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Psicologia delle Arti

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Aesthetica Preprint<br />

Supplementa<br />

<strong>Psicologia</strong> <strong>delle</strong> <strong>Arti</strong><br />

di Lucia Pizzo Russo<br />

Sped. in a.p. art. 2 comma 20/c legge 662/96 – Filiale di Palermo<br />

Centro Internazionale Studi di Estetica


Aesthetica Preprint ©<br />

Supplementa<br />

è la collana editoriale pubblicata dal Centro Internazionale Studi di Estetica<br />

a integrazione del periodico Aesthetica Preprint © . Viene inviata agli studiosi<br />

im pegnati nelle problematiche estetiche, ai repertori bibliografici, alle<br />

maggiori biblioteche e istituzioni di cultura umanistica italiane e straniere.<br />

Il Centro Internazionale Studi di Estetica<br />

è un Istituto di Alta Cultura costituito nel novembre del 1980 da un gruppo<br />

di studiosi di Estetica. Con d.p.r. del 7 gennaio 1990 è stato riconosciuto Ente<br />

Morale. Attivo nei campi della ricerca scientifica e della promozione culturale,<br />

organizza regolarmente Convegni, Seminari, Giornate di Studio, Incontri, Tavole<br />

rotonde, Conferenze; cura la collana editoriale Aesthetica © e pubblica il periodico<br />

Aesthetica Preprint © con i suoi Supplementa. Ha sede presso l’Università<br />

degli Studi di Palermo ed è presieduto fin dalla sua fondazione da Luigi Russo.


Aesthetica Preprint<br />

Supplementa<br />

31<br />

Settembre 2015<br />

Centro Internazionale Studi di Estetica


Lucia Pizzo Russo, 1942-2014


Lucia Pizzo Russo<br />

<strong>Psicologia</strong> <strong>delle</strong> <strong>Arti</strong><br />

a cura di Luigi Russo<br />

Nell’anniversario della scomparsa di Lucia Pizzo Russo (12 settembre 2014) sono<br />

qui raccolti in volume i suoi ultimi saggi (2005-2014) pubblicati in varie sedi.


Indice<br />

Media e processi cognitivi 7<br />

La psicologia ovvero la negazione del senso comune 17<br />

Percezione e immagine nella rappresentazione artistica 31<br />

Al di qua dell’immagine 59<br />

Percezione e immagine 87<br />

Da Schiller ad Arnheim: educazione e arte 117<br />

Rudolf Arnheim e la formazione dell’uomo 141<br />

Rudolf Arnheim e la logica dell’immagine 183<br />

La stupidità dei sensi<br />

Sulla filosofia dell’arte di Arthur C. Danto 197<br />

Arte ed emozione 245<br />

Espressione: empatia o percezione? 267<br />

Contro la neuroestetica 279<br />

Educazione estetica nel ventunesimo secolo? 331<br />

L’immagine dell’immagine 343<br />

Appendice<br />

Una vita contro. Conversazione con Lucia Pizzo Russo<br />

di Tiziana Andina e Carmelo Calì 355<br />

Appendice biobibliografica 365<br />

Indice dei nomi 373


Media e processi cognitivi *<br />

I media, guardati dalla prospettiva psicologica di Arnheim, rimandano<br />

al “concetto rappresentativo”. Le rappresentazioni sono “concetti”<br />

che chiunque può esperire: concetti incorporati in un determinato<br />

medium. Dovrei iniziare presentandovi oggetti diversissimi tra loro,<br />

realizzati in contesti spaziali e temporali anch’essi diversi, che, nondimeno,<br />

significhiamo col termine arte: pitture, disegni, pezzi musicali,<br />

poesie, pièces teatrali, opere architettoniche, romanzi, sculture, ecc.<br />

Concetti che probabilmente evocano esemplari “canonici” (per esempio<br />

la pittura su tela è più prototipica di un’opera della Land art, e<br />

una tela di Raffaello lo è di più di una tela di Lucio Fontana) ma che<br />

vanno intesi nella loro estensione. Arnheim, piuttosto che chiedersi<br />

“cos’è l’arte” – l’annosa domanda sull’essenza ha ossessionato la tarda<br />

modernità – individua nelle qualità espressive la caratteristica che<br />

que ste rappresentazioni hanno in comune, non come qualità distintiva<br />

re lativamente agli oggetti naturali, bensì limitatamente ad altre rappresentazioni<br />

pur quando utilizzino gli stessi media: l’uso che <strong>delle</strong> parole<br />

fa il poeta non è lo stesso che ne fa lo scienziato. La diversità <strong>delle</strong><br />

arti è data dai media: una pittura è fatta di linee e colori, una poesia<br />

di parole. È il tema del Laocoonte di Lessing e del Nuovo Laocoonte<br />

di Arnheim. I vari media hanno quindi caratteristiche differenti, e le<br />

rappresentazioni, dal punto di vista della fruizione, impongono restrizioni<br />

sensoriali che non si danno nell’esperienza diretta, ecologicamente<br />

in tesa. Così, ad esempio, l’assolutezza dell’occhio per l’arte visiva,<br />

è un artificio culturale dal momento che «i nostri occhi non sono un<br />

meccanismo che funzioni indipendentemente dal resto del corpo; ma<br />

lavorano in costante collaborazione con gli altri organi sensori» 1 . Ed<br />

è dalla differenza tra mondo e immagini del mondo, tra realtà e rappresentazione<br />

che si originano le possibilità artistiche dei vari media.<br />

* Pubblicato in L. Pizzo Russo (a cura di), Rudolf Arnheim. Arte e percezione visiva,<br />

“Aesthetica Preprint Supplementa”, 14 (2005), pp. 15-24, che raccoglie relazioni e<br />

interventi presentati nell’omonimo Seminario promosso dal Centro In ter na zionale Studi<br />

di Estetica in collaborazione con l’Università degli Studi di Palermo e la Società Italiana<br />

d’Estetica (Palermo, 19-20 novembre 2004), nel centenario della nascita di Rudolf<br />

Arnheim e nel cinquantenario della pubblicazione di Arte e percezione visiva.<br />

7


Con siderate dal punto di vista della psicologia, le arti pongono il problema<br />

di come deve essere teorizzata la mente o i processi cognitivi per<br />

rendere conto della loro produzione e della loro fruizione, del soggetto<br />

che li produce e del soggetto che li esperisce. È questo il progetto in<br />

nuce di Arte e percezione visiva.<br />

«Un primo tentativo di scrivere questo libro risale agli anni 1941-<br />

43 quando ebbi ad ottenere un sussidio dalla Fondazione John Simon<br />

Guggenheim per questo fine» 2 . Il fine dichiarato era quello di applicare,<br />

o, meglio, di utilizzare i principî della Gestalt per l’analisi dell’arte<br />

visiva: non più i nuovi media, ma media artisticamente consolidati. Si<br />

sa, il progetto non venne portato a termine, e passarono dieci anni<br />

prima che venisse ripreso. Come mai? In fondo i gestaltisti avevano<br />

spesso esemplificato i loro principî proprio con l’arte. Chi non ricorda,<br />

poi, che l’esempio fondativo, nel famoso saggio di von Ehrenfels, è<br />

una melodia? Per Arnheim – e il rilievo è del 1943 – «non è fortuito<br />

che un prodotto dell’arte, una melodia, è stato utilizzato come il primo<br />

esempio di un tutto», la cui struttura non è spiegabile con le qualità<br />

dei singoli elementi 3 . Dove stava, allora, la difficoltà? «Durante<br />

il lavoro dovevo convincermi – confessa Arnheim – che gli strumenti<br />

a quel tempo disponibili nel campo della psicologia della percezione<br />

non erano sufficienti per trattare alcuni dei piú importanti problemi<br />

visivi riguardanti le arti. Perciò, anziché scrivere il libro, intrapresi una<br />

serie di studi particolareggiati, specialmente nei settori riguardanti spazio,<br />

espressione e movimento, che dovevano permettermi di colmare<br />

alcune lacune» 4 .<br />

Se esaminiamo i lavori pubblicati prima della ripresa del progetto,<br />

grazie, la seconda volta, a una borsa di studio della Fondazione<br />

Rochefeller, vi troviamo questo, ma non solo. Ordine del giorno per la<br />

psicologia dell’arte pubblicato nel 1952 – possiamo considerarlo uno<br />

spartiacque tra la stesura di Arte e percezione visiva e i lavori precedenti<br />

– mentre elenca le urgenze da affrontare per rispondere adeguatamente<br />

alla sfida che l’arte e le teorie dell’arte pongono alla psicologia,<br />

lascia intravedere i punti fermi conquistati e l’organizzazione che nel<br />

volume in cantiere ne verrà data. Dico l’arte e le teorie dell’arte, non<br />

solo l’arte. Arnheim, in effetti, tiene presente che gli oggetti artistici<br />

sono artefatti culturali complessi. Fatti dall’uomo per l’uomo in vista<br />

di uno scopo, da una parte sono oggetti tra gli oggetti del mondo,<br />

dall’altra sono immagini o rappresentazioni o interpretazioni del mondo.<br />

Ma intanto perché l’arte e perché nello specifico l’arte visiva? La<br />

domanda di psicologia che viene dal mondo dell’arte – «gli storici e<br />

i teorici dell’arte devono riferirsi costantemente ai principî della percezione<br />

e della motivazione» 5 – potrebbe essere un motivo sufficiente.<br />

Ma che l’arte – e i prodotti artistici, siano essi pittura, scultura, musica,<br />

danza, poesia o altro, sono oggetti fatti solo per la percezione – offra<br />

8


«il miglior materiale per l’analisi <strong>delle</strong> forme complesse», è una risposta<br />

alla prima domanda più adeguata, solo che si rifletta sull’importanza<br />

anche epistemica data dai gestaltisti alla percezione e, se, come Arnheim,<br />

si ritiene che la mente non può essere meno complessa <strong>delle</strong><br />

sue creazioni 6 .<br />

La pittura, poi, «sembra ideale per portare la psicologia al di là<br />

del punto morto dell’empirismo, perché al pittore non serve affatto<br />

andargli a raccontare che l’effetto tridimensionale è fondato sull’esperienza<br />

passata» 7 . Questo pensiero di Arnheim sulla pittura – la cui<br />

specificità mediale va ovviamente considerata – per l’emblematicità che<br />

caratterizza il mezzo pittorico, può funzionare da risposta alla seconda<br />

domanda. La pittura, che nella modernità si era andata configurando<br />

co me prototipica <strong>delle</strong> arti, e che nel Novecento aveva avviato le rotture<br />

più radicali rispetto alla tradizione, è, infatti, da tempo l’avamposto<br />

della riflessione sull’arte in generale. Situazione, questa, che ha<br />

potenziato la complessità inerente all’oggetto artistico in quanto tale 8 .<br />

Né va dimenticato, per quanto riguarda il plesso problematico sensiintelletto,<br />

che nella ricerca psicologica, la percezione visiva, quella più<br />

studiata, a lungo è stata considerata “percezione pittorica”, a partire<br />

dall’analogia immagine-dipinta e immagine-della-retina.<br />

L’arte di Arte e percezione visiva è, quindi, la pittura e, contemporaneamente,<br />

l’arte in generale, non solo perché le altre arti, quelle<br />

visive e quelle non visive, sia pure in misura minore, sono egualmente<br />

presenti, ma perché le problematiche, relative ai processi cognitivi del<br />

fare e fruire arte, sono comuni a tutte le arti. Perché, diversamente,<br />

la musica o la poesia, arti, certo, non fruibili tramite la percezione<br />

visiva? La percezione poi, anche quando viene illustrata con materiale<br />

grafico, non è intesa come pittorica, dal momento che vengono tenute<br />

presenti e sottolineate le differenze tra mondo e rappresentazione,<br />

tra percezione ecologica e percezione <strong>delle</strong> arti. Insomma, in Arte e<br />

percezione visiva la messa a fuoco precedentemente utilizzata cambia.<br />

Se nei due libri precedenti, quello sul cinema e quello sulla radio,<br />

Arnheim partiva «da un’analisi <strong>delle</strong> condizioni materiali cercando di<br />

descrivere, con i mezzi che offre la psicologia, le caratteristiche degli<br />

stimoli sensori di cui si serve l’arte in questione per dedurne, infine, le<br />

possibilità espressive» 9 , adesso l’obiettivo, puntato sempre sulle arti,<br />

è soprattutto finalizzato alla comprensione dei processi cognitivi in<br />

gioco nella produzione e nella fruizione <strong>delle</strong> stesse. Arnheim non è<br />

più un critico militante pur interessato ai principî, né un teorico <strong>delle</strong><br />

arti, ma si con sidera uno psicologo 10 .<br />

Perció l’intento programmatico dell’Ordine del giorno è fortemente<br />

polemico nei confronti di una psicologia che sacrifica il senso della<br />

ricerca all’«esigenza tirannica dell’esattezza quantitativa» 11 , mentre la<br />

psicologia della Gestalt, trapiantata in un ambiente che si è rivelato<br />

9


efrattario, rischia l’estinzione per morte naturale. Chi conosce il fatto<br />

che Freud affida ai suoi lavori sull’arte il compito di spezzare l’isolamento<br />

iniziale della psicanalisi, non può sottrarsi alla suggestione che<br />

un simile pensiero sia balenato anche nella mente di Arnheim, lettore<br />

appassionato di Freud e critico intelligente della psicanalisi. Certo è<br />

che Arte e percezione visiva diventa un best seller, la cui fortuna non<br />

accenna a diminuire dopo cinquant’anni, ma non per gli psicologi, dai<br />

quali Arnheim o è ignorato o, limitatamente al settore di ricerca sul<br />

disegno infantile, quando viene preso in considerazione, più spesso<br />

che no, è frainteso.<br />

«Prendiamo ora il problema della percezione visiva. Non è stato<br />

compiuto alcun tentativo sistematico di applicare i principî dell’organizzazione<br />

visiva alle arti, e di portare, in tal modo, la teoria strutturale<br />

oltre il punto a cui Max Wertheimer l’ha lasciata quasi trent’anni<br />

fa» 12 . Esplorare la gamma di applicazione dei principî di base e affinarli<br />

in relazione all’arte, ha portato, sì, alla “psicologia dell’arte”,<br />

ma i concetti teorici elaborati a questo scopo hanno una portata psicologica<br />

generale, non confinata all’arte 13 . Voglio dire: la psicologia<br />

dell’arte di Arnheim è psicologia generale. Una psicologia che studia<br />

le interazioni della mente con la realtà, tenendo ferma la distinzione<br />

tra processi e prodotti della mente. Il “concetto rappresentativo” specificamente<br />

elaborato per le arti, ma che non esaurisce la sua portata<br />

in quest’ambito, è, nello stesso tempo, necessario per tenere distinta<br />

real tà e rappresentazione della stessa, ed evitare di appiattire o di fare<br />

collassare il processo sul prodotto. Un concetto che riguarda il fare,<br />

poi, chiama in causa il corpo non solo la mente, o, come da qualche<br />

tempo si usa dire, una mente incorporata 14 .<br />

Per Arnheim, come per i suoi maestri, lo strumento principale dell’interazione<br />

mente-mondo è la percezione; ma il concetto di “concetto<br />

percettivo”, se è in linea con i principî organizzativi della percezione<br />

già elaborati dai gestaltisti, è un “affinamento” 15 che opera quella<br />

ristrutturazione dei processi cognitivi successivamente dispiegata nel<br />

pensiero visivo e nella mente a doppio taglio. Ora “il concetto percettivo”,<br />

che dopo Eleonor Rosch (1970), e le numerosissime ricerche degli<br />

anni ’80 e ’90 del Novecento sullo sviluppo dei concetti nei bambini<br />

piccoli, e soprattutto gli studi di neurobiologia della visione, può avere<br />

perduto la carica esplosiva esibita persino terminologicamente, è stato<br />

elaborato da Arnheim nel 1947. Anche “arte astratta”, una locuzione<br />

che era già familiare nel mondo dell’arte, è ossimorica. Gli studiosi<br />

dell’arte ne avevano di fatto tentato una spiegazione con la teoria<br />

della doppia natura dell’arte: un’arte percettiva e un’arte intellettuale.<br />

Arnheim, in Astrazione percettiva e arte, procede a smontare la concezione<br />

psicologica del concetto e la teoria della doppia natura dell’arte.<br />

«Lo buttai giù tutto d’un fiato» 16 , ci dice di Arte e percezione visiva.<br />

10


E poté farlo proprio perché nei lavori precedenti non solo aveva messo<br />

a fuoco la problematica, ma aveva anche individuato i punti nodali per<br />

articolare in modo produttivo l’incontro a tutto campo arte-psicologia.<br />

Vi troviamo la critica alla doppia natura dell’arte, ma anche alla teoria<br />

edonistica dell’arte, che grazie agli studi pioneristici di Fech ner regnava<br />

incontrastata in psicologia; la ristrutturazione del concetto di astrazione<br />

e di quello di empatia, o dell’arte-sentimento; l’analisi del concetto di<br />

copia e l’inconsistenza teorica su cui è fondato; la critica al la concezione<br />

freudiana della motivazione e del simbolo, come pure lo smontaggio<br />

dell’opposizione percezione/pensiero, o sensi/intelletto, opposizione<br />

elaborata dalla filosofia moderna e a cui gli psicologi, an che dopo la<br />

conquistata autonomia, continuavano a prestare incondi zio nata fede,<br />

e che oggi va perdendo credito grazie alle neuroscienze. Ov viamente,<br />

sono presenti quegli approfondimenti su spazio, espressione e movimento<br />

prima indicati. Ma, soprattutto, vi troviamo il “con cetto rappresentativo”,<br />

vera chiave di volta della psicologia arn hei miana.<br />

«Per disegnare una testa, un bambino disegna un cerchio. Che non<br />

è un tentativo di riprodurre il contorno specifico della testa di una<br />

persona particolare, ma è piuttosto una qualità formale generale della<br />

testa, <strong>delle</strong> teste in generale: precisamente la rotondità. Alla rotondità<br />

si pensa comunemente come ad una concezione astratta. In quanto tale,<br />

essa può venire attribuita a molte o a tutte le teste, ma, – in accordo<br />

con la definizione tradizionale di astrazione – nessuna testa particolare<br />

dovrebbe essere in grado di rappresentarla concretamente all’occhio.<br />

Eppure, il cerchio del bambino è […] un’immagine generalmente accettata<br />

di quella rotondità che è comune alla forma <strong>delle</strong> teste. Sembra<br />

che sia stato raggiunto l’impossibile: una rappresentazione percettivamente<br />

concreta dell’astratto» 17 . Dopo avere ricordato l’incompatibilità<br />

teorizzata tra arte e astrazione, e avanzato la necessità di rivedere i<br />

concetti psicologici in gioco, è questo l’inizio di Astrazione percettiva e<br />

arte. Ed è esemplificativo dello stile argomentativo di Arte e percezione<br />

visiva: vincolare l’attenzione del lettore su quanto può direttamente<br />

esperire. «Il libro tratta di ciò che può essere visto da ognuno, e tratta<br />

di ciò che può essere letto solo per quel tanto che è servito a me e ai<br />

miei studenti a vedere meglio», avverte Arnheim nel l’introduzione 18 .<br />

Ma non è solo una scelta stilistica.<br />

Nei testi di Arnheim abbonda il termine “comportamento”. Certo,<br />

potrebbe intendersi come un omaggio puramente verbale alla comunità<br />

scientifica che lo ha accolto; o anche frutto dell’inavvertita attrazione<br />

che un paradigma egemone – in questo caso il comportamentismo<br />

– molto spesso esercita. Non si tratta né dell’una né dell’altra ipotesi.<br />

Né sono esplicative le simpatie espresse da Köhler per il comportamentismo:<br />

«un sistema di psicologia artificiosamente semplificato» 19 .<br />

Piuttosto è la scelta strategica esplicitata da Koffka a essere euristica:<br />

11


«è più facile trovare il posto adatto […] per la mente partendo dal<br />

comportamento» 20 . Arnheim lo dice espressamente: il comportamento<br />

è «prontamente accessibile alla descrizione scientifica» 21 , la mente o i<br />

processi cognitivi, viceversa, non sono osservabili. Né per il gestaltista<br />

lo sono diventati da quanto il cognitivista li ha ridefiniti come processi<br />

di elaborazione di informazione. Ma, poiché il prodotto, per il<br />

principio gestaltista dell’isomorfismo, è correlato al processo, Arnheim<br />

considera di fatto «lo studio del comportamento [concepito in termini<br />

di campo, non certo di Stimolo e Risposta, o di Input e Output] come<br />

il metodo più fecondo» 22 .<br />

Disegnare è un comportamento che possiamo osservare. La testa<br />

disegnata dal bambino, “prontamente accessibile alla descrizione scientifica”,<br />

è una rappresentazione. Ma come spiegarla? Nel 1943, in un<br />

articolo in cui esamina l’importanza della teoria della Gestalt per lo<br />

studio dell’arte, non ha ancora affrontato e risolto il problema psicologico<br />

della rappresentazione. L’esempio è sempre quello del disegno<br />

del bambino, per cui in psicologia – dopo la delusione di non avere<br />

trovato una copia fedele della percezione nel disegno eseguito dal possessore<br />

naturale dell’“occhio innocente”, quale ci si aspettava fosse il<br />

bambino – si era trovata una spiegazione in quella che va sotto il nome<br />

di teoria intellettualistica: il disegno del bambino sarebbe non una<br />

copia del percetto ma una copia del concetto. Arnheim, evidenziato il<br />

paradosso per quanto concerne la mente infantile che consegue dalla<br />

teoria tradizionale della percezione e dal ricorso all’immagine retinica,<br />

si limita a rilevare che «un approccio più adeguato è possibile se comprendiamo<br />

che il contenuto della percezione non è identico alla somma<br />

<strong>delle</strong> qualità corrispondenti all’immagine proiettiva» 23 . In sostanza, gli<br />

pare esplicativo ricorrere soltanto alla percezione, purché sia adeguatamente<br />

intesa: non ricezione passiva del dato, ma attiva comprensione<br />

<strong>delle</strong> qualità strutturali. Siamo a un passo dal concetto per cettivo, e<br />

ancora lontani da quello rappresentativo.<br />

È solo nel 1947 che viene in chiaro che «percepire qualche cosa<br />

non è ancora rappresentarla» 24 e che i problemi per la psicologia non<br />

sono soltanto nell’ordine della percezione, bensì anche in quelli della<br />

rappresentazione, a meno di non azzerare la differenza fondamentale<br />

tra un’esperienza e la rappresentazione della stessa in un medium<br />

artistico. «La visione originaria, poniamo, della qualità trasparente di<br />

una cascata può essere quanto mai precisa per quanto riguarda le sue<br />

caratteristiche percettive ed espressive. Tuttavia una tale esperienza<br />

non consiste in primo luogo né di linee o colori che possono venire<br />

semplicemente trasferiti sulla tela, né di parole che possono venire semplicemente<br />

registrate sulla carta. […] Non vi è trasformazione diretta<br />

dell’esperienza in forma; vi è piuttosto una ricerca di qualche cosa che<br />

le equivalga» 25 . Questo equivalente dell’esperienza, o del “concetto<br />

12


percettivo”, è il “concetto rappresentativo”. Ritorniamo alla testa disegnata<br />

dal bambino: «la rotondità è il concetto percettivo che traduce<br />

una particolarità strutturale della configurazione stimolatrice “testa”;<br />

l’idea di una linea circolare mediante la quale può venire concretizzata<br />

la rotondità, in quanto forma tangibile, è il concetto rappresentativo<br />

che occorre per produrre, sulla carta, il cerchio. […] I concetti rappresentativi<br />

dipendono dal medium in funzione del quale esplorano la<br />

realtà» 26 . Un cerchio che rappresenta perfettamente la rotondità nella<br />

superficie bidimensionale del disegno o della pittura, non la rappresenta<br />

nella scultura che è tridimensionale. E una macchia di colore che<br />

può rappresentare una testa nella pittura essenzialmente bidimensionale<br />

di Matisse, risulterebbe piatta nei dipinti di Caravaggio. Col termine<br />

medium Arnheim fa, infatti, «riferimento non soltanto alle proprietà<br />

fisiche del materiale ma anche allo stile di rappresentazione proprio di<br />

una specifica cultura o di un singolo artista» 27 . Relativamente alle arti,<br />

il “concetto rappresentativo” è quindi «quel concetto della forma gra zie<br />

al quale la struttura percepibile dell’oggetto può venire rappresentata<br />

tramite le proprietà di un determinato medium» 28 .<br />

Ciò che può essere rappresentato e il modo in cui può essere rappresentato<br />

dipendono dalle particolari proprietà dei media. «L’aspetto<br />

<strong>delle</strong> cose ha un forte potere su di me. Anche adesso non posso fare<br />

a meno di osservare le cornacchie sbattere le ali contro il vento forte,<br />

e continuo a chiedermi insistentemente “qual è la frase adatta?”» 29 .<br />

La domanda è di Virginia Woolf, la quale continua con parole che a<br />

chi legge suonano “adatte” alle cornacchie in volo, ma non all’autrice<br />

che annota quanto poco dell’esperienza che vuole rappresentare riesca<br />

a trasmettere alla penna. Mentre “la frase” ci riporta al medium<br />

attraverso il quale lo scrittore esplora la realtà, e ovviamente il pittore<br />

o lo scultore formuleranno diversamente la domanda, l’esigenza che<br />

sia “adatta” e il “quanto poco” ci segnalano il tormento del processo<br />

crea tivo. Il concetto rappresentativo non è bell’è formato nella mente<br />

pri ma di essere trasferito nelle forme consentite dal particolare medium.<br />

Arnheim sottolinea che la creazione di un’opera «consiste in<br />

un dialogo tra colui che la concepisce e la concezione che gradualmente<br />

prende forma nel medium. In nessun caso l’opera può essere<br />

descritta co me la mera esecuzione della visione concepita nella mente<br />

dell’autore. Il medium offre sorprese e suggestioni. Perciò l’opera non<br />

è tanto una replica del concetto mentale quanto una continuazione<br />

dell’invenzione formatrice dell’artista» 30 .<br />

Dal momento che “non vi è trasformazione diretta dell’esperienza<br />

in forma”, non possiamo risalire sic et simpliciter dalla rappresentazione<br />

ai processi cognitivi. Se le cose stanno così, poiché non è possibile<br />

un’accesso diretto alla mente, e poiché, che si sia o no mentalisti, si<br />

ha sempre a che fare con prodotti, siano essi artistici o di altro tipo,<br />

13


il non tenere presente la diversità dei media, le peculiarità intrinseche<br />

a ciascun medium, il carattere storico-culturale che tutti li contraddistingue,<br />

gli usi diversi che se ne possono fare, può portare facilmente<br />

a scambiare le caratteristiche del prodotto per le caratteristiche del<br />

processo, e a considerare la mente il ricettacolo <strong>delle</strong> rappresentazioni.<br />

Che si usi il metodo sperimentale o il più innovativo metodo simulativo,<br />

i “dati” da interpretare o gli algoritmi da implementare sono<br />

sempre “prodotti” in un determinato medium e non “processi”. Colpiti<br />

dal fondamentale valore euristico del concetto di “concetto rappresentativo”<br />

ci si rende conto dell’equivoco fondativo della “mente<br />

computazionale”, l’esito attuale di una scienza che costretta a inferire<br />

i processi dai prodotti e misconoscendo i media – il loro ruolo, le<br />

loro idiosincrasie, la loro varietà – conforma la mente a uno dei suoi<br />

prodotti: il computo. Arte e percezione visiva si pone così come una<br />

critica radicale alla psicologia comportamentista e cognitivista, e, nello<br />

stesso tempo, come fondativa della psicologia dell’arte.<br />

Un’ultima osservazione. Si è parlato dell’estetica di Arnheim. Valéry,<br />

invitato dai filosofi a parlare di arte, ricordando che «vi sono<br />

mil le e un modo di pensare all’arte e di parlarne», e che «Estetica è il<br />

termine generico che designa queste ricerche dagli oggetti assai diversi<br />

e dai metodi più differenti ancora», sostiene che bisogna partire dalle<br />

opere. Poiché ogni opera artistica è «il risultato di un’azione il cui<br />

scopo finito è provocare in qualcuno sviluppi infiniti», il punto fondamentale<br />

da capire è che l’arte è un fenomeno che può essere rappresentato<br />

da due trasformazioni: quella che porta dall’autore all’opera,<br />

e quella che dall’opera porta al fruitore. Sono due trasformazioni da<br />

te nere presenti, sebbene «devono essere pensate solo separatamente». La<br />

prima ci impedisce di risalire dall’opera all’autore, alla sua personalità<br />

o al suo “sentimento”: pensare che l’artista si esprima «è in fondo<br />

un’assurdità», e l’artista che lo sostiene «commette un errore di espressione»<br />

31 . L’artista elabora – e per Arnheim come per Valéry il processo<br />

creativo non è lineare – «qualcosa che produrrà su una mente estranea<br />

un certo effetto» 32 . L’effetto prodotto sul fruitore, e non è scontato né<br />

garantito, è la seconda trasformazione. Se occuparsi di arte, partendo<br />

dalle opere e rispettando queste due trasformazioni, per le quali, da<br />

una parte – preclusa la possibilità di risalire alla psiche del produttore<br />

– si va alla ricerca <strong>delle</strong> costanti dei processi cognitivi, e dall’altra –<br />

tenendo presente la specializzazione della percezione estetica – si è in<br />

grado di spiegare le condizioni della risonanza sensoriale del fruitore,<br />

è estetica, allora Arnheim è anche un estetologo. La filosofia dell’arte<br />

– è stato notato da tanti e ben riassume il senso del discorso di Valéry<br />

ai filosofi – è quella filosofia in cui solitamente man ca o la filosofia o<br />

l’arte. A me pare che nella psicologia dell’arte di Arnheim non manchi<br />

né l’arte né la psicologia.<br />

14


1<br />

R. Arnheim, Film as Art (1959), trad. it. Film come arte, Il Saggiatore, 1963 2 , p. 63.<br />

2<br />

Id., Art and Visual Perception: A Psychology of the Creative Eye (1954), trad. it. Arte<br />

e percezione visiva, Feltrinelli, Milano, 1962, p. xxii.<br />

3<br />

Id., Gestalt and Art, “Journal of Aesthetics & Art Criticism”, 1943, 2, p. 71.<br />

4<br />

Id., Arte e percezione visiva, cit., p. xxii.<br />

5<br />

Id., Agenda for the Psychology of Art (1952), trad. it. Ordine del giorno per la psicologia<br />

dell’arte, in Id., Toward a Psychology of Art (1966), trad. it. Verso una psicologia dell’arte.<br />

Espressione visiva, simboli e interpretazione, Einaudi, Torino, 1969, p. 29.<br />

6<br />

Id., Arte e percezione visiva, cit., p. xviii.<br />

7<br />

Id., Ordine del giorno per la psicologia dell’arte, cit, p. 33.<br />

8<br />

Peraltro è la storia dell’arte «al suo meglio» ad avere «sviluppato potenti strumenti per<br />

guardare un oggetto da una vasta gamma di punti di vista», M. Kemp, The Science of Art.<br />

Optical themes in western art from Brunelleschi to Seurat (1990), trad. it. La scienza dell’arte,<br />

Prospettiva e percezione visiva da Brunelleschi a Seurat, Giunti, Firenze, 1994, p. 23.<br />

9<br />

R. Arnheim, Rundfunk als Hörkunst (1979), trad. it. La Radio. L’arte dell’ascolto, Editori<br />

Riuniti, Roma, 1987, p. 10. Il libro, la cui Introduzione dalla quale è tratta la citazione è<br />

del 1933, è stato pubblicato per la prima volta in Inghilterra nel 1936, e nel 1938 in Italia.<br />

La citazione è preceduta dalla seguente frase: «Il presente libro è un ulteriore tentativo di<br />

applicare un metodo estetico del quale mi sono già servito nella mia ricerca sul cinema e<br />

che potrebbe, come credo, rivelarsi utile anche per la teoria <strong>delle</strong> altri arti “tradizionali”»,<br />

pp. 9-10.<br />

10<br />

«I miei principali interessi continuano a essere epistemologici; io studio cioè le interazioni<br />

cognitive della mente con il mondo reale», Id., New Essays on the Psychology of<br />

Art, trad. it. Intuizione e intelletto. Nuovi saggi di psicologia dell’arte, Feltrinelli, Milano,<br />

1987, p. 10.<br />

11<br />

Id., Ordine del giorno per la psicologia dell’arte, cit, p. 30.<br />

12<br />

Ivi, p. 32.<br />

13<br />

“Arte” è, peraltro, un termine che Arnheim usa «malvolentieri», come precisa fin dal<br />

1933 nell’introduzione a La Radio. L’arte dell’ascolto (cit., p. 10): «Le forme espressive della<br />

radio non valgono solo per i suoi prodotti propriamente artistici, come lo sono i radiodrammi,<br />

ma anche per i semplici notiziari, per le cronache e le discussioni. Tutto l’argomento<br />

è stato trattato nel suo complesso senza tracciare dei confini artificiali a cui il termine arte<br />

facilmente induce. Come per un film scientifico o didattico, se si vuole che sia comprensibile,<br />

chiaro e informativo, deve servirsi degli stessi mezzi rappresentativi di cui si serve il film<br />

“artistico”; come lo schema della circolazione del sangue umano in un libro di medicina<br />

o la mappa di una rete metropolitana sono prodotti con gli stessi mezzi compositivi di un<br />

quadro, così tutto quello che accade davanti al microfono deve rispettare le regole dell’arte<br />

uditiva. Quando si rispettano queste regole l’esecuzione è chiara, funzionale, piacevole ed<br />

efficace; quando le si infrangono ne viene fuori qualcosa di sbiadito, di confuso e di sgradevole<br />

perché la forma artistica non è un lusso per gli intenditori e non fa presa solo su chi<br />

ne è cosciente e l’apprezza. Essa è anzi un mezzo indispensabile per dare a un determinato<br />

contenuto, sia esso di natura artistica o di natura razionale, pratica e tecnica, la sua espressione<br />

più pregnante ed univoca. La forma artistica ha come suo dominio tutto il campo di<br />

un determinato materiale rappresentativo».<br />

14<br />

«Nessuna concezione mentale può generare un’azione materiale o plasmarla direttamente.<br />

Il compito deve essere svolto dal corpo», Id., The Tools of Art – Old and New<br />

(1979), trad. it. Gli utensili dell’arte – vecchi e nuovi, in Id., New Essays on the Psychology<br />

of Art (1986), trad. it. Intuizione e intelletto. Nuovi saggi di psicologia dell’arte, Feltrinelli,<br />

Milano, 1987, p. 150.<br />

15<br />

«Mi sono trovato ad affinare certi principi di base e a esplorare la gamma della loro<br />

applicazione», Id., Intuizione e intelletto, cit. p 10. Come giustamente evidenzia M. Ash,<br />

Gestalt Psychology in German Culture, 1890-1967 (1998), trad. it. La <strong>Psicologia</strong> della Gestalt<br />

nella cultura tedesca dal 1890 al 1967, Angeli, Milano, 2004, p. 86) “sensazione versus intelletto”<br />

è uno dei dualismi da cui prese le mosse la revisione radicale operata dai fondatori<br />

della psicologia della Gestalt.<br />

16<br />

Questa precisazione compare nell’introduzione alla seconda edizione (1974).<br />

17<br />

Id., Perceptual Abstraction and Art, trad. it. Astrazione percettiva ed arte, in Id., Verso<br />

una psicologia dell’arte, cit., p. 38.<br />

18<br />

Id., Arte e percezione visiva, cit. p. xxii.<br />

15


19<br />

W. Köhler, Gestalt Psychology (1947 2 ), trad. it. La psicologia della Gestalt, Feltrinelli,<br />

Milano, 1961, p. 191. Ovviamente le simpatie di Köhler non vanno alla “semplificazione<br />

operata dal comportamentismo”, quanto al fatto che il comportamentismo «ha fondamentalmente<br />

ragione di celebrare i vantaggi del procedimento oggettivo, come ha ragione contro<br />

l’introspezione», ivi, p. 35.<br />

20<br />

K. Koffka, Principles of Gestalt Psychology (1935), trad. it. Principi di psicologia della<br />

forma, Boringhieri, Torino, 1970, p. 35.<br />

21<br />

R. Arnheim, Gestalt Theory of Expression (1949), trad. it. La teoria gestaltica dell’espressione,<br />

in Id., Verso una psicologia dell’arte, cit., p. 91.<br />

22<br />

Ibidem.<br />

23<br />

Id., Gestalt and Art, cit., p. 72.<br />

24<br />

Id., Astrazione percettiva ed arte, cit, p. 44.<br />

25<br />

Id., Abstract Language and the Metaphor (1948), trad. it. Linguaggio astratto e metafora,<br />

in Id., Verso una psicologia dell’arte, cit., p. 323. Ho parzialmente modificato la traduzione<br />

italiana.<br />

26<br />

Id., Astrazione percettiva ed arte, cit, p. 48.<br />

27<br />

Id., Arte e percezione visiva, cit. p. 125<br />

28<br />

Ivi, p. 127<br />

29<br />

V. Woolf, Diario di una scrittrice (12-10-1928), cit. in Id., Writer’s Pointers (1989), trad.<br />

it. I suggerimenti degli scrittori, in Id., To The Rescue of Art. Twenty-Six Essays (1992), trad,<br />

it. Per la salvezza dell’arte. Ventisei saggi, Feltrinelli, Milano, 1994, p. 79.<br />

30<br />

R. Arnheim, On Duplication (1981), trad. it. Sulla duplicazione, in Id., Intuizione e<br />

intelletto, cit., p. 317.<br />

31<br />

P. Valéry, Discours sur l’Esthétique (1937), trad. it. Discorso sull’Estetica, in Id., La<br />

caccia magica, Guida, Napoli, 1985, rispettivamente pp. 87, 99, 90, 91.<br />

32<br />

Ivi, p. 91.<br />

16


La psicologia ovvero la negazione del senso comune *<br />

Ciò che vorrei dimostrare è che la psicologia ha proceduto – non<br />

perché questo fosse il suo scopo, né perché ne avesse l’intenzione – a<br />

distruggere il senso comune, e ne individuo la ragione nella proiezione<br />

operata dallo psicologo sull’oggetto della sua conoscenza <strong>delle</strong> teorie<br />

che man mano è andato elaborando. In questa proiezione ciò che viene<br />

perduta è la differenza tra il soggetto che percepisce, pensa, parla, agisce,<br />

gode e soffre nel mondo, e le teorie della percezione, del pensiero,<br />

del linguaggio, della motivazione, dell’emozione, ecc., vale a dire tra<br />

il processo costitutivo dell’esperienza e il prodotto, o, meglio uno dei<br />

prodotti, in formato scientifico; in breve: tra il soggetto “oggetto della<br />

psicologia” e il soggetto “soggetto della ricerca psicologica”.<br />

L’immagine di Escher mi pare che rappresenti adeguatamente la<br />

situazione: da una parte ci suggerisce la facilità con cui lo scambio tra<br />

esperienza e teorie dell’esperienza può avvenire, e dall’altra illustra il<br />

* Pubblicato in “Nuova civiltà <strong>delle</strong> macchine”, xxiii (1/2005), pp. 23-34, fascicolo<br />

monografico dal titolo Grammatiche del senso comune curato da G. Matteucci, che raccoglie<br />

gli Atti di un omonimo seminario promosso dall’Associazione Nuova Civiltà <strong>delle</strong><br />

Macchine col patrocinio della Società Italiana d’Estetica (Forlì, 24-25 settembre 2005).<br />

17


circolo vizioso in cui rimaniamo irretiti se non ci sottraiamo al fascino<br />

esercitato dalla continuità della linea.<br />

Poiché è impossibile nello spazio di un breve intervento dimostrare<br />

la tesi, procederò affrontando alcuni aspetti della questione, nella<br />

speranza non tanto di argomentare, sia pure per brevi cenni, la mia<br />

convinzione, quanto di lasciarla intravedere. Gli aspetti che prenderò<br />

in considerazione – la polverizzazione dell’esperienza, l’eliminazione<br />

della mente, l’ipertrofia del logos – si collocano in momenti diversi<br />

della storia della psicologia e riguardano la corrente maggioritaria della<br />

stessa: da Wundt a Watson al cognitivismo. Il punto di vista critico da<br />

cui li considero è quello della teoria della Gestalt.<br />

Senso comune. Partiamo dall’altro ieri: il progetto di fine Novecento<br />

di implementare in un computer il senso comune! Il programma chiamato<br />

“CYC” (la sigla sta per “enciclopedia”) consiste nell’incredibile<br />

“credenza” di potere codificare le nozioni comunemente condivise della<br />

realtà del tipo “quando fra te e la cosa che vuoi c’è qualcosa di grosso,<br />

probabilmente dovrai girarvi attorno”. Per i creatori del progetto, D.<br />

Lenat e E. Feigenbaum, la conoscenza è decisiva per l’adattamento.<br />

Perciò ritengono che, fornendo alla loro “creatura” il doppio <strong>delle</strong> informazioni<br />

che una persona potrebbe assorbire nell’arco di cento anni,<br />

questa possa raggiungere la comprensione che abbiamo del nostro mondo.<br />

Intanto la nostra comprensione è implicita e normalmente non ci<br />

preoccupiamo di renderla esplicita. Due considerazioni. Se tra noi e<br />

la nostra meta c’è qualcosa di grosso sappiamo come comportarci, o<br />

meglio ci comportiamo “a dovere”. Poiché il come comportarci ci è<br />

suggerito dalla situazione, non è detto che la cosa più probabile o più<br />

adeguata da fare sia girarvi attorno: il “qualcosa” potrebbe essere un<br />

animale feroce, e certo, noi umani, non ci gireremmo attorno: nell’ordine<br />

dell’evoluzione, giro dopo giro, ci saremmo estinti. Quanto poi<br />

all’aggirare un ostacolo, lo scarafaggio non è a noi inferiore. Dobbiamo<br />

allora considerarlo depositario di comuni nozioni “scarafaggesche”?<br />

Come opportunamente rileva A. Clark, che riconosce allo scarafaggio<br />

«una specie di senso comune che manca ai migliori sistemi artificiali attuali»,<br />

«questo è ciò che deve sembrare a tutti quei teorici che pensano<br />

che la conoscenza esplicita sia la chiave per interpretare adeguatamente<br />

i comportamenti effettivi!» 1 .<br />

E veniamo alla seconda osservazione. Il senso comune è qui considerato<br />

come atteggiamenti proposizionali relativi a credenze, desideri,<br />

volizioni. È tutto da dimostrare che le nozioni esplicitamente formulate,<br />

ovvero le ricostruzioni razionali della filosofia e della psicologia del<br />

senso comune, rendano pienamente conto della comprensione intuitiva<br />

che abbiamo del nostro mondo e che assicura a noi creature biologiche<br />

il successo adattivo nello spazio temporale che separa nascita e morte.<br />

Nel passaggio implicito-esplicito, non solo molto può andare perduto,<br />

18


non solo non è scontato che vengano conservati gli elementi strutturali<br />

dell’interazione soggetto-oggetto, ma possono sorgere, come direbbe<br />

Wittgenstein, problemi che sono di grammatica, vale a dire del medium<br />

linguistico in cui prendono forma, non del nostro modo di vita. Lasciando<br />

stare gli scarafaggi, il senso comune, come il termine indica, ha<br />

a che fare con i sensi, non con nozioni linguisticamente organizzate: è<br />

un comune sentire che si struttura nell’interazione continua – assicurata<br />

dai sensi – tra l’organismo vivente e il suo ambiente ecologicamente<br />

inteso, e che mette insieme i colti e gli ignoranti, gli adulti e i bambini.<br />

Certo, il senso comune è stato inteso in vari modi e variamente<br />

valutato. Nella modernità, se è stato teorizzato contro lo scetticismo, o<br />

meglio proprio per questo, ha acquistato, per lo più, una componente<br />

negativa essendo entrato in rotta di collisione con la scienza, vale a<br />

dire con il carattere controintuitivo della conoscenza scientifica. Diventata<br />

la scienza – la fisica – centrale per la riflessione filosofica, e identificata<br />

la conoscenza con la conoscenza scientifica, o, quanto meno,<br />

quest’ultima una forma più evoluta della prima, il senso comune si è<br />

così trovato stretto tra l’esortazione normativa a essere “buon senso”,<br />

e il suo rivelarsi, alla luce della scienza, pregiudizio da emendare. Già<br />

questo, però, è indicativo di come, a dispetto del nome, il “comune”<br />

sia finito col qualificare più il dire che il sentire, cosa che per slittamenti<br />

continui ha portato ad assimilare l’esperienza quotidiana con le<br />

“sensate esperienze” di galileiana memoria, generando la confusione<br />

tra esperienza e teoria, tra mondo e rappresentazione del mondo. Sicché<br />

nell’ultimo scorcio del secolo scorso il senso comune è ritornato in<br />

auge ma articolato in nozioni linguistiche: «il senso comune, confortato<br />

da certi sofisticati esperimenti psicologici» 2 e da non meno sofisticate<br />

analisi filosofiche. Indubbiamente il senso comune non è afasico e il<br />

linguaggio è comune quanto i sensi. Il linguaggio però, oltre a servire<br />

per il commercio della vita quotidiana, serve anche a fare filosofia e<br />

scienza. Non è quindi una buona strategia confondere il linguaggio<br />

fortemente contestualizzato con cui ci intendiamo – il “lessico familiare”<br />

della specie uomo – con il linguaggio decontestualizzato, depurato<br />

dalle scorie lasciatele addosso dalle situazioni e sciacquato nel bagno<br />

logico con il quale costruiamo le nostre rappresentazioni del mondo.<br />

Né lo è confondere l’osservazione “carica di teoria”, con cui necessariamente<br />

lo scienziato fa esperienza degli “osservabili”, con la comune<br />

percezione. Il senso comune non si pone neanche il problema, ma “il<br />

senso scientifico” non dovrebbe confondere il braccio e la linea con<br />

cui rappresenta quest’ultimo.<br />

La polverizzazione dell’esperienza. «Sto alla finestra e vedo una casa,<br />

degli alberi, il cielo. Da un punto di vista teorico si potrebbe dire che ci<br />

sono 327 gradi di chiarezza e toni di colore. Ma vedo “327”? No. Vedo<br />

il cielo, la casa, gli alberi. È impossibile ottenere 327 in quanto tali. E<br />

19


anche se fosse possibile un calcolo così astruso e implicasse ad esempio<br />

120 per la casa, 90 per gli alberi e 117 per il cielo, dovrei almeno poter<br />

vedere questa disposizione e divisione del totale e non, ad esempio,<br />

127+100+100, oppure 150+177. La divisione concreta che io vedo non<br />

è determinata da un qualche modo arbitrario di organizzazione basato<br />

unicamente sul mio capriccio; vedo invece la disposizione e divisione<br />

che appare qui di fronte a me» 3 . È questo l’incipit di un famoso articolo<br />

di Wertheimer. Il ricordo va all’albero di Th. Reid, e agli «alberi<br />

e campi, e cavalli e buoi e colline distanti» di J. Mill 4 . Ma i numeri?<br />

Può tornare utile un’annotazione di Wittgenstein: «Siedo in un giardino<br />

con un filosofo. Quello dice ripetute volte: “Io so che questo è un<br />

albero”, e così dicendo indica un albero nelle vicinanze. Poi qualcuno<br />

arriva e sente queste parole, e io gli dico: “Quest’uomo non è pazzo:<br />

stiamo solo facendo filosofia”» 5 . Ecco: Wertheimer “non dà i numeri”,<br />

sta solo facendo psicologia, e più precisamente sta criticando il modo<br />

elementistico di spiegare l’“esperienza immediata”. Tenendo ferma la<br />

differenza tra esperienza e teoria dell’esperienza, sta difendendo il senso<br />

comune di quel malcapitato nel giardino del filosofo, che magari<br />

non si stupirebbe a sentire “Io so che quest’albero è una quercia”,<br />

ma certo non si sognerebbe mai di dire, indicando un albero, “Io so<br />

che questo è un albero”, o alla vista di casa, alberi, cielo, “Io so che<br />

ci sono 327 gradi di chiarezza e toni di colore”, oppure ”Io ho 327<br />

sensazioni”. E gli sembrerebbe una burla sentirsi dire che “un albero<br />

non lo può vedere nessuno” 6 .<br />

Troverebbe persino strano, e pour cause, apprendere che proprio<br />

uno psicologo gestaltista lo consideri in errore: «Alla famosa domanda<br />

di Koffka “Perché le cose ci appaiono così come ci appaiono” il sano<br />

senso comune risponde: “Perché le cose sono come ci appaiono”. […]<br />

L’atteggiamento del senso comune è dunque quello di ignorare che<br />

esistano problemi a proposito dei fatti percettivi (possiamo chiamarlo<br />

“errore del realista ingenuo”)» 7 . Ma a ben vedere, se di errore si tratta,<br />

può riguardare la teoria del senso comune, non il realista “ingenuo”<br />

che non è tenuto a sapere di Koffka, e mai che mai gli verrebbe in<br />

mente la “non-ingenua” domanda di un teorico della Gestalt, o di un<br />

realista “critico”. Parlare di “errore del realista ingenuo” e considerarlo<br />

“in fondo molto simile” all’“errore dello stimolo” – poiché si<br />

sostiene che l’errore di entrambe le tipologie è «dovuto alle aspettative<br />

che ciascun sistema teorico-interpretativo porta con sé» 8 – significa<br />

che anche il realista ingenuo è un “sistema teorico-interpretativo”. Ne<br />

consegue che la percezione è teoria-dipendente e il senso comune una<br />

teoria. Insomma, la teoria sarebbe all’inizio e per sempre. E se tutto è<br />

teoria, come venirne fuori? Il gestaltista non tira, ovviamente, queste<br />

conseguenze. Va da sé – ma è bene esplicitarlo – che a trovare strano<br />

l’“errore del realista ingenuo” non può essere il realista ingenuo! Le<br />

cose per il senso comune sono e tanto basta; non serve, e anzi, come<br />

20


abbiamo visto, è segno di perdita del senso comune dire “Io so che<br />

questo è un albero”, figuriamoci poi andare a trovare in castagna il<br />

gestaltista.<br />

Sulla condivisibilità a-teorica di alberi, case, calamai, sedie, libri e<br />

scrivanie hanno molto insistito i padri fondatori della psicologia della<br />

Gestalt che, ritenendo prioritario proprio lo studio dell’esperienza comune,<br />

non hanno ritenuto di sottoscrivere l’ingiunzione metodologica<br />

che va sotto il nome di “errore dello stimolo” 9 . Coniato da Titchener –<br />

l’allievo più prestigioso di Wundt e in America “il più intrepido paladino”<br />

<strong>delle</strong> sensazioni – che significativamente ha considerato il senso comune<br />

«l’ennemì» 10 , l’errore consiste nello scambiare la sensazione con<br />

la percezione del senso comune. Il soggetto, nel laboratorio dello psicologo,<br />

«impara a riferire esclusivamente la propria esperienza cosciente<br />

immediata, scindendola dall’involucro sociale-culturale-linguistico in<br />

cui essa si presenta ingabbiata fin dall’inizio; impara cioè a descrivere<br />

il processo cosciente determinato in lui dall’oggetto-stimolo, anziché<br />

l’oggetto-stimolo in quanto tale; a distinguere ciò che effettivamente<br />

esperisce da ciò che sa riguardo all’oggetto della propria esperienza» 11 .<br />

Cioè, non quello che gli si pone davanti e immediatamente vede, ma<br />

quanto la teoria sostiene sia il vedere: sensazioni di luminosità, di tonalità,<br />

di grandezza…, la defaticante scomposizione analitica di uno<br />

stato mentale in elementi isolabili tramite il metodo dell’introspezione<br />

“sperimentale”. È un compito decisamente non facile, perché non si<br />

tratta solo di riconvertire un linguaggio, ma di trovare nell’esperienza<br />

ciò che la teoria presuppone siano gli elementi costitutivi della stessa.<br />

Così davanti all’oggetto-stimolo “albero”, il soggetto che correttamente<br />

dice “Vedo un albero”, per lo psicologo che teorizza le sensazioni, commette<br />

l’errore dello stimolo, vale a dire riferisce sull’oggetto e non sulle<br />

sensazioni che l’oggetto gli procura. Quando – e solo dopo un laborioso<br />

addestramento – dirà “Vedo un colore verde, una luminosità di media<br />

intensità, ecc.”, lo psicologo finalmente tirerà un sospiro di sollievo. È<br />

un gioco che, per quanto lungo e faticoso sia l’addestramento dei soggetti<br />

sperimentali, alla fine lo psicologo vince sempre: la partita si chiude<br />

quando il soggetto ha imparato le regole del gioco del laboratorio<br />

e il suo punto di vista finisce col coincidere perfettamente con quello<br />

dello psicologo, ovvero il soggetto diviene a sua volta sperimentatore.<br />

Procedendo in questo modo, nei laboratori alla Wundt vengono<br />

individuati «ben 44.000 qualità sensoriali differenziate, di carattere<br />

soprattutto visivo (32.000) e uditivo (oltre 11.000): raro esempio, in<br />

tutta la storia della psicologia scientifica, di indefesso lavoro sperimentale<br />

e al contempo di cieca fiducia nel metodo analitico» 12 . Non<br />

raro, tuttavia, come esempio della confusione tra esperienza e teoria<br />

dell’esperienza. La perfetta coincidenza tra esperienza e spiegazione<br />

dell’esperienza è sì senza resti ma è anche senza guadagni.<br />

21


L’eliminazione della mente. Quando Watson sferra l’attacco decisivo<br />

all’“esperienza immediata”, quest’ultima, dissolta in una miriade<br />

di sensazioni, si era già volatizzata. È così che ha avuto gioco facile<br />

ad averla vinta sul programma di ricerca di Wundt. E però nella sua<br />

furia giustizionalista il comportamentismo ha buttato il bambino con<br />

l’acqua sporca.<br />

«La psicologia, così come la vede il comportamentista, è un settore<br />

della scienza naturale del tutto obiettivo e sperimentale. Dal punto di<br />

vista teoretico, il suo obiettivo è la previsione e il controllo del comportamento.<br />

[…] Il comportamentista, nel suo sforzo teso a pervenire<br />

ad un quadro unitario del comportamento animale, non traccia alcuna<br />

linea di demarcazione tra l’uomo e l’animale» 13 . Il tema dominante,<br />

persino ossessivo, diviene l’apprendimento – inteso come la formazione<br />

di nuovi collegamenti stimolo-risposta (S-R), mediante condizionamento<br />

– che è anche considerato contemporaneamente esplicativo<br />

del comportamento e strumento di controllo dello stesso. «Per stimolo<br />

noi intendiamo un qualsiasi oggetto presente nell’ambiente circostante<br />

o un qualsiasi cambiamento verificantesi nei tessuti, a causa <strong>delle</strong><br />

condizioni fisiologiche dell’animale, cambiamento cioè che noi stessi<br />

produciamo quando impediamo la sua attività sessuale o la costruzione<br />

del nido. Per risposta, invece, intendiamo qualsiasi cosa l’animale<br />

faccia, come, per esempio, dirigersi verso una fonte di luce o allontanarsene,<br />

spiccare un balzo in presenza di un suono, e altre attività<br />

altamente organizzate, quali il costruire un grattacielo, disegnare dei<br />

progetti, allevare bambini, scrivere dei libri, e così via» 14 . Quanto al<br />

controllo del comportamento decisivo è, per lo più, un uso sapiente<br />

del rinforzo. Si consideri cosa è riuscito a fare un ratto, chiamato Barnaba<br />

per ottenere una pallina di cibo: è salito su una rampa a spirale,<br />

ha abbassato un ponte levatoio, ha attraversato a nuoto un fossato, è<br />

salito su una rampa di scale, ha strisciato lungo un tunnel, è entrato<br />

in un ascensore, lo ha fatto funzionare, ha alzato una bandierina della<br />

Columbia University, e, infine, ha abbassato una leva. L’incredibile<br />

Barnaba è un prodotto del laboratorio dello psicologo, non dell’allenatore<br />

del circo, il quale, magari ottiene lo stesso risultato, ma non sa<br />

che scientificamente va chiamato “catena di atti comportamentali” e<br />

il cibo “rinforzo”.<br />

Al posto della sensazione, unità minima della coscienza, adesso<br />

abbiamo la risposta condizionata, unità minima del comportamento<br />

dell’animale e dell’uomo, e “generativa” di nuovi comportamenti 15 .<br />

Dai nuovi comportamenti, all’uomo nuovo e a un mondo migliore, il<br />

passo è breve e l’utopia «sembra a portata di mano» 16 . Il successo,<br />

come abbiamo visto con Barnaba, è assicurato. C’è da stupirsi che, di<br />

successo in successo, il comportamentismo abbia dominato per un cinquantennio?<br />

E però, di successo in successo, la psicologia ancora una<br />

volta ha perduto il suo proprio oggetto: l’esperienza comune. Giusta<br />

22


l’osservazione di Koffka, la psicologia si occupa sì del comportamento,<br />

ma «del comportamento degli esseri viventi; essa perciò come la biologia,<br />

deve affrontare il problema della relazione tra natura animata<br />

e natura inanimata, tanto se è consapevole di tale problema e se ne<br />

interessa quanto in caso contrario» 17 .<br />

Il problema non è, quindi, che il comportamentismo al posto della<br />

coscienza e della mente – «e invero non si può obbiettivamente provare<br />

la loro esistenza» – ha messo il comportamento; è che ha buttato<br />

fuori dal laboratorio tutti i concetti relativi alla mente, considerandoli<br />

«medievali» e «soggettivi» 18 . È stato notato che non esita «a scioccare<br />

il buon senso» 19 ; ma ciò fa parte della logica della scienza, non ne<br />

fa parte, viceversa, se la scienza è la psicologia, mettere fuori gioco<br />

il senso comune e l’esperienza su cui si basa. «Basti pensare che il<br />

termine stesso di “percezione” venne addirittura espunto dal lessico<br />

comportamentistico, perché troppo legato alla concezione mentalistica»<br />

20 . Certo, «nessuno ha mai toccato un’anima, o ne ha veduta una<br />

in qualche provetta; come pure nessuno ne è venuto in qualche modo<br />

a contatto al pari degli altri oggetti nel corso dell’esperienza quotidiana»<br />

21 ; nondimeno eliminare la mente non ne consegue logicamente,<br />

ma deriva dal pregiudizio – questo sì antiscientifico – che prenderla in<br />

considerazione sia una regressione ai tempi antichi della superstizione<br />

e della magia. Non può far finta di non sapere che sia l’esperienza<br />

comune che quella scientifica distinguono oggetti inanimati da oggetti<br />

animati, e non è detto che il modo scientifico di studiare questi ultimi<br />

sia esattamente quello del fisico, né tanto meno che lo sia procedere<br />

come se l’esperienza comune potesse essere sacrificata impunemente<br />

agli oggetti della fisica.<br />

Se Wundt e epigoni, pur definendo la psicologia «scienza dell’esperienza<br />

immediata», sono andati a caccia <strong>delle</strong> «mitiche sensazioni»,<br />

che, più che spiegare quest’ultima, l’hanno ridotta in polvere, il<br />

comportamentista, la cui mossa iniziale è stata quella di farla fuori,<br />

curiosamente, presenta la sua psicologia come «il procedimento basato<br />

sul senso comune» 22 : le sue osservazioni sono quelle che ognuno ha<br />

sempre fatto, e le sue manipolazioni sono identiche a quelle dell’uomo<br />

comune: «Se iniziate ad osservare il vostro vicino di casa, scoprirete<br />

ben presto quanto state diventando esperti nel trovare le ragioni del<br />

suo comportamento e nello strutturare situazioni (vale a dire, presentare<br />

stimoli) in grado di indurre in lui comportamenti prevedibili». Del<br />

resto, «nonostante la difficoltà di prevedere nei minimi particolari le<br />

possibili risposte, noi tutti di solito viviamo in base a una teoria per<br />

mezzo della quale siamo in grado di pronosticare, abbastanza genericamente,<br />

ciò che farà il nostro vicino di casa» 23 .<br />

L’ipertrofia del logos. Anche per il fondatore del comportamentismo,<br />

come già per il filosofo dell’albero, non manca chi ha sentito il bisogno<br />

23


di rassicurarci che «John B. Watson non era un pazzo» 24 . Certamente.<br />

Eppure, non possiamo non rilevare la singolarità di attribuire una teoria<br />

al comportamento senza mente. Non per annacquare la distinzione tra<br />

sanità e follia, ma per suggerire che sotto sotto J. Watson e seguaci<br />

erano mentalisti. Il problema da loro posto era ed è reale: nessuno<br />

può direttamente osservare la mente. Ma poiché gli effetti di ciò che<br />

noi umani indichiamo con mente – o coscienza o conscio-inconscio o<br />

anima o spirito, o ancora percezione che per il comportamentista va<br />

«espunta», e pensiero che «non è altro che un parlare con noi stessi»<br />

25 – sono sotto gli occhi di tutti, compresi i comportamentisti, è la<br />

soluzione di questi ultimi a fare problema; tanto più che, negli stessi<br />

anni, i gestaltisti, attenti a non ipostatizzare la mente, rifiutano l’opzione<br />

mentalista della psicologia introspettiva e elaborano una soluzione che,<br />

in una, salva l’oggettività della psicologia e la soggettività dell’oggetto<br />

di studio di quest’ultima.<br />

L’esperienza non diventa soggettiva per il fatto che si dà nelle percezioni<br />

del soggetto. L’errore – ma qui l’errore è imputato allo psicologo,<br />

non al soggetto – consiste nello scambiare la «soggettività genetica»,<br />

cioè la conoscenza della «dipendenza di tutta l’esperienza [compresa<br />

quella del fisico con i suoi “osservabili”] dall’organismo fisico» con la<br />

«soggettività psicologica», «come se ciò che è geneticamente soggettivo<br />

dovesse darsi come soggettivo nell’esperienza». La soggettività genetica<br />

«non è essa stessa un predicato di cui si abbia esperienza vissuta; è,<br />

piuttosto, una relazione che ascriviamo a tutte le esperienze – e quindi<br />

anche a quelle oggettive – una volta che abbiamo appreso a considerarle<br />

come risultati di processi organici« 26 . Già la stessa distinzione<br />

tra “esperienza immediata” ed “esperienza mediata” è sospetta: interna<br />

alla scienza, non sarebbe potuta sorgere senza la scienza e la filosofia<br />

moderna. La confusione tra “soggettività genetica” e “soggettività psicologica”<br />

è contenuta nell’atto costitutivo della nuova scienza: la mossa<br />

iniziale di Wundt che ha assegnato alla psicologia l’esperienza immediata<br />

e alla fisica quella mediata. Quest’ultima, «essendo solo possibile<br />

mediante l’astrazione del fattore soggettivo» 27 , sembrerebbe di per<br />

sé oggettiva, di contro alla prima di per sé soggettiva. «Certi introspezionisti,<br />

per esempio, a quanto sembra pensano che, propriamente<br />

parlando, la sedia davanti a me debba di necessità essere un fenomeno<br />

soggettivo, che appare davanti a me solo in seguito ad apprendimento<br />

o interpretazione. D’altro lato, non essendo possibile scoprire nessuna<br />

sedia soggettiva siffatta, il comportamentista sbeffeggia l’introspezionista<br />

come colui che si accampa in un mondo di spettri immaginari» 28 .<br />

Il mentalismo della psicologia introspettiva non è stato criticamente<br />

analizzato dal comportamentista e perciò superato, ma, consideratolo<br />

incompatibile con ciò che si riteneva fosse l’oggettività scientifica e corposamente<br />

inteso, lo ha solo esorcizzato: un rituale collettivo motivato<br />

dalla paura di non apparire scientifici. Che covasse sotto le ceneri lo si<br />

24


può facilmente capire se si considera come sia ritornato a scoppiettare<br />

ed esplodere quando sembrò scongiurato il pericolo dell’animismo.<br />

Tanto che dalle pratiche scientifiche con un “corpo senza mente” il<br />

comportamentista si convertì repentinamente al credo di una “mente<br />

senza corpo”. La buona novella gli è stata annunciata dal computer<br />

che, esibendo al suo interno “la sedia dell’introspezionista”, sembrò<br />

fornirgli l’“oggettiva” prova dell’esistenza della mente. Iniziata l’era<br />

dell’uomo “elaboratore di informazioni”, non solo non sembrò vero di<br />

potere dare libero sfogo al mentalismo a lungo represso, ma, contro la<br />

previsione di Watson 29 , assieme alla mente e agli stati mentali, ritornarono<br />

persino l’introspezione e l’anima 30 . E la mente, senza i ceppi<br />

del corpo, né più quei servi infidi dei sensi, forieri di illusioni e inganni<br />

e “soggettivi” senza speranza, tutt’al più con sensori adeguati alla sua<br />

razionale essenza, finalmente la può fare da padrona. È il trionfo del<br />

Logos.<br />

La teoria che Watson, dato «l’accordo con i nostri simili» 31 , supponeva<br />

agisse in ogni uomo, e che, ovviamente, non ha specificato<br />

fosse “della mente”, e, altrettanto ovviamente, nella psicologia Stimolo-<br />

Risposta sta come i cavoli a merenda, è, viceversa, consustanziale alla<br />

mente della psicologia cognitivista. Qui la teoria è onnipresente e pervasiva,<br />

e, al posto del senso comune, accomuna colti e ignoranti, adulti<br />

e bambini e con loro i computer e i robot. Quest’ultimi due sono, anzi,<br />

la prova provata che la mente è teoria-dipendente. Con “psicologia<br />

del senso comune” (folk o naïve), per l’appunto, oggi si intende non<br />

la psicologia che finalmente prende in esame il senso comune al fine<br />

di spiegarlo, ma la psicologia di cui sarebbero dotati gli esseri umani;<br />

e con “teoria della mente” non la teoria elaborata dallo psicologo per<br />

rendere conto della mente, ma la teoria che lo psicologo sostiene essere<br />

nella mente di ogni uomo, data la reciproca comprensione intuitiva degli<br />

umani. Certo, si precisa che possedere una teoria della mente «non<br />

significa essere in grado di riflettere su di essa o saperne fornire una<br />

descrizione esaustiva in termini di regole, principi e processi. La gente<br />

comune non è normalmente consapevole di far ricorso a una teoria della<br />

mente nello spiegare e prevedere le azioni umane, allo stesso modo<br />

il bambino acquisisce una siffatta teoria senza esserne cosciente» 32 . È<br />

una “teoria ingenua”, e, oltre la teoria della mente, abbiamo anche la<br />

“fisica ingenua”, ossimori entrambi non miei, ma del cognitivista che<br />

ritiene che senza teoria non è possibile interagire né con le cose animate<br />

né con le cose inanimate. Ma ci si è forse stupiti o ci si stupisce che<br />

i processi della mente sono stati da sempre scientificamente nominati<br />

“psico-logici” anziché “psichici”? «Gli stati mentali – sia di natura motivazionale,<br />

come i desideri e le intenzioni, sia di natura informazionale<br />

o epistemica, come le credenze e le conoscenze – mediano la nostra<br />

attività nel mondo creando una relazione indiretta con la realtà esterna.<br />

Di norma agiamo sulla base non di come le cose sono realmente ma di<br />

25


come pensiamo che siano; siamo ineluttabilmente guidati dalle nostre<br />

rappresentazioni della realtà, che tuttavia possono non rifletterla accuratamente<br />

o essere addirittura false. In definitiva, le persone non hanno<br />

un accesso diretto alla realtà, ma se la costruiscono nelle loro menti» 33 .<br />

Mentre tra “fisica ingenua” e “teoria della mente” ci sentiamo intrappolati<br />

nella rappresentazione, versione informatica quest’ultima<br />

della caverna platonica, intrappolati come la mosca nella bottiglia di<br />

wittgensteiniana memoria, apprendiamo che «i bambini piccoli sono<br />

psicologi spontanei» e ovviamente fisici spontanei 34 . Lo sono per natura<br />

o per cultura? Se ne continua a discutere, sebbene Fodor abbia da<br />

tempo indicato la soluzione, certo a lui più congeniale ma anche, nella<br />

logica cognitivista, la più consequenziale: se avesse dovuto progettare<br />

homo sapiens avrebbe «reso innata la psicologia del senso comune e così<br />

nessuno avrebbe dovuto perdere tempo a impararla!» 35 . Ma poiché<br />

il progettista di homo sapiens non è stato Fodor e poiché non ritengo<br />

che reale e razionale coincidano, e la coincidenza perfetta esibitane dal<br />

computer la ritengo del prodotto e non del processo che lo ha generato,<br />

alla notizia della scoperta dei “neuroni specchio” ho pensato che i<br />

neurobiologi ci potessero aiutare a tirarci fuori dalla rappresentazione.<br />

E invece no, persino loro ricorrono alla teoria!<br />

Certo il problema è ingarbugliato fin dai termini usati, dal momento<br />

che nella letteratura con “psicologia” della “psicologia del senso<br />

comune” si intende sia la psicologia elaborata dallo psicologo sul senso<br />

comune, sia la presunta psicologia ingenua implementata nella testa<br />

di ognuno. L’eliminativismo, riedizione aggiornata del gesto iniziale di<br />

Watson, prospera su questo equivoco, che non consente, però, né di<br />

vincere né di perdere, perché, se è una constatazione che le persone<br />

si comprendono e si fraintendono – “l’accordo con i nostri simili”,<br />

constatato persino dal comportamentista – non lo è teorizzare l’ingenuità<br />

del soggetto come ingenuità epistemologica e presupporre che il<br />

soggetto o è “soggetto epistemico” o, semplicemente, “non può essere”.<br />

Accettare che il senso comune è una teoria significa giocare con<br />

dadi truccati. Né è una via d’uscita dall’“epistemico” se al posto della<br />

“teoria del senso comune” o “teoria della mente” – chiamata anche<br />

“teoria della teoria” – si opta per “la teoria della simulazione”. «La<br />

differenza principale tra la teoria della simulazione e il modello del<br />

senso comune [cioè la “teoria della mente” o “teoria della teoria”] è<br />

che il primo non suppone in chi fa l’attribuzione il possesso cognitivo<br />

di leggi causali che governino il meccanismo di ragionamento pratico<br />

(o qualsivoglia meccanismo che abbia stati mentali in uscita). Il modello<br />

della simulazione non assume che chi fa l’attribuzione la sappia<br />

particolarmente lunga sulla sua psicologia o sulla psicologia dell’altro.<br />

Essa postula invece una capacità di usare la propria psicologia come<br />

una sorta di dispositivo analogico per ricostruire la psicologia dell’altro,<br />

e non ci obbliga ad assumere che chi fa l’attribuzione sia particolar-<br />

26


mente versato in fatto di teoria mentale e di leggi generali» 36 . Si deve<br />

solo supporre che gli esseri umani, e anche le scimmie come vedremo,<br />

siano “particolarmente versati” nel simulare modelli dell’altro nella<br />

propria mente. Modelli o teorie. Se non è un cadere dalla padella alla<br />

brace, è pur sempre attribuire al senso comune gli strumenti teorici<br />

dello psicologo.<br />

«Il modello della teoria del senso comune o “teoria della teoria”, e<br />

il modello della simulazione offrono spiegazioni alternative dell’ascrizione<br />

di stati mentali ad altri (benché non si possa escludere che entrambi<br />

i modelli siano parzialmente veri). Quale sia il più adeguato è cosa da<br />

determinare tramite i metodi empirici della scienza cognitiva» 37 . Era<br />

questo lo stato della situazione quando i “neuroni specchio” – neuroni<br />

della corteccia premotoria che si attivano sia se l’azione è fatta in<br />

prima persona, sia che la si osservi nell’altro – entrarono in campo.<br />

La scoperta, resa nota nel 1996 e che ha riguardato inizialmente la<br />

scimmia e successivamente anche l’uomo, avrebbe potuto consentire<br />

di reimpostare la questione senza teorie e modelli. Ma i neurobiologi si<br />

trovarono con l’interpretazione pronta, e finirono col concordare con<br />

gli psicologi cognitivisti e i filosofi della mente: per la comprensione<br />

dell’altrui azione è necessaria o la “teoria della teoria” o la teoria della<br />

“simulazione”. Inizialmente abbracciarono la “teoria della teoria”, che<br />

tra le due è la meno recente e la più diffusa 38 . In seguito, considerato<br />

che la prima «sottolinea la fondamentale discontinuità cognitiva tra<br />

esseri umani e primati non umani», mentre la seconda «sembra più<br />

incline ad ammettere una continuità tra comportamentismo e mentalismo»<br />

39 , hanno spostato su quest’ultima i loro consensi. «Affrontare il<br />

problema di come gli individui comprendono il comportamento altrui<br />

esclusivamente in termini di una contrapposizione tra specie che si limitano<br />

a “leggere il comportamento” e specie che invece sono in grado<br />

di “leggere la mente” altrui, appare oltremodo semplicistico. Sostenere,<br />

come si fa da più parti, che gli umani sono in grado di attribuire stati<br />

mentali, mentre tutti gli altri animali ne sarebbero incapaci, equivale a<br />

negare la possibilità che l’attitudine al mentalismo possa essere considerata<br />

parte di un modello più generale <strong>delle</strong> facoltà cognitive» 40 . Insomma<br />

il mentalismo, con buona pace di Watson, anche per gli animali.<br />

Considerata implausibile da un punto di vista biologico la “teoria<br />

della teoria”, non rimane altra alternativa che la teoria della simulazione:<br />

«l’osservazione di un’azione implica la simulazione della stessa»<br />

e i neuroni specchio vengono ribattezzati «correlato neuronale della<br />

simulazione». Con la precisazione che «la simulazione come modellizzazione<br />

d’eventi o circostanze, volta a una loro comprensione […]<br />

si discosta sensibilmente dalla concezione di simulazione proposta in<br />

filosofia della mente dai propugnatori della Teoria della Simulazione.<br />

Secondo questa teoria infatti, il processo di simulazione intrapreso<br />

dall’osservatore nell’atto di comprendere il comportamento altrui, è<br />

27


il risultato di un suo deliberato atto di volontà. Il processo di simulazione<br />

incarnata […] è invece automatico, inconscio e pre-riflessivo».<br />

Vale a dire: è il nostro cervello a creare i «modelli del comportamento<br />

altrui allo stesso modo in cui crea modelli del nostro comportamento».<br />

Rimane vero anche per il neurobiologo della simulazione e il suo creativo<br />

cervello, come già per lo psicologo della “teoria teoria” e la sua<br />

creativa mente, che «ciò che definiamo la rappresentazione della realtà<br />

non è una copia dell’oggettivamente dato, ma un modello inter-attivo<br />

di ciò che non può essere conosciuto in se stesso» 41 . Rappresentazione<br />

e solo rappresentazione.<br />

Escher ne aveva dato un’icastica immagine: trattandosi di mano, la<br />

linea ingloba confusivamente la mano che traccia e la mano tracciata.<br />

E mentre per lo scienziato «la mente che esplora se stessa è certamente<br />

la follia <strong>delle</strong> follie» 42 . Il senso comune, nonostante la psicologia scientifica<br />

ce l’abbia messa e ce la metta tutta per dimostrargli il contrario,<br />

continua a distinguere tra braccio rappresentato e braccio reale.<br />

1<br />

A. Clark, Dare corpo alla mente (1997), McGraw-Hill, Milano, 1999, pp. xxv e xxii.<br />

2<br />

S. P. Stich, Dalla psicologia del senso comune alla scienza cognitiva (1983), Il Mulino,<br />

Bologna, 1994, p. 19.<br />

3<br />

M. Wertheimer, Untersuchungen zur Lehre von der Gestalt: ii, “Psychologische Forschung”,<br />

4, 1923, p. 301.<br />

4<br />

J. Mill (1829), cit. in T. Andina, Percezione e rappresentazione. Alcune ipotesi tra Gombrich<br />

e Arnheim, “Aestetica Preprint”, 73, 2005, p. 7.<br />

5<br />

L. Wittgenstein, Della certezza (1969), Einaudi, Torino, 1978, § 467.<br />

6<br />

W. Köhler, La psicologia della Gestalt (1947 2 ), Feltrinelli, Milano, 1961, p. 58. Köhler<br />

parla di un libro.<br />

7<br />

G. Kanizsa, Grammatica del vedere, Il Mulino, Bologna, 1980, p. 157.<br />

8<br />

Ivi, pp. 160 e 162. Kanizsa individua anche altri tipi di errori.<br />

9<br />

Sull’argomento cfr. U. Savardi e I. Bianchi (a cura di), Gli errori dello stimolo, Cierre,<br />

Verona, 1999.<br />

10<br />

M. Henle, Titchener commise l’errore dello stimolo? Il problema del significato nello<br />

strutturalismo (1988), in U. Savardi e I. Bianchi (a cura di), cit., p. 117.<br />

11<br />

S. Marhaba, Lo strutturalismo e il funzionalismo, in Legrenzi (a cura di), Storia della<br />

psicologia, Il Mulino, Bologna, 1980, p. 75.<br />

12<br />

Ibidem.<br />

13<br />

J. B. Watson, La psicologia dal punto di vista del comportamentista (1913), in Id.,<br />

Antologia degli scritti, Il Mulino, Bologna, 1977, p. 53.<br />

14<br />

Id., Il comportamentismo (1930 2 ), Giunti, Firenze, 1983, p. 12.<br />

15<br />

«Nella visione comportamentista c’era una magia, una magia che deve avere attratto<br />

molte persone. Ciò che io vidi in Watson era la possibilità di una modificazione radicale nello<br />

stato dell’essere uomo. Questa modificazione radicale doveva passare attraverso la liberazione<br />

dell’uomo da tutti i miti», D. Bakan, cit. in P. Meazzini, Watson, uomo e scienziato, in J. B.<br />

Watson, Il comportamentismo), cit., p. xlix.<br />

16<br />

B. F. Skinner, 50 anni di comportamentismo. Un’analisi teorica <strong>delle</strong> contingenze del<br />

rinforzo (1969), Isedi, Milano, 1972, p. 70.<br />

17<br />

K. Koffka, Principi di psicologia della forma (1935), Boringhieri, Torino, 1970, p. 20.<br />

18<br />

J. B. Watson, Il comportamentismo, cit, pp. 24 e 11.<br />

19<br />

D. Deleule, <strong>Psicologia</strong> mito scientifico (1969), Angeli, Milano, 1971, p. 52.<br />

20<br />

P. Meazzini, cit., p. xxxvii.<br />

21<br />

J. B. Watson, Il comportamentismo, cit., p. 9.<br />

22<br />

Id., Aspetti fondamentali del comportamentismo (1917), in Id., Antologia degli scritti,<br />

28


cit., p. 76. La psicologia comportamentista «è qualche cosa che ognuno di noi ha usato in<br />

maniera più o meno ampia durante tutta la vita senza chiamarla psicologia», ivi, p. 77.<br />

23<br />

Id., Il comportamentismo, cit., pp. 16-17 e 20, corsivo mio.<br />

24<br />

D. O. Hebb, Mente e pensiero (1980), Il Mulino, Bologna, 1982, p. 38.<br />

25<br />

J. B. Watson, Il comportamentismo, cit., p. 231.<br />

26<br />

W. Köhler La psicologia della Gestalt, cit., p. 25.<br />

27<br />

W. Wundt, Compendio di psicologia (1896), Clausen, Torino, 1900, p. 3.<br />

28<br />

Ivi, pp. 25-26.<br />

29<br />

J. B. Watson, Pensiero e linguaggio (1920), in Id., Antologia degli scritti, cit., p. 154:<br />

«Il comportamentista non ha alcun interesse nei confronti degli stati mentali, perché questi<br />

vecchi concetti verranno via via eliminati in modo irreversibile, man mano che la scienza si<br />

amplierà e si approfondirà».<br />

30<br />

Sull’introspezione, a dispetto del titolo, cfr. W. Lyons, La scomparsa dell’introspezione<br />

(1986), Il Mulino, Bologna, 1993. Quanto all’anima, se La riscoperta dell’anima di I. Hacking<br />

(1995, Feltrinelli, Milano, 1996) è soprattutto un “titolo”, trattandosi di Personalità multiple<br />

e scienze della memoria, come recita il sottotitolo – e però anche così è indicativo del mutato<br />

clima culturale – E. Boncinelli (Il cervello, la mente e l’anima. Le straordinarie scoperte sull’intelligenza<br />

umana, Mondadori, Milano, 1999, p. 281) ce ne fornisce addirittura la definizione<br />

scientifica: «Possiamo insomma definire l’anima come il risultato della sintesi dell’aspetto<br />

computazionale e di quello fenomenologico della mente e contenente almeno una provincia<br />

necessariamente cosciente e accessibile all’introspezione. In questo senso il concetto di anima<br />

comprende quello di mente e abbiamo visto che, se è ragionevole assumere che la mente<br />

risieda nel nostro cervello, possiamo anche vedere l’anima come potenzialmente coincidente<br />

con una parte rilevante del nostro corpo. Il problema è che se il concetto di mente è piuttosto<br />

sfuggente, quello di anima è addirittura inafferrabile. Per non parlare dell’anima del<br />

pipistrello». L’anima ha persino una residenza, ma il suo concetto è inafferrabile! Si è tentati<br />

di dare ragione a Watson.<br />

31<br />

J. B. Watson, Il comportamentismo, cit., p. 20.<br />

32<br />

L. Camaioni, La teoria della mente. Origini, sviluppo e patologia, Laterza, Roma-Bari,<br />

1995, pp. ix-x.<br />

33<br />

Ivi, pp. xiii-vix.<br />

34<br />

A. Karmiloff-Smith, Oltre la mente modulare. Una prospettiva evolutiva sulla scienza<br />

cognitiva (1992), Il Mulino, Bologna, 1995, p. 171.<br />

35<br />

J. A. Fodor, Psicosemantica (1987), Il Mulino, Bologna, 1990, p. 205.<br />

36<br />

A. I. Goldman, Applicazioni filosofiche della scienza cognitiva (1993), Il Mulino, Bologna,<br />

1996, pp. 91-92.<br />

37<br />

Ivi, p. 94.<br />

38<br />

È il caso, per esempio, di E. Boncinelli, cit.<br />

39<br />

V. Gallese, La molteplice natura <strong>delle</strong> relazioni interpersonali: la ricerca di un comune<br />

meccanismo neurologico, “Network”, 1, 2003, p. 30. “Comportamentismo” e “mentalismo”<br />

perdono il loro significato abituale, riferito alle teorie rispettivamente del comportamentista<br />

e del cognitivista, e finiscono col qualificare l’animale e l’umano.<br />

40<br />

Ivi, pp. 30-31.<br />

41<br />

Ivi, pp. 32-33.<br />

42<br />

E. Boncinelli, cit., p. 291.<br />

29


Percezione e immagine nella rappresentazione artistica *<br />

A Luigi con amore<br />

Un’opera d’arte – una poesia, un pezzo musicale, una pittura, una<br />

performance, un’opera teatrale, ecc. – non ci può essere raccontata da<br />

altri, ma ne dobbiamo fare esperienza diretta, vale a dire la dobbiamo<br />

percepire. La fruizione dell’opera, quindi, avviene tramite i sensi. I<br />

termini “percezione” e “rappresentazione artistica”, articolati nel titolo<br />

propostomi 1 , sembrano così individuare chiaramente l’argomento e<br />

delimitare il mio compito: parlare dell’esperienza dell’arte. Certo, la<br />

fruizione dell’opera avviene tramite i sensi. Non è forse arte-sensibilità<br />

uno dei binomi più ricorrenti nella modernità? Ma già questo richiama<br />

alla mente “scienza-intelletto”, l’altro, non meno importante, binomio<br />

costruito dalla filosofia moderna. Non a caso Arte e Scienza, la prima<br />

in rappresentanza dei sensi-sentimento e la seconda dell’intelletto, possono<br />

essere considerate come la coppia più famosa della modernità filosofica.<br />

Una coppia pensata per opposizioni (non-cognitivo/cognitivo),<br />

e (stabilita, alla luce <strong>delle</strong> “sensate esperienze” inaugurate da Galileo,<br />

l’inferiorità dei sensi di contro alla superiorità dell’intelletto) condannata<br />

alla diseguaglianza. Cosicché la costellazione di corollari che la<br />

riflessione sulla coppia ha prodotto è tutta giocata sulla bipolarità: la<br />

soggettività dell’arte vs l’oggettività della scienza; l’illusione dei sensi<br />

vs la realtà della fisica; la soggettività dei qualia vs l’oggettività <strong>delle</strong><br />

qualità primarie, la passionalità dell’arte vs la razionalità della scienza;<br />

l’“ineffabilità” dell’arte vs la totale risoluzione logico-matematica della<br />

scienza; la falsità dell’arte vs la verità della scienza; il mondo apparente<br />

della percezione e dell’arte vs il mondo vero della fisica; e, in ultimo, la<br />

“naturalizzazione” della scienza che sembra echeggiare la presunta “naturalità”<br />

dell’arte. Le opposizioni, che andavano tutte nella direzione<br />

della svalutazione dei sensi e dell’arte quando la psicologia scientifica<br />

fece il suo esordio, finirono per diventare costitutive dell’impianto teorico<br />

della nuova scienza. L’istituzione, più o meno cent’anni dopo, della<br />

* Pubblicato nella “Rivista di estetica”, n.s., 30 (3/2005), pp. 245-268.<br />

31


disciplina “<strong>Psicologia</strong> <strong>delle</strong> arti” 2 , lungi dal significare l’importanza attribuita<br />

dalla psicologia all’arte, sta lì a segnalare proprio il contrario 3 .<br />

La scarsa considerazione dei sensi, mentre può essere messa in relazione<br />

a tutta una serie di fenomeni che affliggono il contemporaneo<br />

– dall’inquinamento acustico e visivo, alla pervasività di una pubblicità<br />

sempre più “gridata”, alla spettacolarizzazione della politica, ecc. – e<br />

forse può anche rendere conto di un’arte sempre più autoreferenziale,<br />

e sempre più incomprensibile 4 , è da riportare alla teoria della mente<br />

che ha individuato nel logico-matematico la struttura del pensare e<br />

ha ridotto i sensi a un ruolo marginale e subordinato. Tale concezione,<br />

sviluppatasi con l’affermarsi dell’“ideale scientifico” moderno 5 ,<br />

ha celebrato il suo trionfo con la nascita dell’intelligenza artificiale: il<br />

computer – l’attuale metafora della mente – è sì privo di sensi, ma è<br />

puro pensiero logico-matematico 6 .<br />

Diventa prioritario, allora, chiedersi come intendere i sensi. Non<br />

solo. Basta pensare ai significati che il termine “rappresentazione” assume<br />

nell’uso comune e a come significa nel cognitivismo e nelle neuroscienze<br />

7 per accorgersi che “rappresentazione” pone non meno problemi<br />

di “percezione”. La situazione si complica se si mette in conto che<br />

per la psicologia scientifica (fin dalla sua nascita e non dalla “rivoluzione<br />

cognitiva” come comunemente si ritiene) ciò che percepiamo è, propriamente<br />

parlando, “rappresentazione” 8 . Inoltre, giusto per rimanere al<br />

termine “immagine” del titolo, si tenga presente che, a parte l’immagine<br />

(mentale) che per la psicologia ha domicilio nella mente 9 , la percezione<br />

visiva, a lungo e a torto, è stata considerata “percezione pittorica”, a<br />

partire dall’analogia istituita da Keplero tra immagine-dipinta e immagine-della<br />

retina. Anzi, «“ut pictura, ita visio”, ossia vedere è sinonimo di<br />

raffigurare» 10 . Perciò – ma potrei continuare a campionare dal groviglio<br />

prodotto dai termini – per affrontare il tema della rappresentazione<br />

artistica discutere i significati di “percezione” e di “rappresentazione” al<br />

fine di disambiguarli, e discuterli tenendo presenti le opposizioni al fine<br />

di smontarle, s’impone come scelta obbligata 11 . La prospettiva teorica<br />

che assumo è quella della psicologia della Gestalt.<br />

L’arte (una pittura, un’opera musicale, una scultura, una poesia,<br />

ecc.) non è un oggetto come un albero, una montagna, una mela, un<br />

arcobaleno, o qualsiasi altro oggetto naturale; è un oggetto prodotto da<br />

un soggetto: un artefatto. Non è neanche un artefatto d’uso comune.<br />

Un tavolo lo possiamo usare per consumare i pasti o per scrivere o<br />

come piano d’appoggio; possiamo girarvi intorno, ballarci il flamenco,<br />

nascondervi qualcosa sotto. Questo e altro non ci è possibile se il tavolo<br />

è dipinto. I prodotti artistici sono oggetti fatti per la percezione: immagini<br />

prodotte nelle logiche di un determinato medium. Oggetti quindi<br />

che impegnano la sensibilità: una musica la dobbiamo ascoltare, e una<br />

pittura la dobbiamo guardare. E sono oggetti complessi 12 che la “teo-<br />

32


ia classica” della percezione non è stata in grado di affrontare senza<br />

dissolverli. Perciò è proprio un oggetto artistico che troviamo nell’atto<br />

fondativo della psicologia della Gestalt, che contro quella teoria ha affrontato<br />

«in modo radicalmente nuovo fisiologia e psicologia» 13 . Oggi<br />

le teorie della percezione – a parte la Gestalt – sono sostanzialmente<br />

due: quella “indiretta” che ha le sue radici in alcuni postulati della teoria<br />

classica e le sue propaggini nell’approccio computazionale; e quella<br />

“diretta” che, in parte, tiene conto della Gestalt. Contrariamente alla<br />

seconda che, con qualche semplificazione ma non senza buone ragioni,<br />

può essere identificata col nome di J. Gibson 14 , la prima, dai molti padri<br />

che sarebbe lungo nominare, presenta una più ampia varietà persino<br />

nominale: indiretta, costruttivista, computazionale. Ciò nonostante in<br />

veste ufficiale circola la versione computazionale di Marr 15 . In filosofia,<br />

dove nell’ultimo scorcio del secolo scorso il problema della percezione<br />

è ridiventato attuale in relazione al realismo 16 e al riferimento 17 , non<br />

mancano critiche alle due teorie psicologiche, ma il punto di massimo<br />

impegno teorico al momento verte su “contenuto concettualizzato” vs<br />

“contenuto non concettualizzato” 18 , che solo in parte si sovrappone<br />

all’indiretto/diretto della psicologia.<br />

Nell’uno e nell’altro campo di dibattito il luogo del contendere non<br />

è l’arte. Chiediamoci: relativamente all’arte è impegnata solo la sensibilità?<br />

Se sì, allora la teoria del contenuto non concettualizzato potrebbe<br />

sembrare la più adeguata; se no, potrebbe sembrarlo quella del contenuto<br />

concettualizzato. E però d’ambo le parti il concetto è, per lo più,<br />

teorizzato come determinato linguisticamente, e poi vi è scarsa considerazione<br />

per l’intuizione, centrale nella riflessione filosofica dell’arte, ma<br />

«un terribile problema per la scienza cognitiva; un problema – sostiene<br />

Fodor – che probabilmente non sarà mai risolto da nessuna teoria di<br />

cui si sia sentito parlare finora» 19 . Altra domanda: giusto per ricordare<br />

Friedrich Schiller, di cui quest’anno cade il bicentenario della morte,<br />

«le forze dell’animo si manifestano anche nell’esperienza così separate<br />

come le distingue lo psicologo nella rappresentazione»? 20 . Per Schiller,<br />

l’Arte, la sua produzione e la sua fruizione, è proprio l’antidoto curativo<br />

per la malattia <strong>delle</strong> forze dell’animo scisse in “puro intelletto” e<br />

in “pura intuizione”. Nelle sue famose Lettere sull’educazione estetica<br />

pone come urgente la necessità di sanare la scissione. Poiché l’impulso<br />

alla sensibilità e l’impulso alla razionalità «esauriscono il concetto di<br />

umanità», quindi «non sono contrapposti per natura», la cultura «deve<br />

rendere giustizia allo stesso modo a entrambi e non deve affermare soltanto<br />

l’impulso razionale contro quello sensibile», o viceversa 21 . Perciò<br />

sostiene che “l’esigenza più impellente” del suo tempo, dedito all’educazione<br />

della “facoltà della ragione”, sia proprio l’educazione dei sensi<br />

o l’educazione della “facoltà del sentimento”.<br />

«Solamente la psicologia, che ha separato cose che si appartengono<br />

l’un l’altra, ritiene che gli scienziati e i filosofi pensino, mentre i poeti e<br />

33


i pittori seguano i loro sentimenti» 22 . «Ci si deve guardare dal pensare<br />

in questo caso in base a categorie importate dalla psicologia; diciamo<br />

dallo scomporre semplicemente l’esperienza in un vedere e in un pensare;<br />

o qualcosa del genere» 23 . Sono due citazioni della prima metà del<br />

Novecento che esemplificano come il problema di Schiller non sia stato<br />

risolto, ma anche di come si sia complicato prima di arrivare a noi.<br />

In Schiller è presente «quella valutazione iperbolica dell’arte e degli<br />

artisti» che durante l’Ottocento si trasformerà in mistica dell’arte e<br />

dell’artista 24 ; se per lui l’educazione artistica doveva servire a riconciliare<br />

sensibilità e intelletto proprio perché l’arte – il farla e il fruirla<br />

– comporta lo sviluppo armonico dell’una e dell’altro, successivamente<br />

si arriverà alla reductio ad unum che sarà il sentimento o la fantasia o<br />

l’immaginazione o l’intuizione, comunque una facoltà per l’arte antitetica<br />

all’intelletto, a sua volta, considerato l’organo della scienza. Dewey<br />

– la prima citazione – metteva in discussione proprio questo modo di<br />

teorizzare; teorie peraltro già travolte dall’effettivo procedere dell’arte<br />

che di s-definizione in s-definizione sarebbe successivamente arrivata<br />

al “concettuale”, e oltre: oltre i sensi e “oltre l’arte”. Nondimeno, che<br />

la critica di Dewey sia stata inefficace nel discorso teorico, non nelle<br />

pratiche dell’arte, lo si capisce se si riflette sull’effetto di novità procurato,<br />

più di trent’anni dopo, dalla denuncia fatta da Goodman ne I<br />

linguaggi dell’arte contro la «dispotica dicotomia fra cognitivo e emotivo»<br />

25 . Quanto a Wittgenstein – la seconda citazione – la situazione è<br />

più complessa: il suo “vedere e pensare” rimanda sia alla soggettività<br />

dei qualia e a ciò che è stato successivamente chiamato il “Mito del<br />

Dato”, sia alla teoria del pensiero-linguaggio, sostenuta dalla psicologia<br />

e rafforzata dalla svolta linguistica che ha imperversato per quasi tutto<br />

il Novecento, e che ha influito non poco anche nel mondo dell’arte.<br />

Questo stato di cose ha comportato, da un lato, che il tema della<br />

percezione, ridotto per lo più a quello dei “dati sensoriali”, nell’agenda<br />

filosofica passò in secondo piano 26 – in quella psicologica vi fu addirittura<br />

chi ritenne di poterlo depennare 27 – e dall’altro, che laddove lo si<br />

è preso in considerazione, è sembrato ovvio intellettualizzare il percetto,<br />

cioè sacrificare la sensibilità e lasciare libero campo all’intelletto, persino<br />

da parte dei teorici dell’arte. Continuo a esemplificare con Goodman il<br />

quale, per criticare la concezione della rappresentazione artistica come<br />

copia, e rivendicare il carattere cognitivo dell’arte e la sua importanza<br />

per la teoria della conoscenza, ha ritenuto necessario sostenere che «la<br />

ricezione e l’interpretazione non sono separabili». Con la conseguenza<br />

che la natura diventa un prodotto dell’arte e della scienza! 28 . Il mondo<br />

non sarebbe altro che le sue rappresentazioni. Che le versioni del<br />

mondo siano tante e che le “rappresentazioni” fornite dalle arti non<br />

siano inferiori alle “descrizioni” fornite dalla scienza, è ottenuto a caro<br />

prezzo. Il relativismo pluralistico, che Goodman oppone al realismo<br />

monistico della fisica, mettendo assieme «versioni percettive, pittoriche<br />

34


o letterarie» e scientifiche, sconfina nel relativismo ontologico. Anzi, il<br />

mondo non è più favola ma, afferma, «è felicemente perduto». Il guadagno<br />

sembra assicurato dalla pluralità dei mondi costruiti. «Possiamo<br />

avere parole senza un mondo ma non mondi senza parole o altri simboli»<br />

29 – sostiene – ad evidenza di ciò che considera ed è considerato<br />

il suo «irrealismo» 30 ; ma anche di come la «perdita del senso della<br />

differenza ontologica tra reale e fiction, tra reale e immaginario» 31 , che<br />

oggi si impone all’attenzione di molti, parta da lontano, e, nello stesso<br />

tempo, di quanto sia necessaria e urgente una “sensata” riconsiderazione<br />

dei sensi, e, per quanto attiene all’arte, anche una teoria della<br />

mente che ne possa rendere conto.<br />

Limiterò le mie riflessione alla percezione visiva, non solo perché<br />

è quella più studiata dalla psicologia e dalle neuroscienze, ma anche,<br />

a parte la sua indubbia salienza per l’esperienza umana 32 , perché è<br />

quella da sempre più “discussa” relativamente al valore epistemologico,<br />

e quella su cui da qualche decennio si è ritornato a ridiscutere appassionatamente.<br />

La visione, dunque, non solo relativamente alla percezione,<br />

ma anche all’arte. La pittura del resto, che nella modernità si è<br />

andata configurando come prototipica <strong>delle</strong> arti, e che nel Novecento<br />

ha avviato le rotture più radicali rispetto alla tradizione, è da tempo<br />

l’avamposto della riflessione sull’arte in generale.<br />

Dicevo dell’indubbia rilevanza per l’esperienza umana e del discusso<br />

valore epistemologico della visione. Non sto confondendo psicologico<br />

ed epistemologico, anzi ritengo che dovrebbero restare accuratamente<br />

distinti. Solo che nell’attuale psicologia – e ciò vale per<br />

la psicologia scientifica dalla sua fondazione ad oggi, con l’eccezione<br />

della psicologia della Gestalt – e in molta filosofia della mente, per<br />

quanto riguarda il plesso problematico sensi-intelletto, o percezione e<br />

pensiero, la confusione tra esperienza e scienza regna sovrana. Esemplifico<br />

con la nozione di illusione percettiva che, basti solo pensare a<br />

Arte e illusione di Gombrich, ha un’indubbia incidenza relativamente<br />

al nostro argomento.<br />

Con le illusioni – «le più curiose tra le percezioni» – «è facile dimostrare<br />

che la percezione non è attendibile. Infatti almeno in laboratorio,<br />

ma in verità anche nelle gallerie d’arte in cui le illusioni abbondano, è<br />

facilissimo ingannare i sensi e disturbare la percezione» 33 . Ad affermarlo<br />

è Gregory uno dei più popolari, anche fuori dell’ambito disciplinare,<br />

psicologi della percezione, ma la formulazione canonica, è arcinoto, la<br />

si trova in Platone 34 . Comunemente chiamate “ottico-geometriche” e<br />

più recentemente “visive”, le illusioni vengono considerate «segnali preziosi<br />

che ci costringono o ci aiutano a riconoscere un problema là dove<br />

non sembrava esserci alcun problema e tutto appariva ovvio. In questo<br />

senso le illusioni percettive hanno rivestito un ruolo importante nella<br />

nascita della moderna <strong>Psicologia</strong> della Percezione» 35 . È proprio questo<br />

35


il punto problematico: il ruolo importante che esse hanno avuto nella<br />

nascita e nello sviluppo della moderna psicologia. Ad esempio, «i lavori<br />

di Piaget e dei suoi numerosi collaboratori nel campo della percezione<br />

riguardano essenzialmente le insufficienze dei sistemi percettivi» 36 . E<br />

Piaget è unanimemente considerato uno dei più grandi psicologi del<br />

Novecento. Ciò che intendo porre come problematico si colloca già a<br />

partire dal tipo di descrizione del fenomeno. Col termine “illusioni”<br />

infatti «vengono designate alcune figure relativamente semplici composte<br />

da pochi elementi [...] che percettivamente si discostano in misura<br />

abbastanza notevole dalla loro configurazione reale. L’effetto può consistere<br />

in modificazioni di forma o di grandezza di parti della figura; si<br />

hanno infatti sovrastima o sottostima di alcuni elementi, deformazioni<br />

di altri, etc.» 37 . Oppure: «Il concetto d’illusione indica situazioni in cui<br />

l’apparato percettivo o sensoriale di un soggetto commette un errore<br />

di valutazione riguardo ai parametri del mondo circostante [...] un<br />

vero e proprio errore di valutazione del mondo reale commesso dal<br />

soggetto» 38 . O ancora: «un’illusione visiva è una percezione che non<br />

corrisponde alla realtà» 39 .<br />

Applichiamo queste definizioni alla «più famosa di tutte le illusioni»<br />

40 , quella di Müller-Lyer. Perché il fatto che si veda “il segmento<br />

con le estremità oblique rivolte verso l’interno” più corto di “quello<br />

con le estremità oblique rivolte verso l’esterno” viene considerato un<br />

discostarsi dalla “configurazione reale”? Qual è la configurazione reale<br />

se non è quella che fa del segmento con “le estremità oblique rivolte<br />

verso l’interno” il segmento più piccolo? Perché chiamare illusione<br />

una configurazione niente affatto illusoria, tant’è che chiunque può a<br />

proprio piacere, e ripetutamente, osservarla? Quali sono i parametri<br />

del “mondo reale” rispetto ai quali viene rilevato l’errore di valutazione?<br />

Qual è “la realtà a cui non corrisponde”? E cos’è un’errore che<br />

non si lascia correggere? Perché il sapere che i due segmenti hanno la<br />

stessa lunghezza non cambia la nostra percezione della figura di Müller-<br />

Lyer? D’altra parte, se consideriamo i due segmenti senza le estremità<br />

oblique, il nostro vedere cambia: li percepiamo uguali. Un vedere che<br />

coincide col pensare? Ma, a parte il fatto che così procedendo non si<br />

tratta più <strong>delle</strong> stesse figure, vedere e pensare, nonostante il secondo<br />

Wittgenstein, vengono considerati processi cognitivi diversi. Su questa<br />

segmentazione del processo cognitivo la modernità ha opposto arte –<br />

prodotto della sensibilità (sensi-sentimento, percezione, affettività) – e<br />

scienza – prodotto dell’intelletto (intelligenza, pensiero, ragione) – fino<br />

a richiedere all’artista il mitico “occhio innocente” e la non meno mitica<br />

“mente vergine”.<br />

Pure non manca chi sostiene che «“le illusioni ottiche” non sono<br />

illusioni». Nel mondo dell’esperienza i segmenti centrali della Müller-<br />

Lyer «non hanno la stessa lunghezza anche se il righello dice il contrario».<br />

Con la precisazione che il righello non misura «le proprietà<br />

36


osservabili degli oggetti ma solo sistemi di relazioni coerenti secondo<br />

una certa logica, i quali cadono in genere fuori dal piano osservazionale;<br />

solo talvolta essi affiorano nell’evidenza visibile, o in generale sensibile»<br />

41 . E del tutto ovvio (ma parrebbe di no) che il soggetto preso in<br />

considerazione dallo psicologo per le ricerche sulla percezione non si<br />

presenti in laboratorio col righello, né glielo si fornisca quando gli si dà<br />

da vedere la figura di Müller-Lyer, o altre consimili. Perché, allora, questa<br />

ostinata pretesa a considerare reale l’aspetto metrico degli elementi<br />

e a parlare di illusione o di errore di valutazione per la configurazione<br />

che il soggetto direttamente vede? Se l’occhio non è un righello – e lo è<br />

tanto poco che il righello lo abbiamo inventato – perché aspettarsi che<br />

funzioni come uno strumento di misura 42 ? Anche se fossimo immersi<br />

nell’«universo della precisione» ed è proprio attraverso lo strumento<br />

che «la precisione s’incarna nel mondo del pressappoco» 43 , le “seste”<br />

negli occhi, di cui parlava Michelangelo, non sono da intendersi come<br />

righello. Bozzi precisa che «queste strutture integrate nell’esperienza<br />

sensibile possono apparire teratologiche o illusorie solo a chi continua<br />

più o meno consapevolmente a credere che il sistema percettivo serva<br />

a darci in presa diretta le fattezze di quel mondo esterno che la fisica<br />

è andata costruendo lungo i secoli» 44 . Abbiamo trovato il cui prodest<br />

dell’annoso problema <strong>delle</strong> illusioni.<br />

Il mondo reale <strong>delle</strong> citazioni è dunque il mondo della scienza, e<br />

non quello dell’esperienza. E l’arte? Se consideriamo che la produzione<br />

e la fruizione artistica, e più in generale, «la comunicazione grafica per<br />

immagini è possibile solo perché non si fonda sugli aspetti squisitamente<br />

e quantitativamente geometrici <strong>delle</strong> tracce utilizzate, ma si fonda<br />

sulle condizioni del loro apparire» 45 (il che individua una diversità non<br />

marginale tra arte e scienza), ci rendiamo conto dell’irrilevanza dell’arte<br />

per una psicologia dominata dalla «esigenza tirannica dell’esattezza<br />

quantitativa» 46 , e guidata dalla presupposizione che percepire è come<br />

fare scienza: «Le illusioni costituiscono la più forte dimostrazione del<br />

fatto che […] le percezioni sono sostanzialmente <strong>delle</strong> ipotesi, molto<br />

simili alle ipotesi predittive della scienza» 47 . Mentre prendiamo atto<br />

che lo spazio teorico <strong>delle</strong> illusioni è creato dalla confusione tra scienza<br />

e esperienza, rileviamo anche che l’importanza assegnata alle illusioni<br />

è la spia di un problema ben più grande che investe la percezione<br />

nella sua globalità: il termine stesso di “illusione” è addirittura giudicato<br />

«forviante in quanto rimanda ad una concezione secondo la quale<br />

esisterebbe una percezione “veridica” del mondo esterno, concezione<br />

che ha fatto il suo tempo» 48 . Cosicché, se tra righello e segmenti isolati<br />

e analiticamente considerati, viene a perdersi proprio la particolare<br />

struttura della figura di Müller-Lyer, più in generale, è il mondo della<br />

comune esperienza e la percezione che ce ne dà l’accesso a perdere di<br />

senso e di valore.<br />

Per Bozzi, come abbiamo visto, persino l’illusione è vera. Bozzi<br />

37


è un gestaltista, e i gestaltisti, senza indebite proiezioni dell’atteggiamento<br />

critico del ricercatore sull’oggetto della loro ricerca – ossia il<br />

soggetto – e dando la giusta importanza alle totalità strutturate di cui<br />

facciamo esperienza, hanno impostato lo studio della percezione in<br />

modo da rendere conto dell’esperienza diretta: di tutte le qualità del<br />

mondo e non solo <strong>delle</strong> cosiddette qualità primarie della fisica. Hanno<br />

anche impostato il rapporto mente-mondo in modo da non sacrificare<br />

l’oggettività del mondo e dell’esperienza che ne facciamo alla soggettività<br />

della mente.<br />

La non veridicità della percezione, la soggettività dei qualia, il mondo<br />

come rappresentazione, la falsità del realismo ingenuo 49 , e in definitiva<br />

la perdita di valore del mondo della comune esperienza si originano<br />

all’interno e per effetto dell’“ideale moderno di scienza”. Le contraddizioni<br />

sorte con la fisica moderna tra esperienza e scienza, misconosciute<br />

o ritenute risolte riducendo in formato-scienza i vari modi in cui si declinano<br />

la sensibilità e la razionalità umana – come se l’unico modo di<br />

fare esperienza fosse quello scientifico – hanno rivoluzionato il concetto<br />

stesso di esperienza: le “sensate esperienze” di Galilei piuttosto che gli<br />

esperimenti da lui realmente condotti o solo immaginati, e le “condizioni<br />

di possibilità della matematica e della fisica” come le “condizioni dell’esperienza<br />

in generale” della prima Critica di Kant sono, in tal senso,<br />

esemplari. Se con Galilei ciò che fa problema sembra solo limitato alle<br />

qualità che verranno poi chiamate “secondarie” (ma vedremo che fin da<br />

subito sono eliminate anche le qualità primarie), e sembra una soluzione<br />

depositarle nella mente, con lo sviluppo della fisiologia il problema non<br />

può essere arginato con la distinzione <strong>delle</strong> qualità, e il “paradosso della<br />

localizzazione” interna/esterna finisce con l’investire l’intero mondo.<br />

Il paradosso deriva dalla contraddizione tra due conoscenze, «quella<br />

fenomenologica: l’uomo sta nel mondo, e quella fisiologica: il mondo<br />

sta nell’uomo» 50 . Percepiamo gli oggetti animati e inanimati fuori di<br />

noi, ma la cosa è considerata, non certo dai gestaltisti, un’ingenuità da<br />

quando sappiamo grazie alla fisiologia che gli oggetti esistono solo se<br />

determinati stimoli attivano i nostri organi di senso e vengono elaborati<br />

dal cervello. Il mondo – ce lo dice la scienza – è dentro di noi, e<br />

l’ingenuità, nonostante Putnam e Gibson 51 , è un atteggiamento sospetto<br />

nell’ambiente smaliziato della ricerca scientifica. «‘Il mondo è una<br />

mia rappresentazione’: ecco una verità valida per ogni essere vivente<br />

e pensante»: è l’incipit, davvero incisivo, de Il mondo come volontà e<br />

rappresentazione di Schopenhauer 52 . Stando così le cose ciò che viene<br />

percepito, tutto e non solo le qualità secondarie 53 , non può che essere<br />

considerato soggettivo. E però, intanto l’ipotesi della proiezione mentale<br />

per spiegare la localizzazione esterna del mondo «è del tutto inadeguata<br />

[…]. Secondo questa teoria le percezioni sarebbero realmente<br />

localizzate dentro di noi se la nostra mente consciamente o inconsa-<br />

38


pevolmente, non fosse così fortemente legata a procedimenti logici di<br />

tipo causale» 54 . In sostanza grazie all’intelletto – il quale, più che da<br />

deus ex machina, parrebbe funzionare come il Dio del fiat lux – non<br />

solo verrebbe raddrizzata l’immagine retinica, come da Keplero in poi<br />

è stato sostenuto, ma si perverrebbe anche alla costruzione del mondo<br />

esterno. Per di più, e sembra un fatto autoevidente mentre ne è solo<br />

una conseguenza logica, la percezione è “teoria-dipendente”, o, nella<br />

formulazione psicologica da Helmholtz ai cognitivisti, “indiretta”.<br />

E nondimeno: se tutto è rappresentazione, “il mondo è una mia<br />

rappresentazione”, che fine fa ciò che chiamiamo “rappresentazione<br />

artistica”? Come distinguere il mondo come rappresentazione e le rappresentazioni<br />

del mondo? Zeusi alza la tenda di Parrasio e gli uccelli<br />

beccano l’uva dipinta! Dell’intelletto di Zeusi non possiamo dubitare;<br />

attribuiamo l’intelletto anche agli uccelli? È la soluzione di Schopenhauer,<br />

per il quale «l’intelletto è la possibilità prima di ogni intuizione»<br />

55 . Ma perché, pur quando abbiamo quadri con uva e altra meravigliosa<br />

frutta, continuiamo a frequentare i fruttivendoli? Ci fa difetto<br />

l’intelletto? O andiamo a comprare la frutta solo dopo avere tentato e<br />

fallito con quella dipinta? E via di questo passo. Prima di considerare<br />

perché per Köhler, uno dei fondatori della psicologia della Gestalt,<br />

il paradosso è «un disgraziato pseudoproblema creato da un ragionamento<br />

scorretto» 56 , cerchiamo di vedere se e in che modo resista in<br />

psicologia il mondo come rappresentazione.<br />

Esemplifico con due citazioni, una relativa alla psicologia generale<br />

e l’altra alla psicologia dello sviluppo. La prima: «Gli esseri umani non<br />

possono, ovviamente, cogliere il mondo in modo diretto; ne posseggono<br />

soltanto una rappresentazione interiore, poiché il processo percettivo<br />

altro non è che la costruzione di un modello del mondo. Noi siamo<br />

incapaci di confrontare direttamente la rappresentazione percettiva del<br />

mondo con il mondo esterno – essa è il nostro mondo» 57 . Johnson-<br />

Laird per convincerci che del mondo possediamo solo rappresentazioni,<br />

retoricamente ci rinvia all’autorevole parere di Einstein: «I concetti della<br />

fisica sono libere creazioni della mente umana, e non sono, diversamente<br />

da quel che si potrebbe pensare, esclusivamente determinati dal mondo<br />

esterno. Nello sforzo che compiamo nel tentativo di capire la realtà<br />

siamo in qualche modo simili ad un uomo che cerchi di comprendere il<br />

funzionamento di un orologio senza avere accesso al meccanismo. […]<br />

Non potrà mai confrontare il suo disegno con il meccanismo reale e<br />

non è nemmeno in grado di immaginare il possibile significato di un<br />

tale confronto» 58 . Comunque stiano le cose relativamente alla fisica,<br />

ad evidenza è falso che Einstein non potesse controllare il “modello<br />

mentale” di pipa con la pipa che incontrava nel mondo esterno. Né,<br />

cercando la sua pipa, si sarebbe accontentato di una pipa qualsiasi, né<br />

tanto meno di una pipa rappresentata, fosse pure quella di Magritte.<br />

La confusione tra esperienza e scienza, costitutiva in psicologia, seppure<br />

39


implicitamente, nel cognitivismo viene tematizzata. Non solo si afferma<br />

che «ciò che vediamo effettivamente è l’interpretazione di quanto accade<br />

nel mondo», ma si teorizza che non è una semplice «coincidenza»<br />

l’equivalenza tra percepire e fare scienza: anche lo scienziato «si trova<br />

di fronte a dati dispersi ed incompleti di variabile attendibilità e (fra le<br />

altre cose) alla scelta di orientare l’attenzione a queste o quelle osservazioni.<br />

Il problema consiste nell’attribuzione di un significato ai dati<br />

raccolti, mediante l’applicazione di una teoria» 59 . Vale a dire: percepiamo<br />

perché teorizziamo.<br />

La seconda: «Gli stati mentali – sia di natura motivazionale, come i<br />

desideri e le intenzioni, sia di natura informazionale o epistemica, come<br />

le credenze e le conoscenze – mediano la nostra attività nel mondo<br />

creando una relazione indiretta con la realtà esterna. Di norma agiamo<br />

sulla base non di come le cose sono realmente ma di come pensiamo<br />

che siano; siamo ineluttabilmente guidati dalle nostre rappresentazioni<br />

della realtà, che tuttavia possono non rifletterla accuratamente o essere<br />

addirittura false. In definitiva, le persone non hanno un accesso diretto<br />

alla realtà, ma se la costruiscono nelle loro menti» 60 . Se le cose stanno<br />

così, cioè se “siamo ineluttabilmente guidati dalle nostre rappresentazioni<br />

della realtà” e non dalla realtà, come fa lo psicologo a saperlo?<br />

Che senso ha parlare di “come le cose sono realmente” se le cose sono<br />

una costruzione della mente? Ma in questa linea di ricerche l’interesse<br />

è rivolto altrove: si ritiene di avere dimostrato che per interagire con gli<br />

altri gli esseri umani siano dotati di una “teoria della mente” e persino<br />

ai bambini piccoli vengono attribuite teorie che di mese in mese diventano<br />

“incommensurabili”. Come commenta J. A. Fodor, «l’idea di base<br />

è che i concetti sono simili ai costrutti teoretici nella scienza come questi<br />

ultimi sono spesso costruiti dai filosofi della scienza post-empiristi» 61 . E<br />

i bambini, e anche questo sembra ovvio, sono come gli scienziati 62 .<br />

Appurato che nella psicologia cognitivista – il paradigma egemone<br />

negli ultimi cinquant’anni – «il mondo è una mia rappresentazione» 63 ,<br />

una rappresentazione per di più non «fedele» data l’esistenza <strong>delle</strong> illusioni<br />

64 , vediamo come Köhler ha reimpostato il problema. Metzger, un<br />

gestaltista di seconda generazione, afferma che «la risoluzione […] finora<br />

non ha trovato la considerazione che si merita, anche perché richiede<br />

uno sforzo di immaginazione piuttosto notevole» 65 . Come che sia, la<br />

soluzione riconosce la legittimità del punto di vista fenomenologico non<br />

solo di quello fisiologico, vale a dire la fisica dell’organismo vivente. Il<br />

“dualismo epistemologico” di Köhler si oppone tanto al riduzionismo<br />

fisicalista 66 quanto al dualismo <strong>delle</strong> sostanze. Per seguire l’argomentazione<br />

bisogna fare attenzione ai termini, segnatamente alle distinzioni<br />

tra “oggetto fisico” o “transfenomenico” e “oggetto fenomenico”, e tra<br />

“organismo ” e “corpo”.<br />

Perché si veda un oggetto è necessario, come insegna la fisiologia,<br />

40


che i raggi luminosi, emanati dal sole o da qualche altra sorgente luminosa,<br />

che colpiscono l’oggetto raggiungano le lenti oculari e vengano<br />

proiettati sulla rètina. Qui numerosi fotorecettori situati nella rètina<br />

analizzano lo stimolo, e i messaggi elettrochimici sono soggetti a ulteriore<br />

elaborazione durante le varie tappe del viaggio verso la destinazione<br />

finale nel cervello. «Se il funzionamento del cervello è normale emerge<br />

un evento percettivo» 67 e se per un qualche soggetto questo lungo<br />

tragitto viene interrotto l’oggetto visivo non esiste. Che cosa consegue<br />

relativamente al rapporto tra oggetto fisico e oggetto fenomenico? Data<br />

la lunga catena processuale, che determina la connessione funzionale tra<br />

la percezione e l’oggetto da cui ha avuto origine il processo, che diritto<br />

abbiamo di «identificare la percezione che troviamo a un estremo della<br />

catena con l’oggetto posto all’altro estremo?». Nessuno. «Se la ferita<br />

non è il fucile che ha lanciato il proiettile – osserva Köhler – allora le<br />

cose che ho davanti a me, le cose che vedo e sento, non possono essere<br />

identiche agli oggetti fisici corrispondenti» 68 .<br />

Che i fondamenti nervosi dell’oggetto fenomenico si trovino all’interno<br />

dell’organismo è un fatto incontrovertibile; tuttavia non ne consegue<br />

che troviamo l’oggetto fenomenico dentro di noi, o che il mondo<br />

sia una mia rappresentazione. «Questa conseguenza sarebbe inevitabile<br />

se, in contrasto con tutti gli altri oggetti fisici, il nostro proprio corpo<br />

ci fosse dato “nell’originale”» 69 . Cioè se avessimo un accesso diretto<br />

all’organismo come sistema fisico, quando invece l’accesso diretto è al<br />

corpo. Ovviamente anche il corpo come fatto percettivo «è la risultante<br />

di certi processi svolgentisi nell’organismo fisico, che iniziano negli<br />

occhi, nei tessuti muscolari, nella pelle, e cosi via, esattamente come<br />

la sedia davanti a me è il prodotto finale di altri processi nello stesso<br />

organismo fisico. Se la sedia si vede “davanti a me”, il “me” di questa<br />

locuzione significa, naturalmente, il mio corpo come esperienza, non<br />

il mio organismo quale oggetto del mondo fisico» 70 .<br />

«Ma come posso dire che una sedia, per esempio, sia una esperienza<br />

oggettiva, se di necessità devo ammettere che dipende da certi<br />

processi svolgentisi nel mio organismo? Su questo terreno essa non<br />

diviene forse soggettiva? Lo diviene e non lo diviene. In questo preciso<br />

momento abbiamo cambiato il significato dei termini “soggettivo” e<br />

“oggettivo”» 71 . Abbiamo scambiato la «soggettività genetica», cioè la<br />

«dipendenza di tutta l’esperienza [compresa quella del fisico con i suoi<br />

“osservabili”] dall’organismo fisico» con la “soggettività psicologica”,<br />

«come se ciò che è geneticamente soggettivo dovesse darsi come soggettivo<br />

nell’esperienza». La soggettività genetica «non è essa stessa un<br />

predicato di cui si abbia esperienza vissuta; è, piuttosto, una relazione<br />

che ascriviamo a tutte le esperienze – e quindi anche a quelle oggettive<br />

– una volta che abbiamo appreso a considerarle come risultati di processi<br />

organici» 72 . Infine va anche precisato che i processi neurologici<br />

«da cui dipendono le cose percepite sono certamente esterni a quelli su<br />

41


cui si basa la percezione del nostro “corpo”» 73 . Il che rende conto del<br />

fatto che la “sedia” nell’esperienza visiva non si trova dentro il corpo.<br />

«Così per quanto sorprendente possa sembrare, il problema che ha<br />

lasciato perplessi tanti studiosi, in realtà non è affatto un problema.<br />

Questo appare evidente non appena facciamo una distinzione tra l’organismo<br />

come entità transfenomenica e il “corpo” come fatto percepito.<br />

Al primo si riferisce l’affermazione che tutte le percezioni vengono<br />

a dipendere da processi interni all’organismo, dove i termini dipendere,<br />

dentro e organismo hanno un significato transfenomenico. Al secondo,<br />

al “corpo” in quanto è percepito, si riferisce l’affermazione che le cose<br />

sono localizzate “fuori di me”, e qui tutti i termini stanno a indicare<br />

fatti fenomenici e il termine “fuori”, in particolare, una relazione fenomenica<br />

nello spazio fenomenico. […] Confondete l’organismo con l’Io<br />

percepito, non distinguete tra lo spazio fisico e lo spazio fenomenico<br />

e avrete il paradosso» 74 .<br />

Il “realismo critico” 75 , che Köhler oppone tanto al neorealismo,<br />

quanto al fenomenalismo 76 e ovviamente al comportamentismo, oggi<br />

si può contrapporre sia al realismo ingenuo 77 sia al cognitivismo per<br />

il quale la rappresentazione costituisce l’interfaccia tra mente e mondo<br />

o addirittura è il mondo. La relazione interattiva soggetto-mondo<br />

è assicurata dai processi dell’organismo. È nel cervello, se proprio si<br />

vuole, e non nella mente che avvengono costruzioni e rappresentazioni<br />

(ma i termini sono quanto mai impropri perché il cervello – un pezzo<br />

di materia – non costruisce e non rappresenta) di cui comunque non<br />

abbiamo nessuna consapevolezza. Il mondo di cui facciamo esperienza<br />

diretta, viceversa, è l’unico mondo, un mondo esterno, strutturato e<br />

corposo, multiforme e colorato, odoroso e gustoso, non un’asettica<br />

rappresentazione interna, né una schematica immagine in analogia con<br />

l’immagine retinica, né tanto meno una semplice apparenza di un mondo<br />

più reale, quale quello della fisica. Quest’ultimo, al contrario, è un<br />

«mondo costruito» 78 , ed è in contrapposizione a esso che «quello davanti<br />

a me ora si poteva chiamare il mondo dell’esperienza diretta» 79 .<br />

Proprio perché abbiamo un mondo hanno senso le immagini del<br />

mondo, immagini scientifiche ma anche artistiche: teorie e rappresentazioni.<br />

Prodotti, le une e le altre, che cercano di rendere conto del<br />

mondo e dell’esperienza che ne facciamo. Si capisce così – contrariamente<br />

alla linea dominante nel pensiero occidentale, e che da Platone<br />

ai nostri giorni è stata variamente articolata – l’importanza che i gestaltisti<br />

danno alla percezione e anche all’arte, dal momento che questa,<br />

contrariamente alla scienza che va oltre il fenomeno, produce proprio<br />

oggetti fenomenici, Gestalten o totalità strutturate. Le rappresentazioni<br />

sono percepite in quanto tali e non vengono confuse con ciò di cui<br />

sono rappresentazioni. «Lo schizzo di una casa rappresenta la casa, ma<br />

la casa non rappresenta quello schizzo» 80 . La distinzione e l’irreversibilità<br />

del rapporto non avrebbero senso se tutto fosse rappresenta-<br />

42


zione. Ed è proprio tenendo conto, non solo del modo di procedere<br />

della scienza, come da Wundt ai cognitivisti è d’uso fare in psicologia,<br />

ma anche del modo di procedere dell’arte, e tenendo ferme le differenze<br />

tra l’una e l’altra e di entrambe con l’esperienza comune, che<br />

i gestaltisti hanno rivoluzionato i concetti relativi al mentale, fino ad<br />

Arnheim, un gestaltista di seconda generazione, per il quale la prestigiosa<br />

Università di Harvard ha istituito la prima cattedra di <strong>Psicologia</strong><br />

dell’arte. Una psicologia, la sua, che prendendo in considerazione la<br />

molteplicità dei media storico-culturali grazie ai quali i processi cognitivi<br />

si manifestano, le caratteristiche peculiari a ciascuno di loro e<br />

il differente uso che se ne può fare, può ben considerarsi “<strong>Psicologia</strong><br />

generale”. Una psicologia la quale, aliena dallo psicologismo che oggi<br />

imperversa come non mai, non confonde gli invisibili processi della<br />

mente con i visibilissimi prodotti della stessa, per salvare l’oggettività<br />

dei quali si è persino ritornati a teorizzare un mondo a parte 81 .<br />

Sebbene l’esperienza fenomenica con tutta la sua ricchezza qualitativa<br />

costituisca la base per la scienza, «il sole fenomenico non è<br />

quello fisico con l’aggiunta <strong>delle</strong> qualità secondarie e con la sottrazione<br />

della struttura atomica e <strong>delle</strong> proprietà elettromagnetiche» 82 . Il sole<br />

della fisica è un oggetto “transfenomenico”. «Merleau-Ponty accorderà<br />

maggiore valore al sole dell’astronomo o al sole del contadino?», chiede<br />

il filosofo educato a considerare l’esperienza scientifica il modello<br />

esemplare di qualsiasi esperienza. «Non sperimento forse un modo di<br />

pensare che mi insegna che il sole dell’astronomo è comunque superiore<br />

al sole del contadino?» Ebbene sì, «sono assolutamente di questo<br />

avviso», risponde Merleau-Ponty 83 . E, nonostante difenda il “primato<br />

della percezione”, manca di precisare che il sole di cui facciamo esperienza<br />

diretta è quello del “contadino”, anche quello di van Gogh,<br />

ma certo non quello “costruito” dell’astronomia. Persino Copernico,<br />

a dispetto della sua teoria, l’ha visto “sorgere” all’alba e “tramontare”<br />

all’imbrunire, e ne avrà percepito le qualità fenomeniche. E persino<br />

Galilei (non meno di Democrito nell’antichità) – con cui inizia nella<br />

modernità la distinzione tra qualità oggettive (le primarie) e qualità<br />

soggettive (le secondarie), tematizzata successivamente soprattutto dai<br />

filosofi “idea-isti” 84 – ha incontrato nella sua vita quotidiana quegli<br />

odori e sapori e suoni e colori che ha espunto dalla fisica.<br />

La distinzione tra qualità primarie oggettive e qualità secondarie<br />

soggettive o qualia, che all’inizio della rivoluzione scientifica moderna<br />

è sembrata assicurare l’oggettività della fisica, e per converso è servita<br />

a teorizzare la soggettività dell’arte, nonostante continui ad avere, soprattutto<br />

al di fuori dell’ambito specialistico <strong>delle</strong> neuroscienze, un’immeritata<br />

fortuna 85 , non regge. Il principio della soggettività genetica,<br />

«applicato coerentemente» 86 , coinvolge anche le qualità primarie. Poiché<br />

la connessione funzionale tra sistema percettivo e oggetto fisico<br />

43


è valida in generale, tutte le qualità sono “geneticamente soggettive”.<br />

Perciò Galilei, se fosse in possesso <strong>delle</strong> attuali conoscenze neuroscientifiche<br />

– secondo l’esperimento immaginario di Tononi – non potrebbe<br />

non riconoscere che «anche le cosiddette qualità primarie care ai fisici<br />

come la massa e l’estensione» sono “geneticamente soggettive”. Ma<br />

da qui a concluderne che come «colori e sapori […] sono nell’occhio<br />

e nella lingua di chi guarda», pure la massa e l’estensione lo sono, ce<br />

ne corre. Esplicita solo l’opzione soggettivistica di Tononi. Galilei, al<br />

contrario, potrebbe – e gli sviluppi scientifici non sarebbero d’ostacolo<br />

– trarne la conclusione che pure i colori e i sapori sono qualità che<br />

troviamo negli oggetti. E anche se, grazie all’aggiornamento procuratogli<br />

nell’esperimento immaginario, è venuto a sapere di Berkeley, Kant e<br />

Schopenhauer non è detto che concederebbe a Tononi che «la natura<br />

è una creazione della mente» 87 , come se la natura fosse la fisica, questa<br />

sì “creata”, ma dagli scienziati e non dalla mente. E forse produrrebbe<br />

argomenti contro la concezione che l’universo è «un universo di coscienza»<br />

88 . Potrebbe poi, giudicando «impossibile ridurre la struttura<br />

qualitativa del mondo sensibile a una descrizione fisico-matematica» 89 ,<br />

ritenere non valida «la derivazione del qualitativo dal quantitativo» 90 , e<br />

optare per «il programma di ricerca della morfodinamica» di Petitot 91 .<br />

Grazie alle possibilità di simulazione consentite dal computer potrebbe,<br />

trovando i frattali più adeguati dei suoi cerchi e triangoli a descrivere la<br />

natura, mettersi a studiare i “sistemi dinamici” 92 . E se intanto prendesse<br />

in considerazione il dualismo epistemologico di Köhler, volto proprio a<br />

salvaguardare uno spazio teorico per Principi dinamici in psicologia 93 ?<br />

Dopotutto, «a prescindere da qualunque teoria, l’osservazione stessa<br />

ci presenta un dualismo tra le percezioni e le loro cause esterne» 94 .<br />

Si accetti o meno il dualismo köhleriano, rimane vero che se dallo<br />

studio del cervello traiamo la conseguenza che l’esperienza stessa è<br />

soggettiva stiamo solo confondendo fisico e fenomenico o scienza e<br />

esperienza. La conclusione che l’esperienza sia soggettiva è indebita:<br />

sembra poggiare su un solido fondamento scientifico – i fatti della<br />

fisiologia – mentre è radicata su una confusione. Per di più le qualità<br />

del mondo fenomenico non sono solo quelle valutate primarie e secondarie;<br />

né l’ordine <strong>delle</strong> priorità è quello stabilito per le esigenze della<br />

fisica moderna. Il percetto è dinamico e le qualità espressive, o terziarie<br />

come vengono anche chiamate 95 , sono della massima importanza,<br />

e tutte – primarie, secondarie e terziarie – sono oggettive. Per inciso,<br />

la diversa lunghezza dei due segmenti orizzontali della cosiddetta illusione<br />

di Müller-Lyer, dovuta alla particolare dinamica che le estremità<br />

oblique diversamente orientate determinano, è oggettiva, a meno di<br />

non considerare oggettive solo le parti separate e negare realtà, contro<br />

ogni evidenza, alle interrelazioni che ne determinano la struttura<br />

dinamica. Ma è anche vera? Dipende. Come abbiamo visto per quella<br />

piccola parte di psicologi che si riconosce gestaltista non è un’illusione,<br />

44


mentre è falsa per la stragrande maggioranza degli psicologi. Abbiamo<br />

anche visto che le ragioni vengono trovate nella fisica.<br />

«Dato che il mondo fisico non fa da garante per la credenza espressa<br />

da un soggetto posto davanti alla figura di Müller-Lyer (“Le due linee<br />

davanti a me sono di lunghezza diversa“), viene invocato un mondo<br />

fenomenico in cui esistono veramente due linee di lunghezza differente».<br />

Intanto con la frase “Le due linee davanti a me sono di lunghezza<br />

diversa”, il soggetto, anche quando dovesse dire “Credo che le due<br />

linee…”, non esprime una credenza ma constata una differenza. Non si<br />

tratta, poi, di invocare un mondo fenomenico, e quindi di moltiplicare<br />

«indebitamente il numero dei mondi esistenti», come temono gli autori;<br />

si tratta solo di non accettare il loro punto di partenza – la fisica – il<br />

loro ritenere che «non c’è un altro mondo oltre a quello descritto dalla<br />

fisica» 96 . Certamente non ci sono più mondi. Ma il mondo non è quello<br />

“variabile” della fisica: la fisica di Aristotele non è la fisica di Galilei<br />

e la “descrizione” del mondo fatta da Newton non è quella fattane dalla<br />

scuola di Copenhagen. L’unico mondo, al contrario, è proprio quello<br />

fenomenico, il mondo in cui quotidianamente operiamo, e nel quale<br />

elaboriamo sofisticate pratiche culturali che non sono solo la scienza,<br />

ma la giurisprudenza, il commercio, la politica, la scuola, l’arte, ecc.<br />

Ognuna di queste pratiche ha le sue logiche, i suoi strumenti operativi,<br />

le sue verità, i suoi criteri di valutazione, i suoi livelli di eccellenza, la<br />

sua deontologia, la sua storia, le sue rivoluzioni e la sua “descrizione”.<br />

E certo la fisica non può pretendere di “fare da garante” per il mondo<br />

nella sua totalità.<br />

Sicuramente lascia fuori, oltre a cose come la neonata ontologia del<br />

telefonino 97 , le qualità sensibili. E se ancora per quelle secondarie si<br />

tratta solo di essere ritenute “false”, quelle espressive sembrano inesistenti.<br />

Nell’ordine dell’esperienza, come insegna la psicologia della Gestalt<br />

e come tutti – persino il resto della psicologia – trascurano, sono<br />

queste le qualità percettive primarie, e si colgono non solo tramite il<br />

senso della vista ma tramite tutti gli altri sensi: le qualità espressive<br />

– «modalità del comportamento organico e inorganico che appaiono<br />

nell’aspetto dinamico degli oggetti e degli eventi percettivi» 98 – sono<br />

primarie in quanto «sono ciò che viene percepito in primo luogo».<br />

Perciò, come osserva Arnheim, anche “la fisica primitiva” ne ha tenuto<br />

conto 99 . Galilei, che aveva frequentato l’Accademia fiorentina di<br />

disegno, ne faceva parte e frequentava artisti, è consapevole della loro<br />

importanza, ma non disponendo della nozione di qualità primarie e<br />

secondarie né tanto meno di quella tutta novecentesca di qualità terziarie,<br />

mette queste ultime fuori gioco assieme a colori, odori, sapori,<br />

suoni, e lascia in campo solo «le figure, i numeri e i moti». Senza nomi<br />

che le riassumano 100 .<br />

Questo non autorizza a ritenere che la fisica moderna si basi sulle<br />

qualità primarie. Lo stereotipo si nutre di una metafora: il libro della<br />

45


natura scritto in linguaggio matematico. La matematica «possiede una<br />

logica incorporata» 101 , e le “figure” di cui argomenta Galilei non sono<br />

le forme degli oggetti. Non solo mancano dell’espressività intrinseca a<br />

ogni oggetto, ma sono pure astrazioni: oggetti concepiti e non forme<br />

degli oggetti. «Il mondo <strong>delle</strong> qualità sensibili immediatamente accessibile<br />

alla conoscenza viene sostituito da un mondo di grandezze, forme,<br />

e rapporti, da un mondo suscettibile di misurazioni» 102 . Ciò vale in<br />

generale, non solo per la modernità. La scienza – pre-galileiana, galileiana<br />

e post-galileiana – “trascende” le qualità dell’esperienza comune.<br />

Pertanto, sostenere che le qualità primarie sono quelle prescelte dalla<br />

fisica moderna è una semplificazione che, oltre a occultare la differenza<br />

tra esperienza e scienza, non rende conto della diversità tra gli “oggetti<br />

visibili” dell’esperienza e gli “osservabili” della scienza. Senza volere<br />

essere platonici, gli enti matematici non sono oggetti che incontriamo<br />

nel nostro mondo. E parlare di “fisica ingenua” o di “fisica aristotelica”<br />

103 per le conoscenze che ci guidano nell’uso quotidiano con<br />

gli oggetti, come dagli anni ’70 si fa in psicologia e dintorni, a parte<br />

l’incredulità che genera la qualifica di “ingenuo” che ne risulta per<br />

Aristotele, che è ben al di là della “primitività” di cui parla Arnheim,<br />

è la spia della convinzione profondamente radicata che la conoscenza<br />

è solo scientifica, e che il soggetto studiato dalla psicologia è teleonomicamente<br />

votato alla scienza: come fosse il soggetto epistemico<br />

elaborato dalla filosofia moderna.<br />

L’arte è una pratica culturale non meno complessa della scienza.<br />

La sua “naturalità” è un mito della modernità. Un musicista può conoscere<br />

la fisica del suono ma non gli basta a comporre musica; e<br />

per un pittore rimane vero che il rosso è una particolare lunghezza<br />

d’onda, ma deve pure sapere che lo stesso rosso non rimane lo stesso<br />

accanto a un blu o a un giallo, come pure la stessa forma o la stessa<br />

grandezza. Anche nell’arte si “trascende” l’esperienza quotidiana ma<br />

in un modo sostanzialmente diverso dalla scienza. Se nella scienza si<br />

è fatto a meno <strong>delle</strong> qualità sensibili, viceversa, tutte le qualità, e soprattutto<br />

quelle espressive, costituiscono il campo operativo dell’arte.<br />

Si pensi ai moti dell’animo di Leonardo; con la precisazione che per<br />

i gestaltisti l’espressione umana è un caso particolare di un fenomeno<br />

ben più generale.<br />

Il nucleo comune a tutte le arti, caratteristica non surrogabile da<br />

altre attività della mente, è quindi l’espressione: «L’unicità dell’arte<br />

consiste nel suo essere capace di interpretare l’esperienza umana attraverso<br />

l’espressione sensoriale. Nelle arti visive, indipendentemente dal<br />

fatto che un artista scolpisca o dipinga con le tecniche tradizionali o<br />

inchiodi materassi su tavole di compensato, il criterio rimane lo stesso.<br />

Le opere architettoniche, letterarie e musicali si fondano sullo stesso<br />

assioma di base – anch’esse cioè parlano attraverso i sensi che ci sono<br />

46


stati assegnati: la vista, l’udito e il tatto» 104 . Le caratteristiche che fanno<br />

della dinamica percettiva lo strumento dell’espressione artistica sono<br />

tre: (1) «il gioco <strong>delle</strong> forze, al di là dei particolari soggetti, conduce<br />

a ciò che sta alla loro base. Forze fisiche caratterizzano gli elementi<br />

del vento, dell’acqua, del fuoco. Pertanto rendono vive le immagini<br />

della natura, le nuvole, le cascate, gli alberi agitati dal vento. Le forze<br />

fisiche animano altresì i corpi degli stessi animali e degli esseri umani.<br />

La dinamica percettiva, tuttavia, giunge più lontano; essa in più rappresenta<br />

le forze della mente». (2) «Poiché le forze agiscono allo stesso<br />

modo in tutte le sfere dell’esistenza, l’azione dinamica in una sfera si<br />

può usare per simboleggiare quella di un’altra. Fin dall’infanzia, siamo<br />

abituati spontaneamente a pensare e a parlare per metafore perché la<br />

concretezza degli eventi visibili serve a illustrare la dinamica di altri<br />

eventi meno direttamente visibili». (3) «Quando si guarda l’immagine<br />

architettonica dell’innalzarsi di un arco o di una torre, o si guarda il<br />

cedere di un’albero piegato dalla tempesta, si ricevono più informazioni<br />

di quante non ne siano recate dall’immagine. La dinamica trasmessa<br />

dall’immagine risuona nel sistema nervoso del fruitore» 105 . «Se l’arte<br />

è stata isolata come emotiva ciò è servito a rendere conto dell’enfasi<br />

che essa pone» sulle qualità espressive 106 . Ma questo non significa che<br />

fare arte sia un’attività più emotiva del fare scienza: ogni attività umana<br />

