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Retina e visione 1 - Anisn

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<strong>Retina</strong> e <strong>visione</strong>: elogiodell’imperfezioneL’immagine imperfetta e l’informazione biologicamenterilevante(prima parte)MARCO PICCOLINO E ANDREA MORIONDOE’ l’ “immagine” la metafora attraverso la quale siamoabituati a concepire il funzionamento del sistemavisivo: la prima immagine che incontriamo nell’occhioè quella che si forma sulla retina, per il gioco di undelicato apparato di lenti (cornea, cristallino). La retinaè la sottile membrana che tappezza la cavità interna delglobo oculare ed è formata da vari strati di cellulenervose: nella parte esterna (cioè quella più distante dalcentro dell’occhio) troviamo i fotorecettori (coni ebastoncelli), poi le cellule bipolari e orizzontali, edinfine le cellule amacrine e ganglionari. Le celluleganglionari sono gli elementi di “uscita” della retina, ele fibre nervose che da esse originano formano i nerviottici che portano i messaggi visivi verso i centricerebrali della <strong>visione</strong> (vedi Fig. 1).I fotorecettori assorbono i fotoni (quanti di luce visibile)e generano segnali elettrici che permettono dicodificare l’immagine ottica in immagine neurale.Quest’ultima viene poi trasmessa alle altre cellulenervose della retina (in particolare alle cellule bipolarie ganglionari), e prende quindi la via dei nervi ottici, perarrivare infine alla corteccia visiva, situata nella parteposteriore del cervello, e ad altre aree cerebrali. Sullabase della metafora dell’immagine, a partire dall’Otto-Fig. 1. Immagine schematica dell’occhio, con la visualizzazione dei vari elementi nervosi della retina. Notare come la lucedebba attraversare tutti gli strati nervosi della retina prima di raggiungere i fotorecettori.3


cento, il funzionamento dell’occhio (e più in generaledel sistema visivo) è stato interpretato facendo riferimentoa processi di tipo fotografico, e si è consideratala performance visiva tanto più efficace quanto più altaè la capacità dell’occhio di produrre una immaginefedele e precisa del mondo esterno, e di trasferirla poiai centri cerebrali della <strong>visione</strong>. Nel cervello questaimmagine sarebbe infine “interpretata” dando luogo aiprocessi percettivi che ci permettono di entrare in unrapporto “visivo” col mondo che ci circonda. Alla lucedi questa concezione, la precisione del processo visivodipenderebbe in primo luogo dalla perfezione dell’apparatoottico dell’occhio, e poi dalla capacità dellaretina di generare e trasmettere un’immagine neuralefedele e ad elevata risoluzione, attraverso le sue cellulenervose, considerate come i punti sensibili di unapellicola fotografica a grana estremamente sottile.Fu proprio in rapporto ad una concezione di tipofotografico infatti che a partire dalla fine dell’Ottocentoil grande scienziato spagnolo Santiago Ramón yCajal (Fig. 2) concepì l’organizzazione funzionale dellaretina, sulla base di ricerche morfologiche che sonorimaste a lungo riferimenti fondamentali per la fisiologiavisiva [Cajal 1888 a e b e Cajal 1893]. Cajal pensavache la retina dovesse trasmettere l’informazione visivaattraverso canali nervosi separati, costituiti idealmenteda un solo fotorecettore, una sola cellula bipolare eduna sola cellula ganglionare, collegati in serie direttamentel’uno all’altra, senza alcuna diffusione lateraledel segnale tra cellule vicine sul piano “orizzontale”.Secondo Cajal, infatti, una propagazione laterale delsegnale visivo avrebbe necessariamente comportatoun degradamento della qualità dell’immagine neurale.“Come è possibile -egli diceva infatti- spiegare latrasmissione e la percezione di una sensazione singola,come un punto luminoso, se esistono così tante associazionitra le cellule retiniche?” [Cajal, 1894].Nonostante il fascino e l’apparente semplicità di questomodello interpretativo, emergevano però già nell’Ottocentodati discordanti rispetto ad una concezionefotografica del processo visivo. In primo luogo glistudi di ottica fisiologica mettevano in evidenza laqualità relativamente bassa dell’apparato ottico dell’occhio[Helmholtz, 1867]. Se davvero l’occhio funzionavacome un apparecchio fotografico, sarebbestato di qualità piuttosto scadente dal punto di vistadella qualità dell’immagine fisica che esso formavasulla retina, una conclusione questa che poneva notevolidifficoltà concettuali in un secolo dominato dallafiducia positivistica nella scienza in generale, e dallaconcezione evoluzionistica che andava affermandosiin biologia sull’onda della rivoluzione darwiniana. Dalpunto di vista anatomico poi, la retina non apparivaorganizzata secondo il modulo, propugnato da Cajal,di punti sensibili distinti (i fotorecettori) collegati a viedi trasmissione ben separate (cellule bipolari e ganglio-Fig. 2. Cajal e una delle immagini dai suoi studi di morfologia della retina.4


