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Voci dalla rete 2 1..228 - Manuscritto.it

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VOCI DALLA RETE 2Racconti <strong>it</strong>alianiLONGANESI & C.MILANO


PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATALonganesi & C. F 2002 - 20122 Milano, corso Italia, 13Il nostro indirizzo internet è: www.longanesi.<strong>it</strong>ISBN 88-304-9057-1In copertina: « Young Man and Computer » F Jonathan Janson 1996Vis<strong>it</strong>a www.Infin<strong>it</strong>eStorie.<strong>it</strong>il grande portale del romanzo


Sommario3SommarioPrefazione 6L’Ampèredi Maurizio Bernardi 10My Funny Valentinedi Gianpaolo Borghini 18Il materasso a molledi Massimiano Bucchi 33Qualche v<strong>it</strong>a di Carlos Cortezadi Mauro Casaccia 44Qayyim al-Qor’andi Roberto Concu 55L’ultimo Uomodi Luca D’Antonio 71


4 SommarioIl Piccolo Carrodi Giovanna De Rosa 82Per Cindydi Gino Galdi 96Il colpo ad effettodi Nicolò La Rocca 112Il reame felice e la principessa misteriosadi Luisa Lepore 125Cacciatore di sognidi Stefano Meloni 134Niente sedi Claudio Mennuni 144Anime morte ovvero Un dilemma dualistadi Elisabetta Montebelli 151Ammazza la nonnadi Antonio Musotto 162Il cuore della casadi Liliana Piastra 171Una famiglia serenadi Umberto Segato 186


Sommario5Killing San Valentinodi Massimo Stano 202Quando mangiavamo le meledi Lorenzo Zamberlan 209Il Presidentedi Pierpaolo Zara 217


6 PrefazionePrefazioneLA Casa ed<strong>it</strong>rice Longanesi ha sempre avutoun rapporto v<strong>it</strong>ale e proficuo con la narrativa,e tale rapporto si è del tutto rinnovatoe rafforzato a partire dal 1980 con la pubblicazionedi Come il mare, il primo romanzo di WilburSm<strong>it</strong>h ad avere successo in Italia. E quale successo.In considerazione di quanto sopra, l’anno 2000è stato considerato il ventennale del rinnovato rapportolonganesiano con i romanzi di successo, e laDirezione della Casa ed<strong>it</strong>rice (ormai divenutaGruppo Ed<strong>it</strong>oriale con l’aggiunta di altre sigle disuccesso e qual<strong>it</strong>à) ha deciso di festeggiare l’occasionecreando, accanto ai suoi s<strong>it</strong>i ist<strong>it</strong>uzionali inRete, un Portale che mirasse a raccogliere attornoaséla commun<strong>it</strong>y degli appassionati del Romanzo:il primo dicembre 2000 è così nato Infin<strong>it</strong>eStorie.<strong>it</strong>,il « Portale del Romanzo ».Romanzo significa « lettori » ma ovviamente« narratori », senza i quali non esisterebbe, e la


Prefazione7Longanesi aveva ben chiara l’idea che la Rete stavaoffrendo una nuova, formidabile possibil<strong>it</strong>à diespressione a moltissimi scr<strong>it</strong>tori ai quali la pubblicazione« su carta » è resa ardua dalle dure maimprescindibili regole che l’ed<strong>it</strong>oria cartacea deveimporre anz<strong>it</strong>utto a se stessa se desidera sopravviveree prosperare, offrendo in tal modo il servizioche da essa si aspettano i lettori.Una delle prime opportun<strong>it</strong>à offerte da Infin<strong>it</strong>e-Storie.<strong>it</strong> ai suoi vis<strong>it</strong>atori è dunque stato il « TorneoLetterario ». Chiunque frequentasse il Portaleed entrasse a far parte della sua commun<strong>it</strong>y è statoinv<strong>it</strong>ato a mandare un proprio racconto in formatoelettronico (in sostanza, scr<strong>it</strong>to su computer conun elaboratore elettronico di testi) e attraversouna procedura di Rete realizzata dallo Staff tecnicodel Portale. Le regole non erano complicate:racconti ined<strong>it</strong>i, originali, tra le 3 e le 10 paginecirca.Non era di sicuro il primo torneo letterario organizzatoin Rete, ma presentava perlomeno unagrossa nov<strong>it</strong>à: il cr<strong>it</strong>erio di selezione. I partecipantisarebbero infatti stati divisi in gruppi di sei o cinque(in base al numero defin<strong>it</strong>ivo dei racconti inviati)e nell’amb<strong>it</strong>o di questi gruppi sarebbero statichiamati a votare essi stessi i loro contendenti, selezionandovia via quelli che loro stessi giudicavanoi migliori. Di norma i premi affidano al pareredi una giuria popolare allargata una selezione di


8 Prefazioneopere già scelte da una giuria tecnica el<strong>it</strong>aria e ristretta.Nel Torneo di Infin<strong>it</strong>eStorie.<strong>it</strong>, invece, ilprocesso è stato capovolto. Doveva essere lo stessopubblico della Rete, rappresentato dai partecipantial Torneo, a scegliere i racconti finalisti.Questo processo si sarebbe ripetuto per eliminatoriesuccessive fino a selezionare 30 racconti. Traquesti ultimi, infine, una Giuria Tecnica compostadalle direzioni delle case ed<strong>it</strong>rici del Gruppo Longanesi(coloro che per professione valutano i librida pubblicare) avrebbe selezionato i 10 degni dipubblicazione su carta, mentre gli altri 20 sarebberostati proposti per la pubblicazione in forma elettronica.La risposta del pubblico della Rete all’inv<strong>it</strong>o diInfin<strong>it</strong>eStorie.<strong>it</strong> si può senz’altro definire calorosa.Gli iscr<strong>it</strong>ti al Torneo sono infatti stati 946 (330donne, 616 uomini). I racconti effettivamente pervenutisono stati 682 (224 donne, 458 uomini), inviatida partecipanti suddivisi nei seguenti gruppidi età: meno di 20 anni: 14; da 20 a 29: 196; da30a 39: 253; da 40 a 49: 128; da 50 a 59: 64; più di59 anni: 27.Nelle quattro fasi eliminatorie i partecipanti sisono ridotti a 353, poi a 177, poi ancora a 90 e infineai previsti 30. La procedura, essendo ogni raccontostato letto dai 5 concorrenti dello stessogruppo (in qualche rarissimo caso 4, in un casodel tutto particolare 3), ha determinato un totale


Prefazione9di oltre 6400 letture. Se scopo di un « Portale delRomanzo » è stimolare la lettura, sotto questo profiloci sentiamo senz’altro di considerare un successola nostra iniziativa.I finalisti via via selezionati dai loro stessi concorrentisono poi stati valutati <strong>dalla</strong> Giuria Tecnica,che ne ha scelti 10 per la pubblicazione su carta.Gli altri, come da Regolamento, sono qui presentatiin forma elettronica. Quella offerta, nelledue varianti, ai lettori è dunque una selezione significativadi quanto si scrive (e legge) in Retenell’amb<strong>it</strong>o della narrativa di creazione.Buona lettura.Infin<strong>it</strong>eStorie.<strong>it</strong>


10 Maurizio BernardiMAURIZIO BERNARDIL’Ampère


L’Ampère11DA ragazzo, studiando fisica, mi imbatteinelle un<strong>it</strong>à di misura delle grandezzeelettriche e, tra esse, in quella utilizzataper misurare la corrente elettrica: l’Ampère. Ora,questo Ampère appariva un poco strano, essendodefin<strong>it</strong>o come l’intens<strong>it</strong>à di quella corrente che,in un minuto secondo, depos<strong>it</strong>a mg 1,119 di argentometallico sul catodo di un voltametro adargento.Ciò che soprattutto appariva indecente, per unaun<strong>it</strong>à di misura, era quel valore 1,119 che sembravascelto più per confondere le menti degli studentiche per seri motivi scientifici.Sarebbe certo stato più adatto un bel numerotondo tondo, come 1 mg, punto e basta; anchepiù logico e credibile, più facile da misurare negliesperimenti di laboratorio e, arb<strong>it</strong>rario per arb<strong>it</strong>rario,più facile da ricordare dell’infausto 1,119.Messe da parte queste leg<strong>it</strong>time considerazioni,mi ingegnai di ricordare il numero meglio che po-


12 Maurizio Bernard<strong>it</strong>ei, cosa che mi riuscì abbastanza agevolmente,data la buona memoria della giovane età.Trascorsi diversi anni, il destino mi fece la graziadi rivelarmi la genesi del numero misteriosoattraverso la lettura di un diario dell’Ampère stessoche, conservato per un secolo e mezzo (il diario,ovviamente), in una cascina di Tavernuzze (inFirenze), cap<strong>it</strong>ò del tutto casualmente nelle miemani.Ecco come si svolsero realmente i fatti...Nell’anno di grazia 1822 André-Marie Ampèrefece vis<strong>it</strong>a alla cugina Giud<strong>it</strong>ta Frescobaldi, nelladi lei dimora di campagna, a Tavernuzze. L’Ampèreera persona gioviale e di buona compagnia,perciò, dopo pochi giorni, era già divenuto il beniaminodi tutte le persone che frequentavano casaFrescobaldi, tra le quali,in particolare, il prioreGiangiacomo Castellazzi, grande appassionatodelle ricerche scientifiche ed egli stesso sperimentatore.Una mattina di primavera di quel lontano 1822Giud<strong>it</strong>ta aveva deciso di dedicarsi alla pulizia delleargenterie di casa, lavoro assai tedioso dato che,non essendo ancora la chimica progred<strong>it</strong>a come loè oggi, si doveva strofinare con la cenere del caminotutti gli oggetti da ripulire, stoviglie, brocche,piatti, con dispendio di tempo e di energie.Poiché, proprio in quel periodo, André stava dedicandosiallo studio della conduzione elettrica nei


L’Ampère13liquidi, gli venne in mente un esperimento cheavrebbe potuto ev<strong>it</strong>are alla cugina la fatica dellapulizia degli argenti.Così, sotto lo sguardo perplesso di Giud<strong>it</strong>ta (Jud<strong>it</strong>ta,come la chiamava lui), André mise un piccolocucchiaio da caffè in una bacinella piena di acquasalata, collegando l’uno e l’altra rispettivamenteal polo pos<strong>it</strong>ivo e negativo di una pila voltaica.« Vedi, Jud<strong>it</strong>ta, con questo sistema l’argento sipulirà senza fatica; basta lasciare che la correnteelettrica prodotta <strong>dalla</strong> pila rimuova lo sporco dell’ossido<strong>dalla</strong> superficie del cucchiaino. »André estrasse dal panciotto l’orologio e annotòl’ora: le nove e un minuto.« Tra pochi minuti potremo vedere il risultato,Jud<strong>it</strong>ta.»In quello stesso momento bussò all’uscio ilpriore Castellazzi che veniva in vis<strong>it</strong>a, per una diquelle conversazioni scientifiche con l’amico Ampèreche tanto assorbivano entrambi.« Entrate, mon ami, arrivate giusto a propos<strong>it</strong>o;oggi mi piacerebbe discutere delle stranezze dellecorrenti elettriche quando si mescolano alle correntidei fluidi, come l’acqua salmastra o quellaacidulata. »Al sentire enunciare il tema della giornata, ilpriore mise su una espressione da ghiottone, tantotrovava l’argomento di suo gradimento, e si spro-


14 Maurizio Bernardifondò, a suo agio, nella comoda poltrona che Andrégli indicava con un cenno di inv<strong>it</strong>o.I due si immersero nella discussione, dibattendodi cariche, di forze, di flogisto e di etere, di corpuscoliin movimento turbolento, eccetera, eccetera,noncuranti del trascorrere del tempo.Fu solo quando la grande pendola del salottobuono batté i dodici rintocchi di mezzogiorno,che André si ricordò dell’esperimento del cucchiainoe, venendo la cosa a propos<strong>it</strong>o, pensò diinv<strong>it</strong>are il priore ad esaminare con lui il risultato.Ma prima che potesse dar segu<strong>it</strong>o a tale intendimentosi udì la voce di Giud<strong>it</strong>ta che esclamava: «Dio bono! ’un c’è più, ’un c’è più!»André ed il priore si affrettarono verso la cucina,quasi scontrandosi con Giud<strong>it</strong>ta che, visibilmentecontrariata, puntava ancora il d<strong>it</strong>o verso labacinella vuota.Il cucchiaino d’argento era spar<strong>it</strong>o.Ora, se c’è una cosa che manda in bestia qualsiasicristiano di buon senso, è quell’atteggiamentodistaccato, proprio degli uomini di scienza che,davanti a qualsiasi episodio, ancorché grave, spiacevoleo catastrofico, ne colgono unicamente l’aspettofenomenologico, restando del tutto indifferentialle sue conseguenze pratiche.Perciò, mentre André si lim<strong>it</strong>ava ad annotarel’ora, le dodici in punto, mormorando: « Fantastique!» ed il priore intingeva imprudentemente il


L’Ampère15d<strong>it</strong>o nella soluzione salina, portandolo poi alle labbra,Giud<strong>it</strong>ta, da buona massaia toscana, si preoccupavadella perduta integr<strong>it</strong>à del servizio da dodicie, torcendosi le mani, imprecava contro l’ignotoladro. « Maremma maiala! André, non era puntoquesto il risultato che m’aspettavo! Che mai d<strong>it</strong>e:’Fantastique!’ quando qui c’è stato un malandrinoa portar via il mi’ cucchiaino? »« Mais non, mais non, Jud<strong>it</strong>ta, vi sbagliate. Èstato il catodo a prendere il vostro cucchiaino. »« Ah! Quindi voi lo conoscete, il briccone! Ebbene,allora d<strong>it</strong>egli a codesto vostro amico, signorCatodo, che, se non vole avere noie con la giustizia,mi rest<strong>it</strong>uisca sub<strong>it</strong>o il maltolto. »« Ma, ma chère, non posso dirglielo; vedete, ilcatodo non è un uomo. »« Ma bene! Non solo gli è ladro, ma gli è anchepervert<strong>it</strong>o! Fatemi il piacere, André, omo o finocchioche sia, il Catodo l’ha da ridarmi il mi’ cucchiaioentro stasera. »E se ne uscì <strong>dalla</strong> cucina con aria offesa e con ilvolto paonazzo.André ed il priore, rimasti soli, si misero a discuteresull’accaduto e, dopo tortuosi ragionamenti,convennero che, anche invertendo le polar<strong>it</strong>àdella pila, non sarebbe stato possibile fare ricomporre<strong>dalla</strong> corrente elettrica il cucchiaino scomparso.Così André decise di fare l’unica cosa possibile


16 Maurizio Bernardiper placare la cugina: un breve viaggio a Firenze,alla bottega artigiana di messer Lapo, l’argentiere,da cui era stato acquistato tempo addietro il serviziodi cucchiaini, per acquistare un facsimile diquello distrutto <strong>dalla</strong> corrente elettrica.Avrebbe poi spiegato a Giud<strong>it</strong>ta che il Catodo,pent<strong>it</strong>o della malvagia azione, aveva spontaneamenterest<strong>it</strong>u<strong>it</strong>o la refurtiva.Prima di uscire per la commissione, in compagniadel priore, volle però riportare nel diario degliesperimenti le sue considerazioni sullo strano accadimento.Così alla pagina del 27 Aprile si legge...« ... essendo che la corrente, nel sospingere leminute particelle di argento metallico verso il catodo,impiegò il tempo intercorso tra le ore noveed un minuto primo e le ore dodici in punto, neconsegue che la detta corrente ha trasportatogrammi 12 di argento (peso del cucchiaino) intanti secondi quanti ce ne stanno in due ore e cinquantanoveminuti primi, ovvero 10.720 minuti secondi.« La corrente in questione, che, per comod<strong>it</strong>à,chiamerò con il mio proprio cognome (Ampère),è quindi quella in grado di depos<strong>it</strong>are al catodo12 / 10.720 = 1,119 millesimi di grammo di argentoper ciascun minuto secondo ».Così si conclude l’appunto di André-Marie Ampère,nato a Lione nel 1775 e morto a Marsiglia


L’Ampère17nel 1836, fisico e matematico nonché inventoredella un<strong>it</strong>à di misura della intens<strong>it</strong>à della correnteelettrica.Davanti a tale evidenza non ci resta che chinarerispettosamente il capo e prendere atto della assolutaleg<strong>it</strong>tim<strong>it</strong>à scientifica di quel misterioso1,119.


18 Gianpaolo BorghiniGIANPAOLO BORGHINIMy Funny Valentine


My Funny Valentine19GUIDAVO da solo, di notte in una strada alberata.I fari illuminavano la striscia d’asfalto,i rami e le foglie ai lati, nient’altro;sembrava che qualcosa avesse inghiott<strong>it</strong>o ilpaesaggio. Alla radio c’era una vecchia canzonedi Ike e Tina Turner: Mississippi Rolling Stone.La mia anima era rap<strong>it</strong>a e assente.I dolori, quelli veri, erano dimenticati, sarebberotornati solo dopo l’arrivo. La macchina riuscivaad annullare molte cose. L’orologio segnava le tree un quarto ed io ero veramente stanco.Non sarei dovuto partire a quell’ora, ma Giorgiaaveva pensato di aspettare la fine del concertoper dirmi che voleva prendere una pausa nel nostrorapporto, cioè che voleva scaricarmi.Io stavo da lei da quasi due anni e così decisi dipartire sub<strong>it</strong>o per Rimini, non avevo altro postodove andare. Cercai di mantenere la calma, anchese la cosa mi faceva impazzire.Avevo conosciuto Giorgia perché a lei piaceva


20 Gianpaolo Borghiniil jazz e veniva spesso ai concerti che facevo a Bologna.Non è che io fossi una star, anzi, ma lei miaveva notato ed io avevo notato lei: alta, capellilunghi e scuri, poi era sempre vest<strong>it</strong>a veramentepoco, insomma l’avrebbe notata anche una statua.Mi colpì che faceva la parrucchiera in provinciaed aveva una vera passione per il jazz e soprattuttoper il pianoforte. Non riuscivo a vedere legami frala tintura per capelli e Miles Davis, forse perchélui adoperava una parrucca. Dopo due mesi chestavamo insieme ab<strong>it</strong>avo già da lei e mi ero fattoun giro di locali dove suonavo spesso. Bologna miera sempre piaciuta, ci sono tante occasioni peruno come me che si adatta. Mi ero fatto l’idea dipassare molto tempo della mia v<strong>it</strong>a con lei, ma lecose difficilmente vanno come le pensiamo.Quanta energia sprechiamo per prevedere quelloche sarà domani, fra un mese o fra un anno, senzacapire che non è possibile capire niente, soprattuttose i nostri piani riguardano altre persone.Giorgia mi disse che si era stancata di vedermisolo nei locali dove suonavo o che io partissi perchissà dove sempre quando lei aveva bisogno dime. Avevamo una v<strong>it</strong>a troppo diversa, le pochevolte che ci vedevamo facevamo l’amore, e dormivamo,insomma non potevo darle torto.Cercai di accorciare l’addio il più possibile e ledissi che dovevo partire per Rimini e che l’avrei


My Funny Valentine21chiamata per andare a prendere la mia roba nonappena avessi trovato una sistemazione.A trentadue anni stava iniziando un nuovo temadella mia v<strong>it</strong>a, solo dopo avrei scoperto se era untema r<strong>it</strong>mico ed ag<strong>it</strong>ato o melodico e cantabile.Avevo abbandonato la statale per una strada secondaria.La mia vecchia Ford non reggeva il r<strong>it</strong>modelle Mercedes e Bmw che sfrecciavano a centocinquantaall’ora verso il divertimento, versol’eccesso, verso la fine della notte: verso la rivieraromagnola.Era l’ultimo sabato di giugno, forse il primo chefaceva sentire il cambio dell’atmosfera. Il passaggio<strong>dalla</strong> quasi quiete all’improvvisa eruzione. Dilì a qualche giorno la riviera sarebbe esplosa dipersone in cerca di forti emozioni e di felic<strong>it</strong>à. Fiumidi alcol, droga e eccessi di ogni genere avrebberoattraversato quel lungo tratto di costa. Tuttiquelli che vi erano diretti non potevano non essereecc<strong>it</strong>ati.Avevo preso la strada alternativa che prendevasempre mio padre, molti anni prima, per portarcialla pensione di Rimini, dove passavamo tutto ilmese di luglio. L’avevo completamente dimenticatafino a quando notai il bar sulla destra, cheera il nostro riferimento, e così mi dissi: « Perchéno », e svoltai. La strada era stretta e piena di curve,ma sapevo che non avrei incontrato altre macchine.


22 Gianpaolo BorghiniA Rimini mi stava aspettando il proprietario diun nuovo locale, il Sonora Jazz Club. Era stato appenaaperto e quindi doveva farsi un po’ di nomefra gli appassionati osp<strong>it</strong>ando dei concerti di qualchemusicista conosciuto. Qualcuno di cui il giornalelocale avrebbe potuto scrivere che aveva incisoil tal disco con Miles Davis, Gerry Mulligan oqualche altro mostro sacro.La gente sarebbe corsa a sentirli per cogliere unpo’ del genio che sicuramente il grande collaboratoreavrebbe trasmesso. Così mi cap<strong>it</strong>ava spesso diessere chiamato per accompagnare questi « grandi». A me piaceva, i giornali scrivevano che anch’ioavevo suonato con questo e quell’altro pezzodi storia, anche se solo per una sera, ma questonon lo dicevano mai.Dicevano anche che ero un ottimo accompagnatoree, pur essendo un modo gentile per dire chenon avevo una forte personal<strong>it</strong>à, non mi dispiaceva.Mi impegnavo molto per non essere troppo invadentequando suonavo, per sottolineare le frasidegli altri, ma questo lo facevo con tutti e non solocon quelli famosi di oltre oceano.Sarei potuto partire la mattina dopo, ma volevocambiare aria in fretta. Avevo chiamato il localedi Rimini per avvisare del mio arrivo, mi disseroche erano aperti tutta la notte e che mi avrebbero


My Funny Valentine23aspettato. Avrei dorm<strong>it</strong>o nell’hotel sopra al JazzClub, dello stesso proprietario.La sera dopo avrei suonato con Kurt Miller, ungrande trombettista di Los Angeles, che a soli venticinqueanni aveva fatto un disco con Ornette Coleman.Allora faceva il free jazz, adesso, oltre vent’annidopo, avrebbe suonato degli standard, ancheperché quella era musica che la gente non avevamai cap<strong>it</strong>o e non aveva voglia di sentire. Ancheil batterista e il contrabbassista erano <strong>it</strong>aliani, liconoscevo di nome, ma era la prima volta che suonavoanche con loro.Dovevo entrare a Viserba e proseguire sul lungomareverso Rimini; fui accolto da una comun<strong>it</strong>àmolto diversa da quella che mi aspettavo.Prima ragazze bionde, belle e quasi nude, in attesadi qualche cliente. In qualche angolo gli sfruttatorifumavano o bevevano qualcosa, appoggiatia delle grosse moto, con i pantaloni di pelle e glistivali texani, sembravano tutti in divisa. Il trafficoera vario ed isterico, si vedevano targhe di tuttaEuropa. Improvvisamente lo sfondo cambiò, nonc’erano più le ragazze bionde, ma dei travest<strong>it</strong>i.Alcuni stavano l<strong>it</strong>igando, uno di loro, con un vest<strong>it</strong>oche sembrava fatto a maglia di cotone bianco,con una parrucca rossa, stava lanciando un grossosasso raccolto per terra verso un altro che sembravaMina versione anni ’70.Una s<strong>it</strong>uazione di questo genere mi mise strana-


24 Gianpaolo Borghinimente di buon umore, mi venne da ridere. Tuttoquesto mi fece passare la stanchezza, ero curiosodi incontrare Saverio Giuliacci, proprietario delSonora Jazz Club.L’insegna del locale, azzurrina e molto luminosa,creava una strana atmosfera nel vicolo dove s<strong>it</strong>rovava, che altrimenti sarebbe stato completamentebuio, sembrava di essere nel film BladeRunner. All’ingresso c’era un ragazzo che sembravaun replicante, biondo come Rutger Hauer che,seppi poi, era il figlio del proprietario. Gli dissi chiero e lui mi rispose che mi avrebbe accompagnatoda suo padre. Entrò nella sala. Una grossa tenda divelluto nero separava la sala dall’esterno, una piccolastanza, fra la tenda e la strada, serviva daguardaroba. L’interno non assomigliava per nienteai jazz club dove ero ab<strong>it</strong>uato a suonare. Sembravapiù un bar, con tanti tavolini neri rotondi, con dellepoltroncine con la tappezzeria sgargiante. Sub<strong>it</strong>odopo l’ingresso c’era il bancone del bar, neroanche quello, con una grande vetrina illuminatadi una luce al neon azzurra come l’insegna esterna,piena di bottiglie.A parte due persone il locale era completamentevuoto e dominato da un odore di fumo misto avernice fresca e ad arredi nuovi.A uno dei due tavolini sedeva un uomo sui quarantaintento a finire l’ultima birra. Nell’altro, dovesi stava dirigendo il ragazzo biondo, stava un


My Funny Valentine25uomo di circa cinquant’anni con la testa quasicompletamente calva e con i pochi capelli rimastiportati lunghi fino quasi alle spalle, di colore salee pepe. Portava una camicia aperta fino quasi allostomaco sporgente e dei jeans entrambi neri. Adornamento del petto glabro ed abbronzato avevauna grande medaglia d’oro. Era esattamente comelo avevo immaginato qualche giorno prima al telefono.Il ragazzo biondo, mi avvertì: « A mio padrepiace solo il liscio, ma pensa che il jazz possa farguadagnare quest’anno, ha riadattato il night dell’hoteldi mia madre, non essere troppo tecnico,non sa niente di musica ». Il giovane si preoccupava,non voleva che facessi fare una brutta figura asuo padre. In quel momento l’unica cosa che miinteressava era dormire fino al pomeriggio dopo,certamente non mi sarei messo a far pesare lemie conoscenze.Il ragazzo, rivolto al padre, disse, abbastanzaforte perché sentissi anch’io: « È arrivato BrunoIncerti, la sua camera è già pronta ». Tornando adove eravamo venuti mi salutò con un cenno chericambiai.Saverio si alzò per salutarmi, aveva un bel sorrisodi resina e dei modi molto gentili; mi fece sedere.Con un forte e simpatico accento romagnolo midisse: « Bravo, Incerti, la stavo aspettando, lo sache lei è fortunato, come mi sarebbe piaciuto suo-


26 Gianpaolo Borghininare il pianoforte, suona quello, vero? » Parlandoera andato verso il banco del bar. « Posso offrirequalcosa da bere? » Io avevo sete e così chiesiuna birra. Saverio tornò con una lattina di una rarabirra danese e me la porse senza il bicchiere.« Kurt arriva domani, stasera suona a Ferrara. »Dicendo questo cominciò a darmi del tu. « Là sìche suonano, io sto cominciando adesso, per averegli agganci ho dovuto telefonare ad un ferrareseche mi ha dato le dr<strong>it</strong>te giuste, lui li conosce tutti.» Immaginai a chi si riferiva, poi continuò:« Domani pomeriggio Kurt vuole provare versole tre, va bene per te? » Io gli dissi di sì con la testae visto che mi stavo addormentando gli chiesi sepotevo andare in camera. « Ma certo, scusa chesei stanco, vieni che ti accompagno. » Dicendomiquesto Saverio si alzò e passando per una scala interna,che cominciava da dietro il bar, arrivammonella hall dell’albergo.Era buia e un po’ logora, la tipica hall di un hotelstagionale, con non troppe p<strong>rete</strong>se. A quell’oraera deserta, Saverio prese la chiave <strong>dalla</strong> receptione me la diede. « È la numero 236, secondo piano,l’ascensore è a destra vicino la scala, ti ho dato lapiù fresca, oggi ci si dura che alle cinque ha fattoil temporale, ieri non si respirava, prima o poimetterò l’aria condizionata, adesso devo pensareal locale, buona notte. » Ringraziandolo presi la


My Funny Valentine27chiave e trascinando il sacco con le mie cose andaiverso l’ascensore.La camera era onestamente pul<strong>it</strong>a in linea conla hall. Il letto mi sembrava un miraggio, eranogià le sei e mezzo; mi tolsi le scarpe e buttai lasacca in un angolo e mi stesi.Il ricordo di Giorgia uscì dal buio improvvisamente,con una forza dirompente. Lei mi mancavagià, moltissimo; solo in quell’istante, al buio, conla prima luce del mattino che filtrava <strong>dalla</strong> tapparella,steso sul letto, avevo realizzato che mi avevalasciato. Mi sembrava che una mano si fosse piantatanello stomaco, che avrei fatto dopo quel concerto?Non avevo altri ingaggi per quasi un mese.Non riuscivo più a pensare, mi addormentai pensandoa lei, mi vennero in mente tanti momenti felici,solo quelli.Mi svegliai alle due del pomeriggio passate,con una gran fame e con una parte di me che pensavaa Giorgia. Questo mi metteva una grande inquietudine.Scesi: la sala da pranzo era già chiusa.Lasciai la chiave alla reception e mi misi alla ricercadi un bar sul lungomare.Il contesto era molto cambiato <strong>dalla</strong> notte prima.Molti ragazzi popolavano la spiaggia, le famiglieavevano lasciato asciugamani e giochi sottogli ombrelloni ed erano in casa, a riposare dopoil pranzo. Pensai a quando quei giochi erano miei,molti anni prima.


28 Gianpaolo BorghiniEntrai nel bar di un bagno e ordinai un cappuccinocon una brioche. Me la gustai con calma, lentamente,osservando il movimento verso il mare.Ogni tanto arrivava qualcuno al banco ad ordinareuna piadina o un panino. Avrei voluto prendere unlettino, stendermi a prendere il sole e dimenticareGiorgia, ma non era possibile.Tornai in albergo e mi feci una lunga doccia,poi scesi al club, erano le tre. Kurt Miller e gli altrimi stavano già aspettando, c’era anche Saverio.Kurt era seduto con la tromba in mano che sfogliavadei fogli di musica. Saverio si avvicinò emidisse col sol<strong>it</strong>o sorriso: « Eccoti in perfetto orario,i ragazzi stavano preparando, sei in forma? »« Certo, certo, ho dorm<strong>it</strong>o bene, grazie », risposi.Fui presentato a Giulio il batterista e ad Andreail contrabbassista. Kurt grugnì un saluto in inglesee si rimise a rovistare i suoi fogli. Era alto, biondo,un po’ stempiato, sembrava molto invecchiato <strong>dalla</strong>copertina del disco con Coleman, poi pensai cheerano passati più di vent’anni.Mi misi al piano cercando di svegliarmi completamente,lasciando che le mani suonassero senzacontrollo. La mente era sempre su Giorgia.Kurt si alzò di scatto dicendo: « Boys, are youready? » Tutti rispondemmo con un cenno dai nostriposti di combattimento. Aveva scr<strong>it</strong>to la scalettadei pezzi da suonare quella sera su un foglio,era scr<strong>it</strong>ta con un grosso pennarello nero in stam-


My Funny Valentine29patello; l’avrebbe poi attaccata da qualche parte inmodo che tutti potessero vederla. I brani erano tuttistandard molto conosciuti da Seven Steps toHeaven a Oleo, daAutumn Leaves a Round Midnight.Dopo aver accertato che tutti conoscessimoi pezzi mi disse quelli dove voleva un’introduzionedi un paio di giri di piano solo. Sulla scaletta, difianco ai t<strong>it</strong>oli, aggiunse il numero di giri di assoloper ogni strumento.Iniziammo. Saverio ci osservava da un tavolinobevendo un succo di frutta. Tutto andò come doveva,i pezzi passavano uno dopo l’altro, come liavevamo suonati centinaia di volte. Kurt era ungrande, anche se non spingeva più di tanto, la r<strong>it</strong>micafaceva il suo lavoro: eravamo un buon gruppo,anche se era la prima volta che suonavamo insieme;alle cinque avevamo fin<strong>it</strong>o.Ero più rilassato, il concerto sarebbe andato bene,il giorno dopo il mio nome sarebbe stato sullacronaca locale di Rimini, associato a qualche elogiodi circostanza. Giorgia in quel momento mimancava un po’ meno.Passammo un po’ di tempo insieme, Kurt raccontò,in un americano <strong>it</strong>alianizzato, gli anni conOrnette e i tanti aneddoti sui grandi che aveva conosciuto.Qualche volta si rideva, qualche volta sirimaneva male, insomma senza accorgerci arrivòl’orario di apertura del club e noi andammo in ca-


30 Gianpaolo Borghinimera a prepararci, avremmo mangiato dopo il concerto.Da solo, in camera, mi stesi sul letto e Giorgiatornò sub<strong>it</strong>o. Non riuscivo a pensare che a lei, cercavodi spostare la mente alla serata, a qualsiasi altracosa, ma tutto era inutile, c’era solo lei.Rimasi così, in uno stato di torpore, con gli occhisemichiusi, fino a quando non mi resi contoche erano le dieci, si cominciava alle dieci e mezzo.Mi cambiai e scesi, doveva fare un gran caldo,visto l’atteggiamento di due signore che incontraiper le scale, io non ci avevo fatto nemmeno caso.Il club era pieno di gente, le voci coprivano ilColtrane di sottofondo. Una foschia fumosa avvolgeval’ambiente. Kurt e gli altri erano seduti neltavolino vicino al palco, che era vicino alla pa<strong>rete</strong>in fondo al locale. Mi misi a sedere con loro ed ordinaiuna birra. La testa mi girava, mi sentivo a disagio,non riuscivo a dimenticare Giorgia. Scambiaianche un paio di ragazze per lei, l’unica cosache capivo era che non potevo andare avanti cosìper molto.Dopo qualche minuto arrivò Saverio, era moltosudato e correva da un tavolo all’altro. Salutava edistribuiva sorrisi di resina un po’ a tutti, ci fececenno di cominciare.Dopo aver preso posto sul palco e aver aspettatola fine degli applausi cominciammo con AutumnLeaves. I primi tre pezzi andarono bene, il pubbli-


My Funny Valentine31co seguiva attento, Kurt era veramente grande enoi <strong>it</strong>aliani facevamo la nostra parte. All’iniziodel quarto brano il ricordo di Giorgia diventò insopportabile.Non volevo essere lì, volevo correrea Bologna, volevo parlarle, vederla, toccarla.Cominciai a distrarmi, in Oleo attaccai il mioassolo quasi un giro dopo, Kurt mi lanciava delleocchiate di fuoco. Malgrado tutto il pubblico erasoddisfatto ed applaudiva molto. Fin<strong>it</strong>o il primoset, Kurt mi chiese di svegliarmi prima di mandaretutto a puttane, era molto arrabbiato.L’unico pezzo che avevo voglia di fare era MyFunny Valentine. Un brano d’amore triste ed appassionato,l’autore doveva passare un momentocome il mio quando lo ha scr<strong>it</strong>to. Pur non essendoin programma Kurt e gli altri furono d’accordo disuonarlo. Si decise che avrei fatto tre giri di introduzioneda solo. Alla ripresa partimmo come appenadeciso. A metà del secondo giro Kurt mi fececenno di continuare senza di loro ed assieme aglialtri lasciò il palco.In quel momento My Funny Valentine era entratodentro di me. Ci misi tutto il cuore, il dolore,la passione, attraverso la musica volevo, dovevodimenticare Giorgia.Non so quanto tempo lo feci durare, per lungh<strong>it</strong>ratti non riuscivo nemmeno a respirare. Quandofinii con l’ultimo accordo, il locale esplose in unlungo applauso. Kurt venne sul palco e mi abbrac-


32 Gianpaolo Borghiniciò, per ringraziarmi dell’emozione che gli avevodato.La tensione era spar<strong>it</strong>a, ero tranquillo, avrei potutoriprendere la mia v<strong>it</strong>a ora.Il concerto finì ed io mi sentivo leggero e felice.Sapevo che la mattina dopo avrei telefonato aGiorgia, sarei andato da lei a prendere le mie cosee che la mia v<strong>it</strong>a avrebbe ripreso il suo corso.Niente sarebbe stato come prima, ma non avevopiù paura.


