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BARI<br />

CORSO INTENSIVO 2013/2014<br />

DI PREPARAZIONE AL CONCORSO<br />

PER<br />

MAGISTRATO ORDINARIO<br />

Direttore Scientifico<br />

Roberto Giovagnoli<br />

Consigliere di Stato<br />

PALACE HOTEL BARI<br />

sabato 23 novembre 2013<br />

orario 9.00/13.00<br />

ITA Srl<br />

10121 Torino - Via Brofferio, 3 - Tel. (011) 56 11 426 / 56 24 402 / 54.04.97<br />

Telefax (011) 53.01.40 - www.itasoi.it e-mail: ita@itasoi.it<br />

Cod. Fisc. - Part. IVA - Iscr. Reg. Impr. di Torino C.C.I.A.A. 01593590605 - R.E.A. 976163


Diritto penale<br />

Programma: Il principio di legalità e le questioni connesse. Riserva di legge e sue<br />

implicazioni. Rilievo delle fonti secondarie. Legge regionale e diritto penale. Rapporti<br />

con il diritto comunitario. Sindacato di costituzionalità in malam partem. Rilievo della<br />

Cedu in materia penale. Principio di retroattività della lex mitior. Esame della<br />

giurisprudenza nazionale e sovranazionale. Successione di leggi penali nel tempo.<br />

Distinzione tra abolitio criminis e mutatio criminis.<br />

Presentazione a cura del Cons. Roberto Giovagnoli pag. 4<br />

La corte costituzionale sulle ricadute interne della sentenza<br />

Scoppola della Corte EDU<br />

Corte cost. 18 luglio 2013, n. 210 pag. 7<br />

Le Sezioni unite rimettono alla Corte costituzionale l’adeguamento<br />

del nostro ordinamento ai principi sanciti dalla Corte EDU nella<br />

sentenza Scoppola<br />

Cass. penale Sez. unite 10 settembre 2012, n. 34472 pag. 20<br />

La Corte Europea su principio di legalità e applicazione retroattiva<br />

del mutamento giurisprudenziale sfavorevole in materia di esecuzione<br />

delle pene in Spagna pag. 32<br />

Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato<br />

di condanna: altolà della consulta a prospettive avanguardistiche di<br />

(supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo<br />

Corte cost. 12 ottobre 2012, n. 230 pag. 34<br />

Le Sezioni unite sull’applicazione retroattiva della disciplina più<br />

favorevole in materia di prescrizione<br />

Cass. penale Sez. unite 24 aprile 2012, n. 15933 pag. 59<br />

Sui limiti all’applicazione retroattiva delle disposizioni più favorevoli<br />

in materia di prescrizione del reato<br />

Corte Cost. 22 luglio 2011, n. 236 pag. 71<br />

Sullo statuto costituzionale della retroattività della Legge penale più<br />

favorevole. Riflessioni a margine della sentenza 236/2011 pag. 83<br />

Limiti all’applicazione retroattiva del nuovo regime della prescrizione<br />

e controllo di costituzionalità sotto il profilo della ragionevolezza<br />

Corte cost. 23 novembre 2006, n. 393 pag. 105<br />

Applicazione della “ex Cirielli” ai processi in corso:<br />

questioni di legittimità costituzionale pag. 109<br />

Sindacato di costituzionalità in malam partem<br />

Corte Cost. 23 novembre 2006, n. 394 pag. 117<br />

La condivisibile “ragionevolezza” sulle norme penali di favore pag. 128<br />

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Controlli di ragionevolezza e riserva di legge in materia penale:<br />

una svolta sulla sindacabilità delle norme di favore? pag. 137<br />

Eccezioni alla retroattività favorevole e diritti fondamentali pag. 147<br />

La legislazione penale ad personam. I rimedi in malam partem<br />

della Corte costituzionale pag. 167<br />

La Corte costituzionale e la definizione di rifiuto: nuovo capitolo di una<br />

complessa vicenda di illegittimità comunitaria<br />

Corte Cost. 28 gennaio 2010, n. 28 pag. 181<br />

Diritto penale e leggi regionali<br />

Corte cost. 24 giugno 2004, n. 185 pag. 203<br />

Gli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale della<br />

circostanza aggravante della “clandestinità”: abolizione o annullamento?<br />

Cass. penale Sez. VI 17 novembre 2010, n. 40836 pag. 205<br />

Cass. penale Sez. I 27 ottobre 2011, n. 977 pag. 219<br />

Diritto penale e leggi regionali dopo la riforma del titolo V cost.:<br />

esiste ancora il monopolio punitivo statutale? pag. 223<br />

Corte costituzionale e falso in bilancio: un inspiegabile ritorno<br />

al punto di partenza pag. 243<br />

La sentenza della Corte di Giustizia sul “falso in bilancio”:<br />

un epilogo deludente?<br />

Corte Giustizia CE 3 maggio 2005, n. 387 pag. 263<br />

La confisca misura di prevenzione ha natura “oggettivamente<br />

sanzionatoria” e si applica il principio di irretroattività:<br />

una sentenza “storica”?<br />

Cass. penale Sez. V 25 marzo 2013, n. 14044 pag. 273<br />

Il sindacato del giudice penale sugli atti amministrativi nell’abuso<br />

d’ufficio e nei reati edilizi pag. 339<br />

Confisca, CEDU e Diritto dell’Unione tra questioni risolte<br />

ed altre ancora aperte pag. 358<br />

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DIRITTO PENALE<br />

PRINCIPIO DI RISERVA DI LEGGE<br />

Presentazione delle dispensa<br />

In questa dispensa si segnala:<br />

Principio di retroattività della legge più mite<br />

Corte cost. n. 210/2013, che, in applicazione della sentenza CEDU sul caso Scoppola dichiara<br />

l’incostituzionalità dell’art. 7 d.l. n. 341 del 2000, aprendo la strada alla modifica dei giudicati penali di<br />

condanna nei confronti di coloro che erano stati condannati all’ergastolo pur avendo formulato la richiesta di<br />

giudizio abbreviato nel lasso di tempo tra l’entrata in vigore della c.d. Legge Carotti (che aveva modificato<br />

l'art. 442 c.p.p. disponendo la sostituzione dell'ergastolo con la pena temporanea di trent'anni di reclusione in<br />

caso di condanna con rito abbreviato) e l’entrata in vigore del d.l. n. 341/2000, che all'art. 7 modificava<br />

ulteriormente l'art. 442 c.p.p., disponendo - dichiaratamente in via di interpretazione autentica - che tale<br />

sostituzione doveva ritenersi applicabile soltanto in relazione alla pena dell'ergastolo senza isolamento<br />

diurno, mentre l'ergastolo con isolamento diurno (applicabile segnatamente nel caso di condanna per<br />

omicidio aggravato in concorso con altri gravi delitti) avrebbe dovuto essere sostituito con l'ergastolo<br />

semplice.<br />

La sentenza è di grande rilievo anche in relazione alla tematica dei rapporti tra ordinamento interno e<br />

obblighi discendenti dalla giurisprudenza della Corte EDU, avendo in sostanza i nostri giudici<br />

costituzionali riconosciuto (cfr. in particolare il § 7.2. dei "considerato in diritto") che, ogniqualvolta una<br />

sentenza europea individui un problema strutturale all'interno del'ordinamento nazionale, dal quale<br />

dipende in concreto la violazione denunciata dal ricorrente, lo Stato ha l'obbligo di adottare "misure<br />

generali" anche in assenza di una specifica statuizione da parte della Corte EDU in questo senso,<br />

affinché cessi la violazione dei diritti riconosciuti della Convenzione nei confronti di tutti coloro che<br />

sono o potrebbero essere vittime di una violazione analoga a quella riscontrata in capo al singolo<br />

ricorrente.<br />

Applicazione retroattiva del mutamento del c.d. diritto vivente<br />

Corte cost. n. 230/2012 che esclude che dichiara infondata la questioen di costituzionalità dell’art. 673 c.p.p.<br />

nella parte in cui non prevede la revoca del giudicato in caso di mutamento del c.d. diritto vivente.<br />

Applicazione retroattiva delle norme in materia di prescrizione<br />

Cass. Sez. Un. 24.11.2011 (dep. 24.4.2012), n. 15933, che dichiara manifestamente infondata la questione di<br />

legittimità costituzionale dell'art. 10, comma terzo, della legge n. 251 del 2005 nella parte in cui esclude<br />

l'applicazione dei nuovi termini di prescrizione, se più brevi, per i processi già pendenti in grado di appello o<br />

dinanzi alla Corte di Cassazione, per asserito contrasto con l'art. 3 c.p. in quanto derogante<br />

irragionevolmente al principio di retroattività della lex mitior sancito dall'art. 2, comma quarto c.p.<br />

Corte cost. n. 236/2011 con cui la Corte ha escluso che fosse precluso al legislatore nazionale (la cui scelta<br />

iniziale, per la verità, era stata comunque incisa dalla sentenza della stessa Consulta n. 393 del 2006) di<br />

porre dei limiti all’applicazione retroattiva della disciplina favorevole sopravvenuta. È stato negato, in<br />

particolare, che dalla cd. «sentenza Scoppola» della Corte di Strasburgo (Grande Camera, 17 settembre<br />

2009, Scoppola v. Italia) dovesse dedursi il principio che sia sempre necessario assicurare la retroattività<br />

incondizionata della lex mitior, e comunque che detto principio dovesse senz’altro estendersi alla disciplina<br />

della prescrizione.<br />

Corte cost. n. 393/1996 sui rapporti tra principio di retroattività delle legge più mite e regime transitorio<br />

delle nuove norme in materia di prescrizione.<br />

4


Sindacato di costituzionalità in malam partem<br />

Corte cost. n. 394/1996 sul sindacato di costituzionalità in malam parte e sulla distinzione tra norme di<br />

favore e norme favorevoli<br />

Corte cost. n. 28 del 2010 sul sindacato di costituzionalità in malam partem in caso di violazione di obblighi<br />

di tutela penale imposti dal diritto comunitario<br />

Riserva di legge e legge regionale<br />

Corte cost. n. 185/2004 sui limiti che incontra la legge regionale in diritto penlae<br />

Riserva di legge e diritto comunitario<br />

Corte di giustizia 3 maggio 2005, n. C.387 sull’impossibilità che il diritto epnale abbia effetti diretti in<br />

malam parteme sulla portata del principio di retroattività della legge più mite.<br />

Tra gli articoli di dottrina, si segnale in particolare il contributo di VIGANÒ, Sullo statuto costituzionale della<br />

retroattività della legge penale più favorevole.<br />

5


LA CORTE COSTITUZIONALE SULLE RICADUTE INTERNE DELLA SENTENZA<br />

SCOPPOLA DELLA CORTE EDU<br />

Corte cost., sent. 18 luglio 2013, n. 210, Pres. Gallo, Rel. Lattanzi (illegittimo l'art. 7 co. 1 del d.l. 24<br />

novembre 2000, convertito con modificazioni dalla l. 19 gennaio 2001, n. 4)<br />

Segnaliamo immediatamente, in attesa di pubblicarne una scheda ed eventuali commenti, l'atteso deposito della<br />

sentenza con cui la Corte costituzionale ha deciso sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dalle Sezioni<br />

Unite della Cassazione in merito alla sorte dei condannati all'ergastolo che avevano chiesto di essere giudicati con rito<br />

abbreviato nel lasso di tempo intercorrente tra l'entrata in vigore della legge Carotti (2 gennaio 2000), che aveva<br />

modificato l'art. 442 c.p.p. disponendo la sostituzione dell'ergastolo con la pena temporanea di trent'anni di reclusione<br />

in caso di condanna con rito abbreviato, e l'entrata in vigore del d.l. 341/2000 (24 novembre 2000), che all'art. 7<br />

modificava ulteriormente l'art. 442 c.p.p., disponendo - dichiaratamente in via di interpretazione autentica - che tale<br />

sostituzione doveva ritenersi applicabile soltanto in relazione alla pena dell'ergastolo senza isolamento diurno, mentre<br />

l'ergastolo con isolamento diurno (applicabile segnatamente nel caso di condanna per omicidio aggravato in concorso<br />

con altri gravi delitti) avrebbe dovuto essere sostituito con l'ergastolo semplice.<br />

Come è noto, la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell'uomo aveva ritenuto, nel caso Scoppola c. Italia (n.<br />

2) del 17 settembre 2009, che la condanna all'ergastolo di un ricorrente che si trovava in quella situazione fosse<br />

contraria, tra l'altro, al principio, desunto dall'art. 7 CEDU, di retroattività della disciplina più favorevole tra tutte<br />

quelle in vigore dal momento del fatto a quello della condanna definitiva: disciplina nel caso concreto identificabile<br />

nella legge Carotti, che prevedeva la pena massima di trent'anni di reclusione in caso di giudizio abbreviato per i reati<br />

punibili in via ordinaria con l'ergastolo. Conseguentemente, la Corte aveva imposto allo Stato italiano di procedere alla<br />

rideterminazione della pena nei confronti del sig. Franco Scoppola, appunto in trent'anni di reclusione; rideterminazione<br />

poi effettuata dalla nostra Corte di cassazione, in esecuzione del giudicato europeo, a seguito di ricorso ex art. 625 bis<br />

c.p.p. del condannato.<br />

La Corte di cassazione prima, e quindi la Corte costituzionale, erano state a questo punto investite della posizione di<br />

altri condannati che si trovavano nella medesima situazione di Franco Scoppola, ma non avevano all'epoca<br />

proposto ricorso alla Corte EDU avverso la rispettiva di condanna all'ergastolo.<br />

Dichiarando l'illegittimità costituzionale della norma di cui all'art. 7 d.l. 341/2000, che aveva di fatto ripristinato -<br />

con effetto retroattivo sui processi in corso - la pena dell'ergastolo nei confronti degli imputati che avevano già<br />

formulato richiesta di giudizio abbreviato, la Corte costituzionale apre ora la strada alla modifica dei giudicati<br />

penali di condanna nei loro confronti, e segnatamente alla rideterminazione della pena in quella di trent'anni di<br />

reclusione, secondo i principi enunciati dalla Corte EDU.<br />

La pronuncia odierna è di grande rilievo anche in relazione alla tematica dei rapporti tra ordinamento interno e<br />

obblighi discendenti dalla giurisprudenza della Corte EDU, avendo in sostanza i nostri giudici costituzionali<br />

riconosciuto (cfr. in particolare il § 7.2. dei "considerato in diritto") che, ogniqualvolta una sentenza europea individui<br />

un problema strutturale all'interno del'ordinamento nazionale, dal quale dipende in concreto la violazione denunciata<br />

dal ricorrente, lo Stato ha l'obbligo di adottare "misure generali" anche in assenza di una specifica statuizione da<br />

parte della Corte EDU in questo senso, affinché cessi la violazione dei diritti riconosciuti della Convenzione nei<br />

confronti di tutti coloro che sono o potrebbero essere vittime di una violazione analoga a quella riscontrata in<br />

capo al singolo ricorrente. (F.V.)<br />

SENTENZA N. 210 ANNO 2013<br />

REPUBBLICA ITALIANA<br />

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO<br />

LA CORTE COSTITUZIONALE<br />

composta dai signori: Presidente: Franco GALLO; Giudici : Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino<br />

CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo<br />

GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario<br />

MORELLI, Giancarlo CORAGGIO,<br />

6


ha pronunciato la seguente<br />

SENTENZA<br />

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 7, comma 1, e 8 del decreto-legge 24 novembre 2000, n.<br />

341 (Disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’Amministrazione della giustizia), convertito, con<br />

modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, promosso dalla Corte di cassazione, sezioni unite penali, nel<br />

procedimento penale a carico di E.S. con ordinanza del 10 settembre 2012, iscritta al n. 268 del registro ordinanze 2012<br />

e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 2012.<br />

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;<br />

udito nella camera di consiglio del 24 aprile 2013 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.<br />

Ritenuto in fatto<br />

1.– Con ordinanza depositata il 10 settembre 2012 e pervenuta a questa Corte il 6 novembre 2012 (r.o. n. 268 del<br />

2012), la Corte di cassazione, sezioni unite penali, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 117, primo comma, della<br />

Costituzione, quest’ultimo in relazione all’articolo 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti<br />

dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti: «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950 (ratificata e resa<br />

esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848), questioni di legittimità costituzionale degli articoli 7 e 8 del decreto-legge<br />

24 novembre 2000, n. 341 (Disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’Amministrazione della giustizia),<br />

convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, nella parte in cui tali disposizioni interne operano<br />

retroattivamente e, più specificamente, in relazione alla posizione di coloro che, pur avendo formulato richiesta di<br />

giudizio abbreviato nella vigenza della sola legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul<br />

procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale.<br />

Modifiche al codice penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di<br />

indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense), sono stati giudicati successivamente,<br />

quando cioè, a far data dal pomeriggio del 24 novembre 2000 (pubblicazione della Gazzetta Ufficiale, ai sensi dell’art.<br />

2 del regio decreto 7 giugno 1923, n. 1252, recante «Passaggio della Gazzetta Ufficiale del Regno dalla dipendenza del<br />

Ministero dell’interno a quella del Ministero della giustizia e degli affari di culto e norme per la compilazione e la<br />

pubblicazione di essa»), era entrato in vigore il citato decreto-legge, con conseguente applicazione del più sfavorevole<br />

trattamento sanzionatorio previsto dal medesimo decreto.<br />

Il giudice a quo premette di essere investito di un ricorso avverso un provvedimento del Tribunale di Spoleto, in<br />

funzione di giudice dell’esecuzione penale, che aveva rigettato la richiesta del condannato, ai sensi degli artt. 666 e 670<br />

del codice di procedura penale, di sostituzione della pena dell’ergastolo con quella temporanea di trenta anni di<br />

reclusione, affermando che «nessuna violazione del principio di legalità di cui all’art. 7 della CEDU era stata accertata,<br />

nel caso specifico, dalla Corte EDU, sicché non era sopravvenuto all’esecutività della condanna alcun fatto nuovo».<br />

La Corte di cassazione rileva che il ricorrente, condannato con sentenza della Corte di assise di Catania, in data<br />

18 luglio 1998, alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, perché dichiarato colpevole di due omicidi volontari e<br />

della connessa violazione della normativa sulle armi, aveva proposto appello e che nel corso di tale giudizio era entrata<br />

in vigore (2 gennaio 2000) la legge 16 dicembre 1999, n. 479, il cui art. 30, comma 1, lettera b), aveva aggiunto alla<br />

fine del comma 2 dell’art. 442 cod. proc. pen. il seguente periodo: «Alla pena dell’ergastolo è sostituita quella della<br />

reclusione di anni trenta», reintroducendo così la possibilità per la persona imputata di reati punibili con la pena<br />

perpetua di accedere al rito abbreviato.<br />

Aggiunge la Corte rimettente che il ricorrente, il 12 giugno 2000, nel corso del giudizio di appello, avvalendosi<br />

della riapertura dei termini, disposta dall’art. 4-ter del decreto-legge 7 aprile 2000, n. 82 (Modificazioni alla disciplina<br />

dei termini di custodia cautelare nella fase del giudizio abbreviato), convertito, con modificazioni, dalla legge 5 giugno<br />

2000, n. 144, aveva chiesto procedersi con il rito abbreviato, con l’effetto che, in virtù dell’art. 442, comma 2, cod.<br />

proc. pen. (nel testo vigente in quel momento), la pena dell’ergastolo, con o senza isolamento diurno, andava sostituita<br />

con quella di anni trenta di reclusione.<br />

Prima della conclusione del giudizio d’appello, però, era entrato in vigore il decreto-legge n. 341 del 2000,<br />

convertito, con modificazioni, dalla legge n. 4 del 2001, il cui art. 7, nel dichiarato intento di dare una interpretazione<br />

autentica al secondo periodo dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., come modificato dalla legge n. 479 del 1999,<br />

aveva stabilito che l’espressione «pena dell’ergastolo» ivi contenuta doveva intendersi riferita all’ergastolo senza<br />

isolamento diurno e aveva inserito alla fine della stessa disposizione un terzo periodo, secondo il quale «Alla pena<br />

dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella<br />

dell’ergastolo».<br />

In applicazione del citato art. 7 la Corte di assise di appello di Catania, con sentenza del 10 luglio 2001 (divenuta<br />

irrevocabile il 14 novembre 2003), aveva inflitto al ricorrente la pena dell’ergastolo.<br />

La Corte di cassazione ricorda che, avverso il provvedimento del Tribunale di Spoleto, in funzione di giudice<br />

dell’esecuzione, è stato proposto ricorso, deducendo una violazione di legge, con riferimento agli artt. 6 e 7 della CEDU<br />

e 442 cod. proc. pen., nonché la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione.<br />

7


Il ricorso è stato assegnato alle sezioni unite in considerazione della speciale importanza della questione, relativa<br />

alla possibilità per il giudice dell’esecuzione, in attuazione dei principi enunciati dalla Corte europea dei diritti<br />

dell’uomo (d’ora in avanti: «Corte EDU») con la sentenza della Grande Camera 17 settembre 2009, Scoppola contro<br />

Italia, di sostituire la pena dell’ergastolo, inflitta all’esito del giudizio abbreviato, con la pena di trenta anni di<br />

reclusione, in tal modo modificando il giudicato con l’applicazione, nella successione di leggi intervenute in materia, di<br />

quella più favorevole.<br />

Il rimettente, premesso che le Parti contraenti della CEDU, ai sensi dell’art. 46 della citata Convenzione, si<br />

impegnano a conformarsi alle sentenze definitive pronunciate dalla Corte di Strasburgo nelle controversie nelle quali<br />

sono parti e che lo Stato convenuto ha l’obbligo giuridico di adottare, sotto il controllo del Comitato dei ministri, «le<br />

misure generali e/o, se del caso, individuali per porre fine alla violazione constatata, eliminarne le conseguenze e<br />

scongiurare ulteriori violazioni analoghe», rileva che la Corte EDU, la quale ha il compito istituzionale di interpretare e<br />

applicare la CEDU, quando accerta violazioni della stessa connesse a problemi sistematici e strutturali dell’ordinamento<br />

giuridico nazionale, pone in essere una cosiddetta “procedura di sentenza pilota”, che si propone di aiutare gli Stati<br />

contraenti a risolvere a livello nazionale i problemi rilevati, in modo da riconoscere alle persone interessate, che versano<br />

nella stessa condizione della persona il cui caso è stato specificamente preso in considerazione, i diritti e le libertà<br />

convenzionali, offrendo loro la riparazione più rapida, sì da alleggerire il carico della Corte sovranazionale.<br />

In questa prospettiva, la giurisprudenza della Corte EDU, originariamente finalizzata alla soluzione di specifiche<br />

controversie relative a casi concreti, si sarebbe caratterizzata nel tempo «per una evoluzione improntata alla<br />

valorizzazione di una funzione paracostituzionale di tutela dell’interesse generale al rispetto del diritto oggettivo»,<br />

fornendo sempre più spesso, nel rilevare la contrarietà alla CEDU di situazioni interne di portata generale, indicazioni<br />

allo Stato responsabile sui rimedi da adottare per rimuovere il contrasto.<br />

Secondo la Corte di cassazione, di fronte a pacifiche violazioni convenzionali di carattere oggettivo e generale,<br />

già in precedenza accertate in sede europea, il mancato esperimento del rimedio di cui all’art. 34 CEDU e la<br />

conseguente mancanza, nel caso concreto, di una sentenza della Corte EDU cui dare esecuzione «non possono essere di<br />

ostacolo ad un intervento dell’ordinamento giuridico italiano, attraverso la giurisdizione, per eliminare una situazione di<br />

illegalità convenzionale, anche sacrificando il valore della certezza del giudicato», da ritenersi certamente recessivo,<br />

allorché risulti compromesso un diritto fondamentale della persona, quale è quello che incide sulla libertà personale.<br />

Il giudice a quo ricorda il contenuto della sentenza della Corte EDU, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia,<br />

che viene in rilievo nel caso in esame, perché presenta i connotati sostanziali di una “sentenza pilota”, in quanto, pur<br />

non fornendo specifiche indicazioni sulle misure generali da adottare, «evidenzia comunque l’esistenza, all’interno<br />

dell’ordinamento giuridico italiano, di un problema strutturale dovuto alla non conformità rispetto alla CEDU dell’art. 7<br />

del decreto-legge n. 341 del 2000, nella interpretazione datane dalla giurisprudenza interna».<br />

Ne conseguirebbe che eventuali effetti ancora perduranti della violazione, determinata da una illegittima<br />

applicazione di una norma interna di diritto penale sostanziale interpretata in senso non convenzionalmente orientato,<br />

«devono dunque essere rimossi anche nei confronti di coloro che, pur non avendo proposto ricorso a Strasburgo, si<br />

trovano in una situazione identica a quella oggetto della decisione adottata dal giudice europeo per il caso Scoppola».<br />

Secondo la sentenza Scoppola, l’art. 7 della CEDU non garantisce soltanto il principio di non retroattività delle<br />

leggi penali più severe, ma impone anche che, nel caso in cui la legge penale in vigore al momento della commissione<br />

del reato e quelle successive approvate prima della condanna definitiva siano differenti, il giudice debba applicare<br />

quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, con l’effetto che, nell’ipotesi di successione di leggi penali nel<br />

tempo, costituisce violazione dell’art. 7, paragrafo 1, della CEDU, l’applicazione della pena più sfavorevole al reo.<br />

Le sezioni unite della Corte di cassazione aggiungono che per la Corte EDU l’art. 442 cod. proc. pen., nella parte<br />

in cui indica la misura della pena da infliggere in caso di condanna all’esito di giudizio abbreviato, è norma di diritto<br />

penale sostanziale che soggiace alle regole sulla retroattività di cui all’art. 7 della CEDU, con la conseguenza della<br />

violazione di tale ultima norma nel caso in cui non venga inflitta all’imputato la pena più mite tra quelle previste dalle<br />

diverse leggi succedutesi dal momento del fatto a quello della sentenza definitiva. La pronuncia della Corte di<br />

Strasburgo, negando il carattere di norma interpretativa dell’art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000, conclude che<br />

Scoppola, essendo stato ammesso al rito abbreviato nel vigore della legge n. 479 del 1999, avrebbe avuto diritto, ai<br />

sensi dell’art. 7 della CEDU, così come interpretato, a vedersi infliggere la pena di trenta anni di reclusione, più mite,<br />

rispetto sia a quella prevista (ergastolo con isolamento diurno) al momento della commissione del fatto, sia a quella<br />

prevista (ergastolo senza isolamento diurno) dall’art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000.<br />

Secondo la Corte di cassazione «tale precedente sovranazionale», censurando il meccanismo processuale col<br />

quale si attribuisce efficacia retroattiva all’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000, qualificato come norma<br />

d’interpretazione autentica dell’art. 442 cod. proc. pen. (nel testo risultante dalla modifica operata dalla legge n. 479 del<br />

1999) enuncia, in linea di principio, una «regola di giudizio di portata generale, che, in quanto tale, è astrattamente<br />

applicabile a fattispecie identiche a quella esaminata» e quindi anche al caso dell’attuale ricorrente.<br />

Ne conseguirebbe che l’avere inflitto al ricorrente, la cui posizione è sostanzialmente sovrapponibile a quella di<br />

Scoppola, la pena dell’ergastolo, anziché quella di trent’anni di reclusione, avrebbe violato il suo diritto all’applicazione<br />

retroattiva (art. 7 della CEDU) della legge penale più favorevole, e la violazione inevitabilmente si rifletterebbe, con<br />

effetti perduranti in fase esecutiva, sul diritto fondamentale alla libertà personale.<br />

Questa situazione, anche a costo di porre in crisi il “dogma” del giudicato, non potrebbe essere tollerata, perché<br />

legittimerebbe «l’esecuzione di una pena ritenuta, oggettivamente e quindi ben al di là della species facti, illegittima<br />

8


dall’interprete autentico della CEDU», determinando una patente violazione del principio di parità di trattamento tra<br />

condannati che versano in identica posizione. Il caso sarebbe diverso da quello dell’applicazione illegittima di una pena<br />

esclusivamente perché avvenuta in seguito a un giudizio ritenuto dalla Corte EDU non equo ai sensi dell’art. 6 della<br />

CEDU, in quanto in questo caso «l’apprezzamento, vertendo su eventuali errores in procedendo», dovrebbe essere<br />

compiuto caso per caso, sì che solo «un vincolante dictum della Corte di Strasburgo sulla medesima fattispecie»<br />

potrebbe mettere in discussione il giudicato.<br />

Il caso in esame non sarebbe dissimile da ogni altra situazione in cui vi sia stata condanna in forza di una legge<br />

penale dichiarata ex post, nella sua parte precettiva o sanzionatoria, illegittima o comunque inapplicabile perché in<br />

contrasto con una norma di rango superiore.<br />

Non sarebbe di ostacolo l’irrevocabilità del giudicato, la cui crisi sarebbe «riscontrabile nell’art. 2, comma terzo,<br />

cod. pen.», secondo cui la pena detentiva inflitta con condanna definitiva si converte automaticamente nella<br />

corrispondente pena pecuniaria, se la legge posteriore al giudicato prevede esclusivamente quest’ultima, «regola questa<br />

che deroga a quella posta invece dal quarto comma dello stesso art. 2 cod. pen. (primato della lex mitior, salvo che sia<br />

stata pronunciata sentenza irrevocabile)».<br />

Alla novità normativa richiesta dall’art. 2 citato sarebbe assimilabile, in via analogica, il novum dettato dalla<br />

Corte EDU in tema di legalità della pena. In entrambi i casi l’esigenza imprescindibile di far cessare gli effetti negativi<br />

dell’esecuzione di una pena contra legem dovrebbe prevalere sulla tenuta del giudicato.<br />

Stante la centrale rilevanza assunta dalla decisione della Corte EDU sul caso Scoppola nella valutazione della<br />

posizione del ricorrente, s’imporrebbe la verifica della compatibilità degli artt. 7 e 8 del decreto-legge n. 341 del 2000,<br />

convertito, con modificazioni, dalla legge n. 4 del 2001, con il principio di legalità convenzionale di cui all’art. 7 della<br />

CEDU, nell’interpretazione datane dalla Corte europea, costituente, quale norma interposta, il parametro costituzionale<br />

espresso dall’art. 117, primo comma, Cost.<br />

Il giudice a quo ritiene che non vi siano spazi per un’interpretazione conforme alla CEDU delle disposizioni<br />

suddette, dalla cui applicazione è derivata e tuttora deriva la violazione del diritto fondamentale del condannato<br />

all’applicazione della norma più favorevole, costituita nel caso specifico dall’art. 30, comma 1, lettera b), della legge n.<br />

479 del 1999. Tale conclusione si imporrebbe alla stregua della espressa qualificazione come “interpretazione<br />

autentica”, contenuta nel titolo del Capo III del decreto-legge n. 341 del 2000, convertito, con modificazioni, dalla legge<br />

n. 4 del 2001, del tenore dell’art. 7 del citato decreto-legge e del contenuto della relativa Relazione governativa, in cui si<br />

precisa che la disposizione intende risolvere in via interpretativa i dubbi circa l’applicabilità della disciplina sul giudizio<br />

abbreviato nei casi in cui, stante il concorso di reati, alla pena dell’ergastolo debba aggiungersi anche la sanzione<br />

dell’isolamento diurno.<br />

La legge interpretativa, in quanto materialmente successiva nel tempo a quella interpretata, con cui si salda dando<br />

luogo ad un precetto normativo unitario, avrebbe efficacia retroattiva in deroga al principio di irretroattività della legge<br />

in generale, fissato dall’art. 11 delle preleggi.<br />

La disciplina di natura transitoria di cui all’art. 8 del decreto-legge n. 341 del 2000, come sostituito in sede di<br />

conversione, che prevede la facoltà dell’imputato di revocare la richiesta di giudizio abbreviato nei casi in cui è<br />

applicabile o è stata applicata la pena dell’ergastolo con isolamento diurno, confermerebbe l’efficacia retroattiva<br />

attribuita dal legislatore all’art. 7 citato.<br />

L’impossibilità di una interpretazione della normativa interna conforme all’art. 7 della CEDU ha indotto la Corte<br />

di cassazione a ritenere non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3<br />

e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 della CEDU, degli artt. 7 e 8 del decreto-legge n. 341 del<br />

2000, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 4 del 2001, nella parte in cui tali disposizioni interne operano<br />

retroattivamente e più specificamente, in relazione alla posizione di coloro che, pur avendo formulato richiesta di<br />

giudizio abbreviato nella vigenza della sola legge n. 479 del 1999, sono stati giudicati successivamente, quando cioè, a<br />

far data dal pomeriggio del 24 novembre 2000 (pubblicazione della Gazzetta Ufficiale, ai sensi dell’art. 2 del regio<br />

decreto n. 1252 del 1923), era entrato in vigore il citato decreto-legge, con la conseguente applicabilità del più<br />

sfavorevole trattamento sanzionatorio ivi previsto.<br />

Il giudice a quo, premessa la distinzione tra legge autenticamente interpretativa, che si limita a indicare il vero<br />

significato del testo della legge preesistente e legge che pur formalmente dichiarata interpretativa si rivela invece<br />

innovativa, perché intacca antinomicamente la ratio della legge, osserva che la cosiddetta «interpretazione autentica<br />

dell’art. 442 comma 2 del codice di procedura penale», operata dall’art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000, rientra<br />

nella seconda categoria di norme. Ciò in quanto il testo dell’art. 442, comma 2, secondo periodo, cod. proc. pen., così<br />

come introdotto dalla legge n. 479 del 1999, non presenterebbe alcuna ambiguità interpretativa, perché la pena<br />

dell’ergastolo (con o senza isolamento diurno) doveva essere sostituita, in caso di giudizio abbreviato, con la pena di<br />

trenta anni di reclusione.<br />

Secondo la Corte di cassazione, il legislatore del 2000 avrebbe inteso porre rimedio a tale insoddisfacente<br />

disciplina e, «per incidere immediatamente sui processi in corso aventi ad oggetto gravi fatti omicidiari, ha optato per la<br />

legge interpretativa, anche se non v’era alcun effettivo problema ermeneutico da risolvere», ma semplicemente<br />

l’esigenza «di diversificare il trattamento sanzionatorio in relazione alla pluralità o unicità di imputazioni importanti<br />

l’ergastolo».<br />

Ne conseguirebbe che il giudice ordinario, non potendo disapplicare la legge formalmente interpretativa,<br />

potrebbe solo sottoporla all’esame della Corte costituzionale.<br />

9


Sottolinea, inoltre, la Corte di cassazione che gli aspetti processuali propri del giudizio abbreviato sono<br />

strettamente collegati «con aspetti sostanziali, dovendosi tali ritenere quelli relativi alla diminuzione o alla sostituzione<br />

della pena, profilo questo che si risolve indiscutibilmente in un trattamento penale di favore». La richiesta di giudizio<br />

abbreviato cristallizzerebbe il trattamento sanzionatorio vigente al momento di essa, con l’effetto che una norma<br />

sopravvenuta di sfavore non potrebbe retroattivamente deludere e vanificare il legittimo affidamento riposto<br />

dall’interessato nello svolgimento del giudizio secondo le più favorevoli regole in vigore all’epoca della scelta<br />

processuale.<br />

La norma dell’art. 7 e di riflesso quella del successivo art. 8 del decreto-legge n. 341 del 2000 sembrerebbero<br />

essere in contrasto in primo luogo con il parametro di cui all’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la<br />

conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, e quindi alla norma interposta<br />

contenuta nell’art. 7 della CEDU, che delineerebbe, secondo l’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, un<br />

nuovo profilo di tutela del principio di legalità convenzionale in materia penale: non solo la irretroattività della legge<br />

penale più severa, principio già contenuto nell’art. 25, secondo comma, Cost., ma anche e implicitamente la retroattività<br />

o l’ultrattività della lex mitior, in quanto andrebbe ad incidere sulla configurabilità del reato o sulla specie e sull’entità<br />

della pena e, quindi, su diritti fondamentali della persona.<br />

In conclusione, secondo la Corte, sarebbe «proprio l’applicazione retroattiva in malam partem della c.d. legge<br />

interpretativa a determinare la violazione del diritto del soggetto interessato all’operatività, invece, della legge più mite<br />

tra quelle succedutesi nell’arco temporale 2 gennaio-24 novembre 2000, in presenza del presupposto processuale<br />

rappresentato dalla richiesta del rito abbreviato effettuata nello stesso periodo, e a legittimare i dubbi di costituzionalità<br />

della medesima legge interpretativa».<br />

La citata normativa interna, stante il suo carattere retroattivo, contrasterebbe inoltre con l’art. 3 Cost., violando il<br />

canone di ragionevolezza e il principio di uguaglianza. Essa, infatti, interverrebbe sull’art. 442, comma 2, ultimo<br />

periodo, cod. proc. pen. nel testo risultante dalla legge n. 479 del 1999, in assenza di una situazione di oggettiva<br />

incertezza del dato normativo di riferimento. Tradirebbe poi il principio dell’affidamento connaturato allo Stato di<br />

diritto, legittimamente sorto nel soggetto al momento della scelta del rito alternativo regolato da una norma più<br />

favorevole. Determinerebbe, infine, ingiustificate disparità di trattamento, dipendenti dai variabili tempi processuali, tra<br />

soggetti che versano in un’identica posizione sostanziale.<br />

In punto di rilevanza, la Corte di cassazione precisa che la decisione della vicenda in esame dovrebbe comportare<br />

l’applicazione dell’art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000 e non potrebbe prescindere dai riflessi che su tale norma<br />

spiega anche la disposizione transitoria di cui al successivo art. 8, come sostituito in sede di conversione dalla legge n. 4<br />

del 2001. Sussisterebbe, quindi, un rapporto di strumentalità necessaria tra la risoluzione delle questioni di<br />

costituzionalità e la definizione dell’attivato incidente di esecuzione.<br />

Aggiunge la Corte rimettente che l’eventuale dichiarazione di incostituzionalità delle norme interne, avendo una<br />

forza invalidante ex tunc, la cui portata, già implicita nell’art. 136 Cost., è chiarita dall’art. 30, quarto comma, della<br />

legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), inciderebbe<br />

sull’esecuzione ancora in corso della pena illegittimamente inflitta in applicazione della più severa norma penale<br />

sostanziale, sospettata, nella parte relativa alla sua efficacia retroattiva, di essere in contrasto con la Carta costituzionale.<br />

L’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 dispone che, quando in applicazione della norma dichiarata<br />

costituzionalmente illegittima è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano l’esecuzione e tutti gli<br />

effetti penali, e secondo la Corte di cassazione, da questa disposizione consegue che, «nel caso di dichiarazione di<br />

incostituzionalità di una norma penale sostanziale, la tutela della libertà personale si unisce alla forza espansiva della<br />

dichiarazione di incostituzionalità e travolge anche il giudicato, con effetti diretti sull’esecuzione, ancora in atto, della<br />

condanna irrevocabile».<br />

Il campo di operatività dell’art. 30, quarto comma, sarebbe più esteso rispetto a quello dell’art. 673 cod. proc.<br />

pen., il quale si riferirebbe all’abrogazione o dichiarazione di incostituzionalità di fattispecie incriminatrici nella loro<br />

interezza, in quanto impedirebbe anche l’esecuzione della pena o della frazione di pena inflitta in base alla norma<br />

dichiarata costituzionalmente illegittima sul punto, senza coinvolgere il precetto.<br />

Il citato art. 30, quarto comma, si porrebbe come eccezione alla regola di cui al quarto comma dell’art. 2 del<br />

codice penale, secondo cui si applica al reo la disposizione più favorevole, salvo che sia stata pronunciata sentenza<br />

irrevocabile, e legittimerebbe quindi il superamento del giudicato di fronte alle primarie esigenze, insite nell’intero<br />

sistema penale, di tutelare il diritto fondamentale della persona alla legalità della pena anche in fase esecutiva e di<br />

assicurare parità di trattamento tra i condannati che versano in una identica situazione.<br />

2.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura<br />

generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili ed infondate.<br />

L’Avvocatura dello Stato osserva che in seguito all’entrata in vigore, in data 1° dicembre 2009, del Trattato di<br />

Lisbona del 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto 2008, n. 130, è stata impressa una diversa<br />

configurazione al rapporto tra le norme della CEDU e l’ordinamento interno. In virtù dell’art. 6 del predetto Trattato,<br />

indipendentemente dalla formale adesione alla CEDU, da parte dell’Unione europea, i diritti elencati dalla Convenzione<br />

verrebbero ricondotti all’interno delle fonti dell’Unione sia in via diretta ed immediata, tramite il loro riconoscimento<br />

come «principi generali del diritto dell’Unione», sia in via mediata, come conseguenza del riconoscimento che la Carta<br />

dei diritti fondamentali dell’Unione europea ha lo stesso valore giuridico dei trattati.<br />

Secondo l’Avvocatura, a norma dell’art. 49, primo paragrafo, della Carta da ultimo citata, se successivamente<br />

10


alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima. In<br />

virtù dell’art. 52 della Carta, inoltre, tutti i diritti previsti dalla CEDU che trovino un corrispondente all’interno della<br />

Carta di Nizza dovrebbero ritenersi tutelati anche a livello comunitario.<br />

Di conseguenza il giudice comune sarebbe tenuto a disapplicare qualsiasi norma nazionale «in contrasto con i<br />

diritti fondamentali sanciti dalla CEDU, in base al principio, fondato sull’art. 11 Cost., secondo cui “le norme di diritto<br />

comunitario sono direttamente operanti nell’ordinamento interno”».<br />

Questa interpretazione non troverebbe «ostacoli di operatività», in quanto il principio di retroattività o ultrattività<br />

della lex mitior in relazione all’esecuzione penale si armonizzerebbe con la disposizione di cui all’art. 30, quarto<br />

comma, della legge n. 87 del 1953, che impedisce l’esecuzione di una pena o di una frazione di pena inflitta in base ad<br />

una norma dichiarata illegittima, incidendo su una situazione non ancora esaurita, «senza coinvolgere il precetto penale,<br />

assicurando la legalità della pena attraverso un’effettiva parità di trattamento nei confronti di condannati che versano in<br />

una identica situazione di diritto».<br />

Considerato in diritto<br />

1.– Con ordinanza depositata il 10 settembre 2012 e pervenuta a questa Corte il 6 novembre 2012, la Corte di<br />

cassazione, sezioni unite penali, in riferimento agli articoli 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in<br />

relazione all’articolo 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali<br />

(d’ora in avanti: «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950 (ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955,<br />

n. 848), ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli articoli 7 e 8 del decreto-legge 24 novembre 2000, n.<br />

341 (Disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’Amministrazione della giustizia), convertito, con<br />

modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, nella parte in cui tali disposizioni operano retroattivamente e, più<br />

specificamente, in relazione alla posizione di coloro che, pur avendo formulato richiesta di giudizio abbreviato nella<br />

vigenza della sola legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in<br />

composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e<br />

all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di<br />

pace e di esercizio della professione forense), sono stati giudicati successivamente, quando cioè, a far data dal<br />

pomeriggio del 24 novembre 2000 (pubblicazione della Gazzetta Ufficiale), era entrato in vigore il citato decreto-legge,<br />

con conseguente applicabilità del più sfavorevole trattamento sanzionatorio previsto da tale decreto.<br />

La Corte di cassazione è stata investita con un ricorso contro un provvedimento del Tribunale di Spoleto che, in<br />

sede esecutiva, ha rigettato la richiesta di un condannato diretta a vedersi sostituire la pena dell’ergastolo, applicata nel<br />

corso di un giudizio abbreviato, con la pena di trenta anni di reclusione, sostituzione che, secondo il ricorso, si sarebbe<br />

dovuta disporre perché il condannato si trovava in una situazione analoga a quella che nel caso Scoppola contro Italia<br />

aveva formato oggetto della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti: «Corte EDU»), Grande<br />

Camera, 17 settembre 2009.<br />

Con questa sentenza la Corte EDU aveva rilevato la violazione da parte dello Stato italiano dell’art. 7, paragrafo<br />

1, della CEDU, cagionata dall’applicazione dell’art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000 e aveva dichiarato che lo Stato<br />

italiano era tenuto ad assicurare che la pena dell’ergastolo, inflitta al ricorrente, fosse sostituita con una pena non<br />

superiore a quella della reclusione di anni trenta.<br />

Il Tribunale di Spoleto, al quale il condannato si era rivolto per ottenere la sostituzione della pena, aveva rigettato<br />

la richiesta rilevando che nessuna violazione dell’art. 7 della CEDU era stata accertata dalla Corte EDU nel caso del<br />

richiedente.<br />

Le sezioni unite della Corte di cassazione, che non condividono le ragioni del rigetto, hanno proposto questioni di<br />

legittimità costituzionale degli artt. 7 e 8 del decreto-legge n. 341 del 2000, ritenendo che queste norme siano di<br />

ostacolo al doveroso accoglimento della richiesta di sostituzione della pena.<br />

2.– Secondo le sezioni unite, la sentenza della Corte EDU ha rilevato nel nostro ordinamento un problema<br />

strutturale e gli eventuali effetti, tuttora perduranti, della violazione devono essere eliminati, perché essa contiene una<br />

«regola di giudizio di portata generale, che, in quanto tale, è astrattamente applicabile a fattispecie identiche a quella<br />

esaminata».<br />

Il giudice a quo, nell’esercizio dei suoi poteri di apprezzamento e qualificazione della fattispecie sottoposta alla<br />

sua cognizione, premette che il ricorrente si trova in una situazione identica a quella che ha connotato il caso Scoppola e<br />

perciò ritiene che anche nei suoi confronti la pena dell’ergastolo, applicata in forza della norma convenzionalmente<br />

illegittima, dovrebbe essere sostituita con la pena di trenta anni di reclusione. «Di fronte a pacifiche violazioni<br />

convenzionali di carattere oggettivo e generale, già in precedenza stigmatizzate in sede europea – aggiunge il giudice a<br />

quo – il mancato esperimento del rimedio di cui all’art. 34 CEDU (ricorso individuale) e la conseguente mancanza, nel<br />

caso concreto, di una sentenza della Corte EDU cui dare esecuzione non possono essere di ostacolo a un intervento<br />

dell’ordinamento giuridico italiano, attraverso la giurisdizione, per eliminare una situazione di illegalità convenzionale,<br />

anche sacrificando il valore della certezza del giudicato, da ritenersi recessivo rispetto ad evidenti e pregnanti<br />

compromissioni in atto di diritti fondamentali della persona. La preclusione, effetto proprio del giudicato, non può<br />

operare allorquando risulti pretermesso, con effetti negativi perduranti, un diritto fondamentale della persona, quale<br />

certamente è quello che incide sulla libertà: s’impone, pertanto, in questo caso di emendare “dallo stigma<br />

11


dell’ingiustizia” una tale situazione». Il caso, secondo l’ordinanza di rimessione, non sarebbe dissimile da quello in cui<br />

vi è stata una condanna in forza di una legge dichiarata ex post costituzionalmente illegittima nella sua parte precettiva<br />

o sanzionatoria.<br />

A parere delle sezioni unite, all’applicazione della regola contenuta nella sentenza Scoppola si oppone però l’art.<br />

7 del decreto-legge n. 341 del 2000, che, per i motivi indicati nella sentenza della Corte EDU, appare<br />

costituzionalmente illegittimo e, in base all’art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, recante «Norme<br />

sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale» (il quale dispone che quando in applicazione della<br />

norma dichiarata costituzionalmente illegittima è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna ne cessano<br />

l’esecuzione e tutti gli effetti penali), la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 7 consentirebbe<br />

l’applicazione dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. nel testo anteriore alla modificazione operata con il decreto-legge<br />

n. 341 del 2000 e, dunque, la richiesta sostituzione della pena. Infatti, secondo le sezioni unite, l’art. 30, quarto comma,<br />

della legge n. 87 del 1953 dovrebbe operare con un duplice effetto, per superare sia il limite del giudicato sia quello del<br />

quarto comma dell’art. 2 del codice penale, il quale esclude l’applicabilità di disposizioni «più favorevoli al reo»<br />

sopravvenute, qualora «sia stata pronunciata sentenza irrevocabile».<br />

3.– Il quadro normativo interno nel cui ambito si pone la questione è caratterizzato da una successione di varie<br />

leggi.<br />

La disposizione originaria dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. prevedeva, nel caso di giudizio abbreviato, la<br />

sostituzione della pena dell’ergastolo con quella di trenta anni di reclusione. Questa norma è stata però dichiarata<br />

costituzionalmente illegittima per eccesso di delega (sentenza n. 176 del 1991) e, di conseguenza, tra il 1991 e il 1999,<br />

l’accesso al rito abbreviato, sulla base degli artt. 438 e 442 cod. proc. pen., all’epoca vigenti, è stato precluso agli<br />

imputati dei delitti puniti con l’ergastolo.<br />

L’art. 30, comma 1, lettera b), della legge n. 479 del 1999, entrata in vigore il 2 gennaio 2000, ha modificato<br />

l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., reintroducendo la possibilità di procedere con il giudizio abbreviato per i reati<br />

punibili con l’ergastolo, e ha previsto la sostituzione di questa pena con quella di trenta anni di reclusione.<br />

Il decreto-legge n. 341 del 24 novembre 2000, entrato in vigore lo stesso 24 novembre 2000, e convertito dalla<br />

legge 19 gennaio 2001, n. 4, all’art. 7, ha modificato nuovamente l’art. 442 cod. proc. pen., stabilendo, in via di<br />

interpretazione autentica della precedente modifica, che «nell’art. 442, comma 2, del codice di procedura penale,<br />

l’espressione “pena dell’ergastolo” è riferita all’ergastolo senza isolamento diurno» (art. 7, comma 1), e aggiungendo<br />

alla fine del comma 2 dell’art. 442 cod. proc. pen. la proposizione: «Alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei<br />

casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo» (art. 7, comma 2). In via transitoria,<br />

l’art. 8 del medesimo decreto-legge ha consentito a chi avesse formulato una richiesta di giudizio abbreviato nel vigore<br />

della legge n. 479 del 1999 di revocarla entro trenta giorni dall’entrata in vigore del decreto-legge con l’effetto che il<br />

processo sarebbe proseguito con il rito ordinario.<br />

In seguito a quest’ultima modifica normativa, il giudizio abbreviato, che si conferma applicabile alla generalità<br />

dei delitti puniti con l’ergastolo, consente al condannato di beneficiare della sostituzione della pena dell’ergastolo senza<br />

isolamento diurno con quella di trenta anni di reclusione e della sostituzione della pena dell’ergastolo con isolamento<br />

diurno con quella dell’ergastolo semplice.<br />

4.– Con la sentenza del 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, la Grande Camera della Corte EDU ha preso<br />

in considerazione il quadro normativo sopraindicato, e in particolare la vicenda relativa alla successione tra la legge n.<br />

479 del 1999 e il decreto-legge n. 341 del 2000, ravvisando una violazione degli artt. 6 e 7 della CEDU.<br />

In particolare, la Corte EDU ha ritenuto che l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., ancorché contenuto in una legge<br />

processuale, è norma di diritto penale sostanziale, in quanto, «se è vero che gli articoli 438 e 441-443 del c.p.p.<br />

descrivono il campo di applicazione e le fasi processuali del giudizio abbreviato, rimane comunque il fatto che il<br />

paragrafo 2 dell’articolo 442 è interamente dedicato alla severità della pena da infliggere quando il processo si è svolto<br />

secondo questa procedura semplificata». Si tratta perciò di una norma che rientra nel campo di applicazione dell’art. 7,<br />

paragrafo 1, della Convenzione, che, secondo una innovativa interpretazione della Corte di Strasburgo, comprende<br />

anche il diritto dell’imputato di beneficiare della legge penale successiva alla commissione del reato che prevede una<br />

sanzione meno severa di quella stabilita in precedenza: nel caso di specie la sanzione di trenta anni di reclusione, pure<br />

nel caso di reati puniti con l’ergastolo con isolamento diurno, poi sostituita retroattivamente con quella del semplice<br />

ergastolo.<br />

5.– Delimitato il quadro normativo in cui si colloca la questione in esame, va considerato che l’Avvocatura<br />

generale dello Stato ne ha eccepito l’inammissibilità, sostenendo che, in seguito all’entrata in vigore, il 1° dicembre<br />

2009, del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con la legge 2 agosto 2008, n. 130, è<br />

stata impressa una diversa configurazione al rapporto tra le norme della CEDU e l’ordinamento interno. In virtù dell’art.<br />

6 del Trattato, indipendentemente dalla formale adesione alla CEDU da parte dell’Unione europea, i diritti elencati dalla<br />

Convenzione sarebbero stati ricondotti all’interno delle fonti dell’Unione, sia in via diretta e immediata, tramite il loro<br />

riconoscimento come «principi generali del diritto dell’Unione», sia in via mediata, come conseguenza del<br />

riconoscimento che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ha lo stesso valore giuridico dei trattati.<br />

Secondo l’Avvocatura dello Stato, a norma dell’art. 49, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali, se<br />

successivamente alla commissione del reato sopravviene una legge che prevede una pena più lieve, è questa che deve<br />

trovare applicazione. In virtù dell’art. 52 della Carta, inoltre, tutti i diritti previsti dalla CEDU che trovino in essa una<br />

corrispondenza devono ritenersi tutelati anche a livello comunitario. Di conseguenza il giudice comune dovrebbe<br />

12


disapplicare qualsiasi norma nazionale «in contrasto con i diritti fondamentali sanciti dalla CEDU, in base al principio,<br />

fondato sull’art. 11 Cost., secondo cui le norme di diritto comunitario sono direttamente operanti nell’ordinamento<br />

interno».<br />

L’eccezione di inammissibilità è priva di fondamento.<br />

Come è già stato rilevato, l’adesione dell’Unione europea alla CEDU non è ancora avvenuta, «rendendo allo stato<br />

improduttiva di effetti la statuizione del paragrafo 2 del nuovo art. 6 del Trattato sull’Unione europea, come modificato<br />

dal Trattato di Lisbona» (sentenze n. 303 e n. 80 del 2011).<br />

Inoltre questa Corte ha già avuto occasione di chiarire che, «in linea di principio, dalla qualificazione dei diritti<br />

fondamentali oggetto di disposizioni della CEDU come princìpi generali del diritto comunitario non può farsi<br />

discendere la riferibilità alla CEDU del parametro di cui all’art. 11 Cost., né, correlativamente, la spettanza al giudice<br />

comune del potere-dovere di non applicare le norme interne contrastanti con la predetta Convenzione» (sentenze n. 303<br />

del 2011; n. 349 del 2007). È da aggiungere che «i princìpi in questione rilevano unicamente in rapporto alle fattispecie<br />

cui il diritto comunitario (oggi, il diritto dell’Unione) è applicabile» (sentenze n. 303 e n. 80 del 2011), e poiché nel<br />

caso di specie non siamo di fronte ad una fattispecie riconducibile al diritto comunitario non vi è spazio per<br />

un’eventuale disapplicazione da parte del giudice ordinario.<br />

La stessa Corte di giustizia dell’Unione europea ha del resto ritenuto che il rinvio operato dall’art. 6, paragrafo 3,<br />

del Trattato sull’Unione europea alla CEDU non regola i rapporti tra ordinamenti nazionali e CEDU né, tantomeno,<br />

impone al giudice nazionale, in caso di conflitto tra una norma di diritto nazionale e la Convenzione europea, di<br />

applicare direttamente le disposizioni di quest’ultima, disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa<br />

(sentenza del 24 aprile 2012, in causa C-571/10, Kamberaj).<br />

6.– Un profilo di inammissibilità è invece ravvisabile rispetto alla questione avente ad oggetto l’art. 8 del<br />

decreto-legge n. 341 del 2000, che disciplina, in via transitoria, il potere dell’imputato di revocare la richiesta di<br />

giudizio abbreviato nel termine di trenta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto in questione. Infatti, mentre le<br />

censure di costituzionalità riguardano sia l’art. 7 sia l’art. 8 del decreto-legge n. 341 del 2000, nell’ordinanza di<br />

rimessione manca la motivazione sulla rilevanza della questione relativa a quest’ultima norma, della quale non è<br />

indicato l’ambito di applicabilità nel giudizio principale.<br />

Ne consegue l’inammissibilità della questione relativa all’art. 8.<br />

7.– Dal tenore complessivo dell’ordinanza di rimessione emerge che la questione di legittimità costituzionale, pur<br />

coinvolgendo formalmente l’intero art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000, deve intendersi limitata al solo comma 1 di<br />

tale articolo, che, in virtù della sua pretesa natura interpretativa, ne determina l’applicazione retroattiva. L’art. 7, comma<br />

2, dello stesso decreto-legge, modificando l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., si limita a dettare la nuova disciplina del<br />

rito abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo, da applicarsi “a regime” e dunque nelle fattispecie successive alla sua<br />

entrata in vigore, che non riguardano il caso oggetto del giudizio a quo.<br />

7.1.– Una volta limitato il campo delle censure al solo art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000 vanno<br />

esaminati alcuni altri aspetti problematici, con possibili riflessi sull’ammissibilità della questione di legittimità<br />

costituzionale.<br />

L’ordinanza della Corte di cassazione muove dal presupposto che alla sentenza della Corte EDU emessa nei<br />

confronti di Scoppola debba darsi applicazione anche nei casi, come quello in questione, che presentano le medesime<br />

caratteristiche, senza che occorra per gli stessi una specifica pronuncia della Corte EDU.<br />

La norma fondamentale in tema di esecuzione delle sentenze della Corte EDU è costituita dall’art. 46, paragrafo<br />

1, della CEDU, che impegna gli Stati contraenti «a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie<br />

nelle quali sono parte». Gli altri paragrafi dell’art. 46 (dal 2 al 5) disciplinano le competenze del Comitato dei ministri e<br />

della stessa Corte nell’esercizio dell’attività di controllo sull’esecuzione delle sentenze da parte degli Stati responsabili<br />

delle violazioni della CEDU.<br />

L’art. 46 va letto in combinazione con l’art. 41 della CEDU, a norma del quale, «se la Corte dichiara che vi è<br />

stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta parte contraente non permette<br />

che in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa<br />

soddisfazione alla parte lesa» (sentenza n. 113 del 2011).<br />

Nell’applicazione delle norme convenzionali ora ricordate, la Corte EDU ha per lungo tempo mantenuto un<br />

atteggiamento di self-restraint, ponendo l’accento sulla natura “essenzialmente dichiarativa” delle proprie sentenze e<br />

sulla libertà degli Stati nella scelta dei mezzi da utilizzare per conformarsi ad esse, ma questo atteggiamento è stato<br />

decisamente superato dalla giurisprudenza più recente.<br />

A partire dalla sentenza della Corte EDU del 13 luglio 2000, Scozzari e Giunta contro Italia, si è affermato il<br />

principio – ormai consolidato – in forza del quale, «quando la Corte constata una violazione, lo Stato convenuto ha<br />

l’obbligo giuridico non solo di versare agli interessati le somme attribuite a titolo dell’equa soddisfazione previste<br />

dall’articolo 41, ma anche di adottare le misure generali e/o, se del caso, individuali necessarie» (Corte EDU, Grande<br />

Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia; Corte EDU, Grande Camera, 1° marzo 2006, Sejdovic contro Italia;<br />

Corte EDU, Grande Camera, 8 aprile 2004, Assanidze contro Georgia). Ciò in quanto, in base all’art. 41 della CEDU, le<br />

somme assegnate a titolo di equo indennizzo mirano unicamente ad accordare un risarcimento per i danni subiti dagli<br />

interessati nella misura in cui questi costituiscano una conseguenza della violazione che non può in ogni caso essere<br />

cancellata (Corte EDU, Grande Camera, 13 luglio 2000, Scozzari e Giunta contro Italia).<br />

La finalità delle misure individuali che lo Stato convenuto è chiamato ad adottare viene puntualmente individuata<br />

13


dalla Corte di Strasburgo nella restitutio in integrum della situazione della vittima. Queste misure devono porre, cioè,<br />

«il ricorrente, per quanto possibile, in una situazione equivalente a quella in cui si troverebbe se non vi fosse stata una<br />

inosservanza delle esigenze della Convenzione», giacché «una sentenza che constata una violazione comporta per lo<br />

Stato convenuto l’obbligo giuridico ai sensi dell’articolo 46 della Convenzione di porre fine alla violazione e di<br />

eliminarne le conseguenze in modo da ristabilire per quanto possibile la situazione anteriore a quest’ultima» (ex<br />

plurimis, Corte EDU, Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia; Corte EDU, 8 febbraio 2007,<br />

Kollcaku contro Italia; Corte EDU, 10 novembre 2004, Sejdovic contro Italia; Corte EDU, 18 maggio 2004, Somogyi<br />

contro Italia; Corte EDU, Grande Camera, 8 aprile 2004, Assanidze contro Georgia).<br />

In una prospettiva più ampia, lo Stato convenuto è tenuto anche a rimuovere gli impedimenti che, nella<br />

legislazione nazionale, si frappongono al conseguimento dell’obiettivo: «ratificando la Convenzione gli Stati contraenti<br />

si impegnano», infatti, «a far sì che il loro diritto interno sia compatibile con quest’ultima», sicché «è lo Stato<br />

convenuto a dover eliminare, nel proprio ordinamento giuridico interno, ogni eventuale ostacolo a un adeguato<br />

ripristino della situazione del ricorrente» (Corte EDU, Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia; Corte<br />

EDU, Grande Camera, 8 aprile 2004, Assanidze contro Georgia).<br />

7.2.– Particolari obblighi di conformazione alle pronunce della Corte EDU sono posti dalle cosiddette sentenze<br />

pilota, le quali traggono origine dalla circostanza che spesso vengono presentati alla Corte numerosi ricorsi relativi alla<br />

stessa situazione giuridica interna all’ordinamento dello Stato convenuto. Normalmente questi ricorsi scaturiscono da<br />

un contesto interno di carattere generale (in quanto coinvolgente una pluralità di persone) in contrasto con la CEDU, e<br />

mettono in evidenza un problema di carattere strutturale nell’ordinamento dello Stato convenuto. In queste sentenze la<br />

Corte non si limita a individuare il problema che il caso presenta, ma si spinge sino a indicare le misure più idonee per<br />

risolverlo. Se lo Stato responsabile della violazione strutturale accertata dalla sentenza pilota adotta le misure generali<br />

necessarie, la Corte procede alla cancellazione dal ruolo degli altri ricorsi relativi alla medesima questione; in caso<br />

contrario, essa ne riprende l’esame. Come esempi di sentenze pilota si ricordano la sentenza Broniowski contro Polonia,<br />

del 22 giugno 2004, quella Hutten Czapska contro Polonia, del 19 giugno 2006, e più recentemente quella Torreggiani<br />

ed altri contro Italia, dell’8 gennaio 2013. La prassi è stata disciplinata nel nuovo art. 61 del regolamento della Corte, in<br />

vigore dal 31 marzo 2010.<br />

Secondo le sezioni unite della Corte di cassazione, la sentenza della Corte EDU, Grande Camera, 17 settembre<br />

2009, Scoppola contro Italia, «che viene in rilievo nel caso in esame, presenta i connotati sostanziali di una “sentenza<br />

pilota”, in quanto, pur astenendosi dal fornire specifiche indicazioni sulle misure generali da adottare, evidenzia<br />

comunque l’esistenza, all’interno dell’ordinamento giuridico italiano, di un problema strutturale dovuto alla non<br />

conformità rispetto alla CEDU dell’art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000, nella interpretazione datane dalla<br />

giurisprudenza interna».<br />

Il riferimento alle “sentenze pilota” però nel caso in esame non è puntuale, dato che sono le stesse parole della<br />

sentenza Scoppola a segnare un distacco da tale modello là dove essa precisa che, «nella presente causa, la Corte non<br />

ritiene necessario indicare delle misure generali che si impongano a livello nazionale nell’ambito dell’esecuzione della<br />

presente sentenza». La sentenza prosegue concentrandosi sulle misure individuali, che devono essere «volte a porre il<br />

ricorrente, per quanto possibile, in una situazione equivalente a quella in cui si troverebbe se non vi fosse stata una<br />

inosservanza delle esigenze della Convenzione», e aggiunge, più in generale, che «una sentenza che constata una<br />

violazione comporta per lo Stato convenuto l’obbligo giuridico ai sensi dell’articolo 46 della Convenzione di porre fine<br />

alla violazione e di eliminarne le conseguenze in modo da ristabilire per quanto possibile la situazione anteriore a<br />

quest’ultima».<br />

Ciò premesso, deve rilevarsi che le modalità attraverso le quali lo Stato membro si adegua con misure strutturali<br />

alle sentenze della Corte di Strasburgo non sempre sono puntualmente determinate nel loro contenuto da tali pronunce,<br />

ma ben possono essere individuate con un ragionevole margine di apprezzamento. Perciò non è necessario che le<br />

sentenze della Corte EDU specifichino le “misure generali” da adottare per ritenere che esse, pur discrezionalmente<br />

configurabili, costituiscono comunque una necessaria conseguenza della violazione strutturale della CEDU da parte<br />

della legge nazionale.<br />

Quando ciò accade è fatto obbligo ai poteri dello Stato, ciascuno nel rigoroso rispetto delle proprie attribuzioni,<br />

di adoperarsi affinché gli effetti normativi lesivi della CEDU cessino. Deve quindi ritenersi che il cosiddetto contenuto<br />

rilevante della sentenza Scoppola, vale a dire la parte di essa rispetto alla quale si forma l’obbligo posto dall’art. 46,<br />

paragrafo 1, della CEDU, e, più in generale, si individuano quegli aspetti dei quali lo Stato responsabile della violazione<br />

deve tenere conto per determinare le misure da adottare per conformarsi ad esse, ha una portata più ampia di quella che,<br />

per quanto concerne specificamente la violazione riscontrata, emerge dal dispositivo, nel quale la Corte EDU si limita a<br />

dichiarare che è «lo Stato convenuto a dover assicurare che la pena dell’ergastolo inflitta al ricorrente sia sostituita con<br />

una pena conforme ai principi enunciati nella presente sentenza», cioè con la pena di trenta anni di reclusione.<br />

Al riguardo si deve ricordare che, all’indomani della sentenza Scoppola, lo Stato italiano ha comunicato al<br />

Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, l’organo preposto al controllo sull’esecuzione delle pronunce della Corte<br />

EDU, di avere, quanto alle misure individuali, attivato, nella forma dell’incidente di esecuzione, la procedura rivolta<br />

alla sostituzione della pena dell’ergastolo con quella di trenta anni di reclusione. In particolare nel foglio annesso alla<br />

Risoluzione del Comitato dei ministri CM/ResDH(2011)66 si dà atto che la Procura generale presso la Corte di<br />

cassazione ha trasmesso la sentenza in oggetto alla Procura generale presso la Corte di appello di Roma, autorità<br />

giudiziaria competente ad eseguire la sentenza di condanna emessa nei confronti di Scoppola, e che la Procura generale<br />

14


presso la Corte di appello di Roma, a sua volta, ha investito la Corte d’appello in sede, quale giudice dell’esecuzione.<br />

Nel foglio annesso si precisa ulteriormente che l’11 febbraio 2010 la Corte di cassazione ha accolto la richiesta<br />

del Procuratore generale e che dunque la pena dell’ergastolo è stata sostituita con quella di trenta anni di reclusione.<br />

Inoltre, con riferimento alle misure generali, lo Stato italiano ha comunicato che alla luce dell’«effetto diretto»<br />

accordato dai giudici italiani alle sentenze della Corte europea, e in vista delle possibilità offerte dalla procedura<br />

dell’incidente di esecuzione alle persone che possono trovarsi in una situazione simile a quella del ricorrente nel<br />

presente caso, le autorità italiane considerano che la pubblicazione e la diffusione della sentenza della Corte europea ai<br />

tribunali competenti costituiscono misure sufficienti per prevenire violazioni simili.<br />

Il Comitato, nella risoluzione citata, adottata l’8 giugno 2011, dopo avere esaminato le misure individuali e<br />

generali, prese dallo Stato italiano (indicate appunto nel foglio annesso), ha dichiarato che questo aveva adempiuto agli<br />

obblighi previsti dall’art. 46, paragrafo 2, della Convenzione e ha deciso di chiudere il caso.<br />

Tutte le ragioni considerate inducono a concludere che fondatamente la Corte di cassazione ha ritenuto che la<br />

sentenza Scoppola non consenta all’Italia di limitarsi a sostituire la pena dell’ergastolo applicata in quel caso, ma la<br />

obblighi a porre riparo alla violazione riscontrata a livello normativo e a rimuoverne gli effetti nei confronti di tutti i<br />

condannati che si trovano nelle medesime condizioni di Scoppola.<br />

7.3.– Spetta anzitutto al legislatore rilevare il conflitto verificatosi tra l’ordinamento nazionale e il sistema della<br />

Convenzione e rimuovere le disposizioni che lo hanno generato, privandole di effetti; se però il legislatore non<br />

interviene, sorge il problema relativo alla eliminazione degli effetti già definitivamente prodotti in fattispecie uguali a<br />

quella in cui è stata riscontrata l’illegittimità convenzionale ma che non sono state denunciate innanzi alla Corte EDU,<br />

diventando così inoppugnabili. Esiste infatti una radicale differenza tra coloro che, una volta esauriti i ricorsi interni, si<br />

sono rivolti al sistema di giustizia della CEDU e coloro che, al contrario, non si sono avvalsi di tale facoltà, con la<br />

conseguenza che la loro vicenda processuale, definita ormai con la formazione del giudicato, non è più suscettibile del<br />

rimedio convenzionale.<br />

Il valore del giudicato, attraverso il quale si esprimono preminenti ragioni di certezza del diritto e di stabilità<br />

nell’assetto dei rapporti giuridici, del resto, non è estraneo alla Convenzione, al punto che la stessa sentenza Scoppola vi<br />

ha ravvisato un limite all’espansione della legge penale più favorevole, come questa Corte ha già avuto occasione di<br />

porre in evidenza (sentenza n. 236 del 2011). Perciò è da ritenere che, in linea di principio, l’obbligo di adeguamento<br />

alla Convenzione, nel significato attribuitole dalla Corte di Strasburgo, non concerne i casi, diversi da quello oggetto<br />

della pronuncia, nei quali per l’ordinamento interno si è formato il giudicato, e che le deroghe a tale limite vanno<br />

ricavate, non dalla CEDU, che non le esige, ma nell’ambito dell’ordinamento nazionale.<br />

Quest’ultimo, difatti, conosce ipotesi di flessione dell’intangibilità del giudicato, che la legge prevede nei casi in<br />

cui sul valore costituzionale ad esso intrinseco si debbano ritenere prevalenti opposti valori, ugualmente di dignità<br />

costituzionale, ai quali il legislatore intende assicurare un primato.<br />

Tra questi, non vi è dubbio che possa essere annoverata la tutela della libertà personale, laddove essa venga<br />

ristretta sulla base di una norma incriminatrice successivamente abrogata oppure modificata in favore del reo: «per il<br />

principio di eguaglianza, infatti, la modifica mitigatrice della legge penale e, ancor di più, l’abolitio criminis, disposte<br />

dal legislatore in dipendenza di una mutata valutazione del disvalore del fatto tipico, devono riverberarsi anche a<br />

vantaggio di coloro che hanno posto in essere la condotta in un momento anteriore, salvo che, in senso opposto, ricorra<br />

una sufficiente ragione giustificativa» (sentenza n. 236 del 2011).<br />

Il legislatore a fronte dell’abolitio criminis non ha ravvisato tale ragione giustificativa e ha previsto la revoca<br />

della sentenza (art. 673 cod. proc. pen.), disponendo che devono cessare l’esecuzione della condanna e gli effetti penali<br />

(art. 2, secondo comma, cod. pen.); analogamente ha stabilito che «Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge<br />

posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella<br />

corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’articolo 135» (art. 2, terzo comma, cod. pen.).<br />

A questa Corte compete perciò di rilevare che, nell’ambito del diritto penale sostanziale, è proprio l’ordinamento<br />

interno a reputare recessivo il valore del giudicato, in presenza di alcune sopravvenienze relative alla punibilità e al<br />

trattamento punitivo del condannato.<br />

Al giudice comune, e in particolar modo al giudice rimettente, quale massimo organo di nomofilachia compete,<br />

invece, di determinare l’esatto campo di applicazione in sede esecutiva di tali sopravvenienze, ovvero della<br />

dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice (art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo<br />

1953, n. 87), e, nell’ipotesi in cui tale determinazione rilevi ai fini della proposizione di una questione di legittimità<br />

costituzionale, spiegarne le ragioni in termini non implausibili.<br />

Nel caso in esame le sezioni unite rimettenti, con motivazione che soddisfa tale ultimo requisito, hanno<br />

argomentato che, in base all’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953, il giudicato penale non impedisce al<br />

giudice di intervenire sul titolo esecutivo per modificare la pena, quando la misura di questa è prevista da una norma di<br />

cui è stata riconosciuta l’illegittimità convenzionale, e quando tale riconoscimento sorregge un giudizio altamente<br />

probabile di illegittimità costituzionale della norma per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.<br />

Nell’ambito dell’odierno incidente di legittimità costituzionale, tale rilievo è sufficiente per concludere che, con<br />

riferimento al procedimento di adeguamento dell’ordinamento interno alla CEDU, originato dalla pronuncia della<br />

Grande Camera della Corte EDU nel caso Scoppola, il giudicato non costituisce un ostacolo insuperabile che, come<br />

invece accade di regola, limiti gli effetti dell’obbligo conformativo ai soli casi ancora sub iudice.<br />

Nella prospettiva adottata dalle sezioni unite rimettenti, non vi sono perciò ostacoli che si frappongano alla<br />

15


estensione degli effetti della Convenzione in fattispecie uguali a quella relativa a Scoppola, sulle quali si sia già formato<br />

il giudicato.<br />

8.– Bisogna ora chiedersi quale sia il procedimento da seguire per conformarsi alla sentenza della Corte EDU e,<br />

in particolare, se il giudice dell’esecuzione abbia “competenza” al riguardo. In proposito va rilevato che il procedimento<br />

di revisione previsto dall’art. 630 cod. proc. pen., quale risulta per effetto della dichiarazione di illegittimità<br />

costituzionale di cui alla sentenza n. 113 del 2011 di questa Corte, non è adeguato al caso di specie, nel quale non è<br />

necessaria una “riapertura del processo” di cognizione ma occorre più semplicemente incidere sul titolo esecutivo, in<br />

modo da sostituire la pena irrogata con quella conforme alla CEDU e già precisamente determinata nella misura dalla<br />

legge.<br />

Per una simile attività processuale è sufficiente un intervento del giudice dell’esecuzione (che infatti è stato<br />

attivato nel caso oggetto del giudizio principale), specie se si considera l’ampiezza dei poteri ormai riconosciuti<br />

dall’ordinamento processuale a tale giudice, che non si limita a conoscere delle questioni sulla validità e sull’efficacia<br />

del titolo esecutivo ma è anche abilitato, in vari casi, ad incidere su di esso (artt. 669, 670, comma 3, 671, 672 e 673<br />

cod. proc. pen.).<br />

Del resto non è senza significato che, come è già stato ricordato, dopo la sentenza Scoppola l’Italia abbia fatto<br />

riferimento proprio al procedimento esecutivo, quando, tra l’altro, ha comunicato al Comitato dei ministri del Consiglio<br />

d’Europa che, in vista delle possibilità offerte dalla procedura dell’incidente di esecuzione alle persone che possono<br />

trovarsi in una situazione simile a quella del ricorrente nel presente caso, le autorità italiane considerano che la<br />

pubblicazione e la diffusione della sentenza della Corte europea ai tribunali competenti costituiscono misure sufficienti<br />

per prevenire violazioni simili.<br />

Se la sentenza della Corte EDU cui occorre conformarsi implica l’illegittimità costituzionale di una norma<br />

nazionale ci si deve anche chiedere se la sua esecuzione da parte del giudice nazionale debba passare o meno attraverso<br />

la pronuncia di tale illegittimità.<br />

Nei confronti di Scoppola si è data, da parte della Corte di cassazione, direttamente esecuzione alla sentenza della<br />

Corte europea con la procedura del ricorso straordinario ex art. 625-bis cod. proc. pen., ma nel caso in esame, in cui<br />

rispetto al ricorrente manca una pronuncia specifica della Corte EDU, è da ritenere che occorra sollevare una questione<br />

di legittimità costituzionale della norma convenzionalmente illegittima, come appunto hanno fatto le sezioni unite della<br />

Corte di cassazione.<br />

Una volta considerato anche questo profilo, è chiara la rilevanza della questione di legittimità costituzionale<br />

sollevata dalle sezioni unite della Corte di cassazione rispetto all’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000, che<br />

impedisce di definire la vicenda processuale in osservanza dell’obbligo costituzionale di adeguamento alla sentenza<br />

della Corte EDU, che di quella norma ha rilevato il contrasto con l’art. 7, paragrafo 1, della CEDU.<br />

Si tratta, com’è chiaro, di una conclusione che riguarda esclusivamente l’ipotesi in cui si debba applicare una<br />

decisione della Corte europea in materia sostanziale, relativa ad un caso che sia identico a quello deciso e non richieda<br />

la riapertura del processo, ma possa trovare un rimedio direttamente in sede esecutiva. Le stesse sezioni unite hanno<br />

avvertito che «diverso è il caso di una pena rivelatasi illegittima, esclusivamente perché inflitta all’esito di un giudizio<br />

ritenuto dalla Corte EDU non equo, ai sensi dell’art. 6 della CEDU: in questa ipotesi, l’apprezzamento, vertendo su<br />

eventuali errores in procedendo e implicando valutazioni strettamente correlate alla fattispecie specifica, non può che<br />

essere compiuto caso per caso, con l’effetto che il giudicato interno può essere posto in discussione soltanto di fronte ad<br />

un vincolante dictum della Corte di Strasburgo sulla medesima fattispecie».<br />

Di conseguenza si deve concludere che la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, del decretolegge<br />

n. 341 del 2000, sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7 della CEDU, è<br />

rilevante.<br />

La questione di legittimità costituzionale proposta con riferimento all’art. 3 Cost. invece è inammissibile, perché<br />

non attiene alla necessità di conformarsi a una sentenza della Corte EDU, cioè al solo caso che, come si è visto, può<br />

giustificare un incidente di legittimità costituzionale sollevato nel procedimento di esecuzione nei confronti di una<br />

norma applicata nel giudizio di cognizione.<br />

9.– Nel merito, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000,<br />

sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7 della CEDU, è fondata.<br />

La norma impugnata si colloca al termine di una successione di tre distinte discipline. La prima è quella dell’art.<br />

442, comma 2, cod. proc. pen., come risultava in seguito alla dichiarazione di illegittimità costituzionale contenuta nella<br />

sentenza di questa Corte n. 176 del 1991, che precludeva la possibilità del giudizio abbreviato (e dunque della relativa<br />

diminuzione di pena) per i procedimenti concernenti reati punibili con l’ergastolo. La seconda è quella introdotta dalla<br />

legge n. 479 del 1999, il cui art. 30, comma 1, lettera b), aveva reso nuovamente possibile il giudizio abbreviato per i<br />

reati puniti con la pena dell’ergastolo, perché aveva aggiunto alla fine del comma 2 dell’art. 442 cod. proc. pen. il<br />

seguente periodo: «Alla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta». La terza è quella del<br />

decreto-legge n. 341 del 2000, il cui art. 7, nel dichiarato intento di dare l’interpretazione autentica dell’art. 442, comma<br />

2, cod. proc. pen., aveva stabilito che l’espressione «pena dell’ergastolo», ivi contenuta, dovesse «intendersi riferita<br />

all’ergastolo senza isolamento diurno», e alla fine del comma 2 aveva aggiunto un terzo periodo, così formulato: «Alla<br />

pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella<br />

dell’ergastolo».<br />

La sentenza della Corte EDU, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia ha affermato che l’art. 442, comma 2,<br />

16


cod. proc. pen. costituisce «una disposizione di diritto penale materiale riguardante la severità della pena da infliggere<br />

in caso di condanna secondo il rito abbreviato» e che l’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000, nonostante la<br />

formulazione, non è in realtà una norma interpretativa, perché «l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. non presentava<br />

alcuna ambiguità particolare; esso indicava chiaramente che la pena dell’ergastolo era sostituita da quella della<br />

reclusione di anni trenta, e non faceva distinzioni tra la condanna all’ergastolo con o senza isolamento diurno». Inoltre,<br />

aggiunge la sentenza Scoppola, «il Governo non ha prodotto esempi di conflitti giurisprudenziali ai quali l’art. 442<br />

sopra citato avrebbe presumibilmente dato luogo».<br />

Si tratta di valutazioni ineccepibili anche in base all’ordinamento interno.<br />

La natura sostanziale della disposizione dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. era stata già chiaramente<br />

affermata dalle sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza 6 marzo 1992, n. 2977. Allora era venuta in<br />

questione una situazione opposta a quella attuale. La Corte costituzionale con la sentenza n. 176 del 1991 aveva<br />

dichiarato l’illegittimità costituzionale, per eccesso di delega, del secondo periodo dell’art. 442 cod. proc. pen., uguale a<br />

quello attualmente vigente, e occorreva decidere come trattare le condanne già intervenute in applicazione della norma<br />

di cui era stata dichiarata l’illegittimità costituzionale. Le sezioni unite hanno ritenuto che non importasse «stabilire la<br />

natura della diminuzione o della sostituzione della pena», ma importasse «piuttosto rilevare che essa si risolve<br />

indiscutibilmente in un trattamento penale di favore», e hanno affermato che la pronuncia della Corte costituzionale<br />

«non può determinare effetti svantaggiosi per gli imputati di reati punibili con l’ergastolo che hanno richiesto il giudizio<br />

abbreviato prima della dichiarazione dell’illegittimità costituzionale dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. Per questi<br />

imputati deve rimanere fermo il trattamento penale di favore di cui hanno goduto in collegamento con il procedimento<br />

speciale», i cui atti di conseguenza non possono essere annullati.<br />

È vero inoltre che l’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000 costituisce solo formalmente una norma<br />

interpretativa: è questa una qualifica non corrispondente alla realtà, che gli è stata data per determinare un effetto<br />

retroattivo, altrimenti non consentito. Infatti, come è stato precisato da questa Corte, «la legge interpretativa ha lo scopo<br />

di chiarire “situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo”, in ragione di “un dibattito giurisprudenziale irrisolto”<br />

(sentenza n. 311 del 2009), o di “ristabilire un’interpretazione più aderente alla originaria volontà del legislatore”<br />

(ancora sentenza n. 311 del 2009), a tutela della certezza del diritto e dell’eguaglianza dei cittadini» (sentenze n. 103 del<br />

2013 e n. 78 del 2012).<br />

Nessuna di queste ragioni sorregge la norma impugnata, dato che, come ha osservato la sentenza Scoppola, l’art.<br />

442, comma 2, cod. proc. pen., cioè l’oggetto della pretesa interpretazione legislativa, era chiaro, non presentava<br />

ambiguità e non aveva dato luogo a contrasti sulla disciplina relativa alla pena dell’ergastolo, perché non si dubitava<br />

che essa riguardasse sia l’ergastolo “semplice” sia quello con isolamento diurno.<br />

In sostanza, l’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000, con il suo effetto retroattivo, ha determinato la<br />

condanna all’ergastolo di imputati ai quali era applicabile il precedente testo dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. e<br />

che in base a questo avrebbero dovuto essere condannati alla pena di trenta anni di reclusione.<br />

La Corte EDU, con la sentenza Scoppola del 17 settembre 2009, ha ritenuto, mutando il proprio precedente e<br />

consolidato orientamento, che «l’art. 7, paragrafo 1, della Convenzione non sancisce solo il principio della irretroattività<br />

delle leggi penali più severe, ma anche, e implicitamente, il principio della retroattività della legge penale meno<br />

severa», che si traduce «nella norma secondo cui, se la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e<br />

le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve<br />

applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato».<br />

Si tratta, nell’ambito dell’art. 7, paragrafo 1, della CEDU, di un principio analogo a quello contenuto nel quarto<br />

comma dell’art. 2 cod. pen., che dalla Corte di Strasburgo è stato elevato al rango di principio della Convenzione.<br />

Posto questo principio la Corte ha rilevato che «l’articolo 30 della legge n. 479 del 1999 si traduce in una<br />

disposizione penale posteriore che prevede una pena meno severa» e che «l’articolo 7 della Convenzione […] imponeva<br />

dunque di farne beneficiare il ricorrente». Di conseguenza, secondo la Corte, «nella fattispecie vi è stata violazione<br />

dell’articolo 7, paragrafo 1, della Convenzione».<br />

Com’è noto, a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, la giurisprudenza di questa Corte è costante nel<br />

ritenere che «le norme della CEDU – nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo,<br />

specificamente istituita per dare a esse interpretazione e applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione) –<br />

integrano, quali norme interposte, il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in<br />

cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali» (sentenze n.<br />

236, n. 113, n. 80 – che conferma la validità di tale ricostruzione dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 13<br />

dicembre 2007 – e n. 1 del 2011; n. 196 del 2010; n. 311 del 2009), e deve perciò concludersi che, costituendo l’art. 7<br />

della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, rispetto all’art. 117, primo comma, Cost., una norma interposta, la sua<br />

violazione, riscontrata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza della Grande Camera del 17 settembre<br />

2009, Scoppola contro Italia, comporta l’illegittimità costituzionale della norma impugnata.<br />

Per Questi Motivi<br />

LA CORTE COSTITUZIONALE<br />

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 7, comma 1, del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341<br />

17


(Disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’Amministrazione della giustizia), convertito, con modificazioni,<br />

dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4;<br />

2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 7, comma 1, del decreto-legge 24<br />

novembre 2000, n. 341 (Disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’Amministrazione della giustizia),<br />

convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, sollevata, in riferimento all’articolo 3 della<br />

Costituzione, dalla Corte di cassazione, sezioni unite penali, con l’ordinanza indicata in epigrafe;<br />

3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 8 del decreto-legge 24 novembre<br />

2000, n. 341 (Disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’Amministrazione della giustizia), convertito, con<br />

modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 117, primo comma, della<br />

Costituzione, quest’ultimo in relazione all’articolo 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti<br />

dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Corte di<br />

cassazione, sezioni unite penali, con l’ordinanza indicata in epigrafe.<br />

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 luglio 2013.<br />

18


LE SEZIONI UNITE RIMETTONO ALLA CORTE COSTITUZIONALE L’ADEGUAMENTO<br />

DEL NOSTRO ORDINAMENTO AI PRINCIPI SANCITI DALLA CORTE EDU NELLA<br />

SENTENZA SCOPPOLA<br />

Cass. pen., Sez. Un., ord. 19 aprile 2012 (dep. 10 settembre 2012), n. 34472, Pres. Lupo, Est. Milo, Imp.<br />

Ercolano<br />

1. A pochissimi giorni di distanza dalla parallela sentenza Giannone, arriva ora il deposito dell'ordinanza con la quale le<br />

Sezioni Unite - investite del ricorso promosso da un condannato che, trovandosi in condizione identica a quella<br />

esaminata dalla Corte di Strasburgo nella sentenza Scoppola c. Italia (n. 2), del 17 settembre 2009, chiedeva la<br />

rideterminazione della pena dell'ergastolo inflittagli in quella di trent'anni di reclusione - sollevano questione di<br />

legittimità costituzionale degli artt. 7 e 8 del d.l. 24 novembre 2000, n. 341 (conv. in l. 19 gennaio 2001, n. 4) in<br />

riferimento agli artt. 3 e 117 co. 1 Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 7 CEDU.<br />

L'ordinanza ora depositata si riferisce a un condannato che, esattamente come Scoppola, aveva formulato richiesta<br />

di giudizio abbreviato nel lasso di tempo compreso tra l'entrata in vigore della legge Carotti (2 gennaio 2000),<br />

che aveva modificato l'art. 442 c.p.p. disponendo la sostituzione dell'ergastolo con la pena temporanea di trent'anni di<br />

reclusione in caso di condanna con rito abbreviato, e l'entrata in vigore del d.l. 341/2000 (24 novembre 2000), che<br />

all'art. 7 modificava ulteriormente l'art. 442 c.p.p., disponendo in via di interpretazione autentica che tale sostituzione<br />

doveva ritenersi applicabile soltanto in relazione alla pena dell'ergastolo senza isolamento diurno, mentre l'ergastolo<br />

con isolamento diurno (applicabile segnatamente nel caso di condanna per omicidio aggravato in concorso con altri<br />

gravi delitti) avrebbe dovuto essere sostituito con l'ergastolo semplice.<br />

2. Questi i passaggi argomentativi essenziali dell'ordinanza:<br />

- le sentenze della Corte europea che accertano difetti "sistemici" o "strutturali" dell'ordinamento dello Stato<br />

resistente, dai quali dipende la violazione dei diritti convenzionali del ricorrente, non hanno valenza limitata al<br />

singolo caso concreto, ma - in forza dell'interpretazione estensiva dell'art. 46 CEDU espressamente enunciata a partire<br />

dal caso Broniowski c. Polonia, del 2004 e fatta propria dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa - impongono<br />

allo Stato di rimuovere tali difetti strutturali per evitare la violazione dei diritti convenzionali di tutti coloro che<br />

si trovino in una situazione identica a quella riscontrata nel singolo caso concreto (§ 2);<br />

- tale obbligo di adeguamento sussiste anche nei confronti di chi non abbia a suo tempo proposto ricorso alla Corte<br />

EDU nel termine di sei mesi dalla decisione interna definitiva, ai sensi dell'art. 35 CEDU (§ 2);<br />

- la sentenza Scoppola c. Italia (n. 2) della Corte EDU "presenta i connotati sostanziali di una 'sentenza pilota' in<br />

quanto, pur astenendosi dal fornire specifiche indicazioni sulle misure generali da adottare, evidenzia comunque<br />

l'esistenza, all'interno dell'ordinamento giuridico italiano, di un problema strutturale dovuto alla non<br />

conformità rispetto alla CEDU dell'art. 7 del d.l. n. 341 del 2000" (§ 3), dal momento che quest'ultima norma -<br />

imponendo con effetto retroattivo la sostituzione dell'ergastolo con isolamento diurno con l'ergastolo semplice, anche<br />

rispetto a coloro che avevano formulato istanza di giudizio abbreviato tra il 2 gennaio e il 24 novembre 2000<br />

confidando nella sostituzione della pena perpetua con quella temporanea di trent'anni di reclusione (prevista dall'art.<br />

442 c.p.p. nella versione allora in vigore) - ha determinato nei confronti di tutti costoro la violazione in particolare<br />

dell'art. 7 CEDU, che impone l'applicazione della legge più favorevole tra tutte quelle entrate in vigore dalla<br />

commissione del fatto alla pronuncia della sentenza definitiva (§ 4);<br />

- se dunque alla pronuncia Scoppola deve attribuirsi una "valenza generale e, conseguentemente, un effetto vincolante<br />

per la soluzione di casi identici", ne deriva che il ricorrente nel caso di specie sottoposto all'attenzione delle Sezioni<br />

Unite è stato anch'egli vittima di una violazione dell'art. 7 CEDU nel momento in cui è stato condannato alla pena<br />

dell'ergastolo, e che tale violazione - con effetti tuttora perduranti in fase esecutiva - deve oggi essere rimossa dalla<br />

giurisdizione italiana "anche a costo di porre in crisi il 'dogma' del giudicato", non essendo tollerabile<br />

l'esecuzione di una pena ritenuta illegittima dall'interprete autentico della CEDU, in patente contrasto - oltretutto -<br />

con il principio della parità di trattamento tra condannati che versano in identica posizione (§ 5; ma cfr. in precedenza<br />

anche il § 2 in fine: "di fronte a pacifiche violazioni convenzionali di carattere oggettivo e generale, già in precedenza<br />

stigmatizzate in sede europea, il mancato esperimento del rimedio di cui all'art. 34 CEDU [...] e la conseguente<br />

mancanza, nel caso concreto, di una sentenza della Corte EDU cui dare esecuzione non possono essere di ostacolo ad<br />

un intervento dell'ordinamento giuridico, attraverso la giurisdizione, per eliminare una situazione di illegalità<br />

convenzionale, anche sacrificando il valore della certezza del giudicato, da ritenersi recessivo rispetto ad evidenti<br />

20


e pregnanti compromissioni in atto di diritti fondamentali della persona. La preclusione, effetto proprio del<br />

giudicato, non può operare allorquando risulti pretermesso, con effetti negativi perduranti, un diritto fondamentale della<br />

persona, quale certamente è quello che incide sulla libertà: s'impone, pertanto, in questo caso di emendare 'dallo stigma<br />

dell'ingiustizia' una tale situazione");<br />

- il rimedio per ovviare alla violazione nel caso di specie dovrà allora essere, come è accaduto nel caso Scoppola,<br />

quello della rideterminazione della pena, con conseguente sostituzione della pena dell'ergastolo con quella<br />

temporanea di trent'anni di reclusione, analogamente a quanto è accaduto in seguito alla dichiarazione di<br />

illegittimità costituzionale della c.d. aggravante di clandestinità di cui all'art. 61 n. 11 bis c.p., allorché la<br />

Cassazione ha per l'appunto riconosciuto al giudice dell'esecuzione il potere di rideterminare la pena inflitta al<br />

condannato in via definitiva, con eliminazione della frazione di pena in eccesso, da considerarsi illegittima e, pertanto,<br />

non eseguibile (Cass. pen., Sez. I, sent. 27 ottobre 2011, dep. 13 gennaio 2012, Hauohou: § 5);<br />

- a tale soluzione si oppone, tuttavia, l'ostacolo normativo rappresentato dagli artt. 7 e 8 del d.l. 24 novembre<br />

2000 n. 341, norme espressamente qualificate dal legislatore in termini di "interpretazione autentica" dell'art. 442 c.p.p.<br />

nella versione modificata dalla legge Carotti, e come tali aventi efficacia retroattiva a partire dall'entrata in vigore<br />

della norma autoritativamente interpretata (e cioè a partire dal 2 gennaio 2000): norme inequivocabilmente<br />

applicabili, dunque, anche agli imputati che avevano chiesto di essere giudicati con rito abbreviato nel lasso di tempo<br />

intercorso tra il 2 gennaio e il 24 novembre 2000 (§ 7-8); e ciò anche se, come le Sezioni Unite stesse riconoscono, ai<br />

predetti artt. 7 e 8 deve attribuirsi natura "innovativa", e non "autenticamente interpretativa", del diritto (pre)vigente (§<br />

9);<br />

- dal momento che, come più volte chiarito dalla Corte costituzionale a partire dalle sent. n. 348 e 349 del 2007,<br />

l'obbligo di conformarsi agli obblighi derivanti dalla CEDU così come interpretati dalla Corte di Strasburgo non<br />

autorizza il giudice ordinario italiano a disapplicare la norma di legge nazionale contrastante, e che non è d'altra<br />

parte praticabile - contrariamente a quanto sostenuto dalla Procura generale in udienza - la via di una interpretazione<br />

conforme alla CEDU dei predetti artt. 7 e 8 del d.l. 341/2000, l'antinomia tra tali norme (che hanno imposto<br />

l'applicazione retroattiva, in malam partem, di una disciplina sanzionatoria deteriore agli imputati che avevano<br />

formulato richiesta di rito abbreviato in un'epoca in cui l'inequivoco testo dell'art. 442 c.p.p. prospettava loro pena<br />

sensibilmente più mite) e l'art. 7 CEDU dovrà essere eliminata non già dal giudice ordinario, bensì dalla Corte<br />

costituzionale, alla quale spetterà dunque vagliare la compatibilità tra dette norme e il duplice parametro<br />

rappresentato dall'art. 117 co. 1 (in riferimento all'art. 7 CEDU così come interpretato dalla sentenza Scoppola) e 3<br />

Cost. (sotto il profilo della violazione del principio di ragionevolezza, vulnerato dalla violazione del legittimo<br />

affidamento dell'imputato sulla misura massima della pena cui sarebbe stato esposto in caso di giudizio abbreviato,<br />

nonché delle "ingiustificate disparità di trattamento, affidate casualmente ai variabili tempi processuali, tra soggetti<br />

che versano identica posizione sostanziale" (§ 10);<br />

- la questione di legittimità costituzionale, oltre che non manifestamente infondata per le ragioni appena esposte, è<br />

altresì rilevante nel caso di specie, atteso che - in caso di accoglimento della questione - la pena dell'ergastolo, in<br />

quanto illegittimamente inflitta, diverrebbe ineseguibile (dovendo essere sostituita con quella di trent'anni di<br />

reclusione) in forza dell'art. 30 co. 4 della legge n. 87 del 1953, che secondo le Sezioni Unite "impedisce anche<br />

l'esecuzione della pena o della frazione di pena inflitta in base alla norma dichiarata costituzionalmente illegittima", tale<br />

norma possedendo una portata più ampia dello stesso art. 673 c.p.p., che si riferisce esclusivamente all'ipotesi<br />

dell'abrogazione o della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice (§ 11).<br />

3. Riservandoci al più presto un commento più esteso, ci limitiamo qui a rilevare come la soluzione accolta dalle<br />

Sezioni Unite coincida integralmente, in tutti i passaggi appena riassunti, con quella sostenuta da chi scrive in un<br />

intervento pubblicato pochi giorni prima della camera di consiglio del 19 aprile scorso (F. Viganò, Figli di un dio<br />

minore? Sulla sorte dei condannati all'ergastolo in casi analoghi a quello deciso dalla Corte EDU in Scoppola c. Italia,<br />

in questa Rivista, 10 aprile 2012), salvo che per la conclusione relativa alle modalità tecniche con cui pervenire alla<br />

rimozione della violazione del diritto fondamentale del ricorrente: modalità che avevamo allora ritenuto di indicare - in<br />

uno con la posizione sostenuta in udienza dalla Procura generale - in un'interpretazione conforme alla CEDU<br />

dell'art. 7 del d.l. 341/2000 ad opera dello stesso giudice ordinario, in modo da escluderne l'applicazione a quegli<br />

imputati che avessero richiesto il rito abbreviato nel lasso di tempo tra il 2 gennaio e il 24 novembre 2000.<br />

Le Sezioni Unite, come si è riferito, non ritengono invece praticabile questa opzione interpretativa - pur riconoscendo<br />

espressamente il carattere novativo del diritto vigente della disposizione in parola -, e rimettono piuttosto la palla alla<br />

Corte costituzionale perché sia il giudice delle leggi a pervenire al medesimo risultato, dichiarando l'illegittimità in<br />

parte qua della disposizione (e del contiguo art. 8 del medesimo d.l.) ed aprendo così la strada alla rideterminazione<br />

21


della pena per i singoli ricorrenti ad opera - parrebbe - del giudice dell'esecuzione, o comunque della stessa Cassazione<br />

nell'ambito del procedimento di cui all'art. 625 bis c.p.p., già utilizzato per porre rimedio alla violazione nel caso<br />

Scoppola.<br />

Di enorme importanza appaiono, comunque, numerose affermazioni contenute nell'ordinanza oggi pubblicata, che<br />

trascendono largamente i casi di specie e le loro peculiarità: dalla decisa (ri)affermazione del ruolo della giurisdizione<br />

(ordinaria e costituzionale) per assicurare l'adeguamento del diritto interno alla CEDU, così come interpretata dal<br />

"suo" giudice, la Corte di Strasburgo; all'inequivoco superamento dell'autentico luogo comune che vorrebbe<br />

l'efficacia delle sentenze CEDU limitata al caso concreto, luogo comune che misconosce la funzione della Corte di<br />

"interprete ultimo" della Convenzione a beneficio dei primi giudici della Convenzione medesima - ossia dei giudici<br />

nazionali, chiamati in prima battuta ad assicurare il rispetto dei diritti fondamentali nell'estensione loro riconosciuta<br />

dalla giurisprudenza della Corte -; sino alla rivoluzionaria affermazione secondo cui il principio dell'intangibilità<br />

del giudicato deve ritenersi "recessivo" rispetto ad "evidenti e pregnanti compromissioni in atto di diritti<br />

fondamentali della persona", come quelle conseguenti all'esecuzione di una pena inflitta in violazione di uno di tali<br />

diritti.<br />

Molta carne al fuoco, dunque, su cui riflettere - e con la dovuta calma - nel prossimo futuro.<br />

Cass. pen. Sez. Unite Ordinanza, 19-04-2012, n. 34472 (rv. 252934)<br />

Il giudice, chiamato ad applicare una legge di interpretazione autentica, non può qualificarla come innovativa e<br />

circoscriverne temporalmente, in contrasto con la sua "ratio" ispiratrice, l'area operativa, perchè finirebbe in tal<br />

modo per disapplicarla, mentre l'autorità imperativa e generale della legge gli impone di adeguarvisi, il che<br />

delinea il confine in presenza del quale ogni diversa operazione ermeneutica deve cedere il passo al sindacato di<br />

legittimità costituzionale. (In applicazione del principio la S.C. ha dichiarato d'ufficio rilevante e non<br />

manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 7 e 8 del D.L. 24 novembre 2000,<br />

n. 341, convertito dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, in riferimento agli articoli 3 e 117, comma primo, della<br />

Costituzione - quest'ultimo in relazione all'articolo 7 della Convenzione EDU-, «nella parte in cui le disposizioni<br />

interne operano retroattivamente, e, più specificamente, in relazione alla posizione di coloro che, pur avendo<br />

formulato richiesta di giudizio abbreviato nella vigenza della sola legge n. 479 del 1999, sono stati giudicati<br />

successivamente, quando cioè, a far data dal pomeriggio del 24 novembre 2000 - pubblicazione della Gazzetta<br />

Ufficiale, ai sensi dell'art. 2 r.d. n. 1252 del 7 giugno 1923 -, era entrato in vigore il citato D.L., con conseguente<br />

applicazione del più sfavorevole trattamento sanzionatorio previsto dal medesimo decreto», ritenendo<br />

impraticabile un'interpretazione della predetta normativa interna conforme all'articolo 7 Convenzione EDU,<br />

nell'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo). (Annulla senza rinvio, Trib. Spoleto, 13/09/2011).<br />

La questione di diritto per la quale il ricorso è stato assegnato alle Sezioni Unite è la seguente: "Se il giudice<br />

dell'esecuzione, in attuazione dei principi dettati dalla Corte EDU con la sentenza 17/09/2009, Scoppola c. Italia, possa<br />

sostituire la pena dell'ergastolo, inflitta all'esito del giudizio abbreviato, con la pena di anni trenta di reclusione, in tal<br />

modo modificando il giudicato con l'applicazione, nella successione di leggi intervenute in materia, di quella più<br />

favorevole".<br />

2. Tale quaestio iuris impone, innanzi tutto, di stabilire la rilevanza che nell'ordinamento interno possono assumere, in<br />

deroga anche al giudicato, le violazioni, accertate dalla Corte di Strasburgo (Corte EDU), della Convenzione europea<br />

dei diritti dell'uomo (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva in Italia con L. 4 agosto<br />

1955, n. 848.<br />

Ai sensi dell'art. 46 della CEDU, fatto oggetto di interpretazione estensiva da parte della Corte di Strasburgo, le Alte<br />

Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive pronunciate dalla Corte nelle controversie nelle<br />

quali esse sono parti e al Comitato dei Ministri è affidato il compito di vigilare sulla esecuzione di tali sentenze, con la<br />

conseguenza che lo Stato convenuto ha l'obbligo giuridico di adottare, sotto il controllo del detto Comitato, le misure<br />

generati e/o, se del caso, individuali per porre fine alla violazione constatata, eliminarne le conseguenze e scongiurare<br />

ulteriori violazioni analoghe.<br />

Quando la Corte EDU, alla quale è affidato il compito istituzionale di interpretare e applicare la Convenzione (art. 32),<br />

accerta violazioni della stessa connesse a problemi sistematici e strutturali dell'ordinamento giuridico nazionale pone in<br />

essere una così detta "procedura di sentenza pilota", che si propone di aiutare gli Stati contraenti a risolvere a livello<br />

nazionale i problemi rilevati, in modo da riconoscere alle persone interessate, che versano nella stessa condizione della<br />

persona il cui caso è stato già specificamente preso in considerazione, i diritti e le libertà convenzionali, come dispone<br />

l'art. 1, offrendo loro la riparazione più rapida, in tal modo alleggerendo il carico della Corte sovranazionale, che,<br />

22


altrimenti, dovrebbe esaminare moltissimi ricorsi sostanzialmente simili (Corte EDU, G.C., 22/06/2004, Broniowski c.<br />

Polonia, pp. 188-194; 28/09/2005, stesse parti, pp. 34- 35).<br />

La giurisprudenza della Corte EDU, originariamente finalizzata alla soluzione di specifiche controversie relative a casi<br />

concreti, si è caratterizzata nel tempo "per una evoluzione improntata alla valorizzazione di una funzione paracostituzionale<br />

di tutela dell'interesse generale al rispetto del diritto oggettivo". Sempre più frequentemente, infatti, le<br />

sentenze della Corte, nel rilevare la contrarietà alla CEDU di situazioni interne di portata generale, danno indicazioni<br />

allo Stato responsabile sui rimedi da adottare per rimuovere la rilevata disfunzione sistemica nel proprio ordinamento<br />

interno.<br />

La tecnica delle cd. "sentenze pilota", affidata - dapprima - alla prassi in difetto di una esplicita base normativa, è stata<br />

recentemente formalizzata nel regolamento di procedura della Corte, emendato a tale scopo nel febbraio 2011 e in<br />

vigore, per come modificato, dal 1 aprile 2011.<br />

L'effettività dell'esecuzione delle sentenze della Corte di Strasburgo è stata, inoltre, accresciuta sensibilmente, sul piano<br />

internazionale, dall'entrata in vigore, nel giugno 2010, del Protocollo n. 14 alla CEDU, il quale, modificando l'art. 46<br />

della Convenzione, ha introdotto una procedura di infrazione, che "giurisdizionalizza il meccanismo di supervisione<br />

sull'attuazione delle sentenze della Corte", meccanismo certamente attivabile anche in caso di mancato rispetto di<br />

"sentenza pilota".<br />

La necessità degli ordinamenti interni di assicurare, anche a prescindere da un intervento del giudice europeo sul caso<br />

concreto, il rispetto degli obblighi convenzionali, così come già individuati dalla Corte EDU, di porre fine a persistenti<br />

violazioni degli stessi e di prevenire nuove violazioni pone certamente delicati problemi giuridici sulla tenuta di<br />

situazioni già definite con sentenze passate in giudicato, ma in palese contrasto con i diritti fondamentali tutelati<br />

convenzionalmente.<br />

La Corte Costituzionale, con i principi cristallizzati - dapprima - nelle storiche sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 e -<br />

successivamente - con le sentenze n. 311 e n. 317 del 2009, n. 80 e n. 113 del 2011, ha chiarito gli effetti prodotti dalle<br />

pronunce del giudice sovranazionale nel nostro ordinamento, nel senso di una maggiore resistenza delle norme CEDU,<br />

nell'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, rispetto alle leggi ordinarie interne, che devono essere interpretate,<br />

ove possibile, in maniera conforme alle prime.<br />

Di fronte a pacifiche violazioni convenzionali di carattere oggettivo e generale, già in precedenza stigmatizzate in sede<br />

europea, il mancato esperimento del rimedio di cui all'art. 34 CEDU (ricorso individuale) e la conseguente mancanza,<br />

nel caso concreto, di una sentenza della Corte EDU cui dare esecuzione non possono essere di ostacolo ad un intervento<br />

dell'ordinamento giuridico italiano, attraverso la giurisdizione, per eliminare una situazione di illegalità convenzionale,<br />

anche sacrificando il valore della certezza del giudicato, da ritenersi recessivo rispetto ad evidenti e pregnanti<br />

compromissioni in atto di diritti fondamentali della persona. La preclusione, effetto proprio del giudicato, non può<br />

operare allorquando risulti pretermesso, con effetti negativi perduranti, un diritto fondamentale della persona, quale<br />

certamente è quello che incide sulla libertà: s'impone, pertanto, in questo caso di emendare "dallo stigma<br />

dell'ingiustizia" una tale situazione.<br />

3. La sentenza della Corte EDU, G.C., 17/09/2009, Scoppola c. Italia, che viene in rilievo nel caso in esame, presenta i<br />

connotati sostanziali di una "sentenza pilota", in quanto, pur astenendosi dal fornire specifiche indicazioni sulle misure<br />

generali da adottare, evidenzia comunque l'esistenza, all'interno dell'ordinamento giuridico italiano, di un problema<br />

strutturale dovuto alla non conformità rispetto alla CEDU del D.L. n. 341 del 2000, art. 7 nella interpretazione datane<br />

dalla giurisprudenza interna.<br />

Al paragrafo 147 la detta pronuncia, infatti, ribadisce quanto testualmente affermato da Corte EDU, Broniowski, e cioè<br />

che "in forza dell'art. 46, le parti si sono impegnate a rispettare le sentenze definitive della Corte in ogni caso in cui<br />

sono state parti (...). Da ciò consegue, inter alia, che una sentenza nella quale la Corte ha individuato una violazione<br />

impone allo Stato resistente un obbligo legale non solo di pagare alle persone indicate dalla Corte le somme da questa<br />

stabilite a titolo di equa soddisfazione ai sensi dell'art. 41, ma anche di individuare, sotto la supervisione del Comitato<br />

dei Ministri, le misure generali e, se necessario, individuali da adottare nell'ordinamento giuridico interno per porre fine<br />

alla violazione accertata dalla Corte e per eliminare per quanto possibile gli effetti".<br />

Eventuali effetti ancora perduranti della violazione, determinata da una illegittima applicazione di una norma interna di<br />

diritto penale sostanziale interpretata in senso non convenzionalmente orientato, devono dunque essere rimossi anche<br />

nei confronti di coloro che, pur non avendo proposto ricorso a Strasburgo, si trovano in una situazione identica a quella<br />

oggetto della decisione adottata dal giudice europeo per il caso S..<br />

23


4. Tale pronuncia, in particolare, nel tornare ad occuparsi dell'aspetto contenutistico dell'art. 7 CEDU, affronta il<br />

delicato problema circa l'effettiva articolazione del principio ivi sancito, quanto alla successione delle leggi penali nel<br />

tempo: se cioè detto principio ha una portata meramente negativa, quale divieto cioè di applicazione retroattiva sia della<br />

norma incriminatrice sia di un trattamento sanzionatorio più sfavorevole, ovvero se contiene anche un implicito riflesso<br />

positivo, costituito dalla esigenza di applicazione della legge sopravvenuta più favorevole.<br />

La Corte di Strasburgo, innovando la precedente giurisprudenza in senso restrittivo (decisione della Commissione<br />

europea dei diritti dell'uomo, 06/03/1978, X c. Repubblica Federale Tedesca; decisioni della stessa Corte, 05/12/2000,<br />

Le Petit c. Regno Unito; 06/03/2003, Zaprianov c. Bulgaria), delinea più precisamente i confini dello "statuto" della<br />

legalità convenzionale in tema di reati e di pene.<br />

Dopo avere svolto una preliminare ricognizione dell'orientamento giurisprudenziale formatosi sull'art. 7 CEDU, con<br />

riferimento al principio nullum crimen, nulla poena sine lege e alle nozioni di pena e di prevedibilità della legge penale,<br />

afferma che la detta norma non garantisce soltanto il principio di non retroattività delle leggi penali più severe, ma<br />

impone anche che, nel caso in cui la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e quelle successive<br />

adottate prima della condanna definitiva siano differenti, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più<br />

favorevoli al reo, con l'effetto che, nell'ipotesi di successione di leggi penali nel tempo, costituisce violazione dell'art. 7,<br />

p.1, CEDU l'applicazione della pena più sfavorevole al reo.<br />

La garanzia sancita da tale norma convenzionale, quale elemento sostanziale della preminenza del diritto, assume un<br />

rilievo centrale nel sistema di tutela della CEDU, come può evincersi dal successivo art. 15, che non prevede alcuna<br />

deroga ad essa in tempo di guerra o in caso di altre pubbliche calamità.<br />

A tale conclusione la Corte europea perviene tenendo conto dell'"evoluzione della situazione nello Stato convenuto e<br />

negli Stati contraenti in generale" e privilegiando, nell'interpretazione della Convenzione, un "approccio dinamico ed<br />

evolutivo", che renda "le garanzie concrete ed effettive, e non teoriche ed illusione"; da atto, peraltro, del "consenso a<br />

livello europeo e internazionale per considerare che l'applicazione della legge penale che prevede una pena meno<br />

severa, anche posteriormente alla commissione del reato, è divenuta un principio fondamentale del diritto penale".<br />

La Corte europea, inoltre, ritiene che l'art. 442 cod. proc. pen., nella parte in cui indica la misura della pena da<br />

infliggere in caso di condanna all'esito di giudizio abbreviato, è norma di diritto penale sostanziale, che soggiace alle<br />

regole sulla retroattività di cui al menzionato art. 7 CEDU. Ne consegue la violazione di quest'ultima norma nel caso in<br />

cui non venga inflitta all'imputato la pena più mite tra quelle previste dalle diverse leggi succedutesi dal momento del<br />

fatto a quello della sentenza definitiva. Tale ultima precisazione, come correttamente sottolineato dal Procuratore<br />

generale nella sua requisitoria, è chiaramente riferita all'individuazione del termine entro il quale la modifica normativa<br />

in mitius del trattamento sanzionatorio deve essere intervenuta, perchè se ne ritenga l'applicabilità, e non certo al limite<br />

temporale entro il quale la violazione della norma convenzionale può essere dedotta dinanzi al giudice nazionale, non<br />

affrontando espressamente la Corte europea il tema della preclusione del giudicato.<br />

Nel caso esaminato, si sono succedute nel tempo tre diverse disposizioni di legge: l'art. 442 c.p.p., comma 2, dopo la<br />

declaratoria d'incostituzionalità nella parte in cui prevedeva la sostituzione dell'ergastolo con la reclusione di anni trenta<br />

(sentenza n. 176 del 1991), precludeva, tra il 1991 e il 1999, l'accesso al rito abbreviato per gli imputati di delitti<br />

punibili con l'ergastolo; la L. n. 479 del 1999, art. 30, comma 1, lett. b) entrata in vigore il 2 gennaio 2000,<br />

reintroduceva la previsione, nel caso di giudizio abbreviato, della sostituzione della pena dell'ergastolo con quella della<br />

reclusione di anni trenta; il D.L. n. 341 del 2000, art. 7 entrato in vigore il 24 novembre 2000 e convertito dalla L. n. 4<br />

del 2001, stabilisce, in via di interpretazione autentica, che "Nell'art. 442 c.p.p., comma 2, ultimo periodo l'espressione<br />

"pena dell'ergastolo" deve intendersi riferita all'ergastolo senza isolamento diurno" e aggiunge, in chiusura del comma<br />

2, il periodo "Alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è<br />

sostituita quella dell'ergastolo".<br />

In via transitoria, peraltro, il richiamato D.L. n. 341 del 2000, art. 8 così come sostituito in sede di conversione,<br />

consentiva a chi avesse formulato richiesta di giudizio abbreviato nel vigore della sola L. n. 479 del 1999 di revocare la<br />

richiesta entro un determinato termine, con conseguente prosecuzione del processo secondo il rito ordinario.<br />

Sulla base di tale quadro normativo, la Corte di Strasburgo, negando il carattere di norma interpretativa del D.L. n. 341<br />

del 2000, art. 7 ritiene che S.F., essendo stato ammesso al rito abbreviato nel vigore della L. n. 479 del 1999, avrebbe<br />

avuto diritto, ai sensi dell'art. 7 CEDU così come interpretato, a vedersi infliggere la pena di anni trenta di reclusione,<br />

più mite rispetto sia a quella prevista (ergastolo con isolamento diurno) dall'art. 442 cod. proc. pen. nel testo vigente al<br />

momento della commissione del fatto, sia a quella prevista (ergastolo senza isolamento diurno) dal D.L. n. 341 del<br />

2000, art. 7 in vigore al momento del giudizio.<br />

24


E' indubbio che tale precedente sovranazionale, censurando il meccanismo processuale col quale si allega efficacia<br />

retroattiva al D.L. n. 341 del 2000, art. 7, comma 1, qualificato come norma d'interpretazione autentica del testo dell'art.<br />

442 cod. proc. pen. come modificato dalla L. n. 479 del 1999, enuncia, in linea di principio, una regola di giudizio di<br />

portata generale, che, in quanto tale, è astrattamente applicabile a fattispecie identiche a quella esaminata e, quindi,<br />

anche al caso che interessa l'attuale ricorrente, il quale, avvalendosi della riapertura dei termini, aveva chiesto e<br />

ottenuto, nel corso del giudizio d'appello (udienza 12/06/2000) e nel vigore della lex mitior n. 479 del 1999, l'accesso al<br />

giudizio abbreviato, ma la Corte di assise di appello gli aveva riservato il più rigoroso trattamento sanzionatorio<br />

previsto dal D.L. n. 341 del 2000, entrato in vigore prima della conclusione del giudizio.<br />

A conferma della portata di più ampio respiro della decisione della Corte EDU sul caso Scoppola c. Italia, non è<br />

superfluo sottolineare che il Comitato dei Ministri, nel dichiarare chiusa, con provvedimento dell'8 giugno 2011, la<br />

relativa procedura di sorveglianza sull'esecuzione della sentenza, prendeva atto, dichiarandosi soddisfatto, della nota<br />

con la quale l'Autorità italiana, in ordine alle misure di carattere generale da adottare per situazioni analoghe, aveva<br />

precisato di ritenere sufficiente la pubblicazione e la diffusione della sentenza ai Tribunali competenti, in<br />

considerazione "degli effetti diretti concessi dai Tribunali italiani alle sentenze della Corte europea e ... delle possibilità<br />

offerte dalla procedura di incidente di esecuzione a coloro che si trovino in situazioni uguali a quella del richiedente nel<br />

caso in esame". Il Comitato dei Ministri individuava così con chiarezza la strada da seguire in situazioni analoghe a<br />

quella del caso S..<br />

5. Se dunque al nuovo e più ampio profilo di tutela del principio di legalità convenzionale in materia penale enunciato<br />

dalla Corte EDU, all'esito dell'approfondita operazione ermeneutica dell'art. 7 CEDU, deve attribuirsi una valenza<br />

generale e, conseguentemente, un effetto vincolante per la soluzione di casi identici, è agevole trarre la conclusione che<br />

l'avere inflitto al ricorrente E., la cui posizione è sostanzialmente sovrapponibile a quella dello S., la pena dell'ergastolo,<br />

anzichè quella di trent'anni di reclusione, sembra avere violato il suo diritto all'applicazione retroattiva (art. 7 CEDU)<br />

della legge penale più favorevole, violazione che inevitabilmente si riverbera, con effetti perduranti in fase esecutiva,<br />

sul diritto fondamentale della libertà.<br />

Una tale situazione, anche a costo di porre in crisi il "dogma" del giudicato, non può essere tollerata, perchè<br />

legittimerebbe l'esecuzione di una pena ritenuta, oggettivamente e quindi ben al di là della species facti, illegittima<br />

dall'interprete autentico della CEDU e determinerebbe una patente violazione del principio di parità di trattamento tra<br />

condannati che versano in identica posizione.<br />

Diverso è il caso di una pena rivelatasi illegittima, esclusivamente perchè inflitta all'esito di un giudizio ritenuto dalla<br />

Corte EDU non equo, ai sensi dell'art. 6 CEDU: in questa ipotesi, l'apprezzamento, vertendo su eventuali errores in<br />

procedendo e implicando valutazioni strettamente correlate alla fattispecie specifica, non può che essere compiuto caso<br />

per caso, con l'effetto che il giudicato interno può essere posto in discussione soltanto di fronte a un vincolante dictum<br />

della Corte di Strasburgo sulla medesima fattispecie.<br />

Il caso in esame non è dissimile da ogni altra situazione in cui vi sia stata condanna in forza di una legge penale<br />

dichiarata ex post, nella sua parte precettiva o sanzionatoria; illegittima o comunque inapplicabile, perchè in contrasto<br />

con norme di rango superiore alla legge penale medesima.<br />

Numerosi sono gli esempi nei quali la giurisprudenza delle massime Corti nazionali ha avvertito la necessità di<br />

adeguare le pronunce dei giudici di cognizione alle norme della CEDU nell'interpretazione datane dalla Corte di<br />

Strasburgo e ha ritenuto, pertanto, di potere superare il principio della intangibilità del giudicato, anche al di fuori delle<br />

ipotesi previste dal codice di rito, tanto da pervenire, con la sentenza n. 113 del 2011 della Corte Costituzionale, ad una<br />

declaratoria d'incostituzionalità dell'art. 630 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione<br />

della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, per conformarsi ad una<br />

sentenza definitiva della Corte EDU. L'applicazione retroattiva nel giudizio di cognizione, celebratosi prima<br />

dell'intervento interpretativo dell'art. 7 CEDU da parte della Corte di Strasburgo, di una norma penale sostanziale di<br />

sfavore produce attualmente, essendo in esecuzione la pena dell'ergastolo inflitta al ricorrente, una permanente lesione<br />

dei diritti fondamentali di costui e l'ordinamento italiano, lo si ribadisce, non può sottrarsi al dovere di rimuovere una<br />

simile situazione in forza dei principi affermati da Corte EDU, Scoppola c. Italia, verificando logicamente, come meglio<br />

si preciserà in seguito, la compatibilità con tali principi della normativa interna di riferimento.<br />

La crisi dell'irrevocabilità del giudicato è riscontrabile nell'art. 2 c.p., comma 3 (inserito dalla L. 24 febbraio 2006, n.<br />

85), secondo cui la pena detentiva inflitta con condanna definitiva si converte automaticamente nella corrispondente<br />

pena pecuniaria, se la legge posteriore al giudicato prevede esclusivamente quest'ultima, regola questa che deroga a<br />

quella posta invece dallo stesso art. 2 cod. pen., art. 14 (primato della lex mitior, salvo che sia stata pronunciata<br />

sentenza irrevocabile).<br />

25


A tale novità normativa può essere accostato, in via analogica, il novum dettato dalla Corte EDU in tema di legalità<br />

della pena: in entrambi i casi, è l'esigenza imprescindibile di porre fine agli effetti negativi dell'esecuzione di una pena<br />

contra legem a prevalere sulla tenuta del giudicato, che deve cedere, anche in executivis, alla "più alta valenza fondativa<br />

dello statuto della pena".<br />

Tale principio, d'altra parte, è stato già affermato da Sez. 1, n. 977 del 27/10/2011, dep. 13/01/2012, Hauohu, che ha<br />

ravvisato il potere del giudice dell'esecuzione di rideterminare la pena inflitta a chi sia stato condannato per un delitto<br />

aggravato dalla propria condizione di clandestinità ex art. 61 c.p., n. 11-bis, in seguito alla dichiarazione di<br />

incostituzionalità di tale aggravante (sent.<br />

n. 249 del 2010), con eliminazione della frazione di pena in eccesso, da considerarsi illegittima e, pertanto, non<br />

eseguibile.<br />

In forza dello stesso principio, consolidato è l'orientamento giurisprudenziale circa la possibilità di emendare, in sede<br />

esecutiva, l'illegalità della pena accessoria inflitta con condanna irrevocabile (ex plurimis, Sez. 1, n. 38245 del<br />

13/10/2010, Di Marco).<br />

6. Le argomentazioni sin qui svolte evidenziano la centrale rilevanza che la decisione della Corte EDU sul caso S.<br />

assume per la valutazione della posizione di E.S..<br />

S'impone, quindi, la verifica della compatibilità della normativa interna di riferimento e, più esattamente, del D.L. n.<br />

341 del 2000, artt. 7 e 8 convertito in L. n. 4 del 2001, con il principio di legalità convenzionale di cui all'art. 7 CEDU,<br />

nella interpretazione datane dalla Corte europea.<br />

Le sentenze della Corte di Strasburgo non sono in alcun modo equiparabili a quelle della Corte di Giustizia del<br />

Lussemburgo, adita in via pregiudiziale o nel contesto di una procedura di infrazione.<br />

In sostanza, il giudice ordinario non può risolvere il contrasto tra legge interna e norma convenzionale evidenziato dalla<br />

Corte di Strasburgo, provvedendo egli stesso a disapplicare la prima, presupponendo ciò il riconoscimento di un<br />

primato delle norme contenute nella Convenzione e/o delle sentenze della Corte EDU, analogo a quello conferito al<br />

diritto dell'Unione Europea e alle sentenze della Corte di Giustizia, che incidono direttamente nell'ordinamento<br />

nazionale e possono determinare addirittura la disapplicazione delle norme interne eventualmente contrastanti.<br />

La giurisprudenza costituzionale, a partire dalle richiamate sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, è costante nel ritenere che<br />

"le norme della CEDU - nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, specificamente istituita<br />

per dare ad esse interpretazione e applicazione (art. 32, 1, della Convenzione) - integrano, quali norme interposte, il<br />

parametro costituzionale espresso dall'art. 117 Cost., comma 1, nella parte in cui impone la conformazione della<br />

legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali" (sentenze n. 113 e n. 1 del 2011; n. 196, n. 187 e<br />

n. 138 del 2010; n. 317 e n. 311 del 2009; n. 39 del 2008).<br />

Il Giudice delle leggi - di fronte a prese di posizioni della giurisdizione amministrativa circa un asserito inserimento nel<br />

diritto dell'Unione europea della CEDU compiuto dall'art. 6, 2, del Trattato sull'Unione europea, così come modificato<br />

nel dicembre 2009 a seguito dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 (Cons. Stato, n. 1220<br />

del 02/03/2010; Tar Lazio, n. 11984 del 18/05/2010) - ha ritenuto la perdurante validità della detta ricostruzione pur<br />

dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona.<br />

Con la sentenza n. 80 del 2011, infatti, la Corte costituzionale ha posto un freno alla "fuga in avanti" dei giudici<br />

amministrativi, sottolineando che il riferimento all'art. 6, p.2, T.U.E. è prematuro, nelle more dell'adesione dell'U.E. alla<br />

CEDU, e precisando soprattutto che il richiamo alla CEDU operato dal diritto dell'Unione viene in rilievo con esclusivo<br />

riguardo ai casi in cui il giudice italiano deve valutare fattispecie che rientrano nell'ambito di applicazione del diritto<br />

dell'Unione.<br />

La Consulta ha anche chiarito (sentenza n. 311 del 2009, richiamata nella sentenza n. 236 del 2011) che "l'art. 117<br />

Cost., comma 1, ed in particolare l'espressione "obblighi internazionali" in esso contenuta, si riferisce alle norme<br />

internazionali convenzionali anche diverse da quelle comprese nella previsione degli artt. 10 e 11 Cost.. Così<br />

interpretato, l'art. 117 Cost., comma 1, ha colmato la lacuna prima esistente rispetto alle norme che a livello<br />

costituzionale garantiscono l'osservanza degli obblighi internazionali pattizi. La conseguenza è che il contrasto di una<br />

norma nazionale con una norma convenzionale, in particolare della CEDU, si traduce in una violazione dell'art. 117<br />

Cost., comma 1".<br />

Profilandosi un contrasto tra una norma interna e una norma della CEDU, però, "il giudice nazionale comune deve<br />

26


preventivamente verificare la praticabilità di una interpretazione della prima conforme alla norma convenzionale,<br />

ricorrendo a tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica" (sentenze n. 113 del 2011, n. 93 del 2010, n. 311 e n.<br />

239 del 2009). L'esito negativo di tale verifica e il contrasto non componibile in via interpretativa impongono al giudice<br />

ordinario - che non può disapplicare la norma interna nè farne applicazione, per il ritenuto contrasto con la CEDU e<br />

quindi con la Costituzione - di sottoporre alla Consulta la questione di legittimità costituzionale in riferimento all'art.<br />

117 Cost., comma 1 (sentenze n. 113 del 2011, n. 93 del 2010 e n. 311 del 2009), attraverso un rinvio pregiudiziale, con<br />

la conseguenza che l'eventuale operatività della norma convenzionale, così come interpretata dalla Corte di Strasburgo,<br />

deve passare attraverso una declaratoria d'incostituzionalità della normativa interna di riferimento o, se del caso,<br />

l'adozione di una sentenza interpretativa o additiva.<br />

Competerà, inoltre, al Giudice delle leggi, ove accerti il denunciato contrasto tra norma interna e norma della CEDU,<br />

non risolvibile in via interpretativa, verificare se la seconda, che si colloca pur sempre ad un livello sub-costituzionale,<br />

si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Carta fondamentale, ipotesi questa che condurrà ad escludere<br />

l'idoneità della norma convenzionale a integrare il parametro costituzionale considerato (sentenze n. 303 e n. 113 del<br />

2011, n. 93 del 2010, n. 311 del 2009, n. 349 e n. 348 del 2007).<br />

7. Tenuto conto che, alla luce di quanto argomentato, sulla decisione del presente ricorso incide, in maniera<br />

determinante, l'applicazione delle norme di cui al D.L. n. 341 del 2000, artt. 7 e 8 s'impone la verifica della<br />

compatibilità di tale normativa interna con il principio di legalità convenzionale di cui all'art. 7 CEDU, così come<br />

interpretato dalla Corte EDU. Seguendo le scansioni metodologiche indicate dal Giudice delle leggi, devesi<br />

preventivamente verificare la praticabilità di una interpretazione convenzionalmente orientata della normativa interna.<br />

Ritiene la Corte che non vi sono spazi per una interpretazione conforme alla Convenzione delle disposizioni del D.L. n.<br />

341 del 2000, artt. 7 e 8 dalla cui applicazione è derivata e tuttora deriva la violazione del diritto fondamentale del<br />

condannato all'operatività della legge più favorevole (art. 7 CEDU), individuabile, nel caso specifico, nella L. n. 479 del<br />

1999, art. 30, comma 1, lett. b), il solo in vigore nell'arco temporale 2 gennaio-24 novembre 2000, quando cioè fu<br />

formulata e accolta la richiesta in data 12 giugno 2000 di accesso al rito abbreviato. Tale violazione ha inciso in termini<br />

peggiorativi e con effetti perduranti sul trattamento sanzionatorio previsto, in caso di rito semplificato, per i reati<br />

punibili con la pena dell'ergastolo.<br />

Il Capo 3^ del D.L. n. 341 del 2000, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 4 del 2001, è intitolato "Interpretazione<br />

autentica dell'art. 442 c.p.p., comma 2 e disposizioni in materia di giudizio abbreviato nei processi per i reati puniti con<br />

l'ergastolo".<br />

L'art. 7, comma 1, inserito nel detto Capo stabilisce, infatti, che l'espressione "pena dell'ergastolo", contenuta nell'art.<br />

442 c.p.p., comma 2, ultimo periodo, "deve intendersi riferita all'ergastolo senza isolamento diurno"; lo stesso art. 7, al<br />

comma 2, che è in logica coordinazione col comma 1, stabilisce che la pena dell'ergastolo con isolamento diurno è<br />

sostituita con quella dell'ergastolo.<br />

La chiara intenzione del legislatore si evince dal contenuto della Relazione governativa al decreto, nella quale si precisa<br />

che la disposizione intende risolvere, in via interpretativa, i dubbi circa l'applicabilità della disciplina sui giudizio<br />

abbreviato ai casi in cui, stante il concorso di reati, alla pena dell'ergastolo debba aggiungersi anche la sanzione<br />

dell'isolamento diurno.<br />

Si è di fronte, quindi, ad una legge che il legislatore qualifica come interpretativa, con l'effetto che la norma<br />

interpretante non fa venire meno la norma interpretata, ma l'una e l'altra si saldano tra loro, dando luogo ad un precetto<br />

normativo unitario.<br />

La legge interpretativa, normativamente considerata, non può sostanzialmente ritenersi posteriore a quella interpretata,<br />

ma "coeva" alla stessa, nel senso che comincia ad esistere ed opera - sempre sotto il profilo normativo - come se fosse<br />

stata emanata congiuntamente alla legge precedente. Ne consegue che la legge interpretativa, in quanto materialmente<br />

successiva nel tempo a quella interpretata, ha efficacia retroattiva in deroga al principio di irretroattività della legge in<br />

generale, fissato dall'art. 11 preleggi.<br />

La retroattività della legge interpretativa rimane logicamente circoscritta nel tempo, nel senso che essa non può<br />

retroagire oltre "il termine a quo" della legge interpretata, ma "rimane ristretta" al tempo di quest'ultima.<br />

E' il caso di sottolineare che, in coerenza con la dichiarata natura interpretativa della norma di cui al D.L. n. 341 del<br />

2000, art. 7 il successivo art. 8, come sostituito in sede di conversione, prevede la facoltà per l'imputato, sia in sede di<br />

udienza preliminare che in sede dibattimentale, di revocare la richiesta di giudizio abbreviato nei casi in cui è<br />

applicabile o è stata applicata la pena dell'ergastolo con isolamento diurno, con l'effetto che, in mancanza di revoca,<br />

27


saranno applicabili le nuove disposizioni di cui al precedente art. 7, il che conferma l'efficacia retroattiva attribuita dal<br />

legislatore alle medesime.<br />

La natura formalmente interpretativa del richiamato art. 7, il suo testo letterale, la disciplina transitoria di cui al<br />

successivo art. 8 non legittimano una interpretazione di tali disposizioni in linea con il principio di legalità<br />

convenzionale: nulla induce a ritenere, infatti, che le stesse, in coerenza con tale principio, non sarebbero applicabili per<br />

il passato e, più esattamente, in tutte quelle ipotesi in cui, nel vigore della L. n. 479 del 1999, vi sia stata, come nella<br />

specie, richiesta di giudizio abbreviato, nella prospettiva di beneficiare, in caso di condanna, del più mite trattamento<br />

sanzionatorio previsto per i reati puniti con l'ergastolo.<br />

Effetto proprio della interpretazione autentica è, come è stato osservato, "di avere un'autorità imperativa e generale", il<br />

comando in essa contenuto ha valenza incondizionata, trattasi di "norma di diritto oggettivo", che, "coincida o A,' no<br />

coll'effettivo contenuto della disposizione a cui si riferisce", obbliga formalmente l'interprete ad adeguarvisi, senza<br />

alcuna possibilità d'individuare spazi ermeneutici ulteriori e alternativi a quelli indicati dal legislatore.<br />

8. L'esito negativo della verifica circa la praticabilità di una interpretazione della normativa interna conforme all'art. 7<br />

CEDU, nell'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, e l'insanabile contrasto tra dette norme a confronto<br />

impongono di sottoporre al Giudice delle leggi, non apparendo manifestamente infondata, la questione di legittimità<br />

costituzionale, in riferimento all'art. 3 Cost. e art. 117 Cost.; comma 1, quest'ultimo in relazione all'art. 7 CEDU, del<br />

D.L. n. 341 del 2000, artt. 7 e 8 convertito dalla L. n. 4 del 2001, nella parte in cui tali disposizioni interne operano<br />

retroattivamente e, più specificamente, in relazione alla posizione di coloro che, pur avendo formulato richiesta di<br />

giudizio abbreviato nella vigenza della sola L. n. 479 del 1999, sono stati giudicati successivamente, quando cioè, a far<br />

data dal pomeriggio del (OMISSIS) (pubblicazione della Gazzetta Ufficiale, ai sensi del R.D. 7 giugno 1923, n. 1252,<br />

art. 2), era entrato in vigore il citato decreto legge, con conseguente applicazione del più sfavorevole trattamento<br />

sanzionatorio previsto dal medesimo decreto.<br />

9. Viene in rilievo il problema della distinzione tra legge autenticamente interpretativa, che si limita a indicare il vero<br />

significato dei verba della legge preesistente, e legge che, pur dichiarata formalmente interpretativa, si rivela invece<br />

innovativa, perchè intacca antinomicamente la ratio della legge interpretata.<br />

Soltanto nel primo caso, può allegarsi alla legge interpretativa efficacia retroattiva nel senso più sopra chiarito, perchè si<br />

limita ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto, riconoscibile come una delle sue<br />

possibili letture, con le finalità di chiarire "situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo", di "ristabilire<br />

un'interpretazione più aderente all'originaria volontà del legislatore" e di garantire, quindi, la certezza del diritto e<br />

l'uguaglianza dei cittadini, principi - questi - di preminente interesse costituzionale, che rendono la legge interpretativa<br />

conforme alla Carta fondamentale (Corte Cost. sentenze n. 78 del 2012; n. 271 e n. 257 del 2011; n. 209 del 2010; n.<br />

311 e n. 24 del 2009).<br />

Nel secondo caso, la legge che, al di là del dato enunciativo, innova la precedente non può che valere per l'avvenire,<br />

opponendosi all'efficacia retroattiva la tutela di valori fondamentali di civiltà giuridica, quali il rispetto del principio<br />

generale di ragionevolezza, che si riflette nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento, la tutela<br />

dell'affidamento che è connaturato allo Stato di diritto, la coerenza e la certezza dell'ordinamento giuridico, il rispetto<br />

delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (Corte Cost.<br />

sentenze n. 78 del 2012; n. 209 del 2010).<br />

Ciò posto, ritengono le Sezioni Unite che la cd. "interpretazione autentica dell'art, 442 c.p.p., comma 2 penale", operata<br />

dal D.L. n. 341 del 2000, art. 7 rientra nella seconda categoria di norme.<br />

Non sembra, infatti, che il testo dell'art. 442 c.p.p., comma 2, secondo periodo, così come introdotto dalla L. n. 479 del<br />

1999, evidenziasse, nella sua generica formulazione, alcuna ambiguità interpretativa: la pena dell'ergastolo (con o senza<br />

isolamento diurno) doveva essere sostituita, in caso di giudizio abbreviato, con la reclusione di anni trenta. Non può<br />

conseguentemente allegarsi al contenuto del D.L. n. 341 del 2000, art. 7 la mera valenza di una possibile variante di<br />

significato del testo della norma asseritamente interpretata.<br />

La stessa Relazione governativa al D.L. n. 341 del 2000 riconosce implicitamente ciò, nel momento stesso in cui<br />

sottolinea che il testo normativo preesistente determinava, in modo del tutto irragionevole, "l'appiattimento verso il<br />

basso della sanzione applicabile in caso di concorso di reati o di reato continuato" e la conseguente equiparazione del<br />

"trattamento sanzionatorio applicabile ad un solo delitto punito con l'ergastolo rispetto a quello relativo ad una serie,<br />

virtualmente illimitata, di delitti punibili con l'ergastolo".<br />

28


Il legislatore del 2000, in realtà, come si è osservato in dottrina, ha inteso porre rimedio a tale insoddisfacente disciplina<br />

e, per incidere immediatamente sui processi in corso aventi ad oggetto gravi fatti omicidiari, ha optato per la legge<br />

interpretativa, anche se non v'era alcun effettivo problema ermeneutico da risolvere, "ma semplicemente l'esigenza,<br />

favorita da fattori politico-emozionali, di diversificare il trattamento sanzionatorio in relazione alla pluralità o unicità di<br />

imputazioni importanti l'ergastolo".<br />

Il giudice ordinario, però, non può recepire acriticamente la dichiarata natura interpretativa del D.L. n. 341 del 2000,<br />

art. 7 il quale, in realtà, innova la disciplina del giudizio abbreviato per i reati punibili con la pena dell'ergastolo e, non<br />

presentando un carattere polisenso che possa fare dubitare della sua univoca efficacia retroattiva, non lascia spazio, per<br />

le ragioni esposte, ad una interpretazione adeguatrice, utilizzando i canoni ermeneutici codicistici.<br />

Lo strumento di normazione interpretativa è stato, in generale, ritenuto legittimo dalla giurisprudenza costituzionale<br />

(sentenza n. 525 del 2000), ma non è consentito al legislatore di abusare di tale strumento intervenendo<br />

retroattivamente, in maniera autoreferenziale, "su rapporti processuali aventi diretti riflessi sul trattamento<br />

sanzionatorio".<br />

Il giudice, tuttavia, chiamato ad applicare una legge di interpretazione autentica, non può ritenere la violazione dei limiti<br />

all'ammissibilità e alla efficacia retroattiva della stessa, qualificarla come innovativa, circoscriverne temporalmente, in<br />

contrasto con la sua ratto ispiratrice, l'area operativa, finendo così, in sostanza, per disapplicarla.<br />

L'autorità imperativa e generale della legge impone, come si è detto, all'interprete di adeguarvisi, il che delinea il<br />

confine in presenza del quale ogni diversa operazione ermeneutica deve cedere il passo al sindacato di legittimità<br />

costituzionale.<br />

10. Non va sottaciuto, per rimanere aderenti alla fattispecie in esame, che gli aspetti processuali propri del giudizio<br />

abbreviato sono strettamente collegati con aspetti sostanziali, dovendosi tali ritenere quelli relativi alla diminuzione o<br />

alla sostituzione della pena, profilo questo che si risolve indiscutibilmente in un trattamento penale di favore.<br />

La richiesta di giudizio abbreviato cristallizza il trattamento sanzionatorio vigente al momento di essa, con l'effetto che<br />

una norma sopravvenuta di sfavore non può retroattivamente deludere e vanificare il legittimo affidamento riposto<br />

dall'interessato nello svolgimento del giudizio secondo le più favorevoli regole in vigore all'epoca della scelta<br />

processuale.<br />

Obbligata, pertanto, è la via dell'incidente di costituzionalità.<br />

La norma di cui all'art. 7 e, di riflesso, quella di cui al successivo D.L. n. 341 del 2000, art. 8 con la loro efficacia<br />

retroattiva, sembrano essere in contrasto, in primo luogo, con il parametro di cui all'art. 117 Cost., comma 1 nella parte<br />

in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, e quindi con<br />

la norma interposta di cui all'art. 7 CEDU, che delinea, secondo l'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, un<br />

nuovo profilo di tutela del principio di legalità convenzionale in materia penale:<br />

non solo la irretroattività della legge penale più severa, principio già contenuto nell'art. 25 Cost., comma 2, ma anche, e<br />

implicitamente, la retroattività o l'ultrattività della lex mitior, in quanto va ad incidere sulla configurabilità del reato o<br />

sulla specie e sull'entità della pena e, quindi, su diritti fondamentali della persona.<br />

La citata normativa interna sembra, inoltre, contrastare anche con l'art. 3 Cost., perchè, facendo retroagire la disciplina<br />

in essa prevista, non rispetterebbe il canone generale di ragionevolezza delle norme e il principio di eguaglianza.<br />

Interviene, infatti, sull'art. 442 c.p.p., comma 2, ultimo periodo, nella versione risultante dalla L. n. 479 del 1999, in<br />

assenza - come si è detto - di una situazione di oggettiva incertezza di tale dato normativo di riferimento, al quale<br />

nettamente deroga, innovandolo rispetto al testo previgente; tradisce il principio dell'affidamento, connaturato allo Stato<br />

di diritto, legittimamente sorto nel soggetto al momento della scelta del rito alternativo, regolato da norma più<br />

favorevole;<br />

determina ingiustificate disparità di trattamento, affidate casualmente ai variabili tempi processuali, tra soggetti che<br />

versano in una identica posizione sostanziale.<br />

Conclusivamente, è proprio l'applicazione retroattiva in malam partem della cd. legge interpretativa a determinare la<br />

violazione del diritto del soggetto interessato all'operatività, invece, della legge più mite tra quelle succedutesi nell'arco<br />

temporale (OMISSIS), in presenza del presupposto processuale rappresentato dalla richiesta del rito abbreviato<br />

effettuata nello stesso periodo, e a legittimare i dubbi di costituzionalità della medesima legge interpretativa.<br />

29


11. La questione di costituzionalità che si solleva con la presente ordinanza è senza dubbio rilevante, considerato che,<br />

come innanzi precisato, la decisione della vicenda in esame dovrebbe comportare l'applicazione del D.L. n. 341 del<br />

2000, art. 7 e non potrebbe prescindere dai riflessi che su tale norma spiega anche quella transitoria di cui al successivo<br />

art. 8, come sostituito in sede di conversione dalla L. n. 4 del 2001. Sussiste, quindi, un rapporto di strumentante<br />

necessaria tra la risoluzione della questione di costituzionalità e la definizione dell'attivato incidente di esecuzione.<br />

Anche in questo, infatti, assumono peculiare rilievo i canoni di ragionevolezza e di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost.,<br />

nonchè il principio di legalità convenzionale di cui all'art. 7 CEDU, quale imprescindibile presidio a tutela di diritti<br />

fondamentali della persona e dato interposto che integra il parametro costituzionale espresso dall'art. 117 Cost., comma<br />

1, non essendo proponibile, come si è precisato, una interpretazione della normativa nazionale in senso conforme a tale<br />

principio.<br />

L'eventuale dichiarazione di incostituzionalità delle norme interne innanzi citate, avendo una forza invalidante ex tunc,<br />

la cui portata, già implicita nell'art. 136 Cost., è chiarita dalla L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 30 inciderebbe<br />

sull'esecuzione ancora in corso della pena illegittimamente inflitta al ricorrente in applicazione della più severa norma<br />

penale sostanziale, sospettata, nella parte relativa alla sua efficacia retroattiva, di essere in contrasto con la Carta<br />

fondamentale.<br />

La L. n. 87 del 1953, art. 30, comma 4 dispone che, quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è<br />

stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano l'esecuzione e tutti gli effetti penali. Ne consegue che,<br />

nel caso di dichiarazione di incostituzionalità di una norma penale sostanziale, la tutela della libertà personale si unisce<br />

alla forza espansiva della dichiarazione di incostituzionalità e travolge anche il giudicato, con effetti diretti<br />

sull'esecuzione, ancora in atto, della condanna irrevocabile.<br />

Il richiamato art. 30, comma 4, cit. Legge ha un campo di operatività più esteso rispetto a quello dell'art. 673 cod. proc.<br />

pen..<br />

Quest'ultimo fa riferimento alle sole norme che prevedono specifiche fattispecie incriminatrici e stabilisce che, in caso<br />

di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale delle stesse nella loro interezza, il giudice<br />

dell'esecuzione, nel revocare la sentenza di condanna, deve dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato<br />

e adottare i conseguenti provvedimenti. Trattasi, pertanto, di norma non utilizzabile nel caso di specie.<br />

Sembra utilizzabile, invece, la L. n. 87 del 1953, art. 30, comma 4, che ha una portata di più ampio respiro, nel senso<br />

che impedisce anche l'esecuzione della pena o della frazione di pena inflitta in base alla norma dichiarata<br />

costituzionalmente illegittima sul punto, senza coinvolgere il precetto, e ciò in coerenza con la funzione che la pena, ex<br />

art. 27 Cost., deve assolvere dal momento della sua irrogazione a quello della sua esecuzione (Sez. 1, n. 977 del<br />

27/10/2011, dep. 13/1/2012, Hauohu). Trattasi di disposizione che, derogando al principio dell'intangibilità del<br />

giudicato, va ad incidere su una situazione esecutiva non ancora esaurita.<br />

Ove la prospettata questione di costituzionalità sia ritenuta fondata, il principio di retroattività/ultrattività della lex<br />

mitìor che definisce i reati e le pene, riconosciuto dall'art. 7 CEDU, non incontrerebbe ostacoli di operatività, anche in<br />

executivis, nell'ordinamento nazionale, che agevolmente si armonizzerebbe con tale principio, proprio facendo leva<br />

sulle disposizioni in materia di successione nel tempo delle leggi penali sostanziali e sulla L. n. 87 del 1953, art. 30,<br />

comma 4.<br />

Quest'ultima disposizione, infatti, al pari della previsione di cui all'art. 2 c.p., comma 3 (inserito dalla L. n. 85 del 2006,<br />

art. 14), si pone come eccezione alla regola di cui al medesimo art. 2, comma 3 secondo la quale si applica al reo la<br />

disposizione più favorevole, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile, e legittima quindi il superamento del<br />

giudicato di fronte alle primarie esigenze, insite nell'intero sistema penale, di tutelare il diritto fondamentale della<br />

persona alla legalità della pena anche in fase esecutiva e di assicurare parità di trattamento tra i condannati che versano<br />

in una identica situazione.<br />

12. Gli atti, pertanto, devono essere trasmessi alla Corte Costituzionale, per la risoluzione della questione di legittimità<br />

costituzionale sollevata, di ufficio, nei termini innanzi precisati, e il giudizio in corso deve, conseguentemente, essere<br />

sospeso.<br />

La Cancelleria provvedere agli adempimenti in dispositivo precisati.<br />

30


LA CORTE EUROPEA SU PRINCIPIO DI LEGALITÀ E APPLICAZIONE RETROATTIVA<br />

DEL MUTAMENTO GIURISPRUDENZIALE SFAVOREVOLE IN MATERIA DI<br />

ESECUZIONE DELLE PENE IN SPAGNA<br />

Nota a C. eur. dir. uomo, terza sezione, sent. 10 luglio 2012, pres. Casadevall - Del Rio Prada c. Spagna<br />

[Francesco Mazzacuva]<br />

1. Con un'importante sentenza, la Corte europea si è pronunciata nel luglio scorso sul rilevante dibattito<br />

originato in Spagna dal mutamento giurisprudenziale sfavorevole del Tribunal Supremo circa le<br />

modalità di applicazione dei benefici penitenziari a determinati soggetti pluricondannati per reati<br />

di matrice terroristica separatista. La sentenza ha un ovvio rilievo anche nel nostro ordinamento,<br />

non solo in ordine alla sempre vexata quaestio dell'estensione del principio di irretroattività della<br />

legge penale alle norme in materia di esecuzione della pena, ma anche in relazione al dibattito circa<br />

l'estensione dei corollari del principio di legalità di cui all'art. 7 CEDU, per l'appunto, ai mutamenti<br />

giurisprudenziali: problema che la nostra Corte costituzionale ha recentemente affrontato, in riferimento<br />

al diverso corollario della retroattività della lege più favorevole, nella sentenza n. 230/2012 (clicca qui<br />

per accedere alla sentenza e alla nota di Valerio Napoleoni pubblicata a suo tempo dalla nostra nostra<br />

Rivista; si vedano anche i documenti correlati pubblicati nella colonna di destra qui a fianco).<br />

In particolare, la Corte decide sul ricorso proposto da una donna condannata per gravi reati a pene che,<br />

sommate, ammontavano a più di tremila anni di reclusione, ridotti a trenta in applicazione dell'art. 70 del<br />

codice penale spagnolo che in tale misura individua il limite massimo nelle ipotesi di cumulo.<br />

Individuato il "fine-pena" nel giorno 27 luglio 2017, l'istituto penitenziario indicava conseguentemente<br />

nel 2 luglio 2008 la data effettiva di liberazione della ricorrente in applicazione della misura alternativa<br />

della redención de penas por el trabajo.<br />

Tuttavia, attraverso una nuova interpretazione della legge sull'esecuzione della pena (secondo una<br />

soluzione denominata come "doctrina Parot"), il Tribunal Supremo nel 2006 affermava che la frazione di<br />

pena da scontare prima di accedere a tale beneficio dovesse essere calcolata in base alla misura della<br />

sanzione individuata prima dell'applicazione del limite dei trent'anni (e quindi, nel caso concreto, in base<br />

ai più di tremila anni di reclusione conseguenti al cumulo materiale delle pene). L'esito di tale mutamento<br />

giurisprudenziale si risolveva, in pratica, in uno spostamento della data di effettiva liberazione della<br />

ricorrente al 27 luglio 2017. Per tale motivo, nel ricorso alla Corte europea veniva denunciata una<br />

violazione del principio di irretroattività in materia penale sancito dall'art. 7 Cedu e del canone<br />

della "regolarità" della detenzione previsto dall'art. 5 Cedu.<br />

2. Nella motivazione, la Corte europea non manca di confrontarsi con la posizione del Tribunal<br />

constitucional spagnolo[1] che, investito di diversi recursos de amparo, aveva rigettato tutte le<br />

doglianze dei ricorrenti, anche riferendosi alla stessa prospettiva di Strasburgo circa l'esclusione della<br />

materia dell'esecuzione penale dallo spettro di operatività dell'art. 7 Cedu[2]. Su tale profilo, la Corte<br />

europea tenta da un lato di mantenere fede al principio generale che vuole la disciplina<br />

dell'esecuzione affrancata dai limiti intertemporali della legge penale (non essendo esse tali regole<br />

riconducibili al concetto "autonomo" di matière pénale elaborato dalla stessa Corte nella sua<br />

giurisprudenza); ma, dall'altro, osserva come nel caso concreto l'accoglimento della doctrina Parot<br />

abbia finito per incidere in maniera significativa sulla pena da scontare da parte della ricorrente,<br />

così da rendere alquanto sfumati i confini tra disciplina della pena e regolamentazione della sua<br />

esecuzione e da giustificare, in definitiva, l'estensione del principio di legalità delle pene[3]. Si<br />

consideri che, in effetti, tale evoluzione giurisprudenziale può essere letta alla luce delle diverse riforme<br />

legislative che, negli ultimi anni, hanno irrigidito le modalità di accesso ai benefici carcerari ed<br />

aumentato a quaranta anni di reclusione il limite massimo in caso di cumulo materiale di pene comminate<br />

per reati di matrice terroristica (riforme, tuttavia, evidentemente insuscettibili di applicazione<br />

retroattiva)[4].<br />

Risolta in senso positivo la questione dell'applicabilità in astratto dell'art. 7 Cedu al caso di specie, la<br />

Corte non ha difficoltà nell'affermare che il mutamento nell'interpretazione del Tribunal Supremo<br />

(equiparabile, come da giurisprudenza costante in materia, ad un vero e proprio mutamento<br />

32


legislativo) non poteva essere previsto dalla ricorrente al momento della commissione dei reati e,<br />

pertanto, a ritenere insoddisfatta l'esigenza di "prevedibilità" delle applicazioni giurisprudenziali<br />

che promana dalla disposizione.<br />

Per le stesse ragioni, i giudici di Strasburgo riscontrano altresì una violazione dei requisiti di<br />

"regolarità" e "legalità" (voies légales) della privazione della libertà personale delineati dall'art. 5<br />

Cedu.<br />

3. È opportuno sottolineare, ancora, che ai sensi dell'art. 46 Cedu la Corte individua come unico<br />

rimedio utile la rimessa in libertà della ricorrente, non essendo ritenuta sufficiente una semplice<br />

riparazione di tipo economico. Si tenga presente, tuttavia, che nonostante le diverse violazioni siano state<br />

riconosciute all'unanimità dalla Terza sezione - e probabilmente anche in relazione alla rilevanza<br />

pubblica della questione - in data 22 ottobre 2012 è stata accolta la richiesta di rinvio alla Grande<br />

Camera inoltrata dal governo spagnolo, per cui la sentenza non può considerarsi definitiva.<br />

33


MUTAMENTO DI GIURISPRUDENZA IN BONAM PARTEM E REVOCA DEL GIUDICATO<br />

DI CONDANNA: ALTOLÀ DELLA CONSULTA A PROSPETTIVE AVANGUARDISTICHE DI<br />

(SUPPOSTO) ADEGUAMENTO AI DICTA DELLA CORTE DI STRASBURGO<br />

Nota a Corte costituzionale, 12 ottobre 2012, n. 230 (Pres. Quaranta, Rel. Frigo)<br />

[Valerio Napoleoni]<br />

NOTA INTRODUTTIVA REDAZIONALE: con questa importante sentenza, pubblicata venerdì scorso, la Corte<br />

costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata lo scorso anno dal<br />

Tribunale di Torino, avente ad oggetto la disciplina della revoca della sentenza di condanna di cui all'art. 673<br />

c.p.p., in relazione ad una serie di parametri costituzionali tra cui - segnatamente - l'art. 117 co. 1 Cost. in riferimento<br />

all'art. 7 CEDU.<br />

Il giudice remittente dubitava, in particolare, della legittimità costituzionale della disposizione impugnata, nella parte<br />

in cui non prevede la revoca della sentenza di condanna in caso di mutamento giurisprudenziale intervenuto<br />

con decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, la quale abbia stabilito che il fatto per il quale è<br />

intervenuta sentenza di condanna irrevocabile non è previsto dalla legge come reato. E ciò in relazione a un caso di<br />

specie concernente una sentenza di condanna per il delitto di omessa esibizione dei documenti e del permesso di<br />

soggiorno di cui all'art. 6 co. 3 d.lgs. 286/98 pronunciata nei confronti di uno straniero presente irregolarmente sul<br />

territorio nazionale, e divenuta irrevocabile prima che le Sezioni Unite si pronunciassero nel senso che tale delitto -<br />

in seguito alle modifiche apportate dalla l. n. 94/2009 - non si applica allo straniero il cui soggiorno sia irregolare.<br />

Siamo particolarmente lieti di aprire qui, con l'autorevole commento di Valerio Napoleoni, il dibattito su questa<br />

sentenza della Corte costituzionale, che investe direttamente il tema cruciale dello statuto del precedente<br />

giurisprudenziale - ed in particolare delle decisioni delle Sezioni Unite nella loro funzione di organo supremo di<br />

nomofilachia - in un ordinamento di civil law come quello italiano, ma che tocca altresì una quantità di altre questioni<br />

di scottante attualità, come lo statuto del giudicato penale, il principio di retroattività in mitius della legge penale<br />

e la natura ed estensione dei vincoli per il nostro ordinamento discendenti dalla CEDU (e dalle sentenze del<br />

'suo' giudice, la Corte di Strasburgo).<br />

Siamo d'altra parte convinti che la specifica questione sollevata dal Tribunale di Torino - quella dell'applicabilità<br />

della disciplina della revoca di cui all'art. 673 c.p.p. - non possa ritenersi chiusa con questa pronuncia, pur<br />

autorevolissima, del giudice delle leggi: restando pur sempre doverosa, per la giurisdizione ordinaria, una<br />

riflessione relativa alla praticabilità di una estensione analogica di tale disciplina alle ipotesi, per l'appunto, di<br />

mutamento giurisprudenziale - sancito addirittura dalle Sezioni Unite - con effetto sostanzialmente abolitivo di<br />

un'incriminazione preesistente, come quello oggetto del caso ora affrontato dalla Corte. Dove non è giunta la Corte<br />

costituzionale, potrebbero insomma arrivare presto i giudici ordinari: se Maometto non va alla montagna....<br />

SENTENZA N. 230 ANNO 2012<br />

REPUBBLICA ITALIANA<br />

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO<br />

LA CORTE COSTITUZIONALE<br />

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano<br />

SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro<br />

CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA,<br />

Mario Rosario MORELLI,<br />

ha pronunciato la seguente<br />

SENTENZA<br />

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 673 del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale<br />

di Torino nel procedimento di esecuzione nei confronti di D.M. con ordinanza depositata il 21 luglio 2011, iscritta al n.<br />

3 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno<br />

2012.<br />

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;<br />

udito nella camera di consiglio del 23 maggio 2012 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.<br />

34


Ritenuto in fatto<br />

1.– Con ordinanza depositata il 21 luglio 2011, il Tribunale di Torino, in composizione monocratica, ha sollevato<br />

questione di legittimità costituzionale dell’articolo 673 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede<br />

l’ipotesi di revoca della sentenza di condanna (o di decreto penale di condanna o di sentenza di applicazione della pena<br />

su concorde richiesta delle parti) in caso di mutamento giurisprudenziale – intervenuto con decisione delle Sezioni<br />

Unite della Corte di Cassazione – in base al quale il fatto giudicato non è previsto dalla legge penale come reato»,<br />

deducendo la violazione degli articoli 3, 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, nonché<br />

dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 5, 6 e 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti<br />

dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4<br />

agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti: «CEDU»).<br />

Il rimettente è chiamato a provvedere, quale giudice dell’esecuzione, sull’istanza del pubblico ministero di revoca<br />

parziale, ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen., della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, emessa il<br />

9 luglio 2010 dal Tribunale di Torino nei confronti di una persona nata in Mali e divenuta irrevocabile il 9 marzo 2011,<br />

a seguito della dichiarazione di inammissibilità del ricorso per cassazione proposto contro di essa dall’imputato.<br />

L’istanza di revoca è limitata al solo capo di imputazione concernente la contravvenzione di omessa esibizione dei<br />

documenti di identificazione e di soggiorno, prevista dall’art. 6, comma 3, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286<br />

(Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero).<br />

Il giudice a quo osserva come, a seguito della modifica di detta disposizione ad opera della legge 15 luglio 2009,<br />

n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), sia sorta questione in ordine alla perdurante applicabilità o meno<br />

della fattispecie agli stranieri irregolarmente presenti nel territorio dello Stato (non provvisti, in quanto tali, del<br />

permesso di soggiorno): interrogativo al quale la Corte di cassazione, nelle sue prime decisioni, adottate da sezioni<br />

singole, ha risposto in senso affermativo. Con la sentenza 24 febbraio 2011-27 aprile 2011, n. 16453, le Sezioni unite<br />

hanno accolto, tuttavia, la soluzione opposta, ritenendo – sulla base di un ampio iter argomentativo – che il precetto<br />

penale si indirizzi attualmente ai soli stranieri regolarmente soggiornanti: con la conseguenza che la novella legislativa<br />

del 2009 avrebbe comportato una parziale abolitio criminis, abrogando la fattispecie criminosa preesistente nella parte<br />

in cui si prestava a colpire anche gli stranieri in posizione irregolare. In tal modo, le Sezioni unite della Corte di<br />

cassazione avrebbero quindi determinato «un significativo révirement giurisprudenziale».<br />

Il giudice a quo rileva, tuttavia, come il caso sottoposto al suo esame non risulti «perfettamente riconducibile al<br />

fenomeno dell’abolitio criminis». Il fatto giudicato con la sentenza della cui revoca si discute è stato, infatti, commesso<br />

in data successiva a quella di entrata in vigore della legge n. 94 del 2009 (segnatamente, l’11 giugno 2010) e, dunque, in<br />

un momento nel quale la norma incriminatrice di cui all’art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 risultava già<br />

formulata nei termini attuali. Non si sarebbe, pertanto, di fronte ad un fenomeno di successione nel tempo di leggi<br />

(intese come «fonti formali»), ma ad una successione nel tempo di diverse interpretazioni giurisprudenziali della<br />

medesima «fonte formale»: in altri termini, il pubblico ministero avrebbe sollecitato la revoca parziale della sentenza a<br />

fronte di una abolitio criminis conseguente, non già ad un intervento legislativo, ma ad un mutamento di giurisprudenza.<br />

L’art. 673 cod. proc. pen. non prende, tuttavia, in considerazione tale fattispecie, prevedendo la revoca della<br />

sentenza di condanna passata in giudicato nei soli casi di abrogazione e di dichiarazione di illegittimità costituzionale<br />

della norma incriminatrice; né, d’altra parte, sarebbe possibile estendere in via analogica la disposizione censurata<br />

all’ipotesi in questione, a causa della natura eccezionale dei poteri di intervento in executivis sulla pronuncia del giudice<br />

della cognizione. La giurisprudenza di legittimità risulta, del resto, ferma nel negare che l’art. 673 cod. proc. pen. possa<br />

trovare applicazione in presenza di un mutamento giurisprudenziale che escluda la rilevanza penale di fatti analoghi a<br />

quello già giudicato, non costituendo detto mutamento uno «ius superveniens», neppure ove consegua a una pronuncia<br />

delle Sezioni unite della Corte di cassazione.<br />

Il giudice a quo dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale di tale «approdo», evidenziando come, con<br />

riferimento tanto al cosiddetto «giudicato esecutivo» (correlato alla preclusione prevista dall’art. 666, comma 2, cod.<br />

proc. pen.), quanto al cosiddetto «giudicato cautelare» (istituto elaborato in via giurisprudenziale), la Corte di<br />

cassazione – dopo aver affermato principi analoghi a quelli enunciati in relazione alla norma censurata – abbia<br />

recentemente modificato il proprio orientamento, riconoscendo la rilevanza dei sopravvenuti mutamenti<br />

giurisprudenziali al fine del superamento delle preclusioni processuali connesse agli anzidetti istituti.<br />

Gli argomenti addotti a sostegno di tale diverso indirizzo – legati, per un verso, al necessario rispetto dei principi<br />

di eguaglianza e di retroattività dei trattamenti punitivi più favorevoli, «anche in un’ottica europea», e, per altro verso,<br />

alla funzione nomofilattica esercitata dalle Sezioni unite – non potrebbero non valere anche con riguardo alla revoca<br />

delle sentenze passate in giudicato, a fronte di un sopravvenuto mutamento di giurisprudenza con il quale si affermi che<br />

un determinato fatto non è previsto dalla legge come reato.<br />

In questa prospettiva, il giudice a quo reputa che la norma censurata violi, anzitutto, l’art. 117, primo comma,<br />

Cost., ponendosi in contrasto sia con l’art. 7 che con gli artt. 5 e 6 della CEDU.<br />

Premesso che – per giurisprudenza costituzionale ormai costante – le norme della CEDU, nel significato loro<br />

attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, integrano, quali «norme interposte», il parametro costituzionale<br />

evocato, nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi<br />

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internazionali, il rimettente reputa pienamente conferenti, agli odierni fini, le considerazioni svolte dalle Sezioni unite<br />

della Corte di cassazione nella sentenza 21 gennaio 2010-13 maggio 2010, n. 18288, a proposito del cosiddetto<br />

«giudicato esecutivo».<br />

Si rileva in questa sentenza che l’art. 7 della CEDU, pur enunciando formalmente il solo divieto di applicazione<br />

retroattiva della norma penale a svantaggio dell’imputato, è stato interpretato dalla Corte europea come espressivo del<br />

più generale principio di legalità in materia penale, nelle sue diverse manifestazioni (determinatezza della fattispecie<br />

incriminatrice, divieto di analogia in malam partem). La portata della norma convenzionale è stata estesa, altresì, sino a<br />

comprendervi il principio – implicito – di retroattività della legge penale meno severa (Corte europea dei diritti<br />

dell’uomo, Grande Camera, sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia): principio che, d’altra parte – per<br />

reiterata affermazione della Corte di giustizia dell’Unione europea – trova riconoscimento anche nel diritto dell’Unione,<br />

in quanto appartenente alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri.<br />

Al tempo stesso, la Corte di Strasburgo ha costantemente inteso il principio di legalità in materia penale come<br />

riferibile non soltanto al diritto di produzione legislativa, ma anche a quello di derivazione giurisprudenziale,<br />

riconoscendo al giudice un ruolo fondamentale nell’individuazione dell’esatta portata della norma penale. Tale lettura<br />

“allargata” del concetto di «legalità penale», se pure pungolata dall’esigenza di tenere conto delle particolari<br />

caratteristiche degli ordinamenti di common law, è stata ritenuta, comunque, valevole anche negli ordinamenti di civil<br />

law. In recenti pronunce concernenti proprio l’ordinamento italiano, la Corte europea ha, infatti, rimarcato come, in<br />

ragione del carattere generale delle leggi, il loro testo non possa presentare una precisione assoluta e debba servirsi di<br />

formule più o meno vaghe, la cui applicazione dipende dalla pratica, con la conseguenza che «in qualsiasi ordinamento<br />

giuridico, per quanto chiaro possa essere il testo di una disposizione di legge, anche in materia penale, esiste<br />

inevitabilmente un elemento di interpretazione giudiziaria»: essendo, del resto, «solidamente stabilito nella tradizione<br />

giuridica degli Stati parte della Convenzione che la giurisprudenza […] contribuisce necessariamente all’evoluzione<br />

progressiva del diritto penale» (Corte europea dei diritti dell’uomo, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, e 8<br />

dicembre 2009, Previti contro Italia).<br />

Su tale premessa la Corte di Strasburgo ha ravvisato, quindi, la violazione del diritto alla libertà e alla sicurezza,<br />

tutelato dall’art. 5 della CEDU, nel caso di tardiva liberazione di un detenuto, al quale solo con notevole ritardo era<br />

stato concesso l’indulto, a causa di dubbi interpretativi circa la sua applicabilità (sentenza 10 luglio 2003, Grava contro<br />

Italia); nonché la violazione del diritto all’equo processo, sancito dall’art. 6 della CEDU, nel caso di divergenze<br />

profonde e persistenti nella giurisprudenza della Corte di cassazione sull’interpretazione di una determinata<br />

disposizione legislativa, senza alcuna previsione di strumenti idonei a rimediare alle eventuali ricadute negative<br />

(sentenza 2 luglio 2009, Iordan Iordanov contro Bulgaria).<br />

Particolarmente significative, in ordine alla rilevanza da attribuire al cosiddetto «diritto giurisprudenziale»,<br />

risulterebbero, altresì, le pronunce della Corte di giustizia che hanno ritenuto applicabile il principio di irretroattività<br />

anche alla nuova interpretazione in senso sfavorevole di una norma sanzionatoria, ove detta interpretazione non<br />

risultasse ragionevolmente prevedibile nel momento della commissione dell’infrazione (Corte di giustizia, sentenza 8<br />

febbraio 2007, ricorso C-3/06 P, Groupe Danone contro Commissione).<br />

In questo quadro, ove non si considerasse l’ipotesi del mutamento giurisprudenziale alla luce dell’art. 7 della<br />

CEDU, si rischierebbe, da un lato, «di depotenziare la portata di quella norma (e la sua funzione garantista)» e,<br />

dall’altro, di porre il nostro ordinamento in contrasto anche con i principi ricavabili dagli artt. 5 e 6 della CEDU.<br />

Tale conclusione si imporrebbe non soltanto in rapporto ai mutamenti giurisprudenziali sfavorevoli agli imputati<br />

– riguardo ai quali viene in rilievo il valore della «prevedibilità» dell’esito interpretativo – ma anche in relazione ai<br />

mutamenti giurisprudenziali favorevoli, che chiamerebbero in gioco il principio di retroattività del trattamento penale<br />

più mite. Negando ogni rilievo a tali mutamenti, l’art. 673 cod. proc. pen. violerebbe, dunque, l’art. 7 della CEDU e,<br />

con esso, l’art. 117, primo comma, Cost.: in tal modo, infatti, una persona potrebbe essere privata della libertà (o<br />

esposta ad una ulteriore privazione di essa) in relazione ad un fatto che, reputato in origine penalmente illecito, non è<br />

più considerato tale, successivamente alla condanna definitiva, dalla giurisprudenza «che si consolida nel diritto<br />

vivente».<br />

L’auspicato intervento della Corte costituzionale, volto a rendere compatibile l’art. 673 cod. proc. pen. con l’art.<br />

7 della CEDU, si porrebbe, d’altra parte, «in linea di assoluta coerenza» con altri principi costituzionali, che l’attuale<br />

formulazione della norma denunciata rischierebbe parimenti di ledere.<br />

Lo stesso legislatore ordinario assegna, in effetti, un «ruolo di preminenza» alla giurisprudenza di legittimità, in<br />

funzione di orientamento della giurisprudenza successiva, oltre che dei comportamenti dei consociati. L’art. 65 del<br />

regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario) individua, infatti, nella Corte di cassazione «l’organo<br />

supremo della giustizia», incaricato di «assicura[re] l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità<br />

del diritto oggettivo nazionale». Plurime norme processuali – in particolare, quelle degli artt. 610, comma 2, e 618,<br />

comma 1, cod. proc. pen. e dell’art. 172 disp. att. cod. proc. pen. – attribuiscono, poi, una «posizione di particolare<br />

preminenza» alle Sezioni unite della Corte di cassazione, cui vengono assegnati i ricorsi quando le questioni trattate<br />

sono di speciale importanza o quando occorre dirimere contrasti insorti tra le decisioni delle singole sezioni.<br />

Anche la giurisprudenza costituzionale riconoscerebbe un «decisivo rilievo» al «diritto vivente», specie se<br />

«cristallizzato» a seguito di interventi delle Sezioni unite, al punto da reputare inammissibili le questioni di legittimità<br />

costituzionale sollevate da ordinanze che lo trascurino.<br />

La funzione nomofilattica attribuita dall’ordinamento alla Corte di cassazione – e alle Sezioni unite in particolare<br />

36


– riposerebbe, d’altra parte, su esigenze di rilievo costituzionale, quali quelle di assicurare l’uguaglianza dei cittadini<br />

davanti alla legge (art. 3 Cost.) e di consentire ai consociati di prevedere le conseguenze giuridiche dei propri atti, così<br />

da poter operare consapevoli scelte di azione (artt. 25 e 27 Cost.).<br />

Dovendosi, dunque, presupporre che le decisioni successive si conformino «tendenzialmente» al «diritto<br />

vivente», la scelta legislativa di continuare a punire – non revocando la sentenza di condanna – chi abbia tenuto un<br />

comportamento che, secondo il «diritto vivente sopravvenuto», originato da una decisione delle Sezioni unite, non è più<br />

previsto dalla legge come reato, si paleserebbe manifestamente irragionevole. Essa verrebbe a ledere tanto il principio<br />

«di (tendenziale) retroattività della normativa penale più favorevole», desumibile dagli artt. 3 e 25, secondo comma,<br />

Cost.; quanto il principio di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), originando il rischio che persone che hanno<br />

commesso il medesimo fatto vengano trattate in modo diverso per evenienze puramente casuali e, comunque, non<br />

riconducibili a loro scelte (quale il semplice ordine di trattazione dei processi).<br />

La soluzione legislativa censurata violerebbe, altresì, l’art. 13 Cost., venendo a privilegiare «ragioni di tutela<br />

dell’ordinamento» – in specie, quelle di certezza del diritto e di tendenziale stabilità delle decisioni – rispetto a «precise<br />

esigenze di libertà della persona».<br />

Nell’ipotesi di cui si discute, inoltre, l’esecuzione della pena non svolgerebbe più alcuna funzione né sul piano<br />

della retribuzione o della prevenzione (sia essa generale o speciale) – non essendovi alcuna ragione perché tali funzioni<br />

si esplichino in rapporto a un comportamento che, secondo il diritto vivente sopravvenuto, non costituisce reato – né sul<br />

piano della rieducazione del condannato, in quanto il fatto commesso, alla luce del nuovo assetto giurisprudenziale che<br />

ne esclude la rilevanza penale, non richiederebbe più alcuna attività rieducativa. Di qui, dunque, la violazione anche<br />

dell’art. 27, terzo comma, Cost.<br />

Non gioverebbe, d’altra parte, obiettare che l’accoglimento della questione – attribuendo un ruolo «paranormativo»<br />

alle pronunce della Corte di cassazione – rischierebbe di «ingessare» la giurisprudenza e di inibire, così, la<br />

funzione evolutiva che essa storicamente ha sempre avuto nel nostro ordinamento, «imponendo una deviazione della<br />

nostra tradizione giuridica di civil law [verso] quella propria degli ordinamenti di common law».<br />

L’obiezione non sarebbe in effetti persuasiva, specie ove si tenga conto dei limiti dell’intervento richiesto (volto<br />

a valorizzare, non qualsiasi mutamento giurisprudenziale, ma solo quelli conseguenti a pronunce delle Sezioni unite e<br />

che affermino l’irrilevanza penale di un certo fatto), nonché dei valori che vengono in rilievo (il favor rei, in una<br />

prospettiva di tutela della libertà personale). In ogni caso, anche in esito alla pronuncia invocata, resterebbero possibili<br />

ulteriori mutamenti della giurisprudenza, anche in senso sfavorevole all’imputato (in particolare, nel senso di ritenere<br />

riconducibile ad una determinata ipotesi di reato un fatto già considerato ad essa estraneo). Un simile mutamento di<br />

giurisprudenza varrebbe, tuttavia, solo per il processo nel quale la questione controversa è stata discussa e assumerebbe<br />

un valore orientativo delle successive decisioni solo a partire dalla data di pubblicazione della sentenza che lo esprime.<br />

La questione sarebbe, da ultimo, rilevante nel giudizio a quo, giacché, nel caso di suo accoglimento, diverrebbe<br />

possibile esaminare la richiesta del pubblico ministero – che altrimenti andrebbe respinta – e rideterminare<br />

eventualmente la pena inflitta al condannato.<br />

2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello<br />

Stato, chiedendo che la questione venga dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza o, in subordine,<br />

manifestamente infondata.<br />

Ad avviso della difesa dello Stato, la questione sarebbe priva di rilevanza, giacché, nel caso sottoposto all’esame<br />

del giudice a quo, si sarebbe in presenza di una abolitio criminis legislativa, conseguente alla modifica dell’art. 6,<br />

comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 attuata dall’art. 1, comma 22, lettera h), della legge n. 94 del 2009. Il giudice<br />

rimettente potrebbe, pertanto, pronunciarsi sulla richiesta a lui rivolta applicando direttamente l’art. 673 cod. proc. pen.,<br />

senza alcuna necessità di sollevare una questione di legittimità costituzionale relativa alla mancata inclusione dei<br />

mutamenti giurisprudenziali tra le ipotesi prese in considerazione da detta norma.<br />

Nel merito, la questione sarebbe comunque priva di fondamento.<br />

L’art. 673 cod. proc. pen. prevede la revoca della sentenza di condanna (o del decreto penale di condanna)<br />

allorché la norma incriminatrice sia stata abrogata o dichiarata incostituzionale in epoca successiva al passaggio in<br />

giudicato. La disposizione richiederebbe presupposti rigorosi perché significative sono le conseguenze che scaturiscono<br />

dalla sua applicazione: il provvedimento di revoca comporta, infatti, la cessazione dell’esecuzione della sentenza e dei<br />

suoi effetti penali. Affinché un risultato di tale spessore possa prodursi sarebbe necessaria la sopravvenienza di un fatto<br />

modificativo «radicale», che non solo incida sulla norma che ha fondato il giudizio di condanna, ma che presenti, altresì<br />

– come nei casi attualmente previsti dalla disposizione censurata – i caratteri della generalità e della intrinseca e<br />

tendenziale stabilità, nell’assicurare l’irrilevanza penale di una determinata condotta. Il precedente giurisprudenziale,<br />

per converso, fa stato solo nel procedimento penale cui si riferisce e non è ulteriormente vincolante, potendo essere<br />

contraddetto da una decisione successiva, emessa da qualsiasi giudice della Repubblica.<br />

Né sarebbe possibile pervenire a conclusioni difformi con riguardo alle pronunce delle Sezioni unite della Corte<br />

di cassazione. Malgrado l’indubbio «prestigio» di cui godono tali pronunce, i principi di diritto da esse affermati restano<br />

suscettibili di modifica e di evoluzione, anche su impulso delle sezioni singole. Riconoscere una «così straordinaria vis<br />

espansiva» alla pronuncia di legittimità, sia pure delle Sezioni unite, non si concilierebbe col criterio di ragionevolezza<br />

e produrrebbe, altresì, un effetto di «ingessamento» della giurisprudenza, a torto sottovalutato dal rimettente.<br />

Una diversa soluzione non si giustificherebbe neppure sulla base delle decisioni della Corte di Strasburgo relative<br />

all’art. 7 della CEDU, cui fa riferimento il giudice a quo, trattandosi di pronunce che, pur valorizzando l’interpretazione<br />

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giurisprudenziale, la relegherebbero comunque «ad un ruolo eventuale e sub-legislativo, nel senso che deve essere<br />

comunque la lettura del precetto a segnare il confine tra ciò che è lecito e ciò che è sanzionato penalmente». In ogni<br />

caso, un eventuale diverso indirizzo della Corte europea dei diritti dell’uomo non potrebbe mai legittimare interventi<br />

contrastanti con l’art. 25 della nostra Costituzione, che, richiamando sempre e soltanto la legge formale, non<br />

consentirebbe soluzioni del genere di quella auspicata dal rimettente. L’unica eccezione sarebbe rappresentata dalle<br />

sentenze della Corte di giustizia che, interpretando in maniera autoritativa il diritto dell’Unione europea con effetto<br />

diretto per gli Stati membri e le relative giurisdizioni, incidano sul sistema normativo impedendo la configurabilità del<br />

reato. Solo in questo caso l’effetto risulterebbe paragonabile a quello della legge sopravvenuta.<br />

Esclusa, con ciò, la fondatezza della denuncia di violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., alla medesima<br />

conclusione dovrebbe pervenirsi anche in rapporto agli altri parametri costituzionali evocati dal giudice a quo.<br />

Quanto all’art. 3 Cost., nessuna lesione del principio di eguaglianza potrebbe scorgersi in presenza di un<br />

mutamento – sempre reversibile – degli orientamenti giurisprudenziali.<br />

Con riguardo all’art. 13 Cost., le «precise esigenze di libertà della persona», richiamate nell’ordinanza di<br />

rimessione, costituirebbero «un concetto vago e fumoso, difficilmente conciliabile con i profili esclusivamente tecnici<br />

della questione».<br />

In ordine, poi, all’art. 25, secondo comma, Cost., non pertinente sarebbe il richiamo del giudice a quo al<br />

«principio di (tendenziale) retroattività della normativa penale più favorevole», trattandosi di principio non<br />

costituzionalizzato, diversamente da quello che vieta la condanna in forza di una legge entrata in vigore<br />

successivamente alla commissione del fatto. Ciò, fermo restando che entrambi i principi si riferiscono comunque alla<br />

legge, e non già all’interpretazione che di essa venga data dai giudici.<br />

Da ultimo, non sarebbe neppure configurabile una lesione dell’art. 27, terzo comma, Cost. La finalità rieducativa<br />

della pena andrebbe, infatti, sempre riconosciuta a fronte di condotte che mantengano la loro rilevanza penale, almeno<br />

fino a quando tale rilevanza non venga esclusa da una legge abrogatrice o da una pronuncia della Corte costituzionale.<br />

Considerato in diritto<br />

1.– Il Tribunale di Torino dubita della legittimità costituzionale dell’articolo 673 del codice di procedura penale,<br />

nella parte in cui non include, tra le ipotesi di revoca della sentenza di condanna (nonché del decreto penale e della<br />

sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti), anche il «mutamento giurisprudenziale», determinato da<br />

una decisione delle Sezioni unite della Corte di cassazione, in base al quale il fatto giudicato non è previsto dalla legge<br />

come reato.<br />

Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata violerebbe, per questo verso, l’art. 117, primo comma, della<br />

Costituzione, ponendosi in contrasto con l’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle<br />

libertà fondamentali (d’ora in avanti: «CEDU»): disposizione che – secondo l’interpretazione datane dalla Corte<br />

europea dei diritti dell’uomo – da un lato, sancisce implicitamente anche il principio di retroattività dei trattamenti<br />

penali più favorevoli e, dall’altro, ingloba nel concetto di «legalità» in materia penale non solo il diritto di produzione<br />

legislativa, ma anche quello di derivazione giurisprudenziale; con conseguente possibile lesione anche degli artt. 5 e 6<br />

della CEDU, che tutelano, rispettivamente, il diritto alla libertà e alla sicurezza e il diritto all’equo processo.<br />

La norma denunciata violerebbe, altresì, l’art. 3 Cost. A fronte dell’esplicita valorizzazione, da parte dello stesso<br />

legislatore ordinario, della funzione nomofilattica della Corte di cassazione (art. 65 del regio decreto 30 gennaio 1941,<br />

n. 12, recante l’«Ordinamento giudiziario») e particolarmente di quella svolta dalle Sezioni unite di detta Corte (artt.<br />

610, comma 1, e 618, comma 1, cod. proc. pen.; art. 172 disp. att. cod. proc. pen.), la scelta di continuare a punire<br />

l’autore di un fatto che, secondo il «diritto vivente sopravvenuto», ricostruito con decisione resa dalle Sezioni unite, non<br />

è più previsto dalla legge come reato, risulterebbe manifestamente irragionevole e lesiva del principio di eguaglianza. In<br />

tal modo, persone che hanno commesso fatti identici rischierebbero di essere trattate in modo radicalmente differenziato<br />

per evenienze puramente casuali, quale il semplice ordine di trattazione dei processi.<br />

La soluzione normativa censurata si porrebbe, altresì, in contrasto «con il principio di (tendenziale) retroattività<br />

della normativa penale più favorevole», desumibile dagli artt. 3 e 25, secondo comma, Cost., e violerebbe anche l’art.<br />

13 Cost., privilegiando ragioni di «tutela dell’ordinamento» – quali quelle di certezza del diritto e di stabilità delle<br />

decisioni – rispetto a «precise esigenze di libertà della persona».<br />

Risulterebbe leso, infine, l’art. 27, terzo comma, Cost., giacché, nell’ipotesi considerata, l’esecuzione della pena<br />

rimarrebbe priva di scopo: né la funzione retributiva, né quella di prevenzione generale o speciale, né, ancora, la<br />

rieducazione del condannato avrebbero, infatti, alcuna ragion d’essere a fronte della commissione di un fatto che, alla<br />

luce dell’assetto giurisprudenziale sopravvenuto, deve considerarsi privo di rilevanza penale.<br />

2.– Va preliminarmente rilevato come il problema esegetico, sorto nel procedimento in cui si è proposto il<br />

quesito di costituzionalità, attenga all’individuazione dei confini soggettivi di operatività della contravvenzione di<br />

omessa esibizione di documenti, prevista dall’art. 6, comma 3, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle<br />

disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero).<br />

Nel vigore del testo originario della norma, le Sezioni unite della Corte di cassazione – componendo il contrasto<br />

di giurisprudenza insorto sul punto – avevano ritenuto che del reato potessero rispondere anche gli stranieri illegalmente<br />

presenti nel territorio dello Stato. La disposizione puniva, infatti, con le pene congiunte dell’arresto e dell’ammenda gli<br />

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stranieri che, «senza giustificato motivo», non esibissero, a richiesta degli ufficiali e degli agenti di pubblica sicurezza,<br />

due categorie di documenti, in via alternativa fra loro: il passaporto o altro documento di identificazione, «ovvero» il<br />

permesso o la carta di soggiorno. La circostanza che, alla luce di tale dettato normativo, l’esibizione di uno qualsiasi dei<br />

documenti in questione fosse sufficiente ad escludere il reato, dimostrava – secondo le Sezioni unite – come<br />

l’incriminazione mirasse unicamente a permettere la sicura identificazione dello straniero, e non anche a verificarne la<br />

regolare presenza nel territorio dello Stato: prospettiva nella quale la fattispecie appariva riferibile anche al<br />

soggiornante irregolare, cui non era preclusa la possibilità – ancorché non in possesso, per detta qualità, del permesso o<br />

della carta di soggiorno – di esibire il passaporto o altro documento di identificazione (Cass., sez. un., 29 ottobre 2003-<br />

27 novembre 2003, n. 45801).<br />

La riscrittura della norma incriminatrice, successivamente operata dalla legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni<br />

in materia di sicurezza pubblica), ha generato, peraltro, immediati dubbi in ordine alla perdurante validità della<br />

conclusione ora ricordata: problema che la Corte di cassazione, con alcune decisioni delle sezioni singole (e, in<br />

particolare, della prima Sezione), ha inizialmente risolto in senso affermativo, sul presupposto che le modifiche<br />

apportate alla descrizione della condotta incriminata fossero di carattere «meramente formale» (Cass., sez. I, 30<br />

settembre 2010-18 ottobre 2010, n. 37060; Cass., sez. I, 20 gennaio 2010-16 febbraio 2010, n. 6343; Cass., sez. I, 23<br />

settembre 2009-18 novembre 2009, n. 44157).<br />

Di contrario avviso si sono mostrate, tuttavia, le Sezioni unite, alle quali la prima Sezione, con ordinanza dell’11<br />

novembre 2010, ha rimesso la relativa questione di diritto «al fine di prevenire un contrasto giurisprudenziale con<br />

precedenti pronunce della stessa sezione». Le Sezioni unite hanno, infatti, osservato come, nella nuova descrizione della<br />

fattispecie (ora costruita in chiave di inottemperanza ad un ordine), l’avvenuta sostituzione della disgiuntiva «ovvero»<br />

con la congiunzione «e», relativamente alle due categorie di documenti da esibire, renda palese che, al fine di<br />

adempiere il precetto, è necessaria l’esibizione congiunta tanto dei documenti di identificazione che del titolo di<br />

soggiorno: donde un mutamento della ratio della norma, non più legata all’identificazione dello straniero, ma alla<br />

verifica della sua legittima presenza nel territorio nazionale. Ricostruita in tali termini, la figura criminosa non sarebbe<br />

più applicabile al soggiornante irregolare, il quale, proprio per tale sua condizione, non può essere in possesso del<br />

permesso di soggiorno: conclusione a sostegno della quale militerebbero, altresì, argomenti di ordine sistematico,<br />

correlati alle ulteriori modifiche al testo unico in materia di immigrazione introdotte dalla stessa legge n. 94 del 2009.<br />

La novella legislativa del 2009 avrebbe, di conseguenza, comportato l’abolizione, ai sensi dell’art. 2, secondo comma,<br />

del codice penale, della fattispecie criminosa preesistente, per la parte in cui si indirizzava agli stranieri in posizione<br />

irregolare (Cass., sez. un., 24 febbraio 2011-27 aprile 2011, n. 16453).<br />

3.– Ciò premesso, l’eccezione di inammissibilità della questione per difetto di rilevanza – sollevata<br />

dall’Avvocatura dello Stato sul rilievo che nella specie si sarebbe di fronte ad una abolitio criminis dipendente da<br />

successione di leggi nel tempo, già rientrante nell’ambito di operatività dell’art. 673 cod. proc. pen. (l’avvenuta<br />

modifica dell’art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 ad opera della legge n. 94 del 2009) – non è fondata.<br />

Il giudice a quo è chiamato, in effetti, a pronunciarsi sull’istanza di revoca parziale di una sentenza di<br />

applicazione della pena su richiesta delle parti, formulata dal pubblico ministero sulla base del principio affermato dalle<br />

Sezioni unite nella citata sentenza n. 16453 del 2011. Come si sottolinea, peraltro, nell’ordinanza di rimessione, il fatto<br />

giudicato con la sentenza della cui revoca si discute è stato commesso in data successiva a quella di entrata in vigore<br />

della legge n. 94 del 2009 e, dunque, in un momento nel quale la norma incriminatrice di cui all’art. 6, comma 3, del<br />

d.lgs. n. 286 del 1998 risultava già formulata nei termini attuali: il che esclude che la successione tra il vecchio e il<br />

nuovo testo di detta norma possa venire in considerazione, come fenomeno atto a rendere operante il precetto dell’art. 2,<br />

secondo comma, cod. pen., al quale la disposizione processuale dell’art. 673 cod. proc. pen. è, per questo verso,<br />

correlata («nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore» – s’intende, alla commissione di<br />

tale fatto – «non costituisce reato e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali»). Il problema<br />

dirimente, nella prospettiva del giudice a quo, è unicamente quello del modo in cui la norma incriminatrice già vigente<br />

al momento della realizzazione del fatto, e tuttora in vigore, debba essere interpretata: se, cioè, essa si rivolga o meno<br />

anche agli stranieri illegalmente soggiornanti, a prescindere da quale fosse il regime operante anteriormente alla novella<br />

del 2009.<br />

Ne consegue che non può ritenersi implausibile l’assunto sulla cui base il giudice a quo reputa rilevante la<br />

questione sollevata: ossia che la richiesta di revoca sottoposta al suo vaglio si basa sulla successione nel tempo, non già<br />

di leggi, ma di diverse interpretazioni giurisprudenziali della medesima norma di legge (l’esegesi più lata, quanto ai<br />

soggetti attivi, del novellato art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, inizialmente adottata dalle sezioni singole della<br />

Corte di cassazione – cui risulta allineata la sentenza revocanda – e quella di segno restrittivo, in seguito accolta dalle<br />

Sezioni unite).<br />

4.– Neppure può ravvisarsi una ragione di inammissibilità della questione nel fatto che il giudice a quo non si sia<br />

premurato di verificare se – una volta esclusa l’applicabilità del vigente art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 agli<br />

stranieri irregolarmente soggiornanti – l’inottemperanza da parte di tali soggetti all’ordine di esibizione dei documenti<br />

di identificazione, anziché restare priva di rilievo penale, possa eventualmente integrare altra fattispecie criminosa più<br />

generale, tuttora presente nell’ordinamento: in specie, quella risultante dalla disposizione combinata dell’art. 294 del<br />

regio decreto 6 maggio 1940, n. 635 (Approvazione del regolamento per l’esecuzione del testo unico 18 giugno 1931, n.<br />

773 delle leggi di pubblica sicurezza) – secondo cui «la carta d’identità od i titoli equipollenti devono essere esibiti ad<br />

ogni richiesta degli ufficiali e degli agenti di pubblica sicurezza» – e dell’art. 221 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773<br />

39


(Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), che punisce la violazione del predetto precetto con le<br />

pene alternative dell’arresto o dell’ammenda. Ove tale ipotesi risultasse valida, verrebbe, in effetti, meno il presupposto<br />

di operatività dell’art. 673 cod. proc. pen., essendosi al cospetto, non di una abolitio criminis, ma di una cosiddetta<br />

abrogatio sine abolitione, rientrante nel paradigma della semplice successione di leggi modificatrici, in ordine alla quale<br />

l’applicazione retroattiva della lex mitior (quale sarebbe la fattispecie prevista dalla legislazione in materia di pubblica<br />

sicurezza dianzi ricordata) incontra, in base all’art. 2, quarto comma, cod. pen., il limite del giudicato.<br />

Al riguardo, è peraltro assorbente la considerazione che, con la questione sollevata, il giudice a quo chiede di<br />

estendere il meccanismo di revoca disciplinato dall’art. 673 cod. proc. pen. al mutamento di giurisprudenza conseguente<br />

a una decisione delle Sezioni unite della Corte di cassazione, la quale affermi che il fatto già giudicato non è previsto<br />

dalla legge come reato: e ciò – come meglio si chiarirà più avanti – senza possibili margini di scostamento del giudice<br />

dell’esecuzione dalla soluzione interpretativa adottata dall’organo della nomofilachia.<br />

Nella specie, la citata sentenza delle Sezioni unite n. 16543 del 2011 – pur senza affrontare il problema dianzi<br />

evidenziato – ha comunque affermato, in termini inequivoci, che in rapporto all’omessa esibizione dei documenti da<br />

parte dello straniero illegalmente soggiornante è intervenuta un’abolitio criminis: il che, stante la formulazione del<br />

petitum, basta, dunque, a rendere rilevante la questione sollevata.<br />

5.– Corretto – e comunque rispondente alla corrente lettura della norma censurata da parte della Corte di<br />

cassazione – appare anche il presupposto ermeneutico su cui poggia il quesito di costituzionalità, rappresentato<br />

dall’estraneità del fenomeno del «mutamento giurisprudenziale» all’area applicativa dell’istituto della «revoca della<br />

sentenza per abolizione del reato», quale attualmente delineato dall’art. 673 cod. proc. pen.<br />

Di riflesso alle norme sostanziali di cui agli artt. 2, secondo comma, cod. pen. e 30, quarto comma, della legge 11<br />

marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), ma con previsione che ne<br />

muta la prospettiva d’intervento – facendo incidere la valenza «demolitoria» dell’abolitio criminis direttamente sulla<br />

sentenza del giudice della cognizione, anziché sulla sola esecuzione di essa (sentenza n. 96 del 1996) – l’art. 673 cod.<br />

proc. pen. stabilisce, infatti, al comma 1, che, nel caso di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale<br />

della norma incriminatrice, il giudice dell’esecuzione revoca la sentenza o il decreto penale di condanna (formula che<br />

ricomprende, secondo una lettura ormai pacifica, anche la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti),<br />

dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adottando i provvedimenti conseguenti. La norma<br />

censurata prende, dunque, in considerazione due fenomeni, entrambi riconducibili, in senso ampio, al paradigma<br />

dell’«abolizione del reato», richiamato nella rubrica: per effetto dell’intervento del legislatore o in seguito alla<br />

declaratoria di illegittimità costituzionale da parte di questa Corte, la fattispecie incriminatrice, in relazione alla quale è<br />

stata emessa la pronuncia divenuta irrevocabile, viene, infatti, espunta dall’ordinamento giuridico.<br />

La giurisprudenza di legittimità ha ritenuto estensibile l’istituto anche al caso di sopravvenienza di una sentenza<br />

della Corte di giustizia dell’Unione europea che affermi l’incompatibilità della norma incriminatrice interna con il<br />

diritto dell’Unione avente effetto diretto per gli Stati membri, stante la sostanziale equiparabilità di detta pronuncia – la<br />

quale impedisce in via generale ai giudici nazionali di fare applicazione della norma considerata – ad una legge<br />

sopravvenuta, con portata abolitrice del reato (nella giurisprudenza di questa Corte, sull’idoneità delle sentenze della<br />

Corte di giustizia a costituire ius superveniens, ex plurimis, ordinanze n. 311 del 2011, n. 241 del 2005 e n. 125 del<br />

2004).<br />

La stessa giurisprudenza di legittimità ha, per converso, escluso che possano collocarsi nel perimetro applicativo<br />

dell’art. 673 cod. proc. pen. fenomeni attinenti alle semplici dinamiche interpretative della norma incriminatrice, quali il<br />

mutamento di giurisprudenza e la risoluzione di contrasti giurisprudenziali, ancorché conseguenti a decisioni delle<br />

Sezioni unite della Corte di cassazione. Si è rilevato, infatti, che un orientamento giurisprudenziale, per quanto<br />

autorevole, non ha la stessa efficacia delle ipotesi previste dalla norma censurata, stante il difetto di vincolatività della<br />

decisione rispetto a quelle dei giudici chiamati ad occuparsi di fattispecie analoghe: circostanza che impedisce di<br />

considerare i fenomeni dianzi indicati alla stregua di uno ius novum.<br />

6.– Il giudice a quo reputa, tuttavia, costituzionalmente necessaria una modifica di tale assetto, chiedendo<br />

segnatamente a questa Corte di aggiungere al novero dei presupposti di operatività della revoca anche il «mutamento<br />

giurisprudenziale – intervenuto con decisione delle Sezioni Unite della Corte di cassazione – in base al quale il fatto<br />

giudicato non è previsto dalla legge penale come reato».<br />

7.– Se pure ammissibile per le ragioni dianzi esposte, la questione non è, tuttavia, nel merito, fondata.<br />

La prima e fondamentale censura svolta dal rimettente – quella di violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.,<br />

per contrasto con l’art. 7 della CEDU, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo – trova il suo presupposto<br />

nell’orientamento di questa Corte, costante a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, in forza del quale le norme<br />

della CEDU, nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, specificamente istituita per dare ad<br />

esse interpretazione e applicazione, integrano, quali «norme interposte», il parametro costituzionale evocato, nella parte<br />

in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali (ex plurimis,<br />

tra le ultime, sentenze n. 78 del 2012, n. 303, n. 236 e n. 113 del 2011): ciò, peraltro, nei limiti in cui la norma<br />

convenzionale, come interpretata dalla Corte europea – la quale si pone pur sempre a livello sub-costituzionale – non<br />

venga a trovarsi in conflitto con altre conferenti previsioni della Costituzione italiana (sentenze n. 303, n. 236 e n. 113<br />

del 2011, n. 93 del 2010, n. 317 e n. 311 del 2009), e ferma restando, altresì, la spettanza a questa Corte di un «margine<br />

di apprezzamento e di adeguamento», che – nel rispetto della «sostanza» della giurisprudenza di Strasburgo – le<br />

consenta comunque di tenere conto delle peculiarità dell’ordinamento in cui l’interpretazione della Corte europea è<br />

40


destinata ad inserirsi (sentenze n. 303 e n. 236 del 2011, n. 311 del 2009).<br />

Nella specie, il rimettente individua la «norma convenzionale interposta» – con la quale la norma interna<br />

denunciata si porrebbe in asserito contrasto, non componibile per via d’interpretazione – combinando fra loro due<br />

distinte affermazioni della Corte europea, riferite all’art. 7, paragrafo 1, della CEDU (ove si stabilisce che «nessuno può<br />

essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato<br />

secondo il diritto interno o internazionale», e che, «parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella<br />

applicabile al momento in cui il reato è stato commesso»).<br />

La prima affermazione – espressiva di un mutamento di indirizzo intervenuto solo in tempi recenti nella<br />

giurisprudenza della Corte di Strasburgo – è quella per cui la citata norma convenzionale, malgrado il suo tenore<br />

letterale (evocativo del solo divieto di applicazione retroattiva della norma penale sfavorevole), sancisce implicitamente<br />

– in aggiunta al più generale principio di legalità dei delitti e delle pene (nullum crimen nulla poena sine lege), con i<br />

corollari dell’esigenza di determinatezza delle previsioni punitive e del divieto di analogia in malam partem – anche il<br />

principio di retroattività della legge penale più mite (Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, 17 settembre<br />

2009, Scoppola contro Italia; in senso conforme, sentenze 27 aprile 2010, Morabito contro Italia e 7 giugno 2011,<br />

Agrati ed altri contro Italia).<br />

L’altra affermazione – che riflette, per contro, un orientamento della Corte europea da tempo consolidato – è<br />

quella in virtù della quale la nozione di «diritto» («law»), utilizzata nella norma della Convenzione, deve considerarsi<br />

comprensiva tanto del diritto di produzione legislativa che del diritto di formazione giurisprudenziale. Tale lettura<br />

«sostanziale», e non già «formale», del concetto di «legalità penale», se pure stimolata dalla necessità di tenere conto<br />

dei diversi sistemi giuridici degli Stati parte – posto che il riferimento alla sola legge di origine parlamentare avrebbe<br />

limitato la tutela derivante dalla Convenzione rispetto agli ordinamenti di common law – è stata ritenuta valevole dalla<br />

Corte europea anche in rapporto agli ordinamenti di civil law, alla luce del rilevante apporto che pure in essi la<br />

giurisprudenza fornisce all’individuazione dell’esatta portata e all’evoluzione del diritto penale (tra le altre, sentenze 8<br />

dicembre 2009, Previti contro Italia; Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia; 20 gennaio 2009, Sud<br />

Fondi s.r.l. ed altri contro Italia; Grande Camera, 24 aprile 1990, Kruslin contro Francia).<br />

Proprio tale seconda affermazione dimostra, peraltro, come, nell’interpretazione offerta dalla Corte di Strasburgo,<br />

il principio convenzionale di legalità penale risulti meno comprensivo di quello accolto nella Costituzione italiana (e, in<br />

generale, negli ordinamenti continentali). Ad esso resta, infatti, estraneo il principio – di centrale rilevanza, per<br />

converso, nell’assetto interno – della riserva di legge, nell’accezione recepita dall’art. 25, secondo comma, Cost.;<br />

principio che, secondo quanto reiteratamente puntualizzato da questa Corte, demanda il potere di normazione in materia<br />

penale – in quanto incidente sui diritti fondamentali dell’individuo, e segnatamente sulla libertà personale –<br />

all’istituzione che costituisce la massima espressione della rappresentanza politica: vale a dire al Parlamento, eletto a<br />

suffragio universale dall’intera collettività nazionale (sentenze n. 394 del 2006 e n. 487 del 1989), il quale esprime,<br />

altresì, le sue determinazioni all’esito di un procedimento – quello legislativo – che implica un preventivo confronto<br />

dialettico tra tutte le forze politiche, incluse quelle di minoranza, e, sia pure indirettamente, con la pubblica opinione.<br />

Al di là, peraltro, dall’evidenziato scarto di tutela – che pure preclude una meccanica trasposizione<br />

nell’ordinamento interno della postulata equiparazione tra legge scritta e diritto di produzione giurisprudenziale – risulta<br />

assorbente, ai presenti fini, la considerazione che la Corte europea non risulta avere mai, fino ad oggi, enunciato il<br />

corollario che il giudice a quo vorrebbe far discendere dalla combinazione tra i due asserti dianzi ricordati: e, cioè, che,<br />

in base all’art. 7, paragrafo 1, della CEDU, un mutamento di giurisprudenza in senso favorevole al reo imponga la<br />

rimozione delle sentenze di condanna passate in giudicato contrastanti col nuovo indirizzo (principio che – se valido –<br />

dovrebbe, peraltro, operare non soltanto in rapporto ai mutamenti di giurisprudenza che escludano la rilevanza penale<br />

del fatto – come mostra di ritenere il rimettente – ma anche a quelli che si limitino a rendere più mite la risposta<br />

punitiva, negando, ad esempio, l’applicabilità di circostanze aggravanti o riconducendo il fatto ad un paradigma<br />

sanzionatorio meno grave).<br />

Innanzitutto, la Corte di Strasburgo non ha mai sinora riferito, in modo specifico, il principio di retroattività della<br />

lex mitior ai mutamenti di giurisprudenza. I giudici europei si sono occupati di questi ultimi – oltre che nella generale<br />

prospettiva della verifica dei requisiti di «accessibilità» e «prevedibilità» della legge penale, ritenuti insiti nella<br />

previsione dell’art. 7, paragrafo 1, della CEDU – solo con riferimento al diverso principio dell’irretroattività della<br />

norma sfavorevole: ritenendo, in particolare, contraria alla norma convenzionale l’applicazione a fatti anteriormente<br />

commessi di un indirizzo giurisprudenziale estensivo della sfera operativa di una fattispecie criminosa, ove la nuova<br />

interpretazione non rappresenti un’evoluzione ragionevolmente prevedibile della giurisprudenza anteriore (su tale<br />

premessa, per soluzioni opposte nei casi esaminati, Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenze 10 ottobre 2006,<br />

Pessino contro Francia e 22 novembre 1995, S.W. contro Regno Unito; nonché, più di recente, sentenza 10 luglio 2012,<br />

Del Rio Prada contro Spagna, nei limiti in cui i principi interpretativi siano applicabili al nostro ordinamento).<br />

È, peraltro, da escludere – contrariamente a quanto mostra di ritenere il giudice a quo – che dalle conclusioni<br />

raggiunte a proposito del principio di irretroattività della norma sfavorevole possa automaticamente ricavarsi l’esigenza<br />

“convenzionale” di rimuovere, in nome del principio di retroattività della lex mitior, le decisioni giudiziali definitive<br />

non sintoniche con il sopravvenuto mutamento giurisprudenziale in bonam partem. I due principi hanno, infatti, diverso<br />

fondamento. L’irretroattività della norma penale sfavorevole rappresenta uno strumento di garanzia del cittadino contro<br />

persecuzioni arbitrarie, espressivo dell’esigenza di «calcolabilità» delle conseguenze giuridico-penali della propria<br />

condotta, quale condizione necessaria per la libera autodeterminazione individuale: esigenza con la quale contrasta un<br />

41


successivo mutamento peggiorativo “a sorpresa” del trattamento penale della fattispecie. Nessun collegamento con la<br />

predetta libertà ha, per converso, il principio di retroattività della norma più favorevole, in quanto la lex mitior<br />

sopravviene alla commissione del fatto, cui l’autore si era liberamente e consapevolmente autodeterminato in base al<br />

panorama normativo (e giurisprudenziale) dell’epoca: trovando detto principio fondamento piuttosto in quello di<br />

eguaglianza, che richiede, in linea di massima, di estendere la modifica mitigatrice della legge penale, espressiva di un<br />

mutato apprezzamento del disvalore del fatto, anche a coloro che hanno posto in essere la condotta in un momento<br />

anteriore (sentenza n. 394 del 2006; analogamente sentenze n. 236 del 2011 e n. 215 del 2008).<br />

Con riguardo al carattere non assoluto che, in tale prospettiva, il principio della retroattività in mitius resta<br />

suscettibile di assumere, occorre d’altra parte osservare – come già in altra occasione (sentenza n. 236 del 2011) – che<br />

la Corte di Strasburgo non soltanto non ha inequivocamente escluso la possibilità che, in presenza di particolari<br />

situazioni, il principio in questione subisca delle deroghe, ma ha posto, anzi, un espresso limite alla sua operatività, di<br />

segno contrastante rispetto alla ricostruzione prospettata dal giudice a quo. Secondo i giudici europei, infatti, il principio<br />

della retroattività della lex mitior, ricavabile dall’art. 7, paragrafo 1, della CEDU, «si traduce nella norma per cui, se la<br />

legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della<br />

pronuncia definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli» (Corte<br />

europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, paragrafo 109). Facendo<br />

riferimento alle (sole) «leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia definitiva», la Corte europea ha, dunque,<br />

escluso che il principio in questione sia destinato ad operare oltre il limite del giudicato, diversamente da quanto<br />

prevede, nel nostro ordinamento, l’art. 2, secondo e terzo comma, cod. pen. (sentenza n. 236 del 2011).<br />

La limitazione ora indicata non potrebbe evidentemente non valere – nella prospettiva del giudice a quo – anche<br />

in rapporto ai mutamenti di giurisprudenza. La stessa Corte di Strasburgo ha avuto modo, del resto, di rilevare, in<br />

termini generali, come, nel caso di avvenuta composizione di un contrasto di giurisprudenza da parte di un tribunale<br />

supremo nazionale, l’esigenza di assicurare la parità di trattamento non possa essere utilmente invocata al fine di<br />

travolgere il principio di intangibilità della res iudicata: infatti, «intendere il principio di eguaglianza nell’applicazione<br />

della legge nel senso che ciò che risulta dalle decisioni posteriori implica la revisione di tutte le decisioni definitive<br />

anteriori che risultino contraddittorie con quelle più recenti sarebbe contrario al principio di sicurezza giuridica» (Corte<br />

europea dei diritti dell’uomo, 28 giugno 2007, Perez Arias contro Spagna, sempre nella misura in cui i principi<br />

interpretativi siano applicabili al nostro ordinamento).<br />

Indipendentemente, dunque, dalla verifica di compatibilità con il principio della riserva di legge, sancito dall’art.<br />

25, secondo comma, Cost. – sulla cui esigenza pone l’accento l’Avvocatura dello Stato nelle sue difese – si deve<br />

conclusivamente rilevare, ancor prima, che l’ipotetica «norma convenzionale interposta», chiamata a fungere da<br />

parametro di verifica della legittimità costituzionale della disposizione denunciata, risulta in realtà priva di attuale<br />

riscontro nella giurisprudenza della Corte europea.<br />

8.– Inconferenti rispetto alla fattispecie in esame si palesano, poi, i concorrenti riferimenti agli artt. 5 e 6 della<br />

CEDU addotti dal giudice a quo.<br />

Quanto all’asserita lesione dell’art. 5, essa viene prospettata dal rimettente richiamando – alla stregua della<br />

sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione 21 gennaio 2010-13 maggio 2010, n. 18288, relativa al cosiddetto<br />

«giudicato esecutivo» (ove, peraltro, il richiamo assumeva una diversa valenza) – la pronuncia della Corte di Strasburgo<br />

che ha ravvisato la lesione del diritto alla libertà personale e alla sicurezza, tutelato dalla citata norma convenzionale, in<br />

una fattispecie di ritardata concessione dell’indulto ad un condannato a causa di dubbi interpretativi circa i termini di<br />

operatività del provvedimento di clemenza (Corte europea dei diritti dell’uomo, 10 luglio 2003, Grava contro Italia).<br />

Difetta, peraltro – né il rimettente l’ha comunque posta in evidenza – una qualsivoglia analogia tra il caso esaminato<br />

dalla Corte europea e quello oggetto del giudizio interno: analogia il cui riscontro rappresenta un presupposto<br />

necessario per “importare” il principio affermato in sede europea nell’ambito del controllo di legittimità costituzionale<br />

(sentenza n. 239 del 2009).<br />

Con riguardo, poi, all’ipotizzato contrasto con l’art. 6 della CEDU, il giudice a quo richiama l’orientamento della<br />

Corte di Strasburgo secondo il quale la presenza di divergenze profonde e persistenti nella giurisprudenza di una corte<br />

suprema nazionale circa l’interpretazione di una determinata norma legislativa, non superabili o in fatto non superate<br />

tramite il ricorso a meccanismi che permettano di comporre tali contrasti, è suscettibile di tradursi in una violazione del<br />

diritto all’equo processo, stante l’ostacolo che ne può derivare ad una efficace difesa in giudizio (in questo senso, oltre<br />

alla sentenza 2 luglio 2009, Iordan Iordanov contro Bulgaria, citata dal giudice a quo, sentenze 24 giugno 2009, Tudor<br />

Tudor contro Romania e 2 dicembre 2007, Beian contro Romania, di nuovo nella misura in cui i principi interpretativi<br />

siano applicabili al nostro ordinamento).<br />

Anche in questo caso, si tratta, peraltro, di fattispecie non comparabile con quella oggetto dell’odierno scrutinio.<br />

La revoca della sentenza per abolizione del reato è istituto chiaramente distinto dai meccanismi di composizione dei<br />

contrasti di giurisprudenza, che la Corte di Strasburgo ha ritenuto necessari ai fini dell’attuazione della garanzia<br />

convenzionale in questione. Nella prospettiva della Corte europea, d’altra parte, il diritto di difesa è suscettibile di<br />

essere pregiudicato dai contrasti “sincronici” di giurisprudenza, che rendano incerta la valenza della norma<br />

incriminatrice nel momento in cui si svolge il processo, per la compresenza di più linee interpretative tra loro<br />

confliggenti: non dai contrasti “diacronici”, quale quello avuto di mira dal rimettente, legati alla successione di un<br />

orientamento interpretativo ad un altro, a processo concluso.<br />

9.– Parimenti infondate risultano le censure di violazione del principio di eguaglianza, anche sotto il profilo della<br />

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agionevolezza (art. 3 Cost.).<br />

Contrariamente a quanto assume il giudice a quo, non può ritenersi manifestamente irrazionale che il legislatore,<br />

per un verso, valorizzi, anche in ossequio ad esigenze di ordine costituzionale, la funzione nomofilattica della Corte di<br />

cassazione, e delle Sezioni unite in particolare – postulando, con ciò, che la giurisprudenza successiva si uniformi<br />

«tendenzialmente» alle decisioni di queste ultime – e, dall’altro, ometta di prevedere la revoca delle condanne definitive<br />

pronunciate in relazione a fatti che, alla stregua di una sopravvenuta diversa decisione dell’organo della nomofilachia,<br />

non sono previsti dalla legge come reato, col risultato di consentire trattamenti radicalmente differenziati di autori di<br />

fatti analoghi.<br />

L’orientamento espresso dalla decisione delle Sezioni unite “aspira” indubbiamente ad acquisire stabilità e<br />

generale seguito: ma – come lo stesso rimettente riconosce – si tratta di connotati solo «tendenziali», in quanto basati su<br />

una efficacia non cogente, ma di tipo essenzialmente “persuasivo”. Con la conseguenza che, a differenza della legge<br />

abrogativa e della declaratoria di illegittimità costituzionale, la nuova decisione dell’organo della nomofilachia resta<br />

potenzialmente suscettibile di essere disattesa in qualunque tempo e da qualunque giudice della Repubblica, sia pure<br />

con l’onere di adeguata motivazione; mentre le stesse Sezioni unite possono trovarsi a dover rivedere le loro posizioni,<br />

anche su impulso delle sezioni singole, come in più occasioni è in fatto accaduto.<br />

In questa logica si giustifica, dunque, il mancato riconoscimento all’overruling giurisprudenziale favorevole della<br />

capacità di travolgere il principio di intangibilità della res iudicata, espressivo dell’esigenza di certezza dei rapporti<br />

giuridici esauriti: esigenza il cui fondamentale rilievo – come lo stesso rimettente ricorda – è ampiamente riconosciuto<br />

anche nell’ambito dell’Unione europea (Corte di giustizia, sentenze 22 dicembre 2010, C-507/08, Commissione contro<br />

Repubblica slovacca; 3 settembre 2009, C-2/08, Fallimento Olimpiclub s.r.l.; 16 marzo 2006, C-234/04, Kapferer). Al<br />

fine di porre nel nulla ciò che, di per sé, dovrebbe rimanere intangibile – il giudicato, appunto – il legislatore esige, non<br />

irragionevolmente, una vicenda modificativa che determini la caduta della rilevanza penale di una determinata condotta<br />

con connotati di generale vincolatività e di intrinseca stabilità (salvo, nel caso di legge abrogatrice, un eventuale nuovo<br />

intervento legislativo di segno ripristinatorio): connotati che la vicenda considerata dal giudice a quo, di contro, non<br />

possiede.<br />

Né giova alla tesi del rimettente il riferimento alle recenti pronunce della giurisprudenza di legittimità che hanno<br />

ritenuto rilevanti i mutamenti di giurisprudenza al fine del superamento del cosiddetto «giudicato esecutivo» e del<br />

cosiddetto «giudicato cautelare» (rispettivamente, la già citata sentenza delle Sezioni unite n. 18288 del 2010 – sulla<br />

quale il giudice a quo ricalca larga parte delle proprie censure – e la sentenza della seconda Sezione 6 maggio 2010-25<br />

maggio 2010, n. 19716). Dette pronunce non hanno mancato, infatti, di porre adeguatamente in risalto il netto iato che<br />

separa i predetti istituti dal giudicato vero e proprio: discutendosi, in quelle ipotesi, di semplici preclusioni processuali<br />

inerenti a decisioni rese rebus sic stantibus, volte a prevenire la defatigante reiterazione di istanze con il medesimo<br />

oggetto al giudice dell’esecuzione o della cautela, rispetto alle quali si tratta solo di stabilire se il riferimento al mutato<br />

orientamento della giurisprudenza possa configurare o meno un nuovo argomento di diritto.<br />

Parimenti non probante è il riferimento del rimettente alla rilevanza che questa Corte attribuisce al cosiddetto<br />

«diritto vivente» ai fini dell’individuazione dell’oggetto dello scrutinio di legittimità costituzionale, anche quando si<br />

discuta di norme penali. Tale soluzione risponde ad una esigenza di rispetto del ruolo spettante ai giudici comuni – e<br />

segnatamente all’organo giudiziario depositario della funzione di nomofilachia – nell’attività interpretativa: in presenza<br />

di un indirizzo giurisprudenziale costante o, comunque, ampiamente condiviso – specie se consacrato in una decisione<br />

delle Sezioni unite della Corte di cassazione – la Corte costituzionale assume la disposizione censurata nel significato in<br />

cui essa attualmente «vive» nell’applicazione giudiziale. Ciò nondimeno, questa Corte ha comunque rimarcato che,<br />

pure in presenza di un orientamento giurisprudenziale che abbia acquisito i caratteri del «diritto vivente», il giudice<br />

rimettente ha soltanto la facoltà, e non già l’obbligo di uniformarsi ad esso (sentenza n. 91 del 2004).<br />

10.– Lungi, dunque, dal risultare necessario al fine di rimuovere una presunta contraddizione del sistema,<br />

sarebbe, viceversa, proprio l’intervento richiesto dal giudice a quo a risultare foriero di aporie, tenuto conto delle<br />

caratteristiche dell’istituto che dovrebbe essere attinto dall’auspicata pronuncia additiva di questa Corte.<br />

L’art. 673 cod. proc. pen. attribuisce, infatti, natura obbligatoria all’intervento del giudice dell’esecuzione, in<br />

presenza d’una abolitio criminis. Nel caso di accoglimento del petitum, tale tratto di obbligatorietà si comunicherebbe<br />

anche all’ipotesi aggiuntiva di revoca prefigurata dal rimettente (com’è, del resto, nella logica delle sue censure): con la<br />

conseguenza che il giudice dell’esecuzione sarebbe senz’altro tenuto a rimuovere il giudicato di condanna contrastante<br />

col dictum dell’organo della nomofilachia, anche qualora non lo condividesse.<br />

In questo modo, tuttavia, la richiesta pronuncia additiva comporterebbe una vera e propria sovversione “di<br />

sistema”, venendo a creare un generale rapporto di gerarchia tra le Sezioni unite e i giudici dell’esecuzione, al di fuori<br />

del giudizio di rinvio: con risultati, peraltro, marcatamente disarmonici, stante la estraneità della regola dello stare<br />

decisis alle coordinate generali dell’ordinamento. In sede esecutiva, il giudice sarebbe tenuto, infatti, ad uniformarsi alla<br />

decisione “favorevole” delle Sezioni unite, revocando il giudicato di condanna. Di contro, il giudice della cognizione, il<br />

quale si trovasse a giudicare ex novo un fatto analogo, non avrebbe il medesimo obbligo, e potrebbe quindi disattendere<br />

– sia pure sulla base di adeguata motivazione – la soluzione adottata dall’organo della nomofilachia (provocando<br />

eventualmente, con ciò, un nuovo mutamento di giurisprudenza). Sarebbe, tuttavia, illogico che il vincolo di<br />

adeguamento alle Sezioni unite valga in presenza di un giudicato di segno contrario (magari sorretto da ampie<br />

argomentazioni sul punto specifico della rilevanza penale del fatto) e non operi, invece, allorché il giudicato deve<br />

ancora formarsi. Né varrebbe obiettare che – nella prospettiva del giudice a quo – stante l’“affidamento” generato nei<br />

43


consociati dalla decisione delle Sezioni unite, il giudice della cognizione che si discosti da quest’ultima non potrebbe<br />

comunque condannare l’imputato, in virtù della ipotizzata estensione del principio di irretroattività anche alla nuova<br />

interpretazione sfavorevole della norma penale. Tale obiezione potrebbe – in ipotesi – risultare appropriata se il giudizio<br />

vertesse su un fatto commesso dopo la decisione delle Sezioni unite: non qualora si tratti di fatto anteriormente<br />

realizzato, il cui autore non aveva alcuna ragione per confidare sulla liceità penale della propria condotta, posta in<br />

essere quando era imperante un orientamento giurisprudenziale di segno contrario.<br />

11.– Infondata è anche l’ulteriore censura di violazione del «principio di (tendenziale) retroattività della<br />

normativa penale più favorevole»: principio che il rimettente reputa desumibile dagli artt. 3 e 25, secondo comma, Cost.<br />

Per costante giurisprudenza di questa Corte, il principio di retroattività della legge penale più favorevole al reo<br />

non trova, in realtà, fondamento costituzionale nell’art. 25, secondo comma, Cost. – che si limita a sancire il principio<br />

di irretroattività delle norme penali più severe – ma, come già accennato, esclusivamente nel principio di eguaglianza,<br />

che impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento dei medesimi fatti, in presenza di una mutata valutazione<br />

legislativa del loro disvalore, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l’entrata in<br />

vigore della norma che ha disposto l’abolitio criminis o la modifica mitigatrice. Proprio in conseguenza di ciò, il<br />

principio in questione non ha, quindi, carattere assoluto, rimanendo suscettibile di deroghe ad opera della legislazione<br />

ordinaria, quando ne ricorra una sufficiente ragione giustificativa (ex plurimis, sentenze n. 236 del 2011, n. 215 del<br />

2008, n. 394 e n. 393 del 2006).<br />

A prescindere, peraltro, dalla possibilità che la salvaguardia dell’intangibilità del giudicato rappresenti una<br />

adeguata ragione di deroga, secondo quanto reiteratamente ritenuto in passato da questa Corte (sentenze n. 74 del 1980<br />

e n. 6 del 1978; ordinanza n. 330 del 1995), è assorbente la considerazione che il principio in questione attiene – anche<br />

in base alla relativa disciplina codicistica (art. 2, secondo, terzo e quarto comma, cod. pen.) – alla sola successione di<br />

«leggi». Per poterlo estendere anche ai mutamenti giurisprudenziali bisognerebbe, dunque, poter dimostrare – ed è<br />

questa, in effetti, la premessa concettuale del rimettente – che la consecutio tra due contrastanti linee interpretative<br />

giurisprudenziali equivalga ad un atto di produzione normativa.<br />

Ad opporsi ad una simile equazione non è, peraltro, solo la considerazione – svolta dalla giurisprudenza di<br />

legittimità precedentemente richiamata, in sede di individuazione dei confini applicativi dell’art. 673 cod. proc. pen. –<br />

attinente al difetto di vincolatività di un semplice orientamento giurisprudenziale, ancorché avallato da una pronuncia<br />

delle Sezioni unite. Vi si oppone anche, e prima ancora – in uno alla già più volte evocata riserva di legge in materia<br />

penale, di cui allo stesso art. 25, secondo comma, Cost. – il principio di separazione dei poteri, specificamente riflesso<br />

nel precetto (art. 101, secondo comma, Cost.) che vuole il giudice soggetto (soltanto) alla legge.<br />

Né la conclusione perde di validità per il solo fatto che la nuova decisione dell’organo della nomofilachia sia nel<br />

segno della configurabilità di una abolitio criminis. Al pari della creazione delle norme, e delle norme penali in specie,<br />

anche la loro abrogazione – totale o parziale – non può, infatti, dipendere, nel disegno costituzionale, da regole<br />

giurisprudenziali, ma soltanto da un atto di volontà del legislatore (eius est abrogare cuius est condere).<br />

12.– Le residue censure di violazione degli artt. 13 e 27, terzo comma, Cost., sono prive di autonomia.<br />

Esse cadono, del pari, con la premessa concettuale su cui poggiano: ossia la pretesa che la consecutio tra diversi<br />

orientamenti giurisprudenziali equivalga ad una operazione creativa di nuovo diritto (oggettivo), così da giustificare il<br />

richiesto intervento dilatativo del perimetro di applicazione dell’istituto delineato dall’art. 673 cod. proc. pen.<br />

Siffatta erronea esegesi comporterebbe la consegna al giudice, organo designato all’esercizio della funzione<br />

giurisdizionale, di una funzione legislativa, in radicale contrasto con i profili fondamentali dell’ordinamento<br />

costituzionale.<br />

13.– La questione va dichiarata, pertanto, non fondata in rapporto a tutti i parametri invocati.<br />

Per Questi Motivi<br />

LA CORTE COSTITUZIONALE<br />

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 673 del codice di procedura penale,<br />

sollevata, in riferimento agli articoli 3, 13, 25, secondo comma, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della<br />

Costituzione, dal Tribunale di Torino con l’ordinanza indicata in epigrafe.<br />

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 ottobre 2012.<br />

F.to:<br />

Alfonso QUARANTA,<br />

Presidente<br />

Giuseppe FRIGO,<br />

Redattore<br />

44


Valerio Napoleoni<br />

Mutamento di giurisprudenza<br />

in bonam partem e revoca<br />

del giudicato di condanna:<br />

altolà della Consulta a prospettive<br />

avanguardistiche di (supposto)<br />

adeguamento ai dicta<br />

della Corte di Strasburgo<br />

Nota a Corte costituzionale, 8 ottobre 2012 (dep. 12 ottobre 2012),<br />

n. 230, Pres. Quaranta, Rel. Frigo<br />

Sommario<br />

1. Il background: l’immanente tensione tra “diritto giurisprudenziale” e principio<br />

di legalità in materia penale. – 2. Mutamenti di giurisprudenza in bonam partem e<br />

pregressi giudicati di condanna. – 3. Il problema ermeneutico “a monte” del quesito<br />

di costituzionalità: l’applicabilità della contravvenzione di omessa esibizione di<br />

documenti (art. 6, comma 3, d.lgs. n. 286 del 1998) agli stranieri “irregolari”. – 4.<br />

L’eventuale riconducibilità dell’omessa esibizione dei documenti di identificazione<br />

da parte degli stranieri “irregolari” alla fattispecie generale del t.u.l.p.s. – 5. La<br />

vicenda interpretativa relativa al nuovo testo dell’art. 6, comma 3, d.lgs. n. 286 del<br />

1998 è realmente qualificabile come «mutamento di giurisprudenza»? – 6. Il presupposto<br />

di base: l’attuale estraneità del «mutamento giurisprudenziale» al raggio<br />

operativo dell’art. 673 c.p.p. – 7. I possibili tratti di “creatività” del petitum. – 8. L’insussistenza<br />

della violazione dell’art. 117, comma 1, Cost. – 9. L’insussistenza della<br />

lesione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.). – 10. L’insussistenza<br />

del contrasto con il principio “costituzionale” di retroattività della lex<br />

mitior. – 11. La convergenza con il tracciato delle sezioni unite civili.<br />

1<br />

Il background: l’immanente<br />

tensione tra “diritto<br />

giurisprudenziale” e principio<br />

di legalità in materia penale<br />

Con una sentenza (la n. 230 del 2012) di rilievo “strategico”, sia per la caratura intrinseca<br />

dei temi toccati (i quali investono il sistema delle fonti) che per la perentorietà<br />

degli enunciati che ne contrappuntano il tessuto argomentativo, i Giudici di Palazzo<br />

della Consulta negano che sia costituzionalmente necessario rendere revocabile il giudicato<br />

di condanna, ai sensi dell’art. 673 c.p.p., nel caso di sopravvenienza d’un overruling<br />

giurisprudenziale che escluda la rilevanza penale del fatto per il quale la condanna<br />

stessa è intervenuta.<br />

Il quesito di costituzionalità sottoposto all’esame della Corte si innerva su una tematica<br />

di fondo la cui estrema delicatezza va di pari passo con la crescente attualità: vale a<br />

dire, l’immanente tensione cui il c.d. diritto giurisprudenziale (Richterrecht) sottopone il<br />

diritto penale contemporaneo 3-4/2012 164<br />

46


principio di legalità in materia penale 1 . Nella constatazione – irrefutabile – che la norma<br />

penale “vive”, non per come è scritta, ma per come è interpretata e applicata dai giudici 2 ,<br />

si annida notoriamente un allarmante fattore di destabilizzazione di valori cardine, costituenti<br />

altrettanti corollari di quel principio: quali quelli di riserva di legge, determinatezza<br />

dell’illecito penale e irretroattività della norma penale sfavorevole. Il risultato che potrebbe<br />

apparire garantito nella sfera del «diritto dei libri» (law in the books) cessa, infatti, sovente<br />

di esserlo nella diversa, magmatica prospettiva del «diritto in azione» (law in action):<br />

che è, poi, peraltro, quella che concretamente interessa (perché “tocca”) il cittadino.<br />

Il fenomeno che sopra ogni altro minaccia gli equilibri del sistema è quello – pullulante,<br />

malgrado tutto, in ogni settore dell’ordinamento penale – del contrasto giurisprudenziale.<br />

Se, per un verso, infatti, il contrasto di tipo sincronico (due o più interpretazioni<br />

difformi della medesima norma coesistono nel medesimo intervallo temporale)<br />

compromette gli obiettivi del principio di determinatezza, impedendo ai consociati di<br />

calcolare con sicurezza le conseguenze giuridico-penali della propria condotta 3 , non<br />

meno “disturbante”, su altri fronti, è il contrasto di tipo diacronico (overruling: una linea<br />

interpretativa “affermata” in un determinato lasso temporale viene smentita da una<br />

decisione successiva, che origina una “svolta” giurisprudenziale).<br />

Se il revirement è contra reum, ad entrare in crisi, nella dimensione della law in action,<br />

è il principio di irretroattività della norma penale sfavorevole (baluardo fondamentale<br />

del principio di legalità), venendosi a determinare – qualora non intervengano opportuni<br />

meccanismi di “neutralizzazione” – un fenomeno di c.d. «retroattività occulta» 4 .<br />

A fronte, infatti, della natura “dichiarativa” della reale portata della norma di legge,<br />

tradizionalmente attribuita nell’ordinamento italiano all’interpretazione giurisprudenziale,<br />

l’overruling sfavorevole sarebbe destinato a colpire anche chi ha commesso il fatto<br />

anteriormente ad esso, quando predominava l’orientamento “benigno” (peraltro idoneo<br />

a generare affidamento). Per questo verso, un rimedio già fruibile de iure condito nel nostro<br />

ordinamento – ma che sconta il notevole tasso di “discrezionalità” nell’applicazione<br />

dell’istituto – è rappresentato dal riconoscimento, a favore dell’imputato, della rilevanza<br />

scusante dell’errore inevitabile sulla norma penale (art. 5 c.p., come manipolato dalla<br />

sentenza n. 364 del 1988 della Corte costituzionale) 5 . Molto più “rassicurante” – ma<br />

anche decisamente più problematica, allo stato della legislazione – sarebbe, peraltro,<br />

la soluzione di considerare direttamente applicabile al mutamento giurisprudenziale<br />

in malam partem il principio di irretroattività, omologandolo all’introduzione di una<br />

nuova norma penale sfavorevole al reo: soluzione che troverebbe il suo strumento tecnico<br />

nell’impiego di un meccanismo analogo a quello, di matrice statunitense, del prospective<br />

overruling, per cui la svolta giurisprudenziale peggiorativa non opererebbe in<br />

rapporto al caso oggetto della causa in cui la decisione innovativa si innesta, ma solo de<br />

futuro, ossia per i fatti commessi successivamente ad essa 6 .<br />

1. In argomento resta fondamentale il contributo di A. Cadoppi, Il valore del precedente nel diritto penale, Torino, 1999, passim, e spec. pp. 71 e ss.<br />

2. Al lume d’una corrente notazione – una volta acclarato che l’idea illuministica del giudice come semplice «bocca della legge» rappresenta una mera<br />

utopia, essendo insita nell’attività di interpretazione una componente inevitabilmente “creativa” – diviene difficilmente eludibile la conclusione che l’ordinamento<br />

non è solo un insieme di norme aventi valore formale di legge, bensì il risultato di una combinazione in cui si intrecciano le norme positive<br />

e l’interpretazione che i giudici ne danno: donde il c.d. “diritto vivente” (R. Rordorf, Stare decisis: osservazioni sul valore del precedente giudiziario<br />

nell’ordinamento italiano, in Foro it., 2006, V, c. 279). La vera norma giuridica non è, in tale ottica, quella scritta nell’enunciato normativo della fonte legale,<br />

ma quella che si desume dall’interpretazione e dall’applicazione della disposizione, e sceglie dall’enunciato solo una delle possibili letture (M. Donini,<br />

Europeismo giudiziario e scienza penale, Milano, 2011, p. 52).<br />

3. A. Cadoppi, Il valore del precedente, cit., p. 115.<br />

4. Cfr. A. Cadoppi, Il valore del precedente, cit., pp. 119 e s. Sul punto, altresì, A. Balsamo, La dimensione garantistica del principio di irretroattività e la<br />

nuova interpretazione giurisprudenziale “imprevedibile”: una “nuova frontiera” del processo di “europeizzazione” del diritto penale, in Cass. pen., 2007, pp.<br />

2202 e s.<br />

5. Cfr. Cass., sez. III, 6 ottobre 1993-9 gennaio 1994, n. 435, in C.e.d. Cass., n. 197037. In dottrina, v. A. Balsamo, La dimensione garantistica, cit., p. 2207;<br />

A. Bernardi, Art. 7, in Commentario alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, a cura di S. Bartole, G. Conforti, G. Raimondi, Padova, 2001, p.<br />

263; A. Cadoppi, Il valore del precedente, cit., p. 263; E. Vincenti, Note minime sul mutamento di giurisprudenza (overruling) come (possibile?) paradigma<br />

di un istituto giuridico di carattere generale, in Cass. pen., 2011, p. 4129.<br />

6. Cfr. A. Balsamo, La dimensione garantistica, cit., p. 2207; A. Cadoppi, Il valore del precedente, cit., p. 263. Una soluzione di questo tipo parrebbe essere<br />

diritto penale contemporaneo 3-4/2012 165<br />

47


2<br />

Mutamenti di giurisprudenza<br />

in bonam partem e pregressi<br />

giudicati di condanna<br />

In presenza di un mutamento giurisprudenziale in bonam partem, e particolarmente<br />

di quello che porti ad escludere il rilievo penalistico di una determinata fascia di comportamenti,<br />

ritenuti in precedenza criminosi – come nell’ipotesi rimessa al vaglio della<br />

Corte costituzionale – la “sofferenza” del sistema si manifesta, per converso, in relazione<br />

ai giudicati di condanna formatisi in applicazione della linea interpretativa poi sconfessata.<br />

Stride, in effetti, prima facie, col comune senso di giustizia che taluno si trovi ad<br />

essere irrevocabilmente condannato e a dover scontare una pena per un fatto che, di lì<br />

a poco, il massimo organo della nomofilachia e una giurisprudenza assolutamente uniforme<br />

– fermo restando il dato normativo – riconoscono essere, in realtà, penalmente<br />

lecito.<br />

Il problema può essere affrontato, di nuovo, da due distinti angoli prospettici. Rimanendo<br />

ancorati alla tradizionale concezione che annette una valenza solo “dichiarativa”<br />

all’interpretazione giurisprudenziale, in quanto volta ad enucleare l’“esatto” significato<br />

della norma di legge, la vicenda sopra descritta andrebbe letta come rivelatrice della<br />

circostanza che la precedente sentenza irrevocabile di condanna è inficiata da un error<br />

iuris (ciò quantomeno ove si sia di fronte ad un overruling a carattere “correttivo”, e non<br />

già “evolutivo”) 7 : ottica nella quale l’ipotetico rimedio al quale verrebbe spontaneo pensare<br />

– ma solo de iure condendo – dovrebbe in qualche modo riecheggiare le dinamiche<br />

dell’istituto della revisione (artt. 629 ss. c.p.p.), con un innovativo passaggio dall’attuale<br />

dimensione fattuale del contrasto fra giudicati, avuta di mira dall’art. 630, comma 1,<br />

lett. a), c.p.p., ad altra di ordine giuridico.<br />

L’alternativa “progressista” e più “radicale” – della quale si è fatto, in concreto, promotore<br />

il Tribunale di Torino, sollevando la questione decisa dalla Corte – sarebbe quella<br />

di equiparare il revirement giurisprudenziale “decriminalizzante” ad una vicenda<br />

abrogativa della norma incriminatrice, così da ricondurlo sotto il cono applicativo del<br />

principio di retroattività della lex mitior, negli ampi termini delineati dall’art. 2, comma<br />

2, c.p. per i casi di abolitio criminis, e del correlato regime revocabilità del giudicato in<br />

executivis, previsto dall’art. 673 c.p.p.<br />

A conferire a tale soluzione un particolare appeal è l’idea che, così facendo, si marci<br />

in una prospettiva di recepimento della “dimensione europea” del principio di legalità<br />

in materia penale, quale emerge segnatamente dalla giurisprudenza della Corte europea<br />

dei diritti dell’uomo 8 . Ai fini della verifica del rispetto di detto principio e dei suoi<br />

corollari, ritenuti insiti nella previsione dell’art. 7 CEDU, i Giudici di Strasburgo privilegiano<br />

notoriamente, infatti, una visione «sostanziale», e non già «formale», del concetto<br />

di «diritto», che ingloba tra i suoi parametri, a fianco delle norme di produzione<br />

legislativa, anche il “formante giurisprudenziale”, ossia la lettura che i giudici ne danno:<br />

stata prospettata – con un obiter dictum – nella sentenza Beschi delle sezioni unite della Corte di cassazione, cui si accenna poco oltre nel testo. La tecnica<br />

del prospective overruling è stata, in concreto, adottata dalle sezioni unite civili della Corte di cassazione, in una recente pronuncia di vasta risonanza, al<br />

fine di evitare un effetto per qualche aspetto analogo a quello considerato: ossia per impedire che un arresto innovativo, rispetto ad una precedente consolidata<br />

giurisprudenza concernente l’interpretazione di una norma processuale, venga a determinare “a sorpresa” una decadenza o una preclusione in<br />

danno di una parte del giudizio, che si era attenuta ai dettami della vecchia interpretazione (Cass. civ., sez. un., 11 luglio 2011, n. 15144, in C.e.d. Cass., n.<br />

