Occhio di falco - Catania per te

Occhio di falco
Dedico a un posto il cui nome tra poco dirò
questa mia composizione a righe incomplete,
quando si va a capo senza un perché,
e tra le parole che non fanno storia
se si è fortunati si scolpisce un verso,
che va verso una meta incognita
tra cuore, fantasia e memoria.
Della Sicilia orientale che tutta conosco
- non l’occidentale che pratico poco -
il canyon chiamato Cava Grande
tra Cassibile, Avola e Canicattini Bagni
(non centro balneare ma d’altipiano,
già feudo del conte Bagni)
è quello che più d’ogni altro
mi fa pensare al Far West,
che amai restandogli sempre fedele
da milioni di fumetti e di film.
Poiché al West mi fa pensare pure l’Aspromonte,
sì, l’Aspromonte amato dove mio padre nacque
e dove trascorsi tante estati tra infanzia e adolescenza,
tra paesaggi aspri di fiumare, colline aride, pinete
rocche aguzze, faggi, querce,
dove i paesaggi di Tex Willer
misteriosamente si materializzavano
intorno a noi patiti di cavalli e pistoleri,
perennemente a caccia di gloria.
Ma lì c’eran soltanto asini e muli
mentre le armi, le Colt e i fucili,
non eran che rami sfrondati
- vere armi solo le fionde
e le lucide doppiette dei miei zii cacciatori.
Facile equazione: Cava Grande, l’Aspromonte e il West
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sono per me una sola patria di cuore, fantasia, memoria.
O Cava Grande, scendendo lungo quel che resta
dell’antica mulattiera di Saravagghiu, che vuol dire Selvaggio,
da contrada Stallaìni, carico come un somaro,
o Cava Grande, lì ho invidiato il mulo
per il suo potere di recarsi in groppa
pesi ben maggiori del mio zaino
con grazia misurata nei passi,
ogni tanto un rassegnato raglio di lamentela…
Ma quel mulo che arrancava a San Lorenzo
non verrà a caricarsi in groppa il mio supplizio.
La mulattiera ha ormai quattrocent’anni
e il mulo, delicata macchina da carico,
non può adattarsi a questa traccia rovinante.
La capra selvatica può e io la invidio,
lei che si erge impassibile dinanzi a precipizi
e a suo piacere traccia labirinti di sentieri
senza temere che non portino a nulla
perché non ha meta alcuna e altro non cerca che erba.
Non so se si nutra di liama,
generosa cenerentola dei fianchi della Cava.
Non fidarti dei sentieri di capra,
posson condurti alla rovina: li distingui
dal sentiero tracciato dall’uomo
perché son troppi, a intreccio fitto,
tanti come le capre o le greggi
e recano il segno di fughe improvvise
nei tratti in cui i cespugli si mostran reclinati al suolo.
Mi siedo spossato su un masso
e vedo che una lucertolina
mi sta guardando con aria impertinente.
“Che vuoi tu – faccio nella mente – Leggera come sei
puoi ben riderti dell’uomo che trasporta pesi
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sulla schiena ma pur sostiene il mondo!
Sai suonare la chitarra, tu
Un libro da leggere ce l’hai
Un gran quaderno su cui scrivere
Non mi guardi in modo acconcio a una lucertola!
Riconoscilo e va per la tua strada, per favore”.
A Cava Grande le lucertole hanno un aspetto un po’ infantile,
ma non aman prender ordini e così, per gioco,
quella mi balza per un istante sul piede,
fa dei suoi inediti passi di danza
quindi, beffarda, si allontana tra le liame.
Poi come in un cartone di Walt Disney
sembra ingrandirsi per dirmi:
«Non vuoi proprio fare amicizia con me
Non sai cosa ti perdi! Io sì che conosco la Cava!».
Più in là – se non è allucinazione –
c’è una piccola volpe che l’aspetta.
«Quello lì – fa la lucertola – è un montanaro di città.
Son tipi che non capiscon cosa è davvero importante».
E la piccola volpe: «Non sopporta la tua esuberanza
come non sopporterebbe il mio profumo selvaggio.
Rinunciamo a farlo dei nostri
e conserviamoci la nostra libertà».
«Non per nulla ti dicono astuta,
ma soprattutto intelligente, saggia, premonitrice.
Tu mi hai insegnato che sopravvivere
è più importante di vivere:
questo è tempo corrente quello epica di fame
ed escogitazioni per metterla a tacere.
È per questo che adoro la tua compagnia».