Il materasso a molle33MASSIMIANO BUCCHIIl materasso a molle


34 Massimiano BucchiNON voleva darmelo. Non ne voleva sapere.« Guardi », insisteva, « guardi che meravigliaquesto modello ortopedico in puralana. Se invece cerca qualcosa di più particolare», e qui ammiccava in modo irr<strong>it</strong>ante, « là infondo abbiamo anche un nuovo tipo ad acqua. »Non la smetteva più di parlare della qual<strong>it</strong>à la convenienzae il design. Il design. Mi guardi (avreidovuto dirle), mia cara commessa fintobionda.Mi guardi bene e mi dica se le sembro nella posizionedi mettermi a considerare il design. O unaposizione in cui si possa trovare giovamento daun materasso ortopedico. E se da sola non lo capisce(avrei dovuto dirle) glielo spiego io, perché avolte è bene che tra commesso e acquirente si stabiliscala più completa sincer<strong>it</strong>à. Glielo dico io inche posizione mi trovo. Nella posizione di uno cheda cinque mesi e mezzo (avrei dovuto dirle) si trovacome vicina di casa – e dico vicina di casa perdire accanto, stesso pianerottolo, un quarto delle


Il materasso a molle35pareti in comune, non semplicemente stesso quartiereo stesso palazzo – una che sembra usc<strong>it</strong>a dauno spot del Martini. Sobria, perdipiù. Con tutte lecose a posto, ma fine. Semplice, ma elegante. Insomma,cinque mesi e mezzo di intim<strong>it</strong>à in ascensoreche a due piani alla volta fanno quattro pianial giorno e in cinque mesi e mezzo sono quasi cinquecentopiani assieme. Cinquecento piani senzamai una parola. Mai una risposta, anche solo dicortesia, alle mie battute. Nemmeno un luogo comunedi quelli che di sol<strong>it</strong>o sostengono l’impalcaturastessa dell’ascensore imperniandola su considerazioniatmosferiche o su commenti al carov<strong>it</strong>a.Possibile? Possibile che non le sia mai mancato lozucchero, l’olio o il sale? Da cinque mesi e mezzotengo sempre pronte intere scorte di zucchero, olioe sale. Tutto inutile. Capisce? (avrei dovuto dirle)Capisce adesso la grav<strong>it</strong>à della mia s<strong>it</strong>uazione?Capisce perché ho bisogno di quel maledetto materassoa molle e non me ne frega un cazzo se èantiquato, fuori moda e fuori catalogo, se non hail design firmato dallo stilista Baschetto e non ènemmeno quello su cui dormono le dive? No? Alloraglielo spiego meglio, glielo spiego. Perché iol’ho cap<strong>it</strong>o come mai la mia vicina non mi prendein considerazione. Lei mi vede con questa facciada bravo ragazzo e mi sottovaluta. Pensa che iosia uno di quelli che parlano parlano ma poi sottosotto combinano poco. Ecco a cosa mi serve un


36 Massimiano Bucchimaterasso a molle, di quelli ferrosi che fanno rumoresolo a guardarli. A fare un casino della malora,a farle pensare che in camera mia ci siaun’orgia ogni sera, a farle suonare il campanellonel pieno della notte implorandomi di interromperequella tortura dei sensi e in ultimo di proseguirlacon lei soltanto, cosa che io farei passare comeuna concessione inv<strong>it</strong>andola con un certo distaccoa entrare in soggiorno (devo ricordarmi di toglierequel poster di Rivera dal corridoio) mentre mi aggiustola vestaglia da camera nuova (la vestaglia,non la camera). Tanto meglio allora se è vecchioquesto materasso, se le molle dentro sono bolsee arruggin<strong>it</strong>e. Cederà prima, la furbacchiona checrede tanto di fare la superiore. Sperando chenon ceda prima il materasso.Questo avrei dovuto dirle alla commessa fintobionda,e forse l’avrebbe piantata di condurmi inquella gimcana estenuante di marche e garanzie,offerte speciali e formule premio.Invece l’ho fissata in silenzio, mentre la leggerasbavatura di rossetto che aveva su uno dei denticentrali si rifletteva sulla cera del pavimento.« Mi spiace, per quel tipo di modello il trasportoè a carico del cliente. » Forse in realtà avrei dovutostrozzarla. Magari la fama di killer dei centri commercialimi avrebbe dato lustro nel condominio. Ilmalvivente ha sempre un certo fascino sulle donne.Anche gli assassini più feroci ricevono sempre


Il materasso a molle37un sacco di proposte di matrimonio in carcere. Secon il materasso non avesse funzionato avrei dovutofarci un pensiero. Mi sono venute sub<strong>it</strong>o inmente un paio di persone da accoppare, a cominciare<strong>dalla</strong> moglie del portiere che mi ha colto inpieno trasbordo del catafalco. È saltata fuori, presumibilmenteattirata dal cigolio delle molle, e sub<strong>it</strong>omi ha vietato categoricamente l’uso dell’ascensoresostenendo che avrei sicuramente colp<strong>it</strong>oil lucernario. Due piani a piedi. Bell’inizio. Nevarrà, la pena, ho pensato.E invece niente. Da tre notti ogni notte tutta la notterimbalzo sul materasso producendo suoni inequivocabili.Ma il campanello non suona. Anchel’illusione che fosse guasto è durata poco. L’hosmontato e rimontato più volte. Ho chiamato unamico elettricista. Si è offerto di registrarmi l’audiodi una videocassetta porno se il materasso amolle non bastasse. L’ho ringraziato. Come soluzionemi è parsa eccessiva. Eppure lei è in casa,l’ho vista. Abbiamo fatto come sempre assieme idue piani, a cui si è aggiunto oltretutto un insperatotempo di attesa per via della moglie del portiereche stava fingendo di pulire l’ascensore. Ci ha infamatoentrambi per averle rovinato il lavoro e hasub<strong>it</strong>o approf<strong>it</strong>tato della scusa per sospendere lastessa simulazione.


38 Massimiano BucchiQuest’offesa pat<strong>it</strong>a in comune non è bastata astabilire tra di noi la benché minima complic<strong>it</strong>à.La ragazza è rimasta del tutto indifferente.Così sono qui. Solo. Anche se per la ver<strong>it</strong>à siamoin tre: io, il materasso e Joe Jackson che cantaFools in love senza riguardo per la mia posizioneche adesso è supina ma non per questo menodrammatica. Almeno il materasso ha le molle eJoe Jackson la sua band (che tra l’altro non mela ricordavo così potente, ma di quando è questodisco?) L’unico davvero solo sono io. Forse. Magarici ha messo un po’ a capire da dove venivanoquei rumori mostruosi. Per forza. Non ho certo lafaccia di uno... Ora il campanello suona. Dai. Orail campanello suona e io vado ad aprire a torso nudo(devo ricordarmi di togliere quel poster di Riveradal corridoio) e lei ci rimane secca perchécon quel rumore pensava di trovarsi davanti comeminimo non so chi e invece. E se fosse usc<strong>it</strong>a?L’avrei sent<strong>it</strong>a. Con questo casino che faccio?Sì. L’unica possibil<strong>it</strong>à sarebbe un’usc<strong>it</strong>a di servizio.Una botola nel ripostiglio come nei film. Inogni caso non potrebbe essere una botola versol’esterno. Al massimo verso il piano di sotto oquello di sopra. La cosa più terribile sarebbe chese la intendesse con uno dei condomini e lo raggiungesseattraverso la botola. Dunque, sotto dilei... Oddio, e se in questo momento si stesse accoppiandogaia gaia con il ragionier Ghisoli?


Il materasso a molle39No, non è possibile. Il ragionier Ghisoli va a lettotutte le sere alle nove meno venti tranne i mercoledìdi Coppa. E oggi non è mercoledì. Osì? No, èmartedì. Almeno spero. Comunque se anche fossemercoledì sarebbe sveglio ma incollato al televisoree non si staccherebbe neanche se una comequella gli sbucasse in salotto. E sopra? Se avesseuna botola che la porta al piano di sopra? No, soprac’è solo la vedova Ungaro. Non viene alle riunionidi condominio perché soffre di cuore, figuriamocise si fa arrivare la gente in casa attraversouna botola nel pavimento.No, adesso suona. Suona. Suona davvero e io cimetto un po’ a rendermene conto perché la musicaera davvero alta e se avessi rovinato tutto l’effettocosì, coprendo con i toni alti il cigolio sensuale delmio bel materasso a molle? Sta’ a vedere che sentendola musica così forte pensa che Joe Jacksonsia venuto a trovarmi e viene a cercare lui. Oh, insomma.Intanto il contatto è stabil<strong>it</strong>o e poi si vedrà.Vado ad aprire (ormai è tardi per togliere quelposter di Rivera dal corridoio e cerco di coprirlomettendomi di traverso mentre apro). Ecco. Nonè lei. Me ne accorgo dagli occhiali e <strong>dalla</strong> testa pelatache mi trovo davanti. « Seeeenta. » Il portiere.Incredibile. Un sua apparizione di persona nelcondominio non si registra dal Natale precedente,quando una delegazione di inquilini e proprietarigli ha consegnato un regalo vagamente allusivo,


40 Massimiano Bucchiuna maglia con numero dodici, tanto per dire checome portiere poteva al massimo fare la riserva.Per il resto entra ed esce da una cassa mutua all’altracome un agile vampiro, sost<strong>it</strong>u<strong>it</strong>o nelle incombenzepiù pressanti <strong>dalla</strong> simpatica consorte. Forsel’anno prossimo dovremmo regalare a lei una magliacon il numero ventidue. Tanto il mar<strong>it</strong>o è semprein canottiera con qualunque stagione e temperatura.I primi tempi pensavo che fosse una canottieradi quelle pesantissime che vendono in farmaciae che per quello il portiere facesse tanta faticaa camminare. In realtà, come poi avrei scoperto amie spese (e non è un modo di dire), l’impianto diriscaldamento centralizzato del condominio è dalui regolato in modo da poter stare sempre in canottiera.Praticamente fa un caldo bestia sempre.Spesso con il conguaglio di fine anno della bollettadel gasolio arrivano anche i complimenti dell’aziendaforn<strong>it</strong>rice. Alcuni condomini hanno propostodi installare una piccola serra di piante tropicalial piano terra, proposta respinta nel corso diun’infuocata riunione condominiale per la forte resistenzadella signora Marpetti, proprietaria di benduecentocinquantasei millesimi, che temeva ilproliferare di insetti e rettili sugli zerbini.« Avrebbmicdellozuccherchemiamogliesièdimenticatadicomprarl», soffia in un colpo solo, accompagnandoil soffio con gesto della mano versoil basso che lo solleva da ogni responsabil<strong>it</strong>à per


Il materasso a molle41quella richiesta, scaricandola per intero sulla sottostanteconsorte.Non è lei. « Prego », dico senza convinzione(purché faccia presto). Mi segue in cucina. Lo liquidocon due scatole di zucchero in polvere e trepacchi di zollette.« Bastchepoiamiamogliecidànoiaildiabet », siavvia barcollando verso la porta. Apro io perchélui ha le mani occupate. « RRRRivederciegrazie. »« Quando vuole », faccio io. « Di zucchero comevede ne ho sempre tanto. » Forse mi sono fattoun alleato. Mi potrebbe essere utile per capire checosa balla in testa alla vicina. Meglio tenerselobuono. Pattina via con le sue ciabatte a quadri.Mi chiedo che ore siano. Ho paura che sia già mattina.Meglio vestirsi. Tanto ormai. Non ho neanchevoglia di fare colazione. È già tardi. Scendo.La consorte-sost<strong>it</strong>uta mi blocca con il suo sol<strong>it</strong>otono imperativo all’usc<strong>it</strong>a dell’ascensore. Oddio.Ho dimenticato di pagare le spese condominiali?Non mi pare. Che il cigolio delle molle sia arrivatofino alle sue orecchie sensibilissime? Non è daescludere. Che voglia denunciare le mie manovredi corteggiamento nel corso della prossima riunionedi condominio, offrendole al ludibrio collettivoincluso quello della mia misteriosa vicina? Mi avvicinosorridente. « Vuoluncaffè? » Es<strong>it</strong>o a rispondere,incredulo. Lo interpreta come un assenso.« Contuttlozuccherchecihadat. » Parla veloce co-


42 Massimiano Bucchime il mar<strong>it</strong>o, solo a un volume di voce più che triplo.Bevo il caffè fortissimo nella guardiola mentrela mia vicina di casa attraversa l’atrio, bella eimpassibile come al sol<strong>it</strong>o. « Eh », tossisce scuotendola testa la moglie del portiere. Il colpo d<strong>it</strong>osse fa ballare la tazzina sul tavolo. « Aaaavoltpiùsoncarinpiùsonsfortunat.»«Èorfana? » chiedo cercando di mostrare il minorinteresse possibile.« Macché », sventola la destra come a scacciarela mia supposizione e scandisce le parole con ined<strong>it</strong>achiarezza, « è sorda, poverina. »Sono tornato al centro commerciale per rest<strong>it</strong>uireil materasso. Per fortuna non c’era la commessadell’altra volta. Non avrei sopportato il suo sguardosarcastico. Non che la sua collega fosse da meno.Forse però era un po’ più carina. « Purtroppoquesto modello è fuori garanzia, lo sapeva vero? »Ma sì, masì. « Ecco, se ne avesse preso uno dellalinea ortopedica del Dr. Krauss o uno della Rigaflexavremmo potuto rimborsarle l’intera cifra. Maquesto... »Lasci perdere (avrei dovuto dirle). Piuttosto nonvorrebbe provare con me se è davvero fuori garanzia?Ecco cosa avrei dovuto dirle. Invece ho presosenza fiatare il buono per cambio merce che mi hadato. Nel reparto cartoleria con il buono ho preso


Il materasso a molle43due scatole di pennarelloni colorati e un pacco difogli bianchi formato extralarge. Sono tornato acasa e ho fatto degli enormi cartelli da attaccaresulla porta con la scr<strong>it</strong>ta AFFITTASI. Speriamoche qualcuno li veda.


44 Mauro CasacciaMAURO CASACCIAQualche v<strong>it</strong>a di Carlos Corteza


Qualche v<strong>it</strong>a di Carlos Corteza45SENZA soste aveva percorso i due isolati cheseparavano l’edicola dal portone della pensionedove alloggiava. Con il giornale nellatasca interna dell’impermeabile, tirando su ilbavero fino all’altezza delle tempie si era lasciatouno spazio visivo minimo, come quello che i paraocchiconcedono ai cavalli, ma tanto gli bastavaper tenere un’andatura svelta ed ev<strong>it</strong>are di inciamparenei marciapiedi mentre attraversava la strada,ruotando tutto il corpo in blocco per guardare adestra e a sinistra. In quella zona di Genova nonc’era un granché di traffico a quell’ora.Ormai da nove giorni usciva <strong>dalla</strong> pensione LaLanterna intorno alle dieci per comprare un pezzodi focaccia, bere un caffè non zuccherato, comprareil giornale e tornare alla sua camera. Rigorosamentein quest’ordine, perché dalle sue parti, inColombia, la focaccia non esisteva, invece Genovane era la cap<strong>it</strong>ale, e per lui che il profumo dellafocaccia lo aveva respirato nei ricordi di suo non-


46 Mauro Casacciano, genovese di Pegli, morderla calda, molto salatae quasi croccante, come prima cosa da fare almattino, era un dovere, per rispettare l’incredibilefame che lo coglieva appena sveglio e per fingeredi entrare in un ricordo del suo antenato. Poi la setela allontanava con il caffè, bollente e non zuccherato,e per entrambe le caratteristiche avevauna seria motivazione: ab<strong>it</strong>uato al clima dellasua Bogotà prima e dell’estate spagnola di Barcellonapoi, pativa il freddo subdolo del marzo piovosoe soprattutto ventoso di Genova. Da qui il caffèbollente. E gli piaceva il retrogusto della focaccia,gli piaceva il sapore del sale che gli rimaneva inbocca: il caffè preso senza zucchero era un’accortezzada usare per conservarne delle tracce. D’altraparte Carlos era uno di quelli che nei crackersalati in superficie mangiano prima, uno per uno,i chicchi di sale grosso che si distinguono, impegnandosianche a controllare contro luce. Erauno di quelli che passano ore seduti sugli scoglicon il mare che sbatte a pochi metri, come i protagonistidei romanzi, uno di quelli che si passanola lingua sui contorni della bocca per raccogliere ilsalino. L’edicola era l’ultima tappa, per essere sicuroche nessun articolo di giornale lo distraesseda focaccia e caffè. Poi tornava alla pensione perandare a leggere in camera, con il quotidiano bendisposto e ben aperto sul letto.Ormai da tre giorni la sua mattina era accompa-


Qualche v<strong>it</strong>a di Carlos Corteza47gnata <strong>dalla</strong> pioggia, ma sembrava non accorgersene,se non per l’accortezza di infilare il giornaleappena raccolto dalle mani dell’edicolante sottol’impermeabile, e alzare il bavero fin dove gliera possibile; camminava veloce, senza prestareattenzione alle pozzanghere, dando invece importanzaai sali e scendi dei marciapiedi, al poco trafficodi quella zona di Genova. Inoltre guardavacon la coda dell’occhio, sfilando nel temporale,le targhe delle auto parcheggiate: forse solo spir<strong>it</strong>odi osservazione, più probabilmente nuova deformazioneprofessionale; ormai era a tutti gli effettiun investigatore privato, e già da oltre un annonon era più un giornalista, come ancora amavadefinirsi.La sua carriera nella carta stampata non era maidecollata, bravo ma un po’ matto lo consideravano,e la Colombia di un giornalista con quelle caratteristiche,che si occupava di pol<strong>it</strong>ica e società,non sapeva che farsene. Dopo aver dimostrato diessere più bravo che matto, gli si era presentatal’occasione della v<strong>it</strong>a, il ruolo di corrispondenteper il New York Times; non era mai riusc<strong>it</strong>o a capireperché avessero scelto lui, nessun calcio inculo, nessuna amicizia altolocata, piuttosto disc<strong>rete</strong>inimicizie altolocate. Carlos Corteza, con unnonno materno genovese di Pegli che di cognomefaceva Corsiglia, corrispondente del Times.Un’opportun<strong>it</strong>à meravigliosa sfumata in modo


48 Mauro Casacciabanale, in uno di quei modi talmente banali da lasciaretanta voglia incredula di prendersi a pugni,se ce ne fosse il tempo; su un giornaletto minore diBogotà, legato a circoli culturali della cap<strong>it</strong>ale,orientato a sinistra e malvisto da tutti, notabili, governo,cartelli della droga, ambienti ecclesiastici,aveva avuto la bella e sconclusionata idea di pubblicareuna serie di pezzi in cui ipotizzava, senzafare alcun nome, quali fossero i sentieri della connivenzache portano alla strada del narcotraffico,così aveva scr<strong>it</strong>to. Senza alcun nome ma con riferimentiad eserc<strong>it</strong>o, Chiesa, classe pol<strong>it</strong>ica, nessunoescluso. Due giorni dopo il New York Timesaveva esaur<strong>it</strong>o con scelte alternative la sua necess<strong>it</strong>àdi corrispondenza da Bogotà.Il venerdì successivo, esattamente sei giorni dopola pubblicazione degli inopportuni articoli, ilgiornalista era spar<strong>it</strong>o nel nulla. All’alba dal sabato,in un campo poco fuori c<strong>it</strong>tà, un contadino avevarinvenuto un corpo, bruciato insieme all’alberoa cui era stato legato. Infilati nella carcassa c’eranodue pali di ferro: il primo entrava <strong>dalla</strong> bocca etrapassava cranio dell’uomo e tronco dell’albero,il secondo penetrava da sotto e teneva il corpoin posizione quasi eretta, come seduto su di unosgabello con l’albero come schienale. Nessuna rivendicazione.I documenti di Carlos Corteza eranoinchiodati ad una staccionata poco distante, insiemead una copia del giornaletto che aveva infasti-


Qualche v<strong>it</strong>a di Carlos Corteza49d<strong>it</strong>o qualcuno. La sua carriera nella carta stampataera terminata senza la soddisfazione di una qualchever<strong>it</strong>à, perché chi lo aveva sequestrato ed avevacompiuto l’esecuzione non gli aveva rivelatonulla, non gli aveva proprio rivolto la parola. Gliaveva rivolto soltanto silenzio.Così, da oltre un anno, Carlos tentava di dimenticaredi essere stato un giornalista, cercava di entrarea pieno nei suoi nuovi panni, quelli di investigatoreprivato. Si sentiva in obbligo di osservareminuziosamente le targhe delle auto posteggiate difronte alla pensione ed aveva notato che, da duegiorni e due notti, una vecchia Fiat Regata rossasostava sull’altro lato della strada; non era più ricomparsa,invece, la Renault Clio che aveva colp<strong>it</strong>ola sua attenzione tre giorni prima, targataGE400004.Si era asciugato grossolanamente le suole dellescarpe sullo zerbino già fradicio, più per il gesto dicortesia che per reale util<strong>it</strong>à, prima di oltrepassarela seconda delle due porte d’ingresso della pensione,quella a vetro che immetteva nella stretta edangusta scaletta da percorrere per arrivare al banconedella reception.Il portiere non c’era. Le altre mattine lo avevasempre trovato a sbranare cornetti o brioche, lastazza ne era testimone, e così aveva pensato chefosse andato a procurarsene una buona dose. Si eraautonomamente impossessato della chiave della


50 Mauro Casacciastanza e solo entrandovi, nel momento di smetterel’impermeabile, si era accorto di quanto fuori piovesseintensamente; aveva infatti smosso i suoi capellineri e lunghi di colombiano trentenne, li avevalasciati cadere bagnati sulle spalle ed alcunegocce fresche si erano calate lungo il collo fino allaschiena.Era andato alla finestra e, appoggiati alla Regatarossa, aveva scorto gli stessi tre individui cheaveva visto anche il giorno prima ed il giorno primaancora. Fumavano avidamente al riparo di duesoli ombrelli molto grandi, e vestivano in manierapiuttosto leggera rispetto alla temperatura del marzoventoso di Genova. Dai lineamenti, per quelche Carlos riusciva a capire da dietro le tendinedi panno blu della sua camera al primo piano, potevanoessere russi, il suo nuovo istinto d’investigatoreprivato, a cui non era ancora del tutto ab<strong>it</strong>uato,gli diceva che si trattava di russi. Forse marinairussi, di cui il porto di Genova era pieno inquel periodo. Sembrava che fossero venuti insiemealla pioggia, e perciò gli pareva naturale chese ne sarebbero andati da là sotto quando questafosse cessata, non prima; aveva ben allargato ilgiornale sul letto e, dopo un breve pensiero alla focacciasalata ed al caffè bollente non zuccherato,si era immerso nella lettura.Scorreva lentamente con lo sguardo tutte le pagine,tutti i t<strong>it</strong>oli dall’alto in basso, da sinistra ver-


Qualche v<strong>it</strong>a di Carlos Corteza51so destra, uno per uno, leggeva solo parte di certiarticoli, fino alla sesta pagina, dove aveva trovatociò che cercava; allora aveva aggiustato la composizionedei fogli del giornale sul letto ed avevapassato una mano sulla pagina per renderla perfettamenteliscia. Il t<strong>it</strong>olo, anticipato nel taglio mediodella prima pagina, era centrato in alto: « Ancoranessuna traccia dei killer ». Nell’occhiello avevaletto « ATTENTATO CORTEZA – Proseguono in Spagnale indagini sull’assassinio del magistrato colombiano». E nel catenaccio: « Il giudice IsabelBaquero: ’Carlos sapeva qualcosa’ ».Dopo aver rapidamente divorato le righe delpezzo aveva impugnato un paio di forbici e neaveva r<strong>it</strong>agliato i contorni; quindi, aperta la cartellinache conservava sotto il cuscino, vi aveva infilatoil r<strong>it</strong>aglio, estraendo al contempo la prima dellepezze di giornale giorno per giorno archiviate làdentro. L’aveva tenuta nella mano destra appoggiatasulle gambe, senza leggere, ripensando soloa cosa vi fosse scr<strong>it</strong>to per ricostruire ciò che giàaveva vissuto. E il suo pensiero si era costru<strong>it</strong>o comeun radiogiornale d’epoca, con immagini confusedettate <strong>dalla</strong> fantasia ed una voce solenne araccontare i fatti. « Il magistrato colombiano CarlosCorteza era sul punto di rendere noti i risultatidelle indagini svolte a propos<strong>it</strong>o di un presuntocollegamento tra il cartello del narcotraffico diMedellin e la nuova malav<strong>it</strong>a organizzata russa,


52 Mauro Casacciaquando è stato brutalmente assassinato insieme atutta la sua scorta. Corteza si trovava a Barcellonaper contattare alcuni magistrati spagnoli, anch’essiimpegnati nello stesso caso; ma non è mai arrivatoa destinazione. L’auto che lo aveva prelevato all’aeroportoè esplosa senza lasciare superst<strong>it</strong>i. »Ricordava di aver sistemato la ventiquattroresulle ginocchia e di aver guardato fuori attraversoil finestrino, il cielo era azzurro e completamentespogliato di nuvole; scorrendone la vast<strong>it</strong>à dall’autoin corsa aveva incrociato con lo sguardo il baglioreaccecante del sole, istintivamente avevachiuso gli occhi e gli erano rimaste incise nellapercezione improvvisa del buio due macchie colorate,una sopra all’altra, quella superiore verdescura, quella sottostante viola. Non era più riusc<strong>it</strong>oa riaprire gli occhi e, a poco a poco, anche le duemacchie di colore erano scomparse. Con esse erasvan<strong>it</strong>o il suo brillante lavoro di magistrato.Si trovava a Genova nelle vesti di investigatoreprivato per conto della Frankfurt Assicurazioni edoveva raccogliere informazioni a propos<strong>it</strong>o dell’affondamentodi una nave norvegese avvenutotre settimane prima nell’Atlantico, all’altezza delTropico del Cancro. Si trattava di una imbarcazionefinanziata da filantropi di tutta Europa, assicuratapresso i datori di lavoro di Carlos, che svolgevatra i Caraibi ed il Med<strong>it</strong>erraneo delle ricerche


Qualche v<strong>it</strong>a di Carlos Corteza53scientifiche sulle correnti marine. Almeno ufficialmente.Le cause dell’affondamento erano banali, semplicementeun’accidentale esplosione in un motore;un solo messaggio di SOS inviato, e una naverussa che si trovava a poche miglia era riusc<strong>it</strong>a atrarre in salvo tutto l’equipaggio e parte degli strumentidi ricerca. Ora quella nave stazionava nelporto di Genova, Carlos agiva nel suo ruolo di investigatoreprivato: non lo convinceva il fatto chel’equipaggio della nave ricercatrice fosse anch’essoin gran parte russo, e che del materiale di ricercatratto in salvo si fossero perse le tracce. Inoltre,secondo le sue informazioni, quella nave russa ancorataa pochi metri <strong>dalla</strong> pensione La Lanterna,che trasportava rifiuti compiendo ogni sei mesilo stesso trag<strong>it</strong>to, in quel periodo dell’anno avrebbedovuto trovarsi altrove, nei pressi del mar Baltico.E poi c’erano quelle notizie passategli sottobancoda un amico magistrato di Barcellona, relativealla possibil<strong>it</strong>à che il traffico di droga <strong>dalla</strong>Colombia verso l’Europa avesse preso ad esseregest<strong>it</strong>o da organizzazioni russe.Carlos r<strong>it</strong>eneva che tutti quegli elementi potesseroessere collegati, l’attesa impotente lo convincevaogni giorno di più che fosse così, prendevacorpo nel suo pensiero l’idea che la droga fossecontenuta negli strumenti di ricerca poi scomparsi,e con essi fosse passata <strong>dalla</strong> nave pseudoricerca-


54 Mauro Casacciatrice alla nave russa. Il problema era non averemolto tempo a disposizione, perché la FrankfurtAssicurazioni non sosteneva ipotesi così fantasiosee le giornate liquide scivolavano via, senza chenulla accadesse per smuovere quella s<strong>it</strong>uazione distallo. Come se con la pioggia tutto si fosse bloccatoe solo al suo cessare qualcosa sarebbe successo.Era trascorsa un’altra notte lenta e bagnata incui Carlos era sceso in strada per cercare di capirequanto l’oscur<strong>it</strong>à modificasse il vento di Genova.Il mattino seguente focaccia caffè e giornale comesempre, ma in camera, smettendo l’impermeabile,si era accorto che i suoi capelli neri di colombianotrentenne non erano bagnati. Si era accasciato aterra quasi contemporaneamente al suo impermeabile,senza riuscire a sentire il sangue che gli uscivadal buco in mezzo alla testa e gli impregnava lachioma sparsa.Così Carlos Corteza stava buttato sul pavimentoal primo piano della pensione La Lanterna, zonaporto di Genova, con un buco in testa, la faccia nellapolvere, il sangue tra i capelli ed il giornale nellatasca interna dell’impermeabile di fianco a lui, inattesa di un ruolo in qualche altro racconto. Mentregiù in strada una Regata rossa sfrecciava via inun’ora in cui in quella zona c’è poco traffico.


Qayyim al-Qor’an55ROBERTO CONCUQayyim al-Qor’an** « Il custode del Libro »


56 Roberto ConcuASPETTO. Sono due ore ormai. E nella salafa un caldo tagliente. Su un cammello inmezzo al deserto avrebbe fatto meno caldo.Io poi non lo sopporto, il caldo. M’irr<strong>it</strong>a profondamente.Aspetto. Nessuno si preoccupa di me. Nessunochiede. Semplicemente nessuno entra in questa sala.Ho sbirciato più volte nel corridoio ma non sivede anima viva. E non oso andare in giro per l’edificio.Aspetterò ancora quindici minuti. Poi andròvia. La luce esterna penetra attraverso le altefinestre schermate dai pannelli arabeschi e disegnacasuali incroci di raggi che si spengono sulle lucidemaioliche del pavimento. Lo sguardo s’incantanel seguirli, a volte sembra di riconoscere i tratti diun volto conosciuto, familiare...« Professore... Professore, mi scusi per averlafatta attendere così a lungo. » Finalmente, ma accettole scuse solo per educazione. « Il portiere mi


Qayyim al-Qor’an57ha rifer<strong>it</strong>o... ma l’appuntamento non era per le dodici?»« No... avevamo stabil<strong>it</strong>o per le dieci... stamattinaalle dieci. »« Oh, allora deve esserci stato un malinteso conAsira, la mia segretaria... » La segretaria? Io nonho parlato con lei.Il professor Yonayd m’inv<strong>it</strong>a a seguirlo nel suoufficio, all’ultimo piano. Più si sale più il caldoaumenta, tanto che, gradino dopo gradino, misembra quasi di mancare. Per fortuna nell’ufficioc’è l’aria condizionata. Una piacevole contraddizione.Lo sbalzo di temperatura mi stordisce perun attimo, quanto basta per ab<strong>it</strong>uarmi a quel benedettorefrigerio.« Deve ammettere che il suo progetto è ambizioso...»«Sì... lo riconosco... »« Forse troppo ambizioso... »« Certo, scrivere l’atlante mondiale etnografico,con la descrizione scientifica e rigorosa di tutti ipopoli della terra, la loro cultura, la storia... sì, èun’impresa notevole. Diciamo pure ambiziosa,ma credo assai utile... »« Utile? Per chi mai potrebbe essere utile una ricercaispirata unicamente dall’ambizione scientifica?Lei dimentica che conoscere è possedere. Esolo Allah può possedere tutta la conoscenza. In


58 Roberto Concuogni caso, sono spiacente: io non sono la personagiusta per lei. »« Ma... il rettore Soharaward mi ha assicuratoche lei è uno dei più profondi conosc<strong>it</strong>ori dellacultura siriaca... »« Se il rettore Soharaward le ha detto veramentequesto non posso che averne piacere. Ma le ripetoche io non sono la persona che fa al suo caso. »« Mi scusi, e per quale ragione? »« L’esimio rettore Soharaward le ha detto bene:io, senza mancare di modestia, sono uno dei piùprofondi conosc<strong>it</strong>ori della nostra cultura... Unodei conosc<strong>it</strong>ori, appunto. Ma c’è qualcuno che sicuramentepotrebbe aiutarla più di me. Uno stimatissimoprofessore di Aleppo, docente di Antropologiacoranica ma, per i fichi del profeta! è necessarioche la metta in guardia: non si aspetti moltoda Biruni, è molto geloso delle sue conoscenze...ma può darsi che questa volta mi sbagli, Biruniè un uomo imprevedibile... Comunque, se permette,le fisserò io un incontro... diciamo per domattina?Sì? Sì. Così avrà tutto il tempo di arrivare concalma ad Aleppo. Asira le farà sapere entro l’oradel pranzo se e a che ora Biruni è disposto ad incontrarla.»Vado via. Ho atteso due ore per sentirmi direche il profondo conosc<strong>it</strong>ore non è la persona giusta!E per di più sino a domattina non potrò iniziareil lavoro. Se tutto va bene, naturalmente. Come


Qayyim al-Qor’an59volevasi dimostrare. Sono già le quattro del pomeriggioe nessuna notizia. Né di Asira né di Biruni.Chiamare all’univers<strong>it</strong>à e chiedere del professorYonayd? No, meglio pazientare ancora. Un passofalso e tutto potrebbe andare a monte.Mi sono informato su Aleppo. Dista quarantachilometri circa da Damasco. Una mezz’orettad’auto. Che non ho. Potrei noleggiarla, ma dove?dovrei chiedere qui in albergo... In pullman non sene parla neppu... Finalmente! squilla il telefono incamera.Il receptionist mi comunica che Asira attendenella hall. Dice di scendere senza fretta. Mi precip<strong>it</strong>o.Nella hall non c’è nessuno. Neppure il receptionistè al suo posto. Guardo in giro, tra lo smarr<strong>it</strong>oe l’esplosivo. Porca... Un clacson suona daun’auto ferma davanti all’ingresso dell’hotel. Dalfinestrino aperto una mano si ag<strong>it</strong>a.« Salga. » La sua voce si perde fra la seta dellochador.La Mercedes tira veloce in direzione di Aleppo.L’interno è accessoriato come solo potrebbe esserloun’auto da mille e una notte. L’aria condizionataè un refrigerio, il caldo afoso solo un ricordo.Asira guida sicura. Io sto seduto immobile inchiodatoal sedile. Lei pare ignorare il mio imbarazzo.


