La preghiera di Abramo e Isacco - Illegio
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DAVID TENIERS IL GIOVANE<br />
(Anversa 1610 - Bruxelles 1690)<br />
<strong>La</strong> <strong>preghiera</strong> <strong>di</strong> <strong>Abramo</strong> e <strong>Isacco</strong><br />
1653.<br />
Olio su tela, 132 x 103 cm.<br />
Iscrizioni: DAVID.TENIERS.FEC. AV 1653 sul gra<strong>di</strong>no alla sinistra dell’altare.<br />
Wien, Kunsthistorisches Museum,<br />
Gemaldegalerie, inv. GG.710.<br />
Sebbene fosse perfettamente inserito nell’ambito professionale (il padre e i fratelli furono pittori, la moglie<br />
era figlia <strong>di</strong> Jan Bruegel I), fu soprattutto grazie alle sue doti che David Teniers il Giovane riusci a<br />
conquistarsi una posizione <strong>di</strong> prestigio nel mercato artistico <strong>di</strong> Anversa, associandovi incarichi <strong>di</strong> rilievo<br />
sociale, tra i quali spicco il suo ruolo prominente in seno alla Gilda <strong>di</strong> San Luca negli anni 1644-1645<br />
(David Teniers der Jüngere 2005). Specializzato in scene <strong>di</strong> genere (la fama venne rapidamente<br />
guadagnata con la raffigurazione <strong>di</strong> fiere, osterie, tutte abitate da conta<strong>di</strong>ni e umili personaggi), seppe<br />
costruire quelle immagini con la stessa abilita con cui fu in grado <strong>di</strong> ottenere i favori <strong>di</strong> importanti<br />
committenti locali, sui quali, a partire dal 1646, prevalse l’arciduca Leopoldo Guglielmo d’Asburgo,<br />
governatore dei Paesi Bassi (Welzel 2006). Entrato al suo servizio, Teniers si trasferi a Bruxelles, dove nel<br />
1651 venne nominato pittore <strong>di</strong> corte, con l’incarico <strong>di</strong> fornire <strong>di</strong>pinti al suo mecenate e <strong>di</strong> occuparsi<br />
della sua ricchissima collezione, della quale lasco una suggestiva testimonianza visiva in alcuni<br />
celeberrimi <strong>di</strong>pinti, alcuni dei quali conservati al Prado <strong>di</strong> Madrid, al Kunsthistorisches Museum <strong>di</strong> Vienna e<br />
al Musee des Beaux-Arts <strong>di</strong> Bruxelles, curandone infine il catalogo, raccolto nel Theatrum pictorium<br />
(1660). Nonostante il trasferimento, i legami con la citta natale rimasero sal<strong>di</strong> e, anzi, la sua posizione a<br />
corte e il favore goduto presso l’arciduca lo favorirono nel patrocinare la fondazione <strong>di</strong> un’accademia<br />
d’arte ad Anversa, costituita infine nel 1663. Pur de<strong>di</strong>candosi con successo anche alla ritrattistica (valga<br />
in merito il gruppo raffigurante <strong>La</strong> compagnia degli Archibugieri, 1643, San Pietroburgo, Hermitage) e a<br />
soggetti religiosi, la sua vera inclinazione rimase in favore delle scene <strong>di</strong> genere, in cui, pero, rispetto alle<br />
tendenze delle origini, con il tempo seppe affinare i colori, i movimenti e le ambientazioni, armonizzando<br />
il singolo dettaglio a una vivida orchestrazione complessiva, che si fece ancor piu ricercata allorquando,<br />
nelle ultime opere, appare evidente il passaggio dalle affollate fiere <strong>di</strong> conta<strong>di</strong>ni a piu rarefatti paesaggi<br />
pastorali. Il <strong>di</strong>pinto in mostra, firmato e datato al 1653, apparteneva alla collezione dell’arciduca<br />
Leopoldo Guglielmo, dalla quale transito alla sede attuale. Se non vi sono dubbi sulla vicenda del<br />
<strong>di</strong>pinto, il soggetto, per quanto <strong>di</strong> facile comprensione a prima vista, appare meno scontato nella sua<br />
concezione. L’opera, infatti, raffigura la <strong>preghiera</strong> innalzata da <strong>Abramo</strong> e dal figlio <strong>Isacco</strong> in<br />
ringraziamento per la misericor<strong>di</strong>a <strong>di</strong>vina e per la bene<strong>di</strong>zione ricevuta (Gen 22,15-18). Come e noto,<br />
l’antefatto va rinvenuto nel libro della Genesi (22,1-18), dove Dio, dopo aver concesso ad <strong>Abramo</strong> e a<br />
Sara, oramai anziani, la gioia <strong>di</strong> un figlio, chiese, per mettere alla prova la fede <strong>di</strong> <strong>Abramo</strong>, che il giovane<br />
gli fosse offerto in sacrificio. Non<strong>di</strong>meno, quando tutto era oramai pronto e <strong>Abramo</strong> stava per sferrare il<br />
colpo sul figlio, un angelo venne a fermare la mano del vecchio, mentre un ariete, comparso<br />
miracolosamente, fu sacrificato al posto del giovane. Poco dopo, l’angelo torno per bene<strong>di</strong>re <strong>Abramo</strong> e<br />
garantirgli una <strong>di</strong>scendenza numerosa come le stelle del cielo . E in tale cornice che va dunque<br />
inserito l’atto del ringraziamento finale. Non esplicitata nel testo veterotestamentario, la scelta<br />
dell’episo<strong>di</strong>o e abbastanza rara (e un confronto puo essere rinvenuto nel <strong>di</strong>pinto <strong>di</strong> Jan Lievens del 1637<br />
all’Herzog Anton-Ulrich Museum, Branuschweig), ma rappresenta la logica conseguenza del dramma <strong>di</strong><br />
<strong>Abramo</strong> e il presagio <strong>di</strong> una stirpe longeva. Certo, il collegamento con il racconto della Genesi quale<br />
premessa necessaria viene abilmente evocato nel <strong>di</strong>pinto, sicche, sullo sfondo a destra <strong>di</strong> chi osserva, si<br />
scorgono due persone e un asino, con un rimando al viaggio percorso per giungere al luogo del<br />
sacrificio e, dopo la bene<strong>di</strong>zione, ai servitori che <strong>Abramo</strong> e <strong>Isacco</strong> raggiunsero per tornare a casa (Gen<br />
22,19). Al tempo stesso, l’invenzione <strong>di</strong> Teniers permette <strong>di</strong> giustificare alcuni concetti insiti in quella<br />
vicenda attraverso il ricorso all’interpretazione figurale, un sistema <strong>di</strong> concordanze fra Vecchio e Nuovo<br />
Testamento, per cui gli eventi del primo erano giu<strong>di</strong>cati alla stregua <strong>di</strong> anticipazioni del secondo. In tale<br />
ottica, il sacrificio <strong>di</strong> <strong>Isacco</strong>, sin dall’interpretazione <strong>di</strong> san Paolo (Gal 3,6-14), venne letto dapprima come<br />
modello della fede richiesta ai cristiani, quin<strong>di</strong>, a partire dal II secolo d.C., nella letteratura esegetica<br />
prese a essere considerato una prefigurazione della morte <strong>di</strong> Cristo (Hartt 1950a, p. 127; Speyart Van<br />
Woerden 1961, pp. 216-221). Elemento, quest’ultimo, che viene sottilmente richiamato dall’iconografia <strong>di</strong><br />
Teniers, in maniera <strong>di</strong>retta attraverso l’ara sacrificale con l’ovino, in<strong>di</strong>rettamente attraverso una serie <strong>di</strong><br />
ulteriori riman<strong>di</strong> biblici atti a rilanciare tipologie cristologiche. Lo stesso sacrificio <strong>di</strong> ringraziamento<br />
rammenta quello compiuto da Noe alla fine del <strong>di</strong>luvio (Gen 8,18-22), pure inteso in senso cristologico<br />
(Hartt 1950b, p. 185), mentre l’incensiere aperto in primo piano adombra una funzione sacerdotale <strong>di</strong><br />
<strong>Abramo</strong> che lo connette a Melchissedec, ritenuto prefigurazione del sacerdozio perenne <strong>di</strong> Cristo (cfr.<br />
Agostino, De Civitate Dei, 16,22; 17,17) e promotore esso stesso <strong>di</strong> una precedente bene<strong>di</strong>zione ad
<strong>Abramo</strong> (Gen 13,17-22). Se questo e il sottofondo dottrinale del <strong>di</strong>pinto, Teniers ha saputo anche<br />
attualizzare la scena, attribuendo a <strong>Isacco</strong> degli abiti contemporanei, quasi fosse un ritratto atto a<br />
rendere ancor piu coinvolgente la visione dello spettatore, partecipe della gioia che unisce il padre al<br />
figlio <strong>di</strong>nnanzi alla bene<strong>di</strong>zione <strong>di</strong>vina, a sua volta mirabilmente tradotta nell’accoramento con cui il<br />
vecchio <strong>Abramo</strong>, spingendo in avanti il figlio, sembra suggerire a <strong>Isacco</strong> la stessa incrollabile fede con<br />
cui aveva obbe<strong>di</strong>to al comando <strong>di</strong>vino.<br />
ALESSANDRA ZAMPERINI<br />
HANS MEMLING, BOTTEGA o SEGUACE<br />
Natività<br />
Poco prima del 1500.<br />
Olio su tavola, 44,8 x 32,6 cm<br />
(51,5 x 39,5 cm con cornice).<br />
Granada, Capilla Real de Granada.<br />
Provenienza: nel 1504 e citato<br />
nell’inventario dei <strong>di</strong>pinti donati dalla<br />
regina Isabella la Cattolica alla Cappella Reale.<br />
Nell’oscurita della stalla, rischiarata flebilmente soltanto da una candela fissata alla parete, accanto alla<br />
