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Scrivere di seconda mano. Riscrivere la letteratura - Il Porto di Toledo

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Certo, questo è un esperimento estremo, giustficato dal<strong>la</strong> richiesta dell’autore nel primo<br />

caso, e dal<strong>la</strong> finalità <strong>di</strong>dattica nel secondo. Ma in qualche modo è anche, forse in modo<br />

un po’ paradossale, un esempio <strong>di</strong> ‘perfetta traduzione’ nel senso <strong>di</strong> ‘perfetta invarianza’:<br />

tutto cambia, dal<strong>la</strong> lingua ai luoghi, alle citazioni dai propri c<strong>la</strong>ssici alle suggestioni del<br />

proprio presente, eppure tutto resta, a partire dal senso, ultima forse ma qui prima cosa,<br />

del rifiuto profondo del<strong>la</strong> guerra, come elemento universale u<strong>mano</strong> con<strong>di</strong>viso.<br />

A proposito <strong>di</strong> riscrittura, il libro <strong>di</strong> André Lefevere (cito, p.3) “tratta <strong>di</strong> scrittori e scrittrici<br />

che svolgono una funzione <strong>di</strong> me<strong>di</strong>azione: essi non creano <strong>la</strong> <strong>letteratura</strong>, ma <strong>la</strong><br />

riscrivono e sono responsabili, forse più degli stessi autori, del<strong>la</strong> ricezione e del<br />

successo delle opere letterarie presso i lettori non specialisti, i quali nel<strong>la</strong> nostra cultura<br />

costituiscono <strong>la</strong> stragrande maggioranza dei fruitori.” In quest’ottica, il traduttore <strong>di</strong>venta<br />

una figura centrale non solo nel<strong>la</strong> comunicazione interculturale, ma nel<strong>la</strong> reale<br />

creazione del<strong>la</strong> cultura. Egli sostiene infatti che il traduttore non è un neutro e non<br />

opera nel vuoto: che lo voglia o no, egli ‘manipo<strong>la</strong>’ il testo, sia attraverso <strong>la</strong> propria<br />

personale interpretazione, sia a causa del mutare del co<strong>di</strong>ce linguistico, sia in base a<br />

fattori socioculturali e storici. A tale riguardo vorrei per inciso cogliere l’occasione per<br />

citare un libro recente e importante (recensito da Leggendaria, n. 67, febbraio 2008 da<br />

cui cito), dal titolo Invisibili (traduzione e cura <strong>di</strong> A.Pirri, Filema, 2007) che contiene due<br />

racconti del<strong>la</strong> scrittrice bengalese Mahasweta Devi, e un saggio del<strong>la</strong> stu<strong>di</strong>osa in<strong>di</strong>ana<br />

Gayatri C. Spivak dal titolo Politica del<strong>la</strong> traduzione, dove si afferma <strong>la</strong> necessità <strong>di</strong> non<br />

appiattire <strong>la</strong> traduzione nel linguaggio liscio e senza scosse apprezzato dall’e<strong>di</strong>toria volta<br />

al<strong>la</strong> produzione <strong>di</strong> best seller anche <strong>di</strong> origine terzomon<strong>di</strong>sta. La qualità <strong>di</strong> Mahasweta è<br />

che non si può addomesticare, non può essere ridotta a quelle voci standar<strong>di</strong>zzate <strong>di</strong><br />

donne del terzo mondo subalterne, vittime senza voce, che raccontano <strong>la</strong> loro<br />

<strong>di</strong>sperazione in forme adatte all’immaginario occidentale. E siamo, con questo, <strong>di</strong> nuovo<br />

a Berman, e al<strong>la</strong> sua accorata raccomandazione <strong>di</strong> evitare ogni forma <strong>di</strong><br />

etnocentrismo, che è poi il brutto vizio occidentale <strong>di</strong> considerarsi sempre il centro del<br />

mondo.<br />

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