60 Roberto Concu« Il professor Biruni l’aspetta per domattina alledieci. Mi raccomando: il professore è estremamentepuntuale. Per questa notte lei sarà mio osp<strong>it</strong>e...»« Mi scusi, ma... »« Non si preoccupi » – immagino che, dietro ilvelo, lei sorrida –, « non ho alcuna intenzione disedurla! Ad Aleppo vivono ancora i miei gen<strong>it</strong>ori.È una c<strong>it</strong>tadina molto interessante, vedrà. » Ho lasensazione che ciò che qui s’intende per molto interessantenon coincida esattamente con quel cheintendo io... comunque...« Mi parli del professor Biruni », cerco di romperel’imbarazzo. La mia richiesta non la sorprende,ha l’aria di una donna sicura di sé... forse troppo...« Parlare di Biruni... in realtà non si può dire chisia. Per alcuni è un santo in terra, addir<strong>it</strong>tura c’èchi lo considera un profeta discendente in linearetta da Mohammad. Altri ne parlano come se fosseun millantatore e un impostore, uno che vendefumo per conquistare un potere sempre maggioree, mi creda, sul suo conto sono state dette e scr<strong>it</strong>tecose d’ogni genere! Dalla più fantastica e divinaalla più meschina e infamante. »C’è qualcosa di strano nella voce di questa donnadi cui riesco solo ad intuire i tratti del volto dietroil velo bianco. C’è come una specie di nota stonata,una contraddizione interiore che, come


Qayyim al-Qor’an61un’ombra, la incupisce... ma è solo una mia sensazione...« Una figura interessante... un personaggio insomma.»«Sì,sì» – ride appena – « si può dire che Birunisia proprio un personaggio pubblico suo malgrado.Lui non ama affatto esserlo e, anzi, fa di tutto perev<strong>it</strong>arlo... ma si sa, la gente costruisce i suoi idoli,i suoi m<strong>it</strong>i... »« E li distrugge altrettanto in fretta... »« Certo... credo per necess<strong>it</strong>à. O forse perchéc’è qualcuno che ha interesse a che le persone credanoche per vivere sia necessario avere degli idolie non ad esempio delle idee, e che questo sia deltutto normale... debba essere normale. Così comeper voi bere Coca-Cola o per noi fare la guerrasanta... »« Scusi ma non la seguo. Chi sarebbe questoqualcuno?»Non risponde. Z<strong>it</strong>tisce. Accelera all’improvviso.Quasi volesse arrivare d’un colpo ad Aleppo.Dal canto mio non faccio nulla perché la conversazioneriprenda. In fondo tutto ciò che m’interessaveramente è incontrare finalmente Biruni.L’appuntamento è alle dieci, ha detto Asira. Mipermetto di dub<strong>it</strong>are dell’estrema puntual<strong>it</strong>à di Biruni.Sono le otto e trenta ma non ho fame per farcolazione. L’albergo è semideserto.Ho prefer<strong>it</strong>o ev<strong>it</strong>are di dormire a casa di Asira e


62 Roberto Concusistemarmi, invece, in questo piccolo albergo ristorantein fondo alla via principale di Aleppo.A prima vista un’aria familiare ed accogliente.Anche se, in realtà, il nome è p<strong>rete</strong>nzioso: Al paradisodelle Uri... Stranamente, poi, il proprietarioparla un inglese appena comprensibile. Ha tenutoa sottolineare che spesso, di nascosto, rec<strong>it</strong>a anchele sue preghiere in inglese. Non capisco il perchédi questa sua premura. Bene. Non rimane che attendereAsira. Intanto... Bussano alla porta. Leinon può essere, abbiamo appuntamento per le novee trenta. Apro. Un inserviente dell’albergo miporge una busta senza dire una parola. Non aspettaneppure che io la prenda in mano e in tutta frettar<strong>it</strong>orna sui suoi passi.Egregio professore,son dovuta r<strong>it</strong>ornare a Damasco questa mattinapresto.La prego di scusarmi.ASIRAGiro e rigiro il bigliettino. Niente. Porca miseria!Non mi ha lasciato scr<strong>it</strong>to l’indirizzo, neanche unaindicazione per rintracciare Biruni!Al diavolo! Se proprio devo arrangiarmi da soloallora è meglio che mi muova sub<strong>it</strong>o. Chiederògiù.« Il professor Biruni? Lei ha un appuntamentocon il famoso professor Biruni? Ooh! Ma allora


Qayyim al-Qor’an63anche lei dev’essere un pezzo grosso! Poteva dircelosub<strong>it</strong>o... » il proprietario si rivela più untuosodi quanto non fosse apparso in precedenza. Cimanca solo che si profonda in inchini e salamelecchivari.« Le chiamo sub<strong>it</strong>o un taxi... »« Gliene sarei grato. Avrei una certa urgenza... »« Non si preoccupi. La porterà all’univers<strong>it</strong>à intempo utile. Perché è all’univers<strong>it</strong>à che deve incontrareil professor Biruni, non è vero? »«Sì... credo di sì... »Una smorfia perplessa gli si stampa fra gli occhi.Come se sospettasse che la mia sia una messain scena... Ma il sorriso della serie « il cliente hasempre ragione, soprattutto se straniero e paga indollari », è più veloce a r<strong>it</strong>ornare sulle sue labbradi quanto non lo sia lui a chiamare il taxi. Il taxiarriva che mancano quindici minuti alle dieci.Spero che l’univers<strong>it</strong>à non sia troppo distante dall’albergoaltrimenti...Esco. Sì, il taxi è arrivato, il motore è acceso,ma l’autista dov’è? Mi guardo attorno. Dell’autistamanco l’ombra. Dall’albergo esce il proprietario,si è cambiato d’ab<strong>it</strong>o... non credo a... indossauna di quelle classiche divise da chauffeur fuorimoda! Come gli chauffeur del resto... Sorridentesiede in macchina.«È distante l’univers<strong>it</strong>à?»« No, no. Dieci minuti e siamo arrivati. »


64 Roberto ConcuDopo pochi metri ci fermiamo al semaforo rosso.Un uomo si avvicina al finestrino, chiede l’elemosinamostrando un foglio allo chauffeur. Dal visonon riesco a capire quanti anni possa avere. Inogni caso mi pare che ne dimostri più di quanti neabbia. Il proprietario dell’albergo nonché chauffeurimprovvisato, o, forse, non tanto improvvisato,si volta verso di me e mi domanda se ho qualchedollaro per elemosina.Mi rassicura: dice che l’uomo è legalmenteautorizzato ad esigere l’obolo, il foglio che mostralo documenta. Potrebbe essere falso, commento.No, risponde sempre sorridente, sulla autentic<strong>it</strong>àdel foglio non si può dub<strong>it</strong>are: è la fedele riproduzionedella « Sura della Vacca », la pagina del Coranoin cui si esalta la bontà di coloro che dannol’elemosina! Gli allungo due dollari. Uno lo tieneper sé, l’altro lo consegna al questuante!Lo sollec<strong>it</strong>o a ripartire, il semaforo dà via liberama lui continua a parlare con l’uomo. Dai gestirabbiosi che fa quest’ultimo sembra non accettareaffatto la trattenuta compiuta dallo chauffeur, ilquale, con una mimica tutt’altro che convincente,portandosi la moneta fra i denti cerca di fargli capireche non c’è altro modo di dividere l’obolo...« Insomma! Vogliamo andare! Il semaforo èverde... »« Guardi che il semaforo è rosso. » Ha ragione,


Qayyim al-Qor’an65è diventato di nuovo rosso. Consulto l’orologio.Le dieci e cinque!« Ehi, adesso è verde, andiamo, sono già in r<strong>it</strong>ardo!»« Non prima di aver insegnato a questo impostorequali sono le sacre regole dell’elemosina. »Scende <strong>dalla</strong> macchina, inizia a l<strong>it</strong>igare con l’altroverbalmente e con veemenza. Esco anch’io. Dietro,una piccola colonna di auto ferme, ma gliautomobilisti non sembrano avere alcuna fretta,si godono la scena.« Mi dica almeno come faccio a raggiungere apiedi l’univers<strong>it</strong>à. » Si gira di scatto e mi puntadr<strong>it</strong>to negli occhi come se avessi commesso unacolpa. Poi sfodera il suo bel sorriso, tende il bracciodestro e indica la moschea di fronte a noi.« Mi aveva detto che ci sarebbero voluti dieciminuti di auto...! »« Certo: lei ha voluto che le chiamassi il taxi! »Mi fissa e prima ancora che me ne accorga lui el’amico scoppiano in una risata di cuore.« Buongiorno. Ho un appuntamento col professorBiruni. »« Non c’è.»« Come non c’è?»« Non c’è! Èandato via. »« Ma avevo un appuntamento alle dieci! »


66 Roberto Concu« Questo è possibile. Che ore sono adesso? »« Le dieci e un quarto... »« Appunto. »« Appunto cosa? »« Appunto, lei aveva appuntamento per le dieci.Il professor Biruni è estremamente puntuale e nonama aspettare. »« E non sa dove sia andato? »« Certo. »« E non lo può avvisare che... »« Oh, no, no. Non lo si può disturbare. »« Ma... »« No, no. Se vuole può attenderlo nella sala, laprima a sinistra. »« Ma che storia è questa?! »« Non insista. Il professore è part<strong>it</strong>o per Damasco...»« Per Damasco?! »«Sì. Per un’intervista con una giornalista dellatelevisione di Stato. Non tornerà prima di domani.»« Professore... Di nuovo qui... Ha parlato col professorBiruni? »Gli spiego in breve cosa è accaduto ad Aleppo.« Glielo avevo detto che Biruni è un uomo moltoimprevedibile, bizzarro... Quanto ad Asira miha pregato di dispensarla da qualsiasi servizio


Qayyim al-Qor’an67nei suoi confronti. Ma non conosco la ragione dellasua richiesta. »Io non so che dire. Rimango in piedi davanti allafinestra dell’ufficio di Yonayd, impietr<strong>it</strong>o dallosconforto come da un dolore irresistibile.« Mi dispiace davvero per Biruni. Le suggerireidi r<strong>it</strong>entare, magari cercando di prenderlo per lasua van<strong>it</strong>à. Purtroppo possiamo ben dire che lasua van<strong>it</strong>à è grande quanto la sua conoscenza! Aben pensarci potrebbe iniziare il suo lavoro conme. Del resto ricorda quel che gli disse il rettoreSoharaward, no? Certo, prima dovremo discuteredel metodo secondo il quale lei intende procedere.Soprattutto della ragione fondamentale del suo impegno...»« Ma ne abbiamo già parlato... »« Oh, no, no, non basta. E poi metta da partel’ambizione. Specie quella scientifica. Roba vecchia,ottocentesca, superata. E tanto più qui danoi: gli scienziati non godono esattamente di buonafama. »« E per quale ragione? »« Vede, la nostra cultura... che dico, lo stessoconcetto di cultura lascia il tempo che trova. Nessunodi noi qui si sognerebbe di scrivere un AtlanteMondiale Etnografico. Non se ne avverte affattoil bisogno. Forse conoscere tutte le popolazionimondiali e la loro cultura, voglio dire, leggerla suun libro, estenderebbe i confini del nostro mondo?


68 Roberto ConcuLa nostra sapienza aumenterebbe? Salverebbe lanostra anima, ammesso che la si abbia? Via... Ciascunodi noi ha già il suo Libro, di cui è il solo custode,quel grande libro dei misteri che è l’anima.Ogni altro è un di più, un orpello di cui si può farebenissimo a meno: la nostra v<strong>it</strong>a non sarebbe népeggiore né migliore. Invece voi avete una concezionetroppo umana della scr<strong>it</strong>tura: siete convintiche un libro possa cambiare la vostra v<strong>it</strong>a. E magarianche quella degli altri, del mondo intero! »« Ma la nostra storia, la memoria dei popoli, delmondo?! Come potremo conservarla, salvarla dall’obliose non in questo modo? »« Lei p<strong>rete</strong>nde di fare della memoria un concetto,un’astrazione mentale... Mi creda: questa è lastrada che porta alla morte della storia. Quandosi scrive un libro sulla storia e la cultura di un popolosignifica che quel popolo sta morendo, se nonè già morto. Quanto alla sua conservazione, credeforse che alla gente possa interessare leggere il suolibro? Loro la vivono quella storia, loro creano lapropria cultura. E la memoria è quella che ognunosi porta dentro il cuore, non quella che si legge suilibri. È quella che per secoli i nostri padri si sonotramandati di bocca in bocca, di viaggio in viaggiofino a contagiare anche il deserto e le sue sabbie.« Vuole un esempio? Sul versante siriaco deimonti Zagros, al confine con l’Iran, vivono gli ultimidiscendenti di un popolo eurasiatico, i Ta’wîl,


Qayyim al-Qor’an69forse uno dei primi popoli al mondo. Certamentese lei dovesse riuscire a scrivere il suo atlante, eglielo auguro perché mi pare di capire che è lasua più grande aspirazione ed in ogni grande aspirazione,se sincera, c’è anche dell’amore, ebbenelo scriverà prima nella sua lingua, l’inglese no?poi forse sarà tradotto in altre lingue nazionali,forse persino in arabo o addir<strong>it</strong>tura in siriaco.Ma certo a nessuno verrà in mente di tradurre ilsuo atlante nella lingua di quel popolo o di altricome i Bantù o i Boscimani di cui pure parlerà.Quei popoli non conosceranno mai il suo libro e,ripeto, per questo la loro v<strong>it</strong>a non cambierà. Esiestingueranno comunque. »« Appunto. Non le pare che questa sia una ragionepiù che valida, oltre a quelle scientifiche?Un libro non è forse necessario per conservarnela memoria, per far sì che essi non muoiano? »« Non muoiano... A che serve ricordare se essinon vivono più? Come sempre gli uomini sonobravi ad inventare principi e idee a loro uso e consumo...Ripeto, c’è un errore di fondo... Ogni cosadeve morire. Per quanto triste possa essere ancheun popolo, una cultura è destinata a scomparire<strong>dalla</strong> scena della storia. È inev<strong>it</strong>abile... »« Ma si può, si deve fare qualcosa per salvare...»« Salvarlo da che cosa? Dalla sua sorte naturale?»


70 Roberto Concu« Certo che sentire queste considerazioni da leiche oltretutto è docente di Esegesi coranica... »« No, non Esegesi coranica bensì Esegesi coranicacom-pa-ra-ta. Le due materie sono molto diverse...E francamente tutto ciò che ho detto è unamia opinione personale... certe ver<strong>it</strong>à è meglio tenerlenascoste. Almeno finché uno non le scopreda solo. Il che accade di raro... Ma venga, vengacon me su nella terrazza. Voglio farle vedereuna cosa. Vede davanti a noi? »«È il deserto... »«Sì,èil deserto. Damasco come Aleppo nonsono che oasi del deserto. Il quale avanza semprepiù e sempre più in fretta, anche se non si vede. Cene rendiamo conto solo quando, da una notte all’altra,la case scompaiono sotto la sabbia. E sottoquella sabbia sono sepolti almeno cinquecentomilavolumi, libri scr<strong>it</strong>ti sulla nostra civiltà sin dalprimo secolo dell’egira. Ma questo non è un segreto.»« Bisognerebbe pur far qualcosa per salvarli...no? »« Lei trascura un particolare, professore: a noipiace il rimpianto! »


L’ultimo Uomo71LUCA D’ANTONIOL’ultimo Uomo


72 Luca D’AntonioL’ALBA aveva sorpreso Ruiz mentre terminavadi preparare le armi per la battaglia.Sapeva che non sarebbe sopravvissuto,ma non gli importava. La sua razza avevacombattuto, e aveva perso. Ora restava solo lui, ultimosuperst<strong>it</strong>e dell’antica stirpe dell’Uomo. Ilguerriero guardò il sole nascente, riempiendosidell’aria fresca del mattino. Una ben triste alba,pensò, così diversa da tutte le altre che mi ricordi:quelle della mia infanzia, quando la luce rosatasignificava la partenza di mio padre e degli altriuomini per la caccia. E quella assaporata in silenzioa fianco di Aleyda, dopo la nostra prima notted’amore... Aleyda, oggi ti vendicherò. Darò lorola morte che si mer<strong>it</strong>ano, e poi saremo di nuovoinsieme, per sempre questa volta. Ripose le arminei foderi, e si preparò al breve viaggio che loavrebbe portato verso la vendetta, verso la morte,verso gli Invasori.Mentre si muoveva senza rumore nel folto della


L’ultimo Uomo73foresta, ripensava alle storie sul passato dell’Uomoche sua nonna Mila raccontava la sera attornoal fuoco. « Ci fu un tempo in cui gli Uomini eranoovunque, tutta la Terra era popolata dalle mille tribùche formavano la razza dell’Uomo. Era un tempodi generos<strong>it</strong>à e abbondanza: le capanne eranoalte sino al cielo, esistevano strumenti per parlarefra tribù lontane senza muoversi <strong>dalla</strong> propria capanna,le armi erano così potenti che potevanosconfiggere ogni nemico. Enormi barche d’acciaiosolcavano i mari e i cieli, perché l’Uomo allora conoscevaanche la magia per volare. Il cibo era abbondantee delizioso, e ogni giorno diverso. Maquest’epoca meravigliosa finì molto tempo fa:quando i nonni dei nonni dei vostri nonni eranoancora dei bambini. Poi cominciarono le guerrefra le varie tribù, guerre sempre più lunghe edestenuanti, che uccisero i migliori guerrieri. L’Uomocominciò a decadere, a non interessarsi più almondo; e quando fu stanco di tutto, anche dellaguerra, fu allora che arrivarono gli Invasori a reclamarela Terra dell’Uomo. Nessuna tribù riuscìad arrestarli, tutte le armi erano inefficaci, mentrequelle degli Invasori seminavano morte e distruzione.L’Uomo allora abbandonò le c<strong>it</strong>tà, comeerano chiamati allora gli enormi villaggi dove siviveva, e si r<strong>it</strong>irò nella Natura, sui monti inaccessibili,nelle paludi insidiose, nei deserti roventi,


74 Luca D’Antonionelle foreste inesplorate dove ora, miei piccoli cari,anche noi viviamo. »Ruiz ascoltava assorto i racconti della nonna insiemeagli altri bambini, e sognava i tempi dellagrandezza dell’Uomo. L’immagine che lo colpivadi più era quella delle barche volanti, e fantasticavadi trovare un giorno anche lui il segreto per farvolare le piroghe che la sua gente usava per la pesca.Poi il tempo era passato, lui era diventato unragazzo abile nell’arco e nel coltello, e la nonnaMila sempre più vecchia. Ruiz al r<strong>it</strong>orno <strong>dalla</strong> cacciaportava sempre alla nonna il pezzo che glispettava dell’animale che aveva ucciso, poiché levoleva molto bene e voleva r<strong>it</strong>ardare il più possibilel’inev<strong>it</strong>abile. Ma un giorno la nonna lo salutòcon ancora più affetto del sol<strong>it</strong>o, e Ruiz guardandolanegli occhi velati di lacrime capì che avevadeciso. La tribù non poteva essere appesant<strong>it</strong>acon vecchi o malati, e non c’era crudeltà in questo,ma solo la rassegnata accettazione di uno stato didolorosa e continua privazione. Come gli altri anzianiprima di lei, Mila entrò nella foresta, e nontornò più indietro.Dopo quel giorno Ruiz pensò sempre meno allapassata Età felice, e qualche anno dopo la giudicavasolo come il tentativo di fuggire all’orribilerealtà che li circondava. Una realtà fatta di pericolocontinuo, di morte, di fughe frenetiche, lasciandosialle spalle quella che sino a un istante prima


L’ultimo Uomo75era la casa, e sempre più pochi, sempre di menoattorno al fuoco la sera.Ruiz era oramai un giovane Uomo, e le tribolazioniavevano ridotto la sua gente a poco più diuna decina di persone, quando, inoltrandosi inuna zona della foresta che non conoscevano, incontraronoun’altra tribù nei pressi di un fiume.Dopo un’iniziale, reciproca diffidenza, le due gentidecisero di unirsi, per difendersi meglio dai pericoliche li circondavano. Ruiz vide per la primavolta Aleyda quella sera, mentre il tamburo suonavae le tribù festeggiavano la loro unione. La giovanegli era seduta di fronte, dall’altra parte del falò,e la luce delle fiamme drappeggiava un volto diuna bellezza semplice e solare. Quando rideva, illuminavail mondo con quel suono cristallino, equando parlava la Natura tratteneva il respiro perascoltarla meglio. Ruiz se ne innamorò sub<strong>it</strong>o,senza rimedio. Quando Aleyda si alzò per andarea riempire la brocca dell’acqua, la seguì, sentendosile gambe malferme e il respiro affannato per l’emozione.Cominciarono a parlare della festa, e dopoqualche minuto erano già entrati l’uno nella v<strong>it</strong>adell’altra. Da quella volta passarono insiemeogni momento libero dai loro doveri verso la tribù.Ruiz una volta le parlò della nonna Mila, e delleleggende sul favoloso passato dell’Uomo, deridendoquelle che giudicava solo delle fantasie, anchese in cuor suo nutriva sempre il sogno di vedere le


76 Luca D’Antoniopiroghe volanti. « Non parlare così! » gli ingiunseperentoria Aleyda, e cominciò a spiegargli: « Ciòche ti raccontava tua nonna non è una leggenda,o la fantasia di una vecchia. L’Uomo era veramentegrande, ma è passato tanto, tanto tempo. Però,ciò che rendeva veramente grande l’Uomo nonerano solo le c<strong>it</strong>tà, o le armi, o le barche volanti.La grandezza perduta era soprattutto nell’arte, nellabellezza, nell’amore ».« Cosa significa quella parola: arte? » chiese alloraRuiz.Aleyda lo prese per mano e lo portò sulla rivadel fiume. Lì la corrente che scorreva tra le rocceproduceva un mormorio sommesso, il sole stavacalando tra i rami degli alberi, e donava all’ariaun colore di oro rosso. Seduti sulla riva Aleyda cominciòa parlare, con parole che a Ruiz suonavanoantiche eppure familiari, nelle quali si sentiva unr<strong>it</strong>mo come di canto, e le une si univano alle altre,giocavano, si rincorrevano per afferrarsi e poi sub<strong>it</strong>olasciarsi, avevano suoni uguali, ma significatidiversi, e donavano pace e calore. L’amore e ladolcezza, la tenerezza e la gioia erano tutti lì, inquelle parole magiche che Aleyda aveva pronunciato.« I nostri antichi chiamavano questa ’poesia’.È questa, Ruiz, l’arte. »Aleyda gli insegnò tutto quello che sapeva sull’artee anche sulla religione dei loro antenati, eRuiz fu colp<strong>it</strong>o così profondamente da questa


L’ultimo Uomo77che decisero di sposarsi secondo l’antico r<strong>it</strong>o, davantia Dio e agli Uomini, per tutta la v<strong>it</strong>a, in untempo nel quale l’unione tra un uomo e una donnapoteva durare lo spazio breve di una notte, e nelquale si ricordava a malapena con quali parole rivolgersial Creatore di tutto per invocare una buonacaccia. E così Ruiz e Aleyda cominciarono laloro v<strong>it</strong>a insieme, proprio quando gli Invasori ricominciaronoad accanirsi contro gli Uomini nonusando più solo le armi, ma anche il veleno. Ognicosa poteva essere contaminata: i frutti della foresta,le piante medicinali, le poche prede che ancorariuscivano a prendere e, naturalmente, l’acqua.La v<strong>it</strong>a della tribù si fece ancora più difficile, dovevanospostarsi continuamente per trovare un po’di carne e dell’acqua che non portasse la morte. Icacciatori tornavano sempre più spesso a manivuote, e gli anziani sempre più spesso si abbandonavanoall’ultimo abbraccio della foresta. Ruiz eAleyda videro morire tutta la loro gente, di stentie di veleno. Decisero di spingersi ancora più all’internodella foresta, e per due giorni camminaronosenza toccare nulla, né acqua né cibo. Giuntistremati a una radura, nella quale una pozza d’acquagiaceva limpida, giudicarono di essere sufficientementelontani dagli Invasori, e si fermarono.Bevvero <strong>dalla</strong> pozza, e Ruiz uccise un coniglioche mangiarono arrost<strong>it</strong>o. Poi si distesero vicinoal fuoco, fecero l’amore e restarono abbracciati


78 Luca D’Antoniosenza parlare, felici nonostante tutto. Non sapevanose stavano per morire, ma erano insieme, e losarebbero stati sempre. Il sole del mattino li colseancora addormentati, e quando, svegliandosi, capironodi essere ancora vivi, una gioia completa eluminosa li travolse. « Resteremo qui », disse Ruizabbracciando e sollevando Aleyda, « e ricostruiremola tribù. Studieremo la Natura e troveremo ilsegreto dei nostri Padri e fabbricheremo le piroghevolanti che spazzeranno via gli Invasori <strong>dalla</strong> nostraTerra. » Costruirono allora una capanna nellaradura e vi trascorsero i giorni più felici delle lorov<strong>it</strong>e, respingendo il pensiero della morte il più lontanopossibile dai loro cuori. Ma la morte non eralontana <strong>dalla</strong> radura, si era solo attardata.Una mattina, rientrando da una breve e infruttuosacaccia, Ruiz trovò Aleyda pallida, sudata,tremante e posseduta dai dolori che avevano imparatoa conoscere sin troppo bene. Aveva bevuto<strong>dalla</strong> pozza, mentre Ruiz quella mattina non avevaancora toccato acqua. Stava per bere sub<strong>it</strong>o anchelui <strong>dalla</strong> pozza, per affrontare il lungo viaggio conAleyda, poi due pensieri lo trattennero, due doveriche sapeva di avere da compiere. Abbracciò Aleydae la tenne stretta, cercando di darle un po’ delsuo calore. Al mezzogiorno, quando il sole splendevaalto, i dolori di Aleyda divennero insopportabili.Ruiz la baciò delicatamente sulle labbra, salutandolacome faceva ogni mattina, e le piantò il


L’ultimo Uomo79coltello nel cuore con decisione, ma con dolcezza.Solo allora, quando Aleyda era oramai libera <strong>dalla</strong>sofferenza e i suoi lineamenti si erano rasserenati,solo allora Ruiz cominciò a piangere. Pianse mentrela seppelliva, pianse mentre abbandonava la lororadura, pianse mentre rientrava nella foresta,pianse mentre sceglieva i rami più adatti per lefrecce, pianse mentre scovava e uccideva i rospiche avrebbero forn<strong>it</strong>o il loro letale veleno. Pianseper Aleyda, per suo padre, per sua madre che nonaveva mai conosciuto, per sua nonna Mila, per lasua tribù, per la sua razza, per l’Uomo.Poi, preparate le armi, si era messo sulla stradadella vendetta. Non sta più fuggendo, ora, e si avvicinasempre più agli Invasori. La foresta si fameno f<strong>it</strong>ta, il loro odore è forte, le loro improntesono ovunque, arroganti come loro. Ruiz si appostasu un albero, la freccia intrisa del micidiale velenogià incoccata sull’arco: avrebbe dato loro lastessa morte che aveva colp<strong>it</strong>o Aleyda. Un rumoresi fa sempre più vicino, copre ogni altro suono dellaforesta. « Eccoli, arrivano sulle loro macchine;non sanno nemmeno muoversi su questa Terra,ma come potrebbero saperlo? Questa è la Terradell’Uomo, non la loro: loro sono degli invasori! »La prima freccia sibila rabbiosa nell’aria, l’Invasoreè preso, il suo urlo risuona acuto, il veicolosi arresta. Il secondo dardo è già al bersaglio, unaltro Invasore è colp<strong>it</strong>o e cade fuori della macchi-


80 Luca D’Antoniona. Ruiz si lascia cadere dall’albero. « Il terzo loucciderò col coltello, guardandolo negli occhi. Devesapere che l’Uomo non ha paura di loro. » Improvvisamenteun rumore che cresce sordo, dall’alto,Ruiz si volta, un lampo, un tuono e un doloreche esplode dentro, immenso. Cade a terra, gliocchi aperti, la v<strong>it</strong>a che fugge rapidamente dal suocorpo, sopra di lui il sole tra gli alberi, e qualcosalassù, che gli ricorda per un attimo, il suo ultimoattimo, le piroghe volanti di nonna Mila. Poi ilbuio.« Cristo santissimo, che macello! » imprecò tra identi Carlos guardando i cadaveri dei due tecnicidella Compagnia, già irrigid<strong>it</strong>i dal veleno. Si voltòverso il gigante biondo che era sceso con lui dall’elicottero,il fucile ancora fumante in mano. Il tedescostava esaminando l’altro corpo con un’ariadi soddisfatta superior<strong>it</strong>à. Carlos non lo sopportava,pur lavorando insieme da oltre un anno negliSquadroni della Morte (Secur<strong>it</strong>y, Secur<strong>it</strong>y! si dimenticavasempre della parola gringo).« Carlos, di che tribù era il bastardo qui? » gliurlò Hans superando il rumore delle pale.Carlos esaminò i tatuaggi sul cadavere: « Era unWaynomani, anche se tra loro si chiamano Yatoti,che in lingua quechua vuole dire semplicemente’Uomini’. Si vantano di essere i diretti discendenti


L’ultimo Uomo81degli Incas. Strano », aggiunse perplesso, « pensavamodi averli cacciati tutti da questa zona ».« Si vede che questo era l’ultimo Uomo », replicòil tedesco sghignazzando. L’eco della sua risatasi confuse come verso di belva coi mille suoni dellaforesta pluviale.


82 Giovanna De RosaGIOVANNA DE ROSAIl Piccolo Carro


Il Piccolo Carro83AI MIEI tempi esisteva un netto confine trale stagioni. Ricordo che quand’ero ragazzal’inverno ci assaliva tagliente comeuna lama affilata e le ginocchia nude sopra i calzinidiventavano violacee mentre raggiungevo il liceovicino al mare. Ma camminavo a passo sveltoperché il sangue scorresse più vivo nelle vene, eguardando fisso lo specchio smosso di acquaghiaccia mi pareva di intravedere, là in fondo,un varco nelle nuvole grevi.Ora è gennaio, e però una cortina di spessoreumido vela di nebbia quello stesso orizzonte, tantoche il mare e il cielo si confondono in un unico,latteo biancore. Percorro i marciapiedi con cautelae le gambe si affaticano affrontando come ognimattina la scalinata di pietra consunta. Man manoche quest’altro anno di scuola si scioglie mi sentosempre più stanca e stento a rincorrere l’adolescentedalle ginocchia livide che da lontano ridedi scherno e mi indirizza sberleffi.


84 Giovanna De RosaPaolo continua a chiamarmi tutte le sere. Adogni telefonata mi ripete il medesimo discorso, insisteperché io vada in pensione e mi trasferisca aMilano, a casa sua, o in un appartamento per contomio, se preferisco, da quelle parti, o anche in unaltro quartiere, purché sia nella stessa c<strong>it</strong>tà, vicinoa lui, a Laura, al bambino che chiede sempre dellanonna, purché non me ne resti più così lontana, solada quasi un anno in quella casa disseminata diricordi.Eppure è lì che io mi sento viva, in quelle stanze,fra le stazioni di un percorso simbolico che perme, e per me sola, possiede un significato. I vest<strong>it</strong>idi Mauro ancora impregnati di profumi familiari,un rettangolo più bianco sulla pa<strong>rete</strong> dove lui harimosso un quadro per appenderne un altro chenon ha mai comprato, il quotidiano spiegato sullascrivania, con la data di quel giorno, e gli occhialida lettura posati sopra con cura, quasi sapesse, unattimo prima che il cuore all’improvviso si fermasse.Più i mesi si susseguono impietosi, più ilmio intimo cammino procede a r<strong>it</strong>roso, e mi aggiroin quel tempio di divin<strong>it</strong>à private celebrando r<strong>it</strong>iche evocano dal vuoto segni di presenza. I medici,con il loro linguaggio scarno e senza scarti, parlerebberodi depressione. Invece io, mai stanca dicreare visioni, vedo la mia v<strong>it</strong>a di adesso condensatain un’immagine, quella del Piccolo Carro chein una notte limpida distinsi con chiarezza dal


Il Piccolo Carro85ponte di un traghetto, mentre avvolta da tanto buioinafferrabile di mare e di cielo navigavo verso laGrecia. Allora la interpretai come un segnale, debolefaro sospeso in un’immens<strong>it</strong>à nera, e mi sembròdi r<strong>it</strong>rovare poi le stesse luci nel porto affollatodi Patrasso, tra le sue braccia che mi stringevano.Quel disegno misterioso, ora, è l’<strong>it</strong>inerario delmio pellegrinaggio. Quattro angoli fissi, il recintodella nostra casa affacciata sul mare, e appena fuoriuna sola via, lungo lo stesso mare, che conducealla meta estrema del viaggio, la scuola di pietrasempre uguale dove ogni giorno confronto lamia antica storia con le nuove e la rivivo. Calpestoi pavimenti corrosi che la ragazza dalle ginocchialivide calpestava, mi appoggio al davanzale dellafinestra sul lungomare e rivedo, adagiata sul marmoopaco, la sua piccola mano ancora liscia che ilgiovane supplente di latino e greco, una volta,aveva accarezzato. E lei, figlia perbene di gen<strong>it</strong>oriseveri e timorati di Dio, che si sarebbe segnatamille volte prima di pensare ad una cosa comequella, aveva fatto l’amore con lui lo stesso giorno,e le era parso naturale. Terminata la mattina dilavoro di nuovo m’incammino per la strada sulmare, m’immergo da un lato nella frenesia delmondo dei frammenti e dei rumori, dall’altro, voltandolo sguardo, assaporo l’infin<strong>it</strong>o. E infine risalgoverso l’attico con la terrazza aperta sul l<strong>it</strong>orale,il nostro osservatorio privato sulle profond<strong>it</strong>à


86 Giovanna De Rosadi una fetta di universo, a lungo desiderato, sceltoinsieme.Ci sono state tante sere negli anni trascorsi, alloraordinarie, che ora ricordo come momenti di percezioneintensa, quando affacciati su quell’oscur<strong>it</strong>à,vellutata a volte, e a volte furibonda, più affascinantedelle luci tentatrici che la abbracciavano,respiravamo il suo odore all’unisono, un essere solo,io e lui, mio mar<strong>it</strong>o maestro, padre, amante.Guardando l’orizzonte senza fondo immaginavoterre invisibili eppure vicine, i tempi della storiasi fondevano in quell’unico respiro, e mi sembravadi riuscire ad afferrare il senso delle cose.Se guardo adesso quella distesa cupa ed inquietante,e i lumi delle imbarcazioni qua e là chepaiono vagare in sospensione, vedo soltanto un cim<strong>it</strong>eroimmenso, e un buco nero che ingoia ognispasimo di v<strong>it</strong>a e sparge il vuoto intorno.Sono in r<strong>it</strong>ardo, devo raggiungere il secondo piano,e le membra si trascinano pesanti, invase dauno strano torpore. Il richiamo del preside risuonadi vibrazioni d’eco, come tra i muri di una stanzavuota, scaccia uno sciame di pensieri che volanovia spaventati. Deve riferirmi, mi dice, uno spiacevoleincidente, e assume la maschera dell’angustiaadatta alla circostanza. Una mia allieva improvvisamentesi è sent<strong>it</strong>a mancare, l’hanno trasportata


