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Nuovi territori e nuove pratiche di cittadinanza: <strong>il</strong> caso della Bolognina<br />
di Giuseppe Scandurra 1<br />
Premessa<br />
Tra <strong>il</strong> 26 febbraio e <strong>il</strong> 23 apr<strong>il</strong>e 2009, presso l’Urban Center di Bologna, in pieno centro storico cittadino,<br />
<strong>il</strong> Comune e la Provincia del capoluogo em<strong>il</strong>iano-romagnolo organizzarono un ciclo di conferenze per<br />
conoscere <strong>il</strong> rapporto di uso, produzione e consumo degli spazi pubblici, e ancora i costumi relazionali,<br />
i modi di produrre località dei principali gruppi di cittadini stranieri residenti a Bologna. Il 26 febbraio,<br />
durante la prima giornata di incontri, dopo <strong>il</strong> saluto dell’Assessore all’Urbanistica del Comune, del<br />
Vicepresidente della Provincia, del Vicepresidente del Consiglio dei cittadini stranieri di Bologna,<br />
presero la parola architetti, urbanisti, direttori di giornali a tiratura nazionale, e, per quanto riguarda<br />
Bologna, <strong>il</strong> sociologo Maurizio Bergamaschi e <strong>il</strong> Direttore del Settore Programmazione Controlli e<br />
Statistica del Comune di Bologna Gianluigi Bovini. Il tema della giornata era “Bologna e la città degli<br />
altri” e a tutti gli studiosi invitati era stato chiesto di presentare delle relazioni che avessero al centro la<br />
distribuzione territoriale e i modelli insediativi della popolazione straniera residente in città negli ultimi<br />
anni. Cosa emerse in questa giornata?<br />
Il sociologo Bergamaschi, nel suo intervento, si pose come obiettivo quello di indagare quanto sia<br />
legittimo a Bologna parlare di una forte concentrazione territoriale di cittadini stranieri in città e,<br />
dunque, se si possa parlare di forme di segregazione per quanto concerne gli immigrati residenti nel<br />
territorio comunale. La distribuzione territoriale dei cittadini stranieri, del resto, è sempre stata tra i<br />
principali oggetti di studio della sociologia urbana e lo è a maggior ragione oggi nel momento in cui,<br />
soprattutto a livello mediatico, molti conflitti registrab<strong>il</strong>i negli spazi pubblici urbani vengono<br />
rappresentati come “etnici” 2 ; d’altra parte, la loro distribuzione spaziale sollecita una riflessione su<br />
alcuni nodi problematici di fondo delle scienze sociali a partire dai primi studi della scuola di Chicago 3 .<br />
(Bergamaschi 2009)<br />
1 Ricercatore di Antropologia Culturale - Università di Ferrara.<br />
2 A settembre 2007, insieme ai colleghi ricercatori, <strong>il</strong> pedagogista Alessandro Tolomelli e la sociologa Elena Rossini, abbiamo<br />
condotto uno studio sul centro storico bolognese, più specificatamente l’area di Piazza Verdi, promosso dalla Direzione<br />
“Cultura e Comunicazione Istituzionale - Alma Mater”, dal Dipartimento di Scienze dell’Educazione e dal Dipartimento di<br />
Sociologia dell’Università di Bologna. Obiettivo generale della ricerca, coordinata dall’antropologa Mat<strong>il</strong>de Callari Galli, dal<br />
pedagogista Antonio Genovese e dal sociologo Maurizio Bergamaschi, è stato riportare l’attenzione su tale contesto<br />
indagando i reali motivi per cui si è andata via via producendo una rappresentazione che vede questa piazza come luogo<br />
simbolo del degrado cittadino, quotidianamente teatro di conflitti. Piazza Verdi è frequentata da diversi attori sociali in orari<br />
diversi e con differenti modalità di ut<strong>il</strong>izzo dello spazio pubblico. I conflitti registrab<strong>il</strong>i in questo territorio, in effetti, già<br />
durante questo studio sembravano essere più legati alla convivenza, in quest’area circoscritta, di tanti ed eterogenei attori<br />
sociali - per esempio tra immigrati e residenti storici - piuttosto che a pratiche di microcriminalità quotidianamente riportate<br />
dai quotidiani locali che denunciavano come responsab<strong>il</strong>i i cittadini di origine straniera. Piazza Verdi rappresenta, questo è<br />
emerso dallo studio, un territorio dove consistente e significativa è la convivenza, alle volte conflittuale, di diversi gruppi, tra<br />
cui i cittadini di origine straniera, che rivendicano <strong>il</strong> loro diritto a fruire del medesimo spazio pubblico. (Rossini, Scandurra,<br />
Tolomelli 2009)<br />
3 Giovanni Semi, in un recente <strong>saggio</strong>, ha ricostruito le diverse generazioni di studiosi della Scuola di Chicago. Tra i lavori<br />
migliori di questa scuola che hanno indagato su questo tema, oltre al testo “La città” (Park, Burgess, McKenzie 1925), che<br />
1
Prima dell’intervento di Bergamaschi, Gianluigi Bovini, Direttore del Settore Programmazione,<br />
Controlli e Statistica del Comune di Bologna, <strong>il</strong>lustrò, attraverso grafici e tabelle, le e tendenze più<br />
recenti riguardanti la popolazione straniera residente in città; per quanto, infatti, nel nostro Paese non si<br />
possa parlare di un’immigrazione esclusivamente urbana, i flussi di cittadini stranieri negli ultimi anni si<br />
sono spesso diretti verso i comuni più grandi, compreso <strong>il</strong> capoluogo emliano-romagnolo. Al 31<br />
dicembre 2008 gli immigrati hanno superato quota 39.400 residenti - ovvero <strong>il</strong> 17,5% in più rispetto a<br />
dodici mesi prima - e i cittadini stranieri costituiscono ormai <strong>il</strong> 10,5% della popolazione di Bologna: si<br />
tratta soprattutto di cittadini europei - 41,6% - e asiatici - 34,3%. Le nazionalità più numerose sono la<br />
Romania, le F<strong>il</strong>ippine, <strong>il</strong> Bangladesh, <strong>il</strong> Marocco e l’Albania. I cittadini stranieri residenti sono<br />
mediamente molto più giovani - 32,4 anni - rispetto alla popolazione bolognese - 47,6 anni - e si<br />
concentrano in prevalenza nelle classi di età giovan<strong>il</strong>i: più del 16% dei giovani fino a 24 anni residenti in<br />
città sono stranieri. Per quanto riguarda la distribuzione territoriale, <strong>il</strong> territorio della Bolognina,<br />
sottolineò Bovini, con 17 stranieri ogni 100 residenti si conferma la zona più multietnica. Infine, sono<br />
quasi 5.000 gli stranieri di seconda generazione residenti in città 4 .<br />
In quindici anni, dunque, gli immigrati residenti in città sono quasi sestuplicati, in virtù di processi di<br />
regolarizzazione, sanatorie, pratiche di ricongiungimento famigliare, l’entrata in Comunità Europea di<br />
stati come la Romania che ha determinato un aumento consistente di questo gruppo di immigrati a<br />
Bologna (Bergamaschi 2009). Processi che, tra le altre cose, hanno favorito la crescita della presenza<br />
femmin<strong>il</strong>e - dal 2003 la percentuale di donne immigrate supera quella degli uomini. Inoltre, caratteristica<br />
specifica di Bologna è quella di poter contare la presenza di quasi centocinquanta nazionalità diverse per<br />
quanto concerne <strong>il</strong> territorio comunale.<br />
Prendendo in mano questi dati, Bergamaschi prese la parola evidenziando come la distribuzione<br />
residenziale degli immigrati si è profondamente modificata negli ultimi anni. Se nel decennio1997-2007<br />
tra le zone con la maggiore incidenza di stranieri era possib<strong>il</strong>e sottolineare territori del centro storico<br />
cittadino come Colli e <strong>il</strong> quartiere Santo Stefano, negli ultimi anni aree più periferiche come Santa Viola<br />
e Barca, che registravano a fine Novanta ancora una presenza limitata di cittadini stranieri, hanno<br />
iniziato a contare presenze di immigrati al di sopra del valore medio cittadino. Più in generale, dimostrò<br />
<strong>il</strong> sociologo, i quattro quartieri caratterizzati dai valori percentuali più elevati - San Donato, Reno,<br />
Borgo Panigale e Savena - sono gli stessi che all’inizio del decennio 1997-2007 avevano un’incidenza<br />
più bassa della popolazione straniera sul totale dei residenti. (Bergamaschi 2009)<br />
può essere ut<strong>il</strong>e per comprendere le attività della scuola di Chicago, le ricerche condotte da N. Anderson sui barboni di<br />
Chicago (Anderson 1923), L. Wirth sul ghetto (Wirth 1928), H. Zourbaugh su una località a nord di Chicago (Zourbaugh<br />
1929), F.M. Thrasher sulle bande criminali, le gang della città americana (Trasher 1927), e ancora quelli prodotti dalla<br />
generazione successiva di chicagoans. (Whyte 1943)<br />
4 Questi dati sono riportati nel sito del Settore Programmazione, Controlli e Statistica del Comune di Bologna,<br />
http://www.comune.bologna.it/iperbole/piancont/Stranieri/indice_Stranieri_DS.htm<br />
2
La dialettica centro/periferia ha dunque perso valore a favore della tendenza verso una distribuzione<br />
più omogenea. In altre medie-grandi città italiane, sottolineò Bergamaschi, è infatti ancora oggi<br />
osservab<strong>il</strong>e un’elevata residenzialità di cittadini stranieri in alcune aree del centro storico caratterizzate<br />
da un patrimonio abitativo vecchio e non riqualificato: a Bologna, per esempio, nel 1997, l’incidenza<br />
degli immigrati sul totale della popolazione residente nel centro storico era pari a 4,8%, mentre in<br />
periferia era di 2,5% - <strong>il</strong> valore medio comunale era pari a 2,9%; dieci anni dopo, i tre valori sono invece<br />
pressoché sim<strong>il</strong>i - rispettivamente 9,1% nel centro storico, 9% nelle zone periferiche, 9% nell’intera<br />
città (Bergamaschi 2009). Da una parte, dunque, i nuovi arrivati tendono a distribuirsi in modo più<br />
omogeneo sul territorio comunale; dall’altra, però, questi si insediano sempre più in zone periferiche e<br />
popolari - Santa Viola, Barca, San Donato -, mentre le zone più benestanti della città - Colli e Saragozza<br />
- registrano valori percentuali decrescenti.<br />
Prendendo in considerazione, inoltre, territori come la Bolognina e <strong>il</strong> quartiere San Donato, che oggi<br />
registrano una presenza di cittadini stranieri significativamente al di sopra del valore medio comunale è<br />
possib<strong>il</strong>e comprendere queste scelte residenziali in relazione alla ricerca di soluzioni abitative meno<br />
precarie, con affitti accessib<strong>il</strong>i a un costo più basso, maggiormente adeguate a progetti migratori a<br />
medio e lungo termine e ai numerosi ricongiungimenti famigliari che si sono registrati in questi ultimi<br />
anni (Bergamaschi 2009). In questa direzione, nell’ultimo periodo, assume più r<strong>il</strong>evanza la dialettica<br />
nord/sud, ovvero tra aree caratterizzate da maggiore qualità ed<strong>il</strong>izia e più verde - mete residenziali<br />
sempre più dei residenti storici - e aree <strong>urbane</strong> segnate dalla crisi del modello di produzione legato alle<br />
fabbriche metalmeccaniche e dalla presenza di molti caseggiati di ed<strong>il</strong>izia popolare.<br />
Da questo punto di vista, tracciò le conclusioni Bergamaschi, le strategie residenziali degli immigrati<br />
non sembrano essere dettate dall’esigenza di abitare vicino ai propri connazionali, piuttosto<br />
all’opportunità di trovare una abitazione adeguata alle proprie aspettative a costi sostenib<strong>il</strong>i, dunque alle<br />
logiche di mercato. Queste osservazioni, per <strong>il</strong> sociologo, smentiscono <strong>il</strong> peso troppo grande che molti<br />
sociologi e antropologi urbani fino ad ora hanno dato al ruolo della cultura nella determinazione dei<br />
modelli individuati quando <strong>il</strong> riferimento empirico è rappresentato da un gruppo di immigrati: ciò,<br />
probab<strong>il</strong>mente, emerge solo laddove, concluse Bergamaschi, partiamo dal presupposto che mentre noi<br />
cittadini italiani siamo mossi da una razionalità individualizzante, da interessi che dipendono dalla<br />
nostra appartenenza di classe, di genere, etc., gli immigrati sono invece mossi da logiche fam<strong>il</strong>iari e<br />
comunitarie. (Bergamaschi 2009)<br />
Bergamaschi, però, concludendo <strong>il</strong> suo discorso evidenziò una tendenza a cui i dati quantitativi, da soli,<br />
non riescono a rispondere: ovvero la formazione di zone - isolati, complessi abitativi - all’interno di aree<br />
più estese e di gradi quartieri che, sempre più, negli ultimi anni, si stanno caratterizzando per la<br />
presenza di una “seconda generazione” di immigrati. Dunque, la strategia residenziale dei cittadini<br />
stranieri a Bologna non osserva una ripartizione ad anelli concentrici come quella registrab<strong>il</strong>e in altre<br />
3
città del nostro Paese come M<strong>il</strong>ano (Bergamaschi 2009) e la distribuzione abitativa dei nuovi arrivati<br />
favorisce piuttosto una presenza più omogenea in relazione al territorio comunale e la coabitazione di<br />
diversi gruppi nazionali nella stessa area; se ciò è indicativo del’assenza di ghetti e quartieri etnici, non<br />
esclude, allo stesso tempo, la formazione recente di zone molto circoscritte di maggiore concentrazione<br />
della popolazione non italiana in cui si configura una parziale dominanza di uno gruppo o più gruppi<br />
nazionali stranieri (Bergamaschi 2009). Tali micro realtà, però, come ammise lo stesso Bergamaschi in<br />
quella giornata, sono diffic<strong>il</strong>i da indagare e meriterebbero una ricerca qualitativa di natura etnografica.<br />
Proprio a partire proprio da quest’ultima osservazione, al fine di indagare queste micro aree, nella<br />
nostra ricerca abbiamo concentrato lo sguardo sulla trasformazione di determinati territori e periferie<br />
bolognesi alla luce dell’arrivo di sempre più consistenti flussi immigratori. Abbiamo iniziato a chiederci:<br />
come chiamare oggi queste periferie e quali pratiche di cittadinanza le caratterizzano?<br />
1. Di che territori stiamo parlando? 5<br />
Negli ultimi venti anni campi di studio all’interno dell’antropologia culturale, come quello legato agli<br />
studi urbani e quello legato alle marginalità <strong>urbane</strong> sono andati spesso a braccetto in termini di<br />
produzione etnografica, per esempio all’interno di ricerche che potremmo chiamare “etnografie di<br />
strada” (Wacquant 2002). Nel nostro Paese, per esempio, se parliamo di etnografie sulle marginalità<br />
<strong>urbane</strong> possiamo parlare della pubblicazione di monografie, condotte attraverso la pratica etnografica,<br />
che si contano sulle dita delle mani (Bonadonna 2001, Barnao 2004, Tosi Cambini 2005, Scandurra<br />
2005). Se ci spostiamo nel campo dell’etnografia urbana la situazione non è diversa: tanti antropologi<br />
che ne hanno definito i confini, la metodologia, hanno ricostruito la storia di questo campo di studi<br />
(Sobrero 1992, Signorelli 1996, Callari Galli 2007), ma poche monografie: tra le ultime, per esempio, <strong>il</strong><br />
lavoro di Asher Colombo a M<strong>il</strong>ano (Colombo 1989), quello di Giovanni Semi a Torino (Semi 2004 6 ),<br />
quello di Luca Queirolo Palmas a Genova (Queirolo Palmas 2006), quello di Ferdinando Fava sullo<br />
Zen di Palermo (Fava 2008), quello di Adriano Cancellieri su Porto Recanati (Cancellieri 2009). La cosa<br />
interessante, però, è che queste etnografie, seppure non riescono a competere, dal punto di vista<br />
quantitativo, con quelle statunitensi e francesi (Wacquant 2002), sono state tutte prodotte negli ultimi<br />
anni e presentano degli elementi di novità sui cui credo non abbiamo ancora riflettuto molto e che<br />
toccano alcuni temi che abbiamo indagato nella nostra ricerca P.R.I.N..<br />
L’antropologo Ferdinando Fava, nel 2008, dopo aver condotto una ricerca etnografica sullo Zen di<br />
Palermo ha scritto un interessante <strong>saggio</strong> dal titolo “Tra iperghetti e banlieues, la nuova marginalità<br />
5 Per fare questo lavoro, durante <strong>il</strong> secondo anno di ricerca P.R.I.N., ci siamo avvalsi della collaborazione di due<br />
antropologhe, Fulvia Antonelli e Giulia Guadagnoli, che hanno condotto delle interviste e raccolto storie di vita di un<br />
gruppo di cittadini stranieri, prevalentemente marocchini, residenti in un territorio circoscritto della prima periferia a nord di<br />
Bologna, la Bolognina.<br />
6 Questo lavoro è stato poi rivisitato e pubblicato all’interno del testo curato da Enzo Colombo e dallo stesso Giovanni<br />
Semi, “Multiculturalismo quotidiano”. (Colombo, Semi 2007)<br />
4
urbana” (Fava 2008a). Ghetto a Chicago, banlieue a Parigi, poligono a Barcellona, hrushebi a Mosca, hood a<br />
Los Angeles: ogni città dell’Occidente, scrive Fava, ha le sue parole per descrivere i propri quartieri<br />
“maledetti e marginali” (Fava 2008a). Il termine slum rimane, però, la categoria più usata per indicare le<br />
aree di povertà urbana ma mette insieme un infinito spettro di differenti condizioni abitative. C’è, però,<br />
un f<strong>il</strong>o rosso che unisce questi territori al centro delle più recenti etnografie italiane che evocavamo<br />
prima: lo Zen di Palermo, la Genova dei vicoli descritta da Queirolo Palmas, <strong>il</strong> territorio di Porta<br />
Palazzo a Torino indagato da Semi, sono tutte aree <strong>urbane</strong> che condividono una stigmatizzazione<br />
mediatica territoriale e sempre più abitate da immigrati; tutte rinviano a condizioni socioeconomiche<br />
strutturali violente:<br />
Il segno che la città dell’era urbana si costruisce e si mantiene sempre più sull’esclusione e sulla<br />
segregazione di una parte sempre maggiore dei suoi residenti trasformandoli in “altri” da noi. (Fava<br />
2008a)<br />
Di che territori parliamo quando concentriamo <strong>il</strong> nostro sguardo di ricerca sulla periferia m<strong>il</strong>anese<br />
studiata da Asher Colombo o su quella di Porto Recanati analizzata da Adriano Cancellieri? Come si<br />
sono trasformate in questi ultimi anni le nostre periferie alla luce della fine di un processo produttivo e<br />
industriale - <strong>il</strong> mondo fabbrica 7 - e l’arrivo di consistenti flussi migratori?<br />
Per rispondere a queste domande durante la ricerca P.R.I.N. abbiamo deciso di indagare un territorio<br />
specifico di Bologna, la Bolognina, caratterizzato oggi dalla maggiore presenza di immigrati in città 8 .<br />
Questa prima periferia a nord della città, del resto, era stata già precedentemente oggetto di studi<br />
condotte dal settembre del 2004 al febbraio 2007, quando è iniziata la nostra ricerca. Conducendo uno<br />
studio etnografico, iniziato nel settembre 2004 e terminato nel dicembre 2005, che ha avuto per oggetto<br />
le pratiche di vita, gli immaginari, le rappresentazioni di un gruppo di senza fissa dimora ospiti di un<br />
dormitorio comunale, <strong>il</strong> Rifugio Notturno Massimo Zaccarelli (Scandurra 2005), ubicato a ridosso della<br />
Stazione Centrale in via Carracci, infatti, già in questo periodo ebbi modo di indagare quanto questo<br />
contesto urbano fosse oggetto di un radicale processo di ridisegno urbano. Il dormitorio comunale al<br />
centro della ricerca su un gruppo di senza casa, tra i quali molti cittadini stranieri (Scandurra 2005), a<br />
dicembre 2005 venne abbattuto per fare spazio ai binari dell’alta velocità, alla costruzione della nuova<br />
Stazione Centrale, al processo di decentramento, avvenuto a fine 2008, degli uffici comunali; più in<br />
generale alla luce di un vasto processo di riqualificazione urbana in un territorio stretto tra la Fiera e la<br />
stazione e quindi di grande interesse commerciale. (Scandurra 2005)<br />
7 Parte di questi territori appena evocati, infatti, sono stati caratterizzati dalla presenza di fabbriche dismesse sul finire degli<br />
anni Ottanta.<br />
8 A conferma della tesi di Bergamaschi e dei dati riportati da Bovini, in alcune aree statistiche di questo territorio la<br />
percentuale di cittadini stranieri raggiunge percentuali del 25% se si fa riferimento ai residenti cinesi, distribuiti nella parte est<br />
della Bolognina, e ai cittadini marocchini nella parte ovest. (Piano b 2008)<br />
5
Conducendo, poi, insiemi ad altri colleghi una inchiesta sociale su una fabbrica metalmeccanica chiusa<br />
sul finire degli anni Ottanta (Piano b 2008), la Casaralta, abbiamo avuto modo di assistere a un processo<br />
per la verità iniziato già alla fine degli anni Settanta, ovvero la dissoluzione di un intero modo di<br />
produzione legato alle fabbriche metalmeccaniche la cui presenza ha segnato, soprattutto nella<br />
percezione di chi abita fuori da questo territorio, l’identità di quest’area, da sempre considerata un<br />
quartiero operaio 9 . Con la fine di questo modello produttivo abbiamo avuto modo di studiare anche la<br />
fine di determinati luoghi e spazi di socialità all’interno del territorio. (Piano b 2008)<br />
Infine, da gennaio 2007, proprio a ridosso della ricerca P.R.I.N, stiamo conducendo, con una collega,<br />
l’antropologa Fulvia Antonelli, una ricerca su un gruppo di pug<strong>il</strong>i d<strong>il</strong>ettanti in una palestra di boxe della<br />
Bolognina: la maggior parte degli iscritti alla palestra sono ragazzi di origine straniera, prevalentemente<br />
marocchini. Studiando le loro pratiche di vita quotidiane abbiamo avuto modo di indagare i problemi, i<br />
bisogni, le speranze di una “seconda generazione” di immigrati, ovvero ragazzi, quasi tutti maschi,<br />
venuti in Italia da piccoli e alfabetizzati nelle scuole del territorio (Antonelli, Scandurra 2009). Partendo<br />
da questi studi, e dai dati che sono emersi e che stanno emergendo da essi, durante la ricerca P.R.I.N.<br />
abbiamo iniziato a domandarci: che tipo di territorio è la Bolognina? Queste ricerche e inchieste, in<br />
effetti, ci diedero modo di ritornare in questo territorio dove avevamo già costruito relazioni di fiducia<br />
con molte persone che ci avrebbero fato da informatori durante lo studio.<br />
La Bolognina non è un ghetto né una banlieue, ovvero non è né “un dispositivo di chiusura e di<br />
controllo etnorazziale” (Fava 2008a), quindi un territorio circoscritto caratterizzato da una popolazione<br />
qualificata negativamente - la Cintura nera di Chicago degli afro-americani per esempio, come ricorda<br />
Fava (Fava 2008a) - né un’area di frontiera rispetto alla città abitata da un’omogenea classe sociale - “La<br />
Cintura Rossa dei quartieri operai della periferia parigina” (Fava 2008a). Questo contesto urbano ci<br />
diede la possib<strong>il</strong>ità, però, di leggere i processi di trasformazione in atto nell’intero territorio comunale e<br />
comprendere al meglio quanto questi sono determinati e determinano le pratiche di vita degli immigrati<br />
che vivono nella nostra città.<br />
La Bolognina nasce con <strong>il</strong> decentramento delle fabbriche bolognesi dal centro storico in periferia. I<br />
processi di segregazione che abbiamo avuto modo di studiare durante la ricerca concentrando<br />
l’attenzione su questo territorio sono l’effetto di una serie di processi socioeconomici che si sono<br />
originati nell’area circostante ben più ampia della scala della città (Fava 2008a). Il territorio dove abitano<br />
la maggior parte di pug<strong>il</strong>i di origine straniera della palestra di boxe, la Bolognina, per esempio, è stato<br />
caratterizzato sempre più, negli ultimi anni, dalla frammentazione del lavoro salariato e la<br />
trasformazione del welfare pubblico a tutti i livelli amministrativi.<br />
9 La chiusura delle fabbriche, della Casaralta in particolare, è avvenuta contemporaneamente all’arrivo, sul finire degli anni<br />
Ottanta, di consistenti flussi migratori che hanno esasperato <strong>il</strong> sentimento di spaesamento da parte di molti residenti storici<br />
di questo territorio. (Piano b 2008)<br />
6
E’ evidente, come invita a fare l’antropologo Fava indagando sull’area dello Zen (Fava 2008), quanto la<br />
Bolognina meriti un quadro interpretativo proprio rispetto ad altri territori che evocavamo prima, come<br />
Porta Palazzo a Torino o la periferia di Genova. Eppure, in questo territorio possiamo leggere oggi<br />
processi sim<strong>il</strong>i a quelli riscontrab<strong>il</strong>i in queste aree, ovvero una marginalità avanzata prodotta dalla<br />
trasformazione del settore industriale. Ne è dimostrazione, del resto, <strong>il</strong> fatto che in quest’area urbana<br />
per quanto <strong>il</strong> settore ed<strong>il</strong>izio, dei servizi e del commercio al dettaglio abbiano dato lavoro a molti<br />
immigrati arrivati negli ultimi venti anni, la maggior parte di questi, come vedremo in seguito,<br />
soprattutto i loro figli, le cui pratiche di vita sono state oggetto della nostra ricerca, è esclusa da questa<br />
economia informale.<br />
Da un punto di vista materiale, infatti, se analizziamo determinati processi registrab<strong>il</strong>i in questo<br />
contesto urbano è legittimo parlare di “violenza strutturale 10 ”: con la chiusura delle fabbriche <strong>il</strong> mercato<br />
del lavoro locale oggi sta sempre più isolando molti giovani immigrati relegandoli ai margini<br />
dell’economia dei servizi; dai loro racconti, come riporteremo nei paragrafi successivi, emerge sempre<br />
più l’esistenza di nicchie del terziario dequalificato dove questi ragazzi trovano lavoro ma sono trattati<br />
come “servi”, questa è la parola che molti di loro usano - e di istituti professionali del territorio dove<br />
questi ragazzi studiano e che si stanno trasformando in vere e proprie scuole differenziali; emerge,<br />
infine, <strong>il</strong> legame sempre più stretto tra questi istituti e <strong>il</strong> carcere minor<strong>il</strong>e di Bologna.<br />
Se vogliamo capire come si forma e che tipo di territorio è quello abitato dagli immigrati che vivono<br />
nelle nostre città oggi, abbiamo pensato durante la nostra ricerca, è necessario comparare questi studi di<br />
cui parlavamo in precedenza. In effetti, mai come in questi anni iniziamo ad avere un corpus di dati<br />
etnografici che ci potrebbe permettere di fare un punto e dare un volto a questi territori pur nelle loro<br />
differenze - da Palermo a M<strong>il</strong>ano, da Bologna a Genova. Forse oggi, anche partendo da Bologna, è<br />
possib<strong>il</strong>e rispondere alla domanda che ponevamo in precedenza: che territorio è la Bolognina? Che<br />
periferia è quella bolognese? Che relazione c’è tra periferia, flussi migratori, fine di un modello<br />
produttivo? Nella volontà di rispondere a tali quesiti e forti di dati e rapporti di fiducia strutturati negli<br />
anni precedenti con moli abitanti del territorio, iniziammo a condurre questa parte della ricerca P.R.I.N.<br />
dedicata al modo di vivere, usare, trasformare determinate aree periferiche da parte di gruppi di cittadini<br />
di origine straniera che in grande numero hanno scelto di abitarli.<br />
2. I senza fissa dimora in Bolognina e <strong>il</strong> centro storico bolognese<br />
Da subito, quando pensammo di concentrare lo sguardo su un’area specifica della periferia di Bologna,<br />
decidemmo di indagare questa realtà mettendola in relazione, come detto in precedenza, con <strong>il</strong> più<br />
esteso centro storico e le trasformazioni <strong>urbane</strong> che ebbero come teatro negli ultimi anni l’intero<br />
10 Nella definizione di Paul Farmer: “La violenza strutturale è violenza esercitata sistematicamente - cioè indirettamente - da<br />
tutti coloro che appartengono a un determinato ordine sociale […]. In sostanza, <strong>il</strong> concetto di violenza strutturale denota un<br />
dispositivo sociale di oppressione”. (Farmer 2003)<br />
7
territorio comunale. Per far questo riprendemmo in analisi alcuni dati che emersero da precedenti<br />
indagini, in particolare da uno studio etnografico che condussi per quindici mesi proprio al confine tra<br />
l’area della Bolognina e <strong>il</strong> territorio più centrale della città. (Scandurra 2005)<br />
Tra settembre 2004 e dicembre 2005 ho, come detto in precedenza, condotto una ricerca che ha avuto<br />
per oggetto gli immaginari, le rappresentazioni di un gruppo di ospiti, tutti senza fissa dimora, del<br />
dormitorio comunale Massimo Zaccarelli, meglio conosciuto come Carracci, ubicato in via Carracci nel<br />
confine sud della Bolognina, a ridosso della Stazione Centrale. (Scandurra 2005)<br />
Il Progetto Carracci nasce nel dicembre del 2000 quando, alla chiamata del Comune di Bologna per <strong>il</strong><br />
fronteggiamento dell’emergenza freddo, diverse imprese sociali ed enti di volontariato rispondono<br />
impegnandosi a creare una rete per affrontare le urgenti necessità di riparo delle persone senza fissa<br />
dimora che, in quel periodo dell’anno, non avrebbero trovato un posto presso le strutture esistenti in<br />
città (Rete Carracci 2005). La Rete Carracci, composta da un insieme eterogeneo di associazioni, si<br />
aggiudicò la convenzione per la gestione della struttura messa a disposizione dal Comune impegnandosi<br />
alla realizzazione di un servizio di accoglienza a bassa soglia 11 .<br />
Il riparo notturno in via Carracci apre con una capienza pari a sessanta-ottanta posti letto, ma le<br />
presenze gradualmente raggiungono una punta massima di centodieci posti letto, con un<br />
avvicendamento di persone di oltre duecento presenze ogni anno. Gli ospiti del riparo notturno<br />
Massimo Zaccarelli presentano da subito un’età media di 32,8 anni, vale a dire la minore età media<br />
riscontrab<strong>il</strong>e nei diversi ripari notturni cittadini. Si r<strong>il</strong>eva, inoltre, fin dall’inizio, un’elevata percentuale di<br />
persone con problemi di tossicodipendenza e disagio sociale, <strong>il</strong> maggior numero in assoluto di<br />
immigrati, la più alta percentuale di disoccupati ed una presenza significativa, pari al 24-26%, di persone<br />
con scolarità media, superiore e universitaria; infine, un’elevata presenza di ospiti provenienti da altre<br />
regioni e di donne. Studiando fin da subito le presenze nel Dormitorio è stato possib<strong>il</strong>e rendersi conto<br />
di come la tipologia dei senza fissa dimora a Bologna stava effettivamente cambiando. (Rete Carracci<br />
2005)<br />
Nel giugno 2005 presso <strong>il</strong> riparo notturno Massimo Zaccarelli si tenne un seminario intitolato<br />
“Un’emergenza durata cinque anni: L’esperienza del progetto Carracci”. A parlare furono buona parte<br />
dei soggetti che compongono tutt’oggi la Rete. Nel cort<strong>il</strong>e del Riparo, ad ascoltare, erano presenti anche<br />
numerosi ospiti della struttura. Si parlò, quel giorno, declinando tutti i verbi al passato poiché <strong>il</strong><br />
Carracci, come era stato precedentemente deciso, sarebbe stato demolito entro l’anno, nel dicembre<br />
2005.<br />
L’edificio del Riparo notturno, in effetti, come già accennato nel precedente paragrafo, era da mesi<br />
accerchiato da ruspe, muretti, binari: <strong>il</strong> Carracci era l’ultima traccia di un quartiere, Nav<strong>il</strong>e - che<br />
comprende <strong>il</strong> territorio della Bolognina - che, più di altri quartieri della città, stava cambiando<br />
11 Si intende per struttura a bassa soglia una struttura che soddisfa i bisogni primari delle persone senza fissa dimora.<br />
8
adicalmente. In questo territorio, già agli inizi della ricerca, nel settembre del 2004, vivevano migliaia di<br />
immigrati di differente appartenenza nazionale. In quel periodo erano già previste profonde mutazioni<br />
urbanistiche soprattutto in tre zone del quartiere: l’area dell’ex mercato ortofrutticolo, adiacente a via<br />
Carracci, dove a fine 2008 sono stati dislocati gli uffici comunali ed entro <strong>il</strong> 2010 è prevista la<br />
riqualificazione della Stazione Centrale e la costruzione, già in corso d’opera, dei binari dell’alta velocità;<br />
l’area di Via del Lazzaretto, dove, alla fine della ricerca, nel dicembre 2005, è stata edificata la nuova<br />
struttura che ha sostituito <strong>il</strong> riparo notturno Massimo Zaccarelli e sono previste diverse costruzioni<br />
abitative per studenti, oltre alla realizzazione del people mover, che collegherà l’aeroporto cittadino con la<br />
stazione; una terza area, infine, Casaralta, oggetto di specifici processi di gentrificazione, per via<br />
soprattutto del suo posizionamento di cerniera tra la stazione e la zona fieristica, a seguito della<br />
dismissione industriale di numerose fabbriche oggi abbandonate e popolate da senza fissa dimora e<br />
immigrati per lo più magrebini.<br />
Attualmente i cittadini stranieri residenti rappresentano oltre <strong>il</strong> 10% della popolazione del Nav<strong>il</strong>e, e<br />
un’intera area di questo territorio viene denominata dai residenti bolognesi come la Chinatown cittadina<br />
(Fiorentino, Coriale 2005 12 ). A via Barbieri, verso <strong>il</strong> confine ovest della Bolognina, non distante da via<br />
Carracci, per esempio, molti immigrati passano le giornate sui marciapiedi, agli angoli delle strade: sono<br />
tutte persone che abitano nelle cantine dell’immob<strong>il</strong>iare Marzaduri e sono costretti, soprattutto d’estate,<br />
a stare all’aperto per prendere aria; <strong>il</strong> problema della casa era, già nel 2004, molto sentito al Nav<strong>il</strong>e,<br />