nari) senza diffusione laterale del segnale visivo. Oltreai fotorecettori e alle cellule bipolari e ganglionari,esistono nella retina, come abbiamo già indicato, altrecellule nervose, come le cellule orizzontali ed amacrine:i processi di queste cellule si stratificano in senso“orizzontale” (ad angolo retto cioè rispetto all’asseprincipale di trasmissione del segnale visivo) e sembranodunque predisposti per permettere una diffusionelaterale del messaggio visivo: una diffusione che, comeabbiamo già notato, avrebbe inevitabilmente comportato,secondo Cajal, una degradazione della qualitàdell’immagine neurale trasmessa dalle vie nervosedella retina verso il cervello. In molti casi inoltre lecellule bipolari ricevono il segnale visivo da numerosifotorecettori, e, a loro volta, le cellule ganglionaripossono ricevere l’input da numerose bipolari, secondoun meccanismo indicato come “convergenza”.Questa disposizione, assieme a quella, in qualchemodo reciproca, indicata come “divergenza” (un fotorecettoreconnesso a molte bipolari, e una bipolare amolte ganglionari), sarebbe stata anch’essa potenzialmentein grado di impoverire la qualità dell’immaginevisiva.Nell’occhio, dunque, un’immagine ottica imperfettasarebbe stata poi ulteriormente degradata da un apparatoneurale caratterizzato da diffusioni laterali delsegnale e da meccanismi di convergenza e divergenza,secondo processi che sembravano incompatibili con iprincipi di funzionamento di un sistema di tipo fotograficodi efficienti prestazioni.Ma c’era di più. Nel corso dell’Ottocento emergevanoindicazioni che suggerivano l’esistenza di interazionilaterali tra i canali percettivi della <strong>visione</strong>. In particolareappariva chiaro che la percezione suscitata in noi dallaluce proveniente da una certa zona dello spazio visivodipendeva in modo importante dalla luce provenientedalle zone circostanti [Chevreul, 1839]. Fu il grandefisico e filosofo austriaco Ernst Mach a dimostrare inmodo particolarmente evidente questo aspetto dellapercezione visiva. Studiando le sensazioni visive indotteda patterns spaziali nei quali la luminosità digradavain modo uniforme dal chiaro allo scuro, Machmise in evidenza, nell’immagine percettiva indotta daquesti stimoli, la presenza di sottili strisce luminosechiare o scure (indicate poi come “bande di Mach”) chenon avevano alcun corrispettivo fisico nello stimolo(vedi Fig. 3) [Mach, 1865; su Mach vedi Ratliff, 1965].Mach interpretò questo fenomeno come conseguenzadi processi di interazione laterale di tipo antagonista tragli elementi nervosi della retina. L’intuizione di Machsarà, come vedremo, largamente confermata daglistudi di neurofisiologia visiva condotti a partire dallaseconda metà del Novecento.Le bande di Mach non si producono solo in circostanzeartificiali di laboratorio, ma, al contrario, si incontranofacilmente nel nostro mondo visivo quotidiano, edappaiono, in particolare, al confine tra zone d’ombra ezone illuminate. Di solito però ne riconosce la presenzasolo chi si interessa alla fisiologia visiva. ParafrasandoGalileo si potrebbe dire che, anche nel caso dellabande di Mach, per leggere il libro dell’Universobisogna conoscerne i caratteri.Dai tempi più antichi gli artisti si erano resi contodell’influenza che l’illuminazione di una zona delloFig. 3. Le bande di Mach. Nella parte centrale della figura vi è una transizione uniforme di luminosità a partire dalla partesinistra scura, verso la parte destra più chiara. In una zona a sinistra appare una banda particolarmente scura, mentre a destraè evidente una banda particolarmente chiara. Come si discute nel testo, queste bande non hanno un corrispettivo fisicoimmediato, ma risultano da processi di interazione laterale antagonista tra i canali percettivi della <strong>visione</strong>.5


spazio visivo esercita sulla percezione visiva di zonecontigue. Leonardo aveva sottolineato in modo esplicitoi particolari fenomeni percettivi indotti dall’accostamentosulla tela di zone più chiare e zone più scure,e molti pittori avevano fatto ricorso al contrasto, sialuminoso e cromatico, per ottenere certi effetti visivi,ed in particolare per rendere più viva la rappresentazionedella luce (si pensi a Caravaggio, Rembrandt, Georgede La Tour tra gli altri). A partire dall’Ottocento lariflessione sui meccanismi fisiologici della percezionediventa però un aspetto fondamentale della sperimentazioneartistica e pittori come Turner, Monet, Pissarro,Seurat e molti altri conoscono gli studi contemporaneidi psicofisiologia visiva e ne applicano in modoesplicito i principi nella loro sperimentazione pittorica[Werner, 1998]. Fenomeni analoghi a quelli messi inevidenza da Mach, o