Il Piccolo Carro87al pronto soccorso con urgenza. Nulla di serio, unsemplice stato ansioso, conclude, sorridendo indulgente,e io rabbrividisco. Lei rassomiglia aquella ragazzina che mi corre davanti, ha gli stessiocchi pensosi e pieni di riserbo. « Ha chiesto di leicon insistenza », aggiunge, « e non si preoccupiper la classe: la sost<strong>it</strong>uirò io. » Il dubbio che forsela mimica ha trad<strong>it</strong>o non ha nulla a che fare con lamia classe scoperta, ma lui non può sospettarlo.Nel corridoio centrale non la trovo, la bidella mifa cenno di dirigermi a sinistra, e mi solletica ilpetto un soffio di inquietudine. Lei è lì, seduta sottola finestra semiaperta, la stessa finestra sul mare,una macchia nera dalle linee distinte, immobile,se non fosse per le d<strong>it</strong>a che dondolano appenasfiorando il davanzale. C’è una sedia nell’angolo,la prendo e mi siedo anch’io, di fronte a lei. Mi salutacon un filo di voce. Voleva parlarmi, ma nonriesce a pronunciare una parola. I suoi occhi sembranocoperti di vetro, nascondono cunicoli checonducono al centro del suo male, ma io posandovilo sguardo mi smarrisco e non so che fare perseguirne la traccia.Da fuori s’insinua una fragranza agrodolce dialghe in decomposizione, e rombi di motori chesfrecciano via, progressivi. Le sue gambe avvoltedi nero pendono inerti dal bordo della sedia, quelleparole non dette hanno ghiacciato l’aria, da lei nonesce un sussulto, un segnale qualunque di v<strong>it</strong>a. Lo


88 Giovanna De Rosasguardo è fisso su un anello sottile che brilla all’anularesinistro, unico guizzo di luce in quel luttosenza morti che porta, ered<strong>it</strong>ario forse, un nuovopeccato originale. Mi guardo anch’io le mani, ilgiallo smunto del mio oro, i solchi fra le vene gonfie.Che cosa si aspettava di sentire da me, comeposso consolarla? Ho la gola talmente inarid<strong>it</strong>ache le parole non riescono a prendere forma, equali parole, poi... Il suo dolore è così vago e insiemecosì immenso, ogni fibra del suo mondo neè intrisa, eppure, son sicura, basterebbe poco, unsoffio di vento da un’altra direzione, un gesto risolutoche disappanni il vetro e mostri la via. Ma dopotanti anni è ancora un mistero che non so svelare,neppure ai miei occhi.Un’altra ragazza si avvicina, mi saluta imbarazzata.Le sussurra qualcosa quasi all’orecchio, intuiscoche un insegnante l’ha mandata a dirle d<strong>it</strong>ornare in classe, e mi rimprovero di sospirare disollievo, come se una mano pietosa avesse rimossouno specchio troppo sincero.Scompaiono dietro l’angolo, e mi r<strong>it</strong>rovo sola inquel cantuccio silenzioso che non tradisce i segnidel tempo. Non ho la forza di muovermi, le tempietra le mani battono sempre più forte, sento salirmidentro una febbre che non riscalda la pelle. Altreparole di ghiaccio, parole che ho ud<strong>it</strong>o, riemergonodai loro nascondigli, fra le volute complicatedella mente dove avevano trovato facile rifugio,


Il Piccolo Carro89fra gli abissi di quel mare, là fuori, che mi persegu<strong>it</strong>a,che le ha raccolte ieri sera, quando le ho lanciatelontano. Si rapprendono, riacquistano la vocedi chi le ha pronunciate soffiandole nei fili del telefono,in un crescendo di rabbia improvvisa bagnatadi lacrime.Non lo sentivo piangere da quando era ragazzino,non aveva nemmeno pianto per la morte di suopadre. Né per me, così ho creduto fino a ieri. E cel’avevo con lui, per la sua indifferenza, per la suafreddezza, perché all’indomani della sepolturaaveva insist<strong>it</strong>o per partire senza indugio, e volevaportarsi via anche me e liberarsi di ogni oggettoappartenuto a chi, segu<strong>it</strong>ava a ripetere, ormainon esisteva più. Ieri però, dopo il sol<strong>it</strong>o discorso,è scoppiato a piangere di colpo, senza più aspettarela mia risposta che non arrivava, balbettava chenon ne poteva più di tenersi tutto dentro, e io che astento distinguevo le parole in quel fiume.« Lui era un grand’uomo, ha detto il p<strong>rete</strong> al funerale...grandissimo, sì. Tanto grande che io nonreggevo il confronto. Non ce l’avrei mai fatta a diventarequello che voleva. E tu, che non capivi.Non ti accorgevi di quanto mi faceva male... nonvedevi che lui, il tuo unico amore... il signore dio epadrone che ti divorava, che tentava di divorarepure me... di farmi crescere per sempre nella suapancia come un parass<strong>it</strong>a schifoso. È per questoche me ne sono andato, è per questo che per anni


90 Giovanna De Rosami hai visto a malapena alle feste comandate, etornavo per te, solo per te. Per te non ho reag<strong>it</strong>o,per te ho ingoiato migliaia di parole, ma ora basta,ora basta. Lui lo sa... gliele ho vom<strong>it</strong>ate tutte addossoquelle parole, mentre era lì dentro immobilee z<strong>it</strong>to... z<strong>it</strong>to, finalmente. È fin<strong>it</strong>a, pensavo, e inveceno. Invece continua a succhiarti la v<strong>it</strong>a... adallontanarti da me. Anche da morto. Lascialo solo.Esci da quella specie di tana dove te ne stai rinchiusa,è la tua v<strong>it</strong>a, mamma! Un’altra possibil<strong>it</strong>ànon l’avrai... non l’avrò nemmeno io. »Ho messo giù la cornetta per farlo tacere, comesi preme un cuscino sul viso e si spegne una voce,e ho sent<strong>it</strong>o freddo, all’improvviso. Una portasbattuta nel cuore ne ha fatto spalancare un’altrae il vento mi è entrato nelle ossa. Lui non ha richiamato.A gesti rallentati mi sono allontanatadal telefono, sono entrata nello studio di Mauroe mi sono seduta alla sua scrivania, ho lasciatoscorrere le mani sulla carta ingiall<strong>it</strong>a del giornale,sul metallo degli occhiali ripiegati, cercando aiuto.Forse ho pianto perché non ne trovavo, e intantocominciavo a perdermi, e a dimenticare la ragionedi quella ricerca disperata.Poi ho visto la fotografia. È lì da più di quattroanni, sul piano di lavoro dove lui passava ore dellasua giornata a sezionare le parole altrui e attribuirvisignificati. Costantemente sotto i suoi occhi.Uno di quei dettagli insignificanti, all’apparenza,


Il Piccolo Carro91sfiorati ogni giorno, finché d’un tratto un’occasionene svela l’importanza. La prima personale diPaolo in una galleria d’arte di Milano, dopo annidi lavoro in sordina e di disillusioni. L’aveva scattataLaura, quella foto, con la macchina di un amico.Io a destra, l’unica ad accennare un sorriso,circondata dal braccio di Paolo, loro due così simili,scuri, accigliati, com’erano rimasti per l’interaserata, quasi avessero l<strong>it</strong>igato senza parlarsi, il padrecon la mano sulla spalla del figlio, la più vicina,non un abbraccio.Ci aveva solo avvert<strong>it</strong>i, non ci aveva inv<strong>it</strong>ati.Era stato proprio Mauro ad insistere per andarcicomunque e fargli una sorpresa. Io, pigra, nonavevo voglia di affrontare il lungo viaggio in treno,né di staccarmi dal mare, pur per così poco.Accettai, però, quando mi accorsi di quanto ci tenesse,e decidemmo di prendere l’aereo. Per Paolofu davvero una sorpresa, ma ci accolse senza alcunatraccia di entusiasmo, sembrava rabbuiato, comeavesse timore di qualcosa – e so soltanto adessodi che cosa. Quella reazione mi colpì e mi deluse,e deluse di certo anche suo padre, che nonparlò quasi più, per tutto il tempo. Ma l’indomani,poco dopo l’alba, mentre seduti l’uno accanto all’altraattraversavamo in taxi la c<strong>it</strong>tà in dormivegliaaffondata in una nebbia sottile che si scioglievain lacrime sui vetri, si decise a rompere quel silenzioinquietante, e mi chiese se secondo me l’a-


92 Giovanna De Rosavrebbero chiamato come lui, il bambino che aspettavano.Ero certa di sì, e così gli risposi. « È davverobravo », disse poi, senza aggiungere altro, enon gli domandai perché l’avesse detto a me enon a lui, conoscevo già la risposta. Amava adoperarele parole per spiegare, per commentare, percr<strong>it</strong>icare e giudicare. Parole di lode, parole d’amore,quelle non le pronunciava volentieri, credevache non fosse necessario. A me non importava.A me bastava un lampo degli occhi, un mutamentod’espressione, un contatto anche lieve, e non capivo,neppure quella volta lo capii, come tutto sarebbecambiato, diversamente, quanto avremmo potutoessere felici.Lo squillo del telefono, di nuovo, mentre eroancora in quella stanza, e ho es<strong>it</strong>ato a rispondere.Era Laura, questa volta, parlava a voce bassa, comequando in casa c’è un bambino che dorme. Edifatti, mi ha detto, era appena riusc<strong>it</strong>a a farlo addormentare.Aveva dovuto dargli un sedativo, e luiintanto non smetteva di piangere, l’aveva pregatadi stargli accanto, mano nella mano, perché avevapaura, ed erano rimasti così, finché si era assop<strong>it</strong>o.Per fortuna Mauro già dormiva (Mauro, sì, gliel’-hanno dato davvero il suo nome). Non hanno volutofarmi preoccupare, ha aggiunto, lui soprattuttoripeteva che tanto sarebbe passata, ma è daquando suo padre è morto che sta male. È depresso,più di una volta – qui la voce s’è incrinata – ha


Il Piccolo Carro93manifestato propos<strong>it</strong>i suicidi, e gli hanno prescr<strong>it</strong>touna terapia di psicofarmaci, gli hanno pure consigliatodi sottoporsi ad analisi, prima che sia tardi.Lui, però, non vuole saperne.Non è difficile figurarsi il verdetto: complessod’Edipo irrisolto, atroci sensi di colpa per averodiato suo padre e averne desiderato la morte,spinta verso l’autodistruzione... Etichette prestampateincollate su un’esistenza fatta di attimi inequilibrio sul filo, di opzioni come in quei videogiochicomplicati dove sbagliare è morire. Anzi, lav<strong>it</strong>a vera è più insidiosa, quando si sbaglia nonsempre si muore, e ricominciare il gioco è impossibile.Per anni l’ho nutr<strong>it</strong>o perché crescesse fortee sano, gli ho insegnato a camminare, a lavarsi evestirsi da solo, ad attraversare la strada, ho avutocura che imparasse la buona educazione, ma nonho saputo fargli da guida nelle notti dell’anima,quelle senza luna, quelle dei passi falsi, quelle incui si consumano battaglie silenziose contro mostridalle sembianze familiari.Ho freddo, mi alzo per chiudere la finestra ancoraaperta. Guardo nella strada sul mare pervasa dabrividi ondulati e mi sembra di scorgere, dietroil parapetto, un’esile figura che si staglia più vivatra la foschia. Ad un tratto si volta, ag<strong>it</strong>a la mano:è proprio lei, la ragazzina dalle ginocchia livide,


94 Giovanna De Rosaha le caviglie immerse già in quell’acqua pallidache non mostra il fondo. Assisto all’evento tramutatain pietra, incapace di muovermi, di respirare.Pian piano i suoi contorni si dissolveranno in quellanebbia senza fine, ogni parvenza di forma svanirà.Le luci del Carro si affievoliscono, i sostegni sismuovono e mi scuotono. È tempo di deviare dalpercorso segnato e incamminarmi da sola a tentoninel buio, di scivolare sui ghiacci infidi del mio inverno,breve o lungo, chissà. Bisogna che vada,glielo devo. Perché se un errore vi è stato o unacolpa, io sono la sola a poter rimediare, per me,per chi non c’è più. Gli starò vicina con discrezione,senza farmi troppo notare, così mi verrà imposto,lo so, per il suo bene. Accompagnerò il bambinoal parco, attraverseremo la strada guardandoattentamente prima a sinistra e poi a destra, lo osserverògiocare a pallone e sporcarsi, seduta suuna panchina, lo ascolterò chiamarmi nonna, ese passeremo davanti a una vetrina mi fermerò aspecchiarmi e riflessa nel vetro scorgerò la miaimmagine vera. Poi r<strong>it</strong>orneremo a casa insieme,nella mia nuova casa che non conosco, se sarà abbastanzain alto ci affacceremo alla finestra sopraun plastico di edifici in miniatura, ora bassi, oraprotesi verso il cielo, come canne d’organo, e lunghefile di formiche che rientrano nei loro buchistipati di provviste, cariche del bottino della gior-


Il Piccolo Carro95nata. E se mai potremo elevarci ancora, più su,sorvolare il paesaggio, solo quello vedremo, tettidi case fra nastri d’asfalto, cortei di formiche, unmovimento in tondo incessante, sempre nello stessocerchio, un’illusione di eterno, che in comunecon l’eterno non ha nulla.La nebbia cala in fretta, non si distingue piùniente lì fuori, né cielo, né mare, né strada. Soltantogli aloni dei fanali, lenti finalmente, ectoplasmiin processione. Ed io non ho più il tempo di sostare.Devo andare, adesso. Il preside, in classe, staràaspettando impaziente il mio r<strong>it</strong>orno.


96 Gino GaldiGINO GALDIPer Cindy


Per Cindy97LAbambina gli sorrise <strong>dalla</strong> foto che luistringeva con entrambe le mani. Chiusegli occhi e lasciò che la testa si appoggiasseal muro alle sue spalle. Cindy. Dio come le mancava.Ora più che mai. Le era mancata dopo la suamorte, le era mancata dopo che seppe in che modoera stata uccisa; e gli mancava ora, che si trovava acontare le poche centinaia di secondi che lo separavano<strong>dalla</strong> Frigg<strong>it</strong>rice. Riaprì gli occhi e non simeravigliò quando ne sgorgò una lacrima che si infransesulla divisa arancione del pen<strong>it</strong>enziario diAustin, Texas. Non si vergognava di piangere, tantomeno piangeva per paura della morte imminente,ma le lacrime erano solo per la sua piccola Cindy,unico orgoglio di v<strong>it</strong>a, se così si poteva chiamarequella melodrammatica parvenza di esistenzache gli era scivolata addosso in quegli anni.Lui, Matt Miller, poliziotto ultra decorato e incorruttibile,si era innamorato di Margareth RuthDove, tossica da marciapiede. Fu pura passione


98 Gino Galdiche sbocciò in un inatteso quanto sorprendentematrimonio; uno dei giorni più belli della sua v<strong>it</strong>a,a parte quando sgominò il clan DeVivo. Alloraperse tre uomini, per Ruth perse il cuore e la testa.Dopo qualche mese dal matrimonio, un angeloscese dal cielo e fuoriuscì dal grembo di Ruth.Chiamarono quel cucciolo dagli occhioni azzurriCindy. Bellissima. Capelli biondissimi e di setapresi <strong>dalla</strong> madre, occhi profondi e incazzati provenientidirettamente da lui. Insieme alla testa,stavolta per Cindy perse anche il lavoro. Lasciòil duro posto di sbirro di quartiere per un lavorodi tutto riposo come guardiano di una fabbrica dicuscini, la più importante della c<strong>it</strong>tà. Come dormiretra due guanciali. Tutto filava liscio, ma le cosebelle per Matt non duravano mai a lungo. HenryDeVivo uscì di cella per un cavillo legale (restidel testimone chiave furono trovati nelle farineanimali destinate ai bovini di mezzo Texas). Ruthdimagriva a vista d’occhio. Matt pensava che lacolpa fosse dovuta all’ansia dell’imminente trasferimento.Non si era mai sbagliato tanto in v<strong>it</strong>asua... il responso delle analisi fu letale. Insiemecon Ruth, Matt aveva sposato anche il male del secolo,infatti covava l’Aids da un paio di anni enessuno aveva mai sospettato niente; per unoscherzo del destino lui e Cindy non ne erano infetti.Un miracolo, disse il medico. Il miracolo non siripeté per Ruth. Dopo due mesi che lei gli aveva


Per Cindy99confidato di dimagrire con il r<strong>it</strong>mo di tre chili allasettimana, Matt e Cindy seppellirono il cadaveredi Ruth con una bara di legno a buon mercato. Fareil guardiano non rendeva come fare il poliziotto.Matt e Cindy si ripresero dal colpo ognuno a modosuo: Cindy fu aiutata dal fatto che aveva un annodi età; Matt dal consumo industriale di un whiskydi sottomarca che sapeva di polvere da sparo. Dopoun paio di mesi e un fottio di bottiglie vuote,cambiarono c<strong>it</strong>tà, Matt divenne guardia giuratadi una multinazionale, e nel frattempo crescevaCindy. Andarono avanti vivendo in simbiosi percinque lunghi anni, fino a che anche Cindy glivenne a mancare. E non per una fottuta malattia.Una grossa lacrima gli solcò il viso per poischiantarsi sulla foto, deturpando l’immagine diCindy con il vest<strong>it</strong>ino verde. Chiuse gli occhi e ricordòil giorno in cui aveva osservato la stessa fotobagnarsi sotto gocce di pioggia. Si stese sullostretto lettino e il ricordo della notte piovosa d<strong>it</strong>re anni prima lo avvolse come un sudario.La pioggia lo investiva come tanti piccoli aghettispuntati, gli stivali non avevano molta presa sulsudicio cornicione scivoloso e il vento lo tempestavacon la sua morsa gelata. Ma tutto questonon aveva la benché minima importanza per lui.L’unica cosa che gli importava era che la finestra


100 Gino Galdialla sua destra fosse la finestra giusta, al piano giustoe che dentro ci fossero le persone giuste. Avevaatteso sul cornicione per quarantacinque lunghiminuti, ma alla fine il gruppo nella stanza era alcompleto. L’ultimo stronzo era appena arrivato eda nemmeno una decina di secondi lo aveva sent<strong>it</strong>oesclamare il suo « oh, oh » di approvazione. Fecedi tutto per ev<strong>it</strong>are di pensare verso chi era manifestataquell’approvazione. Posò dolcemente lelabbra sulla foto di Cindy e se la lasciò cadere nellatasca dell’impermeabile, infilò le mani nellefondine sott’ascellari e ne estrasse due Colt 45 semiautomatiche.Le sollevò all’altezza degli occhipiegando i gom<strong>it</strong>i, tirò indietro i cani e pregò unDio a cui non credeva che le pistole non si inceppasseroal momento meno opportuno. Un ultimo,lungo respiro e si lanciò con tutti i suoi 130 chilidi peso attraverso la finestra investendo gli occupantidella stanza con una pioggia di vetro e legno.Come amava i fatiscenti palazzi della parte vecchiadella c<strong>it</strong>tà. La c<strong>it</strong>tà del vizio lo aveva cullatocome un bebè in fasce(come lui aveva cullato Cindy)e ora lui le ripagava il favore.Per Cindy.La pioggia dei frammenti di vetro non fu nulla inconfronto a quella dei proiettili che le pistole di


Per Cindy101Matt vom<strong>it</strong>avano a ripetizione. Un po’ per l’effettosorpresa, un po’ perché i cinque maiali erano intentia strappare i vest<strong>it</strong>i ad una piccola bimba impaur<strong>it</strong>a,fatto sta che dopo neanche mezzo minutoMatt era l’unico nella stanza che ancora riusciva arespirare. A parte la bimba mezza nuda e tremante.A parte il tizio dai lineamenti asiatici che strisciavasul pavimento cercando di afferrare un revolverincustod<strong>it</strong>o, lasciando dietro di sé una strisciarossa di sangue come una lumaca con le mestruazioni.Matt fu molto scrupoloso. Coprì labambina con una coperta e mise fine alle sofferenzedel tizio/lumaca frantumandogli il cranio con iltacco dello stivale(130 chili di muscoli non potevano sbagliare),giusto un attimo prima che le d<strong>it</strong>a del tizio si stringesserosul calcio del revolver. Una f<strong>it</strong>ta al toracegli fece abbassare lo sguardo. Sanguinava da qualcheparte. O un vetro gli aveva lacerato la carne oun proiettile sparato da chissà chi lo aveva beccato.Si strinse nelle spalle, ora come ora non poteva importarglienedi meno, aveva avuto il suo tempo edaveva fatto la sua parte. Guardò la bambina che gliricambiò lo sguardo es<strong>it</strong>ante. Chissà se anche Cindyavrebbe avuto quello sguardo se lui l’avesse salvatain tempo. Ormai non gli fregava più niente, tutto erafin<strong>it</strong>o, la c<strong>it</strong>tà del vizio aveva avuto il suo sacrificiodi sangue. La bimba lo guardò impaur<strong>it</strong>a(nei suoi occhi lo sguardo di Cindy),


102 Gino Galdile si avvicinò, una lacrima fece capolino dal latodegli occhi, la prese tra le braccia e si accasciòal suolo stringendola forte a sé. La bambina ricambiòl’abbraccio e così li trovarono i poliziotti, unimmenso gigante che stringeva l’esile corpo diuno scricciolo di bimba, con contorno di corpimorti, sangue e budella.Per Cindy.Jim Coil, 24 anni, appena trasfer<strong>it</strong>o come secondinonel braccio della morte del pen<strong>it</strong>enziario di SanMiguel, Texas. Era il suo primo giorno ad Austin egià sentiva un qualcosa che si attorcigliava allebudella. Non male come primo giorno di lavoro,tra neanche dieci minuti avrebbe visto giustiziaredavanti a sé un tizio di 130 chili, e per giunta expoliziotto. Il buongiorno si vede dal mattino, omeglio <strong>dalla</strong> sera, dato che questo calvario perlui era iniziato la sera prima, quando verso le settefu strappato da una pomiciata con Lori per una fugaveloce verso il pen<strong>it</strong>enziario. « Willie è ammalato,e visto che inizi domani, devi venire a far leprove per la Frigg<strong>it</strong>rice. » Tra passare la serataperso nelle tette di Lori o nell’angusta stanza delleesecuzioni la scelta era semplice, purtroppo il doverechiama e lui quella sera aveva il cellulare acceso.Scese dall’auto e la prima persona che videfu Pop Br<strong>it</strong>e, il secondino anziano che la sera pri-


Per Cindy103ma gli aveva fatto vedere come funzionava lamacchina per la cura del governo americano.« Ciao, Jim, dorm<strong>it</strong>o bene? »« Seee, figurati. Quanto manca all’esecuzione? »« Pochissimo, la sala stampa è piena, così comela stanzetta per i parenti delle v<strong>it</strong>time. Abbiamopiù persone illustri oggi che all’inaugurazionedel braccio della morte. »« Pop? »«Sì?»« Ieri mi hai spiegato della macchina, oggi miillumini un po’ su chi è il tizio a cui friggiamo ilculo e perché?»Pop abbassò lo sguardo. « Sei sicuro di volerlosapere? È una brutta storia. »« Ho il fegato duro. »« Be’, il condannato è Matt Miller, 44 anni, dell’Alabama.»« Si dice che prima fosse uno sbirro, vero? »« Certo! E dei più cazzuti, pure! Quando sentiviil nome di Miller sentivi in giro aria di giustizia,un po’ come quando leggi di quel tizio in tutinaazzurra che ag<strong>it</strong>a a destra e sinistra uno scudo. »« Cap<strong>it</strong>an America... »«Sì, certo, ragazzo, proprio come Cap, Millerera il tizio che credeva nel sogno americano, eora sta morendo in nome di quel sogno. »« Ok, ok, ma che diavolo ha fatto. »« Be’, ad un certo punto si sposò, ebbe una fi-


104 Gino Galdiglia e lasciò il corpo di polizia, con rammarico d<strong>it</strong>utti i colleghi e gioia di tutta la criminal<strong>it</strong>à.»« Continua... »« Tutto sembrava andare per il verso giusto, peròpoi una malattia si portò via la moglie... »« Cazzo! »« Puoi dirlo forte! Ma Miller non si scoraggiò,da solo crebbe la figlia, Cindy, mi sembra, finoa che lei compì cinque anni. »« E poi? »« Poi successe la catastrofe. Miller lavorava comeguardia notturna un mese sì e un mese no; ilmese in cui Miller era di servizio, la bimba dormivacon una tata. Un giorno Miller tornò dal lavoroe non trovò né la tata né Cindy. Be’, per fartelabreve si aggirava come un pazzo tra un ufficio dellapolizia e un altro, fino a che non decise di indagareper conto proprio. »« E che successe? »« Non so come, e nessuno credo lo saprà mai,mai, scoprì che Cindy era stata comprata da ungruppo di pervert<strong>it</strong>i texani, che seviziava e violentavabambini, per poi girare video da vendere a costida capogiro. »« Cristo! »« Immagina come deve essersi sent<strong>it</strong>o Miller.Be’, il nostro per primo va a stanare la tata di Cindye la trova mentre si strombazzava un vecchiomagnate del petrolio. Ti dico solo che hanno do-


Per Cindy105vuto togliere i pezzetti di quella stronza dal bucodel culo del petroliere. »« Dai! »« Quant’è vero Iddio! A ’sto punto Miller diventòun ricercato, ma prima che la polizia lo arrestasse,lui aveva trovato la banda dei pedofili e,scoperto dove si riunivano, li ha sorpresi conun’altra bambina e li ha crivellati di colpi fino arenderli semirriconoscibili. »« Cazzo, storia di merda. Ma non lo biasimo! »« Tu, non lo biasimi, ma si dà il caso che i cinquefigli di puttana erano per lo più figli di senatorie di gente facoltosa, e quindi si è scatenato unputiferio! Addir<strong>it</strong>tura una schiera di avvocati è riusc<strong>it</strong>aa far passare Miller per uno dei componentidella banda! »« E lui? Non si è difeso in alcun modo? »« Niente di niente. Dopo la strage si è lasciatoammanettare docile come un agnellino, e da alloraper tre lunghi anni non ha pronunciato una sola parola,né in carcere, né durante i lunghi processi. Ladifesa, un bacucco novellino sicuramente pagatodai gen<strong>it</strong>ori degli stupratori, ha tentato una piccolaproposta di insan<strong>it</strong>à mentale, ma poi ha lasciatoperdere la cosa. E alla fine Miller è stato condannatoalla sedia elettrica. Mi gioco le palle che labolletta di stasera sarà pagata dal senatore Norton,parente imprecisato di una delle v<strong>it</strong>time. »


106 Gino Galdi« Porca troia, che storia di merda. E nessuno hapensato di fare niente? »« Certo, l’opinione pubblica si è scatenata, maqui in Texas comanda chi ha il portafoglio piùgrosso, e non certo un paio di manifestanti armatidi sbilenchi cartelli scr<strong>it</strong>ti a mano. Siamo arrivati.Ecco qui Matt Miller! »Pop, con largo aprire di braccia, mostrò il gigantescoMatt steso sul lettino della cella.« Che sta facendo? »« Così passa le giornate. Stringe tra le mani lafoto della piccola Cindy e piange. »« Cazzo. »« Dai, lascia perdere e caliamoci nei personaggi. »La sala era grem<strong>it</strong>a di giornalisti e influenti autor<strong>it</strong>àpol<strong>it</strong>iche, solo un misero vetro divideva la cremadella società dal gigante in tuta arancione sedutosulla sedia elettrica. Il p<strong>rete</strong> disse le ultimeparole, il boia calò l’interruttore e Matt fu percorsoda una serie di spasmi che gli fecero evaporarele lacrime raccolte sotto gli occhi. La scena fu ripetutaaltre due volte, prima che il medico pronunciassela fatidica parola,(defunto),poi venne il buio.Una lacrima solcò anche il volto di Jim.Per Cindy.


Per Cindy107E luce fu. Gli occhi gli bruciarono, e quella dolorosavisione della luce gli fece capire che non erapiù legato sulla sedia elettrica, ma su un lettino eche qualcuno lo stava portando per stretti corridoi.Vedeva delle ombre fugaci intorno a sé, ma ancoranon riusciva a mettere bene a fuoco quello che stavasuccedendo. Gli occhi, così come il cervello, ricordavanoancora di essere stati attraversati da unaforte scarica elettrica. Il lettino (con Matt annesso)fu caricato su un furgone, e Matt fu liberato da unalacre tizio in giacca e cravatta, il furgone partìsgommando, e il tizio ripiegò la lettiga e si sedetteaccanto a Matt. Matt non mancò di notare che sottol’ascella destra il tizio portava una 45 automatica.Davanti a Matt c’erano altri due tizi vest<strong>it</strong>ianche loro con giacca e cravatta. Uno di loro,quello dal viso allungato, gli rivolse la parola.« Matt Miller? »Silenzio.« Ripeto, lei è Matt Miller? »Silenzio. Matt lo guardava fisso.« Non c’è bisogno che parli, mi basta sapere chemi sta ascoltando. Se lei è Matt Miller, annuisca. »Matt annuì. In fondo a quest’ora doveva trovarsiin una bara, e invece si trovava in uno stranofurgone a parlare con tre strani tizi.« Bene, ecco, ci siamo. Apra bene le orecchie,sarò breve e parlerò una volta sola, quindi non sidistragga neanche per un secondo. Il mio nome


108 Gino Galdinon ha importanza, può chiamarmi Mr Sm<strong>it</strong>h, se lefa piacere, lei è Matt Miller, 44 anni, ex berrettoverde, ex poliziotto e ex detenuto. Dopo una lungaserie di fatti che ben sappiamo, oggi alle ore 19.35è stato giustiziato nel pen<strong>it</strong>enziario di San Miguelin segu<strong>it</strong>o a ripetute accuse di omicidio premed<strong>it</strong>ato.Ma io e lei sappiamo che sono solo fregnacce.Lei da solo ha scoperto e sgominato una banda dipervert<strong>it</strong>i pedofili su cui stavamo indagando dauna decina d’anni. Lei da solo in un paio d’anniha svolto il lavoro che noi portiamo a termine inminimo cinque anni. Certo, ci è andato con la manopesante, ma a noi non interessano queste puttanate.A noi interessa lei, signor Miller. Siamo unasocietà segreta, di cui neanche la CIA o l’FBI sonoa conoscenza, siamo sovvenzionati da fondi statali,fondi privati e dai soldi trovati sui luoghi deidel<strong>it</strong>ti. E le assicuro che non sono pochi. Ci occupiamoesclusivamente di del<strong>it</strong>ti a sfondo sessuale adanni di minori, e le assicuro che neanche questisono pochi. Abbiamo solo un problema, a volteci troviamo di fronte ad ostruzionismo da partedello Stato o di enti del cazzo vari, che non approverebberoi nostri metodi. Quindi reclutiamo uominidati per defunti (di inscenare la morte ce neoccupiamo noi, la sua bara sarà riemp<strong>it</strong>a con uncadavere della sua corporatura) per prenderli afar parte di una squadra speciale che si occupi difar sparire colpevoli di pedofilia protetti da pol<strong>it</strong>ici


Per Cindy109di merda o da leggi corrotte. Se accetta di entrarele daremo una nuova faccia, una nuova ident<strong>it</strong>à eun nuovo lavoro in un’altra nazione, questo fino aquando un nostro elicottero non verrà a prelevarlaper qualche missione. Lei ora ha 44 anni, può sceglierese onorare la memoria di sua figlia combattendoal nostro fianco questo sporco mercato dibambini, o se tornare in quella bara e lasciar perderetutto. Se si sente la coscienza a posto puòtranquillamente scegliere la seconda opzione, pernoi non ci sono problemi. Le lascio... »Guardò il suo Rolex.« ... diciamo 14 minuti da ora per decidere. Senel frattempo le venisse in mente di fare il furbo,agiremo come se avesse scelto la seconda strada, eMr Jones è già pronto. »Matt si voltò e vide che mentre Mr Sm<strong>it</strong>h parlavail tizio alla sua sinistra aveva estratto silenziosamentela 45 ed ora gliela puntava alla testa.La pistola aveva il cane alzato e il proiettile incanna. Mr Sm<strong>it</strong>h riprese.« Mi dispiace se le sembro brusco, ma mentrestiamo qui a cazzeggiare, nel mondo un numeroimprecisato di bambini viene ucciso e violentato.La lascio alla sua scelta, signor Miller, faccia comemeglio crede. »Matt si sentiva frastornato dal quel fiume di parole,eppure il ragionamento del tizio non facevauna grinza. O ammazzare gli stronzi o morire a


110 Gino Galdisua volta. Quante altre piccole Cindy ci sono nelmondo? Appoggiò la testa al muro. Se per salvarnesolo una posso servire, perché essere così egoistae porre fine alla mia v<strong>it</strong>a? Ricordò i momentibelli trascorsi con Cindy e decise di accettare. Dopotanti anni un sorriso gli si stampò sul volto.Aprì gli occhi ed accettò.Per Cindy.L’ultimo giornalista lasciò la saletta e Pop lo osservòallontanarsi. Si voltò verso Jim.« Cazzo, tu piangi. »« L’hai visto, Pop, è morto senza dire assolutamentenulla! Né un grido, né un lamento, un cazzodi niente gli è usc<strong>it</strong>o dalle labbra! »« Ah, lascia perdere, Miller era un grand’uomo,ed ora starà nel paradiso dei grand’uomini. »Jim si sarebbe dovuto ab<strong>it</strong>uare ben presto allem<strong>it</strong>iche grandi frasi di Pop. Si avvicinò al corpofumante di Miller. Gli aprì il taschino della divisae gli infilò dentro la foto di Cindy.« Pop! »« ’zzo vuoi? »« Corri qua, presto! »Pop si avvicinò anche lui al corpo di Matt.« Non noti niente di strano, Pop? »« Se alludi al puzzo di bruciato e al fatto che gli


Per Cindy111occhi gli stanno colando sulla camicia, direi dino. »« E invece no, guardagli bene il viso, sembrache stia sorridendo! »Pop strizzò gli occhi.« Ohporcamiseria, ragazzo, hai ragione, che iosia dannato se questo fottimadre non sia mortosorridendo! »« Cristo, Pop, che cazzo significa? »« Oh, be’, ora starà saltellando con la sua Cindy,o sta sognando qualcosa che lo rende felice.Lascia perdere i morti, andiamo ora, Jim. »« Pop, vedrò altre cose strane qui? »Pop sorrise.« Ti ho detto di lasciar perdere, andiamo a farciuna birra. Per Miller e per Cindy. »Si allontanarono <strong>dalla</strong> sedia elettrica lasciandoil cadavere di Matt a raffreddarsi al buio.