«comporta un atto cognitivo, uno sforzo motivazionale determinato<br />

dalla cognizione, e un eccitamento causato da entrambi» 107 . Pertanto<br />

anche gli scienziati non possono non avere “i loro sentimenti” e anche<br />

gli artisti non possono non “pensare” – giusto l’avvertimento di<br />

Dewey – se solo la si smette di pensare alla cognizione scomponendola<br />

in astratte facoltà e al pensare uniformandolo a uno dei suoi esiti: il<br />

prodotto logico-matematico.<br />

Percepire un oggetto significa coglierne i caratteri salienti e astrarne<br />

la struttura, sì da identificarlo nelle variazioni che presenta e riconoscerlo<br />

nei diversi contesti. Poiché, analizzandone le funzioni svolte, i<br />

percetti hanno i caratteri tradizionalmente assegnati al concetto, Arnheim<br />

sostiene che i percetti sono concetti – «concetti percettivi» – e<br />

parla «dell’intelligenza della percezione» 108 molto prima che per effetto<br />

del fallimento simulativo della percezione se ne cominciasse a discutere<br />

nelle scienze cognitive, senza, tuttavia, che ciò portasse a rivedere la<br />

concezione moderna della diversità strutturale di percezione e pensiero<br />

109 . La cognizione non è divisibile in processi inferiori (raccolta <strong>delle</strong><br />

informazioni grezze tramite i sensi) e processi superiori (elaborazione<br />

concettuale da parte dell’intelletto). La scomposizione in “un vedere”<br />

e in “un pensare” – verso la quale ci metteva in guardia Wittgenstein e<br />

contro la quale oggi depongono i dati <strong>delle</strong> neuroscienze 110 – non tiene<br />

conto di quanto si può pensare guardando (l’artista) e di quanto si può<br />

vedere pensando (il matematico). Percezione e pensiero sono interdipendenti<br />

e «l’astrazione è il legame indispensabile, e invero il tratto<br />

47


più essenziale, tra il percepire e il pensare. Per parafrasare la sentenza<br />

di Kant: la visione senza astrazione è cieca; l’astrazione senza visione è<br />

vuota» 111 . Ora, poiché il detto di Kant, letterale, non parafrasato, e con<br />

tutto il peso che l’impianto epistemologico della prima Critica comporta,<br />

è molto presente nella filosofia della mente e nell’attuale dibattito<br />

filosofico, e poiché quanti, per ripristinare la differenza tra esperienza e<br />

scienza, ritengono di difendere le postazioni negando le evidenti capacità<br />

concettuali della percezione, la posizione di Arnheim, non può che<br />

risultare incomprensibile, o, nella migliore <strong>delle</strong> ipotesi, fraintesa 112 . È<br />

necessario capire che i “concetti percettivi” non sono da confondere<br />

con il “contenuto intellettualizzato” della prima posizione (né hanno<br />

nulla a che fare con la nozione di percezione della Critica della ragion<br />

pura pensata per la scienza); viceversa, a mio modo di vedere, ne sono<br />

una rigorosa critica, e salvaguardano la necessaria differenza tra esperienza<br />

e scienza sostenuta, a ragione, dalla seconda.<br />

Con i concetti percettivi la tradizionale distinzione di intuizione e<br />

intelletto, o sensi e ragione, o immaginazione e pensiero, o sentimento<br />

e ragionamento, che ha dato luogo a una gerarchizzazione teorizzata<br />

nell’ordine genetico e nell’ordine storico, come fosse iscritta nelle facoltà<br />

della mente e riflessa nei prodotti culturali, viene da Arnheim risolta<br />

nell’inscindibile unità del pensiero che è sempre percettivo. Un pensiero<br />

sensibile: legato ai sensi e che coglie il senso. Intuizione (sensi-percezione)<br />

e intelletto (pensiero-intelligenza) non sono facoltà diverse, bensì<br />

aspetti diversi della stessa funzione: modalità del pensiero percettivo. I<br />

due aspetti, o processi «intimamente» legati, «sono come paralizzati se<br />

non possono contare l’uno sull’aiuto dell’altro». Le deficienze dell’uno<br />

sono infatti le prerogative dell’altro, e viceversa. La polidimensionalità<br />

caratterizza l’intuizione, la monodimensionalità o linearità caratterizza<br />

l’intelletto. L’una è il procedimento del pensiero quando tratta l’insieme<br />

nell’interazione reciproca e simultanea <strong>delle</strong> varie componenti; l’altra,<br />

quando procede all’isolamento <strong>delle</strong> diverse componenti e relazioni<br />

ordinandoli in sequenze. «Prigioniera di un mondo quadridimensionale<br />

di continuità e di simultaneità spaziale, la mente opera da un lato<br />

intuitivamente, cogliendo i prodotti <strong>delle</strong> forze di campo liberamente<br />

interagenti; dall’altro, traccia intellettivamente sentieri monodimensionali<br />

attraverso il paesaggio spaziale» 113 . Pertanto, intuizione e intelletto<br />

«devono cooperare tra loro fin dall’inizio e per sempre», ed entrambi<br />

«sono comuni a tutte le attività dell’uomo» 114 .<br />

Il sinolo percezione-pensiero – che non intacca minimamente la distinzione<br />

tra l’“incontrato” e il “rappresentato”, per usare la terminologia<br />

di Metzger, né annulla la differenza fenomenologica tra “vedere”<br />

e “pensare” come teme Kanizsa – e la dinamica percettiva servono a<br />

definire ciò che Arnheim intende per arte e a individuare anche la funzione<br />

che quest’ultima assolve. «In qualsiasi condizione l’arte ha sempre<br />

adempiuto alla propria funzione principale, sebbene quasi sempre di-<br />

48


sconosciuta, di rendere visibile e udibile la natura e il significato dell’esistenza<br />

umana» 115 . L’arte è quindi un prodotto dell’attività cognitiva<br />

volta alla comprensione, e non il luogo privilegiato della creatività senza<br />

regole o del “soggettivismo capriccioso”, opposta alla scienza come unico<br />

luogo della serietà del pensiero, e dell’esperienza oggettiva. Il sinolo<br />

percezione-pensiero – invisibile se si è dentro la logica del pensierolinguaggio<br />

o del pensiero computazionale – non è specifico <strong>delle</strong> arti,<br />

bensì del funzionamento reale della mente, qualunque sia l’attività in cui<br />

è impegnata, compresa la scienza. La scienza e l’arte non vanno però<br />

confuse con la comune esperienza, perché ne sono un’interpretazione<br />

e un trattamento altamente specializzato e organizzato tramite media<br />

storico-culturali.<br />

L’arte è rappresentazione; non basta a renderne conto solo la percezione,<br />

a meno di non azzerare la differenza fondamentale tra un’esperienza<br />

e la rappresentazione della stessa in un medium artistico. «La<br />

visione originaria, poniamo, della qualità trasparente di una cascata<br />

può essere quanto mai precisa per quanto riguarda le sue caratteristiche<br />

percettive ed espressive. Tuttavia una tale esperienza non consiste<br />

in primo luogo né di linee o colori che possono venire semplicemente<br />

trasferiti sulla tela, né di parole che possono venire semplicemente<br />

registrate sulla carta. […] Non vi è trasformazione diretta dell’esperienza<br />

in forma; vi è piuttosto una ricerca di qualche cosa che le equivalga»<br />

116 . Questo equivalente è il “concetto rappresentativo”, «quel<br />

concetto della forma grazie al quale la struttura percepibile dell’oggetto<br />

può venire rappresentata tramite le proprietà di un determinato<br />

medium» 117 .<br />

Un ultimo punto. «Con dei contadini, per esempio, a volte ho dubitato<br />

che sappiano che cosa è un paesaggio, un albero. Sì. Le sembrerà<br />

strano. Ho fatto a volte <strong>delle</strong> passeggiate, ho accompagnato dietro la<br />

sua carretta un fittavolo che andava a vendere le patate al mercato. Egli<br />

non aveva mai visto la Saint Victoire. Sanno che cosa è stato seminato<br />

qui, là, lungo la strada, che tempo farà domani, se la Saint Victoire<br />

è incappucciata oppure no, […] ma che gli alberi siano verdi e che<br />

questo verde è un albero, che questa terra è rossa, e questi rossi franosi<br />

sono colline, io non credo, realmente, che la maggior parte di loro<br />

lo sentano, che lo sappiano, al di là del loro inconscio utilitario» 118 .<br />

Per comprendere la verità di questo pensiero di Cézanne e, tuttavia,<br />

non stupirsi dell’inclinazione del contadino bisogna considerare che la<br />

percezione finalizzata alla rappresentazione artistica, cioè volta a creare<br />

un’equivalente che rappresenti il percetto, è una percezione specializzata:<br />

del resto è lo stesso Cézanne a insistere sull’“occhio educato” del<br />

pittore. Più in generale, ciascuna arte impone restrizioni sensoriali che<br />

non si danno nell’esperienza diretta, ecologicamente intesa. Così, ad<br />

esempio, l’assolutezza dell’occhio per l’arte visiva, a partire dal particolare<br />

interesse per la visibilità, è un sofisticato artificio culturale dal<br />

49


momento che «i nostri occhi non sono un meccanismo che funzioni<br />

indipendentemente dal resto del corpo; ma lavorano in costante collaborazione<br />

con gli altri organi sensori» 119 . Ciò da una parte rende<br />

conto del fatto che le qualità dell’esperienza, isolate e trattate tramite<br />

un particolare medium, possono raggiungere nell’immagine un grado<br />

di evidenza superiore a quello che hanno nella realtà, dall’altra che la<br />

percezione dell’immagine non è la percezione del mondo. Anche quando<br />

rimanda a un oggetto, giusto l’avvertimento di Magritte – Ceci n’est<br />

pas une pipe – è un “tradimento” se si pretende che «la rappresentazione<br />

di una pipa È una pipa» 120 ; ed è un fraintendimento se l’immagine<br />

la si confina nel suo essere solo rappresentazione e non anche,<br />

e contemporaneamente, nel suo funzionare come «autoimmagine» 121 .<br />

1<br />

Il presente lavoro riprende e sviluppa una lezione omonima tenuta il 31 maggio 2005,<br />

presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Cagliari per il Ciclo di<br />

Seminari interdisciplinari Percezione, Conoscenza, Arte. Kant, Criticismo, Fenomenologia. Ho<br />

interpretato il mio compito tenendo presente i nodi problematici individuati dagli organizzatori<br />

– Pier Luigi Lecis, Maria Teresa Marcialis e Maria Barbara Ponti – che ringrazio per<br />

l’invito e per avere orientato le mie riflessioni.<br />

2<br />

La disciplina decolla nel 1968 presso il Department of Visual and Environmental Studies<br />

della Harvard University. Il 1879, data della fondazione del laboratorio di Wundt, se non<br />

proprio la data di nascita della psicologia scientifica, è quanto meno ritenuto l’anno dell’atto<br />

ufficiale di registrazione «della dichiarazione d’indipendenza della psicologia», convenzionalmente<br />

utilizzato per «festeggiamenti e bilanci», E. Hearst, Un secolo: temi e prospettive<br />

(1979, in Id. (a cura di), Cento anni di psicologia sperimentale. i. Le origini della psicologia<br />

sperimentale. I processi cognitivi, Il Mulino, Bologna, 1989, p. 34.<br />

3<br />

Cfr. L. Pizzo Russo, Che cos’è la psicologia dell’arte, “Aesthetica Preprint”, 32 (1991);<br />

ed Ead., Le arti e la psicologia, Il Castoro, Milano, 2004.<br />

4<br />

È questa la posizione di Rudolf Arnheim – cfr. soprattutto Per la salvezza dell’arte.<br />

Ventisei saggi (1992), Feltrinelli, Milano, 1994 – il maggiore studioso di <strong>Psicologia</strong> dell’arte.<br />

5<br />

«La rivoluzione scientifica del xvi-xvii secolo consistette non solo e non tanto in una<br />

serie di scoperte che rivoluzionarono i paradigmi dell’astronomia (Copernico, Keplero, Galileo)<br />

o della meccanica (Boyle, Lavoisier), quanto nel sorgere e divenire istituzionale di un<br />

nuovo ideale di scienza, ideale che si differenziava sostanzialmente da quelli che avevano guidato<br />

l’attività conoscitiva degli uomini di scienza dell’antichità e del medioevo e che le nuove<br />

scoperte semplicemente rendevano realizzabile», S. Amsterdamski, Scienza, in Enciclopedia,<br />

12, Einaudi, Torino, 1981, p. 535.<br />

6<br />

Giusta l’osservazione di S. Kramer (Pensiero come computazione: la genesi di un paradigma<br />

della scienza cognitiva, “Sistemi intelligenti”, 3, 1993, p. 338), «ciò che originariamente<br />

era inteso come una tecnica di conoscenza, che sancisce una norma relativa a come dobbiamo<br />

condurci nel pensiero al fine della verità, diventa una descrizione di ciò che di fatto facciamo<br />

quando pensiamo. Un metodo epistemologico legato a convenzioni si trasforma in un accadimento<br />

mentale interno all’individuo».<br />

7<br />

«Il concetto di rappresentazione costituisce il cuore <strong>delle</strong> teorie computazionali», M. W.<br />

Eysenck (a cura di), Dizionario di psicologia cognitiva, 1990, Laterza, Roma-Bari, 1994, p. 158.<br />

Ciò perché «la scienza cognitiva viene predicata [sic] nella convinzione che sia legittimo – e<br />

anzi di fatto necessario – porre un livello di analisi separato, che può essere chiamato “livello<br />

della rappresentazione”. Uno scienziato quando lavora a questo livello, si affaccenda attorno<br />

a entità rappresentative, come simboli, regole, immagini – il materiale della rappresentazione<br />

che si trova in una posizione intermedia fra input e output – e inoltre esplora i modi in cui<br />

queste entità rappresentative vengono unite, trasformate o poste l’una a contrasto con l’altra»,<br />

H. Gardner, La nuova scienza della mente. Storia della rivoluzione cognitiva (1985), Feltrinelli,<br />

Milano, 1988, pp. 52-53. Contro l’opinione che se la “rappresentazione” «è un articolo di<br />

50


fede per la maggior parte degli psicologi», non lo sarebbe per i neuroscienziati (ivi, p. 54),<br />

esemplifico, e non è un’eccezione, con E. Bisiach (Mente, coscienza e sistema nervoso, in Il<br />

problema mente-corpo. Atti del convegno organizzato nell’ambito del tema per l’assegnazione<br />

del premio Cortina – Ulisse 1991, CEDAM, Padova, 1992, p. 150): «Come è stato osservato<br />

da François Jacob tutto conduce a inferire una realtà biologica costituita dalla rappresentazione<br />

del mondo esterno da parte del cervello (1981, p. 101). Il volto soggettivo di questa rappresentazione,<br />

cioè l’esperienza fenomenica come percezione o immagine mentale endogena, ha<br />

qualità spaziali. Il risvolto oggettivo, cioè il complesso di attività nervose che costituiscono la<br />

rappresentazione del mondo esterno ha una struttura spaziale che per quanto è possibile inferire<br />

dai dati empirici anzi che sulla base di simulazioni artificiali, è funzionalmente rilevante».<br />

8<br />

«Ora è certo che si danno contenuti dell’esperienza i quali cadono solo sotto la ricerca<br />

psicologica, sì che non hanno riscontro cogli oggetti e processi di quella esperienza di cui<br />

tratta la scienza della natura; tali sono i nostri sentimenti, l’emozioni, le risoluzioni del volere.<br />

D’altra parte non v’è alcuno speciale fenomeno naturale, il quale sotto un diverso punto di<br />

veduta, non possa essere anche oggetto della ricerca psicologica. Una pietra, una pianta, un<br />

suono, un raggio di luce, sono come fenomeni naturali oggetti della mineralogia, della botanica,<br />

della fisica, ecc. Ma in quanto questi fenomeni naturali destano in noi rappresentazioni,<br />

sono insieme oggetti della psicologia, la quale cerca dare ragione così della formazione di<br />

queste rappresentazioni e del rapporto loro con altre rappresentazioni, come dei processi<br />

che non si riferiscono ad oggetti esterni, cioè dei sentimenti e dei movimenti del volere. Un<br />

“senso interno”, il quale come organo della conoscenza psichica, possa essere contrapposto<br />

ai sensi esterni come organi della conoscenza della natura, non esiste affatto. Coll’aiuto dei<br />

sensi esterni sorgono tanto le rappresentazioni, <strong>delle</strong> quali la psicologia cerca indagare le<br />

proprietà, quanto quelle, dalle quali parte lo studio della natura; e le eccitazioni soggettive<br />

che rimangono estranee alla cognizione naturale <strong>delle</strong> cose, cioè i sentimenti, l’emozioni e<br />

gli atti volitivi, non sono a noi date per mezzo di speciali organi percettivi ma si collegano in<br />

noi immediatamente e inseparabilmente colle rappresentazioni che si riferiscono ad oggetti<br />

esterni», W. Wundt, Compendio di psicologia (1896), Clausen, Torino, 1900, p. 2. Il “padre<br />

designato” della psicologia sperimentale, ha importato la terminologia della “nuova scienza”<br />

dalla psicologia filosofica tedesca. Cfr. la ricostruzione di G. Soro, Il soggetto senza origini.<br />

La soggettività empirica nella fondazione wundtiana della psicologia sperimentale, Raffaello<br />

Cortina, Milano, 1991.<br />

9<br />

Cfr. S. M. Kosslyn, Le immagini nella mente. Creare ed utilizzare le immagini nel cervello<br />

(1983), Giunti Barbera, Firenze, 1989, scelto, dalla sterminata letteratura, per l’emblematicità<br />

della titolazione. Non sfiorerò nemmeno la complessa problematica dell’immagine e dell’immaginazione<br />

– centrale nella riflessione sull’arte e, da qualche decennio, anche sulla scienza<br />

– né le semplificazioni fattene dalla psicologia.<br />

10<br />

S. Alpers, Arte del descrivere. Scienza e pittura nel Seicento olandese (1983), Boringhieri,<br />

Torino, 1999, p. 55. «Keplero fu il primo ad usare il termine pictura nel discutere<br />

l’immagine retinica rovesciata», e il primo «a rivolgere lo sguardo per la prima volta dal<br />

mondo alla sua rappresentazione, alla sua immagine sulla retina». Per lui «la retina è dipinta<br />

dai raggi colorati <strong>delle</strong> cose visibili», ivi, pp. 55, 56, e 57. La rètina come fosse una tela e i<br />

raggi luminosi come pennelli. La metafora, tratta dalla pittura, produrrà i suoi effetti nella<br />

teorizzazione della mente.<br />

11<br />

Non prenderò in considerazione i significati di “rappresentazione” in ambito critico-artistico,<br />

né il fatto che buona parte dell’arte del Novecento è una radicale messa in discussione<br />

proprio della rappresentazione. Su quest’ultimo punto cfr. Aa. Vv., Crisi della rappresentazione<br />

e iconoclastia nelle arti dagli anni Cinquanta alla fine del secolo, Derive Approdi, Roma, 1999.<br />

12<br />

Basti solo pensare alla duplicità dell’informazione. Su quest’aspetto cfr. C. Calì, L’informazione<br />

duplice come condizione della percezione pittorica, “Fieri. Annali del Dipartimento<br />

di Filosofia, Storia e Critica dei Saperi”, Palermo, 1 (2004).<br />

13<br />

J. Hochberg, Sensazione e percezione (1979), in E. Hearst (a cura di), Cento anni di<br />

psicologia sperimentale, cit., p. 139.<br />

14<br />

J. J. Gibson, Un approccio ecologico alla percezione visiva (1979), Il Mulino, Bologna,<br />

1999.<br />

15<br />

D. C. Marr, Vision. A Computational Investigation in the Human Representation and<br />

Processing of Visual Information, Freeman, New York, 1982.<br />

16<br />

Cfr. J. R. Searle, La costruzione della realtà sociale (1995), Edizioni di Comunità, Milano,<br />

1996; H. Putnam, Mente, corpo, mondo (1999), Il Mulino, Bologna, 2003; M. Marsonet,<br />

I limiti del realismo. Filosofia, scienza e senso comune, Angeli, Milano, 2000.<br />

51


17<br />

«Percezione e azione sono aspetti rilevanti per la nostra capacità di comprendere il<br />

linguaggio […]. La capacità di comprendere richiede che i parlanti conoscano il riferimento<br />

<strong>delle</strong> parole, ovvero sappiano applicare appropriatamente le parole al mondo. […] Che il riferimento<br />

sia pertinente per la comprensione è infatti spesso negato, con motivazioni differenti,<br />

tanto dai filosofi del linguaggio quanto dagli scienziati cognitivi», A. Paternoster, Linguaggio<br />

e visione, ETS, Pisa, 2001, pp. 9-10.<br />

18<br />

Oltre a A. Paternoster, cit., cfr. C. Peacocke, Does Perception have a Nonconceptual<br />

Content?, Relazione tenuta alla Certosa di Pontignano (Siena), Maggio 1999, Testo on line<br />

URL= http://humanities.ucsc.edu/NEH/peacocke2.pdf; e J. L. Bermúdez, Nonconceptual<br />

Mental Content, The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Spring 2003 Edition), E. D. Zalta<br />

(ED.), URL-http://plato. Stanford.edu/archives/spr2003/entries/contet-nonconceptual/.<br />

19<br />

J. A. Fodor, La mente non funziona così. La portata e i limiti della psicologia computazionale<br />

(2001), Laterza, Roma-Bari, 2004, p. 53.<br />

20<br />

Fr. Schiller, L’educazione estetica (1795), Aesthetica, Palermo, 2005, p. 32, ma si veda<br />

per intero la lettera vi.<br />

21<br />

Ivi, pp. 50-51.<br />

22<br />

J. Dewey, Arte come esperienza (1934), La Nuova Italia, Firenze, 1951, p. 88.<br />

23<br />

L. Wittgenstein, Ultimi scritti 1945-1951. La filosofia della psicologia, Laterza, Roma-<br />

Bari, 1998, p. 542.<br />

24<br />

E. Migliorini, L’estetica fra Seicento e Settecento, in M. Dufrenne e D. Formaggio (a<br />

cura di), Trattato di estetica, 1, Mondadori, Milano, 1981, p. 209.<br />

25<br />

N. Goodman, I linguaggi dell’arte (1968), Il Saggiatore, Milano, 1976, p. 208.<br />

26<br />

Mi pare significativo il resoconto in prima persona di I. Putnam (Mente corpo, mondo,<br />

1999, Il Mulino, Bologna, 2003, p. 28): «Per i primi venticinque anni della mia vita professionale<br />

di filosofo ho condiviso con i miei contemporanei l’idea di quali fossero i veri problemi<br />

metafisici e epistemologici, come pure il loro convincimento della (scarsa) rilevanza che la<br />

filosofia della percezione rivestiva per questi problemi. […] intorno alla metà degli anni ’70<br />

quando scrissi Realismo e ragione e Models and Reality, le mie prime due pubblicazioni sul<br />

tema del realismo, non ritenevo che tale argomento fosse strettamente connesso ai problemi<br />

della percezione». Non stupisce, pertanto, che, a parte qualche eccezione come Senso e sensibilia<br />

di J. Austin a cui «i filosofi anglo-americani reagirono in modo piuttosto blando […],<br />

per lo più, la filosofia della percezione cadde in oblio presso i filosofi analitici. Dopo gli anni<br />

’50, con l’abbandono dell’interesse per la fenomenologia, essa cadde in oblio anche presso i<br />

filosofi “continentali”», ivi, p. 26.<br />

27<br />

«Basti pensare che il termine stesso di “percezione” venne addirittura espunto dal lessico<br />

comportamentistico» (P. Meazzini, Watson, uomo e scienziato, in J. B. Watson, Il comportamentismo,<br />

1930 2 , Giunti, Firenze, 1983, p. xxxvii). Se consideriamo che fino agli anni ’50 del<br />

secolo scorso il comportamentismo ha dominato la scena della psicologia, e che il cognitivismo,<br />

che ne ha preso il posto, è una trasformazione mentalista del primo all’insegna dell’analogia<br />

mente-computer, non stupisce lo scarso interesse del mainstream psicologico per la percezione.<br />

28<br />

Ivi, pp. 13 e 35: «Che la natura imiti l’arte è una massima troppo prudente. La natura<br />

è un prodotto dell’arte e del discorso».<br />

29<br />

N. Goodman, Vedere e costruire il mondo (1978), Laterza, Roma-Bari, 1988, pp. 4 e<br />

6-7.<br />

30<br />

I. Putnam, Realismo dal volto umano (1990), Il Mulino, Bologna, 1995, p. 506.<br />

31<br />

F. Carmagnola e M. Senaldi, Synopsis. Introduzione all’educazione estetica, Guerini,<br />

Milano, 2005, pp. 119-130.<br />

32<br />

«Siamo prevalentemente animali visivi. Difatti una grossa parte della nostra corteccia<br />

è specializzata, in un modo o in un altro, nella visione», G. M. Edelman e G. Tononi, Un<br />

universo di coscienza. Come la materia diventa immaginazione, Einaudi, Torino, 2000, p. 202.<br />

33<br />

R. L. Gregory, Curiose percezioni (1986), Il Mulino, Bologna, 1989, pp. 95-96. In<br />

filosofia l’argomento dell’illusione è servito «a indurci ad accettare i “dati sensoriali” come<br />

risposta corretta ed esatta alla domanda su che cosa percepiamo in certe condizioni anormali<br />

ed eccezionali. Ma in effetti, di solito segue a ruota un altro piccolo ragionamento che<br />

mira a stabilire che noi percepiamo sempre dati sensoriali», J. L. Austin, Senso e sensibilia<br />

(1962), Lerici, Roma, 1968, p. 34. Austin nella critica alla dottrina dei dati sensoriali, o sense<br />

data, non prende in considerazione l’argomento della “soggettività genetica” che, vedremo,<br />

è importante perché il “ragionamento che mira a stabilire che noi percepiamo sempre dati<br />

sensoriali” dipende proprio dall’interpretazione scorretta di conoscenze fisiologiche.<br />

34<br />

Per Platone l’arte imitativa «è uno scherzo e non è una cosa seria» (La Repubblica,<br />

52


x, 602 b, in Opere, 2, Laterza, Bari 1966). E se, giudicandola contraria alla razionalità e alle<br />

leggi, la bandisce dallo stato – «Ce lo imponeva la ragione» (ivi, 607 b) – il legame tra pittura<br />

e illusione dei sensi è istruttivo per comprendere l’atteggiamento della psicologia scientifica:<br />

« – Per Zeus!, ripresi, ma questo atto di imitare non è cosa che viene terza a partire dalla<br />

verità? No? – Si – E quale tra gli elementi dell’uomo è soggetto al suo potere? – Di cosa vuoi<br />

parlare? – Di questo: l’identica grandezza, secondo che la si vede da vicino e da lontano, non<br />

ci appare uguale. – No, certo. – E gli identici oggetti, a seconda che si contemplano dentro o<br />

fuori dell’acqua, appaiono piegati o diritti, e cavi o prominenti. Questo perché nella vista si<br />

produce un disorientamento cromatico. È chiaro che tutto questo scompiglio esiste nell’anima<br />

nostra. Ora facendo leva su questa condizione della nostra natura, la pittura a chiaroscuro non<br />

tralascia alcuna stregoneria. E così fanno la prestidigitazione e i molti trucchi del genere. – È<br />

vero. – Ebbene, contro questi inganni non si sono rivelati ausili preziosissimi la misurazione,<br />

la numerazione e la pesatura, sì che in noi non governa ciò che appare maggiore o minore<br />

o più numeroso o più pesante, ma ciò che calcola e misura e pesa? – Come no? – Ma tutte<br />

queste operazioni spetteranno all’elemento razionale dell’anima. – A questo, certo. – Però a<br />

questo elemento che misura e segnala che certe cose sono tra loro maggiore o minore o uguali,<br />

spesso risulta che per le identiche cose si hanno apparenze contemporaneamente opposte. –<br />

Sì. – Ora, non abbiamo affermato che l’identico soggetto non può avere contemporaneamente<br />

opposte opinioni sulle identiche cose? – Sì, e l’abbiamo affermato con ragione. – Quindi<br />

l’elemento dell’anima che giudica indipendentemente da ogni misura non potrà essere identico<br />

a quello che giudica secondo misura. – No, certo. – Ma l’elemento che s’affida alla misura e<br />

al calcolo sarà il migliore dell’anima. – Sicuramente. – Allora quello che si oppone sarà uno<br />

di quelli che in noi hanno scarso pregio. – Per forza. – Appunto perché volevo arrivare a<br />

quest’ammissione dicevo che la pittura (e, in genere, l’arte imitativa) elabora la propria opera<br />

lontano dalla verità. Essa è in intima relazione, compagna e amica di quel nostro interiore<br />

elemento che sta lontano dall’intelligenza, senza alcuna mèta sana e vera. – Assolutamente, rispose.<br />

– Allora l’arte imitativa, che pure ha scarso pregio, trovandosi insieme con un elemento<br />

pure poco pregevole, dà luogo a prodotti che valgono poco» (ivi, 602 c -603 b).<br />

35<br />

F. Metelli, Funzione <strong>delle</strong> illusioni percettive nella ricerca, in A. Garau (a cura di), Pensiero<br />

e visione in Rudolf Arnheim, Angeli, Milano, 1989, p. 207.<br />

36<br />

R. Droz e M. Rahmy, Guida alla lettura di Piaget (1972), La Nuova Italia, Firenze,<br />

1974, p. 92. In verità i due studiosi premettono alla citazione riportata «a prima vista». Ho<br />

altrove (cfr. L. Pizzo Russo, Che cos’è la psicologia dell’arte, cit.) cercato di dimostrare che<br />

non è solo a “prima vista”.<br />

37<br />

M. Cesa-Bianchi, A. Beretta e R. Luccio, La percezione. Un’introduzione alla psicologia<br />

della visione, Angeli, Milano, 1970, p. 175.<br />

38<br />

R. Droz, Percezione, in Enciclopedia, 10, Einaudi, Torino, 1980, p. 587.<br />

39<br />

O. da Pos e E. Zambianchi, Illusioni ed effetti visivi. Una raccolta, Guerini, Milano,<br />

1996, p. 13. Le variazioni tra le tre descrizioni non coprono tutte quelle presenti nella letteratura,<br />

né vanno lette come se rappresentassero un’evoluzione nel tempo. Sicché non deve<br />

stupire di trovare la prima citazione, pari pari, nell’anno della terza: M. Cesa-Bianchi, Senzazione<br />

e percezione, in S. Sirigatti, Manuale di psicologia generale, UTET, Torino, 1996, p. 268.<br />

40<br />

R. L. Gregory, Le illusioni ottiche, in Illusione e realtà. Problemi della percezione visiva,<br />

“Letture da Le Scienze”, 1978, p. 56. Nella letteratura sotto il termine illusione vengono messe<br />

cose molto diverse che vanno dal bastone spezzato ai miraggi, all’arto fantasma, al triangolo<br />

di Kanizsa, ecc. Le argomentazioni che seguono valgono per l’illusione di Müller-Lyer et<br />

similia. Se dovessi considerare il caso del bastone spezzato o quello dell’arto fantasma – il<br />

primo percettivamente risolvibile e il secondo patologicamente significativo – altre sarebbero,<br />

ovviamente, le argomentazioni pertinenti.<br />

41<br />

P. Bozzi, Fisica ingenua. Oscillazione, piani inclinati e altre storie: studi di psicologia<br />

della percezione, Garzanti, Milano, 1990, pp. 112-115. Le tre citazioni sulle illusioni sono<br />

scaglionate nel tempo – 1970, 1980, 1996 – ma l’intervallo temporale non individua i limiti<br />

temporali del problema: relativamente alla psicologia scientifica descrizioni simili sono presenti<br />

dalla sua nascita ai nostri giorni, cioè prima e dopo la posizione gestaltista sul problema.<br />

42<br />

S. Amsterdamski (Scienza, cit., pp. 546-547) mette in evidenza che «la conoscenza<br />

scientifica, che è in parte strumentale (cioè mediata da apparecchi), finisce per modificare<br />

il rapporto con la stessa conoscenza immediata: fa sì che si trattino i nostri sensi come se<br />

fossero apparecchi».<br />

43<br />

A. Koyré, Dal mondo del pressappoco al mondo della precisione (1948), Einaudi, Torino,<br />

1967, p. 111.<br />

53


44<br />

P. Bozzi, Fisica ingenua, cit. p. 29.<br />

45<br />

M. Massironi, Comunicare per immagini. Introduzione alla geometria <strong>delle</strong> apparenze,<br />

Il Mulino, Bologna, 1989, p. 37.<br />

46<br />

R. Arnheim, Ordine del giorno per la psicologia dell’arte (1952), in Id., Verso una psicologia<br />

dell’arte. Espressione visiva, simboli e interpretazione (1966), Einaudi, Torino, 1969, p. 30.<br />

«Nessun prodotto dell’attività spirituale umana si è mai dimostrato più dell’arte restio ai procedimenti<br />

dell’indirizzo atomistico della scienza, che per ragioni ad esso implicite, descriveva<br />

le entità organiche e inorganiche sommando le descrizioni <strong>delle</strong> loro parti», Id., La psicologia<br />

della forma e l’arte, in Enciclopedia Universale dell’arte, xi, Sansoni, Firenze, 1972 2 , p. 195.<br />

47<br />

R. L. Gregory, Curiose percezioni, cit., pp. 100-101.<br />

48<br />

La critica del termine compare come “N d. C.” a S. Coren, La percezione <strong>delle</strong> illusioni<br />

visive, in Purghé F., Stucchi N., Olivero A., a cura di, La percezione visiva, UTET, Torino,<br />

1999, p, 369. La nota è davvero singolare nel contesto in cui si trova: per Coren, proprio<br />

perché «lo scopo adattivo dei processi percettivi è di fornire agli esseri viventi un’accurata<br />

visione del mondo esterno […] è sorprendente scoprire che esiste una categoria di stimoli<br />

per i quali la percezione è sistematicamente e prevedibilmente fallace».<br />

49<br />

Per B. Russell, ad esempio, «l’osservatore quando gli sembra di stare osservando una<br />

pietra, in realtà, se la fisica [fisiologia] deve essere creduta vera, sta osservando gli effetti su di<br />

lui. Così la scienza sembra essere in guerra con se stessa… Il realismo ingenuo porta alla fisica,<br />

e la fisica, se vera, mostra che il realismo ingenuo è falso. Perciò il realismo ingenuo, se è vero,<br />

è falso; perciò è falso». K. R. Popper (Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico,<br />

1972, Armando, Roma, 1975, p. 94), da cui ho preso la citazione, giudica inaccettabile<br />

l’argomento di Russell perché il passo in corsivo «è falso. Quando l’osservatore osserva una<br />

pietra, egli non osserva l’effetto della pietra su di lui (anche se potrebbe farlo contemplando<br />

un dito ferito)», ivi, pp. 67 e 94. Vedremo che l’argomentazione di Russell si regge su una<br />

confusione terminologica, chiarita la quale, ferma restando la “verità” della fisiologia, non ne<br />

consegue la “falsità” del mondo.<br />

50<br />

W. Metzger, I fondamenti della psicologia della Gestalt (1963 3 ), Giunti-Barbèra, Firenze,<br />

1971, p. 345-346.<br />

51<br />

«Il filosofo israeliano Avi Sagi mi ha fatto notare che quel che ho di mira è una sorta<br />

di “seconda ingenuità”, e sono felice di accettare questa descrizione», I. Putman, Mente,<br />

corpo, mondo, cit. p. 30. J. J. Gibson (Un approccio ecologico della percezione visiva, cit.) non<br />

si attribuisce nessuna ingenuità, ma è la sua teoria della percezione diretta a essere giudicata<br />

tale, o peggio, da quanti difendono la teoria computazionale.<br />

52<br />

Per la fortuna di Schopenhauer presso gli studiosi della mente, cfr. G. M. Edelman e<br />

G. Tononi, Un universo di coscienza, cit.<br />

53<br />

Curiosamente nella letteratura, senza contare che già per Hume le qualità primarie non<br />

sono meno mentali <strong>delle</strong> secondarie, si continua a procedere come se le qualità primarie si<br />

fossero salvate per una sorta di immunità o come se per la fisica questa distinzione continuasse<br />

a valere. Quando invece con la fisica atomica le qualità primarie hanno fatto, platealmente,<br />

la stessa fine dei colori, degli odori e dei sapori. Cfr. W. Heisenberg, Fisica e filosofia. La<br />

rivoluzione nella scienza moderna (1958), Il Saggiatore, Milano, 1966. Köhler – è stato allievo<br />

di Planck – tematizza anche quest’aspetto. Ciò nonostante, nella letteratura successiva fino ai<br />

nostri giorni resiste la distinzione tra qualità primarie e secondarie, e il colore, spesso assieme<br />

al dolore – come se la differenza tra colore e dolore fosse solo nella lettera iniziale – vengono<br />

assunti a emblema della secondarietà. P. Engel (p. 173), ad esempio, parla di «proprietà qualitative<br />

(chiamate qualia dai filosofi), come la sensazione di un colore o di un dolore, che sono<br />

intrinsecamente legate all’“effetto che fa” averle». S. Schoemaker (cit. in R. Casati e A. Varzi,<br />

Un altro mondo?, “Rivista di estetica”, ns., 19, 2002, p. 138) lamenta che la mentalizzazione<br />

dei qualia ha «la conseguenza di rendere sistematicamente illusoria la nostra esperienza dei<br />

colori». Fosse vero non avrei motivo di lamentarmi: perderei i colori ma mi libererei dei dolori!<br />

Senza nulla togliere alla drammaticità della perdita dei colori del mondo (cfr. O. Sacks,<br />

Un Antropologo su Marte. Sette racconti paradossali, Adelphi, Milano, 1995), sono i dolori, e<br />

non i colori, a essere “intrinsecamente legati all’effetto che fa averli”: un dolore lo si sente nel<br />

proprio corpo, un colore lo si vede nell’oggetto. Che questa piccola differenza passi inosservata<br />

forse lo si deve alla genialità di Locke, il creatore dello stampo dolore-colore per la gioia della<br />

posterità. L’artificio retorico da lui usato è quello di argomentare sul dolore per convincerci<br />

del colore. Certo sembra «stravagante» sostenere che la neve non è bianca, ma si vedano gli<br />

esempi della neve e della manna introdotti dal fuoco, e dal dolore che può procurarci, per<br />

seguire la trasformazione della “stravaganza” in verità. Chi può ragionevolmente sostenere<br />

54


che il dolore non sia in chi lo prova? «Per qual ragione mai la bianchezza e la freddezza si<br />

trovano nella neve, e non il dolore, se la neve produce in noi queste tre idee?» (J. Locke,<br />

Saggio sull’intelligenza umana, 1690, i, Laterza, Roma-Bari, 2001 4 , p. 137 e ss).<br />

54<br />

W. Köhler, Il posto del valore in un mondo di fatti (1938), Giunti, Firenze, 1969, p.<br />

100. La teoria della proiezione, che ovviamente continua a essere discussa solo relativamente<br />

alle qualità secondarie, si presenta «in due versioni principali. Nella prima versione, nota come<br />

proiettivismo letterale, i colori sono proprietà reali ma non proprietà degli oggetti: sono<br />

piuttosto caratteristiche di un’entità mentale (della sensazione, del cervello, della rappresentazione)<br />

che le “proietterebbe” sugli oggetti. Questa versione, ispirata a Galileo stesso, è detta<br />

“letterale” in quanto i colori esistono letteralmente (nella mente): siamo noi che li vediamo al<br />

posto sbagliato per via della “proiezione”. Stando alla seconda versione, nota come proiettivismo<br />

metaforico e ispirata a Hume, i colori non sarebbero altro che finzioni generate dal nostro<br />

sistema cognitivo. Qui verrebbe proiettato qualcosa che, a ben guardare non esiste da nessuna<br />

parte: i colori sono messi al bando tanto dal mondo esterno quanto dalla mente», R. Casati e<br />

A. Varzi, Un altro mondo?, “Rivista di estetica”, ns., 19, 2002, p. 138.<br />

55<br />

A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione (1859 3 ), Mursia, Milano,<br />

1969, p. 56. «L’intelletto è in tutti gli animali e in tutti gli uomini il medesimo, e conserva<br />

ovunque la medesima essenza semplice», ivi, p. 57.<br />

56<br />

W. Köhler, Il posto del valore in un mondo di fatti, cit., p. 99.<br />

57<br />

P. N. Johnson-Laird, Modelli mentali. Verso una scienza cognitiva del linguaggio, dell’inferenza<br />

e della coscienza (1983), Il Mulino, Bologna, 1988, p. 251.<br />

58<br />

Ivi, pp. 240-241.<br />

59<br />

K. Oatley, Percezione e rappresentazione (1978), Il Mulino, Bologna, 1982, pp. 11 e 259.<br />

60<br />

L. Camaioni (a cura di), La teoria della mente. Origini, sviluppo e patologia, Laterza,<br />

Roma-Bari, 1995, pp. xiii-vix.<br />

61<br />

J. Fodor, Prototipi e composizionalità (1998), in Carenini M. e Matteuzzi M. (a cura<br />

di), Percezione linguaggio coscienza. Saggi di filosofia della mente, Quodlibet, Macerata 1999,<br />

p. 274.<br />

62<br />

“Il bambino come linguista”, “Il bambino come fisico”, “Il bambino come matematico”,<br />

“Il bambino come psicologo”, “Il bambino come annotatore” sono i titoli dei capitoli di<br />

un fortunato libro sullo sviluppo cognitivo di A. Karmiloff-Smith, Oltre la mente modulare.<br />

Una prospettiva evolutiva sulla scienza cognitiva (1992), Il Mulino, Bologna, 1995.<br />

63<br />

Del resto sotto la voce “Rappresentazione” del Nuovo dizionario di psicologia di R.<br />

Doron, F. Parot e C Del Miglio (Borla, Roma, 2001) si legge: «In psicologia […] la maggior<br />

parte dei tentativi contenporanei di spiegare la genesi e l’organizzazione <strong>delle</strong> conoscenze si<br />

colloca nella prospettiva aperta da Schopenhauer e di conseguenza si attribuisce la rappresentazione<br />

come suo principale oggetto di studio».<br />

64<br />

«Un filosofo potrebbe dire che le illusioni sono puri fenomeni percettivi e che in nessun<br />

modo possono essere <strong>delle</strong> rappresentazioni del mondo fisico degli oggetti, visto che per<br />

definizione, esse sono deviazioni sistematiche dal modo in cui gli strumenti di misurazione<br />

fisica definiscono le caratteristiche del mondo esterno. Con la loro esistenza, però le illusioni<br />

dimostrano che la nostra visione del mondo è un costrutto mentale, e non semplicemente una<br />

fedele rappresentazione della realtà», S. Coren, La percezione <strong>delle</strong> illusioni visive, cit., p. 388.<br />

65<br />

W. Metzger, I fondamenti della psicologia della Gestalt, cit., p. 346.<br />

66<br />

Sul riduzionismo, sulle sue diverse forme e varianti, e sui suoi limiti cfr. G. Peruzzi<br />

(a cura di), Riduzionismo e antiriduzionismo nelle scienze del Novecento, Bruno Mondadori,<br />

Milano, 2000.<br />

67<br />

W. Köhler, Il posto del valore in un mondo di fatti, cit., p. 87.<br />

68<br />

Id., La psicologia della Gestalt (1947 2 ), Feltrinelli, Milano, 1961, p. 24.<br />

69<br />

W. Metzger, I fondamenti della psicologia della gestalt, cit., p. 349.<br />

70<br />

W. Köhler, La psicologia della Gestalt, cit., p. 24.<br />

71<br />

Ivi, p. 25.<br />

72<br />

Ibidem.<br />

73<br />

W. Köhler, Il posto del valore in un mondo di fatti, cit., p. 108.<br />

74<br />

Ivi, pp. 108 e 102-103. «Riassumendo: il dualismo epistemologico sostiene che le percezioni<br />

non possono essere identificati con gli oggetti fisici perché esse emergono solo dopo<br />

che molti fatti sono avvenuti tra gli oggetti e l’organismo nelle parti periferiche dell’organismo<br />

e infine nel cervello. Questa tesi sembra condurre a un paradosso dal momento che le cose<br />

percepite di regola appaiono fuori del nostro corpo. Abbiamo prima dimostrato come ciò sia<br />

dovuto ad una ambiguità nei termini. Discutendo poi i dati neurologici, abbiamo trovato che<br />

55


su questo terreno è impossibile aspettarsi che la localizzazione degli oggetti sia dentro noi stessi.<br />

Molte <strong>delle</strong> discussioni tra i neorealisti e i loro oppositori potevano probabilmente essere<br />

evitate solo che fosse stata prestata una maggiore attenzione a questi settori della neurologia<br />

e della psicologia», ivi, p. 109.<br />

75<br />

Se “reale” nel linguaggio comune «è una parola che possiamo definire affamata di sostantivi»<br />

(J. L. Austin, Senso e sensibilia, cit. p. 80), “realismo” nel linguaggio filosofico “è una<br />

parola affamata di aggettivi”. Ma non sempre lo stesso aggettivo conserva l’identico significato.<br />

Il “critico” del realismo di Köhler e in generale dei gestaltisti non è da intendersi secondo<br />

l’uso accreditato nei dizionari di filosofia più recenti, come quello curato da T. Honderich (The<br />

Hoxford Companion Philosophy, Hoxford University Press, New York, 1995) o quello di N.<br />

Abbagnano, aggiornato da G. Fornero (Dizionario di filosofia, UTET, Torino, 1998 3 ), dove per<br />

realismo critico si intende la posizione dei filosofi americani autori di Essays in Critical Realism<br />

(1920). Né va confusa con quella dei teorici dei sense data: «Per il realismo critico, non<br />

percepiamo in modo diretto che sense data o cose dello stesso genere, e solamente in modo<br />

indiretto cose come gli oggetti fisici, le persone o i processi», J. Bouveresse, Langage, perception<br />

et réalité. Tome 2. Physique, phénoménologie et grammaire, Chambon, Nimes, 2004, p. 8.<br />

76<br />

«Nell’attacco contro il dualismo epistemologico, il fenomenalismo ha trovato un alleato<br />

nel neorealismo. […] È evidente che il neorealismo, benché non sia assolutamente identico al<br />

fenomenalismo, ha perlomeno qualche punto in comune con esso. “È possibile trascendere<br />

il mondo fenomenico?”. “È una domanda priva di senso”, risponde il fenomenalista. E il<br />

neorealista dice: “Perché mai dovrei tentare un’impresa così sgradevole?”», W. Köhler, Il<br />

posto del valore in un mondo di fatti, cit., p. 98.<br />

77<br />

Non ovviamente dell’uomo comune che troverebbe persino strano se venisse a sapere<br />

di essere stato teorizzato come “realista ingenuo”, ma del teorico che si professa “realista<br />

ingenuo”.<br />

78<br />

«L’uomo non ha alcun accesso diretto al mondo fisico. Il mondo fenomenico contiene<br />

tutto il materiale che gli è direttamente offerto. Il nostro accostamento al mondo fisico consiste<br />

in ogni caso nel trarre inferenze dall’osservazione di certi percetti, e forse anche da altre<br />

esperienze. In ogni modo si tratta sempre di un lavoro di costruzione. Per questa costruzione<br />

non abbiamo altro materiale che quello che troviamo nel mondo fenomenico», W. Köhler, Il<br />

posto del valore in un mondo di fatti, cit., p. 112.<br />

79<br />

Id., La psicologia della Gestalt, cit., p. 25.<br />

80<br />

P. Bozzi, Experimenta in visu. Ricerche sulla percezione, Guerini, Milano, 1999, p. 200.<br />

81<br />

Il riferimento è ovviamente al “3° mondo” di K. R. Popper (Conoscenza oggettiva, cit.),<br />

il quale si richiama a Frege, il cui “terzo regno” si opponeva allo psicologismo fine Ottocentoinizi<br />

Novecento. Una versione depotenziata dallo psicologismo che lo attraversa è il “mondo<br />

2 1/2” di P. Engel, Filosofia e psicologia (1996), Einaudi, Torino, 2000.<br />

82<br />

W. Metzger, I fondamenti della psicologia della Gestalt, cit., p. 349.<br />

83<br />

Lo scambio di battute è preso dal dibattito seguito alla conferenza su Il primato della<br />

percezione e le sue conseguenze filosofiche che Merleau-Ponty tenne il 23 novembre 1946 alla<br />

Societé française de Philosophie. L’edizione italiana (il libro dall’omonimo titolo contiene<br />

anche La natura della percezione, un progetto di ricerca redatto nel 1934) è uscita nel 2004<br />

per i tipi della Medusa. La citazione è alle pp. 62-63.<br />

84<br />

Sull’idea-ismo cfr. A. Musgrave, Senso comune, scienza e scetticismo (1993), Raffaello<br />

Cortina, Milano, 1995.<br />

85<br />

Con qualche eccezione. E. Bellone (I corpi e le cose. Un modello naturalistico della<br />

conoscenza, Bruno Mondadori, Milano, 2000, pp. 77-78), ad esempio, discutendo le ricerche<br />

neuroscientifiche sul colore conclude che «queste non contraddicono l’opinione di Galilei<br />

sulle qualità intrinseche dell’animale senziente o il punto di vista di Locke sulle qualità secondarie,<br />

ma ha conseguenze sul modo di intendere la forma geometrica o il moto. E qui, allora,<br />

frana la soluzione tradizionale del problema di Galilei e Locke». Per una critica non basata<br />

sui dati neurofisiologici, cfr. J. Bouveresse, Langage, perception et réalité, cit.<br />

86<br />

W. Köhler, Il posto del valore in un mondo di fatti, cit., p. 86.<br />

87<br />

G. Tononi, Galileo e il fotodiolo. Cervello, complessità e coscienza, Laterza, Roma-Bari,<br />

2003, pp. 122 e 127.<br />

88<br />

Come abbiamo visto è il titolo di G. M. Edelman e G. Tononi (Un universo di coscienza,<br />

cit.). Sebbene gli autori ritengano che «il soggettivismo non è di per sé la base per<br />

una solida comprensione scientifica della mente» (p. 262) e prendano posizione a favore del<br />

realismo, il loro «realismo condizionato» (p. 260) è un realismo scientifico: «Noi crediamo<br />

nell’esistenza di un mondo reale, il mondo descritto dalle leggi della fisica, che fino a prova<br />

56


contraria sembrano valere ovunque» (p. 259). La loro fede nella soggettività dei qualia – i<br />

qualia assunti come problema centrale della coscienza – ingenera la convinzione che la soggettività<br />

dei qualia non sia un’ipotesi ma una verità scientificamente dimostrata. Nelle loro<br />

argomentazioni la “soggettività genetica” e la “soggettività psicologica”sono la stessa cosa.<br />

Non stupisce che gli autori partono «da ciò che Arthur Schopenhauer definì con perspicacia<br />

il “nodo cosmico”», ivi, p. 4.<br />

89<br />

J. Petitot, Attualità scientifica ed etica del razionalismo critico, in Aa. Vv., Pensiero scientifico<br />

e pensiero filosofico, Conflitto alleanza o reciproco sospetto?, Muzzio, Padova, 1993, p. 76.<br />

90<br />

G. Tononi, Galileo e il fotodiolo, cit., pp. 128-131.<br />

91<br />

J. Petitot, Attualità scientifica ed etica del razionalismo critico, cit., pp. 77-79.<br />

92<br />

«Nel corso degli ultimi dieci anni abbiamo visto fiorire lo studio dei sistemi caotici<br />

[…]. Questi sistemi non si possono studiare in modo dettagliato usando semplicemente equazioni<br />

risolvibili e pensiero puro. Ecco dunque emergere una nuova materia, “la matematica<br />

sperimentale”, che osserva il comportamento dei sistemi complessi tramite la simulazione al<br />

computer», J. D. Barrow, Perché il mondo è matematico?, Laterza, Roma-Bari, 1992, p. 99.<br />

Per C. Bernardini (Riduzionismo e antiriduzionismo: pro e contro, in G. Peruzzi, a cura di,<br />

Riduzionismo e antiriduzionismo nelle scienze del Novecento, Bruno Mondadori, Milano, 2000,<br />

p. 78) con i sistemi dinamici «nasce un curioso modo, sicuramente antiriduzionista, di fare<br />

fisica». Cfr. anche G. Casati, Il caos: le leggi del disordine, in Aa. Vv., Pensiero scientifico e<br />

pensiero filosofico, cit.; e, per le applicazioni della teoria dei sistemi dinamici alla psicologia,<br />

R. Luccio, <strong>Psicologia</strong> generale. Le frontiere della ricerca, Laterza, Roma-Bari, 1998.<br />

93<br />

W. Köhler, Principi dinamici in psicologia ed altri scritti (1940), Giunti-Barbera, Firenze,<br />

1966.<br />

94<br />

Id., Il posto del valore in un mondo di fatti, cit., p. 87. Se come P. Bozzi non manca di<br />

precisare nella Presentazione al lettore italiano «la sua concezione è tendenzialmente monistica»,<br />

Köhler in nota precisa che «le teorie del dualismo epistemologico sono compatibili con<br />

le più diverse teorie metafisiche», ivi, p. 85. Oggi, benché la maggior parte dei fisici opti per<br />

il riduzionismo, non manca tra di loro chi respinge il riduzionismo criticato da Köhler: «il<br />

riduzionismo ontologico è perfettamente accettabile, […] non è accettabile il “riduzionismo<br />

metodologico” […]: cioè il fatto che tutte le spiegazioni debbano essere riducibili a proprietà<br />

<strong>delle</strong> strutture più elementari; ed è parimenti inaccettabile il “riduzionismo epistemologico”,<br />

che vorrebbe ridurre le leggi di un settore (per esempio, la psicologia) a casi particolari di<br />

quelle di un altro settore (per esempio la biologia)», C. Bernardini, Riduzionismo e antiriduzionismo:<br />

pro e contro, cit., pp. 75-76.<br />

95<br />

Poiché con “qualità terziarie” c’è chi intende “stati affettivi”, ritengo utile precisare<br />

che le qualità espressive o terziarie dei gestaltisti non sono da intendersi come “stati affettivi”.<br />

«Gli stati affettivi come la tristezza e l’odio sono stati chiamati qualità terziarie. L’espressione<br />

è molto appropriata. Effettivamente l’analisi della percezione degli stati affettivi è più difficile<br />

dell’analisi della percezione <strong>delle</strong> qualità primarie, come la forma e il movimento, e di<br />

quelle secondarie, come il colore, dato che la percezione <strong>delle</strong> qualità terziarie presuppone<br />

la percezione <strong>delle</strong> qualità primarie e secondarie, la cui analisi già di per sé è abbastanza<br />

problematica», K. Mulligan, La varietà e l’unità dell’immaginazione, “Rivista di estetica”, n.s.,<br />

11, 2, 1999, p. 62. Due precisazioni. (1) “Presupporre” non va inteso come se le qualità si<br />

percepissero nell’ordine elencato. Per la scuola di Berlino e per quanti vi si riconoscono (è<br />

l’uso del termine “gestaltisti” o “psicologia della Gestalt” in psicologia), le qualità terziarie<br />

non sopravvengono come per la scuola di Graz. Anche se non percepiamo sorrisi senza un<br />

volto (quello del gatto del Cheshire, come può ricordare chi ha letto Alice di L. Carroll,<br />

non si può addurre a prova contraria), ci capita di dire “Quella persona mi ha sorriso”, e<br />

contemporaneamente di non poter dire il colore degli occhi o la forma del viso, a meno di<br />

non ritornare a guardare facendo attenzione a forma e colori. (2) Le qualità terziarie non<br />

sono più difficili, anzi sono primarie anche nell’ordine dello sviluppo.<br />

96<br />

R. Casati e A. Varzi, Un altro mondo?, cit. pp. 142 e 134. Gli autori riportano la posizione<br />

di Russell su senso comune e fisica (v. nota 49) con l’intento di renderla «più sfumata»,<br />

ivi, p. 134.<br />

97<br />

M. Ferraris, Dove sei? Ontologia del telefonino, Bompiani, Milano, 2005. In realtà il<br />

pervasivo telefonino, come metafora dell’“iscrizione”, introduce all’ontologia sociale: «l’immensa<br />

ontologia invisibile degli oggetti sociali», ivi, p. 62.<br />

98<br />

R. Arnheim, Arte e percezione visiva (1974 2 ), Feltrinelli, Milano, 2002 17 , p. 362.<br />

99<br />

Id., Per la salvezza dell’arte, cit., p. 247.<br />

100<br />

G. Galilei, Il Saggiatore, 1953, p. 311 e ss.<br />

57


101<br />

J. D. Barrow, Perché il mondo è matematico?, cit., p. 8.<br />

102<br />

S. Amsterdamski, Scienza, cit., p. 548.<br />

103<br />

Per farsi un’idea sull’argomento e non annoiarsi si veda P. Bozzi, Fisica ingenua, cit.<br />

104<br />

R. Arnheim, Per la salvezza dell’arte, cit., p. 10.<br />

105<br />

Id., Pensieri sull’Educazione artistica (1989), Aesthetica, Palermo, 1992, pp. 75-76.<br />

106<br />

Ivi, p. 74.<br />

107<br />

Ibidem.<br />

108<br />

Cfr. soprattutto Id., Il pensiero visivo. La percezione visiva come attività conoscitiva<br />

(1969), Feltrinelli, Milano, 1974, pp. 18-65.<br />

109<br />

Per la presa d’atto nel campo dell’elaborazione dell’informazione che «la visione è più<br />

di un senso: è intelligenza», cfr. T. Poggio, L’occhio e il cervello. Che cosa significa «vedere»,<br />

Theoria, Roma-Napoli, 1991. Poggio (Una nuova definizione di intelligenza, in G. Giorello e<br />

P. Strata, L’automa spirituale. Menti, cervelli e computer, Laterza, Roma-Bari, 1991, p. 169)<br />

evidenzia che «l’intelligenza non è riducibile alle sole capacità linguistiche, razionali e di<br />

soluzione di problemi; al contrario, le ricerche nel campo dell’intelligenza artificiale (IA) e<br />

della neurobiologia dimostrano chiaramente come percezione e controllo motorio svolgano<br />

un ruolo centrale in ciò che definiamo comportamento intelligente».<br />

110<br />

Cfr. Il cervello e i sensi, “Le Scienze quaderni”, 127, 2002. A parte il progetto della<br />

“neuroestetica” che giudico non condivisibile al punto da argomentarvi contro (Contro la neuroestetica,<br />

in corso di stampa [“Studi di estetica”, 41 (2011), pp. 7-86, ora infra pp. 279-330]),<br />

per la confutazione della concezione tradizionale e per la nuova concezione della percezione<br />

fondata sui dati neuroscientifici è molto efficace S. Zeki, La visione dall’interno. Arte e cervello<br />

(1999), Bollati Boringhieri, Torino, 2003.<br />

111<br />

R. Arnheim, Il pensiero visivo, cit., p. 223.<br />

112<br />

Per la prima posizione cfr. J. McDowell, Mente e mondo (1994), Einaudi, Torino,<br />

1999; per la seconda M. Ferraris, Mente e mondo o scienza e esperienza, “Rivista di estetica”,<br />

n.s., 12, 3, 1999. Si veda anche la nota 18. Sul fraintendimento cfr. Kanizsa (Grammatica<br />

del vedere. Saggi su percezione e gestalt, Il Mulino, Bologna, 1980) che assimila Arnheim ai<br />

neohelmholtziani; e M. Ferraris (Logocentrismo: 3 o 4 taglie, in L. Pizzo Russo, a cura di,<br />

Rudolf Arnheim. Arte e percezione visiva, “Aesthetica Preprint: Supplementa”, 14, 2005) che<br />

lo taccia di logocentrismo e lo assimila a E. Gombrich di Arte e illusione (Einaudi, Torino,<br />

1965).<br />

113<br />

R. Arnheim, Il pensiero visivo, cit., p. 289.<br />

114<br />

Id., La mente a doppio taglio: intuizione e intelletto (1985), in Id., Intuizione e intelletto.<br />

Nuovi saggi di psicologia dell’arte (1986), Feltrinelli, Milano, 1987, pp. 27-28, 34, e 45.<br />

115<br />

Id., È necessaria l’arte moderna? (1958), in Id., Verso una psicologia dell’arte. Espressione<br />

visiva, simboli e interpretazione (1966), Einaudi, Torino, 1969, p. 426.<br />

116<br />

Id., Linguaggio astratto e metafora (1948), in Id., Verso una psicologia dell’arte, cit., p.<br />

323. Ho parzialmente modificato la traduzione italiana.<br />

117<br />

Ivi, p. 127.<br />

118<br />

M. Doran, Cézanne. Documenti e interpretazioni, Donzelli, Roma, 1995, p. 128. Il<br />

documento, Ciò che mi ha detto, da cui è tratta la citazione è di J. Gasquet. Il passo si trova<br />

anche come lettera di Cézanne sempre in J. Gasquet, Cézanne, Bernheim-Jeune, Paris, 1926,<br />

p. 11.<br />

119<br />

R. Arnheim, Film come arte (1959), Il Saggiatore, Milano, 1960, p. 63.<br />

120<br />

A. Blavier (a cura di), René Magritte. Tutti gli scritti, Feltrinelli, Milano, 1979, p. 214.<br />

121<br />

R. Arnheim, Il santo e il pettirosso (1959), in Id., Verso una psicologia dell’arte, cit.,<br />

pp. 390-407.<br />

58


Al di qua dell’immagine *<br />

«Guardare un quadro è un atto di fede nell’uomo»: è il pensiero<br />

con cui Giorgio Albertazzi chiude un incontro televisivo con Cesare<br />

Brandi sull’arte di Afro, Capogrossi e Burri 1 . Sicché può sembrare<br />

uno scherzo e, ancora peggio, persino irriverente utilizzare il modello<br />

teorico di Segno e immagine per discutere dell’Animal Art. Né l’uno e<br />

né l’altro. Semplicemente intendo fare riferimento a una teoria estetica<br />

che prende in considerazione le condizioni di possibilità dell’arte, e più<br />

in generale del fare produttivo dell’uomo, anziché chiedersi se ciò che<br />

si vede nei quadri è arte o no, proprio perché «si potrebbe discutere<br />

senza fine sulla differenza fra segno e immagine, ove questa differenza<br />

si voglia desumere a posteriori» 2 .<br />

A guardare quanto i quadri danno a vedere, infatti, è difficile che<br />

ci si raccapezzi. Ma si sa, il xx secolo ha teorizzato con insistenza –<br />

tanto da abbandonare la figuratività e magnificare l’astrazione – che<br />

l’arte “non rende il visibile”, bensì “rende visibile”; e non è detto che<br />

ciò che viene reso visibile sia facile da comprendere. Si pensi a una<br />

ecografia, o, per includere il colore, a una fMRI: certo, tutti possiamo<br />

“vederle”, ma solo l’ecografista e l’esperto di risonanze magnetiche<br />

funzionali possono dirci se sono venute bene oppure no; e laddove<br />

l’inesperto vede “linee” e “colori”, l’esperto coglie subito il significato.<br />

Voglio dire: il rendere visibile l’invisibile, il mettere l’accento sull’invisibile<br />

che grazie all’immagine accede alla visibilità, sebbene sia stato tematizzato<br />

nel mondo dell’arte e <strong>delle</strong> avanguardie storiche, può essere<br />

considerata la cifra progettuale della tarda modernità, e in quanto tale<br />

si impone nell’arte e nella scienza. Se questo può spiegare l’entusiasmo<br />

odierno suscitato dalle tecniche di visualizzazione del funzionamento<br />

del cervello, a ben considerare, l’invisibile, diversamente inteso nelle<br />

varie temperie culturali, ha sempre attratto sia la scienza sia l’arte.<br />

* Il presente lavoro riprende e sviluppa l’intervento presentato al Seminario Attraverso<br />

l’immagine, promosso dal Centro Internazionale Studi di Estetica in collaborazione<br />

con l’Università degli Studi di Palermo e la Società Italiana d’Estetica (Palermo, 30<br />

giugno e 1 luglio 2006), nella ricorrenza del centenario della nascita di Cesare Brandi,<br />

ed è stato pubblicato in “Fieri. Annali del Dipartimento di Filosofia, Storia e Critica dei<br />

Saperi”, 4 (dicembre 2006), pp. 311-336.<br />

59


Senza contare gli atomi democritei, relativamente a quest’ultima, basti<br />

pensare alla rappresentazione della divinità, perché sorga il sospetto<br />

che la dialettica visibile-invisibile da sempre guidi il fare artistico, o,<br />

diversamente detto, che sia costitutiva dell’immagine, che faccia parte<br />

del suo statuto 3 : le immagini, scientifiche e artistiche sono, quindi,<br />

mediatrici tra il visibile e l’invisibile.<br />

E però, contrariamente alla scienza, l’oggetto artistico non solo non<br />

ha criteri predefiniti di valutazione, ma parrebbe non averne del tutto.<br />

Oltre al de gustibus non disputandum che sposta il fuoco dell’attenzione<br />

sulla soggettività <strong>delle</strong> preferenze piuttosto che sull’adeguatezza dell’apprezzamento,<br />

spezzato il legame che tramite il rimando a un referente<br />

esistente indirizzava l’attenzione sulla forma e ne facilitava il giudizio,<br />

e messo in discussione il valore dell’abilità tecnica per la resa formale<br />

che guidava la valutazione, l’arte, nonostante l’ideologia corrente che<br />

la vuole, diversamente dalla scienza, immediatamente comprensibile<br />

a tutti, prima «diventa un “oggetto ansioso” (“Sono un capolavoro”,<br />

deve chiedersi, “o un cumulo di rifiuti?”)» 4 , e poi, duchampianamente,<br />

sempre più un oggetto qualunque, che può essere riconosciuto oggetto<br />

artistico per via di “consacrazione”, non grazie alle sue qualità<br />

intrinseche.<br />

Quanto, poi, alla facilità della comprensione vedremo che già percepire<br />

un’immagine non è lo stesso che percepire ciò di cui l’immagine<br />

è immagine; figuriamoci percepire l’arte. Solo trascurando la differenza<br />

tra il mondo e le rappresentazioni che ne facciamo (siano esse artistiche<br />

e scientifiche) si può omologare il rendimento della percezione<br />

ecologica e della “percezione pittorica” 5 . Con la conseguenza di culturalizzare<br />

la prima a partire dalla seconda o, viceversa, naturalizzare<br />

la seconda a partire dalla prima. Mentre il primo movimento ha<br />

contribuito al relativismo dominante per buona parte del Novecento,<br />

il secondo è fondativo del riduzionismo che da qualche decennio sta<br />

conquistando settori disciplinari lontani dal biologico. Si pensi, per il<br />

primo movimento, alla “neve dell’eschimese”, che sino a un passato<br />

abbastanza recente serviva a dimostrare la relatività culturale della percezione;<br />

e, per il secondo, alla neuroestetica e al successo che riscuote<br />

anche tra gli studiosi di quelle discipline che un tempo si chiamavano<br />

“Scienze dello spirito”. Ma la Weltanschauung, qualunque sia la posizione<br />

sullo storicismo e rifiutando l’antitesi diltheiana tra spiegazione<br />

e comprensione, rimane pur sempre una costruzione storico-culturale,<br />

non un rendimento della percezione ecologica.<br />

Nell’antitesi natura/cultura, mentre la scienza è sempre stata considerata<br />

una creazione dell’intelletto, la parte nobile e coltivata della<br />

natura umana, l’arte – nello specifico la pittura – è stata vista come<br />

natura: «il linguaggio naturale dell’umanità» 6 . I sensi che ce ne danno<br />

l’accesso, del resto, fanno parte della dotazione genetica di ogni essere<br />

vivente. Dai sensi, al talento come dono naturale, al legame con<br />

60


i sentimenti e le emozioni che è quanto ci accomuna agli animali, al<br />

gusto con cui la fruiamo che certo non è, in quanto senso, esclusivo<br />

di Homo sapiens sapiens, al vezzo di irreggimentare qualsiasi disegno<br />

e qualsiasi immagine sotto la categoria “arte”, tutto sembra giustificare<br />

la naturalità e la primitività dell’arte, e condurci alla ricerca <strong>delle</strong> sue<br />

radici biologiche.<br />

«Non è più di moda discutere <strong>delle</strong> “origini dell’arte”», scriveva E.<br />

Gombrich agli inizi degli anni Cinquanta, e ricordava che «fra le vie<br />

tentate per studiare l’origine, il divenire dell’arte, c’è stata quella di<br />

esaminare le produzioni, e il modo di produzione, dei bambini e degli<br />

anormali» 7 . L’esito di quelle ricerche, che, tra il finire dell’Ottocento e<br />

i primi decenni del Novecento, hanno visto impegnati studiosi di varî<br />

ambiti disciplinari, più che a chiarire le origini, è servito a convincere<br />

che i disegni dei bambini e degli malati mentali sono arte: arte infantile<br />

e arte psicopatologica sono da allora entrate nel lessico di ognuno.<br />

Gombrich non poteva prevedere che da lì a poco il problema <strong>delle</strong><br />

origini dell’arte sarebbe ridiventato attuale, né tanto meno che le origini<br />

le si sarebbero trovate nell’animale. Non stupisce, però, che, come già<br />

per il bambino e il malato mentale, mentre sulle origini si continua a<br />

discutere, abbiamo assistito, non «alla nascita dell’arte» come, viceversa,<br />

sostiene Julian Huxley 8 – nipote di Thomas Henry Huxley, il brillante<br />

difensore di Darwin – ma alla nascita di un nuovo oggetto culturale,<br />

l’Animal Art.<br />

Nell’affrontare l’argomento, che nel clima di riduzionismo strisciante<br />

e di minimalismo artistico si è imposto all’attenzione degli studiosi,<br />

installato nelle istituzioni culturali e assimilato dalle nostre menti, terrò<br />

presente il nucleo concettuale della teoria di Brandi, ovvero la “radice<br />

comune” di Segno e Immagine, la loro non eterogeneità originaria. Se<br />

«segno e immagine sono all’origine la stessa cosa che la coscienza rivolge<br />

in due direzioni diverse», ne consegue che non si dà Segno senza<br />

Immagine, e viceversa. L’affermazione non è di poco conto perché,<br />

mentre nel passato serviva a criticare quelle posizioni che insistevano<br />

sulla naturalità dell’immagine(-arte) a fronte della culturalità del<br />

linguaggio, oggi entra in rotta di collisione con una convinzione profondamente<br />

radicata nella nostra storia culturale, ma difesa con nuovi<br />

argomenti, che è quella di considerare il proprio della natura umana<br />

– ciò che ci contraddistingue dagli altri animali, la differenza decisiva<br />

che nell’ordine dei Primates, nonostante la vicinanza genetica, è tale<br />

da distinguere uomo e scimpanzé – nel linguaggio. Tanto da farne un<br />

unicum: l’istinto umano per eccellenza 9 .<br />

Viene da pensare all’elogio della mano, per citare il fortunato titolo<br />

di Focillon 10 . Da Anassagora ad Aristotele, a Giordano Bruno, a Engels,<br />

fino all’odierna Paleoantropologia culturale, che non può certo<br />

sottovalutare «la mano abile e sapiente» senza la quale non avrebbe<br />

reperti da studiare 11 , il linguaggio non sembra proprio l’unico tratto<br />

61


distintivo della nostra specie. Che l’uomo sia il più intelligente degli<br />

animali perché ha le mani, o che abbia le mani perché è il più intelligente<br />

degli animali – alternative teoriche difese, la prima, da Anassagora<br />

e, la seconda, da Aristotele 12 – senza la mano, giusta l’osservazione<br />

di Bruno, «dove sarrebono le istituzioni de dottrine, le invenzioni de<br />

discipline, le congregazioni de cittadini, le strutture de gli edifici ed<br />

altre cose assai che significano la grandezza ed eccellenza umana e<br />

fanno l’uomo trionfator veramente invitto sopra l’altre specie? Tutto<br />

questo, se oculatamente guardi, si riferisce non tanto principalmente<br />

al dettato de l’ingegno, quanto a quello della mano, organo de gli organi»<br />

13 . A parte l’ideologia dell’uomo trionfator, senza la mano – un<br />

organo decisamente “assai umano” 14 , sia morfologicamente sia nella<br />

quantità e connettività di corteccia cerebrale relativa – non ci sarebbe<br />

neanche il linguaggio scritto, che ha determinato lo sviluppo del logos,<br />

grazie al quale i filosofi del linguaggio, nell’era della naturalizzazione<br />

della mente, ritengono di potere identificare il proprio della natura<br />

umana nel linguaggio.<br />

Con ciò non si vuole certo misconoscere l’importanza del linguaggio,<br />

parlato e scritto (peraltro, è su quest’ultimo – che non nasce certo<br />

come alfabetico ma come pittografico 15 – che si è, e a lungo quasi<br />

esclusivamente, esercitata la riflessione filosofica e non), ma solo puntualizzare<br />

che «la natura umana [non] consiste [solo] nel suo essere un<br />

animale linguistico» 16 . La natura umana consiste anche nel suo essere<br />

tante altre cose, e l’essere umano, oltre a essere un animale linguistico<br />

è un animale che inventa – dal fuoco al web – un animale che immagina,<br />

un animale che dà forma, un animale simbolico. Tanto da portare<br />

a sostenere che «se vi è una sola cosa che distingue l’uomo da tutte le<br />

altre forme di vita, attuali o estinte, è la capacità di pensiero simbolico»<br />

17 . Come che sia, è incontrovertibile che «nessun animale eccetto<br />

l’uomo ha mai inventato un sistema simbolico nel proprio ambiente<br />

naturale» 18 . Né, d’altra parte, affrontando criticamente l’argomento<br />

Animal Art, si vuole misconoscere la nostra appartenenza al regno animale,<br />

o mettere in discussione l’albero genealogico che ci vede parenti<br />

stretti della scimmia, o negare che il dna di un umano è identico al<br />

98-99% – più sì meno no, data l’attuale tendenza a spostare il confine<br />

– a quello di uno scimpanzé, quale che sia l’interpretazione scientifica<br />

che se ne dà e le conseguenze che se ne traggono 19 . Non mi sto schierando<br />

con la versione attuale del vescovo di Oxford che nell’800 si<br />

opponeva a Darwin: Thomas Huxley e Julian Huxley sostengono cause<br />

diverse, e, nello specifico, non occorre rinnegare l’antenato comune.<br />

Né che sia l’“ultima ferita allo smisurato narcisismo” dell’uomo, come<br />

è stato detto, mi colpisce più di tanto. Sarà una questione di genere,<br />

sarà una reattività più alle persone e alle cose che alle parole, ma non<br />

mi sento minimamente ferita da “nostro fratello Bonobo”, anzi mi<br />

richiama “nostra sorella luna”, ecc. Tuttavia, nonostante il patrimonio<br />

62


genetico che accomuna padri e figli, e benché non manchino i figli<br />

d’arte, è sotto gli occhi di tutti che i figli possono avere inclinazioni<br />

molto diverse da quelle del padre. Quanto poi a spiegare le inclinazioni<br />

di un fratello con quelle di un altro fratello, sia pure quello più<br />

vicino alla “natura”, mi pare francamente discutibile.<br />

Ma intanto, cosa si intende, come nasce e come si sviluppa l’Animal<br />

Art? La locuzione ha significati diversi. Oltre a quello tradizionale<br />

che si riferisce alla rappresentazione grafica, pittorica o scultorea che<br />

gli esseri umani fanno degli animali, oggi viene usata in due altre accezioni.<br />

La prima individua la tendenza artistica di trattare l’animale<br />

come materiale in maniera molto diversa dai modi tradizionali: a parte<br />

il celeberrimo Damien Hirst con i suoi animali, messi, tutt’interi o a<br />

pezzi, in formaldeide, si pensi a Banksy che ha usato capre, maiali e<br />

mucche come vere e proprie tele, dipingendo direttamente sulla loro<br />

viva pelle immagini e scritte; o all’installazione di Marco Evaristi con<br />

pesciolini rossi dentro frullatori progettati per essere messi in moto<br />

dai visitatori che hanno, così, potuto “godere” del frullato di pesce; o<br />

ancora alla performance di Kira O’Reilly, l’artista britannica che nuda<br />

resta abbracciata a un maiale morto per quattro ore.<br />

Con la seconda accezione, che è quella di cui ci occuperemo, mentre<br />

della prima se ne occupano già gli animalisti con le loro, ahinoi,<br />

vane proteste, ci si riferisce all’arte prodotta dagli animali. Gli animali<br />

fanno arte? Ebbene sì, lo sostengono in tanti. E non si tratta della tela<br />

del ragno, <strong>delle</strong> cellette esagonali <strong>delle</strong> api, della vespa-vasaio, <strong>delle</strong><br />

cattedrali <strong>delle</strong> termiti, <strong>delle</strong> “recite” dello spinarello, della danza del<br />

gallo cedrone o del caribù, del canto degli uccelli, dei loro nidi o dei<br />

loro giardini, fossero anche quelli dell’uccello, per l’appunto, giardiniere,<br />

che ha colpito la fantasia non solo degli ornitologi ma anche di storici<br />

dell’arte e di estetologi 20 . «Attribuire una vera parentela con l’arte<br />

alle attività da cui provengono il nido dell’uccello, i vasi della vespa, le<br />

architetture <strong>delle</strong> termiti, è cosa che non può non farci esitare», afferma<br />

Souriau dopo avere passato in rassegna questi e consimili esempi<br />

di artisticità “naturale”. Nessuna esitazione, però: per lui si tratta solo<br />

della dimostrazione del fatto che l’uomo fa parte della natura. Il suo<br />

bersaglio polemico è «un certo artificialismo estetico», contro il quale<br />

invita a tenere nella giusta considerazione, che l’arte non è «un fiore<br />

di serra», ma affonda le proprie radici nell’animalità: «qualche vago<br />

abbozzo, il profilarsi timido e limitato di facoltà e attività di cui noi<br />

uomini siamo abituati a fare il nostro orgoglio» 21 .<br />

Questo era lo stato dell’arte animale fin verso la fine degli anni<br />

cinquanta del Novecento. Nel 1957 accade un evento di grande momento,<br />

e da allora la punta di diamante dell’arte animale è la pittura.<br />

Souriau era al corrente dell’evento, ma lo tralascia «volontariamente».<br />

Accenna ad Altamira e Lascaux – «là è apparso un fatto assolutamente<br />

nuovo sulla terra: l’arte figurativa» – per precisare che «nessun animale<br />

63


dà testimonianza di arte figurativa» 22 , come a dire che la pittura è<br />

un’arte esclusivamente umana. Ma da lì a poco, figurativa o no, l’opinione<br />

che trattasi di pittura anche quando l’autore non è umano si<br />

è diffusa a macchia d’olio, e le “opere” degli animali, senza ombra<br />

di dubbio, vengono considerate arte. Come è d’uso per gli oggetti di<br />

questa astratta categoria culturale della modernità vengono esposti al<br />

pubblico nei luoghi deputati a ciò, vale a dire le gallerie e i musei; le<br />

“vernici”, più o meno di successo, vengono recensite dalla stampa; le<br />

opere intitolate e catalogate, vengono vendute; oltre a eBay, importanti<br />

case d’aste richiamano un pubblico internazionale; mostre su mostre, ne<br />

registrano le novità, e le retrospettive ne potenziano la rispettabilità; entrano<br />

a far parte di collezioni, musei, esposizioni periodiche; autorialità<br />

e “stile” sono decisivi; contrariamente a quanto avviene per gli oggetti<br />

seriali che col passare del tempo si deprezzano, il loro valore aumenta<br />

in ragione <strong>delle</strong> particolarissime norme che regolano il mercato d’arte;<br />

il processo generativo, non considerato per gli oggetti d’uso comune,<br />

è tenuto in gran conto in considerazione del fatto che nell’opera si<br />

realizza pienamente e si rende manifesta la “soggettività” dell’autore.<br />

Sicché il “chi”, il “come”, il “quando” e le oscillazione del gusto,<br />

facendo aggio sulle caratteristiche del prodotto, possono determinare<br />

impennate di prezzo che stupiscono solo chi è esterno alle logiche di<br />

quel mercato. Gli “ottimi dipinti astratti”, secondo la valutazione dei<br />

critici, vengono paragonati a, o scambiati per, quelli di Jackson Pollock,<br />

Willem de Kooning, Franz Kline, in ogni caso, ottengono «recensioni<br />

serie e talvolta entusiastiche» 23 . Quando la valutazione riguarda gli autori,<br />

si argomenta che gli animali sono artisti migliori, e di molto, degli<br />

umani 24 . E c’è chi sostiene che gli artisti umani possono solo sperare<br />

«di produrre opere dotate della stessa chiarezza e intensità» di quelle<br />

<strong>delle</strong> scimmie. «La difficoltà di emulare l’arte <strong>delle</strong> scimmie è uno dei<br />

modi per illustrarne la potenza»: chi tra gli umani ha avuto l’ardire di<br />

provarci – ci si rassicura – ha fallito «miseramente» 25 .<br />

Ma vediamo l’evento tralasciato, e pour cause, da Souriau. Il fatidico<br />

1957 è l’anno in cui si tenne all’Institute of Contemporary Art<br />

di Londra la prima mostra di pittori non umani, lo scimpanzé Congo<br />

dello zoo di Londra e la scimpanzé Betsy dello zoo di Baltimora.<br />

«Gran folla alla “vernice”. Molti vennero per dare un’occhiata ironica<br />

all’ultima pazzia dell’Istituto <strong>delle</strong> <strong>Arti</strong> Contemporanee ma quelli che<br />

capivano davvero l’arte astratta si convertirono immediatamente. […]<br />

L’artista americano William Copley venne in aereo a Londra per ridicolizzare<br />

la mostra e attese l’inaugurazione in dinner jacket e cappello<br />

duro, ma si profuse subito in scuse quando vide i quadri appesi alle<br />

pareti» 26 . La mostra è stata inaugurata da Julian Huxley, grandi nomi<br />

dell’establishiment vi presero parte, e i quadri andarono a ruba: furono<br />

venduti, precisa Diamond, «ad acquirenti umani» 27 . I dipinti di Congo<br />

«non erano soltanto una curiosità: la loro bellezza era ampiamente<br />

64


iconosciuta», puntualizza F. de Waal 28 . È questo l’evento tralasciato<br />

da Souriau. E se ne capisce la ragione: se anche l’animale presenta<br />

“artificialismo estetico”, dove radicare l’animalità dell’uomo? Il gesto<br />

avanguardistico 29 confligge con una visione dell’artisticità animale radicata<br />

nella natura e nella vita stessa.<br />

“Appendereste un Congo alla parete?” È la domanda con cui Frans<br />

de Wall, lo specialista dei primati, introduce l’Arte animale 30 . Picasso,<br />

a cui un Congo – ce lo racconta Morris – l’ha regalato Roland Penrose,<br />

l’avrà fatto. Ma questo non è un riconoscimento dell’artisticità<br />

animale, come si lascia intendere. Così pure, che Picasso, alla domanda<br />

di un giornalista su cosa pensasse della pittura degli scimpanzé, rispondendo<br />

saltandogli addosso e mordicchiandolo, volesse dire – lo sostiene<br />

Morris e tanti lo seguono – «che la scimmia e lui erano artisti» 31 .<br />

E Howard Hong, un californiano appassionato d’arte che nel giugno<br />

del 2005 si è aggiudicato alla casa d’asta londinese Bonhams tre quadri<br />

di Congo, l’avrà appesi o chiusi in cassaforte? La casa d’asta sperava,<br />

al più, di ricavare 1.200 euro, ma mister Hong, disposto a spendere<br />

oltre 50.000 euro, avrà pure ritenuto di avere risparmiato quando le<br />

offerte si sono fermate alla modica cifra di 21.500! «Rappresentano<br />

la completa evoluzione del genere umano», pare abbia dichiarato 32 .<br />

Congo è indubbiamente un simbolo, ed è recente (luglio 2005) una<br />

retrospettiva che lo vede protagonista. Ma oggi non mancano tra le<br />

scimmie, esemplari con altrettanto talento e altrettanta fama: dall’orang<br />

utan Lady Noja, «la famosa pittrice espressionista» dello zoo di<br />

Vienna, ai gorilla Koko e Michael su cui ritorneremo. Nel più vasto<br />

regno animale, poi, dalla tartaruga Koopa all’elefante Ruby, di cui si<br />

narra che avrebbe accumulato una fortuna da far invidia ai pittori<br />

umani più quotati, a Taj la tigre bianca, al cane Tillie, considerata una<br />

stella emergente nella scena artistica newyorkese, a Pinto, il maialino<br />

dello Zoo di Brookfield, tanto dotato da essere ribattezzato Pig-casso,<br />

non mancano le occasioni per arredare in stile animale le abitazioni<br />

degli umani.<br />

Il gesto di Morris, quindi, venne ripetuto. Gli animali, presenti in<br />

immagine fin dall’arte preistorica, è come se nel xx secolo si fossero<br />

improvvisamente animati: balzati fuori dalla tela, contrariamente<br />

a Homo sapiens sapiens, sono subito pittori. Il primo a venirne fuori,<br />

come abbiamo visto, è stato lo scimpanzé – il nostro parente più<br />

prossimo – e Desmond Morris – un artista, meglio conosciuto come<br />

etologo – il famoso autore della Scimmia nuda, ne è stato il Pigmalione.<br />

Due antefatti significativi: nel 1951, davanti agli animali della grotta<br />

di Lascaux Morris fece «il voto di svolgere una ricerca sulle origini<br />

dell’impulso artistico»; e nel 1953, quando lavorava ancora nell’Istituto<br />

diretto da Tinbergen, sfogliando «distrattamente» una rivista di<br />

psicologia, si imbattè su «uno strano scarabocchio» tracciato da uno<br />

scimpanzé di nome Alpha, e, letto l’articolo – era reduce da una per-<br />

65


sonale di successo e frequentatore di «serate [e] avventure surrealiste»<br />

– gli venne un’idea così esilarante che ritenne di non potere tenere per<br />

sé: «Quel pomeriggio, al tè, annunciai che un giorno avrei organizzato<br />

una mostra personale di disegni di scimpanzé in una galleria d’arte<br />

di Londra che avrebbe sbalordito il mondo e ancor più ristretto la<br />

differenza tra scimmia e uomo. Non dicevo sul serio, ma quattro anni<br />

dopo fu precisamente quello che feci» 33 . Non che il mondo della vita<br />

fosse rimasto sbalordito, ma si sa, nel mondo dell’arte dal dadaismo<br />

in poi si gioca al rialzo e se la mossa è quella giusta – come il seme<br />

e il terreno – i frutti non mancheranno. E così, dopo gli scimpanzé e<br />

le altre scimmie, vennero imbarcati elefanti, maiali, tigri, capre, cani e<br />

gatti, tartarughe, leoni marini, ecc., tutti nel caravanserraglio con colori<br />

e tele, non sempre con pennelli, talvolta il cavalletto: la pittura, un’arte<br />

che d’avanguardia in avanguardia ha proceduto alla s-definizione di se<br />

stessa, alla fine del secondo millennio diventa un’arte animale.<br />

Scimmia e pittura nella nostra tradizione culturale sono state variamente<br />

intrecciate, e relativamente al nostro argomento il tramite è stata<br />

la teoria dell’imitazione. Se la pittura è imitazione, chi meglio di una<br />

scimmia può emblematizzare tale concetto? 34 Così nel Medioevo «la<br />

pittura che fedelmente imitava la realtà veniva definita senza clemenza<br />

[…] “scimmiottamento della verità” (simia veri)» 35 . E proprio agli albori<br />

dell’astrattismo, nel teorizzare la necessità della «conversione spirituale»<br />

in pittura, Kandinskij apre Lo spirituale nell’arte assimilando la<br />

produzione di opere secondo i principî dei Greci proprio all’imitazione<br />

della scimmia: «Esteriormente i movimenti della scimmia sono perfettamente<br />

uguali a quelli dell’uomo. Una scimmia siede e si tiene un libro<br />

sotto il naso, lo sfoglia, fa la pensierosa, ma a questi movimenti manca<br />

qualsiasi senso interiore» 36 . La scimmia per secoli ha alimentato la<br />

fantasia dei pittori e non sorprende che, in quel giro di anni in cui l’imitazione<br />

viene teorizzata come il principio unificatore di tutte le arti 37 ,<br />

la si sia rappresentata con gli strumenti dell’arte in mano: si pensi alla<br />

scimmia che scolpisce di Watteau o a quella che dipinge di Chardin.<br />

E, manco a dirlo, quanto ci danno a vedere Watteau e Chardin dell’opera<br />

della scimmia sono «forme simili alle greche» possiamo dire con<br />

Kandinskij 38 . Qualche decennio dopo J. Huxley fornì addirittura una<br />

versione scimmiesca del mito dell’origine dell’arte: «Allo zoo di Londra,<br />

aveva osservato un gorilla che tracciava attentamente il contorno<br />

della propria ombra sul muro. Il gorilla ripetè l’operazione tre volte, e<br />

Huxley riconobbe “una relazione con le possibili origini dell’arte grafica<br />

umana”» 39 . L’origine è quella narrata da Plinio: se «sugli inizi della<br />

pittura regna grande incertezza […] tutti però concordano nel dire<br />

che nacque dall’uso di contornare l’ombra umana con una linea» 40 .<br />

Il mito di fondazione che accomuna pittura e scultura è arcinoto: la<br />

figlia del vasaio Butades innamorata di un giovane, e dovendo questi<br />

partire, contorna l’ombra del viso amato proiettata sulla parete da una<br />

66


lucerna; e il padre vasaio, «che non era geloso» giusta l’inferenza di M.<br />

Bettini 41 , imprime dell’argilla sulle linee tracciate dalla figlia e ne ricava<br />

una scultura. Stando così le cose, quanto ci dà a credere Huxley, non è<br />

una variante del mito: non si tratta del ritratto dell’amante, ma, al più,<br />

di autoritratto. Se «le radici culturali dell’immagine sono nel póthos, nel<br />

desiderium, nell’assenza irreparabile della persona che l’immagine è destinata<br />

a colmare» – l’immagine, quindi, come sostituto non come doppio<br />

42 – che dire del presunto tracciato del gorilla? Anche concedendo,<br />

a quanti lo sostengono, che il gorilla ha quasi il diritto – a differenza<br />

dello scimpanzé che ne ha pieno diritto – «a essere considerato un’altra<br />

specie di Homo» 43 , il suo tracciato non è un sostituto. Lo intendiamo<br />

nel segno del doppio? «Il “doppio” richiama sempre la morte» 44 .<br />

A parte la dialettica tra sostituto e doppio, erano, comunque, queste<br />

le fantasie sulla scimmia. Ma si sa, quando la vita imita l’arte non è<br />

detto che si conformi alle nostre fantasticherie. La scimmia pittrice in<br />

carne e ossa, di fatto, ci mostra opere ben diverse da quelle immaginate:<br />

le previste imitazioni non compaiono nelle sue tele, la scimmia<br />

non imita la realtà. Non che Morris non se l’aspettasse, e ci ha pure<br />

provato, solo che «i tentativi di influenzare il genere di pittura prodotto<br />

provocando risposte imitative sono stati sempre i più negativi» 45 . Che<br />

fare? Si potevano esporre scarabocchi? Ci sarebbe voluto il genio di<br />

Duchamp per inventare una nuova corrente stilistica o “una nuova<br />

idea” per questo atto antico almeno tanto quanto il piccolo dell’uomo<br />

a cui se ne è data la possibilità. E fa di necessità virtù: «anche se gli<br />

scarabocchi sembrano astratti, mi resi conto che riuscivo a vedervi il<br />

seme dell’impulso estetico» 46 . Insomma: se non è disegno, può essere<br />

arte. L’Action Painting, ancora sulla cresta dell’onda, sebbene «il suo<br />

smantellamento era iniziato» proprio nel 1957 47 , cadde a pennello. E<br />

l’espressionismo astratto divenne lo stile dell’arte animale 48 . Morris,<br />

individuata la corrente stilistica e «incoraggiato dalle reazioni di numerosi<br />

artisti di grande talento» e di storici e critici di chiara fama come<br />

Herbert Read e David Sylvester, non si scompone neanche di fronte<br />

alla caustica battuta di Dalì: «La mano dello scimpanzé è quasi umana,<br />

quella di Jackson Pollock è totalmente animale!» 49 . La battuta, che<br />

presenta la questione in modo icastico, ha il pregio di assumerne i due<br />

corni. Se lo stile dello scimpanzé è quello dell’espressionismo astratto,<br />

l’espressionismo astratto è uno stile animale? Ma, a parte la differenza<br />

ravvisabile tra i pollock e i congo, sempre che l’ideologia dell’uomo<br />

come Il terzo scimpanzè 50 non scotomizzi l’evidenza, l’interrogativo<br />

che il punto esclamativo di Dalì suggerisce non può essere colto da<br />

chi ritiene che le opere d’arte siano «pure forme di espressione artistica»,<br />

e che la figuratività della pittura abbia avuto un valore puramente<br />

utilitario di cui il nostro tempo, grazie alla fotografia, non avrebbe più<br />

bisogno e se ne sarebbe finalmente liberato: «oggi la pittura ha compiuto<br />

l’intero ciclo ed è tornata quasi dove aveva avuto inizio, prima che<br />

67


l’uomo-scimmia divenisse uomo-cacciatore. Ora, finalmente, la scimmia<br />

e l’uomo moderno hanno quasi lo stesso interesse per la produzione<br />

di dipinti e si può perfino affermare che il moderno artista uomo non<br />

ha molti motivi in più per dipingere un quadro, di quanti ne abbia lo<br />

scimpanzé» 51 .<br />

E del resto: «Perché l’artista si ostinerebbe a rendere ciò che si può<br />

fissare tanto bene per mezzo dell’obbiettivo? Sarebbe una pazzia, non<br />

è vero? La fotografia è venuta in buon punto per liberare la pittura<br />

d’ogni letteratura, dell’aneddoto e persino del soggetto. I pittori non<br />

dovrebbero approfittare della loro libertà riconquistata per fare qualcosa<br />

d’altro?» 52 . Ma, appunto, per Picasso il “qualcosa d’altro” non<br />

consiste nella semplice combinazione di linee colorate. Se Kandinskij<br />

avesse solo potuto immaginare che l’astrattismo a cui ha dato il via<br />

avrebbe sortito più facilmente “l’arte per l’arte”, contro cui oppone lo<br />

“spirituale”, senza neanche il pregio della fattura! Segni e colori senza<br />

«risonanze interiori», senza «senso interiore» 53 : pura visibilità 54 . È<br />

questa la concezione dell’arte che Morris mette in campo per sostenere<br />

l’artisticità dei segni dello scimpanzé. Non è una concezione peregrina,<br />

anzi. Diversamente non si spiegherebbe il successo arriso alla proposta<br />

di Morris e gli sviluppi avuti. «Le scoperte di Mendel sulla genetica dei<br />

piselli rimasero trascurate per molti decenni, perché i biologi non erano<br />

preparati ad accoglierli» 55 . Il mito dell’arte animale, viceversa, trovò<br />

“sensibilità” pronte sia nel mondo dell’arte che in quello della scienza.<br />

Intanto nel 1958 Morris, assieme al critico d’arte M. Levy, che «aveva<br />

un particolare interesse a mostrare le relazioni tra i dipinti <strong>delle</strong> scimmie<br />

e le “azioni pittoriche” degli umani adulti contemporanei», riesce<br />

a organizzare una mostra con la collezione di quadri ottenuta da Levy<br />

dagli umani e con quelli di Congo 56 . La prima mostra d’arte interspecifica<br />

mira a illustrare in modo plateale la similarità tra il primitivo<br />

(Congo) e il progredito (l’artista contemporaneo), un cortocircuito che<br />

azzera la storia, e suggerisce che l’arte, piuttosto che linguaggio naturale<br />

dell’umanità, così come si era andata considerando dal Settecento in<br />

poi, è il linguaggio dell’animalità. Il bestione, tutto senso e fantasia di<br />

G. B. Vico, perde la fantasia e si incarna nella scimmia. E siccome per<br />

gli umani le idee non sono inerti parole sulla carta, A. Rainer prova a<br />

mimare lo scimpanzé, e Lucien Tessarolo inizia la collaborazione con<br />

Kunda, uno scimpanzé femmina.<br />

Entrambi, uomini e scimmie «possiedono un senso del disegno e<br />

della composizione». Come mai, allora, le scimmie non hanno sviluppato<br />

questo talento e l’uomo sì? La risposta è pronta: «è stato solo<br />

l’uomo cacciatore condotto dalle sue esigenze a utilizzare il suo talento<br />

e sviluppare così la pittura», mentre le scimmie, la cui sopravvivenza<br />

dipende dalla raccolta dei frutti, «non devono avere avuto lo stimolo<br />

a dipingere di più e meglio». Non si pensi comunque che per Morris<br />

l’uomo cacciatore fosse solo interessato «a schemi utilitari e simboli<br />

68


eligiosi», altrimenti rimarebbe inspiegato il perché, venute meno le<br />

necessità pratiche, il discendente dell’uomo cacciatore, pur trovandosi<br />

nelle stesse condizioni <strong>delle</strong> scimmie, nondimeno «persiste nelle sue attività<br />

pittoriche». La ragione la trova «nell’aspetto estetico della pittura<br />

che l’uomo condivide con la scimmia e che ha portato alla straordinaria<br />

situazione per cui due scimpanzé sono stati in grado di tenere una<br />

mostra di pittura in una galleria d’arte di Londra». Entrambi, uomini e<br />

scimmie avrebbero, dunque, «un’intrinseca necessità di esprimersi esteticamente»<br />

57 . Rimane misterioso comunque il perché gli uni continuino<br />

a “esprimersi” pittoricamente e gli altri, pur dopo avere gustato il frutto<br />

della pittura, continuino a “esprimersi” con “esercizi ginnici” 58 . A meno<br />

di non ridefinire – suggestionati dal significato letterale dell’Action Painting<br />

(pittura d’azione) – la pittura un genere di ginnastica.<br />

«Nessuna scimmia, non importa di che età ed esperienza, è stata<br />

finora capace di uno sviluppo grafico fino allo stadio pittorico della<br />

semplice rappresentazione». È un altro fatto che certo individua una<br />

differenza non di grado tra uomo e scimmie; ma non per chi vede<br />

«nella convergenza pittorica verificatasi tra l’uomo e le scimmie […]<br />

una stimolante purificazione»; non per chi ritiene che, «non appena<br />

sono state rotte le catene accademiche, l’allontanamento degli elementi<br />

figurativi e religiosi nella pittura, attraverso tutti i vari “ismi” e fino<br />

al tachismo di oggi, ha portato sempre più a una concentrazione dei<br />

valori visivi fondamentali». Gli esiti sono quelle “pure forme di espressione<br />

artistica”, che, elevate a essenza del fare artistico, si troverebbero<br />

all’inizio (Congo) e alla fine (Pollock) della serie evolutiva. Fu così<br />

che, attraverso una sequela di «reazioni sempre più estreme contro le<br />

evanescenti e tradizionali funzioni comunicative dell’arte […], la pittura<br />

umana è oggi divenuta sempre più astratta ed è tornata, intenzionalmente,<br />

a uno stadio simile a quello che troviamo presso i primati,<br />

cioè la pura sperimentazione estetica». E, grazie alla scimmia, non solo<br />

«si possono stringere da presso i fondamenti basilari della creatività<br />

estetica», ma anche individuare «i principi che si applicano a tutta la<br />

pittura e a cui obbediscono tutto e tutti, da Leonardo a Congo» 59 .<br />

«Mi ero sempre chiesto come i nostri antenati, vivendo nelle condizioni<br />

tecnologicamente primitive dell’età della pietra, si sentissero<br />

motivati a dedicare tanto tempo ed energie alla loro elaborata opera<br />

d’arte. Ma se un’umile scimmia poteva mostrare un interesse quasi<br />

ossessivo per il disegno, allora la cosa diventava più facile da accettare.<br />

A quanto pareva, “l’arte per l’arte” aveva una storia molto più lunga di<br />

quello che si supponeva» 60 . A Congo va quindi il merito di avere aiutato<br />

Morris nella comprensione dell’arte di Lascaux, un’arte che certo<br />

non ci sarebbe stata se l’artista preistorico non avesse avuto inclinazioni<br />

e “interessi” diversi da quelli che Morris attribuisce alla scimmia e<br />

all’artista del suo tempo. Nondimeno, grazie a Congo, si ritiene di avere<br />

individuato il filo rosso che lega Lascaux e l’espressionismo astratto. Ma<br />

69


imane un problema: l’astrattismo dell’espressionismo astratto si pone<br />

alla fine di un percorso iniziato molto prima di Lascaux, e sarebbe<br />

persino incomprensibile, oltre che impossibile, senza tutto ciò che l’ha<br />

preceduto (senza la storia e la preistoria dell’arte); come è possibile<br />

che lo si trovi nella scimmia? È come trovare la logica formale in assenza<br />

del linguaggio. Certo, anche a Kanzi – “la scimmia at the brink<br />

della mente umana” 61 – ovviamente si fa fare “pittura”, ma molto più<br />

realisticamente le si fanno scheggiare pietre come gli ominidi vissuti<br />

due milioni di anni fa. E si capisce, data l’irruenza dello scimpanzé,<br />

perché a nessuno sia venuto in mente, per quanto ne so, di provarci<br />

col fuoco, la scoperta attribuita a Homo erectus. Con l’arte è diverso:<br />

i pennelli ricordano i bastoncini con i quali gli scimpanzé pescano le<br />

termiti; un seggiolone blocca Congo ai soli movimenti utili a manovrarli;<br />

i colori, rigorosamente atossici, rimangono comunque lontani<br />

a evitare che l’artista in erba li beva; ecc. In breve con l’arte non si<br />

può essere di danno a sé e agli altri. In aggiunta, l’arte, per la quale i<br />

fiumi d’inchiostro si sono sprecati, è un argomento di vasta attrazione e<br />

dallo Scolabottiglie di Duchamp accoglie tutto. E quando una scoperta<br />

scientifica, vera o presunta, viene – incorniciata e appesa – presentata<br />

nei luoghi dell’arte, e non in quelli canonici della scienza, da una parte<br />

ha un impatto dirompente e dall’altra viene sdoganata senza controlli.<br />

«Stavo davvero assistendo alla nascita dell’arte» 62 . Il mondo assisteva<br />

alla nascita dell’arte animale.<br />

«Quasi tutte le testimonianze archeologiche in nostro possesso ci<br />

rivelano che qualcosa di simile al fare arte è sempre esistito nel fenotipo<br />

umano, indubbiamente con base nel dna in cui il resto di ciò che<br />

è tipicamente umano è codificato, la propensione al linguaggio, per<br />

esempio, se ciò può dirsi tipicamente umano». Perciò «se le istituzioni<br />

che incoraggiano e insegnano il fare arte venissero cancellate, da una<br />

catastrofe storica per esempio, la nuova generazione utilizzerebbe o<br />

manifesterebbe i propri tratti del fare arte scalfendo ossi e ammucchiando<br />

pietre» 63 . E prima o poi, nuove generazioni inventerebbero<br />

scrittura e disegno, Segno e Immagine. Ma certo Homo, all’inizio tutto<br />

intento a scarabocchiare prima di disegnare, è un’immagine suggerita<br />

dal bambino, e disponibile da quando la nascita dell’“arte infantile”<br />

ha contribuito alla virata spontaneistica nell’educazione <strong>delle</strong> nuove<br />

generazioni.<br />

Linguaggio e arte. Relativamente al primo, c’è da osservare che, sebbene<br />

a lungo ci si sia prodigati a insegnarlo agli scimpanzé, a nessuno è<br />

mai venuto in mente di insegnare loro il linguaggio poetico. Né mai si<br />

è parlato di poesia relativamente alla scimmia. Nessuno ha ravvisato le<br />

origini dell’arte poetica negli enunciati tipici degli scimpanzé addestrati<br />

al linguaggio. Non sarebbe stato difficile, dacché la poesia ha smesso<br />

come la pittura le forme “simili a quelle greche”. Quanto alla scimmia<br />

le possibilità dell’una e dell’altra arte sono identiche. Ma nessuno ha<br />

70


frainteso l’assenza di grammatica e sintassi per forme poetiche moderne,<br />

o per il germe iniziale <strong>delle</strong> stesse. Il diverso trattamento riservato<br />

al linguaggio la dice lunga sullo statuto culturale dell’immagine. Per il<br />

linguaggio anni e anni di defaticante addestramento, per l’immagine –<br />

e in questo ha giocato l’assimilazione dell’immagine tout court all’arte,<br />

che l’ideologia corrente vuole estranea alle logiche dell’insegnamentoapprendimento<br />

– è stato diverso: fornita allo scimpanzé una matita il<br />

tracciato ottenuto è sembrato da subito arte: un’espressione spontanea<br />

in cui la soggettività, prima solo umana e dagli anni ’50 del Novecento<br />

anche animale, si esibirebbe senza mediazione alcuna.<br />

Mettiamo per un momento tra parentesi l’arte e occupiamoci di<br />

semplice immagine: l’immagine come il linguaggio, cioè negli usi molteplici<br />

che ne facciamo, terra terra direbbe qualche filosofo, non nei<br />

loro esiti artistici o poetici. Esiti specialistici, come quelli scientifici, e,<br />

in quanto tali, inadeguati al confronto interspecifico. E però gli esiti<br />

specialistici sono tutti da tenere presenti, a meno di non pensare che<br />

le basi biologiche del disegnare artisticamente siano diverse da quelle<br />

del disegnare geometricamente. L’“interesse quasi ossessivo per il<br />

disegno”, che Morris non esita ad appioppare a Congo! Intanto un<br />

disegno geometrico, un disegno tecnico, un disegno scientifico non<br />

possono essere astratti nel significato dell’Action Painting: sarebbero<br />

inservibili, oltre che incomprensibili; e poi, un segno o più segni non<br />

sono il disegno, come un vocalizzo o più vocalizzi non sono il linguaggio.<br />

Se per disegno intendiamo ciò che i dizionari ci dicono dobbiamo<br />

intendere – “rappresentazione per mezzo di linee e segni tracciati con<br />

matite, pastelli ecc., di oggetti, persone o luoghi, reali o immaginari”<br />

– Congo non ha disegnato. La scimmia è al di qua della rappresentazione<br />

– e Morris è d’accordo, tranne poi a darne una valutazione<br />

artistica – come è al di qua del linguaggio 64 . Né Segno né Immagine:<br />

al di qua dell’immagine.<br />

Morris, però, tenendo in nessun conto che senza la capacità umana<br />

di fare immagini non avrebbe avuto di che ricercare le radici biologiche,<br />

tutto preso da un’idea di progresso artistico diametralmente opposta<br />

a quella di Vasari, non se ne preoccupa più di tanto. Ma chi ha<br />

una concezione dell’arte meno avanguardistica della sua, chi non ritiene<br />

che il «tramonto dell’arte figurativa» sia una conquista 65 , e pur crede<br />

nell’arte animale, continua ad aspettarsi che la scimmia non si fermi<br />

all’espressionismo astratto, ma sviluppi il figurativo. E c’è chi lo trova.<br />

A cosa servirebbero, altrimenti, le grandi capacità imitative che le si<br />

attribuiscono? Fa problema, insomma, che la scimmia, che può imitare<br />

gesti, posture, espressioni – come o meglio degli umani, tanto da emblematizzare<br />

l’imitazione – non possa poi disegnare, che non “imiti”<br />

anche con i segni grafici. È c’è chi proprio non si rassegna. È il caso<br />

della psicologa Francine Patterson, detta Penny, che ha iniziato alla<br />

pittura due gorilla, una femmina di nome Koko e un maschio di nome<br />

71


Michael. Le loro opere vengono classificate in Abstract Paintings, Emotional<br />

Representations, Portraits e Still Lifes. Insomma le due scimmie<br />

rappresenterebbero non solo oggetti come peperoni, lattughe e Penny<br />

Patterson in persona, ma anche concetti astratti come odio e amore 66 .<br />

La cosa non convince neanche i primatologi. F. de Waal, ad esempio,<br />

senza mezzi termini dichiara: «non sono mai stato in grado di riconoscere<br />

nei loro dipinti queste presunte immagini. A me sembra che solo<br />

l’arte umana sia in grado di ritrarre la realtà» 67 , fermo lasciando che lo<br />

stile animale è quello dell’espressionismo astratto. Personalmente però<br />

non ho difficoltà a riconoscere i referenti di alcune <strong>delle</strong> immagini dei<br />

due gorilla. Il fatto che io, la Patterson e quant’altri, a differenza di F.<br />

de Waal, riconosciamo immagini nei dipinti di Koko e Michael significa<br />

che Koko e Michael hanno dipinto immagini? È un argomento a favore<br />

della capacità rappresentativa della scimmia come ritiene de Waal? Peraltro,<br />

anche de Waal, che non riconosce il cane o l’uccello nei quadri<br />

<strong>delle</strong> creature di Penny Patterson, non può non riconoscere i fiorellini<br />

nei quadri degli elefanti. I prodigi della proboscide ci costringeranno<br />

a spostare la linea di confine tra animali e uomo che persino de Waal<br />

individua nella rappresentazione?<br />

«Una formica cammina su una spiaggia e, camminando, traccia una<br />

linea sulla sabbia. Per caso, la linea da essa tracciata fa una curva a<br />

un certo punto e, tornando indietro, incrocia se stessa parecchie volte,<br />

sino a divenire una caricatura riconoscibile di Winston Churchill. La<br />

formica ha tracciato un’immagine di Winston Churchill, un’immagine<br />

che lo rappresenta?», si chiede H. Putnam 68 . La formica non è ancora<br />

entrata a far parte dell’immaginario pittorico, e forse a nessuno verrà<br />

in mente di andare a cercare lì le origini dell’arte. Non sappiamo<br />

neanche se la formica è in grado di percepire immagini. Sappiamo,<br />

però, quanto meno da Köhler in poi, che le scimmie lo sono. Ma non<br />

è una prova da cui inferire la loro capacità rappresentativa. Non solo<br />

«le scimmie riconoscono quasi spontaneamente le immagini al tratto di<br />

oggetti familiari» 69 , ma ricerche più recenti ci dicono che percepiscono<br />

anche gli “indizi pittorici”, come vengono chiamati nella letteratura.<br />

Nondimeno, relativamente al fare immagini non si differenziano dalla<br />

formica di Putnam. Peraltro, mentre non manca chi, continuando a<br />

dare credito alla convenzionalità dell’immagine, continua a negare ai<br />

cosiddetti primitivi umani la capacità di percepire la profondità nelle<br />

immagini, rigorose ricerche l’attribuiscono persino alle galline 70 . Che<br />

vi siano rendimenti percettivi comuni alle varie specie animali e «che<br />

lo siano perché vi sono problemi comuni a tutti gli organismi» 71 non<br />

può sorprendere se si riflette che «la visione si sviluppa biologicamente<br />

come mezzo di orientamento nell’ambiente» 72 . Ma le galline, candidate<br />

non improbabili al riconoscimento artistico se si pensa al gallo di<br />

Hokusai 73 , percepiscono le immagini come immagini?<br />

Lo scopo della percezione è la sopravvivenza, non certo la fruizione<br />

72


estetica. Cosa potrebbe percepire lo scimpanzé in un pollock, quando<br />

oggi si scopre che Pollock con le sue opere, dalla struttura frattale,<br />

avrebbe anticipato la scoperta di Mandelbrot? Un’immagine “simile<br />

a quelle greche” è alla portata del piccolo dell’uomo, e anche della<br />

scimmia, ma non una alla pollock, più simile, relativamente alle possibilità<br />

di comprensione, a un’ecografia che alla Lepre di Dürer 74 . Pure,<br />

S. Watanabe un ricercatore giapponese ha addestrato due gruppi di<br />

piccioni, l’uno a beccare su riproduzioni di Picasso e l’altro di Monet.<br />

I piccioni mostrarono generalizzazioni non solo all’interno dei dipinti<br />

di Picasso o di Monet, ma anche dai picasso al cubismo o dai monet<br />

all’impressionismo. Un risultato che, se gli valse il premio IgNobel<br />

1995 per la <strong>Psicologia</strong> 75 , lasciò «a bocca aperta il mondo dell’arte»<br />

– sempre pronto a plaudire alle novità anche quando sono da Nobel<br />

IgNobel – e mandò in sollucchero i seguaci di Morris: la morale è che<br />

i piccioni «sanno distinguere i pittori meglio di quanto facciano molti<br />

visitatori del Louvre» 76 . Ma l’IgNobel nella “società della comunicazione”<br />

77 è pur sempre pubblicità e col tempo il vulnus rimargina<br />

e il nome rimane. Forse è per questo che gli antichi inventarono la<br />

damnatio memoriae? Noi moderni siamo diversi e conserviamo tutto,<br />

immagini e parole, disattenti a priorità e valutazioni; siamo tanto interessati<br />

all’inventario minuzioso che abbiamo inventato il web perché<br />

di tutto si serbi ricordo. Si sostiene così che le expertise dei maestri del<br />

Novecento dovremmo affidarle ai piccioni, «gli unici esperti» che non<br />

si lasciano ingannare, non come i Brandi o gli Argan che sono stati<br />

tratti in inganno dai ragazzi di Livorno. Per lo studioso degli animali<br />

non fa problema che questa capacità piccionesca non abbia nessuna<br />

relazione con la percezione di immagini, dato che «non si presume che<br />

i piccioni vedano immagini bidimensionali come rappresentazioni del<br />

mondo reale» 78 . Quanto a noi: deve forse un termometro percepire la<br />

temperatura per misurarcela?<br />

Ritorniamo alle origini dell’arte e allo scimpanzé che per Morris<br />

ci fornirebbe quanto viene prima di Lascaux, in modo da chiudere il<br />

circolo tra Lascaux e noi (l’espressionismo astratto). «Per convincerci<br />

che la nostra arte deve avere qualche precedente animale», ci viene<br />

ricordato da quanto poco tempo ci siamo separati dallo scimpanzé e<br />

quanto elevata sia la percentuale di geni che abbiamo in comune 79 . Ai<br />

tempi di Morris l’argomento poteva avere qualche parvenza esplicativa.<br />

Ma quando troviamo scimmie non antropomorfe e animali molto<br />

lontani nella scala filetica che fanno le stesse cose dello scimpanzé, il<br />

quale proprio per la vicinanza con Homo sapiens viene eletto a chiave<br />

esplicativa di quest’ultimo, quali radici biologiche dell’arte riteniamo di<br />

avere trovato? Percepire immagini, immagini che portano a un riconoscimento<br />

di tratti significativi di oggetti, è più facile che farle. Perché<br />

dovrebbe essere più facile fare un simil-pollock che cogliere il significato<br />

di un pollock? Veramente si ritiene che l’arte astratta sia un puro<br />

73


esercizio motorio, e gli adulti umani vi si siano impegnati mossi dal<br />

semplice piacere degli effetti visivi? Per di più, l’obiezione è di Daimond,<br />

«la pittura dei pongidi è solo un’attività innaturale di animali<br />

in cattività, e tale comportamento non essendo naturale, forse non può<br />

illuminarci sulle origini animali dell’arte» 80 . E pur tuttavia sostiene, da<br />

una parte, «che come i giardini decorati degli uccelli giardinieri, l’arte<br />

umana potrebbe essersi evoluta come un segnale di status, e averci<br />

aiutato in tal modo a perpetuare i nostri geni» – il che avrebbe dovuto<br />

comportare un’umanità maschile tutta impegnata a fare quadri e una<br />

femminile tutta impegnata a guardarli alla ricerca degli indicatori di<br />

buoni geni, come le femmine dell’uccello giardiniere che «si aggirano<br />

attorno ai giardini decorati e li ispezionano con cura prima di sceglierne<br />

uno in cui accoppiarsi»; dall’altra, che gli scimpanzé selvatici non<br />

dipingono perché sono ancora troppo occupati con i problemi della<br />

sopravvivenza: «se avessero più tempo libero e i mezzi per dipingere,<br />

lo farebbero. La dimostrazione della mia teoria sta nel fatto che ciò<br />

è realmente accaduto: nei nostri geni, noi siamo ancora scimpanzé al<br />

98 per cento» 81 – col che rimane il mistero di come ha fatto la specie<br />

Homo a trovare il tempo libero e come ha fatto ad avere i mezzi per<br />

dipingere. Di fatti: l’origine dell’arte umana è un «mistero sublime»,<br />

nondimeno l’arte animale ci aiuterà «a capire le funzioni originarie<br />

dell’arte umana. Così, benché noi consideriamo l’arte come antitetica<br />

alla scienza, potrebbe esistere in realtà una scienza dell’arte» 82 . Vedete,<br />

quindi, quali e quante speranze si ripongono nell’arte animale, e le<br />

responsabilità che si assume chi la mette in discussione, mentre i Sokal<br />

e i Bicmont si preoccupano di Julia Kristeva 83 .<br />

Fermo restando che nulla di ciò che chiamiamo cultura esisterebbe<br />

se non fosse biologicamente possibile, percepire un disegno, riconoscerlo<br />

come raffigurante un oggetto, non è tuttavia in nessun modo produrlo.<br />

Percepire non è rappresentare. La presenza di concetti percettivi<br />

che condividiamo con altre specie – e presumiamo, forse a torto, uguali<br />

ai nostri 84 – non assicura la comparsa dei concetti rappresentativi 85 .<br />

«Qui la parola chiave è rappresentazione» 86 . Ma non al modo in cui<br />

l’intende il cognitivista, tutta interna alla mente, ma le rappresentazioni<br />

che incontriamo nel mondo: segni e disegni. In natura non ci sono né<br />

gli uni né gli altri. L’uomo li ha inventati. Pinker, per il quale il linguaggio<br />

è per l’uomo un istinto, come lo è per il ragno tessere la sua tela,<br />

precisa che «il linguaggio scritto non lo è. La scrittura è stata inventata»<br />

87 . Allo stesso modo lo è stato il disegno: anche se percepire fa parte<br />

del corredo genetico del vivente, e percepire un’immagine è più facile<br />

di leggere, non è sufficiente percepire per disegnare. Per inventarli, i<br />

segni e i disegni, la specie Homo deve avere posseduto la capacità di<br />

farlo, deve avere sviluppato quella che Piaget ha chiamato “funzione<br />

semiotica”, e «che consiste nel poter rappresentare qualcosa [...] per<br />

mezzo di un “significante” differenziato e che serve solo a questa rap-<br />

74


presentazione» 88 . Le condizioni di possibilità di Segno e Immagine,<br />

individuate da Brandi nello «schema preconcettuale», si radicano nella<br />

capacità di rappresentare.<br />

Morris, sebbene ritenga che basti l’intelligenza senso-motoria per<br />

fare arte, constatando che la rappresentazione è al di là della capacità<br />

della scimmia, ne conclude giustamente che lo studio della nascita e<br />

dello sviluppo dell’immagine deve essere svolto con «i bambini piuttosto<br />

che con lo scimpanzé» 89 . Ed è con i bambini che Piaget ne ha<br />

studiato la genesi. Alla luce di questa, e soprattutto della scala di valori<br />

adottata, ritiene «necessario distinguere due livelli in questi strumenti<br />

semiotici, anche se nel bambino normale essi appaiono pressoché tutti<br />

nello stesso tempo (tranne il disegno, in genere)». Il primo livello è<br />

quello dei simboli, il secondo livello, che «fino a un supplemento di<br />

dati informativi, sembra peculiare alla specie umana» 90 , è proprio del<br />

linguaggio. In questa ripartizione, nonostante il disegno compaia dopo<br />

il linguaggio, viene considerato come primitivo rispetto a quest’ultimo;<br />

e quest’ultimo è il linguaggio articolato, non quello scritto.<br />

Poiché il disegno si realizza tramite l’uso di un utensile per tracciare<br />

e di un supporto su cui tracciare, ci si aspetterebbe che per il confronto<br />

si fosse tenuto conto del linguaggio scritto, i cui modi di produzione<br />

sono anch’essi legati a un utensile per tracciare e a un supporto su<br />

cui tracciare. Quella del linguaggio orale, se si considera che scrittura<br />

e disegno interessano le stesse vie emissivo-ricettive, diverse dalle vie<br />

dell’orale, è una scelta ben curiosa proprio per la psicologia, ma è stata<br />

quasi unanimamente condivisa nel passato ed è abbastanza diffusa nel<br />

presente, non solo in psicologia. Relativamente al nostro argomento<br />

ha portato alla convinzione, sulla base della “non-convenzionalità”<br />

dell’immagine e dell’“arbitrarietà” del linguaggio, che disegnare sia più<br />

semplice che parlare. E il disegno, assimilato all’arte, e perciò ritenuto<br />

privo di regole, è stato considerato il linguaggio naturale dell’umanità<br />

infante e il linguaggio spontaneo del bambino piccolo. Tanto che si è<br />

persino formata la leggenda che il disegno preceda, nello sviluppo, il<br />

linguaggio. «Non so se l’idea sia stata avanzata da scienziati, ma mi<br />

sembra molto verosimile che la specie umana, al pari del bambino<br />

nell’epoca storica, abbia saputo prima disegnare che parlare» 91 . Per<br />

soddisfare la curiosità di Read, e per esemplificare come la sua sia<br />

un’idea ancora attuale, riporto un passo di due scienziati che sembrano<br />

corroborare l’ipotesi relativamente alla filogenesi: «Perché l’uomo<br />

primitivo, ritornando dalla caccia, rinchiuse con il segno di una pietra<br />

appuntita una superficie della parete della sua grotta per rappresentare<br />

l’animale che aveva visto nella foresta? E perché i suoi compagni<br />

capirono che quella linea variamente ricurva era un bisonte? Come<br />

fece il cacciatore a spiegare loro, in assenza del linguaggio, a cosa mai<br />

si riferisse quel disegno? Come può una linea richiamare alla memoria<br />

visiva dell’osservatore la figura complessa di un animale? […] Noi<br />

75


dopo l’avvento del linguaggio o della scrittura avremmo detto o scritto<br />

una semplice parola, “bisonte”» 92 . L’ultima frase, con gli “o” che ho<br />

evidenziato, è indicativa anche dell’interscabiabilità del parlato e dello<br />

scritto. L’Immagine precederebbe il Segno e la primarietà allude alla<br />

primitività.<br />

Le cose non stanno così, né nell’ordine della filogenesi 93 , né, ad<br />

evidenza, nell’ordine dell’ontogenesi. Non risponde all’osservazione,<br />

che chiunque può fare, che il bambino disegni prima di parlare. Inizia<br />

a parlare intorno all’anno e a disegnare intorno ai due. A tre anni «è<br />

un genio grammaticale, ma non è affatto competente nelle arti visive,<br />

nell’iconografia religiosa, nei segnali del traffico e negli altri tipici ingredienti<br />

del curriculum semiotico» 94 . Quando si è sostenuto il contrario<br />

lo si è fatto intendendo per disegno lo scarabocchio. Vero è, viceversa,<br />

che nell’ontogenesi il disegno precede la scrittura. E però il bambino<br />

abituato fin da piccolo a usare fogli e matite, e se si sviluppa in un<br />

ambiente dove si scrive abitualmente, può cominciare ad avvertire analogie<br />

tra le proprie tracce e il tracciato della scrittura dell’adulto. Di<br />

conseguenza può impegnarsi anche nel tentativo di imitare la linearità<br />

della scrittura degli adulti. Cosicché tentativi di scrivere, differenti da<br />

quelli di disegnare, possono sorgere quasi in contemporanea, ma non<br />

prima del linguaggio articolato. Il bambino, comunque, non inventa né<br />

il disegno né la scrittura: trova l’occorrente bello e pronto per esercitare<br />

la nascente funzione semiotica. Se no – si pensi alla “catastrofe storica”<br />

ipotizzata da Danto – di certo non disegnerebbe e non scriverebbe.<br />

Per Piaget gli strumenti della funzione semiotica – simboli e segni<br />

– derivano dallo sviluppo dell’imitazione, che, in quanto prefigurazione<br />

senso-motoria della rappresentazione, viene così a costituirsi come<br />

«termine di passaggio tra il livello senso-motorio e quello <strong>delle</strong> condotte<br />

propriamente rappresentative» 95 . Indubbiamente l’imitazione svolge<br />

un ruolo importantissimo nello sviluppo, e, oggi dopo la scoperta dei<br />

“neuroni specchio” – “la rivoluzione italiana”, come viene chiamata<br />

nella letteratura internazionale – non c’è studioso che possa sottovalutarla.<br />

Benché inizialmente i neuroni specchio siano stati scoperti nella<br />

scimmia, probabilmente potrà servire a ridimensionare le iperboliche<br />

capacità imitative che tradizionalmente le sono state attribuite, se l’ipotesi<br />

«che l’uomo, disponendo di un patrimonio motorio più articolato<br />

di quello della scimmia, abbia maggiori possibilità di imitare e, soprattutto,<br />

di apprendere via imitazione» 96 , verrà confermata e accolta.<br />

Relativamente al comportamento motorio del disegnare e dipingere,<br />

laddove non sono valse le numerosissime osservazioni che si trovano<br />

sparse nella letteratura sulle innegabili differenze tra bambino e scimmia,<br />

si spera che i neuroni specchio, con il loro fascino targato Brain,<br />

possano servire a fare chiarezza, e a tenere in debito conto osservazioni<br />

come questa: L. A. e W. N. Kellogg, che hanno confrontato lo<br />

sviluppo dello scimpanzé Gua e del figlio Donald per il test di Gesell<br />

76


(il criterio di riuscita è la produzione di uno scarabocchio), riferiscono<br />

che «Gua eseguì questo in maniera eccellente dopo una breve dimostrazione<br />

da parte dell’esaminatore, ma Donald lo eseguì per la prima volta<br />

spontaneamente, cioè senza dimostrazione alcuna» 97 . Se le lingue in<br />

uso oggi nel mondo sono circa seimila, le lingue motorie del vivente,<br />

non saranno tante quante le specie, ma sicuramente non sarà solo una:<br />

il “vocabolario di atti motori” non parrebbe interspecifico. Al vocabolario<br />

della specie Homo «non appartiene l’abbaiare», ci dicono gli<br />

studiosi dei neuroni specchio 98 . Alla scimmia appartiene il disegnare?<br />

Indubbiamente «il disegnare, dipingere e modellare fanno parte del<br />

comportamento motorio umano, ed è lecito supporre che essi si siano<br />

sviluppati da due più antichi e più generali aspetti di tale comportamento:<br />

il movimento fisionomico e descrittivo». Se il movimento fisionomico<br />

o espressivo è sufficiente per scarabocchiare, non lo è né per il<br />

disegno, né per la scrittura: per disegnare e scrivere – ferma restando la<br />

qualità espressiva che dà l’impronta personale che ogni manufatto, compresa<br />

la scrittura, non può non avere – il gesto deve essere controllato<br />

dall’intenzione di rendere le forme di ciò che si vuole disegnare o le<br />

forme <strong>delle</strong> lettere. Per il disegno e la scrittura non basta il movimento<br />

espressivo, ma è necessario anche quello descrittivo. Movimenti, questi<br />

ultimi, più vicini agli «atti intrasitivi (non diretti verso un oggetto)»,<br />

che agli «atti transitivi (diretti verso un oggetto)», presi in considerazione<br />

nella ricerca sui neuroni specchio. E mi pare significativo che<br />

la comprensione dei primi la si trovi unicamente nell’uomo e solo dei<br />

secondi anche nella scimmia, i cui neuroni specchio, a differenza di<br />

quelli dell’uomo, «non rispondono alla vista di movimenti non finalizzati»<br />

99 . Sebbene i neuroni specchio “umani” possano spiegare una<br />

più ampia gamma di comportamenti rispetto a quelli della scimmia,<br />

non va dimenticato che il loro ruolo primario è quello «legato alla<br />

comprensione del significato <strong>delle</strong> azioni altrui», giusta l’osservazione di<br />

Rizzolatti 100 . Pur così, la famiglia dei neuroni specchio si va scoprendo<br />

sempre più numerosa: “neuroni-specchio-afferrare”, “neuroni-specchio<br />

tenere”, “neuroni-specchio-collocare”, “neuroni-specchio-manipolare”,<br />

“neuroni-specchio-manipolare-con-le-mani”, “neuroni-specchio ingestivi”,<br />

“neuroni-specchio comunicativi”, “neuroni-specchio audio-visivi”…<br />

Si scopriranno “neuroni-specchio-disegnare”? Potranno i neuroni-specchio<br />

spiegare anche il disegno? La suggestione è grande: questi neuroni<br />

evocano l’immagine (specchio), richiamano la “facoltà imitativa” che a<br />

lungo è servita a spiegare la pittura 101 , corroborerebbero la più articolata<br />

teoria dello sviluppo che la psicologia abbia mai avuto; e già V.<br />

Gallese avanza la loro utilità per l’arte.<br />

Ma intanto: disegnare è imitare? Di fatto Piaget concepisce il disegno<br />

come copia, e, se disegnare significa copiare, va da sé che l’imitazione<br />

serve a promuoverlo e i neuroni specchio a spiegarlo. Che<br />

“imitare è copiare” è abbondantemente presente nella letteratura, sia<br />

77


quando il concetto lo si è inteso in positivo sia quando lo si è considerato<br />

negativamente, fino alla sinonimia con scimmiottamento. E<br />

quando nell’Ottocento la teoria dell’imitazione, dopo venti secoli di<br />

dominio, entrò definitivamente in crisi, l’attività imitativa del pittore<br />

sembrò persino facile. «L’imitazione è spregevole perché è facile», sostenne<br />

J. Ruskin. Essa «richiede solamente buon occhio, mano ferma e<br />

una modesta applicazione». Occhio-movimento-esercizio e nient’altro:<br />

«tutte qualità che non distinguono in alcun modo l’artista imitativo da<br />

un orologiaio, da un costruttore di spilli o da qualsivoglia altro abile<br />

artigiano» 102 . E, possiamo aggiungere, da una scimmia. Di lì a poco le<br />

parole d’ordine nel mondo dell’arte diverranno “espressività” e creatività”,<br />

e poiché il concetto “imitazione”, oltre a indicare un’attività,<br />

stava a significare anche lo scopo dell’attività e il metro di valutazione<br />

del prodotto così ottenuto, cambiarono scopo e criterio e si determinarono<br />

le condizioni per l’astrattismo. Dopo di che sembrò ragionevole<br />

sostenere l’inessenzialità della figuratività fin dalle origini, e con l’acqua<br />

sporca si è tentato di sbarazzarsi anche del bambino. Ma l’intenzione<br />

del piccolo dell’uomo mira al figurativo, non all’astratto. È facile, e<br />

quanto, imitare graficamente?<br />

«Questa dell’imitazione della realtà visiva deve essere una faccenda<br />

estremamente complessa, e anche sfuggente: come si spiegherebbe,<br />

altrimenti, che per scoprire i trucchi siano occorsi gli sforzi di molte<br />

generazioni di pittori dotati?» 103 . Come spiegare che nonostante la presenza<br />

di varie condotte imitative nel bambino come nello scimpanzé,<br />

quest’ultimo rimane incapace d’imitare il più elementare e rudimentale<br />

tratto grafico? Che significa imitare relativamente alla forma? Se<br />

fosse solo una questione di atti motori, il bambino che è in grado<br />

di copiare un triangolo dovrebbe, nello stesso tempo, esserlo anche<br />

per il rombo. E invece no. Dal momento che le evidenze empiriche<br />

attestano il contrario – solo in un secondo tempo il bambino copia<br />

il rombo – dobbiamo concluderne che il movimento, anche quando<br />

si tratti di segni da copiare, si affina con l’esercizio e si differenzia in<br />

relazione alla comprensione. Ma non basta: «Il percorso circolare di<br />

una linea è di natura molto diversa dalla simmetria centrale del cerchio<br />

bidimensionale che risulta come prodotto finale» 104 . Vale a dire la<br />

sequenza del movimento per disegnare il cerchio non è isomorfa alla<br />

percezione del cerchio. La vista del cerchio non fornisce al bambino<br />

la direzione che deve dare al movimento. Se questo ci spiega perché<br />

il bambino, pur discriminando percettivamente le forme geometriche,<br />

possa non riuscire a copiarle, non ci dice l’essenziale sul disegno libero.<br />

Per quest’ultimo non c’è forma bella e pronta da copiare. Perciò meno<br />

che mai può essere l’imitazione a spiegarne la nascita.<br />

Il concetto di copia e/o d’imitazione, fonte di molteplici equivoci,<br />

è inadeguato a spiegare una rappresentazione grafica di qualsivoglia<br />

tipo. Il disegno è elaborazione, creazione, invenzione, fabbricazione di<br />

78


equivalenti o sostituti nelle proprietà del medium carta-matita, tutto<br />

fuorché copia dell’oggetto: «se il bambino traccia un cerchio per rappresentare<br />

una testa, questo cerchio non gli viene offerto dall’oggetto<br />

in questione; è, invece, un’autentica invenzione, un’importante conquista,<br />

alla quale il bambino arriva soltanto dopo una laboriosa serie<br />

di tentativi». Più in generale «ogni tipo di figurazione richiede l’uso<br />

di concetti rappresentativi, i quali forniscono l’equivalente, tramite un<br />

determinato medium, dei concetti visivi che si vogliono rappresentare,<br />

e trovano una manifestazione esterna nel prodotto della matita, del<br />

pennello, del cesello». La forma non è imitata, ricalcata, riprodotta,<br />

copiata, desunta dall’oggetto, ma inventata, e il suo sviluppo dipende<br />

dalla comprensione dell’immagine in quanto immagine: per Arnheim,<br />

come già per Piaget, «l’intuizione che le forme disegnate nel foglio o<br />

plasmate con la creta possono stare al posto di altri oggetti esterni, a<br />

cui sono legate come il significante al significato». La scoperta «è così<br />

peculiare all’uomo» 105 che il bambino prima o poi la compie.<br />

«I primi scarabocchi del bambino non vanno intesi come rappresentazione:<br />

sono una forma della gradevole attività motoria con la quale il<br />

bambino esercita gli arti, con il piacere addizionale di produrre tracce<br />

visibili attraverso i gesti vigorosi <strong>delle</strong> braccia avanti e indietro. Produrre<br />

qualche cosa che prima non esisteva è un’esperienza gradevole.<br />

Questo interesse per il prodotto fine a se stesso si osserva anche nello<br />

scimpanzé che imbianca la gabbia con pezzi di gesso o che brandisce<br />

un pennello di vernice: è un semplice piacere sensoriale, che perdura<br />

invariato anche nell’artista adulto» 106 . Ma non basta né a promuovere<br />

la rappresentazione nello scimpanzé, né a bloccare lo sviluppo della<br />

stessa nel bambino. Ritornando ai neuroni-specchio si può avanzare<br />

la ragionevole ipotesi che, se si attiveranno alla vista di qualcuno che<br />

disegna, non discrimineranno la loro attività in relazione alla forma<br />

del tracciato. Osservare l’altro che disegna potrà essere d’aiuto se il<br />

tracciare segni fa parte del potenziale vocabolario di atti motori di chi<br />

osserva, ma imitare i movimenti di chi disegna non è “imitare” la forma<br />

degli oggetti: i “neuroni-specchio-disegnare”, qualora si scoprissero,<br />

non potranno far sorgere dal nulla il concetto rappresentativo. Perciò<br />

è solo nel bambino, che è in grado di sviluppare segni e disegni, e non<br />

nello scimpanzé, che si radicano le condizione di possibilità di Segno<br />

e Immagine.<br />

L’arte del Novecento per buona parte è stata non figurativa. Nessuno<br />

ha sostenuto che le menti che l’hanno prodotta non avessero<br />

sviluppato la rappresentazione. Sarebbe un’idea insensata. Ma proprio<br />

per questo non possiamo ritenere inessenziale all’arte – alla sua nascita<br />

e al suo sviluppo antropologico – la figuratività, individuarne l’essenza<br />

nel gesto espressivo, e radicarla nell’animalità. «L’Astrattismo attuale<br />

non ha nulla da spartire» con l’origine dell’arte 107 . L’opera di Pollock,<br />

contrariamente ai nudi e crudi segni di Congo, ci viene consegnata as-<br />

79


sieme alla sua poetica e alla sua dolente umanità, inserita nella rete di<br />

relazioni con ciò che l’ha preceduta e ciò che è venuto dopo: «ancora<br />

segnata dalla sua indelebile origine figurativa» 108 , attesta una particolare<br />

interferenza nella relazione fra Segno e Immagine.<br />

E i dipinti dell’animale? «Non possiamo semplicemente rifiutare la<br />

sua arte come il ghiribizzo di un animale» 109 , ci viene detto. Ma non<br />

è stato il “ghiribizzo” di un animale, fosse pure quello ritenuto il più<br />

intelligente! Il ghiribizzo è stato dell’artista. “L’arte nasce dall’arte”. La<br />

promozione artistica dell’animale è, va sottolineato, opera dell’artista.<br />

Alle origini di quello che è diventato un vero e proprio movimento,<br />

troviamo il gesto avanguardistico di un artista: Desmond Morris, che,<br />

sì, ha preso il dottorato in Zoologia con Tinbergen, ma certo non è<br />

diventato, in quanto etologo, Direttore dell’Institute of Contemporary<br />

Art di Londra. Ha sempre dipinto, prima e dopo la parentesi universitaria,<br />

e si immatricolò in zoologia «con la curiosa motivazione non di<br />

diventare uno scienziato, ma di diventare un’artista» 110 . Si specializza<br />

in etologia perché si rende conto – nonostante la prima mostra lo veda<br />

accanto a Mirò – di non potersi mantenere con la sua arte, e, ironia<br />

della sorte, oggi molti artisti, e anche non artisti che hanno fiutato il<br />

vento, grazie al suo gesto, vivono di arte animale. È il caso, ad esempio,<br />

di Kira che vende i dipinti di Koopa, una tartaruga di 25 anni,<br />

con tanto di “Certificato di autenticità” e cd che ne illustra il “processo<br />

creativo”. O di Bowman Hastie, che artista non è, ma ha scoperto<br />

come guadagnarsi da vivere con Tillie, un Jack Russell terrier bianco<br />

di tre anni che dipinge da quando aveva sei mesi 111 . Ma senza Morris<br />

– l’arte animale va considerata il suo capolavoro –- non avrebbero<br />

avuto strada da percorrere. Un caso diverso è quello di Vitaly Komar<br />

e Alexander Melamid, due artisti concettuali ex-sovietici trapiantati<br />

negli Stati Uniti, che come Morris hanno il gusto della provocazione<br />

dadaista e, sebbene non possano giocare anche sul tavolo della scienza,<br />

in quello dell’arte giocano alla grande. Con un seguito di fotografi e<br />

storici dell’arte, i loro animali, «maestri dell’espressionismo astratto»<br />

come sostengono, vanno alla Biennale di Venezia e battono asta da<br />

Christie’s a New York. Dopo lo Scolabottiglie di Duchamp, a nessuno<br />

è venuto in mente di considerare artisti gli operai <strong>delle</strong> officine di St.<br />

Etienne, che sembra abbiano prodotto l’oggetto in questione. Né dopo<br />

le Anthropométries di Yves Klein si attribuisce artisticità alle mo<strong>delle</strong><br />

con cui ha organizzato la performance. E forse il riferimento corretto<br />

per ciò che impropriamente si chiama “arte animale” non è l’Action<br />

Painting, ma l’ultra action painting di cui parla Klein: gli animali – le<br />

loro zampe, le loro proboscidi, i loro corpi – “pennelli viventi” degli<br />

umani.<br />

Verso la fine degli anni novanta del Novecento Komar e Melamid,<br />

dopo un’iniziale debutto con l’elefante Renée al “Toledo Zoo”<br />

nell’Ohio, partono per il sudest asiatico e fondano l’“Asian Elephant<br />

80


Art & Conservation Project”. Il loro gesto ricorda quello di F. Cizek,<br />

il pittore austriaco che verso la fine degli anni ottanta dell’Ottocento<br />

apre la prima “Classe d’Arte del Bambino”. Lo scopo iniziale era<br />

«quello di scoprire le radici dell’arte», e in seguito anche quello «di<br />

formare nuovi compratori di buon gusto». «Io volevo creare un “terreno”<br />

per l’arte» 112 , ci dice Cižek. Ai suoi tempi l’arte era figurativa;<br />

l’ideologia dominante era che “artista si nasce”; l’opera era in primo<br />

piano nella considerazione generale. Nel Novecento si apre la strada<br />

dell’astrattismo; si va formando la convinzione che “artista si diventa”;<br />

l’opera inizia a perdere di importanza (si pensi a Le Vide di Yves<br />

Klein, o a Kossuth 113 ); e per l’artisticità di un oggetto – artefatto,<br />

trovato, “agito” tramite animale – non è importante il giudizio critico<br />

sull’opera, ma lo spostamento dell’oggetto in luoghi deputati all’esposizione<br />

artistica.<br />

La radicale diversità dei due eventi, che possiamo assumere come<br />

emblematici, non è spiegabile solo con le intrigate vicende dell’arte fine<br />

Ottocento e fine Novecento. C’è qualcosa che deborda dall’arte, quando<br />

gli umani Kira e Bowman Hastie si definiscono «assistenti» rispettivamente<br />

di una tartaruga e di un cane. Certo senza l’espressionismo<br />

astratto Morris avrebbe solo documentato la capacità degli scimpanzé<br />

di scarabocchiare, e non sarebbe stata nemmeno una novità perché altri<br />

studiosi l’avevano già scoperto. Ma avrebbe comunque trovato il modo<br />

di dimostrare che siamo solo scimmie: La scimmia nuda. E mentre gli<br />

artisti ci parlano di arte post-umana e di estetica interspecifica, gli scienziati<br />

ci invitano a “considerarci Bonobo”. Come intendere questa retorica<br />

animalista quando da tempo ci guardiamo bene da quella umanista?<br />

L’“atto di fede nell’animale” è da preferire all’“atto di fede nell’uomo”?<br />

1<br />

G. Albertazzi, in F. Simoncini, Ritratto d’autore. I maestri dell’arte italiana del ’900:<br />

Afro, Burri, Capogrossi, presentati da Giorgio Albertazzi, testo di Cesare Brandi, Rai Teche,<br />

28 giugno 1972.<br />

2<br />

C. Brandi, Segno e immagine (1960), Aesthetica, Palermo, 2001 4 .<br />

3<br />

Si pensi allo Pseudo Dionigi e ad Agostino, i quali «ritenevano che se l’arte deve imitare,<br />

allora deve imitare il mondo invisibile, che è eterno, più perfetto del visibile», W. Tatarkiewicz,<br />

Storia di sei Idee (1975), Aesthetica, Palermo, 2006 6 , p. 311. Cfr. anche G. Di Giacomo, Icona<br />

e arte astratta. La questione dell’immagine tra presentazione e rappresentazione, “Aesthetica<br />

Preprint”, 55, 1999.<br />

4<br />

H. Rosemberg, L’oggetto ansioso (1964), Bompiani, Milano, 1967, p. 13.<br />

5<br />

Così in psicologia viene chiamata la percezione di immagini. La locuzione la si deve<br />

a J. Gibson, l’autore diventato famoso con il suo Un approccio ecologico alla percezione, Il<br />

Mulino, Bologna, 1999.<br />

6<br />

Ch. Batteux, Le Belle <strong>Arti</strong> ricondotte a unico principio (1746), Aesthetica, Palermo,<br />

2002 4 .<br />

7<br />

E. H. Gombrich, A cavallo di un manico di scopa. Saggi di teoria dell’arte (1951-1963),<br />

Einaudi, Torino, 1971, p. 9.<br />

8<br />

«Questi quadri sono di considerevole interesse perché ci dicono qualcosa del modo in<br />

cui l’arte può essersi sviluppata... In effetti, stiamo assistendo alla nascita dell’arte. I risultati<br />

mostrano in definitiva che gli scimpanzé hanno potenzialità artistiche che si possono portare<br />

81


alla luce fornendo loro adeguate opportunità», J. Huxley, “New York Times”, cit. in D. Morris,<br />

La mia vita con gli animali (1979), Mondadori, Milano, 1980, p. 188.<br />

9<br />

F. Cimatti, Il senso della mente. Per una critica del cognitivismo, Bollati Boringhieri,<br />

Torino, 2004, p. 21: «L’unico istinto propriamente umano, l’unico istinto in vista del quale il<br />

nostro corpo sembra espressamente adattato, è l’istinto del linguaggio».<br />

10<br />

H. Focillon, Vita <strong>delle</strong> forme seguito da Elogio della mano, Einaudi, Torino, 2002.<br />

11<br />

È l’incipit di un recente libro dal significativo sottotitolo Preistoria <strong>delle</strong> immagini: «Da<br />

dove vengono le immagini? Certamente da una mano abile e sapiente, capace di calibrare<br />

con precisione il tocco <strong>delle</strong> dita, di sfumare con un gessetto d’ocra rossa una parete rugosa,<br />

di stendere con perizia il colore all’interno di un tracciato definito. Non è cosa da poco. Per<br />

giungere a questo risultato sono dovuti trascorrere infiniti anni attraverso i quali la nostra<br />

specie nascente ha visto progressivamente un arto rigido, funzionale per lo più agli spostamenti<br />

della vita arboricola, trasformarsi in un grande, straordinario strumento di mediazione fra lo<br />

spazio dell’io e quello del mondo», G. Brusa Zappellini, Arte <strong>delle</strong> origini, origine <strong>delle</strong> arti,<br />

Arcipelago, Milano, 2002, p. 7. Ma si veda anche A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola: 1,<br />

Tecnica e linguaggio; 2, La memoria e i ritmi (1964-1965), Einaudi, Torino, 1977.<br />

12<br />

Aristotele, De partibus animalium, iv, 10, 687a.<br />

13<br />

G. Bruno, Cabala del cavallo pegaseo, 1585, Dialogo ii.<br />

14<br />

La valutazione, al plurale perché la riferisce anche al volto, è dello psicobiologo C. Trevarhen<br />

(Empatia e biologia. <strong>Psicologia</strong> cultura e neuroscienze, 1997, Raffaello Cortina, Milano,<br />

1998, p. 27): «La mano e il volto degli esseri umani presentano muscoli e capacità motorie<br />

assenti in ogni altra specie e già nelle prime fasi fetali questi organi costituiscono un abbozzo<br />

completo dell’anatomia adulta».<br />

15<br />

Proprio perché «fra segno e immagine non c’è una eterogeneità originaria […] è questa<br />

la strada che indiscutibilmente tutti i sistemi di scrittura hanno seguito: dalla iniziale fase<br />

pittografia, alla costituzione in geroglifici, quindi in lettera fino alla formazione dell’alfabeto»,<br />

C. Brandi, Segno e immagine, cit, p. 14. Cfr. anche B. G. Bara, Il sogno della permanenza.<br />

L’evoluzione della scrittura e del numero, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.<br />

16<br />

L’affermativa la cito da F. Cimatti (cit., p. 23), ma la si trova esplicitata in tanti testi e<br />

implicitamente è radicata nella cultura occidentale dal momento che il termine logos significa<br />

linguaggio, pensiero, ragionamento, calcolo.<br />

17<br />

I. Tattersall, Il cammino dell’uomo. Perché siamo diversi dagli altri animali (1998),<br />

Garzanti, Milano, 2004, p. 163.<br />

18<br />

M. Donald, L’evoluzione della mente. Per una teoria darwiniana della coscienza (1996),<br />

Garzanti, Milano, 2004, p. 9.<br />

19<br />

Cfr. J. Marks, Che cosa significa essere scimpanzé al 98 % (2002), Feltrinelli, Milano,<br />

2003.<br />

20<br />

A titolo esemplificativo si veda J. Diamond, Il terzo scimpanzé. Primate Homo sapiens,<br />

Bollati, Torino, 1991; E. Souriau, Il senso artistico degli animali (1965), Mimesis, Milano,<br />

2002; e E. Gombrich, Il senso dell’ordine. Studio sulla psicologia dell’arte decorativa (1979),<br />