617905, a commento della quale v. F. Cavalla, C. Consolo, M. De Cristofaro, Le S.U. aprono (ma non troppo) all’errore scusabile: funzione dichiarativa<br />

della giurisprudenza, tutela dell’affidamento, tipi di overruling, in Corr. giur., 2011, pp. 1392 ss.).<br />

7. Ossia di un overruling volto ad emendare la precedente linea giurisprudenziale, in quanto ritenuta frutto di una non corretta applicazione dei canoni<br />

di ermeneutica legale (come nel caso esaminato dalla Corte), e non già ad adeguare il contenuto della norma – entro il limite di tolleranza del suo dettato<br />

testuale – alle nuove connotazioni assunte nel tempo dall’interesse protetto o ai sopravvenuti mutamenti del sistema ordinamentale in cui la norma stessa<br />

si colloca. La distinzione tra le due categorie è puntualmente tracciata, in questi termini, dalla già citata Cass. civ., sez. un., 11 luglio 2011, n. 15144, in C.e.d.<br />

Cass., n. 617905.<br />

8. Sul tema, per tutti, A. Bernardi, Art. 7, cit., pp. 249 e ss.; A. Bernardi, Il principio di legalità dei reati e delle pene nella Carta europea dei diritti. Problemi<br />

e prospettive, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2002, pp. 673 e ss.; G. De Amicis, Il principio di legalità penale nella giurisprudenza delle Corti europee, in<br />

www.europeanrights.eu, 2010; G. De Vero, La giurisprudenza della Corte di Strasburgo, in G. De Vero, G. Panebianco, Delitti e pene nella giurisprudenza<br />

delle Corti europee, Torino, 2007, pp. 16 e ss.; O. Di Giovine, Il principio di legalità tra diritto nazionale e diritto convenzionale, in Studi in onore di M.<br />

Romano, vol. IV, Napoli, 2011, pp. 2197 e ss.; A. Esposito, Il diritto penale “flessibile”, Torino, 2008, pp. 301 e ss.; V. Zagrebelsky, La Convenzione europea<br />

dei diritti dell’uomo e il principio di legalità nella materia penale, in La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento penale italiano, a cura<br />

di V. Manes, V. Zagrebelsky, Milano, 2011, pp. 69 e ss. Analogo discorso vale, ovviamente, per il mutamento giurisprudenziale in malam partem, con<br />

riguardo alla accennata prospettiva di omologazione alla nuova norma legislativa sfavorevole.<br />

diritto penale contemporaneo 3-4/2012 166<br />

48


intendendo propriamente, per «diritto», la risultante della relativa crasi 9 .<br />

Per questo verso, l’iniziativa del Tribunale torinese trova un “trampolino di lancio”<br />

nella nota sentenza Beschi del 2010, con la quale le sezioni unite penali della Corte di<br />

cassazione – componendo il contrasto insorto sul punto nelle sezioni singole – hanno<br />

ritenuto rilevante il mutamento di giurisprudenza, sancito da una pronuncia del supremo<br />

organo nomofilattico, ai fini del superamento del c.d. giudicato esecutivo (formula,<br />

tecnicamente impropria, con la quale si è soliti designare la preclusione sancita dall’art.<br />

666, comma 2, c.p.p.) 10 . Come è stato osservato, si tratta di una pronuncia «rivoluzionaria»<br />

non tanto per il suo contenuto decisorio, quanto piuttosto per la motivazione che lo<br />

sorregge. Brandendo l’esigenza dell’interpretazione “convenzionalmente conforme”, le<br />

sezioni unite si sono attestate, infatti, su posizioni di ordine generale “fortemente avanzate”,<br />

sul fronte del recepimento delle tesi di Strasburgo riguardo all’equiparazione fra<br />

diritto di produzione legislativa e diritto di matrice giurisprudenziale 11 .<br />

Nell’aderire toto corde all’impostazione della sentenza Beschi, il giudice a quo esclude<br />

tuttavia che, rispetto al giudicato “vero e proprio”, il risultato auspicato – vale a dire<br />

l’inserimento del mutamento giurisprudenziale tra i presupposti dell’istituto della revoca,<br />

di cui all’art. 673 c.p.p. – sia conseguibile dal giudice ordinario già in via d’interpretazione.<br />

Troppo stringente, per questo verso – a suo avviso – il limite del dato letterale,<br />

tenuto conto del carattere eccezionale degli interventi in executivis sulle pronunce<br />

del giudice della cognizione, che frapporrebbe una insormontabile paratia al ricorso al<br />

metodo analogico. Di qui, dunque, la ritenuta esigenza di promuovere l’intervento del<br />

Giudice delle leggi, veicolando l’istanza di adeguamento ai “paradigmi europei” tramite<br />

il “consueto” parametro dell’art. 117, comma 1, Cost.<br />

Nell’ambito dello stesso foro torinese, non è mancato, peraltro, chi – nel medesimo<br />

torno di tempo – ha ritenuto di poter valicare a pié pari quella paratia, pervenendo alla<br />

dilatazione del perimetro operativo dell’art. 673 c.p.p., nei sensi dianzi indicati, col sussidio<br />

dei soli strumenti ermeneutici 12 .<br />

3<br />

Il problema ermeneutico<br />

“a monte” del quesito di<br />

costituzionalità:<br />

l’applicabilità della<br />

contravvenzione di omessa<br />

esibizione di documenti<br />

(art. 6, comma 3, d.lgs. n.<br />

286 del 1998) agli stranieri<br />

“irregolari”<br />

La decisione della Corte “gela”, tuttavia, gli “entusiasmi” su entrambi i versanti. L’ordinamento<br />

costituzionale italiano – questo il “messaggio” di fondo della pronuncia – al<br />

pari degli altri sistemi continentali, poggia su principi che non trovano puntuale corrispondenza<br />

nel sistema della Convenzione europea dei diritti umani, con i quali l’ipotizzato<br />

riconoscimento d’una funzione normativa alla giurisprudenza penale – presupposto<br />

concettuale del suo allineamento alle fonti legali – non può evitare di fare i conti.<br />

Più nel dettaglio, il Tribunale di Torino – con un’ordinanza di rimessione sorretta<br />

da robusto apparato argomentativo – aveva sottoposto a scrutinio di legittimità costituzionale,<br />

in riferimento ad un’ampia platea di parametri (con in testa l’art. 117, comma<br />

1, Cost.), l’art. 673 c.p.p., nella parte in cui non prevede la revoca della sentenza di<br />

condanna passata in giudicato (e delle pronunce ad essa assimilate) anche nel caso di<br />

«mutamento giurisprudenziale», determinato da una decisione delle sezioni unite, in<br />

9. Al riguardo, v. infra, § 8.<br />

10. Cfr. Cass., sez. un., 21 gennaio 2010-13 maggio 2010, n. 18288, Beschi, in C.e.d. Cass., n. 246651, secondo cui, in particolare, il mutamento di giurisprudenza,<br />

intervenuto con decisione delle sezioni unite, integrando un nuovo elemento di diritto, rende ammissibile la riproposizione, in sede esecutiva,<br />

della richiesta di applicazione dell’indulto in precedenza rigettata. A commento della pronuncia, v. A. Macchia, La modifica interpretativa cambia il<br />

“diritto vivente”, in Guida dir., 2010, n. 27, pp. 78 e ss.; R. Russo, Il ruolo della law in action e la lezione della Corte europea dei diritti umani al vaglio delle<br />

Sezioni unite. Un tema ancora aperto, in Cass. pen., 2011, pp. 26 e ss.; C. M. Zanotti, L’indiscutibile rilevanza delle norme CEDU e delle sentenze della Corte<br />

Europea: il principio di legalità “allargata” e la “vincolatività” dei mutamenti giurisprudenziali, in Foro ambr., 2010, pp. 73 e ss. A conforto delle proprie<br />

tesi, il Tribunale di Torino richiama anche l’omologa presa di posizione della Corte di cassazione sul tema del c.d. giudicato cautelare, espressa, peraltro,<br />

da una decisione dalla trama motivazionale molto meno “dirompente” (Cass., sez. II, 6 maggio 2010-25 maggio 2010, n. 19716, in C.e.d. Cass., n. 247113).<br />

11. Cfr. M. Donini, Europeismo giudiziario, cit., 97.<br />

12. Cfr. G.u.p. Trib. Torino, 30 gennaio 2012, A., in Dir. pen. e processo, 2012, p. 743, con commento di S. De Flammineis, Sull’applicazione retroattiva<br />

di un’interpretazione giurisprudenziale in favore del reo; nonché in www.archiviopenale.it, 2012, n. 2, con commento di A. Balsamo, S. De Flammineis,<br />

Interpretazione conforme e nuove dimensioni garantistiche in tema di retroattività della norma penale favorevole.<br />

diritto penale contemporaneo 3-4/2012 167<br />

49


ase al quale il fatto già giudicato non è previsto dalla legge come reato.<br />

Il «mutamento giurisprudenziale» che veniva in rilievo nel giudizio a quo era quello<br />

relativo alla sfera soggettiva di applicabilità della contravvenzione di omessa esibizione<br />

dei documenti di identità e di soggiorno da parte dello straniero, delineata dall’art. 6,<br />

comma 3, del testo unico dell’immigrazione (d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286). A seguito della<br />

riscrittura della norma incriminatrice, operata dalla l. 15 luglio 2009, n. 94, era sorto,<br />

in specie, il problema della perdurante riferibilità del paradigma punitivo agli stranieri<br />

irregolarmente presenti nel territorio dello Stato 13 : interrogativo al quale la Corte di cassazione,<br />

con una terna di decisioni della I sezione, aveva inizialmente risposto in senso<br />

affermativo 14 . La tesi era stata, peraltro, sconfessata dalle sezioni unite, le quali, con la<br />

sentenza 24 febbraio 2011-27 aprile 2011, n. 16543, Alacev 15 , avevano, di contro, ritenuto<br />

che la previsione punitiva si rivolga attualmente solo agli stranieri regolarmente<br />

soggiornanti: prospettiva nella quale – secondo il supremo consesso nomofilattico – la<br />

novella del 2009 avrebbe determinato una parziale abolitio criminis, rilevante agli effetti<br />

dell’art. 2, comma 2, c.p., abrogando la fattispecie contravvenzionale preesistente nella<br />

parte in cui si prestava a colpire anche gli stranieri “irregolari”.<br />

Nel caso di specie, il Tribunale di Torino si trovava investito, quale giudice dell’esecuzione,<br />

della richiesta del pubblico ministero di revoca parziale, alla luce dei dicta della<br />

sentenza Alacev, di una sentenza di patteggiamento (tipologia decisoria pacificamente<br />

ricompresa, anche in difetto di espressa menzione, nel perimetro di operatività dell’art.<br />

673 c.p.p.) 16 , emessa nel luglio 2010 nei confronti di uno straniero per la contravvenzione<br />

in parola (oltre che per altro reato) e divenuta irrevocabile alcuni mesi dopo, con<br />

riferimento a fatto commesso l’11 giugno 2010 (successivamente, dunque, all’entrata in<br />

vigore della novella del 2009).<br />

Al riguardo, la Corte costituzionale sgombra anzitutto il campo dall’eccezione di<br />

inammissibilità della questione per difetto di rilevanza, formulata dall’Avvocatura generale<br />

dello Stato sull’assunto che, anche in una fattispecie quale quella oggetto del procedimento<br />

principale, si sarebbe rimasti al cospetto di una abolitio criminis dipendente<br />

da successione di leggi nel tempo (la sostituzione dell’art. 6, comma 3, d.lgs. n. 286 del<br />

1998 ad opera della l. n. 94 del 2009) e, perciò, di un fenomeno già rientrante pleno iure<br />

nel campo applicativo dell’art. 673 c.p.p. Tesi che, nelle more del giudizio di costituzionalità,<br />

aveva trovato, peraltro, eco nella giurisprudenza di legittimità 17 .<br />

13. Con riferimento al testo originario della norma, risultava consolidata in giurisprudenza – dopo l’intervento “chiarificatore” delle sezioni unite della<br />

Corte di cassazione (Cass., sez. un., 29 ottobre 2003-27 novembre 2003, Mensky, in C.e.d. Cass., n. 226102) – la tesi in forza della quale del reato potevano<br />

rispondere anche gli stranieri “irregolari”, sia pure limitatamente all’ipotesi dell’omessa esibizione dei documenti di identificazione (non pure all’omessa<br />

esibizione del permesso o della carta di soggiorno – all’epoca configurata come fattispecie alternativa – essendo il possesso di tali ultimi documenti inconciliabile<br />

con la stessa condizione di straniero in posizione irregolare). Al riguardo, per tutti, A. Abukar Hayo, Sulla esigibilità del possesso ed esibizione di<br />

documento di riconoscimento dello straniero clandestino, in Giust. pen., 2004, II, cc. 337 e ss.; A. Caputo, Diritto e procedura penale dell’immigrazione, Torino,<br />

2006, pp. 151 e ss.; O. Forlenza, Il mirino del testo unico dell’immigrazione punta su passaporto e carta d’identità, in Guida dir., 2004, n. 1, pp. 75 e ss.;<br />

F. C. Palazzo, Destinatari e limiti dell’obbligo di esibizione di documenti previsto dal testo unico dell’immigrazione, in Quest. giust., 2004, n. 4, pp. 783 e ss.<br />

14. Cfr. Cass., sez. I, 23 settembre 2009-18 novembre 2009, n. 44157, in C.e.d. Cass., n. 245555; Cass., sez. I, 20 gennaio 2010-16 febbraio 2010, n. 6343; Cass.,<br />

sez. I, 30 settembre 2010-18 ottobre 2010, n. 37060.<br />

15. In C.e.d. Cass., n. 249546, e in Diritto penale contemporaneo, con scheda di A. Giliberto, 29 aprile 2011. A commento della decisione, cfr. V. Di Peppe,<br />

in Cass. pen., 2011, pp. 2886 e ss.; G. L. Gatta, Inottemperanza del “clandestino” all’ordine di esibire i documenti: davvero abolitio criminis?, in Dir. pen. e<br />

processo, 2011, pp. 1348 e ss. Sul tema, altresì, in generale, G. Barbuto, Inottemperanza all’ordine di esibizione di documenti, in Sistema penale e sicurezza<br />

pubblica, a cura di S. Corbetta, A. Della Bella, G. L. Gatta, Milano, 2009, pp. 229 e ss.; A. Caputo, I reati in materia di immigrazione, in A. Caputo,<br />

G. Fidelbo, Reati in materia di immigrazione e di stupefacenti, Torino, 2011, pp. 123 e ss.; L. Degl’Innocenti, Stranieri irregolari e diritto penale, 2 a ed.,<br />

Milano, 2011, pp. 15 e ss.; V. Di Peppe, Il reato dello straniero che non ottempera all’ordine di esibizione dei suoi documenti identificativi: considerazioni in<br />

margine all’intervento della “legge sicurezza” del 2009, in Cass. pen., 2011, pp. 341 e ss.; M. Gambardella, Ancora sulla mancata esibizione dei documenti<br />

da parte del cittadino straniero “irregolare”, in Quest. giust., 2010, pp. 173 e ss.; M. Gambardella, Lo straniero irregolare e il reato di mancata ottemperanza<br />

all’ordine di esibizione dei documenti, in Diritto penale contemporaneo, 13 dicembre 2010; G. Rella, Reati propri, in Diritto penale dell’immigrazione, a<br />

cura di S. Centonze, Torino, 2010, pp. 64 e ss.<br />

16. Cfr. Cass., sez. I, 11 luglio 2000-7 settembre 2000, n. 4698, in C.e.d. Cass., n. 217089; Cass., sez. III, 15 gennaio 2002-22 febbraio 2002, n. 7088, ivi, n.<br />

221692; Cass., sez. I, 19 ottobre 2007-16 novembre 2007, n. 42407, ivi, n. 237969. Nello stesso senso già Corte cost., sentenza n. 96 del 1996.<br />

17. Cfr. Cass., Sez. I, 21 dicembre 2011-12 gennaio 2012, n. 545, in Dir. pen. e processo, 2012, p. 304, con osservazioni di S. Corbetta, che, in una ipotesi<br />

identica, sul piano delle scansioni temporali, a quella oggetto del giudizio a quo, ha ritenuto direttamente applicabile l’art. 673 c.p.p. in conformità a quanto<br />

sostenuto dall’Avvocatura. La pronuncia appare, peraltro, basata più su ragioni equitative che non su saldi argomenti logico-giuridici. Verosimilmente, il<br />

diritto penale contemporaneo 3-4/2012 168<br />

50


In senso contrario, la Corte rileva che – discutendosi di fatto commesso dopo l’entrata<br />

in vigore della l. n. 94 del 2009, quando l’art. 6, comma 3, del testo unico risultava<br />

già formulato nei termini attuali – la successione tra vecchio e nuovo testo di detta<br />

norma non veniva in considerazione, come fenomeno atto a rendere operante il precetto<br />

dell’art. 2, comma 2, c.p., cui la previsione dell’art. 673 c.p.p. è, per questo verso,<br />

correlata. Di conseguenza, non era per nulla «implausibile» 18 l’asserto del giudice a quo,<br />

secondo il quale la richiesta di revoca sottoposta al suo esame si basava sulla consecutio,<br />

non già di leggi, ma di diverse interpretazioni giurisprudenziali della medesima disposizione<br />

di legge (l’esegesi più lata, a parte subiecti, del novellato art. 6, comma 3, d.lgs. n.<br />

286 del 1998, adottata in prima battuta dalle sezioni singole della Cassazione e recepita<br />

nella sentenza revocanda, e quella limitativa poi sposata dalle sezioni unite).<br />

4<br />

L’eventuale riconducibilità<br />

dell’omessa esibizione dei<br />

documenti di<br />

identificazione da parte degli<br />

stranieri “irregolari” alla<br />

fattispecie<br />

generale del t.u.l.p.s.<br />

Sempre in relazione al problema ermeneutico “a monte” del quesito di costituzionalità,<br />

la Corte si fa carico, anche in assenza di pungolo dell’Avvocatura, di un ulteriore<br />

problema di ammissibilità, specificamente evidenziato in dottrina.<br />

Si era osservato, in effetti, che – accedendo pure alla tesi delle sezioni unite, secondo<br />

la quale la l. n. 94 del 2009 avrebbe estromesso gli stranieri “irregolari” dal novero dei<br />

destinatari della previsione punitiva di cui all’art. 6, comma 3, d.lgs. n. 286 del 1998 –<br />

ciò non avrebbe affatto comportato, contrariamente a quanto ritenuto dalla sentenza<br />

Alacev, l’automatica perdita di rilevanza penale della condotta di omessa esibizione dei<br />

documenti da parte dei predetti soggetti. Tale condotta sarebbe ricaduta, infatti, nel<br />

campo di prensione di una più ampia fattispecie contravvenzionale, tuttora presente<br />

nell’ordinamento, rispetto alla quale il reato del testo unico dell’immigrazione si poneva,<br />

per corrente convincimento, in rapporto di specialità 19 : vale a dire, quella risultante<br />

dal combinato disposto degli artt. 221 t.u.l.p.s. e 294 reg. t.u.l.p.s., che punisce la<br />

mancata esibizione ad ufficiali e agenti di pubblica sicurezza dei documenti di identificazione<br />

da parte di chicchessia (cittadino o straniero). La l. n. 94 del 2009 non avrebbe<br />

determinato, pertanto, un’abolitio criminis (parziale), quanto piuttosto un fenomeno di<br />

c.d. abrogatio sine abolitione 20 : prospettiva nella quale la questione di legittimità costituzionale<br />

in esame sarebbe divenuta inammissibile per difetto di rilevanza, mancando<br />

in radice la condizione di operatività dell’istituto della revoca, disciplinato dall’art. 673<br />

c.p.p. Discutendosi, infatti, non già del passaggio da un regime di rilevanza ad uno di<br />

irrilevanza penale, ma solo del passaggio da un regime punitivo più severo ad altro più<br />

mite (la contravvenzione del t.u.l.p.s. è punita con pene alternative, anziché congiunte,<br />

come invece quella del testo unico dell’immigrazione), la fattispecie sarebbe rimasta<br />

disciplinata dall’art. 2, comma 5, c.p., in forza del quale la retroattività della lex mitior si<br />

giudice di legittimità ha inteso evitare un apparente paradosso: ossia che, a seguito della sentenza Alacev, risultino revocabili i giudicati di condanna per<br />

fatti commessi prima dell’agosto 2009 (quando era in vigore la vecchia norma, che puniva anche gli stranieri “irregolari”), essendosi, in tal caso, certamente<br />

di fronte ad una abolitio criminis conseguente a successione di leggi; mentre restino irrevocabili i giudicati relativi a fatti commessi tra l’agosto 2009 e<br />

la sentenza Alacev (quando era già vigente la nuova norma), discutendosi, in tale ipotesi, di un fenomeno attinente alle sole dinamiche interpretative della<br />

norma incriminatrice. Resta, tuttavia, il fatto – incontestabile – che, in questa seconda ipotesi, non vi è alcuna successione di leggi posteriore alla condotta<br />

della cui rilevanza penale si discute, la quale valga a rendere operante il dettato dell’art. 2, comma 2, c.p., secondo quanto indicato subito appresso nel testo.<br />

18. Trattandosi di profilo che attiene alla rilevanza della questione sollevata, e non al merito di essa, il parametro di verifica della prospettiva ermeneutica<br />

del rimettente è appunto quello della «non implausibilità», e non quello della correttezza.<br />

19. Cfr., su tale rapporto di specialità, tra gli altri, P. Balzelloni, Immigrazione (reati in materia di), in Dig. disc. pen., Aggiornamento, Torino, 2004, p.<br />

370; A. Caputo, Diritto e procedura, cit., p. 153; A. Caputo, I reati, cit., p. 124; L. Degl’Innocenti, Stranieri irregolari, cit., p. 31; G. Rella, Reati propri,<br />

cit., p. 65.<br />

20. Cfr., in questo senso, G. L. Gatta, Inottemperanza, cit., p. 1353 s.; A. Giliberto, Lo straniero irregolare è ancora punibile per il reato di omessa esibizione<br />

dei documenti?, in Corr. merito, 2011, p. 295 s. Il fenomeno dell’abrogatio sine abolitione si verifica, in specie, allorché la fattispecie criminosa abrogata<br />

(interamente o parzialmente) risulti speciale rispetto ad una fattispecie generale preesistente (o introdotta contestualmente all’abrogazione della norma<br />

speciale): ipotesi nella quale la norma generale ancora in vigore – almeno di regola – si “riespande” alla classe di fatti considerati, con la conseguenza che<br />

si viene a determinare, non già un’abolitio criminis, ma una successione di leggi penali modificative, disciplinata dall’art. 2, comma 5, c.p. (al riguardo, con<br />

riferimento alla nota vicenda della soppressione dell’istituto dell’amministrazione controllata, Cass., sez. un., 26 febbraio 2009-12 giugno 2009, n. 24468,<br />

in C.e.d. Cass., n. 243587; in dottrina, M. Gambardella, L’abrogazione della norma incriminatrice, Napoli, 2008, pp. 180 e ss.).<br />

diritto penale contemporaneo 3-4/2012 169<br />

51


arresta di fronte al giudicato 21 .<br />

La Corte costituzionale esclude, nondimeno, che l’omessa verifica, da parte del giudice<br />

a quo, della bonitas della prospettiva ermeneutica ora indicata (non perscrutata<br />

dalla sentenza Alacev) possa effettivamente ridondare in un vizio di ammissibilità. Al<br />

riguardo, viene ritenuta, infatti, dirimente la conformazione del petitum, il cui accoglimento<br />

comporterebbe – come meglio si vedrà più avanti 22 – che, in presenza d’una<br />

decisione delle sezioni unite che escluda la rilevanza penale del fatto, il giudice debba<br />

revocare il giudicato contrastante, senza possibili «margini di scostamento» dalla soluzione<br />

adottata dall’organo della nomofilachia: circostanza che rende rilevante la questione<br />

a prescindere dall’eventuale opinabilità dei risultati ermeneutici cui è pervenuta<br />

la sentenza Alacev, relativamente all’asserito effetto abolitivo della novella del 2009.<br />

5<br />

La vicenda interpretativa<br />

relativa al nuovo testo<br />

dell’art. 6, comma<br />

3, d.lgs. n. 286 del 1998 è<br />

realmente qualificabile come<br />

«mutamento di<br />

giurisprudenza»?<br />

La Corte mostra, per altro verso, di condividere (o, quantomeno, di ritenere «non<br />

implausibile») – ma, stavolta, solo per implicito – la tesi del rimettente, in base alla quale<br />

la vicenda interpretativa concernente il nuovo testo dell’art. 6, comma 3, d.lgs. n. 286<br />

del 1998, dianzi sommariamente ricordata, sarebbe qualificabile come «revirement giurisprudenziale»<br />

(fenomeno al quale soltanto è riferito il petitum).<br />

Tale inquadramento poteva apparire, in verità, non privo di margini di opinabilità.<br />

Di «mutamento giurisprudenziale» – concetto, peraltro, solo in apparenza univoco – è,<br />

in linea di massima, legittimo parlare, secondo quanto dianzi accennato, solo allorché<br />

in un intervallo di tempo “t” vi sia un indirizzo giurisprudenziale dominante, il quale<br />

viene contraddetto da una decisione successiva, che a sua volta dà vita (o risulta idonea<br />

a dar vita) ad un diverso orientamento, parimenti “affermato”. In altre parole – per stare<br />

all’impostazione dello stesso giudice a quo – solo quando ad un certo “diritto vivente”<br />

si sostituisce un altro “diritto vivente”.<br />

Nella specie, poteva nutrirsi qualche perplessità sul fatto che, prima della sentenza<br />

Alacev 23 , vi fosse realmente un “diritto vivente” sul nuovo testo dell’art. 6, comma 3,<br />

d.lgs. 286 del 1998. Vi erano, bensì, le tre ricordate sentenze della I a sezione della Cassazione<br />

– emesse all’indomani della novella e motivate, peraltro, in modo per lo più<br />

assiomatico – secondo le quali nulla era cambiato, in punto di punibilità degli stranieri<br />

“irregolari”. Ma larga parte della giurisprudenza di merito – prima, coevamente e dopo<br />

dette sentenze – sosteneva il contrario 24 . In tale contesto, si sarebbe potuto quindi sostenere<br />

che la decisione delle sezioni unite – intervenuta a meno di un anno e mezzo di<br />

distanza dal varo della l. n. 94 del 2009 – più che mutare, era valsa a formare per la prima<br />

volta un “diritto vivente” sulla nuova norma 25 .<br />

21. Così, specificamente, G. L. Gatta, Inottemperanza, cit., pp. 1353 e s.<br />

22. Infra, § 9.<br />

23. Dopo di essa, la giurisprudenza pare essersi, in effetti, uniformemente adeguata alle indicazioni delle sezioni unite: cfr., nella giurisprudenza di legittimità,<br />

Cass., sez. IV, 30 novembre 2011-21 dicembre 2011, n. 47502, in C.e.d. Cass., n. 251743; Cass., Sez. I, 21 dicembre 2011-12 gennaio 2012, n. 545, in<br />

Dir. pen. e processo, 2012, p. 304.<br />

24. Cfr., tra le altre, Trib. Bologna, 19 ottobre 2009, H. B., in Foro it., 2010, II, c. 70, con osservazioni di G. Giorgio; Trib. Bologna, 28 ottobre 2009, Y.H.,<br />

in Quest. giust., 2010, p. 182; Trib. Monza, 12 gennaio 2010, in www.osservatoriopenale.it; Trib. Milano, 19 gennaio 2010, A., in Corr. merito, 2010, 529, con<br />

osservazioni di G. L. Gatta; Trib. Monza, 9 marzo 2010, n. 544, in Guida dir., 2010, n. 23, p. 85; Trib. Monza, 3 maggio 2010, n. 851, in De Jure; nonché Trib.<br />

Orvieto, 16 febbraio 2010, J., Trib. Orvieto, 2 marzo 2010, S. e Trib. Orvieto, 1° giugno 2010, P., citate in M. Gambardella, Ancora sulla mancata esibizione,<br />

cit., p. 175, nota 1; Trib. Trieste, 23 dicembre 2009, N., citata in L. Degl’Innocenti, Stranieri irregolari, cit., p. 25, nota 26.<br />

25. È ben che vero che l’intervento delle sezioni unite, materializzatosi nella sentenza Alacev, era stato richiesto dalla prima sezione per prevenire, e non<br />

già per dirimere un contrasto di giurisprudenza. Ma ciò nell’ambito di una valutazione circoscritta alla sola giurisprudenza di legittimità. Ai fini della<br />

verifica dell’esistenza di un “diritto vivente”, avrebbe potuto, peraltro, ritenersi necessaria – anche in rapporto alle peculiarità del caso in esame – una<br />

valutazione della giurisprudenza nel suo complesso, inclusa quella di merito (in termini generali, nel senso che, a fronte del carattere “diffuso” della magistratura,<br />

debba ritenersi determinante, a detti fini, «la misura del consenso che quella interpretazione riscuote tra tutti i giudici», cfr. D. Bifulco, Il giudice<br />

è soggetto soltanto al “diritto”, Napoli, 2008, p. 48).<br />

diritto penale contemporaneo 3-4/2012 170<br />

52


6<br />

Il presupposto di base:<br />

l’attuale estraneità<br />

del «mutamento<br />

giurisprudenziale» al raggio<br />

operativo dell’art. 673 c.p.p.<br />

La Corte non manca, per converso, di esprimersi in ordine al “presupposto-cardine”<br />

del quesito di costituzionalità – quello per cui il «mutamento giurisprudenziale» costituisce<br />

fenomeno attualmente estraneo all’area di prensione dell’istituto della revoca del<br />

giudicato – definendolo «corretto […] e comunque rispondente alla lettura della norma<br />

censurata da parte della Corte di cassazione». Si tratta di una presa di posizione di indubbio<br />

peso, anche perché interviene dopo che si erano già registrate, sul punto – come<br />

dianzi segnalato – le prime “fughe in avanti” da parte della giurisprudenza di merito 26 .<br />

Al riguardo, i Giudici di Palazzo della Consulta rilevano come l’art. 673 c.p.p., di<br />

riflesso alle norme sostanziali degli artt. 2, comma 2, c.p. e 30, comma 4, l. 11 marzo<br />

1953, n. 87, prenda in considerazione due eventi – l’abrogazione e la dichiarazione di<br />

illegittimità costituzionale – il cui comune effetto è di espungere dall’ordinamento la<br />

norma incriminatrice in applicazione della quale è stata emessa la sentenza irrevocabile.<br />

In ragione della similarità del suo portato, la giurisprudenza di legittimità ha inglobato,<br />

in via interpretativa, nel campo di applicazione dell’istituto anche la dichiarazione di<br />

incompatibilità con il diritto dell’Unione europea avente effetto diretto, operata con<br />

sentenza della Corte di giustizia, trattandosi di pronuncia che impedisce, in via generale,<br />

ai giudici nazionali di continuare a fare applicazione della norma attinta 27 .<br />

La stessa giurisprudenza di legittimità – con indirizzo che la Corte costituzionale<br />

mostra chiaramente di condividere – ha, per converso, disatteso (almeno sino ad ora) i<br />

tentativi di incanalare nell’alveo dell’art. 673 c.p.p. fenomeni attinenti alle «dinamiche<br />

interpretative» della norma incriminatrice, quali il mutamento di giurisprudenza e la<br />

risoluzione dei contrasti giurisprudenziali, benché conseguenti a decisioni delle sezioni<br />

unite. Ciò sul precipuo rilievo che tali decisioni, per quanto autorevoli, non hanno<br />

un’efficacia paragonabile a quella degli eventi avuti di mira dalla disposizione di cui si<br />

discute, rimanendo prive di effetti vincolanti nei confronti dei giudici chiamati ad occuparsi<br />

di fattispecie analoghe 28 .<br />

7<br />

I possibili tratti di<br />

“creatività” del petitum<br />

La Corte esce, a questo punto, “allo scoperto” riguardo al merito della questione, di<br />

cui esclude la fondatezza, evitando di “trincerarsi” dietro una più “comoda” (perché assai<br />

meno impegnativa) decisione di inammissibilità “sostanziale”: decisione della quale<br />

pure si sarebbe potuta ipotizzare la praticabilità, nella misura in cui la pronuncia additiva<br />

richiesta dal giudice a quo, riflettendo personali opzioni dello stesso rimettente, pareva<br />

assumere un carattere “creativo” e, comunque, non “costituzionalmente obbligato” 29 .<br />

Ciò almeno su due fronti. In primo luogo, con riguardo alla prefigurata limitazione<br />

della pronuncia additiva sull’art. 673 c.p.p. ai soli mutamenti di giurisprudenza conseguenti<br />

a decisioni delle sezioni unite della Corte di cassazione, lasciando fuori quelli<br />

che si realizzino a seguito di “n” decisioni delle sezioni singole. Soluzione modellata sul<br />

26. Supra, § 2.<br />

27. Cfr., in particolare, Cass., sez. VII, 6 marzo 2008-29 maggio 2008, n.21579, in C.e.d. Cass., n. 239961; Cass., sez. VI, 5 novembre 2010-8 marzo 2011, n.<br />

9028, ivi, n. 249680; Cass., sez. I, 29 aprile 2011-20 maggio 2011, n. 20130, ivi, n. 250041; Cass., sez. I, 28 aprile 2011-1° giugno 2011, n. 22105, ivi, n. 249732.<br />

In dottrina, v. G. De Amicis, L’efficacia diretta della direttiva comunitaria sui rimpatri nell’ordinamento interno, in Cass. pen., 2011, pp. 3769 e ss.; D. Vigoni,<br />

Relatività del giudicato ed esecuzione della pena detentiva, Milano, 2009, p. 192.<br />

28. Cass., sez. I, 11 luglio 2006-1° agosto 2006, n. 27121, in C.e.d. Cass., n. 235265; Cass., sez. I, 13 luglio 2006-3 agosto 2006, n. 27858, ivi, n. 234978, entrambe<br />

con riferimento alla sentenza delle sezioni unite che, componendo un contrasto di giurisprudenza, aveva escluso che l’acquisto di compact disc e<br />

musicassette, prive del timbro SIAE e abusivamente riprodotte, integrasse il delitto di ricettazione. Analogamente, in sede di esame della vicenda interpretativa<br />

avente ad oggetto lo stesso art. 6, comma 3, d.lgs. n. 286 del 1998, Cass., sez. I, 21 dicembre 2011-12 gennaio 2012, n. 545, in Dir. pen. e processo, 2012,<br />

p. 304. Nel senso che il mutamento di indirizzo giurisprudenziale non è equiparabile ad uno ius superveniens agli effetti dell’art. 2 c.p., cfr. altresì Cass., sez.<br />

I, 14 ottobre 2009-12 novembre 2009, n. 43239. In dottrina, v., in senso conforme, M. Gambardella, Eius est abrogare cuius est condere. La retroattività<br />

del diritto giurisprudenziale favorevole, in Diritto penale contemporaneo, 14 maggio 2012, p. 12; D. Vicoli, La rivisitazione del fatto da parte del giudice<br />

dell’esecuzione: il caso dell’abolitio criminis, in Cass. pen., 2010, pp. e 1689 ss.; D. Vigoni, Relatività del giudicato, cit., p. 191, nota 54.<br />

29. Sulla inammissibilità delle questioni che sollecitino interventi “creativi”, tra le molte, Corte cost., sentenze n. 61 del 2006 e n. 33 del 2007; ordinanze n.<br />

83 del 2007, n. 243 del 2009 e n. 77 del 2010. Sulla inammissibilità delle questioni che richiedano interventi additivi in materia riservata alla discrezionalità<br />

del legislatore, in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata, per tutte, Corte cost., sentenze n. 138, n. 250 e n. 271 del 2010; ordinanza n. 59<br />

del 2010.<br />

diritto penale contemporaneo 3-4/2012 171<br />

53


caso di specie, ma di per sé opinabile, posto che non ogni revirement giurisprudenziale<br />

transita attraverso pronunce delle sezioni unite 30 e che, d’altra parte, la funzione nomofilattica<br />

– che il Giudice dell’esecuzione torinese pure aveva evocato a fondamento delle<br />

sue censure – appartiene, secondo l’art. 65 ord. giud., alla Corte di cassazione nel suo<br />

complesso.<br />

Discorso analogo vale anche per la limitazione dell’intervento additivo alle sole decisioni<br />

delle sezioni unite che determinino un mutamento di giurisprudenza. E perché<br />

non quelle che risolvano un contrasto giurisprudenziale? Al di là di astratte costruzioni<br />

teoriche – solo nel caso del mutamento di giurisprudenza, e non in quello della risoluzione<br />

di un contrasto, si ha un fenomeno che “assomiglia”, sul piano del “diritto vivente”,<br />

alla successione di leggi nel tempo – dal punto di vista della tutela dei diritti di chi è<br />

stato irrevocabilmente condannato sulla base della linea interpretativa poi sconfessata<br />

la situazione appare sostanzialmente identica 31 .<br />

Tutto ciò, senza considerare la possibilità di ascrivere alla pronuncia richiesta dal<br />

rimettente una portata “manipolativa di sistema” 32 , nel momento in cui sembrava preludere<br />

all’innesto nell’ordinamento italiano – tradizionalmente appartenente al novero<br />

degli ordinamenti continentali di civil law – di regole evocative del vincolo dello stare<br />

decisis, caratteristico dei sistemi di common law, secondo quanto, peraltro, emerge dalla<br />

stessa motivazione della sentenza della Corte 33 .<br />

8<br />

L’insussistenza della<br />

violazione dell’art. 117,<br />

comma 1, Cost.<br />

La Corte passa, ad ogni modo, direttamente al “cuore” del problema, disattendendo<br />

la censura di violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., per asserito contrasto con l’art. 7<br />

CEDU: censura che trova ovviamente la sua premessa fondante nella costruzione teorica<br />

inaugurata dalle “sentenze gemelle” del 2007 34 , riguardo alla configurabilità delle<br />

disposizioni della Convenzione – nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei<br />

diritti dell’uomo – come «norme interposte» rispetto al parametro costituzionale evocato,<br />

laddove impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli<br />

obblighi internazionali 35 .<br />

Nella specie, il giudice a quo aveva ricostruito la «norma interposta» – in assunto<br />

violata da quella interna sottoposta a scrutinio – tramite un mélange fra due distinte<br />

affermazioni della Corte di Strasburgo. La prima è quella espressiva del revirement<br />

operato dalla celebre e “celebrata” (ma non per questo priva di margini di opinabilità,<br />

come attestano le plurime dissenting opinions) sentenza Scoppola del 2009 della Grande<br />

Camera, al lume della quale l’art. 7 CEDU – malgrado il diverso dato letterale (evocativo<br />

del solo principio di irretroattività della norma penale sfavorevole) – sancirebbe<br />

(in aggiunta al più generale principio di legalità in materia penale, nelle sue diverse<br />

sfaccettature) anche il principio di retroattività della norma penale più mite 36 . L’altra<br />

30. L’art. 618 c.p.p. prevede, infatti, la semplice facoltà, e non l’obbligo, per la sezione singola, di deferire la risoluzione della quaestio iuris alle sezioni unite,<br />

laddove sia insorto o possa insorgere un contrasto.<br />

31. Anzi, parrebbe semmai maggiormente meritevole di tutela chi ha commesso il fatto in un momento nel quale la sua rilevanza penale era dubbia, al<br />

lume della contrastante giurisprudenza dell’epoca, che non colui che lo ha realizzato quando la sua rilevanza penale appariva certa, sempre in base alla<br />

linea interpretativa dell’epoca, poi disattesa dalle sezioni unite.<br />

32. Operazione a maggior ragione preclusa alla Corte costituzionale, con conseguente inammissibilità della questione che la prospetti: ex plurimis, Corte<br />

cost., sentenze n. 175 del 2004 e n. 182 del 2009; ordinanza n. 305 del 2001.<br />

33. Alquanto “formalistico” sarebbe stato il diverso, ipotizzabile profilo di inammissibilità, connesso al fatto che il giudice a quo non avesse coinvolto nello<br />

scrutinio di costituzionalità anche la norma sostanziale dell’art. 2, comma 2, c.p., di cui l’art. 673 c.p.p. rappresenta, per la parte che interessa, il riflesso<br />

processuale.<br />

34. Corte cost., sentenze n. 348 e n. 349 del 2007.<br />

35. In senso analogo, tra le ultime, Corte cost., n. 1, n. 113, n. 236, n. 245 e n. 303 del 2011, n. 78 del 2012. Sulla perdurante validità di tale ricostruzione<br />

anche dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, cfr. Corte cost., sentenza n. 80 del 2011.<br />

36. Cfr. Corte EDU, Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia (che, come è noto, capovolge la pregressa giurisprudenza della Corte di Strasburgo<br />

sul punto), a commento della quale cfr. M. Gambardella, Il “caso Scoppola”: per la Corte europea l’art. 7 CEDU garantisce anche il principio di<br />

retroattività della legge penale più favorevole, in Cass. pen., 2010, pp. 2020 e ss.; G. Ichino, L’“affaire Scoppola c. Italia” e l’obbligo dell’Italia di conformarsi<br />

alla decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo, ivi, 2010, pp. 841 e ss. In senso conforme, successivamente, Corte EDU, 27 aprile 2010, Morabito c.<br />

diritto penale contemporaneo 3-4/2012 172<br />

54


affermazione – rispondente, di contro, ad un orientamento da tempo consolidato nella<br />

giurisprudenza della Corte europea – è quella per cui, in rapporto al principio di legalità<br />

sancito dall’art. 7 CEDU, il concetto di «diritto» include sia il diritto di matrice legislativa<br />

che quello di derivazione giurisprudenziale 37 : soluzione originariamente pungolata<br />

dall’esigenza di non estromettere dalla tutela della Convenzione gli ordinamenti di<br />

common law 38 , ma ritenuta comunque valevole anche in rapporto ai sistemi di civil law,<br />

in considerazione del ruolo che pure in essi la giurisprudenza gioca nella definizione<br />

dell’esatta portata e nello sviluppo dei precetti penali 39 .<br />

Al riguardo, la Corte costituzionale inizia col rimarcare come, proprio alla luce di<br />

tale seconda affermazione, il principio convenzionale di legalità penale risulti meno<br />

“ricco” di quello recepito dall’art. 25 della Costituzione italiana. Al primo resta, infatti,<br />

estranea una componente “di spicco” del secondo, quale quella della riserva di legge,<br />

nell’accezione tipica del diritto continentale, che individua come unico law maker, in<br />

materia penale, il Parlamento, quale massima espressione della rappresentanza politica<br />

40 : circostanza che, di per sé, «preclude una meccanica trasposizione nell’ordinamento<br />

interno della postulata equiparazione tra legge scritta e diritto di produzione<br />

giurisprudenziale». Nel segnare un argine a soluzioni interpretative “d’avanguardia”,<br />

condotte sotto la bandiera dell’esegesi “convenzionalmente conforme”, l’enunciato assume<br />

un rilievo tutto particolare anche perché rappresenta – sia pure soltanto a livello<br />

di notazione incidentale – la prima applicazione concreta di uno dei postulati-cardine<br />

della teoria delle “norme interposte”: quello per cui, cioè, le disposizioni della CEDU,<br />

come interpretate dalla Corte di Strasburgo, collocandosi pur sempre a livello «subcostituzionale»,<br />

restano subordinate alla Costituzione italiana (all’intera Costituzione, e<br />

non soltanto ai c.d. “principi supremi”); con l’immediata conseguenza che esse perdono<br />

la capacità di integrare il «rinvio mobile» dell’art. 117, comma 1, Cost. quante volte entrino<br />

in conflitto con le altre regole della Carta 41 .<br />

Si tratta, peraltro – come già anticipato – di una notazione destinata nel frangente<br />

ad assumere una valenza solo incidentale, giacché la Corte reputa decisivo, al fine di<br />

disattendere la censura sottoposta al suo esame, un diverso e più radicale rilievo: ossia<br />

che mai, fino ad oggi, i Giudici di Strasburgo risultano avere enunciato il principio che<br />

il giudice a quo vorrebbe far discendere dalla combinazione dei due asserti dianzi ricordati,<br />

in base al quale un mutamento di giurisprudenza in senso favorevole all’autore<br />

del fatto imporrebbe la revoca delle sentenze di condanna già passate in giudicato 42 .<br />

Dei mutamenti di giurisprudenza la Corte di Strasburgo si è sinora occupata, in effetti,<br />

non in rapporto al principio di retroattività della lex mitior, ma solo a quello di irretroattività<br />

della legge sfavorevole 43 , segnatamente al fine di escludere che sia conforme alla<br />

Convenzione l’applicazione di un indirizzo giurisprudenziale estensivo della punibilità<br />

Italia; Corte EDU, 7 giugno 2011, Agrati c. Italia.<br />

37. Cfr., tra le più recenti, Corte EDU, 24.5.2007, Dragotoniu e altro c. Romania; Corte EDU, 12.2.2008, Kafkaris c. Cipro; Corte EDU, Grande Camera,<br />

17.5.2010, Kononov c. Lettonia; Corte EDU, 7.2.2012, Alimuçai c. Albania; Corte EDU, 6.3.2012, Huhtamäki c. Finlandia.<br />

38. Cfr. Corte EDU, 26 aprile 1979, Sunday Times c. Regno Unito (concernente, peraltro, gli artt. 9, 10 e 11 CEDU).<br />

39. Cfr. Corte EDU, Grande Camera, 24 aprile 1990, Kruslin c. Francia. Per la riaffermazione del principio, con riferimento a ricorsi inerenti all’ordinamento<br />

italiano, Corte EDU, 20 gennaio 2009, Sud Fondi s.r.l. c. Italia; Corte EDU, Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia; Corte EDU, 8<br />

dicembre 2009, Previti c. Italia.<br />

40. Cfr., in senso conforme, A. Bernardi, Art. 7, cit., p. 251; A. Esposito, Il diritto penale, cit., p. 303; V. Manes, Art. 7, in Commentario breve alla Convenzione<br />

europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a cura di S. Bartole, P. De Sena, V. Zagrebelsky, Padova, 2012,<br />

p. 274; E. Nicosia, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e diritto penale, Torino, 2006, p. 58; V. Zagrebelsky, La Convenzione europea, cit., p. 80.<br />

41. Nel senso che, in questa prospettiva, la Corte costituzionale – pur non potendo sindacare l’interpretazione della Convenzione accolta dalla Corte di<br />

Strasburgo – resta legittimata a verificare se, così interpretata, la norma convenzionale si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Costituzione,<br />

cfr. Corte cost., sentenze n. 93 del 2010, n. 113, n. 236 e n. 303 del 2011.<br />

42. Al riguardo, la Corte non manca, altresì, di rimarcare come – ponendosi nella prospettiva del giudice a quo – non ci si potrebbe poi arrestare “a metà<br />

del guado”. Se la tesi del rimettente fosse valida, la revoca del giudicato di condanna dovrebbe ritenersi necessaria non soltanto quando il mutamento di<br />

giurisprudenza in bonam partem attenga alla rilevanza penale del fatto, ma anche quando investa il trattamento sanzionatorio (escludendo, ad esempio,<br />

l’applicabilità di aggravanti o riconducendo il fatto ad un paradigma punitivo più mite).<br />

43. Oltre che in relazione alla generale verifica dei requisiti di «accessibilità» e «prevedibilità» della legge penale, che la Corte di Strasburgo considera insiti<br />

nel disposto dell’art. 7 CEDU.<br />

diritto penale contemporaneo 3-4/2012 173<br />

55


a fatti anteriormente commessi, quante volte la nuova interpretazione non si connoti<br />

come un’evoluzione ragionevolmente prevedibile della giurisprudenza anteriore 44 . Ma<br />

da ciò nulla si può dedurre ai fini che interessano, posto che l’un principio non è affatto<br />

il “rovescio della medaglia” dell’altro. Diverso, infatti, è il rispettivo fondamento, che<br />

per il principio di irretroattività in duriorem risiede nella cardinale esigenza di permettere<br />

la conoscenza anticipata delle conseguenze penali della propria condotta, quale<br />

garanzia contro persecuzioni arbitrarie; per il principio di retroattività in mitius, nella<br />

parità di trattamento, la quale richiede di estendere le modifiche della norma penale,<br />

conseguenti ad una mutata valutazione del disvalore del fatto, anche a chi l’abbia commesso<br />

anteriormente: prospettiva, questa, che – diversamente dalla prima – non esclude<br />

la configurabilità di ragionevoli deroghe 45 .<br />

Per questo verso, nella stessa sentenza Scoppola si rinviene una indicazione di segno<br />

contrario alla prospettiva del rimettente, già valorizzata in precedenza dalla Corte costituzionale<br />

ad altro fine 46 . Ivi si afferma, infatti, che il principio convenzionale di retroattività<br />

in mitius si riferisce alle leggi posteriori alla perpetrazione del reato «adottate prima<br />

della pronuncia definitiva»: puntualizzazione che (almeno fino “a prova contraria”)<br />

viene a far salvo il limite del giudicato. Tale limite convenzionale, d’altra parte, se vale<br />

per la lex scripta, non potrebbe non operare per il diritto di matrice giurisprudenziale:<br />

tanto più che la stessa Corte europea non ha mancato di rilevare, sia pure in diverso contesto,<br />

come non si possa sostenere che la composizione di un contrasto giurisprudenziale<br />

da parte di un tribunale supremo imponga – in nome della parità di trattamento – la<br />

revisione di tutte le decisioni definitive anteriori con esso contrastanti, trattandosi di<br />

soluzione che confligge con il principio di sicurezza giuridica 47 .<br />

In conclusione, dunque, la «norma interposta» invocata dal rimettente – a prescindere<br />

dalla sua compatibilità con l’art. 25, comma 2, Cost. – resta, allo stato, priva di reale<br />

riscontro nella giurisprudenza europea.<br />

9<br />

L’insussistenza della lesione<br />

dei principi di eguaglianza<br />

e di ragionevolezza (art. 3<br />

Cost.)<br />

Sbarazzatasi rapidamente dei “collaterali” e poco conferenti riferimenti agli artt. 5<br />

e 6 CEDU (in tema di diritto alla libertà e alla sicurezza e di equo processo), operati<br />

dal giudice a quo sulla scia della sentenza Beschi ad ulteriore puntello della denunciata<br />

lesione dell’art. 117, comma 1, Cost., la Corte costituzionale respinge anche le censure<br />

di violazione dell’art. 3 Cost.: censure basate sul rilievo che il legislatore non potrebbe<br />

(«per la contradizion che nol consente»), da un lato, valorizzare – in una prospettiva<br />

di tutela dell’eguaglianza e della prevedibilità delle conseguenze giuridico-penali delle<br />

condotte dei consociati – la funzione nomofilattica della Cassazione (art. 65 ord. giud.)<br />

e particolarmente delle sezioni unite (artt. 610, comma 1, 618, comma 1, c.p.p.; art. 172<br />

disp. att. c.p.p.); dall’altro, continuare a punire – omettendo di prevedere la revoca della<br />

sentenza definitiva di condanna – chi ha commesso un fatto che, alla stregua del «diritto<br />

vivente» sopravvenuto, determinato da una decisione dell’organo della nomofilachia,<br />

non costituisce reato.<br />

In direzione contraria, la Corte rileva che l’assetto normativo censurato è, in realtà,<br />

44. Condizione ravvisata in rapporto al superamento del principio generale di common law, secondo cui il marito non può essere dichiarato colpevole di<br />

stupro nei confronti della moglie (Corte EDU, 22 novembre 1995, S.W. c. Regno Unito); non, invece, in relazione al revirement della Cassazione francese<br />

circa la configurabilità come reato della prosecuzione di lavori edili a fronte di un ordine di sospensione del giudice amministrativo (Corte EDU, 10 ottobre<br />

2006, Pessino c. Francia). Più di recente, per altra fattispecie, Corte EDU, 10 luglio 2012, Del Rio Prada c. Spagna. A conclusioni in larga misura sintoniche,<br />

quanto alla generale affermazione di principio, è pervenuta anche la Corte di giustizia dell’Unione europea: cfr. Corte giust., 8.2.2007, C-3/06 P, Groupe<br />

Danone c. Commissione; Corte giust., Grande Sezione, 28.5.2005, C-189/02, P e altre, Dansk Rørindustri e altri.<br />

45. Fondamentale, ai fini di tale ricostruzione, Corte cost., sentenza n. 394 del 2006.<br />

46. In particolare, nella sentenza n. 236 del 2011, al fine di respingere la questione di costituzionalità relativa ai limiti all’applicazione retroattiva della<br />

nuova disciplina della prescrizione introdotta dalla “ex-Cirielli” (art. 10, comma 3, l. 5 dicembre 2005, n. 251). Per un commento alla decisione, v. A. Mari,<br />

Retroattività della lex mitior e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Cass. pen., 2011, pp. 4152 e ss.; C. Pinelli, Retroattività della legge penale più<br />

favorevole fra CEDU e diritto nazionale, in Giur. cost., 2011, pp. 3047 e ss.<br />

47. Cfr. Corte EDU, 28 giugno 2007, Perez Arias c. Spagna.<br />

diritto penale contemporaneo 3-4/2012 174<br />

56


coerente con un sistema che – in conformità alla tradizione propria dei Paesi di civil law<br />

(ma anche per le ragioni di ordine costituzionale di seguito indicate) – non attribuisce<br />

efficacia vincolante, ma solo “persuasiva”, al precedente giurisprudenziale, sia pure del<br />

più alto livello 48 . Al fine di derogare al fondamentale principio di intangibilità della res<br />

iudicata, il legislatore “pretende”, non irrazionalmente, un evento – quale l’abrogazione<br />

legislativa o la dichiarazione di incostituzionalità – che renda penalmente irrilevante<br />

una data condotta in termini “stabili” e di generale vincolatività. L’indirizzo espresso<br />

dalla decisione delle sezioni unite, pur nella sua particolare forza “orientativa”, resta, al<br />

contrario, intrinsecamente “instabile”, potendo essere contraddetto in qualunque momento<br />

da qualsiasi giudice (sia pure con l’onere di una congrua motivazione) e rivisto<br />

dalle stesse sezioni unite, anche su pungolo delle sezioni singole, come in fatto non di<br />

rado è accaduto 49 .<br />

Lungi, dunque, dal rimuoverle, sarebbe, in realtà, proprio la pronuncia additiva invocata<br />

dal giudice a quo ad incuneare aporie nel sistema. Posto il generale carattere di<br />

obbligatorietà dell’intervento di revoca del giudicato previsto dall’art. 673 c.p.p., l’accoglimento<br />

del petitum comporterebbe che, di fronte alla pronuncia delle sezioni unite<br />

che escluda la rilevanza penale del fatto, il giudice dell’esecuzione dovrebbe comunque<br />

elidere la sentenza definitiva di condanna, condivida o meno l’arresto dell’organo della<br />

nomofilachia (il che è, peraltro, nella logica delle censure del rimettente). In questo<br />

modo, si verrebbe, peraltro, ad introdurre nell’ordinamento italiano un inedito vincolo<br />

di stare decisis di tipo “verticale”: vincolo peraltro “sbilenco”, in quanto operante paradossalmente<br />

solo in sede esecutiva, quando il giudicato è già formato, e non nei confronti<br />

del giudice della cognizione, che si trovasse a conoscere ex novo di un medesimo fatto.<br />

10<br />

L’insussistenza del<br />

contrasto con il principio<br />

“costituzionale” di<br />

retroattività della lex mitior<br />

Non migliore sorte ha l’ulteriore censura di violazione del principio «di (tendenziale)<br />

retroattività del principio della normativa penale più favorevole».<br />

Ribadito che il principio in questione non trova fondamento costituzionale nell’art.<br />

25, comma 2, Cost. (come pure pretendeva il rimettente) 50 , ma solo nel generale principio<br />

di eguaglianza, rimanendo così suscettibile di deroghe in presenza di adeguate<br />

ragioni giustificatrici 51 – ragioni tra le quali la giurisprudenza costituzionale ha ricom-<br />

48. Secondo lo “stereotipo” classico, la differenza fondamentale tra ordinamenti di common law e di civil law risiede proprio in ciò, che il precedente<br />

giurisprudenziale ha un’autorità vincolante nei primi (binding authority) e solo “persuasiva” nei secondi (persuasive authority) (per tutti, S. Chiarloni,<br />

Un mito rivisitato: note comparative sull’autorità del precedente giurisprudenziale, in Riv. dir. proc., 2001, p. 614; A. Gorla, Precedente giudiziale, in Enc.<br />

giur., vol. XXVI, Roma, p. 4; V. Marinelli, Precedente giudiziario, in Enc. dir., Aggiornamento, vol. VI, Milano, 2002, p. 878). Proprio a fronte di ciò, la<br />

giurisprudenza viene annoverata senza difficoltà tra le fonti del diritto negli ordinamenti di common law, mentre ciò non avviene in quelli di civil law (U.<br />

Mattei, Precedente giudizio e stare decisis, in Dig. disc. pen., vol. XIV, Torino, 1996, p. 149). È ben noto come sia da tempo in atto un processo di avvicinamento<br />

tra i due sistemi (negli ordinamenti di civil law cresce l’apporto dei giudici, in quelli di common law quello del legislatore) (D. Bifulco, Il giudice,<br />

cit., pp. 29 e s.; A. Cadoppi, Il valore del precedente, cit., pp. 83, 202 e s.; V. Marinelli, Precedente giudiziario, cit., p. 882). Ed è parimenti noto come una<br />

parte della dottrina (facente capo, in particolare, a Gorla) – traendo argomento, in specie, dal complesso di disposizioni che prevedono e disciplinano la<br />

funzione nomofilattica della Corte di cassazione – sia propensa a ritenere che, in realtà, già ora nell’ordinamento italiano la rilevanza del precedente giurisprudenziale<br />

non sia meramente “psicologica”, ma corrisponda a un preciso vincolo giuridico (A. Gorla, Precedente giudiziario, cit., p. 4, ove ulteriori<br />

riferimenti). Ma si tratterebbe comunque di un vincolo “soft”, non mai assoluto e incondizionato: la Cassazione avrebbe un dovere funzionale e quindi<br />

giuridico di non distaccarsi dai propri precedenti, se non per ragioni gravi e congrue, in quanto tributaria della funzione nomofilattica; il giudice di merito<br />

che volesse dissentire dalla Cassazione dovrebbe farlo motivando espressamente il dissenso. Il che non equivale, evidentemente, ancora a uno stare decisis,<br />

nemmeno “verticale” (A. Cadoppi, Il valore del precedente, cit., p. 211).<br />

49. Come nota la Corte, la stessa sentenza Beschi delle sezioni unite, al cui iter argomentativo il rimettente attinge a piene mani, si è premurata di porre<br />

in evidenza la profonda differenza che intercorre tra il c.d. giudicato esecutivo (mera preclusione processuale, volta ad inibire la defatigante reiterazione di<br />

istanze col medesimo oggetto) e il giudicato vero e proprio. Né giova al rimettente – osserva ancora la Corte – il richiamo alla dottrina del «diritto vivente»,<br />

elaborata ai fini della definizione dell’oggetto del giudizio di costituzionalità, rimanendo fermo che il giudice ha solo facoltà e non l’obbligo di allinearsi<br />

all’orientamento giurisprudenziale che abbia acquisito il suddetto carattere (Corte cost., sentenze n. 91 del 2004 e n. 117 del 2012).<br />

50. Detta norma costituzionale si limita, infatti, a stabilire il divieto di applicazione retroattiva della norma sfavorevole.<br />

51. Giurisprudenza costituzionale costante: per tutte, Corte cost., sentenze n. 393 e n. 394 del 2006, n. 215 del 2008 e n. 236 del 2011. In dottrina, sullo<br />

statuto costituzionale del principio di retroattività della norma penale più favorevole, cfr., per tutti, A. Cadoppi, Il principio di irretroattività, in Aa.Vv.,<br />

Introduzione al sistema penale, 3 a ed., Torino, 2006, pp. 189 e ss.; V. Maiello, Il rango della retroattività della lex mitior nella giurisprudenza comunitaria<br />

e costituzionale italiana, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2008, pp. 1614 e ss.; C. Pinelli, Retroattività della legge penale più favorevole fra CEDU e diritto<br />

nazionale, in Giur. cost., 2011, pp. 3047 e ss.; F. Viganò, Sullo statuto costituzionale della retroattività della legge penale più favorevole, in Diritto penale<br />

diritto penale contemporaneo 3-4/2012 175<br />

57


preso anche l’esigenza di salvaguardare la certezza dei rapporti esauriti, attraverso l’intangibilità<br />

del giudicato 52 – la Corte annette rilievo dirimente alla considerazione che la<br />

retroattività in mitius concerne, in ogni caso, la sola successione di «leggi». Omologare,<br />

a tali fini, la sequenza tra diversi orientamenti giurisprudenziali ad un atto di produzione<br />

normativa è, peraltro, operazione preclusa dalle coordinate di base dell’assetto<br />

costituzionale: coordinate espresse non solo dalla riserva di legge in materia in penale<br />

(art. 25, comma 2, Cost.), già chiamata in gioco ad altro fine, ma anche, ed ancor prima,<br />

dal cardinale principio di separazione dei poteri, riflesso nel precetto che vuole il<br />

giudice soggetto (soltanto) alla legge (art. 101, comma 2, Cost.): ergo – anche se non lo si<br />

dice expressis verbis – esclusivamente interprete, ma non artefice della legge medesima.<br />

Né le cose cambiano quando l’arresto dell’organo della nomofilachia sia nel segno<br />

della configurabilità d’una abolitio criminis: eius est abrogare cuius est condere 53 .<br />

11<br />

La convergenza con il<br />

tracciato delle sezioni unite<br />

civili<br />

Cadono automaticamente, con ciò – secondo la Corte – anche le residue censure di<br />

violazione degli artt. 13 e 27, comma 3, Cost. (inviolabilità della libertà personale e funzione<br />

rieducativa della pena): censure fondate sulla stessa inaccettabile equazione sopra<br />

indicata (contrasto “diacronico” di giurisprudenza uguale a creazione di nuovo diritto),<br />

la quale – ed è il “colpo di maglio” finale – «comporterebbe la consegna al giudice, organo<br />

designato all’esercizio della funzione giurisdizionale, di una funzione legislativa, in<br />

radicale contrasto con i profili fondamentali dell’ordinamento costituzionale».<br />

La Corte prende così decisamente le distanze dalla Weltanschauung della sentenza<br />

Beschi, per intersecare idealmente la diversa linea seguita – curiosamente, quasi nel<br />

medesimo torno di tempo – dalle sezioni unite civili della stessa Corte di cassazione<br />

con la già citata sentenza n. 15144 del 2011. Nel riconoscere, a determinate condizioni,<br />

la praticabilità del prospective overruling al fine di evitare gli effetti “penalizzanti”<br />

d’un improvviso revirement su norme processuali, le sezioni unite civili hanno tenuto,<br />

infatti, ferma la valenza soltanto dichiarativa dell’interpretazione giurisprudenziale, a<br />

fronte della quale la giurisprudenza si limita a disvelare una potenzialità semantica del<br />

testo, senza porsi quale vera fonte di “nuovo diritto” 54 : ritenendo, con ciò, che neppure<br />

i richiamati orientamenti della giurisprudenza sopranazionale possano scalfire tale<br />

impostazione, consentanea al ruolo del giudice disegnato dalla Carta costituzionale 55 .<br />

contemporaneo, 6 settembre 2011.<br />

52. Cfr. Corte cost., sentenze n. 164 del 1974, n. 6 del 1978, n. 74 del 1980 e n. 330 del 1995. Occorre, peraltro, avvertire che si tratta di pronunce anteriori<br />

all’“irrigidimento” del giudizio in ordine alla ragionevolezza della deroga, operato dalla sentenza n. 393 del 2006.<br />

53. Nello stesso senso, cfr. M. Gambardella, Eius est abrogare, cit., p. 10.<br />

54. Cfr. F. Cavalla, C. Consolo, M. De Cristofaro, Le S.U., cit., pp. 1395 e s.; E. Vincenti, Note minime, cit., p. 4135.<br />

55. Cfr. Cass. civ., sez. un., 11 luglio 2011, n. 15144, in C.e.d. Cass., n. 617905, ove specificamente si legge che «La norma giuridica […] trova propriamente<br />

la sua fonte di produzione nella legge (e negli atti equiparati), in atti, cioè, di competenza esclusiva degli organi del potere legislativo. Nel quadro degli<br />

equilibri costituzionali (ispirati al principio classico della divisione dei poteri) i giudici (estranei al circuito di produzione delle norme giuridiche) sono<br />

appunto (per disposto dell’art. 101, comma 2, Cost.), “soggetti alla legge”. Il che realizza l’unico collegamento possibile, in uno Stato di diritto, tra il giudice,<br />

non elettivo né politicamente responsabile, e la sovranità popolare, di cui la legge, opera di parlamentari eletti dal popolo e politicamente responsabili, è<br />

l’espressione prima». In tale prospettiva, nel caso di overruling a carattere “correttivo” di una norma processuale, l’atto compiuto dalla parte in conformità<br />

all’orientamento overruled si deve considerare – ora per allora – non rituale. A una diversa conclusione potrebbe giungersi solo ove si ritenesse che la<br />

precedente interpretazione costituisca il parametro normativo immanente per la verifica di validità dell’atto compiuto: ma ciò – osservano le sezioni unite<br />

civili – «trasformerebbe una sequenza di interventi accertativi del contenuto della norma in una operazione di creazione di novum ius, in sequenza ad un<br />

vetus ius, con sostanziale attribuzione ai singoli arresti del valore di atti fonte del diritto, di provenienza del giudice; soluzione non certo coniugabile con il<br />

precetto costituzionale dell’art. 101 Costituzione». La diversità di approccio tra sezioni unite civili e penali appare, in effetti, singolare, ove si consideri che<br />

la soluzione più “aperta” – quella delle sezioni unite penali – è stata adottata in rapporto al settore dell’ordinamento che pure dovrebbe essere maggiormente<br />

sensibile alle esigenze di rispetto del principio di legalità formale, specificamente riflesso nel disposto dell’art. 25, comma 2, Cost.<br />

diritto penale contemporaneo 3-4/2012 176<br />

58


LE SEZIONI UNITE SULL’APPLICAZIONE RETROATTIVA DELLA DISCIPLINA PIÙ<br />

FAVOREVOLE IN MATERIA DI PRESCRIZIONE<br />

Cass., Sez. un., 24.11.2011 (dep. 24.4.2012), n. 15933, Pres. Lupo, Rel. Ippolito, ric. P.G. in proc. Rancan<br />

(l'intervenuta pronuncia alla data di entrata in vigore della legge n. 251 del 2005 della sentenza di primo<br />

grado, sia di condanna, sia di assoluzione, determina la pendenza in grado d'appello del procedimento,<br />

ostativa all'applicazione dei termini di prescrizione, se più brevi, previsti dall'art. 6 della stessa legge n. 251)<br />

[Gioacchino Romeo]<br />

1. A cinque mesi esatti dalla pronuncia viene depositata la motivazione della decisione delle Sezioni unite penali che<br />

si occupa di una questione residuata a una loro precedente sentenza (29 ottobre 2009 n. 47008, in Dir. pen. proc.,<br />

2010, p. 695, con nota di Beltrani, Prescrizione: retroattività della lex mitior e pendenza del processo in grado di<br />

appello): quella di individuare il momento in cui il processo passa dal primo grado a quello di appello allorché<br />

la sentenza del primo giudice non sia stata di condanna, ma di assoluzione.<br />

Tale momento rileva ai fini della scelta della disciplina applicabile, in tema di prescrizione, tra quella anteriore<br />

all'entrata in vigore della legge n. 251 del 2005 e quella posteriore, alla luce di quanto dispone l'art. 10 di essa, come<br />

risultante dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale in parte qua contenuta nella sentenza 23 novembre 2006<br />

n. 393 della Corte costituzionale («Se, per effetto delle nuove disposizioni, i termini di prescrizione risultano più<br />

brevi, le stesse si applicano ai procedimenti e ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge,<br />

ad esclusione dei processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione»).<br />

Nel caso di specie, l'imputato, al quale era stata contestata calunnia a norma dell'art. 368, comma primo, c.p.,<br />

commessa il 20 novembre 2000, era stato prosciolto in primo grado il 14 aprile 2002. Impugnata la sentenza dal<br />

P.M. nel vigore degli artt. 157 e 160 c.p. ante legge n. 251 del 2005, il giudice d'appello, riformando la prima<br />

decisione dopo l'entrata in vigore di quella legge, con sentenza del 1° aprile 2010 aveva dichiarato il reato prescritto,<br />

in ossequio a uno degli indirizzi interpretativi affermatisi nella giurisprudenza di legittimità, che le Sezioni unite, con<br />

la sentenza in epigrafe, hanno ripudiato, a composizione del contrasto.<br />

Com'è noto, il corno del dilemma è rappresentato dall'individuazione di quando può dirsi che il processo penda in<br />

appello. E la citata sentenza n. 47008 del 2009 delle Sezioni unite penali aveva stabilito che, ai fini dell'operatività<br />

della più favorevole disciplina della prescrizione, la pronuncia della sentenza di condanna di primo grado<br />

determina la pendenza in appello del procedimento, la quale è di ostacolo all'applicazione retroattiva delle norme<br />

più favorevoli.<br />

È anche noto che più volte si è tentato di abbattere questo spartiacque legislativo con incidenti di costituzionalità,<br />

ma senza risultato, avendo la Corte costituzionale respinto tutte le censure proposte in tal senso (sentenze n. 72 del<br />

2008 e 236 del 2011 e ordinanza n. 314 del 2011), anche sotto il profilo, qui nuovamente evocato dalla difesa, della<br />

violazione dell'art. 117, comma primo, Cost., in relazione all'art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei<br />

diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.<br />

Restava, dunque, da dimostrare che, ai fini dell'individuazione di questo spartiacque, fosse indifferente l'esito della<br />

conclusione del giudizio di primo grado e che il dictum della precedente sentenza delle Sezioni unite resistesse<br />

anche in caso di assoluzione dell'imputato in primo grado: impresa ostacolata dal rilievo, fatto proprio da alcune<br />

pronunce delle sezioni semplici della Corte di cassazione, secondo le quali, poiché la sentenza di assoluzione non è<br />

compresa tra gli atti idonei a interrompere il corso della prescrizione, il momento al quale fare riferimento per<br />

l'applicazione della (eventualmente) più favorevole disciplina della prescrizione prevista dalla legge n. 251 del 2005,<br />

in caso appunto di assoluzione, coincide con il primo atto, tra quelli successivi del procedimento, cui la legge<br />

riconosca l'effetto di interrompere la prescrizione, e cioè il decreto di citazione per il giudizio di appello (così<br />

Cass. pen., sez. VI, 25 novembre 2008 n. 7112/2009, in Cass. pen., 2009, p. 3786, con commento di Mazzotta, Una<br />

nuova pronuncia sulla nozione di "pendenza in grado di appello" nella disciplina transitoria della c.d. ex Cirelli;<br />

sez. II, 27 gennaio 2011 n. 8455, in C.e.d. Cass., n. 249953; nel senso che si debba, invece, fare riferimento al<br />

momento di ricezione del fascicolo da parte della Corte d'appello e, più precisamente, all'atto di iscrizione<br />

nell'apposito registro, sez. III, 15 aprile 2008 n. 24330, ivi, n. 240342).<br />

Per superare l'ostacolo, e individuare così anche nella sentenza di assoluzione dell'imputato emessa in primo grado<br />

il momento a partire dal quale il giudizio può dirsi pendente in appello ai fini della legge n. 251 del 2005, le Sezioni<br />

unite si riportano agli argomenti già spesi dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 393 del 2006 e poi riprodotti<br />

nell'indirizzo interpretativo prevalente nella giurisprudenza di legittimità, pervenendo all'affermazione che l'attuale<br />

testo dell'art. 10, comma 3, legge n. 251 del 2005 non consente un'interpretazione a "geometria variabile", anche<br />

59


perché la citata sentenza costituzionale non autorizza l'attribuzione all'identico enunciato linguistico del testo<br />

legislativo di un significato diversificato, secondo che l'esito del giudizio di primo grado sia di condanna o di<br />

assoluzione, né impone che l'elemento differenziale per l'applicazione delle vecchie o delle nuove norme sia<br />

identificato in alcuno dei fatti processuali elencati nell'art. 160 c.p. e idonei a interrompere il corso della<br />

prescrizione.<br />

Ragioni logiche ed esigenze sistematiche, infatti, esigono di assegnare un significato univoco e unitario alla<br />

disposizione e alla nozione di "pendenza in appello", quale che sia l'esito del giudizio di primo grado; mentre la<br />

frammentazione interpretativa di quella nozione determinerebbe incertezze e rischi di ingiustificata disparità rispetto<br />

alla disciplina stabilita dall'art. 161 c.p. per i processi cumulativi.<br />

In più, far coincidere, in alternativa, l'inizio della "pendenza in appello" del procedimento con attività di data<br />

aleatoria, perché nella disponibilità delle parti o di uffici che possono essere più o meno solleciti, condurrebbe a<br />

conseguenze palesemente irrazionali e/o a disparità di casi identici. Linea di pensiero non nuova e già seguita da Sez.<br />

un., 29 marzo 2007, n. 27614, in Cass. pen., 2007, p. 4451, sul regime di impugnabilità della sentenza, allorché si<br />

succedano nel tempo, in assenza di disposizioni transitorie, discipline diverse.<br />

2. Ineccepibile il percorso argomentativo delle Sezioni unite. Non solo perché il sentiero era già segnato da<br />

pronunce della Corte costituzionale non equivoche; ma anche perché alternative di qualunque tipo avrebbero offerto<br />

il fianco a più di un'obiezione (per altri rilievi, oltre quelli di ordine generale esposti in sentenza, si veda Mazzotta,<br />

op. cit., p. 3795).<br />

Però, dato atto della correttezza dell'esito del giudizio, qualche domanda, sollecitata dal caso di specie, ma<br />

interessante su un piano generale, pare inevitabile.<br />

Se, per effetto di una, piuttosto che di un'altra, opzione interpretativa, a distanza di dodici anni dalla data di<br />

commissione di un reato di non rilevante gravità, accade che l'autore si ritrovi esposto a subire un processo penale<br />

per la circostanza, meramente occasionale, dello stadio al quale era pervenuto il "suo" processo e dopo essere stato<br />

assolto in un grado e aver sentito dichiarare la prescrizione del reato in quello successivo, sembrano evidenti i danni<br />

che un evento simile è in grado di creare all'immagine della giustizia e al principio di eguaglianza, come, del resto,<br />

avviene in tutti i casi nei quali l'incertezza delle soluzioni è addebitabile a difformi interpretazioni di una norma.<br />

Non solo. Si scopre anche, in modo altrettanto certo, quanto davvero il testo legislativo sia incoerente al fine<br />

dichiarato da chi ebbe a concepire un intervento così traumatico sul sistema penale come la legge n. 251 del 2005 e<br />

quanto, invece, sotto veste di realizzazione della ragionevole durata del processo, si nasconda un neanche troppo<br />

occulto obiettivo di legge ad personam (per incidens, contrasta con quel fine la dilatazione dei tempi processuali per<br />

i delitti puniti con pene massime dell'ordine di venti anni di reclusione o più).<br />

Non si dispone di dati numerici sulle prescrizioni dichiarate in primo grado per effetto di questa legge. Ma si ha<br />

l'impressione che non si sarebbe molto lontani dalla verità se, soprattutto per certe categorie di reati, si ritenesse che<br />

l'irrompere improvviso del novum, a strategie processuali già elaborate, abbia prodotto effetti simili a quelli di una<br />

microamnistia. Con la conseguenza, connessa e ulteriore, delle disparità di trattamento tra persone accusate del<br />

medesimo reato e giudicate in luoghi diversi, ascrivibili alla maggiore o minore sollecitudine degli uffici giudiziari<br />

nel definire i processi in primo grado.<br />

Corretta appare anche la ritenuta manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale<br />

prospettate dalla difesa: lo imponevano tutti i precedenti, sia della Corte costituzionale, sia della Corte EDU.<br />

Poiché, infatti, secondo quest'ultima, unica interprete qualificata della Convenzione europea dei diritti dell'uomo,<br />

l'art. 7 della stessa Convenzione, che stabilisce il principio del divieto di applicazione retroattiva della legge penale<br />

e include anche il corollario del diritto dell'accusato al trattamento più lieve, si riferisce alla fattispecie<br />

incriminatrice e alla pena, non anche alla disciplina della prescrizione, è stato facile alle Sezioni unite respingere<br />

la richiesta di rimessione degli atti alla Corte costituzionale ex art. 117, comma primo, Cost.; difatti, se è indubbio<br />

che la disciplina della prescrizione sia riconducibile alla nozione di legge penale (il che, ovviamente, rileva, ai fini<br />

dell'applicazione dell'art. 2 c.p.), è altrettanto certo che essa è estranea alla formula dell'art. 7 della Convenzione,<br />

secondo il quale "nessuno può essere condannato per una azione o omissione che, al momento in cui è stata<br />

commessa, non costituiva reato". L'identico argomento che, insieme ad altri, ha spinto anche la Corte<br />

costituzionale, con la già citata sentenza n. 236 del 2011 (pubblicata in questa Rivista con nota di F. Viganò, Sullo<br />

statuto costituzionale della retroattività della legge più favorevole), a respingere l'ennesimo attacco alla disciplina<br />

60


transitoria fissata nel testo vigente dell'art. 10 della legge n. 251 del 2005: la Consulta, che sul piano generale ha<br />

messo in luce la possibilità di limiti ragionevoli alla stessa regola di applicazione retroattiva della lex mitior, ha<br />

comunque ribadito che, nella Convenzione europea e nella giurisprudenza di Strasburgo, il principio riguarda le sole<br />

norme di identificazione del fatto punibile e di determinazione del relativo trattamento sanzionatorio.<br />

3. Proprio con riferimento a questa interpretazione del giudice sopranazionale e del giudice costituzionale, la<br />

sentenza in commento, contrariamente alle apparenze, risulta in sintonia, mutatis mutandis, con la decisione assunta<br />

dalle stesse Sezioni unite, sempre in tema di retroattività della lex mitior, appena cinque giorni prima del suo<br />

deposito.<br />

Altra, e ben più impegnativa questione: quella della possibilità, per il giudice dell'esecuzione, di sostituire alla<br />

pena dell'ergastolo quella di trenta anni di reclusione ai condannati in rito abbreviato con sentenza irrevocabile,<br />

versanti nella stessa condizione di Franco Scoppola (vittorioso attore a Strasburgo il 17 settembre 2009 contro il<br />

Governo italiano), ma senza avere mai adito la Corte europea dei diritti dell'uomo.<br />

Com'è noto, i supremi giudici hanno deliberato di rimettere gli atti alla Corte costituzionale (si veda, in questa<br />

Rivista, la relativa informazione), impugnando gli artt. 7 e 8 del d.l. n. 341 del 2000 convertito nella legge n. 4 del<br />

2001.<br />

Apparenti affinità tra le due questioni.<br />

Nella prima veniva in rilievo un istituto che, come sottolineato dalla sentenza, non può essere assimilato,<br />

specie in punto di garanzie convenzionali relative alla retroattività della lex mitior, a quello della legge punitiva più<br />

favorevole; tant'è vero che proprio la previsione di termini di prescrizione particolarmente brevi può determinare, in<br />

alcuni casi, la violazione dei principi della Convenzione europea.<br />

Nella seconda, invece, si trattava di dare esecuzione a una pronuncia della Corte di Strasburgo la quale, al di<br />

là del caso deciso, aveva affermato il principio che il diritto del condannato a vedersi applicata la norma<br />

punitiva più favorevole rientra tra quelli fondamentali della Convenzione. Ed erano in discussione le modalità<br />

con cui concretamente dare ingresso a quel diritto in executivis e la cui individuazione, come accennato, è stata<br />

affidata dalle Sezioni unite alla Consulta.<br />

Sulla relativa decisione, finché non saranno note le motivazioni dell'ordinanza di rimessione, è d'obbligo il silenzio.<br />

Ma già sin d'ora si può prevedere ragionevolmente che alla Corte costituzionale sarà affidato il gravoso compito di<br />

ulteriori e significative precisazioni su uno dei temi cruciali del nostro diritto penale, alla luce degli obblighi di<br />

diritto internazionale che lo Stato italiano ha assunto e degli indefettibili principi stabiliti dalla Carta costituzionale.<br />

Non mancherà, quindi, l'occasione per ritornare sull'argomento.<br />

Cass. pen. Sez. Unite, 24-11-2011, n. 15933<br />

E' manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 10, comma terzo, della legge n. 251<br />

del 2005 nella parte in cui esclude l'applicazione dei nuovi termini di prescrizione, se più brevi, per i processi già<br />

pendenti in grado di appello o dinanzi alla Corte di Cassazione, per asserito contrasto con l'art. 3 c.p. in quanto<br />

derogante irragionevolmente al principio di retroattività della lex mitior sancito dall'art. 2, comma quarto c.p. La<br />

ratio della norma transitoria di cui innanzi è, invero, quella di graduare il passaggio dalla vecchia alla nuova<br />

disciplina sui termini di prescrizione sulla base dello stato di avanzamento del processo penale, in modo da non<br />

sacrificare l'interesse costituzionalmente rilevante dell'efficienza della giurisdizione che è in corso di esercizio al<br />

momento dell'entrata in vigore della legge. Individuare la pendenza del processo di primo grado come<br />

discrimine per l'applicazione della nuova disciplina prescrizionale più favorevole è, dunque, soluzione<br />

accettabile, che supera il necessario vaglio positivo di ragionevolezza, considerato che solo quando il processo è<br />

ancora pendente in primo grado gli attori del medesimo possono riadattare la loro iniziativa ai tempi più brevi<br />

della prescrizione.<br />

1. Con sentenza del 14 marzo 2002, R.A. fu assolto dal Tribunale di Vicenza dal delitto di calunnia, commesso il<br />

(OMISSIS).<br />

61


Su impugnazione del pubblico ministero, la Corte di appello di Venezia, con sentenza del 1 aprile 2010, ha invece<br />

ritenuto sussistente il reato contestato all'imputato (avente a oggetto la falsa denuncia di smarrimento di un assegno già<br />

negoziato al fine di impedirne la riscossione), ma ha al contempo rilevato l'estinzione del medesimo per intervenuta<br />

prescrizione.<br />

Nel decidere se nel caso di specie dovesse applicarsi o no al R. la più favorevole disciplina dei termini di prescrizione<br />

introdotta dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, la Corte veneziana - prendendo atto della sentenza delle Sezioni Unite n.<br />

47008 del 29/10/2009, D'Amato, che ha individuato nella sentenza di condanna dell'imputato di primo grado l'atto<br />

idoneo a segnare la pendenza in grado d'appello - ha ritenuto che con tale pronuncia è stato sostanzialmente affermato il<br />

principio secondo cui il limite alla retroattività della lex mitior sarebbe definito dalla sopravvenienza di un atto<br />

interruttivo della prescrizione idoneo a segnare, per l'appunto, la pendenza dei grado d'appello.<br />

In tal senso, atteso che la sentenza di assoluzione, al contrario di quella di condanna (oggetto della fattispecie decisa<br />

dalle Sezioni Unite), non costituisce atto interruttivo della prescrizione ai sensi dell'art. 160 c.p., i giudici veneziani<br />

hanno individuato (in linea con uno degli orientamenti della giurisprudenza di legittimità) lo spartiacque tra vecchio e<br />

nuovo regime della prescrizione nel decreto di citazione per il giudizio d'appello, nella specie emesso il 28 dicembre<br />

2009, successivamente all'entrata in vigore della nuova e più favorevole disciplina dei termini di prescrizione introdotta<br />

nel dicembre del 2005.<br />

Applicandosi dunque al reato contestato al R. il nuovo e più favorevole termine configurato dalla novella e considerati<br />

gli atti interruttivi intervenuti durante il suo decorso, il provvedimento impugnato ha ritenuto compiuta la prescrizione<br />

nel caso di specie al 14 marzo 2008. 2. Avverso la sentenza d'appello ha proposto ricorso il Procuratore generale presso<br />

la Corte di appello di Venezia, che con unico motivo ne ha chiesto l'annullamento per inosservanza ed erronea<br />

applicazione della L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3, nel testo risultante a seguito della sentenza n. 393 del 2006<br />

della Corte costituzionale.<br />

Il ricorrente, dopo aver precisato che la citata sentenza delle Sezioni Unite ha inteso risolvere la questione della<br />

retroattività della norma transitoria con esclusivo riferimento al caso in cui il giudizio di primo grado si sia concluso<br />

con la condanna dell'imputato, contesta che tale decisione implichi che, anche nel caso di proscioglimento, la pendenza<br />

in grado d'appello del procedimento debba essere segnata da un atto idoneo a interrompere la prescrizione.<br />

Afferma - diversamente da quanto sostenuto dai giudici d'appello - che, in caso di assoluzione in primo grado<br />

dell'imputato, la pendenza nel grado d'appello del procedimento sarebbe segnata dalla presentazione dell'atto<br />

d'impugnazione o, in subordine, dal ricevimento degli atti da parte del giudice investito della stessa.<br />

Ciò egli assume sottolineando, per un verso, che anche nel caso di sentenza assolutoria di primo grado rimane<br />

"immutata l'esigenza di tutelare il valore dell'efficienza della giurisdizione e del processo, al quale è stato ripetutamele<br />

riconosciuto rango costituzionale" e che, per altro verso, tale valore sarebbe irrimediabilmente sacrificato aderendo alla<br />

soluzione propugnata nel provvedimento impugnato, atteso che l'emissione del decreto ex art. 601 c.p.p., può seguire -<br />

e di fatto spesso segue - di molti anni l'impugnazione della pronunzia di primo grado.<br />

In conclusione il ricorrente evidenzia come, aderendo alla tesi propugnata dalla Corte di appello, si procrastinerebbe<br />

artificiosamente la pendenza del primo grado di giudizio, proiettando seri dubbi sulla compatibilità costituzionale di tale<br />

soluzione interpretativa.<br />

3. In vista dell'udienza della Sesta Sezione, cui era stato assegnato il ricorso, i difensori dell'imputato hanno depositato<br />

una memoria, nella quale respingono le tesi del ricorrente, richiamando integralmente la motivazione di una pronunzia<br />

di legittimità (Sez. 6, n. 39592 del 02/11/2010, Barbisan) che ha ribadito l'orientamento seguito nel provvedimento<br />

impugnato. La difesa dunque invoca il rigetto del ricorso, evidenziando che effettivamente al momento dell'emissione<br />

del decreto ex art. 601 c.p.p., il quale avrebbe segnato la pendenza in grado d'appello del procedimento, il reato ascritto<br />

all'imputato era già prescritto.<br />

Per il caso in cui si dovesse invece aderire alla tesi del ricorrente, ritenendo dunque la pendenza in grado d'appello<br />

ancorata a fatti processuali antecedenti e in grado di escludere il già avvenuto perfezionamento della causa estintiva, la<br />

difesa solleva in via subordinata questione di legittimità costituzionale della L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3, nella<br />

parte in cui esclude l'applicazione dei nuovi termini di prescrizione, se più brevi, per i processi già pendenti in grado di<br />

appello o avanti alla Corte di cassazione, in quanto la disposizione si porrebbe in contrasto con l'art. 3 c.p., derogando<br />

irragionevolmente al principio di retroattività della lex mitior sancito dall'art. 2 c.p., comma 4. In proposito la difesa<br />

prospetta come la questione non possa ritenersi superata a seguito dei ripetuti interventi della Corte costituzionale in<br />

materia (sentenze n. 393 del 2006 e n. 72 del 2008), proprio perchè in tali occasioni il giudice delle leggi si sarebbe<br />

occupato esclusivamente del caso in cui il giudizio di primo grado si concluda con sentenza di condanna, mentre nella<br />

62


diversa ipotesi della sentenza assolutoria apparirebbe irragionevole consentire l'irretroattività dei più favorevoli termini<br />

di prescrizione in ragione dell'intervento di un atto (la sentenza di assoluzione per l'appunto) che non è annoverato tra<br />

quelli idonei a interromperne il corso.<br />

Con l'eccezione in oggetto viene prospettata più in generale l'irragionevolezza di un'interpretazione che consentisse di<br />

individuare il limite della retroattività della legge più favorevole in fatti processuali inidonei a interrompere il corso<br />

della prescrizione.<br />

In ulteriore subordine la difesa solleva altresì questione di legittimità costituzionale della medesima norma transitoria<br />

per contrasto con l'art. 117 Cost., per il tramite della norma interposta costituita dall'art. 7, comma 1, CEDU, nella parte<br />

in cui limita la retroattività delle più favorevoli disposizioni sui termini di prescrizione introdotti dalla L. n. 251 del<br />

2005 ai procedimenti non già pendenti in grado di appello alla data dell'entrata in vigore della suddetta legge.<br />

4. Con ordinanza del 22 febbraio 2011, la Sesta Sezione ha rimesso alle Sezioni Unite la questione relativa<br />

all'individuazione del momento in cui il processo debba ritenersi, ai fini dell'applicazione della disciplina transitoria di<br />

cui alla L. n. 251 del 2005, pendente in grado di appello nel caso di sentenza di assoluzione in primo grado, registrando<br />

sul punto l'esistenza di un contrasto nella giurisprudenza della Corte.<br />

I giudici rimettenti rilevano come la specifica questione sia stata oggetto di due contrapposte decisioni, entrambe<br />

adottate nel 2008.<br />

La prima (Sez. 3, n. 18765 del 06/03/2008, Brignoli, Rv. 239868) individua nella sentenza di primo grado, di condanna<br />

o di assoluzione, il discrimine per l'applicazione della norma transitoria, così come disegnata dalla sentenza della Corte<br />

costituzionale n. 393 del 2006, poichè essa conclude il processo di primo grado e segna il passaggio tra vecchia e nuova<br />

disciplina a prescindere dalla sopravvenienza di atti interruttivi della prescrizione.<br />

La seconda pronunzia (Sez. 6, n. 7112 del 25/11/2008, dep. 2009, Perrone, Rv. 242421), invece, fa coincidere la<br />

pendenza del processo d'appello con l'emissione del relativo decreto di citazione a giudizio, quale primo atto,<br />

successivo alla conclusione del giudizio di primo grado, idoneo a interrompere la prescrizione, ritenendo che la ricerca<br />

di un atto di tal genere, come discriminante ai fini dell'applicazione della L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3, è<br />

imposta dalla lettura della motivazione della sentenza n. 393 del 2006 della Corte costituzionale.<br />

5. Il Primo Presidente, con decreto del 25 luglio 2011, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite e ha fissato per la<br />

trattazione l'odierna udienza.<br />

Motivi della decisione<br />

1. La questione controversa rimessa al giudizio delle Sezioni Unite attiene alla "individuazione del limite posto dai<br />

legislatore alla retroattività della nuova disciplina della prescrizione, là dove più favorevole rispetto a quella previgente,<br />

introdotta dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, art. 6, nell'ipotesi in cui il procedimento di primo grado si sia concluso con<br />

sentenza di assoluzione".<br />

La legge n. 251 del 2005, nel disporre una nuova disciplina in materia di prescrizione, introdusse la norma transitoria<br />

(art. 10, comma 3), secondo cui: "Se, per effetto delle nuove disposizioni, i termini di prescrizione risultano più brevi, le<br />

stesse si applicano ai procedimenti e ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge ad esclusione<br />

dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonchè dei<br />

processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di Cassazione".<br />

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 393 del 2006, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del predetto comma<br />

3 limitatamente alle parole "dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del<br />

dibattimento, nonchè".<br />

Per effetto di tale intervento manipolativo sul testo dell'art. 10, i più favorevoli termini di prescrizione introdotti dalla L.<br />

251 del 2005 si applicano ai procedimenti e ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della legge (8 dicembre<br />

2005), "ad esclusione dei processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di Cassazione".<br />

Come la stessa Corte costituzionale ha avuto occasione di sintetizzare nella sentenza n. 72 del 2008, la sentenza n.393<br />

del 2006 "ha affermato che la prescrizione esprime l'interesse generale di non perseguire più i reati rispetto ai quali sia<br />

trascorso un periodo di tempo che, secondo la valutazione del legislatore, ha comportato l'attenuazione dell'allarme<br />

sociale e reso più difficile l'acquisizione del materiale probatorio (e, quindi, l'esercizio del diritto di difesa), e che la<br />

norma volta a ridurre i termini di prescrizione del reato si colloca fra le disposizioni più favorevoli al reo di cui all'art. 2<br />

63


c.p., comma 4. Da tale norma codicistica (e da una serie di dati risultanti dai trattati internazionali e dalla giurisprudenza<br />

della Corte di giustizia delle Comunità Europee) si ricava la regola dell'applicazione retroattiva delle disposizioni più<br />

favorevoli al reo: deroghe a tale regola sono possibili solo se superano un vaglio positivo di ragionevolezza in quanto<br />

mirino a tutelare interessi di analogo rilievo rispetto a quelli soddisfatti dalla prescrizione (efficienza del processo,<br />

salvaguardia dei diritti dei soggetti destinatari della funzione giurisdizionale) o relativi a esigenze dell'intera collettività<br />

connesse a valori costituzionali.<br />

In particolare, la deroga al regime della retroattività delle disposizioni più favorevoli al reo è ammissibile nei confronti<br />

di norme che riducano i termini di prescrizione del reato, purchè essa sia coerente con la funzione assegnata<br />

dall'ordinamento all'istituto della prescrizione e tuteli interessi del tipo indicato".<br />

L'espressione "ad esclusione dei processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di Cassazione", che<br />

nell'originario testo aveva un valore pleonastico (tanto che non veniva neppure definita la nozione di pendenza in grado<br />

d'appello, in quanto tutti i problemi di diritto transitorio erano già risolti dalla prima parte della norma), ha assunto un<br />

valore effettivo e centrale di diritto transitorio a seguito dell'intervento demolitorio effettuato dalla Corte costituzionale,<br />

con la conseguenza che l'individuazione del senso da dare al discrimine tra pendenza in primo grado e pendenza in<br />

grado d'appello rappresenta un momento gravido di rilevanti conseguenze.<br />

2. Sull'esatta individuazione del limite posto dal legislatore alla retroattività della più favorevole disciplina dei termini<br />

di prescrizione, la giurisprudenza di legittimità ha manifestato diversi orientamenti, determinati anche dalla mancanza,<br />

nell'ordinamento processuale penale - a differenza di quello civile - di una definita nozione di "pendenza in grado<br />

d'appello", appena evocata dall'art. 17 c.p.p..<br />

Le Sezioni Unite, con sentenza n. 47008 del 29/10/2009, D'Amato, Rv.<br />

244810, hanno composto tale contrasto in relazione alla fattispecie loro rimessa, relativa a procedimento conclusosi con<br />

sentenza di condanna in primo grado di giudizio, ribadendo, secondo l'indirizzo maggioritario, che ai fini<br />

dell'operatività delle disposizioni transitorie della nuova disciplina della prescrizione, la pendenza in grado d'appello del<br />

procedimento, ostativa all'applicazione retroattiva delle norme più favorevoli, è determinata proprio dalla pronuncia<br />

della sentenza di condanna di primo grado.<br />

Nella giurisprudenza della Corte è stato affrontato anche lo specifico profilo della determinazione della pendenza in<br />

grado d'appello in caso di conclusione del primo grado di giudizio con sentenza assolutoria. E sul punto, come ha<br />

evidenziato l'ordinanza di rimessione, si sono sviluppati (anche prima dell'indicato intervento delle Sezioni Unite)<br />

orientamenti di segno diverso.<br />

2.1. Un primo orientamento si è espresso con la sentenza Sez. 3, n. 18765 del 06/03/2008, Brignoli, Rv. 239868, che,<br />

nei dichiarare manifestamente infondata l'eccezione d'illegittimità relativa a procedimento in cui il primo grado di<br />

giudizio si era per l'appunto concluso con sentenza di proscioglimento, poi riformata nel grado successivo, ha attribuito<br />

al criterio normativo di discrimine della retroattività della lex mitior una valenza onnicomprensiva, affermando che il<br />

criterio giustificativo della deroga al principio di retroattività della legge più favorevole non va individuato nell'idoneità<br />

o meno della sentenza di primo grado a interrompere la prescrizione, bensì nella ragionevole esigenza di tutelare il<br />

valore, di rango costituzionale, dell'efficienza della giurisdizione e del processo, esigenza comune anche ai<br />

procedimenti definiti in primo grado con sentenza di proscioglimento. Pur ribadendo, nella scia dell'orientamento<br />

maggioritario, che la pendenza in grado d'appello coincide con la pronunzia di primo grado, la predetta sentenza svaluta<br />

l'argomento legato all'efficacia interruttiva della prescrizione dell'incombente processuale che sarebbe preso in<br />

considerazione dalla norma transitoria, esaltando per converso il valore costituzionale tutelato attraverso la scansione<br />

introdotta da quest'ultima (l'efficienza del processo), radicato in maniera ragionevole nella cesura tra i due gradi di<br />

giudizio, senza che assuma una rilevanza decisiva l'inclusione nell'elenco contenuto nell'art. 160 c.p., dell'atto che tale<br />

cesura determina. Pertanto è la sentenza che conclude il grado di giudizio, in quanto tale, a condizionare la retroattività<br />

delle norme sulla prescrizione, a prescindere dal fatto che sia di condanna o di assoluzione.<br />

Alle medesime conclusioni, decidendo però un caso in cui in primo grado era stata pronunziata sentenza di condanna<br />

dell'imputato, perveniva pressochè contemporaneamente Sez. 2, n. 17349 dell'11/03/2008, Rabita, Rv. 240403, la quale<br />

ha ancor più esplicitamente affermato come la norma transitoria, alla luce degli interventi del giudice delle leggi, riveli<br />

l'intenzione di accordare applicazione retroattiva alle più favorevoli disposizioni in tema di prescrizione introdotte nel<br />

2005 esclusivamente ai procedimenti ancora pendenti in primo grado. Ciò implica che il limite di operatività di tali<br />

disposizioni non può che essere rappresentato dalla sentenza che tale grado di giudizio conclude, introducendo una<br />

scansione temporale per gradi ulteriori dello stesso giudizio.<br />

2.2. Il contrapposto orientamento trova la sua origine nella sentenza Sez. 6, n. 7112 del 25/11/2008, dep. 2009, Perrone,<br />

64


Rv. 242421, la quale ritiene che la soluzione maggioritaria sia inapplicabile quando il giudizio di primo grado si sia<br />

concluso con una sentenza di assoluzione, inidonea a determinare l'interruzione del corso della prescrizione ed afferma<br />

che, nell'ipotesi in cui il giudizio di primo grado abbia avuto un esito diverso dalla sentenza di condanna,<br />

inevitabilmente deve farsi riferimento al decreto di citazione per il giudizio d'appello di cui all'art. 601 c.p.p., che<br />

rappresenta il primo atto in sequenza procedimentale che riveste carattere di atto interruttivo della prescrizione ed è<br />

espressamente annoverato tra tali atti dall'art. 160 c.p..<br />

La pronunzia in esame delinea dunque un assetto a "geometria variabile" della nozione di "procedimenti già pendenti in<br />

grado di appello" evocata dalla norma transitoria, a seconda che il giudizio di primo grado si sia concluso con sentenza<br />

di condanna ovvero di assoluzione.<br />

Tale impostazione è stata successivamente seguita da Sez. 5, n. 25470 del 16/04/2009, Lata, Rv. 243898, la quale, dopo<br />

aver evidenziato come la volontà espressa attraverso la norma transitoria e il senso dell'intervento della Corte<br />

costituzionale inducano "a ritenere che la pendenza del processo in grado di appello corrisponda non al senso tecnico in<br />

senso stretto dell'istituto ma ad una fase più ampia, cominciata a partire dal momento della pronuncia della sentenza di<br />

condanna di primo grado" e dopo aver ribadito che tale soluzione è per l'appunto imposta dalla scelta operata dal<br />

giudice delle leggi di ancorare il limite alla retroattività della lex mitior ad un atto significativo in tema di prescrizione,<br />

ammette che, nel caso dell'esito assolutorio del giudizio di primo grado, tale atto non può che essere identificato nel<br />

decreto ex art. 601 c.p.p..<br />

2.3. Sulla questione è stata prospettata anche una terza soluzione, espressa da una pronunzia rimasta isolata (Sez. 3, n.<br />

24330 del 15/04/2008, Muscariello, Rv. 240342), che individua il momento della pendenza del giudizio d'appello nella<br />

ricezione del fascicolo da parte della corte d'appello e, precisamente, nell'atto d'iscrizione nell'apposito registro.<br />

2.4. Il contrasto giurisprudenziale sul tema specificamente oggetto della questione oggi in esame è rimasto vivo anche<br />

dopo la sentenza delle Sezioni unite D'Amato che - come già rilevato - ha avuto a oggetto soltanto l'ipotesi della<br />

sentenza di condanna in primo grado.<br />

Sez. 2, n. 42043 del 17/09/2010, Careri, Rv. 248872 e Sez. 4, n. 32152 del 14/07/2011, Lombardo, Rv. 251349,<br />

richiamandosi alla sentenza Rabita, hanno posto in evidenza che il criterio giustificativo della deroga al principio di<br />

retroattività della legge più favorevole non va tanto individuato nell'idoneità o meno della sentenza di primo grado a<br />

interrompere la prescrizione, ma nel criterio generale, sottolineato dalla sentenza n. 393 del 2006, della ragionevole e<br />

prioritaria esigenza, comune anche ai procedimenti definiti in primo grado con sentenza di proscioglimento o di<br />

assoluzione, di tutelare il valore, di rango costituzionale, dell'efficienza della giurisdizione e del processo, e che<br />

pertanto il discrimine della pendenza del grado di appello vada comunque ancorato alla pronuncia della sentenza di<br />

primo grado, anche quando quest'ultima sia di assoluzione.<br />

Al contrario, l'ordinanza Sez. 5, n. 5991 del 27/01/2011, Belfiore, ha sostanzialmente recepito la posizione espressa<br />

dalle sentenze Perrone e Lala, ritenendo che la pronunzia del giudice delle leggi imponga la selezione di un fatto<br />

processuale rilevante sul piano della prescrizione (nello stesso senso anche Sez. 6, n. 39592 del 02/11/2010, Barbisan,<br />

n.m.; Sez. 2, n. 8455 del 27/01/2011, Pisanelli, Rv. 249953; Sez. 6, n. 11782 del 05/11/2010, Paradotto, n.m.).<br />

3. In definitiva, il contrasto, per come cristallizzatosi successivamente all'intervento delle Sezioni Unite del 2009, verte<br />

sostanzialmente sul significato che deve essere attribuito al riferimento compiuto nella motivazione della sentenza n.<br />

393 del 2006 della Corte costituzionale al collegamento tra la nozione di pendenza in grado d'appello e la disciplina<br />

dell'interruzione della prescrizione.<br />

Pertanto, per dare risposta alla questione all'esame delle Sezioni Unite è necessario prendere l'avvio dalla sentenza della<br />

Corte costituzionale n. 393 del 2006 che ha dichiarato la parziale illegittimità della L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3,<br />

espungendo dalle disposizioni legislative la deroga relativa ai processi in corso di svolgimento in primo grado.<br />

La norma che ne risulta stabilisce che la disciplina prescrizionale più favorevole si applica ai processi in corso al<br />

momento dell'entrata in vigore della nuova legge, ad esclusione dei processi pendenti in grado di appello o davanti alla<br />

Corte di cassazione.<br />

Sull'individuazione del momento cui deve farsi riferimento per stabilire la "pendenza" del processo si è determinato il<br />

contrasto giurisprudenziale sopra illustrato, avendo una parte della giurisprudenza assegnato un contenuto vincolante<br />

all'argomentazione della Corte costituzionale che, nel ritenere irragionevole l'individuazione dell'apertura del<br />

dibattimento come discrimine temporale per l'applicazione dei nuovi più favorevoli termini di prescrizione nei giudizi<br />

di primo grado, dopo avere rilevato che tale incombente non connota indefettibilmente tutti i processi penali di primo<br />

grado, ha aggiunto che esso non è "incluso tra quelli ai quali il legislatore attribuisce rilevanza ai fini dell'interruzione<br />

65


del decorso della prescrizione ex art. 160 c.p.".<br />

Per valutare se effettivamente un tale vincolo sia imposto dalla pronuncia della Corte costituzionale, occorre esaminare<br />

attentamente la motivazione della predetta sentenza, cogliendone la ratio decidendi.<br />

In proposito, da tempo le Sezioni Unite, dapprima quelle civili, poi anche quelle penali, hanno precisato che "l'ambito<br />

dell'effetto modificativo, nell'ordinamento giuridico, delle pronunce della Corte costituzionale, dichiarative della<br />

illegittimità di una norma, va individuato non soltanto alla stregua del dispositivo, ma anche, indipendentemente dal<br />

fatto che questo presenti un significato letterale univoco, utilizzando la motivazione, tutte le volte In cui ciò si renda<br />

necessario per il riscontro dell'oggetto della decisione e delle disposizioni con essa caducate, dato che motivazione e<br />

dispositivo costituiscono elementi di uno stesso atto, unitariamente inteso, reso secondo il modello della sentenza" (Sez.<br />

U civ., n. 5401 del 24/10/1984, Nunziata contro Soc. Autostrade, Rv.<br />

437104; Sez. U pen., n. 2977 del 06/03/1992, Piccillo, non massimata sul punto).<br />

3.1. Come ha ben evidenziato Sez. 3, n. 18765 del 06/03/2008, Brignoli, Rv. 239868, l'autentica ratio decidendi della<br />

pronuncia di incostituzionalità non è l'argomento della mancanza di efficacia interruttiva all'incombente processuale<br />

preso in considerazione dal legislatore, quanto piuttosto l'esistenza di una ragionevole giustificazione della deroga al<br />

principio della retroattività della legge penale più favorevole per i processi di primo grado in corso di svolgimento,<br />

riferita all'esaurimento della fase cognitiva di tale grado.<br />

La Corte, in relazione all'intera norma transitoria posta dalla L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3, ha individuato la<br />

giustificazione di tale deroga nell'esistenza di "interessi di non minore rilevanza" idonei a controbilanciare il principio<br />

della retroattività della lex mitior, "quali ... quelli dell'efficienza del processo, della salvaguardia dei diritti dei soggetti<br />

che, in vario modo, sono destinatari della funzione giurisdizionale, e quelli che coinvolgono interessi o esigenze<br />

dell'intera collettività nazionale connessi a valori costituzionali di primario rilievo".<br />

La deroga del principio di retroattività fondata sulla tutela di tali interessi è stata ritenuta ragionevole, per l'evidente<br />

considerazione che la generalizzata applicazione retroattiva dei nuovi più brevi termini di prescrizione avrebbe<br />

provocato l'estinzione su larga scala di processi, relativi anche a gravi delitti, con la conseguente compromissione delle<br />

aspettative dei diritti dei soggetti, diversi dall'imputato, coinvolti nel processo penale, e la contestuale vanificazione<br />

delle risorse statuali impiegate e dell'esercizio della giurisdizione avviato sotto il regime prescrizionale previgente.<br />

E' questa la ragione di fondo che emerge dalla sentenza n. 393 del 2006 e, ancor più esplicitamente, dai successivi<br />

interventi (Corte cost., nn. 78 del 2008; 236 e 314 del 2011) con cui la Corte costituzionale ha ritenuto legittima la<br />

ragione posta a fondamento della norma transitoria introdotta con la L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3, volta a<br />

bilanciare il passaggio dalla vecchia alla nuova disciplina sui termini di prescrizione sulla base dello stato di<br />

avanzamento del processo penale, in modo da non sacrificare del tutto l'interesse costituzionalmente rilevante<br />

dell'efficienza della giurisdizione in corso di esercizio al momento della entrata in vigore della legge.<br />

3.2. Nell'ambito della complessiva norma transitoria derogatrice, ritenuta costituzionalmente legittima, la Corte ha<br />

ritagliato una disposizione, quella riguardante i processi di primo grado, ritenuta "non assistita da ragionevolezza" alla<br />

luce del principio di eguaglianza, che individuava "il momento della dichiarazione di apertura del dibattimento come<br />

discrimine temporale per l'applicazione delle nuove norme sui termini di prescrizione del reato nei processi in corso di<br />

svolgimento in primo grado alla data di entrata in vigore della L. n. 251 del 2005".<br />

Ciò perchè l'apertura del dibattimento non costituisce momento indefettibile in ogni processo di primo grado e non<br />

rappresenta momento significativo in relazione al complesso delle ragioni che costituiscono il fondamento dell'istituto<br />

della prescrizione, "legato al rilievo che il decorso del tempo da un lato fa diminuire l'allarme sociale, e dall'altro rende<br />

più difficile l'esercizio dei diritto di difesa (e ciò a prescindere del tutto dall'addebitabilità del ritardo nello svolgimento<br />

del processo)".<br />

E' questa l'argomentazione essenziale che ha condotto alla pronuncia d'illegittimità costituzionale, mentre il riferimento<br />

all'art. 160 c.p., e all'efficacia interruttiva del decorso della prescrizione, attribuita a taluni atti processuali, risulta del<br />

tutto residuale.<br />

La necessità che il discrimine per l'applicazione delle nuove o delle vecchie norme sia individuato in fatti processuali<br />

idonei a interrompere la prescrizione, elencati nell'art. 160 c.p., non è perciò imposta dalla giurisprudenza della Corte<br />

costituzionale.<br />

La sentenza n. 393 del 2006 della Corte costituzionale non ha riscritto la norma transitoria, ma si è limitata a demolire<br />

66


la parte ritenuta incostituzionale. La norma risultante stabilisce che la disciplina prescrizionale più favorevole si applica<br />

ai processi in corso, ad esclusione dei processi pendenti in grado di appello o davanti alla Corte di cassazione, ovvero -<br />

altrimenti detto - non si applica ai processi che al momento dell'entrata in vigore della L. n. 251 del 2005 (8 dicembre<br />

2005) erano ancora pendenti in primo grado.<br />

Il senso sostanziale della norma residua è che i più favorevoli termini di prescrizione si applicano "quando non è più<br />

pendente il giudizio di primo grado"; e tale momento non può che individuarsi nella sentenza di primo grado, quale che<br />

ne sia l'esito.<br />

In altri termini e in sintesi: ai fini della questione in esame, la pendenza in grado di appello del procedimento è<br />

determinata dalla pronunzia della sentenza di primo grado, che chiude un grado di giudizio e da avvio a quello<br />

successivo, al di là della presentazione o meno dell'atto di impulso processuale, che ha l'effetto della prosecuzione del<br />

giudizio nel grado corrispondente.<br />

In tal senso la sentenza di primo grado risulta idonea a costituire lo spartiacque nell'applicazione delle due discipline<br />

considerate dalla norma transitoria, indipendentemente dal "fatto processuale" che interrompe la prescrizione.<br />

A ben vedere, il problema dell'individuazione di un "ragionevole evento processuale", a cui ancorare il discrimine, non<br />

si pone per il giudizio d'appello o di cassazione. Una volta stabilito che la lex mitior si applica retroattivamente sino ai<br />

processi di primo grado e si escludono i processi pendenti nei gradi successivi, ciò che conta è se sia concluso o non il<br />

processo di primo grado.<br />

Del resto, la Corte costituzionale si è posto tale problema (sentenza n. 393 del 2006) espressamente per il processo di<br />

primo grado, e non per i gradi successivi, per i quali anzi la stessa Corte, con la sentenza n. 72 del 2008, che offre<br />

un'illuminante chiave interpretativa della prima decisione, ha sottolineato che la motivazione della pronuncia<br />

riguardante il giudizio di primo grado "non si attaglia alla parte della stessa disposizione censurata secondo cui i nuovi,<br />

più brevi, termini di prescrizione non si applicano retroattivamente ai processi che, alla data della sua entrata in vigore,<br />

pendano in grado di appello (o avanti alla Corte di cassazione). Invero, per tali processi, l'esclusione dell'applicazione<br />

retroattiva della prescrizione più breve non discende dall'eventuale verificarsi di un certo accadimento processuale, ma<br />

dal fatto oggettivo e inequivocabile che processi di quel tipo siano in corso a una certa data". 4. Va, perciò, condivisa<br />

l'opzione ermeneutica compiuta dalla sentenza D'Amato, che ha individuato la sentenza conclusiva del processo di<br />

primo grado come spartiacque nell'applicazione delle due discipline considerate dalla norma transitoria, escludendo che<br />

il discrimine possa essere costituito dalla proposizione dell'impugnazione ovvero dall'iscrizione del processo nel<br />

registro del giudice di secondo grado, giacchè la prima deriva da comportamenti delle parti e la seconda rappresenta un<br />

mero adempimento amministrativo.<br />

La ragione essenziale posta a fondamento di tale scelta è nella considerazione che, divenuta operativa - per effetto della<br />

sentenza della Corte costituzionale - la disciplina più favorevole per tutta la durata del giudizio di primo grado, "risulta<br />

legittimo far scattare l'esclusione a partire dall'atto conclusivo di quest'ultimo".<br />

Come ancora lucidamente osservato dalla sentenza D'Amato "ravvisare la pendenza di un procedimento in appello nel<br />

momento in cui viene emesso il provvedimento che pone fine al grado precedente trova congrua spiegazione nella<br />

circostanza che questo evento comporta l'impossibilità per il giudice di assumere ulteriori decisioni in merito all'accusa<br />

nell'ambito del processo principale (non rilevando, ai fini in questione, le disposizioni in tema di competenza dettate da<br />

esigenze pratiche in relazione ai procedimenti incidentali cautelari) e che esso apre comunque la fase<br />

dell'impugnazione, indipendentemente dal fatto che siano pendenti i termini per proporla. A conferma di tale<br />

impostazione v'è la tecnica legislativa impiegata nel concepire la norma nonchè la ratio a questa sottesa.<br />

Mentre il riferimento ai processi di primo grado deriva dalla indicazione di una determinata cadenza (l'apertura del<br />

dibattimento), quelli di appello e di cassazione, invece, sono richiamati nella loro globalità e come aventi, ciascuno di<br />

loro, immediato corso rispetto al precedente: il che segnala che non è ipotizzabile una soluzione di continuità tra la<br />

conclusione di un grado e la pendenza del successivo. D'altronde va riconosciuto che il legislatore con la disposizione<br />

originaria intese apportare, in tema di prescrizione, ampia deroga al principio posto dall'art. 2 c.p., comma 4, al fine di<br />

impedire che si verificasse una forma generalizzata di amnistia a scapito di una coerente applicazione della legge<br />

penale; la Corte costituzionale non ha censurato la ragione che ebbe ad ispirare la limitazione (avendo anzi ritenuto che<br />

la tutela dell'efficienza del processo valga, in generale, a giustificare un'eccezione al citato principio), ma la scelta della<br />

formalità destinata a fungere da discrimine in subiecta materia: pertanto, in relazione alla norma che residua dopo la<br />

pronuncia di illegittimità costituzionale, s'impone un approccio ermeneutico che sia conforme agli enunciati in questa<br />

contenuti ed attribuisca altresì rilievo al suddetto intento, evitando di restringere senza necessità la deroga stessa. Di<br />

conseguenza, anche sotto codesto aspetto, occorre riportarsi ad un momento che, dopo la conclusione del giudizio di<br />

primo grado, sia il più possibile risalente nel tempo". 5. Tali considerazioni, integralmente condivise, vanno estese<br />

67


anche all'ipotesi di sentenza assolutoria di primo grado.<br />

La lettera della residua disposizione posta dalla L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3, non consente, infatti,<br />

un'interpretazione a "geometria variabile". Com'è stato esattamente osservato, non è necessario definire la nozione<br />

generale e astratta di pendenza del giudizio o di pendenza del giudizio d'appello valida in generale, posto che neppure il<br />

legislatore ha voluto farlo, quanto piuttosto chiarire l'esatto significato che la locuzione normativa deve assumere nel<br />

contesto in cui è stata utilizzata.<br />

Di certo non può ricavarsi dalla sentenza dichiarativa d'illegittimità costituzionale una ratio che autorizzi l'attribuzione<br />

all'identico enunciato linguistico contenuto nella L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3, di un significato diversificato,<br />

delineando una nozione cangiante ed elastica a secondo dell'esito (di condanna o di assoluzione) del procedimento di<br />

primo grado.<br />

Ragioni logiche ed esigenze sistematiche impongono, invece, di assegnare un significato univoco e unitario, ai fini che<br />

ne occupa, alla norma e alla nozione di pendenza in appello, quale che sia l'esito del giudizio di primo grado. La<br />

frammentazione della nozione "pendenza in grado d'appello" utilizzata dalla norma transitoria determinerebbe<br />

incertezze e rischi d'ingiustificata disparità rispetto alla disciplina posta dall'art. 161 c.p., per i processi cumulativi.<br />

Occorre dunque privilegiare una risposta sul piano interpretativo in grado di garantire l'uniformità applicativa della<br />

norma transitoria quale che siano i diversi esiti (condanna o assoluzione) del procedimento di primo grado.<br />

6. In conclusione, le Sezioni Unite affermano il seguente principio di diritto: "ai fini dell'operatività delle disposizioni<br />

transitorie della nuova disciplina della prescrizione, la pronuncia della sentenza di primo grado, indipendentemente<br />

dall'esito di condanna o di assoluzione, determina la pendenza in grado d'appello del procedimento, ostativa<br />

all'applicazione retroattiva delle norme più favorevoli". 7. Così interpretata la norma, va dichiarata manifestamente<br />

infondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3, sollevata dalla difesa<br />

dell'imputato, nella parte in cui esclude l'applicazione dei nuovi termini di prescrizione, se più brevi, per i processi già<br />

pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione, in quanto la disposizione si porrebbe in contrasto con<br />

l'art. 3 c.p., derogando irragionevolmente al principio di retroattività della lex mitior sancito dall'art. 2 c.p., comma 4.<br />

Come ha sottolineato la già citata sentenza Brignoli, la ratio della norma transitoria introdotta con la L. n. 251 del 2005,<br />

art. 10, comma 3, e a maggior ragione di quella risultante dopo la sentenza costituzionale n. 393 del 2006, è<br />

chiaramente quella di graduare il passaggio dalla vecchia alla nuova disciplina sui termini di prescrizione sulla base<br />

dello stato di avanzamento del processo penale, in modo da non sacrificare l'interesse costituzionalmente rilevante<br />

dell'efficienza della giurisdizione che è in corso di esercizio al momento dell'entrata in vigore della legge. Individuare la<br />

pendenza del processo in primo grado come discrimine per l'applicazione della nuova disciplina prescrizionale più<br />

favorevole è soluzione accettabile, che supera il necessario vaglio positivo di ragionevolezza, considerato che solo<br />

quando il processo è ancora pendente in primo grado (non quando il processo pende nei gradi successivi) gli attori del<br />

processo (giudice, pubblico ministero e parti private) possono in qualche modo riadattare la loro iniziativa ai tempi più<br />

brevi della prescrizione. E' infatti evidente che la difficoltà di concludere il processo entro i termini più brevi di<br />

prescrizione cresce quanto maggiore è la porzione di processo condotta secondo cadenze temporali programmate in<br />

base ai precedenti termini prescrizionali più lunghi.<br />

Manifestamente infondata risulta anche la questione di legittimità costituzionale della medesima norma transitoria per<br />

contrasto con l'art. 117 Cost., per il tramite della norma interposta costituita dall'art. 7, comma 1, CEDU, sollevata dalla<br />

difesa dell'imputato, che non prospetta alcuna argomentazione diversa da quelle che hanno costituito oggetto della<br />

sentenza della Corte costituzionale n. 236 del 2011, che ha dichiarato non fondata la predetta questione di legittimità<br />

costituzionale (successivamente ritenuta manifestamente infondata con ordinanza n. 314 del 2011).<br />

La Corte, ricostruendo l'evoluzione della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti umani, ha chiarito che, in base<br />

alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950, ratificata<br />

con L. 4 agosto 1955, n. 848, il principio di retroattività della lex mitior riguarda la fattispecie incriminatrice e la pena e<br />

non anche la disciplina di termini di prescrizione.<br />

Ne consegue che la deroga al principio di retroattività della lex mitior, introdotta dalla L. n. 251 del 2005, art. 10,<br />

comma 3, non viola alcun obbligo convenzionale e, di conseguenza, neppure l'art. 117 Cost..<br />

Al contrario, è proprio dalla previsione di termini di prescrizione particolarmente brevi che può originarsi, in taluni casi,<br />

la violazione dei principi della CEDU, come è accaduto per una declaratoria di estinzione del reato di omicidio colposo<br />

per intervenuta prescrizione, che ha procurato all'Italia una condanna da parte della Corte Europea dei diritti dell'uomo<br />

per violazione dell'art. 2 CEDU, che tutela il diritto alla vita (cfr. Corte EDU, sentenza del 29 marzo 2011, Alikaj c.<br />

68


Italia).<br />

8. In accoglimento del ricorso, la sentenza impugnata va, pertanto, annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di<br />

appello di Venezia, che procederà a nuovo giudizio attenendosi all'enunciato principio di diritto.<br />

P.Q.M.<br />

Annulla la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte d'appello di Venezia per nuovo giudizio.<br />

69


CORTE COST., 22 LUGLIO 2011, N. 236, PRES. QUARANTA, REL. LATTANZI (SUI LIMITI<br />

ALL’APPLICAZIONE RETROATTIVA DELLE DISPOSIZIONI PIÙ FAVOREVOLI IN MATERIA DI<br />

PRESCRIZIONE DEL REATO)<br />

L’art. 10 della legge n. 251 del 2005 (ex Cirielli), nella parte in cui esclude l’applicazione dei nuovi e più brevi<br />

termini di prescrizione nei procedimenti già pendenti in fase di appello, non contrasta con l’art. 117 della<br />

Costituzione e l’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo<br />

Pubblichiamo con la massima possibile tempestività, per la sua grande importanza, la decisione della Consulta che,<br />

risolvendo il problema della disciplina transitoria di applicazione delle nuove norme in materia di prescrizione,<br />

fornisce agli interpreti ed agli operatori indicazioni essenziali sull’attuale assetto del sistema delle fonti.<br />

Indicazioni essenziali, dunque, sui rapporti tra ordinamento nazionale ed ordinamento sovranazionale (nella specie,<br />

quello fondato sulla Convenzione europea dei diritti dell’uomo);sul ruolo della Corte di Strasburgo<br />

nell’interpretazione dei parametri convenzionali e sui presupposti in base ai quali il dictum della Corte vincola<br />

l’interprete italiano, tanto nella ricostruzione della norma sovranazionale, tanto nella misurazione in base ad essa<br />

della compatibilità costituzionale della norma interna; infine, sulla portata effettiva da riconoscere, nell’attuale<br />

quadro delle fonti, al principio di necessaria retroattività della lex mitior.<br />

Con la sentenza qui pubblicata, la Corte ha escluso che fosse precluso al legislatore nazionale (la cui scelta iniziale,<br />

per la verità, era stata comunque incisa dalla sentenza della stessa Consulta n. 393 del 2006) di porre dei limiti<br />

all’applicazione retroattiva della disciplina favorevole sopravvenuta. È stato negato, in particolare, che dalla cd.<br />

«sentenza Scoppola» della Corte di Strasburgo (Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola v. Italia) dovesse<br />

dedursi il principio che sia sempre necessario assicurare la retroattività incondizionata della lex mitior, e comunque<br />

che detto principio dovesse senz’altro estendersi alla disciplina della prescrizione.<br />

SENTENZA N. 236 ANNO 2011<br />

REPUBBLICA ITALIANA<br />

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO<br />

LA CORTE COSTITUZIONALE<br />

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO,<br />

Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria<br />

NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,<br />

ha pronunciato la seguente<br />

SENTENZA<br />

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche<br />

al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di<br />

comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), promossi con ordinanze dell’11<br />

giugno 2010 dalla Corte di cassazione, del 4 novembre 2010 dalla Corte d’appello di Venezia e del 17 dicembre<br />

2010 dalla Corte d’appello di Bari, rispettivamente iscritte al n. 344 del registro ordinanze 2010 ed ai nn. 1 e 47 del<br />

registro ordinanze 2011 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno<br />

2010 e nn. 3 e 13, prima serie speciale, dell’anno 2011.<br />

Visti gli atti di costituzione di De Giovanni Fabrizio, Micciché Giovanni, Deliu Fatos nonché gli atti di<br />

intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;<br />

udito nell’udienza pubblica del 21 giugno 2011 e nella camera di consiglio del 22 giugno 2011 il Giudice<br />

relatore Giorgio Lattanzi;<br />

uditi gli avvocati Emanuele Fragasso per Deliu Fatos, Franco Coppi e Francesco Bertorotta per Micciché<br />

Giovanni, Pilerio Plastina per De Giovanni Fabrizio e l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente<br />

del Consiglio dei ministri.<br />

71


Ritenuto in fatto<br />

1. – La Corte di cassazione, seconda sezione penale, con ordinanza emessa l’11 giugno 2010 e pervenuta a<br />

questa Corte il 6 ottobre 2010 (r.o. n. 344 del 2010), ha sollevato, per violazione dell’art. 117, primo comma, della<br />

Costituzione, in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà<br />

fondamentali, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti «CEDU»), come<br />

interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3,<br />

della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di<br />

attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di<br />

prescrizione), nella parte in cui esclude l’applicazione dei nuovi termini di prescrizione, se più brevi, ai «processi già<br />

pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione».<br />

Il giudice a quo premette che con sentenza del 30 maggio 2007 la Corte di appello di Palermo aveva<br />

confermato la sentenza del Tribunale di Agrigento, la quale aveva dichiarato gli imputati G. M. e F. D.G. colpevoli<br />

del delitto di cui all’art. 12-quinquies del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di<br />

procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, dalla legge 7<br />

agosto 1992, n. 356.<br />

La Corte rimettente riferisce che gli imputati avevano proposto, a mezzo dei rispettivi difensori, tempestivo<br />

ricorso per cassazione contro la sentenza di secondo grado, chiedendone l’annullamento, tra l’altro, perché al<br />

momento dell’entrata in vigore della legge n. 251 del 2005 il procedimento non era ancora pendente in appello, non<br />

essendo gli atti pervenuti al giudice di secondo grado: il reato, pertanto, si sarebbe prescritto prima della pronuncia<br />

della sentenza di appello. In via subordinata, la difesa di G. M. aveva sollevato eccezione di illegittimità<br />

costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005 per contrasto con l’art. 117 Cost.<br />

Secondo il giudice a quo, il motivo con il quale, sulla base della normativa vigente, era stata dedotta<br />

l’avvenuta prescrizione è infondato, in quanto le sezioni unite della Corte di cassazione hanno stabilito, con sentenza<br />

n. 47008 del 29 ottobre 2009, che – ai fini dell’applicazione della disciplina transitoria di cui all’art. 10 della legge n.<br />

251 del 2005 – il processo deve considerarsi pendente in appello subito dopo la pronuncia della sentenza di<br />

condanna di primo grado. Nel caso in esame, la sentenza di condanna di primo grado era stata pronunciata il 2<br />

maggio 2005 e quindi, secondo il diritto vivente, il processo doveva ritenersi pendente in appello in data anteriore<br />

all’entrata in vigore dei nuovi, e più favorevoli, termini di prescrizione.<br />

La Corte rimettente, innanzitutto, ricorda che il ricorrente ha richiamato l’art. 15, primo comma, del Patto<br />

internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo<br />

con legge 25 ottobre 1977, n. 881, il quale stabilisce che «se, posteriormente alla commissione di un reato, la legge<br />

prevede l’applicazione di una pena più lieve, il colpevole deve beneficiarne», e ha «correttamente osservato che già<br />

questa norma internazionale, se parametrata non all’art. 3 ma all’art. 117, primo comma, della Costituzione, rende<br />

non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della disciplina transitoria in esame, perché<br />

priva l’imputato, il cui processo sia già pendente in appello o in cassazione, dell’ottemperanza alla regola cogente,<br />

imposta dalla norma pattizia (“deve beneficiarne”) per la quale la lex mitior deve essere di immediata applicazione,<br />

senza che le deroghe disposte dalla legge ordinaria possano essere giustificate dal bilanciamento con interessi di<br />

analogo rilievo».<br />

Ciò premesso, muovendo dall’analisi della sentenza n. 393 del 2006, la Corte di cassazione richiama<br />

l’orientamento della giurisprudenza costituzionale secondo cui, da un lato, l’art. 2, quarto comma, del codice penale<br />

deve essere interpretato nel senso che la locuzione «disposizioni più favorevole al reo» si riferisce a tutte quelle<br />

norme che apportino modifiche in melius alla disciplina di una fattispecie criminosa, ivi comprese quelle che<br />

incidono sulla prescrizione del reato, dall’altro, «il regime giuridico riservato alla lex mitior, e segnatamente la sua<br />

retroattività, non riceve nell’ordinamento la tutela privilegiata di cui all’art. 25, secondo comma, della Costituzione,<br />

che concerne soltanto il divieto di applicazione retroattiva della norma incriminatrice, nonché di quella altrimenti più<br />

sfavorevole per il reo», con la conseguenza che «eventuali deroghe al principio di retroattività della lex mitior, ai<br />

sensi dell’art. 3 della Costituzione, possono essere disposte dalla legge ordinaria quando ricorra una sufficiente<br />

ragione giustificativa».<br />

Viene poi in rilievo, nella prospettazione della Corte rimettente, la giurisprudenza costituzionale sulle norme<br />

della CEDU, «che – nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, specificamente istituita<br />

per dare ad esse interpretazione ed applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione) – integrano, quali norme<br />

interposte, il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, primo comma, della Costituzione, nella parte in cui<br />

impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali (sentenze n. 317<br />

e n. 311 del 2009, n. 39 del 2008)».<br />

Il giudice a quo richiama, infine, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, e segnatamente la<br />

sentenza della Grande Camera del 17 settembre 2009 (Scoppola contro Italia), secondo cui «l’art. 7 della<br />

Convenzione, che stabilisce il principio del divieto di applicazione retroattiva della legge penale, incorpora anche il<br />

corollario del diritto dell’accusato al trattamento più lieve», sancendo non solo il principio dell’irretroattività della<br />

legge penale più severa, ma anche, implicitamente, il principio della retroattività della legge penale meno severa. Per<br />

cui, prosegue la Corte di cassazione, «se la legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi<br />

72


penali posteriori adottate prima della pronuncia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare<br />

quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato».<br />

Poiché l’art. 7 della CEDU, nel significato chiarito, integra una norma interposta rispetto al parametro<br />

costituzionale di cui all’art. 117 Cost. – conclude il giudice rimettente – la Corte costituzionale, nel valutare la<br />

questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005, «resta legittimata a<br />

verificare se la norma della Convenzione – norma che si colloca pur sempre ad un livello sub-costituzionale – si<br />

ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Costituzione», nel qual caso dovrà essere esclusa la sua<br />

idoneità a integrare il parametro considerato. Ad avviso della Corte di cassazione però, questo scrutinio non è stato<br />

effettuato con la sentenza n. 393 del 2006, non solamente perché il parametro di riferimento era l’art. 3 Cost., ma<br />

anche perché «gli elementi assunti come tertium comparationis [erano] costituiti da interessi di analogo valore, senza<br />

indicazione specifica di conflitto con altre norme della Costituzione».<br />

La questione sarebbe infine rilevante: in primo luogo, perché il reato per cui si procede è punito nel massimo<br />

con la pena detentiva di sei anni di reclusione, sicché secondo la regola dettata dall’art. 157 cod. pen., come<br />

modificato dalla legge n. 251 del 2005, la prescrizione massima, tenuto conto del novellato art. 160, terzo comma,<br />

cod. pen., è di sette anni e sei mesi e il termine sarebbe già decorso; in secondo luogo, perché – a fronte<br />

dell’infondatezza di altri motivi di ricorso – è, invece, fondato quello con cui le difese degli imputati avevano<br />

lamentato la violazione dell’art. 519 cod. proc. pen., perché il Tribunale di Agrigento, prima, e la Corte di appello di<br />

Palermo, poi, non avevano proceduto all’assunzione di una prova decisiva (l’audizione di nuovi testimoni), richiesta<br />

dagli imputati a seguito della modifica dell’imputazione effettuata dal pubblico ministero.<br />

Ad avviso della Corte rimettente, l’accoglimento del suddetto motivo di ricorso comporterebbe l’annullamento<br />

della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Palermo. Pertanto – conclude il giudice<br />

a quo – la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005 è rilevante: «ove<br />

[infatti] dovesse dichiararsi l’estinzione per prescrizione del reato ascritto, sarebbe del tutto inutile procedere<br />

all’assunzione delle prove indicate dalla difesa, in omaggio alla regola dettata dall’art. 129 cod. proc. pen.».<br />

1.1. – È intervenuto nel giudizio di costituzionalità, con atto depositato il 30 novembre 2010, il Presidente del<br />

Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia<br />

dichiarata infondata.<br />

La difesa dello Stato rileva come l’art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005 contenga una disposizione,<br />

derogatoria rispetto al principio di retroattività della norma più favorevole al reo, ragionevole e rispettosa degli altri<br />

principi costituzionali. L’intervenuta condanna degli imputati in primo grado, infatti, renderebbe ragionevole la<br />

scelta normativa di mantenere il pregresso termine di prescrizione, «non venendo meno la pretesa punitiva [dello<br />

Stato] in presenza di un fumus di colpevolezza derivante da quella condanna».<br />

Inoltre, conclude l’Avvocatura generale dello Stato, la circostanza che si sia interamente svolto il giudizio di<br />

primo grado, con l’acquisizione delle prove e la pronuncia della sentenza di condanna, avrebbe l’effetto di evitare<br />

che la causa estintiva del reato ponga nel nulla un intero dibattimento, vanificando l’attività processuale compiuta,<br />

con conseguente lesione del principio del giusto processo sancito dall’art. 111 Cost.<br />

1.2. – Nel giudizio di costituzionalità si è costituito, con memoria depositata il 10 novembre 2010, G. M.,<br />

imputato nel giudizio a quo, che ha concluso per la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma impugnata.<br />

La difesa dell’imputato premette che la questione sollevata dalla Corte remittente è rilevante, in quanto<br />

l’applicazione del nuovo e più favorevole termine di prescrizione, che imporrebbe al giudice di pronunciare sentenza<br />

dichiarativa di estinzione del reato, sarebbe impedita, nel processo in corso, dal contenuto normativo dell’art. 10,<br />

comma 3, della legge n. 251 del 2005: il giudizio a carico di G. M., infatti, era già pendente in grado di appello al<br />

momento dell’entrata in vigore della suddetta legge (l’8 dicembre 2005), essendo stata pronunciata sentenza di<br />

condanna in primo grado in data 2 maggio 2005.<br />

In ordine alla fondatezza della questione, la difesa dell’imputato richiama, da un lato, l’orientamento della<br />

giurisprudenza costituzionale sul rapporto tra le fonti di diritto interno e il diritto internazionale pattizio, tra cui si<br />

colloca la CEDU, dall’altro, le sentenze della Corte costituzionale n. 393 del 2006 e n. 72 del 2008 che hanno negato<br />

la costituzionalizzazione, e quindi l’inderogabilità, del principio sancito dall’art. 2, quarto comma, cod. pen. Con la<br />

seconda pronuncia, in particolare, la Corte costituzionale ha ritenuto infondata la questione di legittimità<br />

costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005, reputando ragionevole la scelta legislativa di<br />

escludere l’applicazione della lex mitior per gli imputati i cui processi pendano in grado di appello o in cassazione, al<br />

momento dell’entrata in vigore della legge stessa.<br />

Tuttavia, a parere della difesa dell’imputato, «il parametro costituzionale prospettato dal giudice a quo nel<br />

presente giudizio (art. 117, primo comma, della Costituzione) fa mutare il criterio di valutazione e (…) anche il<br />

risultato del giudizio di compatibilità costituzionale della norma oggi sindacata (…)». Il parametro che viene in<br />

rilievo, infatti, non è quello della ragionevolezza della scelta normativa nell’individuazione del momento processuale<br />

dal quale far scaturire l’irretroattività della norma penale favorevole, bensì quello del contrasto della legge che<br />

impedisce l’applicazione della lex mitior ai processi in corso con la disposizione dell’art. 7 della CEDU, nel<br />

significato ad essa attribuito dalla Corte di Strasburgo.<br />

La difesa dell’imputato richiama, in proposito, la sentenza del 17 settembre 2009 (Scoppola contro Italia), con<br />

cui la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato che l’art. 7 della CEDU – che sancisce<br />

il principio di irretroattività della legge penale sfavorevole – include nel suo contenuto normativo anche il principio<br />

73


del diritto dell’accusato ad ottenere un trattamento in mitius nel caso di successione di leggi penali nel tempo prima<br />

del passaggio in giudicato della sentenza. La difesa dell’imputato ricorda, ancora, come tra le disposizioni più<br />

favorevoli al reo rientrino anche quelle in materia di prescrizione, data la natura sostanziale dell’istituto e<br />

considerato l’effetto prodotto, consistente nella rinuncia totale dello Stato alla potestà punitiva: la disposizione<br />

transitoria contenuta nell’art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui non consente l’applicabilità<br />

dei più brevi termini di prescrizione nei giudizi in corso alla data della sua entrata in vigore, pertanto, «negando il<br />

principio di retroattività della legge penale più favorevole all’accusato, [contrasterebbe] con l’art. 7 della CEDU e,<br />

quindi, [violerebbe] l’art. 117 della Costituzione».<br />

Il principio di retroattività in mitius riconosciuto dall’art. 7 della CEDU, come interpretato dalla Corte di<br />

Strasburgo – conclude la difesa dell’imputato – da un lato, determina un ampliamento di tutela di un diritto<br />

fondamentale della persona ed è connaturato a valori che trovano la loro espressione nel principio di uguaglianza, nel<br />

principio di legalità materiale, nella presunzione di non colpevolezza dell’imputato e in quello del favor rei,<br />

dall’altro, non contrasta con altre norme costituzionali poste a loro volta a garanzia di diritti fondamentali. In<br />

particolare, gli interessi dell’efficienza del processo e della salvaguardia dei diritti dei destinatari della funzione<br />

giurisdizionale, che sono stati individuati dalla Corte costituzionale come parametro del giudizio di ragionevolezza<br />

della scelta legislativa di derogare al principio sancito dall’art. 2, quarto comma, cod. pen. in quanto privi di<br />

copertura costituzionale, non possono essere ritenuti in contrasto con il principio dell’applicazione retroattiva della<br />

legge penale mitior, inteso come diritto inalienabile ed universale dell’uomo riconosciuto a livello di diritto<br />

internazionale pattizio. Il principio di retroattività della legge penale più favorevole non contrasterebbe né con il<br />

principio di efficienza del processo, «di per sé di difficile collocazione all’interno di una norma costituzionale (che<br />

non sia l’art. 111 del Costituzione)», né con il principio della salvaguardia dei diritti dei soggetti che, in vario modo,<br />

sono destinatari della funzione giurisdizionale: l’imputato non subirebbe alcuna diminuzione delle garanzie offerte<br />

dalle norme costituzionali; la parte civile non perderebbe il diritto di agire in giudizio, in sede civile, per il<br />

risarcimento del danno; il principio di obbligatorietà dell’azione penale non subirebbe limitazioni, attesa la natura<br />

sostanziale e non processuale della prescrizione.<br />

1.3. – Si è altresì costituito nel presente giudizio di costituzionalità, con memoria depositata il 23 novembre<br />

2010, F. D.G., anch’egli imputato nel giudizio a quo, chiedendo che la norma impugnata sia dichiarata<br />

incostituzionale sulla base di considerazioni del tutto analoghe a quelle svolte dalla difesa di G. M.<br />

1.4. – Con una successiva memoria, depositata il 31 maggio 2011, l’Avvocatura generale dello Stato rileva<br />

che le norme internazionali pattizie citate dall’ordinanza di rimessione, facendo riferimento al principio<br />

«dell’applicazione retroattiva della pena più mite», utilizzano una formula ben diversa da quella dell’art. 2, quarto<br />

comma, cod. pen. Ne consegue che solamente una forzatura del testo sovranazionale potrebbe far rientrare tra le<br />

leggi che stabiliscono una pena più lieve anche quelle che riducono i termini di prescrizione del reato.<br />

Inoltre – osserva la difesa dello Stato – il sindacato di costituzionalità per violazione dell’art. 117, primo<br />

comma, Cost. deve essere improntato al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi<br />

internazionali e la tutela di altri interessi costituzionali. La deroga all’applicazione retroattiva dei più brevi termini di<br />

prescrizione, come chiarito dalla sentenza n. 72 del 2008, non è irragionevole ed è diretta a tutelare interessi di non<br />

minor rilievo, quali l’efficienza del processo e la salvaguardia dei soggetti destinatari della funzione giurisdizionale.<br />

2. – La Corte di Appello di Venezia, con ordinanza emessa il 4 novembre 2010 e pervenuta a questa Corte il 3<br />

gennaio 2011 (r.o. n. 1 del 2011), dubita, del pari, della legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge<br />

n. 251 del 2005, per violazione degli artt. 111 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7 della CEDU, come<br />

interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.<br />

Il giudice a quo riferisce di essere investito dell’appello proposto dall’imputato D. F. e dal procuratore<br />

generale contro la sentenza emessa dal Tribunale di Padova il 15 gennaio 2001, «che ha giudicato del reato di cui<br />

agli artt. 110 cod. pen., 3 n. 8 e 4 nn. 1 e 7 l. 75/1958 ed altro».<br />

Il rimettente reputa la questione proposta rilevante ai fini della decisione, perché «i fatti per cui è processo<br />

sarebbero stati commessi nel corso di vari mesi (da ultimo, dicembre) dell’anno 1995»; la sentenza di primo grado è<br />

stata emessa nel 2001 per cui, ai sensi dell’art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005, si applicano i termini di<br />

prescrizione precedentemente vigenti; qualora fossero applicabili le più favorevoli disposizioni previste dalla novella<br />

legislativa, invece, i reati di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione sarebbero prossimi all’estinzione per<br />

prescrizione e gli altri reati sarebbero già prescritti.<br />

In ordine alla fondatezza della questione, il rimettente – premessa la rilevanza che le norme internazionali<br />

pattizie hanno assunto nel nostro ordinamento costituzionale – richiama l’ordinanza dell’11 giugno 2010 con cui la<br />

Corte di cassazione ha sollevato analoga questione di legittimità costituzionale, ritenendone fondati i rilievi in<br />

riferimento all’art. 117 Cost. e si riporta alla relativa motivazione, laddove rileva che, secondo l’interpretazione della<br />

Corte di Strasburgo, l’art. 7 della CEDU sancisce il principio di retroattività della legge penale più favorevole al reo.<br />

Il giudice a quo ritiene, inoltre, che «la modifica dei termini di prescrizione è stata determinata per la<br />

stragrande maggioranza dei reati evidentemente proprio dalla volontà di non mantenere per un tempo<br />

eccessivamente lungo un imputato nel circuito penale» e, quindi, di «addivenire a tempi processuali maggiormente<br />

equilibrati». Il proseguire ad applicare termini di prescrizione molto più lunghi di quelli attuali – conclude il<br />

remittente – rappresenterebbe «un chiaro vulnus delle regole costituzionali (…) in riferimento all’art. 111».<br />

2.1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è<br />

74


intervenuto nel giudizio di costituzionalità, con atto depositato l’8 febbraio 2011, chiedendo che la questione sia<br />

dichiarata infondata.<br />

La difesa dello Stato rileva come l’art. 7 della CEDU, «lungi dall’enunciare il principio della retroattività della<br />

lex mitior, (…) non [abbia] fatto altro che ribadire il principio di irretroattività delle norme incriminatrici»: ne<br />

conseguirebbe l’insussistenza della violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.<br />

Inoltre, conclude l’Avvocatura dello Stato, l’art. 111 Cost., nella parte in cui enuncia il principio della<br />

ragionevole durata del processo, ha valenza esclusivamente processuale, mentre l’istituto della prescrizione ha natura<br />

sostanziale: il fatto che la riduzione dei termini di prescrizione comporti una riduzione dei tempi processuali,<br />

pertanto, sarebbe solamente un effetto indiretto della scelta del legislatore.<br />

2.2. – Si è costituito nel giudizio di costituzionalità, con memoria depositata il 16 febbraio 2011, D. F.,<br />

imputato nel giudizio a quo, che ha concluso per la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma impugnata,<br />

condividendo le argomentazioni dell’ordinanza di rimessione e prospettando anche la violazione dell’art. 3 Cost. per<br />

irragionevolezza.<br />

2.3. – Con successiva memoria, depositata il 31 maggio 2011, l’Avvocatura generale dello Stato eccepisce<br />

l’inammissibilità della censura relativa alla violazione dell’art. 3 Cost. prospettata dalla parte privata, perché mira ad<br />

ampliare il thema decidendum fissato dall’ordinanza di rimessione.<br />

Nel merito, rileva che la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione all’art. 117, primo<br />

comma, Cost. è infondata, perché sia l’art. 15, primo comma, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e<br />

politici, sia l’art. 7 della CEDU, come interpretato dalla giurisprudenza europea e segnatamente dalla sentenza del 17<br />

settembre 2009 (Scoppola contro Italia), enunciano il principio di retroattività della lex mitior «con specifico<br />

riferimento alla comminatoria di una pena più lieve», con la conseguenza che detto principio non sarebbe applicabile<br />

alla prescrizione.<br />

Inoltre – osserva la difesa dello Stato – da un lato, manca una giurisprudenza consolidata della Corte europea<br />

sulla portata del principio di retroattività in mitius, dall’altro, il sindacato di costituzionalità per violazione dell’art.<br />

117, primo comma, Cost. deve essere improntato al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi<br />

internazionali e la tutela di altri interessi costituzionali. La Corte, con la sentenza n. 72 del 2008, ha già ritenuto<br />

ragionevole la scelta legislativa di escludere l’applicazione dei nuovi termini di prescrizione ai giudizi pendenti in<br />

appello o avanti alla Corte di cassazione.<br />

L’Avvocatura generale rileva, infine, l’infondatezza della questione sollevata con riferimento all’art. 111<br />

Cost., perché la prescrizione ha natura sostanziale e non può «essere valutata alla stregua del principio, squisitamente<br />

processuale, della durata ragionevole del processo».<br />

3. – L’art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251, è sottoposto a scrutinio di legittimità<br />

costituzionale, con riferimento all’art. 117 Cost., anche dalla Corte di appello di Bari, con ordinanza emessa il 17<br />

dicembre 2010 e pervenuta a questa Corte il 16 febbraio 2011 (r.o. n. 47 del 2011).<br />

Il giudice a quo reputa la questione rilevante ai fini della decisione, perché «i reati oggetto di contestazione<br />

sarebbero suscettibili di estinzione per prescrizione nell’eventualità che, venendo meno la previsione dell’art. 10,<br />

comma 3, della legge n. 251 del 2005, risultasse applicabile la più favorevole disciplina di cui al combinato disposto<br />

degli artt. 157 e 161 cod. pen.».<br />

A parere del giudice rimettente, la questione sarebbe altresì fondata, per «le condivisibili ragioni ed<br />

argomentazioni espresse dalla Suprema Corte di cassazione» nell’ordinanza dell’11 giugno 2010, con cui è stata<br />

sollevata analoga questione di legittimità costituzionale.<br />

3.1. – È intervenuto nel giudizio di costituzionalità, con atto depositato il 12 aprile 2011, il Presidente del<br />

Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto la declaratoria di<br />

inammissibilità e, in subordine, di infondatezza della questione.<br />

In primo luogo, la questione sarebbe inammissibile, perché il giudice rimettente ha omesso di descrivere la<br />

fattispecie sottoposta alla sua cognizione, non indicando, in particolare, se il giudizio di appello fosse pendente alla<br />

data di entrata in vigore della legge n. 251 del 2005 (8 dicembre 2005).<br />

Ulteriore ragione di inammissibilità sarebbe da ravvisare nell’omessa motivazione in ordine alla non manifesta<br />

infondatezza, essendosi limitato il giudice a quo a un mero richiamo all’ordinanza con cui la Corte di cassazione ha<br />

sollevato analoga questione di legittimità costituzionale, senza indicare le ragioni per le quali ritiene di dover<br />

condividere le argomentazioni poste a fondamento della decisione richiamata.<br />

In ordine alla fondatezza della questione, la difesa dello Stato richiama le sentenze n. 393 del 2006 e n. 72 del<br />

2008, con le quali la Corte costituzionale ha chiarito che «il principio di retroattività della lex mitior, lungi<br />

dall’essere assolutamente cogente sulla base delle indicazioni fornite dai trattati internazionali cui l’Italia ha dato<br />

esecuzione, nonché del diritto comunitario, è derogabile qualora le disposizioni derogatorie siano conformi al canone<br />

della ragionevolezza». La scelta legislativa di escludere l’applicazione retroattiva delle disposizioni più favorevoli<br />

all’imputato, introdotte in materia di prescrizione dalla legge n. 251 del 2005, sarebbe giustificata dall’esigenza di<br />

evitare la dispersione di attività processuali già compiute, in omaggio a interessi costituzionalmente rilevanti, quali<br />

l’efficienza del processo e la salvaguardia dei diritti dei destinatari della funzione giurisdizionale. Dalla<br />

ragionevolezza della scelta effettuata dal legislatore con la disposizione censurata deriverebbe allora – conclude<br />

l’Avvocatura generale – l’insussistenza della denunciata incostituzionalità anche con riferimento all’art. 117 Cost.<br />

75


Considerato in diritto<br />

1. – La Corte di cassazione, seconda sezione penale, in riferimento all’art. 117, primo comma, della<br />

Costituzione e all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,<br />

ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 10, comma<br />

3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di<br />

attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di<br />

prescrizione), nella parte in cui esclude l’applicazione dei nuovi termini di prescrizione, se più brevi, ai «processi già<br />

pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione».<br />

La Corte rimettente – rilevato che, secondo la più recente giurisprudenza costituzionale, le norme della<br />

CEDU, nell’interpretazione loro attribuita dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, costituiscono norme interposte ai<br />

fini della verifica del rispetto dell’art. 117, primo comma, Cost. – pone a base delle proprie censure l’affermazione<br />

contenuta nella sentenza della Grande Camera della Corte di Strasburgo del 17 settembre 2009 (Scoppola contro<br />

Italia), secondo cui «l’art. 7 della Convenzione, che stabilisce il principio del divieto di applicazione retroattiva della<br />

legge penale, incorpora anche il corollario del diritto dell’accusato al trattamento più lieve».<br />

Secondo il giudice a quo la disposizione transitoria censurata, impedendo l’applicazione dei più brevi termini<br />

di prescrizione del reato nei processi in corso, pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione, si<br />

porrebbe in contrasto con l’art. 7 della CEDU che, nell’interpretazione della Corte europea dei diritti dell’uomo,<br />

sancisce non solo il principio dell’irretroattività della legge penale più severa, ma anche, implicitamente, il principio<br />

della retroattività della legge penale più favorevole al reo.<br />

2. – La Corte di appello di Venezia dubita, del pari, della legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della<br />

legge n. 251 del 2005, per violazione degli artt. 111 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7 della CEDU,<br />

come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.<br />

Richiamata l’ordinanza con cui la Corte di cassazione ha sollevato un’analoga questione di legittimità<br />

costituzionale e ritenuti fondati i rilievi in essa svolti in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., il giudice a quo<br />

afferma che la disposizione censurata si pone in contrasto anche con l’art. 111, secondo comma, Cost., in quanto la<br />

riduzione dei termini di prescrizione serve ad assicurare tempi processuali maggiormente equilibrati, sicché<br />

«continuare ad applicare termini di prescrizione molto più lunghi di quelli attuali rappresenterebbe un vulnus delle<br />

regole costituzionali» e, in particolare, del principio della ragionevole durata del processo.<br />

3. – Anche la Corte di appello di Bari, con riferimento all’art. 117 Cost., muove analoghe censure all’art. 10,<br />

comma 3, della legge n. 251 del 2005, richiamandosi alle «condivisibili ragioni ed argomentazioni espresse dalla<br />

suprema Corte di cassazione» nell’ordinanza dell’11 giugno 2010, con cui è stata sollevata la medesima questione di<br />

legittimità costituzionale.<br />

4. – Le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche o analoghe, sicché i relativi giudizi vanno riuniti<br />

per essere definiti con un’unica decisione.<br />

5. – L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità della questione sollevata dalla Corte di<br />

appello di Bari, sulla base di un duplice rilievo: perché il giudice rimettente avrebbe omesso di descrivere la<br />

fattispecie sottoposta alla sua cognizione e perché non avrebbe motivato sulla non manifesta infondatezza,<br />

limitandosi a un mero richiamo all’ordinanza con cui la Corte di cassazione aveva sollevato un’analoga questione di<br />

legittimità costituzionale.<br />

L’eccezione è fondata.<br />

Innanzi tutto l’ordinanza di rimessione presenta carenze di descrizione della fattispecie concreta e di<br />

motivazione sulla rilevanza, omettendo di indicare il titolo del reato per cui si procede, la data della sua commissione<br />

e se l’appello fosse pendente al momento dell’entrata in vigore della legge n. 251 del 2005: in tal modo, impedisce a<br />

questa Corte di verificare la rilevanza della questione (ex multis: sentenza n. 72 del 2008; ordinanza n. 64 del 2011).<br />

In secondo luogo, il giudice a quo non motiva sulle ragioni dell’asserita violazione del parametro evocato,<br />

limitandosi a richiamare, in termini puramente generici e apodittici, l’ordinanza con cui la Corte di cassazione ha<br />

sollevato un’analoga questione di legittimità costituzionale, senza indicare le ragioni per le quali ritiene di dover<br />

condividere le argomentazioni poste a fondamento della decisione richiamata. Secondo la costante giurisprudenza di<br />

questa Corte, la carente motivazione sulla non manifesta infondatezza della questione non può essere colmata dal<br />

rinvio al contenuto di altre ordinanze di rimessione, dello stesso o di diverso giudice, dovendo il rimettente rendere<br />

esplicite le ragioni per le quali ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione sollevata, mediante una<br />

motivazione autonoma e autosufficiente (ex multis: sentenze n. 103 del 2007 e n. 266 del 2006; ordinanze n. 321 del<br />

2010 e n. 75 del 2007).<br />

6. – Anche la questione sollevata dalla Corte di appello di Venezia è inammissibile, per carente descrizione<br />

della fattispecie concreta e difetto di rilevanza.<br />

Il giudice a quo, infatti, si limita a riferire di essere investito dell’appello contro la sentenza di primo grado,<br />

emessa il 15 gennaio 2001, «che ha giudicato del reato di cui agli artt. 110 cod. pen., 3 n. 8 e 4 nn. 1 e 7 l. 75/1958<br />

ed altro», «commessi nel corso di vari mesi (da ultimo, dicembre) dell’anno 1995», specificando che, qualora fossero<br />

applicabili le più favorevoli disposizioni previste dalla novella legislativa, i reati di favoreggiamento e sfruttamento<br />

della prostituzione sarebbero prossimi all’estinzione per prescrizione e gli altri reati sarebbero già prescritti.<br />

76


La questione di legittimità costituzionale pertanto è in parte irrilevante, in quanto, con riferimento alle<br />

imputazioni di favoreggiamento e di sfruttamento della prostituzione, anche nel caso di declaratoria di illegittimità<br />

della norma censurata, l’applicazione della lex mitior non comporterebbe una pronuncia di estinzione del reato, non<br />

essendo ancora maturato – per affermazione dello stesso rimettente – il più breve termine di prescrizione introdotto<br />

dalla legge n. 251 del 2005. Inoltre, con riferimento alle altre imputazioni – per le quali, secondo il giudice a quo,<br />

applicando la legge penale più favorevole, sarebbe maturato il termine di prescrizione – l’ordinanza di rimessione<br />

non descrive compiutamente le fattispecie oggetto del giudizio, omettendo ogni indicazione sul titolo e sulla natura<br />

degli «altri reati» per cui si procede, con conseguente impossibilità, per questa Corte, di verificare la rilevanza della<br />

questione.<br />

7. – La questione sollevata dalla Corte di cassazione invece è ammissibile, ma non fondata nel merito.<br />

8. – L’art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005 originariamente era così formulato: «Se, per effetto delle<br />

nuove disposizioni, i termini di prescrizione risultano più brevi, le stesse si applicano ai procedimenti e ai processi<br />

pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, ad esclusione dei processi già pendenti in primo grado<br />

ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché dei processi già pendenti in grado di appello o<br />

avanti alla Corte di cassazione».<br />

Con la sentenza n. 393 del 2006, questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione,<br />

nella parte in cui individuava nella dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado il discrimine temporale<br />

per l’applicazione della nuova disciplina della prescrizione, se più favorevole al reo, ritenendo che questa scelta<br />

legislativa non fosse «assistita da ragionevolezza» e quindi violasse l’art. 3 Cost.<br />

Per effetto della pronuncia i nuovi termini più favorevoli di prescrizione sono rimasti inapplicabili nei soli<br />

processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione. Sotto tale profilo la norma è stata<br />

nuovamente investita da una questione di legittimità costituzionale, che questa Corte, con la sentenza n. 72 del 2008,<br />

ha giudicato priva di fondamento, ritenendo ragionevole il residuo limite posto alla retroattività del più favorevole<br />

regime di prescrizione.<br />

La nuova questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005, nel testo<br />

risultante dalla sentenza n. 393 del 2006, proposta dalla Corte di cassazione, non fa riferimento all’art. 3 Cost., ma<br />

chiama in causa il diverso parametro espresso dall’art. 117, primo comma, Cost., assumendo, quale norma<br />

interposta, l’art. 7 della CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo nella sentenza della Grande Camera del<br />

17 settembre 2009 (Scoppola contro Italia).<br />

9. – Il contenuto della nuova censura mossa nei confronti della norma impugnata, concernendo la sua<br />

conformità all’art. 7 della CEDU, impone, in via preliminare, di ricordare quale sia la giurisprudenza di questa Corte<br />

sul rango delle disposizioni della CEDU nel nostro ordinamento e sulla loro efficacia, quali norme interposte,<br />

rispetto all’art. 117, primo comma, Cost.<br />

A partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, la giurisprudenza costituzionale è costante nel ritenere che<br />

«le norme della CEDU – nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, specificamente<br />

istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione) – integrano, quali<br />

norme interposte, il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la<br />

conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali» (sentenze n. 113 e n. 1 del<br />

2011, n. 196, n. 187 e n. 138 del 2010, n. 317 e n. 311 del 2009, n. 39 del 2008; sulla perdurante validità di questa<br />

ricostruzione dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, sentenza n. 80 del 2011).<br />

Questa Corte ha chiarito che «l’art. 117, primo comma, Cost., ed in particolare l’espressione “obblighi<br />

internazionali” in esso contenuta, si riferisce alle norme internazionali convenzionali anche diverse da quelle<br />

comprese nella previsione degli artt. 10 e 11 Cost. Così interpretato, l’art. 117, primo comma, Cost., ha colmato la<br />

lacuna prima esistente rispetto alle norme che a livello costituzionale garantiscono l’osservanza degli obblighi<br />

internazionali pattizi. La conseguenza è che il contrasto di una norma nazionale con una norma convenzionale, in<br />

particolare della CEDU, si traduce in una violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.» (sentenza n. 311 del 2009).<br />

Nel caso in cui si profili un contrasto tra una norma interna e una norma della CEDU, quindi, «il giudice<br />

nazionale comune deve preventivamente verificare la praticabilità di un’interpretazione della prima conforme alla<br />

norma convenzionale, ricorrendo a tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica» (sentenze n. 93 del 2010, n.<br />

113 del 2011, n. 311 e n. 239 del 2009). Se questa verifica dà esito negativo e il contrasto non può essere risolto in<br />

via interpretativa, il giudice comune, non potendo disapplicare la norma interna né farne applicazione, avendola<br />

ritenuta in contrasto con la CEDU, e pertanto con la Costituzione, deve denunciare la rilevata incompatibilità<br />

proponendo una questione di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., ovvero<br />

all’art. 10, primo comma, Cost., ove si tratti di una norma convenzionale ricognitiva di una norma del diritto<br />

internazionale generalmente riconosciuta (sentenze n. 113 del 2011, n. 93 del 2010 e n. 311 del 2009).<br />

Sollevata la questione di legittimità costituzionale, questa Corte – dopo aver accertato che il denunciato<br />

contrasto tra norma interna e norma della CEDU sussiste e non può essere risolto in via interpretativa – è chiamata a<br />

verificare se la norma della Convenzione – norma che si colloca pur sempre ad un livello sub-costituzionale – si<br />

ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Costituzione. In questa, seppur eccezionale, ipotesi, deve<br />

essere esclusa l’idoneità della norma convenzionale a integrare il parametro costituzionale considerato (sentenze n.<br />

113 del 2011, n. 93 del 2010, n. 311 del 2009, n. 349 e n. 348 del 2007).<br />

Questa Corte ha, inoltre, reiteratamente affermato di non poter sindacare l’interpretazione della Convenzione<br />

77


fornita dalla Corte di Strasburgo: le norme della CEDU, quindi, devono essere applicate nel significato loro attribuito<br />

dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenze n. 113 e n. 1 del 2011, n. 93 del 2010, n. 311 e n. 239 del 2009, n.<br />

39 del 2008, n. 349 e n. 348 del 2007).<br />

Ma se questa Corte non può sostituire la propria interpretazione di una disposizione della CEDU a quella della<br />

Corte di Strasburgo, può però «valutare come ed in qual misura il prodotto dell’interpretazione della Corte europea si<br />

inserisca nell’ordinamento costituzionale italiano. La norma CEDU, nel momento in cui va ad integrare il primo<br />

comma dell’art. 117 Cost., da questo ripete il suo rango nel sistema delle fonti, con tutto ciò che segue, in termini di<br />

interpretazione e bilanciamento, che sono le ordinarie operazioni cui questa Corte è chiamata in tutti i giudizi di sua<br />

competenza» (sentenza n. 317 del 2009).<br />

A questa Corte compete, insomma, di apprezzare la giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma<br />

conferente, in modo da rispettarne la sostanza, ma con un margine di apprezzamento e di adeguamento che le<br />

consenta di tener conto delle peculiarità dell’ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata a<br />

inserirsi (sentenza n. 311 del 2009).<br />

10. – Poiché, come si è visto, la norma oggetto di impugnazione è censurata in quanto introduce un limite<br />

all’applicabilità retroattiva della nuova disciplina della prescrizione, qualora sia più favorevole al reo, occorre anche<br />

ripercorrere brevemente la giurisprudenza costituzionale in tema di retroattività in mitius.<br />

Questa Corte ha reiteratamente affermato che il principio di retroattività della disposizione penale più<br />

favorevole al reo – previsto a livello di legge ordinaria dall’art. 2, secondo, terzo e quarto comma, cod. pen. – non è<br />

stato costituzionalizzato dall’art. 25, secondo comma, Cost., che si è limitato a sancire l’irretroattività delle norme<br />

incriminatrici e, in generale, delle norme penali più severe. Esso, dunque, ben può subire deroghe per via di<br />

legislazione ordinaria, quando ne ricorra una sufficiente ragione giustificativa (ex plurimis: sentenze n. 215 del 2008,<br />

n. 393 del 2006, n. 80 del 1995, n. 74 del 1980, n. 6 del 1978; ordinanza n. 330 del 1995).<br />

Secondo la giurisprudenza costituzionale, infatti, «il principio di retroattività della lex mitior ha una valenza<br />

ben diversa, rispetto al principio di irretroattività della norma penale sfavorevole. Quest’ultimo si pone come<br />

essenziale strumento di garanzia del cittadino contro gli arbitri del legislatore, espressivo dell’esigenza della<br />

“calcolabilità” delle conseguenze giuridico-penali della propria condotta, quale condizione necessaria per la libera<br />

autodeterminazione individuale. (…) In questa prospettiva, è dunque incontroverso che il principio de quo trovi<br />

diretto riconoscimento nell’art. 25, secondo comma, Cost. in tutte le sue espressioni: e, cioè, non soltanto con<br />

riferimento all’ipotesi della nuova incriminazione, sulla quale pure la formula costituzionale risulta all’apparenza<br />

calibrata; ma anche con riferimento a quella della modifica peggiorativa del trattamento sanzionatorio di un fatto già<br />

in precedenza penalmente represso. In questi termini, il principio in parola si connota, altresì, come valore assoluto,<br />

non suscettibile di bilanciamento con altri valori costituzionali. (…) Invece, il principio di retroattività della norma<br />

più favorevole non ha alcun collegamento con la libertà di autodeterminazione individuale, per l’ovvia ragione che,<br />

nel caso considerato, la lex mitior sopravviene alla commissione del fatto, al quale l’autore si era liberamente<br />

autodeterminato sulla base del pregresso (e per lui meno favorevole) panorama normativo. In quest’ottica, la Corte<br />

ha quindi costantemente escluso che il principio di retroattività in mitius trovi copertura nell’art. 25, secondo<br />

comma, Cost.» (sentenza n. 394 del 2006).<br />

L’ambito di operatività del principio di retroattività in mitius non deve essere limitato alle sole disposizioni<br />

concernenti la misura della pena, ma va esteso a tutte le norme sostanziali che, pur riguardando profili diversi dalla<br />

sanzione in senso stretto, incidono sul complessivo trattamento riservato al reo. Come chiarito dalla sentenza n. 393<br />

del 2006, infatti, «la norma del codice penale [che sancisce la regola generale della retroattività della lex mitior] deve<br />

essere interpretata, ed è stata costantemente interpretata dalla giurisprudenza di questa Corte (e da quella di<br />

legittimità), nel senso che la locuzione “disposizioni più favorevoli al reo” si riferisce a tutte quelle norme che<br />

apportino modifiche in melius alla disciplina di una fattispecie criminosa, ivi comprese quelle che incidono sulla<br />

prescrizione del reato».<br />

Ciò premesso sull’ambito di operatività del principio di retroattività in bonam partem, merita di essere<br />

ricordato che, secondo questa Corte, «la regola della retroattività della lex mitior, pur avendo rango diverso dal<br />

principio d’irretroattività della norma incriminatrice, di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., non è priva di un<br />

fondamento costituzionale» (sentenza n. 215 del 2008). Questo fondamento è stato individuato nel «principio di<br />

eguaglianza, che impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a<br />

prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha<br />

disposto l’abolitio criminis o la modifica mitigatrice» (sentenza n. 394 del 2006).<br />

Non sarebbe ragionevole punire (o continuare a punire più gravemente) una persona per un fatto che, secondo<br />

la legge posteriore, chiunque altro può impunemente commettere (o per il quale è prevista una pena più lieve). Per il<br />

principio di eguaglianza, infatti, la modifica mitigatrice della legge penale e, ancor di più, l’abolitio criminis,<br />

disposte dal legislatore in dipendenza di una mutata valutazione del disvalore del fatto tipico, devono riverberarsi<br />

anche a vantaggio di coloro che hanno posto in essere la condotta in un momento anteriore, salvo che, in senso<br />

opposto, ricorra una sufficiente ragione giustificativa (sentenze n. 215 del 2008, n. 394 e n. 393 del 2006, n. 80 del<br />

1995, n. 74 del 1980, n. 6 del 1978 e n. 164 del 1974).<br />

Il principio di eguaglianza costituisce, però, come è stato chiarito da questa Corte, non solo il fondamento, ma<br />

anche il limite dell’applicabilità retroattiva della lex mitior. Mentre il principio di irretroattività della norma penale<br />

sfavorevole, infatti, costituisce un valore assoluto e inderogabile, quello della retroattività in mitius è suscettibile di<br />

78


limitazioni e deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli e,<br />

in particolare, dalla necessità di preservare interessi, ad esso contrapposti, di analogo rilievo (ex multis: sentenze n.<br />

215 del 2008, n. 394 del 2006, n. 74 del 1980 e n. 6 del 1978).<br />

11. – La sentenza n. 393 del 2006, pur ammettendo che «eventuali deroghe al principio di retroattività della<br />

lex mitior, ai sensi dell’art. 3 Cost., possono essere disposte dalla legge ordinaria quando ricorra una sufficiente<br />

ragione giustificativa», così mostrando di condividere la costante giurisprudenza costituzionale sul «regime giuridico<br />

riservato alla lex mitior, e segnatamente [alla] sua retroattività», non si è limitata a ricollegare il suddetto principio a<br />

quello di eguaglianza, ma gli ha riconosciuto un valore autonomo anche attraverso il riferimento alla normativa<br />

internazionale e comunitaria. In tale sentenza questa Corte infatti ha rilevato che il principio di retroattività della<br />

legge penale più favorevole non è affermato solamente, seppure come criterio di portata generale, da una norma del<br />

codice penale (l’art. 2), ma è riconosciuto anche dal diritto internazionale e comunitario, in particolare dall’art. 15,<br />

primo comma, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966,<br />

ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881, e dall’art. 49, comma 1, della Carta dei diritti<br />

fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e successivamente recepita dal Trattato di<br />

Lisbona, modificativo del Trattato sull’Unione europea e del Trattato che istituisce la Comunità europea, entrato in<br />

vigore il 1° dicembre 2009, che le ha attribuito lo stesso valore giuridico dei trattati. Del resto la Corte di giustizia<br />

dell’Unione europea, già prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, aveva ritenuto che il principio della lex<br />

mitior facesse parte delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e, come tale, dovesse essere<br />

considerato parte integrante dei principi generali del diritto comunitario di cui la Corte di giustizia stessa garantisce<br />

il rispetto e che il giudice nazionale deve osservare quando applica il diritto nazionale adottato per attuare<br />

l’ordinamento comunitario (sentenza 3 maggio 2005, Berlusconi e altri, cause riunite C-387/02, C-391/02, C-403/02;<br />

tale principio è stato successivamente ribadito dalle sentenze 11 marzo 2008, Jager, C-420/06, e 28 aprile 2011, El<br />

Dridi, C-61/11).<br />

Anche se, nella sentenza n. 393 del 2006, le fonti internazionali non sono invocate come norme interposte nel<br />

giudizio di costituzionalità, ma solo come dati normativi da cui desumere la rilevanza dell’interesse tutelato dal<br />

principio di retroattività della lex mitior, questa Corte, attraverso il loro richiamo, ha fatto assumere al principio di<br />

retroattività in mitius una propria autonomia, che ha ora, attraverso l’art. 117, primo comma, Cost., acquistato un<br />

nuovo fondamento con l’interposizione dell’art. 7 della CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo.<br />

Rimane, però, da stabilire se il riconoscimento, da parte della giurisprudenza europea, del principio di<br />

retroattività della norma più favorevole e la sua iscrizione tra le garanzie sancite dalla citata norma convenzionale,<br />

oltre a fargli acquistare autonomia, ne abbia mutato natura e caratteristiche, se cioè esso sia assoluto e inderogabile<br />

come il principio di non retroattività delle norme penali di sfavore, ovvero se la sua diversità rispetto alla garanzia<br />

fondamentale che questo rappresenta renda possibile, in presenza di particolari ragioni giustificative, l’applicabilità<br />

della disposizione meno favorevole che era in vigore quando il reato è stato commesso, o comunque l’introduzione<br />

di limiti alla regola della retroattività in mitius. In secondo luogo, occorre individuare quale ne sia l’oggetto, se cioè<br />

riguardi solamente le disposizioni che prevedono il reato e la pena o anche qualunque altra disposizione che incida<br />

sul trattamento penale, come in particolare quelle sulla prescrizione.<br />

12. – L’art. 7, paragrafo 1, della CEDU sancisce il divieto di applicazione retroattiva delle norme penali<br />

incriminatrici e, in generale, delle norme penali più severe, in modo da assicurare che, «nel momento in cui un<br />

imputato ha commesso l’atto che ha dato luogo all’azione penale, [esistesse] una disposizione legale che rendeva<br />

l’atto punibile, e che la pena imposta non [abbia] superato i limiti fissati da tale disposizione» (sentenza 22 giugno<br />

2000, Coëme e altri contro Belgio; sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia).<br />

La Corte di Strasburgo ha costantemente escluso che l’art. 7 della Convenzione sancisse anche «il diritto di<br />

beneficiare dell’applicazione di una pena meno severa prevista da una legge posteriore al reato» (decisione della<br />

Commissione 6 marzo 1978, X. contro Germania; decisione 5 dicembre 2000, Le Petit contro Regno Unito;<br />

decisione 6 marzo 2003, Zaprianov contro Bulgaria, tutte relative a ipotesi di successiva depenalizzazione del reato<br />

per il quale il ricorrente era stato condannato), pur ammettendo la non contrarietà alla citata norma convenzionale<br />

dell’applicazione retroattiva della disposizione penale più favorevole da parte delle giurisdizioni interne (sentenza 27<br />

settembre 1995, G. contro Francia; decisione del 9 febbraio 2006, Karmo contro Bulgaria). Di recente, però, con la<br />

sentenza del 17 settembre 2009 (Scoppola contro Italia) la Grande Camera, mutando il proprio precedente e<br />

consolidato orientamento, ha ammesso che «l’art. 7 § 1 della Convenzione non sancisce solo il principio della<br />

irretroattività delle leggi penali più severe, ma anche, e implicitamente, il principio della retroattività della legge<br />

penale meno severa», traducendosi «nella norma secondo cui, se la legge penale in vigore al momento della<br />

commissione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia definitiva sono diverse, il giudice<br />

deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato».<br />

A questa conclusione la Corte europea è pervenuta tenendo conto dell’«evoluzione della situazione nello Stato<br />

convenuto e negli Stati contraenti in generale» e dando atto della necessità di adottare un «approccio dinamico ed<br />

evolutivo» nell’interpretazione della Convenzione, che renda «le garanzie concrete ed effettive, e non teoriche e<br />

illusorie»: ha così registrato «un consenso a livello europeo e internazionale per considerare che l’applicazione della<br />

legge penale che prevede una pena meno severa, anche posteriormente alla commissione del reato, è divenuta un<br />

principio fondamentale del diritto penale».<br />

Il nuovo orientamento è stato confermato in una successiva pronuncia (decisione 27 aprile 2010, Morabito<br />

79


contro Italia), con cui la Corte europea ha ribadito che «le disposizioni che definiscono i reati e le pene sottostanno a<br />

delle regole particolari in materia di retroattività, che includono anche il principio di retroattività della legge penale<br />

più favorevole all’imputato», sottolineando però che l’art. 7 riguarda solamente le norme penali sostanziali, e in<br />

particolare le disposizioni che influiscono sull’entità della pena da infliggere.<br />

Ancorché tenda ad assumere un valore generale e di principio, la sentenza pronunciata dalla Corte di<br />

Strasburgo nel caso Scoppola resta pur sempre legata alla concretezza della situazione che l’ha originata: la<br />

circostanza che il giudizio della Corte europea abbia ad oggetto un caso concreto e, soprattutto, la peculiarità della<br />

singola vicenda su cui è intervenuta la pronuncia devono, infatti, essere adeguatamente valutate e prese in<br />

considerazione da questa Corte, nel momento in cui è chiamata a trasporre il principio affermato dalla Corte di<br />

Strasburgo nel diritto interno e a esaminare la legittimità costituzionale di una norma per presunta violazione di<br />

quello stesso principio.<br />

13. – Se si ritenesse che il principio di retroattività della legge penale più favorevole, affermato dalla Corte di<br />

Strasburgo, si differenzi per la sua rigidità da quello che aveva già trovato riconoscimento nella giurisprudenza di<br />

questa Corte, nel senso che tale principio non tollera deroghe o limitazioni giustificate da situazioni particolari, se ne<br />

dovrebbe vedere in questa sua caratteristica il profilo veramente innovativo, fermo rimanendo in ogni caso che il<br />

momento in cui la norma CEDU va ad integrare il primo comma dell’art. 117 Cost., da questo ripete il suo rango nel<br />

sistema delle fonti, con tutto ciò che segue, in termini di interpretazione e bilanciamento, che sono le ordinarie<br />

operazioni cui questa Corte è chiamata in tutti i giudizi di sua competenza (sentenza n. 317 del 2009).<br />

Dalla sentenza della Corte europea del 17 settembre 2009 (Scoppola contro Italia) però non emerge una novità<br />

siffatta. Nulla la Corte ha detto per far escludere la possibilità che, in presenza di particolari situazioni, il principio di<br />

retroattività in mitius subisca deroghe o limitazioni: è un aspetto che la Corte non ha considerato, e che non aveva<br />

ragione di considerare, date le caratteristiche del caso oggetto della sua decisione. È però significativo che la Corte<br />

abbia espressamente posto un limite, escludendo che il principio in questione possa travolgere il giudicato (nella<br />

sentenza si fa esclusivo riferimento a «leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia di una sentenza<br />

definitiva»), diversamente da quanto prevede nel nostro ordinamento l’art. 2, secondo e terzo comma, cod. pen. È da<br />

aggiungere che la sentenza Scoppola, anche se in modo non inequivoco, induce a ritenere che il principio di<br />

retroattività della norma più favorevole sia normalmente collegato dalla Corte europea all’assenza di ragioni<br />

giustificative di deroghe o limitazioni. Si legge infatti nella sentenza che «infliggere una pena più severa solo perché<br />

essa era prevista al momento della commissione del reato si tradurrebbe in una applicazione a svantaggio<br />

dell’imputato delle norme che regolano la successione delle leggi penali nel tempo» e che «ciò equivarrebbe inoltre a<br />

ignorare i cambiamenti legislativi favorevoli all’imputato intervenuti prima della sentenza e continuare a infliggere<br />

pene che lo Stato e la collettività che esso rappresenta considerano ormai eccessive». Ma, se la retroattività non può<br />

essere esclusa “solo” perché la pena più mite non era prevista al momento della commissione del reato, è legittimo<br />

concludere che la soluzione può essere diversa quando le ragioni per escluderla siano altre e consistenti.<br />

Insomma, secondo la Corte europea, la circostanza che un determinato fatto era previsto come reato dalla<br />

legge in vigore al momento della sua commissione ed era punito con un certa sanzione non può costituire, di per sé,<br />

valida ragione per giustificare l’applicazione di tale legge, ancorché successivamente abrogata o modificata in<br />

melius, continuando così a «infliggere pene che lo Stato e la collettività che esso rappresenta considerano ormai<br />

eccessive». Perciò, qualora vi sia una ragione diversa, che risulti positivamente apprezzabile, la deroga<br />

all’applicazione della legge sopravvenuta più favorevole al reo dovrebbe ritenersi possibile anche per la<br />

giurisprudenza di Strasburgo, specie quando, come è avvenuto nel caso in esame, fattispecie incriminatrice e pena<br />

siano rimaste immutate.<br />

Alla luce delle considerazioni che precedono, non è arbitraria la conclusione che il riconoscimento da parte<br />

della Corte europea del principio di retroattività in mitius – che già operava nel nostro ordinamento in forza dell’art.<br />

2, secondo, terzo e quarto comma, cod. pen. e aveva trovato un fondamento costituzionale attraverso la<br />

giurisprudenza di questa Corte – non abbia escluso la possibilità di introdurre deroghe o limitazioni alla sua<br />

operatività, quando siano sorrette da una valida giustificazione.<br />

A ben vedere, il principio di retroattività della lex mitior presuppone un’omogeneità tra i contesti fattuali o<br />

normativi in cui operano le disposizioni che si succedono nel tempo, posto che, come è stato chiarito da questa<br />

Corte, il principio di eguaglianza, così come ne costituisce un fondamento, può rappresentare anche il limite<br />

dell’applicabilità retroattiva della legge penale più favorevole (sentenza n. 394 del 2006). È proprio la diversità di<br />

contesto, ad esempio, che giustifica la deroga posta dal quinto comma dell’art. 2 cod. pen. stabilendo che «Se si<br />

tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti»; ciò infatti<br />

significa che deve continuare ad applicarsi la disposizione che vigeva al momento della commissione del fatto, anche<br />

se successivamente entra in vigore un trattamento penale più favorevole o addirittura il fatto cessa di costituire reato.<br />

Alla eccezionalità della situazione esistente al momento della commissione del fatto (tale è anche quella che<br />

giustifica una legge temporanea) deve corrispondere il trattamento che il legislatore ritiene adeguato ad essa e non<br />

l’altro, successivo, più favorevole, dettato per una situazione di normalità.<br />

È dunque chiaro che, a differenza di quello di irretroattività della legge penale sfavorevole, il principio di<br />

retroattività della legge favorevole non può essere senza eccezioni.<br />

Oltre alla diversità del contesto di fatto anche quella del contesto normativo può giustificare o addirittura<br />

imporre discipline transitorie volte a limitare gli effetti retroattivi delle modificazioni normative più vantaggiose. È<br />

80


quanto, ad esempio, è avvenuto allorché per alcune ipotesi criminose si è sostituita la punibilità d’ufficio con quella a<br />

querela e si è data, con una norma transitoria, la possibilità di presentare la richiesta di punizione entro un termine,<br />

diverso da quello ordinario (art. 124 cod. pen.), decorrente dal giorno dell’entrata in vigore della nuova legge o, se<br />

già pendeva il procedimento, dal giorno in cui il giudice aveva informato la persona offesa della facoltà di esercitare<br />

il diritto di querela (art. 99 della legge 24 novembre 1981, n. 689; art. 19 della legge 25 giugno 1999, n. 205; si veda<br />

inoltre l’art. 5 del decreto legislativo 11 aprile 2002, n. 61).<br />

Pure la norma censurata, nell’escludere l’applicazione retroattiva dei nuovi termini di prescrizione, se più<br />

favorevoli al reo, ai processi già pendenti in grado di appello e avanti alla Corte di cassazione, fa riferimento a due<br />

contesti processuali diversi: quello dei processi pendenti in primo grado, ove non è ancora stata pronunciata una<br />

sentenza, che, mediante una riorganizzazione dei tempi e delle attività processuali, sono suscettibili di essere definiti<br />

prima che decorra il nuovo e più breve termine di prescrizione; quello dei processi pendenti in appello, o avanti alla<br />

Corte di cassazione, in cui ciò è meno agevole o addirittura non è più possibile, con la conseguenza che il giudice in<br />

seguito all’entrata in vigore della legge n. 251 del 2005 dovrebbe dichiarare l’estinzione del reato per prescrizione.<br />

È per tale ragione che questa Corte, con la sentenza n. 393 del 2006, facendo operare il principio di<br />

retroattività in mitius, ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge n. 251<br />

del 2005, mentre successivamente, con la sentenza n. 72 del 2008, ha ritenuto priva di fondamento la questione<br />

relativa allo stesso articolo nella parte residua, in cui esclude l’applicazione dei nuovi termini di prescrizione ai<br />

«processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione». La ragionevolezza di questa soluzione,<br />

come ha rilevato la sentenza n. 72 del 2008, «è poi ulteriormente comprovata dal rilievo che essa – poiché nei giudizi<br />

in esame il materiale probatorio, in linea di massima, è ormai stato acquisito – mira ad evitare la dispersione delle<br />

attività processuali già compiute all’entrata in vigore della legge n. 251 del 2005, secondo cadenze calcolate in base<br />

ai tempi di prescrizione più lunghi vigenti all’atto del loro compimento, e così tutela interessi di rilievo<br />

costituzionale sottesi al processo (come la sua efficienza e la salvaguardia dei diritti dei destinatari della funzione<br />

giurisdizionale», oltre – si può aggiungere – al principio di effettività del diritto penale).<br />

14. – Come si è già detto, questa Corte deve anche chiedersi quali norme penali formino oggetto del principio<br />

di retroattività in mitius riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte europea, deve cioè verificare se esso riguardi<br />

solamente le disposizioni che individuano il reato e la pena o anche qualunque altra disposizione che incida sul<br />

trattamento penale, come in particolare le disposizioni sulla prescrizione.<br />

La Corte europea dei diritti dell’uomo, ritenendo che il principio in esame sia un corollario di quello di<br />

legalità, consacrato dall’art. 7 della CEDU, ha fissato dei limiti al suo ambito di applicazione, desumendoli dalla<br />

stessa norma convenzionale. Il principio di retroattività della lex mitior, come in generale «le norme in materia di<br />

retroattività contenute nell’art. 7 della Convenzione», concerne secondo la Corte le sole «disposizioni che<br />

definiscono i reati e le pene che li reprimono» (decisione 27 aprile 2010, Morabito contro Italia; nello stesso senso,<br />

sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia).<br />

Il principio riconosciuto dalla CEDU, quindi, non coincide con quello che vive nel nostro ordinamento ed è<br />

regolato dall’art. 2, quarto comma, cod. pen. Quest’ultimo infatti riguarda ogni disposizione penale successiva alla<br />

commissione del fatto, che apporti modifiche in melius di qualunque genere alla disciplina di una fattispecie<br />

criminosa, incidendo sul complessivo trattamento riservato al reo, mentre il primo ha una portata più circoscritta,<br />

concernendo le sole norme che prevedono i reati e le relative sanzioni.<br />

La diversa, e più ristretta, portata del principio convenzionale è confermata dal riferimento che la<br />

giurisprudenza europea fa alle fonti internazionali e comunitarie, e alle pronunce della Corte di giustizia dell’Unione<br />

europea. Sia l’art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, sia l’art. 49 della Carta di Nizza, infatti, non<br />

si riferiscono a qualsiasi disposizione penale, ma solo alla «legge [che] prevede l’applicazione di una pena più<br />

lieve».<br />

Del resto la sentenza Scoppola riguardava proprio una questione relativa alla pena, e non è senza significato<br />

che, nel richiamare la precedente e consolidata giurisprudenza sull’art. 7 della CEDU e sulla sua portata, la Corte<br />

europea abbia avvertito l’esigenza di chiarire la nozione di pena cui fa riferimento la citata norma convenzionale,<br />

specificando che si tratta della misura che viene «imposta a seguito di una condanna per un reato», e non di qualsiasi<br />

elemento incidente sul trattamento penale. Perciò è da ritenere che il principio di retroattività della lex mitior<br />

riconosciuto dalla Corte di Strasburgo riguardi esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena, mentre sono<br />

estranee all’ambito di operatività di tale principio, così delineato, le ipotesi in cui non si verifica un mutamento,<br />

favorevole al reo, nella valutazione sociale del fatto, che porti a ritenerlo penalmente lecito o comunque di minore<br />

gravità.<br />

15. – Una volta individuati i limiti oggettivi del principio di retroattività in mitius, riconosciuto dalla Corte<br />

europea sulla base dell’art. 7 della CEDU, è agevole la conclusione che esso non può riguardare le norme<br />

sopravvenute che modificano, in senso favorevole al reo, la disciplina della prescrizione, con la riduzione del tempo<br />

occorrente perché si produca l’effetto estintivo del reato.<br />

Del resto dalla stessa giurisprudenza della Corte europea emerge che l’istituto della prescrizione,<br />

indipendentemente dalla natura sostanziale o processuale che gli attribuiscono i diversi ordinamenti nazionali, non<br />

forma oggetto della tutela apprestata dall’art. 7 della Convenzione, come si desume dalla sentenza 22 giugno 2000<br />

(Coëme e altri contro Belgio) con cui la Corte di Strasburgo ha ritenuto che non fosse in contrasto con la citata<br />

norma convenzionale una legge belga che prolungava, con efficacia retroattiva, i tempi di prescrizione dei reati.<br />

81


16. – In conclusione deve ritenersi che l’art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005 – nella parte in cui<br />

esclude l’applicazione dei nuovi termini di prescrizione, se più brevi, nei processi pendenti in appello o avanti alla<br />

Corte di cassazione – non si ponga in contrasto con l’art. 7 della CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo,<br />

e quindi non violi l’art. 117, primo comma, Cost.<br />

La questione sollevata dalla Corte di cassazione, seconda sezione penale, va dichiarata, pertanto, non fondata.<br />

Per Questi Motivi<br />

LA CORTE COSTITUZIONALE<br />

riuniti i giudizi,<br />

1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge 5<br />

dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti<br />

generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di<br />

prescrizione), sollevate, in riferimento agli artt. 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, dalla<br />

Corte di appello di Venezia e dalla Corte di appello di Bari con le ordinanze indicate in epigrafe;<br />

2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge n. 251 del<br />

2005, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., dalla Corte di cassazione con l’ordinanza indicata in<br />

epigrafe.<br />

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 luglio 2011.<br />

82


SULLO STATUTO COSTITUZIONALE<br />

DELLA RETROATTIVITÀ<br />

DELLA LEGGE PENALE PIÙ FAVOREVOLE ( )<br />

Un nuovo tassello nella complicata trama dei rapporti tra Corte costituzionale<br />

e Corte EDU: riflessioni in margine alla sentenza n. 236/2011<br />

di Francesco Viganò<br />

SOMMARIO: 1. La grande domanda sullo sfondo della sentenza n. 236/2011. – 2. La specifica questione sottoposta<br />

alla Corte. – 2.1. L’opinione tradizionale sul fondamento costituzionale del principio di retroattività della<br />

norma più favorevole in materia penale. – 2.2. L’evoluzione della giurisprudenza costituzionale a metà<br />

dello scorso decennio. – 2.3. L’impatto della sentenza Scoppola c. Italia. – 2.4. I termini di una decisione<br />

difficile. – 3. La decisione della Corte. – 3.1. Le coordinate generali relative ai rapporti tra le due Corti che<br />

fanno da sfondo alla decisione. – 3.2. Il primo argomento: il principio della retroattività della norma penale<br />

più favorevole affermato in sede europea è suscettibile di deroghe. – 3.3. Il secondo argomento: il principio<br />

della retroattività della norma penale più favorevole affermato in Scoppola non si estende alle norme in<br />

materia di prescrizione. – 4. Osservazioni critiche. – 4.1. Principio di legalità in materia penale e disciplina<br />

della prescrizione. – 4.2. Sulla derogabilità del principio di retroattività della norma penale più favorevole.<br />

– 5. Qualche considerazione conclusiva sullo stato dei rapporti tra Corte costituzionale e Corte EDU<br />

1. La grande domanda sullo sfondo della sentenza n. 236/2011<br />

In che misura la Corte costituzionale italiana deve ritenersi vincolata alle<br />

decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo? E, più in radice, esiste davvero un<br />

tale vincolo?<br />

Il problema, sulla base del testo della Convenzione europea dei diritti<br />

dell’uomo, potrebbe avere al più un oggetto assai limitato: l’art. 46 CEDU impone alle<br />

Alte Parti contraenti (in tutti i loro poteri e articolazioni, ivi compresa la Corte<br />

costituzionale) l’obbligo di «conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle<br />

controversie nelle quali sono Parti». L’eventuale vincolo, dunque, parrebbe riferirsi<br />

soltanto al caso concreto deciso dalla Corte EDU.<br />

( )<br />

Questo lavoro è destinato agli Scritti in onore del prof. Valerio Onida, di prossima<br />

pubblicazione.<br />

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83


Secondo però le cruciali sentenze ‘gemelle’ del 2007, le n. 348 e 349, le cose<br />

stanno molto diversamente. Dopo avere richiamato l’art. 32 CEDU, a tenore del quale<br />

«la competenza della Corte si estende a tutte le questioni concernenti l’interpretazione<br />

e l'applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli», la sent. 348/2007 così<br />

prosegue: «poiché le norme giuridiche vivono nell'interpretazione che ne danno gli<br />

operatori del diritto, i giudici in primo luogo, la naturale conseguenza che deriva<br />

dall’art. 32, paragrafo 1, della Convenzione è che tra gli obblighi internazionali assunti<br />

dall'Italia con la sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi è quello di adeguare la<br />

propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte<br />

specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione. Non si può parlare<br />

quindi di una competenza giurisdizionale che si sovrappone a quella degli organi<br />

giudiziari dello Stato italiano, ma di una funzione interpretativa eminente che gli Stati<br />

contraenti hanno riconosciuto alla Corte europea, contribuendo con ciò a precisare i loro<br />

obblighi internazionali nella specifica materia» 1 . Fa eco a queste affermazioni il passo<br />

corrispondente della sent. 349/2007: «l'applicazione e l'interpretazione del sistema di<br />

norme [della CEDU e dei suoi protocolli addizionali] è attribuito beninteso in prima<br />

battuta ai giudici degli Stati membri, cui compete il ruolo di giudici comuni della<br />

Convenzione. La definitiva uniformità di applicazione è invece garantita dall'interpretazione<br />

centralizzata della CEDU attribuita alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui<br />

spetta la parola ultima [...]. In considerazione di questi caratteri della Convenzione, la<br />

rilevanza di quest’ultima, così come interpretata dal “suo” giudice, rispetto al diritto<br />

interno è certamente diversa rispetto a quella della generalità degli accordi<br />

internazionali, la cui interpretazione rimane in capo alle Parti contraenti, salvo, in caso<br />

di controversia, la composizione del contrasto mediante negoziato o arbitrato o<br />

comunque un meccanismo di conciliazione di tipo negoziale» 2 .<br />

Nel sistema delineato dalle sentenze ‘gemelle’, dunque, le norme della CEDU e<br />

dei protocolli addizionali divengono parametro ‘interposto’ (in quanto implicitamente<br />

richiamate dall’art. 117 co. 1 Cost.) di legittimità costituzionale, nell’estensione loro<br />

attribuita dalla giurisprudenza della Corte EDU; mentre la Corte costituzionale si riserva<br />

soltanto un controllo di ultima istanza sulla compatibilità di tali norme (e della loro<br />

interpretazione autoritativa datane a Strasburgo) con la stessa Costituzione italiana,<br />

della quale viene pur sempre riaffermato il rango sovraordinato rispetto agli obblighi<br />

internazionali gravanti sul legislatore ordinario.<br />

Un simile riconoscimento non è, peraltro, pacifico. Come è noto, una parte<br />

importante della dottrina italiana non si stanca di sottolineare che la Corte EDU è<br />

giudice del caso concreto, e che le sue decisioni sono spesso il frutto di bilanciamenti<br />

che valorizzano le peculiarità del caso sottoposto al suo esame, al punto che sarebbe<br />

errato voler trarre dalle sue decisioni criteri vincolanti per la soluzione di casi futuri; e<br />

ciò soprattutto quando i pretesi ‘precedenti’ siano pronunciate in procedimenti ai quali<br />

lo Stato italiano sia rimasto estraneo, l’apprezzamento di una violazione convenzionale<br />

riferendosi sempre a un determinato contesto ordinamentale, caratterizzato da specifici<br />

1<br />

C. cost. 348/2007, «considerato in diritto» n. 4.6.<br />

2<br />

C. cost. 249/2007, «considerato in diritto» n. 6.2.<br />

2<br />

84


pesi e contrappesi dei quali la Corte EDU terrebbe conto in ogni singola sua decisione,<br />

e che non potrebbero essere meccanicamente trasposti in contesti differenti 3 .<br />

Una recentissima sentenza della Corte costituzionale – la n. 236/2011, avente ad<br />

oggetto un tema di diritto penale sostanziale quale il principio di retroattività della<br />

norma penale più favorevole – offre anche a chi scrive l’occasione per esprimere la<br />

propria opinione in materia, ed aggiungere così un minuscolo tassello in onore di un<br />

grande studioso, da sempre attento osservatore delle interazioni tra diritto<br />

costituzionale italiano e diritto sovranazionale dei diritti umani.<br />

2. La specifica questione sottoposta alla Corte<br />

Una disposizione transitoria della c.d. legge ‚ex Cirielli‛ (l’art. 10 co. 3 della<br />

legge n. 251/2005) prevede che i nuovi termini di prescrizione del reato da tale legge<br />

introdotti, se più brevi di quelli previgenti, non si applichino ai processi già pendenti in<br />

grado di appello o di cassazione. La legittimità costituzionale di tale disposizione, già<br />

affermata dalla sentenza n. 72/2008 della Corte costituzionale in relazione al parametro<br />

dell’art. 3 Cost., viene nuovamente posta in dubbio dalla seconda sezione penale della<br />

Corte di cassazione e da due corti territoriali in relazione all’art. 117 co. 1 Cost. e –<br />

mediatamente – all’art. 7 § 1 CEDU, così come interpretato dalla Corte EDU<br />

segnatamente nella sentenza Scoppola c. Italia del 17 settembre 2009.<br />

2.1. – L’opinione tradizionale sul fondamento costituzionale del principio di<br />

retroattività della norma più favorevole in materia penale. – Al centro della discussione è qui<br />

il principio di retroattività della norma penale più favorevole: in particolare, il suo<br />

fondamento costituzionale e la sua (eventuale) derogabilità.<br />

E’ opinione pressoché unanime della dottrina penalistica italiana che il<br />

principio della retroattività della norma penale più favorevole, riconosciuto con<br />

qualche eccezione dall’art. 2 co. 2 e seguenti del codice penale, non sia del tutto<br />

sprovvisto di fondamento costituzionale, ma che tale fondamento vada individuato<br />

non nel principio di legalità di cui all’art. 25 co. 2 Cost. (come invece accade per il<br />

principio di irretroattività della norma penale più sfavorevole), bensì nel più generale<br />

principio di eguaglianza-ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. 4 , risultando per l’appunto<br />

3<br />

Così, ad es., Cartabia, Le sentenze “gemelle”: diritti fondamentali, fonti, giudici, in Giur. Cost., 2007,<br />

p. 3573; Luciani, Alcuni interrogativi sul nuovo corso della giurisprudenza costituzionale in ordine ai<br />

rapporti tra diritto italiano e diritto internazionale, in Corr. giur., 2008, p. 204.<br />

4<br />

Così, ex multis, De Vero, La legge penale, in Palazzo-Paliero (a cura di), Trattato di diritto penale,<br />

vol. I, 2011, p. 50 ss.; Fiandaca-Musco, Diritto penale. Parte generale, VI ed., 2009, p. 76; Marinucci-<br />

Dolcini, Manuale di diritto penale, III ed., 2009, p. 88; Padovani, Diritto penale, XI ed., 2008, p. 38;<br />

Palazzo, Corso di diritto penale, III ed., 2008, p. 149; Pecorella, Art. 2, in Dolcini-Marinucci (a cura<br />

di), Codice penale commentato, III ed., vol. I, n. 7; Pulitanò, Diritto penale, III ed., 2009, p. 170.<br />

Un’ampia analisi, anche comparatistica, del problema è fornita da Scoletta, Principe de<br />

retroactivité favorable et illegitimité de la lex mitior dans la perspective européenne, in Arroyo<br />

Zapatero-Nieto Martín, European Criminal Law: An Overview, 2010, p. 337 ss.<br />

3<br />

85


irragionevole continuare a punire chi avesse commesso il fatto contravvenendo a una<br />

legge penale successivamente abrogata, ovvero continuare a punirlo con la pena<br />

prevista al momento della commissione del fatto, ma successivamente sostituita –<br />

prima della conclusione del processo – con una pena più mite. Si ritiene infatti che sia<br />

discriminatorio punire in maniera differenziata soggetti responsabili della medesima<br />

violazione, soltanto in ragione della diversa data di commissione del reato; e che a<br />

fortiori risulti discriminatorio che uno di tali soggetti continui ad essere punito e l’altro<br />

si sottragga a qualsiasi sanzione penale, ancora in ragione soltanto del diverso tempus<br />

commissi delicti. Piuttosto – e fermo restando il principio di garanzia secondo cui<br />

nessuno può essere sottoposto a una pena non prevista al momento della commissione<br />

del fatto, o a una pena più grave di quella allora prevista (art. 25 co. 2 Cost.) – si<br />

afferma generalmente la necessità che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto<br />

commesso così come valutato dal legislatore al momento dell’inflizione della pena,<br />

imponendosi addirittura la revoca della sentenza di condanna già passata in giudicato<br />

nel caso estremo in cui il fatto commesso cessi di costituire reato per effetto di una<br />

mutata valutazione legislativa, ovvero della dichiarazione di illegittimità costituzionale<br />

della norma incriminatrice violata (così come disposto dall’art. 673 c.p.p.).<br />

La fondamentazione del principio di retroattività della norma penale più<br />

favorevole nell’art. 3 anziché nell’art. 25 co. 2 Cost. segna però al tempo stesso il limite<br />

della tutela costituzionale del principio 5 : mentre l’irretroattività in peius della norma<br />

penale è unanimemente considerata quale principio assoluto e non suscettibile di<br />

bilanciamento con altri valori costituzionali, in quanto «essenziale strumento di<br />

garanzia del cittadino contro gli arbitri del legislatore, espressivo dell’esigenza della<br />

‚calcolabilità‛ delle conseguenze giuridico-penali della propria condotta, quale<br />

condizione necessaria per la libera autodeterminazione individuale» 6 , le esigenze di<br />

eguaglianza-ragionevolezza sottese alla retroattività in bonam partem della legge penale<br />

sono sempre apparse aperte a possibili bilanciamenti, affidati in prima battuta al<br />

legislatore ordinario. Così, ad es., lo stesso art. 2 co. 4 c.p. oppone il limite del giudicato<br />

alla rilevanza in bonam partem di una successione di leggi penali non già abolitiva<br />

(come nel caso previsto dall’art. 2 co. 2 e dallo stesso art. 673 c.p.p.), ma meramente<br />

modificativa della disciplina previgente, facendo così prevalere le esigenze di economia<br />

processuale e di certezza dei rapporti giuridici sull’obiettivo, perseguito di massima<br />

dall’art. 2 c.p., di evitare disparità di trattamento tra più condannati per la stessa<br />

violazione e l’esecuzione di pene ormai eccessive rispetto alla gravità della violazione,<br />

così come attualmente percepita 7 . Ancora, l’art. 2 co. 5 c.p. sottrae alla disciplina<br />

generale della retroattività in melius le leggi eccezionali e temporanee, con una scelta<br />

sempre passata sostanzialmente indenne al vaglio della dottrina.<br />

5<br />

Così, in particolare, C. cost. n. 394/2006, «considerato in diritto» n. 6.4<br />

6<br />

C. cost. n. 394/2006, ibidem.<br />

7<br />

Tale deroga è stata ritenuta costituzionalmente legittima, proprio sulla base di questi<br />

argomenti, da C. cost., sent. n. 74/1980.<br />

4<br />

86


2.2. L’evoluzione della giurisprudenza costituzionale a metà dello scorso decennio. – La<br />

situazione comincia a mutare, presso la nostra giurisprudenza costituzionale, proprio<br />

sotto l’influsso di fattori sovranazionali: fonti pattizie e arresti di corti internazionali.<br />

Nel 2005 la Corte di giustizia delle (allora) Comunità europee attribuisce alla<br />

retroattività della norma penale più favorevole il rango di principio generale del diritto<br />

comunitario, dichiarando per l’effetto irricevibile il rinvio pregiudiziale sottopostole da<br />

vari giudici italiani avente ad oggetto la compatibilità con il diritto comunitario della<br />

nuova disciplina dei reati societari introdotta dal legislatore italiano nel 2002 8 .<br />

Con la sentenza n. 393 del 2006, ad appena un anno di distanza dalla pronuncia<br />

della Corte di giustizia, la nostra Corte costituzionale conferma l’inquadramento del<br />

principio in parola nell’alveo dell’art. 3 Cost.; ma al tempo stesso afferma che, stante<br />

l’ormai diffuso riconoscimento internazionale di tale principio (testimoniato, oltre che dalla<br />

citata giurisprudenza della Corte di giustizia, anche dall’art. 15 del Patto internazionale<br />

sui diritti civili e politici e dall’art. 49 § 1 della Carta dei diritti fondamentali<br />

dell’Unione europea), eventuali deroghe a tali principio sono legittime «solo in favore di<br />

interessi di analogo rilievo (quali – a titolo esemplificativo – quelli dell’efficienza del<br />

processo, della salvaguardia dei diritti dei soggetti che, in vario modo, sono destinatari<br />

della funzione giurisdizionale, e quelli che coinvolgono interessi o esigenze dell’intera<br />

collettività nazionale connessi a valori costituzionali di primario rilievo) [...]. Con la<br />

conseguenza che lo scrutinio di costituzionalità ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare<br />

alla retroattività di una norma penale più favorevole al reso deve superare un vaglio<br />

positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente che la norma derogatoria non<br />

sia manifestamente irragionevole» 9 .<br />

Sulla scorta di tale più stringente test, la Corte dichiara in quell’occasione<br />

l’illegittimità costituzionale proprio dell’articolo 10 co. 3 della legge ‚ex Cirielli‛ nella<br />

parte in cui derogava alla retroattività dei nuovi e più favorevoli termini di<br />

prescrizione rispetto ai processi in corso di svolgimento in primo grado per i quali<br />

fosse già stato aperto il dibattimento: scansione processuale, questa, che la Corte ritiene<br />

scarsamente significativa, anche perché non presente nei riti alternativi con i quali si<br />

definisce un gran numero di procedimenti in primo grado.<br />

Ad un esito opposto conduce l’adozione del medesimo test nella successiva<br />

sentenza n. 72/2008, avente ad oggetto la medesima norma, nella parte in cui esclude<br />

dall’operatività dei nuovi e più favorevoli termini di prescrizione i procedimenti già<br />

pendenti in grado di appello o di cassazione: qui la deroga al principio di retroattività<br />

della norma penale più favorevole supera il vaglio positivo di ragionevolezza, in<br />

funzione dell’interesse «ad evitare la dispersione delle attività processuali già<br />

compiute» nei precedenti gradi di giudizio, e così a tutelare «interessi di rilievo<br />

8<br />

Corte di giustizia CE (Grande sezione), Berlusconi e a., sent. 3 maggio 2005 (cause riunite C-<br />

387/02, C-391-02 e 403/02).<br />

9<br />

C. cost. n. 393/2007, «considerato in diritto» n. 6.3.<br />

5<br />

87


costituzionale sottesi al processo (come la sua efficienza e la salvaguardia dei diritti dei<br />

destinatari della funzione giurisdizionale)» 10 .<br />

2.3. L’impatto della sentenza Scoppola c. Italia. – Come anticipato, le carte<br />

vengono tuttavia nuovamente rimescolate dalla sentenza della Corte EDU Scoppola c.<br />

Italia (n. 2), del settembre 2009. In quest’occasione, la maggioranza dei giudici della<br />

Grande camera – alla quale la causa era stata rimessa in considerazione<br />

dell’importanza del punto di diritto oggetto della controversia – si discosta<br />

espressamente dalla propria precedente giurisprudenza e afferma, per la prima volta,<br />

che il principio di cui all’art. 7 § 1 della Convenzione «guarantees not only the principle of<br />

non-retrospectiveness of more stringent criminal law but also, and implicitly, the principle of<br />

retrospectiveness of the more lenient criminal law. That principle is embodied in the rule that<br />

where there are differences between the criminal law in force at the time of the commission of the<br />

offence and subsequent criminal laws enacted before a final judgment is rendered, the courts<br />

must apply the law whose provisions are most favourable to the defendant» 11 .<br />

La riconduzione, ad opera dei giudici di Strasburgo, del principio di<br />

retroattività della legge penale più favorevole all’area di tutela dell’art. 7 CEDU non è<br />

evidentemente senza conseguenze sul piano del diritto costituzionale italiano,<br />

spalancando la possibilità – puntualmente colta dalla seconda sezione penale della<br />

Cassazione e da varie giurisdizioni di merito – di invocare questa volta l’art. 117 co. 1<br />

Cost. a supporto di nuove questioni di legittimità costituzionale del citato articolo 10<br />

co. 3 della legge ‚ex Cirielli‛: la deroga alla retroattività delle più favorevoli<br />

disposizioni in materia di prescrizione deve essere, secondo questa prospettazione,<br />

considerata incostituzionale non in quanto irrispettosa del principio di eguaglianza ex<br />

art. 3 Cost., sia pure nella versione ‘rafforzata’ inaugurata con la sent. 393/2006; bensì in<br />

quanto contraria all’obbligo internazionale gravante sullo Stato italiano di rispettare<br />

l’art. 7 CEDU, così come autoritativamente interpretato dal ‚suo‛ giudice – la Corte di<br />

Strasburgo, appunto.<br />

2.4. I termini di una decisione difficile. – Sullo sfondo sin qui ricostruito, tutt’altro<br />

che agevole si presentava la decisione della Corte costituzionale.<br />

10<br />

C. cost. n. 72/2008, «considerato in diritto» n. 12, con nota adesiva di Pulitanò, Retroattività<br />

favorevole e scrutinio di ragionevolezza, in Giur. Cost., 2008, II, p. 946 ss.<br />

11<br />

Corte EDU, Scoppola c. Italia (n. 2), sent. 17 settembre 2009 (ric. n. 10249/03), § 109. Su tale<br />

sentenza cfr. ex multis – nella dottrina italiana – Gambardella, Il “caso Scoppola”: per la Corte<br />

europea l’art. 7 CEDU garantisce anche il principio di retroattività della legge penale più favorevole, in<br />

Cass. pen., 2010, p. 2020 ss.; e, in senso critico, Pecorella, Il caso Scoppola davanti alla Corte di<br />

Strasburgo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2010, p. 397 ss. Critiche sull’estensione dell’ambito<br />

applicativo dell’art. 7 CEDU operato dalla maggioranza sono del resto anche le opinioni<br />

dissenzienti nella sentenza, le quali sottolineano l’arbitrarietà dell’operazione interpretativa<br />

effettuata dalla Corte, in assenza di dati testuali a supporto (e in assenza, aggiungiamo, di un<br />

adeguato apparato argomentativo sulla ratio del nuovo diritto fondamentale ‘scoperto’ dalla<br />

maggioranza medesima: per qualche accenno sul punto cfr. infra, § ).<br />

6<br />

88


Per cominciare, non era seriamente discutibile l’intrinseca ragionevolezza della<br />

disposizione impugnata, già riconosciuta dalla Corte nella sentenza n. 72/2008. La<br />

norma, nella misura in cui escludeva i processi pendenti in grado di appello e di<br />

cassazione dalla mannaia rappresentata dai nuovi più brevi termini di prescrizione<br />

introdotti dalla legge ‚ex Cirielli‛, in effetti limitava i danni di un improvvido<br />

intervento legislativo, che – lungi dal determinare alcun effetto virtuoso in termini di<br />

accelerazione dei tempi di definizione dei processi penali nel nostro paese – aveva<br />

prodotto soltanto la morte anticipata di una quantità di processi già istruiti, e spesso<br />

già conclusisi con sentenze di condanna in primo o addirittura in secondo grado. Un<br />

risultato, questo, a tacer d’altro diametralmente contrario a quello che la sentenza n.<br />

236/2011 definisce ora – credo per la prima volta nella giurisprudenza costituzionale in<br />

questo contesto – come il principio di ‚effettività del diritto penale‛ 12 : l’esigenza cioè,<br />

sottesa allo stesso principio di legalità nella sua funzione sistemica, che la norma<br />

penale sia effettivamente applicata ai responsabili della sua violazione, quale condizione<br />

minima perché la norma penale medesima possa esplicare la sua primaria funzione<br />

generalpreventiva, e perché possa essere ricomposta la frattura creatasi all’interno del<br />

corpo sociale (in primis tra la vittima e il reo) in seguito alla commissione del reato.<br />

Tuttavia, la questione posta dai giudici remittenti in relazione all’art. 117 co. 1<br />

Cost. era assai seria. Sulla base dei principi posti dalle sentenze n. 348 e 349/2007, poi<br />

costantemente riaffermati dalla giurisprudenza successiva, la Corte costituzionale non<br />

può fornire una propria interpretazione delle garanzie convenzionali, ma è tenuta a<br />

recepire la lettura fornitane dal loro giudice naturale, la Corte di Strasburgo; la quale,<br />

per l’appunto, ha affermato nel caso Scoppola che tra le garanzie assicurate dall’art. 7<br />

CEDU – una delle poche norme della Convenzione per la quale non è ammissibile<br />

alcuna limitazione o deroga, nemmeno in situazioni di guerra o di emergenza (art. 15<br />

CEDU) – rientra anche il diritto all’applicazione retroattiva della norma più favorevole,<br />

tra tutte quelle succedutesi dalla commissione del fatto al passaggio in giudicato della<br />

sentenza. Un diritto, dunque, apparentemente formulato in via assoluta dai giudici<br />

europei, e pertanto prima facie chiuso a possibili bilanciamenti, nemmeno con<br />

controinteressi di pari rilevanza come quelli consentiti nel quadro del ‚vaglio positivo<br />

di ragionevolezza‛ inaugurato con la sentenza n. 393/2006.<br />

Naturalmente, restava aperta per la Corte la strada estrema dei ‘controlimiti’:<br />

l’opzione, cioè, di ritenere la lettura dell’art. 7 CEDU fornita da Strasburgo in contrasto<br />

con la Costituzione italiana, e di rigettare per questa via la questione di legittimità<br />

prospettata. Ma una simile strada passava per la precisa indicazione di un interesse di<br />

rango costituzionale le cui ragioni di tutela potessero plausibilmente essere ritenute<br />

dalla Corte necessariamente prevalenti rispetto non ad un qualsiasi altro interesse di<br />

rango costituzionale, ma a un vero e proprio diritto fondamentale della persona<br />

all’applicazione retroattiva della norma penale più favorevole, ormai riconosciuto in<br />

sede europea. La Corte costituzionale avrebbe, insomma, dovuto sostenere che la<br />

norma impugnata – pur assunta come lesiva di quel diritto fondamentale riconosciuto<br />

dalla CEDU – fosse non già espressione di una legittima scelta discrezionale del<br />

12<br />

C. cost. n. 236/2011, «considerato in diritto» n. 13.<br />

7<br />

89


legislatore, ma fosse addirittura costituzionalmente imposta dalla necessità di<br />

salvaguardare il controinteresse in gioco, assunto come di maggiore rilevanza rispetto<br />

allo stesso diritto fondamentale dell’imputato. E che ciò potesse tranquillamente<br />

affermarsi in relazione a un interesse dopo tutto sprovvisto di esplicita copertura<br />

costituzionale come la ‚non dispersione dell’attività processuale svolta‛ e ai vari<br />

interessi finali sottesi (in genere richiamati in pochissime righe dalle sentenze della<br />

Corte, senza alcun serio sforzo di elaborazione), era tutt’altro che scontato.<br />

Per la verità, la possibilità per la Corte di far quadrare il cerchio – ‘salvando’ la<br />

norma impugnata senza contraddire l’insegnamento di Strasburgo – non poteva dirsi<br />

del tutto preclusa. Nella stessa sentenza Scoppola, la Corte EDU aveva in effetti chiarito<br />

che il principio di retroattività della norma penale più favorevole, così come il<br />

complesso delle garanzie di cui all’art. 7 CEDU, si applica soltanto alle norme di diritto<br />

penale sostanziale, non a quelle di natura processuale 13 ; e tra queste ultime aveva<br />

espressamente menzionato le norme in materia di prescrizione del reato, sulla base di un<br />

proprio precedente – Coëme c. Belgio – nel quale era stato addirittura ritenuto che non<br />

configurasse alcuna violazione convenzionale l’allungamento dei termini di prescrizione<br />

di reati per i quali era ancora in corso il processo 14 . In quell’occasione, la strada per i<br />

giudici europei era stata invero spianata dalla qualificazione della prescrizione come<br />

istituto processuale da parte della stessa legislazione belga; ma tale qualificazione<br />

avrebbe ovviamente potuto essere disattesa dalla Corte, che da ormai molti decenni<br />

utilizza nozioni autonome di pena e di processo penale proprio per evitare elusioni delle<br />

garanzie convenzionali mediante la semplice apposizione di etichette da parte del<br />

legislatore nazionale. Di qui la possibile conclusione: la Corte europea non richiede che<br />

le regole sulla prescrizione, che la Corte medesima ritiene attinenti alla materia<br />

processuale, siano assoggettate al principio di retroattività della norma più favorevole<br />

per il reo; ergo, risulta infondata la pretesa di derivare un simile obbligo dall’art. 7<br />

CEDU così come interpretato da Scoppola, e per questa via di dedurre l’illegittimità<br />

costituzionale di una norma interna che, come l’art. 10 co. 3 della legge ‚ex Cirielli‛,<br />

pone limiti alla retroattività di modifiche in bonam partem del regime della prescrizione.<br />

All’accoglimento di un simile argomento pareva, tuttavia, ostare la costante<br />

giurisprudenza della Corte costituzionale, che – a differenza di quanto si è visto<br />

accadere in sede europea – è ferma nel ritenere le norme sulla prescrizione parte<br />

integrante della legge penale, e come tali soggette al principio di legalità e a tutti i suoi<br />

corollari di cui all’art. 25 co. 2 Cost. 15 Di qui l’ovvia obiezione: se le norme sulla<br />

prescrizione costituiscono parte integrante della legge penale, esse devono essere<br />

soggette a tutte le garanzie che non solo la Costituzione, ma anche le fonti internazionali<br />

13<br />

Corte EDU, Scoppola c. Italia (n. 2), cit., § 110.<br />

14<br />

Corte EDU, Coëme e a. c. Belgio, sent. 22 giugno 2000 (ric. n. 32492/96, 32547/96, 32548/96,<br />

33209/96 e 33210/96), §§ 149-150.<br />

15<br />

Con conseguente inammissibilità di questioni di illegittimità costituzionale tendenti ad<br />

ampliare, in malam partem, i termini di prescrizione, come da ultimo ribadito, in termini netti, da<br />

C. cost., sent. n. 324/2008, ‚considerato in diritto‛ n. 5. Mai, fino ad ora, la giurisprudenza<br />

costituzionale ha avuto di confrontarsi, in materia di prescrizione, con questioni di legittimità<br />

fondate sull’art. 117 co. 1 Cost.<br />

8<br />

90


da essa richiamate tramite l’art. 117 co. 1 prevedono appunto per la materia penale,<br />

compresa la necessaria retroattività della ‚legge penale‛ più favorevole imposta dall’art.<br />

7 CEDU, nell’interpretazione fornitane dalla Corte EDU. La strada obbligata per la<br />

Corte pareva così essere quella descritta nella sent. n. 317/2009, ove – nel delineare il<br />

rapporto tra la giurisprudenza della Corte costituzionale e quella della Corte EDU – si<br />

era testualmente osservato che «il confronto tra tutela convenzionale e tutela<br />

costituzionale dei diritti fondamentali deve essere effettuato mirando alla massima<br />

espansione delle garanzie, anche attraverso lo sviluppo delle potenzialità insite nelle<br />

norme costituzionali che hanno ad oggetto i medesimi diritti» 16 .<br />

3. La decisione della Corte<br />

Vediamo, allora, come la Corte sia pervenuta alla decisione – che è, conviene<br />

anticiparlo subito, di rigetto della prospettata questione di legittimità costituzionale.<br />

3.1. Le coordinate generali relative ai rapporti tra le due Corti che fanno da sfondo alla<br />

decisione. – La sentenza affronta anzitutto di petto il problema del vincolo della Corte<br />

costituzionale alla giurisprudenza di Strasburgo, da un lato ribadendo l’insegnamento<br />

delle sentenze n. 348 e 349/2007, poi costantemente reiterato, relativo alla propria<br />

impossibilità di «sindacare l’interpretazione della Convenzione fornita dalla Corte di<br />

Strasburgo: le norme della CEDU devono quindi essere applicate nel significato loro<br />

attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo» 17 . Dall’altro lato, però, la pronuncia<br />

riprende una formulazione contenuta nella già citata sentenza n. 317/2009, secondo cui<br />

alla Corte costituzionale spetta «valutare come ed in qual misura il prodotto<br />

dell’interpretazione della Corte europea si inserisca nell’ordinamento costituzionale<br />

italiano» 18 , traendone l’ulteriore implicazione che al giudice delle leggi italiano<br />

«compete *


vicenda su cui è intervenuta la pronuncia devono, infatti, essere adeguatamente<br />

valutate e prese in considerazione [dalla Corte costituzionale], nel momento in cui è<br />

chiamata a trasporre il principio affermato dalla Corte di Strasburgo nel diritto interno<br />

e a esaminare la legittimità costituzionale di una norma per presunta violazione di<br />

quello stesso principio» 20 .<br />

3.2. Il primo argomento: il principio della retroattività della norma penale più favorevole<br />

affermato in sede europea è suscettibile di deroghe. – Sulla base di queste coordinate generali<br />

relative ai rapporti tra le due giurisdizioni, la Corte costituzionale passa ad affrontare il<br />

nodo centrale della legittimità di eventuali deroghe, da parte del legislatore ordinario, al<br />

principio della retroattività della norma penale più favorevole: deroghe che la stessa<br />

Corte aveva, come abbiamo visto, avallato nel quadro del ‚vaglio positivo di<br />

ragionevolezza‛ di cui all’art. 3 Cost., ma che devono ora potersi giustificare anche al<br />

metro dell’art. 117 co. 1 Cost. e, per suo tramite, dell’art. 7 CEDU così come interpretato<br />

dal diritto di Strasburgo.<br />

L’itinerario argomentativo prescelto dalla Corte è quello di recepire, in linea di<br />

principio, l’insegnamento della Corte EDU, senza percorrere la strada impervia<br />

dell’individuazione nel caso di specie di ‘controlimiti’ di matrice costituzionale interna<br />

alla penetrazione del diritto di Strasburgo nel nostro ordinamento. Al tempo stesso,<br />

però, la Corte costituzionale si sforza di interpretare la stessa giurisprudenza europea,<br />

circoscrivendone la portata ed individuando così limiti impliciti allo stesso principio<br />

enunciato nella sentenza Scoppola: muovendosi così sul piano dello stesso diritto<br />

convenzionale, destinato poi ad essere importato – in esito alla lettura restrittiva<br />

fornitane dalla stessa Corte costituzionale, nella propria indubbia qualità di interprete<br />

anche del diritto convenzionale – nell’ordinamento interno per il tramite dell’art. 117 co.<br />

1 Cost.<br />

Più in particolare, la Corte italiana esclude che il principio di retroattività della<br />

norma più favorevole sia stato affermato in Scoppola come principio non suscettibile di<br />

deroga alcuna. «Nulla la Corte [europea] ha detto», osserva il nostro giudice delle leggi,<br />

«per far escludere la possibilità che, in presenza di particolari situazioni, il principio di<br />

retroattività in mitius subisca deroghe o limitazioni: è un aspetto che la Corte non ha<br />

considerato, e che non aveva ragione di considerare, date le caratteristiche del caso<br />

oggetto della sua decisione» 21 . Peraltro, la stessa sentenza Scoppola riconosce almeno un<br />

limite – quello del giudicato – all’operatività del principio in questione, riferendosi<br />

espressamente alle «leggi posteriori adottate prima della pronuncia di una sentenza<br />

definitiva», mostrando così – secondo la Corte costituzionale – di non attribuire al<br />

principio medesimo una portata davvero assoluta.<br />

L’argomento decisivo speso dalla nostra Corte a sostegno di questa conclusione<br />

è però di ordine squisitamente testuale – nell’ottica, appunto, di una esegesi del<br />

precedente europeo. La sentenza Scoppola afferma che «infliggere una pena più severa<br />

solo perché essa era prevista al momento della commissione del reato si tradurrebbe in<br />

20<br />

C. cost., sent. n. 236/2011, ‚considerato in diritto‛ n. 12.<br />

21<br />

C. cost., sent. n. 236/2011, ‚considerato in diritto‛ n. 13.<br />

10<br />

92


una applicazione a svantaggio dell’imputato delle norme che regolano la successione<br />

delle leggi penali nel tempo» 22 , con conseguente violazione del principio di<br />

proporzione tra pena inflitta e gravità del fatto, così come apprezzata dal legislatore e<br />

dalla stessa collettività al momento del giudizio. Ma – chiosa con acribia la Corte<br />

costituzionale – «se la retroattività non può essere esclusa ‚solo‛ perché la pena più<br />

mite non era prevista al momento del fatto, è legittimo concludere che la soluzione può<br />

essere diversa quando le ragioni per escluderla siano altre e consistenti» 23 .<br />

Tra tali possibili ragioni la Corte enuncia, in particolare, la disomogeneità dei<br />

contesti fattuali o normativi in cui operano le disposizioni che si succedono nel tempo. Se,<br />

ad esempio, una disposizione penale più severa è adottata in relazione ad un contesto<br />

fattuale eccezionale che esige una risposta particolarmente energica, tale disposizione<br />

dovrà continuare ad applicarsi – in conformità a quanto previsto nel nostro<br />

ordinamento dall’art. 2 co. 5 c.p. – ai fatti commessi nel tempo in cui essa è rimasta in<br />

vigore anche laddove la norma, cessata la situazione eccezionale, sia stata sostituita da<br />

una meno severa, o da una norma che addirittura depenalizza la condotta in questione:<br />

«alla eccezionalità della situazione esistente al momento della commissione del fatto<br />

*


3.3. Il secondo argomento: il principio della retroattività della norma penale più<br />

favorevole affermato in Scoppola non si estende alle norme in materia di prescrizione. – A<br />

questa prima linea argomentativa la Corte affianca l’ulteriore – e in sé assorbente –<br />

osservazione per cui il principio della retroattività della norma penale più favorevole<br />

affermato in Scoppola non si estende, così come del resto la generalità dei principi<br />

incorporati nell’art. 7 CEDU, alle norme in materia di prescrizione. Tali principi si<br />

applicano infatti, secondo la consolidata giurisprudenza europea, soltanto alle<br />

disposizioni che definiscono i reati e le pene che li reprimono; e questa limitazione<br />

trova altresì conferma, osserva la nostra Corte, negli articoli 15 del Patto internazionale<br />

e 49 § 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, riferiti entrambi alla<br />

«legge *che+ prevede l’applicazione di una pena più lieve». Tant’è vero che, come ho<br />

già avuto modo di rammentare, la Corte europea ebbe ad escludere addirittura la<br />

necessaria applicazione del principio di irretroattività della norma penale in un caso<br />

concernente una modifica in malam partem dei termini di prescrizione del reato.<br />

Tale osservazione consente alla Corte costituzionale di escludere, anche in<br />

questo caso, che l’obbligo convenzionale sancito in Scoppola si ponga in contrasto, ai<br />

sensi dell’art. 117 co. 1 Cost., con la norma di legge impugnata, la quale in realtà si<br />

pone al di fuori – secondo lo stesso diritto di Strasburgo – della sfera di applicazione<br />

dell’art. 7 CEDU. L’unico parametro rilevante per la verifica della sua legittimità<br />

costituzionale resta pertanto, nel diritto interno, quello di cui all’art. 3 Cost., rispetto al<br />

quale la Corte aveva – però – già espresso una valutazione di compatibilità nella<br />

propria precedente sentenza n. 72/2008.<br />

4. Osservazioni critiche<br />

Come valutare, allora, questa (certamente sofferta) decisione della Corte<br />

costituzionale?<br />

Converrà distinguere i profili attinenti alla specifica questione affrontata – e<br />

dunque direttamente attinenti al principio della retroattività della norma penale più<br />

favorevole –, ai quali sarà dedicato il presente paragrafo, da quelli più generali<br />

concernenti il rapporto tra le due Corti, che affronterò nel paragrafo conclusivo di<br />

questo contributo, ove cercherò di fornire una (provvisoria) risposta all’interrogativo<br />

dal quale ho preso la mosse.<br />

4.1. Principio di legalità in materia penale e disciplina della prescrizione. –<br />

Ineccepibile, ripeto, mi pare la soluzione fornita dalla sentenza in esame rispetto al<br />

rapporto tra principio di retroattività della norma penale più favorevole, così come<br />

enunciato in Scoppola, e disciplina della prescrizione del reato: l’esame della<br />

giurisprudenza di Strasburgo evidenzia senza equivoci, come la stessa sentenza<br />

Scoppola ribadisce, che il principio da essa enunciato non si estende alle norme in<br />

materia di prescrizione, considerate dalla Corte EDU come attinenti alla materia<br />

12<br />

94


processuale piuttosto che sostanziale, alla pari delle norme sulla valutazione della<br />

prova: norme dunque rette, di regola, dall’opposto principio tempus regit actum 25 .<br />

Nessuna contraddizione sorge, a questo punto, con l’idea – espressa con forza<br />

dalla già rammentata sentenza n. 317/2009 della Corte costituzionale – della ‚massima<br />

espansione delle tutele‛ dei diritti fondamentali risultante dalla compenetrazione<br />

‘virtuosa’ delle due giurisprudenze. La massima espansione delle tutele si raggiunge<br />

dando piena attuazione nell’ordinamento interno al principio della retroattività della<br />

norma penale più favorevole, nella (limitata) estensione in cui tale principio è<br />

effettivamente riconosciuto dall’ordinamento convenzionale; e continuando al<br />

contempo ad assicurare alle norme in materia di prescrizione (non coperte dall’art. 7<br />

CEDU) le garanzie già riconosciute dalla nostra giurisprudenza costituzionale sotto<br />

l’ombrello dell’art. 3 Cost., che sotto questo profilo conferisce al singolo una protezione<br />

più ampia di quella offerta dalla Convenzione (nel cui ambito l’esigenza di tutela<br />

dell’individuo contro modificazioni arbitrarie e irragionevoli – specie se in malam<br />

partem – della disciplina della prescrizione potrebbe essere fornita, al più, dal diritto<br />

dell’imputato a un ‘processo equo’, ai sensi dell’art. 6 CEDU).<br />

Anzi: sono personalmente convinto che la Corte costituzionale potrebbe in<br />

futuro osare di più, e spingersi a ripensare alla congruità della propria consolidata<br />

giurisprudenza in tema di prescrizione del reato, sinora sempre considerata come<br />

attinente al principio di legalità dei reati e delle pene di cui all’art. 25 co. 2 Cost. Che la<br />

disciplina della prescrizione debba essere sottoposta al complesso di garanzie cui sono<br />

sottoposte l’individuazione delle condotte penalmente rilevanti e delle relative<br />

sanzioni penali è, in effetti, principio non solo non imposto in sede europea, ma anche<br />

assai discutibile sotto il profilo del suo fondamento razionale, come una parte autorevole<br />

della dottrina italiana ha da tempo acutamente posto in luce 26 . Se è, infatti, sacrosanto<br />

che il cittadino debba essere posto in condizione, al momento della commissione del<br />

fatto, di prevedere an e quantum della futura sanzione penale, non si vede perché debba<br />

essere tutelato altresì l’affidamento che egli possa nutrire nel venir meno della pretesa<br />

punitiva statale decorso un certo periodo di tempo. La determinazione concreta del<br />

‘tempo dell’oblio’ dipende da valutazioni che legittimamente possono mutare con il<br />

passare del tempo, in relazione alle circostanze concrete nelle quali si innesta la pretesa<br />

punitiva statale, non potendosi affatto escludersi a priori che il bisogno di punizione di<br />

crimini gravi – e magari di accertamento processuale particolarmente complesso –<br />

persista anche a notevole distanza di tempo dalla commissione di un fatto per il quale,<br />

allora, era previsto un termine di prescrizione troppo breve rispetto alle mutate<br />

esigenze della società. Il che è, in effetti, accaduto e tuttora accade in tutto il mondo in<br />

relazione a crimini contro l’umanità, che spesso non possono essere perseguiti con la<br />

necessaria tempestività in assenza delle necessarie condizioni istituzionali e politiche<br />

25<br />

Corte EDU, Scoppola c. Italia (n. 2), cit., § 110, e ivi ult. richiami alla pertinente giurisprudenza.<br />

26<br />

Cfr. ampiamente, sul punto, Marinucci-Dolcini, Corso di diritto penale, III ed., 2001, p. 262 ss.,<br />

cui si rinvia per ult. ind. bibl. Più di recente cfr., in senso analogo, Pulitanò, Deroghe alla<br />

retroattività in mitius della disciplina della prescrizione, in Dir,. pen. proc., 2007, p. 200 ss. ; Id.,<br />

Retroattività favorevole, cit., p. 946 ss.<br />

13<br />

95


per una efficace repressione, ma le cui ferite drammatiche permangono nella società<br />

anche dopo molti decenni dalla loro commissione: tanto da rendere perfettamente<br />

razionale la soluzione, fornita da altre giurisprudenze costituzionali 27 oltre che dalla<br />

stessa Corte di Strasburgo, di considerare legittimo l’allungamento retroattivo dei<br />

termini di prescrizione, in genere alla sola condizione che il termine non sia in concreto<br />

già maturato per il singolo indagato o imputato (in tal caso, e solo in tal caso, dovendo<br />

prevalere l’esigenza di rispettare il ‘diritto quesito’ dell’imputato ad essere risparmiato<br />

dalla pretesa punitiva statale) 28 .<br />

La nostra Corte costituzionale potrebbe, del resto, avere nel prossimo futuro<br />

l’occasione per rimeditare sullo status costituzionale della disciplina della prescrizione,<br />

in relazione a un’eccezione di illegittimità costituzionale degli articoli 157 e ss. c.p.<br />

sollevata dalla Procura generale di Genova e attualmente al vaglio della Corte di<br />

cassazione. La legittimità di tali norme è, in particolare, contestata nella parte in cui<br />

esse consentono agli autori di fatti di tortura – comunque qualificati ai sensi del diritto<br />

penale interno – di beneficiare della prescrizione, una tale conseguenza risultando in<br />

contrasto con gli obblighi, discendenti secondo la Corte di Strasburgo dall’art. 3 CEDU<br />

(e rilevanti nell’ordinamento interno ai sensi dell’art. 117 co. 1 Cost.), di processare e<br />

punire gli autori di tali fatti, senza che la pretesa punitiva possa essere paralizzata da<br />

cause estintive quali l’amnistia o, per l’appunto, la prescrizione del reato 29 . Ove tale<br />

questione di legittimità costituzionale fosse giudicata inammissibile dalla Corte<br />

costituzionale stante lo sbarramento dell’art. 25 co. 2 Cost (o, ancor prima, fosse<br />

ritenuta manifestamente infondata da parte della stessa Cassazione), inevitabile<br />

sarebbe la condanna del nostro Paese da parte della Corte EDU per violazione dell’art.<br />

3 CEDU, in relazione alla mancata punizione, per effetto di termini di prescrizione<br />

irragionevolmente brevi in rapporto alla gravità dei fatti e alla oggettiva complessità<br />

del loro accertamento, della quasi totalità dei responsabilità delle gravissime torture accadute<br />

nel 2001 a Bolzaneto e alla scuola Diaz 30 : una prospettiva, questa, sulla quale ritengo che le<br />

nostre massime giurisdizioni dovranno a fondo riflettere, per comprendere se davvero<br />

valga la pena di tutelare l’affidamento degli autori di simili violazioni nella propria futura<br />

impunità.<br />

Un simile, sconfortante esito potrebbe essere invece essere agevolmente evitato<br />

qualora si avesse il coraggio di ammettere che la prescrizione non ha proprio nulla a che<br />

27<br />

Cfr. in particolare BVerfE 25, p. 269 ss., su cui cfr. Marinucci-Dolcini, Corso, cit., p. 264, nota<br />

33.<br />

28<br />

Su questa condizione, cfr. ancora Marinucci-Dolcini, Corso, cit., p. 263.<br />

29<br />

Sulla questione di legittimità sinteticamente illustrata nel testo cfr. più ampiamente Viganò,<br />

L’arbitrio del non punire. Sugli obblighi di tutela dei diritti fondamentali, in Scritti in onore di Mario<br />

Romano, 2011, vol. IV, p. 2680 ss., e ivi per ogni necessario rif., anche alla giurisprudenza della<br />

Corte EDU in materia.<br />

30<br />

Cfr. C. app. Genova, 5 marzo 2010 e C. app. Genova, 18 maggio 2010, entrambe pubblicate in<br />

www.penalecontemporaneo.it (in: novità legislative e giurisprudenziali/giurisprudenza di merito).<br />

Su queste brutte vicende, cfr. ampiamente Colella, C’è un giudice a Strasburgo. In margine alle<br />

sentenze sui fatti della Diaz e di Bolzaneto: l’inadeguatezza del quadro normativo attuale in tema di<br />

repressione penale della tortura, in Riv. ir. dir. proc. pen., 2009, p. 1801 ss.<br />

14<br />

96


fare con la ratio del principio di legalità in materia penale, in tutti i suoi corollari. Ratio che è<br />

– essenzialmente – quella di garantire le libere scelte di azione del cittadino, ponendolo al<br />

riparo dal rischio di condanne imprevedibili al momento della commissione della<br />

condotta: e non quello di consentirgli di fare un improprio affidamento<br />

sull’immodificabilità della disciplina della prescrizione che, quale che ne sia la<br />

collocazione sistematica prescelta dal legislatore, incide sulle concrete condizioni della<br />

perseguibilità di un fatto il cui disvalore era chiaramente intelligibile, e il cui trattamento<br />

sanzionatorio era altrettanto ben conoscibile, al momento della sua commissione 31 .<br />

4.2. Sulla derogabilità del principio di retroattività della norma penale più favorevole. –<br />

Qualche maggiore difficoltà genera, invece, l’affermata derogabilità del principio di<br />

retroattività della norma penale desunto in Scoppola dall’art. 7 CEDU: affermazione,<br />

questa, nella quale la Corte costituzionale si impegna nonostante il carattere assorbente<br />

dell’argomento testé esaminato, secondo cui la disciplina della prescrizione non ricade<br />

entro il raggio applicativo dello stesso art. 7 CEDU.<br />

Prima di addentrarsi nella valutazione dell’argomentazione della Corte,<br />

conviene però sottolineare ancora una volta un dato: i nostri giudici costituzionali<br />

recepiscono integralmente il principio, affermato dalla Corte EDU in Scoppola, secondo<br />

cui l’art. 7 CEDU riconosce implicitamente il principio in questione. Il che significa che,<br />

d’ora in poi, anche lo status costituzionale della retroattività della norma penale più<br />

favorevole avrà come punto di riferimento non più (soltanto) il canone di eguaglianzaragionevolezza<br />

di cui all’art. 3 Cost., bensì anche lo stesso art. 7 CEDU, attraverso<br />

l’intermediazione dell’art. 117 co. 1 Cost. – beninteso, nei limiti in cui tale principio è<br />

stato riconosciuto dalla Corte europea: e dunque con riferimento esclusivo alla<br />

successione di ‚disposizioni che definiscono i reati e le pene che li reprimono‛<br />

intervenute prima della sentenza definitiva di condanna. Con l’ulteriore conseguenza,<br />

che dovrà essere ora interiorizzata anche dalla dottrina penalistica, che eventuali deroghe<br />

a tale principio – laddove ammissibili – dovranno in futuro potersi giustificare altresì al<br />

metro e con la logica del diritto convenzionale, e non meramente del diritto costituzionale<br />

interno.<br />

La domanda che, allora, non può non porsi oggi è se, dal punto di vista del diritto<br />

convenzionale, sia condivisibile l’affermazione della Corte costituzionale secondo cui il<br />

principio espresso in Scoppola sarebbe suscettibile di deroghe, allorché queste ultime<br />

siano sorrette – per riprendere l’espressione della Corte nostrana – da una ‚valida<br />

giustificazione‛.<br />

Al riguardo, credo possa legittimamente dubitarsi della cogenza della pur<br />

raffinata esegesi compiuta dalla Corte costituzionale, che fonda la propria tesi<br />

essenzialmente sull’avverbio ‚solo‛ («for the sole reason», nel testo ufficiale inglese) che<br />

compare al § 108 della sentenza della Scoppola, per derivarne la cruciale conseguenza –<br />

non esplicitata in alcun altro modo da quella sentenza – della derogabilità del principio<br />

affermato in termini apparentemente perentori al successivo § 109. L’argomento,<br />

ripeto, è acuto; ma certamente ardito.<br />

31<br />

Così, con esemplare efficacia, Corte EDU, Coëme e a. c. Belgio, cit., § 150.<br />