figura <strong>di</strong> san Giuseppe, il miracolo della nascita <strong>di</strong> Cristo si offre allo sguardo come impressiva<br />
apparizione della luce. Nell’angolo in basso a sinistra giace il neonato nudo, circondato da una gloriola<br />
<strong>di</strong> raggi il cui splendore raggiunge Maria, che si inginocchia ai suoi pie<strong>di</strong>, e gli angioletti, avvolgendoli <strong>di</strong><br />
luce chiara. Mentre Giuseppe e illuminato soltanto dalla sorgente <strong>di</strong> luce prodotta naturalmente dalla<br />
candela, Maria e gli angeli lo sono dalla luce <strong>di</strong>vina. Si riconoscono inoltre sul fondo il bue e l’asino alla<br />
mangiatoia, mentre al <strong>di</strong> la delle pareti <strong>di</strong> tavolacci della stalla si intravede, sebbene fiocamente, la luce<br />
del cielo azzurro <strong>di</strong> un pieno giorno: nella raffigurazione non si vuole, infatti, in<strong>di</strong>care esplicitamente un<br />
momento notturno. Il Bambin Gesu e raffigurato attraverso un modellato robusto e <strong>di</strong> pieno volume,<br />
fisicamente in tutto e per tutto umano; la luce <strong>di</strong>vina gli e sottoposta, e si <strong>di</strong>ffonde da sotto il suo corpo,<br />
ma non si irra<strong>di</strong>a tanto dai raggi dorati quanto dalla gloriola <strong>di</strong> un giallo-rosso acceso e ribollente ai<br />
margini, che ha la consistenza compatta <strong>di</strong> un cuscino. L’apparizione straor<strong>di</strong>naria e sottolineata dalla<br />
posa dal labile equilibrio della Madonna, che, nell’atto <strong>di</strong> inginocchiarsi, si piega verso il Bambino con le<br />
braccia <strong>di</strong>stese, come se gia lo stringesse in muta adorazione. I due piccoli angeli dagli abiti chiari<br />
creano delle varianti del medesimo gesto, mentre il terzo angioletto e raffigurato in controluce, quale<br />
figura d’angolo, con una tunica verde scuro, a controbilanciare e stabilizzare lo slancio <strong>di</strong>agonale della<br />
composizione. L’iconografia della Nativita <strong>di</strong> Cristo <strong>di</strong> tipo convenzionale si basava, piu che sul testo dei<br />
Vangeli, sulle narrazioni apocrife, molto piu dettagliate nei contenuti descrittivi, e venne poi arricchita<br />
con i motivi tratti dalle visioni <strong>di</strong> santa Brigida <strong>di</strong> Svezia, che erano <strong>di</strong>venute assai popolari nel tardo<br />
Me<strong>di</strong>oevo e che, per esempio, parlano dell’apparizione della Nascita <strong>di</strong> Gesu come <strong>di</strong> una visione <strong>di</strong><br />
luce assoluta. E evidente quanto l’autore <strong>di</strong> questa tavola abbia voluto sottolineare proprio quest’ultimo<br />
contenuto visionario. Cio finisce per <strong>di</strong>stinguere questa tavola da altre versioni note e completamente<br />
autografe <strong>di</strong> Hans Memling (Seligenstadt c. 1433 - Bruges 1496), che dal 1465 operava nella citta <strong>di</strong><br />
allievo <strong>di</strong> Rogier van der Weyden, e per tutta la vita continuo a riformulare e rielaborare le composizioni<br />
del suo maestro, tradotte in uno stile personale, d’alta qualita, aggraziato e cromaticamente<br />
sfolgorante. E cosi la tavola centrale dell’altare Bladelin <strong>di</strong> Rogier, del 1445-1450, raffigurante la Natività<br />
(Berlino, Staatliche Museen, Gemaldegalerie), viene ancora nel 1479 ripresa quale modello del trittico <strong>di</strong><br />
Memling per Jan Floreins, a Bruges. Un’altra raffigurazione della scena della Natività ben confrontabile<br />
con quella qui esposta per l’organizzazione figurale si trova nella zona inferiore a sinistra della tavola dei<br />
Sette Gau<strong>di</strong> <strong>di</strong> Maria, 1480, oggi a Monaco <strong>di</strong> Baviera (Alte Pinakothek). Tra le opere riconosciute come<br />
non del tutto autografe <strong>di</strong> Memling (e dunque stralciate dal suo catalogo strettamente autografo), la<br />
versione compositiva della Nascita <strong>di</strong> Cristo <strong>di</strong> Granada si rintraccia due volte, in versioni quasi del tutto<br />
identiche: sull’anta sinistra del Trittico della Crocifissione <strong>di</strong> Haarlem, dove la Vergine e pero vestita<br />
totalmente in blu e l’architettura della stalla e trattata con maggiore dovizia <strong>di</strong> elementi, e nella piccola<br />
scena <strong>di</strong> Natività presente su un trittico con molte scene singole che si trovava nel 1993 presso Rob<br />
Smeets a Milano. In entrambe, i pittori hanno scelto tuttavia un’illuminazione completamente <strong>di</strong>urna<br />
della scena, senza contro-effetti <strong>di</strong> notturno. Proprio le somiglianze con altri <strong>di</strong>pinti della cerchia <strong>di</strong> Hans<br />
Memling e dei suoi <strong>di</strong>retti seguaci sono tipiche delle modalita <strong>di</strong> produzione delle botteghe pittoriche <strong>di</strong><br />
Bruges del tempo, laddove celebri e ammirati prototipi vennero replicati, sia nella loro interezza<br />
compositiva sia per certe loro singole figure, in grande quantita per decenni e decenni ancora. <strong>La</strong><br />
Natività qui esposta si trovava probabilmente gia poco tempo dopo la sua realizzazione nelle collezioni<br />
reali spagnole, quale preziosa immagine devozionale. Essa compare, ad ogni modo, nella descrizione
stilata nel 1504 dei <strong>di</strong>pinti che la regina Isabella la Cattolica regalo alla Capilla Real <strong>di</strong> Granada. E<br />
possibile che il committente dell’opera abbia richiesto non tanto il particolare effetto <strong>di</strong> illuminazione<br />
accentuata dal contrasto tra un’in<strong>di</strong>cazione <strong>di</strong> pieno giorno nel paesaggio e la zona buia in primo<br />
piano, che crea la scena seminotturna e l’ambientazione accennata per bagliori che oggi ammiriamo,<br />
quanto l’uso piuttosto anacronistico della gloriola cosi forte e preminente, insieme a una resa del<br />
Bambino invece cosi concreta, tornita e solida, assolutamente <strong>di</strong>versa dai Bambini immateriali ed<br />
estremamente luminosi nei loro incarnati (tanto da farsi essi stessi la fonte reale, e spirituale, della luce<br />
che si <strong>di</strong>ffonde sulla scena) che caratterizzano i <strong>di</strong>pinti fiamminghi <strong>di</strong> fine Quattrocento, sulla scia <strong>di</strong> quelli<br />
<strong>di</strong> un Hugo van der Goes. Di certo, questo presuppone una visione teologica dell’Incarnazione <strong>di</strong> Cristo<br />
<strong>di</strong>versa da quella, piu arcaica, voluta e manifestata nel <strong>di</strong>pinto <strong>di</strong> Granada. L’abito quasi bianco <strong>di</strong><br />
Maria, incorniciato solo ai suoi margini da un mantello scuro che gli fa da cornice, sottolinea con grande<br />
efficacia questo effetto luministico. In esso si ripone implicitamente l’accento che la cultura teologica<br />
della fine del Quattrocento cominciava a sottolineare circa la <strong>di</strong>vinita del Bambino, esplicitata dall’esser<br />
raffigurato egli stesso come fonte <strong>di</strong> luce, ma purtuttavia in combinazione con la modalita tra<strong>di</strong>zionale <strong>di</strong><br />
raffigurazione, che lo interpretava nella sua naturalita umana. Particolare intimita e trasmessa dalla<br />
posizione <strong>di</strong> Gesu, che non e posto in <strong>di</strong>agonale, come usualmente, ma <strong>di</strong>rettamente rivolto verso la<br />
Madre. Nella letteratura critica si e sollevata l’ipotesi che la tavola facesse in origine parte <strong>di</strong> un trittico, le<br />
cui altre parti, tuttavia, non sono mai state rintracciate ne ci sono piu note. In considerazione della<br />
ponderazione labile dell’intera composizione, si potrebbe comunque pensare, se cosi fosse, all’anta <strong>di</strong><br />
sinistra <strong>di</strong> un <strong>di</strong>ttico, che conteneva, nella seconda anta, quella <strong>di</strong> destra, il ritratto <strong>di</strong> uno o piu<br />
committenti. E questo in <strong>di</strong>screta analogia con la scena della Natività che Memling <strong>di</strong>pinse sull’altare dei<br />
Sette Gau<strong>di</strong> <strong>di</strong> Maria, dove subito accanto a essa, a destra, <strong>di</strong>visi soltanto da una sporgenza del muro,<br />
sono posti i due committenti maschili dell’altare, inginocchiati entro un paesaggio. Entrambi danno<br />
l’impressione, attraverso l’apertura procurata nel muro da un’inferriata, <strong>di</strong> essere li in contemplazione<br />
testimoniale della scena <strong>di</strong>vina e rimandano, proprio per questa loro <strong>di</strong>sposizione, al <strong>di</strong>alogo che i pittori<br />
