomparendo la campagna,<br />

purtroppo!<br />

107


Chi öl bèla galèta<br />

per san Zè ‘l la mèta<br />

Chi vuole bozzoli belli<br />

porti <strong>il</strong> seme dei bachi all’<strong>in</strong>cubatrice per San Zeno<br />

108


Ho <strong>il</strong> terrib<strong>il</strong>e sospetto che se chiede a qualche giovane bresciano cosa sono le galète, vi risponderanno<br />

che sono le arachidi. Coltivare i bachi da seta era <strong>in</strong> quel tempo fonte di guadagno. Tutta la casa era<br />

messa a disposizione dei bachi da seta stesi su dei grandi telai. Incredib<strong>il</strong>e <strong>il</strong> rumore dei bachi che mangiavano<br />

le foglie di gelso. Un rumore <strong>in</strong>confondib<strong>il</strong>e che non dimenticherò mai più.<br />

Che spettacolo ammirare <strong>il</strong> baco che spariva lentamente avvolto nel bozzolo color oro! I bozzoli<br />

erano poi venduti. Meno le falopè, i bozzoli andati a male, che nonna Lucrezia faceva bollire per poi, con<br />

grande perizia, recuperare da essi del prezioso f<strong>il</strong>o usato per fare qualche <strong>in</strong>dumento.<br />

Falopo. Pochi ricordano questa curiosa espressione che era quasi sempre affibbiata a una persona di<br />

poco pregio, che aveva fatto c<strong>il</strong>ecca…, ad un fallito nella vita. Ho <strong>il</strong> fondato sospetto che fosse <strong>in</strong> uso solo<br />

<strong>in</strong> Franciacorta.<br />

109


Soprannome<br />

Schitöm<br />

Veramente curiosa quest’espressione dialettale <strong>in</strong>ventata dai nostri nonni per determ<strong>in</strong>are <strong>il</strong> soprannome<br />

di una persona. In passato ogni famiglia era identificata con un soprannome. I componenti della mia<br />

famiglia da parte di padre erano orig<strong>in</strong>ari di Vigolo, <strong>in</strong> prov<strong>in</strong>cia di Bergamo. Curiosamente però ci fu affibbiato<br />

<strong>il</strong> soprannome di Parsanech, ovvero provenienti da Parzanica, paese contiguo a Vigolo, dove la quasi<br />

totalità degli abitanti portavano, e portano, <strong>il</strong> cognome di <strong>Danesi</strong>.<br />

I miei fratelli ed io eravamo, <strong>in</strong>vece, identificati come i preturì, ovvero i nipot<strong>in</strong>i del pretur (<strong>il</strong> pretore).<br />

Mio nonno <strong>Giacomo</strong>, <strong>in</strong> verità, non era pretore, ma un semplice giudice di pace, o qualcosa di sim<strong>il</strong>e.<br />

Ergo eccoci identificati con un soprannome ad hoc.<br />

Alle Fornaci di Torbiato famoso era <strong>il</strong> soprannome affibbiato ad un ragazzo sm<strong>il</strong>zo: Carnera! Erano i<br />

tempi d’oro del campione di pug<strong>il</strong>ato Primo Carnera. Un armadio alto quasi 2 metri. Logico e scontato<br />

che uno magro e piccolo fosse immediatamente bollato con <strong>il</strong> soprannome di Carnera. Sempre alle Fornaci<br />

altro soprannome famoso era quel di Cül néghèr. Il signore <strong>in</strong> oggetto conduceva una piccola osteria dove,<br />

come logico, si beveva v<strong>in</strong>o rosso, anzi, nero. Ergo… Attenzione! Da non confondere con Cül bianch,<br />

schitöm con <strong>il</strong> quale si identificava chi frequentava <strong>in</strong> modo assiduo la parrocchia.<br />

110


A proposito di parrocchia. Chi non ricorda a Torbiato Rus<strong>in</strong>ä del prét? Era la nipote di don Giuseppe<br />

Ferrari, compianto parroco <strong>in</strong> <strong>il</strong>lo tempore. Era Rus<strong>in</strong>ä <strong>il</strong> nostro punto di riferimento <strong>in</strong> parrocchia. Fu lei<br />

ad <strong>in</strong>formarci che <strong>il</strong> matrimonio di Cia Longa, una vedova che si apprestava a seconde nozze con un cittad<strong>in</strong>o<br />

d’Erbusco, si sarebbe svolto alle 3 di notte! Un tempo per le vedove risposarsi voleva dire sottoporsi<br />

ad <strong>in</strong>credib<strong>il</strong>i ironie, che si concretizzavano nel suonare <strong>in</strong>cud<strong>in</strong>e e martello, davanti alla chiesa, <strong>in</strong> segno<br />