come in molte altre parti della città (Tosi 1994). In questo quartiere, inoltre, la precarietà del lavoro è<br />
una realtà diffusa: le fabbriche storiche, la Casaralta, la Minganti, la Sasib, già nel settembre 2004, erano<br />
state chiuse o delocalizzate, e quelle ancora attive erano già in procinto in procinto di esserlo, come<br />
vedremo nel prossimo paragrafo. (Piano b 2008)<br />
Il lavoro etnografico, che è durato come detto quindici mesi, e che ha avuto per oggetto lo studio delle<br />
pratiche di vita quotidiana di un gruppo di ospiti del Carracci, ha preteso fin da subito di rivolgersi alla<br />
società civ<strong>il</strong>e e alle istituzioni locali per non rimanere prigioniero di autoreferenzialità accademica: da<br />
una parte, doveva essere inteso come campagna di sensib<strong>il</strong>izzazione e di promozione della conoscenza<br />
delle realtà esplorate, al fine di superare pregiudizi e paure dovuti in buona parte a una difficoltà di<br />
comunicazione tra i senza fissa dimora e <strong>il</strong> resto della cittadinanza, e alla mancanza di una corretta<br />
informazione sulle loro storie, sulla loro vita quotidiana, sul loro modo di pensare se stessi e <strong>il</strong> contesto<br />
dove vivono, sui percorsi che li hanno condotti alle condizioni presenti; dall’altra, doveva avere come<br />
fine la produzione di dati e letture analitici che potessero essere ut<strong>il</strong>i per l’universo cooperativistico e<br />
12 Il mens<strong>il</strong>e «Piazza Grande» ha dedicato un interno numero alla Chinatown bolognese. Realizzato dall’Associazione “Amici<br />
di Piazza Grande”, <strong>il</strong> giornale nasce a Bologna nel 1993 su proposta di un gruppo di lavoro costituitosi all’interno della<br />
C.G.I.L.. Il primo numero venne diffuso <strong>il</strong> 14 dicembre 1993 come foglio di informazione sulla vita di chi è in strada. Il<br />
mens<strong>il</strong>e, all’inizio, era scritto da una decina di senza fissa dimora e dagli stessi veniva distribuito nelle piazze bolognesi. In<br />
pochi giorni vennero vendute 4.000 copie e la ristampa di altre 7.000 venne esaurita prima del 6 gennaio 1994. (Barbieri,<br />
Tancredi 2006)<br />
9
associazionistico che da anni si occupa del problema emarginazione sociale, per migliorare la qualità dei<br />
suoi interventi e la natura stessa del suo lavoro. (Scandurra 2005)<br />
Obiettivo dichiarato fin da subito era realizzare, dopo i quindici mesi di ricerca, una mostra, conclusiva<br />
del lavoro etnografico, al fine di far capire alla cittadinanza quanto lo strumento fotografico fosse stato<br />
necessario per raggiungere gli obiettivi che ci eravamo prefissati da settembre 2004, ovvero la<br />
promozione di forme di autorappresentazione che si avvalessero di strumenti originali e capaci di<br />
stimolare la consapevolezza di sé degli attori sociali coinvolti 13 . In questa direzione, <strong>il</strong> lavoro<br />
fotografico, oltre che strumento di documentazione della condizione dei senza fissa dimora a Bologna,<br />
doveva essere funzionale alla costruzione di rapporti di fiducia e coinvolgimento con circa trenta ospiti<br />
del dormitorio Carracci. Strumento ideale perché avrebbe permesso ai senza fissa dimora con i quali<br />
avremmo condiviso <strong>il</strong> l’allestimento della mostra, di produrre anch’essi, e direttamente, una loro<br />
versione ufficiale della realtà. (Scandurra 2005)<br />
Senza fissa dimora sono le persone che si trovano in uno stato di grave bisogno poiché non hanno una<br />
casa, un reddito minimo, la possib<strong>il</strong>ità di accesso ai servizi socio-sanitari, hanno rotto con la famiglia, gli<br />
amici, e sono, spesso in una condizione di rischio di possib<strong>il</strong>e ulteriore deterioramento fisico e psichico<br />
(Bonadonna 2001). Il Carracci, da settembre 2004 a dicembre 2005, ha contato molti ospiti senza fissa<br />
dimora di nazionalità non italiana. Noi, io e <strong>il</strong> fotografo Armando Giorgini, <strong>il</strong> quale ha curato <strong>il</strong><br />
laboratorio fotografico, abbiamo per lo più costruito rapporti e coinvolto nella ricerca quelli italiani, per<br />
lo più uomini, semplicemente per una ragione di praticità d’indagine 14 . Tutti gli ospiti del Dormitorio,<br />
poi, per quanto nessuno di essi sia nativo di questa città, sono bolognesi nel senso che hanno fatto di<br />
questo territorio un punto di riferimento stab<strong>il</strong>e. In generale, abbiamo intervistato e fotografato persone<br />
che hanno scelto di vivere per diversi mesi in questa struttura assistenziale notturna, ma anche senza<br />
fissa dimora che rifiutano i dormitori e preferiscono stare per strada. Comunque tutte persone che<br />
conducono da tempo questa vita e ne sono profondamente segnati. Lavorando in termini di reti<br />
abbiamo poi vissuto diverso tempo con senza fissa dimora che hanno vissuto in altri dormitori e hanno<br />
avuto rapporti quotidiani con gli ospiti del Carracci. Il campo è stato dunque inizialmente circoscritto al<br />
riposo notturno Massimo Zaccarelli; solo successivamente abbiamo allargato <strong>il</strong> nostro terreno di<br />
indagine focalizzando l’attenzione sui percorsi urbani che fanno quotidianamente queste persone,<br />
parlando con loro nei bagni pubblici, nelle mense, nelle biblioteche cittadine, ma soprattutto in altre<br />
13 La mostra, ricca anche delle foto realizzate dai protagonisti della ricerca, è stata realizzata presso lo spazio della Cineteca di<br />
Bologna dal 19 gennaio al 12 febbraio 2006, finanziata dalla Provincia e patrocinata dall’Università, in particolare dal<br />
Dipartimento di Scienze dell’educazione. (Scandurra 2005)<br />
14 In generale, la situazione di molti senza fissa dimora non italiani ospiti del Carracci almeno fino al dicembre 2005, si<br />
diversificava da quella dei nostri connazionali poiché questi, oltre a problemi comuni a tutti i senza casa, ne avevano, per<br />
storie differenti alle spalle, di altri legati al permesso di soggiorno e <strong>il</strong> consequenziale rischio di essere rimpatriati. Per quanto<br />
concerne le donne del Riposo ne abbiamo conosciute solo quattro durante i quindici mesi di ricerca. Concentrare <strong>il</strong> nostro<br />
sguardo su di loro, come per gli immigrati, avrebbe voluto dire aprire campi di indagine che avrebbero meritato grande<br />
attenzione. Una parte di queste donne sono prostitute e soffrono, per motivi diversi da quelli degli uomini, la vita in un<br />
Dormitorio. (Scandurra 2005)<br />
10
strutture di accoglienza per lo più diurne. In questi ultimi luoghi abbiamo avuto modo di conoscere i<br />
loro amici, sapere quali fossero le loro relazioni, come passassero <strong>il</strong> tempo libero; attraversando con<br />
loro la città, inoltre, siamo stati costretti a fare, prima, una ricognizione dei luoghi dove alta è la<br />
concentrazione di senza fissa dimora, così, poi, da descrivere queste aree e fare di Bologna, soprattutto<br />
<strong>il</strong> suo centro storico, oggetto di analisi antropologica. (Scandurra 2005)<br />
L’allargamento del campo di ricerca infatti, dal Carracci alla città e di nuovo al Carracci, doveva seguire<br />
<strong>il</strong> lavoro fotografico che ha avuto inizio con dei ritratti impostati: l’ospite del Rifugio doveva scegliere<br />
un luogo all’interno del Carracci che riteneva particolarmente significativo per sé, un abbigliamento,<br />
l’espressione del viso. In seguito, <strong>il</strong> fotografo forniva una consulenza su come porsi concretamente di<br />
fronte all’obiettivo, posizionava le luci e sceglieva l’inquadratura, la quale veniva comunque <strong>il</strong>lustrata e<br />
concordata prima dello scatto. Il lungo tempo di esposizione, in cui <strong>il</strong> soggetto doveva mantenersi<br />
perfettamente immob<strong>il</strong>e, doveva così conferire solennità al momento dello scatto e quindi all’immagine<br />
realizzata. Poi gli autoritratti: sfondo fisso scelto o creato collegialmente dagli ospiti del Dormitorio da<br />
noi coordinati. Gli autoritratti sarebbero stati realizzati con un f<strong>il</strong>o di scatto lungo sei metri che doveva<br />
comparire all’interno dell’inquadratura in modo da rendere palese la natura dell’immagine e <strong>il</strong> fatto che<br />
fosse stato <strong>il</strong> soggetto stesso a scattarla. La macchina doveva essere sistemata su un cavalletto una volta<br />
per tutte, cosicché anche l’inquadratura fosse uguale per tutti i soggetti. Per organizzare ciò<br />
prevedemmo fin da subito di organizzare serate evento in cui venisse richiesto ai partecipanti e agli<br />
operatori del Dormitorio di lavorare in gruppo per la predisposizione del set.<br />
Poi, spostando <strong>il</strong> terreno di indagine, iniziammo a uscire con gli attori sociali coinvolti nel progetto di<br />
ricerca fuori dal Dormitorio. Ecco l’idea del reportage rigorosamente in bianco e nero: questo non<br />
doveva prevedere forme di coinvolgimento attivo dei soggetti da ritrarre. Il fotografo doveva ritrarre i<br />
soggetti in vari momenti della loro vita quotidiana e ogni decisione di carattere tecnico o estetico doveva<br />
essere a carico suo. Percorrendo insieme a loro la città l’idea fu quella di realizzare, in questa fase, anche<br />
delle fotografie fatte dai partecipanti con macchine monouso: questi dovevano essere stimolati ad<br />
esprimersi attraverso l’uso individuale del mezzo fotografico e a raccontare la propria quotidianità.<br />
L’oggetto degli scatti doveva essere completamente libero. Il fotografo, infatti, fornì loro solo istruzioni<br />
tecniche di base, canoni di carattere estetico e di costruzione dell’immagine: gli ospiti potevano così<br />
esprimersi liberamente (Scandurra 2005). Chi sono le persone al centro di questo ricerca? Che luoghi<br />
frequentano a Bologna abitualmente?<br />
Il modo migliore per rispondere a queste domande, almeno per noi, è stato uscire con <strong>il</strong> Servizio<br />
Mob<strong>il</strong>e di Sostegno gestito dall’Associazione Amici di Piazza Grande, a cominciare da settembre 2004.<br />
Il Servizio è attivo quattro volte alla settimana, ma anche tutti i giorni nei periodi di freddo più intenso<br />
con precipitazioni nevose in città. Per ogni uscita la permanenza sulla strada è di quattro ore circa,<br />
tempo che varia in base al numero di persone incontrate e alle necessità di queste ultime. Spesso <strong>il</strong><br />
11
contatto, infatti, si prolunga per raccogliere richieste di informazioni o di aiuto, ma anche racconti di<br />
vita o sfoghi personali. La macchina del Servizio Mob<strong>il</strong>e di Sostegno, che esce sia di giorno che di notte,<br />
distribuisce ai senza casa che vivono e dormono per strada 5.000 ch<strong>il</strong>ogrammi di generi alimentari ogni<br />
anno, e oltre 1.000 litri di tè e bevande calde distribuite per lo più in inverno. In macchina escono, a<br />
turni, <strong>il</strong> responsab<strong>il</strong>e del Servizio Mob<strong>il</strong>e, due senza fissa dimora che vengono retribuiti 15 euro ad ogni<br />
uscita, un volontario dell’Associazione, spesso anche operatori “pari” - ovvero ex utenti del Dormitorio<br />
che vengono retribuiti con una borsa lavoro mens<strong>il</strong>e per svolgere questo mestiere alla luce della loro<br />
esperienza -, tutti ricompensati con la stessa cifra. Per ogni uscita è possib<strong>il</strong>e contare una media di 60-70<br />
contatti, e nel solo anno 2003 <strong>il</strong> responsab<strong>il</strong>e del Servizio Mob<strong>il</strong>e di Sostegno segnalò almeno 6.400<br />
contatti 15 .<br />
Uscire con <strong>il</strong> Servizio Mob<strong>il</strong>e è stato in effetti <strong>il</strong> modo più semplice per conoscere i luoghi di Bologna<br />
dove dormono i senza casa. Per capire, per esempio, che le persone che vivono in determinati interstizi<br />
metropolitani hanno scelto quel territorio unicamente perché sotto terra ci sono gli impianti di<br />
climatizzazione, dunque fa più caldo - cosa che succede nei pressi di una banca a via Ugo Bassi, proprio<br />
nel centro storico, per esempio. L’attività consiste nel parcheggiare la macchina, distribuire sacchetti di<br />
cibo preparati nella sede dell’Associazione, fermarsi a parlare con i senza fissa dimora che si apprestano<br />
a riposare dentro cartoni o, alla meglio, sotto sacchi a pelo e coperte. In queste uscite abbiamo avuto<br />
modo di conoscere diverse persone, italiane e non, che vivono sulla strada, le quali sono state espulse<br />
dai dormitori o preferiscono starne fuori; tra i tanti ci sono anche quelli che sono nelle liste di attesa per<br />
entrare nelle strutture di accoglienza notturna. Tra i luoghi più frequentati dal Servizio ancora oggi ci<br />
sono i portici del centro storico bolognese nei pressi delle chiese, delle banche <strong>il</strong>luminate, ma anche<br />
aree più cementificate e periferiche sconosciute ai cittadini, poiché zone industriali abbandonate o<br />
fabbriche dimesse - come nel caso del territorio del quartiere Nav<strong>il</strong>e dove era ubicato lo stesso<br />
Dormitorio.<br />
Il lavoro di ritratti e autoritratti, condotto nei primi sei mesi della ricerca, ci diede modo di conoscere i<br />
protagonisti della ricerca: quale tragitto li aveva portati al Dormitorio? Come si rappresentano queste<br />
persone? Da dove sono partite? Quando sono arrivate a Bologna? Perché questa città? Rispondere a<br />
queste domande, infatti, ci ha dato modo di costruire una mappa dei luoghi dell’esclusione sociale a<br />
Bologna e, allo stesso tempo, studiare come questi stavano cambiando e, di conseguenza, si modificata<br />
<strong>il</strong> tessuto cittadino.<br />
Roma è tremenda da questo punto di vista, che è un sottobosco, io ci ho vissuto alla Stazione<br />
Termini, è veramente un sottobosco che bisognerebbe studiarlo, <strong>il</strong> vero inferno, quello vero, che io<br />
15 Queste cifre sono leggib<strong>il</strong>i nell’opuscolo “Associazioni Amici di Piazza Grande” stampato nel 2005 e distribuito nella sede<br />
dell’Associazione stessa.<br />
12
ho fatto dei ritratti dell’orrore alle persone che abitavano in questo sottobosco che erano migliaia.<br />
Dei ritratti cubisti, tutti a pezzi. (Armando, quarantenne ospite del Carracci 16 )<br />
Ivan ha vissuto per diversi anni a Roma prima di salire a Bologna. Lui e Armando si sono conosciuti<br />
per le vie del centro storico capitolino:<br />
Te ricordi quelle strade dove abbiamo passato l’adolescenza, che eravamo una trentina? Noi ci<br />
muovevamo a piedi o in metropolitana, che la controllavamo quella zona, che spacciavamo a tutti,<br />
che mio fratello una volta mi ha telefonato e mi dice che sta fumando hashish nella macchina della<br />
polizia. Che la polizia non ci diceva niente che noi cacciavamo i marocchini e gli altri…noi<br />
venivamo tutti da parti a rischio e ci trovavamo là, quando <strong>il</strong> centro storico era nostro, che io venivo<br />
dalla periferia sud, tutti noi facevamo lavoretti poi ci vedevamo là, eravamo tanti, come una<br />
generazione. (Ivan, da più di un anno utente del Rifugio)<br />
Armando e Ivan, spesso, per passare le serata in Dormitorio, ricordavano le strade di Roma. Ma <strong>il</strong><br />
gruppetto più numeroso era quello dei pugliesi. Salvio, loro coetaneo, per esempio, ci raccontò come<br />
nel suo quartiere popolare di Bari tutti consumassero droghe pesanti. Poi c’era qualche sardo, qualche<br />
calabrese, molti campani e sic<strong>il</strong>iani, e alle volte non si capiva nulla: per questo ci venne in mente di<br />
registrare le chiacchierate ad alta voce che molti senza fissa dimora facevano davanti al gabbiotto. Alla<br />
fine, per capirsi, ognuno continuava a parlare <strong>il</strong> suo dialetto, contaminandolo con quello del suo<br />
interlocutore: i romani parlavano un po’ salentino, i campani si sforzavano di usare parole calabresi; <strong>il</strong><br />
risultato era una lingua meridionale stranissima. E’ la lingua dei quartieri popolari di grandi città come<br />
Napoli, Palermo, Roma, Cagliari, Bari. Lingua ricca di parole, per lo più dialettali, apprese viaggiando<br />
l’Italia, come parole bolognesi, venete, trentine, bergamasche. Bologna è stata la meta principale del<br />
loro viaggio perché, così ci dissero, la loro libertà di movimento in città qui era maggiore.<br />
Ma non solo gruppi geografici. Spesso le alleanze al Carracci si giocavano soprattutto a livello<br />
generazionale. Armando, Ivan, loro avevano vissuto in città la fine degli anni Settanta per esempio.<br />
Anche Federico, e così quei pochi m<strong>il</strong>anesi come lui senza fissa dimora che incontrammo sulla strada, i<br />
quali vissero l’adolescenza in quel periodo. Per molti di loro <strong>il</strong> ‘77 17 è stato <strong>il</strong> periodo più libero della<br />
storia del nostro Paese, poi le cose sono cambiate, come dice Claudio - ospite da almeno quattro mesi<br />
del Carracci -, che si farà fare delle foto con due riviste musicali degli anni Settanta: “Perché poi è<br />
iniziata la repressione!”. Federico:<br />
16 Tutti i nomi riportati in questo scritto sono inventati e non corrispondono a quelli reali per ragioni di privacy.<br />
17 Grande parte dei dipartimenti universitari dell’Università di Bologna sono ubicati nel pieno centro storico cittadino.<br />
Questo territorio è stato al centro di lotte e rivolte studentesche nel 1977, quando gli studenti erano soliti incontrarsi in<br />
questa piazza per manifestare.<br />
13
Per me <strong>il</strong> ‘77 non è un bel ricordo, per nulla, quasi tragico, che molti amici che ho avuto non ne<br />
sono usciti dal ‘77, molti li ho persi per Aids e per droga. E io sono stato fortunato che ho avuto<br />
anche rapporti a rischio, ma nulla, e le siringhe, perché soldi in tasca ne ho sempre avuti un po’, non<br />
le ho mai scambiate. Io facevo, come altri, <strong>il</strong> corriere della droga. Approfittavo delle manifestazioni<br />
in piazza […] portavo la droga nei quartieri alti, dai borghesi. Tanto la polizia pensava solo al<br />
Movimento, e meglio così. (Federico da più di sei mesi al Carracci)<br />
Bologna diventa meta preferita per molti ospiti del Carracci proprio in quegli anni. Ivan:<br />
Io sono venuto a Bologna, che <strong>il</strong> treno che mi portava al Nord passava sempre per Bologna e così<br />
mi sono fermato. E poi a Bologna mi sono trovato bene, che ero piccolo, avevo pochi anni e i<br />
portici mi rassicuravano a camminarci da solo. Sono stati i portici a convincermi quando ero<br />
piccolo.<br />
Per molti di loro, in quegli anni, Bologna rappresentava una vera e propria esperienza metropolitana.<br />
Sempre Ivan:<br />
Mi ricordo che frequentavo una ragazza che mi portava nel labirinto degli specchi, che ti ricordi<br />
quando eravamo piccoli? Un‘altra ragazza mi ha portato al museo delle cere. Io venivo, noi, da una<br />
dittatura, non so come dirti, c’erano cose liberatorie per me, anche molte cazzate, per carità, però mi<br />
sentivo libero di fare quello che mi pareva qua.<br />
Per altri, già in estrema difficoltà, Bologna rappresentava una delle città più fornite in termini di<br />
assistenza sociale, e comunque una tra le città più tolleranti. Salvio:<br />
Sì, Bologna è una città che tollera, ma non rispetta, non accetta. E sempre stata così, i ragazzini<br />
pensavano fosse diversa e qui tutti a fumare. Qui puoi fare quello che cazzo ti pare, a differenza di<br />
altre città non ti dicono che devi diventare come loro, ma poi se dai fastidio e gli togli ricchezza<br />
sono cazzi tuoi qui. (Salvio, da più di tre mesi al riposo Massimo Zaccarelli)<br />
Anche Ivan la vedeva così:<br />
Qui stai bene, ma è vero che sono svizzeri, che quando oltrepassi <strong>il</strong> limite è la fine, che sono loro<br />
stessi a organizzarsi e mandarti via, altro che la polizia di stato.<br />
Bologna, per alcuni, fu solo l’ultima sosta prima di ricominciare <strong>il</strong> viaggio. Spesso questo tragitto<br />
nomadico è iniziato con <strong>il</strong> servizio m<strong>il</strong>itare. Molti baresi, napoletani, palermitani hanno lasciato casa a<br />
14
quell’età per non tornarci mai più. Ivan, Armando e Federico spesso parlavano dell’esperienza del<br />
servizio m<strong>il</strong>itare.<br />
Per altri <strong>il</strong> viaggio, prima di interrompersi a Bologna, ha oltrepassato i confini nazionali. Perdersi, per<br />
alcuni utenti del Riposo, infatti, significava aver voglia di conoscere realtà diverse. Per altri ancora,<br />
invece, l’unico motivo per cui ci si sposta tanto, e Bologna per la sua posizione geografica è stata una<br />
meta di pas<strong>saggio</strong> obbligatoria, come per Federico, è che: “Prima o poi qualche cazzata la fai e dunque<br />
sei costretto a non farti più vedere in quel posto e cambiare aria e amicizie”.<br />
Dopo aver conquistato rapporti di fiducia con un gruppo ristretto di ospiti - noi abbiamo frequentato<br />
quasi tutti i giorni <strong>il</strong> Dormitorio durante i quindici mesi di ricerca e <strong>il</strong> sabato e la domenica passavamo<br />
l’intera giornata con loro - iniziammo ad uscire per la prima volta dal Carracci insieme. Una delle fasi<br />
finali del laboratorio consistette, in effetti, nella realizzazione di un reportage che abbiamo prodotto nei<br />
successivi sei mesi di studio. L’idea era molto semplice: uscire con loro, passare tutta la giornata insieme<br />
fino al rientro nel Riposo notturno alle sette di sera. Quale è la Bologna che attraversano questi cittadini<br />
senza residenza? Dove si ritrovano? Come passano <strong>il</strong> tempo?<br />
Ovviamente questi luoghi sono molti e tra loro sono radicalmente diversi. Ancora oggi, da una parte ci<br />
sono i luoghi dello “scambio assistito”, ovvero i luoghi gestiti da centri assistenziali, gruppi di<br />
volontariato, etc. (Bonadonna 2001). Questi sono spesso luoghi dove non si costruisce capitale sociale,<br />
piuttosto ci si riposa, si guarda la televisione, si dorme anche per tutto <strong>il</strong> pomeriggio. Alcuni ospiti del<br />
Carracci, per esempio, sceglievano di passare <strong>il</strong> pomeriggio al centro polifunzionale in via Sabatucci, a<br />
ridosso del centro storico. Altri senza dimora, ancora adesso, preferiscono andare a via del Porto, non<br />
troppo distante dalla stazione, dove c’è un altro centro diurno. Ovviamente la scelta non è casuale, ma<br />
segue logiche di alleanze, di amicizie.<br />
Alla seconda categoria fanno capo quei luoghi dove si incontrano persone italiane e stranieri<br />
indigenti, con o senza fissa dimora, famiglie di italiani in condizione di povertà non estrema. Sono<br />
luoghi dove si scambiano e si vendono oggetti di ogni tipo, luoghi di attrazione per la piccola<br />
ricettazione e lo spaccio di droghe. (Bonadonna 2001)<br />
Il sociologo romano fa riferimento a piccoli mercati più o meno improvvisati che non hanno luogo<br />
fisso; cambiano a seconda dell’intensità dei controlli di polizia. A Bologna rientrano in questa categoria<br />
territori come Piazza dei Martiri, Piazza Puntoni, via Zamboni all’altezza di Piazza Verdi, tutta l’area<br />
della ex Manifattura Tabacchi a ridosso della Cineteca in via Azzo Gardino 18 ; ovvero luoghi del centro<br />
storico e dell’area universitaria. Qui molti senza fissa dimora, tutt’oggi, possono praticare la loro<br />
18 Non a caso tutta l’area della ex Manifattura, a partire dal parco, è oggetto di specifici processi di gentrificazione a<br />
cominciare dall’apertura, nel 2007, del museo d’arte contemporanea, <strong>il</strong> Mambo.<br />
15
primaria economia di scambio, <strong>il</strong> baratto: si scambiano vestiti, schede telefoniche trovate dentro le<br />
cabine, scarpe, soprattutto genere vestiario, ut<strong>il</strong>e per proteggersi dal freddo.<br />
Sono tutte zone del centro storico perché qui è possib<strong>il</strong>e fare elemosina. Come dice Federico: “Dove<br />
c’è più turismo è più fac<strong>il</strong>e guadagnare!”. Ma sono luoghi centrali anche perché zone come Piazza Verdi<br />
sono molto frequentate dagli studenti, insomma sono i territori preferiti da tipologie di persone,<br />
anch’esse non residenti 19 , che tollerano i senza fissa dimora e hanno rapporti, di diverso tipo, con essi.<br />
Nonostante l’area universitaria, infatti, sia tra le più sorvegliate dalle Forze dell’Ordine questa rimane un<br />
luogo centrale per molti senza dimora. Alcuni qui si sentono a casa, come una volta ci disse Armando:<br />
“Mi sento giovane sotto i portici di via Zamboni, che ci fermiamo a bere, ci stanno i cani, c’è libertà”.<br />
Quindici mesi di ricerca ci hanno permesso di evidenziare quanto, seguendo i percorsi quotidiani che<br />
avevano portato un gruppo di senza fissa dimora a Bologna, e i loro movimenti quotidiani in città a<br />
partire dalla Bolognina, dove era sito <strong>il</strong> loro Rifugio, quest’ultimo territorio periferico fosse già allora in<br />
relazione di reciproca influenza con <strong>il</strong> più esteso centro storico; non poteva, dunque, essere analizzato<br />
come spazio di aggregazione residuale e dissonante rispetto ad aree più centrali; né, di conseguenza,<br />
essere studiato, in quanto contesto urbano periferico, solo come localizzazione geografia e culturale<br />
circoscritta. Per questo, partendo da queste osservazioni, durante la ricerca P.R.I.N. iniziammo a<br />
domandarci come si fosse strutturata negli anni questa relazione di reciproca influenza tra determinate<br />
aree <strong>urbane</strong> periferiche bolognesi e <strong>il</strong> centro cittadino.<br />
Territori come Genova, centri portuali come <strong>il</strong> vieux port di Marsiglia, Napoli, Bari vecchia, <strong>il</strong> Barrio chino<br />
di Barcellona, tutti quartieri antichi a ridosso di porti, spazi di transito e di approdi temporanei, edifici<br />
fatiscenti, vicoli oscuri, economie marginali, traffici <strong>il</strong>legali o ai limiti della legalità come la prostituzione,<br />
socialmente omogenei (Dal Lago, Quadrelli 2003). Così Dal Lago e Quadrelli descrivono i mondi<br />
criminali di una città del nord Italia, Genova:<br />
Gli antichi palazzi sono abitati da cittadini comuni e, ai piani alti, anche da rampolli della nob<strong>il</strong>tà,<br />
mentre a poca distanza gli immigrati si insediano in edifici degradati o pericolanti. Dipartimenti<br />
universitari danno su vicoli ben noti ai clienti delle transessuali, i tossicodipendenti si raggruppano in<br />
piazze o salite sui cui si affacciano chiese, musei e scuole […]. Città chiusa in se stessa, in effetti, da<br />
confini quasi naturali, come i portici, le porte, le valli, dunque ambiente unico per la ricerca sociale, e<br />
in particolar modo etnografico […]. Il mutamento economico e sociale vi si può leggere quasi<br />
quotidianamente, i cambiamenti sono sovrapposti e datab<strong>il</strong>i. Il pas<strong>saggio</strong> dall’economia industriale a<br />
quella dei servizi, <strong>il</strong> declino della classe operaia e delle sue rappresentanze sindacali e politiche, <strong>il</strong><br />
travaglio delle amministrazioni locali, la disoccupazione giovan<strong>il</strong>e, l’immigrazione e la xenofobia<br />
19 Bologna è una città di circa 375.000 cittadini. Parte degli abitanti della città, che è abitata quotidianamente da più di mezzo<br />
m<strong>il</strong>ioni di persone, è composta da cittadini non residenti, per lo più studenti, ma anche immigrati, senza fissa dimora, city<br />
users (Callari Galli 2004)<br />
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occulta o dichiarata, <strong>il</strong> sentimento di insicurezza, l’imprenditoria politica locale che fa leva sulla<br />
paura. (Dal Lago, Quadrelli, 2003 20 )<br />
Prima di iniziare la ricerca, mai avremmo immaginato di poter descrivere Bologna come fosse una città<br />
portuale 21 , come Genova, come quelle descritte da Dal Lago e Quadrelli. Ma anche qui possiamo<br />
parlare di due città, due mondi che convivono sullo stesso palcoscenico senza sfiorarsi, e soprattutto<br />
ignorandosi. Il centro di Bologna ha una caratteristica peculiare, derivante per certi aspetti dalla sua<br />
conformazione urbanistico-architettonica, la presenza dei portici, che non è riscontrab<strong>il</strong>e in altri centri,<br />
come per esempio <strong>il</strong> centro museificato di Firenze o Roma, dove la città “<strong>il</strong>legittima” (Dal Lago,<br />
Quadrelli 2003) è spesso relegata alla periferia. Questo aspetto fa sì che <strong>il</strong> centro di Bologna non sia<br />
socialmente omogeneo: gli antichi edifici sono abitati da cittadini comuni, da una ricca borghesia, da<br />
studenti, ma è sotto i portici che Bologna si fa caleidoscopio della diversità; davanti alle vetrine dei<br />
negozi di lusso, dei teatri, delle chiese, sostano mendicanti, senza fissa dimora, immigrati qui si<br />
svolgono le loro attività, fanno colletta, smerciano, spesso vi dormono. I portici, in un certo senso,<br />
diventano dimora mentre i residenti storici scorrono loro accanto, così che mondi sociali diversissimi si<br />
sfiorano e coesistono senza che gli sguardi degli abitanti di un mondo si soffermino sui frequentatori<br />
dell’altro (Dal Lago, Quadrelli 2003). Piazza Verdi, la zona universitaria, è uno di questi spazi dove<br />
questi due mondi convivono, appunto, senza toccarsi.<br />
Ecco dunque che Bologna si fa contenitore di due mondi, di due città, che coesistono, si ignorano, si<br />
evitano, due città in una posizione profondamente diversa e asimmetrica. Come nel caso genovese,<br />
infatti, la società “legittima” non conosce quella “<strong>il</strong>legittima” (Dal Lago, Quadrelli 2003), ma la evoca<br />
continuamente, la rende colpevole di quel disagio, di quel degrado 22 che la città vive, come una continua<br />
minaccia possib<strong>il</strong>e, come una città popolata da abbietti, deviati, anormali; ricorrendo però a quest’ultima<br />
per un gran numero di servizi e prestazioni: dal lavoro domestico a quello in nero dei cantieri, dalla<br />
domanda di prostituzione a quella dei stupefacenti e dei giochi d’azzardo. (Dal Lago, Quadrelli 2003)<br />
All’interno del centro storico bolognese, per esempio, ci sono luoghi che molti senza fissa dimora<br />
frequentano al fine di nascondersi tra la folla. La sala Borsa 23 è quello più significativo. Qui, avviene<br />
anche adesso, molti senza fissa dimora passano la giornata, usufruendo dei bagni, delle macchinette che<br />
20 Dal Lago e Quadrelli in “La città e le ombre” parlano di “città legittima e città <strong>il</strong>legittima”, narrando lo spazio urbano<br />
genovese, come due mondi in una posizione profondamente asimmetrica e diversa, ma che convivono nello stesso<br />
territorio. (Dal Lago, Quadrelli 2003)<br />
21 Così descrive la città lo scrittore Luigi Bernardi: “Bologna è una città abitata da mezzo m<strong>il</strong>ione di cittadini fieri. Il vero<br />
mistero è proprio questo: come fa Bologna in poco tempo a trasformarsi in una specie di albergo, con parecchie stanze<br />
vuote, che molti vengono ad abitare per capriccio o bisogno, ma nessuno considera davvero la propria città? Bologna, […], è<br />
una città abitata da cittadini residui”. (Bernardi 2002)<br />
22 Le ultime elezioni cittadine si sono giocate soprattutto sulla questione “insicurezza”, “degrado”, “<strong>il</strong>legalità”.<br />
23 Nonostante, dopo l’elezione del Sindaco Sergio Cofferati nel 2004, parte dello spazio di questa biblioteca pubblica sia stata<br />
venduta a privati al fine di aprire una libreria, un caffè e un ristorante, questo luogo era tra quelli più scelti dagli ospiti del<br />
dormitorio Carracci: qui gli era possib<strong>il</strong>e usufruire dei bagni, riscaldarsi, leggere libri.<br />
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distribuiscono caffè e cibo; qui sono soliti leggere, visto che i libri possono essere sfogliati senza<br />
l’obbligo, poi, di acquistarli. Ma sono anche ragioni meno materiali che spingono queste persone a<br />
trascorrere numerosi pomeriggi in Sala Borsa. In questo luogo, come ci disse Federico: “Hai la<br />
sensazione di far parte della città, di essere integrato”. La sala Borsa è in effetti uno spazio vissuto,<br />
frequentato da molti residenti, uno spazio simbolico della “bolognesità”. (Addarii 2004 24 )<br />
Nell’autunno del 2005, e per i successivi tre mesi prima della chiusura del Dormitorio, conducemmo<br />
l’ultima fase del laboratorio. Nostra volontà era quella di produrre delle fotografie con macchine usa e<br />
getta: dovevano essere gli stessi ospiti del Dormitorio a scattarle. Attraverso l’uso individuale di questo<br />
mezzo fotografico avrebbero dovuto raccontare la propria quotidianità, la città che abitavano, i luoghi<br />
che vivevano, le persone con le quali passavano <strong>il</strong> tempo. La macchina fotografica, del resto, è stato lo<br />
strumento che ci siamo portati tutti i giorni nella nostra cassetta di attrezzi da etnografi: lo strumento<br />
che ci ha permesso, da subito, di interagire con i nostri informatori; di costruire rapporti che non<br />