altri effetti di contrasto, sono peresempio rappresentati in modo esplicito nei dipinti diSeurat, dove spesso accade che una zona illuminata inmodo uniforme venga resa dal pittore più chiara o piùscura, a seconda se è situata in prossimità, rispettivamente,di una zona meno illuminata o di una zona piùilluminata. In questo caso l’arte interpreta la realtà, edin qualche modo la forza, utilizzando però gli stessiprincipi che sono alla base del funzionamento deinostri sistemi sensoriali.L’interazione laterale tra i canali percettivi della <strong>visione</strong>,emersa nell’opera di scienziati ed artisti, avrebbepotuto forse suggerire una spiegazione del possibilesignificato delle vie di comunicazione laterale cheapparivano dagli studi anatomici della retina (perl’estensione “laterale” dei processi delle cellule orizzontalie delle cellule amacrine). Se l’illuminazione diuna zona della retina influenza la percezione visiva inuna zona vicina, è logico attendersi che le due zonesiano collegate da fibre nervose che rendano possibilela comunicazione fisiologica che è alla base di questainfluenza. Ma la persistenza del modello fotograficocome schema di interpretazione funzionale della retina,portò Cajal a cercare spiegazioni diverse, cheescludessero un ruolo specifico delle cellule orizzontalie delle cellule amacrine (le due classi di cellulenervose che, come si è detto, apparivano predisposte afavorire il flusso laterale del segnale visivo). Cajalconsiderò le cellule orizzontali non come cellule propriamentenervose, ma piuttosto come “depositi dienergia nervosa, in grado -come egli diceva- di rinforzareil segnale visivo fornendogli la tensione necessariaper arrivare fino ai centri” [Cajal, 1899-1904]. Suggerìanche che le cellule amacrine giocassero esclusivamenteun ruolo di modulatori della trasmissione visiva, ecercò inoltre di interpretare le evidenti convergenze edivergenze tra cellule nervose della retina, senza chequeste disposizioni pregiudicassero la sua concezionedella trasmissione del segnale lungo vie precise edindipendenti. Cajal si rendeva comunque conto dell’inadeguatezzadelle sue spiegazioni, soprattutto perquel che riguardava il ruolo delle cellule orizzontali edelle cellule amacrine. In un articolo pubblicato nel1933, un anno prima della sua morte, egli discuteinfatti il “paradosso delle cellule orizzontali dellaretina” e l’“enigma delle cellule amacrine” [Cajal 1933].E’ solo a partire dalla seconda metà del Novecento cheappare chiaro come le connessioni tra punti distantidella retina, lungi dal degradare l’immagine neurale delmondo visivo, giochino invece un ruolo fondamentalenell’ambito dei meccanismi visivi della retina. Il riconoscimentodi questo ruolo nella retina dei vertebratiè dovuto alle ricerche eseguite nel 1953 da HoraceBarlow e da Steve Kuffler [Barlow, 1953; Kuffler1953]. Alcuni anni prima però, nel 1949, indicazionirelative ai principi fondamentali di funzionamento delsistema visivo erano emerse negli studi compiuti daHaldan Keffer Hartline nell’occhio del Limulus, uninvertebrato marino simile nella forma esterna ad ungranchio [Hartline 1949]. Come accade in molti altriinvertebrati (per esempio nella mosca), l’occhio delLimulus è composto da una moltitudine di piccoliocchi, indicati come “ocelli” o “ommatidi”, che ricevonoseparatamente la luce e generano risposte elettrichein particolari cellule fotorecettrici, notevolmente diversedai coni e dai bastoncelli dei vertebrati. Hartlinenotò che la frequenza di scarica degli impulsi elettricigenerati dalle fibre nervose di un ommatidio in rispostaad uno stimolo luminoso diminuiva quando venivailluminato contemporaneamente un ommatidio vicino(Fig. 4). L’antagonismo funzionale tra ommatidi contiguimesso in evidenza in questi esperimenti corrispondevaabbastanza da vicino al meccanismo diinibizione laterale che, come abbiamo notato, Machaveva ipotizzato per rendere ragione di alcuni processipercettivi della <strong>visione</strong> umana. In effetti Hartline e isuoi collaboratori poterono mettere in evidenza fenomenineurali simili alle “bande di Mach” nella rispostaalla luce degli ommatidi del Limulus [Ratliff e Hartline,1959].Facendo seguito agli studi di Hartline, nel 1953 Barlowe Kuffler misero in evidenza fenomeni di interazionelaterale di tipo inibitorio nella risposta alla luce dicellule della retina di vertebrati (rana e gatto). I duestudiosi trovarono che le cellule ganglionari (gli elementifinali della catena nervosa della retina) rispondevanoin modo opposto se lo stimolo luminoso venivaportato rispettivamente nel centro o nella periferiadella zona retinica alla cui illuminazione la cellula erasensibile (zona indicata nella fisiologia visiva come“campo recettivo”). Nelle cellule in cui l’illuminazionedel centro del campo recettivo produceva una rispostaeccitatoria (cioè un aumento della frequenza dellascarica degli impulsi elettrici), si otteneva un’inibizione6