112 Nicolò La RoccaNICOLÒ LA ROCCAIl colpo ad effetto


Il colpo ad effetto113ICOLLI dei vecchi tra poco, come ogni giorno,avrebbero luccicato ai bagliori interm<strong>it</strong>tentidelle finestre dell’ospizio Divina Car<strong>it</strong>à, cadenzatial passo molle e tremolante delle ciabatteammuff<strong>it</strong>e. Poi, quando i vecchi sarebbero entratinella grande stanza della svestizione, i neon avrebberosparato la sol<strong>it</strong>a luce trista. I catarri e i gorgogliiavrebbero echeggiato come quando, anni prima,tutti quei signori avevano saputo sputare conforza e violenza: ci voleva talento ed educazioneper centrare il pezzo di selciato desiderato, per dimostraredi starci ancora tutti, di non farsi strambiareper rincoglion<strong>it</strong>i dall’età. Era una specie disfida: si mettevano in fila e iniziavano la batteriadi tiri, e la balistica diventava una cosa seria, unascopettata contro la vecchiaia. Ma già la catarattasi faceva sempre più spessa, il ristagno di urina neipantaloni più acido e f<strong>it</strong>usu, le gengive ormai incancren<strong>it</strong>eper sempre, e il cervello... il cervellonon si voleva rassegnare. Mica si era indur<strong>it</strong>o,


114 Nicolò La Roccaquello! Era molle come sempre, come il cap<strong>it</strong>aleche ormai non ne voleva sapere più di raddrizzarsi,neanche davanti alle cosce di qualche bella ballerina,di quelle che per la sagra dell’ulivo venivanoa ballare sopra il palco che l’amministrazionecomunale posizionava nella piazza. Arturo Vivianoe Salvatore Lazanca ne avevano di sistemarsicome due pupi sotto il palco. Ma che!... mancola vista delle brache bianche delle femmine cheballavano alla sagra li faceva attisare, manco ilconcime che Salvatore spruzzava sopra il cap<strong>it</strong>ale.Arturo lo afferrava per i coglioni e glieli stringevacome quando erano piccililli. E quello gridava comeun agnello scannato, che non c’era verso dichiudere le persiane quando lo spettacolo partiva.Quei due vecchiacci maledetti non avevano riguardoper la convivenza civile. Ma Lazanca garantiva:« Non sento niente! Non sento niente! »Arturo sapeva che l’amico suo era locco, lo erastato sempre, perché avrebbe dovuto cessare di esserloora che aveva ottantotto anni? Come lui, paroparo, né un anno di più né un anno di meno. Macon quella storia del diserbante sul cap<strong>it</strong>ale si stavarovinando la salute, Salvatore Lazanca. Veramente.Pisciava sangue nero, attorno ai pantalonigli si accumulava un bolo scuro e marcio che ormaineanche i dottori sapevano più che casp<strong>it</strong>inafosse. Salvatore era locco, sì, locco come era statosempre. Non era mica come Arturo Viviano l’ex


Il colpo ad effetto115prefetto. Viviano aveva avuto sterminate proprietàdi ulivi, che uno prima di sincerarsi sull’estensionedi tutte quelle terre si sarebbe rovinato la vista.E case e depos<strong>it</strong>i bancari di centinaia di milioni.Un vero signore incartato coi fiocchi era stato,senza ombra di dubbio. Quando da picciotto passavaper il corso era una processione di cristianimessi a culo a ponte, teste che toccavano il pavé(tanto si piegavano in due sulle gambe rispettose),inchini e saluti appassionati, che sembravano tantifroci quelli e le moglie buttane parevano, sì, senzaombra di dubbio. Si erano cagati alla vista del prefettoViviano, come se avessero intravisto CarloMagno in persona. E Carlo Magno si era convintodi essere il prefetto Viviano, tanto che si era messoa leggere libri di storia dedicati al suo personaggio.Ne comprava tantissimi, aspettava i cataloghidegli ed<strong>it</strong>ori specializzati come il cane col viziodella monta aspetta la cagna che dia sfogo e v<strong>it</strong>aal suo corpo duro e ululante.Quando da giovane si fermava in piazza, il prefettosfoggiava il suo sol<strong>it</strong>o canovaccio, quello chein anni di sfarzosa carriera gli aveva offerto le migliorisoddisfazioni. Parlava come uno mozzicato<strong>dalla</strong> parola e non si z<strong>it</strong>tiva se non quando la plateagli tributava i mer<strong>it</strong>ati complimenti. Si ecc<strong>it</strong>avaper la pol<strong>it</strong>ica, per la cultura, per lo sport, eaveva sempre ragione: un omo ispirato era statoil prefetto dei bei tempi. Le donne nei canti aveva-


116 Nicolò La Roccano pianto per la sagacia di Viviano e le signoreraffinate di Palermo se l’erano conteso. E direche Arturo Viviano era figlio di Mommu culu dimerda, l’ambulante del pesce. Lo avevano sfottuto,Mommu, alla nasc<strong>it</strong>a di suo figlio per il nomeche gli aveva scelto. Chiamalo come tuo padre, gliavevano consigliato i più sentimentosi. Enzo chiamalo.E che è un brutto nome, Enzo? Arturo inveceche vuol dire? È nome di frocio, pare. E gli ricordavanol’importanza del nome Enzo. Nella solaTaturretto se ne contavano una decina, tutti borghesi,tutta gente per bene, con il culo pieno, senzadubbio: Enzo Mascalucia il segretario scolastico,Enzo Tortola l’impiegato comunale, Enzo Gravinail commerciante di legname. Ma Mommu culu dimerda voleva grandi cose per suo figlio.Dinoccolandosi sull’artrosi Viviano pensava aibei tempi e non riusciva a capac<strong>it</strong>arsi dello sboccoche la sua v<strong>it</strong>a aveva preso. In confronto all’ecc<strong>it</strong>azionedegli anni della gioventù e della matur<strong>it</strong>à,questi parevano solo pus. Voleva liberarsene al piùpresto e si immaginava in un futuro molto prossimocon il suo corpicino (ormai si era ridotto aquattro ossa incatenate) incastonato senza v<strong>it</strong>a inun angolo del paese, lo stesso che da piccililloaveva scelto per giocare al soffio delle figurine.Poi vedeva i passanti che si fermavano (li conoscevatutti i passanti) e gli davano un piccolo calcioper sincerarsi che non fosse morto. Ma quando


Il colpo ad effetto117si accorgevano che già era rogna, con tanto di corredodi vermi vom<strong>it</strong>anti, si tappavano le nascheper il miasma orribile che finalmente percepivano.Mentre lo spostavano gli cadevano i giornalettipornografici sui quali si era impegnato negli ultimianni nel tentativo disperato di resusc<strong>it</strong>are chi ormaiè nel regno dei morti, e le impiegate comunali(quante ne aveva raccomandate lui!) si scandalizzavanoe pregavano i becchini di toglierlo <strong>dalla</strong>strada, ché era uno schifo. Gli scappò un ghignoal pensiero delle impiegate comunali scandalizzate.Ma sub<strong>it</strong>o rivolse lo sguardo a Lazanca che,locco com’era, rideva da solo, chissà dietro a qualepensiero. Stavano ultimando per l’ultima voltail percorso <strong>dalla</strong> vasca al monumento di Garibaldi,quando vide a pochi metri Girolamo Barbera, ilsuo bel compare, giovane e tosto come solo l’amaruduciconcimato a spropos<strong>it</strong>o potrebbe essere. Egli tornarono tutti i crampi alla testa. Con il papparrìual cuore cercò, accelerando in modo patetico,di non trovarselo davanti, quel sanguisuga dellaminchia. Gli si era appizzato alle spalle a succhiargliil sangue fin dal giorno in cui lui, il grandeprefetto Arturo Viviano, si era trovato con lepiaghe alle spalle, sul lettino sudato e mai conzato,da nessuno. Per la malattia al cuore era rimastoimmobilizzato per settimane al capezzale di quelloche una volta era stato il suo letto matrimoniale.Ci aveva fatto i salti mortali con la sua Mariannina


118 Nicolò La Roccaai tempi d’oro. Quante parole squis<strong>it</strong>e aveva saputotirare fuori con quella lingua sofisticata che sir<strong>it</strong>rovava allora! Cose dolci che la sua fama di prefettonascondeva. Se pensava che nonostante tuttequelle cose zuccherose suo figlio, che lui aveva sistematocon un buon impiego – era stato pure unbuon part<strong>it</strong>o, suo figlio – gli aveva voltato le spalle,non di botto, ma piano piano, con maggiorecrudeltà... gli veniva da piangere come un bebè lamentoso.E poi perché suo figlio se ne era fottutodi un tal padre? Perché lui non aveva apprezzato lanuora? Lo avevano spogliato, come un bebè primadel bagnetto, per lasciarlo morto di fame, più diquanto lo era stato suo padre, Mommu culu dimerda.Si tirò appresso quel locco di Viviano che se nestava con la testa schiacciata contro il muro, e unpiede davanti uno dietro, si avviò verso l’ospizioDivina Car<strong>it</strong>à, segu<strong>it</strong>o da una legione di cani randagi,che pareva tutto preparato, lui davanti e i caniappresso, manco a farlo apposta. Fu puntualeper l’ora della svestizione da consumare nel salonegrande. Si divertì come al sol<strong>it</strong>o a essere improfumatocol borotalco prima e con la colonia dopo.Non percepiva più il fetore che, con l’unione diborotalco e colonia, quella mistura realizzava.Gli dava una specie di sensazione di innocenzaquel borotalco sui pori... e lui, cazzarola! innocentelo era davvero. Arrivato sul letto, dopo aver


Il colpo ad effetto119zoppicato per tutto il lungo corridoio, gli tornavala stanchezza e la tristezza infin<strong>it</strong>a. Si piegava sullasediola di ferro che gli toccava di dir<strong>it</strong>to, guai alevargliela! e restava come un trunzo a fissare illetto di Saverio Biattino. Tanto Saverio non lo notava,non lo guardava, chissà che cazzo pensava,Saverio. Era immobile sul suo letto da due anni ormai.Secco come una sogliola spolpata, bianco dafare scanto pure ai monaci – che pure di morti-vivine avevano visti nei decenni del Divina Car<strong>it</strong>à –,stampava gli occhi gonfi contro il soff<strong>it</strong>to bianco.Era uno spettacolo, Saverio Biattino. Poi il prefettoiniziava uno dei suoi sol<strong>it</strong>i pianti, ormai lo facevaper tenersi compagnia, perché tra l’atonia diSaverio e il tremore di Salvatore divertimentinon ne trovava. Salvatore per tirarlo su da quellas<strong>it</strong>uazione – lui un prefetto, prima di incontraread Arturo se l’era immaginato come Dio in terra– gli chiedeva di rec<strong>it</strong>argli un’ordinanza prefettizia.Ma Arturo non si rispondeva, e non c’era versodi convincerlo. Manco una ne voleva rec<strong>it</strong>are,come se non ne avesse lette a migliaia. Che ci perdevaa farlo contento? Lui, Salvatore, avrebbe apprezzatola lettura di un’ordinanza prefettizia, fraun tremore e l’altro.Anche quella sera si ripeté la sol<strong>it</strong>a storia: Salvatorefaceva la questua e Arturo capiava di no,infuriato, con gli occhi rossi che gli bollivano. Appenail tempo di arrivare i monaci a spartirli: ché


120 Nicolò La Roccaaltrimenti tutti i vecchi si sarebbero svegliati eavrebbero attaccato a urlare peggio di Arturo. Eper tutta la nottata non avrebbero dorm<strong>it</strong>o più. Imonaci, certo, il saio ce l’avevano, e l’amore pure,ma gana di sentirsi tutta la notte le urla senza nétesta né piede dei vecchi, no no, proprio non sela sentivano.Così tutti si calmavano, anche quella sera. Arturo,ormai a letto, si accorse che non vedeva più ilsuo pensiero. Al buio non lo scorgeva più. Per annigli era parso di poterlo vedere con gli occhi, ilsuo pensiero. Ora non trovava di meglio che ispezionareil tartaro tra le gengive, quello che perventura rimaneva ancorato ai suoi quattro denti superst<strong>it</strong>i.Se lo spolpava con una molletta da femmina,il tartaro. Poi l’odorava e infine lo buttavaai lati del letto. Fuori non si sentiva più niente, comese, per il fatto che al Divina Car<strong>it</strong>à si fosserospente le luci, anche tutto il mondo si fosse fermato,bloccato, magari per finta. Ma sempre impressionefaceva. Un silenzio da desiderare solo disprofondare sotto le lenzuola. Così fece e non cipensò più. Peròpoi attaccò Saverio, era un tormentostarlo a sentire. Pareva una voce dall’oltretomba,fredda come il marmo delle lapidi del cim<strong>it</strong>ero,insistente come certe fotografie appiccicatesulle tombe con troppa passione dai congiuntiancora vivi. Saverio si lamentava, un gem<strong>it</strong>o lungoe molle, come un rosario snocciolato sempre con


Il colpo ad effetto121la stessa nota, all’infin<strong>it</strong>o. Per Arturo il lamento diSaverio era l’unico velo che ormai c’era tra la v<strong>it</strong>ae la morte, una specie di omelia che faceva attisarele carni. Per questo il prefetto si alzava e andava alletto di Saverio. A quel punto iniziava a batterlocon tutta la sua forza, per z<strong>it</strong>tirlo, per farlo scompariredentro il molle materasso. Quello neanchereagiva (e come avrebbe potuto), però cessava ilsuo lamento, proprio quando Arturo gli colpivacol pugno le costole, piccole e friabili come dentidi morto. Il comatoso si spegneva. Restava con lalingua di fuori e la bava che gli colava sul mento.La luce che proveniva <strong>dalla</strong> finestra così luccicavasulla faccia di Saverio e dava ad Arturo l’illusionedi un gioco pirotecnico, nu iocu di focu che qualcunoda qualche parte, chissà per quale motivo,avrebbe dovuto fare ogni sera, per loro; forse soloper dare luce alla bava di Saverio e per dar damangiare agli occhi di Arturo. Ma durava pocola gioia di Arturo. Saverio alla fine delle botte sipisciava puntualmente, e la nuova urina, sommandosialla vecchia, irrancidiva ancora di più il materassoche emanava un puzzo impressionante intutta la stanza.Ma quella sera i neon si riaccesero ed entraronotre persone con le mani a tapparsi le nasche. Arturo,riemergendo da sotto le lenzuola, sgranò gli occhie riconobbe i due monaci insonnacchiati e il


122 Nicolò La Roccaragazzetto che da un po’ di tempo si era incapon<strong>it</strong>odi fargli compagnia, Saro.« Eccellenza », lo salutò Saro.« Mi deve scusare vossia, ma oggi non ho avutotempo di venirla a trovare. »« Non ti preoccupare, Saro, bene staiu. Nun miservi nenti oggi. Va’ cucarcati. Da’. »« Sono stato a lavorare con mio padre al magazzino,eccellenza. »«Sì, va be’, lu capivi Sarù, va’ curcati ora, cheè tardu. Va’. »Ma Saro non si muoveva. Il prefetto era contentodi quel paggetto che da un po’ di mesi si r<strong>it</strong>rovava.Ma non capiva come mai gli girasse attornocon tanta insistenza.Lo licenziò con una sua formula prefettizia, lobenedisse e quello, come un soldatino, fece dietrofronte si congedò. Arturo rimase con l’orecchiovigile, per cogliere lo scricchiolio delle scarpedel ragazzo nel corridoio che portava all’usc<strong>it</strong>a,e per agguantare magari qualche cattiveria a lui indirizzata.Ma i suoi sospetti mai avevano trovatoconferma.L’indomani fu di nuovo a passeggiare nella stradamastra, con quel locco di Salvatore. Rise delleschette, giovani e meno giovani, col sangue rossonella carne o anemiche e ormai segnate dall’età,


Il colpo ad effetto123che facevano avanti e indietro. Nonostante il comuneavesse iniziato i lavori di sistemazione delselciato, e quindi la strada mastra fosse ridotta auna trazzera, né più né meno, le schette temerarienon rinunciavano alla passeggiata quotidiana, infangandosicome cagne rognose, anzi aumentandodi più il tremore che provavano alle palpebre allavista di qualche promettente buon part<strong>it</strong>o ancoraschetto come loro. Il prefetto si sganasciò dalle risate,ma poi si z<strong>it</strong>tì di colpo, come se si vergognassedi qualche cosa. Aveva visto in lontananza lasagoma di Saruzzu e si vergognò di farsi trovarea braccetto con quel locco di Salvatore. Ma il discorsoche gli fece Saro lo lasciò abbabbuto, quantoSalvatore, più di Salvatore. Il piccilillo gli disseche era contento, perché suo padre aveva acconsent<strong>it</strong>oa prendersi in casa il prefetto, cioè lui inpersona di persona. Sarebbe venuto nel pomeriggioal Divina Car<strong>it</strong>à per parlarne personalmentecon lui, per sentire che ne pensasse, lui, il direttointeressato. Ma intanto Saro non ce l’aveva fatta atenersi tutto per sé.« Che ne pensa, eccellenza? » Disse infine congli occhi contentissimi, nell’impegno che avevamesso in quella domanda retorica. L’eccellenzasi rese conto di essere solo un pezzo di carne avariato,un trunzo qualsiasi, non degno del suo illustrepassato, poiché, al solo ascoltare le promessee le speranze di Saro, si era commosso più di lui e,


124 Nicolò La Roccatutto infriguliato da quelle parole, si era perso neirumori e nei movimenti che avvertiva dentro lasua carcassa. Un grumo di grasso, infatti, emozionatopure lui per l’accadimento emozionale delprefetto, si era messo a festeggiare, e per la contentezzasi posizionò di traverso proprio davantial cuore di quel tanto di omo. Arturo ebbe il tempodi pensare che finiva la v<strong>it</strong>a col sol<strong>it</strong>o colpo ad effetto,degno del peggiore libro senza né testa népiede, della specie che vuole solo stupire. Fin<strong>it</strong>oil pensiero, si stampò un sorriso grande grande sullafaccia (come a scusarsi di quel contrattempoche lui mai avrebbe desiderato, perché le cose adeffetto gli parevano babbasunate) e si accasciò sullegambe, per cadere di peso a terra.


Il reame felice e la principessa misteriosa125LUISA LEPOREIl reame felice e la principessa misteriosa


126 Luisa Leporeuna volta un regno immenso.Dalle cime delle sue montagne più altechi guardava intorno non ne poteva C’ERAvedere i confini. C’erano praterie, dove pascolavaun’infin<strong>it</strong>a varietà di animali, foreste ricche di alberiantichi, monti bianchi di neve da cui scendevanofiumi d’acqua cristallina, che si gettavano inlaghi ricchi di pesci per confluire poi nel maresenza fine.E c’era il Re.Un Re che amava tutto del suo regno: la gente,gli animali, le piante, il mare, la terra. E che avevaun unico desiderio: quello di essere sempre inmezzo a loro.Così aveva studiato un sistema per vis<strong>it</strong>are ilsuo regno sconfinato, per vedere e farsi vedereda ogni sudd<strong>it</strong>o: viaggiare di continuo.Allo scopo si era fatto costruire un bellissimocarro, tutto di legno dorato, trainato da dodici ca-


Il reame felice e la principessa misteriosa127valli, i più belli, forti e veloci, che correvano comeil vento, e sembrava che volassero.La v<strong>it</strong>a scorreva in armonia con i r<strong>it</strong>mi di viaggiodel Re. I lavori sui campi e degli artigiani eranoesegu<strong>it</strong>i in tempi utili affinché ogni ab<strong>it</strong>antefosse pronto ad accogliere il monarca che veniva,per mostrargli il frutto del proprio lavoro. Ed anchele piante germogliavano sui r<strong>it</strong>mi del Re; ibambini nascevano in tempo per ammirare il Ree farsi carezzare da lui.Quando il Re giungeva, egli aveva uno sguardoper tutto e tutti, ed ognuno ne traeva grande soddisfazione.Il r<strong>it</strong>o del viaggio si ripeteva ormai da tantissimianni, e il Re era sempre lo stesso. Nessuno conoscevala sua età; ma i nonni dei nonni dei nonnigià lo ricordavano. La sola cosa che il popolo desideravaper il suo Re era che si sposasse, perchédispiaceva vederlo da solo. Egli però non cedevaai desideri dei sudd<strong>it</strong>i « perché », affermava, « tuttoil tempo era per il suo popolo e non poteva fermarsi,e pensare a una sposa, a metter su famiglia».Poi accadde uno strano avvenimento.Una notte un bambino che dormiva nella suaculla si svegliò. Ed era un fatto curioso perchédi notte tutti dormivano, anche il Re. Questa erala tradizione che nessuno aveva mai infranto.La mamma sentì piangere il bimbo. Si stupì esi


128 Luisa Leporealzò per andare a vedere cosa succedeva. Uscendo<strong>dalla</strong> stanza notò che dalle finestre aperte venivauna luce, ma una luce come non aveva mai visto:non come quella del giorno, chiara e dorata, enemmeno come quella delle lampade che usavanola sera in casa. Era una luce d’argento. E sentì unrumore, come fa il vento quando passa e muove lefoglie. Ma questo pure era strano, perché anche ilvento di notte dormiva.Allora la donna prese in braccio il piccolo, andòa chiamare il mar<strong>it</strong>o e insieme uscirono sul porticoper cercare di capire che cosa ci fosse là fuori.Videro allora un carro stupendo, simile a quellodel Re, ma tutto d’argento, con un tiro da dodicicavalli bianchi e, sul carro, una donna bellissima.Una principessa, pensarono, e rimasero a mirarlamentre si allontanava, fino a che sparì oltre l’orizzonte.A quel punto rientrarono in casa, chiedendosichi potesse mai essere e perché non l’avesseromai vista prima.Il mattino dopo raccontarono a tutto il villaggioil singolare evento della notte. Molti non ci volevanocredere. Dicevano che forse era stato un sogno,di quelli che a certuni cap<strong>it</strong>ano durante il sonno.Alla fine decisero che non sarebbero andati adormire la notte seguente, e che sarebbero rimastisvegli, fuori del paese, per sincerarsi e vedere sel’evento si sarebbe ripetuto.


Il reame felice e la principessa misteriosa129E così fecero.Quel giorno, poco dopo il calar della sera, restaronoa lungo in curiosa attesa. Quando ormai disperavanodi vedere alcunché, un ragazzo, ecc<strong>it</strong>atooltre ogni dire, avvistò qualcosa in alto, lontanosui monti. Alzando gli occhi, anche gli altri viderociò che sembrava un carro d’argento che si avvicinava,si avvicinava sempre più, finché giunse adue passi sopra le loro teste, li superò, e si allontanò,sparendo nella notte.Il fatto si ripeté per più giorni. E la notizia cominciòa spargersi in tutto il regno, sempre piùlontano, destando interesse e curios<strong>it</strong>à nell’interoreame.Prima d’allora mai era successo che la gente rimanessein piedi di notte. Sempre, da che mondo èmondo, nei domini del Re, il popolo si addormentavaal calar del sole, ed al suo sorgere si destavaper riprendere il lavoro.Ma ora, tutti rimanevano svegli per ammirare lostrano prodigio. E andavano a dormire che eraquasi mattino. Il lavoro cominciava a risentirne ec’erano già r<strong>it</strong>ardi nei campi e nelle officine artigiane.Alla fine anche il Re se ne accorse e fu stup<strong>it</strong>o.Ognuno vedeva la Principessa – come la chiamavanoormai tutti – in maniera diversa l’uno dall’altro.Cominciarono a fare disegni, cosa mai fattaprima, ed alcuni addir<strong>it</strong>tura provarono a riprodurre


130 Luisa Leporein vari modi il suono che faceva il carro quandopassava.Erano molti ormai che trascorrevano le giornatea disegnare con sempre più perizia, e a inventarestrumenti per riprodurre le armonie del carro d’argento.La curios<strong>it</strong>à ed una singolare ag<strong>it</strong>azione sierano impadron<strong>it</strong>e di tutto il regno, esseri animatie cose. Anche il mare, quando il carro passava,cercava di avvicinarsi il più possibile per vederemeglio, salendo sulla spiaggia ed oltre, dove nonera mai arrivato. La voce si sparse addir<strong>it</strong>tura frai semi, che facevano a gara per germogliare primae mettere fuori un paio di foglioline a vedere il fattostraordinario.E anche tra i fiori ce n’erano di curiosi che rimanevanosvegli tutta la notte per richiudere poigli stanchi petali al mattino, affaticati <strong>dalla</strong> veglianotturna.Dopo qualche tempo accadde l’inev<strong>it</strong>abile. Alpassaggio del Re, per la prima volta nella storiadel reame, non tutti i fiori erano aperti per farsiodorare, il mare non era al suo sol<strong>it</strong>o posto perchéstava ancora tornando al suo alveo e molti sudd<strong>it</strong>ierano distratti: suonavano, cosa mai sent<strong>it</strong>a! Altridisegnavano e dipingevano!Il Re guardava il frutto del loro ingegno e semprepiù si faceva meraviglia. Osservava la Principessar<strong>it</strong>ratta, ora alta, a volte magra, per alcuniera bassa, e c’era chi l’aveva dipinta con un tondo


Il reame felice e la principessa misteriosa131viso e un gran sorriso sulle labbra, chi con lunghicapelli d’argento, chi con una sorta di rossa coronasul capo. Tutte le descrizioni parevano simili, matutte diverse.Il Re ascoltò anche la musica, suonata con glistrumenti inventati, e il suo stupore crebbe a dismisura.Fece allora una cosa mai fatta prima.Si fermò e chiese spiegazioni al capo del villaggio.Questi, farfugliando per l’emozione, diventòtutto rosso e non sembrava in grado né di parlare,né di muoversi.Bene o male, si fece animo e raccontò al Rel’accaduto. Ma quando il Re gli domandò cosa dovessefare per vedere la Principessa, si imbarazzònon poco, perché avrebbe dovuto confessare diavere infranto l’antica regola della notte, e di esserestato sveglio.Alfine, preso coraggio, azzardò una risposta:« Il carro d’argento con la Principessa corre comeil tuo, e compare oltre l’orizzonte quando tu seigià lontano. Lei non viene sempre, come fai tu.Forse ha paura delle nuvole e del temporale.Non è come te che non temi il cattivo tempo.Non arriva tutte le notti e, quando giunge, non èsempre alla stessa ora. E poi appare sempre diversa.Io so dire quando tu verrai, ma non so prevederequello che la Principessa farà ».Il Re decise allora di modificare un po’ il suo


132 Luisa Leporeorario di viaggio, e così partì un po’ dopo al mattinoper fermarsi di più la sera. Ma non la vide.Allora fece il contrario, partì prestissimo. Maanche questa volta non fu fortunato. Provò e riprovò,cambiando ora e <strong>it</strong>inerari. E alla fine la sua costanzafu premiata. La incontrò, fu abbagliato, e aquel punto non sapeva più che fare.Infatti, la sua intenzione era di cacciare la Principessa,che aveva sconvolto l’ordine nel suo regno.Per anni e anni tutto era vissuto nell’ordine,senza imprevisti, e nessuno prima di lei aveva cosìalterato le leggi del suo regno. Da che lei era arrivata,ogni cosa era cambiata. Aveva visto i contadiniche, invece di lavorare i campi, disegnavano esuonavano; il mare non stava più nel suo letto esaliva e scendeva tutti i giorni; le piante fiorivanoquando volevano, i bambini nascevano in qualsiasigiorno, in ogni mese dell’anno. Così non potevacontinuare.Ma quando si decise a rivolgerle aspri e regalirimproveri, guardandola negli occhi, rimase comeincantato, e poté dirle soltanto: « Chi sei? »Ed ella: « Vengo da molto lontano e non possotornare da dove sono venuta. Qui mi piace molto.Appena arrivata non c’era molto da vedere odascoltare, ma ora molte cose sono cambiate. Forseresterò!»Spiegò al Re che aveva visto un popolo ricco di


Il reame felice e la principessa misteriosa133ogni benessere possibile; ad esso non mancavaniente. Ma era come addormentato.« Il tuo popolo non disegnava, non suonava,non si guardava intorno, perché non sapeva vederele cose nascoste della notte. Non faceva domande,non aveva dubbi cui dare risposte. » Così proseguì:« Se tu vuoi, governeremo insieme. Tu viaggeraiportando nel regno i tuoi doni e, mentre riposerai,arricchirò il tuo popolo con i miei ».Il Re si meravigliò di tanta audacia. Guardò ancorala Principessa, poi la sua gente. E vide amore,intelligenza, gioia e curios<strong>it</strong>à. Ci pensò per un po’e infine le chiese: « Quali sono i doni di cui parli?»La Principessa rispose: « I tuoi doni sono le leggiche hai stabil<strong>it</strong>o, i miei, l’imprevedibile incantodell’esistenza ».Il Re rimase convinto dalle parole della Principessa,a tal punto che decise di seguirne il consiglio.La fece sua sposa, e insieme si incamminaronosul sentiero della felic<strong>it</strong>à.E il popolo?Tutti da quel momento vissero curiosi e felici!


134 Stefano MeloniSTEFANO MELONICacciatore di sogni


Cacciatore di sogni135ERA sempre stato meticoloso e selettivo intutte le scelte della sua v<strong>it</strong>a: gli studi, gliamici, le donne, il tempo libero...Soprattutto nel tempo libero.Seguiva le sue prede tutti i giorni per almeno unmese; alla fine le conosceva forse meglio di chiunquealtro.Non si lim<strong>it</strong>ava a scoprire dove ab<strong>it</strong>assero, chifrequentassero, che abbigliamento preferissero:quello era un lavoro relativamente semplice, chelasciava agli investigatori privati.Lui cercava altro, molto di più.Lui ne distingueva gli odori, i passi, i gusti, iltono della voce, gli archi espressivi delle sopracciglia.Lui le sfiorava negli autobus, faceva la fila conloro negli uffici postali, correva la domenica insiemea loro, consegnava la pizza a casa facendo fintadi aver sbagliato indirizzo.Entrava nella loro v<strong>it</strong>a.


136 Stefano MeloniLui era un cacciatore.Il cacciatore deve conoscere bene le sue predeEra sempre aggiornato su tutti i tipi di chiusure disicurezza esistenti.Riusciva ad aprire una normale serratura a doppiamappa in pochi secondi senza fare rumore, disattivavafacilmente tutti i tipi commerciali di antifurto.Faceva diversi sopralluoghi esplorativi.Non voleva sorprese, né tantomeno vicini curiosirisvegliati nel cuore della notte da rumori sospetti.Il silenzio, la notte, il buio, quelli erano i suoisoli alleati.Era sempre stato meticoloso.Lui era un cacciatore.Il cacciatore deve conoscere bene l’ambientedelle sue prede.Quella notte avrebbe colp<strong>it</strong>o.Sentiva addosso tutta l’ecc<strong>it</strong>azione della cosa.Sempre uguale, sempre diversa.Erano anni che cacciava, ma mai... mai avevadato nulla di scontato.Erano sempre i dettagli a fare la differenza traun successo ed un fallimento, ne era consapevole.


Cacciatore di sogni137I suoi poteri eccezionali non gli permettevanodi fermarsi davanti all’ab<strong>it</strong>udine.Ogni preda era diversa.Ogni caccia era diversa.Chiuse gli occhi e richiamò l’immagine dellasua prossima preda: Barbara.Tutti i suoi sensi pronunciavano quel nome.Il suo cervello rispondeva a quella specifica richiestarest<strong>it</strong>uendo le infin<strong>it</strong>e informazioni accumulatecome violente scariche elettriche.Immagini, suoni, odori, parole, colori, risate,pianto, sudore, trucco, movimenti, capelli...Ora era pronto.Lui era un cacciatore.Il cacciatore deve ricordare tutto delle sueprede.Arrivò sul pianerottolo della casa di Barbara senzaalcuna difficoltà.I suoi passi erano silenziosi, la sua ombra inconsistente,il portone del palazzo incautamenteaperto.Posò lo sguardo sulla serratura dell’appartamentodella sua preda, riconoscendone la marcafamiliare.Oliò abbondantemente i cardini della porta, perev<strong>it</strong>are pericolosi cigolii, poi le sue mani lavoraronorapide e precise.


138 Stefano MeloniLa porta si aprì sub<strong>it</strong>o rivelando il buio piùcompleto.Non era una sorpresa: Barbara amava il buio.Il cacciatore deve conoscere bene le ab<strong>it</strong>udinidelle sue prede.Il cacciatore si lasciò scivolare in un piccolo spiraglioaperto, per non far passare troppa luce dallescale.Poi chiuse nuovamente la porta.Era nel suo ambiente.Il silenzio, la notte, il buio, quelli erano i suoisoli alleati.Rimase qualche secondo con le spalle appoggiatealla porta inalando profondamente ogni tracciadi lei, assaporando i rigurg<strong>it</strong>i del suo cervello.Ma era ora di agire.La sua mente tornò rapidamente lucida.Il cacciatore deve catturare le sue prede.Arrivò facilmente nella camera da letto, galleggiandonel buio più totale, passando esattamenteal centro di un lungo corridoio e tagliando il soggiornocon una perfetta diagonale.Anche solo sfiorare un soprammobile sarebbestato la catastrofe.


Cacciatore di sogni139Lo guidavano i suoi poteri, non certo i suoi occhi.Mentre si avvicinava sentiva il respiro regolaredella ragazza ed uniformò il suo a quello di lei,sentì più forte il profumo del suo corpo ed annullòil proprio.Non la vedeva, ma la percepiva perfettamente.Il suo contorno, i suoi capelli sul cuscino, il suoviso.Si avvicinò sempre di più, lentamente, sempredi più...Si inginocchiò accanto a lei ed incominciò il r<strong>it</strong>ualedi caccia.Posò delicatamente i suoi pollici sugli occhichiusi di Barbara, che venne scossa da un lungofrem<strong>it</strong>o.Poi nulla.Il contatto ormai era stabil<strong>it</strong>o.Nulla poteva interrompere la caccia.Il cacciatore non lascia mai la preda catturata.Incominciò a viaggiare.La densa nebbia azzurrognola che avvolgeva isuoi sensi si diradò rapidamente.Venne risucchiato violentemente su di un pratoverde, sembrava un giardino.L’odore inconfondibile dell’erba appena taglia-


140 Stefano Melon<strong>it</strong>a confermò la prima impressione, poi seguirono icolori dei fiori, le geometrie delle aiuole.Come al sol<strong>it</strong>o, con qualche istante di r<strong>it</strong>ardo arrivaronoanche i suoni.Immediatamente riconobbe il rumore dell’acquacorrente.Un fiume.Barbara stava sognando un posto bellissimo.Ondeggiò su macchie di colori, debolmente accarezzateda un vento caldo, sfiorò nuvole di vapore,accarezzò petali di fiori, gustò l’aroma lievementemielato, si appoggiò alla solida consistenzadi un muro di pietra.Anche quella volta la preda si era dimostratagiusta.I suoi poteri ora erano al massimo, sentiva il sognoche si imprimeva profondamente dentro di lui,sentiva il suo cuore che batteva sempre più forte,sempre più forte, ancora di più... sapeva che lacaccia stava per concludersi.Si staccò da lei, tremando, con il familiare formicoliosui polpastrelli dei pollici.Sembrava un attimo, solo un attimo, ma utilizzandoil metro temporale delle persone normali sirese conto che erano passate più di due ore.Una caccia lunga.Ma il cacciatore non molla mai la preda.


Cacciatore di sogni141Lasciò Barbara dormire.Usci <strong>dalla</strong> sua v<strong>it</strong>a portandosi via solo il suo sogno.Chissà quanti altri si sarebbero accontentati dicosì poco.Riprese lentamente la strada del r<strong>it</strong>orno, non soloquella che portava a casa.Anche quella notte il cacciatore aveva avuto lasua preda.Il cacciatore era incapace di sognare, il cacciatorenon poteva sognare.Le lacrime cominciarono a rigargli il viso perla grandezza dei suoi poteri, per la forza dellesensazioni rubate, ma anche per la miseria dellasua v<strong>it</strong>a.Ogni caccia era come la prima caccia.Aveva scoperto cosa erano i sogni quando dabambino alcuni coetanei gliene parlarono.Dopo quella straordinaria rivelazione, si erasforzato di sognare, ma semplicemente non c’erariusc<strong>it</strong>o.Quando dormiva, dormiva e basta.Così, cominciò a mentire, anche a se stesso.Cominciò a far finta di sognare, creò un f<strong>it</strong>tizioarchivio di fantasie che cominciò a chiamare sogni.Per anni ed anni.