di scherno.<br />

Oltre naturalmente al suono delle tole, ovvero scatole di latta che fungevano da gran cassa. Inut<strong>il</strong>e<br />

dire che gli abitanti della piccola frazione di Adro a quell’ora mattut<strong>in</strong>a erano tutti, nessun escluso, strategicamente<br />

sistemati <strong>in</strong> piazza armati di tole, <strong>in</strong>cud<strong>in</strong>e e martello. Il malcapitato don Ferrari fu costretto a<br />

chiudere <strong>il</strong> portone della chiesa perché <strong>il</strong> fracasso impediva di celebrare <strong>il</strong> sacro rito. Cia Longa e <strong>il</strong> novello<br />

sposo “fuggirono” poi a bordo di una vecchia ut<strong>il</strong>itaria, impreziosita dalle tole e quant’altro, <strong>in</strong> direzione<br />

della Bellavista, con dest<strong>in</strong>azione Erbusco.<br />

Altri tempi!<br />

111


Studiare<br />

La àca la gha maiàt i lìber<br />

La mucca gli ha mangiato i libri<br />

112


Con quest’epiteto era bollato chi abbandonava gli studi per <strong>in</strong>capacità o malavoglia. Ma non è solo<br />

questa l’<strong>in</strong>terpretazione data alla summenzionata frase dialettale. Angelo Albrici, nel suo citato <strong>libro</strong> Giöna<br />

Piò de Bertoldo, afferma che: ”S’<strong>in</strong>tende anche che giunto alla lettera acca, che non vale niente ed <strong>in</strong> bresciano<br />

equivale a mucca, non ha proseguito a studiare”.<br />

Sono molte le ironie coniate <strong>in</strong> passato per bollare gli studenti per niente <strong>in</strong>cl<strong>in</strong>i allo studio. Eccone<br />

alcune. Chi tròp èl studia, mat èl deentarà, chi poc èl studia fachì èl resterà. Ovvero: chi studia troppo diventerà<br />

matto; chi studia poco, resterà facch<strong>in</strong>o. Davanti alla prospettiva di diventare matto, logica la scelta per<br />

una sterm<strong>in</strong>ata moltitud<strong>in</strong>e di giovani decidere di studiare poco. Se poi restava facch<strong>in</strong>o, pazienza…<br />

El ghè ‘n sa ‘na pag<strong>in</strong>a dè piö dèl lìber. Ne sa una pag<strong>in</strong>a più del <strong>libro</strong>. Un saccente o solamente<br />

sapeva più di quanto occorreva per vivere <strong>in</strong> quei tempi? Mistero. Non la passava liscia nemmeno <strong>il</strong> laureato<br />

ignorante. I nostri nonni avevano coniato per questo dottore un detto veramente irridente. Eccolo:<br />

Istruìt come ‘l Dutùr dè …gnaga, che al cüràa ‘l cül per ‘na piaga! Dotto come <strong>il</strong> medico di un paese che<br />

curava <strong>il</strong> deretano come una piaga. Può bastare?<br />

113


T<br />

Le cesene<br />

tempo<br />

115


Tempo<br />

Alba rossa: o vènt o gòssa<br />

Alba rossa: o vento o pioggia<br />

116


Il tempo <strong>in</strong> senso meteorologico, naturalmente! Sì, <strong>in</strong>somma, le previsioni del tempo che hanno avuto<br />

nel colonnello Bernacca la pietra m<strong>il</strong>iare. Datemi una nuvola, un uragano e vi costruirò un impero. Di<br />

chiacchiere. Oggigiorno non c’è stazione radiofonica, televisiva, giornali, riviste che non abbiano la loro<br />

rubrica sul tempo che farà. Sarà anche vero che le previsioni degli esperti sono sempre esatte. In verità <strong>il</strong><br />

tempo metereologico risulterà poi quasi sempre sbagliato!<br />

Anche nel cazzeggio giornaliero <strong>il</strong> tempo occupa grande spazio. Ma i nostri nonni come si comportavano<br />

<strong>in</strong> tema di previsioni? Quali gli strumenti a disposizione? Nessuno strumento, ma osservando la natura<br />

e scrutando <strong>il</strong> proprio corpo. Metodi empirici che, quasi sempre, si rivelavano più azzeccati di quelli<br />

emessi oggi con l’aus<strong>il</strong>io di palloni sonda o satelliti.<br />

In primis <strong>il</strong> dolore ai calli! Non c’erano dubbi che <strong>il</strong> dolore ai calli era s<strong>in</strong>tomo sicuro di cambiamento<br />

meteorologico. Sal mìssa e mal dè cai, l’acqua la manca mai. Idem i dolori muscolari o localizzati <strong>in</strong> prossimità<br />

di vecchie fratture ossee. Poi bastava guardare la natura. Come appunto, <strong>il</strong> proverbio dell’alba rossa.<br />