(cioè una diminuzione della frequenza di scarica) conla stimolazione della periferia del campo recettivo(realizzata di solito utilizzando un anello di luce). In unaltro tipo di cellule ganglionari il meccanismo era inqualche modo simmetrico: l’illuminazione centraleprovocava una riduzione della frequenza di scarica,mentre l’illuminazione periferica aumentava la frequenzadegli impulsi. Negli anni successivi fenomenidi antagonismo spaziale nel campo recettivo furonomessi in evidenza nelle cellule ganglionari della retinadi tutti i vertebrati studiati, e questo portava a ritenereche si trattasse di un meccanismo generale di funzionamentodella retina dei vertebrati. Il fatto poi che unanalogo antagonismo esistesse anche negli invertebrati,come gli esperimenti nel Limulus avevano dimostrato,indicava che questo meccanismo era un principiofondamentale di funzionamento dei sistemi visivi,comparso in epoche molto antiche dell’evoluzione. IlLimulus è in effetti un animale dalle antiche origini,erede dei trilobiti, un tipo di artropodi che abbondavasulla crosta terrestre in epoche molto remote e di cui sitrovano numerosi resti fossili.Le cellule ganglionari sono, come abbiamo detto, glielementi di uscita della retina. Con la scoperta dell’antagonismospaziale nel loro campo recettivo sorgeva ladomanda se questo antagonismo fosse il risultato diinterazioni nervose che operavano a livello di questecellule, o se non riflettesse invece processi che avevanoluogo in stadi più iniziali della catena nervosa retinica.Gli studi eseguiti tra il 1969 e il 1970 da John Dowlinge Frank Werblin [Werblin e Dowling 1969] e daAkimichi Kaneko [Kaneko, 1970] misero in evidenzala presenza di un antagonismo spaziale anche nellecellule bipolari, i neuroni di secondo ordine dellacatena nervosa della retina. Esperimenti successividimostrarono la presenza di antagonismo spazialenelle cellule bipolari della retina di molti altri animali equesto tendeva a sottolineare l’importanza fondamentaledel processo che ne era alla base.Fu comunque una sorpresa quando, nel 1971, ungruppo di ricerca che faceva capo a MichelangeloFuortes, uno scienziato italiano che lavorava negli StatiUniti, mise in evidenza nella tartaruga un antagonismoFig. 4 L’occhio del Limulus (visto dalla superficie corneale, al centro della figura) e l’inibizione laterale tra gli “ommatidi”.Nella parte superiore della figura è illuminato il solo ommatidio di cui si registra la risposta, sotto forma di impulsi elettriciderivati da una fibra del nervo ottico (la luce è applicata nella fase in cui la linea chiara sottostante le tracce elettriche siinterrompe). Si noti l’elevata frequenza di scarica degli impulsi elettrici durante l’illuminazione. Nella parte inferiorevengono stimolati alcuni ommatidi vicini, nel corso della illuminazione dell’ommatidio centrale. Si noti la nettadiminuzione della frequenza degli impulsi elettrici.7


spaziale anche nella risposta alla luce dei coni, uno deidue tipi di fotorecettori retinici [Baylor, Fuortes eO’Bryan, 1971]. La zona centrale del campo recettivodi un cono era circondata da un’area retinica moltoestesa la cui illuminazione provocava una risposta disegno opposto rispetto a quella indotta dalla stimolazionecentrale. Due anni dopo, Fuortes e collaboratoridimostrarono che in alcune classi di coni, come adesempio quelli contenenti il pigmento sensibile allaluce verde, l’antagonismo spaziale poteva avere ancheuna connotazione cromatica. Utilizzando stimoli luminosiabbastanza grandi poteva infatti accadere che larisposta cambiasse di segno quando si stimolava laretina con luci rosse invece che con luci verdi [Fuortes,Schwartz e Simon 1973]. Questo avveniva perché lazona centrale del campo recettivo, sensibile alla luceverde, era circondata da una zona periferica, sensibilealla luce rossa, la cui stimolazione esercitava un’azioneantagonista rispetto a quella indotta dalla stimolazionecentrale. Studi successivi, da noi condotti, in collaborazionecon i colleghi francesi Hersch Gerschenfeld eJacques Neyton, hanno poi messo in evidenza nei conicontenenti il pigmento verde l’esistenza di una terzazona più esterna ancora, la cui stimolazione esercitaun’azione opposta a quella indotta dalla periferia “immediata”[Piccolino, Neyton e Gerschenfeld, 1980;Neyton, Piccolino e Gerschenfeld, 1981]. Queste complesseproprietà di risposta dei coni erano dovute,come aveva dimostrato Fuortes, e come i nostri studiconfermavano, ad una azione di ritorno (o a “feedback”)esercitata dalle cellule orizzontali sui coni. Acausa della loro stratificazione tangenziale nella retina,e in rapporto anche alle strette interconnessioni chestabiliscono