Einaudi, Torino, 1984.<br />

21<br />

E. Souriau, cit., pp. 12, 57, 63-64.<br />

22<br />

Ivi, p. 63.<br />

23<br />

F. de Waal, La scimmia e l’arte del sushi (2001), Garzanti, Milano, 2002, p. 134.<br />

24<br />

«Elephants are much better than human abstract artists. They’re innocent and not<br />

corrupted by the art market. The best ones can concentrate all their intellectual power and<br />

aesthetic preferences on a single piece»: la frase, di Vitaly Komar, la si trova in ArtLex (http://<br />

www.artlex.com), un dizionario completamente dedicato all’arte, sotto la voce “animal artist”.<br />

E se si è reduci della lettura di D. Hirst e G. Burn, Manuale per giovani artisti. L’arte raccontata<br />

da Damien Hirst (2001), Postmedia, Milano, 2004 – fino all’ultima parola dell’ultima pagina<br />

e compresa la quarta di copertina – il cui scopo principale parrebbe quello di insegnare ai<br />

giovani artisti come mettere il termine “cazzo” un rigo sì e l’altro pure, si è quasi tentati di<br />

concordare con Vitaly Komar.<br />

25<br />

F. de Waal, La scimmia e l’arte del sushi, cit., pp. 134-135.<br />

26<br />

D. Morris, La mia vita con gli animali, cit., p. 185.<br />

27<br />

J. Diamond, cit., p. 217.<br />

28<br />

F. de Waal, La scimmia e l’arte del sushi, cit., p. 134.<br />

29<br />

Il gesto avanguardistico è di Morris, non di Congo e Betsy, come si legge in Vita<br />

segreta degli animali. Gatti, cani, elefanti ubriachi e scimmie che dipingono (Piemme, 1999)<br />

di G. Celli: «Le opere offerte alla curiosità dei visitatori erano, sicuramente, d’avanguardia<br />

82


e si potevano sistemare criticamente nell’area della pittura informale, o, se si vuole, dell’espressionismo<br />

astratto».<br />

30<br />

F. de Waal, La scimmia e l’arte del sushi, cit., p. 119.<br />

31<br />

D. Morris, La mia vita con gli animali, cit., p. 189; cfr. anche Id., Linguaggio muto.<br />

L’uomo e gli altri animali, Di Renzo, Roma, 2004, p. 36.<br />

32<br />

La dichiarazione di H. Hong, un esperto di telecomunicazioni, non lo studioso di S.<br />

Kirkegaard, l’ho trovata nel sito della Lega italiana dei diritti dell’animale (www.lida.it). Il<br />

prezzo è quello riportato dal “Corriere della sera”, 22 giugno 2005, ma nella stampa internazionale<br />

sono comparse cifre anche molto più alte.<br />

33<br />

D. Morris, La mia vita con gli animali, cit., pp. 115, 41-43 e 179-180.<br />

34<br />

Ancora recentemente, è la scimmia, a informare titolo e copertina (l’immagine è La<br />

scimmia pittrice di Chardin) di un libro sugli artisti: L. F. Bonazzoli, L’inganno della scimmia.<br />

Crimini e misteri nelle confessioni di venti grandi artisti, Skira, Milano, 2006.<br />

35<br />

W. Tatarkiewicz, cit., p. 276.<br />

36<br />

W. Kandinskij, Lo spirituale nell’arte, De Donato, Bari, 1968, p. 7.<br />

37<br />

Ch. Batteux, cit.<br />

38<br />

W. Kandinskij, cit., p. 7.<br />

39<br />

L’episodio è riportato da F. de Waal, La scimmia e l’arte del sushi, cit., p. 131.<br />

40<br />

Plinio il Vecchio, Storia <strong>delle</strong> arti antiche. Naturalis Historia (Libri xxxiv-xxxvi), Rizzoli,<br />

Milano, 2000, xxxv, § 15. Su Butades e la nascita della scultura, cfr. § 151.<br />

41<br />

M. Bettini, Il ritratto dell’amante, Einaudi, Torino, 1992, p. 10.<br />

42<br />

Ivi, p. 265.<br />

43<br />

J. Diamond, cit., p. 38. Per E. Watson (cit. in G. Biondi e O. Rickards, L’Homo sapiens<br />

e il suo fratello scimpanzé, in Almanacco di filosofia. La natura umana (1), “MicroMega”,<br />

4/2005, p. 169), anche il gorilla ne ha pieno diritto.<br />

44<br />

M. Bettini, cit., p. 265: «Nata come sostituto, una volta posta in presenza del suo<br />

referente l’immagine tenderà appunto a sostituirlo, segnando o provocando la morte dell’ego<br />

che ha di fronte. Il “doppio” richiama sempre la morte. Forse proprio in questa dialettica<br />

fra “doppio” e “sostituto”, fra specchio e immagine artificiosa, sta racchiusa la condanna, o<br />

la giustificazione dell’immagine».<br />

45<br />

D. Morris, Biologia dell’arte (1962), Bompiani, Milano, 1969, p. 165.<br />

46<br />

Id., Linguaggio muto, cit. p. 32.<br />

47<br />

A. Danto, La destituzione filosofica dell’arte (1986), Tema Celeste, Siracusa, 1992, p.<br />

8. Come precisa l’autore, «nella mente di moltissimi artisti, esso aveva ancora un’importanza<br />

vitale».<br />

48<br />

Basta entrare in Internet per prendere visione dell’enorme produzione di “espressionismo<br />

astratto” animale: dal “The museum of Non-Primate Art” (http://www.monpa.com),<br />

agli zoo (http://www.sandiegozoo.org o http://www.brookfieldzoo.org, ecc.); dai progetti intespecifici<br />

(animalsart.ru/english.htm, ecc.) a quelli dedicati a una sola specie (http://www.<br />

elephantart.com, ecc.); fino ai siti “personali” (http://www.t0.or.at/nonja/nonjavid.htm, ecc.).<br />

49<br />

D. Morris, La mia vita con gli animali, cit., p. 189.<br />

50<br />

J. Diamond (cit., p. 38) sostiene che l’uomo appartiene allo stesso genere dello scimpanzé<br />

comune e dello scimpanzé pigmeo o bonobo. L’uomo quindi come il terzo scimpanzé.<br />

Oppure: poiché il genere Homo è stato proposto prima del genere Pan, e per le regole della<br />

nomenclatura zoologica ha un diritto di priorità, dobbiamo estendere il termine Homo agli<br />

«“altri” scimpanzé. Oggi sulla terra non ci sarebbe quindi un sola specie di Homo, bensì tre:<br />

lo scimpanzé comune, Homo troglodytes, lo scimpanzé pigmeo, Homo paniscus, e il terzo<br />

scimpanzé o scimpanzé umano, Homo sapiens». L’idea di Diamond, che nel 1962 quando<br />

venne avanzata da Morris Goodman provocò stupore e dissenso nella comunità scientifica, si<br />

va oggi affermando grazie agli sviluppi della genetica, <strong>delle</strong> biotecnologie e dell’antropologia<br />

molecolare, una nuova disciplina scientifica. «L’impatto dell’inserimento di Pan in Homo,<br />

comunque, avrà bisogno di un certo tempo per essere assorbito dagli antropologi, in quanto<br />

destinato a modificare radicalmente la classificazione dell’intera nostra linea evolutiva», G.<br />

Biondi e O. Rickards, cit., p. 169. Intanto non manca chi ci esorta ad accettare il cambio di<br />

paradigma con titoli alla Benedetto Croce: F. de Waal, Perché non possiamo non dirci Bonobo,<br />

in Almanacco di filosofia. La natura umana (1), cit., pp. 207-226.<br />

51<br />

D. Morris, Biologia dell’arte, cit., p. 177, corsivo mio.<br />

52<br />

P. Picasso, cit. in J. Gimpel, Contro l’arte e gli artisti (1968), Bompiani, Milano, 1970,<br />

p. 175.<br />

53<br />

W. Kandinskij, cit., pp. 7-11.<br />

83


54<br />

Il termine evoca la teoria di K. Fiedler. Ma Fiedler, nonostante la vulgata corrente,<br />

non è il teorico della purovisibilità. A. Pinotti e F. Scrivano, che hanno curato la recente<br />

edizione italiana di tre saggi dell’Autore rilevano che “sensibilità” e “pura” «non appaiono<br />

mai direttamente associati», e che il “puro” rimanda al trascendentale kantiano. Che un’opera<br />

pittorica esista «unicamente in virtù della sua visibilità» non significa che basti tracciare linee<br />

e spargere colori o che nell’attività artistica sia impegnata solo la percezione. Per Fiedler la<br />

pittura è una forma di conoscenza, che, non meno della scienza ma diversamente da questa,<br />

adopera «le facoltà intellettive per considerare lo stato esteriore dell’apparenza», K. Fiedler,<br />

“Sull’origine dell’attività artistica” (1887), in Id., Scritti sull’arte figurativa, a cura di A. Pinotti<br />

e F. Scrivano, Aesthetica, Palermo, 2006, pp. 143 e 49.<br />

55<br />

J. Kagan, Tre idee che ci hanno sedotto. Miti della psicologia dello sviluppo (1998), Il<br />

Mulino, Bologna, 2001, p. 80.<br />

56<br />

D. Morris, Biologia dell’arte, cit., p. 34.<br />

57<br />

Ivi, pp. 174-178.<br />

58<br />

Dopo quasi due anni di pittura, Congo «nelle occasioni in cui era nello stato d’animo<br />

di “esprimere se stesso aritmicamente”, preferiva farlo con la ginnastica del corpo piuttosto<br />

che con semplici colpi di pennello», ivi, p. 35.<br />

59<br />

Ivi, rispettivamente pp. 167, 178-79, 43, 6, 186.<br />

60<br />

Ivi, p. 182, corsivo mio.<br />

61<br />

The Ape at the Brink of the Human Mind (John Wiley & Sons, Inc. Nyota, 1998), è il<br />

libro di E. Savage-Rumbaugh e R. Lewin sullo scimpanzé pigmeo Kanzi.<br />

62<br />

D. Morris, Linguaggio muto, cit., p. 32.<br />

63<br />

A. Danto, cit., pp. 229-230.<br />

64<br />

S. Pinker, L’istinto del linguaggio. Come la mente crea il linguaggio (1994), Mondadori,<br />

Milano, 1997; S. Gozzano (a cura di), Mente senza linguaggio. Il pensiero e gli animali, Editori<br />

Riuniti, Roma, 2001.<br />

65<br />

D. Morris, Biologia dell’arte, cit., p. 175.<br />

66<br />

F. Patterson e E. Linden, L’educazione di Koko (1981), Mondadori, Milano, 1984. Cfr.<br />

http//www.koko.org/.<br />

67<br />

F. de Waal, La scimmia e l’arte del sushi, cit., p. 139.<br />

68<br />

H. Putnam, Ragione verità e storia (1981), Il Saggiatore, Milano, 1985, p. 7.<br />

69<br />

R. Arnheim, Arte e percezione visiva (1974 2 ), Feltrinelli, Roma, 2002 17 , p. 123.<br />

70<br />

Cfr. G. Vallortigara, Cervello di gallina. Visite (guidate) tra etologia e neuroscienze, Bollati<br />

Boringhieri, Torino, 2005.<br />

71<br />

Ivi, p. 31.<br />

72<br />

R. Arnheim, Pensieri sull’Educazione artistica (1989), Aesthetica, Palermo, 1992, p. 65.<br />

73<br />

Hokusai nel 1806 fece camminare sulla carta un gallo a cui aveva intinto le zampe<br />

nella vernice rossa.<br />

74<br />

«Il principio del livello di adattamento, introdotto in psicologia da Harry Helson, afferma<br />

che uno stimolo dato viene giudicato non in base alle sue proprietà assolute ma in rapporto<br />

al livello normale che si è imposto nella mente del giudicante. Nel caso della rappresentazione<br />

pittorica, il livello normale sembra desunto non dalla percezione diretta del mondo fisico ma<br />

dallo stile dei dipinti noti a chi guarda», R. Arnheim, Arte e percezione visiva, cit., p. 120.<br />

75<br />

http://www.improb.com/ig/ig-pastwinners.html<br />

76<br />

F. de Waal, La scimmia e l’arte del sushi, cit., pp. 128-129.<br />

77<br />

Cfr. M. Perniola, Contro la comunicazione, Einaudi, Torino, 2004.<br />

78<br />

F. de Waal, La scimmia e l’arte del sushi, cit., pp. 128 e 129.<br />

79<br />

J. Diamond, cit., p. 214.<br />

80<br />

Ivi, p. 218.<br />

81<br />

Ivi, pp. 213, 219 e 226.<br />

82<br />

Ivi, p. 214, corsivo mio.<br />

83<br />

A. Sokal e J. Bricmont, Imposture intellettuali (1998), Garzanti, Milano, 1999.<br />

84<br />

F. Antinucci (Lo sviluppo cognitivo in una prospettiva comparata, in L. Camaioni, a cura<br />

di, La teoria di J. Piaget. Recenti sviluppi e applicazioni, Giunti-Barbera, Firenze, 1982, pp.<br />

36-37), confrontando lo sviluppo senso-motorio del bambino e della scimmia, rileva: «Quando<br />

compariamo lo sviluppo dei primati non umani con quello dei primati umani, ciò che si<br />

osserva dal iii stadio in poi è una graduale e progressiva assenza nel primo di comportamenti<br />

che denotino interesse (naturalmente, a livello appropriato per ogni stadio) per le proprietà<br />

e per i comportamenti degli oggetti esterni come tali. [...] D’altra parte, invece, per quel che<br />

riguarda la progressiva differenziazione e coordinazione degli schemi di azione, assistiamo,<br />

84


nel caso dei primati non umani, ad uno sviluppo molto simile a quello dei bambini». Vale a<br />

dire: i primati non umani sono poco interessati alla forma degli oggetti.<br />

85<br />

“Concetto percettivo” e “concetto “rappresentativo” sono nozioni elaborate da Arnheim.<br />

Oggi nella ricerca sulla percezione animale si incontra spesso la prima, ma quando<br />

Arnheim teorizzò il “concetto percettivo”, la cosa non ebbe nessuna positiva risonanza. Come<br />

del resto è avvenuto per la ricerca di W. Köhler, L’intelligenza nelle scimmie antropoidi (1917),<br />

Giunti, Firenze, 1968.<br />

86<br />

M. Donald, cit., p. 10.<br />

87<br />

S. Pinker, cit., p. 181.<br />

88<br />

J. Piaget e B. Inhelder, La psicologia del bambino (1966), Einaudi, Torino, 1970, p. 52.<br />

89<br />

D. Morris, Biologia dell’arte, cit., p. 167.<br />

90<br />

J. Piaget, Le scienze dell’uomo (1970), Laterza, Bari, pp. 298 e 299.<br />

91<br />

H. Read, 1951, cit. in E. Kris, Ricerche psicoanalitiche sull’arte (1952), Einaudi, Torino,<br />

1967, p. 87.<br />

92<br />

L. Maffei e A. Fiorentini, Arte e cervello, Zanichelli, Bologna, 1995, pp. 46-47, corsivi<br />

miei.<br />

93<br />

Cfr. A. Leroi-Gourhan, cit.<br />

94<br />

S. Pinker, cit., p. 11.<br />

95<br />

J. Piaget e B. Inhelder, cit., p. 54.<br />

96<br />

G. Rizzolatti e R. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio,<br />

Raffaello Cortina, Milano, 2006, p. 145.<br />

97<br />

Cit. da D. Morris, 1962, p. 12. Il corsivo relativo al comportamento di Gua è mio.<br />

98<br />

G. Rizzolatti e R. Sinigaglia, cit., p. 131.<br />

99<br />

Ivi, p. 115.<br />

100<br />

Ivi, p. 121.<br />

101<br />

«Sin dalla loro scoperta ci si è chiesti se i neuroni specchio non potessero essere alla<br />

base dell’imitazione», ivi, p. 135.<br />

102<br />

J. Ruskin, Pittori moderni (1843-1860) Einaudi, 1998, p. 65.<br />

103<br />

E. H. Gombrich, L’immagine e l’occhio. Altri studi sulla psicologia della rappresentazione<br />

(1982), Einaudi, Torino, 1985, p. 4.<br />

104<br />

R. Arnheim, Arte e percezione visiva, cit., p. 152.<br />

105<br />

Ivi, pp. 147, 153.<br />

106<br />

Ivi, p. 150.<br />

107<br />

C. Brandi, cit., pp. 90 e 81.<br />

108<br />

Ibidem.<br />

109<br />

J. Diamond, cit., p. 214.<br />

110<br />

D. Morris, Linguaggio muto, cit., p. 13.<br />

111<br />

http://www.turtlekiss.com; http://www.tillamookcheddar.com.<br />

112<br />

F. Cižek, cit. in W. Viola, L’arte infantile (1942), La Nuova Italia, Firenze, 1952, pp.<br />

157-58.<br />

113<br />

http://www.yvesklein.org, ma anche http://www.ikb2002.altervista.org; J. Kosuth<br />

(1969-1987), L’arte dopo la filosofia. Il significato dell’arte concettuale, Costa&Nolan, Genova,<br />

1987.<br />

85


Percezione e immagine *<br />

Il titolo individua un argomento che per la sua vastità, qualunque<br />

sia il taglio con cui si decide di affrontarlo, risulta impossibile nelle<br />

logiche spazio-temporali di un Convegno. È stato affettuosamente<br />

“estorto”, ma innanzi tempo, quando l’oggetto doveva ancora essere<br />

concepito. Si sa: le parole hanno la capacità, con piccoli aggiustamenti,<br />

di adattarsi a cose diverse e apparire, di volta in volta, persino appropriate,<br />

come se fossero state ritagliate proprio per quella o quell’altra<br />

cosa. L’aggiustamento che vi chiedo di fare è di intendere “percezione”<br />

come “percezione visiva”; e per “immagine” di tralasciare sia gli<br />

usi diversissimi che del termine facciamo, sia quelli accreditati dalla<br />

filosofia <strong>delle</strong> immagini 1 , e di concentrarvi su alcune immagini che vi<br />

presenterò. Immagine, quindi, come oggetto della percezione visiva:<br />

“immagini e percezione”. Sono immagini – una pipa, un’“illusione ottico-geometrica”,<br />

un triangolo i cui contorni non sono disegnati, un’immagine<br />

bistabile e “maluma/takete” – che sicuramente avete già visto,<br />

ma, probabilmente, le avrete incontrate non quando vi siete occupati<br />

dell’immagine, perché raramente, e non tutte, vengono considerate da<br />

chi riflette sull’immagine. Pure sono modi di darsi dell’immagine, e,<br />

sebbene siano di una semplicità disarmante, le ho scelto come indicative<br />

dei problemi che intendo affrontare.<br />

Partiamo da un “gioco psicologico”. Vi chiedo di immaginare una<br />

pipa. Alcuni possono avere immaginato un oggetto-pipa, altri un’immagine-pipa.<br />

Relativamente alla seconda evenienza non è improbabile che<br />

l’immagine attivata sia stata quella della pipa più famosa della storia<br />

dell’arte. Ma io non vi presento quella, ma questa.<br />

87


Sicuramente ciascuno di voi — sia che abbia immaginato un oggetto-pipa,<br />

sia che abbia immaginato un’immagine-pipa — non può non<br />

riconoscere nell’immagine appena vista una pipa. Se però vi avessi<br />

presentato quest’altra – è il contorno inferiore dell’immagine appena<br />

percepita, una sua parte, e in questa sequenza è molto probabile che<br />

la si percepisca “come contorno di”– la pipa l’avreste continuato a immaginarla,<br />

non a percepirla, ed è molto improbabile che nella seconda<br />

avreste riconosciuto il contorno di una pipa, come pure che l’avreste<br />

chiamata “pipa”. Chi poi ha pensato alla pipa di Magritte solo con<br />

la prima può essersi interrogato sulle somiglianze e/o differenze con<br />

quanto aveva immaginato. Sono due immagini di pipa molto simili, a<br />

parte i titoli e l’autorialità.<br />

René Magritte, La trahison des images (1929)<br />

Mike Bidlo, Ceci n'est pas une pipe, not Magritte (1985)<br />

88


Il problema si complica: Ceci n’est pas une pipe? E not Magritte?<br />

Certo, i filosofi, i critici, e la neuroestetica 2 a partire da qui possono interpretare,<br />

ognuno a loro modo, il gesto di Magritte e il gesto di Bidlo.<br />

A me pare prioritario per la psicologia e per la filosofia della mente<br />

tenere presente quanto ne dice Magritte, e, per contrasto, il commento,<br />

solo relativamente alla teoria della mente implicita nell’articolazione del<br />

discorso, di Danto e interpreti dantoiani su Bidlo.<br />

Magritte: «Perché questa non è una pipa? Beh, uh… perché è una<br />

pipa dipinta, non una pipa vera» 3 . Sebbene punti a «un’immagine esatta<br />

della somiglianza», non si stanca di ribadire che «in nessun caso<br />

l’immagine deve essere confusa con la cosa rappresentata: l’immagine<br />

pittorica di una fetta di pane con marmellata, sicuramente, non è né<br />

una fetta di pane vera né una fetta di pane finta» 4 . È un’immagine, e<br />

– come ribadisce con il cavallo – «un oggetto non svolge mai lo stesso<br />

ufficio del suo nome o della sua immagine» 5 .<br />

Ovviamente nessuno, nemmeno il bambino piccolo, confonde una<br />

fetta di pane, con o senza marmellata, con un’immagine della stessa.<br />

E se ha fame non si limiterà a farsene, del pane, un’immagine mentale,<br />

né si limiterà a guardare un’immagine pubblicitaria, fosse pure la<br />

più accattivante possibile. È esperienza comune che si dirigerà verso<br />

il luogo dove può trovare il pane e, raggiuntolo, la percezione che ne<br />

avrà non sarà più solo visiva, ma anche tattile, olfattiva, gustativa e<br />

uditiva. Pure nella teoria queste differenze, consustanziali alla nostra<br />

“forma di vita” e persino banali tanto sono ovvie, non solo non vengono<br />

tenute presenti, ma si azzera persino la possibilità di recuperarle<br />

strada facendo. È infatti convinzione diffusa nella scienza cognitiva che<br />

«gli esseri umani non possono, ovviamente, cogliere il mondo in modo<br />

diretto; ne posseggono soltanto una rappresentazione interiore, poiché<br />

il processo percettivo altro non è che la costruzione di un modello del<br />

mondo. Noi siamo incapaci di confrontare direttamente la rappresentazione<br />

percettiva del mondo con il mondo esterno – essa è il nostro<br />

mondo» 6 . O diversamente detto: «Tutti, ovviamente, sappiamo che le<br />

immagini che “vediamo” sono in realtà fabbricate dal cervello o dalla<br />

89


mente; ma sapendolo con l’intelletto è molto diverso dal rendersi conto<br />

che è davvero così. Questo aspetto della faccenda si impose con forza<br />

alla mia attenzione una trentina di anni fa a New York, in occasione<br />

di una dimostrazione pubblica data da Adalbert Ames jr. di certi esperimenti<br />

su come conferiamo profondità alle nostre immagini visive» 7 .<br />

Accettata la concezione della realtà fornitaci dalla fisica – atomi irrelati<br />

e in caotico movimento – sembra necessario teorizzare una mente tanto<br />

“intelligente” da costruire il mondo e da proiettarlo all’esterno 8 . Il<br />

mondo come fosse un quadro, un’immagine da guardare.<br />

Non è questo il luogo per rendere conto di come si sia formato<br />

quell’“ovviamente” presente nelle due citazioni, e su quali fragili basi<br />

sono costruite, né di rendere conto <strong>delle</strong> differenze tra le due posizioni,<br />

né tanto meno di smontare l’interpretazione dell’esperimento di Ames.<br />

Solo rilevare la confusione tra scienza ed esperienza: la proiezione del<br />

sapere scientifico sull’esperienza del soggetto. Se tutto è rappresentazione,<br />

“il mondo è una mia rappresentazione” 9 , qual è lo statuto<br />

dell’immagine? A partire dall’immagine retinica e a finire all’immagine<br />

mentale, come distinguere il mondo e le rappresentazioni del mondo?<br />

Si sa, la scienza è anti-intuitiva, ma sostituire ciò che si vuole spiegare<br />

con la spiegazione – e, trattandosi di psicologia, sembra nelle cose data<br />

la coincidenza tra “oggetto” della ricerca e “soggetto” della ricerca –<br />

non è una mossa del gioco scientifico: la strategia non può essere quella<br />

di far fuori il “comune sentire”, vale a dire annullare proprio ciò che<br />

si dovrebbe spiegare 10 . Come che sia, l’atteggiamento naturale, che è<br />

anche quello dello scienziato e del filosofo smessi i panni della teoria, è<br />

«decisamente tetragono» 11 ai colpi di mano sulla realtà e con Magritte<br />

continua a distinguere l’oggetto-pipa, l’immagine-pipa, la parola-pipa.<br />

Non solo per questo ho scelto di partire da Magritte, ma altresì perché,<br />

lui che lavora con e sulla percezione visiva 12 , si definisce «un uomo che<br />

pensa e che comunica il suo pensiero per mezzo della pittura, come altri<br />

lo comunicano con la musica, con la parola ecc.» 13 . In breve, perché<br />

le sue opere e le puntualizzazioni con cui le accompagna stigmatizzano<br />

la con-fusione tra immagine e realtà e l’identificazione del pensiero con<br />

il linguaggio, posizioni teoriche che non possono certo rendere conto<br />

del proprio dell’immagine: «Per lo più si tenta di distruggere le immagini<br />

che dipingo pretendendo di “interpretarle” [...] quasi a significare<br />

che l’immagine non presenta alcun interesse di per sé e che le occorre<br />

il soccorso di un’“interpretazione” che è affetta da un’indigenza che fa<br />

la felicità dell’“interprete”» 14 .<br />

Quanto a Bidlo, un artista che replica le opere dei grandi maestri del<br />

Novecento, da Cézanne e Picasso a Pollock e Warhol, un coverizzatore<br />

della pittura contemporanea, è diventato famoso per le sue trasgressioni<br />

della trasgressione 15 . La trasgressione al quadrato più commentata è<br />

l“appropriazione” della Brillo Box, ma ritengo che l’interpretazione che<br />

se ne dà funzioni anche per la pipa 16 .<br />

90


Mike Bidlo, 1991, Not Warhol (Brillo Boxes, 1969)<br />

Per Danto la Brillo box di Warhol, cioè un oggetto che è totalmente<br />

simile a un altro oggetto e che però è arte – mentre l’altro oggetto,<br />

quello che incontriamo al supermercato, non lo è – è l’arte che arriva<br />

alla comprensione filosofica della propria identità. Ma se ancora<br />

a Warhol viene riconosciuto uno stile preciso e ben definito, Bidlo,<br />

al contrario, viene assunto come esempio paradigmatico del fatto che<br />

«non vi è niente e nessuna forma di cui un artista non si possa appropriare»<br />

17 . Entrambi, comunque, segnano lo spartiacque tra l’era<br />

dell’arte, e il dopo l’era dell’arte. Nel dopo, grazie a Bidlo, le gallerie<br />

diventano NotGallery 18 , ma non è questo il punto che mi pertiene,<br />

quanto che col “not” «fu esplicito che l’opera d’arte non doveva avere<br />

una forma particolare e quindi non doveva essere letta con gli occhi,<br />

ma con il pensiero» 19 . Mi pare utile ricordare che già a fine Ottocento<br />

l’opposizione sensi/intelletto aveva portato a teorizzare un’arte percettiva<br />

e un’arte concettuale. Un secolo dopo, nonostante quella distinzione<br />

non abbia retto alle critiche — si pensi ad Arnheim e a Gombrich, per<br />

indicare due posizioni simili nella pars destruens e molto diverse nella<br />

pars construens 20 — e nonostante le evidenze sperimentali prodotte dalla<br />

psicologia dello sviluppo, da quella comparata e dalle neuroscienze<br />

negli ultimi trent’anni depongano, in maniera incontrovertibile, contro<br />

un occhio che vede e un cervello che pensa, pure l’opposizione continua<br />

a sembrare esplicativa 21 : nello specifico relativamente al fruitore<br />

che dovrebbe “leggere”, come suggerisce l’esperto, alcune immagini con<br />

l’occhio e altre con il pensiero. E se non lo facesse? Ma vedremo che<br />

“occhio o percezione vs pensiero o interpretazione” è il leitmotiv del<br />

discorso sull’immagine. E su questo si concentrerà il mio intervento.<br />

91


Mettiamoci alla prova con un’immagine.<br />

Avete messo in moto gli occhi o il pensiero? Qualunque sia il processo<br />

attivato, converrete che il fattore somiglianza non è qui pertinente<br />

come per le immagini “pipa”. Quest’immagine non somiglia a…, né<br />

rappresenta alcunché. Chi conosce l’argomento “illusioni ottico-geometriche”<br />

vi riconosce l’illusione «più famosa di tutte le illusioni» 22 .<br />

Nella letteratura, nonostante J. L. Austin, sotto il termine “illusione”<br />

vengono messe cose molto diverse che vanno dalle immagini tipo quella<br />

di Müller-Lyer, al “bastone spezzato”, ai miraggi, all’arto fantasma.<br />

Voglio dire: immagini e non. Il raggruppamento non è casuale. Proprio<br />

perché non ne condivido la logica, se dovessi considerare i casi del bastone<br />

spezzato e dei miraggi o quello dell’arto fantasma – i primi due<br />

percettivamente risolvibili e il secondo patologicamente significativo<br />

– altre sarebbero, ovviamente, le argomentazioni che farei.<br />

In filosofia, la precisazione è di Austin, l’argomento dell’illusione è<br />

servito «a indurci ad accettare i ‘dati sensoriali’ come risposta corretta<br />

ed esatta alla domanda su che cosa percepiamo in certe condizioni<br />

anormali ed eccezionali. Ma in effetti, di solito segue a ruota un altro<br />

piccolo ragionamento che mira a stabilire che noi percepiamo sempre<br />

dati sensoriali» 23 . Ora, non è che Austin non cada a pennello anche<br />

per la psicologia; anzi, rende pienamente conto dell’atteggiamento teoretico<br />

che abbiamo visto ci nega l’accesso diretto al mondo e ci riduce<br />

il mondo a immagine. E però per comprendere il legame perverso tra<br />

immagine, illusione e percezione che vige in psicologia mi pare utile<br />

ricordare anche l’arcinota formulazione di Platone, a cui dobbiamo il<br />

nodo gordiano che nell’era della rappresentazione diventa impossibile<br />

tagliare:<br />

– Per Zeus!, ripresi, ma questo atto di imitare non è cosa che viene terza a<br />

partire dalla verità? No? – Si – E quale tra gli elementi dell’uomo è soggetto al<br />

suo potere? – Di cosa vuoi parlare? – Di questo: l’identica grandezza, secondo<br />

che la si vede da vicino e da lontano, non ci appare uguale. – No, certo. – E gli<br />

identici oggetti, a seconda che si contemplano dentro o fuori dell’acqua, appaiono<br />

piegati o diritti, e cavi o prominenti. Questo perché nella vista si produce un<br />

disorientamento cromatico. È chiaro che tutto questo scompiglio esiste nell’anima<br />

nostra. Ora facendo leva su questa condizione della nostra natura, la pittura<br />

a chiaroscuro non tralascia alcuna stregoneria. E così fanno la prestidigitazione e<br />

i molti trucchi del genere. – È vero. – Ebbene, contro questi inganni non si sono<br />

rivelati ausilii ingegnosissimi la misurazione, la numerazione e la pesatura, sì che<br />

92


in noi non governa ciò che appare maggiore o minore o più numeroso o più<br />

pesante, ma ciò che calcola e misura e pesa? – Come no? – Ma tutte queste operazioni<br />

spetteranno all’elemento razionale dell’anima. – A questo, certo. – Però<br />

a questo elemento che misura e segnala che certe cose sono tra loro maggiore<br />

o minore o uguali, spesso risulta che per le identiche cose si hanno apparenze<br />

contemporaneamente opposte. – Sì. – Ora, non abbiamo affermato che l’identico<br />

soggetto non può avere contemporaneamente opposte opinioni sulle identiche<br />

cose? – Sì, e l’abbiamo affermato con ragione. – Quindi l’elemento dell’anima<br />

che giudica indipendentemente da ogni misura non potrà essere identico a quello<br />

che giudica secondo misura. – No, certo. – Ma l’elemento che s’affida alla<br />

misura e al calcolo sarà il migliore dell’anima. – Sicuramente. – Allora quello<br />

che si oppone sarà uno di quelli che in noi hanno scarso pregio. – Per forza.<br />

– Appunto perché volevo arrivare a quest’ammissione dicevo che la pittura (e,<br />

in genere, l’arte imitativa) elabora la propria opera lontano dalla verità. Essa è<br />

in intima relazione, compagna e amica di quel nostro interiore elemento che<br />

sta lontano dall’intelligenza, senza alcuna mèta sana e vera. – Assolutamente,<br />

rispose. – Allora l’arte imitativa, che pure ha scarso pregio, trovandosi insieme<br />

con un elemento pure poco pregevole, dà luogo a prodotti che valgono poco 24 .<br />

Questa impostazione, che riduce la visibilità a falsa e illusoria apparenza,<br />

contrappone gli elementi dell’anima sulla base dell’essere o meno<br />

soggetti alle variazioni con cui le cose ci si presentano, valuta “il migliore”<br />

“quello che giudica secondo misura” e svaluta quello dominato dalle<br />

apparenze – e perciò soggetto al potere <strong>delle</strong> immagini – la si ritrova in<br />

psicologia. Si pensi a J. Piaget, per citare un nome da tutti conosciuto,<br />

che studierà i meccanismi generali della percezione solo attraverso le<br />

illusioni ottico-geometriche. Vi sorprende? Eccovi la risposta:<br />

Si potrebbe, in effetti, pensare che esistano da un lato i meccanismi della percezione<br />

in sé stessa e da un altro quelli <strong>delle</strong> sue deformazioni o “illusioni”. Per<br />

esempio, in presenza di figure come quella di Müller-Lyer si converrebbe di<br />

dissociare da una parte i processi della valutazione “normale” <strong>delle</strong> lunghezze e<br />

dall’altra i fat tori particolari che perturbano in questo caso tale valutazione. Però<br />

una siffatta separa zione si ispira probabilmente ai modelli presi a prestito dalle<br />

attività cognitive supe riori, in seno alle quali è effettivamente legittimo distinguere,<br />

per esempio, le strut ture del ragionamento corretto e quelle degli errori.<br />

[…] Ora, nel campo <strong>delle</strong> percezioni, non soltanto il soggetto non riesce quasi<br />

mai a dissociare gli errori sistematici dalle sue percezioni approssima tivamente<br />

esatte, ma anche e soprattutto è possibile addirittura chiedersi se la presen za<br />

di deformazioni non sia inerente alla natura stessa dei meccanismi percettivi 25 .<br />

E Piaget, analizzando dal punto di vista genetico il rapporto tra<br />

percezione e intelligenza, rintraccia ben quattordici differenze tra l’una<br />

e l’altra (di cui sei relative al rapporto tra soggetto e oggetto, e otto<br />

strutturali ai due processi cognitivi). È singolare che il teorico di un<br />

meccanismo altamente adattivo per quanto concerne l’intelligenza e il<br />

pensiero lasci i sensi in balia <strong>delle</strong> illusioni: anzi, considera le deformazioni<br />

«consustanziali con la percezione» 26 .<br />

Oggi lo scopo adattivo dei processi percettivi viene unanimamente<br />

proclamato, e però la razionalità calcolante — il valore assoluto asse-<br />

93


gnato all’elemento che calcola, misura e pesa — incarnatasi nell’artificiale,<br />

se ha costretto persino il cognitivista a prendere coscienza che<br />

la razionalità umana è “limitata”, non ha scalfito la sua fiducia nelle<br />

illusioni, e la sua sfiducia nei sensi. Cosicché, nonostante la posizione<br />

di Piaget possa apparire una posizione limite, dato che le illusioni<br />

costituiscono solo un capitolo, sia pure corposo, della psicologia della<br />

percezione, tuttavia rimane ferma la convinzione che «sono una ricca<br />

fonte sui processi normali». Per di più, in accordo con “il mondo come<br />

rappresentazione”, dimostrerebbero che «la nostra visione del mondo è<br />

un costrutto mentale, e non semplicemente una fedele rappresentazione<br />

della realtà» 27 . E però: se la realtà coincide con la rappresentazione<br />

che ne abbiamo, come facciamo a sapere che alcune rappresentazioni<br />

non sono fedeli? Ma tant’è. Col termine illusione «vengono designate<br />

alcune figure relativamente semplici composte da pochi elementi [...]<br />

che percettivamente si discostano in misura abbastanza notevole dalla<br />

loro configurazione reale. L’effetto può consistere in modificazioni di<br />

forma o di grandezza di parti della figura; si hanno infatti sovrastima<br />

o sottostima di alcuni elementi, deformazioni di altri, etc.» 28 . Oppure:<br />

«un’illusione visiva è una percezione che non corrisponde alla realtà» 29 .<br />

Confrontiamo queste definizioni con quanto abbiamo sotto gli occhi.<br />

Perché chiamare illusione una configurazione niente affatto illusoria,<br />

tanto che chiunque può a proprio piacere, e ripetutamente, osservarla?<br />

Qual è “la realtà a cui non corrisponde”? Perché il fatto che si veda la<br />

retta di “a” più lunga di quella di “b” viene considerato un discostarsi<br />

dalla “configurazione reale”? Quali sono i parametri del “mondo reale”<br />

rispetto ai quali viene rilevato l’errore di valutazione? E cos’è un<br />

errore che non si lascia correggere? Perché il sapere che i due segmenti<br />

hanno la stessa lunghezza non cambia la nostra percezione della figura<br />

di Müller-Lyer? D’altra parte, se consideriamo i due segmenti senza le<br />

estremità oblique, cosa che ci viene consigliata, il nostro vedere cambia:<br />

li percepiamo uguali. Un vedere che coincide col sapere? Ma, a parte il<br />

fatto che “percepire vs pensare” ci viene posto come ostacolo, così procedendo<br />

verremo a perdere la particolare configurazione della Müller-<br />

Lyer. Se poi nelle figure percepissimo gli elementi che le compongono<br />

in maniera isolata, e non nelle loro relazioni, non solo l’agnosia non<br />

sarebbe una patologia, ma lo stesso concetto di agnosia sarebbe privo<br />

di senso. In realtà, considerando la storia scientifica <strong>delle</strong> illusioni ci si<br />

convince che la complicazione è dovuta al fatto di non tenere ferma<br />

94


la distinzione tra sperimentatore e percettore, con la conseguenza che<br />

l’analisi degli elementi di una figura fatta dallo sperimentatore viene<br />

indebitamente proiettata sull’esperienza che della figura ne fa il percettore.<br />

E con ciò le visibili proprietà della figura svaniscono e al suo<br />

posto la radicata convinzione che i sensi ingannano.<br />

Non manca chi sostiene che «“le illusioni ottiche” non sono “illusioni”»<br />

30 . Il nome che oggi probabilmente viene in mente è quello di<br />

Gibson, famoso per il suo approccio ecologico alla percezione. Ma basta<br />

accedere allo spazio teorico-sperimentale della psicologia della Gestalt,<br />

che poi è lo sfondo per comprendere Gibson e il primo piano per inquadrare<br />

Bozzi, l’autore citato, per comprendere che le illusioni sono<br />

funzionali al paradigma di volta in volta egemone in psicologia. Sicché,<br />

nonostante la psicologia della Gestalt abbia nei primi decenni del Novecento<br />

dimostrato l’illusione <strong>delle</strong> illusioni, nei testi di psicologia le<br />

illusioni continuano a pullulare come ai tempi di Köhler 31 . Nel mondo<br />

dell’esperienza i segmenti centrali della Müller-Lyer «non hanno la stessa<br />

lunghezza anche se il righello dice il contrario». Il righello, tuttavia,<br />

non misura «le proprietà osservabili degli oggetti ma solo sistemi di relazioni<br />

coerenti secondo una certa logica, i quali cadono in genere fuori<br />

dal piano osservazionale» 32 . Se consideriamo che la produzione e la<br />

fruizione di «immagini è possibile solo perché non si fonda sugli aspetti<br />

squisitamente e quantitativamente geometrici <strong>delle</strong> tracce utilizzate, ma<br />

si fonda sulle condizioni del loro apparire» 33 , ci rendiamo conto della<br />

rilevanza <strong>delle</strong> illusioni e dell’irrilevanza dell’immagine per una psicologia<br />

dominata dalla «esigenza tirannica dell’esattezza quantitativa» 34 , e<br />

guidata dalla presupposizione che percepire è come fare scienza. Tanto<br />

che le illusioni costituirebbero «la più forte dimostrazione del fatto che<br />

[…] le percezioni sono sostanzialmente <strong>delle</strong> ipotesi, molto simili alle<br />

ipotesi predittive della scienza» 35 . Gli psicologi che, viceversa, si pongono<br />

l’obbiettivo di “salvare i fenomeni” e perciò «vogliono spiegare<br />

proprio le apparenze», gli eredi di Wertheimer, Köhler e Koffka, ma<br />

anche di Meinong e Benussi 36 , sono diventati talmente sospettosi nei<br />

confronti del “sapere” e del “pensare” e talmente pignoli nei confronti<br />

del vedere che, se osate dire che nella figura si vede un’esagono, vi avvertono<br />

che state confondendo quello che vedete con quello che sapete.<br />

Per loro «quello che si vede è un esagono irregolare, ed è pericoloso<br />

persino dire “l’esagono è regolare ma appare irregolare”» 37 .<br />

95


Uno di loro, ma per la distinzione tra ciò che si vede e ciò che si<br />

sa o tra vedere e pensare è il caposcuola 38 , è diventato internazionalmente<br />

famoso con il triangolo che porta il suo nome: il triangolo di<br />

Kanizsa.<br />

Quando si dice che un’immagine vale più di mille parole! L’enorme<br />

mole di lavori sperimentali e teorici che dalla fine degli anni ’70 ad<br />

oggi non accenna a diminuire testimonia l’importanza che la psicologia,<br />

ma non è la sola, attribuisce al fenomeno 39 . L’attenzione è concentrata<br />

sul triangolo poggiato sulla base. Qui, contrariamente alla Müller-Lyer,<br />

l’illusione riguarderebbe «l’esistenza stessa dell’oggetto» 40 , e c’è chi<br />

sostiene che è una nostra creazione 41 . Il triangolo sarebbe inesistente<br />

– un “triangolo fantasma” – perché il contorno o il margine non è<br />

disegnato. Il problema è quindi anche quello di come definire ciò che<br />

viene ritenuto inesistente: margini quasi-percettivi o senza gradiente<br />

come preferisce Kanizsa? O contorni cognitivi, o soggettivi, o illusivi,<br />

o fantasma come sostengono altri? I termini, sebbene l’uso non<br />

sempre sia rigoroso, possono marcare opzioni teoriche diverse 42 . Ma<br />

occupiamoci dell’immagine. Dal momento che il triangolo lo vediamo,<br />

forse il contorno — che non è «evanescente», né ci lascia «qualcosa da<br />

indovinare», come si potrebbe sostenere seguendo Gombrich 43 — non<br />

è sempre necessario disegnarlo perché un’immagine appaia. In questa<br />

figura, benché i margini non siano segnati, vediamo un volto. Contrariamente<br />

al triangolo, il contorno è per davvero inesistente e, proprio<br />

per questo, possiamo immaginarlo e tracciarlo in maniera differente.<br />

Ovviamente il contorno, una volta tracciato, non è indifferente ai<br />

96


fini del particolare volto (largo, lungo, …) e della relativa fisionomia,<br />

ma lo è per il riconoscimento del volto. Se volessimo tracciare i margini<br />

del triangolo non avremmo nessuna libertà, se non quella di scegliere<br />

il colore con cui ri-segnare i margini là dove sono.<br />

Mentre tra gli animali non solo le scimmie ma persino gli insetti<br />

(i cui occhi sono molto diversi dagli occhi umani) 44 , e tra gli umani<br />

tutti, ma proprio tutti in barba al relativismo culturale, come voi e me<br />

percepiscono il triangolo di Kanizsa, il dibattito continua a infuriare: se<br />

l’ontologo non riesce a decidersi sullo statuto di questa strana entità 45 ;<br />

il matematico, senza un’ombra di incertezza, certifica per il largo pubblico<br />

che il triangolo non c’è 46 ; e se un esponente della neuroestetica<br />

annuncia che, grazie al triangolo di Kanizsa, ha dimostrato che «vedere<br />

è un’operazione creatrice» 47 , neanche fosse quello della Trinità, non<br />

manca il filosofo che lo utilizza per confutare che «non esistono fatti<br />

ma solo interpretazioni» 48 . Quest’ultimo per argomentare la differenza<br />

fra sensi e intelletto, col triangolo assume, purtroppo, anche la tesi di<br />

Kanizsa, finendo così col ritenere che i fatti siano garantiti da un percepire<br />

senza pensare. Convinto della «autonomia del vedere rispetto al<br />

pensare», chiama in causa un occhio indipendente dal cervello contro la<br />

«concezione “cerebrodipendente” della visione». Con quest’armamentario<br />

e con la fede nei “margini-disegnati” commenta per gli studenti<br />

di rai 3 la figura: un triangolo che «percepiamo – quindi “c’è” – ma<br />

non è tracciato da nessuna parte», quindi, il triangolo «è presente nel<br />

momento in cui lo guardiamo». Ma una studentessa, indifferente a capire<br />

se la dipendenza dalla percezione vada intesa nel senso dell’esse<br />

est percepi, o piuttosto nella direzione della strapopolare soggettività dei<br />

qualia — forse il bambino di Andersen truccato da studentessa di filosofia?<br />

— all’argomento dei margini-non-tracciati, controbatte: «Neppure<br />

i quadri impressionisti sono provvisti di margini, ma ciò non significa<br />

che non vi sia un’immagine» 49 . L’osservazione è acuta, e, rimanendo alle<br />

logiche costruttive della figura, il non considerato è il ruolo degli “spazi<br />

negativi”, che nella logica dell’immagine devono essere accuratamente<br />

trattati, come ogni pittore sa, sia che punti a eliminare l’ambiguità<br />

figura-sfondo, sia, viceversa, che voglia sfruttarne le possibilità.<br />

Arriviamo alla figura-immagine una e bina, che per i più è emblematica<br />

del fatto che percepire è interpretare.<br />

97


Descritta come illusione — “illusione interpretativa” per l’appunto<br />

— più propriamente è una figura bistabile o reversibile, e inizialmente<br />

si è imposta all’attenzione soprattutto di filosofi e storici dell’arte 50 ,<br />

grazie a Wittgenstein, a cui erroneamente è attribuita, e a Gombrich,<br />

a cui verosimilmente si deve l’erronea attribuzione, dato che Wittgenstein<br />

cita la fonte corretta. È, infatti, Joseph Jastrow — uno psicologo<br />

oggi pressoché dimenticato ma che ha rivestito un ruolo pionieristico<br />

nella psicologia americana e che ha goduto meritata fama fino ai primi<br />

decenni del secolo scorso — che l’ha proposta all’attenzione degli<br />

studiosi. Trovatala in un giornale americano, che a sua volta l’aveva<br />

importata da un settimanale umoristico tedesco, l’ha utilizza nel 1899<br />

per dimostrare che lo stimolo da solo non spiega la percezione e per<br />

sostenere che, oltre all’occhio che registra lo stimolo, vi è nella percezione<br />

anche il contributo della mente: vediamo con l’occhio e con la<br />

mente 51 . Chissà poi perché ha modificato la figura (l’allineamento orizzontale<br />

dell’elemento “becco dell’anatra” o “orecchie del coniglio”),<br />

dato che l’effetto è più evidente con l’originale.<br />

La modifica strutturale, come che sia, si conserva tanto in quella<br />

di Wittgenstein quanto in quella di Gombrich, ma non la didascalia:<br />

“anatra” (o “papero”), cioè il termine che indica il profilo che guarda<br />

a sinistra, è passato a destra (o è rimasto a destra come nelle riviste), e,<br />

per quel poco che vale, vi segnalo che bambini esaminati la domenica<br />

di Pasqua e una domenica di ottobre, vedono il coniglio a Pasqua e<br />

l’anatra a ottobre 52 .<br />

98


Le variazioni sul tema arrivano al “paperiglio” 53 e al “conigliopapero”,<br />

e non mi stupirei di incontrare il “paperoconiglio”, il “coniglipero”,<br />

l’“anatriglio” e la “lepratra”. Intanto: riusciamo a vedere<br />

il conigliopapero? Chi si è messo alla prova ci avverte che non ci si<br />

riesce; se ci proviamo «vien fuori, nel migliore dei casi, un ircocervo<br />

mostruoso che non ha niente né del coniglio né del papero, un essere<br />

quasi piatto, e con una bocca orripilante che è poi l’occhio, rispettivamente,<br />

del coniglio e del papero»; e ritiene che ciò dimostri che il<br />

pensiero non interferisca nella percezione: «se davvero i concetti guidassero<br />

le intuizioni […] dovrei essere in grado di vedere un conigliopapero»<br />

54 , argomenta. Ora, però l’ircocervo lo possiamo vedere, ma<br />

certo non nella figura di Jastrow: l’immagine, che la si può trovare in<br />

due riviste dal nome “L’ircocervo”, è anche il logo del Dipartimento di<br />

storia e filosofia del diritto e diritto canonico dell’Università degli studi<br />

di Padova. E non somiglia certo all’“ircocervo mostruoso” descritto,<br />

perché è stato pensato e disegnato come un capro-cervo rivolto verso<br />

una sola direzione, non come “o un capro o un cervo”. Perciò l’impossibilità<br />

dell’immagine “conigliopapero” e la possibilità dell’immagine<br />

“ircocervo” non dipendono «da quello che significa ‘vedere’» 55 , ma da<br />

come sono state costruite le figure. Comunque si intenda il “vedere” e<br />

il “sapere”, la figura di Jastrow è “o un coniglio o un papero”, non un<br />

“conigliopapero”; ed è tanto impossibile vedere quest’ultimo, quanto<br />

farsene un concetto 56 . A meno di non ritenere che basti unire due<br />

parole per formare un nuovo concetto.<br />

Fermiamoci all’“aut-aut” originario e all’uso fattone dai nostri due<br />

eponimi. Come intendere l’unicità dello stimolo – la figura è una – e<br />

la dualità della resa percettiva – o anatra o coniglio?<br />

99


A Gombrich è servita per sostenere la tesi, mutuata da Popper, che<br />

la percezione è carica di teoria. Vediamo o l’uno o l’altro animale: la<br />

forma cambia. E per Gombrich, non è il cambiamento che è indubitabile,<br />

ma il modo misterioso in cui lo fa: «non c’è dubbio che cambia<br />

in modo misterioso» 57 . Mentre il “mistero” del cambiamento è da<br />

mettere in conto alla teoria della percezione assunta, rilevo che la bistabilità<br />

della figura diventa la cifra del convincimento che l’ambiguità<br />

è, e per Gombrich lo è ad evidenza, «la chiave dell’intero problema<br />

della lettura dell’immagine» 58 . Tutte le immagini sarebbero ambigue:<br />

anche se i più non se ne rendiamo conto, persino il «disegno a puro<br />

contorno di una mano è ambiguo.<br />

È impossibile dire se si tratta di una mano destra vista dall’alto o di<br />

una sinistra vista di sotto» 59 . Se, come me – e ciò nonostante le difficoltà<br />

che possiamo avere con la destra e la sinistra dovute alla simmetria,<br />

per l’appunto, chirale – percepite una mano destra vista dall’alto,<br />

e quindi guardando vi formate la convinzione che il disegno non è ambiguo,<br />

sappiate che questo dipende da come siamo fatti: «Non siamo<br />

consapevoli dell’ambiguità in sé, ma solo <strong>delle</strong> varie interpretazioni» 60 .<br />

Percepiamo un coniglio o un papero?<br />

No, più propriamente – sostiene Gombrich – «proiettiamo» la forma<br />

del coniglio o quella del papero. Con questa figura il cambiamento<br />

«è facile», con altre figure «ci vuole qualche sforzo» in più 61 ; nell’uno<br />

e nell’altro caso, comunque, «proprio perché siamo così ben esercitati<br />

100


in questo tiro a segno e di rado manchiamo la mira, non abbiamo coscienza,<br />

di solito, di questo atto d’interpretazione» 62 . Ma allora: «cosa<br />

“c’è realmente davanti a noi”»? L’“ipotesi della costanza” si rivela una<br />

vera manna per chi è convinto che tutto è interpretazione 63 . Così, alla<br />

domanda sul “cosa c’è” nella figura, ci viene detto che non possiamo<br />

rispondere senza ricorrere all’interpretazione. E la figura, posta all’inizio<br />

del libro, come fosse un logo, rende visibile la tesi dell’autore: «vedere<br />

la forma indipendentemente dalla sua interpretazione»? «Questo<br />

(ce ne accorgiamo subito) non è realmente possibile» 64 . Il circolo tra “il<br />

non possiamo vedere senza interpretare” e il “ce ne accorgiamo subito”<br />

è vizioso, ma virtuosa è la chiarezza e la compattezza con cui la tesi<br />

è portata avanti: non lascia spazi a interpretazioni diverse. Gombrich<br />

trascura che tutti nella “papero-coniglio” vedono questi due animali,<br />

e non, poniamo, aquila e leone.<br />

Con Wittgenstein non è così facile capire come per lui stanno le<br />

cose. La situazione si complica fin da quelle che sono le intenzioni<br />

dichiarate: non vuole sostenere una tesi, non vuole prendere partito,<br />

non vuole rimanere irretito nel circolo, anzi vuole «indicare alla mosca<br />

la via d’uscita dalla trappola» 65 . Per di più i significati dei termini in<br />

discussione non si lasciano assumere sic et simpliciter, ma vanno compresi<br />

nelle sottili variazioni e cambiamenti, talora lenti talora repentini,<br />

che danno luogo a una sequenza refrattaria a ogni ordinamento lineare.<br />

Come pure, le immagini, sia le poche figure presentate sia quelle<br />

numerosissime che ci invita a visualizzare, non valgono nel loro isolamento,<br />

ma nei rimandi plurimi che servono a illuminare somiglianze e<br />

differenze del loro modo di funzionare. Un andirivieni di pensieri che<br />

lascia intravedere ulteriori possibilità di esplorazione. Parole e immagini<br />

tracciano così un panorama vario e articolato difficile da cogliere:<br />

con uno sguardo ravvicinato si perde l’insieme, con uno sguardo da<br />

lontano si perdono particolari essenziali alla sua unicità. Il rischio del<br />

fraintendimento è sempre in agguato: come in una figura, non bistabile<br />

ma molto complessa, c’è la possibilità che possano essere sfuggiti particolari<br />

importanti, e che, una volta notati, riorganizzerebbero la nostra<br />

comprensione. Di fatto il “vedere come” ha dato luogo a due linee interpretative:<br />

un percepire, posizione assolutamente minoritaria 66 , o un<br />

interpretare. Il problema non è tanto che le due interpretazioni siano<br />

contraddittorie, quanto il fatto che il legame percezione-pensiero su<br />

cui insiste Wittgenstein non si lascia inquadrare nella logica del “percepire<br />

è interpretare”, né in quella del vedere, ma pone la necessità di<br />

ripensare la percezione e il pensiero.<br />

Nel papero o coniglio, che per Wittgenstein diventa “la figura della<br />

testa L-A” 67 , non si tratta sempre di un “vedere come”. Si può,<br />

infatti, vedere una lepre o un’anatra, o anche una testa L-A, e questo<br />

è il vedere vero e proprio. Però posso percepire nella figura L-A,<br />

che prima avevo detto essere una lepre, l’altra immagine che mi era<br />

101


sfuggita: “Ora vedo un’anatra”, o “La vedo come un’anatra”. Noto il<br />

cambiamento, «proprio come se l’oggetto fosse cambiato davanti ai<br />

miei occhi» 68 . Come intendere questa nuova possibilità di guardare<br />

alla figura? «“Senza dubbio questo non è un vedere” — “Senza dubbio<br />

questo è un vedere”» 69 . Wittgenstein rifiuta l’alternativa secca, tipica<br />

della psicologia 70 , e sottolinea il “vedere” di “senza dubbio questo non<br />

è un vedere”. Segno che non fa problema che sia un vedere, la figura è<br />

sotto i nostri occhi. È problematico, viceversa, il fatto che non lo sia:<br />

“questo non è un vedere” confligge, infatti, con l’essere “uno stato” del<br />

vedere, mentre l’interpretare è un’attività che trascende il dato 71 . L’esempio<br />

del “parlare” può aiutarci nella comprensione: come parlare e<br />

pensare, sebbene ci sia un parlare senza pensare, «stanno tra loro nella<br />

più stretta connessione» 72 , nel campo tradizionalmente opposto, c’è il<br />

“vedere” e un vedere che si dà assieme al pensare. Questo vedere, che<br />

rimane un vedere, ma non è un semplice vedere, è il “vedere come”<br />

o il “vedere aspetti”. Il “vedere come” è vincolato al dato allo stesso<br />

modo del “vedere”. È pur sempre un vedere. Ciò da una parte salva<br />

l’essere “stato” della percezione e dall’altro circoscrive, delimita, ritaglia<br />

sul dato la variazione che l’“attività” interpretativa introduce: nella testa<br />

L-A, possiamo percepire solo una lepre o un’anatra o alternativamente<br />

“come” l’una e “come” l’altra, ma non “come” un leone e “come”<br />

un’aquila, né “come” qualsiasi altra coppia di animali. Sarebbe persino<br />

insensato affermarlo. «Ha senso dire: “Vedi questo cerchio come un<br />

buco, non come un disco”; ma non: “Vedilo come un rettangolo” o<br />

“Vedilo rosso”» 73 . Si può, quindi, parlare di percezione solo se c’è un<br />

dato, e il dato definisce i gradi di libertà dell’“interpretazione”. Perciò<br />

il “vedere come” è un vedere, non «qualcosa che assomiglia al vedere»:<br />

non si tratta di «aggiungere senso» 74 alla figura, bensì di cogliere i due<br />

“sensi” della figura.<br />

Il “vedere come” non è limitato né alle figure bistabili – l’esempio<br />

del triangolo che può essere visto in modi molto diversi non lascia<br />

possibilità al dubbio – né alle sole immagini: l’esempio del cogliere<br />

l’espressione di un volto, o quello del ravvisare la somiglianza tra<br />

padre e figlio ci sbarrano la strada. E tuttavia, sebbene non pertenga<br />

solo alle immagini, il “vedere come” riveste notevole importanza per<br />

il nostro argomento poiché individua la conditio sine qua non perché<br />

immagini si diano e vengano comprese: «Colui che è ‘cieco all’aspetto’<br />

102


avrà, con le immagini in generale, una relazione diversa di quella che<br />

abbiamo noi» 75 .<br />

Se le cose stanno così diventa prioritario il come intendere il pensiero<br />

del “vedere come”. Si tratta del pensiero che è stato identificato con<br />

il linguaggio o con il calcolo? Quel pensiero che ha la sua “essenza”<br />

nella logica? E come intendere l’interpretazione? C’è affinità tra l’interpretazione<br />

del “percepire è interpretare” esemplificata con Gombrich e<br />

quella del “vedere come”? L’interpretare del “vedere come” va inteso<br />

nell’accezione del cognitivista per il quale, come abbiamo visto “le<br />

percezioni sono sostanzialmente <strong>delle</strong> ipotesi”, o nel significato che con<br />

Hanson e Kuhn è diventato popolare in epistemologia 76 ? E ancora:<br />

possiamo intendere il “vedere” e il “vedere come” in sequenza, considerare<br />

il primo come pre-categoriale e il secondo guidato dal pensiero<br />

verbale? È questa la strada seguita da chi sostiene che percepire è interpretare,<br />

o che la conoscenza organizza la percezione, o che la teoria<br />

è necessaria alla percezione, e, curiosamente, anche da chi sostiene che<br />

percepire e pensare vanno rigorosamente distinti. Vi troviamo Piaget<br />

e gran parte dei cognitivisti, Gombrich e Popper, Hanson, Kuhn ecc.,<br />

Kanizsa e seguaci: lasciare indenne il concetto tradizionale di pensiero<br />

fondato sul logos – il logocentrismo 77 – al di là <strong>delle</strong> differenze relativamente<br />

alla teoria della percezione, è ciò che li accomuna.<br />

Non mi pare che la strada indicata da Wittgenstein si biforchi in un<br />

puro vedere e in un vedere carico di teoria o in un semplice interpretare.<br />

Non mi pare questo il senso del “vedere come”. Intanto l’interpretare<br />

del “vedere come” è quasi sempre in corsivo. E poi, «i casi in cui<br />

interpretiamo sono facilmente riconoscibili. Quando interpretiamo facciamo<br />

ipotesi che potrebbero anche dimostrarsi false. – “Vedo questa<br />

figura come un…” può essere verificata tanto poco quanto (o soltanto<br />

nel senso in cui) può essere verificata “Vedo un rosso brillante”» 78 . Il<br />

che dovrebbe bastare a evitare di arruolarlo tra i “fanatici dell’interpretazione”.<br />

Consideriamo gli aspetti del triangolo. «Il triangolo può essere<br />

visto: come un buco triangolare, come un corpo, come un disegno<br />

geometrico; appoggiato sulla sua base, appeso per un vertice; come un<br />

monte, come un cuneo, come una freccia o come un indice; come un<br />

corpo capovolto che (p. es.) dovrebbe poggiare di solito sul cateto minore,<br />

come un mezzo parallelogramma, e come diverse e svariate cose».<br />

E continua: «Puoi pensare ora a questo, ora a quello; puoi considerarlo<br />

una volta come questa cosa un’altra come quest’altra, e allora lo vedrai<br />

ora in questo modo ora in quest’altro». Anche se il gioco linguistico propostoci<br />

non è proprio «di tutti i giorni», i numerosi aspetti che ci sono<br />

stati indicati, e altri che possiamo immaginare appropriati alla struttura<br />

del triangolo, si possono solo pensare o si possono vedere “conformamente”<br />

a come si sono pensati. «Ma come è possibile che si veda una<br />

cosa conformemente a una interpretazione? – si chiede Wittgenstein –<br />

La domanda presenta la faccenda come un fatto strano; come se qui<br />

103


qualcosa fosse stato costretto in una forma che, propriamente, non gli<br />

si adatta. Ma qui nessuno ha spinto o ha forzato nulla» 79 . La stranezza<br />

cessa se rinunciamo a pensare al pensiero nella maniera tradizionale,<br />

che sarebbe, per davvero, un corpo estraneo aggiunto al materiale<br />

sensibile. Qui, come negli altri casi di “vedere come”, si tratta di un<br />

pensiero che si conforma alle logiche della percezione, che fa corpo<br />

con la visione. Un pensiero che non organizza dati sensoriali, che non<br />

impone logiche estranee al visivo, che non azzera le imponderabili variazioni<br />

con cui il dato ci si presenta, ma che «si incarna» 80 in ciò che<br />

si vede, e si articola secondo i percorsi dell’occhio: «“Un pensiero che<br />

echeggia nel vedere” – si vorrebbe dire» 81 .<br />

Se le cose stanno così non si può utilizzare la figura della “testa<br />

L-A” né per significare l’autonomia della percezione dal pensiero, né,<br />

viceversa, la colonizzazione della percezione da parte del pensiero linguistico.<br />

Il pensiero «avvolto da un’aureola» 82 , il pensiero fissato nella<br />

sua idealità, a cui si è fatto giocare il gioco logico che neanche è sembrato<br />

gioco, con Wittgenstein diventa «un concetto assai ramificato» 83 ,<br />

e il pensare lo si ritrova disseminato in un numero imprecisato di “giochi”<br />

di cui è difficile fare l’intero inventario e averne piena consapevolezza.<br />

La nostra non completa consapevolezza e la sottovalutazione<br />

degli usi “terra terra” che del pensare facciamo delimitano oggi, in<br />

negativo, lo spazio d’azione del robot. Si pensi al “problema della cornice”<br />

– Frame Problem – che da qualche tempo assilla gli studiosi di<br />

intelligenza artificiale 84 .<br />

La mia lettura del “vedere come” potrebbe sembrare simile alla posizione<br />

presente in Patterns of Discovery di Hanson, l’opera con la quale<br />

si fa iniziare la “New philosophy of science”, e che ha reso popolare,<br />

assieme alla figura “uccello o antilope”, il “dato carico di teoria” 85 . E<br />

però, il “vedere come” e il “vedere che” di Hanson – e il successivo<br />

rilancio fattone da Kuhn 86 – un vedere che senza soluzione di continuità<br />

a partire dalle figure bistabili arriva alle teorie fisiche, mi pare abbia<br />

ben poco a che fare sia con Wittgenstein 87 sia con la psicologia della<br />

Gestalt. Certo, per Hanson, come già per Wittgenstein 88 , ma non per<br />

la Gestalt, «l’organizzazione non si vede nello stesso modo in cui si vedono<br />

le linee e i colori di un disegno. Essa non è in sé una linea o una<br />

figura o un colore. Non è un elemento appartenente al campo visivo,<br />

ma piuttosto il modo in cui gli elementi vengono valutati» 89 . Ciononostante,<br />

che «Keplero e Tycho sono rispetto al Sole nella medesima<br />

situazione nella quale noi ci troviamo nei confronti della figura, in cui<br />

io vedo l’uccello e un’altra persona soltanto l’antilope» 90 non è in linea<br />

con le argomentazioni di Wittgenstein che riguardano i giochi della vita<br />

quotidiana e non quelli dell’epistemologia; contrasta poi non poco con<br />

l’attenzione alle «sottili sfumature del comportamento» ritenute decisive<br />

per l’applicabilità del “vedere come” 91 ; e, innanzitutto, non tiene in<br />

nessun conto il fatto che chi vede la lepre successivamente vede, o può<br />

104


essere guidato a vedere, l’anatra; viceversa “io vedo l’uccello e un’altra<br />

persona soltanto l’antilope” non è “vedere ora l’una ora l’altra cosa”,<br />

ma prelude alla tesi dell’incommensurabilità dei paradigmi. Certo, per<br />

i gestaltisti, e ciò fin dal celebre esperimento di Wertheimer sul “movimento<br />

apparente” (1912), come per Hanson, «nella visione c’è più di<br />

ciò che colpisce il globo oculare» 92 , ma il di più non può essere inteso<br />

nel senso della teoria, o <strong>delle</strong> conoscenze passate in formato linguistico,<br />

per cui Tycho, contrariamente a Keplero, vedrebbe il sole «ticonico». Il<br />

di più per Wittgenstein riguarda l’“organizzazione”, che per Hanson,<br />

è “il modo in cui gli elementi vengono valutati”, mentre per Köhler,<br />

con cui Wittgenstein tuttavia non concorda, è «un fatto sensoriale» 93 ,<br />

ovvero è proprio “un elemento appartenente al campo visivo”. Il sapere<br />

organizzato linguisticamente che guiderebbe la visione 94 , è lontano<br />

tanto dal “pensiero che echeggia nel vedere” – e Wittgenstein ipotizza<br />

persino il “concetto visivo” 95 – quanto dalla percezione e dal “pensiero<br />

naturale” dei gestaltisti 96 . Tenendo presente la critica di Köhler<br />

alle “mitiche sensazioni” – il dato carico di teoria dei laboratori di<br />

psicologia di allora 97 – possiamo immaginare come avrebbe reagito<br />

alla percezione del sole “ticonico”. Chi consapevolmente si è attenuto<br />

al fatto che «prima di tutto nella vita comune noi [compresi i fisici]<br />

siamo realisti ingenui», e non smaliziati filosofi della scienza, al punto<br />

da auspicare «lo studio di quella sorta di “fisica dell’uomo comune”»,<br />

verosimilmente direbbe che Tycho, «se non subisce l’influenza di pregiudizi<br />

teorici confesserà» 98 di vedere il sole come lo vede chiunque.<br />

Un ultimo breve punto in forma interrogativa, prima di passare<br />

all’ultima immagine. Cosa differenzia il “vedere come” e il semplice<br />

vedere? Quali sono le incapacità di quest’ultimo che hanno portato<br />

Wittgenstein a teorizzare il “vedere come” e a ravvisare «la categorica<br />

differenza tra i due ‘oggetti’ del vedere» 99 ? Se ci poniamo queste domande,<br />

troviamo un certo tipo di riconoscimento 100 , ma soprattutto<br />

la capacità di ravvisare le somiglianze e le differenze, e la capacità di<br />

cogliere le espressioni: in breve ciò che ritiene pertenga all’organizzazione.<br />

Sicuro che somiglianze-differenze e qualità espressive siano da<br />

mettere in conto al “vedere come” e non appartengano al semplice<br />

vedere, come gli appartengono le forme e i colori? «Certe cose del<br />

vedere ci sembrano enigmatiche, perché l’intero vedere non ci sembra<br />

sufficientemente enigmatico» 101 . Appunto, il sospetto che viene è che<br />

il “vedere” (quanto ne diceva la teoria tradizionale) non lo si sia problematizzato<br />

a sufficienza, e, con ciò, lo si sia espropriato di ciò che,<br />

secondo la psicologia della Gestalt, gli è più proprio attribuendolo al<br />

“vedere come”. A confutazione vi presento un’immagine meno famosa,<br />

ma non meno importante <strong>delle</strong> precedenti.<br />

105


Vi chiedo di assegnare le parole “maluma” e “takete” alle due figure<br />

in modo che da «far combaciare» parola e figura. Köhler, che ha inventato<br />

la situazione sperimentale, ha trovato che i soggetti «senz’ombra<br />

di esitazione», e senza trovare strano il compito, hanno assegnano<br />

takete alla prima e maluma alla seconda figura 102 . Con questa e con<br />

esperimenti simili la psicologia della Gestalt ha sostenuto che ciò che<br />

per primo si percepisce sono le qualità espressive 103 e non le qualità<br />

chiamate primarie e secondarie (le forme e i colori di Wittgenstein);<br />

e quanto alla somiglianza ha dimostrato che persino le galline, quelle<br />

che “somigliano” tanto alle donne, da avere portato al detto “stupida<br />

come una gallina”, la percepiscono 104 .<br />

Ritornando all’anatra-coniglio, se ci si ferma al semplice contorno<br />

può venire in mente di trattare la figura come “paperoconiglio” o<br />

paperiglio”, oppure, come è successo a Wittgenstein, sembrare – l’annotazione<br />

è di un gestaltista – «stupefacente che due percetti potessero<br />

derivare da un solo stimolo» 105 . Lo stupore, per Arnheim, che in<br />

questo segue Köhler, deriva dal non tenere presente la differenza tra la<br />

forma fisica, che «è determinata dai suoi contorni», e la forma percettiva<br />

che «non è determinata soltanto dai suoi contorni», ma anche dallo<br />

“scheletro strutturale”: «lo scheletro di forze visive create dai contorni<br />

può, a sua volta, influenzare il modo di vedere i contorni» 106 . Proprio<br />

perché la figura di Jastrow «ammette due scheletri contraddittori ma<br />

ugualmente accettabili, orientati in direzione opposta» possiamo percepire<br />

anatra o coniglio 107 . Il “vedere come” – il cogliere un tutto organizzato,<br />

il rilevare somiglianze e differenze, l’afferrare l’espressione, il<br />

vedere «proprio un significato» 108 – alla luce della teoria della Gestalt,<br />

è, quindi, “vedere”.<br />

In questa prospettiva teorica, purtroppo, più spesso che no, fraintesa<br />

o semplicemente ignorata, le immagini presentate e i problemi che<br />

sollevano trovano una adeguata spiegazione. Un vedere intelligente e<br />

un pensiero visivo – non il pensiero tradizionalmente inteso, ovvero il<br />

pensiero linguistico 109 – fondano la possibilità di fare e comprendere<br />

immagini 110 , e rendono conto della «parte che le immagini dal carattere<br />

di dipinti (in opposizione ai disegni tecnici) hanno nella nostra<br />

vita» 111 .<br />

106


* Il presente lavoro riprende e sviluppa l’intervento presentato al Convegno Forma e<br />

Immagine, promosso dal Dipartimento di Filosofia dell’Università di Roma Tre e dal Dipartimento<br />

di Studi filosofici ed epistemologici dell’Università di Roma “La “Sapienza”, con il<br />

patrocinio della Società Italiana d’Estetica, tenutosi a Roma il 12 e 13 maggio 2006 [ed è<br />

stato pubblicato nella “Rivista di estetica”, n.s., 33 (3/2006), pp. 211-236].<br />

1<br />

Si cfr., per esempio, J.-J. Wunenburger (1997), Filosofia <strong>delle</strong> immagini, Einaudi, Torino,<br />

1999.<br />

2<br />

Le affermazioni che non possono non “colpire” provengono dalla neuroestetica, fin dalla<br />

decisione di laureare ad onorem Magritte e con lui tanti altri artisti per meriti neurologici.<br />

Relativamente alla pipa «René Magritte, per il quale ciò che vediamo, in quanto opposto a ciò<br />

che percepiamo, “è una sfida al senso comune” […] si gettò anche in un’impresa più intellettualistica<br />

e, oserei dire, neurologica, indagando in chiave pittorica il problema – centrale per la<br />

neurologia – della rappresentazione. Fondamentalmente, un’immagine non può rappresentare<br />

un oggetto; lo può fare solo il cervello, che lo ha osservato da molte angolazioni differenti<br />

e lo ha collocato all’interno di una classe specifica. Un’immagine può semplicemente imitare<br />

l’oggetto in un suo aspetto particolare, come già Platone aveva lamentato. Ed ecco spiegati,<br />

in questo contesto, numerosi quadri di Magritte, in apparenza contraddittori, il cui esempio<br />

più famoso è L’uso <strong>delle</strong> parole», S. Zeki (1999), La visione dall’interno. Arte e cervello, Bollati<br />

Boringhieri, Torino, 2003, pp. 66-68. La nuova prospettiva teorica sta rivoluzionando gli studi<br />

artistici. Leggendo un libro dedicato a Gombrich (K. Clausberg, in Aa. Vv., L’arte e i linguaggi<br />

della percezione. L’eredità di Sir Ernst H. Gombrich, Electa, Milano, 2004, p. 76), a cui si<br />

rimprovera il disinteresse per la neuroestetica, ho trovato questa singolare affermazione che,<br />

come la prima, consegno al giudizio del lettore: «Magritte arricchì e modificò i suoi modelli<br />

ormai banalizzati e trascurati grazie all’inserimento di elementi conflittuali o assolutamente<br />

incompatibili, il più noto dei quali è la combinazione di immagini e scritture. Sembra plausibile<br />

supporre che egli si sia servito della configurazione stereoscopica binoculare nello sdoppiamento<br />

degli spazi figurativi per incorporare anche altri aspetti divulgati dalle neuroscienze.<br />

L’uso del linguaggio scritto nei suoi dipinti, in particolare, suggerisce una certa dimestichezza<br />

con l’idea della localizzazione <strong>delle</strong> funzioni cerebrali, in specie quelle che interessano i centri<br />

del linguaggio».<br />

3<br />

R. Magritte (1966), Intervista per Life, in Id., Tutti gli scritti, Feltrinelli, Milano, 1979,<br />

p. 528.<br />

4<br />

Id. (1959), Somiglianza, 1960, in Id., Tutti gli scritti, cit., p. 431.<br />

5<br />

Id. (1929), Le parole e le immagini, in Id., Tutti gli scritti, cit., p. 53.<br />

6<br />

P. N. Johnson-Laird, Modelli mentali. Verso una scienza cognitiva del linguaggio, dell’inferenza<br />

e della coscienza (1983), Il Mulino, Bologna, 1988, p. 251.<br />

7<br />

G. Bateson (1979), Mente e natura, Adelphi, Milano, 1984, p. 50.<br />

8<br />

Per una esposizione chiara e concisa dell’ipotesi costruttivista e dell’ipotesi della proiezione,<br />

cfr. R. Gregory, Brainy mind, “British Medical Journal”, 1998, 317, pp. 1693-95. E<br />

per una critica puntuale, e purtroppo ancora attuale, cfr. W. Köhler, Il posto del valore in<br />

un mondo di fatti (1938), Giunti, Firenze, 1969. Cfr. anche L. Pizzo Russo, Percezione e<br />

immagine nella rappresentazione artistica, "Rivista di estetica», n.s., 30 (3/2005), pp. 245-268<br />

[ora supra, pp. 31-58].<br />

9<br />

Sotto la voce “Rappresentazione” del Nuovo dizionario di psicologia di R. Doron, F.<br />

Parot e C. Del Miglio (Borla, Roma, 2001) si legge: «In psicologia […] la maggior parte dei<br />

tentativi contemporanei di spiegare la genesi e l’organizzazione <strong>delle</strong> conoscenze si colloca<br />

nella prospettiva aperta da Schopenhauer e di conseguenza si attribuisce la rappresentazione<br />

come suo principale oggetto di studio».<br />

10<br />

Cfr. L. Pizzo Russo, La psicologia ovvero la negazione del senso comune, “Nuova civiltà<br />

<strong>delle</strong> macchine”, xxiii, 1, 2005 [ora supra, pp. 17-30]. Ma si veda l’intero fascicolo, curato da<br />

G. Matteucci, che raccoglie gli atti di un interessante seminario sulle Grammatiche del senso<br />

comune, organizzato da E. Franzini, T. Griffero e G. Matteucci.<br />

11<br />

W. Köhler, La psicologia della Gestalt (1947 2 ), Feltrinelli, Milano, 1961, p. 12.<br />

12<br />

Come evidenzia J. J. Gibson (1979, Un approccio ecologico alla percezione, Il Mulino,<br />

Bologna, 1999, p. 402) è stato l’artista, e molto prima della psicologia, che ha «condotto degli<br />

esperimenti intorno alla percezione, anche se in maniera non formale».<br />

13<br />

R. Magritte (1959), Somiglianza, cit., p. 429.<br />

14<br />

Id. (1960), Lettera a Chavée, in Id., Tutti gli scritti, cit., p. 516.<br />

15<br />

A. Julius (2002), Trasgressioni. I colpi proibiti dell’arte, Bruno Mondadori, Milano, 2003.<br />

16<br />

«Mon obsession concernant Boîte Brillo était peut-être plus liée à sa pertinente en<br />

107


tant qu’exemple qu’a quelque caractéristique exceptionnelle», A. Danto (1992), Aprés la fin<br />

de l’art, Seuil, Paris, 1996, p. 21. Sebbene il titolo francese sembri la traduzione di After the<br />

End of Art (1997), in realtà traduce Beyond the Brillo Box: The Visual Arts in Post-Historical<br />

Perspective (1992).<br />

17<br />

A. C. Danto, 1995, Conferenza tenuta alla prima edizione de La Generazione <strong>delle</strong><br />

Immagini, curata da R. Pinto e M. Senaldi, www.undo.net<br />

18<br />

NotGallery, che ha sede a Napoli, «come si evince dal nome, non è una vera e propria<br />

galleria d’arte, ma uno spazio che si propone di esplorare le contaminazioni tra differenti<br />

espressioni artistiche. Essa intende elaborare nuove formule che, pur avvalendosi in parte<br />

<strong>delle</strong> metodologie di lavoro che in Italia sono utilizzate esclusivamente dalle gallerie d’arte,<br />

abbiano lo scopo di orientare verso una larga diffusione di pubblico i risultati della ricerca<br />

artistica più all’avanguardia», www.notgallery.com.<br />

19<br />

L. Bradamante, Hans Belting. Oltre la storia dell’arte verso la Bildwissenschaft, “Leitmotiv”,<br />

2004, 4, p. 41. Cfr. anche A. C. Danto, 1995, cit., a cui Bradamante rimanda. Cito<br />

da Bradamante, e non direttamente da Danto, 1995, perché nella Conferenza manca una frase<br />

così incisiva. Del resto la posizione di quest’ultimo è molto più articolata. E però la citazione<br />

è significativa di come la semplificazione avvenga secondo lo stereotipo “sensi vs intelletto”.<br />

Per A. C. Danto (1998, La fine dell’arte: una difesa filosofica, “Studi di estetica”, 1999, 20, pp.<br />

24-25) «La netta divisione tra pensiero e sensazione è puro Romanticismo. L’idea che l’opera<br />

d’arte possa trasmettere – o che un tempo trasmettesse – le proprie verità immediatamente attraverso<br />

i sensi, senza la mediazione del pensiero, era pensabile quando l’arte era mimetica. Ma<br />

lo è sempre meno oggi, e quindi è sempre meno disponibile a essere diretta solo dai sensi».<br />

20<br />

R. Arnheim (1974 2 ), Arte e percezione visiva, Feltrinelli, Roma, 2002 17 ; E. H. Gombrich<br />

(1962 2 ), Arte e illusione. Studio sulla psicologia della rappresentazione pittorica, Einaudi, Torino,<br />

1965. In breve, per entrambi, tutta l’arte è concettuale, solo che per Arnheim il concetto<br />

è percettivo, mentre per Gombrich la percezione è intellettualizzata. Cfr. anche R. Arnheim<br />

(1947), Astrazione percettiva ed arte, in Id. (1966), Verso una psicologia dell’arte. Espressione<br />

visiva, simboli e interpretazione, Einaudi, Torino, 1969: «Arte e astrazione sembrano incompatibili<br />

se i due concetti vengono presi nel senso comunemente accettato. L’artista, si dice,<br />

offre rappresentazioni di singoli fatti concreti. L’astrazione viene spesso definita come quell’operazione<br />

che estrae elementi o costituenti comuni a un certo numero di casi particolari<br />

[…]. Inoltre, l’astrazione viene spesso descritta come un processo intellettuale che elabora<br />

percezioni meccanicamente registrate, mentre il processo artistico, si afferma, nulla ha a che<br />

vedere col pensiero; è fondato sulla percezione, sull’intuizione, sul sentimento, ecc.», ivi,<br />

p. 38. Purtroppo Arnheim è soggetto a vari fraintendimenti: G. Kanizsa (Grammatica del<br />

vedere. Saggi su percezione e gestalt, Il Mulino, Bologna, 1980, p. 102) lo assimila ai neohelmholtziani:<br />

«E così per Helmholtz e per i neo-helmholtziani odierni, le percezioni possono<br />

venire considerate come il risultato di un’attività di pensiero, in particolare di processi<br />

inferenziali o di giudizi inconsci». La sua teoria della percezione sarebbe «“interpretativa” o<br />

“raziomorfica”»: sia per il pensiero che per la percezione, sostiene Kanizsa (Vedere e pensare.<br />

Seeing and Thinking, “Ricerche di <strong>Psicologia</strong>”, vii, 4, 1985, p. 16), «si tratterebbe di procedure<br />

raziomorfe, analoghe a quelle che in forma pura si riscontrano nel pensiero discorsivo<br />

e scientifico. Pertanto le regole del ragionare dominerebbero il percepire in tutte le sue fasi».<br />

È singolare questa accusa di rendere raziomorfa la percezione, dato che per Arnheim – che<br />

guarda al pensare dalla percezione, e non al percepire dal pensiero – si tratta proprio di<br />

liberare il pensare dal pensiero discorsivo e scientifico. Ma la lettura di Kanizsa ha avuto<br />

successo ed è servita a M. Ferraris (Logocentrismo: 3 o 4 taglie, in L. Pizzo Russo, a cura di,<br />

Rudolf Arnheim. Arte e percezione visiva, Aesthetica Preprint, Supplementa, 14, 2005, pp.<br />

88-89) per assimilare Arnheim a Gombrich, e cucirgli addosso la maglia large ed extra-large<br />

del logocentrismo. Il che mi pare indicativo di come e quanto il modo di pensare al pensiero<br />

possa determinare la lettura di un autore, critico della prima ora del logocentrismo, e persino<br />

caustico nei confronti di Gombrich: R. Arnheim (1962), Il mito dell’agnello che belava; e La<br />

storia dell’arte e il dio partigiano, in Id., Verso una psicologia dell’arte, cit., rispettivamente,<br />

pp. 169-186, e pp. 187-200.<br />

21<br />

Ciò che oggi emerge in maniera incontrovertibile (la cosa comunque era gia evidente<br />

nelle ricerche di Köhler sugli scimpanzé e le galline, e portava Arnheim nel 1947 – cit. – a<br />

revisionare i tradizionali concetti di “concetto” e di “astrazione”) è che non c’è un vedere e<br />

poi un comprendere, ragione per cui si può, ad esempio, perdere la capacità di percepire i<br />

colori, ferma restando la possibilità di pensarli; al contrario, perdere la capacità di percepire<br />

i colori comporta l’impossibilità di pensarli, di immaginarli, ecc.<br />

108


22<br />

R. L. Gregory, Le illusioni ottiche, in Illusione e realtà. Problemi della percezione visiva,<br />

“Letture da Le Scienze”, 1978, p. 56.<br />

23<br />

J. L. Austin (1962), Senso e sensibilia, Lerici, Roma, 1968, p. 34.<br />

24<br />

La Repubblica, x, 602 c -603 b, in Opere, 2, Laterza, Bari 1966.<br />

25<br />

J. Piaget (1967 2 ), Lo sviluppo <strong>delle</strong> percezioni in funzione <strong>delle</strong> età, in P. Fraisse e J.<br />

Piaget (a cura di), Trattato di psicologia sperimentale. vi: La percezione, Einaudi, Torino,<br />

1975, pp. 7-8.<br />

26<br />

Id. (1961), I meccanismi percettivi, Giunti-Barbera, Firenze, 1975, p. 26.<br />

27<br />

S. Coren, La percezione <strong>delle</strong> illusioni visive, in F. Purghé, N. Stucchi, A. Olivero (a<br />

cura di), La percezione visiva, utet, Torino, 1999, p. 369. Sulla natura costruttiva o interpretativa<br />

della percezione visiva, cfr. anche S. E. Palmer, Vision Science. Photons to Phenomelology,<br />

The mit Press, Cambridge- London, 2002 3 .<br />

28<br />

M. Cesa-Bianchi, Senzazione e percezione, in S. Sirigatti, Manuale di psicologia generale,<br />

utet, Torino, 1996, p. 268.<br />

29<br />

O. da Pos e E. Zambianchi, Illusioni ed effetti visivi. Una raccolta, Guerini, Milano,<br />

1996, p. 13.<br />

30<br />

P. Bozzi, Fisica ingenua. Oscillazione, piani inclinati e altre storie: studi di psicologia<br />

della percezione, Garzanti, Milano, 1990, pp. 112-115.<br />

31<br />

E adesso hanno invaso anche il Web. Sarebbe utile fare una ricerca non in generale ma<br />

su quello che i docenti universitari mettono in rete. Solo per fare un esempio, la Müller-Lyer<br />

serve a dimostrare che «Il categoriale intride ogni nostra visione. Il fenomenologo ha un bel<br />

dire che i dati fenomenologici siano oggettivi. Ma la visione diversa che abbiamo dei due<br />

segmenti dipende proprio da ipotesi-categoriali», Epistemologia, ontologia, etica. Le strade<br />

impervie del… realismo, www.uniurb.it/soc/F/realismo.ppt.<br />

32<br />

P. Bozzi, Fisica ingenua, cit., pp. 112-115.<br />

33<br />

M. Massironi, Comunicare per immagini. Introduzione alla geometria <strong>delle</strong> apparenze,<br />

Il Mulino, Bologna, 1989, p. 37.<br />

34<br />

R. Arnheim (1952), Ordine del giorno per la psicologia dell’arte, in Id. (1966), Verso una<br />

psicologia dell’arte. Espressione visiva, simboli e interpretazione, Einaudi, Torino, 1969, p. 30.<br />

«Nessun prodotto dell’attività spirituale umana si è mai dimostrato più dell’arte restio ai procedimenti<br />

dell’indirizzo atomistico della scienza, che per ragioni ad esso implicite, descriveva<br />

le entità organiche e inorganiche sommando le descrizioni <strong>delle</strong> loro parti», Id., La psicologia<br />

della forma e l’arte, in Enciclopedia Universale dell’arte, xi, Sansoni, Firenze, 1972 2 , p. 195.<br />

35<br />

R. L. Gregory (1986), Curiose percezioni, Il Mulino, Bologna, 1989, pp. 100-101.<br />

36<br />

Relativamente alla scuola gestaltistica di Trieste cfr. M. Antonelli, Percezione e coscienza<br />

nell’opera di Vittorio Benussi, Franco Angeli, Milano, 1996; e P. Bozzi, Note sulla mia<br />

formazione, le mie esperienze scientifiche, le mie attuali posizioni, 2003, www.enabling.org/<br />

ia/gestalt/bozzi03.html.<br />

37<br />

W. Gerbino, Percezione, in Legrenzi P. (a cura di), Manuale di psicologia generale, Il<br />

Mulino, Bologna, 1997 2 , p. 115.<br />

38<br />

G. Kanizsa, Grammatica del vedere, cit., soprattutto pp. 83-115. Come evidenzia P.<br />

Bozzi nella Presentazione, la distinzione tra processo primario (vedere) e processo secondario<br />

(pensare) «è il filo rosso che lega» tutti i capitoli, ivi, p. 21.<br />

39<br />

F. Purghé, La visione di stimoli bidimensionali, in F. Purghé, N. Stucchi, A. Olivero<br />

(a cura di), cit., pp. 351-362.<br />

40<br />

S. Coren, La percezione <strong>delle</strong> illusioni visive, cit. p. 371.<br />

41<br />

«L’interpretazione più elegante – in accordo con il principio dell’armonia di forma<br />

individuato dalla Gestalt – è ammettere come ipotesi che la figura contenga al centro un<br />

triangolo bianco, posato sopra una cornice triangolare e tre dischi di colore nero. Se si esclude<br />

la configurazione con il triangolo bianco, resta possibile solo un’altra interpretazione, molto<br />

meno elegante: tre dischi neri, ciascuno mancante di un settore, e tre angoli di cornice nera,<br />

scollegati tra di loro. Secondo quest’ipotesi, l’origine del contorno illusorio sarebbe la seguente:<br />

il nostro sistema percettivo decide che deve essere presente un triangolo bianco (dato che<br />

questa configurazione integra tutti gli elementi, conferendo il massimo di significato all’intera<br />

figura), e perciò lo crea influenzando, lungo la direttrice dall’alto-in basso, i processi per la<br />

rilevazione dei contorni, in modo tale che questi producono l’illusione che esiste un margine<br />

laddove in realtà non c’è», P. Gray (1994 2 ) <strong>Psicologia</strong>, Zanichelli, Bologna, 1997, p. 358. A<br />

parte tutto il resto, il “principio dell’armonia di forma” attribuito alla Gestalt è una libera<br />

interpretazione di Gray.<br />

42<br />

Per la discussione sui termini cfr. G. Kanizsa, (Margini quasi-percettivi in campi con<br />

109


stimolazione omogenea, “Rivista di psicologia”, 1955, 49, pp. 7-30; Id., Grammatica del vedere,<br />

cit., pp. 273-308) e R. L. Gregory (Cognitive contours, “Nature”, 1972, 238, pp. 51-52).<br />

43<br />

E. H. Gombrich (1966 2 ), La storia dell’arte raccontata da E. H. Gombrich, Einaudi,<br />

Torino, 1979 5 , p. 291.<br />

44<br />

Cfr. H. C. Hughes (1999), Sensory Exotica. Delfini, api, pipistrelli e i loro sistemi sensoriali,<br />

McGraw-Hill, 2001; G. Vallortigara, La visione negli animali, in F. Purghé, N. Stucchi,<br />

A. Olivero (a cura di), cit., pp. 220-223; Id., Cervello di gallina. Visite (guidate) tra etologia<br />

e neuroscienze, Boringhieri, 2005, pp. 26-32; G. Vallortigara e V. A. Sovrano, Lo studio comparato<br />

<strong>delle</strong> menti, in A. M. Borghi e T. Inchini (a cura), Scienze della mente, Il Mulino,<br />

Bologna, 2002, pp. 65-82.<br />

45<br />

Cfr. A. Varzi, Ontologia, swif Readings/Contemporanea, 2005, issn 1126-4780, http://<br />

www.swif.uniba.it/lei/pdf/biblioteca/readings/ontologia_SWIF.pdf.<br />

46<br />

P. Odifreddi, C’era una volta un paradosso. Storie di illusioni e verità rovesciate, Einaudi,<br />

Torino 2001. Il libro, i cui primi due capitoli – “Immacolate percezioni” e “L’arte<br />

dell’illusione” – sono dedicati alle illusioni dei sensi, ha vinto ben quattro premi. A seguire<br />

la rassegna stampa e a guardare i numerosi siti internet che se ne sono occupati si constata<br />

che l’attenzione è concentrata soprattutto sull’inganno dei sensi e sull’“inesistente” triangolo.<br />

Relativamente a quest’ultimo, cfr. l’intervista a P. Odifreddi di M. Palmieri, Piergiorgio<br />

Odifreddi: una figura di logico-matematico e di divulgatore scientifico che lascia il segno nella<br />

cultura, www.comunicarecome.it.<br />

47<br />

F. Ticini (La mente sedotta dall’arte. Un’esplorazione <strong>delle</strong> basi percettive della bellezza<br />

e della creatività, Conferenza tenuta a Bergamo, il 25-11-2005, www.adnexus.it/index.<br />

php?option=com_content&task=view&id=85&Itemid=2): «Ho dimostrato, partendo dal<br />

triangolo di Kanizsa per arrivare alla Pietà Rondanini di Michelangelo, come “vedere sia già<br />

un’operazione creatrice”»,<br />

48<br />

M. Ferraris, Il mondo esterno, Bompiani, Milano, 2001, quarta di copertina.<br />

49<br />

M. Ferraris, La percezione: “l’occhio ragiona a modo suo”, Rai Educational, Il Grillo,<br />

19-10-1999, www.filosofia.rai.it. Cfr. anche Id., Il mondo esterno, cit., p. 192.<br />

50<br />

Per un “fanatico dell’interpretazione”, come Magritte (Lettera a Chavée, cit., p. 515)<br />

chiamerebbe il direttore creativo di NOTGallery, «Un opera d’arte è un po’ come questa<br />

immagine, si presta a tante forme di interpretazione (o se si vuole di “lettura”), e, finisce per<br />

non rappresentare nulla se non viene interpretata, oppure, interpretata, può rappresentare<br />

tante cose insieme. Si ponga il caso, adesso, che una mutazione genetica, o un intervento genetico<br />

dell’uomo, crei un animale che sia mezzo coniglio e mezzo papero; ecco che il disegno<br />

potrebbe rappresentare questo nuovo animale. Allo stesso modo, mutate le condizioni di una<br />

società, un’opera d’arte del passato potrebbe rappresentare i nuovi elementi di questa, soltanto<br />

perché interpretata alla luce dei nuovi elementi. Da questo esempio si potrà comprendere che:<br />

a) un opera d’arte per essere tale deve prestarsi necessariamente a continue interpretazioni, b)<br />

ogni nuovo giudizio critico ci dice qualcosa di nuovo sull’opera d’arte, ma ci dice molto anche<br />

sulla società che opera tale giudizio», M. Izzolino, La produzione di “opere d’arte” e il giudizio<br />

critico che le riconosce tali, “NOTpaper”, n. 0, p. 8, www.notgallery.com/notpaper/index.php.<br />

51<br />

J. F. Kihlstrom, Joseph Jastrow and His Duck – Or Is It a Rabbit?, http://ist-socrates.<br />

berkeley.edu/~kihlstrm/JastrowDuck.htm.<br />

52<br />

Ibidem.<br />

53<br />

G. Garroni, Elogio dell’imprecisione. Percezione e rappresentazione, Bollati Boringhieri,<br />

Torino, 2005, p. 31.<br />

54<br />

M. Ferraris, Logocentrismo: 3 o 4 taglie, cit., pp. 87 e 86. La stessa argomentazione la<br />

si trova anche in P. Bozzi (L’occhio ragiona a modo suo, “Il Sole 24 Ore”, 7 luglio 2002), per<br />

il quale «il papero che diventa coniglio caro a Wittgenstein e ai suoi commentatori realizza<br />

in modo esemplare l’antinomia» tra vedere e pensare.<br />

55<br />

M. Ferraris, Necessità materiale «Isonomia. Rivista di Filosofia», p. 25, www.uniurb.it/<br />

Filosofia/isonomia/FERRARIS.PDF.<br />

56<br />

«Posso vedere un papero con il becco rivolto a sinistra, oppure un coniglio con il muso<br />

rivolto a destra. E posso così, se lo desidero, formarmi il concetto di “conigliopapero”, un<br />

animale che è sia un coniglio sia un papero. Bene. A questo punto, visto che sono dotato<br />

di quel concetto, dovrei essere in grado di vedere un conigliopapero. Facciamo l’esperimento.<br />

Ci si riesce? Disgraziatamente, no». «La morale è presto tratta. La consapevolezza<br />

concettuale non riesce a determinare sino in fondo il dato percettivo, come per l’appunto<br />

dovrebbe essere se davvero le intuizioni senza concetto fossero cieche», Id., Logocentrismo:<br />

3 o 4 taglie, cit., pp. 86-87.<br />

110


57<br />

E. H. Gombrich (1962 2 ), Arte e illusione, cit., p. 5. Cfr. anche Id. (1982), L’immagine<br />

e l’occhio. Altri studi sulla psicologia della rappresentazione, Einaudi, Torino, 1985, pp. 31-32,<br />

dove la figura – «la ormai famigerata immagine» – continua a rimanere «il modo migliore di<br />

illustrare i meccanismi» che entrano in gioco nella percezione.<br />

58<br />

Id., Arte e illusione, cit., p. 284.<br />

59<br />

Ibidem.<br />

60<br />

Ibidem.<br />

61<br />

Ivi, pp. 5 e 283.<br />

62<br />

Ivi, p. 284.<br />

63<br />

L’ipotesi della costanza, da non confondere con le costanze percettive, presuppone una<br />

corrispondenza biunivoca tra stimolo prossimale (immagine retinica) e percetto, e si basa,<br />

e a sua volta è basata, sull’ipotesi interpretativa, ovvero sulla convinzione che percepire è<br />

interpretare. Confutata da Köhler nel 1913, che per primo ha evidenziato il circolo vizioso<br />

tra ipotesi della costanza e ipotesi interpretativa, non è stata abbandonata. «Al contrario,<br />

[oggi come allora] tutte le applicazioni della teoria interpretativa la contengono sotto varie<br />

forme», K. Koffka (1935), Principi di psicologia della forma, Boringhieri, Torino, 1970, p. 99.<br />

64<br />

E. H. Gombrich, Arte e illusione, cit., p. 6<br />

65<br />

L. Wittgenstein (1953), Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1967, i § 309.<br />

66<br />

R. Arnheim (Arte e percezione visiva, cit., p. 92), limitatamente alla figura anatraconiglio:<br />

«Wittgenstein osservatore acuto, comprese che non si tratta di due interpretazioni<br />

diverse applicate a un solo percetto, ma di due percetti distinti»; e P. Bozzi (Vedere come.<br />

Commenti ai §§ 1-29 <strong>delle</strong> Osservazioni sulla filosofia della psicologia di Wittgenstein, Guerini,<br />

Milano, 1998), che però, seguendo la posizione di Kanizsa su “vedere e pensare”, trascura<br />

il vedere-pensare che per Wittgenstein caratterizza il “vedere come”. Arnheim e Bozzi sono<br />

due psicologi, e la cosa potrebbe ingenerare la convinzione che in psicologia, relativamente<br />

alle figure bistabili, non si ricorra all’interpretazione. In realtà è vero il contrario: le figure<br />

bistabili sono «potent demonstration of the interpretative natura of vision», S. E. Palmer,<br />

Vision Science, cit., p. 9.<br />

67<br />

L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., ii, p. 256. Nel testo tedesco, su cui è stata<br />

condotta la traduzione italiana, i termini sono “Hasen” (e non “Kaninchen”) ed “Enten”,<br />

mentre nella versione inglese sono “duck” e “rabbit” come in Jastrow.<br />

68<br />

Ivi, p. 258.<br />

69<br />

Ivi, p. 268.<br />

70<br />

Id. (1982), Ultimi scritti 1945-1951. La filosofia della psicologia, Laterza, Roma-Bari,<br />

1998, i, § 542: «Ci si deve guardare dal pensare in questo caso in base a categorie importate<br />

dalla psicologia; diciamo dello scomporre l’esperienza in un vedere e in un pensare; o<br />

qualcosa del genere».<br />

71<br />

«È proprio vero che ogni volta vedo qualcosa di diverso, o invece non faccio altro che<br />

interpretare in maniera differente quello che vedo? Sono propenso a dire la prima cosa. Ma<br />

perché? – Interpretare è pensare, far qualcosa; vedere è uno stato», Id., Ricerche filosofiche,<br />

cit., ii, p. 279.<br />

72<br />

Ivi, p. 284.<br />

73<br />

Id., (1980), Osservazioni sulla filosofia della psicologia, Adelphi, Milano, 1990, ii, § 545.<br />

74<br />

«Vedere come. Cerchiamo prima di tutto di riconoscere i casi in cui non abbiamo a che<br />

fare con un vedere vero e proprio, bensì con una estensione analogica che porta a sovrapporre<br />

al vedere funzioni proprie al pensare. Qui i casi sono altrettante varianti del “vedere come”<br />

teorizzato da Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche, in cui le interpretazioni aggiungono senso<br />

a una figura, ma non la arricchiscono oggettivamente. Tuttavia, la differenza ontologica tra<br />

“aggiungere senso” e “arricchire” viene spesso dimenticata, così come si dimentica che, se il<br />

discorso di Wittgenstein ha un senso, allora il vedere come non è un vedere, ma solo qualcosa<br />

che assomiglia al vedere», M. Ferraris, Il mondo esterno, cit., p. 189.<br />

75<br />

L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., ii, p. 280.<br />

76<br />

N. R. Hanson (1958), I modelli della scoperta scientifica, Feltrinelli, Milano, 1978; T. S.<br />

Kuhn (1970 2 ), La struttura <strong>delle</strong> rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1978 2 .<br />

77<br />

Come sostiene M. Ferraris (Logocentrismo: 3 o 4 taglie, cit., p. 83) se «il pensiero<br />

interferisce nella visione […], allora cadiamo nel logocentrismo».<br />

78<br />

L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., ii, p. 279.<br />

79<br />

Ivi, p. 264. Si noti il corsivo di “interpretazione”.<br />

80<br />

Id., Osservazioni sulla filosofia della psicologia, cit., i, § 33.<br />

81<br />

Id., Ricerche filosofiche, cit., ii, p. 278.<br />

111


82<br />

Ivi, i, § 97. «”Il linguaggio (o il pensiero) è qualcosa di unico nel suo genere” – questa<br />

credenza si rivela una superstizione (non un errore!) originata, essa stessa, da illusioni<br />

grammaticali», ivi, § 110.<br />

83<br />

Id., Osservazioni sulla filosofia della psicologia, cit., ii, § 218.<br />

84<br />

È « il problema di quali sono i confini reali di una serie di istruzioni relative a un<br />

certo corso di azioni […] Il robot è incapace di delimitare lo spazio del problema. Dovremmo<br />

porgli noi, all’interno del programma che lo fa agire, il frame. Ma è molto facile che,<br />

posto un frame, si scopra che un altro frame, per noi ovvio, per lui rappresenti un problema<br />

insolubile. Di contro, noi siamo assolutamente capaci di delimitare lo spazio dei problemi<br />

che affrontiamo. E ne siamo tanto capaci che addirittura alcuni di noi non riescono neppure<br />

a capire che porre il frame è non solo un problema, ma anche un enorme problema», L.<br />

Luccio, <strong>Psicologia</strong> generale. Le frontiere della ricerca, Laterza, Roma- Bari, 1998, p. 92. Non<br />

manca chi ritiene che il dilemma del robot sia insolubile: «La sua insolubilità è strettamente<br />

connessa all’impossibilità di formalizzare la nostra conoscenza istintiva, ovvia, della metafisica<br />

del mondo quotidiano», M. Piattelli Palmarini, Illusioni cognitive e razionalità umana, in<br />

Aa. Vv., Neuroscienze e scienze cognitive, Cuen, Napoli, 1994, pp. 32-33. Né sono mancati<br />

i tentativi di soluzione che, dagli anni ’80 del Novecento, hanno portato da una parte a<br />

sviluppare logiche non monotòne (cfr. A. Antonelli, La logica del ragionamento plausibile,<br />

in L. Floridi (a cura di), Linee di ricerca, swif, 2004. pp. 226-252. Sito web Italiano per la<br />

Filosofia – issn 1126-4780 – www.swif. it/biblioteca/lr) e dall’altra a costruire animat (animali<br />

artificiali) o mobot (mobile robot), cioè esemplari della nuova robotica o robotica situata (cfr.<br />

A. Clark, 1997, Dare corpo alla mente, McGraw-Hill, Milano, 1999). Di fatto il problema<br />

continua a essere irrisolto e oggi contribuisce a definire il piano problematico di una nuova<br />

area di ricerca: la Filosofia dell’informazione (cfr. L. Floridi, La Filosofia dell’informazione e<br />

i suoi problemi, “Iride”, xviii, n. 45, 2005, pp. 291-312).<br />

85<br />

«Vedere un’antilope e vedere un’oggetto come un’antilope hanno però molto in comune.<br />

Una parte del concetto di vedere può essere ricavata ricostruendo gli usi del “vedere<br />

come”. Wittgenstein è riluttante a concederlo, ma le sue ragioni non mi riescono chiare. Al<br />

contrario, la logica del “vedere come” pare che illumini il caso generale della percezione»,<br />

N. R. Hanson, I modelli della scoperta scientifica, cit., p. 31.<br />

86<br />

Per Kuhn (La struttura <strong>delle</strong> rivoluzioni scientifiche, cit. pp. 141-142) «la percezione<br />

stessa richiede qualcosa di simile a un paradigma». Senza esperienza passata e senza “concetti”<br />

«non vi può essere – per usare una frase di William James – che “una assordante<br />

confusione da far girare la testa”». E nonostante W. Köhler (La psicologia della Gestalt, cit.,<br />

p. 107), non abbia mancato di precisare che «dal punto di vista della psicologia della Gestalt,<br />

una simile affermazione non corrisponde ai fatti», Kuhn prosegue che «N. R. Hanson,<br />

in particolare, ha fatto uso <strong>delle</strong> dimostrazioni gestaltiche per elaborare alcune concezioni<br />

relative al pensiero scientifico che risultano simili a quelle alle quali sono giunto io qui».<br />

87<br />

Prevale, tuttavia, l’opinione che accomuna Wittgenstein e New philosophy of science. A.<br />

Danto (1992, Aprés la fin de l’art, Seuil, Paris, 1996, p. 35), per esempio, criticando la tesi,<br />

da tempo data per scontata, che una cosa come l’occhio innocente non esista, precisa: «Cette<br />

mode découle en partie d’une certaine vision de la philosophie des sciences – qui, a son<br />

tour, nous vient de Wittgenstein – selon la quelle toute observation est “chargée de teorie”».<br />

88<br />

«Ci sono tipi assai diversi di “aspetti”. Uno di essi lo si potrebbe chiamare “aspetti<br />

dell’organizzazione”», L. Wittgenstein, Ultimi scritti, cit., i, § 530.<br />

89<br />

N. R. Hanson, I modelli della scoperta scientifica, cit., p. 24.<br />

90<br />

Ivi, p. 30. E continua: «Gli elementi <strong>delle</strong> loro esperienze sono identici, ma la loro<br />

organizzazione concettuale è enormemente diversa. I loro campi visivi possono avere un’organizzazione<br />

diversa? In tal caso essi possono vedere cose diverse osservando insieme il<br />

sorgere del Sole». Perciò Tycho vedrà un Sole mobile e Keplero un Sole statico (ivi, p. 29).<br />

91<br />

«Si tratta di un sapere o di un vedere? – Come sarebbe se si trattasse meramente di<br />

un sapere? In quali casi direi che si tratta meramente di un sapere? Quando leggo una copia<br />

cianografica, ad esempio»; «In quale caso allora lo chiamerei un mero sapere e non un vedere?<br />

– Ad esempio, se uno trattasse l’immagine come un disegno di costruzione. Se ricavasse<br />

ciò che questa rappresenta leggendolo in essa. (Sottili sfumature del comportamento.)», L.<br />

Wittgenstein, Ultimi scritti, cit., i, §§ 648 e 657.<br />

92<br />

N. R. Hanson, I modelli della scoperta scientifica, cit., p. 16.<br />

93<br />

W. Köhler, La psicologia della Gestalt, cit., p. 108. «L’organizzazione sensoriale risulta<br />

un fatto primario che deriva dalla dinamica elementare del sistema nervoso. Finché si considera<br />

l’organizzazione un’attività intellettuale, naturalmente non possiamo darci ragione della<br />

112


parte che essa svolge in biologia, in particolare nell’ontogenesi», ivi, p. 155. Ma se si rimane<br />

fermi alla teoria tradizionale è difficile comprendere questo punto che è fondamentale nella<br />

psicologia della Gestalt. Così «James non ammetteva che questa organizzazione del campo<br />

fosse un fatto sensoriale, perché era sotto l’influenza del pregiudizio empirico», ivi, p. 108.<br />

Persino Ehrenfels «non riconobbe il significato molto più generale dell’organizzazione, né<br />

il fatto che per la massima parte sono i prodotti dell’organizzazione a mostrare i migliori<br />

esempi di Gestaltqualitäten come loro attributi». «Per lui, le nuove qualità rappresentavano<br />

esperienze che vengono ad aggiungersi a “le sensazioni”, solo dopo che queste prime si sono<br />

stabilite. Nella scuola di Graz (von Meinong, Witasek, Benussi) a quel tempo si insisteva<br />

molto sui fundierte Inhalte <strong>delle</strong> sensazioni, un concetto che implicava non solo la priorità<br />

<strong>delle</strong> sensazioni sulle caratteristiche di Ehrenfels, ma anche una produzione di queste ultime<br />

da parte di processi intellettuali», ivi, pp. 138 e 137.<br />

94<br />

«L’atto di vedere è, vorrei quasi dire, un amalgama fra i due piani: immagini e linguaggio.<br />

Il concetto di vedere abbraccia, quanto meno, i concetti di sensazione visiva e di<br />

conoscenza. […] Nel vedere c’è un fattore “linguistico”, anche se non c’è niente di linguistico<br />

nel meccanismo di formazione <strong>delle</strong> immagini nell’occhio, o nell’occhio della mente. Se non<br />

ci fosse questo elemento linguistico, niente di ciò che osserviamo potrebbe avere rilevanza<br />

per la nostra conoscenza. Non potremmo parlare di osservazioni significative: nulla di ciò<br />

che vediamo avrebbe un senso […]. Oggetti, fatti, immagini non sono intrinsecamente significanti<br />

o rilevanti. Se la visione fosse soltanto un processo ottico-chimico, nulla di ciò che<br />

vediamo sarebbe mai rilevante per ciò che sappiamo e nulla di ciò che sappiamo potrebbe<br />

avere significato per ciò che vediamo. La vita visiva sarebbe inintelligibile; la vita intellettuale<br />

sarebbe priva di un aspetto visivo. L’uomo sarebbe un computer cieco accoppiato a una lastra<br />

fotosensibile priva di cervello», N. R. Hanson, I modelli della scoperta scientifica, cit., pp. 38-<br />

39. In nota Hanson riporta la posizione del Kant della prima Critica sulla cecità della sola<br />

intuizione e la vuotezza del solo intelletto. Ma per Kant il dato carico di teoria è valido per<br />

la fisica, non in generale. Hanson, viceversa, mette insieme percezione comune e percezione<br />

scientifica, percettore e percettore esperto in scienza.<br />

95<br />

«Non poteva darsi, tuttavia, che io avessi un concetto puramente visivo di un atteggiamento<br />

esitante, o di un volto timido? Un concetto del genere si potrebbe forse paragonare<br />

ai concetti di tono ‘maggiore’ e ‘minore’, che hanno sí un valore emotivo, ma che possono<br />

anche essere usati unicamente per descrivere la struttura che si è percepita», L. Wittgenstein,<br />

Ricerche filosofiche, cit., ii, pp. 274-275.<br />

96<br />

Di “pensiero naturale” parla W. Metzger (1963 3 , I fondamenti della psicologia della<br />

Gestalt, Giunti-Barbèra, Firenze, 1971, p. 286) che, discutendo casi del vedere in cui l’organizzazione<br />

può cambiare, casi quindi strutturalmente simili a quelli del “vedere come”,<br />

ritiene vano chiedersi se «si tratta di percezione pura o di pensiero naturale. Effettivamente<br />

non esistono confini in questo campo». Metzger, lamentando che non esistono trattazioni<br />

esaurienti in proposito, cita a sostegno alcuni lavori di Wertheimer, Köhler e Duncker, e non<br />

cita Arnheim che andrebbe citato perché è il gestaltista che, facendo tesoro di spunti presenti<br />

in Wertheimer e Köhler, ha sviluppato proprio questo aspetto. I “gestaltisti” della scuola di<br />

Trieste, viceversa, teorizzano una “percezione pura” e, relativamente al pensiero, rimangono<br />

fermi alla tradizione concezione logocentrica che fa a pugni – basti pensare agli scimpanzè<br />

di Köhler o al pensiero “cieco” di Wertheimer (1959 2 , Il pensiero produttivo, Giunti-Barbera,<br />

Firenze, 1965) – con i principi della Gestalt.<br />

97<br />

Il «mosaico arbitrario di sensazioni è […] un postulato formulato solo in base alla<br />

necessità di una particolare concezione teoretica», W. Köhler (1922), Proposte per una teoria<br />

generale della Gestalt, in Id., Principi dinamici in psicologia ed altri scritti, Giunti-Barbera,<br />

Firenze, 1966, p. 158.<br />

98<br />

Rispettivamente: W. Köhler, La psicologia della Gestalt, cit., p. 185; Id. (1917), L’intelligenza<br />

<strong>delle</strong> scimmie antropoidi, Editrice Universitaria, Firenze, 1960, p. 134; Id., La psicologia<br />

della Gestalt, cit., p. 143. Quanto alla “fisica dell’uomo comune”, argomento impostosi<br />

all’attenzione della comunità scientifica dalla metà degli anni settanta del secolo scorso fino<br />

ai nostri giorni, la si è chiamata “fisica aristotelica”. Come se Aristotele fosse rappresentativo<br />

dei soggetti sperimentali del xx secolo – paradigma ideale dell’uomo comune odierno – e non<br />

il sofisticato scienziato del iv secolo a.C. Ma il termine è indicativo della con-fusione dell’esperienza<br />

con la scienza, strutturale nella psicologia non gestaltista. Per Köhler, al contrario,<br />

la «fisica nativa» – di cui qualche componente «deve trovarsi nello scimpanzé a un livello di<br />

sviluppo molto basso», e che «da un punto di vista puramente biologico è più importante»<br />

della forma scientifica perché «determina a ogni istante tutto il nostro comportamento» – può,<br />

113


come precisa in nota, interferire «nel caso di persone che hanno una cultura speciale, con la<br />

fisica intesa in senso rigoroso», ibidem. Cfr. anche P. Bozzi, Fisica ingenua, cit.<br />

99<br />

L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., ii, p. 255.<br />

100<br />

Il riconoscimento che procura sorpresa, che stupisce, non il semplice riconoscimento.<br />

Un percepire senza riconoscere, che sarebbe un aprire gli occhi per sempre come la prima<br />

volta, se è all’opera nella “percezione pura”, per Wittgenstein non è neanche un gioco del<br />

semplice vedere. Del resto, «un animale o un essere umano potrebbe vedere <strong>delle</strong> cose ma<br />

non riconoscerle, e vedere senza riconoscimento sarebbe poco più della cecità», R. Arnheim<br />

(1989), Pensieri sull’educazione artistica, Aesthetica, Palermo, 1992, p. 64.<br />

101<br />

L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., ii, p. 279.<br />

102<br />

W. Köhler, La psicologia della Gestalt, cit., pp. 173-174.<br />

103<br />

Le qualità espressive, decisive per l’esperienza, non hanno nessuna fortuna nell’attuale<br />

teoria della percezione. Si veda, ad esempio, S. E. Palmer (Vision Science, cit., pp.<br />

409-413) che in un volume di grande successo e di più di 800 pagine, accenna brevemente<br />

alle affordances di Gibson – ritenute equivalenti alle qualità espressive della Gestalt – ma<br />

ne discute solo in relazione all’importanza della percezione della funzione degli oggetti, per<br />

evidenziare che a tale scopo è di gran lunga preferibile l’approccio indiretto o mediato, «approach<br />

advocated by almost all other perceptual theorists», ivi, p. 410. Quanto ai Manuali,<br />

le qualità espressive sono assenti persino quando il capitolo “Percezione” è di uno studioso<br />

di formazione gestaltista (cfr. P. Legrenzi, a cura di, Manuale di psicologia generale, Il Mulino,<br />

Bologna, 1997 2 ). Non ci si può stupire, pertanto, se in psicologia la capacità di cogliere la<br />

similarità strutturale tra le due figure e le due parole di Köhler venga ritenuta «piuttosto<br />

misteriosa», L. Mecacci (a cura di), Manuale di psicologia generale, Firenze-Milano, 2001, p.<br />

195. Nondimeno, limitarsi alle qualità primarie e secondarie significa considerare la percezione<br />

«segregata dall’organismo, di cui è parte. Nel suo giusto contesto biologico, la percezione<br />

appare il mezzo tramite cui l’organismo ottiene informazioni circa le forze amichevoli, ostili,<br />

o diversamente significative cui deve reagire. Tali forze si rivelano nel modo più diretto attraverso<br />

quanto viene qui descritto come espressione», R. Arnheim (1949), La teoria gestaltica<br />

dell’espressione, in Id. Verso una psicologia dell’arte, cit., p. 80, traduzione modificata.<br />

104<br />

«Si era ipotizzato che la percezione dovesse principiare con la registrazione di casi<br />

individuali le cui proprietà comuni potessero riuscire consapevoli soltanto ad individui capaci<br />

di formulare dei concetti intellettualmente. Cosí la simiglianza di triangoli diversi per<br />

dimensione, orientamento e colore, si considerava passibile di riconoscimento solo da parte<br />

di osservatori il cui cervello fosse abbastanza maturo da aver enucleato il concetto generale<br />

di “triangolarità” fuori dalla immensa varietà di osservazioni individuali. Di conseguenza il<br />

fatto che bambini molto piccoli e animali, non allenati a un genere di pensiero logico astratto,<br />

potessero eseguire tali compiti senza difficoltà, destò sorpresa e lasciò sconcertati» (R. Arnheim,<br />

Arte e percezione visiva, cit., pp. 57-58). Ma la cosa non fece scalpore, né tanto meno<br />

convinse, e, mutato il clima culturale, la si è riscoperta negli ultimi decenni. Oggi si è pure<br />

scoperto (cfr. G. Vallortigara, Cervello di gallina, cit., pp. 33-44) che le galline, diventate ospiti<br />

importanti dei laboratori di ricerca sulla mente, percepiscono persino gli “indizi pittorici”.<br />

Che sia un effetto del femminismo? Quale che sia la ragione, “stupida come una gallina” è<br />

ormai scientificamente out, e, a considerare la reazione della stampa alla novità della “gallina<br />

pensante”, “geniale come una gallina” rischia di sostituire l’epiteto tradizionale.<br />

105<br />

R. Arnheim, Arte e percezione visiva, cit., p. 92.<br />

106<br />

Ivi, pp. 59-60.<br />

107<br />

Ivi, p. 92.<br />

108<br />

L. Wittgenstein, Osservazioni sulla filosofia della psicologia, cit., i, § 869: «È – contrariamente<br />

all’opinione di Köhler – proprio un significato quello che io vedo». Ora, qui come<br />

in altri luoghi, Köhler è oggetto di un vero e proprio fraintendimento. La frase incriminata<br />

è: «l’isolarsi di cose visive è indipendente dalla conoscenza e dal significato». Cerchiamo di<br />

capire come intenderla ricostruendone il contesto: «Davanti a me sulla scrivania trovo una<br />

quantità di unità circoscritte o cose: un foglio di carta, una matita, una gomma, una sigaretta,<br />

e via dicendo». Questo fatto non è dovuto alla conoscenza passata, né è «solo una questione<br />

di parole […]. Quando vedo un oggetto verde, posso subito dire il nome del colore. So anche<br />

che il verde si usa nella segnaletica stradale e che simboleggia la speranza. Ma da ciò non<br />

concludo che il colore verde in sé e per sé derivi da un tale sapere. […] La psicologia della<br />

Gestalt dichiara che è appunto l’originario isolarsi di interi circoscritti ciò che rende possibile<br />

al mondo sensoriale di apparire così profondamente compenetrato di significati agli occhi<br />

dell’adulto; perché, nel suo graduale introdursi entro il campo sensoriale, il significato segue<br />

114


le linee tracciate dall’organizzazione naturale […]. Se la spiegazione empirica fosse corretta,<br />

nel campo si isolerebbero entità specifiche solo nella misura in cui queste rappresentassero<br />

oggetti noti. In realtà le cose non stanno affatto così. […] tutte le volte che domandiamo a<br />

noi stessi o ad altri: “Che cosa può essere quel coso ai piedi di quella collina, subito a destra<br />

dell’albero, fra le due case?” o simili, chiediamo il significato empirico, ovverosia l’uso di un<br />

oggetto già veduto e con la nostra stessa domanda dimostriamo che, in linea di principio, l’isolarsi<br />

di cose visive è indipendente dalla conoscenza e dal significato» (W. Köhler, La psicologia<br />

della Gestalt, cit., pp. 108-110, corsivo mio). Köhler, quindi, non nega che si veda proprio il<br />

significato; nega che l’organizzazione del campo sensoriale sia determinata dalla conoscenza<br />

passata, o che l’oggetto sia strutturato grazie al nome che ne abbiamo. Su Köhler mi piace<br />

ricordare un pensiero di P. Bozzi (Note sulla mia formazione, le mie esperienze scientifiche, le<br />

mie attuali posizioni, cit.): «La rilettura <strong>delle</strong> opere di Köhler andava rivelando un sottofondo<br />

teoretico originalissimo, tanto che io ancora oggi mi sento di sostenere che il suo vero pensiero<br />

deve essere ancora meditato e capito, e che appartiene al futuro della psicologia sperimentale,<br />

una volta che sia passata la sbornia cognitivistica e dell’Intelligenza <strong>Arti</strong>ficiale». Come pure il<br />

suo giudizio sulla scuola di Berlino: «Sono, in Italia, tra i pochissimi a credere che l’impianto<br />

teoretico dei gestaltisti classici appartiene più al futuro della psicologia della percezione (oggi<br />

detta Percettologia) che non al suo passato; e molte <strong>delle</strong> debolezze della percettologia d’oggi<br />

dipendono dal fatto di non aver nè capito nè letto i testi classici della Gestalttheorie».<br />

109<br />

«La ridefinizione della percezione comporta una ridefinizione dei cosiddetti processi<br />

mentali superiori. Nella vecchia psicologia mentalistica, questi stavano al di sopra dei processi<br />

inferiori, sensoriali e riflessi, che potevano essere interpretati nei termini della fisiologia dei<br />

recettori e dei nervi. Si supponeva vagamente che questi processi superiori fossero intellettivi,<br />

nella misura in cui l’intelletto veniva contrapposto ai sensi. Si verificavano nel cervello, ed<br />

erano operazioni della mente», J. J. Gibson, Un approccio ecologico alla percezione, cit., p.<br />

386. Cito da Gibson – ma avrei potuto citare da un gestaltista (vedi nota 96) – perché è<br />

invalsa l’opinione che la percezione dell’approccio ecologico sia come una “percezione pura”,<br />

quando invece «con l’esplorazione dell’ambiente da parte dell’osservatore, la percezione diventa<br />

sempre più ampia, fine, lunga, ricca e piena. La piena consapevolezza <strong>delle</strong> superfici<br />

comprende il loro layout, le loro sostanze, i loro eventi e le loro affordances. Si osservi che<br />

questa definizione include all’interno della percezione una parte della memoria, dell’aspettativa,<br />

della conoscenza e del significato; in ogni caso una parte di questi processi, non tutti»,<br />

ibidem. Del resto, Gibson non manca di notare che «gli psicologi della Gestalt si erano resi<br />

conto del fatto che il significato e il valore di una cosa sembrano essere percepiti con la stessa<br />

immediatezza del colore», ivi, 221. Per la ridefinizione sensi-intelletto cfr. R. Arnheim: (1969),<br />

Il pensiero visivo. La percezione visiva come attività conoscitiva, Feltrinelli, Milano, 1974; e<br />

(1985), La mente a doppio taglio: intuizione e intelletto, in Id. (1986), Intuizione e intelletto.<br />

Nuovi saggi di psicologia dell’arte, Feltrinelli, Milano, 1987.<br />

110<br />

È R. Arnheim ad avere sviluppato in modo coerente e produttivo una teoria gestaltista<br />

dell’immagine. Cfr. L. Pizzo Russo, Genesi dell’immagine, Palermo, 1997 [riedizione Milano,<br />

2015].<br />

111<br />

L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., ii, p. 269.<br />

115


Da Schiller ad Arnheim: educazione e arte *<br />

È uscito recentemente un libro dal titolo Synopsis, il cui sottotitolo<br />

è significativamente Introduzione all’educazione estetica. Come si legge<br />

nella quarta di copertina, «Il gusto è la nozione principale dell’estetica<br />

fin dal suo atto di nascita, e anche la nozione cardine di tutte le teorie<br />

e le pratiche educative che hanno l’estetica come punto di riferimento.<br />

La stessa espressione “educazione estetica” nasce però in un momento<br />

storico e in un contesto culturale assai differente da quello attuale, e<br />

cioè con Schiller e con la cultura europea del tardo Settecento. Che<br />

cosa significa riproporre oggi questa espressione nel momento storico<br />

nel quale le opere d’arte, che sono diventate nella modernità il punto<br />

di riferimento principale dell’estetica, sembrano perdere la loro centralità<br />

a contatto con il più vasto universo degli artefatti della produzione<br />

materiale e immateriale? Questo libro propone un nuovo panorama<br />

concettuale dove le nozioni dell’estetica moderna sono messe a confronto<br />

con le molteplici dimensioni del nostro quotidiano averci a che<br />

fare: il continuo contatto ravvicinato con il mondo dei media, della<br />

comunicazione generalizzata e della merce estetizzata, molto oltre il<br />

dominio rarefatto dell’opera d’arte tradizionale» 1 .<br />

Entrandoci dentro, è un libro ben fatto, ricco, colto, aggiornatissimo,<br />

rigoroso e fascinoso: «L’epoca sinottica è l’epoca contemporanea,<br />

quella nella quale tutte le cose accadono insieme, in uno spazio-tempo<br />

continuo e infinitamente denso. L’epoca nella quale perdiamo di vista<br />

anche la profondità temporale, abbagliati come siamo dalla presenza di<br />

ogni cosa davanti a nostri occhi». Synopsis, parola scelta come titolo,<br />

«è la sintesi linguistica di una situazione di fatto della cultura contemporanea<br />

e insieme un indirizzo interpretativo, uno stile di lettura o di<br />

osservazione dei fenomeni. La contemporaneità nella quale ci troviamo<br />

immersi è infatti per eccellenza una situazione spaziotemporale sinottica,<br />

luogo e tempo globali nei quali tutti i luoghi e i tempi della storia<br />

si presentificano e ri-cadono insieme sotto lo sguardo mediale, in cui<br />

* Relazione presentata nella Giornata di studio Rudolf Arnheim: una visione dell’arte<br />

promossa dall’Università di Roma Tre col patrocinio della Società Italiana d’Estetica<br />

(Roma, 13 maggio 2005) e pubblicata nell’omonimo volume curato da G. Bartoli e S.<br />

Mastandrea, Roma, Anicia, 2006, pp. 81-108.<br />

117


la linearità della storia cede il passo alla conquista contemporanea<br />

e istantanea di ogni spazio-tempo culturale precedente. […] L’essere<br />

syn- è un carattere fondamentale del nostro mondo, un mondo che è<br />

anche intriso di estetica: la estetizzazione della lebenswelt è forse una<br />

<strong>delle</strong> tesi più largamente condivise dalle scienze umane della nostra<br />

epoca. […] L’essere syn- – l’essere insieme, connesso e molteplice, a<br />

volte in modo non districabile – è anche un segno della complessità» 2 .<br />

Nonostante viviamo «nell’epoca dell’estetizzazione del mondo della<br />

vita» 3 – l’“estetico”, non come parte, ma come totalità – uscirò dalla<br />

fascinazione del syn-, perché questo aggirarsi nella rappresentazione e<br />

rimanervi invischiati, come se l’avvento dell’elettronica, erosa la differenza<br />

tra mondo e rappresentazione del mondo, avesse finalmente inverato<br />

il programma filosofico di Schopenauer, non è l’ambiente adatto<br />

a nascere e morire, né tanto meno a educare.<br />

Ora è un fatto che la nozione di “educazione estetica”, nata con<br />

Schiller alla fine del Settecento, ha come nucleo tematico la “Bellezza”;<br />

come pure che l’arte, quanto meno dagli inizi del Novecento, ha proceduto<br />

«per conto suo e per processi di natura autoriflessiva, a negare<br />

l’universale stesso della bellezza recuperando altre dimensioni di senso».<br />

Non è un fatto, però, dopo la s-definizione dell’arte e della costellazione<br />

di concetti a essa relativa, che si pensi «nuovamente l’educazione<br />

estetica come educazione del gusto» 4 . Per orientarsi nel magma del<br />

«territorio di artefatti che va dall’alta cultura al kitsch al trash e alla<br />

merce» ricorrere alla bellezza e al gusto è una scelta, non una necessità.<br />

Come pure congedarsi «dal legame storicamente istituito con l’arte<br />

come referente e punto di vista privilegiato dell’esperienza estetica»,<br />

diventa un imperativo se, e solo se, a partire dalla constatazione che<br />

«l’arte di ricerca attuale si è radicalmente spostata rispetto alla nozione<br />

di bellezza, verso ciò che alcuni chiamano disgusto, e in generale in<br />

direzioni concettuali e verso una complessiva perdita di forma», se ne<br />

concluda che «la bellezza riguarda oggi soprattutto il carattere finzionale,<br />

sentimentale e immaginario della merce» 5 .<br />

Quanto alla “complessiva perdita di forma” va precisato che «la<br />

forma artistica è inevitabile perché nessun oggetto o nessuna dichiarazione<br />

possono essere fatti senza di essa. Trascurata o disprezzata, la<br />

forma si manifesta con violenza, contraddicendo e accusando colui che<br />

l’ha fatta» 6 . Lasciando fermo il gusto e la bellezza, il primo senza il<br />

Giudizio e la seconda senza valori, come si fa in questa proposta, la<br />

cosa più ovvia sembra quella di ravvisare, e conseguentemente legittimare,<br />

il luogo della Bellezza nell’universo <strong>delle</strong> merci e dei media.<br />

Sicché in un mondo estetizzato, «educazione deve potere significare,<br />

anche oltre i paradigmi pedagogici della tradizione, imparare a guardare<br />

il mondo sub specie aestheticae», e educazione estetica non può<br />

non implicare «la capacità di entrare nel regno <strong>delle</strong> merci estetizzate,<br />

dei consumi culturali, <strong>delle</strong> narrazioni mediali – e di orientarvisi 7 . Se<br />

118


“orientarvisi” significa resistere sia agli “apocalittici” o “ipercritici”<br />

che predicano l’astensione, sia agli “integrati” o “apologeti” che predispongono<br />

all’accettazione, la strada individuata, di fatto, ci lascia dove<br />

siamo. Porta soltanto a ritenere, come fosse un prenderne atto, che<br />

l’antinomia che il gusto oggi presenta – «il gusto (del consumatore)<br />

è alienato, mercificato, coatto»; e «il gusto (del consumatore) è una<br />

prova di indipendenza e creatività» – non sia risolvibile come l’antinomia<br />

del gusto di Kant, ma vada accettata come autentica aporia 8 .<br />

L’eroe di questo mondo artificiale e mediale, il cui comportamento<br />

dal punto di vista dell’educazione estetica è ritenuto esemplare, è il<br />

trickster. Il “gioco” e “l’inganno” che caratterizzano il suo comportamento<br />

richiamano il gioco schilleriano e l’illusione dell’arte; sono<br />

tuttavia suggestioni svianti, non tanto per la radicale distanza che ci<br />

separerebbe dalla modernità, quanto piuttosto per la perdita del legame<br />

tra “apparenza” non illusiva e profondità di significato fondato<br />

sull’“impulso al gioco”. Sicché «il trickster è un giocatore consapevole e<br />

fraudolento che non rifiuta per principio le regole della società mediale<br />

e della mercificazione globale, ma come una sorta di judoka utilizza le<br />

potenze del linguaggio, della comunicazione e della merce come punto<br />

di partenza o leva per una rielaborazione riflessiva del significato,<br />

capovolgendone il verso consueto. Le pratiche del trickster sono una<br />

forma di comportamento estetico e di gusto basata sulla sovversione<br />

interna <strong>delle</strong> regole del gioco della merce. Il corrispondente ironico<br />

del gusto nell’epoca attuale». Insomma, il trickster sembra fare di necessità<br />

virtù, e così operando abbraccia entrambi i corni dell’aporia:<br />

«i lifestyle sono effettivamente i prodotti più demoniaci del marketing<br />

virale, il feticismo è profondamente funzionale ai processi più raffinati<br />

di valorizzazione della merce e i media producono una falsa sensazione<br />

di libertà e creatività»? Ebbene, sì. E perciò «si concederà ai lifestyle,<br />

sarà discretamente o sfacciatamente feticista e adorerà – come in effetti<br />

avviene – i media» 9 .<br />

È, chiaramente, un atteggiamento “sofisticato”: si concederà, sì, ai<br />

lifestyle, avrà tratti di feticismo, ma, «è consapevole che se ne può uscire<br />

solo con una prova di intelligenza». Per lui la Bellezza non sarà più,<br />

e sarà comunque: «la bellezza risiederà piuttosto nell’agire intelligente<br />

che si manifesta come gioco con le forme, basse e alte, che ci sono date.<br />

Forme di linguaggio, forme fisiche degli oggetti, forme narrative della<br />

comunicazione». “Basse e alte”? Non propriamente, perché, se sostiene<br />

che «non si viene educati al buon gusto rifiutando di guardare in<br />

basso», nonostante l’appiattimento praticato dai Cultural Studies, il suo<br />

«piacere riflessivo» punta in alto. Interrogandosi «sul senso controverso<br />

di quel che si vede e si prova, e anche sul potere di chi produce o ci fa<br />

vedere gli artefatti del piacere», continua a distinguere arte di ricerca e<br />

no, e sa, data la sua competenza “teoretico-pratica”, «fruire e pertanto<br />

“gustare” le pratiche artistiche contemporanee». Adorerà pure i media<br />

119


ma sa anche concentrarsi «su opere particolari e domandarsi perché<br />

sono arte e perché ciò potrebbe essere importante per noi». In sostanza<br />

il trickster sarebbe la «figura idealtipica di un fruitore educato» 10 .<br />

Ovviamente, organizzando in questo modo, Schiller e Arnheim non<br />

sembrano adeguati a rispondere a quelle che sono ritenute le urgenze e<br />

la fenomenologia del contemporaneo. Con un’aggravante per il secondo:<br />

mentre relativamente a Schiller – la cui posizione «è una configurazione<br />

canonica dell’umanesimo moderno» – si tratterebbe di allargare<br />

il gusto e di ricontestualizzare il bello per rispondere alle «nuove forme<br />

della percezione e del sentire»; la posizione di Arnheim, che metterebbe<br />

l’arte «al centro del modello educativo», non può che apparire “tradizionale”,<br />

e il suo umanesimo datato 1989 – Pensieri sull’educazione<br />

artistica – e non 1795 – Lettere sull’educazione estetica – non può che<br />

risultare anacronistico 11 .<br />

La cosa inquietante per l’educazione è, nondimeno, che il trickster<br />

incarna il “dovere-essere” del presente e del futuro. Un presente in cui<br />

la mitologia di “corpi senza fisicità” e cyborg, porta a teorizzare «che<br />

non ci sono differenze essenziali o linee di demarcazione assolute tra<br />

l’esistenza corporea e le simulazioni computerizzate, tra il meccanismo<br />

cibernetico e l’organismo biologico, tra la razionalità teleologica dei<br />

robot e gli scopi umani»; e in cui «l’incertezza sullo statuto di realtà<br />

dell’evento» mediatico comporta la «perdita del senso della differenza<br />

ontologica tra reale e fiction, tra reale e immaginario». Il contemporaneo<br />

sarà virtuale e l’umano si confonderà col post-umano, e tuttavia<br />

un progetto, se è educativo, non può che partire dalla natura umana,<br />

da quella dotazione biologica predisposta per l’adattamento ecologico.<br />

Dai sensi e non dai media. Perciò considerare il trickster anche<br />

«possibile figura contemporanea dell’esperto in educazione estetica»<br />

significa ipotecare il futuro alle logiche teoriche scelte per il presente<br />

12 . In sostanza, lasciare le cose come stanno e peggiorare il futuro,<br />

perché, certo, l’“agire intelligente” del trickster, i suoi distinguo, la sua<br />

ironia e, anche, il suo cinismo sono frutto di un percorso educativo che<br />

non può essere stato quello aggirarsi “nel regno <strong>delle</strong> merci estetizzate,<br />

dei consumi culturali, <strong>delle</strong> narrazioni mediali”. Se così fosse non<br />

potrebbe “orientarvisi”. Ciò che manca in questa proposta è proprio<br />

l’educazione, che non è “l’educazione degli adulti” qui considerata 13 .<br />

La Pedagogia, infatti, è innanzitutto il luogo della costruzione critica<br />

di quell’idea regolativa dell’uomo necessaria per guidare e valutare gli<br />

effettivi percorsi educativi di una specie, quella umana, che, caratterizzata<br />

da una lunga infanzia, ha nella cultura la sua seconda natura.<br />

Il problema che aveva posto Schiller nelle sue Lettere, per l’appunto,<br />

sull’educazione estetica, e che, a mio parere, Arnheim reimposta in<br />

modo da individuare i possibili percorsi educativi per risolverlo – sebbene<br />

questi diventino praticabili solo rivoluzionando l’attuale assetto<br />

dell’Istituto Scuola – è, sì, quello della Bellezza e del relativo Gusto,<br />

120


e però, contemporaneamente, quello di una “ragione sensibile” che<br />

ne determini le condizioni di possibilità e ne delimiti il raggio d’azione.<br />

Perciò, primariamente, è quello di rivalutare e educare i sensi, la<br />

sensibilità, il sentire e il sentimento che per effetto della rivoluzione<br />

scientifica moderna, e conseguente teoria del soggetto come “soggetto<br />

epistemico”, erano stati sacrificati all’Intelletto 14 . Poiché qualunque<br />

cosa per essere “gustata” deve essere percepita, è alla sensibilità che<br />

l’educazione estetica deve guardare, anche quando riduca le sue finalità<br />

al gusto. E poiché i prodotti artistici, siano essi pittura, scultura,<br />

musica, danza, poesia o altro, sono oggetti percettivi, oggi non meno<br />

che ai tempi di Schiller, «le arti, quando si dà loro la possibilità di<br />

assolvere alla propria funzione naturale, sono una risorsa indispensabile<br />

per far fronte alle sfide dell’esperienza» 15 . Precisando comunque<br />

che per Arnheim alto/basso, puro/applicato, arte/non arte, originale/<br />

copia, ecc., “perniciose distinzioni” con cui la modernità ha costruito<br />

il sistema <strong>delle</strong> Belle <strong>Arti</strong>, sono prive di significato. Per lui, a esempio,<br />

«l’arte non è una categoria, è una qualità <strong>delle</strong> cose», presente, quindi,<br />

non solo nelle opere d’arte; queste ultime, poi, sono utili per la ricerca<br />

proprio perché possono esemplificare tale qualità nel modo «più<br />

puro e più intenso» 16 ; e la bellezza «è la felice corrispondenza tra le<br />

caratteristiche dell’espressione percettuale e le proprietà strutturali del<br />

contenuto o messaggio da trasmettere» 17 . Da questa prospettiva, nella<br />

quale «senza una meta, la progettazione di un mondo migliore non<br />

ha dove andare», in cui l’esercizio del giudizio viene considerato una<br />

necessità imprescindibile e si stigmatizza «l’accettazione indiscriminata<br />

e diffusa del principio che una cosa equivale all’altra» 18 , intendere<br />

“l’educazione estetica come educazione al gusto” significa buttare il<br />

bambino e tenersi l’acqua sporca. Se teniamo presente che il problema<br />

che per primo Schiller ha formulato, nonostante le reiterate attenzioni<br />

di cui è stato fatto oggetto nella tarda modernità, è rimasto insoluto 19 ,<br />

Synopsis può ben rappresentare, in una, le configurazioni con cui oggi<br />

ci si presenta, e il come sia urgente affrontarlo.<br />

Indubbiamente “il momento storico e il contesto culturale” di Schiller<br />

è diverso da quello di Arnheim. “L’“estetizzazione della lebenswelt”<br />

non era neppure all’orizzonte, e sebbene Schiller non mancasse di precisare<br />

I limiti necessarî nell’uso di forme belle 20 , il pericolo lo individuava<br />

più nel “barbaro”, caratterizzato dall’abuso di una ragione astratta<br />

distruttiva dei sentimenti, che nel “selvaggio”, dominato da una sensibilità<br />

non educata, e giudicava il primo – la tipologia allora dominante<br />

tra le persone colte – più «spregevole» del secondo 21 . La “crisi della<br />

Ragione”, il “pensiero debole” e la scuola del lassez faire hanno determinato<br />

l’attuale successo dei “selvaggi”, e Arnheim, opportunamente,<br />

individua il pericolo nell’eccessiva e caotica stimolazione sensoriale. Il<br />

panorama odierno, poi, che le arti offrono non è minimamente assimilabile<br />

a quello ammirato da Schiller. A suoi tempi un titolo quale quello<br />

121


arnheimiano di Per la salvezza dell’arte 22 sarebbe stato semplicemente<br />

impensabile. Né il “meccanicismo” è alla base della fisica come lo era<br />

alla fine del Settecento. Ma altrettanto indubbiamente, al di là <strong>delle</strong><br />

ovvie differenze, i due hanno molto in comune a partire dalla scelta<br />

del processo educativo per la trasformazione non violenta della società,<br />

fino alla “fiducia” nei sensi e conseguente rivalutazione della sensibilità.<br />

Persino «la via per la divinità [a loro] si apre attraverso i sensi» 23 .<br />

Schiller è produttivo nel campo <strong>delle</strong> arti, Arnheim lo è nel campo<br />

scientifico. E però, mentre quest’ultimo si è dedicato anche a dipingere,<br />

scolpire, disegnare, suonare, il primo si è pure dedicato alla riflessione<br />

sui principî e all’elaborazione filosofica. Questa doppia declinazione<br />

della loro operatività li rende consapevoli che il “puro intelletto” e la<br />

“pura sensazione” sono semplici astrazioni teoriche, e non si danno mai<br />

separate nell’effettivo percepire e pensare. Rimane vero per entrambi<br />

che “il senso unifica e l’intelletto separa”, e la subordinazione del<br />

primo al secondo o viceversa, quando quindi non è reciproca, è solo<br />

dannosa 24 . Se Arnheim da un punto di vista dei processi cognitivi non<br />

vede differenza tra il fare arte e il fare scienza, Schiller, sebbene interessato<br />

alla fondazione trascendentale dello “stato estetico”, pure non<br />

manca di segnalare «l’influsso nocivo di una preponderante razionalità<br />

sulla nostra conoscenza», e stigmatizza come “arrogante”, “violenta”<br />

e “improduttiva” la razionalità scientifica che esautora la sensibilità 25 .<br />