15<br />

97


Nella sostanza, intendiamoci, la nostra Corte ha ragioni da vendere: non<br />

persuade l’idea che, nella stessa ottica dei giudici di Strasburgo, il principio della<br />

retroattività della norma penale più favorevole debba valere incondizionatamente e<br />

senza eccezioni. Tuttavia, nemmeno persuade l’idea – che la Corte costituzionale<br />

sembra fare propria – secondo cui tale principio avrebbe una cogenza soltanto<br />

tendenziale, potendo essere sacrificato ogniqualvolta sussistano valide ragioni<br />

giustificative, liberamente apprezzabili dai giudici nazionali (costituzionali o ordinaria)<br />

secondo lo schema del ‘vaglio positivo di ragionevolezza’ inaugurato con la sentenza n.<br />

393/2006: quasi come se la sentenza Scoppola non fosse mai stata pronunciata.<br />

Una volta infatti riconosciuto che il principio di retroattività della legge penale<br />

più favorevole ha una specifica copertura convenzionale ai sensi dell’art. 7 CEDU, e che<br />

tale copertura si traduce nell’ordinamento interno in un corrispondente vincolo<br />

costituzionale ai sensi dell’art. 117 co. 1 Cost., il problema diviene piuttosto quello di<br />

articolare le ragioni per le quali – già nell’ottica convenzionale, cui il nostro ordinamento<br />

è a questo punto legato – almeno in talune specifiche situazioni (diverse ed ulteriori<br />

rispetto alla disciplina della prescrizione, per la quale il problema neppure sorge<br />

nell’ottica di Strasburgo) il principio in questione debba subire delle deroghe. Deroghe,<br />

ripeto, da giustificarsi nell’ottica dello stesso diritto convenzionale: con lo stessa logica,<br />

dunque, che sarebbe adottata dalla Corte di Strasburgo, una volta che il caso le fosse<br />

sottoposto da un (ipotetico) ricorrente italiano al quale venga negata per qualche<br />

ragione l’applicazione retroattiva di una disciplina penale più favorevole.<br />

Invero, la specifica questione affrontata oggi dalla Corte costituzionale<br />

costituirebbe certamente un caso facile per la Corte EDU: il principio della retroattività<br />

della legge penale più favorevole non si estende infatti, per esplicita dichiarazione<br />

della sentenza Scoppola, alla disciplina della prescrizione, considerata come attinente<br />

alla materia processuale. A nulla varrebbe, pertanto, un eventuale ricorso a Strasburgo<br />

degli imputati nei processi a quibus, ai quali – sulla base della sentenza n. 236/2011 –<br />

sarà applicata la disciplina della prescrizione in vigore al momento della commissione<br />

del fatto, e non quella risultante dalle modifiche successive ad opera della legge ‚ex<br />

Cirielli‛.<br />

La decisione dei giudici europei potrebbe invece essere più difficile rispetto ad<br />

altre ipotesi, che potrebbero in futuro esserle prospettate, nelle quali i giudici italiani<br />

dovessero riconoscere ulteriori deroghe al principio di retroattività della legge penale<br />

più favorevole.<br />

Si pensi al seguito della questione recentemente decisa dalla Corte<br />

costituzionale con la sentenza n. 28/2010. Come molti ricorderanno, in quell’occasione<br />

fu dichiarata l’illegittimità costituzionale per contrasto con gli articoli 11 e 117 co. 1<br />

Cost. di una norma che, in violazione degli obblighi comunitari, sottraeva alla<br />

disciplina penale generale in materia di gestione dei rifiuti le ceneri di pirite. Nel caso<br />

di specie, la norma dichiarata incostituzionale era entrata in vigore dopo il fatto, che<br />

costituiva invece pacificamente reato al momento della sua commissione. Nonostante il<br />

(sibillino) richiamo della Corte al principio della necessaria retroattività della norma<br />

penale più favorevole tra tutte quelle entrate in vigore dopo la commissione del fatto,<br />

accompagnato peraltro dalla precisazione che «la valutazione del modo in cui il<br />

16<br />

98


sistema normativo reagisce ad una sentenza costituzionale di accoglimento non è<br />

compito di questa Corte, in quanto la stessa spetta al giudice del processo principale,<br />

unico competente a definire il giudizio da cui prende le mosse l’incidente di<br />

costituzionalità» 32 , il giudice a quo nel caso di specie riconobbe la responsabilità<br />

dell’imputato – sia pure assolvendolo per intervenuta prescrizione – sulla base della<br />

disciplina penale vigente al momento della commissione del fatto, rifiutando così di applicare<br />

in suo favore la norma più favorevole entrata in vigore successivamente e dichiarata<br />

illegittima dalla Corte costituzionale 33 . Pur dando puntualmente conto del principio<br />

enunciato dalla Corte EDU in Scoppola, il giudice di merito ritenne infatti che<br />

l’intervenuta dichiarazione di illegittimità della lex mitior successivamente intervenuta<br />

consentisse di differenziare il caso sottoposto al proprio esame rispetto a quello deciso<br />

dalla Corte europea, dovendo in ogni caso il giudice interno dare la prevalenza al<br />

principio statuito dagli artt. 136 co. 1 Cost. e 30 co. 3 legge n. 87/1953, secondo cui –<br />

come è noto – non può darsi applicazione alla legge dichiarata incostituzionale a<br />

partire dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza.<br />

Contrasta una simile decisione con il principio statuito in Scoppola? Ovvero essa<br />

si lascia legittimare al metro dello stesso diritto europeo, sulla base della distinzione<br />

operata dal giudice, secondo cui tale principio non può trovare applicazione nel caso<br />

(non espressamente considerato dalla Corte EDU) in cui la legge più favorevole sia<br />

stata nel frattempo dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale?<br />

La difficoltà di immaginare una risposta della Corte europea di fronte a una tale<br />

domanda dipende, a ben vedere, dall’estrema laconicità della sentenza Scoppola nel<br />

motivare quello che, dopo tutto, costituiva un principio affatto nuovo nella propria<br />

stessa giurisprudenza, sviluppato nella consapevole assenza di alcuna base testuale.<br />

La Corte EDU si limita, in effetti, a giustapporre tre argomenti del tutto<br />

eterogenei. Il primo, sviluppato nel § 105 della motivazione, è di ordine meramente<br />

comparatistico, e si basa sulla considerazione che il principio della retroattività della<br />

legge più favorevole è ormai assistito da un ampio consenso internazionale,<br />

testimoniato da una pluralità di fonti pattizie (l’art. 15 del Patto, l’art. 49 § 1 della Carta,<br />

ma anche l’art. 9 della Convenzione americana dei diritti umani) e giurisprudenziali<br />

(dalla già menzionata sentenza Berlusconi della Corte di giustizia ad un caso deciso<br />

dalla Cassazione francese, passando per la giurisprudenza dei tribunali penali ad hoc).<br />

Il secondo argomento, appena accennato al § 108, fa leva sulla necessaria prevedibilità<br />

della sanzione penale: richiamo questo, peraltro, del tutto fuori luogo, dal momento<br />

che la prevedibilità della sanzione penale deve essere garantita al momento della<br />

commissione del fatto, mentre qui si discute della necessità di applicare retroattivamente<br />

norme più favorevoli entrate in vigore dopo la commissione del fatto. Il terzo, e<br />

32<br />

C. cost., sent. n. 28/2010, ‚considerato in diritto‛ n. 7.<br />

33<br />

Trib. Venezia, sez. dist. Dolo, 13 maggio 2010, in www.penalecontemporaneo.it (in: reato e<br />

pene/legge penale). Lo stesso argomento normativo era stato del resto utilizzato dalla sentenza<br />

394/2006 per giustificare l’inapplicabilità retroattiva di una legge più favorevole intervenuta<br />

successivamente al fatto, ma dichiarata per l’appunto incostituzionale (‚considerato in diritto‛<br />

n. 6.4).<br />

17<br />

99


apparentemente decisivo, argomento è enunciato invece in poche righe nello stesso §<br />

108: la pena concretamente inflitta all’imputato deve essere proporzionata alla gravità<br />

del fatto come oggi apprezzata dallo Stato, e dalla collettività che lo Stato rappresenta.<br />

Peccato però che l’argomento della proporzione della pena – invocato in vario<br />

modo anche nel dibattito italiano sul tema – non sia conferente rispetto all’ipotesi<br />

particolare in cui la disposizione più favorevole sia contenuta in una lex intermedia, che<br />

non era (ancora) in vigore al momento della commissione del fatto ma che non è (più)<br />

in vigore al momento del giudizio, essendo stata nel frattempo sostituita da una terza<br />

norma più severa: esattamente l’ipotesi, guarda caso, che si era verificata nel caso di<br />

specie sottoposto all’attenzione della Corte, in cui fu ravvisata la violazione dell’art. 7<br />

CEDU per non avere lo Stato italiano applicato una legge più favorevole entrata in<br />

vigore durante il processo, ma nuovamente sostituita con una norma più severa prima<br />

della condanna definitiva. Per quale ragione mai l’imputato dovrebbe qui essere<br />

condannato ai sensi di una legge che non riflette più l’attuale valutazione del<br />

legislatore, e della stessa collettività, sulla gravità del fatto? 34<br />

L’unica spiegazione plausibile di questa aporia è che la Corte abbia<br />

(implicitamente, e forse inconsapevolmente) inteso comunque tutelare l’affidamento<br />

creatosi durante il processo in capo all’imputato sull’applicazione della pena più mite<br />

entrata nel frattempo in vigore, onde evitare che tale affidamento venga frustrato da<br />

una terza norma che inasprisca di nuovo il trattamento sanzionatorio: una spiegazione,<br />

questa, che verosimilmente fu alla base dell’introduzione della regola della retroattività<br />

della norma penale più favorevole in molti ordinamenti nel corso dell’ottocento, in<br />

connessione con vicende normative che videro più volte abrogata e poi reintrodotta la<br />

pena capitale 35 . L’idea di fondo è, insomma, che almeno sino alla conclusione del<br />

processo e all’esecuzione della pena l’imputato possa legittimamente (e<br />

definitivamente) tirare un sospiro di sollievo allorché entri in vigore una norma che<br />

stabilisca un trattamento sanzionatorio più mite, senza dover più temere (si pensi<br />

ancora alla spada di Damocle rappresentata dalla pena di morte!) il ripristino della<br />

penalità originaria nelle more della propria vicenda processuale.<br />

Così sviluppato il (sincopato) ragionamento della Corte europea circa la ratio<br />

del nuovo diritto fondamentale introdotto in Scoppola, potrà forse plausibilmente<br />

argomentarsi sui limiti (per ora restati impliciti) di tale diritto, ragionando proprio sulla<br />

base di questa ratio: che combina, mi pare, tanto l’idea della proporzione della pena<br />

34<br />

L’aporia segnalata è puntualmente messa in luce, tra gli altri, proprio da Onida, Retroattività e<br />

controllo di costituzionalità della legge penale sopravvenuta più favorevole, in Bin-Brunelli-Pugiotto-<br />

Veronesi, Ai confini del favor rei. 2005, p. 285. Specificamente con riguardo a questo nodo –<br />

rimasto irrisolto – nella sentenza Scoppola, cfr. Pecorella, Il caso Scoppola, cit., p. 397 ss. La stessa<br />

A., proprio in considerazione dell’assenza di ragioni cogenti che inducano a ritenere che<br />

l’imputato debba beneficiare della legge intermedia più favorevole, considera tout court<br />

sprovvista di fondamento costituzionale la regola della sua retroattività in bonam partem, ed anzi<br />

ne auspica un uso eccezionale da parte del legislatore (Pecorella, Legge intermedia: aspetti<br />

problematici e prospettive de lege ferenda, in Dolcini-Paliero (a cura di), Scritti in onore di Giorgio<br />

Marinucci, 2006, vol. I, p. 630 ss.). Nello stesso senso De Vero, La legge penale, cit., p. 63.<br />

35<br />

Cfr. ampiamente sul punto Pecorella, Legge intermedia, cit., p. 622 ss.<br />

18<br />

100


ispetto alla gravità del fatto così come percepita al momento del giudizio, quanto – in<br />

chiave ulteriormente limitativa della punibilità – l’idea del (legittimo) affidamento<br />

dell’imputato sull’applicazione della pena più mite entrata in vigore durante il processo.<br />

Rispetto all’ipotesi della lex intermedia illegittima, potrebbe allora sensatamente<br />

sostenersi – concordemente con l’opinione dell’Avvocato generale Kokott nel caso<br />

Berlusconi 36 , oltre che con la tesi già espressa dal Maestro cui questo scritto è dedicato 37<br />

– che, anche nell’ottica dei giudici europei, non vi sarebbe ragione di applicare<br />

retroattivamente una legge la quale rifletta una illegittima rivalutazione della gravità<br />

del fatto da parte del legislatore; e che, per altro verso, la tutela dell’affidamento<br />

dell’imputato nell’applicazione di una legge successiva più favorevole ha senso<br />

soltanto in quanto tale affidamento venga riposto su una norma, appunto, legittima,<br />

non già su una norma che non avrebbe dovuto in radice essere emanata dal legislatore.<br />

Il secondo corno dell’argomento non è forse entusiasmante (dopo tutto, l’imputato non<br />

è in condizioni di sapere che la norma successiva più favorevole è illegittima sino a<br />

quando essa non venga dichiarata tale da chi di dovere); ma la tesi quanto meno<br />

potrebbe essere sottoposta – ove se ne presentasse l’occasione – alla Corte di<br />

Strasburgo, la quale sarebbe così indotta a meditare sull’opportunità di statuire<br />

un’espressa limitazione all’operatività del principio della retroattività della norma<br />

penale più favorevole, destinata appunto ad operare almeno quando tale norma sia<br />

illegittima.<br />

E analogamente si potrebbe argomentare con riferimento ad altre eccezioni<br />

previste dal nostro art. 2 c.p.: ad es. in relazione alla non applicabilità retroattiva del<br />

decreto legge non convertito contenente disposizioni più favorevoli per il reo, sancita dalla<br />

Corte costituzionale nella propria ormai risalente sent. n. 51/1985 (non vi è ragione per<br />

applicare in favore del reo una norma che rivaluta in senso a lui favorevole la gravità<br />

di un fatto, quando tale norma non abbia ricevuto il necessario avallo del parlamento; e<br />

per converso l’imputato non è legittimato a prestare affidamento nell’applicazione in<br />

proprio favore di una norma la cui vigenza sia ancora provvisoria, sino alla definitiva<br />

conversione in legge).<br />

Sempre, comunque, si tratterebbe per il giudice italiano – o per il governo<br />

italiano, convenuto avanti la Corte europea in relazione a una pretesa violazione<br />

dell’art. 7 CEDU – di sviluppare una strategia argomentativa mirante a persuadere la<br />

Corte medesima della necessità di ammettere eccezioni al principio statuito in maniera<br />

apparentemente perentoria in Scoppola, muovendosi così all’interno della stessa logica<br />

convenzionale: e di stimolare, semmai, la Corte europea ad abbandonare la propria<br />

laconicità, e ad articolare essa stessa motivazioni più robuste a sostegno del principio,<br />

ed eventualmente dei suoi limiti.<br />

36<br />

Conclusioni dell’Avvocato generale della Corte di giustizia CE nelle cause riunite Berlusconi e<br />

a. (C-387/02, C-391/02 e C-403/02), 14 ottobre 2004, §§ 158-165.<br />

37<br />

Onida, Retroattività, cit., p. 285. Nello stesso senso, cfr. Scoletta, Retroattività in mitius e<br />

pronunce di incostituzionalità in malam partem, ibidem, p. 342 ss. e, ampiamente, Id., Principe<br />

constitutionnel, cit., p. 356 ss.<br />

19<br />

101


5. Qualche considerazione conclusiva sullo stato dei rapporti tra Corte costituzionale<br />

e Corte EDU<br />

Le osservazioni sin qui svolte in relazione al tema specifico della retroattività<br />

della norma penale più favorevole, affrontato dalla Corte nella sentenza n. 236/2011,<br />

consentono ora di ampliare – giusto in chiusura di questo contributo – l’orizzonte del<br />

discorso, e di tornare così al dilemma di partenza, relativo alla natura dei rapporti tra<br />

Corte costituzionale e giurisprudenza della Corte europea. Dilemma, questo, certo non<br />

solo italiano, come dimostra anche una recentissima presa di posizione sul punto della<br />

Corte costituzionale tedesca 38 , alla quale potrò qui dedicare non più che qualche fugace<br />

cenno.<br />

Nemmeno in questa occasione, lo si è sottolineato, la nostra Corte costituzionale<br />

imbraccia l’arma dei ‘controlimiti’; e neppure imbocca la troppo facile scappatoia di<br />

negare la portata almeno tendenzialmente vincolante degli orientamenti interpretativi di<br />

Strasburgo, sulla base magari del (trito) argomento secondo cui la Corte EDU sarebbe<br />

un giudice del caso concreto, che bilancia volta a volta gli interessi in gioco con esiti<br />

sostanzialmente imprevedibili. Nonostante qualche apparente concessione a questo<br />

argomento (nella sottolineatura, in particolare, della specificità del caso deciso in<br />

Scoppola), i nostri giudici costituzionali sanno benissimo che i loro colleghi europei<br />

tengono moltissimo alla funzione nomofilattica della propria giurisprudenza, che mira<br />

a fissare standard decisionali per i giudici interni dei 47 paesi membri del Consiglio<br />

d’Europa, chiamati a svolgere le funzioni di ‘primi giudici della Convenzione’ nei<br />

rispettivi ordinamenti 39 . E ciò è tanto più evidente in una sentenza come Scoppola,<br />

decisa in unico grado dalla Grande camera proprio in considerazione della necessità di<br />

operare un overruling della giurisprudenza precedente, e di creare così nella maniera<br />

più solenne possibile un precedente per il futuro – per la stessa Corte, così come per i<br />

giudici nazionali.<br />

Piuttosto, la sentenza n. 236/2011 può essere letta semplicemente come una<br />

sentenza che si limita a interpretare il diritto convenzionale, pacificamente assunto<br />

come parametro interposto per la valutazione della legittimità costituzionale della<br />

norma impugnata; e più in particolare ad interpretarlo restrittivamente, alla luce delle<br />

stesse indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo,<br />

attraverso la tecnica del distinguishing – il caso di specie è diverso da quello deciso dal<br />

precedente perché


subordinazione gerarchica di una corte all’altra, alla quale la corte inferiore cerca appunto<br />

di ovviare, distinguendo il caso di specie sottoposto al suo esame da un precedente<br />

pure assunto, in linea teorica, come vincolante. Non stupisce, allora, che una simile<br />

prospettiva possa essere ritenuta incompatibile con la dignità di una Corte che, a tutto<br />

concedere, si concepisce come di pari livello rispetto alla Corte di Strasburgo, e che anzi<br />

rivendica espressamente l’ultima parola sulla penetrazione degli obblighi sovranazionali<br />

nell’ordinamento interno.<br />

Tuttavia, a me pare che la logica dell’intero sistema sovranazionale di tutela dei<br />

diritti fondamentali conduca inevitabilmente al riconoscimento che – a parte l’ipotesi<br />

per ora solo teorica dei ‘controlimiti’, sempre minacciati ma mai concretamente<br />

azionati – l’ultima parola in materia di diritti fondamentali spetta in effetti alla Corte europea:<br />

la quale è – se non altro dal punto di vista cronologico, data la regola del previo<br />

esaurimento dei ricorsi interni – l’ultimo giudice che può essere chiamato a<br />

pronunciarsi sulla sussistenza o meno della violazione di un diritto riconosciuto dalla<br />

Convenzione.<br />

Relativizzare la vincolatività della giurisprudenza europea – come tenta di fare,<br />

senza troppa convinzione, la stessa sentenza n. 236/2011 – attraverso la sottolineatura<br />

di un preteso ‚margine di apprezzamento‛ in capo alla Corte costituzionale<br />

nell’adattare i dicta europei al contesto ordinamentale italiano, in modo che ne sia<br />

rispettata la ‚sostanza‛ (?), non muta a ben guardare una realtà magari sgradevole, ma<br />

imposta dalle concrete dinamiche processuali di tutela dei diritti fondamentali: la Corte<br />

europea sarà sempre in grado di sindacare la decisione della Corte costituzionale, ed<br />

eventualmente di sconfessarla, imponendo alla fine la propria valutazione sulla<br />

sussistenza o meno di una violazione convenzionale. Ciò è accaduto,<br />

significativamente, proprio in relazione alla sentenza n. 311/2009 della Corte<br />

costituzionale, nella quale è comparso per la prima volta il riferimento all’esigenza di<br />

rispettare la ‚sostanza‛ della giurisprudenza europea: ebbene, la lettura ‘elastica’ dei<br />

vincoli convenzionali fornita da quella sentenza è stata apertamente disattesa dalla<br />

Corte EDU nella recentissima pronuncia Agrati e a. c. Italia, del giugno 2011, laddove i<br />

giudici europei si limitano (spendendo sul punto non più di una riga!) a sottolineare di<br />

non essere vincolati alle valutazioni della nostra Corte costituzionale relative alla<br />

compatibilità con la Convenzione della disciplina legislativa italiana, che stava<br />

all’origine delle violazioni ravvisate invece in sede europea 40 . Nonostante il contrario<br />

avviso della nostra Corte costituzionale, dunque, quella disciplina è stata giudicata a<br />

Strasburgo convenzionalmente illegittima; e lo Stato italiano dovrà ora sborsare fior di<br />

quattrini in favore dei ricorrenti, per riparare alla accertata violazione.<br />

Naturalmente, tutto ciò non significa che il ruolo della Corte costituzionale, così<br />

come in generale quello dei giudici nazionali, non resti della massima rilevanza anche<br />

in relazione all’interpretazione e applicazione nell’ordinamento interno delle garanzie<br />

convenzionali; ma tale ruolo potrà essere adempiuto con successo solo ove sia<br />

accompagnato dalla costante preoccupazione – esplicitata proprio in questi termini dalla<br />

40<br />

Corte EDU, Agrati e a. c. Italia, sent. 7 giugno 2011 (ric. n. 43549/08, 6107/09 e 5087/09), § 62.<br />

21<br />

103


Corte costituzionale tedesca nella sentenza poc’anzi menzionata 41 – di evitare condanne<br />

prevedibili dello Stato italiano in sede europea. Si tratterà allora, anche per la nostra Corte<br />

costituzionale, di sforzarsi di elaborare buoni argomenti, in grado di fare breccia su<br />

quello che resterà pur sempre il giudice ultimo delle violazioni dei diritti fondamentali;<br />

riservando l’arma estrema dei ‘controlimiti’ a quei soli casi, per ora solo teorici, in cui<br />

gli obblighi europei, così come interpretati dalla Corte di Strasburgo, dovessero<br />

imporre intollerabili sacrifici a valori e principi davvero essenziali per il nostro<br />

ordinamento – come, per riprendere ancora una volta un argomento della Corte<br />

costituzionale tedesca, nel caso di conflitto tra più diritti fondamentali, diversamente<br />

risolti in sede interna e internazionale 42 .<br />

Anziché mostrare i muscoli, converrà insomma ai nostri giudici costituzionali –<br />

sulla scia di quanto in effetti già hanno fatto con la sentenza qui commentata, al di là di<br />

qualche equivoca enunciazione di principio – impegnarsi direttamente<br />

nell’interpretazione delle norme della Convenzione, e nell’interpretazione della stessa<br />

giurisprudenza europea formatasi su quelle norme, assunte l’una e l’altra come<br />

parametri interposti di legittimità costituzionale ai sensi dell’art. 117 co. 1 Cost.: anche<br />

con l’obiettivo di influire su tale giurisprudenza, esplicitandone i passaggi inespressi e<br />

individuando possibili sotto-regole ed eccezioni, che la Corte EDU potrà alla fine<br />

recepire e fare proprie. Il tutto attraverso una strategia argomentativa persuasiva<br />

anziché semplicemente assertiva: senza la quale qualsiasi prospettiva di un (reale)<br />

dialogo tra le due giurisprudenze, tante volte teorizzato dalla dottrina italiana, sarebbe<br />

destinata al sicuro fallimento.<br />

41<br />

BVerfG, sent. 2 BvR 2365/09 del 4 maggio 2011, cit., § 82.<br />

42<br />

BVerfG, sent. 2 BvR 2365/09 del 4 maggio 2011, cit., § 93.<br />

22<br />

104


LIMITI ALL’APPLICAZIONE RETROATTIVITÀ DEL NUOVO REGIME DELLA PRESCRIZIONE E<br />

CONTROLLO DI COSTITUZIONALITÀ SOTTO IL PROFILO DELLA RAGIONEVOLEZZA<br />

Corte cost., 23-11-2006, n. 393<br />

È costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l'art. 3 Cost., l'art. 10 comma 3 legge 5 dicembre 2005, n. 251,<br />

limitatamente alle parole «dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del<br />

dibattimento, nonché». La norma, che dispone la inapplicabilità dei nuovi, più brevi, termini di prescrizione ai reati per<br />

i quali sia intervenuta, in primo grado, la dichiarazione di apertura del dibattimento, introduce una deroga ingiustificata<br />

alla regola della retroattività della norma penale più favorevole al reo (di cui all'art. 2 comma 4 c.p.). Infatti, la<br />

dichiarazione di apertura del dibattimento non è idonea a correlarsi significativamente ad un istituto di carattere<br />

generale come la prescrizione e al complesso delle ragioni che ne costituiscono il fondamento, poiché non connota<br />

indefettibilmente tutti i processi di primo grado, in particolare i riti alternativi, né è inclusa fra gli incombenti ai quali il<br />

legislatore attribuisce rilevanza ai fini dell'interruzione del decorso della prescrizione ex art. 160 c.p..<br />

Considerato in diritto<br />

1.- La questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Bari investe, con riferimento all'art. 3 della<br />

Costituzione, l'art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio<br />

1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i<br />

recidivi, di usura e di prescrizione), «nella parte in cui subordina l'applicazione delle norme contenute nell'art. 6 della<br />

medesima legge ai soli procedimenti penali in cui non sia stata dichiarata l'apertura del dibattimento».<br />

Il giudice rimettente ritiene che la scelta del legislatore di limitare l'applicazione delle nuove norme solo ad alcuni dei<br />

procedimenti pendenti, in base al criterio relativo all'avvenuta apertura del dibattimento, non sia «sorretta da<br />

giustificazioni di ordine logico», né ispirata a finalità tali da consentire il diverso trattamento così riservato a diverse<br />

categorie di cittadini.<br />

2.- La norma denunciata così dispone: «Se, per effetto delle nuove disposizioni, i termini di prescrizione risultano più<br />

brevi, le stesse si applicano ai procedimenti e ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, ad<br />

esclusione dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché<br />

dei processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione».<br />

La questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Bari - e rilevante nel giudizio a quo - è prospettata<br />

relativamente alla parte della norma che dispone la non applicabilità dei nuovi, più brevi, termini di prescrizione ai reati<br />

per i quali sia intervenuta, in primo grado, la dichiarazione di apertura del dibattimento.<br />

3.- La questione è fondata.<br />

4.- Poiché la denunciata violazione dell'art. 3 Cost. si basa sull'assunto che la norma impugnata derogherebbe<br />

ingiustificatamente al disposto dell'art. 2, quarto comma, del codice penale - secondo cui «se la legge del tempo in cui<br />

fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo<br />

che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile» - occorre anzitutto stabilire se tra le «disposizioni più favorevoli al reo»,<br />

cui si riferisce la citata norma codicistica, debbano rientrare esclusivamente quelle concernenti in senso stretto la misura<br />

della pena, ovvero vi si possano includere anche le norme che, riguardando ulteriori e diversi profili (come, appunto, la<br />

riduzione dei termini di prescrizione del reato), ineriscono al complessivo trattamento riservato al reo.<br />

La norma del codice penale deve essere interpretata, ed è stata costantemente interpretata dalla giurisprudenza di questa<br />

Corte (e da quella di legittimità), nel senso che la locuzione «disposizioni più favorevoli al reo» si riferisce a tutte quelle<br />

norme che apportino modifiche in melius alla disciplina di una fattispecie criminosa, ivi comprese quelle che incidono<br />

sulla prescrizione del reato (sentenze n. 455 e n. 85 del 1998; ordinanze n. 317 del 2000, n. 288 e n. 51 el 1999, n. 219<br />

del 1997, n. 294 e n. 137 del 1996).<br />

Una conclusione, questa, coerente con la natura sostanziale della prescrizione (sentenza n. 275 del 1990) e con l'effetto<br />

da essa prodotto, in quanto «il decorso del tempo non si limita ad estinguere l'azione penale, ma elimina la punibilità in<br />

sé e per sé, nel senso che costituisce una causa di rinuncia totale dello Stato alla potestà punitiva» ( Cass., Sez. I, 8<br />

maggio 1998, n. 7442). Tale effetto, peraltro, esprime l'«interesse generale di non più perseguire i reati rispetto ai quali<br />

il lungo tempo decorso dopo la loro commissione abbia fatto venir meno, o notevolmente attenuato (...) l'allarme della<br />

coscienza comune, ed altresì reso difficile, a volte, l'acquisizione del materiale probatorio» (sentenza n. 202 del 1971; v.<br />

anche sentenza n. 254 del 1985; ordinanza n. 337 del 1999).<br />

Pertanto, le norme sulla prescrizione dei reati, ove più favorevoli al reo, rispetto a quelle vigenti al momento della<br />

commissione del fatto, devono conformarsi, in linea generale, al principio previsto dalla citata disposizione del codice<br />

penale.<br />

5.- Poste queste premesse, deve essere preliminarmente ribadita la giurisprudenza di questa Corte, costante<br />

nell'affermare che il regime giuridico riservato alla lex mitior, e segnatamente la sua retroattività, non riceve<br />

105


nell'ordinamento la tutela privilegiata di cui all'art. 25, secondo comma, della Costituzione, in quanto la garanzia<br />

costituzionale, prevista dalla citata disposizione, concerne soltanto il divieto di applicazione retroattiva della norma<br />

incriminatrice, nonché di quella altrimenti più sfavorevole per il reo.<br />

Da ciò discende che eventuali deroghe al principio di retroattività della lex mitior, ai sensi dell'art. 3 Cost., possono<br />

essere disposte dalla legge ordinaria quando ricorra una sufficiente ragione giustificativa.<br />

6.- Nel presente giudizio la Corte è investita del compito di valutare se la scelta compiuta dal legislatore con la norma in<br />

esame sia assistita da ragioni che giustifichino la deroga, in tal modo apportata, al principio più volte richiamato.<br />

L'individuazione dei criteri in base ai quali operare questa valutazione non può prescindere dal considerare<br />

adeguatamente la circostanza che tale principio non è affermato soltanto, come criterio generale, dall'art. 2 cod. pen.,<br />

ma è stato sancito sia a livello internazionale sia a livello comunitario; tale circostanza incide sul tipo di sindacato che<br />

questa Corte deve operare quando ad esso la legge voglia derogare.<br />

6.1.- In primo luogo, merita di essere ricordato l'art. 15, primo comma, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e<br />

politici adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881, il quale<br />

stabilisce che «se, posteriormente alla commissione del reato, la legge prevede l'applicazione di una pena più lieve, il<br />

colpevole deve beneficiarne»: disposizione alla quale si collega la riserva dell'Italia nel senso dell'applicazione limitata<br />

ai procedimenti in corso, e non anche a quelli nei quali sia intervenuta una decisione definitiva.<br />

In relazione a tale norma di diritto internazionale convenzionale va ricordata la forza giuridica che questa Corte ha più<br />

volte riconosciuto alle norme internazionali relative ai diritti fondamentali della persona (sentenze n. 62 del 1992; n.<br />

168 del 1994; n. 109 del 1997; n. 270 del 1999). In particolare, a proposito del Patto di New York, con la sentenza n. 15<br />

del 1996 si è affermato che le sue norme non possono essere assunte «in quanto tali come parametri nel giudizio di<br />

costituzionalità delle leggi» (cosicché «una loro eventuale contraddizione da parte di norme legislative interne non<br />

determinerebbe di per sé - cioè indipendentemente dalla mediazione di una norma della Costituzione - un vizio<br />

d'incostituzionalità»), ma che ciò «non impedisce di attribuire a quelle norme grande importanza nella stessa<br />

interpretazione delle corrispondenti, ma non sempre coincidenti, norme contenute nella Costituzione».<br />

Dal suo canto, il comma 2 dell'art. 6 del Trattato sull'Unione europea - nel testo risultante dal Trattato sottoscritto ad<br />

Amsterdam il 2 ottobre 1997, ratificato con legge 16 giugno 1998, n. 209 - ha affermato che «l'Unione rispetta i diritti<br />

fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà<br />

fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati<br />

membri, in quanto principi generali del diritto comunitario».<br />

La Corte di giustizia delle Comunità europee, a sua volta, ha affermato che tali diritti fondamentali sono parte integrante<br />

dei principi generali del diritto, che essa garantisce (da ultimo, sentenze 12 giugno 2003, C-112/00; 10 luglio 2003, C-<br />

20/00 e C-64/00).<br />

Di recente (sentenza 3 maggio 2005, C-387/02, C-391/02 e C-403/02) la stessa Corte - decidendo un caso nel quale il<br />

primato del diritto comunitario si assumeva compromesso dalla retroattività di una disciplina che assicurava al reo un<br />

trattamento più favorevole (anche per la riduzione dei termini di prescrizione conseguente alla riduzione della misura<br />

della pena) - ha statuito che delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri fa parte il principio<br />

dell'applicazione retroattiva della pena più mite. Tale principio - secondo la Corte di giustizia - deve essere senz'altro<br />

osservato dal giudice interno «quando applica il diritto nazionale adottato per attuare l'ordinamento comunitario», ma<br />

esso - si ribadisce - nel caso esaminato viene in rilievo nella sua valenza di principio generale dell'ordinamento<br />

comunitario, desunto dal complesso degli ordinamenti giuridici nazionali e dei trattati internazionali dei quali gli Stati<br />

membri sono parti contraenti.<br />

6.2.- Il medesimo principio, sancito nell'art. 15 del già citato Patto di New York, è stato esplicitamente confermato<br />

dall'art. 49, comma 1, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 -<br />

la quale viene qui richiamata, ancorché priva tuttora di efficacia giuridica, per il suo carattere espressivo di principi<br />

comuni agli ordinamenti europei - secondo cui «se, successivamente alla commissione del reato, la legge prevede<br />

l'applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest'ultima».<br />

6.3.- Da questi dati normativi e giurisprudenziali si ricava che per le leggi in esame l'applicazione retroattiva è la regola<br />

e che tale regola è derogabile in presenza di esigenze tali da prevalere su un principio il cui rilievo, si è già osservato,<br />

non si fonda soltanto su una norma, sia pure generale e di principio, del codice penale.<br />

Il livello di rilevanza dell'interesse preservato dal principio di retroattività della lex mitior - quale emerge dal grado di<br />

protezione accordatogli dal diritto interno, oltre che dal diritto internazionale convenzionale e dal diritto comunitario -<br />

impone di ritenere che il valore da esso tutelato può essere sacrificato da una legge ordinaria solo in favore di interessi<br />

di analogo rilievo (quali - a titolo esemplificativo - quelli dell'efficienza del processo, della salvaguardia dei diritti dei<br />

soggetti che, in vario modo, sono destinatari della funzione giurisdizionale, e quelli che coinvolgono interessi o<br />

esigenze dell'intera collettività nazionale connessi a valori costituzionali di primario rilievo; cfr. sentenze n. 24 del<br />

2004; n. 10 del 1997, n. 353 e n. 171 del 1996; n. 218 e n. 54 del 1993). Con la conseguenza che lo scrutinio di<br />

costituzionalità ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare alla retroattività di una norma penale più favorevole al reo deve<br />

superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente che la norma derogatoria non sia<br />

manifestamente irragionevole.<br />

In definitiva, soltanto nel senso sopraindicato può trovare giustificazione la deroga alla applicazione retroattiva della<br />

disposizione più favorevole al reo.<br />

In particolare - per quanto attiene al tema che qui rileva - la deroga al regime della retroattività deve ritenersi<br />

106


ammissibile nei confronti di norme che riducano la durata della prescrizione del reato, purché tale deroga sia non solo<br />

coerente con la funzione che l'ordinamento oggettivamente assegna all'istituto, ma anche diretta a tutelare interessi di<br />

non minore rilevanza.<br />

7.- Alla luce delle considerazioni che precedono, la questione di legittimità costituzionale in esame si risolve in quella<br />

della intrinseca ragionevolezza, ex art. 3 Cost., e dunque alla luce del principio di eguaglianza, della scelta di<br />

individuare il momento della dichiarazione di apertura del dibattimento come discrimine temporale per l'applicazione<br />

delle nuove norme sui termini di prescrizione del reato nei processi in corso di svolgimento in primo grado alla data di<br />

entrata in vigore della legge n. 251 del 2005.<br />

A giudizio di questa Corte, la scelta effettuata dal legislatore con la censurata disposizione transitoria non è assistita da<br />

ragionevolezza.<br />

L'apertura del dibattimento non è in alcun modo idonea a correlarsi significativamente ad un istituto di carattere<br />

generale come la prescrizione, e al complesso delle ragioni che ne costituiscono il fondamento, legato al già menzionato<br />

rilievo che il decorso del tempo da un lato fa diminuire l'allarme sociale, e dall'altro rende più difficile l'esercizio del<br />

diritto di difesa (e ciò a prescindere del tutto dalla addebitabilità del ritardo nello svolgimento del processo).<br />

Infatti, l'incombente di cui all'art. 492 del codice di procedura penale non connota indefettibilmente tutti i processi<br />

penali di primo grado (in particolare i riti alternativi - e, tra essi, il giudizio abbreviato - che hanno la funzione di<br />

"deflazionare" il dibattimento); né esso è incluso tra quelli ai quali il legislatore attribuisce rilevanza ai fini<br />

dell'interruzione del decorso della prescrizione ex art. 160 cod. pen., il quale richiama una serie di atti, tra cui la<br />

sentenza di condanna e il decreto di condanna, oltre altri atti processuali anteriori.<br />

Del resto, se è vero che all'apertura del dibattimento questa Corte ha talora attribuito rilievo, ciè è avvenuto a fini del<br />

tutto estranei all'ambito di operatività della prescrizione: ad esempio, per individuare il momento della devoluzione, al<br />

giudice della cognizione piena del merito, di tutta la gamma delle attribuzioni giurisdizionali, anche cautelari (ordinanza<br />

n. 230 del 2005), o quello dopo il quale il danno non può più essere utilmente riparato (ordinanza n. 970 del 1988).<br />

L'opzione compiuta dal legislatore - in relazione ai processi di primo grado già in corso - di subordinare l'efficacia,<br />

ratione temporis, della nuova disciplina sui termini di prescrizione dei reati (quando più favorevole per il reo)<br />

all'espletamento dell'incombente ex art. 492 cod. proc. pen. non si conforma, pertanto, al canone della necessaria<br />

ragionevolezza. A tal fine, non è pertinente - come fa l'Avvocatura dello Stato - né sottolineare la circostanza che si<br />

tratta di «inizio del momento del pieno contraddittorio», né invocare il principio di «non dispersione della prova»,<br />

essendo evidente che l'apertura del dibattimento individua un momento prima del quale, di norma, non sono state<br />

compiute attività processuali suscettibili di essere vanificate.<br />

In conclusione, la libertà di scelta, di cui il legislatore dispone in subiecta materia, non è stata esercitata<br />

ragionevolmente.<br />

8.- Pertanto la norma in esame - in quanto limita in modo non ragionevole il principio della retroattività della legge<br />

penale più mite - viola l'art. 3 della Costituzione.<br />

Essa deve essere quindi dichiarata costituzionalmente illegittima limitatamente alle parole «dei processi già pendenti in<br />

primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché».<br />

P.Q.M.<br />

per questi motivi<br />

LA CORTE COSTITUZIONALE<br />

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice<br />

penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione<br />

delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), limitatamente alle parole «dei processi già pendenti<br />

in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché».<br />

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 ottobre 2006.<br />

DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 23 NOV. 2006.<br />

CONFORMI E DIFFORMI<br />

(1) Non risultano precedenti.<br />

Corte costituzionale, 23 novembre 2006, n. 393<br />

107


108


APPLICAZIONE DELLA "EX CIRIELLI" AI PROCESSI IN CORSO: QUESTIONI DI LEGITTIMITA'<br />

COSTITUZIONALE<br />

Pulitanò Domenico<br />

Corte cost., 23 novembre 2006, n. 393<br />

FONTE
Dir. Pen. e Processo, 2007, 2, 194<br />

Sommario: La motivazione della Corte - Le diverse tipologie di successione di leggi penali - Riforma della<br />

prescrizione e ragioni di una disciplina transitoria - Le buone ragioni della disciplina transitoria della l. n. 251 del 2005<br />

- Conclusioni<br />

DEROGHE ALLA RETROATTIVITA' IN MITIUS NELLA DISCIPLINA DELLA PRESCRIZIONE<br />

Sullo statuto costituzionale del principio codicistico di retroattività in mitius, la sentenza in esame ribadisce la<br />

giurisprudenza della Corte, «costante nell'affermare che il regime giuridico riservato alla lex mitior , e<br />

segnatamente la sua retroattività, non riceve nell'ordinamento la tutela privilegiata di cui all'art. 25, secondo comma,<br />

della Costituzione». Fondamento e limiti del criterio della retroattività della lex superveniens più favorevole<br />

stanno nel principio d'eguaglianza, come la dottrina penalistica ha da tempo argomentato, e la Corte ha ribadito sia<br />

nella sentenza in esame, sia con maggiore ampiezza nella contestuale sentenza costituzionale n. 394 del 2006: «il<br />

principio della retroattività in mitius è legato ad una concezione oggettivistica del diritto penale, che emerge dal<br />

complessivo tessuto dei precetti costituzionali . Se la valutazione del legislatore in ordine al disvalore del fatto muta -<br />

nel senso di ritenere che quel presidio non sia più necessario od opportuno; o che sia sufficiente un presidio meno<br />

energico - tale mutamento deve riverberarsi a vantaggio anche di coloro che abbiano posto in essere il fatto in un<br />

momento anteriore. Il collegamento del principio della retroattività in mitius al principio di eguaglianza ne segna,<br />

peraltro, anche il limite: nel senso che, a differenza del principio della irretroattività della norma penale sfavorevole ?<br />

assolutamente inderogabile - detto principio deve ritenersi suscettibile di deroghe legittime sul piano costituzionale,<br />

ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli (sentenze n. 74 del 1980 e n. 6 del 1978; ordinanza n. 330<br />

del 1995)».<br />

L'applicabilità del criterio della retroattività favorevole in materia di prescrizione è affermata dalla Corte sulla<br />

premessa della «natura sostanziale della prescrizione», già riconosciuta dalla giurisprudenza sia costituzionale che<br />

ordinaria, e condivisa dalla dottrina dominante (1) . Nella sentenza in esame questa tesi è presentata come risposta a un<br />

problema di interpretazione della legge ordinaria (art. 2 c.p.): «occorre anzitutto stabilire se tra le "disposizioni più<br />

favorevoli al reo", cui si riferisce la citata norma codicistica, debbano rientrare esclusivamente quelle concernenti in<br />

senso stretto la misura della pena, ovvero vi si possano includere anche le norme che, riguardando ulteriori e diversi<br />

profili (come, appunto, la riduzione dei termini di prescrizione del reato), ineriscono al complessivo trattamento<br />

riservato al reo». L'interpretazione accolta dalla Corte è quella più ampia: disposizioni più favorevoli al reo sono «tutte<br />

quelle norme che apportino modifiche in melius alla disciplina di una fattispecie criminosa». Il senso della questione<br />

attiene, più in generale, alla natura delle disposizioni che incidono sulla disciplina di una fattispecie criminosa,<br />

favorevoli o sfavorevoli che siano; ed è una questione che ha rilievo non meramente d'esegesi di una norma<br />

codicistica, ma di individuazione dei principi costituzionali di legittimazione e di controllo della soluzioni legislative.<br />

L'argomentare della Corte perviene, a livello costituzionale, alla medesima conclusione che il sottoscritto ha formulato<br />

come segue, sullo sfondo del regolamento di confini fra diritto sostanziale e processo: «Quali che siano le "dogmatiche<br />

del legislatore", sono da inquadrare e controllare alla stregua dei principi (anche costituzionali) relativi al diritto penale<br />

le discipline che incidono sulla determinazione delle conseguenze d'un commesso reato, cioè sulla punibilità in quanto<br />

materia coperta dal principio di legalità» (2) . Appunto questo è il percorso logico della sentenza in esame, nella parte<br />

che dalle premesse sopra richiamate (natura sostanziale della prescrizione, ed ancoraggio costituzionale del criterio<br />

della retroattività della lex mitior al principio d'eguaglianza) perviene ad impostare il sindacato di<br />

legittimità costituzionale sull'art. 10 l. n. 251 del 2005 alla luce del principio d'uguaglianza.<br />

Ciò significa, da un lato, ammissibilità di principio di "eventuali deroghe" in malam partem, e dall'altro lato l'esigenza<br />

che le deroghe rispecchino criteri di differenziazione compatibili col principio d'uguaglianza. Da qui in avanti, la<br />

sentenza segue un percorso assai discutibile, sia nell'argomentare che nella soluzione del caso concreto.<br />

109


La motivazione della Corte<br />

La massima estraibile dalla motivazione della sentenza in commento, che ne esprime il profilo di novità, è<br />

l'affermazione che «lo scrutinio di costituzionalità ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare alla retroattività di una<br />

norma penale più favorevole al reo deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine<br />

sufficiente che la norma derogatoria non sia manifestamente irragionevole».<br />

La strada che conduce a questa affermazione parte dalla considerazione che il principio di retroattività della lex<br />

mitior «non è affermato soltanto, come criterio generale, dall'art. 2 cod. pen., ma è stato sancito sia a livello<br />

internazionale sia a livello comunitario»; e tale circostanza inciderebbe «sul tipo di sindacato che questa Corte deve<br />

operare quando ad esso la legge voglia derogare».<br />

I luoghi in cui è ravvisata la rilevanza del principio della lex mitior sono l'art. 15 comma 1 Patto int. dir.<br />

civ. e pol., adottato a New York il 16 dicembre 1966 e ratificato e reso esecutivo con l. 25 ottobre 1977, n. 881 (3) ; la<br />

Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, e la sentenza 3 maggio<br />

2005 della Corte di giustizia delle Comunità europee (4) .<br />

Da questi dati la Corte argomenta che «il livello di rilevanza dell'interesse preservato dal principio di retroattività della<br />

lex mitior - quale emerge dal grado di protezione accordatogli dal diritto interno, oltre che dal diritto<br />

internazionale convenzionale e dal diritto comunitario - impone di ritenere che il valore da esso tutelato può essere<br />

sacrificato da una legge ordinaria solo in favore di interessi di analogo rilievo (quali - a titolo esemplificativo - quelli<br />

dell'efficienza del processo, della salvaguardia dei diritti dei soggetti che, in vario modo, sono destinatari della<br />

funzione giurisdizionale, e quelli che coinvolgono interessi o esigenze dell'intera collettività nazionale connessi a<br />

valori costituzionali di primario rilievo)». La soluzione nel caso di specie (di accoglimento della questione di<br />

legittimità costituzionale) poggia su questo stringente criterio, e sulla tesi che la disposizione impugnata,<br />

nell'agganciare la deroga all'irretroattività in mitius al criterio della apertura del dibattimento, avrebbe adottato un<br />

criterio non idoneo a correlarsi significativamente all'istituto della prescrizione ed al complesso delle ragioni che ne<br />

costituiscono il fondamento.<br />

Sulle ragioni della deroga parziale alla retroattività favorevole, introdotta all'ultimo momento nella contrastata riforma<br />

della prescrizione, la sentenza non dice una parola.<br />

Le diverse tipologie di successione di leggi penali<br />

L'argomento chiave, nello sviluppo dell'argomentazione della sentenza in esame, è l'asserito elevato livello di<br />

rilevanza dell'interesse preservato dal principio di retroattività della lex mitior . Nessuna distinzione è<br />

operata (o anche solo presa in esame) entro l'ambito di applicabilità del principio.<br />

Davvero uguale in tutti i casi, il livello di significatività e rilevanza del criterio della lex mitior ? L'espressa<br />

previsione di tale criterio, a livello di legge ordinaria, vale per tutti gli istituti del diritto penale sostanziale, e per tutti<br />

trova fondamento nel principio d'uguaglianza: generale applicabilità "di principio" della disciplina più favorevole, con<br />

possibilità di eventuali deroghe che col principio d'uguaglianza siano compatibili. È a questo punto che entrano in<br />

gioco i livelli di significatività degli interessi in gioco: quello sotteso al criterio della lex mitior , e quello<br />

sotteso all'eventuale deroga. L'articolata disciplina dell'art. 2 c.p. riflette per l'appunto la diversa rilevanza attribuita<br />

dal legislatore a diversi tipi di modifiche in bonam partem: il legislatore distingue fra ipotesi in cui il criterio della<br />

lex mitior trova applicazione incondizionata (abolitio criminis, nonché la sostituzione della pena detentiva<br />

con un diverso tipo di pena, nel comma aggiunto dalla l. n. 85 del 2006), e altre modifiche favorevoli, per le quali è<br />

stato posto il limite del giudicato. Ed un'ulteriore distinzione, nello stesso discorso della sentenza in commento,<br />

emerge nell'iniziale formulazione del problema: la distinzione fra le modifiche concernenti in senso stretto la misura<br />

della pena, e le modifiche che cadano su ulteriori e diversi istituti, come la prescrizione o altre cause d'estinzione del<br />

reato.<br />

Nello sviluppo dell'argomentazione della sentenza in esame, tutte le distinzioni scompaiono: il livello di rilevanza<br />

dell'interesse sotteso alla retroattività della lex mitior viene postulato come identico in qualsiasi caso, nel<br />

senso che, in qualsiasi caso, un'eventuale deroga abbisognerebbe di ragioni giustificative ugualmente (e molto)<br />

stringenti.<br />

Proviamo a distinguere, nell'analisi del problema, le situazioni che la sentenza in commento non ha esaminato in modo<br />

110


distinto.<br />

Cominciamo dall'ipotesi di più netto mutamento di valutazione normativa: l'abolitio criminis. È questa l'ipotesi cui<br />

soprattutto guardano le ragioni giustificative della retroattività della lex mitior , addotte dalla dottrina e<br />

dalla giurisprudenza costituzionale. Ciò che era valutato come illecito viene successivamente valutato come non<br />

penalmente illecito: tenere ferma la punibilità di fatti pregressi sarebbe in contrasto con la concezione oggettivistica<br />

del diritto penale, opportunamente evocata dalla sentenza costituzionale n. 394 del 2006. Di fronte ai casi di autentica<br />

abolitio criminis, l'applicazione incondizionata del criterio della lex mitior , nel sistema del codice penale,<br />

rispecchia una valutazione, da tempo operata dal legislatore, di improponibilità di ragioni giustificative di eventuali<br />

deroghe, cioè di divaricazioni nel trattamento di fatti che, nella valutazione legislativa più aggiornata, sono tutti<br />

accomunati dalla assenza di tipicità (di disvalore) penale. Anche gli interessi legati al passaggio in giudicato di una<br />

sentenza di condanna debbono cedere, di fronte alla radicale inversione delle valutazioni normative operata dalla<br />

lex superveniens abrogatrice. In quest'ambito, il principio di retroattività della lex mitior ha uno statuto<br />

costituzionale fortissimo, sostanzialmente equiparabile a quello del principio di legalità: l'incompatibilità della nuova<br />

con la vecchia valutazione è totale e di solare evidenza, e non lascia spazio ad alcuna possibilità (nemmeno transitoria)<br />

di recupero della vecchia disciplina.<br />

Gli altri casi di modifica in mitius, diversi dalla abolitio criminis, nel testo originario dell'art. 2 c.p. erano tutti<br />

governati dal criterio della lex mitior , con il limite del giudicato. Il giudice delle leggi ha ritenuto che tale<br />

limite sia compatibile col principio d'uguaglianza, argomentando che «l'applicazione delle disposizioni penali più<br />

favorevoli al reo può subire limitazioni o deroghe, sancite non senza una qualche razionale giustificazione da parte del<br />

legislatore ordinario», e che «una pertinente ragione giustificativa consista appunto nell'esigenza di salvaguardare la<br />

certezza dei rapporti ormai esauriti, perseguita statuendo l'intangibilità delle sentenze divenute irrevocabili» (Corte<br />

cost. n. 74 del 1980). Un superamento di questo sistema è stato avviato dalla l. 24 febbraio 2006, n. 85 («Modifiche al<br />

codice penale in materia di reati di opinione»), con un nuovo comma inserito nell'art. 2 c.p.: «se vi è stata condanna a<br />

pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte<br />

immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell'articolo 135» (5) . Questa deroga alla deroga evita<br />

che possa proseguire l'espiazione di una pena detentiva, dopo che la lex superveniens non preveda più un tale<br />

tipo di pena. Ciò va incontro ad un'esigenza fortemente sentita: evitare l'applicazione di pene detentive inflitte con<br />

sentenza irrevocabile, che non siano più compatibili con la legge successiva più favorevole.<br />

Anche le modifiche del trattamento sanzionatorio sottendono mutamenti di valutazione circa la meritevolezza o il<br />

bisogno di pena; mutamenti meno radicali che nel caso di abolitio criminis, ma che possono assumere una forte<br />

consistenza rispetto agli interessi tutelati dal criterio della lex mitior , e pongono prima facie un serio<br />

problema di legittimità di eventuali deroghe. La possibilità di deroga o limitazione all'applicabilità della lex<br />

mitior non è preclusa in assoluto, ma abbisogna d'essere attentamente soppesata nel se e nel quanto, e di essere<br />

fondata su positive, forti ragioni giustificative. In quest'ambito, il valore del giudicato è tradizionalmente considerato<br />

idonea ragione di deroga, ma forti esigenze di garanzia spingono in direzione opposta, soprattutto nel caso di<br />

slittamenti drastici come l'eliminazione o la forte riduzione della pena detentiva.<br />

Il caso di modifiche dei termini di prescrizione è del tutto diverso da quelli fin qui considerati. Contrariamente a<br />

quanto hanno opinato le ordinanze di rimessione e la sentenza costituzionale sulla disposizione transitoria della "legge<br />

ex-Cirielli", un mutamento dei termini di prescrizione non necessariamente esprime un mutamento di valutazione tale<br />

da rendere obsolete le valutazioni sottese alla disciplina previgente; il senso dei mutamenti legislativi è meno univoco<br />

e meno stringente, e (come cercheremo di spiegare) può essere precisato anche dalla previsione di eventuali limiti o<br />

deroghe alla retroattività della lex mitior .<br />

Riforma della prescrizione e ragioni di una disciplina transitoria<br />

Secondo l'ordinanza di rimessione del Tribunale di Bari, modifiche alla disciplina della prescrizione sarebbero «un<br />

mutamento del fatto tipico, esprimendo una differente valutazione del legislatore in ordine al disvalore del reato». La<br />

sentenza in esame cita questa frase nel "Ritenuto in fatto", e non ne fa oggetto di discussione. Orbene, che la<br />

prescrizione attenga al fatto tipico è affermazione in contrasto con qualsiasi modello razionale di teoria generale del<br />

reato; il problema della prescrizione è, per definizione, un problema di punibilità o non punibilità, in ragione del corso<br />

del tempo, di un fatto tipico, antigiuridico, colpevolmente commesso; la costruzione in chiave di improcedibilità, nel<br />

sistema processuale vigente, accentua vieppiù la peculiarità del contesto entro cui si colloca la disciplina della<br />

prescrizione, e la distanza dal contesto dei problemi attinenti alla tipicità ed agli elementi costitutivi dello specifico<br />

disvalore del reato. Sia nel contenuto sostanziale di causa di estinzione del reato, sia sotto il profilo processuale di<br />

causa di improcedibilità, la disciplina della prescrizione è estranea alla definizione del reato e del suo specifico<br />

111


disvalore, e trova collocazione entro il sistema delle risposte al reato.<br />

Quanto ai criteri di determinazione del tempo necessario a prescrivere, il fatto tipico, con il suo disvalore, è uno, uno<br />

non l'unico degli elementi di cui ragionevolmente tiene conto la valutazione del legislatore. La valutazione finale (la<br />

posizione di soglie temporali) è l'esito di un bilanciamento fra ragioni diverse; il disvalore del reato è uno (ovviamente<br />

non l'unico) dei termini del bilanciamento. Sulla bilancia del legislatore (non solo di un legislatore ideale, ma anche,<br />

bene o meno bene, dei legislatori del mondo reale) vengono pesate una pluralità di ragioni che inducono ad attribuire,<br />

a modellare, a variamente limitare la rilevanza al decorso del tempo ai fini della punizione, pur nella persistenza della<br />

valutazione di illiceità del fatto contestato. L'equilibrio finale della bilancia, pur segnando il confine fra esiti divaricati<br />

(punibilità o non punibilità, nel modello usuale) non sottende una valutazione dicotomica, in bianco e nero, come le<br />

valutazioni attinenti ai confini fra il lecito e l'illecito, fra il penalmente tipico e il penalmente irrilevante, pur dovendosi<br />

esprimere, per esigenze di certezza, nella posizione di soglie puntuali. Le ragioni da bilanciare non presentano un<br />

panorama in bianco e nero, ma un continuum di sfumature entro cui la posizione di una soglia temporale ha carattere<br />

in qualche misura convenzionale: la soglia temporale dipende anche (o magari prevalentemente) da ragioni tecniche,<br />

di architettura e di praticabilità del modello di disciplina; non è che un ragionevole (secondo la contingente<br />

valutazione del legislatore) punto d'equilibrio dentro un insieme di equilibri possibili, senza pretesa di rappresentare<br />

l'unico equilibrio accettabile fra le ragioni in gioco.<br />

Nei bilanciamenti di ragioni diverse, da cui dipende la ricerca dei punti d'equilibrio rappresentati dai termini di<br />

prescrizione, può venire in rilievo - quando sia introdotta una riforma in mitius - una qualche distinzione fra futuro e<br />

passato? Questo tipo di distinzione che in altri casi (abolitio criminis e abolizione della pena detentiva) è esclusa<br />

dall'art. 2 c.p., e risulterebbe insostenibile alla luce del principio d'uguaglianza, in materia di prescrizione può avere<br />

un idoneo fondamento giustificativo, in alcuni importanti valori in gioco nel problema della prescrizione.<br />

Fra le ragioni che influiscono sulla scelta dei termini di prescrizione, vi è anche la considerazione del bisogno di tempi<br />

per il processo; ciò emerge in modo formale nella disciplina dell'interruzione della prescrizione, ed è un elemento che<br />

può avere rilievo anche nei bilanciamenti sottesi ai termini di base. In occasione di una riforma legislativa che riduca i<br />

tempi necessari a prescrivere, si pone obiettivamente il problema se e come salvare la possibilità di arrivare ad una<br />

sentenza "nel merito" in relazione a fatti pregressi, in processi condotti secondo i tempi consentiti dalla disciplina<br />

vigente all'epoca. Un tale obiettivo è coerente con i valori legati alla funzionalità della giustizia penale (di efficienza<br />

del processo, nel linguaggio della stessa sentenza in commento) rispetto alle finalità di accertamento di reati e<br />

responsabilità, e di adeguato law enforcement. Può un tale obiettivo essere perseguito con una norma transitoria che<br />

"salvi il passato", mantenendo per i fatti pregressi (in tutto o in parte) i più lunghi tempi di prescrizione su cui faceva<br />

affidamento la macchina processuale?<br />

Una norma transitoria, che salvi il passato, fa parte dei bilanciamenti operati dal legislatore in sede di riforma, ed<br />

attesta che i termini di prescrizione previsti in passato, quelli che per il futuro il legislatore ha voluto abbreviare, sono<br />

visti dallo stesso legislatore come non incompatibili con la svolta: l'accelerazione voluta per il futuro si accompagna<br />

con una valutazione del passato che accetta sia pur transitoriamente i vecchi termini di prescrizione, per evitare<br />

estinzioni di massa dei processi pendenti. L'accettazione transitoria di soglie temporali differenziate è in via di<br />

principio compatibile con la natura non dicotomica (nel senso sopra illustrato) delle valutazioni sottese alla disciplina<br />

della prescrizione.<br />

Una siffatta apertura a differenziazioni transitorie sarebbe impensabile in relazione ad altri casi di successione di leggi<br />

in mitius, che tocchino il nucleo fondamentale delle valutazioni sul lecito e l'illecito e sulla natura della reazione<br />

punitiva. Continuare (sia pure transitoriamente) a punire fatti coperti da abolitio criminis, o ad applicare pene detentive<br />

non più previste, sarebbe assiologicamente incompatibile con le nuove valutazioni legislative sul disvalore del fatto e<br />

sulla accettabilità della pena detentiva (o del livello di pena). Differenziare transitoriamente i tempi di prescrizione, per<br />

"salvare" in tutto o in parte il passato, è invece (può essere) una articolazione assiologicamente coerente di<br />

bilanciamenti fra contrapposte ragioni, nel delicato contesto del passaggio da un vecchio a un nuovo sistema.<br />

È una spia significativa della netta differenza assiologica fra diversi tipi di successione di leggi in mitius, il fatto che<br />

nello scorcio finale della XIV Legislatura siano state approvate pressoché contemporaneamente la riforma della<br />

prescrizione contenente la deroga alla retroattività in mitius, e la modifica all'art. 2 c.p., che ha introdotto nuove<br />

ipotesi di superamento del limite del giudicato. Sono, l'una e l'altra, soluzioni fondate su ragioni forti: l'una di<br />

doveroso irrobustimento del principio di retroattività della legge più favorevole, in relazione a innovazioni<br />

significative del sistema sanzionatorio (cioè entro il nucleo duro delle valutazioni sul disvalore penale); l'altra di<br />

contemperamento fra ragioni diverse, nella disciplina di un istituto (la prescrizione del reato) in cui sono in gioco<br />

ragioni che rendono plausibile prima facie un qualche differenziare fra passato e futuro.<br />

Anche a livello internazionale e comunitario, l'affermazione del principio di retroattività in mitius, in tutti i luoghi<br />

112


citati dalla sentenza in esame, è mirata specificamente sul caso di previsione di una pena più lieve; ciò risulta dal testo<br />

stesso delle norme richiamate, e, nella sentenza del 3 maggio 2005 della Corte di giustizia delle Comunità europee nel<br />

caso Berlusconi, dalla natura del problema cui si riferisca l'obiter dictum (6) . In materia di prescrizione, l'esperienza<br />

europea ha visto soluzioni ben diverse, addirittura di retroattività in pejus, come è avvenuto in Germania per evitare la<br />

prescrizione di crimini gravissimi del periodo nazista; il Tribunale costituzionale federale ha affermato (sentenza 26<br />

febbraio 1969) la legittimità costituzionale della legge del 1965 che aveva introdotto una sospensione dei termini di<br />

prescrizione per il periodo dall'8 maggio 1945 al 31 dicembre 1949, argomentando che le norme sulla prescrizione non<br />

sono sottoposte al divieto di retroattività ex art. 103 della Costituzione tedesca.<br />

Le buone ragioni della disciplina transitoria della l. n. 251 del 2005<br />

Tiriamo le somme. La possibilità di ragionevoli differenziazioni di diritto transitorio, in punto di prescrizione, è in<br />

linea con i criteri affermati in via generale dalla giurisprudenza costituzionale in materia di diritto transitorio o<br />

intertemporale (7) . Deroghe alla retroattività in mitius possono poggiare su ragioni forti ("salvare il passato"), e non<br />

trovano ostacolo di principio nelle ragioni che fondano e rendono assai stringente il principio di retroattività in mitius<br />

nel nucleo duro del diritto penale.<br />

Ciò non significa legittimazione di qualsiasi criterio di differenziazione, ma possibilità di differenziare secondo criteri<br />

coerenti con il principio d'uguaglianza. Sotto questo profilo, il criterio della apertura del dibattimento in primo grado si<br />

esponeva a critiche sul piano della coerenza intrasistematica, ancorché non tali, a mio avviso, da risolversi in censura<br />

di illegittimità costituzionale.<br />

La Corte costituzionale ha affermato l'illegittimità del criterio dell'apertura del dibattimento, per la sua asserita<br />

inidoneità a correlarsi significativamente alle ragioni sottostanti alla prescrizione, senza svolgere un'analisi delle<br />

ragioni della deroga alla retroattività in mitius voluta dal legislatore del 2005. Prendendo atto delle mutata situazione<br />

normativa, chiudiamo con una riflessione sulla parte della disposizione transitoria che il dispositivo della sentenza non<br />

ha toccato: irretroattività della lex mitior in punto di prescrizione, relativamente ai giudizi pendenti in appello<br />

o in cassazione.<br />

In quest'ambito, le ragioni della norma transitoria sono chiaramente collegate alla finalità di evitare una falcidia di<br />

processi per delitti gravi, i cui tempi sarebbero stati coerenti con i vecchi termini di prescrizione, ma non con i nuovi e<br />

più ristretti. Un tale effetto è stato documentato da indagini svolte presso la Corte di Cassazione ed altri uffici<br />

giudiziari (8) . Secondo i dati comunicati dalla Corte di Cassazione nell'ottobre 2005, applicando i criteri di cui alla<br />

proposta di legge allora in esame, nei processi pendenti in Cassazione sarebbe (per limitarci ad alcuni esempi) già<br />

maturata la prescrizione per il 23% dei casi di peculato, l'88,8% dei casi di corruzione propria, il 67,4 delle calunnie, il<br />

67% dei maltrattamenti in famiglia, il 65% delle truffe, il 26% delle bancarotte fraudolente; ciò, si noti, nell'ipotesi<br />

irrealistica di una celebrazione immediata, per cui i dati riportati sono sottostimati. È a seguito di queste informazioni,<br />

che il problema di come gestire la transizione dal vecchio al nuovo regime è stato risolto con la norma transitoria<br />

inserita nella fase finale dei lavori parlamentari.<br />

Le parti ancora in vigore della deroga alla retroattività in mitius sono dunque chiaramente e direttamente correlate ad<br />

una forte ragione di salvaguardia della funzionalità della giustizia, di fronte al rischio di una massiccia vanificazione<br />

(impossibilità di portare a compimento gli accertamenti processuali) di un imponente lavoro giudiziario condotto in<br />

passato secondo tempi che facevano affidamento sui tempi di prescrizione vigenti all'epoca. Un rischio di amnistia<br />

surrettizia concernente delitti della fascia medio-alta di gravità, su cui si concentrano gli effetti in mitius (i più<br />

controversi) della riforma del 2005. Un rischio cui sono maggiormente esposti i processi pendenti in grado d'appello o<br />

di cassazione, per i quali è stato già utilizzato un maggiore lasso di tempo, e più prossima, non evitabile, sarebbe la<br />

scadenza del nuovo termine assai più breve.<br />

Ecco dunque l'interesse sotteso alla deroga alla retroattività in mitius, nella parte non toccata dalla sentenza in esame:<br />

l'interesse ad evitare effetti di amnistia surrettizia, massicciamente concentrati nel tempo, in relazione a delitti gravi,<br />

come emergeva dalle informazioni pervenute dalla Corte di cassazione e da altri uffici giudiziari.<br />

Il controllo di legittimità costituzionale su questa disciplina dovrà dunque fondarsi sulla rilevazione di un interesse<br />

sotteso di particolare importanza, e sulla coerenza razionale della deroga di cui alla disposizione transitoria, rispetto<br />

all'interesse che il legislatore ha inteso salvaguardare. La differenziazione poggia su ragioni forti, all'altezza delle<br />

esigenze di positiva giustificazione poste dalla sentenza in commento.<br />

113


Conclusioni<br />

Nelle ordinanze di rimessione vengono rilevate diversificazioni di trattamento di situazioni omogenee (identico reato,<br />

identico tempo del commesso reato) derivanti da casuali diversità dei tempi del processo. Si tratta di effetti che nessun<br />

criterio di delimitazione può evitare, per la semplice ragione che essi sono connaturati all'istituto della prescrizione,<br />

comunque disciplinato: per definizione, la prescrizione discrimina il trattamento penale, in funzione di casuali<br />

diversità nei tempi del processo.<br />

Sotto questo aspetto, emerge una caratteristica peculiare dell'istituto della prescrizione, che rende impossibile riferire<br />

ad esso un criterio su cui proprio il sottoscritto ha richiamato l'attenzione, presentandolo come «regola aurea imposta<br />

dal principio d'uguaglianza (dall'esigenza di una applicazione "uguale per tutti" della legge penale sostanziale)»: i<br />

modi e tempi del procedere debbono essere neutri rispetto alla applicazione degli istituti sostanziali (9) . Questa regola<br />

aurea, che la Corte costituzionale ha applicato in alcune sentenze in tema di sospensione condizionale, non vale per un<br />

istituto che, come la prescrizione, è costruito proprio su differenziazioni di trattamento in funzione del tempo<br />

(compresi i tempi del processo). L'accettazione di trattamenti differenziati, per situazioni identiche sotto ogni altro<br />

aspetto che interessi il diritto sostanziale, è un costo che non è possibile non pagare, là dove si ritengano ineludibili e<br />

prevalenti le ragioni del tempori cedere.<br />

L'istituto della prescrizione per decorso del tempo è dunque strutturalmente discriminatorio per ragioni casuali, ed<br />

anche questo rappresenta un profilo di anomalia, di differenza rispetto agli istituti del nucleo duro del sistema penale<br />

(e per contro un parallelismo con gli istituti della clemenza, pure caratterizzarti dal riferimento a soglie temporali<br />

arbitrarie). Peculiare è anche la funzione dell'istituto: come suggerisce la stessa etichetta (o metafora) di "causa<br />

estintiva", la prescrizione è un estintore, che, non diversamente dagli estintori previsti da un sistema di protezione<br />

dall'incendio, è giusto e necessario collocare a presidio di determinate situazioni, ma che in condizioni di normale<br />

funzionamento del sistema dovrebbe rimanere inattivo. Insomma: se risponde a razionalità e giustizia (a date<br />

condizioni) la previsione legale dell'istituto, ogni sua applicazione concreta è una sconfitta che un sistema efficiente<br />

dovrebbe saper evitare.<br />

Fra le ragioni e i costi della prescrizione, la disciplina transitoria della l. n. 251 del 2005 può essere considerata una<br />

mediazione ragionevole, quanto meno nella parte non toccata dalla sentenza in esame. Un nuovo giudizio su tale<br />

disciplina sarà per la Corte costituzionale una buona occasione di esercitare, meglio di quanto non abbia fatto nella<br />

sentenza in commento, ma senza contraddizione con detta sentenza, l'arte di distinguere: quella che è specificamente<br />

richiesta dal principio d'uguaglianza, e che è per il giurista (e non solo) un'arte essenziale. «Ché quelli è fra li stolti<br />

bene a basso / che sanza distinzione afferma e nega», fa dire il nostro sommo poeta al sommo teologo nel cielo dei<br />

sapienti (10) .<br />

-----------------------<br />

(1) Sia consentito rinviare a Pulitanò, Diritto penale, Torino, 2005, 662 s.<br />

(2) Pulitanò, Sui rapporti fra diritto sostanziale e processo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, 965.<br />

(3)<br />

«Se, posteriormente alla commissione del reato, la legge prevede l'applicazione di una pena più lieve, il colpevole deve<br />

beneficiarne». La sentenza ricorda che a questa disposizione si collega la riserva dell'Italia nel senso dell'applicazione limitata ai<br />

procedimenti in corso, e non anche a quelli nei quali sia intervenuta una decisione definitiva.<br />

(4) Si tratta della sentenza, sui problemi relativi alla riforma del reato di false comunicazioni sociali, CGCE, 3 maggio 2005, C-<br />

387/02, Proc. pen. /Berlusconi e altri, in questa Rivista, 2005, 910 ss., con commento di Riondato, Il falso in bilancio e la sentenza<br />

della Corte di giustizia CE: un accoglimento travestito da rigetto e in Cass. pen., 2005, 2764 s., con nota di Insolera e Manes.<br />

(5) Per una prima lettura, v. in questa Rivista, 2006, 959 ss. e 1197 ss., con commento di M. Pelissero, Osservazioni critiche sulla<br />

legge in tema di reati d'opinione: occasioni mancate e incoerenze sistematiche.<br />

(6) La sentenza in esame dice che si tratta di «caso nel quale il primato del diritto comunitario si assumeva compromesso dalla<br />

retroattività di una disciplina che assicurava al reo un trattamento più favorevole, anche per la riduzione dei termini di prescrizione<br />

conseguente alla riduzione della misura della pena». Ed appunto la riduzione della pena è il profilo cu si è riferita la Corte europea,<br />

là dove ha testualmente affermato esser parte delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri «il principio<br />

dell'applicazione retroattiva della pena più mite».<br />

(7) V. indicazioni in A. Morrone, Il custode della ragionevolezza, Milano, 2001, 193 s.<br />

114


(8) Cfr. in particolare la lettera del Primo Presidente della Corte di cassazione in data 5 ottobre 2005, contenente i dati dell'indagine<br />

effettuata dall'Ufficio del massimario, e la successiva lettera di chiarimenti in data 17 ottobre (documenti pubblicati in<br />

www.giustizia.it).<br />

(9) D. Pulitanò, Tempi del processo e diritto penale sostanziale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2005, 530.<br />

(10) Dante Alighieri, Paradiso, XIII, 115-116.<br />

115


116


SINDACATO DI COSTITUZIONALITA’ IN MALAM PARTEM<br />

Corte cost., 23-11-2006, n. 394<br />

È incostituzionale, per violazione dell'art. 3 Cost., l'art. 100 comma 3 D.P.R. 30 marzo 1957, n. 361<br />

(«Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per l'elezione della Camera dei deputati»), come<br />

sostituito dall'art. 1 comma 1 lett. a legge 2 marzo 2004, n. 61 («Norme in materia di reati elettorali»); è del pari<br />

incostituzionale, per violazione dell'art. 3 Cost., l'art. 90 comma 3 D.P.R. 16 maggio 1960, n. 570 («Testo unico<br />

delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali»), come sostituito<br />

dall'art. 1 comma<br />

Motivi della decisione<br />

1.1. - Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Pescara ed il Giudice dell'udienza preliminare del<br />

medesimo Tribunale dubitano, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 1<br />

della legge 2 marzo 2004, n. 61, nella parte in cui, al comma 2, lettera a), numero 1), ha sostituito il terzo comma<br />

dell'art. 90 del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi<br />

delle Amministrazioni comunali).<br />

I giudici rimettenti impugnano il primo la norma sostituente, e il secondo la norma sostituita. Essi assumono che - col<br />

sottoporre alla sola pena dell'ammenda le falsità in autenticazioni delle sottoscrizioni di liste di elettori o di candidati -<br />

la disposizione censurata avrebbe generato una evidente disparità fra il trattamento sanzionatorio delle predette falsità e<br />

quello, ben più energico, stabilito dagli artt. 476 e 479 del codice penale, per il falso in atti fidefacenti della medesima<br />

efficacia: disparità da ritenere del tutto irragionevole, non potendo ipotizzarsi che l'incidenza sulla materia elettorale<br />

attenui il disvalore del falso.<br />

1.2. - Analoghe censure muove all'art. 1, comma 2, lettera a), numero 1), della legge n. 61 del 2004 il Tribunale di<br />

Roma. Esso rimarca come l'attitudine del falso in liste di candidati a compromettere in modo diretto valori<br />

costituzionalmente garantiti - quale, in primis, la libertà del diritto di voto (art. 48 Cost.) - avrebbe dovuto suggerire non<br />

già un'attenuazione, ma semmai un irrigidimento della risposta punitiva prefigurata in via generale dall'art. 479 cod.<br />

pen. per la falsità in autenticazione di firme.<br />

Sotto tale profilo, il rimettente ritiene quindi leso anche il principio della finalità rieducativa della pena, sancito dall'art.<br />

27, terzo comma, Cost., sul rilievo che la previsione di una sanzione affievolita e non proporzionata, per difetto, alle<br />

capacità di offesa del fatto incriminato, impedirebbe al condannato di percepirne in modo adeguato il disvalore.<br />

1.3. - Il Tribunale di Firenze sottopone a sua volta a scrutinio di costituzionalità l'art. 100, secondo e terzo comma, del<br />

d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei<br />

deputati), come modificato dall'art. 1, comma 1, della legge n. 61 del 2004, sostenendone la contrarietà agli artt. 3 e 25<br />

Cost., nella parte in cui punisce con la pena dell'ammenda da 500 euro a 2.000 euro sia «chiunque commette uno dei<br />

reati previsti dai Capi III e IV del Titolo VII del Libro secondo del codice penale aventi ad oggetto l'autenticazione<br />

delle sottoscrizioni di liste di elettori o di candidati»; sia chi «forma falsamente, in tutto o in parte, liste di elettori o di<br />

candidati».<br />

Il rimettente rimarca preliminarmente - in punto di ammissibilità della questione - come il quesito non sia volto a<br />

provocare né una pronuncia additiva in malam partem, tramite il ripristino di una norma abrogata; né un sindacato su<br />

scelte discrezionali del legislatore, in tema di politica criminale. L'invocata declaratoria di illegittimità costituzionale si<br />

limiterebbe difatti a rimuovere la norma denunciata: con l'effetto di ricondurre le condotte, attualmente incriminate dal<br />

terzo comma del citato art. 100, nella sfera applicativa delle più ampie previsioni punitive racchiuse nel secondo comma<br />

dello stesso articolo e nelle norme del codice penale in tema di falso.<br />

Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo rileva come la norma censurata determini una<br />

serie di incongruenze nel sistema sanzionatorio delle falsità in atti - sia all'interno della categoria dei reati elettorali; sia<br />

in rapporto alla disciplina generale del codice penale - facendo sì che condotte identiche o di pari gravità vadano<br />

incontro a risposte punitive irragionevolmente diversificate.<br />

Priva di razionale giustificazione sarebbe segnatamente, sul primo versante, l'assai più blanda reazione sanzionatoria<br />

alla falsa formazione di liste di elettori o di candidati, prevista dal terzo comma dell'art. 100, rispetto a quella<br />

(reclusione da uno a sei anni) stabilita dal secondo comma dello stesso articolo per la falsa formazione o alterazione di<br />

qualunque altro atto concernente le operazioni elettorali, nonché per la sostituzione, soppressione o distruzione degli atti<br />

in questione o l'uso di atti falsificati, alterati o sostituiti: fattispecie, queste ultime, che potrebbero peraltro avere ad<br />

117


oggetto le stesse liste di elettori o di candidati.<br />

Altrettanto irragionevole, sul secondo versante, risulterebbe la sottoposizione alla sola pena dell'ammenda di un<br />

comportamento idoneo ad incidere sul fondamentale diritto elettorale dei cittadini - quale la falsità in autenticazione<br />

delle sottoscrizioni di liste di elettori o di candidati - quando invece la falsa autenticazione di tutte le altre sottoscrizioni,<br />

ancorché attinenti ad atti di «scarsa rilevanza pubblica», risulta soggetta all'assai più severo regime punitivo dell'art.<br />

479 cod. pen.<br />

Sempre in rapporto alle autenticazioni delle firme, d'altro canto, la tecnica utilizzata dal legislatore nella descrizione<br />

della fattispecie incriminata - consistente nel generico rinvio ai reati previsti da due interi capi del codice penale -<br />

sarebbe lesiva del principio di «chiarezza e tassatività» della norma penale, desumibile dall'art. 25 Cost., non<br />

consentendo di individuare con sufficiente certezza le condotte penalmente represse. Mentre, poi, il conseguente<br />

livellamento quoad poenam - con la previsione dell'identica pena dell'ammenda - di fattispecie, quali quelle comprese<br />

nelle predette partizioni del codice penale, ordinariamente punite con pene significativamente diversificate, si<br />

risolverebbe in un ulteriore vulnus del principio di ragionevolezza.<br />

La compromissione di quest'ultimo emergerebbe, infine, anche dal raffronto con il trattamento sanzionatorio - questa<br />

volta irrazionalmente simile - stabilito dall'art. 106 del d.P.R. n. 361 del 1957, nel testo modificato dallo stesso art. 1<br />

della legge n. 61 del 2004, per una condotta di disvalore assai più tenue, quale la sottoscrizione di più di una<br />

dichiarazione di presentazione di candidatura.<br />

2. - Le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche o analoghe, sicché i relativi giudizi vanno riuniti per<br />

essere definiti con unica decisione.<br />

3. - In via preliminare, va dichiarata l'inammissibilità dell'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri nel<br />

giudizio relativo all'ordinanza di rimessione del Tribunale di Firenze r.o. n. 769 del 2004, in quanto effettuato oltre il<br />

prescritto termine di venti giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell'ordinanza di rimessione.<br />

4. - La questione sollevata dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Pescara è manifestamente<br />

inammissibile.<br />

Il giudice a quo - in sede di udienza preliminare - non è chiamato a determinare la pena in concreto, potendo<br />

esclusivamente prosciogliere o rinviare a giudizio: con conseguente ininfluenza, ex se, del trattamento sanzionatorio<br />

previsto per il reato per cui si procede rispetto alla sua decisione (sentenza n. 295 del 2002 e ordinanza n. 156 del 2000).<br />

Egli motiva, infatti, la rilevanza della questione con la considerazione che la nuova qualificazione contravvenzionale<br />

impressa alla fattispecie criminosa dalla norma impugnata - applicabile ai sensi dell'art. 2, terzo comma, cod. pen.,<br />

quale norma sopravvenuta più favorevole al reo - farebbe sì che il reato risulti prescritto: imponendo di conseguenza la<br />

pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere per tale causa, ex art. 425 cod. proc. pen., anziché il rinvio a<br />

giudizio.<br />

Tuttavia, il rimettente omette di prendere in esame la disposizione dell'art. 100, secondo comma, del d.P.R. n. 570 del<br />

1960, che prevedeva (e continua a prevedere, anche dopo la legge n. 61 del 2004) per tutti i reati contemplati dallo<br />

stesso testo unico - compreso quello di cui all'art. 90, contestato all'imputato nel giudizio a quo - un termine di<br />

prescrizione biennale, identico per durata a quello stabilito per le contravvenzioni punite con la sola ammenda dall'art.<br />

157, primo comma, numero 6), cod. pen. (nel testo vigente alla data dell'ordinanza di rimessione, anteriore alla<br />

sostituzione operata dall'art. 6, comma 1, della legge 5 dicembre 2005, n. 251).<br />

Tale profilo di omessa ponderazione del quadro normativo, incidendo sull'adeguatezza della motivazione sulla<br />

rilevanza, implica dunque la manifesta inammissibilità della questione.<br />

5. - Del pari manifestamente inammissibile è la questione sollevata dal Tribunale di Roma.<br />

Il giudice rimettente, che procede in sede dibattimentale per vari reati, ritiene rilevante la questione unicamente in<br />

rapporto alle falsità in autenticazione delle firme delle dichiarazioni di accettazione della candidatura, relativamente alle<br />

quali è stato contestato agli imputati il reato di falso ideologico in atto pubblico, di cui all'art. 479 cod. pen.: e ciò<br />

sull'assunto che l'eventuale accoglimento della questione consentirebbe di evitare la prescrizione del reato. Alla falsa<br />

autenticazione di sottoscrizioni non sarebbe infatti applicabile - secondo il giudice a quo - il termine prescrizionale<br />

breve di due anni stabilito dall'art. 100 del d.P.R. n. 570 del 1960, trattandosi di condotta non espressamente<br />

contemplata dal testo originario dell'art. 90, secondo comma, del citato decreto, né riconducibile all'ipotesi, già ivi<br />

prevista, della falsa formazione di liste di elettori o di candidati; quest'ultimo convincimento risulterebbe confortato<br />

anche dall'odierno testo del terzo comma dell'art. 90, il quale configura la falsa autenticazione delle firme e la falsa<br />

118


formazione delle liste come condotte fra loro alternative, secondo quanto emerge dall'impiego della disgiuntiva<br />

«ovvero». Di qui la conclusione che - una volta rimossa la norma impugnata - la falsa autenticazione delle firme<br />

ricadrebbe nel paradigma punitivo generale del falso ideologico in atto pubblico, ex art. 479 cod. pen., contestato nella<br />

specie: con conseguente applicabilità del ben più lungo termine di prescrizione ordinario.<br />

Tuttavia, il giudice a quo omette di dar conto, anche solo al fine di contestare la validità degli argomenti addotti a suo<br />

supporto, del costante orientamento della giurisprudenza di legittimità - ribadito anche dopo l'entrata in vigore della<br />

legge n. 61 del 2004 - in forza del quale la fattispecie della falsa formazione di liste di candidati, già contemplata dal<br />

secondo comma dell'art. 90 del d.P.R. n. 570 del 1960, abbracciava, a dispetto dell'assenza in essa di espliciti<br />

riferimenti al falso ideologico, anche l'ipotesi della falsa autenticazione delle sottoscrizioni per la presentazione di dette<br />

liste: con l'effetto di rendere inapplicabile a quest'ultima falsità, in base al principio di specialità (art. 15 cod. pen.), la<br />

norma incriminatrice del codice penale. Tale asserto risultava fondato, in specie, sulla considerazione che le autentiche<br />

delle firme non servono soltanto ad attribuire all'atto una maggiore efficacia probatoria, ma costituiscono l'elemento per<br />

attribuire giuridica esistenza alle dichiarazioni cui accedono: con la conseguenza che il falso - materiale o ideologico -<br />

su tale genere di autentiche incide sulla funzione dell'atto stesso; e viola lo speciale interesse al regolare svolgimento<br />

delle operazioni elettorali, sotteso alla previsione punitiva de qua.<br />

Deve registrarsi pertanto, anche in questo caso, un difetto di adeguatezza della motivazione sulla rilevanza, tale da<br />

rendere il quesito manifestamente inammissibile.<br />

6. - Comune alle residue ordinanze di rimessione è il distinto problema di ammissibilità - che solo il Tribunale di<br />

Firenze si pone e ritiene superabile - connesso al petitum, posto che i rimettenti invocano una modifica peggiorativa del<br />

trattamento sanzionatorio delle fattispecie criminose considerate.<br />

6.1. - Al riguardo, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, all'adozione di pronunce in malam partem in<br />

materia penale osta non già una ragione meramente processuale - di irrilevanza, nel senso che l'eventuale decisione di<br />

accoglimento non potrebbe trovare comunque applicazione nel giudizio a quo - ma una ragione sostanziale,<br />

intimamente connessa al principio della riserva di legge sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost., in base al quale<br />

«nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso» (ex<br />

plurimis, tra le ultime, sentenze n. 161 del 2004 e n. 49 del 2002, n. 508 del 2000; ordinanze n. 187 del 2005, n. 580 del<br />

2000 e n. 392 del 1998; con particolare riguardo alla materia elettorale, ordinanza n. 132 del 1995). Rimettendo al<br />

legislatore - e segnatamente al «soggetto-Parlamento», in quanto rappresentativo dell'intera collettività nazionale<br />

(sentenza n. 487 del 1989) - la riserva sulla scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili, detto<br />

principio impedisce alla Corte sia di creare nuove fattispecie criminose o di estendere quelle esistenti a casi non<br />

previsti; sia di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti comunque inerenti alla punibilità (e così, ad esempio,<br />

sulla disciplina della prescrizione e dei relativi atti interruttivi o sospensivi: ex plurimis, ordinanze n. 317 del 2000 e n.<br />

337 del 1999).<br />

Questa Corte ha peraltro chiarito che il principio di legalità non preclude lo scrutinio di costituzionalità, anche in malam<br />

partem, delle c.d. norme penali di favore: ossia delle norme che stabiliscano, per determinati soggetti o ipotesi, un<br />

trattamento penalistico più favorevole di quello che risulterebbe dall'applicazione di norme generali o comuni. Di tale<br />

orientamento - che trova la sua prima compiuta enunciazione nella sentenza n. 148 del 1983 - questa Corte ha fatto<br />

ripetute applicazioni (sentenze n. 167 e n. 194 del 1993; n. 124 del 1990; n. 826 del 1988), anche in rapporto a questioni<br />

di costituzionalità omologhe a quelle oggi in esame, dirette a conseguire una modifica peggiorativa del trattamento<br />

sanzionatorio di determinate figure di reato (sentenza n. 25 del 1994; v., altresì, le ordinanze n. 95 del 2004 e n. 433 del<br />

1998, con le quali la Corte ha scrutinato direttamente nel merito questioni di tal fatta). Esso si connette all'ineludibile<br />

esigenza di evitare la creazione di «zone franche» dell'ordinamento (così la sentenza n. 148 del 1983), sottratte al<br />

controllo di costituzionalità, entro le quali il legislatore potrebbe di fatto operare svincolato da ogni regola, stante<br />

l'assenza d'uno strumento che permetta alla Corte di riaffermare il primato della Costituzione sulla legislazione<br />

ordinaria. Qualora alla preclusione dello scrutinio di costituzionalità in malam partem fosse attribuito carattere assoluto,<br />

si determinerebbe, in effetti, una situazione palesemente incongrua: venendosi a riconoscere, in sostanza, che il<br />

legislatore è tenuto a rispettare i precetti costituzionali se effettua scelte di aggravamento del trattamento penale, mentre<br />

può violarli senza conseguenze, quando dalle sue opzioni derivi un trattamento più favorevole.<br />

In accordo con l'esigenza ora evidenziata, va osservato che il principio di legalità impedisce certamente alla Corte di<br />

configurare nuove norme penali; ma non le preclude decisioni ablative di norme che sottraggano determinati gruppi di<br />

soggetti o di condotte alla sfera applicativa di una norma comune o comunque più generale, accordando loro un<br />

trattamento più benevolo (sentenza n. 148 del 1983): e ciò a prescindere dall'istituto o dal mezzo tecnico tramite il quale<br />

tale trattamento si realizza (previsione di una scriminante, di una causa di non punibilità, di una causa di estinzione del<br />

reato o della pena, di una circostanza attenuante o di una figura autonoma di reato punita in modo più mite). In simili<br />

frangenti, difatti, la riserva al legislatore sulle scelte di criminalizzazione resta salva: l'effetto in malam partem non<br />

119


discende dall'introduzione di nuove norme o dalla manipolazione di norme esistenti da parte della Corte, la quale si<br />

limita a rimuovere la disposizione giudicata lesiva dei parametri costituzionali; esso rappresenta, invece, una<br />

conseguenza dell'automatica riespansione della norma generale o comune, dettata dallo stesso legislatore, al caso già<br />

oggetto di una incostituzionale disciplina derogatoria. Tale riespansione costituisce una reazione naturale<br />

dell'ordinamento - conseguente alla sua unitarietà - alla scomparsa della norma incostituzionale: reazione che si<br />

verificherebbe in ugual modo anche qualora la fattispecie derogatoria rimossa fosse più grave; nel qual caso a<br />

riespandersi sarebbe la norma penale generale meno grave, senza che in siffatto fenomeno possa ravvisarsi alcun<br />

intervento creativo o additivo della Corte in materia punitiva.<br />

Con riguardo ai criteri di identificazione delle norme penali di favore, questa Corte ha già avuto modo di sottolineare<br />

come occorra distinguere fra le previsioni normative che "delimitano" l'area di intervento di una norma incriminatrice,<br />

concorrendo alla definizione della fattispecie di reato; e quelle che invece "sottraggono" una certa classe di soggetti o di<br />

condotte all'ambito di applicazione di altra norma, maggiormente comprensiva. Solo a queste ultime si attaglia, in effetti<br />

- ove l'anzidetta sottrazione si risolva nella configurazione di un trattamento privilegiato - la qualificazione di norme<br />

penali di favore; non invece alle prime, le quali si traducono in dati normativi espressivi di «una valutazione legislativa<br />

in termini di "meritevolezza" ovvero di "bisogno" di pena, idonea a caratterizzare una precisa scelta politico-criminale»:<br />

scelta cui la Corte non potrebbe sovrapporre - «senza esorbitare dai propri compiti ed invadere il campo riservato<br />

dall'art. 25, secondo comma, Cost. al legislatore» - «una diversa strategia di criminalizzazione volta ad ampliare»,<br />

tramite ablazione degli elementi stessi, «l'area di operatività della sanzione» (sentenza n. 161 del 2004).<br />

Inoltre, la nozione di norma penale di favore è la risultante di un giudizio di relazione fra due o più norme compresenti<br />

nell'ordinamento in un dato momento: rimanendo escluso che detta qualificazione possa esser fatta discendere dal<br />

raffronto tra una norma vigente ed una norma anteriore, sostituita dalla prima con effetti di restringimento dell'area di<br />

rilevanza penale o di mitigazione della risposta punitiva. In tal caso, difatti, la richiesta di sindacato in malam partem<br />

mirerebbe non già a far riespandere la portata di una norma tuttora presente nell'ordinamento, quanto piuttosto a<br />

ripristinare la norma abrogata, espressiva di scelte di criminalizzazione non più attuali: operazione, questa, senz'altro<br />

preclusa alla Corte, in quanto chiaramente invasiva del monopolio del legislatore su dette scelte (sentenze n. 330 del<br />

1996 e n. 108 del 1981; ordinanza n. 175 del 2001).<br />

6.2. - Sulla base di tali premesse, la natura di norme penali di favore delle disposizioni oggi impugnate risulta palese.<br />

Al riguardo, va rilevato come - con gli originari secondo e terzo comma degli artt. 100 del d.P.R. n. 361 del 1957 e 90<br />

del d.P.R. n. 570 del 1960 - il legislatore avesse delineato, entro il corpus dei reati elettorali, due parallele figure<br />

delittuose di falso documentale, valevoli, rispettivamente, in rapporto alle elezioni politiche e alle elezioni<br />

amministrative. Le disposizioni del d.P.R. n. 361 del 1957 - relative alle elezioni della Camera dei deputati - risultano<br />

infatti estese alle elezioni del Senato e dei rappresentanti dell'Italia al Parlamento europeo dagli artt. 27 del decreto<br />

legislativo 20 dicembre 1993, n. 533, e 51 della legge 24 gennaio 1979, n. 18; mentre quelle del d.P.R. n. 570 del 1960 -<br />

concernenti le elezioni comunali - risultano applicabili anche alle elezioni regionali e provinciali, in forza degli artt. 1<br />

della legge 17 febbraio 1968, n. 108 e 8 della legge 8 marzo 1951, n. 122.<br />

Si trattava di figure criminose dalla struttura alquanto eterogenea, le quali accorpavano, allineandole sul piano della<br />

risposta punitiva edittale - attestata su livelli di significativa severità (reclusione da uno a sei anni nell'art. 100 del<br />

d.P.R. n. 361 del 1957; reclusione da due a cinque anni, oltre la multa, nell'art. 90 del d.P.R. n. 570 del 1960, cui si<br />

sostituiva, in entrambi i casi, la reclusione da due a otto anni, oltre la multa, nel caso di fatto commesso da appartenente<br />

all'ufficio elettorale) - plurime ipotesi di falso, che nell'ambito del codice penale formano invece oggetto di<br />

considerazione autonoma e diversificata. E ciò in rapporto tanto al soggetto attivo del reato (che poteva identificarsi in<br />

«chiunque», e dunque sia in un pubblico ufficiale che in un privato); quanto alla condotta (comprensiva, oltre che della<br />

falsificazione e dell'alterazione, anche del falso per soppressione e dell'uso di atto falso); quanto, infine, all'oggetto<br />

materiale (dato che il riferimento alle «liste di elettori o di candidati», alle «schede» - espressamente menzionate<br />

peraltro, in origine, nel solo art. 100 - e agli «altri atti [...] destinati alle operazioni elettorali», era suscettibile di<br />

abbracciare tanto atti pubblici che scritture private).<br />

La giurisprudenza di legittimità appariva costante nel ritenere che le norme incriminatrici in questione - stante la<br />

specificità del loro oggetto sia giuridico che materiale - si ponessero in rapporto di specialità rispetto alle corrispondenti<br />

previsioni punitive del codice penale: escludendo di conseguenza l'applicabilità di queste ultime, nel caso di<br />

convergenza su un medesimo episodio. La giurisprudenza di legittimità - secondo quanto già dianzi ricordato ad altro<br />

fine - era inoltre orientata a ritenere che l'ipotesi della falsa formazione di liste di elettori o di candidati, contemplata<br />

dalle norme stesse, valesse a qualificare penalmente anche la falsa autenticazione delle sottoscrizioni richieste dalla<br />

legge ai fini della presentazione delle candidature o delle liste di candidati; e ciò in accordo con la rimarcata ampia<br />

comprensività che, nel disegno legislativo, caratterizzava, all'interno del settore elettorale, le figure criminose in parola.<br />

120


L'assetto ora descritto è stato modificato dalla legge 2 marzo 2004, n. 61, la quale - nel sostituire le previsioni punitive<br />

de quibus - ha provveduto anzitutto a renderle pienamente omogenee, tanto sul piano della descrizione delle condotte<br />

incriminate, che su quello della risposta sanzionatoria. Il fondamentale elemento di novità consiste, peraltro,<br />

nell'avvenuta estrapolazione dal corpo delle originarie figure delittuose - per il resto riproposte - dei falsi concernenti le<br />

liste di elettori e di candidati, al fine di riservare loro un distinto e assai più mite trattamento sanzionatorio,<br />

configurandoli come contravvenzioni punite con la sola ammenda. Al tempo stesso, nella cornice delle fattispecie<br />

contravvenzionali di nuovo conio, all'ipotesi della «falsa formazione» delle predette liste, già espressamente<br />

contemplata dalle norme novellate, viene affiancata - in termini alternativi («ovvero»); e con peculiare tecnica di<br />

descrizione della condotta incriminata (consistente nel rinvio in blocco ai capi del codice penale concernenti le falsità in<br />

atti e personali) - quella della falsità relativa all'autenticazione delle sottoscrizioni delle liste medesime, in precedenza<br />

non menzionata e che solo in via interpretativa era ritenuta ricompresa nella prima.<br />

In conseguenza di tali operazioni, il secondo comma dei citati artt. 100 e 90 continua quindi a prevedere come delitto,<br />

punito con la pena della reclusione da uno a sei anni - con aumento della stessa da due ad otto anni e con l'aggiunta<br />

della multa da 1.000 a 2.000 euro, nel caso di fatto commesso da persona appartenente all'ufficio elettorale - sia la falsa<br />

formazione, in tutto o in parte, e l'alterazione di schede o altri atti destinati alle operazioni elettorali; sia la sostituzione,<br />

soppressione o distruzione, totale o parziale, dei medesimi atti; sia ancora l'uso, effettuato «scientemente», di atti<br />

falsificati, alterati o sostituiti, anche senza concorso nella commissione del fatto. Per contro, il terzo comma dei citati<br />

articoli punisce, con la sola pena dell'ammenda da 500 a 2.000 euro, sia «chiunque commette uno dei reati previsti dai<br />

Capi III e IV del Titolo VII del Libro secondo del codice penale aventi ad oggetto l'autenticazione delle sottoscrizioni di<br />

liste di elettori o di candidati»; sia chi «forma falsamente, in tutto o in parte, liste di elettori o di candidati».<br />

Tanto premesso, la fattispecie della falsa formazione di liste di elettori o di candidati si pone all'evidenza in rapporto di<br />

specialità rispetto al falso elettorale delineato dall'attuale secondo comma degli artt. 100 e 90, dato che le predette liste<br />

rappresentano una species del genus degli «atti destinati alle operazioni elettorali», ivi menzionati: ciò emerge<br />

inequivocamente, del resto, dall'impiego, nella precedente formulazione dell'art. 90, dell'aggettivo «altri»<br />

immediatamente dopo il riferimento alle liste di elettori o di candidati («forma falsamente, in tutto o in parte, liste di<br />

elettori o di candidati od altri atti destinati dal presente testo unico alle operazioni elettorali»). Analogamente, le falsità<br />

contravvenzionali relative all'autenticazione delle sottoscrizioni di liste di elettori o di candidati costituiscono ipotesi<br />

speciali o rispetto al falso elettorale previsto dal secondo comma degli artt. 100 e 90 citati (nei limiti in cui le si ritenga<br />

riconducibili al paradigma della falsa formazione di «atti destinati alle operazioni elettorali»); ovvero, e comunque,<br />

rispetto alle fattispecie del codice penale richiamate ai fini della descrizione della condotta, da cui le prime si<br />

distinguono unicamente per la specificità dell'oggetto materiale.<br />

Ne deriva che le disposizioni di cui all'attuale terzo comma degli artt. 100 e 90 presentano senz'altro il connotato tipico<br />

delle norme penali di favore. Per il tramite dell'applicazione del principio di specialità, di cui all'art. 15 cod. pen., dette<br />

disposizioni sottraggono, infatti, dall'ambito applicativo di norme più ampie, compresenti nell'ordinamento, talune<br />

fattispecie, allo scopo e con l'effetto di riservare loro un trattamento sanzionatorio (sensibilmente) più mite di quello<br />

altrimenti stabilito da tali norme.<br />

6.3. - Le pronunce di questa Corte che hanno riconosciuto l'ammissibilità del sindacato di costituzionalità sulle norme<br />

penali di favore si sono fatte carico - una volta superato il profilo di ordine sostanziale - anche del profilo di ordine<br />

processuale, connesso alla necessità di verificare l'incidenza della eventuale decisione di accoglimento nel giudizio a<br />

quo.<br />

Il problema è stato affrontato avendo riguardo, in particolare, all'ipotesi in cui il fatto oggetto di giudizio fosse stato<br />

commesso sotto l'impero della norma penale di favore; evenienza, questa, che evoca uno dei fondamentali principi di<br />

garanzia in materia penale, direttamente sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost.: quello di irretroattività della norma<br />

penale sfavorevole.<br />

Ferma restando l'assoluta intangibilità del principio in forza del quale nessun soggetto potrebbe essere condannato, o<br />

condannato a pena più severa, per un fatto che, nel momento in cui è stato commesso, non costituiva per legge reato, o<br />

costituiva un reato meno grave (sentenza n. 161 del 2004), la Corte ha osservato che anche le pronunce concernenti la<br />

legittimità delle norme penali di favore potrebbero comunque influire sull'esercizio della funzione giurisdizionale, sotto<br />

un triplice profilo. In primo luogo, incidendo sulle formule di proscioglimento o, quanto meno, sui dispositivi delle<br />

sentenze penali, i quali dovrebbero imperniarsi sul primo comma dell'art. 2 cod. pen., anziché sulla disposizione<br />

annullata. In secondo luogo, perché anche le norme penali di favore fanno parte del sistema, e lo stabilire in qual modo<br />

il sistema potrebbe reagire al loro annullamento è problema che i singoli giudici debbono affrontare caso per caso. In<br />

terzo luogo e da ultimo, perché non può escludersi che il giudizio della Corte sulla norma penale di favore si concluda<br />

con una sentenza interpretativa di rigetto (nei sensi di cui in motivazione) o con una pronuncia correttiva delle premesse<br />

esegetiche su cui si fonda l'ordinanza di rimessione: donde una serie di decisioni suscettibili di influire sugli esiti del<br />

121


giudizio penale pendente (sentenze n. 25 del 1994; n. 167 e n. 194 del 1993; n. 124 del 1990; 148 del 1983).<br />

6.4. - Nei casi oggetto delle odierne ordinanze di rimessione si discute, tuttavia, esclusivamente di fatti commessi prima<br />

dell'entrata in vigore della norma penale di favore (ergo, quando il fatto era più severamente punito): onde il principio<br />

di irretroattività della norma penale sfavorevole non viene affatto in rilievo. Viene in considerazione, piuttosto, il<br />

distinto principio di retroattività della norma penale più mite: principio che - riconosciuto in strumenti internazionali<br />

(art. 15 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici; v. anche art. 49 della Carta dei diritti fondamentali<br />

dell'Unione europea, proclamata a Nizza nel dicembre 2000, qui richiamata ancorché tuttora priva di efficacia giuridica,<br />

per il suo carattere espressivo di principi comuni agli ordinamenti europei: sentenza n. 135 del 2002) - trova espressione<br />

nell'ordinamento interno, a livello di legge ordinaria, nell'art. 2, secondo comma e seguenti, cod. pen.<br />

In un simile frangente, peraltro, la conclusione dell'ammissibilità della questione si impone a fortiori, e per una ragione<br />

più radicale di quelle dianzi ricordate, riferentisi all'ipotesi di fatto commesso sotto la vigenza della legge più<br />

favorevole.<br />

Infatti, il principio di retroattività della lex mitior ha una valenza ben diversa, rispetto al principio di irretroattività della<br />

norma penale sfavorevole. Quest'ultimo si pone come essenziale strumento di garanzia del cittadino contro gli arbitri<br />

del legislatore, espressivo dell'esigenza della "calcolabilità" delle conseguenze giuridico-penali della propria condotta,<br />

quale condizione necessaria per la libera autodeterminazione individuale. Avuto riguardo anche al fondamentale<br />

principio di colpevolezza ed alla funzione preventiva della pena, desumibili dall'art. 27 Cost., ognuno dei consociati<br />

deve essere posto in grado di adeguarsi liberamente o meno alla legge penale, conoscendo in anticipo - sulla base<br />

dell'affidamento nell'ordinamento legale in vigore al momento del fatto - quali conseguenze afflittive potranno scaturire<br />

dalla propria decisione (al riguardo, v. sentenza n. 364 del 1988): aspettativa che sarebbe, per contro, manifestamente<br />

frustrata qualora il legislatore potesse sottoporre a sanzione criminale un fatto che all'epoca della sua commissione non<br />

costituiva reato, o era punito meno severamente.<br />

In questa prospettiva, è dunque incontroverso che il principio de quo trovi diretto riconoscimento nell'art. 25, secondo<br />

comma, Cost. in tutte le sue espressioni: e, cioè, non soltanto con riferimento all'ipotesi della nuova incriminazione,<br />

sulla quale pure la formula costituzionale risulta all'apparenza calibrata; ma anche con riferimento a quella della<br />

modifica peggiorativa del trattamento sanzionatorio di un fatto già in precedenza penalmente represso. In questi termini,<br />

il principio in parola si connota, altresì, come valore assoluto, non suscettibile di bilanciamento con altri valori<br />

costituzionali. La circostanza che una determinata norma, di rilievo penalistico, sia contraria a Costituzione, non può<br />

comunque comportare - come conseguenza della sua rimozione da parte della Corte - l'assoggettamento a pena, o a pena<br />

più severa, di un fatto che all'epoca della sua commissione risultava, in base alla norma rimossa, penalmente lecito o<br />

soggetto a pena più mite: derivandone, per tale aspetto, un limite al principio della privazione di efficacia della norma<br />

dichiarata costituzionalmente illegittima, enunciato dall'art. 136, primo comma, Cost. e dall'art. 30, terzo comma, della<br />

legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) (sentenza n. 148<br />

del 1983).<br />

Invece, il principio di retroattività della norma più favorevole non ha alcun collegamento con la libertà di<br />

autodeterminazione individuale, per l'ovvia ragione che, nel caso considerato, la lex mitior sopravviene alla<br />

commissione del fatto, al quale l'autore si era liberamente autodeterminato sulla base del pregresso (e per lui meno<br />

favorevole) panorama normativo. In quest'ottica, la Corte ha quindi costantemente escluso che il principio di<br />

retroattività in mitius trovi copertura nell'art. 25, secondo comma, Cost. (ex plurimis, sentenze n. 80 del 1995, n. 6 del<br />

1978 e n. 164 del 1974; ordinanza n. 330 del 1995). Ciò non significa, tuttavia, che esso sia privo di un fondamento<br />

costituzionale: tale fondamento va individuato, invece, nel principio di eguaglianza, che impone, in linea di massima, di<br />

equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi<br />

prima o dopo l'entrata in vigore della norma che ha disposto l'abolitio criminis o la modifica mitigatrice.<br />

Va, tuttavia, precisato che i fatti commessi prima e dopo l'entrata in vigore della norma penale favorevole sono identici<br />

nella loro materialità, ma non sul piano della "rimproverabilità". Altro, infatti, è il porre in essere una condotta che in<br />

quel momento è penalmente lecita o punita in modo mite; altro è porre in essere la stessa condotta in contrasto con la<br />

norma che in quel momento la vieta o la punisce in modo più severo. Il principio della retroattività in mitius è legato,<br />

dunque, ad una concezione oggettivistica del diritto penale, che emerge dal complessivo tessuto dei precetti<br />

costituzionali: a fronte di essa, la sanzione criminale rappresenta non già la risposta alla mera disobbedienza o infedeltà<br />

alla legge, in quanto sintomatica di inclinazioni antisociali del soggetto; quanto piuttosto la reazione alla commissione<br />

di fatti offensivi di interessi che il legislatore, interprete della coscienza sociale, reputa oggettivamente meritevoli di<br />

essere salvaguardati da determinate forme di aggressione col presidio della pena. Se la valutazione del legislatore in<br />

ordine al disvalore del fatto muta - nel senso di ritenere che quel presidio non sia più necessario od opportuno; o che sia<br />

sufficiente un presidio meno energico - tale mutamento deve quindi riverberarsi a vantaggio anche di coloro che<br />

abbiano posto in essere il fatto in un momento anteriore.<br />

122


Il collegamento del principio della retroattività in mitius al principio di eguaglianza ne segna, peraltro, anche il limite:<br />

nel senso che, a differenza del principio della irretroattività della norma penale sfavorevole - assolutamente inderogabile<br />

- detto principio deve ritenersi suscettibile di deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni<br />

oggettivamente ragionevoli (sentenze n. 74 del 1980 e n. 6 del 1978; ordinanza n. 330 del 1995).<br />

Ma soprattutto, per quanto interessa nella specie, è giocoforza ritenere che il principio di retroattività della norma<br />

penale più favorevole in tanto è destinato a trovare applicazione, in quanto la norma sopravvenuta sia, di per sé,<br />

costituzionalmente legittima. Il nuovo apprezzamento del disvalore del fatto, successivamente operato dal legislatore,<br />

può giustificare - in chiave di tutela del principio di eguaglianza - l'estensione a ritroso del trattamento più favorevole, a<br />

chi ha commesso il fatto violando scientemente la norma penale più severa, solo a condizione che quella nuova<br />

valutazione non contrasti essa stessa con i precetti della Costituzione. La lex mitior deve risultare, in altre parole,<br />

validamente emanata: non soltanto sul piano formale della regolarità del procedimento dell'atto legislativo che l'ha<br />

introdotta e, in generale, della disciplina delle fonti (v., con riferimento alla mancata conversione di un decreto-legge,<br />

sentenza n. 51 del 1985); ma anche sul piano sostanziale del rispetto dei valori espressi dalle norme costituzionali.<br />

Altrimenti, non v'è ragione per derogare alla regola sancita dai citati art. 136, primo comma, Cost. e 30, terzo comma,<br />

della legge n. 87 del 1953, non potendosi ammettere che una norma costituzionalmente illegittima - rimasta in vigore, in<br />

ipotesi, anche per un solo giorno - determini, paradossalmente, l'impunità o l'abbattimento della risposta punitiva, non<br />

soltanto per i fatti commessi quel giorno, ma con riferimento a tutti i fatti pregressi, posti in essere nel vigore<br />

dell'incriminazione o dell'incriminazione più severa.<br />

7. - Nel merito, con riferimento alla denuncia di violazione dell'art. 3 Cost., le questioni sono fondate.<br />

7.1. - Per costante giurisprudenza di questa Corte, la configurazione delle ipotesi criminose e la determinazione delle<br />

sanzioni per ciascuna di esse rientrano nella discrezionalità del legislatore. Gli apprezzamenti in ordine alla<br />

"meritevolezza" ed al "bisogno di pena" - dunque sull'opportunità del ricorso alla tutela penale e sui livelli ottimali della<br />

stessa - sono infatti, per loro natura, tipicamente politici: con la conseguenza che un sindacato sul merito delle scelte<br />

legislative è possibile solo ove esse trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell'arbitrio (ex plurimis, tra le<br />

ultime, sentenze n. 144 del 2005 e n. 364 del 2004; ordinanze n. 109, n. 139, n. 212 del 2004; n. 177, n. 206 e n. 234 del<br />

2003), come avviene allorquando la sperequazione normativa tra fattispecie omogenee assuma aspetti e dimensioni tali<br />

da non potersi considerare sorretta da alcuna ragionevole giustificazione (con riguardo alla materia elettorale, sentenza<br />

n. 287 del 2001).<br />

Tale ipotesi ricorre nel caso in esame.<br />

Con riferimento alla prima delle due fattispecie in cui si articolano le disposizioni censurate - quella concernente le<br />

falsità relative all'«autenticazione delle sottoscrizioni di liste di elettori o di candidati» - si coglie una palese<br />

dissimmetria fra il trattamento sanzionatorio riservato a dette falsità e quello previsto, in termini generali, dalle norme<br />

del codice penale in tema di falso, richiamate a fini di descrizione delle condotte incriminate. Così, con riguardo alla<br />

falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale chiamato ad autenticare le firme in questione - ma il rilievo vale,<br />

mutatis mutandis, in rapporto ad ognuna delle altre ipotesi di falso riferibili a tale autentica (quale, ad esempio, la falsità<br />

materiale commessa dal privato, di cui all'art. 482 cod. pen.) - le disposizioni impugnate vengono a sottoporre alla pena<br />

della sola ammenda da 500 a 2.000 euro - comminatoria che rende il reato suscettibile di oblazione c.d. obbligatoria,<br />

mediante pagamento della somma di 666 euro (art. 162 cod. pen.) - un fatto riconducibile, nella generalità dei casi, al<br />

paradigma punitivo del delitto di falsità ideologica di pubblico ufficiale in atto pubblico, represso dall'art. 479 cod. pen.<br />

con la reclusione da uno a sei anni (salvo il possibile aumento previsto dall'art. 476, secondo comma, cod. pen., in<br />

rapporto al falso in atti c.d. fidefacienti).<br />

L'opzione per il modulo della contravvenzione oblabile - di per sé eccentrica, sul piano sistematico, in rapporto a reati<br />

di falso, tanto più ove aventi come oggetto materiale un atto pubblico e come soggetto attivo un pubblico ufficiale -<br />

risulta motivata, nei lavori parlamentari relativi alla legge n. 61 del 2004, con la ritenuta «minore offensività» delle<br />

condotte punite a tal titolo (in questi termini, la relazione della Commissione affari costituzionali della Camera dei<br />

deputati al testo unificato delle proposte di legge n. 1619, n. 2451 e n. 2676, da cui ha tratto origine la riforma).<br />

Occorre, tuttavia, osservare che i reati di falso - e di falso documentale in particolare - hanno natura tipicamente<br />

strumentale. Comune ad essi è difatti la protezione di un bene giuridico "strumentale-intermedio", tradizionalmente<br />

compendiato nella formula della «fede pubblica», intesa quale affidamento dei consociati nella genuinità e veridicità -<br />

ovvero, da altro angolo visuale, nell'efficacia probatoria - di determinate fonti documentali. Questo valore - ed in ciò<br />

risiede appunto la sua "strumentalità" - non è fine a sé stesso, ma rappresenta un mezzo di protezione di beni "finali"<br />

ulteriori, atti ad essere compromessi dalla manipolazione delle predette fonti: beni "finali" che, in rapporto alla loro<br />

variegata caratura (patrimoniale, personale, pubblica, collettiva, ecc.), ben possono contribuire a qualificare, sul piano<br />

del disvalore, le differenti ipotesi di falso.<br />

123


Nella specie, la condotta costitutiva dei due illeciti posti a raffronto - reato generale del codice penale e reato elettorale<br />

specifico di cui al terzo comma degli artt. 100 e 90 - è, per definizione, identica. Nel caso della falsità ideologica<br />

commessa dal pubblico ufficiale, si tratta, in particolare, della falsa attestazione, resa da soggetto abilitato<br />

all'autenticazione delle firme, circa l'avvenuta identificazione del sottoscrittore e circa il fatto che l'apposizione della<br />

firma è avvenuta in sua presenza. Correlativamente, nessuna diversità tra le due fattispecie è ravvisabile sotto il profilo<br />

della lesività del bene "strumentale-intermedio" della fede pubblica: la valenza probatoria - o, per guardare il fenomeno<br />

da altra angolazione, il livello di affidamento - che l'ordinamento ripone nell'autenticazione delle sottoscrizioni di liste<br />

di elettori o di candidati, non differisce, sotto alcun profilo, da quello proprio di qualsiasi altra autenticazione di firme.<br />

A fronte di ciò, il salto sanzionatorio tra le figure criminose in esame - per non essere qualificato come manifestamente<br />

irragionevole - dovrebbe poter trovare giustificazione in considerazioni legate alla diversa pregnanza del bene "finale".<br />

Cioè, lo specifico oggetto materiale del reato elettorale in questione - nel quale risiede l'elemento specializzante rispetto<br />

al reato comune - dovrebbe risultare indicativo del fatto che l'attitudine offensiva del falso si proietta verso un valore di<br />

rango decisamente più basso, rispetto alla media dei beni aggredibili dalla falsa autenticazione di firme.<br />

Senonché, il bene finale tutelato dal reato de quo è di rango particolarmente elevato, anche sul piano della rilevanza<br />

costituzionale, in quanto intimamente connesso al principio democratico della rappresentatività popolare: trattandosi di<br />

assicurare il regolare svolgimento delle operazioni elettorali ed il libero ed efficace esercizio del diritto di voto. In<br />

effetti, proprio la considerazione della particolare pregnanza di tale bene giustifica l'emersione dei reati elettorali come<br />

segmento autonomo dell'ordinamento penale; e spiega - sia pur nella cornice di un sistema tutt'altro che privo di<br />

contraddizioni e disarmonie, in rapporto alle quali questa Corte ha da tempo segnalato l'esigenza di una compiuta<br />

razionalizzazione (sentenze n. 455 del 1998, n. 84 del 1997, n. 121 del 1980 e n. 45 del 1967) - le previsioni extra<br />

ordinem che ne caratterizzano la disciplina (quale, ad esempio, quella dell'art. 100, primo comma, del d.P.R. n. 570 del<br />

1960, secondo cui «qualunque elettore può promuovere l'azione penale, costituendosi parte civile»; ovvero quella degli<br />

artt. 96 del d.P.R. n. 361 del 1957 e 86 del d.P.R. n. 570 del 1960, che puniscono con pene di significativa severità la<br />

corruzione, attiva e passiva, finalizzata ad ottenere la firma per la presentazione di una candidatura, il voto elettorale o<br />

l'astensione, in deroga alla normale non punibilità della corruzione tra privati).<br />

A tale prospettiva si ispira puntualmente, del resto, anche il falso elettorale di cui al secondo comma degli artt. 100 e 90,<br />

quale risulta dalla stessa riforma del 2004. Esso non attua affatto, nel complesso, un abbattimento dei livelli<br />

sanzionatori rispetto alle ordinarie previsioni codicistiche; ma allinea anzi tendenzialmente verso l'alto, rispetto agli atti<br />

elettorali, la risposta punitiva a condotte di falso normalmente diversificate: prevedendo, in specie - anche quando si<br />

tratti di falsità commessa da privato o incidente su documento qualificabile come scrittura privata - una pena edittale<br />

uguale a quella stabilita dagli artt. 476 e 479 cod. pen. per il falso, materiale e ideologico, del pubblico ufficiale in atti<br />

pubblici. Tale pena, d'altra parte, in assenza delle disposizioni censurate, si applicherebbe anche al falso in<br />

autenticazione di sottoscrizioni di liste di elettori o di candidati, ove lo si ritenesse sussumibile - in accordo con la<br />

prospettiva ermeneutica dianzi accennata - nel paradigma della falsa formazione di «atti destinati alle operazioni<br />

elettorali».<br />

7.2. - Per giustificare una così macroscopica differenza di trattamento sanzionatorio, non si potrebbe neppure ritenere<br />

che il falso contravvenzionale contemplato dalle norme impugnate presenti - con riguardo al bene "finale" - un minor<br />

disvalore di condotta: nel senso che, a differenza del falso in altri atti elettorali, esso sarebbe in grado di attentare al<br />

predetto bene solo in modo estremamente tenue.<br />

A tal fine, non varrebbe in particolare sostenere che l'abbattimento della risposta punitiva riflette il ridotto rilievo<br />

assunto, nell'apprezzamento discrezionale del legislatore, dalla formalità della raccolta delle sottoscrizioni per la<br />

presentazione delle liste dei candidati. Apprezzamento del quale sarebbe testimonianza il fatto che la legge n. 61 del<br />

2004 deriva dallo stralcio di un più ampio testo normativo (il ricordato testo unificato delle proposte di legge n. 1619, n.<br />

2451 e n. 2676, predisposto dalla Commissione affari costituzionali della Camera dei deputati), il quale prevedeva<br />

originariamente, nella sua prima parte (art. 1), l'esenzione dal predetto onere per i partiti, movimenti o gruppi politici<br />

rappresentati in Parlamento (esenzione peraltro già contemplata, relativamente all'elezione dei rappresentanti dell'Italia<br />

al Parlamento europeo, dall'art. 12, secondo comma, della legge 24 gennaio 1979, n. 18).<br />

Il nostro sistema elettorale è caratterizzato dalla regola in forza della quale le candidature e le liste di candidati debbono<br />

essere presentate da un numero prefissato di elettori, compreso tra un minimo e un massimo. Tale regola risponde ad<br />

una esigenza di tutela dell'ordinato svolgimento delle operazioni elettorali, evitando un'abnorme proliferazione di<br />

candidature palesemente prive di seguito o, peggio, volte artatamente a disorientare l'elettorato (in proposito, v.<br />

sentenza n. 83 del 1992). Ciò premesso, sarebbe sufficiente osservare che, fin tanto che l'onere di raccolta delle firme è<br />

concretamente contemplato - con la conseguente previsione, altresì, della garanzia della necessaria autenticazione delle<br />

sottoscrizioni dei presentatori, da parte di soggetti a ciò abilitati (v., al riguardo, art. 14 della legge 21 marzo 1990, n.<br />

53, come modificato dall'art. 4 della legge 30 aprile 1999, n. 120) - non è comunque possibile attribuire al falso in tali<br />

124


autenticazioni una rilevanza comparativamente minimale. E ciò per l'evidente ragione che detto falso - consentendo la<br />

partecipazione alla competizione di candidati o di liste che per legge non avrebbero potuto prendervi parte - si traduce<br />

in un artificio idoneo ad inficiare nel suo complesso la regolarità delle operazioni di voto; e che esso può portare, in<br />

concreto, all'annullamento dell'intera consultazione elettorale. Un simile esito non potrebbe certamente qualificarsi<br />

"bagatellare", nel raffronto con la generalità degli eventi lesivi "finali", suscettibili di venir prodotti dagli altri falsi in<br />

autenticazione.<br />

Al di là di ciò, l'intento perseguito dalla parte stralciata del testo normativo - intento realizzato, successivamente alle<br />

ordinanze di rimessione, con riguardo alle elezioni della Camera dei deputati e del Senato, dagli artt. 1, comma 6, e 4,<br />

comma 3, della legge 21 dicembre 2005, n. 270 (Modifiche alle norme per l'elezione della Camera dei deputati e del<br />

Senato della Repubblica), sostitutivi, rispettivamente, dell'art. 18-bis del d.P.R. n. 361 del 1957 e dell'art. 9 del d.lgs. n.<br />

533 del 1993 - non era comunque quello di sopprimere tout court l'onere delle raccolta delle sottoscrizioni per la<br />

presentazione dei candidati e delle liste. L'obiettivo, poi attuato dalla citata novella del 2005, era, invece, quello di<br />

esentare dall'onere in parola determinati soggetti politici, i quali potessero fornire per altra via - segnatamente sulla base<br />

dell'esito di precedenti competizioni elettorali a livello nazionale - garanzie di sufficiente rappresentatività dei candidati<br />

da essi presentati. In tal caso, tuttavia - al lume sia dell'art. 12, quinto comma, della legge n. 18 del 1979 (già vigente<br />

alla data delle ordinanze di rimessione), sia delle disposizioni successivamente introdotte dalla novella del 2005 - la<br />

sottoscrizione degli elettori viene ad essere surrogata da quella del presidente o segretario del partito o gruppo politico,<br />

o di suoi delegati: sottoscrizione che deve essere parimenti autenticata da un notaio o da un cancelliere di tribunale. Con<br />

il risultato che anche le falsità concernenti l'autentica della firma dell'esponente di vertice del partito o del gruppo<br />

politico potrebbero beneficiare di fatto, contro ogni logica, del trattamento largamente preferenziale stabilito dalle<br />

disposizioni censurate.<br />

Va aggiunto, ancora, che a fronte del tenore di siffatte disposizioni, il denunciato regime di favore investe non soltanto<br />

le autenticazioni delle firme dei presentatori delle liste, ma anche i falsi inerenti all'autenticazione - essa pure prescritta<br />

dalla legge elettorale (v., attualmente, artt. 18-bis del d.P.R. n. 361 del 1957 e 28 del d.P.R. n. 570 del 1960) - delle<br />

dichiarazioni di accettazione della candidatura da parte dei candidati. L'attitudine lesiva di tali falsi risulta ancor più<br />

evidente ed immediata, trattandosi di manovra che può indurre gli elettori a votare per persone che non hanno mai<br />

inteso candidarsi per quella lista, disperdendo e rendendo così inutile il loro voto (oltre, naturalmente, a vulnerare il<br />

libero esercizio del diritto di elettorato passivo da parte dei candidati falsamente indicati).<br />

7.3. - Va sottolineata, infine, l'ulteriore, profonda sperequazione di trattamento sanzionatorio venutasi a creare, per<br />

effetto delle norme in parola, fra le condotte di falso inerenti alle firme delle dichiarazioni di presentazione di candidati,<br />

da un lato; e le condotte di corruzione, attiva e passiva, violenza o minaccia e abuso di attribuzioni da parte di soggetti<br />

pubblici o ministri di culto, finalizzate all'ottenimento delle medesime firme, dall'altro, posto che queste ultime<br />

integrano tuttora delitti puniti con pene detentive di apprezzabile severità (artt. 96, 97 e 98 del d.P.R. n. 361 del 1957;<br />

artt. 86, 87 e 88 del d.P.R. n. 570 del 1960).<br />

Anche tale sperequazione si rivela, in effetti, manifestamente priva di razionale giustificazione, in una cornice di<br />

sistema. Chi dà o promette ad un elettore una qualsiasi utilità affinché firmi una presentazione di candidatura ad<br />

elezioni politiche - fatto che in base alle norme comuni sarebbe privo di rilievo penale, non essendo la corruzione di<br />

privato ordinariamente sanzionata - risponde di un delitto punito con la reclusione da uno a quattro anni, oltre la multa<br />

(art. 96 del d.P.R. n. 361 del 1957); il pubblico ufficiale che autentichi falsamente la firma del medesimo elettore,<br />

facendolo figurare come sottoscrittore della lista senza o contro la sua volontà - fatto che normalmente integrerebbe il<br />

delitto di cui all'art. 479 cod. pen. - risponde di una mera contravvenzione oblabile.<br />

7.4. - Considerazioni similari possono svolgersi anche in rapporto alla seconda fattispecie contemplata dalle norme<br />

sottoposte a scrutinio - quella della falsa formazione di liste di elettori o di candidati (intesa come residuale rispetto alle<br />

falsità inerenti all'autentica delle sottoscrizioni) - nel confronto con il regime previsto, per la generalità dei falsi in<br />

materia elettorale, dal secondo comma degli artt. 100 del d.P.R. n. 361 del 1957 e 90 del d.P.R. n. 570 del 1960, il<br />

quale, come già rimarcato, irrigidisce nel complesso - e non già attenua - il trattamento sanzionatorio prefigurato dalle<br />

corrispondenti norme del codice penale.<br />

Lo scarto nella risposta punitiva è, anche per questo verso, di dimensioni tali da apparire manifestamente irragionevole:<br />

non essendo sostenibile che la falsità in questione abbia potenzialità lesive del bene giuridico protetto - di rilievo<br />

costituzionale - nettamente inferiori alla media di quelle inerenti agli altri atti destinati alle operazioni elettorali. Infatti,<br />

riguardo alla predisposizione di false liste di candidati, valgono rilievi analoghi a quelli dianzi svolti per le falsità in<br />

autenticazione, circa l'idoneità della manipolazione ad inficiare nel suo complesso la regolarità della competizione e a<br />

creare le premesse per la vanificazione dei voti espressi dagli elettori a favore di quelle liste; a sua volta, la<br />

falsificazione delle liste elettorali - atti che hanno natura pubblica - può essere strumento di perpetrazione di brogli<br />

elettorali.<br />

125


7.5. - Non si potrebbe neppure fondare la macroscopica differenza di sanzioni, dianzi evidenziata, su una pretesa<br />

distinzione tra falsità rispettivamente inerenti alla fase «preparatoria» del procedimento elettorale, ed alle fasi<br />

«costitutiva» e di verifica dei risultati di esso: e ciò in base alla considerazione che nel primo caso la regolarità delle<br />

operazioni elettorali verrebbe lesa solo in termini collettivi e potenziali (facendo sì che alla competizione concorrano<br />

liste o candidati che avrebbero dovuto esserne esclusi, ma senza l'attribuzione ad essi di voti non espressi dagli elettori);<br />

mentre nel secondo caso la condotta incide direttamente sulla manifestazione individuale ed effettiva del diritto di voto.<br />

Al riguardo, basta osservare che le falsità nella formazione delle liste non esauriscono il novero dei possibili falsi<br />

incidenti sulla fase preparatoria; che tale considerazione non varrebbe comunque a giustificare lo scarto sanzionatorio<br />

rispetto alle figure di falso del codice penale; che, ancora, in relazione alle altre forme di interferenza illecita<br />

(corruzione, violenza, minaccia, abuso di poteri), i citati artt. 96, 97 e 98 del d.P.R. n. 361 del 1957 e 86, 87 e 88 del<br />

d.P.R. n. 570 del 1960 equiparano pienamente - nell'ambito di unitarie fattispecie delittuose - le dichiarazioni di<br />

presentazione delle candidature all'espressione del voto e all'astensione da esso, senza operare, dunque, alcuna cesura<br />

fra fase preparatoria e fasi successive.<br />

7.6 - Infine, le disposizioni censurate determinano un'ulteriore manifesta incongruenza, denunciata dal Tribunale di<br />

Firenze. La falsa formazione delle liste - a differenza delle falsità in autenticazione (in rapporto alle quali sono<br />

richiamate dalle norme in esame anche le disposizioni degli artt. 489 e 490 cod. pen.) - viene ad essere assoggettata ad<br />

una pena incomparabilmente più mite rispetto all'uso delle liste falsificate e alla sostituzione, soppressione o distruzione<br />

di liste vere: condotte, queste ultime, che - proprio perché le liste rappresentano una species del genus degli atti<br />

«destinati alle operazioni elettorali» - continuano ad integrare il delitto di cui al secondo comma degli artt. 100 e 90. E<br />

ciò quantunque si tratti, con ogni evidenza, di fattispecie equiparabili, o comunque non significativamente dissimili, sul<br />

piano del disvalore, come attestano le citate corrispondenti previsioni del codice penale, le quali, anzi, reprimono l'uso<br />

di atto falso in modo attenuato rispetto alla falsificazione.<br />

8. - Gli ulteriori profili di asserita compromissione degli artt. 3 e 25 Cost. dedotti dal Tribunale di Firenze restano<br />

assorbiti.<br />

Conclusivamente, va dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 100, terzo comma, del d.P.R. n. 361 del 1957 e<br />

dell'art. 90, terzo comma, del d.P.R. n. 570 del 1960, come sostituiti dall'art. 1 della legge n. 61 del 2004.<br />

P.Q.M.<br />

LA CORTE COSTITUZIONALE<br />

riuniti i giudizi,<br />

1) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 100, terzo comma, del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del<br />

testo unico delle leggi recanti norme per l'elezione della Camera dei deputati), come sostituito dall'art. 1, comma 1,<br />

lettera a), della legge 2 marzo 2004, n. 61 (Norme in materia di reati elettorali);<br />

2) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 90, terzo comma, del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico delle<br />

leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali), come sostituito dall'art. 1, comma<br />

2, lettera a), numero 1), della citata legge n. 61 del 2004;<br />

3) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 90 del citato d.P.R. n. 570<br />

del 1960 e dell'art. 1, comma 2, lettera a), numero 1), secondo capoverso, della medesima legge n. 61 del 2004,<br />

sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Giudice dell'udienza preliminare del<br />

Tribunale di Pescara e dal Tribunale di Roma con le ordinanze indicate in epigrafe.<br />

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 novembre 2006.2 lett. a n. 1<br />

legge n. 61 del 2004.<br />

126


127


128


LA CONDIVISIBILE "RAGIONEVOLEZZA" SULLE NORME PENALI DI FAVORE<br />

La Rosa Mario<br />

Corte cost., 23 novembre 2006, n. 394<br />

FONTE
Dir. Pen. e Processo, 2007, 3, 324<br />

Sommario: La quaestio iuris: l'ammissibilità del sindacato di legittimità sulle norme penali di favore - La definizione<br />

di norma penale di favore - L'irretroattività e il favor rei - Il giudizio di "ragionevolezza"<br />

La sentenza in epigrafe rappresenta, per un verso, una conferma in tema di ammissibilità di questioni di legittimità<br />

costituzionale su norme penali di favore, per altro verso, una piacevole sorpresa quanto all'accoglimento del petitum<br />

nel merito.<br />

Prima di entrare in medias res e soffermarsi sui profili appena indicati, un corretto ordine espositivo impone una<br />

breve ricostruzione del ritenuto in fatto, quale presupposto per le argomentazioni e le conclusioni cui perviene la<br />

Corte.<br />

Più ordinanze di remissione aventi ad oggetto la medesima materia hanno investito la Consulta, che ha proceduto ad<br />

una riunione dei relativi giudizi. Essa, successivamente, ha dichiarato manifestamente inammissibili le questioni<br />

sollevate dal Tribunale di Pescara e di Roma ed ha, invece, dato seguito a quanto richiesto dal Tribunale di Firenze<br />

con una pronuncia di accoglimento. Gli artt. 100 comma 3 d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, e 90 comma 3 d.P.R. 16<br />

maggio 1960, n. 570, come sostituiti dall'art. 1 l. 2 marzo 2004, n. 61, infatti, avrebbero determinato un'ingiustificata<br />

disparità di trattamento tra falsità che attengono all'autenticazione delle sottoscrizioni di liste elettorali e di<br />

candidature o alla formazione delle predette liste e falsità in atti aventi la medesima efficacia, ma afferenti a materia<br />

diversa da quella elettorale. Il riferimento è ai delitti di falso ex artt.476 e 479 c.p., che vengono richiamati<br />

espressamente dalle disposizioni sub iudice - «chiunque commette uno dei reati previsti dai Capi III e IV del Titolo<br />

VII del Libro II del codice penale» - solo per indicare le condotte punibili, non anche la pena. Alla reclusione da 1 a<br />

6 anni per le falsità materiale e ideologica commesse dal pubblico ufficiale in atto pubblico si contrapponeva<br />

l'ammenda da 500 a 2 mila euro per le contravvenzioni in ambito elettorale. A fattispecie identiche e di pari gravità<br />

corrispondevano dunque risposte sanzionatorie evidentemente disomogenee.<br />

A sostegno dell'irragionevolezza della disciplina al vaglio di costituzionalità, viene altresì chiamata in causa dal<br />

giudice a quo la prima parte della previsione generale di cui ai rispettivi comma 2 degli artt. 100 d.P.R. n. 361 del<br />

1957 e 90 d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570, che, sebbene modificata dalla l. n. 61 del 2004, mantiene la pena della<br />

reclusione da 1 a 6 anni.<br />

Il declassamento dei falsi elettorali da delitti a contravvenzioni ad opera della predetta legge ha dato vita ad una<br />

depenalizzazione di fatto, stante la consistente riduzione dei termini prescrizionali, nonché la possibilità di ricorrere<br />

all'oblazione (1) .<br />

A ben guardare, peraltro, tale riforma si muove in una direzione opposta ad altri interventi novellistici in tema di<br />

falsità, per esempio quello in materia di immigrazione. Opportunamente è stato sottolineato come le modifiche<br />

apportate dalla l. 30 luglio 2002, n. 189 al d.lgs. n. 386 del 1998 - precisamente all'art. 5 comma 8 - sposino una<br />

soluzione politico-criminale tutt'altro che orientata a bagatellizzare le falsità, sicché vi sarebbe un motivo in più per<br />

considerare irragionevole quanto previsto dalla l. n. 61 del 2004 (2) .<br />

La quaestio iuris: l'ammissibilità del sindacato di legittimità sulle norme penali di favore<br />

Preliminare a qualunque valutazione in ordine alla violazione dell'art. 3 Cost., in punto di ragionevolezza, è il<br />

giudizio circa l'ammissibilità o meno della questione di legittimità costituzionale su norme penali di favore.<br />

Sul punto, dopo la nota pronuncia n. 148 del 2 giugno 1983 (3) , la posizione della Corte è decisamente salda<br />

nell'ammettere il sindacato su norme penali di favore, purché ciò non si risolva in una surrettizia creazione di nuove<br />

disposizioni incriminatrici o, ancora, in un ampliamento o aggravamento di figure di reato già esistenti, con ricadute<br />

sfavorevoli sull'imputato (4) . Il limite invalicabile è sancito dal principio di stretta legalità - sub specie riserva<br />

129


assoluta di legge - che traccia i confini tra i poteri dello Stato (5) .<br />

La decisione n. 394 del 2006 non tradisce tale assunto, segnando piuttosto un momento di continuità con<br />

l'orientamento che non riserva "zone franche" al vaglio di costituzionalità (6) . Tuttavia qualcosa di significativo si è<br />

verificato: non solo si supera la soglia dell'ammissibilità, ma, per la prima volta, si procede alla dichiarazione<br />

d'illegittimità costituzionale di una norma di favore. Si apre così uno scenario - quello della reviviscenza della<br />

disciplina previgente o dell'attrazione del fatto nella sfera di operatività di una figura di reato in vigore - sinora<br />

sconosciuto alla prassi ma, al contempo, oggetto di attenzione da parte di illustri studiosi già dai primi anni '50 (7) .<br />

Nel caso in esame si assiste non all'introduzione di nuove ipotesi incriminatrici, quanto piuttosto alla reazione<br />

fisiologica dell'ordinamento penale, che, alla luce della rimozione di una previsione normativa, colma lo spazio<br />

lasciato scoperto attraverso la riespansione di una fattispecie a carattere generale che permette al sistema di<br />

funzionare a regime, evitando gli squilibri di un vuoto legislativo. I giudici della Consulta, inoltre, precisano che si<br />

tratta di una normale risposta dell'ordinamento alla declaratoria d'incostituzionalità. Ciò, invero, avviene anche<br />

quando ad essere colpita è una norma penale di sfavore (8) .<br />

La definizione di norma penale di favore<br />

Seguendo lo sviluppo logico della sentenza in commento, a questo punto è opportuno esaminare la relazione tra<br />

norme penali di favore e normativa favorevole. Da una lettura sommaria dei precedenti giurisprudenziali<br />

sull'argomento si riscontra una certa refrattarietà ad affrontarlo. I giudici costituzionali sono soliti trincerarsi dietro<br />

dichiarazioni d'inammissibilità della questione di legittimità, affermando che in materia penale è precluso alla Corte<br />

ogni intervento additivo in malam partem (9) . Talora, invece, la distinzione tra le due categorie - norme penali di<br />

favore e normativa favorevole - è considerata superflua, priva di senso. A titolo esemplificativo, si consideri, per<br />

esempio, la decisione n. 194 del 1993, nella parte in cui afferma che «le pronunce di legittimità delle norme penali di<br />

favore o comunque più favorevoli all'imputato influiscono o possono influire sul conseguente esercizio della<br />

funzione giurisdizionale» (10) .<br />

È in occasione del giudizio di legittimità costituzionale sul falso in bilancio (11) che la Consulta, nel respingere con<br />

forza in punto di ammissibilità la richiesta avanzata, tra gli altri, dal Tribunale di Milano (12) , si sofferma in<br />

particolare sull'esatta definizione di norma penale di favore.<br />

Sono tali - si legge - quelle previsioni «che stabiliscono, per determinati soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico<br />

più favorevole di quello che risulterebbe dall'applicazione di norme generali o comuni» contestualmente vigenti.<br />

Pertanto, «l'eventuale ablazione della norma di favore si limita a riportare la fattispecie già oggetto di ingiustificato<br />

trattamento derogatorio alla norma generale dettata dallo stesso legislatore» (13) . La normativa favorevole, invece,<br />

presuppone un rapporto di successione temporale tra disposizioni attuali e previgenti abrogate, entrambe orientate da<br />

scelte politico-criminali differenti (14) .<br />

Sulla base di tale assunto, la Corte correttamente ha escluso in quella sede che le soglie di punibilità di cui agli artt.<br />

2621 e 2622 c.c., indipendentemente dalla loro qualificazione in termini di elementi costitutivi del fatto o di<br />

condizioni di punibilità, potessero inquadrarsi nella categoria delle norme di favore (15) .<br />

È bene precisare, inoltre, come la disuguaglianza che contraddistingue le norme di favore risponda ad una finalità<br />

perseguita dal legislatore, mentre le norme favorevoli prescindono da qualunque fondamento discriminatorio, pur<br />

potendo risolversi in leggi ad personam (16) . Pertanto, mentre «la norma di favore trova il suo tertium comparationis<br />

nella disciplina generale derogata; la norma favorevole è tale solo se rapportata a una aspettativa di legislazione<br />

decisamente severa» (17) .<br />

Alla luce di ciò, la relazione tra le disposizioni allo scrutinio di costituzionalità, come si evince dal dettato della<br />

sentenza, è stata a ragione ricondotta al rapporto tra norme di favore, poiché la caducazione della previsione speciale<br />

determina l'applicazione delle fattispecie di cui agli artt. 476 e 479 c.p. o al comma 2 degli artt. 100 d.P.R. n. 361 del<br />

1957 e 90 d.P.R. n. 570 del 1960. Né c'è da stupirsi se l'esito sia stato di accoglimento totale, poiché, considerata la<br />

recente dichiarazione d'illegittimità costituzionale dell'art. 10 comma 3 l. n. 251 del 2005 (nota come "ex Cirielli"),<br />

limitatamente alle parole «dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del<br />

dibattimento» (18) , il petitum relativo ai falsi elettorali sembra a maggior ragione meritevole di placet.<br />

A riguardo, onde evitare fraintendimenti, pare doveroso precisare come il paragone di cui sopra non vada letto nel<br />

senso di un'identità di profili tra le questioni in tema di prescrizione e di reati elettorali. Nel primo caso, infatti,<br />

130


trattandosi di una disciplina di diritto transitorio e volendo prescindere da valutazioni in ordine alla ragionevolezza<br />

del limite costituito dall'apertura del dibattimento (19) , la Corte si è spinta ben oltre le sue competenze. Essa, cioè, ha<br />

sovvertito l'indirizzo di politica legislativa dettato, almeno così è stato presentato, da esigenze di corretto<br />

funzionamento della macchina giudiziaria, avuto riguardo soprattutto ai processi già avviati. Si è assistito, insomma,<br />

all'assunzione da parte della Consulta di un potere di scelta (che non le spettava) sul «momento processuale idoneo a<br />

separare il nuovo e il vecchio regime» (20) .<br />

Non sembra, poi, che la stessa "invasione di campo" caratterizzi Corte cost. 8 novembre 2006, n. 394 (21) .<br />

L'irretroattività e il favor rei<br />

La pronuncia in esame è significativa anche da un altro punto di vista, che può riassumersi nella dicotomia<br />

irretroattività - favor rei. I giudici costituzionali trattano ampiamente del principio d'irretroattività in peius e del<br />

contestuale principio di retroattività in mitius, dimostrando una forte resistenza alle indicazioni, seppur dimesse,<br />

provenienti dalla Corte di giustizia CE (22) . Quest'ultima, dichiarando che «il principio dell'applicazione retroattiva<br />

della pena più mite fa parte delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri» e, a seguire, che il giudice<br />

nazionale deve osservarlo quando applica il diritto nazionale, in quanto esso «deve essere considerato parte<br />

integrante dei principi generali del diritto comunitario», sembra indicare in modo più o meno esplicito una<br />

prevalenza assoluta del favor rei su altri principi di rango costituzionale (23) . Un'affermazione di questo tenore non è<br />

di poco conto, in quanto, ove recepita, avrebbe l'effetto di sbarrare la strada al controllo di costituzionalità su norme<br />

di favore, che, a dispetto della riconosciuta illegittimità, dovrebbero comunque applicarsi per il passato. Così<br />

argomentando, eventuali provvedimenti del legislatore nazionale orientati a garantire impunità sarebbero intoccabili,<br />

quantomeno rispetto a fatti pregressi (24) .<br />

Come già detto, invece, la Corte Costituzionale è pressoché insensibile ai dictata della Corte di giustizia, e<br />

puntualmente coglie nell'uguaglianza il fondamento ed al contempo il limite stesso del principio di retroattività della<br />

legge penale favorevole.<br />

Pertanto, se da un lato sussiste un divieto assoluto di retroattività in peius, tanto che, laddove il fatto oggetto del<br />

giudizio a quo si realizzi sotto la vigenza della norma dichiarata contraria a Costituzione, l'imputato beneficia della<br />

disciplina favorevole (25) ; dall'altro, come avviene nel caso in esame, la commissione del reato prima dell'entrata in<br />

vigore della disciplina di favore, successivamente caducata per illegittimità costituzionale, non è soggetta alla<br />

previsione più mite.<br />

Tale passaggio della sentenza, trattato in seno al profilo di ordine processuale, ben esemplifica le due dimensioni,<br />

sostanziale e procedurale, che sottintendono la declaratoria d'illegittimità costituzionale di una norma.<br />

Come autorevolmente suggerito, è fondamentale non confondere i piani del sindacato di legittimità e delle garanzie:<br />

«altra è la sorte della norma di favore, altra la garanzia che i principi del diritto penale costituzionale possono offrire<br />

agli imputati, circoscrivendo l'efficacia spettante alla eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale» (26) .<br />

Già la celebre sentenza n. 148 del 1983 invitava a non sovrapporre i due momenti. Al giudice delle leggi spetta<br />

valutare la conformità a Costituzione, che, per le norme di favore, si risolve nel rispetto del principio di uguaglianza<br />

(27) ; al giudice ordinario prendere atto della pronuncia e considerarne gli effetti sul giudizio a quo (28) .<br />

Sul punto, la Corte ha voluto ribadire quanto già dalla stessa statuito in occasione della dichiarazione d'illegittimità<br />

costituzionale dell'art. 2 comma 5 c.p., per contrasto con l'art 77 Cost (29) : non si tratta di applicare retroattivamente<br />

la legge sfavorevole, ma piuttosto di dar corso alla previsione vigente al momento del fatto, in ossequio al principio<br />

ordinatore del tempus regit actum (30) .<br />

Ciò avviene in quanto la declaratoria d'incostituzionalità di una norma, non essendo assimilabile alla figura<br />

dell'abrogazione, bensì a quella dell'annullamento, non dà vita ad alcun fenomeno lato sensu riconducibile alla<br />

successione delle leggi nel tempo (31) . Le leggi sotto scrutinio di costituzionalità, infatti, pur essendo suscettibili di<br />

perdere validità, dispiegano comunque effetti giuridicamente rilevanti durante la loro vigenza (32) .<br />

Il giudizio di "ragionevolezza"<br />

131


Il giudizio di ragionevolezza, com'è noto, differisce dal 'tradizionale' controllo sulla legittimità costituzionale di una<br />

norma, poiché non mette a confronto due previsioni, estratte rispettivamente dalla legge e dalla Costituzione, ma si<br />

articola secondo uno schema ternario in cui entrano in relazione la norma impugnata, il principio costituzionale<br />

d'eguaglianza ed un tertium comparationis (33).<br />

Il giudizio di ragionevolezza può risolversi in un sindacato talora di eguaglianza «in senso formale», talora di<br />

«ragionevolezza in senso stretto» (33) . Quest'ultimo, a sua volta, può articolarsi in una valutazione sull'adeguatezza,<br />

ossia sull'idoneità della disposizione normativa a perseguire lo scopo per il quale ha ragione di esistere, o, ancora, sul<br />

bilanciamento tra interessi, nel qual caso ad essere sub iudice è lo squilibrio introdotto da una legge che, per tutelare<br />

un dato valore, impone un sacrificio non giustificato ad un altro (34) . È stato, inoltre, sottolineato come il c.d. giudizio<br />

d'adeguatezza non rappresenti una figura a sé, ma sia piuttosto un "segmento" tanto del sindacato d'eguaglianza,<br />

quanto del sindacato del bilanciamento (35) .<br />

La sentenza in commento conferma tale assunto, poiché ad una prima valutazione sul rispetto del principio di<br />

uguaglianza, avuto riguardo alla diversa soluzione sanzionatoria adottata per i falsi in materia elettorale, si affianca<br />

un giudizio di ordine sistematico sul bene giuridico tutelato dalle fattispecie, ossia la fede pubblica (36) .<br />

Non basta, dunque, rilevare la difformità di disciplina, ma occorre verificare le ragioni della disomogeneità di<br />

trattamento alla luce di un valore terzo; solo così è possibile stabilire «se la discriminazione sia intelligibile,<br />

rilevante, giusta e ragionevole» (37) . Per farlo, il sindacato di uguaglianza non solo si costruisce attorno all'art. 3<br />

comma 1 Cost., ma deve necessariamente richiamare una o più norme costituzionali, le quali trovano espressione<br />

nello spirito legislativo che anima le previsioni "incriminate" (38) .<br />

La tutela dell'affidamento che l'ordinamento pone nell'autenticazione delle sottoscrizioni è sottintesa a tutte le<br />

disposizioni in tema di falsità; per di più, nel caso di specie, si aggiunge la «rilevanza costituzionale () del libero ed<br />

efficace esercizio del diritto di voto e del regolare svolgimento delle operazioni elettorali» (art. 48 Cost.)<br />

«intimamente connessi al principio democratico della rappresentatività popolare» (art. 1 Cost.) (39) . Pertanto, in<br />

assenza di altri valori costituzionali bilanciabili con il principio appena indicato, che possono rendere giustificata la<br />

deroga stabilita per i falsi elettorali, non resta che riportare le disposizioni de quibus all'interno del nucleo comune di<br />

appartenenza - la Corte utilizza l'espressione «in una cornice di sistema» - ossia l'eadem ratio legis (40) .<br />

Il tertium comparationis, quindi, «diventa un punto di riferimento obbligatoper razionalizzare la verifica» (41) , un<br />

ausilio nel giudizio di ragionevolezza. Diversamente, le argomentazioni pro o contro l'adeguatezza di una norma si<br />

troverebbero prive di fondamenta.<br />

La declaratoria d'incostituzionalità di cui si tratta non crea spazi di nuova incriminazione, ma ricalibra<br />

un'ingiustificata disparità di trattamento. L'esito del giudizio risponde ad un'esigenza di uniformità di disciplina che<br />

pare scontata anche a chi si accosti al tema da profano. Le previsioni dissonanti sembrano il frutto di un errore da<br />

parte di un legislatore irrazionale, che si contraddice. In questo senso, basti solo rilevare, come peraltro fa la Corte,<br />

l'immutato regime sanzionatorio di comportamenti che gravitano in prossimità, se non nella stessa area di illiceità,<br />

quali, tra le altre, «le condotte di corruzione attiva e passiva, violenza o minaccia e abuso di attribuzione da parte di<br />

soggetti pubblici o ministri di culto, finalizzate all'ottenimento delle medesime firme» (punto 7.3 della sentenza in<br />

commento).<br />

Tra le righe si può leggere anche un riferimento implicito al principio di proporzione (punto 7.2. della sentenza in<br />

commento) (42) , in quanto l'eguaglianza va garantita sia «in senso orizzontale», che «in senso verticale» (43) . Non<br />

basta solo definire l'ambito operativo di una fattispecie, ma occorre anche che il tipo e l'intensità della sanzione siano<br />

proporzionati al disvalore della stessa. In questo senso, «il principio di eguaglianza richiede in sé il rispetto del<br />

principio di proporzione» (44) .<br />

Al termine di queste brevi note, pare opportuno raccogliere il suggerimento di guardare al giudizio di<br />

"ragionevolezza" da un angolo prospettico che non sia quello del penalista, ossia del rapporto tra la Corte ed il<br />

legislatore (45) , ma del costituzionalista, quindi della relazione tra legislatore e giudice ordinario, in cui la Corte gioca<br />

il ruolo di arbitro (46) . Come tale, essa deve mediare tra «l'erigere un muro alle richieste dei giudici», precludendo<br />

così qualsiasi giudizio sulla discrezionalità del legislatore, anche quando questa assuma le forme di una manifesta<br />

irragionevolezza, e la tendenza contraria a vestire i panni di «un censore sistematico delle scelte del legislatore»: ne<br />

vale la sua legittimazione (47) . La sentenza qui commentata sembra in linea con l'equilibrio richiesto, sicché, sebbene<br />

non mancheranno voci contrarie, la legittimazione della Corte ne esce tutt'altro che indebolita.<br />

Quanto più rigido è un principio, tanto più angusti saranno i margini di azione del legislatore, così come della Corte<br />

e, conseguentemente, limitate le situazioni di tensione; diversamente, come nel caso del principio di uguaglianza sub<br />

132


specie ragionevolezza, le frizioni tra i poteri si acuiscono in ragione della sua flessibilità (48) . D'altronde, laddove si<br />

riconoscesse una resistenza assoluta dinanzi a norme di favore contrarie al canone dell'uguaglianza (49) , non<br />

resterebbe altro da fare che riporre nel solo referendum abrogativo - quando ammesso dalla Costituzione - le<br />

rimanenti speranze di un ripristino dell'equilibrio costituzionale violato (50) .<br />

-----------------------<br />

(1) Per un primo commento sulla l. n. 61 del 2004, v. Bartoli, Reati elettorali: una "piccola" riforma dalle "grandi conseguenze", in<br />

questa Rivista, 2004, 801 ss; in giurisprudenza si segnala la prima pronuncia dopo l'entrata in vigore della legge predetta: Cass.,<br />

Sez. III, 26 maggio 2004, n. 28125, G., in Cass. pen., 2004, 3587 ss, con nota di Natalini, Reati elettorali e ius superveniens,<br />

un'amnistia mascherata?, il quale sottolinea come la brevità del termine prescrizionale avrebbe quantomeno dovuto essere<br />

bilanciata dalla devoluzione della materia alla competenza del giudice di pace, tenuto conto della maggiore agilità e celerità del<br />

processo dinanzi alla giurisdizione onoraria.<br />

(2) Così Bartoli, op. cit., 803.<br />

(3) Corte cost., 3 giugno 1983, n. 148, in Foro it., 1983, I, 1800, con note di Gironi, Le guarentigie del Consiglio superiore della<br />

magistratura e Pulitanò, La "non punibilità" di fronte alla Corte costituzionale.<br />

(4) In questo senso, tra le tante, Corte cost., 4 maggio 2005, n. 187, in Giur. cost., 2005, 1670 ss; Corte cost., 15 marzo 2002, n. 49,<br />

ivi, 2002, 585 ss.; Corte cost., 20 novembre 2000, n. 508, ivi, 2000, 3969 ss; Corte cost., 9 giugno 2000, n. 183, ibidem, 1595 ss;<br />

Corte cost., 20 luglio 2000, n. 317, ibidem, 2378 ss; Corte cost., 20 luglio 1999, n. 337, ivi, 1999, 2663 ss; Per una trattazione<br />

puntuale degli orientamenti della Corte costituzionale in tema di sindacabilità su norme penali di favore, da ultimo, cfr. M.<br />

D'Amico, Ai confini (nazionali e sopranazionali) del favor rei, Relazione introduttiva, in AA.VV., Ai confini del favor rei. Il falso<br />

in bilancio davanti alle Corti costituzionale e di giustizia, a cura di R. Bin-G. Brunelli-A. Pugiotto-P. Veronesi, Torino, 2005, 12<br />

ss; Marinucci, Irretroattività e retroattività nella materia penale: gli orientamenti della Corte costituzionale, in AA.VV.,<br />

Giurisprudenza costituzionale e diritto penale, a cura di Vassalli, Napoli, 2006, 84 ss.<br />

(5) Per tutti Insolera, Democrazia, ragione e prevaricazione, Milano, 2003, 17 ss; M. Romano, Commentario sistematico del codice<br />

penale, I, 3ª ed., Milano, 2004, 21 ss; Palazzo, Corso di diritto penale, 2ª ed., Torino, 2006, 94 ss; De Vero, Corso di diritto<br />

penale, I, Torino, 2004, 254 ss.<br />

(6)<br />

«Qualora alla preclusione dello scrutinio di costituzionalità in malam partem fosse attribuito carattere assoluto, si<br />

determinerebbe, in effetti, una situazione palesemente incongrua: venendosi a riconoscere, in sostanza, che il legislatore è tenuto a<br />

rispettare i precetti costituzionali se effettua scelte di aggravamento del trattamento penale, mentre può violarli senza<br />

conseguenze, quando dalle sue opzioni derivi un trattamento più favorevole». Così, la sentenza in commento, punto 6.1.<br />

(7) Garbagnati, Sull'efficacia delle decisioni della Corte costituzionale, in Scritti giuridici in onore di F. Carnelutti, IV, Padova,<br />

1950, 193 ss; Esposito, Irretroattività e «legalità» delle pene nella nuova costituzione, ibidem, 502 ss; Delitala, Gli effetti penali<br />

della dichiarazione di illegittimità costituzionale delle leggi, in Riv. it. scienze giur., 1954, 17 ss; M. Gallo, «La disapplicazione»<br />

per invalidità costituzionale della legge penale incriminatrice, in Riv. it. dir. pen., 1956 723 ss.; Parodi Giusino, Effetti della<br />

dichiarazione di illegittimità costituzionale delle leggi penali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1982, 915 ss; Vassalli, Abolitio criminis<br />

e principi costituzionali, ivi, 1983, 377 ss; Pulitanò, Obblighi costituzionali di tutela penale, ibidem, 484 ss; Nella manualistica<br />

più recente, Marinucci-Dolcini, Manuale di diritto penale. Parte generale, 2ª ed., Milano, 2006, 84; Fiandaca-Musco, Diritto<br />

penale. Parte generale, 5ª ed., Bologna, 2006, 102 ss; Cadoppi, Il principio di irretroattività, in AA.VV., Introduzione al sistema<br />

penale, I, 3ª ed., Torino, 2006, 189 ss; Pulitanò, Diritto penale, Torino, 2005, 722 s; De Vero, Corso, cit., 322; Romano,<br />

Commentario sistematico, cit., 75 ss.<br />

(8) Cfr. la sentenza in commento, punto 6.1.<br />

(9) In questo senso cfr. supra nota 4.<br />

(10) Corte cost., 27 aprile 1993, n. 194, in Giur.cost., 1993, 1320 ss; Negli stessi termini Corte cost., 15 aprile 1993, n. 167, ibidem,<br />

1220 ss.<br />

(11) Corte cost., 1 giugno 2004, n. 161, in questa Rivista, 2004, 1501 s, con commento di Giunta, La Corte costituzionale respinge<br />

le questioni di illegittimità del "falso in bilancio".<br />

(12) Trib. Milano, Sez. II, ord. 12 febbraio 2003, in Guida dir., 2003, 10, 74 ss, annotata da Di Martino, Nel mirino dei giudici<br />

costituzionali i limiti delle soglie di rilevanza penale. A ben vedere, l'ordinanza del Tribunale di Milano impropriamente definisce<br />

di favore «quelle norme caratterizzate dall'effetto giuridico di escludere od attenuare la responsabilità penale a "favore"<br />

dell'agente».<br />

(13) Così, testualmente, Corte cost., 1 giugno 2004, cit.<br />

133


(14) In questo senso la sentenza in commento, punto 6.1.<br />

(15) «Nell'una prospettiva o nell'altra, difatti, si tratta comunque di un elemento che "delimita" l'area d'intervento della sanzione<br />

prevista dalla norma incriminatrice, e non già "sottrae" determinati fatti all'ambito di applicazione di altra norma, più generale: un<br />

elemento, dunque, che esprime una valutazione legislativa in termini di "meritevolezza" ovvero di "bisogno" di pena, idonea a<br />

caratterizzare una precisa scelta politico-criminale». Così, ancora, Corte cost., 1 giugno 2004, cit. A riguardo, Belfiore, Giudice<br />

delle leggi e diritto penale, Milano, 2005, 151, pur manifestando apprezzamento per l'atteggiamento di self restraint della Corte,<br />

sottolinea come la stessa «attraverso il parametro "specie a genere" giustifichi una funzione paralegislativa non meno "creativa"di<br />

quella "additiva" (sotto il profilo della espansione delle fattispecie incriminatici), che la sentenza dichiara expressis verbis essere<br />

esclusa dalla propria competenza».<br />

(16) Giunta, op. cit., 1509; Id., La vicenda delle false comunicazioni sociali. Dalla selezione degli obiettivi di tutela alla cornice<br />

degli interessi in gioco, in Riv.trim.dir.pen. ec., 2003, 659 ss.<br />

(17) Efficacemente, ancora, Giunta, La Corte costituzionale, cit., 1509.<br />

(18) Corte cost., 23 ottobre 2006, n. 393, in questa Rivista, 2007, 194 ss., con commento di Pulitanò ed Ardizzone. Per una sintesi<br />

delle ordinanze di rimessione v. Riv.it.dir.proc.pen., 2006, 1120 ss, con commento di Dodaro, Disciplina della prescrizione e<br />

retroattività della norma penale più favorevole. Pare opportuno sottolineare come nessuna delle ordinanze abbia avanzato la<br />

richiesta di estendere tale disciplina sulla riduzione dei termini di prescrizione anche ai processi pendenti in appello o dinanzi alla<br />

Corte di Cassazione al momento dell'entrata in vigore della legge.<br />

(19) Dodaro, op. cit., 1145 s, coglie proprio nel rispetto del principio di uguaglianza la ratio della deroga sancita dall'art. 10 comma<br />

3 l. n. 251 del 2001. «La prescrizione appartiene infatti, nel quadro del "penale sostanziale", ad un'area diversa da quella del<br />

momento teleologico dei precetti e della minaccia penale, all'interno della quale i principi costituzionali lasciano al legislatore<br />

ordinario spazi di discrezionalità, condizionati dall'art. 3 Cost., che permettono di adottaresoluzioni ragionevolmente<br />

differenziate rispetto a quelle consentite dai più stringenti principi relativi al "nucleo duro" del diritto penale. In questa cornice,<br />

un'eventuale opzione a favore dell'applicazione dei nuovi termini di prescrizione ai fatti commessi dopo l'entrata in vigore della<br />

legge, o di un sistema che circoscriva l'ambito della deroga alla lex mitior, appaiono scelte egualmente legittime in via di<br />

principio». Pertanto, «evitare l'estinzione di massa di fatti aventi tuttora rilievo penaleè un motivo legittimo sul piano<br />

costituzionale» e, «per la disciplina della prescrizione, un obiettivo ragionevole».<br />

(20) In questi termini Ferrua, Ex Cirielli, così cade la norma transitoria. Ombre sul controllo di ragionevolezza, in Dir giust., 2006,<br />

45, 49.<br />

(21) V., più ampiamente, infra, Il giudizio di "ragionevolezza".<br />

(22) Il riferimento è alla celebre sentenza CGCE, Grande Sezione, 3 maggio 2005, C-387/02, C-391/02, C-403/02, Berlusconi e<br />

altri, in questa Rivista, 2005, 782 ss. Per un primo commento Insolera-Manes, La sentenza della Corte di giustizia sul "falso in<br />

bilancio": un epilogo deludente?, in Cass.pen., 2005, 2764 ss.<br />

(23) Così Bernardi, Brevi osservazioni in margine alla sentenza della Corte di Giustizia sul falso in bilancio, in AA.VV., Ai confini<br />

del favor rei, cit., 48 s; il quale addirittura ritiene che venga ad essere sacrificato anche il principio della primauté del diritto<br />

comunitario sul diritto interno, sempreché gli atti sopranazionali in conflitto siano delle direttive; Dello stesso avviso, di recente,<br />

Insolera, Dubbi "europei" sulla ex Cirielli, in Dir. giust., 2006, 4, 10 s; Contra, Bin, Un ostacolo che la Corte non può aggirare, in<br />

AA.VV., Ai confini del favor rei, cit., 109 ss; Brunelli, Sui limiti del favor rei l'ultima parola è della Corte Costituzionale, ibidem,<br />

125 ss; Riondato, Il falso in bilancio e la sentenza della Corte di giustizia CE: un accoglimento travestito da rigetto, in questa<br />

Rivista, 2005, 910 ss.<br />

(24)<br />

Ancora, Bernardi, Brevi osservazioni, cit., 49; Pugiotto, Vite parallele? "Rifiuti" e "Falso in bilancio" davanti alle Corti<br />

costituzionale e di giustizia, in AA.VV., Ai confini del favor rei, cit., 334.<br />

(25) Di questo avviso la dottrina dominante. Per tutti, Fiandaca-Musco, Diritto penale, cit., 103; Contra, Romano, Commentario<br />

sistematico, cit., 78, secondo cui non troverebbe applicazione né la legge più severa precedente, né quella dichiarata<br />

incostituzionale. Per un quadro complessivo delle posizioni in dottrina si rinvia a Pecorella, sub Art. 2 c.p., in AA.VV., Codice<br />

penale commentato, a cura di Dolcini-Marinucci, 2ªed., Milano, 2006, 90 s.<br />

(26) Testualmente Marinucci, Irretroattività, cit., 85.<br />

(27)<br />

Pulitanò, La "non punibilità", cit., 1816, il quale efficacemente ribadisce come «le opportunità politico-criminali che il<br />

legislatore abbia fatto proprie non siano in sé sindacabili: sindacabile è solo la rottura dell'uguaglianza».<br />

(28)<br />

S'intende riferirsi al punto 3 della pronuncia n. 148 del 1983, cit., 1818, nella parte in cui si afferma che «l'eventuale<br />

accoglimento delle impugnative di norme siffatte verrebbe ad incidere sulle formule di proscioglimento o, quanto meno, sui<br />

dispositivi delle sentenze penalie conviene aggiungere che la pronuncia della corte non potrebbe non riflettersi sullo schema<br />

argomentativo della sentenza penale assolutoria, modificandone la ratio decidendi: poiché in tal caso ne risulterebbe alteratoil<br />

134


fondamento normativo della decisione, pur fermi restando i pratici effetti di essa». Di questo avviso, per tutti, in dottrina,<br />

D'Amico, op. cit., 20 s.<br />

(29) Corte cost., 19 febbraio 1985, n. 51, in Riv.it.dir.proc.pen., 1985, 819 ss, con nota di Padovani, Decreto legge non convertito e<br />

norme penali di favore, in bilico tra opposte esigenze costituzionali.<br />

(30) In dottrina, per tutti, Romano, Commentario sistematico, cit., 79.<br />

(31) Così, Parodi Giusino, Effetti della dichiarazione, cit., 915 ss; Dello stesso avviso, Fiandaca-Musco, Diritto penale, cit., 102 s;<br />

Romano, Commentario sistematico, cit., 77; Pulitanò, Diritto penale, cit., 722; Marinucci-Dolcini, Manuale, cit., 84.<br />

(32) Parodi Giusino, Effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale, cit., 935.<br />

(33) Suggerisce tale schema ricostruttivo, pur ribadendo come "la distinzione tra le diverse tipologie di giudizio è per alcuni versi<br />

solo tendenziale e talora davvero scivolosa", da ultimo, D'Andrea, op. cit., 51 ss; In senso analogo Morrone, Il custode della<br />

ragionevolezza, Milano, 2001, 22, il quale riconosce come «in tema di "ragionevolezza" la giurisprudenza costituzionale italiana è<br />

agli occhi dell'osservatoregeneralmente asistematica e, quindi, priva di regolarità nell'esperimento in concreto delle tecniche di<br />

giudizio, regolarità cioè che possano far pensare all'applicazione di modelli di sindacato predeterminati o predeterminabili a<br />

priori».<br />

(34) In questi termini, ancora, D'Andrea, ibidem, 72 s e 98, il quale coglie una perfetta coincidenza tra valutazioni di adeguatezza e<br />

valutazioni relative al bilanciamento di interessi nella misura in cui una legge, quando non è idonea ad offrire adeguata tutela al<br />

valore protetto, ha già in sé stessa una radice di squilibrio, poiché impone «un sacrificio ad un interesse non giustificato dalla<br />

tutela assicurata ad altro interesse»; Per una trattazione del tema con particolare attenzione alla materia penale, Insolera, Principio<br />

di eguaglianza e controllo di ragionevolezza sulle norme penali, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, I, cit., 313 ss; da<br />

ultimi, diffusamente, Belfiore, Giudice, cit., 259 ss; Manes, Il principio di offensività nel diritto penale, Torino, 2005, 218 ss. e<br />

279 ss.<br />

(35)<br />

Così Bin, Ragionevolezza e divisione dei poteri, in AA.VV., Corte costituzionale e principio di eguaglianza (Atti del<br />

convegno in ricordo di Livio Paladin), Padova, 2002, 164.<br />

(36) Con riferimento al giudizio di ragionevolezza sulla misura della pena, Palazzo, Offensività e ragionevolezza nel controllo di<br />

costituzionalità sul contenuto delle leggi penali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1998, 363, afferma che qualunque sindacato<br />

«presuppone necessariamente l'accertamento dell'intrinseco disvalore del reato, se non addirittura la ricostruzione concettuale<br />

della ratio legis e degli scopi della disciplina».<br />

(37) Maugeri, I reati di sospetto dopo la pronuncia della Corte Costituzionale n. 370 del 1996: alcuni spunti di riflessione sul<br />

principio di ragionevolezza, di proporzione di tassatività, in Riv.it.dir.proc.pen., 1999, 444<br />

(38) D'Andrea, op. cit., 84, afferma che «per tale via, l'art. 3 entra in profonda sinergia con l'intera tavola dei valori costituzionali,<br />

concorrendo ad assicurare una protezione congrua e bilanciata (id est ragionevole)».<br />

(39) Cfr. la sentenza in commento, punti 7.1. e 7.2. A riguardo Manes, Norme penali di favore, no della consulta, in Dir. giust.,<br />

2006, 46, 33 intravede dietro tale affermazione della Corte un preludio a controlli più invasivi della discrezionalità politica che<br />

non si limitino, come nel caso di specie, ad adeguare la disciplina, bensì giungano sino ad «invalidare tout court scelte punitive<br />

positive del legislatore».<br />

(40)<br />

La ragionevolezza rappresenta dunque un "meta-valore"che permea il sistema e «attorno al quale ruota l'intero edificio<br />

costituzionale (e dunque normativo) e se ne dipana la dinamica». In questi termini, ancora, D'Andrea, op. cit., 368, cui si rinvia<br />

per ulteriori approfondimenti.<br />

(41) Palazzo, Offensività, cit., 375 ss, il quale coglie un «limite intrinseco» al giudizio di ragionevolezza proprio nella componente<br />

valutativa che presuppone la scelta del tertium comparationis, a cui si ricollega la ragionevolezza versus irragionevolezza di una<br />

norma. Sicché «l'esito del giudizio, anzi la sua stessa ammissibilità, viene a dipendere dalla scelta più o meno felice del tertium<br />

comparationis».<br />

(42) Insolera, Principio, cit., 321 e 326 ss, rileva come il controllo di ragionevolezza in materia penale negli ultimi anni «si è<br />

arricchito del riferimento al principio di proporzione nel rapporto tra offesa e reazione punitiva, coniugando l'art. 3, 1 comma<br />

Cost. con l'art. 27». In argomento cfr., altresì, Curi, L'attività «paralegisltiva» della Corte costituzionale in ambito penale: cambia<br />

la pena dell'oltraggio a pubblico ufficiale (nota a Corte cost., 25 luglio 1994, n. 341), in Giur.cost., 1995, 1091 ss.; Pagliaro,<br />

Sproporzione «irragionevole» dei livelli sanzionatori o sproporzione «irrazionale» (commento a Corte cost., 3 aprile 1997, n. 78)<br />

ivi, 1997, 759 ss; Nicosia, Discrezionalità legislativa e sindacato di costituzionalità in materia di proporzione e adeguatezza allo<br />

scopo di sanzioni penali: un caso di «self restraint» della Corte costituzionale (nota a Corte cost., ord. 28 dicembre 2001, n. 442)<br />

in Foro it., 2003, I, 64 ss. Da ultimo Belfiore, Giudice, cit., 319 ss.<br />

135


(43) Maugeri, I reati, cit., 448.<br />

(44) Ancora Maugeri, I reati, cit., 448. Il principio di proporzione non funge solo da "bussola" per il legislatore nella scelta tra le<br />

varie opzioni di politica criminale, ma rappresenta lo strumento di controllo della Corte Costituzionale sull'operato del legislatore<br />

stesso. L'Autore, richiamando la giurisprudenza della Corte Costituzionale tedesca e austriaca, distingue quattro fasi in seno al<br />

giudizio di conformità di una fattispecie al principio di proporzione; «prima occorre determinare se lo scopo perseguito dalla<br />

disposizione di legge consiste in un pubblico interesse, in uno scopo costituzionalmente legittimo e non arbitrario; poi se<br />

l'intervento legislativo è idoneo per perseguire lo scopo, e cioè il pubblico interesse; l'intervento deve essere necessario, e cioè il<br />

mezzo, che incide su un diritto fondamentale, deve essere il più blando possibile per proteggere in maniera efficace il bene<br />

giuridico; e infine il giudice esamina se tra pubblico interesse e l'aggressione nel diritto fondamentale vi è una relazione adeguata,<br />

cioè se l'intervento sia proporzionale, in senso stretto, allo scopo; a tal fine è necessario un bilanciamento tra i beni in gioco».<br />

Per approfondimenti si rinvia a Angioni, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983, 163 ss; Manes, Il<br />

principio di offensività, cit., 136 ss.; Belfiore, Giudice, cit., 319 ss.<br />

(45)<br />

Per tutti, nell'ottica del penalistica, Insolera, Democrazia, cit., 35 ss; Belfiore, Giudice, cit., 344 ss, che definisce<br />

"paralegislativa" la funzione esercitata dalla Corte.<br />

(46) In questi termini Bin, Ragionevolezza, cit., 180 e, da ultimo, D'Amdrea, Ragionevolezza, cit., 126.<br />

(47)<br />

Ancora, efficacemente, Bin, Ragionevolezza, cit., 182; Nello stesso senso Morrone, op.cit., 504 ss, il quale affronta il<br />

problema della legittimazione democratica della Corte ponendo a confronto il sistema costituzionale statunitense e quello<br />

dell'Europa continentale. L'Autore sottolinea come «il principio della separazione dei poteri .negli sviluppi successivi dello Stato<br />

liberale di diritto e del parlamentarismo ha assunto una funzione specifica, nel declinare il primato del legislativoconsacrando la<br />

supremazia del parlamento sugli altri poteri dello Stato». In tale contesto la Corte, in qualità di organo sopra le parti, attraverso la<br />

ragionevolezza, deve «colmare la distanza tra unità e pluralismo, tra continuità e discontinuità, tra legittimità e legalità». La sua<br />

legittimazione democratica, allora, sta tutta nella garanzia dei valori su cui si fonda l'unità politica di un paese, per la cui<br />

salvaguardia è necessario un rapporto di leale collaborazione tra controllante e controllato.<br />

(48) Palazzo, Offensività, cit., 351.<br />

(49)<br />

Di questo avviso, da ultimo, Insolera, Democrazia, cit., 52 s, per il quale farebbe eccezione solo l'ipotesi in cui la<br />

diseguaglianza si risolva in una discriminazione ratione subiecti, ossia contraria al "nucleo forte" dell'art. 3, comma 1, Cost., che<br />

non ammette previsioni basate su «distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni<br />

personali o sociali». A titolo esemplificativo ci considerino Corte cost., 18 ottobre 1995, n. 440, in Giur.cost., 1995, 3428 con<br />

commenti di Ramacci, La bestemmia contro la Divinità: una contravvenzione delittuosa e D'Amico, Una nuova figura di reato: la<br />

bestemmia contro la "Divinità"; Palazzo, La tutela della religione tra eguaglianza e secolarizzazione (a proposito della<br />

dichiarazione di incostituzionalità della bestemmia, in Cass.pen., 1996, 47 ss; Corte cost., 20 novembre 2000, n. 508, in Fiandaca-<br />

Musco, Diritto penale, Parte speciale, I, 4ª ed., Bologna, 2007, 441 e Siracusano, sub Art. 403 c.p., in AA.VV., Codice penale<br />

ipertestuale, 2ª ed., Torino, 2007, in corso di pubblicazione. Per ulteriori riferimenti giurisprudenziali v. Insolera, Principio di<br />

eguaglianza, cit., 317 ss.<br />

(50) Bricola, Legalità e crisi: l'art. 25, 2 e 3 comma Cost. rivisitato alla fine degli anni '70, in Quest. crim., 1979, ora anche in<br />

Scritti di diritto penale, I, 2, Milano, 1997, 1338.<br />

136


CONTROLLI DI RAGIONEVOLEZZA E RISERVA DI LEGGE IN MATERIA PENALE: UNA SVOLTA<br />

SULLA SINDACABILITÀ DELLE NORME DI FAVORE?<br />

Insolera Gaetano<br />

cost. art. 25<br />

FONTE
Dir. Pen. e Processo, 2007, 5, 671
Legge penale<br />

La vitalità e l'attualità del principio e delle ragioni della riserva di legge, sancita dall'art. 25 comma 2 Cost., sono oggi<br />

poste in dubbio da varie prospettive. Attraverso sempre più penetranti controlli di ragionevolezza, la Corte<br />

costituzionale si sostituisce al potere legislativo; con moduli argomentativi analoghi anche la giurisdizione della Corte<br />

di giustizia delle Comunità europee è chiamata a sindacare la coerenza della legislazione nazionale con le fonti<br />

comunitarie. Entrambi gli organi hanno escluso la possibilità che attraverso una censura di irragionevolezza si possa<br />

costituire o estendere la responsabilità penale. La Corte costituzionale, con una recente sentenza, ha mutato indirizzo,<br />

censurando irragionevoli norme di favore, ma gli argomenti usati non sono tuttavia pienamente convincenti.<br />

Sommario: Crisi della riserva di legge - Riserva di legge e controlli di ragionevolezza - (Segue) Ragionevolezza<br />

"interna" - (Segue) Ragionevolezza "comunitaria" - Controlli di ragionevolezza e obblighi di tutela penale - (Segue) A<br />

livello interno - (Segue) A livello comunitario - Una svolta?<br />

Crisi della riserva di legge<br />

In uno scritto in corso di pubblicazione (1) dedicato al Diritto penale differenziato, così si delinea, a proposito delle<br />

fonti, quello che era l'"immaginario penalistico" fra gli anni sessanta e gli anni ottanta. «(...) Il reato era visto come un<br />

illecito di fonte esclusivamente legale: Costituzione e legge ordinaria dello Stato. Le fonti subordinate avevano un<br />

valore di mera integrazione tecnica. Marginali le etero-integrazioni dovute a fonti internazionali. La Costituzione<br />

definiva a grandi linee il modello, il suo know-how: tutela di beni rilevanti, comparabili proporzionalmente col<br />

sacrificio della libertà o del bene che la pena aggredisce, tipizzazione del fatto, delle modalità di lesione, del suo<br />

elemento soggettivo, offesa di lesione o pericolo concreto, salve le ipotesi di pericolo astratto-concreto più<br />

imprescindibili a tutela di beni primari, necessaria la colpevolezza, etc. La legge parlamentare lo attuava, e via via, con<br />

applicazioni sempre più esecutive e "tecniche", potevano intervenire le fonti subordinate. La giurisprudenza, secondo<br />

le versioni più rigorose di un orientamento costituzionalistico di matrice illuministica, sembrava dovesse applicare le<br />

regole con procedimento quasi sillogistico, salvo quando si doveva sindacare la legittimità delle leggi, perché in tal<br />

caso il modello di giudice desiderato diventava estremamente critico e valutativo».<br />

Nell'ultimo ventennio anche il tema delle fonti è stato coinvolto dal crollo degli altri pilastri del diritto penale<br />

"moderno" o " classico". In particolare, continuo a seguire le riflessione dell'autore citato, «si è incrinato fortemente<br />

anche il monopolio statale (o parlamentare nazionale) delle incriminazioni (nullum crimen, nulla poena sine lege<br />

parlamentaria), perché una quantità enorme di precetti, con opzioni penali inevitabili per gli Stati, nasce oggi in un<br />

contesto europeo-comunitario: la politica criminale della CE e dell'UE, per esempio, si affianca e spesso si sostituisce<br />

a quella nazionale; nello stesso tempo, moltissime fonti subordinate alla legge continuano a riempire in modo decisivo<br />

norme parzialmente in bianco; la vecchia "gerarchia delle fonti" statali, la vecchia "piramide", ne esce alterata e<br />

giurisdizioni sovranazionali possono sindacare la legittimità di scelte penali o di mancate scelte penali degli stati<br />

nazionali: l'antigiuridicità dei fatti di reato non è più solo nazionale, ma molto spesso comunitaria; a ciò si aggiunge il<br />

moltiplicarsi dei Tribunali supremi, nazionali e internazionali, le cui competenze si intrecciano, sono "concorrenti" tra<br />

loro e vanno armonizzate, al pari delle rispettive fonti, secondo le linee di una "rete", come in un "ordine<br />

neomedievale", anziché seguire i gradi di una gerarchia».<br />

Sono partito da questo scenario di transizione delle fonti del sistema penale, per concentrare l'attenzione sull'ultimo<br />

aspetto evocato, quello della penetrazione dei controlli giurisdizionali, a più livelli, capaci di incidere su ciò che si è<br />

scelto di definire l'ormai tramontato "immaginario" della legalità penale. Come il lettore potrà constatare, le<br />

considerazioni che seguono, se muovono da quel paesaggio, non ne subiscono affatto la suggestione, volendo piuttosto<br />

ribadire le vitali ragioni della riserva di legge.<br />

Riserva di legge e controlli di ragionevolezza<br />

137


Il rapporto tra quest'ultimo principio e i controlli di ragionevolezza, nella esperienza recente, si è collocato su un<br />

duplice piano.<br />

A quello, ormai ampiamente esplorato, riguardante la dimensione nazionale, interna, della legge penale e la possibilità<br />

di un suo sindacato da parte della Corte costituzionale, alla stregua dei plurimi criteri riassunti nel concetto di<br />

ragionevolezza, se ne è affiancato un altro sul quale, con analoghi moduli argomentativi, si è inteso controllare la<br />

coerenza del diritto penale con input normativi sovranazionali, in particolare comunitari. In proposito, si è anche fatto<br />

riferimento ad un controllo di "ragionevolezza comunitaria" esercitabile o direttamente dalla Corte di giustizia delle<br />

Comunità europee, con una torsione della procedura interpretativa cd. pregiudiziale prevista dall'art. 234 Trattato CE,<br />

o per via mediata dalla Corte costituzionale, vincolata dalle decisioni dei giudici di Lussemburgo (2) .<br />

(Segue) Ragionevolezza "interna"<br />

È noto come la giurisprudenza costituzionale abbia fatto succedere all'iniziale self restraint nell'utilizzo del paradigma<br />

della ragionevolezza, per valutare il rispetto del principio di eguaglianza da parte delle norme penali (e tributarie), un<br />

atteggiamento di progressiva e sempre maggiore apertura (3) . Senza poter ripercorrere in questa sede i molteplici<br />

passaggi e limitandoci all'orizzonte del diritto penale, basti ricordare alcune tappe: dalla fondamentale sentenza n. 26<br />

del 1979, in cui la Corte perveniva ad una censura di irragionevolezza attraverso una valutazione in chiave<br />

costituzionale degli interessi protetti dalla norma penale, alla sentenza n. 189 del 1987 in cui si censurava l'assenza di<br />

un bene giuridico tutelato attraverso la penalizzazione del fatto.<br />

Ma il sindacato di ragionevolezza tende a delinearsi compiutamente, allontanandosi dagli originali limiti logicoformali,<br />

per lungo tempo difesi dalla Corte, quando il suo paradigma si completa con il riferimento al principio di<br />

proporzionalità della pena, a sua volta coniugato con la finalità rieducativa a questa ultima assegnata dall'art. 27<br />

comma 3 Cost.<br />

Il nesso tra proporzione e rieducazione si esprime nei seguenti termini: la finalità rieducativa presuppone che il reo non<br />

viva come ingiusto e sproporzionato, rispetto al disvalore del fatto, il trattamento punitivo inflittogli, che, altrimenti,<br />

ciò limiterebbe la sua disponibilità a rendersi conto del torto commesso. Tale apparato concettuale ha ridisegnato la<br />

tradizionale struttura del controllo di ragionevolezza ancorato al principio di eguaglianza, a partire da quello pertinente<br />

alla misura delle pene, ma con potenzialità capaci di investire le stesse scelte di incriminazione, la cd. legittimazione<br />

sostanziale del punire. E ciò in conseguenza proprio della segnalata poliedricità del concetto di proporzione.<br />

Quasi con un paradosso - rispetto alla tradizionale minore penetrazione in materia penale - si può concludere nel senso<br />

che il parametro della ragionevolezza e il riferimento all'art. 3 comma 1, divengono superflui data, comunque, la<br />

possibilità di un raffronto tra il valore costituzionale sotteso alle norme e quello - sempre presente - della libertà<br />

personale. Quindi, anche i c.d. giudizi di ragionevolezza (in materiale penale), possono essere ricondotti al consueto<br />

schema binario. Questa l'ambientazione teorica in cui sono maturate, ad esempio, sia la sentenza sull'art. 341 c.p., sia,<br />

soprattutto, quella sulla mendicità.<br />

Le decisioni che ho ricordato sembrerebbero quindi esprimere appieno i risultati a cui si è pervenuti, in chiave più<br />

generale, in tema di controlli di ragionevolezza nell'evoluzione giurisprudenziale e, soprattutto, da parte di alcuni<br />

settori della letteratura.<br />

Parallelamente, tuttavia, tra i penalisti, non si sono mai sopite le perplessità riguardanti il possibile conflitto tra i<br />

modelli argomentativi appena richiamati e il disposto dell'art. 28 l. n. 87 del 1953, che stabilisce l'insindacabilità delle<br />

scelte riconducibili all'ambito discrezionale del potere legislativo: norma ordinaria che, giova ricordarlo, nella materia<br />

penale, trova puntuale copertura costituzionale nel corollario della legalità costituito dalla riserva di legge. Nella stessa<br />

prospettiva, del resto, i dubbi suscitati da meccanismi decisori atipici elaborati dalla Corte, con il ricorso a sentenze<br />

interpretative di rigetto ma, soprattutto, manipolative o additive.<br />

Proprio a proposito di queste ultime si parla di sentenze "normative". In questo modo si tocca il cuore della questione<br />

che le accomuna alle decisioni che, attraverso variegati percorsi, censurando l'irragionevolezza della incriminazione,<br />

possono collidere con il riparto della attribuzione dei poteri disegnato dalla legge fondamentale (4) . È questo un profilo<br />

che può sfuggire se non si ricorda la singolarità da quest'ultima attribuita alla materia penale proprio attraverso il<br />

disposto dell'art. 25 comma 2.<br />

Sono le analisi più raffinate, che soprattutto i penalisti svolsero all'indomani dell'entrata in vigore della Costituzione<br />

(5) , a cogliere lo stretto legame tra quel principio e sistema democratico. Riserva, quindi, non come tributo alla certezza<br />

138


del diritto penale, ma quale garanzia procedimentale che assegna alla sola lex parlamentaria il potere di decidere se<br />

e come incidere sul bene della libertà personale (compromessa dalla sanzione penale tipica), indiscutibilmente al<br />

vertice della gerarchia degli interessi. Ed è il concetto di garanzia procedimentale che bene esprime la connessione del<br />

principio con il disegno politico-istituzionale assunto in Costituzione: democrazia parlamentare basata sul sistema<br />

pluralistico di partiti concordi su un sistema di valori condivisi.<br />

Una sintesi, questa, dell'insuperabile dialettica tra sfera individuale dei diritti fondamentali e violenza statuale, di certo<br />

storicamente determinata. L'ultima notazione ci riporta al dibattito attuale e alla mia citazione iniziale. Forse a<br />

proposito di nessun altro tra i principi penalistici in Costituzione, così ricorrente è l'affermazione di una irreversibile<br />

crisi, di un suo conflitto ormai permanente con il diritto costituzionale vivente. Sarebbe troppo lungo esaminare le<br />

ragioni ed i diversi fattori e versanti da cui muove questa revisione della riserva di legge (6) .<br />

In estrema sintesi: l'inarrestabile espansione del diritto penale, a cui corrisponde una ineffettività della sanzione tipica,<br />

erode il basamento politico della riserva. Le linee teoriche che costituiscono le sue ragioni sono confuse dalla realtà di<br />

una risposta sanzionatoria sempre più degradabile, itinerante e flessibile già sul piano astratto, ma, soprattutto, su<br />

quello dei fatti. La gravità e la connotazione transnazionale di taluni fenomeni criminali, le perenni emergenze, da un<br />

lato, rilanciano l'idea del diritto penale come strumento di lotta, dall'altro, per quello che qui interessa, sospingono<br />

l'elaborazione di comuni strategie di politica criminale, basate esclusivamente su paradigmi tecnocratici elaborati a<br />

livello sovranazionale ed irriducibili al disegno di legittimazione sottostante all'art. 25 comma 2 Cost.<br />

In questo contesto, talvolta, anche la riflessione penalistica più raffinata tende a sdrammatizzare la questione del deficit<br />

democratico: in fondo gli esecutivi che cooperano a quelle scelte sono espressione di maggioranze che, quanto meno<br />

per quello che concerne l'Unione europea, devono corrispondere a determinati standard di democrazia (7) . In verità, in<br />

questo modo si trascura proprio la connotazione di garanzia politica che si intese cogliere nelle modalità del<br />

procedimento di legiferazione parlamentare. D'altra parte è possibile obiettare come questa disattenzione sia forse<br />

determinata anche dalla considerazione della odierna realtà del deperimento degli ingranaggi istituzionali intesi a<br />

garantire la partecipazione democratica, a cominciare dall'identità e rappresentatività dei partiti politici. Approccio che<br />

diviene tranchant in chi, con pessimistica lucidità (8) , giunge a cogliere una sorta di ossimoro nel concetto stesso di<br />

democrazia penale. Il fondamento istintivo ed irrazionale, che anima sempre il gesto stesso di punire, rischia di<br />

ispessirsi se determinato dalla volontà popolare, se è vero che nella fase più fresca ed autentica della nostra storia<br />

democratica, i suoi protagonisti, i partiti, non sono quasi mai riusciti a confrontarsi con la politica criminale.<br />

La base di verità che, in diversa misura, sostiene ognuno degli argomenti che ho richiamato, non ci consente tuttavia di<br />

superare il dato che deve farci ritenere vitale il principio di riserva di legge. Esso costituisce ancora l'unico potenziale<br />

mezzo di controllo politico dell'esercizio della violenza punitiva. La questione, dunque, non riguarda il principio in<br />

quanto tale, ma piuttosto il contesto, fattuale ed ideologico, nel quale esso opera: dal ruolo che si intende assegnare al<br />

diritto penale nella permanente dialettica tra funzione di lotta al delitto e funzione di limite a tale lotta, alla<br />

minimizzazione del ricorso a quella tecnica di tutela, accompagnata da una credibile revisione dell'area ad esso<br />

riconducibile, che giustifichi la "tirannia" dei limiti costituzionali, fino a tematiche che toccano gli attori della<br />

legislazione. È chiaro, infatti, che quello di democrazia penale resterà un ossimoro fino a quando la politica, tutta la<br />

politica, continuerà ad adeguarsi ad un messaggio penale "facile", alla moda, cool (9) , con ciò rinunciando al suo<br />

compito di calcolare e risolvere i problemi sociali a prescindere dal diritto penale, prodotto culturale che ogni giorno si<br />

rivela privo di capacità di prestazioni in quella direzione. Breve, in ogni angolo del diritto penale, in qualsiasi opzione<br />

dogmatica, potrebbero trovare conferma le ragioni della riserva. Se la politica non le coglie e con esse non si misura è<br />

perché si limita a sfruttare la presa pubblicitaria che il sistema penale esercita sulla opinione pubblica e, quindi, sul<br />

consenso.<br />

Con queste coordinate torniamo all'impatto sulla riserva di controlli di ragionevolezza della Corte che abbiamo visto<br />

essere sempre più penetranti anche nel merito delle scelte politico-criminali.<br />

Come è noto, a tale dato ha corrisposto una parallela impermeabilità della giurisprudenza della Corte costituzionale ad<br />

una fondazione costituzionale dell'illecito penale ed al recepimento di un concetto di offensività definito nei contenuti<br />

dal riferimento assiologico al sistema dei beni di rilievo costituzionale. La Corte ha, invece, "coinvolto" anche la<br />

materia penale nell'onda dell'irresistibile espandersi dei controlli di ragionevolezza. Le diverse tecniche adottate -<br />

proporzionalità in materia di sanzione, bilanciamenti, adeguatezza etc. - non hanno, tuttavia, espresso l'adesione al<br />

programma critico di ricollocazione e delimitazione del penale espresso dalla fondazione costituzionale. D'altra parte,<br />

la sua realizzazione, già nell'originaria prospettazione di Franco Bricola (10) , non vedeva affatto come protagonista la<br />

Corte costituzionale. Il suo intervento, principalmente nella prospettiva aperta dal controllo di ragionevolezza, doveva<br />

avvenire "fino a che durerà l'inerzia del legislatore rispetto ad una riforma globale" per "riportare, con alcune<br />

operazioni di ortopedia giuridica, la vecchia impalcatura penale ad un clima più 'costituzionale' ". Né diversamente<br />

139


poteva essere, considerato il ruolo politico forte contemporaneamente attribuito da Bricola alla riserva assoluta.<br />

In questa logica gli interventi "contenutistici" della Corte, consentiti dai controlli di ragionevolezza sono stati<br />

quantitativamente modesti, considerata la percentuale delle sentenze di accoglimento. Hanno inciso su settori specifici<br />

(e "indifendibili") - ad esempio il diritto penale militare - ovvero hanno eliminato alcuni "oggetti" marginali, inutili o<br />

poco presentabili dall'armamentario penalistico. Quindi quei controlli potrebbero rappresentare un necessario e<br />

tollerabile strappo al principio di legalità: una delicata cosmesi sul volto del nostro sistema di incriminazioni, affidata<br />

alla saggezza e all'equilibrio dei giudici della Consulta, costretti ad agire in sostituzione di un potere politico pigro e<br />

confuso.<br />

Queste caratteristiche, tali da ridimensionare le preoccupazioni per la tenuta della riserva di fronte ai controlli di<br />

ragionevolezza, hanno visto alcune eccezioni. In termini positivi, penso agli interventi sulla parte generale del Codice<br />

Rocco, ad esempio a proposito di presunzioni e accertamento della pericolosità sociale. Ma, questa volta in termini<br />

negativi, non si può dimenticare la forte conflittualità tra poteri, conseguita all'uso del sindacato di ragionevolezza<br />

nella sua massima incidenza contenutistica in campo processuale penale: sono le vicende che riguardano la<br />

"deformazione", a partire dal 1992, del codice accusatorio del 1988. Un braccio di ferro tra Corte e Parlamento, durato<br />

quasi 10 anni e conclusosi con la riforma dell'art. 111 Cost. e la l. n. 63 del 2001, attuativa del "giusto processo".<br />

A fronte dell'incidenza paralegislativa della Corte, accanto ad obiezioni di principio ed a preoccupazioni indotte da<br />

motivi di architettura costituzionale, se ne sono manifestate altre che hanno colto, in quella evoluzione<br />

giurisprudenziale, la frustrazione proprio delle principali ragioni della riserva di legge penale, riaffermate<br />

parallelamente da altre importanti decisioni della Corte: riduzione del penale ad ultima ratio, legittimazione<br />

democratica di scelte di incriminazione o decriminalizzazione dialetticamente operate dal Parlamento. Con effetti che<br />

si colgono anche nel definirsi ideologico del diritto penale. E ciò proprio a proposito del principio di offensività e della<br />

fondazione costituzionale del sistema. Al «circolo vizioso» individuabile nella sequenza che segue. La Corte, pur<br />

ricorrendovi spesso in chiave argomentativa, non ne ha mai riconosciuto l'enunciazione, come principio,<br />

conseguentemente dichiarando l'incostituzionalità di un'incriminazione inoffensiva (11) . È stata fatta salva, in questo<br />

modo, la legittimità dei reati di pericolo astratto e di ogni piega del diritto penale artificiale. I controlli di<br />

ragionevolezza più penetranti, o il bilanciamento in concreto, consentito dalla "costituzionalizzazione" dell'art. 49 cpv.<br />

c.p., permettono tuttavia, in determinate situazioni, di "giocare" argomenti della fondazione costituzionale, limitando<br />

la discrezionalità legislativa. L'assenza di un quadro predefinito di riferimento in questa cosmesi del sistema, non più<br />

sospinta e giustificata dall'intento di adeguare le legislazione precostituzionale, da un lato, costituisce un<br />

tranquillizzante pretesto per il rinvio di una riforma organica e di una assunzione da parte della politica della questione<br />

criminale e, dall'altro, soprattutto, pone costantemente il problema dei limiti delle rispettive attribuzioni di potere tra<br />

Parlamento e Corte costituzionale. Non può sfuggire, infatti, come gli interventi nel merito delle scelte di<br />

incriminazione, se non sorretti dalla trama dell'idea "forte" di una fondazione costituzionale dell'illecito penale,<br />

abbiano la cangiante livrea dei contingenti conflitti politici. Una cosa è la peculiarità anfibia della giustizia<br />

costituzionale, altro intenderla come un legislatore parallelo capace di fornire una prova di appello allo schieramento<br />

soccombente in Parlamento.<br />

Questo, in estrema sintesi, lo stato del dibattito sui controlli di ragionevolezza in materia penale e sui loro rapporti con<br />

il quadro costituzionale dell'attribuzione di poteri. Occorre, tuttavia, precisare come esso si sia consolidato nella<br />

prospettiva riduttiva del sistema di incriminazioni, ovvero in chiave di adeguamento del diritto penale ai principi di<br />

garanzia espressi dalla Legge fondamentale. Breve, se erosione della riserva si è verificata, ciò è comunque avvenuto<br />

su rime consone all'impianto fondamentale del sistema di principi espresso dalla prima parte della Costituzione.<br />

(Segue) Ragionevolezza "comunitaria"<br />

Come anticipato, in tempi recenti, l'attenzione si è concentrata su un'articolazione dei controlli di ragionevolezza che<br />

possiamo definire, con un margine di approssimazione, comunitaria.<br />

In un contesto caratterizzato, da un lato, dalla ridefinizione in termini reticolari e sovranazionali del sistema delle fonti,<br />

e dall'altro, da una indiscussa incompetenza della Comunità europea in materia penale, si è posto il problema della<br />

possibilità di invalidazione di norme nazionali che risultino in contrasto con scopi di tutela espressamente ricavabili<br />

dalle fonti sovranazionali.<br />

Come è noto, o attraverso la diretta prospettazione di questioni di incostituzionalità, o investendo la Corte di giustizia<br />

CE con richieste di intervento cd. pregiudiziale ex art. 234 Trattato CE, si è delineato lo schema argomentativo che<br />

140


sintetizzo di seguito.<br />

Considerato che, nel quadro delle attuali competenze, le fonti sovranazionali richiedono l'apprestamento di una tutela<br />

degli interessi comunitari attuativa dei principi di adeguatezza (oltre che di effettività, dissuasività e proporzionalità),<br />

qualora le legislazioni nazionali si privino, attraverso i diversi percorsi sopra richiamati, di strumenti sanzionatori<br />

penali già in essere e dotati di tali caratteristiche, sarà possibile colpire quelle scelte legislative, riespandendo l'area di<br />

protezione. I punti di riferimento della questione sono, da un lato, la supremazia e la diretta applicazione del diritto<br />

comunitario, dall'altro, il cd. principio di fedeltà comunitaria, desumibile dall'art. 10 Trattato CE.<br />

Non volendo ora entrare nel merito, complesso, della questione (12) , essa tuttavia interessa il nostro tema per questi<br />

motivi.<br />

Il controllo ipotizzato da parte della Corte di giustizia CE presenta evidenti connotazioni di sindacato di<br />

ragionevolezza, secondo il modello incentrato su valutazioni di adeguatezza e conformità allo scopo indicati dalla<br />

norma sovraordinata.<br />

Ma quanto richiesto ai giudici di Lussemburgo, considerata l'assenza di competenze penali della comunità, poneva<br />

anche il duplice problema del surrettizio aggiramento di tale limite e, conseguentemente, della compatibilità con la<br />

riserva di legge, come declinata a livello di principio costituzionale interno.<br />

Da notare come questa deriva sovranazionale della dialettica tra riserva e controlli di ragionevolezza debba<br />

considerare l'aspetto, a volte trascurato, riguardante la diversa intensità che, da un punto di vista comparatistico,<br />

connota il corollario della riserva di legge nell'ambito del principio di legalità unanimemente recepito a livello europeo<br />

(13) .<br />

Ritengo che, allo stato, la questione trovi comunque soluzione nella "dottrina dei controlimiti", secondo la quale, se è<br />

vero che il diritto interno, anche di rango costituzionale, si ritrae di fronte alla norma comunitaria, l'esito è tuttavia<br />

opposto quando quest'ultima è in contrasto con quel particolare sottoinsieme di principi costituzionali formato dai<br />

«principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e dai diritti inalienabili della persona umana». La<br />

"dottrina dei controlimiti" non esprime niente altro se non la tecnica del bilanciamento tra diverse norme costituzionali<br />

che presiede all'operato della Corte. In questo senso non è una "dottrina," ma l'essenza, la struttura portante dello stile<br />

argomentativo che caratterizza gran parte dei giudizi di costituzionalità. Quindi, anche se attraverso gli artt. 11 e 117<br />

Cost., ovvero con una pronuncia della Corte di giustizia, si fosse affermato un obbligo comunitario di tutela penale, la<br />

Corte costituzionale avrebbe dovuto bilanciare a favore della regola desumibile dall'art. 25 comma 2 Cost. la portata,<br />

parimenti di rango costituzionale, di quella prerogativa comunitaria (14) . Ma la proiezione "comunitaria", che<br />

l'esperienza recente ha posto in modo esemplare, si è caratterizzata per un'ulteriore particolarità che ci consente di<br />

segnare un preciso collegamento con la questione "nazionale" dei limiti dei controlli di ragionevolezza rispetto alla<br />

riserva. Essa, infatti, si è indirizzata verso un sindacato capace di supplire ad un asserito deficit di tutela. In questo<br />

modo si è proposto il mai sopito problema della possibilità di coniugare ragionevolezza (modulata sul paradigma di<br />

scopo della norma sovraordinata) e obblighi di tutela penale.<br />

Ciò ci conduce ad un nodo comune alle due prospettive, interna e comunitaria.<br />

Alla già esaminata compatibilità tra riserva e operare in bonam partem del sindacato della Corte costituzionale,<br />

corrisponde quella relativa alla diretta applicabilità del diritto comunitario in termini disapplicativi dell'incriminazione<br />

da parte dell'ordinario giudice interno, eventualmente a seguito di un intervento interpretativo della Corte di giustizia<br />

CE. Prospettive entrambe compatibili con l'art. 25 comma 2 Cost.<br />

Tutt'altro scenario è quello che si apre prospettando l'inverso percorso, ossia quello che consenta alle Corti, attraverso<br />

il controllo di ragionevolezza, di corrispondere adeguatamente ad obblighi di tutela penale desumibili dalla<br />

Costituzione o dalle fonti comunitarie.<br />

Controlli di ragionevolezza e obblighi di tutela penale<br />

Allo stato, sul piano interno e su quello sovranazionale, le soluzioni mi sembrano convergere, pur con percorsi<br />

argomentativi diversi.<br />

141


(Segue) A livello interno<br />

A livello interno, si intersecano due diversi profili: l'uno riferibile alla stessa valutazione di ammissibilità di questioni<br />

che vogliano espandere l'area di rilevanza penale, l'altro riguardante comunque la loro fondatezza.<br />

Con riferimento al primo, come già detto, la Corte ha reiteratamente escluso tale possibilità richiamando precisamente<br />

i limiti imposti dal principio di riserva di legge e fondando le proprie decisioni su questo confine delle sue attribuzioni<br />

(a titolo esemplificativo, sentt. nn. 108 del 1981, 300 del 1996, 508 del 2000, 49 del 2002, 161 del 2004). Nella stessa<br />

prospettiva, strettamente interpretativa della norma costituzionale quando afferma che «nessuno può essere punito», la<br />

sottrazione alle attribuzioni della Corte costituzionale, non della materia penale in quanto tale, ma di qualsiasi<br />

intervento vicario nella direzione del " punire " . Ciò ritengo che superi una obiezione ricorrente, quanto debole,<br />

secondo la quale il limite della riserva di legge dovrebbe pregiudicare anche i casi di controlli di ragionevolezza in<br />

bonam partem (15) . Sul piano della fondatezza è, invece, decisiva l'opzione interpretativa della legge fondamentale che,<br />

eccezion fatta per l'art. 13 comma 4 Cost., esclude la sussistenza di obblighi di tutela penale, mentre nega "legittimità"<br />

ai cd. obblighi impliciti di incriminazione, in cui si sintetizza quell'insieme di principi argomentativi presenti in ogni<br />

costituzione che se, da un lato, vincolano il legislatore a perseguire determinati scopi di protezione, come principi<br />

informatori o di indirizzo politico, dall'altro, nella loro genericità, non impongono l'adozione della tecnica di tutela<br />

penalistica come più adeguata, lasciando in ciò campo alla discrezionalità della politica. Il riferimento al profilo della<br />

fondatezza, infine, assume rilievo cimentandosi con l'ipotesi della sospetta irragionevolezza della norma abrogatrice di<br />

incriminazione previgente (con conseguente riviviscenza della disciplina antecedente). Questione che avrebbe potuto<br />

profilarsi nella recente esperienza del falso societario davanti alla Corte costituzionale (decisa dalla sentenza n. 161 del<br />

2004). Essa non si sarebbe scontrata con il principio di irretroattività, per i fatti commessi nel vigore della legge<br />

abrogata, e neppure con quello di riserva di legge, posto che si sarebbe trattato di un intervento ablativo che, colpendo<br />

la norma abrogatrice, avrebbe potuto ridare vita alla precedente incriminazione. La Corte non avrebbe creato né<br />

modificato alcunché (diversa questione quella del principio della lex mitior ). Ma, in realtà, in quel caso, a<br />

difettare sarebbe stato il requisito della fondatezza, posto che dalla Costituzione, con l'eccezione dell'art. 13, non si<br />

ricava alcun obbligo di sanzionare penalmente.<br />

(Segue) A livello comunitario<br />

Anche a proposito di "irragionevolezza" comunitaria, come criterio di adeguatezza allo scopo di tutela desumibile da<br />

quelle fonti, elementi di sicuro rilievo sono offerti dalla decisione della Corte di giustizia CE sul (clamoroso) caso già<br />

richiamato.<br />

Dicevo, convergenza di soluzioni con il giudice costituzionale interno in punto di tenuta della riserva di legge in<br />

materia penale, pur con percorsi argomentativi necessariamente diversi.<br />

I giudici di Lussemburgo, pur riconoscendo le ragioni dei remittenti, fatte proprie dalla Commissione e dalla<br />

avvocatura generale, a proposito della inadeguatezza della nuova disciplina del falso societario, richiamando la propria<br />

giurisprudenza consolidata, hanno però escluso che uno Stato membro possa invocare una direttiva, determinando o<br />

aggravando la responsabilità di un imputato, indipendentemente da una legge interna che le abbia dato attuazione. Si è,<br />

così, giunti a stabilire un difetto di attribuzioni delle fonti europee in chiave espansiva o costitutiva della punibilità.<br />

La soluzione, come detto, convergente con il limite interno dei controlli di ragionevolezza in materia penale, non<br />

poggia evidentemente sul vincolo nazionale costituito dalla previsione costituzionale della riserva di legge statale, ma<br />

rimanda piuttosto alla previsione dell'art. 7 comma 1 Conv. eur. dir. umani. A quei concetti di accessibilità e<br />

prevedibilità del diritto elaborati dalla Corte di Strasburgo. Se con il primo ci si riferisce alla circostanza che il<br />

cittadino deve poter disporre di informazioni sufficienti sulle norme giuridiche applicabili ad un dato caso, non può<br />

sfuggire come l'antinomia tra norma nazionale e risposta sanzionatoria che si affermi comunitariamente adeguata<br />

comporti il massimo livello di contraddizione. Un conflitto che, parimenti, mette in discussione la ragionevole<br />

prevedibilità degli esiti dell'attività interpretativa, facendo ricadere sull'imputato le conseguenze negative della<br />

inottemperanza dello Stato all'input comunitario.<br />

Una svolta?<br />

Su questo tema la Corte costituzionale ha emanato recentemente una sentenza di grande rilievo. Si tratta della sentenza<br />

142


n. 394 del 2006 (16) .<br />

Al lettore non sarà sfuggito come le tesi da me sostenute a proposito del rapporto tra controlli di ragionevolezza in<br />

malam partem e principio di riserva di legge, affermato dall'art. 25 comma 2 Cost., si sostenessero sulle posizioni fino<br />

a quel momento assunte dalla Consulta. Concetto che, in questa e in altre occasioni, ho espresso dicendo che "fino ad<br />

ora" quei giudici, reiteratamente, si erano attestati sulla frontiera della inammissibilità di questioni volte a costituire o<br />

ad espandere aree di rilevanza penale (e, come vedremo, da questo indirizzo non si vorrebbe discostare neppure la<br />

sentenza n. 394 del 2006). Alla solidità ed alla riaffermazione di questa posizione aveva corrisposto, a proposito della<br />

creazione legislativa di irragionevoli zone franche o di odiose forme di privilegio, la "sterile" vicenda inaugurata dalla<br />

sentenza n. 148 del 1983, riguardante la diversa questione della ammissibilità/rilevanza. Sterile in quanto la Consulta<br />

non aveva fatto seguire a quell'arresto decisioni che dessero concretamente seguito alla ritenuta possibilità di<br />

invalidare norme penali di favore (17) . La sentenza n. 394 del 2006 riesamina approfonditamente l'intera tematica,<br />

giungendo a soluzioni certamente originali ed innovative, ed è facile presagio che esse riaccenderanno il dibattito su<br />

questo tema che abbiamo visto essere cruciale nella definizione dell'attribuzione dei poteri nel nostro sistema politico.<br />

Ciò avverrà certamente sul piano "interno", ma già si prospettano proiezioni comunitarie (18) . Proviamo a riassumere le<br />

tesi e le conclusioni a cui giunge la decisione.<br />

Anzitutto la definizione di quanto può correttamente qualificarsi norma di favore.<br />

Attribuzione non riferibile a previsioni che delimitino l'area di intervento di una norma incriminatrice contribuendo<br />

alla definizione della fattispecie di reato. In questo caso la valutazione legislativa del bisogno e della meritevolezza di<br />

pena configura una scelta politico-criminale insuscettibile di sindacato da parte della Corte che, altrimenti, invalidando<br />

quegli elementi delimitativi, invaderebbe il campo attribuito dall'art. 25 Cost. al potere legislativo. Come esempio di<br />

questo paradigma si cita la nuova disciplina del falso societario del 2002 e la sentenza di inammissibilità delle relative<br />

questioni (n. 161 del 2004).<br />

Norme di favore sono, invece, quelle che sottraggono una certa classe di soggetti o di condotte all'ambito di<br />

applicazione di altra norma, maggiormente comprensiva.<br />

Ancora: mentre le norme insindacabili perché delimitanti l'area di intervento di una norma incriminatrice, se<br />

invalidate, farebbero rivivere una previsione non più presente in quanto abrogata, diverso è lo scenario per quelle<br />

definite di favore.<br />

Quella connotazione presuppone infatti un giudizio di relazione tra due norme compresenti nell'ordinamento in un dato<br />

momento.<br />

Ed il requisito della compresenza costituisce lo snodo fondamentale della decisione con l'applicazione del principio di<br />

specialità di cui all'art. 15 c.p.<br />

Breve: la discriminazione favorevole per tipi di soggetti o di condotte, realizzata attraverso una norma che si ponga in<br />

rapporto di specialità con altra previsione generale proprio in ragione delle menzionate tipologie, sottraendole alla<br />

punibilità generalmente prevista, o riducendola, può essere invalidata ove appaia manifestamente irragionevole. Il<br />

paradigma della ragionevolezza, nell'ambito della questione risolta (si verteva in tema di reati elettorali), è poi<br />

articolato su schemi valutativi e teleologici, certo non nuovi a quel sindacato. D'altra parte, l'utilizzo del principio di<br />

specialità sembra preservare la geometria triangolare del controllo di eguaglianza/ragionevolezza, ancorato<br />

effettivamente al disposto dell'art. 3 comma 1 Cost.<br />

L'apertura alla possibilità di caducare norme di favore non poteva esimere la Corte dall'affrontare lo scenario prodotto<br />

da interventi di questa natura sotto il profilo della successione di diversi regimi punitivi.<br />

Queste le soluzioni. L'ablazione della norme di favore ridà spazio alla norma generale più severa, compresente. Per i<br />

fatti commessi prima dell'entrata in vigore della norma caducata non si pone una questione rispetto al principio di<br />

irretroattività delle leggi penali, appartenente al nucleo di quelli fondamentali e non soccombenti in sede di<br />

bilanciamento. A soluzioni opposte occorre evidentemente giungere nel caso di fatto commesso vigente la norma di<br />

favore.<br />

A questo punto la sentenza affronta un ulteriore tema, oggi scottante. Quello del principio della lex mitior<br />

e del suo rango. Secondo la Corte detto principio, che ha trovato riconoscimento in fonti sovranazionali e che è dotato<br />

di fondamento costituzionale, non è tuttavia ricavabile dall'art. 25 comma 2 Cost. quanto, proprio, dal principio di<br />

eguaglianza. Ma questa sottrazione al raggio inderogabile della legalità penale ne consente la soccombenza quando il<br />

suo rispetto vulneri, per altra via e in modo più profondo, in termini di irragionevolezza o di arbitrio legislativo, il<br />

143


medesimo principio di eguaglianza.<br />

Dicevo, una sentenza che segna un punto di svolta, che molto farà discutere aprendo a nuovi interventi della Consulta<br />

a fronte di leggi ad personam, di arbitrarie forme di privilegio, di scenari che hanno caratterizzato lo scorcio degli<br />

ultimi anni investendo i controlli di ragionevolezza sia sul versante interno, sia su quello comunitario: ed è<br />

significativa, in tal senso, la evidente assonanza con l'obiter dictum della sentenza della Corte di giustizia CE sulla<br />

disciplina del falso societario, già citata (punto 70). Secondo quei giudici, infatti, quello della lex mitior è<br />

principio appartenente alle tradizioni costituzionali comuni europee; esso, tuttavia, può soccombere nel bilanciamento<br />

con altri principi di medesimo rango.<br />

La sentenza n. 394 del 2006 ha, anzitutto, il pregio di affrontare il tema della sindacabilità delle norme di favore in<br />

modo esplicito ed in tutti i suoi profili problematici, così da proporsi, per il futuro, come guida sul tema cruciale dei<br />

rapporti tra Corte e Parlamento in materia penale.<br />

Non affrontandosi in questa occasione il tema della lex mitior, qualche riserva deve tuttavia essere espressa a<br />

proposito della ammissibilità della questioni riguardanti le norme di favore, così come definite dalla Corte.<br />

Come detto, la chiave di volta dell'argomentazione è costituita dal riferimento alla compresenza della previsione<br />

punitiva generale e di quella speciale: per questa via si supera la questione del possibile riferimento ad obblighi<br />

costituzionali di tutela penale, rifluendo la soluzione del problema nell'ambito del controllo di<br />

ragionevolezza/eguaglianza. Questo passaggio potrebbe tuttavia non aggirare quella interpretazione letterale del<br />

disposto dell'art. 25 comma 2 Cost. (19) che, comunque, alloca nel potere legislativo l'opzione punitiva: riproponendosi<br />

in tal modo un conflitto tra riserva di legge e principio di eguaglianza. Ma è soprattutto l'equiparazione tra tipologie di<br />

soggetti e tipologie di condotte irragionevolmente privilegiate a non convincere fino in fondo.<br />

Se la prima categoria non suscita perplessità, con il suo riferimento al nucleo normativo espresso dall'art. 3 comma 1,<br />

alle discriminazioni ratione subiecti, e le conseguenze prospettate trovano una risalente condivisione (20) , cosa ben<br />

diversa è ipotizzare una censura rivolta a privilegi attribuiti a tipi di condotte. Essi - se si esula dall'ipotesi dei reati<br />

propri o delle immunità, come, per altro, si esulava nel caso deciso - altro non sono che tipologie di fatti non interessati<br />

da profili riguardanti specifiche fisionomie di autore. Questa considerazione mi sembra che indebolisca la convinzione<br />

della sentenza di lasciare indenne il monopolio legislativo circa le opzioni di politica criminale, posto che esse altro<br />

non sono che la traduzione di una diversificata valutazione del significato lesivo dei fatti/reato. Certo, si dirà, ad<br />

entrare in campo è il controllo di ragionevolezza che, se percorre ormai consolidati argomenti teleologici, in questo<br />

caso si contiene comunque nello schema triadico che meglio garantisce il rispetto dei confini del controllo di<br />

legittimità costituzionale. Ma, anche a questo proposito, siamo così sicuri della tenuta della distinzione operata tra<br />

norme di favore compresenti con norme generali e fenomeno della delimitazione dell'area della punibilità, che non<br />

consentirebbe un sindacato e una riespansione della norma antevigente più lata? Della differenza concettuale, ritenuta<br />

in sentenza, del gesto legislativo che delimita l'area penalmente rilevante, da quello che sottrae ad essa talune tipologie<br />

di condotta (21) ?<br />

Consideriamo proprio le questioni sulla disciplina del falso societario quando si volevano colpire soglie di punibilità,<br />

ritenute irragionevoli dai giudici remittenti.<br />

Cosa distingue, proprio secondo il paradigma definitorio di norma di favore prospettato dalla Corte, il caso deciso da<br />

quello concernente il rapporto tra comma 1 dell'art. 2621c.c. (o dell'art. 2622 c.c.) e commi 3 e 4 della stessa norma<br />

(commi 5 e 6 per l'art. 2622 c.c.)?<br />

Nell'ambito dello stesso articolo è previsto il fatto punibile e per esso tuttavia è successivamente esclusa la punibilità,<br />

quando la condotta decettiva abbia prodotto determinati risultati (alterazione non "sensibile" della situazione<br />

economica, una variazione del risultato economico di esercizio inferiore a determinate soglie ).<br />

Si tratta evidentemente di regole "compresenti" nell'ambito della medesima disposizione di legge, tra loro in rapporto<br />

di specialità. La ricorrenza dell'elemento specializzante vale, infatti, ad escludere addirittura la punibilità (e non solo a<br />

ridurla come nel caso deciso dalla sentenza n. 394 del 2006). Qualora si fosse giunti ad una censura di<br />

irragionevolezza verso la scelta legislativa - come si riteneva da parte dei giudici remittenti di Milano - in termini<br />

evidentemente omologhi al caso di recente deciso, la Corte avrebbe potuto procedere con un intervento ablativo dei<br />

commi 3 e 4 dell'art. 2621 c.c. (ovvero commi 5 e 6 dell'art. 2622 c.c. ), così riespandendo la portata punitiva generale<br />

del primo. Né ci sembra possibile obiettare che in questo caso si sarebbe finito col neutralizzare una scelta di<br />

depenalizzazione e non di irragionevole riduzione della risposta punitiva. L'argomentare della Corte coinvolge a<br />

fortiori anche la prima ipotesi, come forma più grave di discriminazione per tipologie di condotte: e, del resto,<br />

144


espressamente in questo senso si esprime la sentenza n. 394 del 2006 (al punto 6.1).<br />

Ancora, e infine, invalidando il comma 3 dell'art. 100 d.P.R. n. 361 del 1957 e dell'art. 90 d.P.R. n. 570 del 1960,<br />

come modificati dalla l. n. 61 del 2004, la Corte non ha forse smantellato "pezzo a pezzo" la norma incriminatrice<br />

(risultante dal combinarsi di disciplina codicistica dei falsi e leggi speciali) «trasformandola in un quid alii rispetto alla<br />

figura voluta dal legislatore» (22) ? Quali conclusioni trarre?<br />

Se la conservazione del monopolio legislativo in base all'art. 25 comma 2, riaffermata dalla Corte, si basa sulla<br />

distinzione e sulla definizione esaminate, la constatata loro fragilità - e proprio utilizzando l'esemplificazione adottata<br />

in sentenza! - ci riconduce in alto mare. Dopo avere creduto di intravedere finalmente, per le questioni in malam<br />

partem, le luci del porto.<br />

-----------------------<br />

(1) M. Donini, Il diritto penale differenziato. La coesistenza di classico e postmoderno nella penalità contemporanea, in Critica dir,.<br />

2007, in corso di pubblicazione.<br />

(2) Prospettiva esaminata da C. Sotis, Obblighi comunitari di tutela e opzione penale: una dialettica perpetua? in Riv. it. dir. e proc.<br />

pen., 2002, 171 ss.<br />

(3) Per una sintesi di questo percorso G. Insolera, Principio di eguaglianza e controllo di ragionevolezza sulle norme penali, in<br />

AA.VV., Introduzione al sistema penale, 3ª ed, Torino, 2006, 313 ss.).<br />

(4) Perplessità ribadite di recente da E. Belfiore, Giudice delle leggi e diritto penale, Milano, 2005, 318 ss.<br />

(5) Il pensiero corre a M. Gallo, Appunti di diritto penale, I, Torino, 1999, 46 ss.; G. Delitala, Cesare Beccaria e il problema penale,<br />

in Riv. it. dir. e proc. pen., 1964, 968 ss.; F. Bricola, Teoria generale del reato, Torino, 1973, 39 ss., ora in AA.VV., Scritti di diritto<br />

penale, a cura di S. Canestrari-A. Melchionda, I, Milano, 1997, 539 s.<br />

(6) Il tema è stato recentemente affrontato in AA.VV., Riserva di legge e democrazia penale: il ruolo della scienza penale (Atti del<br />

Seminario della Associazione F. Bricola, Bologna, 5-6 febbraio 2004), a cura di G. Insolera, Bologna, 2005, passim.<br />

(7) Così, ad es., M. Donini, Sussidiarietà penale e sussidiarietà comunitaria, in AA.VV., Alla ricerca di un disegno, Padova, 2003,<br />

118 ss.<br />

(8) È la posizione di M. Pavarini, ripresa nel documento introduttivo in AA.VV., Riserva di legge e democrazia penale, cit., 13 ss.<br />

(9) Critica alla politica di recente riproposta da E.R. Zaffaroni, Alla ricerca del nemico: da Satana al diritto penale cool, in AA.VV.,<br />

Studi in onore di G. Marinucci, I, Milano, 2006, 757 ss.<br />

(10) F. Bricola, Teoria generale del reato, cit., 577 ss.<br />

(11) Una svolta è forse rinvenibile nella sentenza n. 324 del 2002, di accoglimento della questione proposta nei confronti dell'art. 688<br />

c.p. In questo senso, G. Vassalli, Giurisprudenza costituzionale e diritto penale sostanziale. Una rassegna, in AA.VV. Corte<br />

costituzionale e processo costituzionale, a cura di A. Pace, Milano, 2006, 1056. Sul tema dell'offensività anche in rapporto ai<br />

controlli di ragionevolezza, diffusamente il recente lavoro di V. Manes, Il principio di offensività nel diritto penale, Giappichelli,<br />

Torino, 2005, passim.<br />

(12) Come è noto, quanto alla legge di riforma del falso societario, risolta, sul piano interno dalla sentenza n. 161 del 2004, su quello<br />

comunitario CGCE, Grande Sezione, 3 maggio 2005, C-387/02, C-391/02, C-403/02, Berlusconi ed altri, in Cass. pen., 2005, 2764<br />

ss., con commento di Insolera-Manes.<br />

(13) Aspetto messo efficacemente in evidenza da G. Fornasari-A. Menghini, Percorsi europei di diritto penale, Padova, 2005, 2 ss.<br />

(14) G. Insolera, Democrazia, Ragione e prevaricazione, Milano, 2003, 61 ss.<br />

(15) Cosi, ad es., di recente, M. D' Amico, Ai confini (nazionali e sovranazionali) del favor rei, in AA.VV., Ai confini del favor rei, a<br />

cura di Bin-Brunelli-Puggiotto-Veronesi, Torino, 2005, 14 ss.<br />

(16) V. Corte cost. 23 novembre 2006, n. 394, in questa Rivista, 2007, 316 ss., con commento di M. la Rosa.<br />

(17) A tale questione non può ricondursi né la rigida giurisprudenza della Consulta in tema di leggi regionali che rendano lecite,<br />

integrando una fattispecie incriminatrice, condotte punite da legge statale. Questa interferenza "negativa" trova infatti sanzione nel<br />

generale divieto di leggi penali regionali, più volte ribadito dalla Corte in base all'art. 25 comma 2 (sul punto, ad es., A. Gamberini,<br />

145


Riserva di legge, in AA.VV. Introduzione al sistema penale, 3ª ed., Torino, 2006, 148 ss.). "Involontario" deve invece ritenersi<br />

l'effetto espansivo della fattispecie di bestemmia prodotto dalla sentenza n. 440 del 1995.<br />

(18) Prodotte dalla compresenza di norme nell'ambito di un assetto reticolare delle fonti. V. Manes, Norme penali di favore, no della<br />

Consulta, in Dir. giust., 2006, 46, 31.<br />

(19) Né mi sembra possibile ipotizzare una diversa valenza del termine "punire" nell'art. 25 e nell'art. 13 Cost.<br />

(20) V. ad es. L. Paladin, In tema di leggi personali, in AA.VV., Corte costituzionale, Giurisprudenza costituzionale, cinquant'anni di<br />

Diritto costituzionale, a cura di S. Bartole, Milano, 2006, 59 ss.<br />

(21) A questo criterio significativamente si fa appello sia nella sentenza n. 161 del 2004, sia nella sentenza n. 394 del 2006.<br />

(22) Operazione ritenuta inammissibile proprio dalla sentenza n. 161 del 2004.<br />

146


ECCEZIONI ALLA RETROATTIVITA' FAVOREVOLE E DIRITTI FONDAMENTALI<br />

Martufi Adriano (*)<br />

c.p. art. 2<br />

FONTE
Dir. Pen. e Processo, 2013, 4, 488
Successione di leggi<br />

In anni recenti, grazie anche alla giurisprudenza delle Corti europee, il principio di retroattività favorevole ha<br />

consolidato il proprio status costituzionale, riducendo significativamente la possibilità di derogarvi tramite legge<br />

ordinaria. La configurazione della lex mitior come diritto fondamentale, in particolare, richiede oggi di porre alla<br />

base di eventuali deroghe controinteressi di analogo rilievo costituzionale. Alla luce di tali premesse, questo lavoro si<br />

interroga sulla legittimità delle eccezioni alla retroattività in mitius di matrice codicistica, soffermandosi in particolare<br />

sull'ammissibilità della disciplina prevista per le leggi eccezionali e temporanee (art. 2, comma 5, c.p.). Dopo avere<br />

ricostruito i fondamenti di tale disciplina nell'ordinamento italiano, il lavoro esamina anche le equivalenti previsioni in<br />

vigore in alcuni Stati pilota dell'Unione europea, mettendo in evidenza la stretta correlazione tra la ratio della deroga in<br />

questione e i principi di necessità e proporzione della sanzione penale.<br />

Sommario: Derogabilità della lex mitior e bilanciamento di interessi contrapposti nel prisma dei diritti fondamentali -<br />

La deroga per le leggi eccezionali e temporanee e il suo fondamento nell'ordinamento italiano - La deroga alla<br />

retroattività favorevole per le leggi ad efficacia temporalmente limitata: una prima analisi comparata - Il fondamento<br />

della deroga nella dottrina straniera - Alcune osservazioni conclusive. Il fondamento "europeo" della deroga tra<br />

necessità e proporzione<br />

Derogabilità della lex mitior e bilanciamento di interessi contrapposti nel prisma dei diritti fondamentali<br />

L'influsso del diritto europeo sottopone a continue sollecitazioni i principi del diritto penale, imponendo<br />

all'interprete di rimeditarne il contenuto alla luce dei sempre più numerosi spunti che provengono dall'universo<br />

giuridico sovranazionale (1) . Questo processo di "contaminazione" si realizza attraverso l'interazione reciproca tra<br />

Carte dei diritti fondamentali e Costituzioni nazionali, alimentandosi grazie all'interpretazione che di esse danno le<br />

rispettive Corti supreme (2) . Emblematica al riguardo è la vicenda della retroattività della legge penale più favorevole,<br />

principio il cui consolidamento a livello costituzionale è da tempo evidenziato dalla dottrina più autorevole (3) , ma la<br />

cui statura è parsa in tempi recenti rafforzarsi ulteriormente per effetto della sempre maggiore influenza del diritto<br />

eurounitario e dell'accresciuta vincolatività riconosciuta alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti<br />

dell'Uomo.<br />

Il tema è senza dubbio tra i più dibattuti nello scenario penalistico contemporaneo, al punto che pare quasi superfluo<br />

richiamare in modo analitico i tratti salienti del processo evolutivo che ha favorito l'"irresistibile ascesa" della<br />

retroattività in mitius. Giova tuttavia sottolineare come, malgrado il rinnovato interesse manifestato dalla dottrina,<br />

alcune delle più rilevanti questioni interpretative legate al fondamento e al rango della retroattività favorevole<br />

appaiano ancor oggi lontane dal trovare soddisfacente risoluzione. A destare i maggiori dubbi, in particolare, è<br />

l'annoso tema dei limiti all'operatività della lex mitior regel, controversia che in anni recenti ha impegnato la migliore<br />

dottrina e la giurisprudenza costituzionale con particolare riferimento alla legittimità delle eccezioni alla retroattività<br />

favorevole in tema di prescrizione (4) .<br />

In questo contesto, l'influenza esercitata dal diritto convenzionale e dell'Unione europea ha aperto lo spazio per<br />

una radicale riscrittura dei fondamenti teorici del principio in esame, offrendo numerosi elementi per una<br />

rimeditazione della disciplina intertemporale vigente nell'ordinamento interno (5) . A questo approdo ha condotto,<br />

anzitutto, la giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea la quale, a partire dalla sentenza nel caso<br />

Berlusconi (6) , ha ritenuto che la retroattività in mitius appartenga alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati<br />

membri e come tale faccia parte integrante dei principi generali del diritto UE che il giudice nazionale è tenuto<br />

ad osservare in sede di applicazione del diritto nazionale attuativo della normativa comunitaria (7) . Non sembra<br />

eccessivo affermare, al riguardo, che la pronuncia citata abbia gettato le basi per una vera e propria rifondazione<br />

costituzionale del principio in esame. Per un verso, infatti, la retroattività favorevole, facendo corpo con il diritto<br />

dell'Unione, ha acquisito il rango di norma sovraordinata rispetto al diritto interno, anche costituzionale, in forza<br />

degli art. 11 e 117 Cost (8) . Per altro verso, la giurisprudenza della Corte, riconoscendo alla lex mitior lo statuto di<br />

principio generale del diritto europeo inerente i diritti fondamentali (9) , è parsa prefigurare un più ridotto margine<br />

di derogabilità della garanzia in oggetto (10) , alimentando i percorsi argomentativi intesi ad ottenerne un rafforzamento<br />

147


anche a livello nazionale (11) .<br />

Il processo di valorizzazione costituzionale del principio di retroattività favorevole è quindi sfociato in un successivo<br />

pronunciamento della Corte europea di Strasburgo (12) che ha riconosciuto alla lex mitior il rango di diritto<br />

fondamentale garantito dalla Convenzione europea dei diritti dell'Uomo. Come è risaputo, infatti, la Corte EDU, ad<br />

esito di un articolato processo di circolazione del precedente (13) , ha ritenuto che l'applicazione retroattiva della pena<br />

più mite costituisca un corollario del più generale principio di legalità dei delitti e delle pene sancito dall'art. 7 CEDU.<br />

La decisione, che prende le mosse dal consenso venutosi gradualmente a formare a livello europeo ed internazionale in<br />

merito all'applicazione retroattiva della legge penale più favorevole, ricollega significativamente la lex mitior alle<br />

esigenze di legalità e proporzione espresse nel brocardo nullum crimen nulla poena sine lege. Dalla "preminenza del<br />

diritto " nella materia penale stabilita dall'art. 7 della Convenzione, discende infatti - secondo la Corte - il divieto<br />

di continuare a infliggere pene che lo Stato e la collettività considerano ormai eccessive, con l'obbligo per il giudice di<br />

applicare le modifiche legislative favorevoli all'imputato intervenute prima della sentenza di condanna (14) .<br />

L'affermarsi del principio della retroattività favorevole in prospettiva europea ha quindi riproposto con forza gli<br />

interrogativi relativi alla portata della lex mitior e alla sua ponderabilità con eventuali interessi contrapposti. La Corte<br />

costituzionale aveva infatti in precedenza riconosciuto la piena derogabilità della garanzia in esame, ravvisandone il<br />

fondamento costituzionale nel solo principio di uguaglianza (art. 3 Cost.). Se ne faceva discendere l'ammissibilità di<br />

limitazioni o deroghe sorrette da "giustificazioni ragionevoli", e ciò per la nota correlazione esistente tra<br />

ragionevolezza delle scelte legislative e principio di uguaglianza (15) . La riconduzione del principio al sistema delle<br />

garanzie convenzionali si presta invece ad assegnare un rango più elevato alla retroattività favorevole, stante la natura<br />

di parametri costituzionali interposti attribuita alle disposizioni convenzionali e alla giurisprudenza ad esse correlata<br />

(16) . La rivalutazione della canone della lex mitior nell'orizzonte dei diritti fondamentali sembra inoltre attribuire al<br />

principio in parola un'accresciuta forza di resistenza, in ragione della valenza personalistica conferitagli dai giudici di<br />

Strasburgo (17) . A ciò si aggiunga che la disposizione dell'art. 7 CEDU occupa una posizione del tutto preminente<br />

all'interno del sistema di tutela istituito dalla Convenzione, iscrivendosi tra quelle previsioni per cui non è ammessa<br />

alcuna deroga neppure in caso di guerra o di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione (18) .<br />

Come è noto, tuttavia, la Corte costituzionale ha in tempi recenti sostanzialmente confermato il contenuto regolativo<br />

della lex mitior, smorzando così le possibili ricadute della giurisprudenza europea sul piano del diritto nazionale.<br />

In particolare, i giudici della Consulta hanno riaffermato la persistente derogabilità del principio, ritenendo che la<br />

retroattività in mitius si configuri, anche nella prospettiva del diritto convenzionale, quale principio suscettibile<br />

di limitazioni (19) . Più in particolare la Corte, confermando lo schema di giudizio già utilizzato in passato, ha ritenuto<br />

che la retroattività favorevole continui a cedere il passo in presenza di "valide ragioni giustificative" (20) . A ben vedere,<br />

nel caso di specie, i giudici della Consulta sembrano avere voluto salvaguardare il proprio "margine nazionale di<br />

apprezzamento" adattando i contenuti della giurisprudenza europea alle specificità dell'ordinamento nazionale, non<br />

senza una parziale manipolazione del dictum della Corte di Strasburgo (21) .<br />

Sennonché, come si evince dalla analisi della stessa giurisprudenza costituzionale, un bilanciamento tra le norme della<br />

Convenzione ed eventuali interessi contrapposti è ammissibile soltanto dove si miri ad offrire maggiore tutela ad altri<br />

diritti fondamentali (22) . Di conseguenza, per limitare la portata della retroattività favorevole, la Corte avrebbe dovuto<br />

individuare il fondamento della deroga in interessi "compatibili" con il nuovo rango della lex mitior, ricercandoli nel<br />

novero dei diritti fondamentali (23) . A conclusioni analoghe, del resto, si sarebbe potuti giungere anche seguendo la<br />

precedente giurisprudenza costituzionale in tema di retroattività favorevole. Come la Consulta non ha mancato di<br />

precisare, infatti, le limitazioni e le deroghe al principio della lex mitior "devono giustificarsi in relazione alla necessità<br />

di preservare interessi contrapposti di analogo rilievo", con la conseguenza, solo all'apparenza scontata, che una volta<br />

lievitata la lex mitior al rango di diritto fondamentale, le sue eventuali limitazioni avrebbero dovuto fondarsi su<br />

interessi costituzionali di rango "assiologicamente omogeneo" (24) . Infine, anche dove si fosse ravvisata una divergenza<br />

tra Costituzione e garanzie delle Convenzione, i giudici costituzionali avrebbero dovuto comporre il conflitto<br />

favorendo la soluzione interpretativa più idonea a favorire "la massima espansione delle garanzie" (25) , attraverso una<br />

lettura della lex mitior meno incline a tollerare limitazioni da parte della legge ordinaria.<br />