l’una con l’altra, le cellule orizzontaliraccolgono l’eccitazione visiva da un’area retinica moltovasta e generano segnali elettrici che, attraverso ilcircuito a feed-back, vanno ad inibire i coni situati alcentro del loro campo recettivo. (1)Non è possibile, per ragioni di brevità, addentrarcinell’analisi della complessità dei meccanismi di rispostadei fotorecettori e degli altri neuroni retinici emersain questi ed altri studi eseguiti negli ultimi decenni.Questi studi, insieme a quelli che venivano eseguiti suineuroni delle stazioni più centrali del sistema visivo, edin particolare della corteccia cerebrale, ad opera inizialmentedi David Hubel e Tornsten Wiesel [Hubel eWiesel, 1959], e poi di molti altri, hanno imposto unare<strong>visione</strong> di tipo “copernicano” della concezione sullabase della quale era stata concepita la funzione visiva.L’ “immagine”, considerata a lungo, come abbiamodetto, metafora fondamentale di un processo visivo ditipo fotografico, che aborriva l’idea di diffusioni lateralidel segnale ottico o neurale, era costretta a cedereil passo ad una concezione nuova, in cui le interazionilaterali tra cellule nervose diventavano meccanismifondamentali della funzione percettiva. La “nuovaverità”, basata come vedremo su un paradigma nuovo,quello della “informazione biologicamente rilevante”,rendeva ragione anche di quella che sembrava unaqualità relativamente scadente degli apparati otticidell’occhio [vedi Piccolino e Navangione 1998].In effetti, se consideriamo da un punto di vista generaleil problema del significato del sistema visivo, possiamorenderci conto in modo abbastanza agevole della inadeguatezzasostanziale di concezioni di tipo fotograficodella <strong>visione</strong>. Supponiamo che la retina formiun’immagine neurale perfetta del mondo (cosa delresto impossibile come vedremo tra poco), e la trasmettasenza distorsioni fino alla corteccia visiva,allora la domanda che ci si potrebbe legittimamenteporre è dove sia poi situato nel cervello l’occhio chepermette di “vedere” questa immagine neurale. Perché,con la formazione di un’immagine nella cortecciavisiva, avremmo solo spostato dall’occhio al cervello ilproblema del “vedere”, ma tutto (o quasi) rimarrebbepoi ancora da fare. In effetti “vedere” significa anche“capire”, come è indicato, tra l’altro, dalla parzialesovrapposizione, che esiste in varie lingue, tra il camposemantico della “<strong>visione</strong>” e quello della “comprensione”(si pensi a espressioni come “avere una <strong>visione</strong>chiara del problema” in italiano, je vois bien in francese,I see... in inglese, ya lo veo in spagnolo e ad analogheespressioni che esistono anche in lingue molto lontanecome, per esempio, il giapponese).Se il processo della <strong>visione</strong> si esaurisse nella trasmissionedi un’immagine più o meno fedele del mondo checi circonda, allora dovremmo dire che un sistematelevisivo è capace di “vedere” il mondo verso cui èpuntata la telecamera. Ma che, a dispetto del terminecon cui la indichiamo, la tele<strong>visione</strong> in effetti non sia ingrado di “vedere” (nel senso che attribuiamo normalmentea questo termine) apparirebbe ben evidente sechiedessimo all’apparecchio televisivo di “dirci” cosa“vede”. Anche ammesso che l’apparecchio potesseparlare, esso non sarebbe in grado di dirci che quell’insiemedi punti di color rosa circondati da contorniabbastanza netti che appare sul suo schermo è il visodi una persona e magari indicarcene il nome; o chequelle superfici verdi-azzurre che appaiono sullo sfondosono montagne lontane. E soprattutto non potrebbedirci, la tele<strong>visione</strong>, cosa sia conveniente per noi farein rapporto agli oggetti e alle persone che appaiono nelnostro campo visivo. Immaginate una gazzella che nelcorso dell’evoluzione abbia sviluppato un sistematelevisivo molto sofisticato che le permetta di trasmetterealla corteccia cerebrale un’immagine perfetta delleone che compare nel suo campo visivo; una gazzellache però, come la nostra tele<strong>visione</strong>, non sia capace diinterpretare il significato dell’immagine. Di questegazzelle “hitech”, semmai fossero esistite in tempi8