Entrambi non danno quell’importanza eccessiva che la modernità ha<br />

dato al linguaggio 26 ; e parimenti condannano quelle teorie che a partire<br />

dall’apparenza estetica confondono il piano della realtà con quello<br />

della rappresentazione 27 . Convinti che la rappresentazione sensibile e il<br />

ragionamento astratto interagiscono – data la natura sensibile-razionale<br />

dell’uomo per il primo, e La mente a doppio taglio: intuizione e intelletto<br />

per il secondo – ritengono che l’educazione possa sviluppare tale<br />

interazione. Animati da una forte passione civile, sia l’uno che l’altro<br />

non propongono un’educazione all’arte, ma l’estetico di Schiller e l’artistico<br />

di Arnheim si contestualizzano come parte ineliminabile per<br />

un’educazione che miri allo sviluppo integrale dell’umano. Entrambi si<br />

richiamano a Kant: l’uno esplicita che «sono principî kantiani quelli su<br />

cui poggiano le considerazioni» sull’educazione estetica, l’altro ravvisa<br />

«una tendenza kantiana» nella Gestalttheorie 28 . E come il primo mette<br />

in epigrafe alle Lettere un pensiero di Rousseau – «Se è la ragione che<br />

fa l’uomo, è il sentimento che lo guida» – il secondo critica l’«assurdo<br />

psicologico» di una mente a compartimenti-stagno 29 .<br />

«Presso di noi, si sarebbe quasi tentati di affermare, le forze dell’animo<br />

si manifestano anche nell’esperienza così separate come le distingue<br />

lo psicologo nella rappresentazione» 30 . Poiché l’impulso alla<br />

sensibilità e l’impulso alla razionalità «esauriscono il concetto di umanità»,<br />

[…] non sono dunque contrapposti per natura», la cultura «deve<br />

rendere giustizia allo stesso modo a entrambi e non deve affermare<br />

122


soltanto l’impulso razionale contro quello sensibile», o viceversa. Perciò<br />

Schiller sostiene che «l’esigenza più impellente» del suo tempo, oltre<br />

«l’educazione della facoltà della ragione», sia proprio l’educazione dei<br />

sensi o «l’educazione della facoltà del sentimento» 31 . La sua presa<br />

d’atto che l’Arte e l’ideale della Bellezza costituiscono l’antidoto curativo<br />

per la malattia <strong>delle</strong> forze dell’animo scisse in “puro intelletto” e<br />

in “pura intuizione”, nel corso del Novecento è stata fatta propria da<br />

altri pensatori 32 , e diventa inattuale solo negli ultimi scorci del secolo<br />

scorso o nel cosiddetto postmoderno, quando «i narratori <strong>delle</strong> nuove<br />

generazioni, gli scienziati cognitivi e gli epistemologi diventano attori<br />

e protagonisti all’interno di un continuum di riferimenti e richiami<br />

dove a volte appare difficile distinguere tra la ricerca, la divulgazione<br />

e la narrazione» 33 . Ma ritorniamo a prima del pot-pourri teorico del<br />

post- dominato dalla “comunicazione massmediatica” 34 , in cui dalla<br />

s-definizione dell’arte, un prodotto culturale, si passa inavvertitamente,<br />

come fosse la stessa cosa, a teorizzare la s-definizione del corpo umano<br />

e l’irrealtà del mondo.<br />

«Solamente la psicologia, che ha separato cose che si appartengono<br />

l’un l’altra, ritiene che gli scienziati e i filosofi pensino, mentre i poeti<br />

e i pittori seguano i loro sentimenti» 35 . «Ci si deve guardare dal<br />

pensare in questo caso in base a categorie importate della psicologia;<br />

diciamo dallo scomporre semplicemente l’esperienza in un vedere e in<br />

un pensare; o qualcosa del genere» 36 . Sono due citazioni della prima<br />

metà del Novecento che esemplificano come il problema di Schiller si<br />

sia complicato prima di essere affrontato da Arnheim, ma anche del<br />

fatto che il luogo da tematizzare riguardi non il gusto ma la sensibilità<br />

nei suoi rapporti con il pensiero. In Schiller è presente «quella valutazione<br />

iperbolica dell’arte e degli artisti» che durante l’Ottocento si<br />

trasformerà in mistica dell’arte e dell’artista 37 ; se per lui l’arte doveva<br />

servire a riconciliare sensibilità e intelletto – il libero gioco <strong>delle</strong> facoltà<br />

teorizzato da Kant nella Critica della facoltà del Giudizio – proprio<br />

perché il fare e il fruire l’arte comporta lo sviluppo armonico dell’una<br />

e dell’altro, successivamente si arriverà alla reductio ad unum che sarà il<br />

sentimento o la fantasia o l’immaginazione o l’intuizione, comunque una<br />

facoltà per l’arte antitetica all’intelletto, a sua volta, considerato l’organo<br />

della scienza. Individuato, poi, il controllo cosciente nell’intelletto sarà<br />

l’inconscio a sostenerne l’opposizione 38 . Dewey – la prima citazione<br />

– metteva in discussione proprio questo modo di teorizzare; teorie peraltro<br />

già travolte dall’effettivo procedere dell’arte che di s-definizione<br />

in s-definizione sarebbe successivamente arrivata al “concettuale”. Nondimeno,<br />

che la critica di Dewey sia stata inefficace nel discorso teorico,<br />

non nelle pratiche dell’arte, lo si capisce se si riflette sull’effetto di novità<br />

procurato, più di trent’anni dopo, dalla denuncia fatta da Goodman<br />

ne I linguaggi dell’arte contro la «dispotica dicotomia fra cognitivo e<br />

emotivo» 39 . Quanto a Wittgenstein – la seconda citazione – la situa-<br />

123


zione è più complessa: il vedere e il pensare rimandano sia a ciò che è<br />

stato successivamente chiamato il “Mito del Dato” e la soggettività dei<br />

qualia, sia alla teoria del pensiero-linguaggio, sostenuta dalla psicologia<br />

e rafforzata dalla svolta linguistica che ha imperversato per quasi tutto<br />

il Novecento e che ha influito non poco nel mondo dell’arte.<br />

Questo stato di cose ha comportato, da una parte, che il tema della<br />

percezione, ridotto a quello dei “dati sensoriali”, nell’agenda filosofica<br />

passò in secondo piano – in quella psicologica vi fu addirittura chi ritenne<br />

di poterlo depennare 40 – e dall’altra, che laddove è ricomparso,<br />

è sembrato naturale intellettualizzare il percetto, cioè sacrificare la sensibilità<br />

e lasciare libero campo all’intelletto, persino quando la discussione<br />

teorica verte sull’arte. Continuo a esemplificare con Goodman il quale,<br />

per criticare la concezione della rappresentazione come copia, e rivendicare<br />

il carattere cognitivo dell’arte e la sua importanza per la teoria della<br />

conoscenza, su cui non si può non concordare, ha ritenuto necessario<br />

sostenere che «la ricezione e l’interpretazione non sono separabili».<br />

Con la conseguenza che la natura diventa un prodotto dell’arte e della<br />

scienza! 41 . Il mondo non sarebbe altro che le sue rappresentazioni. Che<br />

le versioni del mondo siano tante e che le “rappresentazioni” fornite<br />

dalle arti non siano inferiori alle “descrizioni” fornite dalla scienza è<br />

ottenuto a caro prezzo. Il relativismo pluralistico, che Goodman oppone<br />

al realismo monistico della fisica, mettendo assieme «versioni percettive,<br />

pittoriche o letterarie», sconfina nel relativismo ontologico. Anzi,<br />

il mondo non è più favola ma «è felicemente perduto». Il guadagno<br />

sembra assicurato data la pluralità dei mondi costruiti. «Possiamo avere<br />

parole senza un mondo ma non mondi senza parole o altri simboli» 42 ,<br />

ad evidenza di ciò che considera ed è considerato il suo «irrealismo» 43 ,<br />

ma anche di come l’odierna “perdita del senso della differenza ontologica<br />

tra reale e fiction, tra reale e immaginario” – differenza che Schiller e<br />

Arnheim tengono ben ferma – parta da lontano, e, nello stesso tempo,<br />

di quanto sia necessaria e urgente una “sensata” riconsiderazione dei<br />

sensi, e una adeguata educazione della sensibilità.<br />

Schiller, interessato al valore educativo dell’arte, non si occupa del<br />

processo educativo, né tanto meno di come concretamente procedere<br />

44 . Arnheim, viceversa, abbozza anche un sistema educativo. Una<br />

proposta, la sua, molto semplice a dirla, ma estremamente complessa<br />

se ci si prova ad articolarla in curricula che possano calarsi nell’attuale<br />

prassi scolastica. «Come assolve l’educazione artistica al compito di<br />

formare una persona pienamente sviluppata?», si chiede. La risposta<br />

è che l’educazione artistica «dovrebbe operare come una di tre aree<br />

principali dell’apprendimento intese ad attrezzare la giovane mente con<br />

le abilità di base necessarie per far fronte con successo ad ogni branca<br />

del curriculum. La prima di queste tre aree principali è la filosofia, che<br />

istruisce gli studenti: (1) nella logica, cioè, nella capacità di ragionare<br />

correttamente; (2) nell’epistemologia, cioè, nella capacità di capire la<br />

124


elazione fra la mente umana e il mondo della realtà; (3) nell’etica,<br />

cioè, nel conoscere la differenza tra il bene e il male. La seconda area<br />

principale è l’educazione visiva, dove lo studente impara a trattare i<br />

fenomeni visivi come il mezzo primario per affrontare l’organizzazione<br />

del pensiero. La terza area è l’educazione linguistica, che mette lo<br />

studente in grado di comunicare verbalmente i frutti del suo pensiero.<br />

Queste tre aree costituiscono il centro di servizio dell’edificio educativo,<br />

poiché forniscono le attrezzature generali per ciò che è necessario<br />

allo studio in qualsiasi campo particolare» 45 . Linguaggi, quindi, soprattutto,<br />

e non discipline, di cui, peraltro, Arnheim non si occupa se<br />

non per segnalare la progressiva differenziazione disciplinare lungo il<br />

curriculum e per esemplificarne la necessaria interazione. Un “centro<br />

di servizio”, quello disegnato da Arnheim – non «una sorta di trivio<br />

neoumanistico dei saperi» 46 , come pure è stato recepito – che dovrebbe<br />

consentire in ogni ordine e grado scolastico lo sviluppo di quella<br />

“ragione sensibile”, necessaria per un rapporto non “indifferente” con<br />

se stessi, con gli altri, con il mondo, a cui già Schiller mirava. L’ordine<br />

<strong>delle</strong> priorità è certo inusuale – e, abituati al logocentrismo scolastico<br />

e dominati dalla “sensologia” 47 , può persino risultare idiosincratico<br />

– ma ciò è dovuto al fatto che lo studioso che ce lo propone va alla<br />

ricerca <strong>delle</strong> costanti della natura umana, che dovrebbero essere le<br />

uniche da tenere presente se un progetto educativo non vuole essere<br />

ideologicamente ipotecato.<br />

Per ben intendere e non fraintendere i Pensieri sull’educazione artistica,<br />

bisognerebbe prendere in considerazione la complessa posizione<br />

di Arnheim: le posizioni da lui sviluppate sia sull’arte e il suo sistema,<br />

sia sulla psicologia nei suoi rapporti con la filosofia. Relativamente al<br />

primo punto, la sua competenza nei media – da quelli tradizionali a<br />

quelli più attuali, fino al computer 48 , Arnheim è un esperto <strong>delle</strong> loro<br />

possibilità d’uso e dei loro limiti – e la sua posizione da non confondere<br />

con quella di McLuhan e allievi 49 ; ma anche la sua conoscenza<br />

<strong>delle</strong> arti e la sua familiarità con quelle del Novecento e relativo contesto<br />

istituzionale e teorico. Un’esperienza <strong>delle</strong> opere, la sua, non per<br />

sentito dire o per averne solo letto, ma, per lo più, per averne visto,<br />

udito e toccato: le sue accettazioni e i suoi rifiuti, assolutamente illuminanti,<br />

sono sempre chiaramente argomentati. Quanto alle varie posizioni<br />

teoriche, solo conoscendole di possono apprezzare le soluzioni,<br />

geniali nella loro semplicità, che Arnheim dà ad annose e disperanti<br />

questioni che l’arte pone alla riflessione 50 . Relativamente al secondo<br />

ambito da lui coltivato, innanzitutto entrare dentro le logiche teoriche<br />

della psicologia della Gestalt, di cui è l’esponente più produttivo della<br />

seconda generazione: fedele ai principî e nello stesso tempo innovativo.<br />

Una psicologia, quella in cui si è formato Arnheim e che contribuisce<br />

a sviluppare, quasi sempre fraintesa e ritenuta superata, ma unica nel<br />

panorama psicologico nell’avere impostato il rapporto mente-mondo<br />

125


in modo da rendere conto dell’oggettività del mondo e della capacità<br />

della creatura umana di abitarlo e di spiegarlo. Un problema, quello<br />

del realismo, che oggi ritorna, e pour cause, a imporsi nel dibattito<br />

filosofico. Stando così le cose, posso solo procedere per brevi cenni,<br />

tralasciando molte <strong>delle</strong> connessioni con cui si presentano i termini in<br />

gioco, e omettendo del tutto le evidenze sperimentali che corroborano<br />

la teoria arnheimiana della mente.<br />

Nel 1981 Arnheim annota nel suo diario: «Con un odio generato<br />

dall’istinto di autoconservazione, ho combattuto la concezione del<br />

mondo come puramente soggettivo, non sistematizzabile <strong>delle</strong> sensazioni<br />

caotiche. È un veleno che ci strangola, che ci dissolve il terreno<br />

sotto i piedi. La dottrina distruttiva è formulata con insuperabile intelligenza<br />

nella terza parte della Volontà di potenza di Nietzsche. Eccola:<br />

l’oggetto non è niente altro che utilità; la somiglianza <strong>delle</strong> cose non<br />

è niente altro che un’imposizione soggettiva per rendere possibile una<br />

classificazione; non ci sono cose e non c’è nulla che duri o che resti,<br />

solo un invisibile flusso di cambiamenti. […] Quando questa velenosa<br />

dottrina continentale viene innestata nell’empirismo anglosassone il<br />

credo di quegli scettici ragionevolmente moderati diventa profondamente<br />

virulento» 51 . Per Arnheim, come per i suoi maestri, il mondo<br />

ha una sua struttura e non è il soggetto a strutturarlo: il soggetto non<br />

costruisce mondi, bensì produce arte e scienza proprio per comprendere<br />

e conoscere il mondo.<br />

La concezione soggettivistica della percezione nelle sue varie declinazioni,<br />

presente fin dalla nascita della psicologia scientifica, e ritornata<br />

d’attualità col cognitivismo per il quale noi avremmo del mondo<br />

rappresentazioni, è semplicemente falsa. «La capacità di distinguere<br />

all’interno del mondo dell’esperienza tra le proprietà che esistono indipendentemente<br />

dalle manipolazioni mentali dell’osservatore e quelle che<br />

sono dovute appunto a tali manipolazioni è di una importanza biologica<br />

fondamentale per cavarsela nel nostro ambiente» 52 . Arnheim ci ricorda<br />

che i sensi sono primariamente organi per la sopravvivenza «per mezzo<br />

dei quali la creatura vivente risponde alle risorse offerte dall’ambiente<br />

e individua i pericoli da evitare». Per adempiere alla loro funzione non<br />

possono limitarsi a registrare meccanicamente quanto vanno incontrando.<br />

La percezione visiva, ad esempio, sulla base della registrazione retinica,<br />

è sembrata una sequenza caleidoscopica di immagini, ma se fosse<br />

così sarebbe inservibile per orientarsi nell’ambiente: «un animale, o un<br />

essere umano, potrebbe vedere <strong>delle</strong> cose ma non riconoscerle, e vedere<br />

senza riconoscimento sarebbe poco più della cecità» 53 . Certo, i nostri<br />

sensi come i sensi degli animali, si trovano davanti individualità. E perciò<br />

si ritiene che il concetto necessiti del linguaggio o dell’intelletto. Ma<br />

«anche gli istinti e gli apprendimenti degli animali privi di linguaggio<br />

sono adeguati a tipi di cose, e solo raramente a individualità uniche. Gli<br />

animali, come gli uomini, non sarebbero sopravvissuti se le loro menti<br />

126


fossero state in grado di distinguere solo individualità» 54 . Percepire un<br />

oggetto significa coglierne i caratteri salienti o astrarne la struttura, sì<br />

da identificarlo nelle variazioni che presenta e riconoscerlo nei diversi<br />

contesti. Poiché, analizzandone le funzioni svolte, i percetti hanno i<br />

caratteri tradizionalmente assegnati al concetto, Arnheim sostiene che<br />

i percetti sono concetti – “concetti percettivi” – e parla dell’intelligenza<br />

della percezione molto prima che per effetto del fallimento simulativo<br />

della percezione se ne cominciasse a discutere nelle scienze cognitive,<br />

senza, tuttavia, che ciò portasse a rivedere la concezione moderna della<br />

percezione e della mente 55 .<br />

Percezione e pensiero sono interdipendenti e «l’astrazione è il legame<br />

indispensabile, e invero il tratto più essenziale, tra il percepire e il<br />

pensare. Per parafrasare la sentenza di Kant: la visione senza astrazione<br />

è cieca; l’astrazione senza visione è vuota» 56 . Ora, poiché il detto di<br />

Kant, letterale, non parafrasato, e con tutto il peso che l’impianto epistemologico<br />

della prima Critica comporta, è molto presente nell’attuale<br />

filosofia della mente che si occupa di percezione, e poiché quanti, per<br />

ripristinare la differenza tra esperienza e scienza, ritengono di difendere<br />

le postazioni negando le evidenti capacità concettuali della percezione,<br />

la posizione di Arnheim, non può che risultare incomprensibile a<br />

entrambe le posizioni, e di conseguenza fraintesa. È necessario capire<br />

che i “concetti percettivi” non sono da confondere con il “contenuto<br />

concettuale”, ovvero “intellettualizzato”, della prima posizione; viceversa,<br />

a mio modo di vedere, ne sono una rigorosa critica, e salvaguardano<br />

la necessaria differenza tra esperienza e scienza sostenuta,<br />

a ragione, dalla seconda 57 . Per di più, poiché i sensi – strumenti per<br />

assicurare la sopravvivenza – cogliendo la struttura <strong>delle</strong> cose, degli<br />

eventi e <strong>delle</strong> situazioni ne valutano il positivo e il negativo, cioè sono<br />

intrinsecamente “selettivi e finalistici”, consentono di fondare “il valore<br />

nel mondo dei fatti”, non i “fatti in un mondo di valori” 58 .<br />

Uno dei compiti dell’educazione è proprio quello di insegnare «l’etica<br />

di chi merita credito e per che cosa» 59 . Ma ciò si può fare, senza<br />

entrare in contraddizione e perdere di credibilità, solo se si ritiene<br />

che i valori siano oggettivi. Se così non fosse, «qualsiasi insegnamento<br />

che mirasse a distinguere il buono dal cattivo e a portare l’inferiore al<br />

superiore sarebbe una farsa» 60 . Perciò Arnheim si occupa di dimostrare<br />

l’oggettività del valore. Accenno al posto del valore nel mondo<br />

dell’arte, dove l’oggettività è sempre stata più controversa che altrove,<br />

fino «all’accettazione indiscriminata e diffusa del principio che una cosa<br />

equivale all’altra, arte o non arte, rara o triviale, profonda o superficiale,<br />

meccanica o creativa» 61 . Per Arnheim, la posizione gnoseologica che<br />

insiste sulla percezione soggettiva, basata, come ha dimostrato Köhler,<br />

sulla confusione tra “soggettività genetica” e “soggettività psicologica”<br />

62 , nel mondo dell’arte «ha portato a una radicale negazione degli<br />

standard oggettivi in almeno due modi. In primo luogo, è venuta meno<br />

127


la convinzione che l’arte assolva a specifiche funzioni per ciò che riguarda<br />

la mente e si distingua quindi da altre attività. In secondo luogo, si<br />

è largamente diffusa la convinzione che non esistano più criteri in base<br />

ai quali sia possibile determinare, intuitivamente o in modo esplicito,<br />

se una determinata opera meriti di essere valorizzata sul piano estetico<br />

o sociale» 63 . Relativamente a quest’ultimo punto «se i percetti stessi<br />

non possedessero alcuna validità al di là <strong>delle</strong> esperienze individuali<br />

degli osservatori, o di gruppi di essi, ogni verifica obiettiva del valore<br />

dei percetti sarebbe esclusa a fortiori». Non si può parlare di valori<br />

oggettivi se si ritiene che i percetti siano soggettivi. Perciò «il problema<br />

può essere posto solo una volta che l’obiettività dell’opera da un punto<br />

di vista percettivo sia stata accertata» 64 . E mentre non è detto che<br />

l’obiettività percettiva, trattandosi di oggetti complessi, si dia “a prima<br />

vista”, è una mossa sbagliata partire dalla domanda “Valido per chi?”,<br />

che conduce dritto dritto a “tutti i gusti sono gusti”, e impedisce di<br />

capire che, se il valore intrinseco all’oggetto non venisse riconosciuto,<br />

rimarrebbe incomprensibile anche il particolare gusto di quel “chi”. La<br />

domanda da cui partire è “Valido per che cosa?”. Con l’avvertenza che<br />

come «degli oggetti, <strong>delle</strong> situazioni o <strong>delle</strong> azioni possiamo dire che<br />

hanno un valore solo quando adempiono a certe funzioni», così per<br />

gli oggetti artistici «non esiste un valore in sé e per sé; il valore esiste<br />

solo in rapporto alle funzioni e alle esigenze che vanno soddisfatte» 65 .<br />

E per Arnheim «non c’è arte senza funzione» 66 .<br />

Intanto rileviamo che con i concetti percettivi la tradizionale distinzione<br />

di sensi e intelletto, che ha dato luogo a una gerarchizzazione<br />

teorizzata nell’ordine genetico e nell’ordine storico, iscritta nelle funzioni<br />

della mente e riflessa nei prodotti culturali, viene da Arnheim<br />

risolta nell’inscindibile unità del pensiero che è sempre percettivo: un<br />

pensiero sensibile, ossia legato ai sensi e che coglie il senso. Intuizione<br />

(sensi-percezione) e intelletto (pensiero-intelligenza) non sono più facoltà<br />

diverse, bensì aspetti diversi della stessa funzione: modalità del pensiero<br />

percettivo. I due aspetti, o processi «intimamente» legati, «sono<br />

come paralizzati se non possono contare l’uno sull’aiuto dell’altro» 67 .<br />

Le deficienze dell’uno sono infatti le prerogative dell’altro, e viceversa.<br />

La polidimensionalità caratterizza l’intuizione, la monodimensionalità<br />

o linearità caratterizza l’intelletto. L’una è il procedimento del pensiero<br />

quando tratta l’insieme nell’interazione reciproca e simultanea <strong>delle</strong><br />

varie componenti; l’altra, quando procede all’isolamento <strong>delle</strong> diverse<br />

componenti e relazioni ordinandoli in sequenze. «Prigioniera di un<br />

mondo quadridimensionale di continuità e di simultaneità spaziale, la<br />

mente opera da un lato intuitivamente, cogliendo i prodotti <strong>delle</strong> forze<br />

di campo liberamente interagenti; dall’altro, traccia intellettivamente<br />

sentieri monodimensionali attraverso il paesaggio spaziale» 68 . Pertanto,<br />

intuizione e intelletto «devono cooperare tra loro fin dall’inizio e per<br />

sempre», ed entrambi «sono comuni a tutte le attività dell’uomo» 69 .<br />

128


L’arte è quindi attività cognitiva volta alla comprensione, e non<br />

il luogo privilegiato della creatività senza regole o del «soggettivismo<br />

capriccioso», opposta alla scienza come unico luogo della serietà del<br />

pensiero, e dell’esperienza oggettiva. Il sinolo percezione-pensiero – invisibile<br />

se si è dentro la logica del pensiero-linguaggio – non è specifico<br />

<strong>delle</strong> arti, bensì del funzionamento reale della mente, qualunque sia<br />

l’attività in cui è impegnata, compresa la scienza, il cui atto di fondazione<br />

nella modernità è proprio nell’esperire. La scienza e l’arte non<br />

vanno però confusi con la comune esperienza, perché ne sono un’interpretazione<br />

e un trattamento altamente specializzato e organizzato tramite<br />

media storico-culturali. Non sono il mondo, ma, possiamo chiamarle<br />

con Goodman, “versioni” del mondo, se però non scotomizziamo il<br />

loro essere rappresentazioni. Il “concetto rappresentativo” 70 , che non<br />

è il “concetto percettivo” né tanto meno il concetto tradizionalmente<br />

inteso, teorizzato da Arnheim specificamente per le arti, può essere,<br />

riformulato, utilizzato anche per la scienza. Né l’arte e la scienza vanno<br />

confuse tra di loro. Sebbene l’arte e la scienza non differiscano quanto<br />

al fine e ai meccanismi mentali, e entrambe vadano «oltre la superficie<br />

sconcertante di quanto è apparentemente casuale» 71 , tuttavia trattano<br />

in maniera diversa l’informazione sensoriale: «nella scienza gli aspetti<br />

<strong>delle</strong> cose sono puri indicatori, che alludono, al di là di se stessi, a costellazioni<br />

nascoste»; nell’arte l’immagine «contiene e dispiega le forze<br />

circa le quali si riferisce» 72 .<br />

“Le forze” dispiegate sono le qualità espressive degli oggetti artistici,<br />

qualità che, da una parte, consentono di smontare la concezione<br />

edonistica dell’arte – l’arte come sentimento, la teoria dell’empatia, il<br />

“patetico inganno”, l’arte come espressione – e dall’altra di individuarne<br />

il nucleo di verità, sì da capire l’insistenza e la persistenza – dalla<br />

modernità a noi – sull’“emotività” come il proprio dell’arte. Ricontestualizzando<br />

le qualità nell’oggetto, e non in una facoltà del soggetto,<br />

viene fatto fuori proprio il “piacere estetico” e il gusto. Questa facoltà<br />

«sui generis, né percettiva né intellettiva» 73 , pensata appositamente<br />

per “godere” dell’arte si rivela, a ben considerare i sensi, non un “giudizio<br />

autonomo”, né tanto meno un “sesto senso” 74 . Intanto l’avere<br />

individuato proprio nel senso del gusto – tra i sensi il più intimo e il<br />

meno suscettibile di essere messo in discussione – il gusto del giudizio<br />

estetico rimanda alla soggettività e naturalità dell’arte 75 . Con ciò diventa<br />

perspicuo il fatto che Arnheim, teorico, come Schiller, dell’“oggettività”,<br />

eviti, quando affronta questioni estetiche, la parola gusto;<br />

per lui «il suo uso incoraggia un gioco <strong>delle</strong> tre carte verbale in cui si<br />

spacciano per verità oggettive le proprie preferenze, mentre viene contemporaneamente<br />

attenuata l’assolutezza dei proprî giudizi, facendoli<br />

apparire personali. L’“uomo di gusto” è chiaramente un individuo in<br />

cui per armonia prestabilita il piacere personale coincide con il bene<br />

supremo. Non c’è maniera migliore di falsare un problema» 76 . Anche<br />

129


il piacere estetico si rivela un falso problema che deriva dall’“assurdo<br />

psicologico” di ipotizzare nel funzionamento della mente facoltà a<br />

compartimenti-stagno, quando invece ogni attività umana «comporta<br />

un atto cognitivo, uno sforzo motivazionale determinato dalla cognizione,<br />

e un eccitamento causato da entrambi» 77 . Stando così le cose,<br />

l’arte non è né più né meno emotiva della scienza e né più né meno<br />

emotiva di qualsiasi altra attività. «L’impressione erronea che vi sia un<br />

“piacere estetico” specifico è dovuta al fatto che una data componente<br />

di uno stato mentale trae, dallo stato totale, modificazioni che vengono<br />

attribuite con facilità alla natura della componente stessa. Se il piacere<br />

tratto da un pezzo di scultura si “sente” in modo diverso da quello<br />

derivante dal cibo, la differenza è dovuta al contesto. […] Pertanto<br />

la definizione edonistica secondo la quale l’arte è ciò che produce<br />

piacere, non conduce ad altro che alla constatazione banale che l’arte<br />

soddisfa a un qualche tipo di necessità» 78 .<br />

La necessità teorica del gusto e del connesso piacere estetico deriva<br />

dal non avere tenuto presente tutte le capacità dei sensi e tutte le qualità<br />

del mondo. Considerando la questione dal punto di vista biologico,<br />

l’organismo tramite i sensi, primariamente, «ottiene informazioni in<br />

merito alle forze amichevoli, ostili, o comunque significative cui deve<br />

reagire» 79 . I sensi, organi selettivi e finalistici affinché l’organismo<br />

possa reagire in maniera appropriata all’ambiente, non sono strumenti<br />

per valutare solo le qualità primarie e secondarie, teorizzate nella<br />

modernità come tali nell’ordine <strong>delle</strong> priorità stabilite per le esigenze<br />

scientifiche. Né «si fa giustizia a ciò che si vede se lo si descrive soltanto<br />

mediante misure di grandezza, di forma, di lunghezza d’onda,<br />

di velocità: le qualità dinamiche <strong>delle</strong> forme, dei colori e degli avvenimenti<br />

si sono dimostrate un aspetto inseparabile di ogni esperienza<br />

visiva». Le qualità espressive – «modalità del comportamento organico<br />

e inorganico che appaiono nell’aspetto dinamico degli oggetti e degli<br />

eventi percettivi» 80 – nell’ordine dell’esperienza, come insegna la<br />

psicologia della Gestalt e come tutti (persino il resto della psicologia)<br />

trascurano, sono le qualità percettive primarie, e si colgono non solo<br />

tramite il senso del gusto ma tramite tutti gli altri sensi. «A causa della<br />

preferenza tradizionale per le concezioni statiche, la teoria occidentale<br />

ha teso a escludere gli aspetti dinamici della percezione e ad assegnarli<br />

o a una specie di proiezione internamente generata [l’empatia] o alla<br />

facoltà speciale, definita negativamente, del sentimento» 81 . E mentre<br />

prendiamo atto che a rendere conto anche del gusto e del piacere sono<br />

i sensi e non una qualche altra misteriosa facoltà, comprendiamo che<br />

«se l’arte è stata isolata come emotiva ciò è servito a rendere conto<br />

dell’enfasi che essa pone» sulle qualità espressive 82 .<br />

Il sinolo percezione-pensiero e le dinamica percettiva servono a<br />

definire ciò che Arnheim intende per arte e a individuare anche la<br />

funzione che quest’ultima assolve. «In qualsiasi condizione l’arte ha<br />

130


sempre adempiuto alla propria funzione principale, sebbene quasi sempre<br />

disconosciuta, di rendere visibile e udibile la natura e il significato<br />

dell’esistenza umana» 83 . Il nucleo comune a tutte le arti, caratteristica<br />

non surrogabile da altre attività della mente, è proprio l’espressione sensoriale:<br />

«L’unicità dell’arte consiste nel suo essere capace di interpretare<br />

l’esperienza umana attraverso l’espressione sensoriale. Nelle arti visive,<br />

indipendentemente dal fatto che un artista scolpisca o dipinga con le<br />

tecniche tradizionali o inchiodi materassi su tavole di compensato, il<br />

criterio rimane lo stesso. Le opere architettoniche, letterarie e musicali<br />

si fondano sullo stesso assioma di base – anch’esse cioè parlano attraverso<br />

i sensi che ci sono stati assegnati: la vista, l’udito e il tatto» 84 .<br />

Le caratteristiche che fanno della dinamica percettiva lo strumento<br />

dell’espressione artistica sono tre: (1) «il gioco <strong>delle</strong> forze, al di là dei<br />

particolari soggetti, conduce a ciò che sta alla loro base. Forze fisiche<br />

caratterizzano gli elementi del vento, dell’acqua, del fuoco. Pertanto<br />

rendono vive le immagini della natura, le nuvole, le cascate, gli alberi<br />

agitati dal vento. Le forze fisiche animano altresì i corpi degli stessi<br />

animali e degli esseri umani. La dinamica percettiva, tuttavia, giunge<br />

più lontano; essa in più rappresenta le forze della mente». (2) «Poiché<br />

le forze agiscono allo stesso modo in tutte le sfere dell’esistenza, l’azione<br />

dinamica in una sfera si può usare per simboleggiare quella di<br />

un’altra. Fin dall’infanzia, siamo abituati spontaneamente a pensare e<br />

a parlare per metafore perché la concretezza degli eventi visibili serve<br />

a illustrare la dinamica di altri eventi meno direttamente visibili». (3)<br />

«Quando si guarda l’immagine architettonica dell’innalzarsi di un arco o<br />

di una torre, o si guarda il cedere di un’albero piegato dalla tempesta, si<br />

ricevono più informazioni di quante non ne siano recate dall’immagine.<br />

La dinamica trasmessa dall’immagine risuona nel sistema nervoso del<br />

fruitore» 85 .<br />

Se tutte le arti hanno in comune “il nucleo vivificante di espresione<br />

sensoriale”, ciascuna arte impone restrizioni sensoriali che non si<br />

danno nell’esperienza diretta, ecologicamente intesa. Così, ad esempio,<br />

l’assolutezza dell’occhio per l’arte visiva, è un artificio culturale dal<br />

momento che «i nostri occhi non sono un meccanismo che funzioni<br />

indipendentemente dal resto del corpo; ma lavorano in costante collaborazione<br />

con gli altri organi sensori» 86 . Ed è proprio dalla differenza<br />

tra mondo e immagini del mondo, tra realtà e rappresentazione che si<br />

originano le possibilità artistiche dei vari media.<br />

«Nella visione e nell’udito, le forme, i colori, i movimenti, i suoni,<br />

sono suscettibili di organizzazione precisa ed altamente complessa nello<br />

spazio e nel tempo» 87 . E però, ferma restando l’intelligenza degli altri<br />

sensi, la visione acquista un’importanza maggiore, persino dell’udito,<br />

perché fa sì che il percettore «si occupi di ciò che è, anziché, semplicemente,<br />

di quanto a lui si fa e di quanto egli stesso faccia» 88 . Pertanto<br />

sebbene i linguaggi, verbale e visivo, siano i media culturali più<br />

131


adatti all’educazione, contrariamente all’opinione corrente che identificando,<br />

senza resti né scarti, pensiero e linguaggio verbale ha fatto di<br />

quest’ultimo il mezzo e il fine dell’educazione, Arnheim sostiene che il<br />

linguaggio verbale aiuta il pensiero indirettamente, collaborando con il<br />

linguaggio visivo che costituisce un medium più adeguato al pensiero<br />

stesso. «Il “medium” visivo è tanto enormemente superiore perché offre<br />

equivalenti strutturali di tutte le caratteristiche degli oggetti, eventi<br />

e relazioni. La varietà <strong>delle</strong> forme visuali disponibili è grande quanto<br />

quella dei possibili suoni del linguaggio, ma quello che conta è che<br />

esse si possono organizzare secondo pattern prontamente definibili,<br />

di cui le forme geometriche sono l’illustrazione più tangibile. La virtù<br />

principale del “medium” visuale è quella di rappresentare le forme<br />

in uno spazio bidimensionale e tridimensionale, in confronto con la<br />

sequenza monodimensionale del linguaggio verbale. Questo spazio polidimensionale<br />

non soltanto offre al pensiero efficaci modelli di oggetti<br />

fisici o di eventi, ma rappresenta pure isomorficamente le dimensioni<br />

che occorrono al ragionamento teorico» 89 . Poiché «pensiamo mediante<br />

ciò che vediamo» 90 , per Arnheim il pensiero è visivo, che è un modo<br />

diverso per dire “l’interdipendenza tra intelletto e percezione intuitiva”.<br />

L’interdipendenza «ha conseguenze fondamentali per il processo<br />

educativo. Essa richiede non soltanto che nel curriculum le discipline<br />

che coltivano l’intelletto siano correttamente bilanciate con quelle che<br />

esercitano la visione intelligente; ma, cosa più importante, essa richiede<br />

che nell’insegnamento e nell’apprendimento di ogni disciplina tanto<br />

l’intelletto che l’intuizione siano portati a interagire» 91 . L’indicazione di<br />

metodo è innanzitutto contro il verbalismo imperante a cui Arneim contrappone<br />

“l’argomentazione ostensiva” 92 Si cominciano a capire le ragioni<br />

del progetto educativo e la necessità dell’educazione visiva. Come<br />

pure la chiamata in causa dell’arte visiva: dato che gli artisti, dediti allo<br />

studio <strong>delle</strong> strutture visive, sono «gli esperti di quelle che si potrebbero<br />

chiamare le risorse del linguaggio visivo», «lo studio dell’arte dovrebbe<br />

essere una parte indispensabile del training in qualsiasi altro campo del<br />

sapere. […] Una conoscenza pratica dei principi della forma artistica<br />

e dei modi per esprimere il significato mediante questi principi contribuisce<br />

pertanto direttamente all’educazione del pensiero produttivo in<br />

qualsiasi campo». Contro la scuola <strong>delle</strong> parole e dei numeri si «deve<br />

ristabilire la priorità dell’esperienza» 93 , e coltivare la capacità di elaborare<br />

forme significative dell’esperienza. L’esperienza non è tutta visiva, e<br />

la forma non è una proprietà propriamente visiva neanche di un oggetto<br />

visivo, come lo è la configurazione che ne individua i confini spaziali;<br />

«è piuttosto la relazione tra quella configurazione e qualche cosa di cui<br />

essa è la configurazione. La forma è quella configurazione che rende<br />

visibile un contenuto, e quel contenuto in se stesso può darsi che non<br />

sia visibile affatto». E mentre «la decisione su quali aspetti del mondo<br />

siano da rendere visibili è una questione di credo filosofico» 94 , cosa<br />

132


che dovrebbe fare riflettere gli educatori, poiché i problemi strutturali<br />

trascendono le particolari discipline, «affrontandoli sul terreno più tangibile<br />

dell’organizzazione percettiva, si può diventare più abili nell’affrontare<br />

i problemi organizzativi in altri contesti della vita» 95 . Contro<br />

l’odierna sovrabbondanza di “stimolazione sensoriale”, che ottunde la<br />

capacità di comprendere e conferma i giovani nel «sospetto che non ci<br />

sia alcun rapporto tra quel che c’è da vedere e quel che c’è da sapere»,<br />

un compito educativo urgente è quello di organizzare “sfide percettive”<br />

96 che attivino tutte le risorse della mente.<br />

Arnheim, constatato che ormai il motore dell’arte «è in folle, veloce,<br />

ma inutile» 97 – «l’arte riflette la mente, e non ci può essere buona<br />

arte senza umanità» 98 – ripone le sue speranze, anche per l’arte del futuro,<br />

nell’educazione. «La società ha tratto le sue immagini di miseria<br />

e grandezza, di gioia e sofferenza, dall’immaginazione dei suoi artisti.<br />

Anche oggi dovremmo accettare di farci guidare da tali immagini, in<br />

un momento in cui sarebbero molto utili per denunciare la depravazione<br />

e per confermarci nel nostro diritto di utilizzare questa terra e<br />

di godere di essa. Ci turba quindi il fatto di non essere sicuri se le arti<br />

siano ancora disposte o capaci di far luce sulle norme del nostro vivere<br />

nella dovuta maniera» 99 . Il problema è quello dell’immaginazione – la<br />

capacità di fare immagini – nella “civiltà dell’immagine”. Immagini,<br />

quelle <strong>delle</strong> arti, che dovrebbero essere «in grado di produrre esperienze<br />

abbastanza complesse e profonde da rendere giustizia ai cervelli<br />

umani» 100 .<br />

Per evidenziare che ciò investe un raggio d’azione che travalica le<br />

arti visive mi piace chiudere con uno scrittore, Italo Calvino, il quale,<br />

tra i pochi valori da salvare per il millennio appena iniziato, ha incluso<br />

proprio la Visibilità. Le immagini a cui mira sono «immagini visuali<br />

nitide, incisive, memorabili» – l’aggettivo “icastico” è per lui il più appropriato,<br />

come lo è “pregnante” per Arnheim – e quello che trova è<br />

la “patologia della forma”, come se «un’epidemia pestilenziale» avesse<br />

colpito l’umanità in questa sua fondamentale capacità. «Viviamo sotto<br />

una pioggia ininterrotta di immagini; i più potenti media non fanno<br />

che trasformare il mondo in immagine e moltiplicarlo attraverso una<br />

fantasmagoria di giochi di specchi: immagini che in gran parte sono<br />

prive della necessità interna che dovrebbe caratterizzare ogni immagine,<br />

come forma e come significato, come forza d’imporsi all’attenzione,<br />

come ricchezza di significati possibili. Gran parte di questa nuvola<br />

d’immagini si dissolve immediatamente come i sogni che non lasciano<br />

traccia nella memoria; ma non si dissolve una sensazione d’estraneità<br />

e di disagio» 101 . Stando così le cose, «il potere di evocare immagini<br />

in assenza continuerà a svilupparsi in un’umanità sempre più inondata<br />

dal diluvio <strong>delle</strong> immagini prefabbricate? [...] La memoria è ricoperta<br />

da strati di frantumi d’immagini come un deposito di spazzatura, dove<br />

è sempre più difficile che una figura fra le tante riesca ad acquistare<br />

133


ilievo. Se ho incluso la Visibilità nel mio elenco di valori da salvare è<br />

per avvertire del pericolo che stiamo correndo di perdere una facoltà<br />

umana fondamentale: […] di pensare per immagini» 102 .<br />

La visibilità significativa e non superficiale come antidoto alla “società<br />

dell’immagine”; la leggerezza “della pensosità” – uno spazio altro<br />

rispetto alla “pesantezza del vivere” – che si oppone alla “frivolezza<br />

pesante e opaca” del mondo estetizzato; la rapidità dello stile, che presenta<br />

alla mente “una folla d’idee simultanee”, di contro alla velocità<br />

e sinotticità dei nuovi media che rendono tutto “uniforme e omogeneo”;<br />

l’esattezza per contrastare “l’espandersi della peste” che colpisce<br />

le immagini e il linguaggio verbale nella “società della comunicazione”;<br />

la molteplicità dei codici, dei livelli, dei saperi, dello “scrivibile”,<br />

per tessere le infinite relazioni di tutto con tutto, come contrappeso<br />

alla settorialità e allo specialismo della scienza: sono questi i valori che<br />

Calvino si augurava non andassero perduti. «Tra i valori che vorrei<br />

fossero tramandati al prossimo millennio c’è soprattutto questo: d’una<br />

letteratura che abbia fatto proprio il gusto dell’ordine mentale e della<br />

esattezza, l’intelligenza della poesia e nello stesso tempo della scienza<br />

e della filosofia, come quella di Valéry saggista e prosatore» 103 . Valori,<br />

quindi, della letteratura; nondimeno, se abbiamo ben inteso la lezione<br />

<strong>delle</strong> Lettere e dei Pensieri, dell’arte in generale; valori, comunque, che<br />

l’“estetizzazione della lebenswelt”, da non confondere con lo “stato estetico”<br />

schilleriano, mette in serio pericolo.<br />

Il progetto educativo – «il distillato di una lunga esperienza» – che<br />

Rudolf Arnheim, pur consapevole che si tratti di una «immagine ideale»<br />

104 , ci lascia in eredità, può servirci da guida, solo se, interessati al<br />

futuro dell’umanità, come ogni progetto educativo dovrebbe essere,<br />

e preoccupati della situazione che Synopsis perspicuamente descrive,<br />

decidiamo di affrontare la “malattia” che per primo Friedrich Schiller<br />

ha diagnosticato.<br />

1<br />

F. Carmagnola e M. Senaldi, Synopsis. Introduzione all’educazione estetica, Guerini, Milano,<br />

2005.<br />

2<br />

Ivi, pp. 15-17.<br />

3<br />

Ivi, p. 149.<br />

4<br />

Ivi, pp. 67 e 73, corsivo mio. La parola “s-definizione”, che ha significati molteplici e<br />

persino contrastanti, relativamente all’arte è diventata popolare grazie a H. Rosenberg (1972),<br />

La s-definizione dell’arte, Feltrinelli, Milano, 1975.<br />

5<br />

F. Carmagnola e M. Senaldi, Synopsis. cit., rispettivamente pp. 74, 68, 66 e 66. Se ne<br />

potrebbe trarre una diversa conclusione. Se, come chiarisce Kant (cfr. § 48 della Critica della<br />

facoltà di giudizio, Einaudi, Torino, 1999, p. 147), ciò che «suscita disgusto» non può che<br />

«distruggere ogni compiacimento estetico, e quindi la bellezza», la scelta operata dall’arte per<br />

il “disgusto” e per l’“anestetico” potrebbe essere intesa proprio contro il “compiacimento”<br />

per la merce.<br />

6<br />

R. Arnheim, La sfida percettiva nell’educazione artistica (1971), in Id., Intuizione e intelletto.<br />

Nuovi saggi di psicologia dell’arte (1986), Feltrinelli, Milano, 1987, p. 273.<br />

7<br />

F. Carmagnola e M. Senaldi, Synopsis, cit., p. 52.<br />

134


8<br />

Ivi, p. 148.<br />

9<br />

Ivi, pp. 130 e 150.<br />

10<br />

Ivi, pp. 150, 150, 149 (corsivo mio), 149, 183, 183, 150. Cfr. anche F. Carmagnola, Della<br />

mente e dei sensi. Oggetti dell’arte e oggetti del design nella cultura contemporanea, Anabasi,<br />

Milano, 1994.<br />

11<br />

F. Carmagnola e M. Senaldi, Synopsis, cit., pp. 38, 113 e 44. Il giudizio, tutto sommato,<br />

negativo su Arnheim non è esplicitamente formulato dagli autori. A parte l’aggettivo “tradizionale”<br />

– da loro così contestualizzato: «Proprio questa posizione esemplare e tradizionale<br />

dell’arte» – la valutazione si ricava dall’andamento del discorso e anche dal confronto con<br />

G. Dorfles che il lettore non può non fare data l’analisi contigua <strong>delle</strong> due posizioni. Relativamente<br />

a quest’ultimo punto si considerino i seguenti passi: «Ci soffermeremo ora su<br />

due posizioni esemplari. La prima, quella di Rudolf Arnheim, fa dell’arte il punto chiave<br />

del modello educativo. L’altra, quella di Gillo Dorfles, allarga il campo di attenzione a una<br />

maggiore varietà di fenomeni estetici che riguardano le cosiddette “arti applicate”»; «Una<br />

posizione assai avanzata e aperta è quella rappresentata dal complesso della pluridecennale<br />

ricerca di Gillo Dorfles. Dorfles non si è limitato a esplorare il terreno privilegiato dell’arte<br />

ma, fedele in questo senso alle indicazioni presenti nella tradizione che risale a Kant, ha<br />

tenuto presenti le molteplici dimensioni dell’esperienza estetica. Attento osservatore <strong>delle</strong><br />

tendenze estetiche e <strong>delle</strong> evoluzioni del gusto, Dorfles ha avuto il merito di compiere per<br />

quasi mezzo secolo una continua opera di commento sugli eventi estetici contemporanei», ivi<br />

pp. 45, 44 e 46. Poiché anche Arnheim si è occupato di “arti applicate” ed è stato “attento<br />

osservatore” l’omissione è, quanto meno, sospetta.<br />

12<br />

Ivi, pp. 119-130. Sul post-human cfr. anche A. Trimarco, Post-storia. Il sistema dell’arte,<br />

Editori Riuniti, Roma, 2004, pp. 53-61.<br />

13<br />

F. Carmagnola e M. Senaldi, Synopsis. cit., soprattutto, pp. 48-53.<br />

14<br />

Nella modernità la base del progetto pedagogico «consiste nella costruzione, mentre<br />

la scienza moderna va elaborandosi, d’un’immagine astratta e oggettiva della cognizione. Ciò<br />

determinerà […] la separazione del “cognitivo”, divenuto unica materia d’insegnamento, da<br />

altre sfere prima rientranti nell’ambito della conoscenza, della cognizione o dell’insegnamento.<br />

È il caso della corporeità», dell’affettività, dell’immaginazione, dell’azione («i moderni smisero<br />

assai per tempo di considerare la fronesis ‘prudentia’, una forma di sapere»), dell’etica, della<br />

tecnica e «persino il registro della percezione è allontanato dalla conoscenza», F. Gill, Insegnamento,<br />

Enciclopedia, 7, Einaudi, Torino, 1979, pp. 714-715.<br />

15<br />

R. Arnheim, Pensieri sull’Educazione artistica (1989), Aesthetica, Palermo, 1992, p. 105.<br />

16<br />

Cfr. L. Pizzo Russo, Conversazione con Rudolf Arnheim, “Aesthetica Preprint”, 2, 1983,<br />

p. 17; ora in Ead. (a cura di), Rudolf Arnheim. Arte e percezione visiva, “Aesthetica Preprint:<br />

Supplementa”, 14 (2005), pp. 251-289.<br />

17<br />

R. Arnheim, Le arti e la psicologia, in L. Pizzo Russo (a cura di), Estetica e psicologia,<br />

Il Mulino, Bologna, 1982, p. 14.<br />

18<br />

Per la prima citazione R. Arnheim, Pensieri sull’Educazione artistica, cit. p. 107; per<br />

la seconda Id., Per la salvezza dell’arte. Ventisei saggi (1992), Feltrinelli, Milano, 1994, p. 19.<br />

19<br />

Cfr. L. Pizzo Russo, Arte, educazione estetica e processi mentali, in L. Pizzo Russo (a<br />

cura di), L’educazione estetica, Aesthetica, Palermo, 1986; Ead. Pensare, educare all’arte, in<br />

Il sapere dell’immagine: Arte contemporanea e scuola (Atti dell’omonimo Convegno tenuto a<br />

Prato l’1-2 dicembre del 1989), La Nuova Italia, Firenze, 1991.<br />

20<br />

I limiti necessarî nell’uso di forme belle, un saggio sempre del 1795, strettamente connesso<br />

alle tematiche <strong>delle</strong> Lettere, si legge in trad. it. in Fr. Schiller, L’educazione estetica (1795),<br />

Aesthetica, Palermo, 2005.<br />

21<br />

Id., Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, in Id., L’educazione estetica, cit., p. 29.<br />

22<br />

L’incipit della raccolta di saggi, cit., è il seguente: «Le arti hanno mai avuto bisogno<br />

in passato di essere salvate?».<br />

23<br />

Fr. Schiller, Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, cit. p. 47: «L’uomo reca in sé<br />

incontestabilmente la disposizione alla divinità nella sua personalità; la via per la divinità,<br />

se via si può chiamare qualcosa che non conduce mai alla meta, si apre attraverso i sensi».<br />

In Arnheim non ho trovato una frase così incisiva quale quella riportata nel testo, ma, per<br />

trovare i medesimi concetti di Schiller si cfr. i due saggi Al di là della doppia verità; e Arte<br />

come religione (in R. Arnheim, Per la salvezza dell’arte, cit.).<br />

24<br />

I termini sono di Schiller (Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, cit. note 62 e 50),<br />

ma i concetti, lo vedremo, sono anche di Arnheim.<br />

25<br />

Mi pare utile riportare per intero la nota 52 (Schiller, Lettere sull’educazione estetica<br />

135


dell’uomo, cit., p. 100) proprio per la consonanza con la posizione di Arnheim: «Il cattivo<br />

influsso di una sensualità preponderante sul nostro pensare e sul nostro agire è evidente a<br />

tutti; non così evidente, sebbene capiti altrettanto di frequente e sia ugualmente importante,<br />

è l’influsso nocivo di una preponderante razionalità sulla nostra conoscenza e sulla nostra<br />

condotta. Mi si conceda perciò di ricordare, tra il gran numero dei casi pertinenti, solo due<br />

che possono far luce sui danni prodotti da una forza di pensiero e di volontà che usurpa il<br />

diritto dell’intuizione e della sensazione. Una <strong>delle</strong> cause principali per cui le nostre scienze<br />

naturali progrediscono così lentamente è evidentemente la generale e irrefrenabile tendenza<br />

ai giudizî teleologici, nei quali, non appena vengono usati come costitutivi, si sostituisce la<br />

facoltà determinante a quella ricettiva. Per quanto potentemente e variamente la natura possa<br />

agire sui nostri organi, tutta la sua molteplicità è perduta per noi perché non cerchiamo in<br />

essa null’altro se non ciò che vi abbiamo messo, perché non le consentiamo di entrare dentro<br />

di noi, ma piuttosto tendiamo verso di essa con una ragione impaziente e arrogante. Se perciò<br />

dopo secoli arriva uno che le si accosta con un sentire calmo, puro e aperto e perciò si imbatte<br />

in una quantità di fenomeni che a noi, con le nostre prevenzioni, sono passati inosservati,<br />

ci stupiamo grandemente che tanti occhi non abbiano visto nulla in un giorno così chiaro.<br />

Questo tendere precipitosamente verso l’armonia prima di aver messo insieme le note che<br />

dovrebbero formarla, questa violenta usurpazione della facoltà del pensiero in un àmbito in<br />

cui esso non deve comandare affatto è la ragione della infruttuosità di tante teste pensanti<br />

per il bene della scienza, ed è difficile dire se sia la sensibilità, che non assume forma alcuna,<br />

o la ragione, che non attende alcun contenuto, ad aver nuociuto maggiormente all’ampliamento<br />

<strong>delle</strong> nostre conoscenze. Dovrebbe essere altrettanto difficile determinare se la nostra<br />

filantropia pratica sia inficiata e raffreddata maggiormente dall’impetuosità dei nostri desiderî<br />

o dalla rigidità dei nostri principî, dall’egoismo dei nostri sensi o dall’egoismo della nostra<br />

ragione. Per fare di noi degli uomini partecipi, soccorrevoli e attivi bisogna che il sentimento<br />

e il carattere si uniscano e per procurarci l’esperienza debbono incontrarsi schiettezza<br />

dei sensi ed energia dell’intelletto. Come possiamo, pur con massime così lodevoli, essere<br />

accondiscendenti, benevoli e umani verso gli altri, se ci manca la capacità di accogliere in<br />

noi in modo fedele e veritiero una natura estranea, adeguarci a situazioni estranee, far nostri<br />

i sentimenti altrui? Questa capacità viene però repressa sia nell’educazione che riceviamo,<br />

sia in quella che noi stessi ci diamo, nella misura in cui si cerca di spezzare la potenza dei<br />

desiderî e di consolidare il carattere mediante principî. Poichè costa difficoltà restare fedeli<br />

ai propri principî, nonostante la vivacità del sentimento, si usa il mezzo più comodo, quello<br />

di mettere al sicuro il carattere ottundendo i sentimenti; è infatti infinitamente più semplice<br />

aver pace di fronte a un nemico disarmato che vincere un nemico coraggioso e gagliardo. In<br />

questa operazione consiste anche in massima parte ciò che si chiama formare un uomo, e ciò<br />

nel senso migliore del termine, laddove significa emendare l’uomo interiore, non solo quello<br />

esteriore. Un uomo così formato non sarà ovviamente al sicuro dall’essere rozza natura e apparire<br />

come tale; tuttavia egli sarà al tempo stesso corazzato di principî contro tutte le sensazioni<br />

della natura e l’umanità di fuori gli si potrà avvicinare tanto poco quanto quella di dentro.<br />

È un abuso assai nocivo quello che si fa dell’ideale di perfezione, quando lo si pone in tutta<br />

la sua severità a fondamento del giudizio su altri uomini e dei casi in cui bisogna agire per<br />

essi. Il primo condurrà all’esaltazione, il secondo alla durezza e all’indifferenza. Naturalmente<br />

ci si alleviano grandemente i doveri sociali, se si sostituisce nel pensiero all’uomo reale che<br />

chiede il nostro aiuto l’uomo ideale, che probabilmente potrebbe aiutarsi da solo. Ciò che<br />

fa il carattere veramente eccellente è la severità verso sé stessi unita all’indulgenza verso gli<br />

altri. Ma di solito l’uomo indulgente con gli altri lo sarà anche con sé stesso, e chi è severo<br />

con sé stesso lo sarà anche con gli altri; il carattere più spregevole è l’essere indulgente con<br />

sé stesso e severo con gli altri».<br />

26<br />

«Al linguaggio come oggetto in generale (se si escludono le numerose riflessioni sul<br />

linguaggio poetico) Schiller dedica in generale poca attenzione, come gli rimprovera Humboldt»,<br />

giusta l’osservazione di G. Pinna che ha curato l’edizione italiana de L’educazione<br />

estetica, cit., p. 105. Arnheim è l’autore de Il mito dell’agnello che belava (in Id. Verso una<br />

psicologia dell’arte. Espressione visiva, simboli e interpretazione, Einaudi, Torino, 1969, p. 173),<br />

un saggio in cui critica la concezione che «appunto al linguaggio noi dobbiamo il mondo<br />

quale lo vediamo. Questa singolarissima perversione vede la luce nel diciottesimo secolo, con<br />

Johann Gottfried von Herder e Wilhelm von Humboldt».<br />

27<br />

Per Schiller cfr. soprattutto le lettere xxvi e xxvii; per Arnheim basti considerare la<br />

recensione estremamente critica a Arte e illusione di E. H. Gombrich (R. Arnheim, La storia<br />

dell’arte e il Dio partigiano, 1962, in Id., Verso una psicologia dell’arte, cit., p. 191): «Raramente<br />

136


l’artista si preoccupa di far sì che le cose appaiano reali. Egli desidera che siano vive. È questa<br />

una ricerca illusionistica? Per che cosa dunque lottava Donatello quando maledì il suo Zuccone<br />

perché non parlava? Donatello non ricercava il magico potere di Pigmalione. Intendeva<br />

modellare e combinare i volumi plastici in modo tale che la loro costellazione manifestasse<br />

la “dinamica visiva” adatta per la figura umana. Mai nelle arti, salvo in qualche episodio di<br />

illusionimo estremo, “esser vivo” ha significato essere simile agli esseri viventi: sempre deve<br />

essere stata ovvia la differenza tra natura e simulacro. Le opere d’arte non sono solo <strong>delle</strong><br />

equivalenze – per usare il termine di Gombrich – ma certo sono sempre state viste come tali.<br />

“Esser vivo” per un’opera significa manifestare la qualità percettiva della vita». Vale a dire,<br />

nella terminologia di Schiller, essere “forma vivente”.<br />

28<br />

Fr. Schiller, Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, cit., p. 23. Nella nota 50, p. 99,<br />

Schiller precisa che «In una filosofia trascendentale, il cui intento principale consiste nel liberare<br />

la forma dal contenuto e di cogliere il necessario libero da ogni accidente, ci si abitua facilmente<br />

a pensare la materialità come semplice impedimento e a rappresentarsi la sensibilità,<br />

proprio perché essa è di ostacolo a tale compito, in contraddizione con la ragione. Una simile<br />

concezione non sta in alcun modo nello spirito del sistema kantiano, ma potrebbe certamente<br />

stare nella lettera di esso». R. Arnheim, Film come arte (1959), Il Saggiatore, Milano, 1960, p.<br />

40: «In quell’epoca, i miei maestri Max Wertheimer e Wolfgang Köhler, stavano ponendo le<br />

basi teoriche e pratiche della teoria della Gestalt (forma) all’Istituto psicologico dell’Università<br />

di Berlino, e io mi trovai agganciato a quella che potremo chiamare una tendenza kantiana<br />

della nuova dottrina, secondo la quale anche i processi visivi più elementari non producono<br />

immagini meccanicamente registrate del mondo esterno, ma organizzano il materiale grezzo<br />

fornito dai sensi in modo creativo secondo i principi di semplicità, regolarità ed equilibrio<br />

che governano il meccanismo che riceve».<br />

29<br />

R. Arnheim, Pensieri sull’educazione artistica, cit., p. 74.<br />

30<br />

Fr. Schiller, Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, cit. p. 32. Ma si veda per intero<br />

la lettera vi.<br />

31<br />

Ivi, pp. 50, 51, 40 e 51.<br />

32<br />

Basti pensare solo a H. Marcuse (Eros e civiltà, 1956, Einaudi, Torino, 1964, p. 193)<br />

che giudica le Lettere sull’educazione estetica «una <strong>delle</strong> posizioni di pensiero più avanzate».<br />

33<br />

F. Carmagnola e M. Senaldi, Synopsis, cit., p. 119.<br />

34<br />

Cfr. la critica, lucida e quanto mai opportuna, di M. Perniola, Contro la comunicazione,<br />

Einaudi, Torino, 2004.<br />

35<br />

J. Dewey, Arte come esperienza (1934), La Nuova Italia, Firenze, 1951, p. 88. «La<br />

supposizione che l’artista si limiti ad una registrazione primitiva, quasi animalesca dei dati<br />

sensori, mentre il tipo più avanzato dell’Homo sapiens è capace di pensiero, è stata espressa<br />

con divertente franchezza da uno dei fondatori della psicologia moderna, Ivan P. Pavlov, in<br />

una conferenza dal titolo Sui tipi umani: l’artistico e il pensante. Rivolgendosi ai partecipanti<br />

al suo seminario del mercoledì mattina, presso il laboratorio fisiologico dell’Accademia<br />

russa <strong>delle</strong> scienze, l’ottantacinquenne padre dei riflessi condizionati disse, nel 1935: “Ora<br />

colleghi volgiamoci al problema seguente. Quando analizzammo pazienti nevrotici in clinica<br />

neurologica, io giunsi alla conclusione che esistono due tipi di nevrosi specificamente umane:<br />

l’isterismo e la psicastenia; collegai queste conclusioni al fatto che nell’uomo due sono i tipi di<br />

attività nervosa superiore, e precisamente il tipo artistico, coerentemente analogo e prossimo<br />

a quello animale, poiché anche gli animali percepiscono il mondo esterno sotto forma di impressioni,<br />

esclusivamente e direttamente per mezzo di organi recettori; e quello intellettuale,<br />

che funziona con l’ausilio del secondo sistema di segnalazione. Pertanto il cervello umano è<br />

composto del cervello animale e della parte, puramente umana, connessa al parlare. È questo<br />

secondo sistema segnalatore che, nell’uomo, comincia a prevalere. Si può ritenere che in certe<br />

condizioni sfavorevoli, quando il sistema nervoso è indebolito, questa divisione filogenetica<br />

si ripresenti; allora, probabilmente, un individuo impiegherà prevalentemente il primo sistema<br />

segnalatore, mentre un altro impiegherà prevalentemente il secondo. Ed è ciò appunto<br />

che divide gli uomini in soggetti artistici e soggetti astratti e puramente intellettuali”», R.<br />

Arnheim, Verso una psicologia dell’arte, cit., p. 171.<br />

36<br />

L. Wittgenstein, Ultimi scritti 1945-1951. La filosofia della psicologia, Laterza, Roma-<br />

Bari, 1998, p. 542.<br />

37<br />

E. Migliorini, L’estetica fra Seicento e Settecento, in M. Dufrenne e D. Formaggio (a<br />

cura di), Trattato di estetica, 1, Milano, Mondadori, Milano, 1981, p. 209.<br />

38<br />

Schiller, che assiste all’iniziale chiamata in causa dell’inconscio per l’arte, giudicando la<br />

cosa una “buffoneria”, la ritiene senza futuro, come si legge nella lettera che il 26 luglio 1800<br />

137


scrive a Goethe (cit. in R. Arnheim, Verso una psicologia dell’arte, cit., p. 217): «Ti accludo una<br />

nuova rivista, che mi hanno mandato e che ti sorprenderà mostrandoti l’influenza di Schlegel<br />

sulla più recente critica d’arte. Non vale la pena di parlare della fine che farà tutta questa<br />

agitazione; ma certo né la produzione artistica in se stessa, né la sensibilità artistica, potranno<br />

trarre alcun profitto da una buffoneria tanto vacua e vuota. Restai meravigliato leggendo che<br />

la vera produzione dell’arte dev’essere interamente inconsapevole, e in particolare al tuo genio<br />

si accredita il grandissimo merito di agire del tutto al di fuori della coscienza. Perciò sei del<br />

tutto fuori strada, se continui quel tuo sforzo instancabile di lavorare con la massima possibile<br />

riflessione, e di renderti conto del processo che si svolge in te stesso». Come è noto le cose<br />

sono andate diversamente, e Arnheim ha sviluppato una posizione critica che, ritengo, non<br />

sarebbe dispiaciuta a Schiller.<br />

39<br />

N. Goodman, I linguaggi dell’arte (1968), Il Saggiatore, Milano, 1976, p. 208.<br />

40<br />

Come evidenzia I. Putnam (1999, Mente corpo, mondo, Il Mulino, Bologna, 2003, p. 26),<br />

a parte qualche eccezione, come Senso e sensibilia di J. Austin a cui «i filosofi anglo-americani<br />

reagirono in modo piuttosto blando […], per lo più, la filosofia della percezione cadde in oblio<br />

presso i filosofi analitici. Dopo gli anni ’50, con l’abbandono dell’interesse per la fenomenologia,<br />

essa cadde in oblio anche presso i filosofi “continentali”». Per la psicologia «basti pensare<br />

che il termine stesso di “percezione” venne addirittura espunto dal lessico comportamentistico»,<br />

P. Meazzini, Watson, uomo e scienziato, in J. B. Watson (1930 2 ), Il comportamentismo, Giunti,<br />

Firenze, 1983, p. xxxvii.<br />

41<br />

N. Goodman, I linguaggi dell’arte, cit., pp. 13 e 35: «Che la natura imiti l’arte è una<br />

massima troppo prudente. La natura è un prodotto dell’arte e del discorso».<br />

42<br />

Id., Vedere e costruire il mondo (1978), Laterza, Roma-Bari, 1988, pp. 4 e 6-7.<br />

43<br />

I. Putnam, Realismo dal volto umano (1990), Il Mulino, Bologna, 1995, p. 506.<br />

44<br />

Non manca, però, di precisare che oltre l’educazione al gusto e alla bellezza «vi è<br />

un’educazione alla salute, un’educazione alla comprensione intellettuale, un’educazione alla<br />

moralità», Fr. Schiller, Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, cit., p. 102.<br />

45<br />

R. Arnheim, Pensieri sull’Educazione artistica, cit., p. 106.<br />

46<br />

F. Carmagnola e M. Senaldi, Synopsis, cit., p. 119.<br />

47<br />

«Ho definito col neologismo di sensologia la trasformazione dell’ideologia in una nuova<br />

forma di potere che dà per acquisito un consenso plebiscitario fondato su fattori affettivi e<br />

sensoriali», M. Perniola, Contro la comunicazione, cit., p. 7.<br />

48<br />

Cfr. R. Arnheim, Gestalten and computers, “Gestalt Theory”, 1999, 21, 3.<br />

49<br />

Cfr. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare (1964), Il Saggiatore, Milano, 1967;<br />

D. De Kerckhove, Brainframes. Mente, tecnologia, mercato (1991), Barskeville, Bologna, 1993.<br />

50<br />

Cfr., ad esempio, N. Warburton, La questione dell’arte (2003), Einaudi, Torino, 2004,<br />

relativamente alla definizione dell’arte.<br />

51<br />

R. Arnheim, Parabole della luce solare (1989), Editori Riuniti, Roma, 1992, pp. 291-292.<br />

52<br />

Id., Per la salvezza dell’arte, cit., p. 44.<br />

53<br />

Id., Pensieri sull’Educazione artistica, cit., pp. 63 e 64.<br />

54<br />

Id., Per la salvezza dell’arte, cit., p. 74, trad. leggermente modificata. Ovviamente la<br />

concezione della percezione che troviamo in Schiller differisce notevolmente dalla teoria<br />

gestaltista della percezione. Ma Schiller, interessato alla forma artistica, raggiunge posizioni<br />

simili a quelle di Arnheim, solo che le capacità della percezione le attribuisce al genio: «Certo<br />

lo spirito intuitivo ha a che fare solo con individui, e quello speculativo solo con generi. Se<br />

però lo spirito intuitivo è geniale e cerca in quello empirico il carattere della necessità, esso<br />

creerà individui, ma con il carattere del genere», da una lettera a Goethe del 23 agosto 1794,<br />

riportata da G. Pinna in F. Schiller, Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, cit., p. 97.<br />

55<br />

Cfr. R. Arnheim, Il pensiero visivo. La percezione visiva come attività conoscitiva (1969),<br />

Feltrinelli, Milano, 1974. Per la presa d’atto che «la visione è più di un senso: è intelligenza»,<br />

cfr. T. Poggio, L’occhio e il cervello. Che cosa significa «vedere», Theoria, Roma-Napoli, 1991.<br />

56<br />

R. Arnheim, Il pensiero visivo, cit., p. 223.<br />

57<br />

Per la prima posizione cfr. J. McDowell, Mente e mondo (1994), Einaudi, Torino, 1999;<br />

per la seconda posizione cfr. M. Ferraris, Mente e mondo o scienza e esperienza, “Rivista di<br />

estetica”, n.s., 12, 3, 1999.<br />

58<br />

La prima frase rimanda a W. Köhler, Il posto del valore in un mondo di fatti (1938),<br />

Giunti-Barbera, Firenze, 1969, un’opera di cui Arnheim, a ragione, sottolinea la grande<br />

importanza. Per lui «che il valore sia escluso dalla scienza in genere o dalla psicologia in<br />

particolare è una superstizione. […] La psicologia senza l’aspetto dei valori sarebbe come<br />

castrata», L. Pizzo Russo, Conversazione con Rudolf Arnheim, cit. p. 13. La seconda al decimo<br />

138


capitolo (“Il posto dei fatti in un mondo di valori”) di H. Putman, Realismo dal volto umano<br />

(1990), Il Mulino, Bologna, 1995.<br />

59<br />

R. Arnheim, La sfida percettiva nell’educazione artistica, cit., p. 270.<br />

60<br />

Id., La mente a doppio taglio: intuizione e intelletto (1985), in Id., Intuizione e intelletto.<br />

Nuovi saggi di psicologia dell’arte, cit., p. 364.<br />

61<br />

Id., Per la salvezza dell’arte, cit., p. 19.<br />

62<br />

Sulla “soggettività genetica”, sul fatto cioè che la percezione dipende dai processi dell’organismo,<br />

e, nondimeno, sull’oggettività della percezione cfr. W. Köhler, Il posto del valore in<br />

un mondo di fatti, cit. pp. 99-109.<br />

63<br />

R. Arnheim, Per la salvezza dell’arte, cit., pp. 18-19.<br />

64<br />

Id., Percetti oggettivi, valori oggettivi (1986), in Id., Intuizione e intelletto. Nuovi saggi<br />

di psicologia dell’arte, cit., pp. 363-364. Si cfr. anche, Id., Dalla funzione all’espressione (1964),<br />

in Id., Verso una psicologia dell’arte, cit., pp. 235-259.<br />

65<br />

Ivi, pp. 363-364 e 364-365.<br />

66<br />

Id., Pensieri sull’Educazione artistica, cit., p. 103.<br />

67<br />

Id., La mente a doppio taglio: intuizione e intelletto, cit., pp. 27-28. «L’intuizione e<br />

l’intelletto si pongono con la percezione e il pensiero in un rapporto piuttosto complesso.<br />

L’intuizione viene meglio definita come una particolare proprietà della percezione, in modo<br />

specifico come la capacità che essa ha di cogliere direttamente l’effetto di un’interazione<br />

svolgentesi in un campo o in una situazione di tipo gestaltico. L’intuizione viene messa in<br />

relazione con la sola percezione anche perché in ambito cognitivo la percezione è l’unica a<br />

operare per processi di campo. In ogni caso, dal momento che la percezione non è in alcun<br />

modo separata dal pensiero, l’intuizione svolge un suo ruolo in ogni atto cognitivo, sia esso<br />

propriamente percettivo o di tipo più raziocinante. Anche l’intelletto, peraltro, opera a tutti<br />

i livelli della cognizione», ivi, pp. 28-29.<br />

68<br />

Id., Il pensiero visivo, cit., p. 289.<br />

69<br />

Id., La mente a doppio taglio: intuizione e intelletto, cit., pp. 34 e 45.<br />

70<br />

Il concetto rappresentativo è «quel concetto della forma grazie al quale la struttura<br />

percepibile dell’oggetto può venire rappresentata tramite le proprietà di un determinato medium»,<br />

Id., Arte e percezione visiva (1974 2 ), Feltrinelli, Milano, 2002 17 , p.127.<br />

71<br />

Id., Verso una psicologia dell’arte, cit., p. 202.<br />

72<br />

Id., Il pensiero visivo, cit., p. 353.<br />

73<br />

Id., Verso una psicologia dell’arte, cit., p. 380.<br />

74<br />

Cfr. L. Russo (a cura di), Il Gusto. Storia di una idea estetica, Aesthetica, Palermo, 2000.<br />

75<br />

«Forse la parola gusto, nel senso figurato del termine, deriva dalla sensazione propria<br />

del palato, perché il senso del gusto privilegia la soggettività di ciò che è gradevole o repellente<br />

e perché, più di ogni altro, riguarda ciò che attiene alla persona essendo i suoi stimoli<br />

cose realmente introdotte nel corpo, e non cose che vengono solo toccate dall’esterno o che<br />

sono sentite come qualcosa che sta da qualche parte, nelle vicinanze», R. Arnheim, Parabole<br />

della luce solare, cit., pp. 124-125.<br />

76<br />

Ivi, p. 262.<br />

77<br />

Id., Pensieri sull’Educazione artistica, cit., p. 74.<br />

78<br />

Id., Verso una psicologia dell’arte, cit., p. 378.<br />

79<br />

Ivi, p. 80.<br />

80<br />

Id., Arte e percezione visiva, cit., p. 361.<br />

81<br />

Id., Verso una psicologia dell’arte, cit., p. 381.<br />

82<br />

Id., Pensieri sull’Educazione artistica, cit., p. 74.<br />

83<br />

Id., Verso una psicologia dell’arte, cit., p. 426.<br />

84<br />

Id., Per la salvezza dell’arte, cit., p. 10.<br />

85<br />

Id., Pensieri sull’Educazione artistica, cit., pp. 75-76.<br />

86<br />

Id., Film come arte, cit., p. 63.<br />

87<br />

Id., Il pensiero visivo, cit., pp. 23-24.<br />

88<br />

Id., Verso una psicologia dell’arte, cit., p. 23, corsivo mio.<br />

89<br />

Id., Il pensiero visivo, cit., p. 273.<br />

90<br />

Ivi, p. 369.<br />

91<br />

Id., Pensieri sull’Educazione artistica, cit., p. 79.<br />

92<br />

«L’argomentazione “ostensiva”, svolta col dito indice teso ad additare i fatti tangibili,<br />

facendo confronti e attirando l’attenzione sulle relazioni di maggior rilievo, costituisce un<br />

modo del tutto legittimo di favorire la comprensione mediante uno sforzo comune», Id., La<br />

dinamica della forma architettonica (1977), Feltrinelli, Milano, 1981, p. 15.<br />

139


93<br />

Id., Pensieri sull’Educazione artistica, cit., pp. 92 e 98.<br />

94<br />

Id., Verso una psicologia dell’arte, cit., pp. 430 e 434.<br />

95<br />

Id., Pensieri sull’Educazione artistica, cit., pp. 81-82.<br />

96<br />

Id., La sfida percettiva nell’educazione artistica, cit., p. 276.<br />

97<br />

Id., Verso una psicologia dell’arte, cit., p. 419.<br />

98<br />

Id., Intuizione e intelletto. Nuovi saggi di psicologia dell’arte, cit. p. 273.<br />

99<br />

Ivi, p. 267.<br />

100<br />

Ivi, p. 269.<br />

101<br />

I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti, Milano,<br />

1988, pp. 57, 58 e 58-59.<br />

102<br />

Ivi, pp. 91-92.<br />

103<br />

Ivi, p. 115.<br />

104<br />

R. Arnheim, Pensieri sull’Educazione artistica, cit., pp. 62 e107.<br />

140


Rudolf Arnheim e la formazione dell’uomo *<br />

Chi ha davanti agli occhi un fenomeno pensa<br />

spesso al di là di esso; chi sente solo parlare di<br />

esso non pensa affatto.<br />

Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni<br />

A scorrere l’indice di questo breve ma densissimo lavoro di Rudolf<br />

Arnheim – una sorta di concentrato teorico di una lunga e originale<br />

attività di ricerca – si può trarre l’impressione che l’educazione sia marginale<br />

nell’economia del volume. Certo, compare fin dall’indice il cosa<br />

e il come insegnare, e, trattandosi di Art Education, viene pure affrontato<br />

l’annoso problema se sia possibile insegnarla, l’arte. Ma appunto:<br />

problema inattuale, quello dell’educazione artistica. Di fatto Arnheim,<br />

le cui opere principali sono tutte tradotte in italiano, nel dibattito pedagogico<br />

è quasi assente. Lo è anche quando si affronta l’educazione<br />

alla creatività (Mazzotta, 1990). Lo è persino quando si parla di arte<br />

(Quintavalle, 1989). Sicché gli ambiti in cui ricadono i due termini che<br />

circoscrivono i Pensieri è probabile che continuino a rimanere sordi<br />

a questa sorta di provocazione sub specie pedagogica della teoria di<br />

Arnheim. Tralasciando il versante storico-artistico, che prevede percorsi<br />

formativi precocemente differenziati (si pensi al Conservatorio o alla<br />

Scuola d’arte e all’Accademia di Belle <strong>Arti</strong>), in quanto non è il crinale<br />

in cui confinare la proposta, ritengo che nell’ambito più generale della<br />

riflessione pedagogica l’essere psicologia dell’arte, della psicologia di<br />

Arnheim, abbia finito col costituirsi come una sorta di invalicabile barriera<br />

sì da impedirne la stessa presa d’atto d’esistenza.<br />

Già in psicologia, per la quale Arnheim non farebbe che applicare<br />

principî psicologi all’arte, la teoria del pensiero visivo, fortemente<br />

dissonante dalla vulgata corrente, non ha circolazione adeguata. Va da<br />

sé che la pedagogia, se per attuare i suoi fini ritiene di avere bisogno<br />

<strong>delle</strong> conoscenze psicologiche che si vanno elaborando sul soggetto,<br />

non si rivolgerà a un settore applicativo della psicologia, o, quanto<br />

* Pubblicato come Presentazione al seconda edizione del volume di Rudolf Arnheim,<br />

Pensieri sull’educazione artistica, Palermo, Aesthetica, 2007, pp. 7-49.<br />

141


meno, non a questo settore applicativo. Né ci si può aspettare attenzione<br />

dalla psicologia dell’educazione, gravata anch’essa dall’etichetta<br />

applicativa. Questa, infatti, nelle difficoltà in cui si dibatte per passare<br />

dall’«emarginazione» all’«autonomia» (Lumbelli, 1982), ritiene prioritario<br />

confrontarsi con la “psicologia di base”. Per di più Arnheim è un<br />

esponente della psicologia della Gestalt, psicologia – ritenuta a torto<br />

limitata allo studio della percezione – i cui principî di fondo divergono<br />

dal cognitivismo, vale a dire dal paradigma psicologico oggi “influente”<br />

(Kanizsa e Caramelli, 1988). Relativamente alle finalità educative<br />

poi, se la scuola, organizzata per consentire «l’ingresso alla vita della<br />

ragione» (Bruner, 1961, 17), «si occupa principalmente di idee piuttosto<br />

che di sentimenti» (Lumbelli, 1982, 53), e se lo stereotipo corrente,<br />

fatto proprio dalla psicopedagogia, lega l’arte – «il linguaggio<br />

<strong>delle</strong> emozioni», secondo la definizione di Wojnar – al sentimento, è<br />

difficile che l’arte venga presa in seria considerazione. Di fatto «la cultura<br />

artistica è un mondo un po’ al di fuori della pedagogia» (Wojnar,<br />

1990, 48 e 47). Quest’ultima ha un atteggiamento nei confronti della<br />

prima che possiamo inscrivere nel segno del platonismo: «l’ambiguità<br />

platonica» dell’arte, oscillante tra «alta dignità» e «discredito» fino al<br />

bando dalla Politeia (Jauss, 1972, 14-18), è ravvisabile da un lato nel<br />

fascino suscitato dall’ideale estetico, per riprendere il titolo di un noto<br />

volume di Bertin (1974 2 ), e dall’altro in un progetto di Scuola che di<br />

fatto rende impossibile la “dimensione estetica”.<br />

Per Arnheim (1966, 376 e 381) il ricorso al sentimento per la spiegazione<br />

psicologica dell’arte «è una conseguenza locale di un difetto<br />

più generale del ragionamento psicologico, e precisamente dell’abitudine<br />

di definire un atto mentale mediante una sola <strong>delle</strong> sue dimensioni»;<br />

nonché del prevalere <strong>delle</strong> concezioni statiche, che in psicologia<br />

hanno portato «ad escludere gli aspetti dinamici dalla percezione e ad<br />

assegnarli o ad una specie di proiezione internamente generata o alla<br />

facoltà speciale, definita negativamente, sentimento». Se non trascuriamo<br />

le proprietà dinamiche dei percetti, e se, invece di distribuire<br />

in caselle separate le dimensioni di cui l’atto si compone, ci rendiamo<br />

conto che «qualsiasi stato mentale possiede dimensioni conoscitive,<br />

motivazionali ed emotive» (ivi, 371), la differenza tra “esperienza estetica”<br />

ed “esperienza” non è da porre a livello di facoltà o funzioni<br />

psichiche, bensì a livello dell’oggetto culturale definito “arte”. «Una<br />

volta che si comprenda che la capacità di cogliere l’espressione artistica<br />

nasce dall’osservazione completa, senza restrizioni, quotidiana, cadrà<br />

ogni distinzione artificiale tra i due campi, e la ricerca nel campo<br />

della psicologia generale della percezione troverà mutuo nutrimento<br />

con quella nel settore artistico» (1966, 381-82).<br />

Precisiamo allora che la teoria di Arnheim non è psicologia applicata<br />

all’arte, ma psicologia dei processi cognitivi comprensivi anche del<br />

fare e fruire l’arte (Pizzo Russo, 1991). Arnheim, infatti, se inizia appli-<br />

142


cando i principî della psicologia della Gestalt all’arte, principî che gli si<br />

rivelano da subito inadeguati a rendere conto della complessità dell’arte,<br />

poiché scopre che il pittore, il poeta, il musicista, il danzatore, lo<br />

scultore, chiunque operi produttivamente nel campo <strong>delle</strong> arti, «pensa<br />

mediante i propri sensi» (Arnheim, 1969, ix), e dimostra che il sinolo<br />

percezione-pensiero non è specifico <strong>delle</strong> arti ma del funzionamento<br />

reale della mente qualunque sia l’esperienza in cui è impegnata, finisce<br />

per ciò stesso col transitare nell’ambito di ciò che si chiama “ricerca<br />

di base”, dove legittimamente si inscrive il suo contributo. «Questa<br />

similarità fra quanto fa la mente nel campo artistico e quanto invece<br />

fa in altri settori, mi ha suggerito di considerare da un punto di vista<br />

nuovo la vetusta lamentela circa l’isolamento, anzi l’indifferenza di cui<br />

è oggetto l’arte nella società e nell’educazione. Il problema reale era<br />

forse più fondamentale: il problema era quello di una frattura tra senso<br />

e pensiero, che ha determinato nell’uomo moderno diverse malattie<br />

carenziali». La legittimazione pedagogica dell’arte non avviene quindi<br />

riconoscendo uno specifico psicologico all’arte, vuoi il sentimento, l’emozione<br />

o l’intuizione; ma se il pensiero produttivo, in qualsiasi campo<br />

della conoscenza, è visivo e più in generale percettivo, ne consegue<br />

«la funzione centrale dell’arte nell’educazione», consentendo, le arti,<br />

«il tirocinio più efficace per quanto riguarda il pensiero» (ivi, 347).<br />

Pertanto “educazione artistica” sta qui per educazione nell’accezione<br />

più generale: «formare una persona pienamente sviluppata». La<br />

qualifica di “artistica” non individua quindi il settore d’influenza su<br />

cui fare gravitare la proposta all’interno di un progetto educativo che<br />

la comprenda, bensì esibisce la cifra che caratterizza il progetto, e<br />

configura l’elemento indispensabile per sviluppare la campitura mentale<br />

in cui si dispiegherà, alla fine del processo formativo, la «rete di<br />

relazioni» che le diverse discipline, conoscenze, saperi e pratiche specialistiche<br />

avranno contribuito a tessere nella mente in formazione. Le<br />

tre aree che animano l’edificio educativo e consentono l’articolazione<br />

<strong>delle</strong> arti, <strong>delle</strong> scienze e <strong>delle</strong> tecniche, dei principî etici e <strong>delle</strong> regole<br />

di condotta, per Arnheim sono la filosofia, l’educazione visiva e l’educazione<br />

linguistica. Sebbene queste tre aree debbano attingere dalle<br />

diverse discipline, non vi è un rapporto biunivoco tra aree e discipline,<br />

e mentre le prime definiscono soprattutto gli strumenti per conseguire<br />

le finalità, le seconde individuano campi operativi storicamente formatisi<br />

in cui fare esercitare l’alunno per consentirgli la padronanza degli<br />

strumenti e il raggiungimento <strong>delle</strong> finalità stesse.<br />

«Inutile dire che il sistema educativo che ho abbozzato come ambiente<br />

per le arti è un’immagine ideale, oggi non realizzata a nessun<br />

livello», scrive Arnheim. Uno schizzo fortemente innovativo, che,<br />

proprio per questo, rischia di essere inquadrato, e perciò congelato,<br />

nella categoria “progetti utopici” che di tanto in tanto si affacciano<br />

nella storia della cultura. Viviamo in una congerie culturale lontana<br />

143


dal fascino dell’utopia. Travagliati dalla crisi dei valori, dalla barbarie<br />

criminale, dal crollo <strong>delle</strong> ideologie, dall’inquinamento ambientale<br />

e mentale, dall’aids, dalla droga, dall’esplosione di piccoli e grandi<br />

egoismi... come a credere homo homini lupus verità iscritta nel codice<br />

genetico, si è tutti intenti a pensare a nuove forme di contrattualità<br />

che rendano meno drammatico il tran tran della vita quotidiana.<br />

Lo spazio di un progetto educativo, soprattutto se radicalmente altro<br />

rispetto alla tradizione consolidata – gli elementi strutturali, (im)<br />

portanti, del modello Scuola, nonostante aggiustamenti di vario tipo,<br />

compresa l’“educazione all’immagine”, continuano ad essere le tre<br />

“r”, con leggere, scrivere, far di conto all’inizio del processo, e con<br />

la corrispettiva padronanza «di strumenti di tipo linguistico, logico,<br />

matematico», (Pontecorvo, 1980, 49) alla fine dello stesso – parrebbe<br />

inesistente in un contesto che ha come perduto la speranza non solo<br />

in un futuro migliore ma addirittura nel futuro. Eppure, l’educazione<br />

è un proceso che ha implicito in sé l’idea di futuro. Volente o nolente<br />

ogni istituzione, ogni discorso, ogni pratica educativa comportano<br />

un proiettarsi oltre il presente. E ogni progetto educativo, in quanto<br />

progetto e in quanto educativo, ha una tensione verso il non-luogo<br />

del dover essere. Il problema semmai è se il dover essere prospettato<br />

abbia una qualche incidenza sui problemi che assillano il presente<br />

e, più in generale, se il progetto educativo rispetti le caratteristiche<br />

essenziali per la formazione dell’uomo.<br />

Un progetto educativo si fonda sempre su un’idea dell’uomo: «Non<br />

si può infatti discutere di pedagogia senza avere assunto una determinata<br />

concezione dell’uomo» (Wojnar, 1990, 47). E, giusta l’osservazione<br />

di Asch (1952, xx e 26), «le opinioni sulla natura dell’uomo<br />

sono di interesse più che accademico», perché «la società incorpora<br />

nelle proprie istituzioni e cerca di realizzare nella pratica particolari<br />

concezioni sulla natura umana. Le convinzioni circa la natura umana<br />

sono espressioni <strong>delle</strong> condizioni sociali ed insieme armi della lotta<br />

sociale». Per Asch, critico nei confronti della psicologia comportamentista<br />

per la concezione dell’uomo come «un animale mal riuscito o un<br />

insieme di dispositivi meccanici», «comprendere ciò significa rendersi<br />

conto della grande importanza di una scienza psicologica umana». Si<br />

tenga anche presente quanto va sotto il nome di «conferma comportamentale»,<br />

su cui da tempo insistono gli psicologi sociali interazionisti,<br />

per rendere conto «dei circoli viziosi in cui ognuno spinge gli altri a<br />

comportarsi secondo le proprie attese e, una volta che ottiene dall’altro<br />

l’informazione che si aspetta (che ha indotto in qualche modo), la utilizza<br />

per confermare la validità <strong>delle</strong> proprie aspettative» (Palmonari,<br />

1989, 26). La «conferma comportamentale», per certi aspetti simile<br />

all’“effetto Pigmalione” di Rosenthal (1974), non riguarda soltanto lo<br />

«scienziato ingenuo», come il cognitivismo considera l’uomo comune<br />

oggetto di studio della psicologia, ma anche lo psicologo, vale a dire<br />

144


lo scienziato-non-ingenuo che studia l’ingenuo. Parafrasando Köhler<br />

(1959, 25), le premesse del paradigma psicologico accettato «portano<br />

a determinate aspettative ed esperimenti».<br />

Per chiarire la “concezione dell’uomo” di Arnheim prenderò in<br />

considerazione tre punti: la questione dei valori, la concezione dello<br />

sviluppo, e la natura dei pensiero. Punti caldi del dibattito contemporaneo<br />

ed elementi nodali per la riflessione sull’educazione, verranno<br />

trattati quel tanto che basti a delineare uno dei possibili sfondi problematici<br />

entro cui leggere la proposta arnheimiana, e serviranno, spero, a<br />

introdurre all’originalità e alla ricchezza innovativa che la caratterizza.<br />

L’arte nella modernità è stata teorizzata come valore e come portatrice<br />

di valori, in contrapposizione alla avalutatività assoluta dello<br />

scientismo positivistico, compresa la psicologia dall’orientamento<br />

«anti-umano» (Asch, 1952). Un campo, quello dell’arte, non adiaforo<br />

come la scienza, bensì attraversato e ricolmo di tutti quei valori<br />

che quest’ultima aveva ritenuto potere mettere da parte. Per Schiller<br />

(1795) solo l’arte è in grado di promettere all’uomo armonia, socialità,<br />

libertà, felicità, bontà, totalità, integralità, tutti quei valori insomma<br />

che la scienza moderna aveva bandito dal suo statuto. E se l’uomo<br />

diventa uomo attraverso l’educazione, l’educazione non può che essere<br />

estetica. Dopo Schiller l’educazione estetica viene infatti ritenuta<br />

“cruciale” per la difesa dei valori umani. Nel nostro secolo, si pensi<br />

alle varie proposte dell’“educazione con l’arte” per la formazione integrale<br />

dell’uomo, dove la creatività è, in una, valore fondamentale e<br />

generatore di valori (Read, 1943; Wojnar, 1963 e 1970). E ancora, a<br />

Marcuse di Eros e civiltà (1956, 193), per il quale le idee di Schiller<br />

«rappresentano una <strong>delle</strong> posizioni di pensiero più avanzate», o della<br />

dimensione estetica (1977, 15 e 87), per il quale l’arte, oltre la dimensione<br />

di promessa, è «un atto d’accusa contro la realtà costituita».<br />

«Contro il feticismo <strong>delle</strong> forze produttive, contro il continuo asservimento<br />

degli individui da parte <strong>delle</strong> condizioni oggettive (che restano<br />

quelle della dominazione), l’arte rappresenta l’ultima meta di tutte le<br />

rivoluzioni: la libertà e la felicità dell’individuo».<br />

Nondimeno, passando dall’“idea” dell’arte alle pratiche e alla riflessione<br />

sulle pratiche, a parte il processo di s-definizione, che da oggetto<br />

di valore ne ha fatto un «oggetto ansioso» (Rosenberg, 1972), «l’arte<br />

attuale, prona a qualunque speculazione mercantile, vuota di ogni riferimento<br />

all’uomo, alle sue speranze e ai suoi timori, diventa talvolta<br />

pericolosa, al punto di poterla definire killer art» (Baj, 1990, 134).<br />

In breve: l’arte non è un campo immune da tutto il nichilismo che<br />

attraversa la società. Per Arnheim (1966, 419) «l’atomizzazione della<br />

nostra cultura [...] fa sì che il motore dell’arte vada in folle, veloce ma<br />

inutile». Se nell’arte «tanta confusione, ipocrisia e malafede è possibile<br />

soltanto quando siano state offuscate le distinzioni tra vero e falso,<br />

145


tra buono e cattivo», ricorrere all’arte per educare ai valori significa<br />

scambiare il sintomo per la causa. E, se «neppure è vero che la pedanteria,<br />

la sterilità e la meccanicità si ritrovano soltanto nella scienza:<br />

sono egualmente presenti nell’arte» (Arnheim, 1969, 347), l’arte non<br />

può essere il toccasana per l’educazione alla creatività. «L’arte riflette<br />

la mente e non ci può essere buona arte senza umanità» (Arnheim,<br />

1986, 273). Come anche scienza o qualsiasi altra cosa l’uomo produca.<br />

Non è quindi l’arte ad avere il monopolio dei valori o della creatività,<br />

ma l’arte come altre pratiche culturali, di un soggetto i cui processi<br />

mentali possono essere produttivi e valutativi o ciechi e indifferenti,<br />

per usare i termini di Wertheimer.<br />

«In circostanze che mostrano la condizione umana “allo stato puro”,<br />

la virtù viene effettivamente compensata e il male punito, per la buona<br />

ragione che la virtù è semplicemente ciò che produce un avanzamento<br />

del benessere e il male ciò che si frappone ad esso» (Arnheim, 1986,<br />

294). Tale presa di posizione sembrerebbe frutto di quell’«ottimismo<br />

irrealistico e coriaceo», fondato su illusioni positive, di cui parla la social<br />

cognition (Taylor, 1989, 243). Ma non di questo si tratta. Arnheim<br />

condivide con “i padri fondatori” della psicologia della Gestalt – i suoi<br />

maestri – un ottimismo che possiamo chiamare assiologico. Wertheimer,<br />

ad esempio, per il quale spesso si ha «l’impressione che l’uomo più che<br />

un homo sapiens sia un homo insipiens», pure ritiene «che alla prova<br />

dei fatti la teoria pessimistica sia falsa» e argomenta che ciò che vi è<br />

di umano nell’uomo consiste in un nucleo positivo da cui si dipartono<br />

«vettori» nella direzione dei grandi valori elaborati dalle culture lungo<br />

il loro sviluppo storico. I valori elaborati presuppongono infatti che<br />

nell’uomo ci sia «la capacità e la tendenza a comprendere, a penetrare<br />

il senso di qualcosa; una sensibilità nei riguardi della verità, della<br />

giustizia, del buono e del cattivo, della sincerità [...]. Tale concezione<br />

non ignora che ci sono condizioni e circostanze che interferiscono con<br />

lo sviluppo e la realizzazione di queste facoltà e che ci sono forze che<br />

possono celarle o contrastare il loro sviluppo» (1935, 56, 58, 43). Ma<br />

appunto: contrastare, celare, non sviluppare. La libertà, ad esempio,<br />

può essere «una condizione del campo di forze sociali, e per giunta<br />

una condizione importantissima» proprio perché è una «qualità formale<br />

del carattere». Ciò non significa che il valore “libertà” sia sempre e<br />

dovunque moneta di scambio dei rapporti sociali, in quanto la libertà<br />

come condizione ha una notevole importanza per la libertà come qualità<br />

formale: «mettere un uomo (o anche un cane) alla catena ha grandi<br />

conseguenze. Certamente alcuni uomini, anche se incatenati, rimangono<br />

liberi in fondo al loro cuore, nell’attesa che giunga il momento di<br />

scrollarsi le catene di dosso; ma ci sono uomini che le catene possono<br />

rendere schiavi fin nel più intimo, e qui dall’interazione fra la libertà<br />

come condizione e la libertà come qualità formale del carattere, si può<br />

comprendere il vero significato della coercizione e della costrizione<br />

146


utale, – le cui conseguenze agiscono tanto sulle vittime quanto sui<br />

carnefici» (1944, 88-89).<br />

L’ottimismo fondato sulle potenzialità intrinseche all’essere sapiens<br />

dell’uomo, e il pessimismo che deriva dal gap abissale con quelle che<br />

sono le condizioni attuate e attuali. Mi pare pertinente riportare quanto<br />

Arnheim, durante un soggiorno a Palermo come “professore a contratto”<br />

presso l’insegnamento di Estetica della Facoltà di Lettere, ebbe<br />

a dirmi nel 1983: «Ti devo confessare che per me siamo alla fine di<br />

una cultura, in senso spengleriano. Sono convinto che non c’è un ritorno,<br />

che ci apprestiamo alla fine. Come la caduta dell’impero romano;<br />

però purtroppo oggi mancano i barbari. I barbari oggi non ci sono<br />

più, perché li abbiamo corrotti prima che avessero l’occasione di “fare<br />

i barbari”: sono già inquinati da tutte quelle cose che compongono la<br />

nostra malattia. Sono quindi convinto che questa è la fine, che il processo<br />

di degrado è irreversibile, che non ci sarà più una società sana».<br />

E attraversando le caotiche vie cittadine in un dorato mattino d’aprile<br />

mi disse: «Se Dante vivesse oggi a Palermo farebbe un disegno della<br />

Divina Commedia totalmente diverso: ci sarebbe l’inferno dappertutto<br />

e poi ci sarebbero pochissime isole di paradiso... Il purgatorio non<br />

sarebbe altro che la possibilità dell’avvenire» (in Pizzo Russo, 1983,<br />

48 e 49). E non era un’impressione passeggera, se mesi dopo ritornò<br />

a riflettere su «gli stanchi e sfigurati resti di un’antica grandezza»<br />

(Arnheim, 1989, 343). Palermo, “città irredimibile”, secondo l’amara<br />

constatazione di Leonardo Sciascia, o il regno degli inferi in terra con<br />

la possibilità del riscatto? Per quanto “infernale” possa essere il presente,<br />

il purgatorio ha in sé implicita l’idea di redenzione; l’immagine<br />

del purgatorio, come metafora della condizione umana, assunta nella<br />

sua diacronica dinamicità, rende conto della “possibilità dell’avvenire”:<br />

il futuro può essere migliore, e la “salvezza” non viene dall’esterno (i<br />

barbari), ma dall’impegno consapevolmente assunto in prima persona.<br />

Uscendo dall’allegoria dantesca, è segno di un ottimismo critico<br />

pensare in positivo alle potenzialità umane; e, affidare all’educazione –<br />

«il metodo fondamentale del progresso e dell’azione sociale» (Dewey,<br />

1897, 26) e strumento imprescindibile di una effettiva democrazia – la<br />

possibilità di un futuro migliore, più che un’utopia, è un’aspirazione realistica.<br />

«Se un qualche gruppo di cittadini può verosimilmente influenzare<br />

la situazione, si tratta appunto degli insegnanti» (Arnheim, 1966,<br />

420). Fare in modo che l’uomo si sviluppi come sapiens e non come<br />

insipiens è compito dell’educazione, ed è prioritario tenere presente<br />

che «possiamo insegnare soltanto per mezzo di ciò che siamo» (ib.). La<br />

sfida da assumere seriamente per il terzo millennio è la trasformazione<br />

della società di massa in società di persone (Giambalvo, 1984). Non<br />

si tratta più, come alla fine dell’Ottocento, di alfabetizzare le masse e<br />

di metterle al servizio di entità astratte e impersonali, vuoi la patria, il<br />

partito, la classe, il genere, l’industria, ecc.; né, caduti i grandi ideali,<br />

147


di sviluppare individui fine a se stessi, indifferenti all’altro e sensibili<br />

solo alle lusinghe di un mercato che sta trasformando il pianeta in un<br />

deposito di merci (compresa la mercificazione del pensiero-bambino) e<br />

in una pattumiera di rifiuti. Si tratta di assumere la consapevolezza che<br />

i valori umani hanno la dimensione dell’intersoggettività e che la verità,<br />

la giustizia, la libertà, l’amore, ecc., per non rimanere vuote parole devono<br />

improntare il rapporto educativo e diventare pratica sociale della<br />

relazione educatore-educando e educando-educando. In breve, i valori<br />

possono improntare le relazioni umane se ai valori si è stati educati.<br />

Ciò non significa che i valori siano costruzioni meramente soggettive.<br />

Per Arnheim, come per Köhler (1938), che ha teorizzato il posto del<br />

valore nel “mondo dei fatti” e non nel “mondo <strong>delle</strong> idee”, i valori<br />

sono oggettivi. Se così non fosse, «qualsiasi insegnamento che mirasse<br />

a distinguere il buono dal cattivo e a portare l’inferiore al superiore<br />

sarebbe una farsa». E per Arnheim, uno dei compiti dell’educatore è<br />

proprio quello di insegnare «l’etica di chi merita credito e per che cosa»<br />

(Arnheim, 1986, 364 e 270).<br />

«Con un odio generato dall’istinto di autoconservazione, ho combattuto<br />

la concezione del mondo come costrutto puramente soggettivo,<br />

la nozione che non percepiamo il “vero” mondo ma solo “il mondo<br />

informe, non sistematizzabile <strong>delle</strong> sensazioni caotiche”. E un veleno<br />

che ci strangola, che dissolve il terreno sotto i nostri piedi. La dottrina<br />

distruttiva è formulata con insuperabile intelligenza nella terza parte<br />

della Volontà di potenza di Nietzsche. Eccola: l’oggetto non è niente<br />

altro che utilità: la somiglianza <strong>delle</strong> cose non è niente altro che un’imposizione<br />

soggettiva per rendere possibile una classificazione; non ci<br />

sono cose e non c’è nulla che duri o che resti, solo un invisibile flusso<br />

di cambiamenti: lo spazio euclideo non è niente altro che la fisima di<br />

una certa specie di animali; e così via. Quando questa velenosa dottrina<br />

continentale viene innestata nell’empirismo anglosassone il credo di<br />

quegli scettici ragionevolmente moderati diventa profondamente virulento»<br />

(Arnheim, 1989, 291-92). E quando la teoria della relatività dette<br />

la stura al relativismo culturale, l’oggettività del valore si ritenne minata<br />

alla base, scientificamente confutata: «Nichilisti intellettuali si erano<br />

visti in passato, ma si direbbe che attualmente la moderna teoria della<br />

relatività abbia dato loro alla testa», come ha lamentato Freud (1932,<br />

278). Nel campo dell’arte poi, dove “tutti i gusti sono gusti”, il relativismo<br />

sembra più adeguato che altrove, e ogni tentativo di aggiustare il<br />

tiro parrebbe andare contro lo specifico dell’arte, la sua “soggettività”.<br />

Arnheim (1986, 359-60) ci ricorda che «lo scopo principale di Albert<br />

Einstein, campione e portabandiera della relatività, era quello di<br />

dimostrare non che “tutto è relativo” bensì che le leggi della natura<br />

hanno una validità assoluta nonostante la relatività introdotta dai sistemi<br />

individuali dell’osservatore». Se non si dà un’oggettività senza<br />

il soggetto, ciò non significa che non esista l’oggettività, sebbene non<br />

148


manchi chi, anziché guardare la luna, continua a fissare il dito che la<br />

indica. Quanto all’oggettività del valore, va tenuto presente che «non<br />

esiste un valore in sé e per sé: il valore esiste solo in rapporto alle<br />

funzioni e alle esigenze che vanno soddisfatte» (ivi, 365). Certo, «in<br />

una civiltà frammentaria come la nostra» (ivi, 358), i valori possono<br />

non essere condivisi, ma «lungi dall’essere un incomprensibile caos,<br />

possono essere capiti, nei limiti della conoscenza umana, come i legittimi<br />

derivati <strong>delle</strong> condizioni che prevalgono nel recettore e nell’oggetto<br />

della ricezione» (ivi, 371). Piuttosto, non si può parlare di valori<br />

oggettivi senza percetti oggettivi: «se i percetti stessi non possedessero<br />

alcuna validità al di là <strong>delle</strong> esperienze individuali degli osservatori, o<br />

di gruppi di essi, ogni verifica obiettiva del valore dei percetti sarebbe<br />

esclusa a fortiori» (ivi, 363-64). Il concetto di contesto gestaltico,<br />

comprendente il soggetto e l’oggetto, è alla base del realismo critico<br />

di Arnheim lontano dagli estremi di un’oggettività senza soggetto e<br />

di una soggettività senza oggetto. La psicologia, scienza del soggetto,<br />

quando ha trascurato l’oggetto, considerandolo una sorta di schermo<br />

neutro per i processi mentali del soggetto, o quando, modellandosi<br />

sulla scienza dell’oggetto (la fisica pre-einsteiniana), nel miraggio di<br />

una oggettività assoluta, ha trattato il soggetto come fosse una macchina<br />

reattiva, ha mancato proprio l’interazione soggetto-oggetto, e la<br />

specificità dei contesti gestaltici, «cioè di tutte le situazioni fisiche e<br />

psicologiche in cui la natura di ogni componente è determinata dalla<br />

sua posizione e dal suo ruolo nell’insieme» (ivi, 362), semplificando, in<br />

tal modo, la dinamica dei processi cognitivi e occultando la specificità<br />

della multiforme differenziazione dei prodotti della mente.<br />

Arnheim non è un evolutivista. E però, anche se l’interesse per lo<br />

sviluppo è collaterale al suo interesse principale, che abbiamo già inquadrato<br />

nel settore “ricerca psicologica di base”, non ha mancato di<br />

occuparsene. La concezione dello sviluppo, che emerge dagli interventi<br />

sul disegno del bambino e da alcuni rilievi critici a Bruner e a Piaget,<br />

è per molti aspetti diversa da quelle “ufficiali” e non corrisponde allo<br />

stereotipo corrente che considera la teoria della Gestalt una teoria innatista.<br />

Relativamente a quest’ultimo aspetto, Arnheim (1989, 183-84<br />

e 377), se critica Jung e Chomsky per avere sostenuto che gli archetipi,<br />

il primo, e le strutture del linguaggio, il secondo, sono innati, più<br />

in generale lamenta che «la convinzione che ciò che non è acquisito<br />

attraverso l’apprendimento deve essere innato è dura a morire tra gli<br />

psicologi». Quanto al primo aspetto, a parte il fatto che Piaget – oggetto<br />

<strong>delle</strong> sue critiche – è considerato, a ragione, «un punto di riferimento<br />

fondamentale per la psicologia dello sviluppo» (Di Stefano e Tallandini,<br />

1991, xvi), accennerò alla diversità prendendo in considerazione il<br />

concetto di stadio. Nonostante non siano mancate le critiche, e nonostante<br />

sia caratterizzato da una notevole ambiguità semantica, il concetto<br />

149


di stadio rimane centrale nella psicologia dello sviluppo (Tallandini e<br />

Valentini, 1991a; Battacchi e Giovanelli, 1988), ma anche in psicologia<br />

dell’educazione, e nell’ambito degli studi sul disegno infantile. Mentre,<br />

di norma, lo stadio individua la costruzione di strutture cognitive che<br />

si succedono nel tempo – la sequenza stadiale di Piaget (sensomotorio,<br />

rappresentativo, formale) continua ad avere un «valore paradigmatico»<br />

– Arnheim (1974 2 , 142 e 158) utilizza il concetto di stadio per lo<br />

sviluppo della forma. Perciò la “legge di differenziazione” che per lui<br />

regola lo sviluppo cognitivo la esemplifica, indifferentemente, con la<br />

rappresentazione grafica del bambino, con le «fasi iniziali della cosiddetta<br />

arte primitiva», con gli «esiti dei principianti di qualsiasi età e<br />

provenienza quando esordiscano in un medium artistico», senza con<br />

ciò avallare improbabili omologie strutturali tra la mente del bambino<br />

e la mente dell’adulto.<br />

Fin dal lontano 1954, Arnheim ha preso una posizione nei confronti<br />

del problema che, tenuta presente, avrebbe potuto evitare le annose<br />

polemiche che da allora non cessano di accompagnare la fortuna del<br />

concetto di stadio: «Solo ai fini di una teoria sistematica lo sviluppo<br />

della forma può venir presentato come una standardizzata sequenza di<br />

passi, ben distinti gli uni dagli altri. È possibile e anche utile isolare<br />

le varie fasi e allinearle in termini di complessità crescente; ma questa<br />

sequenza ideale corrisponde soltanto approssimativamente a ciò che<br />

avviene in qualsiasi esempio concreto. Bambini diversi toccheranno le<br />

diverse fasi in periodi di tempo diversi; possono saltarne alcune e fonderne<br />

altre in modi del tutto individuali. Di tali variazioni sono responsabili<br />

la personalità del bambino e l’influenza esercitata dall’ambiente.<br />

Lo sviluppo della struttura percettiva non è che un fattore al quale<br />

altri fattori si possono sovrapporre modificandolo nel processo globale<br />

dell’evoluzione mentale. Inoltre, stadi d’evoluzione più remoti possono<br />

permanere anche quando siano stati raggiunti stadi più progrediti; e,<br />

quando si trova di fronte a una difficoltà, il bambino può retrocedere<br />

a una soluzione primitiva» (Arnheim, 1974 2 , 158). Insomma, a parte<br />

la distinzione tra processo e prodotto che considereremo più avanti, lo<br />

sviluppo del bambino non è da confondere con lo sviluppo del disegno.<br />

Questa distinzione, da sempre occultata, e sulla quale si è cominciato<br />

a produrre qualche riflessione (Battacchi e Giovanelli, 1988), è valida<br />

in generale, se, come precisa Zazzo (1983, 13), la psicologia dello<br />

sviluppo – di cui la psicologia genetica di Piaget «ne è l’esempio più<br />

prestigioso» – ha avuto per oggetto non individui (bambini e adulti),<br />

bensì linee di sviluppo. Settori separati, che nei manuali determinano<br />

l’organizzazione in capitoli <strong>delle</strong> funzioni psichiche, e nelle monografie,<br />

che aspirano a una visione integrata dello sviluppo (Baldwin, 1967), determinano<br />

la giustapposizione di teorie “incommensurabili”. Purtroppo<br />

il disegno, di cui Arnheim indaga lo sviluppo, «non è stato preso in<br />

considerazione come parte integrante di alcun modello di sviluppo»<br />

150


(Tallandini e Valentini, 1991b, 325), e la teoria di Arnheim è rimasta<br />

lontana da quelli che possiamo considerare i postulati di fondo della<br />

ricerca psicologica a cui si ispira la scuola (Gobbo, 1990; Pontecorvo<br />

e Pontecorvo, 1986).<br />

Se è certo che «la pedagogia moderna non è per niente affatto scaturita<br />

dalla psicologia dell’età evolutiva [...], è indubbio che all’origine<br />

dei metodi nuovi si pone la grande corrente della psicologia genetica<br />

moderna» (Piaget, 1969, 138). Cosicché anche quando nella teoria e<br />

nella prassi educativa non si ricorra espressamente «alle leggi della<br />

costituzione psicologica dell’individuo e a quelle del suo sviluppo»,<br />

secondo l’auspicio di quanti hanno a cuore le sorti dell’educazione (ivi,<br />

130), ciò non significa che il contributo della psicologia alla pedagogia<br />

sia nullo. Effetti decisivi sono infatti da ricercare «più in profondità sul<br />

piano degli atteggiamenti, nella metamorfosi insensibile della psicologia<br />

comune che si chiama il buon senso, nella trasformazione progressiva<br />

dell’immagine che l’adulto si fa del fanciullo e in fin dei conti di se stesso»<br />

(Zazzo, 1983, 46; cfr. anche Bradley, 1989). Oggi come nel passato<br />

«la pratica educativa si è adattata e armonizzata inconsapevolmente colla<br />

psicologia dominante», giusto la critica di Dewey (1900, 87-88) che<br />

per la scuola tradizionale rilevava «un’armonia prestabilita tra la pratica<br />

educativa e la teoria psicologica». Se andiamo a considerare l’immagine<br />

o la rappresentazione sociale dell’infanzia, semplificando al massimo,<br />

vediamo all’opera due stereotipi fortemente radicati nella nostra cultura:<br />

uno riguarda il bambino prima dei sei anni, l’artista; l’altro il bambino<br />

dopo i sei anni, lo scienziato. Dal primo si pretende sentimento e<br />

intuizione, secondo la concezione romantica di arte; dal secondo ci si<br />

aspetta metodo e razionalità, secondo la concezione positivistica della<br />

scienza. Se prendiamo in considerazione gli studi sul disegno infantile e<br />

la creatività constatiamo che più il bambino è piccolo più è considerato<br />

creativo e alto il valore artistico del suo prodotto (Pizzo Russo, 1988):<br />

un vero e proprio culto della fanciullezza, secondo l’icastica espressione<br />

di Boas (1966). Relativamente allo sviluppo cognitivo, viceversa, la<br />

valutazione cambia di segno. Qui l’immagine del bambino normale è<br />

soggetta a un errore sistematico che va in direzione opposta, prima e<br />

dopo i sei anni: con l’ingresso a scuola si passa dalla sottovalutazione<br />

<strong>delle</strong> competenze cognitive del bambino alla sopravvalutazione <strong>delle</strong><br />

stesse (Ponzo, 1958, 1960).<br />

A parte il pregiudizio nei confronti del bambino, tale da rendere<br />

quest’ultimo «inesistente o semplificato» (Ponzo, 1977; Zazzo, 1983;<br />

D’Alessio, 1991), la sopravvalutazione <strong>delle</strong> competenze cognitive e la<br />

sottovalutazione <strong>delle</strong> competenze “artistiche” dai sei anni in poi sono<br />

funzionali all’ideale conoscitivo della psicologia e della scuola. L’ideale<br />

moderno di conoscenza, che informa di sé la psicologia del pensiero<br />

ed è principio generatore dell’organizzazione scolastica, relativamente<br />

ai tempi, agli spazi e alle discipline, è centrato sulla scienza, e più esat-<br />

151


tamente su un concetto di scienza opposto all’arte. Rispetto a questo<br />

ideale di razionalità astratta – la «tendenza naturale degli psicologi era<br />

quella di affrontare in termini logici quella che si chiama intelligenza»<br />

(Zazzo, cit., 57) – le reali competenze del bambino non possono che<br />

deludere le aspettative dell’istituzione. Intanto se la scienza è il frutto<br />

maturo della razionalità umana, e l’arte la zona franca dove passioni e<br />

sentimenti dominano incontrastati, l’istituzione scolastica organizzata<br />

per educare alla ragione non può seriamente prendere in considerazione<br />

l’arte. E infatti nelle scuole l’arte – è noto il «discredito che ogni<br />

insegnamento dell’arte ha non da oggi» (Aa. Vv., 1977, 8) – è relegata a<br />

momenti di svago, di sfogo, di libera espressione per compensare dalla<br />

dura fatica degli apprendimenti “seri”, quelli che si ritiene impegnino<br />

veramente i processi cognitivi.<br />

«In un certo senso noi siamo inventati dall’educazione, non è l’educazione<br />

ad essere inventata da noi». Hawkins (1974, 252 e 284), che<br />

in questo modo riassume il ruolo fondamentale dell’educazione, critica<br />

lo schema evoluzionista – dominante in psicologia e in pedagogia<br />

– «perché nasconde sotto una metafora proprio quel livello d’interazione<br />

tra “sviluppo” e “apprendimento” senza il quale la nostra specie<br />

sarebbe priva <strong>delle</strong> sue più specifiche caratteristiche. Si ignora il fatto<br />

che l’apprendimento non è solo qualcosa che avviene entro la struttura<br />

data dallo sviluppo, ma che anche lo sviluppo avviene entro una<br />

struttura data dall’apprendimento». Il diritto all’educazione – e l’essere<br />

«soggetto dell’educazione» possiamo considerarlo con Vygotskij (1960,<br />

231) «il tratto distintivo fondamentale del piccolo dell’uomo» – sancito<br />

dalla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, più che il diritto<br />

ad acquisire conoscenze, è, come ha commentato Piaget (1948-1972,<br />

53 e 55), il diritto ad «acquisire le proprie strutture mentali». Perciò<br />

«dalla nascita all’adolescenza l’educazione è unica e costituisce uno dei<br />

fattori fondamentali necessari alla formazione intellettuale e morale; di<br />

conseguenza, la scuola ha una parte non trascurabile di responsabilità<br />

quanto al successo finale o all’insuccesso dell’individuo nella realizzazione<br />

<strong>delle</strong> proprie possibilità». E però, se le cose stanno così, non solo<br />

non si dà natura umana fuori dai contesti storico-culturali che hanno<br />

contribuito a formarla, ma ciò che in un determinato momento storico<br />

si presenta come tendenza naturale dello sviluppo può essere considerato<br />

il frutto dell’interazione dell’organismo umano con le istanze<br />

dominanti in una particolare cultura. La scuola, l’agenzia educativa che<br />

più di ogni altra rappresenta queste istanze, oggi si avvale dell’avallo<br />

della psicologia: gli stadi dello sviluppo cognitivo vengono presentati<br />

come frutto di una legge di natura sulla quale dovrebbe essere basata<br />

l’educazione. Ma così procedendo si occulta la matrice storico-culturale<br />

dello sviluppo. Proprio perché l’educazione ha contribuito a<br />

determinare le strutture mentali stadiali, gli stadi, assunti come guida<br />

dell’intervento educativo, più che assicurare il rispetto <strong>delle</strong> potenzia-<br />

152


lità dei singoli, si costituiscono come fattore di consolidamento <strong>delle</strong><br />

istanze culturali dominanti.<br />

«Affermare che lo sviluppo umano è il prodotto dell’interazione<br />

tra l’organismo umano che cresce e il suo ambiente costituisce, per le<br />

scienze del comportamento, quasi un luogo comune», una banalità da<br />

tutti condivisa e da pochi pensata veramente (Bronfenbrenner, 1979,<br />

47). Pensata fino in fondo, viceversa, l’asserzione è notevole, «per non<br />

dire rivoluzionaria, nelle sue implicazioni scientifiche». Le implicazioni<br />

dell’ottica ecologica (dalle indubbie convergenze con la psicologia della<br />

Gestalt), auspicata da Bronfenbrenner, per lo studio dello sviluppo<br />

non sono solo di metodo: la ricerca non più orientata sulla “variabile”,<br />

bensì sul sistema interattivo organismo-ambiente. Limitiamoci al<br />

punto di vista tradizionale sui rapporti tra scienza e politica sociale,<br />

che vuole quest’ultima fondata sulla prima. Se la politica sociale può<br />

«indirizzare l’attenzione del ricercatore su quegli aspetti dell’ambiente,<br />

sia immediato che più remoto, che sono i più critici per lo sviluppo<br />

cognitivo, emotivo e sociale di un individuo» (ivi, 38), «l’esperimento<br />

di trasformazione» propugnato dall’autore dell’Ecologia dello sviluppo<br />

umano è tale da spostare continuamente i termini della «relazione<br />

reciproca tra ricerca e politica sociale»: «Un esperimento di trasformazione<br />

implica [infatti] l’alterazione sistematica e la ristrutturazione<br />

dei sistemi ecologici esistenti in modi che rimettono in discussione le<br />

forme di organizzazione sociale, i sistemi di credenze, e gli stili di vita<br />

che sono prevalenti in una particolare cultura o subcultura» (ivi, 81).<br />

La ricerca diventa così un modo di essere della politica sociale, e la<br />

dimensione pedagogica interna alla psicologia dello sviluppo. Non solo<br />

perché non si dà sviluppo cognitivo senza progetti educativi, impliciti<br />

o espliciti e informali o formali, ma perché la psicologia, attuando<br />

esperimenti di trasformazione, va a interessarsi della «possibilità di<br />

ecologie ancora non sperimentate che possono portare a nature umane<br />

ancora non viste, forse tali da presentare una miscela di potenza<br />

e compassione più equilibrata di quanto abbiano manifestato finora»<br />

(ivi, 24).<br />

La prospettiva ecologica va dunque a incidere sulle articolazioni<br />

storicamente determinatesi all’interno della provincia psicologica e<br />

evidenzia la matrice ideologica della nozione di psicologia applicata,<br />

sia quando la si intenda come applicazione di leggi generali scoperte<br />

in un luogo – il laboratorio – considerato valido per cogliere l’essenza<br />

universale e invariante dello psichico, sia quando – ferma lasciando la<br />

nozione di «psicologia “fondamentale”» – la si definisca come lo studio<br />

«dell’uomo nel suo ambiente di vita abituale» (Reuchlin, 1971, 10 e<br />

7). Ritenendo il modello scientifico del fisico l’ideale a cui conformarsi,<br />

si continua a sostenere che come il fisico, per scoprire i principî che<br />

regolano la caduta degli oggetti, sperimenta in laboratorio «una gravità<br />

senza interferenze», «allo stesso modo» è bene si comporti lo psicologo<br />

153


(Weisz, 1978, 6). Sicché, dimenticando che per l’essere umano anche il<br />

laboratorio è luogo d’interazioni, pare del tutto ovvio che la psicologia<br />

sperimenti “senza interferenze” e poi applichi il sapere così ottenuto<br />

nei diversi contesti ambientali. Giustamente Bronfenbrenner (cit., 200)<br />

ravvisa l’errore di fondo, su cui continua a basarsi molta ricerca psicologica,<br />

«nell’assunzione che gli oggetti e gli ambienti della fisica siano<br />

equivalenti a quelli della psicologia. I paradigmi della fisica godono di<br />

notevole considerazione presso l’establishment scientifico della psicologia,<br />

ma sfortunatamente il fondare su di essi quest’ultima disciplina<br />

è un errore perché sono spesso ecologicamente non validi [...]. Tra gli<br />

oggetti fisici e gli esseri umani, inoltre, vi è una differenza cruciale:<br />

gli oggetti fisici non possono avere percezioni, sentimenti, aspettative<br />

ed intenzioni relativamente alle situazioni in cui sono collocati come<br />

invariabilmente succede per gli esseri umani». Così, almeno, abbiamo<br />

imparato dall’esperienza (Piaget, 1926). Né possono essere dotati della<br />

psicologia del “senso comune”: quella psicologia naturale che oggi si<br />

chiede di legittimare scientificamente (Fodor, 1987), e che consente agli<br />

umani, da sempre, di interagire proficuamente e fin dall’inizio, come<br />

va emergendo con un crescendo esponenziale di ricerche dal settore<br />

della neonate cognition. Pure, l’oggetto fisico si ritiene possa pensare.<br />

Perciò prenderò in considerazione le “macchine pensanti”, in quanto<br />

“il pensiero visivo” di Arnheim – nucleo teorico fondante la sua proposta<br />

educativa – lungi dall’essere «un precursore non formalizzato <strong>delle</strong><br />

posizioni computazionali» (Freeman, 1991, 349) è una concezione del<br />

pensiero radicalmente diversa da quella che considera il pensiero un<br />

processo di calcolo e la ragione uno strumento di dominio, portando<br />

alle estreme conseguenze la tesi che ha ravvisato nei procedimenti logico-matematici<br />

il “midollo” del pensiero.<br />

Nonostante ecologia ed ecologico siano termini variamente declinati<br />

in psicologia (da Bateson, 1972, a Neisser, 1976, a Gibson, 1979,<br />

per esemplificare con autori molto noti), e «l’orientamento ecologista»<br />

goda da qualche tempo di «una singolare fortuna» (Cornoldi e Axia,<br />

1988, 20), la tendenza fisicalista, affermatasi col comportamentismo,<br />

che è stato il paradigma psicologico egemone nella prima metà del<br />

secolo scorso, continua a essere a tutt’oggi dominante. Come sostiene<br />

Moscovici (1984, 35 e 64), «viviamo in un mondo behaviorista, pratichiamo<br />

una scienza behaviorista ed usiamo metafore behavioriste»;<br />

«siamo ossessionati da un animismo inverso che popola il mondo di<br />

macchine, anziché di creature viventi». Negli anni Sessanta, quando<br />

in psicologia il comportamentismo era ormai entrato in crisi e ci si<br />

avviava verso l’egemonia del paradigma cognitivista, Bertalanffy (1967,<br />

34 e 21), per il quale «la psicologia è troppo importante per essere<br />

lasciata agli psicologi», individuava nel «modello dell’uomo robot» le<br />

linee di fondo della costruzione psicologia dell’uomo. Indubbiamente<br />

154


ciò che nella letteratura viene indicato come «la rivoluzione cognitivista»<br />

si è sviluppato in aperta polemica col comportamentismo. Ma è<br />

dubbio quanto il cognitivismo, che non si può non considerare «una<br />

diretta filiazione del comportamentismo» (Luccio, 1980, 185), abbia<br />

sostanzialmente rivoluzionato rispetto a quelle linee di fondo criticate<br />

di Bertalanffy. Che l’essere umano sia stato studiato come fosse<br />

un automa reattivo (stimolo-risposta), non deve essere stato estraneo<br />

all’immediato successo del famoso “test di Turing”, secondo cui si<br />

può definire intelligente una macchina se le risposte da essa date sono<br />

indistinguibili da quelle di un essere umano. Il criterio operazionale<br />

scelto da Turing, per parlare di macchine pensanti e di intelligenza per<br />

le macchine, era in sintonia con l’«operazionalismo» della psicologia<br />

del tempo (Curi, 1970 e 1973). E che il computer, o più propriamente<br />

il programma – giusta la precisazione di Neisser (1967) – sia diventato<br />

la metafora-guida per lo studio della mente non meraviglia più di tanto.<br />

La caratteristica umana ritenuta lungo la storia la più importante<br />

e apicale dei processi cognitivi – l’intelligenza – è divenuta così una<br />

caratteristica di oggetti della fisica. Per converso, «i ragionamenti che<br />

fanno ritenere che gli stati mentali abbiano <strong>delle</strong> strutture costitutive<br />

favoriscono ipso facto le architetture del tipo Turing/Von Neumann»<br />

(Fodor, 1987, 212). E anche quando non si è partigiani dell’intelligenza<br />

artificiale, «il computer è strumento di certezza; è da lì che deve uscire<br />

il fatto, il dato, dunque il “vero”, perfino la “legge”», come rileva con<br />

fine ironia Bozzi (1990, 348).<br />

Se, da una parte, il movimento che ha portato all’intelligenza artificiale<br />

(teoria dei sistemi, cibernetica, teoria dell’informazione, linguistica<br />

formale, etc.) ha avuto il grande merito di evidenziare l’eccessiva semplificazione<br />

che la psicologia comportamentista aveva fatto dell’uomo<br />

e della sua mente (“la scatola nera” del comportamentista), dall’altra,<br />

l’intelligenza artificiale può essere considerata il trionfo dell’ideologia<br />

fisicalista conservatasi nel nuovo paradigma egemone. Il modello S-R, e<br />

varianti, si trasforma in quello dell’Human Information Processing, e il<br />

gergo cognitivista, mutuato dall’informatica e dall’intelligenza artificiale,<br />

soppianta quello comportamentista (Lindsay e Norman, 1977). Cosicché,<br />

mentre il computer fornisce ciò che Gardner (1985, 54) ha chiamato<br />

“la prova d’esistenza” – «se, di una macchina costruita dall’uomo,<br />

si può dire che ragiona, che ha obiettivi, che è in grado di correggere il<br />

proprio comportamento, di trasformare la propria informazione e simili,<br />

senza dubbio gli esseri umani meritano di essere caratterizzati nello<br />

stesso modo» – contemporaneamente, le operazioni della mente, studiate<br />

in analogia con le prestazioni del computer, portano a postulare una<br />

perfetta specularità simmetrica tra mente e computer. Johnson-Laird<br />

(1983, 47 e 696), «dato che il pensiero è un processo computazionale»<br />

e «la coscienza è una proprietà di una particolare classe di algoritmi<br />

in parallelo», conclude infatti che «gli elaboratori possono pensare»<br />

155


e «possono essere coscienti, anche se non si potrà mai ottenere una<br />

diretta prova comportamentale della loro coscienza».<br />

Bolter (1984, 21) definisce coloro che «accettano questo modo di<br />

vedere l’uomo e la natura “uomini di Turing”. Includo in questo gruppo<br />

anche molti di coloro i quali non credono che si avveri l’audace previsione<br />

di Turing di un’intelligenza artificiale entro il 2000. [...] Quando<br />

lo psicologo che si occupa dei processi cognitivi inizia a studiare “gli<br />

algoritmi mentali per la ricerca della memoria a lungo termine”, allora<br />

egli è diventato un uomo di Turing». Col computer «la tendenza,<br />

implicita in tutte le epoche, a pensare “tramite” una tecnologia contemporanea<br />

è portata all’estremo; il computer riflette (a dire il vero<br />

imita) la cruciale capacità umana di pensare razionalmente. Facendo<br />

pensare una macchina nello stesso modo di un uomo, l’uomo ricrea<br />

se stesso come una macchina». L’orologio, la macchina idraulica, il<br />

centralino telefonico, precedenti metafore della mente, hanno avuto<br />

un’incidenza molto diversa da quella svolta dal computer che (a parte<br />

l’aspetto legato alla commercializzazione dell’intelligenza artificiale),<br />

oltre a generare analogie volte alla comprensione, in quanto ritenuto<br />

“intelligente”, consentirebbe la verifica sperimentale <strong>delle</strong> teorie sulla<br />

mente. Per Johnson-Laird (1983, 696) «qualsiasi teoria scientifica della<br />

mente deve per forza considerarla come un automa»; «automi craikiani»<br />

che si sviluppano in «automi autoriflessivi» popolano l’universo teorico<br />

della psicologia attuale; mentre gli «automi cartesiani», che hanno rappresentato<br />

«il sogno del comportamentista», servono adesso a definire<br />

il comportamento degli organismi posti al gradino iniziale nella scala<br />

filogenetica: batteri e protozoi (ivi, 692 e 591). L’ideologia di fondo è<br />

espressa dal seguente sillogismo arrangiato da Johnson-Laird (1988, 421)<br />

con “giganti” della storia: «Gli esseri umani sono animali (Darwin). Gli<br />

animali sono macchine (Cartesio). Gli esseri umani sono macchine (La<br />

Mettrie)». Si omette: “Se... allora”.<br />

Non è in discussione, ovviamente, l’utilità di pensare “tramite” la<br />

tecnologia “caratterizzante” il nostro tempo, né sono interessata al problema<br />

se il computer pensi o meno, bensì alla ricaduta psicologica del<br />

problema: il ritenere di pensare “come” il computer, ovvero di pensare<br />

al pensiero nell’orizzonte definito da una macchina di Turing, nel<br />

quale acquista pieno significato l’affermazione che «ogni futura teoria<br />

della mente sarà totalmente esprimibile in termini computazionali. Il<br />

computer è l’ultima metafora; è necessario non venga mai soppiantata»!<br />

(Johnson-Laird, 1983, 47). Se, come auspica Gardner (1985, 412),<br />

«Mental Models [di Johnson-Laird] potrebbe ben servire come modello<br />

mentale per la prossima generazione degli scienziati cognitivi», la metafora,<br />

lungi dall’essere soppiantata, diventerà sempre più necessaria, e<br />

la teoria del pensiero di Arnheim – col quale concordo che i principî<br />

a cui si informa non sono stati superati dagli sviluppi più recenti, pur<br />

dissentendo dalla previsione (fatta nella premessa alla nuova versione<br />

156


di Arte e percezione visiva) che sia giunto il momento di riscuotere<br />

quanto è loro dovuto – sempre meno attuale. Quando si sostiene che<br />

la cognizione è calcolo, e mente e computer elaborano informazione,<br />

il computer, più che come metafora, funziona da omologo elettronico<br />

della mente. Con ciò siamo andati ben oltre le dichiarazioni progettuali<br />

di Turing: non solo le sue previsioni si sono avverate prima del 2000 –<br />

“Eliza”, un computer programmato a fini psicoterapeutici, nonostante<br />

l’insoddisfazione del suo Pigmalione, «ha creato la più notevole illusione<br />

di aver capito nell’idea di molte persone che conversarono con lei»<br />

(Weizenbaum, 1976, 113) – ma, se il trend attuale continua, ci avviamo<br />

a “imitare” il pensiero <strong>delle</strong> macchine. Come Boole nell’Ottocento<br />

trasse le leggi del pensiero dalla logica, così dalla seconda metà del<br />

Novecento si traggono le leggi del pensiero dal computer. E però, un<br />

programma di computer che simuli il pensiero incorpora nella propria<br />

costruzione un’ipotesi di ciò che si vuole dimostrare. Il rischio che si<br />

corre con la verifica sperimentale tramite computer, considerando il<br />

computer non uno strumento ma un modello, è che qualsiasi ipotesi sul<br />

pensiero, purché sia computabile, diventi perciò stesso non confutabile;<br />

per converso qualsiasi ipotesi non computabile, ipso facto, confutata.<br />

Per Johnson-Laird (1983, 219) – critico della psicologia del pensiero<br />

fondata sulla «dottrina della logica mentale» – «l’unica cosa richiesta<br />

è la capacità di costruire modelli, di scegliere <strong>delle</strong> entità all’interno di<br />

questi, e di generare le descrizioni appropriate dei modelli stessi – in<br />

breve: le capacità computazionali di base [...] proprie alle macchine di<br />

Turing e alle funzioni ricorsive». Ma – a parte il fatto che «l’uso del<br />

computer come modello conduce naturalmente a concentrarsi su problemi<br />

logici» (Gardner, 1985, 432) – il pensiero è un processo computazionale?<br />

Turing (1950, 119 e 130), che ovviamente non poteva essere<br />

più realista del re, ha di fatto riformulato la domanda «possono pensare<br />

le macchine?» nei termini del «giuoco dell’imitazione»: possono le macchine<br />

imitare un comportamento che se esibito da un uomo non può<br />

che essere giudicato intelligente? Sulla scorta dei successi dei calcolatori<br />

numerici, costruiti «per compiere qualsiasi operazione che possa essere<br />

compiuta da un calcolatore umano», e che «possono in effetti imitare<br />

molto da vicino le azioni di un calcolatore umano» (ivi, 121 e 123),<br />

teorizza la possibilità di estendere le capacità imitative della macchina,<br />

e ne precisa i criteri di valutazione: il «metodo <strong>delle</strong> domande e risposte<br />

adatto per introdurre nell’esame quasi ogni campo della conoscenza<br />

umana», che tanto ricorda la prassi scolastica e la psicologia S-R. E<br />

interessante rileggere Turing alla luce della psicologia del suo tempo<br />

perché i principî basilari del comportamentismo informano il modello<br />

di uomo dispiegato nel confronto con l’ipotesi di macchina pensante.<br />

Fino a ipotizzare una macchina-bambino da programmare in modo che<br />

apprenda a diventare adulta. Ovviamente si presuppone che il bambino<br />

sia «simile ad un taccuino di quelli che si comprano dai cartolai. Poco<br />

157


meccanismo e una quantità di fogli bianchi», come pure che «gambe,<br />

occhi, ecc.» abbiano una scarsa incidenza ai fini dell’apprendimento:<br />

«L’esempio di Hellen Keller – afferma Turing – mostra che il processo<br />

educativo si può svolgere, purché vi sia un mezzo per la comunicazione<br />

in ambedue le direzioni tra maestro e allievo» (ivi, 149 e 151). E però<br />

Ellen fino a due anni ebbe occhi, ecc., e Ann Mansfield Sullivan – la<br />

sua insegnante – era una ex-cieca guarita: non erano «sistemi computazionali<br />

chiusi» come la macchina da lui teorizzata, ma erano dotate<br />

di quelli che Fodor (1983, 72) chiamerà, significativamente, «sistemi<br />

sussidiari». In sostanza la macchina-bambino è stata pensata sul modello<br />

del bambino-robot dei laboratori di psicologia del tempo, e i sensi,<br />

nei laboratori di psicologia dell’oggi, vengono pensati come “sistemi<br />

computazionali chiusi”.<br />

Turing, come ho detto, sostituisce la domanda “possono pensare le<br />

macchine?” con «sono immaginabili calcolatori numerici che si comporterebbero<br />

bene nel gioco dell’imitazione?». Riformulando la questione,<br />

ritiene di sfuggire alla necessità di definire il termine pensiero.<br />

Le controdeduzioni a possibili obiezioni vengono costruite tenendo<br />

presente la definizione operazionale di intelligenza, e la dimostrazione<br />

che le macchine possono pensare è la conseguenza del ritenere la seconda<br />

domanda «strettamente analoga» alla prima, o una sua «variante».<br />

Ma così facendo ha di fatto ridefinito il termine pensiero. Sicché,<br />

pur ritenendo la domanda iniziale «troppo priva di senso per meritare<br />

una discussione», prevede che «alla fine del secolo l’uso della parola<br />

e l’opinione corrente si saranno talmente mutate che chiunque potrà<br />

parlare di macchine pensanti senza aspettarsi di essere contraddetto»<br />

(Turing, 1950, 117, 118, 119 e 130). Oggi le macchine pensanti non<br />

sono più oggetto d’immaginazione, e il significato del termine “pensare”<br />

si avvia a includere tra i propri referenti anche i calcolatori di<br />

von Neumann. Qualcosa di analogo è avvenuto col termine “volare”.<br />

Grazie alle macchine volanti i vocabolari registrano ormai da tempo il<br />

volo degli uccelli e il volo degli aerei. Ma l’uso dello stesso vocabolo<br />

non ci fa confondere il volo degli uccelli con quello degli aerei, né ci<br />

fa dimenticare che il volo meccanico è pilotato.<br />

«Non possono forse le macchine comportarsi in qualche maniera<br />

che dovrebbe essere descritta come pensiero ma che è molto differente<br />

da quanto fa un uomo? Questa obiezione è molto forte, ma come minimo<br />

possiamo dire che se, ciononostante, una macchina può essere<br />

costruita in modo da giocare il giuoco dell’imitazione soddisfacentemente,<br />

non abbiamo bisogno di tenerne conto». E però il tenerne o<br />

meno conto è in relazione ai fini che ci si propone. Se il fine, come per<br />

Turing, è quello di fare imitare a una macchina un comportamento intelligente<br />

possiamo anche disinteressarci della eventualità che i processi<br />

sottostanti il comportamento dell’uomo e della macchina siano diversi;<br />

ma se il fine, come per gli psicologi, è capire i processi di pensiero la<br />

158


questione cambia radicalmente. E in ogni caso, l’avere dimostrato che<br />

una macchina può “imitare” un comportamento intelligente non autorizza<br />

a identificare il pensiero con il pensato imitabile da una macchina<br />

di Turing. Il gioco dell’imitazione «ha il vantaggio di tirare una linea<br />

di separazione abbastanza netta tra le capacità fisiche e quelle intellettuali<br />

di un uomo» (ivi, 118). Il vantaggio, argomentato da Turing in<br />

rapporto alle difficoltà ingegneristiche di produrre «carne artificiale»,<br />

ci rimanda alla distinzione tra hardware e software, che, nonostante il<br />

sillogismo, con Darwin nella premessa maggiore, Cartesio nella minore<br />

e La Mettrie in conclusione, parrebbe dare “una prova d’esistenza” al<br />

dualismo mente-corpo contro il quale si scaglia il connessionismo con<br />

«la promessa di un approccio integrato allo studio della mente e del<br />

cervello» (Parisi, 1989, 11; Luccio, 1989). E d’altra parte le capacità<br />

intellettuali rescisse, di fatto, dall’organizzazione sensoriale rimandano<br />

alla distinzione gerarchica sensi-intelletto e alla implicita svalutazione<br />

dei sensi che caratterizza le teorie psicologiche del pensiero.<br />

Oggi i neurobiologi sostengono che per la «macchina-cervello» la<br />

distinzione hardware-software «non tiene» (Changeux, 1983, 152); gli<br />

specialisti di intelligenza artificiale ammettono che «il tipo di hardware<br />

usato, in realtà, condiziona il tipo di algoritmi che il sistema può più<br />

facilmente usare» (Poggio, 1991, 28); e i matematici minano alla base il<br />

concetto di machine thinking su cui si pretende di modellare lo studio<br />

psicologico del pensiero (Penrose, 1989). Non è certo questa l’occasione<br />

per soffermarci sulle proposte di un neurobiologo, di un fisico<br />

esperto in sistemi intelligenti e di un matematico, ma evidenziare che<br />

i loro argomenti portano acqua al mulino del pensiero visivo, nucleo<br />

fondamentale della proposta educativa di Arnheim, questo sì. Così se<br />

Changeux (cit., 158) ipotizza una «parentela neurale» tra percezione<br />

e pensiero; e Poggio (cit., 45 e 46), per il quale «la visione è molto<br />

più che un senso: è intelligenza», si chiede: «perché, dunque, ci siamo<br />

rifiutati di chiamare intelligente la visione?»; Penrose parla di pensiero<br />

intuitivo e del ruolo fondamentale del vedere per la verità matematica.<br />

Come per il bambino di Andersen, per Penrose il re è nudo. La mente<br />

nuova dell’imperatore è una critica serrata alle convinzioni profonde<br />

dell’uomo di Turing, e alla sua pretesa di spiegare il pensiero riducendolo<br />

a un processo di calcolo.<br />

«Buona parte della ragione per credere che la coscienza sia in grado<br />

di influire sui giudizi di verità in un modo non algoritmico deriva<br />

dalla considerazione del teorema di Gödel» (Penrose, cit., 526). Inutile<br />

precisare che l’utilizzazione di Penrose (si veda anche Changeux e<br />

Connes, 1989) non rientra in quelle «letture più o meno poetiche, più<br />

o meno deliranti di Gödel», analizzate da Girard (1989, 134) sotto la<br />

“sindrome di gödelite”. La cosa interessante, piuttosto, è che il teorema<br />

di Gödel (o più correttamente la variante di Turing dello stesso)<br />

informa «l’obiezione matematica» su cui già si era soffermato Turing.<br />

159


Ora Turing (cit., 134), dimostrati i limiti del procedimento algoritmico<br />

per cui «esistono <strong>delle</strong> limitazioni ai poteri di una qualsiasi macchina<br />

specifica», intanto – ed è cosa interessante – mette in discussione la<br />

credenza che limitazioni similari non siano applicabili all’«intelletto<br />

umano»; e poi concede con una mano e toglie con l’altra: se «ci possono<br />

essere uomini più abili di una qualsiasi macchina data, [...] ci<br />

possono essere altre macchine più abili ancora, e così via». Stando così<br />

le cose, il “giuoco dell’imitazione” può durare all’infinito, ma certo<br />

non è stata dimostrata la natura algoritmica del pensiero umano. Se<br />

si esce dall’agone comportamentistico in cui Turing, con gentleman’s<br />

agreement, ha situato macchina e uomo, «l’insolubilità algoritmica di<br />

famiglie di problemi» da lui dimostrata può essere usata, come fa Penrose<br />

(cit., 524), per sostenere la natura non algoritmica del pensiero:<br />

«Per decidere se un algoritmo funzionerà o no c’è bisogno di una<br />

comprensione intuitiva e non solo di un altro algoritmo».<br />

«Qualsiasi algoritmo (abbastanza esteso) un matematico possa usare<br />

per stabilire la verità matematica – o, che è poi la stessa cosa, qualsiasi<br />

sistema formale adotti come in grado di fornirgli il suo criterio di verità<br />