Ciò dice la lucertola nel prender strada in avanti.
“Oh, finalmente! – penso – Non son preparato
a questo genere d’incontri, ci vuol tempo”.
Faccio per alzarmi ma ecco che il mio sguardo
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è attratto da un prodigio che si leva alto
dal precipizio opposto: è il falco della cava.
Lo chiamano poiana – nome al femminile che ricorda il fagiano –
da ornitologi che ignorano il rapporto ancestrale
tra il nome e l’essere in sé che vien chiamato:
a un volatile così libero e aristocratico
non si può dare il nome di una pietanza!
Qualcuno l’ha forse mai catturato
per cucinarlo con erbe aromatiche in forno
Lasciamo stare il nome incongruo
e chiamiamolo falco, le cui penne perdute
ornano il mio cappello da escursione.
Il falco della cava ha un’apertura alare
meno espansa del tipo italico:
è un falco siciliano, anzi siculo.
(siculo come veniamo detti noi siciliani
quando si vuole alludere che abbiamo la coppola,
la lupara, i baffi malandrini,
l’aria gelosa, rancorosa, vendicativa e mafiosa).
E allora, per tagliar corto, lo chiamo falco siculo,
color grigio, marrone oppure anche grigio-marrone.
Falco siculo e falco libero.
Gli manca solo la parola e io,
che soffro di rapsodiche smanie di grandezza,
mi arrogo il diritto di conferirgliela:
«Son ben diverso dal mulo – fa lui –
ché non conosco altro peso se non delle mie prede,
non mi gravo di nulla per conto d’altri,
e son diverso dalla capra che si ferma al precipizio,
perché è proprio lì che comincia il mio percorso.
Ecco, non c’è più suolo sotto, ma la vertigine del vuoto.
E allora Qual è il problema
Per me che sono un falco il bello viene adesso.
Apro le ali e oplà, trovo una corrente ascensionale,
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che mi porta in alto senza far fatica,
tenendole soltanto ben aperte
come i marinai le vele al vento.
Ora mi sollevo di tanto che il canyon
sembra appena una lunga fessura dell’altipiano
e vedo dall’alto altri mondi siculi.
L’Etna nella sua simmetrica architettura,
e ai suoi piedi la frumentosa pianura,
dietro invece nera la teoria dei boschi nemorensi.
E ad est la piana immensa del mar Ionio
dove regna, cambiando color penne,
mio fratello, libero anche lui, il gabbiano.
Son volubile, è vero, volatile
e ciò dipende dalle ali, che mai non tengo ferme.
Stavo guardando il mondo dall’alto
ed ecco, all’improvviso, torno giù,
non più sul ciglio da cui son partito
ma verso il fondo alla cava, tra gli alberi,
dove ho adocchiato la mia preda,
un cardellino spaurito che gorgheggia
da un ramo di platano orientale.
Mi spiace per lui, ho pena d’attaccarlo.
Anch’io ho dei sentimenti, un’anima,
e rispetto l’amore sopra ogni cosa,
ma resto pur sempre un predatore!
Detto diversamente: sì al cuore, ma devo pur mangiare!
Mi lancio giù e sfioro le querce,
vedo sotto di me cespugli di liama,
che son come una peluria del suolo,
e ora sto puntando alla preda,
ci son quasi, eccola! Ma che accade
Dov’è finito il mio occhio leggendario
Ho perduto di vista il mio cibo d’oggi!
La colpa è tutta mia, soltanto mia…
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Passando vicino a un salto d’acqua
ancora una volta lo scroscio mi ha catturato
e ho preteso di fare un rapido tuffo nella cascata,
che fa bollicine da spumante.
Non ho potuto resistere, ho dovuto bere anch’io,
mi sono lanciato, ho inghiottito una sorsata,
ho rialzato la testa e la preda non c’era più!
Approfittare così di una mia debolezza!
Benché non sia veloce come me
la mia scappatella l’ha salvato
e la sua cardellina ne è felice…
Da affannata necessità romantica virtù:
fingo d’essere un pennuto trovatore
venuto senza cattivi propositi,
ma recando una canzone per innamorati.
Pochi suoni, sgraziati anche per me.
Ci provo, ma è proprio insopportabile
e mi allontano depresso, non solo perché senza preda,
ché non son fatto per cantar l’amore!
Ora che son qui però che faccio
Non ci son correnti ascensionali.
Volar sul ciglio adesso sarebbe come per voi umani
salire in cima a un grattacielo per le scale.