La questione dei limiti all'operatività della lex mitior appare dunque destinata a riproporsi, sottoponendo all'interprete<br />

il difficile compito di individuare le ragioni per cui determinati controinteressi siano ritenuti, di volta in volta,<br />

prevalenti sul diritto all'applicazione della legge penale più mite. Un simile interrogativo, del resto, non riguarda<br />

solo le eccezioni che rispondono a contingenti esigenze di "autotutela del sistema penale" (26) , ma investe anche<br />

deroghe a carattere generale come quella prevista all'art. 2, comma 5, c.p. per le "leggi eccezionali e temporanee" (27) .<br />

Questa disposizione, infatti, se appare ineccepibile in un'ottica di coerenza intrasistematica, sembra però - almeno a<br />

prima vista - fare difetto di un referente assiologico in grado di giustificarne la prevalenza sul diritto<br />

all'applicazione della pena più mite.<br />

148


Il presente lavoro mira perciò a ricostruire le ragioni che giustificano la deroga al principio di retroattività favorevole<br />

per le leggi eccezionali e temporanee, al fine di riaffermarne la legittimità alla luce del diritto convenzionale e<br />

dell'Unione. A tal scopo sembra necessario, in prima battuta, esaminare la disciplina intertemporale dettata dal codice<br />

penale inquadrando il fondamento della deroga di cui al quinto comma dell'art. 2 c.p. (infra par. 2). Sembra utile poi<br />

valutare se il regime intertemporale previsto per le leggi eccezionali e temporanee trovi una qualche corrispondenza<br />

nella disciplina degli altri Stati membri, anche al fine di ricostruirne la ratio nella più ampia prospettiva del diritto<br />

europeo (infra par. 3 e par. 3.1.). L'epilogo dell'indagine porterà a chiedersi, infine, se la rivalutazione delle<br />

esigenze che sorreggono la deroga in esame non possa preludere a una rilettura della disciplina di cui all'art. 2, comma<br />

5, c.p. e ad una conseguente ridefinizione del suo perimetro applicativo (infra par. 4).<br />

La deroga per le leggi eccezionali e temporanee e il suo fondamento nell'ordinamento italiano<br />

Come è risaputo, ai sensi del quinto comma dell'art. 2 c.p. il principio di retroattività favorevole non opera in presenza<br />

di una legge di natura eccezionale o temporanea. Una simile preclusione ha effetto sia laddove la legge successiva<br />

intervenga ad abrogare una precedente figura di reato, sia qualora la stessa si limiti a modificare la disciplina vigente<br />

in senso più favorevole al reo. Si parla, al riguardo, di ultrattività delle leggi eccezionali e temporanee, dal momento<br />

che le previsioni a efficacia temporalmente limitata continuano ad applicarsi ai fatti commessi sotto la loro vigenza<br />

anche dopo l'abrogazione o la modifica ad opera di una legge successiva (28) . Come è stato correttamente evidenziato,<br />

la disciplina dettata dal quinto comma dell'art. 2 c.p., lungi dal derogare al solo canone della lex mitior, introduce<br />

un'eccezione al più generale principio del favor rei, canone che informa l'intero sistema di diritto intertemporale<br />

delineato dal codice (29) .<br />

Malgrado questa pur evidente asimmetria rispetto a uno dei principi ispiratori del sistema penale (30) , le argomentazioni<br />

addotte a sostegno della legittimità dell'art. 2, comma 5, c.p. si sono spinte solo raramente a richiamare valori di<br />

analogo rilievo costituzionale. A ben vedere, infatti, la ratio della disciplina prevista per le leggi eccezionali e<br />

temporanee è stata per lungo tempo ravvisata nella sola esigenza di preservare l'efficacia generalpreventiva dei precetti<br />

penali, ovvero, in tempi più recenti, nella necessità di assicurare la ragionevole diversità di trattamento per i fatti<br />

commessi, rispettivamente, durante la vigenza dei provvedimenti temporanei e sotto l'imperio della disciplina<br />

ordinaria.<br />

1) Quanto al primo orientamento, si afferma che le leggi eccezionali e temporanee subirebbero un notevole<br />

affievolimento della propria capacità dissuasiva se fosse noto in anticipo che, con il ritorno alla più favorevole<br />

disciplina ordinaria, i fatti commessi sotto il vigore della norma transitoria andranno esenti da pena o saranno<br />

comunque sottoposti a un trattamento sanzionatorio meno rigoroso (31) . Una simile impostazione (32) - influenzata da<br />

istanze di prevenzione generale negativa - finisce tuttavia per restringere l'ambito applicativo della deroga ai soli casi<br />

in cui la disciplina ordinaria succeda ad una previsione di carattere eccezionale o temporaneo più severa (33) .<br />

Nell'ipotesi di successione tra una legge comune o ordinaria e una legge transitoria più mite, non vi sarebbe infatti<br />

alcuna necessità di salvaguardare l'effetto deterrente delle norme temporanee, con la conseguente esclusione del<br />

regime intertemporale dell'art. 2, comma 5, c.p. (34) . Del resto, anche a tacere dell'insufficienza del richiamo a esigenze<br />

di difesa sociale (35) per giustificare deroghe ai diritti fondamentali (36) , appare chiaro come l'interpretazione in discorso<br />

si caratterizzi per una evidente sopravvalutazione dell'effetto generalpreventivo delle leggi a vigenza temporanea (37) .<br />

Non soltanto, infatti, la tesi in esame sembra porre in capo ai destinatari del precetto un'irrealistica presunzione di<br />

conoscenza dei limiti di durata della legge temporanea, ma essa risulta inadeguata a illustrare il funzionamento della<br />

deroga rispetto alle leggi a carattere eccezionale, per definizione prive di un termine di efficacia predeterminato (38) .<br />

2) La dottrina più recente ha quindi preferito ravvisare il fondamento della disciplina prevista per le leggi temporanee<br />

in un'esigenza di parità di trattamento, affermando la legittimità della deroga attraverso il medesimo schema di<br />

giudizio impiegato per riconoscere rilevanza costituzionale alla lex mitior. Se infatti il principio di uguaglianza impone<br />

esclusivamente di equiparare il trattamento di situazioni omogenee (39) , la scelta di differenziare il regime<br />

intertemporale applicabile alle leggi di transizione appare del tutto legittima, stante l'intrinseca diversità che<br />

caratterizza la disciplina transitoria rispetto a quella ordinaria (40) . Più in particolare, il fatto che le leggi temporanee<br />

circoscrivano la loro efficacia a un determinato contesto cronologico e fattuale, suggerisce di ritenerle applicabili<br />

soltanto ai fatti commessi durante la loro vigenza, posto che sarebbe del tutto illogico estenderne l'applicazione a fatti<br />

ulteriori in assenza delle ragioni contingenti che ne hanno giustificato l'introduzione (41) . Da questo assunto deriva<br />

peraltro una parziale estensione dello spettro operativo della disciplina in esame. Se infatti si ravvisa il fondamento<br />

della deroga nella natura stessa delle leggi eccezionali e temporanee - e nel diverso trattamento che esse debbono<br />

ricevere sotto il profilo intertemporale - non vi è motivo per escludere che la regola del tempus regit actum si applichi<br />

anche nei casi in cui ad una legge ordinaria succeda una legge eccezionale più mite (42) .<br />

149


Come è stato correttamente evidenziato, tuttavia, la soluzione appena prospettata conduce, per varie ragioni, ad<br />

accogliere una interpretazione oltremodo restrittiva dei presupposti di eccezionalità e temporaneità previsti dal codice<br />

(43) . Secondo l'impostazione in esame, infatti, il legislatore dovrebbe sempre predeterminare l'area di operatività<br />

temporale della legge transitoria (44) , indicando anticipatamente il termine di durata per leggi temporanee e prevedendo<br />

espressamente che le leggi eccezionali decadano alla cessazione della situazione straordinaria da esse regolata (45) . Ne<br />

deriva un tendenziale irrigidimento delle condizioni di operatività della disciplina di cui all'art. 2, comma 5, c.p. In<br />

questa prospettiva, infatti, a beneficiare della disciplina derogatoria sarebbero soltanto quei provvedimenti per cui il<br />

legislatore ha esplicitamente prestabilito un termine ultimo di vigenza (46) . Del pari, non potrebbe parlarsi di leggi<br />

eccezionali laddove il legislatore non abbia espressamente individuato una condizione al verificarsi della quale la<br />

legge provvisoria cessa di applicarsi (47) .<br />

Alla restrittiva lettura appena richiamata si è tuttavia contrapposta, in tempi recenti, una diversa impostazione, tesa a<br />

riconoscere un'interpretazione più ampia dei presupposti applicativi della deroga (48) . In particolare, si è affermato che<br />

la disciplina di cui all'art. 2, comma 5, c.p. dovrebbe applicarsi a tutte le fattispecie che contengono il tempo quale<br />

elemento costitutivo, ivi comprese le norme incriminatrici integrate da previsioni extrapenali di natura temporanea (49) .<br />

Più precisamente, la disciplina in discorso andrebbe riferita a tutte le norme penali che, nella descrizione del fatto<br />

tipico, considerano quale elemento di fattispecie le particolari condizioni di tempo e di luogo in cui si realizza la<br />

condotta (50) . Tale rilettura della deroga in tema di leggi eccezionali e temporanee si inserisce, peraltro, nel quadro di<br />

una più ampia rimeditazione delle premesse teoriche dell'istituto in esame. Secondo la dottrina citata, infatti, l'attuale<br />

previsione codicistica recepirebbe la distinzione - maturata nell'ambito della dottrina tedesca di fine ottocento (51) - tra<br />

modifiche della legge penale che esprimono un diverso giudizio di valore sul fatto tipico (Änderungen der<br />

Rechtsanschauung) e modifiche che invece riflettono una semplice variazione delle circostanze di fatto disciplinate<br />

dalla legge (Wandlungen der tatsachlichen Verhältnisse) (52) . Soltanto le prime, in quest'ottica, sarebbero in grado di<br />

incidere retrospettivamente sul consolidato applicativo della norma abrogata, dovendosi altrimenti fare salva la<br />

punibilità dei fatti pregressi in forza dell'art. 2, comma 5, c.p.<br />

Aldilà dell'opinabilità della ricostruzione storica proposta (53) , va detto che una analoga lettura dei presupposti<br />

sostanziali delle eccezioni alla retroattività favorevole sembra affiorare anche dall'analisi della giurisprudenza<br />

costituzionale. Secondo la Corte, infatti, la lex mitior opererebbe soltanto in presenza di una diversa la valutazione<br />

sociale del fatto di reato (54) , non ricorrendo altrimenti alcuna disparità di trattamento rispetto alla più rigorosa<br />

disciplina previgente (55) . Questa soluzione è stata anche di recente ribadita dalla Consulta, a giudizio della quale il<br />

presupposto per l'applicazione retroattiva della legge penale più mite sarebbe costituito dall'"omogeneità tra i contesti<br />

fattuali o normativi in cui operano le disposizioni che si succedono nel tempo", posto che è "proprio la diversità del<br />

contesto che giustifica la deroga posta dal quinto comma dell'art. 2 c.p." (56) . Questa impostazione sembra richiamare<br />

la tesi, diffusa nella letteratura e nella giurisprudenza di alcuni Paesi europei (57) , secondo la quale la norma più<br />

favorevole potrebbe applicarsi ai fatti pregressi soltanto in presenza di una nuova valutazione giuridica del fatto di<br />

reato, dovendosi invece escludere nei casi in cui la novatio legis si limiti a tradurre una variazione delle circostanze di<br />

fatto su cui si fondava l'incriminazione.<br />

Se è vero, dunque, che non tutte le modifiche legislative da cui derivi una contrazione dell'area di illiceità penale sono<br />

per ciò stesso suscettibili di applicazione retroattiva (58) , è però anche vero che non basta un vago riferimento della<br />

disposizione al proprio contesto applicativo per negare effetto retrospettivo alle norme più favorevoli (59) . In un'ottica<br />

costituzionalmente orientata, infatti, il giudizio sulla rilevanza penale dei fatti pregressi deve più correttamente<br />

rapportarsi alla valutazione della persistente offensività della condotta (60) . Inoltre, in considerazione del rinnovato<br />

afflato personalistico riconosciuto al principio della lex mitior, sembrerebbe opportuno valutare se la limitazione della<br />

personalità del reo correlata al trattamento sanzionatorio più severo risulti ancora giustificabile (61) , il tutto secondo<br />

cadenze che lasciano intravedere un intimo legame tra la retroattività favorevole e i principi di proporzionalità e<br />

necessità della sanzione penale.<br />

Non stupisce quindi che parte della dottrina ravvisi la ratio della deroga in esame nel fatto che le condotte sanzionate<br />

dalle leggi temporanee presentano, di regola, una "offensività a termine", traendo il proprio disvalore dalla particolare<br />

situazione di fatto a cui si ricollegano (62) . Questa impostazione, infatti, mette in luce il necessario nesso che deve<br />

intercorrere tra la scelta di applicare la disciplina penale meno favorevole al reo e l'intrinseca gravità del fatto, che<br />

deve risultare apprezzabile anche dopo l'abrogazione della relativa norma di incriminazione. Gli effetti nel tempo<br />

prodotti dalle modifiche legislative, del resto, non obbediscono soltanto ad esigenze di razionalità sistemica, ma<br />

debbono rispettare anche i più generali principi della materia penale (63) . Di qui la necessità di reperire una<br />

giustificazione connessa ai diritti fondamentali anche per le ipotesi di modifica normativa a cui si applichi la regola del<br />

tempus regit actum (64) .<br />

Cimentarsi in questa sede con un così difficile quesito, tuttavia, appare non solo velleitario ma persino fuorviante ove<br />

si assuma quale unico punto di fuga della riflessione il disposto costituzionale. In realtà, il complesso gioco di<br />

150


interazioni tra ordinamenti entro cui oggi si realizzano le garanzie costituzionali, richiede di ampliare il raggio<br />

dell'analisi e considerare il problema dei limiti alla retroattività favorevole anche nell'ottica del diritto<br />

costituzionale europeo (65) . In particolare, pare opportuno ritornare sulla affermazione della Corte di giustizia secondo<br />

cui il principio della lex mitior farebbe parte delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. Sotto questo<br />

profilo sembra infatti particolarmente interessante verificare se - una volta ammessa la tendenziale derogabilità del<br />

principio in parola - non si riscontri nei singoli ordinamenti un "orientamento prevalente" in favore di limitazioni alla<br />

retroattività favorevole determinate dalla natura transitoria della legge penale. In particolare, pare utile chiarire se<br />

dall'analisi dei sistemi nazionali non possano ricavarsi dei principi da contrapporre alla retroattività favorevole,<br />

legittimando la limitazione degli interessi fondamentali ad essa sottesi.<br />

La deroga alla retroattività favorevole per le leggi ad efficacia temporalmente limitata: una prima analisi comparata<br />

La deroga predisposta dal codice penale italiano per le leggi eccezionali e temporanee trova una singolare<br />

corrispondenza in quasi tutti gli ordinamenti nazionali dell'area di civil law. Un simile dato può apparire a prima vista<br />

sorprendente se si considerano le profonde diversità che caratterizzano il principio della lex mitior nei singoli<br />

ordinamenti nazionali. Sotto questo aspetto, infatti, l'analisi comparata rivela un panorama ancora molto eterogeneo:<br />

sia per quanto attiene al rango riconosciuto alla retroattività favorevole, sia per quanto concerne le possibilità di un suo<br />

bilanciamento con eventuali interessi contrapposti (66) . Sembra quindi opportuno procedere nel dettaglio ad una<br />

ricostruzione delle diverse previsioni derogatorie vigenti negli ordinamenti nazionali, limitando l'analisi ai Paesi più<br />

rappresentativi della tradizione giuridica continentale: la Germania, la Spagna e la Francia.<br />

Germania. Cominciando dall'esame dell'ordinamento tedesco, può subito constatarsi come una previsione derogatoria<br />

analoga a quella contemplata dal legislatore italiano sia disciplinata al par. 2, comma 4, dello Strafgesetzbuch, ove è<br />

stabilito che le leggi dotate di efficacia temporalmente limitata (67) debbono sempre trovare applicazione ai fatti<br />

commessi durante la loro vigenza, salvo che non sia diversamente previsto dalla legge (68) . L'attuale formulazione<br />

legislativa recepisce le modifiche apportate alla disciplina codicistica dalla legge di introduzione del codice penale del<br />

2 marzo 1974. Tale intervento di riforma ha decisamente ampliato lo spettro applicativo della deroga rimodulando in<br />

chiave estensiva il concetto di legge temporanea. Stando all'attuale dato letterale, infatti, debbono considerarsi come<br />

temporanee non solo le disposizioni per cui il legislatore abbia stabilito in anticipo un termine di durata, ma anche<br />

quelle che, pur in assenza di un preciso termine di scadenza, sono comunque destinate a rimanere in vigore solo per un<br />

lasso di tempo determinato (69) .<br />

L'intervento legislativo citato, tuttavia, non ha messo fine al dibattito, da sempre vivo nella dottrina d'oltralpe, tra i<br />

sostenitori di una concezione ampia di legge temporanea (Zeitgesetze im weiteren Sinn) e gli assertori di<br />

un'interpretazione più ristretta dei requisiti di operatività della deroga in discorso (Zeitgesetze im engeren Sinn) (70) . A<br />

favore di quest'ultima tesi militano infatti considerazioni di tassatività e certezza giuridica (71) , oltre a condivisibili<br />

esigenze di politica criminale (72) . La dottrina maggioritaria (73) , comunque, sembra sposare una interpretazione<br />

estensiva dei presupposti della deroga codicistica, riconoscendo natura temporanea anche alle norme di complemento<br />

che abbiano carattere temporalmente circoscritto in virtù della particolare materia disciplinata (74) .<br />

Spagna. Una previsione di analogo tenore si ritrova anche nell'ordinamento spagnolo. L'art. 2, comma 2, del codice<br />

penale prevede che i fatti commessi sotto la vigenza delle leggi a carattere temporaneo debbano essere giudicati in<br />

conformità ad esse, salvo che non sia espressamente previsto il contrario (75) . Per vedere introdotta la deroga in parola,<br />

tuttavia, è stato necessario attendere l'adozione del codice del 1995, e ciò nonostante la dottrina avesse a lungo<br />

invocato un temperamento della regola della lex mitior per le ipotesi oggetto d'esame. Nei decenni precedenti alla<br />

emanazione del codice vigente, infatti, si era a più riprese affermato che le leggi a vigenza temporanea potessero<br />

derogare al principio della retroattività in mitius - all'epoca sancito dall'art. 24 del codice penale - sul presupposto che<br />

la loro previsione non dipendeva da un mutamento di valutazione giuridica, ma da una semplice variazione delle<br />

circostanze di fatto cui la norma andava applicata (76) .<br />

Anche in Spagna, tuttavia, all'indomani dell'entrata in vigore del nuovo codice, non sono mancati i dubbi circa l'esatta<br />

portata del concetto di legge temporanea. Per un verso, infatti, al contrario di quanto accaduto in Germania, la<br />

disciplina codicistica non ha definito il concetto di temporaneità della legge penale, lasciando aperte le opzioni<br />

interpretative circa l'ampiezza della deroga introdotta dal codice. Per altro verso, a differenza del legislatore italiano,<br />

quello spagnolo non ha previsto espressamente la regola del tempus regit actum per le leggi eccezionali (77) . Così, se da<br />

una parte i sostenitori di un'interpretazione più estesa della deroga si sono richiamati all'ampia formulazione ricavabile<br />

dalla lettera del codice (78) , dall'altra i critici di questa soluzione esegetica hanno fatto leva sulla mancata inclusione<br />

delle leggi eccezionali per invocare una restrizione dell'ambito applicativo della deroga (79) .<br />

151


Francia. Del tutto peculiare è infine la situazione dell'ordinamento francese, ove alla retroattività favorevole è stata<br />

conferita diretta rilevanza costituzionale in virtù della sua connessione con il principio di necessità della sanzione<br />

penale (80) . A ben vedere, infatti, non si ravvisano a livello legislativo previsioni derogatorie di contenuto analogo a<br />

quelle degli altri codici esaminati, ragion per cui dovrebbe sempre ritenersi applicabile la norma più favorevole<br />

sopravvenuta alla commissione del fatto (81) . La disciplina delle leggi di transizione, inoltre, sembra essere sfuggita<br />

all'attenzione del legislatore anche in sede di redazione del nuovo codice penale (82) , complici forse la ricordata<br />

costituzionalizzazione della lex mitior (83) e le peculiarità che sotto il profilo teorico-generale da sempre caratterizzano<br />

questo tema nella cultura giuridica transalpina (84) .<br />

In tempi recentissimi, tuttavia, il quadro è mutato radicalmente per effetto di una pronuncia del Conseil constitutionnel<br />

intervenuta a risolvere il controverso tema dell'ultrattività delle leggi penali in materia economica e fiscale. L'organo di<br />

giustizia costituzionale francese ha infatti ammesso la derogabilità della lex mitior nei casi in cui le condotte realizzate<br />

prima della modifica legislativa risultino inseparabili dal particolare contesto normativo vigente all'epoca del fatto (85) .<br />

In numerosi settori della legislazione penale complementare, in effetti, le norme richiamate dalla legge penale hanno<br />

carattere intrinsecamente transitorio, il che porterebbe a escludere che la loro modifica incida sul disvalore dei fatti<br />

pregressi. Verrebbe così a mancare il presupposto per l'applicazione della lex mitior, cioè l'esistenza di una nuova<br />

valutazione legislativa in relazione alla necessità della sanzione penale (86) , con conseguente ultrattività delle norme<br />

vigenti al momento del fatto.<br />

Questa soluzione appare del resto coerente con la scelta di fondare la retroattività favorevole sul principio di necessità<br />

della sanzione penale (87) . Se infatti si ritiene che la condotta tragga il proprio disvalore dal particolare contesto<br />

normativo e fattuale in cui è stata commessa, si deve ammettere, di conseguenza, che la sanzione resti necessaria<br />

anche dopo il venire meno delle circostanze che ne hanno determinato l'incriminazione. La sentenza citata, dunque,<br />

pur prendendo posizione esclusivamente in relazione al tema delle deroghe alla lex mitior in materia di diritto<br />

penale dell'economia (88) , si presta ad incidere a fortiori sulla questione - parimenti discussa nell'ambito della dottrina<br />

francese - dell'ultrattività delle leggi a efficacia temporanea (89) , categoria a cui vengono ricondotte, tra l'altro, le<br />

fattispecie incriminatrici in materia fiscale e doganale (90) .<br />

Il fondamento della deroga nella dottrina straniera<br />

Se dall'analisi della disciplina intertemporale vigente nei singoli ordinamenti nazionali si passa all'esame delle ragioni<br />

che giustificano il trattamento derogatorio per le leggi a vigenza temporanea, il quadro si presenta però decisamente<br />

più variegato e di difficile lettura. Come già nell'ordinamento italiano, infatti, anche nei sistemi giuridici nazionali di<br />

cui si è fin qui brevemente dato conto, la dottrina non sembra unanime nell'individuare il fondamento della regola del<br />

tempus regit actum per le leggi di transizione. Ad argomenti ispirati alla teoria della prevenzione generale negativa si<br />

affiancano, infatti, valutazioni di stampo assiologico connesse ai principi fondamentali di proporzione e necessità della<br />

sanzione penale.<br />

Germania. Nell'ordinamento tedesco, mentre la dottrina tradizionale tende a ravvisare la ratio della deroga nella sola<br />

necessità di preservare l'effetto dissuasivo delle norme di durata (91) , altri autori sembrano porre maggiormente<br />

l'accento sulle ragioni che di volta in volta determinano la modifica normativa. La norma più favorevole, cioè, non<br />

avrebbe motivo di applicarsi retroattivamente laddove il passaggio dalla disciplina eccezionale a quella ordinaria non<br />

rispondesse a una mutata valutazione giuridica del fatto di reato (92) . In assenza di una nuovo giudizio da parte del<br />

legislatore, infatti, il conflitto tra la condotta tenuta dal reo e l'ordinamento giuridico si manterrebbe attuale e<br />

meritevole di repressione penale anche dopo l'abrogazione della norma transitoria (93) .<br />

Tale tesi è stata in seguito ripresa e sviluppata dalla dottrina più attenta alle dinamiche intertemporali delle leggi a<br />

vigenza temporanea (94) . Questi autori, infatti, ravvisano il fondamento della lex mitior nel principio di proporzionalità,<br />

il quale, nella sua accezione minima, richiede che il ricorso alla sanzione sia idoneo allo scopo di tutela da essa<br />

perseguito (95) . Più in particolare, si afferma, l'intervento sanzionatorio risulta proporzionato nella misura in cui<br />

corrisponde ad opzioni politico-criminali ancora attuali (96) . In questa prospettiva, dunque, la deroga in esame<br />

troverebbe a sua volta il proprio fondamento nel principio di proporzionalità, posto che in assenza di una nuova<br />

valutazione giuridica del fatto, il ricorso alla sanzione penale si mantiene idoneo a perseguire lo scopo di tutela<br />

individuato dal legislatore e risponde ad esigenze politico-criminali non smentite dalla successiva modifica legislativa.<br />

Spagna. Anche nella letteratura spagnola la riflessione sulle funzioni della pena sembra svolgere un ruolo centrale<br />

nell'individuazione della ratio della deroga per le leggi a validità temporanea (97) . Tuttavia, non si è mancato di<br />

sottolineare - sulla traccia di quanto già sostenuto dalla dottrina tedesca e da quella italiana - come il riferimento a<br />

semplici esigenze di prevenzione generale negativa finisca per esporre il fondamento di tale disciplina a numerose<br />

152


obiezioni (98) . In particolare, per escludere l'applicazione retroattiva della norma più favorevole non sarebbe sufficiente<br />

invocare la necessaria capacità dissuasiva della pena, ma occorrerebbe accertare se il ricorso alla sanzione penale, in<br />

relazione ai fatti pregressi, risulti o meno dotato di legittimazione costituzionale (99) .<br />

Per questo motivo, la dottrina maggioritaria appare ormai prevalentemente orientata a ricostruire il fondamento della<br />

deroga legislativa richiamandosi ad esigenze di necessità e proporzione (100) . Con maggiore precisione, se si muove dal<br />

presupposto che la retroattività favorevole costituisca un corollario del principio di necessità della sanzione, sembra<br />

conseguente ritenere che la norma in vigore al momento del fatto debba continuare ad applicarsi fintanto che<br />

permangono le esigenze di prevenzione da essa espresse (101) . Più convincente, comunque, pare la scelta di ricondurre<br />

la legittimità delle deroghe alla lex mitior a un giudizio di proporzione tra esigenze di tutela del bene giuridico e diritti<br />

del singolo compromessi dal ricorso alla sanzione penale. In quest'ottica, infatti, per escludere la retroattività della<br />

norma più favorevole, occorrerebbe verificare se, a seguito della modifica normativa, la sanzione preveduta dalla<br />

norma temporanea risulti equilibrata rispetto al disvalore del fatto (102) .<br />

Francia. Più problematica è stata invece l'elaborazione teorica che ha accompagnato l'affermazione della deroga in<br />

esame nell'ordinamento giuridico francese. Una parte assai consistente della dottrina di questo Paese pare infatti da<br />

sempre escludere che la retroattività favorevole possa subire eccezioni, e ciò in ragione della ritenuta connessione tra<br />

tale regola intertemporale e i principi di legalità (103) e soggezione del giudice alla legge (104) . Nondimeno, già<br />

nell'immediato dopoguerra, alcuni autori si erano spinti a denunciare gli effetti disfunzionali derivanti da<br />

un'applicazione incondizionata della lex mitior (105) . In particolare, appariva evidente come, in alcuni ambiti della<br />

legislazione penale complementare, la scelta di far retroagire sempre la norma più favorevole finisse per dare vita a<br />

soluzioni intollerabili, stante la tendenziale instabilità che sovente caratterizza la regolamentazione tecnica richiamata<br />

da talune norme penali (106) . Simili critiche sembravano del resto trovare conferma anche in un diffuso orientamento<br />

giurisprudenziale che escludeva l'applicabilità della lex mitior nel caso di modifiche mediate della fattispecie in<br />

materia economica e fiscale (107) .<br />

Non stupisce quindi che anche nella letteratura francese si sia evidenziato come, nel caso di leggi temporanee,<br />

l'incondizionata operatività della lex mitior finisca per privare la sanzione penale di ogni efficacia deterrente (108) ,<br />

favorendo il ricorso a pratiche dilatorie intese a ritardare la pronuncia della sentenza di condanna (109) . Sennonché,<br />

come già visto, il solo richiamo a esigenze di difesa sociale non sembra in grado di risolvere il problema della<br />

legittimità della deroga in esame, tanto più ove si ammetta la piena costituzionalizzazione della regola della lex mitior.<br />

D'altra parte, come è stato icasticamente osservato, non si vede come sia possibile giustificare una deroga a principi<br />

fondamentali se non dimostrandone la compatibilità di fondo con l'assetto costituzionale di cui quegli stessi principi<br />

sono espressione (110) . Sotto questo profilo sembra allora particolarmente convincente la soluzione di quanti ravvisano<br />

la ratio della deroga in discorso nello stesso principio di necessità della sanzione penale (111) . Quest'ultimo, infatti, oltre<br />

a fondare il principio della retroattività in mitius, si presta a costituirne anche il limite, giustificando l'ultrattività di<br />

quelle incriminazioni la cui applicazione risulti ancora necessaria alla luce della più favorevole disciplina<br />

sopravvenuta (112) .<br />

Alcune osservazioni conclusive. Il fondamento "europeo" della deroga tra necessità e proporzione<br />

L'analisi di alcuni tra i più rilevanti sistemi penali nazionali ha permesso di constatare un sostanziale radicamento della<br />

regola dell'ultrattività delle leggi a vigenza temporanea (113) . La ricostruzione delle argomentazioni adoperate dalla<br />

dottrina e dalla giurisprudenza di tali Paesi, inoltre, ha portato alla luce una profonda connessione tra la ratio della<br />

deroga in esame ed esigenze variamente riconducibili ai principi di necessità e proporzione della sanzione penale. È a<br />

questo punto opportuno evidenziare come siffatte esigenze, lungi dal porsi in contrasto con l'affermazione della lex<br />

mitior quale principio di diritto sovranazionale, paiano, ad un più attento esame, dotate di un solido aggancio a<br />

livello costituzionale europeo.<br />

Se infatti si circoscrive il raggio dell'analisi ai soli rapporti tra diritto penale interno e diritto dell'Unione<br />

europea, si scopre che le istanze di extrema ratio - evocate da coloro che giustificano la disciplina intertemporale in<br />

esame sulla base del principio di necessità della sanzione - trovano pieno riscontro nella giurisprudenza della Corte di<br />

Lussemburgo. L'organo di giustizia europeo ha infatti da tempo precisato che le norme penali nazionali - al pari degli<br />

altri provvedimenti delle istituzioni e degli Stati membri - non possono andare oltre "quanto è opportuno e necessario"<br />

per conseguire gli scopi prefissati dal diritto UE (114) . La scelta di fondare le deroga in esame sul presupposto<br />

che, rispetto alla nuova disciplina sanzionatoria, quella previgente è la sola idonea a svolgere la propria funzione, pare<br />

dunque risultare in sintonia con la lettura utilitaristica delle funzioni della pena (115) fatta propria dalla giurisprudenza<br />

comunitaria (116) . L'argomento impiegato dalla dottrina per escludere la retroattività favorevole, infatti, è il medesimo<br />

su cui poggia l'interpretazione del giudice europeo, richiamandosi esplicitamente all'utilità della sanzione rispetto alle<br />

153


finalità di tutela perseguite.<br />

Parimenti, sembra potersi riconoscere piena legittimità agli argomenti di quanti ritengono che, nelle ipotesi oggetto di<br />

studio, l'eccezione alla lex mitior si giustifichi in ragione del necessario equilibrio che deve esistere tra gravità del fatto<br />

ed entità della sanzione penale. Tali esigenze paiono in effetti agevolmente riconducibili al principio di proporzione<br />

sancito dall'art. 49 par. 3 della Carta europea dei diritti fondamentali, secondo cui "l'intensità delle pene non deve<br />

essere sproporzionata rispetto al fatto" (117) . Tale principio recepisce infatti quelle istanze garantistiche di equilibrio<br />

sanzionatorio, che a livello nazionale emergono di solito in sede di giudizio costituzionale di ragionevolezzaproporzionalità<br />

(118) , mirando ad assicurare la necessaria corrispondenza tra la gravità del fatto e misura della sanzione.<br />

L'esclusione della lex mitior nelle ipotesi in esame, quindi, si giustifica perché la sanzione penale prevista per le<br />

ipotesi ordinarie (119) risulta di regola sproporzionata rispetto al disvalore del fatto disciplinato dalla legge temporanea.<br />

A conclusioni non dissimili può giungersi se si valuta la ratio della deroga alla luce del diritto convenzionale.<br />

Senza spingersi a richiamare la funzione assolta dal principio di proporzionalità nella giurisprudenza della Corte di<br />

Strasburgo, è sufficiente rammentare come gli stessi giudici convenzionali, nel dare rilievo alla retroattività in mitius,<br />

abbiano fatto riferimento alle esigenze di proporzione cui tale principio appare strettamente correlato. Non è questa la<br />

sede per chiarire quale accezione la Corte abbia voluto attribuire al canone di proporzione evocato in giudizio (120) .<br />

Quel che è certo, è che i giudici convenzionali abbiano inteso far salva la possibilità di mantenere le pene previste per i<br />

fatti pregressi qualora il legislatore nazionale le consideri ancora proporzionate e necessarie. Ciò si desume a contrario<br />

dall'inciso della sentenza Scoppola in cui i giudici europei affermano che sarebbe sproporzionato continuare ad<br />

applicare sanzioni che "lo Stato e la collettività considerano ormai eccessive", con la conseguenza di far ritenere<br />

ammissibili le deroghe alla lex mitior laddove l'an e il quantum della sanzione non siano stati smentiti dalle successive<br />

determinazioni del legislatore (121) .<br />

Resta da chiedersi quali possano essere le ricadute di una simile rivalutazione del fondamento della deroga sulla<br />

disciplina codicistica in tema di leggi a carattere temporaneo. A nostro avviso, i maggiori interrogativi riguardano la<br />

possibilità di estendere la previsione di cui all'art. 2, comma 5, c.p. alle "modifiche mediate", cioè alle modifiche che<br />

interessano solo le norme richiamate dalla fattispecie penale ma non incidono direttamente sul contenuto<br />

dell'incriminazione. Si tratta di capire, in altri termini, se una volta individuato il fondamento della deroga nelle<br />

summenzionate esigenze di necessità e proporzione, la relativa disciplina intertemporale non possa applicarsi anche<br />

alla successione di norme extrapenali a vigenza temporalmente limitata. Casi come questi, infatti, appaiono ancora<br />

oggi estremamente controversi, dal momento che - secondo l'interpretazione prevalente - l'applicazione dell'art. 2,<br />

comma 5, c.p. richiederebbe una predeterminazione espressa del termine di durata della legge temporanea o comunque<br />

un inequivoco riferimento alla situazione eccezionale da essa regolata. Di converso, le norme specialistiche richiamate<br />

dalla fattispecie risultano assai sovente sprovviste di un'espressa delimitazione del proprio ambito di validità temporale<br />

(122) , con la conseguenza che la loro qualificazione come leggi eccezionali e temporanee incontra non poche resistenze<br />

da parte della dottrina (123) .<br />

Valorizzando le esigenze di necessità e proporzione sottese alla deroga in esame si sarebbe invece portati ad accedere<br />

a una interpretazione più ampia della disciplina in discorso, posto che il criterio individuato conduce ad escludere<br />

l'applicazione retroattiva della legge più mite in tutti i casi in cui la modifica della norma integratrice non implichi una<br />

rivalutazione della gravità del fatto da parte del legislatore (124) . In questi casi, infatti, l'idoneità lesiva della condotta si<br />

manterrebbe apprezzabile anche dopo che sono mutate le circostanze di fatto che ne giustificavano l'incriminazione e,<br />

di conseguenza, il ricorso alla sanzione resterebbe necessario e proporzionato anche per i fatti commessi prima della<br />

modifica normativa. Sennonché pare legittimo chiedersi se un'interpretazione di questo tipo non finisca col dare vita<br />

ad esiti ermeneutici in contrasto con il divieto di analogia in malam partem, minando quelle esigenze di certezza<br />

giuridica che depongono a favore di una più ristretta interpretazione della deroga in oggetto.<br />

In questa sede, ci si può limitare ad osservare come un'interpretazione estensiva della disposizione in parola sia già<br />

suggerita dalla dottrina in relazione ad altri casi. Si pensi, per tutti, all'impostazione di coloro che ritengono applicabile<br />

l'art. 2, comma 5, c.p. alle ipotesi di successione tra legge comune e legge eccezionale più favorevole (125) . A sostegno<br />

della soluzione interpretativa proposta in questa sede, va inoltre evidenziato come essa, lungi dal pregiudicare i<br />

principi garantistici sottesi alla retroattività in mitius, miri al contrario a darvi attuazione (126) . Per escludere la<br />

retroattività si fa leva, infatti, sulle diverse circostanze di fatto in cui sono stati compiuti i fatti realizzati prima e dopo<br />

la modifica normativa, in linea con quanto prevede il principio di uguaglianza-ragionevolezza. Inoltre, come si è visto,<br />

l'interpretazione proposta pone l'accento sulla necessaria idoneità e proporzione della risposta sanzionatoria in<br />

relazione ai fatti pregressi, e ciò appare coerente con la premessa di ritenere che la lex mitior si fondi sul principio di<br />

proporzionalità inteso in senso ampio.<br />

La risoluzione delle questioni affrontate nel presente contributo appare comunque sempre più urgente. L'assenza di un<br />

orientamento omogeneo nei diversi ordinamenti nazionali, rischia infatti di esporre i cittadini dell'Unione a palesi<br />

154


disparità di trattamento. Si pensi, in particolare, ai casi in cui, per effetto della modifica di una particolare<br />

regolamentazione europea, muti l'ambito applicativo delle fattispecie penali che richiamano la normativa vigente in<br />

quel determinato settore (127) . Nell'ipotesi in cui tale modifica abbia l'effetto di restringere l'area di illiceità penale,<br />

infatti, riconoscere solo in alcuni ordinamenti la retroattività della norma più favorevole finirebbe per dar vita a<br />

un'applicazione differenziata e asimmetrica del diritto UE, con conseguente infrazione dei generali principi di<br />

uguaglianza e non discriminazione (128) .<br />

-----------------------<br />

(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee.<br />

(1) V. Manes, I principi penalistici nel network multilivello: trapianto, palingenesi, cross fertilization, in Riv. it. dir. proc. pen., 839<br />

ss. in particolare 843 ss.<br />

(2) Si veda, per tutti, A. Ruggeri, Sistema integrato di fonti e sistema integrato di interpretazioni, nella prospettiva di un'Europa<br />

unita, in Dir. Un. eur., 2010, 869 ss.<br />

(3) G. Vassalli, Abolitio criminis e principi costituzionali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1983, 377 ss.; F. Palazzo, voce Legge penale,<br />

in Dig. disc. pen., Vol. VII, Torino, 1993, 365.<br />

(4) Al vaglio del giudice delle leggi è stata infatti sottoposta la norma di cui alla legge 5 dicembre 2005, n. 251, che stabilisce un<br />

limite all'applicabilità retroattiva della nuova disciplina in tema di prescrizione ai processi pendenti in grado di appello o davanti<br />

alla Corte di cassazione. Cfr., per tutti, D. Pulitanò, Deroghe alla retroattività in mitius nella disciplina della prescrizione, in questa<br />

Rivista, 2007, 198 ss.<br />

(5) Vedi, in un'ottica di riforma del codice penale ispirata all'adeguamento ai principi e alla giurisprudenza delle Corti europee, S.<br />

Riondato, Influenze dei principi penali europei su un nuovo codice penale italiano, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, 1557 ss.<br />

(6) CGCE, sent. 3 maggio 2005, cause riunite 387/02, 391/02, 403/02, Berlusconi, in Cass. pen., 2005, 2764 ss., con nota di G.<br />

Insolera, V. Manes, La sentenza della Corte di giustizia sul falso in bilancio: un epilogo deludente?, 2768 ss. Sulla pronuncia e i<br />

suoi numerosi risvolti, si vedano i contributi raccolti in R. Bin, G. Brunelli, A. Pugiotto, P. Veronesi (a cura di), Ai confini del favor<br />

rei. Il falso in bilancio davanti alle Corti costituzionale e di Giustizia, Torino, 2005. Nel solco tracciato dalla sentenza Berlusconi,<br />

si vedano ora anche la sent. 11 marzo 2008, causa C-420/06, Jager e la sent. 28 aprile 2011, causa C-61/11, El Dridi.<br />

(7) La scelta della Corte di considerare la retroattività favorevole espressione delle tradizioni costituzionali degli Stati membri non è<br />

andata esente da critiche. È stato infatti evidenziato come, nella sentenza Berlusconi, i giudici europei abbiano invocato l'esistenza<br />

di una comune tradizione costituzionale senza però procedere a una disamina dei pertinenti riferimenti normativi nei singoli<br />

ordinamenti costituzionali. Cfr., ex multis, S. Manacorda, Oltre il falso in bilancio: i controversi effetti in malam partem del<br />

diritto penale europeo sul diritto penale interno, in Dir. Un. eur., 2006, 264 ss.; M. Scoletta, Berlusconi y el principio de<br />

retroactividad de la ley penal mas favorable, in L. Arroyo Zapatero, A. Nieto Martin (a cura di), El Derecho penal del la Uniòn<br />

Europea. Situaciòn actual y perspectivas de futuro, Cuenca, 2007, 357 ss., il quale rileva come la posizione della Corte risponda più<br />

che a un logica rigidamente quantitativa, ad una approssimazione qualitativa e valoriale tipica di un approccio ispirato alla<br />

realizzazione del maximum standard di tutela. Sul punto, per ulteriori riferimenti, si veda A. Bernardi, "Principi di diritto " e<br />

diritto penale europeo, in Annali dell'Università di Ferrara - Scienze giuridiche, vol. II, 1988, 177 ss.<br />

(8) A questa conclusione deve giungersi anzitutto in considerazione: a) della prevalenza del diritto dell'Unione sul diritto<br />

interno, da sempre riconosciuta anche ai principi generali del diritto comunitario , quali parametri di legittimità<br />

della normativa interna di attuazione del diritto europeo (cfr., da ultimo, S. Bastianon, La tutela del legittimo affidamento nel<br />

diritto dell'Unione europea, Milano, 2012, 48 ss.); b) della preferenza accordata dalla Corte di giustizia all'interpretazione<br />

"europea" dei principi fondamentali rispetto all'interpretazione offerta agli stessi principi dalle Corti costituzionali degli Stati<br />

membri, cfr. CGCE, sent. 7 settembre 2006, causa C-81/05, Anacleto Cordero Alonso v. Fondo de Garancía Salarial in Forum dei<br />

Quaderni costituzionali, 27 settembre 2006, con nota di B. Cuomo, I diritti fondamentali tra Corte di giustizia e Corti<br />

costituzionali; c) della attribuzione dello stesso "valore giuridico dei Trattati" alla Carta dei diritti fondamentali dell'UE, che<br />

sancisce all'art. 49 par. 1 il principio della lex mitior. Sul punto, cfr. M. Kaiafa-Gbandi, The Importance of Core Principles of<br />

Substantive Criminal Law for a European Criminal Policy Respecting Fundamental Rights and the Rule of Law, in EuCLR, 2011,<br />

29 ss. la quale ritiene che la Carta attribuisca alla retroattività favorevole uno status più elevato di quello riconosciutole in taluni<br />

Stati membri.<br />

(9) Evidenzia opportunamente questo aspetto, G. Insolera, Una sentenza a più facce, in Ai confini del favor rei, cit., 225-226.<br />

(10) Cfr., con varietà di accenti, V. Maiello, Il rango della retroattività della lex mitior nella recente giurisprudenza comunitaria e<br />

costituzionale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, 1614 ss; M. Scoletta, Berlusconi y el principio de retroactividad de la ley penal mas<br />

favorable, cit., 357 ss. Così anche A. Bernardi, Brevi osservazioni in margine alla sentenza della Corte di giustizia sul falso in<br />

bilancio, in Ai confini del favor rei, cit., 48 ss., il quale peraltro rileva come il riconoscimento a livello europeo del principio di<br />

retroattività favorevole si presti a ridurre l'efficacia del controllo di costituzionalità sulle norme penali di favore. Sul punto si<br />

vedano però le conclusioni cui è successivamente pervenuta la giurisprudenza costituzionale, a partire dalla sentenza 8 novembre<br />

155


2006, n. 394 in Giur cost., 2006, 4127, punto 6.4 del considerato in diritto , ove si afferma che il principio di retroattività<br />

trova applicazione "in quanto la norma sopravvenuta sia, di per sé, costituzionalmente legittima". Fin dai primi commenti alla<br />

sentenza, comunque, non si è mancato di evidenziare la persistente apertura del principio - così come formulato dalla Corte - a<br />

prospettive di contemperamento con altri valori e interessi di rilevanza comunitaria. Così, già in "prima lettura", G. Insolera, Una<br />

sentenza a più facce, in Ai confini del favor rei, cit. 228, il quale evidenzia come la prospettazione - da parte dei giudici di<br />

Lussemburgo - di un eventuale conflitto tra lex mitior e altre norme comunitarie (cfr. Sent. Berlusconi, cit., punto 70) sembri aprire<br />

alla possibilità di un bilanciamento tra quest'ultimo e altri principi del diritto comunitario . In senso adesivo, di<br />

recente, V. Valentini, Diritto penale intertemporale. Logiche continentali ed ermeneutica europea, Milano, 2012, 222 ss.<br />

Contra, nella dottrina francese, E. Dreyer, Limitation constitutionnelle de la rétroactivité favorable, in Sem. Jur. Ed. Gén., edizione<br />

del 24 Gennaio 2011, n. 4, 82 ss.<br />

(11) In questo senso, di nuovo, V. Maiello, Il rango della retroattività della lex mitior nella recente giurisprudenza comunitaria e<br />

costituzionale, cit., 1617 ss. Nella giurisprudenza costituzionale successiva alla sentenza Berlusconi, infatti, la ricostruzione della<br />

lex mitior, pur facendo perno sulla relazione tra retroattività e uguaglianza, si avvale del significativo richiamo al dictum dei giudici<br />

del Lussemburgo per affermarne l'accresciuta "imperatività", cfr. I. Pellizzone, Il principio di retroattività delle norme penali in<br />

bonam partem, in Quad. cost., 2007, 855 ss. Ciò ha condotto la Consulta a ritenere che la scelta del legislatore di derogare alla<br />

retroattività favorevole debba sempre superare "un vaglio positivo di ragionevolezza". Cfr. Corte cost., 23 novembre 2006, n. 393 in<br />

Giur. cost., 2007, 4106 ss. con nota di G. Dodaro, Principio di retroattività favorevole e termini "più brevi" di prescrizione dei<br />

reati, 4116 ss. il quale sottolinea come nell'impianto argomentativo della sentenza le fonti esterne vengano richiamate per definire il<br />

peso e la portata da riconoscere agli interessi sottesi alla lex mitior.<br />

(12) Corte EDU, sent. 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia (n. 2), ric. n. 10249/03, su cui M. Gambardella, Il "caso Scoppola": per<br />

la Corte europea l'art. 7 CEDU garantisce anche il principio di retroattività della legge penale più favorevole, in Cass. pen., 2010,<br />

2020 ss.; T. Baumbach, The notion of criminal penalty and the Lex mitior Principle in the Scoppola v. Italy Case, in Nord. Journ.<br />

Int. Law, 2011, 125 ss.; M. Bohlander, Konventionsfreundliche Auslegung von Art. 103 II GG nach Scoppola v. Italy (No. 2):<br />

Verfassungsrang für das Lex-Mitior-Prinzip?, in StraFo, 169-172. In argomento si veda anche F. Mazzacuva, L'interpretazione<br />

evolutiva del nullum crimen nella recente giurisprudenza della Corte di Strasburgo, in V. Manes, V. Zagrebelsky (a cura di), La<br />

Convenzione europea dei diritti dell'uomo nell'ordinamento penale italiano, Milano, 2011, 411 ss. Vedi ora, nel solco della<br />

pronuncia citata, Corte EDU, Sent., 27 aprile 2010, Morabito c. Italia; sent. 10 luglio 2012, Del Rio Prada c. Spagna, in Diritto<br />

penale contemporaneo, con nota di F. Mazzacuva.<br />

(13) Sulle "virtù" e i "vizi" del fenomeno della circolazione del precedente in diritto penale, si rinvia a C. Sotis, La "mossa del<br />

cavallo". La gestione dell'incoerenza nel sistema penale europeo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, 483 ss. e, con particolare<br />

riferimento al principio della retroattività favorevole, 485 ss.<br />

(14) Decisamente più controverso l'altro argomento "di principio" evocato dalla Corte europea per giustificare il proprio overrulling.<br />

Si allude all'affermazione secondo cui l'applicazione della legge penale più favorevole all'imputato garantirebbe la prevedibilità<br />

delle sanzioni (Sent. Scoppola, cit., par. 108). Richiamo all'apparenza fuori luogo, posto che la prevedibilità della sanzione penale<br />

deve essere assicurata prima e non dopo la commissione del fatto. Sul punto, cfr. F. Viganò, Sullo statuto costituzionale della<br />

retroattività della legge penale più favorevole, in Diritto penale contemporaneo, 17.<br />

(15) Cfr., nella giurisprudenza più recente, Corte cost., 23 ottobre 2006, n. 393 in Foro it., 2007, I, 1 ss.; 8 novembre 2006 n. 394, in<br />

Giur. cost., 2006, 4127 ss.; 28 marzo 2008, n. 72 in Giur. cost., 2008, 944 ss.; 18 giugno 2008, n. 215, in Giur. cost., 2008, 2399,<br />

con nota di M. Gambardella, Retroattività della legge penale favorevole e bilanciamento degli interessi costituzionali. Nella<br />

giurisprudenza precedente al 2006 era peraltro frequente incorrere nell'affermazione per cui la retroattività favorevole poteva essere<br />

derogata in presenza di qualunque "razionale giustificazione da parte del legislatore ordinario". Cfr. Corte cost., sent. 20 maggio<br />

1980, n. 74, in Giur. cost., 1980, 684. Per una incisiva critica alla capacità dimostrativa del principio di ragionevolezza/uguaglianza<br />

in tema di diritto intertemporale, vedi ora L. Delli Priscoli, F. Fiorentin, La Corte costituzionale e il principio di retroattività<br />

della legge più favorevole al reo, in Riv. it. dir. proc. pen. 2009, 1180 ss. soprattutto 1189 ss.<br />

(16) Una simile conclusione, è appena il caso di rammentarlo, riflette l'assetto dei rapporti tra ordinamento interno e diritto<br />

convenzionale delineato dalla Corte costituzionale nelle note "sentenze gemelle" nn. 348 e 349 del 2007, in Giur. cost., 2007, 3475<br />

ss., per la cui illustrazione si rinvia, ex multis, a M. Cartabia, Le sentenze gemelle: diritti fondamentali, fonti, giudici, ivi, 3564 ss.;<br />

A. Guazzarotti, La Corte e la CEDU: il problematico confronto di standard di tutela alla luce dell'art. 117, comma 1, Cost., ivi,<br />

3574 ss.; D. Tega, Le sentenze della Corte costituzionale nn. 348 e 349 del 2007: la CEDU da fonte ordinaria a fonte subcostituzionale,<br />

in Quad. Cost., 2008, 133 ss.<br />

(17) È stato infatti autorevolmente notato come il mutare del fondamento della retroattività favorevole - dal principio di uguaglianza<br />

ai diritti dell'Uomo - determini un più stringente vincolo per il legislatore nazionale, costituendo il sintomo del trascorrere di siffatta<br />

garanzia "da un senso e portata oggettivi a un senso e portata soggettivi", cfr. F. Palazzo, Correnti superficiali e correnti profonde<br />

nel mare delle attualità penalistiche (a proposito della retroattività favorevole), in questa Rivista, 2012, 1173 ss. (corsivi nel testo).<br />

Nel senso che la retroattività della legge penale più favorevole costituisca un " diritto costituzionalmente rilevante del reo"<br />

cfr. altresì A. Cadoppi, Il principio di irretroattività, in G. Insolera, N. Mazzacuva, M. Pavarini, M. Zanotti (a cura di), Introduzione<br />

al sistema penale, Vol. I, Torino, 193.<br />

(18) Cfr. art. 15 CEDU. Pone l'accento su questo aspetto, in particolare, V. Manes, I principi penalistici nel network multilivello:<br />

156


trapianto, palingenesi, cross fertilization, cit., 849-850.<br />

(19)<br />

Corte cost., 19 luglio 2011, n. 236 in Cass. pen., 2011, 4152 ss., con nota di A. Mari, Retroattività della lex mitior e<br />

Convenzione europea dei diritti dell'Uomo; ma si veda anche l'ampio commento di F. Viganò, Sullo statuto costituzionale della<br />

retroattività della legge penale più favorevole, in Diritto penale contemporaneo.<br />

(20) F. Viganò, Sullo statuto costituzionale della retroattività della legge penale più favorevole, cit., 15-16.<br />

(21) Sul punto, per tutti, A. Ruggeri, La Corte costituzionale "equilibrista", tra continuità e innovazione, sul filo dei rapporti con la<br />

Corte EDU, in Studi sull'integrazione europea, 2011, 1760 ss. La Corte costituzionale sembra infatti essersi riservata la competenza<br />

di valutare se il diritto vivente di matrice convenzionale risulti compatibile con le peculiarità dell'ordinamento giuridico<br />

nazionale. Il diritto CEDU, infatti, integrando come parametro interposto il primo comma dell'art. 117 Cost., ripete da<br />

quest'ultimo il proprio rango nel sistema delle fonti. Ciò consente alla Corte di procedere a un vero e proprio bilanciamento tra il<br />

diritto vivente europeo e i principi costituzionali in tema di diritti fondamentali (per quest'ultima precisazione, cfr. Corte<br />

cost., 26 novembre 2009, n. 311). Un simile orientamento non va inteso, tuttavia, come una rivendicazione del primato del disposto<br />

costituzionale sul diritto convenzionale, ma piuttosto come un'espressione della volontà della Corte di ricercare un punto di<br />

incontro tra sistemi ispirato a una logica di potenziamento delle garanzie individuali. Sul punto, anche per ulteriori riferimenti, cfr.<br />

O. Pollicino, Margine nazionale di apprezzamento, art. 10 c.1 e bilanciamento bidirezionale: evoluzione o svolta nei rapporti tra<br />

diritto interno e diritto convenzionale nelle due decisioni nn. 311 e 317 del 2009, in Forum dei Quad. cost., 16<br />

dicembre 2009, par. 3. In prospettiva penalistica, si veda anche O. Di Giovine, Ancora sui rapporti tra legalità europea e legalità<br />

nazionale: primato del legislatore o del giudice?, in Dir. pen. contemporaneo, 17-18, che mette in relazione il problema del<br />

margine nazionale di apprezzamento con la possibilità per il giudice costituzionale di valutare l'effettivo consolidamento del<br />

principio di diritto espresso dalla Corte di Strasburgo quale "precedente giurisprudenziale vincolante".<br />

(22)<br />

Secondo la lettura dei rapporti intraordinamentali sviluppata nelle sentenze n. 311 e 317 del 2009, infatti, le garanzie<br />

convenzionali sono suscettibili di limitazione soltanto laddove ciò risulti funzionale a garantire altri diritti fondamentali, con<br />

l'esclusione di interessi riconducibili alla "ragion di stato" e a finalità diverse rispetto a quelle riconosciute dall'ordinamento<br />

costituzionale. Sul punto, O. Pollicino, Margine nazionale di apprezzamento, art. 10 c.1 e bilanciamento bidirezionale: evoluzione<br />

o svolta nei rapporti tra diritto interno e diritto convenzionale nelle due decisioni nn. 311 e 317 del 2009, cit., par. 2;<br />

F. Bilancia, Con l'obiettivo di assicurare l'effettività degli strumenti di garanzia la Corte costituzionale funzionalizza il "margine di<br />

apprezzamento" statale, di cui alla giurisprudenza CEDU, alla garanzia degli stessi diritti fondamentali, in Giur. cost., 2009, p.<br />

4772 ss. in particolare 4777 ss.<br />

(23) In questo senso, esattamente, V. Manes, Il giudice nel labirinto, Roma, 2012, 164 del dattiloscritto.<br />

(24) Del resto il diritto convenzionale appare naturalmente portato a confrontarsi con i valori fondamentali dell'ordinamento,<br />

con la conseguenza che l'eventuale soccombenza delle garanzie convenzionali di derivazione europea può giustificarsi soltanto<br />

contrapponendovi interessi espressivi di analogo rango e valore costituzionale (cfr. A. Ruggeri, Conferme e novità di fine anno nei<br />

rapporti tra diritto interno e CEDU, in www.giurcost.org, 3). Pertanto, anche non condividendo la tesi della assoluta<br />

inderogabilità della lex mitior nell'ottica del diritto CEDU - tesi negata del resto da quasi tutti i commentatori e smentita dalla<br />

stessa Corte di Strasburgo con riferimento al limite del giudicato - la Consulta avrebbe però dovuto: a) sottoporre a un positivo<br />

vaglio di legittimità le istanze che giustificavano il mantenimento della disciplina in tema di prescrizione vigente al momento del<br />

fatto; b) individuarne il fondamento in controinteressi di rango omogeneo al diritto fondamentale a cui si intendeva derogare.<br />

In questo senso, condivisibilmente, V. Manes, Il giudice nel labirinto, cit., 164-165.<br />

(25) Il confronto tra prerogative convenzionali e costituzionali, infatti, deve essere effettuato "mirando alla massima espansione delle<br />

garanzie, anche attraverso lo sviluppo delle potenzialità insite nelle norme costituzionali che hanno oggetto i medesimi diritti", cfr.<br />

Corte cost., 30 novembre 2009, n. 317. L'intenzione di assecondare, nella dialettica tra ordinamenti, una costante lievitazione dei<br />

livelli di tutela, d'altronde, risulta espressa anche dall'art. 53 della CEDU che fa divieto di interpretare le disposizioni della<br />

Convenzione in modo limitativo o lesivo dei diritti da essa sanciti. Per un analogo rilievo, cfr. M. Gambardella, Il "caso Scoppola":<br />

per la Corte europea l'art. 7 CEDU garantisce anche il principio di retroattività della legge penale più favorevole, cit., 2020 ss.<br />

(26) In questo senso, con riferimento all'inapplicabilità retroattiva dei più brevi termini di prescrizione di cui alla legge 5 dicembre<br />

2005, n. 251, V. Manes, Il giudice nel labirinto, cit., 166 nota 468. Nella giurisprudenza costituzionale la scelta del legislatore di<br />

non applicare la nuova disciplina prescrizionale ai processi pendenti in grado di appello o avanti alla Cassazione, è stata infatti<br />

ravvisata nell'"esigenza di non vanificare l'attività processuale compiuta in primo grado, consistita nella raccolta del materiale<br />

probatorio a favore o contro l'imputato". Una prerogativa, questa, ritenuta da parte della dottrina non "commensurabile" al rango<br />

della lex mitior, in quanto priva di spessore costituzionale. Sul punto, cfr. L. Delli Priscoli, F. Fiorentin, La Corte costituzionale e il<br />

principio di retroattività della legge più favorevole al reo, cit. 1189 ss.<br />

(27) Sul rapporto tra leggi eccezionali e temporanee e nuova quotazione della lex mitior vedi, per alcuni cenni, F. Palazzo, Correnti<br />

superficiali e correnti profonde nel mare delle attualità penalistiche (a proposito della retroattività favorevole), cit., 1175; M.<br />

Scoletta, El principio de legalidad penal, in L. M. Diez Picazo, A. Nieto Martìn (a cura di), Los derechos fundamentales en el<br />

dercho penal europeo, Navarra, 2010, 288.<br />

(28) Al riguardo, riveste estrema importanza la distinzione - sviluppata dalla letteratura di lingua tedesca - tra Bestimmungsnormen e<br />

157


Bewertungsnormen. Con tale classificazione si mira a descrivere la duplice funzione che le norme penali possono svolgere a<br />

seconda che le si intenda quale parametro di comportamento (Bestimmungsnorm) ovvero quale criterio di giudizio<br />

(Bewertungsnorm). Il caso delle leggi eccezionali e temporanee, infatti, dimostra bene come la stessa norma, pur senza più fungere<br />

da precetto comportamentale, continui a operare quale criterio di qualificazione giuridica del fatto. La distinzione è stata messa in<br />

risalto, tra i primi, da E. Mezger, Strafrecht. Ein lehrbuch, München-Leipzig, 1949, p.162 ss. In prospettiva teorico-generale si veda<br />

A. Ross, Directives and norms, London-New York, 1968, (trad. it. Direttive e norme, Milano, 1978), 144 ss.<br />

(29)<br />

C. Podo, voce Successione di leggi penali, in Noviss. Dig. It., Milano, 1971, 652 e 677, secondo la quale i principi di<br />

irretroattività sfavorevole e retroattività favorevole, su cui si impernia la disciplina della successione delle leggi penali nel tempo,<br />

sarebbero riconducibili a una ratio unitaria. Il principio generale accolto dalla disciplina vigente in materia sarebbe infatti quello<br />

dell'applicabilità della disposizione più favorevole per il reo "tra quelle intervenute dal momento del fatto a quello del giudizio". Sul<br />

nesso che avvince irretroattività sfavorevole e retroattività favorevole sotto il profilo strettamente garantistico, cfr. A. Bernardi,<br />

Sulle funzioni dei principi di diritto penale, in Annali dell'Università di Ferrara - Scienze Giuridiche, vol. VI, 1992, 78.<br />

(30)<br />

Per il concetto di "principi ispiratori" dell'ordinamento penale, cfr. G. Vassalli, I principii generali del diritto<br />

nell'esperienza penalistica, in Scritti giuridici, I, cit., 455 ss., il quale li identifica con "le finalità essenziali di un determinato<br />

ordinamento in un determinato campo di rapporti". I principi che ispirano l'ordinamento italiano secondo l'Autore possono essere<br />

schematizzati distinguendo tra principi che rispondono a funzioni di difesa sociale (favor societatis) e principi che rispondono ad<br />

esigenze di garanzia del singolo (favor libertatis). Per una diversa tassonomia, tesa a distinguere, invece, tra principi ispirati a<br />

esigenze di natura intrasistematica e principi finalizzati al conseguimento di obiettivi di garanzia, si rinvia a F. Palazzo,<br />

Introduzione ai principi del diritto penale, Torino, 1999, 11 ss.<br />

(31) Così per primo E. Massari, Leggi di guerra e cosa giudicata, in Giust. pen., 1915, col. 1569, secondo il quale "l'intento del<br />

legislatore sarebbe quasi totalmente eluso e si avrebbe un anticipato discredito delle sanzioni e dei comandi scritti nella legge<br />

eccezionale se la temporaneità della legge significasse promessa di impunità a coloro che nelle sanzioni sono incorsi". Cfr. altresì,<br />

nella letteratura successiva, E. Battaglini, Sulla ultrattività delle leggi temporanee e eccezionali, in Giust. pen., 1931, I, 244 ss.; F.<br />

Grispigni, Diritto penale italiano, Vol. I, 1952, 357; G. Bettiol, Diritto penale. Parte generale, Padova, 1978, 150.<br />

Contra, V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, a cura di G. D. Pisapia, I, Torino, 1981, 334 ss.<br />

(32) Che muove dal pur condivisibile presupposto per cui sovente le leggi eccezionali e temporanee prevedono una disciplina più<br />

afflittiva di quella ordinaria, cfr. A. Pagliaro, voce Legge penale nel tempo, in Enc. dir., XXIII, Milano, 1973.<br />

(33) In questo senso, per tutti, G. Vassalli, Successione di più leggi eccezionali, in Scritti giuridici, I, Milano, 1997, 4 ss. e in<br />

particolare 21. Dai Lavori preparatori e dalla Relazione di accompagnamento del Guardasigilli emergerebbe infatti come "a nessun<br />

altra ipotesi si sia inteso provvedere se non a quella di un fatto che, al momento in cui la legge eccezionale cessa d'aver vigore, per<br />

il cessare dello stato d'eccezione o in cui cessa d'avere vigore, per spirare del termine, la legge temporanea, cessi - per effetto del<br />

ritorno alla disciplina ordinaria - di costituire reato o venga a costituire reato meno grave".<br />

(34) Questa è in effetti l'opinione di G. Vassalli, Successione di più leggi eccezionali, cit., 26-27.<br />

(35) Considerazioni critiche al riguardo si rinvengono in E. Frigols i Brines, Fundamentos de la sucesiòn de leyes en derecho penal<br />

espanol. Existencia y applicabilidad de las normas penales, Barcelona, 2004, 435 ss. e 452 ss. Sull'impossibilità di fare leva sulla<br />

teoria della deterrenza per dichiarare la prevalenza del Tatzeitrecht, cfr. D. Micheletti, Legge penale e successione di norme<br />

integratrici, Torino, 2006, 252 ss.<br />

(36) E ciò anche in considerazione della necessaria funzione rieducativa della sanzione penale. Valorizza quest'ultimo aspetto, G. De<br />

Vero, Corso di diritto penale, Torino, 2004, 306 ss.<br />

(37) In questo senso autorevolmente e con riferimento all'ordinamento tedesco, K. Tiedemann, Zeitliche Grenzen des Strafrechts in J.<br />

Baumann, K. Tiedemann, Festschrift für Karl Peters zum 70. Geburtstag, Tübingen, 1974, 198.<br />

(38) A ciò si aggiunga, poi, che l'affievolimento dell'effetto generalpreventivo, lungi dal caratterizzare la sola successione tra legge<br />

eccezionale o temporanea e legge comune o ordinaria, dovrebbe prospettarsi anche per gli atti normativi ordinari, ogniqualvolta i<br />

consociati siano in grado di prendere conoscenza della loro imminente abrogazione o modifica. Cfr. C. Podo, voce Successione di<br />

leggi penali, cit., 577.<br />

(39) Così, da ultimo, G. Dodaro, Uguaglianza e diritto penale, 2012, Milano, 307 ss.<br />

(40) In questo senso, per tutti, M. Gallo, Appunti di diritto penale, vol. I, La legge penale, Torino, 1999, 141 ss. secondo cui "è<br />

la stessa natura di legge temporanea e di legge eccezionale a prescrivere che questa si applichi solo ai fatti verificatisi sotto il suo<br />

imperio". In questo senso, F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, Padova, 2009, 69; M. Romano, Commentario sist.<br />

Cod. pen., vol. I, Milano, 2004, 71; G. De Vero, Corso di diritto penale, Torino, 2004, 318; G. Marinucci, E. Dolcini,<br />

Manuale di diritto penale. Parte generale, 2009, 88 e 96; M. Gambardella, L'abrogazione della norma incriminatrice,<br />

Napoli, 2008, 299.<br />

(41) In questo senso, con varietà di accenti, F. Palazzo, Corso di diritto penale. Parte generale, Torino, 2011, 165-166; T.<br />

158


Padovani, Diritto penale, Milano, 2009, 45.<br />

(42) G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2008, 97; M. Romano, Commentario sist. cod. pen., cit.,<br />

72. Contra, G. Vassalli, Successione di più leggi eccezionali, cit., 27 che "bolla" senza mezzi termini quella proposta come<br />

interpretazione analogica.<br />

(43) D. Brunelli, Il diritto penale delle fattispecie criminose, Torino, 2011, 223 ss.<br />

(44) Come è stato evidenziato dalla dottrina più attenta agli schemi del giudizio di uguaglianza-ragionevolezza, infatti, il sindacato<br />

sulla legittimità di una norma temporanea muove sempre da una valutazione della congruità della disciplina censurata rispetto ai<br />

presupposti fattuali che ne hanno determinato l'adozione, cfr. R. Bin, Atti normativi e norme programmatiche, Milano, 1988, 319-<br />

320. Pertanto, ove si rinvenga la giustificazione del diverso trattamento intertemporale previsto per leggi di transizione nelle<br />

specificità del contesto applicativo, appare del tutto conseguente pretendere una formale individuazione dei presupposti di fatto che<br />

ne delimitano l'ambito di operatività.<br />

(45) D. Brunelli, Il diritto penale delle fattispecie criminose, cit., 224; D. Falcinelli, Il tempo nel reato, il reato nel tempo,<br />

Torino, 2011, 144 ss.<br />

(46) In questo senso, sulla scorta del pur prescindibile riferimento ai Lavori preparatori al Codice penale, da ultimo, C. Pecorella, Art.<br />

2, in Codice penale commentato, Milano, 2008, p . 84 ss.; G. Gatta, Abolitio criminis e successione di norme integratrici, Milano,<br />

2008, 132.<br />

(47) S. Del Corso, voce Successione di leggi penali, in Dig. disc. pen., Vol XIV, Torino, 2009, 96; C. Castaldello, Le dinamiche<br />

intertemporali delle leggi eccezionali e temporanee, in Annali dell'Università di Ferrara - Scienze giuridiche, Vol. XXIII, 2009,<br />

227 ss.<br />

(48) D. Micheletti, Legge penale e successione di norme integratrici, cit., 453 ss. In favore di una rilettura dei presupposti applicativi<br />

della deroga di cui all'art. 2 c. 5 c.p. anche D. Falcinelli, Il tempo nel reato, il reato nel tempo, Torino, 2006, 133 ss. Secondo<br />

l'Autrice, in particolare, per leggi temporanee debbono intendersi "le leggi la cui durata, ove pur non condizionata al permanere di<br />

una situazione eccezionale, è delimitata dal sopravvenire di fattori di sicura verificazione" e ciò anche "a prescindere dal fatto di<br />

essere questi cronologicamente identificati". Più in generale, secondo l'autrice beneficerebbero della deroga di cui all'art. 2, comma<br />

5, c.p., in quanto eccezionali, tutte le fattispecie la cui disciplina risulti diretta a regolare dati che l'ordinamento ha inteso<br />

considerare non come costanti strutturali, ma come dati puramente episodici. Cfr., da ultimo, anche D. Falcinelli, Il diritto a<br />

tempo nella gestione dell'immigrazione irregolare, in Arch. pen., 2012, 245 ss. Severamente critica rispetto a tali posizioni il resto<br />

della dottrina. Cfr., tra i tanti, G. Gatta, Abolitio criminis e successione di norme integratrici, cit., 356; M. Gambardella,<br />

L'abrogazione della norma incriminatrice, cit., 297 ss.<br />

(49)<br />

Quest'ultimo profilo, sul quale non è qui possibile indugiare, evoca uno dei temi più controversi del dibattito in tema di<br />

"modifiche mediate" della fattispecie penale. Si allude alla possibilità di ricondurre allo schema intertemporale di cui al quinto<br />

comma dell'art. 2 c.p. anche il mutamento di quelle norme extrapenali che, pur in assenza di un esplicito termine di durata, abbiano<br />

però carattere temporaneo. Sul punto, da ultimo, M. Scoletta, L'abolitio criminis parziale tra vincoli costituzionali e aporie<br />

processuali, in G. Bellantoni, D. Vigoni (a cura di), Studi in onore di Mario Pisani, Vol. III, Piacenza, 2010, 562 ss. Cfr., altresì, D.<br />

Pulitanò, Retroattività favorevole e scrutinio di ragionevolezza, in Giur. cost., 2009, 950, nota 12.<br />

(50) Cfr. D. Micheletti, Legge penale e successione di norme integratrici, cit., 232 ss. La scelta del legislatore di conferire carattere<br />

temporale alla fattispecie dovrebbe desumersi, secondo la dottrina citata: a) da una esplicita enunciazione in tal senso da parte della<br />

norma penale; b) dal bene giuridico tutelato; c) dalla formulazione del messaggio precettivo, nel caso in cui le norme richiamate<br />

dalla fattispecie presentino un'efficacia limitata a determinate contingenze di tempo e di luogo. Una simile rilettura del concetto di<br />

"legge temporanea" si scontra tuttavia con la posizione della dottrina maggioritaria che invece fa proprio l'insegnamento di F.<br />

Grispigni, Diritto penale italiano, cit., 358, secondo il quale "la temporaneità non va confusa con la contingibilità, cioè con il<br />

carattere che presentano alcune leggi di essere emanate per cause contingenti e transeunti". Simili considerazioni critiche si<br />

prestano, però, ad essere riferite anche alla figura delle "leggi eccezionali", come già sottolineava V. Manzini, Trattato di diritto<br />

penale italiano, cit., 334 ss.<br />

(51)<br />

Cfr. K. Binding, Handbuch des Strafrechts, Vol. I, Leipzig, 1885, 257 ss. Per una prima prospettazione teorica dei limiti<br />

all'efficacia retroattiva della lex mitior superveniens - in larga misura debitrice delle tesi sviluppate da Binding - cfr., nella dottrina<br />

italiana, G. Arangio Ruiz, Intorno all'efficacia delle leggi penali temporanee, in Riv. pen., XLIV, 1896, 5 ss.<br />

(52) D. Micheletti, Legge penale e successione di norme integratrici, cit., 146 ss.; 227 ss.; 343 ss.<br />

(53) La disposizione dell'art. 2 c. 5 c.p., assente nel precedente Codice Zanardelli, nasce infatti - secondo il parere unanime dei<br />

commentatori - quale reazione ad alcuni orientamenti giurisprudenziali che, a dispetto della ritenuta inderogabilità della lex mitior,<br />

avevano riconosciuto carattere di ultrattività a norme emanate per soddisfare bisogni di natura transitoria, cfr. E. Battaglini, Sulla<br />

ultrattività delle leggi temporanee e eccezionali, cit., 245. In quest'ottica, la scelta di tipizzare in maniera tendenzialmente restrittiva<br />

i presupposti applicativi della deroga in discorso, più che sanzionare la precedente impostazione giurisprudenziale, sembra averla<br />

voluta imbrigliare entro gli angusti limiti della "espressa predeterminazione legislativa". Elementi in questo senso si ricavano dalla<br />

159


lettura di F. Grispigni, Diritto penale italiano, cit., 358, nota 18.<br />

(54) Corte cost. 31 maggio 1990 n. 277, in Giur cost., 1990, 1673, punto 4 del considerato in diritto .<br />

(55) La diversità tra le due situazioni deve tuttavia essere ravvisata in elementi espressivi di valori costituzionali, quali la necessaria<br />

lesività della condotta punibile (vedi infra, in questo paragrafo). Una disomogeneità tra contesti astrattamente idonea a disinnescare<br />

l'applicazione della lex mitior può infatti agevolmente farsi risalire a qualsiasi dato normativo o fattuale anche privo di rilevanza<br />

costituzionale. In questo senso, per esempio, non sembra del tutto condivisibile quanto affermato dalla Corte costituzionale nella<br />

ordinanza n. 330 del 1995, ove viene fatto salvo il limite del giudicato previsto dalla legge 10 luglio 1995 n. 561 - in relazione alla<br />

depenalizzazione di talune figure di reato - sul solo presupposto "dell'evidente diversità (che esclude la comparabilità) delle<br />

posizioni dei soggetti, rispettivamente, già condannati con sentenza definitiva ovvero ancora sottoposti a giudizio". Così<br />

argomentando, infatti, non si comprenderebbe per quale motivo, in caso di abolitio criminis, la modifica legislativa si presti a<br />

travolgere il giudicato di condanna facendone cessare l'esecuzione e gli altri effetti penali. Per analoghe considerazioni critiche, in<br />

relazione agli ordinamenti tedesco e spagnolo, cfr. E. Frìgols i Brines, El Principio de irretroactividad y la sucesion de leyes<br />

penales. Una perspectiva desde el derecho comparado, San José, 2002, 126.<br />

(56) Corte cost., 19 luglio 2011, n. 236, cit., punto 13 del considerato in diritto .<br />

(57) Vedi infra par. 3.1. A quanto consta, inoltre, la tesi enunciata nel testo è stata in alcuni Paesi recepita anche a livello legislativo.<br />

Si veda al riguardo l'art. 3 comma 1 del codice penale danese che nell'enunciare la retroattività della legge penale più favorevole<br />

precisa però che "if the repeal of the statute is due to extraneous circumstances irrilevant to guilt, the act shall be dealt with under<br />

the earlier statute".<br />

(58) Una posizione, questa, che sembra invece emergere nelle tesi degli autori che, con riferimento alle modifiche mediate della<br />

fattispecie penale, difendono la c.d. teoria della "mediazione del fatto concreto". Impostazione in base alla quale, per stabilire se i<br />

fatti pregressi risultino ancora punibili a seguito di novatio legis, andrebbe verificata la sussumibilità del fatto sotto entrambe le<br />

discipline penali succedutesi nel tempo. Sul punto in giurisprudenza, vedi soprattutto Cass. Sez. Un., 23 maggio 1987, Tuzet, in<br />

Foro it., II, 499.<br />

(59) In quest'ottica, l'ultrattività della disciplina penale modificata si giustificherebbe, infatti, sulla base della considerazione, di<br />

matrice puramente utilitaristica, che il mutamento legislativo è stato imposto dalla sopravvenuta inadeguatezza della norma penale a<br />

perseguire lo scopo per cui era stata pensata. In argomento si vedano anche le considerazioni di G. Dannecker, Das intertemporale<br />

strafrecht, Tübingen, 1993, 434 ss. e 532.<br />

(60) Ben potrebbe darsi, infatti, l'ipotesi di una norma transitoria adottata per fare fronte a una situazione eccezionale, la cui gravità<br />

sia stata sopravvalutata dal legislatore penale. In questo caso, laddove il ritorno alla situazione normale rivelasse l'erronea<br />

valutazione compiuta sotto il profilo del disvalore della condotta, non sarebbe certo possibile ritenere punibili le trasgressioni<br />

commesse durante la vigenza della norma a vigenza temporanea. In altre parole, il passaggio dalla situazione eccezionale a quella<br />

ordinaria non esime il giudice dal procedere a una verifica dell'idoneità lesiva della condotta realizzata sotto il vigore della norma<br />

transitoria. Si pensi per esempio al caso in cui, per un periodo determinato di tempo, vengano adottati dei rigidi limiti alla<br />

commercializzazione e all'esportazione di un dato alimento sul presupposto della sua pericolosità per la salute pubblica. Se una<br />

volta venuta meno la contingenza specifica regolata dalla norma, i pretesi effetti nocivi per la salute umana venissero<br />

clamorosamente smentiti in base a una successiva valutazione del rischio, il ritorno alla disciplina ordinaria sancirebbe anche<br />

l'assoluta mancanza di offensività della precedente condotta, con conseguente necessaria applicazione retroattiva della norma più<br />

favorevole. Considerazioni analoghe si ritrovano in J. Lascuraìn Sanchez, Sobre la retroactividad penal favorable, Madrid, 2000,<br />

31 ss. e soprattutto J. M. Sìlva Sanchez, Legislación penal socio-económica y retroactividad de disposiciones favorables: el caso de<br />

las "Leyes en Blanco", in Estudios Penales y Criminologicos, 1992-1993, IV, 423 ss.<br />

(61) In questo senso sembrano andare le considerazioni di F. Palazzo, Correnti superficiali e correnti profonde nel mare delle<br />

attualità penalistiche (a proposito della retroattività favorevole), cit., 1174.<br />

(62)<br />

S. Del Corso, voce Successione di leggi penali, cit., 95. Questa impostazione si richiama esplicitamente all'orientamento<br />

dottrinale secondo il quale la disciplina dell'abolitio criminis sarebbe "espressione della stessa concezione profonda del diritto<br />

penale ispirata a quell'oggettivismo delineato dalla Carta fondamentale", cfr. F. Palazzo, voce Legge penale, cit., 365. Lungi dal<br />

costituire una sterile opzione teorica, la scelta di fondare la retroattività favorevole sul principio di offensività - anziché affidarla ad<br />

un semplice richiamo al principio di uguaglianza - vincola la discrezionalità del legislatore ordinario nella previsione di eventuali<br />

limitazioni alla lex mitior e "lo induce a circoscrivere sempre più rigorosamente l'ambito di tali limiti e deroghe" (cfr. S. Del Corso,<br />

ult. op. cit., 92).<br />

(63) G. Vassalli, I principii generali del diritto nell'esperienza penalistica, cit., 455 ss.<br />

(64)<br />

Questa soluzione è peraltro resa ineludibile, come già detto, anche dal fatto che alla lex mitior venga ora assegnato un<br />

fondamento assiologico di indubbia rilevanza costituzionale. Da questa circostanza deriva, infatti - come già detto - che anche le<br />

eventuali eccezioni al principio stesso non possano più essere validamente giustificate soltanto tramite considerazioni di tipo logico<br />

o funzionalistico, richiedendo a loro volta il riferimento a istanze garantistiche di matrice costituzionale.<br />

160


(65)<br />

Per un approccio al diritto penale ispirato al metodo del costituzionalismo sovranazionale, si veda A. Bernardi,<br />

L'approccio costituzionale al diritto penale di fonte europea, in corso di pubblicazione, 2013, par. 4 ss.<br />

(66)<br />

Al riguardo si vedano le approfondite analisi di G. Dodaro, Principio di retroattività favorevole e termini "più brevi" di<br />

prescrizione dei reati, cit., 4116 ss.; M. Scoletta, Berlusconi y el principio de retroactividad de la ley penal mas favorable, cit., 357<br />

ss.; R. Tartaglia, Il falso in bilancio tra legittimità comunitaria e retroattività della norma penale più favorevole, in Giur. it., 2007,<br />

2053 ss.<br />

(67) La proposizione "Eine Gesetz, das nur für eine bestimmte Zeit gelten soll" viene comunemente tradotta con l'espressione "legge<br />

temporanea" (cfr. Codice penale tedesco, Padova, 2003). Tuttavia, in ragione delle difficoltà interpretative poste da questa<br />

disposizione (e per evitare fraintendimenti con l'equivalente concetto giuridico utilizzato nel sistema penale italiano) la traduzione<br />

più corretta sembra essere quella letterale "legge in vigore solo per un tempo determinato".<br />

(68) Cfr. par. 2 abs. 4 StGB: "Eine Gesetz, das nur für eine bestimmte Zeit gelten soll, ist auf Taten, die während seiner Geltung<br />

begangen sind, auch dann anzuwenden, wenn es außer Kraft getreten ist. Dies gilt nicht, soweit ein Gesetz etwas anderes<br />

bestimmt". Sull'evoluzione storica che ha condotto all'introduzione nel codice penale tedesco della deroga per leggi eccezionali e<br />

temporanee vedi, per tutti, G. Dannecker, Das intertemporale strafrecht, cit., 434 ss.<br />

(69) Cfr. H. Rüping, Blanketnormen als Zeitgesetzen, in NStZ, 1984, 450 ss., soprattutto 451.<br />

(70) Cfr. W. Laaths, Das Zeitgesetz gemäß par. 2 Abs. 4 StGB unter Berücksichtigung des Blankettgesetzes, Aachen, 1995, passim;<br />

H. Satzger, Die zeitliche Geltung des Strafgesetzes - ein Überblick über das "intertemporale Strafrecht", in Jura, 2006, 751 ss.<br />

(71) Dal vincolo di determinatezza nella formulazione della fattispecie penale di cui all'art. 103 II del Grundgesetz - che sancisce il<br />

generale principio di legalità penale - sembrerebbe infatti discendere un dovere per il legislatore di stabilire con sufficiente<br />

chiarezza il termine di vigenza delle leggi penali a carattere transitorio. In questo senso, K. Tiedemann, Zeitliche Grenzen des<br />

Strafrechts, cit., 198. Di recente, questo argomento sembra essere stato ripreso nella dottrina italiana, con specifico riferimento alla<br />

tassatività dell'interpretazione giudiziale delle leggi a vigenza temporalmente limitata, cfr. D. Brunelli, Il diritto penale delle<br />

fattispecie criminose, cit., 224.<br />

(72) I principi di sussidiarietà e extrema ratio dell'intervento penale sembrerebbero infatti imporre al legislatore di tutelare con la<br />

minaccia della sanzione soltanto beni giuridici di valenza permanente e non transitoria, sicché, in questa prospettiva, le leggi penali<br />

a carattere temporaneo risulterebbero ammissibili solo in circostanze eccezionali, cfr. W. Hassemer, Kommentar zum par. 2 StGB,<br />

in R. Wassermann (coord.), Kommentar zum Strafgesetzbuch, vol. I, Nuewied, 1990, 190, nota 49.<br />

(73)<br />

E. Samson, Möglichkeiten einer legislatorischen Bewältigung der Parteispendenproblematik, in Wistra, 1983, 235 ss.<br />

soprattutto 238; C. Roxin, Strafrecht. Allgemeiner Teil, München, 2006, 171 ss.; A. Eser, B. Hecker, par. 2, in A. Schönke, H.<br />

Schröder, Strafgesetzbuch Kommentar, München, 2010, 62, con la significativa esclusione delle Blankettstrafgesetzen integrate da<br />

regolamenti dell'Unione europea. In argomento si veda oggi, C. Schützendübel, Die Bezugnahme auf EU-Verordnungen in<br />

Blankettstrafgesetzen, Berlin, 2012, 89 ss.<br />

(74) Esemplare è il caso delle leggi penali tributarie, sul cui statuto intertemporale dottrina e giurisprudenza d'oltralpe si sono a lungo<br />

confrontate, in particolare a seguito del noto Parteispenden-Affäre (per la cui esposizione si rinvia all'efficace sintesi di D.<br />

Micheletti, Legge penale e successione di norme integratrici, cit., 526 ss.). La giurisprudenza e la dottrina maggioritarie appaiono<br />

infatti schierate nel senso di riconoscere carattere di ultrattività alle norme extrapenali in materia tributaria in ragione del loro<br />

carattere funzionalmente temporaneo e della loro univoca connessione con il periodo fiscale di riferimento. Cfr., per tutti, H.<br />

Franzheim, Parteispenden - Steuerhinterziehung - Straffreheit, in NStZ, 1982, 137 ss. e giurisprudenza ivi citata; contra K.<br />

Tiedemann, Die Parteispenden-Entscheidung des BGH, in NJW, 1987, 1247 ss.<br />

(75) Cfr. art. 2, comma 2, c.p., ultimo inciso: "Los hechos cometidos bajo la vigencia de una Ley temporal seràn juzgados, sin<br />

embargo, conforme a ella, salvo que se disponga expresamente lo contrario".<br />

(76) G. Rodriguez Morullo, Derecho penal. Parte general, Madrid, 1978, 137-138; J. M. Sìlva Sanchez, Legislación penal socioeconómica<br />

y retroactividad de disposiciones favorables: el caso de las "Leyes en Blanco", cit., 456 ss.<br />

(77) E. Frigols i Brines, Fundamentos de la sucesiòn de leyes en derecho penal espanol. Existencia y applicabilidad de las normas<br />

penales, cit., 551.<br />

(78) J. Lascuraìn Sanchez, Sobre la retroactividad penal favorable, cit., 95 ss. nota 129; F. Muñoz Conde, M. García Arán, Derecho<br />

penal. Parte general, Valencia, 2000, 160 ss.<br />

(79) E. Frigols i Brines, Fundamentos de la sucesiòn de leyes en derecho penal espanol. Existencia y applicabilidad de las normas<br />

penales, cit., 553.; S. Mir Puig, M. Corcoy Bisadolo, Art. 2, in S. Mir Puig, M. Corcoy Bisadolo, C. Bolea Bordon (coord.),<br />

Comentarios al Codigo penal: reforma LO 5/2010, Valencia, 2011, 32.<br />

(80) Cons. const., sent. 19-20 gennaio 1981, n. 80-127 DC, Loi renforçant la sécurité et protégeant la liberté des personnes, par. 75,<br />

161


in Journ. Off., 22 janvier 1981, 308. A partire dall'articolo 8 della Dichiarazione dei diritti dell'Uomo e del Cittadino del 1789 ove è<br />

sancito il principio di necessità della sanzione penale ("la loi ne doit établir que des peines strictement et évidemment nécessaires"),<br />

il Conseil ha infatti dedotto, quale conseguenza, che "le fait de ne pas appliquer aux infractions commises sous l'empire de la loi<br />

ancienne la loi pénale nouvelle, plus douce, revient à permettre au juge de prononcer les peines prévues par la loi ancienne et qui,<br />

selon l'appréciation même du législateur, ne sont plus nécessaires". Sul punto, cfr. A. Bernardi, Sulle funzioni dei principi di<br />

diritto penale, cit., 78 ss; P.T. Persio, Il principio di legalità nell'ordinamento giuridico francese, in questa Rivista, 2005, 1299<br />

ss.<br />

(81) Parte della dottrina, del resto, sostiene apertamente l'assoluta inderogabilità del principio di retroattività favorevole in ragione<br />

della prevalenza del diritto internazionale pattizio sui principi di diritto interno, rinviando in particolare all'art. 15 par.<br />

1 del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966. Cfr. A. Huet, Une méconnaissance du<br />

droit international: à propos de la retroactivité in mitius, in Jurisclasseur périodique, 1987, I, 3293 ss.<br />

(82) Il quale si è dunque limitato a sancire il principio di retroattività della legge penale più mite all'art. 112-4 c.p. prevedendo che<br />

"l'application immédiate de la loi nouvelle est sans effet sur la validité des actes accomplis conformément à la loi ancienne.<br />

Toutefois, la peine cesse de recevoir exécution quand elle a été prononcée pour un fait qui, en vertu d'une loi postérieure au<br />

jugement, n'a plus le caractère d'une infraction pénale". Sulla non casuale eterodossia terminologica che caratterizza questa<br />

disposizione rispetto alle analoghe previsioni degli altri codici europei vedi infra nota 84.<br />

(83) Sul nesso tra la mancata codificazione delle deroghe alla lex mitior e il rango costituzionale assegnato a quest'ultima, cfr. A.<br />

Dekeuver, La retroactivité in mitius: un principe encore et toujours contesté!, in Sem. Jur. Ed. Gén., 1997, n. 48, 4065 ss. È<br />

interessante notare come il progetto preliminare di riforma del codice penale del 1978 prevedesse, all'art. 9 c. 2, una disposizione<br />

intesa a escludere l'applicazione retroattiva della norma penale più favorevole nei casi di provvedimenti legislativi a vigenza<br />

temporalmente limitata, stabilendo in particolare che "l'infraction à une disposition légale ou réglementaire déclarée applicable ou<br />

applicable par nature pendant un temps limité, est jugée, et l'exécution des sanctions se poursuit, selon la disposition en vigueur lors<br />

de sa commission".<br />

(84) Il riferimento è alla tesi secondo cui la retroattività favorevole non sarebbe altro che un'espressione del più generale principio<br />

dell'applicazione immediata delle leggi sopravvenute alle situazioni giuridiche in via formazione, per cui vedi, per primo, P.<br />

Roubier, Le droit transitoire, Paris, 1960, soprattutto 177 ss. Questa dottrina è stata poi ripresa e sviluppata in ambito penalistico da<br />

A. Vitu, Des conflits des lois dans le temps en droit pénal, Thèse doctorale, Paris, 1945 e R. Béraud, La non-retroactivité des lois<br />

nouvelle plus douces, in Rev. sc. crim., 1949, 7 ss. Secondo questa impostazione le deroghe all'applicazione della norma vigente al<br />

momento del fatto si giustificherebbero soltanto in presenza di supreme esigenze di garanzia del reo quali sono quelle sottese al<br />

principio di irretroattività sfavorevole. La teoria dell'applicazione immediata sembra del resto rievocata dalla terminologia utilizzata<br />

dal legislatore nel codice penale all'art. 112-4, per cui vedi supra nota 82. Sul punto, per ulteriori riferimenti, cfr. E. Frìgols i Brines,<br />

El principio de irretroactividad, cit., 123 ss.<br />

(85) Cons. const., sent. 3 dicembre 2010, n. 2010-74 QPC, Jean-Marc P. et a., Journ. Off., 4 déc. 2010, 21117. A margine della<br />

sentenza vedi il commento, dai toni apertamente critici, di E. Dreyer, Limitation constitutionnelle de la rétroactivité favorable, cit.,<br />

82 ss. Nel caso di specie si faceva questione della modifica, con effetti limitativi della responsabilità penale, delle norme integratrici<br />

del delitto di vendita al ribasso di cui all'art. 442-2 del Code de commerce. In particolare, a formare oggetto della questione di<br />

legittimità costituzionale, era l'art. 47 della l. n. 2005-882 del 2 agosto 2005 che, modificando le soglie di rilevanza penale della<br />

pratica anticoncorrenziale vietata, stabiliva l'ultrattività delle disposizioni integratrici previgenti e la persistente punibilità dei fatti<br />

commessi in violazione di esse. Il Conseil ha escluso che la disposizione transitoria impugnata violasse il principio costituzionale di<br />

retroattività in mitius, ritenendo che l'applicazione della sanzione penale per i fatti pregressi andasse riferita al particolare contesto<br />

normativo in cui si inseriva la norma extrapenale modificata. È interessante rilevare come la pronuncia in esame costituisca uno dei<br />

primi interventi del Conseil in materia penale dall'introduzione, nell'ordinamento francese, del sindacato successivo di legittimità<br />

costituzionale. Riforma, quest'ultima, realizzata con la legge organica n. 2009-1523 che, in attuazione del nuovo articolo 61-1 della<br />

Costituzione, disciplina la question prioritaire de constitutionnalité.<br />

(86) A simili conclusioni deve giungersi se si considera che nella prospettiva del Conseil constitutionnel, l'applicazione della lex<br />

mitior si giustifica in tanto in quanto il legislatore, adottando la norma più favorevole, dimostra di "non giudicare più evidentemente<br />

e strettamente necessaria" la norma previgente. Cfr. Cons. const., sent. 19-20 gennaio 1981, cit., considerando 112.<br />

(87)<br />

F. Desportes, F. Le Gunehec, Droit pénal général, Paris, 2009, 305. Nello stesso senso, ancora, E. Dreyer, Limitation<br />

constitutionnelle de la rétroactivité favorable, cit., 82 ss.<br />

(88) Per cui vedi infra, par. 3.1. Per una sintesi critica del dibattito dottrinale, si veda O. Cahn, Délit de favoritisme et marchés<br />

publics: pour en finir avec l'exception à la rétroactivité in mitius, in Contrats et marchés publics, 2005, 5 ss. Sul punto, anche per<br />

ulteriori riferimenti giurisprudenziali, cfr. J. Pradel, Droit pénal géneral, Paris, 2010, 173 ss. soprattutto 183 ss.<br />

(89) Al riguardo può osservarsi come la dottrina francese, in assenza di definizioni legislative, tenda a distinguere le leggi a validità<br />

temporanea in leggi transitorie, leggi temporanee e leggi di circostanza. Queste due ultime categorie, in particolare, si<br />

differenziano a seconda che la disposizione legislativa o regolamentare presenti o meno un termine di durata predeterminato. Sul<br />

punto, cfr., per tutti, Y. Mayaud, Droit pénal géneral, Paris, 2010, 83 ss.<br />

162


(90) In argomento, cfr. J. Pannier, Retroactivité in mitius en matière douanière, in Sem. Jur. Aff. Entr., 2010, 1109 ss.<br />

(91) H.J. Rudolphi, par. 2, in H.J. Rudolphi, E. Horn, E. Samson, Systematische Kommentar zum Strafesetzbuch, Frankfurt am Main,<br />

17: "den Grund für Diese Ausnahme von der Rückwirkung des milderen Gesetzes bildet der Umstand, dass das Ende der Geltung<br />

des Zeitgesetzes nur durch den Wegfall seines Anlasses bedingt ist und ein Zeitgesetz andernfalls gegen Ende seiner Geltungsdauer<br />

kaum noch Autorität besäße". Analogamente, H.H. Jescheck, T. Weigend, Lehrbuch des Strafrechts. Allgemeiner Teil, 1996,<br />

Berlin, 141.<br />

(92) Così, da ultimo e con riferimento al carattere temporale di talune norme integratrici della fattispecie penale, A. Eser, B. Hecker,<br />

par. 2, in A. Schönke, H. Schröder, Strafgesetzbuch Kommentar, cit., p.62 ss. Va detto comunque che una simile valutazione non<br />

sempre risulta agevole, stante la difficoltà di accertare quali siano le motivazioni che hanno determinato la scelta del legislatore.<br />

Così già, H. Kelsen, Hauptprobleme der Staatrechtliche, entwickelt aus der Lehre vom Rechtsatze, Aalen, 1960, 294 ss. e più di<br />

recente, K. Tiedemann, Zeitliche Grenzen des Strafrechts, cit., 198.<br />

(93) In questo senso, G. Jacobs, Strafrecht. Allgemeiner Teil, Berlin-New York, 1991, 91 nota 63.<br />

(94) G. Dannecker, Das intertemporale strafrecht, cit., 443 ss.<br />

(95) G. Dannecker, Das intertemporale strafrecht, cit., 415 ss. il quale evidenzia come questo profilo del principio di proporzionalità<br />

si leghi, in ambito penalistico, ai principi di sussidiarietà e extrema ratio. Come noto, la dottrina e la giurisprudenza d'oltralpe fanno<br />

discendere il contenuto e l'efficacia dimostrativa del principio di proporzionalità dal concetto di Stato di diritto<br />

(Rechtsstaatsprinzip), cfr. BVerfG, 43, 242 (888), 8 febbraio 1997; BVerfG, 57, 250 (270), in B. Schlink, Abwägung im<br />

Verfassungsrecht, 1976, Berlin, 14 ss. Lo scrutinio di proporzionalità si articola poi, come è risaputo, in tre fasi, implicando la<br />

valutazione: a) dell'idoneità della norma rispetto ai fini perseguiti (Geeignetheit); b) della necessità del mezzo impiegato rispetto ad<br />

altri strumenti meno lesivi dei diritti fondamentali del cittadino (Erforderlichkeit); c) della proporzionalità in senso stretto<br />

dell'intervento legislativo, da accertare alla luce di un bilanciamento tra interessi contrapposti (Verhältnismäßigkeit im engeren Sinn<br />

o Adäquanz).<br />

(96) G. Dannecker, Das intertemporale strafrecht, cit., 446.<br />

(97) G. Quintero Olivares, F. Morales Prats, Art. 2, in G. Quintero Olivares, F. Morales Prats (coord.), Comentarios al codigo penal,<br />

Pamplona, 2011, 50 ss.<br />

(98) Cfr. E. Frigols i Brines, Fundamentos de la sucesiòn de leyes en derecho penal espanol. Existencia y applicabilidad de las<br />

normas penales, cit., 457.<br />

(99)<br />

Sul punto, ancora, E. Frigols i Brines, Fundamentos de la sucesiòn de leyes en derecho penal espanol. Existencia y<br />

applicabilidad de las normas penales, cit., 457.<br />

(100) Principi che vengono invocati dalla dottrina spagnola nella loro accezione di canoni garantistici e limiti al potere punitivo dello<br />

Stato. In questa accezione, siffatti principi si prestano ad assolvere la funzione di criteri di legittimazione della sanzione punitiva<br />

rispetto ai fatti pregressi, cfr. L. Arroyo Zapatero, Derecho penal económico y Constitución, in Rev. pen., 1998, p.1 ss. in<br />

particolare 4 ss. Sul principio di proporzione come canone garantistico si veda, in prospettiva più ampia, F. Palazzo, Introduzione ai<br />

principi del diritto penale, Torino, 1999, 72 ss.<br />

(101) Se infatti si intende il principio di necessità quale criterio di utilità e di necessaria idoneità della sanzione rispetto alle sue<br />

finalità di prevenzione generale e speciale, appare logico ritenere inutile l'applicazione della pena a seguito dell'adozione della<br />

norma penale più favorevole. In caso di abolitio criminis, infatti, deve reputarsi che la sanzione non assolva più alcuna finalità<br />

preventiva, mentre in caso di modifiche attenuatrici della sanzione può validamente argomentarsi che la pena sostituita non appare<br />

più utile allo scopo per cui era stata pensata. Di converso, qualora la modifica normativa rispondesse essenzialmente a un<br />

mutamento di circostanze di fatto, la necessità di sanzionare la condotta dovrebbe ritenersi inalterata. La distinzione tra le due<br />

ipotesi, coerentemente con le premesse della tesi in discorso, dovrebbe apprezzarsi alla luce della ratio di prevenzione della norma<br />

temporanea, nel senso cioè che laddove risulti chiaro che la norma penale era stata adottata per rispondere a modalità di lesione del<br />

bene giuridico storicamente determinate, la sanzione continuerebbe a spiegare la propria funzione preventiva. Cfr. J. M. Sìlva<br />

Sanchez, Legislación penal socio-económica y retroactividad de disposiciones favorables: el caso de las "Leyes en Blanco", cit.,<br />

428 ss. e 459 ss. A questa soluzione condurrebbe altresì il necessario rispetto del divieto di applicare pene eccessive unanimemente<br />

ricondotto dalla dottrina spagnola al principio di legalità penale, cfr. M. Cobo del Rosal, T. S. Vives Antòn, Derecho penal. Parte<br />

general, Valencia, 1999, 82 ss. In questo senso, altresì, J. A. Lascuraìn Sanchez, Sobre la retroactividad favorable, cit., 37 ss.<br />

(102) E. Frigols i Brines, Fundamentos de la sucesiòn de leyes en derecho penal espanol. Existencia y applicabilidad de las normas<br />

penales, cit., 552. Più in particolare si nota come il richiamo ad esigenze di prevenzione generale per escludere l'applicazione della<br />

lex mitior risulti ammissibile solo nella misura in cui "l'importanza dei beni giuridici che si intendono proteggere sia tale da<br />

bilanciare la limitazione dei diritti dei cittadini che l'applicazione della sanzione impone attraverso il surplus di tutela penale<br />

previsto [...] dalla legge temporanea". Sulla base di queste considerazioni, l'Autore sembra quindi escludere l'ultrattività delle leggi<br />

a validità temporanea poste a tutela di mere funzioni amministrative.<br />

163


(103) Cfr., con varietà di accenti, L. Favoreau, La constitutionnalisation du droit pénal et de la procedure pénal: vers un droit<br />

constitutionnel pénal, en Droit pénal contemporain: mélanges en l'honneur de Andre Vitu, Paris, 1989, 169 ss.; G. Mathieu,<br />

L'application de la loi pénal dans le temps, in Rev. sc. crim., 1995, 257 ss.<br />

(104) R. Béraud, La non retroactivité des lois nouvelle plus douces, cit., 7 ss. anche per un'accurata rassegna dei diversi orientamenti<br />

dottrinali sul punto. In tempi più recenti, parte della dottrina non ha mancato di affermare la pretesa inderogabilità della lex mitior<br />

alla luce del riconoscimento di tale garanzia a livello di diritto internazionale pattizio. Secondo questa impostazione, in<br />

particolare, la consacrazione della regola della retroattività in mitius nel Patto internazionale sui diritti civili e politici, conferirebbe<br />

a tale garanzia una particolare forza di resistenza in ragione: a) della prevalenza del diritto internazionale sul diritto<br />

interno sancita dall'art. 55 della Costituzione francese; b) della formulazione testuale dell'art. 15 par. 1 del Patto che sembrerebbe<br />

non consentire deroghe alla lex mitior; c) della mancata apposizione di riserve all'applicazione del Trattato da parte della Francia<br />

(riserve invece apposte da Germania e Italia con specifico riferimento al limite del giudicato). Sul punto, da ultimo, cfr. A. Huet, De<br />

quelques méconnaissances du droit international par le droit pénal français, in Mélanges dédiés à Bernard Bouloc, Paris, 2007,<br />

446 ss.<br />

(105) R. Vienne, Le principe de la rétroactivité de la loi pénale plus douce doit-il être considéré comme absolu? in Sem. Jur., 1947,<br />

I, 618 ss. il quale, con particolare riferimento alle norme incriminatrici integrate da prescrizioni extrapenali a carattere temporaneo,<br />

chiosava: "si les inconvénients d'une application générale et absolue du principe de la rétroactivité in mitius sont communs à toutes<br />

les mesures pénales exceptionnelles, il est pourtant un domaine où ils se montrent avec toute leur force et dans toute leur évidence:<br />

celui de la réglementation pénale économique". L'Autore, sulla scorta delle tesi della Motiventheorie tedesca, proponeva allora di<br />

distinguere tra disposizioni-fine e disposizioni-mezzo, ritenendo che solo le prime fossero interessate dall'applicazione retroattiva<br />

della norma più favorevole. Per un'analoga distinzione, cfr. G. Levasseur, Opinions hétérodoxes sur les conflits des lois répressives<br />

dans le temps, in Mélanges en l'honneur de Jean Constant, Lièges, 1971, 204.<br />

(106) F.C. Jeantet, Le Code des prix et les principes fondamentaux du droit pénal classique. Essai sur la répression de l'infraction à<br />

la discipline économique, 1943, Paris, 60 ss.<br />

(107) Cfr. Cass. fr. Ch. Crim., 10 settembre 1970, in Rec. Dalloz, 1971, Von Saldern, 509. In questa pronuncia viene enunciato per la<br />

prima volta il principio di diritto secondo cui "les textes reglementaires en matière économique et fiscale ne rétroagissent<br />

pas". La giurisprudenza del Supremo Collegio è tuttavia parzialmente mutata a seguito della costituzionalizzazione della lex mitior,<br />

finendo per ammettere l'applicazione retroattiva della norma penale più favorevole anche nel caso di leggi a carattere temporaneo e<br />

contingente, salve contrarie disposizioni di legge (cfr., esemplificativamente, Cass. fr., Ch. Crim., 16 febbraio 1987 e 16 marzo<br />

1987, in Rec. Dalloz, 1988, 39 con nota di A. Dekeuver; 25 gennaio 1988 in Rev. sc. crim., 1989, 125 con nota di M. Massé).<br />

Anche questa giurisprudenza, tuttavia, si è sottratta alle critiche della dottrina, che ne ha constatato l'incompatibilità con il rango<br />

sovralegislativo riconosciuto alla lex mitior, cfr. A. Huet, La rétroactivité in mitius des textes réglementaires en matière<br />

économique (dissonances sur une question simple), in Sem. Jur. Ed. Gén., 1989, 3378 ss. È significativo notare, del resto, come la<br />

scelta di prevedere delle deroghe all'applicazione della norma penale più favorevole nel caso di leggi a carattere temporaneo e<br />

contingente, sia stata in tempi recenti censurata dal Comitato internazionale per i diritti dell'Uomo delle Nazioni Unite, il quale -<br />

con una Comunicazione indirizzata al Governo francese (n. 1760 del 2008, Cochet c. Francia del 21 ottobre 2010) - ha ritenuto<br />

contrario all'art. 15 del Patto l'art. 110 della legge n. 92-677 del 17 luglio 1992 che prevedeva l'ultrattività delle norme penali in<br />

materia doganale applicabili alle importazioni effettuate da Paesi che avevano successivamente aderito all'Unione europea.<br />

(108) F. Desportes, F. Le Gunehec, Droit pénal général, cit., 268.<br />

(109) M. G. Marty, À propos de la prétendue rétroactivité des lois pénales plus douce, in Mélanges Magnol, Paris, 1948, 297 ss.; R.<br />

Merle, A. Vitu, Traité de droit criminel, Tome I, Paris, 1997, 363.<br />

(110) F. Desportes, F. Le Gunehec, Droit pénal général, cit., 271: "On ne voit pas en tout cas comment justifier une dérogation<br />

jurisprudentielle à un principe constitutionnel autrement qu'en démontrant qu'elle est compatible avec le principe lui-même".<br />

(111) Cfr., ancora, F. Desportes, F. Le Gunehec, Droit pénal général, cit., 271: "Dès lors que l'absence de nécessité de la répression<br />

constitue le fondement du principe, pourquoi ne pas admettre qu'elle puisse également en constituer la limite? Lorsque des<br />

circonstances objectives qui ne tiennent pas à un caprice du législateur mettent en évidence que la répression demeure nécessaire<br />

pour le passé, on devrait admettre que celle-ci puisse se poursuivre en dépit de l'abrogation du texte répressif".<br />

(112) Questa sembra essere ormai la posizione anche del Conseil constitutionnel, quanto meno con riguardo alle leggi a carattere<br />

contingente in materia economica. Sul parallelismo tra la sentenza del Conseil e le tesi della dottrina citata, cfr. E. Dreyer,<br />

Limitation constitutionnelle de la rétroactivité favorable, cit., 82 ss.<br />

(113)<br />

A ben vedere, inoltre, il riconoscimento della deroga si accompagna sovente a una nitida individuazione dei presupposti<br />

sostanziali per la sua applicazione. Come ha di recente affermato anche la nostra Corte costituzionale il presupposto per<br />

l'applicazione retroattiva della norma più favorevole è costituito dall'"omogeneità tra i contesti fattuali o normativi in cui operano le<br />

disposizioni che si succedono nel tempo" (Cfr. Corte cost., 19 luglio 2011 n. 236, cit.). Solo in presenza di una simile condizione,<br />

infatti, la nuova valutazione legislativa del fatto potrebbe legittimamente applicarsi anche ai fatti pregressi. Di converso, ove vi sia<br />

disomogeneità tra contesti applicativi e, più in particolare, nel caso in cui una determinata condotta ricavi il proprio disvalore dalla<br />

sua connessione con un dato contesto fattuale e normativo, dovrebbe trovare applicazione la regola del tempus regit actum. Il<br />

riferimento ai principi di necessità e proporzione si presta peraltro ad apportare i necessari correttivi all'eccessivo schematismo di<br />

164


una simile soluzione interpretativa, vedi infra in questo paragrafo e supra nota 60.<br />

(114)<br />

A.M. Maugeri, Il principio di proporzione nelle scelte punitive del legislatore europeo: l'alternativa delle sanzioni<br />

amministrative comunitarie, in G. Grasso, L. Picotti, R. Sicurella (a cura di), L'evoluzione del diritto penale nei settori<br />

d'interesse europeo alla luce del Trattato di Lisbona, cit., 67 ss. in particolare 80 ss.; C. Sotis, I principi di proporzionalità e<br />

necessità della pena nel diritto dell'Unione europea dopo Lisbona, in Diritto penale contemporaneo. Rivista<br />

trimestrale, n. 2, 2012, 111 ss. in particolare 114 ss.<br />

(115) Per una chiara esposizione del contenuto dei principi di necessità e proporzione in prospettiva utilitarista, si rinvia a F. Palazzo,<br />

Introduzione ai principi del diritto penale, cit., 70-71.<br />

(116) Dall'analisi della giurisprudenza di Lussemburgo si ricava nitidamente un principio di proporzione che sembra evocare - quanto<br />

meno in relazione ai valori giuridici rilevanti per l'ordinamento comunitario - esigenze di extrema ratio dell'intervento<br />

punitivo. Cfr. G. Panebianco, La giurisprudenza della Corte di Lussemburgo, in G. Panebianco, G. De Vero, Delitti e pene nella<br />

giurisprudenza delle Corti europee, Torino, 2007, 101 ss.; A.M. Maugeri, Il principio di proporzione nelle scelte punitive del<br />

legislatore europeo: l'alternativa delle sanzioni amministrative comunitarie, cit., 95 ss e giurisprudenza ivi citata. La<br />

proporzionalità quale limite al potere punitivo è messa in evidenza anche dall'art. 52 par. 1 della Carta dei diritti fondamentali, in<br />

base al quale le limitazioni ai diritti fondamentali possono essere introdotte "solo laddove siano necessarie e rispondano a finalità di<br />

interesse generale riconosciute dall'Unione o all'esigenza di proteggere i diritti e libertà altrui".<br />

(117) Cfr. sul punto, F. Palazzo, Charte européenne des droits fondamentaux et droit pénal, in Rev. sc. crim., 2008, 14. Nella<br />

precedente giurisprudenza comunitaria, comunque, non erano mancate analoghe applicazioni di questo principio, vedi<br />

esemplificativamente, CGCE, sent. 30 novembre 1977, causa 52/77, Cayrol c. Rivoira, in Racc., 1977, 2279 ss. Sul punto, cfr. A.<br />

Bernardi, Profili di incidenza del diritto comunitario sul diritto penale agroalimentare, in Amb. svil., 1998, 763<br />

ss.<br />

(118)<br />

Per un'analisi del giudizio di ragionevolezza-proporzionalità in materia penale, cfr. G. Scaccia, Gli "strumenti" della<br />

ragionevolezza nel giudizio costituzionale, Milano, 2000, 297 ss. Il principio di proporzione è da alcuni autori significativamente<br />

ricondotto anche alle istanze personalistiche di rieducazione che debbono animare l'esecuzione della pena nella prospettiva<br />

costituzionale, cfr. G. De Vero, Corso di diritto penale, cit., 306. L'applicazione di un castigo palesemente sproporzionato,<br />

infatti, vanificherebbe ogni possibilità di rieducazione del condannato, presentandosi agli occhi di questo come un trattamento<br />

sanzionatorio "ingiusto".<br />

(119) Per considerazioni analoghe, cfr. C. Sotis, Le regole dell'incoerenza, Roma, 2012, 120-121, l'Autore fa però leva sul fatto che il<br />

principio di proporzione di cui all'art. 49 par. 1 postuli sempre un giudizio triadico attraverso cui mettere a raffronto la norma<br />

sospettata di illegittimità con un tertium comparationis. Per la tesi secondo cui proprio il riferimento alla Carta dei diritti<br />

fondamentali consentirebbe al giudice costituzionale di effettuare delle valutazioni di proporzionalità che prescindano dal ricorso al<br />

tertium comparationis, cfr. invece V. Manes, I principi penalistici nel network multilivello: trapianto, palingenesi, cross<br />

fertilization, cit., 858.<br />

(120) Su questo punto si vedano ancora le considerazioni di C. Sotis, Le regole dell'incoerenza, cit., 98 ss.<br />

(121) In questo senso argomenta, con riferimento ad altre e diverse deroghe alla lex mitior, F. Viganò, Sullo statuto costituzionale<br />

della retroattività della legge penale più favorevole, in Diritto penale contemporaneo, cit., 19, il quale a sua volta muove dal<br />

presupposto che la retroattività favorevole in prospettiva convenzionale si fondi sul principio di proporzionalità.<br />

(122) Non sempre, cioè, accade che l'organo che emana la norma extrapenale si periti di esplicitare che questa resterà in vigore solo<br />

entro un certo termine (legge temporanea) o finché dura una determinata situazione di fatto (legge eccezionale).<br />

(123) Cfr. ancora le obiezioni espresse al riguardo da D. Brunelli, Il diritto penale delle fattispecie criminose, cit., 224 e M.<br />

Scoletta, L'abolitio criminis parziale tra vincoli costituzionali e aporie processuali, cit., 462 ss. A favore dell'applicabilità dell'art. 2<br />

c. 5 c.p. alle norme integratrici si veda, nella dottrina tradizionale, V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, cit., 383.<br />

(124) Non pare casuale del resto che, nella dottrina straniera, gli Autori che ravvisano il fondamento della disciplina intertemporale in<br />

esame nel principio di proporzionalità, tendano poi a prediligere una interpretazione più estesa dei presupposti applicativi della<br />

deroga. Così J. Lascuraìn Sanchez, Sobre la retroactividad penal favorable, cit., 95-98.<br />

(125) Ipotesi, questa, che parte della dottrina - coerentemente con il presupposto di ravvisare la ratio dell'art. 2 c. 5 in una mera<br />

esigenza di prevenzione generale negativa - ritiene esclusa dall'ambito applicativo della deroga. Si vedano, al riguardo, le<br />

considerazioni critiche di G. Vassalli, Successione di più leggi eccezionali, cit., 27, secondo il quale una simile estensione del<br />

contenuto dell'art. 2 c. 5 "non potrebbe avvenire se non in virtù di una sua applicazione analogica".<br />

(126)<br />

In questo senso si vedano le analoghe considerazioni di J. M. Sìlva Sanchez, Legislación penal socio-económica y<br />

retroactividad de disposiciones favorables: el caso de las "Leyes en Blanco", cit., 457-458.<br />

165


(127) Si pensi, per fare un esempio, alle norme penali in materia doganale.<br />

(128) Un esempio calzante in questo senso è offerto dalla disomogeneità delle soluzioni applicative che, nella giurisprudenza degli<br />

Stati membri, si riscontrano quanto agli effetti nel tempo delle modifiche alla normativa di diritto doganale richiamata dalle<br />

fattispecie incriminatrici di settore. La giurisprudenza francese sembra infatti orientata a riconoscere carattere retroattivo alle<br />

modifiche determinate dalla successione dei regolamenti UE in materia, cfr. per tutte Cass. fr., Ch. crim., 12 dicembre 1996, in Dr.<br />

pén. 1997, con nota di J.-H. Robert. La giurisprudenza spagnola mostra invece maggiori resistenze, cfr. esemplificativamente<br />

Tribunal Supremo, 17 dicembre 2008, n. 548 del 2008 e giurisprudenza di merito ivi richiamata. La giurisprudenza italiana, infine,<br />

tende ad escludere che l'abolizione delle barriere doganali, dovuta alla creazione - a far data dal 1° gennaio 1993 - del mercato<br />

unico europeo, abbia fatto venir meno la punibilità delle condotte di contrabbando commesse in precedenza, cfr. Cass., sez. V, 23<br />

maggio 1987, 11 maggio 2006, n. 21197, Formaggia, in Cass. pen., 2007, 560 ss.<br />

166


LA LEGISLAZIONE PENALE AD PERSONAM. I RIMEDI IN MALAM PARTEM DELLA CORTE<br />

COSTITUZIONALE (*)<br />

Cass. pen. 2012, 02, 717<br />

Angelo Carmona<br />

Ordinario di Diritto penale LUISS di Roma<br />

Sommario 1. La questione. - 1.1. Il diritto vivente. - 2. Riserva di legge e "responsabilità". - 3. I principi penalistici<br />

coinvolti. - 4. In malam partem, in nome della ragionevolezza. - 4.1. La sentenza n. 394 del 2006. - 4.2. (Segue)<br />

Conclusioni sul punto. - 5. Le "zone franche" e il controllo di legalità. - 5.1. (Segue) Secondo il bilanciamento di valori<br />

costituzionali. - 6. Gli spazi di legittimo intervento in malam partem della Corte. - 7. Considerazioni finali. - 7.1.<br />

(Segue) Se si dissolve il parametro della libertà.<br />

1. LA QUESTIONE<br />

È noto. L'art. 28 della l. 11 marzo 1953, n. 87 stabilisce che "il controllo di legittimità della Corte costituzionale [...]<br />

esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull'uso del potere discrezionale del Parlamento".<br />

Di tanto radicale e chiara disposizione la Corte, in taluni casi, non ha tenuto gran conto, attribuendosi nei fatti,<br />

attraverso la valenza innovativa delle proprie sentenze, un indubbio potere di normazione indiretta (attività<br />

giurisdizionale che comporta valutazioni di natura politica).<br />

Il tema nei suoi termini generali, da decenni discusso in dottrina (e riproposto con rinnovata efficacia dalla nota<br />

sentenza n. 394/2006 nello specifico tema delle norme di favore), è fondamentale per il penalista perché, abituato a<br />

riflettere sui temi della giurisdizione sotto lo scudo del principio di legalità, deve prendere atto come la Corte modifichi,<br />

necessariamente, - soprattutto con i suoi interventi "manipolativi" (1), "additivi" o "riduttivi" che siano (la norma è<br />

illegittima nella parte in cui non prevede o prevede) - il sistema giuridico penale, attraverso l'indiretta creazione di<br />

fattispecie "nuove", quali vere "opere originali" (2). Gli effetti sono, ovviamente, diversi a seconda che si elimini<br />

dall'ordinamento una norma speciale di favore (lasciando che la norma generale si "riespanda" in malam partem), si<br />

aggiunga ad una fattispecie un nuovo pezzo (restringendo, così, in bonam partem lo spettro di incriminazione) o si<br />

resechi, invece, un segmento del precetto (ampliando, in malam partem, lo spettro di incriminazione); in tutti i casi la<br />

Corte assume, in ragione degli effetti normativi delle proprie decisioni, un ruolo fondamentale nel sistema delle fonti<br />

(3), ridisegnandone i livelli. Bisogna chiedersi, perciò, se così la Corte incida il tessuto dell'ordinamento giuridico al di<br />

sopra o al di sotto della invalicabile linea di separazione fissata dallo stato di tensione istituzionale (necessariamente)<br />

esistente tra essa e il Parlamento, tipico del nostro sistema costituzionale rigido; ove la rigidità "corrisponde alla piena<br />

affermazione del principio della sovranità popolare" (4).<br />

1.1. Il diritto vivente<br />

Preliminare ad altre riflessioni è l'opportunità di sgomberare il campo da influenze improprie, balenanti talora nella<br />

dottrina, che si fanno derivare dalla "teoria" del diritto vivente (come generalmente accettata). Su questo piano è stata<br />

indubbiamente stimolante l'idea di chiedersi: "se, dal punto di vista del caso concreto interessato e delle libertà in gioco,<br />

appare nella fisiologia del sistema che un giudice ordinario muti l'interpretazione in materia di riciclaggio e prenda a<br />

configurare la fattispecie nel caso di "taroccaggio" della targa degli autoveicoli, perché invece negare il potere<br />

normativo anche in malam partem alla Corte costituzionale?" (5).<br />

Mi sembra si possa rispondere subito che una cosa è la capacità di normazione del giudice ordinario, ben altra, e con<br />

ben diversi effetti, quella della giurisdizione costituzionale.<br />

(Senza voler fare di un fuscello una trave) leggo in Mengoni (6) e lo trascrivo testualmente: "Nel libro quinto dell'Etica<br />

nicomachea, trattando della giustizia correttiva o comunicativa che divide equamente vantaggi e svantaggi, Aristotele<br />

scrive: "quando si è in lite si ricorre al giudice, e andare dal giudice è come andare dalla giustizia: il giudice infatti è una<br />

specie di giustizia vivente (émpsycon díkaion)". Poichè è la legge che dà forma alla giustizia, onde si fa giustizia<br />

applicando la legge, l'espressione "giustizia vivente" è scambiabile con "legge (o diritto) vivente" (nomos émpsychos).<br />

Il giudice che applica la legge è quasi una incarnazione della giustizia. La metafora è ripresa da Cicerone nel trattato<br />

delle leggi, dove il magistrato è detto lex loquens e per contrapposto la legge mutus magistratus. La contrapposizione<br />

indica un nuovo significato, non più connesso, come nella pagina aristotelica, al tema del rapporto tra legge e giustizia,<br />

bensì al tema dell'interpretazione della legge".<br />

La teoria del diritto vivente è, dunque, storicamente strutturata da millenni sul ruolo del giudice e sugli effetti della<br />

interpretazione nella applicazione di una disposizione normativa; alla quale deve riconoscersi, va da sé, un<br />

fondamentale e vincolante valore euristico ai fini della decisione (7), non potendosi certo l'applicazione delle norme<br />

esaurirsi in una sorta di "decostruzionismo" per il quale tutto dipende dal modo in cui il lettore (giudice) interpreta il<br />

testo (con buona pace dell'art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale).<br />

La disposizione legale è, dunque, possibilità di interpretazione di un dato positivo preesistente in un caso da decidere,<br />

rispetto al quale (una volta formulata) concorre alla formazione del diritto, trasformandosi poi in "diritto vivente"<br />

quando la sua conferma in ulteriori altri casi la costituisce in un modello (8) strutturato, appunto, sulla fonte positiva<br />

originaria (la norma) e sulla sua lettura giurisprudenziale. È pacifico che così la positività del diritto consista in un<br />

processo complesso, quasi un testo che giunge alla forma finale in una riscrittura continua che, superando nel tempo le<br />

167


possibili plurali letture nei casi, fa emergere il dato giuridico.<br />

Chiaro. A questo punto non è problema da poco quello della relazione tra giustizia e certezza e della determinazione<br />

della misura irrinunciabile di quest'ultima, perché il diritto conservi le ragioni del proprio essere. Certezza è, infatti,<br />

tanto per restare alla superficie, l'effettività dei caratteri di astrattezza, generalità, anteriorità, stabilità nel tempo,<br />

resistenza alla deroga, conoscibilità; al dunque garanzia della libertà e della dignità della persona, valori finali della<br />

costruzione costituzionale. Perfino banale ricordare che "... il diritto o è certo o non è ..." (9).<br />

Nondimeno rimane innegabile la irriducibilità del diritto alla norma di legge, che se è condizione necessaria di esso, non<br />

ne è, però, condizione sufficiente (10).<br />

In conclusione sul punto. Il momento vivente del diritto è coessenziale alla sua natura (11), ma derivando<br />

dall'interpretazione presuppone una ineliminabile base legislativa; esso nasce dal caso concreto e ritorna<br />

nell'applicazione ai casi e, tuttavia, (questo è fondamentale per il nostro ragionamento) non in modo necessario, potendo<br />

essere inapplicato in altri giudizi o, addirittura, in altri gradi dello stesso procedimento. Il giudice, dunque, crea diritto,<br />

ma poiché non coinvolge, necessariamente, la generalità dei cittadini non ha bisogno di una specifica legittimazione<br />

(democratica) a normare.<br />

La capacità di normazione delle decisioni della Corte costituzionale è, all'evidenza, fenomeno ben diverso; costituito<br />

dalla effettiva creazione dell'ordinamento giuridico non solo attraverso l'eliminazione di norme positive, ma per<br />

l'inserimento di nuove fattispecie (decisioni riduttive o additive) con la stessa valenza di generalità, astrazione ed<br />

efficacia erga omnes delle disposizioni di produzione parlamentare, unendo così in uno la potestà formalmente<br />

giurisdizionale ed altra sostanzialmente legislativa.<br />

Non c'è dubbio, dunque, che la giustizia costituzionale si collochi a mezza via tra la giurisdizione e la politica, quasi<br />

come una meccanica di frizione che, se ben funzionante, permette che gli attriti di una forza sull'altra fluiscano in modo<br />

utile per l'intera macchina. Certo, perché il sistema complessivo mantenga la sua armonia, nella relazione tra<br />

legislazione politica e giurisdizione costituzionale, bisogna pur trovare il limite all'intervento di controllo sulla<br />

costituzionalità delle leggi che si trasforma in attività di normazione. Bisogna, cioè, convenire sull'interpretazione<br />

accettabile del divieto di cui all'art 28 della legge del 1953, proprio alla luce dei principi e dei valori costituzionali.<br />

2. RISERVA DI LEGGE E "RESPONSABILITà"<br />

Di recente Mario Romano invitava a "ulteriori riflessioni" sull'assolutezza della riserva di legge dopo il "varco ormai<br />

aperto sulla sindacabilità delle norme penali di favore" (12). Provo (pur in un'ottica limitata) a raccogliere la proposta,<br />

perché la partita che su questi temi si gioca è di tale vastità e concreta rilevanza da collocarsi fra le questioni per le quali<br />

può davvero dirsi che sia questo il momento in cui il penalista non può rimandare la propria valutazione a un dopo o a<br />

un altrove.<br />

Appunto è naturale chiamare in causa, per primo, il principio di riserva di legge che, nella più immediata e rigorosa<br />

lettura, evidenzia facilmente la scarsa coerenza ai suoi dettami della giurisdizione normatizzante della Corte. Forse<br />

però, semplicemente così, sarebbe un nostalgico fuor d'opera, considerando l'evoluzione del principio, ormai lontano<br />

dall'utopia illuministica (13), e la necessità di elaborare dello stesso principio di legalità "una visione meno schematica<br />

e ingenua" (14) di quella tradizionale. Nondimeno il richiamo possiede una sua fondamentale rilevanza in quanto nella<br />

riserva di legge si positivizza, ancor più se possibile in questi nostri tempi, la necessaria effettività del principio di<br />

democrazia (15).<br />

Esattamente si dice, ormai in modo da tutti condiviso, che la riserva di legge assicura (nella sede parlamentare) il<br />

controllo sulle leggi da parte della minoranza e all'esterno (attraverso la pubblicità della procedura) quello dell'opinione<br />

pubblica; così tendendo ad evitare che il principio democratico si risolva nel principio di maggioranza (16) (magari su<br />

temi particolarmente delicati nella relazione tra individuo e Stato).<br />

Certo, non mi pare si possa negare che la funzione normativa della Corte si attui, nella segretezza della Camera di<br />

Consiglio, al di là del principio di democrazia (17). Anzi, non ci si muove fuori tema se si considera, in quest'ottica,<br />

anche il meccanismo di nomina dei giudici (ex art. 135 Cost.); per i due terzi, espressione, se pur lata, proprio di una<br />

volontà di maggioranza (18) che poi, incarnata in loro, non dovrebbe mai poter presiedere alle scelte politiche di<br />

normazione. In quest'ottica aggrava ancor più la situazione la quasi doppia durata in carica dei giudici rispetto al<br />

Parlamento che può vedere un'idea politica divenuta minoranza nel Paese ancora maggioranza (con la vocazione a<br />

normare) nella Corte (19).<br />

Ma c'è di più.<br />

Si è detto "Il primato della legge non è fondato sulla stantia ripetizione della versione più banale del principio della<br />

separazione dei poteri, bensì sull'insopprimibile esigenza che in un ordinamento democratico ad ogni scelta politica si<br />

accompagni una responsabilità" (20); sicché chi è privo di quella responsabilità non può operare scelte politiche con<br />

valenza generale, poiché il coinvolgimento di tutti i cittadini ad opera dell'ordinamento giuridico non può avvenire fuori<br />

dai presidi della democrazia. Allora nel nostro caso vi è un'indubbia anomalia che "non sta nell'incidenza sull'indirizzo<br />

politico generale delle sentenze della Corte, quanto nel fatto che si attribuisce ad un organo politicamente irresponsabile<br />

un potere di dettare norme con efficacia erga omnes aventi la stessa forza degli atti legislativi" (21).<br />

Vorrei aggiungere, sia pure solo con un cenno, che se l'idea stessa di responsabilità si lega all'esistenza di un dovere di<br />

comportamento, proprio i caratteri di questo dovere delimitano lo spazio e il tipo di responsabilità. Orbene, poiché non<br />

ha bisogno di particolare illustrazione dire che l'etica della responsabilità impone di tener conto delle conseguenze<br />

dell'agire, si può affermare, nello specifico, che la valutazione sul piano politico dell'operare di chi pone le norme si<br />

incentri, rispetto ai fini previsti, nel quadro, appunto, di un calcolo delle "conseguenze generali" che ne sono derivate.<br />

168


Conseguenze che, perciò, gli sono imputabili agli effetti della responsabilitÈ. È evidente come non sia del<br />

comportamento del giudice (anche costituzionale) e dei suoi doveri tenere conto delle conseguenze generali della<br />

decisione, ma caratteristico solo del campo della politica. Soprattutto, poi, non si può dimenticare l'ovvia<br />

considerazione che, in democrazia, la "responsabilità politica" si lega al carattere tipico della politica democratica per<br />

cui il rapporto tra chi decide e chi non può farlo è un rapporto reversibile, nel quale le parti possono essere scambiate.<br />

Nulla a che vedere, come ovvio, con l'esercizio della giurisdizione. Ecco perché mi sembra fortemente dubbio che un<br />

effetto regolativo generale possa derivare (pacificamente) dall'attività di chi, come la Corte delle leggi, non ne possa<br />

assumere la piena responsabilità politica (22) e come, alla luce di tutte queste considerazioni, non si possa non<br />

convenire con chi segnala "il definitivo inserimento nel sistema di una vera fonte "autocratica" (23).<br />

È ovvio. A me interessa riflettere sul tema soltanto nella prospettiva penalistica e, in particolare, in ordine all'intervento<br />

giurisdizionale che crei mutamenti del sistema in malam partem; insomma ragionare sull'esistenza di un limite alla<br />

produzione da parte della giustizia costituzionale di un diritto penale "razionale" anche a costo di giustiziare fattispecie<br />

con effetti in bonam partem.<br />

Su questa via, infatti, la giustizia costituzionale, pur priva di legittimazione democratica (24) e di democratica<br />

responsabilità politica, dispone con valenza generale ed astratta, in ottica peggiorativa, della libertà nel nome della<br />

razionalità dell'ordinamento giuridico. Se questo genere di intervento deve ritenersi ortodosso - come parte della<br />

dottrina penalistica ritiene (25) - mi sembra che possa ricorrere il detto fiat iustitia ruat caelum. Penso che il rischio,<br />

fisiologico e ineliminabile, di trasformazione del giudizio di legittimità costituzionale in giudizio sulla "giustizia" della<br />

scelta politica operata dal legislatore (che l'art. 28 della l. n. 87 e lo stesso principio della riserva di legge volevano<br />

evitare) si materializzi, almeno nella dimensione penalistica in malam partem, incoerentemente con gli stessi principi e<br />

valori costituzionali. Insomma, credo sia ancora utile continuare a ragionare sul se e sul quanto il diritto penale<br />

"dell'incriminazione", in ragione delle sue peculiarità, debba rimanere fuori da questo indubbio processo di dilatazione<br />

della giurisprudenza costituzionale assurta a dignità di fonte; perché se è vero che le tradizionali ragioni<br />

dell'illuminismo giuridico penale sono ormai, almeno per alcune istanze, fuori dal nostro tempo, si converrà da tutti che<br />

ben radicate devono rimanere, invece, le fondamenta democratiche dell'ordinamento giuridico penale.<br />

3. I PRINCIPI PENALISTICI COINVOLTI<br />

Dicevo: nel nome della giustizia razionale precipiti, pure, il cielo dei principi penalistici; in primo luogo l'esigenza,<br />

irrinunciabile, di tassatività delle fattispecie.<br />

Spero mi si perdoni la faciloneria (letteraria) con cui ora me la cavo, richiamando concetti fondamentali per il diritto<br />

penale semplicemente con la citazione testuale di chi li poneva sul tavolo della discussione di teoria generale, ormai più<br />

di quarant'anni addietro. "Tassatività della fattispecie significa determinazione del fatto punibile tale che, sebbene<br />

traducentesi in un'astratta figura, sia idonea a stabilirne i caratteri generali, di guisa che il cittadino tenuto all'osservanza<br />

del precetto e l'interprete possano agevolmente ricavarne la condotta vietata; che, inoltre, tale espressa previsione deve<br />

essere compiuta ad opera della legge; ne consegue l'assoluto monopolio di quest'ultima nella determinazione dell'illecito<br />

punibile" (26). Il tutto (e non credo valga la pena di ricordarne oggi la dimostrazione) come esigenza di natura<br />

costituzionale derivante, almeno, dalla ratio dell'art. 25, comma 2, Cost. (27). Così la norma penale (norma-comando,<br />

effettiva o tendenziale che si voglia) può essere conosciuta con sufficiente chiarezza nel contenuto, mantenendo<br />

l'attitudine, derivante dalla sua essenza, ad orientare le condotte dei consociati.<br />

Nell'ottica penalistica, insomma, come ben si sa, il carattere democratico dello Stato si traduce, oltre che nella riserva di<br />

legge per garantire la pubblicità e il controllo della minoranza, nella garanzia fornita dalla tassatività delle norme,<br />

affinché tutti, tramite questa, siano in condizione di distinguere il lecito dall'illecito ed essere così previamente avvertiti<br />

della minaccia statuale alla libertà di ciascuno. Considerazioni, mi rendo conto, tanto semplici da apparire perfino<br />

ingenue.<br />

Non mi sembra, francamente, che le caratteristiche linguistiche e logiche e le tecniche argomentative di una<br />

motivazione giurisdizionale si concilino con le esigenze ricordate, soprattutto quando, come spesso capita di necessità<br />

alla Corte costituzionale, il procedimento logico sia particolarmente articolato e complesso.<br />

In conclusione sul punto, mi pare debba ribadirsi come l'esigenza di tassatività della norma penale incriminatrice, per<br />

essere fondata costituzionalmente sull'art. 25, comma 2 e per le sue caratteristiche intrinseche, sia indissolubilmente<br />

legata alla sola costruzione legale delle fattispecie (28) e, dunque, violata dalla attività normativa della Corte<br />

costituzionale (c'è da chiedersi a margine, e in altra prospettiva, come questa normazione penale giurisdizionale si<br />

concili con l'art. 5 c.p.).<br />

Altro pezzetto di cielo penalistico che gli interventi manipolativi della Corte costituzionale rischiano di far precipitare è<br />

quello relativo all'oggettività giuridica e alla "frammentarietà" dell'intervento repressivo.<br />

È ben noto (e da tutti condivisa, quale acquisizione ormai elementare) come i limiti della tutela penale si misurino sul<br />

piano della formulazione della fattispecie attraverso le modalità del comportamento selezionate dal legislatore che,<br />

pertanto, divengono determinanti per stabilire quando e quanto la lesione di un bene giuridico debba venire punita<br />

(poiché, fra l'altro, i beni giuridici non appartengono in maniera esclusiva al diritto penale). In sostanza il carattere<br />

stesso di tipicità delle figure criminose richiede la loro costruzione intorno ai modi della condotta, selezionati fra i tanti<br />

(o i pochi) possibili. Quest'opera di individuazione porta con sé, come risultato necessario, che la tutela apprestata al<br />

bene giuridico sia "frammentaria", nel senso che residuino lesioni del bene non punite perché realizzate con condotte<br />

non selezionate o punite meno gravemente di altre proprio perché la maggiore risposta repressiva deriva dalla diversa<br />

modalità di attacco: la categoria della tipicità, in questo modo, fissa normativamente la tutela del bene ritenuto<br />

169


meritevole di protezione e, nel contempo, ne determina i limiti. Insomma, la modalità di aggressione consente di<br />

ritagliare, come con un raggio laser che vi si proietti contro, dall'ampio bene giuridico di categoria, lo specifico oggetto<br />

giuridico tutelato dalla struttura base di repressione (la singola fattispecie incriminatrice). Le modalità della condotta<br />

esaltano, così, la funzione oggettivante del bene giuridico e, nel contempo, limitandone le offese penalmente rilevanti,<br />

assicurano quegli spazi di libertà che sono indispensabili per la riduzione del diritto penale a extrema ratio.<br />

Come dicevo concetti, questi, patrimonio di tutta la dottrina, sicché allora dovrebbe essere evidente per tutti come<br />

l'intervento manipolativo della Corte sugli elementi della fattispecie attinenti al fatto tipico possa determinare una<br />

modificazione dell'oggettività giuridica, sostituendo il bene giuridico o alterandone la fisionomia come disegnata dalle<br />

modalità di condotta originariamente descritte. Con l'ulteriore effetto che, non potendo la Corte rideterminare nella<br />

stessa occasione - non essendone investita - la qualità e la quantità della pena in armonia al nuovo livello di offesa che<br />

l'intervento sul bene tutelato ha provocato, rimane alterato l'equilibrio tra la portata offensiva del fatto e la sua<br />

traduzione in termini di afflizione (29).<br />

E qui, la Corte mette le mani nel piatto dell'offensività (30), cioè sul piano dove si gioca la stessa legittimazione del<br />

diritto penale; ove si misura quale e quanta offesa possa determinare la pretesa statuale sulla libertà delle persone.<br />

Livello, dunque, di assoluto contenuto politico e mi sembra di stretta cognizione del legislatore se utilizzato non per<br />

ridurre, ma per ampliare l'intervento penale.<br />

4. IN MALAM PARTEM, IN NOME DELLA RAGIONEVOLEZZA<br />

Aspetti particolari e, in qualche misura, diversi propongono le sentenze in malam partem, per violazione del principio di<br />

uguaglianza alla luce del canone di ragionevolezza.<br />

Fondamentale la sentenza n. 394 del 2006 che, dichiarando l'incostituzionalità delle fattispecie di falsità nelle liste<br />

elettorali, elimina una disposizione più mite di quelle comuni, facendosi carico, però, come vedremo più avanti, di<br />

individuare i limiti che il potere di normazione indiretta della Corte incontra nel sistema giuridico penale costituzionale<br />

e ordinario.<br />

Questione legata, fra l'altro, come ben si sa, al sindacato di legittimità sulle così dette norme "di favore"; norme, per lo<br />

più, mirate alla tutela di occasionali interessi di settore, lì dove determinate categorie di soggetti si avvantaggiano,<br />

appunto, di un trattamento favorevole rispetto a quello riservato, per lo stesso fatto, da disposizioni di legge comuni più<br />

generali, alla platea degli altri destinatari (31).<br />

Ancora una volta la Corte ritiene di non travalicare il limite posto dall'art. 28 della legge n. 87 del 1953 nel suo<br />

significato sostanziale (32), perché (nel nome del rispetto dell'uguaglianza e del canone di ragionevolezza) opera un<br />

sindacato sulle leggi che determina l'eliminazione di una situazione normativa di disparità nel trattamento, se da<br />

ritenersi logicamente "arbitraria" (33).<br />

Orbene se "giudicare irragionevole una norma di favore, per definizione derogatoria del principio di uguaglianza,<br />

equivale a sindacare l'uso legislativo della disuguaglianza" (34) è evidente come il giudizio emesso sia essenzialmente<br />

politico; talché, per fissare un limite, oggettivo e sicuro, di rispetto della funzione legislativa, si potrebbe pensare che ci<br />

si debba limitare a giustiziare le ipotesi normative le cui disposizioni superino gli specifici confini dell'uguaglianza<br />

posti dall'art. 3 Cost. (sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali) (35). Al di là,<br />

però, del campo delimitato dai sette parametri del comma 1, nel quale il controllo sulle scelte politiche del legislatore è<br />

espressamente richiesto dalla Costituzione, ci si muove, dovendosi scoprire l'avvenuto arbitrio legislativo, in forza del<br />

parametro ragionevolezza-razionalità (piuttosto che in base a quello oggettivo della ragionevolezza-uguaglianza) e,<br />

dunque, sul terreno di merito dell'apprezzamento politico (36) e sul piano della plausibilità. Accettabilità logica che,<br />

tuttavia, dovrà pur essere oggettivamente misurabile e non esaurirsi nel "desiderio" politico (anche se magari<br />

apprezzabilissimo, condivisibile e razionalmente motivato) del giudice costituzionale. Con il "rischio di soppiantare lo<br />

stesso tema della "ragionevolezza secondo la Costituzione", sostituendolo con quello della "ragionevolezza secondo<br />

l'opinione dei giudici costituzionali"" (37).<br />

Nella ricerca di un utile criterio oggettivo rinuncio, in questa sede, a legarlo all'esito di difficili diagnosi sull'attuale<br />

"stato di salute" (38) del principio di riserva di legge e alla riproposizione della complessa analisi sui meccanismi di<br />

accertamento della ragionevolezza (fantasmatica boscaglia (39)), secondo la letteratura costituzionalistica o penalistica<br />

(40).<br />

In sintesi. Se la scelta politica del legislatore deve ritenersi suscettibile di valutazione sul piano della plausibilità, questo<br />

giudizio (fuori dalle ipotesi, dunque, in cui la norma ordinaria sia in contrasto diretto con le specifiche "matrici"<br />

individuate dal Costituente nell'art. 3), poiché va necessariamente oggettivato, si svolge, ovviamente, sul piano dei<br />

principi e dei valori direttamente desumibili dalla Carta costituzionale (41) e della loro ponderazione. È questo,<br />

d'altronde, l'unico terreno, ove il potere di controllo della Consulta e quello di legiferazione del Parlamento (come<br />

vedremo nelle conclusioni di queste note) possano essere reciprocamente misurati per soppesare il rischio che il<br />

giudizio di legittimità coinvolga - inopportunamente - profili di merito che per la loro connaturale valenza politica sono<br />

coperti dalla riserva di legge.<br />

Prima di giungere a considerare questo passaggio (infra 5.1.) è opportuno, però, uno sguardo, se pure veloce, ai<br />

precedenti della Corte in malam partem e alla motivazione della sentenza n. 394/2006.<br />

4.1. La sentenza n. 394 del 2006<br />

La Corte costituzionale, pur praticando solitamente un self restraint con il quale riconosce il monopolio del legislatore<br />

nelle scelte politiche di incriminazione, non è nuova ad incursioni penalistiche in malam partem, ancor prima del 2006.<br />

Basti ricordare (42) la nota sentenza n. 440 del 18 ottobre 1995 in tema di bestemmia ove, dichiarando l'illegittimità<br />

170


costituzionale dell'art. 724, comma 1, c.p. soltanto per la parte in cui si prevedeva l'imprecazione blasfema rivolta<br />

contro "i Simboli o le Persone venerati nella religione dello Stato" e conservando il riferimento alla Divinità (così, non<br />

più agganciata alla religione ufficiale), espandeva lo spettro di proiezione della fattispecie oltre il precedente confine<br />

normativo (43).<br />

Qui, con una pronuncia manipolativa, si colmava una lacuna dell'ordinamento penale consistente nella non punibilità<br />

delle bestemmie rivolte alle Divinità diverse da quella cattolica, recuperando l'uguaglianza degli individui innanzi alla<br />

legge a scapito della inelegante e discriminatoria libertà concessa dalla legge penale ad alcuni di bestemmiare (le<br />

Divinità altrui). Con la sentenza 394 del 2006, pronuncia meramente ablativa, la Corte si sostituisce ancora alla<br />

valutazione politica del Parlamento, ripristinando l'uguaglianza seppure, daccapo, in malam partem. Due percorsi<br />

profondamente diversi (l'uno oggettivamente legato alla violazione della matrice religiosa espressamente posta nell'art.<br />

3; l'altro sviluppato su valutazioni di merito tendenti a dimostrarne la irrazionalità sotto l'egida della "ragionevolezza"<br />

(44)) che conducono, però, allo stesso approdo: la prevalenza del principio di eguaglianza sul favor libertatis ad onta<br />

delle contrarie valutazioni politiche del legislatore, ma realizzando autarchicamente un diritto (certamente) più giusto<br />

(45).<br />

Ebbene, come è noto, la Consulta, in quest'ultima occasione, si sofferma ampiamente (forse, anche per rassicurare sé<br />

stessa, consapevole dell'autorità di "precedente" della decisione) ad illustrare le specifiche varie ragioni tecnico<br />

giuridiche del percorso argomentativo (46) per le quali il proprio intervento, modificativo in peggio del sistema penale,<br />

sarebbe costituzionalmente ineccepibile.<br />

Nell'ottica di queste note, fondamentali i passi che ora ricordo: "va osservato che il principio di legalità impedisce<br />

certamente alla Corte di configurare nuove norme penali", (siccome, però, il miglior modo di liberarsi delle tentazioni è<br />

cedervi) la motivazione prosegue affermando che questo innegabile principio "non le preclude decisioni ablative di<br />

norme che sottraggano determinati gruppi di soggetti o di condotte alla sfera applicativa di una norma comune o<br />

comunque più generale, accordando loro un trattamento più benevolo [...]. In simili frangenti, difatti, la riserva al<br />

legislatore sulle scelte di criminalizzazione resta salva: l'effetto in malam partem non discende dall'introduzione di<br />

nuove norme o dalla manipolazione di norme esistenti da parte della Corte, la quale si limita a rimuovere la<br />

disposizione giudicata lesiva dei parametri costituzionali; esso rappresenta, invece, una conseguenza dell'automatica<br />

riespansione della norma generale o comune, dettata dallo stesso legislatore, al caso già oggetto di una incostituzionale<br />

disciplina derogatoria. Tale riespansione costituisce una reazione naturale dell'ordinamento - conseguente alla sua<br />

unitarietà - alla scomparsa della norma incostituzionale: reazione che si verificherebbe in ugual modo anche qualora la<br />

fattispecie derogatoria rimossa fosse più grave; nel qual caso a riespandersi sarebbe la norma penale generale meno<br />

grave, senza che in siffatto fenomeno possa ravvisarsi alcun intervento creativo o additivo della Corte in materia<br />

punitiva" (47).<br />

Il ragionamento della Corte non mi convince per una serie di considerazioni.<br />

In primo luogo, questo "chiamarsi fuori"- per cui si sottolinea che l'effetto di riespansione della norma generale<br />

determina effetti di incriminazione più ampi totalmente attribuibili alla scelta politica del legislatore, in quanto questi<br />

pose a suo tempo nell'ordinamento la fattispecie che riprende pieno vigore - mi sembra significativo della<br />

consapevolezza della contraddittorietà fra la premessa di principio e il successivo approdo della motivazione.<br />

In realtà non mi pare che le cose stiano esattamente nei tranquillizzanti termini proposti dalla Corte.<br />

Al di là dell'aspetto formalistico della spiegazione (48), è proprio il riferimento alla "automatica riespansione" quale<br />

"reazione naturale dell'ordinamento - conseguente alla sua unitarietà -" a rivelare l'errore di prospettiva in cui cade la<br />

Consulta. L'ineccepibile, in sé, evocazione dell'unitarietà dell'ordinamento, che determina la "naturalità" della<br />

riespansione, ci impone di misurare la validità della tesi con l'idea stessa di "sistema " giuridico.<br />

Unità dell'ordinamento, infatti, non può significare altro che un insieme organizzato di elementi (norme e disposizioni)<br />

che dipendono, secondo logiche e regole giuridiche, reciprocamente gli uni dagli altri; nel nostro caso secondo le regole<br />

della specialità fra norme. Il sistema giuridico è, dunque, un insieme di idee positivizzate (o "viventi") in norme<br />

logicamente coerenti le une alle altre, sicché costituiscono un sistema, appunto, per la loro coerenza: ecco così<br />

l'unitarietà, nella specie, dell'ordinamento penale.<br />

È evidente, allora, come la riserva di legge si riferisca necessariamente al monopolio del legislatore, mirato, nella<br />

materia penale, a tutto il sistema; sicché, proprio per l'invocata unitarietà dell'ordinamento giuridico penale,<br />

l'intangibilità della scelta politica lo riguarda tutto: la singola fattispecie come il complesso nel quale essa si colloca.<br />

Norme generali e norme speciali (ex art.15 c.p.).<br />

Non può dirsi, dunque, che la naturale riespansione in malam partem non violi l'art. 25 Cost. perché il legislatore aveva,<br />

a suo tempo, posto con una sua autonoma scelta discrezionale la norma ora riespansa, in quanto, come è evidente, il<br />

legislatore, ponendo quella mitior, eliminata dalla Corte, aveva operato una scelta politica di sistema che rimane a lui<br />

riservata proprio in ragione dell'unitarietà dell'ordinamento giuridico penale. Ragionando come fa la Corte, sembra<br />

quasi che la discrezionalità politica (sovrana, e non surrogabile da altri organi istituzionali) sia esercitata ed esercitabile<br />

dal Parlamento solo fattispecie per fattispecie; una curiosa riserva di legge "di legge in legge" e non piuttosto, come è<br />

ovvio che sia, monopolio del legislatore su tutte le scelte che determinano, attraverso tutti i vuoti e tutti i pieni del<br />

sistema penale, effetti (negativi) sulla libertà degli individui sottoposti al potere statuale.<br />

Non c'è, di certo, bisogno di invocare Kant per recuperare, in questa sede, l'idea che l'unitarietà di sistema presupponga<br />

un principio unico posto a suo fondamento e che questo esplichi, pertanto, la sua funzione di organizzazione, armonica<br />

e coerente, di tutte le parti del sistema considerato. Nella materia penale, appunto, il principio di legalità che, nella sua<br />

171


qualità di anello primario, impone la riserva al legislatore delle scelte in malam partem non solo in quanto<br />

specificatamente connesse alle singole fattispecie, ma per come si formano in base alle loro relazioni sistematiche<br />

(anche se strutturatesi in fasi temporalmente diverse della legislazione).<br />

Il Parlamento, nella sua immanente presenza democratica, imbastisce piani complessi fatti di incriminazioni e<br />

immunità, e il tutto è, anche complessivamente considerato, il frutto della discrezionalità politica che gli è propria e<br />

riservata. Non credo si possa affermare, come fa la Corte, che non sussiste espropriazione della riserva di legge nelle<br />

scelte in malam partem perché il pezzo (conservato e riespanso) di un tutto (cancellato) è una disposizione di legge,<br />

comunque, a suo tempo voluta da "un" legislatore.<br />

Insomma la riserva di legge è riserva, all'impersonale demiurgo democratico, dell'intero sistema punitivo nelle sue<br />

relazioni interne, affinché la matrice legislativa assicuri la democraticità del procedimento e leghi alla scelta politica la<br />

connessa responsabilità.<br />

4.2. (segue) Conclusioni sul punto<br />

Infine, vorrei osservare come non mi paia che la tesi della Consulta possa trovare sostegno nella sua idea per cui "la<br />

reazione naturale [riespansione] dell'ordinamento ... si verificherebbe in ugual modo anche qualora la fattispecie<br />

derogatoria rimossa fosse più grave; nel qual caso a riespandersi sarebbe la norma penale generale meno grave, senza<br />

che in siffatto fenomeno possa ravvisarsi alcun intervento creativo o addittivo della Corte in materia punitiva".<br />

I termini della questione, qui, sono parzialmente diversi e disomogenei rispetto a quelli valutati finora; l'eliminazione<br />

della norma derogatoria più grave certamente determinerebbe la riespansione dell'ipotesi generale meno grave, come<br />

dice la Corte, ma (pur trattandosi di un intervento "creativo") non costituirebbe, infatti, un'invasione del monopolio<br />

legislativo in materia penale, essendo questo limitato dall'art. 25 Cost. alla punizione; mentre l'intervento immaginato<br />

dalla Corte avverrebbe - aspetto diverso fondamentale - in bonam partem. Dunque, il tema su cui riflettere è ben diverso<br />

e riguarda solo la prima ipotesi di ablazione, quella che provoca l'ampliamento della sfera di incriminazione e,<br />

dovendosi verificare la tesi solo in riferimento alla minaccia di punizione, concerne i rapporti e le alternative tra principi<br />

e valori costituzionali nell'ottica del rispetto (con la più ampia effettività) del valore della libertà.<br />

Su questo punto non si possono avere esitazioni a ritenere, con gran parte della dottrina, che il combinarsi delle ragioni<br />

tecniche con quelle politico-ideali del principio di legalità (sia nella prospettiva della disciplina delle fonti, sia nell'ottica<br />

della accessibilità della norma penale (49)) segnalano una ratio di tutela della libertà così forte da essere perfino<br />

assorbente dell'esigenza di certezza, visto che la libertà è il fine ultimo di ogni ordinamento giuridico fondato su una<br />

costituzione rigida mirata alla tutela dell'individuo e della sua personalità (50).<br />

Dunque, nell'ipotesi teorica conclusivamente proposta dalla Corte a sostegno della propria tesi, non avendosi una<br />

violazione del principio di legalità e trattandosi, comunque, di un intervento giurisdizionale manipolativo in favor<br />

libertatis, non vedo alcuna difficoltà a riconoscere la piena armonia costituzionale del potere di normazione indiretta<br />

che la Consulta si attribuisce, ma nel contempo non ne vedo l'utilizzabilità a sostegno della tesi principale sulla<br />

legittimità dell'intervento della Corte in malam partem.<br />

5. LE "ZONE FRANCHE" E IL CONTROLLO DI LEGALITà<br />

Rimane il problema enunciato dalla stessa Corte quando dice dell'"ineludibile esigenza di evitare la creazione di "zone<br />

franche" dell'ordinamento sottratte al controllo di costituzionalità, entro le quali il legislatore potrebbe di fatto operare<br />

sganciato da ogni regola, stante l'assenza d'uno strumento che permetta alla Corte di riaffermare il primato della<br />

Costituzione sulla legislazione ordinaria. Qualora alla preclusione dello scrutinio di costituzionalità in malam partem<br />

fosse attribuito carattere assoluto, si determinerebbe, in effetti, una situazione palesemente incongrua: venendosi a<br />

riconoscere, in sostanza, che il legislatore è tenuto a rispettare i precetti costituzionali se effettua scelte di aggravamento<br />

del trattamento penale, mentre può violarli senza conseguenze, quando dalle sue opzioni derivi un trattamento più<br />

favorevole".<br />

Affermazione di alto carattere etico, ma giuridicamente non così autoevidente come la Corte ritiene che debba apparire.<br />

Intanto è facile obiettare che se la dimostrazione della fondatezza della tesi sta nella circostanza che il legislatore che<br />

viola la Costituzione in bonam partem non ne subirebbe le conseguenze, l'argomento non prova ciò che dovrebbe<br />

perché il ripristino della coerenza costituzionale non è una conseguenza per il legislatore, ma un effetto per<br />

l'ordinamento. Le conseguenze negative del suo tradimento costituzionale il legislatore non deve riceverle dalla Corte,<br />

ma dal Corpo elettorale sul piano della responsabilità politica.<br />

Inoltre è di tutta evidenza che la lettura opposta a quella della Consulta, con la quale si volesse negare la praticabilità<br />

dello scrutinio in malam partem, non potrebbe mai essere sostenuta - come la Corte mostra di temere - negando "il<br />

primato della Costituzione sulla legislazione ordinaria". Anzi, all'opposto, dovrebbe ragionarsi cercando proprio nella<br />

Costituzione il fondamento della tesi; per l'appunto, come già ho accennato, sul piano del contemperamento dei<br />

principi, alla luce dei valori costituzionali, attraverso il metodo del bilanciamento.<br />

5.1. (segue) Secondo il bilanciamento di valori costituzionali<br />

Premesso che, come si sa, un principio è una norma capace di caratterizzare il sistema giuridico, consentendone la<br />

chiara identificazione della fisionomia e fornendo il fondamento assiologico alle altre norme del sistema, non può non<br />

accadere (a causa della pluralità di valori incorporati in tutte le costituzioni) che ciascun principio si ponga, rispetto<br />

all'applicazione in un caso concreto, in conflitto con altri. Anzi viene ricordato come, per alcuni, "ogni principio è, per<br />

definizione, e dunque necessariamente in conflitto con altri principi: insomma l'essere in conflitto con altri principi è un<br />

tratto definitorio dei principi, fa parte del concetto stesso di principio" (51). In conseguenza, il principio che ha "più<br />

valore" (52) prevale sull'altro, all'esito di una ponderazione reciproca, proprio perché - a differenza di quanto accade nei<br />

172


conflitti tra norme, portatrici di regole - non sono applicabili, ai principi costituzionali in conflitto, i classici canoni: lex<br />

superior derogat inferiori, lex posterior derogat priori, lex specialis derogat generali.<br />

Così si è detto che "il bilanciamento di principi consiste nell'istituire tra i due principi confliggenti una gerarchia<br />

assiologia mobile" (53); "mobile" perché il principio dotato di minor valore soccombe, in relazione al caso concreto. Il<br />

conflitto, pertanto, non è risolto stabilmente, ma in futuro, rispetto ad altro caso, potrà trovare una soluzione diversa e<br />

opposta; con l'avvertenza che "la pluralità dei principi e l'assenza di una gerarchia formalmente determinata comporta<br />

che non vi possa essere una scienza della loro composizione ma una prudenza nel loro bilanciamento" (54).<br />

In conclusione "l'operazione di bilanciamento involge dunque una duplice discrezionalitÈ. È discrezionale l'operazione<br />

consistente nell'istituire una gerarchia di valore tra i principi coinvolti, ed è egualmente discrezionale l'operazione<br />

consistente nel cambiare il valore relativo di tali principi in relazione ai diversi casi concreti" (55).<br />

Si dice da altri, però, e mi pare fondamentale e condivisibile nell'ottica penalistica (pensando, cioè, ai nostri specifici<br />

principi e ai valori che la materia coinvolge), come ciò non significhi che "la considerazione delle conseguenze [sul<br />

caso concreto] debba sempre prevalere su altri punti di vista [...]. Il modello del bilanciamento non può esaurirsi in un<br />

modo di considerare puramente consequenzialistico, soprattutto quando sono in gioco diritti inviolabili" (56).<br />

Insomma, tornando più vicini al nostro tema, se è vero che viviamo in uno "Stato costituzionale" per cui, proprio a<br />

garanzia della giustizia delle leggi, è previsto un livello giurisdizionale di controllo perfino sull'operato del legislatore<br />

democratico è, però, la stessa esperienza culturale che ha condotto a questa forma di Stato a porre al centro della<br />

costruzione costituzionale e dell'esperienza giuridica la persona e la sua libertà. Da qui l'intangibilità della libertà, se<br />

non da parte del suo titolare e del Parlamento che ne possiede la delega: concetti semplici e un po' démodé, ma che mi<br />

pare vale ancora la pena di difendere da soluzioni postmoderne, suggestive nell'indicare nuovi percorsi per uscire dalla<br />

crisi della nostra democrazia, ma non meno pericolose dei mali che dovrebbero curare.<br />

Mi domando come (giurisdizionalmente) si possa, nel nome della plausibilità della soluzione concreta o della<br />

irrazionalità della scelta normativa ordinaria, ritenere prevalente un qualunque principio costituzionale, sia pure quello<br />

di eguaglianza, a scapito del valore fondante della libertà personale, attraverso un intervento, manipolativo o ablativo in<br />

materia penale, in malam partem.<br />

Mi sembra un paradosso che, nel nome dello stesso "Stato costituzionale" che pone al centro della tutela la persona e<br />

colloca il diritto penale nell'ordinamento quale extrema ratio, si possa (mettendo in relazione una norma ordinaria con il<br />

principio di uguaglianza che si fa prevalere sul valore della libertà) creare, attraverso la riespansione della norma<br />

generale, un nuovo spazio di incriminazione ad opera della stessa Giurisdizione garante della democrazia e, in sostanza,<br />

della libertà.<br />

Il tutto senza rimedio, perché nella interpretazione dei principi costituzionali e dei valori, come è logico che sia, la<br />

giurisdizione costituzionale può contraddire l'interpretazione datane dal legislatore e dal Capo dello Stato; mentre, come<br />

è altrettanto logico, nessuno può contraddire la sua interpretazione. Ecco, che anche in questa prospettiva, la possibilità<br />

di normazione indiretta in malam partem della Corte si dovrebbe considerare non consentita.<br />

Ancora mi domando, da altra angolazione, quale coerenza vi sia nel ritenere possibile, da parte della Consulta, in una<br />

comparazione tra principi, la soccombenza del valore della libertà (implicita in ablazioni o manipolazioni in malam<br />

partem), quando poi è la stessa Corte, in altra occasione e pronunciandosi su altri temi, a parlare dell'esistenza di un<br />

limite logico alla possibilità di revisione costituzionale (pur in mancanza di un divieto positivamente espresso in tale<br />

senso) dei principi supremi della Costituzione e dei "diritti inviolabili" dell'uomo (57). Come dire che nessun intervento<br />

peggiorativo del livello di libertà ricavabile dalla Costituzione è concesso al legislatore democratico, il quale non ha<br />

quindi il potere di disporre dei valori fondanti del "patto costituente", mentre una interpretazione costituzionale della<br />

Corte può discrezionalmente, se pure di volta in volta, abbassare questo livello attraverso interpretazioni plausibili che<br />

ritengano (per avventura) il valore della libertà personale sempre soccombente (nella logica consequenzialistica)<br />

rispetto ad altri valori in comparazione. La condivisione di una logica di questo tipo ci conduce, per coerenza, a dover<br />

porre la Corte al di sopra del Parlamento e della stessa legge costituzionale; un "super potere" al di sopra della stessa<br />

logica della divisione dei poteri (58).<br />

In conclusione mi pare si possa dire che quando il giudizio della Corte si forma attraverso la valutazione comparativa di<br />

principi, sganciato dalla costatazione obiettiva di una diretta violazione di norma costituzionale (art. 3, comma 1), e<br />

pertanto si sostanzia nel parametro della ragionevolezza-razionalità, i principi valutati, quali che siano, debbano sempre<br />

cedere il passo al valore supremo della libertà come proviene, sì, dagli artt. 2, 25, comma 2, ma, soprattutto dall'art. 13<br />

Cost., con la relativa preclusione di un giudizio in malam partem. In materia penale, infatti, (come è chiaro a tutti) non<br />

si bilancia un valore costituzionale qualsiasi con la libertà lato sensu, ma con la libertà nella sua specifica forma<br />

personale assunta quale diritto (59) e "tale libertà ha innegabilmente un ruolo primario o privilegiato, segnalato dal tipo<br />

rafforzato di riserva di cui all'art. 13" (60).<br />

Se "attraverso le riserve rinforzate, la Costituzione assicura la priorità dei diritti della persona, fondata nell'art. 2, ... ed<br />

individua ambiti, rispetto ai quali le dinamiche del processo politico si arrestano" (61), non è facile intendere come altri,<br />

sia pure il giudice delle leggi, sia legittimato a proporre, attraverso una normazione indiretta, una scelta politica<br />

limitatrice della libertà personale.<br />

Correttamente, con la sentenza n. 11 del 19 giugno 1956, la Corte costituzionale, in materia di art. 13 (nei confini<br />

dell'Habeas corpus), aveva posto un punto fermo: "la libertà personale si presenta ... come diritto soggettivo perfetto ...<br />

Correlativamente, in nessun caso l'uomo potrà essere privato o limitato nella sua libertà se questa privazione o<br />

restrizione non risulti astrattamente prevista dalla legge ... L'art. 13 della Costituzione ... esprime un precetto che, nella<br />

173


volizione che contiene, è compiuto, concreto, categorico".<br />

Così posso ricordare, per concludere sul punto, che "in base al principio logico secondo cui causa causae est causa<br />

causati determinare obblighi ... presidiati da sanzione detentiva equivale a contribuire alla determinazione del fisico<br />

costringimento; e dunque non può che spettare alla legge" (62) e (io aggiungo) non certo alla Consulta; proprio perché<br />

la riserva assoluta dell'art. 13 "esclude la liceità di qualsiasi interposizione [dunque, sia amministrativa che di<br />

giurisdizione costituzionale], nel processo di determinazione della misura che restringe la libertà personale, tra il dettato<br />

legislativo [fondato sulla scelta politica del Parlamento] e la decisione giurisdizionale [motivata nel merito]" (63).<br />

"La libertà personale è inviolabile": lascio, come ovvio, alla dottrina costituzionalistica la riflessione sul significato<br />

dell'"inviolabilità", e mi limito ad aderire all'idea per cui "le situazioni garantite dagli art. 13, 14, 15 e 24 Cost., nel caso<br />

di collisione con altre libertà o poteri costituzionalmente rilevanti, debbano comunque essere preferite" (64).<br />

Non so se le osservazioni proposte sono sufficienti a sostenere la tesi, ma se non ne dimostrano la verità mi rassegno,<br />

volentieri, all'idea di aver proposto solo un assioma, tanto il prinicipio della prevalenza della libertà personale mi appare<br />

già immediatamente evidente dai suoi stessi termini. Meglio accettare l'idea della indimostrabilità razionale della<br />

assoluta prevalenza della libertà personale su ogni altro principio o valore che rinunciare a mantenerne la tutela al limite<br />

più avanzato che sia possibile.<br />

Certo, è passato un po' di tempo da quando la Consulta riteneva che, sul piano generale, la libertà fosse un "bene<br />

primario posseduto [addirittura] da ogni essere vivente"(il corsivo è mio) (65). Superare questa irragionevole<br />

esasperazione non può, però, condurre alla conclusione che il diritto di libertà (ex art. 13 Cost.) possa, se del caso,<br />

soccombere in un giudizio di comparazione da parte della Corte costituzionale (66).<br />

6. GLI SPAZI DI LEGITTIMO INTERVENTO IN MALAM PARTEM DELLA CORTE<br />

Si diceva come sia inammissibile "il sacrificio delle ragioni della Costituzione alle ragioni della politica" (67); certo, ma<br />

mi chiedo, a questo punto, quali potranno essere mai le ragioni della Costituzione in favore della normazione<br />

giurisdizionale, in malam partem, della Corte (68).<br />

Due soli casi mi sembrano astrattamente possibili. Quello legato alla necessità di giustiziare le disposizioni "ad<br />

personam" (ipotesi di normazione legislativa diverse, però, da quelle, definite "di favore", che sottraggono "gruppi di<br />

soggetti o di condotte" all'ambito di applicazione di altre norme) e quello in cui si dichiari incostituzionale una norma<br />

ordinaria che abolisca un reato posto nell'ordinamento penale in ottemperanza di un obbligo costituzionale espresso di<br />

incriminazione (69).<br />

È una vecchia storia quella delle leggi "ad personam". Mi permetto un ricordo. Salvatore Pugliatti, nei primi anni '60 ne<br />

parlava in aula a noi studenti chiamandole "leggi con fotografia"e anche lui (da grande giurista e siciliano) aveva ben<br />

presente l'invettiva di Cicerone contro Verre, Pretore della Sicilia, corrotto, concussore e fonte di editti ad personam<br />

(70).<br />

Si tratta, in evo moderno, di norme ispirate sì dalla "presenza in scena" del personaggio di turno, ma con "generalità<br />

potenziale" (71), per cui "pur apparendo chiara l'intenzione del legislatore di disporre a favore o danno di singoli, la<br />

norma è così formulata da renderne possibile l'applicazione anche in futuro a quegli altri soggetti rispetto ai quali si<br />

realizzino le stesse condizioni" (72).<br />

La legislazione penale degli ultimi anni ne è piena (73), ma anche la meno recente storia repubblicana propone esempi<br />

di curiose coincidenze temporali fra l'emanazione di norme mitior e guai giudiziari di potenti. Basti ricordare<br />

l'espulsione dalla fattispecie di abuso d'ufficio dell'eccesso di potere e la concomitante udienza preliminare a carico del<br />

Presidente del Consiglio, imputato proprio per quell' ipotesi di reato. Si tratta, a ben vedere, di disposizioni nelle quali i<br />

caratteri della "norma di favore" e quelli dell'editto verriano si mescolano, confondendosi.<br />

"In effetti, il principio costituzionale di eguaglianza è in grado di opporre un ostacolo di portata generale alle leggi "ad<br />

personam": a tutte le leggi "ad personam", se con questa formula designiamo leggi che non solo sono condizionate<br />

all'origine dalla considerazione di situazioni individuali e concrete, ma altresì risultano a posteriori inconciliabili con il<br />

sistema normativo e dunque con una visione generale degli interessi della società [...]" (74).<br />

In realtà, una norma di legge che viene ad esistenza solo in ragione della soluzione in favor libertatis di un caso<br />

concreto è legge solo nella sua formale apparenza, essendo i suoi caratteri di generalità ed astrattezza nient'altro che un<br />

miraggio dolosamente provocato, una simulazione. La squama verbale ricopre, camuffandola, la vera natura di<br />

provvedimento contingente che, non possedendo le basi costitutive della legalità, se non sul piano formale, costituisce<br />

soltanto un arbitrario privilegio personale in patente violazione del principio di eguaglianza. Come negare che "non<br />

sono eguali davanti alla legge cittadini nel cui personale ed esclusivo interesse vengono create discipline che della legge<br />

hanno la forma, ma non la sostanza" (75).<br />

Certo in questi casi il valore fondante della libertà, quale "virtù etica" della Costituzione e, nella forma personale ex<br />

art.13 Cost., quale diritto espressamente previsto e tutelato, non entrano neppure lontanamente in gioco e l'ablazione di<br />

siffatte norme, in un certo senso, non può neppure definirsi "in malam partem"; affermazione della libertà e riduzione<br />

della libertà sono concetti comprensibili solo all'interno di categorie del pensiero giuridico, come generalità e<br />

astrattezza della legge, che siano effettivamente applicate nella concretezza del dato positivo e non siano un mero<br />

apparire del carattere formale del provvedimento.<br />

Fuori da ciò, siamo fuori da principi e valori in bilanciamento; non si contrappone il valore della libertà al principio di<br />

eguaglianza o ad altro qualsiasi, proprio perché un valore valutabile, su questo piano, è solo quello pensabile<br />

astrattamente per tutti. Una vera legge "ad personam" non può che cadere sotto la giurisdizione costituzionale senza<br />

determinare alcun dubbio in ordine all'invasione della discrezionalità politica del legislatore.<br />

174


Tutto ciò in teoria. Mi sembra altrettanto certo, però, che potrebbe essere non particolarmente agevole, se non<br />

impossibile nel caso concreto, per la Consulta dimostrare il carattere di "privilegio personale" della disposizione di<br />

legge incriminata, ogni qual volta la determinatezza del destinatario ispiratore sia annegata dall'anonimato della<br />

previsione astratta. Allora siamo fermi alla insuperabile considerazione che se una legge contiene disposizioni prive di<br />

rilievo generale, ma ritenute dal Parlamento meritevoli di assumere le note del formalmente legislativo "si tratta di un<br />

apprezzamento politico che può essere, caso per caso, condiviso o contestato, ma non ritenuto [per ciò solo]<br />

costituzionalmente illegittimo" (76). In altre parole, "la generalità [apparente] della norma, la ripetibilità [teorica] della<br />

previsione in essa contenuta, l'indeterminatezza [formale] dei destinatari comportano ... che [nel concreto] sia<br />

impossibile ritenere violato l'art. 3 Cost." (77) (o perlomeno fornirne la dimostrazione).<br />

Mi pare, allora, che se addirittura non di leggi "ad personam" si tratta, ma di disposizioni più favorevoli riguardanti<br />

"gruppi di soggetti e di condotte ", soprattutto perché non determinabili a priori (tutti possono trovarsi a raccogliere<br />

firme per la presentazione di liste elettorali), la Corte non possa intervenire in malam partem, interferendo con la<br />

discrezionalità politica del legislatore, anche se il risultato realizzerebbe un diritto più razionale e più giusto (78).<br />

In quest'ultimo senso, d'altronde, si era già espressa la Consulta (in una situazione identica a quella esaminata dalla sent.<br />

n. 394 del 2006) nella sent. n. 146 del 1993.<br />

In questa pronuncia la Corte, occupandosi di una norma speciale che prevedeva conseguenze penali irrisorie per<br />

l'impossessamento della selvaggina abbattuta in modo illegale, sottraendo il fatto alla disposizione generale del furto,<br />

dichiarava inammissibile la questione perché, a fronte del fatto che "i giudici a quibus sollecitano un intervento del<br />

giudice costituzionale diretto a rendere nuovamente configurabile nel nostro ordinamento il furto venatorio ed<br />

applicabili gli artt. 624, 625 e 626 del codice penale", va ritenuto che "al giudice costituzionale non è dato di<br />

pronunciare un decisione dalla quale possa derivare la creazione - esclusivamente riservata al legislatore - di una nuova<br />

fattispecie penale" (alias, riespansione della norma incriminatrice generale). Correttamente la Corte ritenne che la<br />

discrezionalità politica del legislatore non potesse essere espropriata neppure rispetto a "norme di favore" che<br />

avvantaggiano ingiustamente categorie di soggetti, anche quando queste sono, addirittura, determinate dalla illegalità<br />

del comportamento (bracconaggio). Il principio di legalità e il valore della libertà prevalgono, attraverso la riserva<br />

democratica di legge, sull'esigenza di razionalità della legge stessa (79).<br />

7. CONSIDERAZIONI FINALI<br />

In conclusione non è facile dire meglio di come è stato detto: "l'idea che istituzionalmente la Consulta partecipi all'opera<br />

di rifinitura delle norme create dal legislatore, mutandone il contenuto anche in malam partem, mette francamente<br />

qualche brivido: così come spesso, a onor del vero, è ben poco rassicurante il cattivo uso che il Parlamento fa del<br />

proprio monopolio, così innescando il dibattito su questi temi (80), aggiungendo che "se è riduttivo ritenere che il<br />

giudice sia soggetto soltanto alla legge, [...], esiziale sarebbe ritenere che la legge sia soggetta al giudice, a partire dalle<br />

norme di favore" (81).<br />

E tuttavia la posizione della Corte suscita anche autorevoli consensi; le cui ragioni, però, a ben vedere, si radicano (fuori<br />

dal piano tecnico-giuridico di un diritto penale-costituzionale condiviso) sul terreno politico, discendendo da una<br />

(d'altronde meritata) sfiducia nella capacità dell'istituzione parlamentare di legiferare in materia penale secondo criteri<br />

di razionalità nel rispetto del principio di uguaglianza. Recenti, numerose esperienze legislative (troppo note per essere<br />

qui ricordate) ne sono indubitabile conferma.<br />

La prima di queste ragioni (extra penalistiche) deriva addirittura da una crescente sfiducia nella effettiva matrice<br />

democratica, ai nostri giorni, della rappresentanza parlamentare. Si diceva: "Se le leggi vengono approvate da<br />

assemblee elettive formate sulla base di votazioni, in cui una parte consistente degli elettori non hanno espresso la loro<br />

scelta in condizioni di piena libertà, a causa della propria situazione di inferiorità economica, sociale o culturale,<br />

[aggiungerei di manipolazione mass-mediatica] è inevitabile che le élite politico-parlamentari del momento tentino (e<br />

spesso riescano) ad imporre interessi minoritari o comunque discriminazioni sulla base di una delega più formale che<br />

sostanziale" (82). Una considerazione tanto vera quanto propria di una realtà sociale (anche) risalente nel tempo, ma che<br />

oggi impone la sua capacità di suggestione, in modo più incisivo che mai, a causa della introduzione di un sistema<br />

maggioritario che determina maggioranze elette di fortissima consistenza e, per varie note circostanze, minoranze<br />

escluse (o che si escludono) dalla dialettica parlamentare. Vorrei aggiungere, in questa prospettiva, la realtà di un<br />

Parlamento composto (in ragione del meccanismo elettorale) da deputati e senatori cooptati, dalle ristrette oligarchie dei<br />

partiti, attraverso la successiva ratifica, formale e automatica, del corpo elettorale (83).<br />

È vero, i fenomeni "che sembrano in realtà prefigurare un tramonto della democrazia rappresentativa secondo quel<br />

modello [...] tradizionalmente caro alla maggior parte di noi giuristi" (84) sono diversi e numerosi, ed è innegabile "che<br />

l'esperienza del riformismo penale più recente ha fatto toccare con mano" come "il principio penalistico di riserva di<br />

legge, considerato in sé e per sé, non è idoneo a garantire che le scelte di politica criminale siano frutto di un dibattito<br />

democratico reale" (85); insomma poiché la legalità si coniuga, nel nostro sistema costituzionale, con la democrazia,<br />

sbilanciatosi il principio di democrazia a vantaggio di quello di maggioranza, si parla, correttamente, di "crisi<br />

istituzionale della legalità" (86), che porta "a protrarre il processo di formazione della decisione normativa presso gli<br />

organi di garanzia, Corte costituzionale innanzitutto", per tentare di recuperare, così, "il terreno perduto dalle minoranze<br />

nella sede parlamentare" (87).<br />

Ma la soluzione in cui credere è davvero quella di una sistemazione di fatto della nostra democrazia costituzionale,<br />

politicamente vacillante, attraverso il ricorso stabile agli interventi correttivi del giudice costituzionale, anche in malam<br />

partem? (88)<br />

175


Condivido che "il primato della politica [...] non può significare monopolio assoluto del legislatore, in quanto si abbia<br />

consapevolezza della reale molteplicità delle sedi della politica" (89), ma vorrei che da queste sedi fosse esclusa la<br />

Corte costituzionale in funzione di "normatore" penale in malam partem. Preferisco attendere che il sistema politico<br />

riesca a recuperare, dal suo interno, con riforme sensate e pratiche corrette, gli elementi di una democrazia rispettosa di<br />

valori e vincoli costituzionali, piuttosto che demandare (temporaneamente?) al giudice delle leggi la possibilità di<br />

compiere ragionevoli valutazioni a favore della compressione della mia libertà. Mi sembra ancora preferibile assestarsi,<br />

in materia penale in malam partem, su vecchie trincee come quella della riserva assoluta, piuttosto che smantellarla per<br />

bilanciare dall'esterno l'opera maldestra di un legislatore che, al momento, dà cattiva prova di sé. Diffido dall'idea di<br />

ricercare soluzioni punitive razionali affidandoci stabilmente alla giurisdizione costituzionale, un passo (forse) buono<br />

per l'oggi, ma rischioso per il domani; per limitare la libertà personale preferisco, ancora, ad un giudice delle leggi colto<br />

e giusto, ma irresponsabile, un legislatore, talora, perfino rozzo, ma responsabile secondo le regole della democrazia<br />

rappresentativa. Anche perché non leggo, nelle recenti pagine penalistiche di alcuno, percorsi che siano più rassicuranti<br />

della vecchia riserva di legge assoluta, quale garanzia per la scelta di punizione.<br />

Ho l'impressione, insomma, che il consenso alla scelta di campo della Consulta sia più espressione di (condivisibile)<br />

sfiducia nella saggezza giuridica del Parlamento (di questo?) che il maturo punto di arrivo di previi ragionamenti<br />

tecnico-penalistici. Mi è parso quasi che la dottrina di fronte a situazioni riconducibili al "peggio di così si muore" si sia<br />

rifugiata nel "meglio così che niente"; pur sempre meglio la Corte costituzionale di una maggioranza parlamentare<br />

schiacciante, manovrata dal Governo (come dire: meglio questa Corte di questo Parlamento). Si sono ricercati, così,<br />

(anche con argomenti di indubbia acutezza) ex post, supporti di varia natura a sostegno della tesi salvifica (visto, fra<br />

l'altro, che la famosa differenza tra "norme di favore" e "norme favorevoli", posta, dalla Corte, al confine tra rispetto e<br />

invasione della discrezionalità politica del legislatore, non convinceva appieno - in un senso o nell'altro - la gran parte<br />

dei commentatori (90)).<br />

E allora ritorno a Pedrazzi per il quale, operando la riserva di legge in quanto "disposizione", "non si vede come si<br />

possa riconoscere alla giurisdizione costituzionale il potere di sottoporre le disposizioni di legge penale a interventi"<br />

(oggi potremmo dire) di "normazione indiretta in malam partem", "per lo meno fino a quando non si giunga ad<br />

ammettere un'equipollenza tra sentenze della Corte costituzionale e atti aventi forza di legge" (91).<br />

7.1. (segue) Se si dissolve il parametro della libertà<br />

So, ovviamente, di aver fin qui parlato all'ingrosso, ma l'ho fatto scientemente, con l'obiettivo di andare al centro della<br />

questione. La "deturpazione aggregata" dei lineamenti del diritto penale e, insieme, del sistema delle fonti mi è parsa,<br />

nella giurisdizione costituzionale in malam partem, così insostenibile al primo sguardo da consigliare un taglio del<br />

ragionamento con l'accetta piuttosto che la riflessione su raffinate costruzioni possibilistiche (soprattutto in tema di<br />

ragionevolezza) che, pur certamente pregevoli, dovrebbero presupporre risolte definitivamente in senso ad esse<br />

favorevoli le questioni di fondo che ho sommariamente descritto.<br />

Ma tutto cambia se i termini della questione cambiano.<br />

Se il diritto penale di oggi conosce momenti nei quali non è più tale (92), ma solo un diritto punitivo qualunque che non<br />

deve fare i conti con il tema della libertà (93), è evidente che l'approdo è collocato altrove e ben correttamente la Corte<br />

costituzionale può, indirettamente, intervenire sulle scelte politiche del legislatore, peggiorandone gli effetti nei<br />

confronti dei destinatari. Siamo, allora, di fronte alla "perdita di centralità dell'"argumentum libertatis"" (94) e alle sue<br />

prime ricadute.<br />

Certo, se la minaccia alla libertà, tipica della logica penalistica tradizionale, è divenuta nel diritto positivo e nella prassi<br />

quantité négligeable e se a questo fenomeno emergente dobbiamo rifarci nella riflessione penalistica "post-moderna",<br />

accettando l'idea che il sacrificio della libertà personale sia ormai "episodio eventuale e del tutto periferico nell'ambito<br />

di estensione del diritto penale (non solo) complementare" (95), allora l'esercizio di normazione, anche in malam<br />

partem, della Corte costituzionale può essere riconsiderato, essendo venuta meno la premessa del ragionamento per cui<br />

la pena sacrifica la libertà personale (bene supremo nell'ottica costituzionale): non è certo un'astratta coerenza<br />

nominalistica che può determinare la soluzione del problema.<br />

Ma dove il diritto penale rimane diritto penale, la consequenzialità dogmatica impone ancora di riservare<br />

esclusivamente al legislatore, politicamente responsabile, la scelta politica sulla misura della libertà personale.<br />

E appaia, pure, anch'io "imperterrito liturgista di riti illuministici" (96) ormai estromessi dalle pratiche della nuova<br />

ragione penalistica: laudator temporis acti.<br />

NOTE<br />

(*) Il presente lavoro è pubblicato in Studi in Onore di Mario Romano, I, Jovene, 2011, p. 159, con il titolo Oltre la libertà personale<br />

per un diritto più "giusto". Frammenti critici sui poteri in malam partem della Corte Costituzionale.<br />

(1) ELIA, Divergenze e convergenze della Corte costituzionale con la magistratura ordinaria in materia di garanzie difensive<br />

nell'istruzione sommaria, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1965, p. 562. Nella letteratura penalistica, sulle diverse tipologie di sentenze e<br />

sui loro effetti nei rapporti Consulta-Parlamento e Consulta-giudice ordinario, vedi BELFIORE, Giudice delle leggi e diritto penale.<br />

Il diverso contributo delle Corti costituzionali italiana e tedesca, Giuffrè, 2005, p. 327 ss.<br />

(2) Nella dottrina penalistica, M. ROMANO, Complessità delle fonti e sistema penale. Leggi regionali, ordinamento comunitario,<br />

Corte costituzionale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2008, p. 552; Le sentenze innovative della Corte "hanno la capacità di produrre<br />

materiali normativi aventi rango di fonte primaria" (PIZZORUSSO, La Corte costituzionale tra giurisdizione e legislazione, in Foro<br />

176


it., 1980, V, c. 123).<br />

(3) DE VERO, Corso di dirittto penale, I, Giappichelli, 2004, p. 253.<br />

(4) RIDOLA, Libertà e diritti nello sviluppo storico del costituzionalismo, in I diritti costituzionali, a cura di Nania e Ridola, I,<br />

Giappichelli, 2006, p. 116.<br />

(5) Detto "con un pizzico di provocazione" da DI GIOVINE, Il sindacato di ragionevolezza della Corte costituzionale in un caso<br />

facile. A proposito della sentenza n. 394 del 2006, sui " falsi elettorali", in Riv. it. dir. e proc. pen., 2007, p. 109.<br />

(6) MENGONI, Il "diritto vivente" come categoria ermeneutica, in 1956-2006 Cinquant'anni di corte costituzionale, vol. III, Roma,<br />

2006, p. 1608.<br />

(7) Nella sterminata letteratura sull'interpretazione e sulla conseguente concretizzazione giudiziale, limitando la riflessione alla<br />

materia penale, si vedano per tutti, FIANDACA, Diritto penale giurisprudenziale e spunti di diritto comparato, in AA.VV., Sistema<br />

penale in transizione e ruolo del diritto giurusprudenziale, a cura di Fiandaca, Cedam, 1997, p. 1 ss.; FIANDACA, Ermeneutica ed<br />

applicazione giudiziale del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, p. 353 ss.; CADOPPI, Il valore del precedente nel diritto<br />

penale. Uno studio sulla dimensione in action della legalità, Giappichelli, 1999; PALAZZO, Legge penale, in Dig. d. pen., Utet,<br />

1993, p. 357. Nella letteratura costituzionalistica, per tutti, G. ZAGREBELSKY, La dottrina del diritto vivente, in AA.VV.,<br />

Strumenti e tecniche di giudizio della Corte costituzionale, Giuffrè, 1988, p. 97 ss.<br />

(8) MENGONI, Il diritto vivente, cit., p. 1613 e ivi bibliografia.<br />

(9) BOBBIO, La certezza del diritto è un mito?, in Riv. int. fil. dir., 1951, p. 146 ss.<br />

(10) Nell'immensa letteratura sul tema, rinvio solo a A. KAUFMANN, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, in Filosofia del<br />

diritto ed ermeneutica, a cura di Marino, Giuffrè, 2004, p. 146 ss.<br />

(11) Ricordo CONTENTO, Principio di legalità e diritto penale giurisprudenziale, in Foro it., 1988, V, c. 484 ss.<br />

(12) M. ROMANO, Complessità delle fonti, cit., p. 557.<br />

(13) Per tutti, nella manualistica, vedi FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Zanichelli, 2009, p. 50 ss.<br />

(14) FIANDACA, Uguaglianza e diritto penale, in Le ragioni dell'uguaglianza, Giuffrè, 2009, p. 131.<br />

(15) "La ratio della riserva non va individuata in una generica garanzia di certezza e conoscibilità della norma incriminatrice, ma<br />

nell'esigenza di affidare la limitazione tra il lecito e l'illecito all'Organo costituzionale che più direttamente esprime la sovranità<br />

popolare" (PEDRAZZI, Sentenze "manipolative" in materia penale?, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1974, p. 446).<br />

(16) Cfr. PALAZZO, voce Legge penale, in Dig. d. pen., Utet, 1995, p. 344; DOLCINI, Leggi penali "ad personam", cit., p. 55 e ivi<br />

riferimenti a DELITALA (Cesare Beccaria e il problema penale, in Raccolta degli scritti, 1976, vol. II).<br />

(17) "Il giudice potrà assumere tutti comportamenti che vuole, in camera di consiglio, senza che nessuno, dall'esterno, possa<br />

rinfacciarglieli [...]. Non gli si potrà rimproverare, per esempio, la sua deferenza verso il potere, il suo opportunismo in favore di una<br />

parte politica [...]. Questa impossibilità è, indubbiamente, un limite che rende impensabile, nel nostro ordinamento, una critica e una<br />

responsabilità presso l'opinione pubblica" (G. ZAGREBELSKY, Principî e voti, La Corte costituzionale e la politica, Einaudi, 2005,<br />

p. 105).<br />

(18) Pesantissima la denuncia di GROSSI (Il volto attuale dell'illecito penale, a proposito di un recente libro di Massimo Donini, in<br />

Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 2006, p. 1051) per il quale si sta attuando "una autentica perversa<br />

parlamentarizzazione [della Corte costituzionale], nella impudica e deplorevole strategia di farne la prevalente espressione della<br />

partitocrazia imperante ed eliminare un controllore molesto della propria viziata attività legislativa".<br />

(19) "Una cosa è la peculiarità della giurisprudenza costituzionale, altra intenderla come un legislatore parallelo capace di fornire una<br />

prova di appello allo schieramento soccombente in Parlamento" (INSOLERA, Democrazia, ragione e prevaricazione. Dalle vicende<br />

del falso in bilancio ad un nuovo riparto costituzionale nella attribuzione dei poteri?, Giuffrè, 2003, p. 70). Sul carattere politico delle<br />

decisioni dei giudici come espressione del pactum societatis e giammai del pactum subjectionis, leggi le pagine di G.<br />

ZAGREBELSKY, Principî e voti, cit., p. 35 ss.<br />

(20) SILVESTRI, Le sentenze normative della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1981, p. 1714.<br />

(21) SILVESTRI, Le sentenze, cit., p. 1715.<br />

(22) Per una riflessione completa sul tema della "responsabilità politica", dalla definizione del concetto alla sua crisi nel nostro<br />

tempo, vedi La responsabilità politica diritto e tempo, Atti del XIII congresso nazionale della Società italiana di filosofia giuridica e<br />

politica, Giuffrè, 1982 e ivi le relazioni di V. FROSINI, p. 19 ss. e SCARPELLI, p. 41 ss., oltre ai diversi interventi da p. 163 a 240.<br />

Certo, pensando nel concreto alla responsabilità politica del singolo parlamentare, non si può fare a meno di riflettere sulla<br />

circostanza per cui, nei nostri giorni, questo genere di responsabilità appare sempre più evanescente, sostituita da quella penale: così<br />

VIOLANTE, La parte giudiziaria del sistema di governo, in Criminalia, 2009, p. 102.<br />

(23) SILVESTRI, Le sentenze, cit., p. 1715; nello stesso senso, LANZI, Considerazioni, cit., p. 903. Ricorda VIOLANTE (La parte<br />

giudiziaria, cit., p. 98) come il vescovo Hoadly (1676-1761) avesse scritto che "Sotto ogni riguardo il vero Legislatore è chiunque ha<br />

un'assoluta autorità di interpretare qualsiasi legge scritta od orale, e non già la persona che per prima la scrisse o la pronunciò; a<br />

fortiori il vero Legislatore è chiunque ha un'assoluta autorità non solo di interpretare il diritto, ma anche di dire cosa sia": la vetustà<br />

dell'idea non serve a renderla meno inquietante.<br />

(24) D'altronde "Senza che nessuno si scandalizzi, possiamo dire che le istituzioni giudiziarie non fanno parte delle istituzioni della<br />

democrazia" (G. ZAGREBELSKY, Principî e voti, cit., p. 119).<br />

(25) Con grande chiarezza, in relazione alle norme di favore, si è illustrato il fulcro del problema, dicendo: "Alla base, non si<br />

comprende come possa permanere in vigore, disponibile a nuove applicazioni, una norma che viola la Costituzione, o come una<br />

norma illegittima possa essere al riparo da eliminazione solo perché da questa possano discendere effetti poco desiderabili. Zone<br />

franche "istituzionali", insomma, ovvero leggi incostituzionali da considerare nondimeno al sicuro dal controllo della Corte, non<br />

devono sussistere". (M. ROMANO, Complessità delle fonti, cit., p. 557). Vedi, inoltre, anche sul tema generale del sindacato<br />

costituzionale in malam partem, DI GIOVINE, Norme penali di favore e controllo di costituzionalità, in Criminalia, 2007, p. 217 ss.;<br />

MANES, Illegittime le "norme penali di favore" in materia di falsità nelle competizioni elettorali, in www.Forumcostituzionale.it;<br />

PALAZZO, Legalità penale: considerazioni su trasformazione e complessità di un principio "fondamentale", in Quaderni fiorentini<br />

per la storia del pensiero giuridico moderno, 2007, p. 1301 ss.; C. PECORELLA, Pronunce in malam partem e riserva di legge in<br />

materia penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2007, p. 343 ss.; STORTONI, Profili costituzionali della non punibilità, ivi, 1984, p. 626<br />

ss.; PULITANò, Obblighi costituzionali di tutela penale?, ivi, 1983, p. 484 ss.<br />

(26) BRICOLA, La discrezionalità nel diritto penale. Nozione ed aspetti costituzionali, Giuffrè, 1965, p. 233 e 234.<br />

177


(27) BRICOLA, La discrezionalità, cit., p. 277 ss.<br />

(28) Interessante, forse, considerare per differenza il dettato dell'art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e<br />

delle libertà fondamentali: "Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che al momento in cui fu commessa non<br />

costituisse reato secondo il diritto interno o secondo il diritto internazionale". Nessun riferimento alla riserva di legge e alla<br />

tassatività. Con questo livello di garanzia la giurisdizione normativa della Corte costituzionale, creando diritto, potrebbe<br />

correttamente porre nuove norme penali.<br />

(29) In questo senso PEDRAZZI, Inefficaci le sentenze manipolative in materia penale?, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1975, p. 654.<br />

(30) Per tutti vedi, DONINI, Teoria del reato. Una introduzione, Cedam, 1996; PALAZZO, Offensività e ragionevolezza nel<br />

controllo di costituzionalità sul contenuto delle leggi penali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1998, p. 350 ss.; MANES, Il principio di<br />

offensività nel diritto penale. Canone di politica criminale, criterio ermeneutico, parametro di ragionevolezza, Giappichelli, 2005,<br />

passim.<br />

(31) Fondamento veteroilluminista nell'art. 6 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789: "La legge deve essere<br />

uguale per tutti, sia che si protegga, sia che si punisca". Sul contenuto utopico dell'idea che l'ordinamento giuridico possa assicurare<br />

l'uguaglianza di tutti in tutto, BOBBIO, Eguaglianza e libertà, Einaudi, 1995, p. 30 ss.<br />

(32) Sull'art. 28 della legge del 1953 quale norma "che non restringe - incostituzionalmente - l'ambito del sindacato della Corte",<br />

PALADIN, Legittimità e merito, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1964, p. 322 e 323.<br />

(33) Cfr. sul punto la sent. n. 394 del 2006.<br />

(34) GIUNTA, La Corte costituzionale respinge le questioni di illegittimità del "falso in bilancio", in Dir. pen. proc., 2004, p. 1509.<br />

(35) Vedi GIUNTA, Verso un sindacato di legittimità sulle scelte politiche criminali?, Edizioni ETS, 2007, p. 24. Sulla curiosa<br />

eventualità della configurazione legislativa di omicidi minori dell'uomo di colore, del musulmano, del "comunista", della prostituta e<br />

sulla loro (ovvia) incostituzionalità ai sensi dell'art. 3, comma 1, Cost., DE VERO, Corso, cit., p. 257 e 258.<br />

(36) Cfr. GIUNTA, Verso un sindacato di legittimità, cit., p. 24; nella dottrina costituzionalistica, sul passaggio dalla<br />

ragionevolezza/uguaglianza alla ragionevolezza/razionalità, vedi A. MOSCARINI, Principio costituzionale di eguaglianza e diritti<br />

fondamentali, in I diritti costituzionali, cit., p. 375.<br />

(37) LANZI, Considerazioni sull'eventualità di un sindacato di ragionevolezza sulle scelte politico-criminali, in Ind. pen., 2003, p.<br />

899.<br />

(38) L'espressione è di GIUNTA, La Corte costituzionale respinge, cit., p. 1510; sul tema, in generale, vedi per tutti PALAZZO,<br />

Corso di diritto penale. Parte generale, Giappichelli, 2005, p. 105 ss.; con riferimento al tema specifico, DOLCINI, Leggi penali "ad<br />

personam", riserva di legge e principio costituzionale di eguaglianza, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2004, p. 50 ss.; M. ROMANO,<br />

Corte costituzionale e riserva di legge, in Diritto penale e giurisprudenza costituzionale, a cura di G. Vassalli, ESI, 2006, p. 29 ss.<br />

(39) FIANDACA, Uguaglianza e diritto penale, cit., p. 115. Parla della "ragionevolezza" come di "un tema tanto poliedrico quanto<br />

sfuggente"; SILVESTRI, Uguaglianza, ragionevolezza e giustizia costituzionale, cit., p. 16. Limpida la sintetica illustrazione di<br />

BALDASSARRE, Libertà, I) problemi generali, in Enc. giur. Treccani, vol. XIX, Roma, 1990: "Si tratta, insomma, di ripercorrere la<br />

decisione legislativa (nel suo attuale significato) lungo gli itinerari, in parte indeterministici, dell'universo dei valori, nel senso che la<br />

norma contestata viene commisurata alla pluralità delle decisioni rese possibili dal sistema dei valori costituzionali interessato per<br />

essere verificata, attraverso tale filtro, nella sua plausibilità o non-arbitrarietà rispetto al risultato prefissato dalla stessa norma. In<br />

questa mediazione fra il polivalente universo dei valori e la combinazione mezzi-fini realizzata da una particolare decisione<br />

legislativa consiste il giudizio di "ragionevolezza" sulle leggi".<br />

(40) Nella letteratura penalistica vedi, per tutti, DI GIOVINE, Il sindacato di ragionevolezza della Corte costituzionale, cit., p. 100<br />

ss.; DI GIOVINE, Norme penali di favore e controllo di costituzionalità, in Criminalia, 2007, p. 225 e ivi bibliografia anche<br />

costituzionalistica; FIANDACA, Uguaglianza e diritto penale, cit., p. 131 ss.; MANES, Attualità e prospettive del giudizio di<br />

ragionevolezza in materia penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2007, p. 739 ss.; INSOLERA, Democrazia, ragione e prevaricazione.<br />

Dalle vicende del falso in bilancio ad un nuovo riparto costituzionale nella attribuzione dei poteri?, Giuffrè, 2003, p. 35 ss. e ivi una<br />

esauriente carrellata sulla storia dei controlli di ragionevolezza da parte della Consulta; MAUGERI, I reati di sospetto dopo la<br />

pronuncia della Corte costituzionale n. 370 del 1996: alcuni spunti di riflessione sul principio di ragionevolezza, di proporzione e di<br />

tassatività, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1999, p. 438 ss.; PALAZZO, Offensività e ragionevolezza nel controllo di costituzionalità sul<br />

contenuto delle leggi penali, in Costituzione, diritto e processo penale. I quaranta anni della Corte costituzionale, a cura di Giostra-<br />

Insolera, Giuffrè, 1998, p. 74 ss.<br />

(41) In questo senso, vedi LANZI, Considerazioni sull'eventualità di un sindacato di ragionevolezza sulle scelte politico-criminali, in<br />

Ind. pen., 2003, p.899.<br />

(42) Già PEDRAZZI rammenta (Sentenze manipolative, cit., p. 446) l'intervento in malam partem della sentenza n. 175 del 5 luglio<br />

1971.<br />

(43) "Non vi è dubbio che la sentenza sovverta i fondamenti della legalità, attribuendo alla Corte una funzione normativa che non le<br />

appartiene", così BELFIORE, Giudice delle leggi, cit., p. 113. Su quella sentenza, cfr. DI GIOVINE, La bestemmia al vaglio della<br />

Corte costituzionale: sui difficili rapporti tra Consulta e legge penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1996, p. 824 ss.; PALAZZO, La<br />

tutela della religione tra eguaglianza e secolarizzazione (a proposito della dichiarazione di incostituzionalità della bestemmia), in<br />

questa rivista, 1996, p. 47 ss.<br />

(44) Sulla "ragionevolezza" come criterio di razionalità intrinseca della normativa, BELFIORE, Giudice delle leggi, cit., p. 274 ss.<br />

(45) Come più giusto sarebbe stato eliminare la "irragionevole disuguaglianza" tra edicolanti e librai, non punibili in forza degli artt.<br />

528 e 725 c.p. (ex l. 17 luglio 1975, n.355) per il commercio di pubblicazioni oscene o di scritti contrari alla pubblica decenza e i<br />

rivenditori e noleggiatori di videocassette punibili per la commissione dello stesso fatto. In quell'occasione la Consulta dichiarò,<br />

condivisibilmente, invece non fondata la questione perché si trattava di una "pura esenzione da pena dipendente da mere ragioni di<br />

politica legislativa" che ponevano la situazione di disparità fra quelle "rigorosamente riservate al potere discrezionale del legislatore,<br />

libero di valutare come crede i criteri di opportunità che presiedono alla scelta", così C. cost., 6 dicembre 1988, n. 1063, in Giur.<br />

cost., 1988, p. 5203.<br />

(46) Oltre agli autori citati altrove su specifici punti, vedi per un commento alla sentenza M. LA ROSA, La condivisibile<br />

"ragionevolezza" sulle norme penali di favore, in Dir. pen. proc., 2007, p. 324 ss.<br />

(47) Questo percorso logico della Corte inizia, come è noto, con la sentenza n. 148 del 1983.<br />

(48) Il risultato è raggiunto attraverso "uno specifico atto di volontà e di decisione della Corte, che "vuole" la riespansione della<br />

178


norma penale generale. Vero che ci sono effetti di sistema, ma la Corte lo sa ed è formalistico dire che non sono addebitabili alla<br />

sentenza" (ZANON, Il controllo di costituzionalità delle norme penali di favore, in Verso un sindacato di legittimità, cit., p. 56).<br />

(49) Sulla duplice angolazione del principio, vedi PALAZZO, Corso, cit., p. 90 ss.<br />

(50) Nella manualistica penale, belle le pagine di F. MANTOVANI, Diritto penale, Cedam, p. 3 ss., a cui rinvio per la bibliografia<br />

fondamentale (d'altronde, ben nota). Sulla posizione della persona e della sua libertà all'apice dei valori costituzionali,<br />

nell'amplissima letteratura extra penale, vedi per tutti lo scritto fondamentale di PERLINGIERI, La personalità umana<br />

nell'ordinamento giuridico, Jovene, 1973.<br />

(51) GUASTINI, Teoria e ideologia dell'interpretazione costituzionale, in Giur. cost., 2006, p. 775 ss.<br />

(52) GUASTINI, Teoria e ideologia, cit., p. 776.<br />

(53) GUASTINI, L'interpretazione dei documenti normativi, in Trattato di diritto civile e commerciale, a cura di Schelesinger,<br />

Giuffrè, 2004, p. 219.<br />

(54) ZAGREBELSKY, Il diritto mite, cit., p. 170.<br />

(55) GUASTINI, Teoria e ideologia, cit., p. 221.<br />

(56) MENGONI, Ermeneutica e dogmatica, cit., p. 134.<br />

(57) "La Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto<br />

neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono i principi che la stessa Costituzione<br />

esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art. 139 Cost.), quanto<br />

i principi che non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale,<br />

appartengono all'essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana" (sent. n. 1146/1988).<br />

(58) In questa prospettiva, parla di "un vero e proprio Stato giurisdizionale della Consulta", LANZI, Considerazioni sull'eventualità<br />

di un sindacato, cit., p. 898. Si è detto (a proposito della sent. n. 394/2006) che "La Corte, nell'interpretare il suo ruolo di garante<br />

della Costituzione, tende a porsi da ultimo quale contropotere legislativo, pronto a correggere [...] anche gli sbandamenti della<br />

politica criminale", (GIUNTA, Verso un sindacato, cit., p. 27).<br />

(59) "Non può dubitarsi, a mio sommesso avviso, che la libertà personale sia riconosciuta nel nostro ordinamento positivo come un<br />

vero e proprio diritto soggettivo. Di tale situazione giuridica soggettiva essa sembra invero possedere tutti i caratteri distintivi"<br />

(VASSALLI, La libertà personale nel sistema delle libertà costituzionali, in Scritti giuridici in memoria di Piero Calamandrei,<br />

Cedam, 1958, p. 407).<br />

(60) BRICOLA, Art. 25, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Zanichelli, 1981, p. 278.<br />

(61) RIDOLA, Libertà e diritti, cit., p. 120.<br />

(62) CERRI, voce Libertà personale - Dir. Cost., in Enc. giur. Treccani, vol. XIX, Roma, 1990, p. 5.<br />

(63) Ibidem.<br />

(64) PACE, voce Libertà personale (dir. cost.), in Enc. dir., vol. XXIV, Giuffrè, 1974, p. 305.<br />

(65) C. cost., 21 novembre 1979, n. 131, in Giur. cost., 1979, p. 1064 ss.<br />

(66) "È in base al bilanciamento dei principi costituzionali in gioco che viene risolta la situazione caratterizzata dall'irragionevole<br />

privilegio: la necessità di ristabilire soluzioni normative coerenti e di dare tutela ad interessi di rilievo costituzionale in materia<br />

penale deve bilanciarsi con la riserva assoluta di legge, che esprimerebbe la migliore garanzia politica accordata al valore preminente<br />

della libertà personale" (il corsivo è mio), INSOLERA, Democrazia, cit., p. 49.<br />

(67) ZAGREBELSKY, Princîpi e voti, cit., p. 127.<br />

(68) Ritiene che "il principio di riserva di legge in materia penale deve ritenersi gerarchicamente subordinato, sotto il profilo<br />

assiologico, al principio di costituzionalità, quando viene in rilievo un enunciato legislativo ascrivibile alla categoria normativa delle<br />

cosiddette norme penali di favore" nell'ipotesi "in cui le norme sono poste in relazione di specialità sincronica", GAMBARDELLA,<br />

La "rilevanza" delle questioni concernenti le norme penali di favore, in questa rivista, 2007, p. 484 e 485.<br />

(69) "Un intervento di questo tenore da parte della Corte costituzionale non si porrebbe in contrasto con la riserva di legge in materia<br />

penale: la Corte non compirebbe infatti autonome scelte punitive, ma si limiterebbe a garantire l'osservanza dell'obbligo<br />

costituzionale espresso di incriminazione. La Costituzione, configurando quell'obbligo, ha infatti eccezionalmente compiuto le<br />

valutazioni politico-criminali di regola riservate alla discrezionalità del legislatore ordinario. Spetta in ogni caso al legislatore dare<br />

attuazione all'obbligo costituzionale di tutela penale; una volta che lo abbia attuato, il vincolo costituzionale gli preclude di abolire la<br />

norma incriminatrice", (MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, Giuffrè, 1999, p. 196 e 197). Sui diversi aspetti del tema,<br />

vedi PAONESSA, Gli obblighi di tutela penale. La discrezionalità legislativa nella cornice dei vincoli costituzionali e comunitari,<br />

ETS, 2009, p. 27 ss., in particolare p. 76 ss.; cfr. anche LANZI, Considerazioni, cit., p. 901.<br />

(70) Opportunamente ricorda quella storia DOLCINI, Leggi penali "ad personam", cit., p. 68. Per una moderna e briosa trascrizione<br />

degli atti del processo e della "requisitoria" di Cicerone, vedi GAZZARA, Processo per corruzione da le Verrine di Cicerone,<br />

Manifestilibri, 2006.<br />

(71) MORTATI, Le leggi provvedimento, Giuffrè, 1968, p. 10 e 11.<br />

(72) MORTATI, Le leggi, cit.<br />

(73) Una panoramica in DOLCINI, Leggi penali "ad personam", riserva di legge e principio costituzionale di eguaglianza, in Riv. it.<br />

dir. e proc. pen., 2004, p. 50 ss., alla quale aggiungerei, senza soverchie esitazioni, le disposizioni sul così detto "legittimo<br />

impedimento".<br />

(74) Così DOLCINI, Leggi penali, cit., p. 66.<br />

(75) Ancora testualmente così, con "forza" pienamente condivisibile, DOLCINI, Leggi penali, cit., p. 66.<br />

(76) Così, ad altro proposito, SILVESTRI, "Questa o quella per me pari sono ..." Disinvoltura e irrequietezza nella legislazione<br />

italiana sulle fonti del diritto, in Le fonti del diritto, oggi. Giornate di studio in onore di Alessandro Pizzorusso, Plus Pisa University<br />

Press, 2006, p. 184; sull'impossibilità che la Corte costituzionale possa censurare una ""legge su misura", per il fatto che detta legge<br />

tende ad apportare un privilegio personale", ARCONZO, Corte costituzionale e leggi su misura. Un confronto con la giurisprudenza<br />

costituzionale sulle leggi provvedimento, in Ai confini del favor rei. Il falso in bilancio davanti alle Corti costituzionale e di giustizia,<br />

a cura di Bin-Brunelli-Pugiotto-Veronesi, Giappichelli, 2005, p. 59 ss.<br />

(77) ARCONZO, Corte costituzionale, cit., p. 65.<br />

(78) All'opposto, addirittura, si è detto che con la sentenza n. 394/2006 "lungi dall'aver compiuto un importante avanzamento verso<br />

l'occupazione delle "zone franche" dal controllo di legittimità, i giudici hanno puntualizzato i limiti del sindacato già esistenti, così<br />

179


tuttavia irrigidendoli e rafforzandoli. Se non è proprio un passo indietro, sembra almeno un rigido freno a futuri passi avanti"<br />

(SCOLETTA, L'irragionevole insindacabilità dell'arbitrio punitivo in bonam partem, in Giur. cost., 2009, p. 440).<br />

(79) Sulla inaccettabilità, in genere, delle pronunce di incostituzionalità in malam partem e in specie di quelle riferite a "norme di<br />

favore", MARINUCCI-DOLCINI, Corso, cit., p. 194 ss. e, in particolare, p. 201; LANZI, Considerazioni, cit., soprattutto p. 902 e<br />

903. Per una critica serrata e condivisibile della motivazione della sent. n. 394/2006, dove si pone a fondamento dell'intervento in<br />

malam partem la natura di "norma di favore" della fattispecie giustiziata, ipotesi diversa da quella di "norma favorevole" rispetto alla<br />

quale tale genere di intervento non sarebbe, invece, possibile, vedi; VENEZIANI, Norme penali di favore e controllo di<br />

costituzionalità. Opinioni a confronto, in Criminalia, 2007, p. 233 ss.; per DE VERO (Corso, cit., p. 258) il controllo della Corte<br />

trova un limite solo nell'ipotesi di intervento manipolativo su norma incriminatrice con effetti in malam partem; per<br />

GAMBARDELLA (La" rilevanza", cit., p. 485) deve ritenersi prevalente la riserva di legge sul principio di costituzionalità nelle<br />

ipotesi di specialità diacronica, sicché in questi casi la Corte non può giudicare sulla coerenza al parametro costituzionale della<br />

norma di favore; vedi, inoltre, le riflessioni e le conclusioni di INSOLERA, Democrazia, cit., p. 43 ss.<br />

Nella giurisprudenza della Corte si veda anche la sent. n. 108 del 1981 in materia di aborto, ove la questione è dichiarata<br />

inammissibile "perché l'eventuale accoglimento [...], espungendo dalla norma denunciata il riferimento all'art. 4, comporterebbe<br />

l'estensione della previsione dell'art. 6 anche alle ipotesi di aborto entro i primi 90 giorni, venendosi a creare una nuova fattispecie<br />

incriminatrice (il che non è concesso alla Corte, restando riservato al legislatore la determinazione di effetti sfavorevoli al reo)".<br />

(80) VENEZIANI, Norme penali, cit., p. 248.<br />

(81) GIUNTA, Verso un sindacato, cit., p. 32.<br />

(82) SILVESTRI, Uguaglianza, ragionevolezza e giustizia costituzionale, in Le ragioni dell'uguaglianza, a cura di Vettor-Cartebia,<br />

Giuffrè, 2009, p. 5.<br />

(83) "...ma è da sottoscrivere e diffondere l'implicita conclusione che il Parlamento italiano non ha e non merita di avere il monopolio<br />

della democrazia, che spesso ciò che è stato gabellato come formalmente democratico è sostanzialmente anti-democratico"<br />

(GROSSI, Il volto, cit., a proposito di un recente libro di Massimo Donini, cit., p. 1054).<br />

(84) FIANDACA, Legalità penale e democrazia, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 2007, p. 1256.<br />

(85) FIANDACA, Legalità, cit., p. 1258.<br />

(86) PALAZZO, Legalità penale: considerazioni su trasformazione e complessità di un principio "fondamentale", in Quaderni<br />

fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 2007, p. 1291.<br />

(87) PALAZZO, Legalità penale, cit., p. 1292.<br />

(88) Sembra indicare questo percorso, pur consapevole "di tutti complessi problemi di possibile sconfinamento che, specie in materia<br />

penale, il sindacato costituzionale di ragionevolezza inevitabilmente solleva" FIANDACA, Legalità, cit., p. 1258.<br />

(89) PALAZZO, Legalità penale, cit., p. 1296.<br />

(90) Fra tutti, vedi diffusamente M. ROMANO, Complessità, cit., p. 554 ss.; cfr. DI GIOVINE, Il sindacato, cit., p. 106 ss.;<br />

GIUNTA, Verso un sindacato, cit., p. 16 ss.; MANES, Illegittime le "norme penali di favore", cit.; VENEZIANI, Norme penali di<br />

favore, cit., p.236.<br />

(91) PEDRAZZI, Sentenze "manipolative" in materia penale, cit., p. 446.<br />

(92) Per un'ampia panoramica sui profili di "relativizzazione" dell'odierno diritto penale e sui riflessi in tema di garanzie<br />

costituzionali, vedi BELFIORE, Giudice, cit., p. 199 ss.<br />

(93) Sul "nesso debole fra il reato e la perdita della libertà personale" per cui si "interrompe quella tirannia dei principi che vorrebbe i<br />

principi di garanzia tutti "massimizzati" in campo penalistico per il solo fatto che è in gioco la libertà", vedi le note pagine di<br />

DONINI, Il volto attuale dell'illecito penale. La democrazia penale tra differenziazione e sussidiarietà, Giuffrè, 2004, p. 48 ss.;<br />

DONINI, Teoria del reato, cit., p. 38 ss.<br />

(94) MANES, Il principio di offensività nel diritto penale. Canone di politica criminale, criterio ermeneutico, parametro di<br />

ragionevolezza, Giappichelli, 2005, p. 130 ss.<br />

(95) MANES, Il principio, cit., p. 133.<br />

(96) Implacabile definizione di GROSSI, Il volto attuale, cit., p. 1048.<br />

180


Corte Costituzionale , 28/01/2010, n. 28<br />

LA CORTE COSTITUZIONALE E LA DEFINIZIONE DI RIFIUTO: NUOVO CAPITOLO DI UNA<br />

COMPLESSA VICENDA DI ILLEGITTIMITÀ COMUNITARIA<br />

Cass. pen. 2011, 1, 117<br />

Dario Franzin<br />

Dottorando in Diritto penale dell'economia e dell'ambiente Università di Teramo<br />

Sommario 1. Campo d'indagine: la sentenza n. 28 del 2010 della Corte costituzionale e il quadro risolutivo dei conflitti<br />

triadici tra diritto interno e diritto comunitario. La questione della possibilità di sindacato sulle norme incriminatrici. - 2.<br />

Le nozioni di rifiuto e di sottoprodotto tra diritto interno e fonti comunitarie. - 3. Il differente volto della materia nei due<br />

ordinamenti: tendenze tipizzanti del legislatore italiano e approccio funzionale del legislatore comunitario - 4. (Segue)<br />

L'illegittimità comunitaria della previsione delle ceneri di pirite come sottoprodotto. Accertamento caso per caso e<br />

abbandono di meccanismi presuntivi. - 5. Il ricorso alla Corte costituzionale come modalità per risolvere i conflitti fra<br />

diritto penale e diritto comunitario. - 6. (Segue) La decisione della Corte costituzionale: esclusione del giudizio di<br />

ragionevolezza e tenuta della legalità penale.<br />

1. CAMPO D'INDAGINE: LA SENTENZA N. 28 DEL 2010 DELLA CORTE COSTITUZIONALE E IL QUADRO<br />

RISOLUTIVO DEI CONFLITTI TRIADICI TRA DIRITTO INTERNO E DIRITTO COMUNITARIO. LA<br />

QUESTIONE DELLA POSSIBILITÀ DI SINDACATO SULLE NORME INCRIMINATRICI<br />

La sentenza in commento rappresenta il punto di approdo della complessa vicenda dell'illegittimità comunitaria e<br />

costituzionale della definizione di "rifiuto" e, nello specifico, dell'inclusione delle ceneri di pirite tra i c.d. sottoprodotti,<br />

operata dall'art. 183, comma 1, lett. n), quarto periodo del d.lg. n. 152 del 2006 (1). Da questo punto di vista essa non è che<br />

l'ultimo, risolutivo, sviluppo di una questione che si pone all'attenzione del dibattito penalistico oramai da tempo (2).<br />

Con questa decisione, la Consulta ha inteso affermare il proprio ruolo chiave nella risoluzione dei conflitti di natura<br />

triadica(3) tra diritto comunitario e diritto penale nazionale (4), con ciò escludendo le altre, possibili vie in tal senso<br />

esperibili, vale a dire la disapplicazione diretta della normativa non conforme al dettato comunitario, ovvero il ricorso<br />

pregiudiziale alla Corte di giustizia.<br />

A parte il profilo esegetico strettamente attinente alle "ceneri di pirite", numerosi sono gli spunti che questa sentenza<br />

presenta per il penalista. Essa infatti, da un lato costituisce un significativo punto di riferimento in merito alla portata dei<br />

c.d. obblighi comunitari di tutela penale (5), tema che segna, a sua volta, il punto di massima frizione nelle relazioni<br />

nomodinamiche tra fonti interne e produzione normativa di matrice europea ("un campo attraversato da tensioni politiche e<br />

giuridiche non compiutamente componibili" (6)); dall'altro fornisce importanti notazioni in merito alla più ampia<br />

problematica del sindacato del giudice costituzionale in materia penale e dei c.d. effetti inmalam partem(7).<br />

Nelle pagine che seguono cercheremo di ripercorrere i passaggi argomentativi fondamentali, mettendone in luce lo specifico<br />

contributo che essa apporta alle due tematiche sopra evidenziate.<br />

2. LE NOZIONI DI RIFIUTO E DI SOTTOPRODOTTO TRA DIRITTO INTERNO E FONTI COMUNITARIE<br />

Come accennato, all'attenzione della Corte era stata portata la delicata questione della qualificazione come sottoprodotto<br />

(quindi come non rifiuto) delle "ceneri di pirite" operata alla lett. n) del già citato quarto periodo dell'art. 183 d.lg. n. 152 del<br />

2006 (Norme in materia ambientale).<br />

Trattasi di una questione piuttosto complessa che va inquadrata nella più ampia problematica della definizione del concetto<br />

di "rifiuto" (snodo, a sua volta, fondamentale della disciplina della tutela dell'ambiente) la cui analisi necessita pertanto di<br />

un, sia pur breve, riassunto del quadro normativo e giurisprudenziale che le fa da sfondo. Due in particolare i riferimenti<br />

generali da tenere presenti.<br />

a) Nell'ordinamento comunitario le fonti susseguitesi sull'argomento sono, nell'ordine, la direttiva 75/442/CEE, la direttiva<br />

91/156/CEE e la direttiva 2006/12/CEE (8); atti questi da ritenersi peraltro già a loro volta "superati" dalla direttiva<br />

2008/98/CE il cui scopo è proprio quello di abrogare e sostituire, a partire dal dicembre 2010, le prime tre (9). Quanto<br />

invece al nostro legislatore nazionale, egli ha sottoposto il concetto di "rifiuto" a diverse riformulazioni nel corso degli<br />

ultimi anni: all'inizio, la definizione era contenuta nell'art. 6 d.lg. 5 febbraio 1997, n. 22 (noto come decreto Ronchi); in<br />

seguito, questa disposizione era stata oggetto di un'interpretazione autentica assai controversa operata dall'art. 14 d.l. 8<br />

luglio 2002, n. 138, conv. in l. 8 agosto 2002, n. 178. Altra modifica significativa risale al gennaio 2008 a seguito<br />

dell'approvazione del d.lg. n. 4/2008. Da ultimo la materia è stata nuovamente modificata con il d.lg. n. 205/2010 in<br />

attuazione della citata direttiva n. 98/2008.<br />

b) Simile complesso (ed a volte farraginoso) intreccio di fonti nazionali e sovranazionali non ha però impedito il formarsi<br />

nel tempo di una nozione tendenzialmente unitaria ed omogenea della materia dello smaltimento dei rifiuti. In generale,<br />

181


infatti, la nozione di rifiuto enucleata dal legislatore comunitario e recepita dall'art. 183 d.lg. n. 152 del 2006, si basa sul<br />

concetto di "disfarsi" (10) (volontario o obbligatorio) del bene da parte del suo titolare. Elemento centrale, dunque, è<br />

l'inutilizzabilità successiva del materiale o della sostanza da parte del produttore (11).<br />

Lo stesso art. 183 d.lg. n. 152/2006, (anche qui in armonia con la normativa comunitaria), fa inoltre riferimento, con<br />

l'intento di differenziarla da quello di "rifiuto", alla nozione di "sottoprodotto" e cioè (secondo una classificazione via via<br />

maturata in giurisprudenza) a quei materiali realizzati dall'impresa stessa, senza la necessità di ulteriori trasformazioni<br />

preliminari (12), e che siano oggetto di certa riutilizzazione economica (13), direttamente da parte dell'impresa oppure<br />

attraverso la commercializzazione a condizioni economicamente favorevoli (14). In seguito all'ultima modifica della materia<br />

attuata nel dicembre 2010 (in particolare v. l'art. 184-bis t.u. ambiente introdotto dall'art. 12 del d.lg. n. 205 del 2010) alla<br />

nozione di "sottoprodotto" è stato dedicato un articolo autonomo nel testo unico ambientale (art. 184-bis) che, tenendo conto<br />

tra l'altro delle caratteristiche ora esposte, stabilisce che un prodotto non può essere considerato un rifiuto ai sensi della lett.<br />

a) dell'art. 183 d.lg. n. 152/2006 ma va incluso tra i sottoprodotti quando: "a) la sostanza o l'oggetto è originato da un<br />

processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od<br />

oggetto; b) è certo che la sostanza o l'oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di<br />

produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi; c) la sostanza o l'oggetto può essere utilizzato direttamente<br />

senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale; d) l'ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o<br />

l'oggetto soddisfa, per l'utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e<br />

dell'ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull'ambiente o la salute umana" (15).<br />

La distinzione fondamentale, scaturente dal quadro normativo appena delineato, è dunque quella fra "rifiuto" e<br />

"sottoprodotto". È evidente che la sottrazione dei "sottoprodotti" dalla disposizione a cui sono assoggettati i "rifiuti",<br />

produce conseguenze importanti anche relativamente alla disciplina penale che ai rifiuti si riferisce. Tutti gli obblighi<br />

cautelari sulla cui osservanza si basano i reati ambientali hanno, infatti, espressamente ad oggetto i rifiuti; e dunque<br />

ricondurre questo o quel prodotto alla categoria dei "rifiuti" o a quella dei "sottoprodotti" significa, essenzialmente,<br />

distinguere cosa è punibile da cosa non lo è.<br />

Ebbene, di fronte ad una simile (almeno tendenziale) linearità del quadro normativo, le questioni che si presentavano alla<br />

Corte costituzionale erano essenzialmente due. La prima, relativa ad un contrasto tra fonti interne e comunitarie riguardava<br />

proprio le modalità di inclusione di un certo materiale (nel caso specifico la classificazione delle ceneri di pirite come<br />

sottoprodotto) nella categoria dei rifiuti o dei sottoprodotti. Infatti, la scelta di definire già "in astratto" (cioè in quanto tali)<br />

le ceneri di pirite come sottoprodotto operata dall'art. 183 d.lg. n. 152/2006, contravviene con quanto stabilito in sede<br />

comunitaria - tanto a livello di interventi normativi che giurisprudenziali (16) - circa la modalità di accertamento della<br />

natura di rifiuto o sottoprodotto di un determinato materiale; simile accertamento secondo le intenzioni del legislatore<br />

comunitario deve essere compiuto in concreto, caso per caso (17) e non mediante il ricorso ad un meccanismo lato sensu<br />

"presuntivo", tale cioè da vincolare il giudice (anche penale) a schemi di valutazione operati una volta per tutte dal<br />

legislatore e non sindacabili in sede processuale.<br />

La seconda questione (evidentemente estranea all'ordinanza di remissione e dunque solo "indotta" dal quadro venutosi a<br />

creare in precedenza) era quello del rimedio da esperire per risolvere le antinomia fra ordinamento interno e comunitario<br />

quali quelle relativa alle "ceneri di pirite". Problema questo che si era già posto proprio con riferimento ai limiti concettuali<br />

della nozione di rifiuto e alla modalità di accertamento dello stesso in seguito all'entrata in vigore del d.lg. n. 138/2002, col<br />

quale (art. 14) si era cercato di fornire un'interpretazione autentica della definizione di rifiuto operata dal d.lg. n. 22/1997<br />

(18). La questione dell'illegittimità comunitaria dell'art. 14 del succitato art. 14 d.lg. n. 138/2002 era, infatti, stata portata<br />

all'attenzione, rispettivamente, della Corte costituzionale e della Corte del Lussemburgo mentre, in altri casi, la normativa<br />

nazionale era stata direttamente disapplicata dai giudici di merito (19).<br />

3. IL DIFFERENTE VOLTO DELLA MATERIA NEI DUE ORDINAMENTI: TENDENZE TIPIZZANTI DEL<br />

LEGISLATORE ITALIANO E APPROCCIO FUNZIONALE DEL LEGISLATORE COMUNITARIO<br />

Quanto alla prima problematica, in particolare, il rinvio alla Corte di giustizia aveva condotto alla c.d. sentenza Niselli (20).<br />

Questa può considerarsi un leading case in materia di obblighi comunitari di tutela penale, (insieme al successivo<br />

Berlusconi (21) relativo alla presunta illegittimità comunitaria delle false comunicazioni sociali, dove come noto, la Corte<br />

ha ritenuto procedere con maggiore prudenza salvando la norma dalla censura di illegittimità comunitaria).<br />

Nella sentenza Niselli, pur prendendo una posizione "defilata" (22) (nel senso di non avallare un nuovo meccanismo di<br />

interferenza dei rapporti tra fonti), la Corte di giustizia aveva fornito comunque un'interpretazione delle direttive vigenti al<br />

momento del giudizio, tale da ritenere illegittima la nozione di rifiuto come specificata dalla norma interna avente finalità<br />

interpretativa, con ciò pervenendo ad una soluzione diametralmente opposta a quella offerta dalla sentenza Berlusconi.<br />

Nel confrontare brevemente le due coeve sentenze della Corte di giustizia, relative ai rifiuti e alle false comunicazioni<br />

sociali, ciò che consente di spiegare la differente soluzione adottata per i due casi è la natura dell'obbligo contenuto nella<br />

fonte comunitaria apparentemente violata dalla norma interna di recepimento. Nel caso della definizione di rifiuto, appunto,<br />

il legislatore comunitario avrebbe predisposto nelle sue direttive in materia ambientale una vera e propria regola, mentre, nel<br />

caso della trasparenza dei bilanci, l'obbligo espresso dalla direttiva consisterebbe in uno standard minimo di tutela che non<br />

182


potrebbe, al contrario, ritenersi disatteso dalle scelte operate con il d.lg. n. 61 del 2002 (23).<br />

Il caso Niselli e quello relativo all'esclusione delle ceneri di pirite - oggetto della sentenza in commento - presentano<br />

stringenti analogie. In particolare, in entrambi i casi, l'illegittimità della norma interna deriva da una modalità di ricezione<br />

del precetto comunitario che disattende la ratio stessa della regola definitoria posta dall'Unione europea in materia di rifiuti.<br />

Dall'analisi degli atti legislativi di conio comunitario e dalla costante attività interpretativa della Corte con sede a<br />

Lussemburgo si delineava, infatti, una nozione di rifiuto di matrice funzionale. Con questa espressione si intende<br />

sintetizzare la natura dell'approccio da sempre prediletto dalle fonti comunitarie: un approccio basato su una considerazione<br />

della natura dei rifiuti non già come una categoria da cristallizzare in una definizione stringente, ma come un'entità da<br />

descrivere attraverso una categoria aperta, capace di fornire un metro concreto di giudizio idoneo a risolvere il caso singolo.<br />

Questa tecnica ricorre di frequente nelle tipizzazioni operate a livello comunitario, spesso destinate a qualificare<br />

normativamente l'esistente fornendolo di un velo legislativo di matrice europea (24). A puntellare questo approccio<br />

funzionale aveva contribuito la giurisprudenza della Corte di giustizia (25) affermando più volte la necessità di considerare<br />

in maniera estensiva il concetto - centrale nell'economia della definizione - del "disfarsi" volontario o meno del residuo.<br />

Ebbene, il decreto del 2002, recante l'interpretazione autentica ricordata in precedenza, oggetto della censura operata dalla<br />

sentenza dell'11 novembre 2004, veniva proprio a confliggere con la natura elastica del precetto comunitario in materia di<br />

rifiuti, poiché stabiliva un meccanismo di accertamento presuntivo, incompatibile con l'approccio casistico e funzionale<br />

prediletto dal legislatore comunitario (26).<br />

4. (SEGUE) L'ILLEGITTIMITÀ COMUNITARIA DELLA PREVISIONE DELLE CENERI DI PIRITE COME<br />

SOTTOPRODOTTO. ACCERTAMENTO CASO PER CASO E ABBANDONO DI MECCANISMI PRESUNTIVI<br />

Come si è detto, l'esclusione delle ceneri di pirite, operata ope legis dal legislatore nazionale, poggia su un ragionamento<br />

lato sensu presuntivo, privo, pertanto, di ogni sintonia con i trend stabiliti dal suo interlocutore europeo. La normativa<br />

comunitaria sembrerebbe, invece, imporre agli Stati membri l'abbandono di queste tipologie di accertamenti in materia di<br />

rifiuti e sottoprodotti. La natura elastica della definizione stabilita a livello europeo ha come obiettivo proprio il<br />

superamento di ogni meccanismo di stampo presuntivo, valorizzando, come detto in precedenza, un approccio caso per<br />

caso, allargando quindi il terreno della discrezionalità del giudice. Lo stesso legislatore italiano aveva provveduto, con<br />

l'ultima modifica effettuata con il d.lg. 16 gennaio 2008, n. 4 (art. 2), a riformulare l'art. 183 del testo unico ambientale<br />

provvedendo ad espungere il riferimento alle ceneri di pirite (27) e cancellando così, nelle more del giudizio di fronte alla<br />

Corte costituzionale, il passaggio della disposizione che aveva generato l'antinomia con il diritto dell'Unione europea e<br />

introducendo nel testo attualmente vigente una definizione di "sottoprodotto" più restrittiva e in sintonia con il dettato<br />

comunitario.<br />

Ciò non di meno, con la sentenza in commento la Corte, pur prendendo atto della modifica e dopo aver vagliato (come<br />

vedremo) i possibili rimedi esperibili per risolvere l'antinomia, dichiara l'illegittimità costituzionale - richiamando gli artt.<br />

11 e 117 Cost. come "norme-parametro" violate (28) - dell'art. 183, comma 1, lett. n), del d.lg. n. 152/2006, nel testo<br />

precedente alle modiche introdotte dall'art. 2, comma 20, del citato d.lg. n. 4/2008 e da quelle del dicembre 2010, nella parte<br />

in cui prevede che: "rientrano altresì tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del presente<br />

decreto le ceneri di pirite, polveri di ossido di ferro, provenienti dal processo di arrostimento del minerale noto come pirite o<br />

solfuro di ferro per la produzione di acido solforico e ossido di ferro, depositate presso stabilimenti di produzione dismessi,<br />

aree industriali e non, anche se sottoposte a procedimento di bonifica o di ripristino ambientale".<br />

L'argomento su cui la Corte fa leva nella sentenza è proprio quello della conformità del diritto interno al diritto comunitario;<br />

un argomento sicuramente "forte" e incontestabile, di estrema chiarezza e linearità e che dunque, in questa sede, non<br />

possiamo che condividere. Resta tuttavia sullo sfondo un interrogativo, che certo la Corte non poteva sciogliere, ma che la<br />

vicenda, pur nella sua specificità, pone con forza e su cui anche in futuro, a nostro sommesso avviso, la scienza penalistica<br />

sarà costretta a tornare: fino a che punto, di fronte al principio di prevalenza del diritto dell'Unione europea possono essere<br />

sacrificate le stringenti esigenze di certezza giuridica e dunque di determinatezza del precetto penale che pure avevano<br />

spinto il legislatore italiano a sottrarre la valutazione delle ceneri di pirite al giudice in favore di una definizione generale ed<br />

astratta? Da qui in poi potrebbe, dunque, aprirsi un ulteriore possibile terreno di frizione tra sistema penale e diritto<br />

dell'Unione europea: una differente concezione della determinatezza della fattispecie e del margine di discrezionalità che<br />

deve concedersi all'autorità chiamata in concreto all'applicazione delle norme comunitarie.<br />

In questo caso, più che ad un attacco alla riserva di legge sembrerebbe assistersi a una modificazione, da parte delle fonti<br />

comunitarie, della portata del principio di determinatezza in materia penale (29). Il concetto di "rifiuto" possiede - come<br />

detto - un carattere definitorio fondamentale per l'integrazione di tutta la galassia di reati concernenti lo smaltimento dei<br />

rifiuti e la distonia tra i due sistemi pare proprio ritrovarsi nella costante tentazione del legislatore italiano a tipizzare sempre<br />

di più una materia che l'Unione europea spinge affinché resti volutamente estranea a meccanismi di accertamento presuntivi<br />

e predeterminati a monte.<br />

La normativa comunitaria, dal canto suo, vuole evitare che una stringente specificazione imbrigli eccessivamente la libertà<br />

del giudice di considerare fattori estrinseci parimenti rilevanti quali i comportamenti concreti tenuti dal soggetto agente.<br />

Con questa tecnica di accertamento, insomma, il legislatore comunitario intende salvaguardare gli scopi della direttiva,<br />

183


afforzando la capacità di penetrazione della disciplina attraverso un giudizio in concreto che non tralasci alcuna circostanza<br />

(30).<br />

Il punctum dolens della dialettica tra legislatore nazionale e legislatore comunitario si sostanzia, dunque, in una differente<br />

valutazione della determinatezza della fattispecie e del potere discrezionale da lasciare nelle mani del giudice (31).<br />

Demandare questo tipo di accertamenti al processo significa, sostanzialmente, rafforzare ancora di più il ruolo della<br />

consulenza peritale in sede di giudizio. È verosimile pensare, pertanto, che i processi in materia di rifiuti si risolvano in un<br />

confronto fra consulenti, dove il giudice potrà esclusivamente, e nelle ipotesi migliori, svolgere quel ruolo di peritus<br />

peritorum che già gli è stato consegnato in materia di causalità, ma che troppo spesso nella pratica sembra essere rimasto<br />

lettera morta.<br />

Il tema della modalità di implementazione del dettato comunitario da parte del legislatore interno è destinato a diventare<br />

ancora di più il nucleo centrale dei possibili contrasti tra il diritto nazionale e quello dell'Unione europea anche dopo<br />

l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona. L'assetto delle competenze della nuova Unione in materia penale, infatti, è stato<br />

da un lato esplicitato per alcune tipologie di delitti, ma temperato, dall'altro, sul piano delle fonti limitando alla sola direttiva<br />

- adottata secondo la procedura legislativa ordinaria - la possibilità di intervenire in materia penale (32). Questa fonte<br />

consente, rispetto al regolamento, di salvaguardare maggiormente la discrezionalità del legislatore nazionale, ma<br />

permangono gli spazi per queste tipologie di lost in translation nella ricezione interna dei precetti comunitari. Differenti<br />

soluzioni che derivano da sensibilità legislative diverse e che si risolvono in forme di illegittimità comunitaria come nel<br />

caso della sentenza qui annotata.<br />

5. IL RICORSO ALLA CORTE COSTITUZIONALE COME MODALITÀ PER RISOLVERE I CONFLITTI FRA<br />

DIRITTO PENALE E DIRITTO COMUNITARIO<br />

Per quanto riguarda il rimedio da esperire in caso di antinomia tra diritto penale e diritto comunitario, la Corte<br />

costituzionale, con la sentenza in commento, ha una posizione chiara circa il metodo da seguire per risolvere eventuali<br />

contrasti tra diritto comunitario e diritto penale nazionale.<br />

L'incertezza derivava dalla coesistenza di svariate forme di rimedio per ottenere la risoluzione delle interferenze fra la<br />

normativa di cornice predisposta dal legislatore comunitario e la disciplina sancita da quello interno. Come noto, le<br />

possibilità per il giudice a quo che veniva a trovarsi di fronte ad una sospetta situazione di contrasto fra una fonte<br />

comunitaria e una fonte interna erano, sostanzialmente, tre: la disapplicazione diretta della norma interna contraria al<br />

principio comunitario, il ricorso alla Corte di giustizia oppure la remissione della questione alla Corte costituzionale per<br />

violazione degli artt. 11 e 117 Cost.<br />

La Corte nel suo argomentare compie una ricognizione molto precisa dei tre possibili rimedi, fornendo un preciso<br />