– ci saranno sempre proposizioni matematiche, come la proposizione<br />

di Gödel esplicita Pk(k) del sistema, di cui il suo algoritmo non sarà in<br />

grado di dare la soluzione. Se il funzionamento della mente del matematico<br />

fosse interamente algoritmico, l’algoritmo (o il sistema formale)<br />

da lui usato per formarsi i giudizi non gli permetterebbe di giudicare<br />

la proposizione Pk(k) costruita col suo algoritmo personale. Nondimeno<br />

è possibile (in linea di principio) rendersi conto che la Pk(k) è in<br />

effetti vera! Questo fatto sembrerebbe mettere il matematico in una<br />

situazione contraddittoria, giacché egli dovrebbe essere in grado di<br />

fornire questo giudizio. Forse questo fatto indica che nel costruire la<br />

proposizione Pk(k) il matematico non ha affatto usato un algoritmo!».<br />

Penrose dimostra che la scelta degli assiomi e degli algoritmi, come<br />

pure la valutazione degli stessi, non sono processi algoritmici. Perciò<br />

sostiene che «quando ci convinciamo della validità del teorema di<br />

Gödel, non solo lo “vediamo”, ma così facendo riveliamo la natura non<br />

algoritmica di questo stesso processo di visione» (Penrose, cit., 528).<br />

Se ciò è valido per il pensiero del matematico – «il vero matematico<br />

si distingue dal calcolatore [umano, non quello elettronico ancora da<br />

venire], magari abilissimo, e dal risolutore di problemi, magari dotato<br />

di virtuosità ammirevoli» (Scorza, 1931, 134) – in cui il calcolo e la<br />

dimostrazione rigorosa sono ingredienti necessari, a maggior ragione<br />

deve essere valido per il pensiero in generale.<br />

Penrose (cit., 521), riflettendo sul pensiero matematico e sulla centralità<br />

attribuita dai matematici all’intuizione, propone un ribaltamento<br />

totale della posizione che teorizza i processi superiori caratterizzati<br />

dalla coscienza come processi algoritmici legati al linguaggio, e individua<br />

la componente non algoritmica del pensiero, nonché il contrasse-<br />

160


gno della coscienza, nell’intuizione: «C’è bisogno di intuizioni esterne<br />

per decidere sulla validità o no di un algoritmo. Sto suggerendo che<br />

il contrassegno della coscienza sia proprio questa capacità di divinare<br />

(o di distinguere “intuitivamente”), in circostanze appropriate, la verità<br />

dalla falsità (e la bellezza dalla bruttezza!)». Le situazioni, quindi,<br />

che richiedono la coscienza sono: «senso comune, giudizio di verità,<br />

comprensione, apprezzamento artistico»; mentre «automatico, regole<br />

seguite senza pensarci, programmato, algoritmico» non richiedono la<br />

coscienza. A parte la copresenza di verità e bellezza, e di giudizio<br />

scientifico e giudizio estetico, che sono costantemente messi in relazione<br />

dalla maggior parte dei matematici, ma anche da altri esponenti del<br />

pensiero scientifico (Hadamard, 1945; Hardy, 1967; Medawar, 1969;<br />

Wechsler, 1978; Peitgen e Richter, 1986; Chandrasekhar, 1987; Changeux<br />

e Connes, 1989; Emmer, 1991), è da sottolineare il ribaltamento<br />

proposto, che mi pare possa essere inteso come effetto paradossale,<br />

anche se ha il suo fondo di verità, prodotto dalle macchine pensanti:<br />

ciò che prima del loro avvento era considerato pensiero cosciente, ora,<br />

proprio in quanto elaborato dalle macchine, viene considerato pensiero<br />

che si può realizzare in assenza della coscienza! Ma i paradossi<br />

sembra siano d’obbligo nella concezione del pensiero come computo.<br />

Gardner (1985, 431-32) ad esempio parla di paradosso computazionale:<br />

«Data la vigorosa tradizione, iniziata al tempo dell’Antichità greca,<br />

della riflessione sul pensiero umano come incarnazione di principi matematici,<br />

non sorprende certo che la prima generazione di cognitivisti<br />

– formatasi nella tradizione del positivismo logico – abbia abbracciato<br />

una concezione altamente razionalistica del pensiero umano. Uno fra i<br />

risultati principali dei primi anni della scienza cognitiva è stato, però,<br />

una messa in discussione di tale facile assunto [...]. Il pensiero umano<br />

emerge come confuso, intuitivo, soggetto a rappresentazioni soggettive,<br />

tutt’altro che come un calcolo puro e immacolato». Poggio (cit., 45-<br />

47) parla di lezione paradossale e di umiliante ironia ricavabile dagli<br />

ultimi vent’anni di Intelligenza <strong>Arti</strong>ficiale: «aspetti dell’intelligenza<br />

che ci sembrano facili sono invece i più difficili da programmare su<br />

computer e gli aspetti dell’intelligenza che abbiamo tradizionalmente<br />

considerato come i più complessi cominciano invece già ora ad essere<br />

automatizzati. Il caso prototipico è quello della visione [...]. Non solo<br />

la visione è “intelligente”, ma è più difficile da capire o da ricreare del<br />

più sofisticato ragionamento matematico».<br />

È troppo presto per individuare gli sviluppi futuri a cui porteranno<br />

le contraddizioni che vanno emergendo dalla linea di ricerca fondata<br />

su una concezione del pensiero che, tutto sommato, rimane logico‐linguistica:<br />

certo, la dottrina della logica mentale non è più ritenuta l’ubi<br />

consistam del pensiero, ma la psicologia continua a pensare il pensiero<br />

«nel suo senso più proprio, cioè nei suoi aspetti più razionali», slegato<br />

dall’immaginazione (Legrenzi e Mazzocco, 1973, xviii), e a seguire la<br />

161


tradizione che ha ritenuto il termine “concetto” equivalente a quello di<br />

“significato verbale” (Job e Rumiati, 1985). Intanto, mentre non manca<br />

chi, a partire dalla constatazione che «la psicologia del pensiero si<br />

è dimostrata del tutto refrattaria» all’approccio della scienza cognitiva,<br />

avanza l’ipotesi che i processi del pensiero siano «dei cattivi candidati<br />

per uno studio scientifico» (Fodor, 1983, 191‐93); il connessionismo<br />

– nuovo programma di ricerca psicologico, estremamente critico nei<br />

confronti del cognitivismo classico, e che si pone come candidato a<br />

succedergli – guarda con interesse alla psicologia della Gestalt, che<br />

tra le scuole psicologiche è quella che ha considerato “intelligente”<br />

la visione (Parisi, 1988). Che oggi, nell’ambito del connessionismo si<br />

guardi alla percezione per simulare il pensiero, e che l’approccio della<br />

“machine vision” venga presentato come «un compromesso ante diem<br />

tra AI [Intelligenza <strong>Arti</strong>ficiale] e Connessionismo» (Poggio, cit., 70),<br />

costituiscono “fatti” i quali non possono certo considerarsi una verifica<br />

della teoria del pensiero visivo, ma sicuramente, in quanto prodotti in<br />

assoluta indipendenza, suonano a sua indiretta conferma.<br />

Per Arnheim il computer, anche se ha sconfitto un Gran Maestro<br />

di scacchi, non pensa. «Il procedimento del computer non può<br />

chiamarsi intelligente a meno che non si intenda, con un’operazionalismo<br />

davvero disinvolto, definire i processi mentali mediante il loro<br />

risultato esteriore, o a meno che la nozione del modo in cui funziona<br />

l’intelligenza sia tanto meccanica, che in realtà il comportamento del<br />

computer si adatti a tale descrizione [...]. Qual è dunque la differenza<br />

fondamentale tra il computer di oggi e un essere intelligente? Essa<br />

consiste nel fatto che è possibile far sì che il computer veda, ma non<br />

che percepisca. Ciò che qui importa non è che il computer sia privo<br />

di coscienza, ma che, fino ad oggi almeno, esso è incapace di cogliere<br />

spontaneamente il pattern: capacità essenziale per la percezione e<br />

l’intelligenza» (Arnheim, 1969, 86‐87).<br />

Se per il cognitivismo, complessivamente inteso, la parola‐guida è<br />

“informazione”, e la parola‐chiave è “rappresentazione”, per Arnheim,<br />

psicologo <strong>delle</strong> arti, la parola‐guida è “forma” e la rappresentazione si<br />

realizza nelle peculiarità di un dato medium. Considerando la teoria<br />

dell’informazione relativamente alle arti, sostiene che le opere d’arte<br />

«prendono alla lettera la parola in‐formazione: esse veramente danno<br />

forma e non tanto, o non soltanto, forniscono dati» (Arnheim, 1959,<br />

74). «E la forma esige struttura» (Arnheim, 1971, 27). Del resto: se,<br />

come le macchine di Turing, «le menti sono sostanzialmente dei dispositivi<br />

per manipolare simboli» (Fodor, 1983, 70), chi crea i simboli<br />

(nell’accezione non riduttiva di segno)? Come spiegare le arti, le scienze<br />

e, in generale, le diverse “forme simboliche” nelle varie dislocazioni<br />

spazio‐temporali? Al computer i simboli li fornisce l’uomo; e all’uomo?<br />

Changeux (1983) sostiene che il cervello è una macchina che costruisce<br />

rappresentazioni. E il connessionismo, che alla metafora del compu-<br />

162


ter sostituisce quella dell’“uomo neuronale”, individua nell’abilità a<br />

manipolare, tramite «rappresentazioni esterne» il proprio ambiente,<br />

«l’abilità cruciale per pensare logicamente, fare matematica e scienza,<br />

ed in generale elaborare una cultura» (Rumelhart e McClelland, 1986,<br />

298). Ciò nonostante che il cervello “costruisca” è una metafora, perché<br />

il cervello – un pezzo di materia gelatinosa – non costruisce e non<br />

rappresenta alcunché; quanto alla modellizzazione del connessionismo,<br />

una macchina connessa distribuita ha sì una architettura diversa da una<br />

macchina di von Neumann, ma è pur sempre una struttura artificiale,<br />

per la quale, ancora una volta, è stato “possibile far sì che veda, ma<br />

non che percepisca”. A considerare gli attuali mobot (robot mobili) e<br />

la povertà della vita artificiale (Clark, 1997; Parisi, 1999), non si può<br />

non condividere l’impressione che «il connessionismo abbia suscitato<br />

<strong>delle</strong> speranze forse eccessive» (Luccio, 1998, 113). Ma non si esce<br />

dalla situazione di stallo ritornando al cognitivismo simbolico: dotare<br />

di simboli il computer può servire per costruire “intelligenza artificiale”,<br />

non per spiegare l’intelligenza naturale.<br />

Una teoria del pensiero, a meno di non ignorare la produzione di<br />

sistemi simbolici, deve innanzitutto rendere conto della capacità di organizzare<br />

dati nei processi di campo o gestaltici, la capacità di cogliere<br />

la struttura di un oggetto, di un evento, di una situazione (“concetto<br />

percettivo”), correlata a quella di inventarne equivalenti formali (“concetto<br />

rappresentativo”): capacità umane che sono, allo stato attuale, le<br />

incapacità del computer. L’intuizione è il processo cognitivo messo in<br />

campo da Arnheim. La distinzione operata dalla psicologia tra «percezione<br />

(visione, udito, o quel che sia) da una parte, e pensiero‐e‐linguaggio<br />

(i processi rappresentativi) dall’altra» (Fodor, 1983, 78), viene<br />

confutata da Arnheim, per il quale si dimostra feconda «la differenza<br />

fra visione intuitiva e analisi intellettuale [...] Questa distinzione però<br />

non corrisponde a una differenza fra percezione e pensiero. Essa ha<br />

luogo invece entro l’indivisibile complesso cognitivo percetto‐pensiero»<br />

(Arnheim, in Pizzo Russo, 1983, 28). Ora, “l’indivisibile complesso<br />

cognitivo percetto‐pensiero” è estraneo alla tradizionale tassonomia<br />

della psicologia, la quale, o continua a operare una distinzione gerarchica<br />

tra percezione e pensiero (figurativo e operativo di Piaget, 1961;<br />

processo primario e processo secondario di Kanizsa; processi modulari<br />

e processi centrali di Fodor, 1983), o, sulla scia del New Look, e<br />

nell’autorevole tradizione di von Helmholtz, continua a concepire la<br />

percezione come guidata dalla “teoria”. L’intuizione semplicemente<br />

non è presa in considerazione, tanto che per essa può valere la «“Prima<br />

legge di Fodor della Non-Esistenza Cognitiva”. Più o meno essa<br />

dice: più globale (per esempio, più isotropico) è un processo cognitivo,<br />

meno chicchessia può capirlo» (Fodor, 1983, 166).<br />

Prima di documentare la non-esistenza teorica dell’intuizione, consideriamo<br />

la distinzione tra “concetto percettivo” e “concetto rappre-<br />

163


sentativo”, operata da Arnheim ma trascurata dalla psicologia: una<br />

sorta di «impercezione collettiva» la chiamerebbe Piattelli Palmarini<br />

(1987), quella della psicologia, che ha contribuito a rinsaldare l’endiadi<br />

pensiero-linguaggio e che funziona da “ostacolo epistemologico” per<br />

“l’indivisibile complesso cognitivo percetto-pensiero”. «“Un pensiero<br />

che echeggia nel vedere”, si vorrebbe dire» con Wittgenstein (1953,<br />

278) che, nell’immetterci nell’universo dinamico dei “giochi linguistici”,<br />

ci introduce a giochi quali quelli “del vedere come”, e “del vedere<br />

l’oggetto in contesti diversi”, “visivi” dunque, e irriducibili per la loro<br />

diversità strutturale, ai giochi del “verbale”. Se «dell’indicibile diversità<br />

di tutti i giuochi linguistici quotidiani» (ivi, 292) «non siamo consapevoli<br />

[...] perché i panni con cui li riveste il nostro linguaggio li rendono<br />

tutti uguali» (ib.), quelli che per analogia possiamo chiamare “giochi<br />

visivi”, caratterizzati da «guardare + pensare», rischiano di rimanere<br />

un nonsenso se si continua a sostenere il sinolo pensiero-linguaggio.<br />

Certo, nelle Ricerche filosofiche si precisa, a più riprese, che “il parlare<br />

non è pensare” – c’è “il parlare senza pensare” come pure “un guardare<br />

senza vedere” (Pizzo Russo, 2006c) – e tuttavia i rapporti che il<br />

pensare intrattiene col vedere non sono tali da modificare il legame<br />

esclusivo della coppia pensiero-linguaggio: «se penso col linguaggio,<br />

davanti alla mia mente non passano, oltre le espressioni linguistiche,<br />

anche i ‘significati’; ma lo stesso linguaggio è il veicolo del pensiero»<br />

(Wittgenstein, cit., 141). Giustamente avverte Arnheim (1969, 229), «se<br />

si crede, con Wittgenstein, che “conoscere significhi soltanto: essere<br />

capaci di descrivere”, possono risultarne fraintendimenti gravi». Ora,<br />

descrivere è trattare l’esperienza attraverso il medium del linguaggio<br />

verbale; e, se quest’ultimo “è il veicolo del pensiero”, non si esce dalla<br />

logica conclusiva del Tractatus: «su ciò, di cui non si può parlare, si<br />

deve tacere» (Wittgenstein, 1961, 82).<br />

Com’è noto le cose sono evolute diversamente, anche se il fatto<br />

che il “parlare” e il “pensare” «stanno tra loro nella più stretta connessione»<br />

(Wittgenstein, 1953, 284) impedisce poi, non di scorgere<br />

connessioni con altri media o strumenti, ma di problematizzare la pluralità<br />

dei legami pensiero-media ai fini della comprensione della natura<br />

del pensiero: «Dell’evidenza imponderabile fanno parte le sfumature<br />

dello sguardo, del gesto, del tono di voce. Posso riconoscere il sincero<br />

sguardo d’amore, distinguerlo dallo sguardo che simula amore (e naturalmente<br />

qui può darsi una conferma ‘ponderabile’ del mio giudizio).<br />

Ma posso essere assolutamente incapace di descrivere la differenza. E<br />

questo non soltanto perché le lingue che conosco non hanno le parole<br />

adatte. Perché, allora, non introduco una parola nuova? – Se fossi un<br />

pittore di grandissimo talento, si potrebbe pensare che raffigurassi in<br />

immagini lo sguardo sincero e quello che simula. Chiediti: come imparano<br />

gli uomini ad acquistare l’“occhio” per qualcosa? E come si può<br />

impiegare quest’occhio?» (ivi, 298). Consideriamo anche il caso posto<br />

164


da Diderot (1755, 109) di chi, contrariamente a Wittgenstein, è sicuro<br />

di avere tutte le parole per una descrizione esaustiva, e di conseguenza<br />

ritenga quest’ultima sufficiente per la raffigurazione di ciò che ha descritto:<br />

«Uno spagnolo o un italiano, spinto dal desiderio di possedere<br />

un ritratto della propria amante, che non poteva mostrare a nessun<br />

pittore, prese la decisione che gli rimaneva, di farne cioè per iscritto la<br />

descrizione più ampia e più esatta. Cominciò col determinare la giusta<br />

proporzione dell’intera testa; passò poi alle dimensioni della fronte,<br />

degli occhi, del naso, della bocca, del mento, del collo; poi tornò su<br />

ciascuna di queste parti, e non risparmiò niente affinché la sua mente<br />

imprimesse nella mente del pittore l’autentica immagine che aveva sotto<br />

gli occhi; non dimenticò né i colori, né le forme, né alcuna cosa di ciò<br />

che appartiene al carattere: più confrontava il suo discorso col volto<br />

della sua amante, più lo trovava somigliante. Credeva soprattutto che<br />

più avrebbe caricato la descrizione di piccoli particolari, meno libertà<br />

avrebbe lasciato al pittore; non dimenticò niente di ciò che pensava che<br />

il pennello dovesse cogliere. Allorché la sua descrizione gli parve completa,<br />

ne fece cento copie che mandò a cento pittori, invitando ciascuno<br />

di loro ad eseguire esattamente sulla tela ciò che avrebbe letto sulla<br />

carta. I pittori lavorarono; e in capo a un certo tempo, il nostro amante<br />

riceve cento ritratti, i quali somigliano tutti rigorosamente alla sua<br />

descrizione, e di cui nessuno somiglia a un altro, né alla sua amante».<br />

Brevemente: la raffigurazione e il ritratto, nei termini di Arnheim,<br />

sono “concetti rappresentativi”, vale a dire “equivalenti” del percetto<br />

nelle proprietà del medium visivo. Anche la descrizione è un concetto<br />

rappresentativo, ma nelle proprietà del medium verbale. Ora<br />

il linguaggio verbale può rendere il percetto non tramite le proprie<br />

caratteristiche strutturali – le «dimensioni percettive del linguaggio<br />

sono strutturalmente tanto amorfe che con esse non si può costruire<br />

nulla di complesso» – ma «indirettamente, precisamente indicando i<br />

referenti <strong>delle</strong> parole o <strong>delle</strong> proposizioni, vale a dire i fatti forniti in<br />

un “medium” interamente diverso» (Arnheim, 1969, 270 e 268). Il linguaggio<br />

verbale infatti «descrive gli oggetti come cose autonome. Esso<br />

garantisce poi la stessa autonomia alle parti degli oggetti cosicché [gli<br />

occhi, il naso e la bocca] appaiono come entità indipendenti. [...] Ciò<br />

significa che parlare equivale a smembrare un’immagine unificata allo<br />

scopo di comunicare, così come si smonta una macchina per montarla.<br />

Capire il linguaggio verbale significa ricostruire l’immagine rimettendo<br />

insieme i pezzi staccati di essa» (Arnheim, 1986, 114-15). E, contrariamente<br />

ai pezzi della macchina, le parole non riflettono alcun tratto<br />

dell’oggetto che descrivono. Il linguaggio visivo, viceversa, rende la<br />

peculiare struttura dell’oggetto che si vuole rappresentare. Se così non<br />

fosse, perché mai l’amante di cui parla Diderot avrebbe desiderato un<br />

ritratto dell’amata? Non ne aveva già una descrizione? Ma proprio<br />

perciò il suo desiderio è rimasto un desiderio: le descrizioni, anche le<br />

165


più minuziose, non sono bastate, cento e non una volta, a rendere “l’evidenza<br />

imponderabile” del volto amato. “Come si acquista l’occhio?”<br />

E quali sono i giochi che con esso si possono fare? E con l’udito? La<br />

musica, la poesia... E la danza? Per comprendere la danza (e più in<br />

generale “i linguaggi dell’arte”: Goodman, 1968) bisogna abbandonare<br />

l’atteggiamento mentale che, all’affermazione «se potessi esprimerlo a<br />

parole, non avrei bisogno di danzarlo», porta Bateson (1972, 483) a<br />

commentare: «Isadora Duncan diceva una cosa senza senso, poiché la<br />

sua danza riguardava combinazioni di parola e movimento».<br />

«Percepire, come rappresentare, una cosa significa trovare, nella<br />

struttura di essa, una forma» (Arnheim, 1966, 52). Con la differenza<br />

che nel primo caso la forma è compresa, nel secondo prodotta. Usare<br />

il termine comprendere per la percezione significa sconfinare nel<br />

territorio che delimita il pensiero, un’incursione, giudicata pericolosa,<br />

in quelli che sono considerati i processi superiori della mente. Ma<br />

appunto, per Arnheim, «la percezione è fatta di concetti che sono percettivi.<br />

Altrimenti la percezione non sarebbe altro che una ricezione<br />

passiva, mentre invece trovare <strong>delle</strong> forme e generalizzarle è un’esplorazione<br />

attiva» (in Pizzo Russo, 1983, 24). Il percetto quindi non ha<br />

proprietà diverse dal concetto, e il concetto – quando è percettivo e<br />

non linguistico – consiste «nell’afferrare strutture significanti». Se così<br />

non fosse la “raffigurazione” rimarrebbe inspiegabile e la “descrizione”<br />

incomprensibile. All’inizio «la percezione consiste nell’adattare il<br />

materiale di stimolo a stampi di forma relativamente semplice, che io<br />

chiamo concetti visivi o categorie visive. La semplicità di tali concetti<br />

visivi è relativa, in quanto uno schema complesso di stimoli, esaminato<br />

mediante una visione affinata, può determinare una forma alquanto<br />

complessa, forma che sarà la più semplice possibile nelle circostanze<br />

date. Quel che importa è che un oggetto, che si sta guardando, può<br />

dirsi veramente percepito soltanto nella misura in cui corrisponde ad<br />

una qualche configurazione organizzata» (Arnheim, 1969, 35). Poiché<br />

percepire non consiste nella fedele e meccanica registrazione degli elementi<br />

dello stimolo ma nella conquista della struttura, i concetti visivi<br />

non hanno forma esplicita. Percepire, ad esempio, una testa significa<br />

percepirne la rotondità. «Per rappresentare la rotondità di una cosa<br />

come la testa, non posso valermi dei tratti effettivamente presenti in<br />

essa, ma devo trovare o inventare una forma che dia veste materiale,<br />

nel mondo <strong>delle</strong> cose tangibili, al carattere generale visivo di “rotondità”»<br />

(Arnheim, 1974 2 , 147).<br />

Se il concetto rappresentativo non è una copia del concetto percettivo<br />

ma ne è un equivalente reso tramite le proprietà di un particolare<br />

mezzo espressivo, ignorare la distinzione tra i concetti percettivi e gli<br />

equivalenti degli stessi può comportare l’attribuzione al pensiero di<br />

caratteristiche che sono proprie del medium, di un medium. Nella<br />

nostra tradizione culturale il pensiero è stato confuso con il linguaggio<br />

166


verbale: pensiero-linguaggio (Kanizsa, Legrenzi, Meazzini, 1978). Da<br />

questo tipo di pensiero, per Arnheim, la percezione è indipendente.<br />

Ma non lo è dal pensare, se le forme del pensiero sono immagini e<br />

non parole, e il pensiero è il trattamento di tali immagini. L’immagine<br />

«midollo stesso del pensiero in sé» (Arnheim, 1969, 161), è il medium<br />

principale del pensiero produttivo. Da qui l’importanza della visione,<br />

considerata, e non solo da Arnheim, la modalità sensoriale dominante<br />

nell’uomo. Come pure l’importanza di un percorso educativo che<br />

da una “visione primitiva” conduca a una “visione affinata”. Con la<br />

precisazione che l’immagine mentale non va confusa con l’immagineespressa:<br />

«la differenza principale è che le immagini del pensiero per<br />

adempiere alla propria funzione, devono incarnare tutti gli aspetti di<br />

un ragionamento, dato che tali immagini costituiscono il “medium” in<br />

cui si configura il pensiero», e dato che questo «opera spesso ad elevati<br />

livelli di astrazione» (ivi, 283 e 139). L’immagine mentale, lungi dall’essere<br />

come una immagine rappresentata, in quanto tale specificata nelle<br />

proprietà del medium visivo, è «una configurazione di forze», «uno<br />

scheletro visivo» che, perciò, può essere rivestito da una grande varietà<br />

di forme (Arnheim, 1974 2 , 90-91), ma anche originare una grande<br />

varietà di prodotti nei vari media visivi, e in media diversi dal visivo.<br />

Quando si parla di media il riferimento obbligato è a McLuhan<br />

(1964). Indubbiamente grande è stato il suo contributo nel suscitare<br />

interesse e attenzione nei loro confronti. E però «le teorie di Marshall<br />

McLuhan potrebbero condurre a concludere che non ci sarebbe stato<br />

bisogno della teoria della Gestalt, prima dell’invenzione dell’alfabeto<br />

fonetico» (Arnheim, 1989, 108). Al contrario per Arnheim non sono<br />

i media, vecchi e nuovi, a conformare la mente, ma è la mente che<br />

dà forma ai suoi strumenti. Poiché «nessuna concezione mentale può<br />

generare direttamente un’azione materiale o plasmarla direttamente»,<br />

gli strumenti, a partire dal corpo umano fino al computer, sono tramiti<br />

essenziali al servizio dell’attività umana. Fatti «dall’uomo e per l’uomo»<br />

rispecchiano proprietà della mente. Così, per esempio, «il discorso e<br />

la scrittura sequenziali non sono la causa ma solo la manifestazione<br />

del pensiero sequenziale» (Arnheim, 1986, 148 e 149). E come la capacità<br />

di pensare in sequenze non ha tratto origine dall’invenzione di<br />

Gutemberg, così la macchina fotografica non ha trovato impreparata<br />

la mente dell’uomo occidentale, che per secoli aveva perseguito nella<br />

pittura un ideale “fotografico”. «La stessa tecnologia [quindi] va intesa<br />

come una tensione della mente verso un modo di vita che si trova ad<br />

essere congeniale ad alcune <strong>delle</strong> nostre attuali disposizioni» (ivi, 151).<br />

Perciò Arnheim è convinto che «il risultato dell’incontro tra uomo<br />

e macchina sarà determinato più dal primo che dalla seconda [...].<br />

Ma se saremo o no trascinati via dalle acque che hanno travolto l’apprendista<br />

stregone, dipenderà più dal nuotatore che dalla forza della<br />

piena» (ivi, 157-58). Mentre il suggerimento è quello di imparare a<br />

167


nuotare, l’avvertenza esplicita è di non confondere i media, strumenti<br />

del pensiero, con il pensiero.<br />

Del resto, cosa sappiamo del pensiero, indipendentemente dai media<br />

attraverso i quali viene espresso? E della percezione? Se lo studio<br />

sperimentale della percezione «è un suo disvelamento mediato da atti<br />

di pensiero come i giudizi, i confronti, le valutazioni, che non è improbabile<br />

ne deviino il risultato» (Massironi, 1989, 291), che significa<br />

l’ipotesi del vedere contrapposto al pensare? Massironi ritiene che<br />

il metodo dell’interosservazione proposto da Bozzi (1980) potrebbe<br />

consentire un accesso più diretto alla percezione onde neutralizzare<br />

l’ingerenza del pensiero. Proviamo a verificano, utilizzando due “osservatori”<br />

d’eccezione: Arnheim e Kanizsa. Tempo ha fo avuto modo<br />

di discutere con Arnheim gli argomenti di Kanizsa, «quanto di meglio<br />

attualmente è disponibile» (Umiltà, 1988, 128), a favore della differenza<br />

tra i due processi. Allora le ragioni di Kanizsa (1980) erano le mie<br />

e, a riascoltare la conversazione, misi in conto i fraintendimenti che<br />

possono originarsi nella discussione, ma anche di non avere chiarito<br />

sufficientemente la posizione di Kanizsa. Perciò pregai Amheim di<br />

riconsiderare il problema e di rivedere quanto avevo trascritto <strong>delle</strong><br />

nostre conversazioni. Arnheim confermò le risposte che continuarono,<br />

allora, a lasciarmi insoddisfatta. La conversazione (Pizzo Russo, 1983,<br />

26-29), che mi pare utile riportare, è la seguente.<br />

l.p.r. – «Percepire visivamente è pensare visivamente». Questo modo affascinante<br />

di risolvere la dicotomia che il pensiero occidentale ha postulato tra percepire<br />

e pensare genera «il pericolo – ha obiettato Kanizsa (1980, 102) – di non vedere i<br />

veri problemi che sono specifici dell’uno o dell’altro campo [... portando] alla scotomizzazione<br />

di qualche genuino problema» sia in campo percettivo che nel campo<br />

del pensiero. Kanizsa quindi riporta una serie di esempi relativi alla somiglianza, alla<br />

completezza e alla simmetria che evidenziano come le leggi che regolano il pensare<br />

possono essere diverse da quelle che regolano il percepire.<br />

r.a. – Bisogna vedere gli esempi.<br />

l.p.r. – Consideriamo la somiglianza. Per decidere se due cose sono simili,<br />

ovviamente dobbiamo definire la somiglianza. Usiamo un criterio abbastanza comprensivo<br />

e definiamo la somiglianza in base alla «identità dei rapporti o <strong>delle</strong> proporzioni».<br />

Guardiamo la seguente figura.<br />

Kanizsa (ivi, 105) fa notare che «se si fa scegliere la configurazione più simile ad<br />

168


A, tra B e C, la scelta cade nella maggior parte dei casi su C e non sulla variante<br />

rigorosamente proporzionale B».<br />

r.a. – La somiglianza percettiva può riguardare sia B che C: A si può vedere<br />

in due maniere, come catena o come lunghezza. Se lo vedi co me lunghezza è più<br />

simile a B, se lo vedi come catena è più simile a C. In questo ultimo caso la diversa<br />

grandezza non conta molto; forme di grandezza differenti, infatti, si paragonano<br />

molto facilmente.<br />

l.p.r. – Passiamo alla completezza. Questa figura (a) è il disegno di un uomo<br />

senza braccio, quindi incompleto; visivamente tuttavia è completa. Quest’altra figura<br />

(b), viceversa, è incompleta anche visivamente. Abbiamo quindi una raffigurazione<br />

completa di un uomo incompleto e una raffigurazione incompleta di un uomo. Sebbene<br />

man chi a entrambe le figure un braccio, la prima è incompleta per il con cetto<br />

di uomo ma visivamente è completa; la seconda è incompleta dal punto di vista<br />

percettivo, visivamente il braccio tende a continuare, tende a completarsi.<br />

r.a. – Non capisco l’argomento. Qui abbiamo due percetti perfettamente completi<br />

di due disegni, di cui uno è incompleto. Vediamo anche che almeno uno dei<br />

modelli rappresentati nei disegni è incompleto. La differenza fra disegno e modello<br />

ha niente a che fare con la differenza fra percezione e pensiero. Ambedue sono visti<br />

e compresi a mezzo della solita combinazione percetto-pensiero.<br />

l.p.r. – Quindi sei sempre convinto che la logica del vedere coincide con la<br />

logica del pensare.<br />

r.a. – Forse l’esempio è scelto male. Esiste, sì, la differenza fra visione intuitiva<br />

e analisi intellettuale. Difatti sto scrivendo un saggio su questo argomento proprio<br />

adesso. Questa distinzione però non cor risponde a una differenza fra percezione e<br />

pensiero. Essa ha luogo invece dentro l’indivisibile complesso cognitivo percettopensiero.<br />

l.p.r. – Kanizsa mette in evidenza che non sempre il pensare e il vedere, sebbene<br />

possano portare alla stessa conclusione, funzionano secondo gli stessi principî. I<br />

concetti di somiglianza e completezza pos sono essere diversi dai «concetti percettivi»<br />

di somiglianza e completezza. Il problema, quindi, è se le leggi che regolano la percezione<br />

so no le stesse di quelle che regolano il pensiero. Kanizsa sostiene che «l’occhio<br />

– se proprio si vuole che ragioni – ragiona comunque a mo do suo» (ivi, 115).<br />

r.a. – Non è l’occhio che ragiona ma i centri del sistema nervoso che control-<br />

169


lano la percezione visiva. È possibile distinguere fra atti cognitivi in cui la diretta<br />

evidenza visiva è decisiva e altri in cui l’evidenza visiva sembra confonderci. Ma in<br />

quest’ultimi casi non è un ra gio namento “astratto”, non‐percettivo che corregge<br />

il nostro giudizio ma invece una maniera più sottile di percepire – vedi i famosi<br />

esperimenti di Piaget sulla “conservazione”.<br />

Oggi, mi rendo conto che la mia delusione di allora era dovuta al<br />

fraintendimento <strong>delle</strong> ragioni di Arnheim. Né poteva essere diversamente,<br />

guardando alla problematica da una prospettiva piagetiana: il<br />

pensiero operatorio teorizzato da Piaget è agli antipodi del pensiero<br />

visivo. Kanizsa, giustamente, sostiene che, oltre a opzioni teoriche differenti,<br />

una <strong>delle</strong> cause dell’incomprensione tra i sostenitori <strong>delle</strong> due<br />

tesi sia da addebitare al diverso significato dato ai termini, e si occupa<br />

di chiarire cosa intende per percezione. Mettere a confronto Arnheim<br />

e Kanizsa, i loro concetti di “vedere” e “pensare”, gli usi dei termini<br />

“percezione” e “pensiero”, le regole dei due “solitari”, le situazioni<br />

osservative proposte, gli argomenti prodotti: tutto ciò lo ritengo oltremodo<br />

istruttivo, e non indifferente ai fini della comprensione di<br />

quanto dirò. Molto sommariamente, mi limiterò a osservare che le differenze<br />

nei loro modi di concepire la percezione sono indubbie – per<br />

Arnheim vale quanto sostiene Bozzi (1990, 251), e cioè che «la psicologia<br />

sperimentale della percezione è filosofia della conoscenza» – ma<br />

non così irriducibili, essendo entrambi gestaltisti. La differenza, questa<br />

sì radicale, tra Arnheim e Kanisza è relativa al pensiero. Secondo Kanizsa<br />

(ivi, 16), l’ipotesi di Arnheim sulla percezione è «“interpretativa”<br />

o “raziomorfica”»: sia per il pensiero che per la percezione, sostiene<br />

Kanizsa, «si tratterebbe di procedure raziomorfe, analoghe a quelle<br />

che in forma pura si riscontrano nel pensiero discorsivo e scientifico.<br />

Pertanto le regole del ragionare dominerebbero il percepire in tutte<br />

le sue fasi». Perciò accomuna Arnheim a quanti (neo-helmholtziani e<br />

teorici dell’Human Information Processing) sostengono che la conoscenza<br />

corregge, completa e arricchisce la percezione.<br />

È singolare questa accusa di rendere raziomorfa la percezione rivolta<br />

a un gestaltista, e da un gestaltista. Quando poi, per Arnheim,<br />

che guarda al pensare dalla percezione, e non al percepire dal pensiero,<br />

si tratta proprio di liberare il pensare dal pensiero discorsivo e<br />

scientifico. Né Arnheim ha passato sotto silenzio la teoria interpretativa<br />

o raziomorfica. Così – senza qui ricordare l’interessante controversia<br />

con Gombrich (Pizzo Russo, 1983) – allorché parla dei “concetti<br />

percettivi” si preoccupa di avvertire che l’uso «della parola “concetto”<br />

non dovrà in alcun modo suggerire che l’atto di percepire sia un’operazione<br />

intellettuale. I processi che sono stati descritti devono essere,<br />

considerati come aventi luogo entro l’apparato visivo. L’uso, dunque,<br />

di questo termine dovrebbe indicare che c’è una sorprendente somiglianza<br />

tra le attività elementari dei sensi e quelle più elevate del<br />

pensiero o del ragionamento. Questa somiglianza è così grande che gli<br />

170


psicologi sono spesso caduti nell’abbaglio di attribuire le operazioni<br />

sensoriali ad aiuti segreti che sarebbero stati forniti ad esse dall’intelletto;<br />

sono perfino giunti a discorrere di illazioni e calcoli inconsci,<br />

poiché avevano considerato come pacifico che la percezione stessa non<br />

fosse in grado di fare nulla di meglio che registrare meccanicamente<br />

le stimolazioni del mondo esterno» (Arnheim, 1974 2 , 59). La grande<br />

somiglianza, viceversa, è dovuta a «identità di funzionamento» tra percezione<br />

e pensiero (Bozzi, 1973, xi), che in quanto tale né vanifica la<br />

distinzione che facciamo tra le due attività, né è confutata “dal cieco<br />

che non vede e pensa”, come contrargomenta Kanizsa. Il pensiero,<br />

piuttosto, lungi dall’essere strutturalmente discorsivo, e dal rimandare<br />

a procedimenti logici o logicomorfi caratteristici dell’intelletto,<br />

non può essere compreso senza considerare anche il procedimento<br />

complementare dell’intuizione: «Prigioniera di un mondo quadridimensionale<br />

di continuità e di simultaneità spaziale, la mente opera<br />

da un lato intuitivamente, cogliendo i prodotti <strong>delle</strong> forze di campo<br />

liberamente interagenti; dall’altro, traccia intellettivamente sentieri<br />

monodimensionali attraverso il paesaggio spaziale» (Arnheim, 1969,<br />

289). Ma l’intuizione è regolata, come ho già anticipato, dalla “Prima<br />

legge di Fodor”.<br />

Fodor per esemplificare la sua legge parla di ragionamento analogico,<br />

ragionamento comunque impossibile senza l’“intuizione” di<br />

Arnheim. «Colpisce il fatto – osserva – che, mentre ognuno ritiene che<br />

il ragionamento analogico sia un ingrediente importante per i risultati<br />

cognitivi di ogni tipo apprezzabile, nessuno sappia niente di come<br />

funziona, e ciò neppure a livello di oscurità, in quella sorta di buio in<br />

cui comunque vi è qualche idea sul modo di funzionare della conferma»<br />

(1983, 166). Colpisce soprattutto che siano proprio gli psicologi<br />

a parlare di intuizione relativamente al loro procedere cognitivo, e a<br />

non prenderla poi in considerazione quando studiano gli altrui processi<br />

cognitivi. Ho accennato all’importanza data all’intuizione dai matematici,<br />

ma l’uso che gli psicologi fanno del termine è molto diverso: i<br />

matematici qualificano il loro pensiero intuitivo, e considerano l’intuizione<br />

un processo essenziale per la scoperta scientifica (il momento<br />

della “scoperta” incomincia a essere considerato più importante del<br />

momento della “giustificazione” per lo studio del pensiero), ma non<br />

solo per la scoperta; per gli psicologi il termine, a parte il fatto che<br />

non ha un posto nello statuto della loro disciplina, conserva un alone<br />

negativo. Come si legge in un dizionario di psicologia, «Il termine è<br />

stato usato da diversi filosofi [...] Attualmente le nostre credenze preteoriche,<br />

per es. su ciò che è giusto o sbagliato, sono chiamate intuizioni<br />

(morali per es.)» (Harré, Lamb e Mecacci, 1983). Piaget rappresenta<br />

un’eccezione che conferma la regola: l’intuizione caratterizzerebbe il<br />

pensiero del bambino al di sotto dei sette anni (1964, 37-41); perciò<br />

l’uso che ne fa il filosofo gli «appare come un ibrido, che si rivela<br />

171


all’analisi composto da due componenti ancora indifferenziate: l’esperienza<br />

e l’inferenza deduttiva» (1965, 129), e l’uso del matematico lo<br />

giudica presunto: l’intuizione matematica è «“transintuitiva” perché<br />

psicologicamente non procede dalla percezione, come troppo spesso<br />

si crede, bensì dall’azione o dalla sua interiorizzazione in operazioni,<br />

cosa che permette una liberazione progressiva relativamente ai modelli<br />

percepibili» (Beth e Piaget, 1961, 238).<br />

Durante la conferenza di Woods Hole sull’insegnamento scientifico,<br />

che nel lontano 1959 ha visto impegnati esperti di psicologia, pedagogia,<br />

matematica, fisica, biologia, medicina, lettere, storia e cinematografia,<br />

soprattutto matematici e fisici posero con forza il problema<br />

dell’intuizione, e un gruppo di lavoro prese in esame “Il ruolo dell’intuizione<br />

nell’apprendimento e nel ragionamento”. Bruner (1961), che<br />

preparò la relazione finale, benché insista molto «sull’importanza che<br />

per uno studente ha la comprensione intuitiva», è costretto a precisare<br />

che «non è neppure chiaro che cosa si intende per pensiero intuitivo»<br />

(ivi, 95). Mentre «i discorsi più espliciti sull’intuizione vengono fatti<br />

in campi come la matematica e la fisica, nei quali l’apparato formale<br />

della deduzione e dell’induzione è più altamente sviluppato» (ivi, 106),<br />

la psicologia ha ben poco da dire dato che «una definizione precisa in<br />

termini di comportamento osservabile, non è attualmente alla nostra<br />

portata» (ivi, 100). Dal testo di Bruner si ricava l’impressione che le<br />

argomentazioni sull’intuizione siano farina del sacco del matematico e<br />

del fisico, e non dello psicologo. A riprova di ciò mi pare interessante<br />

segnalare la contraddizione tra quanto viene affermato nel capitolo<br />

sul pensiero intuitivo e quanto si sostiene nel capitolo sullo sviluppo<br />

cognitivo: «La stima in cui gli scienziati tengono i loro colleghi più<br />

dotati di capacità intuitiva sta a dimostrare con tutta evidenza che<br />

l’intuizione è di estrema utilità nella scienza, e che dovremmo sforzarci<br />

di potenziarla nei nostri discepoli»; viceversa, lo schema evolutivo<br />

seguito è quello di Piaget, per il quale nell’ultimo stadio le operazioni<br />

intellettuali si fondano «su quegli stessi principi che costituiscono il<br />

patrimonio del logico, del matematico e del pensatore teorico», e per<br />

il quale l’intuizione è un processo di pensiero primitivo, da superare<br />

proprio per accedere ai «principi che costituiscono il patrimonio del<br />

logico, dello scienziato e del pensatore teorico» (ivi, 107 e 77).<br />

Bruner (cit., 102), data l’assenza di ricerche psicologiche sulla natura<br />

del pensiero intuitivo, e data l’importanza a esso assegnata dagli<br />

scienziati (non psicologi), sostiene che «c’è bisogno di strumenti<br />

e di procedimenti per caratterizzare e misurare il pensiero intuitivo<br />

e che bisogna dedicarsi con grande energia alla elaborazione di tali<br />

strumenti. Nella situazione attuale non siamo in grado di prevedere<br />

gli sviluppi della ricerca in questo campo». Gli sviluppi non ci sono<br />

stati, se quasi trent’anni dopo si tratta ancora «di sottrarre l’intuizione<br />

a quella misteriosa aura di ispirazione “poetica” che le è propria e di<br />

172


farne un fenomeno psicologico preciso» (Arnheim, 1986, 31). Contrariamente<br />

a Fodor (soprattutto 1983, ma anche 1987, dove, caduta<br />

la pregiudiziale di principio, individua la struttura del pensiero nella<br />

semantica e nella sintassi del Mentalese), che ritiene non abbordabile<br />

scientificamente l’intuizione (il ragionamento analogico), per Arnheim<br />

(ivi, 30 e 29) la scarsa comprensione che ne abbiamo è dovuta al fatto<br />

che «la conosciamo per lo più attraverso le sue realizzazioni, mentre il<br />

modo di operare che le è proprio tende a sottrarsi alla consapevolezza».<br />

«Nella nostra esperienza diretta, noi abbiamo maggiore familiarità<br />

con l’intelletto per la buona ragione che le operazioni intellettuali<br />

tendono a consistere in catene di inferenze logiche i cui anelli sono<br />

spesso osservabili alla luce della coscienza e chiaramente distinguibili<br />

gli uni dagli altri. Un esempio passabilmente ovvio è dato dai diversi<br />

passaggi di una dimostrazione matematica. La capacità intellettuale è<br />

chiaramente suscettibile di trasmissione e apprendimento. È possibile<br />

ricorrere ai suoi servigi come a quelli di una macchina e, in effetti,<br />

varie operazioni intellettuali di alta complessità vengono oggi svolte<br />

da computer». Ma la macchina non comprende.<br />

Per Arnheim (1986, 29, 33 e 36) intuizione e intelletto sono le due<br />

procedure su cui la mente può contare per elaborare strategie di comprensione<br />

della realtà, e svolgono il loro «ruolo in ogni atto cognitivo,<br />

sia esso propriamente percettivo o di tipo più raziocinante». Mentre<br />

l’intelletto opera per sequenze lineari, sequenze che, sebbene possano<br />

essere lette nelle due direzioni, rimangono pur sempre sequenze; l’intuizione<br />

opera per processi di campo, processi che colgono la struttura<br />

globale nella simultaneità dei vari elementi e ogni elemento nella gerarchia<br />

strutturale del tutto. «Si ha quindi nella cognizione come un braccio<br />

di ferro permanente tra due tendenze di fondo, quella che porta a<br />

vedere ogni situazione come un complesso unitario di forze interagenti<br />

e quella invece che mira a costituire un mondo di entità stabili le cui<br />

proprietà possono essere conosciute e riconosciute nel tempo. Ognuna<br />

<strong>delle</strong> due tendenze sarebbe irrimediabilmente unilaterale senza l’altra».<br />

Così, ad esempio «il linguaggio proposizionale, che consiste di catene<br />

lineari di unità standardizzate, si è formato come una produzione dell’intelletto;<br />

ma se si adatta perfettamente alle necessità dell’intelletto<br />

stesso, tale linguaggio si trova di fronte a un compito disperato quando<br />

si tratta di affrontare processi di campo, immagini, costellazioni fisiche<br />

o sociali, l’opera d’arte, la poesia o la musica», quando si tratta cioè<br />

di cogliere simultaneamente le relazioni non lineari di una struttura.<br />

L’intuizione, definita come l’aspetto gestaltico o di campo della percezione,<br />

o più propriamente del sinolo percezione-pensiero, non solo<br />

cessa di essere irrazionale – l’irrazionalità attribuitale si rivela, in ultima<br />

analisi, come dovuta al fraintendimento del suo essere non linearmente<br />

sequenziale, non discorsiva – e, come per l’intelletto, al quale indirizziamo<br />

tutte le attenzioni educative, l’educazione è decisiva per il<br />

173


suo sviluppo. Tenerla presente nel progetto educativo, potenziando<br />

quelle conoscenze che esaltano il suo modo di procedere, non è un<br />

optional se il compito è quello di «formare una persona pienamente<br />

sviluppata».<br />

Arnheim (ivi, 28) suggerisce che «quei lettori che si sentono più<br />

sicuri quando possono assegnare ad un’abilità una sede nel mondo<br />

fisico preferiranno forse localizzare l’intuizione nell’emisfero destro del<br />

cervello, in cui troverà una sistemazione non meno comoda e rispettabile<br />

di quella dell’intelletto nell’emisfero sinistro». Alla luce di questo<br />

suggerimento possiamo considerare il rendimento cognitivo dell’una o<br />

dell’altra procedura, singolarmente attive, analoghi ai rendimenti cognitivi<br />

di pazienti split-brain. Disegnare con la parte destra del cervello,<br />

come recita un titolo di grande successo di Betty Edwards (1979), riflette<br />

la logica della propaganda e non l’organizzazione funzionale della<br />

mente. Se le arti «ci permettono di vedere direttamente l’intuizione<br />

al lavoro», nessuna opera potrebbe essere prodotta o fruita senza una<br />

mente «a doppio taglio» (Arnheim, 1986, 32). Piuttosto la neuropsicologia<br />

clinica e sperimentale dagli anni Sessanta è andata smontando<br />

la nozione di dominanza cerebrale che aveva posto l’emisfero sinistro,<br />

sede del linguaggio e dei processi cognitivi “superiori”, in posizione<br />

di assoluto prestigio; e va elaborando la nozione di specializzazione<br />

emisferica, rivalutando con ciò stesso l’apporto dell’emisfero destro<br />

(Umiltà, 1989; Làdavas e Umiltà, 1987).<br />

Pur tuttavia il pregiudizio nei confronti dell’intuizione e della percezione<br />

intuitiva non accenna a diminuire. Ferma restando la frattura tra<br />

sensi e intelletto, e la distinzione gerarchica tra percezione e pensierolinguaggio,<br />

«tutto il nostro sistema educativo seguita a fondarsi sullo<br />

studio <strong>delle</strong> parole e dei numeri. Non vi è dubbio che nel giardino<br />

d’infanzia i bambini più piccoli imparino vedendo e maneggiando forme<br />

piacevoli, e inventino le proprie stesse configurazioni sulla carta e<br />

sulla creta, pensando attraverso il percepire. Ma con la prima classe<br />

elementare, i sensi cominciano a perdere prestigio educativo. Sempre<br />

più l’arte è considerata un tirocinio in attività gradevoli, un diventimento,<br />

un rilassamento mentale» (Arnheim, 1969, 5). Fino ad arrivare alla<br />

scuola secondaria, dove o scompare o, perduto il tempo dell’“operatività<br />

rilassata”, si trasforma in disciplina storica, scontando una situazione<br />

di “marginalità” che non ha pari (De Seta, 1977; Thiery, 1980;<br />

Nonveiller, 1992). «Negligere l’arte non è che il simbolo più tangibile<br />

del diffusissimo stato di disoccupazione dei sensi in ogni settore dello<br />

studio accademico. Ciò che specificamente occorre non è un più esteso<br />

insegnamento estetico, o un numero maggiore di manuali esoterici<br />

sull’educazione artistica, ma una battaglia convincente in favore del<br />

pensiero visuale, svolta su base del tutto generale. Se l’avremo compresa<br />

in teoria potremo cercare di curare in pratica la lacuna morbosa che<br />

storpia l’educazione della capacità ragionativa» (Arnheim, 1969, 6).<br />

174


Il “pensiero visivo”, assente nel dibattito psicopedagogico, e che si<br />

pone come ossimoro nel panorama odierno della psicologia, non può<br />

non suscitare i sospetti di chi si è assestato da una parte o dall’altra<br />

della netta linea di demarcazione che la modernità ha tracciato tra<br />

l’estetico e lo scientifico: «Tra chi coltiva i sensi – tra gli artisti, specialmente<br />

– non pochi sono giunti a diffidare del ragionamento considerandolo<br />

un nemico o quanto meno un estraneo; mentre chi opera<br />

sul piano del pensiero teorico ama supporre che le proprie operazioni<br />

si svolgano al di là dei sensi» (ivi, x). Arnheim, ristrutturando la tradizionale<br />

distinzione gerarchica tra senso e intelletto, o percezione e pensiero,<br />

in due processi – intuizione e intelletto – entrambi indispensabili<br />

nella loro complementarità – «la mente a doppio taglio» – operanti a<br />

tutti i livelli della cognizione, dal più primitivo al più evoluto, e in tutti<br />

i campi dell’attività umana, erode la base che la psicologia ha fornito<br />

per costruire l’artificioso muro che la modernità ha innalzato tra arte e<br />

scienza. Se la diversità tra arte e scienza non è riportabile alla struttura<br />

mentale, intuitiva per la prima e intellettuale per la seconda, ma alle<br />

diverse finalità dell’agire e al diverso trattamento dei media culturali;<br />

e se «è l’elaborazione del mondo percettivo che si verifica nel contesto<br />

dell’acquisizione dei media culturali che può essere chiamato sviluppo<br />

dell’intelligenza» (Olson, 1970, 53), la scuola, a cui la società ha demandato<br />

“l’educazione alla ragione”, non dovrebbe continuare a relegare<br />

le arti ai margini del sistema. Solo se riflettesse che la conoscenza<br />

è medium-specifica, che la diversità <strong>delle</strong> conoscenze si fonda sulla<br />

diversità strutturale dei vari media e che «tutti i dati, mentali o fisici,<br />

che desideriamo studiare, insegnare o imparare sono processi di campo<br />

o gestaltici. E ciò vale per la biologia, la fisiologia, la psicologia come<br />

per le arti, per le scienze sociali e per gran parte di quelle naturali»,<br />

per le quali non basta l’analisi intellettuale ma è parimenti indispensabile,<br />

anzi pregiudiziale, l’intuizione percettiva. «Nell’ambito educativo,<br />

trascurare l’una per l’altro o tenerli separati non può che danneggiare<br />

le menti che cerchiamo di nutrire» (Arnheim, 1986, 44-45).<br />

«Soltanto in uno schema educativo dedito, nel suo complesso, e in<br />

tutte le sue attività, all’intento di rendere visibile il mondo, può avere<br />

senso in teoria ed in pratica l’educazione artistica. L’arte non è mai veramente<br />

se stessa quando vagola, come una mera isola di visibilità, in un<br />

oceano di cecità. Essa comincia ad avere senso quando viene concepita<br />

come il tentativo più radicale di comprendere il significato della nostra<br />

esistenza mediante le forme, e i colori, e i movimenti che il senso della<br />

vista coglie e interpreta» (Arnheim, 1966, 184-85). Ciò è vero non solo<br />

per l’arte visiva, oggetto dell’educazione artistica strettamente intesa, ma<br />

per tutte le arti, e in misura e modi diversi per la stessa scienza. Chi, per<br />

esempio, ritiene la matematica un’arte, conferma sì il «sicuro possesso<br />

dello strumento logico» che l’apprendimento della matematica procura,<br />

ma non ripone in questa conquista «il più alto valore dell’insegnamen-<br />

175


to matematico»: «Chi ha intesa una dimostrazione matematica, chi è<br />

riuscito a rendersene esatto conto, a penetrarne gli intimi congegni,<br />

a vedere la ferma trama della sua struttura, ha vivo il senso di avere<br />

raggiunto una verità con assoluta pienezza di persuasione; ha la gioiosa<br />

consapevolezza di non avere prestato il suo consenso ad altra autorità<br />

che a quella del suo pensiero». Perciò ripone il valore formativo della<br />

matematica, la cui essenza non è diversa da quella riconosciuta all’arte,<br />

«non tanto sul terreno logico, quanto sul terreno etico» (Scorza,<br />

1921, 21-22). E Arnheim considerando l’arte, ma ricavandone principî<br />

generali, precisa che «è difficile sfuggire ad un problema visivo. Esso<br />

prende diretto possesso della mente, senza la mediazione degli alfabeti<br />

o <strong>delle</strong> unità numeriche. I problemi che pone, le domande che avanza,<br />

i difetti <strong>delle</strong> risposte che gli date, vi stanno di fronte, incarnati, tangibili,<br />

persecutori. Se provate a darne una soluzione esteriore, la vostra<br />

superficialità sarà evidente. Se applicate ad un problema che è vostro<br />

la risposta di un altro, essa vi sembrerà straniera. Non vi sarà pensiero<br />

altrui che potrà aiutarvi, ma soltanto il vostro: e qualsiasi lacuna vi farà<br />

male come una ferita» (1966, 185). Ancora una volta, il vedere rimanda<br />

ai valori, decisivi quando la posta in giuoco è l’uomo.<br />

In definitiva matematici e psicologi dell’arte, quando, trascendendo<br />

lo specifico apporto disciplinare dei loro oggetti di ricerca, si interrogano<br />

sulla loro più generale valenza educativa, individuano nel vedere<br />

l’importanza e della matematica e dell’arte. Se le cose stanno così,<br />

mentre la teoria del pensiero visivo, denunciando il limite e l’artificiosità<br />

della scuola fondata sulle parole e sui numeri, quella scuola il<br />

cui prodotto esemplare «sa molto, pensa poco e non crede a niente»<br />

(Wojnar, 1990, 21), rende chiare le ragioni del fallimento dell’educazione<br />

artistica fino a oggi praticata, i Pensieri sull’educazione artistica ci indicano<br />

un nuovo modo di fare scuola: una riformulazione del progetto<br />

educativo nella sua globalità, all’interno del quale contestualizzare e risolvere<br />

l’annoso problema dell’educazione intitolata alle arti. Delineando<br />

percorsi concretamente esperibili e radicalmente innovativi rispetto<br />

alle prassi correnti, Arnheim suggerisce alla psicologia dell’educazione<br />

“esperimenti di trasformazione” estranei ai presupposti psicologici su<br />

cui la Scuola si basa, ma forse suscettibili di sviluppare una miscela<br />

di potenza e compassione più equilibrata di quella oggi dominante, se<br />

“la dimensione di promessa” ravvisata nell’arte, da Schiller a Marcuse,<br />

la reinterpretiamo alla luce di questi Pensieri.<br />

A distanza di quindici anni lascio sostanzialmente immutate le precedenti<br />

considerazioni, salvo qualche piccolo ritocco e qualche minimo<br />

aggiornamento bibliografico. Nel frattempo molte cose sono cambiate,<br />

soprattutto in un’epoca di cambiamento accelerato come la nostra. La<br />

diffusione di Internet, del World Wide Web, e degli sms ha rivoluzionato<br />

molti comportamenti quotidiani. Per di più, siamo entrati in un<br />

176


nuovo secolo e anche in un nuovo millennio. Il Novecento è diventato<br />

il secolo scorso e ci troviamo all’alba del 3000; Rudolf Arnheim<br />

ha compiuto cento anni: tutte occasioni per fare bilanci e previsioni.<br />

Eravamo moderatamente ottimisti. L’euforia che ha accompagnato il<br />

passaggio di secolo e di millennio durò, però, poco. Avevamo assistito<br />

all’happening della caduta del muro di Berlino e siamo sotto l’oppressione<br />

del crollo <strong>delle</strong> Twin Towers.<br />

La scuola è sempre più in crisi, e le continue riforme sembrano<br />

accentuare il suo malessere, piuttosto che porvi rimedio. Intanto, «gli<br />

educatori di tutto il mondo hanno abbracciato la teoria <strong>delle</strong> intelligenze<br />

multiple» (Gardner, 1999). Gli insegnanti, che si trovano con<br />

alunni sempre meno interessati agli apprendimenti scolastici, ritengono<br />

di trovare una soluzione nella teoria <strong>delle</strong> diverse forme di intelligenza<br />

di H. Gardner (1985 2 ). Le sue sette-nove intelligenze – in cui ciò che<br />

appartiene alla cultura viene, a torto, inscritto nell’architettura della<br />

mente – sembrano più adeguate alla sfida della multiculturalità che, a<br />

ragione, guida l’attuale interesse teorico della pedagogia.<br />

L’idea di natura umana che la scienza e l’arte ci consegnano si trova<br />

anche schiacciata tra l’animalità e l’artificialità: il nostro genoma, uguale<br />

per il 98% a quello dello scimpanzé, porta a dire che siamo scimpanzé<br />

per il 98% (Marks, 2002), o scimpanzé e basta (Diamond, 1991); e<br />

nell’epoca della mente materializzata e di art.comm (Perretta, 2002;<br />

Frazzetto, 2002) si organizzano mostre di arte animale (Pizzo Russo,<br />

2006c) e di arte robotica (www.artbots.org/). Le gallerie espongono, i<br />

musei acquistano e il pubblico ci crede e compra. Arnheim direbbe che<br />

è necessario insegnare “l’etica di chi merita credito e per che cosa”.<br />

Nel “Decennio del Cervello”, come è stata chiamata l’ultima decade<br />

del Novecento, vi sono state importanti novità: la scoperta dei “neuroni<br />

specchio” (Rizzolatti e Sinigaglia, 2006) e la nascita della neuroestetica<br />

(www.neuroesthetics.org/; Zeki, 1999) sono di sicuro interesse per il<br />

nostro argomento. Ma la prima, invece di far piazza pulita del mentalismo<br />

che affligge lo studio della mente e falsificare la credenza che<br />

persino i bambini piccoli e gli scimpanzé siano “psicologi ingenui”, è<br />

servita proprio a portare acqua al mulino della “teoria della teoria” o<br />

della “teoria della simulazione” (Gallese, 2003; Gozzano, 2001). Per<br />

quanto ci riguarda l’avrei messa in relazione alla risonanza di cui parla<br />

Arnheim. E la neuroestetica, ferma restando l’importanza <strong>delle</strong> ricerche<br />

sulla percezione visiva di Semir Zeki (che vanno nella direzione del<br />

concetto percettivo di Arnheim), nasce dalla confusione tra processi<br />

e prodotti o, in termini arnheimiani, tra concetti percettivi e concetti<br />

rappresentativi (Pizzo Russo, 2005).<br />

Sicuramente oggi avrei strutturato questa presentazione tenendo<br />

conto anche di questi e altri temi, ma sono fattori ulteriori che lasciano<br />

intatto il senso <strong>delle</strong> mie considerazioni. Le linee di fondo allora<br />

tratteggiate non hanno infatti registrato inversioni di tendenza. Arnheim<br />

177


imane uno studioso sostanzialmente fuori dai circuiti dell’industria<br />

culturale, e quando per caso vi entra, così lontano dalle logiche caotiche<br />

del presente, non viene “riconosciuto”. Un pensatore critico non è<br />

sempre in sintonia col suo tempo, e le sue proposte spesso non vengono<br />

recepite. Così anche nelle recenti manifestazioni per il centenario della<br />

nascita di Arnheim – che pure hanno procurato contributi importanti<br />

sulla sua vita e sulla sua opera, come, per rimanere in Italia, la documentatissima<br />

mostra Rudolf Arnheim. Un secolo di pensiero visivo<br />

curata da Ingrid Scharmann a Macerata nel 2004 e a Roma nel 2005,<br />

e i convegni tenutisi a Macerata e Palermo nel 2004 (Pizzo Russo, a<br />

cura di, 2005) e a Roma nel 2005 (Bartoli e Mastandrea, a cura di,<br />

2006) – la sua proposta per la formazione dell’uomo ha registrato scarsa<br />

attenzione (Pizzo Russo, 2006a).<br />

Il fatto che si arrivi alla seconda edizione del presente volume può<br />

però essere di buon auspicio per il futuro, giacché i Pensieri di Rudolf<br />

Arnheim, davvero profondi, mantengono intatta la loro grande carica<br />

di attualità.<br />

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182


Rudolf Arnheim e la logica dell’immagine *<br />

La psicologia della Gestalt nei primi decenni del Novecento ha<br />

profondamente innovato il paradigma tradizionale che ha accompagnato<br />

la nascita della psicologia scientifica nella seconda metà dell’Ottocento.<br />

Svolgendo la propria attività in un ambito in cui la ricerca<br />

su problemi ritenuti centrali per lo studio sperimentale della mente<br />

si integrava proficuamente con questioni di teoria della conoscenza,<br />

gli psicologi della cosiddetta scuola di Berlino – Köhler, Wertheimer<br />

e Koffka – non solo hanno modificato radicalmente l’epistemologia<br />

della “nuova scienza” ma hanno anche delineato significativamente una<br />

rigorosa impostazione generale di questioni attinenti a diverse discipline,<br />

guidati sempre dalla stella polare dell’unità di scienza e sapere<br />

filosofico. Tanto con i contributi sperimentali quanto con le riflessioni<br />

teoriche, hanno portato avanti una profonda revisione dei dualismi<br />

– psicologia e fisiologia, mente e corpo, sensazione e percezione, percezione<br />

e pensiero, sentimento e ragione, fatti e valore, esperienza e<br />

significato – che caratterizzavano la ricerca psicologica e, più in generale,<br />

la riflessione sull’uomo. I dualismi, in linea con il meccanicismo<br />

e l’elementismo dell’ethos scientifico, ai loro occhi minavano alla base<br />

il progetto di costruire la psicologia come scienza.<br />

I fondatori della psicologia della Gestalt perciò, da un lato, si impegnarono<br />

nella ricerca di evidenze sperimentali che rendessero adeguatamente<br />

conto del funzionamento della mente (percepire, memorizzare,<br />

apprendere, parlare, pensare, ecc.); dall’altro, affrontarono fenomeni<br />

trascurati dalla ricerca psicologica, vuoi wundtiana che comportamentistica,<br />

come lo studio dell’azione o quello della comprensione intersoggettiva.<br />

Consapevoli, poi, che “una cosa può essere vera se considerata<br />

in una realtà atomizzata e falsa se vista come parte di un tutto”, sono<br />

sempre stati attenti a non assolutizzare i diversi fenomeni della psicologia<br />

e a considerare questioni dibattute in altri campi di ricerca, non<br />

solo per l’esigenza di confronto con altri settori, o per il gusto dell’interdisciplinarietà,<br />

ma anche per la convinzione profonda dell’unità della<br />

natura, di cui l’uomo è parte e non tutto.<br />

* Pubblicato come Introduzione al volume di Rudolf Arnheim, L’immagine e le<br />

parole (2007), Milano, Mimesis, 2009 2 , pp. 7-21.<br />

183


Il loro impegno ha sempre mirato a incrementare l’efficacia descrittiva<br />

ed esplicativa della teoria proposta mettendo a punto un metodo<br />

di ricerca che, pur qualificato dalle imprescindibili esigenze di economia<br />

e di rigore comuni alle scienze, rispettasse, altresì, la struttura<br />

dei fenomeni studiati. Per questo atteggiamento generale, che con le<br />

parole di Wertheimer consiste nel «rendere giustizia alla situazione,<br />

nel mettere a fuoco l’oggetto in accordo con la sua natura e con le<br />

esigenze oggettive della sua struttura», la psicologia della Gestalt è<br />

stata definita “scuola del rispetto”. Il che ben riassume la tensione<br />

all’oggettività in cui si fondono epistemologia, etica ed estetica. Non<br />

sorprende allora che la psicologia della Gestalt sia considerato un caso<br />

unico nella storia della scienza in cui teoria, agenda di ricerca e prassi<br />

sperimentale si potenziano reciprocamente.<br />

La figura di Rudolf Arnheim è un esempio di tutte le caratteristiche<br />

della scuola gestaltista. Studioso in grado di padroneggiare campi diversi<br />

del sapere, attento alle frontiere della ricerca scientifica e artistica,<br />

ha manifestato in più occasioni la convinzione nell’unità dei principî<br />

che spiegano sia i processi cognitivi, sia la capacità di rendere percepibili<br />

concetti e significati, come pure la formazione degli organismi o il<br />

comportamento di certi fenomeni della materia fisica. Lo studio <strong>delle</strong><br />

arti si caratterizza, da un lato, per la costante attenzione alle qualità<br />

fenomeniche che la loro fattura deve comportare affinché si facciano<br />

veicolo di significati; dall’altro, alle proprietà che la mente deve possedere<br />

per fare e fruire arte. Così la sua psicologia <strong>delle</strong> arti – più<br />

propriamente “psicologia generale” – è una disciplina in cui intreccia<br />

in maniera feconda la teoria della percezione e del pensiero, lo studio<br />

particolareggiato e attento dei diversi tipi di immagini, la conoscenza<br />

della storia <strong>delle</strong> arti, la pratica personale di alcune di esse e il gusto<br />

per il contatto diretto con le grandi opere del presente e del passato.<br />

Dopo aver iniziato la sua ricerca lavorando sull’espressione, Arnheim,<br />

già collaboratore del settimanale Die Weltbühne, nel 1928 ne<br />

diviene responsabile <strong>delle</strong> rubriche culturali. Seppur nelle vesti di critico<br />

engagé, i suoi interventi ereditano i principî di rigore e rispetto dei<br />

fenomeni che caratterizza il lavoro dei suoi maestri. E nel suo primo<br />

libro, Film als Kunst, mette a frutto gli esperimenti di Wertheimer e<br />

Köhler. Gestalt and Art, un piccolo ma fondamentale articolo rimasto<br />

solitamente ignorato, segna il punto in cui inizia ad approfondire i<br />

problemi legati all’espressività, ai media, alle immagini e alle arti più<br />

dall’interno della teoria psicologica. Con Arte e percezione visiva il passaggio<br />

dalla figura del critico militante, attento agli insegnamenti della<br />

psicologia gestaltista, a quella dello psicologo impegnato con problemi<br />

che nascono dal mondo stesso <strong>delle</strong> arti, dalla produzione e fruizione<br />

<strong>delle</strong> sue immagini, è ormai compiutamente consumato.<br />

In Arte e percezione visiva e ne Il Potere del centro – da lui stesso<br />

considerate rispettivamente la “grammatica” e la “sintassi” del visivo<br />

184


– come negli innumerevoli saggi e articoli che li accompagnano, nonché<br />

ne Il pensiero visivo – una vera e propria summa della teoria di<br />

Arnheim e del suo interesse per lo studio dell’arte, della scienza e dei<br />

vari mezzi, dalle immagini al linguaggio, con cui è possibile esprimere<br />

significati – il comune denominatore è la convinzione che la psicologia<br />

<strong>delle</strong> arti deve sempre partire dalle esigenze che la comprensione<br />

dell’opera impone. Secondo Arnheim l’opera d’arte, il produrla e il<br />

fruirla, impegna tutti gli aspetti della mente umana. Di conseguenza,<br />

è compito della psicologia individuare quei principî generali di funzionamento,<br />

che possono poi essere specificati per rispondere al meglio<br />

alle esigenze esplicative poste dalla comprensione <strong>delle</strong> forme che si<br />

incontrano in pittura, poesia, cinema, danza, fotografia, architettura,<br />

scultura, musica, design. L’attenzione ai principi generali si affianca,<br />

dunque, all’esigenza di poter sempre discendere quanto più è possibile<br />

alle caratteristiche tipiche del particolare fenomeno studiato. Le<br />

configurazioni e i colori, gli eventi sonori, le masse plastiche o i volumi<br />

presentano caratteristiche specifiche che permettono a chi li impiega<br />

di trasmettere un particolare significato in un modo che ne contraddistingue<br />

la maniera artistica.<br />

A dispetto della teoria tradizionale, secondo la quale la percezione<br />

si limiterebbe a ricevere ciò che della stimolazione proveniente dal<br />

mondo esterno impatta sulla retina, tanto da poter essere limitata alla<br />

registrazione passiva di quanto sarebbe già dato nel mondo fisico, la<br />

percezione mostra di possedere nelle circostanze della vita ordinaria<br />

notevoli capacità che vanno oltre la mera registrazione e che spesso<br />

sono state attribuite a operazioni intellettive o del pensiero che dovrebbero<br />

correggerla o arricchirla. Innanzitutto la percezione non va considerata<br />

in prima istanza come uno strumento di rilevazione di qualità<br />

fisiche del mondo materiale, bensì come la capacità che ci permette di<br />

vederci circondati, all’apertura dei nostri occhi, da un mondo fatto di<br />

nuvole nel cielo, acqua del mare, barche nel porticciolo, una finestra,<br />

un tavolo, il proprio corpo. Non solo tutti questi oggetti si presentano<br />

immediatamente alla vista, ma essi – come indicato anche dall’ordine<br />

in cui sono descritti – mostrano di essere in una determinata relazione.<br />

Inoltre, non solo gli oggetti si mostrano nella percezione ordinati a<br />

diverse distanze reciproche e rispetto all’osservatore, ma ciascuno o<br />

ciascun gruppo di essi può diventare parte della porzione di campo<br />

visivo su cui si focalizza l’attenzione. Andando nel dettaglio, allargando<br />

l’estensione del campo visivo, spostando lo sguardo su oggetti precedentemente<br />

non considerati o su parti degli stessi nascoste, riposizionandone<br />

alcuni già visti rispetto a un nuovo centro del campo visivo,<br />

ecc., si scoprono nuovi rapporti tra le qualità visive e si perviene a una<br />

più approfondita comprensione.<br />

Perciò la percezione non può non essere dotata di tutta una serie<br />

di capacità che tradizionalmente sono state attribuite – e lo sono<br />

185


spesso tuttora – a facoltà mentali erroneamente ritenute superiori. In<br />

primo luogo deve essere finalizzata, vale a dire deve essere diretta a<br />

cogliere le qualità degli oggetti che li rendono salienti per determinati<br />

scopi in determinate circostanze; e selettiva, vale a dire deve essere in<br />

grado di individuare i tratti essenziali degli oggetti rispetto al contesto<br />

in cui essi si trovano. D’altro canto, sono capacità queste che devono<br />

essere garantite, a tutte le creature – dal paramecio all’uomo, sebbene<br />

in gradi diversi – per ragioni di sopravvivenza e adattabilità evolutiva.<br />

Di conseguenza bisogna riconoscere alla percezione la capacità principale<br />

che la rende utile biologicamente, ossia la capacità di afferrare<br />

l’essenziale, di cogliere i tratti strutturali di qualcosa.<br />

Arnheim non ha mai smesso di ricordarci che la percezione è formazione<br />

di “concetti percettivi”, di categorie tramite cui un percetto<br />

non si riferisce solo a un singolo individuo, o a sue singole qualità,<br />

bensì al tipo generale cui l’individuo appartiene tramite la struttura del<br />

pattern di cui il percetto stesso consiste. La rotondità è un concetto<br />

percettivo proprio per la sua funzione di cogliere una qualità generale<br />

condivisa da oggetti di uno stesso genere o di genere diverso, come<br />

per esempio, una testa o una palla. Il concetto percettivo non è il concetto<br />

classicamente inteso, cioè la serie di attributi selezionati nel corso<br />

dell’esperienza come comuni a più oggetti, la cui presenza o assenza<br />

permetterebbe di identificare un oggetto come qualcosa che ricada o<br />

no nella sua estensione; la rotondità, come tutti i concetti percettivi, è<br />

una proprietà strutturale colta immediatamente nella percezione come<br />

pattern del singolo oggetto, e rintracciata in tutti gli oggetti che posseggono<br />

la proprietà di essere circolari o tondi in maniera più o meno<br />

pura, secondo la serie di gradienti che conducono da incorporazioni<br />

relativamente ottimali a manifestazioni sempre pià deboli, fino ad avvicinarsi<br />

a casi limite in cui è difficile tracciare una linea di confine<br />

netta rispetto ad altri concetti percettivi.<br />

Alla percezione, dunque, è necessario riconoscere una vera e propria<br />

capacità di astrazione che le consente di individuare le proprietà<br />

strutturali generali che caratterizzano un oggetto. In questo modo si<br />

determinano quelle proprietà invarianti rispetto alle quali l’osservatore<br />

è percettivamente in grado di compensare sia le deformazioni<br />

degli oggetti non rigidi, che si piegano, si torcono, si contraggono; sia<br />

le distorsioni che gli aspetti di tutti gli oggetti subiscono per il proprio<br />

moto o la locomozione dell’osservatore; sia i mutamenti dovuti<br />

a fattori ambientali, come per esempio la variazione di chiarezza o di<br />

colore, o i possibili stati dell’oggetto, come per esempio l’accensione<br />

o lo spegnimento. L’astrazione di qualità generali fa sì che il sistema<br />

percettivo sia estremamente sensibile alle variazioni ma, al contempo,<br />

sempre in grado di individuare una qualità generale che assume il<br />

valore di punto di riferimento rispetto alle deformazioni, distorsioni o<br />

mutamenti da compensare.<br />

186


Non sorprende allora che Arnheim sostenga che proprio dal punto<br />

di vista <strong>delle</strong> operazioni che permettono alla percezione di assolvere<br />

la propria funzione biologica non vi sia differenza alcuna tra percetto<br />

e concetto, tanto da invalidare la distinzione classica tra percezione e<br />

pensiero. Poiché non è possibile rintracciare alcun processo di pensiero<br />

che almeno in linea di principio non operi nella percezione, la<br />

percezione è intelligente, nel senso che in essa il pensiero opera e si<br />

esercita a contatto con le proprietà degli oggetti, secondo le relazioni<br />

che mostrano di possedere nelle varie modalità sensoriali. Ogni<br />

senso infatti organizza in un sistema di ordine peculiare e articola in<br />

maniera specifica le qualità sensibili. Dal modo, dai gradi di libertà e<br />

dalle possibilità di combinazione di questa articolazione dipende l’intelligenza<br />

dei vari sensi e la capacità di pensare tramite essi. Proprio<br />

l’articolazione <strong>delle</strong> qualità sensibili permessa dalla percezione visiva<br />

e sonora, a differenza di quanto accade con tatto, olfatto e gusto che<br />

posseggono un sistema d’ordine in confronto molto elementare, fa sí<br />

che la grande varietà di proprietà percettive possa essere organizzata<br />

in modi molto complessi nello spazio e nel tempo – come nelle arti e<br />

nelle scienze – tanto che queste modalità percettive sono considerate<br />

da Arnheim strumenti d’eccellenza per l’esercizio del pensiero.<br />

Se la percezione è un’attività di esplorazione intelligente in cui si<br />

esercita il pensiero nella comprensione dell’ordine e <strong>delle</strong> relazioni in<br />

cui ci appare il mondo, rappresentare in immagini non significa produrre<br />

<strong>delle</strong> repliche che si distinguerebbero dagli oggetti rappresentati<br />

solo per imperfezioni o miglioramenti. Rappresentare non equivale<br />

a copiare la realtà né a riprodurre il percetto, se mai fosse possibile<br />

copiare il modo in cui le cose ci appaiono. Rappresentare è anch’essa<br />

un’attività cui contribuiscono le capacità esibite dalla percezione intelligente.<br />

Innanzi tutto, interviene la medesima capacità di astrazione.<br />

I concetti percettivi non hanno forma. Le forme, che una qualità generale<br />

come la rotondità può assumere nella rappresentazione, sono<br />

legate al sistema rappresentativo e ai vincoli imposti dalle proprietà<br />

stesse del medium scelto. Un oggetto circolare è colto grazie al concetto<br />

percettivo della rotondità; la stessa proprietà può essere selezionata<br />

per la rappresentazione. Tuttavia, da un lato, lo stesso oggetto avrà<br />

forma diversa in funzione della particolare rappresentazione: sul piano<br />

frontale, di scorcio, inclinato o solidamente inserito nello spazio tridimensionale;<br />

dall’altro, la stessa proprietà potrà essere rappresentata diversamente<br />

nel caso in cui si ricorra a carta e matita, a tela e pennello,<br />

a materiale plastico. Di conseguenza, rappresentare un oggetto significherà<br />

elaborare un equivalente che mantenga invariante la proprietà<br />

strutturale selezionata. La rappresentazione consiste nella creazione di<br />

“concetti rappresentativi”, vale a dire forme, rese tramite le proprietà<br />

di un determinato medium, altrettanto generali dei concetti percettivi<br />

con i quali mantengono una corrispondenza strutturale.<br />

187


Ma vi è un’altra ragione, altrettanto fondamentale, per la quale produrre<br />

una rappresentazione non potrebbe mai consistere nella mera<br />

riproduzione di un modello. Nella percezione le qualità strutturali che<br />

vengono colte come concetti percettivi sono caratterizzate da quelle<br />

che i gestaltisti definiscono qualità dinamiche. Le relazioni che intercorrono<br />

fra le qualità degli oggetti nel campo visivo infatti non sono<br />

solo relazioni geometrico-spaziali ma anche e soprattutto sono relazioni<br />

dinamiche. Poiché viviamo in uno spazio anisotropico, caratterizzato<br />

dal peso e dall’attrazione al suolo, le dimensioni spaziali non si<br />

equivalgono. Ciò comporta che la posizione occupata da un oggetto<br />

nel campo visivo, nonché la relazione di occlusione tra oggetti, le distorsioni,<br />

i mutamenti, le deformazioni che gli aspetti di un oggetto<br />

subiscono a causa del contesto, sono cariche di significato. Una scena<br />

percettiva quindi non è solamente composta da un insieme di oggetti<br />

o di suoni che manifestano <strong>delle</strong> qualità sensibili; ma soprattutto da<br />

un reticolo di relazioni reciproche lungo le quali le distorsioni rimandano<br />

alla forma canonica dell’oggetto e denunciano le interferenze del<br />

contesto. I suoni si integrano interagendo nel campo sonoro come se si<br />

comprimessero, espandessero, spingessero a vicenda; le qualità generali<br />

di configurazione e colore si richiedono, si respingono, modellano la<br />

forma dell’oggetto che ne è il portatore: la rotondità dell’imboccatura<br />

di un recipiente può essere diversamente combinata con la concavità<br />

del collo dell’oggetto e mostrare all’osservatore un potenziale uso suggerito<br />

dal particolare modo di incorporare il significato funzionale del<br />

versare e del contenere.<br />

Nella rappresentazione il processo di astrazione deve mirare a rendere<br />

le qualità dinamiche dei concetti percettivi. Ogni immagine, ciascuna<br />

nei modi consentiti dalle caratteristiche del medium in cui è realizzata,<br />

è un concetto rappresentativo, che equivale a determinate proprietà<br />

strutturali comuni a certi oggetti e veicola un significato grazie alle sue<br />

qualità dinamiche. Nelle immagini, poi, la forza <strong>delle</strong> qualità dinamiche<br />

e la significatività dei valori espressivi di cui esse si fanno portatrici è<br />

ulteriormente aumentata dal fatto che sono vissute come artefatti. Le<br />

immagini infatti sono oggetti prodotti appositamente per sollecitare solo<br />

la percezione visiva e solo una forma specializzata di percezione visiva.<br />

L’osservatore ne è in qualche modo consapevole. Ciò fa sì che le qualità<br />

dinamiche si impongano come il vero e proprio contenuto <strong>delle</strong> forme<br />

rappresentate in un gioco di interazioni, di forze, di vettori che si fanno<br />

portatori di un significato, di un valore espressivo. Un’immagine è,<br />

come spesso afferma Arnheim, una dichiarazione visiva – un modo per<br />

trasmettere un significato attraverso le qualità visive rappresentate – ed<br />

è suscettibile di essere valutata come corretta o meno rispetto al proprio<br />

obiettivo raffigurativo. Più che riprodurre un modello, allora, realizzare<br />

un’immagine consiste nel far ricorso alla ricchezza dell’esperienza <strong>delle</strong><br />

qualità generali condivise dagli osservatori nella percezione del mondo,<br />

188


al patrimonio di concetti percettivi, per produrre tesi sulla natura, sulle<br />

relazioni che la rendono significativa, sull’esistenza umana, sulle relazioni<br />

che gli uomini intrattengono con gli oggetti e sul valore generale che<br />

esse rivestono per la vita e il pensiero.<br />

Percezione e rappresentazione sono dunque accomunate dall’astrazione<br />

e dall’intelligenza dei sensi. Ciò esclude tutte quelle teorie che<br />

considerano l’immagine una riproduzione necessariamente imperfetta<br />

e che, quindi, richiedono l’intervento dell’immaginazione o dell’esperienza<br />

passata dell’osservatore per colmare le lacune da cui essa<br />

sarebbe affetta. L’astrattezza – ci avverte Arnheim – non è incompletezza.<br />

L’immagine, qualunque sia la sua funzione, sia essa informativa<br />

o artistica, è completa al livello di astrattezza scelto, a meno che non<br />

sia – contrariamente alle proprie finalità – imprecisa o ambigua.<br />

Le stesse capacità mentali che fanno della percezione un’attività intelligente<br />

strettamente intrecciata con il pensiero sono responsabili della<br />

possibilità di fare e fruire arte. Ancora una volta, Arnheim sottolinea<br />

la continuità esistente tra percepire, rappresentare e fare arte pur non<br />

rinunciando a segnalarne le specificità che ne fanno attività distinte. La<br />

dinamica espressiva è infatti diffusa nel mondo quotidiano degli oggetti,<br />

degli eventi con cui interagiamo percettivamente e, allo stesso tempo, è<br />

il contenuto di ogni immagine. Proprio dall’incontro quotidiano con la<br />

dinamica espressiva nasce, secondo Arnheim, il desiderio di creare qualcosa<br />

che contenga queste proprietà e le esibisca in modo concentrato e<br />

assolutamente unico. L’attività umana di produrre arte deriva allora dal<br />

fatto che la percezione coglie qualità espressive che hanno un valore<br />

per l’osservatore perché gli permettono di comprendere l’ambiente<br />

in cui vive. Questa continuità ha <strong>delle</strong> conseguenze importanti per la<br />

definizione di arte. L’arte non è un criterio che distingua una classe<br />

di oggetti da altri, bensì è una qualità presente in qualunque oggetto<br />

naturale o artificiale. Le caratteristiche che rendono qualcosa artisticamente<br />

valido hanno, infatti, valore avverbiale. Esse non designano né<br />

una proprietà né una sostanza, ma un modo di essere fatti, un modo<br />

di interagire con l’osservatore. La qualità artistica è poi distinta da altre<br />

qualità pratiche che gli oggetti, naturali o realizzati dall’uomo, manifestano<br />

dal fatto che è correlata esclusivamente alla dinamica espressiva.<br />

La qualità artistica può dunque essere concentrata e ravvisata in<br />

un bicchiere, una cascata, una bottiglia le cui forme esprimono in<br />

modi differenti i significati del chiudere, del versare, del ricevere e<br />

ne mostrano il diverso valore che questi significati hanno per l’uomo.<br />

La dinamica espressiva comporta essenzialmente che essa “risuoni” in<br />

qualche modo nell’osservatore, che venga sentita in maniera che questi<br />

possa riconoscere uno stesso pattern strutturale di forze, di tensioni,<br />

di rapporti, sia nel proprio comportamento, sia nell’oggetto osservato.<br />

Le qualità espressive sono qualità generali presenti nel comportamento<br />

di oggetti appartenenti al mondo organico o inorganico, e possono,<br />

189


quindi, essere riconosciute in oggetti, eventi, sequenze di azioni diverse<br />

a condizione che questi manifestino lo stesso pattern strutturale, la<br />

medesima dinamica di qualità sensibili. La tensione verso il basso, che<br />

fa sì che un oggetto o un corpo appaia trascinato a forza dal proprio<br />

stesso peso al suolo e significhi tristezza, viene percepita dall’osservatore<br />

nell’andamento dei rami di un albero, nella disposizione <strong>delle</strong><br />

membra e nei movimenti di un danzatore, nella raffigurazione di rovine,<br />

nella dispersione un po’ caotica di un gruppo di pietre.<br />

Si comprende, allora, che questa continuità sia assicurata dal fatto<br />

che l’intuizione, considerata come l’esercizio del pensiero nelle varie<br />

operazioni della percezione, è la sorgente elementare e di base della<br />

conoscenza. La percezione è molto prossima all’arte, perché in entrambi<br />

i casi si tratta di una maniera di capire cos’è il mondo, di rendersi<br />

conto <strong>delle</strong> sue proprietà e del loro valore, offrendo così all’osservatore<br />

l’opportunità di apportare chiarezza cogliendo un’organizzazione,<br />

un ordine che faciliti la comprensione. Per questa ragione, Arnheim<br />

ha sempre insistito che la psicologia dell’arte debba occuparsi di tutti<br />

gli aspetti della mente e, viceversa, che tutta la psicologia che ha per<br />

oggetto i processi cognitivi riguarda l’arte.<br />

Continuità, però, non significa indistinzione. L’opera d’arte si distinguerà<br />

sempre da oggetti comuni che possono essere valutati esteticamente.<br />

Essa condensa il valore <strong>delle</strong> qualità espressive e si propone<br />

come caso esemplare di comprensione intuitiva di un significato reso<br />

nella dinamica <strong>delle</strong> sue forme proprio perché è un oggetto consapevolmente<br />

prodotto solo per un senso percettivo, sia esso la vista o l’udito,<br />

e che presenta gli equivalenti <strong>delle</strong> qualità strutturali selezionate<br />

entro le possibilità di combinazione permesse dal medium impiegato.<br />

Dato un certo medium non ogni tipo di organizzazione è possibile e<br />

non ogni organizzazione possibile è significativa o, nello specifico, adeguata<br />

a rendere un determinato significato. Ciò che quindi distingue<br />

l’opera d’arte dagli altri casi di comprensione intuitiva di un significato<br />

è la necessità che l’artista sfrutti le possibilità e i vincoli offerti da<br />

un determinato medium per inventare la giusta composizione, vale a<br />

dire adeguata rispetto al significato da rendere visivamente e, al contempo,<br />

l’unica in cui tutti gli elementi formali che la compongono si<br />

richiedono e integrano a vicenda al punto che una variazione di uno<br />

di essi avrebbe come conseguenza un mutamento di significato. Nelle<br />

forme artistiche si condensa un significato che è reso percettivamente<br />

proprio perché l’artista, ogni artista, non si limita a individuare e selezionare<br />

certe qualità del mondo sensibile ma determina un ordine,<br />

una struttura in cui le proprietà formali impiegate entrano in precisi<br />

rapporti e creano una particolare dinamica espressiva.<br />

Centrale nella riflessione di Arnheim diviene allora la nozione di<br />

composizione che egli intende come una disposizione di elementi visivi<br />

organizzati in una struttura in modo che la dinamica risultante rispec-<br />

190


chi il significato della dichiarazione che l’artista vuole visualizzare sulla<br />

natura <strong>delle</strong> cose raffigurate. Nel caso <strong>delle</strong> forme dell’arte visiva, la<br />

composizione dipenderà dalla loro disposizione nello spazio a due o<br />

tre dimensioni, in funzione <strong>delle</strong> possibilità offerte dalla tela o da un<br />

materiale plastico, e dalle relazioni di sovrapposizione, scorcio, inclinazione.<br />

Anche la composizione dei colori sarà fondamentale: la loro<br />

disposizione sarà regolata dalle relazioni di somiglianza, di complementarità,<br />

di contrasto, di combinazioni tra tinte primarie e secondarie.<br />

Tutte queste relazioni si caricano di significato dinamico. Esse equivalgono<br />

a forze o “tensioni orientate” che sottolineano i nessi strutturali<br />

tra gli elementi visivi dell’opera e che, al contempo, guidano lo sguardo<br />

dell’osservatore nella comprensione dei nessi compositivi e quindi del<br />

significato dell’opera. In architettura, la composizione dovrà trovare<br />

un equilibrio nella disposizione <strong>delle</strong> masse, dei volumi, dei pesi, nel<br />

rapporto reciproco tra facciata e espansione volumetrica, tra le esigenze<br />

imposte dalla planimetria della pianta rispetto a quelle imposte<br />

dalla sezione dello spaccato. La composizione di un oggetto musicale<br />

dovrà organizzare in una giusta struttura d’ordine gli elementi sonori<br />

secondo le prescrizioni della dimensione orizzontale della melodia e di<br />

quella verticale dell’armonia. Quanto più la composizione realizzerà un<br />

equilibrio tra il significato da esibire, i vincoli del medium, le esigenze<br />

imposte dai sistemi di ordine e dalle possibilità di organizzazione<br />

del materiale sensibile, tanto più l’opera d’arte potrà considerarsi un<br />

esempio puro della dinamica espressiva. Per questa ragione Arnheim<br />

riconosce il valore di un atto di giustizia alla richiesta di partire dallo<br />

studio <strong>delle</strong> proprietà dell’opera nella psicologia dell’arte. Le domande<br />

che l’arte pone allo studio della mente possono essere utili per<br />

indirizzare la ricerca su meccanismi percettivi ancora poco noti o per<br />

richiamare l’attenzione su alcune proprietà della percezione e del pensiero<br />

solitamente trascurate. Così, l’avvertenza di limitarsi a opere ben<br />

riuscite come casi puri da assumere per lo studio della mente non è<br />

questione di gusto o di apprezzamento estetico, ma vera e propria questione<br />

teorica: con opere non ben riuscite si corre il rischio che i fattori<br />

fondamentali, utili per lo studio della mente, siano confusi, presentati<br />

con scarsa chiarezza e insufficiente intensità, o assenti.<br />

Al pari dell’immagine, dunque, anche l’opera d’arte è una dichiarazione<br />

visiva. Gli occhi dell’osservatore – se interessato a comprendere<br />

ciò che vede – saranno guidati a individuare il tema dell’opera,<br />

la sua enunciazione visiva generale, la sua articolazione in eventuali<br />

sottotemi, e le sue specificazioni. Per comprendere il significato di<br />

un’opera, dunque, non è richiesta l’integrazione dell’immaginazione o<br />

della storia passata dell’osservatore. Il medium offre infatti le modalità<br />

in cui le forme possono essere realizzate, la composizione, la gamma<br />

dei livelli di generalità o specificazione a cui le loro relazioni possono<br />

essere colte, orientando così la comprensione dell’osservatore. Anche<br />

191


l’opera d’arte – se ben riuscita – non è incompleta, lacunosa e bisognosa<br />

di integrazioni. Risiede qui un’altro motivo di importanza della<br />

riflessione di Arnheim. La sensibilità della percezione alle strutture e<br />

alle qualità generali fa sì che gli osservatori possano cogliere la struttura<br />

dell’opera, il suo significato. La corretta comprensione di un’opera,<br />

sia il giudizio visivo immediato dell’osservatore sia quello meditato<br />

dello storico o del critico d’arte, non può esulare da un insieme di<br />

fatti percettivi. La composizione dell’opera assicura un’oggettività che<br />

vari osservatori possono condividere, il che però non esclude affatto<br />

la variabilità del giudizio dovuta alle conoscenze individuali o alle<br />

sensibilità ai diversi stili impiegati dagli artisti. Il nucleo invariante del<br />

significato dell’opera, infatti, non è monolitico, dal momento che l’articolazione<br />

<strong>delle</strong> forme consentita dalla composizione ammette livelli<br />

diversi di generalità o specificità.<br />

Da un lato, in ragione <strong>delle</strong> proprie conoscenze, il fruitore può specificare<br />

ulteriormente il significato dell’opera e conseguire livelli sempre<br />

piú selettivi, pur accessibili intuitivamente. L’unica restrizione che l’oggettività<br />

dell’opera impone è la condizione che questi ulteriori livelli di<br />

comprensione corrispondano sempre a sotto-temi della composizione.<br />

Se questa condizione è rispettata, il sapere individuale contribuirà a<br />

esplicitare proprietà effettivamente riscontrabili a uno sguardo attento<br />

e sostenuto da un’adeguata competenza, tanto che potrà sempre darsi<br />

il caso che esse siano evidenziate anche per l’osservatore che non<br />

possiede gli strumenti per coglierle in prima battuta. Il sapere dell’osservatore<br />

contribuisce, allora, alla comprensione intuitiva a patto che<br />

non introduca nel giudizio nulla che oltrepassi le proprietà selezionate<br />

nella composizione dell’opera per soddisfare presunte esigenze che<br />

non sono motivate dalla struttura dell’opera. Dall’altro, ciascun fruitore<br />

potrà essere in grado di percepire certe forme realizzate in uno stile<br />

noto e, inversamente, essere ostacolato nella sua comprensione da uno<br />

stile nuovo che rende difficoltoso il riconoscimento e l’individuazione<br />

dei nessi dinamici. La variabilità della percezione individuale non contrasta<br />

con l’oggettività dell’opera perché la sensibilità della percezione<br />

alla generalità <strong>delle</strong> qualità sensibili fa sì che ogni proprietà venga<br />

percepita come se fosse disposta su un continuum che corrisponde a<br />

una determinata dimensione figurativa. Nel caso dell’arte visiva, ogni<br />

modo di rendere una forma, quindi ogni eventuale distorsione cui essa<br />

va incontro nella rappresentazione, occupa una certa posizione nella<br />

dimensione relativa agli equivalenti con cui una proprietà visiva può<br />

essere resa in un determinato medium e in relazione allo stile di una<br />

certa epoca. Il valore dell’equivalente scelto per la forma, per esempio<br />

la rotondità per rappresentare una testa in Caravaggio o in Matisse,<br />

rimane fisso alla propria funzione strutturale, ma il suo valore di riconoscibilità<br />

per l’osservatore è ancorato allo spostamento del sistema di<br />

riferimento raffigurativo impiegato. Gli interessi e il grado di tolleranza<br />

192


del fruitore possono quindi influire sulla riconoscibilità e sulla variabilità<br />

dei giudizi individuali; viceversa, questi possono essere compensati<br />

dall’adattamento al nuovo sistema di riferimento, una volta compreso<br />

il valore dinamico che certe qualità possono assumere in un particolare<br />

periodo della storia dell’arte. L’affermazione dell’oggettività della<br />

dichiarazione artistica non va così a discapito della potenziale variabilità<br />

dei giudizi o dell’approfondimento della sua comprensione, ma anzi ci<br />

fornisce un solido ancoraggio visivo che ci restituisce la ricchezza della<br />

comprensione intuitiva dell’arte. La teoria che ci propone Arnheim è<br />

un invito a sfruttare questa ricchezza, a non trascurarla come fonte di<br />

ispirazione per la ricerca psicologica.<br />

Se l’arte è continua, eppure distinta, rispetto alle proprietà che la<br />

percezione permette ordinariamente di cogliere, se lo stesso vale per<br />

il produrre arte e il produrre immagini, allora la stessa continuità va<br />

riscontrata nelle prime forme di rappresentazione, vale a dire nel disegno<br />

del bambino, la cui mente inizia a cimentarsi con il problema<br />

di trovare equivalenti per le qualità strutturali e di sfruttare al meglio<br />

le proprietà di un medium che impara a padroneggiare. Da un<br />

lato, il bambino fa esattamente la stessa cosa che fa l’artista se si limita<br />

la comparazione alla circostanza che egli seleziona un’esperienza<br />

espressiva e ne dà l’equivalente nel medium di cui si serve con grande<br />

sensibilità. Da questo punto di vista non ha senso distinguere per<br />

principio ciò che fa il bambino da ciò che fa l’artista, dal momento<br />

che gli elementi essenziali dell’arte sono già nel disegno del bambino,<br />

sebbene in maniera molto elementare. Arnheim ci ricorda che quando<br />

affronta il problema di capire cos’è un albero, il bambino affronta<br />

una materia complessa. Disegnare un albero come una colonna da cui<br />

si dipartono i rami non è produrre una copia, bensì è un’invenzione<br />

che equivale esattamente a ciò che fanno gli artisti: trovare nella realtà<br />

certe strutture che fanno comprendere come funziona il mondo.<br />

Altrettanto quando si tratta di trovare l’organizzazione visiva adatta a<br />

disporre la struttura degli oggetti nello spazio: la verticale e l’orizzontale<br />

che formano la struttura primaria necessaria per capire lo spazio<br />

si acquisiscono solo a una certa età. Del resto il problema di impiegare<br />

correttamente e efficacemente questo sistema rimane sempre identico,<br />

anche nel caso degli adulti o dell’artista. D’altro canto, però, ciò non<br />

autorizza a equiparare il disegno infantile all’arte dei grandi maestri.<br />

Michelangelo o Rembrandt affrontano lo stesso problema in modo più<br />

intenso, più maturo, più sapiente. Gli stessi elementi strutturali della<br />

conoscenza vengono sfruttati in maniera da raggiungere un risultato<br />

decisamente superiore quanto a capacità artistica di esprimere qualcosa<br />

nei vincoli di un medium. L’importanza della sensibilità alle proprietà<br />

del medium è tratto centrale della teoria di Arnheim. Considerare la<br />

percezione come tale non è sufficiente a capire il disegno infantile o<br />

le opere d’arte, ma bisogna tenere presente il medium e il fatto che il<br />

193


iconoscimento <strong>delle</strong> esigenze del medium – che sebbene molto intuitive<br />

non sono immediate – e le capacità di rispettarle e sfruttarle come<br />

vincoli per la soluzione del problema si manifestano e si sviluppano<br />

solo attraverso l’esperienza.<br />

Le letture presentate in questo libro, dunque, si pongono l’obiettivo<br />

di far toccare con mano al lettore la potenza esplicativa della teoria di<br />

Arnheim e testimoniano la tensione tipicamente gestaltista alla scelta<br />

<strong>delle</strong> parole giuste, vale a dire adeguate per rendere giustizia al significato<br />

di ciò che si vede. Esse, al contempo, forniscono l’occasione per<br />

segnalare alcuni fraintendimenti a cui è andata incontro la posizione<br />

di Arnheim.<br />

Non si tratta di una teoria formalista. La composizione, la visualizzazione<br />

della dinamica espressiva fa sì che ogni immagine, ogni opera,<br />

sia dotata di un contenuto, di un significato visivo dichiarato nella<br />

disposizione <strong>delle</strong> sue forme e nella scelta dei suoi equivalenti. Ciò vale<br />

per l’arte figurativa e per l’arte impropriamente chiamata “astratta”,<br />

perché, come precisa Arnheim, “non c’è nulla di più concreto del colore,<br />

della configurazione, del movimento”.<br />

Non si tratta di una teoria puramente percettiva se con ciò si intende<br />

una teoria che prescrive un accesso solamente sensoriale alle<br />

immagini e all’arte. Intanto, dal lato dell’oggetto, la composizione mostra<br />

una struttura d’ordine complessa. Esso è un artefatto in cui certe<br />

proprietà sono appositamente selezionate per un tipo di percezione<br />

specializzata. Dal lato del soggetto, la percezione opera come pensiero.<br />

Ciò vale sia nella produzione dell’opera, perché l’artista deve risolvere<br />

il problema compositivo di rendere visibile un significato dati i vincoli<br />

posti dal medium; sia nella ricezione, perché l’osservatore deve risolvere<br />

il problema visivo di comprendere il significato della composizione<br />

date le soluzioni adottate dall’artista e, quindi lo stile e il portato storico<br />

dell’impiego di un certo tipo di medium.<br />

Non si tratta di una teoria sensibile solo ai valori di un certo stile.<br />

La ricerca di equilibrio nella composizione, il conferire un ordine alle<br />

relazioni tra le qualità visive, la chiarezza con cui l’opera deve dichiarare<br />

il suo significato non si limitano, per esempio, ai valori dell’arte<br />

classica. L’equilibrio non è l’assenza di tensioni tra forme, bensì<br />

il bilanciamento di forze. L’esigenza di chiarezza esclude l’ambiguità<br />

che discende da incompletezza o incongruenza compositiva, ma non<br />

l’ambiguità di figure in grado di suscitare rendimenti percettivi multistabili,<br />

né la rappresentazione dell’ambiguità stessa. Esclusa è solo<br />

l’ambiguità relativa a una composizione in cui le configurazioni e i<br />

colori non si integrano reciprocamente e non corrispondono quindi<br />

al significato da visualizzare. Questi principî valgono tanto per l’arte<br />

figurativa quanto per quella cosiddetta astratta, per la classica quanto<br />

per la contemporanea e la primitiva, dal momento che ogni costruzione<br />

di un artefatto che voglia essere apprezzato come artistico necessita di<br />

194


una composizione, di un modo di organizzare determinate relazioni tra<br />

qualità sensibili tale da sfruttare al meglio le proprietà del medium per<br />

visualizzare una certa dinamica espressiva.<br />

Infine, i fattori individuati non devono essere considerati alla stregua<br />

di principî consapevolmente impiegati dall’artista nella produzione<br />

<strong>delle</strong> opere. In questo caso, è illuminante l’analogia tra essi e le leggi<br />

di unificazione del campo di Wertheimer. Il fatto che gli oggetti si organizzino<br />

nel campo visivo secondo il fattore della somiglianza o della<br />

buona continuazione non richiede che l’osservatore ne sia consapevole<br />

nel momento in cui percepisce qualcosa. Equilibrio, chiarezza, ordine<br />

sono principî che devono poter essere impiegati a posteriori e caso<br />

per caso, dal momento che vi sono innumerevoli modi per realizzare<br />

equilibrio e ordine a livelli di complessità molto diversi.<br />

In conclusione, la teoria dei processi cognitivi di Arnheim, rivoluzionaria<br />

per molti aspetti, rende conto del proprio dell’immagine e<br />

dell’immagine artistica: ne delinea la logica costitutiva, sia sul versante<br />

della produzione sia su quello della fruizione. Rispetto a quest’ultima,<br />

non si tratta né di retorica del primo sguardo, né tanto meno<br />

di assimilare l’immagine alle logiche del linguaggio. E le parole che<br />

accompagnano le immagini qui presentate servono solo a indirizzare il<br />

nostro sguardo, a vincolare il nostro pensare: ci invitano a esercitare la<br />

capacità attiva della percezione di cogliere relazioni significative e a impegnare<br />

il pensiero nella comprensione del valore simbolico dell’arte.<br />

195


La stupidità dei sensi<br />

Sulla filosofia dell’arte di Arthur C. Danto *<br />

1. Il titolo si rifà a una famosa battuta – “Bête comme un peintre”<br />

– che circolava, ricorda Duchamp, negli atelier parigini, quando Parigi<br />

era la capitale dell’arte 1 . L’equivalente filosofico dell’insulto, a dimostrazione<br />

del carattere non locale del pensiero che veicola e della serietà<br />

della questione, è rappresentato dalla «strana idea per cui un artista non<br />

pensa e un ricercatore scientifico non fa che pensare» 2 . Che la critica di<br />

John Dewey sia stata inefficace nel discorso teorico 3 , non nelle pratiche<br />

dell’arte, lo si capisce se si riflette sull’effetto di novità procurato, più di<br />

trent’anni dopo, dalla teoria cognitiva dell’arte di Nelson Goodman 4 .<br />

Per Dewey quell’idea deriva dall’avere scambiato una differenza di accento<br />

per una differenza di genere relativamente all’estetico e all’intellettuale,<br />

alias scientifico 5 . Questo scambio, per quanto attiene alla<br />

psicologia e ai suoi dintorni, individua una differenza non tematizzata,<br />

anzi scotomizzata, tra processi cognitivi (nello specifico, il percepire<br />

e il pensare della psicologia 6 , o i sensi e l’intelletto della filosofia) e<br />

prodotti culturali (nello specifico, arte e scienza), tra esperienza e teorie<br />

scientifiche dell’esperienza 7 . Certo, la mente – che non è una sostanza,<br />

bensì il modo di essere <strong>delle</strong> creature viventi – non la si può studiare<br />

direttamente: il ricercatore ha sempre a che fare con comportamenti (il<br />

che non comporta necessariamente l’adesione all’ideologia e al programma<br />

di ricerca del Behaviourism) e con ciò che i comportamenti producono.<br />

Non deriva, però, da questa ineludibile difficoltà l’avere con-fuso<br />

mondo e rappresentazione del mondo; o l’avere identificato l’arte con<br />

l’emozione e la scienza con la ragione; né l’intelletto con la mente (il<br />

cognitivo) e il pensiero con il linguaggio, o l’avere considerato la mente<br />

a compartimenti stagni e i sensi (percezione, sensibilità, sentimento…)<br />

così come la tradizione inaugurata da Galilei ce li ha consegnati, depotenziati<br />

e al servizio dell’intelletto (intelligenza, pensiero, ragione…).<br />

Si pensi solo a Jean Piaget 8 , per citare il “gigante” della psicologia del<br />

Novecento, e alla sua teoria della percezione e del pensiero: sensi (il<br />

senso considerato è l’occhio, strutturalmente legato all’hic et nunc) non<br />

intelligenti o deformanti la realtà o portatori di illusioni, e pensiero puro<br />

*<br />

Pubblicato nella “Rivista di estetica”, n.s., 38 (2/2008), pp. 85-132.<br />

197


o operatorio o ipotetico-deduttivo. Quanto al linguaggio e al pensiero, il<br />

“circolo virtuoso” che li identifica come identici è spostato alla fine dello<br />

sviluppo: non solo l’infanzia ma anche la fanciullezza ne sono ancora<br />

fuori; tuttavia, come fosse una legge di natura, è lì che approderanno.<br />

I processi cognitivi <strong>delle</strong> arti in questa genealogia del soggetto – che<br />

significativamente è epistemologia genetica, e il soggetto, benché abbia<br />

il suo quartiere generale in psicologia, non meno significativamente, è<br />

il soggetto epistemico – sono assenti. La strana idea criticata da Dewey<br />

è rappresentata con tutti i crismi della scientificità. A ben considerare,<br />

la più accreditata teoria dei processi cognitivi del Novecento è, nella<br />

migliore <strong>delle</strong> ipotesi, “psicologia della scienza”: una scienza, ridotta<br />

a realtà proposizionale, non considerata nel suo effettivo prodursi.<br />

L’arte visiva, non riducibile al proposizionale e a evidenza lontana dal<br />

linguistico, la si è confinata, così, nel non-cognitivo: arte-emozione, artesentimento<br />

ecc. Perciò, come fosse nella natura <strong>delle</strong> cose, la psicanalisi<br />

a lungo è sembrata la prospettiva più adeguata a studiarla, non per se<br />

stessa ma per rintracciarvi tracce e indizi della personalità del creatore:<br />

via regia, come il sogno, per l’accesso all’inconscio. Quando, al contrario,<br />

si riconosce il carattere cognitivo dell’arte, poiché il cognitivo lo<br />

si è identificato con l’intelletto (organo della scienza e depositario del<br />

significato) e il significato col proposizionale, può sembrare necessario<br />

revocare i sensi, e con essi il sentire 9 . Complessivamente per l’arte visiva<br />

si arriva al paradosso di «una “forma significante” che però non deve,<br />

a nessun costo, significare qualcosa» 10 ; oppure a un significato che non<br />

significa “sensibilmente”: «i significati dopotutto sono invisibili» 11 . Col<br />

che viene meno «la forma sensibile […] che sola fa dell’opera d’arte<br />

un’opera d’arte» 12 . Relativamente al soggetto si continua a misconosce<br />

ciò che Dewey considera il carattere unitario dell’esperienza del soggetto<br />

e la dinamica della «dipendenza del sé in quanto intero dall’ambiente<br />

circostante» 13 . Questo misconoscimento, che si è via via rafforzato<br />

anche grazie ai successi dell’Intelligenza <strong>Arti</strong>ficiale (esito certamente<br />

produttivo della concezione unilaterale del pensiero, ma sicuramente<br />

non esplicativo del come pensiamo e del come percepiamo, nonostante<br />

ci si comporti come se la macchina di Turing avesse dato trasparenza<br />

alla mente e rigore alla psicologia: in una, due piccioni con una fava) e<br />

alla riconversione della filosofia del linguaggio in filosofia della mente,<br />

ha reso possibile l’attacco decisivo alle “qualità estetiche” (ma la vera<br />

posta in gioco è la “forma sensibile”), là dove la modernità le aveva sì<br />

relegate, però, nello stesso tempo, valorizzate come campo tematico di<br />

una nuova disciplina: l’estetica. Danto affascinato dal “pensiero forte”<br />

registra, così, la perdita di credibilità dell’estetica – come se l’estetica<br />

«riguardasse gli uccelli», non l’arte – e, di contro, la “rispettabilità” della<br />

filosofia analitica, conquistata sui fronti della scienza e del linguaggio.<br />

Da qui l’intuizione che l’arte e la filosofia (quella analitica, anch’essa<br />

“avanguardia” come la Pop Art), «fossero fatte l’una per l’altra: […]<br />

198


entrambe attratte da un pensiero forte», o che fossero «pronte l’una<br />

per l’altra. Improvvisamente, anzi, ebbero bisogno l’una dell’altra per<br />

distinguersi tra loro» 14 . Da qui anche la presa d’atto dell’inutilità dell’estetica.<br />

«Non è che l’estetica sia irrilevante per l’apprezzamento dell’arte,<br />

semplicemente essa non può far parte della definizione dell’arte se uno<br />

degli scopi della definizione è spiegare in che modo le opere d’arte differiscono<br />

dagli oggetti reali» 15 , da un diagramma o più in generale da<br />

ciò che non è arte, come pure in che modo opere d’arte “visivamente<br />

identiche” abbiano significati diversi.<br />

Prenderò in considerazione questi casi e ritornerò sugli uccelli e<br />

varia animalità. Intanto, convinta che le arti, il farle e il fruirle, hanno<br />

bisogno di “percezione” e di “pensiero” – non solo intelletto, né solo<br />

sensi, né tanto meno un rapporto di dominio dell’uno sugli altri 16 –<br />

leggendo Arthur Danto, oltre a subire il fascino di un argomentare<br />

brillante e suasivo, fatto di serrate analisi e di magistrali colpi di scena,<br />

di rigorosi esperimenti di pensiero e di metafore illuminanti – e non<br />

me ne sono stupita essendo il suo obiettivo iniziale quello di diventare<br />

artista 17 – due cose, e pour cause, mi hanno particolarmente colpita: la<br />

“sensibilità” tutta positiva per l’universo femminile, e l’insistenza sulla<br />

scarsa, o nulla, utilità dell’“occhio” proprio per il campo dell’operatività<br />

umana dove esse est percipi 18 . L’apparire dell’arte, l’apparire della<br />

donna. Non che Danto auspichi la sparizione <strong>delle</strong> relative proprietà<br />

– croce e delizia e dell’arte e della donna – pure, relativamente all’arte,<br />

il telos e le strategie argomentative sono tutte a spese dell’esse est percipi.<br />

E se ne possono capire, ma non condividere, le ragioni: poiché la<br />

destituzione filosofica dell’arte è stata conseguenza della svalutazione<br />

filosofica prima e scientifica poi dei sensi, la strategia per ottenere la “liberazione”<br />

dell’arte parrebbe quella di liberarla dai sensi. Laddove, più<br />

sensatamente, l’attenzione critica andrebbe posta sulla svalutazione dei<br />

sensi al fine della “liberazione”: la loro e quella dell’arte. Pertanto, mi<br />

sono chiesta se per caso ciò non dipenda dal modo in cui egli intende<br />

la percezione, e – poiché, quando il gioco non lo si ritiene all’“altezza”<br />

dei sensi, sono le “facoltà” superiori della mente che si fanno scendere<br />

in campo (peraltro la relazione tra sensi e intelletto, più spesso che<br />

no, si è risolta alla maniera leibniziana, piuttosto che alla maniera di<br />

Kant) 19 – dal come intende il pensiero. A quale architettura del mentale<br />

Danto dà credito per la sua teoria “cognitiva” dell’arte? Come intende<br />

il “cognitivo”? Sosterrò – e lo farò seguendo la prospettiva teorica della<br />

psicologia della Gestalt – che la riflessione filosofica, si chiami Estetica<br />

o Filosofia dell’arte, non può rendere conto dell’arte senza un’adeguata<br />

teoria della mente: una teoria della percezione che tenga in conto la<br />

complessità dell’esperienza umana; e – dato per certo che l’artista pensa<br />

non meno dello scienziato e del filosofo – una teoria del pensiero che,<br />

messa in discussione l’identificazione del pensare solo con la produzione<br />

di “parole” e “numeri”, tenga anche in conto la “forma”, ossia<br />

199


la capacità tutta umana – come la produzione di “parole” e “numeri”<br />

– di produrre forme 20 .<br />

Fermo restando che «l’essere umano altro non sia che un ens representans»<br />

21 , il problema, quindi, è quello della specifica modalità rappresentativa<br />

di quei prodotti umani che chiamiamo “arte” da quando,<br />

affermatosi il modello galileiano di scienza, la modernità ha ritenuto<br />

di doverli ricondurre «a unico principio» e denominarli “belle arti” 22 .<br />

2. «L’estetica è per l’arte ciò che l’ornitologia è per gli uccelli». Chi<br />

può dimenticare, si chiede Danto, la «crudele boutade» di Barnett Newman<br />

contro Susanne Langer durante una conferenza a Woodstock nel<br />

1952 23 ? Non lui, che ci ritorna, ci spiega i sensi della battuta e ne ipotizza<br />

la genesi nella pretesa di qualche estetologo che l’artista frequentandolo<br />

possa apprendere «cosa stia effettivamente facendo, come se<br />

gli uccelli dovessero prendere appunti dagli ornitologi su cosa significa<br />

essere uccelli» 24 . Era questo l’intento di Susanne Langer? Non lo sappiamo.<br />

Certo è che “estetica” diventa per Langer «l’infelice parola» 25 , e<br />

la battuta di Newman, riformulata, la si trova in esergo nell’Introduzione<br />

di The Abuse of Beauty: «L’arte è per l’estetica ciò che gli uccelli sono<br />

per l’ornitologia» 26 . Il problema, però, è quale significato attribuirle.<br />

Nel libro vi sono altri due esergo – un pensiero di Theodor Adorno per<br />

il primo capitolo e uno di Tristan Tzara per il secondo – che, assolutamente<br />

in sintonia con gli argomenti trattati, non pongono problemi di<br />

interpretazione. Che “l’arte è per l’estetica ciò che gli uccelli sono per<br />

l’ornitologia” parrebbe suonare contro il precedente convincimento che<br />

l’estetica riguardasse gli uccelli. Inoltre il libro è sulla bellezza; il titolo<br />

dell’Introduzione è L’estetica <strong>delle</strong> Brillo Boxes; e nella Prefazione ci si<br />

lascia intendere che le qualità estetiche verranno prese in considerazione,<br />

sia pure tramite le lunghe pinze della filosofia analitica. Ma la mossa<br />

di avere separato la filosofia dell’arte dall’estetica viene giudicata salutare,<br />

le qualità dell’“oggetto artistico” vengono considerate «proprietà<br />

tossiche» 27 e la forma – nonostante il concetto di “significato incarnato”<br />

potrebbe sembrare un altro modo per dire “forma significante”<br />

nell’accezione di S. Langer – continua a non “significare”. Per di più,<br />

il pensiero è di Testadura (un italoamericano/a?), che non è un alter<br />

ego dell’autore, ma la quintessenza dell’incompetenza per quanto c’è<br />

da capire sull’arte, lo “zoticone” che va per gallerie senza riuscire «a<br />

padroneggiare l’è dell’identificazione artistica […] come un bambino<br />

che vede dei bastoncini come bastoncini» 28 .<br />

Si dà il caso che se dai bastoncini passiamo al bastone – il familiare<br />

manico di scopa – sappiamo che il bambino vede il bastone e può vederlo<br />

anche come cavallo, e cavalcarlo. Ciò perché quanto in psicologia<br />

è rubricato sotto “gioco simbolico” fa parte della sua natura-cultura;<br />

ed è una capacità, quella di simbolizzare, tanto connaturata alla specie<br />

Homo sapiens che la si è giudicata «attività mentale istintiva» 29 .<br />

200


Certo, sul bastone che “diventa” cavallo e sul bastoncino che quando<br />

ha una mina diventa matita e lascia tracce, nell’era della s-definizione<br />

dell’arte, si è costruito il mito dell’arte infantile 30 , e si è sostenuto<br />

che il bambino è più vicino all’arte e all’artista di quanto non lo siano<br />

gli adulti “Testadura”. Non è questo l’intento di chi assimila l’artista<br />

al filosofo analitico e Testadura al bambino, benché per spiegare l’è<br />

dell’identificazione artistica ricorra proprio ai bambini e la esemplifichi<br />

con un loro rendimento: «Si tratta di quel senso di è grazie al quale un<br />

bambino, quando gli si mostri un cerchio e un triangolo chiedendogli<br />

di indicare chi sia lui e chi sua sorella, punterà il dito verso il triangolo<br />

dicendo: “Questo sono io”». Col che ci si lascia intendere che l’è sia<br />

guidato dalle proprietà visive o dalle qualità percettive dell’oggetto,<br />

vale a dire dalla diversa forma di cerchio e triangolo. Come mai allora<br />

l’è dell’identificazione, di uso tanto comune che «è padroneggiato<br />

facilmente dai bambini», non riesce a Testadura? Ma è l’esempio che<br />

ci mette fuori strada: ci fa ritenere che l’è dell’identificazione artistica<br />

sia guidato dall’oggetto, come il bambino dalle due figure geometriche<br />

o dalla forma del bastone 31 . E invece no. Per Danto «vedere qualcosa<br />

come arte richiede qualcosa che l’occhio non può cogliere – un’atmosfera<br />

di teoria artistica, una conoscenza della storia dell’arte: un mondo<br />

dell’arte». Con la conseguenza che la stessa espressione: «“Questa è<br />

vernice nera e vernice bianca e nient’altro” non è una tautologia per<br />

l’artista», mentre lo è per Testadura, privo di quelle teorie che consentono<br />

di utilizzare correttamente l’è 32 . Ma, se non c’è nulla da vedere,<br />

perché utilizzare il verbo vedere?<br />

Non c’è nulla da vedere perché in questo caso l’artista molto ha<br />

tolto. La vernice nuda e cruda è un punto d’arrivo conquistato tramite<br />

eliminazioni progressive, eliminazioni guidate dalla teoria. L’astrattista<br />

ha ottenuto l’astrazione tramite il rifiuto <strong>delle</strong> identificazioni artistiche, ritornando<br />

al mondo reale dal quale tali identificazioni ci allontanano (così lui pensa) un<br />

po’ al modo di Ch’ing Yuan, quando scriveva: “Prima di studiare per trent’anni<br />

lo Zen, vedevo le montagne come montagne e le acque come acque. Quando<br />

pervenni a una conoscenza più profonda, raggiunsi un punto dal quale vedevo<br />

che le montagne non sono montagne, e le acque non sono acque. Ma ora che<br />

sono giunto all’essenza stessa sono in pace. Perché è giusto che io veda le montagne<br />

di nuovo come montagne e le acque di nuovo come acque” 33 .<br />

Pur apprezzando la sottile ironia del “così lui pensa”, possiamo assimilare<br />

l’astrattista della “vernice e nient’altro” a Ch’ing Yuan, il quale<br />

ci dice che a monte e a valle della “vernice e nient’altro” ci stanno<br />

montagne e acque e che “è giusto” vederle? Il senso dell’apologo potrebbe<br />

essere che come Testadura non è al “livello” dell’artista astrattista,<br />

così quest’ultimo non è ancora giunto alla saggezza che il maestro<br />

cinese considera “l’essenza stessa” della conoscenza, ma si è fermato a<br />

metà strada. E forse il maestro zen diffiderebbe di “predicati artistici”<br />

201


che rigorosamente applicati portano alla logica conclusione che «un<br />

quadrato nero di Reinhardt è artisticamente tanto ricco quanto l’Amor<br />

sacro e amor profano di Tiziano. Il che spiega come il meno sia più».<br />

Chi ritiene “giusto vedere le montagne di nuovo come montagne e le<br />

acque di nuovo come acque” potrebbe sentire più consonanza con<br />

Testadura che con l’astrattista della 10 a Strada newyorkese: un modo<br />

diverso di declinare “come il meno sia più”. Col che, mentre si rende<br />

intuitivamente comprensibile il paradosso, diventa «necessario chiedersi<br />

se i discendenti del quadrato nero, nonostante la loro semplicità,<br />

fossero in grado di produrre esperienze abbastanza complesse e profonde<br />

da rendere giustizia ai cervelli umani» 34 . Quanto al capostipite<br />

sappiamo che col suo ben più famoso quadrato<br />

intendeva “sforzarsi disperatamente di liberare l’arte dalla zavorra del mondo<br />

oggettivo”. Malevič si sentì costretto a questo atto di violenza per recuperare<br />

l’“emozione pura”, che, secondo lui, era svanita dietro una mascherata di figure e<br />

oggetti disumanizzati. Oggi possiamo guardare al quadrato nero con una compassione<br />

piena di rispetto, e forse con invidia, con gli stessi occhi con cui guardiamo<br />

alle celle nude dei monaci di San Marco; e possiamo anche riconoscere il posto<br />

che legittimamente gli compete nella storia della pittura del primo Novecento.<br />

Ma un giudizio scevro da preconcetti ci porta anche ad ammettere che in sé e<br />

per sé quel quadrato è assai vicino al nulla. È piuttosto una dimostrazione, la<br />

prova di un sacrificio, una reliquia che testimonia di un atto di coraggio, come<br />

le macchie di sangue su una bandiera lacerata nella teca di un museo di storia.<br />

Perché un’opera d’arte si sostenga con le proprie forze, ci vuole altro 35 .<br />

«Ridurre, ridurre, ridurre era la mia ossessione», ci dice Duchamp 36 .<br />

Era un’ossessione generazionale, che, combinata con le altre ossessioni<br />

scatenate dall’invenzione della macchina fotografica (più in generale,<br />

dalla rivoluzione industriale) e dalla descrizione scientifica del mondo,<br />

ha determinato la perdita di credibilità dell’immagine – “destituita” dalla<br />

filosofia, sburgiardata dalla scienza, compromessa con la meccanicità,<br />

pervasiva data la sua riproducibilità ecc. – e la ricerca del pittore di<br />

significare lontano dalla mímesis considerata, a torto, alla portata di tutti,<br />

fino ad abbandonare gli strumenti della pittura. La fine della pittura e la<br />

sua trasformazione in arte “e nient’altro”; e, anche quando l’artista ritornerà<br />

a presentarci “le montagne e le acque”, il prodotto sarà arte solo in<br />

virtù di teoria o di “interpretazione”. Affermatosi l’anti-form e ritenendo<br />

liquidato e liquidabile il “morfologico” 37 , la filosofia interpreterà il dopo<br />

Duchamp come il raggiungimento dell’autoconsapevolezza filosofica<br />

dell’arte, e, dopo la “morte dell’arte”, «il fare arte è in entrambi i sensi<br />

del termine il proprio fine: il fine dell’arte è la fine dell’arte» 38 ; l’artista,<br />

da parte sua, convinto che «tutta l’arte (dopo Duchamp) è concettuale<br />

(in natura)», e che dopo il Tractatus [di Wittgenstein] in filosofia «non<br />

c’è più niente da dire», si autoproclama «artista-filosofo», decreta «la<br />

fine della filosofia e l’inizio dell’arte»: l’arte dopo la filosofia 39 . Come<br />

che sia, si approda in un luogo inospitale per la forma artistica. E se<br />

202


si capiscono le ragioni dell’iconofobia nella “civiltà dell’immagine” 40 ,<br />

non si può sottovalutare il «pericolo che stiamo correndo di perdere<br />

una facoltà umana fondamentale»: l’immaginazione 41 .<br />

Le teorie estetiche stanno agli artisti come l’ornitologia sta agli uccelli?<br />

Sono saperi rispettivamente ininfluenti? Posta così la questione,<br />

Danto sicuramente risponderebbe in maniera negativa. Per lui non<br />

c’è arte senza teoria, e se gli artisti fossero davvero come gli uccelli<br />

sarebbe senza senso tematizzare che «non ogni cosa è possibile in ogni<br />

tempo» 42 . Nel mondo animale, ferma restando la nostra appartenenza<br />

all’ordine dei Primates, e seppure molti comportamenti degli animali<br />

vengano, dagli umani, ascritti alla cultura, non abbiamo arti, scienze,<br />

estetica e filosofie variamente specificate; non abbiamo stati, trattati<br />

internazionali e politiche sociali; né politiche della vita e della morte;<br />

non abbiamo edifici di civile abitazione, né scuole, teatri, stadi,<br />

cimiteri, carceri; né lavoro e vacanze; non abbiamo riti, miti e codici;<br />

non abbiamo “il crudo e il cotto”; non abbiamo il vero e il falso; né<br />

il buono e il cattivo; né il bello e il brutto; non abbiamo Eden e Ade;<br />

né sacro e profano; né demoni e divinità; né inferno e paradiso; né,<br />

tanto meno, limbi e purgatori; né giudizio, né critica del giudizio, né<br />

giudizio universale; non abbiamo immaginazione; nessuna possibilità,<br />

quindi, che “la logica della profezia che si avvera” abbia una qualche<br />

incidenza nei loro comportamenti. Perciò che “l’estetica è per l’arte ciò<br />

che l’ornitologia è per gli uccelli” non solo è falso, ma, misconoscendo<br />

gli effetti che le teorie innescano nei comportamenti umani e negli<br />

assetti istituzionali, è anche irresponsabile: gli umani non sono indifferenti<br />

alle teorie sui loro prodotti, come gli animali lo sono all’etologia<br />

(anche se le teorie possono decidere <strong>delle</strong> loro vite) o gli oggetti della<br />

fisica lo sono alle teorie del fisico. Tolomeo o Copernico non hanno le<br />

stesse responsabilità nei confronti della terra e del sole di quelle che<br />

il teorico dell’umano ha nei confronti dell’umanità e <strong>delle</strong> strutture<br />

sociali in cui questa si dispiega. L’uccello giardiniere continuerà a “decorare”<br />

il suo giardino e, quale che sia la teoria sull’arte dei giardini,<br />

non muterà il suo “stile”. Che “l’estetica sia per gli uccelli”, nonostante<br />

gli umani, compartimentizzando il funzionamento dell’organismo (del<br />

loro e di quello animale), amano sostenere che i sensi ci accomunano<br />

agli animali, è, sì, una battuta contro l’estetica e la sensibilità, ma nello<br />

stesso tempo, mettendo insieme artisti e uccelli, si veicola anche l’idea<br />

romantica di genio come forza della Natura e non della Cultura, una<br />

<strong>delle</strong> tante coppie oppositive costruite dalla modernità e bisognosa di<br />

una radicale decostruzione.<br />

3. «Ne ho abbastanza dell’espressione “stupido come un pittore”» 43 .<br />

Duchamp, che epitomizza la genialità del Novecento, piuttosto che la<br />

stupidità, è l’eroe eponimo che Danto pone all’inizio della storia che ci<br />

racconta 44 . “Stupido – letteralmente bestia – come un pittore”. «Perché<br />

203


l’artista dovrebbe essere considerato meno intelligente del Signor Tutti?<br />

Sarà perché la sua abilità tecnica è essenzialmente manuale e non ha<br />

rapporto immediato con l’intelletto? Comunque sia, si ritiene generalmente<br />

che il pittore non abbia bisogno di un’educazione particolare per<br />

diventare un grande <strong>Arti</strong>sta». E invece, no. L’artista deve andare all’università,<br />

il luogo di formazione degli intellettuali, ci dice Duchamp. Non<br />

è più una specie di artigianato superiore, ma la sua professione si situa<br />

«a un livello paragonabile a quello <strong>delle</strong> professioni “liberali” […]. Per<br />

restare a questo livello e per sentirsi alla pari con gli avvocati, i medici<br />

ecc., l’<strong>Arti</strong>sta deve ricevere la stessa formazione universitaria». Perciò ha<br />

il dovere – ed è considerata una responsabilità <strong>delle</strong> più importanti – di<br />

educare l’intelletto, «sebbene, professionalmente, l’intelletto non sia la<br />

base della formazione del genio artistico» 45 . Cosa altro deve educare<br />

il genio artistico? Qual è la base della sua formazione? Azzarderei i<br />

sensi, anche se è convinzione profondamente radicata che i sensi non<br />

ne abbiano bisogno: la scuola, l’agenzia della formazione culturale, è<br />

infatti, idealmente, centrata sul logos e, di fatto, organizzata linguisticamente<br />

46 . Duchamp, comunque, non lo dice; anzi, dopo di lui, e nel<br />

suo nome, è invalsa la convinzione che i sensi non servano all’arte. Non<br />

è forse Duchamp il cartesiano tra i dadaisti, più cartesiano di Cartesio,<br />

tanto che «il cogito ergo sum è una massima che avrebbe dovuto essere<br />

inventata appositamente per lui?» 47 . Non si è forse – lui dall’“occhio”<br />

sensibilissimo – scagliato contro “l’arte retinica”? Ebbene, sì. E, mentre<br />

Duchamp – tutt’intero: sensi non meno che intelletto – guardava criticamente<br />

alla scienza e inseguiva la quarta dimensione, la pittura a occhi<br />

chiusi (i Blind Time Drawings), per la quale Robert Morris dichiara di<br />

essersi ispirato agli scritti del filosofo Donald Davidson, e che la critica<br />

interpreta come definitiva svalutazione del retinico duchampiano 48 , è<br />

l’estrema eco che ancora nel terzo millennio ci dice del gioco di forza<br />

tra sensi e intelletto relativamente al soggetto, e di quello tra arte e<br />

scienza relativamente ai prodotti culturali, che la modernità ha inscenato<br />

tra coppie pensate come oppositive 49 .<br />

Ma suggerisce anche che le cose non sono andate, come spesso accade,<br />

secondo l’intenzione di Duchamp 50 . «È possibile produrre opere<br />

che non siano opere d’arte?». Duchamp ci provò, il mondo dell’arte<br />

non glielo ha permesso 51 . Cosa sarebbe successo se Fountain non fosse<br />

stata catalogata “opera d’arte”, e fosse stata definitivamente “esclusa”<br />

dal mondo dell’arte 52 ? E invece Fontana, che ha sollecitato innumerevoli<br />

e svariati esercizi critici e filosofici e continua a stimolare la “creatività<br />

ermeneutica” del mondo dell’arte, recentemente è stata votata da autorevoli<br />

esperti di questo mondo come l’“opera d’arte” più rappresentativa<br />

del Novecento 53 . Erano cinquecento, ed erano inglesi; ma non credo<br />

che il risultato della votazione sia dipeso dalla nazionalità dei giudici.<br />

Ancora: quali sarebbero stati gli sviluppi se la critica prima e la filosofia<br />

dopo avessero preso sul serio l’intenzione di Duchamp? Nel mondo del-<br />

204


la scienza, in quegli anni non meno in crisi di quello artistico – relativamente<br />

al cognitivo, mentre in quest’ultimo si rivendicava “intelletto” nel<br />

primo si rivendicava “intuizione” –, se a qualcuno fosse venuto in mente<br />

di lavorare “contro”, di fare anti-scienza, un’intenzione simile sarebbe<br />

stata giudicata quanto meno stravagante. Né le rivoluzioni scientifiche<br />

hanno s-definito il concetto di scienza; o gli esperimenti si sono trasformati<br />

in “intuizioni” sul concetto di scienza. Il dadaismo di Paul<br />

Feyerabend non ha rivoluzionato le effettive pratiche scientifiche. E se<br />

a uno scienziato fosse venuto in mente di sostenere che tutto è scienza<br />

non sarebbe stato preso sul serio. Il mondo dell’arte non è il mondo<br />

della scienza. Le cose presero il corso che sappiamo, e bastò davvero<br />

un fiat dell’artista 54 , e poi del critico, e successivamente del curatore,<br />

e infine persino del mercante, perché qualunque cosa diventasse arte.<br />

La pittura già da tempo aveva monopolizzato il termine “arte” – quasi<br />

fosse un suo sinonimo e non un termine valutativo – cosicché l’“arte”<br />

diventò «il nome di un gioco infinito con il proprio concetto» 55 . E non<br />

si capisce se la riflessione filosofica debba servire a rilanciare il gioco o<br />

a spiegarci a cosa e a chi serva un simile gioco.<br />

L’orinatoio venne esposto a New York 56 . L’epicentro dell’arte dal<br />

Vecchio Mondo si sposterà nel Nuovo, dove le forze filosofiche in campo<br />

– empirismo e analisi del linguaggio, ma la svolta linguistica era<br />

iniziata in Europa – non creavano certo le condizioni più adatte perché<br />

l’artista si impegnasse nel produrre “manifestazioni sensibili di un<br />

contenuto spirituale”, per dirlo con il filosofo a cui Danto si rifà per la<br />

storia che ci racconta. L’artista procedeva a s-definire l’arte e la critica<br />

abbandonava il giudizio. Greenberg, il critico americano kantiano 57<br />

che Danto elegge a sua testa di turco, pare buttasse a mare “le idee<br />

estetiche” e, disinteressato al “disinteresse” del giudizio riflettente, si<br />

dilettasse con puri colori e puri tracciati. L’estremo dell’“arte retinica”,<br />

e il permanente bisogno dell’artista di essere-e-di-essere-riconosciutointellettuale.<br />

All’intorno galleristi, mercanti, collezionisti, curatori, e professionisti<br />

dell’arte a vario titolo che, come l’artista e il critico, vivendo<br />

di arte hanno un bisogno vitale di opere e, qualunque e comunque<br />

siano, più ce ne sono meglio è. Siccome l’arte (il concetto e le opere)<br />

non è «una specie naturale» 58 – se frutti darà non cresceranno sugli<br />

alberi ma germineranno nella mente di chi viene educato per essere<br />

artista – ciò che si insegna sull’arte e su tutto il resto non è indifferente<br />

per il raccolto. Fu così che Danto, in un imprecisato giorno d’aprile<br />

del 1964, trovò il “tavolo” 59 pronto per la filosofia della storia dell’arte:<br />

“Ready-made”, “Nominalismo pitturale”, “Gesto iconoclasta”. I marchi<br />

– i primi due in maniera esclusiva – sono di Duchamp 60 . «Ha guadagnato<br />

qualcosa?», gli chiede il direttore del Guggenheim Museum di<br />

New York. E lui, che intanto da quasi dieci anni lavorava segretamente<br />

all’opera postuma (significativamente un’immagine, non un ready-made),<br />

risponde: «Mai… D’altronde, come lei sa, è solo il lato intellettuale del-<br />

205


le cose che mi interessa, sebbene non mi piaccia il termine “intelletto”,<br />

troppo secco, troppo svuotato d’espressione» 61 . E forse si stupirebbe<br />

a sapere che lo si tramanda alla storia inchiodato proprio all’intelletto:<br />

l’artista che avrebbe «cercato sopra ogni cosa di produrre un’arte senza<br />

estetica e di sostituire al sensibile l’intellettuale, come Hegel sosteneva si<br />

fosse acquisito naturalmente con l’evoluzione storica dello “spirito”» 62 .<br />

4. Per una teoria generale dell’arte, Danto parte dalle Brillo Boxes<br />

che avrebbero messo fuori gioco le “qualità estetiche” dell’opera, reso<br />

obsoleta la “contemplazione estetica”, confutato le teorie tradizionali<br />

dell’arte, ed esemplificato che l’arte arriva alla comprensione filosofica<br />

della propria identità 63 . Cosa ha fatto Warhol per procurare tali e tanti<br />

effetti? Ha operato la “trasfigurazione” di un “oggetto ordinario” in<br />

opera d’arte, ci dice Danto. L’oggetto ordinario nello specifico è, però,<br />

un’opera di design con nome e cognome del progettista: James Harvey.<br />

E considerarlo un oggetto ordinario è una mossa interna all’arte pensata<br />

secondo il «sistema moderno <strong>delle</strong> “Belle <strong>Arti</strong>”», sistema costruito<br />

«con un gioco di prestigio teoretico» 64 nella seconda metà del Settecento,<br />

sempre smentito dall’effettivo procedere <strong>delle</strong> pratiche culturali,<br />

ed entrato definitivamente in crisi con le avanguardie storiche. A titolo<br />

d’esempio, significativo anche per la data: l’anno prima dell’evento alla<br />

Stable Gallery tanto decisivo per Danto, Gillo Dorfles utilizzava per<br />

l’estetica del design il concetto kantiano di «bellezza aderente». Ma se<br />

le scatole di Brillo che si trovano nei supermercati non sono arte e le<br />

scatole di Warhol esposte in galleria lo sono, come spiegarlo, posto che<br />

le prime sono “percettivamente” indiscernibili dalle seconde? «Poiché<br />

qualsiasi definizione dell’arte deve comprendere le scatole di Brillo<br />

[non tutte, ma solo quelle di Warhol], è ovvio che nessuna definizione<br />

può essere basata su un’ispezione <strong>delle</strong> opere d’arte. Fu questa [l’]<br />

intuizione» iniziale 65 . Chiediamoci: quanto è ovvia questa ovvietà, dal<br />

momento che l’opera, qualsiasi significato voglia avere, deve materializzarsi<br />

davanti ai nostri occhi e farci decidere se la “trasfigurazione”<br />

sia veramente avvenuta, o se, nonostante l’intenzione, l’artista non ci<br />

sia riuscito? Dobbiamo credere per fede, come per l’ostia nella teologia<br />

cristiana, o dobbiamo ritenere l’artista immune dal fallimento?<br />

Duchamp, del cui rigore non si può dubitare e del cui genio si è tutti<br />

convinti, non è riuscito a “trasfigurare” il Woolsworth Building. Gli<br />

epigoni ci riescono sempre? Ora, se si arriva a cose fatte e si accetta<br />

la classificazione in opere d’arte e oggetti reali, i problemi non sembrano<br />

questi 66 . Piuttosto, data la presunta facilità con cui l’oggetto<br />

trasfigurato può essere percettivamente scambiato per un oggetto reale,<br />

il problema urgente diventa come evitare un simile errore. E mentre<br />

Danto riporta Warhol proprio a Duchamp, perché sarebbe stato il primo<br />

a operare il miracolo di trasformare l’oggetto qualunque in opera<br />

d’arte 67 , Duchamp – che certamente è stato il primo a lanciare contro<br />

206


uno spazio espositivo, programmaticamente libero da giuria e da premi,<br />

un “oggetto ordinario” (un geniale test che la Society of Indipendent<br />

<strong>Arti</strong>sts non superò, benché accettasse di esporre dipinti di bambini e<br />

di dilettanti), ma non a compiere il miracolo della trasfigurazione che<br />

al contrario è stata opera collettiva 68 – aveva contrapposto<br />

un tipo di pittura indirizzata soprattutto alla retina, all’impressione retinica e<br />

una pittura che va oltre la retina e usa il tubetto di colore come un trampolino<br />

per qualcosa d’altro. È il caso degli artisti religiosi del Rinascimento. A loro<br />

non interessava il tubetto di colore. Ciò che stava loro a cuore era esprimere<br />

l’idea della divinità, sotto una forma o un’altra. Quindi senza imitarli, la mia<br />

idea comunque è che la pittura pura non è finalizzata a se stessa.<br />

Ecco perché «la pittura non deve essere esclusivamente visiva o<br />

retinica. Deve interessare anche l’intelletto, la sete di comprensione» 69 .<br />

È un giudizio critico sulla rincorsa all’effetto ottico, all’arte per l’arte,<br />

ma non mette minimamente in discussione l’essere un prodotto visivo<br />

della pittura – il cui peso infatti va determinato «sulla bilancia estetica»<br />

70 – né tanto meno la pittura tout court, quantunque non ne abbia<br />

fatto «lo scopo» di tutta la sua vita 71 . «Volevo rimettere la pittura al<br />

servizio della mente […]. In effetti, fino agli ultimi cento anni tutta<br />

la pittura è stata letteraria o religiosa, posta al servizio dello spirito.<br />

