Sopra il gorgo che stride - PIMPIRIMPANA

«SOPRA IL GORGO CHE STRIDE»:
PER UN MINIMO OMAGGIO AD EUGENIO MONTALE
Valerio Nardoni
Eugenio Montale, come ben ce lo presenta il curatore delle opere Giorgio Zampa, appare sulla sce-
na della poesia italiana con un libro “anomalo” – Ossi di seppia, del 1925 – che, a suo modo, riesce a
scontentare sia i “poeti laureati”, più o meno vicini al sublime dannunziano; sia i poeti cosiddetti crepu-
scolari, che proponenvano una poesia affatto sublime, quanto vicina alle ragioni del parlato e del quoti-
diano. Montale ci è descritto da Zampa – senz’altro con partecipe empatia – come l’“anello che non tie-
ne” della poesia italiana, destinato a delinearsi come il “poeta centrale del Novecento”. L’opera di Mon-
tale, difatti, attraverso le grandi raccolte – Le occasioni (1939), La bufera ed altro (1956), Satura (1971), a cui
si aggiungono Diario del ’71 e del ’72, Quaderno dei quattro anni e Poesie disperse – con il Diario postumo, pub-
blicato integralmente nel 1996, giunge a sfiorare il terzo millennio. Montale, come in questa occasione si
ricorda, è morto nel 1981, tuttavia, mantenendo fino alla fine (ed oltre!) fede alla sua intelligente ed
astuta ironia, dispose che un ultimo gruppo di 66 poesie venisse pubblicato annualmente a gruppi di
undici, a partire da cinque anni dopo la sua morte.
Nato a Genova nel 1896, come noto, i suoi primi passi nel mondo della cultura e della letteratura
furono sotto il segno di un isolamento piuttosto pronunciato, che non poco deve aver contribuito alla
sua non intenzionale originalità (o anomalia), e solo più tardi verrà a contatto con gli importanti centri
di Firenze (dal 1927, dove sarà, peraltro, direttore del Gabinetto Scientifico-Letterario Vieusseux) e Mi-
lano, dal 1948, come giornalista ed inviato del Corriere della sera.
All’inizio, i suoi referenti principali – al di là delle letture sparse ma comunque intense dell’avido let-
tore che è sempre stato Montale, specialmente di poesia e di filosofia – sono il vento e il Mediterraneo,
le riviere liguri da Genova alle Cinque terre, dove la famiglia trascorreva l’estate, come chiaramente
emerge da qualunque testo degli Ossi di seppia:
Oh allora sballottati
come l’osso di seppia dalle ondate
svanire a poco a poco;
diventare
un albero rugoso od una pietra
levigata dal mare; nei colori
fondersi dei tramonti; sparir carne
per spicciare sorgente ebbra di sole,
al sole divorata...
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Famosissimi questi versi delle Riviere, che citiamo per la loro indubbia utilità quasi didascalica, ma
non senza un poco di timore di essere sgridati da Montale, che in una lettera all’amico Sergio Solmi at -
tribuisce a quel testo “il carattere di una trombonata giovanile, con quelle camelie pallide, quelle voci
d’oro, ecc. ecc”. D’altra parte, non c’è forse poesia di Montale più famosa di Meriggiare pallido e assorto
(anch’essa fra le più antiche di Ossi di seppia, del 1916) e i non meno celebri Limoni, che sono definiti
proprio “le trombe d’oro della solarità”.
C’è dunque ironia ed autoironia nella poesia come nelle lettere di Montale, ma un’ironia inquieta e
ansiosa, che fin dalle prime prove poetiche risulta “ebbra di sole”, ma dal “sole divorata”: il mondo
poetico di Montale si crea e si distrugge sotto il suo stesso impeto vitale, si fonde in un tramonto co-
stante che va dall’intuizione dei minimi vitali fino alla loro dissoluzione (“svanire a poco a poco”) e la
loro assimilazione nei moti sconfinati dell’universo (“nei colori / fondersi dei tramonti”)... come si leg-
ge ancora in una delle più potenti delle poesie postume, che, per brevità, vale la pena citare integralmen-
te:
Un giorno non lontano
assisteremo alla collisione
dei pianeti e il diamantato cielo
finirà sommerso in avvalli.