"itinerario" da seguire per azionare i conflitti tra norme di questa natura. In particolare, il Giudice delle leggi fa notare come<br />

in questo caso non sarebbe possibile procedere alla diretta disapplicazione della normativa interna dimostratasi in conflitto<br />

col principio comunitario, dato che una simile possibilità è concessa al giudice a quo quando la normativa comunitaria<br />

violata consiste in una direttiva c.d. autoapplicativa(33). Questa particolare capacità di penetrazione delle direttive sarebbe<br />

riscontrabile laddove la fonte comunitaria fosse in grado di creare un diritto in capo al singolo, diritto, a sua volta,<br />

azionabile nei confronti dello Stato inadempiente (34). Questo peculiare carattere, nella ricostruzione operata dalla Corte,<br />

sarebbe da escludere completamente nel caso di specie, poiché dagli - eventuali - effetti diretti della direttiva deriverebbe<br />

una responsabilità per il cittadino e non un diritto. La natura dell'atto legislativo, quindi, condizionerebbe la possibilità di<br />

esperire questo rimedio. Nel caso affrontato nella sentenza in commento, la direttiva richiamata non presenterebbe questa<br />

caratteristica. Coerentemente, pertanto, la Corte ritiene inopportuno il ricorso alla diretta disapplicazione della legge<br />

contraria al dettato comunitario, avallando in toto le argomentazioni proposte dal giudice remittente.<br />

Dall'altra parte la Corte censura l'eventuale possibilità di esperire un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione<br />

europea essendo questo rimedio superfluo, dato che non vi sarebbe alcun dubbio interpretativo da chiarire, stante il palese<br />

contrasto con i principi comunitari della previsione sulla natura di sottoprodotto delle ceneri di pirite.<br />

La strada che rimane praticabile per censurare queste interferenze rimane pertanto il ricorso alla Corte costituzionale per<br />

violazione degli artt. 11 e 117, comma 1, Cost. (35).<br />

6. (SEGUE) LA DECISIONE DELLA CORTE COSTITUZIONALE: ESCLUSIONE DEL RICORSO AL<br />

GIUDIZIO DI RAGIONEVOLEZZA E TENUTA DELLA LEGALITÀ PENALE<br />

La soluzione congegnata dalla Corte costituzionale sembra essere quella preferibile, proprio in virtù della presenza dell'art.<br />

117 che ristabilisce ulteriormente il ruolo della Consulta quale organo competente a risolvere i contrasti fra nome interne e<br />

norme comunitarie non direttamente applicabili (36).<br />

Con l'affermazione del ruolo primario della Corte costituzionale nell'eventualità di un conflitto tra norme interne e principi<br />

comunitari il problema invade lo spinoso territorio dei limiti al vaglio di costituzionalità in materia penale. Il tema<br />

costituisce - come già ricordato - un "classico" del diritto penale costituzionale dove, inevitabilmente, collidono questioni<br />

decisive come la ragionevolezza dell'intervento penalistico, la political choice e, in generale, la portata del principio del<br />

favor rei.<br />

L'atteggiamento della Corte costituzionale a proposito della materia penale ha raggiunto una tendenziale uniformità di<br />

184


portata, culminando nella declaratoria di incostituzionalità di una norma penale che stabiliva un trattamento più mite rispetto<br />

alla precedente sulla base dell'irragionevolezza della dosimetria sanzionatoria.<br />

Senza entrare nel dettaglio delle note pronunce che hanno aperto all'efficacia inmalam partem del vaglio costituzionale, ci<br />

limitiamo qui a richiamare il principio espresso dalla sentenza n. 394 del 2006 che ha ammesso la sindacabilità delle norme<br />

penali di favore, ossia di quelle norme che, trovandosi in rapporto di specialità sincronica con la disciplina generale, creano<br />

una situazione di privilegio per una parte ridotta della collettività (37). Al momento pare essere questo il confine che il<br />

Giudice costituzionale si è dato nella possibilità di emanare provvedimenti ablativi in materia penale.<br />

Un dato fondamentale della sentenza n. 28 del 2010 qui annotata consiste nell'attenta ricostruzione argomentativa compiuta<br />

della Corte tesa a distinguere la tipologia di decisione emessa in questo caso rispetto alle precedenti pronunce in materia<br />

penale.<br />

In particolare, la Consulta sembra soffermarsi sul mancato riferimento al criterio della ragionevolezza come fondamentale<br />

distinzione tra questa decisione e le ultime emesse in materia, come quella sui delitti in materia di falso elettorale (38).<br />

Nella sua ricostruzione, invero, la Corte riporta tutte le acquisizioni finora maturate nelle sentenze concernenti norme<br />

penali, in particolare riprende la soluzione raggiunta per superare la possibile impasse derivante dal difetto di rilevanza nel<br />

giudizio pendente, richiamando i consolidati principi in tema di rilevanza dello stesso almeno per quanto riguarda la portata<br />

della formula assolutoria.<br />

La questione di maggior interesse riguarda la comprensione del procedimento decisorio della Corte, nello specifico: il<br />

significato della sottolineatura dell'esclusione della ragionevolezza come tertium comparationis nel giudizio. La<br />

ragionevolezza come metro di valutazione sembra, infatti, attestarsi quale vera e propria misura della discrezionalità<br />

manipolativa della Consulta (39).<br />

In effetti, pare condivisibile rintracciare una distinzione nella norma parametro richiamata nella ratio decidendi, ma,<br />

ciononostante, la questione potrebbe risultare diversa passando ad analizzare il piano degli effetti. Da quel punto di vista la<br />

Corte sembra, inevitabilmente, ricadere nel "campo minato" degli effetti inmalam partem edel limes delle sue competenze.<br />

L'operazione compiuta dal Giudice delle leggi è, al contrario, tesa a valorizzare l'importanza delle norme parametro sulle<br />

quali fa poggiare l'impalcatura della motivazione: gli artt. 11 e 117 Cost. (40).<br />

Nell'economia della decisione, le norme di rango costituzionale richiamate hanno un peso specifico notevole, poiché<br />

consentono alla Corte - come detto - di separare questa decisione da quelle precedentemente emesse in materia penale,<br />

proprio in virtù del mancato richiamo alla ragionevolezza quale principio di rango superiore forzato dalla disposizione<br />

sottoposta al vaglio di costituzionalità.<br />

In conclusione, la scelta di escludere la ragionevolezza dal quadro del procedimento decisorio utilizzato della Corte appare,<br />

a maggior ragione, coerente se si guarda alla natura triadica della vicenda sottoposta al controllo di legittimità (41). Il<br />

giudizio di ragionevolezza, infatti, pare - per sua natura - sganciato dal canonico schema a struttura triangolare, basandosi,<br />

invero, sul confronto tra le scelte operate dal legislatore, al fine di censurarne l'irragionevolezza.<br />

Il ragionamento basato sulla ragionevolezza, pertanto, si avrà esclusivamente in seguito al raffronto tra due norme,<br />

attraverso il quale si esaurirà il vaglio della tenuta costituzionale della modifica normativa operata (42).<br />

Dal punto di vista della sentenza annotata, pertanto, la forzatura della visione classica della riserva di legge non viene<br />

certamente dal versante dell'intervento della Corte costituzionale, che rimane confinato entro parametri consolidati basati su<br />

una relazione triangolare fra norme e non su valutazioni discrezionali di opportunità della scelta legislativa.<br />

Con questa decisione la Consulta non si attribuisce, perciò, un potere normativo, ma semplicemente opera da strumento per<br />

l'attuazione del potere dell'Unione europea in una materia di competenza comunitaria.<br />

Questa ricostruzione, pertanto, circoscrive sensibilmente la portata della lesione apportata alla legalità penale, essendo qui la<br />

Corte il medium necessario per risolvere un conflitto tra fonti inammissibile alla luce dell'attuale assetto istituzionale del<br />

nostro ordinamento giuridico nella cornice dell'UE. Lo stesso ruolo del Giudice delle leggi consente, a ben vedere, di<br />

ricomporre anche l'eventuale strappo nei confronti del principio di legalità dal fronte comunitario. Permangono, invece, i<br />

dubbi sollevati in precedenza circa la possibile divergenza intorno alla portata del principio di determinatezza.<br />

La Corte costituzionale, infine, sembra essere il perfetto interlocutore per la ricomposizione di questo tipo di conflitti di<br />

natura comunitaria. A questa conclusione si giunge valutando, da un lato, il suo ruolo centrale e irrinunciabile tra gli organi<br />

partecipanti alla dialettica interna ad un sistema democratico inteso secondo l'accezione più moderna (43) e, dall'altro, per le<br />

importanti acquisizioni raggiunte in tema di dottrina dei controlimiti e di controllo di costituzionalità delle norme di favore.<br />

I parametri di valutazione forniti dalla giurisprudenza costituzionale consentono di prevedere i margini di manovra entro i<br />

quali la Corte dovrebbe muoversi, portando così a escludere, a rigor di logica, eccessive deviazioni da un fisiologico canone<br />

di aggiornamento della natura del principio di legalità (44).<br />

Con la sentenza in esame si giunge, pertanto, alla fine della complicata questione dei rifiuti che, come chiarito in<br />

precedenza, gravitava da anni nel fuoco dello scrutinio di costituzionalità sia a livello nazionale che comunitario, senza che<br />

il contraccolpo trasformi l'aggiornamento dei tratti fondamentali delle relazioni tra fonti in un epocale "assalto al Palazzo<br />

d'inverno" del principio di legalità in materia penale (45).<br />

185


NOTE<br />

(1) La questione era stata sollevata dal Trib. Venezia, sez. dist. Dolo, ord. 20 settembre 2006, in Corr. merito, 2007, p. 225 ss. con<br />

commento di GATTA.<br />

(2) Per quanto riguarda la ventennale querelle della compatibilità tra la nozione penalistica di rifiuto e il diritto comunitario v. ex<br />

multisGIUNTA, La nozione penalistica di rifiuto al cospetto della giurisprudenza CE, in Dir. pen. proc., 2003, p. 1029 ss.,<br />

VAGLIASINDI, La definizione di rifiuto tra diritto penale ambientale e diritto comunitario, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2005, p. 959 ss.<br />

(I parte); 2006, p. 157 ss. (II parte). La questione è anche evidenziata come caso sintomatico dello stato delle relazioni fra fonti nazionali e<br />

fonti sovranazionali da EPIDENDIO, Diritto penale comunitario e diritto penale interno, guida alla prassi giurisprudenziale, Giuffrè,<br />

2007, p. 296 ss. e da SOTIS, Il diritto senza codice, uno studio sul sistema penale europeo vigente, Giuffrè, 2007, p. 143 ss.<br />

(3) Con l'aggettivo triadico si sintetizzano comunemente quei conflitti derivanti da un'antinomia che poggia a sua volta su tre norme:<br />

quella di fonte comunitaria, quella interna che impone l'adeguamento al dettato comunitario e l'adempimento dell'obbligo, e, da ultima,<br />

un'altra norma interna (penale o meno) che si pone in contrasto con il principio espresso dalla normativa comunitaria. Cfr. SOTIS, Il<br />

diritto senza codice, cit., 103.<br />

(4) Sui rapporti fra diritto penale e diritto comunitario si rimanda ai fondamentali lavori di RIZ, Diritto penale e diritto comunitario,<br />

Cedam, 1984, passim, GRASSO, Comunità europee e diritto penale, Giuffrè, 1988, passim, SGUBBI, voce Diritto penale comunitario,<br />

in Dig. d. pen., vol. IV, 1990, p. 89 ss., FIORELLA, I principi generali del diritto penale dell'impresa, in Trattato di diritto commerciale<br />

e di diritto pubblico dell'economia, a cura di Galgano, vol. XXV, Cedam, 2001, p. 137 ss.; più di recente v. BERNARDI,<br />

L'europeizzazione del diritto e della scienza penale, Giappichelli, 2004, passim. Nella dottrina straniera v. AMBOS, Internationales<br />

Strafrecht, 2ª ed., 2008, Beck, p. 341 ss., HECKER, Europäisches Strafrecht, 2ª ed. Springer, passim, SATZGER, Internationales und<br />

Europäisches Strafrecht, 3ª ed., Nomos, 2009, p. 90 ss.<br />

(5) Sul tema rimandiamo a SICURELLA, Diritto penale e Competenze dell'Unione Europea, Giuffrè, 2005, p. 200 ss.; SOTIS, Obblighi<br />

comunitari di tutela e opzione penale: una dialettica perpetua?, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2002, p. 171 ss., nonché alla monografia Il<br />

diritto senza codice, cit., passim; VIGANÒ, Recenti sviluppi in tema di rapporti tra diritto comunitario e diritto penale, in Dir. pen.<br />

proc., 2005, p. 1433 ss. Per una lettura della tematica degli obblighi comunitari in relazione alla crisi del "legicentrismo" v. INSOLERA,<br />

Democrazia, ragione e prevaricazione, Giuffrè, 2003, passim, MAZZACUVA, A proposito di "interpretazione creativa" tra diritto<br />

penale, principi costituzionali e direttive comunitarie, in www.giurcost.it; MEZZETTI, Gli "obblighi" comunitari di tutela penale in una<br />

recente pronuncia della Corte di Giustizia UE, in Giust. amm., 2005, p. 7 ss. Per una rilettura del diritto penale comunitario alla luce delle<br />

innovazioni del c.d. Trattato di Lisbona v. SOTIS, Il Trattato di Lisbona e le competenze penali dell'Unione Europea, in questa rivista,<br />

2010, p. 1146 ss. e nella letteratura straniera ex multisMITSILEGAS, EU Criminal Law, Hart, 2009, passim. Rifacendoci a quanto<br />

proposto da Sotis circa la portata del Trattato possiamo dire che L'Unione è competente a svolgere il giudizio sulla necessità della pena<br />

senza, però, vedersi riconosciuto un compiuto esercizio della potestà punitiva.<br />

(6) La chiosa dubitativa è di PULITANÒ, Diritto penale, 3ª ed., Giappichelli, 2009, p. 147 ed è indicativa dello scenario di incertezza che<br />

circonda la categoria.<br />

(7) Tra la copiosa letteratura sul punto si rimanda a GALLO, La "disapplicazione" per invalidità costituzionale della legge penale<br />

incriminatrice, in Riv. it. dir. pen., 1956, p. 723 ss.; MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, 3ª ed., Giuffrè, 2001, p. 83 ss.;<br />

PARODIGIUSINO, Effetti della dichiarazione di incostituzionalità delle leggi penali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1982, p. 915 ss.;<br />

PULITANÒ, La non punibilità di fronte alla Corte costituzionale, in Foro it., 1983, c. 1800 ss.; STORTONI, Profili costituzionali della<br />

non punibilità, Riv. it. dir. e proc. pen., 1984, p. 625 ss., 633 s. più di recente v. BELFIORE, Giudice delle leggi e diritto penale, Giuffrè,<br />

2005, passim; MARINUCCI, Il controllo di legittimità costituzionale delle norme penali: diminuiscono (ma non abbastanza) le zone<br />

franche, in Giur. cost., 2006, p. 4166 ss., DI GIOVINE, Il sindacato di ragionevolezza della Corte costituzionale in un caso facile, in Riv.<br />

it. dir. e proc. pen., 2007, p. 100 ss.; GAMBARDELLA, Specialità sincronica e specialità diacronica nel controllo di costituzionalità<br />

delle norme penali di favore, in questa rivista, 2007, p. 467 ss.; PALAZZO, Offensività e ragionevolezza nel controllo di costituzionalità<br />

sul contenuto delle leggi penali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1998, p. 360 ss; PULITANÒ, Principio d'uguaglianza e norme penali di<br />

favore, in Corr. merito, 2007, p. 209 ss.; PULITANÒ, Giudizi di fatto nel controllo di costituzionalità di norme penali, in Riv. it. dir. e<br />

proc. pen., 2008, p. 1004 ss.; VASSALLI (a cura di), Diritto penale e giurisprudenza costituzionale, ESI, 2006, passim.<br />

(8) Nonostante l'aggiornamento normativo i precetti, le definizioni e le nozioni fondamentali sono rimaste praticamente analoghe a quelle<br />

previste nel 1975.<br />

(9) Il telos dell'intervento è quello di ridurre sempre di più l'impatto ambientale, rafforzando la disciplina mediante un'ulteriore<br />

specificazione delle definizioni fondamentali e ritornando su concetti chiave quali quello di sottoprodotto e sulla problematica della<br />

"cessazione della qualifica di rifiuto" (dal dicembre 2010 oggetto specifico dell'art. 184-ter t.u. ambiente). Sotto il profilo sanzionatorio è<br />

previsto un ampliamento dell'arsenale delle misure di prevenzione, e si rinnova l'invito agli Stati membri - con il consueto refrain - a<br />

predisporre sanzioni adeguate, proporzionate e dissuasive nei confronti di persone fisiche o giuridiche che si occupino della loro gestione<br />

e smaltimento. La direttiva, inoltre, toglie ogni funzione al CER (Catalogo Europeo dei Rifiuti) valorizzando sempre di più la natura<br />

funzionale dell'accertamento, alleggerendo così il sistema da modalità di accertamento predeterminate. Vedi infra, § 3.; cfr. anche<br />

MAGRI, Rifiuto e sottoprodotto nell'epoca della prevenzione: una prospettiva di soft law, in Ambiente & Sviluppo, 2010, p. 31.<br />

(10) Art. 183, comma 1, lett. a), d.lg. n. 152/2006 ""rifiuto": qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o<br />

abbia l'obbligo di disfarsi". Secondo quanto chiarito in giurisprudenza "Disfarsi di un rifiuto significa avviarlo alla sua normale<br />

destinazione costituita dal recupero o dallo smaltimento". Così Sez. III, 19 febbraio 2008, n. 7466, in www.lexambiente.it; sul concetto v.<br />

anche Sez. III, 9 ottobre 2008, n. 38409, ivi. In ambito comunitario fondamentale la decisione C. giust. CE, 18 aprile 2002, C-9/00, Palin<br />

Granit Oy, in Foro it., 2002, IV, c. 576.<br />

(11) L'art. 1, comma 1, della direttiva 2006/12/CE definisce rifiuto "qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate<br />

nell'allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione di disfarsi o l'obbligo di disfarsi". La definizione è ripresa pedissequamente<br />

186


dal legislatore italiano all'art. 183, comma 1, lett. a) d.lg. n. 152 del 2006.<br />

Dal punto di vista del diritto penale e delle sue tecniche di incriminazione, il concetto di rifiuto deve essere considerato una vera e propria<br />

norma definitoria. La funzione dell'art. 183 del testo unico ambientale è quindi quella di descrivere ex lege l'elemento costitutivo delle<br />

fattispecie penali relative ai rifiuti. In tal senso GIUNTA, La nozione penalistica di rifiuto, cit., p. 1029 s. Per l'inquadramento di tutte le<br />

tecniche legislative utilizzate nella materia ambientale, si v. CATENACCI, La tutela penale dell'ambiente, contributo all'analisi delle<br />

norme penali a struttura "sanzionatoria", Cedam, 1996, passim. VAGLIASINDI, La definizione di rifiuto tra diritto penale ambientale,<br />

cit., p. 966, qualifica la nozione di rifiuto come "la "porta d'ingresso" della disciplina amministrativa e penale relativa alla gestione dei<br />

rifiuti [...]". Per una precisa distinzione tra norme extrapenali integratrici e non integratrici v. per tutti ROMANO, sub art. 47, in<br />

Commentario sistematico del Codice penale, vol. I, Giuffrè, 2004, p. 495 ss. Per la distinzione tra elementi normativi e categorie contigue<br />

v. PULITANÒ, L'errore di diritto nella teoria del reato, Giuffrè, 1976, p. 237 s. e, più di recente, MASUCCI, "Fatto" e "Valore" nella<br />

definizione di dolo, Giappichelli, 2004, p. 219 ss., RISICATO, Gli elementi normativi della fattispecie penale, Giuffrè, 2004, p. 87 ss.<br />

(12) In tal senso Sez. III, 22 luglio 2009, n. 30393, in www.lexambiente.it, secondo la Corte "il sottoprodotto non è assoggettato a<br />

trattamento per una riutilizzazione successiva, visto che in tale categoria rientra solo ciò che non nuoce all'ambiente ed è immediatamente<br />

utilizzato come materia prima secondaria, senza previa trasformazione [...]". In generale sulla categoria dei sottoprodotti v. anche Sez. III,<br />

7 aprile 2008, n. 14323, in www.lexambiente.it<br />

(13) Sul concetto di riutilizzazione v. Sez. III, 22 aprile 2010, n. 15375, in www.lexambiente.it; Sez. III, 28 novembre 2007, n. 44295, ivi.<br />

Sulla riutilizzazione in un diverso ciclo produttivo v. Sez. III, 29 luglio 2008, n. 31462, ivi.<br />

(14) Come è stato chiarito dalla giurisprudenza della suprema Corte, inoltre, i requisiti ora elencati devono sussistere contestualmente, la<br />

mancanza di uno di essi il residuo deve essere considerato rifiuto V. Sez. III, 19 dicembre 2008, n. 47085, in www.lexambiente.it. La<br />

definizione è stata ulteriormente specificata dal d.lg. 16 gennaio 2008, n. 4, e si allinea a consolidate posizioni della giurisprudenza<br />

comunitaria v., ad esempio, C. giust. CE, C-457/02, 11 novembre 2004, Niselli, in Foro it., 2005, IV, c. 16, nota di AMENDOLA. La<br />

modifica del 2008 è stata rivalutata dal remittente a seguito dell'ordinanza n. 83 del 2008 con la quale la Corte costituzionale restituiva gli<br />

atti al giudice a quo in virtù dello ius superveniens, ciononostante la modifica del legislatore nazionale, sia pur ottemperando ai trend<br />

comunitari, non faceva altro che rafforzare la presunzione in capo al rimettente dell'illegittimità dell'inclusione delle ceneri di pirite fra i<br />

sottoprodotti.<br />

(15) Così letteralmente art. 184-bis d.lg. n. 152/2006.<br />

(16) In giur. cfr. le sentenze C. giust. CE, C-9/00, Palin Granit Oy, cit. e C. giust. CE, 11 settembre 2003, C-114/01, Avesta Polarit<br />

Chrome Oy, in Foro it., 2003, IV, c. 510.<br />

(17) Di approccio "caso per caso" parla anche la stessa Commissione europea nella sua Interpretative Communication on waste and byproducts,<br />

21/2/2007(59), in http://eur-lex.europa.eu.<br />

(18) La situazione successiva all'entrata in vigore del decreto aveva dato vita ad una "babele interpretativa" circa il rimedio da esperire per<br />

censurare l'antinomia fra ordinamenti. In questi termini v. SOTIS, Il diritto senza codice, cit., p. 144 ss.<br />

(19) Tra i vari provvedimenti ricordiamo le ordinanze di remissione alla Corte costituzionale del Tribunale di Terni, 2 febbraio 2005, in<br />

Corr. merito, 2005, p. 692, con nota di BASSI, e Sez. III, 14 dicembre 2005, Rubino, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2006, p. 359, con nota<br />

di PAONESSA.<br />

(20) C. giust. CE, 11 novembre 2004, C-457/02, Niselli, cit. In questo caso la Corte di giustizia aveva ritenuto contraria all'art. 1, lett. a),<br />

comma 1 della direttiva 75/442 l'interpretazione autentica della nozione di rifiuto contenuta nell'art. 14 del citato decreto n. 138/2002. Il<br />

contrasto evidenziato dalla Grande Sezione del Tribunale del Lussemburgo era determinato dall'esclusione dell'insieme dei residui di<br />

produzione o di consumo che possono essere, o sono, riutilizzati in un ciclo di produzione o di consumo, anche in assenza di trattamento<br />

preventivo e senza arrecare danni all'ambiente. Secondo la Corte, la possibilità di considerare una sostanza come sottoprodotto e sottrarla<br />

alla categoria dei rifiuti deve essere prevista nella legislazione interna tenendo conto dei criteri stabiliti dalla Corte stessa alla luce<br />

dell'obiettivo di protezione ambientale sulla base dell'adozione delle direttive europee e partendo dal presupposto che esiste un indizio<br />

significativo dell'esistenza di rifiuti se si è in presenza di un residuo di produzione.<br />

(21) C. giust. CE, 3 maggio 2005, C-387/2002, in Guida dir., 2005, Berlusconi, n. 20, p. 93, nota di DI MARTINO e anche in questa<br />

rivista, 2005, p. 2764, con nota di MANES-INSOLERA, La sentenza della Corte di giustizia sul "falso in bilancio": un epilogo<br />

deludente?; v. anche MANES, Il nuovo "falso in bilancio" al cospetto della normativa comunitaria, ivi, 2003, p. 1329 ss.; RIONDATO, Il<br />

falso in bilancio e la sentenza della Corte di Giustizia CE: un accoglimento travestito da rigetto, in Dir. pen. proc., 2005, p. 910 ss.<br />

(22) L'espressione che ben descrive l'atteggiamento della Corte è di VIGANÒ, Recenti sviluppi, cit., p. 1436.<br />

(23) Le sentenze sono analiticamente confrontate da Sotis, il quale fornisce una convincente chiave di lettura per capire la portata dei due<br />

giudicati. Nello specifico v. SOTIS, Il diritto senza codice, cit., p. 123. Differente chiave di lettura è fornita da MANACORDA, "Oltre il<br />

falso in bilancio": i controversi effetti in malam partem del diritto comunitario sul diritto penale interno, in Dir. Un. eur., 2006, p. 235 ss.<br />

L'A. analizza le due sentenze sul piano temporale, distinguendo la tipologia di interferenza in diacronica e sincronica.<br />

(24) Compiendo un salto in un settore completamente diverso dalla materia penale si può prendere ad esempio la categoria degli<br />

Organismi di diritto pubblico, creata ad hoc per "descrivere l'esistente" con la finalità di sottoporre determinate categorie di enti pubblici<br />

che in base alla compresenza di alcuni requisiti possono essere sottoposti alla disciplina comunitaria in materia di appalti. Il paragone non<br />

suoni come un azzardo pindarico, l'accostamento nasce esclusivamente dalla comune tecnica legislativa c.d. redazionale, utilizzata dal<br />

legislatore comunitario, che si riverbera nel nostro ordinamento in settori completamente diversi. In generale sugli Organismi di diritto<br />

pubblico v. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, 10ª ed., Giuffrè, p. 98 s.<br />

(25) Ex multis v. sentenze della C. giust. CE, C-9/00, Palin Granit Oy, cit. e C. giust. CE, 11 settembre 2003, C-114/01, Avesta Polarit<br />

Chrome Oy, cit. Nella sentenza in commento, per questa ricostruzione, v. il punto 3.2.<br />

(26) Sulla necessità di esperire un giudizio in concreto nell'accertamento della qualità di rifiuto v. nella giurisprudenza della suprema<br />

Corte, Sez. III, 24 luglio 2008, n. 31165, in www.lexambiente.it.<br />

(27) Dal punto di vista della successione di leggi penali nel tempo, a seguito dell'ultima modifica, la sentenza in commento riguarda una<br />

c.d. lex intermedia (sul tema cfr. PECORELLA, Legge intermedia: aspetti problematici e prospettive de lege ferenda, in Studi in onore di<br />

187


Giorgio Marinucci, a cura di Dolcini-Paliero, vol. I, Giuffrè, 2006, p. 611 ss., nonché da ultimo a proposito del caso Scoppola v.<br />

GAMBARDELLA, Il "caso Scoppola": per la Corte europea l'art. 7 CEDU garantisce anche il principio della legge penale più<br />

favorevole, in questa rivista, 2010, p. 2023 ss. Nella manualistica cfr. PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 665 ss.). Con questa espressione<br />

si fa riferimento a una disposizione sopravvenuta più mite rispetto a quella vigente al momento del compimento dei fatti, ma sostituita<br />

mediante un nuovo intervento, meno favorevole, al momento del giudizio. La legge intermedia continua, in generale, ad avere validità in<br />

virtù delle regole sull'ultrattività della disposizione più mite stabilite al 4 comma dell'art. 2 c.p.<br />

Nonostante l'abrogazione, pertanto, la legge intermedia si continuerà ad applicare per i fatti precendenti alla sua entrata in vigore, salvo<br />

non sia dichiarata incostituzionale o sia contenuta in un decreto legge non convertito. Il fenomeno così come delineato attiene a vicende<br />

successorie tipiche dei periodi di instabilità normativa, ponendo dei problemi per quanto riguarda eventuali norme di favore come quelle<br />

c.d. ad personam (in generale sull'argomento cfr. DOLCINI, Leggi penali ad personam, riserva di legge e principio costituzionale di<br />

eguaglianza, in Riv. it. dir. e pen. proc., 2004, p. 50). La validità del meccanismo di funzionamento delle legge intermedia si giustifica in<br />

base al principio di uguaglianza, ma ciò non toglie che disparità di trattamento permangano anche adottando questa impostazione,<br />

laddove, ad esempio, si possa essere giudicati mediante una disciplina prive di attualità. Per la disamina di questi aspetti problematici si<br />

rimanda a PECORELLA, Legge intermedia, cit. p. 629 ss. L'A., in particolare, propone come soluzione de iure condendo il ripristino del<br />

carattere eccezionale della lex intermedia, per arginare alcune derive patologiche proprie della disciplina vigente, v. in particolare p. 645<br />

ss.<br />

(28) Sul punto v. infra, par. 6.<br />

(29) In generale sul principio di determinatezza si rimanda a PALAZZO, Il principio di determinatezza nel diritto penale, Cedam, 1979,<br />

passim. In maniera parzialmente diff. parlano di principio di precisione MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., p. 119 ss.;<br />

sul bilanciamento tra principio della riseva di legge e principio di determinatezza v. ROMANO, Commentario sistematico, cit., p. 42, e<br />

CATENACCI, La tutela penale dell'ambiente, cit., p. 183 ss. Sul principio di tipicità si rimanda a RONCO, Il principio di tipicità della<br />

fattispecie penale nell'ordinamento vigente, Giappichelli, 1979, passim.<br />

(30) C. cost., sent. 28 gennaio 2010, n. 28, cit., punto 4. V. anche in tal senso, C. giust. CE, 18 dicembre 2007, C-194/05, Commissione c.<br />

Repubblica italiana, in Amb. e svil., 2008, n. 3, p. 264.<br />

(31) Di "cadute di determinatezza" a proposito della definizione di rifiuto a seguito della censura mossa nei confronti del decreto di<br />

interpretazione autentica parlava GIUNTA, La nozione penalistica di rifiuto, cit., p. 1034. Più in generale è lo spettro del "sistema senza<br />

fattispecie" evocato da INSOLERA, Democrazia, ragione e prevaricazione, cit., p. 75. V. anche la ricostruzione della problematica da<br />

parte di PAONESSA, La discrezionalità del legislatore nazionale nella cornice dei vincoli comunitari di tutela, in Criminalia, 2007, p.<br />

377 ss.<br />

(32) Si discute sulla portata dell'art. 83 del Trattato di Lisbona, il quale attribuisce all'Unione la competenza di stabilire norme minime per<br />

quanto riguarda le definizioni e le sanzioni di crimini particolarmente gravi e aventi una capacità di impatto transnazionale. Alcune<br />

tipologie di crimini sono elencati dal Trattato stesso, ma la lista può essere integrata dal Consiglio all'unanimità, previo consenso del<br />

Parlamento europeo. In particolare risulta controverso e ancora da verificare in seguito all'attuazione se la competenza penale risulta<br />

esplicitata ma ridotta rispetto alla dubbia estensione che aveva assunto attraverso gli atti di terzo pilastro. Di questa opinione<br />

MITSILEGAS, EU Criminal Law, cit., p. 107 s. Per una chiara ricostruzione delle novità apportate dal Trattato v. SOTIS, Il Trattato di<br />

Lisbona e le competenze penali dell'Unione Europea, cit., p. 1151 ss. In particolare, il dibattito penalistico si sta soffermando sulla<br />

possibilità di riconoscere nella tutela degli interessi finanziari una competenza "quasi diretta" dell'Unione europea. La teoria, che poggia<br />

su un'interpretazione del secondo comma dell'art. 86 del Trattato è proposta da SOTIS, Le novità in tema di diritto penale europeo, in La<br />

nuova Europa dopo il Trattato di Lisbona, a cura di Bilancia-D'amico, Giuffrè, 2009, p. 154 ss. Per una critica a questa ricostruzione v.<br />

PAONESSA, Gli obblighi di tutela penale. La discrezionalità legislativa nella cornice dei vincoli costituzionali e comunitari, ETI, 2009,<br />

p. 237 ss.<br />

(33) Favorevole alla disapplicazione si era detto EPIDENDIO, Reati ambientali e ordinamento comunitario, in Corr. merito, 2005, p.<br />

1194 ss. nota critica a Tribunale di Palermo, 23 giugno 2005 (ord.).<br />

(34) Sul problema della disapplicazione contrapposta al giudizio di legittimità costituzionale v. CARTABIA, La Convenzione europea dei<br />

diritti dell'uomo e l'ordinamento italiano, in Giurisprudenza europea e processo penale italiano, a cura di Balsamo-Kostoris,<br />

Giappichelli, 2008, p. 51 ss.<br />

(35) C. cost. n. 28/2010, p. 6. La stessa Corte cita come precedenti le sentenze C. cost. n. 170/1984, in Giur. it., 1984, I, p. 1521, nota di<br />

BERRI; C. cost., n. 317/1996, in Dir. pen. proc., 1996, p. 1196 e C. cost. n. 284/2007, in www.giurcost.it.<br />

(36) La posizione è condivisa da PUGIOTTO, Vite parallele? "Rifiuti" e "falso in bilancio" davanti alle Corti costituzionali e di giustizia,<br />

in Ai confini del Favor rei. Il falso in bilancio davanti alle Corti costituzionale e di giustizia, Giappichelli, 2005, p. 330; da SOTIS, Il<br />

diritto senza codice, cit. p. 145 s. che enuclea tre ragioni chiare a favore di questa soluzione, in particolare: l'appiglio normativo fornito<br />

dall'art. 117 Cost. novellato, l'acquis giurisprudenziale consolidato negli anni da parte della Corte stessa nonché, da ultima, la stessa<br />

ordinanza di restituzione degli atti operata dalla Corte costituzionale con l'ord. n. 288/2006, in www.giurcost.it, poiché se avesse voluto<br />

indirettamente investire il Giudice a quo del potere di disapplicare avrebbe potuto direttamente pronunciare una sentenza di<br />

inammissibilità.<br />

(37) Il criterio è ben descritto da GAMBARDELLA, Specialità sincronica e specialità diacronica, cit., p. 475. Le norme di favore<br />

suscettibili di giudizio di costituzionalità sarebbero "[...] soltanto quelle norme (speciali) che si trovano in rapporto di specialità di tipo<br />

sincronico: rapporto che si instaura fra due norme che coesistono nel sistema penale allo stesso tempo. Nella visuale sincronica, la<br />

relazione fra le norme viene presa in considerazione facendo un taglio sull'asse del tempo, e guardando a come esse si presentano in un<br />

dato momento agli occhi dell'osservatore, prescindendo dalla loro evoluzione temporale e dai mutamenti che si sono avuti.". In parte<br />

critico nei confronti di questa impostazione scelta dalla Corte risulta MANES, Norme penali di favore, no della Consulta, in Dir. e giust.,<br />

2006, p. 30 ss.<br />

(38) In generale sulla ragionevolezza cfr. PALADIN, voce Ragionevolezza (principio di), in Enc. dir., Agg., vol. I, Giuffrè, 1997, p. 900<br />

ss. In materia penale per la ricostruzione del concetto di ragionevolezza. v. in particolare DI GIOVINE, Il sindacato di ragionevolezza,<br />

188


cit., p. 114 ss.; MANES, Attualità e prospettiva del giudizio di ragionevolezza in materia penale, in Riv. it. dir. e pen. proc., 2007, p. 739<br />

ss.; INSOLERA, Principio di eguaglianza e controllo di ragionevolezza sulle norme penali, in AA.VV., Introduzione al sistema penale,<br />

vol. I, Giappichelli, 2000, p. 288 ss. e INSOLERA, Controlli di ragionevolezza e riserva di legge in materia penale: una svolta nella<br />

sindacabilità delle norme di favore?, in Dir. pen. proc., 2007, p. 670 ss.; nonché INSOLERA, Democrazia, ragione e prevaricazione, cit.,<br />

p. 34 ss.; PULITANÒ, Giudizi di fatto, cit.<br />

(39) Lo stesso parametro della ragionevolezza è utilizzato in maniera differente dalla Corte a seconda dell'argomento. Ad esempio, in<br />

materia di reati di pericolo astratto l'approccio del Giudice delle leggi appare molto più soft rispetto ai profili inerenti al trattamento<br />

sanzionatorio. V. sul punto CATENACCI, I reati di pericolo presunto fra diritto e processo penale, in Studi in onore di Giorgio<br />

Marinucci, a cura di Dolcini-Paliero, vol. II, Giuffrè, 2006, p. 1416 ss. In generale sulla ragionevolezza come criterio giurisprudenziale v.<br />

BELFIORE, Giudice delle leggi e diritto penale, cit., p. 270 ss.<br />

(40) Sul ruolo di questi articoli come norme parametro v. l'incisiva ricostruzione di MARINUCCI, Il controllo di legittimità costituzionale<br />

delle norme penali, cit., p. 4168 ss.<br />

(41) Sulla natura triadica del conflitto in esame nella sentenza annotata v. supra, § 1.<br />

(42) Nella giurisprudenza costituzionale come esempio di sentenza motivata in base al giudizio di ragionevolezza v. C. cost., 18 giugno<br />

2008, n. 215, in Giur. cost., 2008, p. 2399, con nota di GAMBARDELLA, Retroattività della legge penale favorevole e bilanciamento<br />

degli interessi costituzionali. In dottrina per la ricostruzione di un modello di giudizio separato dallo schema triadico tipico della<br />

ragionevolezza-uguaglianza v. GAMBARDELLA, Il "caso Scoppola", cit., p. 2037 ss., MANES, Attualità e prospettiva del giudizio di<br />

ragionevolezza, cit., p. 741.<br />

(43) Troviamo pienamente persuasiva la ricostruzione del ruolo della Corte costituzionale compiuta da DI GIOVINE, Il sindacato di<br />

ragionevolezza, cit., p. 111 ss. L'A. in particolare muove da autorevoli acquisizioni della dottrina giusfilosofica, in particolare<br />

richiamando il pensiero di Mauro Barberis.<br />

(44) Sulla separazione tra legalità e riserva di legge v. le considerazioni di ROMANO, Corte costituzionale e riserva di legge, in Diritto<br />

penale e giurisprudenza costituzionale, a cura di Vassalli, cit., p. 30.<br />

(45) La chiosa potrebbe sembrare vagamente retorica, ma il raffronto poggia sulla notissima, e citatissima, riconduzione della legalità nel<br />

novero delle mitologie giuridiche contemporanee compiuta da GROSSI, Mitologie giuridiche della modernità, Giuffrè, 2001.<br />

Autorità: Corte costituzionale<br />

Data: 28 gennaio 2010<br />

Numero: n. 28<br />

Parti: P.S.<br />

Fonti: Cass. pen. 2010, 5, 1738, Riv. giur. edilizia 2010, 3, I, 662, Cass. pen. 2011, 1, 117 (s.m.) (nota di: FRANZIN)<br />

CLASSIFICAZIONE<br />

INQUINAMENTI - Rifiuti in genere<br />

TESTO<br />

AMBIENTE - Ceneri di pirite - Classificazione come sottoprodotto non soggetto alla disciplina dei rifiuti -<br />

Inosservanza delle direttive comunitarie in materia - Questione di legittimità costituzionale - Incostituzionalità.<br />

È costituzionalmente illegittimo l'art. 183, comma 1, lett. n), d.lg. 3 aprile 2006 n. 152 (Norme in materia ambientale), nel<br />

testo antecedente alle modiche introdotte dall'art. 2, comma 20, d.lg. 16 gennaio 2008 n. 4 (Ulteriori disposizioni correttive<br />

ed integrative del d.lg. 3 aprile 2006 n. 152, recante norme in materia ambientale), nella parte in cui prevede: "rientrano<br />

altresì tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del presente decreto le ceneri di pirite, polveri<br />

di ossido di ferro, provenienti dal processo di arrostimento del minerale noto come pirite o solfuro di ferro per la produzione<br />

di acido solforico e ossido di ferro, depositate presso stabilimenti di produzione dismessi, aree industriali e non, anche se<br />

sottoposte a procedimento di bonifica o di ripristino ambientale". (La Corte, dopo aver rilevato, per un verso, il contrasto tra<br />

la norma censurata e le direttive comunitarie in materia di rifiuti e, per altro verso, l'impossibilità di disapplicazione di detta<br />

norma da parte del giudice "a quo" e dopo aver altresì escluso la necessità del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia<br />

dell'Unione europea, richiamata la propria giurisprudenza in tema di sindacabilità delle norme penali di favore, ha affermato<br />

che occorre distinguere tra controllo di legittimità costituzionale, che non può soffrire limitazioni, se ritualmente attivato<br />

secondo le norme vigenti, ed effetti delle sentenze di accoglimento nel processo principale, che devono essere valutati dal<br />

giudice rimettente secondo i principi generali che reggono la successione nel tempo delle leggi penali; la Corte ha<br />

comunque precisato che non essendo stata denunciata dal giudice "a quo" la violazione dell'art. 3 cost. e del principio di<br />

ragionevolezza, deve escludersi che la questione esaminata comprenda la problematica della norme penali di favore, quale<br />

affrontata dalla sent. n. 394 del 2006).<br />

NOTE GIURISPRUDENZIALI<br />

Cass. pen. 2010, 05, 1743<br />

(1) L'ordinanza di rimessione del Tribunale di Venezia - sezione distaccata di Dolo 20 settembre 2006 è pubblicata in Corr. merito, 2007,<br />

2, p. 225, con nota di GATTA, La nozione di rifiuto tra diritto penale e diritto comunitario: rinnovati dubbi di legittimità costituzionale.<br />

189


La sentenza della C. cost. n. 394 del 2006 è pubblicata in questa rivista, 2007, p. 449, con nota di GAMBARDELLA, Specialità<br />

sincronica e specialità diacronica nel controllo di costituzionalità delle norme penali di favore, nonché in Dir. pen. proc., 2007, f. 3, p.<br />

324, con nota di LA ROSA, La condivisibile "ragionevolezza" sulle norme penali di favore. Sul tema v. MARINUCCI, Il controllo di<br />

legittimità costituzionale delle norme penali: diminuiscono (ma non abbastanza) le "zone franche", in Giur. cost., 2006, p. 4160.<br />

Sui profili penalistici dell'ordinamento comunitario v. SICURELLA, Diritto penale e competenza dell'Unione europea, Giuffrè, 2006;<br />

SOTIS, Il diritto senza codice. Uno studio sul sistema penale europeo vigente, Giuffrè, 2007; BILANCIA-D'AMICO, La nuova Europa<br />

dopo il Trattato di Lisbona, Giuffrè, 2009; sulla vicenda del falso in bilancio INSOLERA, Democrazia, ragione, prevaricazione, Giuffrè,<br />

2003. Sull'art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, richiamato dalla Corte, v. D'AMICO, sub art. 49, in BIFULCO-<br />

CARTABIA-CELOTTO,L'Europa dei diritti. Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, Il Mulino, 2001.<br />

5Cass. pen. 2011, 01, 0117<br />

(1) La decisione è già stata pubblicata in questa rivista, 2010, p. 1738. Ne ripubblichiamo la massima con una nota di<br />

DARIO FRANZIN.<br />

Corte costituzionale, 28 gennaio 2010, n. 28<br />

Autorità: Corte costituzionale<br />

Data: 28 gennaio 2010<br />

Numero: n. 28<br />

CLASSIFICAZIONE<br />

INQUINAMENTI - Rifiuti in genere<br />

AMBIENTE - Ceneri di pirite - Classificazione come sottoprodotto non soggetto alla disciplina dei rifiuti -<br />

Inosservanza delle direttive comunitarie in materia - Questione di legittimità costituzionale - Incostituzionalità. Vedi<br />

tutto<br />

Inquinamenti - Rifiuti - In genere - Ceneri di pirite e polveri di ossido di ferro, provenienti dal processo di<br />

arrostimento del minerale noto come pirite o solfuro di ferro per la produzione di acido solforico e ossido di ferro,<br />

depositate presso stabilimenti di produzione dismessi, aree industriali e non, anche se sottoposte a procedimento di<br />

bonifica o di ripristino ambientale - Previsione di appartenenza ai sottoprodotti non soggetti alle disposizioni di cui<br />

alla parte quarta del d.lgs. n. 152 del 2006 - Contrasto con la disciplina comunitaria e con la giurisprudenza della<br />

Corte di giustizia, che esigono in concreto l'esistenza di un rifiuto o di un sottoprodotto - Illegittimità costituzionale<br />

in parte qua.<br />

INTESTAZIONE<br />

REPUBBLICA ITALIANA<br />

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO<br />

LA CORTE COSTITUZIONALE<br />

composta dai signori:<br />

- Francesco AMIRANTE Presidente<br />

- Ugo DE SIERVO Giudice<br />

- Paolo MADDALENA "<br />

- Alfio FINOCCHIARO "<br />

- Alfonso QUARANTA "<br />

- Franco GALLO "<br />

- Luigi MAZZELLA "<br />

- Gaetano SILVESTRI "<br />

- Sabino CASSESE "<br />

- Maria Rita SAULLE "<br />

- Giuseppe TESAURO "<br />

- Paolo Maria NAPOLITANO "<br />

- Giuseppe FRIGO "<br />

- Alessandro CRISCUOLO "<br />

- Paolo GROSSI "<br />

ha pronunciato la seguente<br />

SENTENZA<br />

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 183, comma 1, lettera n), quarto periodo, del decreto legislativo 3 aprile<br />

2006, n. 152 (Norme in materia di ambiente) - nel testo antecedente alle modifiche introdotte con l'art. 2, comma 20, del<br />

decreto legislativo 16 gennaio 2008, n. 4 (Ulteriori disposizioni correttive ed integrative del d.lgs. 3 aprile 2006, n.<br />

190


152, recante norme in materia ambientale) - promossi dal Tribunale ordinario di Venezia, sezione distaccata di Dolo,<br />

con ordinanze del 29 settembre e del 13 ottobre 2008, iscritte, rispettivamente, ai nn. 2 e 140 del registro ordinanze 2009 e<br />

pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 4 e 20, prima serie speciale, dell'anno 2009.<br />

Visti l'atto di costituzione di P. S., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;<br />

udito nell'udienza pubblica del 12 gennaio 2010 e nella camera di consiglio del 13 gennaio 2010 il Giudice relatore<br />

Gaetano Silvestri; uditi l'avvocato Giampaolo Maria Cogo per P.S. e l'avvocato dello Stato Giuseppe Fiengo per il<br />

Presidente del Consiglio dei ministri.<br />

FATTO<br />

Ritenuto in fatto<br />

1. - Con ordinanza del 29 settembre 2008 il Tribunale ordinario di Venezia, sezione distaccata di Dolo, ha sollevato, in<br />

riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 183, comma<br />

1, lettera n), quarto periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia di ambiente) - nel testo<br />

antecedente alle modifiche introdotte con l'art. 2, comma 20, del decreto legislativo 16 gennaio 2008, n. 4 (Ulteriori<br />

disposizioni correttive ed integrative del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia ambientale) - nella parte in<br />

cui prevede che le ceneri di pirite rientrano tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni contenute nella parte quarta del<br />

medesimo d.lgs. n. 152 del 2006.<br />

Dall'ordinanza indicata risulta che lo stesso rimettente, nell'ambito del medesimo giudizio a quo, aveva sollevato una<br />

questione identica a quella odierna, definita dalla Corte costituzionale con un provvedimento di restituzione degli atti in<br />

forza di variazioni normative sopravvenute (ordinanza n. 83 del 2008). L'odierno atto di promovimento riproduce, in gran<br />

parte, il testo di quello precedente.<br />

1.1. - Il Tribunale riferisce di essere chiamato a giudicare due imputati nei cui confronti è stato emesso decreto di citazione a<br />

giudizio per la violazione, tra l'altro, degli artt. 51, commi 1 e 5, e 51-bis del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22<br />

(Attuazione della direttiva 91/156/CEE sui rifiuti, della direttiva 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e della direttiva 94/62/CE<br />

sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio), trasfusi rispettivamente nell'art. 256, commi 1 e 5, e nell'art. 257 del d.lgs. n.<br />

152 del 2006.<br />

Il procedimento penale è stato instaurato in relazione al sequestro preventivo, in data 22 marzo 2002, di un deposito di<br />

ceneri di pirite (in quantità pari a circa un milione di tonnellate), sito in località Gambarare del Comune di Mira. Secondo<br />

l'accusa, nell'area in sequestro, di estensione pari a circa 80.000 metri quadrati, la società Veneta Mineraria S.p.A. (di cui<br />

uno dei due imputati risultava all'epoca legale rappresentante) e la ditta individuale appaltatrice dei lavori di<br />

movimentazione e carico delle ceneri (il cui titolare è l'altro imputato) avrebbero effettuato attività di gestione di rifiuti<br />

pericolosi in assenza di autorizzazione, ovvero sulla base di un'autorizzazione scaduta, in violazione dell'art. 57 del d.lgs. n.<br />

22 del 1997, in particolare «espletando, su tale discarica non più attiva, realizzata negli anni '70, la messa in riserva di tali<br />

rifiuti in vista del loro avvio a recupero presso cementifici». Inoltre, la gestione e messa in riserva delle ceneri di pirite<br />

sarebbe stata effettuata in carenza di misure precauzionali atte a tutelare l'integrità dell'ambiente; in particolare, l'area<br />

sarebbe stata sottoposta ad attività di escavazione, con conseguente esposizione delle ceneri di pirite agli agenti atmosferici<br />

e al dilavamento, «senza che fossero stati adottati presidi idonei ad intercettare le acque di percolazione, dal che sarebbe<br />

derivata una grave compromissione dei terreni confinanti [...] delle falde acquifere sotterranee e dell'area lagunare<br />

circostante».<br />

Il rimettente precisa che, sempre in tesi accusatoria, gli imputati, autorizzati dalla Provincia di Venezia a «miscelare le<br />

ceneri di pirite del deposito con altro materiale sempre a base di ceneri di pirite», avrebbero eseguito dette operazioni con<br />

modalità tali da determinare pericolo per la salute e per l'integrità dell'ambiente - in particolare provocando una «prolungata<br />

esposizione delle ceneri al dilavamento delle acque meteoriche» - in violazione del disposto degli artt. 2, comma 2, e 9,<br />

comma 2, del d.lgs. n. 22 del 1997.<br />

È contestato agli imputati, inoltre, di non aver proceduto alla bonifica dei terreni circostanti la discarica dopo aver<br />

cagionato, o comunque incrementato, l'inquinamento delle predette aree.<br />

Il Tribunale di Venezia precisa infine che nel processo, ormai giunto alla fase decisoria (è stato dichiarato chiuso il<br />

dibattimento), si sono costituiti parti civili la Provincia di Venezia, il Comune di Mira ed i proprietari di uno dei fondi<br />

confinanti con il deposito in oggetto.<br />

Tanto premesso in fatto, il giudice a quo procede ad esporre le ragioni a sostegno del sollevato dubbio di costituzionalità, a<br />

partire dalla ricostruzione del quadro normativo di riferimento, ponendo in evidenza, in primo luogo, che il d.lgs. n. 152 del<br />

2006, entrato in vigore il 29 aprile 2006, ha inteso tra l'altro riordinare, nella parte quarta, la materia della gestione dei rifiuti<br />

e della bonifica dei siti contaminati, con espressa abrogazione delle disposizioni contenute nel d.lgs. n. 22 del 1997 (così<br />

l'art. 264 dello stesso d.lgs. n. 152 del 2006).<br />

I fatti di reato contestati nel giudizio principale sono dunque disciplinati dal nuovo decreto legislativo: in particolare, il testo<br />

dell'art. 256, commi 1 e 5, corrisponde a quello del previgente art. 51 del d.lgs. n. 22 del 1997, pur con una lieve modifica<br />

nella previsione delle pene pecuniarie; diversamente, la fattispecie in precedenza sanzionata dall'art. 51-bis del citato d.lgs.<br />

191


n. 22 del 1997, oggi prevista dall'art. 257 del d.lgs. n. 152 del 2006, ha subito una modifica significativa, con l'introduzione,<br />

in qualità di elemento costitutivo del reato, del superamento delle concentrazioni soglia di rischio.<br />

Successivamente, prosegue il rimettente, in data 15 maggio 2006 è entrata in vigore la direttiva comunitaria 5 aprile 2006, n.<br />

2006/12/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio), che sostituisce ed abroga la precedente direttiva 15 luglio<br />

1975, n. 75/442/CEE (Direttiva del Consiglio relativa ai rifiuti) e le successive modifiche. La nuova disciplina comunitaria,<br />

che costituisce l'attuale punto di riferimento normativo in ambito europeo per il trattamento dei rifiuti, riproduce, lasciando<br />

sostanzialmente invariati i precetti, le definizioni e le nozioni del precedente assetto normativo.<br />

In particolare, l'art. 1, comma 1, della direttiva 2006/12/CE definisce rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle<br />

categorie riportate nell'allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione di disfarsi o l'obbligo di disfarsi».<br />

Definizione analoga è contenuta nella norma interna, l'art. 183, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 152 del 2006, che qualifica<br />

come rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell'Allegato A alla parte quarta del presente<br />

decreto e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi».<br />

Quest'ultima norma, nella versione antecedente alle modifiche apportate con il d.lgs. n. 4 del 2008, comprendeva anche le<br />

definizioni di sottoprodotto e di materia prima secondaria, le quali, come è noto, non sono contemplate dalle direttive<br />

comunitarie. Per quanto di interesse nel procedimento in esame, il rimettente esamina la previsione contenuta nel testo<br />

originario della lettera n) del comma 1 dell'art. 183, che definiva sottoprodotto «i prodotti dell'attività dell'impresa che, pur<br />

non costituendo l'oggetto dell'attività principale, scaturiscono in via continuativa dal processo industriale dell'impresa stessa<br />

e sono destinati ad un ulteriore impiego o al consumo». La disposizione proseguiva prevedendo che i sottoprodotti sono<br />

sottratti alla normativa sui rifiuti a condizione che si tratti di «sottoprodotti di cui l'impresa non si disfi, non sia obbligata a<br />

disfarsi e non abbia deciso di disfarsi ed in particolare» di «sottoprodotti impiegati direttamente dall'impresa che li produce<br />

o commercializzati a condizioni economicamente favorevoli per l'impresa stessa direttamente per il consumo o per<br />

l'impiego, senza la necessità di operare trasformazioni preliminari in un successivo processo produttivo». Inoltre era<br />

stabilito che «l'utilizzazione del prodotto deve essere certa e non eventuale [...]. L'utilizzo del sottoprodotto non deve<br />

comportare per l'ambiente o la salute condizioni peggiorative rispetto a quelle delle normali attività produttive».<br />

Dopo aver definito in via generale la nozione di sottoprodotto, il legislatore nazionale aveva previsto, nella medesima<br />

disposizione, che «Rientrano altresì tra i sottoprodotti non soggetti alla parte quarta del presente decreto le ceneri di pirite,<br />

polveri di ossido di ferro, provenienti dal processo di arrostimento del minerale noto come pirite o solfuro di ferro per la<br />

produzione di acido solforico e ossido di ferro, depositate presso stabilimenti di produzione dismessi, aree industriali e non,<br />

anche se sottoposte al procedimento di bonifica o di ripristino ambientale».<br />

Il giudice a quo, in relazione alle definizioni appena richiamate, evidenzia i requisiti e le condizioni necessari affinché un<br />

residuo di produzione fosse sottratto alla disciplina sui rifiuti: esso doveva provenire da attività di produzione (e non di<br />

consumo); doveva scaturire da tale attività in via continuativa (come residuo tipico di quella produzione); non doveva essere<br />

abbandonato dall'impresa (che dunque non se ne disfaceva); doveva poter essere reimpiegato direttamente, o<br />

commercializzato a condizioni economicamente vantaggiose, senza attività di trasformazione preliminare (che ne<br />

modificasse l'identità); il riutilizzo del residuo in altro ciclo produttivo doveva essere certo ed effettivo (circostanza che a<br />

sua volta doveva essere attestata con dichiarazioni scritte delle imprese di "partenza" e di "destinazione"); tale riutilizzo non<br />

doveva comportare condizioni peggiorative per l'ambiente o per la salute rispetto a quelle che derivavano dalle normali<br />

attività produttive.<br />

Il rimettente rammenta che la richiamata nozione di sottoprodotto ha sostituito quella contenuta nell'art. 14 del decreto-legge<br />

8 luglio 2002, n. 138 (Interventi urgenti in materia tributaria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e<br />

per il sostegno dell'economia anche nelle aree svantaggiate), convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1 della legge 8<br />

agosto 2002, n. 178, «già oggetto di aspre critiche e di plurimi rilievi di sospetta incostituzionalità per l'inopinata restrizione<br />

della nozione comunitaria di rifiuto».<br />

Tuttavia il rimettente precisa che l'odierna questione non riguarda la compatibilità con il diritto comunitario della nozione<br />

generale di sottoprodotto introdotta dal legislatore nazionale, prima con l'art. 14 del d.l. n. 138 del 2002 e, successivamente,<br />

in termini più puntuali e precisi, con il richiamato art. 183, comma 1, lettera n), del d.lgs. n. 152 del 2006, bensì la<br />

qualificazione espressa delle ceneri di pirite come sottoprodotto.<br />

È quindi richiamata diffusamente la giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea ed in particolare la sentenza<br />

11 novembre 2004, in C-457/02, Niselli, in cui si ammette, in linea con i precedenti di analogo oggetto, che i materiali<br />

derivanti da processi di fabbricazione o estrazione non principalmente destinati a produrli possono costituire non residui ma<br />

sottoprodotti, di cui l'impresa non ha intenzione di disfarsi, ma si precisa anche che tale qualificazione «deve essere<br />

circoscritta alle situazioni in cui il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima non sia solo eventuale ma<br />

certo senza previa trasformazione e avvenga nel corso del processo di produzione» [punti 44 e 45].<br />

Il Tribunale di Venezia richiama ulteriori, successive pronunce della Corte del Lussemburgo, assunte nell'ambito di<br />

procedure di infrazione (sentenza 8 settembre 2005, in cause C-4167/02 e C-121/03, Commissione c. Regno di Spagna),<br />

nelle quali si trova affermato che i residui dell'attività zootecnica, accumulati dall'impresa in attesa di successivo utilizzo,<br />

avrebbero potuto essere utilizzati anche «per il fabbisogno di operatori economici diversi» dal produttore originario.<br />

192


Le richiamate sentenze, prosegue il giudice a quo, erano state di poco precedute da un'altra pronuncia, resa in forma di<br />

ordinanza, il 15 aprile 2004 nella causa C-235/02, Saetti Freudiani, nella quale la Corte ha enunciato il principio secondo<br />

cui un residuo di produzione (il coke da petrolio di Gela) utilizzato con certezza «per il fabbisogno di energia della stessa<br />

impresa produttrice e di altre industrie non costituisce rifiuto ai sensi della direttiva del consiglio 15 luglio 1975, n.<br />

75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, n. 91/156/CEE». In tali<br />

decisioni, osserva il rimettente, sembrerebbe quindi ravvisarsi un'apertura del giudice comunitario sulla estensione della<br />

nozione di sottoprodotto all'utilizzo del residuo di produzione da parte di soggetti terzi rispetto all'impresa produttrice.<br />

1.2. - Così definito il quadro normativo di riferimento, il Tribunale di Venezia passa ad esaminare lo specifico residuo di<br />

produzione costituito dalle ceneri di pirite, oggetto del giudizio a quo, esponendo quanto emerso all'esito del dibattimento.<br />

Le ceneri di pirite sono un residuo di produzione (necessario ed inevitabile) del procedimento industriale di fabbricazione<br />

dell'acido solforico, cioè di uno dei più importanti prodotti intermedi dell'industria chimica di base. Il procedimento in<br />

parola, consistente nel cosiddetto arrostimento in forni speciali del minerale denominato pirite, è stato utilizzato fino ai<br />

primi anni '70, epoca in cui alla materia prima pirite è stato sostituito lo zolfo. In Italia erano stati realizzati circa 100<br />

stabilimenti, di varia potenzialità, per la produzione dell'acido solforico con l'utilizzo della pirite, ed ancora oggi esistono<br />

depositi delle relative ceneri in varie zone del Paese. Il deposito sito in località Gambarare di Mira, posto sotto sequestro nel<br />

procedimento a quo, era stato attivo fino ai primi anni '70, per essere poi "messo in sicurezza", mediante ricopertura dei<br />

cumuli di cenere con uno strato di terra successivamente piantumata. Dopo circa venti anni, a partire dal 1994, «il deposito è<br />

stato riaperto e coltivato dalla Veneta Mineraria S.p.A. che aveva appaltato a M.E. i lavori materiali di movimentazione<br />

delle ceneri ed il loro successivo carico su camion per il [...] conferimento del materiale a cementifici italiani ed esteri». Le<br />

ceneri di pirite costituiscono, infatti, un additivo fondamentale nella produzione del cemento, nel quale sono impiegate<br />

senza attività preliminare di trasformazione.<br />

Ciò detto, ad avviso del Tribunale di Venezia sarebbe proprio la particolare origine del residuo di produzione in esame a<br />

rendere impossibile la sottrazione dello stesso dal novero dei rifiuti. Posto infatti che, secondo la definizione di cui all'art. 1,<br />

comma 1, lettera a), della direttiva 2006/12/CE, si ha sempre rifiuto quando il produttore/detentore "si disfa" di un<br />

determinato residuo produttivo e non lo reimpiega né lo commercializza, «stabilire che un residuo va considerato<br />

sottoprodotto [...] a prescindere dal fatto che l'impresa produttrice se ne è già disfatta è operazione che contrasta con il<br />

diritto comunitario».<br />

Tale conclusione, secondo il rimettente, non potrebbe essere superata dalla considerazione che assume a riferimento il<br />

produttore originario e non l'attuale detentore, cioè il soggetto il quale si trova, come nella vicenda in esame, a gestire<br />

depositi e commercializzare le ceneri di pirite, alienandole a cementifici.<br />

Del resto, osserva il giudice a quo, è la stessa normativa nazionale a porre alla base della disciplina generale dei<br />

sottoprodotti l'impresa che li produce, facendo riferimento a questa per tutto quanto concerne i presupposti che debbono<br />

ricorrere per sottrarre il residuo di produzione all'applicazione della parte quarta del d.lgs. n. 152 del 2006.<br />

In senso contrario, prosegue il rimettente, nemmeno si potrebbe sostenere che gli accumuli di ceneri di pirite distribuiti sul<br />

territorio nazionale, compreso quello oggetto del procedimento principale, non siano mai stati "abbandonati" dagli originari<br />

produttori, e ciò in quanto negli anni in cui per la produzione dell'acido solforico era impiegata la pirite, le ceneri residue<br />

erano oggetto di conferimenti ai cementifici «a piè di impianto», sicché l'accantonamento riguardava solo il surplus di<br />

produzione, in vista del futuro utilizzo. Al contrario, il dato fattuale -puntualmente recepito dal legislatore che, nella norma<br />

censurata, menziona «stabilimenti dismessi» ed «aree industriali e non» - dal quale emerge che tale accantonamento è assai<br />

risalente nel tempo (di almeno trent'anni), dimostrerebbe come, per un lungo periodo, l'utilizzo del residuo non sia stato<br />

affatto certo o probabile.<br />

Tutto ciò renderebbe evidente, secondo il Tribunale di Venezia, come la normativa interna, di cui si chiede lo scrutinio di<br />

costituzionalità, si ponga in contrasto non solo con il requisito del «non disfarsi» del residuo da parte del produttore<br />

originario - il che avviene se il materiale è raccolto in una determinata area, che viene chiusa o messa in sicurezza, ed è<br />

lasciato in loco per molti anni - ma anche con l'ulteriore requisito della certezza ed effettività dell'utilizzo del residuo di<br />

produzione al momento in cui esso è originato, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza comunitaria.<br />

Inoltre, la previsione censurata, nella parte in cui sottrae le ceneri di pirite all'applicazione della parte quarta del d.lgs. n. 152<br />

del 2006, «anche se sottoposte a bonifica o ripristino ambientale», appare in contrasto con il principio secondo cui l'utilizzo<br />

di un sottoprodotto deve avvenire senza arrecare pregiudizio per l'ambiente e per la salute (art. 4 della direttiva<br />

2006/12/CE), posto che nelle indicate evenienze è probabile che i materiali raccolti possano essere contaminati, così da<br />

risultare pericolosi per la salute e per l'ambiente.<br />

In definitiva, secondo il rimettente, la disposizione contenuta nell'art. 183, comma 1, lettera n), quarto periodo, del d.lgs. n.<br />

152 del 2006 contrasterebbe con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.<br />

Inoltre, ai sensi dell'art. 174, n. 2, del Trattato 25 marzo 1957 (Trattato che istituisce la Comunità europea), nella versione in<br />

vigore fino al 30 novembre 2009, ora trasfuso nell'art. 191 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, in vigore dal<br />

1° dicembre 2009, la politica comunitaria in materia ambientale mira ad un elevato livello di tutela ed è fondata, in<br />

particolare, sui principi «della precauzione e dell'azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla<br />

193


fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché sul principio "chi inquina paga"». Pertanto, secondo il giudice a quo, il<br />

legislatore italiano, nell'introdurre una norma in contrasto con siffatti principi, avrebbe anche violato il generale obbligo di<br />

leale collaborazione di cui all'art. 10 del Trattato che istituisce la Comunità europea (articolo successivamente abrogato<br />

dall'art. 2, punto 22, del Trattato 13 dicembre 2007 - Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull'Unione europea e il<br />

Trattato che istituisce la Comunità europea), il quale prevede che gli Stati «si astengono da qualsiasi misura che rischi di<br />

compromettere la realizzazione degli scopi del presente trattato».<br />

1.3. - Il rimettente esamina quindi il profilo dei rimedi alla rilevata antinomia tra diritto interno e diritto comunitario,<br />

escludendo di poter procedere alla disapplicazione della norma interna, come invece sostenuto dal pubblico ministero,<br />

secondo il quale la direttiva 75/442/CEE e successive modifiche e la direttiva 2006/12/CE sarebbero "autoapplicative",<br />

quanto meno con riferimento alla nozione di rifiuto.<br />

Sul punto sono richiamate espressamente le argomentazioni esposte dalla Corte di cassazione (ordinanza n. 1414 del 2006),<br />

secondo cui il giudice può procedere alla disapplicazione della norma nazionale contrastante con il diritto comunitario<br />

quando la norma comunitaria abbia efficacia diretta nell'ordinamento interno, e quindi solo nei casi di alcune norme del<br />

Trattato istitutivo, dei regolamenti, delle direttive che non richiedono, ai fini dell'applicazione, alcun provvedimento<br />

ulteriore da parte degli Stati membri, e delle decisioni rivolte ai singoli o agli Stati membri.<br />

1.4. - Per concludere, il giudice a quo esamina la tematica degli effetti in malam partem che deriverebbero dall'accoglimento<br />

della sollevata questione, osservando come l'eventuale caducazione della norma più favorevole, contenuta nell'art. 183,<br />

comma 1, lettera n), del d.lgs. n. 152 del 2006, riguardante le ceneri di pirite, non comporterebbe una violazione del<br />

principio di irretroattività della norma penale previsto dall'art. 25, secondo comma, Cost., posto che, per un verso, le ceneri<br />

di pirite costituivano senz'altro rifiuto all'epoca delle condotte contestate, non essendo ancora entrato in vigore l'art. 14 del<br />

d.l. n. 138 del 2002, recante l'interpretazione autentica e restrittiva della nozione di rifiuto, e, per altro verso, la norma<br />

incriminatrice, contenuta nell'art. 51 del d.lgs. n. 22 del 1997, era già in vigore prima della commissione dei reati contestati.<br />

La rilevanza della questione sarebbe in ogni caso assicurata, secondo l'insegnamento della Corte costituzionale (è richiamata<br />

la sentenza n. 148 del 1983), dalla incidenza che l'accoglimento della stessa potrebbe esercitare sulle formule di<br />

proscioglimento o sui dispositivi della sentenza penale, riflettendosi comunque sullo schema argomentativo della<br />

motivazione.<br />

1.5. - Dopo l'integrale richiamo al precedente atto di promovimento, il Tribunale di Venezia riesamina il profilo della<br />

rilevanza della questione, secondo l'indicazione espressa nella citata ordinanza n. 83 del 2008 di questa Corte. La<br />

restituzione degli atti era stata disposta per lo ius superveniens costituito dal d.lgs. n. 4 del 2008, con il quale il legislatore<br />

nazionale ha riformulato l'art. 183 del d.lgs. n. 152 del 2006, introducendo una nuova definizione di sottoprodotto ed<br />

eliminando il riferimento specifico alle ceneri di pirite.<br />

Il rimettente evidenzia come la materia sia stata caratterizzata da numerose modifiche normative intervenute nel corso del<br />

procedimento principale: in particolare, al momento in cui è stato effettuato il sequestro preventivo del deposito di ceneri di<br />

pirite, era vigente l'art. 6, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 22 del 1997, il quale recepiva la nozione comunitaria secondo cui<br />

è rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell'allegato A e di cui il detentore si disfi o<br />

abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi». In quel contesto normativo, prosegue il giudice a quo, non vi era dubbio che «le<br />

ceneri di pirite, in quanto raccolte ed accantonate per un trentennio in un'area ricoperta di terra successivamente piantumata,<br />

rientrassero a pieno titolo nel concetto di rifiuto in quanto residuo di produzione di cui l'originario detentore si era disfatto o<br />

aveva deciso di disfarsi».<br />

Nelle more del procedimento principale, era poi entrato in vigore l'art. 14 del d.l. n. 138 del 2002, che aveva fornito la<br />

cosiddetta interpretazione autentica dell'art. 6 del d.lgs. n. 22 del 1997. Il citato art. 14, pur nella indubbia portata<br />

"restrittiva" della nozione di rifiuto, tuttavia ancora consentiva una applicazione che tenesse conto del criterio generale di<br />

interpretazione della materia dei rifiuti, quello cioè di non pregiudicare l'efficacia del diritto comunitario. Per un verso,<br />

infatti, la già evidenziata notevole distanza temporale tra il momento di produzione delle ceneri di pirite e quello del loro<br />

impiego in un diverso ciclo produttivo portava a ritenere che tale residuo fosse stato sottoposto - tramite deposito al suolo e<br />

copertura con strato di terreno piantumato - ad «attività di smaltimento o di recupero», e dunque rientrasse nella nozione di<br />

rifiuto di cui al comma 1 del richiamato art. 14. Per altro verso, il comma 2 del medesimo art. 14 richiedeva, ai fini della<br />

configurabilità del sottoprodotto, che i materiali residuali di produzione (o di consumo) potessero essere e fossero<br />

«effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo», sicché il<br />

loro riutilizzo doveva essere attuale rispetto al momento originario, e non solo potenziale.<br />

Pertanto, a parere del rimettente, anche dopo l'entrata in vigore dell'art. 14 del d.l. n. 138 del 2002, le ceneri di pirite<br />

continuavano ad essere disciplinate dalla normativa in materia di gestione dei rifiuti.<br />

Ad analoghe conclusioni il giudice a quo perviene avuto riguardo al successivo intervento del legislatore, attuato con la<br />

legge 15 dicembre 2004, n. 308 (Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l'integrazione della legislazione in<br />

materia ambientale e misure di diretta applicazione), il quale ha confermato, all'art. 1, comma 26 (successivamente abrogato<br />

dall'art. 2, comma 46, del d.lgs. n. 4 del 2008), la vigenza dell'art. 14 del d.l. n. 138 del 2002, sebbene la Corte di giustizia,<br />

con la richiamata sentenza Niselli, avesse già ritenuto tale disposizione in contrasto con la nozione comunitaria di rifiuto. La<br />

194


disciplina dettata dall'art. 14 è dunque rimasta in vigore fino a quando, in attuazione della delega, è entrato in vigore il d.lgs.<br />

n. 152 del 2006, che all'art. 183, comma 1, lettera n), quarto periodo, ha esplicitamente statuito che le ceneri di pirite<br />

rientrano tra i sottoprodotti, così introducendo una norma di favore nei confronti degli odierni imputati, ai quali, in<br />

applicazione del principio codificato nell'art. 2, quarto comma, del codice penale, dovrebbe essere applicata quest'ultima<br />

previsione, con conseguente assoluzione con formula di insussistenza del fatto, difettando la qualità di "rifiuto" nell'oggetto<br />

materiale della condotta.<br />

Il rimettente segnala in proposito che, nelle more del precedente giudizio di costituzionalità, la Corte di giustizia, con la<br />

sentenza 18 dicembre 2007, in causa C-263/05, ha accolto il ricorso per inadempimento, proposto, ai sensi dell'art. 266 del<br />

Trattato 25 marzo 1957 (Trattato sul funzionamento dell'Unione europea), dalla Commissione contro la Repubblica italiana,<br />

per avere adottato e mantenuto in vigore l'art. 14 del d.l. n. 138 del 2002. Nella richiamata sentenza la Corte del<br />

Lussemburgo, dopo aver ribadito ancora una volta che il termine «disfarsi», e quindi la nozione di rifiuto, non possono<br />

essere interpretati in senso restrittivo [punto 33], ha svolto un excursus delle pronunce adottate in materia e dei principi in<br />

esse individuati, in esito al quale ha precisato, tra l'altro, che «in determinate situazioni, un bene, un materiale o una materia<br />

prima che deriva da un processo di estrazione o di fabbricazione che non è principalmente destinato a produrlo può<br />

costituire non tanto un residuo, quanto un sottoprodotto, del quale il detentore non cerca di "disfarsi" [...] ma che intende<br />

sfruttare o commercializzare [...] a condizioni ad esso favorevoli, in un processo successivo, a condizione che tale riutilizzo<br />

sia certo, senza trasformazione preliminare e intervenga nel processo di produzione o di utilizzazione». Nel prosieguo della<br />

pronuncia la Corte ha affermato che «se per tale riutilizzo occorrono operazioni di deposito che possono avere una certa<br />

durata, e quindi rappresentare un onere per il detentore nonché essere potenzialmente fonte di quei danni per l'ambiente che<br />

la direttiva mira specificamente a limitare, esso non può essere considerato certo ed è prevedibile solo a più medio o lungo<br />

termine, cosicché la sostanza di cui trattasi deve essere considerata, in linea di principio, come rifiuto».<br />

Il giudice a quo osserva come tale pronuncia conforti l'interpretazione dell'art. 14, sopra prospettata, ed i limiti di<br />

applicabilità al caso in esame, una volta chiarito che il riutilizzo del materiale residuo deve avvenire «nel corso del processo<br />

di produzione».<br />

Sul fronte della normativa nazionale, infine, la novità è costituita, dal d.lgs. n. 4 del 2008, che ha introdotto modifiche e<br />

correzioni al d.lgs. n. 152 del 2006, in particolare riscrivendo interamente la nozione di sottoprodotto ed eliminando il<br />

riferimento alle ceneri di pirite.<br />

Il rimettente evidenzia come la "nuova" definizione di sottoprodotto, contenuta nell'art. 183, comma 1, lettera p), del d.lgs.<br />

n. 152 del 2006, rispetto alle precedenti formulazioni, risulti senz'altro più rispettosa della normativa comunitaria, là dove<br />

stabilisce che: «sono sottoprodotti le sostanze ed i materiali di cui il produttore non intende disfarsi ai sensi dell'art. 183,<br />

comma 1, lettera a), che soddisfino tutti i seguenti criteri, requisiti e condizioni: 1) siano originati da un processo non<br />

direttamente destinato alla loro produzione; 2) il loro impiego sia certo, sin dalla fase della produzione, integrale e avvenga<br />

direttamente nel corso del processo di produzione o di utilizzazione preventivamente individuato e definito; 3) soddisfino<br />

requisiti merceologici e di qualità ambientale idonei a garantire che il loro impiego non dia luogo ad emissioni e ad impatti<br />

ambientali qualitativamente e quantitativamente diversi da quelli autorizzati per l'impianto dove sono destinati ad essere<br />

utilizzati; 4) non debbano essere sottoposti a trattamenti preventivi o a trasformazioni preliminari per soddisfare i requisiti<br />

merceologici e di qualità ambientale di cui al punto 3), ma posseggano tali requisiti sin dalla fase della produzione; 5)<br />

abbiano un valore economico di mercato».<br />

La predetta definizione, secondo il rimettente, non consente in alcun modo di collocare le ceneri di pirite tra i sottoprodotti,<br />

sicché, in esito alla disamina diacronica della normativa in materia, si dovrebbe concludere che le ceneri di pirite sono un<br />

rifiuto in forza sia delle disposizioni che hanno preceduto quella oggetto di censura, sia della disposizione attualmente in<br />

vigore. Soltanto l'applicazione della norma oggetto di censura, che ha avuto una vigenza quasi biennale, condurrebbe al<br />

risultato di sottrarre il predetto materiale alla disciplina dei rifiuti.<br />

Tale norma peraltro, finché non espunta dall'ordinamento, continua ad essere la previsione più favorevole, tra le varie<br />

succedutesi nel tempo, e dunque deve trovare applicazione nel giudizio a quo, con la conseguenza che, a parere del giudice<br />

a quo, la questione di costituzionalità risulta ancora rilevante.<br />

2. - È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello<br />

Stato, il quale ha concluso per l'inammissibilità e, comunque, per l'infondatezza della questione.<br />

Dopo aver ripercorso, in sintesi, l'iter argomentativo del rimettente, la difesa erariale evidenzia come il nucleo della<br />

questione afferisca alla nota problematica della cosiddetta «legge intermedia», che si pone quando tra due fattispecie<br />

normative - nel caso di specie, il d.lgs. n. 22 del 1997 e il d.lgs. n. 4 del 2008 - che qualificano, sia pure indirettamente, una<br />

condotta come reato, se ne inserisce una terza - il d.lgs. n. 152 del 2006, nel testo previgente - la quale considera quella<br />

stessa condotta pienamente lecita.<br />

La dottrina prevalente è dell'opinione che tali situazioni debbano essere regolate alla luce del disposto dell'art. 2, secondo<br />

comma, del codice penale, secondo cui «nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non<br />

costituisce reato».<br />

In altri termini, l'effetto depenalizzante retroagirebbe a prescindere dalla circostanza che successivamente sia entrata in<br />

195


vigore una legge che abbia ripristinato la rilevanza penale della condotta.<br />

Tale soluzione, a parere dell'Avvocatura generale, sarebbe in tutto ragionevole, posto che, in caso contrario, la punibilità<br />

dell'imputato verrebbe a dipendere dalla circostanza che il processo penale si sia concluso in vigenza della (nuova) norma<br />

incriminatrice anziché nella vigenza della legge depenalizzante.<br />

Il rimettente, prosegue la difesa dello Stato, intenderebbe eliminare la norma depenalizzante attraverso una pronuncia di<br />

illegittimità costituzionale per contrasto della stessa con le norme comunitarie ed, in via derivata, con gli artt. 11 e 117,<br />

primo comma, Cost. Tuttavia tale pretesa contrasta con il principio di legalità, sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost.,<br />

che, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, nell'affermare il principio per cui nessuno può essere punito se non<br />

in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso, esclude che la Corte costituzionale possa introdurre in via<br />

additiva nuovi reati, o che, comunque, per effetto di una sentenza costituzionale, possano essere ampliate o aggravate figure<br />

di reato già esistenti, trattandosi di interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore (sono richiamate le<br />

sentenze della Corte costituzionale n. 161 del 2004, n. 49 del 2002, nn. 508 e 183 del 2000, n. 411 del 1995, e l'ordinanza n.<br />

580 del 2000).<br />

Secondo l'Avvocatura generale, l'assunto risulterebbe ancor più valido se si considera che «è comune in dottrina e in<br />

giurisprudenza un principio esattamente opposto all'obiettivo, perseguito dal giudice remittente, di giungere ad una<br />

dichiarazione di colpevolezza anche in deroga al principio del favor rei: un'interpretazione sistematica degli articoli 25 e 136<br />

della Costituzione fa infatti ragionevolmente ritenere che la norma dichiarata costituzionalmente illegittima, se più<br />

favorevole, potrà essere applicata al caso specifico anche a rischio di mettere in dubbio il principio di certezza del diritto».<br />

Infine e indipendentemente dai rilievi fin qui svolti, la difesa erariale evidenzia la singolare scelta compiuta dal rimettente<br />

Tribunale di Venezia, il quale intende perseguire la verifica di conformità della norma interna al diritto comunitario<br />

attraverso una strada diversa dalla rimessione della questione pregiudiziale alla Corte di giustizia, senza considerare che<br />

nessuna fonte dell'Unione europea impone che gli Stati membri perseguano penalmente le violazioni sulla disciplina dei<br />

rifiuti.<br />

3. - Con memoria depositata il 16 febbraio 2009, si è costituito in giudizio uno degli imputati del processo a quo,<br />

prospettando l'inammissibilità, l'irrilevanza e l'infondatezza della questione, e in ogni caso la preclusione connessa agli<br />

effetti in malam partem che deriverebbero dall'eventuale accoglimento, in violazione dell'art. 25, secondo comma, Cost.<br />

Dopo avere richiamato diffusamente gli argomenti prospettati dal Tribunale di Venezia, la difesa della parte privata<br />

evidenzia, in primo luogo, come la pretesa del rimettente di risolvere la questione di conformità all'ordinamento comunitario<br />

di una norma interna, attraverso l'incidente di costituzionalità, risulti inammissibile.<br />

La soluzione della questione «pertiene alla giurisdizione della Corte di giustizia a norma dell'art. 234 del Trattato CE, sotto<br />

la specie della competenza a risolvere in via pregiudiziale le questioni di interpretazione della normativa comunitaria quanto<br />

alla compatibilità della normativa interna con la medesima».<br />

A tale riguardo, rammenta la parte privata, la Corte costituzionale si è espressa di recente (è richiamata l'ordinanza n. 103<br />

del 2008), affermando che nel giudizio pendente davanti al giudice comune, al fine dell'interpretazione delle norme<br />

comunitarie necessarie per l'accertamento della conformità delle norme interne con l'ordinamento comunitario, lo stesso<br />

giudice deve avvalersi, all'occorrenza, del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia.<br />

La questione sarebbe poi irrilevante, in ragione della genericità delle conseguenze prospettate dal rimettente circa<br />

l'incidenza di una eventuale pronuncia di accoglimento nel giudizio principale, che è un giudizio penale, ancorché fondato<br />

su nozioni extrapenali che entrano a far parte della norma incriminatrice.<br />

In particolare, la parte privata sottolinea come la tesi della reviviscenza della pregressa normativa di per sé ponga, in sede di<br />

responsabilità penale, «questioni insormontabili», attesa la prevalenza assoluta del principio del favor rei, e come proprio su<br />

tali problematiche il rimettente non abbia adeguatamente motivato.<br />

Nel merito, infine, la questione risulterebbe infondata.<br />

La difesa della parte privata procede all'esame della disposizione contenuta nel censurato art. 183, comma 1, lettera n), del<br />

d.lgs. n. 152 del 2006, evidenziando come la stessa - suddivisa in sei periodi, inseriti in un unico contesto - introduca la<br />

nozione di sottoprodotto, stabilisca le condizioni ed i requisiti in presenza dei quali i sottoprodotti sono sottratti alle<br />

disposizioni della parte quarta del d.lgs. n. 152 del 2006, includa le ceneri di pirite tra i sottoprodotti, stabilisca, infine, le<br />

regole che ne disciplinano l'utilizzabilità, senza che derivino condizioni peggiorative per l'ambiente o la salute rispetto a<br />

quelle delle normali attività produttive.<br />

Ad avviso della stessa parte, il tenore letterale e la ratio della norma, da valutare con riferimento alla definizione di rifiuto<br />

contenuta nel medesimo art. 183, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 152 del 2006, «non possono significare altro che in<br />

difetto dei requisiti, delle regole e delle condizioni da essa stabilite (prima tra tutte, ed in via generale non derogata, quella<br />

del "non disfarsi"), i prodotti di cui trattasi, non escluse le ceneri di pirite, sono naturalmente soggette alla normativa, anche<br />

sanzionatoria, dettata per i rifiuti nella parte quarta del d.lgs. n. 152/2006».<br />

Il dubbio di legittimità costituzionale, sempre secondo la parte privata, sarebbe stato prospettato dal rimettente<br />

presupponendo una portata derogatoria, rispetto al contesto di riferimento, che la norma censurata non presenta, né dal<br />

punto di vista letterale, né alla luce del significato che ragionevolmente deve esserle attribuito, in coerenza e rispondenza<br />

196


con il predetto contesto.<br />

Inoltre, costituirebbe una petizione di principio l'affermazione del giudice a quo, secondo cui il lungo tempo trascorso dalla<br />

produzione delle ceneri di pirite renderebbe ineluttabile che il produttore se ne fosse già disfatto, sicché la previsione<br />

censurata necessariamente derogherebbe al requisito del "non disfarsi".<br />

Analoghe considerazioni, sempre a parere della parte costituita, varrebbero per gli altri profili di censura prospettati dal<br />

rimettente, attinenti, in particolare, all'incertezza ed alla dubbia effettività dell'utilizzo delle ceneri di pirite - stante il lungo<br />

tempo trascorso tra la loro produzione ed il passaggio dal produttore originario al detentore che ne cura la<br />

commercializzazione - ed alla sicurezza dell'utilizzo.<br />

Quanto al primo aspetto, lo stesso rimettente dà atto della progressiva apertura della giurisprudenza comunitaria circa la<br />

possibilità che l'alienazione dei sottoprodotti avvenga anche per il tramite di soggetti diversi dal produttore, i quali<br />

provvedano in un tempo successivo alla commercializzazione, senza subordinare a precisi limiti temporali la durata del<br />

deposito, l'epoca della commercializzazione e l'effettivo utilizzo (è richiamata la sentenza della Corte di giustizia 8<br />

settembre 2005, in causa C-416/02, Commissione c. Regno di Spagna). Non troverebbe perciò conferma, in ambito<br />

comunitario, «l'asserto secondo cui il requisito dell'utilizzo certo ed effettivo può essere garantito soltanto allorché "il<br />

sottoprodotto" viene utilizzato nella fase in cui esso viene alla luce», per quanto sia innegabile che questa fosse<br />

l'interpretazione originariamente seguita dalla giurisprudenza comunitaria.<br />

Con riguardo poi al significato dell'inciso «anche se sottoposte a procedimento di bonifica o di ripristino ambientale», la<br />

difesa della parte privata osserva come erroneamente il rimettente riferisca tale espressione al materiale ceneri di pirite,<br />

anziché alle aree ove lo stesso si trova depositato, così ravvisando anche un contrasto tra la norma censurata ed il principio<br />

generale secondo cui l'utilizzo del sottoprodotto deve avvenire senza che ciò arrechi pregiudizio per l'ambiente e per la<br />

salute.<br />

Per smentire l'assunto sarebbe sufficiente considerare che l'ultimo periodo del censurato art. 183, comma 1, lettera n),<br />

prevede espressamente che «l'utilizzo del sottoprodotto non deve comportare per l'ambiente o la salute condizioni<br />

peggiorative rispetto a quelle delle normali attività produttive».<br />

Secondo la parte privata anche la ricostruzione del quadro normativo comunitario, come prospettata dal rimettente,<br />

risulterebbe opinabile, incompleta ed errata sotto molteplici profili.<br />

La definizione di rifiuto costituisce una delle questioni più controverse nell'ambito del diritto interno dell'ambiente e di<br />

quello comunitario, ed è stata oggetto di numerose e complesse decisioni della Corte di Lussemburgo, che hanno espresso<br />

orientamenti non sempre univoci.<br />

Da ultimo, la parte privata segnala il contributo fornito dalla Commissione con la Comunicazione interpretativa sui rifiuti e<br />

sui sottoprodotti del 21 febbraio 2007, che in premessa ha evidenziato la complessità della distinzione tra rifiuto e<br />

sottoprodotto per il conflitto di interessi che ruota attorno ad essa. In linea generale, la Commissione ha ritenuto che<br />

un'interpretazione troppo ampia della nozione di rifiuto finisca per gravare le imprese di «costi superflui, rendendo meno<br />

interessante un materiale che avrebbe potuto invece rientrare nel circuito economico», così chiarendo la ratio della<br />

disciplina comunitaria e della controversa distinzione, la cui finalità è di evitare che i rifiuti si producano.<br />

In una simile prospettiva verrebbe valorizzata al massimo la possibilità di «generare prodotti che risultino idonei ad un<br />

proficuo riutilizzo e che siano dotati di caratteristiche merceologiche definite e di valore economico determinabile». In<br />

termini analoghi, già la direttiva 2006/12/CE, al quinto e sesto considerando e poi all'art. 3, ha sollecitato gli Stati membri a<br />

favorire il recupero dei rifiuti e l'utilizzazione dei materiali di recupero come materie prime, a limitare la formazione dei<br />

rifiuti, promuovendo le tecnologie "pulite" e i prodotti riciclabili e riutilizzabili.<br />

Nella direzione di una nozione "condivisa" di rifiuto, la Commissione ha sottolineato la centralità dell'elemento soggettivo -<br />

il concetto di "disfarsi" -, ribadendo il carattere meramente indicativo delle elencazioni comunitarie. Ciò che, del resto,<br />

emergerebbe già dalla direttiva 2006/12/CE, ove si legge, al quarto considerando, che «una regolamentazione efficace e<br />

coerente dello smaltimento e del recupero dei rifiuti dovrebbe applicarsi, fatte salve talune eccezioni, ai beni mobili di cui il<br />

detentore si disfi o abbia l'intenzione o l'obbligo di disfarsi».<br />

Quanto al profilo soggettivo, la difesa della parte privata richiama l' ordinanza della Corte di giustizia 15 gennaio 2004, in<br />

causa C-235/02 Saetti Freudiani, nella quale si trova affermato che, poiché il materiale in questione (il coke da petrolio di<br />

Gela) era «il risultato di una scelta tecnica» volta deliberatamente a produrlo, non poteva essere considerato residuo di<br />

produzione. Ciò significa che, al fine di stabilire se un materiale costituisca un rifiuto, occorre verificare se il fabbricante<br />

abbia deliberatamente scelto di produrlo.<br />

Altro indice che il prodotto derivi da una scelta tecnica si può ricavare dalla modifica del sistema di produzione tale da<br />

conferire allo stesso caratteristiche specifiche che lo rendano idoneo ad essere utilizzato e commercializzato: in base a tali<br />

indici, la richiamata ordinanza ha concluso che il coke da petrolio, in quanto è il risultato di una scelta tecnica, nell'ambito<br />

di un processo destinato principalmente a produrre un diverso materiale, va considerato prodotto (petrolifero) e non residuo<br />

di produzione, dal momento in cui vi è certezza che l'intera produzione verrà utilizzata.<br />

La difesa della parte costituita evidenzia come un ulteriore importante indice di valutazione sia rappresentato dal vantaggio<br />

finanziario che deriva dalla vendita del prodotto. Nella già richiamata sentenza Niselli la Corte di giustizia ha affermato che<br />

197


«se, oltre alla mera possibilità di riutilizzare la sostanza, il detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, la<br />

probabilità di tale riutilizzo è alta. In un'ipotesi del genere la sostanza in questione non potrà più essere considerata un<br />

ingombro di cui il detentore cerchi di "disfarsi", bensì un autentico prodotto» [punto 46].<br />

Importanti indicazioni in materia provengono inoltre, secondo la parte, dalle pronunce rese in cause C-416/02 e C-121/03<br />

(Commissione c. Regno di Spagna), nelle quali la Corte di Lussemburgo ha escluso che dovesse considerarsi rifiuto il<br />

letame utilizzato come fertilizzante nell'ambito di una pratica legale di spargimento, e ciò pur se detto materiale è destinato<br />

ad essere utilizzato da soggetti terzi, in un contesto produttivo del tutto diverso, ed anche se prima dell'utilizzo deve essere<br />

depositato e lasciato essiccare. Lo spostamento dal luogo o stabilimento di produzione «da solo non basta a costituire una<br />

prova» per affermare che si tratti di un residuo anziché di un prodotto.<br />

La parte privata richiama ancora le sentenze della Corte di giustizia in cause C-9/00, Palin Granit Oy, e C-114/01, Avesta<br />

Polarit Chrome Oy, nelle quali è stata negata la qualificazione di rifiuti ai residui di roccia depositati in vista di un ulteriore<br />

utilizzo, come materiale di riempimento, senza necessità di alcuna misura di recupero e senza alcun pericolo per la salute o<br />

per l'ambiente. La Corte di giustizia ha ritenuto, nella specie, che non è giustificato assoggettare alla disciplina in tema di<br />

rifiuti «beni materiali o materie prime che dal punto di vista economico hanno valore di prodotti indipendentemente da<br />

qualsiasi trasformazione, e che, in quanto tali, sono soggetti alla normativa applicabile a tali prodotti».<br />

Analoghe considerazioni dovrebbero valere per le ceneri di pirite, le quali sono destinate ad essere utilizzate, senza alcuna<br />

trasformazione, per la produzione di cemento, non ostando a ciò la loro provenienza da produzioni industriali cessate e la<br />

specificità dei luoghi ove le stesse sono depositate.<br />

Del resto, prosegue la difesa della parte, nessuno dei comportamenti posti in essere dagli imputati dimostrerebbe la volontà<br />

di disfarsi di questi materiali, «oggettivamente dotati di interessante valore commerciale e perciò degni di essere acquistati e<br />

rivenduti», sicché l'assunto del rimettente risulterebbe, anche sotto tale profilo, infondato.<br />

4. - Con ordinanza del 13 ottobre 2009, il Tribunale di Venezia, sezione distaccata di Dolo, ha sollevato, in riferimento agli<br />

artt. 11 e 117, primo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 183, comma 1, lettera n), quarto periodo,<br />

del d.lgs. n. 152 del 2006, nel testo antecedente alle modifiche introdotte con l'art. 2, comma 20, del d.lgs. n. 4 del 2008,<br />

nella parte in cui prevede che le ceneri di pirite rientrano tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni contenute nella<br />

parte quarta del medesimo d.lgs. n. 152 del 2006.<br />

Il rimettente riferisce che oggetto del procedimento principale è l'accertamento della responsabilità penale di quattro<br />

persone, imputate del reato già previsto dall'art. 53-bis del d.lgs. n. 22 del 1997, ora trasfuso nell'art. 260 del d.lgs. n. 152<br />

del 2006. Secondo l'accusa gli imputati, «in concorso tra loro, attraverso l'allestimento di mezzi ed attività continuativa<br />

organizzata, avrebbero effettuato un traffico illecito di rifiuti tossico-nocivi, nella fattispecie costituti da un ingente<br />

quantitativo di ceneri di pirite (8.084 tonnellate) provenienti dall'ex cantiere Perfosfati di Portogruaro, destinandole ad<br />

attività non consentita, cioè al miscelamento con altre ceneri di pirite site in un impianto di Mira, invece di destinarle in<br />

discarica di II categoria, tipo C».<br />

Tanto premesso in fatto, il rimettente procede all'esame del quadro normativo interno e comunitario, nonché della<br />

giurisprudenza comunitaria in materia di rifiuti, in particolare soffermandosi sull'evoluzione della nozione di sottoprodotto,<br />

ed espone, a sostegno della non manifesta infondatezza e della rilevanza della questione, argomenti in tutto identici a quelli<br />

prospettati nell'ordinanza n. 2 del 2009, già sopra illustrata.<br />

5. - Con atto depositato il 9 giugno 2009 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e<br />

difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per l'inammissibilità o, comunque, per l'infondatezza della<br />

questione.<br />

Dopo aver richiamato i fatti oggetto del procedimento a quo ed aver ripercorso, in sintesi, l'iter argomentativo del<br />

rimettente, la difesa dello Stato illustra le ragioni a sostegno delle indicate conclusioni in termini in tutto identici a quelli<br />

rappresentati nell'atto di intervento depositato l'11 febbraio 2009, nel giudizio introdotto dall'ordinanza reg. ord. n. 2 del<br />

2009, sopra sintetizzato.<br />

DIRITTO<br />

Considerato in diritto<br />

1. - Il Tribunale ordinario di Venezia, sezione distaccata di Dolo, con due ordinanze di analogo tenore, ha sollevato, in<br />

riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 183, comma<br />

1, lettera n), quarto periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia di ambiente), nel testo<br />

antecedente alle modifiche introdotte con l'art. 2, comma 20, del decreto legislativo 16 gennaio 2008, n. 4 (Ulteriori<br />

disposizioni correttive ed integrative del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia ambientale), nella parte in cui<br />

prevede che le ceneri di pirite rientrano tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni contenute nella parte quarta del<br />

medesimo d.lgs. n. 152 del 2006.<br />

2. - Preliminarmente, in ragione della identità della questione, i giudizi devono essere riuniti per essere decisi con un'unica<br />

pronuncia.<br />

3. - La questione di legittimità costituzionale dell'art. 183, comma 1, lettera n), quarto periodo, del d.lgs. n. 152 del 2006,<br />

nel testo antecedente alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 4 del 2008, è fondata.<br />

198


3.1. - L'oggetto del giudizio principale - l'asserita violazione delle norme che disciplinano l'attività di gestione di rifiuti<br />

pericolosi in assenza di autorizzazione o con autorizzazione scaduta - dipende strettamente dalla definizione di rifiuto e<br />

dalla differenza tra tale nozione e quella di sottoprodotto, secondo la normativa comunitaria e nazionale.<br />

3.2. - La direttiva 15 luglio 1975, n. 75/442/CEE (Direttiva del Consiglio relativa ai rifiuti), come modificata dalla direttiva<br />

18 marzo 1991, n. 91/156/CEE (Direttiva del Consiglio che modifica la direttiva 75/442/CEE relativa ai rifiuti), definisce<br />

"rifiuto" «qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell'allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia<br />

deciso o abbia l'obbligo di disfarsi» (art. 1, lettera a).<br />

Sulla base di tale normativa (confermata sostanzialmente dalla direttiva 5 aprile 2006, n. 2006/12/CE - Direttiva del<br />

Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai rifiuti - che l'ha abrogata), la Corte di giustizia dell'Unione europea ha<br />

stabilito alcuni punti fermi interpretativi: a) la nozione di rifiuto deve essere intesa in senso estensivo ed in tal modo devono<br />

essere interpretate le norme che contengono riferimenti alla stessa; b) dalla suddetta nozione sono escluse le sostanze<br />

suscettibili di utilizzazione economica, nel caso in cui non si tratta di prodotti di cui il detentore si disfa; c) in tale nozione<br />

non sono compresi i sottoprodotti, intesi come beni, materiali o materie prime, che derivano da un processo di estrazione o<br />

fabbricazione, che non è destinato principalmente a produrli, a condizione che la loro utilizzazione sia certa e non eventuale,<br />

avvenga senza trasformazioni preliminari ed al fine di commercializzare il materiale, anche eventualmente per destinarlo a<br />

soggetti diversi dal produttore (ex plurimis, sentenze 18 aprile 2002, in causa C-9/00, Palin Granit Oy, e 11 settembre 2003,<br />

in causa C-114/01, Avesta Polarit Chrome Oy).<br />

Successivamente, nella medesima materia, è stata emanata la direttiva 19 novembre 2008, n. 2008/98/CE (Direttiva del<br />

Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive), il cui termine di recepimento scadrà il<br />

12 dicembre 2010.<br />

3.3. - In attuazione delle citate direttive, il legislatore italiano ha proceduto, in un primo tempo, ad emanare il decreto<br />

legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 (Attuazione della direttiva 91/156/CEE sui rifiuti, della direttiva 91/689/CEE sui rifiuti<br />

pericolosi e della direttiva 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio), che riproduceva quasi testualmente la<br />

definizione comunitaria e prevedeva sanzioni penali per le attività poste in essere in violazione della disciplina sul<br />

trattamento dei rifiuti.<br />

Il successivo d.lgs. n. 152 del 2006 ("Codice dell'ambiente") ha disciplinato ex novo l'intera materia con una serie di norme<br />

contenute nell'art. 183, che, da una parte, riproponevano la definizione comunitaria e, dall'altra, definivano i sottoprodotti<br />

come quei «prodotti dell'attività dell'impresa che, pur non costituendo l'oggetto dell'attività principale, scaturiscono in via<br />

continuativa dal processo industriale dell'impresa stessa e sono destinati ad un ulteriore impiego o al consumo». I<br />

sottoprodotti vengono sottratti alla disciplina dei rifiuti, a condizione che di essi l'impresa non si disfi, né intenda o abbia<br />

l'obbligo di disfarsi, che siano impiegati direttamente dall'impresa che li produce ovvero commercializzati a condizioni<br />

economicamente favorevoli per l'impresa stessa, che siano riutilizzati senza operare trasformazioni preliminari del materiale<br />

e che il riutilizzo sia certo e non eventuale e non comporti condizioni peggiorative per l'ambiente o per la salute, rispetto a<br />

quelle delle normali attività produttive (art. 183, comma 1, lettera n).<br />

La disposizione da ultimo citata contiene anche la norma censurata nel presente giudizio, secondo cui: «Rientrano altresì tra<br />

i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del presente decreto le ceneri di pirite, polveri di ossido<br />

di ferro, provenienti dal processo di arrostimento del minerale noto come pirite o solfuro di ferro per la produzione di acido<br />

solforico e ossido di ferro, depositate presso stabilimenti di produzione dismessi, aree industriali e non, anche se sottoposte<br />

a procedimenti di bonifica o di ripristino ambientale».<br />

Infine, con il d.lgs. n. 4 del 2008 è stato eliminato il riferimento alle ceneri di pirite ed è stata introdotta una definizione più<br />

restrittiva di sottoprodotto (art. 183, comma 1, lettera p, del d.lgs. n. 152 del 2006, nel testo attualmente vigente).<br />

4. - La norma censurata - in contrasto con la definizione comunitaria sopra richiamata, che qualifica rifiuto ogni sostanza di<br />

cui il produttore si disfi - esclude dalla categoria dei rifiuti un materiale, le ceneri di pirite, indipendentemente dal fatto che<br />

l'impresa produttrice se ne sia disfatta. Nel caso specifico, oggetto del processo principale, le suddette ceneri, al momento<br />

del sequestro, si trovavano in un sito da circa trent'anni. Il lungo tempo trascorso fa venir meno uno dei requisiti richiesti<br />

dalle direttive e dalla giurisprudenza comunitaria per l'identificazione del sottoprodotto, che cioè il riutilizzo del materiale<br />

sia certo ed effettivo e non solo eventuale.<br />

Si deve porre in rilievo, ai fini del presente giudizio, che la norma censurata introduce una presunzione assoluta, in base alla<br />

quale le ceneri di pirite, quale che sia la loro provenienza e il trattamento ricevuto da parte del produttore, sono sempre e<br />

comunque da qualificare "sottoprodotto". Al contrario, la normativa comunitaria fa leva anche su fatti estrinseci e sui<br />

comportamenti dei soggetti produttori ed utilizzatori e non si arresta pertanto alla mera indicazione della natura intrinseca<br />

del materiale. Per effetto della presunzione assoluta, al giudice è inibito l'accertamento in fatto delle circostanze in cui si è<br />

formato il materiale e che hanno caratterizzato la gestione dello stesso, una volta prodotto. Tale preclusione si pone in<br />

contrasto con l'esigenza, derivante dalla disciplina comunitaria, di verificare in concreto l'esistenza di un rifiuto o di un<br />

sottoprodotto. In questo senso si è espressa la Corte di giustizia dell'Unione europea, la quale ha sottolineato come l'effettiva<br />

esistenza di un rifiuto debba essere accertata «alla luce del complesso delle circostanze, tenuto conto della finalità della<br />

direttiva e in modo da non pregiudicarne l'efficacia» (sentenza 18 dicembre 2007, in causa C-194/05, Commissione c.<br />

199


Repubblica italiana).<br />

Lo stesso legislatore nazionale ha recepito le direttive comunitarie sul punto, sia con il d.lgs. n. 22 del 1997, sia con il d.lgs.<br />

n. 4 del 2008. Solo per un periodo di circa due anni è rimasta in vigore la norma censurata, che ha espunto ope legis le<br />

ceneri di pirite dalla categoria dei rifiuti, con l'indiretta conseguenza di rendere penalmente irrilevante la loro gestione al di<br />

fuori delle regole stabilite dalla legge.<br />

La parte privata costituita ha proposto una interpretazione della norma censurata, dalla quale si evincerebbe l'inesistenza di<br />

una presunzione assoluta di non appartenenza del materiale in questione alla categoria dei rifiuti, e quindi l'esperibilità<br />

dell'accertamento, caso per caso, della natura di rifiuto o di sottoprodotto. Tale interpretazione porterebbe alla naturale<br />

conclusione dell'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale, per non avere il giudice rimettente valutato la<br />

possibilità di una interpretazione della disposizione censurata conforme al parametro di costituzionalità, che, nel caso di<br />

specie, è rappresentato dalle direttive in tema di rifiuti, per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.<br />

L'interpretazione conforme proposta non è però plausibile, in quanto contraddice ciò che chiaramente emerge dal testo della<br />

disposizione censurata. Nella stessa infatti, dopo l'enunciazione delle condizioni di fatto che devono sussistere perché un<br />

determinato materiale possa qualificarsi sottoprodotto, si aggiunge che rientrano «altresì» tra i sottoprodotti le ceneri di<br />

pirite. Si tratta quindi di una previsione, diversa da quella che precede, volta ad assoggettare il materiale in questione ad una<br />

disciplina differenziata. Se si fosse trattato di una mera esemplificazione, il legislatore non avrebbe usato l'avverbio<br />

«altresì», che vale invece ad identificare un'ipotesi ulteriore, rispetto alla quale la norma opera una inclusione autoritativa -<br />

fatta palese dal valore imperativo del predicato verbale «rientrano» - nella categoria dei sottoprodotti. Il contrasto con la<br />

normativa comunitaria di riferimento è pertanto evidente.<br />

5. - Non è implausibile la motivazione con cui il giudice rimettente esclude di poter fare diretta applicazione delle direttive<br />

comunitarie, disapplicando di conseguenza la norma censurata, in quanto ritenuta in conflitto con le prime. La prevalente<br />

giurisprudenza di legittimità nega, infatti, il carattere "autoapplicativo" delle direttive de quibus, con la conseguenza che le<br />

disposizioni nazionali, ancorché ritenute in contrasto con le stesse, hanno efficacia vincolante per il giudice (ex plurimis,<br />

Corte di cassazione, ordinanza n. 1414 del 2006). Più in generale, l'efficacia diretta di una direttiva è ammessa - secondo la<br />

giurisprudenza comunitaria e italiana - solo se dalla stessa derivi un diritto riconosciuto al cittadino, azionabile nei confronti<br />

dello Stato inadempiente. Gli effetti diretti devono invece ritenersi esclusi se dall'applicazione della direttiva deriva una<br />

responsabilità penale (ex plurimis, Corte di giustizia, ordinanza 24 ottobre 2002, in causa C-233/01, RAS; sentenza 29<br />

aprile 2004, in causa C-102/02, Beuttenmüller; sentenza 3 maggio 2005, in cause C-387, 391, 403/02, Berlusconi e altri;<br />

Corte di cassazione, sentenza n. 41839 del 2008).<br />

L'impossibilità di non applicare la legge interna in contrasto con una direttiva comunitaria non munita di efficacia diretta<br />

non significa tuttavia che la prima sia immune dal controllo di conformità al diritto comunitario, che spetta a questa Corte,<br />

davanti alla quale il giudice può sollevare questione di legittimità costituzionale, per asserita violazione dell'art. 11 ed oggi<br />

anche dell'art. 117, primo comma, Cost. (ex plurimis, sentenze n. 170 del 1984, n. 317 del 1996, n. 284 del 2007).<br />

6. - Da escludere altresè è il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione europea, come richiesto dall'Avvocatura<br />

dello Stato e dalla parte privata costituita. Il rinvio pregiudiziale non è necessario quando il significato della norma<br />

comunitaria sia evidente, anche per essere stato chiarito dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, e si impone soltanto<br />

quando occorra risolvere un dubbio interpretativo (ex plurimis, Corte di giustizia, sentenza 27 marzo 1963, in causa C-28-<br />

30/62, Da Costa; Corte costituzionale, ordinanza n. 103 del 2008). Nella specie, dalle norme e dalla giurisprudenza<br />

comunitarie emergono con chiarezza le nozioni di "rifiuto" e di "sottoprodotto", sulle quali non residuano margini di<br />

incertezza. Pertanto, il parametro interposto, rispetto agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., può considerarsi<br />

sufficientemente definito nei suoi contenuti, ai fini del controllo di costituzionalità.<br />

7. - Rilevato il contrasto tra la norma censurata e le direttive comunitarie sui rifiuti, nonché l'impossibilità di disapplicare la<br />

stessa da parte del giudice rimettente e la non necessità del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione europea,<br />

resta da risolvere il problema degli effetti della declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma extrapenale, che,<br />

sottraendo temporaneamente le ceneri di pirite dalla categoria dei rifiuti, ha escluso, durante il periodo della sua vigenza,<br />

precedente all'abrogazione ad opera del d.lgs n. 4 del 2008, l'applicabilità delle sanzioni penali previste per la gestione<br />

illegale dei rifiuti alla fattispecie oggetto del giudizio principale.<br />

Nella verifica della successione delle leggi nel tempo, si deve notare che quando furono commessi i fatti per cui si procede<br />

nel giudizio a quo la norma di esclusione non esisteva, ed era pertanto pacifico che si applicassero le sanzioni penali<br />

previste dal legislatore italiano per l'inosservanza delle norme introdotte in ossequio alle direttive comunitarie sui rifiuti.<br />

Durante lo svolgimento del processo è entrata in vigore la norma di esclusione, di cui s'è detto nei precedenti paragrafi, che<br />

è stata successivamente abrogata nelle more del giudizio incidentale davanti a questa Corte.<br />

Secondo il disposto dell'art. 2, quarto comma, del codice penale, se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le<br />

posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata<br />

sentenza irrevocabile. La legge più mite pertanto retroagisce, secondo il principio del favor rei, che caratterizza<br />

l'ordinamento italiano e che oggi trova conferma e copertura europea nell'art. 49 della Carta dei diritti fondamentali<br />

dell'Unione europea (cosiddetta Carta di Nizza), recepita dal Trattato di Lisbona, modificativo del Trattato sull'Unione<br />

200


europea e del Trattato che istituisce la Comunità europea, entrato in vigore il 1° dicembre 2009. Il citato art. 49 stabilisce:<br />

«Se, successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l'applicazione di una pena più lieve, occorre applicare<br />

quest'ultima».<br />

Questa Corte ha già chiarito, tuttavia, che la retroattività della legge più favorevole non esclude l'assoggettamento di tutte le<br />

norme giuridiche di rango primario allo scrutinio di legittimità costituzionale: «Altro [...] è la garanzia che i principi del<br />

diritto penale-costituzionale possono offrire agli imputati, circoscrivendo l'efficacia spettante alle dichiarazioni<br />

d'illegittimità delle norme penali di favore; altro è il sindacato cui le norme stesse devono pur sempre sottostare, a pena di<br />

istituire zone franche del tutto impreviste dalla Costituzione, all'interno delle quali la legislazione ordinaria diverrebbe<br />

incontrollabile» (sentenza n. 148 del 1983 e sul punto, sostanzialmente nello stesso senso, sentenza n. 394 del 2006).<br />

Nel caso di specie, se si stabilisse che il possibile effetto in malam partem della sentenza di questa Corte inibisce la verifica<br />

di conformità delle norme legislative interne rispetto alle norme comunitarie - che sono cogenti e sovraordinate alle leggi<br />

ordinarie nell'ordinamento italiano per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. - non si arriverebbe soltanto alla<br />

conclusione del carattere non autoapplicativo delle direttive comunitarie sui rifiuti, ma si toglierebbe a queste ultime ogni<br />

efficacia vincolante per il legislatore italiano, come effetto del semplice susseguirsi di norme interne diverse, che<br />

diverrebbero insindacabili a seguito della previsione, da parte del medesimo legislatore italiano, di sanzioni penali.<br />

La responsabilità penale, che la legge italiana prevede per l'inosservanza delle fattispecie penali connesse alle direttive<br />

comunitarie, per dare alle stesse maggior forza, diverrebbe paradossalmente una barriera insuperabile per l'accertamento<br />

della loro violazione.<br />

Per superare il paradosso sopra segnalato, occorre quindi distinguere tra controllo di legittimità costituzionale, che non può<br />

soffrire limitazioni, se ritualmente attivato secondo le norme vigenti, ed effetti delle sentenze di accoglimento nel processo<br />

principale, che devono essere valutati dal giudice rimettente secondo i principi generali che reggono la successione nel<br />

tempo delle leggi penali.<br />

Questa Corte ha già chiarito che l'eventuale accoglimento delle questioni relative a norme più favorevoli «verrebbe ad<br />

incidere sulle formule di proscioglimento o, quanto meno, sui dispositivi delle sentenze penali»; peraltro, «la pronuncia<br />

della Corte non potrebbe non riflettersi sullo schema argomentativo della sentenza penale assolutoria, modificandone la<br />

ratio decidendi: poiché in tal caso ne risulterebbe alterato [...] il fondamento normativo della decisione, pur fermi restando i<br />

pratici effetti di essa» (sentenza n. 148 del 1983).<br />

Occorre precisare inoltre che, nel caso di specie, il giudice rimettente ha posto un problema di conformità di una norma<br />

legislativa italiana ad una direttiva comunitaria, evocando i parametri di cui agli artt. 11 e 117 Cost., senza denunciare, né<br />

nel dispositivo né nella motivazione dell'atto introduttivo del presente giudizio, la violazione dell'art. 3 Cost. e del principio<br />

di ragionevolezza intrinseca delle leggi. Ciò esclude che la questione oggi all'esame di questa Corte comprenda la<br />

problematica delle norme penali di favore, quale affrontata dalla sentenza n. 394 del 2006.<br />

Infine va ricordato che, posti i principi di cui all'art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, all'art. 25,<br />

secondo comma, Cost. ed all'art. 2, quarto comma, del codice penale, la valutazione del modo in cui il sistema normativo<br />

reagisce ad una sentenza costituzionale di accoglimento non è compito di questa Corte, in quanto la stessa spetta al giudice<br />

del processo principale, unico competente a definire il giudizio da cui prende le mosse l'incidente di costituzionalità.<br />

P.Q.M.<br />

per questi motivi<br />

LA CORTE COSTITUZIONALE<br />

riuniti i giudizi,<br />

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 183, comma 1, lettera n), del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme<br />

in materia ambientale), nel testo antecedente alle modiche introdotte dall'art. 2, comma 20, del decreto legislativo 16<br />

gennaio 2008, n. 4 (Ulteriori disposizioni correttive ed integrative del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia<br />

ambientale), nella parte in cui prevede: «rientrano altresì tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni di cui alla parte<br />

quarta del presente decreto le ceneri di pirite, polveri di ossido di ferro, provenienti dal processo di arrostimento del<br />

minerale noto come pirite o solfuro di ferro per la produzione di acido solforico e ossido di ferro, depositate presso<br />

stabilimenti di produzione dismessi, aree industriali e non, anche se sottoposte a procedimento di bonifica o di ripristino<br />

ambientale».<br />

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 gennaio 2010.<br />

DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 28 GEN. 2010.<br />

NOTE GIURISPRUDENZIALI<br />

7Foro amm. TAR 2010, 01, 0094<br />

(1) Cfr. Cass., sez. un., 25 giugno 2006 n. 16896, in questa Rivista C.d.S. 2006, 11, 3018; Cons. St., sez. V, 23 gennaio 2006 n. 202, in<br />

questa Rivista C.d.S. 2006, 1, 175; T.R.G.A. Trentino, Trento, 11 novembre 2004 n. 363, in questa Rivista Tar 2004, 3273.<br />

201


Cass. pen. 2010, 05, 1743<br />

(1) L'ordinanza di rimessione del Tribunale di Venezia - sezione distaccata di Dolo 20 settembre 2006 è pubblicata in Corr. merito, 2007,<br />

2, p. 225, con nota di GATTA, La nozione di rifiuto tra diritto penale e diritto comunitario: rinnovati dubbi di legittimità costituzionale.<br />

La sentenza della C. cost. n. 394 del 2006 è pubblicata in questa rivista, 2007, p. 449, con nota di GAMBARDELLA, Specialità<br />

sincronica e specialità diacronica nel controllo di costituzionalità delle norme penali di favore, nonché in Dir. pen. proc., 2007, f. 3, p.<br />

324, con nota di LA ROSA, La condivisibile "ragionevolezza" sulle norme penali di favore. Sul tema v. MARINUCCI, Il controllo di<br />

legittimità costituzionale delle norme penali: diminuiscono (ma non abbastanza) le "zone franche", in Giur. cost., 2006, p. 4160.<br />

Sui profili penalistici dell'ordinamento comunitario v. SICURELLA, Diritto penale e competenza dell'Unione europea, Giuffrè, 2006;<br />

SOTIS, Il diritto senza codice. Uno studio sul sistema penale europeo vigente, Giuffrè, 2007; BILANCIA-D'AMICO, La nuova Europa<br />

dopo il Trattato di Lisbona, Giuffrè, 2009; sulla vicenda del falso in bilancio INSOLERA, Democrazia, ragione, prevaricazione, Giuffrè,<br />

2003. Sull'art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, richiamato dalla Corte, v. D'AMICO, sub art. 49, in BIFULCO-<br />

CARTABIA-CELOTTO,L'Europa dei diritti. Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, Il Mulino, 2001.<br />

5Cass. pen. 2011, 01, 0117<br />

(1) La decisione è già stata pubblicata in questa rivista, 2010, p. 1738. Ne ripubblichiamo la massima con una nota di DARIO FRANZIN.<br />

Giur. cost. 2010, 01, 0381<br />

(1) Sui rapporti tra ordinamento interno e ordinamento comunitario, cfr. nota alla sent. n. 284 del 2007. Poi, cfr. ord. n. 65 e sentt. nn. 125<br />

e 284 del 2009.<br />

Circa la possibilità (o l'obbligo) della Corte costituzionale di adire in via pregiudiziale la Corte di giustizia, cfr. nota alla sent. n. 102 del<br />

2008. Cfr. anche sentt. nn. 103, 164, 415 e 439 del 2008.<br />

Riguardo all'uso della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (c.d. Carta di Nizza) da parte della Corte costituzionale cfr. sentt.<br />

nn. 135 e 445 del 2002, 393 del 2006, 349 del 2007, 182, 215 e 251 del 2008.<br />

Nonostante la Corte abbia più volte affermato che «l'impossibilità di non applicare la legge interna in contrasto con una direttiva<br />

comunitaria non munita di efficacia diretta non significa (...) che la prima sia immune dal controllo di conformità al diritto comunitario,<br />

che spetta [alla] Corte, davanti alla quale il giudice può sollevare questione di legittimità costituzionale, per asserita violazione dell'art. 11<br />

ed oggi anche dell'art. 117, primo comma, Cost.» (ex plurimis, sentenze n. 170 del 1984, n. 317 del 1996, n. 284 del 2007), è soltanto in<br />

questa occasione che il giudice costituzionale si è pronunciato, accogliendola, su una questione relativa al contrasto tra una norma<br />

nazionale ed una norma comunitaria priva di effetti diretti.<br />

Corte costituzionale, 28 gennaio 2010, n. 28<br />

202


DIRITTO PENALE E LEGGE REGIONALE<br />

utorità: Corte costituzionale<br />

Data: 24 giugno 2004<br />

Numero: n. 185<br />

Parti: Pres. Cons. C. Reg. Friuli Venezia Giulia<br />

Fonti: Giur. cost. 2004, 3, Giur. cost. 2004, 5, 3278 (s.m.) (nota di: MORONE)<br />

CLASSIFICAZIONE<br />

FRIULI - VENEZIA GIULIA - In genere<br />

TESTO<br />

È costituzionalmente illegittima la l. reg. Friuli Venezia Giulia 17 luglio 2002 n. 17. Premesso che la "materia penale",<br />

intesa come l'insieme dei beni e valori ai quali viene accordata la tutela più intensa, non è di regola determinabile "a priori",<br />

giacché essa nasce nel momento in cui il legislatore nazionale pone norme incriminatrici - il che può avvenire in qualsiasi<br />

settore, a prescindere dal riparto di attribuzioni legislative tra lo Stato e le regioni, trattandosi, per definizione, di una<br />

competenza dello Stato strumentale, potenzialmente incidente nei più diversi ambiti materiali ed anche in quelli compresi<br />

nelle potestà legislative esclusive, concorrenti o residuali delle regioni - e che la compressione delle competenze legislative<br />

regionali è quindi giustificata quando la legge nazionale sia protesa alla salvaguardia di beni, valori e interessi propri<br />

dell'intera collettività tutelabili solo su base egualitaria, la l. reg. impugnata, disciplinando l'istituzione di case da gioco nel<br />

territorio della regione Friuli Venezia Giulia, introduce una deroga al generale divieto di gioco d'azzardo posto dall'art. 718<br />

c.p. e nel far ciò invade la materia "ordinamento penale", dall'art. 117 comma 2 lett. l) cost., riservata in via esclusiva allo<br />

Stato.<br />

Corte costituzionale, 24 giugno 2004, n. 185<br />

Considerato in diritto<br />

1. ( Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato la legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 17 luglio 2002, n. 17<br />

(Istituzione di case da gioco nel Friuli-Venezia Giulia).<br />

La legge denunciata, che consta di un solo articolo suddiviso in 15 commi, disciplina l'istituzione di case da gioco nel<br />

territorio della Regione Friuli-Venezia Giulia, prevedendo che l'amministrazione regionale possa promuovere la<br />

costituzione, ai sensi dell'art. 2458 del codice civile, di una società per azioni con lo scopo di gestire case da gioco ovvero<br />

possa affidare lo svolgimento di tale attività, in regime di concessione, ad una società con sede in uno Stato membro<br />

dell'Unione europea; la medesima legge detta poi le disposizioni relative all'affidamento in concessione delle case da gioco<br />

e rinvia ad un successivo regolamento la disciplina di tale attività.<br />

Secondo il ricorrente, tale legge, travalicando i poteri che lo statuto speciale d'autonomia e le relative norme d'attuazione<br />

riservano alla Regione medesima, violerebbe l'art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, che riserva alla<br />

competenza legislativa esclusiva dello Stato l'ordinamento penale, dovendo restare riservata a tale competenza<br />

l'individuazione di ogni caso in cui si renda necessaria una deroga alle disposizioni penali che vietano il gioco d'azzardo<br />

(artt. 718 e seguenti del codice penale).<br />

Ulteriore e più specifica censura è rivolta poi al comma 9 dell'art. 1, il quale stabilisce che una quota del 20 per cento degli<br />

utili provenienti dalla gestione delle case da gioco sia destinato al rafforzamento delle strutture delle forze dell'ordine<br />

presenti nel territorio regionale. La disposizione contrasterebbe con l'art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., che riserva<br />

allo Stato la competenza legislativa esclusiva in materia di ordine pubblico e sicurezza.<br />

2. ( La questione è fondata.<br />

Rileva il ricorrente che, a fronte della disciplina contenuta nello statuto speciale della Regione Friuli-Venezia (legge<br />

costituzionale n. 1 del 1963) e nelle relative norme di attuazione, che non attribuiscono una competenza alla Regione stessa<br />

in materia penale, un'estensione della competenza regionale non è desumibile neppure dall'art. 10 della legge costituzionale<br />

n. 3 del 2001, che rende applicabile alle Regioni ad autonomia speciale le disposizioni della novella costituzionale del 2001<br />

che comportino per esse una più ampia autonomia. L'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. riserva infatti allo Stato la<br />

materia dell'"ordinamento penale", da intendersi come sistema normativo riguardante il diritto sostanziale, giacché la<br />

disciplina processuale è enumerata nel primo periodo della stessa lettera l).<br />

Si deve ricordare che la riserva allo Stato di tale competenza non è una novità introdotta in sede di revisione del Titolo V.<br />

Nella giurisprudenza di questa Corte era infatti ricorrente l'affermazione secondo cui la sola fonte del potere punitivo è la<br />

legge statale e le Regioni non dispongono di alcuna competenza che le abiliti a introdurre, rimuovere o variare con proprie<br />

leggi le pene previste dalle leggi dello Stato in tale materia; non possono in particolare considerare lecita un'attività<br />

penalmente sanzionata nell'ordinamento nazionale (tra le altre, si vedano le sentenze n. 234 del 1995, n. 117 del 1991, n.<br />

203


309 del 1990, n. 487 del 1989). Dalla riforma costituzionale del 2001, questo orientamento giurisprudenziale ha ricevuto<br />

una esplicita conferma, giacchè è oggi positivamente previsto che la materia dell'ordinamento penale di cui all'art. 117,<br />

secondo comma, lettera l), Cost., è di esclusiva competenza dello Stato.<br />

Resta aperto l'ordine dei problemi sui quali questa Corte si è già in passato soffermata. La "materia penale", intesa come<br />

l'insieme dei beni e valori ai quali viene accordata la tutela più intensa, non è di regola determinabile a priori; essa nasce nel<br />

momento in cui il legislatore nazionale pone norme incriminatici e ciò può avvenire in qualsiasi settore, a prescindere dal<br />

riparto di attribuzioni legislative tra lo Stato e le Regioni. Si tratta per definizione di una competenza dello Stato<br />

strumentale, potenzialmente incidente nei più diversi ambiti materiali ed anche in quelli compresi nelle potestà legislative<br />

esclusive, concorrenti o residuali delle Regioni, le cui scelte potranno risultarne talvolta rafforzate e munite di una garanzia<br />

ulteriore, talaltra semplicemente inibite.<br />

Di qui l'esigenza che l'esercizio della potestà statale in materia penale sia sempre contenuto nei limiti della non manifesta<br />

irragionevolezza, non soltanto in ossequio al criterio della extrema ratio, al quale, secondo la giurisprudenza di questa Corte<br />

(sentenze n. 487 del 1989, n. 364 del 1988, n. 189 del 1987), deve essere sempre ispirata la repressione criminale. Alla<br />

stregua del criterio anzidetto la compressione delle competenze legislative regionali è giustificata quando la legge nazionale<br />

sia protesa alla salvaguardia di beni, valori e interessi propri dell'intera collettività tutelabili solo su base egalitaria.<br />

3. ( Alla luce delle considerazioni che precedono è in primo luogo infondata la tesi difensiva della Regione, secondo la<br />

quale gli artt. 718 e ss. cod. pen. - che puniscono l'esercizio del gioco d'azzardo e considerano addirittura una aggravante<br />

l'apertura e la gestione di una casa da gioco - andrebbero interpretati nel senso di escludere dall'ambito dell'incriminazione i<br />

comportamenti posti in essere in base a provvedimenti derogatori dell'autorità pubblica. Una simile virtualità interpretativa è<br />

estranea all'art. 718 cod. pen., che non contempla alcuna deroga a favore di non meglio specificate autorità pubbliche. E'<br />

certo vero che l'attuale assetto delle case da gioco in Italia è caratterizzato da lacunosità e disorganicità, che questa Corte<br />

non ha mancato di sottolineare, sollecitando un intervento di razionalizzazione da parte del legislatore (sentenze n. 438 del<br />

2002, n. 291 del 2001, n. 152 del 1985). E tuttavia le attuali deroghe (che riguardano l'esercizio del gioco d'azzardo in<br />

apposite case da gioco nei Comuni di San Remo, Venezia, Campione d'Italia e Saint-Vincent) sono state dalla<br />

giurisprudenza, anche di questa Corte, ricondotte a disparate discipline statali, diverse da quella contenuta negli artt. 718 e<br />

ss. cod. pen., che resta di per sé inderogabile.<br />

Si aggiunga che questa norma incriminatrice è espressione non irragionevole di quella discrezionalità del legislatore di cui si<br />

è appena detto, sebbene la ratio dell'incriminazione non risieda nel disvalore che il gioco d'azzardo esprimerebbe in sé,<br />

come pure talvolta si è sostenuto. Anche in esso si manifestano infatti propensioni individuali (impiego del tempo libero,<br />

svago, divertimento) che appartengono di norma ai differenti stili di vita dei consociati; stili di vita, i quali, in una società<br />

pluralistica, non possono formare oggetto di aprioristici giudizi di disvalore. Le fattispecie penali di cui agli artt. 718 e ss.,<br />

rispondono invece all'interesse della collettività a veder tutelati la sicurezza e l'ordine pubblico in presenza di un fenomeno<br />

che si presta a fornire l'habitat ad attività criminali. La stessa preoccupazione è stata del resto avvertita anche a livello<br />

comunitario: la Corte di giustizia, in più di una occasione (sentenza 21 ottobre 1999, causa C-67/98 e sentenza 24 marzo<br />

1994, causa C-275/92), ha affermato che spetta agli Stati membri determinare l'ampiezza della tutela dell'impresa con<br />

riferimento al gioco d'azzardo ed ha fondato la discrezionalità di cui devono godere le autorità nazionali, oltre che sulle sue<br />

dannose conseguenze individuali e sociali, proprio sugli elevati rischi di criminalità e di frode che ad esso si accompagnano.<br />

L'incriminazione in esame non può dunque dirsi in alcun modo eccedente il complesso di beni e valori che lo Stato, nei<br />

termini già chiariti, può tutelare con la sanzione penale, sebbene ciò non elida la necessità, già avvertita dalla Corte, di un<br />

intervento legislativo di riordino dell'attuale normativa del settore.<br />

4. ( In conclusione, la legge regionale impugnata, disciplinando l'istituzione di case da gioco nel territorio della Regione<br />

Friuli-Venezia Giulia, introduce una deroga al generale divieto di cui si è detto e nel far ciò invade la materia "ordinamento<br />

penale", dall'art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, riservata in via esclusiva allo Stato.<br />

L'unitarietà dell'oggetto della disciplina recata dall'unico articolo della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 17 luglio<br />

2002, n. 17, fa sì che la declaratoria di incostituzionalità debba investire l'intera legge, con conseguente assorbimento<br />

dell'ulteriore e più specifica censura proposta dallo Stato.<br />

P.Q.M.<br />

per questi motivi<br />

LA CORTE COSTITUZIONALE<br />

dichiara l'illegittimità costituzionale della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 17 luglio 2002, n. 17 (Istituzione di<br />

case da gioco nel Friuli-Venezia Giulia).<br />

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 giugno 2004.<br />

DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 24 GIU. 2004.<br />

204


Nota a:<br />

Cassazione penale , 17/11/2010, n. 40836, sez. VI<br />

GLI EFFETTI DELLA DICHIARAZIONE DI ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DELLA CIRCOSTANZA<br />

AGGRAVANTE DELLA "CLANDESTINITÀ": ABOLIZIONE O ANNULLAMENTO?<br />

Cass. pen. 2011, 4, 1349<br />

Marco Gambardella<br />

Ricercatore di diritto penale Sapienza Università di Roma<br />

Sommario 1. Premessa. La soluzione adottata dalla pronuncia in commento. - 2. La non applicabilità dell'art. 2, comma 4,<br />

c.p. nel caso d'incostituzionalità di una circostanza aggravante. - 3. Abrogazione e annullamento di norme incriminatrici<br />

per illegittimità costituzionale. - 4. La retroattività degli effetti favorevoli, anche oltre il giudicato, in caso di abolitio<br />

criminis e di annullamento di norme incriminatrici incostituzionali. - 5. I primi orientamenti della dottrina e della<br />

giurisprudenza di merito. - 6. La possibile estensione analogica dell'art. 673 c.p.p. alla incostituzionalità di una circostanza<br />

aggravante. - 7. L'irragionevolezza della scelta legislativa che esclude la modifica del giudicato in presenza di una<br />

aggravante dichiarata incostituzionale. - 8. I possibili rimedi: l'intervento del legislatore; la sentenza additiva della Corte<br />

costituzionale che riscrive la regola del conflitto.<br />

1. PREMESSA. LA SOLUZIONE ADOTTATA DALLA PRONUNCIA IN COMMENTO<br />

Nel momento in cui al centro della discussione giuridica si pone ineludibile il tema del collasso della giustizia penale (come<br />

è messo in evidenza nella Relazione del Primo presidente della Corte di cassazione durante la cerimonia di inaugurazione<br />

dell'anno giudiziario 2011 (1)), le scelte di politica criminale del legislatore, irrispettose dei principi costituzionali, si<br />

dimostrano - come vedremo - non senza conseguenze sul carico di lavoro giudiziario, aggravandolo ulteriormente.<br />

Di ciè è prova la recente dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 61, n. 11-bis, c.p., contenente la circostanza aggravante<br />

comune della c.d. "clandestinità" ("l'avere il colpevole commesso il fatto mentre si trova illegalmente sul territorio<br />

nazionale"); i cui riflessi si ripercuotono oggi sugli uffici giudiziari che sono costretti a farsi carico di molteplici questioni<br />

giuridiche, poste appunto dalla estromissione della circostanza incostituzionale dall'ordinamento italiano (2).<br />

Né in questo caso può dirsi che la dottrina penale non avesse messo in guardia il legislatore sulla palese incostituzionalità<br />

della sua scelta. Il recente monito di Massimo Donini teso a denunciare la mancanza di forma-legge - ossia di un<br />

provvedimento generale e astratto - nelle recenti riforme legislative (3), si era qui concretizzato nelle ripetute prese di<br />

posizione dei giuristi, secondo cui si trattava di un testo normativo ascrivibile al c.d. diritto penale d'autore (rilevanza penale<br />

di uno status, di una qualità personale: immigrato in condizione irregolare), in violazione dell'art. 25, comma 2, Cost., che<br />

discrimina tra cittadino e immigrato in violazione del principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 Cost.<br />

Occorre, in particolare, interrogarsi circa le conseguenze prodotte dalla pronuncia della Corte costituzionale sui<br />

procedimenti penali in corso e su quelli già conclusi con una sentenza irrevocabile, nei quali la circostanza aggravante della<br />

clandestinità ha influito sulla determinazione della pena: sia allorché essa è stata direttamente applicata dal giudice, che ha<br />

operato l'aumento sulla pena del reato-base; sia quando la circostanza della clandestinità ha determinato nel giudizio di<br />

comparazione l'equivalenza tra aggravanti e attenuanti ex art. 69 c.p., sicché il giudice ha applicato la pena-base come se il<br />

reato non fosse circostanziato.<br />

Per contro, la declaratoria di illegittimità costituzionale dell'aggravante ex art. 61, n. 11-bis non rileva quando risulta dalla<br />

sentenza di condanna che essa, pur stimata sussistente, non è stata valutata ai fini della determinazione della pena, stante ad<br />

esempio la prevalenza delle concesse attenuanti generiche sulla contestata aggravante della clandestinità (4).<br />

Una prima risposta al problema è stata fornita dalla decisione della suprema Corte in esame, con riferimento ad un ricorso<br />

per cassazione avverso una sentenza di patteggiamento, nella quale la pena base applicata era il risultato di un giudizio di<br />

equivalenza tra le attenuanti generiche e l'aggravante dell'art. 61, n. 11-bis, c.p.; si trattava, quindi, di un caso in cui la<br />

circostanza aggravante della clandestinità aveva influito sul calcolo della pena da applicare.<br />

Ad avviso della Corte di cassazione, in conseguenza dell'effetto abolitivo prodotto dalla sentenza della Corte costituzionale<br />

sulla circostanza aggravante, si è determinata una modifica in senso favorevole del complessivo trattamento sanzionatorio ai<br />

sensi dell'art. 2, comma 4, c.p.<br />

A livello processuale, chiarisce poi la suprema Corte, si configura una sopravvenuta causa di nullità della sentenza di<br />

patteggiamento: causa che discende dalla dichiarazione di incostituzionalità della circostanza aggravante. Tale vizio può<br />

essere rilevato d'ufficio, avendo ad oggetto la qualificazione aggravata della condotta criminosa e la definizione del<br />

trattamento sanzionatorio applicato all'imputato.<br />

Discende dalle premesse argomentative, l'ineccepibile soluzione di annullare senza rinvio l'impugnata sentenza di<br />

patteggiamento e trasmettere gli atti al giudice di merito per "una valutazione ex novo della regiudicanda senza preclusioni<br />

205


di sorta riconducibili alla fase processuale già invalidamente esaurita, sì da poter accedere ad una rinegoziazione<br />

dell'accordo per l'applicazione di una pena conforme a criteri di legalità ovvero alla rinuncia dell'accordo medesimo, dando<br />

ingresso al giudizio ordinario o al giudizio abbreviato".<br />

2. LA NON APPLICABILITÀ DELL'ART. 2, COMMA 4, C.P. NEL CASO D'INCOSTITUZIONALITÀ DI UNA<br />

CIRCOSTANZA AGGRAVANTE<br />

Se la soluzione offerta dalla suprema Corte appare corretta nell'esito (ossia l'annullamento senza rinvio della sentenza di<br />

patteggiamento sulla quale l'aggravante incostituzionale ha spiegato una qualche incidenza nel calcolo della pena applicata<br />

all'imputato), non altrettanto condivisibili sembrano le argomentazioni svolte dalla Corte per giungere a tale risultato (5).<br />

Correttezza dogmatica del ragionamento della Corte che non rileva solo a livello teorico, ma cui può conseguire una<br />

differenza anche negli esiti pratici. Si allude a quei procedimenti in cui - diversamente da quello oggetto del presente<br />

commento ancora non definitivamente deciso - la circostanza aggravante della clandestinità ha influito sulla pena applicata,<br />

ma che si sono già conclusi con una sentenza di condanna irrevocabile (6).<br />

Anticipando brevemente le conclusioni del ragionamento svolto di seguito, a sostegno di quanto appena affermato può<br />

osservarsi che se si muove dalla premessa teorica della Cassazione - ossia l'imputato ha interesse a far valere ai sensi<br />

dell'art. 2, comma 4, c.p. l'effetto abolitivo dell'aggravante prodotto dalla decisione della Corte costituzionale - allora<br />

l'applicazione della modifica favorevole della disciplina penale trova un limite invalicabile nel passaggio in giudicato della<br />

sentenza di condanna. E dunque le sentenze irrevocabili pronunciate sulla base della circostanza aggravante della<br />

clandestinità non possono essere più messe in discussione, rimangono ferme.<br />

Mentre, come vedremo, se si pone l'attenzione, non come ha fatto la Cassazione sul profilo della successione nel tempo di<br />

un nuovo trattamento sanzionatorio più favorevole rispetto a quello in vigore al momento dell'applicazione della pena da<br />

parte del giudice di merito, bensì sulla invalidità originaria della scelta legislativa; l'annullamento costituzionale ex tunc del<br />

testo normativo illegittimo può ripercuotere i suoi effetti anche oltre il giudicato di condanna.<br />

Ebbene, non può condividersi l'affermazione contenuta nella sentenza in commento, secondo cui la pronuncia della Corte<br />

costituzionale ha prodotto un effetto abolitivo dell'art. 61, n. 11-bis, c.p. Né la conseguenza che se ne trae: ossia l'interesse<br />

dell'imputato a far valere ai sensi del comma 4 dell'art. 2 c.p. la sopravvenuta parziale illegittimità della contestazione.<br />

In realtà, rispetto alla circostanza aggravante della clandestinità - come si dirà meglio dopo - non vi è stato alcun effetto<br />

abolitivo, vi è stato invece l'annullamento della norma dichiarata incostituzionale. A voler essere precisi, poi, siamo in<br />

presenza di una pronuncia di accoglimento che ha colpito una disposizione (n. 11-bis dell'art. 61 c.p.) nella sua totalità;<br />

essendo stata annullata l'intera disposizione, tutte le norme che da quel testo legislativo si possono ricavare mediante<br />

interpretazione sono in contrasto con la Costituzione (7).<br />

E comunque deve ribadirsi, in presenza di alcune decisioni della Cassazione che sembrano affermare il contrario (8), che<br />

anche se si volesse qualificare come abolitivo l'effetto della pronuncia costituzionale, non può ritenersi operante nel caso di<br />

specie il disposto del comma 4 dell'art. 2 c.p.: esso attiene alla successione modificativa della disciplina di norme penali<br />

valide; concerne, nell'ambito della successione di leggi penali, casi di piena continuità normativa.<br />

Va esclusa allora in tali ipotesi l'applicazione del comma 4 dell'art. 2 c.p., sulla base della considerazione che tale enunciato<br />

normativo regola la modificazione delle incriminazioni e non la loro abolizione (ancorché parziale); riguarda cioè il caso in<br />

cui, in conseguenza di una successione di leggi penali, il fatto continua a essere preveduto come reato, ma è trattato in modo<br />

diverso secondo la regola che in siffatte ipotesi deve applicarsi la disposizione più favorevole "salvo che sia stata<br />

pronunciata sentenza irrevocabile" (9).<br />

Neppure si può evocare il fenomeno della c.d. abolitio criminis parziale: nella disciplina di tale fenomeno il comma 4<br />

dell'art. 2 c.p. serve per regolare quella porzione dell'area di illiceità penale che si pone in continuità con la precedente<br />

norma incriminatrice; il comma 2 disciplina, invece, la restante porzione normativa che il legislatore ha abolito: la classe dei<br />

fatti, cioè, che non è più penalmente sanzionata.<br />

Bisogna mantenere distinta la disciplina giuridica della abrogazione di una semplice circostanza aggravante da quella<br />

relativa all'annullamento di una previsione aggravante per illegittimità costituzionale. Soltanto nel primo caso opera la<br />

disciplina di cui al comma 4 dell'art. 2 c.p., perché si tratta di una successione meramente modificativa di leggi penali che<br />

introduce un trattamento sanzionatorio più favorevole applicabile in assenza di una decisione di condanna passata in<br />

giudicato. La restante ipotesi della dichiarazione di incostituzionalità di una norma è, in via generale, disciplinata sia dall'art.<br />

136, comma 1, Cost., il quale stabilisce che la norma di cui è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale "cessa di avere<br />

efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione"; sia dall'art. 30, comma 3, l. n. 87 del 1953, secondo cui<br />

"le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della<br />

decisione"; sia dall'art. 30, comma 4, l. n. 87 cit., secondo cui "quando in applicazione della norma dichiarata<br />

incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali".<br />

3. ABROGAZIONE E ANNULLAMENTO DI NORME INCRIMINATRICI PER ILLEGITTIMITÀ<br />

COSTITUZIONALE<br />

Per una migliore comprensione del ragionamento sviluppato nel prosieguo, conviene formulare la seguente premessa. La<br />

nozione di abolitio criminis ex art. 2, comma 2, c.p. coincide esattamente con il fenomeno della abrogazione di una norma<br />

206


incriminatrice: la norma successiva prevale su quella anteriore, "eliminandola" dal sistema penale, quando si è in presenza<br />

di norme che scaturiscono da fonti poste sullo stesso livello gerarchico (10).<br />

Ora, il fenomeno dell'abrogazione (al quale è riconducibile, come detto, sul piano teorico-generale l'istituto dell'abolitio<br />

criminis) va tenuto separato da quello dell'annullamento di una norma incriminatrice, che consegue alla dichiarazione della<br />

sua illegittimità costituzionale.<br />

La dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale non configura una abrogazione, e non è dunque in alcun<br />

modo riconducibile alla disciplina penale della successione di leggi nel tempo (art. 2 c.p.) (11). Invero, "non essendovi due<br />

leggi in successione tra loro, mancano i presupposti per l'applicazione dell'art. 2"; sicché, il comma 4 dell'art. 30 l. n. 87 del<br />

1953 non riafferma pleonasticamente una disciplina già desumibile dal comma 2 dell'art. 2 c.p. (12).<br />

Nel senso che i fenomeni della abrogazione e dell'annullamento costituzionale, "pur potendo presentare profili di analogia,<br />

vanno tenuti concettualmente e giuridicamente distinti", si è espressa chiaramente la giurisprudenza di legittimità. Si è<br />

scritto, così, che "l'abrogazione di una disposizione o di una norma ricade nella normalità dell'evoluzione di qualunque<br />

ordinamento. Il diacronico succedersi di leggi, che in tutto o in parte disciplinano innovativamente - ampliando, riducendo o<br />

comunque modificando i loro ambiti - materie già regolate da leggi precedenti, è fenomeno che involge la fisiologica vita<br />

dell'ordinamento giuridico e le relative problematiche rinvengono soluzione (ove lo stesso legislatore non detti criteri volti a<br />

comporre l'interscambio temporale o successorio di norme) attraverso processi interpretativi, talora complessi, ispirati dai<br />

principi di diritto intertemporale di cui ciascun ordinamento è dotato [...]. La dichiarazione di illegittimità costituzionale di<br />

una norma investe, invece, un evento che pertiene alla patologia ordinamentale. La norma illegittima è espunta<br />

dall'ordinamento perché infirmata da una invalidità originaria che ne ha condizionato l'applicazione, e che giustifica<br />

(rendendola, anzi, indispensabile) la proiezione sui rapporti giuridici pregressi, che da tale incostituzionale norma siano stati<br />

disciplinati (retroattività), della pronuncia di incostituzionalità, certificante - per dir così - la definitiva uscita<br />

dall'ordinamento di una norma geneticamente nata morta" (13).<br />

E già prima, sulla stessa linea, si era pronunciata proprio la Corte costituzionale nell'ormai lontano 1970, quando con una<br />

decisione di straordinaria chiarezza (relatore Vezio Crisafulli) aveva tracciato una netta differenza "tra l'effetto di<br />

abrogazione, prodotto dal sopravvenire di nuove leggi, e l'effetto di annullamento, derivante dalle sentenze di accoglimento<br />

della Corte costituzionale". Secondo la Corte "l'abrogazione non tanto estingue le norme, quanto piuttosto ne delimita la<br />

sfera materiale di efficacia, e quindi l'applicabilità, ai fatti verificatisi sino ad un certo momento del tempo: che coincide, per<br />

solito e salvo sia diversamente disposto dalla nuova legge, con l'entrata in vigore di quest'ultima. La declaratoria di<br />

illegittimità costituzionale, determinando la cessazione di efficacia delle norme che ne sono oggetto, impedisce, invece,<br />

dopo la pubblicazione della sentenza, che le norme stesse siano comunque applicabili anche ad oggetti ai quali sarebbero<br />

state applicabili alla stregua dei comuni principi sulla successione delle leggi nel tempo. Altro è, infatti il mutamento di<br />

disciplina attuato per motivi di opportunità politica, liberamente valutata dal legislatore, altro l'accertamento, ad opera<br />

dell'organo a ciò competente, della illegittimità costituzionale di una certa disciplina legislativa: in questa seconda ipotesi, a<br />

differenza che nella prima, è perfettamente logico che sia vietato a tutti, a cominciare dagli organi giurisdizionali, di<br />

assumere le norme dichiarate incostituzionali a canoni di valutazione di qualsivoglia fatto o rapporto, pur se venuto in essere<br />

anteriormente alla pronuncia della Corte" (14).<br />

La dottrina ha colto il nucleo essenziale della distinzione tra il fenomeno della abrogazione e quello dell'annullamento di<br />

una norma per illegittimità costituzionale nel fatto che l'abrogazione discende da una scelta politica del legislatore, esprime<br />

pertanto un indirizzo di politica del diritto; l'annullamento, invece, consegue ad una decisione della Corte costituzionale che<br />

accerta l'invalidità della norma censurata (15).<br />

Orbene, mentre il fenomeno abrogativo si fonda sul criterio cronologico (principio di preferenza della legge successiva),<br />

quello dell'annullamento per illegittimità costituzionale trova la sua ratio nel criterio gerarchico (principio di preferenza<br />

della legge superiore): in caso di conflitto tra norme provenienti da fonti disposte su gradi diversi nella gerarchia delle fonti,<br />

la norma gerarchicamente inferiore deve considerarsi priva di validità (16). L'abrogazione elimina pertanto le antinomie che<br />

si producono dal succedersi nel tempo di norme provenienti da fonti omogenee, la dichiarazione di incostituzionalità<br />

comporta invece la cessazione di efficacia di norme scaturenti da fonti eterogenee (17).<br />

In particolare, il principio di costituzionalità (o di legalità costituzionale) attua, a livello di rapporti tra norme costituzionali<br />

e norme di fonte legislativa, il principio di gerarchia delle fonti; esso conferisce preferenza alla legge costituzionale rispetto<br />

alla legge ordinaria, e trova il suo diretto riconoscimento negli artt. 134, 136 e 138 Cost., che attribuiscono - nel sistema<br />

delle fonti - alla Costituzione un grado gerarchico superiore a quello della legge (18).<br />

Dalla gerarchia delle fonti consegue, allora, un rapporto gerarchico tra le norme costituenti il nostro diritto oggettivo: la<br />

norma di fonte superiore prevale sulla norma di fonte subordinata (lex superior derogat inferiori) (19). Ne deriva che la<br />

legge ordinaria non può esprimere norme contrarie alle norme di rango costituzionale; e qualora il conflitto tra norme si<br />

verifichi, la norma di legge ordinaria, in quanto gerarchicamente inferiore, deve considerarsi invalida e pertanto deve essere<br />

annullata dall'organo competente (20).<br />

Inoltre, per quel che concerne gli effetti, mentre (in genere) l'abrogazione opera ex nunc, invece l'annullamento conseguente<br />

ad una dichiarazione di illegittimità costituzionale opera ex tunc. L'annullamento di una norma invalida, da parte della Corte<br />

207


costituzionale, giacché in contrasto con il parametro costituzionale, provoca l'espulsione di essa dall'insieme delle norme<br />

appartenenti all'ordinamento giuridico (21). Le norme dichiarate costituzionalmente illegittime sono, dunque, estromesse<br />

definitivamente dal nostro ordinamento con effetti retroattivi (22).<br />

La declaratoria di illegittimità costituzionale determina l'estinzione retroattiva delle norme: esse non possono essere più<br />

applicate nemmeno per valutare atti compiuti anteriormente alla pubblicazione della sentenza di accoglimento. Tuttavia - si<br />

è precisato in dottrina - "retroattività" qui non vuol dire che la sentenza di accoglimento della Corte rivaluta accadimenti del<br />

passato alla luce di una diversa disciplina, ma che essa estingue, anche per il passato, l'efficacia della norma dichiarata<br />

illegittima costituzionalmente (23).<br />

4. LA RETROATTIVITÀ DEGLI EFFETTI FAVOREVOLI, ANCHE OLTRE IL GIUDICATO, IN CASO DI<br />

ABOLITIO CRIMINIS E DI ANNULLAMENTO DI NORME INCRIMINATRICI INCOSTITUZIONALI<br />

Si è detto che le norme annullate dalla Corte costituzionale non devono più essere applicate né possono spiegare più alcuna<br />

efficacia, esse sono definitivamente escluse dal nostro ordinamento giuridico. Va precisato, però, che in ambito penale un<br />

limitato spazio di applicazione, nonostante la dichiarazione di illegittimità costituzionale, deve essere assegnato alle<br />

cosiddette "norme penali di favore" (ossia di quelle norme che sottraggono una determinata classe di soggetti o di condotte<br />

dall'ambito applicativo di un'altra norma comune o comunque più generale, accordandogli un trattamento privilegiato)<br />

rispetto ai fatti commessi prima della declaratoria di incostituzionalità (24).<br />

Ora l'affermazione, secondo cui non trovano più applicazione le norme dichiarate incostituzionali, non può ritenersi valida<br />

in relazione alle norme abrogate: si è accennato come per le norme (non penali) l'abrogazione opera di regola con efficacia<br />

ex nunc e dunque le norme abrogate continuano ad applicarsi a rapporti sorti prima della abrogazione e non ancora esauriti.<br />

L'abrogazione di regola è soggetta al vincolo stabilito dall'art. 11 disp. prel. c.c., in forza del quale "la legge non dispone che<br />

per l'avvenire"; essa non ha dunque piena efficacia retroattiva (25).<br />

Unicamente all'abrogazione di una norma incriminatrice (c.d. abolitio criminis) è di regola attribuita efficacia retroattiva:<br />

essa elimina ex tunc sia il giudicato di condanna che ogni altro effetto penale (art. 2, comma 2, c.p.; art. 673 c.p.p.).<br />

Ma neppure per le norme incriminatrici può dirsi sempre che l'abrogazione espella definitivamente dal nostro ordinamento<br />

la norma, e che dunque di essa non si possa fare mai più applicazione. Si pensi, invero, all'ipotesi in cui in seguito<br />

all'annullamento della norma abrogatrice per illegittimità costituzionale si determina la "reviviscenza" della norma<br />

incriminatrice che da questa era stata abrogata. La norma incriminatrice abrogata riacquista così vigore a seguito<br />

dell'annullamento costituzionale, ossia rinasce giuridicamente (26). In questo senso, secondo la giurisprudenza della<br />

Consulta, per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma abrogatrice, ridiventano operanti le<br />

norme abrogate (27).<br />

Ecco allora che, mentre le norme incriminatrici annullate per illegittimità costituzionale sono definitivamente eliminate<br />

dall'ordinamento giuridico, lo stesso non può dirsi per le norme incriminatrici abrogate, che successivamente potrebbero<br />

ritornare ad essere vigenti ed efficaci attraverso il meccanismo della "reviviscenza".<br />

In realtà, con riferimento alle norme incriminatrici, il fenomeno abrogativo (l'abolitio criminis) e quello dell'annullamento<br />

di norme incostituzionali, almeno quanto al loro ambito di efficacia, tendono a coincidere, accomunati dalla retroattività<br />

degli effetti che producono. Appare, pertanto, coerente la scelta del legislatore del 1988 di unificare sotto la stessa<br />

disposizione, l'art. 673 c.p.p. (in tema di revoca della sentenza di condanna definitiva), la disciplina processuale degli effetti<br />

sia dell'abrogazione sia della dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme incriminatrici (28).<br />

In altri termini, non deve generare confusione l'unificazione sotto la stessa disposizione, l'art. 673 c.p.p., dei due profili della<br />

abrogazione e dell'annullamento delle norme incriminatrici incostituzionali. I due fenomeni vanno tenuti distinti, anche se<br />

coincidono in parte quanto alle loro conseguenze in diritto penale. Si tratta in particolare della c.d. iperretroattività degli<br />

effetti favorevoli che producono, attraverso la cancellazione della sentenza di condanna passata in giudicato: condanna<br />

pronunciata, appunto, sulla base di una norma incriminatrice poi abrogata dal legislatore o annullata dalla Corte<br />

costituzionale.<br />

Tale confusione può essere provocata dalla rubrica dell'art. 673 c.p.p., intitolato "revoca della sentenza per abolizione del<br />

reato". Sennonché, col termine "abolizione", in tutte le varianti che il lessema può assumere all'interno della stessa "famiglia<br />

semantica" (parole che derivano, cioè, dalla stessa radice lessicale: ad es. abolitio, abolisce, ecc.), si deve designare solo il<br />

fenomeno abrogativo e non anche quello dell'annullamento costituzionale (29). La rubrica, come spesso accade, sintetizza<br />

solo in modo parziale il contenuto della disposizione legislativa, e non può considerarsi in alcun modo vincolante per<br />

l'interprete nell'attribuzione di un particolare significato al testo legislativo (30).<br />

Va dunque respinta la tesi, presente anche in dottrina, secondo cui sia il caso disciplinato dall'art. 2, comma 2, c.p., che<br />

l'ipotesi prevista dall'art. 30, comma 4, l. n. 87 del 1953 sono riconducibili al fenomeno dell'abolitio criminis; sicché la<br />

fattispecie incriminatrice può essere abrogata tanto per l'intervento del legislatore, quanto in seguito a declaratoria di<br />

incostituzionalità (31).<br />

Sotto il profilo teorico-generale, dobbiamo invece mantenere separato il fenomeno della successione nel tempo di norme<br />

penali favorevoli (c.d. lex mitior: nelle due sue tradizionali articolazioni della abolitio criminis e della successione<br />

modificativa della disciplina) da quello della illegittimità costituzionale di una norma penale. Il loro punto di contatto, il<br />

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tratto che li unifica è costituito dalla modifica in mitius che producono i due fenomeni nel sistema penale: gli effetti che si<br />

ripercuotono sull'ordinamento penale, variandolo in senso favorevole.<br />

Possiamo schematizzare i due concetti nel modo seguente.<br />

(A) Successione di norme penali nel tempo (art. 2 c.p.).<br />

A1) abrogazione di una norma incriminatrice (comma 2).<br />

A2) modifica normativa che si ripercuote in senso favorevole sul complessivo trattamento sanzionatorio penale (comma 4).<br />

(B) Illegittimità costituzionale di una norma penale (art. 136 Cost.; art. 30 l. n. 87 del 1953).<br />

B1) annullamento di una norma incriminatrice.<br />

B2) annullamento di una norma che modifica in senso favorevole il complessivo trattamento sanzionatorio penale.<br />

Il legislatore del 1988 ha unificato le due ipotesi A1 e B1 sotto la medesima disposizione: l'art. 673 c.p.p., ritenendole le<br />

uniche idonee a travolgere il giudicato di condanna. Sennonché, non bisogna farsi ingannare dal parallelismo tra le due<br />

coppie di ipotesi: A1 e B1 che abrogano o annullano una norma incriminatrice, e A2 e B2 che producono una modifica in<br />

senso favorevole del trattamento giuridico penale (senza determinare l'abrogazione o l'annullamento di una norma<br />

incriminatrice).<br />

Anche l'ipotesi B2, come vedremo, deve essere messa insieme alle ipotesi A1 e B1 quanto alla possibilità di incidere sul<br />

giudicato penale e di svolgere i suoi effetti anche in presenza di una sentenza di condanna irrevocabile.<br />

5. I PRIMI ORIENTAMENTI DELLA DOTTRINA E DELLA GIURISPRUDENZA DI MERITO<br />

La prima dottrina formatasi al riguardo, ha affermato la necessità di una applicazione analogica degli artt. 30, comma 4, l. n.<br />

87 del 1953 e 673 c.p.p. nell'ipotesi in cui venga dichiarata incostituzionale non una mera norma incriminatrice, bensì una<br />

circostanza aggravante ovvero un qualsiasi enunciato legislativo dal quale in concreto possa derivare un effetto favorevole<br />

sulla disciplina penale sostanziale. Invero, la ratio di queste disposizioni - impedire che una sanzione penale venga<br />

ingiustamente sofferta sulla base di una norma dichiarata incostituzionale - sembra potersi estendere anche alle norme da cui<br />

dipende la misura della pena inflitta; pure qui si tratta di evitare che una norma in contrasto con la Costituzione possa<br />

continuare a produrre effetti pregiudizievoli per un diritto fondamentale come la liberà personale dell'individuo (32).<br />

Da tali premesse, deriva dunque l'estensione analogica del potere del giudice dell'esecuzione di intervenire sul giudicato, ex<br />

art. 673 c.p.p., anche nell'ipotesi in cui venga dichiarata l'illegittimità della disposizione che contiene una circostanza<br />

aggravante, o che comunque abbia in concreto inciso sulla determinazione della pena inflitta all'imputato. In tali ipotesi, il<br />

giudice dovrà non revocare la sentenza, ma solo rideterminare la pena "al netto" della aggravante della clandestinità (con la<br />

possibilità anche di concedere la sospensione condizionale della pena negata dal giudice della cognizione), qualora<br />

beninteso l'aggravante abbia in concreto influito sulla definizione della pena da parte del giudice di cognizione (33).<br />

Anche nella giurisprudenza di merito si è data risposta positiva al quesito se sia ammissibile adire il giudice dell'esecuzione,<br />

ai sensi dell'art. 673 c.p.p., nel caso di dichiarazione di incostituzionalità di una disposizione che prevede una mera<br />

circostanza aggravante (34). Per il Tribunale di Milano a tale caso, in via estensiva, è applicabile la procedura ex art. 673<br />

c.p.p., in relazione all'art. 30, comma 4, l. n. 87 del 1953. È ammissibile dunque l'incidente di esecuzione proposto dal<br />

condannato per ottenere l'eliminazione della pena inflitta in base all'aggravante incostituzionale della clandestinità;<br />

aggiungendosi che ciò non esorbita nemmeno dai limitati poteri attribuiti al giudice dell'esecuzione, giacché si tratta<br />

semplicemente di eliminare il quantum di pena inflitto a titolo di aumento su quella calcolata per il reato cui la circostanza<br />

accede.<br />

Ad avviso del Tribunale di Milano, a sostegno di tale scelta depone la recente modifica legislativa che ha introdotto il nuovo<br />

comma 3 dell'art. 2 c.p. (art. 14 l. n. 85 del 2006). Il legislatore con tale nuova disposizione ha inserito, nella ipotesi di<br />

sostituzione della pena detentiva in pecuniaria, una disciplina che deroga alla regola generale della non applicabilità<br />

retroattiva della legge più favorevole al reo nel caso di successione modificativa, allorché sia presente una sentenza di<br />

condanna irrevocabile; erodendo, in tal modo, ancora di più il principio di intangibilità del giudicato penale (35).<br />

Si afferma: "se, infatti, in ragione del principio di uguaglianza, il legislatore ha previsto che la sentenza irrevocabile di<br />

condanna debba cedere il passo nel caso in cui muti il "tipo" di sanzione, proprio perché ripugnerebbe che un soggetto<br />

sconti una pena detentiva in relazione a un fatto per il quale la legge successiva commini solamente la pena pecuniaria, allo<br />

stesso modo il giudicato deve essere travolto nel caso in cui, addirittura, è stata "eliminata" dall'ordinamento una<br />

disposizione che prevedeva una circostanza aggravante, perciò idonea a incidere sulla quantificazione della pena" (36).<br />

Nel caso di specie il giudice della esecuzione, chiamato a decidere su due richieste relative a due diverse sentenze<br />

irrevocabili concernenti il medesimo condannato, ha dichiarato - rispetto alla prima pronuncia - non eseguibile l'aumento di<br />

tre mesi di reclusione operato sulla pena base inflitta per il delitto di cui all'art. 337 c.p. dal Tribunale di Milano con<br />

sentenza ormai divenuta irrevocabile.<br />

Quanto alla restante decisione - una sentenza di patteggiamento in cui la circostanza della clandestinità, insieme a quelle di<br />

cui all'art. 635, comma 2, nn. 1 e 3 c.p. è stata stimata equivalente rispetto alle circostanze attenuanti generiche - il giudice<br />

dell'esecuzione ha ritenuto confermato il precedente giudizio di equivalenza: invero si è asserito che, se anche venisse<br />

eliminata l'aggravante dichiarata incostituzionale, il giudizio di equivalenza non muterebbe tenuto conto della presenza delle<br />

residue circostanze aggravanti contestate (37).<br />

209


6. LA POSSIBILE ESTENSIONE ANALOGICA DELL'ART. 673 C.P.P. ALLA INCOSTITUZIONALITÀ DI UNA<br />

CIRCOSTANZA AGGRAVANTE<br />

È necessario adesso fissare dei punti fermi, da cui muovere per individuare delle possibili soluzioni rispetto alle<br />

conseguenze della dichiarazione di incostituzionalità della circostanza aggravante di cui all'art. 61, n. 11-bis, c.p.<br />

In primo luogo, può osservarsi che tanto l'art. 30, comma ult., l. n. 87 del 1953, quanto l'art. 673 c.p.p. non sembrano trovare<br />

applicazione nel caso di dichiarazione di incostituzionalità di disposizioni disciplinanti il mero trattamento sanzionatorio<br />

penale. In entrambe le disposizioni, il legislatore appare invero riferirsi in modo esplicito soltanto alla declaratoria di<br />

incostituzionalità delle vere e proprie norme incriminatrici (38).<br />

Non può farsi leva su di un'interpretazione estensiva né del citato art. 30, comma 4, e neppure dell'art. 673 c.p.p.: nel campo<br />

di applicazione del concetto di "illegittimità costituzionale di una norma incriminatrice", presupposto per la operatività delle<br />

due previsioni normative, non può farsi infatti rientrare direttamente (ossia entro la cornice dei possibili significati letterali)<br />

l'incostituzionalità di una circostanza aggravante. Il carattere "accessorio" della circostanza sembra riguardare la<br />

determinazione della sanzione e non la stessa norma incriminatrice (come avviene, ad esempio, nell'omissione impropria ex<br />

art. 40, cpv., c.p., nel delitto tentato ex art. 56 c.p., nel concorso di persone ex art. 110 c.p.). Sembra, allora, da escludere la<br />

nascita di una nuova norma incriminatrice dall'integrazione tra la singola fattispecie incriminatrice e quella circostanziale, in<br />

base proprio alla diversità di funzione che caratterizza il fenomeno della disposizione circostanziale rispetto a quella<br />

autonomamente incriminatrice (39).<br />

D'altronde, anche ammettendo l'interpretazione estensiva (nel concetto di norma incriminatrice va ricompresa anche la<br />

circostanza aggravante tenuta in considerazione ai fini della condanna) o quella analogica (la medesima ratio dell'art. 2,<br />

comma 3, c.p.; ovvero della disciplina della dichiarazione di illegittimità costituzionale della vera e propria norma<br />

incriminatrice): in entrambi i casi, il risultato sarebbe quello di integrare la fattispecie dell'art. 673 c.p.p. con una ulteriore<br />

ipotesi (o fattispecie astratta), oltre a quelle della (i)abolitio criminis e della (ii) dichiarazione di illegittimità costituzionale;<br />

terza ipotesi costituita dalla (iii) declaratoria di incostituzionalità di una circostanza aggravante, a cui si applicherebbe la<br />

medesima conseguenza giuridica prevista per le altre due dall'art. 673 c.p.p.<br />

Ciò risulta chiaro, ad esempio, se si adatta la struttura dell'argomento analogico alla vicenda in esame.<br />

(a) Le conseguenze giuridiche della dichiarazione di incostituzionalità di una circostanza aggravante, in presenza di una<br />

sentenza irrevocabile di condanna, non sono disciplinate da nessuna norma in modo esplicito.<br />

(b) Tale fattispecie non disciplinata somiglia in modo rilevante (hanno in comune la ratio legis) alla diversa fattispecie<br />

regolata, in modo esplicito, della dichiarazione di incostituzionalità di una norma incriminatrice, alla quale consegue sotto il<br />

profilo della disciplina giuridica la revoca della sentenza di condanna definitiva.<br />

(c) Si può allora concludere nel senso di collegare questa stessa conseguenza giuridica - la revoca della sentenza di<br />

condanna passata in giudicato - anche alla fattispecie non prevista della incostituzionalità della circostanza aggravante.<br />

Tuttavia, a questo ulteriore caso - per analogia (o per interpretazione estensiva) - all'esito positivo dell'incidente di<br />

esecuzione previsto all'art. 673 c.p.p. potrebbe conseguire soltanto la revoca della sentenza di condanna definitiva perché il<br />

fatto non è più previsto dalla legge come reato, e non già l'eliminazione del quantum di pena inflitto a titolo di aumento<br />

sulla base della circostanza aggravante dichiarata incostituzionale: disciplina non prevista in alcun modo dall'art. 673 c.p.p.<br />

Invero, l'analogia serve ad integrare il diritto esistente, nel senso di creare diritto nuovo; e pertanto ad essere applicata<br />

analogicamente non è una norma ad un caso concreto, bensì una parte della norma - la conseguenza giuridica - ad una<br />

ipotesi astratta che non è ivi espressamente regolata (40).<br />

In altre parole, mediante l'uso dell'argomento analogico sarebbe qui possibile riconnettere le conseguenze giuridiche<br />

previste espressamente dall'art. 673 c.p.p. per i casi di abrogazione o annullamento costituzionale di una norma<br />

incriminatrice - ossia la revoca della sentenza di condanna perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato - anche<br />

all'ipotesi non esplicitamente contemplata della dichiarazione di incostituzionalità di una circostanza aggravante.<br />

Invece, postulare in relazione a quest'ultima ipotesi l'applicazione analogica dell'art. 673 c.p.p. - consistente nella<br />

eliminazione della sola pena inflitta in base alla aggravante (cfr. retro § 5) - significherebbe applicare delle "conseguenze<br />

giuridiche non previste" (rimozione del quantum di pena connesso all'aggravante) ad un caso non previsto (annullamento<br />

costituzionale di una aggravante) (41). Siamo dunque fuori dal consueto schema, prima illustrato, su cui si fonda di regola il<br />

procedimento analogico: operazione compiuta dagli interpreti del diritto mediante la quale si attribuisce ad un caso non<br />

regolato espressamente dall'ordinamento giuridico la "stessa disciplina" prevista dal legislatore per un caso simile (42).<br />

Ora, l'impiego dell'argomento analogico presuppone però una lacuna normativa: occorre quindi stabilire se il legislatore<br />

nella disciplina prevista dall'art. 673 c.p.p., non menzionando espressamente la fattispecie della incostituzionalità della<br />

circostanza aggravante, non abbia voluto in realtà implicitamente escluderla da tale regolamentazione. Argomentando a<br />

contrario, può ricavarsi una norma implicita di contenuto negativo: giacché per tale caso non è statuita alcuna precisa<br />

conseguenza giuridica, è possibile asserire che per esso non sia realmente prevista alcuna conseguenza giuridica.<br />

A ben vedere, perciò, se si riflette senza pregiudizi su tale vicenda, ci si accorge che non si configura qui una vera e propria<br />

lacuna normativa: è chiaro che il legislatore ha voluto lasciar fuori in modo espresso la fattispecie della incostituzionalità<br />

della circostanza aggravante dalla disciplina stabilita invece dall'art. 673 c.p.p. per l'ipotesi di abrogazione e<br />

210


incostituzionalità di una norma incriminatrice. Si ricava dalle conseguenze giuridiche ivi stabilite: la revoca della sentenza<br />

di condanna e la dichiarazione che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, che le fattispecie prese in<br />

considerazione dall'art. 673 c.p.p. sono soltanto l'abrogazione e l'incostituzionalità della norma incriminatrice, e non anche<br />

quella riguardante l'annullamento costituzionale della circostanza aggravante.<br />

Nell'art. 673 c.p.p. siamo, allora, al cospetto di una fattispecie non disciplinata volutamente dal legislatore. Non si tratta di<br />

una lacuna normativa perché l'omessa regolamentazione della fattispecie è intenzionale.<br />

Sembra infine da non doversi accogliere neppure il tentativo compiuto dalla citata sentenza del Tribunale di Milano, che ha<br />

applicato la procedura di cui all'art. 673 c.p.p. alla circostanza aggravante dichiarata incostituzionale. Come illustrato, il<br />

Tribunale di Milano, in ragione del principio di uguaglianza, ha fatto leva sulla nuova disciplina dell'art. 2, comma 3, c.p.<br />

(trasformazione della pena detentiva in pecuniaria), nella quale ravvisa la medesima ratio del caso in questione per ritenere<br />

ammissibile l'incidente di esecuzione al fine di eliminare la pena inflitta in relazione all'aggravante della clandestinità<br />

dichiarata incostituzionale.<br />

Il parallelo con il nuovo comma 3 dell'art. 2 c.p., che opera in mitius oltre il giudicato, per affermare l'estensione delle<br />

conseguenze giuridiche previste all'art. 673 c.p.p. anche al caso della aggravante incostituzionale, sembra però scorretto. In<br />

primo luogo, perché il confronto si instaura tra due ipotesi eterogenee: la successione nel tempo di leggi valide vs. l'ipotesi<br />

dell'annullamento ex tunc di una legge invalida, vicenda quest'ultima che non dà luogo ad alcuna successione legislativa<br />

(43). Inoltre, non ricorre la medesima ratio: nel comma 3 dell'art. 2 c.p. la pena è trasformata da detentiva in pecuniaria;<br />

mentre è nel comma 4 che, più propriamente, ricade il caso della rimodulazione in bonam partem della pena inflitta. Invero,<br />

l'eliminazione della maggiore pena applicata, in base alla circostanza aggravante incostituzionale, non trasforma di regola la<br />

sanzione da detentiva in pecuniaria, bensì rende solo più favorevole al reo il trattamento sanzionatorio nella determinazione<br />

del quantum della pena. Breve: la medesima ratio è rinvenibile al più nel comma 4 e non nel comma 3 dell'art. 2 c.p.<br />

L'eterogeneità del fenomeno previsto dal nuovo comma 3 dell'art. 2 c.p. rispetto all'annullamento costituzionale di una<br />

norma che incide sul trattamento sanzionatorio penale, è altresì avvalorato dal fatto che quando il legislatore nel 2006 ha<br />

appunto inserito tale nuova regola nell'art. 2 c.p., non ha contemporaneamente implementato il contenuto dell'art. 673 c.p.p.<br />

per dare a questa ipotesi una autonoma attuazione sul piano processuale. Il modello da impiegare qui non è la revoca della<br />

sentenza di condanna definitiva per abolizione del reato (art. 673 c.p.p.), ma piuttosto quello generale del procedimento di<br />

esecuzione: competente a sostituire ("convertire"), in presenza di una sentenza irrevocabile di condanna, la pena pecuniaria<br />

introdotta dalla legge successiva più favorevole al posto di quella detentiva precedentemente prevista (art. 2, comma 3, c.p.),<br />

è infatti il giudice dell'esecuzione ai sensi dell'art. 666 c.p.p. (44).<br />

7. L'IRRAGIONEVOLEZZA DELLA SCELTA LEGISLATIVA CHE ESCLUDE LA MODIFICA DEL<br />

GIUDICATO IN PRESENZA DI UNA AGGRAVANTE DICHIARATA INCOSTITUZIONALE<br />

Poste siffatte premesse, ci si deve adesso chiedere se è ragionevole l'opzione legislativa che esclude, per l'incostituzionalità<br />

della circostanza aggravante, la possibilità di "rivedere" il giudicato, eliminando il quantum di pena applicato proprio in<br />

relazione alla circostanza poi dichiarata invalida. A differenza di quanto avviene per le norme incriminatrici dichiarate<br />

incostituzionali, cui consegue la revoca del giudicato di condanna (art. 30, comma 4, l. n. 87 del 1953, art. 673 c.p.p.).<br />

Inoltre, occorre stabilire se è conforme al criterio di ragionevolezza la scelta compiuta qui dal nostro ordinamento che, di<br />

fronte a due fenomeni eterogenei: annullamento e abrogazione, ha previsto la medesima disciplina. E dunque se il<br />

legislatore abroga una disposizione contenente una circostanza aggravante viene in rilievo una modifica favorevole regolata<br />

dall'art. 2, comma 4, c.p.: la soppressione di un elemento accidentale, che opera sulla disciplina giuridica rendendola più<br />

favorevole, trova il limite del giudicato. Allo stesso modo poi, quando la Corte costituzionale annulla una disposizione che<br />

esprime una circostanza aggravante illegittima, dobbiamo ritenere che per i processi in cui sia stata pronunciata una<br />

sentenza definitiva resti fermo il giudicato e non si possa rideterminare la pena.<br />

Eppure, nel primo caso, la modifica in senso favorevole del trattamento sanzionatorio penale è la conseguenza di una scelta<br />

di politica legislativa: si revoca dall'ordinamento giuridico una norma valida mediante l'abrogazione della circostanza<br />

aggravante. Nel restante caso, invece, la modifica favorevole discende dall'annullamento costituzionale: la disposizione<br />

contenente l'aggravante è invalida perché contrastante con la Costituzione.<br />

Cerchiamo allora di spiegare perché l'impostazione che sembra scaturire dal diritto positivo, la quale impedisce di<br />

modificare il giudicato quando sia dichiarata incostituzionale una circostanza aggravante, non possa essere tenuta ferma;<br />

pena la violazione del canone della ragionevolezza, inteso qui quale corretto bilanciamento tra principi o valori<br />

costituzionali nel caso di specie non realizzabili congiuntamente.<br />

Come è noto, l'opinione prevalente ritiene che la sentenza costituzionale di accoglimento, dal punto di vista del suo<br />

contenuto, ha natura dichiarativa della invalidità della norma o disposizione di legge in relazione alla antinomia della legge<br />

con le norme costituzionali. Quanto agli effetti, essa produce l'annullamento di una norma o disposizione di legge ex tunc<br />

con efficacia erga omnes; ha natura costitutiva in merito al divieto generalizzato e perpetuo di applicare la legge<br />

incostituzionale, divieto prima della decisione insussistente (45).<br />

Stabilito che, quanto alla sua efficacia, si tratta di una decisione di annullamento retroattivo, occorre verificare sino a che<br />

punto gli effetti delle sentenze di accoglimento siano in grado di retroagire nel tempo.<br />

211


In primo luogo, non bisogna dimenticare che la "retroattività" è comunque una finzione giuridica: talvolta non si possono<br />

rimuovere gli effetti già materialmente verificatisi (46), anche se si prende in considerazione la disciplina in cui essa è<br />

maggiormente garantita. Si pensi proprio al caso della declaratoria di incostituzionalità di una figura di reato: l'efficacia<br />

iperretroattiva, oltre il giudicato, della pronuncia non potrebbe porre nel nulla le conseguenze già prodotte: quali, ad<br />

esempio, l'aver subito il reo un periodo di detenzione carceraria sulla scorta della norma incriminatrice poi annullata ex tunc<br />

dalla Corte costituzionale.<br />

In secondo luogo, per dare una corretta risposta al problema, non è sufficiente la constatazione che, configurandosi una<br />

ipotesi di invalidità originaria, l'effetto della declaratoria di incostituzionalità debba logicamente estendersi fino al momento<br />

di entrata in vigore della legge. E pur vero che la determinazione degli effetti nel passato della pronuncia di accoglimento<br />

deve essere contemperata con il principio di certezza dei rapporti giuridici esauriti.<br />

Punto di equilibrio che, in relazione al diritto penale in senso stretto, è del tutto spostato verso il pieno riconoscimento della<br />

preminenza del favor libertatis: il legislatore ha - come più volte detto nel corso del lavoro - riconosciuto in tale ambito, ai<br />

sensi dell'art. 30, comma ult., l. n. 87 del 1953 e art. 673 c.p.p., una efficacia iperretroattiva alle sentenze di accoglimento<br />

relative ad incriminazioni; efficacia che travolge il giudicato di condanna ed elimina tutte le sue possibili conseguenze sul<br />

piano giuridico.<br />

Nel resto dell'ordinamento, invece, l'efficacia retroattiva della pronuncia di accoglimento viene contemperata in modo<br />

diverso con il principio di certezza dei rapporti giuridici. Il limite alla operatività in chiave retroattiva della declaratoria di<br />

incostituzionalità è infatti costituito dai rapporti giuridici esauriti, dalle situazioni ormai cristallizzatesi in maniera definitiva<br />

sotto il profilo giuridico (47). Ipotesi tra cui rientra a pieno titolo il passaggio in giudicato della sentenza: la pronuncia di<br />

accoglimento non può dispiegare i suoi effetti sulla cosa giudicata, il caso non può più essere rimesso in discussione (48).<br />

Pertanto, una volta esclusa l'operatività dell'art. 30, comma ult., l. n. 87 del 1953 e dell'art. 673 c.p.p. rispetto alle previsioni<br />

circostanziali dichiarate incostituzionali, la sentenza di condanna definitiva, come per il resto dell'ordinamento, non può più<br />

essere modificata in senso favorevole al reo. Ma la ragionevolezza di tale esito appare molto dubbia, trattandosi di una<br />

norma che incide comunque sulla quantificazione della sanzione penale, e dunque in ultima analisi sul diritto fondamentale<br />

della libertà personale (art. 13 Cost.). Inoltre, il quid pluris di pena derivante dalla circostanza costituzionalmente illegittima<br />

non può qui svolgere, in modo indiscutibile, alcuna funzione rieducativa ex art. 27, comma 3, Cost., essendo stato inflitto<br />

sulla base di una norma dichiarata contraria ai principi costituzionali (49).<br />

Ebbene, il principio di certezza dei rapporti giuridici esauriti, che fonda le deroghe alla piena retroattività degli effetti delle<br />

decisioni di accoglimento della Corte, non solo non può avere influenza sugli annullamenti di norme incriminatrici, ma<br />

nemmeno può limitare l'efficacia della pronuncia di incostituzionalità rispetto alle norme che incidono sulla sanzione penale<br />

aggravandola. Tale esigenza di certezza delle situazioni consolidate sembra essere espressione di una logica giuridica<br />

estranea al diritto penale; e in ogni caso non potrebbe mai prevalere, in ambito penale, quando sussista una contemporanea<br />

esigenza connessa al favor libertatis(50).<br />

Si tratta qui della medesima ratio che giustifica la scelta del citato art. 30, comma 4: ossia che il rispetto della libertà<br />

personale compromessa, seppure solo per la maggior pena applicata mediante l'aggravante, debba imporsi sul principio della<br />

certezza dei rapporti ormai esauriti; a meno di non voler vulnerare il principio di uguaglianza, sotto il profilo della<br />

ragionevolezza delle scelte legislative.<br />

8. I POSSIBILI RIMEDI: L'INTERVENTO DEL LEGISLATORE; LA SENTENZA ADDITIVA DELLA CORTE<br />

COSTITUZIONALE CHE RISCRIVE LA REGOLA DEL CONFLITTO<br />

Non essendo possibile, tuttavia, per le ragioni prima esposte, una interpretazione adeguatrice dell'art. 673 c.p.p. attraverso<br />

l'analogia, è necessario allora individuare un diverso rimedio per attribuire al giudice dell'esecuzione, anche nell'ipotesi<br />

della aggravante ritenuta incostituzionale, il potere di rimettere in discussione il giudicato.<br />

La strada più semplice, per ovviare all'irragionevolezza della scelta legislativa e raggiungere così tale risultato, appare<br />

chiaramente quella dell'esplicita introduzione di una nuova disposizione. Una previsione legislativa che renda<br />

concretamente ammissibile l'incidente di esecuzione per ottenere l'eliminazione della pena irrogata in rapporto<br />

all'aggravante dichiarata incostituzionale. Come allo stesso modo, sarebbe auspicabile che il legislatore intervenisse per<br />

disciplinare in via positiva l'attuazione nel nostro ordinamento delle decisioni della Corte europea dei diritti dell'uomo:<br />

improcrastinabile inerzia cui ha dovuto supplire in via giurisprudenziale la Corte di cassazione (51).<br />

In attesa del legislatore - ma non potendo, sulla base della recente esperienza, confidare più di tanto nel suo intervento -, è<br />

necessario riflettere sui possibili rimedi o strumenti giuridici già presenti nel nostro ordinamento per mettere riparo a questa<br />

situazione.<br />

A tale riguardo, si ribadisce, che non sembra però da avvalorare l'orientamento della prima giurisprudenza di merito la<br />

quale, sovrapponedosi alle scelte del legislatore, ritiene applicabile al nostro caso l'art. 673 c.p.p. Si impiega così in modo<br />

scorretto l'argomento analogico. In mancanza di una lacuna normativa, si estendono non le conseguenze giuridiche dell'art.<br />

673 c.p.p. ad un caso non previsto ma somigliante a quello previsto, bensì creando delle conseguenze giuridiche non<br />

stabilite dal legislatore: la possibilità per il giudice dell'esecuzione di eliminare dalla sentenza irrevocabile il quantum di<br />

pena inflitto in relazione alla aggravante incostituzionale. In pratica, con gli strumenti della interpretazione giuridica non si<br />

212


può dare all'art. 673 c.p.p. una lettura conforme a Costituzione; ossia ricavarne da esso una norma compatibile con i principi<br />

costituzionali, risolvendo in via di interpretazione costituzionalmente orientata (adeguatrice) i dubbi di costituzionalità.<br />

Cerchiamo, allora, di prospettare una possibile soluzione alternativa per raggiungere l'esito prefissato: eliminare la<br />

irragionevolezza della disciplina legislativa.<br />

Ora, il legislatore ha compiuto - come visto - delle scelte, che ha tradotto nella disciplina dell'art. 673 c.p.p.: escludendo<br />

volutamente dal campo di applicazione di tale disposizione il caso della dichiarazione di incostituzionalità di una<br />

circostanza aggravante. Nell'esercizio della sua funzione legislativa ha eseguito un bilanciamento tra principi o valori in<br />

conflitto: da una parte il valore della certezza del giudicato, dall'altra quello di non limitare in nessun modo la libertà<br />

personale sulla scorta di una norma in contrasto con la Costituzione. Facendo prevalere nel caso di specie - a differenza di<br />

quanto avviene per l'abrogazione o l'annullamento di una norma incriminatrice - la certezza dei rapporti giuridici connessa<br />

al passaggio in giudicato della sentenza, il legislatore ha però compiuto una ponderazione che appare non rispettare la<br />

corretta gerarchia dei valori in gioco. Il bilanciamento legislativo, come tecnica (non logica, ma assiologica) per risolvere le<br />

antinomie tra principi o valori costituzionali, presuppone l'istituzione di una gerarchia (assiologica) temporanea e<br />

contingente fra principi o valori costituzionali concorrenti. Tale bilanciamento operato dal legislatore può essere oggetto di<br />

sindacato da parte della Corte costituzionale, per stabilire se esso sia ragionevole, se si tratti dunque di leggi<br />

ragionevolmente fondate.<br />

Ha chiarito al riguardo la Corte costituzionale che, alla luce dei valori costituzionali coinvolti, la ponderazione degli<br />

interessi compiuta dal legislatore potrebbe rivelarsi palesemente irragionevole, qualora essa implichi un bilanciamento dei<br />

valori arbitrariamente differenziato e contrastante con quello presupposto dalla Costituzione nel caso di specie. Occorre,<br />

pertanto, "raffrontare il particolare bilanciamento operato dal legislatore nell'ipotesi denunziata con la gerarchia dei valori<br />

coinvolti nella scelta legislativa quale risulta stabilita nelle norme costituzionali" (52).<br />

La Corte costituzionale può intervenire dunque per riequilibrare il bilanciamento legislativo: essa con un proprio<br />

bilanciamento (un "meta-bilanciamento") si sovrappone al bilanciamento del legislatore per annullarlo (dichiarando<br />

incostituzionale la norma) o per correggerlo (attraverso una interpretazione adeguatrice della norma) (53).<br />

Come si è scritto chiaramente, il meta-bilanciamento della Corte costituzionale può avere effetti molto incisivi, oltre ad una<br />

declaratoria di incostituzionalità può risolversi in una sentenza additiva o manipolativa: la Corte, così, può anche riscrivere<br />

essa stessa la regola del conflitto predisposta dal legislatore (ad es. C. cost. n. 171 del 1996) (54).<br />

A ben vedere, nel nostro caso si configura non una lacuna normativa integrabile dal giudice ordinario mediante l'argomento<br />

analogico, bensì una lacuna c.d. assiologica (o ideologica) fondata sul mancato rispetto del principio di ragionevolezza (55).<br />

L'ordinamento è privo di una norma la cui emanazione è richiesta per evitare una irragionevole regolamentazione legislativa<br />

del conflitto tra il principio di certezza dei rapporti giuridici esauriti e il rispetto della libertà personale (inciso dal quantum<br />

di pena relativo alla aggravante incostituzionale). La regola legislativa del conflitto, che si può trarre dall'art. 673 c.p.p., è<br />

nel senso di sacrificare del tutto il diritto fondamentale della libertà personale a vantaggio della certezza dei rapporti<br />

giuridici esauriti (il giudicato) nell'ipotesi della dichiarazione di incostituzionalità di una circostanza aggravante. E tale<br />

regola legislativa non è ragionevole, perché appare frutto di un bilanciamento che non rispetta la corretta gerarchia di valori<br />

che si trae dalla nostra Costituzione.<br />

Ebbene, tale lacuna assiologica potrebbe essere colmata dalla Corte costituzionale attraverso una sentenza additiva, che<br />

dichiari costituzionalmente illegittima l'assenza di una norma la cui esistenza la Corte ritiene costituzionalmente necessaria;<br />

costituendo così la lacuna ideologica l'oggetto della sentenza medesima (56).<br />

La Corte non annullerebbe di certo l'art. 673 c.p.p. con la sua dichiarazione di incostituzionalità, bensì aggiungerebbe una<br />

norma al significato normativo della disposizione in questione. Invero, dai casi concreti che si pongono e si possono porre<br />

all'attenzione del giudice e di ogni operatore del diritto, si trae la netta convinzione che vi sia, sotto il profilo dei principi<br />

costituzionali, una illegittima assenza di una previsione normativa. La Corte può integrare l'enunciato legislativo con una<br />

norma che ripristini la legalità costituzionale, nel senso di aggiungere una disciplina che eviti l'irragionevolezza della<br />

regolamentazione predisposta dal legislatore (57).<br />

La Corte qui non farebbe altro che completare il testo legislativo, aggiungendo una regola - volutamente omessa dal<br />

legislatore nell'art. 673 c.p.p. - al fine di pervenire a "rime obbligate" ad una maggiore coerenza sistematica<br />

dell'ordinamento giuridico, mediante un giudizio di ragionevolezza che rivaluti il bilanciamento effettuato dal legislatore per<br />

risolvere il conflitto tra i principi costituzionali in gioco. La Corte non procederebbe dunque in maniera arbitraria, bensì<br />

seguendo un preciso schema di riempimento del vuoto di disciplina non conforme a Costituzione. La sentenza additiva<br />

sarebbe così volta a produrre una nuova norma la quale ridetermini la regola legislativa del conflitto tra i principi o valori<br />

costituzionali che vengono in considerazione nel caso di specie, rendendo in tal modo la disciplina positiva più conforme<br />

alla scala dei valori stabilita dalla Costituzione (58).<br />

In definitiva, la Corte potrebbe dichiarare la illegittimità costituzionale dell'art. 673 c.p.p. nella parte in cui non prevede, in<br />

riferimento alla declaratoria di incostituzionalità di una circostanza aggravante, la possibilità per il giudice dell'esecuzione<br />

di revocare la sentenza di condanna e di rideterminare la pena inflitta non tenendo conto dalla aggravante invalida<br />

(eliminando, cioè, l'aumento di pena applicato sulla base dell'aggravante incostituzionale) e di adottare i provvedimenti<br />

213


conseguenti.<br />

NOTE<br />

(1) Nelle sue considerazioni di ordine generale sullo stato del sistema giudiziario e del servizio giustizia, il Primo presidente Ernesto Lupo<br />

osserva, in particolare, come si riscontra complessivamente un aumento delle pendenze in tutti gli uffici giudicanti penali (p. 13 ss., 45 ss.,<br />

in www.cortedicassazione.it).<br />

(2) C. cost., 8 luglio 2010, n. 249, in questa rivista, 2010, p. 3741, con nota di NUZZO, Appunti sulla incostituzionalità dell'art. 61, n. 11-<br />

bis, c.p., che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 61, n. 11-bis, c.p. per violazione degli artt. 3, comma 1, e 25, comma 2,<br />

Cost.<br />

(3) DONINI, Democrazia e scienza penale nell'Italia di oggi: un rapporto possibile?, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2010, p. 1068 ss., per il<br />

quale "la forma-legge è in funzione, tra l'altro, dell'eguaglianza, e le differenziazioni sono doverose per regolare situazioni diverse".<br />

(4) In tal senso, cfr. Sez. III, 13 ottobre 2010, n. 40923, Chamki, in C.E.D. Cass., n. 248705, secondo cui la sopravvenuta dichiarazione di<br />

illegittimità costituzionale della circostanza aggravante della clandestinità non determina la nullità della sentenza ove il giudice, in sede di<br />

giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee, abbia ritenuto prevalente una circostanza attenuante sull'aggravante poi dichiarata<br />

incostituzionale. In dottrina, così v. DEGL'INNOCENTI-TOVANI, La Corte costituzionale dichiara illegittima la c.d. aggravante di<br />

clandestinità, in Dir. pen. proc., 2010, p. 1184 ss., i quali aggiungono che "se allo straniero irregolare processato per un reato comune sia<br />

stata applicata l'aggravante in esame ritenendo (correttamente) assorbito in essa il reato di clandestinità, una volta eliminato l'aumento di<br />

pena, il pubblico ministero dovrà nuovamente contestare, sussistendone gli altri presupposti, il reato di cui all'art. 10-bis d.lg. n. 286 del<br />

1998, salvato dal Giudice delle leggi".<br />

(5) In tal senso, v. altresì ZIRULIA, Quale sorte per le sentenze che hanno applicato l'aggravante di clandestinità?, in Diritto penale<br />

contemporaneo, www.penalecontemporaneo.it, p. 1 ss., secondo cui suscita perplessità lo strumento utilizzato dalla suprema Corte, ossia<br />

il principio di retroattività favorevole ex art. 2, comma 4, c.p., per raggiungere il risultato condivisibile di rimuovere gli effetti che<br />

l'aggravante annullata aveva prodotto sul trattamento sanzionatorio patteggiato.<br />

(6) In relazione alla sorte delle sentenze di condanna non ancora definitive, pronunciate tenendo in considerazione l'aggravante de qua, si<br />

è affermato che non si pongono grossi problemi giuridici: esse potranno essere riformate in sede di appello, oppure annullate con rinvio<br />

dalla Cassazione per (sopravvenuta) violazione di legge (così ZIRULIA, Quale sorte per le sentenze, cit., p. 1 ss.).<br />

(7) Cfr., sul tema, GUASTINI, Le fonti del diritto, Giuffrè, 2010, p. 381.<br />

(8) Ad esempio in materia di abolizione del servizio militare obbligatorio, cfr. Sez. I, 2 maggio 2006, Brusaferri, in Riv. it. dir. e proc.<br />

pen., 2006, p. 1633, con nota di RISICATO, Successione di norme "integratrici" e mancanza alla chiamata di leva: si consolida il<br />

revirement della Cassazione. Prende in considerazione questa sentenza criticandone le argomentazioni BRUNELLI, Rilevanza penale<br />

dell'abolizione del servizio militare obbligatorio: tra successione di norme e "scomparsa" del fatto tipico, in questa rivista, 2006, p. 1684<br />

ss., il quale giustamente afferma che il riferimento al concetto di abrogazione parziale è qui fuorviante.<br />

(9) In tal senso, cfr. Sez. un., 27 settembre 2007, Magera, in questa rivista, 2008, p. 898, con nota di GAMBARDELLA, Nuovi cittadini<br />

dell'Unione europea e abolitio criminis parziale dei reati in materia di immigrazione; in Dir. pen. proc., 2008, p. 314 ss., con nota di<br />

RISICATO, La restaurata ostilità delle Sezioni unite nei confronti delle modifiche mediate dalla fattispecie penale.<br />

(10) GAMBARDELLA, L'abrogazione della norma incriminatrice, Jovene, 2008, p. 121 ss.<br />

(11) Cfr. M. GALLO, Appunti di diritto penale, vol. I, Giappichelli, 1999, p. 150 ss.; MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale,<br />

Giuffrè, 2001, p. 287; M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, Giuffrè, 2004, p. 76 ss.; per un inquadramento<br />

generale della tematica, cfr. PARODI-GIUSINO, Effetti della dichiarazione di incostituzionalità delle leggi penali, in Riv. it. dir. e proc.<br />

pen., 1982, p. 915 ss.<br />

(12) Così M. ROMANO, Commentario, cit., p. 76 ss.<br />

(13) Così Sez. VI, 16 febbraio 2007, n. 9270, Berlusconi, in questa rivista, 2007, p. 1957 ss.; cfr. inoltre Sez. un., 27 febbraio 2001, n. 4,<br />

Conti, ivi, 2002, p. 2664. In proposito, v. le considerazioni di PATRONO, voce Legge (vicende della), in Enc. dir., vol. XXIII, Giuffrè,<br />

1973, p. 912 ss.<br />

(14) C. cost., 2 aprile 1970, n. 49 (in www.cortecostituzionale.it); riportata altresì in GUASTINI, Le fonti, cit., p. 308.<br />

(15) Cfr. GUASTINI, Le fonti, cit., p. 306 ss.; nella dottrina penalistica così M. ROMANO, Commentario, cit., p. 76. Ad avviso di G.U.<br />

RESCIGNO, voce Abrogazione, in Dizionario di diritto pubblico, vol. I, diretto da Cassese, Giuffrè, 2006, p. 30, tale potere di modificare<br />

l'ordinamento preesistente trova fondamento nella Carta costituzionale lì dove è attribuita al Parlamento (nelle materie statali) la funzione<br />

legislativa in cui è compreso il potere di cambiare le leggi preesistenti.<br />

(16) GUASTINI, Teoria e dogmatica delle fonti, Giuffrè, 1998, p. 199, 233 ss.; CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, vol. II,<br />

Cedam, 1984, p. 381 ss.; SORRENTINO, Le fonti del diritto italiano, Cedam, 2009, p. 80 ss.<br />

(17) Così POLITI, Gli effetti nel tempo delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale, Cedam, 1997, p. 357.<br />

(18) ZAGREBELSKY, Manuale di diritto costituzionale, vol. I, Utet, 2006 (rist.), p. 58 ss.; BOBBIO, Teoria generale del diritto,<br />

Giappichelli, 1993, p. 218 ss.<br />

(19) CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, cit., p. 180, 200 ss.<br />

(20) Cfr. ZAGREBELSKY, Manuale di diritto costituzionale, cit., p. 57 ss.; PIZZORUSSO, Le fonti del diritto italiano, in Trattato di<br />

diritto civile, diretto da Sacco, vol. I, Utet, 1998, p. 53 ss.; GUASTINI, Teoria e dogmatica, cit., p. 233 ss. Si è osservato, poi, che nei<br />

rapporti tra fonti del diritto, il criterio di gerarchia "comporta una relazione di condizionante-condizionato tra due fonti, nel senso che le<br />

norme prodotte dall'una (fonte sopraordinata) condizionano la validità sostanziale di quelle prodotte dall'altra (fonte sottoordinata)"<br />

(SORRENTINO, Le fonti del diritto, in AA.VV., Manuale di diritto pubblico, a cura di Amato-Barbera, vol. I, il Mulino, 1997, p. 121<br />

ss.). Più in generale, in argomento, v. MODUGNO, voce Fonti del diritto (gerarchia delle), in Enc. dir., Aggiornamento, I, Giuffrè, 1997,<br />

214


p. 561 ss.<br />

(21) GUASTINI, Teoria e dogmatica, cit., p. 160 ss.; ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, il Mulino, 1988, p. 258 ss.;<br />

BARBERIS, Filosofia del diritto, Giappichelli, 2008, p. 196 ss. In senso problematico, v. altresì CERRI, Corso di giustizia costituzionale,<br />

Giuffrè, 2008, p. 133.<br />

(22) CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, cit., p. 382. In giurisprudenza, decisa presa di posizione in questo senso si rinviene,<br />

ad esempio, in Sez. VI, 16 febbraio 2007, n. 9270, Berlusconi, cit., la quale ha affermato, in linea generale, l'efficacia retroattiva delle<br />

sentenze di accoglimento del giudice costituzionale, in relazione sia alle norme sostanziali sia a quelle processuali.<br />

(23) Così MAZZA, La norma processuale penale nel tempo, in Trattato di procedura penale, diretto da Ubertis-Voena, Giuffrè, 1999, p.<br />

320 ss.<br />

(24) In tal senso, cfr. MARINUCCI-DOLCINI, Manuale di diritto penale, Giuffrè, 2009, p. 99; M. GALLO, Appunti di diritto penale,<br />

vol. I, cit., p. 153 ss.; NAPPI, Manuale di diritto penale. Parte generale, Giuffrè, 2010, p. 61 ss. Più in generale, cfr. GAMBARDELLA,<br />

Specialità sincronica e specialità diacronica nel controllo di costituzionalità delle norme penali di favore, in questa rivista, 2007, p. 467<br />

ss.<br />

(25) Cfr. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, cit., p. 190; G.U. RESCIGNO, voce Abrogazione, cit., p. 32 ss. ; GUASTINI, Le<br />

fonti, cit., p. 301; SORRENTINO, Le fonti del diritto italiano, cit., p. 81.<br />

(26) GUASTINI, Le fonti, cit., p. 311 ss. Mentre, ad esempio PALADIN, Diritto costituzionale, Cedam, 1998, p. 771 ss., limita il<br />

fenomeno della reviviscenza della legge abrogata alla vicenda in cui la sentenza di accoglimento incide immediatamente sulla "clausola<br />

abrogativa" inclusa nella legge sopravvenuta: soltanto in questo caso, infatti, l'accoglimento sarebbe privo di significato, se non facesse<br />

cessare l'efficacia dell'abrogazione. Inoltre, sul problema della reviviscenza della norma abrogata dalla legge dichiarata incostituzionale,<br />

cfr. POLITI, Gli effetti nel tempo delle sentenze di accoglimento, cit., p. 352 ss.; GIACOBBE, voce Revi­viscenza e quiescenza, in Enc.<br />

dir., vol. XL, Giuf­frè, 1989, p. 189 ss., spec. p. 195-196; G.U. RE­SCIGNO, voce Abrogazione, cit., p. 33 ss.; SORRENTINO, Le fonti<br />

del diritto italiano, cit., p. 76 ss.; PATRONO, voce Legge (vicende della), cit., p. 922 ss.<br />

(27) Così espressamente: C. cost., 23 aprile 1974, n. 107, in Rep. C. cost., 1974-1975, p. 244. Ad esempio, poi, per C. cost., 23 aprile<br />

1986, n. 108, in Giur. cost., 1986, I, p. 582, la caducazione del comma 9-bis d.l. 7 febbraio 1985, n. 12, conv. nella l. 5 aprile 1985, n.<br />

118, espressamente abrogativo dell'art. 69 l. n. 392 del 1978, importa il ripristino della norma precedentemente abrogata, dalla quale<br />

saranno di conseguenza regolati i rapporti giuridici in essa considerati.<br />

(28) Cfr. sul punto SCALFATI, La pronuncia di abolitio criminis nel vigente assetto dell'esecuzione penale, in Riv. it. dir. e proc. pen.,<br />

1997, p. 180 ss.<br />

(29) Il termine abolitio non è adoperato dagli autori classici di Roma nel suo significato giuridico (NOCITO, voce Abolizione dell'azione<br />

penale - Lettere di abolizione, in Dig. it., vol. I, Utet, 1884, p. 93 ss.). Il verbo latino abolire è forma tarda rispetto al più antico abolesce?<br />

re, e nel suo significato iniziale sta per ridurre a niente, far dimenticare il ricordo; solo più tardi si afferma nel suo significato giuridico di<br />

cancellazione dei delitti o dell'azione penale (cfr. BATTAGLIA, Grande dizionario della lingua italiana, vol. I, Utet, dove si specifica<br />

che i vocaboli francesi "abolir" e "abolition" sono documentati sin dall'inizio del 1400). In particolare, l'istituto romano dell'abolitio<br />

publica generalis, non è riconducibile all'odierno tema della successione di leggi penali nel tempo. Il fenomeno dell'abolitio pubblica<br />

presso i Romani designa l'abbandono o la sospensione dell'azione penale in corso (intesa essa nel senso odierno, più generico, di<br />

procedimento penale), senza però che sia eliminato, cancellato, il reato; né può dirsi che l'abolitio comporti l'estinzione del reato - come<br />

nell'indulgentia in senso stretto e nella restitutio. Annullato pertanto solo il procedimento, una nuova accusa può essere iniziata sulla base<br />

dello stesso fatto. La pubblica abolitio appare, dunque, istituto più affine all'amnistia (con funzione di clemenza generale) che alla<br />

successione di leggi penali sotto forma del fenomeno della cosiddetta abolitio criminis (Art. ROCCO, Amnistia indulto e grazia nel diritto<br />

penale romano, in Opere giuridiche, vol. III, Soc. ed. Foro Italiano, 1933, p. 20 ss.; NOCITO, voce Abolizione dell'azione penale, cit., p.<br />

94 ss. E più recentemente riesamina in modo approfondito la distinzione fra l'abrogazione e l'amnistia DONINI, Discontinuità del tipo di<br />

illecito e amnistia. Profili costituzionali, in questa rivista, 2003, p. 2862 ss.).<br />

Lo stretto collegamento tra l'abolitio e l'amnistia si conserva nel tempo con l''uso del verbo "abolire" nei codici ottocenteschi: art. 830<br />

c.p.p. regno d'Italia del 1865 (testo originario, ossia versione ante 1889): "l'amnistia ... abolisce l'azione penale ed estingue le pene inflitte<br />

pei reati determinati nel decreto reale"; art. 831 c.p.p. regno d'Italia del 1865 "l'indulto non abolisce l'azione penale ..."; art. 89 codice per<br />

lo regno delle due Sicilie 1819 "Quando le amnistie aboliscono il procedimento, se colui che ne ha goduto commette nuovi reati, sarà<br />

giudicato qual reiteratore ... come se non avesse goduto dell'indulto" (secondo NOCITO, voce Abolizione dell'azione penale, cit., p. 95,<br />

"presso di noi abolizione dell'azione penale ed amnistia valgono la stessa cosa"; più in generale, per considerazioni storiche sulla<br />

clemenza, cfr. GEMMA, Principio costituzionale di eguaglianza e remissione della sanzione, Giuffrè, 1983, p. 48 ss.). Inoltre,<br />

l'espressione "abolizione della legge penale" è presente anche nei decreti di amnistia e di indulto. Ad esempio, si legge nell'art. 1 r.d. 9<br />

ottobre 1870, n. 5907: "È abolita l'azione penale e sono condonate le pene pei seguenti reati commessi fino alla data del presente decreto<br />

inclusivamente".<br />

(30) Sul valore normativo delle rubriche, cfr. TARELLO, L'interpretazione della legge, Giuffrè, 1980, p. 103 ss.<br />

(31) Così, ad esempio, VICOLI, Procedura penale dell'esecuzione, in Caprioli-Vicoli, Giappichelli, 2009, p. 260.<br />

(32) ZIRULIA, Quale sorte per le sentenze, cit., p. 3 ss.<br />

(33) ZIRULIA, Quale sorte per le sentenze, cit., p. 3 ss.; DEGL'INNOCENTI-TOVANI, La Corte costituzionale dichiara illegittima, cit.,<br />

p. 1184.<br />

(34) Trib. Milano, undicesima sezione penale, ord. 26 gennaio 2011, Giud. Corbetta, in Diritto penale contemporaneo,<br />

www.penalecontemporaneo.it.<br />

(35) Cfr. GAMBERINI-INSOLERA, Legislazione penale compulsiva, buone ragioni ed altro. A proposito della riforma dei reati di<br />

opinione, in AA.VV., La legislazione penale compulsiva, a cura di Insolera, Cedam, 2006, p. 142 ss.<br />

(36) Trib. Milano, ord. 26 gennaio 2011, cit.<br />

(37) Trib. Milano, ord. 26 gennaio 2011, cit.<br />

(38) Contra, PARODI, in Commentario alla Costi­tuzione, a cura di Bifulco-Celotto-Olivetti, vol. III, Utet, 2006, p. 2660; CERRI,<br />

215


Corso, cit., p. 253, secondo cui "le sentenze che applicano l'aggravante cadono anche se passate in giudicato ... e ciò segna un punto di<br />

distacco tra la disciplina dell'abrogazione e dell'incostituzionalità". Cfr inoltre PARODI-GIUSINO, Effetti della dichiarazione, cit., p. 915<br />

ss.<br />

(39) Così PADOVANI, voce Circostanze del reato, in Dig. d. pen., vol. II, Utet, 1988, p. 191 ss.<br />

(40) GIANFORMAGGIO, voce Analogia, in Dig. d. priv., sez. civ., vol. I, Utet, 1987, p. 322.<br />

(41) Un simile errore di prospettiva nell'applicazione dello schema dell'analogia, sembra essersi verificato nella importante sentenza<br />

"Drassich" (Sez. VI, 12 novembre 2008, n. 45807, Drassich, in questa rivista, 2009, p. 1457, con nota di CAIANIELLO, La riapertura<br />

del processo ex art. 625-bis c.p.p. a seguito di condanna della Corte europea dei diritti dell'uomo; e DE MATTEIS, Condanna da parte<br />

della Corte europea dei diritti dell'uomo e revoca del giudicato). In tale ipotesi, invero, si è fatto ricorso, in via analogica, allo strumento<br />

dell'impugnazione straordinaria per errore materiale o di fatto (art. 625-bis c.p.p.), per rimuovere il giudicato in presenza di errori<br />

contenuti nei provvedimenti pronunciati dalla Corte di cassazione. La suprema Corte in quest'ultima sentenza ha individuato<br />

nell'applicazione in via analogica del ricorso straordinario per errore materiale o di fatto ex art. 625-bis c.p.p. lo strumento giuridico<br />

idoneo a dare attuazione alle decisioni della Corte europea concernenti le violazioni del principio dell'equo processo (art. 6 CEDU). In<br />

realtà la Corte non ha applicato la disciplina prevista all'art. 625-bis, ma una diversa disciplina che in parte assomiglia a quella contenuta<br />

nell'art. 625-bis. Non è stato applicato l'istituto giuridico dell'art. 625-bis ad un caso non regolamentato ma analogo a quello disciplinato,<br />

bensì un analogo istituto rispetto a quello esistente del ricorso straordinario: si è operato attraverso lo schema dell'analogia sulla disciplina<br />

da applicare e non invece per enucleare un caso non contemplato dall'ordinamento (GAMBARDELLA, Il "caso Scoppola": per la Corte<br />

europea l'art. 7 CEDU garantisce anche il principio di retroattività della legge penale più favorevole, in questa rivista, 2010, p. 2026<br />

ss.).<br />

(42) Cfr. BOBBIO, Analogia, in Contributi ad un dizionario giuridico, Giappichelli, 1994, p. 1 ss.<br />

(43) Al riguardo occorre tenere presente che la Corte dichiarò incostituzionale la disciplina in tema di successione di leggi penali<br />

riguardante la mancata conversione di un decreto legge (art. 2, comma 5, oggi 6, c.p.) proprio sulla considerazione che con l'entrata in<br />

vigore della Costituzione i decreti legge perdono efficacia ex tunc (art. 77 Cost.), e dunque non possono essere equiparati ad una<br />

"normale" legge, non potendosi parlare di un reale avvicendamento tra leggi nella disciplina di una fattispecie (C. cost., 22 febbraio 1985,<br />

n. 51, in questa rivista, 1985, p. 816).<br />

(44) Cfr. PECORELLA, Codice penale commentato, a cura di Dolcini-Marinucci, Ipsoa, 2006, p. 77; AMATO, Scardinata l'intangibilità<br />

del giudicato, in Guida dir., 2006, n. 14, p. 30.<br />

(45) Cfr. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, cit., p. 384 ss. CELOTTO-MODUGNO, Lineamenti di diritto pubblico, a cura<br />

di Modugno, Giappichelli, 2010, p. 695; GUASTINI, Le fonti, cit., p. 385 ss.; PARODI, in Commentario alla Costituzione, cit., p. 2656;<br />

CERRI, Corso, cit., p. 244 ss.<br />

(46) Cfr. CELOTTO-MODUGNO, Lineamenti di diritto pubblico, cit., p. 695.<br />

(47) Cfr. ampiamente PARODI, in Commentario alla Costituzione, cit., p. 2658 ss., che illustrando la giurisprudenza in proposito<br />

inserisce tra gli istituti, di ordine processuale o sostanziale, che possono determinare l'esaurimento o l'intangibilità di una situazione o di<br />

un rapporto giuridico: il giudicato, le preclusioni processuali, la decadenza dal potere di impugnare un atto amministrativo, la<br />

prescrizione, la transazione, il negozio giuridico di accertamento.<br />

(48) In relazione alla deroga alla piena operatività della lex mitior ai sensi dell'art. 2, comma 4, c.p., la Corte costituzionale ha individuato<br />

una pertinente ragione giustificativa della regola dell'intangibilità del giudicato nell'esigenza di salvaguardare la certezza dei rapporti<br />

ormai esauriti (C. cost., 20 maggio 1980, n. 74, in Giur. cost., 1980, I, p. 684; così anche le sent. n. 164 del 1974 e n. 6 del 1978. Nella<br />

giurisprudenza della suprema Corte, cfr. in senso analogo Sez. VI, 8 aprile 1994, De Angelis, in questa rivista, 1996, p. 1807).<br />

(49) Per queste considerazioni, cfr. Trib. Milano, ord. 26 gennaio 2011, cit.<br />

(50) In tal senso, cfr. altresì ZIRULIA, Quale sorte per le sentenze, cit., p. 3 ss.<br />

(51) Sez. VI, 12 novembre 2008, n. 45807, Drassich, cit.<br />

Nella perdurante inerzia del legislatore, è intervenuta da ultimo la Corte costituzionale, la quale, con una sentenza additiva (7 aprile 2011,<br />

n. 113), ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 630 c.p.p., nel­la parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della<br />

sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell'art. 46,<br />

par. 1, CEDU, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo.<br />

(52) C. cost., 19 dicembre 1991, n. 467, in questa rivista, 1992, p. 1179.<br />

(53) In tal senso espressamente, v. MODUGNO, La ragionevolezza nella giustizia costituzionale, E.S., 2007, p. 33 ss.; PINO, Diritti e<br />

interpretazione, il Mulino, 2010, p. 201 ss. Al riguardo, cfr., tra gli altri, PALADIN, voce Ragionevolezza (principio di), in Enc. dir.,<br />

Aggiornamento, I, Giuffrè, 1997, p. 900 ss.; SCACCIA, Gli strumenti della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, Giuffrè, 2000, p.<br />

106 ss.; MORRONE, Il custode della ragionevolezza, Giuffrè, 2001; LUTHER, voce Ragionevolezza (delle leggi), in Dig. d. pubbl., vol.<br />

XII, Utet, 1997, p. 351 ss.; MANES, Attualità e prospettive del giudizio di ragionevolezza in materia penale, in Riv. it. dir. e proc. pen.,<br />

2007, p. 741.<br />

(54) Così PINO, Diritti e interpretazione, cit., p. 203.<br />

(55) In argomento, cfr. ALCHOURRóN-BULYGIN, Sistemi normativi, Giappichelli, 2005, (1971), p. 135 ss.; PARODI, La sentenza<br />

additiva a dispositivo generico, Giappichelli, 1996, p. 133 ss.; GUASTINI, Le fonti, cit., p. 334; BOBBIO, in Contributi ad un dizionario<br />

giuridico, cit., p. 96 ss., il quale parla in questo caso di mancanza di una norma adeguata, giusta; mancanza che, a differenza dalle lacune<br />

propriamente dette, non può essere colmata dal giudice. Per l'illustre autore, si può parlare di lacuna ideologica allorché "esiste una norma<br />

certa, ma questa norma non è quella che deve essere, secondo i valori fondamentali assunti dallo stesso giurista, e in base ai quali egli<br />

giudica l'adeguatezza o l'inadeguatezza di un ordinamento giuridico".<br />

(56) Cfr. PARODI, La sentenza additiva, cit., p. 139 ss.; CERRI, Corso, cit., p. 261 ss. Da ultimo C. cost., 7 aprile 2011, n. 113.<br />

(57) Cfr. BIN-PITRUZZELLA, Diritto costituzionale, Giap­pichelli, 2010, p. 461 ss.; GUASTINI, Le fonti, cit., p. 383 ss.; MALFATTI-<br />

PANIZZA-ROMBOLI, Giustizia costituzionale, Giappichelli, 2007, p. 124; CERRI, Corso, cit., p. 260 ss.<br />

(58) Cfr. VIGNUDELLI, Diritto costituzionale, Giappichelli, 2010, p. 415 ss.; PARODI, in Commentario alla Costituzione, cit., p. 2663<br />

216


ss.; PALADIN, Diritto costituzionale, cit., p. 782; MALFATTI-PANIZZA-ROMBOLI, Giustizia costituzionale, cit., p. 304; CERRI,<br />

Corso, cit., p. 262 ss.<br />

217


218


Autorità: Cassazione penale sez. I<br />

Data: 27 ottobre 2011<br />

Numero: n. 977<br />

Parti:<br />

Fonti: Cass. pen. 2012, 5, 1660 (s.m.) (nota di: GAMBARDELLA)<br />

CLASSIFICAZIONE<br />

ESECUZIONE PENALE - Giudice dell'esecuzione - procedimento di esecuzione<br />

TESTO<br />

GIUDICE DELL'ESECUZIONE - Revoca della sentenza di condanna per dichiarazione di illegittimità<br />

costituzionale - Eseguibilità della parte di pena inflitta per effetto dell'applicazione della circostanza aggravante<br />

dichiarata costituzionalmente illegittima - Esclusione - Disciplina generale degli effetti della dichiarazione<br />

d'illegittimità costituzionale - Fattispecie.<br />

La questione concernente l'eseguibilità della parte di pena inflitta per effetto dell'applicazione di una circostanza aggravante<br />

dichiarata costituzionalmente illegittima, deve essere affrontata e risolta in base alla disciplina generale degli effetti della<br />

dichiarazione d'illegittimità costituzionale. Gli art. 136 cost. e 30, commi 3 e 4, l. n. 87 del 1953, ostano invero alla<br />

esecuzione della porzione di pena applicata dal giudice della cognizione in conseguenza della circostanza aggravante<br />

annullata. (In relazione alla circostanza aggravante della c.d. clandestinità di cui all'art. 61, n. 11 bis, c.p., dichiarata<br />

costituzionalmente illegittima con sentenza n. 249 del 2010, la Corte ha affermato che spetta al giudice dell'esecuzione il<br />

compito di individuare la porzione di pena corrispondente e di dichiarala non eseguibile, previa sua determinazione ove la<br />

sentenza del giudice della cognizione abbia omesso di individuarla specificamente, ovvero abbia proceduto, come nel caso<br />

in esame, al bilanciamento tra le circostanze).<br />

Cassazione penale sez. I, 27 ottobre 2011, n. 977<br />

CONSIDERATO IN DIRITTO<br />

1. Oggetto di ricorso è, formalmente, la domanda di revoca parziale, ex art. 673 cod. proc. pen., della sentenza penale di<br />

condanna pronunciata in data 4.2.2010, definitiva l'8.3.2010, del G.i.p. del Tribunale di Verona nei confronti di H.A., per la<br />

parte relativa all'applicazione della circostanza aggravante dell'art. 61 cod. pen., comma 1, n. 11 bis, di cui è stata dichiarata<br />

l'illegittimità costituzionale con la sentenza della Corte costituzionale n. 249 del 2010. La questione posta è tuttavia più<br />

ampia giacchè concerne, nella sostanza, la non eseguibilità del giudicato di condanna per la parte in cui è riferibile<br />

all'applicazione della circostanza aggravante colpita da declaratoria d'illegittimità costituzionale. In questi termini la<br />

questione è fondata.<br />

2. In effetti, alla soluzione propugnata non può pervenirsi mediante l'art. 673 cod. proc. pen..<br />

Tale disposizione disciplina la revoca della sentenza di condanna nei casi di "abrogazione o di dichiarazione di illegittimità<br />

costituzionale della norma incriminatrice" e, prevedendo che "il giudice dell'esecuzione revoca la sentenza di condanna o il<br />

decreto penale dichiarando che il fatto non è previsto come reato e adotta i provvedimenti conseguenti", mostra di riferirsi,<br />

come d'altronde mostra di riconoscere la dottrina pressochè uniforme, ai fenomeni di depenalizzazione o di illegittimità<br />

costituzionale dell'intera fattispecie oggetto del provvedimento divenuto irrevocabile.<br />

La stessa Corte costituzionale, nella sent. n. 96 del 1996 e nell'ordinanza n. 57 del 2001, osserva che la caratteristica dell'art.<br />

673 cod. proc. pen., rispetto alla disciplina posta dall'art. 2 cod. pen., comma 2, e dalla L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 30, sta<br />

nel prevedere, per l'ipotesi di abolitio criminis o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della fattispecie<br />

incriminatrice, la revoca della sentenza da parte del giudice dell'esecuzione, attribuendo a questo il potere di incidere<br />

direttamente, cancellandola, sulla sentenza del giudice della cognizione. La norma permette perciò una revoca "parziale"<br />

della sentenza di condanna, solo se la si intende nel senso della eliminazione della condanna per uno o più dei fatti-reato<br />

oggetto di giudizio. Non si presta invece ad essere interpretata nel senso di consentire la scissione del singolo capo d'accusa<br />

e la risoluzione del giudicato formale in relazione ad aspetti meramente circostanziali, o sanzionatori, ad esso interni.<br />

3. Proprio il carattere d'innovazione dell'art. 673 c.p.p. attuale che, imponendo di considerare alla stregua di norma speciale<br />

il contenuto prescrittivo di tale disposizione, ne segna il limite, consente tuttavia di affermare che la questione sostanziale<br />

che qui interessa, concernente la eseguibilità della parte di pena inflitta per effetto dell'applicazione di una circostanza<br />

aggravante dichiarata costituzionalmente illegittima, deve essere affrontata e può essere risolta in base alla disciplina<br />

generale degli effetti della dichiarazione d'illegittimità costituzionale.<br />

L'art. 673 è, in altri termini, norma processuale che completa la disciplina generale sostanziale in materia di successione<br />

della legge penale nel tempo (art. 2 cod. pen.) e di efficacia delle sentenze dichiarative d'illegittimità costituzionale (art. 136<br />

Cost. e L. n. 87 del 1953, art. 30), consentendo di rimuovere formalmente la sentenza e il giudicato nei casi di abolitio<br />

criminis e di dichiarazione d'illegittimità costituzionale della fattispecie penale. Sicchè, come non esclude l'operatività in<br />

sede di esecuzione di tutte le diverse ipotesi in cui la legge penale sostanziale mitior sopravvenuta è riconosciuta idonea ad<br />

219


incidere sul giudicato di condanna (art. 2 cod. pen., comma 3), pur non riferendosi ad esse; così, e a maggior ragione, non<br />

v'è motivo per cui debba ritenersi esaurire i casi in cui può trovare applicazione il principio di retroattività delle sentenze<br />

che dichiarano l'invalidità costituzionale di una norma che, pur non essendo costitutiva di un autonomo titolo di reato, si<br />

riferisce al trattamento penale (art. 136 Cost. e L. n. 87 del 1953, art. 30, in combinato disposto con l'art. 25 Cost. e l.c. 9<br />

febbraio 1948, n. 1, art. 1).<br />

A maggior ragione, si diceva, perchè "i due istituti dell'abrogazione e della illegittimità costituzionale non sono identici fra<br />

loro, si muovono su piani diversi con effetti diversi e con competenze diverse" (Corte cost. sent. n. 1 del 1956):<br />

l'abrogazione operando, come è noto, di regola ex nunc e non toccando perciò la validità della norma abrogata fino<br />

all'entrata in vigore di quella abrogante; la dichiarazione d'illegittimità costituzionale colpendo, al contrario, la norma fin<br />

dalla sua origine, eliminandola dall'ordinamento e rendendola inapplicabile ai rapporti giuridici in corso, con conseguente<br />

invalidanti assimilabili all'annullamento (Corte cost. sent. n. 127 del 1966) e con incidenza, quindi, anche sulle situazioni<br />

pregresse, salvo il limite invalicabile del giudicato con le eccezioni espressamente prevedute dalla legge, per l'appunto in<br />

materia penale, e salvo altresì il limite derivante da situazioni giuridiche da ritenere "esuarite".<br />

La pronunzia che accerta e dichiara l'illegittimità costituzionale è perciò dotata di una forza invalidante ex tunc la cui<br />

portata, già implicita nell'art. 136 Cost. e l.c. n. 1 del 1948, art. 1, è chiarita dalla L. n. 87 del 1953, art. 30 (secondo la<br />

consolidata giurisprudenza costituzionale le disposizioni di tale norma non divergono in alcun modo dai precetti<br />

costituzionali, che esplicitano;<br />

cfr., per tutte sent. nn. 127 del 1966 e 49 del 1970).<br />

Ora, la L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 30 del 1953, così stabilisce ai commi terzo e quarto: "Le norme dichiarate<br />

incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione". "Quando in<br />

applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la<br />

esecuzione e tutti gli effetti penali".<br />

Anche il principio per il quale i rapporti che sul piano processuale hanno trovato la loro definitiva e irretrattabile<br />

conclusione mediante sentenza passata in giudicato non vengono intaccati dalla successiva pronuncia di incostituzionalità,<br />

trova dunque eccezione in materia penale, grazie al disposto dell'art. 30, comma 4 (Corte cost. sentenze nn. 49 del 1970 e<br />

139 del 1984), che impedisce di dare esecuzione alla condanna pronunciata "in applicazione della norma dichiarata<br />

incostituzionale".<br />

Correlata all'efficacia dichiarativa della pronunzia d'illegittimità costituzionale, la disposizione costituisce attuazione del<br />

principio di cui all'art. 25 Cost., comma 2; è perciò da riferire alle sole norme penali sostanziali e trova limite, enucleatale<br />

dalla stessa norma costituzionale, nel caso in cui la dichiarazione d'illegittimità costituzionale cada su norma penale di<br />

favore (su tali aspetti la giurisprudenza costituzionale è assolutamente consolidata).<br />

Il Collegio è consapevole del fatto che la giurisprudenza di legittimità spesso ha affermato che la L. n. 87 del 1953, art. 30,<br />

comma 4, si riferisce solamente alle norme penali incriminatrici (tra più: Sez. 5, n. 296 del 25/01/1968, Manenti, Rv.<br />

106904). Occorre tuttavia chiarire che tale nozione non risulta mai evocata per distinguere tra norme complete di precetto e<br />

sanzione costitutive di una fattispecie di reato (titolo) e norme che si riferiscono ad elementi accessori (circostanze) del<br />

reato, nè si rinvengono pronunzie che abbiano ad oggetto situazione paragonabile a quella in esame; dall'analisi delle<br />

decisioni emerge anzi che la giurisprudenza di legittimità s'è riferita alle norme incriminatrici per lo più solo al fine di<br />

distinguere da esse le norme processuali a cui non s'applica l'art. 30, comma 4, o nell'ambito di decisioni che avevano ad<br />

oggetto, in realtà, il problema di situazioni da considerare a tutti gli effetti, anche esecutivi, esaurite (Sez. U, n. 3 del<br />

28/01/1998, Budini, Rv. 210258).<br />

Allorchè si parla di norma penale in senso stretto, s'intende comunemente fare riferimento - nell'accezione mutuata appunto<br />

dall'art. 25 Cost., comma 2, - alle disposizioni che comminano una pena o che determinano una differenza di pena in<br />

conseguenza di determinati comportamenti o situazioni. Nella misura in cui da dette norme deriva una sanzione criminale<br />

per un aspetto dell'agire umano, di esse può dirsi altresì che sono analoghe alle norme incriminatrici, essendo indifferente,<br />

da tale punto di vista, che istituiscano un autonomo titolo di reato o una circostanza aggravante.<br />

La differenza tra la L. n. 87 del 1953, art. 30, comma 4, e l'art. 673 cod. proc. pen., non risiede perciò, a ben vedere, nel<br />

riferimento alle norme penali sostanziali o incriminatrici, ma nel fatto che l'art. 673, prevedendo (come detto) che il giudice<br />

dell'esecuzione, nel revoca la sentenza di condanna, dichiari che il fatto non è previsto come reato, limita evidentemente<br />

quel riferimento alle sole norme che prevedono un autonomo titolo di reato, ovverosia al norme che non possono ritenersi<br />

solo in senso lato incriminatrici, ma che istituiscono specifiche fattispecie incriminatrici.<br />

La stessa interpretazione riduttiva non è imposta invece dalla lettera dell'art. 30, che non circoscrive in alcun modo, nè<br />

direttamente nè indirettamente, il divieto di dare esecuzione alla condanna pronunziata "in applicazione" di una norma<br />

penale dichiarata incostituzionale, e che si presta perciò ad essere letto nel senso di impedire anche solamente una parte<br />

dell'esecuzione, quella relativa alla porzione di pena che discendeva dall'applicazione della norma poi riconosciuta<br />

costituzionalmente illegittima.<br />

Una interpretazione di questa fatta appare, per altro, l'unica conforme a ai principi di personalità, proporzionalità e<br />

rimproverabilità desumibili dall'art. 27 Cost., che investono la funzione della pena dal momento della sua irrogazione a<br />

220


quello della sua esecuzione, oltre che a quegli stessi precetti costituzionali posti a base della sentenza n. 249 del 2010 (l'art.<br />

3 Cost., che inibisce di istituire discriminazioni irragionevoli; l'art. 25 Cost., comma 2, che prescrive, in modo rigoroso, che<br />

un soggetto debba essere sanzionato per le condotte tenute e non per le sue qualità personali), ovverosia all'insieme dei<br />

principi costituzionali che regolano l'intervento repressivo penale e che impediscono di ritenere costituzionalmente giusta, e<br />

perciò eseguibile, anche soltanto una frazione della pena, se essa consegue all'applicazione di una norma contraria a<br />

Costituzione.<br />

D'altronde, proprio la sentenza della Corte costituzionale n. 249 del 2010 pare attestare, con la dichiarazione d'illegittimità<br />

costituzionale in via consequenziale dell'art. 656 cod. proc. pen., comma 9, lett. a), (limitatamente alle parole "e per i delitti<br />

in cui ricorre l'aggravante di cui all'art. 61 cod. proc. pen., comma 1, numero 11 bis)"), l'incompatibilità a Costituzione di<br />

una sopravvivenza al giudicato persi no degli effetti penali dell'aggravante di cui si discute.<br />

Mentre sul piano obiettivo non può negarsi, per converso, che detta dichiarazione d'illegittimità costituzionale in via<br />

consequenziale non sarebbe forse stata necessaria se si fosse ritenuta praticabile la via della revoca parziale ex art. 673 cod.<br />

proc. pen..<br />

4. In conclusione, ritiene il Collegio che possa affermarsi che l'art. 136 Cost. e L. n. 87 del 1953, art. 30, commi 3 e 4,<br />

ostano alla esecuzione della porzione di pena inflitta dal giudice della cognizione in conseguenza dell'applicazione di una<br />

circostanza aggravante dichiarata costituzionalmente illegittima.<br />

Spetta per conseguenza al Giudice dell'esecuzione il compito di individuare la porzione di pena corrispondente e di<br />

dichiararla non eseguibile, previa sua determinazione ove la sentenza del giudice della cognizione abbia omesso di<br />

individuarla specificamente, ovvero abbia proceduto, come nel caso in esame, al bilanciamento tra circostanze.<br />

5. Per tali ragioni, va dichiarata la non eseguibilità della sentenza del G.i.p. del Tribunale di Verona, pronunciata in data 4<br />

febbraio 2010 e divenuta definitiva l'8 marzo 2010, nei confronti di H.A., nella parte in cui ha applicato l'aggravante di cui<br />

all'art. 61 cod. pen.,, n. 11 bis, e l'ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio al medesimo G.i.p., perchè, quale<br />

giudice dell'esecuzione, provveda alla determinazione della pena che non può essere posta in esecuzione riferibile a detta<br />

aggravante, nonchè di quella residua, che è invece da eseguire.<br />

P.Q.M.<br />

Annulla l'ordinanza impugnata e, dichiarata la non eseguibilità della sentenza 8 marzo 2010 del G.i.p. del Tribunale di<br />

Verona nei confronti di H.A. nella parte in cui ha applicato l'aggravante di cui all'art. 61 cod. pen., n. 11 bis, rinvia al G.i.p.<br />

del Tribunale di Verona per la determinazione della pena da eseguire.<br />

Così deciso in Roma, il 27 ottobre 2011.<br />

Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2012<br />

Cassazione penale sez. I, 27 ottobre 2011 (udienza) , n. 977<br />

221


222


DIRITTO PENALE E LEGGI REGIONALI DOPO LA RIFORMA DEL TITOLO V COST.: ESISTE ANCORA IL<br />

MONOPOLIO PUNITIVO STATUALE?<br />

Riv. it. dir. e proc. pen. 2007, 2-3, 648<br />

Carlo Ruga Riva<br />

Associato di diritto penale Università degli Studi di Milano-Bicocca<br />

Sommario: Parte I: "Ordinamento penale" e riforma del titolo V Cost. - 1. Premessa. - 2. La competenza penale prima della<br />

riforma costituzionale del 2001. - 3. I nuovi criteri di riparto ex art. 117 co. 2 Cost. - 4. (Segue): l'attribuzione espressa allo<br />

Stato della competenza legislativa sull'"ordinamento penale": i problemi aperti. - 5. Il significato della formula<br />

"ordinamento penale". - 5.1. Norme scriminanti regionali? - 5.2. Norme penali in materie di esclusiva competenza<br />

regionale? - 5.3. Norme penali in materie concorrenti e integrazione regionale - 5.4. Un diritto penale diseguale? - 6. L'art.<br />

9 l. n. 689 del 1981. - Parte II: Le tecniche normative espresse di governo delle interferenze tra norme penali e leggi<br />

regionali. - 1. Il modello separatista. - 2. Il modello collaborativo. - Parte III: Le interferenze non regolate dal legislatore. -<br />

1. Casistica delle interferenze tra leggi regionali e norme penali - 2. Un primo bilancio giurisprudenziale. - Conclusioni.<br />

Parte I "Ordinamento penale" e riforma del titolo V Cost.<br />

1. Premessa. - La "controversa questione"(1) dei rapporti tra diritto penale e leggi regionali merita di essere riesaminata alla<br />

luce della riforma del titolo V della Costituzione, dedicato al riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni.<br />

Il tema verrà articolati in tre parti.<br />

Nella prima ci si interrogherà sul senso e sulla portata dell'espressa attribuzione allo Stato della competenza esclusiva nella<br />

materia "ordinamento penale" (art. 117 co. lett. l Cost.), e sugli eventuali spazi residui di competenza penale diretta o<br />

indiretta facenti capo alle Regioni.<br />

Nella seconda parte si esamineranno le tecniche con le quali il legislatore ordinario ha espressamente disciplinato le<br />

interferenze tra leggi penali statali e leggi regionali.<br />

Nella terza parte, prendendo spunto da talune decisioni giudiziali, si analizzeranno le interferenze prodotte dalle leggi<br />

regionali sul diritto penali al di fuori di previsione normative espresse, attraverso disposizioni regionali integranti<br />

presupposti del fatto tipico, elementi normativi di fattispecie, norme penali in bianco, cause di giustificazione ed elementi di<br />

fattispecie estintive.<br />

2. La competenza penale prima della riforma costituzionale del 2001. - Come noto, anteriormente al 2001 l'art. 117 della<br />

nostra Costituzione non menzionava la materia penale.<br />

In assenza di esplicite attribuzioni, il monopolio punitivo statuale era stato variamente sostenuto(2), dalla giurisprudenza<br />

costituzionale e da una parte della dottrina(3), sulla base dell'uguaglianza dei cittadini davanti alla legge (art. 3 Cost.)(4);<br />

dell'unità e indivisibilità della Repubblica (art. 5 Cost.)(5); della riserva di legge statale in materia penale (art. 25 co. 2<br />

Cost.), anche in parallelo con il principio della precostituzione per legge (statale) del giudice naturale(6); del divieto per le<br />

Regioni di "adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione di persone tra le Regioni" (art.<br />

120)(7).<br />

Tali argomenti venivano persuasivamente criticati da altra dottrina.<br />

In primo luogo il principio di uguaglianza si prestava a ben vedere ad una lettura opposta, nella misura in cui si trattasse di<br />

disciplinare realtà regionali differenziate(8).<br />

In secondo luogo l'unità dell'ordinamento giuridico non sembrava incompatibile con l'eventuale attribuzione di competenza<br />

penale alle Regioni, posto che lo stesso art. 5 Cost. riconosceva e promuoveva le autonomie locali, e che, in ogni caso, una<br />

limitata potestà penale demandata alle Regioni nei limiti di determinate specificità territoriali non avrebbe posto in pericolo<br />

l'unità dell'ordinamento(9).<br />

In terzo luogo, alla competenza penale delle Regioni non sembrava di per sé ostativo - salve le ulteriori argomentazioni di<br />

seguito considerate - il richiamo all'art. 25 Cost.; vuoi perché, in relazione al co. 1, la legge regionale era tendenzialmente<br />

equiordinata a quella statale; vuoi perché il parallelo con il co. 2, e cioè con il principio della precostituzione per legge<br />

statale del giudice naturale, sembrava inconferente.<br />

Da un lato, infatti, l'eventuale riconoscimento di potestà penale alle Regioni non avrebbe intaccato tale garanzia<br />

processuale(10); d'altro lato l'esperienza comparata dimostrava già allora come, sul piano logico, la titolarità della potestà<br />

legislativa sulle norme penali sostanziali potesse essere distinta da quella sulle norme processuali(11).<br />

In quarto luogo si riteneva che il divieto posto dall'art. 120 Cost. fosse orientato nella prospettiva di vietare vincoli di<br />

carattere generale concernenti la libertà di transito e di commercio, e non fosse dunque invocabile nella materia in<br />

esame(12).<br />

Vi erano poi due tesi più sofisticate, le quali negavano la competenza penale delle Regioni in base ad argomenti più ampi e<br />

"di sistema".<br />

223


La prima, elaborata dalla Corte costituzionale nella notissima sentenza n. 487/1989 scritta da Renato Dall'Andro(13),<br />

negava ai Consigli regionali la legittimazione ad emanare norme penali, per "la mancanza di una visione generale dei<br />

bisogni e delle esigenze di una intera società".<br />

La Corte parla di "statualità a doppio titolo del diritto penale: ed infatti statali sono i particolari interessi e valori tutelati<br />

dal ramo penale e statale è il fine perseguito attraverso le incriminazioni: la tutela di tutto l'ordinamento giuridico statale,<br />

e, così, della vita sociale in libertà, uguaglianza e reciproco rispetto dei soggetti".<br />

L'autorevole affermazione non sembrava persuasiva.<br />

Quanto all'oggetto, il "ramo penale" tutelava infatti anche interessi e valori di competenza concorrente delle Regioni, o di<br />

competenza primaria di talune Regioni a statuto speciale: si pensi all'urbanistica, alla caccia e alla pesca, alla agricoltura:<br />

dunque il diritto penale tutelava anche interessi in tutto o in parte regionali.<br />