Questa caratteristica si è a poco a poco persa nel corso dell’ultimo<br />

secolo. Più un quadro faceva appello ai sensi – più diventava animale<br />

– più era apprezzato» 72 .<br />

Questo per dire che la storia – le arti, la costruzione del concetto<br />

di arte, l’egemonia della pittura, la s-definizione 73 della stessa – dato<br />

l’incipit incentrato sul problema alla cui soluzione aveva lavorato per<br />

primo Schiller – lettore della Critica della Facoltà di Giudizio 74 – con<br />

le sue Lettere sull’educazione estetica, fuori da una filosofia della storia,<br />

forse può essere raccontata diversamente. Ma intanto col “più faceva<br />

appello ai sensi” equiparato al “più diventava animale”, o anche con<br />

«l’espressione intellettuale, più che l’espressione animale» 75 , siamo<br />

ritornati a “Bête comme un peintre”. Il fatto è che di rivoluzione in<br />

rivoluzione si è arrivati per davvero all’arte animale 76 . E il mondo<br />

dell’arte ha imbarcato pure questa. Altro che riportare l’arte alla mente<br />

e la pittura agli splendori del Rinascimento! Duchamp, come Danto,<br />

avrebbe potuto forse dire o forse solo pensare «non sempre i nostri<br />

figli vengono fuori come avremmo voluto» 77 . Ritengo, però, che non<br />

avrebbe mosso battaglia alla progenie, e non perché condivida il luogo<br />

comune sul «leggendario “muro del silenzio”» che avrebbe innalzato<br />

attorno alla sua libertà; quanto perché la sua risposta al fraintendimento-nonostante-tutto<br />

pare sia stata: «e allora lasciatelo fare» 78 .<br />

Danto, da parte sua, considera il piccione, a cui qualcuno forse ha già<br />

intinto nel colore becco e zampe, «uno spontaneo maestro di tecnica<br />

morelliana» 79 . Certo, non sostiene che l’uccello produca arte, non è<br />

207


un entusiasta dell’espressionismo astratto come David Sylvester che<br />

ha officiato alla nascita dell’arte animale o Clement Greenberg che<br />

ha pontificato a New York sugli umani che a detta di Dalì avrebbero<br />

avuto una mano «totalmente animale» 80 . E però, come intendere<br />

l’Animal Art, dal momento che l’è dell’identificazione artistica è stata<br />

pronunciata da autorevoli critici e affermati artisti? Tra questi ultimi, i<br />

più conosciuti sono: William Copley (l’artista che «invece del pennello<br />

usava il suo pisello») 81 , Desmond Morris (più famoso come etologo di<br />

animali e di uomini che come artista, e però non è diventato Direttore<br />

dell’Institute of Contemporary Art di Londra per meriti scientifici),<br />

Vitaly Komar e Alex Melamid (il duo artistico moscovita che fonda il<br />

movimento della Sots Art, equivalente sovietico della Pop Art, e che<br />

nel 1978 abbandona l’Unione Sovietica per gli States 82 ). Le porte dei<br />

musei si sono spalancate ad accoglierla e le più importanti case d’asta<br />

a venderla. È un problema che una definizione filosofica dell’arte non<br />

può ignorare, anche quando l’attribuire all’animale la competenza del<br />

connaisseur fosse solo un altro modo per ribadire che l’estetica è cosa<br />

per gli uccelli.<br />

5. Da Warhol-a-Duchamp-alle arti-in-generale. Mettiamo da parte<br />

che Duchamp con i suoi oggetti (dalla “pala per neve” all’“orinatoio”,<br />

passando per “un Rembrandt come tavolo da stiro”) ha inteso «sottolineare<br />

l’antinomia fondamentale tra l’arte e i ready-made» 83 ; ammettiamo<br />

pure che nel Novecento «le opere d’arte sono state trasfigurate<br />

in esercizi di filosofia dell’arte» 84 ; non consideriamo che dalla preistoria<br />

all’Ottocento, abbiamo un’arte che non esemplifica la lezione<br />

sulla storia dell’arte che Danto ricava da Hegel (un’arte che magari è<br />

corsa verso l’abbraccio mortale con Duchamp-Warhol, ma senza saperlo;<br />

un’arte, quindi, né riflessiva né cosciente di sé à la Hegel, magari<br />

diversamente cosciente di sé, alla maniera di Leonardo da Vinci per<br />

esempio); mettiamo da parte anche le perplessità sull’esemplarità di<br />

Brillo Box per una teoria che vuole avere un valore generale (non solo<br />

pittura) e universale (tutta l’arte, di tutti i tempi e di ogni luogo, passata<br />

e futura) 85 ; e veniamo ai criteri che la contraddistinguono. «Le due<br />

condizioni necessarie di una definizione filosofica dell’arte sono: il fatto<br />

che l’arte si riferisce a qualcosa e che quindi possiede un significato, e<br />

che un’opera d’arte incorpora il suo significato […]. Ho condensato<br />

tutto questo definendo le opere d’arte “significati incorporati”» 86 . Data<br />

l’artisticità della Brillo Box, e posto che qualsiasi definizione dell’arte<br />

deve comprenderla, poiché le scatole di Warhol che circolano nel<br />

mondo dell’arte hanno le loro controparti non artistiche stipate nei<br />

supermercati, diventa preliminare la questione della differenza ontologica<br />

tra l’opera d’arte e la cosa reale. Va da sé che «quale che fosse la<br />

differenza, non poteva comunque consistere in ciò che l’opera d’arte e<br />

la cosa reale da essa indistinguibile avevano in comune, e cioè qualsiasi<br />

208


proprietà materiale immediatamente osservabile tramite comparazione»<br />

87 . Nella definizione essenzialista dell’arte diventa, quindi, centrale<br />

la problematica dell’indiscernibilità percettiva. Gli esempi di Danto,<br />

relativamente alle qualità chiamate “estetiche”, e che, giusto perché<br />

l’estetico è già valutativo, è forse preferibile chiamare percettive, sono<br />

diseguali sia rispetto all’indiscernibilità quando il confronto è tra mera<br />

cosa e opera, sia relativamente alla discernibilità quando trattasi di sole<br />

opere, e del loro essere “incarnazione di un significato”.<br />

I cesti e i vasi di due ipotetiche tribù africane o i quadrati rossi con<br />

cui inizia La trasfigurazione del banale sono indistinguibili per la semplice<br />

ragione che oggetti pensati come identici sono identici. Vedremo<br />

che non è così per l’orinatoio prima di Duchamp e l’orinatoio dopo<br />

Duchamp, o per le scatole Brillo prima e dopo Warhol. Iniziamo dalle<br />

opere presenti nella galleria immaginaria di Danto. Nove tele quadrate<br />

dipinte di rosso, di cui una non è arte (e quindi non ha un “titolo”),<br />

un’altra è una tela preparata per accogliere il capolavoro di Giorgione<br />

– Conversazione sacra – purtroppo mai realizzato, e le sette che lo<br />

sono, di volta in volta, intitolate Israeliti che attraversano il mar Rosso,<br />

Lo stato d’animo di Kiekegaard, Piazza Rossa, Tovaglia rossa, Quadrato<br />

rosso, Nirvana, e, in ultimo, Senza titolo, un esemplare di ciò che<br />

il Novecento ha elevato a “genere pittorico” accanto a esemplari di<br />

pittura storica, ritratto psicologico, paesaggio, natura morta, astrazione<br />

geometrica, arte religiosa. Le tele come oggetti sono, a evidenza, percettivamente<br />

indiscernibili. Sono, però – sostiene Danto – discernibili<br />

come opere. Ma se non è la percezione che ce lo fa constatare, come<br />

lo sappiamo? Danto ci dice che, come gli identici rettangoli degli artisti<br />

J e K, rappresentazioni artistiche di due leggi di Newton, «queste sono<br />

opere distinte ed enormemente diverse tra loro, per quanto visivamente<br />

indiscernibili, […] una volta interpretate» 88 . E certo che i titoli<br />

sono enormemente diversi! Anche i titoli, peraltro, dobbiamo percepirli.<br />

Perciò Fodor, critico nei confronti <strong>delle</strong> tassonomie tradizionali,<br />

ha potuto fare del linguaggio un modulo incapsulato allo stesso modo<br />

dei sensi 89 . Pur rifiutando la sua architettura del mentale, e in particolare<br />

la modularità di sensi e linguaggio, resta vero che il linguaggio<br />

lo percepiamo tanto quanto i suoni, le forme e i colori. Senza l’udito<br />

per il parlato e la vista per lo scritto, come potremmo comprendere il<br />

significato? Si pensi a quanto un accento sbagliato possa disturbare la<br />

comprensione, o come la stessa parola diversamente accentata cambi di<br />

significato. Anche a ignorare questo fatto, tanto sotto gli occhi di tutti<br />

da passare inosservato, e continuare, contro ogni evidenza sperimentale,<br />

con l’endiadi pensiero-linguaggio da una parte e sensazione dall’altra,<br />

se l’opera d’arte è incarnazione di un significato, veramente i quadrati<br />

rossi incarnano i significati di cui parlano i titoli? Ci contentiamo della<br />

sola “intepretazione”? Il che, come Danto ci dice, equivale a «cercare<br />

l’anima sottraendo il corpo dalla persona, benché non sia certo che vi<br />

209


sia qualcos’altro» 90 . Perciò del corpo non si può fare a meno. Le opere<br />

d’arte e le persone «devono essere considerate come irriducibili a parti<br />

di se stesse, e sono in tal senso primitive» 91 .<br />

Tuttavia, ai fini della definizione dell’arte, ritiene necessario distinguere<br />

ciò che pertiene all’anima e ciò che pertiene al corpo: «è proprio<br />

ciò che costituisce la cosa reale, quale che sia, che abbiamo proposto<br />

di sottrarre dall’opera d’arte per vedere quale possa essere il resto,<br />

supponendo che proprio in quel resto risieda l’essenza dell’opera d’arte»<br />

92 . Così procedendo incontriamo corpi identici che però possiedono<br />

anime molto diverse: è il caso dei rettangoli attraversati a metà da una<br />

linea orizzontale di J e K; oppure corpi identici, dei quali alcuni sono<br />

senza anima e altri la possiedono: è il caso dei quadrati rossi. Un chiaro<br />

invito a esercitare l’immaginazione, e per i rettangoli il suggerimento di<br />

Danto in tale direzione è esplicito: la linea orizzontale, ad esempio, o<br />

è la traiettoria di una particella isolata nella prima opera, o è il punto<br />

d’incontro di due masse che esercitano pressione uguale e contraria<br />

nella seconda 93 . Per i quadrati possiamo immaginare più liberamente<br />

a partire dal titolo, senza i vincoli che la rappresentazione di leggi<br />

scientifiche impone. Nondimeno, è iperbolico “l’eccesso di contenuto”<br />

quando, invece di “animare” i corpi, ha il potere di azzerarne la diversità.<br />

Come gli eroi della fantascienza, le cui anime si possono incarnare<br />

in un corpo terrestre qualsiasi – evidentemente per loro i terrestri si<br />

somigliano tutti, come per noi, fino a qualche tempo fa, i giapponesi –,<br />

così i significati artistici; con la differenza, però, che quando lo spirito<br />

artistico si incarna, ha il potere di uniformare le qualità percettive dei<br />

corpi. Altrimenti, perché i nostri pensieri, pur davanti alle tele rosse,<br />

rimangono “vuoti”? Danto ci dice che anime diverse possono incarnarsi<br />

nello stesso corpo. Ma l’anima di mister Hyde e del dottor Jeckill<br />

ci è data percettivamente – la diversa espressività del volto, della voce<br />

e <strong>delle</strong> azioni – non da sottotitoli a corpi identici che di volta in volta<br />

segnalano “ora è mister Hyde”, “ora è il dottor Jeckill”; mentre gli<br />

identici rettangoli di J e K rimangono tali e quali anche quando l’uno<br />

è identificato come La prima legge di Newton, e l’altro come La terza<br />

legge di Newton. Di rettangoli e di quadrati dopo Malevič ce ne sono<br />

tanti, ma alcuni dei titoli di Danto sono davvero curiosi per l’arte della<br />

s-definizione. Sicuro che quadrati e rettangoli sono “a proposito di” ciò<br />

che i titoli significano? Sicuro che incarnano quei significati? Per Danto<br />

l’identità percettiva è a dimostrazione che il significato è invisibile. Se è<br />

invisibile perché chiamarlo incarnato? Si sarebbe mai potuto teorizzare<br />

il concetto di anima senza la visibilità di un corpo animato?<br />

Uscendo dalla galleria di Danto, incontriamo orinatoi e scatole. Esaminiamo<br />

le scatole Brillo: quella di Warhol che è considerata arte e<br />

quella di Harvey che non è considerata arte, e che tale rimarrà a meno<br />

che non si imponga la tesi di Tiziana Andina 94 . Già questo suggerisce<br />

che le due condizioni ritenute necessarie per la definizione dell’arte<br />

210


non sono sufficienti a farcela distinguere da altri artefatti. Il mondo<br />

dell’arte, nel frattempo, ha registrato anche le Not Warhol (Brillo Boxes,<br />

1969), 1991, di Mike Bidlo 95 , quelle del duo artistico Bertozzi<br />

& Casoni, e chissà quante altre me ne sono sfuggite. Ma fermiamoci<br />

alle prime due, che, considerate indiscernibili da Danto, non lo sono,<br />

quanto meno per i colori, per le dimensioni e per il materiale utilizzato.<br />

Per di più, ed è un di più nell’ordine percettivo, non nell’ordine di una<br />

teoria istituzionale dell’arte, «un dato oggetto muta il proprio carattere<br />

col mutare del contesto» 96 , come ha dimostrato la psicologia della Gestalt.<br />

Il supermercato e la galleria non sono davvero contesti neutri che<br />

lasciano gli oggetti percettivamente indiscernibili. Senza contare che un<br />

bosco, lo stesso punto del bosco, non è lo stesso oggetto percettivo se a<br />

guardare è un botanico, o un fotografo, o un cacciatore; e non perché<br />

la percezione sia carica di teoria o perché il botanico, il cacciatore e il<br />

fotografo interpretino diversamente quello che registra il loro occhio,<br />

né perché vedano quello che conoscono, bensì perché la percezione è<br />

finalistica e selettiva. Ma Danto lo sa, solo ritiene che contesto, finalità<br />

e selettività non abbiano nulla a che fare con la percezione e siano di<br />

pertinenza di un qualche potere superiore della mente.<br />

Per Danto se di due scatole uguali una è arte e l’altra no, l’artisticità<br />

non può essere funzione <strong>delle</strong> loro qualità sensibili. Ora, le due scatole<br />

sono diverse, come – lo vedremo – diversi sono l’orinatoio e Fontana.<br />

Danto per le scatole lo ammette: «Certo, c’erano differenze evidenti: le<br />

scatole di Warhol erano fatte di compensato e le altre di cartone. Ma<br />

anche se fosse stato il contrario, dal punto di vista filosofico le cose non<br />

sarebbero cambiate, e l’opzione di ritenere che non occorresse nessuna<br />

differenza materiale, quale che fosse, per distinguere l’opera d’arte dalla<br />

cosa reale, sarebbe rimasta comunque disponibile» 97 . Ma allora perché<br />

dare tanto peso all’argomento dell’“indiscernibilità”, quando poi gli oggetti<br />

sono – e non possono non esserlo – percettivamente discernibili?<br />

Ci si ricorda della puntuale critica di Kant al principio degli indiscernibili<br />

di Leibniz, e sorge il sospetto che il problema siano proprio i sensi,<br />

e che l’obiettivo sia proprio quello di mettere fuori gioco la percezione.<br />

“Essere arte” non è percepibile, e tuttavia non è una dimostrazione<br />

del fatto che ciò che valutiamo “arte” non abbia nulla a che fare con il<br />

sensibile. Quando mai il concetto di “arte” di qualcosa ha dipeso dalla<br />

sola ispezione dell’oggetto? Se così fosse non ci sarebbero state tante<br />

teorie dell’arte, a parte il fatto che la pittura che noi chiamiamo arte per<br />

Leonardo da Vinci era scienza, o anche il fatto che Kant, l’autore <strong>delle</strong><br />

idee estetiche, considerava arte le tabacchiere. Piuttosto, valutare arte<br />

un oggetto significa per ciò stesso consegnarlo alla “contemplazione”,<br />

ovvero farne un oggetto per una attenta analisi percettiva. L’orinatoio,<br />

possiamo – la metà maschile del genere – usarlo (e il senso più coinvolto<br />

può essere l’olfatto anziché l’occhio); Fontana no: possiamo solo<br />

guardarla. È a questo punto, per chi è al di fuori del processo produt-<br />

211


tivo, che sorge il problema <strong>delle</strong> qualità percettive, non prima, giacché<br />

lo sguardo rivolto agli oggetti nel traffico della vita, attento o distratto<br />

che sia, è finalizzato ad altro. Siamo interessati a usarlo, l’oggetto, a<br />

comprarlo, a venderlo, a regalarlo, a prestarlo, ad aggiustarlo, a pulirlo;<br />

insomma, a farne uso per qualsiasi altro scopo pratico, ma certo non a<br />

guardarlo e giudicarlo esteticamente per se stesso. Normalmente non<br />

ci comportiamo come quando andiamo in un museo per ammirarne<br />

le opere, tanto che persone affette da agnosia visiva, sebbene possano<br />

scambiare la propria moglie per un cappello 98 , continuano a essere in<br />

grado di svolgere gran parte <strong>delle</strong> loro quotidiane attività. Le opere<br />

artistiche sono, ci dice la psicologia della Gestalt, oggetti percettivi, per<br />

lo più oggetti solo per un senso – la pittura tramite l’occhio, la musica<br />

tramite l’orecchio ecc. – non come “le mere cose” che, indaffarati e non<br />

“contemplativi”, incontriamo con tutti i sensi più o meno in allerta e<br />

con l’intero corpo pronto all’azione 99 . Da qui il necessario e reiterato<br />

avvertimento ai bambini piccoli: “si guarda ma non si tocca”; un insegnamento<br />

certamente non finalizzato allo sguardo “estetico”, ma che<br />

pure contribuisce a formarne le condizioni che lo renderanno possibile.<br />

«A Duchamp si dovrebbe riconoscere il merito di avere spostato<br />

l’orinale dalla sua posizione originale e pertanto di avere dimostrato che<br />

un oggetto altera la sua natura quando ne sia cambiato l’orientamento<br />

nello spazio» 100 . Ora, se ai fini della questione ci basiamo su dati materiali,<br />

come fa Danto, l’importanza dell’orientamento non si impone.<br />

Si prendano due quadrati poggiati su un lato e, successivamente, uno<br />

dei due lo si poggi su un vertice; immediatamente vediamo un rombo<br />

là dove prima vedevamo un quadrato. Percepiamo, quindi, due forme<br />

diverse pur rimanendo identico l’oggetto materiale. Si trova l’osservazione<br />

in Mach, il quale concluse che «due figure possono essere geometricamente<br />

congruenti, ma fisiologicamente [percettivamente] del tutto<br />

diverse» 101 . Ripresa, sviluppata e messa a frutto la scoperta di Mach, i<br />

gestaltisti hanno dimostrato che l’orientamento non ha valore assoluto<br />

nel determinare la forma, ma è relativo sia al sistema di riferimento in<br />

cui l’oggetto si trova, sia alla struttura dell’oggetto, o allo “scheletro<br />

strutturale”, come lo chiama Arnheim. Lo scheletro strutturale, che non<br />

si identifica con i margini di un oggetto o col contorno di una figura<br />

sebbene ne derivi, è decisivo per la percezione dell’identità: «l’identità<br />

di un oggetto visivo dipende […] non tanto dalla sua configurazione<br />

come tale quanto dallo scheletro strutturale creato dalla configurazione.<br />

Su questo scheletro, un’inclinazione laterale può influire e può non<br />

influire» 102 . Di tutt’altro avviso sono gli psicologi non gestaltisti. Jean<br />

Piaget, per esempio, essendosi casualmente accorto che «un bambino<br />

sistemò un quadrato su un angolo invece che lungo il bordo e poi lo<br />

rifiutò, dicendo che non era più un quadrato», decise di esaminare il<br />

problema «presentando un quadrato ritagliato in diverse posizioni e<br />

ponendo domande del tipo seguente: “È lo stesso quadrato? È ancora<br />

212


un quadrato? È lo stesso pezzo di cartone?”». I bambini risposero<br />

«non è più un quadrato», e Piaget ha concluso: i bambini «negavano<br />

l’identità» 103 . Per Arnheim è “frettoloso” lo sperimentatore se ritiene<br />

che «il bambino sviato dalla semplice apparenza, non ha saputo riconoscere<br />

la realtà <strong>delle</strong> cose. Ma il bambino si riferiva al pezzo di cartone<br />

o all’oggetto visivo? E chi ha detto che l’essere la stessa cosa si basa<br />

su criteri materiali piuttosto che visivi? C’è da suscitare le proteste<br />

di tutti gli artisti». Frettolosa o meno, è un’interpretazione, quella di<br />

Piaget, “geometrica”, piuttosto che “ecologica” 104 , e la svalutazione<br />

della forma e della percezione che la esperisce è funzionale al punto<br />

di vista la lui assunto: quello <strong>delle</strong> strutture logico-matematiche. Non<br />

diversamente, seppure per ragioni diverse, tratta l’identità Danto che<br />

sembra condividere con Piaget l’essere puro del pensiero.<br />

Ritorniamo all’orinatoio, che distinguiamo da un lavabo, da un piatto<br />

doccia e da un water-closet bisex. L’oggetto divenuto ready-made non<br />

si chiama più “orinatoio”; dotato di un altro nome e di firma autoriale,<br />

cambia di posto. Il che è come dire: non puoi più farne l’uso che ne hai<br />

fatto finora. Il posto in cui viene “esposto” – galleria, museo ecc. – è<br />

infatti un luogo dove si va per guardare, come all’auditorio per ascoltare.<br />

Oggi esistono musei per ciechi nei quali la Gioconda, presentata in<br />

bassorilievo, è fatta per essere toccata. Il tatto, quindi, piuttosto che la<br />

vista, ma sempre di sensi si tratta. Come di percezione si tratta quando<br />

leggiamo o ascoltiamo o tocchiamo in braille il termine “fountain”.<br />

Duchamp, a proposito dei ready-made, ci dice che la scelta degli oggetti<br />

non era stata dettata dal piacere estetico né da considerazioni relative<br />

a buono o cattivo gusto, e precisa che la parola o la frase «non descriveva<br />

l’oggetto come avrebbe potuto fare un titolo, ma era destinata a<br />

condurre la mente dello spettatore verso altre regioni più verbali» 105 .<br />

Ma non ci dice, sarebbe contraddittorio con quanto ha fatto, che il<br />

guardare è indifferente ai fini della comprensione. Ci suggerisce solo di<br />

non riconoscere l’oggetto per come fino adesso l’abbiamo considerato, e<br />

di considerarlo diversamente: significativamente “un nuovo punto di vista”<br />

da cui guardare a quell’oggetto. Quanto a “un nuovo pensiero per<br />

quell’oggetto”, l’“oggetto” (l’orinatoio) deve avere caratteristiche tali da<br />

prestarsi a incorporarlo perché la cosa funzioni. Di fatto Duchamp ne<br />

cambia l’orientamento – “lo ha collocato in modo tale che il significato<br />

della sua utilità è scomparso” – e, come il quadrato di Mach, non è più<br />

quello di prima: l’oggetto ha una nuova forma. Non si tratta quindi di<br />

riconoscere il “vecchio oggetto”, bensì di percepire il “nuovo oggetto”.<br />

Se le cose stanno così, le qualità percettive di Fontana (oggetto-parola)<br />

non sono quelle dell’orinatoio già incontrato e che continueremo a<br />

incontrare nei negozi di sanitari e nei bagni pubblici. Né quelle di un<br />

oggetto che, incontrandolo per la prima volta (oggetto-senza-nome), se<br />

chiediamo “cos’è”, ci si risponde “un orinatoio”. Bello/brutto, piacere/<br />

dispiacere non sono qui pertinenti, perché il giudizio che Duchamp<br />

213


con Fontana ci sollecita verte sull’identificazione del nuovo oggetto<br />

(oggetto-fontana e parola-fontana). È una metafora, ci dice Danto 106 .<br />

Bene; nondimeno, se continuassimo a riconoscere solo l’orinatoio come<br />

Danto sostiene, o se non ne avessimo mai visto nessuno e Fontana<br />

non ce lo potesse richiamare alla mente, la metafora, non potremmo<br />

intenderla 107 . A dispetto <strong>delle</strong> “regioni più verbali della mente” di<br />

cui parla Duchamp, le regioni neuronali interessate alla comprensione<br />

della metafora sono quelle preposte all’elaborazione percettiva. Le aree,<br />

trattandosi di metafora visiva, sono quelle visive, e, in parte minore,<br />

quelle uditive sollecitate dal termine “fountain” benché anch’esso arrivi<br />

al cervello tramite l’occhio. Soffermandoci poi sul termine e andando<br />

oltre l’opera, ricordandoci del significato figurato di “fountain” – “origine”<br />

– potremmo interrogarci sul possibile suo contributo alla fortuna<br />

di Fountain: dalla scelta di Duchamp di mandare proprio questo readymade<br />

in mostra e con le modalità che sappiamo, alla posterità che ne<br />

ha decretato il ruolo di primo motore.<br />

D’accordo quindi con Danto quando sostiene che Duchamp non si<br />

proponeva «di elevare al grado di piacere estetico un oggetto ritenuto<br />

fino ad allora volgare e immeritevole di alcuna considerazione, un<br />

monito, che la bellezza si può trovare nei luoghi più impensati. […]<br />

Di fatto (e per una ragione storico-artistica) Duchamp ricorse ai suoi<br />

ready-made proprio perché, secondo lui, essi erano esteticamente indifferenti»<br />

108 , se consideriamo l’indifferenza estetica limitata a piacere/<br />

dispiacere. Non d’accordo con lui, però, quando butta il bambino con<br />

l’acqua sporca del bagno e sostiene che la forma non ha importanza<br />

ai fini della comprensione del significato artistico, o che non ne abbia<br />

avuto per Duchamp nella scelta dei ready-made 109 . Vediamo come lo<br />

argomenta: ricordando che Mr. Mutt ha creato «un nuovo pensiero<br />

per quell’oggetto», sostiene che «quell’opera, deve essere pensata cum<br />

oggetto, opera e oggetto devono essere considerati insieme, e l’oggetto<br />

è, di conseguenza, soltanto parte dell’opera. Quindi l’oggetto può effettivamente<br />

avere quelle qualità individuate da Dickie [qualità simili a<br />

quelle <strong>delle</strong> opere di Brâncusi e di Moore], senza che per questo esse<br />

debbano essere anche qualità dell’opera» 110 . In sostanza per Danto l’opera<br />

è solo il “nuovo pensiero” ovvero il termine “fontana”, e l’oggetto<br />

che dice esserne parte, essendo per lui quello dei negozi di sanitari o<br />

dei bagni – e non quello in galleria a cui ci si deve riferire – in realtà<br />

è come fosse inesistente 111 : di fatto attribuisce le qualità all’oggetto<br />

ordinario, non all’oggetto trasfigurato. Cosicché, oltre al mancato riconoscimento<br />

dell’importanza dell’orientamento e del contesto, non<br />

viene tenuto nel giusto conto il problema dell’intero e <strong>delle</strong> parti, <strong>delle</strong><br />

relazioni tra le parti e <strong>delle</strong> parti con l’intero. Ancora una volta, è la<br />

psicologia della Gestalt ad avere dimostrato che l’aspetto di una parte<br />

dipende dalla struttura dell’intero, e che a sua volta l’intero dipende<br />

dalla natura <strong>delle</strong> parti. Il tutto non può essere il nuovo pensiero inte-<br />

214


so linguisticamente; l’opera è costituita dal termine “fontana” cum oggetto<br />

diversamente orientato e diversamente contestualizzato: l’oggetto<br />

è parte di Fountain tanto quanto lo è il termine “fountain”. Proprio<br />

perché l’oggetto è parte di un nuovo tutto acquista qualità percettive<br />

diverse da quelle dell’orinatoio. La forma di Fountain non sarà lovely<br />

come per Arensberg, ma è la forma di Fountain, non dell’orinatoio. Le<br />

metafore visive di Duchamp non potrebbero funzionare senza le qualità<br />

dell’oggetto. I suoi ready-made non sono quadrati rossi tutti uguali, e<br />

se avesse scritto sulla pala per neve Fountain, piuttosto che In Advance<br />

of a Broken Arm, non gli avremmo creduto. Nonostante la dichiarata<br />

impossibilità di scindere anima e corpo, poiché Danto fa coincidere il<br />

corpo dell’opera con la cosa reale, l’arte non la può trovare nel corpo,<br />

perché, se lo facesse, l’opera sarebbe ciò che è la cosa reale: quadrati,<br />

rettangoli, orinatoi, scatole per pagliette saponate, letti, taglieri da<br />

macellaio e così via 112 . Ecco perché per lui il significato artistico non<br />

ha nulla a che fare con la forma dell’oggetto, anzi – la precisazione è<br />

a riguardo di Fontana – «non è semplicemente unito alla seducente<br />

forma d’un fascino universale, ma è forse in grado di far sì che la<br />

forma affondi, “scompaia”», che non va nella direzione di chi sostiene<br />

che la “buona forma” non si vede, perché la forma in discussione è<br />

quella dell’orinatoio, non dell’opera. Da qui l’interscambiabilità dei<br />

corpi e l’assolutizzazione del significato, sottratto il quale sorgerebbero<br />

«pure reazioni estetiche». E mentre si capisce perché «l’estetica non<br />

appartiene all’essenza dell’arte», diventa difficile comprendere come<br />

l’opera così concepita incarni il significato 113 .<br />

Eppure l’incarnazione del significato è il tratto distintivo dell’arte.<br />

Così quando Danto si chiede cosa distingua The Transfiguration of the<br />

Commonplace, un’opera di filosofia dell’arte, «da un’opera d’arte vera<br />

e propria, visto che le opere d’arte sono state trasfigurate in esercizi<br />

di filosofia dell’arte», è proprio all’incarnazione che ricorre. Come c’era<br />

da aspettarsi non è mancato chi ha giudicato quel libro un’opera<br />

d’arte. Danto precisa che il giudizio «confonde la qualità letteraria<br />

con la letteratura; io non ho la pazienza di incarnare le mie idee e non<br />

sono neppure sicuro che la comprensione dei miei scritti trarrebbe<br />

vantaggio se, per esempio, riuscissi a incarnarle in un romanzo» 114 .<br />

Certo, ci può volere pazienza a incarnare il significato, e la pazienza è<br />

una virtù che siamo costretti a esercitare nelle più svariate situazioni<br />

della nostra vita, ma non è questo il tratto che può dirimere la questione.<br />

Intanto il testo filosofico incarna il significato non meno di un<br />

romanzo. Non può, quindi, bastare l’incarnazione sic et simpliciter a<br />

renderli discernibili. Danto ci rimanda a un pensiero di George Eliot<br />

– significativamente uno pseudonimo maschile per un corpo e uno<br />

spirito femminile – relativamente alla distinzione, ritenuta “assoluta”,<br />

tra letteratura e altre tipologie di testi:<br />

215


Si tratta di un problema terribilmente difficile, le sue difficoltà mi tormentano,<br />

ho più volte affrontato la dura fatica di cercare di dare completa incarnazione<br />

a certe idee, come se prima di tutto esse si fossero rivelate a me nella carne e<br />

non nello spirito. Penso che l’insegnamento estetico sia il più elevato di tutti<br />

gli insegnamenti, poiché si occupa della vita nella sua massima complessità.<br />

Ma se tale insegnamento cessa di essere puramente estetico – se in un qualche<br />

momento scade da immagine a diagramma – diventa il più offensivo di tutti<br />

gli insegnamenti 115 .<br />

“Dura fatica”, quindi, piuttosto che pazienza. A ogni modo, Danto<br />

lo utilizza per darci ancora una volta una coppia di indiscernibili:<br />

Cézanne’s Composition di Loran e Portrait of Madame Cézanne di<br />

Lichtenstein, percettivamente tanto simili che l’autore del primo ha<br />

intentato una causa per plagio contro l’autore del secondo. Eppure il<br />

primo diagramma è “diagramma” (non-arte) e il secondo diagramma<br />

è “immagine” (arte). E a convincerci sembra a lui sufficiente la precisazione<br />

che «oggi noi apprezziamo il fatto che ci siano immagini<br />

che sono indistinguibili dai diagrammi, ma ciononostante “insegnano”<br />

in modi molto diversi», laddove per Eliot si trattava innanzitutto<br />

di distinguere la diversa modalità di significare, da cui conseguono<br />

modalità diverse di insegnare. “Idee rivelate nella carne” e non puro<br />

spirito; “puramente estetico” e non intellettuale; “immagine” e non<br />

diagramma: in breve, un’estetica, quella di Eliot, e non «una impeccabile<br />

filosofia dell’arte» 116 come Danto vorrebbe. Le idee di Eliot – non<br />

i significati incarnati o incorporati di Danto – sono riportabili alle<br />

idee estetiche di Kant non meno che alle idee sensibili di Hegel. Ed è<br />

singolare che Costello abbia trovato concettualmente simili “idee estetiche”<br />

e “significati incorporati”, quasi avessero «la stessa logica» 117 ; e<br />

ancora più singolare che Danto ci abbia creduto, se poi ritiene Hegel<br />

«confuso e probabilmente contraddittorio» proprio relativamente alla<br />

permanenza dell’“estetico”. Più precisamente, Danto si sta interrogando<br />

sulla bellezza, e il passo incriminato è il seguente: «la bellezza<br />

artistica si presenta al senso, alla sensazione, all’intuizione, all’immaginazione,<br />

essa ha un ambito diverso dal pensiero, e l’apprensione della<br />

sua attività e dei suoi prodotti richiede un organo diverso dal pensiero<br />

scientifico» 118 . Poiché ritiene Hegel degno di ammirazione proprio<br />

perché avrebbe cercato «sistematicamente di distinguere» estetica e<br />

filosofia dell’arte, e interpreta la hegeliana fine dell’arte «con il fatto<br />

che noi non richiediamo più che le idee siano comunicate in forma<br />

sensibile», gli diventa problematico il legame della “bellezza artistica”<br />

con i sensi 119 . In sostanza tutto ciò che non è puro pensiero gli appare<br />

in contrasto con la raggiunta autoconsapevolezza dell’arte. Nondimeno,<br />

per Hegel l’arte – che media tra «ciò che è semplicemente esterno,<br />

sensibile e transeunte, e il puro pensiero» –, contrariamente alla scienza,<br />

elabora in forma sensibile il suo contenuto, e questo lo fa sempre,<br />

anche quando, come nella modernità, «la sua forma ha cessato di es-<br />

216


sere il bisogno supremo dello spirito». Poiché lo spirito nel sensibile<br />

dell’opera «vuole una presenza sensibile che deve sì rimanere tale, ma<br />

deve essere parimenti affrancata dall’impalcatura della sua materialità»,<br />

si capisce che «la parvenza stessa è essenziale all’essenza». L’occhio e<br />

l’orecchio (o la vista e l’udito) che, diversamente da tatto, olfatto e<br />

gusto, «hanno la capacità di essere organi per l’apprensione di opere<br />

d’arte» (e «un attento udire e vedere» è necessario per «abbordare la<br />

realtà» e per produrre la «forma artistica»), vengono considerati sensi<br />

teoretici, ovvero sensi che hanno con l’oggetto «un rapporto puramente<br />

teoretico» e non consumatorio come per esempio il gusto 120 . E mentre<br />

per Danto l’arte si è «trasformata in filosofia», per Hegel può essere<br />

“superata” dalla filosofia, ma non trasformarsi in filosofia. Poiché il<br />

darsi dell’arte in un materiale sensibile «deve essere insito nella determinazione<br />

a lei propria», anche quando l’arte non soddisferà più «il<br />

nostro bisogno più alto» e «la situazione generale non [sarà] favorevole<br />

all’arte», il compito dell’artista continuerà a essere quello di produrre<br />

«forme concrete» e non «astratte generalità». Anzi, se l’artista «pensa<br />

in modo filosofico, si assume un compito che, rispetto alla forma del<br />

sapere, è proprio opposto all’arte» 121 .<br />

Credo che basti, essendo il mio intento unicamente quello di precisare<br />

che il convincimento di Danto che “noi non richiediamo più<br />

che le idee siano comunicate in forma sensibile” non è riportabile<br />

all’estetica di Hegel, per il quale la forma, non meno del contenuto,<br />

è necessaria all’arte e ineliminabile per la sua comprensione, persino<br />

relativamente all’arte romantica – l’arte della “fine” – «che va oltre<br />

se stessa, ma pur sempre entro il proprio ambito e nella forma stessa<br />

dell’arte» 122 . Solo così, del resto, il significato, o più precisamente il<br />

contenuto, può essere veramente incarnato, o, come dice Hegel, reso<br />

visibile, e non sospeso come un’etichetta su un oggetto, e quest’ultimo<br />

inessenziale alla comprensione del “significato” della stessa.<br />

Entriamo nello stadio più alto di ciò che [Hegel] chiama lo “Spirito Assoluto”<br />

quando noi non chiediamo più all’arte di soddisfare i nostri “bisogni più alti”.<br />

Ma questo ci lascia con il dubbio di come la bellezza, intesa in termini sensibili,<br />

possa essere davvero “generata e rigenerata dallo spirito”. Hegel non ci dà<br />

buoni esempi di bellezza artistica. Egli ci dà buoni esempi di arte, l’eccellenza<br />

dei quali può essere tirata fuori attraverso una critica artistica scaltra come nel<br />

suo splendido resoconto della Trasfigurazione o nella sua impareggiabile analisi<br />

dei dipinti olandesi, che sono veramente, o sono spesso belli, ma belli in modo<br />

sensibile. Sono tra i più grandi ammiratori della filosofia di Hegel, ciò che dobbiamo<br />

fare per accettarla è riconoscere il modo in cui l’arte può, anzi deve,<br />

essere razionale e sensibile allo stesso tempo; e quindi determinare come le sue<br />

proprietà sensibili siano connesse al suo contenuto razionale, questo è l’obiettivo<br />

della parte restante del mio libro 123 .<br />

Hegel ci darebbe “esempi di arte” e non “di bellezza artistica”.<br />

Forse basta ricordarsi solo dell’inizio dell’Estetica per convincersi che<br />

217


gli esempi dell’una sono esempi dell’altra. Del resto già con Batteux<br />

l’unità <strong>delle</strong> arti era avvenuta sotto il segno della bellezza: il bello è «il<br />

perfetto ideale della poesia, della pittura, di tutte le altre arti» 124 . E<br />

qualche decennio prima Francis Hutcheson aveva addirittura ipotizzato<br />

il «senso della bellezza», “un senso interno” diverso dai sensi esterni,<br />

ritenuti, seppure fisiologicamente perfetti, incapaci di cogliere la perfezione:<br />

un «superiore potere di percezione» per rendere conto anche<br />

del fatto che «le deformità della vecchiaia in un dipinto, le rocce e le<br />

montagne più rudi in un paesaggio, se ben rappresentate, avranno abbondante<br />

bellezza» 125 . In modo più incisivo: «la bellezza sembra essere<br />

la più chiara manifestazione della perfezione e la migliore testimonianza<br />

della sua possibilità» 126 . Questo per evidenziare che la bellezza «legata<br />

al concetto di gusto» non sempre è servita a nascondere «quanto sia<br />

ampia e variegata la gamma <strong>delle</strong> qualità estetiche» 127 , bensì a sottolineare<br />

l’eccellenza della resa artistica <strong>delle</strong> stesse. Il che allo psicologo<br />

<strong>delle</strong> arti «suggerisce che ciò che chiamiamo bellezza è la felice corrispondenza<br />

tra le caratteristiche dell’espressione percettuale e le proprietà<br />

strutturali del contenuto» 128 . Se le cose stanno così, il problema<br />

della “bellezza artistica” è esattamente quello di “come le sue proprietà<br />

sensibili siano connesse al suo contenuto razionale”, con la precisazione<br />

che “proprietà” e “significato” incasellati rispettivamente nel sensibile e<br />

nel razionale non rendono chiaro che è la forma a essere significativa,<br />

o, nelle parole di Hegel, che «nel produrre dell’artista lo spirituale e<br />

il sensibile devono essere una cosa sola», e forma e contenuto devono<br />

apparire «come concresciuti l’uno nell’altra», piuttosto che un «oggetto<br />

più un significato» 129 .<br />

L’opera d’arte non è un astratto significato, bensì un oggettualità di<br />

cui fare esperienza, un significato che si manifesta. È così che Danto<br />

procede quando ci mette in presenza dell’opera: «Noi dobbiamo sforzarci<br />

di afferrare il pensiero dell’opera, basato sul modo in cui l’opera<br />

è organizzata». Si tratta del matrimonio di una dea con un mortale, Le<br />

nozze di Teti e di Peleo di J. Wtewael, e quanto ci dice ci fa capire la<br />

riuscita articolazione visiva del significato: «ben dipinto», «in maniera<br />

squisita» ecc. «Se solo qualcuno avesse fermato Eris!» 130 . Già, se<br />

non sapessimo di Teti e di Peleo, <strong>delle</strong> loro ascendenze e discendenze,<br />

dell’invidia degli dei e della nostra, della loro potenza e dell’impotenza<br />

di noi mortali, non avremmo potuto capire neanche quell’esclamativo,<br />

il cui valore ottativo, pur dinnanzi all’ineluttabile, ci parla di quanto<br />

importante sia la perfezione. Per non disperare, per non rassegnarci<br />

all’esistente, per non ridurci a mimarlo acriticamente. È un sapere,<br />

quello di cui qui si serve, alla portata di Testadura, fatto non di teorie<br />

sull’arte ma di conoscenze sui referenti <strong>delle</strong> apparenze 131 . E la comprensione<br />

del contenuto è data dalla precisione <strong>delle</strong> forme. Tuttavia<br />

non è così che Danto procede ai fini della teoria. Poiché genera confusione<br />

chiamare bellezza sia quella artistica, che «richiede discernimento<br />

218


e intelligenza critica», sia quella empirica, che è «riconosciuta tramite i<br />

sensi», limita «il concetto di bellezza alla sua identità estetica», percepibile<br />

immediatamente nella natura e nelle opere d’arte «da chiunque,<br />

a prescindere dall’istruzione» 132 , e la distingue in “bellezza interna”<br />

e “bellezza esterna”. La bellezza è esterna quando non appartiene al<br />

significato dell’opera (Fountain o Brillo box) ma all’oggetto prima della<br />

“trasfigurazione”, come l’orinatoio della Mott Works, o la scatola di<br />

James Harvey; è interna quando fa parte del significato dell’opera come<br />

nelle Nozze di Teti e di Peleo.<br />

La bellezza interna […] serve a illustrare il modo in cui il sentimento [feeling]<br />

è connesso con i pensieri che animano le opere d’arte. Certamente, oltre alla<br />

bellezza, ci sono altri modi per connettere il sentimento con il pensiero nelle<br />

opere d’arte: il disgusto, l’erotismo, il sublime, come pure la pietà, il timore e gli<br />

altri casi che Hegel nomina come aventi a che fare con l’estetica. E questi modi<br />

aiutano a spiegare perché l’arte sia importante nella vita umana, a dispetto della<br />

roboante affermazione di Hegel che avremmo raggiunto uno stadio nella storia<br />

dello spirito nel quale solo la filosofia può soddisfare «gli interessi più profondi<br />

del genere umano e le verità più comprensive dello spirito» 133 .<br />

La bellezza, indubbiamente importante per la vita, per l’arte, data<br />

l’ampia gamma di sentimenti che gli artisti possono volere suscitare,<br />

diventa “opzionale”. Poiché il sentimento modula il contenuto, il problema<br />

del farsi sensibile di quest’ultimo si trasforma – e scompare – in<br />

quello di quale sentimento è adeguato a un determinato contenuto.<br />

La bellezza interna può, così, essere compatibile o incompatibile col<br />

contenuto, e in quest’ultimo caso è “moralmente deprecabile”. E mentre<br />

le domande si moltiplicano – «cosa c’è di veramente sbagliato nel<br />

creare un luogo di bellezza all’interno di un mondo cattivo?»; «perché<br />

[gli artisti] dovrebbero creare bellezza per un mondo brutto?»; «abbellire,<br />

a cospetto dei mali del mondo, può essere un atteggiamento<br />

da collaborazionista?» 134 – ci si dimentica <strong>delle</strong> proprietà sensibili e<br />

dell’eccellenza artistica 135 , cioè della felice corrispondenza tra le caratteristiche<br />

dell’espressione percettuale e le proprietà strutturali del<br />

contenuto, che è il modo artistico di incorporare il significato.<br />

Vietnam Veteran’s Memorial rappresenta una sfida all’intero complesso di congetture<br />

assunte verso le opere d’arte intese come oggetti, con le quali ho iniziato.<br />

Inoltre penso che il Memorial sia l’emblema del ruolo che l’arte gioca nella<br />

maggior parte <strong>delle</strong> nostre vite, persino se siamo membri dell’establishment<br />

dell’arte cognitiva 136 .<br />

È vero. Rappresenta una sfida per come Danto intende il significato<br />

incarnato. Il monumento di Maya Lin «è notoriamente riconosciuto<br />

per la sua notevole bellezza» da tutti. Non ci dice, però, perché è<br />

bello, ci dice solo che lo è per tutti e che lo continuerà a essere, e,<br />

trattandosi di bellezza interna, che «è intesa con riferimento al “pensie-<br />

219


o”». La bellezza, anche quando è interna, risiede nella bellezza della<br />

realtà che l’opera rappresenta. Così la bellezza <strong>delle</strong> Nozze di Teti e di<br />

Peleo di Wtewael giacché gli dei non possono che essere belli; come<br />

pure la bellezza <strong>delle</strong> opere di Matisse del periodo di Nizza che è<br />

propria della realtà dipinta da Matisse. Ci si chiede: a quale bella realtà<br />

può essere riferito il Muro di Maya Lin? E perché un monumento alla<br />

memoria di più di 58.000 morti nella guerra del Vietnam dovrebbe<br />

essere percepito come bello da tutti? Dalle madri e dalle mogli dei giovani<br />

caduti? «Qualunque sia la spiegazione della bellezza sentita» 137 , ci<br />

dice Danto, ma forse è più corretto dire “qualunque sia il sentimento<br />

che il Muro suscita”. La bellezza o la rabbia o il disgusto ecc. sono,<br />

comunque, solo inflectors che lasciano invariata la natura del pensiero:<br />

«se la bellezza è vista come un flessore, allora il meraviglioso pensiero<br />

di Hegel (“la bellezza artistica è generata e rigenerata dallo spirito”)<br />

assume un senso completo. Va dalla mente dell’artista alla mente dello<br />

spettatore attraverso i sensi». Il “sensibile” così inteso, comunque, non<br />

modifica il pensiero nel quale continua a risiedere l’essenza dell’arte.<br />

«Ma almeno l’inflessione ci aiuta a spiegare perché noi abbiamo l’arte<br />

in primo luogo. Agiamo così perché, essendo esseri umani, siamo<br />

guidati dai nostri sentimenti» 138 . Gli artisti come i retori nelle corti di<br />

giustizia! Considerando l’oggetto artistico solo per i pensieri “inflessi”<br />

che veicola, la teoria non ci spiega ciò che il concetto di “significato<br />

incarnato” non dovrebbe eludere: il pensiero visivo che l’opera incarna<br />

e perciò esibisce. Se il pensiero si manifesta nel corpo, l’occhio deve<br />

essere capace di coglierlo, e l’occhio di Danto, a dispetto della sua<br />

teoria, come abbiamo visto, lo è. Diversamente, cosa può significare<br />

«comprendere quale sia il pensiero che l’opera esprime in modi non<br />

verbali», o – l’ho già citato a proposito <strong>delle</strong> Nozze di Teti e di Peleo<br />

– che “dobbiamo sforzarci di afferrare il pensiero dell’opera, basato<br />

sul modo in cui l’opera è organizzata”? «È il modello dei significati<br />

impliciti», che, se non fosse per l’idiosincrasia nei confronti della sensibilità,<br />

Danto avrebbe potuto chiamarlo, più propriamente, “il modello<br />

dei significati manifesti”. Sebbene lo usi «sempre come critico<br />

d’arte» 139 , il “significato manifesto” e l’occhio intelligente, che solo<br />

può esperirlo, non hanno posto alcuno nella teoria filosofica dell’arte,<br />

per la quale, al contrario, si rende necessario un “occhio innocente”<br />

o “stupido”, come lo chiama il suo “creatore” 140 per i “meri oggetti”,<br />

e un occhio “intelletto-dipendente” per l’oggetto artistico che, come<br />

l’oggetto scientifico, è “carico di teoria”.<br />

6. «Si dice che non si dia un occhio innocente, ma in realtà l’occhio<br />

è molto innocente: la percezione visiva può forse rientrare tra le<br />

modularità della mente, impenetrabile dal punto di vista cognitivo,<br />

e di fatto la scienza cognitiva ha fornito dimostrazioni sorprendenti<br />

relativamente a quanto poco sapere ci sia nel vedere, e su quanto la<br />

220


maggior parte di esso non sia che una dotazione innata. Però è vero<br />

che la mano non è innocente» 141 .<br />

Mark Tansey, Test dell’occhio innocente, 1981<br />

Risponderà la mucca al toro e al pagliaio di grano? Sesso e cibo,<br />

oggetti che assicurano la sopravvivenza di sé e della specie a cui si<br />

appartiene. Se lo farà, «deve essere possibile rispondere alle immagini<br />

come se fossero cose, senza sapere nulla di storia, religione o arte» 142 .<br />

È questo l’interesse di Danto per la “percezione pittorica” dell’animale:<br />

se la mucca fremerà alla vista del toro, poiché la mucca non può avere<br />

interiorizzato una convezione pittorica in base alla quale il dipinto è<br />

visto come un toro, l’occhio innocente è una certezza. Il dipinto di<br />

Mark Tansey non raffigura un esperimento scientifico, ragione per cui<br />

non conosciamo la risposta della mucca. Possiamo però ipotizzarla sulla<br />

base di positive evidenze sperimentali relative ad altri animali, come «le<br />

pecore, note per la poca intelligenza», o i piccioni che addirittura sono<br />

«in grado di categorizzare le immagini per soggetto» 143 . Danto non ha<br />

dubbi: Potter, se l’esperimento si facesse, supererebbe il test. Anche<br />

Monet supererebbe il test? Ovvero, la mucca «saliverebbe dinanzi al<br />

pagliaio di grano»? Forse la mucca no, ma i piccioni, che discriminano<br />

«lo “stile” fisionomico del paesaggio», e stili musicali diversi, parrebbe<br />

di sì 144 . Sappiamo, però, che quando Kandinskij visitò una mostra di<br />

impressionisti francesi a Mosca non riuscì a riconoscerlo: «Il catalogo<br />

mi diceva che si trattava di un pagliaio, ma non riuscivo a riconoscerlo.<br />

Questa incapacità di riconoscere il soggetto mi turbò. Pensai anche che<br />

il pittore non ha il diritto di dipingere in modo così confuso» 145 . Se<br />

l’occhio umano è come quello dell’animale – innocente alla maniera<br />

221


di Danto – come spiegare il mancato riconoscimento di Kandinskij?<br />

Kandinskij battuto dai piccioni? O, nonostante la strabiliante capacità<br />

di discriminazione, tenendo presente che «non si presume che i<br />

piccioni vedano immagini bidimensionali come rappresentazioni del<br />

mondo reale» 146 , dovremmo cominciare a dubitare che basti discriminare<br />

per percepire? Dopo tutto il termometro discrimina i gradi<br />

della febbre molto meglio <strong>delle</strong> nostre mani. Comunque sia, «se, come<br />

sembra certo, gli animali rispondono al contenuto pittorico senza la<br />

possibilità di aver perduto l’innocenza visiva, allora la competenza pittorica<br />

come quella percettiva è qualcosa di cui l’occhio teoricamente<br />

e culturalmente innocente è capace» 147 . La conclusione che ne trae è<br />

che la “competenza percettiva” e degli oggetti e <strong>delle</strong> immagini degli<br />

oggetti – la condividiamo con gli animali e come loro «non dobbiamo<br />

imparare a vedere» 148 – è naturale; mentre la “competenza artistica”<br />

– solo umana – è storico-culturale e, quindi, soggetta all’apprendimento.<br />

L’“esperienza visiva minimale” che ci accomuna agli animali è, nei<br />

termini di Fodor, modulare, al contrario dell’“esperienza estesa della<br />

visione” che non lo è e che perciò è pensiero. La modularità sembra<br />

a Danto il concetto «di cui abbiamo effettivamente bisogno per poter<br />

distinguere tra meri oggetti visivi e opere d’arte visiva». Ecco l’importanza<br />

del piccione dentro di noi. «Considerare due oggetti indiscernibili<br />

dal punto di vista di una descrizione minima è fondamentale per<br />

mostrare come siano discernibili dal punto di vista dell’interpretazione<br />

[…]. I termini che applichiamo grazie all’interpretazione sono invisibili<br />

rispetto all’esperienza visiva minima, poiché dipendono da qualcosa di<br />

esterno all’oggetto osservato» 149 .<br />

Per l’arte è necessaria l’esperienza visiva estesa, dove non è più<br />

in gioco il percepire ma, come abbiamo visto, l’interpretare: esse est<br />

interpretari non percipi.<br />

“Vedere qualcosa come arte richiede un elemento che l’occhio non è in grado<br />

di esplicitare – un’atmosfera di teoria artistica, una conoscenza della storia<br />

dell’arte: un mondo dell’arte”. Queste riflessioni erano il portato della filosofia<br />

della scienza in cui io e i miei colleghi credevamo. Era nostra convinzione che<br />

gli oggetti scientifici fossero “carichi di teoria”, nel senso che la percezione<br />

non può mai essere un semplice vedere, ma è sempre un vedere qualcosa sotto<br />

una particolare descrizione teorica. Vedere una linea attraverso un oscilloscopio<br />

come il percorso di una particella è possibile soltanto se si sa a cosa servono<br />

gli oscilloscopi: è richiesta, in altri termini, una specifica conoscenza scientifica<br />

per vedere la linea in quel modo 150 .<br />

L’arte come la scienza? Davvero nella scienza non si danno “osservazioni<br />

senza teoria”? È noto il ruolo giocato nella “New philosophy of<br />

science” dall’immagine bistabile, sia essa l’uccello/antilope di Hanson<br />

o la più nota lepre/anitra, di Wittgenstein, per cui, senza soluzione di<br />

continuità, a partire da queste si arriva al sole bistabile: «Keplero e<br />

222


Tycho sono rispetto al Sole nella medesima situazione nella quale noi<br />

ci troviamo nei confronti della figura, in cui io vedo l’uccello e un’altra<br />

persona soltanto l’antilope. Gli elementi <strong>delle</strong> loro esperienze sono<br />

identici, ma la loro organizzazione concettuale è enormemente diversa».<br />

Dal fenomenico al transfenomenico e ritorno, vale a dire: senza<br />

teoria non c’è percezione. Poiché l’organizzazione non appartiene ai<br />

“sense data”, non può essere di competenza dei sensi ma dell’intelletto:<br />

«non è un elemento appartenente al campo visivo [come lo è<br />

una linea o una figura o un colore], ma piuttosto il modo in cui gli<br />

elementi vengono valutati». E dati un percepito non organizzato e la<br />

libertà dell’intelletto di organizzarlo come più gli aggrada, Keplero e<br />

Tycho «possono vedere cose diverse osservando insieme il sorgere del<br />

Sole» 151 . Il “Sole mobile” di Tycho e il “Sole statico” di Keplero: veramente<br />

la teoria cambia la percezione? Kuhn, per il quale «la percezione<br />

stessa richiede qualcosa di simile a un paradigma», diversamente ci<br />

sarebbe «una assordante confusione da far girare la testa», lascia intendere<br />

che questa sia la posizione della psicologia della Gestalt 152 , quando<br />

invece i gestaltisti hanno criticato – oltre William James al quale è<br />

riportabile la “confusione” di cui parla Kuhn – proprio «l’influenza dei<br />

pregiudizi teorici» nello studio della percezione 153 e l’ingerenza dell’intelletto<br />

nell’organizzazione e nella ristrutturazione percettiva. Per loro<br />

i due animali <strong>delle</strong> figure bistabili sono percetti e non interpretazioni,<br />

come, anche in psicologia 154 , quasi unanimemente si ritiene, basandosi<br />

sul presupposto che l’organizzazione del dato sopraggiunga e dipenda<br />

da un’attività intellettuale 155 . Certo, per i gestaltisti, e ciò fin dal celebre<br />

esperimento di Wertheimer sul “movimento apparente” (1912),<br />

come per Hanson, «nella visione c’è più di ciò che colpisce il globo<br />

oculare» 156 , ma il di più non è da loro inteso nel senso della teoria, o<br />

<strong>delle</strong> conoscenze passate in formato linguistico. Il sapere organizzato<br />

linguisticamente che guiderebbe la visione 157 non ha nulla a che fare<br />

con la percezione e il “pensiero naturale” dei gestaltisti 158 e molto da<br />

spartire con la teoria empirista della percezione che da von Helmholtz,<br />

passando per il New Look, arriva ai nostri giorni 159 .<br />

Non c’è dubbio che il David di Bernini rappresenti un giovane guerriero in<br />

movimento nell’atto di scagliare una pietra. […] Però, anche se sappiamo di<br />

guardare una cosa in movimento, quello che vediamo non equivale a quello che<br />

effettivamente la cosa in movimento presenta all’occhio, dal momento che non<br />

vediamo il movimento. Lo inferiamo sulla base di sottili accorgimenti inseriti<br />

dall’artista nell’opera per indurre un’inferenza di ciò che caratterizzerebbe i<br />

corrispondenti.<br />

Lo stesso avverrebbe per i sentimenti:<br />

gli artisti hanno elaborato un codice di inferenze stimolanti la percezione di cose<br />

che essi, dati i limiti del medium, non erano in grado di rappresentare diretta-<br />

223


mente. Tali stimolazioni sono segni il cui significato va appreso autonomamente<br />

quasi nello stesso modo in cui si deve apprendere una lingua o, quanto meno,<br />

un lessico 160 ,<br />

che, fin dai termini, tanto ricorda von Helmholtz 161 .<br />

Soffermiamoci brevemente sul movimento, ma lo stesso discorso vale<br />

per i sentimenti. Vediamo il movimento? Sì, ci dice il neo-helmholtziano;<br />

però il movimento non è nell’immagine, quindi non basta all’occhio.<br />

Non è forse ferma l’immagine? Ora, non c’è dubbio che niente si<br />

muove sulla pagina. Come spiegarlo? L’intuizione geniale di Helmholtz<br />

è stata quella di ricorrere all’inferenza inconscia e all’esperienza passata,<br />

vale a dire: chiamare in soccorso dei sensi l’intelletto. Perciò, il movimento<br />

dei cavalli non possiamo vederlo, ma solo inferirlo. Da cosa?<br />

In questo caso, come ci dice Danto, dai sottili accorgimenti utilizzati<br />

dall’artista che ci riportano al corrispettivo movimento reale. Brevemente:<br />

il movimento – ma sarebbe più corretto parlare di “tensione<br />

orientata” – non lo deduciamo, ma lo percepiamo nelle logiche di un<br />

medium immobile qual è la pittura; e i sottili accorgimenti dell’artista,<br />

né sono tratti, sic et simpliciter, dal movimento reale, né ci stimolano<br />

a inferirli da quest’ultimo. Nessuno, nemmeno l’artista, ha mai visto<br />

cavalli in corsa come questi per la semplice ragione che i cavalli reali<br />

in corsa non possono assumere quest’aspetto, tranne che in un salto,<br />

come sappiamo da quando la fotografia ci ha messo sotto gli occhi le sequenze<br />

del movimento reale. Il movimento rappresentato lo percepiamo<br />

«esattamente nella misura in cui esso appare nell’immagine». E anche<br />

dopo che la fotografia rivelò l’irrealtà di questo schema rappresentativo,<br />

gli artisti continuarono a usarlo «perché solo la massima divaricazione<br />

<strong>delle</strong> gambe può tradurre l’intensità del moto fisico in una dinamica<br />

pittorica» 162 .<br />

L’inferenza inconscia ai tempi di Helmholtz si rendeva necessaria<br />

dal momento che non percepiamo gli oggetti così come si imprimono<br />

sulla nostra retina. Poiché si presupponeva una corrispondenza biunivoca<br />

tra stimolo prossimale (immagine retinica) e percetto, e poiché,<br />

per esempio, non percepiamo una matita distante da noi due metri più<br />

corta di quando la teniamo in mano (variazione che viceversa la nostra<br />

retina registra), Helmholtz sostenne che l’immagine retinica viene<br />

224


corretta da un giudizio inconscio fondato sulle conoscenze del percettore.<br />

Nel 1912 l’“ipotesi di costanza”, come viene chiamata la presunta<br />

corrispondenza tra immagine retinica e percetto, venne confutata<br />

dagli psicologi della Gestalt. L’esperimento è stato condotto proprio<br />

sul movimento. Venne dimostrato che si percepisce il movimento anche<br />

in assenza di movimento fisico, e quindi di presenza retinica. Nel<br />

1913 Köhler ha evidenziato il circolo vizioso tra ipotesi di costanza e<br />

ipotesi interpretativa 163 , da cui deriva la convinzione che percepire è<br />

interpretare. Ciò nonostante, e i dati sperimentali contrari non sono<br />

pochi, la teoria di Helmholtz è arrivata indenne fino a noi. Segno che il<br />

Novecento aveva bisogno di interpretazioni piuttosto che dei “percetti<br />

oggettivi” della psicologia della Gestalt 164 .<br />

Danto, saggiamente convinto che percepire è una cosa e interpretare<br />

è cosa completamente diversa, meno saggiamente, dà la sua adesione<br />

alla percezione incapsulata di Fodor, il quale per salvare la “veridicità”<br />

della percezione (compromessa dal dato carico di teoria dell’epistemologia,<br />

che, assunto pari pari dalla psicologia cognitivista ha finito col<br />

rafforzare la teoria di Helmholtz) è ricorso all’«impenetrabilità percettiva»<br />

in modo da assicurare che si veda «quel che c’è, e non quel<br />

che si vuole o ci si attende che ci sia. Gli organismi che non fanno<br />

così hanno vita breve» 165 . Per Danto il concetto di modularità – un<br />

concetto molto criticato dai neurobiologi – è una benedizione. Combinando<br />

l’“occhio stupido” di Fodor 166 (un’ipotesi non dimostrata e<br />

suggerita dal funzionamento <strong>delle</strong> “menti artificiali” prive di corpo) con<br />

“l’innocenza dell’occhio” auspicata da Ruskin (una metafora contro<br />

le formule stereotipate), ritiene che l’occhio innocente non è un mito<br />

come ha sostenuto Gombrich e come ha teorizzato Goodman, bensì<br />

individua il reale funzionamento della percezione. Entro i confini del<br />

“banale”. Se la percezione è cosi stupida non può cogliere il proprio<br />

dell’arte. Il “dato carico di teoria”, messo a punto dall’epistemologia<br />

per la scienza, sembra cadere a fagiolo. E ci sta come i cavoli a merenda<br />

se solo tenessimo presente la differenza tra opere d’arte e opere<br />

scientifiche, azzerata dal concetto di “significato invisibile”. Come che<br />

sia, abbiamo percezione, con i limiti accennati, per il mondo e interpretazione<br />

per le rappresentazioni del mondo: per la scienza così come<br />

per l’arte percepire è, quindi, interpretare. E però – data l’assenza di<br />

vincoli che caratterizza l’arte ma non la scienza – se non si appartiene,<br />

o meglio non si vuole far parte del club dell’ermeneutica, se si è contro<br />

il principio dell’“interpretazione infinita” come scongiurare la deriva<br />

dell’interpretazione? Se il proprio dell’opera risiede nell’enunciato –<br />

l’abbiamo visto con Fountain – «la natura proteiforme dei significati<br />

<strong>delle</strong> parole» aumenta le difficoltà, dato che il termine “fountain”, diversamente<br />

dall’oggetto “fountain” che «restringe l’ambito <strong>delle</strong> connotazioni<br />

pertinenti in grado più severo» 167 , si presta più facilmente<br />

al gioco dell’ermeneutica. Dove e come arrestare il gioco non potendo<br />

225


– l’impossibilità deriva dalla teoria – vincolare l’interpretazione alla<br />

struttura percettiva dell’opera?<br />

Penso che non sbaglieremmo poi tanto se supponessimo che la giusta interpretazione<br />

dell’oggetto come opera d’arte è quella che coincide, quanto più è possibile,<br />

con l’interpretazione dell’artista. […] Conoscere l’interpretazione dell’artista<br />

significa proprio identificare ciò che lui o lei ha fatto. L’interpretazione non è<br />

qualcosa al di fuori dell’opera: opera e interpretazione sorgono insieme nella<br />

consapevolezza estetica. L’interpretazione è inseparabile dall’opera così come è<br />

inseparabile dall’artista, se è opera dell’artista 168 .<br />

Ecco la soluzione: vincolarla all’interpretazione del creatore. Il concetto<br />

di interpretazione che Danto mette in campo coincide così con l’è<br />

dell’identificazione artistica che, l’abbiamo visto, non è guidata dalla forma<br />

dell’opera: «l’identificazione, da parte di Duchamp, dell’orinatoio con<br />

una fontana non è una classificazione, bensì un’interpretazione: dire di<br />

quell’orinatoio che è una fontana è sicuramente un esempio di ciò che<br />

altrove ho definito identificazione artistica, dove l’“è” in questione è coerente<br />

(ma solo coerente) con la falsità letterale dell’identificazione» 169 .<br />

Indubbiamente “l’interpretazione non è qualcosa al di fuori dell’opera”,<br />

anzi l’opera è precisamente l’interpretazione che di un particolare<br />

oggetto, evento, situazione l’artista ha dato. Ma il più <strong>delle</strong> volte la<br />

faccenda non è così semplice come per Fontana, sebbene Danto avanzi<br />

dubbi che potrebbero farcela apparire complicata 170 . Intanto che l’intenzione,<br />

l’identificazione e l’interpretazione dell’artista coincidano vale<br />

per Fontana, ma non è la norma, anzi. Né l’intenzione, l’identificazione<br />

e l’interpretazione sono ordinabili in una qualche sequenza fissa. E poi<br />

possiamo avere solo l’identificazione, a volte neppure questa, e nulla<br />

sapere dell’intenzione e dell’interpretazione (l’artista del passato, l’artista<br />

che si esprime solo con le opere, l’artista che decide di burlarsi<br />

del critico ecc.). Anche a non considerare che non sempre disponiamo<br />

dell’interpretazione dell’artista, da un punto di vista psicologico opera<br />

e intenzione differiscono per la processualità e impegnano competenze<br />

cognitive diverse. Si pensi a Guernica, di cui abbiamo tutti i travagliati<br />

passaggi dall’intenzione iniziale all’opera finita 171 . Non sempre l’inizio<br />

è strutturalmente simile alla fine, come in questo caso fortunato;<br />

pure così, le notevoli fluttuazioni e le continue trasformazioni che la<br />

sequenza degli schizzi ci mostra lasciano intravedere la complessità<br />

del processo che dalla primigenia intenzione porta all’opera. Quanto<br />

all’intenzione e all’esecuzione, i tempi e i modi del “fare” non sono<br />

certo quelli del “pensare”: non solo per la durata; né solo perché bisogna<br />

fare i conti con il medium; ma anche e soprattutto perché il fare<br />

ha una processualità lineare che non è quella del pensare (a meno di<br />

non identificare il pensare con il pensiero linguistico). E poi, relativamente<br />

al fruitore, considerando le interpretazioni di Guernica date da<br />

Danto e da Arnheim, quale <strong>delle</strong> due “coincide più strettamente con<br />

226


l’interpretazione dell’artista”? Si consideri quanto persino il razionale<br />

Duchamp ci dice dell’artista, di come sia vana la sua pretesa della piena<br />

coscienza durante l’atto creativo, della lotta che ingaggia durante la<br />

«trasmutazione […] della materia inerte in opera d’arte», di come siano<br />

inservibili le sue spiegazioni razionali di ciò che ha messo in opera,<br />

dell’inevitabile scarto tra intenzione o interpretazione e realizzazione.<br />

Durante l’atto creativo, l’artista procede dall’intenzione alla realizzazione passando<br />

per una catena di reazioni totalmente soggettive. La lotta verso la realizzazione<br />

è una serie di sforzi, di dolori, di soddisfazioni, di rifiuti, di decisioni che<br />

non possono né devono essere pienamente coscienti, almeno sul piano estetico.<br />

Il risultato di questa lotta è uno scarto tra l’intenzione e la sua realizzazione,<br />

scarto di cui l’artista non è per nulla cosciente» 172 .<br />

Dare corpo al significato (che non è trovare un nuovo pensiero per<br />

un oggetto bello e pronto) presenta obiettive difficoltà, e piuttosto che<br />

un’opera ci si può consegnare un aborto. Sicché dobbiamo andare a<br />

guardare. Basta “un occhio innocente”? No. Come qualcuno ha detto,<br />

è necessaria “una visione armata”. Non però di teorie, come Danto<br />

sostiene – ciò renderebbe l’interpretazione infinita, cosa che Danto non<br />

vuole – bensì, e principalmente, <strong>delle</strong> logiche del visivo se trattasi di<br />

arte visiva, e se “identificare ciò che lui o lei ha fatto” non significa,<br />

come sempre più spesso accade nei musei, leggere il titolo e passare oltre,<br />

ma dedicare all’opera il tempo necessario per cogliere le dinamiche<br />

espressive 173 che la animano e i moduli compositivi che la articolano:<br />

comprendere in sostanza le modalità formali che rendono visibile ciò<br />

che Danto chiama l’interpretazione dell’artista. Vincolare l’interpretazione<br />

del critico a quella dell’artista serve a scongiurare l’interpretazione<br />

infinita. Ma quanto è adeguata questa mossa?<br />

7. «Sappiamo che, in qualche modo, deve esserci un’interazione<br />

tra sistemi percettivi e processi cognitivi centrali, nel senso che noi<br />

interpretiamo ciò che percepiamo relativamente al nostro sistema di<br />

credenze. […] È grazie a questa interazione che la storia sopravviene<br />

alla percezione. La storia della percezione è la storia del sistema centrale<br />

che riveste ciò che vediamo di significati che non hanno completamente<br />

a che fare con quanto vediamo, poiché sono spesso termini<br />

relazionali evocati da oggetti non presenti nelle immagini. Indubbiamente<br />

la percezione così strutturata è storica, semplicemente perché<br />

si dà una storia di tale sistema centrale. Ed è per questo che noi siamo<br />

esseri storici, a differenza degli animali, con i quali condividiamo<br />

quasi certamente le caratteristiche principali del nostro apparato di<br />

percezione visiva. […] L’occhio non è storico, ma noi sì. La filosofia<br />

dell’arte comincia qui» 174 .<br />

Per Danto, come già per Fodor, da una parte abbiamo i sistemi<br />

percettivi, ovvero i sensi, dall’altra i processi cognitivi centrali, ovvero<br />

227


l’intelletto. Funzionamento, quello della mente, a compartimenti stagni.<br />

Ora, è pienamente condivisibile che non si percepisce ciò che si<br />

desidera percepire; o che non siano le credenze a determinare ciò che<br />

vediamo; o, ancora, che la percezione non è cognitivamente penetrabile<br />

se con ciò si intende che «qualsiasi cosa l’organismo conosca, qualsiasi<br />

informazione accessibile a uno qualunque dei suoi processi cognitivi sia<br />

ipso facto disponibile come premessa dell’inferenza percettiva» 175 . Ed<br />

è lodevole e pienamente condivisibile l’impegno di entrambi contro il<br />

relativismo. Tuttavia, non è condivisibile che la «distinzione di principio<br />

tra percezione e cognizione» 176 , teorizzata da Fodor e accolta, come<br />

manna caduta dal cielo, da Danto, diventi una distinzione di fatto, e<br />

finisca con l’individuare il reale funzionamento della percezione, quando<br />

poi rimane tanto oscuro il come dell’interazione dei due sistemi<br />

che, al cospetto, la soluzione data da Kant nella prima Critica appare<br />

trasparente.<br />

Argomentare contro, come si dovrebbe, richiede lo spazio che non<br />

ho. Tralascio persino il mancato riconoscimento di Monet da parte di<br />

Kandinskij che non è spiegabile né con l’occhio innocente né col dato<br />

carico di teoria; come pure il rendere conto dell’impossibilità operativa<br />

di una “mano non innocente” (una mano umana) con un occhio innocente<br />

(un occhio animale), e mi limito ad accennare che l’architettura<br />

della mente cosi organata è neurologicamente implausibile. Fodor individua<br />

nella corteccia associativa il substrato neurale del pensiero 177 . Purtroppo,<br />

le aree associative si sono dimostrate aree sensoriali o motorie di<br />

ordine superiore o aree associative di convergenza polimodale. Quanto<br />

va emergendo dallo studio del cervello, non conforta, anzi confuta, la<br />

concezione dei sensi e dell’intelletto, sia essa neo-helmhotziana o fodoriana:<br />

l’ordine gerarchico tra percezione (incapsulata o no) e pensiero,<br />

e l’identificazione di quest’ultimo col linguaggio (l’intelletto discorsivo<br />

della filosofia) 178 . Negli ultimi tempi i neuroscienziati sulla base di dati<br />

clinico-sperimentali hanno cominciato a parlare di percezione intelligente<br />

e a dirci che percepire è pensare; dell’intelletto – significativamente «una<br />

misteriosa capacità» per i gestaltisti 179 – neanche l’ombra. Ovviamente<br />

non l’hanno cercato sotto l’etichetta “linguaggio”. Quando nelle scienze<br />

neurologiche si ripete il famoso Nihil est in intellectu quod prius non<br />

fuerit in sensu 180 non vi è nulla che ricordi la posizione inferiore dei<br />

sensi nella gerarchia della mente, ereditata in psicologia dalla filosofia<br />

empirista; né tanto meno il Nisi ipse intellectus, teorizzato da Leibniz,<br />

“psicologizzato” da Piaget e informatizzato dai cognitivisti. Dell’intelletto,<br />

nella modernità opposto ai sensi per le ragioni della conoscenza<br />

scientifica, nella ricerca sul cervello non c’è traccia: sono i sensi a essere<br />

intelligenti. Per i neurobiologi, ciò che, quindi, è decisivo per capire il<br />

pensiero è la percezione: percepire e pensare «non sono due attività<br />

distinte […]: è un unico processo». “Percezione-pensiero”, un concetto<br />

che falsifica l’opposizione moderna sensi/intelletto, «rappresenta un<br />

228


punto di svolta rispetto al passato: non percepiamo qualche cosa che poi<br />

viene pensata (elaborata nel cervello) e quindi compresa, ma la percepiamo<br />

e la comprendiamo allo stesso tempo» 181 . Le agnosie, le aprassie,<br />

le prosopagnosie, le acromatopsie ecc., e Phineas Gage vanno tutti in<br />

questa direzione 182 . All’intelletto, che secondo la tradizione filosofica<br />

e psicologica avrebbe il compito di ricevere e organizzare i dati più o<br />

meno grezzi dei sensi (“percezione primaria” di Fodor e “esperienza<br />

visiva minimale“ di Danto), si dà il ben servito, «dato che l’evidenza<br />

anatomica non mostra esservi una particolare area verso cui convergono<br />

tutte le aree a monte. Piuttosto, le singole aree specializzate si connettono<br />

tra loro, vuoi direttamente, vuoi mediante altre aree». L’integrazione<br />

dei diversi processi modulari della visione, ad esempio, «non avviene in<br />

un solo passo grazie alla confluenza dei segnali in uscita verso un’area<br />

superiore […], è invece un processo dove percezione e comprensione del<br />

mondo visibile si verificano simultaneamente» 183 . Data l’importanza nel<br />

funzionamento del cervello <strong>delle</strong> aree visive, che scoperta su scoperta<br />

viene rafforzata, poiché il visivo nei laboratori lo si studia tramite immagini,<br />

e quando si dice immagine si pensa, a torto, all’immagine artistica,<br />

non stupisce il crescente interesse dei neuroscienziati per l’arte, anche<br />

se c’è chi, come me, trova discutibile la “Neuroestetica” 184 . Alla luce<br />

<strong>delle</strong> loro ricerche, qui solo accennate, la modularità dei sensi può, comunque,<br />

essere considerata la versione contemporanea della tradizionale<br />

inferiorità dei sensi.<br />

In conclusione spero che queste poche osservazioni, suscitatemi dalla<br />

lettura di Arthur Danto, possano bastare a segnalare che la Filosofia<br />

dell’arte non può non essere Estetica, e che l’Estetica non può fare a<br />

meno di una teoria della mente adeguata ai suoi oggetti. E mentre mi<br />

piace precisare che le ricerche neurologiche corroborano la psicologia<br />

della Gestalt – segnatamente, trattandosi di arte, quella di Rudolf Arnheim<br />

– mi spiace dovere inscrivere la filosofia dell’arte di Danto, pur<br />

volta a rivalutare l’arte, «nella lunga serie di destituzioni filosofiche»<br />

da lui stigmatizzate. Nonostante la centralità teorica dell’incarnazione<br />

del significato, la sua polemica «antiestetica» lo porta a teorizzarne<br />

l’invisibilità: la teoria essenzialista dell’arte ci conduce così «al di là<br />

dell’arte» 185 . Confesso che la lettura <strong>delle</strong> sue smaglianti opere mi ha<br />

procurato qualche disagio per la dissonanza tra ciò che sostiene e il<br />

come lo sostiene: un autore che a seguirlo nelle complesse architetture<br />

che costruisce non fa certo pensare alla concezione cognitivista della<br />

mente, ma a uno splendido esemplare di Homo sapiens sapiens particolarmente<br />

dotato di pensiero “sensibile”.<br />

1<br />

«Stupido come un pittore. Questo proverbio francese risale almeno al tempo <strong>delle</strong><br />

Scènes de la vie bohème di Henri Murger, intorno al 1880, e si usa sempre come battuta nelle<br />

discussioni», Duchamp 1994 2 : 200. Duchamp non è indifferente e si impegna a fare di se<br />

229


stesso la “confutazione vivente” di ciò che eleva al rango di proverbio. Il “proverbio”, che<br />

è l’incipit della relazione tenuta durante un convegno a Hofstra nel 1960, è anche la battuta<br />

finale di un discorso raccolto da James Johnson Sweeney e pubblicato in “The Bulletin of the<br />

Museum of Modern Art”, 1946. La battuta viene ricordata da Kosuth (1969-1987: 25, 32),<br />

che attribuisce a Duchamp il merito di avere mutato «la natura dell’arte da una questione<br />

di morfologia a una questione di funzione. Questo mutamento dall’“apparenza” alla “concezione”<br />

– segnò l’inizio dell’arte “moderna” e l’inizio dell’arte “concettuale”». Il pensiero,<br />

attribuito a Duchamp (riportato tra virgolette) significativamente equipara l’“apparenza” alla<br />

stupidità, e la “concezione” all’intelligenza, e suona tanto dissonante dagli scritti autorizzati<br />

da Duchamp (quanto meno relativamente a “volevo” e a “dovevo”) e in contraddizione con<br />

l’intera opera (si pensi a Etant donnés) che mi pare opportuno riportarlo: «In Francia c’è un<br />

vecchio detto, “stupido come un pittore”. Il pittore veniva considerato stupido, mentre il<br />

poeta e lo scrittore erano ritenuti molto intelligenti. Volevo essere intelligente. Dovevo avere<br />

l’idea di inventare. Non vale nulla essere un altro Cézanne. Nel mio periodo visivo c’è un po’<br />

di quella stupidità del pittore. Tutto il mio lavoro nel periodo precedente al Nudo era pittura<br />

visiva. Poi pervenni all’idea. Considerai la formulazione derivante dall’idea come un modo<br />

per sfuggire alle influenze esterne».<br />

2<br />

Dewey 1934: 42.<br />

3<br />

Non che nel frattempo non ci fossero studiosi che teorizzassero il cognitivo dell’arte.<br />

Si pensi, per rimanere nei dintorni frequentati da Danto, a Langer e al suo “principio di<br />

simbolizzazione”; ma il termine “feeling” da lei tematizzato si prestava a rafforzare il legame<br />

arte-sensi-sentimento. È successo a me che l’ho incontrata ai tempi della mia tesi di laurea.<br />

“Forma significante” deve avermi colpito se, leggendone la derisione di Danto, è a Langer<br />

che ho pensato. Devo a Danto, che avendomi risposto “No Langer, Clive Bell”, se mi sono<br />

sentita come costretta a riprendere in mano Susanne Langer: un vero piacere rileggerla. E<br />

l’ho invidiato per averla avuta come maestra e amica.<br />

4<br />

Goodman (1968: 206) sostenendo che «l’esperienza estetica e scientifica hanno un carattere<br />

fondamentalmente cognitivo» giustamente non prevedeva che la distinzione tra arte<br />

e scienza, fondata su processi psichici diversi, potesse essere rimossa facilmente. Purtroppo,<br />

diversamente da Dewey (1934: 94), ha inteso il cognitivo in un modo molto poco appropriato<br />

al «pensare direttamente in termine di colori, suoni, immagini», il che, come Dewey non ha<br />

mancato di argomentare, «è un’operazione tecnicamente differente dal pensare in parole».<br />

5<br />

«La differenza tra l’estetico e l’intellettuale è così una differenza relativa al luogo in<br />

cui cade l’accento nel ritmo costante che caratterizza l’interazione della creatura vivente con<br />

il suo ambiente circostante. La materia ultima di entrambi gli accenti nell’esperienza è la<br />

stessa, come è la stessa anche la loro forma generale. La strana idea per cui un artista non<br />

pensa e un ricercatore scientifico non fa che pensare deriva dal fatto di prendere una differenza<br />

di cadenza e di accento per una differenza di genere. Il pensatore ha il suo momento<br />

estetico quando le sue idee cessano di essere mere idee e diventano i significati incarnati di<br />

oggetti. L’artista ha i suoi problemi e pensa mentre è all’opera. Ma il suo pensiero prende<br />

corpo più immediatamente nell’oggetto. Vista la relativa lontananza del suo fine, chi opera<br />

scientificamente si serve di simboli, parole e segni matematici. L’artista svolge il proprio pensiero<br />

negli stessi media qualitativi in cui lavora, e i termini si trovano così vicini all’oggetto<br />

che sta producendo che si fondono direttamente in esso», Dewey 1934: 42.<br />

6<br />

In psicologia non tutti ritengono che la percezione faccia parte del cognitivo e del mentale.<br />

Spesso “mente” è usato come sinonimo di “intelletto” o di “intelligenza” o di “pensiero”.<br />

7<br />

Cfr. Pizzo Russo 2005b.<br />

8<br />

Cfr. Pizzo Russo 1991. Nel lavoro metto a confronto Jean Piaget e Rudolph Arnheim.<br />

Il primo è assunto come rappresentativo di una psicologia che, sebbene abbia sperimentato<br />

e teorizzato prendendo a riferimento la scienza, è considerata “psicologia generale”. La psicologia<br />

di Arnheim, che fa sì esplicito riferimento all’arte, ma tiene presenti sia l’arte che la<br />

scienza e le differenzia entrambe dall’esperienza, è invece considerata psicologia dell’arte e<br />

per di più “psicologia applicata”.<br />

9<br />

Sebbene, come dice Danto (1981: 212), «la potenza [dell’opera] è qualcosa che deve<br />

essere sentito».<br />

10<br />

Langer 1953: 31.<br />

11<br />

Danto, Fondazione Merz, Torino, 3 ottobre 2007.<br />

12<br />

Hegel 1836-38: 71.<br />

13<br />

Dewey 1934: 82, corsivo mio.<br />

14<br />

Danto 2003: 26.<br />

230


15<br />

Danto 1986: 36, corsivo mio. Il termine “estetico/a”, sia come aggettivo che come sostantivo,<br />

ha per Danto valenze negative. Come disciplina l’estetica è ritenuta incapace di cogliere il<br />

proprio dell’arte, in quanto si sarebbe “fissata” sulla bellezza e sulle proprietà sensibili, quando<br />

invece l’essenza dell’arte risiede nel significato. L’estetica «come forma di esperienza vissuta»<br />

sarebbe stata centrale nell’espressionismo astratto, «centrale al suo essere arte» (Danto 2003:<br />

26). Proprio perché l’“essenza” dell’arte (il significato) non è nella sua apparenza, il termine<br />

diventa sinonimo di percettivo e l’“apprezzamento”, più spesso che no, lo ritiene dovuto o/e<br />

appropriato per l’oggetto comune e non per l’oggetto artistico. Se con Tatarkiewicz (1975:<br />

33) consideriamo che i concetti di quest’ambito di ricerca – «il bello, la creatività, l’estetica,<br />

l’arte, la forma […] fanno parte dei domini più generali e duraturi del pensiero umano» – non<br />

solo sono polisemici e di significato “mutevole”, ma vanno compresi nella relazione con i loro<br />

opposti e nei loro fitti intrecci, ci si rende conto di quanto sia riduttivo il modo in cui Danto<br />

considera l’estetica e l’estetico.<br />

16<br />

Fermo restando che si può pensare a occhi chiusi – e più in generale privi di afferenze<br />

sensoriali, ma per poco come dimostrano le ricerche sulla deprivazione sensoriale – il “puro<br />

intelletto” e la “pura sensazione” sono semplici astrazioni teoriche, e non si danno mai separate<br />

nell’effettivo percepire e pensare.<br />

17<br />

«Nel 1945 Danto intraprende studi di pittura e storia alla Wayne State University in<br />

Detroit con l’obiettivo di diventare artista. Dal 1948 studia poi filosofia alla Columbia University<br />

di New York insieme al famoso filosofo della scienza Ernest Nagel; suoi compagni<br />

di corso sono Norwood Russell Hanson, Patrick Suppes e Marx Wartofsky. Verrà profondamente<br />

colpito da Suzanne K. Langer, succeduta alla cattedra di Ernst Cassirer. Constatando<br />

però che l’arte di un Jackson Pollock, che Danto conosce grazie a un articolo sulla rivista<br />

Life, non gioca alcun ruolo nell’estetica accademica, rimane deluso dall’insegnamento e in un<br />

primo tempo se ne distanzia per dedicarsi principalmente allo studio di questioni di teoria<br />

della scienza», Koppelberg 2007: 241.<br />

18<br />

Non nel senso berkeleyano in cui lo assume Danto (1981: 152), che, identificando<br />

l’arte con l’esse est interpretari, si dice realista a proposito degli oggetti e idealista a proposito<br />

<strong>delle</strong> opere d’arte.<br />

19<br />

Non del Kant della prima Critica – dove significativamente si affronta la questione<br />

<strong>delle</strong> condizioni di possibilità della scienza («Com’è possibile una matematica pura? Com’è<br />

possibile una fisica pura?», 1787 2 : 55) – ma della terza Critica e dell’Antropologia.<br />

20<br />

«Credo che l’idea di significato incorporato rimandi a qualcosa che ho imparato dalla<br />

mia maestra Susanne K. Langer, che nel suo libro migliore, Philosophy in a New Key, ha<br />

tracciato una distinzione tra ciò che definiva come forme discorsive e ciò che definiva come<br />

forme presentazionali: le opere d’arte presentano i propri significati, laddove il significato di un<br />

frammento di descrizione risiede al suo esterno», Danto 2008: 18. Per la Langer il significato<br />

artistico è estetico: è «la perfezione della forma che rende la forma stessa significante nel<br />

senso artistico» (1956 3 : 271). Perciò «la “forma significante” (che ha realmente significanza) è<br />

l’essenza di ogni arte» (1953: 40). Peraltro Langer, che trova le ricerche e la posizione teorica<br />

dei padri fondatori della Gestalt tali da rivoluzionare l’epistemologia, sostiene come loro che i<br />

sensi sono intelligenti. Se i gestaltisti non avessero ragione «non vedo come si possa chiudere<br />

e saldare lo iato tra percezione e concezione, organo di senso e organo della vita mentale,<br />

stimolo caotico e forma logica. Una mente che opera principalmente con significati deve avere<br />

organi che la riforniscano, in via primaria di forme. […] Le astrazioni fatte dall’orecchio e<br />

dall’occhio – le forme della percezione diretta – […] sono veri materiali simbolici, mezzi<br />

della comprensione […]. Le forme visive [sono] capaci di articolazione, cioè di combinazione<br />

complessa, quanto le parole […]. La differenza più radicale è che le forme visive non sono<br />

discorsive: […] una teoria del fatto mentale confinata al linguaggio la estromette dal dominio<br />

dell’intellezione e dalla sfera della conoscenza. Ma il simbolismo fornito dalle prese di<br />

contatto puramente sensoriale come forme è un simbolismo non discorsivo, particolarmente<br />

ben adattato all’espressione di idee che sfidano la “proiezione” linguistica; la sua funzione<br />

primaria […] è tale che non può essere sostituita da alcun pensiero nato dal linguaggio»<br />

(1956 3 : 126-130). Vedremo che per Danto non è così.<br />

21<br />

Danto 2008: 16.<br />

22<br />

Cfr. Pizzo Russo 1982.<br />

23<br />

Danto 1986: 36.<br />

24<br />

Danto 2003: 25.<br />

25<br />

Nella breve “Nota introduttiva della terza edizione” di Philosophy in a New Key (1956 3 :<br />

9): «il dominio dell’“estetica” (per usare l’infelice parola corrente)».<br />

231


26<br />

Danto 2003: 25.<br />

27<br />

Danto 2003: 22. Del resto qualche anno dopo dirà: «ho chiuso il libro con una nota<br />

scettica riguardo al fatto che l’arte abbia effettivamente bisogno di una qualità estetica» (Danto<br />

2007: 23).<br />

28<br />

Danto 1964: 12 e 17, corsivo mio. «È un uso di “è” che il bambino padroneggia già<br />

nell’asilo nido, quando indica la figura di un gatto e dice che è un gatto, e forse è padroneggiato<br />

anche dallo scimpanzé, quando nel laboratorio indica il segno “palla” quando gli viene<br />

mostrata una figura di una palla. Quest’uso, quando è autoconsapevole, implica una partecipazione<br />

al mondo dell’arte, una prontezza ad accettare una falsità letterale» (Danto 1981: 152).<br />

29<br />

Langer 1957: 160.<br />

30<br />

Pizzo Russo 1988.<br />

31<br />

Danto (1981: 154-158), che considera il bastone «un giocattolo universale», pur precisando<br />

che il bambino non fa finta che il suo bastone sia «una macchia blu» o «uno starnuto<br />

trattenuto», non ne tiene conto per la teoria. Individuando i limiti dell’interpretazione nei<br />

limiti <strong>delle</strong> conoscenze possedute, ci dice che il bambino deve sapere qualcosa dei cavalli,<br />

ma questo “qualcosa” parrebbe svincolato dall’analogia strutturale tra cavallo e bastone che<br />

il bambino deve avere ravvisato per trattare il secondo come equivalente del primo.<br />

32<br />

Danto 1964: 19, corsivo mio. Come «l’asserzione di Moore, “Questa mano esiste”, non è<br />

affatto un’asserzione “di senso comune”». Testadura, che in questo caso è l’uomo della strada,<br />

«non ha mai pensato una cosa simile e, se gliela proponessimo, direbbe che è un’assurdità»<br />

(Danto 1981: 163).<br />

33<br />

Danto 1964: 19. Cfr. anche Danto 1981: 162, dove si assume la responsabilità del confronto<br />

(«Mi piace pensare al ritorno alla pittura come arte come un’impresa di sapore buddista»)<br />

e fa due importanti precisazioni. La prima quando ricorda l’opposizione tra il mondo del<br />

Samsara e il Nirvana: «e noi veniamo istruiti a vedere quel mondo come qualcosa che deve<br />

essere negato». La seconda che nell’insegnamento di Ch’ing Yuan l’opposizione viene meno:<br />

«il mondo non deve essere negato a favore di un mondo più alto, ma deve invece arricchirsi<br />

<strong>delle</strong> qualità del mondo più alto»: i confini del Nirvana sono i confini del Samsara.<br />

34<br />

Arnheim 1986: 269.<br />

35<br />

Arnheim 1986: 268.<br />

36<br />

Duchamp 1994 2 : 148-149.<br />

37<br />

I termini sono di Kosuth 1969-1987.<br />

38<br />

Danto 1986: 212.<br />

39<br />

Kosuth 1969-1987, rispettivamente: 20, 25, 91 e 20.<br />

40<br />

«La realtà in cui viviamo è fatta di immagini. In questo senso, il ruolo dell’arte non è<br />

più quello di produrre immagini» (Kosuth 1997: 124).<br />

41<br />

Calvino 1988: 92.<br />

42<br />

Danto 1986: 203.<br />

43<br />

Duchamp 1994 2 : 151.<br />

44<br />

Cfr. Danto 1981: 24-25. Cfr. anche Danto 1996: 108, dove Duchamp è considerato «il<br />

pensatore più significativo» del mondo dell’arte. Corsivo mio.<br />

45<br />

Duchamp 1994 2 : 200-201. L’ultima frase non è presente nella traduzione italiana, e il<br />

resto è leggermente modificato. Per Duchamp, lettore di Max Stirner, l’artista deve sviluppare<br />

se stesso, la propria “unicità”. L’artista, che «si trova faccia a faccia con un mondo basato su<br />

un brutale materialismo dove tutto viene svalutato in funzione del benessere materiale e<br />

in cui la religione, avendo perso molto terreno, non è più la grande dispensatrice di valori<br />

spirituali», viene considerato «uno strano serbatoio di valori paraspirituali in assoluta opposizione<br />

con il funzionalismo quotidiano per cui la scienza riceve l’omaggio di una cieca<br />

ammirazione». La scienza, che «trascina l’individuo sempre più lontano dalla ricerca del proprio<br />

io interiore […] ci conduce all’importante preoccupazione dell’artista d’oggi che consiste,<br />

a mio avviso, nell’informarsi e nel tenersi al corrente del sedicente “progresso materiale<br />

quotidiano”. Dotato di una formazione universitaria, […] possiederà gli strumenti adeguati<br />

per opporsi a questo stato di cose materialistico attraverso il canale del culto dell’io in una<br />

cornice di valori spirituali. […] Credo che oggi più che mai l’artista abbia questa missione<br />

parareligiosa da compiere: tenere accesa la fiamma viva di una visione interiore di cui l’opera<br />

d’arte sembra essere la traduzione più fedele per il profano» (ivi: 201-203).<br />

46<br />

Cfr. Arnheim 1989a; Pizzo Russo 2006c.<br />

47<br />

Richter 1964: 107.<br />

48<br />

In occasione della mostra antologica dedicata all’artista dal museo Pecci nel 2005<br />

(cfr. il Catalogo, Robert Morris: Blind Time Drawings, 1973-2000, Steidl e Centro per l’Arte<br />

232


Contemporanea Pecci 2005, con testi di J.-P. Criqui, D. Davidson, R. Morris) i quotidiani e<br />

i settimanali non hanno mancato di riportare i Blind Time Drawings, al rifiuto del retinico di<br />

Duchamp. E, ricordando l’essere “soltanto un occhio” di Monet – ma che occhio! – ignari<br />

che ormai per la fisiologia è «più corretto dire: “Monet dipingeva col cervello, ma Dio, che<br />

cervello!”» (Zeki 1999: 242), non hanno mancato di informarci che anche Matisse, Mirò,<br />

Twombly, de Kooning, si sarebbero cimentati in questa nobile e creativa attività. Morris,<br />

però, avrebbe raggiunto “risultati inediti e originali rispetto agli illustri colleghi”. Davidson<br />

si chiede: «Cosa ci faccio qui? Cosa significano le citazioni tratte dalla mia opera in questi<br />

dipinti misteriosamente esplosivi di Robert Morris, eseguiti a occhi chiusi?». L’operazione è<br />

da intendere nel senso dell’After Philosophy o della Post-Analytic Philosophy? E a chiusura<br />

si/ci tranquillizza: «Azzardo la risposta: amplia lo sfondo sul quale incontriamo le “azioni”<br />

di Morris. Le intenzioni di Morris, esplicite e scritte, e i suoi bersagli visivi, forniscono già<br />

lo spazio concettuale e fisico entro il quale l’osservatore, assieme all’opera e al suo creatore,<br />

si trovano. Ma queste coordinate sono particolari in grado elevato. Oltre il particolare, la<br />

totalità dei nostri pensieri e <strong>delle</strong> nostre azioni avvengono entro, e traggono il loro significato<br />

da, un vasto sistema di assunzioni e idee ampiamente condivise. Forse citare dai miei scritti,<br />

che vertono sulla natura del pensiero e dell’azione, allude a questa tela più grande». Il suo<br />

saggio, tradotto in italiano – Il terzo uomo –, si trova all’indirizzo http://www.xlibro.com/<br />

museo1/03.pdf. Cfr. anche http://www.xlibro.com/site-morris.htm.<br />

49<br />

Fermo restando che la scienza è una cosa e l’arte è un’altra, la differenza tra le due<br />

“forme simboliche” non è spiegabile con le diverse funzioni psichiche – scienza-ragione/arteemozione<br />

– per il semplice fatto che a fare arte e scienza sono gli esseri umani e gli esseri<br />

umani non funzionano solo percettivamente o solo intellettualmente, o solo emotivamente.<br />

Come sostiene Arnheim (1989a: 72) – critico nei confronti della convinzione che l’attività<br />

artistica sia più emotiva «di quella di risolvere un problema matematico» – «ogni atto umano<br />

di una certa complessità – sia la soluzione di un puzzle, una scoperta astronomica, o una<br />

transazione commerciale – comprende tutte e tre le componenti»: «un atto cognitivo, uno<br />

sforzo motivazionale determinato dalla cognizione e un eccitamento causato da entrambi».<br />

50<br />

Si tenga presente che per Duchamp (1994 2 : 160) «solo attraverso l’arte l’uomo è in<br />

grado di superare lo stadio animale».<br />

51<br />

Duchamp 1994 2 : 89. La traduzione da me utilizzata è quella di Shattuck (1960: 127).<br />

Dopo la citazione di Duchamp, Shattuck continua: «Egli ci provò; noi non glielo abbiamo<br />

permesso». Il pensiero di Duchamp è del 1913, che è anche la data del primo ready-made:<br />

la ruota di bicicletta fissata su uno sgabello. La coincidenza non mi pare priva di significato.<br />

Come non mi appare senza significato il paradosso con cui si chiude il breve intervento A<br />

proposito del Readymade tenuto al MoMA nel 1961 (1975-1995: 166, traduzione leggermente<br />

modificata): «Poiché i tubetti di pittura utilizzati dall’artista sono prodotti manufatti e già<br />

pronti, dobbiamo concludere che tutte le tele del mondo sono fatte con l’ausilio di readymade».<br />

Siamo in un «circolus viciosus», ci dice Richter, a meno che, come lui, non seguiamo<br />

Duchamp fino in fondo: se un’opera è un ready-made non è un opera d’arte, e viceversa.<br />

«Queste opere [i ready-made], come egli sempre tiene a sottolineare, non sono opere d’arte,<br />

bensì opere che esistono al di fuori dell’arte, risultati di un’esperienza concettuale e non<br />

sensibile» (Richter 1964: 110 e 114).<br />

52<br />

Faccio mia la precisazione di Danto (1986a: 49): «non si respingono le cose dalle esposizioni<br />

d’arte, le si escludono», mentre lo Hanging Committee of the Indipendent Exhibition<br />

la respinse.<br />

53<br />

A decretarlo è stata la giuria del “Turner Prize” nel 2004.<br />

54<br />

«Duchamp dichiarò che una pala da neve era un’opera d’arte, e così fu», Danto 1981:<br />

6. “Arte” diventa nome di battesimo.<br />

55<br />

Danto 1986: 212.<br />

56<br />

Mi pare significativo il seguente pensiero di Picabia (http://web.tiscali.it/nouveaurealisme/)<br />

in occasione del suo soggiorno a New York nel 1915: «Questa visita all’America […]<br />

ha prodotto una radicale rivoluzione nel mio modo di lavorare […] d’un lampo ho compreso<br />

che lo spirito del mondo moderno è racchiuso nelle macchine e che attraverso le macchine<br />

l’arte avrebbe trovato la sua espressione più viva».<br />

57<br />

«Il più conosciuto critico kantiano del nostro tempo» (Danto 1996: 108).<br />

58<br />

Lo evidenzia anche Danto (1986: 200 e 202), ma per sostenere che «la distinzione<br />

tra opere d’arte e altre cose non pertiene alla scienza» – non è «identificabile sulla base di<br />

criteri percettivi» – bensí alla filosofia. Sull’educazione universitaria dell’artista in America,<br />

cfr. Rosenberg 1970.<br />

233


59<br />

In realtà l’incontro col “tavolo”, come Danto (1986: 7-8) ci racconta, è successivo a<br />

The Artworld: «Un giorno, a un’esposizione d’arte concettuale presso il New York Cultural<br />

Center, mi capitò di vedere un’opera costituita da un normale tavolo con sopra alcuni libri di<br />

filosofi analitici quali Wittgenstein e Carnap, Ayer e Reichenbach, Tarski e Russell. Riducibile<br />

nella sua anonimità, a una semplice superficie da lavoro, avrebbe potuto trattarsi d’un tavolo<br />

del mio studio, gli stessi libri erano del genere da me spesso consultato nell’ambito del lavoro<br />

filosofico che stavo facendo». L’opera considerata da lui “metafora” del nuovo rapporto tra<br />

arte e filosofia – ovvero del fatto che «sembrava quasi che la filosofia facesse ora parte del<br />

mondo artistico» – è certo successiva al 1964, ma non lo sono le condizioni culturali – in<br />

primo luogo la formazione di quegli artisti che negli anni settanta “ammiccano” alla filosofia<br />

analitica – che la resero possibile.<br />

60<br />

Di «Nominalismo pitturale» parla Duchamp intorno al 1914 (1994 2 : 94), e, anche se il<br />

conio linguistico non è diventato popolare come “ready-made”, ha, forse più di quest’ultimo,<br />

inciso nelle pratiche artistiche del Novecento.<br />

61<br />

Duchamp 1994 2 : 160. Il “troppo secco, troppo svuotato d’espressione” dell’intelletto<br />

ricorda «l’arida astrattezza del concetto, […] la sua spettrale astrazione» di Hegel (1836-38:<br />

11).<br />

62<br />

Danto 2003: 114.<br />

63<br />

Danto (2003: 27) nel tempo ha modificato la sua posizione fino ad ammettere che se<br />

la Brillo Box ha funzionato da “fulcrum” per la sua filosofia dell’arte lo si deve alla strategia<br />

estetica di James Harvey. Significativamente, però, ai fini della definizione dell’arte continua a<br />

non considerare le qualità percettive, giudica le differenze percettive tra la scatola di Harvey<br />

e la scatola di Warhol «troppo frivole» e, sebbene anche Harvey sia un artista, continua a<br />

considerare opera d’arte solo quella di Warhol. Un modo tutto italiano di rapportarsi alla<br />

Brillo Box è quello di inventarsi un referente diverso: «scatole di lucido da scarpa» (Vettese<br />

2005: 18). E poiché “soap pads” è in bella vista, la “svista” è indicativa di come ci si possa<br />

rapportare all’opera senza guardarla.<br />

64<br />

Il commento è di Goethe: «Per il fatto che a qualcuno che ragionava abbastanza male<br />

è venuto in mente che certe occupazioni e piaceri dell’umanità – che per stentati imitatori<br />

senza genio erano lavoro e pena – si possono classificare, con un gioco di prestigio teoretico,<br />

sotto la rubrica “arti”, “belle arti”, ciò è poi rimasto come un filo conduttore per la filosofia,<br />

ma solo per comodità, poiché esse in realtà non hanno più affinità tra loro di quanto non ne<br />

avessero le sette arti liberali della vecchia scuola dei preti», cit. in Kristeller 1951-1952: 72.<br />

65<br />

Danto 1981: xxv. Retrospettivamente (Danto 1986: 164), attribuirà la “scoperta” della<br />

indiscernibilità percettiva a Duchamp.<br />

66<br />

Come osserva Warburton (2003: 110), «un simile approccio alla questione dell’arte è<br />

sostenibile solo se si ritiene che “arte” sia un termine neutro, privo di connessioni morali<br />

o comunque valutative. Ma se si crede che chiamare qualcosa “arte” implichi che l’oggetto<br />

abbia un valore e forse appartenga a un genere che lo distingue da oggetti più mondani, allora<br />

assumere le pratiche del mondo dell’arte come punto di partenza costituisce una strategia<br />

rischiosa. È come indagare il significato di “giustizia” esaminando il modo in cui culture<br />

differenti (compresa la Germania nazista) hanno usato il termine in questione e cercando<br />

qualche essenza comune che spieghi questo uso».<br />

67<br />

Danto 1981: xxiv. Per Hans Richter (1964: 251-253), che da giovane fu dadaista, col<br />

neo-dada «dalla ribellione senza condizioni siamo passati a un adattamento senza condizione<br />

[…]. Osservati esteriormente, e non del tutto a torto, questi nuovi pop si sono scelti Marcel<br />

Duchamp come santo e patrono protettore e lo hanno posto in una nicchia. Duchamp si è<br />

affrettato però a uscirne: in una lettera del 10 novembre mi scrive: “Questo neo-dada, che ora<br />

prende il nome di nuovo realismo, ora di Pop-Art, ora di assemblage ecc. è un divertimento<br />

da quattro soldi e vive di quello che ha fatto il Dada. Quando io scoprii i ready-made pensavo<br />

di eliminare tutto il vecchiume estetico. Nel neo-dada essi invece hanno utilizzato i readymade<br />

per scoprirvi un “valore estetico”. Gettai loro in faccia l’asciuga-bottiglie e l’orinatoio<br />

per sfidarli e adesso essi lo ammirano perché esteticamente è bello!». Insomma per i dadaisti<br />

storici il neo è un’azione di retroguardia che camuffa un vuoto culturale.<br />

68<br />

Se «sono i guardatori che fanno il quadro» (Duchamp 1994 2 : 206), non sono loro<br />

a “fare l’arte”, cioè a decidere che il quadro è arte.<br />

69<br />

Ivi: 159, corsivo mio.<br />

70<br />

Ivi: 163.<br />

71<br />

Ivi: 159.<br />

72<br />

Ivi: 149.<br />

234


73<br />

Il termine è di Rosenberg 1970. Danto (1992: 4) usa “dismantling”: «La storia del<br />

Modernismo, che inizia verso il 1880, è la storia dello smantellamento del concetto di arte».<br />

74<br />

Mi pare utile ricordare che nella Prefazione alla prima edizione (1790: 3-4) Kant, nel<br />

considerare «le facoltà nel loro complesso, secondo la parte che ciascuna facoltà pretenderebbe<br />

di avere, rispetto alle altre», mette in evidenza che i principî regolativi servono «in<br />

parte per contenere le pretese preoccupanti dell’intelletto, […] in parte per guidare lo stesso<br />

intelletto nella considerazione della natura secondo un principio di completezza».<br />

75<br />

Duchamp 1994 2 : 151.<br />

76<br />

Sull’arte animale cfr. Pizzo Russo, 2006b.<br />

77<br />

Danto 1981: xxvii.<br />

78<br />

Mink 1995: 7. E Achille Bonito Oliva, che pure rileva che «il silenzio di Marcel Duchamp<br />

è divenuto uno dei proverbi dell’arte contemporanea, un luogo comune sostenuto e<br />

rafforzato dall’ironico depistamento provocato dall’artista dopo il Grande Vetro», intitola Il<br />

mercante del silenzio l’introduzione alla traduzione italiana di Marchand du Sel. In realtà, «Il<br />

silenzio di Marcel Duchamp è sopravvalutato», Clair 1975: 15. La frase di Duchamp è riportata<br />

da Richter 1964: 108.<br />

79<br />

Danto 1992: 28. Morelli, da parte sua, rifiutava l’estetica e riteneva bastasse affidarsi<br />

all’occhio: «il conoscitore rappresenta per molti versi l’antitesi del critico-filosofo. Se infatti<br />

cerchiamo di identificare le caratteristiche che individuano il tipo del conoscitore, incontriamo<br />

subito la diffidenza […] verso l’estetica. Proprio il padre della moderna connoisseurship,<br />

Giovanni Morelli, è in questo senso paradigmatico […]: per capire l’arte non serve “avere il<br />

cranio fornito da protuberanze filosofiche”, ma intuizione, occhi buoni, e tanta esperienza.<br />

[…] A questo empirista, che vuol vedere soltanto con gli occhi, l’arte diventa inevitabilmente<br />

un oggetto metafisico», D’Angelo 2006: 22-23. Mi piacerebbe sapere se la battuta di Danto è<br />

da riportare a un modo di dire o a come Morelli ha inteso la sua tecnica.<br />

80<br />

«La mano dello scimpanzé è quasi umana, quella di Jackson Pollock è totalmente<br />

animale!». La battuta di Dalì è riportata da Morris (1979: 189) che è stato il primo artista a<br />

introdurre l’animale nel mondo dell’arte. Cfr. Morris 1962.<br />

81<br />

Duchamp 1994 2 : 203.<br />

82<br />

«Vitaly Komar e Alexander Melamid mi raccontavano di aver scoperto la pop art guardando<br />

le illustrazioni a mezzatinta in varie riviste che circolavano clandestinamente nell’Unione<br />

Sovietica, e si appropriarono <strong>delle</strong> sue strategie per i loro scopi sovversivi con il movimento<br />

chiamato “sots art”», Danto 2003: 28.<br />

83<br />

Duchamp 1994 2 : 166. Per Danto (2003: 32), viceversa, avrebbe inteso «esemplificare<br />

la più radicale dissociazione dell’estetica dall’arte». Se così fosse non si capirebbe il seguente<br />

passo di Restany (Les Nouveaux Réalistes, 1960, http://web.tiscali.it/nouveaurealisme/): «Nel<br />

contesto attuale, i ready-made di Marcel Duchamp […] assumono un senso nuovo. Traducono<br />

il diritto all’espressione diretta di tutto un settore organico dell’attività moderna, quello<br />

della città, della strada, della fabbrica, della produzione di serie. Questo battesimo artistico<br />

dell’oggetto d’uso costituisce ormai il “fatto dada” per eccellenza. Dopo il no e lo zero, ecco<br />

una terza posizione del mito: il gesto anti-arte di Marcel Duchamp si carica di positività.<br />

Lo spirito dada si identifica con un modo d’appropriazione della realtà esterna del mondo<br />

moderno. Il ready-made non è più il colmo della negatività o della polemica ma l’elemento<br />

base di un nuovo repertorio espressivo. Questo è il nouveau réalisme: un modo piuttosto<br />

diretto di mettere i piedi per terra, ma a quaranta gradi sopra lo zero dada e a quel livello<br />

in cui l’uomo, se giunge a reintegrarsi nel reale, lo identifica con la sua trascendenza che è<br />

emozione, sentimento e infine poesia».<br />

84<br />

Danto 1981: 69.<br />

85<br />

Danto 2003: 40: «Una definizione filosofica plausibile dovrà essere compatibile con<br />

qualsiasi arte ci sarà».<br />

86<br />

Danto 2007: 23.<br />

87<br />

Danto 1981: xxv, corsivo mio.<br />

88<br />

Danto 1981: 146.<br />

89<br />

Fodor (1983: 78) consapevole di proporre un insieme anomalo – il linguaggio assieme<br />

alla percezione – precisa che «se consideriamo questa risposta dal punto di vista tradizionale<br />

di ritagliare le cose, si tratta di una categoria singolare. Le tassonomie tradizionali procedono<br />

infatti più o meno così: percezione (visione, udito, o quel che sia) da una parte, e pensieroe-linguaggio<br />

(i processi rappresentativi) dall’altra».<br />

90<br />

Danto 1986: 63.<br />

91<br />

Danto 1964: 13.<br />

235


92<br />

Danto 1981: 123, corsivo mio.<br />

93<br />

Danto 1964: 15-16. Qui gli artisti J e K vengono chiamati A e B. «Potremmo chiarire<br />

queste qualificazioni preposizionali immaginando sezioni trasversali perpendicolari al piano<br />

del dipinto», (ivi: 16, corsivo mio).<br />

94<br />

Andina 2008.<br />

95<br />

Durante una conferenza tenuta a Milano (1995: 93), Danto, sebbene affermi che «è<br />

difficile capire quale informazione voglia comunicare Bidlo con questo lavoro», nondimeno,<br />

sostiene «che se le Brillo Boxes di Warhol sono un’opera di filosofia pura, le Brillo Boxes di<br />

Bidlo sono un’opera di filosofia applicata».<br />

96<br />

Arnheim 1969: 54.<br />

97<br />

Danto 1981: xxv, i corsivi, tranne «quale che fosse», sono miei.<br />

98<br />

Sacks 1985.<br />

99<br />

Va tenuto presente che «l’organismo, sulle cui esigenze la visione è modellata, è naturalmente<br />

più interessato ai mutamenti che all’immobilità. Quando qualcosa appare o scompare,<br />

o si muove da un luogo all’altro, o muta forma o dimensione o colore o luminosità, la<br />

persona o l’animale che osserva sente alterarsi la propria stessa condizione: un nemico che<br />

si accosta, un’opportunità che sfugge, un’esigenza cui adempiere, un segnale cui obbedire. Il<br />

più primitivo organo della vista, il punto o fibra nervosa sensibile alla luce di un mollusco o<br />

di un cirripede, limiterà l’informazione ai mutamenti di luminosità, consentendo così all’animale<br />

di ritrarsi dentro la propria conchiglia non appena un’ombra interrompe la luce solare.<br />

Contemplare le parti immobili dell’ambiente è qualcosa che si accosta a un vero e proprio<br />

lusso» (Arnheim 1969: 27).<br />

100<br />

Arnheim 1989b: 298.<br />

101<br />

Mach 1886: 113.<br />

102<br />

Arnheim 1974 2 : 95.<br />

103<br />

Piaget 1970: 70.<br />

104<br />

Il termine lo si deve a J. Gibson (1979), ma il fondamento teorico dell’ottica naturale<br />

è gestaltista. W. Köhler fin dal 1913 (p. 94) ha criticato la supposizione che «la geometria<br />

euclidea vale per lo spazio visivo bidimensionale».<br />

105<br />

Duchamp 1994 2 : 165.<br />

106<br />

«Penso che l’intenzione di Duchamp non fosse tanto quella di far sì che gli orinatoi<br />

venissero classificati come fontane, il che avrebbe trasformato il titolo in etichetta, bensì quella<br />

di lasciare intatte le sue connotazioni di congegno utilizzato da una società civile per eliminare<br />

la dilatazione cistica e di investirlo metaforicamente degli attributi <strong>delle</strong> fontane come esempi<br />

di architettura scultorea», Danto 1986: 75.<br />

107<br />

Danto quando discute della metafora (1981, capitoli 6 e 7) tiene conto di questi fatti.<br />

Così per “Napoleone-come-imperatore-romano” o per Portrait of Madame Cézanne di Lichtenstein,<br />

sebbene non qualifichi come visivo il sapere necessario a comprenderle.<br />

108<br />

Danto 1986: 68-69.<br />

109<br />

Trovo significativo che tutti i suoi ready-made siano posteriori alla visita fatta nel<br />

1912, con Constantin Brâncusi e Fernand Léger al Salone Aeronautico allestito nel Grand<br />

Palais di Parigi. «È finita la pittura. Chi potrebbe far meglio di quest’elica? Di’, puoi far<br />

questo?», chiese Duchamp a Brâncusi (Duchamp 1994 2 : 207, traduzione un po’ modificata).<br />

Jiménez (2003: 179-180), che giustamente dà molta importanza alla domanda, considera Duchamp<br />

il primo artista che diviene consapevole dell’impatto della tecnologia sull’arte. La<br />

consapevolezza lo porta a «un nuovo modo di guardare gli oggetti prodotti dalla tecnica,<br />

quelli già confezionati, i ready-made […]. È un nuovo modo di guardare attraverso il quale,<br />

cercando di evitare il sentimentalismo e la nostalgia (“bellezza d’indifferenza”), si esprime<br />

la consapevolezza della contrazione dello spazio tradizionale dell’arte». Jiménez, piuttosto che<br />

l’autoconsapevolezza filosofica – Hegel non poteva «prevedere l’autentico fattore corrosivo<br />

dell’arte» – ritiene determinante lo «sviluppo della tecnica moderna. Dal momento in cui<br />

la vecchia produzione artigianale veniva sostituita dalla tecnologia, l’arte andò progressivamente<br />

perdendo il predominio spirituale e l’esclusività come lavoro intellettuale nel sistema<br />

di produzione» (ibidem).<br />

110<br />

Danto 1986: 70 e 68 per la citazione tra parentesi quadre. In L’abuso della bellezza<br />

(2003: 31-32) è Walter Arensberg, “esteticamente sensibile”, a ritenere la bellezza «interna<br />

all’opera», mentre per Danto rimane fermo che pertiene all’orinatoio.<br />

111<br />

Proprio perché il corpo è quello dell’orinatoio può sostenere che distinguere tra Fountain<br />

e l’orinatoio «non è così diverso dal distinguere tra una persona e il suo corpo», Danto<br />

2003: 34.<br />

236


112<br />

«È proprio ciò che costituisce la cosa reale, quale che sia, che abbiamo proposto di<br />

sottrarre dall’opera d’arte per vedere quale possa essere il resto, supponendo che proprio in<br />

quel resto risieda la sua essenza. È come se l’opera d’arte, in ogni singola occorrenza, fosse<br />

un’entità complessa, dotata di una parte propria e facilmente interscambiabile, come per esempio<br />

il quadrato rosso: nelle serie dei nostri esempi è quasi come se più anime condividessero<br />

il medesimo corpo» (Danto 1981: 123).<br />

113<br />

Danto 1986: 73, 72, 67.<br />

114<br />

Danto 1981: 69; Danto 1986: 191.<br />

115<br />

Danto 1986: 185.<br />

116<br />

Danto 1986: 186-187. Cfr. anche Danto 1981: 172-180.<br />

117<br />

Danto 2007: 15. Cfr. anche la Prefazione all’edizione italiana (1986: 30): «la mia proposta<br />

– e cioè che le opere d’arte siano significati incarnati – ha di fatto alcune affinità con<br />

la risposta di Kant, secondo la quale l’arte presenta quelle che Kant chiamava idee estetiche».<br />

Sebbene per Kant, come ci dice Hegel (1836-38: 83), «il pensiero è incarnato nel bello artistico»,<br />

la concordanza terminologia non rinvia allo stesso contenuto concettuale.<br />

118<br />

Hegel 1836-38: 10. Cfr. Danto 2003: 111.<br />

119<br />

Danto 2003: 110-111. «Il problema con l’arte, come Hegel lo intese, risiede nella sua<br />

inestirpabile dipendenza dalla rappresentazione sensibile» (ivi: 75: nella traduzione italiana<br />

manca “ineradicable”).<br />

120<br />

Hegel, 1836-38, rispettivamente: 14, 141, 54, 14, 820-821 e 55. Per le citazioni tra<br />

parentesi: 370. Per Hegel (p. 173) «“senso” in effetti è quella mirabile parola» che usiamo per<br />

indicare «l’apprensione immediata» e il «significato». E mi piace ricordare che per Adorno<br />

(1970: 216) il senso è «l’idea, esposta in maniera immacolata, di una sensualità lontana dai<br />

sensi».<br />

121<br />

Danto 1986: 112; Hegel 1836-38: 16-17, 372, corsivo mio. Cfr. anche il corso del 1823.<br />

Sulla problematica della “morte dell’arte” (come nella letteratura in lingua italiana viene chiamata<br />

“la fine dell’arte”), cfr. l’antologia curata da Gambazzi e Scaramuzza 1997.<br />

122<br />

Hegel 1836-38: 108.<br />

123<br />

Danto 2003: 111-112, traduzione modificata relativamente a “generata e rigenerata<br />

dallo spirito” al posto di “nata dallo spirito e nata di nuovo”.<br />

124<br />

Batteux 1746: 63.<br />

125<br />

Hutcheson 1725: 30, 31, 47, corsivo mio. «Nella musica sembriamo riconoscere universalmente<br />

qualcosa con un senso distinto da quello esterno dell’udito, e lo chiamiamo buon<br />

orecchio [good ear] e probabilmente riconosceremmo la stessa distinzione nelle altre cose se<br />

avessimo nomi diversi per indicare questi poteri di percezione», (ivi: 30).<br />

126<br />

Santayana 1896: 198. Mi piace citare uno studioso a cui Danto si è ispirato: «volevo<br />

essere una sorta di architetto suo collega, con vedute ampie almeno quanto le sue, e con<br />

qualcosa del suo gusto per una prosa esteticamente consapevole» (Danto 2008: 17).<br />

127<br />

Danto 2003: 77. Sul concetto di gusto, sulla sua costruzione e decostruzione, cfr. Russo,<br />

a cura di, 2000.<br />

128<br />

Arnheim 1982: 14.<br />

129<br />

Hegel 1836-38: 56 e 71. Per “un oggetto più un significato”, Danto, Fondazione Merz,<br />

Torino, 3 ottobre 2007.<br />

130<br />

Danto 2003: 158 e 161.<br />

131<br />

Come apparirebbe “Dio che separa le acque dalla terra” di Michelangelo a un osservatore<br />

che non abbia mai visto un essere umano o che ignori la storia raffigurata? Cfr.<br />

Arnheim 2007: 152-155.<br />

132<br />

Danto 2003: 109-110, 114.<br />

133<br />

Danto 2003: 102. Il numero di pagina è quello dell’edizione inglese perché nella traduzione<br />

italiana manca la pagina a cui appartiene il passo riportato.<br />

134<br />

Danto 2003: 133, 135 e 136.<br />

135<br />

«La mia opinione è che l’eccellenza artistica sia legata a ciò che si suppone l’arte faccia,<br />

qualunque risultato voglia raggiungere» (Danto 2003: 127).<br />

136<br />

Danto 2003: 152.<br />

137<br />

Danto 2003: 117 e 119. Nella traduzione italiana al posto di “sentita” si usa “percepita”.<br />

138<br />

Danto 2003: 140. Con il corsivo evidenzio “flessore” che traduce l’inglese “flexor”,<br />

piuttosto che “inflector”.<br />

139<br />

Danto 2003: 158.<br />

140<br />

Fodor 1983.<br />

237


141<br />

Danto 1986: 204. La mano sta per rappresentare come l’occhio sta per vedere. Ancora<br />

una volta Danto ci dà una dicotomia troppo netta per rendere conto del reale funzionamento<br />

della mente. Rappresentare non è, come giustamente sostiene, percepire (2001a). Sulle responsabilità<br />

della psicologia a proposito della confusione cfr. Pizzo Russo, 2005a. Assumere da<br />

Gombrich il processo del making-and-matching (“il fare viene prima del confrontare”) – quasi<br />

la convinzione che chi «produce l’immagine brancola nel buio» (Arnheim 1966: 196) – preclude,<br />

però, la possibilità di tenere nel dovuto conto che nella rappresentazione lo sviluppo <strong>delle</strong><br />

abilità della mano si combina con lo sviluppo <strong>delle</strong> abilità dell’occhio, entrambe promosse<br />

dal loro esercizio.<br />

142<br />

Danto 1992: 17.<br />

143<br />

Danto 1992: 24. «La mia impressione al momento è che mi fiderei più di un piccione<br />

che del vostro membro standard del progetto Rembrandt su questioni di attribuzione.<br />

Scommetto che Il cavaliere polacco sarebbe restituito al canone Rembrandt se si consultassero<br />

i miei colleghi piccioni», (Danto 1992: 29).<br />

144<br />

Danto 1992: 16 e 28. Ma anche stili pittorici. Danto non è a conoscenza della ricerca<br />

di S. Watanabe, un ricercatore giapponese che ha addestrato due gruppi di piccioni, l’uno a<br />

beccare su riproduzioni di Picasso e l’altro di Monet. I piccioni mostrarono generalizzazioni<br />

non solo all’interno dei dipinti di Picasso o di Monet, ma pure dai picasso al cubismo o dai<br />

monet all’impressionismo, de Waal 2001: 128-129.<br />

145<br />

Kandinskij 1913: 157.<br />

146<br />

Diamond 1991: 214.<br />

147<br />

Danto 1992: 20.<br />

148<br />

Danto 1992: 25-26.<br />

149<br />

Danto 2001b: 118, 122.<br />

150<br />

Danto 2008: 12.<br />

151<br />

Hanson 1958: 24-30.<br />

152<br />

Kuhn 1970 2 : 140-141.<br />

153<br />

Köhler 1947 2 : 143.<br />

154<br />

La posizione maggioritaria vede nelle figure bistabili una «potente dimostrazione della<br />

natura interpretativa della visione», Palmer 2002 3 : 9.<br />

155<br />

«L’organizzazione sensoriale risulta un fatto primario che deriva dalla dinamica elementare<br />

del sistema nervoso: finché si considera l’organizzazione un’attività intellettuale, naturalmente<br />

non possiamo darci ragione della parte che essa svolge in biologia, in particolare<br />

nell’ontogenesi», Köhler 1947 2 : 155. Quanto alle figure bistabili, «un pattern visivo dato, se<br />

può dare origine a due diversi scheletri strutturali, può essere percepito come due oggetti<br />

totalmente diversi. […] Wittgenstein osservatore acuto, comprese che non si tratta di due<br />

interpretazioni diverse applicate a un solo percetto, ma di due percetti distinti», Arnheim<br />

1974 2 : 92. Un’interpretazione di Wittgenstein (cfr. Pizzo Russo, 2006a) opposta a quella corrente<br />

assunta anche da Danto (1992: 20).<br />

156<br />

Hanson 1958: 16.<br />

157<br />

«L’atto di vedere è, vorrei quasi dire, un amalgama fra i due piani: immagini e linguaggio.<br />

Il concetto di vedere abbraccia, quanto meno, i concetti di sensazione visiva e di<br />

conoscenza. […] Nel vedere c’è un fattore “linguistico”, anche se non c’è niente di linguistico<br />

nel meccanismo di formazione <strong>delle</strong> immagini nell’occhio, o nell’occhio della mente. Se non ci<br />

fosse questo elemento linguistico, niente di ciò che osserviamo potrebbe avere rilevanza per la<br />

nostra conoscenza. Non potremmo parlare di osservazioni significative: nulla di ciò che vediamo<br />

avrebbe un senso […]. Oggetti, fatti, immagini non sono intrinsecamente significanti o rilevanti.<br />

Se la visione fosse soltanto un processo ottico-chimico, nulla di ciò che vediamo sarebbe<br />

mai rilevante per ciò che sappiamo e nulla di ciò che sappiamo potrebbe avere significato<br />

per ciò che vediamo. La vita visiva sarebbe inintelligibile; la vita intellettuale sarebbe priva<br />

di un aspetto visivo. L’uomo sarebbe un computer cieco accoppiato a una lastra fotosensibile<br />

priva di cervello», Hanson 1958: 38-39. In nota Hanson riporta la posizione del Kant della<br />

prima Critica sulla cecità della sola intuizione e la vuotezza del solo intelletto. Ma per Kant il<br />

dato carico di teoria è valido per la fisica, non in generale. Hanson, viceversa, mette insieme<br />

percezione comune e percezione scientifica, percettore e percettore esperto in scienza.<br />

158<br />

Di “pensiero naturale” parla Metzger (1963 3 : 286) che, discutendo casi del vedere<br />

in cui l’organizzazione può cambiare, casi quindi strutturalmente simili a quelli del “vedere<br />

come”, ritiene vano chiedersi se «si tratta di percezione pura o di pensiero naturale. Effettivamente<br />

non esistono confini in questo campo».<br />

159<br />

Il New Look, la concezione demolita da Fodor, è quella assunta dagli epistemologi e<br />

238


anche da Ernest Gombrich (1962 2 ), che, non meno dei primi, può avere contribuito a determinare<br />

la posizione di Danto. Per Gombrich (1963: 234) persino il rapporto figura/sfondo<br />

è regolato dall’interpretazione: «ecco dunque il più semplice di tutti i casi in cui la nostra<br />

lettura dipende da una interpretazione iniziale. Tendiamo a considerare la forma circoscritta<br />

e articolata, trascurando lo sfondo sulla quale [sic] essa si delinea. Ma questa interpretazione<br />

si basa su un assioma, una supposizione».<br />

160<br />

Danto 1986: 110-111. «Non c’è modo, infatti, di fissare su un vetro i movimenti di<br />

un oggetto; o l’artista deve affidarsi alle credenze preesistenti degli osservatori sugli oggetti<br />

in movimento, o deve introdurre <strong>delle</strong> convenzioni che funzionino come indicatori di movimento»<br />

(Danto 1981: 182).<br />

161<br />

Helmholtz (1853: 193), riflettendo sul fatto che «la scienza è giunta a considerare la<br />

sensibilità nel modo del tutto opposto a quello in cui la considerava il poeta», sostiene che<br />

«le percezioni sensibili costituiscono, per noi, soltanto dei simboli degli oggetti del mondo<br />

esterno, e corrispondono a questi all’incirca come la scrittura e l’efflato verbale corrispondono<br />

alle cose da essi designate. Le percezioni sensibili ci danno, senza dubbio, notizia della<br />

peculiarità del mondo esterno, ma non meglio di quanto noi diamo notizia dei colori a un<br />

cieco mediante descrizioni verbali».<br />

162<br />

Arnheim 1974 2 : 344.<br />

163<br />

Köhler 1913. I termini utilizzati sono quelli di Koffka 1935: 97.<br />

164<br />

Cfr. Arnheim 1986: 339-372.<br />

165<br />

Fodor 1983: 111.<br />

166<br />

«Se, in effetti, i meccanismi percettivi sono locali, stupidi e drasticamente eccitabili,<br />

è sensato che, da un punto di vista teleologico, l’immagine del mondo che essi propongono<br />

sia mediata, rianalizzata e soprattutto – come dice Kant – unificata da sistemi economici più<br />

lenti, con maggiore informazione a disposizione, più conservatori e olistici» (Fodor 1985: 85).<br />

Kant è quello della prima Critica, e l’intelletto ha poco a che fare con quello della Critica<br />

della Facoltà di Giudizio.<br />

167<br />

Arnheim 1969: 297-298. Nella traduzione italiana “protean” è stato tradotto con<br />

“proteico”.<br />

168<br />

Danto 1986: 77-78.<br />

169<br />

Danto 1986: 75.<br />

170<br />

«Quanto la mia interpretazione è vicina a quella di Duchamp nel caso di Fountain?<br />

Credo che sia abbastanza vicina e, in ogni caso, il lavoro che ho cercato di fare potrebbe<br />

essere il lavoro che lui ha fatto», Danto 1986: 59.<br />

171<br />

Cfr. Arnheim 1962.<br />

172<br />

Duchamp 1994 2 : 161-63.<br />

173<br />

“Dinamica espressiva”, ovviamente, non presa in considerazione da Danto (1986: 71),<br />

neanche quando si occupa di “Metafora, espressione e stile” (1981, cap. 7); né quando accenna<br />

alle proprietà terziarie, che per gli autori di lingua inglese equivalgono alle proprietà<br />

espressive dei gestaltisti: «identico per lo meno per ciò che concerne i predicati a un posto,<br />

sia che questi abbiano come loro estensioni proprietà primarie, secondarie o, come asseriscono<br />

alcuni studiosi di estetica, terziarie» (1986: 71).<br />

174<br />

Danto 2001a: 55-56.<br />

175<br />

Fodor 1985: 65.<br />

176<br />

Ivi: 66.<br />

177<br />

Danto 1983: 180.<br />

178<br />

«La capacità di identificare oggetti e immagini di oggetti grazie a descrizioni estese è<br />

indubbiamente basata sulla fisiologia del cervello, ma quale che sia questa fisiologia, la capacità<br />

stessa è modulare per il fatto che le relazioni non penetrano i propri termini. Abbiamo organi<br />

attraverso i quali identifichiamo gli oggetti sotto una descrizione minimale, mentre serve<br />

il linguaggio per identificare gli stessi oggetti sotto descrizioni massimali» (Danto 2001b: 121).<br />

179<br />

Metzger 1963 3 : 206. Cfr. anche Arnheim 1986: 27-46.<br />

180<br />

È l’incipit di Scaglione (2002: 2), che presenta un’interessante raccolta di articoli sul<br />

rapporto tra il cervello e i sensi.<br />

181<br />

Restak 1994: 16 e 60.<br />

182<br />

Per Phineas Gage cfr. Damasio 1994; sulle sindromi con l’alfa privativo possono risultare<br />

più interessanti dei trattati di neurologia i casi clinici raccontati da Sacks (1985; 1995).<br />

183<br />

Zeki, cit. da Restak 1994: 59-60, corsivo mio. «Per avere una misura della tenacia di<br />

queste idee [cioè “di un occhio che vede e un cervello o intelletto che pensa”, e del vedere<br />

come “un processo essenzialmente passivo” vs un intelletto attivo], basti pensare che esse<br />

239


sono ancora condivise da molti neurologi e che quanti, come me, hanno sviluppato ipotesi<br />

diverse sul funzionamento del cervello visivo, vi sono arrivati solo grazie a una serie di scoperte<br />

fatte negli ultimi venticinque anni» (Zeki 2001: 38).<br />

184<br />

Sulla neuroestetica, cfr. Zeki 1999.<br />

185<br />

Danto 1986: 29-30.<br />

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244


Arte ed emozione *<br />

Negli ultimi decenni gli studi sulle emozioni hanno registrato uno<br />

sviluppo esponenziale. Agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso, quando<br />

quella che possiamo chiamare la “svolta emotiva” era agli inizi,<br />

una ricerca, che ha preso in esame i più noti tra testi e dizionari di<br />

psicologia, ha individuato ben novantadue definizioni di “emozione”<br />

e nove “affermazioni scettiche” 1 . A distanza di un quarto di secolo,<br />

con la discesa in campo della scienza cognitiva e <strong>delle</strong> neuroscienze,<br />

la situazione è diventata caotica: la notevole mole di dati – talvolta<br />

contradditori – le analisi e le interpretazioni – sempre diverse, data<br />

la “creatività” linguistica dei ricercatori – rende difficile una visione<br />

d’insieme persino all’addetto ai lavori, e impossibile coglierne il senso<br />

complessivo 2 . Non solo la domanda «che cos’è un’emozione» posta da<br />

William James nel 1884, non ha ricevuto «una risposta definitiva e consensualmente<br />

accettata dalla comunità dei ricercatori», ma la confusione<br />

creata dalla «sproporzione tra dati empirici e riflessione teorica» è tale<br />

da trasformare in ontologica la domanda di James. Lo psicologo <strong>delle</strong><br />

emozioni si vede così costretto a chiedere: «esiste realmente un’area di<br />

fenomeni empirici riferiti in modo non equivoco e non ambiguo alla<br />

parola e al concetto di emozione, oppure quest’area è così composita<br />

e vaga e così strettamente collegata ad altre che i suoi elementi sono<br />

riconducibili a diverse tipologie di fenomeni più semplici? Se così fosse»<br />

l’elimitativismo sarebbe la mossa corretta 3 e avremmo la “morte<br />

scientifica” dell’emozione.<br />

Quanto all’arte è arcinota non solo la difficoltà di darne una definizione<br />

condivisa 4 , ma altresì la “morte filosofica” dell’arte, l’arte dopo la<br />

morte dell’arte, l’arte concettuale, l’arte dopo la filosofia, i ready-made<br />

e gli happening, la body art e le installazioni, ecc. fino all’arte animale 5 .<br />

Questo per dire del titolo: della sua indeterminatezza e vastità, dell’estrema<br />

difficoltà di darne ragione, e per di più in una relazione. Una<br />

miscela esplosiva e incontenibile data l’attuale fenomenologia dei due<br />

* Relazione presentata al Convegno italo-francese Il fatto estetico: tra emozione e<br />

cognizione (Firenze, 24-26 maggio 2007) e pubblicata nell’omonimo volume degli Atti<br />

curato da F. Desideri, G. Matteucci, J. M. Schaeffer, Pisa, ETS, 2009, pp. 73-96.<br />

245


elementi che la compongono. Eppure, l’emozione estetica 6 – l’espressione<br />

corrente che individua la loro riuscita fusione nel pensatoio del<br />

filosofo e nel laboratorio dello scienziato – parrebbe lì pronta a venirmi<br />

in aiuto. E però, è proprio l’emozione estetica, come un’emozione distinta<br />

e separata, con proprie caratteristiche che la differenzierebbero<br />

da tutte le altre emozioni, a fare problema. Non che manchi il materiale.<br />

Manca, a me, la convinzione. «L’arte, si dice comunemente, esprime<br />

“emozioni” e viene prodotta mediante stati emotivi. Nasce dai “sentimenti”<br />

e comunica sentimenti» 7 . Perciò si è convinti che esista una<br />

specifica emozione estetica e che «l’esperienza estetica sia in qualche<br />

modo emotiva piuttosto che cognitiva» 8 come, viceversa, lo sarebbe la<br />

scienza. La concezione che considera l’arte, il farla e il fruirla, legata a<br />

doppio filo con l’emozione – il “linguaggio <strong>delle</strong> emozioni” secondo la<br />

definizione di Batteux, o l’“ideale del sentimento” come si è sostenuto<br />

alla fine dell’Ottocento – ha, infatti, il suo pendant nella concezione che<br />

considera la scienza il linguaggio della ragione, o l’“ideale del pensiero”<br />

9 . Sebbene da un secolo a questa parte tali ipostatizzazioni – aliene<br />

dalle effettive pratiche – siano state reiteratamente sconfessate da artisti<br />

e soprattutto da scienziati, l’arte-emozione e la scienza-ragione continuano<br />

ad avere i loro credenti e a produrre effetti. Relativamente all’arte,<br />

«la concezione di un piacere estetico in cui il baleno dell’intuizione e<br />

la vibrazione del sentimento siano stimolati dalla immagine alogica in<br />

cui essi si riconoscono come espressi» 10 , e per ciò stesso fruibili in una<br />

condizione di moratoria della ragione, già datata negli anni sessanta,<br />

ha continuato a mantenere il suo appeal presso il largo pubblico. Oggi,<br />

per di più, sembra riacquistare piena credibilità scientifica grazie alle<br />

neuroscienze e alla declinazione neuroestetica <strong>delle</strong> stesse. È recentissimo<br />

un articolo dal significativo titolo Motion, emotion and empathy<br />

in esthetic experience che intendo porre alla vostra attenzione. Frutto<br />

della collaborazione di David Freedberg – lo storico dell’arte che ha<br />

individuato Il potere <strong>delle</strong> immagini nelle reazioni emotive suscitate<br />

– e di Vittorio Gallese – il neuroscienziato co-scopritore dei neuroni<br />

specchio 11 – l’articolo coniuga, per l’appunto, l’empatia estetica con i<br />

neuroni specchio 12 . Se si tiene presente che la scoperta di questi ultimi<br />

– nel mondo scientifico viene chiamata “la rivoluzione italiana” – è stata<br />

paragonata, per importanza, alla scoperta del dna 13 , e che «la questione<br />

dell’empatia è tornata con forza a imporsi in quest’ultimo decennio<br />

come problema fondamentale per la comprensione dell’essere umano,<br />

nei suoi rapporti con gli altri e con il mondo» 14 , si può facilmente<br />

immaginare l’effetto che l’argomento è destinato ad avere.<br />

Le domande che mi sono posta nel preparare il mio intervento – e<br />

spero che gli accenni siano sufficienti, adeguati e resi comprensibili –<br />

riguardano il perché, pur se criticata, la nozione arte-emozione continui<br />

a essere sentita come vera, qual è il suo nucleo di verità, e come intendere<br />

il ritorno dell’empatia, una nozione che, «emersa dalle speculazioni<br />

246


estetico-metafisiche del romanticismo» 15 , ha avuto il suo momento di<br />

fortuna a cavallo fra Otto e Novecento e, nonostante siano venute a<br />

mancare le ragioni teoriche che ne avevano assicurato il successo, ritorna<br />

a risplendere nel firmamento della terza cultura 16 .<br />

È nota la critica di Nelson Goodman alla «convinzione che suscitare<br />

emozioni sia una funzione primaria dell’arte» 17 , e «alla dispotica<br />

dicotomia fra cognitivo e emotivo», individuata come causa principale<br />

di quella convinzione. Ripercorrendo la serie di fallimenti nel tentativo<br />

di arrivare a una formulazione accettabile dell’emozione estetica, ed<br />

esaminando l’assurdo a cui si arriva sviluppando fino in fondo le strade<br />

senza uscita, Goodman faceva la previsione che il fallimento «non<br />

rimuoverà facilmente la convinzione che la distinzione fra scientifico ed<br />

estetico sia in qualche modo radicata nella differenza fra conoscere e<br />

sentire, cognitivo ed emotivo» 18 . I fatti gli hanno dato torto: la distanza<br />

fra “scientifico ed estetico” si è via via raccorciata, fino alla scienza<br />

come arte e all’emozione nella scienza. Il tutto nella con-fusione più<br />

totale tra ciò che pertiene ai processi (percepire, pensare, sentire, provare<br />

emozioni, ecc.) e ciò che pertiene ai prodotti (nello specifico le<br />

arti e le scienze), ovvero tra il piano della storia evolutiva della mente<br />

e il piano storico culturale della produzione.<br />

Meno nota è la critica di Rudolf Arnheim che, quasi un decennio<br />

prima di Goodman, ha stigmatizzato il vezzo “incasellatore” della psicologia:<br />

o cognizione o motivazione, e, se non è né l’una né l’altra,<br />

allora è emozione. «Il guaio, con questa terza categoria, è stato che<br />

mentre esistono sufficienti stati mentali che possono venire ridotti fino<br />

ad apparire pure motivazioni o puri percetti, l’eccitazione emotiva è<br />

dominante soltanto in rari casi estremi, ed anche in questi è un sottoprodotto<br />

non specifico di ciò che la persona percepisce, conosce,<br />

intende e desidera. Da qui […] i tentativi di dotare le emozioni di<br />

caratteristiche cognitive e conative allo scopo di conferir loro corpo,<br />

varietà e funzione» 19 . Puri percetti o pure motivazioni: si pensi alla<br />

percezione di un triangolo o alla fame, e ci rendiamo conto, soprattutto<br />

relativamente a quest’ultima, di quanto siano importanti gli aspetti<br />

emotivi e cognitivi. «L’impressione erronea che vi sia un “piacere estetico”<br />

specifico è dovuta al fatto che una data componente di uno stato<br />

mentale trae, dallo stato totale, modificazioni che vengono attribuite<br />

con facilità alla natura della componente stessa. Se il piacere tratto da<br />

un pezzo di scultura si “sente” in modo diverso da quello derivante<br />

dal cibo, la differenza è dovuta al contesto, poiché tutto ciò che si può<br />

citare per caratterizzarlo fa parte della differenza che intercorre tra il<br />

guardare una scultura e il gustare il cibo» 20 .<br />

L’accenno al contesto, che peraltro si trova anche in Goodman, non<br />

deve far pensare che Arnheim abbia una teoria “istituzionale” dell’arte.<br />

Come pure che la critica all’arte-emozione comporti come conseguenza<br />

che si neghi l’evidenza, vale a dire che l’arte possa emozionare. Se<br />

247


per Goodman «nell’esperienza estetica le emozioni funzionano cognitivamente»,<br />

ragione per cui «l’esperienza estetica non è privata <strong>delle</strong><br />

emozioni, è la comprensione a esserne dotata» 21 ; Arnheim, per il quale<br />

«qualsiasi stato mentale possiede dimensioni conoscitive, motivazionali<br />

ed emotive», chiarisce che è la percezione, dinamicamente intesa, a<br />

cogliere le qualità espressive dell’oggetto artistico, «e non una qualche<br />

altra facoltà conoscitiva misteriosa, per la quale occorra lo speciale termine<br />

di “sentimento”. […] A causa della preferenza tradizionale per le<br />

concezioni statiche, la teoria occidentale ha teso a escludere gli aspetti<br />

dinamici dalla percezione e ad assegnarli o a una specie di proiezione<br />

internamente generata o alla facoltà speciale, definita negativamente,<br />

del sentimento» 22 . A ben considerare, «la soluzione di un puzzle, una<br />

scoperta astronomica, o una transazione aziendale – comprende tutte<br />

e tre le componenti. In altre parole, o il comportamento umano non<br />

consiste che di emozioni, oppure non esistono affatto le emozioni! Correggendo<br />

questo assurdo psicologico, facciamo giustizia del fatto che<br />

l’attività di dipingere un quadro o di scolpire una figura non è né più<br />

né meno emotiva di quella di risolvere un problema matematico. Il risalto<br />

dato all’arte in quanto emotiva intendeva spiegarne l’enfasi posta<br />

su ciò che ho chiamato espressione» 23 . È questo il nucleo di verità<br />

dell’arte-emozione.<br />

Le due posizioni, relativamente ai passi estrapolati, sembrano, a<br />

prima vista, sostenere la stessa cosa. Indubbiamente, limitatamente<br />

all’argomento in discussione, le similarità sono tante, e non passa inosservato<br />

che entrambi ironizzino su spiegazioni del tipo virtus dormitiva.<br />

Ciononostante, quanto al modo di intendere la percezione e il rapporto<br />

fra cognitivo ed emotivo, pur tenendo presente che il problema<br />

non è centrale nei linguaggi dell’arte, vi sono comunque indizi che<br />

sembrano attestare Goodman su una concezione statica della percezione<br />

– per cui è il sentimento a dinamizzare la forma e a coglierne la<br />

dinamica – e su una fusione <strong>delle</strong> componenti. Così: «la percezione,<br />

la concettualizzazione e il sentimento interferiscono e interagiscono; e<br />

una siffatta lega rende impossibile un’analisi in componenti emotive<br />

e non emotive»; quanto al primo punto: «L’opera d’arte è percepita<br />

attraverso i sentimenti così come attraverso i sensi. […]. L’attore o il<br />

ballerino – o lo spettatore – talvolta notano e ricordano il sentimento<br />

di una movenza piuttosto che la sua forma, per quanto le due cose<br />

possono essere distinte. L’emozione nell’esperienza estetica è uno strumento<br />

per discernere quali proprietà siano possedute ed espresse da<br />

un’opera» 24 . Mette conto rilevare che “il sentimento di una movenza”,<br />

che tanto ricorda l’empatia – ma, verosimilmente, la fonte della suggestione<br />

è Susan Langer 25 – è proprio ciò che i gestaltisti chiamano<br />

qualità espressiva, e cogliere l’espressione non solo fa parte del processo<br />

percettivo, non solo non è specifica <strong>delle</strong> arti, ma è ciò che primariamente<br />

si coglie nell’ordine della percezione ecologica: «il modo<br />

248


più completo di percepire, che sottolinea le tensioni direzionate, è un<br />

requisito primario, non un monopolio dell’atteggiamento estetico» 26 .<br />

Per inciso, a rileggere le riflessioni di Arnheim sull’emozione (e ovviamente<br />

tenendo presente l’intera sua teoria 27 ) dopo l’immersione nella<br />

relativa letteratura odierna, si rimane colpiti dal fatto che le critiche<br />

da lui mosse alla psicologia di cinquant’anni fa hanno una sconfortante<br />

attualità; e poi l’impressione che si ricava è che i dati <strong>delle</strong> neuroscienze<br />