142 Stefano MeloniPoi, un giorno, toccò gli occhi chiusi dal sonnodi una sua amante, quasi che la cosa gli venissesugger<strong>it</strong>a da una arcana voce interiore.Sentì una forte scarica elettrica percorrergli tuttoil corpo, ma non riuscì ad allontanarsi.Cominciò a volare, vide cose mai viste, coseimpossibili, impensabili, fu colp<strong>it</strong>o dai colori,graffiato dagli odori, trasportato in un mondo assolutamentenuovo, incontrollato ed incontrollabile.Nel tempo cominciò a darsi delle regole, cercò digovernare quel potere.Scoprì che le donne sognano di più degli uomini(e quindi ne fece le prede prefer<strong>it</strong>e), scoprì chesogni violenti lo rendevano instabile, scoprì chesogni erotici lo rendevano particolarmente debole,ed altro ancora.Solo più tardi scoprì che poteva rievocare i sognicarp<strong>it</strong>i alle sue prede, ma solo per un certo periodo;il lasso di tempo dipendeva dall’intens<strong>it</strong>àcon cui il sogno si imprimeva nel suo essere.Poi scoprì, con grande tristezza, che un sognosimile ad un altro già predato cancellava entrambi.Tutto questo lo portò a selezionare le sue prede,a cercare sogni sempre diversi per non sprecare lesue battute.A questo fine, stabilì una relazione empirica,


Cacciatore di sogni143ma quasi matematica, tra le ab<strong>it</strong>udini giornalieredi una persona, i gusti, le frequentazioni ed i suoisogni.Ormai sbagliava di rado.Scoprì poi, come in fondo aveva sempre temuto,che se faceva passare troppo tempo tra una cacciae la successiva aveva delle crisi fisiche moltosimili al collasso.La sua era una vera e propria sogno-dipendenza.Così cominciò a prendere rischi maggiori, acacciare fuori del terr<strong>it</strong>orio ist<strong>it</strong>uzionale dei conoscenti,degli amici, delle amanti.Ma in fondo cosa è un uomo senza sogni, senon un briciolo di materia organica sparsa nell’universo?Per cosa vale veramente la pena rischiare?Anche questa caccia è fin<strong>it</strong>a.Il cacciatore torna sempre con un sogno dentrola sua bisaccia.Nella notte, se ti dovesse sembrare di sentire qualchestrana presenza accanto a te, lascia che la tuamente navighi libera, lascia che la tua fantasia partoriscasogni bellissimi, attimi irripetibili, momentiirreali.Sogna... Sogna... Sogna....Il cacciatore potrebbe essere con te.


144 Claudio MennuniCLAUDIO MENNUNINiente se


Niente se145DA qui sembra tutto diverso.Tutto, anche gli oggetti, i due lampioniammaccati, i mattoni rotti là in fondo,il cancello gonfio di ruggine, i sacchi di calce appoggiatial muro e questo ciuffo d’erba, magro, vicino,così vicino che quasi lo tocco, ma soprattuttoi rumori, le suole di quest’uomo che non conoscosulla ghiaia, a un palmo da me, e il mio cuore chebatte strano, sarà il freddo, sarà che ho il fianco sinistroschiacciato su questa ghiaia che punge, saràquesto umido, questo bagnato, che non è pioggia obrina, è qualcosa di più denso, sangue, sì sangue, ilmio penso, il mio certo, di chi altri, cosa ci faccioqui, cosa ci faccio qui, cosa ci faccio.Da qui sembra tutto diverso.Eppure posso capire, ricordare.L’Osteria della Lupa. È bellissima in questa stagione,con i suoi vetri opachi di fumo e parole, isuoi tavoli consumati da bottiglie vuote e bicchieriubriachi.


146 Claudio MennuniDue giorni fa, con Diego, seduti nell’angolo abere e l<strong>it</strong>igare. Su che cosa non ricordo, che importa.Ci piace il l<strong>it</strong>igio, ben dosato, lo zuccheronel caffè, mai troppo amaro, mai troppo dolce.Io e Diego, uno di fronte all’altro, come duegiocatori di domino con pedine fatte di parole.Siamo usc<strong>it</strong>i. Rec<strong>it</strong>avo la mia parte, non so. Horifiutato il passaggio. A piedi, stasera. Preferisco.Così ho percorso vicoli e piazze che conosco amemoria. Fino al viale. Ho camminato pesante divino e stanchezza con in bocca la voglia di fumare.Quando le sono passato accanto ho piegato losguardo, curioso, ma ho prosegu<strong>it</strong>o. Solo alla finedel viale mi sono fermato, sono tornato indietro,l’ho cercata, trovata, ho sent<strong>it</strong>o piegarsi la schiena,l’ho raccolta. La busta.Bianca, con gli angoli accartocciati dall’umido,se ne stava lì, come una vela su un mare giallo difoglie.Non l’ho aperta. A casa l’ho infilata fra due libri,che sporgesse.Il giorno dopo ho pensato ad altro.La sera l’ho ripresa, rigirata fra le mani, soppesata,osservata, posata, ripresa e aperta. Lentamente,con la stessa, identica lentezza che adesso migira intorno. Ho strappato il lato superiore, ne hosfilato un cartoncino rigido piegato in due. L’hoaperto. C’era una data e un luogo. Nient’altro.Martedì, vecchio saponificio di Sant’Esperanto.


Niente se147Domani all’ex saponificio. Perché. Perché unavecchia fabbrica dismessa, un rudere, un cumulodi memorie e vetri rotti. Chi aspetta chi. Chi inv<strong>it</strong>a.Chi è l’inv<strong>it</strong>ato. Chi dei due ha perso la busta.O l’ha abbandonata, forse.Perché queste domande. Io non c’entro.Posso riportare la lettera dove l’ho trovata, farefinta di niente, annegarla nel suo mare di foglie insiemeai dubbi e alle domande che adesso mi pungonodentro.Posso rimettere le cose nel loro ordine, a posto.Posso azzerare la mia interferenza.Posso tenerla.Oggi ho fatto benzina e ho gonfiato i polmonid’aria prima di mettere in moto. La strada era bagnata.Sul rettilineo ho infilato la mano in tasca,ho toccato la busta.C’era un camion che sputava ruggine e velenodavanti a me. Ho provato a passarlo, ma la stradachiudeva troppo in quel punto. Non importa, nonho fretta. Mi sono accodato e ho preso a guardarele ultime case che sfilavano sul mio retrovisore nelpallore della mattina. Una donna è usc<strong>it</strong>a alla finestraa sbattere un tappeto troppo pesante per lei.Nel gesto contratto ho visto scivolarle nel vuotoun orecchino, penso, che ha brillato un istante primadi spegnersi al suolo. La donna deve avereemesso un grido prima di uscire <strong>dalla</strong> mia visuale.


148 Claudio MennuniNiente di grave, signora, sono convinto che lo r<strong>it</strong>roverà.Per raggiungere Sant’Esperanto ho lasciato lastatale e ho svoltato per la strada che taglia super le colline.L’ex saponificio se ne stava lì, dietro la curvadel torchio, come un animale in attesa. L’ho passatoin veloc<strong>it</strong>à, gettando un’occhiata rapida. Nonho visto altre auto nei dintorni. Ho prosegu<strong>it</strong>o finoal bivio per invertire la marcia e tornare indietro.Ho lasciato la macchina in un sentiero che si aprivafra un platano ed un terrapieno, a circa duecentopassi dall’entrata. Nello scendere, un odore divendemmia, di verderame. Ho acceso una sigarettae ho camminato sicuro fino al cancello. Non sivedeva nessuno, solo un’ape stord<strong>it</strong>a dal freddo, inbilico su un cartello scrostato che rec<strong>it</strong>ava ancoraENTRATA OPERAI. Chi aspetta chi. Chi c’è adaspettarmi.Il piazzale era largo e carico di luce. Ho vistoun cumulo di mattoni rotti vicino alla <strong>rete</strong> di recinzione,dei sacchi di calce appoggiati ad un muro,un paio di lampioni storti.Mi sono avvicinato al fabbricato nel punto incui una crepa tagliava il muro come una cicatrice.Una fer<strong>it</strong>a che il vento e la pioggia avevano allargatosenza pietà. Ho sent<strong>it</strong>o l’umido degli anni.Poi un rumore sordo, un cigolio, provenire dall’interno.Ho guardato attraverso la fessura. Polvere e


Niente se149muffa, illuminate da una frangia di luce spioventedal tetto, qualche scheletro di macchinario, nient’altro.Anche qui, i sol<strong>it</strong>i topi a far festa.Non ho avuto paura, nemmeno quando così, all’improvviso,ho sent<strong>it</strong>o la mano premermi sullaspalla sinistra.Eeehi mi fai male, l’hai portato, portato cosa,non scherzare non scherzare mai con me cap<strong>it</strong>o,guarda che io, ho detto l’hai portato rispondi, guardache, avanti dammelo muov<strong>it</strong>i cazzo muov<strong>it</strong>i.Ho sent<strong>it</strong>o qualcosa di freddo puntarmi il fianco.Sentiamicolasciamispiegareiononcentro cèstatounerroreèsolounerroreio,fermo fermo cazzonon ti muovere, noaspettastaicalmoascolta, io sonocalmo sono calmissimo basta che tu mi dicadove l’hai messo bastardo dov’è, non ho nienteti giuro non sono io, non sono io cosa.Il freddo è aumentato.Senti nonsocomedirtelononcentro, sì certo anch’ionon c’entro non ho più voglia di aspettaremi hai rotto hai cap<strong>it</strong>o mi hai rotto, aspettaascoltaaspetta mollami.Ho sent<strong>it</strong>o il freddo trasformarsi in tuono improvviso,in una vampata, un calore immenso, maisent<strong>it</strong>o prima, lancinante, dentro, mai così dentro.Sono caduto. Senza accorgermene. L’uomo si èchinato, ha frugato nei miei vest<strong>it</strong>i, ha bestemmiatoqualcosa che non ho più cap<strong>it</strong>o, si è rialzato. Io no.Da qui è tutto diverso.


150 Claudio MennuniTutto.Solo adesso mi rendo conto che non c’è statainterferenza, o meglio che c’è interferenza ovunqueintorno a noi, che viviamo in un prato dovenon ci sono direzioni che non siano i tuoi passi,che la v<strong>it</strong>a stessa è interferenza, anche un piccologesto, chinarsi a raccogliere una busta, prendereuna vela e con lei i venti che non conosci, chenon ci sono binari e se li trovi ci sarà sempre unmaledetto scartamento che ti porterà dove non immaginavi.E in questa consapevolezza lucida mi è più lievesentirmi qui, sdraiato su questa pozza che si allarga,con in bocca il sapore di terra e di qualcosache non conosco.Solo una cosa ti chiedo, un’ultima cosa. Tienistrette le mie parole, non farle scappare, prova ascriverle, se ci riesci.L’uomo era già fugg<strong>it</strong>o da un pezzo.Con chi stava parlando allora?


Anime morte ovvero Un dilemma dualista151ELISABETTA MONTEBELLIAnime morte ovvero Un dilemma dualista


152 Elisabetta MontebelliNON posso più fidarmi di mia moglie. Dovevadirmelo che era morta... o qualcunoper lei. Sono cose che un mar<strong>it</strong>o ha il sacrosantodir<strong>it</strong>to di sapere, non è possibile fondareun matrimonio sull’inganno.Per quanto mia moglie sia sempre stata unadonna molto chiusa. Raramente tradiva le sue debolezze,e mai mostrava di soffrire. Non mi dicevamai nulla, ma a me stava bene; trovavo molto facilee sollevante che si mostrasse così naturalmentetranquilla e serena, senza lamentarsi o irr<strong>it</strong>arsimai per niente, tranquilla e serena come sta dormendoora, accanto a me, il respiro regolare. Soloche è morta.Se non avessi trovato per sbaglio delle carte nelsuo cassetto, neanche me ne sarei accorto, ovviamente.Gli scienziati sono diventati talmente braviin questi giochetti che nessuno sarebbe in grado di


Anime morte ovvero Un dilemma dualista153distinguere un vivo da un morto. I Senz’anima, cosìchiamarono gongolando la loro scoperta... perchéil servizio offerto è straordinario davvero: iltotale svuotamento dell’anima dal corpo. È unaforma di eutanasia, naturalmente sub<strong>it</strong>o dichiaratapratica illegale (sebbene essi sostengano la leg<strong>it</strong>tim<strong>it</strong>àdel dir<strong>it</strong>to di morire segretamente, senza darloa vedere), ma coi contatti giusti, e una notevolesomma di denaro, il poveretto stanco di vivere edesideroso di pace eterna, rivolgendosi a questipersonaggi attorno ai quali aleggia ormai un’auradi leggenda, ottiene una fine indolore e rispettosadelle apparenze. I medici nel tempo di una nottedopo aver « ucciso » il paziente, averlo cioè svuotatodell’anima, sono capaci di predisporre ciò cheresta, il suo fuori, a vivere, e ad agire, come se esistesseancora un sé pensante dentro, esattamentecome prima. Un farmaco miracoloso che sia ingrado di mantenere le funzioni v<strong>it</strong>ali e riprodurrele attiv<strong>it</strong>à del suo cervello. Il risultato è una perfettasimulazione del comportamento. Se anche io mifacessi « trattare » ingannerei chiunque, il segretoè garant<strong>it</strong>o. Ma ho ancora un po’ di cuore per imiei disgraziati bambini...Ma con quale coraggio posso affermare che miamoglie non ne avesse? Qualsiasi madre ama i proprifigli sopra ogni cosa... E io non ho nessuna certezza,ora guardo con orrore il mostro nel mio letto


154 Elisabetta Montebellie domani alla luce del giorno mi darò del pazzo.Perché avrebbe dovuto compiere un gesto simile?Con un certo disagio mi rendo conto di non saperneanche lontanamente darmi spiegazioni. Manon conoscevo i suoi pensieri, probabilmente perquesto non sono stato un buon mar<strong>it</strong>o. È invece totalmenteirrazionale che io abbia sub<strong>it</strong>o presa pervera la fantasiosa ipotesi dello svuotamento, istintivamente.È assurdo, che mi salta in mente, mia moglienon era una disperata desiderosa di morire, noncredo. No?Ma un mucchio intero di documenti, articoliscientifici dalle pagine consumate e interi paragrafisottolineati e risottolineati, referti clinici, notevolinote d’addeb<strong>it</strong>o sul conto corrente, indirizzi...non mi viene spontaneamente da pensare a un banalenuovo interesse per la medicina, la mia innocentemogliettina silenziosa non si interessa mai aniente senza un motivo...Piuttosto il sospetto si insinua strisciando e m<strong>it</strong>enta, un interrogativo ambiguo e suadente...E quelle vis<strong>it</strong>e così frequenti alla madre...Ah, amore, tua madre ha telefonato giusto duesettimane fa lamentandosi che non ci vede datanto.Quanto vorrei dirglielo così e vedere la sua facciaimbarazzata. Se si imbarazzasse saprei che m<strong>it</strong>radisce. Che sollievo! E invece non oso. Un Sen-


Anime morte ovvero Un dilemma dualista155z’anima non pensa, però è programmato a non manifestarericordi dello svuotamento e a fornire alriguardo risposte plausibili, semplici, e l’imbarazzo,in questo caso, è cosa inutilmente elaborata –fin troppo umana.Ho pensato che non so esattamente quando siamorta. Ho studiato con avid<strong>it</strong>à gli articoli nel cassetto.Ho imparato che nei Senz’anima non si osservanocambiamenti di alcun tipo, ma... se un modoper scoprirli invece ci fosse? Se ci fossero delledifferenze? Anche minime, avrei dovuto notarle!Non ho mai prestato tanta attenzione quantaadesso a mia moglie. Una di queste notti mentredormiva ho appoggiato l’orecchio sul suo pettoper ascoltare il cuore che batteva. La studio comeun fenomeno inspiegabile; prima... prima non eramai stata così interessante.Voleva richiamare la mia attenzione, rinfacciarmile mie miserie? Sono stato davvero un uomocosì spregevole nei suoi confronti?Il Serpente Sospetto mi stringe la gola e sibilanelle orecchie.Mi sono ridotto a un fascio di nervi. Inutilmenteattento alla minima stranezza, passo il tempo ascrutare il volto e i gesti di mia moglie.


156 Elisabetta MontebelliMi sorprendo a volte rigido e immobile a guardarla,come un animale teso all’agguato.Lei mi rivolge i suoi grandi occhi pensierosi,chiedendomi se va tutto bene. Lei che infila il berrettoin testa alla bambina con la tenerezza di sempre.Lei che si avvicina e mi bacia, le sue d<strong>it</strong>a tiepidesul mio collo gelido. Sembro io il meno vivodei due, un pezzo di marmo, a disagio, spaventatocome se fossi io a nascondere un orribile segreto eavessi scr<strong>it</strong>ta in faccia la mia colpa.Impazzirò.Perché lo so che è morta, è una cosa perfettamenteda lei, andarsene di nascosto per fare il bottodopo. Pensavo un tempo che se mi fossi dovutouccidere avrei scelto una morte plateale e drammatica,e avrei scr<strong>it</strong>to una bella lettera d’addio aiparenti per farli macerare nel senso di colpa. Avreivoluto un po’ di gusto nella mia fine, ma inizio acredere che la mia donna avesse sempre avuto unpalato più raffinato del mio. Quale vendetta miglioredi questa, rinchiudermi al buio e lasciarmiun fantasma ben più ingombrante di qualsiasi rimorso.Non solo, mi ha tolto anche il dir<strong>it</strong>to di piangerla.Quanto doveva detestarmi per farmi una cosadel genere. Vorrei tanto sentirmi male, scoppiarein lacrime, annegare nelle lacrime, stare le ore afissare il vuoto sgomento che ha lasciato, e non


Anime morte ovvero Un dilemma dualista157riesco a spremere che poche stille avvelenate dirabbia.Io non l’ho vista morire, io il vuoto non lo sento,io la vedo tutti i giorni viva, svegliarsi al mattinoe addormentarsi vicino a me la notte. Dorme,ora. Sento, vedo, percepisco il suo respiro. Nonposso concepirla pienamente morta. Solo adessoriconosco la sua bellezza, mentre dorme, la guardotutta con meraviglia, il suo viso nei raggi della lunache ci guarda a sua volta <strong>dalla</strong> finestra, le ciglia,le labbra, i capelli. Di notte forse un po’ miviene da piangere, per paura o sol<strong>it</strong>udine, mentredorme.Io, non dormo più, da diversi giorni, e ugualmentemi sembra di dibattermi in un incubo dacui non ci si sveglia. Non mi riconosco più allospecchio alla pa<strong>rete</strong>. Non vedo più riflesso un soloestraneo nel letto, ne vedo due, e odio entrambi.Ma quando muore un Senz’anima, cosa succede,si piange per la prima morte o per la seconda?Cristo, lo sapevo. Sono un mostro.Ho tentato di strangolare mia moglie. Perchénon ce la facevo più, davvero, a guardarla, ad averequel tormento sempre in testa, dovevo sapere e


158 Elisabetta Montebellivolevo ucciderla e spaccarle la testa e vedere cosac’era dentro.Chi potrebbe incriminarmi? Mia moglie non èpiù un essere umano. La sua mente è stata annullata,non è nemmeno cosciente di esistere. Non SAproprio niente. È come distruggere un robot, uccidereun animale, nessuna corte mi condannerebbeperché ho ucciso il mio cane.Prima le mollai uno schiaffo. Non me ne sononeanche reso conto, la mano ha fatto tutto da sola,lei mi stava parlando delle ferie e rimase lì sconvolta,in piedi, a guardarmi. Allora la schiaffeggiaiancora e iniziai a picchiarla. Lei cadde e si alzòsotto i miei colpi strillando come una bambina eio sentivo le sue guance bagnate ma sapevo cheerano finte lacrime e che non era certo lei a piangereo a soffrire. Come sembrava reale! Ma nonmi sono lasciato ingannare, ho afferrato il suo colloe ho stretto.Tentai di ev<strong>it</strong>are di guardarla in volto concentrandomisulle mani. La sentivo dibattersi e lottaresotto il peso del mio corpo; ma non poteva fareniente, così minuta, ad ogni strattone si facevapiù debole...Poi sprofondai nei suoi enormi occhi che sembravanovolersi aprire a dismisura e non ebbi piùla forza, la lasciai.In un momento tutta la mia rabbia era scivolata


Anime morte ovvero Un dilemma dualista159via da me, lei avrebbe anche potuto prendermi acoltellate e non mi sarei mosso.Lei si r<strong>it</strong>rasse ansimando. Sembrava volesse risucchiaretutta l’aria della stanza. In quegli occhiavevo visto il vero terrore della morte.Mi sentivo una bestia, mi facevo ribrezzo. Balbettaiqualcosa che doveva essere una supplica,muovendo un passo verso di lei, che spaventatascappò in fretta <strong>dalla</strong> stanza, sbattendosi dietro laporta. Era la porta di una cella, mi avrebbe tenutoper sempre prigioniero lì dentro, lo sapevo, e neero contento perché me lo mer<strong>it</strong>avo. Ero pericoloso...Da dentro la sentii chiamare con voce rotta ibambini e uscire con loro in strada. Chissà doveli portava? Lontano da me comunque, bisognaproteggere i figli ad ogni costo... che madre meravigliosaè mia moglie...Dio, quanto è lungo un minuto. La più lunga dellemie notti è scand<strong>it</strong>a da una lentissima crudelissimafastidiosissima lancetta che non si muove mai, mafa un rumore d’inferno.Devo trovarla. Le chiederò scusa e la convinceròa non denunciarmi. Saprò farmi perdonare.Qualsiasi cosa purché mi permetta di tornare allamia v<strong>it</strong>a di prima, quando ero tranquillo e nonpensavo niente.


160 Elisabetta MontebelliMia moglie è viva. Io sono pazzo. E se non èviva posso anche credere che lo sia, vivere conil Senz’anima di mia moglie, meglio che niente.È così uguale a lei, è sufficiente non farsi troppedomande. In fondo non ho mai saputo veramentecosa pensasse la mia donna, cosa pensasse dime, non cambia poi molto sapere se pensi o meno!Sì, farò così. Anche per i bambini, che non mer<strong>it</strong>anodi soffrire inutilmente. Sarà facile iniziaread amarla. Del resto lei mi amava, ha avuto labontà di lasciarmi un’immagine di sé che non facessesentire la sua mancanza...È curioso come a volte investiamo di significatogli oggetti o gli animali in base ai nostri richiamiemotivi. Il comportamento di quello che ci circondaci accontenta e ci permette di attribuire intenzional<strong>it</strong>à,un’anima, a tali oggetti o animali, sevi riconosciamo un atteggiamento umano. Io hoprovato pena per il corpo di mia moglie mentrela uccidevo.Non ho altra scelta. Mi adeguerò alla mia nuovav<strong>it</strong>a e forse sarà una v<strong>it</strong>a migliore; pazienza se nonpotrò mai dimenticare che non ho nemmeno avutoil coraggio di liberarmene, pazienza se dovrò ricacciareper sempre il dubbio in fondo alle preoccupazioni.Se solo fossi certo di dimenticare questo tormento,di tornare a scivolare fiducioso nel sonnola notte, invece di rigirarmi nel letto a guardare i


Anime morte ovvero Un dilemma dualista161muri, soffocando tra le lenzuola, se solo smettessidi sentire il rimorso mangiarmi il cuore, se solosmettessi di studiare guardingo chiunque mi passiaccanto, fuori di casa, per strada, a lavoro, convintodi scoprirmi l’unico essere umano vero rimasto.Certi tarli non mi abbandonano facilmente, nontrovo più così scontata l’autocoscienza nel prossimo,e che sol<strong>it</strong>udine...Se solo potessi ev<strong>it</strong>armi tutto questo... sono cosìstanco...Deve finire...Chissà dove ho buttato quegli articoli sullosvuotamento del corpo...


162 Antonio MusottoANTONIO MUSOTTOAmmazza la nonna


Ammazza la nonna163LE vedevo spesso, in farmacia, le tre nipotinedella vecchia signora Grassotti, le conoscevobene anche come coinquiline eper le loro ab<strong>it</strong>udini non proprio silenziose, e peri cumuli di spazzatura che lasciavano sul pianerottolo,ma questa è un’altra storia.Dicevo che le vedevo venire spesso in farmacia,e ridendo una delle tre diavolette mi chiedeva lesol<strong>it</strong>e goccine per la nonna: « Sai, dottore, è unpo’ vecchiotta e ha difficoltà a prendere sonno ».Certo, se avessi voluto mon<strong>it</strong>orare il consumodi quel particolare sonnifero, avrei potuto concludereche in casa ne avevano più di una, di nonna,ma visto che facevo loro il favore di passarglielosenza l’obbligatoria ricetta medica, non ne aggiornavoil carico e scarico con precisione, ma qualcheidea cominciavo a farmela.Cinzia, Lucia e Mariella erano state parcheggiatenell’appartamento della nonna dai gen<strong>it</strong>ori, chesi erano separati ed erano scomparsi, non solo dal


164 Antonio Musottoquartiere, ma anche <strong>dalla</strong> c<strong>it</strong>tà, e si erano rifatti altrefamiglie, altri figli, altri disgraziati allo sbando.Se non fossero state così sciatte e disattente alloro aspetto esteriore si sarebbero potute anche definiredelle graziose ragazzine, ma se vivi sola conla nonna e devi far quadrare i conti con la pensionedella vecchia non è che ci sia tanto da ballare, ecosì le guardavo uscire <strong>dalla</strong> farmacia ridendo conil pacchetto in mano provando ad immaginarequando la loro adolescenza puzzolente sarebbeesplosa in pubertà, e magari avrei trovato nelmio terrazzino anche numerosi assorbenti, oltre allecartacce varie che già lanciavano quando si affacciavano,e guardavano i ragazzini giocare sulmarciapiedi.L’incauto regalo da parte di qualche improvvidoparente di pattini rollerblade in pieno invernosegnò per me la stagione in maniera indelebile,in quanto avevo come la sensazione di continuipassaggi di jet tra il secondo ed il terzo piano; eranole tre disgraziate che, non potendo uscire a causadella pioggia, pattinavano in casa tra corridoio esalone, e le sentivo sfrecciare sulla testa soprattuttola sera, quando stavo magari per mettermi inpoltrona ed ascoltare un cd di Chopin.Un altro evento che contribuì a rendermi cr<strong>it</strong>icala visione delle sorelle Grassotti fu la loro scopertadegli uccelli: non fraintendetemi, semplicementecominciarono ad alimentare i passerotti sul davan-


Ammazza la nonna165zale, forse intener<strong>it</strong>e dalle letture scolastiche chene descrivevano i terribili stenti nel periodo invernale,senza niente da beccare e con le piumeghiacciate; ben presto i passeri vennero sost<strong>it</strong>u<strong>it</strong>ida più invadenti (e meno poetici) piccioni, cheriempivano di guano i vasi con gli ibischi e la pomelpomel,facendomi disperare. In più, avevo appenaletto un manuale di malattie infettive, restandofermamente convinto che la ps<strong>it</strong>tacosi, trasmessaappunto dai piccioni, avrebbe colp<strong>it</strong>o l’interocondominio, forse l’intero quartiere, per cui dopoun iniziale aumento delle vend<strong>it</strong>e di antibiotici lapopolazione si sarebbe diradata, il quartiere si sarebbesvalutato, gli affari della mia farmacia sarebberoandati a rotoli.Passò anche quell’inverno, e poi qualche altrastagione, mentre la cacofonia proveniente dall’appartamentosopra il mio variava al sopraggiungeredi qualche nuovo oggetto o all’approccio delle sorellinealla musica, prima timido, poi decisamentesismico, orientato soprattutto su quella musicadance che fa tremare i pilastri e ti insinua il dubbioche il palazzo possa crollare sotto quei colpi dimaglio sonoro.Intanto osservavo l’aumento del traffico maschileattratto dalle ormai signorine sorelle Grassotti,prima foruncolosi ragazzotti in scooter, poipiù torn<strong>it</strong>i culturisti automun<strong>it</strong>i, ma fortunatamente,per il buon nome del condominio, si lim<strong>it</strong>avano


166 Antonio Musottoad intrecciare sguardi e chiacchiere in portineria,tra le palme del giardinetto e la vaschetta dei pescirossi, disturbando solo i gatti randagi che avevanocosì perso il dir<strong>it</strong>to d’asilo sulle panchine.Ovviamente il consumo dello psicofarmaco daparte della nonna, che si ostinava a non schiattare,rimaneva costante, ed in questo modo mi spiegavocome riuscisse a dormire nonostante il baccanoche le disgraziate nipoti si adoperavano di crearecostantemente. Notai però che gli sguardi dellepulzelle, quando venivano in farmacia per il sol<strong>it</strong>oacquisto, erano diventati più maliziosi, e mi sentivospiato mentre abbassavo gli occhi per prenderedal cassetto il flacone di gocce o mentre preparavola confezione, e mi sentivo spiato anche quando almattino uscivo nel terrazzino per dare l’acqua allepiante, togliere le foglie secche, spruzzare l’anticr<strong>it</strong>togamico.Ormai sentivo, tra l’infastid<strong>it</strong>o ed il compiaciuto,risolini e bisbigli quando in primavera mettevola cyclette in balcone per pedalare tra i fiori, edandava a finire sempre che dopo un po’ giravola testa verso l’alto e le vedevo là, affacciate conle loro code di cavallo e le loro gonne da impudicheteenager; dopo qualche tempo di questa schermagliaottica cominciammo a scambiare qualchechiacchiera in più sul tempo, sulla salute dellanonna, sul mio noioso lavoro di farmacista.Che volete farci, vivevo da solo, non ero fidan-


Ammazza la nonna167zato né sposato né sotto contratto con alcun esseredi sesso femminile, e così dopo un po’ anche imiei sguardi verso le ormai formose sorelle Grassotticominciarono a farsi più voraci, meno professionali.In chimica ho studiato che le varie sostanze,specie se di natura o polar<strong>it</strong>à opposta, se messea contatto reagiscono, dando origine a composti oa reazioni più o meno violente, più o meno interessanti,più o meno controllabili.Nella mia mente di giovane professionista impegnatissimodal lavoro amministrativo e dallepubbliche relazioni al bancone della farmacia cominciaronoa cavalcare delle amazzoni con lesembianze delle tre ex monelle, e tra un flaconedi gocce ed una scatola di pasticche me le trovavolà, in farmacia, con i denti in mostra a ridere echiedermi particolari su questa o quella pomata,sul mio tempo libero, sul paziente bobtail che facevala guardia con un occhio solo da dietro ilbancone.E fu così che un torrido pomeriggio di lugliome le r<strong>it</strong>rovai quasi all’orario di chiusura, con dellebottiglie di birra nelle buste di cellophane e deglisguardi pericolosi, che non avevo ancora visto;prese la parola la più piccola (piccola per me nonostantei suoi fiorenti diciott’anni): « Senti, dotto’,stasera dopo che chiudi sali da noi che ti offriamoqualche birra e sentiamo qualche ciddìnuovo, vabbene? ».