Quanto allo scopo, sembrava opinabile ritenere che il diritto penale perseguisse, con la pena, la tutela di tutto (e solo)<br />

l'ordinamento giuridico statale: perseguiva infatti anche la tutela di interessi regionali e locali, nella misura in cui<br />

l'ordinamento (della Repubblica) era ripartito in Regioni, Province, e Comuni, che armoniosamente, e nel rispetto delle<br />

rispettive competenze e ruoli, avrebbero dovuto concorrere lealmente a realizzare il bene comune, rappresentato non solo<br />

dalla protezione dei diritti di libertà, ma anche dalla tutela dei beni di interesse regionale sopra indicati.<br />

Tuttavia l'affermazione della Corte additava un interesse (la libertà dei cittadini) la cui compressione è stata<br />

tradizionalmente affidata a leggi statali, per ragioni storiche ben evidenziate nella citata sentenza.<br />

Basti pensare alla riserva assoluta di legge statale di cui agli artt. 13 e 14 Cost., che hanno sullo sfondo la libertà personale e<br />

il domicilio.<br />

Dunque compresenza di interessi particolari, territorialmente circoscritti, di esclusiva o concorrente valenza regionale (es.<br />

agricoltura e urbanistica), da un lato, e beni e valori universali, come la libertà dei cittadini, dall'altro.<br />

Se il diritto penale è un'arma a doppio taglio una delle due lame era destinata ad incidere su di un interesse statale, (la libertà<br />

personale), l'altra poteva incidere su interessi regionali, rimessi dall'art. 117 Cost. alla cura esclusiva o concorrente delle<br />

Regioni.<br />

Nella lettura della Corte costituzionale l'arma del diritto penale tagliava tutte le materie, trasversalmente, a prescindere<br />

dall'oggetto su cui cadeva.<br />

Come dire che le esigenze di uguaglianza nella restrizione/privazione della libertà personale prevalevano su quelle di<br />

differenziazione territoriale funzionali alla tutela di determinati beni e interessi di rilievo regionale.<br />

Una seconda tesi rimarcava l'assenza di legittimazione democratica del Consiglio regionale nei confronti del cittadino non<br />

residente nella Regione che ivi avesse commesso l'illecito penale di fonte regionale(14).<br />

Questa tesi si presta ad essere letta criticamente da due punti di vista.<br />

Dal lato, per così dire, della legittimazione passiva, non sembra che l'ipotetico destinatario della norma penale posta da una<br />

Regione diversa da quella della propria residenza possa lamentare di non avere potuto concorrere, con il proprio voto, alla<br />

formazione della relativa legge.<br />

Se valesse tale criterio, lo straniero non sarebbe punibile per i reati commessi nel territorio italiano(15).<br />

La tesi qui criticata è indubbiamente più suggestiva dal lato, per così dire, della legittimazione attiva, cioè della titolarità del<br />

potere di punire.<br />

Secondo alcuni Autori, il frantumarsi del "principio di uniformità disiciplinare in materia penale" può discendere solo<br />

"dall'organo massimamente rappresentativo della sovranità popolare"; dunque, nello Stato regionale, a differenza che nello<br />

Stato federale, la potestà punitiva farebbe capo esclusivamente al potere centrale(16).<br />

Dietro i richiami alla carenza di legittimazione democratica del Consiglio regionale nei confronti del cittadino non residente<br />

nel relativo territorio compare l'idea della potestà punitiva come espressione caratteristica della sovranità(17), una e<br />

indivisibile per antica dottrina giuspubblicistica(18).<br />

Tuttavia, ambedue le tesi trovano smentite storiche.<br />

Da un lato nel nostro Paese, dopo l'unità d'Italia, e fino all'entrata in vigore, nel 1890, del Codice Zanardelli, rimasero in<br />

vigore tre diversi sistemi penali, in un quadro definito di "federalismo penale e giudiziario"(19).<br />

L'art. 23 dello Statuto speciale Trentino-Alto Adige(20) rende a sua volta evidente che la potestà punitiva regionale, per<br />

quanto "condizionata" dalle scelte statali di incriminazione, può coesistere con queste all'interno di uno Stato unitario.<br />

Per altro verso l'esperienza comparata dimostra(21) come negli Stati federali, ove pure la sovranità fa capo alla federazione<br />

unitariamente considerata(22), e non alle entità federate, queste ultime hanno più (Stati Uniti, Australia) o meno<br />

(Germania(23), Canada(24)) o nessun (Federazione russa, Svizzera e Belgio) potere di incriminazione, a dimostrazione che<br />

l'attribuzione o meno di competenza legislativa penale non è connotato essenziale dello Stato federale.<br />

In definitiva, non sembra che la competenza penale possa dirsi preclusa negli Stati regionali e viceversa sia connotato tipico<br />

degli Stati federali.<br />

L'accostamento ai fini del nostro discorso tra entità federate e Regioni è giustificata dalla considerazione, ormai ricorrente<br />

nella dottrina costituzionalistica, secondo cui i tratti distintivi tra modelli federali e modelli regionali appaiono assai sfumati.<br />

Ciò che conta è soprattutto l'ampiezza dell'autonomia attribuita agli enti decentrati(25).<br />

224


Da questo punto di vista, l'originario sistema costituzionale delle autonomie, sia nella enumerazione delle materie di<br />

competenza concorrente o primaria (negli Statuti speciali) delle Regioni, sia attraverso i limiti dei principi generali<br />

dell'ordinamento e delle grandi riforme (per talune Regioni a statuto speciale), dei principi fondamentali dettati dal<br />

legislatore statale e dell'interesse nazionale ("vecchio" art. 117 Cost.) lasciava spazi piuttosto esigui alla competenza<br />

legislativa delle Regioni; spazi ulteriormente ridotti, secondo i critici(26), da una giurisprudenza costituzionale incline a<br />

enfatizzare l'interesse nazionale.<br />

In un sistema costituzionale decisamente orientato a dare prevalenza alle competenze legislative statali e all'interesse<br />

nazionale, il silenzio dell'art. 117 Cost. sulla competenza penale finiva inevitabilmente per parlare a favore del legislatore<br />

statale e contro quello regionale; nonostante, come si è cercato di obbiettare, le argomentazioni a sostegno della<br />

incompetenza penale regionale non apparissero insuperabili.<br />

In estrema sintesi, la giurisprudenza costituzionale e la dottrina si assestarono, dopo qualche iniziale diversa opinione, su<br />

posizioni di netta chiusura rispetto non solo alla potestà penale diretta delle Regioni, ma anche alla possibilità per queste<br />

ultime di interferire in via mediata con l'applicazione o meno di fattispecie penali.<br />

Più precisamente, secondo la giurisprudenza costituzionale(27) spettava esclusivamente allo Stato il potere di creare,<br />

modificare, estinguere fattispecie penali; sostituire sanzioni penali con sanzioni amministrative; prevedere cause di<br />

giustificazione.<br />

Alle Regioni non era consentito neppure di prevedere che per lo svolgimento di determinate attività per le quali la legge<br />

statale esigesse il preventivo rilascio da parte della Regione stessa di un provvedimento di autorizzazione, in mancanza del<br />

quale era prevista una sanzione penale, fosse richiesta non già un'autorizzazione individuale, previa verifica della<br />

conformità alla legge delle specifiche modalità con le quali veniva svolta in concreto l'attività, bensì una mera generale<br />

autorizzazione contenuta nella stessa legge regionale a favore di tutti coloro che al momento dell'entrata in vigore<br />

esercitassero tale attività(28).<br />

3. I nuovi criteri di riparto ex art. 117 co. 2 Cost. - Ricostruita per sommi capi la storia del monopolio punitivo statuale e<br />

delle sue giustificazioni, non resta che approfondire il significato della riforma costituzionale del 2001.<br />

La novella ha ribaltato l'originario criterio di riparto, enumerando le materie di competenza esclusiva dello Stato (art. 117<br />

co. 2) e di competenza concorrente tra Stato e Regioni (art. 117 co. 3), ed attribuendo le residue materie "innominate" alla<br />

competenza esclusiva delle Regioni (art. 117 co. 4).<br />

Complessivamente le Regioni hanno guadagnato ampi spazi di competenza legislativa, in via esclusiva o concorrente, in<br />

diverse materie tradizionalmente oggetto di intervento (esclusivo o concorrente) del legislatore (statale) penale: si pensi<br />

all'agricoltura, alla caccia e pesca, alla "tutela e sicurezza del lavoro", alla "tutela della salute", all'"alimentazione", al<br />

"governo del territorio", alla "tutela dell'ambiente"(29).<br />

4. (Segue): l'attribuzione espressa allo Stato della competenza legislativa sull'"ordinamento penale": i problemi aperti. -<br />

Tra le materie è comparsa, per la prima volta, l'"ordinamento penale" (art. 117 co. 2 lett. l Cost.), attribuita in via esclusiva<br />

allo Stato.<br />

A prima vista l'attribuzione allo Stato della competenza legislativa penale sembra risolvere ogni questione, in linea con la<br />

citata giurisprudenza costituzionale antecedente alla riforma del titolo V (supra, 2).<br />

Tuttavia l'ambiguità della formula "ordinamento penale", unitamente al complessivo accrescimento delle competenze<br />

legislative regionali, giustifica l'interrogativo circa lo spazio da riconoscere ad eventuali competenze penali dirette in capo<br />

alle Regioni e, soprattutto, circa la legittimità degli effetti penali indiretti prodotti dalle disposizioni regionali incidenti sui<br />

presupposti del reato, su norme penali in bianco, sugli elementi normativi, sulle cause di giustificazione, su elementi di<br />

fattispecie estintive.<br />

L'attribuzione di competenze legislative esclusive in capo alle Regioni e il venir meno del limite dell'interesse nazionale<br />

pongono problemi delicati, rendendo altamente problematico l'impiego del diritto penale.<br />

Può il legislatore statale, usando della sanzione penale, legiferare in materie di competenza esclusiva delle Regioni,<br />

"riappropriandosi" in tal modo di materie che gli sarebbero altrimenti precluse? (cfr. infra,5.2.).<br />

Nelle materie di competenza legislativa concorrente le norme incriminatrici sono espressione di principi fondamentali della<br />

materia? (cfr. infra,5.3.).<br />

Le cause di giustificazione esprimono a loro volta principi fondamentali della materia, e dunque risultano sottratte, nelle<br />

materie concorrenti, alla competenza del legislatore regionale? (cfr. infra,5.1.).<br />

D'altro canto, se ed eventualmente in che limiti è tollerabile che le interferenze regionali sulle norme penali contribuiscano a<br />

creare un diritto penale incidente sulla libertà dei cittadini in modo diseguale? (cfr. infra,5.4.)<br />

5. Il significato della formula "ordinamento penale". - L'art. 117 co. 2 lett. l) Cost. menziona la materia "ordinamento<br />

penale", distinguendola dall'"ordinamento civile"(30), dalla "giurisdizione e norme processuali" e dalla "giustizia<br />

amministrativa".<br />

L'attenzione della dottrina si è subito concentrata sulla formula "ordinamento penale" la quale, al pari dell'analoga<br />

"ordinamento civile", e diversamente dalla clausola "norme processuali", non è parsa dal punto di vista letterale includere<br />

necessariamente tutte le norme di diritto penale sostanziale, ma solo quelle - si è ipotizzato(31) - di rilievo sistematico.<br />

225


Dall'inconsueto dato letterale - che non trova riscontro nell'esperienza di ordinamenti stranieri, ove, sia in Stati federali che<br />

regionali, la "nostra" materia viene denominata "diritto penale" (Strafrecht(32); criminal law, loi criminelle(33)),<br />

"legislazione penale" (legislación penal(34)), o "legislazione nel campo del diritto penale"(35), e attribuita in toto, salvo<br />

eccezioni nominate, al potere centrale o alle entità federate o regionali, ha preso le mosse una parte significativa della<br />

dottrina costituzionalista e regionalista, per sostenere la più o meno ampia competenza penale diretta in capo alle Regioni.<br />

Vediamo in sintesi le tesi che potremmo definire "aperturiste" rispetto alla consolidata giurisprudenza costituzionale e alla<br />

dottrina formatasi sul "vecchio" titolo V.<br />

Secondo taluno, la formula "ordinamento penale" non coincide con l'intera "materia penale", ma - si ipotizza - potrebbe<br />

significare, in senso restrittivo, che il legislatore costituzionale "abbia voluto demandare allo Stato le scelte generali in<br />

campo penale, per ciò che attiene alla sistematica dei reati e delle pene..."; "... il nuovo art. 117 Cost. consentirebbe alle<br />

Regioni, almeno nelle materie di propria competenza (sia concorrente che esclusiva) di compiere quelle scelte oggi vietate<br />

dalla giurisprudenza costituzionale", ad esempio in tema di "elementi esterni alla fattispecie in grado però di modificarne<br />

l'ampiezza" e di "cause di estinzione del reato"(36).<br />

Nello stesso senso si è ritenuto che, "dopo la riforma, non possano considerarsi esclusi totalmente dalla competenza<br />

regionale gli interi campi del diritto privato, del diritto penale e di quello processuale"(37).<br />

Secondo altri, l'ordinamento penale, quale "materia-modo di disciplina" avrebbe carattere recessivo rispetto alle "materie<br />

oggetto", arretrando di fronte a discipline speciali che le Regioni emanassero negli ambiti ad esse riservati(38).<br />

Ancora, facendo leva sull'affermazione di Corte cost. n. 185/2004(39), secondo cui la legge statale deve salvaguardare<br />

"beni, valori e interessi propri dell'intera collettività tutelabili solo su base egalitaria", si è sostenuto che la legge regionale<br />

"potrebbe intervenire con la sanzione penale a tutela di beni compresi nell'ambito del solo territorio regionale"(40).<br />

Di contro alle citate tesi più o meno "aperturiste" non sono mancate tesi volte a sottolineare la linea di continuità con il<br />

passato(41).<br />

In sostanza il revisore costituzionale del 2001 avrebbe codificato esplicitamente un limite fino ad allora implicito.<br />

Su questa stessa linea, pur con qualche ambiguità, si è posta la giurisprudenza costituzionale successiva alla riforma.<br />

Nei singoli giudizi di legittimità costituzionale la Corte ha ribadito fedeltà alla sua consolidata giurisprudenza, negando che<br />

le leggi regionali possano incidere anche indirettamente sulla materia penale: si vedano le sentenze sul condono edilizio(42)<br />

e sulla illegittimità costituzionale di una legge regionale che pretendeva di istituire case da gioco in Friuli Venezia Giulia,<br />

interferendo con il divieto di gioco d'azzardo penalmente sanzionato dall'art. 718 c.p.(43).<br />

D'altro canto la Corte costituzionale, nell'unica sentenza (n. 185/2004) in cui affronta funditus e in termini di più ampio<br />

respiro la "materia" penale, definisce l'"ordinamento penale" come "sistema normativo riguardante il diritto<br />

sostanziale(44)", non fugando del tutto il dubbio, già avanzato in dottrina(45), che le norme penali non riconducibili a<br />

sistema possano sfuggire al monopolio punitivo statuale.<br />

A nostro parere la formula "ordinamento penale" allude a tutte le disposizioni penali, sia di parte generale che di parte<br />

speciale, nel senso di precludere alle Regioni la competenza diretta alla creazione, modificazione, estinzione e abrogazione<br />

di precetti sanzionati con pene.<br />

L'espressa competenza esclusiva in capo allo Stato non sembra soffrire eccezioni rispetto a norme asseritamente non<br />

riconducibili a sistema.<br />

Da un lato negli ordinamenti in cui la regola della competenza esclusiva conosce eccezioni (Austria(46), Canada(47) ecc.) le<br />

deroghe sono previste espressamente nel testo costituzionale.<br />

D'altro lato l'art. 116 co. 3 Cost. prevede espressamente che le Regioni possano guadagnare competenze in relazione alle<br />

"materie indicate dall'art. 117 co. 2 lett. l), ma "limitatamente all'organizzazione della giustizia di pace", e non dunque in<br />

relazione al diritto penale sostanziale, né a quello processuale.<br />

In dottrina si è persuasivamente sostenuto che l'"organizzazione della giustizia di pace" non comprende i profili di diritto<br />

penale sostanziale propri di quella giurisdizione, ma solo quelli ordinamentali o al più eventualmente legati alle modalità di<br />

esecuzione della pena(48).<br />

Ed in effetti, anche al di fuori della giurisdizione del giudice di pace, sembra esservi spazio per disposizioni regionali che,<br />

nell'ambito della esecuzione delle pene, regolino aspetti concernenti l'assistenza sociale, a sua volta demandata alla<br />

competenza regionale esclusiva in quanto materia residuale.<br />

Si pensi per esempio a leggi regionali che incidessero su di una misura alternativa alla detenzione quale l'affidamento in<br />

prova al servizio sociale, nel rispetto, si intende, della tipologia di misura disegnata dal legislatore statale e delle prescrizioni<br />

impartite dalla magistratura di sorveglianza.<br />

De jure condendo competenze penali dirette potrebbero essere attribuite alle Regioni ad autonomia speciale con legge<br />

costituzionale modificativa degli attuali Statuti, come già previsto dall'art. 23 dello Statuto della Regione Trentino-Alto<br />

Adige. Oppure, più in generale, non afferendo la competenza penale esclusiva dello Stato ai principi supremi del nostro<br />

ordinamento, come dimostra l'eccezione della disposizione statutaria trentina(49), attraverso una riforma costituzionale del<br />

titolo V.<br />

Escludere de jure condito una autonoma competenza penale diretta in capo alle Regioni non significa affatto disconoscere<br />

226


l'importante influenza delle leggi regionali sul diritto penale.<br />

La formula "ordinamento penale", verosimilmente, serve a non escludere l'incidenza delle leggi regionali nella conformazione<br />

di fattispecie penali.<br />

Innanzitutto, come vedremo (infra, II.1.) laddove è lo stesso legislatore statale a prevedere espressamente l'intervento<br />

(diretto, ma eteroguidato) del legislatore regionale, per esempio in funzione derogatoria (restrittiva) rispetto a parametri<br />

(statali) di fattispecie (cfr. artt. 101 co. 2 e 137 co. 5 d.lgs. n. 152 del 2006(50)).<br />

In secondo luogo la formula in commento è funzionale a non inibire nella materia penale l'intervento legislativo indiretto<br />

delle Regioni nell'ambito delle proprie competenze esclusive e concorrenti (in quest'ultimo caso nel rispetto dei principi<br />

fondamentali statali).<br />

Le Regioni possono legiferare nelle materie di propria competenza esclusiva e concorrente anche laddove le relative<br />

disposizioni interferiscano con il diritto penale, purché l'intervento sia direttamente e precipuamente finalizzato a<br />

disciplinare le "proprie" materie e non, in via esclusiva o prevalente, ad incidere sul modo di disciplina penale, e cioè<br />

sull'applicazione o non applicazione di fattispecie penali.<br />

In altre parole l'attribuzione allo Stato della esclusiva competenza penale diretta non esclude che le leggi regionali possano<br />

incidere in via mediata sul diritto penale, riempiendo norme penali in bianco ed elementi normativi di fattispecie,<br />

disciplinando presupposti del reato, introducendo o modificando cause di giustificazione, naturalmente nelle materie di<br />

propria competenza esclusiva o concorrente (nel rispetto dei principi fondamentali).<br />

La diversa formula "diritto penale" o "legislazione penale", nella sua onnicomprensività, avrebbe, come avvenuto in altri<br />

ordinamenti(51), ingenerato il dubbio circa la legittimità dell'intervento delle leggi regionali nella conformazione delle<br />

fattispecie penali, nelle forme indirette e dirette (eteroguidate) sopra accennate.<br />

Un risultato sicuramente paradossale rispetto allo scopo dichiarato della riforma costituzionale del 2001, intesa a dare<br />

maggior potere e maggiori competenze alle Regioni.<br />

5.1. Norme scriminanti regionali? - Particolarmente complesso è il rapporto tra cause di giustificazione contenute in leggi<br />

regionali e diritto penale.<br />

In via preliminare la soluzione del problema dipende dalla natura attribuita alle scriminanti; laddove le si ritenga<br />

funzionalmente connesse alle disposizioni incriminatrici, tanto da formare con queste un'unica norma(52), appare<br />

conseguente ricondurle alla formula "ordinamento penale", e dunque al monopolio del legislatore statale.<br />

Il discorso si fa più complesso qualora si ritenga che le scriminanti non siano norme penali(53), dovendosi distinguere a<br />

seconda delle materie-oggetto sulle quali esse incidono, e, nelle materie concorrenti, sui rapporti con il limite dei principi<br />

fondamentali.<br />

Il problema si pone, in concreto, specie in relazione all'art. 51 c.p.: può una legge regionale attribuire ad un soggetto il<br />

diritto o la facoltà di tenere una condotta costituente (altrimenti) reato?<br />

La Corte costituzionale, nella citata sentenza sulla illegittimità dell'istituzione di casa da gioco con legge regionale friulana,<br />

ha ribadito la sua consolidata giurisprudenza, secondo la quale le fonti regionali non possono rendere leciti fatti incriminati<br />

da leggi statali(54).<br />

Tuttavia è significativo che la Corte, pur censurando la norma in quanto invasiva della materia "ordinamento penale", abbia<br />

sottolineato che "le fattispecie penali di cui agli artt. 718 e ss. rispondono... all'interesse della collettività a veder tutelati la<br />

sicurezza e l'ordine pubblico in presenza di un fenomeno che si presta a fornire l'habitat ad attività criminali".<br />

Sicchè è evidente che la materia "apertura di case di gioco d'azzardo", pur essendo astrattamente riconducibile (anche) alla<br />

materia esclusiva regionale "turismo", è stata dalla Corte ricondotta a materie-oggetto di competenza esclusiva statale, nelle<br />

quali è precluso l'intervento regionale.<br />

Rimane da verificare come deciderà la Corte costituzionale rispetto a cause di giustificazione contenute in materie che<br />

reputasse di competenza concorrente o esclusiva delle Regioni.<br />

Nelle prime, secondo una parte della dottrina, le norme penali sarebbero di per sé espressive dei principi fondamentali delle<br />

materie sulle quali incidono, e dunque non sarebbero legittimamente derogabili da leggi regionali attributive di facoltà(55).<br />

La tesi, pur suggestiva, non sembra meritevole di accoglimento.<br />

In linea con la dottrina costituzionalistica(56) il diritto penale è un limite generale, idoneo a operare trasversalmente a tutte<br />

le materie, indipendentemente dal criterio di riparto operato dall'art. 117 Cost.<br />

I principi fondamentali, d'altro canto, riguardano i cardini della disciplina concernente la materia-oggetto (tutela e sicurezza<br />

del lavoro, governo del territorio ecc.), non il modo di regolazione (o di disciplina) penale.<br />

Ancora, i principi fondamentali presuppongono il dispiegarsi di norme regionali di dettaglio, mentre la tesi che nega<br />

l'ammissibilità di norme regionali attributive di facoltà confliggenti con norme incriminatrici non sembra concedere alle<br />

prime nessun ambito di interferenza con le norme penali ritenute espressive di principi fondamentali.<br />

Va infine segnalato che il legislatore ha talvolta mostrato di distinguere i principi fondamentali dagli "aspetti direttamente<br />

incidenti sull'ordinamento civile e penale"(57), a dimostrazione della scindibilità logica dei profili penali dai principi<br />

fondamentali di questa o quella materia.<br />

La nozione di "principi fondamentali della materia" non è stata invocata solo a proposito delle scelte di incriminazione, ma<br />

227


anche, da parte di diversa, autorevole dottrina, a proposito delle cause di giustificazione, limitatamente alle materie di<br />

competenza legislativa concorrente(58).<br />

L'interpretazione richiamata sembra complessivamente condivisibile, pur con qualche distinguo tra principi fondamentali<br />

(delle singole materie) e principi generali (dell'ordinamento), e tra singole scriminanti.<br />

Le cause di giustificazione contenute nel codice penale (artt. 50 ss.), infatti, più che principi fondamentali di determinate<br />

materie-oggetto esprimono principi generali dell'ordinamento, trasversali alle singole materie sulle quali si esercita la<br />

competenza legislativa.<br />

Non saranno dunque modificabili o sostituibili da leggi regionali le scriminanti della legittima difesa, dell'uso legittimo<br />

delle armi, dello stato di necessità, destinate ad operare su materie di competenza esclusiva dello Stato (rispettivamente,<br />

autotutela del cittadino, e dunque "ordine pubblico e sicurezza"(59), ma anche "livelli essenziali delle prestazioni<br />

concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale(60)"; "armi munizioni ed<br />

esplosivi"(61); vita e integrità fisica).<br />

Lo stesso discorso vale per il consenso dell'avente diritto, nella misura in cui opera in relazione a materie di esclusiva<br />

competenza statale (bioetica, dignità sessuale dei minorenni ecc.). Tuttavia vi sono altre cause di giustificazione le quali ben<br />

possono operare in materia di competenza concorrente di esclusiva regionale.<br />

È il caso della scriminante dell'esercizio di un diritto o adempimento di un dovere (art. 51 c.p.), che per struttura (di norma<br />

aperta ad etero-integrazioni) e ambito di applicazione (assai vasto) ben può abbracciare materie di competenza concorrente<br />

od esclusiva regionale.<br />

Nelle prime la disposizione regionale dovrà rispettare i principi fondamentali della materia, consentendo così un equo<br />

bilanciamento tra ragioni di uniformità (garantite dal rispetto dei principi fondamentali) e ragioni di differenziazione<br />

territoriale (garantite dalle diverse modulazioni regionali).<br />

Si tratta di una interpretazione idonea a dare copertura teorica ad un condivisibile indirizzo legislativo che, già oggi, in<br />

materie concorrenti, vede l'attribuzione al legislatore regionale, da parte di quello statale, di determinati spazi di intervento<br />

in materia di scriminanti.<br />

Si veda a titolo d'esempio la disciplina degli OGM - materia complessa incidente non solo sull'agricoltura, materia di<br />

competenza esclusiva regionale, ma anche sull'ambiente e sulla salute, materie rispettivamente di competenza esclusiva<br />

dello Stato e concorrente -, ove il legislatore statale ha emanato una norma transitoria che dichiara espressamente non<br />

consentita la coltivazione transgenica, fino a che le Regioni non adottino i c.d. piani di coesistenza con le forme di<br />

coltivazione convenzionale e biologica(62).<br />

Tale normativa pone un doppio condizionamento.<br />

Da una parte esclude espressamente che, prima dell'adozione di determinati provvedimenti regionali, le Regioni possano<br />

rendere lecita la coltivazione di OGM; eventuali leggi regionali che attribuissero tale facoltà sarebbero illegittime non<br />

perché interferenti con la disposizione penale che incrimina la coltivazione transgenica, ma perché contrarie al principio<br />

fondamentale della materia complessa "OGM", che pone un divieto di coltivazione fino all'adozione di provvedimenti ad<br />

hoc rispondenti al principio della coesistenza tra diverse colture.<br />

D'altra parte la normativa in esame demanda alle Regioni l'attuazione dei piani di coesistenza, destinati a disegnare gli spazi<br />

di liceità del diritto di coltivazione OGM; e subordina altresì il venir meno dell'antigiuridicità anche penale della<br />

coltivazione di OGM all'emanazione dei provvedimenti regionali.<br />

La citata sentenza della Corte costituzionale, censurando diversi profili della disciplina per invasione della competenza<br />

legislativa regionale non sembra avere messo in discussione la legittimità dell'illustrato doppio condizionamento, bensì la<br />

circostanza che fosse lo Stato a disciplinare le modalità di adozione delle norme quadro.<br />

Un tale spazio integrativo e "modulativo" del diritto in capo alle Regioni, una volta espunta la c.d. potestà attuativaintegrativa<br />

dal nuovo art. 117 Cost., non può ritenersi legittimo ai fini penali se non, appunto, postulando la possibilità di<br />

una potestà regionale integrativa in tema di scriminanti, nel rispetto dei principi fondamentali della materia.<br />

Diverso il discorso nelle materie di competenza esclusiva statale, nelle quali l'eventuale norma regionale attributiva di<br />

facoltà sarebbe incostituzionale per difetto di competenza per materia, ancor prima che per contrasto con l'art. 117 co. 2 lett.<br />

l), Cost.(63).<br />

Il discorso si fa più complesso riguardo alle materie di competenza esclusiva regionale, nelle quali entrino in conflitto<br />

scriminanti regionali e norme penali statali.<br />

Secondo una tesi più radicale, su cui ritorneremo nel prossimo paragrafo, l'eventuale norma incriminatrice statale che<br />

ponesse divieti nelle materie di legislazione esclusiva regionale "sarebbe incostituzionale per la sua stessa esistenza", e<br />

dunque prevarrebbe sempre la disposizione regionale attributiva di facoltà.<br />

5.2. Norme penali in materie di esclusiva competenza regionale? - La tesi di chi, come accennato, ritiene comunque<br />

incostituzionale l'esistenza stessa di norme incriminatrici in materie di esclusiva competenza regionale(64) sembra troppo<br />

drastica.<br />

Sul piano politico-criminale non appare realistico sguarnire di tutela penale materie come l'agricoltura, la caccia e la pesca,<br />

così come l'urbanistica e altre importanti materie attribuite da Statuti speciali alla competenza esclusiva di talune Regioni.<br />

228


Per altro verso, dottrina e giurisprudenza costituzionale concordano nel considerare il diritto penale limite trasversale che<br />

attraversa tutte le materie-oggetto, comprese quelle di competenza regionale esclusiva(65).<br />

Come ha sottolineato la Corte costituzionale, "la considerazione del trattamento penale assume... preminenza agli effetti<br />

delle competenza legislativa, pur nella generica riconducibilità ad altra materia delle norme precettive la cui violazione è<br />

sanzionata"(66).<br />

A nostro sommesso parere il legislatore statale può dunque intervenire con la pena anche nelle materie di competenza<br />

legislativa esclusiva delle Regioni.<br />

Il problema è, piuttosto, di individuare i limiti e le condizioni giustificative di un intervento certamente delicato per gli<br />

equilibri del sistema costituzionale, in quanto invasivo dell'autonomia regionale.<br />

L'impiego del diritto penale nelle materie regionali sarà legittimo a condizione che risponda a ragionevoli esigenze di<br />

uniformità e di effettività di tutela non adeguatamente perseguibili con sanzioni amministrative (regionali), o laddove<br />

consegua a input di tutela penale provenienti da fonti internazionali o comunitarie (art. 117 co. 1 e 120 co. 2 Cost.), sempre<br />

che il legislatore statale si limiti a porre il divieto e la sanzione penale, senza incidere oltre lo stretto necessario sulla<br />

complessiva disciplina a monte dell'intervento penale.<br />

Così, ad es., in materia di caccia, di esclusiva competenza regionale(67), il legislatore statale potrà sanzionare penalmente il<br />

bracconaggio o la cattura e l'uccisione di specie protette, ma non potrà, beninteso al di fuori di vincoli internazionali o<br />

comunitari, spingersi a legiferare su modalità e tempi di esercizio della caccia, quand'anche rilevanti ai fini penali, in quanto<br />

spettanti in via esclusiva alle Regioni.<br />

Da questo punto di vista, il passaggio della materia "caccia" dalla competenza concorrente a quella regionale, avvenuto nel<br />

2001, rende di dubbia legittimità costituzionale quelle disposizioni della legge n. 157 del 1992 che fissano determinati<br />

"paletti" alla competenza delle Regioni, ad es. in relazione ai periodi massimi di apertura della stagione venatoria.<br />

Analogamente, in relazione alla competenza esclusiva di talune Regioni a statuto speciale in materia di urbanistica (ora<br />

governo del territorio) il legislatore statale potrà legittimamente prevedere sanzioni penali per la realizzazione di opere in<br />

assenza o in difformità dal permesso di costruire, ma non potrà imporre alle Regioni le condizioni e le tipologie edificative<br />

in presenza delle quali scatta l'obbligo, penalmente sanzionato, di munirsi di permesso di costruire, salvo che tali requisiti<br />

integrino i principi di grande riforma o principi generali dell'ordinamento al cui rispetto sono comunque tenute le Regioni a<br />

statuto speciale.<br />

In definitiva, nei limiti anzidetti, spetta allo Stato la posizione del divieto e della sanzione penale; alle Regioni, titolari della<br />

competenza esclusiva sulla materia-oggetto, rimane la conformazione della disciplina sottesa.<br />

Il legislatore statale, munendo di pena interessi di competenza esclusiva regionale, dovrà assumere la relativa normativa<br />

come dato non modificabile; potrà in ogni caso, coerentemente con il carattere frammentario del diritto penale, selezionare<br />

alcuni solo dei dati normativi regionali sui quali edificare il precetto penale.<br />

In un'ottica di leale collaborazione, il legislatore statale, laddove ritenga di non poter rinunciare alla pena, dovrebbe inoltre<br />

offrire una tutela penale non standardizzata, ma aperta ad eventuali specificità regionali, attribuendo alle Regioni la facoltà<br />

di modulare la fattispecie sia in senso restrittivo che ampliativo, a seconda delle esigenze (cfr. infra, Parte II).<br />

5.3. Norme penali in materie concorrenti e integrazione regionale. - Nelle materie di competenza legislativa concorrente si<br />

pone il problema di verificare in quali limiti le disposizioni regionali possano incidere sulla materia "ordinamento penale".<br />

Secondo una tesi per così dire "continuista", il rapporto tra la norma sanzionatoria penale statale e "le norme regionali che<br />

articolano la specifica disciplina della materia potrà legittimamamente instaurarsi secondo lo schema d'integrazione"(68)<br />

ammesso tra fonti primarie e fonti secondarie statali, e cioè rispetto ad integrazioni meramente specificative di criteri già<br />

esaurientemente espressi dalla legge, o laddove "le norme secondarie vengano assunte dalla legge incriminatrice nella<br />

funzione valutativa e precettiva originaria, del tutto eterogenea, indifferente ed autonoma rispetto alla funzione di tutela<br />

della norma incriminatrice"(69).<br />

Un rapporto di integrazione modellato sull'art. 117 ultimo periodo Cost., che lasciasse cioè la potestà legislativa di rilievo<br />

penale alle Regioni, nel rispetto dei principi fondamentali statali, sarebbe precluso dalla esclusività della competenza penale<br />

in materia di ordinamento penale(70).<br />

La tesi riportata appare sicuramente condivisibile riguardo l'assenza di competenza penale diretta in capo alle Regioni<br />

(anche) nelle materie di competenza concorrente.<br />

Qualche distinguo merita invece lo spazio attribuito alle disposizioni regionali produttive di effetti penali in via mediata.<br />

Se, correttamente, si assume che la legge regionale non è sotto-ordinata alla legge statale(71), non sembra coerente limitarne<br />

l'integrazione negli stessi limiti delle fonti secondarie statali.<br />

Non solo per una diversità formale di rango delle fonti; ma anche perché le resistenze all'integrazione del precetto penale ad<br />

opera di fonti secondarie hanno una ratio diversa da quelle opposte alle leggi regionali.<br />

Le prime non pongono minimamente in discussione il principio di uguaglianza dei cittadini, posto che le specificazioni<br />

apportate dalle fonti secondarie statali si applicano uniformemente in tutto il territorio nazionale; le seconde, viceversa,<br />

producono in via mediata (attraverso l'integrazione di presupposti del reato, il riempimento di elementi normativi di<br />

fattispecie ecc.) diseguali applicazioni della legge penale.<br />

229


Le integrazioni regionali, diversamente da quelle poste dalle fonti secondarie statali, hanno natura scopertamente politica,<br />

mirando ad una diversa conformazione di precetti aventi rilievo penale su determinati territori.<br />

Il Consiglio regionale è organo politico, e politiche in senso stretto sono le scelte sottese alla regolamentazione delle materie<br />

concorrenti.<br />

Si pensi alla materia concorrente del governo del territorio, e alle fattispecie estintive ciclicamente emanate dal legislatore<br />

statale in relazione ai reati urbanistici e paesistico-ambientali.<br />

A questo proposito la Corte costituzionale(72), censurando varie disposizioni della disciplina del "condono" edilizio statale,<br />

in quanto invasive della competenza concorrente regionale, e facoltizzando le Regioni ad emanare proprie normative<br />

"adattative", entro taluni paletti espressivi di principi fondamentali (volumetrie massime sanabili, limiti temporali ecc.), ha<br />

fatto sì che le leggi regionali emanate a tale scopo, espressive di scelte politiche di maggiore o minore lassismo nella tutela<br />

del territorio, incidessero sulla disciplina penale a valle, ampliando o restringendo l'ambito di applicazione della fattispecie<br />

estintiva statale(73).<br />

Si tratta di un'integrazione regionale sicuramente non meramente tecnica, che concorre a delimitare l'area della (non)<br />

punibilità, e che lungi dal confliggere con il principio di legalità è apparsa alla Corte costituzionale necessaria per<br />

salvaguardare l'autonomia regionale garantita dall'art. 117 co. 2 Cost. nella materia "governo del territorio".<br />

5.4. Un diritto penale diseguale? - Tirando le somme, le disposizioni regionali legittimamente, alle condizioni e nei limiti<br />

illustrati, incidono in via mediata sull'ambito di applicazione del diritto penale, sia nelle materie di competenza concorrente<br />

che, a maggior ragione, in quelle di competenza esclusiva delle Regioni.<br />

Ciò comporta che la sfera del penalmente rilevante varia da Regione a Regione, ratione loci, parallelamente al variare delle<br />

discipline regionali che, in via concorrente o esclusiva, conformano le materie sulle quali intervengono precetto e sanzione<br />

penale.<br />

Tali difformità di trattamento penale sembrano compatibili con il principio di uguaglianza(74), se e nella misura in cui<br />

riflettano ragionevoli specificità e peculiari sensibilità territoriali poste a fondamento delle varie discipline regionali a monte<br />

dell'intervento penale.<br />

Ed anzi, è il principio di uguaglianza a reclamare trattamenti penali differenziati laddove la disciplina penale risulti debitrice<br />

di differenziati apporti normativi di fonte regionale.<br />

È il sistema costituzionale, ed in particolare l'assetto risultante dal nuovo titolo V, a spingere verso un articolazione della<br />

repressione penale modulata, nelle materie di competenza legislativa concorrente o esclusiva regionale, sulle (eventuali)<br />

specificità regionali.<br />

In relazione alle materie esclusive regionali il legislatore statale dovrà assolvere ad un "onere probatorio" particolarmente<br />

elevato, dimostrando che l'uso della pena è strettamente necessario a garantire esigenze di tutela e di uniformità su tutto il<br />

territorio nazionale, facendo ben attenzione a non incidere, al di là dello stretto necessario, su aspetti di disciplina a monte<br />

(concernenti la materia-oggetto) rimessi alla esclusiva potestà legislativa regionale.<br />

Non va dimenticato, peraltro, come nell'ambito di materie di per sé spettanti in via esclusiva alle Regioni, come ad esempio<br />

l'agricoltura, vi siano aspetti di disciplina incidenti sulla salute, sull'ambiente e su altre materie di competenza esclusiva o<br />

concorrente statale.<br />

In tali ipotesi - già presenti nel nostro ordinamento, come dimostra la citata normativa sugli OGM - la legittimità della<br />

normativa penale statale andrà parametrata (anche) agli interessi incidenti sulle materie di competenza esclusiva o<br />

concorrente statale.<br />

Nelle materie di competenza concorrente l'intervento del legislatore penale statale godrà di maggiori spazi di incidenza sulla<br />

materia-oggetto, dovendosi limitare a non invadere le discipline di dettaglio, rimesse alle Regioni.<br />

Queste ultime, al loro volta, potranno come già sostenuto apportare integrazioni mediatamente produttive di effetti penali,<br />

nel rispetto dei principi fondamentali della materia-oggetto.<br />

6. L'art. 9 l. n. 689 del 1981. - La "partita penale" tra Stato e Regioni, lungi dall'esaurirsi nell'esegesi dell'art. 117 co. 2 lett.<br />

l), si gioca, oltre che sul terreno delle influenze indirette, sul rapporto tra sanzioni amministrative e sanzioni penali.<br />

Il potere sanzionatorio amministrativo spetta al titolare della competenza per materia, e dunque alle Regioni nelle materie di<br />

propria competenza esclusiva o concorrente(75).<br />

Alle Regioni, prive di competenza diretta autonoma in materia civile e penale, rimane teoricamente l'arma dell'illecito<br />

amministrativo.<br />

La licenza per l'impiego di tale arma è tuttavia nelle mani del legislatore statale, che - nella lettura tradizionale - potrebbe<br />

inibirne l'uso alle Regioni munendo di sanzione penale determinati precetti.<br />

L'art. 9 della l. n. 689 del 1981, infatti, prevede che la sanzione penale statale prevalga sulla sanzione amministrativa<br />

regionale, salvo che quest'ultima sia applicabile solo in mancanza di altre disposizioni penali.<br />

Tale ultima eccezione, già criticata nella vigenza dell'originario titolo V(76), non appare in linea con l'interpretazione<br />

letterale dell'art. 117 co. 2 lett. l),(77).<br />

L'espressa costituzionalizzazione del monopolio punitivo statuale potrebbe facilitare la prospettazione di questioni di<br />

illegittimità costituzionale dell'art. 9 l. n. 689 del 1981 per contrasto con l'art. 117 co. 2 lett. l).<br />

230


Per contro la regola della prevalenza della norma penale su quella amministrativa regionale rischia di spuntare l'unica arma<br />

a disposizione delle Regioni, tanto da mettere in crisi sia l'asserita tendenziale equiordinazione tra legge statale e legge<br />

regionale, sia la proclamata competenza esclusiva o concorrente delle Regioni, i cui precetti (amministrativi) rimarrebbero<br />

privi di correlata sanzione.<br />

Come dirimere tale conflitto?<br />

Dal punto di vista teorico l'esigenza di tutela degli interessi afferenti a competenze legislative regionali può ritenersi<br />

salvaguardata da norme penali statali sanzionatorie di precetti in tutto o in parte di fonte regionale.<br />

Tuttavia il proliferare di illeciti amministrativi regionali a fianco di illeciti penali convergenti su fatti analoghi dimostra che,<br />

almeno agli occhi dei legislatori regionali, la tutela offerta dalla normativa penale statale non sembra adeguata.<br />

Vuoi per ragioni di ineffettività della risposta penale, spesso paralizzata in concreto dai brevi tempi di prescrizione dei reati,<br />

quasi sempre contravvenzionali nelle materie "regionali"; vuoi per ragioni istituzionali e simboliche, di affermazione di un<br />

proprio potere sanzionatorio; vuoi, magari, più prosaicamente, perché i legislatori regionali, attraverso la previsione di<br />

sanzioni amministrative pecuniarie, mirano ad assicurarsi risorse economiche<br />

Quali che siano le ragioni, fin qui il diritto vivente ha in prevalenza eluso la regola dettata dall'art. 9 l. n. 689 del 1981; sia<br />

attraverso leggi regionali che espressamente facevano salva l'applicazione delle norme penali concorrenti, sul presupposto<br />

della derogabilità dell'art. 9 in quanto norma non espressiva di un principio fondamentale(78); sia attraverso interpretazioni<br />

giurisprudenziali fondate sulla asserita diversità dei beni giuridici tutelati dalle disposizioni penali e amministrative aventi il<br />

medesimo contenuto(79).<br />

Tali soluzioni fanno salve le rispettive competenze legislative sanzionatorie di Stato e Regioni, ma scaricano sul cittadino il<br />

prezzo del conflitto istituzionale: una stessa condotta verrà sanzionata due volte con sanzioni punitive, le une formalmente<br />

penali, le altre formalmente amministrative, in violazione del principio del ne bis in idem, che almeno a livello comunitario<br />

prescinde dalla forma delle sanzioni, incentrandosi sul loro contenuto afflittivo(80).<br />

La soluzione è più politica che giuridica.<br />

Sarebbero auspicabili forme di contrattazione tra Stato e Regione nel momento della previsione legislativa dei precetti e<br />

della scelta delle sanzioni penali che incidano su materie-oggetto regionali.<br />

Nelle materie di competenza esclusiva o concorrente delle Regioni l'eventuale opzione per la sanzione penale dovrebbe<br />

essere contrattata con queste ultime in un'ottica di extrema ratio, in modo da rispettare nella costruzione delle fattispecie le<br />

specificità o sensibilità regionali, demandando al legislatore regionale la modulazione di determinati elementi di fattispecie.<br />

Nell'attuale assetto costituzionale, in assenza di una Camera rappresentativa degli interessi regionali, non può che auspicarsi<br />

il potenziamento della Conferenza dei servizi Stato-Regioni(81), anche con riferimento alla "giustizia", fin qui esclusa dal<br />

novero delle materie ad essa demandate(82), con maggiore valorizzazione del parere delle Regioni, allo stato avente valore<br />

meramente consultivo, o comunque l'instaurarsi di forme più incisive di intesa, eventualmente anche non istituzionalizzate<br />

come avviene, ad esempio, in Canada(83).<br />

Parte II Le tecniche normative espresse di governo delle interferenze tra norme penali e leggi regionali<br />

1. Il modello separatista. - Mentre la dottrina (specie) costituzionale si interroga sulla portata innovativa o meno della<br />

formula "ordinamento penale", il legislatore ordinario, già prima della riforma costituzionale del 2001, ha iniziato a fare i<br />

conti con la corposa realtà delle norme regionali, elaborando diverse soluzioni per la regolazione dei rapporti tra<br />

disposizioni penali e norme regionali.<br />

Sul piano legislativo sono individuabili due modelli: l'uno di separazione degli effetti, l'altro di collaborazione rispetto al<br />

fine di tutela, entrambi elaborati nell'ambito di materie-oggetto di competenza concorrente(84).<br />

Nel primo modello, che denomineremo "separatista", il legislatore statale riconosce alle leggi regionali il potere di legiferare<br />

su taluni elementi di fattispecie in modo divergente dalla disciplina statale, evidentemente non ritenendoli afferenti ai<br />

principi fondamentali della materia; e tuttavia esclude espressamente che le differenti disposizioni regionali rilevino agli<br />

effetti penali.<br />

È il caso dell'art. 10 co. 3 d.P.R. n. 380 del 2001 (c.d. Testo Unico Edilizia), il quale prevede che le Regioni possono<br />

individuare con legge "ulteriori interventi che, in relazione all'incidenza sul territorio e sul carico urbanistico, sono<br />

sottoposti al preventivo rilascio del permesso di costruire". La medesima disposizione aggiunge che "la violazione delle<br />

disposizioni regionali emanate ai sensi del presente comma non comporta l'applicazione delle sanzioni di cui all'art. 44",<br />

altrimenti applicabili, secondo la generale regola statale, a chi costruisca in assenza di permesso di costruire.<br />

In sostanza discipline regionali più rigorose dello standard statale(85) produrranno effetti sul piano urbanistico e della<br />

correlata liceità amministrativa, non anche sul piano penale.<br />

Il modello in esame non pare del tutto soddisfacente.<br />

Da un lato consente alle Regioni, nell'esercizio della loro concorrente potestà legislativa, di modulare le tipologie di titolo<br />

abilitativo richiesto a seconda delle proprie esigenze e sensibilità.<br />

D'altro lato il legislatore statale, con la norma in commento, deroga alla regola generale secondo la quale le costruzioni in<br />

assenza o difformità dal permesso di costruire costituiscono reato, diversamente da quelle per le quali è richiesta la mera<br />

denuncia di inizio attività.<br />

231


In altre parole il legislatore statale non assiste con pena la scelta più rigorosa del legislatore regionale, e in aggiunta deroga<br />

ad un principio (altrimenti) fondamentale della legislazione penale urbanistica statale.<br />

Come mostra l'esempio urbanistico il modello separatista, lungi dal garantire uguaglianza sotto il profilo del trattamento<br />

penale, separa artificiosamente gli effetti amministrativi da quelli penali, in materie (concorrenti o esclusive regionali) nelle<br />

quali il precetto è preformato in tutto o in parte dal legislatore regionale.<br />

Il risultato è contrario alle intenzioni egualitarie: paradossalmente si sottopone (o meno) ad eguale trattamento penale chi ha<br />

tenuto condotte portatrici di disvalore diverso.<br />

2. Il modello collaborativo. - Decisamente più coerente con l'art. 5 della Costituzione, secondo il quale la Repubblica<br />

"adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento" è il modello<br />

definibile come collaborativo o cooperativo(86).<br />

In tale modello la previsione delle disposizioni penali spetta sempre allo Stato, il quale da un lato offre tutela penale agli<br />

interessi regionali, e dall'altro demanda alle Regioni la conformazione di taluni elementi direttamente o indirettamente<br />

incidenti su fattispecie penali.<br />

Paradigmatico è il caso del d.lgs. n. 152 del 2006 (c.d. T.U. ambientale).<br />

Limitandoci alla parte terza concernente le acque, si può notare come il ruolo delle leggi regionali sia decisivo, spettando<br />

alle stesse, a seconda dei casi:<br />

a) tutela penale diretta da parte della norma penale statale (per es. art. 137 co. 9)(87);<br />

b) la concretizzazione di taluni elementi normativi previsti da disposizioni legislative statali, nelle forme<br />

dell'individuazione/classificazione/designazione di aree geografiche (aree di salvaguardia delle acque superificiali e<br />

sotterranee destinate al consumo umano; acque dolci idonee alla vita dei pesci, art. 84; acque superficiali destinate alla<br />

produzione di acqua potabile, art. 80; acque destinate alla vita dei molluschi, art. 87), idonee ad incidere sull'applicazione di<br />

norme penali in tema di inquinamento idrico ed eventualmente di altri reati (per es. avvelenamento e adulterazione di acque,<br />

ricorrendone i relativi requisiti);<br />

c) la previsione facoltativa di deroghe ai valori soglia contenuti in disposizioni statali (di natura anche penale), sia in melius<br />

che in pejus, a seconda delle sostanze inquinanti (101 co. 2 e 137 co. 5)(88), in linea con le diverse sensibilità regionali;<br />

d) la previsione facoltativa di deroghe all'applicazione di determinati parametri di potenziale, indiretto rilievo penale in<br />

presenza di circostanze eccezionali che impediscono il rispetto dei parametri di qualità delle acque (v. artt. 80, 81, 86, 89,<br />

relativi all'impossibilità di reperire fonti alternative di approvigionamento, a inondazioni o catastrofi naturali, a condizioni<br />

metereologiche o geomorfologiche eccezionali, ecc.) per ragioni riconducibili in prima approssimazione alle categorie della<br />

inesigibilità, del caso fortuito o della forza maggiore.<br />

Tutti e quattro i modi di interferenza dipendono dalla scelta espressa del legislatore statale, che circoscrive l'ambito di<br />

intervento dei legislatori regionali o l'oggetto di tutela penale. Lo Stato mantiene il potere punitivo, limitandosi a delegarne<br />

in parte l'esercizio alle Regioni, o a munirne di tutela penale gli interessi.<br />

In tutte le ipotesi il trattamento penale dei cittadini per uguali condotte varierà da Regione a Regione, dipendendo l'ambito<br />

del penalmente rilevante dalle diverse previsioni legislative regionali interferenti con il precetto penale statale.<br />

Vi sono tuttavia delle differenze.<br />

Nel modo sub a) le leggi regionali (rectius gli interessi da esse protetti) sono oggetto passivo di tutela.<br />

Nelle altre ipotesi la legge regionale concorre in positivo alla applicazione o non applicazione della legge penale.<br />

L'ipotesi apparentemente più problematica riguarda l'espressa facoltà attribuita alle Regioni di introdurre valori soglia più<br />

restrittivi di quelli statali, specie laddove ciò comporti il passaggio dall'illecito amministrativo a quello penale(89).<br />

Si tratta anche in questo caso di un modo di interferenza compatibile con l'art. 117 co. 2 lett. l), Cost., in quanto è pur<br />

sempre la legge statale a prevedere un'eventuale tutela differenziata (più rigorosa), limitandosi a demandarne<br />

l'individuazione a leggi regionali, che intervengono in materie-oggetto di propria competenza almeno concorrente (è il caso<br />

della tutela dell'ambiente, nella lettura datane dalla Corte costituzionale).<br />

Tuttavia, è bene sottolinearlo, l'adeguamento di tutela non risponde a esigenze tecniche, ma ha natura scopertamente<br />

politica.<br />

Si è ben al di là dell'apporto tecnico-specificativo tradizionalmente demandato alle fonti statali secondarie.<br />

Sono le diverse politiche regionali sottese agli interventi legislativi regionali a comportare diverse applicazioni della legge<br />

penale ratione loci.<br />

Il modello esaminato, oltre che legittimo, appare opportuno, perché consente alle Regioni di modulare la risposta penale<br />

rispetto alle soglie minime di tutela cristallizzate nel parametro statale, tutelando le esigenze regionali (costituzionalmente<br />

rilevanti ex art. 5 ultima parte Cost.) senza sacrificare le esigenze minime di tutela assicurate dalla legge statale, secondo un<br />

modello di tutela a geometria variabile già previsto dall'art. 117 co. 2 lett. m) rispetto ai livelli essenziali delle prestazioni<br />

concernenti i diritti civili e sociali.<br />

Il problema, se mai, si pone nei casi in cui il legislatore statale facoltizza il legislatore regionale a "scendere" sotto i propri<br />

standard di tutela, e quest'ultimo fissi standard così bassi da non garantire una tutela minima adeguata.<br />

In tali ipotesi potrà forse invocarsi la violazione del principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni (artt. 5 e 120 Cost.),<br />

232


nella misura in cui lo standard regionale renda inoperante la fattispecie statale, non certo un (inesistente) obbligo di tutela<br />

penale adeguata(90) "in salsa" regionale.<br />

Parte III Le interferenze non regolate dal legislatore<br />

1. Casistica delle interferenze tra leggi regionali e norme penali. - Fin qui abbiamo esaminato due modelli (collaborativofunzionale<br />

e separatista) nei quali il legislatore statale contempla espressamente il ruolo del legislatore regionale,<br />

conferendogli o negandogli il potere di incidere direttamente o indirettamente sulla conformazione e applicazione del diritto<br />

penale.<br />

Al di là dei due modelli, e dunque delle scelte espresse e consapevoli del legislatore statale, vi sono interferenze da tempo<br />

studiate dai penalisti(91), ed oggi di sempre maggiore rilievo, non disciplinate dal legislatore statale, il cui governo è<br />

demandato all'interprete.<br />

Si pensi alle posizioni di garanzia sorgenti da leggi regionali rispetto ai reati omissivi di evento; alle discipline regionali (ma<br />

in certi settori anche provinciali o comunali) relative ad autorizzazioni e titoli abilitativi costituenti presupposto per<br />

l'esercizio di determinate attività (per es. rispetto all'esercizio delle operazioni di smaltimento e recupero dei rifiuti) di<br />

potenziale rilievo penale; alle qualifiche (pubblico ufficiale, incaricato di pubblico servizio, esercente servizio di pubblica<br />

necessità) elemento costitutivo in taluni reati contro la pubblica amministrazione; alle regole cautelari contenute in leggi<br />

regionali in materie quali salute, assistenza sociale, tutela del lavoro, agricoltura, governo del territorio e ambiente; alle<br />

cause di giustificazioni e a elementi di fattispecie estintive contenute in leggi regionali.<br />

La domanda suona: se ed eventualmente in che limiti la legge regionale, al di fuori di espresse previsioni statali, può<br />

interferire con l'applicazione di una norma penale?<br />

Il quesito non è di mero interesse teorico, ma sta assumendo rilievo crescente nelle aule giudiziarie. Vediamo alcuni casi<br />

paradigmatici.<br />

a) Una legge regionale che facoltizzi i rappresentanti di associazioni animaliste ad accedere in canili privati esclude il reato<br />

di violazione di domicilio, altrimenti configurabile in capo a chi entri in dette strutture contro la volontà del gestore?(92)<br />

b) Una legge regionale che facoltizzi l'esecuzione di determinati interventi edilizi (nuova edificazione di capannone<br />

industriale) sulla base della mera denuncia di inizio attività (c.d. super DIA), diversamente dalla legge statale, che esige(va)<br />

in tal caso il permesso di costruire sotto minaccia di pena - esclude la configurabilità dei relativi reati edilizi?<br />

c) Una legge regionale può modificare, abolire, sostituire determinati elementi di fattispecie in materie di propria<br />

competenza esclusiva o concorrente, i quali siano richiamati da fattispecie penali? Ad esempio può sostituire la previsione<br />

di autorizzazioni ad hoc con autorizzazioni ex lege valide per chi già eserciti determinate attività, incidendo<br />

sull'applicazione di fattispecie penali?<br />

d) Una legge regionale può incidere sui presupposti di estinzione del reato, circoscrivendo i limiti di sanabilità<br />

amministrativa indirettamente rilevanti ai fini della "sanatoria" penale?<br />

Cominciamo dal caso sub a).<br />

Dal punto di vista del diritto penale sostanziale l'art. 13 della legge regionale siciliana n. 15 del 2000(93) introduce in capo<br />

ai gestori dei rifugi sanitari e dei rifugi privati per il ricovero di cani e gatti il dovere di "consentire, senza bisogno di<br />

speciali procedure o autorizzazioni, l'accesso ai responsabili locali delle associazioni protezionistiche o animaliste"; si tratta<br />

di un dovere (e di una simmetrica facoltà di accesso in capo ai responsabili delle associazioni animaliste), interferente con<br />

l'applicazione dell'art. 614 c.p. in riferimento allo ius excludendi.<br />

La disposizione regionale incide sulla modulazione di tale diritto, che non potrà essere opposto (e risulterà soccombente<br />

rispetto) al diritto di accesso riconosciuto ad una determinata categoria di soggetti (i rappresentanti locali delle associazioni<br />

animaliste).<br />

La norma siciliana non modifica o abroga l'elemento normativo (ius excludendi) della fattispecie penale, ma si limita a<br />

darne un determinato contenuto ratione loci, ratione subiecti (sia attivi che passivi) e ratione materiae (a fini di protezione<br />

degli animali).<br />

Sul piano delle fonti, la legge regionale, nelle materie di propria competenza esclusiva, o in quelle di competenza<br />

concorrente, nel rispetto dei principi fondamentali della materia, ben può attribuire facoltà di agire rilevanti ex art. 51<br />

c.p.(94).<br />

La disposizione regionale non sembra dunque censurabile, pur interferendo con l'applicazione dell'art. 614 c.p., con<br />

riferimento all'art. 117 co. 2 lett. l), Cost.<br />

Il discorso diventa più complesso in relazione alle materie-oggetto su cui cade la norma regionale.<br />

Si tratta allora di verificare su quale materia cada l'esercizio della facoltà attribuita ai responsabili delle associazioni degli<br />

animalisti e come sia qualificata tale materia nello Statuto siciliano.<br />

A ben vedere le materie coinvolte sono due: da un lato l'igiene e salute degli animali(95), alla cui tutela dovrebbe essere<br />

funzionale l'accesso "a sorpresa" da parte degli animalisti; dall'altro l'inviolabilità del domicilio dei gestori rispetto ad<br />

accessi di soggetti estranei, e dunque la tutela dello ius excludendi dei primi rispetto ai secondi.<br />

In effetti è discutibile qualificare il canile - come fa la Corte di Cassazione - come luogo di privata dimora, "quale ambiente<br />

destinato all'esplicazione di una attività lavorativa privata, secondo la più ampia accezione accolta dalla giurisprudenza di<br />

233


legittimità"(96); e di conseguenza non è pacifico che l'accesso "per il controllo della gestione della struttura" coinvolga<br />

davvero l'intera struttura come privato domicilio, anziché i soli uffici.<br />

Tuttavia l'interpretazione riportata è in linea con l'opinione di parte della giurisprudenza e della dottrina, riferita ad esempio<br />

all'analogo problema dello stabilimento industriale(97), e dunque la "terremo per buona", approfondendo problemi diversi.<br />

La materia "protezione degli animali" rientra nella competenza esclusiva della Regione Sicilia(98); la materia "libertà<br />

domiciliare"(99) è soggetta a riserva di legge e di giurisdizione (art. 14 Cost.), rimessa, nella lettura tradizionale, alla fonte<br />

statale(100).<br />

Occorre dunque chiedersi quale delle due materie prevalga.<br />

Se ai fini della legittimità dell'intervento del legislatore regionale si sottolinea lo scopo della legge e la sua diretta e<br />

prevalente incidenza su materie di propria competenza (la protezione degli animali), la legge siciliana può forse ritenersi<br />

legittima.<br />

Viceversa se si ritiene che la riserva di legge statale sulle restrizioni all'inviolabilità del domicilio attragga qualsiasi profilo<br />

pure incidente su altre materie-oggetto di intervento organico e diretto, allora la norma sarà da ritenersi illegittima, specie<br />

per contrasto con la riserva di giurisdizione: occorre infatti sottolineare che, in base all'art. 13 co. 3 l. reg. Sicilia n. 15 del<br />

2000, l'accesso degli animalisti è facoltizzato "senza bisogno di speciali procedure o autorizzazioni"(101).<br />

In ogni caso il parametro costituzionale decisivo non sarà quello della potestà legislativa esclusiva dello Stato<br />

sull'ordinamento penale, ma quello ritenuto prevalente tra libertà del domicilio e protezione degli animali.<br />

Il riflesso penalistico frutto dell'intervento regionale è, appunto, una conseguenza di disciplina penale a valle di un<br />

intervento legislativo incidente, a monte, su diverse materie-oggetto, e non un intervento diretto sull'art. 614 c.p.<br />

Va sottolineato come la Corte di Cassazione abbia trattato della legge regionale siciliana dal peculiare punto di vista della<br />

successione di leggi nel tempo, essendo entrata in vigore dopo la commissione del fatto di violazione di domicilio,<br />

qualificandola come fonte integrativa del precetto penale, rilevante ai sensi dell'art. 2 co. 3 (ora co. 4) del c.p., senza<br />

minimamente porsi il problema dell'eventuale conflitto con l'art. 117 co. 2 lett. l), Cost.(102), e tanto meno il problema della<br />

legittimità dell'intervento su materia (statale) relativa all'inviolabilità del domicilio.<br />

In sostanza la Corte mostra di prescindere del tutto dalla natura (regionale) della legge sopravvenuta e delle materie-oggetto<br />

sulle quali incide.<br />

b) Di particolare interesse è l'ipotesi sub b), che ha dato vita ad un aspro conflitto istituzionale tra Regione Lombardia e<br />

Cassazione penale(103), e ad una variegata giurisprudenza di merito e di legittimità.<br />

Il caso riguardava l'edificazione di un capannone industriale effettuata, conformemente alla legge regionale lombarda n. 22<br />

del 1999, sulla base di una denuncia di inizio attività (D.I.A), ma, secondo il Pubblico Ministero ricorrente e secondo<br />

un'ordinanza della Corte di Cassazione(104), difformemente dalla legge statale, che esigeva per le nuove edificazioni<br />

concessione edilizia (poi permesso di costruire), sotto minaccia di pena.<br />

Il Giudice di primo grado assolveva, dando applicazione alla legge regionale, ritenendo che questa avesse legittimamente<br />

ampliato le ipotesi di D.I.A(105) rispetto a quelle previste dalla legge statale.<br />

Su ricorso del Pubblico Ministero la Corte di Cassazione sollevava d'ufficio questione di legittimità costituzionale della<br />

legge regionale lombarda, anche per contrasto con l'art. 117 co. 2 lett. l), nella parte in cui consentiva l'edificazione previa<br />

D.I.A. anche in assenza di normativa urbanistica di dettaglio, non ritenendo, diversamente da casi precedenti, di poter più<br />

fornire un'interpretazione adeguatrice della legge regionale urbanistica lombarda.<br />

Più precisamente, le ristrutturazioni e nuove costruzioni eseguite sulla base della "super dia" regionale anche in assenza di<br />

disposizioni di dettaglio (diversamente da quanto statuito dall'art. 22 co. 3 d.P.R. n. 380 del 2001), non sarebbero state<br />

punibili ex art. 44 co. 2-bis, poiché questo, rinviando all'art. 22 co. 3, esigeva l'esistenza di discipline di dettaglio. Ne<br />

sarebbe conseguita un'irragionevole "depenalizzazione" ad opera di leggi regionali di fatti meritevoli di sanzione penale<br />

secondo la legge statale.<br />

La Corte costituzionale, investita della questione, preso atto di ulteriori modifiche legislative, sia statali che regionali, ha<br />

rinviato al giudice remittente, affinché questi ne valutasse l'incidenza sul caso in questione(106).<br />

La Corte di Cassazione ha infine rigettato il ricorso dell'accusa, confermando la sentenza di assoluzione(107).<br />

Tale ultima pronuncia registra il reciproco convergere delle tre leggi regionali succedutesi nel tempo e delle discipline<br />

statali verso l'esistenza di un regime di tendenziale alternatività tra D.I.A. e permesso di costruire, purché vi siano normative<br />

urbanistiche di dettaglio, nonché l'equiparazione della normativa penale in caso di costruzione in assenza o in difformità<br />

dalla DIA alternativa al permesso di costruire o a quest'ultimo.<br />

Si tratta di una sorta di compromesso tra le istanza di semplificazione e snellezza procedimentale avanzate dalla regione<br />

Lombardia fin dal 1999, da un lato, e le istanze di tutela del territorio patrocinate dal legislatore statale.<br />

Va sottolineato come la Suprema Corte non solo non censuri, ma anzi accolga con favore il richiamo fatto dall'art. 49 l. reg.<br />

lombarda n. 12 del 2005, il quale afferma l'applicabilità delle "sanzioni previste dalla normativa statale in caso di<br />

svolgimento dell'attività di trasformazione urbanistico-edilizia... anche nei riguardi di coloro i quali diano inizio<br />

all'attività.... in mancanza dei requisiti richiesti...".<br />

In sostanza la Corte di Cassazione "salva" la norma regionale anche perché quest'ultima chiarisce (o estende?) l'ambito di<br />

234


applicazione della norma penale statale, dichiarandola applicabile alle costruzioni eseguite in assenza dei requisiti previsti<br />

dalla legge regionale sulla D.I.A.<br />

La legge regionale urbanistica lombarda in commento è stata oggetto di ulteriori pronunce di giudici penali(108). La Corte<br />

di Cassazione ha oscillato tra un'interpretazione più severa - basata sull'applicabilità della normativa penale statale<br />

nonostante l'osservanza della (difforme) normativa urbanistica regionale -, ed una interpretazione più "benigna", con<br />

l'applicazione dell'art. 5 c.p. a favore del cittadino che avesse fatto affidamento incolpevole sulla liceità dell'intervento<br />

edilizio(109).<br />

bb) La Corte di Cassazione(110) ha condannato il committente di opere (capannone industriale di 600 mq ad una sola<br />

elevazione) edificate, in conformità ad una legge regionale siciliana, sulla base di semplice autorizzazione, ritenendo, con<br />

interpretazione adeguatrice con asseriti principi fondamentali fissati a livello nazionale, che tali opere, in base alla legge<br />

statale, esigessero concessione edilizia (ora permesso di costruire), in quanto non consistenti in manufatto precario o avente<br />

natura pertinenziale o di modeste dimensioni.<br />

La pronuncia non sembra considerare che, in base al proprio Statuto, la Regione Sicilia ha competenza esclusiva nelle<br />

materie dell'urbanistica e della tutela del paesaggio (art. 14 lett. f) e n)), con il solo limite delle "grandi riforme agrarie ed<br />

industriali deliberate dalla Costituente del popolo italiano(111).<br />

E, tuttavia, va rammentato che dottrina e giurisprudenza hanno dato di tale formula una interpretazione estensiva, di grande<br />

riforma economico-sociale, e che anche il limite non espressamente previsto nello Statuto siciliano dei principi generali<br />

dell'ordinamento giuridico dello Stato è ritenuto applicabile al legislatore siciliano(112).<br />

In definitiva la disciplina penale statale (vecchio art. 20 lett. c), della legge n. 47 del 1985, odierno art. 44 d.P.R. n. 380 del<br />

2001), punendo la costruzione in assenza o difformità dal permesso di costruire, rinvia ai casi e modi di rilascio dei titoli<br />

abilitativi disciplinati dal legislatore urbanistico, che nel caso siciliano è solo ed esclusivamente quello regionale, salvo<br />

ritenere che il permesso di costruire per nuove edificazioni costituisca un principio di grande riforma o un principio<br />

generale, e non semplicemente un principio fondamentale di settore.<br />

c) Secondo l'orientamento risalente della Corte costituzionale, la legge regionale non può escludere l'obbligo di munirsi di<br />

determinate autorizzazioni prescritte in tema di rifiuti dalla legge statale sotto minaccia di pena(113), e neppure può<br />

prevedere una autorizzazione generale a favore di tutti coloro che all'entrata in vigore della legge esercitavano determinate<br />

attività, se per esse la legge statale prevedeva un'autorizzazione individuale, previa verifica della conformità alla legge delle<br />

specifiche modalità con le quali viene svolta in concreto l'attività(114).<br />

In una recentissima sentenza la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di una legge regionale che,<br />

diversamente da quanto prescritto dal Testo Unico in materia edilizia, consentiva di edificare in zona sismica in assenza di<br />

una previa esplicita autorizzazione regionale(115).<br />

Il Governo aveva eccepito l'illegittimità della disposizione derogatoria regionale, potenzialmente incidente sulla norma<br />

incriminatrice statale che sanziona l'esecuzione di lavori in zona sismica senza autorizzazione regionale (artt. 94 e 95 d.P.R.<br />

n. 380 del 2001) per contrasto, tra l'altro, con principi statali fondamentali in tema di governo del territorio e di protezione<br />

civile.<br />

La Corte, cui non era stato richiesto di pronunciarsi sul contrasto con l'art. 117 co. 2 lett. l), relativo alla potestà legislativa<br />

sull'ordinamento penale, si è limitata a riscontrare la violazione dei principi fondamentali statali inerenti alla "protezione<br />

civile", senza riferimenti espressi alla materia penale; anche se, menzionando "la rilevanza del bene protetto, che trascende<br />

l'ambito della disciplina del territorio, per attingere a valori di tutela dell'incolumità pubblica", ha in qualche misura evocato<br />

concetti di possibile rilievo penalistico.<br />

Nella giurisprudenza di legittimità talune pronunce hanno "salvato" disposizioni regionali contenenti disposizioni transitorie<br />

che consentivano a determinate condizioni la prosecuzione dell'attività di coltivazione di cave in aree sottoposte a vincolo<br />

paesaggistico, ritenendo di darne interpretazioni compatibili con la disciplina statale che esigeva apposite autorizzazioni<br />

ambientali(116).<br />

A nostro parere (cfr. supra, I.4.) l'art. 117 co. 2 lett. l), vieta alle Regioni di incidere direttamente sulle fattispecie penali,<br />

creandole, modificandole o abrogandole.<br />

Viceversa l'intervento regionale può legittimamente produrre effetti penali indiretti nell'ambito delle materie oggetto di<br />

competenza esclusiva delle Regioni (per es. in materia di cave, "passata" dal 2001 alla competenza residuale regionale),<br />

nonché in quelle di competenza concorrente, nel rispetto dei principi fondamentali statali (si pensi al governo del territorio e<br />

alla protezione civile o, per taluni profili, all'ambiente), nei limiti già prospettati (cfr. supra, I.5.2. e I.5.3.).<br />

Occorrerà di volta in volta verificare su quali materie cada la legge regionale, poiché, ad esempio, la coltivazione di cava in<br />

aree soggette a vincolo paesaggistico ricadrà nella materia "tutela dell'ambiente", ma, in assenza di vincoli, nella materia - di<br />

competenza esclusiva regionale - "cave".<br />

Ad evitare conflitti nelle materie di competenza concorrente il legislatore statale, d'intesa con le Regioni, dovrebbe<br />

configurare un assetto armonioso del sistema delle autorizzazioni all'esercizio di determinate attività.<br />

In questa direzione si è mosso il d.lgs. n. 152 del 2006, il quale ha analiticamente suddiviso le competenze legislative statali,<br />

regionali e provinciali in tema di rifiuti.<br />

235


In particolare, le autorizzazioni alle operazioni di smaltimento e di recupero dei rifiuti anche pericolosi spettano alle Regioni<br />

(art. 196), nel rispetto dei principi statali enunciati, tra l'altro, nell'articolo 195, secondo il già illustrato modello di<br />

collaborazione tra Stato e Regioni (supra, II. 2.).<br />

d) Secondo consolidata giurisprudenza costituzionale, le leggi regionali non possono incidere neppure sulle cause di<br />

estinzione del reato, non solo ampliandole o restringendole direttamente, ma neppure fornendo interpretazioni restrittive di<br />

requisiti della fattispecie estintiva(117), o escludendo l'onerosità della sanatoria(118).<br />

Le recenti sentenze in tema di condono edilizio hanno ampliato la sfera di incidenza delle leggi regionali rispetto alla<br />

originaria disciplina statale, escludendola solo rispetto ad alcuni paletti ritenuti insuperabili (volumi massimi, termine di<br />

ultimazione dei lavori e di presentazione della domanda).<br />

La Corte, sul piano degli effetti amministrativi della sanatoria, ha ritenuto l'illegittimità di talune leggi regionali considerate<br />

di mera reazione(119), e cioè volte a porre nel nulla la legge statale; la Corte ha tuttavia salvato il meccanismo normativo<br />

che, limitatamente all'estinzione dei reati paesaggististico-ambientali, presuppone il rilascio del parere favorevole delle<br />

autorità preposte al vincolo dipendente dalle diverse legge regionali, che in conformità alla sentenza n. 196/2004 hanno<br />

variamente modulato le tipologie e le volumetrie minime di opere sanabili.<br />

La soluzione della Corte sembra condivisibile, in quanto da un lato valorizza le diverse sensibilità regionali, e dall'altro,<br />

incidendo su di un presupposto della fattispecie estintiva (il rilascio del parere favorevole), non incide direttamente sui<br />

requisiti della fattispecie estintiva(120).<br />

È tuttavia innegabile che la legge regionale detta i requisiti costituenti il presupposto della fattispecie estintiva penale, con<br />

ciò interferendo seppure in via indiretta con la (non) applicazione della legge penale statale.<br />

Un esito forse non pienamente valutato dalla Corte costituzionale(121), che nelle sentenze sul condono edilizio ha<br />

formalmente ribadito fedeltà alla sua risalente giurisprudenza: "solo il legislatore statale può incidere sulla sanzionabilità<br />

penale".<br />

2. Un primo bilancio giurisprudenziale. - L'impressione tratta dalla breve rassegna giurisprudenziale analizzata è che i<br />

Giudici di merito - e quelli di legittimità con qualche maggiore resistenza - diano per acquisita la legittima interferenza delle<br />

leggi regionali sulle norme penali, potendo le prime, attraverso i molteplici meccanismi esaminati, comportare distinte<br />

applicazioni ratione loci di una stessa disposizione incriminatrice.<br />

D'altro canto la Corte costituzionale, rimasta formalmente fedele alla sua risalente giurisprudenza ante riforma<br />

costituzionale, specie in materia di scriminanti(122), sembra a ben vedere avere concesso qualche spazio alla influenza<br />

penale indiretta delle leggi regionali(123).<br />

Conclusioni. - La riforma costituzionale del titolo V della Costituzione, nonostante l'espressa attribuzione allo Stato della<br />

potestà legislativa esclusiva sull'"ordinamento penale", sembra legittimare una maggiore incidenza quantomeno indiretta<br />

delle leggi regionali sul diritto penale, in proporzione alle accresciute competenze legislative regionali esclusive e<br />

concorrenti su molte materie-oggetto, e dunque sul contenuto di precetti e elementi del reato debitori di leggi regionali.<br />

L'incrociarsi del diritto penale con le leggi regionali pone molteplici problemi.<br />

Il legislatore statale usando della sanzione penale può invadere ogni materia di competenza regionale, comprese quelle<br />

esclusive, inibendone la potestà legislativa ed anche, attraverso la regola dell'art. 9 l. n. 689 del 1981, quella sanzionatoria<br />

amministrativa.<br />

Tale potestà, in quanto invasiva della autonomia regionale, va interpretata in senso restrittivo.<br />

Al legislatore statale spetterà la previsione del precetto e della sanzione penale, ma non la regolazione della materia su cui<br />

opera l'intervento penale.<br />

In altre parole il legislatore statale penale, nelle materie di competenza esclusiva regionale, dovrà assumere le discipline<br />

regionali quali dati preformati immodificabili(124), potendo al più permettersi, se del caso, di isolare alcuni dati normativi<br />

di fonte regionale in funzione di esigenze tipicamente penalistiche di selezione di tutela.<br />

Nelle materie concorrenti il legislatore statale dovrà comunque evitare, nell'approntare la disciplina penale della materia, di<br />

incidere sugli aspetti di dettaglio.<br />

Al contempo è necessario che le compressioni delle competenze regionali realizzate in nome del diritto penale siano quelle<br />

minime necessarie e ragionevoli alla luce di esigenze nazionali di tutela uniforme di interessi e valori, appunto, statali,<br />

trascendenti le singole dimensioni territoriali.<br />

Da questo punto di vista pare auspicabile un potenziamento del modello collaborativo-funzionale (cfr. supra, II.2.), che<br />

consente al legislatore statale di offrire tutela penale tendenzialmente uniforme, al contempo garantendo alle Regioni la<br />

possibilità di opportune modulazioni di taluni requisiti di fattispecie (per es. attraverso la facoltà di disporre deroghe in<br />

melius o in pejus in relazione a determinati valori-soglia o ad elementi di fattispecie estintive).<br />

De jure condendo potrebbe ipotizzarsi l'attribuzione con legge costituzionale alle Regioni, nelle materie di propria<br />

competenza, del c.d regulatory power, in linea con quanto previsto ad es. dal Constitution Act canadese del 1867 all'art. 92<br />

(15).<br />

Potrebbe in altre parole attribuirsi alle Regioni potestà punitiva diretta, limitatamente all'enforcement dei precetti rientranti<br />

nella propria competenza legislativa(125).<br />

236


Tale scelta potrebbe comportare, è vero, un'eccessiva espansione della tutela penale in talune Regioni; o, al contrario, in<br />

Regioni più lassiste, un suo indebito ritrarsi.<br />

Tuttavia rischi di iper o ipo-penalizzazione fanno capo a qualsiasi legislatore: anche a quello statale, come ha dimostrato<br />

l'esperienza storica.<br />

A costituzione vigente, limitatamente alle materie di propria competenza esclusiva o concorrente, le Regioni dovrebbero<br />

essere coinvolte, più di quanto lo siano ora, nella discussione sulle scelte di incriminazione, attraverso strumenti ufficiali<br />

quali le Conferenze Stato-Regioni o attraverso accordi o intese eventualmente non istituzionalizzate.<br />

Non pare invece auspicabile la proposta, pur avanzata da autorevolissima dottrina, di assistere i precetti regionali con una<br />

norma penale in bianco, che sanzioni l'inosservanza di leggi regionali(126).<br />

Tale ipotetica disposizione, infatti, non solo risulterebbe alquanto problematica in rapporto al principio di precisione(127),<br />

ma, soprattutto, risulterebbe in tensione con il principio di uguaglianza, fornendo un'unica sanzione penale per condotte tra<br />

loro molto eterogenee.<br />

Basti pensare che la Corte costituzionale tedesca, in una recente pronuncia(128), ha censurato una legge federale<br />

modificativa del codice penale (par. 143 StGB), nella parte in cui incriminava la violazione delle disposizioni regionali<br />

sull'allevamento, vendita e conduzione di cani pericolosi, in quanto contraria all'esigenza di realizzare equivalenti<br />

condizioni di vita nel territoro federale e la tutela dell'unità giuridica dell'ordinamento(129), perché prevedeva un<br />

trattamento penale unitario rispetto a condotte assai eterogenee contemplate dai diversi Länder.<br />

In conclusione, la riforma dell'art. 117 Cost. sembra cristallizzare il fenomeno di progressiva erosione della statualità del<br />

diritto penale proveniente non solo dall'alto (obblighi internazionali e vincoli comunitari), ma anche dal basso (ma sarebbe<br />

meglio dire dal lato).<br />

Il risultato complessivo è il condizionamento dell'ordinamento penale statale da parte di interessi e organi non statali, dal<br />

momento della posizione delle norme (attraverso gli input sopranazionali di penalizzazione) fino a quello della loro<br />

applicazione (specie con riferimento a cause di giustificazione e più in generale a norme che producono effetti di non<br />

punibilità).<br />

Il diritto penale, da sempre custode della sovranità statuale, dovrà volente o nolente adattarsi al nuovo assetto costituzionale<br />

e istituzionale.<br />

Uno sforzo che riguarda anche la dottrina penalistica, chiamata a confrontarsi con linguaggi, concetti e principi<br />

tradizionalmente appartenenti ad altre branche del diritto.<br />

Ci chiedevamo nel titolo se il legislatore statale conservasse ancora il monopolio punitivo.<br />

Già oggi può forse sostenersi che il legislatore statale riveste più propriamente una posizione dominante sull'ordinamento<br />

penale.<br />

In futuro è probabile che il pluralismo delle fonti, sia esterne (europee ed internazionali) che interne (regionali), trasformerà<br />

il monopolio in oligopolio.<br />

NOTE<br />

(1) Il riferimento è alla fondamentale monografia di Vinciguerra, Le leggi penali regionali. Ricerca sulla controversa questione, Milano,<br />

1974. Per una rimeditazione del tema v., del medesimo Autore, La tutela penale dei precetti regionali cinquant'anni dopo, in Diritto<br />

penale e giurisprudenza costituzionale, a cura di G. Vassalli, Napoli, 2006, 111 ss<br />

(2) Per rassegne più ampie sulle argomentazioni portate a favore della incompetenza penale delle Regioni si rinvia a Vinciguerra, Le leggi<br />

penali regionali, cit., 7 ss. e a Piergallini, Norma penale e leggi regionali: la costruzione del "tipo", in Dolcini-Padovani-Palazzo (a cura<br />

di), Sulla potestà punitiva dello Stato e delle Regioni, Milano, 1994, specie 113 ss<br />

(3) La dottrina, prima del 1956, si era schierata in prevalenza a favore della competenza penale delle Regioni; successivamente, sulla scia<br />

delle sentenze che la Corte costituzionale ha emanato a partire da quell'anno, ha abbracciato la tesi negativa: per i necessari riferimenti<br />

vedi Vinciguerra, Le leggi penali regionali, cit., 5 ss<br />

(4) È la tesi sostenuta con ricchezza di argomentazioni da Vinciguerra, op. ult. cit., specie p. 39 ss., anche in collegamento con gli artt. 5 e<br />

25 co. 2 Cost<br />

(5) Cfr. specialmente De Franco, La potestà legislativa dello Stato e la potestà penale delle Regioni di fronte alla riserva di legge in<br />

"materia" penale, in questa Rivista, 1964, 753 s<br />

(6) Bricola, Principio di legalità e potestà normativa penale delle Regioni, in Sc. pos., 1963, 630 ss., ora in Canestrari-Melchionda, (a<br />

cura di), Scritti di diritto penale, Volume I, Milano, 1997, 252 ss<br />

(7) Pagliaro, Principi di diritto penale. Parte generale, Milano, VI ed., 1998, 46<br />

(8) In questo senso Bricola, Principio di legalità, cit., 241 ss<br />

(9) Bricola, op. ult. cit., 244 s<br />

(10) Per questa critica v. Piergallini, Norma penale, cit., 116 s<br />

(11) È il caso ad es. dell'ordinamento svizzero, nel quale fino al 2005 la competenza penale sul diritto penale sostanziale spettava alla<br />

Confederazione, mentre quella sulla procedura spettava ai singoli Cantoni. Un nuovo codice federale di procedura penale, approvato nel<br />

2005, sostituirà i 26 codici cantonali, una volta che la Confederazione e i singoli cantoni emaneranno le necessarie leggi di applicazione e<br />

di modifica dell'organizzazione giudiziaria. Per ulteriori informazioni si rinvia a www.ofj.ammin.ch. Sulla situazione antecedente alla<br />

237


iforma vedi Bernasconi, Federalismo e diritto penale in Svizzera: dalla tradizione al diritto europeo, in Diritto penale XXI secolo, 2002,<br />

313 ss<br />

(12) Padovani, Diritto penale, Milano, V ed., 1999, 24 s<br />

(13) Corte cost. n. 487/1989, in questa Rivista, 1990, 1562 ss., con nota di Piergallini<br />

(14) Piergallini, Norma penale, cit., 119 s<br />

(15) Nel nostro ordinamento penale vige il principio di territorialità (artt. 3 e 6 c.p.), secondo il quale possono legittimamente punirsi tutti<br />

coloro (anche stranieri) i quali commettono reati nel territorio italiano. Dalla lettura congiunta degli artt. 3 e 6 c.p. parte della dottrina<br />

evince la prevalenza del principio di territorialità della legge penale italiana; altra dottrina pone l'accento sulla sua vocazione<br />

tendenzialmente universalistica (cfr. Aprile, in Dolcini-Marinucci (a cura di), Codice penale commentato, Milano, II ed., 2006, sub artt. 3<br />

(specie p. 99) e 6; per un'ampia ricostruzione storica v. Mezzetti, I limiti spaziali della legge penale, in Ronco, La legge penale. Fonti,<br />

tempo, spazio, persone, Bologna, 2006, 283 ss. Si tratta, è vero, di un principio di rango ordinario, che a sua volta potrebbe essere in<br />

contrasto con principi costituzionali; tuttavia non sembra che il principio di territorialità sia mai stato sospettato di illegittimità<br />

costituzionale per violazione del principio di rappresentatività democratica<br />

(16) Piergallini, Norma penale, cit., 120. La tesi è ribadita, dopo la riforma costituzionale del 2001, da Vinciguerra, La tutela penale, 118,<br />

il quale sottolinea come l'unità dello Stato (regionale), diversamente da quanto consentito nello Stato federale o nella confederazione di<br />

Stati, viene frantumata anche infrangendo, tramite il diritto penale, l'uniformità nel godimento della libertà personale<br />

(17) Padovani, Diritto penale, cit., 26: "la competenza penale corre su di un binario storicamente parallelo a quello della sovranità, e<br />

denota sempre la presenza di un'organizzazione statuale, nel cui ambito la pluralità di competenze penali territorialmente distinte è<br />

compatibile soltanto con un assetto di tipo federale"; Caraccioli, Manuale breve di diritto penale. Parte generale, Padova, 2002, 12: "il<br />

diritto penale è peculiare espressione della sovranità statale". Anche su di un piano diverso da quello della competenza legislativa per<br />

materia (e cioè sul piano della giustificazione teorica della potestà punitiva), frequente è il richiamo alla sovranità: cfr. tra i molti<br />

Grispigni, Diritto penale italiano, vol. I, Milano, 1950, 277: "... il potere... dello Stato di porre le norme penali ha il fondamento giuridico<br />

nella sovranità"...; Vassalli, La potestà di punire, Milano, 1942, 16<br />

(18) Sul concetto di sovranità, anche per i necessari profili storici e politico-filosofici, si rinvia a Tamassia, Essenza e limiti del<br />

federalismo, in Federalismo e devolution, a cura di Piergigli, Milano, 2005, 190 ss. Per una sintesi del concetto si rinvia, nella<br />

manualistica, a Bin-Pitruzzella, Diritto costituzionale, Torino, 2005, 16 ss<br />

(19) Lo ricorda Vinciguerra, La tutela penale, cit., p. 126 s., nota 34<br />

(20) Art. 23 Statuto della Regione Trentino-Alto Adige, come novellato dall'art. 15 l. cost. n. 1/1971: "La Regione e le Province<br />

utilizzano, a presidio delle norme contenute nelle rispettive leggi, le sanzioni penali che le leggi dello Stato stabiliscono per le stesse<br />

fattispecie"; Vinciguerra, La tutela penale, cit., p. 116 s., nota 17, sottolinea come vi sia una sola legge ad avere dato attuazione all'art. 23:<br />

la legge urbanistica provinciale di Bolzano, n. 13 dell'11 agosto 1997, il cui art. 100 co. 1 richiama le sanzioni penali stabilite dall'art. 20 l.<br />

47 febbraio 1985, n. 47.<br />

In altri casi è la stessa legge statale, in modo invero poco rispettoso della competenza statutaria trentina, a stabilire che, ai sensi dell'art. 23<br />

del relativo Statuto, le sanzioni penali da essa prevista "si applicano alle corrispondenti fattispecie come disciplinate dalle leggi<br />

provinciali": così l'art. 30, co. 4 della legge n. 157 del 1992 in materia di caccia<br />

(21) Per i necessari riferimenti normativi si rinvia a Bonetti, La potestà legislativa in materia penale tra Stato e Regioni, 299 ss., di<br />

prossima pubblicazione in Ruga Riva (a cura di), Ordinamento penale e fonti non statali. L'impatto dei vincoli internazionali, degli<br />

obblighi comunitari e delle leggi regionali sul legislatore e sul giudice penale, Atti del Convegno tenutosi presso l'Università di Milano-<br />

Bicocca il 24 marzo 2006, Milano, Giuffrè<br />

(22) De Vergottini, Diritto costituzionale comparato, VI ed., vol. I, Padova, 2004, 305; Id., Stato federale e Stato regionale: i modelli del<br />

decentramento, 7, in Federalismo e devolution, cit., 2005, 7<br />

(23) In Germania la materia penale è di competenza concorrente (konkurrierende Gesetzgebung), nel senso indicato dall'art. 72 GG: "I<br />

Länder hanno il potere di legiferare solo fino a quando e nella misura in cui la federazione non abbia esercitato con una legge la propria<br />

competenza legislativa (co. 1). Sul rapporto tra Länder e diritto penale, specie in relazione agli artt. 1, 2, 3 e 4 EGStGB del 1974, legge<br />

federale che ha attribuito loro poteri legislativi marginali in materia penale, v. Fornasari, Federalismo e diritto penale in Germania,<br />

Diritto penale XXI secolo, 2002, 69 ss. Sulla riforma costituzionale tedesca approvata nel 2006, la quale ha sottratto la materia penale<br />

dalla clausola di necessità che in precedenza doveva sussistere per legittimare l'intervento federale, e ha trasferito la materia "esecuzione<br />

penale" ai Länder, v. Bonetti, La potestà legislativa, cit., 301 s<br />

(24) Il Constitution Act del 1867 prevede, alla section 91 (27), la potestà legislativa esclusiva del Parlamento federale in materia "di diritto<br />

penale, ad eccezione della costituzione di Corti giurisdizionali criminali, ma compresa la procedura penale"; tuttavia la section 91 (27)<br />

stabilisce che le Province hanno potestà di imporre pene pecuniarie o detentive per il rafforzamento di ogni legge provinciale emanata in<br />

relazione ad una delle materie di propria competenza"<br />

(25) De Vergottini, Diritto costituzionale comparato, cit., 316 s.; Sottolinea come l'autonomia della Provincia autonoma di Bolzano o<br />

della Catalogna, membre di uno Stato regionale, sia maggiore di quella del Tirolo, membro di uno Stato federale, De Vergottini, Stato<br />

federale, cit. 10<br />

(26) Sull'impiego dell'interesse nazionale in funzione di restrizione delle competenze legislative regionali v. Bin, Legge regionale, in Dig.<br />

disc. pubbl., IX, Torino, 1994, 187 ss<br />

(27) Per un'aggiornata sintesi v. Bonetti, La potestà legislativa, cit., 275 ss<br />

(28) Corte cost. n. 234/1995, in Giur. cost., 1995, 1720 ss.; Corte cost. n. 117/1991, in Giur. cost., 1991, 1203 ss.; Corte cost. n. 43/1990,<br />

in Giur. cost., 1990, 166 ss<br />

(29) Tale ultima materia, formalmente attribuita alla competenza esclusiva dello Stato, è stata in effetti considerata dalla Corte cost. (cfr.<br />

n. 407/2002 in Giur. cost., 2002, 2940 ss.) materia-non materia, valore costituzionale sul quale anche le Regioni hanno titolo di<br />

legittimazione ad intervenire per taluni profili afferenti a materie di loro competenza<br />

(30) Sull'ordinamento civile si rinvia a Lamarque, Regioni e ordinamento civile, Padova, 2005<br />

238


(31) È la suggestiva tesi prospettata da D'Amico in Riforma del titolo V della Costituzione: legislazione esclusiva statale e ordinamento<br />

penale, in www.statutiregionali.it, p. 5; La tesi non è specificamente sviluppata in altri due importanti lavori dell'Autrice, nei quali pure si<br />

lamenta l'eccessiva chiusura posta alle Regioni in materia penale: Regioni, diritto penale e riforma del titolo V della Costituzione, in<br />

Angiolini-Violini-Zanon (a cura di), Le trasformazioni dello Stato regionale italiano, Milano, 2002; Id., Competenza esclusiva statale in<br />

materia penale e riforma del titolo V della Costituzione, in Problemi del Federalismo, Atti dell'incontro di studio su I processi del<br />

federalismo. Aspetti e Problemi giuridici, Milano, 2002, 311 ss<br />

(32) Art. 10 co. 6 Costituzione austriaca; art. 74 n. 1 Costituzione tedesca<br />

(33) Constitution Act canadese del 1867, art. 91 (27)<br />

(34) Costituzione spagnola, art. 149 co. 1 n. 6<br />

(35) Art. 123 Cost. svizzera<br />

(36) D'Amico, Riforma del titolo V della Costituzione: legislazione esclusiva statale e ordinamento penale, in www.statutiregionali.it, p.<br />

5<br />

(37) Silvestri, La funzione legislativa e regolamentare delle regioni e dello Stato, in Piraino (a cura di), La funzione normativa di Comuni,<br />

Province e Città metropolitane nel nuovo sistema costituzionale, 197, citato da Mabellini, La legislazione regionale tra obblighi esterni e<br />

vincoli internazionali, Milano, 2004, 197<br />

(38) F.S. Marini, Lo statuto costituzionale dei beni culturali, Milano, 2002, 274 s. Id. in Corso-Lopilato (a cura di), Il diritto<br />

amministrativo dopo le riforme costituzionali. Parte generale, Milano, 2006, 98 s<br />

(39) Corte cost. n. 185/2004, in Giur. cost., 2004, 1872 ss<br />

(40) Di Cosimo, Regioni e diritto penale, in Le Regioni, 2004, 1316<br />

(41) Vedi con particolare grado di approfondimento Mabellini, La legislazione regionale, cit., 128 ss., specie 137 s.; Bonetti, La potestà<br />

legislativa, cit., 281 ss.; nella dottrina penalistica v. Maccari, La riserva di legge statale in materia di "ordinamento penale", in<br />

Ammannati-Groppi (a cura di), La potestà legislativa tra Stato e Regioni, Milano, 2003, 73; Vinciguerra, La tutela penale, cit., specie 117<br />

ss<br />

(42) Corte cost. 28 giugno 2004, n. 196, con nota di Ruga Riva, Il condono edilizio dopo la sentenza della Corte costituzionale: più<br />

potere alle Regioni in materia penale?, in Dir. pen. e proc., 2004, 1095 ss<br />

(43) Corte cost. n. 185/2004, cit<br />

(44) Sent. ult. cit<br />

(45) D'Amico, Riforma del titolo V, cit., 5<br />

(46) Con riferimento al "diritto penale amministrativo... in materie che rientrino nella sfera autonoma di attività dei Länder" (art. 10 co. 6<br />

Cost.)<br />

(47) In relazione al potere delle Province di emanare leggi riguardanti "the imposition of punishment by fine, penalty, or imprisonment for<br />

enforcing any law of the province made in relation to any matter coming within any of the classes of subjects enumerated" nell'articolo<br />

92, e cioè nell'ambito delle competenze legislative provinciali, ex art. 92 (15)<br />

(48) Bonetti, La potestà legislativa, cit., p. 303 s<br />

(49) L'osservazione è di D'Amico, Competenza esclusiva, cit., 320 s<br />

(50) Ai sensi dell'art. 101 co. 2 d.lgs. n. 152 del 2006; "... le Regioni, nell'esercizio della loro autonomia, tenendo conto dei carichi<br />

massimi ammissibili e delle migliori tecniche disponibili, definiscono i valori-limite di emissione, diversi da quelli di cui all'allegato 5...<br />

Le Regioni non possono stabilire valori limite meno restrittivi di quelli fissati nell'allegato 5 alla parte terza del presente decreto... d) nelle<br />

tabelle 3 e 4, per quelle sostanze indicate nella tabella 5 del medesimo allegato".<br />

Ai sensi dell'art.137 co. 5 del medesimo testo "Chiunque, nell'effettuazione di uno scarico di acque reflue industriali, superi i valori limite<br />

fissati nella tabella 3 o, nel caso di scarico sul suolo, della tabella 4 dell'allegato 5 alla parte terza del presente decreto, oppure superi i<br />

limiti più restrittivi fissati dalle regioni o dalle province autonome o dall'autorità competente a norma dell'art. 107, comma 1, in relazione<br />

alle sostanze indicate nella tabella 5 dell'allegato 5 alla parte terza del presente decreto, è punito..."; sulla complessa esegesi dell'ultima<br />

parte di tale fattispecie, in relazione alla analoga disposizione previgente di cui all'art. 59 co. 5 d.lgs. n. 152 del 1999, cfr. Cass. sez. III, 29<br />

ottoobre 2003, n. 48076, secondo la quale la sanzione penale rimane vincolata alle sostanze previste dalla tabella 5 solo nel caso in cui il<br />

superamento riguardi i limiti più restrittivi fissati dalle Regioni<br />

(51) Si vedano in relazione all'ordinamento spagnolo, nel quale è prevista la competenza esclusiva dello Stato sulla legislazione penale, le<br />

considerazioni di Silva Sanchez, ?ompetencia "indirecta" de las comunidades autonomas en materia de derecho penal?, in La Ley, 1993,<br />

971 ss., il quale ritiene, diversamente da altri autori, che il monopolio punitivo statuale non escluda che le disposizioni regionali<br />

producano effetti penali indiretti, per esempio attraverso le norme penali in bianco<br />

(52) Così Pagliaro, Principi di diritto penale. Parte generale, VIII ed., Milano, 2003, 22. Analogamente, ritiene che l'art. 25 co. 2 Cost. si<br />

riferisca alla norma incriminatrice intesa "come norma reale, diretta a fissare sia gli elementi positivi che quelli negativi (limiti<br />

scriminanti) della fattispecie, Bricola, Principio di legalità, cit., 259<br />

(53) Vedi per tutti Marinucci-Dolcini, Manuale di diritto penale. Parte generale, II ed., Milano, 2006, 34<br />

(54) Corte cost. 185/2004, cit., e ivi richiami a precedenti conformi (sentenze n. 234/1995, cit.; n. 117/1991, cit.; n. 309/1990, in Giur.<br />

cost., 1990, 1890 ss., tutte in materia di autorizzazione al deposito di rifiuti); non del tutto pertinente appare invero l'ulteriore rinvio alla<br />

sent. n. 487/1989, ove in realtà la Corte lascia aperto il problema della legittimità di leggi regionali che facoltizzano condotte costituenti<br />

reato, limitandosi a negare che, nel caso sottopostole, ricorrano gli estremi di una norma attributiva di un diritto. L'orientamento opposto è<br />

talvolta emerso nella giurisprudenza di legittimità: cfr. Cass. Sez. Un. 31 ottobre 2001, De Marinis, in Giur. it., 2003, 749 ss., con nota di<br />

Madia; secondo tale pronuncia non violano il principio della riserva di legge in materia penale quelle leggi regionali che, nel disporre la<br />

nuova disciplina amministrativa da osservare per esercitare legittimamente la coltivazione di cave, dettano la normativa transitoria per la<br />

prosecuzione, anche in aree per le quali è intervenuto un vincolo di zona, dell'attività estrattiva già legittimamente avviata. In una materia,<br />

come quella delle cave, attribuita (all'epoca) alla competenza cosiddetta ripartita o concorrente, il legislatore regionale ben potrebbe<br />

disciplinare la coltivazione delle cave già in esercizio senza vanificare il precetto penale stabilito dalle leggi statali, che configurano come<br />

239


eato sia la coltivazione di cava contrastante con gli strumenti urbanistici vigenti (art. 20 lett. a), legge n. 47 del 1985) sia la coltivazione<br />

non autorizzata di cava in zona sottoposta a vincolo ambientale (art. 1-sexies l. n. 431 del 1985). La legge regionale, infatti, si limiterebbe<br />

a disciplinare la gestione amministrativa del vincolo urbanistico, ambientale etc. in seguito alla sopravvenienza del regime autorizzatorio<br />

o del vincolo di zona; si vedano anche le ulteriori sentenze citate da Madia in Necessità dell'autorizzazione paesaggistica per la<br />

prosecuzione dell'attività di coltivazione, nota a Corte cass. 28 maggio 2004, Loprieno, in Cass. pen., 2006, p. 1075, nota 6. Le sentenze<br />

citate, a ben vedere, hanno cura di sottolineare che le norme regionali non facoltizzano di per sé condotte (altrimenti) penalmente illecite,<br />

limitandosi piuttosto a dettare una disciplina transitoria che consenta alle autorità competenti le relative valutazioni urbanistiche e<br />

ambientali correlate al sopravvenire del vincolo. Fermo restando che laddove la valutazione sia negativa, la prosecuzione della<br />

coltivazione della cava già avviata integrerà, a seconda dei casi, reati urbanistici o ambientali<br />

(55) Palazzo, Corso di diritto penale. Parte generale, II ed., Torino, 2006, 376; nello stesso senso Viganò, in Dolcini-Marinucci (a cura<br />

di), Codice penale commentato con DVD ROM, II ed., Milano, 2006, sub art. 51, p. 542<br />

(56) Cfr. tra i molti Bartole-Bin-Falcon-Tosi, Diritto regionale, Bologna, 2005, 148; Bin-Pitruzzella, Diritto costituzionale, cit., 373<br />

(57) Si veda ad es. l'art. 1 co. 3 del disegno di legge n. 3519, XIV legislatura, in materia di governo del territorio: "La potestà governativa<br />

in materia di governo del territorio spetta alle regioni, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali e ad esclusione degli<br />

aspetti direttamente incidenti sull'ordinamento civile e penale, sulla difesa, sulle Forze armate..."<br />

(58) Per tale impostazione vedi Marinucci-Dolcini, Manuale di diritto penale. Parte generale, II ed., Milano, 2006, 34<br />

(59) Art. 117 co. 2 lett. h) Cost<br />

(60) Art. 117 co. 2 lett. m) Cost<br />

(61) Art. 117 co. 2 lett. d) Cost<br />

(62) La legge 28 gennaio 2005, n. 5, recante "Disposizioni urgenti per assicurare la coesistenza tra le forme di agricoltura transgenica,<br />

convenzionale e biologica", stabilisce che "fino all'adozione dei singoli provvedimenti di cui all'articolo 4 [piani di coesistenza regionali],<br />

le colture transgeniche... non sono consentite (art. 8), specificando che "chiunque non rispetti le disposizioni di cui all'articolo 8 è punito<br />

con l'arresto da uno a due anni o con l'ammenda..." (art. 6 co. 2). L'art. 6 co. 1, fatte salve le disposizioni previste negli articoli 35, comma<br />

10 e 36 d.lgs. n. 224 del 2003, prevede sanzioni amministrative pecuniarie per chi non rispetti le misure previste dai provvedimenti<br />

regionali di coesistenza. In definitiva il provvedimento regionale ha l'effetto di modulare il diritto di coltivare OGM a seconda dei vari<br />

territori, definendo gli ambiti di liceità amministrativa e comunque facendo venire meno l'illiceità penale della coltivazione transgenica in<br />

sé considerata. Le disposizioni in esame sono state dichiarate costituzionalmente illegittime da Corte cost. n. 116/2006, in Giur. cost.,<br />

2006, 1099 ss., in via consequenziale rispetto ad altre disposizioni che, dettando le modalità per adottare le "norme quadro per la<br />

coesistenza" e disciplinando lo sviluppo ulteriore di esse tramite piani regionali di natura amministrativa, invadevano la competenza<br />

legislativa esclusiva delle Regioni in materia di agricoltura<br />

(63) In questo senso Palazzo, Corso, cit. 377<br />

(64) Palazzo, Corso, cit., 377<br />

(65) In dottrina, Bartole-Bin-Falcon-Tosi, Diritto regionale, II ed., Bologna, 2005, 148<br />

(66) Corte cost. 21 febbraio 2006, n. 183 punto 2. dei Considerato in diritto, consultata in www.cortecostituzionale.it<br />

(67) Va peraltro osservato come la Corte costituzionale (sent. 20 dicembre 2002, n. 536) ritiene che spetti allo Stato l'individuazione di<br />

taluni principi fondamentali in materia di caccia, per esempio in riferimento al termine di chiusura della stagione venatoria, anche in<br />

relazione alle Regioni a Statuto speciale che, come la Sardegna, hanno competenza "piena" in tale materia, sul presupposto che la<br />

disciplina della fauna incida sul sistema ecologico nel suo complesso, e dunque sulla materia statale "tutela dell'ambiente"<br />

(68) Palazzo, Corso, cit., 110 s<br />

(69) Palazzo, Corso, cit., 108<br />

(70) Palazzo, op. ult. cit., 111<br />

(71) Palazzo, op. ult. cit., 110<br />

(72) Corte cost. n. 196 del 28 giugno 2004, in Dir. pen e proc., 2004, 1095 ss<br />

(73) Tale esito, pur negato dalla Corte, la quale distingue gli effetti amministrativi prodotti dalla dichiarazione di illegittimità da quelli<br />

penali, ritenuti intangibili, sembra non revocabile in dubbio almeno rispetto all'estinzione dei reati paasistico-ambientali, nei quali il<br />

rilascio del titolo abilitativo dipende dalla conformità dai requisiti stabiliti dalle singole discipline regionali: cfr. Ruga Riva, Il condono<br />

edilizio dopo la sentenza della Corte costituzionale: più potere alle Regioni in materia penale?, in Dir. pen e proc., 2004, 1104 ss. Per<br />

una critica alla sentenza in esame, coerente con l'idea che la norma regionale non possa comportare differenziazioni territoriali se non nei<br />

limiti previsti dalla medesima legge penale, Vinciguerra, La tutela penale, cit., 125 s<br />

(74) La tesi, mutatis mutandis, è sostenuta con particolare lucidità da Silva Sanchez, ?ompetencia indirecta de las comunidades<br />

autonomas en materia de derecho penal?, in La Ley, 1993, n. 1, 972 ss.; Id., Las "normas de complemento" de las leyes penales en blanco<br />

pueden emanar de las Comunidades Autonomas, in Revista del Poder Judicial, n. 52, 1998, 490 ss., in relazione al modello di Stato<br />

regionale spagnolo, il quale presenta struttura per molti versi analoga a quello italiano<br />

(75) Si tratta del principio del parallelismo tra disciplina sostanziale e disciplina sanzionatoria amministrativa enunciato da Corte cost. n.<br />

361/2003, in Giur. cost., 2003, 3730<br />

(76) Dolcini, Commento all'art. 9, in Dolcini-Giarda-F. Mucciarelli-Paliero-Riva-Crugnola, Commentario delle "Modifiche al sistema<br />

penale", Milano, 1982, 61 s<br />

(77) Padovani, Diritto penale, cit., 22<br />

(78) Sul tema, anche per una rivendicazione del carattere di principio generale dell'art. 9 l. n. 689 del 1981, e per una critica alle contrarie<br />

disposizioni regionali e alle interpretazioni giurisprudenziali che viceversa sostengono la legittimità del cumulo tra sanzione<br />

amministrativa e sanzione penale, v. Barbieri, Le sanzioni regionali dopo la l. 24 novembre 1981 n. 689, in Dolcini, Padovani e Palazzo<br />

(a cura di), Sulla potestà punitiva dello Stato e delle Regioni, Milano, 1994, 253 ss., specie 260 s<br />

(79) Cfr. Cass. civ., sez. I, 18 febbraio 2005 n. 3388, in Giust. civ. mass., 2005, f. 2 e Cass. civ, sez. I, 8 marzo 2005 n. 35047, in Giust.<br />

civ. mass., 2005, f. 3, citate da Bassi, Ambiente e urbanistica: i rapporti tra tutela amministrativa e tutela penale alla luce dell'art. 117<br />

240


Cost., in Ruga Riva (a cura di), Ordinamento penale e fonti non statali, cit. p. 322, nota 24<br />

(80) V. sul punto Barbieri, Le sanzioni regionali, cit., 231 s. e 260. In Canada il distinto problema della potenziale concorrenza tra norme<br />

penali federali e provinciali viene risolto in base al criterio del double jeopardy: cfr. Hogg, Constitutional law of Canada, Student Edition,<br />

Scarborough, 2003, 423 s<br />

(81) Disciplinata dalla l. n. 400 del 1988 e dal d.lgs. n. 281 del 1997; tuttavia tale Conferenza rappresenta una sede di confronto tra<br />

Governo e Regioni, e non tra Parlamento e Regioni; sicché non sembra poter rispondere pienamente alle esigenze sottese al principio di<br />

legalità in diritto penale, e al connesso ruolo centrale del Parlamento nelle scelte di incriminazione. Su tali strumenti vedi Bartole-Bin-<br />

Falcon-Tosi, Diritto regionale, cit., 224 ss., anche per riferimenti a possibili soluzioni alternative e più incisive; Bin-Pitruzzella, Diritto<br />

costituzionale, cit., 250 ss.; Caretti-De Servio, Istituzioni di diritto pubblico, VIII ed., Torino, 2006, 365 ss<br />

(82) Cfr. art. 12 l. n. 400 del 1988. Va tuttavia precisato che il limite del diritto penale investe le più svariate materie-oggetto, sicché di<br />

fatto già oggi la Conferenza dei servizi si pronuncia sugli schemi di disegni di legge e di decreto legisaltivo riguardanti anche profili<br />

penali: si veda a titolo di esempio il corposissimo parere negativo fornito sullo schema di decreto legislativo recante norme in materiale<br />

ambientale reso il 26 gennaio 2006, ove si muovono rilievi incidenti sulle norme penali, per esempio in relazione alla definizione di<br />

scarico e di sostanze pericolose (p. 31)<br />

(83) Cfr. Groppi, Canada, cit., 60 s<br />

(84) Si allude, al governo del territorio, materia espressamente concorrente, e all'ambiente, la cui tutela spetta allo Stato ex art. 117 co. 2<br />

lett. s), ma che nella giurisprudenza costituzionale viene interpretata come valore trasversale a varie materie oggetto, spettando allo Stato<br />

le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull'intero territorio nazionale (cfr. Corte cost. n.<br />

407/2002, cit.)<br />

(85) Nel senso di richiedere il permesso di costruire anziché la denuncia di inizio attività<br />

(86) Analogamente, per l'individuazione di un modello di tipo collaborativo-funzionale, in un diverso contesto normativo, sia<br />

costituzionale che ordinario, v. Piergallini, Norma penale, cit., 133<br />

(87) "Chiunque non ottempera alla disciplina dettata dalle Regioni ai sensi dell'art. 113, comma 3, è punito con le sanzioni di cui all'art.<br />

137, comma 1"<br />

(88) L'art. 101 co. 2 stabilisce che le "Regioni, nell'esercizio della loro autonomia, tenendo conto dei carichi massimi ammissibili e delle<br />

migliori tecniche disponibili, definiscono i valori-limite di emissione, diversi da quelli di cui all'Allegato 5 alla parte terza del presente<br />

decreto... Le Regioni non possono stabilire valore limite meno restrittivi di quelli fissati nell'Allegato 5 alla parte terza del presente<br />

decreto", in relazione agli scarichi e alle tabelle ivi indicati. L'art. 137 co. 5 punisce "chiunque, nell'effettuazione di uno scarico di acque<br />

reflue industriali, superi", tra gli altri, "i limiti più restrittivi fissati dalle regioni o dalle province autonome o dall'Autorità competente a<br />

norma dell'articolo 107, comma 1, in relazione alle sostanze indicate nella tabella 5 dell'allegato 5 alla parte terza del presente decreto".<br />

Sull'interpretazione di tale disposizione v. Cass. sez. III, 28 ottobre 2003 n. 48076. Sull'analoga fattispecie penale prevista dal previgente<br />

d.lgs. n. 152 del 1999 (artt. 28 e 59), si veda L. Ramacci, Manuale di diritto penale dell'ambiente, Padova, III ed., 2005, 343<br />

(89) È il caso del citato art. 137 co. 5 d.lgs. n. 152 del 2006<br />

(90) Sull'inesistenza di obblighi costituzionali di tutela penale si rinvia a Pulitanò, Obblighi costituzionali di tutela penale?, in questa<br />

Rivista, 1983, 484 ss.; più di recente, per una soluzione analoga con riferimento agli obblighi di tutela penale di fonte comunitaria, v.<br />

Sotis, in questa Rivista, 2002, 171 ss<br />

(91) Il tema è stato diffusamente trattato da Piergallini, Norma penale e legge regionale: la costruzione del tipo, in Dolcini-Padovani-<br />

Palazzo (a cura di), Sulla potestà, cit., 103 ss., specie 124 ss<br />

(92) È il caso trattato da Corte Cass. sez. V, 2 marzo 2005, n. 8045, Battaglia, in www.ambientediritto.it<br />

(93) Legge regionale n. 15 del 3 luglio 2000, recante "Istituzione dell'anagrafe canina e norme per la tutela degli animali da affezione e<br />

la prevenzione del randagismo"<br />

(94) In questo senso Marinucci-Dolcini, Manuale, cit., 205; per una diversa impostazione v. Padovani, Diritto penale, cit., 22 e 151 s.,<br />

secondo cui il diritto deve "derivare da una previsione normativa di carattere legislativo ordinario", ovvero da una "legge regionale che sul<br />

punto corrisponde ai principi di una legge statale"<br />

(95) Lo si ricava dalla rubrica della legge in esame, dedicata alla "tutela degli animali da affezione" e alla "prevenzione del randagismo",<br />

nonché dagli insistenti riferimenti fatti dalla legge in esame all'Assessorato alla Sanità (art. 19), area della sanità pubblica veterinaria (art.<br />

12 e 16). È pur vero che la gestione di canili può interferire con la sanità degli umani e con altre materie (es. ordine pubblico), ma si tratta<br />

di profili marginali ed eventuali, mentre il cuore della legge, e dell'art. 13 in particolare, riguarda la tutela della salute di cani e gatti<br />

(96) Cass. Sez. V, 2 marzo 2005, Battaglia, cit<br />

(97) Cfr F. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale. I. Delitti contro la persona, II ed., Padova, 2005, cit., 471 s<br />

(98) La materia della tutela della salute degli animali non rientra tra quelle indicate nello Statuto siciliano quali materie di competenza<br />

esclusiva regionale; tuttavia vale anche per le Regioni a Statuto speciale (art. 10 l. cost. 3/2001) la regola generale statuita dall'art. 117 co.<br />

4, secondo la quale le materie innominate sono di competenza residuale delle Regioni<br />

(99) Per tale accezione dell'art. 14 Cost. e per la sua interpretazione penalistica si rinvia a F. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale, I,<br />

cit., 468 ss<br />

(100) Cfr., con riferimento alla libertà personale, richiamata dall'art. 14 co. 2 Cost., Ruotolo, in Bifulco-Celotto-Olivetti, Commentario<br />

alla Costituzione, Milano, 2006, sub art. 13, 326. Non manca peraltro chi, facendo leva sull'art. 117 co. 2 lett. m), il quale attribuisce allo<br />

Stato la competenza esclusiva nella definizione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, ipotizza che al di<br />

fuori di detti livelli "si espanda la competenza della Regione, a meno che - naturalmente - non si ricada in altra materia di potestà<br />

esclusiva dello Stato stesso": Martines-Ruggeri-Salazar, Lineamenti di diritto regionale, VI ed., Milano, 2002, 155<br />

(101) Sempre non si ritenga che la disposizione siciliana regoli, con legge speciale, "accertamenti e ispezioni per motivi di sanità...",<br />

rientranti nella deroga di cui all'art. 14 co. 3 Cost., per i quali non vale la riserva di giurisdizione: cfr. Della Morte, in Bifulco-Celotto-<br />

Olivetti, Commentario alla Costituzione, cit., sub art. 14, 348<br />

(102) Ciò che invece avrebbe dovuto fare, nel momento in cui mostra di qualificare la modifica dello ius excludendi come un quid interno<br />

241


alla "struttura della norma incriminatrice", come "uno degli elementi costitutivi della condotta punibile", anziché di una causa di<br />

giustificazione<br />

(103) La Regione Lombardia ha sollevato un inusuale conflitto di attribuzioni contro una sentenza della Corte di Cassazione penale (sez.<br />

III, 7 marzo 2001, n. 304, Toma, in Cass. pen., 2002, 757, con nota di Musolino), che a detta della ricorrente avrebbe operato una<br />

inammissile disapplicazione della citata legge regionale; la Corte costituzionale, con ordinanza del 24 luglio 2003, n. 276, in Urbanistica<br />

e appalti, 2003, 1284, con nota di Musolino, ha dichiarato inammissibile il ricorso, poiché la Corte di cassazione si era limitata ad<br />

esercitare le proprie prerogative di interpretazione della legge<br />

(104) 26 gennaio 2003, depositata il 28 gennaio 2004, n. 1956, Selva, in Urbanistica e Appalti, 2004, 978 ss., con commento di Musolino<br />

(105) Ipotesi prevista dall'art. 22 co. 4 d.P.R. n. 380 del 2001<br />

(106) Corte cost. 20 aprile 2005, depositata il 26 giugno 2005 n. 248<br />

(107) Corte Cass., sez. III, 25 gennaio 2006 (dep. 29 marzo 2006), n. 10962<br />

(108) Si vedano per l'applicabilità delle legge regionale le pronunce del Tribunale del Riesame di Sondrio e del Tribunale monocratico di<br />

Sondrio giunte all'esame, rispettivamente, di Cass. sez. III, 7 marzo 2001, Toma, in questa Rivista, 2002, 757, con nota di Musolino e di<br />

Cass. sez. III, ord. 28 gennaio 2004, n. 1956, S., in Urbanistica e Appalti, con nota di Musolino, contra Corte Appello Firenze, 8 maggio<br />

2000, Brivio, in Foro toscano, 2001, 58 con nota Pastacaldi, in relazione ad analoga legge toscana, e Corte di Appello di Milano,<br />

Catalano, su cui Cass. Sez. III, 20 maggio 2002, Catalano, in Cass. pen., 2003, 2411<br />

(109) Cass. Sez. III, 20 maggio 2002, Catalano, in Cass. pen., 2003, 2411<br />

(110) Cass. 9 dicembre 2004, G., n. 4681, in Cass. pen., 2006, 2581; nello stesso senso già Cass. sez. III, 20 febbraio 2002, n. 6814, in<br />

C.E.D. n. 221427<br />

(111) È pur vero che il novellato art. 117 Cost. attribuisce la materia "governo del territorio" alla competenza legislativa concorrente, e la<br />

materia "tutela dell'ambiente" alla competenza esclusiva dello Stato; tuttavia l'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 fa<br />

espressamente salvi i maggiori poteri legislativi già attribuiti alle Regioni a Statuto speciale<br />

(112) Cfr. Martines-Ruggeri-Salazar, Lineamenti di diritto regionale, VI ed., Milano, 2002, 163 s<br />

(113) Corte cost. n. 370/1989, con riferimento ad una legge della Regione Friuli Venezia Giulia che prevedeva l'esonero dell'obbligo di<br />

autorizzazione dell'ammasso temporaneo di rifiuti tossici e nocivi effettuato, nel corso dei cicli produttivi, all'interno degli stabilimenti di<br />

produzione, diversamente da quanto previsto dal d.P.R. n. 915 del 1982, il quale esigeva l'autorizzazione regionale per i casi - ritenuti<br />

identici - di stoccaggio provvisiorio; su tale pronuncia v. Mucciarelli, "Ammasso temporaneo" e "stoccaggio provvisorio" di rifiuti<br />

all'esame della Corte costituzionale: deroga alla legge penale o autonomia di ua fattispecie normativa regionale, in Leg. pen., 1989, 645<br />

ss., il quale critica persuasivamente il presupposto interpretativo della sentenza, e cioè l'asserita coincidenza dell'ammasso temporaneo<br />

con lo stoccaggio provvisorio<br />

(114) Corte cost. n. 234/1995, cit<br />

(115) Corte cost. 5 maggio 2006, n. 182, in www.lexambiente.it<br />

(116) Cass. Sez. Unite 27 marzo 1992, n. 6, Midolku; Cass. Sez. Unite 31 ottobre 2001, n. 30, De Marinis, cit.; Cass. 4 ottobre 2004, n.<br />

38707, Loprieno, in Cass. pen., 2006, 1069 ss., con nota di N. Madia, Necessità dell'autorizzazione paesaggistica per la prosecuzione<br />

dell'attività di coltivazione di cave, cui si rinvia per maggiori approfondimenti<br />

(117) V. Corte cost. n. 487/1989, in Foro it., 1990, I, 26 ss., con nota di Fiandaca<br />

(118) Corte cost. 7 luglio 1986, n. 179, in Foro it., 1987, I, 20<br />

(119) Per tale terminologia v. Bin, Sulle "leggi di reazione", in Le Regioni, 2004, 1374 ss<br />

(120) Sostiene che, nell'ambito della non frazionabilità della titolarità delle scelte concernenti la punibilità, rimesse allo Stato, sia<br />

comunque ammissibile l'integrazione per specificazione di elementi normativi da parte di leggi regionali, Di Martino, Dalla "campana<br />

senza battaglio" al concorso di norme, in questa Rivista, 1992, 1017<br />

(121) Per maggiori approfondimenti sia consentito rinviare a Ruga Riva, Il condono edilizio dopo la sentenza della Corte costituzionale:<br />

più potere alle Regioni in materia penale?, in Dir. pen. e proc., 2004, 1095 ss<br />

(122) Corte cost. 185/2004, cit<br />

(123) Corte cost. n. 196/2004, cit<br />

(124) Per tale impostazione vedi De Franco, La potestà legislativa dello Stato e la potestà legislativa delle Regioni di fronte alla riserva<br />

di legge in "materia" penale, in questa Rivista, 1964, 762<br />

(125) È la tesi avanzata, tra gli altri, da Bricola, Principio di legalità, cit., 274<br />

(126) G. Vassalli, Sulla potestà normativa penale delle regioni, cit., 164, pur dando atto dei "pericoli sempre insiti in previsione di<br />

carattere troppo generale"<br />

(127) Cfr., seppure con terminologia differente, Bricola, Principio di legalità, cit., 273 ss<br />

(128) BverfG, 16 marzo 2004 - 1 BvR 1778/01, in NVwZ 2004, 597, su cui v. il commento di Pestalozza, Hund und Bund im Visier des<br />

Bundesverfassungsgerichts, NJW 2004, 1840 ss.; nella dottrina di lingua italiana v. Buoso, Il primo annullamento di una disposizione<br />

legislativa federale ex art. 72, II c., Grundgesetz, in Le Regioni, 2004, 1225 ss<br />

(129) Sono le condizioni che l'art. 72 co. 2 GG poneva a fondamento dell'intervento legislativo federale in materia penale, qualora<br />

rendessero necessaria una disciplina, appunto, federale. La riforma costituzionale del 2006, come già ricordato, ha comportato il venir<br />

meno della clausola di necessità con riferimento a talune materie, tra le quali il diritto penale, a vantaggio della Federazione<br />

242


Nota a:<br />

Corte Costituzionale , 24/02/2006, n. 70<br />

(1) CORTE COSTITUZIONALE E FALSO IN BILANCIO: UN INSPIEGABILE RITORNO AL PUNTO DI<br />

PARTENZA.<br />

Riv. it. dir. e proc. pen. 2006, 1, 298<br />

Claudia Pecorella<br />

Associato di Diritto penale commerciale nell'Università di Milano-Bicocca<br />

Sommario: 1. Antefatto: i dubbi di legittimità costituzionale sulla riforma del reato di false comunicazioni sociali (artt.<br />

2621 e 2622 c.c.) e la pronuncia della Corte di Giustizia del 3 maggio 2005. _ 2. Segue: la normativa sopravvenuta. Le<br />

(inconsistenti) modifiche apportate alle false comunicazioni sociali con la legge 262/2005 a tutela del risparmio. _ 3. La<br />

pronuncia della Corte costituzionale, alla luce della disciplina sulla successione delle leggi penali vigente. _ 4. Le<br />

aspettative deluse.<br />

1. Antefatto: i dubbi di legittimità costituzionale sulla riforma del reato di false comunicazioni sociali (artt. 2621 e 2622<br />

c.c.) e la pronuncia della Corte di Giustizia del 3 maggio 2005._ Con un esito tanto più deludente quanto sorprendente si è<br />

conclusa (per ora) la vicenda apertasi, sul finire del 2002, con i primi dubbi di legittimità costituzionale sollevati dai giudici<br />

italiani nei confronti della nuova disciplina delle false comunicazioni sociali introdotta, pochi mesi prima, con la riforma dei<br />

reati societari. Una vicenda nella quale si è posto sin da subito un problema di legittimità della nuova normativa non solo<br />

'interno' _ con riguardo per lo più alla ragionevolezza di alcune delle scelte del legislatore del 2002 _ ma anche 'esterno', in<br />

quanto derivante dall'apparente contrasto con obblighi di tutela adeguata assunti a livello comunitario dallo Stato italiano.<br />

Quest'ultimo aspetto, apparso subito come decisivo e forse l'unico che potesse giustificare la rimozione complessiva delle<br />

nuove disposizioni dall'ordinamento, attraverso una pronuncia di illegittimità costituzionale che non si traducesse in<br />

inaccettabili (e comunque controversi) interventi parzialmente demolitori, ha suggerito ad alcuni giudici di adire<br />

pregiudizialmente la Corte di Giustizia delle Comunità Europee, affinché eliminasse ogni dubbio sull'interpretazione di un<br />

articolo (l'art. 6) della I Direttiva 68/151/CEE, dal quale più direttamente sembrava derivare l'illegittimità comunitaria della<br />

disciplina in esame(1).<br />

Dopo circa due anni e mezzo, il 3 maggio 2005 la Grande Sezione della Corte di Giustizia si è finalmente pronunciata<br />

sull'argomento, lasciando insoddisfatti quanti speravano in una chiara affermazione di illegittimità della normativa italiana o<br />

magari, sulla scia di quanto affermato dall'Avvocato generale Kokott(2), in un invito ai giudici italiani a disapplicare<br />

direttamente quella normativa e a far rivivere quella previgente, illegittimamente sostituita dal d.lgs. 61/2002(3). La Corte di<br />

Giustizia, infatti, evita di pronunciarsi sul contrasto della normativa italiana con gli obblighi comunitari di tutela,<br />

richiamando inopinatamente l'attenzione sul principio dell'applicazione retroattiva della pena più mite, in quanto principio<br />

''che fa parte delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri'' (su questo aspetto, v.infra), ma tuttavia fornisce<br />

risposta al quesito fondamentale, che le era stato posto: riconosce, infatti, che l'obbligo, imposto dall'art. 6 della I Direttiva<br />

sul diritto societario, di prevedere sanzioni adeguate (da intendersi, secondo la stessa giurisprudenza della Corte, come<br />

sanzioni effettive, proporzionate e dissausive) va riferito anche alle ipotesi di falsità in scritture contabili, e non solo a quella<br />

(meno grave, perché meno inisidiosa) di mancata pubblicità del bilancio. Una precisazione importante, che conferma<br />

l'interpretazione delle norme comunitarie accolta dai giudici italiani come premessa delle questioni di legittimità<br />

costituzionale sollevate e sulla cui base avrebbe dovuto pronunciarsi la Corte costituzionale che, dopo aver riunito diversi<br />

giudizi di costituzionalità degli artt. 2621 e 2622 c.c. per violazione dell'art. 6 della I Direttiva, ne aveva disposto il rinvio a<br />

nuovo ruolo in attesa della decisione della Corte di Giustizia(4).<br />

Le cose invece sono andate diversamente: nelle more della decisione della Corte costituzionale, infatti, il legislatore italiano<br />

ha frettolosamente introdotto alcune modifiche legislative che, benché ininfluenti ai fini della decisione _ come si spiegherà<br />

in seguito _ e semmai, per certi aspetti, foriere di ulteriori conferme della inadeguatezza della disciplina sulle false<br />

comunicazioni sociali introdotta nel 2002, hanno indotto la Consulta a restituire gli atti ai giudicia quibus, affinché<br />

verifichino ''se ... le questioni sollevate restino o meno rilevanti alla luce delius superveniens''. Conviene quindi soffermarsi<br />

brevemente su queste novità legislative, prima di considerare più da vicino l'ordinanza del 20 febbraio 2006 n. 70 con la<br />

quale la Corte costituzionale si è di fatto sottratta al sindacato sulla riforma delle false comunicazioni sociali.<br />

2. Segue: la normativa sopravvenuta. Le (inconsistenti) modifiche apportate alle false comunicazioni sociali con la legge<br />

262/2005 a tutela del risparmio._ Come è noto, il 28 dicembre 2005 è stata definitivamente approvata la legge a tutela del<br />

risparmio, con la quale si è, tra l'altro, realizzata una sorta di parziale 'controriforma' dei reati societari attuata con il d.lgs.<br />

61/2002, pervenendo in certi casi a ribaltare completamente le scelte (evidentemente irragionevoli) di parziale o totale<br />

abbandono della sanzione penale (è il caso del falso in prospetto e del mendacio bancario), e in altri casi ad un innalzamento<br />

243


delle sanzioni inizialmente previste (è il caso dei reati di impedito controllo, di infedeltà a seguito di dazione o promessa di<br />

utilità e di ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza)(5).<br />

Per quanto riguarda, in particolare, le false comunicazioni sociali, benché sia da parte dell'opposizione che, da ultimo, delle<br />

forze di maggioranza, si sia prospettata l'opportunità di un ritorno al passato _ attraverso soprattutto l'eliminazione delle<br />

soglie rigide, la soppressione della fattispecie di danno e il ripristino della originaria sanzione della reclusione da uno a<br />

cinque anni -(6), la soluzione che ha finito con il prevalere è stata quella di mantenere pressoché invariata la disciplina<br />

introdotta nel 2002, con piccoli aggiustamenti di facciata. Esemplare, in questo senso, l'aumento del massimo della pena<br />

dell'arresto, prevista dall'art. 2621 c.c., dai precedenti 18 mesi agli attuali 24 mesi; così come l'introduzione, nell'ambito<br />

dell'art. 2622 c.c. e quindi del reato di false comunicazioni sociali in danno di soci e creditori (adesso anche della società<br />

stessa), di una nuova figura di reato, realizzabile solo nelle società quotate ai sensi del terzo comma dello stesso art. 2622<br />

c.c., e destinata ad operare nella rarissima e comunque difficilmente dimostrabile ipotesi in cui la falsità abbia cagionato ''un<br />

grave nocumento ai risparmiatori'', avendone coinvolto un numero ''superiore allo 0,1 per mille della popolazione risultante<br />

dall'ultimo censimento ISTAT'', o avendo comportato la ''distruzione o riduzione del valore di titoli di entità complessiva<br />

superiore allo 0,1 per mille del prodotto interno lordo''(7).<br />

Più significativa, ma solo in apparenza, risulta la previsione di sanzioni amministrative, pecuniarie e interdittive, per le<br />

ipotesi nelle quali le false comunicazioni sociali, con o senza danno per soci e creditori, non siano punibili perché realizzano<br />

una alterazione della rappresentazione della situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società o del gruppo che<br />

non risulta rilevante alla stregua delle diverse soglie indicate dal legislatore (il concreto operare delle quali è peraltro<br />

rimasto oscuro). Orbene, per queste ipotesi _ che come si è già ricordato il legislatore della riforma ha voluto all'ultimo<br />

minuto mantenere al di fuori dell'area di rilevanza penale _ si è prevista innanzitutto l'inflizione di una sanzione<br />

amministrativa ''da dieci a cento quote'', delle quali però non si è previsto l'ammontare. Dovendosi escludere la riferibilità a<br />

questa sanzione dei limiti minimi e massimi di ciascuna quota indicati nell'art. 10 del d.lgs. 231/2001, avente ad oggetto<br />

sanzioni pecuniarie amministrative che, per quanto commisurate secondo lo stesso sistema delle quote, sono collegate alla<br />

commissione di un reato e soprattutto sono destinate ad essere applicate a degli enti (in primisalle società commerciali) e<br />

non a delle persone fisiche, come nel caso degli artt. 2621 e 2622 c.c., non resta che rilevare l'illegittimità costituzionale<br />

della previsione in esame per contrasto con l'art. 23 Cost. che, nel disporre che ''nessuna prestazione personale o<br />

patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge'', impone conseguentemente un ''generale obbligo costituzionale di<br />

determinatezza'', con riguardo sia alla fattispecie sanzionatoria che alla sanzione, ''funzionale alla 'realizzazione pratica'<br />

dellaratiodi certezza''(8) connaturata alla riserva di legge introdotta in materia di sanzioni pecuniarie (e più in generale di<br />

ogni misura direttamente incisiva sul patrimonio individuale)(9).<br />

Dubbi di legittimità costituzionale solleva anche la previsione della sanzione della interdizione temporanea (da 6 mesi a 3<br />

anni) dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, che accompagna la sanzione pecuniaria e dalla quale<br />

soprattutto ci si potrebbe attendere una reale funzione deterrente. A parte le perplessità che solleva la mancata indicazione di<br />

quale sia l'Autorità competente ad applicare questa sanzione (così come la sanzione amministrativa pecuniaria), nulla<br />

avendo detto il legislatore al riguardo(10), la previsione in esame appare del tutto irragionevole alla luce della disciplina<br />

complessiva delle false comunicazioni sociali nella quale si inserisce. Si introduce infatti una sanzione così seria _ in quanto<br />

priva temporaneamente un soggetto della capacità di esercitare gli uffici direttivi o di rappresentanza delle persone<br />

giuridiche e delle imprese _ e destinata ad avere un alto grado di effettività, per le ipotesi ritenute neppure meritevoli di<br />

sanzione penale, a fronte della previsione di sanzioni penali inadeguate e destinate immancabilmente ad un alto tasso di<br />

ineffettività per le ipotesi contraddistinte invece da una marcata offensività per gli interessi coinvolti(11).<br />

In conclusione, ci sembra di poter dire che, almeno in materia di false comunicazioni sociali, l'intervento del legislatore del<br />

2005 è stato pressoché inesistente sul piano della tutela degli interessi in gioco: non è tuttavia questa constatazione che<br />

induce ad essere critici sulla recente pronuncia della Corte costituzionale, per le novità sostanziali che ha ritenuto di poter<br />

ravvisare nella 'controriforma' delle false comunicazioni sociali. La critica nasce piuttosto dalla considerazione che nessuna<br />

rilevanza avrebbero dovuto assumere, nel giudizio della Corte, tutte queste (presunte) novità, stante la disciplina sulla<br />

successione delle leggi penali vigente nel nostro ordinamento.<br />

3. La pronuncia della Corte costituzionale, alla luce della disciplina sulla successione delle leggi penali vigente._ Veniamo<br />

dunque al nocciolo della questione: la Corte costituzionale, con l'ordinanza n. 70 del 20 febbraio 2006, restituisce gli atti ai<br />

giudicia quibusper una valutazione da parte loro della persistente rilevanza dei dubbi di legittimità costituzionale sollevati<br />

nei confronti della disciplina delle false comunicazioni sociali introdotta nel 2002, alla luce delle modifiche introdotte con la<br />

legge sulla tutela del risparmio _ sulle quali ci siamo appena soffermati _ e ''anche alla luce dei principi in tema di<br />

successione delle leggi penali (discutendosi, nei giudizi principali, di fatti commessi sotto il vigore dell'originaria disciplina<br />

di cui all'art. 2621, numero 1, cod. civ. e, dunque, in epoca anteriore ad entrambi gli interventi novativi succedutisi nel<br />

tempo)''. Una decisione che non solleverebbe grosse perplessità _ anzi sarebbe forse doverosa _ se nei giudizia<br />

quibuspotesse essere applicata la nuova disciplina introdotta nel 2005, in quanto più favorevole rispetto a quella vigente al<br />

momento in cui i fatti oggetto di giudizio sono stati commessi: in questa prospettiva ben si comprenderebbe la richiesta<br />

della Corte di un 'aggiornamento' alla stregua dellojus superveniensdel giudizio di inadeguatezza della tutela apprestata ai<br />

244


creditori e ai terzi nei confronti delle false comunicazioni sociali, anche se, come si è visto, l'esito di questo nuovo giudizio<br />

difficilmente potrebbe essere diverso dal precedente.<br />

Ma le cose stanno diversamente: proprio in virtù della disciplina sulla successione delle leggi penali nel tempo prevista<br />

dall'art. 2 c.p. e sulla quale la Corte richiama l'attenzione dei giudicia quibus, la nuova normativa non solo non potrà<br />

applicarsi, come è giusto che sia, ai fatti commessi dopo l'entrata in vigore della riforma del 2002, in quanto introduce un<br />

trattamento più severo (anche se solo in apparenza) ed essendo sancito il divieto di retroattività per le sanzioni<br />

amministrative dall'art. 1 della l. 689/1981, non oggetto di alcuna deroga espressa, ma neppure verrà in considerazione<br />

rispetto ai fatti commessi sotto il vigore della originaria disciplina contenuta nel codice civile, perché a quei fatti dovrà<br />

comunque applicarsi la normativa più favorevole introdotta nel 2002 ed oggetto dei dubbi di legittimità sui quali la Corte<br />

era chiamata a pronunciarsi(12). È questa infatti la regola accolta dal legislatore italiano nel disciplinare gli effetti retroattivi<br />

di modifiche normative favorevoli al reo, sia che si tratti diabolitio criminissia che si tratti di una mera mitigazione del<br />

trattamento sanzionatorio: tra le diverse leggi eventualmente succedutesi dopo la commissione del fatto deve essere<br />

applicata quella che risulti più favorevole al reo, ancorché non più in vigore al momento del giudizio (ivi compresa, quindi,<br />

la c.d. legge intermedia)(13). In ossequio a questa regola, che dalla legge del 2005 non risulta esser stata derogata, ai fatti di<br />

false comunicazioni sociali commessi sotto il vigore della previsione originaria dell'art. 2621 c.c. continuerà pertanto ad<br />

essere applicabile la normativa più favorevole introdotta nel 2002, in quanto legge intermedia, nonostante nelle more del<br />

giudizio sia sopravvenuta una disciplina, ugualmente favorevole rispetto a quella del tempo del commesso del reato, ma non<br />

così favorevole come quella del 2002. Non si comprende, quindi, quale nuova valutazione della rilevanza delle questioni di<br />

legittimità costituzionale già sollevate i giudicia quibussiano chiamati a svolgere: la normativa da applicare rimane la stessa,<br />

e rispetto ad essa non possono che permanere tutti i dubbi sul potenziale contrasto con i principi costituzionali a suo tempo<br />

invocati; non ci si può che attendere (e augurarsi) che le questioni di legittimità costituzionale siano ripresentate, negli stessi<br />

termini nei quali sono state inizialmente sollevate(14). È del resto solo la Corte costituzionale che può, con una pronuncia di<br />

accoglimento, rimuovere dall'ordinamento la normativa 'intermedia' introdotta nel 2002, rendendo così applicabile nei<br />

giudizi in corso la più recente disciplina delle false comunicazioni sociali, ove ritenuta in concreto più favorevole per il reo<br />

rispetto a quella contenuta nell'originario art. 2621 n.1 c.c.: ed anche per questo motivo appare tanto più criticabile la<br />

diversa soluzione cui è pervenuta la Corte, abdicando al suo ruolo fondamentale di garante della legittimità delle scelte del<br />

legislatore, che in questo caso si traduce anche nel rispetto del carattere oggettivo che le leggi, e le leggi penali in<br />

particolare, devono avere(15).<br />

Su un diverso piano si colloca poi ogni considerazione critica nei confronti dell'esistenza nell'ordinamento di una regola<br />

come quella della applicabilità incondizionata della legge intermedia più favorevole al reo: le perplessità suscitate da questa<br />

regola, presente, come si è detto, nell'attuale disciplina in tema di successione delle leggi penali nel tempo dettata dall'art. 2<br />

c.p., ricevono conferma proprio dalle vicende normative che hanno interessato la repressione delle false comunicazioni<br />

sociali, laddove il ripensamento del legislatore _ nel nostro caso in verità più simbolico che reale _ non potrebbe riparare ai<br />

guasti realizzati da precedenti irrazionali e opportunistiche scelte di abbandono del diritto penale, nella forma o nella<br />

sostanza, se non attraverso una espressa deroga del legislatore. Si tratta tuttavia di considerazioni che vanno rivolte al futuro<br />

legislatore penale, non essendo compito della Corte costituzionale quello di valutare l'opportunità, sul piano politicocriminale,<br />

del mantenimento della regola della applicazione della legge intermedia favorevole: dell'esistenza di tale regola<br />

essa doveva tuttavia tener conto nel caso sottoposto al suo esame, perché proprio per effetto di quella regola nessuna<br />

rilevanza possono assumere, nei procedimenti pendenti davanti ai giudicia quibus, quelle potenzialità 'risanatrici' che la<br />

Corte stessa sembra riscontrare nella nuova normativa, rispetto alle questioni di legittimità costituzionale sollevate e<br />

ritenute, apparentemente, non del tutto infondate.<br />

4. Le aspettative deluse. _ Se dunque nessuna diretta incidenza la Corte poteva attribuire alla 'controriforma' della disciplina<br />

sulle false comunicazioni sociali attuata con la legge 262/2005 nell'ambito del giudizio di legittimità costituzionale del quale<br />

era stata investita _ sì che sotto questo profilo la pronuncia in esame appare sorprendente -, un ruolo decisivo sembrava<br />

dovesse esser destinato a svolgere, ai fini dell'accoglimento o meno delle questioni sollevate, la questione relativa al<br />

sindacato della Corte su norme penali che prevedono un trattamento più favorevole per il reo rispetto a quello che sarebbe<br />

altrimenti applicabile ove esse fossero dichiarate incostituzionali (e che con espressione fuorviante vengono indicate come<br />

'norme penali di favore'(16)). Una questione che proprio i dubbi di legittimità costituzionale sulla normativa in materie di<br />

false comunicazioni sociali introdotta con il d.lgs. 61/2002 ha riportato al centro dell'attenzione, trattandosi di una<br />

normativa che ha comportato sia un restringimento dell'ambito del penalmente rilevante (con conseguenteabolitio<br />

criminisdei fatti non più punibili), sia una generalizzata mitigazione del trattamento sanzionatorio dei fatti rimasti nella sfera<br />

dell'illecito penale.<br />

Diversamente da quanto incidentalmente affermato dalla Corte di Giustizia nella sentenza del maggio 2005 prima<br />

richiamata, le perplessità che suscita il sindacato di costituzionalità su norme di questo tipo non risiedono tanto nel principio<br />

di retroattività della legge più favorevole quanto piuttosto nella riserva di legge in materia penale sancita dall'art. 25 comma<br />

2 della Costituzione: la distinzione tra questi due aspetti è estremamente importante perché, come ha chiarito una celebre<br />

sentenza della Corte costituzionale del 1983, la rilevanza di una questione di legittimità costituzionale su una norma penale<br />

245


di contenuto favorevole al reo sussiste indipendentemente dalla circostanza che il giudice sia poi tenuto ad applicare la<br />

norma eventualmente dichiarata incostituzionale nella decisione del caso concreto; la norma penale riconosciuta<br />

incostituzionale deve essere comunque eliminata dal sistema, se ancora in grado di produrre effetti(17).<br />

Ciò premesso, si rende comunque necessaria qualche precisazione sul punto: nel caso deciso dalla Corte costituzionale nel<br />

1983, l'applicazione della norma dal contenuto più favorevole si imponeva comunque al giudicea quoin ossequio al<br />

principio di irretroattività della norma penale, sancito a livello costituzionale, e che sarebbe stato violato ove ai fatti oggetto<br />

di giudizio non si fosse applicata quella particolare causa di non punibilità, sulla cui conformità a Costituzione la Corte era<br />

stata chiamata ad esprimersi. Diverso appare il caso in cui la legge più favorevole, sottoposta al sindacato di costituzionalità,<br />

sia da applicare a fatti commessi anteriormente alla sua entrata in vigore: in questo caso nessun ostacolo alla applicazione<br />

della normativa precedente più severa frappone il principio di irretroattività delle norme penali, posto che ciò che si<br />

garantisce al cittadino attraverso quel principio è l'applicazione di una sanzione che non potrà mai essere più grave di quella<br />

contemplata dalla legge in vigore al momento del fatto. Né può porsi un problema alla luce del diverso principio della<br />

retroattività della legge successiva favorevole, non essendo questo un principio di rango costituzionale nel nostro<br />

ordinamento, se non nella misura in cui il suo rispetto risponde ad esigenze di uguaglianza rilevanti ai sensi dell'art. 3 Cost.:<br />

esigenze che possono essere sacrificate in presenza di ragionevoli motivi (e di ciò vi sono diversi esempi nel nostro<br />

ordinamento), tra i quali sicuramente la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma favorevole, in forza della<br />

quale ''la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione'' (art. 136 Cost.).<br />

In conclusione, nessun ostacolo poteva incontrare sotto questo profilo la Corte costituzionale, ove avesse deciso di<br />

dichiarare l'illegittimità della disciplina sulle false comunicazioni sociali introdotta nel 2002, sia perché i fatti oggetto dei<br />

giudizia quibuserano stati commessi anteriormente alla sua entrata in vigore, sia perché, più in generale, il rispetto del<br />

principio di irretroattività _ così come di quello di retroattività della norma più favorevole, ove anche lo si intenda<br />

costituzionalizzato(18) _ è compito del giudice, nella decisione del singolo caso concreto, e non pregiudica in partenza<br />

l'ammissibilità delle questioni di legittimità sollevate.<br />

Diverso, apparentemente, sarebbe il rilievo che assumerebbe la riserva di legge in materia penale in relazione al sindacato<br />

della Corte costituzionale su norme penali che prevedono una disciplina più favorevole al reo rispetto ad altre norme penali<br />

che diventerebbero applicabili in conseguenza della dichiarazione di incostituzionalità: la circostanza che l'effetto della<br />

pronuncia della Corte sia ad esempio l'inasprimento del trattamento sanzionatorio o addirittura la riespansione dell'area di<br />

illiceità penale del fatto, prima compressa dalla norma incostituzionale, induce gran parte della dottrina e (forse di riflesso)<br />

la stessa Corte costituzionale a ritenere precluso in partenza tale sindacato, perché si tradurrebbe in una indebita violazione<br />

del potere esclusivo del Parlamento di legiferare in materia penale, e quindi di definire l'ane ilquantumdella punibilità.<br />

Si tratta, tuttavia, di una conclusione non solo difficilmente accettabile sul piano istituzionale, perché porta a ridurre<br />

sensibilmente il campo d'azione di un organo di garanzia fondamentale come la Corte costituzionale, sottraendo di fatto al<br />

suo sindacato tutte le leggi penali che introducono un trattamento meno severo di quello precedentemente previsto _ e<br />

sganciando quindi il legislatore penale dall'obbligo di rispettare la Costituzione tutte le volte in cui si proponga di mitigare o<br />

ridurre l'intervento penale anziché di ampliarlo o di inasprirlo -, ma che soprattutto sembra frutto di un equivoco, in quanto<br />

attribuisce al potere della Corte quello che è in realtà un effetto dell'operare dei principi generali dell'ordinamento. La Corte<br />

si limita infatti a rimuovere la norma ritenuta incostituzionale, secondo quella che è la sua funzione tipica; altre norme<br />

penali eventualmente già esistenti nell'ordinamento _ e frutto delle scelte del legislatore _ torneranno ad essere applicabili al<br />

caso disciplinato dalla norma illegittima, in quanto non più paralizzate nella loro operatività o da una deroga<br />

(illegittimamente) introdotta o da una (illegittima) abrogazione. E ciò si verifica sia nel caso in cui l'applicazione di tali<br />

norme conduca ad esiti favorevoli sia che invece comporti risultati sfavorevoli per il reo: la regola è sempre la stessa e non<br />

si comprende perché dovrebbe essere diversa per le due ipotesi, dal momento che in nessun caso vi è una ingerenza della<br />

Corte nelle prerogative del Parlamento. Niente impedisce del resto al legislatore di legiferare nuovamente in materia,<br />

introducendo deroghe o abrogazioni rispettose dei principi costituzionali: il principio di retroattività delle legge successiva<br />

più favorevole consentirà di rendere operative, con effetti anche per il passato, quelle valutazioni di politica criminale sulla<br />

cui base erano state 'maldestramente' introdotte nell'ordinamento delle disposizioni incostituzionali.<br />

È su questo aspetto in definitiva che ci si aspettava una presa di posizione della Corte costituzionale, dopo che la Corte di<br />

Giustizia aveva rimosso ogni dubbio sull'esistenza di profili di illegittimità comunitaria nella disciplina delle false<br />

comunicazioni sociali introdotta dal legislatore nel 2002 (e quindi nella disposizione del d.lgs. 61/2002 con la quale si è<br />

abrogato l'art. 2621 n. 1 per sostituirlo _ illegittimamente _ con i nuovi artt. 2621 e 2622 c.c.).<br />

NOTE<br />

(1) Per un quadro delle diverse questioni di legittimità inizialmente sollevate nei confronti della nuova disciplina delle false<br />

comunicazioni sociali introdotta con il d.lgs. 61/2002, cfr. Corte d'appello di Lecce, 7 ottobre 2002, Tribunale di Milano sez. I, 26 ottobre<br />

2002, Tibunale di Milano sez. IV, 29 ottobre 2002, Tribunale di Milano sez. II, 5 novembre 2002, pubblicate inLe Società, 2003, 732 ss.<br />

con nota di C. Pecorella; l'ordinanza della Corte d'appello di Lecce è pubblicata anche inCass. pen., 2003, 1316 ss. con nota di V. Manes<br />

246


(2) Il testo delle conclusioni dell'Avvocato generale Kokott e della sentenza della Corte di Giustizia è consultabile sul sito della Corte di<br />

Giustizia (www.curia.eu.int) oppure su quello dell'Università di Ferrara (www.unife.it/amicuscuriae)<br />

(3) Si trattava in realtà di due esiti poco probabili del giudizio della Corte, sia perché non rientrava tra i suoi compiti quello di dichiarare<br />

l'illegittimità della normativa italiana, sia perché la direttiva che si presumeva violata era sprovvista di effetti diretti e la sua applicazione,<br />

nel caso concreto, avrebbe per di più comportato un aggravamento della responsabilità penale degli imputati dei procedimenti pendenti,<br />

rendendo nuovamente applicabile la più severa disciplina prevista nell'originario art. 2621 n. 1 c.c., sotto il cui vigore i fatti erano stati<br />

commessi<br />

(4) Cfr. Corte cost. 26 maggio-1° giugno 2004, n. 165 (ord.), inDir. pen. proc., 2004, 1503; le tre ordinanze del Tribunale di Palermo, con<br />

le quali i giudici hanno deciso di investire direttamente la Corte costituzionale delle questioni di illegittimità degli artt. 2621 e 2622 c.c., e<br />

in relazione alle quali poi la Corte ha disposto il rinvio a nuovo ruolo, in attesa della pronuncia della Corte di Giustizia, sono disponibili<br />

sul sito dell'Università di Ferrara (retro, nota 2)<br />

(5) Cfr. gli artt. 33 e 34 della legge 28 dicembre 2005 n. 262; quanto agli aumenti di pena, consistenti nel raddoppio automatico di quelle<br />

previste in precedenza con la riforma del 2002, si veda il 2° comma dell'art. 39 della legge citata<br />

(6) Cfr. l'emendamento 29.4 dei relatori Eufemi (UDC) e Semeraro (AN), illustrato nella Seduta pom. n. 23 del 15 giugno 2005 alle<br />

Commissioni riunite 6a e 10a del Senato e poi approvato nella Seduta nott. n. 32 del 6 luglio 2005 dalle Commissioni stesse<br />

(7) In questo senso le considerazioni di G. Marinucci-C. E. Paliero,Tutela del risparmio: soluzioni a metà sul nuovo assetto dei reati<br />

societari, inGuida dir., 2005, n. 11, p. 14; critiche nei confronti della analoga previsione introdotta originariamente nell'art. 44 del d.d.l. n.<br />

4705, con il quale si intendeva inserire una nuova figura di reato tra i Delitti contro l'economia pubblica, erano già state manifestate da S.<br />

Seminara,Considerazioni penalistiche sul disegno di legge in tema di tutela del risparmio, inDir. pen. proc., 2004, 503 ss<br />

(8) Così C. E. Paliero-A. Travi,La sanzione amministrativa. Profili sistematici, Milano, 1988, p. 139 s<br />

(9) Né ad evitare questa conclusione può servire il richiamo all'art. 10 della l. 689/1981 che, per i casi nei quali la legge non disponga<br />

diversamente, fissa il limite massimo della sanzione amministrativa pecuniaria nel ''decuplo del minimo'' previsto in generale per tale<br />

sanzione, e che ammonta a 6 euro in base a quanto disposto dal primo comma dello stesso articolo. A parte il carattere irrisorio che<br />

avrebbe, rispetto ai fatti integranti illecito amministrativo ai sensi degli artt. 2621 e 2622 c.c., una sanzione non superiore nel massimo a<br />

60 euro, per la quale per di più sarebbe possibile il pagamento in misura ridotta (pari alla terza parte del massimo) secondo quanto<br />

disposto dall'art. 16 della legge 689/1981, l'impossibilità di ritenere operante quella disposizione nasce dalla scelta del legislatore di<br />

prevedere una sanzione pecuniaria commisurata per quote anziché secondo il modello tradizionale _ al quale faceva riferimento il<br />

legislatore del 1981 _ della somma complessiva: ritenere che la sanzione pecuniaria non possa complessivamente superare i 60 euro per<br />

ogni violazione significherebbe infatti privare di ogni significato la precisa indicazione del legislatore per il sistema delle quote, attraverso<br />

un'interpretazionecontra ius<br />

(10) Di questo aspetto si è invece fatto carico il legislatore in altre disposizioni della medesima legge (cfr. in particolare gli artt. 9 e 12<br />

della l. 262/2005), nelle quali ha previsto l'introduzione _rectius, ha delegato il Governo alla introduzione _ di sanzioni amministrative<br />

pecuniarie e accessorie per i casi, rispettivamente, di violazioni della disciplina (anch'essa oggetto di delega) sui conflitti di interesse nella<br />

gestione dei patrimoni di organismi d'investimento collettivo del risparmio, dei prodotti assicurativi e di previdenza complementare e<br />

nella gestione di portafogli su base individuale, nonché di violazione della normativa interna e comunitaria in tema di prospetto<br />

(11) Non sembra del resto che a questa ingiustificata disparità di trattamento potrà porsi rimedio con l'introduzione di corrispondenti<br />

sanzioni interdittive, accessorie alle sanzioni penali attualmente previste, secondo quanto disposto nella delega contenuta nell'art. 40 della<br />

l. 262/2005: lo squilibrio tra illecito penale e illecito amministrativo, nell'ambito dell'art. 2621 c.c., deriva non tanto dall'entità della pena<br />

dell'arresto comminata, quanto dal fatto che essa appare destinata a non essere pressoché mai applicata, per la brevità dei termini di<br />

prescrizione della contravvenzione; la stessa sorte, evidentemente, toccherà alla eventuale pena accessoria che il Governo deciderà di<br />

introdurre esercitando la delega conferitagli<br />

(12) La situazione quindi non era sostanzialmente diversa da quella considerata pochi mesi prima dalla stessa Corte costituzionale nella<br />

sentenza 466/2005: in quel caso, infatti, la Corte, preso atto del mutamento del quadro normativo (in materia di immigrazione), alla luce<br />

del quale sembrerebbero superati i dubbi di legittimità costituzionale portati alla sua attenzione, precisa che ''tali modifiche tuttavia non<br />

impongo la restituzione degli atti al giudice remittente in quanto, comportando un aggravamento della posizione dell'imputato ... esse non<br />

sono applicabili al processoa quo, ai sensi dell'art. 2, terzo comma, del codice penale''; procede quindi all'esame della questione sollevata,<br />

con riguardo alla disposizione vigente al momento del fatto, e ne dichiara l'illegittimità costituzionale. Cfr. Corte cost. 14 dicembre 2005<br />

n. 466, consultabile sul sito della Corte (www.cortecostituzionale.it); per una vicenda analoga, nella quale pure la Corte ha coerentemente<br />

escluso la necessità di restituire gli atti al giudicea quo, cfr., Corte cost. 19-31 dicembre 1986 n. 297, in questaRivista, 1986, 1319 ss. con<br />

nota di M. Romano<br />

(13) Sulle origini di questa regola, affermatasi inizialmente nella giurisprudenza di diversi paesi europei e oggi positivizzata in molti<br />

ordinamenti, tra i quali quello italiano, cfr. C. Pecorella,Legge intermedia: aspetti problematici e prospettivede lege ferenda, inStudi in<br />

onore di Giorgio Marinucci, a cura di E. Dolcini e C. E. Paliero, vol. 1, Milano, 2006, p. 611 ss<br />

(14) Con l'unica eccezione che non sarebbe più necessario incentrare i dubbi di legittimità costituzionale nella clausola di abrogazione<br />

dell'originario art. 2621 n. 1 c.c. e nella conseguente sua sostituzione con gli artt. 2621 e 2622 c.c., essendo intervenuta una nuova legge a<br />

disciplinare la materia: non si pone più, cioè, un problema di necessaria reviviscenza della vecchia disposizione del codice civile, per<br />

sopperire al vuoto normativo altrimenti determinato dalla eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale degli artt. 2621 e 2622<br />

c.c., rimanendo comunque i fatti di false comunicazioni sociali disciplinati dalla legge del dicembre 2005<br />

(15) Cfr. in proposito C. Pecorella,Legge intermediacit., p. 641 ss<br />

(16) L'inaccettabilità di una delimitazione del sindacato della Corte _ produttivo 'indirettamente' di effettiin malam partem_ alle sole<br />

norme penali 'di favore', in quanto norme che, convivendo nell'ordinamento con la norma cui apportano una deroga, confermerebbero<br />

anziché smentire la valutazione politico-criminale sottesa alla norma sfavorevole derogata (in questo senso, ad es. F. Giunta,La vicenda<br />

delle false comunicazioni sociali. Dalla selezione degli obiettivi di tutela alla cornice degli interessi in gioco, inRiv. trim. dir. pen. ec.,<br />

2003, 663 s.), ci sembra che si possa cogliere molto bene proprio in riferimento alla legge intermedia, la cui dichiarazione di illegittimità<br />

247


costituzionale (produttiva di effetti 'indiretti' inevitabilmentein malam partem) porta alla applicazione _ anziché al rovesciamento _ delle<br />

scelte di politica-criminale effettuate dal legislatore con l'abrogazione di quella norma e la sua sostituzione con altra dal contenuto meno<br />

favorevole<br />

(17) Cfr. Corte cost. 3 giugno 1983 n. 148, inForo it., 1983, I, 1800 ss. con nota di D. Pulitanò<br />

(18) Il riferimento è al rango costituzionale che sembra attribuito dalla Corte di Giustizia al principio in esame, in quanto principio che ''fa<br />

parte delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri'' e quindi da considerare ''parte integrante dei principi generali del diritto<br />

comunitario che il giudice nazionale deve osservare quando applica il diritto nazionale adottato per attuare l'ordinamento comunitario'': la<br />

rilevanza di questa affermazione risulta peraltro mitigata dalla stessa Corte allorquando, coerentemente con le premesse, precisa che ''si<br />

pone tuttavia la questione se il principio dell'applicazione retroattiva della pena più mite si applichi qualora questa sia contraria ad altre<br />

norme di diritto comunitario''. Resta dunque aperto il problema del possibile bilanciamento di tale principio con altri principi, come ad<br />

esempio quello di preminenza del diritto comunitario, sì che la questione ci sembra nella sostanza non dissimile da quella che già oggi si<br />

pone nel nostro ordinamento, in presenza di una norma più favorevole che sia dichiarata viziata da illegittimità costituzionale. Va<br />

comunque evidenziato come il problema della eventuale 'violazione' del principio di retroattività, che poteva derivare _ nella prospettiva<br />

della Corte di Giustizia _ dal riconoscimento della illegittimità della disciplina penale-societaria del 2002, non si poneva più negli stessi<br />

termini alla Corte costituzionale, essendo quella normativa diventata 'legge intermedia', rispetto alla quale molto meno pregnanti (e<br />

talvolta forse neppure presenti) sono quelle esigenze di uguaglianza che giustificano l'applicazione retroattiva della legge più favorevole.<br />

Su questo aspetto, cfr. C. Pecorella,Legge intermediacit., p. 629 ss<br />

248


Nota a:<br />

Corte giustizia CE , 03/05/2005, n. 387<br />

LA SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA SUL «FALSO IN BILANCIO»: UN EPILOGO DELUDENTE?<br />

Cass. pen. 2005, 9, 2768<br />

Gaetano Insolera,<br />

Vittorio Manes<br />

Ordinario di Diritto penale Università di Bologna<br />

1. Con la sentenza in commento, la Corte di Giustizia si è finalmente pronunciata sulle ordinanze di rinvio pregiudiziale<br />

(art. 234 Trattato Ce) dei giudici della Corte d'Appello di Lecce (3) e del Tribunale di Milano (4) in merito alla questione<br />

della c.d. «illegittimità comunitaria» delle nuove fattispecie di false comunicazioni sociali (artt. 2621-2622 c.c., introdotte<br />

con il d.lg. n. 61/02).<br />

La problematica «di diritto», in realtà, ha finito con l'esondare di molto il tema giuridico sotteso al «fatto» per cui, nei<br />

diversi contesti, si procede: il discutibile regime del nuovo falso in bilancio, contestato da una dottrina quasi unanime, ha<br />

costituito solo lo spunto per una questione molto più complessa, concernente lo stesso rapporto tra diritto comunitario e<br />

diritto penale, ed arricchita via via da opinioni e contributi approfonditi e diversificati (5).<br />

Sono note le doglianze dei giudici italiani, concentrate su taluni profili di ritenuto contrasto del nuovo falso societario con<br />

diverse direttive comunitarie (la I, la IV e la VII direttiva in materia di società) (6), secondo cadenze che qui è opportuno<br />

riassumere solo in estrema sintesi: il meccanismo di non punibilità per le falsificazioni «esigue», tramite un peculiare ed<br />

inedito sistema di soglie percentuali «di tolleranza» (7); il regime di procedibilità «privilegiato» previsto per l'ipotesi di<br />

«False comunicazioni sociali in danno dei soci o dei creditori» (art. 2622), vincolato alla «querela della persona offesa»<br />

(qualora la falsità sia realizzata nel contesto di una società non quotata) (8); infine, la tendenziale inadeguatezza della tutela<br />

penale, specie in relazione all'ipotesi contravvenzionale (art. 2621), condizionata da termini di prescrizione talmente brevi<br />

che, a fronte della complessità di accertamento del fatto e della «irragionevole» durata media del processo penale,<br />

nascondono il presagio di una pressoché scontata estinzione.<br />

2. Come si è detto, tuttavia, le problematiche aperte dalla vicenda in esame erano ulteriori, e forse ancor più gravi rispetto<br />

alla questione «di merito» sottoposta all'attenzione della Corte, specie nell'attuale contesto in cui il «pianeta Europa» sta<br />

affrontando l'ennesima, radicale, trasmutazione istituzionale, sottesa alla ratifica del Trattato che adotta una Costituzione per<br />

l'Europa, fatta vacillare da uno strisciante ma crescente reflusso dell'idea europeista.<br />

Diverse, infatti, le «questioni sul tappeto», evidenziate, direttamente o indirettamente, nelle ordinanze di rinvio, e retrostanti<br />

il quesito pregiudiziale relativo all'esatta interpretazione delle direttive comunitarie; quesito limitato, anzitutto, al dubbio se<br />

l'obbligo di apprestare sanzioni adeguate per le ipotesi di omessa pubblicazione dei conti annuali, espressamente previsto<br />

dall'art. 6 della direttiva 68/151 (c.d. prima direttiva), dovesse intendersi implicitamente esteso ai casi di falsificazione dei<br />

conti annuali; e - ipotizzata una risposta affermativa - al conseguente interrogativo circa l'adeguatezza e, dunque, la<br />

conformità alla disciplina comunitaria della normativa italiana, sotto i profili già accennati.<br />

2.1. Infatti, la supposta inadeguatezza della tutela apprestata per le ipotesi di mendacio societario, e il conseguente<br />

inadempimento di un obbligo comunitario, apriva il problema di indicare l'esatta estensione, e l'oggetto stesso dell'art. 10<br />

Tce, così come i possibili «custodi» preposti a controllarne l'operatività e, quindi, i relativi criteri di giudizio.<br />

Sotto questo profilo, anzitutto, si richiedeva di chiarire i limiti della spinta propulsiva che, nell'evoluzione<br />

dell'interpretazione curiale, ha determinato la condizione mai satura dell'obbligo di «cooperazione leale», dilatando il<br />

vincolo di fidélité communautaire fino a ravvisarvi, via via, l'obbligo di apprestare sanzioni analoghe a quelle previste per le<br />

violazioni del diritto interno simili per natura e gravità (c.d. principio di equivalenza o assimilazione), ovvero l'obbligo di<br />

249


apprestare sanzioni comunque adeguate (ossia sanzioni «agnostiche» in termini di penalità, ma pur sempre «efficaci,<br />

proporzionate e sufficientemente dissuasive»: c.d. principio di efficacia-proporzionalità) (9), ovvero ancora l'obbligo, al<br />

cospetto delle violazioni più gravi, di soddisfare l'esigenza di proporzione corrispondendo una sanzione penale (appunto,<br />

«se necessario») (10).<br />

In secondo luogo, si attendeva un chiarimento circa i possibili predicati del giudizio di adeguatezza, ossia circa la tipologia<br />

di obblighi (e, a monte, di atti giuridici) suscettibili di essere «catalizzati» dal vincolo di «leale collaborazione»; un<br />

chiarimento anche relativo alla particolare ipotesi, oggetto di causa, di un obbligo insorgente da direttive di dubbia<br />

«efficacia diretta», non direttamente focalizzato su una sanzione punitiva, e, inoltre, prima soddisfatto, e poi<br />

successivamente trasgredito da parte di uno Stato membro mediante una novazione legislativa inadeguata (purtuttavia<br />

capace - si noti - di produrre effetti in mitius per la definizione delle responsabilità penali dei singoli soggetti coinvolti).<br />

Di qui, si apriva poi l'ulteriore interrogativo sul titolare dell'onere/facoltà di vagliare l'adeguatezza del diritto domestico alla<br />

luce delle pretese comunitarie di tutela; e, una volta ravvisato il giudice nazionale quale destinatario naturale di quel<br />

compito (11), si poneva il problema di indicare gli opportuni criteri di giudizio.<br />

2.2. Parallelamente, la questione sottendeva, e forse sollecitava, una opportuna apposizione di termini tra i diversi «ambiti di<br />

competenza» del rinvio pregiudiziale (art. 234 Tce) e del ricorso in infrazione (artt. 226-228 Tce). Da questo punto di vista,<br />

infatti, resta il dubbio che l'istituto del rinvio pregiudiziale - nonostante una giurisprudenza consolidata lo ritenga attingibile<br />

anche per consentire di compiere una valutazione sull'adeguatezza della sanzione prevista nell'ordinamento nazionale (12) -<br />

veda espandere sempre più il suo raggio d'azione fino a tradursi, alle volte, in un sostitutivo di una mancata procedura di<br />

infrazione, più che in un semplice accertamento preliminare ad essa prodromico (13).<br />

2.3. Sullo sfondo, e più in generale, come accennato la questione apriva il campo di osservazione sulla stessa dinamica dei<br />

rapporti tra diritto comunitario e diritto penale, nel contesto di un progressivo consolidarsi dell'«unità dell'ordinamento<br />

giuridico» che, sul volano dei principi della preminenza e della diretta applicabilità del diritto comunitario (limitatamente ai<br />

settori del c.d. «primo pilastro») (14), dimostra ormai una crescente insofferenza per la «dottrina dei controlimiti»: primo fra<br />

tutti, ovviamente, il principio di riserva di legge in materia penale (art. 25 comma 2 Cost.), nella specie ritenuto non<br />

pertinente (e, quindi, quantité negligeable) nell'impostazione dell'Avvocato generale (15) come già del rappresentante della<br />

Commissione nelle sue osservazioni (16), che, difatti, si erano pronunciati a favore dell'immediata disapplicazione delle<br />

nuove fattispecie (17), asseritamente inadeguate, con conseguente applicazione del regime previgente, senza dar credito alle<br />

opinioni dei giudici remittenti che, in ogni caso, prospettavano comunque la necessaria proposizione di una questione di<br />

illegittimità costituzionale (per violazione degli artt. 11 e 117 Cost., e dunque, dell'obbligo di rispetto dei vincoli derivanti<br />

dall'ordinamento comunitario).<br />

Allo stesso tempo, la prospettiva del conflitto con talune garanzie fondamentali innescava un problema relativo allo «statuto<br />

giuridico» del principio di applicazione retroattiva della legge più favorevole, dovendosi precisare se si trattasse di un<br />

principio meramente regolativo del fenomeno della successione di leggi penali del tempo (art. 2 comma 3 c.p.), ovvero di un<br />

principio annoverabile tra i «principi generali dell'ordinamento comunitario», come tale prevalente rispetto all'esigenza di<br />

applicazione effettiva e unitaria in tutti gli Stati membri del diritto comunitario.<br />

2.4. Da questa medesima angolatura, allo stesso tempo, il caso offriva l'occasione per approfondire i rapporti tra le diverse<br />

giurisdizioni della Corte di giustizia e della Corte costituzionale - necessaria deuteragonista del legislatore comunitario in<br />

caso di norme prive di «efficacia diretta», secondo il sistema tracciato dalla Corte costituzionale nel 1984 (18), e mai<br />

abbandonato -, e le possibili ripercussioni di una pronuncia pregiudiziale sull'eventuale sindacato di legittimità della norma<br />

interna, nei termini appena citati; un dialogo, peraltro, sollecitato proprio dall'ordinanza n. 165/2004, con la quale la<br />

Consulta - quasi operando alla stregua di un giudice di (ulteriore) rinvio - ha scelto di attendere la pronuncia della Corte di<br />

Lussemburgo per valutare il contrasto con la normativa comunitaria, oggetto di una precipua questione di legittimità, pur a<br />

margine di una decisione (la sentenza n. 161/2004), con la quale si erano, viceversa, rigettate le diverse questioni di<br />

irragionevolezza sollevate in relazione a tertia comparationis interni, ovvero al contrasto con altre fonti internazionali (19).<br />

2.5. Infine, e più in generale, la decisione era una occasione propizia per chiarire i termini dell'incidenza della pronuncia<br />

pregiudiziale non solo sul giudizio a quo, ma anche su tutti gli altri giudizi in cui si prospettava l'applicazione della norma<br />

dimostratasi non conforme al diritto comunitario (20). Un punto delicatissimo, che rappresenta forse il momento di raccordo<br />

più delicato, e di più difficile dialogo, tra gli ordinamenti, in vista del traguardo di offrire armonizzazione o, persino,<br />

uniformità, non solo quanto agli standards normativi, ma anche in relazione agli strumenti per garantirli, ed alle soluzioni<br />

dei casi concreti.<br />

3. La sentenza in epigrafe, tuttavia, ha risposto solo in parte, e in modo non certo organico, alle diverse e complesse<br />

problematiche segnalate, affiancando una sommatoria di ad una ratio decidendiaffermata a più riprese, e con decisione, e<br />

sintetizzata nel principio in base al quale «una direttiva non può avere come effetto quello di determinare o aggravare la<br />

responsabilità penale degli imputati».<br />

Il quadro, piuttosto frammentario, prelude dunque ad una presumibile proliferazione di interpretazioni diverse e contrastanti.<br />

Tuttavia, nella pronuncia è possibile individuare «in filigrana» diversi punti di riferimento per tentare di rintracciare talune<br />

soluzioni agli interrogativi in gioco, e, soprattutto, per tentare di ricostruirne il senso in una visione d'insieme.<br />

250


3.1. Seguendo lo sviluppo argomentativo della decisione, si deve muovere, anzitutto, dai profili più direttamente<br />

concernenti il «merito» della questione, in relazione ai quali i giudici si preoccupano di chiarire, in primo luogo, l'esatta<br />

estensione delle istanze di protezione, e dei relativi obblighi, precisando la natura degli interessi coinvolti, e individuando i<br />

precipui destinatari della tutela offerta dalla normativa comunitaria in materia di «informazione societaria».<br />

Al riguardo, anzitutto, la Corte ritiene che l'obbligo di prevedere sanzioni adeguate per le ipotesi di mancata<br />

pubblicizzazione dei conti annuali, espressamente previsto dalla prima direttiva (dall'art. 6, in relazione all'art. 2 comma 1<br />

lett. f)), debba ritenersi implicitamente esteso alle ipotesi di falsificazione dei conti stessi (cioè alle ipotesi di violazione dei<br />

principi di chiarezza e fedeltà stabiliti, in particolare, nella quarta direttiva, all'art. 2, par. 2-4, e ciò perché l'art. 6,<br />

imponendo agli Stati di stabilire sanzioni adeguate, si riferisce anche alle ipotesi di «mancata pubblicazione di conti annuali<br />

conformi, quanto al loro contenuto, alle norme previste a tale riguardo»). A fondamento di tale passaggio argomentativo è<br />

invocata l'esigenza di promuovere una interpretazione attenta al contesto e agli obiettivi delle direttive in questione, e<br />

dunque orientata ad una lettura sistematica e teleologica della disciplina nel suo complesso (21); lettura peraltro validata dal<br />

criterio ermeneutico dell'«effetto utile», veicolato, nel caso di specie, da un evidente argomento a fortiori, in base al quale i<br />

casi più gravi di trasgressione (le condotte di mendacio societario) necessitano di sanzione adeguata almeno quanto i casi di<br />

minor gravità e insidiosità (le condotte consistenti nella semplice omissione di qualsiasi pubblicità) (22).<br />

La precisazione preliminare apre, peraltro, ad un chiarimento definitivo sulla consistenza degli interessi tutelati nella<br />

disciplina in esame, e ad una precisa declinazione degli stessi secondo il principio del «quadro fedele», quale avamposto<br />

fondamentale per la protezione «degli interessi dei soci come dei terzi» di cui all'art. 44 n. 2, lett g), Trattato Ce, che<br />

costituisce il fondamento giuridico della prima, della quarta e della settima direttiva sulle società, come confermato da una<br />

giurisprudenza ormai consolidata (23).<br />

Da questa prospettiva, in altri termini, la Corte chiarisce che l'interesse alla «trasparenza societaria» non può essere<br />

considerato come rifrazione di una tutela di natura squisitamente patrimoniale, apprestata per i soggetti interni alla<br />

compagine societaria, o ad essa comunque collegati (soci o creditori); bensì come presidio istituzionale (per la protezione)<br />

di una pluralità di soggetti pur non indirettamente coinvolti nelle dinamiche interne all'impresa collettiva, quali gli<br />

investitori potenziali o anche i diversi stakeholders, e, in generale, tutti gli utenti del mercato finanziario (24), secondo una<br />

prospettiva chiarita espressamente - inter alia - nella più recente normativa comunitaria, come la direttiva 2003/6/Ce sul c.d.<br />

market abuse (24-bis). È da queste affermazioni, dunque, che può essere forse ricavato il giudizio di inadeguatezza della<br />

disciplina italiana del falso societario, radicato su meccanismi che sottendono una dimensione spiccatamente patrimoniale e<br />

privatistica degli interessi in gioco (in particolare le soglie di punibilità e, nell'art. 2622 c.c., la procedibilità a querela) (25),<br />

e vincolato da un termine prescrizionale che pregiudica l'effettività della sanzione. Ma si tratta di una semplice deduzione,<br />

perché la Corte, a differenza dell'Avvocato generale, non spende parole al riguardo (26), e lascia intendere, dunque, che il<br />

giudice ultimo dell'adeguatezza della normativa domestica rispetto agli obblighi comunitari deve essere il giudice nazionale.<br />

3.2. Il vero nodo della questione, come anticipato, sta tuttavia altrove, e concerne - nella ricostruzione della Corte - la<br />

possibilità di disapplicare, da parte del giudice nazionale, una disciplina suppostamente «inadeguata» rispetto alle pretese<br />

comunitarie e, a monte, l'operatività di una direttiva - segnatamente, la c.d. prima direttiva, fonte dell'obbligo specificamente<br />

considerato (al citato art. 6) - anche agli effetti penali, nella fattispecie del tutto peculiare relativa al caso in esame: ove una<br />

eventuale disapplicazione della normativa nazionale sulla base della direttiva innescherebbe un fenomeno di reviviscenza<br />

della precedente, più severa, disciplina sanzionatoria, con effetti in malam partem per i soggetti (imputati, si noti, per fatti<br />

realizzati sotto la vigenza della stessa precedente disciplina).<br />

Al riguardo, lo schema argomentativo seguito dalla Corte può essere sintetizzato come segue.<br />

Anzitutto, dopo la ricostruzione della portata dell'obbligo di matrice comunitaria, (art. 6, prima direttiva), si ribadisce la<br />

dottrina del c.d. principio di efficacia-proporzionalità, e cioè l'obbligo di apprestare, per le violazioni del diritto comunitario,<br />

sanzioni aventi un «carattere effettivo, proporzionale e dissuasivo» (punti 53-65). Al riguardo, si richiama anche il principio<br />

in base al quale spetta ai giudici del rinvio vagliare - sulla base delle indicazioni ottenute dalla Corte in sede pregiudiziale -<br />

l'adeguatezza della legge nazionale; e che ad essi compete pure, in forza della supremazia del diritto comunitario, il compito<br />

di disapplicare l'eventuale disposizione inadeguata, «senza che ne debbano chiedere o attendere la previa rimozione in via<br />

legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale» (punto 72). Tuttavia, visto che la eventuale<br />

disapplicazione della norma in contrasto col diritto comunitario comporterebbe la reviviscenza della precedente più severa<br />

fattispecie incriminatrice (secondo quanto prospettato nelle ordinanze di rinvio: cfr. punto 76), questa strada è preclusa<br />

perché - qui la ratio decidendi - «nel contesto specifico di una situazione in cui una direttiva viene invocata nei confronti di<br />

un soggetto da un'autorità di uno Stato membro nell'ambito di procedimenti penali (...) una direttiva non può avere come<br />

effetto, di per sé e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di<br />

determinare o aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle dette disposizioni» (27).<br />

Da questo punto di vista, lo sviluppo sembra lineare, e il criterio di decisione, estremamente pragmatico, sembra riflettere il<br />

principio in base al quale una norma comunitaria non può essere chiamata a operare se il diritto comunitario stesso esclude<br />

l'effetto che si vorrebbe implicare.<br />

Peraltro, tale è la forza ostativa dell'argomento che assume la non invocabilità della direttiva che - sempre a parere della<br />

251


Corte - non merita neppure di essere considerato il contrasto che l'eventuale disapplicazione in malam partem<br />

comporterebbe rispetto al principio dell'applicazione retroattiva della legge più mite, riconosciuto «parte delle tradizioni<br />

costituzionali comuni degli Stati membri» (punto 68) e, quindi, «parte integrante dei principi generali del diritto comunitario<br />

che il giudice nazionale deve osservare quando applica il diritto nazionale adottato per attuare l'ordinamento comunitario, e,<br />

nella fattispecie, in particolare, le direttive sul diritto societario» (punto 69). In altri termini, non deve essere considerata, in<br />

particolare, la questione se il principio dell'applicazione retroattiva della pena più mite si applichi qualora questa sia<br />

contraria al diritto comunitario; perché la direttiva, in ogni caso, non può avere ripercussioni peggiorative sulla<br />

responsabilità penale degli imputati.<br />

3.3. Prima di esplorare i possibili scenari aperti dalla sentenza, e per valutarne la plausibilità, occorre tuttavia domandarsi, di<br />

fronte ad una ratio decidendi così stringente e tanto forte da risultare assorbente rispetto a tutti gli altri rilievi, come si<br />

giustifichi l'excursus sul principio di retroattività della lex mitior, autentico obiter dictum che sembrerebbe, a prima vista,<br />

del tutto ultroneo (28) rispetto alle esigenze argomentative di una pronuncia che, peraltro, dimostra una certa ambiguità,<br />

perché la decisività dell'argomento addotto sulla non invocabilità della direttiva avrebbe potuto supportare una decisione di<br />

irricevibilità, che invece non ha avuto luogo (29).<br />

3.3.1. Al riguardo, possono darsi diverse chiavi di lettura; ma qui si apre il campo delle semplici ipotesi.<br />

La prima è quella che vede nella sentenza in esame una decisione che tenta di farsi carico del possibile esito della vicenda<br />

sul piano del diritto interno, e, in particolare, della questione di legittimità della norma interna, sollevabile dai giudici a<br />

quibus (questione che, dunque, andrebbe ad unirsi a quella già proposta dal Tribunale di Palermo e ancora pendente davanti<br />

alla Consulta).<br />

In quest'ottica, infatti, la Corte afferma, da un lato, la possibilità di disapplicare il diritto interno inadeguato, ma, dall'altro,<br />

nega la praticabilità in concreto di questo schema perché - in ultima istanza - ne mancano i presupposti, consistenti<br />

nell'esigenza che la norma comunitaria sia dotata dei requisiti necessari per essere «direttamente efficace» sul piano penale<br />

(30), il che non è per le direttive che non siano «concretizzate» da una normativa di attuazione. Ciò riflette un limite<br />

intrinseco all'ambito di attribuzioni comunitarie cui corrisponde il «controlimite» del principio di legalità della pena; e<br />

difatti, il discorso non cambierebbe anche a fronte di un regolamento, cioè di una norma che non necessita misure nazionali<br />

di recepimento, qualora si limitasse a definire le fattispecie di reato, lasciando alla competenza dei singoli Stati la<br />

definizione delle sanzioni applicabili (31).<br />

Ma sotto questo aspetto, il problema che si profila alla Corte - un problema su cui i giudici preferiscono «glissare» - deriva<br />

dalla circostanza, precisamente sottolineata dall'Avvocato generale nelle sue Conclusioni, che nel caso di specie<br />

l'aggravamento della responsabilità penale degli imputati non deriverebbe direttamente dalle direttive (e tanto meno dall'art.<br />

10 Tce) bensì dal diritto nazionale, in particolare dalla precedente normativa (il «vecchio» art. 2621 c.c.) (32); in altri<br />

termini, la circostanza che qui - come nei precedenti relativi al caso Tombesi o al caso Niselli - i fatti, al momento della<br />

realizzazione, erano punibili secondo il diritto nazionale, implicherebbe dunque la salvezza del profilo concernente il<br />

rispetto del principio del nullum crimen, nullapoena sine lege(33), perché l'unico effetto attribuito alle direttive (e all'art. 10<br />

Tce) sarebbe quello di inibire l'operatività della nuova norma inadeguata preservando, al contempo, la precedente disciplina<br />

(34).<br />

È in questa prospettiva - non richiamata, ed evidentemente non condivisa, ma certo ben nota - che matura il passaggio dal<br />

piano della legalità della pena al piano del conflitto tra norme in successione, che la Corte decide comunque di considerare,<br />

ipotizzando - verosimilmente - un possibile intervento del giudice costituzionale, peraltro, come accennato, già chiamato a<br />

pronunciarsi sulla questione (dal Tribunale di Palermo) ed indicato come interlocutore ultimo anche dalle ordinanze di<br />

rinvio; e ciò, sempre qualora il giudice stesso intenda farsi carico della discrasia normativa interna rispetto agli obblighi<br />

sovranazionali, non ripianabile mediante la «disapplicazione diffusa».<br />

Al riguardo, infatti, sembra chiaro che, assunta la disapplicazione come impercorribile, la strada alternativa - l'unica residua<br />

- sarebbe l'attivazione di un procedimento costituzionale per verificare la legittimità di una disciplina non conforme ad un<br />

obbligo comunitario di per sé inattivabile (35) (e sostitutiva di una precedente disciplina che rispetto all'obbligo stesso non<br />

aveva sollevato dubbi di non conformità; anche se, al riguardo, come accennato, la Corte non si avventura in valutazioni di<br />

merito né nei confronti della nuova disciplina, né nei confronti della precedente) (36). Si tratta, peraltro, di una soluzione<br />

obbligata, che deve essere necessariamente sollecitata dal giudice interno il quale, sulla base delle indicazioni della Corte,<br />

ravvisi il contrasto; poiché questi rappresenta l'«autorità nazionale che deve adottare tutti i provvedimenti atti a garantire<br />

l'adempimento dei precetti comunitari» (37).<br />

Così, se solo la Corte costituzionale può rescindere il nodo della non applicabilità diretta, finché ciò non accade, non<br />

importa considerare il bilanciamento tra principio della retroattività della lex mitior e (prevalenza del) diritto comunitario;<br />

perché all'operatività di questo, nella visione dei giudici di Lussemburgo, sarebbe comunque ostativo - medio tempore - il<br />

rispetto del principio della legalità della pena.<br />

Dunque, è probabilmente nella prospettiva - si badi, non esplicitata - del dialogo tra i giudici a quibus e il giudice<br />

costituzionale che la Corte di giustizia non ritiene irricevibile il ricorso (assumendo, quindi, la connessione con l'oggetto di<br />

causa e la natura non ipotetica del problema, così come la possibilità di apportare elementi necessari per fornire una<br />

252


soluzione utile alle questioni principali) (38), e ritiene, anzitutto, di dover precisare l'interpretazione delle direttive che il<br />

giudice costituzionale deve seguire, nella precipua funzione di «garante del primato del diritto comunitario» (39).<br />

Ed è in questa stessa prospettiva che, verosimilmente, la Corte si premura altresì di precisare uno dei parametri di giudizio<br />

che comunque deve essere considerato, riconoscendo espressamente il principio dell'applicazione della lex mitior, appunto,<br />

quale «principio generale del diritto comunitario»; mutando in tal modo, peraltro senza spiegazione, precedenti orientamenti<br />

che avevano ritenuto, alla volta, il problema dell'applicabilità retroattiva della legge penale più favorevole «questione di<br />

diritto nazionale», di «competenza» dei rispettivi giudici del rinvio (40), o che avevano negato l'esistenza di un obbligo<br />

comunitario sul punto (41), ovvero ancora che avevano ritenuto, comunque, il principio stesso inapplicabile in caso di<br />

norma nazionale «comunitariamente illegittima» (42). Per tal via, inoltre, l'interpretazione curiale sembra accreditare<br />

definitivamente rango costituzionale ad un principio che, nel nostro ordinamento, è riconosciuto solo a livello codicistico<br />

(art. 2 comma 3 c.p.), pur essendo con più argomenti, e da più parti, ritenuta una sua pur indiretta «costituzionalizzazione»<br />

(o per il tramite di fonti sovrananzionali (43), o quale proiezione del generalizzato favor libertatis(44), ovvero ancora quale<br />

corollario del principio di uguaglianza); conclusione, peraltro, non univocamente condivisa - a quanto consta - dalla Corte<br />

costituzionale (45).<br />

In ogni caso, se le indicazioni della Corte circa il lignaggio del principio richiamato dovessero risultare plausibili (46), e,<br />

soprattutto, dovessero essere seguite, l'applicazione del principio stesso potrebbe incidere, risultando forse persino<br />

dirimente, sulla stessa (ir)ricevibilità del giudizio di legittimità costituzionale; giudizio - come si accennerà - ulteriormente<br />

condizionato, oltre che da profili di maggior difficoltà «tecnica» (47) rispetto a casi in parte assimilabili (48), dalle note<br />

variabili, rilevanti sul piano del diritto interno, dell'inammissibilità di interventi additivi in malam partem (49) e della<br />

sindacabilità delle «norme penali di favore» (con riguardo alle «aperture» della sentenza costituzionale 148/1983, su cui<br />

pure si tornerà) (50).<br />

In definitiva, da questa angolatura, il prosieguo della vicenda sembrerebbe condurre - oltre che ad una eventuale procedura<br />

di infrazione (art. 226 ss. Tce) - alla questione di legittimità costituzionale; ma questa, a sua volta, sembrerebbe destinata ad<br />

un esito di irricevibilità, condizionato (anche) dal principio affermato in sentenza. Sempre che la Consulta non colga<br />

l'occasione per sperimentare nuove soluzioni (51).<br />

3.3.2. Da qui, in ogni caso, si può muovere per proporre una ulteriore chiave di lettura. Infatti, l'accento posto sul principio<br />

della retroattività della legge più mite, permette di avanzare anche una diversa ipotesi, volta a indagare il motivo ultimo, e<br />

più profondo, di una digressione che, come sottolineato, almeno in apparenza risulta del tutto estrinseca rispetto al thema<br />

decidendum.<br />

La riflessione è sollecitata, in particolare, dall'analisi del punto 70 della decisione, dove - rilevando che «si pone tuttavia la<br />

questione se il principio dell'applicazione retroattiva della pena più mite si applichi qualora questa sia contraria ad altre<br />

norme di diritto comunitario» - davanti alla Corte «cala» una nuova «scena»; perché le affermazioni sul principio della lex<br />

mitior - e sul rango ad esso attribuito, sembrano schiudere l'ulteriore prospettiva del conflitto e, quindi, dell'esito del<br />

bilanciamento, tra «retroattività favorevole» (52) e altre norme di diritto comunitario.<br />

Di qui, una scena ulteriore, che si apre al punto 71, ove si afferma che, nel caso concreto, non è necessario risolvere il<br />

conflitto, posto che comunque la soluzione, e, quindi, la decisione, possono essere raggiunte per altra strada.<br />

A ragione in questi due punti si è colto lo snodo fondamentale della sentenza, non tanto rispetto alla questione in gioco - la<br />

normativa comunitaria sulle società - quanto piuttosto su temi più generali e di ben più ampio spessore.<br />

Infatti, e in altri termini, l'assunzione tra i principi dell'ordinamento comunitario di quello della lex mitior, se da un lato<br />

sancisce l'esito irrinunciabile di un percorso già ben delineato sia a livello costituzionale interno - almeno nell'elaborazione<br />

dottrinale - sia in campo internazionale (pur con i dubbi accennati), pone la questione fondamentale espressa icasticamente<br />

al punto 70.<br />

Essa risiede nella possibilità offerta da quel principio alle singole legislazioni nazionali - la cui attuale sovranità in materia<br />

penale non è affatto posta in discussione dalla sentenza - di cancellare conseguenze penali coerenti ed adeguate al diritto<br />

comunitario, e ciò anche laddove si verifichi un nuovo successivo adeguamento della disciplina conseguente ad interventi<br />

giurisdizionali «superiori» (Corte di giustizia; Corte di giustizia/Corte costituzionale) o, eventualmente, ad una novazione<br />

legislativa.<br />

È in questa prospettiva che tutte le componenti di questa intricata vicenda sembrano ricomparire e riposizionarsi: sul piano<br />

del diritto comunitario, il tema della tutela adeguata pretesa dalle fonti sovranazionali e quindi della «fedeltà comunitaria»;<br />

sul piano domestico, quello di un conseguente vincolo che imponga l'opzione penalistica, vincolo generalmente escluso e, al<br />

più, ipotizzato solo nel caso di sostituzione di una disciplina adeguata capace di rivivere per una decisione della Corte di<br />

giustizia, «mediata» dalla Corte costituzionale (53), o, addirittura, per diretta disapplicazione del giudice remittente (come<br />

nella soluzione invocata dall'Avvocato generale e dal rappresentante della Commissione).<br />

Nella stessa prospettiva, entrano tuttavia in scena anche altre questioni. Quella delle cd. leggi ad personam che ha<br />

caratterizzato le recenti vicende italiane (54) e, in definitiva quella dell'abuso di potere legislativo realizzato attraverso<br />

l'abrogazione o l'adozione di discipline di favore che, in virtù della retroattività in bonam partem, consentano di mitigare o<br />

di azzerare in astratto o in concreto, per i fatti pregressi, la tutela penale.<br />

253


La Corte di giustizia, è chiaro, pone la questione nello specchio del diritto comunitario (55), ma essa sembra declinabile,<br />

forse in termini analoghi, anche dal punto di vista della costituzionalità «interna».<br />

Nella prima direzione la pronuncia, al punto 70, potrebbe dare dunque conto dei rischi che la supremazia del diritto<br />

comunitario corre in presenza di interventi legislativi della natura sopra descritta. Da questa angolatura, sembra profilarsi,<br />

peraltro, un margine di contraddittorietà nella posizione assunta. Se, come pare difficilmente confutabile, la decisione ha<br />

deluso le aspettative di un «balzo in avanti» in punto incidenza della giurisprudenza comunitaria in materia penale, il<br />

problema dell'esito di un bilanciamento tra principio di retroattività favorevole - esclusivamente pertinente alla materia<br />

penale - e altre norme di diritto comunitario, può apparire superato o di natura meramente teorica, in quanto riguardante<br />

diversi e futuri assetti istituzionali. In questo senso il passaggio può forse leggersi come espressione di una sensibilità tutta<br />

politica dei giudici di Lussemburgo, per le ragioni dei remittenti riprese dalla Commissione e dall'avvocatura generale.<br />

In ogni caso, il tema ha anche un preciso spessore costituzionale interno che si interseca con le questioni proposte sotto il<br />

profilo della irragionevolezza della disciplina del nuovo falso societario, rimettendo in gioco la mai sopita questione della<br />

possibilità di interventi in malam partem della Corte costituzionale.<br />

È questa una storia nota. Come già sottolineato, la Corte, anche e proprio a proposito del falso in bilancio ha ribadito (nella<br />

citata sent. n. 161/04) la posizione circa la irricevibilità della questione. Ciò è ancora una volta avvenuto, tuttavia, non sotto<br />

l'aspetto della irrilevanza, ma in ragione della riserva di legge e del coerente disposto dell'art. 28 l. n. 87/53. È questo limite<br />

che ha sbarrato il passo, nella giurisprudenza costante della Corte costituzionale, alla ricevibilità delle questioni in malam<br />

partem. Al riguardo, va ricordato che il già citato precedente del 1983 (sentenza n. 148), tanto spesso invocato, e tutto<br />

incentrato sulla ammissibilità/rilevanza, non si è in realtà tradotto in un orientamento consolidato, e non ha prodotto alcuna<br />

decisione, essendo stato superato dall'altro vaglio di inammissibilità utilizzato costantemente dalla Consulta (56).<br />

L'apertura della Corte di giustizia al principio della lex mitior, ma soprattutto la prospettazione di un possibile conflitto tra<br />

di esso e altre norme di diritto comunitario potrebbe, allora, far pensare ad un nuovo scenario. La decisione adottata,<br />

tuttavia, non può che collocare il tema in prospettiva futura, e non già allo stato attuale del sistema dei rapporti tra diritto<br />

comunitario e nazionale, in materia penale. Occorre infatti chiedersi che significato abbia l'ipotizzato bilanciamento tra<br />

principio della lex mitior e altre norme comunitarie, nel contesto di una decisione che esclude la diretta incidenza di<br />

obblighi di tutela penale pur se desumibili da una direttiva (che non è applicabile «di per sé e indipendentemente da una<br />

legge interna e di uno stato membro adottata per la sua attuazione»: punti 74 e 78).<br />

L'interrogativo rimanda all'ipotesi in precedenza affacciata: gli obiter dicta della Corte (in tema di lex mitior e, soprattutto, il<br />

punto 70) sembrano implicare una premessa valida su entrambi i piani, quello interno e quello comunitario. Se e quando i<br />

processi di transizione a nuove istituzioni europee conducano ad una giustiziabilità dell'inadempimento di obblighi di tutela<br />

anche penale (attraverso la mediazione dei criteri di efficacia, proporzionalità e dissuasività), l'affermato principio della lex<br />

mitior, potrà sempre trovare un limite in altri principi di diritto comunitario. Dov'è scontato che debba trattarsi di principi di<br />

livello uguale o prevalente, e, dunque, in ogni caso afferenti alla costellazione dei «diritti fondamentali», perché in essa il<br />

principio de quo è fatto rientrare (57).<br />

È in questa prospettiva, allora, che sembra chiarirsi quale sia davvero la preoccupazione sottesa ad una affermazione tanto<br />

eccentrica rispetto al decisum.<br />

La riconosciuta sovranità nazionale in campo penale ha mostrato di poter condurre ad una elusione della fedeltà comunitaria<br />

attraverso il succedersi di legislazioni (abrogative o mitigatorie) capaci, in base alla retroattività favorevole di ridurre o<br />

addirittura garantire l'impunità per fatti pregressi, pur mantenendo alla stregua della nuove fattispecie in successione le<br />

sembianze di una tutela, anche penale. Ciò attraverso un «sapiente» utilizzo di elementi specializzanti, per aggiunta o<br />

specificazione, ovvero incidendo su istituti quali la prescrizione, per fare qualche esempio attuale.<br />

Come è noto il problema è stato affrontato a proposito del conflitto giurisprudenziale apertosi sulla natura della successione<br />

normativa proprio in tema di falso in bilancio sino alla decisione della suprema Corte a Sezioni unite (58).<br />

Ebbene di quella vicenda ciò che interessa, coinvolgendo entrambe le tematiche della successione e della abrogazione, è<br />

dimostrazione della possibilità - già sul piano normativo astratto (59) ovvero in virtù degli esiti concreti della successione -<br />

di ottenere, pur continuandosi apparentemente a punire, i risultati propri di un'amnistia (60).<br />

Da questo punto di vista, la problematica si delinea in termini diversi sul piano interno e su quello comunitario. Nel primo<br />

caso, già l'attuale quadro di attribuzioni consente un inquadramento e una valutazione nell'ambito dell'osservanza dell'art. 79<br />

Cost. (61), discostandosi così dall'onnivoro terreno dei controlli di ragionevolezza, in vero scartato in modo inequivoco<br />

dalla Consulta. Una strada, questa, che merita riflessioni ulteriori.<br />

Diverso il discorso per l'intervento pregiudiziale della Corte di giustizia.<br />

Solo in presenza di una sussistenza di obblighi comunitari di tutela penale, ad oggi non riconoscibili, la retroattività<br />

favorevole potrebbe non ostacolare la ricevibilità/rilevanza di questioni imperniate sulla prevalenza di altro principio<br />

rinvenibile nella normativa comunitaria.<br />

Le ultime osservazioni, peraltro, consentono di individuare un certo parallelismo tra decisione comunitaria e costituzionale<br />

(sent. n. 161/04), parallelismo che interessa evidenziare anche perché l'ordinanza di sospensione con cui la Consulta ha<br />

atteso la decisione pregiudiziale (la citata ord. n. 165/04) pone l'ultimo interrogativo, riguardante le decisioni che verranno<br />

254


assunte dalla Corte costituzionale.<br />

In questa prospettiva, è opportuno tornare alla sentenza n. 48 del 1983, che sembra alimentare aspettative di «ricupero»<br />

della questione. In realtà, si deve considerare che quella decisione optò per la ricevibilità sotto il profilo della rilevanza delle<br />

questioni in malam partem per l'effetto per così dire «residuale» che la decisione poteva assumere, fatta salva comunque<br />

l'irretroattività nel caso concreto. E che non si confrontò con il principio della lex mitior, non espressamente<br />

costituzionalizzato dall'art. 25 comma 2 Cost.<br />

Essa era inoltre influenzata dalla volontà di superare l'opinione, all'epoca dominante (62), che desumeva l'inammissibilità<br />

delle questioni in malam partem dalla loro irrilevanza alla stregua del principio di irretroattività. Come si notò<br />

commentando quella sentenza, restava, tuttavia, confermato l'altro limite di ammissibilità costituito dal principio di legalità<br />

(63).<br />

Da allora la Corte ha reiteratamente fondato, fino alla sentenza sul falso in bilancio, le proprie decisioni su questo secondo<br />

confine delle sue attribuzioni (64); e ciò spiega forse perché la decisione del 1983 non abbia formato giurisprudenza, e si<br />

sia, in definitiva, arrestata su un binario morto (65).<br />

Parallelamente, dal punto di vista del metodo, la Corte di giustizia ha anteposto il profilo del difetto di attribuzione - in<br />

chiave espansiva o costitutiva della punibilità - delle fonti europee, a quello riguardante l'affermata natura di principio<br />

comunitario della retroattività favorevole.<br />

In ogni caso, alla luce di questi punti di riferimento, la Consulta - come accennato - potrebbe prendere atto del riconosciuto<br />

rango comunitario della retroattività favorevole, «rivisitando» il tema della irricevibilità per irrilevanza. Anche se, forse,<br />

resta più convincente il percorso che prenda atto dell'attuale configurazione dei rapporti tra le fonti e delle reciproche<br />

attribuzioni, cogliendo nella nettezza della decisione infine assunta dalla Corte europea un limite omologo a quello posto nel<br />

giudizio di costituzionalità.<br />

4. In conclusione, la sentenza in commento - non senza difficoltà interpretative - si presta a più livelli di analisi, e si offre a<br />

diverse prospettive di inquadramento, pur chiarendo anche taluni punti fermi e, forse, anticipando scenari futuri.<br />

Anzitutto, chiarisce natura e qualità degli interessi sottesi alla «informazione societaria», per il tramite del principio del<br />

«quadro fedele», così visualizzando la «trasparenza» come interfaccia di quel bene immateriale, e facilmente deperibile, che<br />

è la «fiducia del mercato», e accreditandola come presupposto necessario per la tutela del risparmio (art. 47 Cost.). Ciò<br />

dovrebbe confermare, una volta per tutte, l'inadeguatezza dell'attuale strategia di intervento penale, il cui «minimalismo» - a<br />

prescindere da soluzioni tecniche evidentemente impertinenti - potrebbe essere giustificato solo in un quadro di controlli<br />

sulla correttezza dei conti saldamente garantito da misure extrapenali (in primis, di natura civilistica); misure, allo stato<br />

attuale, poco o nulla incisive, e per di più in forte ritrazione (a seguito della riforma del diritto societario, d.lg. n. 6/03).<br />

Per quanto attiene, più in particolare, ai rapporti tra diritto comunitario e diritto nazionale, la decisione non ha il coraggio di<br />

fare salti nel vuoto, sbarrando la strada ad una «disapplicazione immediata» fondata sul contrasto con una normativa<br />

comunitaria incapace di effetti diretti, rilevato alla luce del paradigma, ancora fluido, del giudizio di «adeguatezza»; un<br />

giudizio affidato a criteri «sostanzialistici», se non di vaga impronta «giusnaturalistica» (66), che, sul volano dell'art. 10<br />

Tce, rischia di fomentare una redistribuzione di competenze prima del necessario mutamento istituzionale che le supporti. È<br />

forse in vista di quello, e della definitiva attribuzione all'Unione di un potere di incriminazione a tutti gli effetti vincolante -<br />

peraltro già profilata nel disegno della Costituzione europea (67) -, che la Corte rivolge un monito al legislatore nazionale,<br />

avvertendolo circa la futura impraticabilità di «abusi legislativi» - magari consistenti in «norme di favore» - che<br />

prevarichino le competenze comunitarie.<br />

Fino ad allora, tuttavia, il passaggio necessario - implicito ma inequivoco - per garantire al diritto comunitario una diretta<br />

vincolatività «agli effetti penali» deve essere l'intervento della Corte costituzionale, perché siano rispettate le istanze sottese<br />

al principio nulla poena sine lege (non solo la riserva di legge, ma, anche, la certezza del diritto); e ciò nei limiti,<br />

ovviamente, in cui la Corte stessa decida di poter intervenire, richiamata di fronte alle stesse istanze.<br />

È dunque sul rispetto dei principi fondamentali - e non solo sulla condivisione di common legal frameworks, o magari di<br />

semplici outcomes - che deve essere costruito il futuro diritto (anche «penale») dell'Unione (67-bis). E i principi, nella<br />

dinamica ancora tutta da esplorare del multilevel constitutionalism, devono essere registrati secondo il best standard, come<br />

la sentenza stessa sancisce accreditando alla retroattività in mitius «rango costituzionale»; una anticipazione dell'art. II-109,<br />

ma forse, sullo sfondo, un'applicazione della metodica indicata nell'art. II-113 della Costituzione europea (68).<br />

Più in là, la decisione non si spinge, evitando di pronunciarsi sul dialogo attivato dalla Corte costituzionale, così come sulle<br />

possibili ripercussioni domestiche, non solo nei giudizi a quibus. Ma il silenzio, forse, nasconde solo il presagio delle<br />

difficoltà che incontrerà la Corte nella dimensione dell'«Europa a 25», e nell'orizzonte annunciato di un allargamento<br />

ulteriore, che richiede uno strumentario istituzionale e giuridico evidentemente più attrezzato anche per i casi più peculiari.<br />

Un orizzonte dove bisognerà ricordare, se aveva ragione Keynes, che «l'inevitabile non accade mai, l'inatteso sempre».<br />

NOTE<br />

(*) Il commento nasce da un confronto e da una discussione tra gli autori che, partita da posizioni in parte divergenti (cfr. Insolera,<br />

Democrazia, ragione e prevaricazione. Dalle vicende del falso in bilancio ad un nuovo riparto costituzionale nella attribuzione dei poteri?,<br />

Giuffrè, 2003, spec. p. 59 ss.; Manes, Il nuovo «falso in bilancio» al cospetto della normativa comunitaria, in questa rivista, 2003, p. 1316<br />

255


ss.), ha trovato diversi punti di convergenza nelle osservazioni qui pubblicate.<br />

(3) Corte d'Appello di Lecce, ordinanza 7 ottobre 2002, Adelchi, in questa rivista, 2003, p. 640, con nota di Aprile, Note a margine di una<br />

domanda di pronuncia pregiudiziale di interpretazione di norme comunitarie, rivolta dal giudice penale alla Corte di giustizia delle<br />

Comunità europee in relazione alla nuova disciplina delle false comunicazioni sociali di cui al d.lgs. n. 61 del 2002; inoltre, in Guida dir.,<br />

n. 45/2002, p. 85 ss., con nota di Di Martino, Disciplina degli illeciti societari in bilico tra legalità nazionale e legittimità comunitaria.<br />

(4) Trib. Milano, Sez. I penale, ordinanza 26 ottobre 2002, pres. Ponti, in Guida dir., n. 45/2002, p. 93 ss.; Trib. Milano, Sez. IV penale,<br />

ordinanza 29 ottobre 2002, pres. Magi, ivi, p. 97 ss., entrambe con nota di Di Martino, cit.<br />

(5) Oltre ai lavori già citati, tra gli altri, cfr. Bernardi, Falso in bilancio e diritto comunitario, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2004, p.<br />

367 ss.; Esposito Fariello, Le false comunicazioni sociali tra Corte europea e Corte costituzionale, in Dir. e giust., 2003, n. 4, p. 99 ss.;<br />

Giunta, La vicenda delle false comunicazioni sociali. Dalla selezione degli obiettivi di tutela alla cornice degli interessi in gioco, in Riv.<br />

trim. dir. pen. econ., 2003, p. 601 ss.; Mastroianni, Sanzioni nazionali per violazione del diritto comunitario: il caso del «falso in<br />

bilancio», in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2003, p. 621 ss.; Mazzacuva, A proposito di «intepretazione creativa» tra diritto penale,<br />

principi costituzionali e direttive comunitarie, in www.giurcost.org/studi; Mezzetti, Il falso in bilancio fra Corte di giustizia e Corte<br />

costituzionale italiana (passando attraverso i principi supremi dell'ordinamento costituzionale...), in www.giurcost.org/studi; Salcuni, Le<br />

false comunicazioni sociali: questioni di legittimità costituzionale e obblighi comunitari di tutela, in Riv. it. dir. proc. pen., 2003, 843 ss.;<br />

Sotis, Obblighi comunitari di tutela e opzione penale: una dialettica perpetua?, ivi, 2002, p. 171 ss.; da ultimo, Pulitanò, Diritto penale,<br />

Utet, 2005, p. 149 ss.<br />

(6) Ci si riferisce alla direttiva del Consiglio 9 marzo 1968, 68/151/Cee (c.d. «prima direttiva sulle società», intesa a coordinare, per<br />

renderle equivalenti, le garanzie che sono richieste, negli Stati membri, alle società a mente dell'art. 58 comma 2 del Trattato, per<br />

proteggere gli interessi dei soci e dei terzi); alla direttiva del Consiglio 25 luglio 1978, 78/660/Cee (c.d. «quarta direttiva sulle società»,<br />

basata sull'art. 54 par. 3 lett. g), del trattato ed intesa ad armonizzare le disposizioni nazionali relative alla stesura, al contenuto, alla<br />

struttura e alla pubblicità dei conti annuali di taluni tipi di società); e alla direttiva del Consiglio 13 giugno 1983, 83/349/Cee (c.d.<br />

«settima direttiva sulle società», basata sull'art. 54, par. 3, lett. g), del Trattato, e relativa ai conti consolidati).<br />

(7) Nell'art. 2621 (comma 3, seconda parte) e nell'art. 2622 (comma 5, seconda parte), si stabilisce infatti che «La punibilità è comunque<br />

esclusa se le falsità o le omissioni determinano una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore<br />

al 5 per cento o una variazione del patrimonio netto non superiore all'1 per cento».<br />

Peraltro, una diversa «soglia» è poi stabilita anche per le valutazioni estimative, ove si prevede che «In ogni caso il fatto non è punibile se<br />

conseguenza di valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono in misura non superiore al 10 per cento di quella<br />

corretta» (art. 2621 comma 4; art. 2622 comma 6).<br />

(8) Questo profilo, in particolare, ha costituito la base edificativa delle domande pregiudiziali dei giudici italiani (poi ulteriormente<br />

articolate nei diversi profili accennati), sulla base di una argomentazione avanzata, in particolare, da Sotis, Obblighi comunitari di tutela e<br />

opzione penale, cit., p. 171 ss., e confortata da un precente giurisprudenziale della stessa Corte di Giustizia (CGCE, 4 dicembre 1997, C-<br />

97/96, Daihatsu Deutschland). In particolare, in relazione ad una norma del codice di commercio tedesco che sanzionava, in via<br />

amministrativa, l'omessa pubblicazione del bilancio (§ 335 Handelgesetzbuch, in relazione all'obbligo stabilito nel § 325), sottoponendo<br />

la sanzione ad un meccanismo di procedibilità analogo alla querela di parte - e cioè la richiesta (Antrag) di un socio, di un creditore, della<br />

commissione interna centrale o della commissione interna della società - la Curia, chiamata a valutare la rispondenza di tale normativa<br />

alle pretese di tutela comunitaria in materia di pubblicità dei conti annuali (secondo il citato art. 6 della direttiva 68/151/Cee) ha avuto<br />

modo di affermare che «l'art. 6 della prima direttiva va interpretato nel senso che esso osta alla legge di uno Stato membro che preveda<br />

solo per i soci, i creditori nonché la commissione centrale o la commissione interna di una società il diritto di chiedere la sanzione»; e ciò<br />

perché, in particolare, «la pubblicità dei conti annuali mira principalmente ad informare i terzi che non conoscano o non possano<br />

conoscere sufficientemente la situazione contabile e finanziaria della società» (p. 23; successivamente, la Corte, a seguito di una<br />

procedura di infrazione iniziata ai sensi dell'art. 226 [ex 169], con la sentenza 29 settembre 1998, C-191/95, Commissione c. Repubblica<br />

federale di Germania, ha constatato l'inadempimento della Repubblica federale di Germania, che non aveva nel frattempo approntato<br />

sanzioni adeguate per l'omessa pubblicità dei conti annuali delle società di capitali).<br />

(9) È una affermazione risalente alla nota sentenza sul c.d. «mais greco», CGCE, 21 settembre 1989, C-68/88, Commissione/Repubblica<br />

Ellenica, in ptc. punti 23 ss. (decisione pubblicata in Riv. trim. dir. pen. econ., 1993, p. 570 ss.; anche in questa rivista, 1992, p. 1654 ss.,<br />

con nota di Salazar), e poi costantemente ribadita, a prescindere dalla natura dell'atto giuridico adottato (regolamento o direttiva), e dal<br />

fatto che le disposizioni comunitarie prevedano una sanzione specifica in caso di trasgressione (tra le molte, cfr., ad es., CGCE, 10 luglio<br />

1990, C-326/88, Hansen & Soen, punto 17; 2 ottobre 1991, C-7/90, Vandevenne e a., punto 11; 8 giugno 1994, C-382/92,<br />

Commissione/Regno Unito e Irlanda del Nord, punto 55; sulla stessa linea, CGCE, 26 settembre 1996, C-341/94, Allain, punto 24; 8<br />

luglio 1999, C-186/98, Nunes e de Matos, punto 10).<br />

(10) CGCE, 13 luglio 1990, C-2/88, Zwartweld, punto 17.<br />

(11) Sull'ampio spazio di valutazione rimesso al giudice nazionale, cfr., ad esempio, la recente sentenza in tema di scommesse CGCE, 6<br />

novembre 2003, C-243/01, Gambelli e a., in Dir. pen. proc., 2004, p. 386 ss., con commento di Riondato.<br />

(12) Cfr., ad es., CGCE, 8 luglio 1999, C-186/98, Nunes e de Matos, cit.<br />

(13) Al riguardo, per taluni approfondimenti specie sulle peculiarità del rinvio pregiudiziale, e sulle possibili conseguenze, cfr. Riondato,<br />

Profili di rapporti tra diritto comunitario e diritto penale dell'economia («influenza», poteri del giudice penale, questione pregiudiziale ex<br />

art. 177 Trattato , questioni di costituzionalità), in Riv. trim. dir. pen. econ., 1997, p. 1135 ss.<br />

(14) È noto, infatti, che - a differenza del diritto comunitario stricto sensu inteso - lo strumentario giuridico del c.d. terzo pilastro,<br />

concernente la «cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale», consta di atti sforniti di efficacia diretta ed incapaci, in linea di<br />

principio, di esplicare effetti sul diritto domestico senza la mediazione attuativa del legislatore nazionale. Con specifico riguardo alle<br />

"decisioni quadro", tuttavia, cfr. ora le innovative affermazioni di CGCE, 16 luglio 2005, C-105/03, Pupino, in Guida dir., 2005, n. 26, p.<br />

67 ss., ove si afferma la vincolatività diretta di tali atti giuridici rilevando che "il giudice nazionale è tenuto a prendere in considerazione<br />

le norme dell'ordinamento nazionale nel loro complesso e a interpretarle, per quanto possibile, alla luce della lettera e dello scopo della<br />

256


(...) decisione quadro".<br />

(15) In particolare, nelle sue Conclusioni presentate il 14 ottobre 2004, l'Avvocato generale Kokott - richiamando in particolare la<br />

sentenza 11 novembre 2004, C-457/02, Niselli - aveva affermato il principio in base al quale «il giudice di uno Stato membro è tenuto a<br />

dare applicazione ai precetti di una direttiva, senza adire preventivamente il giudice costituzionale nazionale, disapplicando una legge<br />

penale più favorevole adottata successivamente al reato, se e in quanto tale legge contrasti con la direttiva» (p. 170, n. 7); ma cfr. anche p.<br />

138); e ciò, in particolare, considerato che la «applicazione retroattiva della legge più favorevole prevista dal diritto nazionale non<br />

dovrebbe (...) mettere in pericolo l'applicazione effettiva unitaria in tutti gli Stati membri. Essa non dovrebbe avere in alcun caso la<br />

conseguenza che per un comportamento punibile all'epoca dei fatti venga esclusa la pena retroattivamente in violazione dei precetti del<br />

diritto comunitario» (punto 167; per una sintesi delle conclusioni dell'Avvocato generale, ed un commento arricchito da ulteriori richiami<br />

giurisprudenziali, cfr. Dir. pen. proc., n. 12/2004, p. 1573 ss., a cura di Riondato; inoltre, in chiave critica, cfr. Mazzacuva, A proposito di<br />

«intepretazione creativa» tra diritto penale, principi costituzionali e direttive comunitarie, cit.; e Mezzetti, Il falso in bilancio fra Corte di<br />

giustizia e Corte costituzionale italiana, cit.).<br />

(16) Cfr. le Osservazioni presentate dalla Commisisone (ai sensi dell'art. 23 dello Statuto della Corte di giustizia), punto 70.<br />

(17) In particolare, l'Avvocato generale (punto 146) aveva invocato la disapplicazione dell'atto abrogativo della previgente disciplina<br />

contenuto nel d.lg. n. 61/2002.<br />

(18) Cfr. C. cost. n. 170/1984 (c.d. sentenza «Granital»).<br />

(19) Sulla questione di costituzionalità, sollevata in particolare dai giudici di Forlì, Melfi e Milano (Sez. II penale), ed incentrata su varie<br />

doglianze di irragionevolezza «interna» della nuova disciplina delle false comunicazioni sociali, la Corte costituzionale si è pronunciata<br />

con la sent. n. 161/2004 rigettando i ricorsi, ed argomentando, in particolare, sulla base del principio di legalità, e del corollario<br />

dell'inammissibilità di sentenze additive in malam partem. Viceversa, rispetto alle questioni di illegittimità «comunitaria», sollevate con<br />

tre ordinanze dal Tribunale di Palermo (ord. nn. 232/2002, 162 e 335/2003), la Corte, anche in considerazione della pronuncia<br />

pregiudiziale richiesta dai giudici di Lecce e Milano, ha deciso di attendere la decisione della Corte di Lussemburgo, rinviando le cause a<br />

nuovo ruolo con l'ordinanza n. 165/2004; quest'ultima decisione è tanto più significativa, perché la Consulta, a differenza di altri tribunali<br />

costituzionali, non ha mai effettuato un rinvio pregiudiziale ex art. 234, avendo anzi più volte escluso di poterlo fare.<br />

La sentenza n. 161/2004, e l'ordinanza n. 165/2004 sono pubblicate in Dir. pen. proc., n. 12/2004, p. 1497 ss. con nota di Giunta.<br />

(20) Sotto questo profilo specifico, tuttavia, sin dall'inizio si è registrato un atteggiamento ondivago da parte della Corte, tanto che già<br />

nelle «domande di concentrazione delle arringhe», prodromiche alla discussione orale, si era chiesto solo ai difensori degli imputati, ma<br />

non ai rappresentanti dell'accusa (i procuratori di Lecce e Milano), di pronunciarsi sulla ricevibilità in relazione alle conseguenze sui<br />

giudizi a quibus; lo stesso giudice relatore, d'altronde, alla fine della discussione orale (in sede di repliche) aveva posto un interrogativo<br />

cruciale al solo rappresentante della Commissione, chiedendo, in particolare, se le ripercussioni sui giudizi a quibus, costituissero o meno<br />

problematiche cui la Corte, nell'esercitare la funzione di nomofilachia in sede comunitaria, dovesse comunque prestare riguardo.<br />

(21) Su tale esigenza, in relazione al caso di specie, aveva peraltro richiamato l'attenzione l'Avvocato generale nelle sue Conclusioni (n.<br />

71), richiamando la costante giurisprudenza secondo la quale nell'interpretazione di una norma di diritto comunitario «si deve tener conto<br />

non soltanto della lettera della stessa, ma anche del suo contesto e degli scopi perseguiti dalla normativa di cui essa fa parte».<br />

(22) Ma sul punto si vedano - in sede di commento alla decisione della Corte - le perplessità di Di Martino, Possibile l'applicazione della<br />

pena più mite anche se affetta da illegittimità «europea», in Guida dir., n. 20/2005, p. 103 ss., 104, concernenti la dubbia plausibilità del<br />

metodo «contestuale» di interpretazione in materia penale, specie al cospetto del principio di determinatezza (peraltro ravvisato quale<br />

principio, oltre che di rango costituzionale primario, «appartenente alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e alle<br />

indicazioni fornite dai trattati internazionali in materia di tutela dei diritti dell'uomo», con un richiamo all'art. 22.2. dello Statuto della<br />

Corte criminale internazionale), rilevando, in particolare, che il principio stesso «sembra posto almeno in "tensione" dal modo di<br />

formazione dell'obbligo penalmente sanzionato: una norma chiede di sanzionare la "mancata pubblicità" dei conti annuali; i conti devono<br />

essere conformi alle norme previste da un testo successivo; il testo successivo definisce il modo in cui i conti debbono essere redatti per<br />

offrire un quadro fedele; rappresentare un "quadro fedele" è peraltro la prospettiva teleologica del sistema; quest'ultima impone di<br />

sanzionare anche le condotte materiali di falsificazione, in quanto incidenti sulla fedeltà della rappresentazione».<br />

(23) Infatti, se la «prima direttiva» - come accennato - prevede l'obbligo per gli Stati membri di stabilire «adeguate sanzioni per i casi di<br />

(...) mancata pubblicità del bilancio e del conto profitti e perdite» (art. 6, in relazione all'art. 2, paragrafo 1, lett. f); obbligo ribadito,<br />

quanto ai conti consolidati, dall'art. 38 n. 6 della «settima direttiva»), la c.d. quarta direttiva stabilisce, più espressamente, che «i conti<br />

annuali devono essere elaborati con chiarezza» (art. 2, par. 2), che «devono offrire un quadro fedele della situazione patrimoniale, di<br />

quella finanziaria, nonché del risultato economico della società» (art. 2, par. 3; aggiungendo, inoltre, che «quando l'applicazione della<br />

presente direttiva non basta per fornire il quadro fedele di cui al paragrafo 3, si devono fornire informazioni complementari»: art. 2, par.<br />

4).<br />

Il principio del «quadro fedele» (ribadito anche dalla settima direttiva: art. 16, nn. 3-5), in particolare, è stato identificato come l'obiettivo<br />

principale della quarta direttiva sulle società (v. sentenze 14 settembre 1999, causa C-275/95, DE+ES Bauunternehemung, Racc. p. I-<br />

5331, punto 26; e 7 gennaio 2003, causa C-306/99, BIAO, Racc. p. I-1, punto 72), e come tale era stato opportunamente richiamato, nella<br />

causa in esame, già nelle Conclusioni dell'Avvocato generale Kokott, cit., punti 72-75.<br />

Lo stesso principio, come noto, ha peraltro rappresentato la matrice diretta della disciplina civilistica italiana, e in particolare dell'art.<br />

2423 comma 2 c.c., a norma del quale «il bilancio deve essere redatto con chiarezza e deve rappresentare in modo veritiero e corretto la<br />

situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico di esercizio».<br />

(24) È una prospettiva, questa, alla luce della quale il bene «trasparenza» guadagna afferrabilità, e dimostra uno stringente e non arbitrario<br />

nesso di strumentalità rispetto alla tutela del «risparmio» quale bene di rilievo costituzionale (art. 47 Cost.): sul punto, volendo, Manes, Il<br />

principio di offensività nel diritto penale, ed. provv., Il Mulino, 2005, p. 221 ss.<br />

(24-bis) Cfr. il considerando n. 16, ove si identifica la «reale e piena trasparenza del mercato» quale «requisito fondamentale perché tutti<br />

gli operatori economici siano in grado di operare su mercati finanziari integrati»<br />

(25) Il rapporto tra (l'obiettivo de) la tutela dei terzi, prefigurato all'art. 44 (ex 54) comma 2, lett. g), e una condizione di procedibilità a<br />

257


titolarità ristretta, era già stato affrontato in modo diretto, come anticipato, dalla sentenza CGCE, 4 dicembre 1997, C-97/96, cit., Daihatsu<br />

Deutschland, cit., in ptc. pp. 19-23.<br />

(26) Diversamente, cfr. le conclusioni dell'Avvocato generale, cit., punto 170.<br />

(27) Così, richiamando espressamente le sentenze CGCE 8 ottobre 1987, C-80/86, Kolpinghius Nijmegen, p.13 e 7 gennaio 2004, C-<br />

60/02, X, p. 61, relativamente all'ipotesi di interpretazione conforme al diritto comunitario in materia penale; nello stesso senso si vedano,<br />

inoltre, le sentenze CGCE, 11 giugno 1987, C-14/86, Pretore di Salò, p. 20; 26 settembre 1996, C-168/95, Arcaro, p. 37; 12 dicembre<br />

1996, cause riunite C-74/95 e C-129/95, X, p. 24.<br />

(28) Al riguardo, ad esempio, Di Martino, Possibile l'applicazione della pena più mite, cit., p. 105, lamenta la non pertinenza del principio<br />

della retroattività della lex mitior rispetto al caso di specie.<br />

(29) Condivisibile, sul punto, l'autorevole critica di Onida, Quando il giudice decide a metà, in Il sole 24ore, 4 maggio 2005, volta,<br />

appunto, a denunciare l'ambiguità della decisione: «La Corte adotta una soluzione solo apparentemente di merito, in realtà senza<br />

rispondere alle domande dei giudici di Milano (...) e Lecce (...). La Corte cioè non dice se la legge italiana vigente costituisce o meno una<br />

corretta attuazione dell'obbligo comunitario di punire con sanzioni che abbiano un carattere «effettivo, proporzionale e dissuasivo» le<br />

falsità in scritture contabili. Si limita a ribadire l'esigenza «comunitaria» di adeguatezza delle sanzioni per tali reati. La Corte, accogliendo<br />

una tesi degli imputati, afferma però che (indipendentemente dalla adeguatezza o meno, dal punto di vista comunitario, delle sanzioni<br />

previste dalla legge italiana in vigore) non si può invocare una direttiva comunitaria per farne derivare l'effetto di determinare o di<br />

aggravare la responsabilità penale degli imputati. Ci si sarebbe aspettati, a questo punto, una decisione di irricevibilità (come infatti<br />

veniva richiesto dagli imputati), in quanto i giudici che avevano sollevato la questione non avrebbero mai potuto trarre dalla decisione di<br />

merito un effetto pratico ai fini dei loro processi. Invece la Corte disattende (senza argomentare) questa eccezione, ma poi decide «nel<br />

merito» nel senso che si è detto, e cioè non decidendo il vero merito» (corsivo nostro).<br />

(30) La nozione di «norma direttamente applicabile» - nozione che rimanda alla nota sentenza della Corte cost. n. 170/1984 (c.d. sentenza<br />

«Granital»), e attualmente molto contrastata in dottrina, tanto che vi è chi ne nega la validità stessa: cfr. sul punto, Mastroianni, Sanzioni<br />

nazionali per violazione del diritto comunitario, cit., p. 665 - assume, in linea di principio, che deve trattarsi di norma, del Trattato o di un<br />

atto delle istituzioni, invocabile in giudizio da parte di un privato in quanto finalizzata ad attribuire diritti - e, sotto questo aspetto, non<br />

hanno efficacia diretta le direttive non trasposte qualora invocate nei rapporti interprivatistici - ovvero di norma completa nel suo<br />

contenuto precettivo.<br />

(31) Molto chiara, sul punto, CGCE, 7 gennaio 2004, C-60/02, cit., p. 61-62.<br />

(32) Cfr. le Conclusioni dell'Avvocato generale Kokott, cit., punti 143 ss., ove - dopo aver affermato che «resta pacifico che l'efficacia<br />

diretta di una direttiva nel procedimento penale non può comunque avere la conseguenza di creare obblighi a carico di un soggetto», si<br />

afferma che nel caso di specie, tuttavia, «il principio della legalità della pena non viene compromesso poiché la responsabilità penale<br />

degli imputati nelle cause principali non deriverebbe in nessun caso dalle direttive societarie e sarebbe quindi indipendente dalle<br />

normative nazionali adottate per la loro attuazione»; infatti, risultando «applicabile la legge nazionale nella sua versione in vigore<br />

all'epoca dei fatti (...) la punibilità si fonda sul diritto nazionale, vale a dire sull'originario art. 2621 del codice civile» (punto 145). Così,<br />

«il fatto che nel caso di specie venga contestata (...), l'applicabilità della precedente legge penale non riguarda, nell'essenza, tanto la<br />

questione se il principio della legalità della pena sia garantito, ma al contrario la questione se a tale principio possa essere fatta una deroga<br />

a vantaggio dell'applicazione retroattiva della legge penale successiva più favorevole» (punto 147; ma si vedano, inoltre, i punti 151 ss.).<br />

Una opinione sostanzialmente analoga, peraltro, era stata sostenuta dal rappresentante della Commissione nelle sue Osservazioni, cit.,<br />

punti 53, p. 66 ss.<br />

(33) Per affermare la salvezza del principio di legalità, l'Avvocato generale, nelle sue Conclusioni, cit., punti 148-149, richiama<br />

espressamente le sentenze CGCE 25 giugno 1997, nei procedimenti riuniti C-304/94, C-330/94, C-342/94, C-224/95, Tombesi e a., punto<br />

43; e 11 novembre 2004, C-457/02, Niselli, punto 30, entrambe concernenti la modifica di un elemento normativo di fattispecie, in<br />

materia di disciplina penale dei rifiuti, che aveva comportato un effetto di circoscrizione della punibilità rispetto all'area di tipicità<br />

ritagliata dalla fattispecie precedente - effetto ritenuto incompatibile con la normativa comunitaria (sulla cui interpretazione, appunto, la<br />

Corte era stata chiamata ad intervenire in via pregiudiziale) - affermando che «ora come allora si tratta di una modifica di elementi di una<br />

fattispecie di reato, che costituiscono il fondamento della pena. Ora come allora la modifica della normativa nazionale ha avuto come<br />

effetto l'impunità per fatti per i quali precedentemente era prevista una pena. Come nella presente fattispecie sono state introdotte nuove<br />

soglie di tolleranza al di sotto delle quali è esclusa la punibilità per false comunicazioni sociali, così nei procedimenti Tombesi e Niselli<br />

era stata modificata (in senso più ristretto) la nozione di rifiuti e quindi la punibilità per determinate violazioni della normativa sui rifiuti.<br />

È decisiva la circostanza che in tutti questi casi i fatti, nel momento in cui sono stati commessi, erano punibili secondo il diritto<br />

nazionale»; e proprio alla luce di tale circostanza diventa superfluo esaminare le conseguenze che potrebbero derivare dal principio della<br />

legalità delle pene per l'applicazione della direttiva.<br />

(34) Si veda, al riguardo, CGCE 18 dicembre 1997, C-129/96, Inter-Environnement Wallonie (decisione richiamata dal rappresentante<br />

della Commissione in sede di discussione orale), ove si rileva che, ancor prima che scada il termine per la trasposizione di una direttiva,<br />

l'art. 10 Tce e la direttiva stessa impongono allo Stato membro di astenersi dall'adottare disposizioni tali da compromettere la<br />

realizzazione del risultato che la direttiva stessa prescrive.<br />

(35) Proprio in ipotesi come queste - di c.d. «doppia pregiudizialità» - il giudice comune, non potendo attingere all'immediata, «diffusa»<br />

disapplicazione (impraticabile a fronte di norma comunitaria non «direttamente applicabile»), una volta adempiuto l'obbligo di richiedere<br />

l'intervento pregiudiziale della Corte comunitaria, deve adire la Corte costituzionale: si vedano, al riguardo, le ordinanze della Corte cost.<br />

nn. 536/95 e 319/96; in dottrina, sul punto, Onida, «Armonia tra diversi» e problemi aperti: la giurisprudenza costituzionale sui rapporti<br />

tra ordinamento e ordinamento costituzionale, Quad. cost., 2002, p. 549 ss.; Cartabia, Considerazioni sulla posizione del giudice comune<br />

di fronte a casi di «doppia pregiudizialità», comunitaria e costituzionale, in Foro it., 1997, V, c. 222 ss.; con specifico riguardo al caso in<br />

esame, Mastroianni, Sanzioni nazionali per violazione del diritto comunitario, cit., p. 660 ss.; Mezzetti, Il falso in bilancio fra Corte di<br />

giustizia e Corte costituzionale italiana, cit., p. 3 (specie criticando la tesi dell'immediata disapplicazione); inoltre, Di Martino, Possibile<br />

l'applicazione, cit., p. 104.<br />

258


(36) Si noti, peraltro, che anche l'Avvocato generale, pur abbracciando, nelle sue Conclusioni, la tesi della disapplicazione immediata da<br />

parte dei giudici nazionali, aveva ritenuto che «ciò non esclude che un atto legislativo nazionale, come il d.lg. n. 61/2002, venga<br />

sottoposto, ai sensi della rispettiva normativa nazionale, in aggiunta, ad un esame da parte del giudice costituzionale, con cui venga<br />

valutata, in linea generale, la sua legittimità costituzionale, e, se del caso, la sua validità» (p. 137).<br />

(37) È un principio, come noto, affermato in CGCE, 13 novembre 1990, C-106/1989, Marleasing.<br />

(38) Difatti, seguendo la giurisprudenza della stessa Corte di giustizia, se è vero che «spetta esclusivamente al giudice nazionale (...)<br />

valutare, alla luce delle particolari circostanze di ciascuna causa, sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale (...) sia la rilevanza delle<br />

questioni che sottopone alla Corte», con la conseguenza che «se le questioni sollevate dal giudice nazionale vertono sull'interpretazione<br />

del diritto comunitario, la Corte, in via di principio, è tenuta a statuire», è vero pure che la Corte stessa non può statuire «qualora appaia in<br />

modo manifesto che l'interpretazione o il giudizio sulla validità di una norma comunitaria non hanno alcuna relazione con l'effettività e<br />

con l'oggetto della causa a quo, oppure qualora il problema sia di natura ipotetica (...)» (ad es., CGCE 15 dicembre 1995, C-415/93,<br />

Bosman, punti 59-61).<br />

(39) Occorre tuttavia ricordare, al riguardo, che la Corte costituzionale non ha mai dichiarato l'illegittimità costituzionale di norme interne<br />

non conformi a norme comunitarie prive di «efficacia diretta»: sul punto, Mastroianni, Sanzioni nazionali, cit., p. 662 s., e nota 104.<br />

(40) Si veda, ad esempio, CGCE, 26 settembre 1996, C-341/94, Allain, dove la Corte aveva affermato che un comportamento<br />

originariamente contrastante con il diritto comunitario, e quindi punibile secondo il diritto nazionale, può essere riesaminato, in<br />

applicazione di principi procedurali nazionali (in particolare, il principio dell'applicazione retroattiva della legge penale più favorevole),<br />

qualora vi siano cambiamenti successivi delle circostanze di fatto o di diritto.<br />

(41) Si veda, ad esempio, CGCE, 29 ottobre 1998, C-230/97, Awoyemi, punto 38.<br />

(42) Assumendo, in particolare, la «non prevalenza» del principio dell'applicazione retroattiva della lex mitior rispetto alla primauté del<br />

diritto comunitario; è chiaro, infatti, che la premessa implicita delle sentenze Tombesi e Niselli è che l'applicazione ai fatti pregressi della<br />

legge penale più favorevole, non assurgendo al rango di diritto fondamentale della persona, o, comunque, di principio fondamentale<br />

dell'ordinamento comunitario, non possa rappresentare un ostacolo al primato del diritto comunitario.<br />

Da questa angolatura, peraltro, se la prevalenza del diritto comunitario implica la invalidità della norma nazionale contrastante<br />

(pregiudicando, inapicibus, la «valida formazione» della stessa), il caso dimostrerebbe profili di analogia con l'ipotesi del decreto-legge<br />

non converito, che, secondo la nota sentenza della Corte cost. n. 51/1985, non può produrre effetti rispetto ai fatti commessi prima della<br />

sua entrata in vigore (con la conseguenza, sottolineata dal rappresentante della Commissione in sede di discussione orale, che il principio<br />

dell'inefficacia ex tunc del decreto legge non convertito prevale sull'applicazione della lex mitior).<br />

(43) In questo senso, ad es., Mezzetti, Il falso in bilancio fra Corte di giustizia e Corte costituzionale italiana, cit., con riferimento al<br />

recepimento, in forza della copertura costituzionale offerta dagli artt. 10 e 11, all'art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti<br />

dell'uomo e delle libertà fondamentali del 1950 (resa esecutiva con la l. n. 848/1955), e all'art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e<br />

politici del 1966 (reso esecutivo in Italia con l. n. 881/1977).<br />

In realtà, se l'art. 15 del Patto è inequivoco sul punto (stabilendo che «se, posteriormente alla commissione del reato, la legge prevede<br />

l'applicazione di una pena più lieve, il colpevole deve beneficiarne»), l'art. 7 Cedu non sancisce il principio di retroattività favorevole in<br />

materia penale (sul punto, cfr. Bernardi, subArt. 7, in Bartole-Conforti-Raimondi, Commentario alla Convenzione europea dei diritti<br />

dell'uomo e delle libertà fondamentali, Cedam, 2001, p. 295 s.).<br />

(44) Peraltro, proprio sulla base dell'argumentum libertatis, la giurisprudenza prevalente esclude l'applicabilità analogica dell'art. 2<br />

comma 3 agli illeciti amministrativi: Sez. un., 29 gennaio 1994, n. 890, Rep. Foro It., 1994, voce «Sanzioni amministrative e<br />

depenalizzazione», n. 26.<br />

(45) Si vedano, ad es., C. cost. n. 6/1978 e n. 80/1995.<br />

(46) Perplessità sono espresse da Onida, Quando il giudice decide a metà, cit.; Riondato, Intervento al seminario «Il falso in bilancio<br />

davanti alle Corti costituzionale e di giustizia» (Università di Ferrara, 6 maggio 2005); Di Martino, Possibile l'applicazione, cit., p. 105<br />

(che peraltro circoscrive e giustifica, condivisibilmente, la ratio del principio dell'applicazione retroattiva della pena più mite alla<br />

dinamica della successione di leggi, al di là della quale il principio stesso sarebbe una mera applicazione «estensiva» del principio del<br />

favor rei).<br />

Al riguardo, peraltro, analoghe perplessità erano state espresse anche dal rappresentante della Commissione nelle sue Osservazioni, cit., p.<br />

68 (ove si rilevava, tra l'altro, l'estraneità del principio stesso rispetto agli ordinamenti di taluni Stati membri, come ad esempio Regno<br />

Unito e Irlanda); sul punto, in ogni caso, si veda la diversa opinione dell'Avvocato generale Kokott, nelle sue Conclusioni, cit., p. 156,<br />

incline a riconoscere alla retroattività in mitius natura di «principio generale di diritto comunitario», pur contraddicendosi, almeno in<br />

parte, quando ammette (punto 160) che nella maggior parte degli ordinamenti giuridici nazionali essa non ha rango costituzionale, ma<br />

solo di norma ordinaria (essendo inoltre spesso soggetto a restrizioni, ad esempio quando la punibilità di un fatto deriva da una legge la<br />

cui validità era già stata limitata nel tempo fin dall'inizio).<br />

Quanto alle fonti sovrananzionali, oltre alle fonti già segnalate (nota 43), il principio è ora espressamente sancito nell'art. II-109, comma<br />