Allora coglieremo rutilanti fiori
e stelle al neon.
Guarda, ecco il segnale, un fuoco
s’appicca in cielo, si scontrano
Giove con Orione e nel terribile
frastuono dov’è finito l’uomo?
Certo basta un soffio al mondo
in cui viviamo per scomparire.
Rimarrà forse un grido, quello
della terra che non vuole finire.
Non c’è qui il “tramonto” ma “un fuoco / s’appicca in cielo”, non si parla di “svanire” e “fondersi”
ma di un poco dissimile “scomparire”; e al posto del pur tenace “osso di seppia” perduto fra le infinite
ondate del mare, c’è qui un ugualmente orgoglioso e potente “grido”, la cui intensità, tuttavia, sembra
avere poche possibilità contro il “frastuono” di galassie che si scontrano.
Accostando questi due testi, è certamente più facile percepire anche nel primissimo ed indimentica-
bile simbolo dell’“osso di seppia” non solo un frammento, un frantumo, o un truciolo, ma una particella di
universo che vuole resistere alla sua totale dissoluzione. In corsivo, parole che rimandano ai titoli di im-
portanti precedenti letterari di un Montale, quindi, forse isolato ma non distratto – i Frammenti lirici di
Clemente Maria Rebora, del 1913; i Frantumi di Giovanni Boine, del 1915; i Trucioli di Camillo Sbarbaro,
del 1920 – a cui si deve aggiungere anche la parola “rottame”, l’originario titolo della sezione centrale
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del libro che, forse proprio per eccessiva prossimità ai trucioli di Sbarbaro, cambiò nome in Ossi di sep-
pia.
L’osso di seppia, il grido del poeta naufrago nell’universo, giunge a riva scarnificato, non come vita,
ma come testimonianza di una vita trascorsa chissà dove e chissà quando, dall’uomo, nell’infinito spazio
e nell’infinito tempo della creazione.
È fra questi due poli – oltre a tutto il possibile e l’indicibile della vita – che si attiva la lunga opera
montaliana: fra spaesamento e resistenza, fra impulso e annichilimento, fra il “tremulo asse” di Esterina,
da dove l’adolescente protagonista di Falsetto spicca il suo tuffo nella vita, e il “gorgo” pronto ad in-
ghiottirla.
In conclusione, premeva ricordare anche la velleità di Eugenio Montale per la musica – in gioventù
ha studiato canto con il famoso baritono Ernesto Sivori – e il suo favoloso orecchio musicale, che è il
vero asso nella manica della sua opera sempre più trasgressiva delle regole dell’armonia metrica. In que-
sta poesia, fra le sue più belle, Montale imposta un parallelo fra l’ingenua leggerezza della fanciulla e il
quel particolare tipo di canto, il falsetto appunto, che, eseguito con un minore sforzo muscolare rispetto
alla voce piena, è capace di raggiungere note più acute. Questa assonanza imposta perfettamente non
solo le linee di questo particolare testo, ma dell’atteggiamento dell’autore rispetto al suo fare poesia: un
tuffo nel mare, un tuffo nel mistero del proprio avvenire, quando ancora l’esistenza non è percepita
come piena e vive in una dimensione a suo modo più alta e delicata, come una voce in falsetto. Natural-
mente, come la ragazza, anche la poesia vive nell’imminenza di una possibile stonatura, dovuta al tempo
che la toglierà alla grazia della sua primaria freschezza.
Si potrebbe a questo punto dire che tutto ciò è relativo soltanto ad Ossi di seppia e che il Montale
adulto e poi vecchio – dopo la prima, sperimenterà ancora la Bufera della seconda guerra mondiale,
come la morte della moglie, ecc. – lascerà perdere tali frivoli voli (mi permetto il vezzo di un involonta -
rio falsetto, come il “sorridente presente” di Esterina), ma preferisco pensare che il Diario postumo sia un
ancora un leggiadro tuffo “sopra il gorgo che stride”.
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