Sim<strong>il</strong>e a quello: rosso di sera buontempo si spera. Quando mercordé èl bagna gioedè, stì sicür che piöf ‘a<br />

venerdé, dicevano i nostri nonni. Il vento aveva una sua valenza particolare. Quando i gài i canta fora<br />

d’ura, se l’aria l’è ciara la sé fa scura.<br />

I cacciatori asserivano conv<strong>in</strong>ti che Gardéna sola bròca, ‘l-è ‘l-<strong>in</strong>vèren che ciòca; ovvero cesena sul<br />

ramo, <strong>in</strong>verno alla porta. La cesena <strong>in</strong>teso come uccello migratore, naturalmente, che ha la particolarità<br />

d’appoggiarsi sui rami secchi più alti. Non dimentichiamoci del vento, altro segnale di cambiamento meteorologico.<br />

Chi abita <strong>in</strong> prossimità di una l<strong>in</strong>ea ferroviaria conosce bene <strong>il</strong> l<strong>in</strong>guaggio del vento. Il suono della<br />

littor<strong>in</strong>a, forte o fleb<strong>il</strong>e, è una sicura previsione meteorologica. A proposito della littor<strong>in</strong>a della l<strong>in</strong>ea Brescia-<br />

Edolo, gestita un tempo SNFT, ora dalle Ferrovie Nord. Sapete come era tradotta quella sigla? Senza<br />

Nessuna Fretta Trasportiamo! O, meglio ancora: “Signor<strong>in</strong>e Non Fatevela Toccare”!<br />

117


U<br />

Natura morta<br />

ungere<br />

119


Ungere<br />

I cadenàs perché nò i scà<strong>in</strong>e bösogna òntai<br />

I catenacci perché non stridano bisogna ungerli<br />

120


Bello <strong>il</strong> term<strong>in</strong>e òntà, per significare oliare. Inut<strong>il</strong>e dire che la frase menzionata vuol significare che<br />

per ottenere qualcosa occorre “ungere”. In caso contrario e diffic<strong>il</strong>e ottenere qualcosa. Così i nostri nonni<br />

identificavano le bustarelle. Nei tempi andati le palanche erano contate. Allora si ricorreva al cibo. Bòca<br />

piena nò la dis dè nò. Un buon banchetto serviva sicuramente alla bisogna.<br />

Ancor più curiosa la frase Ontàga i àer, ovvero ungergli le labbra. Vale a dire gratificarlo con una<br />

mancia. Da non confondere con la frase Cicem i gos, ovvero succhiami sul collo, che quasi sempre aveva<br />

un significato spregiativo.<br />

Meno usata, <strong>in</strong>vece, la frase Töcc i gha la bòca tajada per traèrs. Vale a dire che tutti hanno la bocca<br />

tagliata per traverso, vale a dire a forma di salvadanaio.<br />

121


V<br />

Le storielle del nonno<br />

vecchiaia<br />

123


Vecchiaia<br />

Nemo est tam senex qui se annum non putet posse vivere<br />

Nessuno è tanto vecchio che non creda di poter vivere ancora un anno<br />

Cicerone, Cato Maior de senectute<br />

124


D’accordo, non è <strong>in</strong> dialetto bresciano questo straord<strong>in</strong>ario pensiero, ma <strong>il</strong> lat<strong>in</strong>o è la l<strong>in</strong>gua dei nostri<br />

antenati. Non penso che <strong>in</strong> questa pubblicazione la bellissima espressione lat<strong>in</strong>a possa stonare. Anzi!<br />

Curiosi di sapere come la pensavano i nostri nonni sulla vecchiaia? Come i vecchi di oggi, anche se<br />

l’aspettativa di vita attuale è ben diversa da quella di allora: con <strong>il</strong> terrore. Soprattutto per la paura di f<strong>in</strong>ire<br />

all’ospizio. E per manifestarlo usavano una frase truce per <strong>in</strong>dicare quel luogo: “‘L –è zò èn dei macù”,<br />

ovvero: “E’ ricoverato nell’ospizio dei vecchi”. Curioso e mal<strong>in</strong>conico <strong>il</strong> term<strong>in</strong>e macù che, giustamente,<br />

Giovanni Scaramella nel Dizionario Vocabolario Ortografico Bresciano traduce con: sciocco, macaco.<br />

