“Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa luna? Sorgi la ...

“Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
[…]
E tu certo comprendi
il perché delle cose, e vedi il frutto
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.”
(Giacomo Leopardi,
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
1-4, 69-72)
“Mi posi all’opera più fiducioso che mai, convinto
che questo terrificante fenomeno doveva pur avere
la sua legge […] La natura… mi additò che nulla,
assolutamente nulla, avviene a caso nell’universo, ma
che tutti i fenomeni… non rappresentano che le note
isolate di una grandiosa melodia che riempie lo spazio
dei suoi diversi accordi…”
(Raffaele Bendandi, 1935)

L’autore ringrazia, per il sostegno offerto
e la disponibilità sollecita, la dottoressa
Paola Pescerelli Lagorio, direttrice dell’Osservatorio
“Raffaele Bendandi” in Faenza.

PreFaZioNe.
UNa Breve Ma veridiCa Storia
Una telefonata, un incontro, le prime parole, la pre-
sentazione, una comunicazione semplice ma precisa.
Così è nata una amicizia basata sulla stima, sulla
facilità di comunicazione reciproca, su obiettivi ed interessi
comuni.
Non conoscevo Pierluigi Moressa, ma ringrazio la
comune passione per lo studioso e sismologo faentino
Raffaele Bendandi, che ha dato inizio ad una collaborazione
intensa e proficua.
Dalla lettura di alcuni suoi testi ho scoperto come
ampio ed eterogeneo sia il suo campo di interessi.
È stato con vero piacere che ho messo a disposizione
di Pierluigi la mia competenza e conoscenza del lavoro
svolto da Bendandi, e l’idea che un’altra persona
provasse il desiderio di elaborare uno scritto su di lui
poteva solo rallegrarmi.
Leggendo il libro, si nota la perfetta connessione storica
e scientifica con il mondo del Novecento; spesso tra
le righe compare una riflessione poetica, che obbliga a
riflettere, a fermarsi.
Poiché era una cosa che amava fare anche Bendandi
nelle sue pubblicazioni, con particolare riferimento alla
Divina Commedia di Dante, questo libro puntualizza la
sintonia fra chi scrive ed il personaggio.

Fra maree e terremoti
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L’attenzione minuziosa alla ricerca della verità stori-
ca, della connessione temporale locale e non, traspare in
ogni riga, in ogni parola.
Il passaggio tra il racconto della vita del sismologo
faentino, e quindi delle sue vicissitudini, che lo scrittore
esamina in modo dettagliato ed il susseguirsi di riferimenti
ad altri personaggi storici o scientifici, ad altri
momenti correlati con la vita di Bendandi, è realizzato
in modo talmente forte, chiaro, concreto, da creare quasi
una rete, una maglia su cui si aprono intrecci di nomi,
di date di pensieri.
Nel presentare la figura dello studioso faentino, lo
scrittore riesce a centrare il mito di Bendandi come
colui che ha dedicato la vita alla ricerca, e come la sua
eredità continui a stimolare nuovi interessi, nuove partecipazioni,
nuove sfide.
Paola Pescerelli Lagorio
Presidente dell'Associazione “La Bendandiana”
Direttrice dell'Osservatorio geofisico comunale
"Raffaele Bendandi” di Faenza

PreMeSSa – La Storia e iL MiStero
“Ci sono più cose in cielo e in terra…
che non ne sogni la tua filosofia.”
(William Shakespeare, Amleto)
Durante la stesura di questo libro, mi sono imbattuto
in alcuni personaggi dalla fama brillante e controversa.
Ritenuti scienziati illuminati o pericolosi annunciatori
di catastrofi, occupano uno spazio non piccolo nella storia
e nel pensiero dell’uomo. Pare, così, che l’evoluzione
delle idee abbia accolto in ogni epoca figure destinate
a collocarsi ai margini della scienza. La caratteristica
comune a tutti è stata quella di proporre dati e convinzioni
che non trovavano riscontro nelle procedure e nei
metodi attuati entro le sedi ufficiali della ricerca, ma
che, tuttavia, si mostravano capaci di accostarsi ai misteri
dell’universo in modo fascinoso, tale da consentire,
comunque, punti di vista insoliti, certamente originali.
Talvolta saliti alla fama di miti moderni, questi uomini
hanno lasciato una traccia entro alcune pubblicazioni
che offrono i documenti dell’epoca e della cultura che
essi attraversarono, mostrando il coraggio di opinioni
talora esaltate come innovative, più spesso rigettate e
non condivise. La storia della scienza è fatta di contrasti
e di processi, di rettifiche e di errori. L’opera dei pionieri