sapevano instaurare compositivamente tra le due ante <strong>di</strong> un <strong>di</strong>ttico oltre le cornici <strong>di</strong>visorie.<br />
ISOLDE LUBBEKE<br />
DEFENDENTE FERRARI<br />
(Chivasso, c. 1480 - post 1540)<br />
Madonna col Bambino<br />
Intorno al 1505-1530.<br />
Tavola, 75 x 48,5 cm.<br />
Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 8.<br />
Nonostante una produzione ampia, in<strong>di</strong>ce <strong>di</strong> un ottimo successo commerciale (il suo catalogo si aggira<br />
attualmente intorno al centinaio <strong>di</strong> numeri), la figura <strong>di</strong> Defendente Ferrari e una riscoperta critica<br />
piuttosto recente. Soltanto nel 1875 Francesco Gamba rendeva noto un documento datato al 21 aprile<br />
1530, dove veniva ricordato un Deffendente de Ferrariis de Clavaxio pinctore in rapporto alla pala<br />
d’altare per l’abbazia <strong>di</strong> Sant’Antonio <strong>di</strong> Ranverso a Buttigliera Alta, nella val <strong>di</strong> Susa. Partendo da<br />
quell’opera sicura (o almeno cosi si spera, poiche il documento oggi e irreperibile), Gamba inauguro la<br />
ricostruzione stilistica del pittore. <strong>La</strong> Madonna col Bambino qui esposta fece la sua comparsa nella<br />
bibliografia agli inizi del XX secolo, quando Santo Monti (1902) la vide nella collezione <strong>di</strong> Vittorio Rovelli a<br />
Como, e la riconobbe come opere del Ferrari. Non sappiamo con precisione quando fu ceduta, ma<br />
intorno al 1930 era gia entrata nella collezione Contini Bonacossi a Firenze. Pervenne infine agli Uffizi con<br />
la donazione <strong>di</strong> parte della raccolta Contini Bonacossi, nel 1969. Nonostante una provenienza<br />
prestigiosa, una collocazione agevole e un unanime riferimento all’artista, la nostra Madonna non ha<br />
goduto <strong>di</strong> molto interesse da parte della critica, tanto che Vittorio Natale poco piu <strong>di</strong> venti anni orsono<br />
poteva ancora accennarne come a una tavola sempre trascurata (V. Natale, in Piemontesi e<br />
lombar<strong>di</strong> 1989, p. 105). <strong>La</strong> causa <strong>di</strong> questa momentanea sfortuna e da in<strong>di</strong>viduare in un’incongrua<br />
datazione al terzo decennio del Cinquecento (Salmi 1967), che <strong>di</strong> fatto relegava la tavola fiorentina al<br />
rango <strong>di</strong> stanca ripetizione <strong>di</strong> modelli devozionali gia messi a punto da Defendente in anni precedenti, e<br />
poi replicati senza alcun brio per far fronte alle richieste della committenza (Natale 1979). Con il passare<br />
degli anni, la datazione del nostro <strong>di</strong>pinto si e fatta sempre piu precoce, risalendo dal 1520-1530 al 1511-<br />
1513 (V. Natale, in Piemontesi e lombar<strong>di</strong> 1989, p. 105), quin<strong>di</strong> fino al 1505 circa (Romano 2002), ovvero<br />
agli esor<strong>di</strong> della carriera del pittore: ricor<strong>di</strong>amo infatti che per incontrare la prima opera datata <strong>di</strong><br />
Defendente occorre attendere il 1509 del San Girolamo della Pinacoteca <strong>di</strong> Brera (C. Spantigati, in<br />
Pinacoteca <strong>di</strong> Brera 1988, pp. 22-23). Cosi arretrata, la Madonna Contini Bonacossi viene a trovarsi nel<br />
pieno della fase giovanile dell’artista, ancora contrassegnata dagli stringenti rapporti stilistici con Martino<br />
Spanzotti. Il confronto si fa poi particolarmente serrato con due opere capitali, ovvero il polittico<br />
sull’altare dei Calzolai nel Duomo <strong>di</strong> Torino e il trittico della Sacra <strong>di</strong> San Michele. In queste due opere il
gruppo della Vergine col Bambino e concepito in maniera del tutto simile, e la qualita della pittura e<br />
particolarmente elevata (tanto che lo stesso Giovanni Romano 1990b, pp. 160-172, pensava che lo<br />
scomparto centrale del trittico <strong>di</strong> San Michele, dall’esecuzione incre<strong>di</strong>bilmente accurata, dovesse<br />
spettare a un geniale artista anonimo poi scomparso improvvisamente). Calata in questa rete <strong>di</strong><br />
confronti, la nostra tavola <strong>di</strong>viene allora testimone <strong>di</strong> una fase sperimentale, nella quale Defendente<br />
me<strong>di</strong>ta con rapi<strong>di</strong>ta gli esempi <strong>di</strong> Spanzotti, mantenendosi a un livello qualitativo che non sempre, in<br />
seguito, riuscira a sostenere. Il modello e la citata pala del Duomo <strong>di</strong> Torino, condotta in collaborazione<br />
tra Spanzotti e Ferrari negli anni 1498-1504 (Romano 1990a, pp. 278-325). <strong>La</strong> critica ha piu volte<br />
evidenziato le suggestioni fiamminghe, per via della resa meticolosa dei dettagli e per certe geometrie<br />
angolose dei panneggi, ma va senza dubbio raccolto il suggerimento <strong>di</strong> P. Manchinu (in Napoleone e il<br />
Piemonte 2005, pp. 202-203), secondo la quale l’idea compositiva deriverebbe da prototipi <strong>di</strong> Durer,<br />
quali la Sacra Famiglia con cinque angeli (Fara 2007, pp. 330-332). Si tratterebbe quin<strong>di</strong> una ripresa<br />
molto rapida, quasi in tempo reale. Il trattamento pittorico raffinatissimo conferisce ai modelli nor<strong>di</strong>ci<br />
un’ine<strong>di</strong>ta eleganza. Il senso <strong>di</strong> intimita familiare che si coglie nelle composizioni <strong>di</strong> Durer e qui sublimato<br />
attraverso la geometria purissima del volto della Vergine, e la cura assoluta nella descrizione delle stoffe<br />
e degli ornamenti. Eppure, il gesto del Bambino che solleva il manto bianco in cerca del seno della<br />
Madre riesce a riscaldare una raffigurazione <strong>di</strong> algida eleganza, dominata dalla sottile malinconia dello<br />
sguardo della Vergine.<br />
MICHELE DANIELI<br />
GIOVANNI FRANCESCO LUTERI detto DOSSO DOSSI<br />
(Tramuschio, Modena c. 1486 - Ferrara c. 1542)<br />
Madonna col Bambino in un paesaggio, detta <strong>La</strong> zingarella<br />
Intorno al 1513-1525.<br />
Tavola, 50 x 34 cm.<br />
Parma, Galleria Nazionale, inv. 395.<br />
<strong>La</strong> Madre, seduta a terra al limitare <strong>di</strong> un bosco, le gambe allungate verso destra, solleva un piccolo<br />
lenzuolo sopra la figura del Bambino che dorme nudo nella culla. <strong>La</strong> luce proviene da sinistra, a<br />
illuminare il gesto <strong>di</strong> tenerezza materna e il Figlio; nell’ombra o penombra del paesaggio verdeggiante<br />
qualche fronda e una chioma vengono macchiati dalla luce, giallo o verde-paglia; verso orizzonte il<br />
cielo e terso, i monti azzurri si sciolgono in una minima foschia. In primo piano, poggiata su un suolo<br />
senz’erba, come un ciglio <strong>di</strong> strada, un sentiero, o una semplice radura, e la culla, bassa, <strong>di</strong> legno, <strong>di</strong><br />
quelle che fino a un secolo fa si trovavano ancora nelle case <strong>di</strong> montagna e campagna, per ninnare i<br />
neonati anche stando in letto e muovendo un piede o una mano. Dossi ci presenta una culla un poco<br />
troppo corta per le <strong>di</strong>mensioni dell’infante, che resta infatti con il capo verticale, a vantaggio<br />
dell’osservatore che puo leggerne il volto frontale e non <strong>di</strong> sguincio, come se la testa fosse appoggiata<br />
a una spalliera (che pare assente) o semplicemente reclinata verso il petto, quasi improvvisamente<br />
addormentatosi nell’atto <strong>di</strong> far altro. Il braccio sinistro e piegato sul ventre, e la mano mostra, a meno<br />
delle abrasioni, tre <strong>di</strong>ta che suggeriscono un gesto bene<strong>di</strong>cente. Avvedutasi dell’assopimento,<br />
prontamente la Madre solleva il lenzuolo come per andare a coprire il Bambino, ma l’atto <strong>di</strong> levarlo in<br />
verticale alle spalle <strong>di</strong> lui, come a toglierlo da sotto il suo corpo, permette al pittore <strong>di</strong> giocare su un<br />
registro piu ampio <strong>di</strong> significati che una semplice copertura: qui il segno e <strong>di</strong> protezione e insieme<br />
ostensione e fatalmente la culla e anche memoria del sepolcro, il sonno e pure quello della morte, il<br />
lenzuolo <strong>di</strong>venta drappo d’onore, sindone e corporale, Gesu e anche gia il Cristo dell’eucaristia. <strong>La</strong><br />
chiave <strong>di</strong> lettura sacramentale-ostensiva (Gibbons 1968, p. 220) poteva derivare al pittore dalla<br />
me<strong>di</strong>tazione <strong>di</strong> una iconografia non estranea all’area padana e ferrarese, che con varianti troviamo<br />
anche in opere del Bergognone, del Maineri, dell’Ortolano, mentre la presenza del paesaggio rende<br />