Un’altra frase dialettale per <strong>in</strong>dicare l’attuale casa di riposo era questa: “ ’Nda a casa bigolèra”. Per <strong>il</strong><br />

semplice motivo che a tavola servivano sempre i bigöi, gli spaghetti nostrani.<br />

Quante volte da parte dei giovani ho ascoltato questa espressione: “La dis la Sacra Scritüra: Laurà tè ècio,<br />

che tè ghé la pèl düra”! Écio era anche <strong>il</strong> nome bonario con <strong>il</strong> quale s'identificava sia <strong>il</strong> nonno che <strong>il</strong> papà.<br />

I tempi cambiano, anche se <strong>il</strong> risultato f<strong>in</strong>ale mi sembra atrocemente uguale, e anche i detti dialettali<br />

perdono un po’ della loro verità. Come questo, per esempio: “F<strong>in</strong>a ai s<strong>in</strong>quanta, sé söbia e sé canta, dai<br />

s<strong>in</strong>quanto ‘n sö, poc sé söbia e se canta piö”, ovvero: “F<strong>in</strong>o ai c<strong>in</strong>quanta si zufola e si canta, dai c<strong>in</strong>quanta<br />

<strong>in</strong> su poco si zufola e non si canta più”.<br />

Fortunatamente non è così ai giorni nostri. Anche <strong>il</strong> prossimo è datato: “Quant sé gha ‘na certa età<br />

piö de béer e mangià no sé pöl fa”. Non è vero, non è vero. Chiedetelo agli anziani di M<strong>il</strong>ano che hanno<br />

chiesto nei giorni scorsi al Comune di fornir loro <strong>il</strong> Viagra a prezzo ridotto!<br />

Ma l’attuale vecchiaia non è triste? Si, perché f<strong>in</strong>iscono le speranze. Ci restano però le gioie. Poche<br />

ma importanti.<br />

125


Z<br />

“Non esiste nel dialetto bresciano (come suono<br />

n.d.r.); ha lo stesso suono della S <strong>in</strong>tervocalica (s)<br />

e viene usata nelle parole corrispondenti italiane<br />

che hanno la Z, per non mettere <strong>in</strong> difficoltà <strong>il</strong> lettore.<br />

Inoltre può sostituire: cc, gg, zz,; c,g; ce, ci;<br />

gi; sg. Esempio: Uccello ozèl, Loggia Lòza, … camicetta<br />

camizèta….<br />

In f<strong>in</strong>ale di parola prende <strong>il</strong> suono di S aspra.<br />

Esempio: vérz, vérs….”<br />

Da: “Nuovo Vocabolario Ortografico Bresciano” di Giovanni<br />

Scaramella, Com&Pr<strong>in</strong>t Editore – Brescia 2003 – pag. IX .<br />

Per onorare <strong>il</strong> sottotitolo di questa pubblicazione, mi astengo dal commentare questa consonante.<br />

Perché dovrei farlo? Manca perf<strong>in</strong>o <strong>il</strong> suono…<br />

126


BIBLIOGRAFIA<br />

ANGELO ALBRICI Giona piö dè Bertoldo - Stamperia Fratelli Geroldi (Brescia) - Ed. 30.11.1969<br />

MONICA DEL SOLDATO - MARGHERITA SCHIARETTA Modi di dire di Brescia<br />

Edizioni La Libreria di Demetra - Colognola ai Colli (VR) 2000<br />

ENZO SALERI Proèrbe e modi de dì che ghe ree a hcomparì - Comune di Lumezzane<br />

Assessorato alla Cultura - “Felice Saleri” 2003<br />

GIOVANNI SCARAMELLA Nuovo Vocabolario Ortografico Bresciano - Com&Pr<strong>in</strong>t Editore - Brescia 2003<br />

127


Prefazione pag. 5<br />

Introduzione “ 7<br />

A Affari - Amicizia - Amore “ 9<br />

B Beghe “ 17<br />

C Carità – Cimitero – Comandare “ 21<br />

D Debiti – Dio – Donna “ 29<br />

E Eredità “ 39<br />

F F<strong>il</strong>astrocca – Furbizia “ 43<br />

G Gioventù – Giustizia “ 49<br />

H Hòi “ 55<br />

I Invidia “ 59<br />

L Lavorare “ 63<br />

128<br />

M Mestieri – Modi di dire – Morire “ 67<br />

N Noi “ 79<br />

O Odio “ 83<br />

P Povertà “ 87<br />

Q Quaranta “ 93<br />

R Religione – Ricco “ 97<br />

S Salute – Santi – Soprannome – Studiare “ 103<br />

T Tempo “ 115<br />

U Ungere “ 119<br />

V Vecchiaia “ 123<br />

Z Omissis “ 126<br />

Bibliografia “ 127<br />

Indice “ 128

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