Non ho scelta che cercar altra preda
e nel frattempo fare l’ennesima conta
di cascate, rapide, piccoli laghi d’ogni dimensione,
querce antiche di tre secoli che con i coetanei ulivi
han resistito a incendi, frane,
invasioni di insetti e parassiti.
Gli ulivi sembran essi stessi contadini
dalla pelle rugosa e l’animo d’acciaio,
comunitari e individualisti a un tempo,
non mai del tutto accettati socialmente
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nei querceti di roverelle, perché quaggiù si mostrano isolati,
non a macchie, in gruppi solidali,
poco inclini all’incessante vita associata
di quegli alberi giovane e inesperti.
Provan a liberarli dal penoso carcere
della solitudine vituperata dei giovani
uccelletti che vengono a cibarsi
dei loro piccoli frutti provvidenziali.
Le presuntuose roverelle abbassano la cresta,
colpite nell’orgoglio generativo
loro che non dan neppure ghiande,
ma piccoli ossi incommestibili,
che proprio nessuno vuol mangiare.
Così riproducono se stesse
e l’affollamento cresce,
come di giovani in attesa di migrare.
Elogio dell’oleandro
per voce di falco
O antichi tronchi messi di traverso nel fiume,
chi vi ha sistemati così bene da sembrar ponti tra rive,
qualche volta percorsi da veri equilibristi,
furetti, lepri, ricci e volpi
Dimostrate la tenacia del legno
quando decide di pietrificarsi,
sopravvivendo ai secoli, ai millenni e oltre.
O tronchi traversi, strappati dal fiume in piena
di una burrasca d’autunno o d’inverno
perdete i vostri rami, perdete le foglie
ma salvate i tronchi aggrappandovi
da una parte e dall’altra agli oleandri.
E tu, umile orgoglioso oleandro,
che ti pieghi senza spezzarti,
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tendi ai naufraghi del fiume i tuoi rami
come da una barca i pescatori le mani
a chi è caduto in balia dei flutti,
le ruvide salvatrici mani.
Per voi il tronco che stava in verticale
sopravvive sul fiume orizzontale.
Voi oleandri siete così gracili da non sembrar alberi neppure,
eppur fortissimi nella tempesta,
come nell’estate furente vendicatrice,
quando non un petalo può resistere alla luce
che non sian degli umili possenti oleandri,
indomiti oppositori che vanamente il sole
bombarda con la sua potenza illimitata:
anzi, quanti più raggi riceve in battaglia
tanto più vi nutrite d’orgoglio
e vi rimirate nello specchio delle acque.
L’oleandro si piace, si elogia, si apprezza,
sfida la dittatura con spavalderia,
vanesio, esibisce le sue varietà di colore:
bianco, rosa, rosso e purpureo.
Mancano il giallo, il celeste, il viola.
Tenace com’è sta già provando a ottenerli:
processi evolutivi in atto, lavori in corso.
Un primo prodotto è il bianco screziato di rosso”.
Vaghe osservazioni
Caro falco, torna alla tua postazione
che ho qualcosa da dire agli amici.
Se c’è una cosa che i giovani
dei paesi intorno a Cava Grande malsopportano
è che un fuorizona conosca i sentieri meglio di loro.
Lo considerano certo una grave ingiustizia,
uno sconfinamento illecito, gravissimo,
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che giustifica il tradimento.
Cava Grande è ancor più grande del suo nome:
dieci chilometri di emozioni incessanti
ma pure di ardue fatiche.
I più ne conoscono appena un pezzetto.
Sono in pochi a conoscerla tutta
e si ama tenere il segreto.
Io son fra questi ma sono un divulgatore.
Ciò mi crea più antipatie che il contrario.
Infatti la conoscenza dei sentieri impervi
è parificata al possesso di ricchezze materiali.
Il capitalismo di conoscenze topografiche,
lì a Cava Grande è come aver tanto denaro.
Da qui, per comica e crudele distorsione
dell’umana cognitività, anziché derubarmi del sapere,
come farei io con brigantesca avidità
usando d’incessanti piogge di domande
- ciò che io faccio sempre in verità -
si fan musi lunghi, sofferti, offesi
come quando si sa che qualcuno ha fatto
qualcosa di scostumato ma non si sa come dirglielo.
Come dirmi infatti che non dovevo sapere ciò che so
perché la conoscenza era riservata a loro
che comunque non l’avevano lo stesso
Come trovare parole per dire qualcosa
di completamente insensato
Mettete ordine nei vostri cuori, o permalosi,
e accettate che i maestri son proprio necessari.