lontani, non rimarrebbe traccia, perché da lungo temposarebbero state divorate da leoni equipaggiati consistemi visivi apparentemente meno perfetti, ma dalleprestazioni certamente più utili ai fini della sopravvivenza.Se consideriamo il problema delle immagini “perfette”ci rendiamo poi conto di altre difficoltà insormontabili,che hanno fatto sì che nel suo lungo cammino l’evoluzionesviluppasse meccanismi visivi (e più in generalemeccanismi sensoriali) basati su un tipo di “disegno”completamente diverso da quello fondato sull’immagine.L’immagine di un oggetto può dirsi perfetta solose essa contiene tutta l’informazione presente nell’oggettooriginale. In un bel saggio pubblicato alcuni annifa il fisico e scrittore inglese Arthur C. Clarke calcolavache, per trasmettere tutta l’informazione presente nelladisposizione spaziale degli atomi di un corpo umanoattraverso un sistema televisivo, sarebbero necessariventi trilioni di anni, e che prima che la trasmissione sicompisse, le stelle del cielo si sarebbero probabilmenteestinte [Clarke, 1962]. In effetti un’immagine “perfetta”che conservi tutta l’informazione presente nelmondo visivo, non potrebbe essere altro che unareplica in scala naturale del mondo che ci circonda.Come la mappa in scala uno-a-uno del racconto Sylviee Bruno di Lewis Carroll, e quella analoga dei cartografidell’Impero nella “finzione” di Borges Del rigore dellascienza, una replica di questo tipo sarebbe inutilmenteingombrante e non servirebbe a nulla dal punto di vistadella conoscenza, perché non potrebbe servirci perorientarci nel mondo attorno a noi [Lewis Carroll,1889; Borges, 1960].L’esempio di Clarke ci fa capire che non vi sarebbenessuna possibilità realistica per una gazzella di trasmettereal suo cervello in tempi utili per la suasopravvivenza l’immagine perfetta del leone che le stadinanzi. E ci dice anche, cosa questa molto importante,che quand’anche la cosa avvenisse, non potrebbe poiin alcun modo accadere che il cervello della gazzellainterpretasse efficacemente l’immagine ricevuta. Questoperché il cervello non avrebbe neppure lontanamentela capacità di calcolo necessaria ad elaborare intempi rapidi una quantità di informazione così prodigiosamentegrande. Si tenga presente, a questo riguardo,che le cellule nervose hanno una capacità ditrasmissione dell’informazione molto minore dei caviutilizzati nella moderna tecnologia delle comunicazioni(a causa soprattutto della limitata frequenza degliimpulsi elettrici che esse possono scaricare).Sorge allora la domanda di come accada che gli esseriumani, e gli animali, possano interpretare in tempistraordinariamente brevi le immagini che compaiononel loro mondo visivo. Un bambino di pochi mesiriconosce il volto della mamma in una frazione disecondo, un cane, un uccello impiegano pochi istantiper riconoscere l’oggetto o l’animale che sta lorodavanti (e questo accade anche per le gazzelle “reali”,quelle, per intenderci, che sono riuscite a sfuggire aileoni).Queste considerazioni ci portano al concetto di “informazionebiologicamente rilevante” a cui avevamo giàaccennato, e ci riconducono al problema iniziale, quellodell’organizzazione funzionale del sistema visivo.Se l’informazione “fisica” presente in un qualsiasioggetto del nostro mondo visivo è prodigiosamentegrande, come l’esempio di Clarke ci indica, è allora difondamentale importanza selezionarla (“filtrarla” comesi dice), privilegiando quella ricca di valore adattativoper l’individuo e la specie, ed al tempo stesso eliminando(o trasmettendo con minore “priorità”) quella diminor significato biologico.Basta una riflessione critica sul nostro senso visivo peravere un’indicazione generale di cosa possa significareinformazione “biologicamente rilevante”. Liberiamociper un attimo delle strutture culturali che purecondizionano in modo importante la nostra capacitàvisiva, e torniamo a rivivere per un istante le necessitàadattative che hanno condizionato in modo fondamentalel’evoluzione dell’hardware del nostro sistemavisivo in tempi lontani. Immaginiamoci dunque animalidella foresta, o cacciatori primitivi, la cui sopravvivenzadipenda in modo essenziale dalla possibilità diindividuare nel nostro campo visivo possibili prede(senza essere da esse prima riconosciuti), e al tempostesso di evitare di essere individuati da pericolosipredatori. Ci sforzeremo allora di mantenere l’immobilitàpiù assoluta, perché sappiamo per istinto che, seci muovessimo, attireremmo su di noi l’attenzione esaremmo rapidamente individuati (da predatori o daprede con conseguenze negative in entrambi i casi). Altempo stesso cercheremo di cogliere nel nostro mondovisivo figure in movimento, o variazioni temporalirapide della luminosità o del colore, perché questielementi sono fondamentali per rilevare la presenza ditarget visivi importanti (prede o predatori, soprattutto,in questo esempio).Dunque il movimento o le variazioni temporali dellostimolo luminoso rappresentano un primo aspettobiologicamente rilevante dell’informazione visiva, epotremmo attenderci che la rilevazione e la trasmissionedi questi aspetti siano privilegiati dal nostro sistemavisivo. E così accade in effetti. La capacità di rilevarepreferenzialmente le variazioni temporali dello stimoloe il movimento sono soprattutto espressione diprocessi di interazione laterale tra i neuroni visivi, chefanno sì, per esempio, che un neurone sia eccitatopreferenzialmente quando lo stimolo luminoso colpisceil suo campo recettivo con un breve ritardo rispettoall’eccitazione di un neurone contiguo (secondo unaopportuna sequenza spazio-temporale). Esiste nel9