possibile un altro orientamento per il tema: la fuga in Egitto (Muzzi 1999) o meglio il momento del riposo<br />
durante il viaggio. Fuga che, priva <strong>di</strong> Giuseppe e dell’asino, risulterebbe tuttavia concentrarsi solo su un<br />
brano dell’iconografia tra<strong>di</strong>zionale. Come Riposo durante la fuga in Egitto e interpretato anche un<br />
<strong>di</strong>pinto realizzato in quello stesso giro d’anni dal giovane Correggio, la Madonna col Bambino (tavola,<br />
46,5 x 37,5 cm) conservata a Capo<strong>di</strong>monte: simbolicamente assai piu semplice della nostra opera e<br />
priva <strong>di</strong> un simile paesaggio, pure questa non presenta elementi che riman<strong>di</strong>no alla fuga tra<strong>di</strong>zionale, se<br />
non per il tema del riposo (con la Madonna pure assopita). Anche tale <strong>di</strong>pinto e definito Zingarella, a<br />
motivo dell’abbigliamento, in specie del turbante o fascia che acconcia i capelli, e gia in antico:<br />
nell’inventario manoscritto del 1587 della guardaroba <strong>di</strong> Ranuccio Farnese, a Parma, si legge infatti <strong>di</strong><br />
un ritratto della Madona in habito <strong>di</strong> Cingana <strong>di</strong> mano del Correggio, incornisato <strong>di</strong> noce et cortina <strong>di</strong><br />
cendale verde . Vale la pena rammentare, in questa sede, l’interpretazione che ne <strong>di</strong>ede Federico<br />
Borromeo arcivescovo <strong>di</strong> Milano, nel 1625 nelle pagine del Musaeum: Opera del Correggio e<br />
parimente un altro quadro, popolarmente chiamato la Zingara [...] la bellezza <strong>di</strong> tale lavoro fu
pregiu<strong>di</strong>cata dall’artista stesso col violare le leggi del decoro, attribuendo alla ladruncola egiziana la<br />
figura della Vergine . <strong>La</strong> copia che, nonostante il giu<strong>di</strong>zio morale negativo, il Borromeo volle e porto a<br />
Milano, ispiro artisti lombar<strong>di</strong> quali Fede Galizia e Francesco Cairo. Proprio il copricapo in guisa <strong>di</strong><br />
turbante puo suggerire, nel <strong>di</strong>pinto <strong>di</strong> Correggio e in quello <strong>di</strong> Dosso Dossi, l’idea del viaggio, e verso il<br />
deserto d’Egitto. Nel Riposo durante la fuga in Egitto <strong>di</strong>pinto pochi anni dopo da Dossi, ora agli Uffizi<br />
(tavola, 52 x 42,5 cm), la scena s’arricchisce della figura <strong>di</strong> Giuseppe, la Vergine porta un elaborato<br />
turbante giallo, il Bambino siede sveglio e <strong>di</strong>alogante sulle ginocchia materne, il paesaggio e sempre<br />
vivido, ma, esplicitato il tema e tolto il gesto ostensorio <strong>di</strong> Maria, la sintesi simbolica perde forza rispetto<br />
all’alta concentrazione del nostro. Il turbante, peraltro, e una tipologia <strong>di</strong> copricapo particolarmente<br />
cara all’iconografia del Dossi, e tornera in altre sue figure femminili, vestito da Madonne, maghe,<br />
personaggi classici o delle Scritture; fascinazione esotica ed elemento della moda e del colore. Meno<br />
intensa, la versione del nostro <strong>di</strong>pinto conservata al Detroit Institute of Arts (52,4 x 42,5 cm), dove<br />
l’aggiunta <strong>di</strong> Giuseppe, a sinistra, e della capanna in legno e due colonne corinzie <strong>di</strong>etro la Vergine, pur<br />
mantenendo l’iconografia ostensoria mutano il tema in una Sacra Famiglia nonche Natività, piu leziosa e<br />
forse in parte opera <strong>di</strong> collaboratori, come il fratello Battista Dossi. Alternativamente alle ipotesi<br />
precedenti, e in un senso meno stringente, anche il soggetto dossesco della tavola parmense e stato<br />
letto come una Nativita, senza tuttavia capanna ne altre figure: solo conchiusa nell’intima relazione<br />
della Madre con il suo Bambino, dove il paesaggio, nella sua molteplice valenza naturale, ornamentale,<br />
bucolica e panica, e luogo in cui la <strong>di</strong>vina maternita si manifesta, luogo dell’incarnazione del Dio nel<br />
mondo. Il paesaggio denuncia la me<strong>di</strong>tazione della lezione giorgionesca, con quel senso della natura e<br />
del paesaggio che Giorgione, facendo proprie e portando a conseguenze ulteriori le sollecitazioni <strong>di</strong><br />
Bellini e <strong>di</strong> Cima, e aprendo la via alle poetiche <strong>di</strong> Tiziano e Lotto, rende a suo modo protagonista o<br />
comprimario nello sviluppo semantico della storia rappresentata, non semplice sfondo. Appena fuori<br />
dalle terre venete, a Ferrara, Dossi sembra osservi con profondo interesse quella pittura, riservandovi<br />
un’attenzione anche tecnica per le modalita esecutive degli elementi naturali, e il paesaggio assume un<br />
ruolo <strong>di</strong> grande rilievo, nella sua capacita <strong>di</strong> accogliere gli eventi, dal corso della storia all’immagine del<br />
mito, alla carica <strong>di</strong> mistero che soprattutto alcuni soggetti giorgioneschi (si pensi alla Tempesta) portano<br />
con se. <strong>La</strong> natura nel suo rigoglio d’alberi, spesso antropizzata nelle lontane citta, <strong>di</strong>venta luogo ideale<br />
della manifestazione della pittura, della storia, del mito o anche dell’accadere della fede. Il tutto nel<br />
complesso quadro <strong>di</strong> scambi culturali e confluenza <strong>di</strong> ricerche tra ambiti veneto, emiliano e, mutatis<br />
mutan<strong>di</strong>s, lombardo, con frequenti stimoli dovuti alle incisioni <strong>di</strong> marca tedesca (Durer, Altdorfer). Sotto il<br />
profilo stilistico, anche in questa come in molte opere successive, specie <strong>di</strong> piccole <strong>di</strong>mensioni, si nota la<br />
tendenza del Luteri all’alterazione nelle proporzioni delle figure: qui la lunghezza delle gambe della<br />
Vergine rispetto al busto e alla compressione lineare delle braccia. Una modalita ed espressione <strong>di</strong><br />
poetica che potrebbe non essere estranea all’osservazione della scultura romanica, vista a Ferrara e in<br />
altri centri padani. Il <strong>di</strong>pinto (C. Quagliotti, in Correggio 2008) venne attribuito a Dossi da Roberto Longhi<br />
(1940), con consenso generale, mentre la datazione oscilla tra il 1513-1514 proposto da Peter Humfrey (in<br />
Dosso Dossi 1998) e il 1520-1525 longhiano. Interessante la proposta che l’opera sia stata <strong>di</strong>pinta dopo il<br />
1516, data in cui Tiziano visito Ferrara (Ballarin 1995), per quanto una datazione <strong>di</strong> poco precoce sia pure<br />
plausibile, nella misura in cui Dosso possa aver conosciuto altri <strong>di</strong>pinti veneti a Ferrara e fuori. <strong>La</strong> piccola<br />
tavola appare oggi un poco consunta a seguito dei movimenti del legno, <strong>di</strong> fibratura verticale, ma resta<br />
del tutto leggibile, con parziale per<strong>di</strong>ta del nimbo della Madonna e piccoli ritocchi <strong>di</strong> restauro specie nei<br />
tessuti e nel cielo. Varra segnalare, per l’attenta osservazione dell’opera, anche il dato tecnico<br />
innovativo, la presenza <strong>di</strong> un fondo nero, che gia a occhio nudo ora s’intravede per abrasione sotto il<br />
Bambino e sotto le lenzuola. In un’eta in cui vari pittori sperimentano soluzioni tecniche nuove<br />
(Dunkerton, Spring 1998), pur nel solco <strong>di</strong> tra<strong>di</strong>zioni consolidate, e mentre quasi tutti i colleghi, con<br />
Correggio tra le poche eccezioni, preferiscono <strong>di</strong>pingere su basi chiare, Dossi tenta, in alcune opere, la<br />
via dei fon<strong>di</strong> bui, oltre a quelli <strong>di</strong>versamente colorati. Ossia <strong>di</strong>pinge talora su basi cromatiche scure,<br />
anche nere, stese sopra la consueta preparazione bianca a gesso, con grande anticipo rispetto<br />
all’impiego dei fon<strong>di</strong> scuri che segnera molta pittura del tardo XVI secolo (si pensi anche solo alla pittura<br />
su lavagna) e del XVII secolo, come nel caravaggismo. Entro questa <strong>di</strong>sponibilita sperimentale nel<br />
ricercare soluzioni nuove Luteri adotta anche una modalita sua peculiare nel rendere i filamenti <strong>di</strong> luce,<br />
bianco-gialli, con tratteggi in punta <strong>di</strong> pennello, fili <strong>di</strong> gocce minute: li si legge ancora in questo <strong>di</strong>pinto<br />
nelle frange del lenzuolo che riveste la cuna, e altrove saranno propri dei fili d’erba, dei turbanti, delle<br />
aureole, <strong>di</strong> ogni bordo su cui condensi, quasi rugiada, la luce.<br />
GIANLUCA POLDI<br />
LUCAS CRANACH IL VECCHIO<br />
(Kronach ? 1472 - Weimar 1553)<br />
San Cristoforo<br />
Intorno al 1514.