sarebbero mai nati se non avessimo offerto loro la possib<strong>il</strong>ità di esprimersi, se non avessimo scambiato<br />
con loro qualcosa. Ma la scelta di far produrre a loro stessi delle immagini è stata anche una necessità<br />
metodologica. Per quanto potevamo conoscere sempre meglio la realtà dei senza fissa dimora, siamo<br />
stati fin da subito consapevoli di quanto le loro foto risultassero più autentiche, permettendoci di<br />
comprendere di più <strong>il</strong> loro mondo, i loro luoghi. (Scandurra 2005)<br />
Prima di iniziare l’ultima fase del laboratorio legata alle macchine usa e getta, fornimmo delle istruzioni<br />
tecniche di base ai partecipanti, per lo più canoni di carattere estetico e di costruzione dell’immagine.<br />
L’idea era quella di, una volta fatte le foto, riunirsi nel Dormitorio per raccontarsi <strong>il</strong> perché si era scelto<br />
di fotografare quel luogo e non quell’altro; per questo, fin dall’inizio, pensammo di non costringere gli<br />
ospiti a fotografare un unico soggetto, per esempio <strong>il</strong> centro storico di Bologna, piuttosto lasciarli liberi<br />
di esprimere al fine di capire, poi, cosa ci fosse dietro le loro scelte artistiche.<br />
Per trovare spazi privati, dove essere al riparo degli altrui sguardi, molti senza fissa dimora preferiscono<br />
vivere sulla strada, in territori liminali. Per esempio sotto determinati portici meno visib<strong>il</strong>i dietro le<br />
colonne del centro storico bolognese. Alcune foto ritraevano questi spazi, “proprietà” di senza dimora<br />
che avevano costruito, con cartoni e altro, un vero e proprio edificio sotto i portici. Ancora oggi è<br />
possib<strong>il</strong>e vedere queste persone spazzare ogni mattina questi luoghi, pulirli, prima che li attraversino i<br />
residenti, i quali li sporcheranno, costringendo loro così a rimettere tutto a posto alla sera, prima di<br />
andare a dormire. Un altro ut<strong>il</strong>izzo del territorio è necessario per molti senza fissa dimora: basta pensare<br />
a dove queste persone possono avere rapporti sessuali, visto che in Dormitorio è impossib<strong>il</strong>e, è vietato.<br />
Ivan, per esempio, ci ha fatto vedere che spazi della città ut<strong>il</strong>izzava per fare l’amore con la sua<br />
24 Nel numero della rivista “Gomorra” dal titolo “La metropoli rimossa”, F<strong>il</strong>ippo Addarii ha ricostruito analiticamente,<br />
durante l’Amministrazione Guazzaloca che ha preceduta quella di Sergio Cofferati - 2004-2009 -, la reinvenzione della<br />
bolognesità, e <strong>il</strong> desiderio politico della Giunta, anche allo scopo di difendersi dalla presenza dei senza dimora nelle<br />
principali piazze del centro storico, della chiusura della città in un piccolo paese dentro le Porte, attraverso l’edificazione<br />
delle statue di San Petronio, Padre Pio, Ugo Bassi nei punti nevralgici del territorio. (Addarii 2004)<br />
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compagna, come angoli riposti e poco battuti dei parchi cittadini, come i Giardini Margheriti, sempre<br />
nel pieno centro storico.<br />
Esistono diversi luoghi dove queste persone sono soliti trascorrere <strong>il</strong> tempo, costruire capitale sociale,<br />
delle abitudini. Ciò che accomuna questi territori è che, nonostante siano per lo più dislocati nel centro<br />
storico della città, assumono le sembianze di zone periferiche - un angolo nascosto nella Sala Borsa, una<br />
panchina invisib<strong>il</strong>e perché tra due cespugli a Piazza dei Martiri, un interstizio tra due portici a via<br />
Zamboni, in piena area universitaria. Questi spazi “periferici” sono spesso trasversali, spazi di<br />
attraversamento: luoghi caratterizzati da aree residenziali edificate con standard diversi, per esempio,<br />
oppure le stesse fabbriche dimesse del quartiere Nav<strong>il</strong>e abitate da numerosi senza casa. Sono territori<br />
sempre più frequentati da persone che i residenti storici percepiscono come “stranieri”, siano essi,<br />
senza fissa dimora, immigrati, ex studenti fuori sede in cerca di occupazione, per lo più provenienti dal<br />
Meridione. In questo senso i luoghi abitati da questi “stranieri” non sono mai del tutto loro: sono gli<br />
spazi dimenticati, di margine, i giardini pubblici che nessuno vuole più vivere. (La Cecla 2000)<br />
In questa direzione, durante la ricerca P.R.I.N., ci siamo accorti come la dialettica centro/periferia<br />
perdeva senso come chiave di lettura dei territori dell’esclusione sociale; all’opposto abbiamo avuto<br />
modo di vedere come l’intero territorio comunale stava cambiando. Già durante gli anni Novanta,<br />
infatti, l’assetto urbano di questa città doveva essere ristudiato, a cominciare proprio dal centro storico,<br />
poiché le mura dei palazzi cominciavano a deteriorarsi: ai problemi di subsidenza si andavano<br />
sommando problemi di integrità strutturale degli edifici del centro, sempre più colpiti dalle vibrazioni<br />
dovute all’aumento del traffico nella cerchia delle Mura cittadine. Icentro storico, con le sue stradine e<br />
la sua pianta medievale, non poteva più reggere l’uso sempre più intensivo cui era stato destinato con <strong>il</strong><br />
beneplacito di istituzioni - aeroporto, ente fiera, immob<strong>il</strong>iari, cooperative sociali, aziende e servizi dei<br />
trasporti - interessati all’afflusso di masse di persone che potessero rivitalizzare l’economia del terziario<br />
bolognese in un’epoca ormai post-industriale, allorché persino i fiori all’occhiello dell’area, come<br />
l’industria meccanica, come dimostreremo nel prossimo paragrafo, vedevano ridursi <strong>il</strong> loro fatturato se<br />
non <strong>il</strong> loro prestigio. (Giuliani, Scandurra 2006 25 )<br />
Nei primi anni Novanta, inoltre, <strong>il</strong> numero degli studenti dell’ateneo cittadino cresce inoltre<br />
notevolmente 26 . Tale sfruttamento intensivo non è un fenomeno nuovo per Bologna - persino i portici<br />
nacquero, nel Medioevo, per opera degli affittacamere che desideravano creare nuove stanze da<br />
riempire di studenti, e tuttavia erano vincolati dalla larghezza della strada e dallo spazio disponib<strong>il</strong>e -<br />
eppure ciò che impressiona è quanto oggi, nonostante i tentativi agiti soprattutto dall’ultima<br />
Amministrazione, i nuovi piani urbanistici non riescano a essere “partecipati” e condivisi con una buon<br />
25 Nel 2006, insieme al giornalista Fabrizio Giuliani, realizzammo un’inchiesta sulle trasformazioni del tessuto cittadino a<br />
partire dagli anni Novanta. (Giuliani, Scandurra 2006)<br />
26 A metà anni Sessanta l’Università contava 16.000 studenti su una popolazione di 500.000 abitanti. Oggi Bologna ha una<br />
popolazione di 375.000 residenti e la popolazione universitaria supera le 100.000 unità: <strong>il</strong> rapporto in meno di quarant’anni si<br />
è alterato di circa quattordici volte. (Pavarini 2006)<br />
19
parte della cittadinanza (Lasagni 2005). Dopo aver operato affinché si raggiungesse <strong>il</strong> punto di rottura,<br />
negli ultimi anni, in effetti, l’Amministrazione si è presa l’onere di governare le conseguenze di questi<br />
processi: l’esautorazione del centro storico dalle funzioni amministrative e propriamente <strong>urbane</strong> e la<br />
creazione, nelle aree a nord, più periferiche, la Bolognina su tutte, di un nuovo centro che fornisca i<br />
servizi spostati dal primo. (Giuliani, Scandurra 2006)<br />
L’ipersfruttamento dell’immagine di Bologna e la pubblicizzazione di un modello di welfare sempre<br />
riuscito, accompagnato dalla diffusione di miti sul “buon vivere” della città e dalla speculazione ed<strong>il</strong>izia<br />
e immob<strong>il</strong>iare, hanno prodotto, già a cominciare da questi anni, <strong>il</strong> caos dentro le Porte, l’aumento dei<br />
cittadini non residenti, <strong>il</strong> boom del parco vetture circolante, l’ipertrofia del traffico pedonale e<br />
automob<strong>il</strong>istico. In aggiunta, lo spostamento verso nord dei servizi amministrativi del Comune è stato<br />
contemporaneo a quello del polo “culturale” e “giovan<strong>il</strong>ista” che è andato assestandosi nell’area<br />
periferica di San Donato 27 . La qual cosa, già allora, portò a una rivitalizzazione dell’economia che però<br />
prescindeva dalla città, che recideva volontariamente <strong>il</strong> suo legame con la creazione culturale condivisa,<br />
di cui <strong>il</strong> centro storico era epicentro naturale. (Giuliani, Scandurra 2006)<br />
Per questo ritenemmo semplificante, alla fine del lavoro P.r.I.N., leggere questa città nella vecchia<br />
dialettica centro-periferia. Bologna non è Parigi, non ha un grande centro e una banlieue. La “malattia<br />
periferica” qui è sott<strong>il</strong>e: spesso non ha a che fare con fattori territoriali, puramente geografici, ma<br />
piuttosto psico-geografici. Al punto che qui la banlieue e <strong>il</strong> centro sono in un certo senso invertiti: <strong>il</strong><br />
centro storico è periferia. Gli studenti, i parìa della città, lo occupano in massa; le attività commerciali<br />
sono sempre più nelle mani degli immigrati; le colf f<strong>il</strong>ippine e le badanti polacche, non potendo invitare<br />
i conoscenti in case minuscole o abitazioni in cui lavorano da ospiti, si ritrovano a chiacchierare in<br />
piazza Maggiore e in altri luoghi storicamente regno dei residenti storici, come i Giardini Margherita 28 .<br />
Questa paradossale visib<strong>il</strong>ità dello “straniero”, che sia immigrato o studente fuori sede, che ut<strong>il</strong>izza in<br />
modo diverso lo spazio pubblico cittadino - visib<strong>il</strong>ità generata dalle necessità e dalle storture<br />
dell’economia cittadina come detto - induce spaesamento nei “bolognesi autentici”. Tale shock, a sua<br />
volta, ha certamente avuto un importante ruolo nel portare gli amministratori della città a mettere al<br />
primo punto dell’ordine del giorno questioni ambigue e controverse come quella della “legalità”, della<br />
“sicurezza”, del “degrado”, come precedentemente affermato. Per questo, durante la nostra ricerca,<br />
abbiamo avuto difficoltà a parlare di periferia e di centro, e abbiamo troviamo più sensato far<br />
riferimento a diversi territori eterogenei le cui relazioni erano tutte da indagare.<br />
27 I principali centri di aggregazione giovan<strong>il</strong>i, e i centri sociali storici di Bologna come Link e Livello, sono stati trasferiti<br />
tutti in questa nuova area raggiungib<strong>il</strong>e solo con la macchina, soprattutto dopo la mezzanotte.<br />
28 Il centro storico di Bologna negli anni Novanta è rinato, si è arricchito di colore e attività commerciali grazie alle decine di<br />
piccole botteghe aperte dai cittadini pakistani, indiani, bengalesi e sudamericani che offrono un servizio altrimenti<br />
irreperib<strong>il</strong>e per la popolazione residente e gli studenti universitari. Le donne moldave, polacche, ucraine, peruviane e<br />
f<strong>il</strong>ippine sono ormai e sempre di più insostituib<strong>il</strong>i nella cura e sostegno morale e fisico di migliaia di anziani che non possono<br />
permettersi i costi delle case di cura.<br />
20
Ma torniamo ora la nostro territorio, alla Bolognina, e osserviamo come questo contesto urbano sia<br />
cambiato anche in relazione alle trasformazioni appena descritte che hanno investito <strong>il</strong> centro storico di<br />
Bologna; e come, nonostante non si possa parlare della presenza di una banlieue, alcune aree di Bologna<br />
fuori dalle Mura sono sempre più caratterizzate, negli ultimi anni, dalla presenza e le pratiche di vita di<br />
ragazzi e ragazze di origine straniera.<br />
3. La Bolognina una volta chiuse le sue fabbriche<br />
Nel 1919 l’imprenditore bergamasco Carlo Regazzoni, che aveva svolto mansioni dirigenziali in<br />
fabbriche come la Breda, la Società officine ferroviarie italiane, la Fervet, r<strong>il</strong>eva lo stab<strong>il</strong>imento Sigma<br />
nel territorio della Casaralta, una porzione di periferia nell’area della Bolognina; territori che poi, con la<br />
riforma dei quartieri, avrebbero fatto parte entrambi del quartiere Nav<strong>il</strong>e. Nascono così le Officine di<br />
Casaralta (Piano b 2008 29 ) e la prima periferia nord della città inizia a divenire tra le aree più<br />
industrializzate della città, sicuramente quella più caratterizzata dalla presenza di operai residenti nel<br />
territorio.<br />
Il capoluogo em<strong>il</strong>iano, fino all’Unificazione d’Italia, soprattutto nei suoi territori più periferici, era<br />
connotato per lo più come grande mercato locale. Solo dopo <strong>il</strong> 1861, in funzione del suo essere nodo<br />
ferroviario e pas<strong>saggio</strong> obbligato per le principali linee di comunicazione fra <strong>il</strong> nord e <strong>il</strong> sud del Paese, si<br />
trasforma in centro commerciale di importanza nazionale. La popolazione, che fino ad allora si<br />
assestava sulle centom<strong>il</strong>a unità tra città e contado, a cominciare dal 1861 inizia a crescere nell’ordine di<br />
un migliaio di abitanti all’anno. Le prime grandi trasformazioni del tessuto urbano bolognese non a caso<br />
avvengono negli anni successivi all’Unificazione, soprattutto all’interno dell’area del centro storico:<br />
seguendo le indicazioni del Piano regolatore del 1889, per due decenni questo territorio sarà teatro di<br />
lavori di ridisegno e riqualificazione urbana. Queste trasformazioni, per tutto l’Ottocento, si limitano<br />
unicamente alle aree centrali: nelle zone limitrofe, infatti, si formano solo modesti aggregati urbani,<br />
specialmente in vicinanza delle Porte, che vengono progressivamente demolite a cominciare dal 1902.<br />
Solo quando la città satura le aree libere all’interno della cerchia murata inizia un’intensa attività ed<strong>il</strong>izia<br />
nel territorio periurbano. Due saranno le forme urbanistiche più usate: la prima, la città giardino,<br />
ovvero agglomerati di v<strong>il</strong>lette a due o tre piani, di elegante architettura e con giardino privato, per lo più<br />
edificate lungo i viali di circonvallazione, nella zona alta della città; la seconda, la casa popolare: ovvero<br />
grandi palazzi costituiti da decine di appartamenti realizzati secondo criteri intensivi, ancora visib<strong>il</strong>i nei<br />
terreni fuori dalle Mura, e costruiti per opera di enti pubblici e società cooperative quali l’Istituto<br />
Autonomo Case Popolari, la Società Cooperativa per la costruzione e <strong>il</strong> risanamento di case per gli<br />
29 Piano b è un gruppo nato nel giugno 2006 al fine di produrre inchiesta sociale a Bologna. Dal gennaio 2006 al gennaio<br />
2007 abbiamo studiato le trasformazioni che hanno avuto come teatro <strong>il</strong> territorio della Bolognina e più in generale <strong>il</strong><br />
quartiere Nav<strong>il</strong>e a partire dall’area di Casaralta e dalla chiusura di questa fabbrica. L’inchiesta è stata realizzata insieme ai<br />
colleghi Fulvia Antonelli, Pietro Bellorini, Gianluca D’Errico, Luca Lambertini, Paolo Lambertini, Mimmo Perrotta, Sara<br />
Sartori e Leonardo Tancredi. (Piano b 2008)<br />
21
operai, la Banca Popolare di Bologna e Ferrara. La Bolognina, già in questi anni, si caratterizzerà per<br />
queste due tipologie abitative.<br />
Dopo l’Unificazione, iniziano a nascere, dalle ceneri dei numerosi laboratori artigiani concentrati nella<br />
città vecchia, fabbriche che in poco tempo assumono importanza nazionale, dopo aver trasferito le loro<br />
sedi in periferia al fine di ingrandire gli impianti produttivi: aziende metalmeccaniche come Ducati,<br />
Giordani, Minganti, Sasib; ma anche aziende alimentari e grafiche. La maggior parte si sv<strong>il</strong>uppa intorno<br />
a via Em<strong>il</strong>ia Ponente, la via di comunicazione più significativa, e a nord della Stazione Centrale, alla<br />
Bolognina appunto, in virtù del potere attrattivo della ferrovia nei riguardi degli insediamenti industriali.<br />
Le Officine di Casaralta sorgono tra via Ferrarese e l’odierna via Stalingrado, ai margini di un’area che<br />
conta una superficie di 475 ettari, di poco superiore a quella complessiva del centro storico - 435 ettari -<br />
ed è delimitata dagli impianti ferroviari della Stazione Centrale a sud, dal canale Nav<strong>il</strong>e a ovest, dalla<br />
tangenziale a nord e da via Stalingrado a est (Piano b 2008). Casaralta, del resto, è solo uno dei tanti<br />
nuclei urbani che compongono questa vasta area, tra cui Arcoveggio, la Zucca, Ca’ de’ fiori, Battiferro, I<br />
due Pozzi, Caserme Rosse. Oggi, dopo che gran parte di questi territori è stata unificata nel quartiere<br />
Nav<strong>il</strong>e è possib<strong>il</strong>e studiare questa zona come una periferia ininterrotta che impedisce di tracciare limiti<br />
precisi tra un’area e un’altra, visto che le espansioni <strong>urbane</strong> successive al 1919 salderanno fra loro i<br />
vecchi borghi.<br />
La Bolognina è sempre stata percepita e rappresentata come un territorio popolare in conseguenza degli<br />
alti casamenti disposti su una maglia di strade che si intersecano ad angolo retto. Casaralta, in<br />
particolare, acquisirà già dai primi anni Venti le caratteristiche del nucleo più industriale dell’area della<br />
Bolognina: in questo territorio, all’inizio del Novecento, verranno installati, oltre alle Officine di<br />
Casaralta, altri importanti stab<strong>il</strong>imenti quali <strong>il</strong> Carnificio m<strong>il</strong>itare, lo stab<strong>il</strong>imento Longo e le Officine<br />
Minganti, che trasformeranno <strong>il</strong> nucleo urbano in un borgo operaio. Ancora oggi, <strong>il</strong> modo di<br />
denominare questi territori usato dagli abitanti del quartiere non corrisponde pienamente a quello degli<br />
urbanisti e degli amministratori locali, piuttosto ricorda le vecchie divisioni in rioni. (Piano b 2008)<br />
L’attuale quartiere Nav<strong>il</strong>e, oggi, è composto di vecchi tre rioni: Lame, Bolognina e Corticella.<br />
Bolognina, divisa a sua volta in Bolognina classica, Casaralta, Arcoveggio, Montovolo. Si tratta del<br />
primo rione di Bologna. (Claudio Mazzanti, Presidente del quartiere Nav<strong>il</strong>e 30 )<br />
Fino alla metà dell’Ottocento <strong>il</strong> territorio suburbano di Bologna è principalmente campagna coltivata a<br />
perdita d’occhio e punteggiata di sparse case coloniche. Sarà la costruzione della Stazione Centrale a<br />
modificare radicalmente <strong>il</strong> territorio della Bolognina. Dal 1859 al 1866 Bologna si collega alle maggiori<br />
città italiane: M<strong>il</strong>ano, Ancona, Firenze, Roma. Nel 1871 viene costruito l’edificio della stazione e<br />
30 Durante l’inchiesta sociale, allo scopo di ricostruire la storia della fabbrica Casaralta, abbiamo intervistato numerosi operai,<br />
sindacalisti, residenti della Bolognina, e anche molti amministratori del territorio. (Piano b 2008)<br />
22
sorgono numerose officine per la riparazione del materiale ferroviario nell’odierna via Carracci dove nel<br />
2000 sarò aperto <strong>il</strong> Dormitorio Massimo Zaccarelli.<br />
Il piano di ridisegno urbano comincerà solo dopo la demolizione della cerchia muraria nel 1902: <strong>il</strong><br />
Comune, per realizzare la fitta maglia di strade progettata nel Piano regolatore del 1889, compera parte<br />
dei terreni della Bolognina. Bologna in questo periodo continua a crescere demograficamente; nel 1940<br />
supererà i 300.000 abitanti. Tra le due Guerre, inoltre, viene aperta la Direttissima, l’asse fondamentale<br />
delle comunicazioni tra Roma e M<strong>il</strong>ano, vengono edificate nuove sedi per istituti scientifici e<br />
universitari, nascono la Scuola di Ingegneria e <strong>il</strong> Mercato ortofrutticolo.<br />
Durante la Guerra gli alleati bombardano la Bolognina per la presenza della stazione e delle<br />
fabbriche. Dopo la Guerra si ricostruisce sul vecchio modello, si ricostruiscono le stesse fabbriche.<br />
Il modello resta in piedi fino alla metà degli anni Settanta […]. Le ondate migratorie non si<br />
arrestano. I primi dalla bassa ferrarese in seguito alle alluvioni. Poi dalle campagne e poi dal<br />
Meridione. Non ci sono mai stati problemi d’accoglienza, perché a Bologna non c’erano le grandi<br />
fabbriche da 10 m<strong>il</strong>a operai, ma da 800 o m<strong>il</strong>le e comunque si trattava sempre di manodopera<br />
specializzata. Gli operai immigrati passavano prima dagli artigiani quando avevano imparato <strong>il</strong><br />
mestiere, finito l’apprendistato, eri un fresatore le tue mani valevano oro e andavi a lavorare in<br />
Minganti. Ottime scuole professionali Non finivano di studiare e già c’erano le richieste, non<br />
esisteva disoccupazione. La periferia uniforme, costituita da schiere di case a tre o più piani, tutte<br />
sim<strong>il</strong>i tra loro, tipica dell’area della Casaralta e dell’Arcoveggio, prende forma in questo periodo<br />
storico. I palazzi in questo caso sostituirono interamente le v<strong>il</strong>lette a due piani dato che i terreni si<br />
facevano sempre più costosi. (Claudio Mazzanti)<br />
Negli anni Cinquanta, in effetti, la città conosce un nuovo boom: la popolazione nel 1960 raggiunge<br />
circa 440.000 unità, non solo a causa dei tradizionali arrivi dalla Provincia, ma soprattutto grazie ai<br />
consistenti flussi migratori dal ferrarese, dal Polesine e dal Meridione. Nasce, inoltre, <strong>il</strong> quartiere<br />
fieristico, viene costruita la tangenziale, vengono edificati nuovi quartieri residenziali ad iniziativa<br />
pubblica e privata. Negli anni Sessanta, saranno soprattutto i comuni del comprensorio e le aree<br />
periferiche della città a crescere, a causa dell’arrivo di numerosi immigrati che non riescono a trovare un<br />
alloggio economico in centro, e del decentramento di molti stab<strong>il</strong>imenti industriali nell’hinterland al fine<br />
di ingrandire le strutture produttive: queste ultime potranno così attingere a riserve di manodopera<br />
d’origine contadina, continuando ad ut<strong>il</strong>izzare manodopera specializzata e qualificata abitante in città<br />
(Piano b 2008). Le officine della Casaralta, per esempio, attirano da subito forza lavoro dalle aree<br />
agricole limitrofe.<br />
Negli anni Novanta inizieranno a manifestarsi i segnali di decrescita: da un lato la crisi riguarda l’intero<br />
settore produttivo del materiale rotab<strong>il</strong>e - legata alle politiche statali rispetto ai trasporti su ferro - e<br />
23
porta alla chiusura di tante imprese importanti e alla vendita a investitori stranieri di altrettante - la Fiat<br />
ferroviaria, la Brown Boveri. Dall’altro lato, la posizione geografica delle Officine di Casaralta rende<br />
l’area più redditizia ai fini della speculazione ed<strong>il</strong>izia che non della produzione industriale. La proprietà,<br />
dunque, decide di sacrificare quella che forse era la migliore azienda del gruppo dal punto di vista<br />
tecnologico e produttivo e di vendere <strong>il</strong> terreno ad imprenditori immob<strong>il</strong>iari marchigiani. (Piano b 2008)<br />
Questo c’è stato fino agli anni ‘90, poi mancarono gli investimenti, e come azienda ci siamo<br />
consorziati con Firema, siamo diventati un gruppo; lì dagli anni ‘90 fino ad arrivare al ‘98 ci furono<br />
continue difficoltà, si lavorava senza prospettive generali. Facevamo commesse per le Ferrovie ma<br />
erano insufficienti; iniziarono i periodi di cassa integrazione […]. Nel 1997 si è iniziato a parlare di<br />
mob<strong>il</strong>ità e di chiusura. (Guido Canova, operaio Casaralta dal 1963 al 1998, delegato sindacale Fiom;<br />
Piano b 2008)<br />
La crisi, però, produce malcontento e numerose manifestazioni di protesta da parte degli operai. Dopo<br />
<strong>il</strong> conflitto, infatti, l’esperienza accumulata durante la Guerra di Liberazione e le reti di solidarietà fra<br />
fabbrica e quartiere non si erano mai disperse; piuttosto si erano spesso tradotte in un repertorio di<br />
azioni di socialità diffusa.<br />
I delegati tenevano sotto controllo la situazione anche nella vita della fabbrica. C'è stato un vecchio<br />
delegato, che era anche un ex partigiano, che individuava tra quelli nuovi quelli che più si<br />
interessavano, più aperti. Lo prendevano sotto al braccio, metaforicamente ma neanche troppo<br />
metaforicamente, e gli insegnavano a conoscere la fabbrica non solo nel modo di lavorare ma anche<br />
nella sua natura, nella sua cultura…di come era la fabbrica e di come era diventata anche attraverso<br />
le lotte. (Lia Amato, immigrata dalla Sic<strong>il</strong>ia e operaia Manifattura Tabacchi negli anni ’70, poi<br />
consigliere regionale Rifondazione Comunista; Piano b 2008)<br />
Per molti operai che abbiamo intervistato durante l’inchiesta, in effetti, entrare nelle fabbriche della<br />
Bolognina significava “andare in trincea”, nell’unico luogo da dove poter portare a buon fine quella<br />
rivoluzione cominciata con la Resistenza e considerata ancora incompiuta.<br />
Allora andare a lavorare nelle grandi fabbriche era un’aspirazione, dava una certa sicurezza di lavoro<br />
continuativo e poi c’era anche quella cosa che dicevo io, anche un po’ ideologica… nel senso che…<br />
anche se ero politicamente immaturo ed a 17 anni me ne sbattevo <strong>il</strong> giusto, però da tradizione di<br />
famiglia pensavo di entrare in fabbrica per combattere <strong>il</strong> padrone… era una forma ideologica.<br />
(Guido Canova; Piano b 2008)<br />
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Sarà nei tre grandi momenti di crisi e di lotta degli anni Cinquanta, Sessanta-Settanta e fine anni<br />
Novanta che, soprattutto nella vicenda della Casaralta, <strong>il</strong> legame fabbrica/operai e quartiere/abitanti<br />
diventerà visib<strong>il</strong>e nelle forme di solidarietà concreta che si attiveranno. Le epiche vertenze contro <strong>il</strong><br />
cottimo, le lotte contro i licenziamenti politici e le rappresaglie padronali, per <strong>il</strong> miglioramento delle<br />
condizioni salariali e di sicurezza sul lavoro, per l’adozione e l’effettiva applicazione dello Statuto dei<br />
lavoratori, hanno come caratteristica comune <strong>il</strong> parlare al quartiere e si inseriscono in un discorso più<br />
ampio sulla democrazia, i diritti e la partecipazione all’interno di questo territorio. (Piano b 2008)<br />
L’esperienza della Casaralta è stata tragica, è stata enorme, ai tempi di allora. La Leonardi - la<br />
fabbrica (n.d.a.) -, uguale, perché han ciape’ tant’ di chel bastune… dalla celere, spaventosamente. […]<br />
Prima ancora della Ducati, la Casaralta fu la prima azienda a Bologna che prese, fece i licenziamenti.<br />
[…] Alla Minganti nel ‘54 licenziarono 170 operai e impiegati, fra i quali c’erano tutti i dirigenti<br />
sindacali e politici e della commissione interna […]. Avevamo poi la solidarietà della… della<br />
Fornaciai. La Cooperativa Fornaciai ci portò un pasto al giorno per non so, 30-40 giorni, adesso non<br />
ricordo. Primo, secondo, frutta, vino, tutto quanto, eh? E noi eravamo lì davanti alla - fabbrica<br />
(n.d.a.) - Doppieri […]. Avevamo messo lì la sezione, un tavolo così e delle sedie, e <strong>il</strong> picchetto che<br />
era 20-25 persone, poca roba. (Mario Cornetto, ex operaio; Piano b 2008)<br />
Anche nel ricordo dell’attuale Presidente del Quartiere Claudio Mazzanti, nato e vissuto in uno dei<br />
caseggiati destinati ai “pionieri” del neonato territorio industriale, le figure operaie sono alla base di un<br />
ambiente sociale fortemente coeso e saldo:<br />
In ogni caseggiato solitamente c’erano due personaggi carismatici, uno di formazione marxista che<br />
poteva essere <strong>il</strong> capo operaio o <strong>il</strong> segretario della circolo locale del Pci, l’altro cattolico, <strong>il</strong> parroco o<br />
qualcosa del genere […]. Nel mio caseggiato vivevano 112 famiglie, due di queste erano ladri di<br />
professione. La situazione era sim<strong>il</strong>e in tutti gli stab<strong>il</strong>i, dentro c’era di tutto: operai, artigiani,<br />
ferrovieri, ma anche ladri e prostitute. I conflitti non mancavano, eppure nessuno aveva mai bisogno<br />
di chiamare i carabinieri perché i conflitti venivano risolti all’interno. (Claudio Mazzanti)<br />
Fabbrica e quartiere non sono mai state entità separate, in questo senso, perché sul terreno dei diritti del<br />
lavoro si sono conquistati, dal Dopoguerra agli anni Ottanta, trasformazioni reali nell’organizzazione<br />
della vita quotidiana.<br />
Me ne viene in mente uno - vecchio operaio (n.d.a.)- che mi ha insegnato ad amare la fabbrica nella<br />
sua comunità, una entità che trasforma te stesso e ti insegna a vivere con gli altri, che non è fac<strong>il</strong>e<br />
perché devi stare al fianco con una serie di persone con cui hai diversità di idee e con cui devi<br />
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convivere. Ti insegna che con l’impegno e con l’unità la vita è dura ma può anche migliorare. (Lia<br />
Amato; Piano b 2008)<br />
La porosità fra i due ambiti, fabbrica e quartiere, è anche espressione del rifiuto di una identità sociale<br />
che riduce l’operaio a forza lavoro nelle sue ore di attività senza considerarne la sua esistenza ricca di<br />
legami fam<strong>il</strong>iari, affettivi, bisogni culturali, passioni, all’interno del territorio di residenza. (Piano b 2008)<br />
Se io ripenso al lavoro che facevo non è che fosse un lavoro granché esaltante però era uno<br />
strumento per <strong>il</strong> mio miglioramento. Certo con fatica con impegno, facendo delle lotte. Però tante<br />
volte le vincevamo le lotte. Quindi la nostra vita migliorava, migliorava nelle fabbriche ma anche<br />
fuori. Migliorava la vita dei nostri figli. Tanti figli sono andati all’università, per esempio. Allora<br />
andare all’università significava migliorare le prospettive della propria vita. Lottavi per <strong>il</strong><br />
miglioramento del contratto, lottavi per <strong>il</strong> salario accessorio per avere servizi sociali, anche la<br />
Cooperativa - supermercato Coop (n.d.a.) - di fianco alla Manifattura voleva dire pagare di meno la<br />
spesa, mandare i figli a scuola e non pagare <strong>il</strong> nido… Nella tua vita tu vedevi un miglioramento, una<br />
crescita […]. Vedevi anche la vita interna alla fabbrica migliorare: la mensa, <strong>il</strong> nido. Per esempio una<br />
delle discussioni più grandi che abbiamo avuto noi donne è stata l’avere <strong>il</strong> nido di quartiere […].<br />
C’era la voglia di partecipare soprattutto perché c’era la speranza che la vita, in fabbrica ma anche<br />
fuori, potesse migliorare. (Lia Amato; Piano b 2008)<br />
Poi dopo mi ha messo nella squadra di lavoro in cui ero affidato, in una cerchia più ristretta dove<br />
iniziai a socializzare in modo più stretto sia per motivi professionali ma la cosa positiva è che anche<br />
le questioni personali, fam<strong>il</strong>iari, erano molto raccontate, confidate. Era una situazione diversa dal<br />
posto di lavoro in cui uno fa le otto ore e poi si chiude in sé stesso […]. Anche se molti abitavano<br />
fuori dal quartiere, eravamo coinvolti nel tessuto sociale produttivo del quartiere. Il fornaio<br />
preparava i panini per i lavoratori Casaralta, lo stesso <strong>il</strong> lattaio ed <strong>il</strong> fruttivendolo. Molti ordinavano<br />
la spesa la mattina e la passavano a ritirare all’uscita della fabbrica. I meccanici gli lasciavi la<br />
macchina la mattina con le chiavi nella cassetta della posta e la andavi a riprendere la sera. Se c’erano<br />
dei problemi ti chiamava in fabbrica… c’era un coinvolgimento totale. La stessa cosa succedeva<br />
quando facevamo gli scioperi. Noi uscivamo dai cancelli e molti cittadini si accodavano, gli anziani, i<br />
pensionati che avevano ore libere, aspettavano che uscissimo noi per accodarsi al nostro corteo.<br />
Alcuni di loro erano stati a loro volta dipendenti Casaralta o c’erano le mogli dei dipendenti. C’era<br />
questo modo di fare gruppo, comunità nel quartiere. (Stefano Scaramazza, operaio Casaralta 1980-<br />
2003, delegato sindacale Fiom dal 1984; Piano b 2008)<br />
La fabbrica ha infatti rappresentato, per molti operai che abbiamo conosciuto durante l’inchiesta e che<br />
abitano tutt’oggi in Bolognina, un punto d’arrivo, <strong>il</strong> sogno tangib<strong>il</strong>e dello sv<strong>il</strong>uppo. Per molti l’ingresso<br />
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in fabbrica ha voluto significato un progresso nelle condizioni di vita. Su questo spesso ha pesato la<br />
provenienza contadina di una buona parte degli operai: molti sono stati i pendolari infatti che sono<br />
venuti dal Ferrarese, un’area tipicamente agricola dove non era sv<strong>il</strong>uppata alcuna industria.<br />
Gli operai venivano da tutte le parti: da Ferrara da Portomaggiore da Castel Bolognese, era una<br />
fabbrica che pendolari ce n’erano un bel po’. C’era almeno <strong>il</strong> 40% di pendolari. (Pino Bar<strong>il</strong>lari, ex<br />