Conviene sopportarli se da ciò deriva
la fruttuosa liberante conoscenza!
Incontri
Son costretto alla solitudine, lapalissianamente,
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per mancanza di compagnia escursionistica.
Quando son solo sembro taciturno:
peggio sarebbe… se sembrassi loquace!
La solitudine la sopporto bene,
con i miei lettori MP3 e gli auricolari,
ma non la cerco con intenzione.
La compagnia mi piace ma come single
devo sottostare al giudizio d’idoneità delle tribù,
non sempre positivo, ma ciò è normale.
Ho però una potente arma di seduzione,
direi irresistibile, la chitarra,
sei corde soltanto che sembrano un’orchestra.
Ho anche un’armonica a bocca,
un flauto, un tamburello, una tastiera portatile:
piccoli strumenti per far colpo e talvolta ci riesco.
Così, nonostante il mio modesto appeal,
la compagnia non mi manca del tutto.
È limitata, poco intima, a singhiozzo,
non c’è spazio, di solito, per l’avventura erotica.
Animo feste intorno al fuoco
con tanghi, flamenchi, samba
e quant’altro so fare,
oltre a duecento canzoni.
Quindi di gente ne conosco, mi basta praticarla
anche per qualche ora soltanto, per qualche minuto,
e quando serve son loquace,
anzi loquacissimo, un torrente in piena.
So dire qualcosa su ogni tipo di argomento:
calcio, tennis, cucina, lavori domestici, pesca,
carpenteria, pittura artistica ed edile,
tutto orecchiato in una vita dalla memoria impressionante.
Di tutti gli incontri che ho fatto ne cito uno soltanto.
Fu con un uomo solo, attendato in una zona remota,
che incontrai in escursione.
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«Rifuggo la compagnia, che per me è veleno,
perché ho il cuore pieno di tristezza.
Il mondo non mi vuole e io lo ricambio.
Conto di farla finita al più presto».
«Amico – gli dissi – tu parli di un mondo che non c’è
e non merita certi sacrifici.
Cogito, ergo sum, disse Cartesio un giorno
ch’era come te di umor nero.
Voleva dire questo: io penso,
da questo deriva subito che io sono.
Stabilirò dopo se il mondo c’è, il mondo che voglio.
Intanto ci son io e per ora mi basto.
Amico, prendi esempio dal falco:
anche lui si trova sempre sull’orlo del precipizio,
non per buttarsi giù, ma per volare».
Credo che lo convinsi, lo spero proprio.
Dico di me
Quello che ora scrivo è un messaggio
soprattutto rivolto a me stesso:
io sono uno che rispetta la parola data,
anche se questa antica attitudine dell’uomo,
un tempo non lontano chiamato valore,
cioè qualcosa che è veramente importante,
che vale - fa parte della virilità mentale
che oscura quella anatomica -
capitemi, per me la parola data
almeno quella data da me,
è qualcosa che conta davvero.
So che questo valore o creduto tale
non ha più alcun valore,
ed è fatto oggetto di beffe.
Chi lo pone in essere è malvisto
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perché sembra fissato, rigido, nevrotico,
destinato a soccombere perché inadatto al cambiamento
non furbo e forse neppure intelligente.
Pago questo prezzo, mi sottopongo alla gogna,
ma continuo a rispettare la parola data
e ciò mi rende gradito alle volpi,
che vedono nel mio presunto limite
una forma superiore di astuzia.
Evocazione elegiaca
O pecora, che sai di dover finire arrosto
e cerchi, finchè non sarà l’ora,
di scansare il dolore quanto più è possibile,
in dieci millenni non hai imparato
a fare del gregge una possente massa d’urto
per scagliarti contro l’uomo
e proteggerti con le tue sorelle di pascolo
dalla graticola, tu che di certo la forza l’avresti.
O pecora, mi dai da riflettere:
vai incontro a una fine dolorosa
ma temi un possibile piccolo dolore nel difendere te stessa:
a volte son così simile a te più che al leone,
a cui mi piacerebbe d’ispirarmi!
O meglio: d’istinto sarei pecora
ma poi la mente custode della mia autoimmagine
m’impone di conformarmi a questa e lo faccio.