Tavola <strong>di</strong> tiglio, 85 x 31 cm.<br />
Barcelona, Monasterio de Pedralbas,<br />
collezione Thyssen-Bornemisza, inv. 110b.<br />
Il <strong>di</strong>pinto con un San Cristoforo, <strong>di</strong> formato oblungo, apparteneva in origine a una delle due portelle <strong>di</strong><br />
un Flügelaltar: essa, come la compagna, era come usuale <strong>di</strong>pinta da entrambi i lati. Entrambe furono<br />
spaccate per il lungo e <strong>di</strong>vennero quattro <strong>di</strong> numero, prima <strong>di</strong> finire nelle collezioni Thyssen-Bornemisza. In<br />
origine collocato sul lato feriale della portella <strong>di</strong> sinistra, il San Cristoforo aveva come pendant a destra<br />
un San Giorgio, e costituiva dunque con questo l’aspetto esterno dell’altare, a battenti chiusi. Quando i<br />
battenti venivano aperti, Elisabetta e Anna, le sante protettrici della coppia <strong>di</strong> donatori, inginocchiati e<br />
ritratti <strong>di</strong> tutto punto, affiancavano cosi sulla facies festiva dell’altare, la zona centrale dell’altare a<br />
battenti mobili, sul cui tema iconografico possiamo oggi soltanto speculare, ma che probabilmente<br />
conteneva un’immagine della Vergine in compagnia dei due Bambini, Giovannino e Gesu, cosi come<br />
potrebbero <strong>di</strong>mostrare le varie tavole oggi circolanti sul mercato antiquario, che mostrano tale soluzione<br />
in <strong>di</strong>pinti <strong>di</strong> stretta cerchia cranachiana. I committenti delle portelle Thyssen si identificano senza alcun<br />
dubbio con il duca Georg <strong>di</strong> Sassonia (1471-1539), cugino del principe elettore Federico il Saggio, <strong>di</strong> cui<br />
Cranach era pittore <strong>di</strong> corte, e sua moglie, la figlia del re <strong>di</strong> Polonia Barbara (1478-1534). Dietro a loro,<br />
visibili solo per meta della figura e <strong>di</strong> proporzioni assai maggiori, sono poste le sante: rispettivamente,<br />
Elisabetta e Anna. <strong>La</strong> coppia ducale fu <strong>di</strong>pinta da Cranach il Vecchio nel 1534 una seconda volta, in<br />
una posa assai simile, su un altare, commissionato dallo stesso duca Giorgio <strong>di</strong> Sassonia, allora detto il<br />
barbuto , per la cattedrale <strong>di</strong> Meisen. <strong>La</strong> raffigurazione <strong>di</strong> San Giorgio sul lato feriale dell’altare ha<br />
dunque un <strong>di</strong>retto rapporto con il donatore, che ne con<strong>di</strong>vide il patronimico, mentre la presenza del San<br />
Cristoforo era probabilmente intesa come un piu generico appello al protettore dalla morte repentina.<br />
Entrambi i santi sono ritratti a figura intera contro un fondo nero, in pose che li fanno rivolgere uno verso<br />
l’altro, ma con lo sguardo puntato, invece, verso l’osservatore. Per il resto, le <strong>di</strong>fferenze tra i due sono<br />
marcate e consapevolmente sottolineate: il primo e raffigurato con l’armatura completa del cavaliere<br />
invitto, sotto i cui pie<strong>di</strong> sta il drago ucciso; il secondo e ritratto quale gigante che porta sulle spalle il<br />
piccolo Gesu bene<strong>di</strong>cente. San Cristoforo riempie con la sua figura elegante lo stretto spazio della<br />
tavola, attraversata in <strong>di</strong>agonale dal grande ramo d’albero utilizzato dal gigante come sostegno<br />
nell’attraversamento del fiume. L’abito che indossa e una tunica floscia che arriva appena alle<br />
ginocchia: il suo rosso acceso e identico a quello dell’abitino del Gesu, se non fosse per le lumeggiature<br />
che lo rendono piu chiaro. <strong>La</strong> testa <strong>di</strong> Cristoforo e dunque circondata da panni rossi, anche perche il suo<br />
braccio sinistro e alzato a sostenere con sollecitu<strong>di</strong>ne la schiena del piccolo Dio che si e sistemato sulla<br />
sua spalla sinistra con le gambette <strong>di</strong>stese e unite. <strong>La</strong> luminosita della testa rotonda del <strong>di</strong>vino Bambino,<br />
circondata da finissimi raggi dorati, conclude la raffigurazione anche in senso semantico, mentre il gesto<br />
compiuto da Gesu <strong>di</strong> aggrapparsi ai riccioli castani del suo traghettatore e piu giocoso che funzionale. Il<br />
santo e come il pie<strong>di</strong>stallo <strong>di</strong> quest’ultimo, che nonostante la magnifica veste e la posa, ci appare come<br />
un piccolo bimbo delizioso e intraprendente. L’immagine non intende, infatti, mostrare lo sforzo del<br />
gigante, che secondo la leggenda agiografica caracolla fin quasi a crollare sotto il peso del minuscolo<br />
Dio, cosi come e invece nell’incisione xilografica <strong>di</strong> Cranach stesso del 1506-1509, dove e palese la sua<br />
fatica mentre cerca, quasi arrampicandosi, <strong>di</strong> raggiungere la sponda salvifica. <strong>La</strong> funzione del battente<br />
d’altare richiedeva infatti una posa piu rappresentativa e affermativa; cosi, e soltanto nella parte<br />
inferiore della tavola che viene raccolto un accenno alla narrazione agiografica, laddove le gambe <strong>di</strong><br />
Cristoforo sono per meta immerse nelle, peraltro piuttosto quiete e limpide, acque del fiume. Cranach<br />
rinuncia qui all’arricchimento <strong>di</strong> un paesaggio con la presenza dell’eremita, o <strong>di</strong> un fiume popolato <strong>di</strong><br />
pesci e creature favolistiche, cosi come invece fara in <strong>di</strong>pinti piu tar<strong>di</strong>, dove l’intervento della bottega si<br />
fara assai forte. <strong>La</strong> committenza ducale del Flügelaltar richiedeva inoltre, a parte le indubitabili funzioni<br />
liturgiche, che esso riflettesse le ambizioni e aspettative artistiche piu attuali nelle corti europee piu in<br />
vista: da qui la superba tecnica pittorica impiegata e il riferimento a quelli che erano ritenuti allora i<br />
prototipi piu squisiti della pittura su tavola: i maestri fiamminghi. Non a caso, pochi anni prima,<br />
nell’autunno del 1508, il principe elettore Federico il Saggio aveva, come ci <strong>di</strong>cono le fonti, affidato al<br />
suo pittore <strong>di</strong> corte Cranach il Vecchio incarichi <strong>di</strong>plomatici e artistici proprio nelle Fiandre. Il culto <strong>di</strong> san<br />
Cristoforo si lascia testimoniare gia dal IV secolo presso le chiese occidentali della Cristianita. Secondo la<br />
Legenda Aurea <strong>di</strong> Jacobus da Voragine (c. 1270) il gigante Reprobus (fin qui chiamato anche Offerus),<br />
interessato a servire solo i potenti, poi i re soltanto e infine messosi a servizio del demonio, venne<br />
consigliato da un eremita <strong>di</strong> espiare questa sua condotta mettendosi a traghettare gratuitamente i<br />
pellegrini tra le due sponde <strong>di</strong> un fiume impetuoso. E quando il peso <strong>di</strong> un piccolo bambino gli sembro<br />
cosi insostenibile come quello del mondo intero, cosi si pronuncio il <strong>di</strong>vino Fanciullo: Tu non hai portato<br />
soltanto tutto il mondo sulle tue spalle, ma anche Chi questi mon<strong>di</strong> ha creato. Poiche sappi che io sono<br />
Cristo, il tuo re, che tu servi con questo tuo lavoro . Proprio a questo episo<strong>di</strong>o miracoloso si riferisce<br />
anche il nuovo nome del gigante: Cristoforo. Nel tardo Me<strong>di</strong>oevo, il santo godette <strong>di</strong> un intenso culto, in
quanto egli faceva parte della serie dei quattor<strong>di</strong>ci santi intercessori ed era invocato soprattutto come<br />
protettore contro la morte improvvisa. Guardare una sua immagine avrebbe protetto, cosi si credeva,<br />
per un giorno intero, ed e per tale ragione che vennero create, sulle pareti esterne delle chiese,<br />
immagini a fresco, spesso monumentali, <strong>di</strong> san Cristoforo a uso cultuale dei viaggiatori che passando <strong>di</strong><br />
li, anche da lontano, vi potevano affiggere confidenti lo sguardo e le preghiere. Questa stessa funzione<br />
poteva essere espletata anche dall’immagine del santo sul lato esterno dei battenti <strong>di</strong> un altare <strong>di</strong>pinto.<br />
Sulla scorta della presenza delle Sante Elisabetta e Anna sulle portelle festive, chi scrive (Lubbeke 1991)<br />
ha ipotizzato che come tavola centrale dell’altare <strong>di</strong>pinto da Luca Cranach per la coppia ducale<br />
sassone vi fosse, quale ampliamento della tematica della Sacra Parentela, un’immagine della Madonna<br />
con il Bambino e il san Giovannino, proponendo quale possibile <strong>di</strong>pinto, tra i tanti <strong>di</strong> medesimo soggetto,<br />
la tavola datata 1514 della Certosa del Galluzzo (Firenze). Nel 2004, invece, e stato proposto, in un<br />
catalogo d’asta, un confronto con una Madonna con Gesù e San Giovannino <strong>di</strong> Cranach il Vecchio<br />
allora sul mercato antiquario (Christie’s New York, Important Old Master Paintings 23 gennaio 2004, p. 50,<br />
lotto n. 32), che per <strong>di</strong>sposizione compositiva (con il gra<strong>di</strong>no in pietra alla base) meglio si attaglierebbe<br />