operaio; Piano b 2008)<br />
Dopo la chiusura della fabbrica Casaralta, che si è aggiunta a quella di altre fabbriche presenti nel<br />
territorio come abbiamo visto, tutta quest’area urbana all’interno del quartiere Nav<strong>il</strong>e ha assunto man<br />
mano le sembianze di un cantiere a cielo aperto. Alla Casaralta, per esempio, dopo la chiusura nel 1998,<br />
circa dieci uomini magrebini ha trovato un tetto; non lontano, in via Donato Creti, sempre in<br />
Bolognina, un’altra fabbrica ha smesso di produrre da molti anni ed ora ospita un gruppo di cittadini<br />
rumeni che hanno dovuto lasciare i loro posti ai cittadini marocchini che ora sono alla Casaralta. Decine<br />
di migliaia di metri quadrati del territorio urbano bolognese sono così occupati da lastre di cemento,<br />
capannoni fatti di vetri rotti e muri diroccati. Il Nav<strong>il</strong>e è pieno di questi spazi enormi che si ergono<br />
come cattedrali sconsacrate abitate da erbacce, topi e da gruppi di immigrati senza fissa dimora: aree<br />
che disegnano <strong>il</strong> volto di questa prima periferia della città, fino a qualche anno fa luogo di lavoro e<br />
produzione, teatro di dure lotte operaie 31 e di una particolare socialità di fabbrica, oggi spazi<br />
dell’esclusione sociale, in attesa di diventare territori appetib<strong>il</strong>i per specifici processi di speculazione<br />
ed<strong>il</strong>izia. (Tancredi 2005)<br />
Tra gli abitanti del Nav<strong>il</strong>e ancora oggi possono contarsi molti ex operai residenti che in queste<br />
fabbriche hanno lavorato per trent’anni. Il giornalista Leonardo Tancredi, realizzando un reportage su<br />
questo territorio nel 2005, ne ha intervistati più di uno in quei pochi luoghi di aggregazione che loro<br />
sono rimasti nel quartiere, come <strong>il</strong> circolo di Rifondazione Comunista la domenica mattina.<br />
L’alternativa, nei giorni feriali, è <strong>il</strong> bar del centro commerciale Lame. Ma prima del tempo dei grandi<br />
outlet c’erano i Cral aziendali e i luoghi deputati alla socialità di fabbrica, come racconta uno di questi<br />
ex operai al giornalista:<br />
Alcune fabbriche erano grandi come paesi. C’era un dibattito all’interno della fabbrica, nasceva la<br />
solidarietà. Oggi i luoghi di lavoro sono cose diverse, manca la cultura e poi <strong>il</strong> lavoro interinale isola,<br />
lavori tre mesi e te ne vai, sei sotto ricatto costante. Nei Cral c’erano campi di calcio e biblioteche, si<br />
socializzava. I Cral sostenevano col sei per m<strong>il</strong>le trattenuto in busta paga; quello della Sasib era<br />
31 Il Direttore del mens<strong>il</strong>e «Piazza Grande» ha realizzato un reportage sulle trasformazioni del quartiere Nav<strong>il</strong>e intervistando<br />
molti operai. (Tancredi 2005)<br />
27
completamente autogestito, non c’era neanche un rappresentante dell’azienda in amministrazione.<br />
(Tancredi 2005)<br />
Prima ancora dei circoli aziendali, la socialità di quartiere si realizzava nelle case del popolo. L’Arci di<br />
Bologna ha prodotto un’interessante ricostruzione storica della Casa del Popolo Corazza, nel quartiere<br />
San Donato. Così un altro ex operaio intervistato dal giornalista:<br />
Gli operai, i muratori, i contadini che, nel Dopoguerra, offrirono <strong>il</strong> loro lavoro volontario per<br />
costruire e poi gestire la Casa del Popolo, si sentivano protagonisti di quell’esperienza, che avrebbe<br />
prodotto formazione politica e culturale, ma anche tante occasioni di socialità conviviale - si passava<br />
dalle rassegne di f<strong>il</strong>m sovietici alle gare di ballo. (Tancredi 2005)<br />
Il caso del Nav<strong>il</strong>e, questo emerge anche dalle interviste raccolte dal Direttore di «Piazza Grande», è<br />
rappresentativo di una città che da piccolo paese sta diventando un hinterland ricco di diverse aree<br />
sempre più isolate, a seguito anche della crisi di un modello di produzione, del declino dell’apparato<br />
produttivo locale causato da una congiuntura generale negativa che dura ormai da diversi anni.<br />
La novità è che l’Em<strong>il</strong>ia Romagna non è più in controtendenza ma si allinea con la congiuntura<br />
nazionale - dice Dan<strong>il</strong>o Gruppi della Cg<strong>il</strong> bolognese intervistato da me e un giornalista all’interno di<br />
un reportage condotto sulla Casaralta nel maggio 2006; le piccole imprese non sono più <strong>il</strong> cavallo<br />
vincente, vista l’incapacità di competere nel mercato globale. Manca la massa critica per reggere la<br />
competizione su formazione, ricerca e innovazione di prodotto: si possono coprire tutti i<br />
differenziali di costo ma la capitalizzazione resta nulla. (Scandurra, Tancredi 2006)<br />
Questo processo si ripercuote oggi su tutti i segmenti del mercato del lavoro: quello più basso - pulizie,<br />
facchinaggio, ecc.; medio - Bologna ha sempre avuto un’ottima scuola tecnica, le Aldini, ma ora si<br />
assiste a una crisi di vocazione circa l’ossatura dell’industria metalmeccanica cittadina; alto - l’università<br />
non trattiene più i saperi d’eccellenza per la ricerca. (Piano b 2008)<br />
Inoltre, i padroni bolognesi sono sempre stati molto pragmatici - continua Gruppi - e una volta<br />
realizzato che <strong>il</strong> mondo si faceva più complesso hanno preferito fare gli “ereditieri”. Meglio costruire<br />
case: così è già successo per la Minganti e le officine Rizzoli. (Scandurra, Tancredi 2006)<br />
Con la crisi del sistema produttivo, nel Nav<strong>il</strong>e, non si sono persi solo posti di lavoro, ma è in via<br />
d’estinzione anche un modello di relazioni legato al territorio. La vita di fabbrica, dentro e fuori l’orario<br />
di lavoro, non ha trovato fino ad oggi validi sostituti. Le relazioni sociali, un tempo plasmate<br />
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fortemente dai rapporti con le fabbriche, sono implose. Si sono creati tanti mondi chiusi in sé: gli ex<br />
operai, i nuovi arrivati, gli studenti fuorisede, i cittadini italiani che usano <strong>il</strong> quartiere unicamente come<br />
dormitorio nel momento di pas<strong>saggio</strong> dalla produzione metalmeccanica al terziario. Così due ex operai<br />
della Casaralta, abitanti del quartiere, intervistati durante l’inchiesta sociale realizzata da Piano b:<br />
Quella officina lì è diventata <strong>il</strong> degrado del quartiere. Adesso la dentro c’è di tutto, ci saranno delle<br />
tope, delle bisce, a parte che è diventata un covo di spacciatori che vanno dentro da via Casoni -<br />
strada che costeggia la Casaralta - che hanno tirato via la grata. La polizia non può andare dentro<br />
perché è proprietà privata e loro quando va via la polizia se ne vengono fuori… la gente reclama, mi<br />
chiama spesso e volentieri però non c’è niente da fare… non è che io ce l’abbia con gli<br />
extracomunitari perché lì dentro - nella Casaralta quando era in attività (n.d.a.) - degli<br />
extracomunitari ne ho avuti ed erano bravissima gente, però quelli che ci dormono adesso sono solo<br />
delinquenti… la persona che ha voglia di lavorare lavora […]. Io di quelli che lavoravano con me ne<br />
incontro ancora, mi fermo a parlare, mi salutano perché è gente che ha rispettato me e tutti gli altri e<br />
noi rispettavamo loro. Dicevano: “Noi vogliamo essere come voi, pagare le tasse e essere in regola”.<br />
Quelli che ci sono adesso no. (Pino Bar<strong>il</strong>lari; Piano b 2008)<br />
Ce lo dicevamo sei anni fa quando eravamo in occupazione: questi arriveranno a far si che siano i<br />
cittadini a chiedere di buttarla giù. E infatti gli stessi abitanti del quartiere che, quando c’eravamo<br />
noi, guai a toccare la Casaralta! Adesso visto che non c’è più niente, ci sono solo dei traffici,<br />
chiedano loro di demolirla. (Stefano Scaramazza; Piano b 2008))<br />
Il quartiere è oggi descritto in termini desolanti dagli stessi operai che, quando intervistati sulla loro<br />
esperienza operaia mentre conducevamo l’inchiesta, facevano l’apologia di quel periodo storico ricco di<br />
lotte e di vittorie sindacali:<br />
A me piacerebbe andare quando c’è <strong>il</strong> Consiglio Comunale e denunciare questo schifo qui. Non si<br />
può tollerare una cosa di quel genere lì. È una indecenza. Io mi meraviglio che molti cittadini non si<br />
siano ancora ribellati. Io l’ho detto tante volte facciamo una petizione andiamo quando c’è <strong>il</strong><br />
Consiglio Comunale… se non vogliono intervenire facciamo del casino, solo così possiamo ottenere<br />
qualche cosa […]. Devono demolire la fabbrica per sloggiare tutta quella ciurmaglia che sta lì dentro,<br />
perché chi ha figli piccoli ha paura anche a mandarli fuori. Finché <strong>il</strong> Comune non dà <strong>il</strong> via a demolire<br />
quei capannoni, che sono pieni di animali e topi che portano pure le malattie. Ci sono italiani e<br />
stranieri che spacciano. (Pio Bar<strong>il</strong>lari; Piano b 2008)<br />
Vedi che è totalmente cambiato <strong>il</strong> tessuto sociale. Queste fabbriche non ci sono più, i negozi non ci<br />
sono più. Sono tutti cinesi, supermercati di cinesi, pizzeria pakistana e di industria non c’è più<br />
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niente…fa venire i brividi […]. Un quartiere che storicamente aveva avuto, dai tempi della<br />
Resistenza, <strong>il</strong> suo nocciolo nelle cellule dentro le fabbriche….non ci sono più fabbriche […]. Sono<br />
stato alla Minganti e mi è venuto <strong>il</strong> magone. Vedere le macchine che faceva la Minganti in un centro<br />
commerciale dentro a delle vetrine un po’ disturba. (Stefano Scaramazza; Piano b 2008)<br />
Mi viene in mente anche un po’, non voglio parlare di controllo sociale, ma comunque… questa<br />
vecchia e dura e ruvida classe operaia di una volta, una certa forma di… usiamo un termine orrib<strong>il</strong>e,<br />
di controllo del territorio, evidentemente lo esercitava, <strong>il</strong> fatto di… di avere della gente… perché i<br />
primi turnisti alla Casaralta entravano alle cinque del mattino, alle quattro e mezza del mattino,<br />
perché dovevano accendere un po’ tutti gli impianti eccetera, così come la sera fino a verso le otto,<br />
le nove, le dieci c’era gente, insomma c’era quasi sempre gente lì d’attorno, e non solo a Casaralta,<br />
alla Manifattura, al deposito dell’Atc, insomma… c’era sempre un po’ di traffico, magari in maniera<br />
involontaria, questo sarebbe forse un tema da approfondire con chi abita lì o con chi ha un po’ più<br />
di anni di me, ma evidentemente una sorta di polizia in tuta blu, sai… o anche solo come effetto<br />
deterrente, quando sai che c’è della gente… in giro, no? I traffici loschi è già più diffic<strong>il</strong>e che si<br />
creino. Ma in questo caso, qui voglio essere io malizioso, questo fa gioco ai nostri “amici”<br />
costruttori, perché così possono dire: “Ah! Il degrado! Ah, una situazione intollerab<strong>il</strong>e!”, perché… a<br />
loro gli fa gioco, no? Perché serve ad accelerare tutta la faccenda, no? (Cesare Poggioni, ex operaio<br />
della Casaralta)<br />
Mentre le fabbriche chiudevano, alla fine degli anni Ottanta, arrivavano sempre più consistenti flussi<br />
migratori e La Bolognina si arricchiva di nuovi cittadini, per lo più cinesi nella parte est del Nav<strong>il</strong>e, l’area<br />
di Casaralta, e marocchini nella parte ovest, a ridosso sempre del centro del territorio, Piazza dell’Unità<br />
- dei cittadini marocchini che prenderanno casa nella parte ovest del quartiere ci occuperemo più<br />
specificatamente nel prossimo paragrafo parlando della palestra di pug<strong>il</strong>ato sita a ridosso della piazza<br />
centrale del quartiere. (Antonelli, Scandurra 2009)<br />
In verità, i cittadini cinesi risiedono in questo territorio da prima della Seconda Guerra: è possib<strong>il</strong>e<br />
distinguere, infatti, tre principali ondate migratorie. I primi cinesi immigrati a Bologna si stab<strong>il</strong>irono<br />
nelle vie del centro città - via Polese, via San Carlo, via Marconi - occupandosi prevalentemente di<br />
piccole attività produttive di tessitura, pelletteria e ristorazione. Il sogno dei migranti di quell’epoca, un<br />
po’ come lo era per gli italiani che emigravano in America, era di trovare nel paese d’accoglienza una<br />
stab<strong>il</strong>ità a lungo termine, di arricchirsi, di fare di quel viaggio un investimento per la vita, di costruire<br />
una strada di successo economico e riscatto sociale. Conducendo l’inchiesta sociale, per esempio, e<br />
occupandoci degli immigrati che abitano oggi la Bolognina (piano b 2008), abbiamo ricostruito la storia<br />
di Umberto Sun, cavaliere e commendatore, padre di dieci figli oggi sparsi per <strong>il</strong> mondo; nel lontano<br />
1958 Sun fondò la Sungas, un’azienda per l’approvvigionamento del gas nelle abitazioni, divenuta<br />
famosa in tutta la città (Piano b 2008). Secondo <strong>il</strong> responsab<strong>il</strong>e della Cna - Confederazione Nazionale<br />
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Artigianato - del quartiere Nav<strong>il</strong>e, Valeriano Valdisserra, che abbiamo intervistato alla fine del 2006, la<br />
rispettab<strong>il</strong>ità guadagnata da imprenditori cinesi come Sun è servita ad una migliore integrazione dei<br />
cinesi in città:<br />
È comunque una comunità ben inserita perché storicamente le prime famiglie hanno fatto cose<br />
importanti tipo la Sungas, del famoso Sun che oramai ci ha lasciato. I cinesi hanno fatto cose ut<strong>il</strong>i<br />
per i cittadini e quindi i bolognesi non hanno percepito “l’invasione” come magari è successo a<br />
Modena o Carpi, dove da un giorno all’altro erano tutti cinesi. Forse perché qui a Bologna c’era<br />
un’economia meno adatta alla conquista cinese, non so… (Valeriano Valdisserra, responsab<strong>il</strong>e Cna<br />
quartiere Nav<strong>il</strong>e; Piano b 2008)<br />
Tra i cittadini cinesi immigrati a Bologna nel secondo Dopoguerra si contano oggi diverse famiglie di<br />
“terza generazione”: dopo i nonni, negli anni ‘80 si sono trasferiti i figli e le mogli ed oggi i nipoti sono<br />
giovani ragazzi e ragazze nati in Italia, cresciuti tra storia e tradizione del Paese dei genitori e cultura<br />
italiana. Durante <strong>il</strong> nostro studio ne abbiamo intervistai alcuni (Piano b 2008):<br />
Io sono nato a Brescia e a cinque anni, con la mia famiglia, mi sono trasferito dai nonni a Bologna.<br />
Le scuole le ho fatte qui, dalle elementari, alle famose Casaralta, al liceo Scientifico Copernico. In<br />
classe da noi quand’ero piccolo c’erano altri tre cinesi. Eravamo una minoranza. Alle elementari<br />
eravamo quasi una simpatica presenza. (Valentino, 17 anni, cinese; Piano b 2008)<br />
La seconda migrazione massiccia avvenne a partire dal 1985, immediatamente dopo la caduta del<br />
regime di Mao. Storicamente i cinesi immigrati in Italia e, più in generale in Europa, provengono dalla<br />
regione del Zhejiang. Grande un terzo d’Italia, quest’area è situata a sud di Shanghai e con i suoi 10.000<br />
km affacciati sul Mare di Cina dell’Est è, da secoli, un porto molto attivo verso l’Occidente così come<br />
verso l’Estremo Oriente. Gli abitanti di questa regione, all’epoca di Mao additati dai connazionali come<br />
potenziali capitalisti, emigrarono per primi grazie alle piccole fortune salvate al governo, spinti dal<br />
sogno del successo fulmineo che in poco tempo li avrebbe fatti tornare in patria ricchi.<br />
La terza e più recente fase migratoria, è stata favorita dal susseguirsi delle sanatorie a partire dal 1995;<br />
ma è dal 2000 che inizia una grande immigrazione. Infatti, oltre la metà dei residenti in Bolognina - 53%<br />
- è arrivata in città tra <strong>il</strong> 2001 e <strong>il</strong> 2005: circa la metà di loro ha meno di 30 anni.<br />
Quando nel 2000 ho iniziato le medie incominciava ad arrivare <strong>il</strong> vero flusso che c’è adesso. Vedevi<br />
questi ragazzi di 12, 13, 14 anni arrivare a scuola sapendo poco o niente di italiano, con una grande<br />
difficoltà ad integrarsi. Molti di loro che ancora conosco hanno smesso di studiare perché ritengono,<br />
non dico inut<strong>il</strong>e ma non indispensab<strong>il</strong>e studiare. E questo avviene perché i cinesi culturalmente sono<br />
31
incentrati sul lavoro... prima si incomincia a lavorare, prima e di più si potrà guadagnare. Meno<br />
tempo si spreca meglio è. Questo per dire la differenza di mentalità. Notavo la differenza tra me e<br />
loro perché io, abitando qui, ho la cultura cinese ereditata dai miei genitori e la cultura italiana.<br />
Quindi mi sentivo leggermente a disagio, un ibrido, sentivo questa differenza sia con gli italiani che<br />
con i cinesi e interpretavo la diversità come emarginazione, perché non ero conforme agli altri: né ai<br />
modelli italiani né a quelli cinesi. Solo in questi anni sto capendo come la mia personalità sia più<br />
“unica” che “diversa”… e per fortuna apprezzo la mia individualità. (Valentino, Piano b 2008)<br />
La regione del Zhejiang è la più ricca della Cina dopo Pechino, Shangai e Tianjin e la maggior parte dei<br />
suoi abitanti, pur provenendo da un passato diffic<strong>il</strong>e di povertà, ha conosciuto un grande sv<strong>il</strong>uppo<br />
economico (Piano b 2008). Non a caso questi immigrati hanno deciso di radicarsi in questo territorio e<br />
proprio nell’area di Casaralta e all’interno cittadini delle grandi arterie che delimitano la Bolognina - via<br />
Matteotti, via di Corticella e via Ferrarese - ricche oggi di attività commerciali di loro proprietà, proprio<br />
mentre le fabbriche iniziavano a essere dismesse e <strong>il</strong> quartiere era oggetto di una riqualificazione<br />
commerciale e teatro del pas<strong>saggio</strong> da un’industria meccanica al terziario - per questo la prima<br />
generazione di immigrati si è man mano spostata dal centro storico alle prima periferia nord. (Piano b<br />
2008). La chiusura delle fabbriche a fine anni Ottanta ha fatto gioco, in effetti, ai progetti di questi<br />
gruppi di immigrati i quali erano sempre alla ricerca di spazi per i loro laboratori tess<strong>il</strong>i e l’apertura di<br />
nuove attività commerciali - favorendo, così, i vecchi proprietari, per lo più residenti storici, che<br />
vendevano le loro attività con un saldo immediato di denaro contante.<br />
Il cinese trova dove ci sono negozi vuoti, poi cerca intorno là… sai perché - per aprire (n.d.a.) -<br />
negozi e supermercati cinesi è sempre meglio - che siano (n.d.a.) - vicini perché c’è gente che viene<br />
da fuori così i negozi tutti vicini sono più comodi. In questa situazione i gestori italiani hanno<br />
cominciato a cedere - in via Ferrarese (n.d.a.) -… poi forse iniziano ad esserci tanti negozi cinesi così<br />
gli italiani preferiscono andare in un altro posto. E poi a cedere a cinesi c’è vantaggio, perché se un<br />
negozio italiano cede a un altro italiano forse disponib<strong>il</strong>i 10.000 euro… e basta, invece ai cinesi puoi<br />
chiedere 20.000, 30.000, 40.000 euro. Il cinese paga lo stesso, per lui l’importante è un posto buono.<br />
Poi i cinesi pagano in contanti, forse in una settimana è tutto pagato, mentre con gli italiani fai le rate<br />
e magari ti pagano in due tre anni. (Andrea Liu, Presidente dell’Associazione cinese di Taiwan di<br />
Bologna, Piano b 2008)<br />
Per molti commercianti italiani la possib<strong>il</strong>ità di cui parla Andrea Liu significò, in un momento di<br />
difficoltà, un’occasione davvero unica; inoltre, molti residenti storici, non riconoscendosi più nel loro<br />
territorio una volta chiuse le fabbriche e arrivati molti immigrati asiatici e nordafricani, proprio in questi<br />
anni, iniziarono a spostarsi più a nord, a Corticella. Per gli imprenditori cinesi, invece, ciò era solo <strong>il</strong><br />
primo passo verso la realizzazione del loro progetto migratorio. Il risultato è stato che, in poco meno di<br />
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dieci anni, la comunità cinese si è insediata massicciamente in un quartiere che andava svuotandosi. Ciò<br />
è avvenuto sia per ragioni storiche proprie del territorio - la chiusura delle fabbriche appunto -, sia<br />
perché la vendita delle prime attività ha creato una reazione a catena che in breve ha prodotto una vera<br />
e propria dismissione commerciale del quartiere. (Piano b 2008)<br />
Culturalmente sono imprenditori, tendono a lavorare in proprio, basta guardare anche tutto <strong>il</strong><br />
sistema del piccolo commercio. Su 1.200 clienti al Cna Nav<strong>il</strong>e abbiamo in tutto 120 imprenditori<br />
cinesi che occupano circa 250 dipendenti connazionali. Il 50% di loro si occupa di import-export.<br />
Questo perché hanno capito che a un cinese non conviene produrre più qui, è molto meglio far<br />
venire le merci dalla Cina. Gli imprenditori cinesi viaggiano molto in Cina e portano prodotti italiani<br />
che là sono di moda: <strong>il</strong> modello italiano “tira” molto. In genere esportano dall’Italia alcuni tipi di<br />
merce e ne importano altra. C’è anche chi mi chiedeva notizie sull’area della Casaralta per farne un<br />
ipermercato cinese dove vendere prodotti importati. Sono molto autonomi, hanno una loro<br />
finanziaria, hanno consulenti cinesi […]. Poi c’è una parte più povera che è quella che si vede vicino<br />
alla Casaralta, gente che ancora deve pagare <strong>il</strong> riscatto del viaggio. Negli ultimi anni hanno r<strong>il</strong>evato<br />
anche gelaterie, gioiellerie, ristoranti. Le bancarelle dei mercati per esempio: <strong>il</strong> 90% sono ambulanti<br />
cinesi, hanno acquistato licenze a prezzi molto alti […]. infine c’è chi si dedica al grosso business in<br />
grande ma questa è un’altra storia. (Valeriano Valdisserra; Piano b 2008)<br />
In questa direzione, durante l’anno di inchiesta, abbiamo intervistato molti commercianti italiani che<br />
hanno visto con i loro occhi la trasformazione commerciale del loro territorio.<br />
Qualche anno fa, se uscivi la sera nel quartiere, li vedevi lavorare nei garage, sino alle due, tre di<br />
notte. Lavoravano sempre, vedevi le luci accese e sentivi <strong>il</strong> rumore delle macchine. Adesso se ci fai<br />
caso non c’è più nessuno […]. Hanno capito che gli conviene portare le merci già pronte dalla Cina.<br />
Poi ci sono anche altre storie, per esempio conosco <strong>il</strong> proprietario di un negozio italiano che vende<br />
borse di pelle, cinture. Lui compra le materie prime e poi le fa lavorare ai cinesi. Hanno un<br />
laboratorio di confezione con cui lui lavora in maniera stab<strong>il</strong>e e funziona perché i prezzi sono<br />
contenuti. (Leo, barista in un circolo Arci nei pressi di via Ferrarese; Piano b 2008)<br />
Negli ultimi dieci anni, inoltre, per quanto riguarda molti imprenditori cinesi, lo stesso modello di<br />
produzione è radicalmente cambiato. Intervistando alcuni di loro (Piano b 2008), abbiamo avuto modo<br />
di notare come l’import-export sta diventando la nuova frontiera, <strong>il</strong> nuovo traguardo dell’imprenditore<br />
br<strong>il</strong>lante e vincente, uomo di mondo che viaggia mantenendo contatti nei due paesi, sfruttando <strong>il</strong> lavoro<br />
dei propri connazionali che ancora vivono nella terra d’origine e arricchendosi, nel paese di approdo,<br />
capitalizzando al meglio le strategie di mercato neoliberista. Ciò ha prodotto all’interno del territorio<br />
una trasformazione non solo econonomica, ma anche sociale e fisico-urbanistica: gli spazi del quartiere<br />
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impegnati dai laboratori in questi anni diventano capannoni di vendita all’ingrosso e spesso al dettaglio.<br />
(Piano b 2008)<br />
La generazione di mio padre è incentrata solo sui soldi. Non c’è una necessità di affettività. Basta<br />
avere una famiglia e sei già contento. Non ci sono posti di incontro dove si riuniscono, solo per i<br />
matrimoni o <strong>il</strong> capodanno. Non hanno legami di amicizia profonda. Gli amici vengono con i soldi.<br />
Cioè la stima dei colleghi, dei conoscenti arriva grazie al potere economico. Loro si sono sacrificati<br />
per noi, da dove non c’era niente in Cina, si sono presi questa avventura e per fortuna hanno avuto<br />
<strong>il</strong> loro piccolo successo. Hanno una casa, la macchina, un’attività, si sentono realizzati… è uno status<br />
symbol… per me ci sono tante cose nella vita più importanti, per fortuna. (Valentino; Piano b 2008)<br />
Dalle parole di questi ragazzi nati in Italia come Valentino, emerge, per quanto riguarda i loro genitori e<br />
nonni imprenditori, una visione del lavoro come realizzazione individuale. Probab<strong>il</strong>mente, la<br />
collettivizzazione delle proprietà e delle risorse imposta durante la Rivoluzione culturale ha portato, per<br />
molti imprenditori dello Zheijiang, una naturale diffidenza verso qualsiasi processo cooperativo. Il<br />
piccolo imprenditore emigrato in Bolognina, nel perseguire <strong>il</strong> proprio progetto, è pronto a tutto pur di<br />
salvare l’investimento fatto - almeno intorno ai 45.000 euro per un piccolo laboratorio famigliare di 6-8<br />
persone - ed è capace di accettare commissioni a volte addirittura svantaggiose alimentando una<br />
pericolosa concorrenza al ribasso sfavorendo gli stessi colleghi connazionali (Piano b 2008). Questo alla<br />
luce di una “solidarietà” imprenditoriale che deve essere letta diversamente da come fanno molti<br />
imprenditori italiani e che risponde a pratiche culturali differenti.<br />
La tradizione cinese è molto realistica: chi ha soldi gestisce affari, chi non ha soldi chiede prestiti ad<br />
amici; la comunità cinese aiuta. Se uno vuole iniziare una sua attività, un lavoro, i suoi vicini e<br />
parenti fanno raccolta, prestano soldi. I cinesi fanno debito: chiedi un prestito di 30.000 m<strong>il</strong>a euro,<br />
fissi un giorno e quel giorno risarcisci. Questo fa pare della cultura di solidarietà cinese, per questo si<br />
può dire che i cinesi sono abbastanza uniti. (Andrea Liu; Piano b 2008)<br />
Ovviamente in Bolognina non abitano solo imprenditori cinesi. Molti cittadini asiatici, infatti,<br />
raggiungono in questo territorio i loro connazionali non coltivando nessun progetto imprenditoriale ma<br />
solo nella consapevolezza che qui riusciranno fac<strong>il</strong>mente a trovare lavoro, come ci confidò Valentino<br />
durante l’inchiesta:<br />
I nuovi cinesi che stanno arrivando sono per lo più di pas<strong>saggio</strong> perché sono molto flessib<strong>il</strong>i dal<br />
punto di vista del lavoro, come sono arrivati in Italia possono andare all’estero […]. È molto diffic<strong>il</strong>e<br />
per loro; devi pensare che molti cinesi hanno un permesso di soggiorno per 6 o 12 mesi, quindi è<br />
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meglio stare buoni e continuare a lavorare… anche nell’<strong>il</strong>legalità. Purtroppo la legge vigente non<br />
fac<strong>il</strong>ita le cose. Il contesto non è favorevole e la gente adotta questi comportamenti isolandosi.<br />
(Valentino; Piano b 2008)<br />
Parole che trovano conferma in quelle Presidente dell’Associazione cinese di Taiwan di Bologna:<br />
Il mestiere si impara, dipende dal mercato cosa chiede. In Italia l’artigiano è importante, per un<br />
cinese che arriva è impossib<strong>il</strong>e aprire industria. Si comincia come operaio, lavora nella ditta di un<br />
altro cinese, va a imparare a lavorare. Sono passaggi graduali. Si può fare <strong>il</strong> lavapiatti, <strong>il</strong> lava verdura,<br />
l’aiuto cuoco, dopo un anno che vedi come cucinano i cuochi sai lavorare. Anche un lavoro piccolo<br />
è importante. Non c’è disoccupazione, c’è tanti cinesi. (Andrea Liu; Piano b 2008)<br />
La denuncia di isolamento e disinteresse ai problemi del territorio che molti residenti storici della<br />
Bolognina fanno ai cittadini cinesi è comprendib<strong>il</strong>e alla luce delle pratiche lavorative di molti immigrati<br />
soprattutto di seconda generazione. Significativa, in questo senso, è la testimonianza che raccogliemmo<br />
durante l’inchiesta del padre di Valentino, immigrato negli anni ‘80 per seguire le orme del padre che da<br />
trent’anni lavorava a Bologna, prima in un laboratorio di confezioni e poi in un ristorante di via<br />
Ferrarese, ancora oggi di proprietà della famiglia (Piano b 2008):<br />
Sto qui, lavoro nella mia attività e basta. Qui in città ci sono pochi cinesi, adesso abitano fuori<br />
Bologna. Io vado a casa a mezzanotte poi la mattina vengo qua. Per me lì è come un albergo.<br />
Dormi, la mattina ti svegli, vieni qui a lavorare e basta. (Proprietario del ristorante cinese in Via<br />
Ferrarese; Piano b 2008)<br />
L’ansia di realizzare un sogno di successo in breve tempo, accompagnata dalla necessità di estinguere <strong>il</strong><br />
debito con <strong>il</strong> proprio datore di lavoro, impose dedizione e perseveranza a molti immigrati di seconda<br />
generazione cinese che intervistammo durante l’inchiesta (Piano b 2008); la qual cosa giustifica <strong>il</strong><br />
sacrificio della dimensione del privato e del personale. Da questo punto di vista fu evidente per noi,<br />
conducendo l’inchiesta, la differenza tra le prime generazioni di immigrati e l’ultima, quella di Valentino<br />
(Piano b 2008). Se, in effetti, i cittadini cinesi arrivati a Bologna continuano ad essere percepiti dai<br />
residenti storici come i prototipi dei cinese che non parla bene l’italiano, dedito solo al lavoro, e che<br />
cerca di cavarsela <strong>il</strong> meglio possib<strong>il</strong>e rifugiandosi nel proprio gruppo, i ragazzi come Valentino sanno<br />
che sono oggetto di rappresentazioni più ambigue, che li vedono alle volte come cittadini bolognesi,<br />
altre come figli di immigrati e basta.<br />
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Non c’è un vero proprio incontro tra i due mondi. La comunità cinese è un mondo a sé. Le amicizie<br />
i contatti di lavoro sono sempre gli stessi, per gli italiani come per i cinesi. Non è tanto<br />
un’integrazione quanto una convivenza forzata… credo. Incontro spesso cinesi che non parlano per<br />
niente l’italiano e questo è un segno di non necessità appunto. Non ritengono necessario conoscere<br />
la lingua perché vivere in Italia è una tappa temporanea, la vivono più come un pas<strong>saggio</strong>: tutto qua.<br />
D’altra parte anche gli amici a volte lo dicono per scherzare: “I cinesi sono <strong>il</strong> male minore” perché<br />
sono quelli che lavorano, che non fanno storie e che si fanno gli affari loro. Ti fa capire che neanche<br />
nella loro mentalità è necessaria questa integrazione. Gli immigrati sono visti come forza lavorativa,<br />
non tanto come individui. Gli italiani si sentono oppressi dai cinesi che vivono qua. (Valentino;<br />
Piano b 2008)<br />
Valentino, del resto, sa benissimo come sono proprio gli operai di allora, oggi in pensione, a produrre<br />
delle rappresentazioni xenofobe che hanno per oggetto i cittadini cinesi del territorio. Gli stessi operai -<br />
molti dei quali immigrati come abbiamo detto - che hanno lottato per conquistare diritti riconosciuti<br />
come fondamentali oggi denunciano con <strong>il</strong> loro quartiere sia divenuto irriconoscib<strong>il</strong>e ai loro occhi, altro<br />
da quello che hanno costruito nel tempo.<br />
Deprimente. Ti intristisce proprio, perché, mi ricordo, la vita proprio era bella, perché lì dove c’è,<br />
davanti c’era <strong>il</strong> forno, l’alimentari, altri alimentari di qua, dove c’era <strong>il</strong> barbiere di fianco c’era un<br />
negozio dove ci sono i cinesi, c’era Renato si chiamava, e poi era tutta un’amicizia, tutto un<br />
buongiorno, tutto, adesso viene la sera è squallido, è brutto, tutte le cose, i topi che camminano per<br />
la strada, tu vieni la sera, delle tope così, gente che lascia la roba fuori, qualcuno ormai passa da lì,<br />
vede talmente sporco che dalla macchina prende <strong>il</strong> sacchetto del rusco, lo appoggia lì dove c’è la<br />
campana del vetro, mentre <strong>il</strong> rusco è dall’altra parte della strada. E siamo a dei livelli che adesso io<br />
volevo fare un comitato di cittadini per dire: “Oh, ma qui bisogna che ci muoviamo anche perché,<br />
quelli che sono qui, che sono extracomunitari, o sono cosa, le regole vanno rispettate per tutti!”; loro<br />
<strong>il</strong> rusco lo devono buttare nel bidone, non per terra, oppure i cinesi, a parte che si soffiano ancora <strong>il</strong><br />
naso così fuori dalla finestra, che quando passi delle volte ho paura che mi centrino, ché una volta,<br />
una sera io prendo una coltellata va a finire, perché era lì con le figlie, ho detto; “Beh?”; ha sputato<br />
fuori così, ho detto: “Beh, non ti vergogni porca miseria!”. Lui ha fatto un po’ così, capito, poi ha<br />
fatto finta di niente e è andato via […]. E poi un’altra cosa che odio, perché vedi io non sono<br />