1, parte seconda, del Trattato che adotta una costituzione per l'Europa, ove si stabilisce che «Se, successivamente alla commissione del<br />

reato, la legge prevede l'applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest'ultima».<br />

(47) Pur ipotizzata la «ricevibilità» della questione, resta, in ogni caso, ancora incerta l'identificazione dell'oggetto e del perimetro<br />

dell'eventuale declaratoria di illegittimità: se essa possa coinvolgere l'intera disciplina, e la stessa disposizione abrogatrice della fattispecie<br />

previgente, ovvero - è forse l'ipotesi meno inverosimile, almeno in astratto - debba limitarsi ad una sentenza di parziale accoglimento, in<br />

relazione ai profili di contrasto evidenziati in controluce nella sequenza argomentativa concernente il merito, ad esempio in relazione alle<br />

soglie percentuali di rilevanza, o alla procedibilità a querela di soci e creditori (ma in quest'ultimo caso, l'incompatibilità dovrebbe sempre<br />

fondarsi su un implicito giudizio di inadeguatezza della tutela contravvenzionale).<br />

Si noti, tuttavia, che la Corte, nella sentenza n. 161/2004, ha già risposto negativamente in merito alla possibilità di intervenire con<br />

interventi di «ortopedia giuridica» ampliativi, in particolare replicando ad una delle ordinanze che invocava la rimozione delle soglie di<br />

non punibilità (ipotizzate quali «norme penali di favore»), affermando, in particolare, che la previsione, da parte del legislatore, di<br />

259


«elementi di selezione dei fatti meritevoli di pena», rientra nelle «scelte discrezionali "primarie" di politica criminale, di sua esclusiva<br />

spettanza».<br />

(48) In ogni caso, si profilerebbe uno scenario più complesso di quello dove muove la questione sorta nel prosieguo della pronuncia della<br />

Corte di Giustizia sul caso Niselli, dove il quesito pregiudiziale concerneva un elemento normativo di fattispecie (la nozione di «rifiuto»).<br />

Al riguardo, il Tribunale di Terni, che aveva adito il giudice comunitario, ha infatti sollevato - con ordinanza 2 febbraio 2005 (reperibile<br />

sul sito www.lexambiente.com) - una questione incidentale di illegittimità costituzionale, invocando, rispetto all'originaria disciplina<br />

incriminatrice, «la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma successiva, la quale tende a restringerne l'ambito di<br />

applicazione, in contrasto con le norme costituzionali che impongono il primato del diritto comunitario», ricordando, inoltre, che un<br />

problema «analogo» è stato risolto dalla Corte costituzionale «quando ha più volte censurato l'esercizio della potestà legislativa delle<br />

Regioni svolta in contrasto con la legge statale» e che «nessuno ha mai dubitato della legittimità di siffatte pronunce, sotto il profilo del<br />

rispetto dell'art. 25 Cost., giacché la norma penale incriminatrice - ridotta nella sua sfera di applicazione dalla disposizione regionale -<br />

preesisteva al fatto storico e quindi l'annullamento della seconda non poteva ledere il principio di irretroattività», in particolare perché<br />

«l'annullamento della norma interna avrebbe, infatti, come effetto quello di ripristinare la sfera di applicazione della preesistente<br />

disposizione che aveva correttamente recepito la direttiva Cee».<br />

(49) Nella sentenza n. 161/04, cit., la Corte - come accennato - richiamandosi a una giurisprudenza costante, ed evidenziando, peraltro, le<br />

lacune delle ordinanze di rimessione in punto di motivazione sulla rilevanza, ha già ritenuto inammissibili i ricorsi basati su motivi di<br />

illegittimità diversi dalla violazione degli obblighi imposti dagli artt. 11 e 117 comma 1 Cost., assumendo che «il principio secondo cui<br />

nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso, esclude che la Corte costituzionale<br />

possa introdurre in via additiva nuovi reati o che l'effetto di una sua sentenza possa essere quello di ampliare o aggravare figure di reato<br />

già esistenti, trattandosi di interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore».<br />

(50) C. cost. n. 148/83, in Foro it., 1983, I, c. 1800 ss., con note di Gironi-Pulitanò; sul tema del controllo di costituzionalità su norme di<br />

favore, cfr., da ultimo, Pulitanò, Diritto penale, cit., p. 151 s.<br />

(51) In particolare, come è stato sostenuto, il giudice costituzionale dovrebbe trovare la formula per decretare l'illegittimità della norma<br />

(magari solo in parte qua) esclusivamente pro futuro, di modo cioè che la censura di illegittimità si limiti a ripristinare lo status quo ante<br />

limitatamente ai fatti futuri, dando vita così ad un fenomeno di reviviscenza della precedente disciplina più severa ma solo con effetto ex<br />

tunc: cfr. sul punto, Onida, Quando il giudice decide a metà, cit.; inoltre, Riondato, Intervento, cit.<br />

(52) In questi termini lo definisce il recentissimo manuale di Palazzo, Corso di diritto penale, Giappichelli, 2005, p. 149, sottolinenando<br />

che si tratta di un principio i cui effetti e la cui ratio non corrispondono a quelli del principio di irretroattività.<br />

(53) Soprattutto Sotis, Obblighi comunitari di tutela e opzione penale, cit., in ptc., p. 204 ss.<br />

(54) Dolcini, Leggi penali «ad personam» riserva di legge e principio costituzionale di eguaglianza, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2004, p.<br />

50 ss.<br />

(55) Una prospettiva analoga, d'altronde, era stata indicata dal rappresentante della Commissione nelle sue Osservazioni, cit., punto 71,<br />

rilevando che «Avendo ben presente che il problema posto dai giudici nazionali riguarda unicamente i fatti antecedenti, il vizio di cui è<br />

affetta la lex posterior esclude che essa possa dispiegare effetti retroattivi e le impedisce di sopprimere reati già perpetrati o di affievolire<br />

le sanzioni ad essi collegate. Peraltro, se così non fosse, qualsiasi Stato membro sarebbe libero, in qualsiasi momento, di depenalizzare<br />

comportamenti vietati da norme comunitarie e inizialmente sanzionati dal legislatore nazionale in ossequio alle esigenze dell'ordinamento<br />

nazionale, con il risultato di far sfuggire in modo irreversibile alla sanzione coloro che già si siano resi colpevoli della trasgressione e che,<br />

eventualmente, siano stati definitivamente condannati per quei fatti, Una siffatta conseguenza porrebbe a repentaglio l'effettiva<br />

applicazione del diritto comunitario negli Stati membri» (corsivo nostro).<br />

(56) Sul punto, si rinvia a Insolera, Democrazia, ragione e prevaricazione, cit., p. 22 ss.<br />

(57) Cfr., al riguardo, il punto 67 della decisione; nell'ipotesi di concorrenza tra il principio dell'applicazione retroattiva della legge più<br />

favorevole e principio di prevalenza del diritto comunitario, varrebbero pur sempre, dunque, le gerarchizzazioni imposte dalla dottrina dei<br />

«controlimiti» (cfr. C. cost. nn. 183/1973; 232/1989, 509/1995).<br />

(58) Cass., 26 marzo 2003, Giordano, in Guida dir., 2003, fasc. 26, p. 60.<br />

(59) Ciò ha riguardato soprattutto il caso della bancarotta impropria dove il confronto tra la nuova e la vecchia disciplina portò taluni ad<br />

individuare una discontinuità di tipo di illecito con conseguente abrogazione.<br />

(60) Cfr. Pulitanò, Legalità discontinua? Paradigmi e problemi di diritto intertemporale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2003, p. 1290; Donini,<br />

Discontinuità del tipo di illecito e amnistia. Profili costituzionali, in questa rivista, 2003, p. 2857.<br />

(61) Pulitanò, Legalità discontinua, cit., p. 1301.<br />

(62) Ad es., Pizzorusso, Sui limiti della potestà normativa della Corte costituzionale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1982, p. 305 ss.; Bricola,<br />

Legalità e crisi: l'art. 25, 2° e 3° comma Cost. rivisitato alla fine degli anni '70, in Scritti di diritto penale, vol. I, tomo II, Giuffrè, 1997, p.<br />

1273 ss., p. 1337 ss. (e già in Quest. crim., 1980, p. 179 ss.).<br />

(63) Cfr. Pulitanò, La «non punibilità» di fronte alla Corte costituzionale, in Foro it., 1983, I, p. 1805 ss., p. 1810.<br />

(64) Si veda, tra le altre, C. cost. n. 49/2002; n. 183, n. 508 e n. 580/2000; n. 411/1995.<br />

(65) È un dato, in definitiva, registrato anche da Pulitanò, Diritto penale, cit., p. 151, il quale tuttavia ritiene che l'ammissione del<br />

sindacato di legittimità su norme di favore non sia in contrasto con l'inammissibilità di questioni in malam partem su norme incirminatrici<br />

(richiamando una distinzione sottolineata anche nella sentenza n. 161/2004).<br />

(66) In questi termini li definisce Bernardi, Falso in bilancio e diritto comunitario, cit., p. 381.<br />

(67) Soprattutto, con riguardo alle nuove competenze assegnate, ai sensi dell'art. III-271 del Trattato che adotta una Costituzione per<br />

l'Europa, alla «legge quadro europea» in talune «sfere di criminalità particolarmente grave che presentano una dimensione<br />

transnazionale»; su questo fondamentale mutamento, e sul tramonto della «tradizionale ancorchè già sbiadita colorazione autarchicostatualista<br />

del diritto criminale» che esso sottende, si rinvia all'istruttivo affresco di Bernardi, Europeizzazione del diritto penale e progetto<br />

di Costituzione europea, in Dir. pen. proc., 2004, p. 5 ss.<br />

(67-bis) Emblematica, al riguardo, la decisione del Bundesverfassungsgericht, che ha sancito l'illegittimità della legge tedesca attuativa<br />

260


della decisione quadro in materia di mandato d'arresto europeo (Haftbehlgesetz), per contrasto con l'art. 16 comma 2 (divieto di<br />

estradizione) e l'art. 19 comma 4 (diritto a un ricorso dinanzi a un giudice) del Grundgesetz: BVerfG. 18 luglio 2005 (n. 2236/04), in<br />

www.bverfg.de.<br />

(68) A chiusura della parte II della Costituzione europea, che incorpora la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione, l'art. II-113 («Livello<br />

di protezione»), sancisce che «Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti<br />

dell'uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell'Unione, dal diritto internazionale,<br />

dalle Convenzioni internazionali delle quali l'Unione o tutti gli Stati membri sono parti, in particolare la Convenzione europea di<br />

salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, e dalle Costituzioni degli Stati membri».<br />

261


262


Autorità: Corte giustizia CE<br />

Data: 03 maggio 2005<br />

Numero: n. 387<br />

Parti: Rep. it. C. Berlusconi e altro<br />

Fonti: Cass. pen. 2005, 9, 2764 (nota di: INSOLERA, MANES)<br />

CLASSIFICAZIONE<br />

SOCIETA' E CONSORZI (Disposizioni penali) - In genere<br />

TESTO<br />

La prima direttiva del Consiglio 9 marzo 1968 n. 68/151/Cee, intesa a coordinare, per renderle equivalenti, le garanzie che<br />

sono richieste, negli Stati membri, alle società a mente dell'art. 58 comma 2 del trattato per proteggere gli interessi dei soci e<br />

dei terzi, non può essere invocata in quanto tale dalle autorità di uno Stato membro nei confronti degli imputati nell'ambito<br />

di procedimenti penali, poiché una direttiva non può avere come effetto, di per sè e indipendentemente da una legge interna<br />

di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o aggravare la responsabilità penale degli imputati.<br />

(Nella fattispecie, premesso che l'obbligo di prevedere sanzioni adeguate per le ipotesi di mancata pubblicizzazione dei<br />

conti annuali, espressamente previsto dalla prima direttiva sul diritto societario, deve ritenersi implicitamente esteso alle<br />

ipotesi di falsificazione dei conti stessi, la Corte ha escluso che i giudici nazionali possano disapplicare i "nuovi" art. 2621 e<br />

2622 c.c. per contrasto con la direttiva citata. E questo perché ne deriverebbe l'applicazione di un trattamento sanzionatorio<br />

più severo, come quello previsto dall'originario art. 2621 c.c., conseguenza inammissibile anche a prescindere dal principio<br />

dell'applicazione della pena più mite, peraltro riconosciuto come parte integrante dei principi generali del diritto<br />

comunitario).<br />

Corte giustizia CE, 03 maggio 2005, n. 387<br />

Autorità: Corte giustizia CE<br />

Data: 03 maggio 2005<br />

Numero: n. 387<br />

CLASSIFICAZIONE<br />

FALSITA' IN ATTI (Reati) - In genere Vedi tutto<br />

SOCIETA' E CONSORZI (Disposizioni penali) - In genere<br />

UNIONE EUROPEA - In genere N.B. Solo per quanto concerne la costituzione dell'Unione Europea e le norme<br />

comunitarie non riprodotte nella legislazione italiana<br />

UNIONE EUROPEA - Fonti atti e norme<br />

UNIONE EUROPEA - Fonti regole di interpretazione e di applicazione del diritto comunitario<br />

UNIONE EUROPEA - Fonti in genere<br />

Unione europea - Ce - Diritto societario - Prima direttiva 68/151/Cee, quarta direttiva 78/660/Cee e settima direttiva<br />

83/349/Cee - Requisito dell'adeguatezza delle sanzioni per violazioni del diritto comunitario - Disapplicazione in<br />

malam parte della disciplina interna - Inammissibile. Vedi tutto<br />

Unione europea - Ce - Diritto societario - Prima direttiva 68/151/Cee, quarta direttiva 78/660/Cee e settima direttiva<br />

83/349/Cee - Conti annuali - Principio del quadro fedele - Sanzioni previste in caso di false comunicazioni sociali -<br />

Art. 6 della prima direttiva 68/151 - Requisito dell'adeguatezza delle sanzioni per violazioni del diritto comunitario -<br />

Aggravamento della responsabilità penale - Effetto diretto - Non sussiste.<br />

Diritto penale - Principi generali del diritto comunitario - Applicazione retroattiva della pena più mite - Inclusione.<br />

INTESTAZIONE<br />

Parti<br />

Nei procedimenti riuniti C387/02, C391/02 e C403/02,<br />

aventi ad oggetto alcune domande di pronuncia pregiudiziale sottoposte alla Corte, ai sensi dell'art. 234 CE, dal Tribunale di<br />

Milano (cause C387/02 e C403/02) e dalla Corte d'appello di Lecce (causa C391/02), con ordinanze 26, 29 e 7 ottobre 2002,<br />

pervenute in cancelleria, rispettivamente, il 28 ottobre, il 12 e l'8 novembre 2002 , nei procedimenti penali a carico di<br />

{Silvio Berlusconi} (causa C387/02),<br />

{Sergio Adelchi} (causa C391/02),<br />

{Marcello Dell'Utri} e a. (causa C403/02),<br />

LA CORTE (Grande Sezione),<br />

composta dal sig. V. Skouris, presidente, dai sigg. P. Jann, C.W.A. Timmermans (relatore), A. Rosas e A. Borg Barthet,<br />

presidenti di sezione, dai sigg. J.P. Puissochet, R. Schintgen, dalla sig.ra N. Colneric, dai sigg. S. von Bahr, M.Ilei, J.<br />

Malenovský, U. Lõhmus e E. Levits, giudici,<br />

263


avvocato generale: sig.ra J. Kokott<br />

cancelliere: sig.ra L. Hewlett, amministratore principale,<br />

vista la fase scritta del procedimento e in seguito alla trattazione orale del 13 luglio 2004,<br />

viste le osservazioni presentate:<br />

- per il sig. Berlusconi, dagli avv.ti G. Pecorella e N. Ghedini;<br />

- per il sig. Adelchi, dall'avv. P. Corleto;<br />

- per il sig. Dell'Utri, dagli avv.ti G. Roberti e P. Siniscalchi;<br />

- per la Procura della Repubblica, dai sigg. G. Colombo, G. Giannuzzi, E. Cillo e dalla sig.ra I. Boccassini, in qualità di<br />

agenti;<br />

- per il governo italiano, dal sig. I.M. Braguglia, in qualità di agente, assistito dal sig. O. Fiumara, avvocato dello Stato;<br />

- per la Commissione delle Comunità europee, dal sig. V. Di Bucci e dalla sig.ra C. Schmidt, in qualità di agenti,<br />

sentite le conclusioni dell'avvocato generale, presentate all'udienza del 14 ottobre 2004,<br />

ha pronunciato la seguente Sentenza<br />

FATTO<br />

1. Le domande di pronuncia pregiudiziale vertono sull'interpretazione della prima direttiva del Consiglio 9 marzo 1968,<br />

68/151/CEE, intesa a coordinare, per renderle equivalenti, le garanzie che sono richieste, negli Stati membri, alle società a<br />

mente dell'articolo 58, secondo comma, del Trattato per proteggere gli interessi dei soci e dei terzi (GU L 65, pag. 8; in<br />

prosieguo: la "prima direttiva sul diritto societario"), in particolare dell'art. 6 della medesima, della quarta direttiva del<br />

Consiglio 25 luglio 1978, 78/660/CEE, basata sull'articolo 54, paragrafo 3, lettera g), del Trattato e relativa ai conti annuali<br />

di taluni tipi di società (GU L 222, pag. 11; in prosieguo: la "quarta direttiva sul diritto societario"), in particolare dell'art. 2<br />

della medesima, e della settima direttiva del Consiglio 13 giugno 1983, 83/349/CEE, basata sull'articolo 54, paragrafo 3,<br />

lettera g), del Trattato e relativa ai conti consolidati (GU L 193, pag. 1; in prosieguo: la "settima direttiva sul diritto<br />

societario"), in particolare dell'art. 16 della medesima, nonché degli artt. 5 del Trattato CEE (divenuto art. 5 del Trattato CE,<br />

a sua volta divenuto art. 10 CE) e 54, n. 3, lett. g), del Trattato CEE (divenuto art. 54, n. 3, lett. g), del Trattato CE, a sua<br />

volta divenuto, in seguito a modifica, art. 44, n. 2, lett. g), CE).<br />

2. Tali domande sono state presentate nell'ambito di procedimenti penali avviati a carico dei sigg. {Berlusconi} (causa<br />

C387/02), {Adelchi} (causa C391/02) e {Dell'Utri} e a. (causa C403/02) per presunta violazione delle disposizioni in<br />

materia di false comunicazioni sociali (falsità in scritture contabili) previste dal codice civile italiano (in prosieguo: il<br />

"codice civile").<br />

Contesto normativo<br />

Disciplina comunitaria<br />

3. In forza dell'art. 54, n. 3, lett. g), del Trattato, il Consiglio dell'Unione europea e la Commissione delle Comunità europee<br />

operano al fine della soppressione delle restrizioni relative alla libertà di stabilimento coordinando, nella necessaria misura e<br />

al fine di renderle equivalenti, le garanzie che sono richieste, negli Stati membri, alle società ai sensi dell'art. 58, secondo<br />

comma, del Trattato CEE (divenuto art. 58, secondo comma, del Trattato CE, a sua volta divenuto art. 48, secondo comma,<br />

CE), per proteggere gli interessi tanto dei soci quanto dei terzi.<br />

4. Su tale fondamento sono state quindi adottate dal Consiglio varie direttive, di cui le seguenti in particolare assumono<br />

rilevanza nelle cause principali.<br />

5. La prima direttiva sul diritto societario si applica, conformemente al suo art. 1, alle società di capitali, vale a dire, per<br />

l'Italia, ai seguenti tipi di società: la società per azioni (in prosieguo: la "SpA"), la società in accomandita per azioni e la<br />

società a responsabilità limitata (in prosieguo: la "Srl").<br />

6. Tale direttiva prevede tre misure dirette a proteggere i terzi che trattino con tali società, vale a dire la costituzione di un<br />

fascicolo contenente talune informazioni obbligatorie tenuto per ogni società presso il registro di commercio<br />

territorialmente competente, l'armonizzazione delle disposizioni nazionali concernenti la validità e l'opponibilità degli<br />

obblighi assunti in nome di una società (comprese le società in formazione) e la fissazione di un elenco tassativo dei casi di<br />

nullità delle società.<br />

7. Ai sensi dell'art. 2 della prima direttiva sul diritto societario:<br />

"1. Gli Stati membri adottano le misure necessarie perché l'obbligo della pubblicità per le società concerna almeno gli atti e<br />

le indicazioni seguenti:<br />

f) il bilancio ed il conto profitti e perdite di ogni esercizio. Il documento che contiene il bilancio deve indicare le generalità<br />

delle persone che ai sensi di legge sono tenute a certificare il bilancio. Tuttavia, per le società a responsabilità limitata di<br />

diritto tedesco, belga, francese, italiano e lussemburghese, enumerate all'articolo 1, nonché per le società anonime chiuse<br />

dell'ordinamento olandese, l'applicazione obbligatoria di questa disposizione è rinviata sino alla data di attuazione di una<br />

direttiva concernente il coordinamento del contenuto dei bilanci e dei conti profitti e perdite e comportante l'esenzione<br />

dall'obbligo di pubblicare, integralmente o parzialmente, tali documenti per le società di questo tipo con un ammontare di<br />

bilancio inferiore alla cifra che sarà fissata nella direttiva stessa. Il Consiglio adotterà tale direttiva nei due anni successivi<br />

all'adozione della presente direttiva;<br />

264


8. L'art. 3, nn. 1 e 2, di questa direttiva dispone che:<br />

"1. In ciascuno Stato membro viene costituito un fascicolo, o presso un registro centrale, o presso il registro di commercio o<br />

registro delle imprese, per ogni società iscritta.<br />

2. Tutti gli atti e indicazioni soggetti all'obbligo della pubblicità a norma dell'articolo 2 sono inseriti nel fascicolo o trascritti<br />

nel registro; dal fascicolo deve in ogni caso risultare l'oggetto delle trascrizioni fatte nel registro".<br />

9. Ai sensi dell'art. 6 della detta direttiva:<br />

"Gli Stati membri stabiliscono adeguate sanzioni per i casi di:<br />

- mancata pubblicità del bilancio e del conto profitti e perdite, come prescritta dall'articolo 2, paragrafo 1, lettera f);<br />

10. La quarta direttiva sul diritto societario, che per quanto riguarda l'Italia si applica ai medesimi tipi di società a cui fa<br />

riferimento la prima direttiva sul diritto societario, citati al punto 5 della presente sentenza, armonizza le disposizioni<br />

nazionali relative alla redazione, al contenuto, alla struttura e alla pubblicità dei conti annuali delle società.<br />

11. L'art. 2 di questa direttiva prevede quanto segue:<br />

"1. I conti annuali comprendono lo stato patrimoniale, il conto profitti e perdite e l'allegato. Questi documenti formano un<br />

tutto inscindibile.<br />

2. I conti annuali devono essere elaborati con chiarezza ed essere conformi alla presente direttiva.<br />

3. I conti annuali devono dare un quadro fedele della situazione patrimoniale, di quella finanziaria nonché del risultato<br />

economico della società.<br />

4. Quando l'applicazione della presente direttiva non basta per fornire il quadro fedele di cui al paragrafo 3, si devono<br />

fornire informazioni complementari.<br />

5. Se, in casi eccezionali, l'applicazione di una disposizione della presente direttiva contrasta con l'obbligo di cui al<br />

paragrafo 3, occorre derogare alla disposizione in questione onde fornire il quadro fedele di cui al paragrafo 3. Tale deroga<br />

deve essere menzionata nell'allegato e debitamente motivata con l'indicazione della sua influenza sulla situazione<br />

patrimoniale, su quella finanziaria nonché sul risultato economico. Gli Stati membri possono precisare i casi eccezionali e<br />

fissare il corrispondente regime derogatorio.<br />

6. Gli Stati membri possono autorizzare o esigere che nei conti annuali vengano divulgate altre informazioni oltre a quelle la<br />

cui divulgazione è richiesta dalla presente direttiva".<br />

12. L'art. 11 della detta direttiva prevede che gli Stati membri possono permettere che le società che non superano taluni<br />

limiti numerici relativi al totale dello stato patrimoniale, all'importo netto del volume d'affari e al numero dei dipendenti<br />

redigano uno stato patrimoniale in forma abbreviata. L'art. 12 della medesima direttiva contiene altre precisazioni a tale<br />

riguardo.<br />

13. L'art. 47, n. 1, della quarta direttiva sul diritto societario, figurante nella sezione 10 della medesima, intitolata<br />

"Pubblicità", dispone quanto segue:<br />

"I conti annuali regolarmente approvati e la relazione sulla gestione, nonché la relazione redatta dalla persona incaricata<br />

della revisione dei conti formano oggetto di una pubblicità effettuata nei modi prescritti dalla legislazione di ogni Stato<br />

membro conformemente all'articolo 3 della direttiva 68/151/CEE.<br />

14. Ai sensi dell'art. 51 della quarta direttiva sul diritto societario, figurante nella sezione 11 della stessa, intitolata<br />

"Controllo":<br />

"1. a) Le società devono far controllare i loro conti annuali da una o più persone abilitate ai sensi della legge nazionale alla<br />

revisione dei conti.<br />

b) La persona o le persone incaricate della revisione dei conti devono altresì controllare che la relazione sulla gestione<br />

concordi con i conti annuali di esercizio.<br />

2. Gli Stati membri possono esentare dall'obbligo previsto al paragrafo 1 le società di cui all'articolo 11.<br />

L'articolo 12 è applicabile.<br />

3. Nell'ipotesi di cui al paragrafo 2 gli Stati membri introducono nella loro legislazione adeguate sanzioni nel caso in cui i<br />

conti annuali o la relazione sulla gestione delle società in questione non siano redatti conformemente alla presente<br />

direttiva".15. La settima direttiva sul diritto societario, che per quanto riguarda l'Italia si applica ai medesimi tipi di società a<br />

cui fanno riferimento la prima e la quarta direttiva sul diritto societario, citati ai punti 5 e 10 della presente sentenza,<br />

prescrive misure di coordinamento delle disposizioni nazionali relative ai conti consolidati delle società di capitali.<br />

16. L'art. 16, nn. 26, della settima direttiva sul diritto societario contiene, in materia di conti consolidati, in sostanza,<br />

disposizioni identiche a quelle dell'art. 2, nn. 26, della quarta direttiva sul diritto societario per i conti annuali, ricordate al<br />

punto 11 della presente sentenza.<br />

17. L'art. 38, nn. 1, 4 e 6, figurante nella sezione 5 della settima direttiva sul diritto societario, intitolata "Pubblicità dei conti<br />

consolidati", così dispone:<br />

"1. I conti consolidati regolarmente approvati e la relazione consolidata sulla gestione nonché la relazione della persona<br />

incaricata del controllo dei conti consolidati formano oggetto di una pubblicità effettuata dall'impresa che ha redatto i conti<br />

consolidati nei modi prescritti dalla legislazione dello Stato membro cui l'impresa è soggetta conformemente all'articolo 3<br />

della direttiva 68/151/CEE.<br />

265


4. Tuttavia, qualora l'impresa che ha redatto i conti consolidati sia organizzata in una forma diversa da quelle elencate<br />

all'articolo 4 e non sia soggetta, a norma della legislazione nazionale, a un obbligo di pubblicità per i documenti di cui al<br />

paragrafo 1, analogo a quello previsto all'articolo 3 della direttiva 68/151/CEE, essa deve almeno tenerli a disposizione del<br />

pubblico presso la propria sede sociale.<br />

6. Gli Stati membri prevedono sanzioni appropriate in caso di mancata pubblicità ai sensi del presente articolo".<br />

Normativa nazionale<br />

Il diritto societario<br />

18. Il decreto legislativo del presidente della Repubblica 11 aprile 2002, n. 61, relativo alla disciplina degli illeciti penali e<br />

amministrativi riguardanti le società commerciali, a norma dell'articolo 11 della legge 3 ottobre 2001, n. 366 (GURI 15<br />

aprile 2002, n. 88, pag. 4; in prosieguo: il "d. lgs. n. 61/2002"), entrato in vigore il 16 aprile 2002, ha sostituito il titolo XI<br />

del libro V del codice civile con il nuovo titolo XI, intitolato "Disposizioni penali in materia di società e di consorzi".<br />

19. Questo decreto legislativo è intervenuto nell'ambito della riforma del diritto societario italiano attuata mediante un<br />

complesso di decreti legislativi adottati in base alla delega contenuta nella legge 3 ottobre 2001, n. 366 (GURI 8 ottobre<br />

2001, n. 234).<br />

20. L'art. 2621 del codice civile, intitolato "False comunicazioni ed illegale ripartizione di utili o di acconti sui dividendi",<br />

nella sua versione precedente all'entrata in vigore del d. lgs. n. 61/2002 (in prosieguo: l'"originario art. 2621 del codice<br />

civile"), disponeva quanto segue:<br />

"Salvo che il fatto costituisca reato più grave, sono puniti con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da 1 032<br />

euro a 10 329 euro:<br />

1) i promotori, i soci fondatori, gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori, i quali nelle relazioni, nei<br />

bilanci o in altre comunicazioni sociali, fraudolentemente espongono fatti non rispondenti al vero sulla costituzione o sulle<br />

condizioni economiche della società o nascondono in tutto o in parte fatti concernenti le condizioni medesime;<br />

21. Il d. lgs. n. 61/2002 ha introdotto, in particolare, negli artt. 2621 e 2622 del codice civile nuove disposizioni penali che<br />

reprimono la presentazione di false comunicazioni sociali, reato denominato anche "falsità in scritture contabili" (in<br />

prosieguo, a seconda dei casi, il "nuovo art. 2621 del codice civile", il "nuovo art. 2622 del codice civile" o "i nuovi artt.<br />

2621 e 2622 del codice civile"), che prevedono quanto segue:<br />

"Articolo 2621 (False comunicazioni sociali)<br />

Salvo quanto previsto dall'articolo 2622, gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori, i quali, con<br />

l'intenzione di ingannare i soci o il pubblico e al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle<br />

relazioni o nelle altre comunicazioni sociali previste dalla legge, dirette ai soci o al pubblico, espongono fatti materiali non<br />

rispondenti al vero ancorché oggetto di valutazioni ovvero omettono informazioni la cui comunicazione è imposta dalla<br />

legge sulla situazione economica, patrimoniale, o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene, in modo<br />

idoneo ad indurre in errore i destinatari sulla predetta situazione, sono puniti con l'arresto fino ad un anno e sei mesi.<br />

La punibilità è estesa anche al caso in cui le informazioni riguardino beni posseduti od amministrati dalla società per conto<br />

di terzi.<br />

La punibilità è esclusa se le falsità o le omissioni non alterano in modo sensibile la rappresentazione della situazione<br />

economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene. La punibilità è comunque esclusa<br />

se le falsità o le omissioni determinano una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non<br />

superiore al 5% o una variazione del patrimonio netto non superiore all'1 per cento.<br />

In ogni caso il fatto non è punibile se conseguenza di valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono in<br />

misura non superiore al 10 per cento da quella corretta.<br />

Articolo 2622 (False comunicazioni sociali in danno dei soci o dei creditori)<br />

Gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori, i quali, con l'intenzione di ingannare i soci o il pubblico e al<br />

fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali<br />

previste dalla legge, dirette ai soci o al pubblico, esponendo fatti materiali non rispondenti al vero ancorché oggetto di<br />

valutazioni, ovvero omettendo informazioni la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica,<br />

patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene, in modo idoneo ad indurre in errore i<br />

destinatari sulla predetta situazione, cagionano un danno patrimoniale ai soci o ai creditori sono puniti, a querela della<br />

persona offesa, con la reclusione da sei mesi a tre anni.<br />

Si procede a querela anche se il fatto integra altro delitto, ancorché aggravato a danno del patrimonio di soggetti diversi dai<br />

soci e dai creditori, salvo che sia commesso in danno dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee.<br />

Nel caso di società soggette alle disposizioni della parte IV, titolo III, capo II, del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n.<br />

58, la pena per i fatti previsti al primo comma è da uno a quattro anni e il delitto è procedibile d'ufficio.<br />

La punibilità per i fatti previsti dal primo e terzo comma è estesa anche al caso in cui le informazioni riguardino beni<br />

posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi.<br />

La punibilità per i fatti previsti dal primo e terzo comma è esclusa se le falsità o le omissioni non alterano in modo sensibile<br />

la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa<br />

266


appartiene. La punibilità è comunque esclusa se le falsità o le omissioni determinano una variazione del risultato economico<br />

di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al 5 per cento o una variazione del patrimonio netto non superiore all'1 per<br />

cento.<br />

In ogni caso il fatto non è punibile se conseguenza di valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono in<br />

misura non superiore al 10 per cento da quella corretta".<br />

Il diritto penale generale<br />

22. Ai sensi dell'art. 2, secondo-quarto comma, del codice penale italiano (in prosieguo: il "codice penale"), intitolato<br />

"Successione di leggi penali":<br />

"Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna,<br />

ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali.<br />

Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più<br />

favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile.<br />

Se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti".<br />

23. Secondo l'art. 39 del codice penale, i reati si suddividono essenzialmente in delitti e contravvenzioni e per i delitti,<br />

conformemente all'art. 17 dello stesso codice, sono stabiliti taluni tipi di pene più gravi che per le contravvenzioni.<br />

24. Dall'art. 158, primo comma, di questo codice emerge che il termine di prescrizione decorre dal giorno della<br />

consumazione del reato e non dalla sua scoperta.<br />

25. Risulta inoltre dagli artt. 157 e 160 del detto codice che i termini di prescrizione vanno da tre anni a non oltre quattro<br />

anni e mezzo per contravvenzioni quali quelle previste dal nuovo art. 2621 del codice civile, e da cinque anni a non oltre<br />

sette anni e mezzo per delitti quali quelli enunciati dall'originario art. 2621 del codice civile e quelli previsti dal nuovo art.<br />

2622 del medesimo codice. L'art. 160 del codice penale fissa la durata massima dei termini di prescrizione in caso di<br />

interruzione di quest'ultima.<br />

Controversie principali e questioni pregiudiziali<br />

26. Dalle ordinanze di rinvio emerge che, nei tre procedimenti penali in questione nelle cause principali, i reati contestati<br />

agli imputati sono stati commessi durante la vigenza dell'originario art. 2621 del codice civile, vale a dire prima dell'entrata<br />

in vigore del d. lgs. n. 61/2002 e dei nuovi artt. 2621 e 2622 del detto codice.<br />

27. Nella causa C387/02, il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, con decreto 26 novembre 1999, ha<br />

rinviato a giudizio il sig. {Berlusconi} dinanzi alla Prima Sezione penale di tale Tribunale. Nei confronti dell'imputato viene<br />

fatta valere la responsabilità di alcuni falsi commessi tra il 1986 e il 1989 e relativi ai conti annuali della società Fininvest<br />

S.p.A e di altre società dell'omonimo gruppo, in qualità di presidente di tali società e di azionista di riferimento delle società<br />

del detto gruppo. Tali falsi avrebbero consentito di alimentare riserve occulte destinate a finanziare talune operazioni<br />

ritenute illegali.<br />

28. Nella causa C403/02, dall'ordinanza di rinvio emerge che i sigg. {Dell'Utri}, {Luzi} e {Comincioli} sono imputati<br />

dinanzi alla Quarta Sezione penale del Tribunale di Milano per falsi in bilancio commessi sino al 1993.<br />

29. La causa C391/02 trae origine dall'appello proposto dal sig. {Adelchi} contro la sentenza del Tribunale di Lecce 9<br />

gennaio 2001 che lo ha riconosciuto colpevole di falsi relativi alle società La Nuova {Adelchi} Srl e Calzaturificio<br />

{Adelchi} Srl, di cui era amministratore unico. Tali fatti, commessi nel 1992 e nel 1993, vertono su operazioni doganali di<br />

esportazione e d'importazione ritenute fittizie, nonché sull'emissione, da parte di tali società, di fatture ritenute false. Essi<br />

avrebbero avuto l'inevitabile conseguenza di far apparire nei bilanci delle dette società costi superiori a quelli reali e ricavi<br />

puramente apparenti e, pertanto, un fatturato diverso da quello effettivo.<br />

30. In seguito all'entrata in vigore del d. lgs. n. 61/2002, gli imputati in tali tre procedimenti hanno fatto valere che<br />

dovevano essere loro applicati i nuovi artt. 2621 e 2622 del codice civile.<br />

31. I giudici del rinvio rilevano che l'applicazione di tali nuove disposizioni avrebbe la conseguenza di impedire che i fatti,<br />

inizialmente perseguiti quali fattispecie delittuose previste dall'originario art. 2621 del codice civile, possano essere<br />

perseguiti penalmente per le seguenti ragioni.<br />

32. In primo luogo, sebbene i fatti possano, in linea di principio, essere perseguiti d'ufficio, quindi in assenza di querela, dal<br />

pubblico ministero sulla base del nuovo art. 2621 del codice civile, il reato previsto da tale articolo costituisce adesso una<br />

contravvenzione che, pertanto, è soggetta ad un termine di prescrizione massimo di quattro anni e mezzo e non integra più<br />

gli estremi del delitto, comportante un termine di prescrizione massimo di sette anni e mezzo, previsto dall'originario art.<br />

2621 del codice civile. Orbene, nelle controversie principali, il reato previsto dal nuovo articolo 2621 del codice civile<br />

sarebbe inesorabilmente prescritto.<br />

33. In secondo luogo, secondo tali giudici, tale modifica della qualificazione del reato implica anche che i reati connessi,<br />

quali l'associazione a delinquere, il delitto di riciclaggio di danaro o la ricettazione, non potrebbero più dar luogo ad azioni<br />

penali poiché tali delitti sono legati alla previa esistenza di un delitto e non a quella di una contravvenzione.<br />

34. In terzo luogo, anche se, con riferimento al delitto previsto dal nuovo art. 2622 del codice civile, i fatti in questione nella<br />

causa principale non dovessero essere già prescritti, essi non potrebbero essere perseguiti in base a tale articolo in assenza di<br />

querela da parte di un socio o di un creditore che si ritenga leso dal falso, in quanto la presentazione di una querela è, infatti,<br />

267


una condizione di procedibilità necessaria sulla base di tale disposizione, perlomeno nel caso in cui, come è stato rilevato<br />

nei procedimenti penali principali, i falsi riguardino società non quotate in borsa.<br />

35. Infine, i detti giudici rilevano che il perseguimento dei fatti potrebbe trovare un ostacolo anche nelle soglie previste, in<br />

termini identici, ai nuovi artt. 2621, terzo e quarto comma, e 2622, quinto e sesto comma, del codice civile, che comportano<br />

l'esclusione della punibilità per i falsi aventi effetti non significativi o d'importanza minima, vale a dire quelli che abbiano<br />

avuto in particolare come conseguenza solo una variazione o del risultato dell'esercizio lordo non superiore al 5%, o del<br />

patrimonio netto non eccedente l'1%.<br />

36. Tenuto conto di tali considerazioni, i giudici del rinvio ritengono, così come il pubblico ministero, che i procedimenti<br />

pendenti sollevino questioni relative all'adeguatezza o meno delle sanzioni previste dai nuovi artt. 2621 e 2622 del codice<br />

civile con riferimento o all'art. 6 della prima direttiva sul diritto societario, come interpretato dalla Corte in particolare nella<br />

sentenza 4 dicembre 1997, causa C97/96, Daihatsu Deutschland (Racc. pag. I6843), oppure all'art. 5 del Trattato, da cui<br />

deriva, secondo una giurisprudenza costante a partire dalla sentenza 21 settembre 1989, causa 68/88, Commissione/Grecia<br />

(Racc. pag. 2965, punti 23 e 24), che le sanzioni per violazione di disposizioni del diritto comunitario devono essere<br />

effettive, proporzionate e dissuasive.<br />

37. È in un tale contesto che, per quanto riguarda la causa C387/02, il Tribunale di Milano ha deciso di sospendere il<br />

procedimento e di sottoporre alla Corte talune questioni pregiudiziali che, alla luce della motivazione dell'ordinanza di<br />

rinvio, possono essere intese come segue:<br />

1) Se l'art. 6 della prima direttiva sul diritto societario si applichi non solo in caso di omessa pubblicazione di comunicazioni<br />

sociali, ma anche in caso di pubblicazione di false comunicazioni sociali.<br />

2) Se il rispetto dei criteri di effettività, proporzionalità e capacità dissuasiva delle sanzioni in caso di violazione di<br />

disposizioni comunitarie debba essere valutato con riferimento alla natura o al tipo della sanzione prevista astrattamente o<br />

con riferimento alla sua concreta applicabilità, tenuto conto delle caratteristiche strutturali dell'ordinamento giuridico cui<br />

afferisce.<br />

3) Se i principi che derivano dalla quarta e dalla settima direttiva sul diritto societario ostino ad una disciplina nazionale che<br />

fissa soglie al di sotto delle quali le informazioni inesatte contenute nei conti annuali e nelle relazioni di gestione delle<br />

società per azioni, in accomandita per azioni ed a responsabilità limitata sono irrilevanti.<br />

38. Nella causa C391/02, la Corte d'appello di Lecce ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le<br />

seguenti questioni pregiudiziali:<br />

"1) Se, con riferimento all'obbligo dei singoli Stati membri di adottare adeguate sanzioni per le violazioni previste dalle<br />

direttive 68/151 e 78/660, le direttive stesse e, in particolare, il combinato disposto degli artt. 44, [n. 2], lett. g), CE , 2, n. 1,<br />

lett. f), e 6 della direttiva 68/151, e 2, nn. 2-3-4, della direttiva 78/660 (come integrata dalle direttive 83/349 e 90/605)<br />

debba[no] essere interpretat[i] nel senso che tali norme ost[a]no ad una legge di uno Stato membro che, modificando la<br />

disciplina sanzionatoria già in vigore in materia di reati societari, a fronte della violazione degli obblighi imposti per la<br />

tutela del principio di pubblica e fedele informazione delle società, preveda un sistema sanzionatorio in concreto non<br />

improntato a criteri di effettività, proporzionalità e dissuasività delle sanzioni poste a presidio di tale tutela.<br />

2) Se le citate direttive e, in particolare, le norme di cui all'art. 44, [n. 2], lett. g), CE, artt. 2, n. 1, lett. f), e 6 della direttiva<br />

68/151, ed art. 2, nn. 2-3-4, della direttiva 78/660 (come integrata dalle direttive 83/349 e 90/605) debbano essere<br />

interpretate nel senso che (tali norme) ost[a]no ad una legge di uno Stato membro che escluda la punibilità della violazione<br />

degli obblighi di pubblicità e fedele informazione di certi atti societari (tra cui il bilancio ed il conto profitti e perdite),<br />

allorquando la falsa comunicazione sociale o l'omessa informazione determin[a]no una variazione del risultato economico<br />

di esercizio o una variazione del patrimonio sociale netto non superiori ad una certa soglia percentuale.<br />

3) Se le citate direttive e, in particolare, le norme di cui all'art. 44, [n. 2], lett. g), CE, artt. 2, n. 1, lett. f), e 6 della direttiva<br />

68/151, ed art. 2, nn. 234, della direttiva 78/660 (come integrata dalle direttive 83/349 e 90/605) debbano essere interpretate<br />

nel senso che (tali norme) ost[a]no ad una legge di uno Stato membro che escluda la punibilità della violazione degli<br />

obblighi di pubblicità e fedele informazione gravanti sulle società, allorquando s[o]no fornite indicazioni che, quantunque<br />

finalizzate ad ingannare i soci o il pubblico a scopo d'ingiusto profitto, siano conseguenza di valutazioni estimative che,<br />

singolarmente considerate, differisc[o]no in misura non superiore ad una determinata soglia.<br />

4) Se, indipendentemente da limiti progressivi o soglie, le citate direttive e, in particolare, le norme di cui all'art. 44, [n. 2],<br />

lett. g), CE, artt. 2, n. 1, lett. f), e 6 della direttiva 68/151, ed art. 2, nn. 234, della direttiva 78/660 (come integrata dalle<br />

direttive 83/349 e 90/605) debbano essere interpretate nel senso che (tali norme) ost[a]no ad una legge di uno Stato membro<br />

che escluda la punibilità della violazione degli obblighi di pubblicità e fedele informazione gravanti sulle società,<br />

allorquando le falsità o le omissioni fraudolente e, comunque, le comunicazioni e informazioni non fedelmente<br />

rappresentative della situazione patrimoniale, finanziaria e del risultato economico della società, non alter[a]no in modo<br />

sensibile la situazione patrimoniale o finanziaria del gruppo (sebbene sia rimessa al legislatore nazionale l'individuazione<br />

della nozione di alterazione sensibile).<br />

5) Se le citate direttive e, in particolare, le norme di cui all'art. 44, [n. 2], lett. g), CE, artt. 2, n. 1, lett. f), e 6 della direttiva<br />

68/151, ed art. 2, nn. 2-3-4, della direttiva 78/660 (come integrata dalle direttive 83/349 e 90/605) debbano essere<br />

268


interpretate nel senso che (tali norme) ost[a]no ad una legge di uno Stato membro che, a fronte della violazione di quegli<br />

obblighi di pubblicità e fedele informazione gravanti sulle società, posti a presidio della tutela degli interessi tanto dei soci<br />

come dei terzi, preveda solo per i soci ed i creditori il diritto di chiedere la sanzione, con conseguente esclusione di una<br />

tutela generalizzata ed effettiva dei terzi.<br />

6) Se le citate direttive e, in particolare, le norme di cui all'art. 44, [n. 2], lett. g), CE, artt. 2, n. 1, lett. f), e 6 della direttiva<br />

68/151, ed art. 2, nn. 2-3-4, della direttiva 78/660 (come integrata dalle direttive 83/349 e 90/605) debbano essere<br />

interpretate nel senso che (tali norme) ost[a]no ad una legge di uno Stato membro che, a fronte della violazione di quegli<br />

obblighi di pubblicità e fedele informazione gravanti sulle società, posti a tutela degli interessi tanto dei soci come dei terzi,<br />

preveda un meccanismo di perseguibilità ed un sistema sanzionatorio particolarmente differenziati, riservando<br />

esclusivamente alle violazioni in danno di soci e creditori la punibilità a querela e sanzioni più gravi ed effettive".<br />

39. Nella causa C403/02, il Tribunale di Milano ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le<br />

seguenti questioni pregiudiziali:<br />

"1) Se l'art. 6 della direttiva 68/151 possa essere inteso nel senso di obbligare gli Stati membri a stabilire adeguate sanzioni<br />

non solo per la mancata pubblicità del bilancio e del conto profitti e perdite delle società commerciali, ma anche per la<br />

falsificazione dello stesso, delle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico, o di qualsiasi informazione sulla<br />

situazione economica, patrimoniale o finanziaria che la società abbia obbligo di fornire sulla società stessa o sul gruppo alla<br />

quale essa appartiene.<br />

2) Se, anche ai sensi dell'art. 5 del Trattato CEE, il concetto di adeguatezza della sanzione debba essere inteso in modo<br />

concretamente valutabile nell'ambito normativo (sia penale che procedurale) del paese membro, e cioè come sanzione<br />

efficace, effettiva, realmente dissuasiva.<br />

3) Se, infine, tali caratteristiche siano riscontrabili nel combinato disposto dei novellati artt. 2621 e 2622 del codice civile<br />

così modificati dal [decreto legislativo n. 61/2002]: in particolare se possa definirsi efficacemente dissuasiva e<br />

concretamente adeguata la norma che prevede (al citato art. 2621 del codice civile) per i reati di falso in bilancio non<br />

causativi di danno patrimoniale, ovvero causativi di danno ma ritenuti improcedibili ex art. 2622 del codice civile per<br />

carenza di querela, una pena contravvenzionale di anni l e mesi 6 di arresto; se, infine, risulti adeguato prevedere, per i reati<br />

previsti dal primo comma dell'art. 2622 del codice civile (e cioè commessi nell'ambito di società commerciali non quotate in<br />

borsa) una procedibilità a querela di parte (e cioè a querela di soci e di creditori) anche in relazione alla concreta tutela del<br />

bene collettivo della trasparenza del mercato societario sotto il profilo della possibile estensione comunitaria dello stesso".<br />

40. Con ordinanza del presidente della Corte 20 gennaio 2003, le cause C387/02, C391/02 e C403/02 sono state riunite ai<br />

fini delle fasi scritta e orale del procedimento nonché della sentenza.<br />

Sulle questioni pregiudiziali<br />

Osservazioni presentate alla Corte<br />

41. I sigg. {Berlusconi} e {Dell'Utri} contestano la ricevibilità delle questioni pregiudiziali presentate rispettivamente nelle<br />

cause C387/02 e C403/02. Anche il governo italiano solleva dubbi a tale proposito.<br />

42. Le questioni sottoposte avrebbero lo scopo di evitare l'applicazione dei nuovi artt. 2621 e 2622 del codice civile di modo<br />

che il procedimento penale possa essere avviato in base all'originario art. 2621 del codice civile, disposizione nettamente<br />

meno favorevole agli imputati.<br />

43. Orbene, anche ipotizzando che i nuovi artt. 2621 e 2622 del codice civile si rivelino incompatibili con la prima o la<br />

quarta direttiva sul diritto societario, sarebbe escluso che, in mancanza di una disposizione penale dell'ordinamento<br />

nazionale vigente, gli imputati possano essere perseguiti e che possano essere loro inflitte sanzioni diverse e più severe in<br />

base alle dette direttive.<br />

44. Dalla giurisprudenza della Corte emergerebbe infatti che una direttiva non può di per sé creare obblighi in capo ad un<br />

soggetto e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei confronti dello stesso. Una direttiva non potrebbe nemmeno<br />

avere come effetto, di per sé e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione,<br />

di determinare o aggravare la responsabilità penale delle persone che agiscono in violazione delle sue disposizioni.<br />

45. La soluzione chiesta alla Corte sarebbe irrilevante ai fini della soluzione delle controversie pendenti dinanzi ai giudici<br />

del rinvio poiché in ogni caso, nelle controversie principali, l'originario art. 2621 del codice civile non potrebbe essere<br />

applicato.<br />

46. Il principio dell'applicazione retroattiva all'imputato della legge penale più favorevole, diritto fondamentale che fa parte,<br />

così come il principio di legalità di cui costituirebbe un aspetto importante, dell'ordinamento giuridico comunitario,<br />

osterebbe ad un tale risultato.<br />

47. La Commissione fa invece valere che le questioni pregiudiziali sono ricevibili.<br />

48. La ricevibilità delle stesse non sarebbe pregiudicata da un'eventuale applicazione del principio di legalità nell'ipotesi in<br />

cui dalla soluzione data dalla Corte derivasse un'incompatibilità dei nuovi artt. 2621 e 2622 del codice civile con il diritto<br />

comunitario, ipotesi che può avere come conseguenza l'avvio di azioni penali sulla base dell'originario art. 2621 del detto<br />

codice, meno favorevole agli imputati.<br />

49. Andrebbe infatti rilevato che, all'epoca dell'accertamento dei fatti all'origine dei procedimenti penali avviati nei<br />

269


confronti degli imputati nelle controversie principali, tali fatti potevano essere repressi penalmente, vale a dire in base<br />

all'originario art. 2621 del codice civile, e che solo successivamente sono state adottate disposizioni nazionali più favorevoli<br />

agli imputati, ma la cui compatibilità con il diritto comunitario viene messa in questione per taluni aspetti, per cui il giudice<br />

nazionale potrebbe eventualmente essere tenuto a disapplicarle.<br />

50. In una situazione di questo tipo, non sarebbe la normativa comunitaria a determinare o aggravare la responsabilità<br />

penale. Si tratterebbe semplicemente di conservare gli effetti della legge nazionale, in vigore all'epoca dei fatti e conforme<br />

al diritto comunitario, disapplicando una legge successiva più favorevole ma contraria a tale diritto.<br />

51. Il principio del primato del diritto comunitario osterebbe all'applicazione di disposizioni nazionali nuove più favorevoli<br />

all'imputato a fatti anteriori alle stesse, ove risultasse che tali disposizioni non sanzionano adeguatamente la violazione delle<br />

norme di diritto comunitario e sono, di conseguenza, incompatibili con lo stesso, come interpretato dalla Corte.<br />

Giudizio della Corte<br />

52. Con le questioni sollevate, i giudici del rinvio cercano essenzialmente di sapere se, in ragione di talune disposizioni che<br />

essi contengono, i nuovi artt. 2621 e 2622 del codice civile siano compatibili con l'esigenza del diritto comunitario afferente<br />

all'adeguatezza delle sanzioni per violazione di disposizioni dell'ordinamento comunitario (v. punto 36 della presente<br />

sentenza).<br />

Sull'esigenza del diritto comunitario relativa all'adeguatezza delle sanzioni<br />

53. In via preliminare, occorre esaminare se l'esigenza afferente all'adeguatezza delle sanzioni per reati risultanti da falsità<br />

in scritture contabili, come quelli previsti dai nuovi artt. 2621 e 2622 del codice civile, venga imposta dall'art. 6 della prima<br />

direttiva sul diritto societario, oppure derivi dall'art. 5 del Trattato che, secondo una giurisprudenza costante ricordata al<br />

punto 36 della presente sentenza, implica che le sanzioni per la violazione di disposizioni del diritto comunitario devono<br />

essere effettive, proporzionate e dissuasive.<br />

54. A tal riguardo, va constatato che sanzioni per reati risultanti da falsità in scritture contabili, come quelli previsti dai<br />

nuovi artt. 2621 e 2622 del codice civile, mirano a reprimere violazioni gravi e manifeste del principio fondamentale, il cui<br />

rispetto costituisce l'obiettivo di massima rilevanza della quarta direttiva sul diritto societario, che deriva dal quarto<br />

considerando e dall'art. 2, nn. 3 e 5, di questa direttiva, secondo cui i conti annuali delle società a cui si riferisce la detta<br />

direttiva devono fornire un quadro fedele della situazione patrimoniale e finanziaria nonché del risultato economico della<br />

stessa (v., in tal senso, sentenza 7 gennaio 2003, causa C306/99, BIAO, Racc. pag. I1, punto 72 e giurisprudenza ivi citata).<br />

55. Tale constatazione può essere estesa del resto alla settima direttiva sul diritto societario che, all'art. 16, nn. 3 e 5, prevede<br />

in sostanza, in materia di conti consolidati, disposizioni identiche a quelle enunciate dall'art. 2, nn. 3 e 5, della quarta<br />

direttiva sul diritto societario per i conti annuali.<br />

56. Per quanto riguarda il regime sanzionatorio previsto all'art. 6 della prima direttiva sul diritto societario, la formulazione<br />

di tale disposizione fornisce di per sé un indizio nel senso che tale regime deve essere inteso come concernente non solo i<br />

casi di un'omissione di qualsiasi pubblicità dei conti annuali, ma anche quelli di una pubblicità di conti annuali non redatti<br />

conformemente alle disposizioni previste dalla quarta direttiva sul diritto societario relativamente al contenuto di tali conti.<br />

57. Infatti, il detto art. 6 non si limita a prevedere l'obbligo per gli Stati membri di stabilire sanzioni adeguate per mancata<br />

pubblicazione del bilancio e del conto profitti e perdite, ma prevede un obbligo di tale tipo per mancata pubblicazione di tali<br />

documenti come prescritta dall'art. 2, n. 1, lett. f), della prima direttiva sul diritto societario. Orbene, quest'ultima<br />

disposizione fa espresso riferimento all'armonizzazione prevista delle norme relative al contenuto dei conti annuali, la quale<br />

è stata realizzata dalla quarta direttiva sul diritto societario.<br />

58. Dall'economia della quarta direttiva sul diritto societario, la quale completa, per gli stessi tipi di società, gli obblighi<br />

stabiliti dalla prima direttiva sul diritto societario, e dall'assenza in tale direttiva di norme generali relative alle sanzioni,<br />

risulta che, a prescindere dai casi coperti dalla deroga specifica prevista all'art. 51, n. 3, della quarta direttiva sul diritto<br />

societario, il legislatore comunitario ha voluto effettivamente estendere l'applicazione del regime sanzionatorio di cui all'art.<br />

6 della prima direttiva sul diritto societario alle violazioni degli obblighi contenuti nella quarta direttiva sul diritto societario<br />

e, in particolare, alla mancata pubblicazione di conti annuali conformi, quanto al loro contenuto, alle norme previste a tal<br />

riguardo.<br />

59. La settima direttiva sul diritto societario prevede, invece, una norma generale di tale tipo all'art. 38, n. 6. Non si può<br />

contestare che tale norma generale si applichi anche alla pubblicità di conti consolidati non redatti conformemente alle<br />

norme stabilite da questa stessa direttiva.<br />

60. Tale differenza di contenuto tra la quarta e la settima direttiva sul diritto societario si spiega per il fatto che l'art. 2, n. 1,<br />

lett. f), della prima direttiva sul diritto societario non fa alcun riferimento ai conti consolidati. L'art. 6 di questa direttiva non<br />

può quindi essere considerato come applicabile al caso di inosservanza degli obblighi relativi ai conti consolidati.<br />

61. Un'interpretazione del detto art. 6 nel senso che esso si applica anche alla mancata pubblicazione di conti annuali redatti<br />

conformemente alle norme previste per quanto riguarda il contenuto degli stessi è inoltre confermata dal contesto e dagli<br />

obiettivi delle direttive in questione.<br />

62. A tale riguardo, occorre prendere in considerazione, in particolare, come rilevato dall'avvocato generale ai paragrafi<br />

7275 delle sue conclusioni, il ruolo fondamentale della pubblicità dei conti annuali delle società di capitali e, a maggior<br />

270


agione, dei conti annuali redatti conformemente alle norme armonizzate relative al loro contenuto, al fine di tutelare gli<br />

interessi dei terzi, obiettivo chiaramente sottolineato nei preamboli sia della prima sia della quarta direttiva sul diritto<br />

societario.<br />

63. Ne consegue che l'esigenza relativa all'adeguatezza delle sanzioni come quelle previste dai nuovi artt. 2621 e 2622 del<br />

codice civile per i reati risultanti da falsità in scritture contabili è imposto dall'art. 6 della prima direttiva sul diritto<br />

societario.<br />

64. Ciò non toglie che, per chiarire la portata dell'esigenza relativa all'adeguatezza delle sanzioni stabilite al detto art. 6, può<br />

essere utilmente presa in considerazione la giurisprudenza costante della Corte relativa all'art. 5 del Trattato, da cui deriva<br />

un'esigenza di identica natura.<br />

65. Secondo tale giurisprudenza, pur conservando la scelta delle sanzioni, gli Stati membri devono segnatamente vegliare a<br />

che le violazioni del diritto comunitario siano punite, sotto il profilo sostanziale e procedurale, in forme analoghe a quelle<br />

previste per le violazioni del diritto interno simili per natura e importanza e che, in ogni caso, conferiscano alla sanzione<br />

stessa un carattere effettivo, proporzionale e dissuasivo (v., in particolare, sentenze Commissione/Grecia, cit., punti 23 e 24;<br />

10 luglio 1990, causa C326/88, Hansen, Racc. pag. I2911, punto 17; 30 settembre 2003, causa C167/01, Inspire Art, Racc.<br />

pag. I10155, punto 62, e 15 gennaio 2004, causa C230/01, Penycoed, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 36 e<br />

giurisprudenza ivi citata).<br />

Sul principio dell'applicazione retroattiva della pena più mite<br />

66. A prescindere dall'applicabilità dell'art. 6 della prima direttiva sul diritto societario alla mancata pubblicazione dei conti<br />

annuali, va osservato che, in virtù dell'art. 2 del codice penale, che enuncia il principio dell'applicazione retroattiva della<br />

pena più mite, i nuovi artt. 2621 e 2622 del codice civile dovrebbero essere applicati anche se sono entrati in vigore solo<br />

successivamente alla commissione dei fatti che sono all'origine delle azioni penali avviate nelle cause principali.<br />

67. Va a tal riguardo ricordato che, secondo una giurisprudenza costante, i diritti fondamentali costituiscono parte integrante<br />

dei principi generali del diritto di cui la Corte garantisce l'osservanza. A tal fine, quest'ultima s'ispira alle tradizioni<br />

costituzionali comuni agli Stati membri e alle indicazioni fornite dai trattati internazionali in materia di tutela dei diritti<br />

dell'uomo cui gli Stati membri hanno cooperato o aderito (v., in particolare, sentenze 12 giugno 2003, causa C112/00,<br />

Schmidberger, Racc. pag. I5659, punto 71 e giurisprudenza ivi citata, e 10 luglio 2003, cause riunite C20/00 e C64/00,<br />

Booker Aquaculture e Hydro Seafood, Racc. pag. I7411, punto 65 e giurisprudenza ivi citata).<br />

68. Orbene, il principio dell'applicazione retroattiva della pena più mite fa parte delle tradizioni costituzionali comuni degli<br />

Stati membri<br />

69. Ne deriva che tale principio deve essere considerato come parte integrante dei principi generali del diritto comunitario<br />

che il giudice nazionale deve osservare quando applica il diritto nazionale adottato per attuare l'ordinamento comunitario e,<br />

nella fattispecie, in particolare, le direttive sul diritto societario.<br />

Sulla possibilità di invocare la prima direttiva sul diritto societario<br />

70. Si pone tuttavia la questione se il principio dell'applicazione retroattiva della pena più mite si applichi qualora questa sia<br />

contraria ad altre norme di diritto comunitario.<br />

71. Non è però necessario decidere tale questione ai fini delle controversie principali, poiché la norma comunitaria in<br />

questione è contenuta in una direttiva fatta valere nei confronti di un soggetto dall'autorità giudiziaria nell'ambito di<br />

procedimenti penali.<br />

72. E' vero che, nel caso in cui i giudici del rinvio, sulla base delle soluzioni loro fornite dalla Corte, dovessero giungere alla<br />

conclusione che i nuovi artt. 2621 e 2622 del codice civile, a causa di talune disposizioni in essi contenute, non soddisfano<br />

l'obbligo del diritto comunitario relativo all'adeguatezza delle sanzioni, ne deriverebbe, secondo una giurisprudenza<br />

consolidata della Corte, che gli stessi giudici del rinvio sarebbero tenuti a disapplicare, di loro iniziativa, i detti nuovi<br />

articoli, senza che ne debbano chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro<br />

procedimento costituzionale (v., in particolare, sentenze 9 marzo 1978, causa 106/77, Simmenthal, Racc. pag. 629, punti 21<br />

e 24; 4 giugno 1992, cause riunite C13/91 e C113/91, Debus, Racc. pag. I3617, punto 32, e 22 ottobre 1998, cause riunite da<br />

C10/97 a C22/97, IN. CO. GE.'90 e a., Racc. pag. I6307, punto 20).<br />

73. Tuttavia, la Corte ha anche dichiarato in maniera costante che una direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di<br />

un soggetto e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti (v., in particolare, sentenza 5 ottobre 2004,<br />

cause riunite da C397/01 a C403/01, Pfeiffer e a., non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 108 e giurisprudenza ivi<br />

citata).<br />

74. Nel contesto specifico di una situazione in cui una direttiva viene invocata nei confronti di un soggetto dalle autorità di<br />

uno Stato membro nell'ambito di procedimenti penali, la Corte ha precisato che una direttiva non può avere come effetto, di<br />

per sé e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o<br />

aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle dette disposizioni (v., in particolare, sentenze 8<br />

ottobre 1987, causa 80/86, Kolpinghuis Nijmegen, Racc. pag. 3969, punto 13, e 7 gennaio 2004, causa C60/02, X, non<br />

ancora pubblicata nella Raccolta, punto 61 e giurisprudenza ivi citata).<br />

75. Orbene, far valere nel caso di specie l'art. 6 della prima direttiva sul diritto societario al fine di far controllare la<br />

271


compatibilità con tale disposizione dei nuovi artt. 2621 e 2622 del codice civile potrebbe avere l'effetto di escludere<br />

l'applicazione del regime sanzionatorio più mite previsto dai detti articoli.<br />

76. Infatti, dalle ordinanze di rinvio risulta che, se i nuovi artt. 2621 e 2622 del codice civile dovessero essere disapplicati a<br />

causa della loro incompatibilità con il detto art. 6 della prima direttiva sul diritto societario, ne potrebbe derivare<br />

l'applicazione di una sanzione penale manifestamente più pesante, come quella prevista dall'originario art. 2621 di tale<br />

codice, durante la cui vigenza sono stati commessi i fatti all'origine delle azioni penali avviate nelle cause principali.<br />

77. Una tale conseguenza contrasterebbe con i limiti derivanti dalla natura stessa di qualsiasi direttiva, che vietano, come<br />

risulta dalla giurisprudenza ricordata ai punti 73 e 74 della presente sentenza, che una direttiva possa avere il risultato di<br />

determinare o di aggravare la responsabilità penale degli imputati.<br />

78. Tenuto conto di tutto quanto precede, le questioni pregiudiziali vanno risolte dichiarando che, in circostanze come<br />

quelle in questione nelle cause principali, la prima direttiva sul diritto societario non può essere invocata in quanto tale dalle<br />

autorità di uno Stato membro nei confronti degli imputati nell'ambito di procedimenti penali, poiché una direttiva non può<br />

avere come effetto, di per sé e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione,<br />

di determinare o aggravare la responsabilità penale degli imputati.<br />

Sulle spese<br />

79. Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al<br />

giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute per sottoporre osservazioni alla Corte, diverse da<br />

quelle delle dette parti, non possono dar luogo a rifusione.<br />

P.Q.M.<br />

Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:<br />

In circostanze come quelle in questione nelle cause principali, la prima direttiva del Consiglio 9 marzo 1968, 68/151/CEE,<br />

intesa a coordinare, per renderle equivalenti, le garanzie che sono richieste, negli Stati membri, alle società a mente<br />

dell'articolo 58, secondo comma, del Trattato per proteggere gli interessi dei soci e dei terzi, non può essere invocata in<br />

quanto tale dalle autorità di uno Stato membro nei confronti degli imputati nell'ambito di procedimenti penali, poiché una<br />

direttiva non può avere come effetto, di per sé e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per<br />

la sua attuazione, di determinare o aggravare la responsabilità penale degli imputati.<br />

272


LA CONFISCA MISURA DI PREVENZIONE<br />

HA NATURA “OGGETTIVAMENTE SANZIONATORIA”<br />

E SI APPLICA IL PRINCIPIO DI IRRETROATTIVITÀ:<br />

UNA SENTENZA “STORICA”?<br />

Nota a Cass., V Sez. pen., sent. 13 novembre 2012 (dep. 25 marzo 2013), n. 14044/13,<br />

Pres. Zecca, Rel. Micheli, Ric. Occhipinti<br />

di Anna Maria Maugeri<br />

SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Il dibattito sulla natura della confisca ex art. 2 ter l. 575/’65. - 3. Gli<br />

argomenti fondamentali della Suprema Corte: la separazione delle misure personali dalle patrimoniali. -<br />

3.1. La nozione di “materia penale” della Corte EDU. - 4. Il riconoscimento del principio di irretroattività. -<br />

4.1. La difficoltà di applicare il principio di irretroattività e conseguenze per le finalità politico criminali<br />

della riforma. - 5. Il confronto con la confisca per equivalente. - 6. Ulteriori argomenti: correlazione<br />

temporale, presunzione dell’origine illecita e rispetto dell’art. 42 Cost. - 7. Considerazioni conclusive<br />

derivanti dal riconoscimento della natura sanzionatoria della confisca “misura di prevenzione” (in<br />

particolare in termini di onere della prova).<br />

1. Premessa.<br />

La sentenza in commento 1 può essere definita “storica” perché la Suprema<br />

Corte afferma per la prima volta la natura “oggettivamente sanzionatoria” della<br />

confisca misura di prevenzione (ex art. 2 ter l. 575/’65, oggi art. 24 del codice delle leggi<br />

antimafia e delle misure di prevenzione introdotto dal d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 2 )<br />

al punto da riconoscergli l’applicazione dei relativi principi costituzionali, a partire dal<br />

principio di irretroattività; nel passato non sono mancate delle pronunce in cui si<br />

affermava la natura sanzionatoria o anche punitiva della forma di ablazione dei profitti<br />

in esame, ma sempre in maniera più ambigua e senza trarne le dovute conseguenze sul<br />

piano delle garanzie.<br />

Questa sentenza rappresenta una svolta fondamentale rispetto a un consolidato<br />

orientamento della Suprema Corte, che rimaneva legata all’assimilazione della confisca<br />

misura di prevenzione a una misura di sicurezza o, meglio, preferiva ricondurla<br />

“nell'ambito di quel tertium genus costituito da una sanzione amministrativa<br />

equiparabile, quanto al contenuto ed agli effetti, alla misura di sicurezza» 3 .<br />

1<br />

Cass., sez. V, 13 novembre 2012, n. 14044, O.<br />

2<br />

In Gazz. Uff. 31 ottobre 2011.<br />

3<br />

Per tutte Cass., Sez. Un., 3 luglio 1996, n. 18, Simonelli, in Cass. pen. 1996, 3609, con nota critica di<br />

MOLINARI.<br />

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273


Si tratta di un assoluto cambio di orientamento che non potrà non avere<br />

conseguenze in termini più generali sul piano del riconoscimento delle garanzie della<br />

“materia penale” alla forma di confisca in esame; si usa volutamente l’espressione<br />

“materia penale” perché la Suprema Corte argomenta il suo mutato orientamento<br />

riconducendo la confisca misura di prevenzione alla nozione di “materia penale”<br />

elaborata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, riconoscendo il carattere vincolante<br />

della giurisprudenza della CEDU per l’interprete 4 , in base ad un principio sancito dalla<br />

stessa Corte Costituzionale 5 ; anche se, come si esaminerà, in realtà la Corte EDU ha<br />

sempre negato l’applicazione ratione materiae degli art. 6, c. 2 e 7 CEDU alla confisca di<br />

prevenzione, accogliendo gli argomenti del Governo italiano che ne negava la natura<br />

punitiva 6 .<br />

Tale innovativo orientamento della Suprema Corte, soprattutto laddove<br />

riconosce l’applicazione del principio di irretroattività alla confisca ex art. 2 ter l.<br />

575/’65 avrà, però, anche delle conseguenze sulla tenuta delle finalità politico criminali<br />

della riforma delle misure di prevenzione patrimoniali avvenuta nel 2008 ad opera del<br />

d.l. 92/2008, convertito nella l. 125/2008, e della l. 94/2009, confermata dal codice<br />

“antimafia” (d.lgs. n. 159/2011); tale profilo sarà esaminato nel prosieguo.<br />

Il caso in esame riguarda l’applicazione della confisca ex art. 2 ter l. 575/’65 nei<br />

confronti di un soggetto al quale era stata applicata la pena di un anno e sei mesi ex art.<br />

4<br />

Tra le altre Corte Cost., 27 febbraio 2008, n. 39, in Foro it. 2008, 4, I, 1037; Corte Cost., 30 aprile 2008, n.<br />

129, in Riv. dir. internaz. 2008, 3, 881; Cass., 12 novembre 2008, n. 45807, D., in Foro it. 2009, 2, II, 65; Cass., 1<br />

dicembre 2006, Dorigo, in Cass. pen. 2007, 1448 s., con nota di DE MATTEIS; cfr. MASTROIANNI, L’ordinamento<br />

giuridico nazionale nei rapporti con le regole comunitarie e dell’Unione europea. La posizione della Corte<br />

Costituzionale Italiana, in Dir. com. e degli scambi intern. 2009, 439; DRZEMCZEWSKY, Art. 46. Forza vincolante ed<br />

esecuzione delle sentenze, in BARTOLE-CONFORTI-RAIMONDI, Commentario alla Convenzione per la tutela dei diritti<br />

dell'uomo e delle libertà fondamentali, Cedam, Padova. 2001, 685 ss.; EPIDENDIO, Forza vincolante delle sentenze<br />

della Corte europea dei diritti dell'uomo e giudicato penale, in Dir. pen. proc., 2007, 94 s.; BIN, BRUNELLI,<br />

PUGIOTTO, VERONESI, All'incrocio tra Costituzione e CEDU. Il rango delle norme della Convenzione e l'efficacia<br />

interna delle sentenze di Strasburgo», Giappichelli, 2007; MANES, Art. 7, §§ I – XV, in BARTOLE-DE SENA-<br />

ZAGREBELSKY, Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Padova 2012, 272 ss.<br />

5<br />

Cfr. Corte Cost., 4 aprile 2011, n. 113, D.P., in G.U. 13/04/2011<br />

(http://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do); cfr. Corte Cost., 12 marzo 2010, n. 93, S.V., in Arch.<br />

nuova proc. pen. 2010, 3, 297; cfr. Corte Cost., 7 marzo 2011, n. 80, in G.U. 13/03/2011<br />

((http://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do).<br />

6<br />

Cfr. MAUGERI, Le moderne sanzioni patrimoniali tra funzionalità e garantismo, Giuffrè, 2001 (nel prosieguo<br />

MAUGERI, op. cit.), 530; ID., La lotta contro l’accumulazione di profitti illeciti: recenti orientamenti, in Riv. trim. dir.<br />

pen. econ., 2007, 541 ss.; ID., La conformità dell’actio in rem con il principio del mutuo riconoscimento, in<br />

MAZZARESE-AIELLO (a cura di), Le misure patrimoniali antimafia. Interdisciplinarietà e questioni di diritto penale,<br />

civile e amministrativo, Milano, 2010, 187 ss.; PADELETTI, Art. 1 Prot. add. Conv. eur dir. uomo, in Commentario<br />

alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, in BARTOLE-CONFORTI-<br />

RAIMONDI (a cura di), Cedam, 2001, 814 ss.; MAIELLO, Confisca, CEDU e diritto dell’Unione tra questioni<br />

irrisolte ed altre ancora aperte, in Diritto Penale Contemporaneo - Rivista trimestrale, 2012, n. 3 – 4, 15 ss.;<br />

ABBADESSA-MAZZACUVA, La giurisprudenza di Strasburgo 2008-2010: il diritto di proprietà (art. 1 Prot. 1 CEDU),<br />

in Diritto Penale Contemporaneo - Rivista trimestrale, 2011, 323 ss.; BALSAMO, Il rapporto tra forme “moderne” di<br />

confisca e presunzione di innocenza: le nuove indicazioni della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Cass. pen.,<br />

2007, 3936; MADHLOM, Confiscation and Conspiracy: The Timing and Substance of a Conspiracy to Evade Excise<br />

Duty, in Journ. of Crim. Law, 2011, 356 ss.<br />

2<br />

274


444 c.p.p. con il beneficio della sospensione condizionale per il reato di cui all’art. 12<br />

quinquies d.l. n. 306 del 1992, aggravato ex art. 7 d.l. n. 152 del 1991, nel 2009, ma prima<br />

del luglio 2009 data dell’entrata in vigore della l. n. 94; in base alla disciplina<br />

precedente la l. n. 94/2009 non sarebbe stato possibile applicare a tale soggetto la<br />

misura patrimoniale in quanto non si poteva applicare la personale, essendo<br />

incompatibile la sospensione condizionale ex art. 166, c. 2, con un giudizio di<br />

pericolosità sociale e, comunque, non essendo avvenuto tale accertamento nel caso<br />

concreto. In seguito all’introduzione del comma 6 bis dell’art. 2 bis l. 575/’65 da parte<br />

del d.l. n. 92/2008 e successiva modifica da parte della l.n. 94/2009, che non richiede più<br />

non solo la necessaria applicazione della misura personale ma anche l’attualità della<br />

pericolosità sociale, diventa, invece, possibile l’irrogazione della confisca ex art. 2 ter l.<br />

575/’65 nei confronti del soggetto non socialmente pericoloso. Il Tribunale ritiene non<br />

applicabile la riforma in quanto la condanna riportata dal proposto era antecedente la<br />

novella anzidetta. La Corte d’Appello ritiene, invece, adottabile la misura patrimoniale<br />

in virtù della riforma sopravvenuta poiché il principio di non retroattività della legge<br />

penale sfavorevole non sarebbe operante per le misure di prevenzione, cui si applica la<br />

legge in vigore al tempo della loro applicazione ai sensi dell’art. 200 c.p.; in seguito alla<br />

riforma ciò che rileva ai fini della confisca è “soltanto il requisito dell’illecita modalità<br />

di acquisizione, ed è dunque tale presupposto che deve persistere al tempo<br />

dell’applicazione della misura”. La Suprema Corte, come si esaminerà, accoglie il<br />

ricorso del ricorrente che lamentava la violazione del principio di irretroattività ex art.<br />

2 c.p., avendo la novella del 2009 comportato quanto meno una modifica mediata di<br />

una norma di diritto sostanziale quale è l’art. 166 c.p., ma anche in virtù dell’art. 11 c.d.<br />

preleggi, in quanto si ritiene che l’applicazione dell’art. 200 c.p. alle misure di<br />

prevenzione patrimoniali si fondava sull’equiparazione delle misure di prevenzione<br />

alle misure di sicurezza, sulla base del parallelismo tra le due categorie fondato sul<br />

presupposto dell’accertamento della perdurante pericolosità sociale ai fini<br />

dell’applicazione di una misura di prevenzione patrimoniale; venuto meno quel<br />

presupposto viene meno il suddetto parallelismo e non si giustifica l’applicazione<br />

dell’art. 200 c.p., ma piuttosto si deve applicare la legge in vigore all’epoca delle<br />

condotte che fondano l’adozione della misura.<br />

Prima di esaminare le argomentazioni che fondano la sentenza in commento e<br />

per comprendere la rilevanza e le dinamiche sottese a questo storico cambio di<br />

orientamento interpretativo della Suprema Corte, sembra opportuno, allora, procedere<br />

alla disamina dei precedenti orientamenti di dottrina e giurisprudenza in relazione alla<br />

natura della forma di confisca in esame 7 .<br />

2. Il dibattito sulla natura della confisca ex art. 2 ter l. 575/’65.<br />

7<br />

Sul tema da ultimo NICOSIA, La confisca, le confische. Funzioni politico – criminali, natura giuridica e problemi<br />

ricostruttivo-applicativi, Torino 2012, 51 ss. – 87 – 173 ss.<br />

3<br />

275


La Corte Costituzionale, sin dagli anni sessanta, avverte che “la confisca può<br />

presentarsi, nelle leggi che la prevedono, con varia natura giuridica” e che “il suo<br />

contenuto…è sempre la…privazione di beni economici, ma questa può essere disposta<br />

per diversi motivi e indirizzata a varie finalità, sì da assumere, volta per volta, natura e<br />

funzione di pena o di misura di sicurezza ovvero anche di misura giuridica civile e<br />

amministrativa”, con l’effetto che viene in rilievo “non una astratta e generica figura di<br />

confisca, ma, in concreto, la confisca così come risulta da una determinata legge” 8 . La<br />

Corte Costituzionale riconosce, quindi, la natura proteiforme della confisca, natura che<br />

deve essere accertata in base alla specifica disciplina.<br />

La confisca ex art. 2 ter l. 575/’65, introdotta nell’ordinamento italiano dalla<br />

legge Rognoni-La Torre n. 646 del ’82, dovrebbe svolgere una mera finalità preventiva,<br />

come suggerisce il suo inserimento da parte del legislatore nell’ambito delle «misure di<br />

prevenzione» 9 . In tale direzione, si afferma in dottrina che il legislatore, lungi dal<br />

limitarsi a «punire» il mafioso privandolo dei frutti delle attività illecite, ha inteso<br />

«esaltare il momento preventivo, neutralizzando la situazione di pericolosità insita nel<br />

permanere della ricchezza nelle mani di chi può continuare a utilizzarla per produrre<br />

altra ricchezza attraverso la perpetuazione dell’attività delinquenziale....» 10 . La<br />

disciplina in esame ha trasformato la «ricchezza» da «elemento di protezione» ad<br />

«elemento di sospetto e segno di pericolosità sociale», «il patrimonio è causa e sintomo<br />

di pericolosità» 11 .<br />

Si individua, come precisato nella relazione al disegno di legge n. 2982, il<br />

fondamento giuridico ed il riferimento teorico del provvedimento di confisca preventiva<br />

nella pericolosità attribuibile al bene oggetto del provvedimento per i caratteri suoi<br />

propri e per la relazione esistente tra questo e le persone che ne dispongono 12 . Si<br />

evidenzia, comunque, il carattere ibrido di una confisca che è preventiva quanto alla<br />

finalità perseguita, ma afflittiva quanto al contenuto e agli effetti che provoca 13 .<br />

Parte della dottrina piuttosto che la natura preventiva delle misure<br />

patrimoniali, ne evidenzia la funzionalizzazione ad esigenze di «controllo “reale” di<br />

ambiti economici “non legittimati”», «finalità di controllo della ricchezza “sospetta”», come<br />

dimostra la sempre maggiore tendenza legislativa e giurisprudenziale a<br />

spersonalizzare le misure patrimoniali. Dall’altra parte si evidenziano delle esigenze<br />

processuali sottese alle misure in esame, che consentono «a ritroso, attraverso il<br />

complesso ordito dei rapporti fra strumenti investigativi e mezzi cautelari e preventivi,<br />

un’indubbia funzionalizzazione del “divenire” del sistema alla realizzazione di<br />

8<br />

Corte Cost., sentenze 25 maggio 1961 n. 29 e 4 giugno 1964 n. 46.<br />

9<br />

Cfr. LA BRUNA-TROVATO, Sequestro e confisca dei beni, in Manuale pratico dell'inchiesta penale, Milano 1986,<br />

371; MACRÌ, Reato associativo, misure di prevenzione e professionalità del giudice, in Mafia, 'ndrangheta e camorra.<br />

Analisi politica e intervento giudiziario, a cura di BORRÈ-PEPINO, Milano 1983, 136; GIORDANO, Senza controllo<br />

sull’effettiva applicazione la filosofia dell’inasprimento non basta, in Guida al diritto 2008, fasc. 32, 60.<br />

10 Così FIANDACA, voce Misure di prevenzione (profili sostanziali), in Dig. delle Disc. Pen., vol. VIII, Torino<br />

1994, 123; AIELLO, La tutela civilistica dei terzi nel sistema della prevenzione patrimoniale antimafia, Giuffrè 2005,<br />

100.<br />

11 MACRÌ, op. cit., 136.<br />

12 LA BRUNA-TROVATO, op. cit., 371.<br />

13 VINCIGUERRA, Osservazioni sulla confisca antimafia, in Riv. trim. dir. pen. ec. 2005, 220.<br />

4<br />

276


isultati processuali» 14 . Per svolgere tale funzione di prevenzione del consolidamento<br />

dell’economia illecita si ritiene, però, che si debba affermare definitivamente il<br />

collocamento delle misure preventive patrimoniali nell’area amministrativa «come una<br />

coerente scelta sulla via dell’effettività, e non come una “truffa delle etichette”» 15 .<br />

La natura proteiforme della confisca viene riconosciuta anche dalla Suprema<br />

Corte, a sezioni unite, nella sentenza Simonelli che, come ricordato nella sentenza in<br />

esame, ha, innanzitutto, negato «il carattere sanzionatorio di natura penale» della confisca<br />

ex art. 2 ter l. 575/’65, o «quello di un provvedimento di prevenzione», ma ritiene piuttosto<br />

che la confisca antimafia «va ricondotta nell’ambito di quel tertium genus costituito da una<br />

sanzione amministrativa equiparabile, quanto al contenuto e agli effetti, alla misura di sicurezza<br />

prevista dall’art. 240, co. 2 o c.p.» 16 . In questa sentenza le S.U. negavano correttamente la<br />

natura meramente preventiva della confisca, essendo incompatibile la sua definitività<br />

con il carattere preventivo: «mentre in tema di sorveglianza speciale di p.s., di obbligo<br />

di soggiorno e di imposizione di una cauzione, ci si muove sicuramente nell'ambito<br />

giuridicamente riconducibile alle finalità vere e proprie di misure preventive [...] e che<br />

alla stessa categoria può essere senz'altro ricondotto il previsto provvedimento di<br />

sequestro, attesa la natura cautelare, propria dello stesso, non altrettanto può dirsi<br />

avuto riguardo alla confisca. La devoluzione allo Stato dei beni confiscati, prevista<br />

dalla legge 4 agosto 1989 n. 282 (art. 4), e le finalità indiscutibilmente "ablative" dei<br />

corrispondenti provvedimenti, non consentono, invece, di qualificare gli stessi, in<br />

senso tecnico/giuridico, quali misure di prevenzione, aggiunte a quelle, specificamente<br />

previste, quali "personali": e ciò al di là delle formali espressioni adoperate dal<br />

legislatore. Trattasi, invero, ad avviso del collegio, di improprietà lessicali, rispetto<br />

all'effettivo contenuto normativo, non idonee come tali a modificare la natura del<br />

provvedimento di confisca - di carattere sicuramente "ablatorio" - in una "misura di<br />

prevenzione" in senso tecnico ed a condizionare pertanto l'interprete. Il che, a fortiori va<br />

detto, se si ha presente la ratio posta a base delle specifiche disposizioni in materia, dirette, come<br />

si ritiene in modo pressoché concorde, ad eliminare dal circuito economico beni provenienti da<br />

attività che, a seguito degli accertamenti disposti, devono ritenersi ricollegate alla ritenuta<br />

appartenenza del soggetto ad un'associazione di tipo mafioso. La confisca, invero, ….; è<br />

diretta, peraltro, a differenza della misura di prevenzione personale (o di quella patrimoniale,<br />

14<br />

Così FORNARI, Criminalità del profitto e tecniche sanzionatorie. Confisca e sanzioni pecuniarie nel diritto penale<br />

moderno, Padova 1997, 69 ss. - 80 ss.; ZANCHETTI, Il riciclaggio di denaro proveniente da reato, Milano 1997, 298.<br />

15 FORNARI, op. cit., 237; critico GIALANELLA, Prevenzione patrimoniale e strategia dell' «actio in rem»: la<br />

pericolosità «in sé» della cosa, la sospensione provvisoria dell'amministrazione dei beni e la ricchezza «contigua», in<br />

Riv. trim. dir. pen. ec. 2001, 300.<br />

16<br />

Cass., S.U., 3 luglio 1996, Simonelli ed altri, in Cass. pen. 1996, 3609; conforme Cass. 11 giugno 2008, n.<br />

25676; Cass. S.U., 8 gennaio 2007, n. 57, Auddino, in Dir. pen. e proc. 2007, con nota di MAUGERI, La revoca ex<br />

tunc come espressione del diritto di difesa contro il provvedimento definitivo di confisca, 1297, § 4; Cass. 4 luglio<br />

(28 agosto) 2007, Richichi M.A. ed altri, n. 33479, in www.dejure.it; Cass. 15 giugno (22 luglio) 2005, n.<br />

27433, Libri, Rv. 231755; Cass. 9 marzo (16 maggio) 2006, David ed altri, n. 16721, in www.dejure.it; Cass. 10<br />

marzo (4 aprile) 2005, Bellino ed altri, n. 12529, ivi; App. Napoli, 16 gennaio 2001, in Giur. mer. 2001, 131;<br />

Cass. 31 gennaio 2005, in Guida al dir. 2005, n. 25, 56; cfr. Cass. 14 febbraio 1997, in Cass. pen. 1997, 3170;<br />

equipara tout court la confisca antimafia ad una misura di sicurezza patrimoniale ex art. 240 c.p. Cass. 18<br />

maggio 1992, in Mass. Cass. pen. 1992, voce Misure di Sicurezza, fasc. 12, 111; parla di sanzione<br />

amministrativa Cass. 14 febbraio 1997, in Cass. pen. 1997, 3171.<br />

5<br />

277


avuto riguardo alla cauzione) a sottrarre "i beni", in via definitiva, alla disponibilità<br />

dell'indiziato di appartenenza ad associazione di tipo mafioso: ancorché tale risultato sia<br />

conseguibile solo all'esito definitivo della prevista procedura. …».<br />

Sulla base dei presupposti appena illustrati, le Sezioni Unite chiarivano la<br />

portata della sussunzione della confisca de qua nell'ambito di una generica categoria di<br />

sanzioni amministrative parificabili - per contenuto ed effetti – alla misura di sicurezza<br />

di cui al ricordato art. 240 cpv. cod. pen., in quanto «la ratio sottesa ai provvedimenti in<br />

esame – adottabili nell'ambito del procedimento di prevenzione - siccome diretta a<br />

colpire beni e proventi di natura presuntivamente illeciti (sussistendo ovviamente i<br />

presupposti di legge) per "escluderli dal cosiddetto circuito economico", si ricollega,<br />

seppur con un ambito di estensione non identico, alle ipotesi previste dal citato art. 240<br />

cod. pen., cpv. nn. 1 e 2 che, come è noto, prescindono dalla condanna – da<br />

un'affermazione di responsabilità accertata in sede penale - con la conseguente<br />

applicabilità anche nel caso di proscioglimento, quale che sia la formula (art. 205 cod.<br />

pen.)». «D’altra parte», osserva la Corte, «anche avuto riguardo alle misure<br />

amministrative di sicurezza in senso stretto – previste e disciplinate dal codice penale<br />

dagli art. 199 a 240 – dottrina e giurisprudenza hanno sempre concordato, con<br />

particolare riferimento alla confisca, che tale istituto non si presenta sempre con<br />

identica natura e configurazione, ma assume caratteristiche peculiari in relazione alle<br />

diverse finalità che la legge le attribuisce e che, di conseguenza, la misura tende a<br />

realizzare» 17 .<br />

Questo orientamento viene ripreso in termini pressoché identici dalla Suprema<br />

Corte anche in seguito alle riforme del 2008 e del 2009 che, come ormai ampiamente<br />

riconosciuto dalla sua giurisprudenza, hanno “inteso affermare il principio della<br />

cosiddetta "autonomia della misura patrimoniale di prevenzione" rispetto a quella<br />

personale” 18 , fermo restando che il giudice deve accertare “in via incidentale<br />

l'inquadrabilità del proposto nelle categorie dei soggetti che possono essere destinatari<br />

dell'azione di prevenzione” 19 ; il tutto richiamando le prese di posizione della Corte<br />

17<br />

Cass. 3 luglio 1996, Simonelli ed altri, in Cass. pen. 1996, 3609.<br />

18<br />

Cass., sez. V, 13 novembre 2012, n. 14044, O., in www.dejure.giuffrè.it; cfr. Cass., sez. VI, 18 ottobre 2012, n.<br />

10153, C. e altro, ivi; Cass., sez. VI, 10 ottobre 2012, n. 1282, V., ivi; Cass., 13 gennaio 2011, n. 18327, G., in<br />

www.dejure.giuffre.it; Cass., Sez. 1, 13 gennaio 2011, n. 5361, dep. 14/02/2011, Rv. 249800; Cass., Sez. 6, 20<br />

ottobre 2011, n. 484, Rv. 251648.<br />

19<br />

Cfr. Cass., 27 gennaio 2009, n. 8466, C. e altro; Tribunale di Roma, decreto n. 268/08, 19 maggio 2009 Pres.<br />

Capozza; decreto Tribunale di Brindisi, I sez. penale, R.G.M.P., n. 3/2009, decreto 18 febbraio/26 marzo<br />

2009; decreto Tribunale di Napoli, sezione misure di prevenzione, R.G.M.P. 198/2008 e 21/2009, Palumbo<br />

Castrese, depositato il 20 aprile 2009; decreto Tribunale di Trapani, 5 maggio 2009, Rocchiolo; Tribunale di<br />

Reggio Calabria, 22 luglio 2009, Alvaro Nicola ed altri ; cfr. Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, decreto<br />

7 gennaio 2010, n. 113/95, 41/96 RG. M.P. e 117/2010 R.D., inedito; Tribunale di Trapani, decreto 5 maggio<br />

2009, Crocchiolo. Cfr. MAUGERI, La riforma delle sanzioni patrimoniali: verso un actio in rem?, in MAZZA-<br />

VIGANO', Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica (d.l. 23 maggio 2008, n. 92 conv. in legge 24 luglio 2008,<br />

n. 125), Torino 2008, 138 ss.; ID., Dalla riforma delle misure di prevenzione patrimoniali alla confisca generale dei<br />

beni contro il terrorismo, in MAZZA-VIGANO', Il “Pacchetto sicurezza” 2009 (Commento al d.l. 23 febbraio 2009, n.<br />

11 conv. in legge 23 aprile 2009, n. 38 e alla legge 15 luglio 2009, n. 94), Torino, 2009, 440; PIGNATONE, Il modello<br />

italiano di contrasto ai patrimoni illeciti: strumenti penali, strumenti di prevenzione, problematiche processuali. La<br />

recente riforma delle misure di prevenzione: criticità e prospettive di applicazione, in Atti del CSM, Incontro di<br />

6<br />

278


Costituzionale con le sentenze n. 21 e 216 del 2012 20 che hanno confermato la<br />

conformità ai principi costituzionali del procedimento di prevenzione 21 , evidenziando,<br />

infine, che “le scelte di politica criminale sottese agli interventi operati dal legislatore<br />

con le novelle del 2008 e del 2009 incidono sulla sfera dei diritti, costituzionalmente<br />

tutelati, di proprietà e di iniziativa economica, il cui ambito di applicazione, tuttavia,<br />

ben può essere limitato nell'interesse delle esigenze di sicurezza e dell'utilità generale<br />

(art. 41 Cost., comma 2), nonchè della funzione sociale della proprietà (art. 42 Cost.,<br />

comma 2), secondo contenuti e finalità le cui concrete modulazioni non possono che<br />

definirsi nell'ambito della discrezionalità propriamente riservata al legislatore, tenuto<br />

conto dell'esigenza, generalmente condivisa e più volte posta in luce dalla<br />

giurisprudenza di questa Suprema Corte (v., ad es., la su citata pronuncia resa da Sez.<br />

Un., n. 18 del 03/07/1996), di sottrarre i patrimoni accumulati illecitamente alla<br />

disponibilità dei soggetti che non possono dimostrarne la legittima provenienza".<br />

L’ambiguità della natura della forma di confisca in esame emerge, tuttavia,<br />

dalla giurisprudenza della Suprema Corte a Sezioni Unite nella significativa sentenza<br />

Auddino, laddove afferma, dapprima, che la confisca antimafia (art. 2 ter l. 575/’65)<br />

costituisce una forma di “espropriazione per pubblico interesse, identificato,<br />

quest’ultimo, nella generale finalità di prevenzione penale”, poi che “non si tratta di un<br />

provvedimento di prevenzione in senso stretto, ma piuttosto di sanzione<br />

amministrativa di carattere ablatorio, equiparabile alla misura di sicurezza prescritta<br />

dal secondo comma dell’art. 240 c.p.”; per, infine, sottolineare in un successivo<br />

passaggio “la natura di sanzione patrimoniale, riconosciuta alla nostra confisca,<br />

risposta a una acquisizione illecita di beni, situazione per sua natura insuscettiva di<br />

evoluzione (…Cass. sez. II, 28 marzo 1996, n. 1438, Olivieri)” 22 .<br />

Non sono mancate, del resto, pronunce in cui si sottolinea che non può essere<br />

negata una componente sanzionatoria della confisca antimafia, definita come un istituto<br />

nuovo ed atipico, con funzione preventiva 23 ; oppure si afferma che la confisca, quale<br />

studio, Roma 27 – 29 gennaio, 2010; MANGIONE, La confisca di prevenzione dopo i “due” pacchetti-sicurezza, in<br />

MAZZARESE-AIELLO (a cura di), Le misure patrimoniali antimafia. Interdisciplinarietà e questioni di diritto penale,<br />

civile e amministrativo, cit., 74; BALSAMO, Le misure di prevenzione patrimoniali come modello di “processo al<br />

patrimonio”. Il rapporto con le misure di prevenzione personali, in BALSAMO-CONTRAFATTO-NICASTRO (a cura di),<br />

Le misure patrimoniali contro la criminalità organizzata, Milano 2010, 45; CAIRO, Confisca – Misure di<br />

prevenzione, Titolo XIX Mafia, in Codice delle confische e dei sequestri. Illeciti penali e amministrativi, a cura di<br />

TARTAGLIA, Roma 2012, 1088.<br />

20<br />

Corte cost., 9 febbraio 2012, n. 21, in Dir. Pen. Cont. 2012, www.penalecontemporano.it, ha negato<br />

l’incompatibilità della disciplina in questione con il diritto di difesa – art. 24 Cost. – e con il diritto al giusto<br />

processo – art. 111 Cost., osservando che sono garantiti i diritti di difesa dei successori, che sono le parti<br />

processuali, ma soprattutto ribadendo la peculiarità del procedimento patrimoniale rispetto al processo<br />

penale e quindi l’impossibilità di riconoscere le medesime garanzie laddove viene in gioco il patrimonio e<br />

non la libertà personale; conforme Corte Cost., 30 luglio 2012, n. 216, in Cass. pen. 2012, 12, 4075. Cfr.<br />

LICATA, La costituzionalità della confisca antimafia nei confronti degli eredi: un altro passo verso la definizione della<br />

natura dell'actio in rem, in Giur. cost. 2012, 242 s., che trae dalla prima pronuncia, la n. 21, il sostanziale<br />

riconoscimento della costituzionalità dello sganciamento delle misure personali dalle patrimoniali.<br />

21<br />

Cass., sez. VI, 18 ottobre 2012, n. 10153, in www.dejure.it; conforme Cass., 9 novembre 2012, n. 12003, B. e<br />

altro, ivi; Cass., sez. V, 20 gennaio 2010, n. 16580, De Carlo, Rv. 246863.<br />

22<br />

Cass., S.U., 8 gennaio 2007, n. 57, Auddino, in Dir. pen. e proc. 2007, 1297.<br />

23<br />

Corte cost., 15 febbraio 1988, in Giur. it. 1988, II, 360.<br />

7<br />

279


generica misura di prevenzione, ha natura formalmente e sostanzialmente afflittiva 24 :<br />

“anche dissuasiva, con la preminente funzione di togliere dalla circolazione perversa il bene che,<br />

al di là del dato temporale, è pervenuto nel patrimonio in modo perverso (v. Cass. Sez. U<br />

2004/920 cit.)” 25 .<br />

La Suprema Corte, insomma, riconosce espressamente che non si può<br />

considerare misura di prevenzione ante delictum una misura considerata definitiva e<br />

istantanea, una sanzione applicata proprio sulla base di indizi di attuale consumazione<br />

di un delitto (la pericolosità deriverebbe dall’appartenenza ad un’associazione<br />

criminale) e di precedenti delitti (l’origine illecita dei beni) 26 . Emergono però delle<br />

ambiguità nelle definizioni adottate dalla giurisprudenza della Corte, dovute<br />

all’intrinseca equivocità della confisca, definita dalla dottrina come una «sorta di<br />

reticolo sanzionatorio», un ibrido pronto a piegarsi a diverse finalità 27 . La Corte da una<br />

parte la considera sanzione amministrativa equiparabile alla misura di sicurezza (quel<br />

tertium genus di cui ha parlato la precedente giurisprudenza) 28 , dall’altra ne sottolinea il<br />

carattere punitivo quando la definisce sanzione patrimoniale, applicata come risposta,<br />

reazione punitiva, all’acquisizione illecita di beni 29 .<br />

Da ultimo, infatti, in una recente sentenza in materia di confisca nel decr.<br />

231/2001 sulla responsabilità da reato degli enti, le Sezioni unite hanno espressamente<br />

ribadito la costante natura “proteiforme” della confisca nell’ordinamento italiano 30 ,<br />

evidenziando la recente introduzione «nell’ordinamento, in maniera sempre più<br />

esponenziale, [di] ipotesi di confisca obbligatoria dei beni strumentali alla<br />

consumazione del reato e del profitto ricavato, le quali hanno posto in crisi le<br />

costruzioni dommatiche elaborate in passato e la identificazione, attraverso il nomen<br />

iuris, di un istituto unitario, superando così i ristretti confini tracciati dalla norma<br />

generale di cui all’art. 240 c.p. (si pensi esemplificativamente alla confisca di cui agli<br />

artt. 322 ter, 600 septies, 640 quater, 644, 648 quater c.p., 2641 c.c., 187 d. lgs. n. 58/’98,<br />

44/2° d.p.r. n. 380/’01)”; anche la progressiva moltiplicazione delle ipotesi di confisca<br />

nella forma per equivalente confermerebbe, ad avviso della Corte, “la determinazione<br />

con cui il legislatore ha inteso e intende perseguire l’obiettivo di privare l’autore del<br />

reato soprattutto del profitto che ne deriva”, rivelando che “l’obiettivo perseguito, non<br />

più incentrato sull’equivoca pretesa della pericolosità delle cose, tende a superare la<br />

rigida catalogazione codicistica dell’istituto”. Ne consegue, quindi, afferma la Corte<br />

che “Sulla base della tracciata evoluzione normativa, appare assai arduo, oggi, catalogare<br />

l’istituto della confisca nel rigido schema della misura di sicurezza, essendo agevole per esempio<br />

24<br />

Cass., 21 gennaio 1991, in Giur. it. 1992, II, 299.<br />

25<br />

Cass., 8 aprile (29 maggio) 2008, n. 21717, Failla e altro, Rv. 240501.<br />

26 MAUGERI, op. cit., 526 e dottrina ivi citata; MANGIONE, La misura di prevenzione patrimoniale fra dogmatica e<br />

politica criminale, Cedam, 2001, 391.<br />

27 ALESSANDRI, Confisca (dir. pen.), in Dig. Disc. Pen., vol. III, Torino 1989, 49; MAUGERI, op. cit., 529; Cass.,<br />

S.U., 3 luglio 1996, Simonelli ed altri, in Cass. pen. 1996, 3609.<br />

28<br />

Cass., S.U., 3 luglio 1996, Simonelli ed altri, in Cass. pen. 1996, 3609; Cass. 31 gennaio 2005, Bruno, 231873,<br />

in Guida al dir. 2005, n. 25, 56; App. Napoli, 16 gennaio 2001, Zaza, in Giur. mer. 2003, 131.<br />

29<br />

Cass. 21 gennaio 1991, Piromalli, in Cass. pen. 1992, 299.<br />

30<br />

Cass., S.U., 27 marzo 2008 (dep. 2 luglio 2008), n. 26654, Soc. Fisia Italimpianti e altro, in Guida al diritto<br />

2008, 31, 102. Cfr. Cass. pen., 7 maggio 2008, n. 22903, in www.dejure.it.<br />

8<br />

280


iconoscere, in quella di valore, i tratti distintivi di una vera e propria sanzione e, in quella<br />

“speciale”, una natura ambigua, sospesa tra funzione specialpreventiva e vero e proprio intento<br />

punitivo. Con il termine “confisca”, in sostanza, al di là del mero aspetto nominalistico, si<br />

identificano misure ablative di natura diversa, a seconda del contesto normativo in cui lo stesso<br />

termine viene utilizzato».<br />

La Suprema Corte riconosce, insomma, che non solo “nell'elaborazione<br />

giurisprudenziale, è ormai acquisita l'affermazione del naturale polimorfismo dell'istituto e<br />

della pluralità di funzioni (di misura di sicurezza, prevenzione o pena) di volta in volta<br />

perseguite dal legislatore”, ma ritiene che “la confisca risponde ad una logica prevalentemente<br />

sanzionatoria, configurandosi come uno strumento strategico di politica criminale, inteso a<br />

contrastare fenomeni sistematici di criminalità economica e di criminalità organizzata. Ne<br />

consegue che occorre considerare non già una astratta e generica figura di confisca, ma, in<br />

concreto, la confisca così come risulta da una determinata legge (Corte Cost. 1961 n. 29; Id.<br />

1964, n. 46)” 31 .<br />

In tale direzione, in conclusione, parte della dottrina ha sempre dubitato della<br />

classificazione della confisca ex art. 2 ter l. 575/’65 come misura di prevenzione laddove<br />

si considera che il suo presupposto è la consumazione di precedenti attività criminose 32<br />

dalle quali derivano i beni da confiscare, e dato che la fattispecie consente di confiscare<br />

tali beni senza dover provare il nesso causale con un determinato reato in un regolare<br />

processo, se ne può dedurre che il suo scopo non sia quello di prevenire la<br />

commissione di futuri reati, ma piuttosto quello di sottrarre i beni di provenienza<br />

illecita sulla base di meri elementi indiziari e, quindi, di sanzionare dei reati, dei quali<br />

non si riescono a fornire le prove, per lo meno nella forma minima della sottrazione del<br />

profitto 33 , affidando alla prevenzione una funzione (afflittiva) che non le spetta 34 .<br />

31<br />

Cfr. Cass., 7 maggio 2008, n. 22903, in www.dejure.it.<br />

32<br />

Cass., 25 ottobre 1993, in Cass. pen. 1995, 163.<br />

33 MAUGERI, op. cit., 526.<br />

34<br />

Questa legislazione, che consente di emanare un provvedimento di confisca indipendentemente<br />

dall'esercizio dell'azione penale, riecheggia indubbiamente la legislazione contro il fascismo e contro il<br />

collaborazionismo; e come allora si riconobbe in quella forma di confisca una vera e propria pena<br />

criminale, nonostante fosse emanata in sede di provvedimenti di polizia, anche oggi le si riconosce<br />

carattere di vera e propria pena COMUCCI, Il sequestro e la confisca nella legge "antimafia", in Riv. it. dir. proc.<br />

pen. 1985, 86; sostengono il carattere repressivo dell'istituto della confisca in esame BRICOLA, Forme di tutela<br />

"ante-delictum" e profili costituzionali della prevenzione, in Le misure di prevenzione, atti del IX Convegno<br />

"Enrico De Nicola", Milano 1975, 59 ss.; GALLO, voce Misure di prevenzione, in Enc. giur. Treccani, vol. XX,<br />

Roma 1990, Appendice di aggiornamento, Roma 1996, 15; STORTONI, Le misure di prevenzione contro la mafia,<br />

in Le misure di prevenzione. Teoria e prassi applicativa, Bari 1998, 371 ss.; RUSSO, La gestione dei patrimoni<br />

sequestrati e la tutela dei terzi nel sistema della l. n. 646 del 1982, in Fall. 1985, 1009; AGUGLIA, La legge La Torre<br />

alla verifica della Corte Costituzionale, in Dir. fall. 1986, II, 447 ss.; MANGANO, La confisca nella legislazione<br />

antimafia e i diritti dei terzi, in Ind. pen. 1987, 653; BARGI, L'accertamento della pericolosità nelle misure di<br />

prevenzione, Napoli 1988, 21 ss.; LAUDATI, La criminalità economica e le prime applicazioni giurisprudenziali degli<br />

art. 12 quinquies e sexies della legge 356/92, relazione al 4° Congresso nazionale Associazione Internazionale De<br />

Droit Penal, in Riv. pen. dell'ec. 1994, 327; ILLUMINATI, La presunzione d'innocenza, Bologna 1979, 202;<br />

MARUCCI, Le misure giurisdizionali di prevenzione penale e l'appartenenza ad associazioni mafiose, in Giur. it.<br />

1971, II, c. 105; CELENTANO, La nuova ipotesi particolare di confisca obbligatoria, in Riv. pen. economia, 1994, 109,<br />

che parla di finalità sanzionatoria di un arricchimento illecito; MAUGERI, op. cit., 527 ss.; ID. Dalla riforma<br />

delle misure di prevenzione patrimoniali alla confisca generale dei beni contro il terrorismo, cit., 481; FONDAROLI, Le<br />

9<br />

281


In tale direzione il giudice costituzionale ha riconosciuto che la confisca<br />

«comporta conseguenze ablatorie definitive (art. 2 nonies, l. 575/1965) e si distacca,<br />

perciò, dalla contingente premessa che giustifica tanto il sequestro quanto tutte le altre<br />

misure di carattere preventivo, valide allo “stato”, cioè subordinatamente al permanere<br />

della pericolosità del soggetto. La ratio della confisca comprende, ma eccede, quella<br />

delle misure di prevenzione, consistendo nel sottrarre definitivamente il bene al<br />

circuito economico di origine, per inserirlo in altro, esente dai condizionamenti<br />

criminali che caratterizzano il primo» 35 .<br />

Parte della dottrina ha criticato tale sentenza della Corte costituzionale (n. 335),<br />

osservando che l’effetto ablatorio definitivo è pur sempre connaturato ad ogni tipo di<br />

confisca ed è collegato all’accertamento di una qualche pericolosità del soggetto al<br />

momento della decisione; tale effetto non ha incidenza sul carattere preventivo della<br />

confisca, accentuandone, piuttosto, quello sanzionatorio, peraltro sempre presente, sia<br />

nelle misure ante delictum..., sia nelle misure post delictum» (la funzione preventiva è<br />

individuata «nel porre un concreto definitivo ostacolo alla prosecuzione dell’attività<br />

illecita») 36 .<br />

Per contro, invece, si ritiene, come osservato già in altra sede, che con tale<br />

sentenza (n. 335) la Corte Costituzionale riconosce come la pericolosità sociale non<br />

costituisca la ragione fondante della confisca (tanto è vero che, anche prima della<br />

riforma, tale sanzione poteva essere adottata anche qualora il giudizio di pericolosità<br />

avesse esaurito i suoi effetti con la cessazione della durata della misura di prevenzione<br />

personale) 37 ; la finalità preventiva di tale sanzione, non può essere ricondotta al<br />

classico modello delle misure ante delictum, ma va ricondotta, da una parte, in un’ottica<br />

macrocriminale, ad esigenze di prevenzione dell’infiltrazione criminale nell’economia,<br />

come espressamente affermato dalla Corte Costituzionale 38 , e della connessa<br />

alterazione dei normali meccanismi di funzionamento di un sistema economico di tipo<br />

tendenzialmente concorrenziale 39 , e, dall’altra parte, ad esigenze di incapacitazione<br />

economica della criminalità. A tale scopo, però, si è creato uno strumento punitivo<br />

basato sul sospetto che nei confronti del singolo individuo può rivelarsi come una sorta<br />

di pena sommaria, applicata al di fuori del rispetto dei principi fondamentali<br />

dell’ordinamento penale, dal principio di legalità al principio di personalità della<br />

pena 40 .<br />

ipotesi speciali di confisca nel sistema penale – Ablazione patrimoniale, criminalità economica, responsabilità delle<br />

persone giuridiche, Bologna 2007, 170 – 192 ss.; MAIELLO, La prevenzione patrimoniale “in trasformazione”, in<br />

Dir. pen. e proc. 2009, 805.<br />

35<br />

Corte Cost., 8 ottobre 1996, n. 335, in Foro it. 1997, I, c. 21.<br />

36<br />

cfr. GIALANELLA, I patrimoni di mafia - La prova, il sequestro, la confisca, le garanzie, Napoli, 1998, 166; cfr. ID.,<br />

Prevenzione patrimoniale e strategia dell' «actio in rem»: la pericolosità «in sé» della cosa, la sospensione provvisoria<br />

dell'amministrazione dei beni e la ricchezza «contigua», in Riv. trim. dir. pen. ec. 2001, 288.<br />

37 MAUGERI, op. cit., 527 - 528.<br />

38<br />

Corte Cost. 19 novembre 1992, n. 464, in Cass. pen. 1993, 2215.<br />

39<br />

Cfr. in quest’ultima direzione, GAROFOLI, Costituzione economica, trasformazioni in atto del modello economico<br />

e tendenze evolutive del sistema prevenzionistico patrimoniale, in Le misure di prevenzione patrimoniali — Teoria e<br />

prassi applicativa, Bari, 1997, 71<br />

40 MAUGERI, op. cit., 528.<br />

10<br />

282


3. Gli argomenti fondamentali della Suprema Corte: la separazione delle misure<br />

personali dalle patrimoniali.<br />

Nella sentenza in commento la Suprema Corte nega definitivamente la natura<br />

di misura preventiva della confisca in esame in quanto, in seguito alle riforme<br />

introdotte dal d.l. 92/2008, convertito in l. 125/2008, e dalla l. n. 94/2009, tale forma di<br />

ablazione dei beni può essere applicata separatamente dalle misure personali e<br />

soprattutto in mancanza di un giudizio di attualità della pericolosità sociale, giudizio<br />

che consentiva di ricondurre tale forma di confisca alla categoria delle misure di<br />

sicurezza (con la relativa applicazione del principio di retroattività della disciplina).<br />

La Corte evidenzia sostanzialmente che era possibile considerare la confisca<br />

come vera e propria misura preventiva solo se e fino a quando si fondava la sua<br />

applicazione su un giudizio di pericolosità sociale, di cui si chiedeva l’attualità, in<br />

quanto lo scopo della confisca sarebbe stato quello di evitare che il soggetto pericoloso<br />

disponesse di uno strumento utile al proseguimento dell’attività criminosa; in questo<br />

senso si giustificava l’equiparazione alla misura di sicurezza e l’applicazione del<br />

principio di cui all’art. 200 c.p. di applicazione della disciplina vigente al momento<br />

dell’applicazione della misura corrispondente con la permanenza della pericolosità.<br />

Sganciata, però, definitivamente l’applicazione della misura patrimoniale dalla<br />

persistenza dello status di pericolosità sociale, l’attualità della pericolosità, vengono<br />

meno i presupposti che giustificavano la riconduzione della confisca misura di<br />

prevenzione alla categoria delle misure di prevenzione o comunque a un tertium genus<br />

equiparabile.<br />

“La ratio della più volte affermata equiparabilità tra misure di sicurezza e<br />

misure di prevenzione, ai fini qui in esame, deriva dalla presa d'atto della natura e<br />

della funzione delle seconde, da applicarsi non già quale diretta conseguenza di un<br />

determinato fatto (come accade invece per le pene, da ricollegare a fatti che<br />

costituiscano reato), bensì avuto riguardo alla condotta di vita del proposto, tale da<br />

farne desumere quella attuale pericolosità sociale che è pacificamente il fondamento<br />

per dare corso a misure di sicurezza, ex art. 202 cod. pen. dunque innegabile che, in<br />

tanto esiste una possibilità di equiparazione fra le due tipologie di misura, in quanto se<br />

ne individui un comune presupposto nella verifica della perdurante pericolosità del<br />

soggetto che ne sia destinatario: una pericolosità che dovrà comunque sussistere (sia<br />

pure se affermata in base a presunzioni) nel momento in cui il giudice della<br />

prevenzione sia chiamato a provvedere, proprio perché è ad una pericolosità in atto<br />

che la legge - eventualmente, anche sopravveniente - mira a porre rimedio……2.3 Già a<br />

questo punto, però, non è chi non veda come il percorso argomentativo appena<br />

illustrato incontri un limite non valicabile, laddove di quel giudizio di attuale<br />

pericolosità sociale si possa fare a meno, ed una misura di prevenzione (patrimoniale)<br />

possa essere disposta anche prescindendo da una tale verifica. Se infatti non è più<br />

richiesto - come oggi non si chiede, …- che il proposto in sede di procedimento di<br />

11<br />

283


prevenzione sia persona socialmente (ed attualmente) pericolosa, non sembra possibile<br />

ricavare regole formali per la disciplina di quel procedimento da una norma - l'art. 200<br />

cod. pen. - che fonda la sua ragion d'essere proprio su quell'indefettibile presupposto”.<br />

Come esaminato, in realtà, anche prima di tale riforma si dubitava della<br />

riconduzione di tale forma di confisca alla categoria delle misure di prevenzione, in<br />

quanto la misura si applica non in virtù di comportamenti pericolosi, che possono far<br />

presupporre per il futuro comportamenti illeciti, ma, in relazione a comportamenti del<br />

passato che hanno dato già luogo ad illeciti 41 , e, inoltre, se si volessero perseguire delle<br />

mere finalità preventive si sarebbe dovuto confiscare al soggetto pericoloso anche<br />

quanto lecitamente detenuto per prevenirne, comunque, un utilizzo per finalità<br />

criminali; il requisito dell'origine illecita del patrimonio non sarebbe necessario, in<br />

quanto il patrimonio, comunque, non è un bene in sé pericoloso ma lo diventa in<br />

relazione ad un soggetto pericoloso, il quale potrebbe in futuro utilizzarlo per<br />

commettere dei delitti 42 .<br />

Ed è, comunque, singolare concepire un provvedimento afflittivo e definitivo<br />

come la confisca come una misura di prevenzione 43 . Una misura preventiva, per sua<br />

natura tende ad essere provvisoria, cioè a perdurare finché sussistono le condizioni di<br />

pericolosità, che l'hanno giustificata 44 . La confisca, invece, anche prima delle recenti<br />

riforme, secondo il giudizio della Suprema Corte, non poteva essere revocata anche nel<br />

caso in cui, in seguito al sopraggiungere di elementi indicativi del riadattamento<br />

sociale del soggetto e della cessazione della sua pericolosità, venisse revocata la misura<br />

di prevenzione personale; e questo si spiegava perché la cessazione della pericolosità<br />

non faceva venire meno l'illiceità della provenienza del bene 45 (anche la Corte<br />

Costituzionale, d’altronde, ha sempre affermato che è possibile applicare la confisca<br />

anche dopo la cessazione della durata della misura di prevenzione personale, purché il<br />

procedimento preventivo sia stato iniziato prima della cessazione della durata della<br />

misura personale 46 ).<br />

In ogni caso, ancor prima della sentenza in commento, si è evidenziato che la<br />

riforma delle misure di prevenzione, realizzata nel 2008 e nel 2009, sganciando, almeno<br />

tendenzialmente, le misure patrimoniali dalle personali, ha confermato che la ratio di<br />

41<br />

Cfr. autori citati in nota 34.<br />

42<br />

Cfr. COMUCCI, op. cit., 101; contra MACRÌ, op. cit., 136, sottolinea come la disciplina in esame ha<br />

trasformato la "ricchezza" da "elemento di protezione" ad "elemento di sospetto e segno di pericolosità<br />

sociale", "il patrimonio è causa e sintomo di pericolosità"; BERTONI, La legge antimafia dopo tre anni tra limiti<br />

della giustizia e carenze della politica, in La legge antimafia tre anni dopo, a cura di FIANDACA e COSTANTINO,<br />

Milano 1986, 568; LA BRUNA -TROVATO, op. cit., 371. Cfr. MANGIONE, La misura di prevenzione patrimoniale,<br />

cit., 500, il quale sostiene "la natura di sanzione penale della confisca di prevenzione".<br />

43<br />

Cfr. MANGIONE, La misura di prevenzione patrimoniale, cit., 496.<br />

44<br />

Cfr. IACCARINO, voce Confisca (Diritto amministrativo), in Nov.mo Dig. it., vol. IV, Torino, 1957, 40.<br />

45<br />

Cfr. GALLO, op. cit., 11; MOLINARI, Alcune riflessioni sugli effetti ex tunc od ex nunc della revoca delle misure di<br />

prevenzione, in Cass. pen. 1995, 394; PUGLISI, Commenti articolo per articolo, l. 13 agosto 1988, n. 327, artt. 15 -<br />

16, in Leg. pen. 1989, 38-39; MAUGERI, op. cit., 527 s.<br />

46<br />

Così Corte Cost. 28 dicembre 1993, n. 465, Trimboli, in Giur. cost. 1993, 3821; cfr. Corte Cost., 8 ottobre<br />

1996, n. 335, in Foro it. 1997, I, 24; cfr. MAUGERI, Dall’ actio in rem alla responsabilità da reato delle persone<br />

giuridiche: un’unica strategia politico criminale contro l’infiltrazione criminale nell’economia?, in Scenari di mafia.<br />

Orizzonte criminologico e innovazioni normative, VISCONTI-FIANDACA, Torino, 2010, 271 ss..<br />

12<br />

284


tali misure non è connessa alla pericolosità dei proposti e che la finalità preventiva<br />

della confisca antimafia non può essere ricondotta al classico modello delle misure ante<br />

delictum, ma va ricondotta, come esaminato, ad esigenze di prevenzione<br />

dell’infiltrazione criminale nell’economia e ad esigenze di incapacitazione economica<br />

della criminalità.<br />

Il caso concretamente esaminato dalla Corte rappresenta poi una significativa<br />

ipotesi concreta in cui è possibile non considerare pericoloso il prevenuto, pur in<br />

presenza di indizi del compimento di un’attività criminale che giustifica i sospetti di<br />

origine illecita del patrimonio, e cioè l’ipotesi in cui viene applicata la sospensione<br />

condizionale della pena (“Non è infatti suscettibile di smentita il rilievo che nella<br />

fattispecie concreta la Corte di appello di Palermo non ha ritenuto attualmente<br />

pericoloso l'Occhipinti, né ha espresso valutazioni su una sua pericolosità pregressa,<br />

sia pure sulla base degli stessi elementi che erano emersi nel processo celebrato a suo<br />

carico e che comunque aveva portato all'applicazione di una pena soggetta a benefici.<br />

Se ne ha chiara riprova nella constatazione, parimenti evidenziata dal ricorrente, che il<br />

P.M. aveva impugnato il decreto del Tribunale di Trapani solo con riguardo al rigetto<br />

della misura di prevenzione patrimoniale, e non anche in ordine a quella personale la<br />

cui praticabilità era da escludersi - secondo lo stesso appellante - proprio in ragione del<br />

disposto dell'art. 166, comma 2, cod. pen., «difettando l'attualità della pericolosità<br />

sociale»”). Come evidenziato in altra sede, in seguito alla riforma del 2009 un’ipotesi<br />

concreta in cui sarebbe difficile applicare la misura personale, perché la sottostante<br />

prognosi positiva in termini di prevenzione speciale si porrebbe in contraddizione con<br />

la valutazione giudiziaria di pericolosità sociale, ma sarà invece possibile applicare la<br />

misura patrimoniale attiene al soggetto al quale viene concesso il beneficio della<br />

sospensione condizionale della pena 47 .<br />

3.1. La nozione di “materia penale” della Corte EDU.<br />

47 MAUGERI, Dalla riforma delle misure di prevenzione patrimoniali alla confisca generale dei beni contro il<br />

terrorismo, cit., 446; SCARPINATO, Le indagini patrimoniali, in CASSANO (a cura di), Le misure di prevenzione<br />

patrimoniali dopo il “pacchetto sicurezza”, NelDiritto Editore, 2009, 261. Cfr. Corte Costituzionale, 12 ottobre<br />

2011, n. 270, S.F., in Giur. cost. 2011, 5, 3512 , in cui si afferma: “È manifestamente infondata la q.l.c.<br />

dell'art. 530 c.p.p., censurato, in riferimento all'art. 3 cost., nella parte in cui non contempla una<br />

disposizione affine, o una clausola identica, a quella prevista dall'art. 166, comma 2, c.p. La questione è<br />

sollevata sulla base di un presupposto interpretativo - quello secondo cui coloro che sono stati condannati<br />

con pena sospesa non possono subire alcuna misura di prevenzione - erroneo, sia perché l'art. 166, comma<br />

2, c.p. si limita a disporre che la condanna a pena sospesa non può costituire in alcun caso, di per sé sola,<br />

motivo per l'applicazione di misure di prevenzione, non escludendo affatto che le risultanze del processo<br />

penale, conclusosi con sentenza di condanna con pena sospesa, possano essere valutate ai fini<br />

dell'applicazione della misura di prevenzione, unitamente ad altri elementi desumibili aliunde, sia perché<br />

non tiene conto né della profonda differenza sussistente tra il procedimento penale e quello di<br />

prevenzione, né del fatto che il giudice, con la sentenza di assoluzione, non opera alcun giudizio di<br />

pericolosità dell'imputato, ad eccezione dei casi previsti dalla legge in cui applica la misura di sicurezza<br />

(sent. n. 275 del 1996)”.<br />

13<br />

285


La Suprema Corte, inoltre, nel riconoscere la natura “sanzionatoria” della<br />

confisca misura di prevenzione fonda la sua interpretazione sui criteri stabiliti dalla<br />

giurisprudenza della Corte EDU; come si afferma nella pronuncia, “Dalla<br />

giurisprudenza della Corte di Strasburgo, formatasi in particolare sull'interpretazione<br />

degli artt. 6 e 7 della CEDU, si ricava, pertanto, il principio secondo il quale tutte le<br />

misure di carattere punitivo - afflittivo devono essere soggette alla medesima<br />

disciplina della sanzione penale in senso stretto”. Si evidenzia come la giurisprudenza<br />

della Corte EDU sulla nozione di materia penale sollecita una verifica non meramente<br />

formale della natura di una sanzione al fine di applicare le dovute garanzie:<br />

“giurisprudenza costituzionale e la dottrina hanno sottolineato la necessità di un<br />

controllo non solo nominale, ma anche contenutistico degli strumenti qualificati dal<br />

legislatore come misure di sicurezza, costituenti una reazione ad un fatto criminoso.<br />

Ciò, al fine di impedire che risposte di segno repressivo, e quindi con i caratteri propri<br />

delle pene in senso stretto, si prestino ad essere qualificate come misure di sicurezza,<br />

con la conseguenza di eludere il principio di irretroattività valido per le pene. La Corte<br />

europea dei diritti dell'uomo ha, a sua volta, sottolineato che la necessità di scongiurare<br />

un surrettizio aggiramento delle garanzie individuali che gli artt. 6 e 7 riservano alla<br />

materia penale comporta che la distinzione relativa alla natura penale o meno di un<br />

illecito e della relativa sanzione si fondi non solo sul criterio della qualificazione<br />

giuridico-formale attribuita nel diritto nazionale, ma anche su altri due parametri,<br />

costituiti dall'ambito di applicazione della norma che lo preveda e dallo scopo della<br />

sanzione. Dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, formatasi in particolare<br />

sull'interpretazione degli artt. 6 e 7 della CEDU, si ricava, pertanto, il principio secondo<br />

il quale tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla<br />

medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto. Tale principio è desumibile<br />

dall'art. 25 Cost., comma 2, che, attesa l'ampiezza della sua formulazione ("nessuno<br />

può essere punito...") - può essere interpretato nel senso che ogni intervento<br />

sanzionatorio il quale non abbia prevalentemente la funzione di prevenzione criminale<br />

(e quindi non sia riconducibile - in senso stretto - a vere e proprie misure di sicurezza),<br />

è applicabile soltanto se la legge che lo prevede risulti già vigente al momento della<br />

commissione del fatto sanzionato [...].” 48 .<br />

La Suprema Corte richiama, quindi, la giurisprudenza della Corte EDU che<br />

sollecita un’interpretazione autonoma della nozione di “materia penale”, cui applicare<br />

le garanzie previste dalla CEDU – innanzitutto dagli artt. 6 e 7 –, in base ai parametri<br />

elaborati a partire dalla sentenza Engel 49 : la qualificazione formale ufficiale o la<br />

48<br />

Cass., sez. V, 13 novembre 2012, n. 14044, O., 16.<br />

49<br />

Corte eur. dei dir. dell'uomo, 8 giugno 1976, Engel e Altri, in Pubblications de la Cour Européenne des Droits<br />

de l'Homme 1977, Série A, vol. 22, 36; Corte eur. dei dir. dell’uomo, 26 marzo 1982, Adolf c. Gov. Austria, in<br />

Riv. dir. intern. 1984, 121, e in Publications de la Cour Européenne des Droits de l'Homme 1982, Série A, vol. 49,<br />

15; Corte eur. dei dir. dell'uomo, 10 febbraio 1983, Albert et le Compte, ivi, vol. 58, 16; Corte eur. dei dir.<br />

dell’uomo, 21 febbraio 1984, Öztürk v. Germany, in Série A, no. 73, p. 18, § 50 e in Riv. it. dir. proc pen. 1985,<br />

894; Corte eur. dei dir. dell'uomo, 25 agosto 1987, Lutz, Englert e Nölkenbockhoff v. Germany, Série A, vol.<br />

123, 22; Corte eur. dei dir. dell'uomo, 22 maggio 1990, Weber v. Switzerland, ivi, vol. 177, 17 - 18; Corte eur.<br />

dei dir. dell'uomo, 27 agosto 1991, Demicoli c. Malte, in Pubblications de la Cour Européenne des Droits de<br />

l'Homme, ivi. vol. 210, 1991, 25; Corte eur. dei dir. dell'uomo, 25 febbraio 1993, Funke, ivi, vol. 256, 30; Corte<br />

14<br />

286


determinazione dell'ordinamento di appartenenza, - che, pur definito come primo<br />

criterio, costituisce a partire dal caso Engel solo un punto di partenza, una ratio<br />

cognoscendi 50 ; la "natura stessa" dell'infrazione con particolare riferimento alle sue forme<br />

di tipicizzazione e al procedimento adottato; la natura e il grado di severità della<br />

sanzione, considerati come unico criterio nel caso Engel 51 . Si tratta di una nozione<br />

ampia di “materia penale” ricomprensiva non solo del penale in senso stretto, ma di<br />

tutte le misure aventi carattere afflittivo, che perseguono finalità di prevenzione<br />

generale e speciale; vi rientra l'illecito amministrativo punitivo, com'è stato<br />

espressamente affermato in relazione alle Ordnungswidrigkeiten dell'ordinamento<br />

tedesco 52 o in relazione ai Verwaltungsstrafverfahren dell'ordinamento austriaco 53 ,<br />

oppure si fa rientrare nella nozione di materia penale il procedimento volto<br />

all’imposizione di una multa per il reato di evasione fiscale, - come nel caso A.P., M.P.<br />

and T.P. v. Switzerland e nel caso J.B. v. Switzerland 54 -, o le sanzioni disciplinari quando<br />

tali sanzioni "meritino le garanzie inerenti alla procedura penale" 55 , o, ancora, i<br />

"procedimenti per il recupero di un onere comunitario non pagato" ("proceedings for<br />

recovery of an unpaid community charge"), considerati dalla legge inglese "civil in nature" 56<br />

o la misura di sicurezza detentiva tedesca – la Sicherungsverwahnung (§ 66 StGB) 57 . La<br />

Corte europea ha riconosciuto anche il carattere “punitivo” della confisca dei terreni<br />

eur. dei dir. dell’uomo, 10 giugno 1996, Benham c. Royaume-Uni, in Recueil de Arrêts et Dêcisions 1996 III, n°<br />

10, 756; Corte eur. dei dir. dell'uomo, 8 dicembre 1998, Padin Gestoso c. Espagne, ivi 1999, II, 361 ss.; Corte<br />

eur. dei dir. dell'uomo, 3 maggio 2001, J.B. v. Switzerland, Application no. 31827/96, in www.coe.int, § 44;<br />

Corte eur. dei dir. dell'uomo, 9 ottobre 2003, Ezeh and Connors v. the United Kingdom, n. 39665/98 e<br />

40086/98, ivi, § 91.<br />

50<br />

"Le indicazioni che ne derivano hanno un valore solo formale e relativo", Corte eur. dei dir. dell'uomo, 8<br />

giugno 1976, Engel e Altri, Série A, vol. 22, 36; in dottrina cfr. DE SALVIA, Lineamenti di diritto europeo,<br />

Padova 1991, 140 - 141.<br />

51<br />

Così Corte eur. dei dir. dell'uomo, 8 giugno 1976, Engel e Altri, Série A, vol. 22, 36.<br />

52<br />

Corte eur. dei dir. dell'uomo, 21 febbraio 1984, Oztürk, in Riv. it. dir. proc pen. 1985, 894.<br />

53<br />

Cfr. Corte eur. dei dir. dell'uomo, 18 febbraio 1997, Mauer c. Autriche, in Recueil de Arrêts et Dêcisions<br />

1997, I n° 28, p. 76; Corte eur. dei dir. dell'uomo, 23 ottobre 1995, Palaoro c. Autriche, in Pubblications de la<br />

Cour Européenne des Droits de l'Homme 1996, Série A, vol. 329, 38 - 47; Corte eur. dei dir. dell'uomo, 23<br />

ottobre 1995, Pramstaller c. Autriche, ivi 1996, vol. 329, 2; Corte eur. dei dir. dell'uomo, 23 ottobre 1995,<br />

Pfarrmeier c. Autriche, 23 ottobre 1995, ivi 1996, vol. 329, 63 - 72; Corte eur. dei dir. dell'uomo, 23 ottobre<br />

1995, Schmautzer c. Autriche, ivi 1996, vol. 328, 13; Corte eur. dei dirit. dell'uomo, 23 ottobre 1995, Umlauft<br />

c. Autriche, ivi 1996, vol. 328, 37; Corte eur. dei dir. dell'uomo, 23 ottobre 1995, Gradinger c. Autriche, ivi<br />

1996, vol. 328, 61.<br />

54<br />

Corte eur. dei dir. dell'uomo, 3 maggio 2001, J.B. v. Switzerland, Application no. 31827/96, in www.coe.int,<br />

§ 44; Corte eur. dei dir. dell'uomo, 29 agosto 1997, A.P., M.P. and T.P. and E.L., R.L. and J.O.-L. v.<br />

Switzerland, in Reports of Judgments and Decisions 1997-V, 1487-88 e 1519-20.<br />

55<br />

Corte eur. dei dir. dell'uomo, 28 giugno 1984, Campbell c. Gov. Regno Unito Gran Bretagna e Irlanda del<br />

Nord, in Riv. Dir. Internaz. 1986, 502; Corte eur. dei dir. dell'uomo, 8 giugno 1976, Engel e Altri, Série A,<br />

vol. 22, 36; in dottrina cfr. BERNARDI, "Principi di diritto" e diritto penale europeo, in Ann. Un. Ferr. 1988, 131<br />

ss.<br />

56<br />

Corte eur. dei dir. dell’uomo, 10 giugno 1996, Benham c. Royaume-Uni, in Recueil de Arrêts et Dêcisions<br />

1996 III, n° 10, 756; cfr. ASHWORTH, (2) Article 6 and the Fairness of Trials, in Crim.L.R. 1999, 262.<br />

57<br />

Cfr. Corte eur. dei dir. dell’uomo, 17 dicembre 2009, n. 19359/04, M. c. Germania, in Cass. pen. 2010, 3275.<br />

Cfr. MAUGERI, La nozione e i principi della “materia penale” nella giurisprudenza delle Corti Europee, in "La<br />

costruzione dell’identità europea: sicurezza collettiva, libertà individuali e modelli di regolazione sociale", a cura di<br />

MONTANARI, Giappichelli, in corso di pubblicazione.<br />

15<br />

287


abusivamente lottizzati e delle opere costruite, prevista nell’ordinamento italiano (art.<br />

19 l. 47/1985, ora art. 44, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001, c.d. testo unico dell'edilizia),<br />

nel sentenza Sud Fondi 58 , con cui i giudici di Strasburgo hanno condannato il nostro<br />

Paese per la violazione degli artt. 7 e 1 Prot. 1 Cedu; in tale ipotesi si conferma<br />

l’approccio sostanzialistico della Corte EDU, ma non se ne possono trarre valide<br />

considerazioni sulla natura della confisca dei profitti trattandosi di un’ipotesi<br />

peculiare, in cui la confisca assume una chiara connotazione afflittiva 59 .<br />

58<br />

Cfr. una forma di confisca considerata a partire dalla sentenza Licastro della Suprema Corte,<br />

“sanzione amministrativa e obbligatoria”, indipendente dalla condanna penale Cass., III Sez., 12 novembre<br />

1990, Licastro; Cass., 16 novembre 1995, Besana, n. 12471; Cass., 25 giugno 1999, Negro, n. 1880; Cass., 15<br />

maggio 1997, n. 331, Sucato; Cass., 23 dicembre 1997, Farano, n.. 3900; Cass., 6 maggio 1999, Iacoangeli, n.<br />

777. Con ordinanza n. 187 del 1998, la Corte Costituzionale ha sancito la natura amministrativa della<br />

confisca.<br />

59<br />

Corte eur. dei dir. dell’uomo, 20 gennaio 2009, Sud Fondi Srl e Altre 2 c. Italia, n. 75909/01, in<br />

www.coe.int, § 125 – 129; cfr. Corte EDU, sez. II, sent. 10 maggio 2012, ric. n. 75909/01, Sud Fondi e altri c.<br />

Italia, con nota di BEDUSCHI, Confisca degli “ecomostri” di Punta Perotti: la Corte di Strasburgo condanna l’Italia<br />

a versare alle imprese costruttrici 49 milioni di euro a titolo di equa riparazione, in questa Rivista, 16 maggio 2012.<br />

La Corte EDU ritiene che la confisca in questione ha costituito una ingerenza nel godimento del diritto dei<br />

ricorrenti al rispetto dei beni ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo n. 1, ma non ritiene necessario stabilire<br />

se si tratti o meno di una pena ai sensi del secondo paragrafo dell’articolo 1 del Protocollo n. 1, come<br />

stabilito nel caso Phillips e Welch, oppure una forma di regolamentazione dell’uso dei beni come stabilito<br />

dalla Corte in relazione alla confisca misura di prevenzione dell’ordinamento italiano, poiché in ogni caso<br />

trova applicazione il secondo paragrafo dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 (cfr. 24 marzo 2005, Frizen c.<br />

Russia, n. 58254/00, § 31). Fatta questa premessa la Corte ritiene che l’ingerenza nel diritto al rispetto dei<br />

beni delle ricorrenti era arbitrario e che vi è stata violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 perché nel<br />

caso di specie il reato rispetto al quale la confisca è stata inflitta alle ricorrenti non aveva alcuna base legale<br />

ai sensi della Convenzione in violazione dell’art. 7 CEDU e la sanzione inflitta alle stesse era arbitraria (§§<br />

114 - 118); la Corte ritiene opportuno precisare, “tenuto conto della gravità dei fatti denunciati nella<br />

presente causa”, che la sanzione è sproporzionata rispetto all’interesse generale della comunità perseguito,<br />

in quanto “la buona fede e l’assenza di responsabilità delle ricorrenti non hanno potuto svolgere alcun<br />

ruolo e “le procedure applicabili nella fattispecie non permettevano in alcun modo di tenere conto del<br />

grado di colpa o di imprudenza né, a dir poco, del rapporto tra la condotta delle ricorrenti e il reato<br />

controverso” (§§ 138 – 139.); «la Corte ritiene poi che la portata della confisca (85% di terreni non edificati),<br />

in assenza di un qualsiasi indennizzo, non si giustifica rispetto allo scopo annunciato, ossia mettere i lotti<br />

interessati in una situazione di conformità rispetto alle disposizioni urbanistiche. Sarebbe stato<br />

ampiamente sufficiente prevedere la demolizione delle opere incompatibili con le disposizioni pertinenti e<br />

dichiarare inefficace il progetto di lottizzazione. Infine, la Corte osserva che il comune di Bari –<br />

responsabile di avere accordato dei permessi di costruire illegali – è l’ente che è divenuto proprietario dei<br />

beni confiscati, il che è paradossale. Tenuto conto di questi elementi, vi è stata rottura del giusto equilibrio<br />

e violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 anche per questo motivo» (§§ 140 – 141 – 142). In materia cfr.<br />

ABBADESSA-GAMBARDELLA-MANES-VIGANÒ, Il "Controcanto" della corte europea dei diritti dell'uomo:<br />

l'europeizzazione delle garanzie in materia penale, in Ius 17, 2010, 87; sull’affermazione del principio di<br />

colpevolezza nella sentenza Sud - Fondi cfr. MAUGERI, Il principio di proporzione nelle scelte punitive del<br />

legislatore europeo: l’alternativa delle sanzioni amministrative comunitarie, in GRASSO-PICOTTI-SICURELLA,<br />

L'evoluzione del diritto penale nei settori di interesse europeo alla luce del Trattato di Lisbona, Milano 2011, 122 ss..<br />

Sulla natura punitiva di tale forma di confisca MAUGERI, Le moderne sanzioni patrimoniali, cit., 142 ss.; cfr.<br />

BALSAMO, La speciale confisca contro la lottizzazione abusiva davanti alla Corte Europea, in Cass. pen. 2008, 3504<br />

ss.; BALSAMO – PARASPORO, La Corte europea e la confisca contro la lottizzazione abusiva: nuovi scenari e problemi<br />

aperti, ivi 2009, 3183 ss.; ANGELILLIS, Lottizzazione abusiva: la natura giuridica della confisca all’esame di CEDU e<br />

Corte Costituzionale, ivi 2008, 4333.<br />

16<br />

288


Le garanzie previste dalla CEDU per la materia penale, in particolare dagli artt.<br />

6, c. 2 e 7, devono pertanto essere riconosciute a tutte le sanzioni che,<br />

indipendentemente dalla qualifica attribuita dal legislatore nazionale, rientrano nella<br />

nozione ampia di “materia penale” delineata dalla giurisprudenza della Corte di<br />

Strasburgo.<br />

La Corte EDU, però, come esaminato, ha sempre negato la natura sanzionatoria<br />

della forma di confisca in esame, fondandosi, come evidenzia anche la sentenza in<br />

commento e la giurisprudenza della Suprema Corte 60 , sul riconoscimento della loro<br />

natura preventiva basata sul giudizio di pericolosità sociale. La Corte Europea, già a<br />

partire dal caso Labita 61 , ha riconosciuto la compatibilità con la CEDU delle misure di<br />

prevenzione solo in quanto fondate su una valutazione di pericolosità sociale del<br />

destinatario, così considerando non in contrasto con i principi della CEDU il fatto che<br />

le misure di prevenzione "siano applicate nei confronti di individui sospettati di<br />

appartenere alla mafia anche prima della loro condanna, poiché tendono ad impedire il<br />

compimento di atti criminali"; “in tutte le pronunce emesse dalla giurisprudenza<br />

sovranazionale in tema di confisca di prevenzione si afferma, oltre alla non necessità di<br />

una precedente condotta costituente reato, la doverosità di accertare la pericolosità del<br />

soggetto che ne sia destinatario, quale presupposto giustificativo di un intervento<br />

ablatorio - sia pure non di carattere penale - strumentale alla tutela di pubblici<br />

interessi” 62 .<br />

La Corte EDU, infatti, a partire dal caso Marandino e dal caso Raimondo, ha<br />

riconosciuto la natura preventiva e non punitiva della confisca antimafia da cui<br />

consegue la mancata violazione del diritto di proprietà (art. 1 del I protocollo<br />

addizionale della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, che tutela il diritto alla<br />

libera attività economica e il diritto di proprietà), della presunzione d’innocenza (art. 6,<br />

§ 2) e del principio di legalità (art. 7), laddove se ne consente l’applicazione<br />

retroattiva 63 . La misura di prevenzione, ad avviso della Corte, non può essere<br />

paragonata ad una sanzione penale secondo i tre criteri individuati dalla stessa Corte<br />

nel caso Engel: la qualificazione nel diritto interno; la natura dell'infrazione; la natura e<br />

il grado di severità della sanzione 64 . In uno dei primi casi in materia la Commissione 65 ,<br />

60<br />

Cfr. Cass., S.U., 25 marzo 2010, Cagnazzo, n. 13426; cfr. Corte Cost., 11 (12) luglio 1996, n. 275/1996, in<br />

www.cortecostituzionale.it.<br />

61<br />

Corte eur. dei dir. dell'uomo, Grande Camera, 1 marzo - 6 aprile 2000, Labita c. Italia, in www.coe.int.<br />

62<br />

Cass., sez. V, 13 novembre 2012, n. 14044, O., 13.<br />

63<br />

Commission eur., 15 aprile 1991, Marandino, no. 12386/86, in Decisions et Rapports (DR) 70, 78; Corte eur.<br />

dei dir. dell’uomo, 22 febbraio 1994, Raimondo v. Italy, in Pubblications de la Cour Européenne des Droits de<br />

l'Homme 1994, Série A vol. 281, 7; Corte eur. dir. uomo, 15 giugno 1999, Prisco c. Italia, decisione sulla<br />

ricevibilità del ricorso n. 38662/97; Corte eur. dei dir. dell’uomo, 25 marzo 2003, Madonia c. Italia, n°.<br />

55927/00, in www.coe.it, 4; Corte eur. dei dir. dell’uomo, 5 luglio 2001, Arcuri e tre altri c. Italia, n°.<br />

52024/99, ivi, 5; Corte eur. dei dir. dell’uomo, 4 settembre 2001, Riela c. Italia, n°. 52439/99, ivi, 6; Corte eur.<br />

dei dir. dell’uomo, Bocellari e Rizza c. Italia, n°. 399/02, ivi, 8.<br />

64<br />

Per un esame approfondito delle argomentazioni della Corte EDU e per una più generale analisi della<br />

sua giurisprudenza in materia di confisca sia consentito il rinvio a MAUGERI, Le moderne sanzioni<br />

patrimoniali tra funzionalità e garantismo, Milano 2001, 487 ss.; ID., La lotta contro l’accumulazione di profitti<br />

illeciti, cit., 541 ss.<br />

65<br />

Commission eur., 15 aprile 1991, Marandino, no. 12386/86, cit., 78.<br />

17<br />

289


nell'applicare questi parametri, cita la sentenza Deweer, nella quale si ribadisce che<br />

l'accusa penale potrà definirsi come la notificazione ufficiale emanante dall'autorità<br />

competente del rimprovero di aver compiuto un'infrazione penale, e, come affermato<br />

nel caso Guzzardi, il confronto dell'art. 5 par. 1 a) con l'art. 6, par. 2 e l'art. 7, c. 1,<br />

mostra ai fini della Convenzione, che non si può avere una condanna senza un<br />

accertamento legale di un'infrazione penale o, eventualmente, disciplinare;<br />

l'utilizzazione, però, di questi termini per le misure preventive e per le misure di<br />

sicurezza non è compatibile con il principio dell'interpretazione stretta (con il divieto di<br />

analogia), che va osservato in "materia penale". Una misura preventiva, si precisa, non<br />

è destinata a reprimere un'infrazione, ma si commina sulla base di indici che denotano<br />

la propensione a delinquere.<br />

Con particolare riferimento alla confisca, si nega che l'indiziato assumi la<br />

qualifica di accusato e che la confisca costituisca "in sostanza" una sanzione penale,<br />

rilevante ai fini della Convenzione. Accogliendo la giurisprudenza della Corte di<br />

Cassazione, si afferma, infatti, che il procedimento preventivo è autonomo rispetto al<br />

procedimento penale e non implica un giudizio di colpevolezza. La confisca antimafia<br />

presuppone solo una dichiarazione preliminare di pericolosità sociale, fondata sul<br />

sospetto dell'appartenenza a un'associazione di tipo mafioso del soggetto colpito, ed è<br />

subordinata all'applicazione di una misura preventiva personale.<br />

Si ritiene, poi, che la severità della misura non costituisce un criterio sufficiente<br />

per stabilire se si tratti di una sanzione penale, sottolineando che la confisca non è una<br />

misura esclusiva del diritto penale, ma ne viene fatto ampio uso, per esempio, nel<br />

diritto amministrativo. Il diritto degli Stati membri del Consiglio d'Europa mostra che<br />

misure molto severe, ma necessarie e adeguate alla protezione dell'interesse pubblico,<br />

sono stabilite anche al di fuori del campo penale 66 .<br />

La Corte EDU ritiene, poi, che la presunzione d'innocenza ex art. 27 Cost. e art.<br />

6, par. 2 della Convenzione non è applicabile alla confisca in esame, come a tutte le<br />

misure preventive perché esse non presuppongono l'imputabilità e la colpevolezza<br />

della persona ad esse sottoposte 67 . Le accuse di violazione dell'art. 6, par. 2 da parte<br />

dell'art. 2 ter della legge 575 del 1965 sarebbero incompatibili "ratione materiae" con tali<br />

norme 68 . Da ultimo la Corte EDU ha espressamente affermato che “l’articolo 6 si<br />

applica alle procedure di applicazione delle misure di prevenzione nella sua parte<br />

66<br />

Corte eur. dei dir. dell’uomo, Prisco c. Italia, cit.; Corte eur. dei dir. dell’uomo, Raimondo, cit., 16 - 17;<br />

Commission Eur., Marandino, 78; Corte eur. dei dir. dell'uomo, Madonia, cit., § 4; Corte eur. dei dir.<br />

dell’uomo, Bocellari e Rizza, cit., § 6; Corte eur. dei dir. dell’uomo, Riela, cit., §§ 4 - 5; Corte eur. dei dir.<br />

dell'uomo, Arcuri, cit., § 3.<br />

67<br />

Corte Cost., 23 marzo 1964, n. 23, in Giur. cost. 1964, 193. In tale direzione oltre alle sentenza della Corte<br />

europea citate, si veda Corte eur. dei dir. dell’uomo, 22 febbraio 1989, Ciulla c.p. Italie, in Pubblications de la<br />

Cour Européenne des Droits de l'Homme 1989, Série A vol. 148, 17; Corte eur. dei dir. dell’uomo, 6 novembre<br />

1980, Guzzardi c.p. Italie, ivi vol. 39, 37.<br />

68<br />

Commission Eur., Marandino, cit., 78; Corte eur. dei dir. dell'uomo, Andersson c. Italia, n°. 55504/00, in<br />

www.coe.int., 4; Corte eur. dei dir. dell'uomo, Arcuri, cit., 4 - 5; Corte eur. dei dir. dell’uomo, Riela, cit., 5 –<br />

6; Corte eur. dei dir. dell’uomo, Bocellari e Rizza, cit., 8; Corte eur. dei dir. dell'uomo, Madonia, cit., 4.<br />

18<br />

290


civile, tenuto conto in particolare del loro oggetto «patrimoniale» 69 , negando<br />

l’applicabilità ratione materiae dell’art. 6, c. 2, presunzione d’innocenza e dell’art. 7,<br />

principio di irretroattività, nonché dell’articolo 4 del Protocollo n. 7 «1. Nessuno può<br />

essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per<br />

un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza<br />

definitiva conformemente alla legge ed alla procedura penale di tale Stato» 70 .<br />

La Corte Europea ha evidenziato solo un aspetto della procedura delle misure<br />

di prevenzione patrimoniali considerato incompatibile con le garanzie del giusto<br />

processo previste dall’art. 6 CEDU, e cioè la mancanza di un’udienza pubblica 71 ; al di là<br />

dell’aspetto procedimentale in queste sentenze la Corte Europea mette in evidenza che<br />

non è possibile «perdere di vista la posta in gioco delle procedure di prevenzione e gli<br />

effetti che sono suscettibili di produrre sulla situazione personale delle persone<br />

coinvolte. La Corte osserva che questo tipo di procedura riguarda l’applicazione della<br />

confisca di beni e capitali, cosa che direttamente e sostanzialmente coinvolge la<br />

situazione patrimoniale della persona soggetta a giurisdizione. Davanti a tale posta in<br />

gioco, non si può affermare che il controllo del pubblico non sia una condizione<br />

necessaria alla garanzia del rispetto dei diritti dell’interessato (vedere Martinie, prima<br />

citata, § 43 e, à contrario, Jussila c. Finlandia [GC], n o 73053/01, § 48, CEDH 2006-...)» 72 .<br />

In seguito a tali pronunce la Corte Costituzionale ha evidenziato l’incisività in<br />

termini di compromissione di diritti fondamentali che può assumere la confisca<br />

antimafia, affermando che le osservazioni della Corte di Strasburgo «colgono, d'altro<br />

canto, le specifiche peculiarità del procedimento di prevenzione, che valgono a differenziarlo da<br />

un complesso di altre procedure camerali. Si tratta cioè di un procedimento all'esito del quale il<br />

giudice è chiamato ad esprimere un giudizio di merito, idoneo ad incidere in modo diretto,<br />

definitivo e sostanziale su beni dell'individuo costituzionalmente tutelati, quali la libertà<br />

personale (art. 13 Cost., comma 1) e il patrimonio (quest'ultimo, tra l'altro, aggredito in modo<br />

normalmente "massiccio" e in componenti di particolare rilievo ...), nonché la stessa libertà di<br />

iniziativa economica, incisa dalle misure anche gravemente "inabilitanti" previste a carico del<br />

69<br />

Corte eur. dei dir. dell’uomo, 26 luglio 2011, Paleari c. Italia, n. 55772/08, § 34; Corte eur. dei dir.<br />

dell'uomo, Arcuri, cit.; Corte eur. dei dir. dell'uomo, Riela ed altri, cit.; Corte eur. dei dir. dell'uomo,<br />

Bocellari e Rizza, cit..<br />

70<br />

Corte eur. dei dir. dell’uomo, 17 maggio 2011, Capitani e Campanella c. Italia, n. 24920/07, §§ 35 ss.<br />

71<br />

Corte eur. dei dir. dell’uomo, Bocellari e Rizza, cit.; Corte eur. dei dir. dell’uomo, 8 luglio 2008, Perre et<br />

autres c. Italie, n°. 1905/05, ivi; Corte eur. dei dir. dell’uomo, 5 gennaio 2010, Bongiorno c. Italia, n. 4514/07;<br />

Corte eur. dei dir. dell’uomo, 2 febbraio 2010, Leone c. Italia, n. 30506/07; Corte eur. dei dir. dell’uomo, 17<br />

maggio 2011, Capitani e Campanella c. Italia, cit.; Corte eur. dei dir. dell’uomo, Paleari c. Italia, cit.; Corte<br />

eur. dei dir. dell’uomo, 26 luglio 2011, Pozzi c. Italia, n. 55743/08. Cfr. Corte costituzionale, 12 marzo 2010,<br />

n. 93; Corte Cost., 7 marzo 2011, n. 80, in G.U. 13/03/2011<br />

(http://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do), che nega la necessità dell’udienza pubblica nel ricorso<br />

in Cassazione; Cass., S.U., 25 marzo 2010, n. 13426; Cass. 17 novembre 2011, n. 7800, C. e altro, in<br />

www.dejure.giuffre.it.<br />

72<br />

CEDU, Bocellari e Rizza, cit.; 8 luglio 2008, Perre et autres, cit.; 5 gennaio 2010, Bongiorno, cit.. Cfr.<br />

MAUGERI, La conformità dell’actio in rem con il principio del mutuo riconoscimento, cit., 187 ss.<br />

19<br />

291


soggetto cui è applicata la misura di prevenzione ....Il che conferisce specifico risalto alle<br />

esigenze alla cui soddisfazione il principio di pubblicità delle udienze è preordinato» 73 .<br />

In conclusione, però, non solo la valutazione di compatibilità con le garanzie<br />

convenzionali della confisca misura di prevenzione da parte della Corte EDU si<br />

fondava su un presupposto, la valutazione di pericolosità sociale attuale, ormai non<br />

indispensabile, ma in realtà si ritiene di poter affermare che anche prima delle recenti<br />

riforme sarebbe stato possibile per la Corte europea giungere a conclusioni diverse se<br />

avesse applicato rigorosamente i suoi criteri sostanziali, al di là della qualifica formale<br />

della confisca in esame come “misura di prevenzione”; le conclusioni della Corte EDU<br />

in materia, - a parte le ultime riflessioni originate dalla questione della mancanza di<br />

udienza pubblica -, si pongono in contrasto con le sue stesse elaborazioni sul concetto<br />

autonomo di "materia penale" per evidenti ragioni di politica criminale. La confisca<br />

misura di prevenzione assume, infatti - e assumeva anche prima delle recenti riforme-,<br />

carattere punitivo se si considera che il suo presupposto non è il pericolo della futura<br />

commissione di delitti, ma il sospetto dell'appartenenza ad un'associazione mafiosa o<br />

dello svolgimento di una condotta penalmente rilevante, - anche passata -, quindi, di<br />

reati che non si riescono a provare (natura dell'infrazione); che la misura non viene<br />

disapplicata con il cessare della presunta pericolosità dell'indiziato, ma è una misura<br />

definitiva, applicabile anche in caso di morte del soggetto 74 , - prima in base a certi<br />

orientamenti giurisprudenziali, ora in base all’espresso dettato legislativo (art. 2 bis, c.<br />

6 bis, l. 575/’65, ora art. 18, c. 2 e 3, cod. antimafia) -, o del venir meno della sua<br />

pericolosità o addirittura anche in mancanza di attualità della pericolosità (art. 2 bis, c.<br />

6 bis, l. 575/’65 ora art. 18, c. 2 e 3, cod. antimafia) 75 (natura della sanzione); che può<br />

colpire tutto il patrimonio, anche se formalmente intestato ad altri soggetti, purché<br />

nella disponibilità di fatto dell'indiziato 76 (severità della sanzione). La Corte europea<br />

dei diritti dell’uomo ha sempre negato la natura penale della confisca misura di<br />

prevenzione ex art. 2 ter l. 575/’65 e, quindi, l’applicazione delle garanzie della materia<br />

penale, nell’ambito di un più generale orientamento di favore nei confronti di<br />

strumenti di c.d. confisca allargata (volti a sottrarre non solo i profitti accertati del<br />

reato, ma anche dei patrimoni accumulati nel tempo in base a meri sospetti di origine<br />

illecita) a scapito talora di un pieno rispetto delle garanzie fondamentali della materia<br />

penale e di una piena coerenza dei suoi giudizi.<br />

In ogni caso il richiamo a stabilire la natura di una misura ed il suo eventuale<br />

carattere punitivo al di là della qualifica formale, in attuazione della nozione ampia di<br />

materia penale della giurisprudenza della Corte EDU, emerge anche nella<br />

73<br />

Corte costituzionale, 12 marzo 2010, n. 93; cfr. Corte Cost., 7 marzo 2011, n. 80, in G.U. 13/03/2011, in<br />

http://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do, che nega la necessità dell’udienza pubblica nel<br />

ricorso in Cassazione; cfr. Cass., S.U., 25 marzo 2010, n. 13426, in www.dejure.it .<br />

74<br />

Cfr. MAUGERI, La riforma delle sanzioni patrimoniali, cit., 129; Id., Dalla riforma delle misure di prevenzione<br />

patrimoniali alla confisca generale dei beni contro il terrorismo, cit., 425.<br />

75<br />

Cass., 14 febbraio 1997, Nobile ed altri, in Cass. pen. 1997, 3170; Cass., S.U., 3 luglio 1996, Simonelli ed<br />

altri, ivi 1996, 3609; Cass., 17 luglio 1995, D'Antoni, in Riv. pen. 1996, 526; Cass., 2 maggio 1995, Adelfio, in<br />

Cass. pen. 1996, 1601.<br />

76<br />

Cass., 10 novembre 1997, Faraone, in Giust. pen. 1998, II, c. 512; Cass., 19 gennaio, Vernengo, in Cass. pen.<br />

1997, n. 751.<br />

20<br />

292


giurisprudenza della Corte Costituzionale italiana, che ha desunto dalla<br />

giurisprudenza della Corte di Strasburgo “il principio secondo il quale tutte le misure<br />

di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della<br />

sanzione penale in senso stretto», da cui trae la «la necessità a fronte di ogni reazione<br />

ad un fatto criminoso che il legislatore qualifichi in termini di misura di sicurezza, di<br />

un controllo in ordine alla sua corrispondenza non solo nominale, ma anche<br />

contenutistica, alla natura spiccatamente preventiva di detti strumenti» (arrivando così<br />

a dichiarare l’incostituzionalità della confisca del veicolo in relazione al reato di guida<br />

in stato di ebbrezza, negando l’applicabilità dell’art. 200 c.p.) 77 .<br />

77<br />

Corte Costituzionale, 4 giugno 2010, n. 196, P.T., in Foro it. 2010, 9, I, 2306, ha dichiarato<br />

l’incostituzionalità dell’inciso “ai sensi dell’art. 240, secondo comma del codice penale” dell’art. 186, c. 2<br />

lett. c) d.lg. 285/1992, come modificato dall’art. 4, c. 1, lett. b, d.l. 92/’08, per violazione del principio di<br />

irretroattività delle sanzioni penali ai sensi dell’art. 7 CEDU e, quindi, dell’art. 117 Cost., in quanto avrebbe<br />

consentito l’applicazione retroattiva della confisca del veicolo in relazione al reato di guida in stato di<br />

ebbrezza. La Corte anche in questo caso riconosce «una connotazione prevalentemente afflittiva,<br />

attribuendole, così, una natura "eminentemente sanzionatoria", che impedisce l'applicabilità a tale misura<br />

patrimoniale del principio generale dell'art. 200 cod. pen.»; non era sufficiente un’interpretazione<br />

adeguatrice, come in relazione all’art. 322 ter, proprio in virtù dell’inciso dichiarato incostituzionale. In<br />

maniera uniforme si pronunciano le Sezioni Unite della Cassazione, 25 febbraio 2010, n. 23428, Caligo,<br />

qualificando la confisca dell'autoveicolo come “sanzione penale accessoria” ed escludendo che la confisca<br />

in parola potesse invece qualificarsi come misura di sicurezza, come avrebbe potuto suggerire il richiamo<br />

all’art. 240 co. 2 c.p. contenuto nel secondo comma dell’art. 186 cod. strad. (a sua volta richiamato dal<br />

comma 7); tale richiamo avrebbe avuto ad avviso della Corte l’esclusivo scopo di stabilire la natura<br />

obbligatoria della confisca sanzione penale, con la conseguenza, imposta dall’art. 25 co. 2 Cost., del divieto<br />

di una sua applicazione retroattiva ai fatti commessi prima della sua introduzione con il ‘pacchetto<br />

sicurezza’ del 2008. Cfr. GRASSO, Commento all'art. 240 c.p., in ROMANO, GRASSO, PADOVANI, Commentario<br />

sistematico del codice penale, Milano 2011, 633. Sulla sentenza della Corte Costituzionale cfr. la nota di<br />

ABBADESSA, Guida in stato di ebbrezza e divieto di applicazione retroattiva della confisca del veicolo (Corte cost. n.<br />

196/2010), in questa Rivista, 8 dicembre 2010, il quale evidenzia, tra l’altro, come la Corte sembra accogliere<br />

il principio del tempus regit actum nella sua versione forte, che consente la retroattività non solo delle<br />

modalità esecutive della misura di sicurezza, ma anche della nuova misura di sicurezza.<br />

In seguito a queste sentenze, però, la l. 120/2010 ha qualificato espressamente la confisca per il reato di<br />

guida in stato d'ebbrezza come sanzione amministrativa; tale presa di posizione è stata rispettata dalla<br />

giurisprudenza maggioritaria (cfr. Cass., sez. IV, 12 luglio 2011, n. 34459; Cass., 26 ottobre 2010, n. 41564;<br />

Cass., 14 ottobre 2010, n. 41091); cfr. GATTA-VIGANÒ, Natura giuridica della confisca del veicolo nella riformata<br />

disciplina della guida in stato di ebbrezza e sotto l'effetto di stupefacenti: pena o sanzione amministrativa accessoria?<br />

Riflessi sostanziali e processuali, in questa Rivista, 9 dicembre 2010, i quali ritengono che la nuova forma di<br />

confisca amministrativa, avente natura amministrativa, non possa essere applicata retroattivamente pena<br />

la violazione dell’art. 1 l. 689/’81, e non più applicabile la confisca penale in quanto abrogata; cfr. la<br />

circolare del Ministero dell’Interno del 30 luglio 2010, prot. 300/A/10777/10/101/3/3/9, 8. In dottrina, cfr.<br />

BRICCHETTI-PISTORELLI, Massima severità per chi rifiuta il test spirometrico, in Guida dir., n. 35, 4 settembre<br />

2010, inserto; PISTORELLI, Novità legislative: Legge 29 luglio 2010, n. 120, recante: “Disposizioni in materia di<br />

sicurezza stradale”, 4, in www.cortedicassazione.it; PICCIALLI, La confisca del veicolo in caso di rifiuto, in Corr.<br />

merito, 2010, 973. Cfr. Trib. Brescia (sez. riesame), 23 settembre 2010 (ord.), in questa Rivista, 23 settembre<br />

2010, che continua ad attribuire natura penale alla confisca in esame; Trib. Avellino, 18 maggio 2011, Giud.<br />

Riccardi, ibidem, continua ad attribuire natura penale alla confisca in questione; Trib. Pisa (sez. riesame), 28<br />

gennaio 2010, ibidem, che ritiene non applicable retroattivamente la confisca amministrativa ai sensi<br />

dell’art. 1 l. n. 689/1981, e non più applicabile la confisca penale in quanto abrogata. Da ultimo, invece, il<br />

Tribunale di Lecce, sez. dist. di Nardò, 10 ottobre 2011, si pronuncia sulla possibilità di applicare la<br />

"nuova" confisca amministrativa dell'autoveicolo anche a fatti commessi antecedentemente alla l. 120/2010,<br />

che ha riqualificato la misura patrimoniale come amministrativa e non penale. Il Tribunale di Lecce, nel<br />

21<br />

293


4. Il riconoscimento del principio di irretroattività.<br />

La Corte deduce correttamente dalla considerazione che la confisca in esame<br />

non è equiparabile a una misura di sicurezza, in quanto non è fondata su una<br />

valutazione di attualità della pericolosità sociale, la conseguenza che non sarà più ad<br />

essa applicabile il principio di retroattività della disciplina applicabile previsto dall’art.<br />

200 c.p. in quanto, come correttamente osservato dal ricorrente (per ammissione della<br />

Suprema Corte), “se infatti non è più richiesto - .. - che il proposto in sede di<br />

procedimento di prevenzione sia persona socialmente (ed attualmente) pericolosa, non<br />

sembra possibile ricavare regole formali per la disciplina di quel procedimento da una<br />

norma - l'art. 200 cod. pen. - che fonda la sua ragion d'essere proprio su<br />

quell'indefettibile presupposto: come correttamente osserva il ricorrente, «è il requisito<br />

dell'attualità della pericolosità sociale che ha permesso alla giurisprudenza, sino<br />

all'entrata in vigore della legge n. 94 del 15 luglio 2009, l'equiparazione delle misure di<br />

sicurezza e di prevenzione ai fini dell'applicabilità alle seconde della disciplina dell'art.<br />

200 cod. pen., dettata per le prime [...). Ed è sulla base del requisito dell'attualità della<br />

pericolosità sociale che l'art. 200 cod. pen. ha superato il vaglio della Corte<br />

Costituzionale, la quale con sentenza n. 19 del 1974 prima e con ordinanza n. 392 del<br />

1987 poi, ha chiarito che la legittimità dell'art. 200 cod. pen. si fonda proprio su tale<br />

requisito, sicché inconferente è il richiamo alla ritenuta retroattività delle misure di<br />

sicurezza "attesa la correlazione delle misure alla pericolosità, che è situazione, per sua<br />

natura, attuale"». “Nulla quaestio, in altre parole, per la coerenza rispetto al sistema<br />

normativo di un'interpretazione estensiva dell'art. 200 cod. pen., riconoscendone la<br />

portata fino a consentirne l'applicazione alle misure di prevenzione personali, il cui<br />

presupposto rimane pur sempre l'accertata pericolosità sociale del proposto, sia pure se<br />

diversamente delineata a seconda delle categorie soggettive disegnate dai vari testi<br />

normativi succedutisi nel tempo (leggi nn. 1423 del 1956, 575 del 1965, 110 del 1977, 125<br />

del 2008): ma l'accennata coerenza si smarrisce inesorabilmente nel momento in cui<br />

viene a discutersi di misure di prevenzione patrimoniali che non richiedono alcun<br />

accertamento di pericolosità nel momento della loro applicazione”.<br />

porsi il problema del rispetto del principio di irretroattività della sanzione penale, così come sancito in<br />

particolare dall'art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), ritiene che il mutamento di<br />

qualificazione della confisca del veicolo (da penale ad amministrativa) ai sensi del diritto interno non ne<br />

muta comunque la natura sostanzialmente punitiva e quindi la riconducibilità alla nozione di "penalty" ai<br />

sensi dell’art. 7 CEDU, richiamando in tal senso la decisione Sud Fondi della Corte EDU. Anche nel caso<br />

della confisca dell'autoveicolo, la misura è in effetti applicata da un giudice penale, viene disposta all'esito<br />

di un procedimento penale ed è collegata all'accertamento di un reato. Il Tribunale ritiene, quindi, che<br />

l'intervento del legislatore abbia riqualificato un istituto preesistente, modificando, per quanto riguarda la<br />

disciplina sostanziale o processuale, solo l'organo deputato all'esecuzione della misura. Cfr. PARODI,<br />

Successione di leggi in materia di confisca del veicolo e articolo 7 CEDU, in questa Rivista, 24 Gennaio 2012; DIES,<br />

La confisca del veicolo prevista dall’art. 186, commi 2 e 7 cod. str., tra disorientamenti interpretativi e caos<br />

normativo, in Resp. civ. e prev. 2010, 2034 s.; ID., I primi interventi della giurisprudenza sulla riforma della guida<br />

in stato di ebbrezza e problemi di diritto transitorio, ibidem.<br />

22<br />

294


La Corte europea ha sempre negato, invece, il contrasto della normativa in<br />

esame con l'art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, proprio perché<br />

ritiene che la confisca antimafia non sia una pena, ma una misura preventiva 78 , come<br />

esaminato.<br />

In tale direzione, prima della sentenza in commento, la giurisprudenza italiana<br />

ha sempre dedotto dalla natura di misura preventiva della confisca ex art. 2 ter<br />

l’estensione dell’ambito di applicazione di tale sanzione ai beni acquistati prima<br />

dell'entrata in vigore della legge 646/82, perché il principio di irretroattività non si<br />

applicherebbe alla confisca in questione, che colpisce i beni dell'indiziato posseduti al<br />

momento dell'applicazione della misura, allo scopo di impedirne nel futuro<br />

l'utilizzazione per la commissione di reati 79 .<br />

La Suprema Corte ha sempre ritenuto che tale disciplina non viola l'art. 2 c.p.,<br />

che si riferisce alle pene inflitte per un determinato fatto-reato e non alle misure di<br />

prevenzione; tale norma di diritto penale non sarebbe violata “stante il chiaro disposto<br />

dell'art. 200 comma secondo c.p., né l'art. 25 della Costituzione, il quale non pone limiti<br />

di irretroattività alle misure di sicurezza e, quindi, stante il parallelismo tra le due<br />

categorie, nemmeno alle misure di prevenzione" 80 . Sono state dichiarate infondate le<br />

relative eccezioni di illegittimità costituzionale per violazione degli art. 24, 25 e 42 della<br />

Costituzione in quanto la normativa antimafia si riferisce a beni "di cui dispone<br />

l'indiziato direttamente o indirettamente (..), nel momento di applicazione della misura<br />

in considerazione dell’attuale appartenenza del soggetto ad associazioni mafiose, delle<br />

illecite modalità di acquisizione o della riproducibilità di ricchezza inquinata<br />

all'origine, sicché anche il bene, per le dette condizioni, finisce con l'essere uno<br />

strumento di sviluppo dell'organizzazione mafiosa, dei suoi membri e quindi<br />

pericoloso anch'esso" 81 .<br />

78<br />

Commission Eur., Marandino, cit., 78; Corte eur. dei dir. dell'uomo, Raimondo, cit.; Corte eur. dei dir.<br />

dell'uomo, Bocellari, cit., 10; Corte eur. dei dir. dell'uomo, Madonia, cit., 4; Cfr. sull’argomento MAUGERI,<br />

op. cit., 532 ss.<br />

79<br />

Corte di Cassazione, 12 maggio 1986, Oliveri, in Riv. pen. 1987, m. 499; Corte di Cassazione, 4 gennaio<br />

1985, Pipitone, in Cass. pen. 1986, 378; Cass., 7 agosto 1984, Aquilino, in Foro it. 1987, c. 273, con nota<br />

favorevole di FIANDACA; conforme LA BRUNA -TROVATO, op. cit., 372; CENICCOLA, Le misure patrimoniali<br />

antimafia nell'esperienza applicativa, in Giur. mer. 1985, 1253 ss.; MOLINARI-PAPADIA, op. cit., 579; CASSANO,<br />

Misure di prevenzione patrimoniali e amministrazione dei beni, Giuffrè 1998, 178; MOLINARI, voce Misure di<br />

prevenzione, in Enc. del dir. Aggiorn., vol. II, Varese 1998, 579.<br />

80<br />

Cass., 17 maggio 1984, Sibilia, in Giust. pen. 1985, III, c. 95; Cass., 30 gennaio 1985, Piraino, in Cass. pen.<br />

Mass. ann. 1986, 2030; Cass., 24 novembre 1986, Bontade, ivi, 1988, 926; Cass., 9 dicembre 1986, Piccolo, in<br />

Giust. pen. 1988, c. 8; Cass., 11 febbraio 1987, Gambino, in Ced. Cass. n. 00050, rv. 175089; Cass., 16 febbraio<br />

1987, Cirillo, in Cass. pen. 1988, 926; Cass., 19 settembre 1988, Inchiappa, in Ced. Cass., n. 179305; Cass., 17<br />

novembre 1989, Nuvoletta ed altri, in Giust. pen. 1991, III, c. 354; Cass., 20 agosto 1992, Vadalà, in Cass. pen.<br />

1993, 2092; Cass., 29 settembre 1995, Trischitta, n. 203314; Cass. 3 ottobre 1996, Sibilia, in C.P.E.D. Cass. N.<br />

207140; Cass. 19 maggio 1999, Musliu, ivi, n. 213941; Cass. 12 gennaio 2000, Castellazzi, in C.P.E.D. Cass. N.<br />

215362; Cass., Sez. I, 19 maggio 2000, Carrozzo, ivi, n. 216185; Cass., S.U., 30 maggio 2001, Derouach, in<br />

Foro it. 2001, II, 502 – 504; Cass. 30 maggio 2001, Penasse, in Dir. pen. e proc. 2001, 1375; Cass. 5 aprile 2002,<br />

n. 18517, Stangolini, in Cass. pen. 2003, 1895.<br />

81<br />

Cass., 18 maggio 1992, Vincenti ed altri, in Cass. pen. 1993, 2377; Cass., 15 febbraio 1989, Angiollieri, ivi<br />

1990, 673; Cass., 13 febbraio 1989, Risicato ed altro, in Giust. pen. 1990, III, c. 457; Cass., 2 aprile 1987, Greco<br />

ed altri, in Cass. pen. 1987, 2214; Cass., 12 maggio 1986, Oliveri, in Riv. pen. 1987, m. 499; Cass., 3 febbraio<br />

23<br />

295


Da ultimo, come ricordato anche nella sentenza in commento, la Suprema Corte<br />

ha affermato tout court che è possibile applicare la nuova disciplina della confisca<br />

misura di prevenzione, introdotta con le riforme del 2008 e del 2009, retroattivamente<br />

in quanto «la confisca non ha natura di pena sui generis o di pena accessoria, ma di<br />

misura di sicurezza; con la conseguenza che ad essa non si applica il principio di<br />

irretroattività della legge penale, sancito dall'art. 2 c.p. e art. 25 Cost., ma quello della<br />

legge vigente al momento della decisione, fissato dall'art. 200 c.p.» 82 (ne consegue che<br />

«la richiesta di revoca ex tunc della confisca disposta nel procedimento di prevenzione<br />

deve essere esaminata in riferimento alla legge vigente al momento della decisione,<br />

sicché, entrato in vigore il d.l. 92 del 2008, conv. dalla legge n. 125 del 2008, il<br />

mantenimento della misura patrimoniale è reso legittimo dalla pericolosità generica<br />

del soggetto, connessa alla sua appartenenza alle categorie previste dall'art. 1 nn. 1 e 2<br />

della legge 27 dicembre 1956 n. 1423, ancorché sia stata esclusa la sua pericolosità<br />

qualificata ai sensi dell'art. 1 della legge 31 maggio 1965 n. 575 (Rv 244790)») 83 .<br />

Più in generale, in relazione alle misure di sicurezza la Corte Costituzionale ha<br />

reputato non in contrasto con la Carta costituzionale e segnatamente con il principio di<br />

irretroattività sancito dall’art. 25 la diversa regola dettata dall’art. 200 c.p., facendo<br />

essenzialmente leva sul necessario collegamento che deve sussistere tra la misura di<br />

sicurezza e la condizione di pericolosità, la quale ultima si fonda su una situazione per<br />

sua natura attuale 84 .<br />

In dottrina si è tentato di restringere la portata del principio di retroattività<br />

delle misure di sicurezza alle modalità di esecuzione delle misure, in quanto proprio la<br />

ratio di garanzia dell'art. 25 Cost. escluderebbe non solo che possa applicarsi una<br />

misura di sicurezza per un fatto che al momento della commissione non costituiva<br />

reato, ma anche che possa applicarsi una misura originariamente non prevista (o<br />

diversa da quella originariamente prevista) 85 . L'art. 2 c.p. sarebbe applicabile anche alle<br />

1986, Pullarà, in Cass. pen. 1987, 814; Cass., 30 gennaio 1985, Piraino, in Cass. pen. Mass. ann. 1986, 2030;<br />

Cass., 4 gennaio 1985, Pipitone, in Cass. pen. 1986, 378; Cass., 7 agosto 1984, Aquilino, in Foro it. 1987, c. 273,<br />

con nota di FIANDACA; conforme LA BRUNA -TROVATO, op. cit., 372. In materia NICOSIA, op. cit., 163 ss.;<br />

VERGINE, Confisca e sequestro per equivalente, Milano 2009, 60 ss.<br />

82<br />

Cass., 20 gennaio 2010, n. 11006; Cass., 26 maggio 2009, n. 26751; Cass., 28 febbraio1995, n. 775; cfr. su<br />

tale questione MAUGERI, La lotta contro l’accumulazione, cit., 552; Id., Profili di legittimitá costituzionale delle<br />

sanzioni patrimoniali (prima e dopo la riforma introdotta dal decr. n. 92/2008): la giurisprudenza della Corte<br />

Costituzionale e della Suprema Corte, in CASSANO (a cura di), Le misure di prevenzione patrimoniali dopo il<br />

“pacchetto sicurezza”, cit., 112 ss..<br />

83<br />

In questo caso si ritiene che “in materia di revoca ex tunc della confisca…, se per la peculiarità dello<br />

scrutinio di revisione la verifica dell’accertamento della pericolosità resta ancorata al riferimento<br />

temporale costituito dalla data di originaria applicazione della misura di prevenzione patrimoniale,<br />

tuttavia – sul piano normativo – deve aversi riguardo alla legge vigente al momento della decisione sulla<br />

richiesta di revoca”.<br />

84<br />

Corte Cost., 29 maggio 1968, in Giur. Cost. 1968, 802; Corte Cost., n. 19 del 1979, in Foro it. 1974, I, 603;<br />

Corte Cost., 12 novembre 1987, n. 392, in Giur. cost. 1987, I, 2792.<br />

85<br />

Così PAGLIARO, Principi di diritto penale - Parte generale, Milano 2003, 120 ss.; FIANDACA — MUSCO, Diritto<br />

penale - Parte generale, Bologna 2010, 822; MARINUCCI- DOLCINI, Manuale di Diritto penale, Milano, 2012, 73 SS.;<br />

ID, Corso di Diritto penale, Milano 2001, 259; PALAZZO, Corso di Diritto Penale – Parte Generale, IV ed., Torino<br />

2011, 580; cfr. PATRONO, Art. 200, in CRESPI – FORTI – ZUCCALÀ, Commentario breve del codice penale, V,<br />

Padova 2008, 570 ss.; VASSALLI, Nullum crimen sine lege, in Noviss. Dig. It. vol. XI, Torino 1965, 503.<br />

24<br />

296


misure di sicurezza, regolando "tutta la materia della successione delle leggi penali",<br />

con la conseguenza che possono essere applicate eventuali leggi sopravvenute solo in<br />

relazione alle modalità esecutive, che non si rivelano dannose per il reo 86 . Questo<br />

apprezzabile tentativo di ricondurre la disciplina delle misure di sicurezza al pieno<br />

rispetto del principio di legalità sembra, però, andare al di là di quanto consenta la<br />

lettera della legge. L'art. 2 c.p. non può essere applicato alle misure di sicurezza, la cui<br />

terminologia, in particolare l'uso del verbo "punire", si riferisce chiaramente solo alle<br />

pene; e del resto l'art. 55 disp. coord. tr. c.p. ha disposto espressamente l'applicazione<br />

delle misure di sicurezza previste dal codice ai soggetti condannati dopo la sua entrata<br />

in vigore per "fatti anteriormente commessi". Il principio di legalità, previsto dall'art.<br />

25, comma 3 della Costituzione, si limita, infatti, a richiedere che si applichino le<br />

misure di sicurezza solo "nei casi" previsti dalla legge, e cioè, ai sensi dell'art. 202 c.p., a<br />

"fatti preveduti dalla legge come reato". E un tale presupposto, ai sensi dell'art. 25,<br />

comma 2 della Costituzione, è legato al principio di irretroattività. Ne consegue che il<br />

principio di legalità impedisce esclusivamente l'applicazione delle misure di sicurezza<br />

a fatti, che, nel momento della loro realizzazione, non costituivano reato, ma non<br />

impedisce l'applicazione di una misura di sicurezza non prevista al momento della<br />

commissione del fatto, o diversa da quella originariamente prevista, o disciplinata in<br />

modo diverso 87 .<br />

Questo risultato può essere, però, conseguito attraverso l'applicazione dell'art. 7<br />

della Convenzione europea dei diritti dell'uomo 88 , che impone il principio di<br />

irretroattività della legge penale, sia nel senso di impedire la punibilità di fatti, che nel<br />

momento della loro realizzazione non erano preveduti come reato, sia nel senso di<br />

impedire l'applicazione di sanzioni penali più gravi di quelle che sarebbero state<br />

applicate al tempo in cui il reato è stato commesso 89 . Tale garanzia si estende, come<br />

esaminato, non solo nei confronti delle sanzioni qualificate come "pene" dalla legge<br />

interna, ma in relazione a qualunque sanzione, che in base ad un'interpretazione<br />

sostanzialistica della Corte EDU, presenta un contenuto e delle finalità corrispondenti a<br />

quelle di una sanzione penale (rientri nel concetto di “materia penale” ex art. 6<br />

Convenzione) 90 . Ne consegue che tale principio sarà applicabile anche alle misure di<br />

86 ALESSANDRI, voce Confisca nel diritto penale, op. cit., 44.<br />

87 GRASSO, Commento all’art. 200 c.p., in ROMANO – GRASSO - PADOVANI, Commentario sistematico del codice<br />

penale, cit., 455 ss.; cfr. PADOVANI (a cura di), con il coordinamento di G. De FRANCESCO – FIDELBO, Art. 200,<br />

in Codice penale, Tomo I, V ed., Giuffè, 1484 ss.; MONTEVERDE-ZAVATARELLI, Art. 200 c.p., in DOLCINI –<br />

MARINUCCI (a cura di), Codice penale commentato, cit., 2185 ss.<br />

88<br />

Cfr. BERNARDI, Art. 7 (“Nessuna pena senza legge”), in BARTOLE-CONFORTI-RAIMONDI (a cura di),<br />

Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2001,<br />

261 ss.; NICOSIA, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e diritto penale sostanziale, Giappichelli 2006, 56; DE<br />

AMICIS – VILLONI, Mandato d’arresto europeo e legalità penale nell’interpretazione della Corte di Giustizia, in Cass.<br />

Pen. 2008, 404; PRADEL – CORSTENS, Droit pénal européen, Paris 1999, 315 ss. ; MANES, op. cit., 272 ss.<br />

89<br />

Cfr. GRASSO, Commento all'art. 200 c.p., op. cit., 455 ss.; VIGANÒ, Il diritto penale sostanziale italiano davanti ai<br />

giudici della CEDU, in Giur. mer. 2008, 52 ss.; GATTA, Disposizioni penali del codice della strada, in MAZZA-<br />

VIGANÒ, Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica, cit., 114.<br />

90<br />

Cfr. GRASSO, Commento all'art. 200 c.p., in ROMANO, GRASSO, PADOVANI, Commentario sistematico del codice<br />

penale, III, Milano 2011, 455 ss. - 458; cfr. MANGIONE, La misura di prevenzione patrimoniale, cit., 303 ss., il<br />

25<br />

297


sicurezza, che, previste nell'ordinamento italiano come "forme di reazione al reato",<br />

presentano un indubbio contenuto afflittivo e finiscono per assolvere finalità non solo<br />

di prevenzione speciale, ma anche di prevenzione generale. Una lettura<br />

costituzionalmente orientata dell’art. 200 c.p. impone, oggi, allora una simile<br />

interpretazione, altrimenti dovrebbe essere mossa la questione di legittimità<br />

costituzionale con riferimento all’art. 7 CEDU (quale norma interposta) e all’attuale art.<br />

117 Cost. 91 . La Corte Costituzionale, come accennato, non è arrivata a riconoscere il<br />

carattere punitivo delle misure di sicurezza e la conseguente applicabilità del principio<br />

di irretroattività a tutte le misure di sicurezza, però, in un caso specifico in base alla<br />

nozione sostanzialistica della materia penale della Corte EDU ha dichiarato<br />

l’incostituzionalità della disciplina della confisca del veicolo in relazione al reato di<br />

guida in stato di ebbrezza (186, c. 2 lett. c) d.lg. 285/1992, come modificato dall’art. 4, c.<br />

1, lett. b, d.l. 92/’08), nella parte in cui se ne consentiva l’applicazione retroattiva ex art.<br />

200 c.p., per violazione del principio di irretroattività delle sanzioni penali ai sensi<br />

dell’art. 7 CEDU e, quindi, dell’art. 117 Cost. 92 .<br />

E tali conclusioni si possono e si potevano estendere alle misure preventive, non<br />

solo perché possono essere considerate sanzioni punitive ai sensi dell'art. 6 della<br />

Convenzione, ma anche perché la distinzione tra misure preventive ante delictum e<br />

misure post delictum ha perso di rilevanza quando si osserva che le c.d. misure<br />

preventive ante delictum sono applicate anche in seguito alla consumazione di reati,<br />

anzi ne presuppongono la consumazione, a partire dall’ipotesi qualificata base e cioè<br />

l'esistenza dell'associazione criminale e l’appartenenza ad essa. Sembra, inoltre,<br />

difficilmente compatibile con i principi di uno Stato democratico consentire al<br />

legislatore di introdurre delle misure sostanzialmente limitative di diritti fondamentali,<br />

come le misure preventive, anche in relazione a fatti commessi prima della loro<br />

introduzione; la misura di prevenzione potrebbe essere utilizzata dal legislatore,<br />

spesso sottoposto alla pressione dell'opinione pubblica, come un agile strumento di<br />

intervento e di repressione in relazione a fatti pregressi.<br />

In maniera più garantistica il legislatore tedesco ha sottoposto al principio di<br />

irretroattività anche l’Erweiterter Verfall, destinato a colpire i profitti di origine<br />

sospetta 93 , che non costituisce una Strafe ma una Maßnahme ai sensi dei §§ 11 comma 1,<br />

n. 8, e 61 StGB 94 .<br />

Un diverso e preferibile orientamento è adottato dalla Corte EDU nell'affare<br />

Welch v. United Kingdom, che ha precisato che il confiscation - considerato come “pena”<br />

nella sentenza in questione - non viola l'art. 7 della Convenzione europea dei diritti<br />

dell'uomo, laddove consente la confisca di profitti derivanti da reati commessi prima<br />

quale ritiene l’applicazione retroattiva rispondente ad un criterio di emergenza e necessità in contrasto con<br />

il principio di legalità.<br />

91<br />

Cfr. GRASSO, Commento all'art. 200 c.p., cit., 461; cfr. ZAINI-TIANI, in in DOLCINI – MARINUCCI (a cura di),<br />

Codice penale commentato, Milano 2012, 2398 s.<br />

92<br />

Corte Costituzionale, 4 giugno 2010, n. 196, P.T., in Foro it. 2010, 9, I, 2306; su tale vicenda si veda supra<br />

nota 75.<br />

93<br />

BGH, 20 settembre 1995, 3 StR 267/95 (LG Krefeld), in NJW 1996, 136; BGH, 19 novembre 1993, 2 StR<br />

468/93 (LG Köln), in NStZ 1994, 123; BGH, 27 aprile 2001, 3 StR 132101 (LG Itzehoe), in NStZ 2001, 419.<br />

94<br />

BVerfG, 14. 1. 2004 - 2 BvR 564/95, § 58 ss., cfr. § 70 – 72.<br />

26<br />

298


dell'entrata in vigore del Drug Trafficking Offences Act del 1986 (entrato in vigore il 12<br />

gennaio del 1987), purché l'ordine di confisca sia pronunciato in relazione ad un reato<br />

commesso dopo l'entrata in vigore dell'Atto; se non si vuole violare l'art. 7, che vieta di<br />

far conseguire ad un reato delle conseguenze più gravi di quelle previste al tempo<br />

della sua consumazione, nel momento in cui si consuma il reato, afferma la Corte, il reo<br />

deve avere "gli occhi aperti in relazione alle possibili conseguenze" che possono<br />

derivarne, in questo caso la confisca anche dei profitti provenienti da precedenti<br />

reati” 95 . Il divieto dell'art. 7, precisa la Corte europea dei diritti dell'uomo, "concerne<br />

solo l'applicazione retroattiva della legislazione rilevante e non viene in questione in<br />

relazione al potere di confisca conferito alle corti come arma nella battaglia contro il<br />

flagello del traffico di droga" 96 .<br />

La Suprema Corte italiana ha negato che si possa trarre dalla sentenza Welch un<br />

argomento per sostenere l’irretroattività della confisca allargata ex art. 12 sexies l.<br />

356/’92, – che continua ad essere applicata retroattivamente essendo considerata una<br />

misura di sicurezza, cui applicare l’art. 200 c.p. -, evidenziando l’“assoluta<br />

incompatibilità degli istituti posti a confronto (la confisca prevista dalla legislazione<br />

sugli stupefacenti del Regno unito, oggetto della sentenza della Corte europea dei<br />

diritti dell’uomo …e, dall’altro lato, la confisca – ed il sequestro preventivo – previsti<br />

dall’art. 12 sexies d.l. n. 306 del 1992)” 97 . In realtà il principio di diritto espresso dalla<br />

decisione Welch dovrebbe valere per tutte le forme di confisca allargata dei profitti, ma<br />

la Suprema Corte ha ritenuto più funzionale alle sue esigenze di efficienza non<br />

prendere in considerazione la garanzia riconosciuta dall’art. 7 della Convenzione.<br />

Prima della sentenza in esame, del resto, nel nostro ordinamento si determinava<br />

l’assurdità per cui si applicava il principio di irretroattività alla confisca per<br />

equivalente, che si dovrebbe limitare a sottrarre l’illecito profitto accertato anche se in<br />

forma equivalente, rimanendo, quindi, una forma di riequilibrio economico e non una<br />

pena (tranne laddove se ne faccia un uso spropositato da parte della giurisprudenza in<br />

contrasto con il principio di legalità e di proporzione 98 ), mentre non si applicherebbe il<br />

principio di irretroattività a quella forma di confisca “allargata” rappresentata dalla<br />

confisca misura di prevenzione, che può assumere carattere punitivo laddove colpisce<br />

tutti i cespiti patrimoniali di sospetta origine illecita.<br />

Si deve ricordare, infatti, che, superando un contrario orientamento 99 , la<br />

Suprema Corte ha applicato il principio di irretroattività, ex art. 25, c. 2 Cost., alla<br />

95<br />

Corte eur. dei dir. dell'uomo, Welch v. United Kingdom, 9 febbraio 1995 (1/1994/448/527), in Publications de<br />

la Cour Européenne des Droits de l'Homme 1995, Série A, vol. 307, 1 ss. (Leg. pen. 1995, 522); conforme Court of<br />

Appeal, 23 novembre (1 dicembre) 1995, Ronald James Murphy Taylor, in 2 Cr.ApR. 1996, 64 ss.<br />

96<br />

Corte eur. dei dir. dell’uomo, Welch, cit..<br />

97<br />

Cass., 28 gennaio 2003, Scuto e altri, in Foro it. 2003, II, 514.<br />

98<br />

Si veda infra nota 115.<br />

99<br />

Già l’art. 15 della l. 300/2000 aveva espressamente previsto l’irretroattività della confisca introdotta<br />

dall’art. 3 della stessa legge in relazione ai reati contro la pubblica amministrazione (art. 322 ter c.p.); ma la<br />

Cassazione aveva stabilito che il divieto di applicazione retroattiva fosse valido solo per i nuovi delitti<br />

previsti dall’art. 322 bis (introdotto dal I comma della legge 300), - peculato, concussione, corruzione e<br />

istigazione alla corruzione di membri degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità<br />

europee e di Stati esteri-, mentre per le fattispecie criminose precedenti si sarebbe dovuta applicare anche<br />

27<br />

299


confisca per equivalente introdotta dall’art. 1, c. 143, della l. n. 244/2007, che estende la<br />

disciplina dell’art. 322 ter c.p. ai reati tributari contemplati dal D. Lgs. n. 74 del 2000,<br />

ritenendo inapplicabile a tale fattispecie l’art. 200 c.p. in considerazione “della natura<br />

eminentemente sanzionatoria dell'eccezionale istituto qui in esame” 100 . Tale<br />

orientamento è stato, poi, solennemente sancito dalla Corte Costituzionale che ha<br />

rigettato la questione di legittimità costituzionale dell’artt. 200, 322 ter c.p. e 1, c. 143,<br />

della l. n. 244/2007, per violazione dell’art. 117 Cost. a causa del contrasto con l’art. 7<br />

CEDU, in quanto ha ritenuto che in virtù della natura punitiva della confisca per<br />

equivalente il divieto di applicazione retroattiva discende dall’art. 25, c. 2 Cost. e dalla<br />

giurisprudenza della CEDU in relazione all’art. 7 101 .<br />

La Suprema Corte, nella sentenza Barilari, ha conseguentemente applicato tale<br />

principio anche alla confisca per equivalente della confisca misura di prevenzione: «la<br />

confisca per equivalente - prevista dal comma decimo dell'art. 2-ter della l. n. 575 del<br />

1965, così come novellato dall'art. 10, comma primo, lett. d), n. 4 del d.l. n. 92 del 2008,<br />

conv. in legge n. 125 del 2008 - assume i tratti distintivi di una vera e propria sanzione,<br />

tale da impedire l'applicabilità ad essa del principio generale della retroattività delle<br />

misure di sicurezza, sancito dall'art. 200 cod. pen.» 102 .<br />

4.1. La difficoltà di applicare il principio di irretroattività e conseguenze per le<br />

finalità politico criminali della riforma.<br />

Il problema che però rimane e che è insito nella disciplina e natura delle misure<br />

di prevenzione è determinato dalla difficoltà di stabilire rispetto a quale momento si<br />

deve applicare il principio di irretroattività, mancando una condanna per uno specifico<br />

reato, per un fatto che deve essere previsto come reato da una legge vigente al<br />

momento della sua commissione; in relazione alla confisca ex art. 12 sexies l. 356/’92<br />

sarebbe semplice perché, come affermato nella sentenza Welch della Corte EDU,<br />

sarebbe possibile confiscare i cespiti patrimoniali la cui origine illecita è risalente, ma in<br />

ogni caso il reato oggetto di condanna deve essere successivo alla sua introduzione.<br />

Solo in alcuni casi concreti, invece, la confisca viene applicata in seguito ad una<br />

condanna in sede penale, come una sorta di procedimento patrimoniale sussidiario al<br />

a fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della nuova forma di confisca Cass. 3 giugno 2001,<br />

Curtò, in Cass. pen. 2002, 581; anche in relazione alla confisca prevista dall’art. 335 bis, introdotta dall’art. 6<br />

della legge 97/2001, l’art. 10 della stessa legge prevede che le sanzioni patrimoniali non si applicano ai<br />

procedimenti in corso, ma la giurisprudenza si è pronunciata per la sua retroattività Cass. 3 giugno 2001,<br />

Curtò, in Cass. pen. 2002, 581; cfr. Corte cost. 27 luglio 2002, n. 394 e 24 giugno 2004, 186.<br />

100<br />

Cass. 8 maggio 2008, n. 21566, Pulzella, in www.dejure.it; conformi Cass., 5 giugno 2008, n. 28685, ivi;<br />

Cass. 24 settembre 2008, n. 39172, Canisto, ivi. Cfr. Cass., sez. VI, 6 dicembre 2012, (29 aprile 2013), n.<br />

18799, che esclude l’applicabilità della confisca per equivalente in seguito alla prescrizione in<br />

considerazione della natura sanzionatoria di una tale forma di confisca.<br />

101<br />

Corte Cost., 2 aprile 2009, n. 97, S.B., in Giur. cost. 2009, 2, 984; Corte Cost., 20 novembre 2009, n. 301, in<br />

www.dejure.it. Cfr. CORSO, La confisca “per equivalente” non è retroattiva, in Corr. Trib. 2009, 1775.<br />

102<br />

Cass., Sez. I, 28 febbraio 2012, Barilari, n. 11768, Rv 252297.<br />

28<br />

300


procedimento penale. Il problema che si pone è determinato dal fatto che con le misure<br />

preventive non si colpiscono fatti determinati, ma meri sospetti di appartenenza ad<br />

un'associazione criminale o di consumazione di altri reati, o di essere in essi coinvolti<br />

in quanto dediti a traffici delittuosi o indiziati di vivere, almeno in parte, con il<br />

provento del crimine: è quindi possibile per questa via fare riferimento a<br />

comportamenti anteriori all'introduzione delle misure di prevenzione o alla nuova<br />

disciplina, in quanto valutati come meri elementi indiziari di un'attuale appartenenza<br />

ad associazioni mafiose o di attività criminale 103 ; anche nella sentenza in commento si<br />

afferma che “se si deve esprimere un giudizio di pericolosità sociale nei confronti del proposto,<br />

è necessario che questo intervenga al momento della decisione, anche se le ragioni fondanti il<br />

giudizio vengano ad essere desunte da comportamenti e fatti risalenti nel tempo” 104 . Tale<br />

pericolo è ormai conclamato dalla riforma legislativa che, sganciando le misure<br />

patrimoniali dalle personali, non pretende più l’attualità della pericolosità, per cui le<br />

condotte che fondano la confisca nel senso di fare rientrare il proposto tra i destinatari<br />

delle misure di prevenzione possono essere comportamenti assolutamente remoti, per i<br />

quali il soggetto è stato indiziato (sottoposto a misura di prevenzione personale) o<br />

imputato (o condannato o anche assolto 105 ), e che lo hanno definitivamente<br />

“stigmatizzato” come “pericoloso”, anche se non più attualmente, ai fini<br />

dell’applicazione della misura patrimoniale, purché si accerti il carattere<br />

sproporzionato o l’origine illecita dei beni, trasformando il procedimento di<br />

prevenzione patrimoniale in una sorta di actio in rem che consente di colpire il<br />

patrimonio di origine illecita, indipendentemente dal momento in cui sono stati<br />

realizzati i reati fonte.<br />

Nella sentenza in esame ai fini dell’applicazione del principio di irretroattività<br />

si fa riferimento alla data della “condanna” che rappresenta in questo caso il<br />

presupposto che consente di fare rientrare il proposto tra i destinatari della misura di<br />

prevenzione patrimoniale: “In ogni caso, anche laddove si fosse inteso aderire ad una<br />

contraria esegesi, il Tribunale rilevava che la condanna riportata dall'Occhipinti era<br />

stata pronunciata in epoca antecedente rispetto alle novelle anzidette, con la<br />

conseguente non applicabilità delle norme oggetto di riforma in relazione all'art. 166<br />

cod. pen., avente natura sostanziale”.<br />

Più in generale nella sentenza si fa riferimento alle “condotte che si assumono<br />

fondare l'adozione della misura medesima”: “Ne conseguirebbe, pertanto,<br />

l'impossibilità di applicare alla fattispecie concreta le norme vigenti al momento del<br />

provvedimento dispositivo della misura di prevenzione, bensì quelle in vigore<br />

all'epoca delle condotte che si assumono fondare l'adozione della misura medesima:<br />

ciò non solo in base al disposto di cui all'art. 2 cod. pen., avendo la novella del 2009<br />

103<br />

Si propone, quindi, in dottrina per "smussare", senza aver la pretesa di eliminare il conflitto con i<br />

principi costituzionali, di limitare l'applicazione della confisca in questione ai beni che hanno una<br />

comprovata origine illecita e solo se continua o comunque è attualmente destinato ad usi o servizi di<br />

fattivo vantaggio per l'organizzazione mafiosa, così MANGIONE, La misura di prevenzione patrimoniale, cit..,<br />

303 ss.. Cfr. Cass., 2 marzo 1995, Pepe, in Riv. pen. 1995, 1532.<br />

104<br />

Cass., sez. V, 13 novembre 2012, n. 14044, O., 11.<br />

105<br />

Da ultimo Cass. 15 gennaio 2013, n. 11979, G.P., in Dir. e Giustizia, 15 marzo 2013.<br />

29<br />

301


comportato quanto meno una «modifica mediata di una norma di diritto sostanziale<br />

quale è l'art. 166 cod. pen.», ma anche in virtù del principio generale sancito dall'art. 11<br />

delle c.d. "preleggi", norma che non consente ad una legge di avere effetto retroattivo”.<br />

Emerge che l’accoglimento del principio di irretroattività delimiterà la portata<br />

della riforma del 2008 e del 2009 che sgancia l’applicazione delle misure personali dalle<br />

patrimoniali e non chiede più l’attualità della pericolosità proprio al fine di consentire<br />

la confisca di cespiti patrimoniali la cui origine illecita sia risalente nel tempo e anche in<br />

mancanza di quella continuità di attività criminale (e di sussistenza di indizi), che<br />

fonderebbe il giudizio di attualità della pericolosità sociale. La riforma si potrà<br />

applicare pienamente, consentendo di sganciare le misure personali dalle patrimoniali,<br />

solo laddove le “condotte” che consentono di fare rientrare il proposto tra i destinatari<br />

delle misure patrimoniali (ai sensi dell’art. 1 l. 575/’65 o 19 l. 152/’75 – che richiama la l.<br />

1423/’56 -, o dell’art. 16, 4 e 1 del codice antimafia), in caso di morte o di mancanza di<br />

attualità della pericolosità, siano successive all’introduzione della riforma: siano esse,<br />

ad esempio, le condotte che fondano gli indizi di appartenenza alle associazioni di cui<br />

all’articolo 416-bis c.p., o di uno dei reati previsti dall’articolo 51, c. 3 bis, c.p.p. ovvero<br />

del delitto di cui all’articolo 12-quinquies, c. 1, del d.l. 8 giugno 1992, n. 306; o siano esse<br />

le condotte che fondano gli indizi di essere dediti a traffici delittuosi o di vivere con il<br />

provento del crimine, o di essere dediti alla commissione dei reati contro i minorenni,<br />

…(art. 1 cod. antimafia); o siano esse gli atti preparatori di cui all’art. 4, n. 1, l. d) o f) del<br />

codice antimafia o le condotte che fondano la convinzione che i proposti continuino a<br />

svolgere condotte analoghe a quelle oggetto di condanna (partecipazione ad<br />

associazioni politiche disciolte ai sensi della legge 20 giugno 1952, n. 645, o atti<br />

preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti alla ricostituzione del partito fascista).<br />

Si compromette, almeno temporaneamente, lo scopo della riforma che è quello<br />

di consentire la confisca del patrimonio di origine illecita in qualunque momento,<br />

indipendentemente dall’applicabilità delle misure personali, come emerge anche dai<br />

lavori preparatori del decr. n. 92/’2008, al fine di contrastare più efficacemente la<br />

criminalità organizzata: «incidendo su uno degli elementi sui quali la stessa è<br />

maggiormente vulnerabile, l’intervento consiste nel passaggio da un approccio<br />

incentrato sulla "pericolosità del soggetto" a una visione imperniata sulla formazione<br />

illecita del bene che, una volta reimmesso nel circuito economico, è in grado di alterare<br />

il sistema legale di circolazione della ricchezza, minando così alla radice le fondamenta<br />

di una economia di mercato». La riforma concretizza l’idea affermata nella “Relazione<br />

sullo stato di attuazione della normativa e delle prassi applicative in materia di sequestro,<br />

confisca e destinazione dei beni alla criminalità organizzata” della Commissione Antimafia<br />

del 2007 106 , che occorre «prevenire che provvedimenti modificativi della misura di prevenzione<br />

concernente il soggetto travolgano le misure patrimoniali», una volta che sia stata accertata<br />

la provenienza illecita, in quanto proprio «in ragione di tale accertata illecita provenienza [i<br />

beni] sono dotati di una perdurante pericolosità e di un insito potere destabilizzante per<br />

106 “Relazione sullo stato di attuazione della normativa e delle prassi applicative in materia di sequestro, confisca e<br />

destinazione dei beni alla criminalità organizzata”, elaborata dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul<br />

fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare. - Approvata dalla Commissione nella seduta<br />

del 27 novembre 2007 e trasmessa alle Presidenze delle Camere il 28 novembre 2007, Doc. XXIII n. 3.<br />

30<br />

302


l'economia lecita. …In sintesi, si immagina una sorta di "perdurante illiceità dei beni"<br />

strettamente connessa alla formazione degli stessi».<br />

L’applicazione del principio di irretroattività dovrebbe delimitare l’affermarsi<br />

della nozione di “pericolosità intrinseca del patrimonio di origine illecita” che già<br />

trapelava nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, che anche quando riteneva<br />

la confisca antimafia conforme ai diritti costituzionali previsti dagli artt. 41 e 42 Cost. in<br />

virtù della pericolosità personale 107 , tuttavia evidenziava una sorta di processo di<br />

superamento del nesso di presupposizione necessaria tra le misure personali e quelle<br />

patrimoniali, sottolineando, come esaminato, che la “ratio” della confisca «comprende<br />

ma eccede quella delle misure di prevenzione consistendo nel sottrarre definitivamente<br />

il bene al “circuito economico” di origine … » 108 ; o l’applicazione del principio di<br />

irretroattività dovrebbe delimitare l’affermarsi della nozione di pericolosità intrinseca<br />

che emergeva dalla giurisprudenza della Suprema Corte che ammetteva la non<br />

caducazione della misura già disposta per effetto del decesso del soggetto prima della<br />

definitività del relativo provvedimento in quanto la ratio della confisca, a differenza di<br />

quella delle misure di prevenzione in senso proprio, va al di là dell'esigenza di<br />

prevenzione nei confronti di determinati soggetti pericolosi e sorregge dunque la<br />

misura anche oltre la permanenza in vita del soggetto pericoloso: lo scopo della misura<br />

preventiva è, infatti, quello di eliminare l'utile economico proveniente dall'attività<br />

criminosa e tale finalità resterebbe frustrata se i familiari o gli eventuali prestanome<br />

della persona affiliata ad organizzazioni criminali potessero riacquistare la<br />

disponibilità dei beni confiscati in seguito alla morte della persona socialmente<br />

pericolosa 109 .<br />

Tale nozione di pericolosità reale, del resto, sta alla base dell’introduzione della<br />

confisca ex art. 3 quinquies l. 575/’65 (oggi contemplata dall’art. 34, n. 7 del codice<br />

antimafia) con la quale, profilando un provvedimento in rem e non in personam, si<br />

consente di colpire i patrimoni in qualche modo connessi con attività criminali,<br />

indipendentemente dall’accertamento delle responsabilità dei proprietari. La<br />

107<br />

La confisca è rivolta non ai beni di provenienza illegittima come tali, ma in quanto posseduti da persone<br />

ritenute pericolose, in quanto “la pericolosità del bene è considerata dalla legge derivare dalla pericolosità<br />

della persona che ne può disporre”.<br />

108 Corte Cost., 8 ottobre 1996, n. 335, in Foro it. 1997, I, 24.<br />

109 Cass., 17 luglio 1995, D'Antoni, in Riv. pen. 1996, 526; conformi Cass. 11 giugno 2008, n. 25676; Cass. 4<br />

luglio (28 agosto) 2007, Richichi M.A. ed altri, n. 33479, in www.dejure.it; Cass. 18 aprile 2007, n. 19761, ivi;<br />

Cass. 15 giugno (22 luglio) 2005, n. 27433, Libri, CED rv. 231755; Cass. 9 marzo (16 maggio) 2006, David ed<br />

altri, n. 16721, in www.dejure.it; Cass. 10 marzo (4 aprile) 2005, Bellino ed altri, n. 12529, ivi; Cass. 14<br />

gennaio (17 febbraio) 2005, Andronico ed altri, n. 6160, CED Rv. 231775 e in Cass. pen. 2006, 1909; Cass. 31<br />

gennaio 2005, Bruno, 231873, in Guida al dir. 2005, n. 25, 55; Cass. 16 gennaio 2002, Di Marco, m. 221556, in<br />

www.dejure.it; Cass. 22 settembre 1999, Calamia, in Cass. pen. 2000, 1410; Cass. 14 aprile 1999, Fici, ivi 2000,<br />

1411; Cass. 3 febbraio 1999, Cianchetta, ivi 2000, 1408; Cass. 24 novembre 1998, Marchese, ivi 1999, 3558;<br />

Cass. 14 febbraio 1997, Nobile ed altri, ivi 1997, 3170; Cass., S.U., 3 luglio 1996, Simonelli ed altri, ivi 1996,<br />

3609, -in cui si evidenzia che “il decesso .. potrebbe essere deliberatamente perseguito da terzi proprio al<br />

fine di riciclare i beni” -.<br />

31<br />

303


giurisprudenza in relazione all’art. 3 quinquies ha individuato lo scopo della normativa<br />

in esame nell’urgente necessità di «frenare, un fenomeno ben noto da tempo e<br />

derivante dall’esigenza delle associazioni mafiose di riciclare le consistenti<br />

disponibilità finanziarie provenienti dalle attività illecite alle quali esse sono dedite» 110 ;<br />

prevedendo la confiscabilità, in pregiudizio di soggetti estranei all’organizzazione<br />

criminale, di beni che si ha motivo di ritenere essere provenienti da attività illecite, si è<br />

aderito a «quella giurisprudenza la quale ha ravvisato nei beni aventi la detta origine<br />

uno strumento di sviluppo dell’organizzazione mafiosa o di taluni dei suoi membri e,<br />

quindi, una pericolosità intrinseca (v. Cass. 5-8-1992, n. 2186) che determina una sorta<br />

di utilità pubblica all’espropriazione di essi ed alla restituzione alla collettività di<br />

quanto è stato ad essa sottratto e mascherato in forma di attività lecita (in tal senso, C 7-<br />

5-1993, n. 704) 111 ; si è così «avallato il nuovo indirizzo normativo che ha ormai<br />

eliminato il principio della necessità dello stretto collegamento tra la cosa ritenuta<br />

pericolosa e la persona che deve subire il provvedimento sanzionatorio» 112 .<br />

Queste considerazioni fanno emergere qualche dubbio circa la possibilità che la<br />

giurisprudenza della Suprema Corte faccia proprio l’orientamento espresso in questa sentenza<br />

circa la natura punitiva della confisca antimafia e la conseguente applicazione del principio di<br />

irretroattività.<br />

Rimane, poi, sempre un’ipotesi in cui sembra che il cammino verso l’actio in rem<br />

è compiuto e sarà comunque difficile applicare il principio di irretroattività: la confisca<br />

dei beni in capo a soggetti indiziati di vivere con il provento del crimine, soggetti a<br />

pericolosità generica (ex art. 19 l. 152/’75, nonché art. 1 del codice antimafia, richiamato<br />

dall’art. 4, a sua volta richiamato dall’art. 16), ipotesi già criticata in altra sede 113 ; in<br />

questo caso, infatti, anche se non si riescono a fornire gli indizi di appartenenza<br />

all’organizzazione criminale o di consumazione dei crimini previsti dall’art. 51 c. 3 bis<br />

(o 12 quinquies decr. l. 306/’92), sarà sempre possibile applicare le misure patrimoniali<br />

considerando i destinatari soggetti indiziati di vivere con il provento del crimine in<br />

base agli stessi indizi utilizzati per considerare il patrimonio di valore sproporzionato<br />

o di origine illecita. L’ipotesi di confisca ex art. 2 ter finisce per non distinguersi<br />

dall’ipotesi di confisca ex art. 3 quinquies l. 575/’65 essendo entrambe fondate su meri<br />

requisiti di pericolosità oggettiva del patrimonio, in presenza di presupposti soggettivi<br />

110 Corte di Appello Palermo, decreto 1° ottobre 1996, Tre Noci s.r.l. ed altri, in Cass. pen. 1997, 2257.<br />

111 Ibidem, 2258 ss.<br />

112 Corte d'Appello di Catania, 21 novembre 1997, Spampinato, in Cass. pen. 1998, n. 1558, 2726 – 2730.<br />

113 MAUGERI, La riforma delle sanzioni patrimoniali, cit., 134; cfr. GAMBACURTA, Le modifiche in materia di<br />

misure di prevenzione e misure di sicurezza, in Il sistema della sicurezza pubblica. Commento alla legge 15 luglio<br />

2009, n. 94 (disciplina in materia di sicurezza pubblica), aggiornato alle novità introdotte dalla “Legge finanziaria<br />

2010”, dal d.l. 4 febbraio 2010, n. 4 e dal Protocollo “Mille occhi sulla città” dell’11 febbraio 2010, in RAMACCI-<br />

SPANGHER (a cura di), Milano, 2010, 197; contra valuta positivamente l’estensione delle patrimoniali a tali<br />

soggetti MENDITTO, Le misure di prevenzione personali e patrimoniali. La confisca ex art. 12-sexies l. n. 356/92,<br />

Milano 2012, 68 – 71; RAPINO, La modernizzazione delle misure di prevenzione. Riflessioni a margine<br />

dell’applicazione di misure personali e patrimoniali all’“evasore fiscale socialmente pericoloso”, in questa Rivista, 26<br />

marzo 2013, 7, che ritiene così applicabili le misure di prevenzione ai colletti bianchi dediti a traffici<br />

delittuosi.<br />

32<br />

304


assolutamente sfumati (anche in caso di mancanza della pericolosità sociale la prima e<br />

laddove il patrimonio agevoli l’attività di soggetti indiziati o imputati la seconda).<br />

5. Un ulteriore argomento: il confronto con la confisca per equivalente.<br />

La Corte trae un altro argomento a sostegno della propria tesi dal confronto tra<br />

la forma di confisca in esame e la confisca per equivalente della confisca ex art. 2 ter l.<br />

575/’65 (oggi recepita dall’art. 25 del cod. antimafia), citando proprio la sentenza<br />

Barilari, sopra menzionata, nel senso che “La giurisprudenza di questa Corte conosce<br />

già, del resto, situazioni in cui è stata affermata l'impossibilità di ritenere applicabile il<br />

citato art. 200 a peculiari fattispecie di misure di prevenzione patrimoniale”.<br />

Tale argomento della Corte è interessante, ad avviso di chi scrive, non tanto<br />

perché si ritiene che la confisca per equivalente in sé assuma carattere punitivo, ma<br />

quanto perché la Corte in realtà evidenzia – involontariamente - l’incongruità per cui si<br />

attribuisce natura sanzionatoria alla confisca per equivalente della confisca misura di<br />

prevenzione (art. 2-ter, c. 10, della l. n. 575 e art. 25 cod. antimafia) e non la si attribuisce<br />

alla confisca misura di prevenzione. Nel senso che non si ritiene di accogliere, come<br />

accennato e affermato in altra sede, l’orientamento in base al quale si attribuisce tout<br />

court carattere sanzionatorio alla confisca per equivalente della confisca classica del<br />

profitto accertato (rispetto al quale è provato il nesso con uno specifico reato) 114 , che<br />

dovrebbe assumere la stessa natura della confisca che consente di applicare nella forma<br />

equivalente e cioè dovrebbe rappresentare una forma di riequilibrio o compensazione<br />

114<br />

Tra le altre Cass., S.U., 25 ottobre 2005, n. 41936, Muci, cit.; Cass., 26 maggio 2010, n. 29724, in<br />

www.dejure.it; Cass. 18 giugno 2007, n. 30543, in Foro it. 2008, III, c. 173; Cass., 8 maggio 2008, n. 21566,<br />

Pulzella, in www.dejure.it; Cass., 24 settembre 2008, n. 39173, Tiraboschi, in CED, rv 241034; Cass. 18<br />

febbraio 2009, Molon, n. 13098, in www.dejure.it; Corte Cost. 2 aprile 2009, n. 97, in www.giurcost.com; cfr.<br />

Cass., 24 settembre 2008, n. 3917, in Cass. pen. 2009, 3417 ss., con nota adesiva di MAZZACUVA, Confisca per<br />

equivalente come sanzione penale: verso un nuovo statuto garantistico, 3420 ss.; Cass. 14 febbraio 2008, n. 12240,<br />

in www.dejure.it, che parla di capacità «dissuasiva e disincentivante di tale tipologia di risposte<br />

sanzionatorie»; Trib. Milano, 20 aprile 2011, G.i.p. D’Arcangelo. Da ultimo Cassazione, 29 agosto 2012, n.<br />

33371, in Corr. trib., n. 38 – 2012, 2944 ribadisce “la funzione sostanzialmente ripristinatoria della<br />

situazione economica modificata in favore del reo dalla commissione del fatto illecito, mediante<br />

l’imposizione di un sacrificio patrimoniale di corrispondente valore a carico del responsabile” , il carattere<br />

afflittivo e la consequenzialità con l’illecito proprie della sanzione penale, mentre esula dalla stessa<br />

qualsiasi funzione di prevenzione, che costituisce la principale finalità delle misure di sicurezza”;<br />

attribuisce carattere sanzionatorio alla confisca per equivalente MAGRO, In tema di profitto confiscabile (a<br />

proposito del mancato pagamento della sanzione tributaria), in Arch. Pen. 2013, 190; PERINI, La progressiva<br />

estensione del concetto di profitto del reato quale oggetto della confisca per equivalente, in Giur. it. 2009, 2075;<br />

FÙRFARO, voce Confisca, in Dig. Disc. Pen. Agg., Tomo I, Torino 2005, 208 ss; MAZZA, La confisca per equivalente<br />

fra reati tributari e responsabilità dell’ente (in margine al caso Unicredit), 23 gennaio 2012, in<br />

www.penalecontemporaneo.it.; CORSO, op. cit., 1775; EPIDENDIO, Il sistema sanzionatorio cautelare, in EPIDENDIO –<br />

BASSI (a cura di), Enti e responsabilità da reato, Milano 2006, 305 – 308; FONDAROLI, op. cit., 118; ACQUAROLI,<br />

L’estensione dell’art. 12 sexies l. n. 356/1992 ai reati contro la pubblica amministrazione, in Dir. pen. e proc. 2008,<br />

p. 251; VERGINE, Confisca e sequestro per equivalente, Milano 2009, 149.<br />

33<br />

305


economica 115 ; ma piuttosto in quanto si ritiene che sarebbe assurdo attribuire carattere<br />

punitivo alla confisca per equivalente in sé, e non attribuirla alla confisca base – ex art.<br />

2 ter l. 575/’65 - che la confisca di valore consente di applicare anche se in forma<br />

equivalente. La confisca di valore rappresenta esclusivamente uno strumento per<br />

garantire in forma diversa (per equivalente) l’applicazione efficace della confisca del<br />

profitto e, quindi, dovrebbe mutuare la stessa natura della confisca base; assume<br />

carattere punitivo nella stessa misura in cui l’assume la confisca base. In relazione alla<br />

confisca per equivalente della confisca del profitto accertato si tratta di garantire<br />

l’applicazione del principio che il crimine non paga e non può rappresentare una<br />

legittima fonte di arricchimento: “la cui ratio è quella di privare il reo di un qualunque<br />

beneficio economico derivante dall'attività criminosa” 116 . Solo in ciò si concentra quella<br />

“capacità dissuasiva e disincentivante di tale strumento” di cui parla la sentenza in<br />

commento, riprendendo la sentenza Barilari, fermo restando che una vera misura<br />

punitiva dovrebbe avere un suo specifico carattere afflittivo, sottraendo o limitando un<br />

bene del destinatario della sanzione: la confisca del profitto accertato non sottrae un<br />

bene legittimamente detenuto dal reo, non limita il suo diritto di proprietà; può<br />

assumere carattere afflittivo-punitivo, invece, la confisca “allargata” dei cespiti<br />

patrimoniali di sospetta origine criminale, in mancanza della prova dell’origine illecita.<br />

Ciò non toglie che è comunque preferibile garantire l’irretroattività della<br />

confisca per equivalente anche della confisca classica, essendo comunque<br />

maggiormente conforme al principio di irretroattività di uno Stato di diritto, come bene<br />

evidenziato nel caso Welch, che un cittadino possa conoscere prima tutte le<br />

conseguenze della sua condotta, tanto più se si considera quell’uso disinvolto della<br />

confisca per equivalente che emerge nella prassi giurisprudenziale, che la usa come un<br />

escamotage per sottrarsi alla prova del nesso causale tra il profitto e il reato o come vera<br />

e propria pena patrimoniale nei confronti di tutti i concorrenti 117 .<br />

115<br />

In quanto si tratta di sottrarre il profitto del reato, qualcosa che non si ha diritto di detenere non<br />

rappresentando il reato un legittimo titolo di acquisto di beni, cfr. MAUGERI, La lotta contro l’accumulazione,<br />

cit., 489 ss..; ID., La confisca per equivalente - ex art. 322 ter - tra obblighi di interpretazione conforme ed esigenze di<br />

razionalizzazione, in Riv. it. dir. proc. pen. 2011, 826 ss.; conforme MONGILLO, Art. 322-ter, in Codice penale –<br />

Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, vol. VII, I delitti contro la pubblica amministrazione, Milano 2010, 256;<br />

ROMANO, I delitti contro la pubblica amministrazione – I delitti dei pubblici ufficiali, Commentario sistematico, II<br />

ed., Milano 2006, 254, parla di misura che mira «ad attuare un riequilibrio compensativo a favore della<br />

collettività», pur riconoscendo che l’aspetto (generalpreventivo-) repressivo già presente nella confisca<br />

tradizionale, si chiarisce e si accentua con l’espressa previsione della confisca di valore (p. 248).<br />

116<br />

Cass., sez. V, 13 novembre 2012, n. 14044, O., 16.<br />

117<br />

Così Cass. 28 luglio 2009, n. 33409, Alloum, in Cass. pen. 2009, 3102: “in caso di concorso di persone nel<br />

reato, la confisca “per equivalente” prevista dall’art. 648 quater può essere disposta per ciascun concorrente<br />

per l’intera entità del profitto”, “non essendo esso ricollegato all’arricchimento personale di ciascuno dei<br />

correi, ma alla corresponsabilità di tutti nella commissione dell’illecito”; conforme Cass., 13 maggio 2010,<br />

n. 21027, in www.dejure.it; applicano il sequestro per intero nei confronti di ciascun concorrente o la<br />

confisca per intero nei confronti di un singolo concorrente, – salva la possibilità di rivalsa nei confronti<br />

degli altri -, anche se a lui non è pervenuto il profitto Cass., 1° ottobre 2002, n. 32797, in www.dejure.it; Cass.<br />

16 gennaio 2004, n. 15455, Napolitano G., ivi; Cassazione, S.U., 25 ottobre 2005, n. 41936, Muci, 52, ivi;<br />

Cass., 6 luglio 2006, n. 30729, Carere, in Guida al dir. 2006, 40, 117; Cass., 14 giugno 2006, Grassi, in Foro. it.<br />

2007, c. 265; Cass., 14 giugno 2006, n. 31989, Troso, ivi, c. 266 e in CED, rv. 235128; Cass., 27 settembre 2006,<br />

n. 31989, in Giur. it. 2007, 7, p. 1751; Cass. 20 dicembre 2006, n. 10838, Napoletano, in Rv. 235832; Cass., 21<br />

34<br />

306


In relazione alla forma di confisca per equivalente della confisca misura di<br />

prevenzione, in ogni caso, la sua applicazione nel rispetto del principio di<br />

irretroattività appare particolarmente opportuna se si considera la particolare<br />

afflittività che può assumere la confisca per equivalente di una forma di confisca<br />

allargata che può colpire tutti i beni di valore sproporzionato o che risultino di origine<br />

illecita; negli ordinamenti stranieri e nei documenti sovrannazionali la confisca per<br />

equivalente nasce fisiologicamente come uno strumento per combattere i tentativi del<br />

reo di frustrare l’applicazione della confisca di specifici beni che rappresentano il<br />

profitto o il prodotto di un determinato reato, presupponendo che sia stato accertato<br />

che dal crimine sia derivato un determinato profitto o prodotto ben identificato, legato da<br />

un nesso di causalità al crimine, e non sia possibile confiscarlo perché disperso, alienato,<br />

nascosto. La confisca per equivalente è il primo fondamentale strumento per superare<br />

quel limite delle forme tradizionali di confisca del profitto, che richiedono<br />

l’accertamento del nesso di causalità tra il crimine e il profitto o il prodotto. In<br />

relazione alle forme di confisca allargata che non richiedono l’accertamento del nesso<br />

di causalità in questione, ma si estendono a tutti i profitti di valore sproporzionato o di<br />

origine sospetta, l’applicazione anche della confisca per equivalente appare come<br />

un’esasperazione punitiva che rende particolarmente opportuna l’applicazione del<br />

principio di irretroattività 118 .<br />

6. Ulteriori argomenti: correlazione temporale, presunzione dell’origine illecita e<br />

rispetto dell’art. 42 Cost.<br />

La Corte ammette che una parte della giurisprudenza richiedendo la correlazione<br />

temporale tra la pericolosità sociale e l’acquisto dei beni, continuerebbe a preservare il<br />

legame tra la confisca e la pericolosità sociale; anche se, si può osservare, si tratterebbe<br />

sempre di un anomalo concetto di pericolosità sociale, legata non tanto alla futura<br />

consumazione di reati, ma alla precedente e/o attuale consumazione – a partire<br />

dall’appartenenza all’associazione mafiosa, trattandosi comunque di una misura<br />

praeter probationem delicti, più che ante delictum. In ogni caso, la Suprema Corte ritiene di<br />

preferire, anche in base al dettato normativo, l’orientamento prevalente che nega la<br />

necessità della correlazione temporale, consentendo di confiscare anche beni acquisiti<br />

in epoca precedente, in quanto si contesti l’origine illecita che può essere confutata dal<br />

prevenuto: la finalità della confisca misura di prevenzione rimane quella di sottrarre i<br />

febbraio 2007, Alfieri, n. 10838, Rv. 235842; Cass., 3 maggio 2007, n. 21138, in www.dejure.it.; Cass. 9 luglio<br />

2007, Linguiti, Rv. 237290; Cass., 20 settembre 2007 n. 38599, Angelucci, in Cass. pen. 2009, 274; Cass. 6<br />

Novembre 2008, n. 45389, Perino Gelsomino, ivi 2010, 2714; Cass., Sez. V, 3 febbraio 2010, n. 10810,<br />

Perrottelli, Rv. 246364; Cass., Sez. V, 24 gennaio 2011, n. 13277, Farioli, Rv. 249839; Cass., sez. II, 31 maggio<br />

2012, n. 20976, in www.dejure.it; Cass., sez. II, 6 luglio 2012, n. 35999, ivi.<br />

118<br />

Cfr. MAUGERI, La riforma delle sanzioni patrimoniali, cit., 176 ss.<br />

35<br />

307


eni al circuito criminale consentendo di colpire anche l’intero patrimonio in base alla<br />

presunzione di origine illecita 119 .<br />

La Suprema Corte, poi, non aderisce a quell’orientamento più garantista che in<br />

qualche sentenza ha richiesto ai fini della confisca sia l’accertamento del carattere<br />

sproporzionato dei beni sia l’accertamento della loro origine illecita. Si deve ricordare,<br />

infatti, che prima della riforma in alcune (in verità poche) sentenze la Suprema Corte<br />

richiedeva tale duplice tipologia di indizi, osservando che la novella del ’93, n. 256 120<br />

avrebbe avuto «un'incidenza contenutistica meno marcata dì quella suggerita ad una<br />

prima lettura» 121 . In base a tale orientamento, il possesso di sostanze di valore<br />

sproporzionato è solo un primo importante, ma non sufficiente, indizio, da inserire in<br />

un più ampio quadro indiziario circa l’origine illecita del patrimonio dell’indiziato<br />

Nella sentenza in commento, invece, la Suprema Corte ritiene, in piena<br />

conformità al dettato normativo, che la norma non imponga un tale duplice onere<br />

probatorio a carico dell’accusa 122 : “la chiara formulazione dell'art. 2-ter della legge n.<br />

575 del 1965 «non consente dubbi in ordine all'assoggettabilità a confisca sia dei beni il<br />

cui valore risulti sproporzionato alla capacità reddituale del proposto sia dei beni che<br />

risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. Il perspicuo<br />

tenore letterale non consente una lettura combinata [...], nel senso, cioè, che il<br />

parametro della sproporzione debba coesistere con la rilevata provenienza illecita degli<br />

stessi beni. L'uso della congiunzione "nonché" con riferimento a due distinte categorie<br />

di beni suscettivi di ablazione (beni il cui valore sia sproporzionato e beni rispetto ai<br />

quali sia positivamente accertato essere frutto di attività illecita ovvero reimpiego), non<br />

lascia adito a dubbi di sorta in proposito”.<br />

Tale orientamento è corretto, fermo restando che il più garantistico<br />

orientamento, che richiede la duplice tipologia di indizi, sarebbe maggiormente in<br />

linea con il rispetto delle garanzie della presunzione d’innocenza; nel senso che si<br />

renderebbe maggiormente solido il quadro probatorio su cui si fonda la confisca, se<br />

l’accertamento del carattere sproporzionato del valore del singolo bene al momento<br />

119<br />

Cass., 21 aprile 2011, n. 27228, Cuozzo, Rv 250917; Cass., 9 febbraio 2011, n. 6977, B. e altro, in<br />

www.dejure.it; Cass. 15 gennaio 2010, Quartararo, in Foro it. Rep. 2010, voce Misure di prevenzione, n. 39;<br />

Cass. 15 dicembre 2009, n. 2269, in www.dejure.it; Cass. 29 maggio 2009, n. 35466, ivi; Cass., sez. I, 4 giugno<br />

2009, n. 35175, ivi; Cass., sez. I, 11 dicembre 2008, n. 47798, C., in Cass. pen. 2009, 10, 3977; Cass., 8 aprile<br />

2008, n. 21717, Failla e altro, Rv. 240501; Cass., 23 gennaio 2007, n. 5248, G., in Cass. pen. 2008, 1174; Cass.,<br />

Sez. I, 5 ottobre 2006, Gashi, n. 35481, Rv. 234902.<br />

120<br />

L'art. 3 della L. 24 luglio 1993, n. 256, con il quale si era modificato l'art. 2 -ter, comma 2, della legge n.<br />

575/65, stabiliva che il Tribunale ordina il sequestro dei beni del mafioso «quando il loro valore risulta<br />

sproporzionato al reddito dichiarato o all'attività economica svolta, ovvero quando, in conformità a<br />

sufficienti indizi, si ha motivo di ritenere che gli stessi siano il frutto di attività illecite o ne costituiscono il<br />

reimpiego»: ne conseguiva, come rilevato in giurisprudenza, che mentre prima si richiedeva la notevole<br />

sproporzione come indizio tra gli altri dell'illecita provenienza, in seguito a tale riforma l'indizio della<br />

mera sproporzione (la norma non richiedeva più che fosse notevole) era già di per sé indice di illiceità<br />

della medesima ricchezza in quanto nella disponibilità del presunto mafioso, cfr. per tutte Cass., 20<br />

novembre 1998, Iorio e altri, n. 5760, in Cass. pen., 1999, 3238.<br />

121<br />

Cass., 23 giugno 2004, Palumbo, in Cass. pen., 2005, 2704; conforme Cass., 16 dicembre 2005, n. 1014,<br />

L.P.T., in http://www.iuritalia.it/cpenale.<br />

122<br />

Cass., 21 aprile 2011, n. 27228, Cuozzo, Rv 250917.<br />

36<br />

308


dell’acquisto (in base alla migliore interpretazione della nozione di sproporzione 123 ) si<br />

accompagnasse alla verifica di ulteriori elementi indiziari circa l’origine illecita dei beni<br />

da confiscare. Ma soprattutto tale interpretazione sarebbe maggiormente conforme al<br />

modello di confisca allargata proposto dalla decisione quadro GAI n. 212/2005 124 , che<br />

richiede contemporaneamente il carattere sproporzionato e l’origine illecita dei profitti,<br />

nonché, da ultimo, con la Proposta di Direttiva in tema di confisca e congelamento dei<br />

beni 125 , nella versione emendata proposta dalla Commissione per le libertà civili, la<br />

giustizia e gli affari interni (non ancora approvata dal Parlamento) 126 , in cui si propone<br />

all’art. 4 un modello di confisca allargata che richiede il duplice accertamento, in<br />

quanto considera la sproporzione solo come esempio di “fatto specifico” su cui fondare<br />

il convincimento del giudice circa l’origine illecita; fermo restando che ai fini della<br />

confisca senza condanna la versione emendata della Proposta di direttiva richiede che<br />

“l'autorità giudiziaria, sulla base di fatti specifici e dopo aver esperito tutti i mezzi di<br />

prova disponibili, sia convinta che tali beni derivano da attività di natura criminale<br />

123<br />

Per tale interpretazione del concetto di sproporzione che deve essere accertata in relazione al singolo<br />

bene al momento dell’acquisto (Né è sufficiente affermare che vi sia sproporzione tra reddito e patrimonio<br />

per ritenere che tutti i beni del soggetto proposto, vadano sequestrati e confiscati”) cfr. Cass. 30 ottobre<br />

2008, n. 44940, in www.dejure.it; Cass. 13 maggio 2008, n. 21357, E., ivi; Cass. 16 gennaio 2007, n. 5234, L.e<br />

altro, in Guida al dir. 2007, 1067; Cass. 13 giugno 2006, Cosoleto e altri, in C.e.d., n. 234733; Cass. 23 giugno<br />

2004, Palumbo, in Cass. pen. 2005, 2704; Cass. 28 marzo 2002, Ferrara, ivi 2003, 605; Cass., S.U., 17 dicembre<br />

2003 (19 gennaio 2004), Montella, in Cass. pen., 2004, 1187; Cass., 15 aprile 1996, Berti, in Cass. pen. 1996,<br />

3649; Cass., sez. I, 18 maggio 1992, Vincenti; Cass., sez. I, 9 maggio 1988, Raffo; ampiamente su tale<br />

giurisprudenza cfr. MAUGERI, La lotta contro l’accumulazione, cit., 516 ss. dottrina e giurisprudenza ivi citata;<br />

CONTRAFFATTO, L’oggetto della confisca di prevenzione e lo standard della prova, in BALSAMO-CONTRAFATTO-<br />

NICASTRO (a cura di), Le misure patrimoniali contro la criminalita' organizzata, cit., 110 ss.; NOCETI –<br />

PIERSIMONI, Confisca e altre misure ablatorie patrimoniali, Torino 2011, 79; sull’accertamento della<br />

sproporzione cfr. NANULA, La lotta alla mafia. Strumenti giuridici - strutture di coordinamento - legislazione<br />

vigente, Milano 2009, 38; Id., Il problema della prova della provenienza illecita dei beni, in Il Fisco 1993, 10117;<br />

MANGIONE, La misura di prevenzione patrimoniale, cit., 287.<br />

124<br />

Tale decisione quadro prevede i poteri allargati di confisca ai fini del mutuo riconoscimento, in virtù<br />

della decisione quadro n. 783/2006.<br />

125<br />

Proposta di Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio, relativa al congelamento e alla confisca dei<br />

proventi di reato nell’Unione europea, Bruxelles, 12.3.2012, COM(2012) 85 final, 2012/0036 (COD). Cfr.<br />

MAUGERI, La proposta di direttiva UE in materia di congelamento e confisca dei proventi del reato: prime riflessioni,<br />

in Dir. pen. cont. - Rivista trimestrale, 2012, II, 180 ss.; BALSAMO, Il “codice antimafia” e la proposta di Direttiva<br />

europea sulla confisca: quali prospettive per le misure patrimoniali nel contesto europeo, in questa Rivista, 20 luglio<br />

2012; PIVA, La proteiforme natura della confisca antimafia dalla dimensione interna a quella sovranazionale, in<br />

Diritto penale contemporaneo – Rivista Trimestrale, 2013, I, 215 ss.; MANGIARACINA, Cooperazione giudiziaria e<br />

forme di confisca, in Dir. pen. e proc. 2013, 369.<br />

126<br />

Cfr. la RELAZIONE sulla proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al<br />

congelamento e alla confisca dei proventi di reato nell’Unione europea (COM(2012)0085 – C7-0075/2012 –<br />

2012/0036(COD)) da parte della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni (nel<br />

prosieguo la Commissione LIBE), A7-0178/2013, 20 maggio 2013, in http://www.europarl.europa.eu/sides/get.<br />

Per un sintetico quadro di insieme degli emendamenti proposti dalla Commissione LIBE alla proposta<br />

della Commissione, cfr. MAZZACUVA, La posizione della Commissione LIBE del Parlamento europeo alla proposta<br />

di direttiva relativa al congelamento e alla confisca dei proventi di reato, in questa Rivista, 16 luglio 2013.<br />

37<br />

309


ispettando, al contempo, pienamente le disposizioni dell'articolo 6 della CEDU e della<br />

Carta europea dei diritti fondamentali” 127 .<br />

Si riconosce, riprendendo le affermazione della sentenza Cuozzo del 2011 128 , il<br />

carattere “draconiano della misura” fondata sulla c.d. pericolosità del patrimonio (“È<br />

vero, dunque, che per dettato normativo la pericolosità sociale del proposto finisce con<br />

l'estendersi al suo patrimonio”): “Si tratta, certamente, di misura draconiana, la cui severità<br />

si giustifica, però, in ragione delle precipue finalità della legislazione antimafia, e specialmente<br />

dell'obiettivo strategico di colpire, anche con evidenti finalità deterrenti, l'intero patrimonio -<br />

ove di ritenuta provenienza illecita - degli appartenenti a consorterie criminali, posto che<br />

l'accumulo di ricchezza costituisce, comunemente, la ragione primaria - se non esclusiva - di<br />

quell'appartenenza”. In ogni caso si ritiene che il rispetto dell’art. 42 Cost., del diritto di<br />

proprietà, sarebbe garantito dal carattere confutabile della presunzione su cui si fonda<br />

la misura in esame 129 - “ciò in quanto l'accertata appartenenza a consorteria organizzata<br />

riflette uno stile di vita la cui origine non si è ritenuto che possa farsi coincidere con la<br />

data del riscontro giudiziario, essendo, evidentemente, maturato - per precise scelte<br />

esistenziali - anche in epoca antecedente, sia pure non determinata (Cuozzo del 2011)”<br />