alle pitture delle portelle interne dell’altare. In considerazione del fatto che questa tavola mariana, cosi<br />
come altre sue strette varianti, appare essere piu tarda, rispetto alle ante oggi nelle collezioni Thyssen-<br />
Bornemisza, non e possibile stabilire se proprio la Madonna battuta da Christie’s nel 2004 e non un’altra<br />
similare fosse proprio quella che in origine costituiva l’immagine centrale dell’altare per Giorgio <strong>di</strong><br />
Sassonia.<br />
ISOLDE LUBBEKE<br />
PAOLO CALIARI detto VERONESE<br />
(Verona c. 1528 - Venezia 1588)<br />
Venere e Mercurio presentano a Giove Eros e Anteros<br />
Intorno al 1560.<br />
Olio su tela, 150 x 243 cm.<br />
Firenze, Galleria degli Uffizi,<br />
inv. 1890-9942. Provenienza: Firenze,<br />
collezione Contini Bonacossi.<br />
Paolo Caliari nasce a Verona nel 1528, dove viene iniziato dal padre Gabriele al mestiere dello<br />
scalpellino. Tuttavia il giovane manifesto ben presto precoci doti pittoriche, motivo per cui attorno al<br />
1540 venne messo a bottega da Antonio Ba<strong>di</strong>le, uno dei pittori piu importanti e ra<strong>di</strong>cati nella citta<br />
scaligera. Il suo esor<strong>di</strong>o come pittore autonomo viene convenzionalmente fatto risalire al 1548-1549.<br />
Dopo le prime opere veronesi, l’architetto Michele Sanmicheli ne nota le qualita e lo aggrega ad altri<br />
artisti occupati in alcune importanti imprese decorative <strong>di</strong> ville dell’entroterra veneto, come nel caso<br />
della cosiddetta Soranza nei pressi <strong>di</strong> Castelfranco Veneto (Treviso). Realizzata per il patrizio<br />
veneziano Piero Soranzo tra 1549 e 1551 (Cecchetto 2006, pp. 131-135), entro il 1551 Paolo e alcuni<br />
collaboratori ne eseguono le ricche decorazioni interne, oggi purtroppo per la maggior parte perdute. Il<br />
grande cantiere comunque fu il trampolino <strong>di</strong> lancio verso Venezia, dove il Caliari comincia dallo stesso<br />
anno ad assumere le prime commissioni, dapprima private (Pala Giustinian a San Francesco della Vigna)<br />
e in seguito pubbliche (<strong>di</strong>pinti per il Palazzo Ducale e la Libreria Marciana). All’incirca dal 1555 assume<br />
per la prima volta il toponimo Veronese . Tra il 1559 e il 1561 e impegnato nella decorazione <strong>di</strong> Villa<br />
Barbaro a Maser, universalmente riconosciuta come uno dei suoi capolavori, e pare che il <strong>di</strong>pinto<br />
Venere e Mercurio presentano a Giove Eros e Anteros sia stato eseguito in quegli stessi anni. <strong>La</strong> sua<br />
brillante carriera viene interrotta dalla morte, occorsa forse per le complicazioni <strong>di</strong> una polmonite, il 19<br />
aprile 1588 (Pignatti, Pedrocco 1995, II, doc. 69). <strong>La</strong> tela oggi agli Uffizi e rimasta sconosciuta alla critica<br />
sino al 1939, quando venne acquistata dal conte Contini Bonacossi da una collezione privata inglese e<br />
portata a Firenze. Nello stesso anno il <strong>di</strong>pinto fu esposto a Venezia dal Pallucchini (Pallucchini 1939, pp.<br />
110-112), il quale proponeva <strong>di</strong> riconoscervi uno dei due <strong>di</strong> <strong>di</strong>pinti <strong>di</strong> soggetto mitologico ( due favole <strong>di</strong><br />
Venere ) che Ridolfi ricordava <strong>di</strong> aver visto in casa <strong>di</strong> Giovanni Battista Sanudo (Ridolfi 1648, I, p. 338),<br />
sebbene nella sua descrizione il cronista seicentesco elenchi altre figure che non appaiono nel <strong>di</strong>pinto<br />
fiorentino. Portato in Germania durante la seconda guerra mon<strong>di</strong>ale, venne fatto definitivamente<br />
rientrare in Italia nel 1953 da Rodolfo Siviero (Siviero 1950, p. 26; Agostini 1984, p. 116). Sin dalla sua<br />
riscoperta l’autografia <strong>di</strong> Paolo Veronese non e mai stata messa in <strong>di</strong>scussione, mentre e stato piu vivace<br />
il <strong>di</strong>battito circa la sua datazione. Nel quadro viene raffigurato il momento in cui Mercurio e Venere si<br />
presentano al cospetto <strong>di</strong> Giove per chiedergli la bene<strong>di</strong>zione del figlio Anteros, mentre sono<br />
accompagnati da un vivace Eros, intento a giocare con il manto della dea, sotto al quale si nasconde. Il<br />
<strong>di</strong>pinto ha uno sviluppo orizzontale piuttosto originale, con Giove, seduto sulla sua ara, che non viene<br />
rappresentato a figura intera ma e visibile dalle ginocchia in giu, anche se la sua partecipazione<br />
all’evento si intuisce per la presenza dell’aquila (simbolo del re degli dei). Veronese <strong>di</strong>mostra qui <strong>di</strong> essere
dotato <strong>di</strong> un’inventiva senza pari: Mercurio e Venere alzano la testa verso Giove, cosicche il loro sguardo<br />
costringe lo spettatore a cercare fuoricampo la figura del re degli dei, il cui coinvolgimento <strong>di</strong>retto e<br />
comunque certificato dal gesto del <strong>di</strong>o stesso che punta verso Anteros uno scettro filiforme; un atto che<br />
ne suggella l’accettazione, oltre a creare un gioco <strong>di</strong> riman<strong>di</strong> interni a cui il riguardante e chiamato a<br />
partecipare attivamente. Il tema rappresentato e quello degli aspetti opposti dell’amore, tematica a<br />
sfondo moraleggiante che doveva essere piuttosto in voga nei circoli letterari e filosofici veneziani<br />
dell’epoca (Rearick 1988, p. 96). Anteros rappresenta infatti l’amore coniugale, legittimo e quin<strong>di</strong><br />
positivo, e viene solitamente contrapposto a Eros, che rappresenta invece l’amore come passione<br />
sensuale, o extraconiugale. Potrebbe quin<strong>di</strong> trattarsi <strong>di</strong> un <strong>di</strong>pinto commissionato in occasione <strong>di</strong><br />
un’unione in matrimonio. Precedentemente Paolo si era gia cimentato con simile tematica in un altro<br />
momento: gli affreschi della loggia del primo piano <strong>di</strong> Palazzo Trevisan a Murano nel 1556-1557. Proprio<br />
questa affinita iconografica ha fatto supporre al Rearick che la tela potesse datarsi in un momento<br />
subito successivo a quella commissione (Rearick 1988, p. 97), ipotesi che sembra pero essere smentita da<br />
altri in<strong>di</strong>zi. Gia Marini notava infatti che l’apertura del paesaggio sulla sinistra ripete gli sfon<strong>di</strong> visibili a<br />
Maser (Marini 1968, p. 106), mentre Pignatti sottolineava che il motivo <strong>di</strong> Eros che si nasconde sotto la<br />
veste <strong>di</strong> Venere e <strong>di</strong>rettamente connesso alla figura del san Giovannino nella tela con Sacra Famiglia <strong>di</strong><br />
San Barnaba a Venezia, databile verso il 1560 (Pignatti 1976, p. 123; Pignatti, Pedrocco 1995, p. 240).<br />
Proprio questa circostanza convinceva Pallucchini, in precedenza propenso a collocare il <strong>di</strong>pinto al 1565<br />
(Pallucchini 1939, p. 112), a ritornare sui suoi passi e accettare una datazione intorno al 1560 (Pallucchini<br />
1984, p. 76). A confermare ulteriormente tale datazione si potrebbe aggiungere che il motivo del<br />
bambino che, giocando con un drappo, sembra rimanevi intricato (come si vede nel <strong>di</strong>pinto fiorentino,<br />
dove il braccio destro <strong>di</strong> Eros pare essersi incastrato), e una citazione da una statua <strong>di</strong> Jacopo<br />
Sansovino, la Madonna col Bambino e angeli <strong>di</strong> Palazzo Ducale. Veronese e Sansovino dovettero<br />
incrociare le rispettive carriere per la prima volta nel 1556, durante i lavori <strong>di</strong> decorazione della sala d’oro<br />
della Libreria Marciana. Ma i due si trovarono a lavorare in stretto contatto solo dal 1558-1559, quando<br />
Livio Podocataro commissiono al Sansovino il progetto per la sua tomba in San Sebastiano (Boucher<br />
1990, p. 53), dove Veronese stava sovrintendendo alla progettazione dell’intelaiatura dell’organo e, in<br />
seguito, dell’altare maggiore (Pignatti, Pedrocco 1995, docc. 15-16). Nel progettare le loro opere i due<br />
artisti mostrano <strong>di</strong> aver guardato l’uno all’altro, e <strong>di</strong> questa esperienza e rimasta traccia anche in altri<br />
lavori <strong>di</strong> Veronese tra la fine del sesto e il principio del settimo decennio, come la Sacra Famiglia <strong>di</strong> San<br />
Barnaba e, appunto, la tela con Venere e Mercurio presentano a Giove Eros e Anteros. Nel Department<br />
des Arts Graphiques del Musee du Louvre si conserva un <strong>di</strong>segno a chiaroscuro (inv. 4719) piuttosto finito,<br />
tanto da aver fatto pensare a Rearick che si trattasse <strong>di</strong> un ricordo, che lo stu<strong>di</strong>oso attribuiva al fratello<br />
minore <strong>di</strong> Paolo, Benedetto Caliari (Rearick 1988, p. 96). Oltre a essere <strong>di</strong>fficile assegnargli con certezza<br />
un <strong>di</strong>segno, essendo il suo stile grafico poco noto, in realta uno stu<strong>di</strong>o attento del foglio sembrerebbe<br />
suggerirne un’altra funzione. Potrebbe infatti trattarsi <strong>di</strong> una copia successiva, poiche mostra un fare<br />