razzista ma lo sto diventando (Rolando Sandri, operaio Casaralta anni 1960-70, poi ferroviere,<br />
abitante del quartiere; Piano b 2008)<br />
Lo spaesamento che abbiamo raccolto facendo molte interviste ad abitanti della Bolognina, non solo ex<br />
operai, per quanto fosse riconducib<strong>il</strong>e a una trasformazione del tessuto commerciale del quartiere<br />
governata dall’Amministrazione, come adesso mostreremo, spesso ha visto come responsab<strong>il</strong>i,<br />
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nell’immaginario di molti residenti, gli immigrati che dalla fine degli anni Ottanta hanno iniziato a<br />
radicarsi in questo periferia a nord della città (Piano b 2008). Ma che stava succedendo in verità ai<br />
vecchi capannoni delle grande fabbriche? Cosa stava diventando questo territorio alla luce delle<br />
trasformazioni del centro storico sopra menzionate e della dismissione di tante fabbriche?<br />
Conducendo l’inchiesta, anche al fine di rispondere a queste domande, abbiamo concentrato<br />
l’attenzione su una ex fabbrica, la Minganti, come abbiamo visto diventata negli ultimi anni un centro<br />
commerciale. (Piano b 2008)<br />
Gli acrobati volanti - quelli delle Olimpiadi di Torino svoltesi nel 2008 (n.d.a.) - scendono dal<br />
soffitto con indosso le tute blu, mentre la musica rievoca i rumori delle macchine di un tempo […].<br />
Gli acrobati hanno replicato lo spettacolo quattro volte perché la gente col naso all’insù è stata una<br />
folla per l‘intero arco della giornata.<br />
Così un quotidiano locale descriveva la giornata del 26 marzo 2006, giornata della “Riapertura delle<br />
Officine Minganti”, <strong>il</strong> primo, e finora unico, grande insediamento industriale dismesso della Bolognina<br />
ad aver subìto un processo di riconversione (Piano b 2008). Oggi le Officine Minganti sono un centro<br />
commerciale distribuito su tre piani che si affacciano su una piazza coperta, creando l’ambiente di una<br />
galleria commerciale. I pannelli informativi annunciano ai clienti che al piano terra, “La piazza dello<br />
shopping”, si trovano un supermercato Coop, un negozio Unieuro, boutiques, gioiellerie e, nel corridoio<br />
esterno alla piazza, alcuni negozi di dimensioni ridotte, al dettaglio: calzolaio/duplicazione chiavi,<br />
lavasecco, edicola, accessori per animali. Al primo piano, “Cibo per la mente”, si trovano invece la<br />
libreria Coop, un Apple Center e la vasta area ristorazione. Il secondo e ultimo piano, “Cura del<br />
Corpo”, è invece interamente occupato da una palestra, un Fitness Center della Virgin. (Piano b 2008 32 )<br />
Le Officine Minganti si trovano nel quartiere Bolognina dal 1919, data in cui trasferirono qui i loro<br />
impianti produttivi da via Riva Reno, nel centro di Bologna. La fabbrica, fondata da Giuseppe<br />
Minganti, produceva macchine utens<strong>il</strong>i di precisione - come torni, frese o trapani - e divenne nel<br />
secondo Dopoguerra una delle realtà produttive di punta del panorama cittadino. Quel luogo, assieme<br />
ad altri stab<strong>il</strong>imenti industriali del quartiere, rappresentò, negli anni del boom, un simbolo del progresso<br />
economico e sociale di quest’area e dell’intera città.<br />
Uno che andava alle Minganti era come se andasse all’università […]. Uno che lavorava alle<br />
Minganti era, chissà, un dio, un mago, era stato baciato dalla sorte... (Giacomino Simoni, ex operaio<br />
delle Minganti; Piano b 2008)<br />
32 Nella fase finale dell’inchiesta sociale abbiamo svolto attività di campo e prodotto osservazioni naturalistiche dell’area del<br />
Centro Commerciale in diverse ore della giornata. (Piano b 2008)<br />
37
Molti attuali residenti nel quartiere hanno lavorato in questa fabbrica. L’edificio venne ricostruito nel<br />
dopo <strong>il</strong> bombardamento su progetto di Francesco Santini e fu realizzato con particolare attenzione,<br />
investendo ingenti risorse economiche, tanto da farne uno dei migliori esempi nazionali di architettura<br />
industriale; in questo periodo, infatti, intervistammo gli architetti responsab<strong>il</strong>i della trasformazione della<br />
fabbrica a centro commerciale.<br />
Durante la Guerra (n.d.a.) - la Minganti, oltre a fare pezzi di meccanica, fabbricava anche armi.<br />
Quindi è stata bersaglio di bombardamenti, è stata rasa al suolo dalle bombe. Dopo la Guerra è stata<br />
ricostruita con grande cura e investendo anche molti soldi, e questo l’abbiamo visto anche noi<br />
seguendo i lavori. Abbiamo recuperato dei mosaici di ceramica che rivestivano tutte le strutture in<br />
esterno. Si vede che è una fabbrica costruita con grandi investimenti […]. Le officine Minganti<br />
hanno (n.d.a.) - una forma e un decoro che sono ben al di sopra di qualsiasi altro edificio che si<br />
trova a Bologna e probab<strong>il</strong>mente in Italia […]. E’ uno degli edifici più di spicco nel panorama<br />
industriale italiano e forse anche europeo […]. C’è una cura nel dettaglio, nei volumi e nelle<br />
proporzioni che non se ne trovano…alcuni edifici dei primi del Novecento che portano avanti gli<br />
st<strong>il</strong>emi del liberty hanno dei decori, però alla fine sono capannoni decorati, questo invece ha un gioco<br />
nei volumi, nelle proporzioni […], come <strong>il</strong> mattone faccia a vista e quelle tesserine di ceramica che<br />
sono del tutto inusuali per un edificio industriale. (Architetto, studio Open Project; Piano b 2008)<br />
Curando la trasformazione delle Officine Minganti in centro commerciale, in effetti, questi architetti<br />
hanno puntato molto sulla vecchia identità della fabbrica fin dal progetto di ristrutturazione e<br />
riconversione dell’edificio.<br />
C’è molta insistenza sul passato, in generale, “Si stava meglio in altre epoche”…Bologna poi è molto<br />
legata al passato anche nell'architettura, la conservazione com’era, dov’era. Nel nostro progetto,<br />
dov’era possib<strong>il</strong>e, abbiamo recuperato […], si volevano richiamare gli aspetti industriali, quindi<br />
pavimento in cemento e uso del tecnologico, quindi vetro e acciaio nelle vetrine, i nuovi solai in<br />
lamiera grecata, in carpenteria metallica, sempre per ricordare <strong>il</strong> passato industriale. (Architetto,<br />
studio Open Project; Piano b 2008)<br />
Al progetto e alla sua realizzazione - affidata a due importanti imprese ed<strong>il</strong>i bolognesi consorziate,<br />
Cogei e Coop Costruzioni - è poi seguita una strategia di lancio pubblicitario per buona parte giocata<br />
sulla storia dell’edificio, su quel che era stato e su quello che è diventato. Lasciando inalterato <strong>il</strong> nome,<br />
aggiungendo però una coda sulla nuova destinazione d’uso, “Officine Minganti, una fabbrica d’incanti”,<br />
la rievocazione di un simbolo della passata identità industriale della città e del quartiere venne così<br />
ridotta a richiamo per le merci e i servizi offerti all’interno delle nuove Officine. L’intero Centro<br />
Commerciale rimane tutt’oggi disseminato di tracce del passato industriale trasformate in raffinati<br />
38
oggetti d’arredo: come i vecchi torni e le frese esposte in teche o i carri ponte ancora sospesi vicino al<br />
tetto e ben visib<strong>il</strong>i dalle scale mob<strong>il</strong>i. (Piano b 2008)<br />
Raccogliendo informazioni sul progetto Minganti e sulla sua pubblicizzazione (Piano b 2008), nella<br />
sezione “Chi siamo” del sito delle Officine trovammo, durante l’inchiesta, poche ma significative righe<br />
di presentazione:<br />
Apritevi al futuro con un nuovo modo di intendere lo shopping in una struttura che unisce<br />
l’innovazione con <strong>il</strong> richiamo al passato.<br />
Realizzando quest’ultima parte dell’inchiesta intervistammo, poi, i baristi, i nuovi commessi, tutte le<br />
persone che iniziarono a lavorare con contratti a tempo determinato, quando non a nero, nelle nuove<br />
attività commerciali delle Officine. (Piano b 2008)<br />
Io lavoro al centro da quando ha aperto, quindi dal 26 di marzo ad oggi. I miei lavoravano lì vicino<br />
- alla Sasib -, quindi Minganti era un nome che conoscevo…poi io sono di Bologna…poi passandoci<br />
davanti c’era questa insegna con scritto Minganti…Sì, sapevo che era un’azienda di officine<br />
meccaniche, però non sapevo bene cosa facesse […], era un nome storico di Bologna. Poi mi ci<br />
sono ritrovato dentro, fortunatamente non a fare le otto ore in fabbrica ma a far qualcos’altro.<br />
(Impiegato Unieuro, centro commerciale Minganti; Piano b 2008)<br />
Sono arrivata a Bologna per studiare all’università e, da studente, la città la giri in bicicletta, non esci<br />
mai dal centro storico […]; quindi non sapevo cosa fosse questo posto prima…l’ho imparato<br />
venendoci a lavorare. (Commessa libreria Coop, centro commerciale Minganti; Piano b 2008)<br />
Prima di iniziare a lavorare qui non conoscevo le Minganti. Prima abitavo in centro, in via<br />
Castiglione, e questa era proprio una zona che non frequentavo, perché comunque non avevo<br />
motivi per frequentarla, anche perché non c’erano punti interessanti, o centri commerciali, o<br />
particolari cose che mi attiravano (Barista al bar del primo piano; Piano b 2008)<br />
Conquistando relazioni più di fiducia con questi lavoratori abbiamo iniziato a chiedere loro che clienti si<br />
trovassero davanti ogni giorno (Piano b 2008), r<strong>il</strong>evando come quest’ultimi fossero per lo più<br />
provenienti da altri quartieri di Bologna, non residenti della Bolognina. Eppure, furono gli stessi<br />
architetti a confidarci quanto, nei nuovi progetti dell’Amministrazione, questo Centro Commerciale<br />
avrebbe dovuto essere <strong>il</strong> primo passo per conquistare tutta una nuova fetta di consumatori in un<br />
quartiere prima caratterizzato dalla sola presenza di fabbriche metalmeccaniche e ora destinato a<br />
divenire una seconda centralità per Bologna e un grande nodo del terziario dopo l’arrivo degli uffici<br />
39
comunali nella parte est della Bolognina, l’alta velocità, la riqualificazione della Stazione Centrale, la<br />
Porta d’Europa e la nuova uscita autostradale, <strong>il</strong> collegamento navetta verso l’aeroporto e la posizione a<br />
ridosso dell’ente fieristico e del palazzo della Regione.<br />
Secondo noi è una delle zone che potenzialmente vanno maggiormente prese in considerazione per<br />
una riqualificazione futura, sia per motivi di centralità rispetto ad aree importanti di Bologna, come<br />
la stazione, come la fiera, come la vicinanza con <strong>il</strong> centro storico, sia perché è ricchissima di zone<br />
industriali dismesse […], e quindi ci sono molte aree vuote su cui intervenire. (Architetto, studio<br />
Open Project; Piano b 2008)<br />
Eppure, fin da subito, i clienti sono pochi e <strong>il</strong> Centro, nonostante tanto investimento pubblicitario,<br />
stenta a mettersi in moto.<br />
È una zona abbastanza nevralgica di Bologna, appunto tra la fiera e la stazione. E comunque,<br />
sebbene dovrebbe esserci un pas<strong>saggio</strong> notevole, secondo me i risultati del centro nel primo anno<br />
non sono tanto soddisfacenti, perché se dopo un anno la gente ti chiede ancora dove sei […]. Io<br />
non lo so da cosa dipenda…sono stati sbagliati i negozi che sono stati fatti dentro…io non lo so,<br />
comunque noi ci stiamo riprendendo però altri, magari quando hanno aperto <strong>il</strong> negozio si<br />
aspettavano un giro di affari molto superiore. (Impiegato Unieuro; Piano b 2008)<br />
Lavori molto con gli uffici, con la gente del posto poco perché questo mi pare di aver visto che è un<br />
quartiere di anziani…è una zona un po’ di vecchie abitazioni, è un quartiere tra virgolette popolare<br />
quindi si lavora col caffettino, ma non è un posto da aperitivo, qui al pomeriggio è poco frequentato<br />
[…]. Ci sono uffici dell’Unicredit fondamentalmente, della banca, quindi che rimangono dentro al<br />
Centro Commerciale, poi quando finisce l’orario di lavoro loro se ne vanno, di conseguenza da<br />
quell’orario lì, le quattro, le cinque in poi, finisce tutto…al pomeriggio è veramente angosciante ‘sto<br />
posto…(Barista del primo piano; Piano b 2008)<br />
Nonostante l’ambizione ad essere una galleria urbana, un luogo sì di consumo, ma anche di pas<strong>saggio</strong> e<br />
di transito, le Minganti sembrano avere da subito un’unica significativa presenza fissa: gli impiegati dei<br />
vasti uffici bancari che hanno sede nel Centro Commerciale, cioè lavoratori di un terziario ancora poco<br />
presente in quest’area, e non i residenti del quartiere - fatta eccezione per <strong>il</strong> supermercato Coop. Ciò ci<br />
fece supporre conducendo l’inchiesta (Piano b 2008) che quest’operazione non fosse rivolta tanto al<br />
tessuto sociale esistente, quanto a quello più agiato che arriverà, in seguito al processo di gentrificazione<br />
in corso.<br />
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Probab<strong>il</strong>mente la destinazione della Minganti è dovuta anche a questo, perché la Fiera richiede<br />
residenze perché ci sia vita, le residenze richiedono destinazioni commerciali, è un ciclo che si<br />
innesca automaticamente. Forse <strong>il</strong> target è dovuto anche a quello, cioè non considerando solamente<br />
la Bolognina ma considerando l’area all’interno di una pianificazione più grande […]. I tempi della<br />
programmazione e della progettazione ed<strong>il</strong>izia sono sempre diversi da quelli della vita reale, è<br />
intrinseco nei processi che stanno dietro a questo tipo di operazione […]. Bisogna creare delle<br />
occasioni perché poi si avviino dei processi di progettazione e intervento successivo. È un rischio<br />
ovviamente perché può darsi che quella galleria non colleghi mai niente per <strong>il</strong> resto della sua vita, ma<br />
questo è intrinseco in ogni idea di progetto. Il progetto è una previsione, le previsioni si sbagliano<br />
anche. (Architetto, studio Open Project;Piano b 2008)<br />
Quello che emergeva, parlando con gli architetti responsab<strong>il</strong>i del progetto, era la volontà dei proprietari,<br />
che poi, come vedremo, coincideva con quelli della stessa amministrazione comunale, di anticipare, di<br />
accelerare <strong>il</strong> più possib<strong>il</strong>e <strong>il</strong> cambiamento degli schemi della domanda: da un territorio abitato da fasce<br />
di popolazione con una scarsa disponib<strong>il</strong>ità economica e attraversato da varie forme di marginalità<br />
sociale, con la costruzione del centro commerciale si aspirava a intercettare un futuro tessuto urbano<br />
più benestante, costituito da consumatori di boutiques, palestre, negozi d'informatica, gioiellerie e<br />
quant’altro. (Piano b 2008)<br />
Questa prima - dell’apertura del centro commerciale (n.d.a.) - era una zona in disuso, dove era<br />
brutto passare, che se tornavi a casa la sera rischiavi che ti aprivano la macchina o che ti rubavano le<br />
biciclette, ancora è così, però quantomeno dà un po’ più luce, più prestigio…più gente gira, più luce<br />
c’è, più caos c’è più i non amanti del caos tendono a imbucarsi. Quindi sicuramente - i residenti del<br />
quartiere (n.d.a.) - lo vedono benissimo sono molto contenti. (Barista del primo piano; Piano b<br />
2008)<br />
Era già abbandonata da diversi anni e nell’ultimo periodo, prima del cantiere di fatto ci abitavano,<br />
come poi succede nella fabbriche qui attorno, degli extracomunitari, infatti all’inizio si incontravano<br />
personaggi strani, che proprio stavano lì abitualmente. Infatti gli abitanti del quartiere all’inizio ci<br />
dicevano: “Finalmente succede qualcosa, ci mandano via queste brutte persone”, così era quello che<br />
dicevano loro. (Architetto, studio Open Project; Piano b 2008)<br />
Finimmo l’inchiesta sociale intervistando amministratori del quartiere, architetti e assessori comunali<br />
che, proprio in quegli anni, da gennaio 2006 a gennaio 2007, si giocavano la loro carriera, in vista delle<br />
elezioni di giugno 2009, promettendo la trasformazione della Bolognina in un quartiere più “sicuro”,<br />
“meno degradato”, “più centrale” (Piano b 2008). Tra questi, però, cominciavano ad esserci anche<br />
41
visioni critiche, da parte soprattutto di chi era preoccupato che l’intero processo di riqualificazione<br />
dell’area non fosse ben governato.<br />
Il centro commerciale mina <strong>il</strong> concetto stesso di città. Il centro commerciale per funzionare per<br />
essere competitivo c’è bisogno che non sia solo, ma che siano tanti, che siano tutti uguali, che siano<br />
dislocati sul territorio e che facciano un’omogeneità totale. L’ex ministro della Sanità Girolamo<br />
Sirchia diceva che noi anziani dovevamo andare là per sfuggire al caldo. Ecco <strong>il</strong> centro commerciale<br />
come deposito non come stare insieme, nell’evolversi. Quale città per Bologna nel terzo m<strong>il</strong>lennio,<br />
se non l’omologazione? Queste fabbriche diventano centri commerciali, nel migliore dei casi, perché<br />
spesso diventano appartamenti e basta, non c’è luogo d’incontro, non c’è nemmeno commercio. Le<br />
fabbriche diventano dei mattoni da vendere a prezzo molto alto, forme d’investimento per <strong>il</strong> ceto<br />
medio, perché le banche, i bond, i Tanzi si mangiano i risparmi. (Pier Luigi Cervellati, architetto;<br />
Piano b 2008)<br />
Nel 2008 fu approvato <strong>il</strong> Piano Strutturale Comunale - P.S.C. -, documento programmatico nel quale<br />
vennero raccolti i progetti urbanistici dell’attuale Giunta, che ridisegnerà <strong>il</strong> volto della città. Il progetto,<br />
ideato da un’équipe guidata dall’architetto Patrizia Gabellini, ha toccato buona parte della città e ha<br />
previsto forti connessioni con la provincia. Il settore del P.S.C. nel quale l’ex-Casaralta e la Bolognina<br />
sono comprese è quello denominato “La città della ferrovia”. In questa area, già la precedente<br />
Amministrazione guidata dal sindaco Guazzaloca era intervenuta attraverso l’approvazione di un Piano<br />
di Valorizzazione Commerciale - P.V.C. - che aveva permesso la conversione d’uso dell’area industriale<br />
dismessa sede dell’ex Officine Minganti: da produttivo a commerciale. Nonostante tanta enfasi, basta<br />
leggere la documentazione del P.S.C., e tante parole sulla necessità di condividere con i cittadini <strong>il</strong><br />
nuovo Piano, <strong>il</strong> primo centro commerciale della Bolognina che nacque dalle ceneri delle fabbriche<br />
dell’area di Casaralta non è mai stata discusso con i residenti e non è mai stata convocata nessuna<br />
riunione.<br />
La prima idea era quella di farci un parcheggio per le auto della polizia. In seguito, la proprietà, Coop<br />
Costruzioni e Cogei, riunite nel consorzio Felsinea, hanno deciso che quella non sarebbe stata la<br />
degna valorizzazione dell’area. C’era l’opportunità del sostegno del Comune attraverso <strong>il</strong> Piano di<br />
valorizzazione commerciale, quindi partì la costruzione del centro. Nella fase di progettazione non<br />
c’è stato nessuno scambio di opinioni tra gli abitanti del quartiere e la proprietà. Si è ut<strong>il</strong>izzato <strong>il</strong><br />
P.V.C. per cambiare la destinazione d’uso da industriale a commerciale e nient’altro. È diffic<strong>il</strong>e che <strong>il</strong><br />
Comune o <strong>il</strong> Quartiere possano avere i soldi per questo tipo di opere, sono solo le grandi imprese di<br />
costruzione che hanno i mezzi per realizzare progetti sim<strong>il</strong>i, e loro non fanno beneficenza. È diffic<strong>il</strong>e<br />
che costruiscano edifici pubblici. Del resto se si costruiscono solo case si rischia di avere quartieri<br />
dormitorio, senza servizi, anche i negozi servono per vivacizzare <strong>il</strong> quartiere. Se avessimo costruito<br />
42
un museo al posto del centro commerciale non sarebbe stata la stessa cosa. (Architetto, studio Open<br />
Project; Piano b 2008)<br />
Il piano urbanistico della nuova Amministrazione riguardante <strong>il</strong> comparto ancora dismesso -<br />
denominato Bolognina est -, che comprende l’ex Casaralta, la Caserma Sani, i capannoni delle ex<br />
Cevolani e della ex Sasib, esprime invece queste intenzioni:<br />
Ambito urbano da riqualificare, di r<strong>il</strong>ievo strategico per localizzazione e potenzialità, Bolognina est<br />
comprende un’ampia zona dal carattere disomogeneo, che si estende dalla via Stalingrado fino alla<br />
via Arcoveggio. Vi si trovano diverse aree produttive dismesse: quelle tra via Ferrarese e via<br />
Stalingrado, fino alla via Creti, tra cui le ex Officine Casaralta; quelle lungo la via Saliceto e nelle<br />
adiacenze, dove si trova anche <strong>il</strong> vasto complesso Sasib. La Caserma Sani, localizzata anch’essa in<br />
posizione chiave tra le vie Stalingrado e Ferrarese, costituisce un’opportunità fondamentale per la<br />
riqualificazione di questa parte di città. La presenza al suo interno di ampi spazi non edificati è una<br />
vera risorsa per realizzare nuovi servizi e per unire l’area della Fiera con la direttrice Ferrarese, da<br />
sempre separate e la cui connessione è per ora debolmente affidata ai piani attuativi del Prg ‘85 in<br />
corso di attuazione. La sistemazione coordinata dell’intero ambito è l’occasione per dare risposte<br />
adeguate alle criticità della periferia storica, colmando carenze strutturali di servizi e aree verdi 33 .<br />
Questo grande progetto di riqualificazione d’area è dunque in mano alle amministrazioni pubbliche -<br />
Comune e Quartiere -, dall’altra ai proprietari degli stab<strong>il</strong>i: attori con interessi divergenti, ma con<br />
nessuna convenienza a creare un muro contro muro dannoso per tutti. Qualsiasi intervento sulle<br />
strutture private dovrà infatti comportare la creazione di infrastrutture pubbliche a supporto delle<br />
trasformazioni d’uso - residenziale, commerciale o misto - che i proprietari vorranno effettuare, pena<br />
l’insostenib<strong>il</strong>ità viaria ed urbanistica dell’operazione (Piano b 2008). Queste le parole dell’assessore<br />
all’Urbanistica Virginio Merola che intervistammo durante l’inchiesta poco prima dell’approvazione del<br />
P.S.C.:<br />
Il nostro obiettivo è definire un accordo che tenga conto del Piano di valorizzazione commerciale,<br />
ma anche di un piano urbanistico d’insieme. Bisogna accantonare <strong>il</strong> progetto commerciale per una<br />
valutazione globale dell’area, perché non c’è solo la Casaralta, c’è anche la caserma m<strong>il</strong>itare Sani, che<br />
rientra nelle aree m<strong>il</strong>itari sbloccate dall’ultima legge finanziaria, e l’area della Sasib. È un’opportunità<br />
di ridisegno importante della città. Per fare questo bisogna tenere conto delle indicazioni del<br />
quartiere sul piano dei servizi, delle dotazioni di verde e della mob<strong>il</strong>ità dell’area. In un laboratorio di<br />
urbanistica partecipata verranno stab<strong>il</strong>iti i dettagli. Non andremo davanti ai cittadini a dire: “Si fa<br />
così”, ma <strong>il</strong>lustreremo gli obbiettivi generali dell’Amministrazione. Ovviamente si devono fare i<br />
33 Dalla relazione <strong>il</strong>lustrativa del P.S.C.. (piano B 2008)<br />
43
conti con i privati proprietari e con gli indici di edificab<strong>il</strong>ità. In fase di laboratorio non si va con i<br />
progetti, ma con <strong>il</strong> quadro d’insieme e si raccolgono le idee. Daremo delle discriminanti, non si può<br />
lasciare <strong>il</strong> campo aperto, altrimenti la discussione diventa ingestib<strong>il</strong>e. (Virginio Merola, assessore<br />
all’Urbanistica Comune di Bologna; Piano b 2008)<br />
Come evince da queste parole tutto <strong>il</strong> territorio oggi abitato da molti cittadini cinesi è in via di<br />
riprogettazione. La “partecipazione” sembra essere la parola chiave del nuovo Piano di disegno<br />
urbanistico; quello che però rivelammo mancare, durante la nostra inchiesta sociale, è l’idea, da parte<br />
dell’Amministrazione, di un progetto definito.<br />
Al momento non so se quella è una zona dove chiederemo ai privati di fare ed<strong>il</strong>izia sociale. È un<br />
argomento da affrontare. Bisogna vedere se sarà questo l’interesse pubblico in quella zona. Il piano<br />
strutturale prevede che, compatib<strong>il</strong>mente con gli indici di edificab<strong>il</strong>ità, <strong>il</strong> 20% delle costruzioni sia<br />
destinato all’affitto. Ad oggi per me la priorità è la riqualificazione urbana di servizi, di verde, di<br />
centri di aggregazione che facciano rivivere <strong>il</strong> quartiere. Se poi una verifica ulteriore mi dice che è<br />
possib<strong>il</strong>e anche prevedere ed<strong>il</strong>izia sociale, sarò <strong>il</strong> primo ad ammetterlo. I paletti di edificab<strong>il</strong>ità sono<br />
fondamentali. Noi arriveremo ai laboratori partecipati con una valutazione urbanistico-ambientale e<br />
di piano dei servizi, poi su come e dove realizzarli la discussione è aperta. (Virginio Merola; Piano b<br />
2008)<br />
Secondo l’ultimo censimento, nel quartiere Nav<strong>il</strong>e risiedono più di 60.000 persone, poco meno di un<br />
quinto dei residenti in tutta la città. All’interno del quartiere l’area più popolosa è quella della Bolognina,<br />
che conta oltre 30.000 residenti. Più di uno su dieci dei residenti al Nav<strong>il</strong>e è cittadino straniero e più<br />
della metà di questi ultimi abitano alla Bolognina. Anche senza le sue fabbriche questo territorio resta<br />
un quartiere popolare per via della qualità ed<strong>il</strong>izia, del tessuto commerciale e della tipologia di abitanti.<br />
Il dubbio è se questi piani di ridisegno urbano siano frutto di una reale lettura delle esigenze di questo<br />
territorio che negli ultimi anni, come abbiamo visto, è teatro di conflitti sociali derivanti per lo più da un<br />
senso di spaesamento identitario da parte dei residenti storici e da diversi usi dello spazio pubblico e<br />
privato relativi all’eterogeneità dei residenti che lo abitano, come avremo modo di dimostrare anche nel<br />
prossimo paragrafo. Se a leggere la documentazione del P.S.C. tutto sembra realizzab<strong>il</strong>e, almeno sulla<br />
carta, poco chiara, come ha dimostrato <strong>il</strong> ridisegno delle officine Mingnati, è la consapevolezza che ha<br />
l’Amministrazione dei bisogni e delle aspettative degli abitanti storici e di quelli nuovi arrivati che<br />
compongono <strong>il</strong> quartiere.<br />
Oggi la città è usata, non c’è più un senso di appartenenza. Ovviamente ho vissuto male questi<br />
cambiamenti, perché questo è <strong>il</strong> quartiere in cui sono nato, ma capisco anche che bisogna governare<br />
44
la trasformazione, altrimenti sei tagliato fuori. Non è possib<strong>il</strong>e ricostruire l’identità della Bolognina,<br />
con le caratteristiche di allora, devi pensare a una società multiculturale e trovare dei punti di<br />
mediazione. Pensare diversamente, ovvero ad una città senza immigrati, è una stupidaggine. (Claudio<br />
Mazzanti; Piano b 2008)<br />
“Mix urbano” e progetto “multiculturale” fanno pensare a un forte protagonismo dei gruppi di cittadini<br />
stranieri presenti nel territorio della Bolognina; eppure quest’ultimi disertano le riunioni indette<br />
dall’Amministrazione per discutere <strong>il</strong> futuro del territorio e quando sono presenti gli è impedito di<br />
prenderne parte - durante l’inchiesta ci accorgemmo della presenza nel territorio di alcuni imprenditori<br />
cinesi che presentarono un progetto per comperare la proprietà e l’uso commerciale di attività che<br />
avrebbero aperto nel centro commerciale Minganti; questo progetto non venne preso in nessuna<br />
considerazione. (Piano b 2008)<br />
Alcuni commercianti cinesi hanno chiesto di avere un negozio all’interno delle Minganti, ma la scelta<br />
è stata di escluderli. L’idea era quella di mantenere un livello più alto, se si voleva riqualificare <strong>il</strong><br />
quartiere. E poi con la presenza di negozi cinesi, non tutti gli altri esercenti sarebbero stati così<br />
contenti di pagare affitti tanto alti. Lo stesso succederà, secondo me, per i negozi che apriranno nel<br />
complesso dell’ex mercato ortofrutticolo, dove sorgerà la nuova sede del Comune. Ci sono anche<br />
tanti bolognesi che abitano nel quartiere, bisogna pensare anche a loro, è anche un attimo di respiro<br />
avere un centro commerciale senza cinesi. (Architetto, studio Open project; Piano b 2008)<br />
Tra i gruppi nazionali stranieri presenti alla Bolognina, quello cinese è <strong>il</strong> più significativo. Oggi<br />
l’imprenditoria asiatica è perfettamente inserita nel tessuto economico-produttivo bolognese; ciò,<br />
tuttavia, non è servito molto a superare una forte diffidenza da parte dei residenti storici.<br />
Tutto <strong>il</strong> commercio a bassa soglia è in mano ai cinesi. Il mercatino di via Albani, per esempio, esiste<br />
dal 1935, adesso sono 50 commercianti italiani e 50 stranieri, presto saranno tutti immigrati: quale<br />
italiano lavora 16 ore in negozio anche la domenica? Non ci si può meravigliare che gli abitanti di<br />
questo quartiere, ex operai di tradizione comunista, sentano forte <strong>il</strong> disagio per questa situazione. È<br />
uno shock culturale. (Claudio Mazzanti; Piano b 2008)<br />
A quanto pare la Bolognina ha già cambiato volto, prima ancora che un solo cantiere venisse aperto e<br />
che <strong>il</strong> P.S.C. venisse pensato: l’autentico tratto di modernità del quartiere, e probab<strong>il</strong>mente della città, è<br />
rappresentato dalla presenza di decine di negozi di abbigliamento cinesi e saloni di parrucchiere africani,<br />
la possib<strong>il</strong>ità di mangiare più fac<strong>il</strong>mente un kebab che un piatto di tortellini, i capannoni industriale in<br />
disuso che con due dragoni di gesso all’ingresso sono diventati ristoranti cinesi. (Piano b 2008)<br />
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Ma spostiamoci ora nella parte ovest della Bolognina, meta abitativa sempre più in questi anni di<br />
cittadini di origine nordafricana, prevalentemente marocchini, per indagare come anche questa altra<br />
fetta di territorio è stata teatro di radicali processi di trasformazione.<br />
5. I boxeurs della Tranvieri<br />
Nel febbraio 2007, insieme alla collega antropologa Fulvia Antonelli, iniziammo una ricerca etnografica<br />
sulle pratiche di vita quotidiane di un gruppo di pug<strong>il</strong>i d<strong>il</strong>ettanti della “Tranvieri”, una palestra della<br />
Bolognina a ridosso di Piazza dell’Unità. Nel condurre lo studio, ancora in corso, abbiamo ut<strong>il</strong>izzato<br />
diversi strumenti legati alla pratica etnografica: abbiamo scritto diari e note di campo relativi alla vita<br />
quotidiana che si svolge dentro gli spazi della palestra; abbiamo raccolto le storie di vita dei principali<br />
iscritti della Tranvieri, condotto conversazioni approfondite con pug<strong>il</strong>i in attività e in pensione,<br />
giornalisti sportivi, membri della Federazione pug<strong>il</strong>istica regionale e nazionale, allenatori e manager;<br />
abbiamo usato la letteratura, come riviste specializzate, scritti letterari, memorie dei grandi pug<strong>il</strong>i, ma<br />
anche visionato celebri f<strong>il</strong>m sulla boxe ricostruendo la storia della Tranvieri, una palestra nata nel 1950 e<br />
da sempre legata al Circolo del Dopolavoro dei tranvieri bolognesi. (Circolo Dozza Atc 2005)<br />
Conducendo le prime interviste ci siamo resi conto, fin dall’inizio, di come molti pug<strong>il</strong>i e frequentatori<br />
della palestra non si fidassero dei rappresentanti della società “perbene”, ovvero quella che considera la<br />
boxe come uno sport violento e disumano e non avrebbero rivelato le proprie storie a degli intervistatori<br />
estranei. Per questo abbiamo ritenuto necessario costruire relazioni di fiducia con i protagonisti della<br />
nostra ricerca iscrivendoci alla Tranvieri. La costruzione dell’oggetto di ricerca è stata, in effetti, <strong>il</strong><br />
risultato di un reciproco adattamento tra noi, come antropologi, e i nostri interlocutori. (Antonelli,<br />
Scandurra 2009)<br />
Siamo entrati la prima volta in palestra, a febbraio 2007, dopo aver condotto, dal gennaio 2006 al<br />
gennaio 2007, come detto nel precedente paragrafo, un’inchiesta sul territorio della Bolognina allo scopo<br />
di descrivere i cambiamenti che hanno interessato quest’area dopo la chiusura, a fine anni Ottanta, delle<br />
fabbriche storiche bolognesi, in grande parte metalmeccaniche, e l’arrivo, contemporaneo, di numerosi<br />
migranti - processi che, come descritto in precedenza, hanno radicalmente cambiato <strong>il</strong> territorio in<br />
questione (Piano b 2008). Durante l’inchiesta, parlando con anziani ex operai di una fabbrica dismessa<br />
del quartiere sita nella stessa via della Tranvieri, alcuni di loro ci hanno raccontato di un loro collega,<br />