nostro sistema visivo una via nervosa che è deputataproprio alla trasmissione della informazione concernenteil movimento di oggetti nel nostro campo visivo,una via che si serve, nella retina e nei percorsi piùcentrali del sistema nervoso, di cellule e fibre particolarmentegrandi e a grande velocità di trasmissione delsegnale neuro-elettrico.Anche se non ci sentiamo più (di solito) animali dellaforesta, sappiamo però istintivamente che il movimentorende gli oggetti più visibili. E’ questa la ragione percui agitiamo le braccia quando vogliamo attirare losguardo su di noi. “Le cose in movimento più prestocatturano l’occhio, di ciò che non si agita”, dice infattiUlisse ad Achille nel Troilo e Cressida di Shakespeare perindurlo ad uscire dall’inazione e guadagnarsi la fama ela venerazione dei Greci.Quello che forse non sappiamo è che il movimentoattira lo sguardo non tanto per ragioni diciamo “psicologico-comportamentali”,svincolate dai meccanismidi funzionamento dell’hardware visivo. Ci sono neuronivisivi che rispondono solo ad immagini in movimentoe non rispondono (o rispondono poco) adimmagini immobili. Con opportuni esperimenti si puòdimostrare in effetti che noi siamo completamente“ciechi” rispetto a immagini che siano assolutamenteimmobili sulla nostra retina. Nella nostra vita quotidianaè difficile rendersi conto di questa caratteristica delnostro sistema visivo, per l’esistenza di piccoli movimentiinvolontari degli occhi che non riusciamo asopprimere, e che rendono di fatto irrealizzabile lacompleta immobilità dell’immagine retinica. E’ possibileperò mettere in evidenza l’“invisibilità” delleimmagini stazionarie tenendo lo sguardo fisso per untempo abbastanza lungo su di un pattern luminosocostituito da bordi molto sfumati come nella Fig. 5.L’impossibilità di rilevare immagini stazionarie sullaFig. 5 Scomparsa della percezione di una immagine stazionaria. Se si fissa il centro della figura, preferibilmente utilizzandoun solo occhio, cercando di tenere lo sguardo il più possibile immobile, dopo circa trenta secondi non si vede più la partecentrale chiara dell’immagine, che riappare poi appena si torni a muovere l’occhio.10


Fig. 6 Il fenomeno dell’ “albero di Purkinje” e i vasi sanguigni della retina. Se con una piccola torcia elettrica a fascioluminoso sottile si illumina lateralmente il bulbo oculare (evitando di proiettare la luce direttamente sulla pupilla), e si faoscillare rapidamente il fascio luminoso, si vede dopo pochi secondi apparire il disegno dei vasi sanguigni della retina. Ilfenomeno riesce meglio se l’esperimento viene condotto nella penombra, e si fissa una superficie uniforme volgendo losguardo nella direzione opposta rispetto a quella da cui proviene il fascio luminoso. La parte sinistra della figura rappresentaquesto fenomeno in un disegno originale di Purkinje, mentre la parte destra mostra il fondo dell’occhio come appareall’oculista quando usa l’oftalmoscopio.retina è la ragione per cui noi non vediamo le arterie ele vene della circolazione retinica nonostante chel’ombra di questi vasi sia proiettata sulla retina, erappresenti quindi uno stimolo potenziale per i fotorecettori.Come ha dimostrato per la prima volta nell’Ottocentolo scienziato cecoslovacco Jan Evangelista Purkyne(o Purkinje), i vasi retinici possono essere visualizzatimuovendo rapidamente una fonte luminosa invicinanza del globo oculare: si produce allora un piccolomovimento delle ombre dei vasi e appare al nostroFig. 7 L’effetto Cornsweet. Osservando la figura sembrache la parte centrale sia più chiara della parte periferica. Seperò si ritaglia un anello di carta di dimensioni tali da potermascherare il bordo di separazione tra le due zone, allora sivede che queste hanno la stessa luminosità.sguardo l’“albero di Purkinje” che corrisponde all’immaginedi queste ombre [Purkinje, 1819] (vedi Fig. 6).Un altro aspetto dell’informazione visiva di grandesignificato biologico è la variazione spaziale dellaluminosità. Un muro bianco o di colore uniformecontiene poca informazione, come pure è povero diinformazione un cielo uniformemente azzurro o losfondo monotono di un deserto giallo. Sono ricche diinformazioni invece le variazioni spaziali di luminositàabbastanza improvvise, come i bordi, le linee chiare oscure, i contorni che definiscono di solito la presenzanel nostro campo visivo di persone, animali e oggettipotenzialmente importanti per la nostra sopravvivenza.Sperimentalmente si può dimostrare che, quandoguardiamo un volto o un oggetto, il nostro sguardoscandaglia frequentemente le zone ricche di contorni econtrasti (nel caso del volto, per esempio, gli