130<br />

; è sufficiente, ad avviso della Corte, che sia garantito il diritto del proposto di<br />

confutare la presunzione, in linea del resto con l’orientamento della Corte EDU che<br />

ammette l’uso delle presunzioni non solo in relazione alla confisca misura di<br />

prevenzione ma, più in generale, in “materia penale”, purché siano confutabili e siano<br />

adeguatamente garantiti i diritti della difesa. Proprio in relazione alla disciplina della<br />

confisca misura di prevenzione, la Corte EDU ha, però, sottolineato che la<br />

giurisdizione italiana non può fondarsi su semplici sospetti; essa deve stabilire e<br />

valutare oggettivamente i fatti esposti dalle parti e documentati 131 .<br />

La Suprema Corte riconosce che l’actio in rem rappresentata dal procedimento di<br />

prevenzione patrimoniale si fonda sulla c.d. “pericolosità reale”, nel senso cioè che il<br />

suo precipuo scopo è quello di sottrarre il patrimonio di origine illecita alla criminalità,<br />

in particolare organizzata, sottraendo ciò che da una parte rappresenta lo scopo<br />

127<br />

In materia sia consentito il rinvio a MAUGERI, L’actio in rem assurge a modello di “confisca europea” nel<br />

rispetto delle garanzie Cedu? – Emendamenti della Commissione Libe alla proposta di direttiva in materia di<br />

congelamento e confisca dei proventi del reato, in questa Rivista 2013.<br />

128<br />

Cass., 21 aprile 2011, Tic. Cuozzo, n. 27228, Rv 250917.<br />

129<br />

cfr. Cass., sez. I, 16 maggio 2012, n. 25464, G.N., in www.dejure.it.<br />

130<br />

Cfr. in tale direzione Cass., sez. VI, 18 ottobre 2012, n. 10153, C. e altro, in www.dejure.it, che ha<br />

recentemente ribadito la compatibilità dell’ “applicabilità delle misure di prevenzione patrimoniale a<br />

prescindere dal requisito della pericolosità attuale del proposto, in relazione agli art. 41 e 42 della<br />

Costituzione, in quanto i diritti costituzionalmente tutelati di proprietà ed iniziativa economica possono<br />

essere limitati rispettivamente in funzione sociale (art. 42, comma secondo, Cost.) e nell'interesse delle<br />

esigenze di sicurezza ed utilità generale (art. 41, comma secondo, Cost.) secondo contenuti le cui concrete<br />

modulazioni rientrano nella discrezionalità del legislatore, tenuto conto della necessità di perseguire<br />

un'esigenza generalmente condivisa di sottrarre i patrimoni accumulati illecitamente alla disponibilità dei<br />

soggetti che non possono dimostrarne la legittima provenienza”<br />

131<br />

Corte eur. dei dir. dell’uomo, Prisco, cit.; Corte eur. dei dir. dell'uomo, Arcuri, cit., 4 - 5; Corte eur. dei<br />

dir. dell’uomo, Riela, cit., 5; Corte eur. dei dir. dell’uomo, Bocellari, cit., 7; Corte eur. dei dir. dell'uomo,<br />

Licata, cit., 4; cfr. Commissione, 21 maggio 1998, Autorino v. Italy, n. 39704/98.<br />

38<br />

310


primario di tale forma di criminalità, l’illecito arricchimento, dall’altra lo strumento<br />

principale di ulteriore attività criminale e di infiltrazione nell’economia lecita.<br />

7. Considerazioni conclusive derivanti dal riconoscimento della natura sanzionatoria<br />

della confisca “misura di prevenzione” (in particolare in termini di onere della<br />

prova).<br />

Il riconoscimento della natura “oggettivamente sanzionatoria” della forma di<br />

confisca in esame presenta dei profili problematici perché la pena presuppone la<br />

condanna per un fatto reato, ma non sempre, come accennato, il procedimento di<br />

prevenzione patrimoniale è accompagnato o preceduto da un parallelo procedimento<br />

penale, assumendo i caratteri di una sorta di procedimento accessorio al processo<br />

penale 132 ; il procedimento di prevenzione patrimoniale è autonomo, può essere<br />

applicato nei confronti dei soggetti indiziati, anche nel passato, di determinati reati e<br />

quindi a pericolosità – anche se non attuale – qualificata, o indiziati di vivere con il<br />

provento del crimine o di essere dediti a traffici delittuosi, a pericolosità – anche in<br />

questo caso non necessariamente attuale – generica 133 .<br />

Come può giustificarsi l’applicazione di una sanzione in mancanza di una<br />

condanna per un fatto che costituisce reato e addirittura nei confronti del morto? E<br />

come si potrebbe giustificare una sanzione che non sia commisurata alla colpevolezza,<br />

rimanendo l’unico parametro di commisurazione l’ammontare dei cespiti patrimoniali<br />

di origine illecita 134 .<br />

132 SCARPINATO, op. cit., 247 ss., il quale afferma che il procedimento di prevenzione patrimoniale «ha<br />

cessato da tempo di essere un sistema autonomo per divenire un sistema di supporto a quello della<br />

repressione penale con il quale interagisce continuamente sul piano dell’aggressione ai patrimoni illegali e<br />

della risposta all’imprenditorialità criminale»; «l’accertamento della pericolosità del prevenuto, ..non è più<br />

disancorata dalla commissione di reati, - pericolosità ante o praeter delictum, intesa come generica<br />

propensione soggettiva a commettere futuri reati -, ma, al contrario, saldamente ancorata a condotte<br />

storicamente definite ed integranti specifiche fattispecie di reato»; «le vere indagini patrimoniali per<br />

l’applicazione delle misure di prevenzione non sono più quelle di cui all’art. 2 bis citato, ma quelle esperite<br />

durante la fase delle indagini preliminari all’interno di strategia globale che tiene conto della spendibilità<br />

degli esiti di tali indagini sia sul piano del processo penale che su quello del procedimento di<br />

prevenzione»; «il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione viene attivato in<br />

contemporanea con l’emissione delle ordinanze di custodia cautelare»; «la trasmissione dell’ordinanza di<br />

custodia cautelare attiva infatti l’apertura di un canale di comunicazione tra procedimento di prevenzione<br />

e processo penale, destinato a trasformarsi in molti casi in un vaso comunicante». Sui rapporti tra<br />

procedimento di prevenzione e procedimento penale cfr. NOCETI – PIERSIMONI, op. cit., 83 SS.;<br />

sull’auspicabilità della specializzazione del procedimento “accessorio” al processo penale MAUGERI, La<br />

proposta di direttiva UE, cit., 196 SS.<br />

133 Ad esempio il procedimento di prevenzione può essere iniziato anche a carico di soggetti,<br />

precedentemente o successivamente, assolti nei processi penali, specie nella formula di cui all’art. 530,<br />

secondo comma, c.p.p., o di indagati in procedimenti definiti con archiviazioni per una prognosi di<br />

inidoneità del materiale probatorio a superare positivamente il vaglio dibattimentale, cfr. Ibidem, 242.<br />

134<br />

Cfr. MANGIONE, La confisca di prevenzione dopo i “due” pacchetti-sicurezza, cit., 78 – 79; sull’opportunità di<br />

applicare la confisca senza condanna cfr. NICOSIA, op. cit., 83 e in generale 76 ss.; in materia sulle ipotesi in<br />

39<br />

311


In realtà, allora, il fondamento che giustifica la confisca deve essere individuato<br />

non tanto in una pretesa finalità punitiva tout court di comportamenti criminali che non<br />

si riescono a provare, ma nella finalità di sottrarre alla criminalità – soprattutto<br />

organizzata – la ricchezza di origine illecita, che, come affermato dalla Suprema Corte<br />

nella sentenza in esame, rappresenta la ragione primaria dell’appartenenza alla<br />

consorteria criminale e lo strumento della futura attività illecita. In mancanza di una<br />

condanna e di una valutazione di proporzionalità della sanzione ai parametri di<br />

commisurazione della pena, a partire dalla colpevolezza, si può allora giustificare in<br />

uno Stato di diritto, la sottrazione dei profitti solo in quanto e nella misura in cui se ne<br />

accerti l’origine criminale, prevalendo la funzione di riequilibrio<br />

economica/compensatoria su quella punitiva, altrimenti la misura draconiana diventa<br />

una pena patrimoniale che rischia di essere “sproporzionata” in quanto non<br />

commisurata e commisurabile.<br />

Ciò richiama l’esigenza di accogliere l’interpretazione più garantistica del<br />

termine “risultino” contenuto nell’art. 2 ter l. 575/’65 e nell’art. 24 del codice antimafia,<br />

nel senso di pretendere la prova “indiziaria” dell’origine illecita 135 (ex art. 197 c.p.p.),<br />

che rappresenterebbe l’unico elemento che giustifica la confisca in mancanza della<br />

condanna e dell’attualità della pericolosità sociale, e, quindi, all’affievolirsi dei<br />

presupposti soggettivi che fondano la presunzione di illecita accumulazione<br />

patrimoniale 136 , come evidenziato anche dal Tribunale di Palermo 137 . Tale<br />

interpretazione sarebbe maggiormente in linea con l’obbligo di interpretazione<br />

conforme della normativa interna alla normativa comunitaria anche in relazione alle<br />

decisioni quadro adottate nell'ambito del titolo 6° del Trattato sull'Unione Europea,<br />

nonostante l’assenza di una disciplina di attuazione ad hoc, in considerazione<br />

dell’orientamento affermatosi a partire dalla sentenza Pupino della Corte di<br />

cui si rende opportuna una confisca senza condanna cfr. PANZARASA, Confisca senza condanna? Uno studio de<br />

lege lata e de iure condendo sui presupposti processuali dell' applicazione della confisca, in Riv. it. dir. proc. pen.<br />

2010, 1672 – in particolare 1702 ss..<br />

135 MAUGERI, Dalla riforma delle misure di prevenzione patrimoniali alla confisca generale dei beni contro il<br />

terrorismo, cit., 425.<br />

136<br />

Così MAUGERI, La riforma delle sanzioni patrimoniali, cit., 155 ss.; ID., Dalla riforma delle misure di<br />

prevenzione patrimoniali alla confisca generale dei beni contro il terrorismo, cit., 463 ss.; conforme GIALANELLA,<br />

La confisca di prevenzione antimafia, lo sforzo sistemico della giurisprudenza di legittimità e la retroguardia del<br />

legislatore, in CASSANO (a cura di), Le misure di prevenzione patrimoniali dopo il “pacchetto sicurezza”, cit., 133<br />

ss.; ID., Un problematico punto di vista sui presupposti applicativi del sequestro e della confisca di prevenzione dopo<br />

le ultime riforme legislative e alla luce della recente giurisprudenza di legittimità, in Scenari di mafia, cit., 357;<br />

ABBATTISTA, Profili funzionali e criticità applicative del sistema delle misure di prevenzione patrimoniali antimafia<br />

dopo la stagione delle riforme sulla sicurezza pubblica, in “Gli strumenti di contrasto patrimoniale alla criminalità<br />

organizzata dopo le riforme sulla sicurezza pubblica”, Seminario di Studio, Bari, 1 e 2 dicembre 2009,<br />

http://www.udai.it/articoli/allegato/relazione%20udai%20dott.%20Giovanni%20ABBATTISTA.pdf;<br />

CAIRO, op. cit., 1085. Sugli auspici della dottrina in tale direzione già prima della riforma sia consentito il<br />

rimando a MAUGERI, Le moderne sanzioni patrimoniali, cit., 876 – 834 ss.; cfr. GIALANELLA, La prova, il<br />

sequestro, la confisca, le garanzie, Napoli 1998, 119; AMODIO, Misure di prevenzione nella legge antimafia, in<br />

Giust. Pen., 1985, III, c. 632; SIRACUSANO, Indagini, indizi e prove nella nuova legge antimafia, in Riv. it. dir. e<br />

proc. pen., 1984, 898 ss.<br />

137<br />

Per tutte Cass., 13 gennaio 2011, n. 18327, G., in www.dejure.giuffre.it.<br />

40<br />

312


giustizia 138 : la decisione quadro GAI n. 212/2005, sopra citata, nell’imporre l’obbligo di<br />

prevedere poteri allargati di confisca (in seguito a condanna) in relazione a talune gravi<br />

fattispecie realizzate nell’ambito di un’organizzazione criminale (art. 3), non solo non<br />

prevede l’inversione dell’onere della prova, ma pretende che il giudice sia pienamente<br />

convinto sulla base di fatti circostanziati dell’origine illecita del bene, imponendo uno<br />

standard della prova penalistico; in tale direzione la Proposta di direttiva in materia di<br />

confisca, nella versione emendata dalla Commissione LIBE, richiede che il giudice sia<br />

“convinto” dell’origine illecita dei beni per applicare la confisca senza condanna.<br />

Una simile interpretazione non elimina, ma attenua le perplessità circa il<br />

rispetto delle garanzie fondamentali della materia penale e in particolare la<br />

presunzione d’innocenza che la forma di confisca in esame suscita, laddove prevede un<br />

onere della prova dell’origine lecita in capo al proposto (“la confisca dei beni di cui la<br />

persona …non possa giustificare la legittima provenienza”), che rappresenterebbe<br />

un’inammissibile inversione dell’onere della prova in mancanza della prova<br />

dell’origine illecita 139 e, soprattutto, laddove rimane comunque applicabile anche nei<br />

confronti dei beni di valore sproporzionato.<br />

Anche l’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, nella relazione N.<br />

III/11/2008 del 29.7.2008, avente ad oggetto la legge di conversione del D.L. n. 92 del<br />

23.5.2008 (fl. 15), ha ribadito che spetta all’accusa l’onere di accertare il valore<br />

sproporzionato o l’origine illecita dei beni; tale orientamento è accolto dalla Suprema<br />

Corte 140 laddove afferma che “l'organo inquirente deve provare….. che il valore dei beni<br />

sequestrati sia sproporzionato al reddito dichiarato o all'attività economica svolta dal<br />

proposto, ovvero siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il<br />

reimpiego….Orbene, la lettura coordinata delle suddette norme, pone in evidenza che,<br />

per la legge, ciò che rileva ai fini della confisca, è solo la prova della pericolosità e della<br />

illegittima provenienza dei beni” (corsivo aggiunto).<br />

138<br />

CGCE, 16 giugno 2005, causa C-105/03, Pupino.<br />

139<br />

In tale direzione parla criticamente di inversione dell’onere della prova FILIPPI, Il sistema delle misure di<br />

prevenzione dopo la controriforma del “2008”, in Atti dell’incontro di studio organizzato dal C.S.M., Roma, 24-26<br />

settembre 2008, “Dalla tutela del patrimonio alla tutela dai patrimoni illeciti”, 23 ss.; contra si afferma che “In<br />

specie, l’evocare, oggi, il legislatore, allo scopo di fondare la possibilità dell’ablazione, un difetto di<br />

giustificazione della legittima provenienza del ben oggetto di apprensione da parte di chi ne abbia la<br />

disponibilità, in luogo del limitarsi, lo stesso legislatore, al rinvio, già contenuto nella pregressa<br />

formulazione della norma, ad una mancanza di dimostrazione della legittima provenienza del bene<br />

soggetto ad ablazione, non altera in maniera dirimente i termini logici del meccanismo dimostrativo della patologia<br />

del cespite da confiscare” (così GIALANELLA, Un problematico punto di vista, cit., 356 s.; conforme MAUGERI, La<br />

riforma delle sanzioni patrimoniali, cit., 157 ss.; PIGNATONE, Le recenti modifiche alle misure di prevenzione<br />

patrimoniale (l. 125/2008 e l. 94/2009) e il loro impatto applicativo, in Scenari di mafia. Orizzonte criminologico e<br />

innovazioni normative, cit., 331) sicché l’intervento legislativo è innanzitutto ispirato all’esigenza “di<br />

adeguare la formula normativa a quella utilizzata nel secondo comma del medesimo art. 2 ter in relazione<br />

all’oggetto del sequestro disposto dal Tribunale nel corso del procedimento di prevenzione”, così<br />

Relazione dell’Ufficio del massimario della Corte di Cassazione (rel. N. III/11/2008 del 29 luglio 2008)<br />

avente ad oggetto la l. di conversione del d.l. 23 maggio 2008, n. 92 (fol. 15).<br />

140<br />

Cass., 22 aprile 2009, Buscema e altri, n. 20906, Ced Rv. 244878.<br />

41<br />

313


Il medesimo orientamento esprime la Suprema Corte nel recente caso<br />

Meluzio 141 , in cui ha annullato con rinvio la sentenza della Corte di Appello proprio<br />

perché la sentenza di merito non ha fondato il provvedimento di confisca su «un<br />

protocollo valutativo che dia contezza:- in primo luogo, del perché debba ravvisarsi<br />

una matrice illecita specifica dei beni confiscati ai Meluzio, anche, ma non esclusivamente,<br />

in ragione dell’epoca della genesi di ognuno di essi; - in secondo luogo del perché, …,<br />

tali beni debbano considerarsi di valore sproporzionato al reddito lecito dei titolari e di<br />

ingiustificata accumulazione da parte di costoro, tanto da consentire di ritenere i beni di cui<br />

trattasi, comunque, di origine illecita e, per l’effetto, confiscabili». La Suprema Corte<br />

sottolinea insomma la necessità di accertare la confiscabilità dei beni, e non solo la<br />

disponibilità in capo all’indiziato, e cioè “la necessità di dar conto se i beni che si<br />

intenda confiscare siano nella disponibilità del proposto in misura sproporzionata<br />

rispetto al reddito e degli stessi non sia stata provata la legittima provenienza” 142 (corsivo<br />

aggiunto).<br />

In maniera più chiara e vigorosa accoglie l’interpretazione prospettata del<br />

“risultino” il Tribunale di Palermo, precisando proprio che “l’innalzamento dello<br />

standard probatorio richiesto per la confisca trova una ragionevole giustificazione nel<br />

contestuale sganciamento della misura patrimoniale da quella personale, nel senso che il<br />

legislatore affermata la non decisività della pericolosità sociale attuale del proposto, ha<br />

verosimilmente avvertito la necessità di meglio circoscrivere l’effetto ablatorio, onde evitarne<br />

una illimitata estensione in mancanza di una più salda piattaforma probatoria sulla origine<br />

illecita dei beni sequestrati, e salva comunque l’operatività, pur in difetto del nesso di<br />

pertinenzialità, del distinto requisito della sproporzione, che deve a propria volta<br />

“risultare”»(corsivo aggiunto).<br />

In tale direzione si è osservato che le perplessità che suscita la confisca nei<br />

confronti del morto, introdotta con la riforma del 2008 (art. 2 bis, c. 6 bis) e oggi prevista<br />

dall’art. 18 del cod. antimafia, sarebbero superate solo con l’accertamento dell’origine<br />

illecita dei proventi da confiscare: «Con riferimento alla provenienza illecita dei beni<br />

occorre tenere conto del fatto che i successori (eventualmente anche estranei alla<br />

famiglia del de cuius), dopo anni dalla morte della persona ritenuta pericolosa,<br />

dovrebbero contrastare l’ipotesi accusatoria fondata sulla sufficienza indiziaria della<br />

provenienza illecita del bene, talvolta acquistato decenni prima. Ogni profilo di<br />

141<br />

Cass., sez. VI, 24 febbraio 2011, n. 25341, Meluzio, in www.penalecontemporaneo.it.<br />

142<br />

La decisione impugnata, come rilevato dal Procuratore generale, “si è, tuttavia, completamente sottratta<br />

a qualsivoglia, logicamente pregiudiziale, apprezzabile e seria esposizione delle ragioni per le quali tali<br />

beni dovrebbero intendersi, pur sempre, connotati da matrice illecita, in quanto sproporzionati ai redditi leciti<br />

dei prevenuti e del tutto ingiustificati quanto alla accumulazione di essi da parte dei M.”. Sul punto specifico, il<br />

Procuratore generale richiama l’insegnamento della Corte di legittimità (Sez. 6, 803/1999, r.v. 214781,<br />

Morabito G. e altro), in forza del quale è vieppiù precisato il richiamo al principio della c.d. valenza reale<br />

dell’indizio; cfr. Cass., sez. II, 23 giugno 2004, n. 35628; Cass., sez. V, 28 marzo 2002, n. 23041; Cass., sez. VI,<br />

19 marzo 1997, n. 1171; Cass., sez. VI, 24 gennaio 1995, n. 249; Cass., sez. I, 21 aprile 1987, n. 1486. Inoltre<br />

GIALANELLA, Patrimoni di mafia, cit., 119; AMODIO, Misure di prevenzione nella legge antimafia, in Giust. Pen.,<br />

1985, III, c. 632; SIRACUSANO, Indagini, indizi e prove nella nuova legge antimafia, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1984,<br />

898 ss.<br />

42<br />

314


perplessità sarebbe, però, superato nel caso di prova della provenienza illecita del bene e non solo<br />

della sufficienza indiziaria» 143 (corsivo aggiunto).<br />

Recentemente la stessa giurisprudenza di legittimità, nel dichiarare<br />

manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, dell’art. 2 ter,<br />

sollevata in riferimento agli art. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui, prevedendo la<br />

confisca dei beni di cui non sia dimostrata la legittima provenienza, pregiudicherebbe<br />

il diritto di difesa, per l’impossibilità di provare la liceità di proventi risalenti nel<br />

tempo, ha precisato che ai fini dell’operatività della disposizione non è sufficiente la<br />

mancata allegazione dell’interessato in ordine alla legittima provenienza dei beni<br />

trattandosi altrimenti di un’inammissibile inversione dell’onere probatorio, ma è<br />

necessario che l’affermazione d’illegittima provenienza costituisca epilogo di una<br />

decisione assunta in esito alla delibazione di elementi indiziari di inequivoca<br />

sintomaticità 144 . “Ed all'uopo, la legge predispone un vero e proprio procedimento, nel<br />

quale, come in altre procedure, ha valore centrale il rispetto del contraddittorio, sì da<br />

assicurare il compiuto dispiegamento delle ragioni di difesa”.<br />

In tale contesto, allora, si ritiene auspicabile in termini di garanzie e di<br />

conformità ai principi di proporzione e di presunzione d’innocenza l’orientamento più<br />

garantista che richiede la connessione temporale, in quanto la prova di tale elemento<br />

rende meno onerosa per il proprietario la contro-prova dell'origine lecita del suo<br />

patrimonio 145 , circoscrivendo gli effetti della conseguente confisca 146 , e rende la confisca<br />

in esame maggiormente conforme alla presunzione d’innocenza come regola<br />

dell’esclusività dell’accertamento della colpevolezza in sede processuale, nel senso che<br />

il condannato può subire solo le conseguenze di fatti provati in giudizio nell’ambito di<br />

un regolare processo 147 ; il fatto di colpire solo gli ingiustificati arricchimenti<br />

temporalmente connessi con l’attività criminale accertata consente di alleggerire il<br />

rischio che si debbano subire le conseguenze di fatti non accertati, - rischio<br />

intrinsecamente connesso al mero carattere indiziario dello stesso accertamento di<br />

pericolosità e, quindi, della partecipazione ad organizzazione od attività criminali -.<br />

Come affermato dalla Suprema Corte proprio la mancanza della condanna ai<br />

fini dell’irrogazione della forma di confisca in esame, rende necessario tale<br />

accertamento diversamente da quanto previsto ai fini della confisca ex art. 12 sexies d.l.<br />

306/’92; pur riconoscendo l’affinità che sussiste tra le due forme di confisca “detto<br />

parallelismo non giustifica, però, la conclusione di una pretesa coincidenza di<br />

discipline dei due distinti provvedimenti espropriativi: l’uno conseguente al pieno<br />

accertamento della responsabilità in sede penale, l’altro connesso alla verifica di un<br />

complesso indiziario circa la probabile appartenenza del soggetto ad un’associazione<br />

mafiosa. Va, infatti, considerato che tale diverso contesto spiega l’orientamento<br />

143 MENDITTO, Non Liquet della Corte Costituzionale, con rinvio a interpretazioni costituzionalmente orientate -<br />

Commento a Corte cost. 9 febbraio 2012, n. 21, in Dir. Pen. Cont. 2012, www.penalecontemporano.it.<br />

144<br />

Cass., sez. V, 16 ottobre 2009 (18 febbraio 2010), n. 6684, Santomauro, in www.dejure.it.<br />

145 Cfr. sul punto DI LENA, In tema di confisca per possesso ingiustificato di valori, in Ind. Pen. 1999, 1222.<br />

146 Si veda MAUGERI, Le moderne sanzioni patrimoniali, cit., 625 – 695.<br />

147 Cfr. SCHULTEHINRICHS, Gewinnabschöpfung bei Betäubungsmitteldelikten. Zur Problematik der geplanten<br />

Vorschrift über den Erweiterten Verfall, Mainz, Univ., Diss., 1991, 165.<br />

43<br />

315


secondo cui, per poter disporre la confisca in sede di prevenzione, non è sufficiente la<br />

sussistenza di indizi di carattere personale sull’appartenenza del soggetto ad<br />

un’associazione di tipo mafioso, implicante una latente e permanente pericolosità<br />

sociale, ma occorre che vi sia correlazione temporale fra tale pericolosità e l’acquisto<br />

dei beni” 148 .<br />

Si dovrebbe pretendere la prova della connessione temporale perlomeno nel senso che,<br />

anche se tale elemento non costituisce un requisito espressamente richiesto dall’art. 2 ter l.<br />

575/’65 ai fini della confisca, rappresenta, comunque, un importante indizio dell’origine illecita<br />

del bene, con la conseguenza che laddove manchi, qualora si faccia riferimento a beni<br />

acquisiti in epoca risalente o in epoca successiva al periodo di appartenenza ad<br />

organizzazioni criminale (o in relazione al quale sussistono gli indizi che rendono il<br />

soggetto destinatario delle misure di prevenzione), la mancanza di questo<br />

fondamentale indizio dovrà essere sufficientemente compensata dalla presenza di altri<br />

pregnanti indizi (gravi, precisi e concordanti) che possono fondare la prova dell’origine<br />

criminale del bene in base al più rigoroso standard penalistico della prova, al di sopra di<br />

ogni ragionevole dubbio nel rispetto del principio in dubio pro reo (tanto più il periodo di<br />

acquisizione dei beni è lontano dalla commissione dei fatti accertati tanto più rigorosa<br />

deve essere la prova dell’origine illecita fornita dall’accusa). La possibilità di rinunciare<br />

alla connessione temporale deve essere l’ultima ratio, sempre che si raggiunga una<br />

prova indiziaria dell’origine illecita 149 .<br />

Anche in seguito alle riforme del 2008 e del 2009 delle misure di prevenzione<br />

patrimoniali, del resto, la dottrina 150 e la giurisprudenza di merito continua a chiedere<br />

la correlazione temporale 151 , e in qualche pronuncia anche la Suprema Corte<br />

148 Cass., 12 dicembre 2007 (22 gennaio 2008), Giammanco N. e Mineo V., n. 3413. Cfr. MAUGERI, op. cit.,<br />

189 Id., Profili di legittimità costituzionale delle sanzioni patrimoniali, cit., 39 ss.; Id., Dalla riforma delle misure di<br />

prevenzione patrimoniali alla confisca generale dei beni contro il terrorismo, cit., 425.<br />

149 MAUGERI, Dalla riforma delle misure di prevenzione patrimoniali alla confisca generale dei beni contro il<br />

terrorismo, cit., 473; conforme GIALANELLA, Un problematico punto di vista, cit., 386 s. In tale direzione,<br />

almeno in parte, la Suprema Corte - Cass., 11 dicembre 2008, n. 47798, C. e altro, in www.dejure.it - ha<br />

affermato che «pur rimanendo valido l'insegnamento di questa Corte per cui occorre verificare se i beni da<br />

confiscare siano entrati nella disponibilità del proposto non già anteriormente, ma contestualmente o successivamente<br />

al suo inserimento nel sodalizio mafioso», si ritiene che «la pure innegabile necessità di un nesso temporale tra<br />

manifestazione della pericolosità qualificata ed acquisizione dei beni non va riferita alle risultanze del<br />

processo penale, ma al quadro indiziario posto a base dell'autonomo processo di prevenzione, il cui<br />

“perimetro cronologico” ben può essere diverso da quello del giudizio penale (Cass., Sez. 1, 4 luglio 2007,<br />

Richichi e Vadala; Cass., Sez. 1, 5 ottobre 2006 n. 35481, Gashi) ed addirittura estendersi ai beni acquistati<br />

prima dell'inizio dell'appartenenza ad associazione mafiosa, sempre che essi costituiscano presumibile<br />

frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego, nel senso che esista una chiara connessione dei<br />

beni con un'attività illecita senza che rilevi distinguere se tale attività sia o meno di tipo mafioso (Cass.,<br />

Sez. 1, 15/1/1996, Anzelmo, rv. 204036; Sez. 2, 26/1/1998, Corsa, rv. 211435; Sez. 2, 6/5/1999, Sannino, rv.<br />

213853)». Conforme Cass., 4 luglio 2007, n. 33479, ivi; in tale direzione Cass. 4 febbraio 2010, Quartararo,<br />

Rv. 246084.<br />

150 GIALANELLA, Un problematico punto di vista, cit., 368.<br />

151<br />

Trib. Napoli, sez. app. mis. prev., 6 luglio 2011 (dep.), Pres. ed est. Menditto: “Questo Tribunale (cfr.<br />

decreto n. 276/2010 del 5.11/9.12.10,..), nell’esaminare il tema dell’operatività del principio di applicazione<br />

disgiunta introdotto dal d.l. 92/08, conv. in l. 125/92, ha avuto modo di affermare che deve ritenersi più<br />

rispondente al sistema della prevenzione la necessaria correlazione temporale fra gli indizi di carattere personale<br />

44<br />

316


precisando che “In tema di sequestro preventivo di beni di cui è possibile la confisca, la<br />

presunzione di illegittima acquisizione degli stessi da parte dell'imputato deve essere<br />

circoscritta in un ambito di ragionevolezza temporale, dovendosi dar conto che i beni non siano<br />

"ictu oculi" estranei al reato perché acquistati in un periodo di tempo eccessivamente<br />

antecedente alla commissione di quest'ultimo” 152 . O, comunque, la Suprema Corte, anche<br />

laddove, pur aderendo all’orientamento che richiede la connessione temporale,<br />

ammette che se ne possa prescindere, ribadisce la necessità della prova dell’origine<br />

illecita: “La corte distrettuale invero dimentica che il giudice di legittimità, anche<br />

quando ha teorizzato la non necessità di una contemporaneità cronologica tra<br />

accumulazione di beni e condotte illecite, ha rimarcato la necessità di dar conto se i<br />

beni che si intenda confiscare siano nella disponibilità del proposto in misura<br />

sproporzionata rispetto al reddito e degli stessi non sia stata provata la legittima<br />

provenienza.” Si richiede “un protocollo valutativo che dia contezza: - in primo luogo,<br />

del perché debba ravvisarsi una matrice illecita specifica dei beni confiscati …, anche,<br />

ma non esclusivamente, in ragione dell’epoca della genesi di ognuno di essi” 153 .<br />

La richiesta di una stringente prova dell’origine illecita cerca di delimitare le<br />

conseguenze del sistema che si è delineato con le riforme del 2008 e del 2009, che<br />

consentono di confiscare i beni anche dopo anni dal verificarsi dei presupposti che<br />

fanno rientrare il proposto tra i destinatari delle misure di prevenzione, - la condanna,<br />

un’imputazione, un procedimento di prevenzione, - dando vita a un circuito<br />

sanzionatorio senza fine, in base al quale il soggetto, ormai stigmatizzato 154 , può vedere i<br />

suoi beni sottoposti a un procedimento di prevenzione patrimoniale in qualunque<br />

momento; anche nel caso in esame il proposto aveva già subito, contestualmente al<br />

patteggiamento, la confisca di quote sociali e beni mobili ritenuti in relazione con gli<br />

addebiti a lui contestati, ai sensi dell’art. 12 sexies d.l. 306/’92, e con il procedimento in<br />

esame si vogliono apprendere ulteriori beni 155 .<br />

sull'appartenenza del soggetto ad una associazione di tipo mafioso (ovvero di manifestazione della pericolosità per le<br />

varie categorie di persone nei confronti delle quali è oggi consentita la misura patrimoniale) e l'acquisto dei beni,<br />

dovendo verificarsi se i beni da confiscare siano entrati nella disponibilità del proposto, non già anteriormente, ma<br />

successivamente o almeno contestualmente al suo inserimento nel sodalizio criminoso (ovvero alla manifestazione<br />

della pericolosità). L'organo inquirente deve provare…..3. che il valore dei beni sequestrati sia sproporzionato al<br />

reddito dichiarato o all'attività economica svolta dal proposto, ovvero siano il frutto di attività illecite o ne<br />

costituiscano il reimpiego….Orbene, la lettura coordinata delle suddette norme, pone in evidenza che, per la legge, ciò<br />

che rileva ai fini della confisca, è solo la prova della pericolosità e della illegittima provenienza dei beni (sentenza n.<br />

20906/09)”.<br />

152<br />

Cass., sez. I, 11 dicembre 2012, n. 2634, C. e altro, in www.dejure.it.<br />

153<br />

Cass., sez. VI, 24 febbraio 2011, n. 25341, Meluzio, in www.penalecontemporaneo.it.<br />

154<br />

Cfr. MAUGERI, Dalla riforma delle misure di prevenzione patrimoniali alla confisca generale dei beni contro il<br />

terrorismo, cit., 451: “Una volta “indiziato” il soggetto, il suo patrimonio acquisterà il perenne status di<br />

“mafiosità” o di “sospettato”; si potrà in qualunque momento procedere nei confronti del patrimonio di<br />

un soggetto che nel passato sia stato sottoposto a condanna o a misura di prevenzione”.<br />

155<br />

Cass., sez. V, 13 novembre 2012, n. 14044, O., 5 ; cfr. Cass., sez. V, 28 aprile 2010, n. 22626, che precisa<br />

che “Orbene, la decisione conclusiva del procedimento di prevenzione patrimoniale, L. n. 575 del 1965, ex<br />

art. 2 ter ha effetto preclusivo su un eventuale procedimento, avente ad oggetto gli stessi beni ed in danno<br />

della stessa persona, per la confisca D.L. n. 306 del 1992, ex art. 12 sexies conv. in L. n. 356 del 1992, in<br />

mancanza di deduzione di fatti nuovi modificativi della situazione definita (ad es. Cass., sez. 1^, 18<br />

novembre 2008, n. 44332)”.<br />

45<br />

317


Nonostante tali delimitazioni rimangono, comunque, tutte le perplessità,<br />

avanzate in altra sede, circa la conformità alle garanzie penalistiche di un<br />

procedimento di prevenzione e di una forma di confisca che rischia di trasformarsi in<br />

una vera e propria actio in rem 156 . La sentenza in esame tenta la stessa magia che<br />

vorrebbe realizzare la Proposta di Direttiva nella versione emendata dalla<br />

Commissione LIBE, nel senso che si vorrebbe promuovere l’adozione di un modello di<br />

actio in rem penalistico, rispettoso delle garanzie della materia penale. Anche in tale<br />

Proposta emendata, infatti, in linea con la Risoluzione del Parlamento Europeo del 25<br />

ottobre 2011 157 , si propone l’adozione di una vera e propria actio in rem che consente di<br />

aggredire il patrimonio di origine sospetta indipendentemente dal processo penale in<br />

personam, diversamente dalla versione originaria della Proposta che prevede la<br />

possibilità di applicare la confisca senza condanna solo in alcune ipotesi delimitate in<br />

cui non è possibile procedere in personam perché il reo è deceduto, è affetto da malattia<br />

permanente o quando la fuga o la malattia non consente di agire in tempi<br />

ragionevoli 158 ; e anche in tale Proposta emendata si definisce la confisca senza<br />

condanna come sanzione “penale” e si richiede l’applicazione delle garanzie della<br />

“materia penale” previste dalla CEDU a tale forma di confisca e al relativo<br />

procedimento “giurisdizionalizzato” 159 .<br />

In ogni caso proprio la considerazione che si tratta di una confisca avente<br />

natura sanzionatoria dovrebbe indurre al pieno rispetto della giurisdizionalità del<br />

procedimento in materia, nel rispetto del monopolio del giudice penale 160 . In una<br />

156 MAUGERI, Dalla riforma delle misure di prevenzione patrimoniali alla confisca generale dei beni contro il<br />

terrorismo, cit., 456 ss.; MANGIONE, La confisca di prevenzione dopo i “due” pacchetti-sicurezza, cit., 61 ss.;<br />

D’ASCOLA, Il progressivo sdoppiamento della confisca come risposta dell'ordinamento al fatto-reato e come<br />

strumento di controllo delle manifestazioni sintomatiche di pericolosità «patrimoniale», in BARGI -CISTERNA (a cura<br />

di), La giustizia penale patrimoniale, Torino 2011, 125 – 152, il quale esprime timori per la violazione dei<br />

diritti di difesa e del contraddittorio derivanti dalla separazione delle misure personali dalle patrimoniali;<br />

MIUCCI, Profili di problematicità del procedimento di prevenzione in materia di mafia, in Dir. pen. cont. - Rivista<br />

trimestrale, 2013, I, 182 ss..<br />

157 BALSAMO-LUCCHINI, La risoluzione del 25 ottobre 2011 del Parlamento Europeo: un nuovo approccio al fenomeno<br />

della criminalità organizzata, in questa Rivista, 26 gennaio 2012.<br />

158<br />

Nella versione originaria viene proposta l’adozione di una sorta di procedimento “autonomo” che<br />

consente di aggredire i profitti illeciti solo in specifiche situazioni in cui non sia possibile procedere in<br />

personam, un modello in parte recepito anche in ordinamenti fondamentalmente garantisti come quello<br />

tedesco, che non conoscono l’actio in rem; si richiede che il proprietario sia sospettato o accusato,<br />

escludendo i casi in cui il sospettato non sia identificato, e la Corte deve ritenere che, se l’indagato o<br />

imputato avesse potuto essere processato, il procedimento avrebbe potuto portare ad una condanna<br />

penale, cfr. MAUGERI, La proposta di direttiva UE, cit., 198 ss.; MANGIARACINA, op. cit., 376 la quale evidenzia<br />

i problemi che anche nella versione originaria pone l’actio in rem in relazione alla garanzia del diritto di<br />

difesa personale dell’imputato; Cfr. ECBA, Statement on the Proposal for a Directive of the European Parlament<br />

and of the Council on the Freezing and Confiscation of Proceeds of crime in the European Union, in www.ecba.gov, 5<br />

che è fortemente critico nei confronti della confisca senza condanna, che viola i principi di presunzione<br />

d’innocenza, ne bis in idem e il diritto al pacifico godimento del diritto di proprietà.<br />

159<br />

Cfr. MAUGERI, L’actio in rem assurge a modello di “confisca europea” nel rispetto delle garanzie Cedu?, cit., in<br />

questa Rivista.<br />

160<br />

Cfr. sulla problematicità del procedimento di prevenzione in relazione all’art. 111 Cost. MANGIONE, Le<br />

misure di prevenzione anti-mafia al vaglio dei principi del giusto processo: riflettendo sull’art. 111 Cost., in<br />

CASSANO (a cura di), Le misure di prevenzione patrimoniali dopo il “pacchetto sicurezza”, cit., 20 ss..<br />

46<br />

318


prospettiva di giurisdizionalizzazione del procedimento sarebbe auspicabile che si<br />

avesse il coraggio di sottoporre la proposta della misura di prevenzione patrimoniale<br />

del questore e del Direttore della DIA al filtro del pubblico ministero per evitare<br />

duplicazione di fascicoli e proposte scarsamente fondate. Nel Progetto Fiandaca sulla<br />

riforma delle misure di prevenzione 161 si considerava “titolare dell’azione” solo il<br />

pubblico ministero in un’ottica di giurisdizionalizzazione conforme al principio della<br />

divisione dei poteri.<br />

L’adozione, comunque, delle misure di prevenzione patrimoniali laddove gli<br />

indizi, di appartenenza ad un’organizzazione criminale o di consumazione di altri<br />

crimini, siano talmente risalenti da non comportare più una valutazione di attualità<br />

della pericolosità sociale, nonché l’applicazione delle misure patrimoniali anche in<br />

relazione ai soggetti a pericolosità generica – come esaminato -, finirà per consentire<br />

alle autorità competenti di applicare la confisca in una sorta di vera e propria actio in<br />

rem, in presenza dei meri requisiti indiziari relativi al patrimonio, senza neanche quella<br />

valutazione di attualità della pericolosità sociale che contribuiva a fondare la<br />

presunzione di illecita accumulazione patrimoniale in capo al proposto 162 ; si tratta di<br />

uno strumento problematico laddove si afferma il principio che il patrimonio di<br />

origine criminale in quanto pericoloso o “tainted” (contaminato, come richiesto per il<br />

civil forfeiture), deve essere comunque sottratto al circuito legale anche a scapito dei<br />

diritti dei terzi, con il rischio di sacrificare i principi della materia penale, dal principio<br />

di proporzione, al principio di colpevolezza, alla presunzione d’innocenza.<br />

Il tutto aggravato dalla considerazione che tale sistema di lotta<br />

all’accumulazione illecita non è più ristretto al settore della lotta al crimine<br />

organizzato, ma si estende ai proventi derivanti da qualunque crimine attraverso<br />

l’applicazione ai soggetti a pericolosità generica, con il rischio di diventare uno<br />

strumento “sproporzionato” anche in termini di politica criminale 163 . Sarebbe<br />

auspicabile, come evidenziato in altra sede, che la persecuzione del patrimonio in rem<br />

fosse consentita solo in delle ipotesi limitate, ben tipizzate, per inseguire i patrimoni<br />

illegali anche se per ragioni sostanziali o procedurali il reo non può essere perseguito,<br />

oppure nel senso che, al fine di evitare facili elusioni della disciplina in materia, sia<br />

possibile inseguire questo patrimonio presso i terzi, purché questi non abbiano fornito<br />

una controprestazione e siano in mala fede, salvo il rispetto del principio di<br />

proporzione 164 .<br />

161 Progetto elaborato dalla Commissione ministeriale presieduta dal Prof. Fiandaca, presentato nel marzo<br />

del 2001 al Ministro della giustizia in versione non definitiva.<br />

162 SCARPINATO, op. cit., 254.<br />

163<br />

Cfr. sulla violazione del principio di proporzione, anche in termini di analisi costi – benefici, MAUGERI,<br />

op. cit., 680 SS.; da ultimo EPIDENDIO, La confisca nel diritto penale e nel sistema delle responsabilità degli enti,<br />

Padova 2011, 16.<br />

164<br />

Per una più ampia valutazione della riforma delle misure di prevenzione patrimoniali sia consentito il<br />

rinvio a MAUGERI, Dalla riforma delle misure di prevenzione patrimoniali alla confisca generale dei beni contro il<br />

terrorismo, cit., 456 ss.<br />

47<br />

319


48<br />

320


14044/13<br />

REPUBBLICA ITALIANA<br />

In nome del Popolo Italiano<br />

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE<br />

QUINTA SEZIONE PENALE<br />

Composta da<br />

Gaetanino Zecca - Presidente - Sent. n. sez. 7-5-5`<br />

Antonio Bevere CC - 13/11/2012<br />

Silvana de Berardinis R.G. N. 23585/2012<br />

Grazia Lapalorcia<br />

Paolo Micheli<br />

Relatore<br />

ha pronunciato la seguente<br />

SENTENZA<br />

sul ricorso proposto nell'interesse di<br />

Occhipinti Giuseppe, nato a Paceco il 13/12/1962<br />

avverso il decreto della Corte di appello di Palermo del 12/03/2012<br />

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;<br />

udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Paolo Micheli;<br />

lette le conclusioni del Procuratore generale presso questa Corte, nella persona<br />

del Dott. Gioacchino Izzo, che ha richiesto il rigetto del ricorso<br />

RITENUTO IN FATTO<br />

1. La Corte di appello di Palermo, con il decreto in epigrafe, disponeva il<br />

sequestro e la confisca di un fabbricato e di un terreno intestati a Giuseppe<br />

Occhipinti, in accoglimento di un atto di impugnazione del P.M. avverso un<br />

decreto adottato dal Tribunale di Trapani il 22/03/2011.<br />

321


Il Tribunale, con quella prima decisione, aveva rigettato una richiesta del<br />

Procuratore della Repubblica di Palermo per l'applicazione a carico dell'Occhipinti<br />

di misure di prevenzione personali e patrimoniali, argomentando che il disposto<br />

dell'art. 166, comma secondo, cod. pen. doveva intendersi preclusivo<br />

all'accoglimento dell'istanza nel caso di specie: il proposto, infatti, risultava aver<br />

riportato condanna per il reato di cui all'art. 12 -quinquies d.l. n. 306 del 1992,<br />

aggravato ex art. 7 d.l. n. 152 del 1991, ma con il beneficio della sospensione<br />

condizionale. La previsione di cui al ricordato art. 166 doveva in particolare<br />

essere interpretata, secondo i giudici di prime cure, come ostativa all'adozione<br />

non solo di misure di prevenzione di carattere personale, ma anche di quelle<br />

patrimoniali: ciò nonostante le modifiche apportate al quadro di riferimento<br />

normativa dal c.d. "pacchetto sicurezza" del 2008 (di. n. 92) e 2009 (legge n.<br />

94), con l'introduzione di ipotesi di autonoma percorribilità del procedimento di<br />

prevenzione anche se strumentale all'applicazione di misure patrimoniali<br />

svincolate da una presupposta misura personale. In ogni caso, anche laddove si<br />

fosse inteso aderire ad una contraria esegesi, il Tribunale rilevava che la<br />

condanna riportata dall'Occhipinti era stata pronunciata in epoca antecedente<br />

rispetto alle novelle anzidette, con la conseguente non applicabilità delle norme<br />

oggetto di riforma in relazione all'art. 166 cod. pen., avente natura sostanziale.<br />

La Corte di appello, in accoglimento delle ragioni di gravame avanzate dal<br />

Pubblico Ministero, osservava invece che il citato art. 166 deve interpretarsi nel<br />

senso della non applicabilità di misure di prevenzione che presuppongano un<br />

giudizio di attuale pericolosità, laddove quel giudizio sia stato escluso da una<br />

prognosi favorevole circa la futura regolarità di condotta del soggetto<br />

condannato a pena condizionalmente sospesa: tale presupposto, tuttavia, è<br />

richiesto solamente per le misure di carattere personale, diversamente dalle<br />

misure di prevenzione patrimoniali che - ai sensi dell'art. 2-bis, comma 6 -bis,<br />

legge n. 575 del 1965, comma introdotto dal d.l. n. 92 del 2008, convertito in<br />

legge n. 125 del 2008, e poi modificato dalla legge n. 94 del 2009 - possono<br />

essere oggi applicate disgiuntamente, dunque prescindendo dalla verifica della<br />

perdurante pericolosità del proposto.<br />

Soluzione, questa, in linea con la costante giurisprudenza di legittimità in<br />

tema di autonomia del procedimento di prevenzione reale rispetto all'azione<br />

giudiziaria di prevenzione personale (essendo un patrimonio di origine illecita<br />

"pericoloso in sé", sì da potersi parlare di una vera e propria actio in rem), e<br />

idonea ad evitare irragionevoli disparità di trattamento: ad esempio, fra un<br />

soggetto comunque condannato per fatti costituenti gravi reati, sia pure se con i<br />

benefici di legge, e chi invece risulti collaboratore di giustizia ovvero, per quanto<br />

incensurato, sia l'erede di appartenenti ad associazioni mafiose.<br />

2<br />

322


La Corte sottolineava altresì che il principio di non retroattività della legge<br />

penale sfavorevole, ritenuto dal Tribunale applicabile alla fattispecie e parimenti<br />

invocato dalla difesa del proposto, non poteva intendersi operante se non con<br />

riguardo a norme incriminatrici, e non già a quelle disciplinanti le misure di<br />

prevenzione, per cui occorre tenere conto della normativa in vigore al momento<br />

dell'applicazione, ai sensi dell'art. 200 cod. pen.; né avrebbe potuto assumere<br />

rilievo l'indirizzo giurisprudenziale secondo cui il citato art. 200 deve intendersi<br />

non applicabile all'ipotesi della confisca c.d. "per equivalente", di cui all'art. 322-<br />

ter cod. pen., attesa la natura eminentemente sanzionatoria di tale eccezionale<br />

istituto.<br />

Ergo, «poiché l'applicazione della misura di prevenzione patrimoniale, per<br />

effetto della novella legislativa del 2008, prescinde dall'esistenza di una<br />

pericolosità attuale, ne consegue che ai fini della confisca rileva soltanto il<br />

requisito della illecita modalità di acquisizione, ed è dunque tale presupposto che<br />

deve persistere al tempo dell'applicazione della misura». In base a tale<br />

principio, la Corte di appello ravvisava oggettiva sproporzione fra gli esborsi<br />

necessari all'Occhipinti per l'acquisto dei due beni immobili, di cui il P.M. aveva<br />

sollecitato il sequestro e la confisca, e le condizioni economiche del proposto e<br />

dei suoi familiari: ciò a fronte della pacifica appartenenza dello stesso Occhipinti<br />

all'associazione mafiosa attiva nel trapanese, stando alle circostanze di fatto<br />

acclarate nel processo celebratosi a suo carico, e tenendo conto che gli acquisti<br />

immobiliari risalivano al 2004, dunque ad epoca concomitante o posteriore<br />

rispetto alle condotte già contestategli in sede di giudizio penale.<br />

Ai fini della ricostruzione del reddito di origine lecita del proposto e della di<br />

lui moglie, la Corte evidenziava in particolare l'impossibilità di tenere conto di<br />

redditi da partecipazione in società esercenti attività d'impresa, quanto in<br />

particolare alla Sicil Calcestruzzi S.r.l. (le cui quote, ritenute oggetto di fittizia<br />

intestazione, erano già state confiscate). Escludeva poi la possibilità di<br />

riconoscere valenza dirimente ai dati offerti dalla difesa dell'Occhipinti in ordine<br />

all'attività svolta dal proposto quale titolare di una impresa edile, sia perché gli<br />

importi di maggior rilievo si riferivano al mero volume di affari, sia perché i<br />

redditi segnalati - pari a circa 191.000,00 euro - riguardavano il periodo dal<br />

1989 al 2003, portando così a ricostruire per ciascuna delle annualità cifre<br />

insufficienti a fronteggiare le stesse esigenze di mantenimento del nucleo<br />

familiare.<br />

2. Propone ricorso per cessazione Giuseppe Occhipinti, unitamente al proprio<br />

difensore, deducendo violazione ed erronea applicazione degli artt. 2, 166, 200,<br />

3<br />

323


202 e 203 cod. pen., nonché degli artt. 11 e 12 r.d. n. 262 del 1942, 2-bis legge<br />

n. 575 del 1965, nel testo come da ultimo modificato.<br />

Il ricorrente espone, in punto di corretto inquadramento del problema di<br />

diritto intertemporale ravvisabile nella fattispecie concreta, che soltanto con la<br />

legge n. 94 del 2009, e per la prima volta, è stata introdotta nell'ordinamento la<br />

possibilità di applicare misure di prevenzione patrimoniali indipendentemente<br />

dalla verifica dell'attuale pericolosità sociale del proposto: quest'ultimo requisito,<br />

però, fino al 2009, doveva intendersi immanente alla disciplina sia delle misure<br />

di prevenzione che delle misure di sicurezza, come del resto reso evidente dalla<br />

circostanza che la previsione di cui all'art. 200 cod. pen., dettata appunto in<br />

tema di queste ultime, risultava pacificamente estesa nell'interpretazione<br />

giurisprudenziale anche alle misure di prevenzione, «sulla base del "parallelismo"<br />

tra le due categorie». Perciò, secondo l'Occhipinti, «è il requisito dell'attualità<br />

della pericolosità sociale che ha permesso alla giurisprudenza, sino all'entrata in<br />

vigore della legge n. 94 del 15/07/2009, l'equiparazione delle misure di sicurezza<br />

e di prevenzione ai fini dell'applicabilità alle seconde della disciplina dell'art. 200<br />

cod. pen., dettata per le prime».<br />

Venendo tuttavia meno il necessario presupposto dell'accertamento della<br />

perdurante pericolosità sociale ai fini dell'applicazione di una misura di<br />

prevenzione (patrimoniale), per effetto della più volte ricordata novella, non<br />

sarebbe più possibile affermare l'esistenza del "parallelismo" sopra accennato fra<br />

le due categorie di misure. Se è innegabile che le misure di sicurezza richiedano<br />

ancora detta verifica, dovendosi altresì considerare che l'art. 200 cod. pen.<br />

risulta essere stato sottoposto a positivo scrutinio di legittimità costituzionale<br />

proprio in ragione della «correlazione delle misure alla pericolosità, che è<br />

situazione, per sua natura, attuale» (il ricorrente richiama la sentenza n.<br />

19/1974 e l'ordinanza n. 392/1987 della Corte Costituzionale), ritiene l'Occhipinti<br />

che non sia più legittimo equiparare alle misure di sicurezza le misure di<br />

prevenzione patrimoniali, quanto meno ai fini dell'applicabilità a queste ultime<br />

della previsione ex art. 200 cod. pen.<br />

Ne conseguirebbe, pertanto, l'impossibilità di applicare alla fattispecie<br />

concreta le norme vigenti al momento del provvedimento dispositivo della misura<br />

di prevenzione, bensì quelle in vigore all'epoca delle condotte che si assumono<br />

fondare l'adozione della misura medesima: ciò non solo in base al disposto di cui<br />

all'art. 2 cod. pen., avendo la novella del 2009 comportato quanto meno una<br />

«modifica mediata di una norma di diritto sostanziale quale è l'art. 166 cod.<br />

pen.», ma anche in virtù del principio generale sancito dall'art. 11 delle c.d.<br />

"preleggi", norma che non consente ad una legge di avere effetto retroattivo.<br />

4<br />

324


L'Occhipinti segnala altresì di avere già subito, contestualmente alla<br />

pronuncia ex art. 444 cod. proc. pen. intervenuta nei suoi confronti, la confisca<br />

di quote sociali e beni mobili ritenuti in relazione con gli addebiti a lui contestati,<br />

ai sensi dell'art. 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992, sicché deve ritenersi<br />

Illegittimo ricorrere oggi al diverso istituto di cui all'art. 2-bis della legge n. 575<br />

del 1965 - comunque fondato sugli stessi presupposti - per apprendere beni<br />

ulteriori e del tutto svincolati dai fatti oggetto di quella sentenza.<br />

Rappresenta infine che non vi sarebbe alcuna irragionevole disparità di<br />

trattamento fra le ipotesi enunciate dalla Corte di appello, atteso che una<br />

sentenza di assoluzione non comporta comunque alcun giudizio in termini di<br />

pericolosità sociale (che invece viene espresso, negando l'attuale pericolosità,<br />

laddove ad un soggetto condannato si conceda il beneficio della sospensione<br />

condizionale), mentre non è sufficiente - per consolidata giurisprudenza - avere<br />

intrapreso un percorso di collaborazione con la giustizia per considerare ipso<br />

facto esclusa detta pericolosità.<br />

CONSIDERATO IN DIRITTO<br />

1. Il ricorso è fondato.<br />

1.1 Il Procuratore generale presso questa Corte, per confutare le ragioni<br />

esposte a sostegno dell'impugnazione, argomenta che «per l'art. 166 cod. pen.<br />

la prognosi positiva di emenda, giustificante la concessione del beneficio ex art.<br />

163 cod. pen., osta ad una valutazione di attuale pericolosità sociale del<br />

condannato che sia basata sulla sola sentenza di condanna, ma non inibisce né la<br />

valutazione delle emergenze fattuali risultanti dal processo ai fini di una<br />

incidentale valutazione di pericolosità sociale pregressa, né l'adozione disgiunta<br />

della confisca di prevenzione secondo il regime delle novelle ex leggi nn.<br />

125/2008 e 94/2009, di immediata applicabilità ai sensi dell'art. 200 cod. pen.,<br />

giusta quanto ribadito dalla Cassazione nella sentenza n. 26751/2009».<br />

Aggiunge quindi che «le censure mosse dal ricorrente a tale ultima decisione,<br />

censure in linea con la dottrina che, annotando tale sentenza, ha ricondotto al<br />

paradigma dell'art. 7 della C.E.D.U. la confisca di prevenzione, onde affermare<br />

l'irretroattività di detta novella, non sono fondate, dal momento che per un<br />

consolidato ed ormai risalente orientamento giurisprudenziale [...] la confisca di<br />

prevenzione va ricondotta nell'ambito di quel tertium genus costituito da una<br />

sanzione amministrativa equiparabile, quanto al contenuto ed agli effetti, alla<br />

misura di sicurezza».<br />

325


1.2 L'orientamento giurisprudenziale da ultimo accennato risulta espresso<br />

con la pronuncia delle Sezioni Unite n. 18 del 03/07/1996, Simonelli, che -<br />

nell'affermare la sostanziale equiparazione tra la confisca prevista nell'ambito del<br />

procedimento di prevenzione (nei confronti di persona indiziata di appartenere<br />

ad associazione di tipo mafioso) e la misura di sicurezza di cui all'art. 240,<br />

comma secondo, cod. peri. - aveva sottolineato in particolare la significatività<br />

delle innovazioni conseguenti alla legge n. 646 del 1982, nel prevedere ipotesi di<br />

"pericolosità qualificata" per soggetti indiziati di appartenenza ad associazioni<br />

mafiose, nonché nell'introdurre per la prima volta la possibilità di disporre misure<br />

patrimon la li.<br />

Nella motivazione della richiamata pronuncia si evidenziava che «mentre in<br />

tema di sorveglianza speciale di p.s., di obbligo di soggiorno e di imposizione di<br />

una cauzione, ci si muove sicuramente nell'ambito giuridicamente riconducibile<br />

alle finalità vere e proprie di misure preventive [...] e che alla stessa categoria<br />

può essere senz'altro ricondotto il previsto provvedimento di sequestro, attesa la<br />

natura cautelare, propria dello stesso, non altrettanto può dirsi avuto riguardo<br />

alla confisca. La devoluzione allo Stato dei beni confiscati, prevista dalla legge 4<br />

agosto 1989 n. 282 (art. 4) e le finalità indiscutibilmente "ablative" dei<br />

corrispondenti provvedimenti, non consentono, invece, di qualificare gli stessi, in<br />

senso tecnico/giuridico, quali misure di prevenzione, aggiunte a quelle,<br />

specificamente previste, quali "personali": e ciò al di là delle formali espressioni<br />

adoperate dal legislatore. Trattasi, invero, ad avviso del collegio, di improprietà<br />

lessicali, rispetto all'effettivo contenuto normativo, non idonee come tali a<br />

modificare la natura del provvedimento di confisca - di carattere sicuramente<br />

"ablatorio" - in una "misura di prevenzione" in senso tecnico ed a condizionare<br />

pertanto l'interprete. Il che, a fortiori va detto, se si ha presente la ratio posta a<br />

base delle specifiche disposizioni in materia, dirette, come si ritiene in modo<br />

pressoché concorde, ad eliminare dal circuito economico beni provenienti da<br />

attività che, a seguito degli accertamenti disposti, devono ritenersi ricollegate<br />

alla ritenuta appartenenza del soggetto ad un'associazione di tipo mafioso.<br />

La confisca, invero, è prevista nell'ambito dello specifico procedimento di<br />

prevenzione: ne segue, in linea di massima, le regole; ha per presupposto la<br />

pericolosità del soggetto-destinatario di misure di prevenzione vere e proprie,<br />

ancorché non eseguite o non eseguibili; è diretta, peraltro, a differenza della<br />

misura di prevenzione personale (o di quella patrimoniale, avuto riguardo alla<br />

cauzione) a sottrarre "i beni", in via definitiva, alla disponibilità dell'indiziato di<br />

appartenenza ad associazione di tipo mafioso: ancorché tale risultato sia<br />

conseguibile solo all'esito definitivo della prevista procedura. Su questi<br />

presupposti, pertanto, è esatto che non si può prescindere dalla valutazione<br />

6<br />

326


obiettiva di una concreta pericolosità - ancorché su base indiziaria - ma è<br />

altrettanto vero che, accertato definitivamente che il soggetto che direttamente<br />

o indirettamente dispone dei "beni", ha un reddito o un'attività economica<br />

sproporzionati al reddito dichiarato e si ha giustificato motivo di ritenere quindi,<br />

anche a seguito delle indagini effettuate, che gli stessi siano frutto di attività<br />

illecite o ne costituiscano il reimpiego, la confisca diventa obbligatoria. A meno<br />

che (art. 2-ter comma 41 legge 575/1965), non sia dimostrata la loro legittima<br />

provenienza».<br />

Sulla base dei presupposti appena illustrati, le Sezioni Unite chiarivano la<br />

portata della sussunzione della confisca de qua nell'ambito di una generica<br />

categoria di sanzioni amministrative parificabili - per contenuto ed effetti - alla<br />

misura di sicurezza di cui al ricordato art. 240 cpv. cod. pen.: sottolineavano<br />

altresì, in proposito, «che la ratio sottesa ai provvedimenti in esame - adottabili<br />

nell'ambito del procedimento di prevenzione - siccome diretta a colpire beni e<br />

proventi di natura presuntivamente illeciti (sussistendo ovviamente i presupposti<br />

di legge) per "escluderli dal cosiddetto circuito economico", si ricollega, seppur<br />

con un ambito di estensione non identico, alle ipotesi previste dal citato art. 240<br />

cod. pen., cpv. nn. 1 e 2 che, come è noto, prescindono dalla condanna - da<br />

un'affermazione di responsabilità accertata in sede penale - con la conseguente<br />

applicabilità anche nel caso di proscioglimento, quale che sia la formula (art. 205<br />

cod. pen.)».<br />

Le Sezioni Unite segnalavano quindi che «anche avuto riguardo alle misure<br />

amministrative di sicurezza in senso stretto - previste e disciplinate dal codice<br />

penale dagli artt. 199 a 240 - dottrina e giurisprudenza hanno sempre<br />

concordato, con particolare riferimento alla confisca, che tale istituto non si<br />

presenta sempre con identica natura e configurazione, ma assume<br />

caratteristiche peculiari in relazione alle diverse finalità che la legge le attribuisce<br />

e che, di conseguenza a misura tende a realizzare. È pertanto applicabile,<br />

prescindendo anche dall'accertamento di una specifica responsabilità penale -<br />

ove i presupposti in fatto siano ricollegabili ad una violazione di detto tipo - col<br />

solo rispetto del principio di legalità (art. 25, comma 3, Cost.): imponendosi<br />

soltanto in ogni caso, che il provvedimento sia espressamente previsto da una<br />

norma di legge [..]. D'altra parte, l'assoluta autonomia dei due procedimenti -<br />

penale e di prevenzione - comporta la possibilità di applicazione dei<br />

provvedimenti, personali e/o patrimoniali, anche in contrasto con le conclusioni<br />

cui possa pervenire il giudizio penale: e ciò, sia per diversità dei presupposti, sia<br />

per la valenza diversa che la legge assegna agli elementi sulla cui base le singole<br />

procedure vengono definite».<br />

7<br />

327


Passando quindi ad affrontare il problema specificamente portato<br />

all'attenzione del massimo organo di nomofilachia, perché oggetto del contrasto<br />

determinante l'ordinanza di rirnessione ex art. 618 cod. proc. pen. (se la confisca<br />

di prevenzione dovesse intendersi caducata in caso di decesso del destinatario<br />

della misura), le Sezioni Unite concludevano che «anche il venire meno del<br />

proposto - una volta che siano rimasti accertati ai fini specifici della speciale<br />

legislazione in materia i presupposti di pericolosità qualificata (nel senso di<br />

indiziato di appartenenza ad un'associazione di tipo mafioso) e di indimostrata<br />

legittima provenienza dei beni oggetto di confisca - non fa venir meno<br />

quest'ultima misura, posto che le finalità perseguite dal legislatore, non<br />

prescindono, né potrebbero, dalla "preesistenza" del soggetto, e neppure<br />

possono ritenersi necessariamente legate alla sua "persistenza in vita": fra<br />

l'altro, si pensi che il decesso potrebbe avvenire anche per cause non naturali o<br />

accidentali e che detto evento potrebbe essere deliberatamente perseguito da<br />

terzi proprio al fine di "riciclare i beni", facendoli così, rientrare proprio nel<br />

"circuito dell'associazione di tipo mafioso", seppur, anche questa volta,<br />

attraverso l'interposizione di soggetti diversi. E non pare dubbio che una<br />

interpretazione della normativa in esame che consentisse, con la caducazione<br />

della confisca a seguito della morte del proposto, il risultato ora prospettato, si<br />

porrebbe in aperto contrasto con la precisa volontà espressa dal legislatore nel<br />

perseguire e reprimere il fenomeno mafioso».<br />

1.3 Nelle due massime ufficiali dell'altra pronuncia che il Procuratore<br />

generale segnala nella propria requisitoria scritta (n. 26751 del 26/05/2009, De<br />

Benedittis) si legge che «le misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e<br />

della confisca sono applicabill, a seguito della novella dell'art. 11-ter d.l. 23<br />

maggio 2008 n. 92, convertito nella legge 24 luglio 2008 n. 125, a tutti coloro<br />

che siano abitualmente dediti a traffici delittuosi o che vivano abitualmente,<br />

anche in parte, con i proventi di attività delittuose» (Rv 244789) e che «la<br />

richiesta di revoca ex tunc della confisca disposta nel procedimento di<br />

prevenzione deve essere esaminata in riferimento alla legge vigente al momento<br />

della decisione, sicché, entrato in vigore il d.l. 92 del 2008, conv. dalla legge n.<br />

125 del 2008, il mantenimento della misura patrimoniale è reso legittimo dalla<br />

pericolosità generica del soggetto, connessa alla sua appartenenza alle categorie<br />

previste dall'art. 1 nn. 1 e 2 della legge 27 dicembre 1956 n. 1423, ancorché sia<br />

stata esclusa la sua pericolosità qualificata ai sensi dell'art. 1 della legge 31<br />

maggio 1965 n. 575» (Rv 244790). Come si legge in motivazione, la seconda<br />

delle statuizioni affermate (riportata anche nel corpo del decreto della Corte di<br />

appello di Palermo, oggetto dell'odierno ricorso) si fonda sul rilievo che «in<br />

materia di confisca di prevenzione trova applicazione il principio della<br />

a<br />

8<br />

328


applicazione della legge attuale, fissato dall'art. 200 cod. pen. in relazione alle<br />

misure di sicurezza; sicché, in materia di revoca ex tunc della confisca Li, se<br />

per la peculiarità dello scrutino di revisione la verifica dell'accertamento della<br />

pericolosità resta ancorata al riferimento temporale costituito dalla data di<br />

originaria applicazione della misura di prevenzione patrimoniale, tuttavia - sul<br />

piano normativo - deve aversi riguardo alla legge vigente al momento della<br />

decisione sulla richiesta di revoca».<br />

2. A ben guardare, si tratta tuttavia di argomentazioni che non possono<br />

assumere rilievo decisivo nella fattispecie concreta, perché in entrambe le<br />

pronunce diffusamente richiamate in precedenza si conferisce rilievo centrale al<br />

tema della pericolosità (attuale, presunta, generica e/o pregressa) quale<br />

presupposto per dare corso a misure di prevenzione; il caso oggi in esame, si<br />

ribadisce, è invece caratterizzato dalle seguenti peculiarità:<br />

- all'Occhipinti risulta essere stata applicata ex art. 444 cod. proc. pen. la<br />

pena di anni 1 e mesi 9 di reclusione, con il beneficio della sospensione<br />

condizionale, per il delitto di cui agli artt. 12 -quinquies d.l. n. 306 del<br />

1992 e 7 d.l. n. 152 del 1991;<br />

- la sentenza in questione reca la data del 27/05/2009, antecedente<br />

rispetto all'entrata in vigore della legge n. 94 dello stesso anno (emanata<br />

il 15 luglio), novella che per la prima volta ha introdotto nell'ordinamento<br />

il principio secondo cui le misure di prevenzione patrimoniali possono<br />

essere disposte prescindendo dalla verifica del requisito dell'attualità della<br />

pericolosità sociale del proposto;<br />

l'art. 2, comma 22, della legge appena ricordata prevede infatti che si<br />

possa dare corso a misure di prevenzione patrimoniali<br />

"indipendentemente dalla pericolosità sociale del soggetto proposto per la<br />

loro applicazione al momento della richiesta della misura di prevenzione";<br />

- il problema della attuale pericolosità sociale dell'Occhipinti (vuoi accertata<br />

in concreto, vuoi da presumere sulla base di elementi eventualmente<br />

correlati alla peculiare contestazione di reato a lui già mossa) non viene in<br />

alcun modo in rilievo, non risultando affatto esaminato dalla Corte<br />

territoriale.<br />

2.1 Come già ricordato, la norma di cui all'art. 166, comma 2, cod. pen.<br />

prescrive che la condanna a pena condizionalmente sospesa non può comunque<br />

costituire ex se motivo per l'applicazione di misure di prevenzione: si tratta di<br />

previsione che, afferendo alla disciplina di cause di estinzione del reato, ha<br />

certamente natura sostanziale, e che viene oggi a trovare un'eccezione - di cui<br />

occorre chiedersi se abbia valenza retroattiva, attesa l'anzidetta natura<br />

9<br />

329


sostanziale - limitatamente a quelle misure di prevenzione patrimoniali che<br />

possono essere disposte a carico di determinati soggetti a prescindere dalla<br />

verifica della loro attuale pericolosità sociale, requisito che permane invece<br />

quanto alla potenziale applicabilità di misure di prevenzione di carattere<br />

personale.<br />

In particolare, ai sensi degli artt. 1 e 2-ter, comma 2, della legge 31 maggio<br />

1965, n. 575, può essere disposto il sequestro di beni riferibili a indiziati di<br />

appartenenza ad associazioni di tipo mafioso e (a seguito delle modifiche<br />

introdotte all'art. 1 dal d.l. n. 92 del 2008, convertito in legge n. 125 del 2008) a<br />

indiziati di uno dei delitti di cui all'art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. ovvero<br />

(a seguito della modifica introdotta dalla legge n. 94 del 2009) del delitto di cui<br />

all'art. 12-quinquies, comma 1, del d.l. n. 306 del 1992, cioè dell'ipotesi<br />

criminosa contestata in concreto all'Occhipinti; il sequestro potrà riguardare quei<br />

beni di cui i soggetti appena ricordati risultino disporre, direttamente o<br />

indirettamente, quando il valore degli stessi risulti sproporzionato al reddito<br />

dichiarato o all'attività economica svolta ovvero quando, sulla base di adeguata<br />

verifica, si ritenga che derivino da attività illecita o costituiscano il reimpiego dei<br />

frutti di tale attività.<br />

Va poi rilevato che, per effetto delle modifiche apportate dalla legge n. 125<br />

del 2008 all'art. 2-bis, comma 6-bis, della legge n. 575 del 1965, le misure<br />

patrimoniali possono applicarsi, ricorrendone i presupposti ai sensi dell'art. 2-ter,<br />

commi 2 e 3, anche laddove non vi sia spazio per una misura personale. La<br />

possibilità di applicazione di misure di prevenzione patrimoniali, disgiunta da<br />

misure personali, pone tuttavia non pochi problemi interpretativi, soprattutto alla<br />

luce del consolidato orientamento giurisprudenziale - già in parte ricordato -<br />

secondo il quale in tema di misure di prevenzione non è invocabile il principio di<br />

irretroattività della legge penale previsto dagli artt. 25 Cost. e 2 cod. pen.,<br />

giacché le norme in materia sarebbero informate non già ai principi che<br />

riguardano le pene bensì a quelli concernenti le misure di sicurezza. Troverebbe<br />

così applicazione il disposto dell'art. 200 cod. pen., che per le misure di sicurezza<br />

stabilisce una regolamentazione in base alla legge in vigore al tempo della loro<br />

applicazione.<br />

2.2 La ratio della più volte affermata equiparabilità tra misure di sicurezza e<br />

misure di prevenzione, ai fini qui in esame, deriva dalla presa d'atto della natura<br />

e della funzione delle seconde, da applicarsi non già quale diretta conseguenza di<br />

un determinato fatto (come accade invece per le pene, da ricollegare a fatti che<br />

costituiscano reato), bensì avuto riguardo alla condotta di vita del proposto, tale<br />

da farne desumere quella attuale pericolosità sociale che è pacificamente il<br />

fondamento per dare corso a misure di sicurezza, ex art. 202 cod. pen. E'<br />

lo<br />

330


dunque innegabile che, in tanto esiste una possibilità di equiparazione fra le due<br />

tipologie di misura, in quanto se ne individui un comune presupposto nella<br />

verifica della perdurante pericolosità del soggetto che ne sia destinatario: una<br />

pericolosità che dovrà comunque sussistere (sia pure se affermata in base a<br />

presunzioni) nel momento in cui il giudice della prevenzione sia chiamato a<br />

provvedere, proprio perché è ad una pericolosità in atto che la legge -<br />

eventualmente, anche sopravveniente - mira a porre rimedio.<br />

Ergo, se si deve esprimere un giudizio di pericolosità sociale nei confronti del<br />

proposto, è necessario che questo intervenga al momento della decisione, anche<br />

se le ragioni fondanti il giudizio vengano ad essere desunte da comportamenti e<br />

fatti risalenti nel tempo. Ed è sempre in base a quel giudizio che potrà avere un<br />

senso la conseguente regola dell'applicabilità della legge in tema di misure di<br />

prevenzione patrirrioniali anche a cespiti di cui il proposto abbia acquisito la<br />

disponibilità prima della sua entrata in vigore.<br />

2.3 Già a questo punto, però, non è chi non veda come il percorso<br />

argomentativo appena illustrato incontri un limite non valicabile, laddove di quel<br />

giudizio di attuale pericolosità sociale si possa fare a meno, ed una misura di<br />

prevenzione (patrimoniale) possa essere disposta anche prescindendo da una<br />

tale verifica.<br />

Se infatti non è più richiesto - come oggi non si chiede, e come in effetti la<br />

Corte di appello di Palermo ha ritenuto non necessario accertare con riguardo<br />

all'Occhipinti - che il proposto in sede di procedimento di prevenzione sia<br />

persona socialmente (ed attualmente) pericolosa, non sembra possibile ricavare<br />

regole formali per la disciplina di quel procedimento da una norma - l'art. 200<br />

cod. pen. - che fonda la sua ragion d'essere proprio su quell'indefettibile<br />

presupposto: come correttamente osserva il ricorrente, «è il requisito<br />

dell'attualità della pericolosità sociale che ha permesso alla giurisprudenza, sino<br />

all'entrata in vigore della legge n. 94 del 15 luglio 2009, l'equiparazione delle<br />

misure di sicurezza e di prevenzione ai fini dell'applicabilità alle seconde della<br />

disciplina dell'art. 200 cod. pen., dettata per le prime [...). Ed è sulla base del<br />

requisito dell'attualità della pericolosità sociale che l'art. 200 cod. pen. ha<br />

superato il vaglio della Corte Costituzionale, la quale con sentenza n. 19 del<br />

1974 prima e con ordinanza n. 392 del 1987 poi, ha chiarito che la legittimità<br />

dell'art. 200 cod. pen. si fonda proprio su tale requisito, sicché inconferente è il<br />

richiamo alla ritenuta retroattività delle misure di sicurezza "attesa la<br />

correlazione delle misure alla pericolosità, che è situazione, per sua natura,<br />

attuale"».<br />

Nulla quaestio, in altre parole, per la coerenza rispetto al sistema normativa<br />

di un'interpretazione estensiva dell'art. 200 cod. pen., riconoscendone la portata<br />

11<br />

331


fino a consentirne l'applicazione alle misure di prevenzione personali, il cui<br />

presupposto rimane pur sempre l'accertata pericolosità sociale del proposto, sia<br />

pure se diversamente delineata a seconda delle categorie soggettive disegnate<br />

dai vari testi normativi succedutisi nel tempo (leggi nn. 1423 del 1956, 575 del<br />

1965, 110 del 1977, 125 del 2008): ma l'accennata coerenza si smarrisce<br />

inesorabilmente nel momento in cui viene a discutersi di misure di prevenzione<br />

patrimoniali che non richiedono alcun accertamento di pericolosità nel momento<br />

della loro applicazione.<br />

2.4 Al più, si potrebbe sostenere che l'opzione legislativa nel biennio 2008-<br />

2009 sia volta ad ammettere per le misure di prevenzione patrimoniali la<br />

possibilità di derogare al presupposto di una pericolosità sociale attuale, pur<br />

sempre richiedendosi un accertamento di pericolosità pregressa, come peraltro si<br />

può desumere dalla previsione dell'applicabilità di una misura patrimoniale, entro<br />

un dato ambito temporale, anche dopo la morte del soggetto. Ma se può<br />

apparire ragionevole che il decorso del tempo o comunque la cessazione della<br />

pericolosità del soggetto, fattori che determinerebbero l'impossibilità di disporre<br />

misure personali a suo carico, risultino inidonei ad autorizzare il mantenimento<br />

del possesso di beni da lui acquisiti quando pericoloso lo era (ferme restando le<br />

già segnalate indicazioni della Corte Costituzionale secondo cui la nozione di<br />

pericolosità può avere un senso solo se riferita all'attualità), non altrettanto è a<br />

dirsi in punto di individuazione delle norme che dovrebbero regolare quella<br />

misura patrimoniale, qualora si tratti di leggi entrate in vigore quando della<br />

stessa pericolosità pregressa già non vi era più traccia.<br />

Sono ancora una volta le Sezioni Unite di questa Corte a ricordare che «nel<br />

corso del procedimento di prevenzione, il giudice di merito è legittimato a<br />

servirsi di elementi di prova o di tipo indiziario tratti da procedimenti penali,<br />

anche se non ancora definiti con sentenza irrevocabile, e, in tale ultimo caso,<br />

anche a prescindere dalla natura delle statuizioni terminali in ordine<br />

all'accertamento della responsabilità. Sicché, pure l'assoluzione, anche se<br />

irrevocabile, dal delitto di cui all'art. 416-bis cod. pen., non comporta la<br />

automatica esclusione della pericolosità sociale, potendosi il relativo scrutinio<br />

fondare sia sugli stessi fatti storici in ordine ai quali è stata esclusa la<br />

configurabilità di illiceità penale, sia su altri fatti acquisiti o autonomamente<br />

desunti nel giudizio di prevenzione. Ciò che rileva, si è osservato, è che il<br />

giudizio di pericolosità sia fondato su elementi certi, dai quali possa<br />

legittimamente farsi discendere l'affermazione dell'esistenza della pericolosità,<br />

sulla base di un ragionamento immune da vizi, fermo restando che gli indizi sulla<br />

cui base formulare il giudizio di pericolosità non devono necessariamente avere i<br />

caratteri di gravità, precisione e concordanza richiesti dall'art. 192 cod. proc.<br />

12<br />

332


pen. [...]. Nella medesima linea, d'altra parte, si è collocata pure la Corte<br />

Europea dei Diritti dell'Uomo, la quale (Grande Camera, 1 marzo - 6 aprile 2000,<br />

Labita c. Italia) ha ritenuto non in contrasto con i principi della CEDU il fatto che<br />

le misure di prevenzione "siano applicate nei confronti di individui sospettati di<br />

appartenere alla mafia anche prima della loro condanna, poiché tendono ad<br />

impedire il compimento di atti criminali"; mentre "il proscioglimento<br />

eventualmente sopravvenuto non le priva necessariamente di ogni ragion<br />

d'essere: infatti, elementi concreti raccolti durante un processo, anche se<br />

insufficienti per giungere ad una condanna, possono tuttavia giustificare dei<br />

ragionevoli dubbi che l'individuo in questione possa in futuro commettere dei<br />

reati penali". Il tutto in linea con "le profonde differenze, di procedimento e di<br />

sostanza" che è possibile intravedere tra le due sedi, penale e di prevenzione: "la<br />

prima ricollegata a un determinato fatto-reato oggetto di verifica nel processo, a<br />

seguito dell'esercizio della azione penale; la seconda riferita a una complessiva<br />

notazione di pericolosità, espressa mediante condotte che non necessariamente<br />

costituiscono reato e che sono [...] verificate in un procedimento che, pur se<br />

giurisdizionalizzato, vede quali titolari dell'"azione" di prevenzione soggetti<br />

diversi, appartenenti all'amministrazione" (v. Corte cost., sentenza n. 275 del<br />

1996)» (Cass., Sez. U, n. 13426 del 25/03/2010, Cagnazzo).<br />

Non c'è dubbio che anche per la Corte europea (v. ad esempio la sentenza<br />

22 febbraio 1994, Raimondo c. Italia), la misura di prevenzione abbia<br />

connotazioni assai diverse da quelle della sanzione penale, avendo non già<br />

funzione repressiva: non di meno, in tutte le pronunce emesse dalla<br />

giurisprudenza sovranazionale in tema di confisca di prevenzione si afferma,<br />

oltre alla non necessità di una precedente condotta costituente reato, la<br />

doverosità di accertare la pericolosità del soggetto che ne sia destinatario, quale<br />

presupposto giustificativo di un intervento ablatorio - sia pure non di carattere<br />

penale - strumentale alla tutela di pubblici interessi.<br />

Presupposto che risulta immanente anche nelle recenti massime di questa<br />

Corte che, pure in epoca successiva alle innovazioni introdotte dal "pacchetto<br />

giustizia" del 2008-2009, continuano a sostenere l'applicabilità dell'art. 200 cod.<br />

pen. alle misure di prevenzione patrimoniali: è stato infatti affermato, a<br />

proposito dello ius superveniens rappresentato dal disposto di cui all'artt. 11 -ter<br />

legge n. 125 del 2008, che «secondo il costante orientamento della<br />

giurisprudenza, la confisca non ha natura di pena sui generis o di pena<br />

accessoria, ma di misura di sicurezza; con la conseguenza che ad essa non si<br />

applica il principio di irretroattività della legge penale, sancito dall'art. 2 cod.<br />

pen. e art. 25 Cost., ma quello della legge vigente al momento della decisione,<br />

fissato dall'art. 200 cod. pen. [...]. Ciò comporta che le misure di prevenzione, al<br />

13<br />

333


pari delle misure di sicurezza, possono essere applicate anche se previste da<br />

legge successiva al sorgere della pericolosità sociale, in quanto la misura di<br />

prevenzione non presuppone un fatto specifico costituente reato, ma concerne<br />

uno stato di pericolosità attuale, alla quale la legge intende porre rimedio»<br />

(Cass., Sez. VI, n. 11006 del 20/01/2010, Cannone).<br />

E' allora ben evidente che il quadro deve necessariamente mutare, in punto<br />

di applicazione dell'art. 200 cod. pen., laddove lo stato di pericolosità attuale sia<br />

escluso dalla concessione del beneficio della sospensione condizionale o da altri<br />

fattori, come pure laddove un problema di pericolosità (attuale, presunta o<br />

pregressa) non si ponga tout court: e nel caso oggi in esame la Corte territoriale<br />

ha chiaramente fondato le proprie argomentazioni sulla presa d'atto che della<br />

pericolosità dell'Occhipinti non potesse affatto discutersi, e se ne potesse anzi<br />

prescindere proprio in base alle modifiche introdotte con il pacchetto sicurezza<br />

del 2008-2009.<br />

Non è infatti suscettibile di smentita il rilievo che nella fattispecie concreta la<br />

Corte di appello di Palermo non ha ritenuto attualmente pericoloso l'Occhipinti,<br />

né ha espresso valutazioni su una sua pericolosità pregressa, sia pure sulla base<br />

degli stessi elementi che erano emersi nel processo celebrato a suo carico e che<br />

comunque aveva portato all'applicazione di una pena soggetta a benefici. Se ne<br />

ha chiara riprova nella constatazione, parimenti evidenziata dal ricorrente, che il<br />

P.M. aveva impugnato il decreto del Tribunale di Trapani solo con riguardo al<br />

rigetto della misura di prevenzione patrimoniale, e non anche in ordine a quella<br />

personale la cui praticabilità era da escludersi - secondo lo stesso appellante -<br />

proprio in ragione del disposto dell'art. 166, comma 2, cod. pen., «difettando<br />

l'attualità della pericolosità sociale».<br />

3. Deve conclusivamente ritenersi che, a partire dal luglio 2009, sia<br />

senz'altro possibile disporre una misura di prevenzione patrimoniale pure in<br />

difetto del presupposto di una attuale pericolosità sociale del soggetto<br />

destinatario della misura: tuttavia, laddove quel presupposto manchi, la norma<br />

non potrà che regolare fattispecie realizzatesi dopo l'entrata in vigore della<br />

stessa, non trovando applicazione il disposto dell'art. 200 cod. pen. (la cui<br />

operatività si fonda invece su un accertamento di pericolosità in atto) ma la<br />

generale previsione di cui all'art. 11 delle preleggi.<br />

3.1 La giurisprudenza di questa Corte conosce già, del resto, situazioni in cui<br />

è stata affermata l'impossibilità di ritenere applicabile il citato art. 200 a peculiari<br />

fattispecie di misure di prevenzione patrimoniale: si è infatti ritenuto che «la<br />

confisca per equivalente - prevista dal comma decimo dell'art. 2-ter della I. n.<br />

575 del 1965, così come novellato dall'art. 10, comma primo, lett. d), n. 4 del<br />

14<br />

334


d.l. n. 92 del 2008, conv. in legge n. 125 del 2008 - assume i tratti distintivi di<br />

una vera e propria sanzione, tale da impedire l'applicabilità ad essa del principio<br />

generale della retroattività delle misure di sicurezza, sancito dall'art. 200 cod.<br />

pen.» (Cass., Sez. I, n. 11768 del 28/02/2012, Barilari, Rv 252297).<br />

La pronuncia risulta richiamata anche dalla Corte di appello di Palermo, che<br />

ha ritenuto di non poterne trarre indicazioni dirimenti, attesa la natura<br />

eccezionale dell'istituto della c.d. "confisca per equivalente"; va tuttavia<br />

considerato quanto si legge nella motivazione della sentenza, secondo cui «la<br />

giurisprudenza costituzionale [...1, muovendo dalla premessa che la inserzione<br />

della pena e della misura di sicurezza nell'ambito di una categoria unica (quella<br />

generale di sanzione, intesa come reazione dell'ordinamento alla inosservanza<br />

della norma) non ha eliminato i caratteri particolari dei due mezzi di tutela<br />

giuridica, l'uno (la pena) costituente una reazione contro un fatto avvenuto,<br />

propria della pena, e l'altro (la misura di sicurezza) rivolto ad impedire fatti di cui<br />

si teme il verificarsi nel futuro (sentenza n. 53 del 1968), ha fatto discendere<br />

altre fondamentali note differenziali tra i due mezzi di tutela giuridica. Tra di<br />

esse, in particolare, rileva, ai fini che qui interessano, la scelta di individuare la<br />

norma valida per la misura di sicurezza, diversamente da quanto previsto per la<br />

pena, in quella del tempo della sua applicazione. è in questa prospettiva che<br />

viene spiegata la diversa formulazione dei commi secondo e terzo dell'art. 25<br />

Cost., giacché soltanto per la pena vale il cosiddetto principio di stretta legalità,<br />

per il quale nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia<br />

entrata in vigore prima del fatto commesso, mentre le misure di sicurezza sono<br />

regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione. A giustificare la<br />

ritenuta retroattività delle misure di sicurezza è la finalità, loro propria, di<br />

assicurare una efficace lotta contro il pericolo criminale, finalità che potrebbe<br />

richiedere che il legislatore, sulla base di circostanze da esso discrezionalmente<br />

valutate, preveda che sia applicata una misura di sicurezza a persone che hanno<br />

commesso determinati fatti prima sanzionati con la sola pena (o con misure di<br />

sicurezza di minore gravità). In altri termini, tale retroattività risulta connaturata<br />

alla circostanza che le misure di sicurezza (in particolare quelle personali)<br />

costituiscono strumenti preordinati a fronteggiare uno stato di accertata<br />

pericolosità. Muovendo da tali premesse generali, la giurisprudenza<br />

costituzionale e la dottrina hanno sottolineato la necessità di un controllo non<br />

solo nominale, ma anche contenutistico degli strumenti qualificati dal legislatore<br />

come misure di sicurezza, costituenti una reazione ad un fatto criminoso. Ciò, al<br />

fine di impedire che risposte di segno repressivo, e quindi con i caratteri propri<br />

delle pene in senso stretto, si prestino ad essere qualificate come misure di<br />

sicurezza, con la conseguenza di eludere il principio di irretroattività valido per le<br />

15<br />

335


pene. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha, a sua volta, sottolineato che la<br />

necessità di scongiurare un surrettizio aggiramento delle garanzie individuali che<br />

gli artt. 6 e 7 riservano alla materia penale comporta che la distinzione relativa<br />

alla natura penale o meno di un illecito e della relativa sanzione si fondi non solo<br />

sul criterio della qualificazione giuridico-formale attribuita nel diritto nazionale,<br />

ma anche su altri due parametri, costituiti dall'ambito di applicazione della<br />

norma che lo preveda e dallo scopo della sanzione. Dalla giurisprudenza della<br />

Corte di Strasburgo, formatasi in particolare sull'interpretazione degli artt. 6 e 7<br />

della CEDU, si ricava, pertanto, il principio secondo il quale tutte le misure di<br />

carattere punitivo-aflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della<br />

sanzione penale in senso stretto. Tale principio è desumibile dall'art. 25 Cost.,<br />

comma 2, che, attesa l'ampiezza della sua formulazione ("nessuno può essere<br />

punito...") - può essere interpretato nel senso che ogni intervento sanzionatorio<br />

il quale non abbia prevalentemente la funzione di prevenzione criminale (e quindi<br />

non sia riconducibile - in senso stretto - a vere e proprie misure di sicurezza), è<br />

applicabile soltanto se la legge che lo prevede risulti già vigente al momento<br />

della commissione del fatto sanzionato [...]. In tale contesto è possibile<br />

affermare che la confisca per equivalente, che può riguardare beni che, oltre a<br />

non avere alcun rapporto con la pericolosità individuale del reo, neppure hanno<br />

alcun collegamento diretto con il singolo reato [...] e la cui ratio è quella di<br />

privare il reo di un qualunque beneficio economico derivante dall'attività<br />

criminosa, anche di fronte all'impossibilità di aggredire l'oggetto principale, nella<br />

convinzione della capacità dissuasiva e disincentivante di tale strumento, assume<br />

i tratti distintivi di una vera e propria sanzione Li, tale da impedire<br />

l'applicabilità a tale misura patrimoniale del principio generale della retroattività<br />

delle misure di sicurezza, sancito dall'art. 200 cod. pen.».<br />

3.2 Se dunque i parametri da valutare sono quelli appena evidenziati, non<br />

sembra azzardato affermarne la pertinenza anche per le misure di prevenzione<br />

patrimoniali diverse dalla confisca per equivalente.<br />

Vero è che, secondo una pronuncia di questa Sezione (n. 18822 del<br />

23/03/2007, Cangialosi, Rv 236920), «è illegittimo il provvedimento con cui il<br />

giudice dispone la confisca sui beni del preposto senza verificare se essi siano<br />

entrati nella sua disponibilità successivamente o almeno contestualmente al suo<br />

inserimento nel sodalizio criminoso, considerato che, a tali fini, non è sufficiente<br />

la sussistenza di indizi di carattere personale sull'appartenenza del soggetto ad<br />

una associazione di tipo mafioso, implicante una latente e permanente<br />

pericolosità sociale, ma occorre che vi sia correlazione temporale tra tale<br />

pericolosità e l'acquisto di detti beni»; si tratta tuttavia di un precedente isolato,<br />

atteso che ancora in epoca successiva la giurisprudenza di questa Corte è<br />

6<br />

336


tornata ad affermare che «è legittima la confisca, disposta ai sensi dell'art. 2-ter<br />

della legge 31 maggio 1965 n. 575 (disposizioni contro la mafia), di beni<br />

acquistati dal sottoposto alla sorveglianza speciale di P.S. anche in epoca<br />

anteriore o successiva alla situazione di accertata pericolosità soggettiva,<br />

trattandosi di misura di sicurezza atipica, con la preminente funzione di togliere<br />

dalla circolazione quei beni che, al di là del dato temporale, sono stati acquisiti al<br />

patrimonio del prevenuto in modo illecito» (Cass., Sez. II, n. 25558 del<br />

16/04/2009, Di Salvo, Rv 244150).<br />

Principi a cui ha manifestato adesione anche la Sezione Quinta, rivedendo<br />

recentemente l'orientamento sopra evidenziato: la sentenza n. 27228 del<br />

21/04/2011 (Tic. Cuozzo, Rv 250917) ha ribadito che «in tema di misure di<br />

prevenzione antimafia, sono soggetti a confisca anche i beni acquisiti dal<br />

proposto, direttamente od indirettamente, in epoca antecedente a quella cui si<br />

riferisce l'accertamento della pericolosità, purché ne risulti la sproporzione<br />

rispetto al reddito ovvero la prova della loro illecita provenienza da qualsivoglia<br />

tipologia di reato».<br />

Nella motivazione di quest'ultima sentenza si espone che la chiara<br />

formulazione dell'art. 2-ter della legge n. 575 del 1965 «non consente dubbi in<br />

ordine all'assoggettabilità a confisca sia dei beni il cui valore risulti<br />

sproporzionato alla capacità reddituale del proposto sia dei beni che risultino<br />

essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. Il perspicuo tenore<br />

letterale non consente una lettura combinata [...], nel senso, cioè, che il<br />

parametro della sproporzione debba coesistere con la rilevata provenienza illecita<br />

degli stessi beni. L'uso della congiunzione "nonché" con riferimento a due<br />

distinte categorie di beni suscettivi di ablazione (beni il cui valore sia<br />

sproporzionato e beni rispetto ai quali sia positivamente accertato essere frutto<br />

di attività illecita ovvero reimpiego), non lascia adito a dubbi di sorta in<br />

proposito. Il legislatore non ha prescritto per la confisca da prevenzione alcun<br />

nesso di pertinenzialità con una determinata tipologia di illecito, ma ha<br />

consentito una generalizzata apprensione di beni solo che sia accertato il<br />

presupposto della pericolosità sociale del proposto, siccome appartenente ad<br />

organizzazione delinquenziale, sulla base di un dato presuntivo che quei beni, in<br />

valore sproporzionato, non siano stati legittimamente acquisiti. E per quanto<br />

riguarda il dato temporale, è ius receptum, alla stregua di consolidata<br />

interpretazione di questo giudice di legittimità, che siano soggetti a confisca<br />

anche i beni acquisiti dal proposto, direttamente od indirettamente, in epoca<br />

antecedente a quella cui si riferisce l'accertamento della pericolosità, purché<br />

risulti una delle condizioni anzidette, ossia la sproporzione rispetto al reddito<br />

ovvero la prova della loro illecita provenienza da qualsivoglia tipologia di reato<br />

17<br />

337


Li. È vero, dunque, che per dettato normativo la pericolosità sociale del<br />

proposto finisce con l'estendersi al suo patrimonio; ciò in quanto l'accertata<br />

appartenenza a consorteria organizzata riflette uno stile di vita la cui origine non<br />

si è ritenuto che possa farsi coincidere con la data del riscontro giudiziario,<br />

essendo, evidentemente, maturato - per precise scelte esistenziali - anche in<br />

epoca antecedente, sia pure non determinata. Si tratta, certamente, di misura<br />

draconiana, la cui severità si giustifica, però, in ragione delle precipue finalità<br />

della legislazione antimafia, e specialmente dell'obiettivo strategico di colpire,<br />

anche con evidenti finalità deterrenti, l'intero patrimonio - ove di ritenuta<br />

provenienza illecita - degli appartenenti a consorterie criminali, posto che<br />

l'accumulo di ricchezza costituisce, comunemente, la ragione primaria - se non<br />

esclusiva - di quell'appartenenza. Il limite di operatività della detta misura, che<br />

la rende compatibile con i principi costituzionali, segnatamente con il rispetto del<br />

valore della proprietà privata, presidiato dall'art. 42 Cost., e con la normativa<br />

comunitaria, è costituito dalla riconosciuta facoltà per il proposto di fornire la<br />

prova della legittima provenienza dei suoi beni. Il sistema resta così affidato<br />

alla dinamica di una presunzione, temperata, nondimeno, dalla facoltà della<br />

controprova, che attribuisce al meccanismo presuntivo la connotazione della<br />

relatività, rendendolo così del tutto legittimo nel quadro di una interpretazione<br />

costituzionalmente orientata».<br />

Anche la confisca di prevenzione, perciò, sembra poter legittimamente<br />

riguardare beni privi di concreto collegamento con i fatti giustificativi della<br />

misura, ed ispirarsi alla generale finalità di escludere che un soggetto possa<br />

ricavare qualsivoglia beneficio economico da attività illecite: appare dunque<br />

arduo, almeno con riferimento ad ipotesi in cui la misura di prevenzione<br />

patrimoniale possa addirittura svincolarsi da un necessario accertamento di<br />

attuale pericolosità sociale del proposto, continuare ad escluderne una natura<br />

oggettivamente sanzionatoria.<br />

P. Q. M.<br />

Annulla l'impugnato decreto, senza rinvio.<br />

Così deciso il 13/11/2012.<br />

Il Consigliere estensore<br />

lo Mi<br />

li<br />

Il Presidente<br />

nino Zecca<br />

338


IL SINDACATO DEL GIUDICE PENALE SUGLI ATTI AMMINISTRATIVI<br />

NELL’ABUSO D’UFFICIO E NEI REATI EDILIZI<br />

di Francesco Prete<br />

Abstract. Il delitto di abuso di ufficio ed i reati edilizi sono stati oggetto, negli ultimi anni,<br />

di attenta e approfondita analisi da parte della Suprema Corte di Cassazione. Nell’articolo<br />

che segue si riportano i contenuti del dibattito, le principali linee interpretative e gli approdi<br />

finora raggiunti. Nell’ultima parte si analizza la questione dei limiti del sindacato del<br />

giudice penale derivanti dal giudicato amministrativo, soffermandosi sui termini del<br />

problema, sugli arresti giurisprudenziali e sulla tendenza al superamento dei limiti stessi.<br />

SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Il sindacato giurisdizionale nell’abuso d’ufficio. – 3. Il sindacato nei reati<br />

edilizi. – 4. I limiti al sindacato sui titoli edilizi: in particolare l’effetto preclusivo del giudicato<br />

amministrativo.<br />

1. Introduzione<br />

Il tema del sindacato del giudice penale sugli atti amministrativi ha radici<br />

storiche lontane e strette connessioni con il diritto costituzionale degli stati moderni.<br />

Trova la sua genesi storica nel pensiero illuministico ed in particolare nel<br />

principio del primato della legge, rispetto alla quale, tutti, anche il sovrano ed il suo<br />

apparato esecutivo, devono essere subordinati.<br />

Corollario del principio è che gli atti del potere esecutivo devono essere<br />

sottoposti al controllo di legalità, affidato alla giurisdizione. I giudici sono i tutori del<br />

primato della legge e vegliano affinché questa sia rispettata dagli organi dell’esecutivo.<br />

In Italia il principio diventa diritto positivo con la legge n. 2248 del 1865,<br />

abolitrice del contenzioso amministrativo che, agli articoli 4 e 5, prevede la<br />

disapplicazione degli atti amministrativi che abbiano illegittimamente sacrificato un<br />

diritto soggettivo.<br />

Da allora quella del sindacato del giudice ordinario sugli atti<br />

dell’amministrazione è un storia di rapporti di forza tra potere esecutivo e giudiziario.<br />

Una traccia lampante della tensione tra i due poteri è rinvenibile nel percorso<br />

legislativo di una figura di reato, l’abuso d’ufficio, scandito da interventi tesi ora a<br />

estendere ora a limitare i poteri di accertamento del giudice penale sull’azione<br />

amministrativa.<br />

Via Serbelloni, 1 | 20122 MILANO (MI) | Telefono: 0289283000 | Fax: 0292879187 | redazione@penalecontemporaneo.it<br />

Editore Luca Santa Maria | Direttore Responsabile Francesco Viganò<br />

2010-2012 Diritto Penale Contemporaneo<br />

339


Allo stesso modo, in tema di reati edilizi, due impostazioni del tutte lontane fra<br />

loro si contendono il campo. Da un lato quella assolutamente rispettosa del principio di<br />

separazione dei poteri e delle prerogative della pubblica amministrazione; dall’altro<br />

quella favorevole ad un penetrante controllo giudiziario per la tutela sostanziale di un<br />

bene irrinunciabile, quale il territorio.<br />

C’è un filo che lega i due argomenti: tanto nell’abuso d’ufficio, quanto nei reati<br />

edilizi, la giurisprudenza ha ravvisato una lacuna normativa nelle rispettive fattispecie<br />

e ha ritenuto di doverla colmare per giungere ad una interpretazione compatibile con<br />

l’interesse tutelato dalla legge.<br />

Il risultato lascia perplessi coloro che ritengono che, così operando, la Suprema<br />

Corte di legittimità abbia fatto giurisprudenza additiva, introducendo elementi<br />

estranei al dettato normativo e giungendo ad una interpretazione praeter legem.<br />

Su tutt’altra linea coloro che pensano che il giudice di legittimità abbia<br />

doverosamente optato per una interpretazione costituzionalmente orientata, guidata<br />

dalla bussola del bene giuridico da proteggere e da individuare secondo i principi della<br />

carta fondamentale.<br />

Il risultato finale, nell’abuso come nei reati edilizi, è che le fattispecie delineate<br />

nelle norme si completano con il diritto vivente della Corte di Cassazione che poi<br />

diventa diritto vivente tout court.<br />

Uno sguardo all’evoluzione della giurisprudenza, nell’uno come nell’altro<br />

tema, pare necessario per comprendere i punti focali del dibattito, gli approdi attuali e<br />

le possibili prospettive.<br />

2. Il sindacato giurisdizionale nell’abuso d’ufficio<br />

La storia di questa figura di reato è troppo complessa per essere qui accennata 1 .<br />

Conviene prendere le mosse dall’ultimo intervento riformatore del 1997, allorquando si<br />

conferì alla fattispecie una nuova struttura con l’obiettivo di delimitare l’ambito del<br />

controllo del giudice penale sull’attività amministrativa.<br />

Un breve cenno ai lavori preparatori può servire per ricordare quale fosse la<br />

direttrice su cui il riformatore si muoveva.<br />

La dottrina richiedeva a gran voce una maggiore tassatività della fattispecie<br />

astratta, tacciata di eccessiva genericità nella descrizione della condotta.<br />

Dal canto suo, la giurisprudenza di merito, con alcune improvvide applicazioni,<br />

aveva fornito il destro per “alzare le barricate” contro le eccessive ingerenze della<br />

magistratura nella sfera di autonomia della pubblica amministrazione.<br />

Il legislatore si convinse della necessità di intervenire per «evitare che il giudice<br />

penale potesse sottoporre a controllo l’attività discrezionale della pubblica<br />

amministrazione […] e ribadire l’esclusione della possibilità che il giudice penale<br />

1<br />

Per una recente panoramica, MERLI, Il controllo di legalità dell’azione amministrativa e l’abuso d’ufficio, in<br />

questa Rivista, 16 novembre 2012.<br />

2<br />

340


sottoponga ad esame l’eccesso di potere, per evitare che possa invadere il campo della<br />

pubblica amministrazione» 2 .<br />

Tale ultima esigenza fu sottolineata con la formulazione della nuova norma che<br />

poneva al centro della fattispecie una condotta «in violazione di norme legge o di<br />

regolamento», con ciò portando i commentatori della prima ora a ritenere ormai chiaro<br />

che al giudice penale fosse del tutto precluso il sindacato sull’eccesso di potere.<br />

La riforma in certo senso travolse il pensiero della più attenta dottrina 3 e<br />

l’orientamento della Corte di Cassazione la quale, già nel 1992, aveva statuito che «per<br />

aversi abuso d’ufficio nel caso che l’atto sia viziato da incompetenza o da violazione di<br />

legge, occorre pur sempre che vi sia lo sviamento di potere, potendo costituire i primi<br />

due solo un sintomo di detto sviamento di potere» 4 .<br />

Tuttavia, in ossequio al principio sancito nell’art. 101 Cost., la giurisprudenza di<br />

legittimità, subito dopo l’entrata in vigore della nuova norma, si adeguò alla lettera<br />

della stessa e già con la sentenza Tosches 5 considerò necessaria l’individuazione di una<br />

norma di legge che puntualmente imponesse un comportamento al pubblico<br />

funzionario 6 , con esclusione di quelle norme meramente programmatiche o di<br />

principio o aventi rilievo solo procedimentale 7 .<br />

A fronte di una generale condivisione circa la necessità che il comportamento<br />

del p.u. fosse espressamente previsto da una specifica disposizione di legge o di<br />

regolamento, si levarono alcune voci critiche 8 secondo le quali un’interpretazione<br />

letterale della norma l’avrebbe svuotata di contenuto, finendo per renderla<br />

difficilmente applicabile. Si disse che l’abuso d’ufficio è ontologicamente un esercizio<br />

del potere al di fuori dello schema per cui il potere è stato attribuito e per finalità<br />

contrastanti con quelle della legge, sicché il suo nucleo essenziale sta nell’eccesso di<br />

potere o in quella sua pregnante figura sintomatica che è lo sviamento di potere.<br />

Escluderne l’accertamento da parte del giudice penale avrebbe comportato<br />

un’ingiustificata restrizione dell’area del penalmente rilevante. La strumentalizzazione<br />

2<br />

Così On. Marotta in Sintesi dei lavori parlamentari, a cura di DALIA, in AAVV, Modifica dell’abuso d’ufficio e le<br />

nuove norme sul diritto di difesa. Commento, Milano, 1997.<br />

3<br />

Cfr. PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte speciale, Vol. I, Delitti contro la pubblica amministrazione, 2008,<br />

223, secondo cui l’abuso di potere in un atto discrezionale si traduce sempre in un atto viziato da eccesso<br />

di potere, in quanto l’abuso di potere in un atto discrezionale comporta sempre uno sviamento di potere<br />

dalla causa tipica per la quale il potere stesso è stato conferito al pubblico ufficiale; FIANDACA-MUSCO,<br />

Diritto penale. Parte generale, 2010, 87 ss.<br />

4<br />

Cass., Sez. VI, 14 gennaio 1992, n. 9588, Baccalini, in C.E.D. Cass. n. 191851.<br />

5<br />

Cass. Pen., Sez. II, nr. 877/1997, Tosches, in Cass. pen 1998, 2332 ss.<br />

6<br />

Cass., Sez. VI, 24 settembre 2001, 45261, Nicita, in C.E.D. Cass. n. 220935.<br />

7<br />

Cfr. Sez. VI, 20 febbraio 2003, n. 34049, Massari, in C.E.D. Cass. n. 226748; Sez. VI, 11 ottobre 2005, n.<br />

12769, Fucci, in C.E.D. Cass. n. 233730, secondo la quale «Non è idonea a rendere configurabile la<br />

violazione di legge rilevante ai fini dell'integrazione del delitto di abuso d'ufficio la sola inosservanza di<br />

norme di principio o di quelle genericamente strumentali alla regolarità dell'azione amministrativa».<br />

8 PAGLIARO, L’antico problema dei confini tra eccesso di potere e abuso d’ufficio, in Dir. Pen. Proc., 1999, n. 1, 107;<br />

PADOVANI, Commento all’art.1 legge 16 luglio 1997, in La Legge penale 1997, 234; GROSSO, Condotte ed eventi nel<br />

delitto di abuso di ufficio, in Foro It., 1999, V, 334; SEGRETO-DE LUCA, I delitti dei pubblici ufficiali contro la<br />

pubblica amministrazione, Milano, 1999.<br />

3<br />

341


dell’ufficio per scopi personali o comunque estranei alla ragione per la quale il potere è<br />

stato attribuito rappresenta l’in sé del reato e limitarsi ad un raffronto letterale tra la<br />

condotta in concreto ed una regola di comportamento significherebbe enfatizzare il<br />

rispetto della legalità formale a scapito di quella sostanziale.<br />

Il rischio di “premiare i farisei e punire i pubblicani” è in effetti ampiamente<br />

rappresentato da quella casistica giurisprudenziale ricca di pubblici funzionari<br />

formalmente rispettosi del dictum della legge, ma in realtà abili nella pratica dei<br />

favoritismi (per sé o per altri) o delle vessazioni. E allora, se l’evento da sanzionare è<br />

l’ingiusto profitto o l’ingiusto danno, accontentarsi di una verifica sul rispetto formale<br />

della legalità vuol dire andare incontro a risultati inappaganti per eccesso o per<br />

difetto 9 .<br />

Per eccesso tutte le volte in cui il comportamento è contrastante con norme a<br />

presidio della sola regolarità formale; per difetto allorquando il comportamento sia<br />

formalmente conforme a legge, ma in realtà teso a realizzare fini ad essa estranei.<br />

Il dibattito si sviluppò, quindi, sull’elemento normativo della «violazione di<br />

legge», interpretato in senso stretto da chi intendeva restringere il sindacato del giudice<br />

penale e in senso lato dai fautori di un controllo più penetrante.<br />

Nei primi anni, come detto, la giurisprudenza si attenne al dato letterale,<br />

finendo per escludere il sindacato giurisdizionale sul cattivo uso del potere<br />

discrezionale e quindi sul profilo teleologico della norma violata, in quanto rientrante<br />

nell’ambito dell’eccesso di potere, precluso al giudice ordinario.<br />

Ben presto l’orientamento dovette fare i conti con l’idea di quanto<br />

insoddisfacente fosse questo approccio e di quanto importante fosse restituire al<br />

giudice penale la potestà di valutare se la condotta del p.u. fosse in contrasto (non con<br />

la lettera della norma, ma) con le finalità della legge, concretando così un eccesso di<br />

potere, ovvero fosse connotata da un uso del potere in assenza dei presupposti<br />

legittimanti, concretando in particolare uno sviamento di potere.<br />

La Suprema Corte, pochissimi anni dopo la riforma, cominciò a sostenere con<br />

forza questa seconda linea e anche se all’inizio non si spinse al punto di affermare<br />

espressamente che pure l’eccesso di potere poteva essere sindacato, tuttavia sviluppò<br />

gradualmente una giurisprudenza che ha rimesso al centro dell’indagine del giudice<br />

proprio lo sviamento di potere, ragionando in termini di salvaguardia di una norma<br />

che, interpretata diversamente, avrebbe perso la sua ragion d’essere.<br />

Un passaggio fondamentale per affermare questa linea interpretativa è la non<br />

sovrapponibilità della locuzione «violazione di legge», contenuta nell’art. 323 c.p.,<br />

rispetto all’omonimo vizio dell’atto amministrativo.<br />

La violazione di norme di legge posta a fondamento di un abuso penalmente<br />

rilevante, vuol dire violazione di legge in senso lato, in grado di ricomprendere ogni<br />

9 FORLENZA, La violazione di legge assume rilievo penale solo se non è di carattere formale; commento a Cass.,<br />

Sez. II, 4 dicembre 1997, Tosches, in Guida al diritto, 1998, n. 9, 67 ss.<br />

4<br />

342


possibile vizio dell’atto, e quindi anche l’eccesso di potere e la sua figura interna dello<br />

sviamento, ossia la violazione della causa tipica dell’atto amministrativo 10 .<br />

La «violazione di legge», intesa quale uno dei tre vizi dell’atto amministrativo, è<br />

un’altra cosa, una categoria del diritto amministrativo, tanto che una mera illegittimità<br />

dell’atto non potrebbe di per sé sola integrare un abuso di ufficio, ma semmai solo un<br />

suo presupposto.<br />

I commentatori critici della riforma hanno avuto buon gioco a sostenere questa<br />

tesi, considerato che l’abuso può pacificamente realizzarsi non soltanto con un formale<br />

atto amministrativo, ma anche attraverso gli strumenti civilistici con i quali oggi agisce<br />

la pubblica amministrazione, o mediante una condotta materiale, addirittura omissiva.<br />

Riferire quindi un vizio dell’atto amministrativo ad un comportamento<br />

materiale del p.u. o ad un rapporto civilistico è un non senso, e allora non resta che<br />

disancorare quella locuzione dal significato tradizionale di vizio tipico dell’atto<br />

amministrativo. Ciò significa, a maggior ragione, non leggerla “ad escludendum”<br />

rispetto all’altro vizio tipico dell’eccesso di potere, come pure avevano proposto i<br />

compilatori della nuova norma del 323 c.p. per rimarcare la preclusione del sindacato<br />

del giudice penale sulla discrezionalità della p.a.<br />

D’altra parte la più attenta dottrina amministrativistica aveva messo in luce che<br />

in definitiva anche l’eccesso di potere è una violazione di legge poiché frustrare le<br />

finalità di una norma vuol dire già violarla.<br />

Tale tesi ha tratto linfa dall’evoluzione che la legislazione in materia sta<br />

subendo negli ultimi anni.<br />

Un esempio plastico di questa sfumatura di confini tra i tradizionali vizi<br />

dell’atto amministrativo si rinviene nella legge nr. 241 del 1990 che, agli articoli 3 e 7,<br />

ha tradotto in violazione di legge quelle che prima erano due classiche figure<br />

sintomatiche di eccesso di potere: la mancanza o illogicità della motivazione e il difetto<br />

di istruttoria. Entrambe possono essere un elemento spia di uno sviamento di potere in<br />

vista di un fine extra istituzionale e per questo il legislatore ha dettato regole precise a<br />

presidio della effettiva partecipazione del privato al procedimento e della trasparenza<br />

della decisone adottata.<br />

Con questi interventi legislativi diventa definitivamente chiaro che il giudice<br />

penale ha la potestà di scandagliare l’istruttoria e/o la motivazione dell’atto per<br />

ricavare elementi di valutazione del comportamento del pubblico funzionario.<br />

Oggi la giurisprudenza penale di legittimità è ferma su queste posizioni e<br />

proprio in tema di abuso d’ufficio ha sviluppato un orientamento che ammette il<br />

sindacato del giudice penale sull’eccesso di potere o quanto meno sulla sua figura<br />

sintomatica dello sviamento.<br />

Gli approdi sono nel senso che il nucleo del reato è l’abuso della funzione,<br />

frutto della distanza tra i fini normativamente predisposti e quelli realmente<br />

conseguiti. Il bene giuridico protetto dalla norma dell’art. 323 c.p. – che non può essere<br />

10 ABRUZZESE-ZUBALLI, Il metodo del bilanciamento nel diritto amministrativo, Roma, 2011, 98 ss.<br />

5<br />

343


solo il rispetto della legalità formale – sta nel corretto esercizio del potere, da realizzare<br />

in presenza dei presupposti di attribuzione dello stesso e per il perseguimento di fini<br />

istituzionali.<br />

Un’enunciazione ricorrente nelle sentenza della S.C. è che «il delitto di abuso di<br />

ufficio è configurabile non solo quando la condotta si ponga in contrasto con il<br />

significato letterale, o logico-sistematico di una norma di legge o di regolamento, ma<br />

anche quando la stessa contraddica lo specifico fine perseguito dalla norma attributiva<br />

del potere esercitato per realizzare uno scopo personale od egoistico, o comunque<br />

estraneo alla P.A., concretandosi in uno “sviamento” produttivo di una lesione<br />

dell’interesse tutelato dalla norma incriminatrice» 11 .<br />

Per la Suprema Corte «il legislatore della novella non ha inteso limitare la<br />

portata applicativa dell’art. 323 c.p. ai casi di violazione di legge in senso stretto,<br />

avendo voluto far rientrare anche le altre situazioni che integrano un vizio dell’atto<br />

amministrativo: dunque, anche le ipotesi di eccesso di potere, configurabili laddove vi<br />

sia stata oggettiva distorsione dell'atto dal fine di interesse pubblico che avrebbe<br />

dovuto soddisfare; e quelle di sviamento di potere, riconoscibili se il potere pubblico è<br />

stato esercitato al di fuori dello schema che ne legittima l’attribuzione (in questo senso<br />

Sez. Un., n. 155 del 29/09/2011, Rossi, Rv. 251498)» 12 .<br />

Entrano quindi dalla porta quelle figure sintomatiche di cui si è detto e che si<br />

pongono sul confine tra l’eccesso di potere e la violazione di legge.<br />

Risulta evidente che il giudice penale, allarmato da una motivazione illogica o<br />

irragionevole, potrà sindacarla per verificare se essa nasconda un fine contrario a<br />

quello per il quale il potere è stato attribuito.<br />

Allo stesso modo accadrà quando l’allerta è rappresentata da un difetto di<br />

istruttoria che spesso connota un procedimento viziato non soltanto sotto il profilo<br />

procedurale, ma anche sotto quello funzionale, tutte le volte in cui un difetto di<br />

istruttoria nasconda l’intento di escludere dal procedimento questo o quel<br />

concorrente 13 .<br />

11<br />

In questo senso Cass., Sez. Un., 29 settembre 2011, n. 155, Rossi in C.E.D. Cass. n. 251498; Sez. VI, 12<br />

dicembre 2001, n. 1229, Bocchiotti, in C.E.D. Cass. n. 220649; Sez. VI, 11 giugno 2008, n. 37172, Gatto, in<br />

C.E.D. Cass. n. 240932; Sez. VI, 11 marzo 2005, n. 12196, Delle Monache, in C.E.D. Cass. n. 231194; Sez. VI,<br />

25 settembre 2009, n. 41402, D’Agostino, in C.E.D. Cass. n. 245287; Sez. VI, 24 febbraio 2000, n. 4881,<br />

Genazzani, in C.E.D. Cass. n. 220519; Sez. VI, 19 maggio 2004, n. 28389, Ventrella, in C.E.D. Cass. n. 229594;<br />

Sez. VI, 22 settembre 2003, n. 41918, Pannullo, in C.E.D. Cass. n. 226926; Sez. VI, 18 ottobre 2006, n. 38965,<br />

Fiori, in C.E.D. Cass. n. 235277; Sez. V, 16 giugno 2010, n. 35501, De Luca, in C.E.D. Cass. n. 248496; Sez. VI,<br />

5 luglio 2011, n. 35597, Barbera, in C.E.D. Cass. n. 250779.<br />

12<br />

Così Cass., Sez. VI, 12 giugno 2012, n. 25180, D’Emma, in C.E.D. Cass. n. 253118.<br />

13<br />

Cfr. Sez. VI, 12 febbraio 2008, n. 25162, Sassara, in C.E.D. Cass. n. 2239892, secondo cui «è idoneo ad<br />

integrare la violazione di legge, rilevante ai fini della sussistenza del reato di abuso di ufficio,<br />

l’inosservanza da parte del pubblico impiegato del dovere di compiere una adeguata e completa istruttoria<br />

diretta ad accertare ricorrenza delle condizioni per il rilascio del provvedi memento richiesto»; nello stesso<br />

senso Sez. VI, 14 giugno 2007, n. 37531, Serione, in C.E.D. Cass. n. 238027; Sez. VI, 7 aprile 2005, n. 18149,<br />

Fabbri, in C.E.D. Cass. n. 231341.<br />

6<br />

344


La medesima giurisprudenza di legittimità si è dovuta confrontare con un’altra<br />

questione, strettamente connessa alla prima, chiedendosi se, in mancanza<br />

dell’individuazione di una specifica norma violata, la violazione del principio di<br />

imparzialità, sancito dall’articolo 97 della Costituzione, possa bastare ad integrare<br />

l’elemento normativo.<br />

Il problema frequentemente sorge dalla difficoltà pratica per i giudici di merito,<br />

e prima ancora per i pubblici ministeri, di individuare, ai fini di una corretta<br />

imputazione, la specifica disposizione di legge violata. Il compito è arduo tutte le volte<br />

in cui il p.u. abbia esercitato un potere che la legge gli attribuisce, ma fuori dagli<br />

schemi tipici e con l’intento di realizzare ingiusti vantaggi o danni.<br />

Esempio classico è quello del dirigente che per favorire ovvero discriminare un<br />

suo subordinato ha adottato soluzioni organizzative in apparenza conformi a legge, ma<br />

in realtà dettate dall’intento di “premiare” qualcuno o “punire” qualcun altro. Se la<br />

condotta dovesse essere riguardata sotto il profilo della stretta legalità formale,<br />

probabilmente l’atto sarebbe immune da censura; se al giudice penale, si riconosce<br />

invece, il potere di sindacare il motivo vero che ha indotto quel dirigente a conferire<br />

posizioni di vantaggio al proprio favorito ovvero emarginare il dipendente scomodo, il<br />

risultato processuale potrà essere del tutto opposto, pervenendosi ad un giudizio di<br />

affermazione di responsabilità per violazione del principio di imparzialità 14 .<br />

Come si è sopra ricordato, all’indomani della riforma del 1997, la<br />

giurisprudenza di legittimità aveva escluso che la violazione di norme di principio e<br />

meramente programmatiche, come quella dell’art. 97 Cost., potesse rilevare per la<br />

configurazione del reato di abuso di ufficio, ritenendo necessario individuare una<br />

norma specifica che prescrivesse una precisa regola di comportamento per il<br />

funzionario pubblico 15 .<br />

Nel solco dell’impostazione “sostanzialistica”, la successiva giurisprudenza ha<br />

rovesciato l’orientamento precedente, sostenendo che la norma dell’art. 97 Cost. ha una<br />

natura programmatica se riferita all’aspetto organizzativo della pubblica<br />

amministrazione e ha invece una portata precettiva quando si rivolge direttamente agli<br />

organi amministrativi prescrivendo loro l’obbligo di imparzialità nei rapporti con i<br />

cittadini.<br />

La norma costituzionale, nella sua parte immediatamente precettiva, vieta ad<br />

ogni pubblico funzionario, nell’esercizio delle sue funzioni, di usare il potere che la<br />

legge gli conferisce per compiere deliberati favoritismi e procurare vantaggi ingiusti<br />

ovvero per realizzare discriminazioni e quindi procurare ingiusti danni 16 .<br />

14<br />

Cfr., in tema, Cass., Sez. VI, 12 febbraio 2008, n. 25162, Sassara, in C.E.D. Cass. n. 2239892; Cass., Sez. VI,<br />

14 giugno 2012, n. 41215, R.C. e Artibani, in C.E.D. Cass. n. 253804.<br />

15<br />

Cfr. Cass., Sez. VI, 20 febbraio 2003, n. 34049, Massari, in C.E.D. Cass. n. 226748; Cass., Sez VI, 11 ottobre<br />

2005, n. 12769, Fucci, in C.E.D. Cass. n. 233730.<br />

16<br />

Cass., Sez. VI, 14 giugno 2012, n. 41215, R.C. e Artibani, in C.E.D. Cass. n. 253804; Cass., Sez. VI, 12<br />

febbario 2011, n. 27453, Acquistucci, in C.E.D. Cass. n. 250422; Cass., Sez. II, 10 giugno 2008, n. 35048,<br />

Massucci, in C.E.D. Cass. n. 243183.<br />

7<br />

345


«L’imparzialità amministrativa, intesa come divieto di favoritismi ha i caratteri ed i<br />

contenuti precettivi richiesti dall’art. 323 c.p., in quanto impone all’impiegato o al<br />

funzionario pubblico, una vera propria regola di comportamento, di immediata<br />

applicazione» 17 .<br />

Più di recente, per sgomberare il campo dalle residue resistenze di chi si<br />

oppone a questa “lettura” dell’art. 97 Cost., la Suprema Corte ha ribadito che «in tema<br />

di abuso di ufficio, per gli amministratori degli enti locali il dovere di imparzialità trae<br />

fondamento, oltre che, in via generale, dall'ʹart. 97 Cost., anche dall’art. 78 D.Lgs. n. 267<br />

del 2000 (Testo Unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), per cui la sua<br />

inosservanza integra il requisito della violazione di legge rilevante ai fini della<br />

configurabilità del reato» 18 .<br />

Ancora una volta quella che potrebbe essere considerata una figura sintomatica<br />

dell’eccesso di potere – la disparità di trattamento – diventa violazione di legge e<br />

quindi in ogni caso sindacabile dal giudice penale.<br />

In conclusione può dirsi che, non senza fatica, la giurisprudenza della Suprema<br />

Corte è giunta ad affermare che il giudice penale ha la potestà di sindacare anche<br />

l’eccesso e lo sviamento di potere in quanto rientranti nella più generale locuzione di<br />

violazione di legge, che va valutata non solo in senso formale, ma anche sotto il profilo<br />

teleologico. Se questo viene frustrato, la legge è per ciò solo violata ed il giudice penale<br />

non può esimersi dal dovere di accertalo e sanzionarlo.<br />

3. Il sindacato nei reati edilizi<br />

Il problema del sindacato del giudice penale sui titoli abilitativi in campo<br />

edilizio nasce nelle aule giudiziarie intorno agli anni ottanta e trova la sua genesi nella<br />

17<br />

Così Cass., Sez. VI, 12 febbraio 2008, n. 25162, Sassara, in C.E.D. Cass. n. 2239892; nello stesso senso<br />

Cass., Sez. VI, 12 giugno 2012, n. 25180, D’Emma, in C.E.D. Cass. n. 253118, secondo cui «anche nell'art. 97<br />

Cost. che pur detta principi di natura programmatica, è individuabile un residuale significato precettivo<br />

relativo all’imparzialità dell’azione amministrativa e, quindi, un parametro di riferimento per il reato di<br />

abuso d’ufficio. L’imparzialità a cui fa riferimento l’art. 97 Cost. consiste, infatti, nel divieto di favoritismi,<br />

nell’obbligo cioè per la Pubblica Amministrazione di trattare tutti i soggetti portatori di interessi tutelati<br />

alla stessa maniera, conformando logicamente i criteri oggettivi di valutazione alle differenziate posizioni<br />

soggettive. In sostanza, il principio d’imparzialità, se riferito all'aspetto organizzativo della Pubblica<br />

Amministrazione, ha certamente una portata programmatica e non rileva ai fini della configurabilità del<br />

reato di abuso d’ufficio, in quanto detto principio generale deve necessariamente essere mediato dalla<br />

legge di attuazione; lo stesso principio, invece, se riferito all’attività concreta della Pubblica<br />

Amministrazione, che ha l’obbligo di non porre in essere favoritismi e di non privilegiare situazioni<br />

personali che confliggono con l’interesse generale della collettività, assume i caratteri e i contenuti<br />

precettivi richiesti dall’art. 323 c.p., in quanto impone al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico<br />

servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione» (così Sez. VI, n. 27453 del<br />

17/02/2011, Acquistucci, Rv. 250422; cfr. Sez. II, n. 35048 del 10/06/2008, Masucci, Rv. 243183; Sez. VI, n.<br />

25162 del 12/2/2008, Sassara, Rv. 239892).<br />

18<br />

Cass., Sez. VI, 12 giugno 2012, n. 25180, D’Emma, in C.E.D. Cass. n. 253118.<br />

8<br />

346


formulazione dell’articolo 17, lett b), L. 10/1977, poi modificato nell’art. 20, lett. b), L.<br />

47/1985 e ora nell’art. 44, lett. b), del d.P.R. 380/2001.<br />

Come è noto, tale ultima norma – così come le precedenti di analogo contenuto<br />

– prevede la responsabilità penale per il caso di «esecuzione dei lavori in totale<br />

difformità o assenza del permesso […]» e non contempla l’ipotesi di un’opera<br />

realizzata in base ad un permesso illegittimo.<br />

Di fronte al problema della possibile equiparazione, ai fini della configurazione<br />

del reato, tra assenza e illegittimità del titolo, la giurisprudenza degli anni ottanta si<br />

spaccò tra l’orientamento favorevole e quello contrario e le conclusioni cui entrambi<br />

giungevano erano condizionate dalla questione pregiudiziale di quale fosse l’interesse<br />

tutelato dalle norme urbanistiche ed edilizie 19 .<br />

Per i sostenitori della tesi favorevole, questo andava ricercato non nel mero<br />

controllo amministrativo sull’attività urbanistica, ma nel corretto assetto del territorio,<br />

sicché il giudice, per apprestare tutela a tale interesse, aveva la necessità di sindacare<br />

anche l’illegittimità sostanziale del provvedimento concessorio, disapplicando il quale,<br />

veniva ad equipararsi la situazione di un titolo illegittimo a quella di un titolo assente.<br />

L’altro orientamento, più fedele al principio di separazione dei poteri, sosteneva<br />

che l’interesse non andasse oltre quello del controllo dell’attività edilizia da parte della<br />

p.a., di modo che il giudice, di fronte ad un provvedimento formalmente emanato<br />

dall’autorità competente, non poteva che limitarsi ad una verifica circa i suoi aspetti<br />

formali, senza entrare in alcun sindacato.<br />

Le Sezioni Unite della Cassazione, nel 1987, con la famosa sentenza Giordano 20<br />

giudicarono impraticabile la strada tracciata dai sostenitori del primo orientamento,<br />

escludendo la possibilità di ricorrere all’istituto della disapplicazione.<br />

Valutò la Corte che le norme degli articoli 4 e 5 della legge abolitrice del<br />

contenzioso amministrativo (20 marzo 1865 n. 2248 allegato E), furono introdotte come<br />

rimedio giurisdizionale agli atti amministrativi che avessero illegittimamente<br />

compresso diritti soggettivi e quindi valeva solo per gli atti incidenti negativamente su<br />

di essi. La disapplicazione non poteva valere per gli atti amministrativi che, al<br />

contrario, rimuovono un ostacolo al libero esercizio di un diritto soggettivo ( nulla osta,<br />

autorizzazioni ) o addirittura lo costituiscono (concessioni).<br />

A proposito degli articoli 4 e 5 il Collegio stabilì che «le norme in questione non<br />

introducono affatto un principio generalizzato di disapplicazione degli atti<br />

amministrativi illegittimi da parte del giudice ordinario (sia esso civile o penale) per<br />

esigenze di diritto oggettivo, ma che, al contrario, il controllo sulla legittimità dell’atto<br />

amministrativo è stato rigorosamente limitato dal legislatore ai soli atti incidenti<br />

negativamente sui diritti soggettivi ed alla specifica condizione che si tratti di<br />

accertamento incidentale, che lasci persistere gli effetti che l’atto medesimo è capace di<br />

produrre all’esterno del giudizio».<br />

19<br />

Cfr. GAROFOLI, Manuale di diritto penale, 2009, 51 ss.<br />

20<br />

Cass., Sez. Un., 31 gennaio 1987, n. 3, Giordano, in C.E.D. Cass n. 176304.<br />

9<br />

347


Opinare diversamente «comporta, altresì – con violazione del principio della<br />

divisione dei poteri – l’attribuzione al giudice penale di un potere di controllo e di<br />

ingerenza esterna sull’attività amministrativa e, quindi, l’esercizio di un’attività<br />

gestionale che dalla legge è, invece, demandata in esclusiva ad altro potere dello<br />

Stato».<br />

Ciò postula, nel ragionamento sviluppato dalla Corte, che «l’interesse tutelato<br />

dalla norma è quello pubblico di sottoporre l’attività edilizia al preventivo controllo<br />

della pubblica amministrazione».<br />

Ne deriva che essendo previsto il reato edilizio solo in caso di assenza del<br />

permesso di costruire, estendere l’applicazione della norma anche al caso in cui il titolo<br />

esiste, ma si assuma illegittimo, vorrebbe dire effettuare un’operazione di<br />

interpretazione analogica in malam partem, violando anche il principio di tassatività<br />

della norma.<br />

Le Sezioni Unite osservarono tuttavia che, quando l’atto è affetto da patologie<br />

così macroscopiche da essere considerato tamquam non esset – come nel caso di assoluta<br />

carenza di potere dell’autorità emanante ovvero di concerto criminoso con il privato –<br />

il giudice non incontra il suddetto limite alla disapplicazione.<br />

Tale soluzione fu ampiamente condivisa dalla Corte Costituzionale chiamata a<br />

pronunciarsi sull’eventuale illegittimità costituzionale degli artt. 4 e 5 della legge del<br />

1865.<br />

Con ordinanza nr. 288 del 14 giugno 1990, la Corte dichiarò manifestamente<br />

infondata la questione di legittimità costituzionale, facendo richiamo proprio al diritto<br />

vivente della Corte di Cassazione.<br />

Fu quindi definitivamente abbandonata la strada della disapplicazione, ma non<br />

l’idea che potesse costituire reato una costruzione assentita da un titolo edilizio<br />

illegittimo.<br />

Già due anni dopo la sentenza Giordano, la Terza Sezione della Corte rimise,<br />

infatti, in discussione le sue enunciazioni e nel 1993 intervennero nuovamente le<br />

Sezioni Unite con la altrettanto famosa sentenza Borgia 21 , in tema di violazioni delle<br />

prescrizioni previste dall’art. 20 lett a) L. 47/1985, seguendo un percorso argomentativo<br />

del tutto diverso e giungendo a conclusioni diametralmente opposte.<br />

Scrisse la Corte: «Al giudice penale non è affidato, in definitiva, alcun c.d.<br />

sindacato sull’atto amministrativo (concessione edilizia), ma – nell’esercizio della<br />

potestà penale – è tenuto ad accertare la conformità tra ipotesi di fatto (opera<br />

eseguenda o eseguita) e fattispecie legale, in vista dell'interesse sostanziale che tale<br />

fattispecie assume a tutela [...]. In considerazione dell’enunciato principio, non può<br />

ritenersi che, sussistendo l’accertata aporia dell’opera edilizia rispetto agli strumenti<br />

normativi urbanistici ovvero alle norme tecniche di attuazione del piano regolatore<br />

generale, il giudice penale debba ugualmente concludere per la mancanza di illiceità<br />

21<br />

Cass., Sez. Un., 12 novembre 1993, n. 11635, Borgia, in C.E.D. Cass. n. 195358.<br />

10<br />

348


penale solo perché sia stata rilasciata la concessione edilizia, la quale nel suo contenuto,<br />

nonché per le caratteristiche strutturali e formali dell’atto, non è idonea a definire<br />

esaurientemente lo statuto urbanistico ed edilizio dell’opera realizzanda senza rinviare<br />

al quadro delle prescrizioni degli strumenti urbanistici».<br />

E poiché quella che prevede il reato edilizio è una norma penale in bianco, non<br />

il solo permesso di costruire, ma l’intero quadro normativo, primario e secondario,<br />

contribuisce a fornire il parametro normativo rispetto al quale il giudice deve valutare<br />

la regolarità dell’opera.<br />

Il giudice, quindi, dopo aver valutato che l’opera è contrastante con le<br />

disposizioni normative di settore, le previsioni degli strumenti urbanistici e le<br />

prescrizioni dei regolamenti edilizi, non deve fare ricorso alla procedura di<br />

disapplicazione, ma limitarsi ad affermare la contrarietà dell’opera rispetto<br />

all’elemento normativo della fattispecie.<br />

La novità forte di questa pronuncia sta nel superamento dell’idea che «l’oggetto<br />

della tutela penale s’identificasse nel “bene strumentale” del controllo e della disciplina<br />

degli usi del territorio. Tale configurazione normativa dell’interesse tutelato – la cui<br />

esatta identificazione è opportuna ai fini interpretativi della norma in esame – è venuta<br />

a mutare nel tempo».<br />

Con l’evoluzione della legislazione in materia, si è imposto un interesse non<br />

più formale o strumentale al controllo dell’attività edilizia da parte dei pubblici poteri,<br />

ma sostanziale, ossia relativo alla tutela del assetto del territorio in conformità alla<br />

normativa urbanistica. Da qui la potestà del giudice penale di sindacare l’atto<br />

amministrativo per coglierne la compatibilità con le norme, anche nel loro profilo<br />

teleologico.<br />

I giudici della Terza Sezione, con la sentenza n. 21487 del 2006 22 , che ripercorre<br />

le principali tappe dell’evoluzione giurisprudenziale in materia, hanno posto dei punti<br />

fermi sull’argomento, affermando che «questa Corte ha rilevato che il giudizio (ric.<br />

Borgia) conclusosi con la pronunzia delle Sezioni Unite aveva ad oggetto una<br />

fattispecie inquadratole nella previsione dell’art. 20, lett. a), ma che i principi affermati<br />

con quella pronunzia hanno valore e portata generale in relazione a tutte e tre le<br />

fattispecie attualmente previste dall’art. 44, poiché esse tutte tutelano il medesimo<br />

interesse sostanziale dell’integrità del territorio. A fronte dell'evoluzione interpretativa<br />

dianzi compendiata, ritiene questo Collegio di dover affermare e ribadire i principi<br />

secondo i quali: a) il giudice penale, allorquando accerta profili di illegittimità<br />

sostanziale del titolo abilitativo edilizio, procede ad un’identificazione in concreto della<br />

fattispecie sanzionata e non pone in essere alcuna “disapplicazione” riconducibile<br />

all’enunciato della L. 20 marzo 1865, n. 2248, allegato E, art. 5), né incide, con indebita<br />

ingerenza, sulla sfera riservata alla Pubblica Amministrazione, poiché esercita un<br />

potere che trova fondamento e giustificazione nella stessa previsione normativa<br />

incriminatrice; b) la “macroscopica illegittimità” del provvedimento amministrativo<br />

non è condizione essenziale per la configurabilità di un’ipotesi di reato D.P.R. 6 giugno<br />

22<br />

Cass., Sez. III, 21 marzo 2006, n. 21487, Tantillo, in C.E.D. Cass. n. 234469.<br />

11<br />

349


2001, n. 380, ex art. 44; mentre (a prescindere da eventuali collusioni dolose con organi<br />

dell'amministrazione) l’accertata esistenza di profili assolutamente eclatanti di illegalità<br />

costituisce un significativo indice di riscontro dell’elemento soggettivo della<br />

contravvenzione contestata anche riguardo all’apprezzamento della colpa».<br />

La valutazione dell’atto amministrativo rileva, quindi, anche ai diversi fini<br />

dell’indagine sull’elemento psicologico della colpa, necessario per l’integrazione del<br />

reato contravvenzionale.<br />

Alla luce di questa nuova “lettura” delle norme urbanistiche, era naturale che a<br />

conclusioni analoghe si pervenisse anche in relazione al reato di cui alla lettera c)<br />

dell’articolo 44 D.P.R. 380/20001, ossia alla lottizzazione abusiva.<br />

La soluzione era peraltro facilitata dalla stessa formulazione della norma la<br />

quale fa riferimento alla definizione di lottizzazione contenuta nell’articolo 30 del<br />

medesimo decreto – e prima nell’analogo articolo 18 L. 47/1985 – il quale prevede che il<br />

reato si configuri non solo in caso di assenza dell’autorizzazione, ma anche nell’ipotesi<br />

in cui l’opera sia stata realizzata in violazione della normativa di settore, o in contrasto<br />

con gli strumenti urbanistici vigenti o adottati. La previsione di due ipotesi alternative<br />

legittima la conclusione che la lottizzazione possa considerarsi abusiva anche nel caso<br />

in cui sia stata assentita con autorizzazione illegittima, sulla premessa che il contrasto<br />

con la disciplina normativa e regolamentare viene a costituire l’elemento normativo<br />

della fattispecie. Per questa fattispecie, quindi, il sindacato sul titolo edilizio è<br />

addirittura previsto dalla legge.<br />

La S.C. già con la sentenza n. 5115 del 2001 23 , aveva scandito i suoi principi in<br />

materia, affermando che «il reato di lottizzazione abusiva è a consumazione<br />

alternativa.<br />

Tale conclusione si basa, anzitutto, sulla formulazione inequivocabile del<br />

dettato normativo, ove la previsione della mancanza di autorizzazione si aggiunge a<br />

quella del contrasto con le prescrizioni delle leggi o degli strumenti urbanistici, anche<br />

se soltanto adottati, e deve ritenersi, anzi, del tutto residuale, poiché può verificarsi<br />

soltanto nel caso di una lottizzazione che, pur essendo conforme alle prescrizioni di<br />

legge e di piano, sia eseguita in assenza di autorizzazione. L’uso del disgiuntivo “o”,<br />

da parte del legislatore, non consente dubbi ed una diversa interpretazione del testo<br />

normativo – che escluda in ogni caso la fattispecie contravvenzionale allorché sia stata<br />

rilasciata la c.d. autorizzazione a lottizzare – deve necessariamente comportare<br />

l’elisione di detto disgiuntivo, operandosi in tal modo non una interpretazione del<br />

dettato legislativo bensì una non consentita modificazione di esso. [...]<br />

Né può condividersi la prospettazione secondo la quale la tesi della<br />

consumazione alternativa comporterebbe la disapplicazione dell'autorizzazione, che<br />

sia stata rilasciata ai sensi dell’art. 28 della legge n. 1150/1942 ma che si riveli<br />

illegittima. La questione è stata posta in tema di concessione edilizia illegittimamente<br />

23<br />

Cass., Sez. Un., 28 novembre 2001, n. 5115, Salvini, in C.E.D. Cass. n. 220708.<br />

12<br />

350


ilasciata, al fine di equiparare, sotto il profilo sanzionatorio, i lavori eseguiti con<br />

provvedimento illegittimo a quelli realizzati in assenza di concessione, ed in proposito<br />

deve farsi opportuno riferimento alla decisione 21.12.1993 di queste Sezioni Unite, ric.<br />

Borgia, da cui chiaramente si evince il principio secondo il quale il giudice penale, nel<br />

valutare la sussistenza o meno della liceità di un intervento edilizio, deve verificarne la<br />

conformità a tutti i parametri di legalità fissati dalla legge, dai regolamenti edilizi, dagli<br />

strumenti urbanistici e dalla concessione edificatoria.<br />

Il giudice penale, nei casi in cui nella fattispecie di reato sia previsto un atto<br />

amministrativo ovvero l’autorizzazione del comportamento del privato da parte di un<br />

organo pubblico, non deve limitarsi a verificare l’esistenza ontologica dell'atto o<br />

provvedimento amministrativo, ma deve verificare l'integrazione o meno della<br />

fattispecie penale, “in vista dell’interesse sostanziale che tale fattispecie assume a<br />

tutela”, nella quale gli elementi di natura extrapenale convergono organicamente,<br />

assumendo un significato descrittivo.<br />

È la descrizione normativa del reato di lottizzazione abusiva che impone al<br />

giudice un riscontro diretto di tutti gli elementi che concorrono a determinare la<br />

condotta criminosa e nell'art. 18 – come si è detto – la condotta prevista come illecita<br />

non è soltanto quella effettuata in assenza di autorizzazione ma è, anzitutto e<br />

principalmente, quella contrastante con le prescrizioni degli strumenti urbanistici e<br />

delle leggi statali e regionali. La nozione di lottizzazione abusiva è duplice, cioè<br />

sostanziale e formale, e la prima fattispecie ben può configurarsi indipendentemente<br />

dalla circostanza che la lottizzazione sia o meno autorizzata. Quando il giudice,<br />

dunque, ravvisa l’esistenza (ovvero il “fumus”, come nel caso in esame) di un’ipotesi di<br />

lottizzazione abusiva – pur in presenza di un'autorizzazione rilasciata ex art. 28 della<br />

legge n. 1150/1942, che però risulti in contrasto con previsioni di legge o di piano – non<br />

opera alcuna disapplicazione del provvedimento amministrativo, ma si limita ad<br />

accertare la conformità del fatto concreto alla fattispecie astratta descrittiva del reato,<br />

poiché, una volta che constati il contrasto tra la lottizzazione considerata e la normativa<br />

urbanistica, giunge all’accertamento dell’abusività della lottizzazione prescindendo da<br />

qualunque giudizio sull’autorizzazione.<br />

Ciò ben si spiega con la “ratio” dello stesso reato di lottizzazione abusiva,<br />

poiché il legislatore – in situazioni implicanti la trasformazione urbanistico-edilizia di<br />

aree territoriali non ancora o parzialmente urbanizzate – ha inteso tutelare non soltanto<br />

la potestà pubblica di programmazione territoriale considerata sotto l’aspetto del suo<br />

esercizio ma, ed essenzialmente, la risultante di questa, ossia la concreta<br />

conformazione del territorio derivata dalle scelte di programmazione effettuate».<br />

Dalla sentenza Borgia in poi, questo è il “diritto vivente” della Corte di<br />

Cassazione la quale si è costantemente mossa nel solco di questi principi, aprendo<br />

definitivamente le porte al controllo sostanziale del giudice penale sugli atti<br />

amministrativi in materia edilizia.<br />

13<br />

351


4. I limiti al sindacato sui titoli edilizi: in particolare l’effetto preclusivo del<br />

giudicato amministrativo<br />

Una volta ammesso il sindacato del giudice ordinario sull’atto amministrativo,<br />

resta il problema di vedere quali siano i limiti entro cui esso è possibile.<br />

È da tutti condivisa l’idea che il primo e invalicabile limite è rappresentato dal<br />

merito dell’atto amministrativo, ossia l’area di discrezionalità rimessa dalla legge alla<br />

piena autonomia della pubblica amministrazione. Questa, pur muovendosi all’interno<br />

di un ambito delimitato dalle finalità pubbliche che la stessa p.a. deve comunque<br />

perseguire, ha facoltà di scegliere quale sia la soluzione migliore per il raggiungimento<br />

dell’obiettivo.<br />

È unanimemente riconosciuto che tale area è di esclusiva pertinenza della p.a. e<br />

in essa sono precluse le ingerenze del giudice 24 .<br />

La dottrina ha tuttavia osservato che l’area stessa diventa già meno intangibile,<br />

quando il legislatore, oltre a delineare i fini, indichi anche le opzioni necessarie per il<br />

loro raggiungimento, stabilendo regole certe e parametri oggettivi di giudizio. Si<br />

preferisce perciò parlare di discrezionalità sindacabile per differenziarla da quella<br />

insindacabile, nella quale la legge rimette all’amministrazione anche la valutazione<br />

soggettiva delle scelte da operare 25 .<br />

Tentando delle esemplificazioni nel contesto dei reati edilizi, appare evidente<br />

che non spetta al giudice penale sindacare la discrezionalità della p.a. negli atti<br />

programmatori di assetto del territorio quali, ad esempio, l’individuazione delle zone<br />

soggette a vincolo paesaggistico, essendo rimessa esclusivamente all’autorità<br />

amministrativa la valutazione di quali beni in concreto debbano essere ritenuti<br />

meritevoli di tutela nei provvedimenti di pianificazione ambientale e territoriale 26 .<br />

Altra questione è quella che riguarda i presupposti di legge in presenza dei<br />

quali la p.a. può esercitare il suo potere discrezionale. Per farsi un esempio, può dirsi<br />

che rimane preclusa al giudice la valutazione circa la correttezza dell’esercizio del<br />

potere discrezionale di proroga dei termini di validità del permesso di costruire, ma<br />

non la facoltà di accertare la mancanza dei presupposti di legge per l’esercizio della<br />

proroga stessa. Qualora tale verifica porti ad un giudizio di inesistenza dei presupposti<br />

in base ai quali rilasciare la proroga prevista dall’art. 15 D.P.R. 380/2001, il giudice<br />

dichiarerà la decadenza del titolo e la conseguente integrazione del reato 27 .<br />

24<br />

Cass. Civ., Sez. II, 18 dicembre 2008, n. 29728.<br />

25 MERLI, Il controllo, cit., 17 ss.; PADOVANI, Commento, cit., 234; VENDITTI, Questioni sulla sindacabilità degli atti<br />

amministrativi da parte del giudice penale, in Riv. it., 1964, 1147 ss; ID., Il sindacato del Giudice penale sugli atti<br />

amministrativi, in Riv. it. dir. proc. pen., 1965, 31 ss. e 44 ss.; MISIANI, Il sindacato del Giudice penale sull’attività<br />

amministrativa, in Riv. amm., 1995, 186.<br />

26<br />

Così Cass., Sez. III, 15 febbraio 2006, 8192, T.D.<br />

27<br />

Cass., Sez. III, 19 marzo 2008, n. 19101, Minciarelli, in C.E.D. Cass. n. 239916.<br />

14<br />

352


Quel che sicuramente non osta all’accertamento del giudice penale è il<br />

consolidamento dell’atto amministrativo presupposto, derivante dalla mancata<br />

impugnativa da parte dei contro interessati.<br />

Una questione che con una certa frequenza si presenta al giudice penale<br />

chiamato a sindacare un titolo edilizio, (ma il discorso vale più in generale, per ogni<br />

atto amministrativo) è quella dell’eventuale effetto preclusivo del giudicato amministrativo.<br />

Per valutarne compiutamente gli aspetti è necessario ricostruire l’evoluzione<br />

della giurisprudenza per cogliere quella linea di tendenza che probabilmente non è<br />

ancora giunta ad un suo approdo definitivo.<br />

La prima pronuncia significativa risale al 1993 e in essa la S.C. affermò che<br />

«l’autorità giudiziaria ordinaria non ha il potere di valutare la conformità a legge di un<br />

“arrêt” di un’altra giurisdizione (nella specie, una sentenza del Tribunale<br />

Amministrativo Regionale coperta da giudicato): ciò in quanto il cittadino – pena la<br />

vanificazione dei suoi diritti civili – non può essere privato della facoltà di fare<br />

affidamento sugli strumenti della tutela giurisdizionale posti a sua disposizione<br />

dall’ordinamento» 28 .<br />

Tale posizione è rimasta isolata poiché, con una pronuncia del 2003, la Corte<br />

mutò orientamento stabilendo che «in materia edilizia il potere del giudice penale di<br />

accertare la conformità alla legge ed agli strumenti urbanistici di una costruzione<br />

edilizia, e conseguentemente di valutare la legittimità di eventuali provvedimenti<br />

amministrativi concessori o autorizzatori, trova un limite nei provvedimenti<br />

giurisdizionali del giudice amministrativo passati in giudicato che abbiano<br />

espressamente affermato la legittimità della concessione o della autorizzazione edilizia<br />

ed il conseguente diritto del cittadino alla realizzazione dell’opera» 29 .<br />

La linea fu poi ribadita con la sentenza n. 1894/2006 30 .<br />

Con una sentenza del 2001 31 , la S.C. ha compiuto un ulteriore passo avanti nella<br />

direzione della permeabilità del giudicato amministrativo, affermando che l’effetto<br />

preclusivo di una sentenza definitiva dell’A.G.A. che abbia valutato la legittimità di un<br />

atto amministrativo, riguardi solo le questioni dedotte, non anche tutte le altre<br />

deducibili.<br />

La decisione ha ricadute pratiche importanti, avuto riguardo alla natura del<br />

giudizio amministrativo, la cui materia del contendere è nella disponibilità delle parti,<br />

al contrario del giudizio penale, indisponibile e connotato dall’ampiezza dei poteri<br />

conoscitivi esercitabili, anche ex officio, dal giudice.<br />

Ne discende che tutte le volte in cui il profilo di illegittimità che interessa al<br />

giudice penale non sia ricompreso tra i motivi di impugnazione del ricorrente nel<br />

giudizio amministrativo, sarà da escludere l’effetto preclusivo nel giudizio penale, così<br />

28<br />

Cass., Sez. III, 11 gennaio 1996, n. 54, Ciaburri, in C.E.D. Cass. n. 204622.<br />

29<br />

Cass., Sez. III, 5 giugno 2003, n. 39707, Lubrano di Scorpianello, in C.E.D. Cass. n. 226592.<br />

30<br />

Cass., Sez. III, 14 dicembre 2006, n. 1894, Bruno, in C.E.D. Cass. n. 235644.<br />

31<br />

Cass., Sez. I, 11 gennaio 2011, n. 11596, Keller, in C.E.D. Cass. n. 249871.<br />

15<br />

353


che in questo si potrà sindacare autonomamente l’atto, andando oltre la pronuncia<br />

dell’A.G.A. Allo stesso modo quando ad essere impugnato in sede amministrativa è<br />

stato non il titolo abilitativo in sé, ma un altro atto del procedimento culminato con<br />

l’emissione di quel titolo.<br />

La conclusione è coerente con l’impostazione del codice di procedura penale del<br />

1988 che all’art 2 stabilisce che «la decisione del giudice penale che risolve<br />

incidentalmente una questione civile, amministrativa o penale non ha efficacia<br />

vincolante in nessun altro processo». Anche da questa disposizione la dottrina ha tratto<br />

spunto per rilevare che il codice attualmente vigente ha superato il principio dell'unità<br />

della giurisdizione, optando per la autonomia dei diversi giudizi (civile, penale,<br />

amministrativo), con una relativa prevalenza riconosciuta al giudicato penale 32 .<br />

D’altra parte, proprio in virtù di questa autonomia, la Corte di Cassazione, con<br />

una sentenza del 2008, ha stabilito che «le sentenze pronunciate dal giudice tributario,<br />

se non definitive, non hanno efficacia vincolante nel giudizio penale; diversamente,<br />

una volta divenute irrevocabili, sono acquisibili agli atti del dibattimento e valutabili ai<br />

fini della decisione a norma dell'art. 238 bis cod. proc. pen.» 33 .<br />

In termini ancor più radicali si è pronunziata la Sezione VI della Cassazione,<br />

con una pronuncia in tema di abuso d’ufficio. La Corte, argomentando sul fatto che<br />

l’articolo 238 bis cod. proc. pen. si limita a consentire l’acquisizione in dibattimento di<br />

sentenze irrevocabili che possono essere liberamente valutabili ai fini della prova,<br />

aggiunge «le pronunzie del giudice amministrativo, pur definitive, non vincolano il<br />

giudice penale ma possono soltanto essere acquisite agli atti del dibattimento per<br />

essere liberamente considerate ai fini della decisione (cfr. Cass. Pen., sez. III, 39358/2008<br />

per una sentenza del giudice tributario) e tale libera autonoma valutazione ben può<br />

concludersi, se ragionevolmente argomentata – come nella specie – in modo difforme<br />

dall’assunto dei giudici amministrativi. Principio che ha trovato, del resto e per altro<br />

verso, un’espressa conferma normativa nella delimitazione della cognizione del<br />

giudice penale in rapporto alle questioni c.d. incidentali contenuta nell’art. 2 cpv.<br />

c.p.p., il quale dispone per l'appunto che “la decisione del giudice penale che risolve<br />

incidentalmente una questione civile, amministrativa o penale non ha efficacia<br />

vincolante in nessun altro processo”, così ribadendo l’esclusione dell’autorità di<br />

giudicato delle relative decisioni» 34 .<br />

Sul cammino di una progressiva erosione dell’efficacia vincolante del giudicato<br />

amministrativo si colloca, da ultimo una sentenza della Quarta Sezione della<br />

Cassazione la quale, prendendo nettamente le distanze da quel lontano precedente del<br />

1993, ha finito per spostare in là i confini del sindacato penale sull’atto, sottolineando<br />

che «in tema di rapporti tra giudizio penale e giudicato amministrativo, l'orientamento<br />

32<br />

Così Cass., Sez. IV, 20 settembre 2012, n. 46471, Valentini, in C.E.D. Cass. n. 253919. In dottrina,<br />

MARZADURI, in Commento al nuovo codice di procedura penale, Torino, 1989, vol. I, 71 ss.<br />

33<br />

Cass., Sez. III, 24 settembre 2008, n. 39358, Sciacchitano, in C.E.D. Cass. n. 241038.<br />

34<br />

Cass., Sez. VI, 24 febbraio 2011, Musumeci, in C.E.D. Cass. n. 249592.<br />

16<br />

354


di questa Corte si è andato consolidando nel senso di una solo tendenziale vincolatività<br />

del giudicato amministrativo» 35 .<br />

Il Collegio, pur ammettendo il limite del giudicato amministrativo, ha ribadito<br />

il carattere autonomo della giurisdizione penale fino al punto da affermare che «tale<br />

effetto preclusivo sussist(e) con riferimento ad un provvedimento giurisdizionale del<br />

giudice amministrativo passato in giudicato, che abbia espressamente esaminato lo<br />

specifico profilo di illegittimità dell’atto fatto valere, incidentalmente, in sede penale,<br />

dovendo altrimenti ritenersi, in maniera non dissimile a quanto affermato da questa<br />

Corte in tema di processo esecutivo (in termini, Sez. I, sent. n. 30496 del 3/06/2010 dep.<br />

30/07/2010, imp. Nicolini, Rv. 248319), che la preclusione del cosiddetto giudicato<br />

amministrativo non si estende a tutte le questioni deducibili ma esclusivamente a<br />

quelle che sono state dedotte ed effettivamente decise»(Cass., Sez. I, sent. n. 11596 del<br />

11/01/2011, P.G. in proc. Keller, Rv. 249871).<br />

Si è così definitivamente abbandonata la prima impostazione ispirata al totale<br />

effetto preclusivo del giudicato amministrativo per approdare ad «una solo tendenziale<br />

vincolatività».<br />

L’orientamento si è consolidato nel senso che la preclusione scatta solo nei limiti<br />

del dedotto, ossia quando il giudice amministrativo abbia valutato la legittimità del<br />

medesimo atto e per gli stessi profili che possono interessare al giudice penale.<br />

Osservando il cammino della giurisprudenza sulla questione, sembra lecito<br />

auspicare che la stessa in futuro abbandoni definitivamente anche questo residuo self<br />

restraint, in favore di una accentuata apertura verso l’idea di una totale autonomia delle<br />

giurisdizioni e dell’assenza di efficacia vincolante del giudicato amministrativo nel<br />

giudizio penale.<br />

D’altra parte, l’esigenza per il cittadino di «fare affidamento sugli strumenti<br />

della tutela giurisdizionale posti a sua disposizione dall’ordinamento» non pare a chi<br />

scrive un principio ricavabile dall’ordinamento, posto che al contrario, l’attuale codice<br />

di procedura penale ha sancito, semmai, l’opposto principio dell’autonomia delle<br />

giurisdizioni, ricavabile, almeno tendenzialmente, sia dall’articolo 2, sia dagli articoli<br />

651-654, dettati per regolare l’efficacia delle sentenze penali nei giudizi civili o<br />

amministrativi. Queste ultime norme, secondo i primi commentatori 36 , disciplinano<br />

l’efficacia del giudicato penale nei giudizi extrapenali, limitando notevolmente<br />

l’”autorità” ad esso tradizionalmente riconosciuta ed adeguandola ai principi del<br />

nuovo sistema processuale accusatorio.<br />

Una evidente conferma di ciò si ricava dall’articolo 654 c.p.p. che limita<br />

l’efficacia di giudicato penale nel giudizio civile o amministrativo ai soli casi in cui si<br />

controverta degli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale, con le<br />

35<br />

Cass., Sez. IV, 20 settembre 2012, n. 46471, Valentini, in C.E.D. Cass. n. 253919.<br />

36 GHIARA, in Commento al nuovo codice di procedura penale, Torino, 1989, vol. VI, 442 ss.<br />

17<br />

355


ulteriori limitazioni sulla prova derivante dalle leggi civili o quelle connesse alla<br />

rilevanza, ai fini della decisione del giudice penale, dei fatti oggetto di accertamento.<br />

Peraltro la giurisprudenza amministrativa ha chiarito che l’efficacia vincolante<br />

della sentenza penale si ha solo se l’amministrazione intimata si sia costituita parte<br />

civile. Se, invece, essa non è intervenuta, i suoi poteri istituzionali non possono essere<br />

incisi da accertamenti o valutazioni effettuati in un processo in cui è rimasta estranea<br />

(cfr C.G.A., Sez giurisd., 25 maggio 2009, n. 476), non essendo a tal fine sufficiente che<br />

l’ente sia stato citato in dibattimento nella veste di parte offesa dal reato (Cons. Stato.,<br />

Sez. V, 6 dicembre 2007, n. 6241).<br />

Ancor meno può dirsi che questa esigenza del cittadino sia tale da sacrificare la<br />

funzione stessa del processo penale di accertare la sussistenza del reato, nei suoi profili<br />

oggettivi e soggettivi.<br />

E proprio sul terreno dell’elemento soggettivo, si potrebbe scorgere una<br />

possibile interferenza con il problema del giudicato amministrativo. Si potrebbe, infatti,<br />

sostenere che una sentenza definitiva del giudice amministrativo che affermasse la<br />

legittimità del titolo abilitativo, determinerebbe nel soggetto agente il sicuro<br />

convincimento di effettuare un intervento edilizio pienamente legittimo. Sul piano<br />

penale sarebbe consequenziale un giudizio assolutorio per difetto dell’elemento<br />

soggettivo, anche solo in termini di colpa.<br />

Il ragionamento, tuttavia, non coglie nel segno e avrebbe pregio solo se il<br />

giudicato amministrativo si collocasse in un momento temporalmente anteriore<br />

rispetto alla condotta criminosa, giacché, in questo caso inciderebbe realmente<br />

sull’elemento psicologico del reato. Si dovrebbe, in altri termini, ipotizzare il caso di<br />

una costruzione realizzata dopo che il giudice amministrativo avesse dichiarato la<br />

legittimità del titolo, ma nella normalità dei casi questo non avviene. Nella casistica dei<br />

reati urbanistici, infatti, l’impugnazione del titolo abilitativo avviene ad opera iniziata,<br />

quando il reato è già completo nei suoi elementi strutturali.<br />

E allora, non essendo realistica la possibilità di un giudizio preventivo sulla<br />

legittimità dell’atto, bisognerà giudicare la condotta per come è stata posta in essere<br />

prima del giudizio amministrativo, quando non vi era una pronuncia su cui «fare<br />

affidamento». In situazione processuale del genere, quale rilevanza potrebbe avere per<br />

il giudice penale «l’affidamento del cittadino nella tutela giurisdizionale offerta<br />

dall’ordinamento»? Di certo non può avere la forza di paralizzarne l’intervento al<br />

punto da neutralizzare la sua potestà cognitiva e sanzionatoria in nome di un principio<br />

non riconosciuto dall’ordinamento, se non in limiti assai ristretti e comunque cedevoli<br />

rispetto alle esigenze della giurisdizione penale.<br />

Il giudice penale ha esigenze e strumenti investigativi diversi e per certi aspetti<br />

più penetranti rispetto a quelli dell’A.G.A., a cominciare dalla verifica circa i rapporti<br />

interpersonali che hanno portato all’emanazione dell’atto amministrativo. Se<br />

dovessimo accedere alla tesi dell’efficacia vincolante del giudicato amministrativo, si<br />

potrebbe ritenere precluso al giudice penale di verificare se per ipotesi quell’atto sia il<br />

frutto di accordi criminosi. Certamente si obietterebbe che di fronte ad un fatto illecito<br />

il limite non esiste, ma perché il fatto illecito sia apprezzabile, sarà pur sempre<br />

18<br />

356


necessario che non scatti alcuna preclusione. Il principio qui criticato condurrebbe,<br />

invece, ad una soglia anticipata di sbarramento per il giudice penale che, di fronte ad<br />

un giudizio di legittimità formulato in altra giurisdizione, dovrebbe astenersi da<br />

qualunque approfondimento. Un altro giudice, con tutt’altre caratteristiche, avrebbe<br />

deciso per lui.<br />

Tale conclusione è contraria alla natura stessa del processo penale, che trova<br />

nell’ articolo 2 del codice di procedura una direttrice ben precisa, laddove stabilisce che<br />

«il giudice penale risolve ogni questione da cui dipende la decisione, salvo che sia<br />

diversamente stabilito». Questo significa che egli deve, in piena autonomia, poter<br />

valutare «ogni questione» da cui dipende la decisione, senza limitazioni più o meno<br />

ricavabili da principi generali non codificati ed anzi esclusi da specifiche disposizioni<br />

di legge.<br />

Il cittadino, pur avendo avuto una sentenza favorevole dal giudice<br />

amministrativo, deve sapere, nel momento in cui affronta un parallelo processo penale,<br />

che la decisione da assumere in quest’ultimo è svincolata, autonoma e non<br />

condizionata dalla prima. Il rischio di un contrasto di pronunce sta nell’ordine delle<br />

cose perché il giudice penale ha compiti ed obiettivi diversi da quelli del suo omologo<br />

amministrativo e per esercitare appieno la funzione, deve mettere in campo tutti gli<br />

strumenti conoscitivi che gli sono propri.<br />

19<br />

357


articolo sottoposto<br />

a peer review<br />

Vincenzo Maiello<br />

Confisca, CEDU e Diritto<br />

dell’Unione tra questioni risolte<br />

ed altre ancora aperte<br />

Sommario<br />

0. Gli ‘apriori’ di contesto dell’indagine. – 1. La confisca e la CEDU: il circuito ‘virtuoso’<br />

delle garanzie accresciute. – 1.1. Il bisogno di garanzie per le nuove ipotesi<br />

speciali di confisca. – 1.2. Le decisioni della Corte europea rilevanti per il rafforzamento<br />

garantistico della confisca. – 1.2.1. (segue) La sentenza Engel c. Olanda.<br />

– 1.2.2. (segue) La sentenza Welch c. R.U. – 1.2.3. (segue) Le sentenze Sud Fondi c. Italia.<br />

– 2. Le ricadute chiaroscurali delle decisioni della Corte europea sulle questioni<br />

relative ad ipotesi speciali confisca. – 2.1. Il tema della retroattività della<br />

confisca del veicolo per la guida in stato di ebbrezza. – 2.2. La qualificazione in<br />

chiave sanzionatoria della confisca per equivalente. – 2.3. Le questioni in tema di<br />

confisca urbanistica dopo Sud Fondi. – 2.3.1. Fattispecie soggettiva della tipicità e<br />

confisca. – 2.3.2. Prescrizione del reato e confisca. – 2.3.3. Confisca e tutela dei terzi.<br />

– 2.4. La mancata penetrazione del diritto convenzionale, e di quello europeo,<br />

nella giurisprudenza in tema di confisca allargata (art. 12 sexies, l. n. 356/92). – 2.5.<br />

I riflessi auspicabili in materia di prevenzione patrimoniale. – 3. Confisca per equivalente<br />

e obbligo di interpretazione conforme.<br />

0<br />

Gli ‘apriori’ di contesto<br />

dell’indagine<br />

Una riflessione sui rapporti tra confisca – meglio, tra le (più significative) tipologie<br />

che di questo strumento ha forgiato il legislatore degli ultimi decenni 1 – e fonti sovranazionali<br />

conduce inevitabilmente ad intersecare i piani di un discorso identitario<br />

dell’esperienza giuridica contemporanea 2 , riflesso nei caratteri della a) complessità, b)<br />

ambiguità e c) ricchezza di sfumature.<br />

Si tratta di connotazioni che, seppur provviste di referenti semantici specifici e di<br />

autonoma rilevanza, convergono nel definire l’odierna dimensione della normatività<br />

penale secondo coordinate di senso dis-armoniche rispetto alla tradizione degli ordinamenti<br />

di civil law e tali da imporre il ricorso ad un metodo di indagine di tipo combinatorio/funzionalistico,<br />

intriso di spirito ermeneutico e di pragmatico storicismo, anziché<br />

ad un altro costruito sulla logica deduttiva di pretese epistemiche dettate da un regime<br />

di monolitico legicentrismo statale 3 .<br />

1. Significativa della acquisita complessità della materia è la declinazione al plurale del termine ‘confisca’, nel linguaggio della dottrina; sul tema, in generale,<br />

cfr. A. Alessandri, Criminalità economica e confisca del profitto, in Aa. Vv., Studi in onore di Giorgio Marinucci, III, Parte speciale del diritto penale<br />

e legislazione speciale, Diritto processuale penale, Diritto, storia e società, a cura di E. Dolcini e C. E. Paliero, Milano, 2006, pp. 2107 ss.; D. Fondaroli,<br />

Le ipotesi speciali di confisca nel sistema penale. Ablazione patrimoniale, criminalità economica, responsabilità delle persone fisiche e giuridiche, Bologna,<br />

2007; Id., Artt. 322 ter e 335 bis - Confisca, in Trattato di Diritto penale - Parte speciale, a cura di A. Manna-A. Cadoppi-S. Canestrari-M. Papa, Torino,<br />

2008, pp. 280 ss.; Id., Splendori e miserie della confisca obbligatoria del profitto, in Principi costituzionali in materia penale e fonti sopranazionali, a cura di<br />

D. Fondaroli, Padova, 2009, pp. 117 ss.; Id., Misure di prevenzione e presunta pericolosità dei beni, in Aa. Vv., Studi in onore di Mario Romano, Napoli,<br />

2011, vol. III, pp. 1507 ss.; G. Lunghini-L. Musso, La confisca nel diritto penale, spec. di Corr. merito, 2008; A. M. Maugeri, Relazione introduttiva, in Le<br />

sanzioni patrimoniali come moderno strumento di lotta contro il crimine: reciproco riconoscimento e prospettive di armonizzazione, a cura di A. M. Maugeri,<br />

Milano, 2008, pp. 84 ss.; F. Vergine, Il “contrasto” all’illegalità economica. Confisca e sequestro per equivalente, Padova, 2012; C. Visconti, Dalla<br />

“vecchia” alle “nuove” confische penali: recenti tendenze di un istituto tornato alla ribalta, in Studium iuris, 2002, pp. 960 ss. Sia, altresì, consentito il rinvio<br />

a V. Maiello, La confisca per equivalente non si applica al profitto del peculato, in Dir. pen. proc., 2010, pp. 440 ss.<br />

2. Al riguardo, per un suggestivo ‘affresco’, cfr. Aa. Vv., Fine del diritto?, a cura di P. Rossi, Bologna, 2009.<br />

3. Verso questa direzione si proiettano, tra le molte, le riflessioni di M. Donini, Europeismo giudiziario e scienza penale, Milano, 2011.<br />

diritto penale contemporaneo 3-4/2012 43<br />

358


Ai nostri limitati fini, intendo la complessità come requisito di struttura del sistema<br />

delle fonti. In tale contesto, esso designa un profilo che, originato dai peculiari dislivelli<br />

normativi in cui si articola la dinamica dello Stato costituzionale, si è venuto rafforzando<br />

in seguito sia alla costituzione dell’U.E., sia ad un fenomeno di rinnovato protagonismo<br />

della giurisprudenza, indotto dalle novità dello scenario politico-istituzionale<br />

del nuovo soggetto continentale, nonché dal generale radicarsi di più mature sensibilità<br />

ermeneutiche 4 .<br />

Quanto all’ambiguità, essa impronta il piano delle scelte legislative riflesse nel linguaggio<br />

attraverso il quale esse si esprimono. La sua funzione identitaria dell’esperienza<br />

giuridica contemporanea 5 si correla al noto – ed ampiamente indagato – fenomeno di<br />

‘crisi della legge’ 6 , a cui non è estraneo il processo di sgretolamento ed opacizzazione della<br />

responsabilità politica delle rappresentanze parlamentari, che finisce per trasferire sul<br />

‘giudiziario’ la gestione dei bilanciamenti interni alle strategie normative di tutela di settori<br />

eticamente e politicamente ‘caldi’, ovvero di incerta cifra epistemologico/scientifica.<br />

La ricchezza di sfumature, infine, è conseguenza, per un aspetto, dei due connotati<br />

innanzi richiamati; per l’altro, di un più marcato orientamento anche della nostra giurisprudenza<br />

verso la dimensione fattica del diritto: segnatamente verso la centralità del<br />

‘caso’, quale fonte di determinazione e di arricchimento semantico delle regulae iuris 7 .<br />

Ora, discutere di confisca e di implicazioni che sul relativo assetto possono derivare<br />

da CEDU e diritto dell’U.E. 8 comporta la necessità di ‘fare i conti’ con quei referenti di<br />

‘contesto’, in una prospettiva indirizzata a dinamizzarne i significati.<br />

1<br />

La confisca e la CEDU: il<br />

circuito ‘virtuoso’ delle<br />

garanzie accresciute<br />

Domandarsi quali siano – o possano essere – i termini della relazione tra le ipotesi<br />

di confisca disseminate nella legislazione penale italiana e le garanzie apprestate dalla<br />

CEDU 9 ha senso se si ritiene (con curiosità solo in apparenza inutilis) che da quest’ultimo<br />

testo siano ricavabili ‘argomenti’ e ‘principi’ in grado di neutralizzare scelte legislative<br />

caratterizzate da ‘esuberanze’ repressive, altrimenti sottratte a censure di legittimità.<br />

In caso contrario, l’uso interpretativo della CEDU avrebbe rilevanza esclusivamente<br />

confermativa del livello di garanzie sancite nella Carta repubblicana, tenuto conto che<br />

eventuali discrasie tra i due documenti non potrebbero determinare effetti deteriori nel<br />

godimento dei diritti costituzionali.<br />

Alla domanda fornisco una risposta che traggo: a) dal ‘tempo’ di formulazione della<br />

maggior parte delle quaestio legitimitatis, costituzionali e convenzionali, in materia di<br />

confisca; b) dalle connessioni diacroniche e discorsive tra evoluzione in chiave garantistica<br />

della giurisprudenza interna ed importanti pronunce dei giudici di Strasburgo.<br />

4. In argomento, P. Cappellini, L’ermeneutica sulla luna. Ovvero come sta cambiando il nostro concetto di interpretazione, in Aa. Vv., Alessandro Giuliani:<br />

l’esperienza giuridica tra logica ed etica, Milano, 2012, pp. 71 ss.<br />

5. L’impiego del sintagma esperienza giuridica, in luogo del lemma diritto, vuole sottolineare l’ormai irreversibile coscienza della storicità del fenomeno<br />

giuridico, di cui sono coessenziali sia la dimensione temporale e spaziale, sia la connotazione intrinsecamente ‘contenziosa’ o, se si preferisce, ‘controversa’<br />

dei suoi principi. Le odierne consapevolezze teorico-generali suggellano, così, la straordinaria fecondità della lezione capograssiana (Studi sull’esperienza<br />

giuridica, Roma, 1932), vivificata nell’opera di Riccardo Orestano, così come in quella di Alessandro Giuliani, come ci ha, di recente, ricordato Paolo Grossi<br />

(in Alessandro Giuliani: l’esperienza giuridica fra logica ed etica, cit., spec. pp. 5 ss.).<br />

6. Tra i penalisti, di recente, G. Fiandaca, Legalità penale e democrazia, in Quaderni Fiorentini, n. 36, 2007, pp. 1247 ss. e F. Palazzo, Legalità penale:<br />

considerazioni su trasformazione e complessità di un principio “ fondamentale”, ivi, pp. 1279 ss.<br />

7. Oltre ai fondamentali lavori di A. Kaufmann, Analogia e “natura della cosa”. Un contributo alla dottrina del tipo, tr. it, Napoli, 2003 e W. Hassemer,<br />

Fattispecie e tipo. Indagini sull’ermeneutica penalistica, tr. it., Napoli, 2007, si veda, per un’acuta puntualizzazione del ruolo del ‘caso’ nell’opera di ‘attribuzione<br />

di senso’ agli enunciati normativi, V. Omaggio-G. Carlizzi, Ermeneutica e interpretazione giuridica, Torino, 2010, spec. pp. 43 ss. e pp. 91 ss.<br />

8. Sulle interrelazioni tra CEDU e diritto dell’U.E., da ultimo, C. Sotis, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e diritto comunitario, in Aa. Vv., La<br />

Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento penale italiano, a cura di V. Manes-V. Zagrebelsky, Milano, 2011, pp. 109 ss.<br />

9. Per una dettagliata analisi dei rapporti tra il contesto delle garanzie CEDU e la legislazione penale interna, cfr., A. Esposito, Il diritto penale “flessibile”,<br />

Torino, 2008, passim; E. Nicosia, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e diritto penale, Torino, 2006; C. Paonessa, Gli obblighi di tutela penale. La<br />

discrezionalità legislativa nella cornice dei vincoli costituzionali e comunitari, Pisa, 2009, pp. 220 ss.; F. Viganò, Diritto penale sostanziale e Convenzione<br />

europea dei diritti dell’uomo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, pp. 84 ss.; Id., Obblighi convenzionali di tutela penale, in Aa. Vv., La Convenzione europea dei<br />

diritti dell’uomo nell’ordinamento penale italiano, cit., pp. 243 ss.<br />

diritto penale contemporaneo 3-4/2012 44<br />

359


Detto con parole diverse, non risponderò al quesito con argomenti espunti da una<br />

dommatica fondata sulla comparazione testuale tra Costituzione e CEDU, bensì lasciandomi<br />

guidare da un senso di pragmatismo empirico (proprio dell’epistemologia di<br />

matrice giusrealistica), descrittivo del ‘come sono andate le cose’ 10 .<br />

Costruita su queste basi, la riflessione lascia emergere, con evidenza, che la (sub-)<br />

costituzionalizzazione della CEDU – sancita dal suo ingresso tra le fonti sovraordinate<br />

alla legge ordinaria – ha oggettivamente segnato, in tema di confisca, l’apertura di una<br />

stagione di enforcement ampliativa delle garanzie individuali.<br />

La ragione è duplice.<br />

La prima si innesta sul fatto che la CEDU ignora la dicotomia strutturale del ‘doppio<br />

binario’ sanzionatorio e, perciò, lega l’area di operatività dei tradizionali baluardi penalistici<br />

dello Stato di diritto ad un concetto, quello di penalty, che la giurisprudenza di<br />

Strasburgo declina secondo scansioni che lo portano ad abbracciare istituti estromessi,<br />

negli ordinamenti nazionali, dalla sfera di operatività del nulla poena sine praevia lege<br />

scripta et sine culpa.<br />

La seconda rinvia all’esiguo ‘peso specifico’ delle prestazioni, conformatrici e/o correttrici/integrative,<br />

rese in materia dalla nostra giurisprudenza costituzionale, condizionata<br />

dal noto ‘auto-contenimento’ con cui ha esercitato il controllo di legittimità in<br />

ambito penale 11 .<br />

1.1<br />

Il bisogno di garanzie per<br />

le nuove ipotesi speciali di<br />

confisca<br />

Che nel diritto penale italiano (il variegato universo del)la confisca ponga problemi<br />

di raccordo con le classiche garanzie della legalità/irretroattività, della colpevolezza e<br />

della proporzione è assunto che si presta ad una rapida enunciazione del suo fondamento<br />

12 .<br />

Il suo archetipo codicistico – vale a dire, la figura meno deficitaria e controversa in<br />

termini di affidabile imputazione personale – appartiene, per espressa definizione legale,<br />

alla species ‘misure amministrative di sicurezza’ e soggiace, quindi, al ridotto statuto<br />

garantistico dell’art. 25, 3° comma, Cost.<br />

La definizione in termini diversi dalla pena in senso stretto ha riguardato anche speciali<br />

figure di confisca alle quali il legislatore degli ultimi decenni ha affidato il compito<br />

di irrobustire la deterrenza del sistema, moltiplicando strumenti e forme di aggressione<br />

delle accumulazioni patrimoniali illecite e di neutralizzazione delle relative potenzialità<br />

di reimpiego nel circuito dell’economia legale (art. 12-sexies, l. n. 356/92 ed estensione<br />

della confisca di prevenzione) o istituendo congegni ablativi dei beni del condannato<br />

indirizzati ad una tutela in chiave risarcitorio/compensativa del danno da reato e/o del<br />

profitto criminoso conseguito (confisca per equivalente).<br />

Ciò che, peraltro, le ‘moderne’ tipologie di confisca hanno recato con sé, scuotendo<br />

la coscienza garantistica del penalista, consiste nell’indebolimento della loro interna<br />

struttura ‘criminologica’, determinato dal superamento del nesso di pertinenzialità della<br />

res ablata col reato commesso. Il risultato è che – oltre a condividere la debolezza garantistica<br />

‘esterna’ della confisca ‘classica’, che si manifesta nei rapporti con i principi di<br />

determinatezza/tassatività ed irretroattività – esse esibiscono una morfologia che entra<br />

in tensione con personalità e proporzionalità della punizione.<br />

Di qui, il consolidarsi di spazi vuoti di protezione che – a fronte dei cedevoli e scivolosi<br />

confini di una tutela costituzionale condizionata dalla logica del doppio binario<br />

sanzionatorio ed alla quale non è riuscito negare cittadinanza al monstrum della<br />

10. Per un fecondo esempio di complessa comparazione critica tra principi costituzionali e principi convenzionali, con specifico riguardo al nullum crimen,<br />

si veda lo stimolante saggio di O. Di Giovine, Il principio di legalità tra diritto nazionale e diritto convenzionale, in Aa. Vv., Studi in onore di Mario<br />

Romano, cit., vol. IV, pp. 2197 ss.<br />

11. F. Viganò, Diritto penale sostanziale e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cit.<br />

12. A. Alessandri, Confisca nel diritto penale, in Dig. disc. pen., vol. III, Torino 1989, pp. 52 ss.<br />

diritto penale contemporaneo 3-4/2012 45<br />

360


prevenzione personale praeter delictum – hanno chiesto di essere riempiti dalla CEDU<br />

e, per certi profili, dal diritto comunitario (oggi diritto dell’U.E) 13 .<br />

1.2<br />

Le decisioni della Corte<br />

europea rilevanti per il<br />

rafforzamento garantistico<br />

della confisca<br />

La chiave di volta per ipotizzare, in tema di confisca, un sistema di garanzie rafforzate<br />

di fonte CEDU si lega ai rapporti tra la nozione convenzionale di penalty e quelle<br />

interne di pene, misure di sicurezza e misure di prevenzione.<br />

Ove, infatti, la prima fosse perfettamente sovrapponibile a quella che il diritto nazionale<br />

riserva alle pene in senso stretto, resterebbero vanificate le aspettative di maggior<br />

tutela, con esiti, sul punto, di sostanziale neutralizzazione dell’efficacia del testo convenzionale,<br />

segnatamente di quella ‘sintassi’ di garanzie risultante dagli artt. 6 (fair trial),<br />

7 (legalità, irretroattività in malam partem, retroattività della lex mitior), 2 (revisione<br />

della condanna da parte di istanza giurisdizionale superiore) e 4 Protocollo n. 7 (divieto<br />

del bis in idem).<br />

Per scongiurare il paventato esito, ed assicurare effettività ai predetti principi con relativa<br />

sottrazione alle manovre di aggiramento da parte degli ordinamenti nazionali, la<br />

Corte europea dei diritti dell’uomo da tempo – segnatamente dal leading case Öztürk 14<br />

del 21 febbraio 1984 – segue itinerari ricostruttivi autonomi nell’impostare la questione<br />

del cosa costituisca, ai sensi della Convenzione, “materia penale”, “sanzione penale” e<br />

“illecito penale”.<br />

1.2.1<br />

(segue) La sentenza Engel c.<br />

Olanda<br />

Sul punto, l’analisi della giurisprudenza di Strasburgo ci riporta all’ormai celebre<br />

sentenza Engel 15 , caso paradigmatico seguito da altre significative pronunce che, pur<br />

orientate, nella sostanza, a ribadirne il nomos, non sempre, tuttavia, hanno operato valutazioni<br />

scevre dalla preoccupazione di incidere su scelte ritenute espressione di cruciali<br />

equilibri interni alle legislazioni degli Stati.<br />

In Engel, i criteria stabiliti per verificare la natura penale di un illecito e della connessa<br />

sanzione, con conseguente applicazione degli artt. 6 e 7 CEDU, sono stati individuati<br />

nella: a) qualificazione giuridico-formale sancita dal diritto nazionale; b) natura dell’illecito;<br />

c) natura e gravità della sanzione. Si tratta di criteri fungibili e non cumulativi,<br />

di talché è sufficiente che ne ricorra uno soltanto per qualificare l’illecito o la sanzione,<br />

rispettivamente, criminal offence e penalty.<br />

1.2.2<br />

(segue) La sentenza Welch c.<br />

R.U.<br />

Le linee guida di Engel hanno tracciato gli assi lungo i quali si è evoluta la giurisprudenza<br />

successiva. È interessante notare come – proprio in rapporto ad una decisione relativa<br />

ad una ipotesi di confisca – l’opera di progressiva concretizzazione compiuta dalla<br />

Corte sia pervenuta a precisare, in termini ancor più ‘comprendenti’, gli indici rivelatori<br />

della natura penale di una sanzione non configurata come tale dal diritto interno. Il<br />

pensiero corre al caso Welch 16 , ove la Corte (con sentenza 9 febbraio 1995) ha esaminato<br />

la vicenda di una confisca disposta ai sensi del britannico Drug Trafficking Offences<br />

Act del 1986, che prevedeva un’ablazione molto estesa dei beni di chi fosse condannato<br />

per traffico di stupefacenti; la misura non era definita nella legge e ciò aveva consentito<br />

alla difesa del Governo di sostenere che, essendo finalizzata a privare una persona dei<br />

profitti ottenuti da traffici illeciti e prevenirne così l’utilizzo futuro per il commercio di<br />

13. G. Abbadessa-F. Mazzacuva, La giurisprudenza di Strasburgo 2008-2010: il diritto di proprietà (art. 1 Prot. 1 CEDU), in questa Rivista, 2011, n. 1,<br />

pp. 323 ss.<br />

14. Corte EDU, Öztürk c. Grecia, 21 febbraio 1984, in Publications de la Cour Européenne des Droits de l’Homme 1985, Série A, vol. 231, pp. 41 ss., nonché<br />

in Riv. it. dir. proc. pen., 1985, pp. 894 ss., con nota di C.E. Paliero, “Materia penale” e illecito amministrativo secondo la corte europea dei diritti dell’uomo:<br />

una questione classica ad una svolta radicale.<br />

15. Corte EDU, Engel e altri c. Olanda, 8 giugno 1976, in Publications de la Cour Européenne des Droits de l’Homme 1977, Série A n. 22, 36.<br />

16. Corte EDU, Welch v. R. U., 9 febbraio 1995, in Publications de la Cour Européenne des Droits de l’Homme 1995, Série A, vol. 307, pp. 1 ss.<br />

diritto penale contemporaneo 3-4/2012 46<br />

361


droga, “it thus did not seek to impose a penalty or punishment for a criminal offence but<br />

was essentially a confiscatory and preventive measure”.<br />

La Corte ha ritenuto che nel tipo di confisca considerata (value confiscation) convivessero<br />

– integrandosi funzionalmente – scopi preventivi ed esigenze propriamente<br />

punitive e che entrambi ben “possono essere considerati elementi costitutivi della stessa<br />

nozione di penalty” (§ 30 della motivazione). In particolare, i giudici hanno ribadito<br />

come questo concetto convenzionale prescinda dalla qualificazione del diritto interno,<br />

risultando, invece, determinanti, ai fini della sua integrazione, a) the connection with a<br />

criminal offence; b) the nature and purpose of the measure in question; c) its characterisation<br />

under national law; d) the procedures involved in the making and implementation<br />

of the measure; e) its severity.<br />

Rispetto ad Engel, Welch ha arricchito il discorso relativo ai criteri di denotazione<br />

connotativa del concetto di ‘pena’. Costretto, invero, a ragionare intorno ad un materiale<br />

spurio, ove l’istituto esaminato non rappresenta la conseguenza principale del reato,<br />

ma solo un suo effetto accessorio, Welch ha aggiunto agli “Engel criteria”, caratterizzati<br />

da una struttura di rilevanza sostanzialistica, indici di qualificazione che, per la prima<br />

volta, registrano l’irrompere della dimensione processuale dei congegni di applicazione<br />

e di esecuzione della misura.<br />

1.2.3<br />

(segue) Le sentenze Sud Fondi<br />

c. Italia<br />

Nell’economia del presente discorso – e specificamente al fine di definire la portata<br />

delle prestazioni garantistiche che la CEDU, nella interpretazione che riceve dal suo<br />

giudice naturale, può rendere in relazione ad ipotesi problematiche di confisca presenti<br />

nella nostra legislazione – assumono significativa importanza le decisioni emesse dalla<br />

Corte europea nella nota vicenda Sud Fondi c. Italia 17 .<br />

Ai giudici di Strasburgo era stata devoluta la questione della legittimità convenzionale<br />

della confisca di terreni e di edifici disposta all’esito di un procedimento penale<br />

per lottizzazione abusiva, conclusosi con sentenza della Cassazione che – nel sostituire<br />

il dispositivo della pronuncia impugnata, recante assoluzione con la formula del “fatto<br />

non sussiste”, con altro di assoluzione perché “il fatto non costituisce reato” – aveva<br />

riconosciuto che gli imputati agirono in situazione di ignoranza scusabile ex art. 5 c.p.<br />

L’epilogo decisorio della vicenda giudiziaria nazionale, con riguardo specifico al<br />

provvedimento ablativo emesso, aveva trovato causa nella giurisprudenza della nostra<br />

Corte regolatrice che – qualificando la confisca prevista dall’art. 19 della l. n. 47/85 (oggi<br />

art. 44 d.P.R. n. 380/01) come sanzione amministrativa atipica (in quanto applicabile<br />

dal giudice penale) – ne ha costantemente legittimato l’applicazione nei casi di accertamento<br />

della (fattispecie oggettiva di) lottizzazione cui non segua condanna, vuoi per<br />

l’assenza dei coefficienti soggettivi di integrazione della tipicità, vuoi per la ricorrenza di<br />

cause di non punibilità o di estinzione del reato.<br />

Con una prima sentenza sulla ricevibilità del ricorso, emessa il 30 agosto 2007, la<br />

Corte – chiamata a stabilire se alla fattispecie sottoposta al suo vaglio poteva applicarsi<br />

l’art. 7 – ha riconosciuto la natura di sanzione penale della confisca sottoposta al suo<br />

vaglio, svolgendo argomentazioni ineccepibili.<br />

In punto di metodo, il giudice della CEDU, dopo aver richiamato il proprio orientamento<br />

sull’autonomia della nozione convenzionale di penalty, ha valutato come assorbenti<br />

i criteri relativi allo ‘scopo’ ed alla ‘gravità’ della sanzione, relegando in appendice<br />

quello formale della qualificazione da parte del diritto interno. Per tale via, viene<br />

individuata nella struttura teleologica della confisca urbanistica una connotazione di<br />

17. Corte EDU, Sud Fondi c. Italia, 30 agosto 2007, in Publications de la Cour Européenne des Droits de l’Homme 2008, Série A, vol. 212, pp. 60 ss. ; Corte<br />

EDU, Sud Fondi c. Italia, 20 gennaio 2009, in Publications de la Cour Européenne des Droits de l’Homme 2009, Série A, vol. 300, pp. 1 ss. Su queste sentenze,<br />

cfr. F. Mazzacuva, Un “hard case” davanti alla Corte europea: argomenti e principi nella sentenza su Punta Perotti, in Dir. pen. proc., 2009, pp. 1540 ss.; R.<br />

Martuscelli, La lottizzazione abusiva, Milano, 2011, passim.<br />

diritto penale contemporaneo 3-4/2012 47<br />

362


afflittività orientata a conseguire esiti di prevenzione generale, che fa affermare al Collegio<br />

di Strasburgo come quella figura ablativa miri “nella sua essenza a punire per impedire<br />

la reiterazione di trasgressioni a prescrizioni stabilite dalla legge”.<br />

Nel successivo arresto del 20 gennaio 2009, relativo al merito della regiudicanda,<br />

la Corte ha colto l’occasione per arricchire il quadro delle garanzie convenzionali in<br />

materia penale 18 , introducendo al suo interno quella pietra angolare del diritto penale<br />

liberaldemocratico rappresentato dal principio di colpevolezza, ma a cui la CEDU non<br />

dà espresso riconoscimento.<br />

Sul punto, la pronuncia ha osservato che se, per un verso, “l’articolo 7 non menziona<br />

espressamente un legame morale tra l’elemento materiale del reato ed il presunto autore”,<br />

per l’altro, “la logica della pena e della punizione così come la nozione di ‘guilty’ (nella<br />

versione inglese) e la nozione corrispondente di ‘personne coupable’ (nella versione francese)<br />

sono nel senso di un’interpretazione dell’articolo 7 che esiga, per punire, un legame<br />

di natura intellettiva (coscienza e volontà) che permetta di rilevare un elemento di responsabilità<br />

nella condotta dell’autore materiale del reato”.<br />

La seconda decisione di Sud Fondi ha così confermato il ruolo cruciale che, negli<br />

anni, il tema della confisca ha finito per giocare nell’opera di progressiva messa a punto,<br />

da parte della giurisprudenza di Strasburgo, delle garanzie convenzionali, nel contesto<br />

di un confronto con le esperienze giuridiche nazionali (che appare) sempre più consapevolmente<br />

aperto alla formazione, ancorata ad affidabili paradigmi di razionalità<br />

discorsiva, di una rinnovata κοινέ dei diritti fondamentali 19 .<br />

Per Sud Fondi la possibilità – ammessa dal diritto italiano (scilicet dal suo formante<br />

giurisprudenziale) – di disporre la confisca pur nella carenza del necessario elemento<br />

psicologico del reato che ne è il presupposto, stride con la considerazione del principio<br />

di colpevolezza in chiave di corollario della legalità/irretroattività scolpita dall’art. 7.<br />

In effetti, costruendo un discorso ermeneutico per certi versi analogo al rapporto tra<br />

legalità e colpevolezza impostato da Corte Cost. n. 364/88, Strasburgo è venuta così a<br />

strutturare una versione ‘allargata’ del nullum crimen, in cui i requisiti della accessibilità<br />

e prevedibilità della legge non rilevano soltanto come presupposti dell’esistenza oggettiva<br />

di una incriminazione e della correlativa base legale di punizione, bensì anche quali<br />

fattori di una imputazione colpevole e, perciò, rimproverabile della trasgressione.<br />

In pratica, la Corte dei diritti dell’uomo ha delineato una ratio di garanzia dell’art.<br />

7 ad ‘ampia vocazione’ performativa: una ratio che funziona da comune denominatore<br />

della legalità formale e del principio di colpevolezza, tesa a sottolineare come la protezione<br />

della libertà individuale implichi una sinergica complementarietà di entrambe le<br />

suddette garanzie.<br />

2<br />

Le ricadute chiaroscurali<br />

delle decisioni della Corte<br />

europea sulle questioni<br />

relative ad ipotesi speciali<br />

confisca<br />

Occorre a questo punto verificare l’impatto che la produzione giurisprudenziale di<br />

matrice convenzionale, riportata per sommi capi, ha prodotto sull’esperienza italiana<br />

di gestione conformativa e di applicazione delle tipologie maggiormente controverse di<br />

confisca.<br />

18. Per una adeguata sottolineatura, S. Manacorda, Carta dei diritti fondamentali e CEDU: una nuova topografia delle garanzie penalistiche in Europa?, in<br />

Aa. Vv., Studi in onore di Mario Romano, ult. cit., pp. 2391 ss.; V. Manes, La lunga marcia della Convenzione europea ed i ‹nuovi› vincoli per l’ordinamento<br />

(e per il giudice) penale interno, ivi, pp. 2437 ss., pp. 2449 ss.<br />

19. In tal modo, mi pare che riceva conferma il trend ‘neocostituzionalistico’: costruito nella forma di nuova ‘teoria del diritto e dell’interpretazione’, esso<br />

impernia la definizione di diritto sia sul relativo congedo dal concetto di sovranità, sia sulla massima espansione della portata vincolante degli enunciati<br />

costituzionali, orientata a realizzare, al più alto grado possibile, la tutela dei diritti fondamentali; sul punto, cfr. A. Baldassarre, Una risposta a Guastini,<br />

in Giur. Cost., 2007, pp. 3251 ss.; M. Dogliani, (Neo)costituzionalismo: un’altra rinascita del diritto naturale? Alla ricerca di un ponte tra neocostituzionalismo<br />

e positivismo metodologico, in Costituzionalismo.it, 2010.<br />

diritto penale contemporaneo 3-4/2012 48<br />

363


2.1<br />

Il tema della retroattività<br />

della confisca del veicolo<br />

per la guida in stato di<br />

ebbrezza<br />

A questo riguardo, un primo riferimento va operato alle vicende interpretative che<br />

hanno riguardato la confisca obbligatoria del veicolo, prevista dall’art. 186, comma 2,<br />

lett. c), C.d.S. per il reato di guida in stato di ebbrezza.<br />

In questo contesto, infatti, quasi plasticamente emerge l’oggettiva influenza esercitata<br />

dalla definizione convenzionale di ‘sanzione penale’ elaborata dalla Corte EDU ai fini<br />

specifici dell’individuazione della natura giuridica di quella ipotesi di confisca.<br />

In discussione era venuta la possibilità di applicare retroattivamente tale istituto.<br />

Muovendo dalla formulazione letterale della richiamata disposizione del C.d.S. –<br />

nella parte in cui stabiliva la confiscabilità del veicolo “ai sensi dell’art. 240, secondo<br />

comma, del codice penale” – e dalla sua lettura in combinato disposto con il successivo<br />

art. 187, comma 1), un primo granitico orientamento giurisprudenziale 20 riconduceva il<br />

nuovo strumento di sottrazione patrimoniale all’operatività della regola del tempus regit<br />

actum scolpita dall’art. 200 c.p., legittimandone l’applicazione in via retroattiva, per<br />

fatti commessi antecedentemente all’entrata in vigore della novella introdotta con l’art.<br />

4, comma 1, lett. b), del d.l. n. 92/08, convertito, con modificazioni, nella legge n. 125/08.<br />

Questo spaccato di diritto vivente è giunto al vaglio della Consulta in seguito ad<br />

un’accurata ordinanza di remissione che ha sollevato la questione del contrasto della<br />

soluzione accolta dalla unanime giurisprudenza di legittimità con l’art. 7 della CEDU,<br />

interpretato quale disposizione subcostituzionale rilevante nella cornice precettiva<br />

dell’art. 117, primo comma, Cost.<br />

L’auspicata risposta in coerenza agli scopi di protezione della Convenzione si è concretizzata<br />

nella sentenza 26 maggio/4 giugno 2010, n. 196 21 , con cui la Corte Costituzionale,<br />

dichiarando l’illegittimità della disposizione censurata, limitatamente alle parole<br />

“ai sensi dell’art. 240, secondo comma, del codice penale”, ha riconosciuto natura sanzionatoria<br />

alla confisca esaminata, sancendone la soggezione al regime dell’irretroattività.<br />

Rilevante, per le nostre esigenze, è il peculiare discorso giustificativo declinato dal<br />

giudice delle leggi. Nel fondare il dispositivo di accoglimento su di un itinerario argomentativo<br />

incentrato sull’interpretazione che la disposizione convenzionale evocata ha<br />

ricevuto dalla Corte dei diritti dell’uomo, i giudici costituzionali ne hanno sottolineato<br />

la portata vincolante ai fini di valutazione dei vincoli fissati dall’art. 117, primo comma,<br />

Cost., nella dimensione di rilevanza che, configurata dalle sentenze gemelle, è stata ribadita<br />

ed ulteriormente precisata dalla decisione n. 239/09.<br />

La Corte, infatti, ha rammentato che le norme della Convenzione, oltre a consentire<br />

il sindacato di legittimità nella sede propria del giudizio a ciò deputato, determinano<br />

in capo al giudice interno uno specifico potere/dovere di interpretazione orientata ‘nel<br />

senso della CEDU’, competendo ad esso un compito di ‘custode diffuso’ della legalità<br />

convenzionale in quanto parte integrante di quella costituzionale.<br />

Nel merito della questione sollevata, la Consulta ha rimarcato come la portata convenzionale<br />

del nullum crimen inglobi, in coerenza con una ricostruzione autonomistica<br />

del concetto di ‘materia penale’, tutte le misure ‘intrinsecamente punitive’, senza che<br />

rilevi, al riguardo, la nomenclatura formale.<br />

È allora possibile affermare che nella sentenza n. 196/10 si è venuto realizzando un<br />

significativo ‘circolo ermeneutico’ tra testo convenzionale e Costituzione circa l’estensione<br />

del nullum crimen su basi sostanziali di effettività.<br />

Potrebbe, inoltre, risultare non insignificante notare – da un angolo visuale interessato<br />

a sondare l’esistenza, almeno presso le nostre Corti supreme, di uno Zeitgeist di qualche<br />

20. Cass. pen., sez. IV, 4 giugno 2009, n. 32932, in CED, rv. 413251; Id., 3 aprile 2009, n. 38179; Id., 27 gennaio 2009, n. 9986, in CED, rv. 239156.<br />

21. In www.giurcost.org; in argomento, G. Abbadessa, Guida in stato di ebbrezza e divieto di applicazione retroattiva della confisca, 8 dicembre 2010, in<br />

Diritto penale contemporaneo; V. Manes, La confisca “punitiva” tra corte costituzionale e CEDU: sipario sulla “truffa delle etichette”, in Cass. pen., 2011,<br />

pp. 534 ss.; F. Viganò-G. L. Gatta, Natura giuridica della confisca del veicolo nella riformata disciplina della guida in stato di ebbrezza e sotto l’effetto di<br />

stupefacenti: pena o sanzione amministrativa accessoria? Riflessi sostanziali e processuali, 9 dicembre 2010, in Diritto penale contemporaneo.<br />

diritto penale contemporaneo 3-4/2012 49<br />

364


ilievo – come, contestualmente al discorso svolto dalla Corte Costituzionale, anche le Sezioni<br />

Unite della Cassazione abbiano promosso una lettura ad orientamento convenzionale<br />

della confisca dell’autoveicolo per la guida in stato di ebbrezza, ‘bocciando’ l’indirizzo<br />

interpretativo fino ad allora dominante nella giurisprudenza delle sezioni semplici.<br />

Nell’arresto Caligo 22 , infatti, i supremi giudici hanno etichettato l’istituto come sanzione<br />

penale accessoria, affermando expressis verbis che la soluzione è “in linea con la<br />

più recente elaborazione della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo” e, in<br />

modo specifico, con le posizioni espresse in Sud Fondi.<br />

2.2<br />

La qualificazione in chiave<br />

sanzionatoria della confisca<br />

per equivalente<br />

Altro terreno sul quale la giurisprudenza convenzionale in tema di qualificazione<br />

sanzionatoria della confisca ha prodotto risultati di salutare adeguamento dell’interpretazione<br />

interna, concerne l’istituto della confisca per equivalente, definita dalle SS.UU.<br />

“ forma di prelievo pubblico a compensazione di prelievi illeciti” 23 .<br />

Anche qui, invero, è possibile marcare una crasi tra la prima fase dell’esperienza<br />

giurisprudenziale e quella successiva, in cui lo spartiacque ancora una volta si è rivelata<br />

la graduale maturazione di una ‘coscienza convenzionale’ e del ruolo di parte integrante<br />

del patrimonio culturale e tecnico operativo del giurista (teorico e pratico) interno.<br />

Negli anni iniziali di vigenza dell’art. 322-ter c.p., la giurisprudenza nazionale aveva<br />

opposto resistenze alla prospettiva di aggregare il nuovo istituto all’ambito nozionale di<br />

pena, sposando la tesi della relativa sottoposizione alla disciplina in tema di misure di<br />

sicurezza, in particolare a quella racchiusa nell’art. 200 c.p. Progressivamente, tuttavia,<br />

questo indirizzo è mutato proprio in virtù delle spinte conformatrici generate dalla definizione<br />

convenzionale di sanzione penale, al punto che costituisce oggi ius receptum<br />

la caratterizzazione della confisca in esame quale misura sanzionatoria, rientrante nello<br />

statuto garantistico della ‘materia penale’, ove primeggia la regola dell’irretroattività in<br />

malam partem. Limpida, al riguardo, è divenuta la posizione dei nostri giudici: secondo<br />

la Corte di Cassazione 24 e la Corte Costituzionale 25 “la mancanza di pericolosità dei beni<br />

che sono oggetto della confisca per equivalente, unitamente all’assenza di un ‘rapporto<br />

di pertinenzialità’ (inteso come nesso diretto, attuale e strumentale) tra il reato e detti<br />

beni, conferiscono all’indicata confisca una connotazione prevalentemente afflittiva, attribuendole,<br />

così, una natura ‘eminentemente sanzionatoria’, che impedisce l’applicabilità<br />

a tale misura patrimoniale del principio generale dell’art. 200 cod. pen., secondo cui le<br />

misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione, e<br />

possono essere, quindi, retroattive”, dovendosi invece fare riferimento all’art. 25, comma<br />

2 della Costituzione ed all’art. 7 della Convenzione Europea.<br />

2.3<br />

Le questioni in tema di<br />

confisca urbanistica dopo Sud<br />

Fondi<br />

Rispetto alla confisca prevista per il reato di lottizzazione abusiva, l’interesse ad esaminare<br />

i termini ed il grado di penetrazione degli argomenti e dei principi di fonte convenzionale<br />

nell’ambito della nostra giurisprudenza nasce – innanzitutto e quasi istintivamente<br />

– dal fatto che proprio in questa materia è stata pronunziata la prima condanna<br />

dell’Italia per violazione dell’art. 7 CEDU; in secondo luogo, dai diversi interrogativi di<br />

legittimità convenzionale che l’istituto solleva.<br />

Proprio riguardo a quest’ultimo piano, la verifica dell’incidenza avuta dalla decisione<br />

della Corte dei diritti dell’uomo esige la previa individuazione analitica delle diverse<br />

questioni sul tappeto, anche in ragione della differente efficacia vincolante che rispetto<br />

ad esse produce l’arresto di Strasburgo.<br />

22. Cass. pen., SS.UU., 18 giugno 2010, n. 23428, Caligo, in Diritto penale contemporaneo.<br />

23. Cass. pen., SS.UU., 25 ottobre 2005, n. 41936, in Cass. pen., 2006, 1382.<br />

24. Cass. pen., Sez. VI, 18 febbraio 2009, n.13098, in CED, rv. 254316.<br />

25. Ordinanza n. 97 del 22 aprile 2009, in Corr. trib., 2009, pp. 1775 ss., con nota di P. M. Corso, La confisca per equivalente non è retroattiva.<br />

diritto penale contemporaneo 3-4/2012 50<br />

365


2.3.1<br />

Fattispecie soggettiva della<br />

tipicità e confisca<br />

Un primo profilo problematico coincide con la specifica ragione che ha determinato<br />

la pronuncia sul merito del 20 gennaio 2009.<br />

E qui la giurisprudenza di legittimità ha adempiuto, da subito e fino in fondo, il<br />

proprio dovere di adeguamento alla ratio decidendi di Sud Fondi, stabilendo 26 che, ai<br />

fini dell’applicazione della confisca di terreni abusivamente lottizzati e delle opere ivi<br />

illegittimamente realizzate, è necessario l’accertamento sia degli estremi oggettivi della<br />

fattispecie lottizzatoria, sia dei correlati coefficienti soggettivi, quantomeno nella forma<br />

minima della colpa.<br />

2.3.2<br />

Prescrizione del reato e<br />

confisca<br />

Un secondo aspetto concerne la legittimità della confisca ‘senza condanna’, nei casi,<br />

in particolare, di sopravvenuta prescrizione del reato.<br />

Al riguardo, va detto che, proprio di recente, la Corte di Cassazione ha introdotto<br />

un cuneo nel monolitico orientamento formatosi prima di Sud Fondi, affermando che<br />

non può farsi luogo alla misura ablatoria qualora la causa estintiva sia maturata in epoca<br />

antecedente al promovimento dell’azione penale 27 .<br />

A mio avviso, anche dopo Sud Fondi, può residuare uno spazio di agibilità della confisca<br />

applicata in relazione a reato prescritto, a condizione, ben vero, che resti preservata,<br />

all’esito di un giudizio di merito, l’effettività dell’accertamento (dei profili) di responsabilità.<br />

Da questa impostazione, dovrebbe, allora, conseguire la preclusione a disporre la<br />

confisca in caso di prescrizione dichiarata dal giudice dell’udienza preliminare, ovvero<br />

con sentenza emessa ai sensi dell’art. 129 c.p.p.<br />

2.3.3<br />

Confisca e tutela dei terzi<br />

Resta da esaminare un terzo profilo, relativo alla tutela dei terzi acquirenti estranei<br />

al reato.<br />

Il punto merita un particolare approfondimento, per i fraintendimenti a cui può<br />

dare adito una linea interpretativa che affastella situazioni che, invece, vanno tenute<br />

accuratamente distinte.<br />

Mi riferisco a quello che viene presentato come l’orientamento che adempie l’ufficio<br />

di raccordare il diritto di proprietà dei terzi acquirenti col principio di colpevolezza<br />

affermato da Sud Fondi.<br />

Si è soliti, al riguardo, riportare la giurisprudenza che riconosce il “necessario riscontro<br />

quanto meno di profili di colpa (anche sotto gli aspetti dell’imprudenza, della<br />

negligenza e del difetto di vigilanza) nella condotta dei soggetti sul cui patrimonio la misura<br />

viene a incidere”, precisando, quale corollario, “che viola l’art. 7 della CEDU e l’art.<br />

1 del Protocollo addizionale n. 1 l’applicazione della confisca nei confronti di un soggetto<br />

del quale non sia stata accertata una condotta dolosa o colposa di partecipazione alla<br />

lottizzazione abusiva” 28 .<br />

Ora, appare abbastanza chiaro che tali massime non si correlano al ‘caso tipologico’<br />

del terzo estraneo al reato, ma concernono una ordinaria vicenda di concorso criminoso,<br />

per la quale l’adeguamento a Sud Fondi non può che replicare l’affermazione della<br />

necessità dell’elemento psicologico, in tutto omologa a quella argomentata per l’illecito<br />

monosoggettivo, sia nella versione esclusivamente individuale, sia in quella plurale delle<br />

cause indipendenti.<br />

Deve essere, invece, chiaro che la tutela del terzo acquirente, estraneo al reato, reclama<br />

l’operatività dell’assai diverso principio civilistico della ‘buona fede’.<br />

Proiettata la questione in questa ottica, emerge il carattere insoddisfacente della<br />

26. Ex plurimis, Cass. pen., sez. III, 16 febbraio 2011, n. 5857; Id., 6 ottobre 2010, n. 39715; Id., 25 maggio 2010, n. 32273; Id., 13 luglio 2009, n. 39078; Id.,<br />

29 aprile 2009, n. 17865.<br />

27. Cass. pen., sez. III, 16 febbraio 2011, cit.<br />

28. Cass. pen., sez. III, 16 febbraio 2011, cit.<br />

diritto penale contemporaneo 3-4/2012 51<br />

366


soluzione ermeneutica coniata dalla nostra Corte regolatrice, nel contesto di un orientamento<br />

costante quanto francamente approssimativo, ove si afferma che “quando invece<br />

l’acquirente sia consapevole dell’abusività dell’intervento – o avrebbe potuto esserlo spiegando<br />

la normale diligenza – la sua condotta si lega con intimo nesso causale a quella del<br />

venditore ed in tal modo le rispettive azioni, apparentemente distinte, si collegano tra loro<br />

e determinano tra loro la formazione di una fattispecie unitaria e indivisibile, diretta in<br />

modo convergente al conseguimento del risultato lottizzatorio”.<br />

Accomunare la situazione dell’acquirente concorrente nel reato (impropriamente<br />

definito ‘terzo’) e quella del soggetto oggettivamente estraneo (e, dunque, effettivamente<br />

‘terzo’) comporta, all’evidenza, una violazione dell’uguaglianza/ragionevolezza, ma,<br />

ancor più, dell’esigenza di garantire effettiva ed adeguata tutela al diritto di proprietà.<br />

Esigere, infatti, dal terzo estraneo un dovere di normale diligenza che rende rilevante<br />

la mera trascuratezza quale causa di esclusione della buona fede, equivale a costruire<br />

– sul delicato terreno della giustiziabilità degli strumenti di sottrazione patrimoniale<br />

– una nozione iper-oggettiva di colpa, a base totale, calibrata sul paradigma di un superagente<br />

modello, in contrasto vistoso con i livelli di tutela che garantisce il capoverso<br />

dell’art. 1147 c.c., per il quale solo la colpa grave può assurgere a limite di configurabilità<br />

della buona fede.<br />

In coerenza con l’approccio qui criticato, si collocano le ancor più drastiche conseguenze<br />

teorizzate dalla Cassazione in materia di sequestro, ove viene sancito che “il<br />

sequestro preventivo finalizzato alla confisca di un immobile abusivamente lottizzato può<br />

essere adottato anche nei confronti del terzo acquirente, qualora egli non abbia assunto,<br />

deliberatamente o per mera trascuratezza, tutte le necessarie informazioni sulla sussistenza<br />

di un titolo abilitativo, nonché sulla compatibilità dell’immobile con gli strumenti<br />

urbanistici” 29 , con l’ulteriore precisazione che “nel giudizio cautelare concernente il sequestro<br />

di immobili o terreni abusivamente lottizzati, la dedotta buona fede del terzo<br />

acquirente può essere oggetto di valutazione a condizione che risulti immediatamente<br />

evidente” 30 .<br />

2.4<br />

La mancata penetrazione<br />

del diritto convenzionale,<br />

e di quello europeo, nella<br />

giurisprudenza in tema di<br />

confisca allargata (art.<br />

12-sexies, l. n. 356/92)<br />

Un ambito che continua a manifestarsi impermeabile agli avanzamenti garantistici<br />

della giurisprudenza convenzionale, ma anche alle pretese di razionalità racchiuse<br />

nel diritto dell’Unione, è quello definito dalla c.d. confisca allargata, delineata dall’art.<br />

12-sexies, l. n. 356/92 31 .<br />

Essa viene ancora definita misura di sicurezza patrimoniale, sul rilievo che inciderebbe<br />

sulla pericolosità di beni i quali, lasciati nella disponibilità di soggetti condannati<br />

per gravi delitti, potrebbero propiziare la realizzazione di ulteriori reati 32 .<br />

Di qui l’affermata inapplicabilità del principio di irretroattività, in favore dell’opposta<br />

regola del tempus regit actum che, enunciata dal più volte citato art. 200 c.p., sfuggirebbe<br />

alla scure dell’incostituzionalità non trovando copertura nel secondo comma<br />

dell’art. 25 della Carta repubblicana. In sintonia con tale impostazione, la Corte regolatrice<br />

ha precisato che il ricorso alla confisca discende dalla pericolosità della detenzione<br />

al momento della decisione, sicché non avrebbe senso parlare di retroattività con riferimento<br />

al fatto reato contestato 33 .<br />

Si tratta di una tesi non più sostenibile alla luce degli ammonimenti della giurisprudenza<br />

convenzionale.<br />

29. Cass. pen., sez. VI, 23 novembre 2010, n. 45492, cit.<br />

30. Cass. pen., sez. III, 25 maggio 2011, n. 24435, cit.<br />

31. In tema D. Fondaroli, Misure di prevenzione e presunta pericolosità dei beni, cit., pp. 1507 ss.; A. M. Maugeri, L’irrefrenabile tendenza espansiva<br />

della confisca quale strumento di lotta contro la criminalità organizzata, in Criminalità organizzata e sfruttamento delle risorse territoriali, a cura di M.<br />

Barillaro, Milano, 2004, pp. 97 ss.<br />

32. Cass. pen., sez. VI, 28 febbraio 1995, n. 775, in Cass. pen., 1996, pp. 251 ss.<br />

33. Cass. pen., sez. II, 2 aprile 2003, n. 20131, in Cass. pen., 2004, pp. 456 ss.; Cass. pen., sez. VI, 28 febbraio 1995, cit.<br />

diritto penale contemporaneo 3-4/2012 52<br />

367


Se la confisca in esame avesse una destinazione esclusivamente preventiva – tale,<br />

quindi, da non poter essere ricondotta alla sfera concettuale della pena – il provvedimento<br />

che la disponesse dovrebbe risultare sempre modificabile, in coerenza con la natura<br />

delle prognosi di pericolosità criminosa.<br />

Quanto, poi, ai presupposti di operatività (condanna per determinati reati; omessa<br />

giustificazione della provenienza dei beni da parte del condannato; sproporzione del<br />

valore dei beni rispetto ai redditi ed alle attività economiche) l’arresto leading delle Sezioni<br />

Unite 34 è nel senso sia di escludere un nesso di pertinenzialità cronologica tra beni<br />

confiscabili e reato, sia di correlare l’onere di una ‘credibile giustificazione’ “alla positiva<br />

liceità della provenienza e non si risolve nella prova negativa della non provenienza dal<br />

reato per cui si è condannati”.<br />

Ciò che, più esplicitamente, la nostra nomofilachia pretende è una vera e propria<br />

prova positiva della provenienza lecita dei beni, secondo una declinazione che rende la<br />

disposizione finanche più draconiana del ‘famigerato’ art. 2-ter, l. n. 575/65.<br />

Ma, come si è detto, anche rispetto agli obblighi di conformazione del diritto europeo,<br />

l’istituto in esame palesa un significativo margine di scollamento.<br />

In effetti, dal canone della ‘proporzionalità’ previsto dall’art. 49, 3° comma, della<br />

Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea 35 (“L’intensità delle pene non deve<br />

essere sproporzionata rispetto al reato”), potrebbe discendere una pretesa di rivisitazione<br />

ermeneutica dei presupposti/condizioni di applicabilità della confisca, idonea a<br />

farle recuperare un rapporto di compatibilità con una dimensione personalistica della<br />

sanzione, indirizzata a favorire la realizzazione di ‘compiti motivanti’ ad orientamento<br />

preventivo, tarati su ragionevoli standard criminologici di effettività.<br />

L’obbligo di interpretare l’art. 12-sexies conformemente al richiamato pilastro del diritto<br />

dell’Unione schiuderebbe prospettive di limitazione del campo di estensione della<br />

norma, attraverso una consapevole attività di selezione dell’oggetto della verifica probatoria,<br />

coincidente con i beni in relazione cronologica col reato contestato.<br />

Resterebbe recuperato, così, il nesso tra beni confiscati e attività illecita, sulla base<br />

di fatti circostanziati espressivi di generalizzazioni epistemiche rilevanti per la formulazione<br />

di affidabili giudizi inferenziali.<br />

A dire il vero, se percorresse questa strada, la giurisprudenza ritornerebbe al passato,<br />

ridando ossigeno ad un felice indirizzo interpretativo che si era affacciato in diverse<br />

sentenze delle sezioni semplici della Cassazione, prima della svolta rigorista segnata<br />

dall’intervento delle Sezioni Unite.<br />

In più di un arresto, infatti, il giudice di legittimità aveva osservato che la presunzione<br />

di illegittima acquisizione dei beni da parte dell’imputato va circoscritta ad un ambito<br />

di ragionevolezza temporale, escludendo, cioè, dalla coercizione reale i beni acquisiti<br />

in epoca così distante dal reato da recidere con quest’ultimo qualsiasi collegamento 36 .<br />

Peraltro, questa interpretazione svela significative assonanze con la figura dei “poteri<br />

estesi di confisca”, disciplinata dall’art. 3 della decisione-quadro 2005/212/GAI, in cui<br />

‘anteriorità’ dell’acquisto dei beni rispetto al reato e ‘pertinenza’ argomentata sulla base<br />

di fatti circostanziati assurgono a parametri di applicabilità della sottrazione patrimoniale<br />

37 .<br />

34. Cass. pen., SS.UU., 19 gennaio 2004, n. 920, in Cass. pen., 2004, 1182<br />

35. Sul quale, v. C. Sotis, I principi di necessità e proporzionalità della pena nel diritto dell’Unione Europea dopo Lisbona, 4 ottobre 2011, in Diritto penale<br />

contemporaneo; F. Viganò, Il diritto penale sostanziale, in Dir. pen. proc., speciale Europa, 2011, pp. 22 ss.<br />

36. Cass. pen., sez. V, 23 aprile 2001, n. 25378; Cass. pen., Sez. I, 5 febbraio 2001, n. 11049; Cass. pen., Sez. V, 23 aprile 1998, n. 2469, tutte in CED Cass. pen.<br />

37. V. Manes, Nessuna interpretazione conforme al diritto comunitario con effetti in malam partem, in Cass. pen., 2010, pp. 112 ss.; G. D. Salcuni, L’europeizzazione<br />

del diritto penale: problemi e prospettive, Milano, 2011, 345.<br />

diritto penale contemporaneo 3-4/2012 53<br />

368


2.5<br />

I riflessi auspicabili in<br />

materia di prevenzione<br />

patrimoniale<br />

Dagli ‘strati’ della giurisprudenza convenzionale in materia di pena, potrebbero<br />

aprirsi interessanti prospettive sul versante delle misure di prevenzione patrimoniali<br />

antimafia 38 .<br />

Quello della prevenzione ante e praeter delictum rappresenta un settore rispetto al<br />

quale la Corte europea è apparsa soverchiamente rispettosa della sovranità delle scelte<br />

del legislatore nazionale, nella preoccupazione di non infrangere gli equilibri interni ai<br />

bilanciamenti fissati dalla normativa interna 39 .<br />

Con riferimento alla confisca di prevenzione antimafia prevista dall’art. 2-ter l.<br />

575/65, la questione della legittimità convenzionale fu esaminata dalla Commissione<br />

europea dei diritti dell’uomo nel caso Marandino 40 . In tale circostanza, venne esclusa la<br />

riconducibilità della misura al concetto di penalty ex art. 7 CEDU, sull’assunto che essa<br />

non presuppone un reato, ma tende a prevenirne il verificarsi impedendo l’uso illecito<br />

dei beni colpiti. In termini diversi: il suo fondamento non sarebbe la responsabilità per<br />

un fatto compiuto, ma la pericolosità dei beni accumulati.<br />

In contrario, penso che la confisca di prevenzione meriterebbe di essere considerata<br />

sanzione penale ai sensi degli stessi Engel criteria: a) il suo presupposto – a fortiori alla<br />

luce della recente legislazione – non è la pericolosità attuale del soggetto, bensì l’origine<br />

illecita del patrimonio, indiziata dall’appartenenza del suo titolare effettivo a sodalizi<br />

mafiosi, ovvero dalla ritenuta (su base indiziaria) commissione da parte sua di determinati<br />

reati (natura dell’infrazione); b) la misura viene applicata in via definitiva (natura<br />

della sanzione) e può colpire l’intero patrimonio dell’indiziato (severità della sanzione).<br />

Osservo, inoltre, che l’appartenenza delle misure di prevenzione patrimoniale, al<br />

pari di quelle personali, al novero delle pene discende da un argomento che traggo da<br />

una importante sentenza della Corte Costituzionale italiana, spesso trascurata ed invece<br />

definibile ‘storica’.<br />

Si tratta della sentenza n. 177/80 41 che, per prima, ha adottato un dispositivo di accoglimento<br />

fondato sul parametro della legalità/determinatezza, giustiziando proprio una<br />

disposizione in materia di prevenzione personale (specificamente, l’art.1, n. 3, l. 1423/56,<br />

relativa alla categoria soggettiva dei “proclivi a delinquere”).<br />

Scontata la deduzione inferenziale: se la fattispecie ‘condizionante’ (pericolosità)<br />

viene aggregata al vocabolario garantistico scritto per il ‘reato’, anche la fattispecie ‘condizionata’<br />

(misura di prevenzione) deve poter partecipare della medesima natura della<br />

‘pena’.<br />

Così argomentando, ci si accorge come il criterio della qualificazione giuridica interna<br />

che, come si è visto, da Engel in avanti costituisce uno degli indici rivelatori della<br />

inquadrabilità di un istituto nella nozione convenzionale di pena, debba inglobare anche<br />

‘argomenti’ desunti dalla complessiva esperienza dei valori costituzionali dell’ordinamento<br />

nazionale.<br />

Su queste basi, dovrebbe essere interdetta l’applicazione retroattiva della confisca di<br />

prevenzione.<br />

Il problema, come ognun vede, tocca profili dell’attualità giuridica.<br />

Con il decreto sicurezza del 2008, convertito nella legge n. 125/08, è stata ampliata<br />

la base soggettiva di applicabilità della confisca, introdotta dalla Rognoni/La Torre. In<br />

particolare, è stata estesa alle nuove figure inserite nell’art. 1 della l. 575/65 (“gli indiziati<br />

di uno dei delitti di cui all’art. 51 comma 3-bis c.p.p”, ovvero del reato di cui all’articolo<br />

12-quinquies, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306), cui una giurispruden-<br />

38. Per un’analisi di talune problematiche generali, volendo, cfr. V. Maiello, La prevenzione patrimoniale in trasformazione, in Dir. pen. proc., 2009, pp.<br />

805 ss.<br />

39. A. M. Maugeri, Relazione introduttiva, cit.<br />

40. Commission Eur., 15 aprile 1991, Marandino, no. 12386/86, in Decisions et Rapports (DR) 70, 78.<br />

41. In www.giurcost.org.<br />

diritto penale contemporaneo 3-4/2012 54<br />

369


za della Cassazione 42 ha – prima ancora che la questione fosse espressamente risolta<br />

dal codice antimafia (artt. 1 e 4, d.lgs. n. 159/11) – affiancato, sulla base di un ritenuto<br />

fenomeno di reviviscenza normativa dell’art. 19, l. 22 maggio 1975, n. 152, anche i ‘pericolosi’<br />

indicati nell’art. 1, l. n. 1423/56.<br />

Nei procedimenti di prevenzione di questi anni si è, allora, discusso – e si continua a<br />

farlo – se la confisca possa essere irrogata per fatti commessi in data antecedente all’intervento<br />

legislativo di modifica da soggetti che, fino a quel momento, non potevano<br />

esserne destinatari.<br />

La prassi, forte del vecchio scudo immunitario offerto da Marandino, risolve il quesito<br />

richiamando l’art. 200 c.p. ed il principio del tempus.<br />

A mio sommesso avviso, occorre prendere atto dell’anacronismo di tale posizione.<br />

Un suo superamento da parte della nostra giurisprudenza gioverebbe allo stesso<br />

universo di fonte convenzionale: togliendole occulti ma innegabili alibi suggeriti da<br />

trend politically correct, consentirebbe alla giurisprudenza di Strasburgo di essere fino<br />

in fondo coerente con sé stessa, imprimendo ulteriore spinta al cammino della civiltà<br />

dei diritti.<br />

Problemi di retroattività si pongono anche in rapporto alle modifiche subite dall’art.<br />

2-ter, l. n. 575/65, segnatamente alla presunzione di fittizietà dei trasferimenti e delle<br />

intestazioni “anche a titolo oneroso, effettuati nei due anni antecedenti la proposta della<br />

misura di prevenzione nei confronti dell’ascendente, del discendente, del coniuge o della<br />

persona stabilmente convivente, nonché dei parenti entro il sesto grado e degli affini entro<br />

il quarto grado, nonché i trasferimenti e le intestazioni, a titolo gratuito o fiduciario, effettuati<br />

nei due anni antecedenti la proposta della misura di prevenzione”, con possibilità<br />

di annullamento degli atti di disposizione compiuti.<br />

Se si riconoscessero nella confisca di prevenzione pregnanti profili punitivi, qualificandola<br />

sanzione nel senso della CEDU, si dovrebbe negare efficacia retroattiva alla<br />

presunzione innanzi richiamata, sbarrandone la riferibilità alle situazioni cristallizzatesi<br />

in epoca anteriore all’entrata in vigore del d.l. n. 92/08, convertito nella citata legge<br />

n. 125/08.<br />

3<br />

Confisca per equivalente e<br />

obbligo di interpretazione<br />

conforme<br />

Nella trama di un discorso sui rapporti tra confisca e fonti sovranazionali, una<br />

specifica attenzione va riservata alle questioni di diritto comunitario 43 (oggi diritto<br />

dell’Unione) affrontate dalla giurisprudenza, nell’opera di definizione dei limiti di applicabilità<br />

dell’art. 322-ter c.p.<br />

Oltre che per completezza informativa, il punto merita un’analisi perché da essa affiora<br />

una sorta di ‘pendolarismo ermeneutico’ nell’uso che la Corte di Cassazione ha<br />

fatto dell’obbligo di interpretazione conforme al diritto comunitario.<br />

Una prima sentenza può essere additata quale esempio di interpretazione conforme<br />

generatrice di effetti contra reum.<br />

42. Cass. pen., sez. I, 4 febbraio 2009, n. 472, in CED Cass. pen.<br />

43. La letteratura sull’argomento è vastissima; ex multis, cfr. A. Barletta, La legalità penale tra diritto dell’Unione europea e Costituzione, Napoli, 2011; A.<br />

Bernardi, L’europeizzazione del diritto e della scienza penale, Torino, 2004; Id., La Costituzione per l’Europa e la formazione di un diritto penale dell’Unione<br />

Europea, in Aa.Vv., Studi in onore di Giorgio Marinucci, cit., tomo I, pp. 359 ss.; G. Grasso-R. Sicurella, a cura di, Lezioni di diritto penale europeo,<br />

Milano, 2007; T. Epidendio, Diritto comunitario e diritto penale interno, Milano, 2007; G. Fornasari, Riserva di legge e fonti comunitarie. Spunti per una<br />

riflessione, in Principi costituzionali in materia penale e fonti sopranazionali, cit., pp. 17 ss.; G. Fiandaca, Quale diritto penale per l’Europa?, in Identità,<br />

diritti, ragione pubblica in Europa, a cura di I. Trujillo-F. Viola, Bologna, 2007, pp. 143 ss.; Id., Legalità penale e democrazia, in Aa.Vv., Principio di<br />

legalità e diritto penale, Quaderni Fiorentini, Milano, 2008, 1267; Id., Aspetti problematici del rapporto tra diritto penale e democrazia, in Foro it., 2011, pp.<br />

1 ss.; C. Grandi, Riserva di legge e legalità penale europea, Milano, 2010; S. Manacorda, L’efficacia espansiva del diritto comunitario sul diritto penale, in<br />

Foro it., 1995, IV, pp. 55 ss.; Id., Unione Europea e sistema penale: stato della questione e prospettive di sviluppo, in Studium iuris, 1997, pp. 945 ss.; F. Sgubbi-<br />

V. Manes, a cura di, L’interpretazione conforme al diritto comunitario in materia penale, Bologna, 2007; G.D. Salcuni, op. cit.; F. Sgubbi, Diritto penale<br />

comunitario, in Digesto pen., IV, Torino, 1992, pp. 98 ss.; C. Sotis, Il diritto senza codice. Uno studio sul sistema penale europeo vigente, Milano, 2007; Id.,<br />

Il Trattato di Lisbona e le competenze penali dell’Unione europea, in Cass. pen., 2010, pp. 1146 ss.; F. Viganò, L’influenza delle norme sovranazionali nel<br />

giudizio di antigiuridicità del fatto tipico, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, pp. 1067 ss.; Id., Il diritto penale sostanziale, cit., pp. 22 ss.<br />

diritto penale contemporaneo 3-4/2012 55<br />

370


In Muci 44 , infatti, le Sezioni Unite – investite della questione relativa all’irrogabilità<br />

della confisca di valore al profitto della truffa aggravata ex art. 640-bis c.p. – hanno<br />

stabilito che il rinvio operato dall’art. 640-quater all’art. 322-ter non va inteso come<br />

limitato al primo comma di quest’ultima disposizione (che consentirebbe la confisca<br />

per equivalente del solo “prezzo”), essendo riferibile all’intera stratificazione normativa<br />

dell’articolo – in quanto applicabile –, con la conseguenza che anche il profitto del predetto<br />

delitto sarebbe passibile di ablazione.<br />

Pur consapevoli della portata additiva della conclusione raggiunta, i supremi giudici<br />

hanno privilegiato l’interpretazione conforme alle decisioni quadro emesse in materia<br />

e recepite nel nostro ordinamento (2001/500 GAI del 26.6.01 – art. 3 –; 2005/212 GAI<br />

del 24.2.05 – art. 2 –), ritenendola vincolante per il giudice interno anche qualora dovesse<br />

dar luogo ad esiti in malam partem. In proposito, hanno osservato che “il giudice<br />

(…) è tenuto ad applicare il diritto nazionale per quanto possibile alla luce della lettera<br />

e dello scopo della decisione-quadro (…) fin dove però il diritto interno consente un’interpretazione<br />

conforme a tale decisione, in quanto, come nel caso dell’art. 640-quater,<br />

le disposizioni pertinenti contengono clausole generali o concetti giuridici indefiniti, che<br />

consentono al giudice nazionale di utilizzare l’intero spazio valutativo ad esso concesso in<br />

favore del diritto dell’Unione Europea”.<br />

In contrario, va opposto che l’obbligo dell’interpretazione conforme non configura<br />

affatto un principio a sovranità illimitata, incontrando ben individuabili limiti che<br />

conducono a relativizzarne lo stesso significato politico/istituzionale. Già nel suo contesto<br />

di nascita, infatti, la formulazione di quell’obbligo racchiudeva gli anticorpi che<br />

avrebbero dovuto scongiurarne indiscriminate derive applicative. In Pupino 45 , invero,<br />

la CGCE, dopo aver affermato che “applicando il diritto nazionale, il giudice del rinvio è<br />

chiamato ad interpretare quest’ultimo alla luce della lettera e dello scopo della decisione<br />

quadro al fine di conseguire il risultato perseguito da questa”, precisava che tale vincolo<br />

di conformazione “trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, ed in particolare in<br />

quelli di certezza del diritto e di non retroattività”, i quali “ostano a che il detto obbligo<br />

possa condurre a determinare o ad aggravare, sul fondamento di una decisione quadro e<br />

indipendentemente da una legge adottata per l’attuazione di quest’ultima, la responsabilità<br />

penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni”.<br />

Orbene, è accaduto che, con una seconda sentenza 46 , le Sezioni Unite hanno fatto<br />

applicazione proprio di questa ‘valvola di sicurezza’ – strumentale ad impedire ricadute<br />

applicative contra reum e, quindi, contrastanti con la funzione di garanzia della legge<br />

penale. Anzi, le Sezioni Unite hanno mostrato di aver compiutamente colto la destinazione<br />

teleologica di quella clausola, se è vero che vi hanno incluso il “principio della<br />

legalità della pena, che appartiene ai principi generali del diritto comuni alle tradizioni<br />

costituzionali degli Stati membri e che è sancito anche: dall’art. 7 della Convenzione per<br />

la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; dall’art. 15, n. 1, prima<br />

frase, del Patto internazionale sui diritti civili e politici; nonché dall’art. 49, n. 1, prima<br />

frase, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”. Su queste basi, Caruso,<br />

sebbene lasci trasparire un’intima preferenza verso una nozione ampia di utilità connessa<br />

al reato, ha affermato “che l’utilizzo della normativa sovranazionale, allo scopo<br />

di integrazione di elementi normativi va escluso allorquando – come si verificherebbe<br />

nel caso di specie – gli esiti di una esegesi siffatta si traducano in una interpretazione in<br />

malam partem della fattispecie penale nazionale”. E, di qui, ha enucleato il principio<br />

44. Cass. pen., SS.UU., 25 ottobre 2005, n. 41936, cit.<br />

45. CGCE, 16 giugno 2005, causa C-105/03, Pupino, in Dir. pen. proc., 2005, pp. 1178 ss., su cui cfr.V. Manes, L’incidenza delle “decisioni quadro” sull’interpretazione<br />

in materia penale: profili di diritto sostanziale, in Cass. pen., 2006, pp. 1150 ss.<br />

46. Cass. pen., SS.UU., 25.6.2009, n. 38691, Caruso, in Dir. pen. proc., 2010, 4, 433. In argomento v., in senso adesivo, V. Manes, Nessuna interpretazione<br />

conforme al diritto comunitario con effetti in malam partem, cit., pp. 101 ss.; V. Maiello, La confisca per equivalente non si applica al profitto del peculato,<br />

cit.<br />

diritto penale contemporaneo 3-4/2012 56<br />

371


di diritto secondo cui “in riferimento al delitto di peculato, può disporsi la confisca per<br />

equivalente, prevista dall’art. 322-ter c.p., comma 1, ultima parte, soltanto del prezzo e<br />

non anche il profitto del reato”.<br />

Identici problemi sono sorti in area penal-tributaria 47 , ove ancora una volta il legislatore<br />

(art.1, comma 143, l. n. 244/07) ha costruito l’operatività della confisca per equivalente<br />

attraverso l’ambiguo rinvio all’art. 322-ter c.p., “in quanto applicabile”. Qui, lo<br />

scenario di incertezza ermeneutica si è connesso al fatto che, in rapporto ai reati tributari,<br />

non è ipotizzabile la categoria del prezzo ma solo quella del profitto. La conseguenza è<br />

stata l’emersione di un vero dilemma amletico: o – impiegando criteri di interpretazione<br />

rispettosi del ‘senso letterale’ del testo – si sterilizza la confisca per equivalente nella<br />

materia dei reati tributari, in aperto contrasto con la voluntas legis e la stessa ragion<br />

d’essere della novella normativa; oppure, per consentire l’operatività del nuovo istituto,<br />

si è costretti a forzare i limiti di una interpretazione coerente con le funzioni di garanzia<br />

delle pratiche ermeneutiche, spianando la strada all’applicazione del secondo comma<br />

dell’art. 322-ter c.p.<br />

La soluzione della nostra Corte regolatrice 48 ha privilegiato ragioni di effettività delle<br />

scelte legislative, affermando che con riferimento ai reati tributari deve “trovare applicazione<br />

l’intera disciplina prevista dall’art. 322-ter c.p. e non solo il primo comma dello<br />

stesso”, in conformità a quanto statuito in precedenza Muci che aveva sancito, come si è<br />

prima visto, la portata integrale del rinvio operato all’art. 322-ter c.p.<br />

Viene così riesumata una lettura della disposizione fondata su di un’assai discutibile<br />

applicazione dell’obbligo di interpretazione conforme 49 , che condivisibilmente Caruso<br />

aveva spazzato via, ritenendola in contrasto col divieto costituzionale di analogia ed<br />

affermando che “l’utilizzo della normativa sovranazionale, allo scopo di integrazione di<br />

elementi normativi va escluso allorquando (...) gli esiti di una esegesi siffatta si traducano<br />

in una interpretazione in malam partem della fattispecie penale nazionale”.<br />

Dunque, il diritto comunitario e l’obbligo di ricorrervi per orientare le interpretazioni<br />

della normativa interna hanno, in meno di dieci anni. conosciuto tre diverse declinazioni,<br />

a cui hanno corrisposto soluzioni ispirate a filosofie diverse.<br />

In Muci è prevalso un atteggiamento culturale di euforia verso gli strumenti sovranazionali<br />

di tutela; il diritto comunitario è stato esaltato nelle positive funzioni di tutela<br />

che esprime ed applicato come strumento integrativo che, tramite una manipolazione<br />

delle strutture linguistiche di senso delle disposizioni cui inerisce, può propiziare finanche<br />

approdi in malam partem.<br />

Antagonista, la Weltanschauung di Caruso: qui all’obbligo di interpretazione conforme<br />

non si ricorre ‘costi quel che costi’, in quanto di esso predomina una visione che<br />

ne promuove la concezione quale strumento dialogico di armonizzazione tra ordinamenti,<br />

rispettoso delle identità costituzionali interne.<br />

Un ritorno a Muci – affiorato nella giurisprudenza sulla applicabilità della confisca<br />

per equivalente nel settore dei reati tributari – ci ha restituito una visione dell’interpretazione<br />

conforme che, a mio sommesso avviso, rappresenta un prezzo ancora esoso per<br />

il nostro sistema di ‘lotta costituzionale al delitto’ 50 .<br />

47. In argomento, L. Della Ragione, La confisca per equivalente nel diritto penale tributario, 13 novembre 2010, in Diritto penale contemporaneo.<br />

48. Cass. pen., sez. III, 6 ottobre 2010, n. 35807, in CED, rv. 213983.<br />

49. L. Della Ragione, op. cit.<br />

50. V. Maiello, op. ult. cit.<br />

diritto penale contemporaneo 3-4/2012 57<br />

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