Carati detto <strong>il</strong> “pug<strong>il</strong>e operaio” <strong>il</strong> quale, durante le cariche della polizia durante gli scioperi degli anni<br />
Settanta, conseguenza dei primi licenziamenti e dei primi processi di dismissione industriale che poi<br />
avrebbero caratterizzato tutto <strong>il</strong> territorio negli anni a venire, aveva <strong>il</strong> ruolo di incutere timore alle Forze<br />
dell’Ordine 34 .<br />
34 Buona parte di pug<strong>il</strong>i della prima generazione della Tranvieri, infatti, ha continuato a lavorare nelle fabbriche del quartiere<br />
mentre praticava, a titolo d<strong>il</strong>ettantistico o professionistico, la boxe.<br />
46
E’ stato inizialmente l’esotismo che caratterizzava questi racconti, l’eccezionalità di questo<br />
“personaggio” ad attirare la nostra attenzione su questa palestra. L’ambiente della Tranvieri è divenuto<br />
“fam<strong>il</strong>iare” quando abbiamo iniziato a comprendere <strong>il</strong> senso e la logica delle pratiche dei pug<strong>il</strong>i dentro la<br />
palestra e a osservare i loro comportamenti fuori dal ring. Abbiamo così rinunciato a leggere nella scelta<br />
di praticare <strong>il</strong> pug<strong>il</strong>ato un carico di violenza che ogni aspirante pug<strong>il</strong>e porterebbe con sé, magari fin dalla<br />
nascita - sono molte le biografie dei grandi boxer che ricostruiscono la storia dell’infanzia di uomini<br />
come Jake La Motta per mostrare come questi uomini altro non potevano diventare che campioni di<br />
pug<strong>il</strong>ato; piuttosto abbiamo preferito studiare i rapporti che legano <strong>il</strong> quartiere alla Tranvieri, e come<br />
certi immaginari che nei due ambienti sono dominanti si intreccino e si sovrappongano, cercando di<br />
evitare <strong>il</strong> rischio di isolare la palestra e occultare i rapporti di dipendenza che quest’ultima ha con <strong>il</strong><br />
contesto urbano più ampio. In questa direzione abbiamo ut<strong>il</strong>izzato la palestra come una finestra per<br />
leggere le trasformazioni del territorio ancor più in profondità. (Antonelli, Scandurra 2009)<br />
Entrare alla Tranvieri ha significato, per noi, fare i conti con 50 anni di pug<strong>il</strong>ato a Bologna, con la storia<br />
di uno sport nato nei circoli del Dopolavoro operaio, con la cultura della socialità e del tempo libero in<br />
uno dei territori più popolari della città come abbiamo visto.<br />
Noi a Bologna facevamo due riunioni alla settimana, <strong>il</strong> lunedì della boxe al Paladozza e i venerdì della<br />
boxe alla Sempreavanti, sotto lo stadio, che c’era una palestra. E <strong>il</strong> pubblico era enorme: quando hai<br />
mai visto al palazzo dello sport di Bologna ottom<strong>il</strong>a persone in piedi che vanno a vedere un incontro<br />
di pug<strong>il</strong>ato? Lo facevano i grandi pug<strong>il</strong>i […]. Diciamo che i ricordi sono bellissimi perché era un’altra<br />
vita, un altro sport. (Albano)<br />
Albano, che dirige da anni la palestra Tranvieri, così ricorda gli anni ‘50, ‘60 e ‘70 a Bologna, gli anni<br />
d’oro del pug<strong>il</strong>ato bolognese e nazionale. Quasi tutte le persone che abbiamo intervistato e che hanno<br />
vissuto questi match, come diretti protagonisti o come semplici spettatori, raccontano questo periodo<br />
come irrepetib<strong>il</strong>e, poiché “valorosi” erano i pug<strong>il</strong>i, “eroici” i combattimenti: “un altro sport” appunto.<br />
Oggi alla Tranvieri combattono altri pug<strong>il</strong>i, quasi tutti di origine straniera, che non hanno vissuto questo<br />
periodo. Le storie degli attuali pug<strong>il</strong>i della palestra della Bolognina fanno emergere i problemi e le<br />
difficoltà reali che comporta una carriera da boxeur e decostruiscono <strong>il</strong> mito del pug<strong>il</strong>ato bolognese<br />
durato fino alla fine degli anni Settanta. Non è un caso che nella stessa palestra i vecchi pug<strong>il</strong>i del<br />
passato, che continuano ad allenarsi nello stesso posto dove hanno iniziato la loro attività sportiva,<br />
occupino luoghi della Tranvieri differenti da quelli dove si fermano a riposare e parlare tra loro i pug<strong>il</strong>i<br />
più giovani durante le pause degli allenamenti.<br />
La “zona muretto” della palestra, per esempio, quella al lato del ring, fra gli attrezzi per i pesi e le panche<br />
per gli addominali, rappresenta uno street corner per i “veterani” della Tranvieri (Whyte 1943). Quest’area,<br />
posizionata appunto tra <strong>il</strong> ring, le panche e i pesi è uno spazio istituzionale strategico perché da questo<br />
47
angolo è possib<strong>il</strong>e avere una visione completa di tutto quello che succede in palestra. Il “muretto” è <strong>il</strong><br />
luogo dove vengono raccontati storie e aneddoti sulla boxe come quelli di Albano, dove la memoria<br />
della palestra viene trasmessa ai nuovi iscritti.<br />
La storia del pug<strong>il</strong>ato bolognese, che non è mai stata scritta se non da un libro poco conosciuto<br />
(Quercioli 1994), è d’altronde una storia orale e si tramanda da decenni attraverso la voce dei pug<strong>il</strong>i che<br />
hanno finito la loro carriera, degli allenatori e delle persone che si sono succedute alla dirigenza della<br />
palestra. La storia ufficiale della Tranvieri e più in generale del pug<strong>il</strong>ato bolognese è quella dei<br />
“vincitori”, ovvero di coloro che hanno avuto una significativa carriera sportiva alle spalle e ora<br />
occupano posizioni di r<strong>il</strong>ievo all’interno della Federazione pug<strong>il</strong>istica regionale di pug<strong>il</strong>ato. Non esistono<br />
pubblicazioni sistematiche relative agli incontri disputati se non nelle cronache sportive dei giornali<br />
cittadini, dove comunque trovano spazio solo le imprese di pug<strong>il</strong>i affermati in città. All’interno della<br />
Tranvieri, se qualche anziano boxeurs locale mette in discussione queste storie è perché è stato un<br />
“perdente”. Se a far emergere, invece, le contraddizioni e gli aspetti più oscuri di questo sport è un<br />
giovane pug<strong>il</strong>e la risposta dei “vecchi” è spesso: “Ma che ne sa lui!”. Per questo aver concentrato <strong>il</strong><br />
nostro studio sugli immaginari, le rappresentazioni e le pratiche di un gruppo di aspiranti boxeurs, tutti<br />
novizi, d<strong>il</strong>ettanti e nella maggior parte dei casi immigrati di seconda generazione, ha provocato dei<br />
conflitti poiché ha significato dare legittimità ad altre “narrazioni”. La rappresentazione del mondo<br />
pug<strong>il</strong>istico bolognese è a tutti gli effetti un campo di lotta.<br />
Ernesto, un ex pug<strong>il</strong>e d<strong>il</strong>ettante, è uno dei membri più ascoltati in palestra in virtù della sua presenza<br />
quotidiana alla Tranvieri da più di quaranta anni, ed è tra i pochi che può permettersi di rappresentare <strong>il</strong><br />
mondo della boxe bolognese e della Tranvieri in altri modi rispetto a quello “ufficiale” poiché la sua<br />
fedeltà al pug<strong>il</strong>ato e alla storia della palestra è indiscutib<strong>il</strong>e. Come lui, altri ex pug<strong>il</strong>i dell’età dell’oro come<br />
Dante sono stati disponib<strong>il</strong>i a raccontarci, oltre agli aneddoti, anche <strong>il</strong> lato “oscuro” del pug<strong>il</strong>ato e le<br />
difficoltà che hanno incontrato nella loro carriera professionistica: le sconfitte ingiuste, gli incontri<br />
combinati, <strong>il</strong> potere degli sponsor. Emerge spesso in queste storie la “fame” di uomini, che poi hanno<br />
ottenuto molte soddisfazioni sul ring, i quali, in quegli anni gloriosi, praticavano la boxe per guadagnare<br />
qualcosa: comperare una moto, uscire con le ragazze <strong>il</strong> sabato sera, acquistare dei vestiti alla moda.<br />
Io penso di essere stato un buon d<strong>il</strong>ettante […]. Ma <strong>il</strong> mio sport era <strong>il</strong> motociclismo […]. Io con i<br />
miei amici volevamo essere come Marlon Brando in “Fronte del Porto”. Però per correre in moto ci<br />
vogliono dei soldi […], e tutti i soldi che prendevo dal pug<strong>il</strong>ato sia nel d<strong>il</strong>ettantismo che nel<br />
professionismo li mettevo sulla moto. Una volta mi hanno chiamato <strong>il</strong> venerdì per fare un match <strong>il</strong><br />
sabato sera ed erano sei mesi che non venivo in palestra perché avevo fatto un incidente con la moto<br />
e mi ero rotto un paio di costole, e ho accettato di farlo perché si prendevano dei soldi. Poi<br />
finalmente ho smesso sia di correre in moto che di fare pug<strong>il</strong>ato. Perché nel pug<strong>il</strong>ato io ero quello che<br />
andava per far vincere gli altri. Non è che dovevo, però è evidente che mi chiamavano sempre con<br />
48
gente che era molto più allenata di me. Uno che mi chiamava <strong>il</strong> venerdì per fare un match <strong>il</strong> sabato<br />
allora mi doveva dare un sacco di soldi in quelle condizioni […]. In azienda prendevo circa 75 m<strong>il</strong>a<br />
lire al mese quando sono diventato qualificato, e per quell’incontro mi avevano offerto 300 m<strong>il</strong>a lire.<br />
L’ho fatto per soldi, ma poi mi sono stufato di prendere botte. (Dante)<br />
La palestra ha aiutato molti pug<strong>il</strong>i come Dante a uscire dal mondo della strada come spesso ci hanno<br />
detto molti ex pug<strong>il</strong>i: le risse, i furti, le bravate, i conflitti fra bande giovan<strong>il</strong>i.<br />
Io ho iniziato a tredici anni. Giravo con ragazzi più grandi di me e le prendevo da tutti sempre perché<br />
ero <strong>il</strong> più piccolo della compagnia. Poi una volta ho visto una sera […], una scena che mi è rimasta<br />
impressa perché ho visto un omino piccolino picchiare un omone grande. Mi sono informato per<br />
capire chi era ed era <strong>il</strong> pug<strong>il</strong>e Raimondo Nob<strong>il</strong>e della Tranvieri. Nob<strong>il</strong>e era 54 ch<strong>il</strong>i, ma sul ring<br />
picchiava come uno molto più grande di lui. Così, sto parlando del ‘56, ‘57, non per passione, ma per<br />
questo decisi di andare nello scantinato per fare la boxe, anche se ero piccolino di età. (Albano)<br />
La palestra…ho iniziato nel ‘60 che mi sono proprio tesserato, avevo 19 anni. Con la palestra inizia<br />
che ti danno una certa disciplina e veniva eliminato <strong>il</strong> discorso delle botte per la strada, perché non<br />
avevo bisogno di sfogarmi lì, mi sfogavo qui…mi sfogavo…mi sfogavano gli altri! Ma non è che io<br />
ero un attaccabrighe, era che <strong>il</strong> 70% dei ragazzi della Bolognina per passare <strong>il</strong> tempo si picchiavano,<br />
però…due botte e poi amici come prima, beh, magari non subito. (Dante)<br />
Confrontando le parole di Albano e di Dante con quelle dei boxeusr protagonisti della nostra ricerca<br />
non sono affatto dissim<strong>il</strong>i le ragioni che hanno spinto questi ultimi ad allenarsi in palestra. I giovani<br />
pug<strong>il</strong>i della Tranvieri sono adolescenti, dai 12 ai 25 anni, che in parte frequentano la scuola, gli istituti<br />
tecnici della Bolognina, in parte sono alle prese con le prime esperienze nel mondo del lavoro. Molti<br />
abitano nel quartiere e qui passano buona parte del loro tempo libero. Nei loro racconti l’ingresso alla<br />
Tranvieri emerge come un evento piuttosto casuale, una scelta come un’altra ma, quando interrogati<br />
sulle loro motivazioni più profonde, la volontà di praticare la boxe è risultata sempre rispondere a un<br />
bisogno di sfogo, di autodisciplinamento corporeo o di socialità.<br />
Ho 19 anni appena compiuti, ho iniziato circa un anno e mezzo fa. Ho iniziato perché avevo dei<br />
problemi in casa e l’unico posto dove mi trovavo a mio agio era questo. Fuori…dove potevo<br />
sfogarmi, dove avevo più respiro era la palestra. Ho fatto questa scelta perché al posto di andare in<br />
giro a fare <strong>il</strong> bullo ho deciso di venire in palestra inizialmente senza nessuna intenzione di<br />
combattere. (Anuar)<br />
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Kalhed: Per quello ho iniziato ad andare in palestra, <strong>il</strong> motivo principale sono state sempre le solite<br />
discussioni fra mia madre e mio padre…mi davano sui nervi e andavo fuori, e mi dovevo sfogare con<br />
qualcosa… fumare mi faceva schifo, bere lo odiavo, stare a ballare fuori sabato e domenica e<br />
basta…altre cose non le avevo e allora…incontro Yassine - pug<strong>il</strong>e di origine tunisina iscrittosi in<br />
palestra più di cinque anni fa - che mi dice: “Vieni a dare due pugni al sacco in palestra che ti fa<br />
bene!”. Yassine l’ho conosciuto in discoteca, io ero andato a fare un giro, lui stava litigando con dei<br />
tipi e io gli diedi una mano… me lo ricordo che alla fine mi ha detto: “Merda , ma che mani c’hai?”<br />
Ricercatori: E perché gli hai dato una mano?<br />
Kalhed: Perché non aveva sbagliato lui, lui aveva chiesto semplicemente di entrare e l’altro l’ha<br />
spinto, perché sai per noi arriva sempre prima <strong>il</strong> rispetto, se tu mi rispetti, io ti rispetto.<br />
I racconti di giovani boxeurs come Anuar e Kalhed, entrambi figli di marocchini venuti in Italia più di<br />
dieci anni fa, sono pieni di riferimenti a tensioni che questi ragazzi vivono dentro la famiglia, in un<br />
ambiente scolastico scoraggiante e vissuto in modo conflittuale, per via di esperienze lavorative<br />
fallimentari dove la maggior parte di loro ha capito <strong>il</strong> significato della parola insuccesso. Le pratiche di<br />
vita quotidiane di Kalhed e Anuar, sono le stesse di altri loro compagni di palestra nati in Italia ma senza<br />
cittadinanza, che vivono quotidianamente la Tranvieri una volta finito <strong>il</strong> tempo della scuola, del lavoro,<br />
delle responsab<strong>il</strong>ità famigliari. Il rispetto di cui parla Kalhed costituisce per questi giovani pug<strong>il</strong>i un<br />
valore fondamentale. La Tranvieri, allora, anche se non sempre in modo consapevole, si configura come<br />
una scelta motivata perché permette a questi ragazzi di sentirsi rispettati, di provare <strong>il</strong> proprio valore, di<br />
dimostrarsi forti senza <strong>il</strong> carico di autodistruzione che lo sfogo e l’affermazione di sé in forme aggressive<br />
produrrebbero in altri contesti, come emerge dall’intervista a un altro pug<strong>il</strong>e di origine marocchina:<br />
Io sono uno che quando si arrabbia non ci vede più, infatti <strong>il</strong> pug<strong>il</strong>ato mi serve anche per questa cosa<br />
qua, quando mi arrabbio mi sfogo un po’ qua. È una brutta cosa. In terza media un ragazzo mi ha<br />
mandato a fanculo, e io mi sono arrabbiato e gli ho buttato un tavolo addosso, gli ho spaccato la<br />
schiena. Non ci ho capito più niente. Questo qua mi diceva sempre: “Sei un marocchino, tornate al<br />
tuo paese”. Io non gli ho mai fatto niente fino ad allora, poi ho reagito. Quella volta mi volevano<br />
sospendere da scuola, solo che io non avevo mai fatto niente e non mi hanno punito. (Samir)<br />
La scuola, e gli istituti professionali della Bolognina frequentati da Samir, Kahled, Anuar rappresentano,<br />
nelle loro parole, dei luoghi di um<strong>il</strong>iazione. La maggior parte di questi giovani boxeurs vede gli istituti<br />
tecnici del quartiere come istituzioni totali dove più che acquisire una formazione e delle conoscenze,<br />
ovvero costruirsi un futuro, si acquista solo la consapevolezza di tutto ciò che non potranno essere né<br />
diventare.<br />
50
A scuola mi piaceva molto andare. A me ha rovinato mio padre perché diceva che non avevo la testa<br />
per andare in una scuola diversa e mi ha mandato alle Fioravanti, all’istituto tecnico, e io davvero la<br />
odiavo quella scuola con tutte le mie forze dal profondo del mio cuore, io odiavo la meccanica,<br />
odiavo fare l’idraulico, odiavo l’elettricista, odiavo fare tutti i lavori merdosi che ti toccano se vai lì<br />
[…]. Io mi chiedevo perché devi sempre fare o <strong>il</strong> falegname o l’elettricista, perché sei destinato a fare<br />
<strong>il</strong> muratore, perché non puoi studiare, che ne so, fare l’avvocato? (Kalhed)<br />
La grande parte dei pug<strong>il</strong>i protagonisti della nostra ricerca ha alle spalle storie di migrazione forzata,<br />
difficoltà economiche, precarietà sociale e un vissuto quotidiano comune dove i luoghi di ritrovo sono i<br />
cort<strong>il</strong>i, i campetti di basket e di calcio abbandonati, i vicoli del quartiere a ridosso delle scuole.<br />
Puoi fare <strong>il</strong> giro di tutte le palestre del mondo, nelle palestre di pug<strong>il</strong>ato non trovi uno ricco, perché è<br />
gente che deve avere della cattiveria, perché se non hai della cattiveria sei finito […]. La gente povera,<br />
io, un altro, gente che è un po’ cattiva dentro, che ha vissuto un po’ la vita, che sa cosa significa stare<br />
nella strada, cosa vuol dire picchiarsi per la strada. La gente che fa pug<strong>il</strong>ato inizia a fare a botte in<br />
strada a 10 anni […]. Ci sono stati due amici che hanno fatto tanta galera, davvero tanta galera. Poi<br />
uno è venuto qui con me. Questo qua era una bestia, una bestia davvero, faceva pug<strong>il</strong>ato per la<br />
strada, se lo vedevi ti prendevi paura. Picchiava tutti. È venuto qua, l’ho portato in palestra e lui<br />
diceva: “No, io voglio fare i soldi veloci”. Anch’io ne ho fatte tante nella vita, ho rubato, uno è<br />
ragazzo, ma dopo capisce che così non si va avanti, e gli dicevo: “Senti a me, statti tranqu<strong>il</strong>lo qua”, e<br />
lui: “No, io adesso vado a rubare una macchina, poi rubo a un negozio, mi faccio un po’ di soldi”; era<br />
fissato, l’hanno preso lui e un altro, la polizia, dopo una rapina […]. Io sono cresciuto con lui,<br />
purtroppo era così, noi facevamo tutto insieme, eravamo proprio legati, è con lui che ho iniziato a<br />
fare pug<strong>il</strong>ato. (Erzan, giovane pug<strong>il</strong>e di origine albanese anche lui residente in Bolognina)<br />
La Tranvieri per questi ragazzi non costituisce un ambiente altro rispetto alla segregazione territoriale<br />
che caratterizza determinate aree e luoghi di incontro di quartieri periferici di Bologna come la<br />
Bolognina, come abbiamo visto. E’ possib<strong>il</strong>e parlare infatti di una omogeneità di condizione sociale se ci<br />
si riferisce ai giovani pug<strong>il</strong>i iscritti in palestra; ciò che però li distingue dai loro compagni di strada, nella<br />
maggior parte dei casi compagni di banco di scuola o colleghi di lavoro, quasi tutti immigrati nati in Italia<br />
ma figli di genitori nordafricani, è la ricerca di autocontrollo, di disciplina, la volontà, espressa attraverso<br />
<strong>il</strong> pug<strong>il</strong>ato, di governare la propria vita, spesso vissuta come un destino da sfidare quotidianamente.<br />
Il pug<strong>il</strong>ato per i ragazzi della palestra non rappresenta tanto una soluzione alla frustrazione verso un<br />
mondo sociale che sentono indifferente quando non ost<strong>il</strong>e nei loro confronti, piuttosto la possib<strong>il</strong>ità di<br />
non essere sempre rappresentati in esso come esclusi.<br />
Molte pubblicazioni sul mondo della palestra di pug<strong>il</strong>ato, scientifiche e non, condannano la boxe come<br />
uno sport violento.<br />
51
La boxe è indifendib<strong>il</strong>e, da un punto di vista medico e morale: è insano che la gente si prenda a<br />
pugni, è l’ultima cosa che vorrei che i miei figli facessero. E non piace più a nessuno. Ma mi rapisce.<br />
In America c’è una lunga tradizione letteraria sul pug<strong>il</strong>ato, pensiamo a Norman Ma<strong>il</strong>er. E’ come<br />
un’epica antica, è un’arte morta. («La Repubblica», 30 giugno 2007 35 )<br />
Altre pubblicazioni, all’opposto, descrivono i pug<strong>il</strong>i come vittime di un sistema economico-sportivo che<br />
tratta loro come “corpi in vendita” (Wacquant 2004). Dall’altra parte, numerosi sono i racconti, anche<br />
romanzati, che sottolineano le traiettorie di vita di quei pug<strong>il</strong>i che, attraverso la boxe, sono riusciti, grazie<br />
alla loro forza di volontà, a uscire dal mondo della strada e costruirsi un avvenire dignitoso (Ph<strong>il</strong>onenko<br />
1997). Eppure, la “cattiveria” di cui parla Erzan, giovane pug<strong>il</strong>e di origine albanese della Tranvieri, non è<br />
gratuita, piuttosto è da leggere come un insieme di strategie che questi ragazzi agiscono per “cavarsela”<br />
nonostante i pochi soldi, <strong>il</strong> diffic<strong>il</strong>e mercato del lavoro, la scarsa integrazione a scuola. Le parole di<br />
Erzan, in questo senso, non sembrano né quelle di una vittima che sogna di fare <strong>il</strong> pug<strong>il</strong>e inconsapevole<br />
che sta “svendendo” <strong>il</strong> suo corpo, né quelle di un “eroe” che, nonostante le sue cattive amicizie, “riesce<br />
a farcela”.<br />
L’analisi politica-economica, in questo senso, non costituisce una spiegazione capace di giustificare tutti i<br />
comportamenti, alle volte autolesionistici, di pug<strong>il</strong>i come Erzan - per esempio, la scelta di alcuni di<br />
tentare una carriera impossib<strong>il</strong>e da professionisti, compiendo numerose rinunce e sacrifici e sperando<br />
così di dimostrare <strong>il</strong> proprio valore come uomini e di arricchirsi in fretta. Le azioni e le traiettorie di vita<br />
di pug<strong>il</strong>i come Erzan, infatti, non sono riconducib<strong>il</strong>i deterministicamente alla struttura sociale in cui<br />
sono inseriti ma, allo stesso tempo, avvengono dentro un ventaglio di possib<strong>il</strong>ità condizionato da<br />
determinate relazioni di potere e dentro una storia che le influenza (Colombo 1989). La palestra, in<br />
questa direzione, sembra offrire, nelle rappresentazioni dei pug<strong>il</strong>i, sia un riparo dalla strada e dai luoghi<br />
dove questi ultimi sperimentano soprattutto insuccessi e contraddizioni, sia un luogo di ritrovo dove a<br />
contare sono altri valori e <strong>il</strong> rispetto è una parola fondamentale. (Bourgois 2003)<br />
Quando sei in palestra con una persona, non puoi sentirti diverso. Se sei in palestra da un giorno, tre<br />
mesi, un anno, sai che anche lui vuole arrivare dove vuoi arrivare tu e quindi cerchi di dargli una<br />
mano oltre all’allenatore. Gli dai una mano su come si tirano i colpi, su come si sta sul ring, alla fine<br />
in palestra non ci sono le diverse nazionalità, qui la maggior parte sono stranieri e non ci sono mai<br />
stati casini, ci siamo sempre aiutati. Poi fuori puoi avere delle sfighe perché puoi trovare gente che<br />
non fa niente tutto <strong>il</strong> giorno e poi gli capita una sfiga esce di casa e quel giorno se la prende con te, e<br />
35 Intervista a David Remnick, direttore e firma storica del «New Yorker», autore del libro su Muhammed Alì, “Il re del<br />
mondo”. (Remnick 2008)<br />
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se ti becchi un pugno da un pug<strong>il</strong>e…un pug<strong>il</strong>e deve sapersi controllare, se tiri un pugno puoi fare<br />
male, se non lo sai dare lo ammazzi. (Anuar)<br />
Ufficialmente la palestra è aperta dal lunedì al venerdì a partire dalle 17.30 fino alle 20.30, ma, di fatto,<br />
apre le sue porte anche al di fuori degli orari “ufficiali”. Alcuni ragazzi, per esempio i più giovani,<br />
arrivano in palestra prima delle 17.30 precedendo gli stessi maestri; Ernesto, infatti, apre la Tranvieri<br />
prima dell’inizio dei corsi per mettere in ordine i pesi e tutti gli attrezzi, riparare le corde rovinate, oliare<br />
<strong>il</strong> punging ball, sistemare i guantoni spaiati. Alcuni di questi giovanissimi boxeurs, in questi momenti che<br />
precedono l’inizio dell’allenamento, aiutano Ernesto in questi lavori di manutenzione a dimostrazione<br />
del rapporto di fiducia che lega i “vecchi” della Tranvieri ai nuovi iscritti, rapporto che prescinde da<br />
quello che questi ultimi hanno con i due maestri della palestra. I pug<strong>il</strong>i che vengono dal lavoro, che<br />
hanno più esperienza di boxe alle spalle, arrivano invece più tardi e rimangono ben oltre l’orario ufficiale<br />
di chiusura: le lunghe docce dopo l’allenamento, le chiacchiere e gli scherzi negli spogliatoi sono un<br />
modo per allentare la tensione dopo le fatiche della scuola, del lavoro, dei guanti e del ring.<br />
La palestra cambia aspetto <strong>il</strong> sabato pomeriggio e la domenica mattina quando, sebbene dovrebbe essere<br />
chiusa, Ernesto, che possiede le chiavi della sala, la apre ai giovani pug<strong>il</strong>i i quali, tra un colpo al sacco e<br />
una sessione di corda, trasformano lo spazio della palestra in un campo di calcio. Giocatori di queste<br />
partite “clandestine” sono anche i fratelli e gli amici del gruppo di boxeurs che frequentano la Tranvieri<br />
regolarmente, ragazzi molto giovani, di origine magrebina e tutti residenti nel quartiere. Il sabato<br />
pomeriggio e la domenica mattina in palestra si parla un singolare connubio di arabo e dialetto<br />
bolognese e la ripetuta convivenza in questo spazio ristretto tra veterani, giovani boxeurs e i ragazzi della<br />
Bolognina del “giro” della palestra permette di litigare, insultarsi e prendersi in giro spesso ricorrendo a<br />
stereotipi che in un altro contesto, come quello degli allenamenti settimanali, sarebbero considerati<br />
razzisti. In questo senso <strong>il</strong> gruppo dei giovani pug<strong>il</strong>i della Tranvieri prende forma dentro un vissuto<br />
quotidiano fatto di “intimità culturale” che si può riconoscere in “quegli aspetti dell’identità culturale,<br />
considerati motivo d’imbarazzo con gli estranei, ma che nondimeno garantiscono ai membri la certezza<br />
di una socialità condivisa”. (Herzfeld 2003)<br />
Non c’è verso sei proprio un arabo, è possib<strong>il</strong>e che devi rompere le palle per un rigore fino a questo<br />
punto? (Ernesto, ex pug<strong>il</strong>e italiano in uno dei suoi proverbiali rimproveri durante le partite di calcetto<br />
in palestra la domenica con i giovani di origine magrebina)<br />
La Tranvieri <strong>il</strong> sabato e la domenica diventa un ritrovo di gruppo, quando la scuola e le sale gioco sono<br />
chiuse, e i cort<strong>il</strong>i dei grandi palazzi popolari della Bolognina non sono punti di incontro perché i genitori<br />
sono a casa e bisogna sottrarsi al loro controllo dai balconi, come ci racconta un giovane pug<strong>il</strong>e di<br />
origine nigeriana:<br />
53
Oddio, ma tu ce l’hai presente che cos’è una madre africana? Non sono normali, sono fuori di testa,<br />
agitate…vai da un tuo amico a suonargli <strong>il</strong> campanello sotto casa e inizia <strong>il</strong> terzo grado, quella si<br />
mette a urlare che <strong>il</strong> figlio non sta mai a casa, sembrano dei radar…no, no preferiamo darci<br />
appuntamento in palestra o in qualche altro posto! (Martin)<br />
Le partite del fine settimana sono anche occasioni di “ingaggio” di futuri pug<strong>il</strong>i, perché la maggior parte<br />
di questi ragazzi intorno ai 16 anni finisce per aff<strong>il</strong>iarsi alla Tranvieri dopo questa iniziazione “non<br />
regolare” alla palestra: quando arrivano ad iscriversi molti di loro sono già entrati in tale spazio, hanno<br />
usato le docce, imparato l’uso degli attrezzi, ma non hanno mai visto i maestri. Anche per questo<br />
Ernesto è consapevole che, per quanto la dirigenza non autorizza ufficialmente tale “occupazione” della<br />
Tranvieri nei week-end, <strong>il</strong> Presidente e gli stessi maestri chiudono un occhio rispetto alle attività che si<br />
svolgono in palestra <strong>il</strong> sabato e la domenica in parte perché ne hanno un ritorno come società pug<strong>il</strong>istica,<br />
in parte perché la Tranvieri è sempre stata vissuta come un circolo Dopolavoro e un luogo di ritrovo<br />
degli atleti.<br />
Le relazioni fra i giovani pug<strong>il</strong>i, ovviamente, si costruiscono non solo nei momenti eccezionali come<br />
quelli del sabato e la domenica ma attraverso la pratica quotidiana in palestra. Sottoporsi<br />
all’apprendimento della tecnica pug<strong>il</strong>istica, per chi voglia studiare come si strutturi e quale sia la logica di<br />
interazione dei suoi frequentatori, è l’unica porta di accesso alla Tranvieri e ai suoi mondi quotidiani.<br />
Vivere <strong>il</strong> ritmo quotidiano in cui un boxeur modella <strong>il</strong> suo corpo, affina la sua tecnica e costruisce <strong>il</strong> suo<br />
capitale di fiducia per salire sul quadrato è fondamentale nel momento in cui si vogliono comprendere le<br />
sue pratiche, i suoi immaginari ed intuirne <strong>il</strong> senso (Wacquant 2002). Per questo da marzo 2007 ci siamo<br />
iscritti in palestra e abbiamo iniziato ad allenarci con questo gruppo di pug<strong>il</strong>i di origine straniera nati in<br />
Bolognina oppure venuti qui da molti piccoli e alfabetizzati nelle scuole del quartiere.<br />
Una volta conquistati determinati rapporti di fiducia con un gruppo di giovani pug<strong>il</strong>i abbiamo<br />
cominciato ad uscire dalla palestra con loro. Il rapporto strada-ring è determinante per la Tranvieri.<br />
Tito, l’allenatore più anziano della Tranvieri, è consapevole di quanto la sua palestra attinga i pug<strong>il</strong>i<br />
migliori, come nel caso di Erzan, dalla stada, dai caseggiati della Bolognina. La Tranvieri, come<br />
vedremo in seguito, ha un forte rapporto con <strong>il</strong> territorio che la ospita; se, però, prima poteva contare,<br />
per quanto concerne i suoi iscritti, su molti operai, quasi tutti italiani, che lavorano nelle fabbriche del<br />
quartiere e prendevano la residenza alla Bolognina, oggi dipende sempre più, in termini di risultati<br />
sportivi, da un gruppo di giovani di origine straniera che abitano a poche centinaia di metri dalla<br />
palestra.<br />
Qui <strong>il</strong> Quartiere la tiene in grande considerazione la palestra, <strong>il</strong> presidente del quartiere è uno<br />
che ha frequentato la palestra e lo dice sempre. È uno che i piedi in palestra, quando era<br />
54
ancora negli scantinati ce li ha messi, anche adesso a volte passa, magari sotto le elezioni<br />
amministrative…, sa che ci siamo. Perché poi la gente parla e queste storie si sanno, e vedono<br />
che con i nostri, mai troppi guai, non abbiamo mai creato guai perché i ragazzi quando<br />
arrivano qua non c’è problema di nessun tipo, magari fuori….(Tito, allenatore storico della<br />
palestra)<br />
Il gruppo di pug<strong>il</strong>i della Tranvieri, quando abbiamo cominciato ad uscire dalla palestra per analizzare<br />
meglio <strong>il</strong> rapporto strada-palestra, si è costituito nel tempo grazie ad un passaparola e ad una rete di<br />
conoscenze formatasi nel territorio. Kalhed, Yassine, Jameel, Erzan prima di iscriversi in palestra si<br />
frequentavano nei luoghi di ritrovo del quartiere.<br />
Kalhed: Ad esempio se tu vai in centro tutti conoscono Yassine perché lui lavora in centro, fa <strong>il</strong><br />
buttafuori alla discoteca; vedi Kalhed, tutti lo conoscono perché andava in quella discoteca, era <strong>il</strong><br />
caposala al bowling…prima di entrare dovevi passare da lui...<br />
Ricercatori: Perché lavoravi a bowling?<br />
Kalhed: Non lavoravo - ride per <strong>il</strong> mio fraintendimento. Il gruppetto mio era al bowling, io andavo al<br />
bowling e tutti mi seguivano, quello al centro che adesso ha chiuso. Io andavo da un’altra parte e tutti<br />
venivano dietro a me da un’altra parte. Quando stavo a casa la gente veniva a suonarmi sotto<br />
casa…“Kalhed, possiamo salire?!!!”, e io: “No, mollami!”. Allora è un modo per farsi rispettare, ma<br />
non perché hai visto un f<strong>il</strong>m e vuoi fare <strong>il</strong> Padrino, è un modo per far capire ad una persona che ci sei<br />
anche te, che un marocchino non è uno scocciatore, un ladro, un assassino, ma è anche un bravo<br />
ragazzo, che va a scuola, lavora, fa sport e si fa i cazzi suoi, ma la gente non lo vede questo. Io<br />
quando andavo in centro e camminavo ti giuro c’era della gente che abitava a Casalecchio, qua vicino<br />
a Bologna, e mi chiedeva: “Kalhed possiamo entrare in centro?” e io: “Che cazzo mi chiedi, vieni, fai<br />
quello che vuoi, sei nel tuo paese!”… “No perché mi hanno detto al P<strong>il</strong>astro che devo chiamare te<br />
perché te comandi in centro”. Io dicevo: “Guarda che ti stai sbagliando!”<br />
Ricercatori: Quindi i territori erano tu al Centro, Yassine alla Barca…<br />
Kalhed: No, Yassine al P<strong>il</strong>astro perché prima abitava in San Donato, Erzan la Barca, in periferia…<br />
Ricercatori: Insomma la Tranvieri ha tre “capi” della città!<br />
Kalhed: No - ride -, quattro. Io, Yassine, Erzan e Jameel - tra i pochissimi pug<strong>il</strong>i della Tranvieri a<br />
vincere una competizione nazionale recentemente, padre tunisino e madre italiana, ma nato e<br />