meccanico oltre che alcune <strong>di</strong>fferenze rispetto al <strong>di</strong>pinto (Cocke 1984, p. 376, cat. 208): ad esempio non<br />
si ritrova lo scettro <strong>di</strong> Giove, ne il caduceo <strong>di</strong> Mercurio; la stessa posizione del volto <strong>di</strong> questi, oltre alla<br />
fisionomia, e <strong>di</strong>versa rispetto alla tela, mentre Venere e nella medesima posizione, ma nel <strong>di</strong>segno non<br />
tiene la sua collana <strong>di</strong> perle, e anche alcuni dettagli dello sfondo sono assenti. Cio potrebbe significare<br />
che il copista, forse un artista seicentesco, voleva solo riportare il concetto, l’invenzione, ma non era<br />
interessato al significato allegorico del <strong>di</strong>pinto. Ad ogni modo, pur non essendo un prodotto <strong>di</strong> Veronese<br />
o della sua cerchia, il <strong>di</strong>segno certifica il grande favore goduto da quest’opera, una delle piu notevoli<br />
per l’equilibrato ritmo costruttivo, che determina una tessitura cromatica tra le piu splendenti<br />
(Pallucchini 1939, p. 110).<br />
THOMAS DALLA COSTA<br />
ARTE IMPERIALE ROMANA/SCULTORE ROMANO DEL XVI SECOLO<br />
Eros e Anteros<br />
Intorno al I secolo d.C./seconda metà del Cinquecento.<br />
Marmo pentelico (parti antiche) e marmo <strong>di</strong> Carrara (integrazioni cinquecentesche),<br />
altezza 77,5 cm.<br />
New York, collezione privata.<br />
Disperso per piu <strong>di</strong> due secoli, il gruppo <strong>di</strong> Eros e Anteros e il ritrovamento spettacolare <strong>di</strong> un’opera<br />
celeberrima nel Cinque e Seicento, come e testimoniato anche dalle incisioni che da essa furono tratte<br />
e che ulteriormente ne <strong>di</strong>ffusero la fama. Il gruppo fu riprodotto per la prima volta da Giovanni Battista<br />
de Cavalieri (Antiquarum statuarum Urbis Romae, Roma 1594, tav. 65), quando si trovava ancora nella<br />
collezione dell’antiquario romano Fabio Baveri: autore, tra l’altro, <strong>di</strong> una raccolta <strong>di</strong> iscrizioni romane, in<br />
un manoscritto oggi conservato nella Biblioteca Vaticana (Codex Ottoboniano 2970), e proprietario<br />
inoltre <strong>di</strong> una statua della Venere Callipigia, anch’essa incisa da Cavalieri. Il marmo dell’Eros e Anteros
dovette essere acquistato prima del 1636 dal marchese Vincenzo Giustiniani (1564-1637): esso venne<br />
infatti riprodotto nella Galleria Giustiniana all’incirca in quegli anni, se non prima (la data <strong>di</strong><br />
pubblicazione e incerta), con un’incisione <strong>di</strong> Giovanni Valesio (I, tav. 25; per la datazione cfr. Baldriga<br />
2001). Il catalogo si costituisce dunque come terminus ante quem per il passaggio <strong>di</strong> proprieta. Nel 1638,<br />
il gruppo viene descritto per la prima volta nell’inventario del palazzo come Un amorino <strong>di</strong> 3 palmi<br />
incirca che guarda un altro amorino colco in terra (Gallottini 1998, p. 68, n. 10). Siccome in questo caso<br />
il marmo inventariato non era specificamente descritto come antico oppure restaurato , Elizabeth<br />
Cropper ha concluso che si trattasse <strong>di</strong> un’opera moderna, commissionata dal marchese Giustiniani<br />
(Cropper 1992, pp. 116-117). Questo drastico giu<strong>di</strong>zio fu probabilmente favorito anche dall’osservazione<br />
della stessa stu<strong>di</strong>osa che la statua registrata nel documento fosse altrettanto concettosa del Cupido<br />
dormiente <strong>di</strong> Caravaggio (Cropper 1991, p. 200). Tuttavia, come rivela l’originale oggi ritrovato, la quasi<br />
totalita <strong>di</strong> entrambe le figure del gruppo marmoreo e in effetti antica, e in buono stato, mentre <strong>di</strong><br />
concettoso resta solamente la combinazione <strong>di</strong> due frammenti romani sicuramente provenienti da<br />
contesti originali <strong>di</strong>versi. Assolutamente notevole e il fatto che i corpi <strong>di</strong> tutte e due le figure siano per la<br />
maggior parte perfettamente intatti, mentre solo le braccia e parte dei pie<strong>di</strong> vennero scolpiti nel<br />
Cinquecento. L’iconografia insolita del gruppo mostra Cupido che camminando si arresta<br />
improvvisamente per lo spavento <strong>di</strong> aver trovato una versione piu piccola e dormiente <strong>di</strong> se medesimo.<br />
Lo sdoppiamento della figura e fortemente ispirato a un soggetto, quello <strong>di</strong> Eros e Anteros, assai<br />
popolare nella poesia del Rinascimento, quando esso venne infatti interpretato rigorosamente nel senso<br />
della duplicita intrinseca alla natura stessa dell’amore, nelle sue componenti <strong>di</strong>vina e terrena, desunta<br />
dal Symposion <strong>di</strong> Platone (Comboni 2000; Full 2008). Esemplare <strong>di</strong> questa visione dualistica e il sonetto del<br />
mantovano Paride Ceresara (1466-1532), che nelle sue quartine descrive l’Amor celeste e nelle terzine<br />
invece l’Amor terreno: Gia contemplando in alto I’ vedo Amore / Nel ciel fra gli altri dei lucido e chiaro,<br />
/ Dolce piatoso, stabile e preclaro, / Con duo belli occhi e pien d’ogni valore. // Non arco e strali in man,<br />
ma <strong>di</strong> colore / Celeste un lauro tien e quell si caro / Porge ad ognun, perch’e <strong>di</strong> nulla avaro, / Sol lui<br />
mirando e il suo <strong>di</strong>vin splendore. // Poi mi rivolgo, e vedo sparsa in terra / Qua l’ombra sua, da lui tutta<br />
<strong>di</strong>versa, / Chiamata Amor, pallida, armata e cieca. / Alora (sento <strong>di</strong>r) il se <strong>di</strong>sserra / Dal cor un fumo e<br />
agli occhi s’atraversa, / Ch’in cotal mod oil veder nostro acieca (citato da Comboni 2000, p. 10). Per<br />
molti osservatori del Cinquecento il Cupido stante che si accosta sollevando le braccia per la sorpresa<br />
sara quin<strong>di</strong> stato da interpretare come l’Amor celeste (privo <strong>di</strong> armi come nel sonetto <strong>di</strong> Paride<br />
Ceresara) che, con sgomento e paura, scopre d’un tratto il proprio fratello terreno, con le orbite aperte<br />
ma come cieche, rapito in un’espressione ambigua che e forse sonno, forse anche per<strong>di</strong>ta <strong>di</strong> visione (il<br />
cieco amore sensuale, insensibile ai richiami della ragione), che sta ancora aggrappato al suo<br />
pericoloso arco, tenuto saldamente con la sinistra. Il titolo della precedente incisione dell’opera, fatta da<br />
Giovanni Battista de Cavalieri quando essa era ancora <strong>di</strong> proprieta <strong>di</strong> Fabio Baveri ( Castor et Pollux Pro<br />
meretriculae Voto successio Amatorum ), sostituisce invece i due amorini con la coppia dei mitologici<br />
gemelli, e propone del soggetto una lettura <strong>di</strong>versa, ironica e anzi persino irridente: la scena dello<br />
scoprimento del fratello piu giovane da parte <strong>di</strong> quello piu maturo conduce cosi il pensiero verso il tema<br />
gioioso, lascivo e spensierato della successione ciclica <strong>di</strong> amori <strong>di</strong>versi e postribolari. L’interpretazione e<br />
antitetica rispetto a quella prevalente del contrasto tra amore celeste e terrestre: che e anche, con piu<br />
probabilita, quella raffigurata nel marmo Giustiniani. Il piccolo cupido dormiente fa parte <strong>di</strong> una<br />
tipologia molto frequente in epoca ellenistica e romana, e assai celebrata nel Rinascimento, che<br />
annovera, tra gli esempi piu famosi, anche il celebre e perduto marmo contraffatto da Michelangelo,<br />
stando alle testimonianze delle fonti (Giovinezza <strong>di</strong> Michelangelo 1999, pp. 315-323). Dato pero che<br />
Vincenzo Giustiniani fu uno dei principali committenti <strong>di</strong> Caravaggio a Roma, ci si chiede se proprio<br />
questo putto del gruppo antico <strong>di</strong> Eros ed Anteros, sicuramente tenuto in gran conto nella raccolta del<br />
marchese, sia stato presente nella mente del pittore quando <strong>di</strong>pinse il suo Cupido dormiente a Malta per<br />
Francesco dell’Antella (Firenze, Galleria Palatina; e quanto suggerito da Cropper 1991, con la<br />
successione delle immagini che illustrano il suo saggio). Ma va osservato anche come, dal polo opposto<br />
dello spettro stilistico della pittura romana <strong>di</strong> inizio Seicento, Giovanni Baglione, nel Trionfo dell’amor<br />
<strong>di</strong>vino (1602, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica, Palazzo Barberini, e Berlino, Gemaldegalerie), pote<br />
trarne ispirazione, e in maniera perfino iconograficamente piu prossima, dato che l’artista sceglie <strong>di</strong><br />
raffigurare l’amor <strong>di</strong>vino in pie<strong>di</strong> sopra l’amor profano che giace in terra, in una composizione, si,<br />
moderna , ma affatto simile a quella del marmo Giustiniani.<br />
ANDREA CIARONI<br />
ANTONIO GIOVANNI BATTISTA CARMINATI<br />
(Brembate <strong>di</strong> Sotto, Bergamo 2 giugno 1859 - Milano 11 maggio 1908)<br />
<strong>La</strong>voro notturno<br />
Intorno al 1891.<br />
Bronzo, 85 x 74 x 71 cm.