168 Antonio MusottoMi aspettavo un inv<strong>it</strong>o del genere, per cui nonero impreparato, ma mi scappò ugualmente un« e la nonna? » domanda stupida, perché Cinzia,senza sputare la gomma che aveva in bocca, sventolandoil sacchetto con il farmaco appena acquistato,disse: « Nonna dorme ».Nonna dorme, ovviamente, con il suo dosaggiocavallino di sonnifero, nonna dorme questa sera echissà quante volte ancora avrebbe dorm<strong>it</strong>o mentrele tre affettuose nipoti scatenavano baccanal<strong>it</strong>umultuosi al terzo piano, scala B. Che vi devo dire,dissi semplicemente: « Occhei, ci vediamo dopocena », un po’ incurios<strong>it</strong>o dall’evolversi <strong>dalla</strong>s<strong>it</strong>uazione, un po’ disturbato dai pensieri lussuriosiche cominciarono a strisciarmi in testa, diretti versole ex bambine Grassotti, ma non ebbi tempo dipentirmi.Mangiai velocemente la fetta di pizza acquistatain fretta al forno, feci una doccia profumata etirai fuori dal frigo un paio di bottiglie di birrascozzese, doppio malto, di quelle che fai di sicurobella figura quando le stappi e la schiuma densariempie il bicchiere.Senza nessun pensiero preciso per la testa affrontaila rampa di scale per il terzo piano, osservandocome l’ab<strong>it</strong>udine atavica di abbandonarecumuli di sacchi di spazzatura fosse rimasta invariata,suonai il campanello che gracidò sgradevolmentee fui tirato dentro da almeno sei mani che


Ammazza la nonna169poi mi condussero su un enorme divano, sformatoda prolungati bivacchi davanti la tivù, e sub<strong>it</strong>o m<strong>it</strong>rovai con una birra gelata (non una delle mie) inmano, mentre le sei mani di prima mettevano a duraprova i bottoni della camicia e trenta d<strong>it</strong>a siostacolavano a vicenda nel tentativo di sfibbiarela cintura texana dei jeans.Che feci, domande<strong>rete</strong> curiosi. Niente, vi rispondo,tranne che abbandonarmi a quell’assaltoinsistente cercando di opporre la minore resistenzapossibile. Una voce da orco affamato ruppe la bolladi sapone in cui stavo piacevolmente galleggiando:« Che succede qui, che fate, disgraziate... »« Minchia, la nonna si è svegliata! » disse candidamenteMariella.« Ammazza la nonna », replicò aggressiva Cinzia.Non ci fu bisogno di ammazzare la nonna, perchépensò bene di tirare le cuoia da sola in buonordine, forse per il dispiacere ed il disappunto diaver scoperto le attiv<strong>it</strong>à notturne delle nipoti, forseper lo stupore di vedere un giovane maschio seminudo(e probabilmente non era più ab<strong>it</strong>uata a visionia luci rosse); insomma la nonna stramazzò,colp<strong>it</strong>a certamente da un pietoso ictus.Insomma, non vendetti più il sonnifero alle sorelleGrassotti, anzi loro non vennero più a trovarmiin farmacia, perfezionammo la nostra conoscenzain altri tempi e modi che qui è superfluo


170 Antonio Musottoraccontarvi, ma ancora oggi, quando magari stoperpetrando qualche piccolo imbroglio ai dannidi qualche vecchietta, millantandole le proprietàtaumaturgiche di qualche callifugo, se la vegliardami squadra cr<strong>it</strong>ico allora socchiudo gli occhi e larisento, quella voce flautata che mi dice: « Ammazzala nonna... »


Il cuore della casa171LILIANA PIASTRAIl cuore della casa


172 Liliana PiastraAMAVO quella casa piena di luce, che miaccoglieva ogni estate. Aspettavo in ansiale vacanze estive che mi avrebbero riportatoancora una volta dai nonni.La casa, al quinto piano di un palazzone antico,si apriva, da un lato, su un vicolo ombroso che s’inerpicavasu per una scala stretta e contorta; dall’altro,al di sopra della collina, spalancava le finestrea una luce intensa che portava i riflessi delmare lontano. La finestra sul vicolo, invece, avevasempre le imposte accostate; immetteva su unastanza in fondo al corridoio, pur essa chiusa, la vedevodal basso quando andavo a fare le commissionicon la nonna.In camera dei nonni c’era, sotto alla finestra alta,uno sgabello lungo su cui la nonna e io salivamoogni venerdì per poterci affacciare in attesa deltreno che ci avrebbe portato lo zio. Da lì si vedevala stazione sottostante, le locomotive che fischiavanominacciose e sbuffavano nubi di fumo nero,


Il cuore della casa173la gente che aspettava sui binari, che saliva e scendevadalle carrozze, il luccichio rossastro del solesull’acqua cosparsa di battelli che poco a poco loinghiottiva. Lo zio scendeva dal treno e guardavasub<strong>it</strong>o in alto per salutare noi due, sempre appoggiateal davanzale in attesa del suo arrivo; la suadivisa bianca spiccava tra tutta quella gente vest<strong>it</strong>adi scuro, forse in lutto come l’altra mia nonna, enoi ag<strong>it</strong>avamo le mani, contente di riaverlo a casa.Il nonno se ne stava in camera da pranzo intentoa leggere il giornale, rannicchiato nel suo silenziodietro lo sguardo arcigno. Nonna Tina, cicciotta edesultante, scendeva dallo sgabello con un balzobuffo e entrava in tromba, con me dietro, che correvoe saltavo felice in corridoio.« Gesù, Gesù! Èarrivato! È arrivato, Euge’! Èarrivato Ugo! »Esclamava, come se avesse temuto di non rivederlopiù.Il nonno si accarezzava i baffi e dava una sbirciataall’orologio senza dir niente. Lo zio arrivavasempre in tempo per sentire insieme le notizie allaradio prima di cena.La casa tornava in v<strong>it</strong>a all’improvviso, si riempivadi cinguettii e di rumori: la voce della nonnache parlava con la domestica, i coperchi delle pentoleche si alzavano e abbassavano, le ante degliarmadi che sbattevano, i piatti che si accatastavanosul tavolo, il cassetto delle posate che scorreva,


174 Liliana Piastrai bicchieri che tintinnavano, le sedie che si scostavanoper apparecchiare.Io correvo di nuovo alla finestra e mi sporgevoper seguire zio Ugo mentre attraversava la strada,finché non scompariva sotto al portone. M’arrivavanell’aria un odore misto di fuliggine e salsedine,che da un momento all’altro, non appena avessetrillato il campanello, si sarebbe tramutato in unprofumo di sugo al basilico e parmigiano.Era così ogni due venerdì d’estate; gli altri stavoda nonna Zeny. Il sabato e la domenica lo ziomi portava ai bagni, al porto a vedere le navi, sucui salivamo salutati da un marinaio che suonavaun fischietto sull’attenti, mi comprava Topolino emi offriva il gelato. Poi, per tutta la settimana, andavoa fare la spesa con nonna Tina su per quellescale ripide dei vicoli o me ne stavo a casa tranquilla,leggendo accanto al nonno, in attesa di andaredall’altra nonna o di rivedere lo zio che tornavaalla sol<strong>it</strong>a ora, col sol<strong>it</strong>o treno.Amavo correre su e giù per lo scalone dai gradinilarghi con gli innumerevoli figli della portinaia,le cui voci acute echeggiavano chiamandomidal basso lungo la tromba della scala, starmene incorridoio presso la stufa spenta, uno sprazzo di solegiallo piastrellato contro il muro, che a me parevaun castello imponente da esplorare e nei cuivani riponevo bamboline minute, macchinette,stoviglie in miniatura. Quando nonna Tina e la


Il cuore della casa175mamma si mettevano i guanti e il cappello sapevoche sarebbero andate in giro per acquisti e che pertutto il pomeriggio sarei rimasta sola con il nonno,indisturbata.Nonno Eugenio era sempre seduto in poltronavicino a uno di quei finestroni e leggeva giornali,riviste, libri. Io prendevo il mio Corriere dei Piccolie sedevo accanto a lui. Si sentiva soltanto iltic tac dell’orologio a muro, lo sferragliare lontanodei treni, il fischio delle locomotive; quando ilvento saliva dal mare si udiva pure rimbombareil saluto rauco dei bastimenti e le tende ricamatea mano <strong>dalla</strong> nonna tremavano e si gonfiavanodi aria reboante. Uscivo dal mio isolamento e pensavoche, da grande, sarei part<strong>it</strong>a su una di quellenavi e avrei visto la costa, la casa dei miei allontanarsie sparire.Il nonno invece manteneva le gambe accavallatee non muoveva un muscolo, lo sguardo fissosulla lettura. Aveva gli occhi scuri rimpicciol<strong>it</strong>i<strong>dalla</strong> fronte aggrottata e ogni tanto si contorcevai baffi pensieroso. Nelle d<strong>it</strong>a affusolate ballava lagrossa fede d’oro, identica a quella incastrata neld<strong>it</strong>ino paffuto della nonna.Arrivava il giorno che non volevo starmene sedutain silenzio, e allora stuzzicavo il nonno che,quando eravamo da soli, non faceva fatica a parlarecon me, mi raccontava volentieri dei suoi viaggi.Io avrei voluto essere un uomo per poter solca-


176 Liliana Piastrare il mare, come lui, come gli zii. Lui allora davaper scontato che sarei andata nel mar della Cinaper scoprire che anche il mare, come la terra, è diversodall’altra parte del mondo. « Ma, nonno, ilmare è solo acqua », dicevo io stup<strong>it</strong>a, e lui rispondevache anche la terra è solo terra, eppure ci sonotanti paesaggi, come avevo già notato venendo dacosì lontano con papà e mamma, attraversandopianure, montagne, colline, campi coltivati a cereali.« Ci sono i boschi e i deserti », diceva. « È cosìpure nel mare. » Mi raccontava del mar della Cina,giallo ramato, come un pentolone pieno di moneted’oro. L’acqua in superficie non faceva schiumama piccole squame tremolanti che luccicavano comequelle dei pesci e, come un pesce, venivasquarciato <strong>dalla</strong> prua delle navi. Le barche avevanolanterne colorate e le vele erano nere. Le donnecamminavano a piccoli passi, perché avevano ipiedi bendati, e si tenevano le mani nascoste nellamaniche.« Perché, fa freddo? Non hanno i guanti? E ilcappello con la veletta ce l’hanno? »Il nonno rilassava il cipiglio e sorrideva. Davantia quella raffica di domande, ai miei occhispalancati rimaneva senza più parole. « No. Vuoivedere come fanno? »«Sì,sì! » esclamavo giungendo le mani.Ed ecco che il nonno si alzava pazientemente,


Il cuore della casa177fabbricava un cappello col giornale, indossava lavestaglia, si lisciava i baffi all’ingiù e girava perla camera da pranzo a passetti goffi, sprofondandoil mento, infilando le mani nelle maniche e facendoil verso ai cinesi. Io ridevo e applaudivo. Nessunoavrebbe mai potuto immaginare il colonnelloburbero mascherato in quel modo per far piacerealla nipote. Nessuno lo aveva mai visto ridere senzaquelle brutte rughe che gli solcavano la fronte ele sopracciglia aggrottate sugli occhi, diventatidue spilli <strong>dalla</strong> capocchia nera.Spesso, pensandoci, mi rabbuiavo. Se ai bagniil mare era blu, se quello della Cina era un pentolonedi rame brulicante di monete d’oro, l’Egeodoveva invece essere nero come l’inchiostro, conun buco vorticoso al centro che aveva risucchiatoper sempre lo zio Ferruccio, ma non facevo mai intempo a domandare. Appena si sentiva la chiavenella toppa il nonno z<strong>it</strong>tiva, entrambi riprendevamoa leggere e si udiva solo il pigolare allegrodi nonna Tina sul pianerottolo.La casa di nonna Zeny, invece, era incastrata alprimo piano di un palazzo che si apriva su un parcodall’altra parte della strada; ne aveva il verdecupo sulle imposte perennemente chiuse e la penombrainsediata al suo interno. La nonna era altae magra, sempre vest<strong>it</strong>a a lutto; parlava con vocefievole, come se pregasse. Divideva il suo tempotra la cucina e il cim<strong>it</strong>ero. Si alzava presto, indos-


178 Liliana Piastrasava il grembiule, impastava con cura e poi facevaruotare avanti e indietro il matterello, fissandovigli occhi mesti, senza pausa, come se cullasse sestessa, circondata da un’aureola di pentole, padelle,casseruole e tante forme, piccole e grandi, che,dalle pareti e dal camino, lanciavano scintillii cuprei.A volte sceglieva una forma e mi faceva i biscotti.Io me ne stavo impaziente accanto al fornocon l’acquolina in bocca finché non ne scaturiva ilprofumo bello caldo e la seguivo scodinzolante insalotto, dov’erano già pronte una tovaglia candidae una bella tazza di cioccolata fumante. Spessopreparava ravioli e tortellini, i piatti prefer<strong>it</strong>i dazio Ferruccio, che stava per tornare <strong>dalla</strong> guerrada un giorno all’altro e chissà come se li sarebbegustati dopo tanto tempo. Tutti sapevamo che lozio era morto, ma nessuno osava ucciderle purela speranza dopo che le si erano appannati pocoa poco lo sguardo e il sorriso.Ma lei non lo aspettava alla finestra come facevanonna Tina con lo zio Ugo, s’affacciava soltantoper vedere me attraversare la strada. Appenavarcato il cancello del parco, mi giravo e ag<strong>it</strong>avola mano; rispondeva con un cenno di saluto, chiudevale ante e per un po’ rimaneva immobile dietroai vetri, poi calavano di nuovo le tendine.Ogni mattina entrava in camera dello zio, cheodorava di tabacco e liquirizia, levava la polvere,apriva la finestra sul cortile, lisciava il cuscino e


Il cuore della casa179riordinava la biancheria nei cassetti. « Povero figlio!Avrà la divisa lacera », mormorava, « luiche non voleva andare in Accademia, che non volevafare il mil<strong>it</strong>are... » Poi chiudeva di nuovo lafinestra, le imposte, la porta fino all’indomani; comese lo zio stesse dormendo, tutta la casa si mettevaa tacere.Ogni qualvolta leggeva sul giornale di un dispersotornato <strong>dalla</strong> Russia, prendeva me per manoe mi portava a trovarlo con la foto dello zio in borsetta.La mostrava sperando di averne notizie, senzamai scoraggiarsi per l’ennesimo no; e da lì, immancabilmente,si andava al cim<strong>it</strong>ero, ch’era pernoi la casa del nonno. Apriva il cancelletto e, tuttacalma, cambiava l’acqua, i fiori, mi porgeva la fotodel nonno dopo averla baciata e ripuliva il marmodell’altarino, finalmente si faceva il segno dellacroce e s’accasciava su un poggiolo, accarezzandoa occhi chini le due fedi d’oro infilate insiemeall’anulare. Giocavo tra i cipressi mentre nonnaZeny teneva compagnia al nonno, gli raccontavail rientro dell’ultimo reduce. « Il prossimo saràFerruccio, vedrai », gli diceva, e io, che origliavodietro alla tomba di famiglia, provavo rabbia etanta pena per lei; aveva visto lo zio partire dalmolo, consegnandolo al mare solo per quella guerra,ma l’Egeo se l’era tenuto per sempre nella naveaffondata.Ma perché lo pensava in Russia? Forse perché lì


180 Liliana Piastrac’erano mamme, come quelle che avevano aiutato idispersi a sopravvivere. Dal mare nessuno tornava.Avrei voluto domandarlo a nonno Eugenio, manon sempre potevo disturbarlo, lo capivo da comesi attorcigliava i baffi e dalle volte che guardaval’orologio in attesa del giornale radio. Quel giornocapii che aspettava qualche notizia importante enon osai distoglierlo. Me ne andai a zonzo per lacasa. Amavo il silenzio, amavo decifrare i rumorilontani che salivano <strong>dalla</strong> strada, i tonfi in cortile, ipassi affrettati su in mansarda, annusare gli odoriche dal vicolo entravano in bagno, il muschio ches’arrampicava su per le pareti sempre in ombra, gliintingoli cucinati in portineria, quell’odore di salespruzzato a zaffate dall’aria luminosa che scostavale tende, il profumo di mele cotogne che si sentivadappertutto. C’erano sempre tante cose da scoprire,armadi pieni di biancheria antica, vetrine traboccantidi bicchieri e di ninnoli. Scorsi delle tazzinedi porcellana ed eccovi dipinte a mano le minutedonne cinesi con le loro vestaglie ricamated’oro e le maniche larghe che nascondevano lemani. Era dunque vero, il nonno c’era stato conla Marina mercantile in quel mare tutto d’oro eaveva portato quel servizio in omaggio da cosìlontano, <strong>dalla</strong> Cina. La nonna conservava con curai regali ricevuti dai suoi viaggi.« Si guarda e non si tocca » era il suo motto,quando, accarezzandomi i capelli, mi mostrava


Il cuore della casa181le fotografie dei miei antenati, con le loro belle divisebianche da ufficiali di Marina, le innumerevolibomboniere e i pezzi pieni di trine del suo corredo,di cui andava così fiera. Sorrideva semprecon quei suoi occhi celesti orlati di viola e il suocicalio incessante riempiva la casa di v<strong>it</strong>a.Potevo girare dappertutto: ero una bambina saggiaed entrambi i nonni facevano affidamento sudi me, permettendomi di giocare in tutte le camere,tranne che in una, quella in fondo al corridoio.Non mi avevano mai spiegato il perché, mi avevanosoltanto detto di non entrare. Ma quel giornotrovai la porta socchiusa e mi avvicinai in puntadi piedi. Dapprima sbirciai con un occhio all’interno,poi spinsi timidamente l’anta, sperando che igangheri non scricchiolassero e rimasi imbambolatasull’uscio.« Perché hai aperto la porta? »La voce secca del nonno alle mie spalle mi fecetrasalire.« Era aperta e io... » Facendomi coraggio, fortedel mio rapporto, aggiunsi con convinzione: « Ma,nonno, perché non si può entrare? È solo un ripostiglio!Lo sai che non tocco nulla e non mi facciodel male! »« Tempo fa questa stanza non era un ripostiglio...» borbottò. « Ma tu devi ubbidire alla nonna,se ha deciso di non farci entrare nessuno. »Il nonno, chiusa la porta e presami per mano,


182 Liliana Piastrami riportò in camera da pranzo. Io lo guardavo coninsistenza. Ero mortificata dal suo silenzio, avreivoluto condividerne il segreto, ma non osavo chiederglielo.Mi fece sedere sulle ginocchia con unosguardo severo che poco a poco si squagliava inun sorriso rassicurante.« Visto che ne sei curiosa, ti racconto una storia.Ricordatela, un giorno ne capirai il vero senso. Tulo sai che c’è stata una guerra? »«Sì. Lo zio Ferruccio ci è andato e non è ancoratornato; nonna Zeny dice che un giorno verrà <strong>dalla</strong>Russia. Io lo so che è morto in mare, ma tutti fannofinta di niente e nessuno glielo vuole dire. Perché<strong>dalla</strong> Russia, nonno? Perché i soldati non tornanodal mare? »« Ebbene, stammi a sentire... »E il nonno mi raccontò che prima della mia nasc<strong>it</strong>ac’era stata una brutta guerra. Lui costruiva isottomarini e spesso doveva scendere in fondo almare a fare le prove; gli zii erano imbarcati. Alloranonna Tina se ne restava a casa sola, senza pace,affacciata alla finestra, come faceva al venerdìquando arrivava lo zio Ugo, sperando sempre divederli tornare. Una sera, mentre sentivano in silenzioil giornale radio cercando di sapere dovefosse fin<strong>it</strong>a la flottiglia degli zii lontani e di avernequalche notizia, di colpo suonò il campanello. Erad’inverno e l’ora era tarda. La nonna, tutta accorata,corse ad aprire per prima. Sull’uscio c’era un


Il cuore della casa183bel giovane dagli occhi e dai capelli scuri. « Signora,la prego, mi chiamo Davide, sono ebreo:se non mi nascondete, verrò catturato dai tedeschie sarà la mia fine. Fatemi questa car<strong>it</strong>à, ho diciott’anni,non voglio morire. » Nonna Tina, ammutol<strong>it</strong>a,fissò il nonno con uno sguardo deciso dei suoibei occhi celesti e senza aggiungere altro lo feceentrare. « Ven<strong>it</strong>e, ven<strong>it</strong>e, avete l’età di mio figlio,sicuramente vi andranno i suoi ab<strong>it</strong>i borghesi. »Tirò fuori asciugamani e lenzuola e gli preparòil letto nella camera in fondo al corridoio. Per unpo’ di tempo Davide rimase da loro, nascosto inquella camera che non si apriva mai, metteva gliindumenti degli zii e mangiava lì rinchiuso. Poiun bel giorno arrivarono gli americani, i tedeschisi diedero alla fuga e Davide poté uscire dal suonascondiglio. Nonna Tina lo baciò e finalmenteriebbe la libertà. Ma la guerra, pur avendo cambiatosegno, non era fin<strong>it</strong>a. Gli zii stavano ancora permare e i nonni erano sempre in ansia, sempre inattesa di sentire le notizie al giornale radio; speravanoche quella guerra finisse, che gli zii tornasserosalvi. E così, in mezzo al loro sconforto, un’altrasera, mentre la nonna apparecchiava, si sentì dinuovo il campanello. Come la volta precedente, fula nonna ad accorrere per prima, col cuore in gola.Sull’uscio c’era un bel giovane dai capelli biondi edagli occhi chiari. « Signora, la prego, mi chiamoHans, sono tedesco: se non mi nascondete, verrò


184 Liliana Piastracatturato dai partigiani e sarà la mia fine. Fatemiquesta car<strong>it</strong>à, ho vent’anni, non voglio morire. »Nonna Tina fissò di nuovo il nonno con uno sguardofermo e sorridente dei suoi occhi celesti e, senzametterci parola, lo fece entrare. « Ven<strong>it</strong>e, ven<strong>it</strong>e,avete l’età di mio figlio, sicuramente vi andrannoi suoi ab<strong>it</strong>i borghesi. » Tirò fuori asciugamani elenzuola e gli preparò il letto nella camera in fondoal corridoio. Per un po’ di tempo Hans rimaseda loro, nascosto in quella camera che non si aprivamai, metteva gli indumenti degli zii e mangiavalì rinchiuso. Poi, un bel giorno, la guerra finì. Lanonna spalancò la porta della camera in fondo alcorridoio e andò di corsa ad abbracciare Hans.Era salvo pure lui e gli zii questa volta sarebberotornati.Da allora, i nonni avevano deciso di non far piùentrare nessuno in quella camera. Nel vederne l’usciochiuso era come se Davide e Hans fossero ancoralà dentro, nascosti insieme. Un ebreo e un tedesco,due nemici che avevano trovato riparo sottolo stesso tetto, curati e amati <strong>dalla</strong> nonna comefossero stati i suoi due figli in pericolo. « Perchéi figli vengono alla luce con tanto amore e unamamma scaccia sempre il buio della morte », dicevail nonno. « Nonna Zeny è stata sfortunata; lozio Ferruccio non verrà mai più. Ecco perché mantienechiusa la sua camera: finché crederà di ve-


Il cuore della casa185dercelo dentro lui non sarà morto e pure noi aspetteremoil suo r<strong>it</strong>orno <strong>dalla</strong> Russia. »La stanza in fondo al corridoio era invece vuota;alle pareti c’erano soltanto degli scaffali pienidi barattoli e per terra i giornali con le mele cotogne,quel vecchio letto dove avevano dorm<strong>it</strong>o inpace Hans e Davide e qualche baule polveroso,ma io ci vedevo un cuore che batteva nascosto,sprigionando quel bel profumo di mele cotogneche ricreava ricordi benefici pieni di v<strong>it</strong>a. « Sei ancoratanto piccola, amore mio, ma hai cap<strong>it</strong>o lastoria. Da grande fai come le nonne, costruisc<strong>it</strong>ipure tu un cuore nella tua casa. »


186 Umberto SegatoUMBERTO SEGATOUna famiglia serena


Una famiglia serena187«MARIO, sei tu? »Mario non aveva mai ud<strong>it</strong>o la vocedi sua moglie incrinata in quelmodo. Si sentiva il pianto trattenuto. Eva non erauna donna dal pianto facile. Anzi, Eva non piangevaaffatto. Non l’aveva vista piangere nemmenoquando era morto il loro piccolo Bruno. Ora il tonodella sua voce rasentava l’isteria. Preoccupato,chiuse la porta dietro di sé e appoggiò la biciclettaaccanto alla scala.«Sì, sono io », disse. « Dove sei? »« In cucina. Vieni, presto! »Doveva essere successo un guaio con la vecchiastufa a carbone. In casa faceva freddo.Si tolse il cappotto e lo appese all’attaccapannicon berretto e cinturone. La cucina era vuota.Vuota e fredda. E nessun profumo di cibo a scaldarel’aria. Neppure la tavola era apparecchiata.Poi intravide il grosso sedere di sua moglie spun-


188 Umberto Segatotare da dietro l’angolo della credenza. E, allora,l’ag<strong>it</strong>azione della donna si trasmise anche a lui.Wolf era sulla sua cuccia sopra la coperta mil<strong>it</strong>are.Sembrava dormisse, ma l’abbandono era piùdefin<strong>it</strong>ivo di quello del sonno. Bava spumosa gliusciva <strong>dalla</strong> bocca.« Che cosa è successo? » chiese.« Non so », disse Eva. « Non so. »Mario si chinò accanto alla moglie. Gli stivalicricchiarono. A quel suono seguì un gua<strong>it</strong>o del cane.Wolf doveva aver avvert<strong>it</strong>o la sua presenza. Disol<strong>it</strong>o i cani, e i cani lupo in particolare, non si lamentanomai. Quando sono fer<strong>it</strong>i o soffrono perqualche dolore, preferiscono nascondersi in un angoloe aspettare che passi. Wolf doveva soffriremolto. Una grande compassione gli si allargò nelpetto e una sensazione di calore gli scese fin nelleviscere. Si alzò per andare in bagno.« Dove vai? » gli chiese la moglie.« In bagno. »« Ti pare questo il momento? »Eva doveva essere sconvolta.« Dobbiamo fare sub<strong>it</strong>o qualcosa », disse Evaquando Mario tornò.« Intanto, raccontami cosa è successo. »« Non so cosa sia successo. Quando sono entratain cucina per preparare la cena l’ho visto lì, distesocom’è adesso. Ho provato a prenderlo inbraccio, ma si è messo a guaire e allora l’ho rimes-


Una famiglia serena189so giù. Credi che stia per morire? » finì quasi piangendo.« Non dirlo neanche per scherzo », disse irr<strong>it</strong>ato.« Per caso gli hai dato da mangiare qualcosa chegli ha fatto male? Ti vedo, sai, quando gli allunghisotto il tavolo pezzetti di pane o di grasso. »« Lo fai anche tu », rispose Eva stizz<strong>it</strong>a. « Maquesta volta non gli ho dato niente. »« Allora, in giardino. Hai visto se ha fatto qualchebuca? »« L’unica cosa che avrebbe potuto fargli male èla cenere che ogni tanto arriva dal camino dellafabbrica. Ma oggi non c’era il sol<strong>it</strong>o vento cheporta la cenere fin qui. E quando cade la raccolgoe la butto via. »« Dobbiamo fare qualcosa », disse Mario, distogliendogli occhi dal cagnolino. Non poteva sopportarela vista di tutta quella sofferenza. « Dobbiamoassolutamente fare qualcosa. »« Che cosa? » chiese Eva.« Un veterinario. »« Non credo ci sia un veterinario in tutto il distretto.»« Un medico, allora. »« In paese non c’è nessun medico. Ci sarebbequello della fabbrica, però », disse Eva.« Lui ha altro cui pensare. E, poi, non voglioche vengano a sapere che Wolf sta male. Pensaa chi me l’ha regalato! Crederebbe che l’abbiamo


190 Umberto Segatotrascurato. E, allora, c’è il rischio che mi trasferiscano,sai bene dove! »Rimasero entrambi in silenzio, ognuno immersoin una nebulosa emotiva che già presentava i segnidella disperazione.« C’è il nostro vicino! » disse Mario.« No », disse Eva decisa.« Perché no? »« Non mi fido della gente di qui », disse Eva.«Èun contadino. Ha dimestichezza con gli animali.»« Che ne può sapere delle malattie dei cani dirazza? Non mi fido e non mi piace. Sembra un degenerato.»« Ma se avrà quasi ottant’anni! »« Non mi riferisco a quel tipo di degenerazione.»« A quale allora? »« Lo sai bene! »«Èsoltanto un vecchio che pensa solo a sopravvivere», disse Mario.« A volte ho l’impressione che anche tu, Mario,sia cambiato. È per questo che le cose vanno comestanno andando. Per via che ci sono troppi chepensano solo a sopravvivere. »« Vogliamo iniziare una discussione proprio orache Wolf sta... » ma non finì la frase. Anche ilpensiero che il piccolo cane lupo potesse morirelo faceva star male.


Una famiglia serena191« E cosa diresti al contadino? » chiese Eva.Mario guardò il cane. Che cosa c’era da dire senon che Wolf stava male? Ma che cosa aveva fattomale a Wolf? Forse in giardino c’era la soluzionedel malessere del cane. Mario si munì di una torciaelettrica e uscì. Il giardino era stato trasformato inorto. Rape e patate erano conservate tra la pagliain due buche profonde. Rimaneva la terra smossae il sentiero di terra battuta che portava alla legnaia.Lungo uno dei muretti di recinzione eranotesi i fili per la biancheria. Da uno dei fili pendevanoalcuni capi di biancheria irrigid<strong>it</strong>i dal gelo.Le sue mutande invernali sembravano due stoccafissi.Si vergognò di quel futile pensiero. Ma nonpoté non pensare che il reggipetto di Eva era almenodi una misura troppo piccola per i suoi seni.Eva con gli anni era ingrassata. Non era più la giovaneginnasta dal corpo perfetto che aveva conosciutoal campeggio. Anche lei era cambiata.Trovò sub<strong>it</strong>o la causa del malessere di Wolf. Inun angolo della legnaia il vento dei giorni precedentiaveva accumulato un mucchietto di fuliggineche era sfugg<strong>it</strong>a alle ispezioni di Eva. Era una fuligginepesante con fiocchi simili a quelli di neve,solo che questi erano grassi, quasi b<strong>it</strong>uminosi. Mariosi sentì sollevato. Ora, almeno, conosceva lacausa per la quale il cane stava così male.« Vado dal contadino », disse, rientrando e mo-


192 Umberto Segatostrando alla moglie che stava ancora china sullacuccia di Wolf le d<strong>it</strong>a sporche.« Credi che sia colpa di questa? » chiese Evarialzandosi.«Ècolpa della tua disattenzione », disse Mario.« Te l’avevo detto di stare attenta. I cuccioli vannosegu<strong>it</strong>i come i bambini. »Vide un’ombra passare negli occhi della moglie.Erano il punto debole di Eva, i bambini, daquando aveva perso il piccolo Bruno e il medicole aveva detto che non avrebbe potuto averne altri.« Non sei il solo a voler bene a Wolf », disseEva.« Scusa », disse. « È che non posso vederlo soffrire.Vado dal contadino. Vedrai che conosceràsicuramente un rimedio. »Eva rimase sola. Quando Mario era al lavoro tenevasempre la radio accesa. Le passò per la menteil pensiero che, se Wolf fosse morto, la radio nonsarebbe più riusc<strong>it</strong>a a riempire il silenzio delle suegiornate e sarebbero tornati i giorni segu<strong>it</strong>i allamorte di Bruno. Un senso di desolazione l’avvolse.La radio trasmetteva musica classica. Ma nonera Wagner. A lei piaceva Wagner. Questo dovevaessere Beethoven. Cosa le piaceva di Beethoven?L’Eroica, naturalmente. Ma non quella roba sentimentaledelle Sonate, tipo Per Elisa o Al chiaro diluna. Spense la radio. Ma non poteva sopportare ilsilenzio. Né la vista del dolore di Wolf. Andò in


Una famiglia serena193camera, si distese sul letto e aprì il libro che tenevasempre sul comodino. E, come sempre, fin dalleprime parole, la mente cominciò a fantasticaredi un mondo fatto di foreste incontaminate, dimontagne immacolate, di valli serene, di uominie donne di plastica bellezza, di c<strong>it</strong>tà laboriose, dicampagne apriche, e di canti, di musiche e di suonilontani di campane che sembravano proclamarea tutto il creato che quei giovani e quelle ragazzeerano i veri eredi della terra. Così Eva immaginavail Futuro. E su queste visioni si assopì.La risvegliò il r<strong>it</strong>orno di Mario. In fretta rimisein ordine il letto e scese la scale. Mario sembravapiù tranquillo.« E allora? » chiese.« Il contadino dice che bisogna farlo vom<strong>it</strong>are.Se riusciamo a farlo vom<strong>it</strong>are, in poco tempo staràdi nuovo come prima. Acqua e sale. Acqua caldamolto salata. »« E come si fa a fargliela inghiottire? »« Con un imbuto. Glielo si deve infilare in gola.»« Mio Dio! »« Dobbiamo farlo. Bisogna ev<strong>it</strong>are che quelloche ha inghiott<strong>it</strong>o scenda nell’intestino. È da lìche passa nel sangue, nel fegato, nelle reni. E tuttol’organismo si infetta. »Eva riattizzò il fuoco e aggiunse carbone.


194 Umberto SegatoRiempì una pentola d’acqua e cominciò a versarviil sale.« Basta così? » chiese al mar<strong>it</strong>o.« Io ne metterei ancora un po’. »« Potrebbe fargli male. »« Dovrebbe fargli male! »Aggiunse il sale. Ma l’acqua non bolliva e il salenon si scioglieva. Era sale di miniera a grossescaglie. Intanto il tempo passava. Guardò la svegliasulla credenza. Mio Dio, era quasi mezzanotte!Wolf era in quelle condizioni da almeno cinqueore. Chissà se il suo piccolo cuore avrebbe resist<strong>it</strong>o.Finalmente il sale si sciolse, ma l’acqua ora eratroppo calda. Mise la pentola fuori della finestra,sul davanzale. L’aria gelida della notte la investì.Le parve di percepire qualcosa di insol<strong>it</strong>o nell’aria.Poteva essere la fuliggine che tornava a cadere.Tese la mano nel buio e sentì sulla pelle minuscol<strong>it</strong>occhi gelidi. R<strong>it</strong>irò la mano. Era neve, biancae morbida. Era la prima neve e le parve di buonauspicio.« Sta nevicando », disse, chiudendo la finestra.« Dovrò andare a lavorare a piedi », disse Mario.« Speriamo che non nevichi troppo, altrimential buio non riuscirò a trovare la strada. »« Avresti dovuto farti assegnare un alloggio inpaese », disse Eva. « Da lì la strada è più semplice.»« Lo sai che non era possibile. Ringrazia il cielo


Una famiglia serena195che ti abbiano permesso di venire. Tutti i miei colleghisposati hanno dovuto lasciare le mogli in Patria.»« Ma loro non fanno quello che fai tu. Non hannola tua specializzazione. »«È uno dei pochi vantaggi di essere un per<strong>it</strong>ochimico. Sarà tiepida, ora? »Eva riaprì la finestra, r<strong>it</strong>irò la pentola e infilònell’acqua il gom<strong>it</strong>o nudo come faceva quandopreparava il bagnetto di Bruno.«È pronta », disse. « E adesso? »« Dammi l’imbuto », disse Mario, prendendo lapentola dalle sue mani.Mise la pentola sul tavolo e poi si chinò sul cestodi Wolf. Il naso era secco e caldo. Quando glimise le mani sotto il corpo per sollevarlo il caneguaì. Portò il cane accanto alla pentola.« Vuoi farlo qui? » gli chiese Eva.« Dove, se no? »« Non puoi farlo sull’incerata di cucina. »« L’incerata si può sempre lavare. »« Ma qui è dove mangiamo! »« Hai qualche suggerimento? » disse Mario,guardandola duro.« Perché non vai nella legnaia? »« Perché nella legnaia non c’è luce e perchédobbiamo essere in due, uno che lo tiene e l’altroche versa l’acqua. Decidiamoci, altrimenti l’acquagela. »


196 Umberto Segato« L’acqua salata non gela. Un per<strong>it</strong>o chimicodovrebbe saperlo. »« Decidiamoci lo stesso. »« Aspetta che tolgo l’incerata e metto dei giornalisul tavolo. »« Sbrigati. Wolf potrebbe morire a causa delletue ubbie da massaia. »« Quel tuo lavoro ti ha tolto ogni finezza », disseEva, allontanandosi per andare a prendere igiornali. Ogni volta che l<strong>it</strong>igavano non perdevamai occasione di sottolineare la loro diversa provenienzasociale. Sua madre era maestra elementare,il padre capo ufficio al ministero della PubblicaIstruzione. Da ragazza Eva aveva studiatopianoforte. Lui era figlio di un imbianchino che lavoravaa giornata e si era pagato gli studi lavorandocome muratore.« Non mi pare il momento di essere formali »,disse al grosso sedere che scompariva nel buiodel corridoio.Mentre aspettava il r<strong>it</strong>orno di Eva, Mario preseda sotto il lavandino una bottiglia di birra vuota, lasciacquò e la riempì con l’acqua della pentola.L’acqua era ormai appena tiepida. Sperò che potessefare lo stesso il suo effetto. E che questo effettofosse rapido.Eva tornò con i giornali, tolse l’incerata e lisparpagliò sulla tavola. Mario aspettava impaziente,tenendo con una mano il cagnolino contro il


Una famiglia serena197petto e con l’altra la bottiglia sulla quale aveva infilatol’imbuto.« Preferisci tenere l’imbuto o versare? » chieseMario quando Eva ebbe fin<strong>it</strong>o.« Tieni tu il cane. Io non ce la farei. »« Versa piano. »Con tenerezza inserì pollice e medio tra le mandiboledel cane e fece forza. La lingua era bianchicciae pastosa. Infilò con attenzione nelle faucil’imbuto sino a farlo arrivare alla gola. Poi con uncenno degli occhi ordinò a Eva di versare. Appenal’acqua arrivò nella gola del cane, questi ebbe unmoto convulso. L’imbuto cadde a terra e per pocola bottiglia non sfuggì dalle mani di Eva.« Devi tenerlo fermo », disse Eva.« Ho paura di fargli male. »La seconda volta andò meglio. Il cane cominciòa deglutire, anche se buona parte dell’acqua finivasulla carta del tavolo.« Credi che basti? » chiese Eva, quando la bottigliafu vuota.« Non saprei. »« Cosa ti ha detto il contadino? »« Non mi ha detto niente a propos<strong>it</strong>o della quant<strong>it</strong>à.»« Ma tu glielo hai chiesto? »« Me ne sono dimenticato. »Eva fece uscire con disprezzo l’aria tra i denti.« Rimetti la pentola sul fuoco », disse. « Tenia-


198 Umberto Segatomola in caldo, mentre aspettiamo di vedere sequella che ha inghiott<strong>it</strong>o fa effetto. »Non un pelo si muoveva sul corpo di Wolf. Piùche un corpo, sembrava un manicotto vuoto. Marioe Eva, seduti accanto a lui ai due lati del tavolo,aspettavano. Fuori nella notte c’era il quieto silenziodella neve che cadeva. Dentro la cucina unsilenzio di attesa e paura. Non tanto, o non soltantoper la morte di Wolf, ché ambedue della morteavevano esperienza, quanto del vuoto che il caneavrebbe lasciato. Moglie e mar<strong>it</strong>o sapevano, anchese nessuno dei due l’avrebbe confessato all’altro,che senza Wolf avrebbero dovuto guardare in facciaciò che erano diventati.Un singulto li riportò alla realtà. Wolf sullezampe traballanti, il collo teso e il corpo tremante,emetteva <strong>dalla</strong> gola suoni strozzati. Saliva spumosae nerastra cominciò a scendergli <strong>dalla</strong> lingua eaccumularsi sui giornali già inzuppati d’acqua.Poi, dopo un singulto più forte uscì qualcosa cheaffondò nel muco. Mario e Eva si guardarono negliocchi, occhi sfavillanti di gioia al di sopra di uncagnolino che vom<strong>it</strong>ava. Wolf di colpo si calmò.E, sub<strong>it</strong>o, sembrò riacquistare v<strong>it</strong>a. Alzando il musoverso ambedue si permise perfino di dimenarela coda.« Dobbiamo farlo bere », disse sub<strong>it</strong>o Mario.« L’acqua salata gli avrà fatto venire una sete terribile.»