Fra maree e terremoti
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del pensiero ha conosciuto ostacoli, molto spesso de-
stinati, nelle epoche seguenti, a essere ritenuti gravose
resistenze opposte al cambiamento. Il ruolo assunto dai
sostenitori di una dottrina nuova è sempre quello di offrire
ragionamenti inconsueti, soluzioni possibili e originali
per gravosi problemi. Soprattutto quando i ricercatori
si interessino a offrire un rimedio ai mali peggiori
che affliggono l’umanità, l’eco delle loro idee assume un
rilievo elevato e capace di propagare molti echi.
A questo gruppo di pensatori appartiene Raffaele
Bendandi. La sua figura si collega tuttora agli effetti di
una popolarità che lo individua come “l’uomo dei terremoti”.
Dinanzi allo sconvolgimento tellurico, il bisogno
di previsioni e di conferme, di rassicurazione e di protezione,
è da sempre urgente e assoluto. Così, nell’immagine
di Bendandi si finisce ancora per ricercare il senso di
una certezza sull’evento sismico che, neppure in vita, lo
studioso faentino pretese di fornire in termini assoluti.
Vissuto in Romagna, terra dalle tinte forti, dagli spiriti
animosi e risoluti, Bendandi si è posto, con la discrezione
del suo temperamento, al confine della vita sociale e
della forza dei pensieri che attraversarono l’intero ‘900:
un secolo dai grandi rivolgimenti politici, economici e
scientifici. Uomo dalle idee chiare e dalle ipotesi caute,
Bendandi continua a proporci l’immagine di uno scienziato,
che, nato dal nulla, nel nulla non intende ritornare,
per il desiderio (esaudito dall’opera dei suoi moderni
successori) di proseguire il dialogo con l’intera umanità.

Questo libro contiene la vicenda della vita e del pen-
siero di Bendandi, con l’intento di collocare la sua figura
nella cornice storica delle idee, nello spazio destinato
alla democrazia dei pensieri che lungo le epoche si sono
succeduti e sono risultati di tale portata da rendere più
ricca la nostra conoscenza, più meritevole il sereno esercizio
del dubbio.
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Forlì, ottobre 2012
Pierluigi Moressa
Fra maree e terremoti

CoN GLi oCCHi aL CieLo
“Meglio oprando obliar, senza indagarlo
questo enorme mister de l’universo!”
(Giosue Carducci, Idillio maremmano)
Fra l’uomo e il cielo la confidenza da sempre è stata
ardua e complessa. Specchio delle vicende terrene, arbitro
del destino, oggetto di studi e di pronostici, sede
di quotidiane divinazioni e di misure infinitesimali, il
cielo ha rappresentato l’ambito ove collocare ogni cosa
eroica o misteriosa, eccelsa o infame, che abbia attraversato
il pensiero degli esseri umani. Così, le epoche
della storia hanno potuto offrire i caratteri per definire
le funzioni del cielo, mutandone di secolo in secolo gli
attributi e le influenze e rappresentando sulla sua volta
ciò che di più urgente la psiche umana intendesse proiettarvi,
la somma dei significati e dei valori nati dal bisogno
di ciascuno. Pare, così, che il misterioso teatro del
cielo sia stato considerato come l’immenso spazio complementare
alla grande madre terra, tanto da imporre
all’uomo di doverne decifrare il linguaggio mutevole e
terrifico e di indicarvi la dimora non solo delle divinità
genitrici, ma anche delle anime elette. Il cielo, padre
dell’umanità e insieme elemento della raffigurazione di
timori e speranze, ha trovato interpreti e studiosi capa-

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ci di definire i termini di una scienza, l’astronomia, de-
stinata a confondere la propria origine con i primordi
dell’umanità. Assimilata a questa fino al I secolo d. C.,
l’astrologia pretendeva, invece, di determinare le influenze
degli astri sul mondo terrestre, prevedendo gli
eventi futuri o fornendo la dimostrazione di quelli che in
passato erano stati ritenuti misteriosi o non spiegabili.
Definita “astronomia giudiziaria”, cioè adatta a leggere
il “giudizio” del cielo sulle vicende dell’uomo, l’astrologia
avrebbe conosciuto la distinzione dall’“astronomia
sferica”, deputata, per sua parte, a occuparsi dello studio
scientifico dedicato ai corpi celesti e ai fenomeni che
da questi erano determinati. In realtà, tanto l’astrologia
e l’astronomia, quanto la profezia e la matematica,
avrebbero continuato a intrecciarsi fino al secolo XVIII.
Così, gli astrologi di corte, gli scienziati nelle università,
i ciarlatani sulle pubbliche piazze, erano propensi a
parlare, senza evidenza di contrasti, una lingua intessuta
di annotazioni ricavate dai testi degli scrittori antichi
e di cognizioni planetarie apprese dalle esperienze
appartenenti agli scienziati moderni. Al cielo vennero
riservate anche ulteriori funzioni creatrici, come “una
miracolosa inesauribile miniera, dalla quale insieme
alla pioggia si vedevano cadere cenere, pietre, pezzi di
carne dalle proprietà straordinarie, lane, spugne, mattoni,
ferri, latte, sangue, acque…” 1 . Allo stesso modo, i
pianeti Marte e Mercurio, divinità mai tramontate della
1 Elide Casali, Le spie del cielo – Oroscopi, lunari e almanacchi
nell’Italia moderna, pag. 96, Torino, 2003.