cresciuto in Italia - che controllava <strong>il</strong> San Donato.<br />
Alla volte, come nel caso di Fad<strong>il</strong>, giovane pug<strong>il</strong>e di origine marocchina, sono stati gli stessi genitori di<br />
questi ragazzi a spingere i loro figli a iscriversi in palestra dopo aver visto i loro compagni di scuola o di<br />
ritrovo passare tutti i pomeriggi con Tito e Sante - <strong>il</strong> secondo allenatore della palestra - nella società<br />
sportiva della Bolognina; anche al fine di strapparli dal mondo delle strada e dai luoghi di ritrovo del<br />
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quartiere dove questi ragazzi usano frequentarsi. Fad<strong>il</strong>, del resto, ha abitato per diversi mesi in un<br />
palazzo dove risiedeva anche la famiglia di Anuar e Kalhed.<br />
Fad<strong>il</strong>: Sì, Anuar, Samir, li conoscevo tutti, loro venivano da prima, anche Yassine, Erzan…<br />
Ricercatori: Perché abitavate tutti più o meno vicini?<br />
Fad<strong>il</strong>: Sì, andiamo insieme alla discoteca, al bowling, a tante parti, li conoscevo e sentivo che<br />
parlavano boxe, boxe, boxe…quello che conoscevo meglio era uno che è stato qui molti anni. Forse<br />
non l’avete mai visto perché ha smesso di fare boxe.<br />
Ricercatori: Ma vi conoscevate anche perché venendo dallo stesso Paese vi frequentavate?<br />
Fad<strong>il</strong>: Si, soprattutto perché mio padre all’inizio abitava in via Stalingrado vicino alla casa del padre<br />
di Anuar; lui li vedeva che venivano con la borsa a casa e sapeva che andavano a fare boxe in palestra<br />
così…allora appena sono venuto sempre mi diceva di venire.<br />
Spesso abbiamo chiesto alla squadra di pug<strong>il</strong>i della Tranvieri quando si fossero conosciuti la prima volta.<br />
Kalhed, per esempio, come altri iscritti, hanno deciso di seguire gli allenamenti di Tito e Sante dopo aver<br />
saputo che amici conosciuti in discoteche del territorio frequentavano la società della Bolognina.<br />
Ricercatori: Quindi tu Yassine lo conoscevo da prima?<br />
Kalhed: Sì da quando avevo 17 anni. L’ho conosciuto in discoteca, io ero andato a fare un giro a<br />
Corticella, dietro la Bolognina, lui stava litigando e io gli diedi una mano…<br />
Ricercatori: Perché gli hai dato una mano?<br />
Kalhed: Perché non aveva sbagliato lui, lui aveva chiesto semplicemente di entrare e l’altro l’ha<br />
spinto, perché sai per noi arriva sempre prima <strong>il</strong> rispetto, se tu mi rispetti, io ti rispetto. Mi puoi dire<br />
che non entro ma non mi tocchi, poi Yassine che è uno che è tutto precisino, elegante, odia essere<br />
toccato. Come è successo a lui anche un’altra volta a San Lazzaro, al Comune qui vicino, che in<br />
discoteca ha avuto una discussione con lui e gli ha detto: “Ah, voi marocchini, africani, venite qua e<br />
volete comandare!”; allora Yassine stava partendo e io mi sono messo in mezzo perché stava<br />
lavorando lì e gli faccio: “Yassine fermati che sennò finisci nella merda!”, e lui allora: “Vabbè, tu sei<br />
mio fratello, gli dai tu due pugni in faccia e siamo a posto!”. Ho portato <strong>il</strong> tipo più avanti e gli ho<br />
detto: “Guarda, non ti tocco, però fai quello che dico io, vattene perché qua rischi di farti male!”. E<br />
lui mi ha dato uno schiaffo. Ti giuro su mia madre che non gli ho risposto, non gli ho dato né calci,<br />
né schiaffi, né pugni. Ti giuro non l’ho toccato e <strong>il</strong> tipo ci è rimasto di merda. Tempo dopo l’ho<br />
incontrato in via Indipendenza, al centro di Bologna, mi ha fermato e mi fa: “Tu sei un grande!<br />
Perché se mi rispondevi mi devastavi!”. E io: “Vedi che l’hai capito?”…Ti giuro mi ha dato una<br />
cinquina della madonna e io l’ho guardato solo. Yassine quando sono tornato da lui mi fa: “Allora gli<br />
hai dato due pugni a quello là?” e io: “Sì, Yassine, non ti preoccupare!”.<br />
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Jameel, Kalhed ricordano, per esempio, di essersi incontrati, prima di iscriversi alla Tranvieri, al mare e<br />
in altri luoghi di ritrovo della Bolognina. Spesso durante risse e bravate che li hanno visti come<br />
protagonisti.<br />
Con Jameel ci siamo incontrati questa estate al mare (2007) e ci siamo cacciati una avventura<br />
allucinante in Bolognina; ci siamo messi in mezzo alla pista a fare gli idioti, a metterci in guardia, a<br />
lanciare le mani, solo che lui ha le mani pesanti se ti arriva ti fa male; eravamo ubriachi, io schivavo<br />
ma fino a quando ci riuscivo, e gli dicevo: “Oh, vai piano!”. Eravamo troppo ubriachi quella sera.<br />
(Kalhed)<br />
Tito è consapevole da quando insegna alla Tranvieri di quanto la società di boxe dipenda dal territorio e<br />
trovi proprio tra gli abitanti della Bolognina buona parte dei pug<strong>il</strong>i da far combattere. In questi ultimi<br />
anni, come detto, ha notato, però, come gli iscritti siano sempre più figli di immigrati, prevalentemente<br />
marocchini - ciò, fra l’altro, riflette, come rivelato precedentemente, la stratificazione dei residenti nel<br />
quartiere, visto che, secondo le statistiche comunali, <strong>il</strong> numero di marocchini in alcune zone di quest’area<br />
urbana ha raggiunto quasi <strong>il</strong> 25% delle presenze, in termini di residenza, complessive.<br />
La palestra è molto strana perché arriva un albanese o uno dell’Afghanistan e <strong>il</strong> giorno dopo è in<br />
palestra, poi chiedi ad uno italiano che abita nel quartiere e magari non lo sa, perché non si sforza e<br />
non gli interessa <strong>il</strong> pug<strong>il</strong>ato. (Tito)<br />
Molti ragazzi che si allenano in Tranvieri, come Anuar, Kalhed, Fad<strong>il</strong> hanno abitato, con le loro<br />
rispettive famiglie, negli stessi palazzi di ed<strong>il</strong>izia popolare che caratterizzano questo territorio. In via<br />
Stalingrado, a poche centinaia di metri dalla Tranvieri, per esempio, un intero palazzo è stato e tutt’ora<br />
ospita parte della popolazione immigrata, per lo più di origini marocchine, del quartiere; dai primi anni<br />
duem<strong>il</strong>a fino alla fine della ricerca questo palazzo, un insieme di appartamenti molto vasto, è stato<br />
spesso al centro di articoli e inchieste dei quotidiani locali e rappresentato come la casbah di Bologna 36 .<br />
Ho iniziato perché all’inizio quando mio padre era arrivato abitava in via Stalingrado, dove ci sono<br />
ragazzi che abitano lì e che vengono qua. Ci sono molti ragazzi della palestra che abitano lì, come<br />
Anuar…quel palazzo dove abitano tutti i marocchini, lì abitano quei ragazzi che venivano qua. (Fad<strong>il</strong>)<br />
La Tranvieri, Tito in particolare, e più di altre palestre regionali spesso ha aiutato questi ragazzi a<br />
integrarsi meglio nel territorio. I due allenatori, del resto, sono consapevoli del fatto che per diventare<br />
36 Tale palazzo è stato al centro di una ricerca etnografica condotta da Giulia Guadagnoli parte del lavoro realizzato dalla<br />
Cattedra di antropologia Culturale del Dipartimento di Scienze dell’Educazione di Bologna all’interno del P.R.I.N. 2007-<br />
2009 in corso di pubblicazione.<br />
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un campione di boxe un atleta deve avere una vita <strong>il</strong> più possib<strong>il</strong>e regolare: dal punto di vista affettivo,<br />
economico, famigliare. Fad<strong>il</strong> e Anuar, per esempio, hanno trovato dei lavoretti grazie ai consigli e alle<br />
conoscenze di Ernesto e Dante. Altri, come Erzan hanno potuto iscriversi nonostante, privi di<br />
cittadinanza italiana, non avrebbero e non possono tutt’ora combattere nei campionati assoluti d<strong>il</strong>ettanti<br />
nazionali. Tito ha aiutato ragazzi in difficoltà e con precedenti penali alle spalle: da una parte assolvendo<br />
a una funzione sociale agita da tanti anni all’interno di un rapporto con le istituzioni comunali e lo<br />
stesso Circolo Dozza da cui la società della Bolognina dipende, dall’altra consapevole sempre più che<br />
dal mondo della strada è possib<strong>il</strong>e “pescare” i boxeurs del futuro.<br />
Con l’arrivo dei primi pug<strong>il</strong>i di origine straniera la Tranvieri ha dovuto cambiare i tempi, gli spazi, la<br />
stessa organizzazione degli allenamenti. Sante, per esempio, ammette senza nessun pudore come sia<br />
diffic<strong>il</strong>e allenare alcuni pug<strong>il</strong>i durante <strong>il</strong> periodo di Ramadan.<br />
È un casino. Questi arrivano in palestra senza aver mangiato per tutto <strong>il</strong> giorno e non vedono l’ora<br />
di tornare a casa oppure mangiano ma arrivano tardi perché non possono allenarsi con lo stomaco<br />
pieno. Più che <strong>il</strong> mangiare <strong>il</strong> problema è <strong>il</strong> non poter bere nemmeno acqua. Alla fine del Ramadan<br />
siamo nei casini perché hanno preso tutti due tre ch<strong>il</strong>i, che la notte si riempiono di cous cous per<br />
reggere durante <strong>il</strong> giorno. (Sante, <strong>il</strong> secondo allenatore della Tranvieri)<br />
I due allenatori sanno che puntando su pug<strong>il</strong>i come Kalhed e Yassine ogni giorno dovranno stare molti<br />
attenti ai comportamenti di questi ragazzi fuori dalla palestra, visti i loro vissuti, le difficoltà scolastiche,<br />
lavorative, soprattutto i conflitti famigliari che caratterizzano le loro vite quotidiane. Ancora una volta,<br />
però, <strong>il</strong> loro ascolto ha una doppia faccia: da una parte, infatti, Tito soprattutto ha dimostrato,<br />
praticamente, di dare una mano ai suoi pug<strong>il</strong>i quando in difficoltà - trovare una stanza in affitto a un<br />
ragazzo, parlare con la sua famiglia per rassicurarla del comportamento corretto del figlio in palestra,<br />
aiutare dei pug<strong>il</strong>i a sistemare i loro libretti comp<strong>il</strong>ando insieme i documenti necessari per combattere e<br />
risolvendo loro alcune beghe di carattere burocratico, promettere ai servizi sociali di essere responsab<strong>il</strong>i<br />
delle azioni di un iscritto che ha avuto difficoltà e ha subito denunce di tipo penale, permettere ad<br />
alcuni boxeurs di continuare ad allenarsi anche quando non avevano modo di pagare la quota mens<strong>il</strong>e,<br />
etc.; dall’altra Sante stesso riconosce come Anuar, Fad<strong>il</strong>, Samir abbiano motivazioni, relativamente al<br />
loro fare boxe, maggiori di tanti altri pug<strong>il</strong>i italiani che si allenano in altre palestre del Comune.<br />
Il lavoro sulla Tranvieri non ha avuto, fin da subito, la pretesa di essere uno studio sulle “seconde<br />
generazioni” di immigrati che vivono nel nostro Paese (Ambrosini, Molina 2004); ci ha permesso però<br />
di analizzare alcune storie e rappresentazioni che emergevano dal lavoro di campo e individuare, così,<br />
dei temi che sono astati al centro della ricerca P.R.I.N. Nell’ultimo decennio <strong>il</strong> dibattito sulle cosiddette<br />
“seconde generazioni” di immigrati, infatti, sta guadagnando sempre più terreno tanto come spazio di<br />
analisi e ricerca all’interno di molteplici aree disciplinari, quanto come controversa questione dibattuta<br />
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dai diversi attori locali - Regioni, Comuni, Province, associazioni, comitati di quartiere etc. - implicati<br />
nella gestione delle politiche di inclusione e accoglienza e che si misurano sulle problematiche della<br />
partecipazione e della cittadinanza. Lo stesso termine “seconda generazione”, del resto, è in discussione<br />
visto che pug<strong>il</strong>i come Anuar sono in Italia da quando avevano sei anni e hanno intenzione di crescere a<br />
Bologna una loro famiglia.<br />
Nello spogliatoio, spesso, abbiamo avuto modo di parlare con questi ragazzi della loro situazione<br />
famigliare, soprattutto domandargli cosa pensassero i loro genitori della boxe e del loro passare tutti i<br />
pomeriggi in palestra. Un f<strong>il</strong>o rosso di queste chiacchierate informali nella società della Bolognina è<br />
stato, però, come emerge anche da molte monografie che hanno concentrato la loro attenzione sulle<br />
pratiche di vita quotidiana di giovani immigrati di seconda generazione in Italia (Giacalone 2002,<br />
Queirolo Palmas, Torri 2005; Benadusi, Chiodi 2006 37 ), i problemi che questi apprendisti pug<strong>il</strong>i vivono<br />
tornando a casa ogni sera scontrandosi con la loro famiglia.<br />
No, prima abitavamo vicino Vergato, in provincia di Bologna…abbiamo vissuto lì per due anni…io e<br />
mio fratello eravamo morti, abitavamo in una palazzina e non c’era niente intorno, eravamo noi e<br />
attorno zero, <strong>il</strong> campo da calcio era a due ch<strong>il</strong>ometri…non ce l’abbiamo fatta più, non ci volevamo<br />
stare e siamo venuti a Bologna nel 1998 e ci siamo trasferiti vicino all’ospedale Maggiore. Andavo a<br />
scuola a di fronte all’ospedale Maggiore. Mi sono trovato subito benissimo con i ragazzi, dalle<br />
elementari ci sentiamo ancora adesso, ho legato subito perché io mi trovo sempre bene con i ragazzi<br />
italiani, perché faccio battute, scherzo, rido…invece mio fratello no, perché lui è molto più diretto, ha<br />
un obiettivo e lo deve raggiungere punto. Lui dice: “Io arrivo là e arrivo là. Punto, non mi devi dire<br />
niente!”. Anch’io sono così però nella vita che ne sai te che ti succede oggi, domani. Poi ci siamo<br />
trasferiti in via Marconi in centro a Bologna e lì è iniziato l’odio di mio padre contro di me. Avevo 16<br />
anni e iniziavano le prime uscite, le prime sere che tornavo ubriaco, iniziavo a dormire fuori la sera,<br />
inizia che ti viene a prendere alla 2 e tu esci alle 2.40 da un posto, cominci a uscire da solo con <strong>il</strong><br />
motorino; cominciò a chiudermi fuori di casa per farti capire certe cose che però io non capivo. Io<br />
adesso ho capito perché faceva certe cose, però prima non le capivo, adesso riesco anche a dargli<br />
ragione, però è normale, è una cosa che devi vivere. (Kalhed)<br />
Da una parte, per esempio, dai racconti di Kalhed, Anuar, Yassine, anche <strong>il</strong> pug<strong>il</strong>e rumeno Mircea,<br />
emerge come questi ragazzi abbiano dovuto, soprattutto a scuola e al lavoro, difendere le loro origini di<br />
fronte ad accuse razziste dei loro compagni di classe o colleghi, dall’altra quanto, una vota tornati a casa,<br />
37 Il problema di come definire questi giovani immigrati e quanto <strong>il</strong> termine “seconde generazioni” li rappresenti è stato al<br />
centro di una parte del lavoro di ricerca realizzato dalla Cattedra di antropologia Culturale del Dipartimento di Scienze<br />
dell’Educazione di Bologna all’interno del P.R.I.N. 2007-2009 in corso di pubblicazione. Studio etnografico condotto, da<br />
una parte, dagli antropologi Bruno Riccio e Monica Russo, dall’altra dai colleghi Ivo Giuseppe Pazzagli e Federica Tarabusi.<br />
Parallelo a questi studi è stata la ricerca che l’antropologa Casandra Cristea ha condotto sulle pratiche di vita quotidiane di un<br />
gruppo di ragazzi di origine rom che vivono da anni nel territorio comunale di Bologna, sempre in corso di pubblicazione.<br />
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ogni sera hanno dovuto discutere con i loro genitori per rivendicare io loro sentirsi e volere essere<br />
considerati italiani a tutti gli effetti. Kalhed, per esempio, riassume tutto <strong>il</strong> suo rapporto con i genitori in<br />
un continuo tira e molla in cui <strong>il</strong> giovane pug<strong>il</strong>e ha alternato strategie di aperto conflitto ad azioni che<br />
volevano dimostrare quanto fosse attaccato alla sua famiglia e i suoi valori. (Sayad 2002)<br />
C’è stato un periodo che dormivo in macchina perché mio padre non voleva che stessi in casa, io non<br />
riuscivo a trovare casa, quindi ho dormito due mesi nella macchina del lavoro e venivo in palestra,<br />
abitavo da solo e dovevo fare la spesa per due famiglie per me e per mia madre, dovevo pagare<br />
l’affitto per me e a casa di mia madre, dovevo dare da mangiare alle mie sorelle, libri, zaini, scuola,<br />
Anuar, lo scooter. Ho fatto dei salti troppo presto, ho perso degli anni, dai 18 ai 22 che li ho persi per<br />
la famiglia, per stargli dietro…ho bruciato molte tappe ma non me ne pento perché alla fine ho fatto<br />
del bene alla mia famiglia. Se tu prendi un ragazzo italiano, non farebbe queste cose per la famiglia, se<br />
ne sbatterebbe le palle, ma non perché uno è italiano, ma perché crescono in un modo diverso, tutto<br />
è dovuto, i libri, le scarpe della Nike, la palystation, lo zaino firmato, lo scooter, andare a prenderlo alla<br />
discoteca alle 4 di notte è dovuto, sono cose che…da noi no…da noi poi, a me non è successo così,<br />
non sono mai stato così fortunato! Per questo cerco di non far vivere a mio fratello le stesse cose che<br />
ho vissuto io, gli ho comprato la moto, se non ha soldi glieli do senza che si accorga che glie li sto<br />
dando […]. Con lui - mio padre (n.d.a.) -non ho mai avuto un buon rapporto, adesso è migliorato, gli<br />
ho presentato la mia ragazza dopo tre anni, gli ho detto che i miei obiettivi sono andare a vivere con<br />
lei e costruirci un futuro da qualche parte, quindi anche lui da una parte cerca di aiutarmi, però da<br />
un’altra…è più’ forte di me. Non mi pento di averlo fatte perché alla fine mio padre aveva divorziato<br />
e ho dovuto aiutarli, ma sono contento alla fine si sono risposati, ora stanno bene. Si sono risposati<br />
dopo due anni…contenti loro, per me non è cambiato niente. (Kalhed)<br />
Kalhed, per esempio, anche quando è uscito di casa, anche con la volontà di non tornarci più, ha sempre<br />
subito <strong>il</strong> giudizio del padre. Di fronte ad ogni scelta <strong>il</strong> giovane pug<strong>il</strong>e di origine marocchina ha sempre<br />
immaginato <strong>il</strong> genitore come fosse davanti a lui per criticarlo e mettere in discussione le sue azioni.<br />
Kalhed: Io ho vissuto da solo per un po’, poi i miei si sono separati e sono dovuto tornare a casa per<br />
dare una mano a mia madre che non lavorava e io ero l’unico che lavorava. Ero andato a vivere da<br />
solo perché non ce la facevo più con mio padre, ero arrivato ad un punto che dicevo: “O l’ammazzo<br />
o lui mi ammazza!”; eravamo due caratteri troppo sim<strong>il</strong>i per vivere insieme, siamo uguali, perché lui<br />
mi diceva una cosa e io l’opposto. Mio padre quello che diceva lui doveva essere quello punto. Loro<br />
volevano andar giù e io ho detto: “No, io giù non ci vado, io devo lavorare” e lui: “No, tu vieni giù<br />
sennò ti cerchi un’altra casa dove andare a dormire!”. Avevo 17 anni, sono tornato a 20, sono andato<br />
di nuovo via a 21, sono tornato a metà dei 22.<br />
Ricercatori: Quindi tu a 17 anni vivevi da solo…<br />
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Kalhed: Si, loro sono partiti per <strong>il</strong> Marocco in vacanza e io me ne sono andato, mi sono preso una<br />
camera singola perché prima avevo un locale di un mio amico dove ci ubriacavamo, dormivamo,<br />
facevamo tutto là. Poi <strong>il</strong> locale è andato in frantumi dopo nove mesi perché consumavamo più dei<br />
clienti. Mi trovai casa, trovai lavoro, trovai la ragazza, perché io con la mia ragazza sto da cinque anni<br />
e mezzo.<br />
Un altro tema che emerge nella letteratura scientifica sulle seconde generazioni in Italia e che trova<br />
conferma nelle parole dei protagonisti del lavoro sulla palestra di pug<strong>il</strong>ato è quello relativo al diffic<strong>il</strong>e<br />
inserimento scolastico di molti giovani immigrati che vivono nelle nostre città. (Giovannini 38 1996)<br />
La mia professoressa di italiano delle medie mi diceva: “Kalhed se tu non vai a fare questa cosa sei un<br />
idiota!”. Io mi chiedevo perché se sei straniero devi sempre fare o <strong>il</strong> falegname o l’elettricista? Io<br />
ancora adesso sto trovando <strong>il</strong> modo per fare <strong>il</strong> poliziotto, non perché mi piace essere chissà chi, ma<br />
perché è un lavoro onesto, puoi dare un appoggio allo Stato dove ho vissuto per tanto tempo di<br />
migliorarsi. (Kalhed)<br />
Per quanto <strong>il</strong> dibattito sulle seconde generazioni in un contesto come quello della Bolognina rifletta una<br />
situazione completamente differente da quella per esempio che emerge dalla letteratura scientifica che<br />
rivolge lo sguardo, per esempio, alle periferie francesi dove vivono molti ragazzi di origine magrebina<br />
(Mellino 2007, Quadrelli 2007), l’odio che Kalhed prova per la scuola che frequenta è dovuto anche agli<br />
insuccessi del padre e al fatto, che più che un modello questi rappresenti per <strong>il</strong> giovane pug<strong>il</strong>e un<br />
esempio di fallimento che non vuole ripetere.<br />
Mio padre voleva fare l’insegnate solo che ha incontrato persone che non erano d’accordo tanto con<br />
lui…nel senso che molti non hanno accettato la sua laurea, molti non l’hanno fatto voluto far entrare<br />
in quello che voleva fare lui. In Marocco trovava lavoro tranqu<strong>il</strong>lamente, solo che lui aveva studiato<br />
per insegnare in Europa e allora…non è stato fortunato e glie l’ha data su. Ha mollato tutto e ha<br />
cominciato a lavorare come manovale, come manovale, poi si è stufato ed è andato a lavorare in<br />
fonderia; ha lavorato in fonderia sette anni a Monte San Pietro, qua vicino Bologna, poi si è stancato<br />
anche lì e prima ha lavorato per i vig<strong>il</strong>i del fuoco in una ditta che aiutava a trasportare le attrezzature,<br />
poi si è rotto le scatole ed è andato a lavorare all’A.T.C….[…]. Quando eravamo piccoli ci accennava,<br />
ci spingeva molto allo studio, ma io non avevo testa. Non è che non avevo testa, a lui piaceva molto<br />
la matematica oltre che le lingue, ma io la matematica sempre zero…lui insisteva: “Voi dovete<br />
studiare perché…”, e io gli rispondevo: “Sì, infatti ho visto a te, ti è servito molto studiare…per finire<br />
38 Come detto in precedenza, i problemi di inserimento scolastico di molto ragazzi e ragazze di origine straniera sono stati<br />
oggetti di uno studio etnografico all’interno della ricerca P.R.I.N. condotto dalle antropologhe Giovanna Guerzoni e Fulvia<br />
Antonelli concentrando l’attenzione sull’Istituo professionale delle Fioravanti ubicato nel quartiere Nav<strong>il</strong>e e in corso di<br />
pubblicazione.<br />
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a lavorare in fonderia!”. Io ho sempre preso l’esempio di mio padre, lui ha sempre lavorato, ha<br />
studiato prima di tutto però non ha risolto niente. Anche mio zio si è laureato in scienze politiche in<br />
Marocco, poi è venuto qua in Italia nel 1998 e la sua laurea non valeva niente, doveva rifare gli ultimi<br />
due anni, li ha rifatti e sai adesso che fa? Lavora con un meccanico! (Kalhed)<br />
La scelta di iscriversi alla Tranvieri per molti ragazzi risponde anche alla volontà di fuga dal contesto<br />
lavorativo, scolastico, famigliare dove sentono di essere spesso poco rispettati. La speranza di una<br />
carriera sportiva nella boxe è anche quella di un veloce e fac<strong>il</strong>e arricchimento attraverso <strong>il</strong> pas<strong>saggio</strong> al<br />
professionismo.<br />
Perché io vedo la debolezza e la differenza fra le classi, fra la classe povera e la classe straricca, mi<br />
chiedo perché non c’è una via di mezzo, perché non esiste stare bene, o sei nella merda o sei<br />
straricco! (Kalhed)<br />
La Tranvieri, in questo senso, appare a Kalhed e Anuar, come ad altri pug<strong>il</strong>i di origini marocchine, come<br />
un ambiente dove tutti sono trattati ugualmente, durante gli allenamenti; sarà poi <strong>il</strong> ring a decidere chi è<br />
<strong>il</strong> puig<strong>il</strong>e che merita maggio rispetto. (Wacqaunt 2002)<br />
La gente dice che io e mia fratello siamo spacciatori perché ci possiamo permettere la moto, lo scooter,<br />
la macchina, ho installato internet e allora tutti i marocchini del quartiere dicono che sono uno<br />
spacciatore. Poi sono dei particolari, la gente ti vede vestito bene, mio fratello vestito bene, le tue<br />
sorelle che vanno a scuola con le scarpe messe per bene, lo zaino, i libri, e quindi io sono uno<br />
spacciatore. Una volta camminavo per strada, lei non mi aveva visto e una signora diceva: “Ah,<br />
Kalhed e Anuar sono degli spacciatori, quelli finiscono in galera subito!”. Io l’ho fermata e le ho<br />
detto: “Guardi signora, io lavoro nove ore al giorno, mio fratello lavoro undici ore al giorno, e se mi<br />
piace una maglietta che costa 200 euro io me la compro perché è una soddisfazione personale, è una<br />
cosa che io quando avevo 16 anni non mi potevo permettere, oggi me la posso permettere e quindi<br />
me la compro. Se mia sorella vuole una giacca che costa 100 euro io glie la compro perché non voglio<br />
che passi la stessa cosa che ho passato io!”. E lei: “Sì sì, raccontalo a qualcun altro, non a me!”. Lei è<br />
una tipa anziana che vive sotto di me. Molta gente però pensa questo di me e di Anuar, l’importante è<br />
che mio padre non pensi questo, perché erano riusciti a convincere anche mio padre che ero un<br />
drogato. È venuto da me e mi ha chiesto se mi facevo le canne. (Kalhed)<br />
In questa direzione, la palestra è una finestra per leggere gli immaginari, le rappresentazioni, le pratiche<br />
di vita quotidiana di un gruppo allargato di giovani di origine straniera che abitano nel territorio della<br />
Bolognina. Attraversando la Tranvieri, per esempio, è possib<strong>il</strong>e leggere i flussi immigratori che hanno<br />
caratterizzato negli ultimi enti anni la Bolognina. (Wacquant 2002)<br />
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Da una parte curioso è come Anuar e gli altri pug<strong>il</strong>i marocchini ostacolino e vedano di cattivo occhio<br />
l’ingresso in palestra di ragazzi di origine cinese in palestra.<br />
Un cinese che fa pug<strong>il</strong>ato? Questa non l’avevo mai sentita! (Anuar, quando, nell’autunno 2007, si è<br />
presentato alla Tranvieri un ragazzo di origine cinese che voleva iscriversi in palestra)<br />
Dall’altra parte tutti i pug<strong>il</strong>i di origine straniera della Tranvieri sanno che la boxe è stata veicolo di<br />
maggiore integrazione anche e soprattutto in contesti caratterizzati da una forte presenza di immigrati,<br />
come gli Stati Uniti, la Francia, la Germania.<br />
Durante la ricerca abbiamo raccolto anche le storie di vita dei boxeurs della prima e seconda<br />
generazione che hanno combattuto per la società pug<strong>il</strong>istica della Bolognina. Quando abbiamo chiesto<br />
a Ernesto, che è la persona che da più anni frequenta la Tranvieri, di descriverci i suoi vecchi compagni<br />
di palestra, sono emersi racconti e storie di vita non dissim<strong>il</strong>i da quelli degli attuali pug<strong>il</strong>i targati<br />
Tranvieri. Parole come “strada”, “cazzotti”, “difficoltà” famigliari e a integrarsi nel territorio, nel<br />
mondo del lavoro, ritornano spesso nei discorsi di Ernesto come in quelli di Yassine e Kalhed.<br />
Ci sono stati pug<strong>il</strong>i anche qui che valevano molto, mi ricordo ancora Cusma, che abitava nel cort<strong>il</strong>e<br />
da me, e l’ho portato io Cusma, che lui mi ha chiesto se poteva venire. Ma io conosco anche i pug<strong>il</strong>i<br />
di prima, che erano sempre qui, della zona, come Nob<strong>il</strong>i, Carati, ma anche Stagni, che però non l’ho<br />
mai visto combattere. Di Cusma mi ricordo che era un pug<strong>il</strong>e “peso matto”, un fisico eccezionale,<br />
un ragazzo di una simpatia incredib<strong>il</strong>e, con una passione per lo sport, che anche la figlia ora andrà<br />
alle Olimpiadi. Per me poteva dare molto di più al pug<strong>il</strong>ato, nonostante ha vinto <strong>il</strong> titolo europeo.<br />
Aveva una potenza unica. Poi ha avuto anche una storia tragica, la storia della moglie, anche se non<br />
so come è stata la faccenda, che insomma è morta per un incidente al lavoro. Ora abita a Castel<br />
Franco, in provincia di Bologna, che se lo volete trovare ora lavora al cimitero. Poi ha avuto altre<br />
sfighe. Suo fratello, per esempio, è uno che è cresciuto sulla strada, poi in tutto erano 10, 11 figli.<br />
Erano gente un po’ strana, tutti legati, che facevano casini, storie anche di prigione alle volte.<br />
(Ernesto)<br />
La scuola, spesso, come ricorda Artemio, era considerata una “costrizione”, tempo perso rispetto a<br />
quello passato nei luoghi di ritrovo del quartiere. Come per Kalhed e Anuar, che hanno frequentato gli<br />
istituti professionali della territorio, anche per Artemio <strong>il</strong> “mestiere” era meglio impararlo fuori<br />
dall’istituzione scolastica.<br />
Io ho fatto la prima e la seconda in Sic<strong>il</strong>ia, poi la terza sono andato in Germania, ma là non<br />
conoscevo la lingua e mi hanno messo con mio fratello in prima. Poi ho fatto fino alla quarta, solo<br />
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un mese, e sono ritornato in terza. Insomma, dico sempre a mio nipote che ho fatto tre volte la<br />
terza ma non mi hanno mai bocciato. (Artemio)<br />
La Bolognina, nei primi anni di Dopoguerra, rappresentava per ventenni come Dante, Ernesto, Albano<br />
un territorio tutto da esplorare. I loro genitori, come quelli di Anuar e Marcel, non riuscivano a stargli<br />
appresso dopo la scuola. Molti vecchi pug<strong>il</strong>i, in maniera sim<strong>il</strong>e a come racconta Kalhed, formarono in<br />
quegli anni delle “bande” di quartiere composte tutte da giovani ragazzi, quasi tutti maschi, che<br />
passavano <strong>il</strong> tempo giocando nei cort<strong>il</strong>i, nei parchi, nelle piazze pubbliche del territorio.<br />
Poi sono tornato a casa […]. Io ho sempre abitato al 50 di via Barbieri, la seconda casa dopo i<br />
carabinieri, che la Bolognina era in quartiere di operai, non c’era gente ricca, che i genitori quando<br />
tornavano a casa facevano la conta dei figli. (Dante)<br />
La Bolognina, <strong>il</strong> teatro ideale dove Ernesto, Dante, Albano erano soliti incontrarsi, giocare, commettere<br />
delle “bravate” era oggetto di discussione nello spogliatoio masch<strong>il</strong>e quaranta anni fa come lo è oggi per<br />
pug<strong>il</strong>i come Anuar e Marcel. Quando Yassine parla nello spogliatoio dei suoi trascorsi con la polizia e la<br />
giustizia riceve dai suoi compagni di palestra la stessa approvazione e stima di quando Dante, sotto le<br />
docce, raccontava a Ernesto e gli altri compagni di allenamento gli scontri con le Forze dell’Ordine<br />
avvenute nel quartiere.<br />
Io allora avevo anche un motorino galera, a 14 anni, poi un altro motorino a 16 anni, che me li<br />
compravo, a parte <strong>il</strong> primo, me li compravo io, che magari li aggiustavo, che io ero malato di<br />
motorini. Noi andavamo spesso anche a via Barbieri, dove adesso c’è la gelateria, proprio<br />
all’incrocio tra via Barbieri e via Fioravanti, dove c’è <strong>il</strong> semaforo, dove non c’era la veranda che c’è<br />
adesso che viene fuori; là c’era un piazzale grande con un ricciolo che lo delimitava, grande, largo,<br />
anche un po’ alto, vicino alla palestra alla fine. Allora noi c’avevamo <strong>il</strong> barista che ci rompeva sempre<br />
le scatole e una volta abbiamo preso una macchina e l’abbiamo caricato dentro per fargli uno<br />
scherzo, insomma ci divertivamo. (Dante)<br />
Le risse e <strong>il</strong> “fare a botte” erano, per i vecchi pug<strong>il</strong>i della Tranvieri, episodi ricorrenti come lo sono oggi<br />
- ad ascoltare le “chiacchiere” di spogliatoio che avvengono quotidianamente tra boxeurs alla Tranvieri.<br />
Ancora una volta a spingere i vecchi pug<strong>il</strong>i a usare le mani erano questioni di “rispetto”.<br />
Per me è stato molto educativo fare la boxe se ripenso ai miei amici della banda del Chiodo. Se uno<br />
mi toccavo la faccia io scattavo su e partivo. Anche quando ballavo succedeva sempre, che ballavo <strong>il</strong><br />
boogy boogy, e quante risse, anche se non me le cercavo mai. Quando poi sapevano che io ero pug<strong>il</strong>e<br />
nessuno mi provocava più. Anche alla sala da ballo dove ho conosciuto mia moglie c’era un mio<br />
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amico che avete visto in fotografia che c’aveva un grande pugno e un altro che mi ha provocato, ma<br />
io ho resistito e gli ho detto che ero pug<strong>il</strong>e. Io ho dovuto fare a botte alle volte per gli altri, che<br />
avevano paura, come <strong>il</strong> mio amico che provocava però poi aveva paura. Io non provocavo ma non<br />
mi tiravo indietro. Io andavo a ballare, non fumavo, non bevevo, prendevo l’aranciata e dicevo<br />
sempre: “Ma non preoccupatevi della mia mascolinità, pensate alla vostra!”. Io allora giravo con la<br />
Prince che era una macchina assurda che la prendevano tutti in giro che non si capiva quale era <strong>il</strong><br />
davanti e quale era <strong>il</strong> dietro! Io fino a otto anni non avevo mai alzato le mani su nessuno, poi in<br />