E sempre seguendo dei vani pensieri mi chiedo:
non sarà per caso che tutto dipenda
da semplici problemi d’immagine
Che effetto farebbe Internet in un ovile
Chissà se cercando tra i mammiferi superiori,
repertorio immagini, scoprendo il leone,
non abbiate a prenderlo ad esempio da imitare
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Che accadrebbe se interiorizzata quell’immagine,
facendone un’autoimmagine,
non avreste a cambiar condotta radicalmente
Ciò vale naturalmente anche per il bue e la vacca,
che non hanno immagine di sé
e sognano di vivere solo un giorno di più,
mentre il toro, che l’immagine ce l’ha,
sa di essere il toro delle corride
che fa tremare l’uomo affrontandolo
e l’intera platea degli spettatori!
Morirà, sì, e finirà tra le pietanze di un ristorante alla moda:
ma quando l’uomo lo degusterà
avrà timore che il boccone possa finirgli di traverso
in un’imboscata del combattente caduto.
Povero cane abbaialuna,
ti guadagni il tuo tozzo di pane
abbaiando al mondo per tenerlo lontano dal gregge,
al servizio del pastore che un giorno potrebbe impiccarti,
a monito d’uomini e cani,
per avergli importunato una gallina.
Hai mai pensato d’estromettere il padrone
e badare tu alle pecore È un’idea.
La promiscuità tra le speci animali non pare sia ben conosciuta.
Si potrebbe formare una banda
fatta di un cane, un paio di pecore, un capro
e andare in giro per la foresta
a mangiare erba e ciò che capita.
Notti allegre, ludi orfici, bacchici, orgiastici,
bevute d’acqua sorgiva e lunghi sonni felici.
Accettereste nella vostra compagnia un rospo,
che si muove come un vecchietto
a cui manca solo il bastone
I brutti spesso han fascino e un’indiscussa utilità:
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abbelliscono la bellezza contornandola
di ben contrastata e abbellita bruttezza.
Sorvolando su molte cose
Potrei dirvi di tutta Cava Grande
in lunghe pagine di nomi e descrizioni
ma gli alberi protestano:
“Lascia che i lettori facciano da sé
non sprecare pagine di carta
che vengon dal nostro sacrificio.
Non dire ciò che tutti posson scoprire senza di te”.
E io: “Almeno fatemi fare un omaggio vi prego!”.
“Fallo pure! A chi lo fai”.
“Al sentiero di mezzacosta occidentale,
che consente all’uomo il privilegio del falco:
poter volare soltanto camminando.
Prova l’emozione di procedere per questa strada aerea
scavata a metà del fianco di roccia
della parete sud della cava.
Certo devi calcare il suolo col piede
ma con lo sguardo voli come il falco,
anzi puoi proprio esser lui.
Essere un falco virtualmente:
non è certo esserlo realmente
ma chi vi è mai riuscito
E poi quante cose nella vita
son soltanto virtuali, benché credute reali
Non specifico cosa, ognuno interpreti da sé.
Ringraziamento finale alla Luna
La candida signora della notte,
che non è dea per me, ma cara amica,
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e certo la più gradita ospite di Cava Grande.
Ma non vi ha un ingresso facile, tutt’altro.
Deve camminare sui costoni come un’escursionista
recandosi alle spalle la sua faccia nascosta,
proprio come uno zaino pesante.
Cava Grande, severa nelle sue regole,
pur aspettandola con emozione
non le facilita affatto l’accesso
e quindi parecchie notti son di tentativi
che falliscon per il disorientamento della Luna
nei labirinti di sentieri che portan fin laggiù.
Perché tale durezza in cuore
Cava Grande pretende che la Luna
riveli un’altra identità diversa da quelle che il mondo
le riconosce di già: lampada notturna,
feticcio degli uomini lupo, dea madre fecondatrice,
testimone di tante promesse d’amore.
La vuole invece artista, pittrice, scultrice.
Infatti costringendola al percorso degli escursionisti
i suoi raggi arrivan di sghimbescio alla parete
che sta dall’altra parte della cava
e così, usando di bianca luce e ombra,
vi disegna a chiaroscuro decorazioni somme.
Le cime si coloran di rubino incostante,
perché la fiamma si sposta di continuo
con i movimenti della sua artefice.
Non è forse una sua creazione
quella maschera gigantesca da commedia dell’arte
con la bocca atteggiata in un sorriso smisurato
A me volle donare nani, giganti, teste di gufi,
il profilo di un pianista, aquile, re, cattedrali.
Sono presuntuoso, fanfarone, vanitoso:
nessuno prima di me li aveva visti a Cava Grande
e la performance d’artista della Luna
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era un dono esclusivo per me.
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