– e molte scoperte recenti, compresa quella dei neuroni specchio,<br />

possono funzionare da correlati fisiologici di aspetti salienti della psicologia<br />

della Gestalt – ben si accordino con i paletti da lui tracciati tra<br />

emozione, percezione-pensiero e motivazione. A titolo esemplificativo:<br />

LeDoux, che ha dedicato la sua vita scientifica allo studio <strong>delle</strong> emozioni,<br />

rimprovera alla psicologia di avere «spento le passioni», e ritiene<br />

necessario per l’interpretazione dei dati tenere ferma la distinzione tra<br />

emozione, cognizione e motivazione. Mantenere la “trilogia mentale”<br />

e difendere l’emozione «dal mostro cognitivo» 28 fanno parte del suo<br />

impegno scientifico.<br />

Se però consideriamo l’assetto odierno complessivamente, la linea<br />

vincente non è certo quella di Arnheim; per certi aspetti è più quella<br />

rappresentata da Goodman, anche se che “nell’esperienza estetica le<br />

emozioni funzionino cognitivamente” comincia a essergli rimproverato<br />

29 . Intanto una cosa che balza subito agli occhi è il mutato atteggiamento<br />

nei confronti dell’emozione. Arnheim, riflettendo sulla<br />

precaria situazione <strong>delle</strong> arti nell’istituzione scolastica, ha rilevato che<br />

«nell’uso comune, termini come emozione e sentimento non godono<br />

di una grande considerazione. Una persona emotiva è soggetta a impulsi<br />

irrazionali, è una persona che ragiona male; e i sentimenti, più<br />

spesso che no, connotano una conoscenza imprecisa: una persona che<br />

non sa con sicurezza fa affidamento sul mero sentimento. Non c’è da<br />

meravigliarsi se un’attività basata sull’emozione e sul sentimento desti<br />

sospetto» 30 . Oggi, al contrario, l’emozionarsi non desta più sospetto, e<br />

cresce il bisogno di farne partecipi gli altri. «Non sono uno scienziato<br />

arido, senza emozioni [dichiara il noto filosofo della matematica Imre<br />

Toth]: sono un essere umano e mi emoziono di fronte a un dipinto,<br />

un bambino, una donna, un tramonto, ma anche di fronte alla bellezza<br />

di una pagina di Platone o di Cusano [e Cusano per lui è «come un<br />

amico intimo»]. Perché – mi sono chiesto – non esprimere reazioni<br />

emotive (che esistono) anche di fronte alla bellezza di un’idea?» 31 .<br />

L’emozione non solo è diventato un argomento di interesse generale<br />

– basti pensare al moltiplicarsi di titoli che coniugano l’emozione<br />

o l’emotivo con qualsiasi altra cosa: dal sacro ai luoghi, dallo sguardo<br />

alla ragione, dalla religione alla guerra mediale, dalla malattia al benessere,<br />

dalla regola, alle discipline, al lavoro 32 , e via dicendo – ma, se si<br />

considera il successo dell’Intelligenza emotiva di Daniel Goleman, o le<br />

guide pratiche per aumentare il quoziente emotivo, ci si rende conto<br />

249


di quanto e come in questi ultimi anni la situazione sia cambiata. Non<br />

è più in primo piano il qi (quoziente intellettuale), bensì il qe (quoziente<br />

emotivo) e l’alessitimia, non la scarsità dell’intelligenza, sembra<br />

la preoccupazione odierna maggiore 33 . Tutto deve emozionare: dallo<br />

spremiagrumi – Emotional Design 34 – alla scienza. Fino ad approntare<br />

kit che spiegano il potere <strong>delle</strong> emozioni per il piacere della comprensione<br />

scientifica 35 . Che l’intelligenza o il pensiero siano detti emotivi e<br />

l’emozione intelligente, intanto, esemplificano la “lega” di Goodman, e,<br />

forse, sono anche la spia che le ricerche psicologiche «invece di riscaldare<br />

la cognizione […] hanno raffreddato le emozioni», come lamenta<br />

LeDoux: «Grondano sangue, sudore e lacrime, ma dagli studi cognitivi<br />

moderni fatichereste ad accorgevene» 36 .<br />

E l’emozione estetica? Beh, per quanto strano possa sembrare, si<br />

sostiene che anch’essa “gronda sangue, sudore e lacrime”. Dipinti e<br />

lacrime di James Elkins ci racconta di svenimenti e palpitazioni, di singhiozzi<br />

e allucinazioni, di turbamenti e commozioni, di vertigini e collassi,<br />

di stigmate e paralisi, insomma di arte ed emozioni 37 . E, stando<br />

ai forum che si sono aperti nel web, la sindrome di Stendhal potrebbe<br />

diventare contagiosa quanto lo sbadiglio. La cosa commuoverebbe di<br />

certo Elkins, che non ha mai pianto davanti a un dipinto ma, ritenendo<br />

le lacrime la reazione più adeguata, ne lamenta la mancanza propria<br />

e altrui, e appronta otto consigli «per incontri forti» con i dipinti 38 .<br />

«Turbamento, commozione, empatia sono esperienze che il nostro secolo<br />

sembra aver dimenticato: i musei d’arte contemporanea appaiono<br />

sempre di più come luoghi in cui guardare senza sentire, in cui stupirsi,<br />

riflettere, distrarsi, imparare qualcosa, ma non di più. Eppure, un<br />

tempo, di fronte ai quadri si soccombeva, lasciandosi turbare fino al<br />

pianto. Quanti uomini, quante donne hanno pianto, nel Medioevo, nel<br />

Rinascimento, nel Settecento? E perché il nostro tempo sembra invece<br />

così arido, così povero di lacrime?» 39 .<br />

Nell’era della “svolta emotiva”, l’arte-emozione, ritornata prepotentemente<br />

in primo piano, continua a esercitare il suo fascino e con<br />

dipinti e lacrime il ricorso all’emozione estetica sembra necessario. In<br />

questi anni di tumultuoso sviluppo, la ricerca neurologica non ha scoperto<br />

“ghiandole estetiche”, né “molecole di emozioni” estetiche 40 ,<br />

né circuiti neuronali specifici per la creazione e la fruizione <strong>delle</strong> arti.<br />

Anzi, gli stessi circuiti si attivano sia che guardiamo un uomo in carne<br />

e ossa, sia che ne guardiamo l’immagine; sia che agiamo, sia che vediamo<br />

agire l’altro e sia anche che pensiamo solo di agire. E giacché, di<br />

norma, non confondiamo immagine e realtà, pensiero e azione, io e tu,<br />

non possono non esserci correlati neuronali responsabili di distinzione<br />

così decisive per le nostre vite. Nondimeno, il fuoco dell’attenzione è<br />

concentrato sull’empatia, come fosse – l’empatia – un genere naturale,<br />

non una sofisticata costruzione culturale di una stagione passata: non<br />

un’interpretazione del “sentire” (Fühlen), accesamente discussa e abban-<br />

250


donata perché discutibile, ma il sentimento (Gefühl), l’emozione 41 . E,<br />

mentre di simpatia umana si sente sempre più il bisogno, nella gioia e<br />

nel dolore dell’odierna mistica dell’arte, come per Lipps – ma immersi<br />

in un panorama artistico (fatto di shock estremi o di reazioni del tipo<br />

“lo potevo fare anch’io” 42 ) totalmente diverso da quello contemplato<br />

dai teorici dell’empatia – la «simpatia estetica è il nocciolo comune a<br />

tutto il godimento estetico in generale» 43 . “Il difetto del ragionamento<br />

psicologico” che Arnheim rimproverava alla psicologia continua a<br />

imperversare: come già per Goodman, è l’emozione lo “strumento per<br />

discernere quali proprietà siano possedute ed espresse da un’opera”,<br />

il che significa pure che si continua a considerare la percezione come<br />

statica e non dinamica. Per di più – e qui Goodman non è esplicito<br />

– l’emozione non solo discernerebbe ma giudicherebbe anche. E, se a<br />

giudicare è l’emozione, il piacere dell’arte non può essere “disinteressato”<br />

44 , né il “giudizio riflettente”. È il modo popolare di dire addio<br />

a Kant? Comunque stiano le cose, il potere dell’immagine è diventato<br />

il potere dell’emozione, e L’uomo a una dimensione lo si declina all’inverso<br />

di Marcuse.<br />

David Freedberg, nell’esplicitare l’approccio metodologico del suo<br />

Il potere <strong>delle</strong> immagini, ricorda la critica di W. Benjamin al metodo<br />

induttivo, per precisare che «ciononostante, il processo d’indagine sarà<br />

induttivo». Ma Il tema del dissenso non è solo questo. Il passo di Benjamin<br />

discusso è il seguente: «il quadro dei metodi induttivi di ricerca<br />

in estetica mostra anche qui la sua consueta tinta fumosa, in quanto<br />

questa intuizione non è quella, risolta nell’idea, della cosa, bensì quella<br />

degli stati soggettivi, e proiettati dentro l’opera, del destinatario; in ciò<br />

si risolve l’entropatia, che R. M. Meyer ha concepito come chiave di<br />

volta del suo metodo». Mentre per Benjamin «il nome di Einfühlung<br />

(entropatia)» rimanda a una «deprecabile e patologica suggestionabilità»<br />

45 , Freedberg precisa che la sua «è un’impresa totalmente diversa<br />

da quella di Meyer attaccata da Benjamin», e, sebbene riconosca che le<br />

immagini sono «davvero dotate di qualità e forze», nondimeno ritiene<br />

che una ricerca sulla reazione all’immagine non possa non fare ricorso<br />

all’empatia per spiegare la risposta emotiva del fruitore: «Naturalmente<br />

dovrà occuparsi anche degli “stati soggettivi del destinatario proiettati<br />

sull’opera”, se non dentro l’opera stessa. E, come in Meyer, si impiegherà<br />

anche l’empatia, ma un’empatia rigorosamente fenomenologica» 46 .<br />

A parte il come intendere il “rigorosamente fenomenologico” 47 e come<br />

combinarlo con il meccanismo psichico della proiezione – tratto strutturale<br />

del concetto di Einfühlung e in quanto tale comune alle varie<br />

teorie dell’empatia estetica – in sostanza per Freedberg “i moti mentali”<br />

48 (come venivano chiamate le espressioni quando ancora al corpo<br />

vivente non era stata sottratta la mente, successivamente ipostatizzata<br />

in res cogitans e la rimanenza in res extensa) non sono dell’immagine,<br />

ma di chi ne fa esperienza.<br />

251


«Per quanto importanti siano i principi generali della forma, tuttavia<br />

essi da soli non possono dare un valore estetico a un oggetto.<br />

L’oggetto estetico, infatti, non ha solo una forma, ma ha anche un<br />

contenuto. Questo contenuto è sempre un contenuto psichico. Esso<br />

penetra negli oggetti estetici per mezzo dell’empatia». Per Lipps e per<br />

i coevi teorici dell’empatia, «nulla è più certo del fatto che il significato<br />

<strong>delle</strong> parole tendenza, forza, attività ecc., io posso viverlo e sentirlo<br />

solo in me stesso e trasferirlo agli oggetti solo a partire da me stesso.<br />

Ciò che trovo nel mondo esterno è solo semplice esistenza e accadere»<br />

49 . L’empatia, perciò, da una parte è stato il meccanismo attraverso<br />

il quale si riteneva di dovere animare un oggetto inerte di suo, e che<br />

«solo così può diventare oggetto estetico»; dall’altra è stata considerata<br />

«la fonte del terzo tipo di conoscenza», assieme alla percezione sensoriale<br />

e alla percezione interna 50 . Il presupposto dell’empatia, sia come<br />

meccanismo di proiezione del soggetto sull’oggetto, sia come fonte di<br />

conoscenza, deriva dalla teoria tradizionale della percezione, basata<br />

sul postulato cartesiano secondo il quale «le cose materiali e gli eventi<br />

della natura sono toto genere diversi dai contenuti e dai processi della<br />

mente. Poche dottrine filosofiche hanno esercitato sul pensiero moderno<br />

un’influenza così forte come questa tesi. E purtroppo essa si è<br />

estesa anche alla situazione di cui stiamo parlando» 51 . Ne è conseguito<br />

che sebbene – l’esempio è di Köhler – il “rombante crescendo” di un<br />

tuono lontano, lungi dall’essere percepito come un “fatto sensoriale<br />

neutro”, alla massima parte di noi “suoni minaccioso”, non ritenendo<br />

che la qualità espressiva della minacciosità potesse essere a pieno titolo<br />

del tuono, ovvero che avesse il «carattere primario di “incontrabilità”»,<br />

e quindi direttamente percepibile, la si è interpretata «in termini di<br />

esperienze soggettive», un’emozione del soggetto proiettata sul tuono<br />

52 . Le teorie dell’empatia estetica sono sorte proprio per rendere<br />

conto <strong>delle</strong> qualità espressive, allora chiamate “contenuti psichici” o<br />

“contenuti spirituali”, e che pertanto non erano dell’oggetto, come le<br />

qualità primarie e secondarie, ma del soggetto, una sua “proiezione”<br />

rinvenuta nell’oggetto. La passata necessità e la fortuna del concetto<br />

è tutta qui. E va anche evidenziato che, se l’empatia è legata ai sentimenti,<br />

per l’estetica di fine Ottocento, innanzitutto, è stato il modo di<br />

animare l’inanimato. Certo, in essa veniva riposto il fondamento del<br />

godimento estetico, ma il godimento dell’arte consisteva «nel valore<br />

del nostro senso vitale, che proiettiamo in esse [nelle opere] per vie<br />

misteriose» 53 . Voglio dire: i sentimenti e le emozioni che oggi sono<br />

in primo piano allora non lo erano 54 . Né era, allora, disponibile una<br />

teoria dinamica della percezione.<br />

Se, come la psicologia della Gestalt ha dimostrato, la percezione è<br />

dinamica e l’oggetto in generale è portatore di qualità espressive, qual è<br />

il senso di ritornare a ricorrere all’empatia per spiegare che la comprensione<br />

dei «moti dell’irato, del dolore, della paura, dello spavento subíto,<br />

252


del pianto, della fuga, del desiderio, del comandare, della pigrizia e della<br />

sollecitudine, e simili» 55 possa emozionarci? Davvero riteniamo che la<br />

pittura di Leonardo abbia bisogno di un supplemento di vita da parte<br />

del fruitore? «Sappiamo che quando Caterina da Siena vide nella chiesa<br />

di San Pietro a Roma il mosaico di Giotto della “Navicella”, in cui la<br />

salvezza dalle tribolazioni viene simboleggiata dall’immagine di Cristo<br />

che salva Pietro da una barca in balia <strong>delle</strong> onde, la santa “all’improvviso<br />

sentì che la barca si era spostata sulle sue spalle e crollò a terra,<br />

schiacciata dal peso insopportabile” […]. Innegabilmente la sostanza<br />

di questo incontro non è data da ciò che Caterina fece alla barca, bensì<br />

da ciò che la barca fece a Caterina». D’accordo, è un esempio estremo,<br />

ma illustra in maniera efficace la vera direzione dell’animazione: «un’animazione<br />

che fluisce dall’opera e fa pesare l’impatto della sua vita sullo<br />

spettatore» 56 . In altri termini, «la dinamica trasmessa dall’immagine<br />

risuona nel sistema nervoso del fruitore. Il corpo dell’osservatore riproduce<br />

le tensioni dell’essere sospeso, dell’innalzarsi e del cedere, sicché<br />

egli riproduce al suo interno le azioni che vede compiersi all’esterno.<br />

E queste azioni non sono soltanto esercizi fisici, sono modi di essere<br />

vivi, modalità dell’essere umano» 57 .<br />

Quando è uscito il bel libro di Freedberg sul potere <strong>delle</strong> immagini,<br />

Arnheim tempestivamente ne ha lodato «l’imponente apparato»<br />

dispiegato, e il fatto che evidenziasse che l’arte soddisfa bisogni umani<br />

fondamentali: «una correzione necessaria» alla tradizione della storia<br />

dell’arte, e un «libro coraggioso». Leggerlo gli fa venire in mente i<br />

sentimenti di quando leggeva Lévy-Bruhl sul pensiero pre-logico <strong>delle</strong><br />

culture cosiddette primitive: «non si può fare a meno di avere la sensazione<br />

che, lungi dall’essere confinati nel campo del non sofisticato,<br />

queste modalità di pensiero siano universalmente umane, e vive in tutti<br />

noi». Tutto bene? No. E a chiusura, e ritornando a rileggere, si capisce<br />

la posta in gioco e la tempestività della reazione di Arnheim. Intanto<br />

è il «punto di vista psicologico» a fare difetto: «Freedberg si limita<br />

a descrivere la nostra risposta all’arte come tracce di animismo, cioè<br />

come resti più o meno indeboliti <strong>delle</strong> credenze superstiziose secondo<br />

le quali le immagini possono essere fisicamente vive. Le cose tuttavia<br />

non stanno così».<br />

Abbiamo visto che per Arnheim sono le qualità espressive a dare<br />

vita alle immagini, ed è la similarità espressiva «tra immagine e prototipo<br />

a farci rispondere [noi e i primitivi] all’immagine in modi che<br />

corrispondono a quelli dell’oggetto fisico», non la “fusione tra immagine<br />

e prototipo” o i residui di un mitico animismo. Anzi l’animismo ne<br />

può essere un effetto non la causa. Ancora: «nell’ottica di Freedberg<br />

la negazione di questa molto umana risposta è dovuta alla repressione,<br />

in senso freudiano». Anche riconoscendo la parte di verità di questa<br />

ipotesi – limitatamente agli aspetti sessuali la repressione può avere un<br />

qualche valore esplicativo – Arnheim giudica «improbabile che il fatto<br />

253


che la storia dell’arte e la letteratura critica abbia trascurato i fattori<br />

motivazionali di base per la pruderie dei suoi autori. Più verosimilmente,<br />

ciò deriva dalla convinzione che il carattere erotico della Venere<br />

di Urbino di Tiziano, che è ovvio per tutti, non importa quando il<br />

dipinto è considerato un’opera d’arte». E, a conclusione, un colpo con<br />

grazia. «La missione dell’importante libro di Freedberg non è quella<br />

di sostituire l’analisi formale con la diagnosi del “processo primario”<br />

in azione, benché la tentazione di fare ciò sia abbastanza evidente al<br />

giorno d’oggi. Egli piuttosto, ci aiuta a vedere che non si può rendere<br />

giustizia alle immagini dell’arte a meno di non indagare in esse l’intero<br />

spettro <strong>delle</strong> risposte umane, dagli impulsi umili prevalenti nelle<br />

immagini popolari al loro raffinamento nelle grandi visioni dei diversi<br />

periodi storici» 58 .<br />

Chiunque abbia letto il libro di Freedberg non può non riconoscere<br />

il garbo della critica di Arnheim. E, per contrasto, di quanto<br />

un po’ meno ne abbia usato Ernst Gombrich nel suo intervento, pur<br />

altrettanto interessante e istruttivo. Ma non ce ne occuperemo, se non<br />

per un punto più direttamente legato al nostro argomento. Il significato<br />

fisiognomico – alias espressivo – è «inerente» sia alle immagini<br />

sia agli oggetti della natura. «Lo si chiami “animismo” o “empatia”,<br />

“proiezione” o “patetico inganno”: nessuno di questi termini può rendere<br />

piena giustizia all’universalità del fenomeno che fa la sua parte<br />

nei giochi non meno che nei culti religiosi, nell’arte non meno che nel<br />

rituale sociale». E mi piace ricordare la bella immagine che chiude la<br />

recensione: «Mentre la chiatta con la bara di Winston Churchill viaggiava<br />

sul Tamigi le gru d’ambo i lati dell’argine hanno abbassato i loro<br />

lunghi colli come in omaggio al capo di guerra. Queste gru non erano<br />

immagini, e tanto meno rappresentazioni, ma per un istante l’immaginazione<br />

le ha trasformate in mostri di acciaio che si sono associati<br />

all’emozione universale» 59 . Dal potere <strong>delle</strong> immagini, Gombrich ci<br />

solleva al potere dell’immaginazione.<br />

Nella risposta, Freedberg accomuna Arnheim e Gombrich, e, curiosamente,<br />

ciò che imputa loro è la disattenzione per la portata universale<br />

del legame tra immagine e prototipo, quando invece gli viene criticato<br />

non il legame in quanto tale, né, come abbiamo visto, l’universalità della<br />

reazione, ma il limitare quel significato alle immagini (Gombrich), e<br />

la tipologia del legame nonché il modo di spiegarlo (Arnheim) 60 . “Animismo”,<br />

“empatia”, “proiezione” o “patetico inganno” non spiegano le<br />

qualità espressive o fisiognomiche 61 e scotomizzano la similarità strutturale<br />

tra immagine e prototipo. L’empatia estetica con Lipps ha avuto<br />

il merito di sottolineare l’espressività degli oggetti inanimati. Ma per<br />

Lipps, come abbiamo visto, gli oggetti non lo sono per loro proprio<br />

conto: è il soggetto a proiettare sull’oggetto il suo di sentire e, in questo<br />

modo, a conferirgli espressione, ad animarlo. Le qualità espressive,<br />

sebbene ritrovate nell’oggetto, rimangono tipiche del soggetto, la sua<br />

254


modalità di essere e di rapportarsi all’oggetto artistico. Sarà Arnheim<br />

a renderne pienamente conto con la teoria gestaltica dell’espressione<br />

riconoscendo a Lipps di avere anticipato il principio gestaltico dell’isomorfismo,<br />

ma criticandogli l’“associazionismo” con cui ha spiegato<br />

il legame, e la “proiezione” mediante la quale il soggetto animerebbe<br />

l’oggetto artistico 62 , neanche fosse, l’opera d’arte, uno schermo neutro<br />

di proiezione come viene considerato il test di Rorschach 63 . Non che<br />

il meccanismo della proiezione non esista – come Freud insegna, è<br />

attivo nella clinica e nella psicopatologia della vita quotidiana – e non<br />

possa, quindi, attivarsi anche davanti all’opera d’arte. Il problema è<br />

se il valore estetico dell’oggetto consista nel contenuto psichico che il<br />

soggetto trasferirebbe nell’oggetto, nella presunta capacità umana di<br />

empatizzare nelle forme inanimate i sentimenti. Peraltro, se l’empatia è<br />

il meccanismo normale con cui vivifichiamo le forme, non può sorgere<br />

neanche il problema di quanto sia normale “proiettare” nell’opera se<br />

stessi. Per la Gestalt – l’ho già accennato – qualunque oggetto, animato<br />

o inanimato, artistico o non artistico, ha qualità espressive, e<br />

«il comportamento espressivo rivela il proprio significato direttamente<br />

nella percezione. Tale posizione si fonda sul principio dell’isomorfismo,<br />

secondo il quale processi che hanno luogo in mezzi differenti possono<br />

risultare, nondimeno, simili nella loro organizzazione strutturale» 64 .<br />

È questo l’antefatto per l’esordio dell’empatia nel mondo della<br />

scienza hard e all’avanguardia, e dei neuroni specchio sulla scena post<br />

post-avanguardia dell’arte. Lo spazio creato per l’esibizione dovrebbe<br />

mostrarci come interagiscono. La curiosità è tanta, soprattutto se si<br />

è interessati a capire come combinare un meccanismo neuronale che<br />

rende conto dell’immediata comprensione tra gli umani, e persino tra<br />

le scimmie macaco, e un sofisticato costrutto mentale fatto di esperienza<br />

passata e di proiezione, qual è l’empatia. In che modo i neuroni<br />

specchio spiegano la nostra reattività alle qualità espressive, a ciò che<br />

secondo la teoria dell’empatia «non è nulla di visibile o udibile, in una<br />

parola nulla di percepibile con i sensi» 65 ? È questo che si aspetta di<br />

sapere.<br />

Come da un po’ di tempo a questa parte talvolta succede, nel mondo<br />

dell’arte l’evento può consistere solo nel suo annunzio. È quanto è<br />

accaduto. E mi pare filologicamente corretto dirvelo con le loro parole:<br />

«A dispetto dell’assenza di esperimenti pubblicati su questi argomenti,<br />

la ricerca sui neuroni specchio offre sufficiente evidenza empirica per<br />

suggerire che le cose stiano effettivamente così». «La nostra previsione<br />

è che si otterranno risultati simili utilizzando come stimoli opere d’arte<br />

che sono caratterizzate da particolari tracce gestuali dell’artista, come<br />

nel caso di Fontana e Pollock». “Assenza di esperimenti”, “previsioni”<br />

e null’altro. Eppure c’era stato detto che «i risultati forniscono il substrato<br />

neuronale dei sentimenti empatici» in risposta alle opere d’arte,<br />

e che persino «i gesti dell’artista nel produrre opere d’arte inducono<br />

255


il sentimento empatico dell’osservatore». Ma leggendo e rileggendo ci<br />

si rende conto che i meccanismi neuronali dell’empatia non sono stati<br />

scoperti, e la chiamata in causa dei neuroni specchio serve solo a legittimare<br />

neurologicamente l’empatia: si ritiene di farne una teoria «che<br />

non sia puramente introspettiva, intuitiva o metafisica» con l’indicarne<br />

«una base materiale precisa e definibile nel cervello» 66 . Che è come<br />

mettere il carro davanti ai buoi.<br />

«La ricerca su mns [mirror neuron system] umano ha mostrato che<br />

l’osservazione anche di immagini statiche <strong>delle</strong> azioni conduce alla simulazione<br />

dell’azione nel cervello dell’osservatore. […] Questo meccanismo<br />

di simulazione motoria, accoppiato con la risonanza emotiva che<br />

innesca, è probabile che, come suggerito da Lipps, sia una componente<br />

cruciale dell’esperienza estetica degli oggetti nelle opere d’arte: anche<br />

una natura morta può essere animata dalla simulazione incarnata evocata<br />

nel cervello dell’osservatore. Il ruolo della simulazione incarnata<br />

nell’esperienza estetica diventa ancora più evidente se si considerano le<br />

emozioni e le sensazioni» 67 . Non ci si spiega, però, come sia conciliabile<br />

il meccanismo dei neuroni specchio, che in quanto neuronale non è né<br />

proiettivo né associazionistico, e il meccanismo proiettivo e associazionistico<br />

dell’atto empatico. Come pure Lipps e Merleau-Ponty (con i suoi<br />

riferimenti a Husserl e alla fenomenologia sperimentale della psicologia<br />

e della psicopatologia della Gestalt); o anche la fenomenologia con “l’apriori<br />

della intersoggettività” e la “teoria della simulazione” di marca<br />

cognitivista; o ancora il fatto che «per connaturalità io sono capace di<br />

trovare un senso a certi aspetti dell’essere senza che io stesso glielo abbia<br />

dato con una operazione costituente», ovvero «il senso di una cosa<br />

abita questa cosa come l’anima abita il corpo: non è dietro le apparenze<br />

[…]. Ecco perché diciamo che la cosa ci è data “in persona” o “in<br />

carne e ossa”» 68 , quindi senza simulazioni, proiezioni e “come se”, e<br />

un “meccanismo di simulazione motoria” e di “proiezione empatica”. E<br />

last, but not least, le qualità espressive, che per Lipps, contrariamente a<br />

quanto sosterrà la fenomenologia e la fenomenologia sperimentale, non<br />

erano “percepibile con i sensi”, per Freedberg e Gallese possono persino<br />

mancare: «Anche quando l’immagine non contiene nessuna componente<br />

emotiva manifesta sorge un senso di risonanza corporea» 69 .<br />

Pur avendo letto Feyerabend, pur avendo talvolta pensato che Imposture<br />

intellettuali andrebbe riscritto con materiali scientifici, mi sono<br />

stupita e pour cause. I meccanismi neuronali dell’empatia sono al più<br />

un’ipotesi e però ad apertura ci si lascia intendere che sono stati scoperti:<br />

«Illustreremo i meccanismi neuronali che sorreggono il “potere”<br />

empatico “<strong>delle</strong> immagini” e mostreremo che la simulazione incarnata<br />

e i sentimenti empatici che essa genera svolgono un ruolo cruciale.<br />

Quindi, tratteremo – entro il medesimo quadro empatico – un aspetto<br />

degli effetti <strong>delle</strong> opere d’arte, vale a dire l’effetto sentito del particolare<br />

gesto coinvolto nel produrle». Un intreccio quello tra “teoria<br />

256


della simulazione”, “teoria dell’empatia” e “neuroni specchio” che crea<br />

“crampi mentali” 70 . Già la dichiarazione d’intenti espressa all’inizio<br />

avrebbe dovuto metterci sull’avviso. Ricordando che sebbene non vi<br />

sia consenso su come definirla, l’arte ha comunque attratto l’interesse<br />

degli scienziati neurocognitivi che hanno inaugurato un campo di ricerca<br />

denominato “neuroestetica”, e si sono occupati di spiegare cosa sia l’arte<br />

e cosa il piacere estetico, precisano che assumeranno «una differente<br />

strategia», che consiste nel mettere «tra parentesi la dimensione artistica<br />

<strong>delle</strong> opere d’arte visive» 71 . E, a parte la meraviglia che con la neuroestetica<br />

finalmente abbiamo risolto l’annoso problema della definizione<br />

dell’arte, viene spontanea la domanda: perché allora nel titolo si parla<br />

di esperienza estetica e nel testo si riportano immagini di Michelangelo,<br />

di Goya, di Caravaggio, di Pollock e di Fontana? Perché scomodare<br />

proprio l’Einfühlung dell’estetica otto-novecentesca?<br />

La storia continua. È di una settimana fa la notizia che all’Università<br />

di Parma – l’Università della scoperta dei neuroni specchio – «la<br />

risonanza magnetica svela i processi di immedesimazione» con il soggetto<br />

nel quadro e con il soggetto del quadro: con San Tommaso di<br />

Caravaggio che infila il dito nel costato di Cristo o con lo sforzo dei<br />

Prigioni di Michelangelo, e con Fontana o con Pollock: con il gesto fatto<br />

dal primo per Concetto spaziale, Attesa (1960), o con i gesti fatti dal<br />

secondo per Number 14: Gray (1948). Il titolo che riporta l’evento è un<br />

manifesto dell’arte-emozione: «Tutte le emozioni in un quadro così reagisce<br />

il nostro cervello» 72 . E sappiamo da Semir Zeki, cui Freedberg e<br />

Gallese ci rimandano perché, a loro dire, avrebbe spiegato l’emozione<br />

estetica, che gli artisti sanno come farlo, il cervello, reagire 73 . Zeki<br />

sostiene, e ritiene di averlo dimostrato, che gli artisti sono neurologi.<br />

Con questo autentico atto empatico del fondatore della neuroestetica,<br />

e sperando di non avere dato l’impressione di non riconoscere i grandi<br />

meriti <strong>delle</strong> neuroscienze – nello specifico l’importanza <strong>delle</strong> ricerche<br />

di Zeki sulla percezione visiva e di quelle dei ricercatori di Parma sui<br />

“neuroni canonici” e sui “neuroni specchio” – non potendo sviluppare<br />

le complesse problematiche sottese, mi fermo per non abusare ulteriormente<br />

della vostra cortese attenzione.<br />

1<br />

P. A. Kleinginna e M. A. Kleinginna, A categorized list of emotion definitions, with<br />

suggestions for a consensual definition, “Motivation and Emotion”, 5 (1981), p. 348.<br />

2<br />

Già nel 1994, A. Damasio (L’errore di Cartesio, Adelphi, Milano, 1995, pp. 349-50),<br />

rilevando la mancanza di «descrizioni precise e interpretazioni complessive», segnalava il «tumultuoso<br />

affluire di nuovi fatti che le neuroscienze propongono di continuo e che minacciano<br />

di ingolfare la nostra capacità di fare chiarezza».<br />

3<br />

D. Galati, Prospettive sulle emozioni e teorie del soggetto, Bollati Boringhieri, Torino,<br />

2002, p. 23.<br />

4<br />

«Le inadeguatezze di una serie di definizioni esistenti» portano N. Warburton (2003,<br />

La questione dell’arte, Einaudi, Torino, 2004, p. 107) a sostenere che «l’ipotesi più plausibile<br />

257


è che il termine “arte” sia indefinibile non solo al livello <strong>delle</strong> proprietà esibite, ma anche a<br />

quello <strong>delle</strong> proprietà relazionali non esibite».<br />

5<br />

Sull’arte animale cfr. L. Pizzo Russo, Al di qua dell’immagine, “Fieri. Annali del Dipartimento<br />

di Filosofia, Storia e Critica dei Saperi”, 4 (2006), pp. 311-336 [ora supra, pp. 59-86].<br />

6<br />

Sull’emozione estetica cfr. A. Argenton (a cura di), L’emozione estetica, Il Poligrafo,<br />

Padova, 1993; Id., Emozione estetica, in V. D’Urso, R. Trentin (a cura di), Introduzione alla<br />

psicologia <strong>delle</strong> emozioni, Laterza, Bari, 1998.<br />

7<br />

R. Arnheim, Pensieri sull’Educazione artistica (1989), Aesthetica, Palermo, 2007 2 , p. 71.<br />

8<br />

N. Goodman, I linguaggi dell’arte (1968), Il Saggiatore, Milano, 1976, p. 208.<br />

9<br />

Ch. Batteux, Le Belle <strong>Arti</strong> ricondotte a unico principio (1746), Aesthetica, Palermo,<br />

2002 4 . Per le “idealità” cfr. B. Croce Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale.<br />

Teoria e storia, Laterza, Bari, 1958 10 , p. 445.<br />

10<br />

U. Eco, La definizione dell’arte, Milano, Mursia, 1968, p. 266.<br />

11<br />

La scoperta, fatta dal team di neuroscienziati dell’Università di Parma diretto da Giacomo<br />

Rizzolatti, e comunicata nel 1996, va messa in relazione alle innovative ricerche del<br />

gruppo sulla corteccia pre-motoria specializzata nell’organizzazione dei movimenti. Come<br />

evidenziano i ricercatori nell’intervista fatta loro da P. Piazzano (Neuroni specchio, linguaggio<br />

e coscienza, L’intelligenza, “Le Scienze dossier”, 1, 1999, pp. 44-45) «nell’ambito di questi<br />

studi, abbiamo scoperto l’esistenza di neuroni la cui attività è correlata con l’organizzazione<br />

di quei movimenti della mano e della bocca che consentono di afferrare un oggetto. Una<br />

caratteristica di questi neuroni è quella di essere attivati non solo immediatamente prima e<br />

durante l’esecuzione del movimento, ma anche quando il soggetto, nel nostro caso scimmie<br />

macaco, guarda gli oggetti. Abbiamo chiamato questi neuroni, situati nell’area F5, neuroni<br />

canonici. […] I neuroni specchio sono praticamente identici ai neuroni canonici: anch’essi<br />

si attivano quando l’animale muove la mano per prendere un oggetto, anch’essi non inviano<br />

semplicemente comandi per fare contrarre i muscoli, ma piuttosto per uno “scopo” che<br />

richiede l’impiego coordinato di parecchi muscoli. Praticamente identici dal punto di vista<br />

motorio, questi neuroni si differenziano dai neuroni canonici in quanto non è la visione di un<br />

oggetto da afferrare ad attivarli, ma l’osservare un altro soggetto che compie un’azione. Non<br />

sono neuroni che “pianificano” un’azione, ma neuroni che “rispecchiano” un movimento:<br />

perciò li abbiamo chiamati neuroni specchio o, come ormai li chiamano tutti all’estero, mirror<br />

neurons». I neuroni specchio, studiati anche nell’uomo con tecniche di brain imaging, quasi<br />

da subito, sono stati presentati in coppia con l’empatia: «la nostra scoperta […] dice molto<br />

sull’empatia: propone cioè un meccanismo neurologico per spiegare come possiamo capire<br />

che cosa fanno gli altri», ibidem. Cfr. anche G. Rizzolatti e C. Sinigaglia, So quel che fai. Il<br />

cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina, Milano, 2006, dove “empatia” non è<br />

usato come “termine tecnico”, ma assume il significato di “compassione”. Il «coinvolgimento<br />

empatico», di cui parlano relativamente alle sole azioni, può benissimo dirsi, senza perdite e<br />

resti, “coinvolgimento emotivo”.<br />

12<br />

In realtà, sia D. Freedberg sia V. Gallese, si erano già, separatamente, occupati di<br />

empatia e neuroni specchio: D. Freedberg, Empatia, movimento ed emozione (2004), in G.<br />

Lucignani, A. Pinotti (a cura di), Immagini della mente. Neuroscienze, arte, filosofia, Cortina,<br />

Milano, 2007; V. Gallese, The “Shared Manifold” Hypothesis: From Mirror Neurons To Empathy,<br />

“Journal of Consciousness Studies”, 8/5-7, 2001; Id., Corpo vivo, simulazione incarnata<br />

e intersoggettività. Una prospettiva neuro-fisiologica, in M. Cappuccio (a cura di), La scienza<br />

della mente e la sfida dell’esperienza cosciente, Bruno Mondadori, Milano, 2006.<br />

13<br />

« Prevedo che i neuroni specchio saranno per la psicologia ciò che il dna è stato<br />

per biologia», V. S. Ramachandran, mirror neurons and imitation learning as the driving<br />

force behind “the great leap forward” in human evolution, http://www.edge.org/3rd_culture/<br />

ramachandran/ramachandran_p1.html<br />

14<br />

A. Pinotti, Du Bos, l’empatia e i neuroni-specchio, in L. Russo (a cura di), J.-B. Du Bos<br />

e l’estetica dello spettatore, “Aesthetica Preprint: Supplementa”, 15 (2005), p. 203. Cfr. anche<br />

A. Rainone, La riscoperta dell’empatia. Attribuzioni intenzionali e comprensione nella filosofia<br />

analitica, Bibliopolis, Napoli, 2005, che considera la “Teoria della simulazione” la versione<br />

aggiornata della teoria dell’empatia.<br />

15<br />

M. Geiger, Essenza e significato dell’empatia (1873), in A. Pinotti (a cura di), Estetica<br />

ed empatia. Antologia, Guerini, Milano, 1997, p. 61.<br />

16<br />

J. Brockman, La terza cultura. Oltre la rivoluzione scientifica, Milano, Garzanti, 1995.<br />

Cfr. anche G. Origgi (Paura della terza cultura? Il Sole-24 Ore, 26 febbraio 2006), il cui incipit<br />

è proprio sui neuroni specchio.<br />

258


17<br />

N. Goodman, cit., p. 47.<br />

18<br />

Ivi, p. 206.<br />

19<br />

R. Arnheim, Emozione e sentimento nella psicologia e nell’arte (1958), in Id., Verso<br />

una psicologia dell’arte. Espressione visiva, simboli e interpretazione (1966), Einaudi, Torino,<br />

1969, p. 372. Quanto alle “pure motivazioni o puri percetti” la concessione di Arnheim è la<br />

seguente: «Si può spogliare la fame dei suoi aspetti conoscitivi ed emotivi e classificarla come<br />

motivazione; e chiamare atto percettivo un triangolo azzurro non costituisce una falsificazione<br />

seria. Ma il fenomeno psicologico più rilevante resiste a tale trattamento», ivi, p. 371.<br />

20<br />

Ivi, p. 378.<br />

21<br />

N. Goodman, cit., p. 209.<br />

22<br />

R. Arnheim, Emozione e sentimento nella psicologia e nell’arte, cit., pp. 371 e 381,<br />

corsivo mio.<br />

23<br />

Id., Pensieri sull’Educazione artistica, cit., p. 72. «Ciò ha condotto al pregiudizio erroneo<br />

secondo il quale qualsiasi percezione dell’espressione è estetica», Id., La teoria gestaltica dell’espressione<br />

(1949), in Id., Verso una psicologia dell'arte, cit., p. 81. Arnheim (Arte e percezione<br />

visiva (1974 2) , Feltrinelli, Milano, 2002 17 , p. 362) definisce «l’espressione come l’insieme di<br />

quelle modalità del comportamento organico e inorganico che appaiono nell’aspetto dinamico<br />

degli oggetti e degli eventi percettivi».<br />

24<br />

N. Goodman, cit., p. 209, corsivi miei.<br />

25<br />

In Linguaggi dell’arte, non c’è riferimento alcuno ai teorici dell’empatia, mentre alla<br />

Langer sì: «Non ignoro affatto i contributi che filosofi come Cassirer, Peirce, Morris e la<br />

Langer hanno dato alla teoria dei simboli», ivi, p. 4.<br />

26<br />

R. Arnheim, Emozione e sentimento, cit., p. 381.<br />

27<br />

E anche i principî teorici elaborati dai suoi maestri, M. Wertheimer e W. Köhler, che<br />

sono lo sfondo necessario per percepire la figura. Su Arnheim cfr. l’importante monografia<br />

di I. Vestergen, Arnheim, Gestalt and Art. A Psychological Theory, Springer Wien New York,<br />

Austria, 2005.<br />

28<br />

J. LeDoux, Il cervello emotivo. Alle origini <strong>delle</strong> emozioni (1996) Baldini & Castoldi,<br />

Milano, 1998, p. 41. «So qualcosa di come l’emozione sia organizzata nel cervello e quindi<br />

non voglio che venga divorata dal mostro cognitivo» (ivi, p. 71). Trilogia mentale è il titolo<br />

di un capitolo di LeDoux, Il sé sinaptico. Come il nostro cervello ci fa diventare quelli che<br />

siamo, Raffaello Cortina, Milano, 2002. «Il pensiero non può essere pienamente compreso se<br />

non si tiene conto di emozioni e motivazioni» (ivi, p. 241).<br />

29<br />

D. Freedberg e V. Gallese (cit., p. 199), sostenendo che la «maggior parte della storia e<br />

della critica d’arte del xx secolo ha trascurato l’evidenza <strong>delle</strong> risposte emotive e ha privilegiato<br />

un approccio all’estetica interamente cognitivo e disincarnato», rimproverano a Goodman<br />

proprio questo: «ha enfatizzato che nell’esperienza estetica le emozioni funzionano cognitivamente».<br />

Freedberg prima si era spinto fino a considerare le relative affermazioni di Goodman<br />

come «epigrafe» per il suo Il potere <strong>delle</strong> immagini (p. 43), e più recentemente (Id., Empatia,<br />

movimento ed emozione, cit., p. 26) ha considerato Goodman «il solo pensatore ad avere visto<br />

il problema con chiarezza» prima di Damasio, LeDoux e Rizzolatti: «Goodman ha attaccato<br />

ciò che chiama “dispotica dicotomia fra cognitivo ed emotivo […]. Ciò impedisce precisamente<br />

di scorgere che nell’esperienza estetica le emozioni funzionano cognitivamente”. Abbiamo<br />

qui un autore che Antonio Damasio, con il suo progetto di combinare ragione ed emozione,<br />

avrebbe potuto citare con profitto». Curioso ripensamento! Un cambiamento e basta? Un<br />

necessario aggiustamento? Un’incompatibilità con la “simulazione incarnata”? O che altro?<br />

30<br />

R. Arnheim, Pensieri, cit., pp. 71-72.<br />

31<br />

I. Toth, Matematica ed emozioni, Di Renzo, Roma, 2004, pp. 57 e 55. Il titolo, che<br />

è anche il titolo di uno dei sette piccoli capitoli, e non certo dei più interessanti, in cui è<br />

articolato il volumetto, è poco rappresentativo della logica di fondo degli argomenti trattati,<br />

ma è molto in linea con il trend attuale.<br />

32<br />

Sul “lavoro emozionale’” cfr. C. Battistina, What is ‘Emotional Labour’?, http://www.<br />

thrivingandhome.com/emotional_labour.htm. «Il termine ‘lavoro emozionale’ viene impiegato<br />

in quattro significati principali»: “lavoro emozionale come prodotto”, “come sforzo soggettivo<br />

e abilità”, “come lavoro stressante”, “come ‘lavoro su di sé’”.<br />

33<br />

Preoccupazione comprensibile se si tiene presente che grazie a D. Goleman (Intelligenza<br />

emotiva. Che cos’è, perché può renderci felici, Rizzoli, Milano, 1996, p. 124) si è diffusa<br />

la convinzione che «l’assenza di empatia […] si osserva nei criminali psicopatici, negli stupratori<br />

e nei molestatori di bambini». In molta letteratura contemporanea “alessitimia” è il<br />

contrario di “empatia”.<br />

259


34<br />

D. A. Norman, Emotional Design. Perché amiamo (o odiamo) gli oggetti della vita quotidiana,<br />

Apogeo, Milano, 2004.<br />

35<br />

G. Carrada, Comunicare la scienza. Kit di sopravvivenza per ricercatori, Sironi, Milano,<br />

2005.<br />

36<br />

J. LeDoux, Il cervello emotivo, cit., pp. 41 e 45.<br />

37<br />

J. Elkins, Dipinti e lacrime. Storie di gente che ha pianto davanti a un quadro (2001),<br />

Bruno Mondadori, Milano, 2007. Le intense reazioni raccontate dall’autore sono soprattutto<br />

al passato: «Una volta nell’Italia tardomedievale, i dipinti potevano far piangere le persone,<br />

e non una volta sola, ma per anni. Potevano ferire gli spettatori, farli sanguinare; erano capaci<br />

di guarire, di colpire, persino di trasfigurare coloro che li guardavano. Certi osservatori<br />

subivano lesioni e restavano persino paralizzati; insomma venivano letteralmente aggrediti dai<br />

dipinti», ivi, pp. 181-82. Elkins si è ispirato a The Power of Images – «un magnifico compendio<br />

<strong>delle</strong> forti reazioni che avevano un tempo le persone e un atto d’accusa contro l’odierna<br />

mancanza di passione» – che gli ha «aperto gli occhi» sulla reazione, e gli ha suggerito di<br />

condurre l’indagine su «cosa possono ancora fare i dipinti, qui, ora», ivi, p. 220.<br />

38<br />

Sui consigli cfr. ivi, pp. 224-226. Se si è uno storico dell’arte, alle pagine 226-28 si<br />

trovano ulteriori consigli. Quanto alla sindrome di Stendhal non è Elkins a parlarne, ma i<br />

recensori e i lettori. Nel testo si cita la «sindrome di Niobe (storici dell’arte mossi al pianto<br />

da ciò che vedono)», tratta dalla lettera inviata a Elkins «da un famoso storico dell’arte che<br />

ignora le lacrime e non se ne pente» in risposta alla sua inchiesta. La domanda “Chi ha pianto<br />

di fronte a un quadro”, oltre alle lettere inviate da Elkins a colleghi e persone interessate<br />

all’arte, è apparsa sulla “New York Review of Books”, e in Internet sul sito del giornale<br />

olandese “Het Financieele Dagblad” e in quello di Gary Schwartz, lo studioso di Rembrandt.<br />

Le risposte ottenute, via mail e via posta normale, sono state quattrocento, più un numero<br />

imprecisato di telefonate.<br />

39<br />

Ivi, quarta di copertina, corsivo mio. Il termine “empatia” è una scelta di politica<br />

editoriale, non giustificata dal contenuto del libro, ma, verosimilmente, dal successo arriso al<br />

termine dalla fine dagli anni novanta del Novecento a oggi. Non mi occuperò del significato<br />

usuale della parola che è presente nella maggior parte dei testi, bensì del significato tecnico,<br />

vale a dire della esplicita ripresa di una nozione filosofica ottocentesca – l’Einfühlung – che<br />

relativamente ai processi della mente chiama in causa il meccanismo della “proiezione”. Il problema<br />

di Elkins, comunque, è quello di «riabilitare le lacrime» (ivi, p. 41), non l’empatia: per<br />

lui l’emozione fino alle lacrime (e reazioni emotive più forti) è causata dal “proprio” dell’immagine,<br />

non da ciò che vi proietta il fruitore. Non che la parola “empatia” sia assente, assenti<br />

sono i teorici dell’empatia estetica e le loro teorizzazioni. “Empatia” – inserita nell’elenco <strong>delle</strong><br />

«strane parole», «pesi morti come “enigma” e “abietto”» o “aura” e “numinoso”– definita «un<br />

involontario, incontrollabile flusso di emozioni che fonde osservatore e osservato», è per lui<br />

«un espediente per non nominare Dio», ivi, 193. Perciò, a chiusura del libro, il suggerimento<br />

dato al lettore – «Affidati alla vista, pronto ad accettare qualsiasi cosa ti capiti di vedere:<br />

potrebbe essere la sola chiave di cui hai bisogno» – è preceduto dal richiamo al divino che<br />

«filtra attraverso tutto quanto è stato scritto sull’arte moderna, ma è il pensiero che non osa<br />

pronunciarne il nome», ivi, p. 229.<br />

40<br />

Su «una secrezione speciale di ghiandole estetiche» ha ironizzato N. Goodman. Molecole<br />

di emozioni: Il perché <strong>delle</strong> emozioni che proviamo, è il titolo di un libro di C. Pert del<br />

1997 (trad. it., Corbaccio, Milano, 2000).<br />

41<br />

Già Th. Lipps (Empatia e godimento estetico (1903-1906), in G. Vattimo, a cura di,<br />

Estetica moderna, Il Mulino, Bologna, 1977, pp. 179-80) lamentava che «“Empatia” è un<br />

termine che può essere frainteso e di fatto è molto frainteso. Anzitutto molta gente intende<br />

con il termine “sentimento” solo i sentimenti di piacere e dispiacere, o fa coincidere senz’altro<br />

la parola “sentire” (Fühlen) con il provare piacere o dispiacere. Per chi limita così illegittimamente<br />

il senso del termine sentimento (Gefühl), la “empatia” che pure indica un sentire, un<br />

Fühlen, non merita di essere chiamata sentimento. Ciò che io empatizzo, infatti, è, in senso<br />

estremamente generale, vita. […] Supponendo però che qualcuno si ostini a identificare i “sentimenti”<br />

(Gefühle) con i “sentimenti di piacere e dispiacere” tutta questa empatia non potrà<br />

per lui chiamarsi tale, Einfühlung. Questi dovrà allora mettere al posto del termine empatia<br />

una parola diversa». Oggi che è diventato un termine di moda, nella ricerca scientifica e sulla<br />

bocca di tutti, i fraintendimenti non si contano. D’accordo, le parole non hanno copyright, ma<br />

il linguaggio specialistico ha le sue regole. Per L. Boella (Empatia: parola sbagliata, parola difficile?,<br />

http://www.comune.roma.it/repository/ContentManagement/information/P1368901155/<br />

laura_boella.pdf, 2007) «è abbastanza sconcertante che nel linguaggio impoverito dei giornali<br />

260


e <strong>delle</strong> riviste se ne faccia grande uso, in realtà senza saper bene di che cosa si stia parlando».<br />

Che «l’empatia è un neologismo» o che «la parola empatia fu usata per la prima volta in<br />

Germania da Titchener a proposito di “sentire dentro”, e deriva forse dalla parola greca empatheia»<br />

non sono frutto del “linguaggio impoverito dei giornali e <strong>delle</strong> riviste” ma affermazioni<br />

tratte da testi “scientifici”. Purtroppo, «rara è la piena responsabilità nell’uso <strong>delle</strong> parole»,<br />

come evidenzia Roberta De Monticelli, La vita pensata, in M. Cappuccio, a cura di, cit., p. 5.<br />

42<br />

È il titolo di un libro di F. Bonami (Mondadori, Milano, 2007) che, come recita il<br />

sottotitolo, mira a spiegare Perché l’arte contemporanea è davvero arte.<br />

43<br />

Th. Lipps, Estetica (1908), in A. Pinotti (a cura di), Estetica ed empatia. Antologia,<br />

Guerini, Milano, 1997, p. 190, corsivo mio. L’obiezione non è ovviamente rivolta a Lipps, che<br />

ha teorizzato “l’io che contempla” – una sorta di “soggetto estetico” che fa il paio col “soggetto<br />

epistemico” glorificato dalla filosofia moderna – e si è premunito dall’obiezione: «Questo<br />

piacere della simpatia non solo ha sempre luogo nella contemplazione estetica, ma nella sua<br />

piena purezza è possibile solo nella contemplazione estetica. Nella vita di tutti i giorni l’“uomo”<br />

in me è sempre più o meno negato, e ciò avviene per via del mio capriccio, del mio stato<br />

d’animo, della mia disposizione o dei reali interessi della vita. Da tutto ciò vengo liberato nella<br />

pura contemplazione estetica; in essa io sono appunto soltanto l’io che contempla. E questo io<br />

liberato dalla realtà della vita, questo “uomo” puro, io posso sentirlo affermato solo nell’oggetto<br />

intuito esteticamente, e in tale affermazione posso sentirmi pieno di gioia», ivi, pp. 190-91.<br />

44<br />

I fraintendimenti a cui è andato incontro il “disinteresse” kantiano sono sintomatici e<br />

indicativi <strong>delle</strong> difficoltà di attenersi alle altrui definizioni.<br />

45<br />

W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco (1928), Einaudi, Torino, 1971, pp. 24 e 38.<br />

46<br />

D. Freedberg, Il potere <strong>delle</strong> immagini. Il mondo <strong>delle</strong> figure: rea zioni e emozioni del<br />

pubblico (1989), Einaudi, Torino, 1993, pp. 9 e 42, corsivo mio.<br />

47<br />

Se il riferimento è a E. Husserl, l’empatia – che non è quella <strong>delle</strong> teorie estetiche – o<br />

empatia per «l’animazione del mondo subumano», come l’ha chiamata M. Geiger, (Essenza e<br />

significato dell’empatia, 1911, in A. Pinotti, a cura di, cit., p. 79) – è da lui assunta in modo<br />

critico: «si tratta di una “parola sbagliata”» (L. Boella, L’empatia nasce nel cervello? La comprensione<br />

degli altri tra meccanismi neuronali e riflessione filosofica, in M. Cappuccio, a cura di,<br />

cit., p. 328. Cfr. anche L. Scarpat, Un’espressione sbagliata e un penoso enigma, “Leitmotiv”,<br />

3/2003). Nondimeno, la usa (e non solo nel citatissimo § 46 di Idee per una fenomenologia<br />

pura e per una filosofia fenomenologica, ii, Einaudi, Torino, 2002) relativamente all’“essere<br />

altrui”, all’intersoggettività costitutiva del “mondo della vita” e non alle immagini: l’esperienza,<br />

in quanto tale, è intersoggettiva, e i «soggetti singoli son provvisti di sistemi costitutivi<br />

coerenti che si corrispondono l’un l’altro» (Meditazioni cartesiane e i discorsi parigini, 1950,<br />

Bompiani, Milano, 1960, § 49, pp. 157-58). «L’auto-coscienza e la coscienza dell’estraneo sono<br />

inseparabili a priori. […] In altre parole: ognuno di noi ha il proprio mondo-della-vita e lo<br />

concepisce come il mondo per tutti. […] Il mondo è questo: un altro mondo non ha per noi<br />

alcun senso. […] Le anime non sono in un rapporto di esteriorità, sono bensì interne l’una<br />

all’altra, unificate attraverso l’inerenza intenzionale della loro comunità di vita: […]. E [ogni<br />

anima] ha coscienza del mondo perché ha esperienze entropatiche, perché ha una coscienza<br />

sperimentale degli altri in quanto aventi il mondo e in quanto aventi lo stesso mondo, di<br />

altri che appercepiscono il mondo attraverso appercezioni proprie» (E. Husserl, La crisi <strong>delle</strong><br />

scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Introduzione alla filosofia fenomenologica,<br />

1954, Il Saggiatore, Milano, 1961, pp. 273-74). In sostanza in Husserl abbiamo ancora la<br />

parola, ma non più il concetto: l’a priori dell’intersoggettività ha reso assolutamente inutile<br />

il meccanismo “soggettivo” di proiezione. E però, poiché la parola si trova nei testi del fondatore<br />

della fenomenologia, continua a sembrare necessario, per un corretto atteggiamento<br />

fenomenologico, assumerla. Così, ad esempio, F. J. Varela, Neurofenomenologia. Un rimedio<br />

metodologico al “problema difficile”, in M. Cappuccio, a cura di, cit., pp. 75, 79 e 91. Persino<br />

L. Boella (L’empatia nasce nel cervello, cit., pp. 329-30), nonostante abbia presente le<br />

perplessità di Husserl, e nonostante riconosca che dopo Essere e tempo di Heidegger – ma<br />

in tutta letteratura recente che si ispira alla fenomenologia la grande assente è la fenomenologia<br />

sperimentale, ovvero la psicologia della Gestalt – «intere biblioteche sull’empatia,<br />

sulla comprensione e sull’incontro con l’altro avrebbero potuto essere mandate al macero»,<br />

arresta la critica e soccombe al fascino travolgente dell’empatia: «Il senso comune sulla nostra<br />

natura intersoggettiva […] ha sicuramente spiazzato il pensiero sull’empatia, ma rende anche<br />

possibile il rilancio, oggi, di un tema tanto ambiguo e complicato, ma anche tanto vitale». E<br />

il rilancio, neanche a dirlo, lo si giustifica con i neuroni specchio.<br />

48<br />

Così, ad esempio, li chiamava Leonardo da Vinci (Trattato della pittura, Edizioni Libri<br />

261


d’arte, Roma, §§ 119, pp. 365 e 372), per il quale «la più importante cosa che ne’ discorsi<br />

della pittura trovar si possa, sono i movimenti appropriati agli accidenti mentali di ciascun<br />

animale, come desiderio, sprezzamento, ira, pietà e simili», e si preoccupava di illustrare il<br />

«moto dell’irato, del dolore, della paura, dello spavento subíto, del pianto, della fuga, del<br />

desiderio, del comandare, della pigrizia e della sollecitudine, e simili», nella profonda convinzione<br />

che «se le figure non fanno atti pronti i quali colle membra esprimano il concetto<br />

della mente loro, esse figure sono due volte morte, perché morte sono principalmente ché la<br />

pittura, in sé non è viva, ma esprimitrice di cose vive senza vita, e se non le si aggiunge la<br />

vivacità dell’atto, essa rimane morta la seconda volta». È interessante annotare, come scrive<br />

E. Gombrich a Elkins (cit., p. 241), che per Leonardo «le lacrime disturbano le emozioni».<br />

49<br />

Th. Lipps, Estetica, cit., 183 e 185, corsivo mio.<br />

50<br />

Th. Lipps, Ästhetik. Psychologie der Schönen und der Kunst (1903-1906), e Id., Leitfaden<br />

der Psychologie (1903), citt. in M. R. De Rosa, Theodor Lipps. Estetica e critica <strong>delle</strong> arti,<br />

Guida, Napoli, 1990, pp. 32 e 26.<br />

51<br />

W. Köhler, La psicologia della Gestalt (1947 2) , Feltrinelli, Milano, 1961, p. 171. Se la<br />

critica radicale fatta dai gestaltisti alle due sostanze e al concetto di proiezione (cfr. anche<br />

Id., An Old Pseudoproblem, 1928, in M. Henle, Ed., The Selected Papers of Wolfgang Köhler,<br />

Liveright, New York, 1971) fosse stata tenuta presente, L’errore di Cartesio di Damasio non<br />

avrebbe procurato l’effetto di novità con cui il mondo scientifico l’ha accolto; né il “rilancio”<br />

dell’empatia, – dopo la scoperta dei neuroni specchio l’empatia è considerata neurologicamente<br />

fondata – avrebbe suscitato tanto acritico entusiasmo.<br />

52<br />

W. Köhler, La psicologia della Gestalt, cit., pp. 187-88. Il concetto di “incontrabilità”<br />

è di W. Metzger, I fondamenti della psicologia della gestalt (1963 3 ), Giunti-Barbèra, Firenze,<br />

1971, p. 30. Il tuono di Köhler richiama il temporale di Lipps e la complicata spiegazione che<br />

quest’ultimo è stato costretto a darne (Empatia e godimento estetico, in G. Vattimo, a cura di,<br />

Estetica moderna, cit., p. 180). Nel temporale Lipps trova “furia” e “minaccia”, qualità che la<br />

teoria della percezione, elementista e meccanicistica, non considerava minimamente, né tanto<br />

meno era in grado di spiegare: «Se è vero che l’attività, per esempio ciò che significano le<br />

parole “furia” e “minaccia”, non posso né vederla né udirla, ma solo sentirla in me; e se è<br />

vero d’altra parte che trovo qualcosa di questo tipo in un oggetto sensibile, ciò vorrà dire<br />

necessariamente che io trovo me stesso nell’oggetto sensibile. Io mi esperisco, mi sento in<br />

esso». Per i gestaltisti «l’errore fondamentale di questa teoria [l’empatia] – prescindendo dal<br />

notevole arbitrio con cui viene applicata – consiste nel fatto di non avere preso abbastanza<br />

sul serio la sua scoperta di strutture dinamiche nella percezione della realtà esterna, di non<br />

avere cioè considerato queste strutture come proprietà originarie <strong>delle</strong> configurazioni percettive<br />

ma come “proiezioni empatiche”, come aggiunte la cui origine veniva cercata all’interno<br />

dell’osservatore, quindi fuori dalle configurazioni percepite». Errore «inevitabile al tempo in<br />

cui tale teoria fu concepita» (W. Metzger, cit., p. 77), ma oggi, dopo la Gestalt – le evidenze<br />

empiriche prodotte e la rigorosa elaborazione teorica con cui le hanno corredate – il “necessariamente”<br />

di Lipps è venuto meno.<br />

53<br />

W. Worringer, Astrazione e empatia (1907), Einaudi, Torino, 1975, p. 35. Anche R.<br />

Vischer (Sul sentimento ottico della forma, 1873, in A. Pinotti, a cura di, cit., p. 116) parla<br />

di mistero: «Proietto dunque la mia stessa vita individuale nella forma priva di vita, […], e<br />

tuttavia mi trovo misteriosamente trasferito e magicamente trasformato in questo non-io».<br />

54<br />

Vedi nota 41.<br />

55<br />

Leonardo da Vinci, Trattato della pittura, cit., § 119.<br />

56<br />

R. Arnheim, Wilhelm Worringer. Astrazione e empatia (1967), in Id., Arte e intelletto.<br />

Nuovi saggi di psicologia dell’arte, Feltrinelli, Milano, 1987, pp. 74 e 73. Elkins (cit., pp. 178-<br />

181) che riporta lo stesso racconto, ma per parlarci dell’«ardente intensità con cui la Santa<br />

guardava le immagini», e di come, purtroppo, oggi «la pietas di santa Caterina si è volatizzata»,<br />

aggiunge che la Santa «da quel momento, fino alla fine dei suoi giorni, fu paralizzata<br />

dalla cintola in giù […] paralizzata da un’immagine ». Se il dipinto di Giotto le avrebbe<br />

procurato la paralisi, a causarle le stigmate sarebbe stato un crocifisso. E non si pensi che<br />

per Elkins la Santa sia un caso eccezionale, anzi, «da santa Caterina in poi, i devoti hanno<br />

avuto spontanei sanguinamenti di fronte a <strong>delle</strong> immagini».<br />

57<br />

R. Arnheim, Pensieri, cit., p. 74.<br />

58<br />

R. Arnheim, The feeling Gaze, “The Times Literary Supplement”, 4512, 1989, p. 1033.<br />

Su Lévy-Bruhl e noi e i “primitivi” cfr. anche W. Köhler, Note psicologiche su alcune questioni<br />

di antropologia (1937), in M. Henle (a cura di), 1961, Documenti di psicologia della forma,<br />

Bompiani, Milano, 1970.<br />

262


59<br />

E. Gombrich, The Edge of Delusion, http://www.gombrich.co.uk/showrev.php?id=40<br />

60<br />

D. Freedberg, Holy Images and Other Images, in S. C. Scott, ed., The Art of Interpreting<br />

(Papers in Art History from the Pennsylvania State University), The Pennsylvania State<br />

University, 1996, pp. 75-76.<br />

61<br />

È stato H. Werner (<strong>Psicologia</strong> comparata dello sviluppo mentale, 1948 3 , Giunti-Barbera,<br />

Firenze, 1970, p. 71) a chiamare le qualità espressive “fisiognomiche”: «Poiché la fisionomia<br />

umana può essere adeguatamente percepita solo in rapporto alla sua espressione immediata,<br />

ho proposto il termine di “percezione fisiognomica”» per le proprietà dinamiche degli oggetti.<br />

Se teniamo presente che la definizione di fisiognomica data dai dizionari è lo «studio dei rapporti<br />

tra i caratteri corporei, specialmente i tratti del viso, e i caratteri psicologici degli esseri<br />

umani», ci rendiamo conto del fatto che nell’uso di fisiognomico per espressivo è implicito<br />

che solo l’essere animato possegga espressione.<br />

62<br />

R. Arnheim, Verso una psicologia dell’arte, cit., pp. 73-74.<br />

63<br />

R. Arnheim (Aspetti percettivi ed estetici della risposta motoria, 1951, in Id, Verso una<br />

psicologia dell’arte, cit., pp. 107-108), criticando l’interpretazione basata sulla teoria dell’empatia<br />

<strong>delle</strong> “risposte motorie” al test <strong>delle</strong> macchie di inchiostro, evidenzia che Rorschach e i<br />

rorschachisti ignorano che «le componenti dinamiche della visione sono parte della percezione<br />

nella stessa misura in cui lo sono la forma e il colore. Esse vengono localizzate dall’osservatore<br />

nell’oggetto percepito stesso. Non sono più “soggettive” di quanto lo siano la forma o<br />

la dimensione».<br />

64<br />

R. Arnheim, La teoria gestaltica dell’espressione, cit., p. 75.<br />

65<br />

Th. Lipps, Empatia e godimento estetico, cit., p. 180: «“Empatia” significa anzitutto che<br />

ciò che io empatizzo – per esempio forza o gioia o malinconia – non è nulla di visibile o di<br />

udibile, in una parola nulla di percepibile con i sensi, ma che tutto ciò io lo posso esperire<br />

e sentire soltanto in me stesso». Per Lipps non può essere percezione esterna, data la teoria<br />

della percezione del tempo, non è solo percezione interna, dato che io trovo “forza o gioia o<br />

malinconia” all’esterno, quindi è proiezione del soggetto sull’oggetto, dell’interno sull’esterno.<br />

66<br />

D. Freedberg e V. Gallese, Motion, emotion and empathy in esthetic experience, “trends<br />

in Cognitive Sciences” 11 (2007), 5, pp. 202, 201 e 197.<br />

67<br />

Ivi, pp. 200-201.<br />

68<br />

Cito da M. Merleau-Ponty (Fenomenologia della percezione, 1945, Il Saggiatore, Milano,<br />

1965, pp. 294 e 417) – ma, trattandosi di percezione, avrei potuto citare la psicologia<br />

della Gestalt – perché è presente nel testo di Freedberg e Gallese. Per Freedberg vedi nota<br />

46. Quanto a V. Gallese i riferimenti alla fenomenologia sono presenti in molti suoi saggi e<br />

persino nelle interviste sui quotidiani. Così, ad esempio, riporta F. Cimatti (“Il Manifesto”, 22-<br />

05-2005): «i risultati <strong>delle</strong> nostre ricerche si avvicinano alle riflessioni offerte dalla prospettiva<br />

teorica fenomenologica di autori come Husserl e Merleau-Ponty».<br />

69<br />

D. Freedberg e V. Gallese, cit., p. 197.<br />

70<br />

A meno di non accettare la serie di presupposti che hanno portato il cognitivista a<br />

teorizzare uno specifico meccanismo indiretto – “Teoria della mente” o “Teoria della simulazione”<br />

– per spiegare la comprensione della mente altrui, quali, in primo luogo, il solipsismo e<br />

il rappresentazionalismo. «La percezione sarebbe la rappresentazione soggettiva di un mondo<br />

esterno, che può essere indirettamente conosciuto con molti attendibili mezzi, la descrizione<br />

dei quali implica l’ impossibilità che esso sia avvertito direttamente, come ad esempio sono avvertiti<br />

direttamente gli oggetti che vedo in questa stanza e gli alberi che sono oltre la finestra».<br />

Nondimeno, «quale che sia la definizione che vogliamo dare al termine “rappresentazione”<br />

non possiamo mai dire: “tutto è rappresentazione”. […] Possiamo dunque sensatamente dire<br />

solo che “non tutto è rappresentazione”, e porci di fronte al problema di che cosa – nell’esperienza<br />

– rappresenta qualcos’altro, e a quali condizioni» (P. Bozzi, Experimenta in visu.<br />

Ricerche sulla percezione, Guerini, Milano, 1993, pp. 134 e 136). Per le stesse ragioni “non<br />

tutto è simulazione”. Ma queste sono ragioni della fenomenologia sperimentale, purtroppo<br />

non riconosciute dal paradigma di volta in volta egemone nella psicologia. Così dopo l’iconoclastia<br />

del comportamentismo, e bypassando la Gestalt, il cognitivismo riabilita, non le attività<br />

del vivente (in primo luogo percepire e appetire), che lungo la scala filogenetica diventano<br />

sempre più complesse e diversificate (pensare, memorizzare, desiderare, emozionarsi, immaginare,<br />

credere, sperare, progettare, ecc.), ma la mente: un’astrazione sostanzializzata e, in<br />

ultimo, “incarnata”. E poiché, come ai tempi di Köhler (La psicologia della Gestalt, cit., pp.<br />

170 e 172), «i teorici suppongono che i processi mentali e i concomitanti fatti del comportamento<br />

non abbiano nulla in comune», e, contrariamente alla Gestalt per la quale emozioni<br />

e pensieri «tendono a esprimersi nel comportamento della gente così come lo percepiamo»<br />

263


– comportamenti “non-comportamentistici” – il cognitivismo sostiene che per interagire con<br />

gli altri siano necessari rappresentazioni o simulazioni, vale a dire: “Teoria della mente” o<br />

“Teoria della simulazione”. Tertium non datur. I neuroni specchio, secondo l’interpretazione<br />

che se ne dà, porterebbero acqua al mulino della “Teoria della simulazione”. Fermo restando<br />

che «il sistema dei neuroni specchio appare così decisivo per l’insorgere di quel terreno d’esperienza<br />

comune che è all’origine della nostra capacità di agire come soggetti non soltanto<br />

individuali ma anche e soprattutto sociali», il che, mostrando «quanto radicato e profondo<br />

sia il legame che ci unisce agli altri, ovvero quanto bizzarro sia concepire un io senza un noi»<br />

(G. Rizzolatti e C. Sinigaglia, cit., p. 4), confuta il solipsismo, resta da vedere quanto confermi<br />

il rappresentazionalismo della simulazione, sia pure “incarnata”, e il complicato meccanismo<br />

proiettivo dell’empatia. Gallese (cit., p. 304), ci assicura che conferma il primo e il secondo<br />

sembra conseguire: «La ricerca neuroscientifica ci dice che le cose stanno proprio così. Il<br />

nostro cervello è infatti dotato di neuroni […] che si attivano sia quando compiamo un’azione<br />

che quando la vediamo eseguire da altri. Sia le predizioni che riguardano le nostre azioni, sia<br />

quelle che riguardano le azioni altrui, possono quindi essere caratterizzate come processi di<br />

modellizzazione fondati sulla simulazione. La stessa logica che presiede alla modellizzazione<br />

<strong>delle</strong> nostre azioni presiede anche a quella <strong>delle</strong> azioni altrui. Percepire un’azione – e comprenderne<br />

il significato – equivale a simularla internamente». Il fatto e l’interpretazione sono<br />

messi sullo stesso piano, e dal “possono” si scivola inavvertitamente al “così è”. «È impossibile<br />

la costituzione di altre persone indipendentemente da noi, e viceversa è impossibile la<br />

nostra propria costituzione come persone indipendentemente dagli altri. Quando cerchiamo<br />

di comprendere il significato del comportamento altrui, il nostro cervello crea dei modelli<br />

del comportamento altrui allo stesso modo in cui crea modelli del nostro comportamento» (ivi,<br />

p. 314). Ancora una volta il secondo periodo non consegue direttamente dal primo, relativo<br />

alla creazione di “modelli del sé/altro”, bensì dall’opzione teorica del ricercatore per il cognitivismo.<br />

E poi, se è il cervello a creare, come fa il neuroscienziato a sapere se il cervello<br />

crea modelli o teorie? Quali sono le differenze nel funzionamento dei neuroni specchio che<br />

possano far decidere per i primi piuttosto che per le seconde? A parte il piccolo particolare<br />

che la “Teoria della simulazione” condivide con la teoria rivale il solipsismo, poiché creare<br />

modelli non è meno sofisticato che elaborare teorie, che i modelli non siano in formato proposizionale,<br />

come le teorie, non risolve il problema <strong>delle</strong> menti senza linguaggio dei bambini<br />

piccoli e dei primati. Gli umani, e non gli animali, creano sì modelli e teorie – è questo il<br />

vero “Rubicone mentale” tra primati umani e animali – ma esternamente, tramite segni e disegni,<br />

e non internamente. Se del mondo avessimo solo teorie e simulazioni, neanche fossimo<br />

computer, come distinguere il mondo e le rappresentazioni che del mondo facciamo? Anche<br />

ignorando la Gestalttheorie e la dissoluzione operata del meccanismo proiettivo dell’empatia,<br />

«se la fenomenologia scelta è quella di Husserl, è necessario assumere un’interpretazione del<br />

metodo e della portata che potrà risultare fortemente deflazionistica», giusta l’osservazione di<br />

C. Calì (Neuroestetica e fenomenologia. Per una teoria fenomenologia della percezione pittorica,<br />

in M. Cappuccio, cit., p. 206).<br />

71<br />

Ibidem.<br />

72<br />

“La Repubblica”, 15-05-2007.<br />

73<br />

S. Zeki, La visione dall’interno. Arte e cervello, 1999, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.<br />

Sebbene nella Prefazione all’edizione italiana si parli di «basi neurologiche dell’esperienza<br />

estetica», l’unica cosa di sensato che, a conclusione, si possa dire è che l’esperienza estetica<br />

«non è possibile in alcuna forma senza la partecipazione attiva e non inficiata da patologie<br />

<strong>delle</strong> aree visive con le relative proprietà fisiologiche». Relativamente ai vari stili artistici “neurologicamente”<br />

esaminati, troviamo continuamente ripetuto che se quanto si percepisce sia<br />

anche un’esperienza estetica o no non lo si può ancora sapere. In realtà «siamo ancora lontani<br />

dal comprendere come il cervello percepisce l’opera intera, e ancora di più dal sapere come<br />

le attribuisce una qualità estetica» (ivi, pp. 9, 245-46 e 153). Considerando l’arte di Mondrian<br />

e di Malevič, mentre si riconosce che «se le risposte di queste cellule selettive all’orientazione<br />

diano anche l’esperienza estetica è una domanda alla quale i neurologi non sono ancora<br />

pronti a rispondere», si sostiene che l’arte moderna, nella sua ricerca degli “universali <strong>delle</strong><br />

forme”, si sarebbe «sempre più conformata alla fisiologia <strong>delle</strong> aree visive e in particolare alle<br />

reazioni <strong>delle</strong> loro cellule, poiché la funzione di quelle aree è proprio quella di estrarre le<br />

caratteristiche essenziali da ciò che si vede. Si ha qui una Einfühlung, termine intraducibile<br />

equivalente a “empatia, fusione emotiva”, che indica un collegamento tra le forme “preesistenti”<br />

nell’individuo e le forme del mondo esterno che vi si riflettono». In nota si precisa che<br />

il concetto di Einfühlung fu introdotto in Estetica da R. Vischer e «approfondito e applicato<br />

264


all’arte astratta da Wilhelm Worringer», al quale si rimprovera di essersi orientato «verso una<br />

spiegazione non neurobiologica dell’arte astratta» (ivi, pp. 138 e 126). Ma è l’impresa stessa<br />

della neuroestetica a essere discutibile. Non è che “siamo ancora lontani dal comprendere<br />

come il cervello percepisca l’opera e dal sapere come le attribuisca una qualità estetica” – e un<br />

giorno lo scopriremo – per il semplice fatto che non è il cervello a percepire, né tanto meno<br />

– anche a considerare che cervello sta per mente – può far parte della storia evolutiva della<br />

mente attribuire qualità estetiche alle opere: sono le creature umane, sempre inserite in epocali<br />

contesti temporo-spaziali, a negoziare, l’attribuzione di qualità culturali quali quelle estetiche,<br />

e a definire, ridefinire e s-definire ciò che è arte, come, in modi diversi, ciò che è scienza.<br />

265


Espressione: empatia o percezione? *<br />

«Si definisce l’espressione come l’insieme di quelle modalità del<br />

comportamento organico e inorganico che appaiono nell’aspetto dinamico<br />

degli oggetti e degli eventi percettivi» 1 . Un gesto, un volto «una<br />

fiamma, una foglia volteggiante, l’urlo di una sirena, un salice, una rupe<br />

scoscesa, una sedia Luigi xv, le crepe nel muro, il calore di una teiera<br />

di porcellana, il dorso irto di un porcospino, i colori del tramonto, una<br />

fontana, il lampo e il tuono, i movimenti sussultanti di un pezzo di filo<br />

ricurvo: tutto ciò trasmette espressione» 2 .<br />

Parafrasando Theodor Lipps, ma invertendo gli elementi del rapporto,<br />

osservo che esiste un termine che sembra indicare la stessa cosa<br />

designata dal termine “espressione”, ossia il termine “empatia” (Einfühlung).<br />

«Un gesto – così dico – mi esprime gioia o tristezza. Le forme<br />

di un corpo mi esprimono forza o salute. Il paesaggio mi esprime uno<br />

stato d’animo [Stimmung]. Tale “esprimere” significa in effetti esattamente<br />

ciò che significa il termine empatia» 3 .<br />

Ma allora perché non usare il termine “espressione”? Perché, ci<br />

dice Lipps, «il concetto di “espressione” è più ampio di quello di<br />

“empatia”. Dico anche: una proposizione mi esprime un giudizio. Non<br />

dico però: empatizzo nella proposizione il giudizio. Certo, lo posso<br />

dire, però è una locuzione che suona piuttosto male. Il perché risulta<br />

chiaro a chiunque: un giudizio, si dirà subito, non è una “cosa sentimentale”.<br />

Il giudizio è un atto logico, è l’atto del riconoscimento di<br />

uno stato di cose. Senza dubbio, nel compierlo, esperisco questo atto<br />

in me. Ma non dico di sentirlo. Mi trovo interiormente a pronunciare<br />

questo o quel giudizio, ma non mi “sento” giudicante allo stesso modo<br />

in cui mi sento invece appassionatamente eccitato, energicamente teso<br />

ecc.; oppure, detto più brevemente, non sento il giudizio come “sento”<br />

l’eccitazione passionale» 4 .<br />

* Pubblicato in L. Russo (a cura di), Logiche dell’espressione, “Aesthetica Preprint”,<br />

85 (aprile 2009), pp. 63-74, che raccoglie gli interventi presentati nell’omonimo<br />

Seminario promosso dal Centro Internazionale Studi di Estetica in collaborazione con<br />

il Dottorato di Ricerca in “Estetica e teoria <strong>delle</strong> arti” dell’Università degli Studi di<br />

Palermo (Palermo, 9-10 ottobre 2008).<br />

267


Se le cose effettivamente stessero così – vale a dire: se “espressione”<br />

significasse esattamente ciò che significa il termine empatia e la<br />

differenza tra i due riguardasse la maggiore o minore estensione – lo<br />

spazio logico del mio intervento verrebbe meno. Anche il significato di<br />

espressione, riportato all’inizio, non collima con il significato che l’uso<br />

corrente assegna al termine, legato com’è – quest’ultimo – alla mente,<br />

all’esprimersi dell’uomo e dell’animale, per cui «si presuppone che la<br />

pietra, la cascata e il fulmine non abbiano espressione se non in senso<br />

figurato, per analogia col comportamento umano» 5 . Ma non si tratta<br />

solo di questo. I termini si possono sempre ridefinire per le esigenze<br />

scientifiche, e, in effetti, la definizione di espressione data all’inizio, è<br />

in realtà una ridefinizione dell’uso comune.<br />

Il fatto di cui le ragioni esplicitate da Lipps per la sua scelta non<br />

rendono conto è che fin dalla sua nascita il concetto di empatia si basa<br />

sul meccanismo di proiezione: «per la mia coscienza nel corpo dell’altro<br />

si trova un essere psichico, un io. Di un io, di una coscienza, di volontà<br />

e sentimenti, tuttavia, io so solo grazie al mio proprio vissuto. Conosco<br />

tristezza e collera solo a partire da me stesso. E così, in termini psicologici,<br />

gli io estranei non sono altro che riproduzioni del mio proprio<br />

io. I loro sentimenti sono riproduzioni dei miei propri sentimenti, che<br />

io trasferisco [hineinverlege], empatizzo dentro [hineinfühle], empatizzo<br />

[einfühle] nel corpo dell’altro. Questo è il ragionamento che domina<br />

l’intera letteratura critica sull’empatia» 6 . La proiezione del soggetto<br />

sull’oggetto – tratto comune alle varie teorie dell’empatia – fa, quindi,<br />

parte del dna del termine. Come dice Robert Vischer, che inaugura la<br />

“svolta empatica” dell’estetica, «si tratta di un inconscio trasferimento<br />

della propria forma corporea e quindi anche dell’anima nella forma<br />

dell’oggetto» 7 .<br />

Empatia o percezione? L“o”, nel senso di aut, sembra entrare in<br />

rotta di collisione con l’uso corrente del termine empatia: Percepire le<br />

emozioni altrui, per l’appunto, come recita il sottotitolo di un recente<br />

titolo, L’empatia. In realtà, se nel passato si fosse stati convinti che si<br />

percepisce l’orgoglio come si percepisce il rosso o il quadrato, non<br />

ci sarebbe stato bisogno di ricorrere all’empatia. E di questo i teorici<br />

dell’empatia erano ben consapevoli: «se la collera dell’altro mi sta di<br />

fronte come qualcosa di distinto da me, a me estraneo, dotato della<br />

stessa evidenza intuitiva di un colore che io vedo, allora non ha alcun<br />

senso continuare a parlare di un vissuto dell’empatia» 8 . Che si ricorra<br />

all’empatia per la “collera”, ravvisata nel corpo altrui, significa, contemporaneamente,<br />

sia che l’espressione è un proprio vissuto, sia che<br />

è proiettato nell’altro da sé, sia che non è percepibile, bensì, propriamente,<br />

“empatizzato”.<br />

Sosterrò, seguendo la Gestaltpsychologie, che percepiamo le espressioni<br />

non meno che i colori e le forme, e che – se ai teorici fine Ottocento<br />

inizi Novecento va riconosciuto il merito di avere richiamato<br />

268


l’attenzione sulle qualità espressive e sull’effetto di risonanza corporea<br />

che tali qualità possono suscitare nel soggetto – è la loro spiegazione<br />

a fare problema.<br />

«Io vedo un uomo in collera o triste, allegro o di malumore – che<br />

tipo di coscienza ci si presenta qui? In primo luogo la coscienza di<br />

determinate forme e colori, siano essi immobili o in movimento, che<br />

mi appaiono come forme e colori di un corpo umano, come datità sensibili<br />

determinate; le modalità del loro darsi non rappresentano in tale<br />

contesto alcun problema ulteriore. Al di fuori di queste datità corporee<br />

mi viene tuttavia dato qualcosa di più: una determinata vita psichica,<br />

sentimenti, emozioni e atti di volontà, una personalità psichica estranea,<br />

che si cela per me in queste forme corporee. E qui affiora […] la<br />

questione: in che modo si istituisce la relazione tra le forme corporee<br />

che io vedo, ad esempio tra il gesto della collera, le espressioni del viso,<br />

da una parte, e la collera dall’altro?» 9 .<br />

Il passo non mi sta esplicitamente definendo la percezione, ma è<br />

evidente che senza il ricorso alla teoria della percezione allora corrente<br />

ne andrebbe della mia e della vostra comprensione. Inoltre il secondo<br />

periodo della citazione invalida il primo: “Io vedo un uomo in collera<br />

o triste, allegro o di malumore”, in realtà è “Io non vedo”. Propriamente<br />

vedo colori e forme, non collera, tristezza o allegria; gesti, non<br />

sentimenti. Per i teorici dell’empatia, come già per Berkeley, «tali passioni<br />

sono, di per se stesse, invisibili» 10 . Perciò sorge la questione di<br />

come si istituisce la relazione tra il mentale invisibile e il corporeo visibile.<br />

Se poi riandiamo agli inizi della storia del concetto vediamo che<br />

esso viene coniato per rendere conto del fatto che le forme artistiche<br />

non sono semplici forme ma forme significanti: la forma simbolica di<br />

Vischer padre, come ci dice il figlio, che crea il concetto di Einfühlung<br />

proprio per renderne conto, è «un intimo sentire-in-uno l’immagine<br />

e il contenuto» 11 . Non linee, contorni e superfici, ma linee, contorni<br />

e superfici con un significato al quale sono simbolicamente unite: una<br />

forma, quella artistica, carica di significati e spiritualità 12 . L’oggetto,<br />

quindi, non ha un contenuto. Il fatto che l’oggetto estetico ce l’abbia<br />

diventa problematico perché il contenuto non è propriamente dell’oggetto,<br />

ma «è sempre un contenuto psichico. Esso penetra negli oggetti<br />

estetici per mezzo dell’empatia» 13 .<br />

Il punto è proprio questo: “empatia” non ha lo stesso significato di<br />

“espressione”, perché, oltre a significare ciò che “espressione” significa,<br />

viene anche a significare il dove dell’espressione e il come l’espressione<br />

viene alla luce. Di fatto «“Empatia” significa innanzitutto che quel che<br />

empatizzo – per esempio, forza o gioia o nostalgia – non è nulla di<br />

visibile né di udibile, in breve, non è nulla di sensibilmente percepibile,<br />

bensì io posso esperire [erleben] o sentire tutto ciò solo in me.<br />

E significa inoltre che io, ciononostante, rinvengo l’empatizzato nelle<br />

269


cose al di fuori di me, ritrovando per esempio furore o minaccia nella<br />

tempesta. Ora, occorre solo che riuniamo entrambi questi elementi, e<br />

avremo il senso globale dell’“empatia”. Accade in effetti che io non<br />

possa né vedere né sentire l’attività – per esempio: ciò che indicano i<br />

termini “furore” e “minaccia” –, ma la possa solo sentire in me; eppure<br />

rinvengo la medesima attività in un oggetto sensibile, così rinvengo<br />

necessariamente me stesso nell’oggetto sensibile. Mi esperisco o mi<br />

sento in esso» 14 .<br />

Lipps ci sta dicendo che, nonostante si individui furore o minaccia<br />

nella tempesta, furore o minaccia non possono appartenere alla tempesta<br />

– un oggetto sensibile – ma all’io. Quanto vale per l’inanimato<br />

vale anche per l’animato. È grazie all’empatia che «noi veniamo a sapere<br />

della vita della coscienza dell’altro […]. In certi processi, che noi<br />

chiamiamo manifestazioni vitali di un corpo estraneo, è presente per<br />

noi originariamente e necessariamente una vita della coscienza che è<br />

paragonabile a quella che troviamo immediatamente in noi stessi, e<br />

che è per noi immediatamente legata a questi processi. Questo legame<br />

non è di natura spaziale. Potrebbe esserlo soltanto se io, proprio là<br />

dove vedo le manifestazioni vitali, vedessi nel contempo col mio occhio<br />

sensibile la vita della coscienza, le sensazioni, le rappresentazioni, i<br />

pensieri e i sentimenti dell’altro. Ma tutto questo non posso affatto<br />

vederlo». Eppure lo sento, quindi, «questa indicibile correlazione» di<br />

fisico e psichico è un legame fondato sull’empatia: «Ciò che posso<br />

trovare immediatamente solo in me stesso, io lo traspongo in un oggetto<br />

percepito con i sensi, o lo trasferisco in esso, lo “proietto” in<br />

esso in una maniera non meglio descrivibile, e così al tempo stesso lo<br />

oggettualizzo» 15 .<br />

Per Lipps e per i coevi teorici dell’empatia, «nulla è più certo del<br />

fatto che il significato <strong>delle</strong> parole tendenza, forza, attività ecc., io posso<br />

viverlo e sentirlo solo in me stesso e trasferirlo agli oggetti solo a<br />

partire da me stesso. Ciò che trovo nel mondo esterno è solo semplice<br />

esistenza e accadere» 16 . “Empatia”, o più propriamente “Einfühlung”,<br />

è un concetto complesso. Ci dice, sì, dell’espressione, ma non solo.<br />

Concepito «come un vissuto psichico» e «come una funzione psichica»<br />

17 , da una parte, qualifica l’espressione come “contenuto psichico”,<br />

rendendola, così, invisibile e soggettiva; dall’altra, individua il meccanismo<br />

speciale, “una funzione psichica”, con due “facoltà”: quella di<br />

“animare” oggetti e corpi, e quella necessaria per farne esperienza. Perciò<br />

l’empatia è stata considerata «la fonte del terzo tipo di conoscenza»,<br />

assieme alla percezione sensoriale e alla percezione interna 18 .<br />

Non essendoci «riconoscimento esplicito dell’importanza <strong>delle</strong> particolari<br />

qualità dinamiche del percetto» 19 , la dinamica viene tutta spostata<br />

dalla parte del soggetto e l’espressione dell’oggetto, il suo significato<br />

«viene sempre ricavato dalla stessa fonte: quella della mia auto-attivazione»<br />

20 . In altri termini: dato che gli oggetti appaiono dotati di qualità<br />

270


espressive – e questo è un fatto – e posto che le qualità espressive non<br />

possono essere dell’oggetto – e questo non è un fatto, ma un postulato<br />

– ne consegue che siamo stati noi a proiettarle sull’oggetto.<br />

Il concetto “empatia” è stato elaborato proprio per rendere conto<br />

<strong>delle</strong> qualità espressive, significativamente considerate “contenuti psichici”<br />

o “contenuti spirituali”, e che pertanto si riteneva non fossero<br />

dell’oggetto, come le qualità primarie e secondarie, ma del soggetto,<br />

una sua “proiezione” rinvenuta nell’oggetto. Oltre l’assunto della soggettività<br />

<strong>delle</strong> qualità espressive di contro alla oggettività <strong>delle</strong> qualità<br />

primarie e secondarie, abbiamo anche l’assunto che il significato non<br />

inerisca alla percezione, l’assunto che «le caratteristiche dei processi<br />

mentali, da un lato, e del comportamento osservabile, dall’altro, siano<br />

diverse sotto ogni rispetto» 21 .<br />

Se il nucleo di verità della teoria dell’empatia consiste nell’avere<br />

posto l’accento sulle strutture dinamiche dell’oggetto, l’errore però è di<br />

averle fraintese, «di non avere cioè considerato queste strutture come<br />

proprietà originarie <strong>delle</strong> configurazioni percettive ma come “proiezioni<br />

empatiche”, come aggiunte la cui origine veniva cercata all’interno<br />

dell’osservatore, quindi fuori dalle configurazioni percepite» 22 . Da<br />

qui la necessità di ricorrere a una “facoltà” speciale con una doppia<br />

funzione: quella di proiettare sentimenti sull’oggetto, e quella di farne<br />

esperienza.<br />

Saranno i gestaltisti a elaborare una teoria dinamica della percezione,<br />

e altresì a confutare con copiosi dati sperimentali e rigorose<br />

analisi teoriche l’empatia e i presupposti indimostrati su cui si basa.<br />

Per loro il «cosiddetto “mondo privato” è un puro oggetto di pensiero»<br />

23 , e, fermo restando che qualunque oggetto, animato o inanimato,<br />

artistico o non artistico, ha qualità espressive, il significato e il valore<br />

di un oggetto sono percepiti con la stessa immediatezza di colori e<br />

forme: «il roboante crescendo di un tuono [non è] un fatto sensoriale<br />

neutro; alla massima parte di noi esso suona “minaccioso”» 24 . Che il<br />

comportamento espressivo riveli il proprio significato nella percezione<br />

«si fonda sul principio dell’isomorfismo, secondo il quale processi che<br />

hanno luogo in mezzi differenti possono risultare, nondimeno, simili<br />

nella loro organizzazione strutturale» 25 .<br />

L’espressione rinvenuta nell’oggetto animato e nell’oggetto inanimato<br />

non è una proiezione del soggetto o un inconscio trasferimento di<br />

quest’ultimo sui primi, ma è dell’oggetto, articolata nelle sue forme e nei<br />

suoi colori, insita, quindi, nel pattern percettivo. Le qualità espressive,<br />

che non sono meno oggettive <strong>delle</strong> qualità primarie, né sono soggettivamente<br />

e secondariamente aggiunte alle prime, nell’ordine dell’esistenza<br />

sono le qualità veramente primarie: «L’elevarsi di una vetta montana,<br />

l’espandersi di una chioma arborea, lo sporgere di un naso o di un<br />

mento colpiscono l’occhio dell’osservatore più direttamente, e vengono<br />

meglio ricordati, <strong>delle</strong> proprietà geometriche <strong>delle</strong> forme che creano tali<br />

271


effetti dinamici» 26 . L’espressione non è il prodotto – né è spiegabile<br />

con – dell’empatia, o dell’apprendimento, o dell’antropomorfismo, o<br />

dell’animismo primitivo, soluzioni certo diverse, ma accomunate «dal<br />

diniego di qualsiasi parentela intrinseca tra l’apparenza percepita e<br />

l’espressione trasmessa» 27 .<br />

L’espressione, quindi, fa «parte integrante del processo percettivo<br />

elementare. Il che non dovrebbe sorprendere. La percezione è un<br />

mero strumento che registra colori, configurazioni, suoni, ecc., soltanto<br />

finché viene considerata isolatamente rispetto all’organismo, di cui è<br />

parte. Nel suo più proprio contesto biologico, la percezione assume la<br />

figura del mezzo attraverso il quale l’organismo ottiene informazioni in<br />

merito alle forze amichevoli, ostili, o comunque significative cui deve<br />

reagire. Tali forze si rivelano nel modo più diretto attraverso quanto<br />

viene qui descritto come espressione» 28 .<br />

Con la teoria della Gestalt vengono meno le ragioni dell’empatia,<br />

e il meccanismo della proiezione continuerà a esercitare la sua azione<br />

– una funzione di difesa – entro i confini della psicologia clinica<br />

dominata dalla psicanalisi. Non, quindi, come meccanismo psichico<br />

normale, utilizzato dai teorici dell’empatia, e sorto e affermatosi «per<br />

risolvere la contraddizione tra due conoscenze egualmente sicure e<br />

innegabili, quella fenomenologica: l’uomo sta nel mondo, e quella fisiologica:<br />

il mondo sta nell’uomo» 29 . Per i gestaltisti la contraddizione<br />

e il necessario ricorso alla proiezione deriva dalla confusione tra fisico<br />

(fisiologico) e fenomenico.<br />

Oggi per lo più l’empatia viene trattata come fosse un genere naturale,<br />

non una sofisticata costruzione culturale di una stagione passata:<br />

non un’interpretazione del “sentire” (Fühlen), ma il sentimento (Gefühl),<br />

l’emozione. Il termine, divenuto di moda nell’ultima decade dello scorso<br />

millennio, oltre a continuare a essere «equivoco e molto equivocato» 30 ,<br />

è uno dei più usati e abusati: dalla psicologia alla robotica – ebbene<br />

sì, anche il robot deve essere empatico – dalla sociologia alla pedagogia,<br />

dall’etologia agli studi culturali, dalla linguistica alla filosofia, alla<br />

biologia, alle neuroscienze, ecc.: tutti appassionatamente sull’empatia.<br />

Se un secolo fa l’empatia sembrò «una specie di “apriti Sesamo” per<br />

un intero complesso di questioni fondamentali» 31 , adesso la posta in<br />

gioco è ancora più alta: niente meno che la promessa di una vita sana<br />

e felice per tutti. Perché non provare? Gli psicologi ve la misurano e i<br />

neuroscienziati vi indicano i punti empatici del vostro cervello.<br />

Se la teoria dell’empatia, «apparentemente fondata», si è rivelata<br />

«priva di consistenza» 32 , perché si torna ad attribuirle potere esplicativo?<br />

E se, come la psicologia della Gestalt ha dimostrato, la percezione<br />

è dinamica e le forze e le attività non sono prerogative del soggetto ma<br />

l’oggetto in generale è portatore di qualità espressive, qual è il senso<br />

della “riscoperta” e del successo odierno? Com’è possibile che venu-<br />

272


te meno le ragioni che l’hanno resa necessaria e denunciati gli errori<br />

su cui era stata costruita si torni a darle credito? Le critiche che ne<br />

avevano decretato la scomparsa non sono più valide? Quale che sia la<br />

spiegazione, «la questione dell’empatia è tornata con forza a imporsi in<br />

quest’ultimo decennio come problema fondamentale per la comprensione<br />

dell’essere umano, nei suoi rapporti con gli altri e con il mondo»,<br />

e ritorna a «offrirsi come efficace strumento per la comprensione del<br />

nostro rapporto con le opere d’arte» 33 .<br />

Il fatto nuovo che sembra legittimarla e darle un solido fondamento<br />

è la scoperta dei “neuroni specchio”. Grazie a queste specialissime<br />

cellule, il fuoco dell’attenzione è di nuovo concentrato sull’empatia: lo<br />

studioso del cervello rileva che Lipps «anticipa in modo quasi profetico<br />

lo schema di attività mostrato dai neuroni specchio» 34 e lo studioso<br />

dell’arte sostiene che «è giunto il momento di rivalutare la tradizione<br />

della teoria dell’empatia così diffusa nella teoria dell’arte nella Germania<br />

della seconda metà del xix secolo» 35 . L’empatia parrebbe radicata<br />

nell’architettura del cervello. E mentre di simpatia umana si sente sempre<br />

più il bisogno, nella gioia e nel dolore dell’odierna mistica dell’arte,<br />

come per Lipps – ma immersi in un panorama artistico (fatto di shock<br />

estremi o di reazioni del tipo “lo potevo fare anch’io” 36 ) totalmente<br />

diverso da quello contemplato dai teorici dell’empatia – la «simpatia<br />

estetica» 37 ridiventa la sigla dell’esperienza estetica.<br />

«Le emozioni empatiche non possono più essere considerate semplice<br />

questione di intuizione, dato che possono essere localizzate con<br />

precisione nelle relative aree del cervello che vengono attivate sia nella<br />

persona osservata che nell’osservatore». La teoria dell’empatia, da<br />

«esclusivamente introspettiva, intuitiva o metafisica», diventa scientifica<br />

data «una base materiale precisa e definibile nel cervello» 38 . A sostenerlo<br />

sono David Freedberg e Vittorio Gallese, vale a dire l’avanguardia<br />

della storia dell’arte e <strong>delle</strong> neuroscienze. Data l’autorevolezza dei<br />

due studiosi come non credere all’empatia? E, nondimeno, considerando<br />

la genesi e le critiche a cui è andata incontro, davvero i neuroni<br />

specchio sono il correlato neuronale dell’empatia?<br />

Una <strong>delle</strong> immagini utilizzate dal team Freedberg-Gallese è L’incredulità<br />

di San Tommaso del Caravaggio. Il santo suggerisce l’atteggiamento<br />

di “andare a vedere”. Leggiamo: «A dispetto dell’assenza di<br />

esperimenti pubblicati su questi argomenti, la ricerca sui neuroni specchio<br />

offre sufficiente evidenza empirica per suggerire che le cose stiano<br />

effettivamente così. […] La nostra previsione è che si otterranno risultati<br />

simili utilizzando come stimoli opere d’arte che sono caratterizzate<br />

da particolari tracce gestuali dell’artista, come nel caso di Fontana e<br />

Pollock». “Assenza di esperimenti”, “previsioni” e null’altro. Eppure<br />

c’era stato detto che «i risultati forniscono il substrato neuronale dei<br />

sentimenti empatici» in risposta alle opere d’arte, e che persino «i gesti<br />

dell’artista nel produrre opere d’arte inducono il sentimento empatico<br />

273


dell’osservatore» 39 . Ma leggendo e rileggendo ci si rende conto che i<br />

meccanismi neuronali dell’empatia non sono stati scoperti, né possono<br />

esserlo, dato che l’empatia è un costrutto teorico: l’interpretazione<br />

pre-gestaltista dell’espressione 40 .<br />

«La ricerca su mns [mirror neuron system] umano ha mostrato che<br />

l’osservazione anche di immagini statiche <strong>delle</strong> azioni conduce alla simulazione<br />

dell’azione nel cervello dell’osservatore. […] Questo meccanismo<br />

di simulazione motoria, accoppiato con la risonanza emotiva che<br />

innesca, è probabile che, come suggerito da Lipps, sia una componente<br />

cruciale dell’esperienza estetica degli oggetti nelle opere d’arte: anche<br />

una natura morta può essere animata dalla simulazione incorporata evocata<br />

nel cervello dell’osservatore. Il ruolo della simulazione incorporata<br />

nell’esperienza estetica diventa ancora più evidente se si considerano le<br />

emozioni e le sensazioni» 41 .<br />

Non ci si spiega, però, come sia conciliabile il sistema dei neuroni<br />

specchio, che in quanto neuronale non è né proiettivo né simulativo, e<br />

il meccanismo proiettivo e simulativo dell’empatia. Rimane parimente<br />

problematico conciliare la fenomenologia con “l’a-priori della intersoggettività”<br />

e la “teoria della simulazione” di marca cognitivista; o<br />

ancora Lipps e Merleau-Ponty (con i suoi riferimenti alla psicologia<br />

della Gestalt), ossia chi teorizza un “meccanismo di simulazione motoria”<br />

e di “proiezione empatica” e chi teorizza che «per connaturalità<br />

io sono capace di trovare un senso a certi aspetti dell’essere senza che<br />

io stesso glielo abbia dato con una operazione costituente», e che «il<br />

senso di una cosa abita questa cosa come l’anima abita il corpo: non<br />

è dietro le apparenze […]. Ecco perché diciamo che la cosa ci è data<br />

“in persona” o “in carne e ossa”» 42 . Dunque senza teorie, simulazioni,<br />

proiezioni o “come se”.<br />

I meccanismi neuronali dell’empatia sono, al più, solo un’ipotesi<br />

e però ad apertura ci si lascia intendere che sono stati scoperti: «Illustreremo<br />

i meccanismi neuronali che sorreggono il “potere” empatico<br />

“<strong>delle</strong> immagini” e mostreremo che la simulazione incarnata e i sentimenti<br />

empatici che essa genera svolgono un ruolo cruciale. Quindi,<br />

tratteremo – entro il medesimo quadro empatico – un aspetto degli<br />

effetti <strong>delle</strong> opere d’arte, vale a dire l’effetto sentito del particolare<br />

gesto coinvolto nel produrle». Un intreccio quello tra “teoria della<br />

simulazione”, “teoria dell’empatia” e “neuroni specchio” che crea più<br />

problemi di quanto non ne risolva 43 .<br />

Ma già la dichiarazione d’intenti espressa all’inizio avrebbe dovuto<br />

metterci sull’avviso. Ricordando che, sebbene non vi sia consenso su<br />

come definirla, l’arte ha comunque attratto l’interesse degli scienziati<br />

neurocognitivi che hanno inaugurato un campo di ricerca denominato<br />

“neuroestetica”, e si sono occupati di spiegare cosa sia l’arte e cosa il<br />

piacere estetico, precisano che assumeranno «una differente strategia»,<br />

che consiste nel mettere «tra parentesi la dimensione artistica <strong>delle</strong><br />

274


opere d’arte visive» 44 . E, a parte la meraviglia che con la neuroestetica<br />

finalmente abbiamo risolto l’annoso problema della definizione<br />

dell’arte, viene spontanea la domanda: perché allora nel titolo si parla<br />

di esperienza estetica e nel testo si riportano opere di Michelangelo,<br />

di Goya, di Caravaggio, di Pollock e di Fontana? Perché scomodare<br />

proprio l’Einfühlun dell’estetica otto-novecentesca?<br />

È vero che “neuro” è «un prefisso in espansione» 45 , ma è anche<br />

vero che molto più spesso di quanto non si creda, al meglio si tratta<br />

non di “espansione”, bensì di propinare vino vecchio «in botti nuove e,<br />

apparentemente, “più garantite ed efficaci” in quanto “più scientifiche”».<br />

A rilevarlo sono Legrenzi e Umiltà che, opportunamente criticano la<br />

neuro-mania imperversante. Quanto alla neuroestetica evidenziano che<br />

«pretende di spiegarci l’esperienza d’arte, ma non analizza lo specifico<br />

dell’esperienza d’arte». E però salvano l’empatia dei neuroni specchio:<br />

«una scoperta neurofisiologica, che sembra avere più direttamente a<br />

che fare con le problematiche artistiche ed etiche, coinvolge l’empatia,<br />

cioè la capacità di mettersi nei panni altrui». Se come ho cercato di<br />

dimostrare il vino dell’empatia strada facendo si è rivelato aceto, il<br />

“neuro” dell’empatia è solo «un valore aggiunto che rende credibile<br />

qualcosa di fasullo» 46 .<br />

1<br />

R. Arnheim, Arte e percezione visiva (1974 2 ), Feltrinelli, Milano, 2002 17 , p. 362.<br />

2<br />

Id., La teoria gestaltica dell’espressione (1949), in Id., Verso una psicologia dell’arte. Espressione<br />

visiva, simboli e interpretazione (1966), Einaudi, Torino, 1969, p. 81.<br />

3<br />

Th. Lipps, Empatia e godimento estetico (1906), “Discipline filosofiche”, 2002, xii, 2, p.<br />

33. L’inizio della citazione è il seguente: «Osservo innanzitutto che esiste un termine che sembra<br />

indicare la stessa cosa designata dal termine empatia: intendo il termine “espressione”».<br />

4<br />

Ibidem.<br />

5<br />

R. Arnheim, Arte e percezione visiva, cit., p. 362.<br />

6<br />

M. Geiger, Essenza e significato dell’empatia (1911), in A. Pinotti, a cura di, Estetica ed<br />

empatia. Antologia, Guerini, Milano, 1997, pp. 69-70.<br />

7<br />

R. Vischer, Sul sentimento ottico della forma (1873), in A. Pinotti, a cura di, cit., p. 98.<br />

Quest’aspetto del problema non sempre è assunto consapevolmente dagli studiosi odierni che<br />

fanno un grande uso del termine, o che ne fanno oggetto della loro ricerca. L. Boella (L’empatia<br />

nasce nel cervello? La comprensione degli altri tra meccanismi neuronali e riflessione filosofica,<br />

in M. Cappuccio, a cura di, La scienza della mente e la sfida dell’esperienza cosciente, Bruno<br />

Mondadori, Milano, 2006, p. 328), ad esempio, ci dice che Scheler la «rifiuta, considerandola<br />

una proiezione dell’io sull’altro». Non è M. Scheler (Essenza e forma della simpatia, 1923,<br />

Citta Nuova, Roma, 1980), a cui si deve una <strong>delle</strong> tante critiche della spiegazione proiettiva,<br />

a considerarla una proiezione; è stata così concepita.<br />

8<br />

M. Geiger, Essenza e significato dell’empatia, cit., p. 66.<br />

9<br />

Ivi, p. 63, corsivo mio.<br />

10<br />

G. Berkeley, Teoria della visione (1732 4) , a cura di P. Spinicci, Guerini, Milano, 1995,<br />

p. 92.<br />

11<br />

R. Vischer, Sul sentimento ottico della forma, cit., p. 95.<br />

12<br />

Ivi, p. 133.<br />

13<br />

Th. Lipps, Estetica (1908), in A. Pinotti, a cura di, cit., p. 183.<br />

14<br />

Id., Empatia e godimento estetico, cit., p. 33.<br />

15<br />

Id., Le vie della psicologia (1905), “Discipline filosofiche”, cit., p. 22.<br />

16<br />

Id., Estetica, cit., p. 185.<br />

17<br />

M. Geiger, Essenza e significato dell’empatia, cit., p. 69.<br />

275


18<br />

Th. Lipps, Fonti della conoscenza. Empatia (1909), “Discipline filosofiche”, cit., p. 47.<br />

19<br />

R. Arnheim, Arte e percezione visiva, cit., p. 364.<br />

20<br />

Th Lipps, Estetica, cit., p. 184.<br />

21<br />

W. Köhler, La psicologia della Gestalt (1947 2) , Feltrinelli, Milano, 1961, p. 170.<br />

22<br />

W. Metzger, I fondamenti della psicologia della Gestalt (1963 3 ), Giunti-Barbèra, Firenze,<br />

1971, p. 77.<br />

23<br />

Ivi, p. 379.<br />

24<br />

W. Köhler, La psicologia della Gestalt, cit., p. 187. Per i gestaltisti «sarebbe sorprendente»<br />

se l’espressione fosse prerogativa solo dell’essere umano. «Per converso, il fatto che<br />

fenomeni del genere abbiano spesso luogo in altre parti del mondo percettivo rinsalda la<br />

nostra tesi che non occorra mettere in campo interpretazioni in termini di esperienze soggettive»,<br />

ivi, p. 188.<br />

25<br />

R. Arnheim, La teoria gestaltica dell’espressione, cit., p. 75.<br />

26<br />

Id., Aspetti percettivi ed estetici della risposta motoria (1951), in Id., Verso una psicologia<br />

dell’arte, cit., p. 99.<br />

27<br />

Id., Arte e percezione visiva, cit., p. 364.<br />

28<br />

Id., La teoria gestaltica dell’espressione, cit., p. 80.<br />

29<br />

W. Metzger, I fondamenti della psicologia della Gestalt, cit., pp. 344-345.<br />

30<br />

Th. Lipps, Empatia e godimento estetico, cit., p. 31. Lipps continua: «Vi sono innanzitutto<br />

alcuni che con “sentimento” [Gefühl] non vogliono intendere altro se non il sentimento<br />

di piacere [Lust] o dispiacere [Unlust], o che ritengono il “sentire” [Fühlen] senz’altro<br />

equivalente al sentire piacere o dispiacere. Per chi limita in modo così illegittimo il termine<br />

“sentimento”, l’“empatia”, pur designando un sentire, non merita tuttavia tale nome. Poiché<br />

ciò che io empatizzo è in senso assolutamente generale vita. E vita è forza, un interiore operare,<br />

aspirare e portare a compimento. In una parola, vita è attività […]. Poniamo tuttavia che<br />

qualcuno si intestardisca a identificare “sentimenti” e “sentimenti di piacere o dispiacere”: in<br />

tal caso, per lui quell’empatia non è affatto “empatia”», ivi, pp. 31-32. Oggi che è diventato<br />

un termine di moda, nella ricerca scientifica e sulla bocca di tutti, i fraintendimenti non<br />

si contano. Per L. Boella (Empatia: parola sbagliata, parola difficile?, http: //www.comune.<br />

roma.it/repository/ContentManagement/information/P1368901155/laura_boella.pdf, 2007) «è<br />

abbastanza sconcertante che nel linguaggio impoverito dei giornali e <strong>delle</strong> riviste se ne faccia<br />

grande uso, in realtà senza saper bene di che cosa si stia parlando». Che «l’empatia è un<br />

neologismo» o che «la parola empatia fu usata per la prima volta in Germania da Titchener a<br />

proposito di “sentire dentro”, e deriva forse dalla parola greca empatheia» non sono frutto del<br />

“linguaggio impoverito dei giornali e <strong>delle</strong> riviste” ma affermazioni tratte da testi “scientifici”.<br />

31<br />

Lo sostiene W. Worringer (Astrazione e empatia, 1908, Einaudi, Torino, 1975, p. 3)<br />

nella Prefazione del 1948.<br />

32<br />

M. Heidegger, Essere e tempo, 1927, Longanesi, Milano, 2005, p. 156.<br />

33<br />

A. Pinotti, Du Bos, l’empatia e i neuroni-specchio, in L. Russo (a cura di), Jean-Baptiste<br />

Du Bos e l’estetica dello spettatore, “Aesthetica Preprint: Supplementa”, 15 (2005), p. 203.<br />

Cfr. anche A. Rainone, La riscoperta dell’empatia. Attribuzioni intenzionali e comprensione<br />

nella filosofia analitica, Bibliopolis, Napoli, 2005, che considera la “Teoria della simulazione”<br />

la versione aggiornata della teoria dell’empatia.<br />

34<br />

M. Iacoboni, I neuroni specchio. Come capiamo ciò che fanno gli altri, Bollati Boringhieri,<br />

Torino, 2008, p. 98.<br />

35<br />

D. Freedberg, Empatia, movimento ed emozione, in G. Lucignani e A. Pinotti, Immagini<br />

della mente. Neuroscienze, arte, filosofia, Raffaello Cortina, 2007, p. 32. Il testo combina<br />

due saggi del 2004.<br />

36<br />

È il titolo di un libro di F. Bonami (Mondadori, Milano, 2007) che, come recita il<br />

sottotitolo, mira a spiegare Perché l’arte contemporanea è davvero arte.<br />

37<br />

Th. Lipps, Estetica, cit., p. 190. L’obiezione non è, ovviamente, rivolta a Lipps, che,<br />

avendo teorizzato “l’io che contempla” – una sorta di “soggetto estetico” che fa il paio col<br />

“soggetto epistemico” glorificato dalla filosofia moderna – si è premunito dalla critica: «Questo<br />

piacere della simpatia non solo ha sempre luogo nella contemplazione estetica, ma nella sua<br />

piena purezza è possibile solo nella contemplazione estetica. Nella vita di tutti i giorni l’“uomo”<br />

in me è sempre più o meno negato, e ciò avviene per via del mio capriccio, del mio stato<br />

d’animo, della mia disposizione o dei reali interessi della vita. Da tutto ciò vengo liberato nella<br />

pura contemplazione estetica; in essa io sono appunto soltanto l’io che contempla. E questo io<br />

liberato dalla realtà della vita, questo “uomo” puro, io posso sentirlo affermato solo nell’oggetto<br />

intuito esteticamente, e in tale affermazione posso sentirmi pieno di gioia», ivi, pp. 190-191.<br />

276


38<br />

D. Freedberg e V. Gallese, Motion, emotion and empathy in esthetic experience, “trends<br />

in Cognitive Sciences”, 2007, pp. 11, 5, 201 e 199.<br />

39<br />

Ivi, pp. 202, 201 e 202.<br />

40<br />

Giusta l’argomentazione di E. Cassirer (Filosofia <strong>delle</strong> forme simboliche, 1929, iii, i,<br />

La Nuova Italia, Firenze, 1966, pp. 112 e 107), i teorici dell’empatia, «presuppongono come<br />

fatto reale ciò che è soltanto il risultato di una determinata interpretazione teoretica». Ma<br />

«nessuna forma di riflessione, di argomentazione indiretta può produrre la base di esperienza<br />

in cui questo sapere ha le sue radici, ma soltanto spiegarla teoreticamente».<br />

41<br />

D. Freedberg e V. Gallese, Motion, emotion and empathy in esthetic experience, cit.,<br />

pp. 200-201.<br />

42<br />

Cito da M. Merleau-Ponty (Fenomenologia della percezione, 1945, Il Saggiatore, Milano,<br />

1965, pp. 294 e 417) – trattandosi di percezione avrei dovuto citare la psicologia della<br />

Gestalt – perché è presente nel testo di Freedberg e Gallese. Se D. Freedberg (Il potere <strong>delle</strong><br />

immagini. Il mondo <strong>delle</strong> figure: reazioni e emozioni del pubblico, 1989, Einaudi, Torino, 1993,<br />

p. 42), ritenendo le espressioni «stati soggettivi del destinatario proiettati sull’opera», parla di<br />

«un’empatia rigorosamente fenomenologica», i riferimenti di V. Gallese alla fenomenologia<br />

sono presenti in molti suoi saggi e persino nelle interviste sui quotidiani. Così, ad esempio,<br />

riporta F. Cimatti (Il Manifesto, 22-05-2005): «i risultati <strong>delle</strong> nostre ricerche si avvicinano<br />

alle riflessioni offerte dalla prospettiva teorica fenomenologica di autori come Husserl e<br />

Merleau-Ponty». Quest’ultimo, poi, avrebbe sottolineato «la centralità dell’empatia nel farsi<br />

dell’esperienza del mondo» (Dai neuroni specchio alla consonanza intenzionale. Meccanismi<br />

neurofisiologici dell’intersoggettività, “Rivista di Psicoanalisi”, 2007, liii, 1, p. 198), quando,<br />

al contrario, ha, espressamente e a più riprese, criticato l’empatia.<br />

43<br />

I presupposti che hanno portato il cognitivista a teorizzare uno specifico meccanismo<br />

indiretto – “Teoria della teoria” o “Teoria della simulazione” – per spiegare la comprensione<br />

intersoggettiva, sono il solipsismo e il rappresentazionalismo. «La percezione sarebbe la rappresentazione<br />

soggettiva di un mondo esterno, che può essere indirettamente conosciuto con<br />

molti attendibili mezzi, la descrizione dei quali implica l’impossibilità che esso sia avvertito direttamente,<br />

come ad esempio sono avvertiti direttamente gli oggetti che vedo in questa stanza<br />

e gli alberi che sono oltre la finestra». Nondimeno, «quale che sia la definizione che vogliamo<br />

dare al termine “rappresentazione” non possiamo mai dire: “tutto è rappresentazione”. […]<br />

Possiamo dunque sensatamente dire solo che “non tutto è rappresentazione”, e porci di fronte<br />

al problema di che cosa – nell’esperienza – rappresenta qualcos’altro, e a quali condizioni»<br />

(P. Bozzi, Experimenta in visu. Ricerche sulla percezione, Guerini, Milano, 1993, pp. 134 e<br />

136). Per le stesse ragioni “non tutto è simulazione”. Ma queste sono ragioni della fenomenologia<br />

sperimentale, purtroppo non riconosciute dal paradigma di volta in volta egemone<br />

nella psicologia. Così dopo l’iconoclastia del comportamentismo, e bypassando la Gestalt, il<br />

cognitivismo riabilita, non le attività del vivente (in primo luogo percepire e appetire), che<br />

lungo la scala filogenetica diventano sempre più complesse e diversificate (pensare, memorizzare,<br />

desiderare, immaginare, credere, sperare, progettare, ecc.), ma la mente: un’astrazione<br />

sostanzializzata e, in ultimo, “incorporata”. Contrariamente alla psicologia della Gestalt, per la<br />

quale emozioni e pensieri «tendono a esprimersi nel comportamento della gente così come lo<br />

percepiamo» (W. Köhler, La psicologia della Gestalt, cit., p. 172), il cognitivismo sostiene che<br />

per interagire con gli altri siano necessari rappresentazioni o simulazioni, vale a dire: “Teoria<br />

della teoria” o “Teoria della simulazione”. I neuroni specchio, secondo l’interpretazione che<br />

se ne dà, porterebbero acqua al mulino della “Teoria della simulazione”. Fermo restando<br />

che «il sistema dei neuroni specchio appare così decisivo per l’insorgere di quel terreno d’esperienza<br />

comune che è all’origine della nostra capacità di agire come soggetti non soltanto<br />

individuali ma anche e soprattutto sociali», il che, mostrando «quanto radicato e profondo sia<br />

il legame che ci unisce agli altri, ovvero quanto bizzarro sia concepire un io senza un noi» (G.<br />

Rizzolatti e C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello<br />

Cortina, Milano, 2006, p. 4), confuta il solipsismo, per la stessa ragione si dovrebbe ritenere<br />

che confuti il rappresentazionalismo della simulazione, sia pure “incarnata”, e il complicato<br />

meccanismo proiettivo dell’empatia. E invece no: gli scienziati dei neuroni specchio, sebbene<br />

parlino di comprensione “diretta”, hanno lasciato in piedi la “Teoria della mente” e hanno<br />

riabilitato la teoria dell’empatia: «La ricerca neuroscientifica ci dice che le cose stanno proprio<br />

così. Il nostro cervello è infatti dotato di neuroni […] che si attivano sia quando compiamo<br />

un’azione che quando la vediamo eseguire da altri. Sia le predizioni che riguardano le nostre<br />

azioni, sia quelle che riguardano le azioni altrui, possono quindi essere caratterizzate come<br />

processi di modellizzazione fondati sulla simulazione. La stessa logica che presiede alla model-<br />

277


lizzazione <strong>delle</strong> nostre azioni presiede anche a quella <strong>delle</strong> azioni altrui. Percepire un’azione<br />

– e comprenderne il significato – equivale a simularla internamente». Il fatto – “percepire<br />

un’azione” – e l’interpretazione – “simularla internamente” – sono messi sullo stesso piano,<br />

e dal “possono” si scivola inavvertitamente al “così è”. «È impossibile la costituzione di altre<br />

persone indipendentemente da noi, e viceversa è impossibile la nostra propria costituzione<br />

come persone indipendentemente dagli altri. Quando cerchiamo di comprendere il significato<br />

del comportamento altrui, il nostro cervello crea dei modelli del comportamento altrui allo<br />

stesso modo in cui crea modelli del nostro comportamento» (V. Gallese, Corpo vivo, simulazione<br />

incarnata e intersoggettività. Una prospettiva neuro-fisiologica, in M. Cappuccio, a cura di, cit.,<br />

pp. 304 e 314). Ancora una volta il secondo periodo, relativo alla creazione di “modelli del<br />

proprio e dell’altrui comportamento”, non consegue direttamente dal primo, bensì dall’opzione<br />

teorica per il cognitivismo. E poi, se è il cervello a creare, come fa il neuroscienziato<br />

a sapere se il cervello crea modelli o teorie? Quali sono le differenze nel funzionamento dei<br />

neuroni specchio che possano far decidere per i primi piuttosto che per le seconde? A parte<br />

il piccolo particolare che il cervello non “crea” e non “simula”, poiché creare modelli non<br />

è meno sofisticato che elaborare teorie, che i modelli non siano in formato proposizionale,<br />

come le teorie, non risolve il problema <strong>delle</strong> “menti senza linguaggio” – i bambini piccoli e<br />

i primati – che sta a cuore ai sostenitori della “Teoria della simulazione”. Gli umani, e non<br />

gli animali, creano sì modelli e teorie – è questo il vero «Rubicone mentale» (V. Gallese, La<br />

molteplice natura <strong>delle</strong> relazioni interpersonali: la ricerca di un comune meccanismo neurofisiologico,<br />

“Networks”, 2003, i, 30) tra primati umani e animali – ma esternamente, tramite segni<br />

e di-segni, e non internamente. Se del mondo avessimo solo teorie e simulazioni, neanche<br />

fossimo computer, come distinguere il mondo e le rappresentazioni che del mondo facciamo?<br />

44<br />

D. Freedberg e V. Gallese, Motion, emotion and empathy in esthetic experience, cit.,<br />

p. 197.<br />

45<br />

M. Iacoboni, I neuroni specchio, cit., p. 11.<br />

46<br />

P. Legrenzi e C. Umiltà, Neuro-mania. Il cervello non spiega chi siamo, Il Mulino, Bologna,<br />

2009, rispettivamente pp. 89, 93, 93-94, 71. I due studiosi sostengono che «la critica<br />

che si può fare a questa impostazione [alla neuroestetica] è analoga a quella che è stata fatta<br />

quando si applicavano i principi di organizzazione percettiva all’esame <strong>delle</strong> opere d’arte,<br />

come ad esempio ha fatto in lavori classici Rudolf Arnheim», ivi, 93. Sarebbe fuori luogo criticare<br />

qui questo che è un vero e proprio fraintendimento della posizione di Arnheim. Oltre<br />

a rimandare ai lavori di Arnheim – scripta manent – quasi tutti tradotti in italiano, mi limito<br />

a segnalare al lettore curioso L. Pizzo Russo, a cura di, Rudolf Arnheim. Arte e percezione<br />

visiva, “Aestetica Preprint: Supplementa”, 2005, 14; e I. Vestergen, Arnheim, Gestalt and<br />

Art. A Psychological Theory, Springer, Vienna, 2005.<br />

278


Contro la neuroestetica *<br />

Nemo esthetologus nisi physiologus? 1<br />

1 – Nelle ultime decadi del Novecento le neuroscienze sono «letteralmente<br />

esplose e le conoscenze sul cervello cresciute a dismisura.<br />

Dalla memoria all’attenzione, dalla motivazione al movimento, dal linguaggio<br />

al pensiero, il sapere si è così ingigantito e raffinato che darebbe<br />

le vertigini ai migliori biologi e psicologi dell’Ottocento, umiliati<br />

di appartenere alla preistoria della scienza. Le neuroscienze sono una<br />

disciplina all’apice dell’esuberanza, nel pieno <strong>delle</strong> forze, arrogante e<br />

sicura di sé», secondo la diagnosi di un neuropsichiatra 2 . In questo<br />

clima di inebrianti successi nasce e prospera la neuroestetica, un campo<br />

di studi ritenuto molto innovativo e che riscuote un immediato e largo<br />

consenso dentro e fuori le neuroscienze. La neuroestetica, come si legge<br />

nel relativo portale italiano, «si propone di esplorare, in particolare, le<br />

differenti espressioni artistiche dal punto di vista neurobiologico, per<br />

cercare nella fisiologia della mente (e quindi nel nostro cervello) le ragioni<br />

fondamentali <strong>delle</strong> complesse attività umane» 3 .<br />

L’interesse dei neuroscienziati per l’arte è esploso negli anni novanta<br />

del Novecento. È per l’appunto del 1994 Ragione e piacere di Changeux<br />

dal significativo sottotitolo Dalla scienza all’arte. Già da prima, e<br />

soprattutto dopo, vari neuroscienziati eminenti, senza contare la schiera<br />

di accoliti, sono scesi in campo. L’oggetto prevalente della loro attenzione<br />

è la pittura; li accomuna anche, oltre l’“interesse” per l’arte, la<br />

convinzione che i risultati <strong>delle</strong> ricerche sul cervello abbiano un valore<br />

non indifferente per la comprensione e la spiegazione dell’arte. Ferma<br />

* Il presente lavoro è stato scritto per la Tavola rotonda “Visione e comprensione.<br />

Le neuroscienze a confronto con l’arte contemporanea” (Genova, 22 ottobre 2004),<br />

organizzata dalla Fondazione Carige nell’ambito <strong>delle</strong> manifestazioni “Genova Capitale<br />

Europea della Cultura”. Rivisto nel 2006 per la stampa, mai avvenuta, è stato poi pubblicato<br />

in “Studi di estetica”, 41 (2011), pp. 7-86, sostanzialmente identico alla struttura<br />

iniziale. Nel programma della Tavola rotonda peraltro si leggeva: «Il mistero dell’arte e<br />

della bellezza ha infinite chiavi di lettura, le più recenti vengono dalle neuroscienze che<br />

ci aiutano ad approfondire il rapporto fra l’arte e la nostra mente esplorando l’attività<br />

cerebrale alla base della creatività e dell’esperienza artistica dell’uomo».<br />

279


estando la loro meritata fama come studiosi del cervello, il contributo<br />

relativamente all’arte è diseguale, e accanto a osservazioni condivisibili,<br />

molte <strong>delle</strong> quali sono state fatte senza aspettare le neuroscienze, ce ne<br />

sono tante altre per le quali francamente non si capisce perché ricorrere<br />

all’arte per farle; e proposte ancora più discutibili, quale quella<br />

di risolvere l’estetica in neuroestetica, o quell’altra <strong>delle</strong> leggi universali<br />

dell’arte – “universali artistici”, neanche “estetici” (nell’ordine del<br />

fare, quindi, non del percepire) – grazie alle quali sembra produttivo<br />

accomunare umani, gabbiani, topi e scimmie.<br />

Chi si occupa di psicologia può non stupirssi. Il termine “psicologismo”<br />

– oggi non più epiteto negativo – è sorto proprio per stigmatizzare<br />

i ripetuti tentativi di ridurre prodotti culturali complessi alle<br />

leggi del funzionamento della mente 4 . Nulla di nuovo, quindi, sotto il<br />

sole: lo si è fatto con la logica (le leggi del pensiero), lo si fa con l’arte.<br />

E però, mentre – è quanto sosterrò – il pasticcio, allora come oggi,<br />

è dovuto alla confusione tra processo e prodotto 5 , e, specificamente<br />

alla fisiologia, tra fisico e fenomenico, ritengo – e l’enorme rilievo<br />

che la stampa dà all’argomento “arte e cervello” ne è la spia – che il<br />

“neurologismo” abbia effetti più dirompenti dello psicologismo, non<br />

foss’altro che per il credito incondizionato che siamo portati a dare<br />

alle scienze della natura, anche quando lo scienziato estende la portata<br />

significativa del dato scientifico oltre l’ambito di pertinenza circoscritto<br />

dall’apparato sperimentale.<br />

Dovrebbe insospettirci l’enorme divario, fino alla contraddizione,<br />

<strong>delle</strong> posizioni assunte. Così, ad esempio, se c’è chi crede che «il problema<br />

dell’estetica stia in una comprensione <strong>delle</strong> connessioni fra i trenta<br />

centri visivi del cervello umano e le strutture emotive profonde», non<br />

manca, viceversa, chi ritiene che «non esista un unico senso estetico, ma<br />

ve ne siano molti, ciascuno connesso all’attività di un particolare sistema<br />

di elaborazione visiva, caratterizzato da specializzazione funzionale» 6 .<br />

Ma è difficile attivare un atteggiamento critico presi come siamo dalla<br />

sorpresa del nuovo e dalla fascinazione che ci procura. E non si tratta<br />

solo del tempo che ci vuole – in questo caso chiarirsi la differenza tra i<br />

due modularismi – per decidere quale valore accordare alle due affermazioni.<br />

Se è vero che le neuroscienze sono «l’ultima frontiera» 7 , si tratta<br />

anche dell’antipatia, con conseguente autocensura protettiva che può<br />

scattare, per chi affronta gli eroi culturali del momento. Consapevole<br />

dei rischi che corro, mi limito a Semir Zeki, il creatore della neuroestetica.<br />

Focalizzerò la mia attenzione sul suo La visione dall’interno, non<br />

perché lo consideri «il primo tentativo di collegare arte e modalità di<br />

funzionamento del cervello visivo» 8 , come recita il risvolto di copertina<br />

dell’edizione italiana, ma perché qui per la prima volta viene ribadito<br />

a chiare note che l’estetica deve risolversi in neuroestetica, pena la sua<br />

inconsistenza. Si confronti la “neuroestetica” – nel frattempo assurta alla<br />

dignità di disciplina accademica di cui Zeki è il primo professore – con<br />

280


il meno “fortunato” neologismo di “neuroetica”: l’etica è ritenuta cosa<br />

ben più “seria” dell’arte perché si possa individuare in essa il futuro<br />

dell’etica e della filosofia morale. In neuroetica c’è, sì, il filone di ricerca<br />

sulle basi biologiche dell’agire morale, ma il dibattito è molto acceso,<br />

come anche l’“etica <strong>delle</strong> neuroscienze”, ovvero la riflessione sulle dimensioni<br />

etiche della ricerca sperimentale in campo neuroscientifico,<br />

cosa su cui non c’è da discutere anzi da plaudire. Per la neuroestetica,<br />

viceversa, da una parte, nel filone di ricerca “estetica della scienza”, si<br />

inizia con l’attribuire valori estetici alla scienza e si finisce coll’identificare<br />

arte e scienza; dall’altra, dall’interesse per le “basi biologiche della<br />

produzione e della fruizione dell’arte”, si passa non solo a considerare<br />

gli artisti “neurologi inconsapevoli”, ma si ritiene anche che il teorico<br />

“consapevole” non possa che essere il neuroscienziato. Neuroestetica,<br />

e non più Estetica, per l’appunto. In sostanza, come nell’Ottocento<br />

“l’estetica dal basso”, inaugurata da Fechner, avrebbe dovuto sostituire<br />

“l’estetica dall’alto”, così oggi, ma diversamente da ieri – fermo restando<br />

che, in Neuroestetica non in Estetica, “bello” e “piacere” continuano<br />

a delimitare l’arte – l’Estetica non deve essere una “disciplina psicologica”,<br />

secondo il programma che ha avuto in Lipps il suo più strenuo<br />

paladino, bensì una disciplina neurologica 9 .<br />

Ma già l’interesse dei neuroscienziati, dato per scontato e recepito<br />

come legittimo, lodevole, condiviso, porrebbe non pochi problemi, se<br />

solo si tenesse conto della storia del concetto “arte”, anche quando se<br />

ne limiti l’estensione alla pittura e alla scultura – l’arte visiva di cui si<br />

ricercano le «neural basis» 10 – e <strong>delle</strong> storie della produzione e della<br />

fruizione dei prodotti artistici. Si pensi, un esempio tra tanti, alla diversa<br />

ricezione della Brillo Box di Warhol e di Harvey. Sono arte, non lo sono,<br />

entrambe, solo una, quale <strong>delle</strong> due, pittura o scultura? Se ne è molto<br />

discusso. E c’è chi ha cambiato idea. Arthur Danto, ad esempio, nel<br />

corso degli anni ha cambiato posizione sulla Brillo di Harvey 11 . Sicuro<br />

che “fotografando” il suo cervello avremmo ottenuto e otterremmo<br />

immagini diverse? E poi, fuori dal Museo e dal Supermercato, luoghi<br />

nei quali si fa esperienza <strong>delle</strong> scatole Brillo, i due oggetti, trasportati<br />

in un laboratorio scientifico, e presentati a un soggetto immobilizzato<br />

in un abitacoluzzo innaturale e ansiogeno (qual è quello della risonanza<br />

magnetica funzionale), funzionano allo stesso modo? Le attuali tecniche<br />

di studio del cervello sono di grana così fine da rilevare la differenza<br />

nel funzionamento del cervello tra un’immagine artistica e una semplice<br />

immagine, tra una pittura e una crosta, o tra un fruitore esperto e un<br />

fruitore naïf? E come rendere il concetto di “arte” “operativo” per<br />

l’indagine scientifica? Ragioni di questo tipo dovrebbero indurre alla<br />

cautela e, quanto meno, consigliare di limitare la ricerca alle radici biologiche<br />

del fare e percepire oggetti e immagini. E, invece, va dilagando<br />

la certezza che «se il nostro cervello reputa un’opera bella, si attivano<br />

ben definite aree cerebrali, identificabili. Dunque, i parametri oggettivi<br />

281


per distinguere un’opera d’arte vanno ricercati nell’attività del nostro<br />

cervello e non nelle parole e definizioni» 12 .<br />

Dicevo della confusione tra processi e prodotti, ovvero tra il piano<br />

della storia evolutiva dei processi e il piano storico-culturale dei<br />

prodotti. Ma non solo di questo si tratta. C’è qualcosa di più profondo,<br />

come fosse la cifra del nostro tempo, che agisce e che determina<br />

l’atteggiamento dominante nella cultura dell’“estetizzazione diffusa”:<br />

un uso dadaista del significato 13 , che di slittamento in slittamento raggiunge<br />

l’insensatezza; e un modo di presentare la ricerca che possiamo<br />

chiamare “pubblicitario”: calamitare l’attenzione puntando sulla novità,<br />

su ciò che può sorprendere, sulla trovata “geniale” che possa imporsi<br />

nel mercato <strong>delle</strong> idee. Una miscela esplosiva, questa, che come in una<br />

sorta di brainstorming senza fine e confini, mette fuori gioco il giudizio<br />

critico. Nella gara con premio, in cui vince chi la spara più grossa,<br />

innanzitutto viene a perdersi la dimensione storica <strong>delle</strong> problematiche<br />

e, indifferenti ai lasciti e ai debiti, l’oggetto della ricerca viene posto<br />

– parrebbe una necessità – come novità assoluta.<br />

L’intreccio tra saperi, sempre interessante di per sé, sembra avere un<br />

valore aggiunto quando si tratta di Arte e Scienza, che, nonostante da<br />

tempo e da più parti vengano, a torto e a ragione, sottolineate le loro<br />

affinità piuttosto che le loro differenze, nell’immaginario collettivo permangono<br />

legate alla soggettività del sentire, la prima, e alla impersonale<br />

oggettiva verità, la seconda. Come non entusiasmarsi se la scienza lascia<br />

intravedere la possibilità di una spiegazione dell’arte? Un “oggetto”<br />

persino difficile da definire, ma che parrebbe coinvolgere la soggettività<br />

di ognuno, indipendentemente dall’essere ricchi o poveri, maschi o<br />

femmine, colti o incolti, “primitivi” o contemporanei, bambini o adulti,<br />

sani o malati, ecc. La notizia diventa: “il mistero dell’arte svelato”. E<br />

poiché la chiave e della creazione e della spiegazione viene riposta<br />

sempre nel cervello, l’opera d’arte, da oggetto della ricerca, diviene<br />

anche «strumento d’indagine scientifica e un eccellente manuale con<br />

cui scoprire le meraviglie celate all’interno del nostro cervello» 14 . Di<br />

slittamento in slittamento. Si consideri la locandina del quinto convegno<br />

(gennaio, 2006), sui Flavors of Esperience: una pentola (un paiolo?)<br />

fumante e un giovane con in una mano il coperchio e nell’altra un<br />

cucchiaio su cui con bocca vogliosa soffia prima di farne “esperienza<br />

papillare”. «Scienziati e artisti esaminano il come e il perché il cervello<br />

risponde a cose come manicaretti, vini pregiati e odori appetitosi», si<br />

legge sotto l’immagine. Gli artisti, ovviamente, non avrebbero motivo<br />

di parteciparvi se non fossero “assimilati” ai neurologi, e se il termine<br />

“gusto”, oltre a designare uno dei sensi, non rimandasse a una “idea<br />

estetica”, vale a dire alla specifica modalità del giudizio estetico 15 . Il<br />

protagonista comunque è il cervello. Non senza ragione, e, ahinoi, senza<br />

successo, si cominciano a individuare i segni di una vera e propria<br />

“neuro-mania” 16 .<br />

282


Il “sapere sul cervello” non è d’emblée “sapere sulla mente”. Le<br />

neuroscienze, giusta la precisazione di un neuroscienziato, studiano «il<br />

cervello, non la mente. E quest’ultima, che pure non esisterebbe senza<br />

il cervello, è ben altra cosa» 17 . Certamente, la psicologia e la filosofia<br />

della mente non possono non tenere conto <strong>delle</strong> scoperte sul cervello,<br />

quanto meno per rivedere quelle teorie della mente che hanno un’evidente<br />

implausibilità neurologica. L’errore di Cartesio, un fortunato<br />

libro di Damasio è, in tal senso, emblematico. In psicologia poi i dati<br />

forniti dalla ricerca sul cervello possono utilmente servire «come una<br />

sorta di corte di cassazione, l’arbitro ultimo fra spiegazioni antagoniste<br />

della cognizione» 18 , a meno che il dato neurologico, come spesso succede,<br />

non sia “carico di teoria” psicologica e il “carico” non rimandi<br />

proprio alle opzioni teoriche in discussione. Pur così, ritengo anche<br />

utile esplicitare chiaramente che un discorso contro la neuroestetica<br />

– sostenuta all’inizio dall’entusiasmo della comunità neuroscientifica e<br />

di vari circoli artistici, come ci dice Zeki, un entusiasmo che via via<br />

si è allargato a macchia d’olio, e che recentemente si è concretato in<br />

cospicui finanziamenti 19 – non è in nessun senso un discorso contro<br />

le neuroscienze 20 .<br />

2 – Zeki, appassionato da sempre di arte – a diciassette anni in San<br />

Pietro a Roma fa la «prima esperienza di una bellezza travolgente»<br />

davanti alla Pietà di Michelangelo – frequentatore di musei, città d’arte<br />

e artisti, affermato neuroscienziato con all’attivo scoperte che hanno<br />

contribuito a rivoluzionare il sapere sul cervello, è interessato a «capire<br />

quali siano le basi neurologiche dell’esperienza estetica e perché<br />

le opere d’arte ci commuovono tanto e con tanta forza» 21 . Mossi da<br />

uguale interesse iniziamo la lettura, e giunti alla fine siamo costretti<br />

a rilevare non solo la fragilità <strong>delle</strong> “basi neurologiche dell’esperienza<br />

estetica”, ma anche che nel libro, sebbene si parli continuamente di<br />

“piacere estetico”, non c’è il minimo accenno a quelle aree del cervello<br />

che potrebbero contribuire alla risposta al “perché le opere d’arte ci<br />

commuovano tanto”. Non si è individuato, quindi, neanche il “luogo”,<br />

che ha creato l’illusione che, trovatolo, si abbia non solo il “dove” ma<br />

altresì il “come” e il “che cosa”. Al contrario, troviamo continuamente<br />

ripetuto, relativamente ai vari stili artistici neurologicamente esaminati,<br />

che se quanto si percepisce sia anche un’esperienza estetica o non lo<br />

sia non lo si può ancora sapere; e dove e come – ma il “come” sembra<br />

consistere nel “dove” – il cervello valuti la bellezza di un’opera e<br />

procuri il godimento estetico è avvolto dal più fitto mistero. Veniamo<br />

anche informati che il neurofisiologo non è ancora in grado neanche<br />

di spiegare come il cervello – le cui cellule elaborano separatamente le<br />

varie caratteristiche dell’oggetto – le metta poi insieme per darci l’unità<br />

dell’oggetto. Non dell’oggetto d’arte – esempio emblematico di Gestalt<br />

– ma pure di un’immagine o di un oggetto qualsiasi, persino di una<br />

283


linea che ne interseca un’altra. «Siamo ancora lontani dal comprendere<br />

come il cervello percepisce l’opera intera, e ancora di più dal sapere<br />

come le attribuisce una qualità estetica» 22 . Né ci è detto cosa intenda<br />

il neurofisiologo per “qualità estetica”, sì da avere un criterio condiviso<br />

per impostare e valutare la ricerca neuroestetica. Sicché, senza il “che<br />

cosa” e il “come”, il punto archemideo per “sollevarci” dall’Estetica<br />

parrebbe consistere solo nel “dove”.<br />

Eppure quasi alla fine del libro, come a fare un bilancio, si legge:<br />

«Un quarto di secolo fa, la maggior parte dei neurobiologi non avrebbe<br />

avuto da dire niente di interessante o significativo sul modo in cui percepiamo<br />

le opere d’arte, al di là del fatto che tutta l’arte visiva deve attivare<br />

l’area V 1<br />

e che le sue caratteristiche e le sue qualità devono essere<br />

interpretate tramite quella che veniva definita la corteccia dell’associazione<br />

visiva. Oggi siamo in grado di dire molto di più, come ho cercato<br />

di mostrare. Possiamo contestare la vecchia ipotesi di una differenza<br />

tra vedere e capire, possiamo parlare della modularità del cervello visivo<br />

e metterla in relazione con la modularità dell’estetica visiva, possiamo<br />

dire che l’arte cinetica attiva una parte specifica del cervello, distinta da<br />

quella attivata dall’arte di Mondrian e che i ritratti attivano un sistema<br />

diverso da entrambi i precedenti. Possiamo anche mettere in relazione<br />

alcuni aspetti di certe correnti artistiche, per esempio l’arte fauve, con<br />

certe specifiche vie cerebrali. Io penso che sia possibile procedere a una<br />

generalizzazione ulteriore: forse si può parlare della neurologia dell’arte<br />

astratta e dell’arte figurativa» 23 .<br />

Se potessimo mettere da parte l’arte e le opere d’arte – la prima è<br />

una costruzione culturale storicamente determinata che certo non si incontra<br />

in natura, e per le seconde mette conto ricordare che «l’oggetto<br />

d’arte non è costantemente un oggetto d’arte, l’oggetto d’arte non è<br />

oggetto d’arte per tutti» 24 – i dati sul cervello che Zeki riporta sono<br />

sicuramente di estremo interesse. Ma non possiamo: l’oggetto contro<br />

cui argomenterò è propriamente la neuroestetica, non certo le neuroscienze.<br />