Ravenna, collezione Molino Spadoni.<br />
Si tratta <strong>di</strong> una delle versioni che lo scultore Antonio Carminati (Vicario 1994; Panzetta 2003) esegui su<br />
questo tema doloroso e molto urgente nella societa post risorgimentale italiana: lo sfruttamento<br />
impietoso del lavoro minorile. Un fanciulletto, che indossa soltanto un paio <strong>di</strong> sdruciti pantaloni e<br />
pantofole piu gran<strong>di</strong> dei suoi snelli pie<strong>di</strong>, si accascia su un grande sacco <strong>di</strong> farina: la testa penzoloni,<br />
chiude gli occhi, forse senza neppure volerlo, mentre un sonno pesante cade sul corpo magro, sfinito dal<br />
lavoro come garzone <strong>di</strong> un panettiere nelle interminabili notti <strong>di</strong> una citta addormentata e buia. <strong>La</strong><br />
posizione del corpo abbandonato a un sonno improvviso e <strong>di</strong> un verismo attento e sicuro, ma e nello<br />
stesso tempo resa piu aggraziata dalla posa composta delle mani raccolte sul grembo, e anche delle<br />
gambe che, pur leggermente <strong>di</strong>scoste una dall’altra, non lasciano che il corpo si sbrachi<br />
scompostamente, ma invece rimanga assestato in un blocco quadrangolare <strong>di</strong> salda compostezza<br />
classica . In questo vi leggo un rispetto asciutto e perorativo per l’innocenza <strong>di</strong> quel legittimo sonno,<br />
la carezza <strong>di</strong> uno sguardo che prima <strong>di</strong> in<strong>di</strong>gnarsi resta a contemplare quel misto <strong>di</strong> miseria oggettiva e<br />
creaturalita delicata che vi si sprigiona attorno. In certi dettagli Carminati ricerca una resa oggettiva<br />
della materia plastica: intenerita e sguisciante sul tronco nudo del ragazzino, la cui pelle giovane risulta<br />
tesa e fresca nonostante lo stato <strong>di</strong> prostrazione; delicata nel viso chiuso, con leggere rughe <strong>di</strong> sofferta<br />
tensione sulla fronte tesa e il labbro superiore a sporgere maggiormente per il peso della testa in giu. I<br />
capelli, invece, cosi come la fibra dei pantaloni sono resi con piu sintesi, quasi a voler guidare<br />
l’attenzione del riguardante non tanto su tali dettagli, ma sul complesso della soluzione compositiva, che<br />
pare auscultare ogni onda del flebile respiro del ragazzo, sostenuto dal volume pieno ed elastico del<br />
sacco <strong>di</strong> farina nella solitu<strong>di</strong>ne e nell’in<strong>di</strong>fferenza della Milano notturna. <strong>La</strong> collezione del Molino Spadoni<br />
ha acquistato il bronzo in anni recenti, a memoria <strong>di</strong> un tempo ormai trascorso ma ancora impresso nella<br />
memoria dei suoi avi e della gente del ravennate, denso <strong>di</strong> fatiche, sofferenze e irrisolte questioni sociali,<br />
tuttavia legato in<strong>di</strong>ssolubilmente anche al tema del nutrimento e del grano. Esso proveniva dalla Galleria<br />
Gomiero (Padova e Milano), che a sua volta lo aveva acquisito dalle prestigiose (ma <strong>di</strong>venute nel<br />
tempo anche polverose e abbandonate) collezioni <strong>di</strong> Guido Marangoni. Un altro esemplare bronzeo,<br />
sempre firmato sul foglio <strong>di</strong>steso a meta sul lato sinistro della sottile base della scultura ( A. Carminati,<br />
Milano, 1891 ), fu acquistato invece nel 1909 dalla Galleria d’Arte Moderna <strong>di</strong> Milano e come tale e<br />
stato oggetto <strong>di</strong> un’attenzione migliore <strong>di</strong> questo, per nulla inferiore, esposto alla mostra illegiana<br />
(bronzo, 95 cm: Marangoni 1922, fig. p. 81; Nicodemi, Bezzola 1938, p. 73, n. 197 [inv. antico 596], fig. p.<br />
72 con bibliografia precedente; De Micheli 1992, pp. 280-302: 296, fig. p. 294, 323). Guido Marangoni<br />
(1872-1941), senatore socialista, fondatore della Biennale <strong>di</strong> Monza, della rivista <strong>La</strong> Casa Bella , critico<br />
d’arte, estensore <strong>di</strong> numerose pubblicazioni, autore dell’Enciclope<strong>di</strong>a delle Moderne Arti Decorative,<br />
aveva riunito nella casa sua e del fratello Cesare un’importante collezione d’arte, frutto <strong>di</strong> decenni <strong>di</strong><br />
acquisti e <strong>di</strong> omaggi riconoscenti. Le frequentazioni continue <strong>di</strong> pittori e scultori sono documentate<br />
nell’archivio degli ere<strong>di</strong> (oggi inaccessibile), mentre tutto il patrimonio d’arte e andato <strong>di</strong>sperso sul<br />
mercato antiquario, come <strong>di</strong>mostra anche il bronzo Spadoni. Per quanto riguarda la produzione<br />
scultorea, nelle abitazioni milanesi dei Marangoni, sparse in ogni stanza e collocate su basamenti e<br />
colonne <strong>di</strong> Gianotti (l’arredamento <strong>di</strong> casa comprendeva mobili <strong>di</strong> Gianotti e <strong>di</strong> Bugatti), <strong>di</strong> sculture ve<br />
n’erano <strong>di</strong> innumerevoli e rispecchiavano il gusto dell’influente personaggio. Sculture in gesso, bronzo e<br />
marmo <strong>di</strong> Gaetano Monti, Raffaele Uccella, Antonio Dal Zotto, Luigi Secchi, Giuseppe Gran<strong>di</strong>, Francesco<br />
Penna, Eugenio Pellini, Ercole Villa, il nostro Carminati, Leonardo Bistolfi, Attilio Prendoni, Ernesto Bazzaro,<br />
Achille Alberti, Achille d’Orsi, Giovanni Nicolini, e altre a noi piu vicine come quelle <strong>di</strong> Filippo Cifariello,<br />
Arrigo Minerbi, Paolo Troubetzkoy, Rembrandt Bugatti, Adolfo Wildt e Duilio Cambellotti rivelano la<br />
passione che Marangoni aveva verso gli artisti che pre<strong>di</strong>ligeva e sosteneva anche come committente.<br />
Di alcuni <strong>di</strong> questi il critico, che fu anche sovrintendente della Galleria d’Arte Moderna <strong>di</strong> Milano,<br />
compilo monografie, rapi<strong>di</strong> saggi e particolareggiati profili. Non cosi del Carminati, <strong>di</strong> cui tuttavia, con<br />
intuito fulmineo e sicuro, aveva intuito le gran<strong>di</strong> doti espressive e tecniche, aggiu<strong>di</strong>candosi subito questa<br />
copia del bronzo del <strong>La</strong>voro notturno, creato in occasione della Triennale <strong>di</strong> Milano nel 1891. Carminati<br />
era nato da una famiglia <strong>di</strong> lavoratori della pietra, e all’Accademia <strong>di</strong> Brera fu allievo <strong>di</strong> Butti e Odoardo<br />
Tabacchi. Volle pero trasferirsi per qualche tempo prima a Torino, poi a Roma, per perfezionarsi sotto la<br />
guida <strong>di</strong> Giulio Monteverde. Approfon<strong>di</strong>sce con grande concentrazione e impegno le <strong>di</strong>verse tecniche<br />
plastiche: marmo, pietra, gesso, la fusione in bronzo. Quando torno a Milano, nel 1889, aveva una<br />
trentina d’anni e, per carattere e convinzioni, permeate <strong>di</strong> quel socialismo umanitario con<strong>di</strong>viso da tutto<br />
l’entourage dei piu dotati scultori realisti - dal precursore Achille d’Orsi (Proximus tuus, 1880) a<br />
Vincenzo Vela (Le vittime del lavoro, 1883) ed Enrico Butti (Il minatore, 1988), da Riccardo Ripamonti<br />
(Errore giu<strong>di</strong>ziario, 1891) e Domenico Ghidoni (Emigranti, Brescia 1891; Monumento a Tito Speri, Brescia<br />
1888) -, dopo aver preso casa in via Statuto e bottega in via Alessandro Volta si getta subito in una<br />
produzione <strong>di</strong> fede realista, non <strong>di</strong>sdegnando anche collaborazioni con altri suoi compagni <strong>di</strong> strada e <strong>di</strong><br />
fede socialista. Ne e esempio il verismo patetico che caratterizza il San Luigi Gonzaga che soccorre un
appestato, del 1891, il medesimo anno del <strong>La</strong>voro notturno e anno in cui la Triennale <strong>di</strong> Milano getta le<br />
basi <strong>di</strong> un vero e proprio riconoscimento ufficiale del movimento stilistico del realismo sociale, ispirato da<br />
un impulso <strong>di</strong> denuncia, accorata e insieme <strong>di</strong>gnitosa e ar<strong>di</strong>ta, della situazione intollerabilmente pesante<br />
in cui erano state abbandonate, per l’indeflettibile conservatorismo e burocrazia delle classi <strong>di</strong>rigenti, le<br />
parti piu esposte e deboli societa italiana appena costituitasi: operai e conta<strong>di</strong>ni (De Micheli 1992, pp.<br />
294-295), ridotti spesso (al Sud) letteralmente alla fame. L’esasperazione per una richiesta <strong>di</strong> giustizia<br />
sociale che rimaneva inascoltata da parte della monarchia (e che lasciava priva <strong>di</strong> protezione l’infanzia<br />
dei tanti figli delle classi ultime) sfocera a Milano nei sanguinosi fatti del maggio 1898 e nel loro tragico<br />
seguito <strong>di</strong> durissima repressione che ne insanguino le strade e ne feri a lungo le coscienze. Nel 1902<br />
Carminati e membro della commissione che deve occuparsi della risistemazione della facciata del<br />
Duomo <strong>di</strong> Milano. Nel 1903 partecipa alla Biennale <strong>di</strong> Venezia (e a quella del 1907), dove espone il<br />
gran<strong>di</strong>oso gruppo marmoreo Resurrexit, una delle opere piu rappresentative della breve parabola <strong>di</strong><br />
questo artista lombardo. Nel 1908 egli muore all’improvviso a soli quarantanove anni, mentre era<br />
impegnato a realizzare un monumento a Giuseppe Ver<strong>di</strong> per la piazza Buonarroti, frutto della vincita <strong>di</strong><br />
un concorso pubblico a Milano nel 1906, e che fu poi terminato, variandolo, da Enrico Butti. Erano gli<br />
anni, come ricorda Franco Tettamanti in un necrologio <strong>di</strong> questo artista d’eccellente talento (s.d.), in cui<br />
a Milano l’Azienda delle case popolari municipalizzate si trasforma in quell’Istituto delle case popolari ed<br />
economiche che iniziera a costruire il primo dei quartieri popolari, quello <strong>di</strong> Niguarda; in cui Rita Tonoli<br />
fondo la Piccola Opera per la salvezza del fanciullo e la Comerio Film realizzava la prima trasposizione<br />
cinematografica dei Promessi sposi. Sarebbe auspicabile uno stu<strong>di</strong>o piu accurato <strong>di</strong> tutta la pur esigua<br />
produzione <strong>di</strong> Carminati, tra cui va ricordato, ad esempio, anche il Ritratto della moglie (oggi a Venezia,<br />
Ca Pesaro), <strong>di</strong> dolce espressione e squisita fattura, in modo da poterne valutare con piu correttezza<br />
critica il suo posto, che <strong>di</strong> certo e assai alto, accanto ai piu gran<strong>di</strong> scultori della corrente del realismo<br />
sociale lombardo e italiano tout court.<br />
SERENELLA CASTRI