Una famiglia serena199« Attento che non sia troppo fredda », disse Evaal mar<strong>it</strong>o, mentre tutte le sue attenzioni erano rivolteal cane. Lo accarezzava, lo grattava dietrole orecchie, lo ripuliva con il grembiule di cucina.Poi lo rimise nella sua cesta e cominciò a rimetterein ordine la tavola. Mario portò l’acqua al cane,ma Wolf non aveva nessuna intenzione di bere.Più passava il tempo e più riacquistava vivac<strong>it</strong>à.In breve tornò a essere il cucciolo che era statoprima della malattia.« Il contadino aveva ragione », disse Mario. « S<strong>it</strong>rattava di una cosa da nulla. Cos’era quel grumoche ha vom<strong>it</strong>ato alla fine? »« Non ne ho idea. A volte quella fuliggine siraggruma e forma delle palle di grasso », disseEva.« Era bello grosso », disse Mario.« Non c’è modo per ev<strong>it</strong>are tutto quel fumo cosìpesante? »« Abbiamo altro cui pensare. Negli ultimi tempiil carico di lavoro è aumentato. Ormai i forni lavoranogiorno e notte. »« Bene », disse Eva. « Ora possiamo anche andarea dormire. »« A dormire ci andrai da sola », disse Mario,guardando l’orologio. « Io devo tornare al lavoro.Dovrò andare a piedi a causa della neve. Chissàquanto tempo ci metterò per arrivare! »Ma lo disse, se non allegro, leggero. Non gli di-


200 Umberto Segatospiaceva fare la strada a piedi nel soffice scricchioliodella neve fresca che avrebbe allentato latensione di quella notte. Gli sembrava perfinoche il lavoro che lo attendeva avesse assunto unnuovo sapore. Nel corridoio davanti all’attaccapanni,mentre Eva lo guardava orgogliosa comenei primi tempi, si rimise il cappotto e abbassòle bande del berretto per proteggere le orecchiedal freddo. Prima di uscire Eva lo baciò con trasporto.« Per quel che rimane della notte », disse <strong>dalla</strong>soglia con il sapore delle labbra della donna sullesue, « fa’ dormire Wolf con te. Non proprio nelletto, ma in camera. Vuoi? »La donna assentì con un sorriso.Mario si avviò. Aveva smesso di nevicare. Attornoa lui tutto era silenzio e buio. Il cielo copertoimpediva alla neve di riverberare la luce. Tastandoil terreno con i piedi trovò la cunetta d’erba chefiancheggiava la strada e seguì quella guida. Peril momento gli bastava. Poi, dopo il bosco, sarebbestato più facile. Malgrado il buio ne percepivala massa scura e i piedi gli dissero che la stradastava curvando. Passo dopo passo fece tutta la curvafinché cominciò a intravedere un lucore sopragli alberi. Ora si sentiva più sicuro. Sapeva dovela strada avrebbe incrociato le rotaie e da quelpunto non ci sarebbe stato più nessun problema.Ora vedeva anche la luminos<strong>it</strong>à del fuoco che


Una famiglia serena201usciva <strong>dalla</strong> ciminiera del forno nº 1, quello semprein attiv<strong>it</strong>à, e ne indovinò nel buio la sagoma.Gli era sempre piaciuto l’ingresso alla fabbrica,con le rotaie che si infilavano attraverso l’arcodella porta turr<strong>it</strong>a, la cui sagoma gli ricordava lachiesa del paese, fino al centro degli edifici. Era,quel far entrare il treno direttamente, un esempiodi razional<strong>it</strong>à ed efficienza. In quel modo i vagonipotevano venire scaricati proprio sul piazzale e ilcarico smistato velocemente. I suoi piedi sentironoi sassi della scarpata e, sub<strong>it</strong>o dopo, le rotaie. Ormaida quel punto bastava seguirle. Esse portavanodir<strong>it</strong>te dir<strong>it</strong>te all’ingresso sopra il quale era dipinta,nera su bianco, la scr<strong>it</strong>ta ARBEIT MACHT FREI.


202 Massimo StanoMASSIMO STANOKilling San Valentino


Killing San Valentino203MI DESTO tre minuti prima del trillo dellasveglia.Sono i tre minuti più brutti della miagiornata: li passo a fissare il quadrante dig<strong>it</strong>aledella sveglia, con la sua carica latente di suonimattutini. I due pallini fra le ore e i minuti palp<strong>it</strong>anoallo stesso r<strong>it</strong>mo del mio cuore, ogni secondoun batt<strong>it</strong>o. Poi scatta un marchingegno nella scatolettanera, c’è una sospensione di una frazione disecondo in cui tiro l’ultimo respiro da uomo libero,infine il diabolico oggetto suona.Mi concedo una doccia lunga venti minuti. Oggisarà una giornata molto lunga. Do un’occhiata alcalendario appeso in cucina per essere sicuro dinon aver sbagliato giorno. Niente da fare, la dataindicata dal mio orologio da polso corrisponde allacasella del calendario contrassegnata con unagrossa X. Oggi tocca fare gli straordinari...Mi preparo: tuta mimetica, anfibi, piastrina di


204 Massimo Stanoriconoscimento e fucile d’assalto. Mi assicuro unapiccola pistola automatica alla caviglia destra: nonsi sa mai, in caso d’emergenza.Appena esco vedo il mio vicino di casa Gianni,operaio alla Ferrero, già in strada alle 05:30 perchéha il primo turno. Aspetto che apra lo sportellodella sua util<strong>it</strong>aria e gli sparo addosso una rafficadi colpi. S’accascia contro l’auto, poi s’adagia lentamenteal suolo.Cammino per un po’, diretto alla stazione degliautobus. 05:40. Incrocio una vecchietta che portaa spasso il cane. Le sparo un colpo in fronte chela manda a sbattere contro i bidoni della spazzatura.Faccio a polpette anche il cagnolino, mi parefosse uno yorkshire.Raggiungo la stazione dei bus dieci minuti primadell’apertura, sul piazzale c’è uno spazzino che staterminando il suo lavoro. Lo intrattengo parlandodi pol<strong>it</strong>ica fino alle 06:00, infine gli sparo a bruciapelotre colpi nella schiena.Una signorina graziosa apre la serranda all’ingressodella stazione; quando entro mi sorride. Ricambioe mi dirigo verso la piazzola dei bus in partenza.Alle mie spalle la graziosa signorina agonizzain una pozza di sangue. Si sentono degli urli pro-


Killing San Valentino205venienti <strong>dalla</strong> biglietteria. Sparo contro il vetroche va in mille frantumi: il bigliettaio cade crivellatodi colpi. Mi giro di nuovo verso la signorina,prendo la mira e le faccio saltare la testa. Dal piazzaleinterno dei bus in partenza accorre un autista:lo blocco sulla porta e lo costringo a risalire sulsuo autobus. Incominciamo la corsa. Mi siedo dietrol’autista e gli ordino di portarmi al palazzo peruffici dove c’è l’agenzia matrimoniale per cui lavoro,la Love Foreign Affair. Apro il finestrino eammiro il panorama. Durante una sosta ad un semaforovedo tre operai che armeggiano attorno aun tombino transennato. Sparo: due cadono immediatamente,uno scompare nel tombino, ma credodi averlo colp<strong>it</strong>o. L’autista del bus, terrorizzato,cerca di fuggire, ma non ha ancora fatto in tempoa tirare la maniglia della portiera che gli ho sparatouna raffica attraverso il sedile. Mi metto al postodi guida, scaraventando fuori il tizio morto.06:30. Finalmente raggiungo l’alto palazzo dellaForeign. Entro e prendo l’ascensore. Raggiungol’ultimo piano e apro una porta con la scr<strong>it</strong>ta TET-TO. Respiro una bella boccata d’aria fresca e miguardo intorno: a destra c’è il parco c<strong>it</strong>tadino,ma a quest’ora è ancora deserto. A sinistra c’è lastazione ferroviaria. 06:40. Tiro fuori dallo zainoil cannocchiale e lo applico al fucile. Ho la visualeperfetta del BINARIO 1 uno dove ci sono molti stu-


206 Massimo Stanodenti e lavoratori pendolari in attesa del treno perTorino. Punto su due studenti seduti su una panchina:stanno dando gli avanzi dei loro panini adei piccioni che volano via per lo sparo. Il primostudente s’accascia sulla panchina. Il mirino sisposta velocemente sulla sua compagna che haun’espressione di terrore disegnata sul volto. Laprovenienza del secondo sparo è individuata dadue agenti della polizia ferroviaria, che indicanocol d<strong>it</strong>o nella mia direzione. Corrono verso il palazzo.06:55. La porta del TETTO si spalanca improvvisamente.Sono talmente preso <strong>dalla</strong> mia azione chenon mi accorgo nemmeno dell’arrivo dei due poliziotti.Intorno a me c’è una marea di bossoli, instrada il panico è generale e la gente inciampa neicadaveri.« Fermo dove sei! Butta quel fucile!!! » Intima unodei due poliziotti, puntandomi contro la pistola. Lasua collega è rimasta al riparo dietro la porta delTETTO. Lascio cadere il fucile e lo allontano conun calcio, ma mentre quello si avvicina per ammanettarmi,con una mossa rapida estraggo la pistolache ho nascosto nella caviglia e lo stendo. La poliziottaspara, ma mi manca, mentre io la centro inpiena fronte.


Killing San Valentino20707:00. Puntuale entro in ufficio e saluto il miocapo. Missione compiuta. Ricevo una pacca sullaspalla e consegno la mia piastrina alla segretaria.Sul TETTO vediamo la poliziotta che sussulta, si rimettein piedi e raggiunge il suo collega. I due siavviano mano nella mano verso il lato del tettoche volge sul parco e contemplano il panoramacon aria trasognata.In strada c’è una marea di persone che si scambianocioccolatini e baci.Sul BINARIO 1 i due studenti sono talmente presidalle loro effusioni che non si accorgono dell’arrivodel treno per Torino e lo perdono.L’autista del bus è entrato nel tombino con gli altridue operai, per sincerarsi delle condizioni dell’uomocaduto nel pozzetto e nessuno di loro è ancorausc<strong>it</strong>o...Alla stazione dei bus il bigliettaio e lo spazzinos’intralciano a vicenda nel tentativo di aiutare lasignorina graziosa a rialzarsi.« Tutto a posto? Ci sembrate un po’ pallida!Possiamo offrirvi un caffè?»


208 Massimo StanoIl barista della stazione ha appena aperto il suolocale, e su ogni tavolo c’è un bel vaso di mimose.« Grazie a tutti e due, molto volentieri! »Adalgisa, la vecchietta che portava a spasso il cane,è alla disperata ricerca del suo yorkshire, mapare che si sia dileguato con una pechinese di passaggio.Lo r<strong>it</strong>roverà e pot<strong>rete</strong> incontrare tutta la famigliaogni mattina alle 05:40 in via D’Azeglio:Adalgisa, il fidanzato Gianni, lo yorkshire, la pechinesee una mezza dozzina di cuccioli...Torniamo nel mio ufficio, dove ho consegnato lapiastrina alla segretaria che si avvia a riporla incassaforte. Quando passa davanti al capo, casualmentel’oggetto metallico le cade in terra. Lui sicatapulta <strong>dalla</strong> scrivania per raccoglierlo, inciampae rovina addosso alla segretaria in posizioneambigua. Per il momento mi sembrano molto occupati:la piastrina con la scr<strong>it</strong>ta CUPIDO la metterannoa posto dopo...


Quando mangiavamo le mele209LORENZO ZAMBERLANQuando mangiavamo le mele


210 Lorenzo ZamberlanORMAI sono vecchio. Cammino sostenendomicon questo bastone. Ho visto tanticambiamenti, tante rivoluzioni, vere opresunte, annunciate o ignorate; ho visto i progressidella scienza e le contorsioni della tecnica. Homangiato le mele, da piccolo. Quando raccontoquesto fatto la gente mi guarda e sgrana gli occhi.È passato tanto tempo. Oggi mi hanno inv<strong>it</strong>ato inquesta scuola per raccontare ai bambini questa storialontana.« Salutate il signore che è venuto a trovarci »,dice la maestra alla classe. Tutti obbediscono esi leva un « Buongiorno signore » pronunciato incoro. Mi offrono una sedia e così mi metto a sedereed inizio a raccontare. Probabilmente per questigiovani scolari è poco più di una favola, una speciedi leggenda. Eppure è successo tutto quanto eio lo ricordo, anche se ero poco più di un bambino.


Quando mangiavamo le mele211« Era l’inizio del secolo XXI. Allora si mangiavanole mele, può apparire incredibile, ma era così.Tutto cominciò un giorno d’estate, era molto caldoe io mi preparavo a godermi quei giorni di vacanza.« Il primo fu il signor Viali; era piuttosto vecchioe dopo pranzo era sua ab<strong>it</strong>udine mangiareuna mela. La figlia lo trovò morto, quando andòa trovarlo, verso sera. Teneva ancora il coltellocon cui aveva sbucciato il frutto in mano, quest’ultimoera rotolato per terra, sotto il tavolo. Il perchédel decesso non era molto chiaro, ma nessuno cifece molto caso vista l’avanzata età dell’uomo.« Il secondo fu il signor Pari; questa volta l’improvvisascomparsa colpì tutti in paese. Egli, infatti,non era vecchio ed era in buona salute. Il dottorSesi non seppe trovare una spiegazione; la signoraCarli lo sentì affermare che il proverbio secondocui una mela avrebbe tenuto lontano il dottorenon si era dimostrato gran che affidabile giacchéanche il signor Pari aveva mangiato uno di queibei frutti rossi prima di passare a miglior v<strong>it</strong>a.Lei saggiamente non attese altro e da quel giornoin poi non mangiò più mele. Non si accontentò,però, di preservare la sua persona, ma comunicòquesto suo timore a tutte le sue amiche. Nessunodiede gran peso alle sue parole, ma da quel momentoera impossibile che non tornassero alla


212 Lorenzo Zamberlanmente di quelle anziane signore quando mangiavanouna mela.« Il passo successivo avvenne quasi per scherzo:su un piccolo giornale locale uno dei giovaninipoti di queste signore scrisse un articolo int<strong>it</strong>olato:’Le mele: fanno davvero bene?’ Se l’intentoera scherzoso il risultato fu di tutt’altro tipo. La signoraCarli sventolò l’avvallo della stampa allasua teoria il giovedì successivo, davanti al bancodella frutta al mercato. La cosa poteva far sorridere,ma sapete com’è: se qualcuno mette in giro lanotizia che una banca non potrà risarcire i cred<strong>it</strong>oriperché prossima alla bancarotta, tutti si precip<strong>it</strong>erannoa reclamare i propri risparmi e il sanissimoist<strong>it</strong>uto di cred<strong>it</strong>o fallirà ugualmente.« Il consumo di mele nella nostra c<strong>it</strong>tà era moltocalato. Sentivo il dottor Sesi parlare con mio nonnodi questa faccenda, secondo lui incomprensibile.La notizia era, comunque, singolare e una piccolaem<strong>it</strong>tente televisiva si occupò del caso. Il dottoremangiò una mela davanti alle telecamere permostrare che i frutti erano sanissimi e chi se ne eraandato lo aveva fatto perché era la sua ora. Glischerzi della sorte non erano ancora fin<strong>it</strong>i. Sullastrada che porta verso il mare, un pomeriggio avvenneun grave incidente in cui morì un giovane.L’inconsolabile madre della v<strong>it</strong>tima però si addossotutta la colpa della tragedia. Era stata lei a farmangiare al figlio una fetta di torta di mele che


Quando mangiavamo le mele213aveva causato il malore del guidatore e di conseguenzal’incidente. Io pensai che passare ad unaveloc<strong>it</strong>à altissima, come accadeva quasi sempre,sulle strettissime curve disseminate lungo quellastrada fosse un modo più sicuro per schiantarsi,ma non lo dissi: i bambini non si interessano diquesti discorsi da grandi.« La c<strong>it</strong>tà era sottosopra. Per mettere fine allaquestione si mosse finalmente l’autor<strong>it</strong>à: primaquella terrena e poi anche quella ultraterrena. Ilsindaco nominò una commissione appos<strong>it</strong>a, cheavrebbe dovuto servirsi dell’apporto di valentiesperti. I lavori furono sorprendentemente veloci.Le conclusioni furono queste: praticamente tutte lepersone decedute nell’ultimo anno avevano inger<strong>it</strong>ouna mela nei giorni immediatamente precedentila dipart<strong>it</strong>a, quindi un collegamento tra il frutto e ildecesso non era da escludere. La decisione di uneventuale divieto per la vend<strong>it</strong>a di mele spettavaal ministero competente, quindi per quello bisognavaancora attendere. Il sindaco approvò i risultatie lodò la rapid<strong>it</strong>à dell’amministrazione da luiguidata nel risolvere il problema. L’autor<strong>it</strong>à extraterrenasi mosse nella persona di don Egidio checondannò tonante dal suo pulp<strong>it</strong>o lo sfruttamentoprivo di scrupoli della natura e ricordò i seren<strong>it</strong>empi in cui tutti si dedicavano ad un’agricolturasana e pia. Era inev<strong>it</strong>abile, secondo il sacerdote,


214 Lorenzo Zamberlanche prima o poi succedesse qualcosa del genere.Insomma, ormai era certo, le mele facevano male.« Il dottor Sesi era sempre più preoccupato.’Qualcuno’, diceva, ’non sta tanto bene, ma nonper le mele; è colpa, piuttosto, di qualche rotellafuori posto!’ E mentre ripeteva questa frase si infervorava,diventando tutto rosso. Ricordo chequando andavo a scuola, all’angolo c’era un negoziodi frutta. Dentro c’era sempre una ragazza daicapelli neri. Io ero piccolo, ma per me lei era lapersonificazione della bellezza. Per i bambini, iconcetti astratti finiscono quasi sempre col sembrarelontani e così li rendono reali, in qualchemodo. Be’, quando sentivo parlare della bellezzaio me l’immaginavo così. Quando non c’eranoclienti e io passavo davanti al negozio mi davaspesso qualche frutto, qualche volta un mandarino,qualche volta una banana, che a me non piacevano,ma non ebbi mai il coraggio di dirglielo, qualchevolta una mela.« Un giorno, tornando da scuola, la vidi mentreosservava delle bellissime mele, forse domandandosiperché nessuno ne voleva più. Quando mi videmi sorrise e io, chi sa perché, le chiesi uno diquei frutti; me lo diede sorridendo. Avevo appenacominciato a addentarlo, quando un signore mi videe disse: ’Non avrai mica intenzione di mangiarequella roba?! Su buttala!’ Io lo guardai incredulo,non capivo, era buona, era succosa e dolce. Presto


Quando mangiavamo le mele215la gente si radunò attorno al negozio, ma il centrodell’attenzione non ero più io. C’era tanta gente,ma io ero basso e non vedevo bene. Mi sentii spingereverso i banchi della frutta. Qualcuno accusòla giovane proprietaria del negozio di tentare diavvelenare i bambini. Era impazz<strong>it</strong>a per dare quellecose ad un innocente, urlava qualcuno. Qualcunaltro mi sembrava di conoscerlo, di riconoscere levoci. L’uomo che mi aveva parlato poco prima rovesciòla cassetta di mele, applaud<strong>it</strong>o <strong>dalla</strong> piccolafolla. La ragazza del negozio si rifugiò all’internoin lacrime, chiudendo la porta alle sue spalle. Ioinfilai quella mela nello zaino e corsi a casa, piangendoanch’io. Il negozio rimase chiuso per moltigiorni e fu poi venduto. Al suo posto aprironoun’edicola, non ci sono mai entrato. Della miadea della bellezza non seppi più niente; non potevochiedere a nessuno di lei, i bambini non fannodi queste domande. Non riuscii a scoprire conesattezza nemmeno quali persone formavano quellapiccola folla, quel giorno.« Molti si schierarono a favore del divieto divendere e mangiare mele; altri risero di questapazzia, salvo poi rendersi conto che la cosa era seriadavvero. Si tennero tavole rotonde, convegni eriunioni. Una mattina il dottor Sesi passando davantialla casa del nonno sventolò il giornale checonteneva le più recenti statistiche sull’argomentoe disse, chinandosi verso di me e rivolgendomi la


216 Lorenzo Zamberlanparola per la prima volta: ’Ai numeri fanno direquello che vogliono. Tutto, tutto si può dire. Ricordalo!’« Il divieto di vendere e mangiare mele arrivòun mese dopo. Da quel momento questo frutto èvietato. »Il mio racconto è tutto qui. Solo un’ultima cosa misento di dire a questi scolari: « Ricordate, bambini,la cosa peggiore è l’ignoranza ». La maestra annuisceconvinta. « Ricordate », dice ai bambini,« che c’erano tempi molto più brutti di quelli incui vivete voi, tempi in cui si mangiavano le mele!» La guardo un attimo solo e poi mi viene vogliadi uscire all’aria e al sole. È una bella giornata,mi fermo a comprare il giornale, mi siedo a leggerlosu una panchina. Una cosa non l’ho detta aquei bambini: i semi della mela che ho infilatonello zaino quel giorno di tanti anni fa non li hobuttati. Da essi è nato un albero di mele che oradomina il mio giardino, carico di frutti.


Il Presidente217PIERPAOLO ZARAIl Presidente


218 Pierpaolo ZaraISEI uomini seduti intorno al lungo tavolo scuronon avevano niente di speciale a parte ilfatto che un<strong>it</strong>i formavano il più forte gruppodi potere del Paese.« Dobbiamo prendere una decisione e dobbiamofarlo ora », disse l’uomo in ab<strong>it</strong>o scuro, conla pipa fra le mani.« Non possiamo aspettare? » domandò l’uomocon gli occhiali.« Fosse per me aspetterei altri cinque anni, manon credo che i Patrioti faranno altrettanto », replicòl’altro.« In fondo rappresentano ancora più del trentaper cento dell’elettorato, e se teniamo conto chel’astensione alle ultime elezioni è stata altrettantodirei... » intervenne l’uomo con le spalle alla finestra.« Le cose sono cambiate », disse con tono bassoma fermo l’uomo in gessato grigio. « Se vogliamoagire dobbiamo iniziare sub<strong>it</strong>o, ci resta ancora un


Il Presidente219anno prima delle prossime elezioni e non si puòdire che di tempo ce ne sia molto. » Nessuno osòribattere alla sua affermazione. Da più di quarant’anniquell’uomo era sulla scena pol<strong>it</strong>ica del Paesee da più di venti lo guidava nelle sue scelte, nefosse ufficialmente incaricato o no.« E se lasciassimo fare al Part<strong>it</strong>o? » proposel’uomo con gli occhiali. « In fondo ci possiamo lim<strong>it</strong>area fare un nome e lasciare a loro la decisione.»« Il Part<strong>it</strong>o siamo noi », sentenziò Gessato Grigio,e tutti annuirono con un leggero sorriso.« Da cinque legislature il nome del futuro Presidenteviene deciso in questa stanza e con gli ampipoteri che ha non possiamo permetterci di lasciarfare al Part<strong>it</strong>o proprio adesso... Non dopo aver lettoil manifesto dei Patrioti. »Erano passati soltanto sette giorni da quandoera stato consegnato loro il riservatissimo fascicolodi 56 pagine contenente il programma pol<strong>it</strong>icodel gruppo che si faceva chiamare « I Patrioti ».Ognuno di loro aveva davanti a sé la propria copia;l’avevano letto fino a conoscerlo quasi parolaper parola. Alla fine della riunione tutte le copiesarebbero state distrutte, come aveva p<strong>rete</strong>so chil’aveva procurato.Se il candidato proposto dai Patrioti fosse diventatoil nuovo Presidente, la sua pol<strong>it</strong>ica conservatrice,del tutto indifferente al mutamento sociale


220 Pierpaolo Zarainiziato da più di un secolo, avrebbe inev<strong>it</strong>abilmenteportato il Paese ad una crisi difficilmentesuperabile con la sola mediazione pol<strong>it</strong>ica.« Sono certo che tutti avete studiato anche ilrapporto sullo scenario futuro fatto dai nostri analistinel caso di una v<strong>it</strong>toria dei Patrioti, e dell’unicaalternativa possibile per conservare il Paeseun<strong>it</strong>o. Anche la scelta del candidato mi pare ineccepibile.Personalmente r<strong>it</strong>engo che non ci sia altroda discutere. » L’uomo con la pipa pronunciòle ultime parole, si appoggiò allo schienale dellacomoda poltrona di pelle e attese.Bastò un rapido sguardo ad ognuno dei convenuti,le parole non furono necessarie.« Allora siamo d’accordo. »Era in anticipo. Shou Fong entrò nell’aula e si sedettedietro il primo banco che trovò libero, attentoa non disturbare la lezione.« ... e per quanto riguarda casa nostra, vedremocome il calo demografico, il fallimento dell’UEcome ent<strong>it</strong>à pol<strong>it</strong>ica, l’inaridimento dell’iniziativaimprend<strong>it</strong>oriale e l’imponente flusso immigratoriosiano stati i fattori decisivi per la comparsa delletensioni socio-economiche che hanno il loro culmineproprio in questi ultimi anni. Alla faccia dell’inerziasociale tanto decantata nel secolo scorso.» Paolo terminò la frase con un largo sorriso


Il Presidente221che contagiò l’aud<strong>it</strong>orio. « Le lezioni comincerannola settimana prossima. Potete andare. »Shou Fong aspettò che l’aula si svuotasse primadi avvicinarsi all’amico, porgendogli la mano. Siincamminarono verso lo studio di Paolo.« La tua capac<strong>it</strong>à di sintesi è impressionante »,disse Shou Fong accomodandosi davanti alla scrivania.« Cosa hai scr<strong>it</strong>to nei tuoi libri, favole cinesi?»« Favole cinesi? Non sono quelle cose che rifiliai tuoi clienti spacciandole per il sudore della tuafronte? »Era un vecchio scherzo che usavano per mascherarela reciproca stima. In passato Shou Fongaveva cercato in tutti i modi di convincere Paolo arifiutare il posto di professore associato di Sociologiamoderna per andare a lavorare nella sua societàdi consulenza marketing appena fondata.Ora, dopo quasi trentacinque anni, fra i clienti dellasua società oltre a imprend<strong>it</strong>ori e attiv<strong>it</strong>à commercialic’erano anche organizzazioni pol<strong>it</strong>iche,fondazioni ed enti governativi che commissionavanoricerche di mercato, sondaggi elettorali,proiezioni sugli sviluppi dell’economia e della società:la qual<strong>it</strong>à del prodotto e la puntuale verificadelle previsioni la facevano primeggiare in questocampo.Paolo, dal canto suo, era diventato preside dellafacoltà, con una produzione bibliografica molto


222 Pierpaolo Zaraapprezzata non solo negli ambienti accademici.Shou Fong aveva letto tutti i suoi libri e di alcunine raccomandava la lettura ai suoi dirigenti.« Che fai, sfotti? Smettila di insultarmi e dimmicome mai hai voluto vedermi. Al telefono sembravauna cosa urgente. »Paolo giocherellò qualche istante con la pennafra le d<strong>it</strong>a prima di rispondere. « Un mese fa circolavavoce che il mio nome era fra la rosa dei candidatialla presidenza che il Part<strong>it</strong>o stava vagliando;dieci giorni dopo si mormorava che avevo ottimeprobabil<strong>it</strong>à di essere scelto come candidatoufficiale. Ieri ho ricevuto un inv<strong>it</strong>o a cena dal segretariodel Part<strong>it</strong>o in persona; è per domani sera.»« Congratulazioni, hai intenzione di accettare? »« Solo se sarai disposto a farmi da vice. »« Ehi, cosa ti ho fatto per mer<strong>it</strong>armi una punizionedel genere? » Shou Fong fece un ghigno beffardosulle labbra.Paolo puntò un d<strong>it</strong>o accusatore. « Ti ricordi lanostra part<strong>it</strong>a all’ultimo campionato di Wei-qi?Se non mi battevi potevo entrare in semifinale ehai usato uno sporco trucco per vincere. »Risero entrambi, ma sub<strong>it</strong>o dopo Paolo ridivenneserio. « Se la cosa andasse in porto, e questonon è detto, avrò a che fare con molti che preferirebberovedermi morto piuttosto che su quella poltrona.Voglio qualcuno di cui potermi fidare e l’u-


Il Presidente223nico sei tu. In più, l’idea di candidarmi non misembra una di quelle che possono fiorire spontaneamentedai capoccioni del Part<strong>it</strong>o. »« Cosa intendi dire? » Shou Fong riuscì a rimanereimpassibile: il rapporto che un mese prima isei uomini avevano letto era stato compilato dalsuo staff.« Niente di più di quello che ho detto. Solo noncapisco perché abbiano scelto proprio me. »« Non fare il modesto. » Shou Fong si rilassòimpercettibilmente. « Anche se ufficialmente erisolo un consulente, nell’ambiente tutti sanno chesei stato tu a preparare i testi dell’ultima riformascolastica e di quella previdenziale. »« Comunque sia, non intendo farmi manovrareda nessuno. Se diventerò il prossimo Presidenteintendo fare di testa mia e per farlo ho bisognodi te. » Paolo si appoggiò sulla scrivania e si proteseverso Shou Fong. « Mi serve una risposta e miserve adesso. »« Credo che sarà divertente partecipare a questapart<strong>it</strong>a. » Shou Fong si alzò per stringere la manoall’amico che gli rivolse un franco sorriso di compiacimento.« Allora siamo d’accordo. »L’uomo con il gessato grigio era alla finestra, manon guardava nulla. I suoi cinque compagni erano


224 Pierpaolo Zaraandati via e lui si era attardato a riflettere. La campagnaelettorale era stata dura e avevano utilizzatotutta la loro influenza per sostenere il loro candidato.A una settimana dal voto i sondaggi eranofavorevoli, non sarebbe stato un plebisc<strong>it</strong>o ma illoro candidato avrebbe vinto.Si sedette alla sua scrivania e da un cassetto tiròfuori due fascicoli che pose davanti a sé. Aprì ilmanifesto dei Patrioti alla pagina 43 e chiuse gliocchi.Dopo la crisi dei primi dieci anni del terzo millennio,i Paesi dell’Unione Europea avevano dovutocedere e aprire le frontiere all’immigrazione,fonte di quella manodopera indispensabile per impedireil crollo dell’intero sistema economico. Maallo stesso tempo, per le forti pressioni nazionalistee assurdamente xenofobe, i governi di alloravennero costretti ad attuare una serie di misure restr<strong>it</strong>tive,conosciute come Legge sulla c<strong>it</strong>tadinanza,che pesavano ancora sulla terza generazionedi chi era arrivato nel Paese per lavorare e vivere.Avrebbe potuto aspettare? Forse i tempi nonerano maturi? Aprì gli occhi e lesse, al quinto paragrafo:« ... misure per la protezione dei valori edella razza... » Erano state quelle parole a farglipaura. Non era la paura del dolore che hai provatoo immaginato perché quella la conosci, la vedi equasi la puoi afferrare, la puoi combattere, scacciareo conviverci. Era la paura che non senti ma


Il Presidente225che vedi negli occhi di chi ha visto. Paura di ciòche nessuno vuol raccontare, come se non fossemai accaduto; di ciò che viene gridato al mondo(ma soltanto nel Giorno della Memoria) come sequel grido potesse, come per magia, cancellarela Storia. Non poteva aspettare.Sperava, ma in realtà sapeva, che il nuovo Presidenteavrebbe dato inizio ad un nuovo corso: neaveva la volontà e il potere, ma ci sarebbe riusc<strong>it</strong>o?Aprì il secondo fascicolo, l’unica copia integraledel rapporto commissionato a Shou Fong; le ultimetre pagine erano state tolte dalle copie che glialtri cinque avevano letto. Quelle pagine descrivevanol’ipotesi che a una pol<strong>it</strong>ica governativa riformista,contraria alla loro ideologia, le frange estremistedei Patrioti avrebbero potuto reagire conazioni di forza destabilizzatrici, la clandestin<strong>it</strong>à ela lotta armata; in una sola parola con il terrorismo.E l’ipotesi veniva data come certezza.Durante l’ultimo anno, ogni volta che rileggevaquelle ultime pagine, si era chiesto se quella era lastrada giusta, se non ci fosse un’altra via per ev<strong>it</strong>aresofferenze inutili, da una parte e dall’altra. Masempre la risposta era una sola.Ripose i due fascicoli nel cassetto, lo chiuse achiave e tornò alla finestra. Contemplò a lungo ilcielo stellato. « Ho fatto la cosa giusta », mormoròe, indossato il cappotto, consultò l’orologio prima


226 Pierpaolo Zaradi uscire. Mancavano pochi minuti alla mezzanotte,era ancora in tempo.Con l’animo sereno Davide Guerra, pronipotedi Menachen Weissel, uno dei pochi sopravvissutidi Treblinka, si avviò verso casa per celebrare ilSabato.Seduto al tavolo della cucina, Paolo sorseggiò ilcaffè lentamente, consapevole che nei cinque annia venire momenti di tranquill<strong>it</strong>à come questo sarebberostati rari.La moglie apparve sulla porta e gli sorrise, piegandoleggermente la testa e facendo brillare gliocchi: l’aveva fatto anche la prima volta in cuisi erano incontrati, cinquantadue anni prima, e l’avevasub<strong>it</strong>o conquistato.« Buongiorno, signor Presidente. » Lui le ricambiòil sorriso.« Lo sarò solo dopo il giuramento, anzi devosbrigarmi. » Si alzò e le diede un bacio sulla guancia.« Se r<strong>it</strong>ardo di cinque minuti sono capaci di fargiurare il primo che passa. » Entrò nel bagno e comincioa radersi con cura.L’ultimo anno era volato via fra riunioni, comizi,cene « strategiche » e apparizioni « tattiche » intutte le manifestazioni pubbliche del Paese. Latensione aveva toccato il culmine il giorno delleelezioni ed era crollata solo dopo l’annuncio uffi-


Il Presidente227ciale dei risultati. Aveva vinto, con un marginestrettissimo, di appena il tre per cento, ma avevavinto.Mentre indossava l’ab<strong>it</strong>o scuro, tagliato su misura,pensò che la parte più difficile sarebbe cominciataadesso. Gettò un rapido sguardo al preziosoacquerello del Settecento appeso a fiancodel letto, che celava la piccola cassaforte. Avrebbedovuto attendere almeno un anno prima di tirarefuori gli appunti sullo smantellamento della Leggesulla c<strong>it</strong>tadinanza e prima di allora c’erano altrecose da fare, più urgenti anche se, ai suoi occhi,meno importanti.Shou Fong si era dimostrato un formidabile organizzatoree bisognava sguinzagliarlo al più prestoalla ricerca degli appoggi necessari per ev<strong>it</strong>areche le sue direttive rimanessero lettera morta. Inquanto ai suoi « amici »...Staremo a vedere, pensò, e si sistemò il nododella cravatta.Anche Maria era pronta e scesero le scale perentrare nell’auto che li avrebbe portati al Palazzo.Mentre attraversavano la c<strong>it</strong>tà, la gente, avvert<strong>it</strong>adalle sirene della scorta, si voltava a guardare equalcuno accennava ad un rapido saluto con lamano e Paolo rispondeva ai saluti allo stesso modo.E pensava. Pensava a tutta la gente a cui si erarivolto, a quanto erano diversi e a quanto in realtàfossero uguali, alle mille speranze, richieste e do-


228 Pierpaolo Zaramande, che esprimevano, però, un unico desiderio:quello di essere un<strong>it</strong>i, di essere un Popolo. Ed era alui che avevano affidato quel desiderio, perché lotrasformasse in realtà.Così Paolo Muhamad Kaleji giurò in cuor suoche sì, sarebbe stato il loro Presidente, il Presidentedi tutti gli <strong>it</strong>aliani.

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