Germania ho dovuto farlo perché ero emigrante. Per questo sono andato in palestra per difesa<br />
personale, poi ci ho preso gusto, prendevo qualche soldino e andavo a ballare e così ho continuato<br />
per un pò. (Artemio)<br />
Io l’unica volta, per dire, che ho fatto le botte dopo aver fatto <strong>il</strong> pug<strong>il</strong>e è stato con i m<strong>il</strong>itari, a<br />
Torino, ma solo quella volta là. Ora non mi ricordo che se vi devo dire i nomi non me li ricordo,<br />
anche con colleghi. Eravamo però alla Marina e c’era un sic<strong>il</strong>iano che leggeva <strong>il</strong> giornale e gli dico:<br />
“Fammi vedere l’ultima pagina che voglio vedere cosa ha fatto Carati!”. Io ero l’unico pug<strong>il</strong>e perché<br />
gli altri facevano canottaggio. Mi fa: “Che vuoi? Non mi fai mica paura”. E io: “Allora vuoi fare a<br />
botte?”. Così siamo andati giù e abbiamo fatto a botte. (Dante)<br />
Artemio, per esempio, ricorda come nel primo Dopoguerra, a Bologna, spesso gli è capitato di sentire<br />
alcuni uomini chiamare sua madre, sic<strong>il</strong>iana, una “marocchina”. Una volta l’ex pug<strong>il</strong>e ci ha confessato<br />
che si sentì obbligato a venire alle mani con un bolognese che scherzava sulla sua origine meridionale.<br />
Alla base dell’unica reazione violenta che ha avuto nella sua giovane vita fuori dal ring Samir, come<br />
abbiamo visto in precedenza, vi è stata proprio l’accusa rivolta al pug<strong>il</strong>e di essere un “marocchino di<br />
merda”.<br />
Io nel ‘39 a sei anni abitavo in via Ferrarese. Qui invece in questa fotografia ci sono i miei amici che<br />
ci chiamavamo “la banda del Chiodo”, chissà perché. Ma tutti i miei amici sono morti, che poi<br />
avevamo brutti vizi, che a me mi ha salvato <strong>il</strong> pug<strong>il</strong>ato. Poi queste sono le foto della Germania. Qui<br />
c’era mia madre che era “marocchina” nel senso che era di Marsala e qui si dice così. (Artemio)<br />
La “doppia assenza” (Sayad 2003) di cui parla Artemio qui in basso, ovvero essere accusato di essere<br />
“badogliano” durante l’emigrazione in Germania e poi, una volta tornato a Bologna e finita la Guerra di<br />
essere “tedesco”, ricorda quella di pug<strong>il</strong>i come Anuar considerati dai propri genitori troppo poco<br />
“religiosi” e legati al contesto di partenza, dentro l’ambiente domestico, e “marocchini”, “altri” rispetto<br />
ai propri compagni nel mondo della scuola e del lavoro dove spesso sono vittime di politiche<br />
segregazioniste e discriminatorie. La boxe, per Artemio ha rappresentato ieri, come oggi rappresenta<br />
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per Anuar, uno strumento di difesa e, allo stesso tempo, un mezzo necessario per costruirsi una<br />
identità, quella di pug<strong>il</strong>e, che entrambi possono rivendicarsi con orgoglio anche fuori dalla Tranvieri.<br />
Io ero welter pesante e in questa occasione che vedete in foto ero uno dei favoriti. Però sono<br />
sempre stato sfigato che ho fatto tre combattimenti in ventiquattro ore per vincere i campionati<br />
regionali. Io ero troppo tecnico, che non facevo per nulla male, toccavo poco e poi mi mettevo alle<br />
corde e stuzzicavo tutti che si incazzavano. Io a otto anni sono andato in Germania, nel ‘41, mio<br />
fratello stava là e lo prendevano tutti in giro e ci dicevano “italiano maiale!”. Mio fratello era un po’<br />
pacioccone e un tedesco così ci dice “maiale” e io reagisco. Poi arrivano quattro tedeschi a<br />
vendicarsi e io di risse ne ho fatte m<strong>il</strong>le. Prima ci dicevano “Italiani Badoglio!”, poi tornato in Italia<br />
ci prendevano in giro gli italiani che ci dicevano “tedeschi”, insomma sempre a botte. Erano<br />
ragazzini che mi prendevano in giro in Italia. Così io l’ho fatto sempre per difesa personale e alla<br />
fine ho fatto cinquanta incontri, come d<strong>il</strong>ettante, fino alla rottura dei menischi. (Artemio)<br />
Quando per esempio abbiamo chiesto a Dante come a Samir quale fosse <strong>il</strong> loro pubblico ideale, durante<br />
le manifestazioni a cui avevano preso parte, la risposta è stata “quello di Piazza dell’Unità”, <strong>il</strong> pubblico<br />
della Bolognina. Questo a dimostrazione di un legame con <strong>il</strong> territorio e di un desiderio di mostrare <strong>il</strong><br />
proprio valore alle persone più care comuni alle diverse generazioni di boxeurs che hanno combattuto<br />
per la Tranvieri. Anuar, Kahled, tutti i pug<strong>il</strong>i attuali della Bolognina aspettano con ansia ogni anno<br />
l’incontro a Piazza dell’Unità.<br />
Io credo di essere stato un buon d<strong>il</strong>ettante e poi sono passato al professionismo. Così ho fatto <strong>il</strong><br />
pug<strong>il</strong>ato dal ‘60, poi ho fatto pug<strong>il</strong>ato in Marina e poi nel ‘68, dopo le Olimpiadi di Città del Messico<br />
sono passato professionista e ho smesso nel ‘73, che allora si diventava professionisti, si passava,<br />
dopo le Olimpiadi, si andava ad anni di Olimpiadi […]. Poi io non mi tiravo indietro perché c’era<br />
sempre <strong>il</strong> mio pubblico, <strong>il</strong> pubblico della Bolognina. (Dante)<br />
A differenza di Dante e Albano, altri ex pug<strong>il</strong>i della Tranvieri non sono riusciti a diventare<br />
professionisti e fare “carriera” come boxeurs. Ernesto, per esempio, che non ha mai combattuto sul<br />
ring in gare importanti, ha continuato a venire in palestra tutti i giorni. Durante l’età dell’oro del<br />
pug<strong>il</strong>ato bolognese erano molti gli iscritti alla Tranvieri che credevano, o quantomeno speravano, di<br />
poter riuscire a diventare dei campioni. Comunque, arrivati a un certo livello, come ricorda Albano, la<br />
possib<strong>il</strong>ità di guadagnare qualcosa era reale.<br />
Io quando prima facevo guanti con professionisti scappavo che le prendevi di brutto, mica andava<br />
così. Prima c’era <strong>il</strong> mito della forza. Ora ci sono pug<strong>il</strong>i donne come Monia alla Tranvieri che ha due<br />
lauree, che fa sia la boxe che la kickboxing, e ha un fidanzato che insegna kickboxing. Non a caso ci<br />
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sono i campionati universitari di pug<strong>il</strong>ato. Una volta c’era l’ignoranza, solo <strong>il</strong> babbo e la mamma che<br />
venivano e si assicuravano che tutto andava bene. Poi ai miei tempi lo facevi anche con <strong>il</strong> miraggio<br />
dei soldi, anche se io non l’ho mai fatto per quello. Io l’ho sempre fatto in un altro modo, però una<br />
volta di pug<strong>il</strong>ato si poteva anche vivere. Anche un pug<strong>il</strong>e non un fenomeno poteva guadagnare dei<br />
ben soldini. Io dovevo passare professionista per esempio e dovevo firmare con <strong>il</strong> supermercato<br />
mob<strong>il</strong>i, insomma potevo firmare per due anni per un m<strong>il</strong>ione e ottocento e potevo prendere per<br />
incontro 250 m<strong>il</strong>a lire a incontro con sei incontri garantiti all’anno, che io prendevo 35 m<strong>il</strong>a lire, 40<br />
m<strong>il</strong>a lire al mese. Poi non sono passato professionista per un problema alla retina. (Albano)<br />
Eppure, la maggior parte dei vecchi boxeurs della Bolognina non arrivò mai a lasciare <strong>il</strong> lavoro, magari<br />
quello in fabbrica come Artemio, o quello da postino come Ernesto, per tentare la carriera. Dante,<br />
come Albano, pensavano comunque al campione Nino Benvenuti come un caso eccezionale di pug<strong>il</strong>e<br />
che “ce l’aveva fatta”; Dante stesso, forse tra i più bravi pug<strong>il</strong>i della sua generazione, non prese mai sul<br />
serio l’idea di guadagnarsi da vivere con la boxe. In questo senso i dubbi sul passare da d<strong>il</strong>ettante<br />
professionista di atleti come Yassine e Jameel, dubbi giustificati dal fatto che solo un campione<br />
internazionale o uno che combatte per la squadra nazionale guadagna qualcosa con questo sport, sono<br />
gli stessi di molti pug<strong>il</strong>i della prima e della seconda generazione della palestra.<br />
Certo Benevenuti era famosissimo Io ho conosciuto pug<strong>il</strong>i come Benvenuti che guadagnarono<br />
molto. Ne ho conosciuti molti di pug<strong>il</strong>i, perché c’era sempre un cameratismo. Del resto c’erano gli<br />
operai, certo, che vivevano un mix di pug<strong>il</strong>ato e non, ma poi c’era chi aveva fatto una scelta di vita e<br />
quelli divenivano professionisti. (Albano)<br />
Come allora, anche per gli attuali iscritti alla Tranvieri la boxe, dal punto di vista economico, è ut<strong>il</strong>e solo<br />
per fare qualche “soldino”, per sopravvivere conservando comunque un lavoro, magari part-time, come<br />
i buttafuori Yassine e Mircea, <strong>il</strong> postino Anuar, l’elettricista pug<strong>il</strong>e Saro.<br />
Quando sono andato a casa <strong>il</strong> mio allenatore mi ha detto: “Tu sei prima serie e ora passi<br />
professionista!”. Così mi ha detto: “Cosa vuoi fare?”. E io: “E’ saltato <strong>il</strong> menisco, mi sposo e basta!”.<br />
Io non volevo fare <strong>il</strong> professionista, che anche la fonderia era dura. Poi tra i professionisti c’era<br />
gente anche più tecnica di me e che aveva delle noci e io no. Un incontro me lo pagavano trem<strong>il</strong>a<br />
lire e m<strong>il</strong>le e cento lire si pagava per fare un giorno in pensione. La boxe quindi non mi permetteva<br />
di vivere e <strong>il</strong> mio destino era la fonderia. Io avevo paura a passare al professionismo, che poi in<br />
fonderia mi è scoppiato anche l’altro menisco. Io <strong>il</strong> lavoro l’avevo, ero operaio qualificato, a diciotto<br />
anni avevo vinto <strong>il</strong> campionato regionale, a ventisei anni era specializzato in fonderia. Io sono<br />
andato via a 49 anni dal lavoro, dopo 35 anni. (Artemio)<br />
67
Nonostante tutte queste somiglianze, nelle pratiche di vita quotidiane, nel rapporto con <strong>il</strong> territorio,<br />
nell’investimento in termini di carriera sulla boxe, nel diffic<strong>il</strong>e rapporto con la scuola e la famiglia, nel<br />
modo di comportarsi e relazionarsi fuori dalla palestra quando si diventa pug<strong>il</strong>i, i vecchi boxeurs della<br />
Tranvieri non riconoscono più oggi <strong>il</strong> territorio che abitano come la “loro” Bolognina e fanno fatica a<br />
riconoscersi nella nuova leva di pug<strong>il</strong>i che si allenano in palestra.<br />
Io per dire ho anche nostalgia di come si viveva allora, che mi ricordo che a mezzanotte si andava<br />
tutti a prendere <strong>il</strong> giornale in stazione che usciva, adesso le cose sono cambiate. Allora, per esempio,<br />
non ho mai avuto paura che qualcuno potesse prendermi <strong>il</strong> portafoglio, adesso via Barbieri - una<br />
delle strade della Bolognina più abitata da immigrati, per lo più nordafricani (n.d.a.) - non si<br />
riconosce più, è cambiata completamente. (Dante)<br />
Proprio partendo da quest’ultima riflessione, conducendo <strong>il</strong> lavoro di ricerca P.R.I.N. abbiamo pensato<br />
di far dialogare alcuni dati emersi dallo studio sui senza fissa dimora con quelli che sono venuti fuori<br />
realizzando l’inchiesta sociale. Ancora una volta, in effetti, ex operai come Artemio e Dante non si<br />
riconoscono nelle pratiche di vita quotidiane dei giovani boxeurs che oggi si allenano in palestra e<br />
producono una visione nostalgica del loro territorio. Portiamo ora nelle conclusioni <strong>il</strong> frutto di questo<br />
dialogo tra studi e ricerche che ho condotto in questi ultimi anni.<br />
Conclusioni<br />
Molti ragazzi di origine straniera che vivono alla Bolognina che oggi si iscrivono alla palestra di pug<strong>il</strong>ato<br />
vogliono sfuggire al mondo della strada, ma soprattutto ai lavori che loro vengono offerti sul territorio;<br />
come detto, negli ultimi anni l’Amministrazione comunale ha deciso di ricostruire dalle ceneri delle<br />
fabbriche metalmeccaniche centri e attività commerciali, oltre a una rete di servizi legati al terzo settore,<br />
anche alla luce del processo di gentrificazione in atto. Tutti lavori tipici del settore manifatturiero<br />
degradato e della nuova economia dei servizi, dove, come si lamenta spesso Yassine, bisogna<br />
quotidianamente tollerare atti razzisti dal “padrone”, mettere in contro l’um<strong>il</strong>iazione culturale e la<br />
perdita dell’“onore masch<strong>il</strong>e”, come ci ha detto più volte nello spogliatoio Kalhed, se si vuole tenersi<br />
stretto <strong>il</strong> posto; tutte occupazioni che non garantiscono né sicurezza economica né possib<strong>il</strong>ità di ascesa.<br />
La palestra, per alcuni pug<strong>il</strong>i come Yassine, spesso appare l’unica speranza e acquisisce senso proprio<br />
nel momento in cui, come abbiamo visto, questi ragazzi incontrano difficoltà nel mondo lavorativo. La<br />
speranza, spesso senza alcun fondamento, di fare carriera attraverso <strong>il</strong> pas<strong>saggio</strong> al professionismo è<br />
diventata sempre più reale per Yassine, per esempio, ogni volta che <strong>il</strong> giovane di origine tunisina ha<br />
preso coscienza che i lavori che stava facendo altro non gli avrebbero portato che um<strong>il</strong>iazioni e senso<br />
della sconfitta. Spesso, proprio in questi momenti di crisi, che hanno conosciuto, oltre a Yassine, anche<br />
pug<strong>il</strong>i come Kalhed e Anuar, ritorna in gioco l’opposizione “rischio”-“lavoro” a cui fa riferimento <strong>il</strong><br />
68
sociologo Colombo nella sua monografia (Colombo 1989). Se lavorare significa a malapena riuscire a<br />
sopravvivere pagando lo scotto di un’um<strong>il</strong>iazione dietro l’altra, rischiare vuol dire almeno nutrire la<br />
speranza di vivere e di riconquistare <strong>il</strong> rispetto necessario per sentirsi bene con se stessi (Colombo<br />
1989). Inoltre, come abbiamo visto, la palestra rappresenta comunque un luogo dove costruire capitale<br />
sociale e fare amicizie poi rispendib<strong>il</strong>i nel territorio in termini di relazioni, mentre, e sempre più, Saro e<br />
Yassine ci hanno detto come, nonostante lavorino da tanti anni, non sono mai riusciti a fare amicizia<br />
con nessun loro collega.<br />
Nel suo lavoro di ricerca condotto ad Harlem in cui Ph<strong>il</strong>ippe Bourgois ha studiato gli immaginari e le<br />
pratiche di vita di un gruppo di uomini e donne di origini portoricane, lo studioso concentrando la sua<br />
attenzione sui lavori che i protagonisti della sua etnografia svolgevano a New York ha denunciato un<br />
mercato lavorativo, appunto, sempre più segmentato, che tiene gli immigrati, ma anche parte della forza<br />
lavoro autoctona, nei suoi settori più periferici e marginali (Bourgois 2003). Come i ragazzi sotto<br />
osservazione da Bourgois, i giovani iscritti di origine straniera alla società della Bolognina pagano,<br />
rispetto per esempio agli studenti che hanno iniziato sul finire degli anni Ottanta ad abitare in questo<br />
territorio anche per via di affitti più bassi, le loro minori credenziali, una minore conoscenza dei vincoli<br />
burocratici, l’incapsulamento all’interno della cerchia migratoria, la scarsa conoscenza della lingua<br />
(Bourgois 2003). Tale maggiore segmentazione del mercato del lavoro, fra l’altro, come sottolinea <strong>il</strong><br />
sociologo Colombo nel suo studio sulle pratiche di vita di un gruppo di immigrati algerini a M<strong>il</strong>ano,<br />
riflette una società, quella di approdo, che pubblicizza sempre più nei consumi e non nel lavoro <strong>il</strong> luogo<br />
della propria realizzazione (Colombo 1989).<br />
Questo sistema culturale, che mischia in un’opera di bricolage elementi della cultura di strada a<br />
elementi dell’ideologia consumistica, agisce come una mappa per l’orientamento dell’azione e come<br />
un f<strong>il</strong>tro tra l’azione individuale e i vincoli del contesto sociale, economico e storico. (Colombo<br />
1989)<br />
Negli ultimi anni, con la chiusura delle fabbriche metalmeccaniche e la nascita di attività impiegatizie<br />
legate al terzo settore registrab<strong>il</strong>e in tutto <strong>il</strong> territorio della Bolognina a cambiare sono state anche le<br />
relazione all’interno del mondo lavorativo; se, per esempio, come ricordano operai come Artemio e i<br />
suoi colleghi che abbiamo intervistato durante una inchiesta realizzata dal gennaio 2006 al gennaio 2007<br />
ricostruendo le carriere lavorative degli operai della fabbrica Casaralta chiusa alla fine degli anni Ottanta<br />
(Piano b 2008), <strong>il</strong> rifiuto della subordinazione assicurava a persone come Carati <strong>il</strong> rispetto dei suoi<br />
colleghi e veniva letto all’interno di un mondo lavorativo sempre più sindacalizzato come la fiera<br />
coscienza di appartenere alla classe operaia che dava luogo a forme di azione collettiva definite da un<br />
progetto e dall’identificazione di una posta in gioco<br />
69
nel lavoro cosiddetto post-fordista queste due componenti del lavoro dipendente si sganciano,<br />
dando come esito residuale non <strong>il</strong> movimento sociale o l’azione collettiva, ma derive anomiche.<br />
(Colombo 1989)<br />
Inoltre, per quanto la palestra, come abbiamo visto, costituisce anche un rete di contatti necessari a<br />
molti ragazzi per trovare un lavoro nel territorio - Ernesto ha trovato un posto alle poste ad Anuar e fa<br />
lavorare Fad<strong>il</strong> per la stessa cooperativa per la quale ha prestato servizio per tanti anni - la difficoltà che<br />
incontrano pug<strong>il</strong>i come Kalhed deriva spesso dal fatto che sempre più, nel quartiere Nav<strong>il</strong>e e in tutta la<br />
città di Bologna, le competenze sociali e relazionali diventano una risorsa centrale dell’economia postfordista,<br />
come emerge anche dai lavori di Bourgois e Colombo. Quest’ultimo, per esempio, nello<br />
studiare i percorsi lavorativi di un gruppo di immigrati algerini confronta l’attuale realtà lavorativa<br />
m<strong>il</strong>anese a quella industriale francese durata fino alla fine degli anni Settanta riportando, nel suo testo, le<br />
riflessioni sul mondo operaio di studiosi come Dubet e Lapeyronnie:<br />
In una società organizzata attorno all’industria, lentamente gli immigrati trovano la loro collocazione<br />
all’interno del mondo operaio. Progressivamente essi si inscrivono nelle lotte sindacali, si<br />
appropriano e condividono la coscienza di classe dei propri compagni di lavoro e abbandonano lo<br />
statuto di immigrati. La loro integrazione avviene attraverso l’integrazione nella Francia popolare e a<br />
volte nella contrapposizione con la destra. Il mondo operaio e le periferie rosse furono un<br />
formidab<strong>il</strong>e strumento di integrazione degli immigrati esterni, degli immigrati interni e degli stranieri.<br />
Grazie al lavoro operaio, ai sindacati e alla comunità operaia, le periferie rosse poterono assorbire le<br />
nuove popolazioni. Il loro declino è <strong>il</strong> declino di questo strumento di integrazione. Il problema<br />
immigratorio è allo stesso tempo conseguenza e cifra di questa decomposizione. (Colombo 1989)<br />
“The Game” (1904) è un romanzo breve, che apparve a a puntate sul «Metropolitan Magazine» fra<br />
l’apr<strong>il</strong>e e <strong>il</strong> maggio del 1905: narra la storia di Joe Flamig e del suo amore per Geneviève, la quale dovrà<br />
assistere, affranta, alla sua morte infelice, causata sia dalla battaglia che <strong>il</strong> pug<strong>il</strong>e combatte contro <strong>il</strong> suo<br />
avversario sul ring, ma, più in generale, da una società che non ha ma permesso a Flaming di vivere da<br />
“uomo” (London 1994). I due protagonisti del racconto di Jack London sono “aristocratici della classe<br />
lavoratrice”, conservatosi sani e inviolati in un ambiente dominato dalla grettezza e dallo squallore.<br />
Geneviève ama <strong>il</strong> suo uomo, <strong>il</strong> suo corpo sano, la persona forte e protettiva che mai cade in difficoltà.<br />
“Duro dappertutto, proprio come qui”, proseguì. “Ora, è questo quello che intendo con pulito.<br />
Ogni pezzetto di carne e sangue e muscolo è pulito fino all’osso - e anche le ossa sono pulite. Non<br />
acqua e sapone solo sulla pelle, ma pulito fino in fondo. Te lo dico io che ci si sente puliti. Lo sanno<br />
70
anche loro di essere puliti. Quando mi sveglio la mattina e vado a lavorare, ogni goccia di sangue e<br />
ogni pezzetto di carne è lì che grida a squarciagola di essere pulito. Ah, te lo dico io”. (London 1994)<br />
La storia di London assomiglia molto alle leggende che circolano, dentro e fuori la palestra, su Carati, <strong>il</strong><br />
“pug<strong>il</strong>e operaio”, <strong>il</strong> cui corpo perfetto è stato lo strumento che <strong>il</strong> boxeur ha ut<strong>il</strong>izzato per tutta la vita<br />
per farsi rispettare a lavoro e dagli avversarti sul ring. Se, però, concentriamo l’attenzione su come è<br />
cambiata in termini di pratiche e di percezione <strong>il</strong> termine underclass dagli anni in cui combatteva <strong>il</strong><br />
campione della Tranvieri a oggi, per esempio confrontando la storia del “pug<strong>il</strong>e operaio” con quella<br />
dell’”operaio” Saro, oggi capitano della società pug<strong>il</strong>istica della Bolognina, possiamo analizzare come è<br />
cambiato questo territorio e comprendere meglio come si sono formati gli immaginari, le<br />
rappresentazioni di molti atleti che, durante <strong>il</strong> periodo della nostra ricerca, si sono allenati<br />
quotidianamente in palestra.<br />
Un concetto - quello di underclass - la cui apparente neutralità scientifica condensa in realtà<br />
un’attitudine politica di stigmatizzazione della marginalità sociale che ruota attorno alla distinzione<br />
tra poveri “meritevoli” e “immeritevoli”. (Wacquant 2000)<br />
Wacquant, per esempio, nella sua monografia “Anima e corpo” (Wacquant 2002) sottolinea più volte<br />
come, negli ultimi anni, ponendo lo sguardo su alcune realtà metropolitane degli Stati Uniti, Chicago in<br />
particolare come abbiamo visto, l’esclusione dall’American way of life delle classi marginali viene imputata<br />
a presunti deficit culturali, attitudinali e persino intellettivi che consegnerebbero irrimediab<strong>il</strong>mente le<br />
minoranze povere residenti nell’inner city a un destino di microcriminalità, violenza e dipendenza<br />
dallo stato sociale. (Wacquant 2002)<br />
Bourgois, <strong>il</strong> quale, come abbiamo detto, ha rivolto <strong>il</strong> suo sguardo di ricerca a un gruppo di abitanti di<br />
Harlem di origini portoricane, sempre attraverso un approccio materialista e critico ritiene che i<br />
processi di disagio sociale, emarginazione, esclusione sociale registrab<strong>il</strong>i che caratterizzano sempre più<br />
oggi i ghetti americani possano essere compresi solo a “partire dall’oppressione materiale e culturale che<br />
ha connotato la storia delle minoranze negli Stati Uniti” (Bourgois 2003). La Bolognina, però, non è un<br />
ghetto né una banlieue, come detto. Eppure, <strong>il</strong> territorio dover abitano la maggior parte di pug<strong>il</strong>i della<br />
Tranvieri dagli anni Cinquanta ad oggi è caratterizzato dalla crescita dell’industria basata sull’information<br />
technology, la frammentazione del lavoro salariato, la trasformazione del welfare pubblico a tutti i livelli,<br />
municipali, di quartiere, di area urbana. Tutti processi, ricorda Fava nel suo <strong>saggio</strong> (Fava 2008a) che si<br />
sono abbattuti sui ghetti afroamericani e sulla banlieue operaia francese “aggravando notevolmente la<br />
condizione dei residenti”. (Fava 2008a)<br />
71
Il ghetto diventa l’iperghetto, dove la segregazione etnica diviene anche di classe, la solidarietà<br />
interna si frantuma, con la perdita conseguente de senso del luogo e della sicurezza fisica, divenendo<br />
un’area socialmente monotona irrimediab<strong>il</strong>mente disgiunta dagli ingranaggi dell’economia nazionale<br />
e pressoché abbandonata dal welfare pubblico. La banlieue operaia, invece, pur deproletarizzandosi per<br />
le chiusure delle industrie e la precarizzazione del lavoro salariato, si etnicizza attraverso la<br />
concentrazione d’appartenenze nazionali diverse, che ne fanno un universo sociale eterogeneo, la cui<br />
marginalità è attenuata grazie solo a uno Stato che non ha ancora dismesso i suoi interventi. (Fava<br />
2008a)<br />
La Bolognina, oltre a non essere mai stata caratterizzata da una presenza etnorazziale, non è mai<br />
divenuta un quartiere operaio nelle dimensioni della cintura rossa parigina - le fabbriche metal<br />
meccaniche presenti nel territorio non contavano un numero altissimo di operai per quanto<br />
distribuissero i loro prodotti ben al di là del territorio locale. Per quanto, inoltre, con l’arrivo dei primi<br />
flussi consistenti di immigrati si siano create già a cominciare dalla fine degli anni Ottanta nel territorio<br />
aree abbandonate - i capannoni dismessi delle fabbriche sono stati a lungo abitati da immigrati<br />
provenienti per lo più dal Nord Africa come abbiamo avuto modo di scrivere - la Bolognina non è<br />
certo un territorio abbandonato - all’opposto alcune sue aree, oggi, sono oggetto di un radicale<br />
processo di gentrificazione (Piano b 2008). Eppure in questo territorio possiamo leggere, negli ultimi<br />
anni, processi sim<strong>il</strong>i a quelli riscontrab<strong>il</strong>i nelle realtà oggetto di analisi di Wacquant e Bourgois, ovvero<br />
una marginalità avanzata prodotta dalla “ristrutturazione globale del capitalismo” (Fava 2008a) e dalla<br />
trasformazione del settore industriale.<br />
Leggere attraverso lo studio di queste trasformazioni che si sono abbattute su questo territorio negli<br />
ultimi anni le pratiche dei protagonisti della nostra ricercaP.R.I.N. non è possib<strong>il</strong>e, perché sarebbe<br />
troppo riduttivo. In questa direzione, infatti, Bourgois tende a precisare come <strong>il</strong> suo lavoro ha avuto da<br />
subito come obiettivo quello, all’opposto, di “ricostruire i processi di significazione soggettiva<br />
dell’oppressione” (Bourgois 2003), partendo dal punto di vista di coloro che la sperimentano.<br />
Da un punto di vista materiale, infatti, rimanendo al territorio che abbiamo scelto di studiare, è<br />
legittimo parlare di “violenza strutturale”, come abbiamo detto (Farmer 2003): con la chiusura delle<br />
fabbriche <strong>il</strong> mercato del lavoro locale sta sempre più emarginando i giovani immigrati che, in alcune<br />
aree del territorio, raggiungono <strong>il</strong> 25% della popolazione complessiva residente, relegando persone<br />
come Fad<strong>il</strong> ai margini dell’economia dei servizi; dai racconti di Saro e Yassine negli spogliatoi, per<br />
esempio, emerge sempre più l’esistenza di nicchie del terziario dequalificato dove questi ragazzi trovano<br />
lavoro ma sono trattati come “servi” - come dice Wajdi. Kalhed, Samir, Anuar ci hanno parlato in più<br />
di un’occasione degli istituti professionali della Bolognina dove studiano e della nascita di vere e proprie<br />
classi differenziate per immigrati nel territorio. Sempre dalle parole di Martin e Erzan emerge <strong>il</strong> legame<br />
72
sempre più stretto tra questi istituti e <strong>il</strong> carcere minor<strong>il</strong>e di Bologna, ubicato nel centro cittadino -<br />
dentro questo carcere passano ragazzi di origine straniera che studiano alle Fioravanti e frequentano la<br />
Bolognina, <strong>il</strong> cui numero sta diventando sempre più significativo. Infine, le nuove leggi italiane del 2008<br />
in tema di sicurezza (Wacquant 2000) sconsigliano sempre più i genitori di ragazzi come Anuar e Fad<strong>il</strong>,<br />
e gli stessi pug<strong>il</strong>i che si allenano alla Tranvieri maggiorenni ma con un lavoro non in regola, di recarsi<br />
alle strutture ospedaliere comunali, nel caso avessero necessità di cure, poiché qui potrebbero venire<br />
denunciati dal personale ospedaliero, dai medici stessi curanti.<br />
Ma, e questo è un altro punto di contatto con <strong>il</strong> lavoro di Bourgois, quello che denunciano Yassine,<br />
Saro, Fad<strong>il</strong>, kalhed è un altro tipo di potere, un’alrta violenza, “simbolica” 39 in questo caso: come<br />
scaricatori di frutta nei mercati locali, fattorini, postini, aiuto elettricisti, come abbiamo avuto modo di<br />
vedere, alcuni ragazzi della Tranvieri riescono anche a sopravvivere. Quello che maggiormente<br />
lamentano, però, spesso anche alla fine di un duro allenamento in palestra e con sulle spalle la fatica di<br />
una mattinata lavorativa, è <strong>il</strong> modo in cui vengono trattati da datori di lavoro e colleghi.<br />
Nei grattacieli di Manhattan o Wall Street, i giovani neo-impiegati dell’inner city si rendono<br />
improvvisamente conto del fatto di sembrare dei buffoni idioti agli uomini e alle donne per cui<br />
lavorano […]. Inabissandosi nell’economia sotterranea e aderendo orgogliosamente alla cultura della<br />
strada, vanno in cerca di un’alternativa alla marginalizzazione sociale cui sono destinati. (Bourgois<br />
2003)<br />
Da una parte, allora, molti ragazzi nelle stesse condizioni di Yassine e Kalhed rinunciano a cercare<br />
lavoro, e, come ci ha dimostrato Colombo nella suo studio, trovano in attività <strong>il</strong>legali una fonte di<br />
reddito e una pratica che li fa sentire rispettati; dall’altra Fad<strong>il</strong>, Erzan, Anuar per evitare di trovarsi<br />
dentro queste reti microcriminali entrano in palestra nella speranza di intraprendere una carriera<br />
pug<strong>il</strong>istica che li spinga lontani da questi mondi che provocano solo um<strong>il</strong>iazione quotidiana.<br />
I residente dell’inner city sono molto più che semplici vittime delle trasformazioni economiche o della<br />
discriminazione istituzionalizzata da parte di n sistema politico ed economico perverso. Essi non<br />
accettano passivamente <strong>il</strong> loro destino di cittadini di quarta classe. Combattono con determinazione<br />
[…] per guadagnare denaro, ottenere rispetto e condurre vite che abbiano qualche senso. (Bourgois<br />
2003)<br />
39 La violenza simbolica si istituisce tramite l’adesione che <strong>il</strong> dominato non può non accordare al dominate - quindi al<br />
dominio - quando, per pensarlo e per pensarsi o, meglio, per pensare <strong>il</strong> suo rapporto con <strong>il</strong> dominate, dispone soltanto di<br />
strumenti di conoscenza che ha in comune con lui e che, essendo semplicemente la forma incorporata del rapporto di<br />
dominio, fanno apparire questo rapporto come naturale. (Bourdieu 1998)<br />
73
Se assumiamo come imperativo della ricerca etnografica quello, come ci suggerisce Bourgois, di “di<br />
ricostruire <strong>il</strong> significato che determinate pratiche sociali rivestono dal punto di vista di coloro che vi<br />
sono coinvolti” (Bourgois 2003) è evidente come ogni ragazzo della Tranvieri reagisce in modo diverso<br />
a queste trasformazioni oggettive che sempre di più, anche alla Bolognina, stanno comportando <strong>il</strong><br />
restringersi del ventaglio di possib<strong>il</strong>ità che i protagonisti della nostra ricerca hanno davanti loro. La<br />
stessa palestra è vissuta da alcuni, come abbiamo detto, solo come rifugio, da altri come luogo dove<br />
riscattarsi, da atri ancora come teatro dove “vendicarsi”, come ci ha detto lo stesso Kalhed. Il pug<strong>il</strong>ato,<br />
inoltre, offre a questi ragazzi un linguaggio non troppo distante da quello della street culture che sempre<br />
più caratterizza i comportamenti dei loro amici che frequentano nel territorio. Tito insegna qualità<br />
come <strong>il</strong> coraggio, la resistenza, la vir<strong>il</strong>ità, <strong>il</strong> senso del gruppo, virtù che Kalhed, per esempio, vive anche<br />
come una riappropriazione simbolica di quelle qualità “culturali” che hanno caratterizzato la sua vita in<br />
Marocco. Tito e Sante, infatti, spesso non fanno altro che disciplinare e rendere funzionale all’impresa<br />
sportiva capacità di difesa e di coraggio che gli iscritti in palestra hanno acquisito in strada.<br />
Se Artemio e Carati, giovani, trovavano nella fabbrica un’opportunità e economica ed insieme la<br />
possib<strong>il</strong>ità di conquistare rispetto e dignità attraverso la pratica lavorativa, Yassine e Saro sono<br />
consapevoli che se vogliono sopravvivere dal punto di vista economico dovranno subire ogni giorno le<br />
ingiustizie di cui sono responsab<strong>il</strong>i i loro colleghi e i loro datori di lavoro. La boxe, allora, torna in<br />
considerazione, anche quando, come nel caso di Yassine, non si è più giovanissimi per sperare in una<br />
carriera folgorante, perché potrebbe permettere un grande guadagno senza pagare nessuna um<strong>il</strong>iazione.<br />
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