pioggia, “avevano il potere di generare mostri di forme
molteplici” 2 destinati a rappresentare i segni di guerre e
di altri contrasti. La comunicazione fra l’alto dei cieli e
l’infima terra fu argomento di continue riflessioni anche
per il mondo religioso, propenso a riconoscere nell’iperuranio
il premio per l’immortalità delle anime incorporee
e la sede corporale tanto per Cristo, risorto e “asceso”
al cielo, quanto per la vergine Maria, “assunta” tra le
stelle. Celesti messaggeri, gli angeli, si fecero annunciatori
del volere divino e custodi delle vite terrene, mentre
la predicazione, soprattutto quaresimale, non esitava a
tracciare la storia di innumerevoli anime dannate e peregrine,
tornate a questo mondo per ammonire i peccatori,
mostrando loro le pene infinite dell’inferno, collocato
questo nelle viscere della terra, tanto da sollecitare
nei buoni il timore del castigo e l’aspirazione al paradiso.
Moniti terribili e presagi infausti venivano ricondotti
al passaggio delle comete, mentre le cause delle variazioni
periodiche entro i cicli fisiologici sulla superficie
della terra e nel corpo degli esseri viventi erano attribuite
all’influenza della luna. Anzi, proprio a questa si
ascrissero anche le ragioni delle fluttuazioni psichiche
e delle dissonanze umorali, che appartennero per sempre,
tanto nella clinica quanto nell’etimo, all’incostanza
di personalità dette “lunatiche”. La mitografia greco-romana
assegnò alla luna una serie di attribuzioni divine e
intese definire la sua presenza con nomi diversi durante
2 Ivi, pag. 97.
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il passaggio che essa compiva attraverso il cielo; perciò,
Selene fu la luna piena, Ecate la luna nuova, Artemide la
falce di luna crescente. Lo splendore lunare come segno
di vita, l’assenza della luna come presagio di morte, il
suo risorgere come annuncio di rinascita: il mito individuò
in queste fasi la descrizione dell’intero ciclo vitale.
Selene, indicata da Esiodo come figlia di Theia e Iperione,
è sorella di Elios, il dio Sole, e di Eos, la dea Aurora.
Artemide, sorella di Apollo, venne considerata patrona
delle giovani donne fino al matrimonio, protettrice tanto
della gravidanza e del parto quanto dei cuccioli e dei
bambini. Più inquietante, Ecate corrispondeva al novilunio,
fase in cui la luna, mediante la congiunzione col
sole, non è visibile dal nostro pianeta. Chiamata Trivia
a Roma, in quanto protettrice dei crocevia (luoghi di
incontro e anche di sortilegio), ebbe edicole e immagini
triformi (terrestre, lunare, sotterranea) all’incrocio
delle strade. Ecate estese il proprio potere sul cielo, sul
mare e sulla terra. Dea della morte e della rinascita, fu
patrona delle ombre e dei fantasmi notturni, ricevette
la funzione di condurre le anime nell’aldilà, e si udì il
suo nome invocato durante gli incantesimi e le divinazioni;
venne, infine, assimilata agli dei inferi, tanto da
essere confusa con Persefone. Ecate era figlia, secondo
un’antica tradizione ripresa da Esiodo, di Asteria, personaggio
mutato da Giove in quaglia, poi precipitato in
mare e trasformato nell’isola di Ortigia. Ecate avrebbe
udito per prima i lamenti di Persefone, mentre veniva
rapita agli inferi.

Se il calendario romano, intorno alla metà del I secolo
a. C., intese suddividere il tempo sulla base del ciclo lunare,
individuando nel “mese” la misura dei giorni trascorsi
fra due lune nuove, il nostro satellite continuò in età moderna
a costituire un punto di riferimento tanto da ricevere
la costante annotazione delle proprie fasi sui “lunari”,
sugli almanacchi e sui calendari, che, in forma di foglio o
di libretto, non si limitavano a registrare solamente la sequenza
dei giorni e dei mesi in ciascun anno, ma offrivano
(col corredo di proverbi e di semplici sentenze popolari)
anche indicazioni meteorologiche approssimative e previsioni
ingenue sul futuro. Uno di questi almanacchi, dotato
ormai di connotazioni principalmente folkloriche, sopravvive
ancora e viene stampato a Faenza. Si tratta de E’
lunèri di smémbar, concepito tra il 1844 e il 1845, la notte
di San Silvestro, nell’osteria faentina Marianàza, da un
gruppo di buontemponi. Illustrato inizialmente da Romolo
Liverani (1809-1872), decoratore e scenografo, fu dato
alle stampe col nome di Lunario faentino, per divenire nel
1847 E’ lunèri di smémbar, neologismo quest’ultimo divenuto
termine consueto per indicare, nel dialetto romagnolo,
il soggetto non favorito dalla fortuna, lo “smembrato”
o, in altre parole, il povero diavolo da commiserare e da
trattare con un’indulgenza capace talvolta di suscitare
istintiva simpatia. Di fatto, con uno stile intriso di bonomia
e attraverso il tono ironico e leggero, il lunario di Faenza
pare irridere alla pretesa e forse al bisogno di leggere
nei segni del cielo e nel movimento degli astri le previsioni
certe sul tempo atmosferico e sulle umane vicende.
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