occhi, ilnaso, la bocca) mentre si sofferma poco sulle superficiuniformi (guance, capelli). Alcuni pattern visivi, comein particolare quello responsabile dell’effetto Cornsweet,pongono in particolare evidenza l’importanzadei bordi nell’apparenza visiva. Di due superfici chehanno la stessa luminosità “fisica”, l’una appare chiarae l’altra scura per le particolari caratteristiche del bordoche le separa (vedi Fig. 7). Questo effetto, che glistudiosi di psicofisica hanno messo in luce nel Novecento,era peraltro noto agli artisti da lungo tempo,come è dimostrato dalle decorazioni di alcuni vasicinesi delle dinastie Tang e Song, da pitture rupestrieuropee e da alcuni disegni di Albrecht Dürer [si vedaRatliff, 1972]. L’importanza visiva dei bordi e dellelinee è la ragione per cui bastano pochi tratti ad un11


avo disegnatore per farci apparire su un foglio dicarta il volto di una persona, o la figura di un oggetto.La capacità del nostro sistema visivo di “vedere” inmodo privilegiato i bordi e i contorni (aspetti delcosiddetto “contrasto spaziale”) può essere valutatacon moderne tecniche di analisi funzionale, secondoprocedure messe a punto da Fergus Campbell a Cambridgee da Lamberto Maffei a Pisa, che in qualchemodo applicano al sistema visivo le metodiche dell’analisisinusoidale utilizzate da lungo tempo per lostudio della funzione uditiva [vedi Campbell e Maffei,1973]. Vengono generati su uno schermo pattern visivibidimensionali nei quali la luminosità varia in modosinusoidale lungo un asse dello schermo. Di questi“reticoli sinusoidali” è possibile variare la luminositàmedia, il contrasto (che dipende dalla differenza tra laluminosità delle bande chiare e quella della bandescure), e la larghezza delle bande. Utilizzando questipatterns si può dimostrare che noi vediamo in modopreferenziale bande di media larghezza (se guardiamoFig. 8 Reticolo a bande sinusoidali larghe che diventa meno visibile quando ci si avvicina all’immagine. L’immagine ècostituita da bande verticali di dimensioni relativamente grandi e a bassissimo contrasto. Per un individuo senza difettivisivi, le bande sono visibili in modo ottimale osservando la figura dalla distanza di circa 2-3 metri. Se ci si avvicina molto(15-20 cm) allora può accadere che le bande diventino del tutto invisibili e l’immagine appaia allora come uno sfondogrigio-chiaro omogeneo.lo schermo da una distanza di circa 60 centimetri lebande meglio visibili sono quelle che hanno unalarghezza, riferita all’insieme della banda chiara e diquella scura, di circa un terzo di centimetro); distinguiamoinvece poco le bande molto fitte (con larghezza,per esempio, di un trentesimo di centimetro o menoguardate dalla stessa distanza) e bande molte larghe(più di un centimetro). La poca visibilità di bande fitteè un fenomeno atteso e intuitivamente comprensibile.Sorprende invece che noi non riusciamo a distinguerebene le bande troppo larghe, perché questo comportal’inattesa pre<strong>visione</strong> che un reticolo con bande larghea contrasto basso, appena visibile se guardato dadistanze medio-lunghe, possa diventare del tutto invisibilese guardato da vicino. Questo accade perché,avvicinandosi allo schermo, la larghezza delle bandenell’immagine retinica aumenta, e le bande entranoallora nella “fascia” di minore visibilità (vedi Fig. 8).L’uso delle sinusoidi spaziali permette, come avremomodo di discutere, uno studio accurato della performancevisiva di notevole importanza sia per i suoiaspetti generali che per i suoi riflessi pratici.Analizzando gli aspetti spaziali della <strong>visione</strong> potremorenderci conto inoltre, e in modo sorprendente, dicome l’apparente imperfezione del sistema ottico dell’occhionasconda una straordinaria perfezione deldisegno globale del sistema visivo.Ma di questo parleremo nella seconda parte del nostroscritto.Marco Piccolino e Andrea MoriondoGli autori ringraziano Adriana Fiorentini per l'aiutoricevuto durante la preparazione di questo articolo12Nota(1) Gli studi sul feed-back cellule orizzontali-coni sono staticondotti nella retina di vertebrati a sangue freddo (tartarughe,pesci, salamandre) che si prestano partisolarmente bene aquesto tipo di indagine per le grandi dimensioni dei neuroniretinici. Per lungo tempo molti hanno ritenuto che il feedbacknon operasse nella retina dei mammiferi. Stdi recentissimicondotti da Julie Schnaps e dai sui collaboratori epresentati nel mese di maggio 2002 al congresso dell’Associationfor Research in Vision and Ophthalmology (Verweij etal. 2002) hanno dimostrato che il feedback opera inveceanche nella retina della scimmia, e questo porta a ritenere chesi tratti di un meccanismo operativo presente in tutti ivertebrati e molto verosimilmente anche nell’uomo.


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