Mi occuperò quindi di quel “molto di più” sull’arte racchiuso<br />

in La visione dall’interno, e raggrupperò il nuovo sapere dispiegato nei<br />

ventun capitoli in cinque punti (rispettivamente §§ 3-7): del “vederecapire”;<br />

della “costanza”, ovvero la legge dell’arte e del cervello; del<br />

surrealismo, del fauvismo e del cubismo, ovvero “l’arte della sfida e del<br />

fallimento”; di Mondrian e dell’arte cinetica, ovvero “l’arte del campo<br />

recettivo”; della “neurologia dell’arte astratta e dell’arte figurativa”, in<br />

cui considererò anche “il caso Monet” 25 .<br />

Dati interessanti, dicevo, anche se, a mio modo di vedere, l’interpretazione<br />

neuro è tutta da discutere, sia relativamente alla “visione”,<br />

sia relativamente a come “la nuova concezione della visione” – il “vedere-capire”<br />

– si combini con la concezione dell’intelletto o pensiero,<br />

che rimane quella “vecchia”, e che finisce col compromettere la novità<br />

della prima. Se, come Zeki sostiene, e con buone ragioni data l’orga-<br />

284


nizzazione <strong>delle</strong> aree neuronali, il capire è interno al sistema percettivo,<br />

non solo non è necessario ricorrere all’intervento dell’intelletto per<br />

la comprensione del visivo, ma occorre anche ridefinire il significato<br />

tradizionale di “intelletto”, che in psicologia esplicitamente equivale a<br />

“mente”, “cognizione”, “pensiero”, e soprattutto e per lo più implicitamente,<br />

a “linguaggio”: i processi cognitivi tradizionalmente intesi<br />

da cui è esclusa la percezione. Di fatto, in psicologia e in filosofia si<br />

continua a dire “processi cognitivi e percettivi” o “processi mentali e<br />

percettivi” – un modo di dire che tradisce un modo radicato di pensare<br />

– e si discute se il “percepire” sia o no un processo cognitivo, e se<br />

la percezione abbia o no un contenuto concettuale. Zeki, che sa bene<br />

che un modo di dire non è un semplice modo di dire, e che critica<br />

la concezione «di un occhio che vede e un cervello o intelletto che<br />

pensa», annota che «in latino intellectus vale “percezione, conoscenza,<br />

concetto”», ma per precisare che la traduzione di intelletto con brain<br />

è «una scelta intelligente» 26 . Anche senza la precisazione “intelletto<br />

uguale cervello”, l’annotazione “intellectus vale percezione” non basta<br />

a scalfire l’endiadi pensiero-linguaggio, né a rivoluzionare una tradizione<br />

fondata sulla profonda convinzione, variamente teorizzata, che<br />

intelletto e sensi stanno su fronti opposti, e che il loro consolidato<br />

rapporto è di tipo gerarchico. Così, per “la nuova concezione della<br />

visione”, mentre rimane fermo il concetto di “inferenza” teorizzato da<br />

Helmholtz – centrale in psicologia nonostante la Gestaltpsychologie –,<br />

in più si ricorre al concetto di “ipotesi” aggiunto da neohelmholtziani<br />

dichiarati come Gregory e reso popolare in storia e critica d’arte da<br />

Ernst Gombrich (il cui meritato prestigio ha convinto quasi tutti che<br />

percepire equivale a interpretare), nonché al “top down” teorizzato<br />

dal cognitivismo 27 .<br />

3 – La visione, ci dice Zeki, era considerata passiva e l’attività era<br />

tutta dalla parte del pensiero. Avevamo quindi una distinzione tra facoltà<br />

inferiori e facoltà superiori: sensi e intelletto. I dati anatomofisiologici<br />

che contribuirono a rafforzare “l’inferiorità dei sensi” sono:<br />

(1) localizzazione cerebrale della visione: la retina su cui si “imprime”<br />

l’immagine di ciò che si sta guardando è connessa con una zona specifica<br />

della corteccia; (2) punti adiacenti nella retina sono connessi a<br />

punti adiacenti nella corteccia visiva, che perciò venne chiamata retina<br />

corticale, come fosse una sorta di lastra fotografica che passivamente<br />

registra lo stimolo; (3) un danno a quest’area causa cecità totale. Poiché,<br />

in base ai dati che si avevano, si riteneva che l’area circostante<br />

alla corteccia visiva non avesse collegamenti con la retina, e poiché un<br />

danno a quest’ultima non causava cecità si sostenne che fosse proprio<br />

questa (area associativa) l’area che interpretava l’immagine impressa<br />

sulla retina. I casi di agnosia, cioè patologie che, pur essendo integra<br />

la corteccia visiva, rendono impossibile il riconoscimento visivo e la<br />

285


comprensione, sembravano una chiara conferma della funzione superiore<br />

assegnatale. Il cervello veniva così diviso in aree sensoriali che<br />

ricevono gli stimoli e in aree associative che li interpretano. Per la<br />

vecchia concezione, quindi, si vedrebbe con una parte del cervello e<br />

si capirebbe con un’altra.<br />

La concezione che, nell’ambito <strong>delle</strong> neuroscienze, è andata maturando<br />

negli ultimi decenni è che la visione è un processo attivo, e che<br />

vedere e capire sono due aspetti difficilmente separabili dello stesso<br />

processo. Il fatto nuovo, decisivo per il cambiamento, è stata la scoperta<br />

di numerose altre aree visive collegate alla corteccia visiva, che perciò<br />

è stata ribattezzata “corteccia visiva primaria” o V 1<br />

. Oltre alla V 1<br />

,<br />

– e limitatamente alla denominazione “V” – sono state identificate le<br />

aree V 2<br />

, V 3<br />

, V 3<br />

a, V 3<br />

b, «il complesso» V 4<br />

, e V 5<br />

, situate in quell’area che<br />

prima si considerava associativa. Nell’area V 1<br />

le cellule che ricevono<br />

i segnali che arrivano dalla retina attraverso il corpo genicolato sono<br />

chiaramente raggruppate in compartimenti diversi, ben identificabili<br />

sotto il profilo anatomico, e funzionalmente specifici relativamente a<br />

forma, colore o movimento. I vari compartimenti dell’area V 1<br />

inviano<br />

i segnali <strong>delle</strong> diverse caratteristiche, sia direttamente sia attraverso<br />

l’area V 2<br />

, alle altre aree ugualmente specializzate. «La specializzazione<br />

funzionale del cervello visivo è dunque una conseguenza del fatto che<br />

le singole cellule che lo costituiscono presentano un’alta selettività al<br />

tipo di segnale o stimolo visivo cui reagiscono». Una cellula selettiva<br />

al colore reagisce al rosso e non ad altri colori. Le cellule selettive al<br />

colore sono indifferenti alla forma e al movimento, e le cellule selettive<br />

al movimento sono indifferenti al colore e alla forma. Nel cervello<br />

visivo vi sono quindi diversi sistemi di elaborazione. Ogni sistema è<br />

formato dall’area specifica di V 1<br />

, dalla area specializzata a cui la V 1<br />

invia, e dalle connessioni tra le due. «Il fatto che i diversi attributi<br />

siano elaborati separatamente non costituisce di per sé una prova che<br />

siano anche percepiti separatamente». Se ci sia integrazione tra i vari<br />

sistemi, e sul come avvenga non c’è, allo stato attuale della ricerca,<br />

accordo scientifico. I più propendono per un’interazione tra i vari<br />

sistemi. Zeki, viceversa, sostiene che i vari sistemi di elaborazione sono<br />

anche “sistemi percettivi” che, come provano alcuni fatti patologici,<br />

hanno «un notevole grado di autonomia». A prescindere dalle lesioni<br />

alla V 1<br />

, che di solito procurano cecità, un danno ai sistemi di elaborazione<br />

specializzati, quando la V 1<br />

è integra, non compromette gli altri<br />

sistemi. Così, un danno alla V 4<br />

, specializzata per i colori, determina<br />

acromatopsia, che non è soltanto incapacità di percepire i colori,<br />

ma anche il non poterli più pensare; e uno alla V 5<br />

, specializzata per<br />

il movimento, acinetopsia. Quando la zona lesa è in altre parti del<br />

giro fusiforme abbiamo prosopagnosia. E infine un danno ad ampie<br />

zone del lobo occipitale esterno all’area V 1,<br />

causa agnosia visiva per gli<br />

oggetti, una sindrome «non ben definita ed estremamente variabile»,<br />

286


che, comunque, non comporta «una perdita completa e specifica della<br />

visione della forma» 28 .<br />

Da questi fatti Zeki trae due conclusioni: (1) «L’ottimo motivo per<br />

il mancato chiarimento dei rapporti tra funzione del cervello visivo e<br />

funzione dell’arte» è che la visione era considerata un processo passivo<br />

e «un processo passivo non può dar luogo a quella ricerca di costanti<br />

che costituisce una <strong>delle</strong> funzioni primarie dell’arte» 29 . Considerandola<br />

un processo attivo gli pare che la neuroestetica logicamente ne consegua.<br />

(2) Poiché i sistemi percettivo-elaborativi del cervello visivo sono<br />

modulari, l’estetica non può che essere modulare.<br />

La tesi di fondo è la seguente: “come il cervello ricerca l’essenziale<br />

anche l’arte è una ricerca dell’essenziale”. Un corollario della tesi che<br />

arte e cervello perseguono lo stesso scopo è che i pittori sono neurologi.<br />

A Zeki pare persino facile dimostrarlo: «È risaputo che i pittori<br />

fanno esperimenti. Li fanno elaborando e rielaborando un quadro fin<br />

quando esso non acquista l’effetto voluto, insomma fin quando non<br />

piace loro, che è come dire al loro cervello. Ma se, così facendo, il<br />

quadro piace anche ad altre persone – ad altri cervelli – essi hanno<br />

evidentemente afferrato un fatto generale riguardante l’organizzazione<br />

neurale <strong>delle</strong> vie visive che suscitano piacere, senza nulla conoscere dei<br />

dettagli di questa organizzazione e addirittura dell’esistenza di queste<br />

vie». Tanto basta a considerarli neurologi – affermazione variamente<br />

declinata in molti altri passi – sia pure «inconsapevoli e involontari» 30 .<br />

Stando alla “conversione neuro” di alcuni di loro, gli artisti quanto<br />

prima potranno conquistare la consapevolezza, e, in men che non si<br />

dica, saranno tutti neurologi senz’altro 31 . A parte le difficoltà che il<br />

“gusto” ha posto all’estetica, compresi gradimenti postumi, rivalutazioni<br />

e oblii come, per dirlo con Gillo Dorfles, “l’oscillazione del gusto” insegna,<br />

l’argomentazione di Zeki può essere applicata a tutte le attività<br />

produttive. Facciamo un esempio: “È risaputo che i cuochi fanno esperimenti.<br />

Li fanno elaborando e rielaborando un piatto fin quando esso<br />

non acquista l’effetto voluto, ecc. ecc.”. Le “vie” ovviamente non sono<br />

solo quelle visive: non occhi e cervello, bensì occhi, papille gustative,<br />

olfatto e cervello. Consideriamo i cuochi neurologi? 32 Sosteniamo che<br />

così procedendo “hanno afferrato un fatto generale riguardante l’organizzazione<br />

neurale”? E poiché la dimostrazione funziona continuando a<br />

cambiare il soggetto, purché l’operazione riscuota il gradimento altrui,<br />

dobbiamo concludere che siamo tutti, chi più chi meno, neurologi 33 .<br />

Egualmente generica è l’affermazione che «tutte le arti visive sono<br />

espressione del nostro cervello». È una verità di portata generale se ci<br />

si limita a considerarla sotto il profilo del correlato neuronale. Ma le<br />

cose si complicano perché Zeki continua: «e quindi devono obbedire<br />

alle sue leggi, nell’ideazione, nell’esecuzione o nella valutazione, e nessuna<br />

teoria estetica che non si basi in modo sostanziale sull’attività del<br />

cervello potrà mai essere completa, né profonda» 34 .<br />

287


Zeki non vorrà negare che ciò che vale per le arti, vale per le teorie,<br />

che come le prime, ma in modo diverso relativamente al “che cosa” e<br />

al metodo, sono interpretazioni della realtà. Ora, se il sostenere che “la<br />

produzione teorica è espressione del nostro cervello”, e se le “leggi”<br />

del “devono obbedire alle sue leggi, nell’ideazione, nell’esecuzione o<br />

nella valutazione”, li intendiamo nel senso che per teorizzare occorre<br />

un cervello (ma per cosa non occorre?) e un cervello che funzioni a<br />

dovere, come non si dà il caso, che avendo a posto l’area cerebrale V 4<br />

,<br />

uno percepisca il rosso, e un altro non percepisca né rosso né verde<br />

né blu quando lo sperimentatore presenta il rosso, allo stesso modo<br />

non si dovrebbe dare il caso che uno teorizzi “A” e un altro teorizzi<br />

“non A”, a meno che o l’uno o l’altro non abbiano un qualche danno<br />

nell’area preposta alla teorizzazione. Ma siccome, a evidenza, è tutto<br />

il contrario che succede, fermo restando che non si può né percepire<br />

né pensare senza il cervello, non è nel cervello che possiamo trovare<br />

la “verità” dei prodotti culturali siano le arti o siano le teorie. Né,<br />

tanto meno il metro per valutare “incompleta” o “non profonda” una<br />

teoria, come Zeki giudica tutte le teorie estetiche, «si tratti di Plotino,<br />

Kant, Hegel o Schopenhauer» 35 . Certo, potremmo anche immaginare<br />

che i cervelli si situino in una scala di perfezione, dal più al meno, e<br />

sostenere che la teoria “completa o profonda” è quella del cervello in<br />

cima alla scala. E così procedendo, inserire Dio nella scala filogenetica.<br />

Se le “leggi” del cervello le intendiamo in senso proprio – le leggi<br />

elaborate dal neurologo – le leggi si devono conoscere. Se no, come<br />

assolvere all’obbligo? I casi che mi vengono in mente per il “devono<br />

obbedire alle sue leggi, nell’ideazione, nell’esecuzione o nella valutazione”,<br />

sono due: o siamo in possesso <strong>delle</strong> leggi del cervello, una<br />

dotazione naturale di Homo sapiens sapiens; o per “ideare, scrivere<br />

e valutare” teorie si deve ricorrere a chi ha la capacità scientifica di<br />

legiferare. Nel primo caso si potrebbe pensare a qualcosa di simile alla<br />

bizzarra “Teoria della mente” teorizzata dai cognitivisti per spiegare la<br />

capacità che gli umani, ma anche altre specie, hanno di intendersi 36 .<br />

Trattandosi di leggi, forse non sorgerebbe il contenzioso cognitivista<br />

se per “Teoria della mente” debba intendersi la “Teoria della teoria”<br />

o la “Teoria della simulazione”. O forse sì, trattandosi di visivo: la<br />

simulazione di modelli potrebbe sembrare più rispondente all’arte e<br />

al cervello visivo. In ogni caso, bisognerebbe estendere a tutti, anche a<br />

chi non fa arte o scienza, l’istinto neurologico che Zeki attribuisce agli<br />

artisti. Nel secondo caso, non oso pensarci. Il filosofo e il filologo, il<br />

matematico e il fisico, il logico, i teorici <strong>delle</strong> molteplici specificazioni<br />

che il sapere ha prodotto: tutti a obbedire al neuroscienziato. Il danno<br />

certo sarebbe limitato a chi fa teoria. Ma quanti continuerebbero ad<br />

averne voglia? Si incrementeranno le vocazioni neuroscientifiche? Si<br />

penserà a canoni scientifici da promulgare? Si istituirà un csn (Consiglio<br />

Superiore <strong>delle</strong> Scienze)? Quis custodiet custodes? ecc. Se poi si<br />

288


considera la storicità <strong>delle</strong> leggi e il “fino a prova contraria” di quelle<br />

scientifiche, e si tiene conto che anche i neuroscienziati elaborano teorie<br />

diverse a partire dagli stessi dati, o il semplice fatto che lo stesso<br />

bicchiere con la stessa quantità di acqua, anche in periodi di scienza<br />

normale, per non parlare dei momenti rivoluzionari, può essere descritto<br />

come “mezzo vuoto” o come “mezzo pieno”, beh, i problemi che<br />

sorgerebbero sarebbero tali e tanti da rendere ingestibile la situazione.<br />

Dalla padella alla brace.<br />

Ci salva il fatto che la neuroscienza non indaga su se stessa. Del<br />

resto, una neuroepistemologia sarebbe una stranezza poco conciliabile<br />

con l’habitus “consapevole” dello scienziato. E la modularità ancora<br />

di più, data l’“unità della scienza”. Al contrario, la neuroestetica si<br />

confà all’artista, oggi “inconsapevole”, ieri dominato dall’inconscio e<br />

prima posseduto da furor divino. E all’arte visiva, che ha stili, generi e<br />

materiali. Stili, generi e materiali che per i filosofi appartengono a categorie<br />

diverse, ma che, considerati sullo stesso piano – evidentemente<br />

il cervello non ne coglie la differenza – servono egualmente ed equanimemente<br />

a fondare la modularità: l’estetica del colore, o l’estetica<br />

del ritratto, o l’estetica dell’arte astratta, o l’estetica dell’arte fauve, o<br />

l’estetica dell’“arte del campo recettivo”, il nuovo stile neuroestetico.<br />

Quanto alla novità della concezione della visione, che peraltro assicura<br />

la sopravvivenza a concetti centrali nella teoria tradizionale della<br />

percezione e incompatibili col vedere-capire, se solo ci si ricordasse della<br />

teoria della percezione della Gestalt – negando l’importanza fino ad<br />

allora assegnata all’immagine retinica e chiamando in causa il cervello,<br />

confutò proprio la concezione tradizionale – e, relativamente all’arte, di<br />

Arnheim per il quale le immagini, artistiche e non, «puntano all’essenziale»<br />

37 , non solo il nuovo si dissolverebbe, ma forse potremmo avere<br />

una teoria psicologica più adeguata a rendere conto dei nuovi dati sul<br />

cervello. Rimane però la novità di un cervello che procede come un<br />

artista – il cervello artista o, più propriamente, il cervello pittore «genera<br />

l’immagine visiva, con un procedimento molto simile a quello messo in<br />

atto da un artista» 38 – e di un’artista che procede quasi come il cervello.<br />

Al “quasi” mi sento obbligata per non occultare la “minorità” dell’artista<br />

rispetto alla capacità artistica davvero fantastica attribuita al cervello.<br />

4 – «“Il vero scopo della pittura è rappresentare gli oggetti come<br />

sono nella realtà, non come li vediamo”»; così «la funzione del cervello<br />

è quella di rappresentare gli oggetti come sono nella realtà e<br />

non come ci appaiono nelle varie situazioni, in base ai soli effetti che<br />

producono sulla retina. Proprio come l’arte, il cervello cerca ciò che è<br />

costante ed essenziale». La definizione, quindi, valida per entrambi è<br />

la seguente: «rappresentare le caratteristiche costanti, durevoli, essenziali<br />

e stabili di oggetti, superfici, volti, situazioni e così via, permettendoci<br />

in tal modo di acquisire conoscenza». Perciò, quanto (ovviamente non<br />

289


tutto, la selezione è d’obbligo quando si sostiene una tesi) è stato detto<br />

sull’arte e sull’artista – da artisti, critici, storici e filosofi – può, pari<br />

pari, essere usato da un moderno neurobiologo per il cervello visivo:<br />

è «sufficiente sostituire ad artista la parola cervello per ottenere una<br />

quasi completa sovrapposizione dei due piani di discorso». Le funzioni<br />

sarebbero assimilabili e le leggi sarebbero le stesse. La pittura, prodotta<br />

dall’attività dell’artista (che deve avere attiva non solo la parte visiva<br />

del suo cervello), diventa «il prodotto dell’attività del cervello visivo» 39 .<br />

E, ovviamente, è sempre il cervello, visivo e non visivo a seconda del<br />

tipo di arte, a fruirla.<br />

«Il più <strong>delle</strong> volte, la gente si aspetta che un quadro parli in termini<br />

diversi da quelli visivi, preferibilmente in parole, mentre quando un<br />

quadro o una scultura hanno bisogno di essere completati o spiegati con<br />

parole, ciò vuol dire che non hanno realizzato la loro funzione o che il<br />

pubblico non ha occhi per vedere». È un pensiero di Naum Gabo col<br />

quale Zeki dice di concordare «pienamente». Solo che, a parte la “gente”<br />

e non il cervello, mentre per Gabo si tratta della specificità visiva<br />

del medium pittura, per Zeki dell’ineffabilità dell’arte. Non tenendo<br />

presente che il problema si pone anche per la poesia, è davvero singolare<br />

la spiegazione che ne dà: «Come mai, dunque, il linguaggio, questa<br />

funzione specifica e distintiva dell’uomo, si rivela non atto a comunicare<br />

la bellezza? La ragione va forse cercata nella maggiore efficienza del<br />

sistema visivo, evolutosi lungo un arco di tempo che è milioni di anni<br />

più lungo di quello del linguaggio. […] Il linguaggio è un’acquisizione<br />

evolutiva relativamente recente, che non ha ancora raggiunto l’efficienza<br />

del sistema visivo nell’estrarre l’essenziale dell’insieme dei dati disponibili»<br />

40 . Certo, non è mancato chi ha sostenuto la precedenza dell’arte<br />

sul linguaggio, ma non che il linguaggio sia inefficiente “nell’estrarre<br />

l’essenziale”. Senza risalire a G. B. Vico (agli usi in chiave estetologica<br />

di Vico), basti pensare al mito della naturalità dell’arte, molto popolare<br />

dalla fine dell’Ottocento alla prima metà del Novecento. Come pure<br />

non sono mancate spiegazioni neurologiche: il linguaggio verbale «sarebbe<br />

connesso a processi mentali che hanno luogo nella zona superiore<br />

del cervello», mentre il linguaggio <strong>delle</strong> immagini avrebbe origine «in<br />

quelle zone del cervello dove risiedono pulsioni: istinti ed emozioni» 41 .<br />

Si trattava di ribadire la primitività dell’arte, considerata dal Settecento<br />

in poi linguaggio naturale dei sentimenti, di contro al linguaggio della<br />

ragione, organo della scienza. E la tesi veniva argomentata anche nell’ordine<br />

dell’ontogenesi. Sembrava «molto verosimile che la specie umana,<br />

al pari del bambino nell’epoca storica, abbia saputo prima disegnare che<br />

parlare» 42 . Quanto al bambino, come chiunque può constatare, è una<br />

leggenda 43 . Inizia a parlare intorno all’anno e a disegnare intorno ai<br />

due. A tre anni «è un genio grammaticale, ma non è affatto competente<br />

nelle arti visive, nell’iconografia religiosa, nei segnali del traffico e negli<br />

altri tipici ingredienti del curriculum semiotico» 44 . Per la filogenesi,<br />

290


dove non c’è «speranza di ritrovare la carne dei linguaggi fossili» 45 e<br />

ogni reperto può essere rubricato sub specie arte, non ci sono prove<br />

a favore, a meno di non credere nel «linguaggio visivo neurale», dato<br />

come fatto scientificamente provato, ma da addebitare alla metaforicità<br />

intrinseca al linguaggio, da cui deriva l’inferenza che «in assenza del<br />

linguaggio», «i segni tracciati dal primo disegnatore esprimevano il vocabolario<br />

grafico del cervello» 46 . Non è più di moda la famosa “legge<br />

biogenetica fondamentale” di Hæckel, e l’osservazione del bambino,<br />

quand’anche si fosse disposti a “guardare nel cannocchiale”, non servirà<br />

a correggere le fantasie sulla preistoria.<br />

Ritornando alla storia, Zeki sostiene che «in una prospettiva neurobiologica,<br />

la grande arte è quella che più si avvicina all’obiettivo di<br />

mostrare non ciò che appare, ma la realtà in tutto il ventaglio dei suoi<br />

possibili aspetti, aiutando in tal modo il cervello nello svolgimento della<br />

sua funzione primaria». La contrapposizione tra “ciò che appare” e “la<br />

realtà in tutto il ventaglio dei suoi possibili aspetti” diventa ancora più<br />

sibillina dato che quest’ultima deriverebbe da «una ricerca di costanti,<br />

un mezzo per trascendere tutte “le forme singole e le particolarità di<br />

ogni tipo”». Ricordando il fenomeno della “costanza”, per il quale una<br />

proprietà percettiva, per esempio il colore o la forma, rimane costante<br />

nonostante il continuo variare dello “stimolo prossimale”, ritiene<br />

utile allargarne il significato e teorizzare la “costanza situazionale” e<br />

la “costanza implicita” valide per l’arte. Con la prima intende «una<br />

situazione specifica che, in quanto dotata di caratteristiche comuni<br />

con molte altre dello stesso genere, permette al cervello di classificarla<br />

immediatamente come rappresentativa di tutte». La costanza implicita,<br />

che ha le stesse caratteristiche di quella situazionale, è specifica per le<br />

«opere “non finite”» 47 .<br />

I due tipi di costanza hanno la stessa funzione: dare «al cervello<br />

l’opportunità di fornire una serie di interpretazioni, tutte valide» di<br />

un’opera d’arte. La costanza situazionale viene esemplificata con Vermeer;<br />

quella implicita, va da sè, con Michelangelo. «Se la grandezza<br />

di Vermeer, dal punto di vista della neurobiologia, consiste nella sua<br />

capacità di concentrare in un singolo quadro la struttura invariante<br />

di un’intera classe di situazioni, Michelangelo raggiunge il medesimo<br />

effetto talvolta con gli stessi mezzi, ma in qualche caso» lasciando «volutamente<br />

le sue opere allo stato di abbozzo più o meno avanzato, […]<br />

come un trucco neurologico per amplificare il potere immaginativo del<br />

cervello. […] In breve, c’è in queste opere incompiute, dove le forme<br />

restano quasi totalmente implicite e nascono nel cervello di chi guarda,<br />

un nucleo di ambiguità e quindi di costanza, che viene conseguito con<br />

mezzi radicalmente diversi da quelli messi in campo nelle opere completate».<br />

Se qualcuno si chiede cosa c’entri l’ambiguità, sappia che per<br />

Zeki il concetto non va inteso nella definizione data dai dizionari, ma<br />

nella «definizione nuova, neurologica» che ne dà lui: «rappresentare si-<br />

291


multaneamente, su una stessa tela, non una, ma tante verità ugualmente<br />

valide» 48 . L’“ambiguità neurologica” potrebbe sembrare sinonimo di<br />

“costanza allargata”, o qualcosa da cui deriva la costanza: “un nucleo<br />

di ambiguità e quindi di costanza”. Al contrario: «Ogni interpretazione<br />

è valida quanto le altre, e non ne esiste una corretta. L’ambiguità<br />

è dunque l’inverso della costanza. In ogni istante le informazioni che<br />

raggiungono il cervello sono costanti (supponendo come costanti la<br />

distanza dal punto di vista, le condizioni di illuminazione ecc.), mentre<br />

il percetto varia ed è incostante. In questo senso il cervello accetta che<br />

non vi sia una singola caratteristica, essenziale e costante, ma molteplici»<br />

49 . In sostanza, l’ambiguità parrebbe la conseguenza della costanza<br />

e, tralasciando la costanza del cervello e l’incostanza del percetto, siamo<br />

costretti a concludere: “un nucleo di costanza e quindi di ambiguità”.<br />

Vediamo in concreto in cosa consiste l’ambiguità neurologica considerata<br />

«caratteristica distintiva della grande arte», con la precisazione<br />

che «non è qualcosa che l’artista inventa sulla tela. Si tratta piuttosto<br />

di un potenziale del cervello che l’artista sfrutta» 50 . Nella Lezione di<br />

musica di Vermeer l’«intreccio di verità diverse ruota intorno al rapporto<br />

tra l’uomo e la donna. Che tra loro ci sia una qualche relazione è<br />

indubbio, ma lui è il marito, l’amante, un corteggiatore, o un amico? È<br />

davvero un piacere per lui sentirla suonare o sta pensando che la donna<br />

potrebbe fare di meglio? Il clavicembalo è realmente usato – dopo<br />

tutto la donna è in piedi – oppure lei sta semplicemente suonando<br />

qualche nota mentre pensa ad altro, forse a qualcosa che lui ha detto,<br />

l’annuncio di una separazione o di una riconciliazione, o qualcosa di<br />

molto più banale? Tutte queste situazioni s’adattano perfettamente alla<br />

rappresentazione del quadro, che può così corrispondere a una molteplicità<br />

di “immaginari” diversi. Attraverso il ricordo immagazzinato<br />

di eventi analoghi del passato, il cervello può riconoscere in questo<br />

quadro il modello ideale di molte situazioni e interpretare la scena rappresentata<br />

come lieta o triste». «La tanta celebrata “forza psicologica”<br />

dei dipinti di Vermeer trae origine appunto da qui: evocando non una<br />

ma una molteplicità di situazioni tutte egualmente valide» 51 . È una<br />

verità che siano marito e moglie, ma egualmente che siano amanti, o<br />

che lui sia un corteggiatore o un amico, o che lei sia brava a suonare,<br />

o ecc.: così è se vi pare, non in ciò che appare, ma secondo le vostre<br />

libere associazioni, neanche l’opera fosse un Rorschach o, meglio, un<br />

tat (Thematic Apperception Test).<br />

Sono, però, “verità” che travolgono la sostanza estetica dell’opera,<br />

e in più azzerano la differenza tra realtà e immagine. Arnheim, per<br />

il quale «l’ambiguità è più spesso l’effetto involontario di una composizione<br />

scadente» – «sono pochi gli artisti che mirano a ottenere<br />

un’autentica ambiguità» – criticherebbe questa posizione, innanzitutto,<br />

perché dà «ragione a quanti affermano che le opere d’arte non sono<br />

percetti oggettivi ma occasioni di interpretazione soggettiva». Ciò che<br />

292


chiama “la fallacia della specificità mal riposta” è una <strong>delle</strong> tipologie<br />

analizzate per stigmatizzare la falsa convinzione che un’opera non abbia<br />

un suo significato obiettivo: «Il fatto decisivo che questo tipo di<br />

fraintendimento trascura è che ogni opera d’arte è concepita ad un<br />

particolare livello di astrazione e che i suoi vari aspetti vanno interpretati<br />

di conseguenza. Al di sotto del livello appropriato, le interpretazioni<br />

divengono arbitrarie […]. Il livello adeguato del piano d’astrazione<br />

deriva dalla natura dell’opera, e determinare tale livello è uno dei più<br />

delicati compiti dell’interprete. […] Benché probabilmente nessuno<br />

di noi consideri un’opera d’arte un’“illusione”, siamo tutti tentati di<br />

trattarla come un’informazione circa una situazione “reale”, in atto o<br />

in potenza, e di pretendere da essa la stessa completezza che è propria<br />

<strong>delle</strong> situazioni reali. […] Il quadro non ci dà una risposta, e la<br />

cosa può suggerire che è irrimediabilmente ambiguo, che non ha un<br />

carattere suo e che un’interpretazione è buona quanto l’altra. Questa<br />

conclusione erronea è il prodotto di una specificità mal riposta. Il livello<br />

di astrattezza indifferenziata al quale Rembrandt ha tenuto la sua<br />

descrizione va rispettato». La neuroestetica con le sue domande-verità<br />

era di là da venire, ma non occorre una nuova disciplina per porre<br />

“domande senza risposte” e arrivare a “interpretazioni arbitrarie”,<br />

quale che sia l’artista e quali che siano le finalità dell’interrogante 52 .<br />

Ovviamente, le “verità” col “non finito” possono aumentare a dismisura:<br />

«è evidente come un tale scenario dalle molte soluzioni possibili<br />

sia strettamente legato a una condizione nella quale l’opera, o la<br />

scena, o la narrazione, venga lasciata incompiuta. Il cervello ha quindi<br />

modo di completare l’opera in molti modi differenti, ognuno dei quali<br />

risulta avere pari plausibilità rispetto agli altri» 53 . Nel caso l’opera sia<br />

stata finita, ma, per accidente, ne rimane solo un frammento, come per<br />

molta statuaria antica, «anche qui, il fatto rilevante è che il cervello può<br />

darne interpretazioni diverse». Perciò il neurobiologo «trov[a] interessante<br />

che, quale esempio della perfezione raggiunta dall’arte ellenica,<br />

Winckelmann avesse scelto un frammento: il Torso del Belvedere». Il<br />

frammento «e il non finito possono soddisfare il cervello più di una<br />

compiutezza estrema». L’incompleto sembrerebbe «avvicinarsi al concetto<br />

presente nel cervello» meglio del completo. Certo, «l’esperienza<br />

quotidiana di singoli oggetti o situazioni possono anche non soddisfare<br />

il concetto sintetico più globale e, per il cervello, ne consegue un’insoddisfazione<br />

permanente», ma non si capisce perché la “compiutezza<br />

di un’opera”, fatta di costanza e di ambiguità, l’abbiamo visto con<br />

Vermeer, possa non soddisfare pienamente il cervello. Né ci vengono<br />

forniti esempi di “compiutezza estrema” 54 . Per fortuna ci viene in soccorso<br />

Ticini col confronto tra la Ninfa dormiente di Canova e il Torso<br />

del Belvedere: «l’incompletezza del “Torso del Belvedere” si rivela più<br />

efficace della Ninfa canoviana». Rilevando che la Ninfa dormiente di<br />

Canova è «troppo perfetta» per corrispondere all’«ideale di bellezza del<br />

293


nudo che ognuno di noi possiede», ribadisce che «una via per ottenere<br />

il concetto universale che potenzialmente ritrae tutti gli ideali possibili<br />

in tutti i possibili spettatori, è lasciare l’opera incompiuta, irrisolta.<br />

Il cervello in questo caso, è coinvolto più intensamente. […] Non a<br />

caso, Winckelmann scelse il “Torso del Belvedere” come rappresentativo<br />

dell’ideale di bellezza nell’arte greca. Winckelmann stesso rilevò<br />

nell’incompletezza del “Torso” (in questo caso non voluta dall’artista) la<br />

“lussuria” di poter completare la scultura attraverso l’immaginazione, il<br />

flusso creativo e quindi il cervello». Perciò «ammirando l’antica opera,<br />

la nostra mente valuta fra le molteplici possibilità – ognuna plausibile<br />

come le altre –, scegliendo quella che più le si addice e che rispecchia<br />

nel modo migliore il nostro personale ideale di nudo e di bellezza» 55 .<br />

E “le molteplici possibilità” che, ignorando il “livello di astrazione”<br />

dell’opera, oggi si possono immaginare come completamento sono tanto<br />

divertenti quanto preoccupanti. Si consideri, altresì, la facilità con cui è<br />

possibile rendere incomplete le opere, che, diversamente dal non-finito<br />

dipendente dalla volontà dell’artista, è alla portata di chiunque. Intanto<br />

nel 2006 proprio una statua del Canova, un gesso di Ebe situato a<br />

Brera, è stata resa “incompleta”. Chissà se chi l’ha decapitata l’ha fatto<br />

nell’interesse del cervello. In ogni caso la neuroestetica non dovrebbe,<br />

coerentemente, lamentarsi giacché i gesti degli iconoclasti, potenziando<br />

l’ambiguità dell’opera accrescono la quantità di “verità” che i frammenti<br />

possono suggerire. Neanche quando dovesse ricapitare alla Vergine<br />

della Pietà di Michelangelo, “di una bellezza travolgente” ci dice Zeki,<br />

e che proprio per questo, ci dice Freedberg, è stata sfigurata nel 1972:<br />

«appare troppo bella, sicché l’uomo, nonostante tutti i suoi impulsi<br />

messianici, ne infrange quelle parti che la rendono bella» 56 .<br />

Il non-finito e la costanza implicita a cui darebbe luogo aggiungono<br />

così un nuovo tassello nel restyling che la neuroestetica sta facendo del<br />

concetto “arte”, e anche del concetto “artista”. Zeki, ricordando che<br />

per Plotino – «di cui senza dubbio il Buonarroti conosceva le Enneadi»<br />

– «la forma non è nella pietra, è nell’artefice prima di trasporsi<br />

nella pietra», sostiene che «è solo perché si trova anche nel cervello<br />

dello spettatore che questi può coinvolgersi coll’immaginazione nell’opera<br />

incompiuta di Michelangelo, creando nuove forme a partire da<br />

essa». Lo spettatore creativo come l’artefice? No. “La forma preesiste”<br />

nel cervello. Ma, poiché la man che ubbidisce all’intelletto, più<br />

propriamente, ubbidisce al cervello visivo, il “divino” Michelangelo,<br />

e a maggior ragione tutti gli altri artisti, non creano nuove forme ma<br />

“riproducono” forme preesistenti. Un concetto neurologico, quello di<br />

«forma preesistente», che elabora, utilizzando Plotino non meno che<br />

i teorici del cubismo, per dirci «di come gli artisti siano in grado, o<br />

almeno tentino, di riprodurre le funzioni del cervello visivo» 57 . Se questo<br />

modo di trattare la questione spiega l’inutilità per l’artista dell’immaginazione<br />

(letteralmente «l’attività che permette di tradurre le cose<br />

294


in immagine» 58 , e perciò riconosciutagli unanimemente), nondimeno,<br />

risulta poi implausibile, anche neurologicamente, attribuire “immaginazione”<br />

e “creazione di forme nuove” allo spettatore il cui compito – si<br />

tratti di “non finito” o di “finito” – è di percepire l’opera. Come che<br />

sia, abbiamo un artista che riproduce e uno spettatore che produce,<br />

sebbene risulti incomprensibile che l’argomento “forma preesistente”<br />

valga per l’uno e non per l’altro. Ma si sa, la scienza è contro-intuitiva.<br />

Il concetto di “costanza allargata” – la legge fondamentale e dell’arte<br />

e del cervello visivo – Zeki, non solo si preoccupa di rintracciarlo<br />

nelle definizioni che i filosofi hanno dato dell’arte, ma si impegna pure<br />

a dimostrare che le posizioni di Platone e Hegel – agli antipodi relativamente<br />

alla pittura – si possono «riconciliare, se le si considera nel<br />

quadro <strong>delle</strong> funzioni cerebrali». Dal famoso letto copia-di-copia, e<br />

dall’idea platonica di letto, fino al concetto e all’idea hegeliani, passando<br />

per Aristotele, Kant e Schopenhauer, e intramezzando artisti e<br />

mercanti, conoscitori, critici e storici dell’arte, il tutto per dimostrare<br />

l’equivalenza tra idea platonica e concetto hegeliano, dato che le differenze<br />

tra l’idea dell’uno e il concetto dell’altro non hanno rilevanza<br />

neurobiologica: «Se l’arte rappresenta la realtà nella sua struttura<br />

essenziale, o se è l’unico mezzo per cogliere questa verità di contro<br />

ai dati sempre mutevoli ed effimeri dei sensi, i due opposti punti di<br />

vista trovano alla fine un punto di unificazione se si ipotizza che esista<br />

(Hegel) o possa esistere (Platone e Schopenhauer) una stretta relazione<br />

tra pittura e ricerca dell’essenziale». Perché i conti tornino occorre solo<br />

esplicitare, a dispetto o a correzione del letto copia-di-copia, quanto<br />

Platone ha “intuito” sulla pittura 59 , e assicurare che per gli artisti – che<br />

nulla sanno dei grossi problemi filosofici annidati nella loro pratica, ma<br />

che, grazie all’istinto neurologico, puntano decisamente all’idea di letto<br />

– il quadro di un letto «rappresenta davvero tutte le caratteristiche<br />

essenziali di tutti i letti, e costituisce la realtà del letto perché […] è<br />

in grado di porsi al di sopra di ogni particolarità» 60 .<br />

A guardare i quadri, i letti nella storia della pittura – anche se nel<br />

titolo non portano Bed come quello di Rauschenberg e non sono famosi<br />

come quello di van Gogh, che comunque nella classifica dei “letti artistici”<br />

non è il primo 61 – sono davvero tanti e tanto diversi nella loro<br />

forma che, a non avere pregiudizi, piuttosto che la costanza troviamo il<br />

suo contrario. E anche a essere ciechi alla “forma artistica”, My Bed di<br />

Tracey Emin ha molto poco in comune con il letto della camera di van<br />

Gogh. Quand’anche il concetto di letto – «la registrazione immagazzinata<br />

nel cervello» – fosse uguale per tutti, a meno di non presupporre<br />

che la forma artistica sia bella e pronta nel cervello, l’«idea» non è<br />

«omologa» al «concetto» 62 . Se poi il concetto di letto del cervello è<br />

«qualcosa su cui ci si sdraia o si dorme», cioè il cervello coglie proprietà<br />

relative alla funzione e non aspetti della forma, dal concetto non possiamo<br />

arrivare all’idea. Uno degli esempi che Zeki porta per spiegare<br />

295


il suo modo di intendere il concetto e l’idea è la rappresentazione del<br />

movimento: «Se confrontiamo una fotografia con un quadro di Degas,<br />

è la fotografia che sembra falsa. Questo si spiega con il fatto che noi<br />

non percepiamo mai i singoli frammenti di un movimento – che sono<br />

quelli di cui la fotografia dà una riproduzione fedele – ma lo sviluppo<br />

progressivo [déroulement] del movimento […] Quindi la pittura<br />

di Degas trascende la realtà di un dato istante per esprimere la sintesi<br />

di tutti questi istanti in una ricostruzione intellettuale» 63 . Mettiamo da<br />

parte il medium fotografia, che così considerato non spiega neanche<br />

come Greta Garbo sia diventata la “Divina” e Marilyn Monroe l’“icona<br />

erotica del Novecento”, e rileviamo che il concetto rimane prerogativa<br />

dell’intelletto, con la conseguenza che il sistema percettivo ipotizzato da<br />

Zeki ricorrerebbe a “una ricostruzione intellettuale” – una astrazione<br />

non visiva – per produrre la forma visiva. Il complicato e improbabile<br />

processo di partire dal visivo per arrivare al visivo attraverso l’intelletto<br />

(che tutto è fuorché visivo) è in linea con la teoria tradizionale della<br />

percezione ma entra in contraddizione con i poteri che la nuova teoria<br />

attribuisce al cervello visivo, e con il vedere-capire. In più, la forma<br />

pittorica non è, sic et simpliciter, il percetto: “la sintesi di tutti gli istanti<br />

del movimento” rappresentato può non corrispondere allo “sviluppo<br />

progressivo del movimento” percepito, come dimostra lo schema rappresentativo<br />

del cavallo al galoppo con le gambe stese in orizzontale,<br />

che si può percepire non andando all’ippodromo ma guardando, per<br />

esempio, Derby a Epsom di Géricault o Cavaliere azzurro di Kandinskij.<br />

Ciò perché il “concetto percettivo” – trattandosi di visivo non può essere<br />

intellettuale ma percettivo – non è il “concetto rappresentativo”,<br />

ovvero «quel concetto della forma grazie al quale la struttura percepibile<br />

dell’oggetto può venire rappresentata tramite le proprietà di un determinato<br />

medium». La forma, quindi, «può essere evocata da quanto si vede<br />

ma non può esserne ripresa direttamente. […] Il tentativo di trovare nel<br />

modello la forma figurativa è destinato a fallire perchè ogni forma deve<br />

essere desunta dal medium particolare in cui l’immagine è eseguita» 64 .<br />

Poiché la costanza serve a «spiegare in un’ottica neurologica perché<br />

le opere di Vermeer e di Michelangelo generino un senso di appagamento<br />

così profondo in moltissime persone», e, soprattutto, poiché<br />

ha valore di legge, non ci si aspetta certo di venire a sapere che «è un<br />

problema di cui la neurologia non ha ancora intrapreso lo studio, e in<br />

realtà si tratta di un campo d’indagine ancora vergine». E mentre candidamente<br />

Zeki ci informa che neurologicamente parlando la costanza<br />

situazionale rimane «un mistero», avanza l’ipotesi che «sembrerebbe<br />

ragionevole supporre che, esponendo più volte una persona a una determinata<br />

situazione, ad esempio gioiosa, sia possibile estrarre gli elementi<br />

comuni a tutte le occasioni dello stesso tipo» 65 . Come dire che<br />

si rifà alla concezione tradizionale del concetto, confutata da tempo<br />

dalla psicologia e oggi in contrasto persino con i dati della neurobio-<br />

296


logia, persino con i suoi. Peraltro ricorrere alla costanza per spiegare<br />

la pittura è un non-senso, e, più in generale, se la costanza funzionasse<br />

come si sostiene funzioni, il “cervello pittore” non sarebbe andato<br />

oltre la cosiddetta arte infantile. Ma senza pittura, il suo sviluppo storico,<br />

il dispiegamento di forme (vs “costanza”) che l’ha caratterizzata<br />

e le interpretazioni datene, non avremmo neanche l’“arte infantile”.<br />

5 – «La pittura dovrebbe essere la rappresentazione di elementi<br />

permanenti ed essenziali e fornire quindi una conoscenza di tali invarianti».<br />

Rimane però una difficoltà. Zeki è buon conoscitore d’arte e<br />

sa che ci sono stili artistici che contraddicono la stretta relazione da<br />

lui postulata tra “produzione” del cervello e “riproduzione” dell’artista.<br />

Infatti, come spiegare surrealismo, fauvismo e cubismo? La legge<br />

della costanza è in evidente contraddizione con le opere di queste tre<br />

correnti. <strong>Arti</strong>sti «audaci» quelli dei tre “ismi” «che in qualche modo<br />

tentarono di sfidare la fisiologia e naturalmente fallirono – nessuno è<br />

mai riuscito a sfidarla con successo» 66 . Il loro “insuccesso neurologico”<br />

servirà a confermare la validità della legge della costanza.<br />

Nessun cervello prima di Magritte – ci dice Zeki – ha estratto l’invariante<br />

di un corpo “donna dalla cintola in giù e pesce dalla cintola<br />

in sù”. E chi ha fatto la scuola media si accorgerà che il problema è<br />

antico almeno quanto la sirena, benché nella sirena ciò che è giù è su<br />

e ciò che è su è giù: “donna dalla cintola in su e pesce dalla cintola in<br />

giù”. Piuttosto che ricorrere alle logiche della rappresentazione, che<br />

non sono quella della realtà, Zeki ritiene di trovare la spiegazione nella<br />

teoria della percezione di Gregory. Se con Gregory riteniamo che<br />

la percezione «è un’ipotesi, si può provare a contraddire sia l’ipotesi<br />

stessa, sia il deposito di informazioni conservate nel cervello. René<br />

Magritte, per il quale ciò che vediamo, in quanto opposto a ciò che<br />

percepiamo, “è una sfida al senso comune”, lo ha fatto deliberatamente<br />

e con grande successo» 67 .<br />

Nelle opere di Magritte Zeki non trova né l’idea platonica né il<br />

concetto hegeliano, ma «un costrutto dell’immaginazione che affascina<br />

il cervello ed esso cerca di dare un senso a una scena che contraddice<br />

la sua esperienza e per la quale non può trovare alcuna soluzione» 68 .<br />

Insomma, la forma di Magritte parrebbe non “preesistere”, e il ricorso<br />

all’immaginazione – l’eccezione che conferma la regola? – diventa una<br />

necessità. E mentre siamo ancora intenti a capire se l’immaginazione,<br />

che affascina e contraddice il cervello, dipenda, o no, dal cervello, con<br />

un colpo di scena che ci coglie impreparati, ricompare Platone con il<br />

suo letto copia-di-copia. Ebbene, sì: «Fondamentalmente, un’immagine<br />

non può rappresentare un oggetto; lo può fare solo il cervello, che lo ha<br />

osservato da molte angolazioni differenti e lo ha collocato all’interno di<br />

una classe specifica. Un’immagine può semplicemente imitare l’oggetto<br />

in un suo aspetto particolare, come già Platone aveva lamentato». E<br />

297


l’immaginazione si dissolve: un’illusione dovuta alla dimenticanza dei<br />

«modelli presenti nel cervello […]. Quando gli artisti cercano di ingannare<br />

il cervello e il suo deposito di immagini registrate, possono farlo<br />

solo rispetto alle informazioni conservate nella memoria». Magritte, la<br />

cui impresa viene ridefinita «neurologica», e i surrealisti tutti avrebbero,<br />

pertanto, intuito che un’immagine dipinta «non può uguagliare la<br />

ricchezza della rappresentazione cerebrale». Più in generale, «anche<br />

se non sanno nulla del cervello, [gli artisti] non possono sottrarsi al<br />

profondo paradosso, cui alludeva Platone» 69 . Quindi si sottraggono alla<br />

legge del cervello. Vale a dire: la costanza non può essere la legge della<br />

pittura. E invece sì. Per Zeki la costanza rimane la legge dell’arte e, lo<br />

vedremo con l’arte del campo recettivo, persino le linee si conformano<br />

alla legge. Il paradosso rivelerà tutta la sua cogenza relativamente al<br />

cubismo. Nella ricostruzione della storia dell’arte guardata dal punto di<br />

vista del cervello, quella di reintrodurre il letto copia-di-copia è infatti<br />

una mossa necessaria, per intendere la rottura col passato e la nascita<br />

dell’arte moderna. Già, Les demoiselles. Ma intanto consideriamo<br />

i fauves, «i più audaci» col colore – come i cubisti lo saranno con le<br />

forme 70 .<br />

Si sa da rari casi patologici che si può percepire il colore, ma non<br />

distinguere le forme. In caso di avvelenamento da monossido di carbonio,<br />

ad esempio, si diventa ciechi alla forma ma si rimane sensibili<br />

alle varie sfumature cromatiche. Nella normalità ciò non avviene, e si<br />

sa da Stumpf in poi, soprattutto grazie a Husserl che ha assicurato alla<br />

questione un raggio di incidenza più ampio rispetto alla psicologia, che<br />

il colore e l’estensione «sono inseparabili per loro natura […] formano<br />

in qualche modo un contenuto intero, di cui sono solo contenuti parziali<br />

[…], non possono essere contenuti indipendenti, non possono per<br />

loro natura esistere separatamente e in reciproca indipendenza nella rappresentazione»<br />

71 . Tra forma e colore «il legame è così stretto», ci dice<br />

Zeki, che solo «condizioni patologiche estremamente gravi possono<br />

scioglierlo. Il risultato è la liberazione del colore, il sogno dei fauves.<br />

Ma il fauvismo ha un messaggio neurobiologico molto più importante<br />

e studiarlo da questa angolazione ci fornisce <strong>delle</strong> indicazioni profonde<br />

sull’organizzazione del cervello visivo». Prima di vedere il “messaggio”<br />

e l’importanza decisiva per la neuroestetica, è bene soffermarsi sul<br />

perché il sogno dei fauves era destinato a rimanere un sogno. Intanto,<br />

liberare il colore da cosa? “Ovviamente dalla forma”, ci dice Zeki, «al<br />

fine di farlo agire con una più potente forza emotiva ed espressiva».<br />

Il che, continua, è “impossibile”, «perché per costruire il colore il<br />

cervello deve mettere in rapporto la luce di tutte le bande spettrali<br />

riflesse da una superficie e quella <strong>delle</strong> bande riflesse dalle superfici<br />

circostanti. Perché si possa istituire questo rapporto, una data superficie,<br />

con una specifica capacità di riflettere la luce <strong>delle</strong> diverse bandi<br />

spettrali, deve confinare con un’altra superficie, con un’altra capacità di<br />

298


iflettere la luce <strong>delle</strong> stesse bande; questo confine assumerà in qualche<br />

modo una forma, e da qui l’impossibilità di liberare il colore dalla forma»<br />

72 . Qui il problema è proprio quello di dare lo stesso significato a<br />

“superficie” (l’estensione della tradizione fenomenologica) e “forma”,<br />

per cui dall’impossibilità di percepire un colore indipendentemente<br />

da un’estensione, quale che sia la forma, si arriva all’impossibilità di<br />

percepire un colore indipendentemente da una determinata forma. Le<br />

conseguenze neuroestetiche non mancano.<br />

«Questa impossibilità fisiologica portò i fauves a una soluzione non<br />

riconosciuta fisiologicamente: investire le forme con colori che di solito<br />

non sono loro associati, e liberare così il colore dalla schiavitù di una<br />

forma o un insieme di forme particolari» 73 . In ciò consiste il “messaggio<br />

neurobiologico” del fauvismo. Un modo di procedere quello dei<br />

fauves col colore, che il neurofisiologo giudica estremamente interessante,<br />

perché usando come stimoli le opere con colorazione “innaturale”<br />

e rendendo visibile l’attività cerebrale dell’osservatore si possono avere<br />

utili informazioni su come lavora il cervello. Non sarebbe bastato colorare<br />

una fragola gialla e una banana rossa? Domanda vana, perché<br />

senza arte non ci sarebbe stata la neuroestetica. E poi, chi è convinto<br />

che «una fragola è sempre rossa e una banana è sempre gialla» 74 , senza<br />

guardare quadri fauves, forse non ci sarebbe arrivato. Infatti, gli artisti<br />

fauves «hanno inconsciamente fornito ai neuroscienziati un interessante<br />

spunto per indagare» le reazioni del cervello a «spiagge, monti e palazzi<br />

con tinte “sbagliate”» 75 . Lo “spunto”, però, in quanto recepito dai<br />

neuroestetici, è un’implicita confutazione che quella dei fauves sia “una<br />

soluzione non riconosciuta fisiologicamente”. Del resto, se veramente<br />

fosse “una soluzione non riconosciuta fisiologicamente”, in psicologia<br />

non si sarebbero accumulate tutte quelle ricerche che hanno posto in<br />

conflitto forma e colore per studiare il rendimento percettivo di uomini<br />

e animali.<br />

Ma, è poi vero che le banane sono sempre gialle? Possibile che dal<br />

fruttivendolo nessuno si sia accorto che sono anche verdi, e, talvolta<br />

né gialle e né verdi ma tendenti al brunastro? Mette conto precisare<br />

che il “paziente cieco alla forma” per avvelenamento da monossido<br />

di carbonio non discrimina le forme, ma, se vede il colore, non può<br />

vederlo senza estensione; e ricordare che chi percepisce forme e colori,<br />

sebbene dica che la banana è gialla o che il colore del pomodoro è rosso,<br />

percepisce “pomodoro” sia quando è di colore rosso che quando<br />

è verde, e magari dopo avere letto il romanzo o visto il film Pomodori<br />

verdi fritti, li sceglie verdi non solo per l’insalata ma anche per friggerli.<br />

Zeki in parte lo ammette: gli esseri umani «in effetti valutano<br />

spesso se un frutto è maturo e quindi mangiabile dal suo colore»,<br />

nondimeno poi sostiene l’inseparabilità di forma e colore e parla di<br />

«colori normali» e di «oggetti con colorazioni innaturali». Non è una<br />

buona strategia fermarsi ai giochi linguistici per lo studio della per-<br />

299


cezione. Si dice che il mare è azzurro, ma l’abbiamo percepito verde,<br />

blu scuro, grigio, persino giallastro. «Le montagne lontane saranno<br />

azzurre», precisava Leonardo, e sicuramente avrà pure osservato sfumature<br />

diverse dall’azzurro 76 ; e la sabbia, anche se abbiamo il “color<br />

sabbia”, non è solo color sabbia ma di tanti colori; per non parlare<br />

dei palazzi, che come gli altri oggetti prodotti dall’uomo, sono di tutti<br />

i colori. La natura, prima della pittura, ci ha abituati a colori e forme<br />

variamente intrecciati. Perciò il nostro sistema percettivo deve essersi<br />

sviluppato per vedere lo stesso oggetto con colori diversi e lo stesso<br />

colore con oggetti diversi.<br />

Come distinguiamo il dire e il percepire, egualmente cruciale è la<br />

distinzione, che persino il bambino piccolo fa, tra immagine e realtà,<br />

nonostante il “luogo” nel cervello sia – allo stato attuale della ricerca<br />

– lo stesso. E forse continuando a ritenere che il concetto di “rappresentazione”<br />

è «centrale per la neurologia» 77 , o che il cervello “rappresenta”,<br />

o che della realtà abbiamo solo “rappresentazioni”, secondo la<br />

vulgata cognitivista, il problema non si può neanche porre. Né percepire<br />

è rappresentare, sebbene la distinzione rischi di passare inosservata,<br />

abituati a considerare gli stili pittorici “modi di vedere” e non “modi<br />

di rappresentare”. Ancora, “percepire per rappresentare” non è la percezione<br />

visiva che guida i molteplici atti che i vedenti quotidianamente<br />

compiono. Occorrerebbe anche non dimenticare che non ogni rappresentazione<br />

è arte e che «non sempre l’artista è artista». Si racconta che<br />

a Matisse venne chiesto «se un pomodoro gli appariva sotto lo stesso<br />

aspetto quando lo stava mangiando e quando lo dipingeva. “No”, rispose<br />

il pittore, “quando lo mangio lo vedo come chiunque altro”» 78 .<br />

Lo spettatore non è da meno: non confonde la “forma pittorica” con le<br />

forme e i colori che incontra nella realtà. Quand’anche fosse convinto<br />

che l’artista ha copiato fedelmente la natura – prima di mettersi a imitare<br />

il cervello – sa di non potersi saziare e dissetare con cibi e bevande<br />

del genere pittorico “natura morta”. L’artista greco non si sarà neanche<br />

posto il problema di rendere l’incarnato quando la pittura vascolare<br />

era a figure nere e a figure rosse. E prima del cromofilm nessuno si<br />

stupiva del film in bianco e nero. L’Icaro di Matisse nell’ordine della<br />

rappresentazione artistica è naturale tanto quanto le figure rosse della<br />

coppa di Duride. E La soprano Modiesko di Kees van Dongen, riportata<br />

tra gli esempi artistici di colore innaturale, non è meno naturale della<br />

Pietà di Michelangelo.<br />

Sebbene Zeki giudichi quella dei fauves “una soluzione non riconosciuta<br />

fisiologicamente”, in presenza di un quadro fauve, il cervello<br />

si attiva (a ulteriore dispetto del “non riconosciuta fisiologicamente”),<br />

come pure, seppure diversamente, quando gli si presentano quadri<br />

di stile diverso. E il ricercatore, dando per scontato che la variabile<br />

indipendente sia proprio la “forma artistica” (senza “manipolazione”<br />

alcuna e senza procedere ai necessari controlli), interpreta la variabile<br />

300


dipendente come dovuta alla diversità stilistica. Così, se si osserva il<br />

cervello dei soggetti quando guardano un’opera d’arte con colori naturali<br />

(un Corot non meglio specificato), o un’opera con colori innaturali<br />

(il quadro fauve non viene indicato) o «dei Mondrian policromi […]<br />

assolutamente simili all’originale», cioè «composizioni astratte senza<br />

forme riconoscibili» 79 , le zone che si attivano sono diverse. Col simil-<br />

Mondrian l’attività del cervello è limitata alle aree V 1<br />

e V 4<br />

; con la scena<br />

naturalistica, in aggiunta a queste due aree si attivano: l’ippocampo,<br />

un’area estesa in profondità nei lobi temporali e una situata all’interno<br />

della circonvoluzione frontale inferiore dell’emisfero destro; col quadro<br />

fauve, oltre la V 1<br />

e la V 4<br />

, si attiva un’area posta al centro della<br />

circonvoluzione frontale. Zeki, che, relativamente a quest’ultima area,<br />

trova la spiegazione nel carattere inusuale dei colori fauves, si stupisce<br />

di non trovare attivo l’ippocampo, un’area deputata alla memoria:<br />

dopotutto «accettare un oggetto quando il suo colore è regolare e rifiutarlo<br />

quando è anomalo, dipende sempre dall’uso della memoria» 80 .<br />

L’attività cerebrale nelle tre situazioni si differenzia dal complesso V 4<br />

in poi. Poiché V 4<br />

è attivo quando si guarda un Mondrian – un’oggetto<br />

per Zeki in cui non c’è nulla da capire – e poiché altre aree vengono<br />

attivate nelle altre due situazioni, ritiene la V 4<br />

responsabile solo dell’elaborazione<br />

del colore in astratto, senza riferimento agli oggetti e alla<br />

comprensione di questi.<br />

La scoperta della diversa attivazione dei neuroni con le tre situazioni<br />

“artistiche”, da una parte serve a ricomporre la controversia tra<br />

le teorie del colore di Helmholtz e di Hering e a riconciliare entrambi<br />

con la teoria di Land 81 (col che, però, viene reintrodotta, senza colpo<br />

ferire, la tradizionale distinzione tra percezione e «fattori cognitivi superiori»<br />

e smembrata l’unità di “vedere-capire” appena conquistata);<br />

dall’altra, la «scoperta conferma l’idea generale che ho proposto qui e<br />

altrove, e cioè che gli artisti sono neurologi che studiano l’organizzazione<br />

del cervello visivo con tecniche loro proprie e che le loro opere,<br />

se utilizzate scientificamente, svelano leggi dell’organizzazione cerebrale<br />

che gli scienziati ignoravano» 82 . Se i fauves fallirono nel loro originario<br />

scopo, non fallirono del tutto. Non tanto quanto i cubisti.<br />

Il cubismo, «da un punto di vista neurobiologico, si pone come un<br />

tentativo di risolvere il paradosso platonico […], cioè il conflitto tra<br />

la realtà della percezione [del cervello] e l’unilateralità dell’immagine<br />

rappresentata in un quadro» 83 . Qual è stato lo scopo del cubismo?<br />

Zeki trova la risposta in Jacques Rivière, nel famoso articolo del 1912<br />

in cui i cubisti vengono salutati come «i precursori – goffi come tutti<br />

i precursori – di una nuova arte che d’ora innanzi è inevitabile», e<br />

giudicati bisognosi di critica costruttiva affinché possa davvero essere<br />

dato l’annuncio dell’«avvento della nuova pittura». Bene hanno fatto i<br />

cubisti, ci dice Rivière, a eliminare la luce e la prospettiva, in quanto<br />

“elementi accidentali”; e però quanto hanno messo al loro posto non<br />

301


è ciò che «si deve mettere». A difettare è la pars costruens, le soluzioni<br />

tecniche e stilistiche adottate per «rappresentare gli oggetti come sono<br />

realmente; cioè in modo differente da come noi li vediamo»: «È vero che<br />

il pittore deve sempre mostrare parti sufficienti a suggerirne il volume:<br />

da ciò i cubisti concludono di dover mostrare tutte le sue parti. […]<br />

È vero che la luce e la prospettiva, le quali tendono a subordinare le<br />

parti agli oggetti e gli oggetti al dipinto, devono essere eliminate: da ciò<br />

i cubisti concludono che si deve rinunciare a qualsiasi subordinazione.<br />

[…] È vero che la profondità deve essere espressa in termini genuinamente<br />

plastici – presupponendo che abbia una sua propria consistenza<br />

–: da ciò i cubisti concludono che la profondità deve essere rappresentata<br />

altrettanto solidamente che gli oggetti stessi e con gli stessi mezzi.<br />

[…] In breve, i cubisti si comportano come se si stessero parodiando.<br />

Portando all’assurdità i loro principi appena scoperti, li privano di<br />

significato. Annullano il volume dell’oggetto con la loro avversione a<br />

tralasciare qualcuno dei suoi elementi. Annullano l’integrità individuale<br />

degli oggetti nel dipinto tentando di mantenerli intatti. Annullano la<br />

profondità (la cui funzione è quella di distinguere un oggetto dall’altro)<br />

tentando di rappresentarla solidamente» 84 .<br />

Quello di Rivière, considerato «uno dei più intelligenti e profondi<br />

saggi critici dell’epoca sul cubismo» 85 , viene sunteggiato e riformulato<br />

da Zeki ad usum cerebri – «come una sommaria descrizione <strong>delle</strong> finalità<br />

del cervello» – con la conseguenza che «un neurobiologo dovrebbe,<br />

o quanto meno potrebbe, concordare con questa formulazione». E ciò<br />

perché «neanche il cervello vede mai gli oggetti e le superfici che compongono<br />

il mondo visivo che ci circonda da un solo punto di vista o in<br />

una condizione di luce standard; gli oggetti in realtà vengono visti da<br />

differenti angoli e distanze e in differenti condizioni di luce, e tuttavia<br />

mantengono la loro identità». È il rendimento, come ormai sappiamo,<br />

dovuto alla costanza. Se a vedere così è il cervello, e se il problema che<br />

si posero i cubisti fu «il tentativo di “rappresentare gli oggetti come<br />

sono”», vale a dire come li rappresenta il cervello, allora «la soluzione<br />

data dai cubisti […] fu quella di imitare ciò che fa il cervello, naturalmente<br />

con molto minor successo, almeno in un’ottica neurologica».<br />

Malevič ha affermato, però, che l’obiettivo di Picasso era la «creazione<br />

di nuove forme», e Zeki, considerandolo un obiettivo antitetico a<br />

quello di “rappresentare gli oggetti come sono”, precisa che a favore di<br />

quest’ultimo si sono espressi «un eminente critico d’arte come Rivière,<br />

un mercante di successo come Daniel Kahnweiler, e due esponenti e<br />

teorici del cubismo come Albert Gleizes e Jean Metzinger» 86 .<br />

Si dà il caso che Gleizes e Metzinger non solo non l’hanno sostenuto,<br />

ma hanno criticato i sostenitori della formula che darà origine alla<br />

teoria della doppia natura dell’arte – “arte concettuale” e “arte percettiva”–<br />

una «assurda dicotomia» 87 , confutata da Arnheim e da Gombrich,<br />

ma, a dispetto dell’ottimismo di Popper sull’impresa scientifica,<br />

302


ancora presente qua e là e in auge relativamente alla teoria del disegno<br />

infantile. All’epoca del cubismo la formula, non ancora teoria, circolava<br />

insistentemente, da Raynal a Salmon, da Charles Lacoste a Fernand<br />

Léger, a Guillaume a Apollinaire, e Zeki non avrebbe certo difficoltà<br />

a trovare appoggi autorevoli. Non Gleizes e Metzinger, comunque,<br />

i quali, consapevoli del riferimento polemico all’occhio impressionista<br />

e dell’attacco strisciante ai sensi contenuti nella formula, tenendo<br />

ferma la distinzione tra arte e natura e tra percezione e rappresentazione,<br />

precisano: «Lungi da noi l’idea di porre in dubbio l’esistenza<br />

degli oggetti che colpiscono i nostri sensi […]. Perciò sgomenta il<br />

fatto che critici benpensanti tentano di spiegare la notevole differenza<br />

tra le forme della natura e quella della pittura moderna, coll’intento<br />

di rappresentare le cose non come appaiono, ma come sono! Come<br />

sono dunque, che cosa sono? Secondo questi critici, l’oggetto possiede<br />

una forma assoluta, una forma essenziale, e noi sopprimeremmo<br />

il chiaroscuro e la prospettiva tradizionale per rappresentare questa<br />

forma. Quale semplicismo! Un oggetto non ha una forma assoluta: ne<br />

ha molte. Ne ha tante quanti sono i livelli nella sfera della percezione.<br />

Ciò che affermano questi scrittori si può applicare a meraviglia alla<br />

forma geometrica» 88 . La precisazione è perfetta per Zeki, per il quale<br />

il cubismo, e più in generale la pittura, è «una ricerca della costanza<br />

di forma» 89 . “La forma pittorica non è la forma geometrica”. Gleizes<br />

e Metzinger avrebbero messo alla frase il punto esclamativo, e chissà<br />

che esclamativi se avessero saputo che quando dipingevano stavano<br />

imitando il cervello.<br />

Ma c’è di più. Nell’ottica neuroestetica, «il tentativo compiuto dal<br />

cubismo di imitare ciò che fa il cervello è stato un fallimento – forse<br />

un fallimento eroico, ma pur sempre un fallimento». Infatti, «il cervello<br />

vede oggetti e persone da angolazioni diverse, ma è in grado di<br />

ordinare in una forma integrata queste varie immagini, mettendosi così<br />

nella condizione di individuare e riconoscere ciò che va vedendo». Al<br />

contrario, i cubisti, imitando solo la prima parte del processo, producono<br />

un’immagine il cui contenuto rappresentativo non è riconoscibile<br />

per il cervello: «Picasso dipinse il suo soggetto partendo da una tale<br />

molteplicità di punti di vista, che solo grazie al titolo si può riconoscere<br />

nell’immagine finale un suonatore di violino. Senza l’informazione<br />

del titolo, difficilmente il cervello potrebbe identificare il soggetto per<br />

quello che è» 90 .<br />

Che lo scopo del cubismo fosse quello di “rappresentare gli oggetti<br />

come sono” o che fosse la “creazione di nuove forme” – «posto e non<br />

concesso», precisa Zeki, dato che le forme dell’arte o sono in natura<br />

o preesistono nel cervello – «il risultato finale è un’immagine in cui<br />

un cervello comune non riconosce il modello che si voleva dipingere».<br />

Indecifrabile persino per chi l’ha dipinto, persino per lo stesso Picasso,<br />

«e questo fu forse uno dei motivi che lo indussero ad accompagnare le<br />

303


sue tele con titoli parlanti» 91 . E mentre si capisce il perché per le forme<br />

dell’arte si ricorra al “riconoscimento”, piuttosto che alla capacità<br />

umana di percepire il nuovo, prendiamo atto che la neuroestetica è<br />

costretta a negare “intuito neurologico” proprio a chi è stato considerato<br />

il maggiore artista del Novecento. Picasso non ha capito che non<br />

avrebbe potuto eguagliare il cervello? Fu la hybris a condannarlo al<br />

fallimento? O forse si ostinava a considerare il cervello un suo organo?<br />

Parrebbe di sì: «Abbiamo tenuto i nostri occhi aperti su ciò che ci<br />

circonda, ed anche i nostri cervelli». Non poteva sapere della neuroestetica,<br />

e si è espresso solo su «Matematica, trigonometria, chimica,<br />

psicanalisi, musica: cosa non si è citato a proposito del cubismo». E<br />

quasi a futura memoria: «Il cubismo non è affatto diverso da qualsiasi<br />

altra scuola pittorica. Tutte hanno in comune i medesimi principi e i<br />

medesimi elementi. Il fatto che per molto tempo il cubismo non sia<br />

stato compreso e che ancora oggi c’è della gente che non ci vede nulla,<br />

non significa niente. Io non leggo l’inglese, un libro d’inglese per me è<br />

un libro bianco. Questo non significa che la lingua inglese non esista;<br />

e perché dovrei rimproverare gli altri invece di me stesso se non posso<br />

capire una cosa di cui non conosco niente?» 92 .<br />

Come precisa uno studioso della mente e dell’arte, «il principio del<br />

livello di adattamento, introdotto in psicologia da Harry Helson, afferma<br />

che uno stimolo dato viene giudicato non in base alle sue proprietà<br />

assolute ma in rapporto al livello normale che si è imposto nella mente<br />

del giudicante. Nel caso della rappresentazione pittorica, il livello normale<br />

sembra desunto non dalla percezione diretta del mondo fisico ma<br />

dallo stile dei dipinti noti a chi guarda. Se invece del contenuto qualcuno<br />

vede le forme, nel dipinto c’è forse qualcosa che non va, oppure<br />

è la percezione dell’osservatore che si trova a un livello di adattamento<br />

inadeguato. (L’“uomo della strada” sovente è fermo al livello stilistico<br />

stabilito dalla pittura del Seicento.) […] Quanto agli artisti, non c’è<br />

dubbio che nella loro opera essi vedano l’incarnazione del soggetto che<br />

si sono proposti. Lo scultore Jacques Lipchitz narra di aver contemplato<br />

un dipinto di Juan Gris ancora sul cavalletto: un’opera cubista di<br />

quelle dove anche oggi il profano vede poco più di un agglomerato di<br />

forme astratte. Lipchitz esclamò: “Che meraviglia! Non toccarlo più,<br />

è completo!” E Gris, arrabbiatissimo, gridò: “Come, completo? Non<br />

vedi che non ho finito i baffi?” Egli vedeva così chiaramente, dentro<br />

il dipinto, una figura maschile da credere che tutti la percepissero immediatamente<br />

in ogni particolare» 93 . Che il fallimento del cubismo, e<br />

quelli di grado minore di fauvismo e di surrealismo, sia il fallimento<br />

della neuroestetica? Una sorta di “cartina tornasole” della costanza posta<br />

a legge fondamentale dell’arte.<br />

6 – Se «la funzione sia del cervello visivo che dell’arte è quella di<br />

acquisire una conoscenza del mondo, allora è naturale compiere un<br />

304


passo ulteriore e chiedersi se esistono aspetti universali della forma, enti<br />

tramiti i quali definire e costruire “per assemblaggio” tutte le forme».<br />

Questo passo ulteriore l’avrebbero fatto molti artisti (e già abbiamo<br />

considerato Mondrian alle prese con “gli elementi costanti del colore”);<br />

da qui la domanda riformulata nei termini della neurofisiologia: «esistono<br />

nel cervello cellule che registrano gli elementi costitutivi di tutte<br />

le forme, cellule che abbiano il ruolo di “mattoni” per la costruzione<br />

<strong>delle</strong> forme e le cui attività, ricomposte insieme, forniscano una rappresentazione<br />

cerebrale di ogni forma?» 94 . Per Zeki le unità costitutive<br />

di tutte le forme sono da ricercare nel funzionamento <strong>delle</strong> singole<br />

cellule cerebrali, e precisamente in quello che si chiama campo recettivo<br />

della cellula. Le cellule visive, come la ricerca ha accertato, «sono<br />

di gusti difficili» e persino «pignole» 95 . Cellule del corpo genicolato<br />

che rispondono a un punto nero sul fondo bianco, non rispondono a<br />

un punto bianco su fondo nero, e viceversa; cellule della corteccia che<br />

rispondono all’orientamento rispondono in maniera differenziata relativamente<br />

a uno stimolo verticale, orizzontale e obliquo. Con le cellule<br />

siamo nell’ambito della neurologia.<br />

Per entrare nel campo magico della neuroestetica bisogna, come<br />

Zeki, scoprire «una somiglianza» tra i prodotti dell’arte «moderna che<br />

tende alla semplificazione» e «le caratteristiche del campo recettivo<br />

<strong>delle</strong> singole cellule nelle diverse aree del cervello visivo. Per questa<br />

ragione parlo di arte del campo recettivo, convinto di questa piena<br />

corrispondenza tra dimensione artistica e fisiologia <strong>delle</strong> singole cellule<br />

studiate attraverso i loro campi». Dalla “somiglianza” alla “piena<br />

corrispondenza” ce ne corre, ma già ravvisare nell’operato dell’artista<br />

«la stessa domanda» del fisiologo non è meno problematico. Consapevole<br />

della sorpresa che ci procura, prevede persino, a partire dalla<br />

sua risposta, la nostra obiezione: «nessuno artista si è mai pensato nei<br />

panni del ricercatore intento a interrogarsi sulle funzioni del cervello»!<br />

Sicuro che questa sia l’obiezione, quando invece la questione non è relativa<br />

a come si auto-pensa l’artista, continua: «Ma la decisione ultima<br />

sul fatto che l’artista sia riuscito o meno a dipingere gli universali della<br />

forma spetta all’artista e all’osservatore, o, per essere più precisi, al loro<br />

cervello. E questa decisione deve fondarsi sulla struttura fisiologica del<br />

cervello». Come non parlare di “istinto” e di «intuito neurologico»<br />

dell’artista 96 ? Al neuroscienziato il compito di certificare la “pregnanza<br />

neurologica” di alcune affermazioni di quest’ultimo, come anche di<br />

critici storici e filosofi, che non valgono per quello che significano nel<br />

loro contesto, ma il cui vero significato viene svelato alla luce <strong>delle</strong><br />

scoperte sul cervello. Il neurologo, versione laica della Pizia, recita<br />

l’oracolo del cervello.<br />

Fermo restando che la costanza è la legge dell’arte, fu proprio la<br />

«ricerca della costanza» – non al modo cubista ma al modo astrattista –<br />

che «portò all’emergere <strong>delle</strong> linee come forma predominante in molte<br />

305


opere dell’arte moderna». «Si direbbe anzi che nel corso del suo sviluppo<br />

l’arte moderna, fedele all’obiettivo di rappresentare l’essenziale<br />

e il permanente, si sia sempre più conformata alla fisiologia <strong>delle</strong> aree<br />

visive e in particolare alle reazioni <strong>delle</strong> loro cellule, poiché la funzione<br />

di quelle aree è proprio quella di estrarre le caratteristiche essenziali da<br />

ciò che si vede» 97 . La scoperta della reazione selettiva <strong>delle</strong> cellule visive<br />

a uno specifico orientamento è certamente una pietra miliare nello<br />

studio del cervello, ma legare a doppio filo la linea, che non si trova in<br />

natura, al campo recettivo della cellula per uno specifico orientamento,<br />

significa, innanzitutto, confondere le linee usate da Hubel e Wiesel nei<br />

loro esperimenti – linee che in una prospettiva ecologica stanno per<br />

i margini degli oggetti – con le possibilità formali del medium usato<br />

dall’artista. Il fatto che le cellule della corteccia reagiscono selettivamente<br />

all’orientamento <strong>delle</strong> linee viene interpretato come evidenza<br />

di un presunto «vocabolario grafico del cervello», i segni del disegno<br />

diventano «segni neurali», quindi «un linguaggio primitivo proprio del<br />

nostro sistema nervoso» 98 .<br />

Posta la stretta relazione tra fisiologia della corteccia visiva e creazioni<br />

degli artisti – questi avrebbero cercato e trovato «che cosa può<br />

essere l’essenza di una forma così come è rappresentata nel cervello»<br />

– non è difficile, anzi, rintracciare linee nei quadri, né argomentazioni<br />

a sostegno dell’importanza neuroartistica della linea. Mondrian, ad<br />

esempio – «meticoloso» riguardo all’orientamento come lo è il cervello<br />

– «pensava che la forma universale, la base di tutte le altre forme più<br />

complesse, fosse la linea retta». Anche così, i problemi non mancano.<br />

Dato che «le analisi fisiologiche non sono riuscite a individuare una<br />

preponderanza di cellule che reagiscono alla direzione verticale e orizzontale»,<br />

come spiegare la preferenza di Mondrian per le linee orizzontali<br />

e verticali e l’avversione per la diagonale? Può essere che, come i<br />

gattini di tanti esperimenti con le linee, Mondrian sia stato, durante il<br />

suo “periodo critico”, esposto solo a linee orizzontali e verticali? Non<br />

mi stupirei se la neuroestetica finisse col sostenerlo. E la linea curva,<br />

avversata da Mondrian ma preferita da altri artisti? «Nessuno ha scoperto<br />

ancora cellule nella corteccia che reagiscano specificamente alle<br />

linee curve», e rimane un mistero come il cervello distingua le rette<br />

dalle curve. Più in generale, visto che di “arte del campo recettivo”<br />

si tratterebbe, le cellule per l’orientamento reagiscono diversamente<br />

quando lo stimolo è un’opera d’arte o quando lo stimolo sono linee<br />

tracciate da un neurologo? «Se le risposte di queste cellule selettive<br />

all’orientazione diano anche l’esperienza estetica è una domanda alla<br />

quale i neurologi non sono ancora pronti a rispondere» 99 . Ma allora<br />

perché scomodare Mondrian, Kandinskij, Malevič, e tanti altri? Perché<br />

teorizzare lo stile artistico del campo recettivo? Anche ad accettare che<br />

«nella loro ricerca <strong>delle</strong> componenti <strong>delle</strong> forme, molti artisti siano<br />

approdati alla stessa risposta dei fisiologi che cercavano i “mattoni”<br />

306


per la costruzione fisiologica <strong>delle</strong> forme», gli elementi non sono la<br />

forma e i mattoni non sono la cattedrale, quand’anche gli elementi<br />

siano elementi di quella forma e i mattoni siano i mattoni di quella<br />

cattedrale. Né la stessa linea funziona allo stesso modo quando è da<br />

sola o quando è parte di un intero formato da linee, come potrebbe<br />

dimostrare la figura molto semplice di Müller-Lyer se non ci si ostinasse,<br />

contro ogni evidenza, a considerarla un’illusione 100 .<br />

Prendiamo atto che per “l’essenza di una forma” dobbiamo intendere<br />

– passando per «gli elementi essenziali di una forma» – le linee<br />

(una riformulazione neuroestetica simile all’“ambiguità neurologica”) e<br />

procediamo. Cellule di V 4<br />

reagiscono in modo ottimale a un quadrato<br />

blu su fondo bianco, ma non allo stesso su fondo nero. Il quadrato<br />

blu su fondo bianco ha un’evidente somiglianza con Quadrato nero su<br />

fondo bianco o Quadrato rosso di Malevič, perciò «si può dire quasi<br />

con certezza che l’opera di Malevič non produrrebbe nessun effetto<br />

estetico senza la presenza di queste cellule, ciò che non equivale a dire<br />

che esse da sole producono effetti estetici». Li producono in compagnia?<br />

E di quali altre cellule? Non ci è dato saperlo. Veniamo invece<br />

informati di quanto sia sorprendente per un neurofisiologo «la similarità<br />

tra i due elementi, da una parte la struttura del campo recettivo e<br />

le caratteristiche di una cellula e dall’altra la creazioni di artisti come<br />

Malevič e altri». Blu, nero o rosso sul bianco hanno un forte contrasto,<br />

al contrario di blu su nero che fa il paio con Quadrato bianco su bianco.<br />

Come mai Malevič l’ha dipinto, visto che la cellula sua e nostra rimane<br />

«quasi inerte»? E se quel “quasi” facesse la differenza? E invece no.<br />

Le tenue differenze cromatiche di Malevič o di Albers o di Reinhardt<br />

non possono lasciare indifferenti i nostri cervelli: il fatto che «nessuno<br />

ha ancora descritto cellule capaci di registrare coerentemente variazioni<br />

di intensità molto lievi», o che «nessuno ha finora scoperto una cellula<br />

che adatti le sue sensazioni alla tenue differenze di qualità e di intensità»<br />

di qualsivoglia colore «non equivale a dire che forse non saremo<br />

in grado di farlo in un futuro, prossimo o remoto». Trovate queste<br />

cellule della corteccia visiva, avremo «una spiegazione completa della<br />

percezione di alcune di queste opere» 101 , e ovviamente con altri luoghi<br />

della corteccia “spiegheremo” opere diverse da queste. Linee rette,<br />

quadrati, rettangoli e forti contrasti. E mentre aspettiamo fiduciosi la<br />

prova neurologica del debole contrasto, che pure percepiamo senza<br />

difficoltà, qualcuno, ricordandosi di Punto, linea, superficie, potrebbe<br />

chiedersi il perché dell’esclusione del punto, considerato, non solo da<br />

Kandinskij ma anche da Klee, “elemento originario” 102 . Zeki non ce lo<br />

dice, ma sa che sebbene il punto sia «il migliore stimolo per la maggior<br />

parte <strong>delle</strong> cellule gangliari retiniche» 103 , non lo è per le cellule corticali.<br />

O meglio, quelle cellule corticali che reagiscono al punto e non a<br />

linee o barre sono selettive per il movimento e “indifferenti alla forma”.<br />

Quale che sia la ragione, per la neuroestetica l’arte si occupa di linee<br />

307


ette, quadrati, rettangoli, neanche fosse geometria. Viceversa, si tratta<br />

di “arte del campo recettivo” e la ragione è che «i campi recettivi sono<br />

di solito di forma quadrata o rettangolare». Forme a cui «i fisiologi non<br />

hanno pensato esplicitamente», ma a cui arrivano grazie al «confronto<br />

tra opere di artisti e fisiologia <strong>delle</strong> cellule nella corteccia». E poiché<br />

i rettangoli «diventano linee quando vengono guardati a distanza», la<br />

linea si conferma come “l’essenza della forma” 104 .<br />

«Ma si trattava davvero di forme nuove come affermavano Mondrian,<br />

Malevič e i cubisti sintetici?», si chiede Zeki. Ovviamente, nell’estetica<br />

neuro, la risposta è un no forte e chiaro. Il fatto decisivo non<br />

è che queste forme si ritrovino tali e quali nella geometria; neanche<br />

che chiunque potrebbe dire “lo potevo fare anch’io” 105 ; è che «sono<br />

meravigliosamente adatte a stimolare alcune cellule della corteccia visiva,<br />

e le caratteristiche di queste cellule sono, in certa misura “l’idea”<br />

preesistente dentro di noi». Quindi, non di forme nuove, ma «più<br />

propriamente si trattava di “quell’idea preesistente che è in noi”», o,<br />

più precisamente, di quell’idea «che è nei nostri cervelli». Gli artisti<br />

hanno motivato diversamente il loro interesse per la linea? Sì, ma cosa<br />

può valere il loro dire a fronte dell’evidenza <strong>delle</strong> loro linee? Posto che<br />

l’«indagine» e le «conclusioni» dei neuroscienziati «non sono dissimili<br />

da quelle di Mondrian, Malevič e altri», diventa «difficile credere che<br />

la relazione tra la fisiologia della corteccia visiva e le creazioni degli<br />

artisti risulti completamente fortuita». E poi, Gleizes e Metzinger, ai<br />

quali Zeki attribuisce «più intuito neurologico» di Mondrian, Malevič<br />

e cubisti sintetici, «sebbene […] parlino più propriamente di relazioni<br />

tra linee, sono tuttavia le linee che essi vogliono porre in rilievo». E<br />

La morale des lignes di Mécislas Goldberg? «Sebbene Goldberg attribuisse<br />

sentimenti soggettivi alle linee verticali e orizzontali, erano proprio<br />

queste, a suo parere, a essere importanti per la modernizzazione<br />

dell’arte». Le coincidenze ci sono, quindi: «Mi meraviglierei se non ci<br />

fosse alcuna relazione fra l’importanza che gli artisti hanno dato alle<br />

linee, con l’obiettivo comune di rappresentare “le verità costanti <strong>delle</strong><br />

forme” e la neurofisiologia della corteccia visiva, dove predominano<br />

le cellule che reagiscono selettivamente alle linee con un’orientazione<br />

specifica» 106 .<br />

E certo che la relazione c’è. Non è in discussione l’esistenza del<br />

correlato corticale, conditio sine qua non, di ogni nostra esperienza. È<br />

la marcatura artistica dell’orientamento <strong>delle</strong> linee che risulta ingiustificata,<br />

dato che le cellule hanno risposto alle linee di Hubel e Wiesel. È<br />

il porre “l’essenza della forma” nei suoi “elementi” che non funziona.<br />

È l’incuranza <strong>delle</strong> “relazioni tra linee” e <strong>delle</strong> qualità espressive <strong>delle</strong><br />

linee a testimoniare contro la neuroestetica. È “l’idea preesistente nei<br />

nostri cervelli”, questo ritrovare l’effetto nella causa, a fare problema,<br />

e a ricordarci l’argomento del fucile di Köhler: «Se la ferita non è il<br />

fucile che ha lanciato il proiettile, allora le cose che ho davanti a me, le<br />

308


cose che vedo e sento, non possono essere identiche agli oggetti fisici<br />

corrispondenti». Köhler lo sviluppa per sostenere che il “mondo della<br />

fisica” non può essere “identificato” col «mondo oggettivo» che ci sta<br />

“intorno”, e precisa che «lo stesso avvertimento vale per la relazione<br />

intercorrente fra il mio organismo come sistema fisico e il mio corpo»,<br />

o – aggiungo – le attività che compio e i prodotti che ne derivano,<br />

che sono sì «la risultante di certi processi svolgentisi nell’organismo<br />

fisico», ma che, in quanto prodotti, hanno caratteristiche loro proprie<br />

non identificabili con quelle del processo che le ha causate 107 .<br />

«L’informazione nel mondo della visione viene elaborata essenzialmente<br />

in modo discreto. Questo crea un problema per quel che<br />

riguarda la comprensione di ciò che percepiamo visivamente e quindi<br />

anche per la comprensione del modo in cui percepiamo un’opera<br />

d’arte. Come sa il cervello quali elementi deve riunire e quali no?». Il<br />

neurofisiologo non lo può ancora dire. Allo stato attuale della ricerca,<br />

infatti, si sa molto sui campi recettivi di intere popolazioni di cellule, e<br />

niente su come l’elaborazione, fatta frammento per frammento, venga<br />

ricomposta in un tutto: «il cervello deve combinare e raggruppare<br />

elementi discontinui e separarli da elementi altrettanto discontinui,<br />

con un processo di cui non sappiamo nulla». Persino «in che modo<br />

il cervello risolve il problema di “unire” le due parti di una linea» è<br />

un compito non risolto dalla neurologia, ma è «un compito che il cervello<br />

di fatto ha risolto», dato che non abbiamo difficoltà a percepire<br />

il braccio verticale che passa sotto il braccio orizzontale di una croce<br />

rosso e nera come continuo. La croce è in un dipinto suprematista<br />

di Malevič, e, mentre ci si chiede “Come sa il cervello quali elementi<br />

deve riunire e quali no?”, si teorizza l’arte del campo recettivo, con<br />

la quale «ci avviciniamo alla comprensione di un elemento soltanto<br />

del rapporto arte/neurologia, e […] questo elemento è frammentario».<br />

Benché «siamo ancora lontani dal comprendere come il cervello<br />

percepisce l’opera intera, e ancora di più dal sapere come le attribuisce<br />

una qualità estetica», pezzettino di linea più pezzettino di linea ci<br />

arriveremo. Quando avremo compreso come fa il cervello a “unire le<br />

due parti di una linea” sarà facile «capire come esso ricomponga in<br />

un tutto i risultati di un’elaborazione, fatta frammento per frammento<br />

quando guardiamo un quadro, per esempio, la Venere allo specchio di<br />

Velázquez» 108 . Intanto con la neuroestetica abbiamo messo il carro<br />

davanti ai buoi.<br />

L’arte del campo recettivo non è solo statica ma anche cinetica.<br />

Tra le cellule selettive per l’orientamento vi sono quelle che scaricano<br />

quando lo stimolo è stazionario, altre che si attivano quando lo stimolo<br />

è in movimento, e altre ancora più esigenti che reagiscono solo a una<br />

determinata direzione del movimento. «Quando guardiamo un’opera<br />

di Malevič, e di altri, in cui linee orientate costituiscono l’elemento<br />

predominante, esse sono dei forti stimoli per attivare le cellule del-<br />

309


la corteccia visiva selettive all’orientazione. Ma queste linee di solito<br />

sono ferme; quindi non attivano al massimo tutte le cellule di questo<br />

tipo perché molte reagiscono debolmente alle linee orientate fisse e la<br />

loro risposta migliora notevolmente se queste sono in movimento». Ci<br />

sono opere che stimolano in modo ottimale tutte le cellule di questo<br />

tipo? Ebbene sì: i MetaMalevič e i MetaKandinskij di Tinguely. «Pur<br />

senza esserne consapevole, Tinguely riuscì ad adattare un aspetto della<br />

sua arte alla fisiologia <strong>delle</strong> cellule selettive all’orientazione, quelle<br />

che danno le reazioni più intense quando le linee orientate vengono<br />

messe in movimento». E si può andare oltre: i Metamécaniques, le cui<br />

linee dinamiche sono solo in bianco e nero, «raggiunsero nuovi livelli<br />

in senso fisiologico e contenevano stimoli che difficilmente i fisiologi<br />

avrebbero potuto perfezionare. […] In breve, pare che Tinguely, senza<br />

mai esserne consapevole, conoscesse il modo migliore per attivare le<br />

cellule di V 1<br />

, V 3<br />

e V 3<br />

a». Quanto al cervello, non confonde certo un<br />

Malevič con un MetaMalevič: nell’area V 3<br />

vi sono cellule, chiamate “cellule<br />

del movimento reale”, che distinguono il movimento dello stimolo<br />

e il movimento degli occhi. «È evidente che il passaggio dai quadri suprematisti<br />

di Malevič a un MetaMalevič e un Metamécanique comporta<br />

qualcosa di più di un cambiamento della forma artistica; esso implica<br />

l’attivazione di gruppi di cellule ben distinti nel cervello visivo e aventi<br />

funzioni diverse». E mentre lo studioso di arte, interessato alla “forma<br />

artistica”, è proprio di questa che si aspetta di sapere “qualcosa di<br />

più” dalla neuroestetica, per il neurofisiologo, giustamente interessato<br />

allo stimolo e alla potenza eccitatoria dello stesso, quel “qualcosa di<br />

più” dimostra «che forme di arte diverse eccitano differenti gruppi di<br />

cellule cerebrali, e questa è una ragione per cui esiste una specializzazione<br />

funzionale nell’estetica» 109 .<br />

«L’esempio migliore di come l’arte possa essere, e in realtà sia, modellata<br />

sulla fisiologia dell’area cerebrale visiva, va cercato nella relazione<br />

tra l’arte cinetica – un’arte in cui il movimento reale è una componente<br />

dell’opera – e la fisiologia dell’area V 5<br />

, specializzata per il movimento<br />

visivo». Tutte le cellule dell’area V 5<br />

sono specializzate per il movimento:<br />

alcune reagiscono al movimento, qualunque ne sia l’orientamento, altre<br />

sono selettive anche alla direzione. Tutte sono indifferenti alla forma e<br />

al colore. «Nel loro sforzo di privilegiare il movimento, l’opera degli<br />

artisti cinetici si sviluppò nella stessa direzione; essi accentuarono il movimento<br />

e depotenziarono la forma e il colore, o perlomeno ne ridussero<br />

l’importanza. Gli artisti così, senza saperlo, adattarono le loro creazioni<br />

cinetiche alla fisiologia V 5<br />

». Certo gli artisti «rimarrebbero sorpresi di<br />

fronte a questa informazione, ma un’analisi degli stadi successivi attraverso<br />

i quali si è evoluta l’arte cinetica, lascia pochi dubbi sul fatto che<br />

ci si è sforzati di modellarla in base alla fisiologia dell’area, anche se ciò<br />

venne fatto inconsapevolmente». Da Duchamp a Boccioni, da Gabo e<br />

Pevsner a Depero, da Balla a Calder, a Tinguely «fu tutto un processo<br />

310


più o meno istintivo, dettato in sostanza, ma non esclusivamente, dalla<br />

fisiologia dell’area V 5<br />

» 110 .<br />

Un posto importante in questo percorso lo occupa Calder che con<br />

i suoi mobiles parrebbe essere stato intento, ovviamente “in modo<br />

inconsapevole”, a rendere sempre più «ottimale la selettività della stimolazione<br />

dell’area V 5<br />

». Intanto elimina il colore usando solo il bianco<br />

e il nero. «Visto a distanza, ogni elemento del mobile è una specie di<br />

punto», il che per Zeki significa avere eliminato anche la forma. Per di<br />

più, poiché gli elementi di un mobile non sono tutti sullo stesso piano<br />

frontale, ma dislocati a livelli di profondità diversa rispetto all’osservatore,<br />

hanno il pregio di attivare anche un gruppo particolare di cellule<br />

della V 5<br />

che segnalano l’allontanamento o l’avvicinamento dall’organismo<br />

111 . E però, i mobiles, mossi dal vento, introducono un elemento<br />

di causalità a cui non è interessata la V 5<br />

, ma la V 1<br />

che preferisce il<br />

movimento caotico a quello regolare. Se inforchiamo gli occhiali del<br />

neurofisiologo, mentre incominciamo a intravedere che Calder non è<br />

l’eroe di questa storia, non possiamo non concordare con Zeki sul fatto<br />

che «anche se appare sorprendente, quando i poeti esaltano la natura<br />

imprevedibile del movimento, in realtà stanno celebrando un’area<br />

visiva in qualche modo meno progredita di V 5<br />

». Calder, sebbene avesse<br />

eliminato forma e colore dai suoi elementi, nondimeno disponeva e<br />

organizzava gli elementi in modo da dare all’insieme «una “forma” e<br />

una “struttura”» 112 .<br />

Il passo decisivo nel sacrificare all’area V 5<br />

fu compiuto da Tinguely.<br />

«Le sue creazioni mostrano una progressione da un movimento dominato<br />

dalla forma a un movimento che la divora e la distrugge, a<br />

un movimento che rende la forma priva di significato». Abbiamo già<br />

considerato i MetaMalevicˇ e i Metamécaniques, purtroppo «ancora dominati<br />

dalla forma». Seguono i Metamatiques, che assicurano il dominio<br />

del movimento sulla forma, ma non eliminano quest’ultima. È Homage<br />

to New York a rappresentare «il trionfo del movimento nell’arte» 113 .<br />

Progettata per «autodistruggersi in mezz’ora in un’apoteosi del movimento»,<br />

l’opera deluse le attese la sera della vernice, e solo in seguito,<br />

«in una esibizione di movimento disordinato, prese fuoco, in modo<br />

imprevisto» e venne presa in carico dai vigili del fuoco. Zeki si immagina<br />

la goduria di Tinguely: «all’inizio una forma imponente e statica,<br />

e poi afferrata da un movimento sempre più violento, su un fondo di<br />

lingue di fuoco che si muovevano qua e là irregolarmente, spente da<br />

getti d’acqua intermittenti, per essere alla fine consumata e distrutta da<br />

essi. L’evento deve avere stimolato potentemente l’area V 5<br />

». La forma,<br />

indifferenti alle forme <strong>delle</strong> lingue di fuoco, si dà per «abbattuta» e<br />

“l’apoteosi del moto” realizzata 114 .<br />

È Tinguely l’eroe? Questa storia parrebbe non averne, e si chiude<br />

sommessamente con un’opera di Leviant, Enigma – su uno sfondo a<br />

raggiera bianco e nero, anelli colorati di dimensione e spessore crescen-<br />

311


te circondano un disco giallo – esemplificativa del fatto che «poiché il<br />

tentativo di liberare il movimento sia dalla forma che dal colore risulta<br />

quasi impossibile […], la direzione che tutti gli artisti cinetici hanno<br />

intrapreso e continuano a seguire, non è di isolare il movimento puro,<br />

ma di imbrigliare gli altri attributi della scena visiva al suo servizio».<br />

Se si osserva Enigma vediamo gli anelli ruotare attorno al cerchio. Zeki<br />

ci dice che il movimento non fa parte dell’opera «Quali che siano i<br />

particolari della configurazione necessari perché il movimento venga<br />

percepito, è certo che esso non è oggettivamente parte dell’opera, in<br />

quanto non c’è in essa un moto reale. Il movimento è una creazione<br />

del cervello» 115 . Chissà se Zeki sa degli esperimenti di Wertheimer sul<br />

movimento apparente e della spiegazione datane, che chiama sì in causa<br />

il cervello, ma giustamente lascia a se stesso il merito di avere organizzato<br />

gli “stimoli” in modo che il movimento diventasse visibile e quindi<br />

potesse essere percepito. Come a Isia Leviant – senza con ciò negare<br />

o svalutare il suo e il nostro correlato corticale, e senza però trattare il<br />

fisico come fosse fenomenico – va attribuita la creazione del movimento<br />

di Enigma. Non riconoscerlo dipende dal concetto di realtà assunto 116 .<br />

È un fatto che se si misura l’attività cerebrale dell’osservatore che guarda<br />

Enigma, si trova attiva la V 5<br />

; mentre se si misura l’attività cerebrale<br />

dello stesso quando guarda un movimento fisico, si attiva assieme alla<br />

V 5<br />

anche la V 1<br />

. Da questo dato non consegue che «quindi è come se<br />

l’attività di V 5<br />

stesse imponendo certe proprietà fenomeniche a Enigma,<br />

proprietà che oggettivamente non esistono». Se la realtà non è a prescindere<br />

dai nostri cervelli, coerenza vorrebbe che come “l’attività di<br />

V 5<br />

impone certe proprietà fenomeniche al movimento apparente”, allo<br />

stesso modo “l’attività di V 1<br />

e di V 5<br />

impone certe proprietà fenomeniche<br />

al movimento fisico”. A guardare Enigma, senza occhiali neuroestetici, ci<br />

si stupisce anche che non vengano interessate le aree specializzate per le<br />

forme (e/o “estensione”) e il colore, e viene il sospetto che rimangano<br />

silenti per non mancare di rispetto alla “specializzazione funzionale<br />

nell’estetica”. Ancora una volta «come e dove il cervello attribuisce una<br />

componente estetica a un’opera» rimane una domanda «senza risposta<br />

e in effetti non affrontata dalla ricerca neurologica» 117 .<br />

7 – Arriviamo all’ultimo punto, cioè la neurologia dell’arte astratta<br />

e dell’arte figurativa. Non sembri precipitosa la generalizzazione. Anzi,<br />

siccome non mancano i realisti più del re, qualcuno, nel dopo-Zeki,<br />

potrebbe ritenere che «ciò risulta ovvio», e Zeki giustamente mette i<br />

puntini sulle “i”: «Se è così sono sorpreso del fatto che nessuno finora<br />

abbia espresso ciò che era ovvio». Insomma, la distinzione è semplice<br />

e geniale come l’uovo di Colombo, chiunque avrebbe potuta farla,<br />

nondimeno è Zeki ad averla fatta. Per il colore, per il movimento e<br />

per la forma, il genere artistico astratto impegna il cervello in maniera<br />

diversa dal genere artistico figurativo. Abbiamo visto che «proprio<br />

312


come c’è una differenza neurologica nel tipo di cellule attivate quando<br />

si guarda un Malevič e un MetaMalevič, esiste una differenza – questa<br />

volta verificata – tra l’attività dei neuroni attivata da un Mondrian e<br />

quella attivata, per esempio, da una scena naturalistica di Corot […];<br />

esiste anche una differenza nell’attivazione dei neuroni quando guardiamo<br />

una scena di Corot e un quadro fauve». È, quindi, dimostrato<br />

che, quanto al colore, «i due generi artistici utilizzano vie cerebrali<br />

comuni fino a un certo punto e divergenti dopo». Il rendimento neuro<br />

al quadro fauve suggerisce inoltre l’ipotesi che «le opere d’arte in conflitto<br />

con l’ordinaria esperienza del mondo visivo – per esempio quelle<br />

di Magritte, De Chirico o Max Ernst – coinvolgano intensamente le<br />

parti del lobo frontale che sono attivate» dai “colori innaturali” 118 .<br />

Il colore astratto ha i suoi equivalenti nel movimento e nelle forme<br />

astratti. Relativamente al movimento, gli stimoli utilizzati per l’esperimento<br />

erano «piccoli quadrati bianchi in movimento su fondo nero,<br />

e tutti cambiavano direzione nello stesso istante e concordemente a<br />

intervalli di qualche secondo», una sorta di simil-Calder. «Ma si possono<br />

organizzare i quadrati in modo da generare degli stimoli dotati<br />

di significato. In questo modo si può generare la forma a partire dal<br />

movimento». Se si osserva l’attività del cervello, quando «il movimento<br />

è astratto e privo di significato», si attiva l’area V 5<br />

; quando gli stimoli<br />

in movimento hanno significato, si attiva anche un’altra area localizzata<br />

di fronte a V 5<br />

. Quanto alla forma, «le linee che costituiscono la<br />

caratteristica di tanti quadri astratti sono spesso disposte in modo tale<br />

da non rappresentare alcuna forma particolare. Ma queste stesse linee<br />

possono anche essere ricollocate in modo da dar luogo a una forma<br />

riconoscibile. Ancora una volta troviamo che le due composizioni attivano<br />

<strong>delle</strong> zone comuni, ma le forme interpretabili attivano anche<br />

aree ulteriori, collocate di nuovo nel giro fusiforme. In altre parole,<br />

le composizioni astratte mettono in moto una parte del cervello meno<br />

ampia rispetto a quelle che rappresentano forme e figure, anche quando<br />

entrambe sono costituite dagli stessi elementi» 119 .<br />

Da qui la regola generale: «tutte le opere astratte attivano parti<br />

del cervello visivo più limitate di quanto non facciano l’arte narrativa<br />

o l’arte figurativa». Il quadro della neuroestetica è quasi finito, e,<br />

come in un puzzle, il disegno diventa via via più chiaro. Si precisa il<br />

significato di “colore astratto”: nei «quadri astratti a colori, del tipo<br />

di quelli di Mondrian, Malevič, Ben Nicholson e altri, […] non c’è<br />

un colore “giusto” o “sbagliato, perché i colori non appartengono a<br />

oggetti, cui è associato un colore particolare» 120 . E poiché non c’è un<br />

oggetto da riconoscere, “astratto”, relativamente a colore, forma (linee)<br />

e movimento, è uguale a “senza significato”. L’astrattismo, che nelle<br />

intenzioni degli artisti doveva significare altrimenti dall’arte mimetica –<br />

si pensi allo spirituale nell’arte – diventa, per decreto scientifico, privo<br />

di significato. E gli stimoli impiegati per il movimento e per la forma ci<br />

313


dicono in maniera inequivocabile che nei laboratori scientifici le opere<br />

degli artisti valgono tanto quanto le “opere” dei neurofisiologi. Come<br />

gli artisti sono neurologi, logica vorrebbe che i neurologi venissero<br />

considerati artisti. È un “passo ulteriore”, certo, ma consegue dalla<br />

“riduzione a stimolo” <strong>delle</strong> opere d’arte, dallo smembramento <strong>delle</strong><br />

Gestalten nei suoi elementi, e contribuirebbe all’equilibrio compositivo<br />

della neuroestetica. Zeki non lo compie.<br />

Gli elementi della pittura assieme a contenuti della stessa, con i<br />

relativi loci corticali, contribuiscono a «l’idea, in apparenza ovvia, che<br />

il ruolo primario nell’arte lo svolgono proprio quegli attributi della visione<br />

– colore, forma, movimento, volti, espressioni facciali, linguaggio<br />

del corpo – alla cui elaborazione il cervello ha preposto una serie di<br />

sistemi specializzati». Per converso, «la patologia dell’esperienza estetica<br />

ne rivela la modularità». Così, ad esempio, «la ritrattistica ha acquisito<br />

la sua importanza anche perché il cervello ha specializzato un’intera<br />

regione della corteccia nel riconoscimento dei volti». Si consideri Ragazza<br />

con orecchino di Vermeer, «un capolavoro di ambiguità, nel senso<br />

neurologico». La descrizione «in termini neurologici» non ha nulla di<br />

neurologico. Di neurologico rimane “l’ambiguità” dell’opera e la reazione<br />

“non ambigua” di un prosopagnosico davanti a un ritratto quale<br />

che sia: (1) se la lesione è nella parte posteriore del giro fusiforme,<br />

non sarà in grado di percepire il volto; (2) se la lesione è nella parte<br />

anteriore, potrebbe percepirlo ma non riconoscere di chi è; (3) se la<br />

lesione è localizzata nell’estremità anteriore, sarà incapace di individuarne<br />

l’espressione. Quanto ai normali, «abbiamo poche informazioni su<br />

quali aree del cervello sono implicate nelle intense sensazioni soggettive<br />

che il quadro risveglia, o sul modo in cui queste interagiscono per<br />

darci un’impressione complessiva. Quindi, ignoriamo ancora molto sul<br />

funzionamento del cervello visivo, e soprattutto sulle basi neurologiche<br />

della bellezza. La nostra ignoranza, tuttavia, non dovrebbe sminuire il<br />

risultato davvero notevole che ci permette di precisare con inimmaginabile<br />

accuratezza le aree cerebrali senza le quali tutta la bellezza dei<br />

ritratti semplicemente non esisterebbe»». Come senza la V 4<br />

(acromatopsia)<br />

non esisterebbe “tutta la bellezza” del colore; e senza la V 5<br />

(acinetopsia) “tutta la bellezza” dell’arte cinetica; e così via. «I casi<br />

sopra riportati suggeriscono l’idea che, in termini neurobiologici, non<br />

esista un unico senso estetico, ma ve ne siano molti, ciascuno connesso<br />

all’attività di un particolare sistema di elaborazione visiva, caratterizzato<br />

da specializzazione funzionale». Curiosamente, tra le sindromi legate<br />

alla modularità anatomico-funzionale si tace sull’aprassia, con la quale<br />

non avremmo la perdita di un senso estetico, ma la perdita <strong>delle</strong> condizioni<br />

di possibilità della pittura 121 .<br />

Abbiamo visto che per Zeki gli artisti sono neurologi. Un ritornello.<br />

Ma come hanno fatto ad «accentuare proprio quegli stimoli che<br />

sono i più efficaci per attivare cellule particolari del cervello»? «Un<br />

314


pittore che osservi quelli che dovrebbero essere i componenti di ogni<br />

forma, sta essenzialmente osservando l’attività interna del suo cervello<br />

visivo». Il cervello, però, non ha difficoltà a astrarre la conoscenza visiva<br />

del mondo. L’artista, viceversa, per «cercare gli elementi costanti,<br />

astrarre le proprietà e le qualità essenziali <strong>delle</strong> scene e degli oggetti<br />

in condizioni sempre mutevoli, e così imitare inconsapevolmente la<br />

funzione del cervello visivo», procede con fatica e «in questo processo<br />

intervengono attività mentali superiori». Non è in gioco solo il cervello<br />

visivo, bensì una «combinazione di processi visivi e intellettuali» 122 .<br />

L’abbiamo già appurato dalla registrazione dell’attività cerebrale: l’arte<br />

figurativa, oltre l’occipite, impegna il lobo temporale e il lobo frontale.<br />

Il concetto, relativamente al visivo, permane intellettuale, vale a dire<br />

linguistico.<br />

E però è stato sostenuto che Monet, a differenza di Cézanne, “dipingeva<br />

con gli occhi”. Quella di Monet, a evidenza, non è arte astratta<br />

– nei suoi quadri riconosciamo donne, laghi, ninfee, cattedrali – e, sapendo<br />

già come il cervello si comporta davanti all’arte figurativa, questa<br />

tessera del mosaico ci sembra superflua. Ma l’opinione contraria è sostenuta<br />

con tanta autorevolezza – Cézanne, R. Fry – che diventa persino<br />

doveroso confutarla e «dimostrare che anche per un artista come lui<br />

i centri cerebrali superiori svolgevano un ruolo molto importante nella<br />

sua opera, e che questa era tutt’altro che un tentativo di catturare degli<br />

istanti fuggitivi». La tesi viene argomentata sulla serie della Cattedrale<br />

di Rouen. La nostra perseveranza ad andare fino in fondo viene premiata<br />

da nuove acquisizioni. Se potevamo prevedere l’attivazione <strong>delle</strong><br />

aree V 1<br />

e V 4<br />

, dell’ippocampo, dell’area estesa in profondità nei lobi<br />

temporali e di quella situata all’interno della circonvoluzione frontale<br />

inferiore dell’emisfero destro, non immaginavamo, in effetti, che intervenisse<br />

anche l’area localizzata nella circonvoluzione frontale media che<br />

abbiamo incontrato per l’arte fauve. Il fatto è che le due aree frontali<br />

sono in comunicazione tra loro, e ciò porta Zeki ad avanzare «l’ipotesi<br />

che quando Monet iniziò la serie della Cattedrale di Rouen, egli usò<br />

entrambe le zone del lobo frontale. In effetti stava usando l’attività conoscitiva<br />

del suo cervello per dipingere qualcosa che si allontanava da<br />

ciò che stava vedendo realmente. Si possono considerare infatti i suoi<br />

quadri come le prime manifestazioni dell’arte fauve». Ma il suo non è<br />

il colore dei fauves: Monet «deliberatamente si concentrò sui singoli<br />

punti piuttosto che sulla scena complessiva, riuscendo così a dipingere<br />

la lunghezza d’onda predominante riflessa da ciascuna parte». Come ha<br />

fatto ad aggirare il meccanismo della costanza? Non potendo essere la<br />

percezione, non può che essere stato l’intelletto. «E quindi l’intelletto<br />

deve essere indotto a tollerare di reinterpretare il colore di ogni zona<br />

come se il meccanismo che è alla base della costanza cromatica fosse<br />

inattivo» 123 , quasi fosse stato messo k.o. dal monossido di carbonio.<br />

L’impressionismo – «esempio estremo di costanza abbandonata» 124 – si<br />

315


aggiunge così a surrealismo, fauvismo e cubismo. Una sfida alla legge<br />

della costanza, quella dell’impressionismo, curiosamente coronata da<br />

successo neurologico.<br />

Ci rimangono solo i loci del cervello, loci del senso visivo e del<br />

mitico intelletto. È questo il sapere della neuroestetica. Loci accertati?<br />

No, per lo più congetturati: «Tutto questo può essere solo congetturato<br />

[…]. Ma non è questo il punto del mio excursus. La sua importanza<br />

consiste nel fatto di suggerire che Monet non fu pittore <strong>delle</strong> impressioni<br />

effimere, né la sua pittura fu un evento degli occhi (in quanto<br />

opposti al cervello) […]. Ma si servì probabilmente, almeno in parte,<br />

di vie cerebrali diverse rispetto a pittori che produssero scene analoghe<br />

a colori naturali. Questo fatto, ancora una volta, mette in risalto un<br />

punto cruciale, e cioè che stili pittorici differenti attivano differenti<br />

sistemi del cervello. Ma la storia di Monet, e lo sforzo che è dietro la<br />

sua pittura, mette in luce anche uno dei temi principali di questo libro,<br />

il fatto che una <strong>delle</strong> funzioni della pittura è quella di acquisire conoscenza<br />

del mondo». E per chiudere con l’Estetica – ignara dei prodigi<br />

del cervello – la Neuroestetica – l’estetica del cervello – può colmare la<br />

«sorprendente lacuna» che da sempre la caratterizza: «L’omissione consiste<br />

nella mancanza di una discussione seria sul ruolo del cervello» 125 .<br />

8 – Se l’analisi fin qui fatta è corretta e i commenti interpolati sono<br />

chiari, ho poco da aggiungere. Dal fatto incontrovertibile che i processi<br />

psichici dipendono dai processi fisiologici, e dal fatto che senza cervello<br />

non ci sarebbe arte, non ne consegue che «l’arte è un prodotto del cervello»<br />

e che le leggi dell’arte sono le leggi del cervello. Né che cervello<br />

e artista procedano all’identico modo, o che cervello e intelletto siano<br />

la stessa cosa, fino a ritrovare le leggi dell’arte nelle leggi del cervello.<br />

Se le cose stessero come si sostiene in neuroestetica, basterebbe studiare<br />

il cervello per scoprire le leggi non solo dell’arte ma di tutte le cose.<br />

«Come si può non capire che indagando i prodotti del cervello si capisce<br />

meglio come è fatto il cervello?», si chiede Zeki. Indubbiamente tenere<br />

presente che l’essere umano – non il suo cervello – produce oggetti<br />

definiti artistici, oggetti molto diversi dal concetto di oggetto elaborato<br />

per le esigenze della fisica (considerata «scienza dell’oggetto» 126 ), non è<br />

indifferente per lo studio dei processi cognitivi, che in quanto tali, sono<br />

invisibili, nonostante oggi, in psicologia grazie alla metafora del computer,<br />

e nelle neuroscienze grazie alle immagini colorate del cervello, si<br />

sostiene di averli resi visibili. La neuroestetica ha il merito di mettere<br />

l’accento sul fatto che l’arte non può essere esclusa se si vuole studiare<br />

la percezione, il pensiero, ecc., cioè le funzioni che riassumiamo sotto<br />

il concetto astratto di mente. Il che può gettare luce sul funzionamento<br />

del cervello. Non è vera, però, la reciproca, vale a dire la presupposizione<br />

che lo studio del cervello può gettare luce sull’arte 127 . L’obiettivo<br />

comunque, a prescindere dalle parole, che come si sa possono essere<br />

316


equivocate o “dal sen fuggite”, è di volere spiegare l’arte non il cervello,<br />

per lo studio del quale ovviamente non ci sarebbe stato bisogno di<br />

una nuova disciplina. Certo, sostanzializzando la mente, identificando<br />

mente e cervello, prendendo il prodotto per il processo e obliterando<br />

«la distinzione fondamentale tra un’esperienza e la sua rappresentazione»<br />

128 – distinzione su cui ha insistito Arnheim proprio relativamente<br />

all’arte, ma che può valere più in generale – possiamo dare «a intelletto<br />

il significato di cervello», al cervello il significato di artista, e sostenere<br />

che «per rappresentare il mondo, il cervello (l’artista) deve trascurare<br />

(“sacrificare”) una grande quantità di informazioni che gli pervengono,<br />

informazioni inessenziali allo scopo, perseguito dal cervello (dall’artista),<br />

di rappresentare il vero carattere dell’oggetto» 129 .<br />

A parte il rischio che così correrebbe l’infinita varietà dei fenomeni,<br />

come sappiamo di queste “informazioni inessenziali” se lo “scopo” del<br />

cervello è solo quello di puntare all’“essenziale”? Anche ad accettare<br />

che la costanza sia la legge del cervello, la concezione di Zeki è, direbbe<br />

Arnheim, «estremamente ristretta e unilaterale»: «l’oggetto viene<br />

ridotto alle proprie invarianti, il contesto e i suoi effetti decadono<br />

dalla visione, e “costanza” significa invariabilità di aspetto. Alla grande<br />

varietà di forma, dimensione, luminosità, colore e così via, dispiegata<br />

dall’immagine nella proiezione retinica, si ritiene si sostituisca qualche<br />

cosa di raggelato e immutabile». Che le cose non stiano così lo testimonia<br />

proprio l’arte visiva. «È del tutto vero che in condizioni ordinarie<br />

le modificazioni contestuali dell’oggetto sfuggono per gran parte<br />

all’attenzione: la sua dimensione, forma e colore sono costanti. Questa<br />

tipica mancanza di consapevolezza non andrebbe, però, considerata<br />

come caratteristica universale inerente alla natura della percezione; essa<br />

costituisce invece, a mio parere, un caso particolare di una norma più<br />

ampia della cognizione, secondo la quale la generalità dei concetti non<br />

viene differenziata oltre il necessario, vale a dire i concetti restano tanto<br />

generici quanto è consentito dalla loro applicazione. Percepire un<br />

oggetto come immutabile significa astrarlo al livello più alto possibile<br />

di generalità, e tale livello sarà appropriato a tutte quelle numerose situazioni<br />

nelle quali si impiega la visione per disporre fisicamente degli<br />

oggetti. […] Ma se occorrerà essere ben consapevoli <strong>delle</strong> differenze<br />

dimensionali – come accade, ad esempio, a un pittore – si abbandonerà<br />

prontamente il livello di massima generalità, e si procederà al necessario<br />

affinamento della propria percezione». Perciò, il cervello non<br />

può puntare solo all’astrazione, e una teoria della percezione «deve<br />

ammettere che originariamente l’organismo riceva un’informazione<br />

completa circa le variazioni contestuali degli stimoli, dato che quanto<br />

non viene ricevuto non può essere sottoposto ad alcun processo» 130 .<br />

Zeki, al contrario, da una parte è costretto a opporre il funzionamento<br />

del cervello – la cui registrazione “costante” equivarrebbe all’idea<br />

di Platone e al concetto di Hegel – ai dati dei sensi, che continua a<br />

317


considerare «mutevoli ed effimeri»; dall’altra, considerando il cervello<br />

come artista, ne decanta la ricchezza, di contro alla povertà di quest’ultimo.<br />

Così «Magritte e i surrealisti poterono mettere in dubbio l’idea<br />

stessa di rappresentazione pittorica, intuendo che l’oggetto dipinto non<br />

può eguagliare la ricchezza della rappresentazione cerebrale». Così Michelangelo<br />

che in vecchiaia «vide la limitatezza e la vanità dell’opera<br />

d’arte se paragonata alla serie quasi infinità <strong>delle</strong> informazioni immagazzinate<br />

nel cervello» e ricorse al non finito in modo che l’osservatore<br />

potesse «adattarvi una molteplicità di concetti e rappresentazioni immagazzinati<br />

nel proprio cervello» 131 . Così tutti gli artisti che – eppure<br />

“osservano l’attività interna del cervello” – sono convinti di creare<br />

forme nuove, quando in realtà le neuroscienze “scoprono” che le forme<br />

sono create dal cervello.<br />

Così sarebbe se il prodotto fosse il processo. Zeki ne è convinto,<br />

l’immagine artistica è già nel cervello: relativamente al concetto, «il cervello,<br />

scartando “l’eccedenza di dettagli e di accidenti”, ha selezionato<br />

solo quelle che gli sono necessarie per estrarre le qualità essenziali degli<br />

oggetti. In un quadro invece il cervello può “profondere liberamente in<br />

modo semplice, senza i complessi presupposti e gli accomodamenti del<br />

mondo reale, […] il tesoro di forme che ha accumulato”. Ed è proprio<br />

attraverso questo processo di “profusione”, cioè di espressione all’esterno<br />

e di concretizzazione, che il concetto diventa idea. Questa, dunque,<br />

non è altro che la rappresentazione all’esterno del concetto che è nel<br />

cervello e che deriva dagli effimeri dati dei sensi: costituisce insomma il<br />

prodotto dell’artista». Tutto il lavoro lo fa il cervello e l’artista si limita<br />

a portare all’esterno ciò che è dentro il cranio. Le citazioni dentro la<br />

citazione sono dell’antifrenologo Hegel, che, per Zeki, avrebbe dato<br />

«rilievo alla funzione del cervello», ancorché «solo in modo implicito»<br />

132 ; e invece, come è noto, si è espresso esplicitamente contro. E, a<br />

saperlo, riterrebbe la legge della costanza incompatibile con la pittura<br />

che “rende duraturi” proprio gli “effimeri dati dei sensi”: «In tal modo<br />

p. es. la pittura olandese ha saputo trasmutare in mille e mille effetti le<br />

esterne, fuggevoli parvenze della natura» 133 .<br />

Né l’artista genera l’immagine come la genererebbe il cervello visivo.<br />

All’artista non basta la visione. Sebbene l’esperienza visiva sia una<br />

condizione necessaria, «non vi è trasformazione diretta dell’esperienza<br />

in forma; vi è piuttosto una ricerca di qualche cosa che le equivalga».<br />

Questo equivalente dell’esperienza, è il “concetto rappresentativo” e «i<br />

concetti rappresentativi dipendono dal medium in funzione del quale<br />

esplorano la realtà» 134 . Arnheim, critico nei confronti dell’“assioma del<br />

realismo”, precisa che «nel disegno e nella pittura, le immagini non<br />

sono prese semplicemente da ciò che si osserva in natura ma hanno la<br />

loro origine sulla superficie piatta del foglio, della tela o del muro. La<br />

superficie impone dei vincoli che derivano dalle sue specifiche proprietà<br />

percettive: essa impone alcuni procedimenti e ne scoraggia altri. Quan-<br />

318


do queste idiosincrasie del medium vengono ignorate e il loro effetto<br />

viene attribuito a ciò che può essere osservato in natura, si producono<br />

dei fraintendimenti» 135 . Perciò non possiamo risalire sic et simpliciter<br />

dalla rappresentazione ai processi cognitivi, a meno di non confondere<br />

processo e prodotto, e dai processi cognitivi al cervello, a meno di non<br />

azzerare la differenza tra fisico e fenomenico, e, alla fine, anche l’arte<br />

che dell’infinita varietà del fenomenico si è sempre occupata. Poiché<br />

non è possibile un’accesso diretto alla mente, e – si sia mentalisti, o<br />

“cerebralisti”, o né l’uno e nell’altro 136 – si ha sempre a che fare con<br />

concetti rappresentativi, il non tenere presente la diversità dei media, le<br />

peculiarità intrinseche a ciascun medium, il carattere storico-culturale<br />

che tutti li contraddistingue, gli usi diversi che se ne possono fare (del<br />

medium disegno, ad esempio, si è enfatizzato l’uso artistico come se<br />

non avesse anche un uso scientifico), può portare facilmente a scambiare<br />

le caratteristiche del prodotto per le caratteristiche del processo, e a<br />

considerare la mente il ricettacolo <strong>delle</strong> rappresentazioni, o, quando si<br />

identifica la mente con il cervello, a considerare quest’ultimo “autore”,<br />

che tanto ricorda l’“intelletto deiforme” della filosofia medievale, non<br />

certo per la sua discendenza da Dio, ma per la sua creatività come dio.<br />

Ex nihilo. E gli artisti con tele e pennelli, i detentori per antonomasia<br />

della creatività, tanto che nell’Ottocento «“creatore” divenne sinonimo<br />

di artista» 137 , ridotti al rango di “imitatori inconsapevoli del cervello<br />

visivo”, il “luogo” dei colori, <strong>delle</strong> linee, <strong>delle</strong> forme costanti 138 .<br />

Senza cervello non avremmo il mondo, ma sostenere che il cervello<br />

“crea” o “costruisce” o “rappresenta”, che sia ens representans<br />

come Arthur Danto considera l’essere umano, deriva dal considerare la<br />

“soggettività genetica” come la soggettività comunemente intesa 139 . Ne<br />

consegue che è il cervello che vede, sente, interpreta informazioni, agisce,<br />

decide, manipola regole, crede, ragiona, costruisce ipotesi, prova<br />

emozioni, usa e comprende simboli, classifica, categorizza, costruisce<br />

ed esamina rappresentazioni e immagini interne. Col che “la distinzione<br />

fondamentale tra un’esperienza e la sua rappresentazione”, diventa<br />

impossibile. In compenso abbiamo la «psicologia del cervello» 140 .<br />

Si critica il riduzionismo di Zeki. «Il trito stereotipo di “riduzionismo”»<br />

di quanti «non sanno nulla dei metodi della scienza, che è tenuta<br />

a isolare ogni fenomeno per studiarlo», commenta Zeki 141 . È così: studiare<br />

i correlati neuronali della percezione di immagini non è riduzionismo.<br />

Ma il ritenere che l’estetica debba diventare neuroestetica, pena<br />

la sua inconsistenza, lo è. E se ridurre l’immagine ai suoi elementi è<br />

elementismo, non so come valutare “l’artista imitatore del cervello”. Usa<br />

però troppo la categoria di mistero e, soprattutto, il lessico tradizionale<br />

dell’estetica per classificarlo riduzionista e nient’altro. In realtà, la sua<br />

visione dall’interno individua soltanto alcune aree del cervello che si<br />

attivano con stimoli di vario tipo, e resta da dimostrare che l’attivazione<br />

dipenda dall’essere o non essere arte di ciò che funziona da stimolo. Re-<br />

319


lativamente all’arte non indica neanche tutte le aree che le attuali conoscenze<br />

consentono di ipotizzare. L’assenza più macroscopica è relativa<br />

alle aree preposte al piacere che con tanta insistenza ci dice che l’arte<br />

darebbe al fruitore. Quando parla dell’artista non si pone neanche il<br />

problema di quelle aree che rendono possibile la produzione di oggetti<br />

che, dando per scontata la teoria edonistica dell’arte, procurerebbero<br />

piacere 142 . Zeki potrebbe obiettare che l’argomento da lui affrontato è<br />

«l’arte visiva, perlomeno al livello dell’esperienza percettiva» 143 . Anche<br />

se fosse così – ma abbiamo visto che non ha mantenuto fede a questa<br />

precisazione iniziale – le qualità espressive, quale che sia l’importanza<br />

che vogliamo loro attribuire, fanno parte di diritto dell’esperienza<br />

quotidiana e dell’esperienza estetica 144 . Relativamente all’oggetto, non<br />

solo si ostina a continuare a considerare “bello” quell’oggetto – per di<br />

più isolato dal suo contesto (“il sistema dell’arte”) – che nel tempo,<br />

trasformatosi nel suo contrario, per lo più “fuori quadro” 145 è diventato<br />

prima “ansioso” per aggettivare con Rosenberg, e in ultimo “shockante”,<br />

ma ritiene equivalente una qualsiasi configurazione, prodotta dal<br />

neurologo per le esigenze della sperimentazione, e un’“opera d’arte”.<br />

Come pure il laboratorio, luogo degli “stimoli”, e il museo o la galleria,<br />

luoghi dell’“arte”. Insomma, un soggetto senza corpo, l’artista/cervello;<br />

e un oggetto privo di “sfondo” e senza qualità, la pittura.<br />

È così che l’arte <strong>delle</strong> avanguardie storiche, sembra essersi sviluppata<br />

per illustrare le leggi del “cervello visivo”: forme semplici – meglio<br />

elementi elementari – e forti contrasti, altrimenti il “fallimento neurologico”<br />

è assicurato. Per non dire del fallimento artistico essendo<br />

venuto meno, con la rivoluzione neuroestetica, proprio il significato.<br />

Quanto alla “grande arte”, il significato (gli oggetti riconosciuti e gli<br />

stati mentali immaginati e proiettati), la legge della costanza (un’estensione<br />

indebita della costanza di forma, colore, dimensione), l’ambiguità<br />

neurologica come suo tratto strutturale (una legittimazione ex scientia<br />

<strong>delle</strong> più strampalate interpretazioni): sono questi i “fatti” della<br />

neuroestetica (una s-definizione neurologica dell’arte) e le ragioni per<br />

esserne contro. Ciò nonostante il successo della nuova scienza continuerà<br />

indisturbato, non foss’altro perché è rassicurante sapere che<br />

l’arte – il volano del turismo culturale 146 – si capisce a volo: tu non<br />

lo sai ma il cervello sì.<br />

Se con Zeki, piuttosto che rivedere alla luce dei nuovi dati il plesso<br />

problematico sensi-intelletto teorizzato dalla vecchia concezione della<br />

visione, «diamo a intelletto il significato di cervello, o meglio ancora,<br />

di corteccia cerebrale» 147 , innanzitutto dobbiamo riformulare il detto<br />

più popolare di Hume: «il bello esiste solo nel cervello che contempla<br />

le cose» 148 . E se riteniamo che sulla mano dell’artista nulla c’è stato<br />

detto perché nulla c’è neuroesteticamente da sapere, dobbiamo concludere<br />

con Zeki che «Monet dipingeva con il cervello, ma Dio che<br />

cervello!» 149 . Insomma, si tratta di sostituire occhio con cervello e il<br />

320


gioco è fatto: dallo psicologismo si passa, senza soluzione di continuità,<br />

al neurologismo. Basta equiparare l’artista al suo cervello e, come<br />

per incanto, dall’estetica transiteremo alla neuroestetica, la disciplina<br />

dell’«organo creativo» 150 . Mentre, aggiornato alla nuova disciplina, ci<br />

sovvengono i famosi versi di Leopardi 151 – Dipinte in queste tele / son<br />

dell’uman cervello / le magnifiche sorti e progressive – in più, abbiamo<br />

finalmente la risposta “scientifica” alla domanda che Lessing nell’Emilia<br />

Galotti mette in bocca al pittore Conti: «Raffaello sarebbe pur sempre<br />

il maggior genio pittorico, anche se, per disgrazia fosse nato senza<br />

mani?». Ebbene sì, parola di neuroscienziato! Se ai tempi di Lessing<br />

ci si rammaricava di non potere «dipingere direttamente cogli occhi»,<br />

oggi, nell’era del virtuale cui fa da contraltare la mistica del corpo e<br />

della mente incarnata, finalmente ci si può rallegrare di dipingere col<br />

cervello 152 . La pittura, che non è più l’avanguardia dell’arte, diventa<br />

avamposto <strong>delle</strong> neuroscienze 153 .<br />

1<br />

Se il motto di J. Müller, quando ancora la psicologia scientifica era in gestazione è stato<br />

«Nemo psychologus nisi physiologus» (cit. in P. Engel, Filosofia e psicologia (1996), Einaudi,<br />

Torino, 2000, p. 18), «Nemo esthetologus nisi physiologus» parrebbe esser quello di Semir<br />

Zeki e di quanti si riconoscono nella neuroestetica.<br />

2<br />

G. Tononi, Galileo e il fotodiolo. Cervello complessità e coscienza, Roma-Bari, Laterza,<br />

2003, p. 5.<br />

3<br />

Il sito della “Società Italiana di Neuroestetica Semir Zeki”, fondata nel 2005, è cambiato<br />

rispetto a prima. La frase riportata, presa nel 2006, non è più presente nella home.<br />

4<br />

«Il termine “psicologismo” fu impiegato per la prima volta da Erdmann nel 1860», P.<br />

Engel, cit., p. 21. Dalla seconda metà del Novecento ha via via perduto le sue connotazioni<br />

negative, ed è diventato decisamente positivo.<br />

5<br />

Una confusione che ha portato, dopo Frege, K. R. Popper (Conoscenza oggettiva. Un<br />

punto di vista evoluzionistico, 1972, Armando, Roma, 1977) a riproporre, al fine di salvare<br />

l’oggettività dei prodotti, un mondo a parte – «in mancanza di un nome migliore, “il terzo<br />

mondo”» (ivi, p. 149) – un mondo, quello dei prodotti, autonomo sia dal mondo degli oggetti<br />

fisici, “il primo”, sia dal mondo dei processi della mente, “il secondo”. Cfr. anche P. Engel,<br />

cit., e il suo mondo “2 ½”.<br />

6<br />

Rispettivamente V. S. Ramachandran, Che cosa sappiamo della mente (2003), Mondadori,<br />

Milano 2004, p. 61; e S. Zeki, La visione dall’interno. Arte e cervello (1999), Bollati<br />

Boringhieri, Torino, 2003, p. 110.<br />

7<br />

G. Tononi, Galileo e il fotodiolo, cit., p. 5.<br />

8<br />

Corsivo mio, per segnalare il contrario. Senza contare i contributi di H. von Helmholtz<br />

o quelli di G. Th. Fecnher che inaugurano la problematica, La visione dall’interno, non è infatti<br />

neanche il primo tentativo zekiano di collegare arte e cervello. Per non parlare di A Vision<br />

of the Brain (1993) dove Zeki annovera Shakespeare e Wagner fra “i più grandi neurologi”(cfr.<br />

Neural Concept Formation and Art. Dante, Michelangelo, Wagner, 2002, htt:www.neuroesthetics.org),<br />

come dimenticare The neurology of kinetic art, scritto assieme a M. Lamb e pubblicato<br />

su “Brain” nel 1994? Si cfr. anche S. Zeki., Art and the Brain, un articolo uscito su<br />

“Daedalus” nel 1998, che anticipa, insieme all’articolo del 1994, i temi trattati poi nel libro.<br />

9<br />

G. Th. Fechner, Vorschule der Ästhetik, Leipzig, 1876; Th. Lipps, Ästhetik. Psychologie<br />

des Schönen und der Kunst, vol. i: Grundlegung der Ästhetik, Voss, Hamburg, 1903. Sull’estetica<br />

psicologica mi pare importante un commento del 1921 di M. Geiger, riportato da C.<br />

G. Allesch (Theodor Lipps e l’estetica come disciplina psicologica, in S. Besoli, M. Manotta e<br />

R. Martinelli, a cura di, 2002, “Una scienza pura della coscienza”: l’ideale della psicologia in<br />

Theodor Lipps, “Discipline Filosofiche”, xii, 2, pp. 108-109): «“all’epoca in cui nacque la<br />

psicologia estetica, dominava in psicologia generale la tendenza a scomporre la vita psichica<br />

in elementi seguendo il modello <strong>delle</strong> scienze naturali esatte”; da simili “tratti universalmente<br />

321


iconosciuti della scienza psicologica” anche la psicologia estetica “naturalmente non avrebbe<br />

potuto né voluto affrancarsi”. “Se gli indizi non traggono tutti in inganno” – così azzarda<br />

Geiger uno sguardo al futuro – allora “si sta sviluppando una differente forma di psicologia,<br />

che prende in considerazione i nessi concreti, complessi, più di quanto non parta dalla<br />

scomposizione in elementi; una forma di psicologia che incasella il singolare in successioni<br />

di vissuti meno di quanto lo riferisca all’uomo nella sua interezza”». Allesch rileva che,<br />

nonostante la psicologia della Gestalt fosse «una corrente ampiamente all’altezza di questi<br />

requisiti», a causa <strong>delle</strong> note vicende storiche che la costrinsero all’emigrazione, le «elevate<br />

aspettative di Geiger, come sappiamo, non si sono realizzate».<br />

10<br />

S. Zeki, Statement on neuroesthetics, http://www.neuroesthetics.org.<br />

11<br />

Cfr. L. Pizzo Russo, La stupidità dei sensi. Sulla filosofia dell’arte di Arthur C. Danto,<br />

“Rivista di estetica”, n.s., 38, (2/2008), pp. 85-132 [ora supra, pp. 197-244].<br />

12<br />

Lo sostiene L. F. Ticini (Arte e scienza. Intervista di Artsblog, 2009, http://www.neuroestetica.it/articles.html,<br />

corsivo mio), in risposta alla seguente domanda: «Le neuroscienze,<br />

secondo Lei, consentono di individuare parametri oggettivi utili a distinguere autentiche opere<br />

d’arte destinate a durare nel tempo da prodotti commerciali di scarso valore?». Citerò spesso<br />

Ticini (ha lavorato con Zeki, fa parte dell’“Institute of Neuroesthetics” fondato da Zeki, e ha<br />

fondato e presiede la “Società Italiana di Neuroestetica Semir Zeki”) i cui diversi articoli neuroestetici,<br />

se si conosce La visione dall’interno, si lasciano apprezzare per la capacità davvero<br />

straordinaria di imitare fedelmente il “maestro” di neuroestetica. Piccoli medaglioni, i suoi<br />

articoli, che hanno il pregio di isolare i diversi argomenti e di darne una sintesi brevissima e<br />

priva di “ambiguità”. Una sorta di “bignami” dello Zeki-pensiero.<br />

13<br />

Non mi riferisco alle “sparate dadaiste” contro il metodo di Feyerabend, ma a un uso<br />

del linguaggio dagli accostamenti inusuali, basato sulle connotazioni, che punta a sorprendere,<br />

accattivante più che consequenziale.<br />

14<br />

La Neuroestetica, Incontri tra saperi. Percorsi della mente, 6 marzo 2006, http://www.<br />

ospfe.it/index.phtml?id=2046. La frase verosimilmente è una riformulazione della seguente:<br />

«L’opera pittorica, ossia il risultato di questo studio [lo studio del cervello da parte dell’artista],<br />

è così divenuta un originale strumento d’indagine scientifica ed una nuova finestra per<br />

ammirare la meravigliosa bellezza del nostro cervello», L. F. Ticini, Cervello pittore, “Stile<br />

arte”, 68 (2003), presente in http://www.neuroestetica.it/articles.html.<br />

15<br />

Gli incontri internazionali, organizzati dall’Institute of Neuroesthetics, si tengono ogni<br />

anno, fin dal 2002, in gennaio alla Berkeley University. Sul “Gusto” cfr. L. Russo, a cura di,<br />

Il Gusto. Storia di una idea estetica, Aesthetica, Palermo, 2000.<br />

16<br />

Cfr. P. Legrenzi e C. Umiltà, Neuro-mania. Il cervello non spiega chi siamo, Il Mulino,<br />

Bologna, 2009.<br />

17<br />

M. S. Gazzaniga, La mente etica (2005), Codice, Torino, 2006, p. 116.<br />

18<br />

H. Gardner, La nuova scienza della mente. Storia della rivoluzione cognitiva (1985),<br />

Feltrinelli, Milano, 1988, p. 50.<br />

19<br />

Per “l’entusiasmo della comunità neuroscientifica e di vari circoli artistici”, S. Zeki,<br />

La visione dall’interno, cit., p. 11. Zeki (Statement on neuroesthetics, cit.), si augura che<br />

«l’enorme entusiasmo internazionale» suscitato dalla neuroestetica possa fare da catalizzatore<br />

per incoraggiare lo studio neurologico di altre attività umane, Allo stesso indirizzo si trova la<br />

notizia (10 novembre, 2007) del finanziamento di più di un milione di sterline datogli dalla<br />

Wellcome Trust.<br />

20<br />

Esplicito anche che assumerò i dati sul cervello così come li trovo e non mi occuperò<br />

neanche della reale portata descrittiva ed esplicativa del brain imaging. Mi limito a segnalare<br />

che il cervello è un sistema dinamico complesso e che le neuroimmagini non sono “fotografie<br />

a colori” del cervello (quand’anche lo fossero, l’interpretazione che se ne dà è tutto fuorché<br />

“meccanica”). Ed è da ricordare che W. Köhler (Il posto del valore in un mondo di fatti, 1938,<br />

Giunti-Barbera, Firenze, 1969, p. 32), riflettendo sulla «euforia straordinaria» suscitata dalle<br />

scoperte «della neurologia nella sua fase iniziale di sviluppo», commenta: «C’è nell’uomo una<br />

notevole tendenza a sentirsi pago e soddisfatto ogni qualvolta un problema invece di essere<br />

risolto è semplicemente localizzato».<br />

21<br />

S. Zeki, La visione dall’interno, cit., p. 9.<br />

22<br />

Ivi, p. 153.<br />

23<br />

Ivi, p. 232, corsivo mio.<br />

24<br />

P. Valéry, Riflessioni sull’arte (1935), in Id. La caccia magica, Guida, Napoli, 1985, p. 95.<br />

25<br />

Ho cercato di rispettare la sequenza che gli argomenti hanno nel libro, tranne per<br />

l’arte fauve, cui Zeki dedica un capitolo verso la fine.<br />

322


26<br />

S. Zeki, La visione dall’interno, cit., pp. 38 e 54.<br />

27<br />

«Richard Gregory (1973) ha messo in evidenza una qualità cruciale della percezione,<br />

cioè il fatto di essere, essenzialmente, un’ipotesi» (ivi, p. 66). «Naturalmente, con questo non<br />

intendo affermare che i fattori cognitivi non abbiano alcun ruolo nell’interpretazione di ciò<br />

che si vede, il cosiddetto effetto top down. Vedere è percepire e comprendere. E il vedere<br />

implica un’ipotesi, come ha ben sottolineato Richard Gregory» (ivi, p. 102). Che è come dire:<br />

vino vecchio in botte nuova. Successivamente (ad esempio, Id., Neurologia dell’ambiguità,<br />

2004, in G. Lucignani e A. Pinotti, a cura di, Immagini della mente. Neuroscienze, arte, filosofia,<br />

Raffaello Cortina, Milano, 2007, pp. 97-98), ha espressamente criticato l’“inferenza” di<br />

Helmholtz, e il “top down” dei cognitivisti, e potrebbe sembrare che abbia cambiato idea e<br />

che io non ne tenga conto. In realtà, a leggere attentamente e a considerare le esemplificazioni<br />

usate, la posizione rimane identica a quella qui presa in considerazione.<br />

28<br />

Id., La visione dall’interno, cit., rispettivamente pp. 219, 83, 88, 90, 108, 109.<br />

29<br />

Ivi, p. 29.<br />

30<br />

Ivi, pp. 19 e 18.<br />

31<br />

Come dice l’artista Garry Kennard, direttore di “Art and Mind” (www. artandmind.<br />

org.), «Anche se i miei quadri e disegni hanno un aspetto molto semplice, sono radicati nel<br />

pensiero più attuale e rivoluzionario sulla percezione e la funzione del cervello. Affrontano<br />

inoltre le implicazioni filosofiche derivanti dalle più recenti ricerche in questi settori. Credo<br />

che questi temi siano di importanza cruciale per chi si occupa di arte visiva. Credo anche che<br />

saranno di grande importanza per l’organizzazione politica e sociale. Credo che ogni artista<br />

che ignori questa nuova conoscenza rimarrà indietro. Il vecchio mondo è in via di estinzione<br />

e le aree che un tempo si pensava fossero il dominio esclusivo di arte e religione sono ora<br />

sostituite da rivelazioni scientifiche sulla percezione umana», http://www.neuroesthetics.org/<br />

art/index.html. Si consideri come viene presentata la mostra in corso al Walters Art Museum<br />

(gennaio-aprile 2010): «Beauty and the Brain: A Neural Approach to Aesthetics. Perché alcune<br />

opere d’arte attraggono così fortemente la mente umana? Gli artisti sono realmente neuroscenziati<br />

che cercano di scoprire nuovi e potenti modi per stimolare i meccanismi percettivi<br />

nel cervello? Questa collaborazione fra il Walters Art Museum e il Krieger Zanvyl Mind-Brain<br />

Institute presso la Johns Hopkins University è uno studio pionieristico in neuroestetica, un<br />

nuovo approccio alle basi neurali dell’esperienza estetica. Beauty and the Brain è sia una<br />

mostra che un esperimento. I visitatori saranno invitati a esplorare gli spazi estetici creati<br />

digitalmente cambiando la forma di originali opere d’arte. I settori comprendono moderne<br />

sculture astratte del famoso artista del xx secolo, Jean Arp. Le risposte dei partecipanti saranno<br />

utilizzati per analizzare come le caratteristiche della forma tridimensionale determinano<br />

la preferenza estetica. I risultati costituiranno la base per esperimenti di misurazione <strong>delle</strong><br />

risposte estetiche nel cervello umano con la risonanza magnetica funzionale» (http://www.<br />

neuroesthetics.org/exhibitions.php).<br />

32<br />

Quando ho pensato l’esempio, non potevo prevedere che da lì a poco qualcuno avrebbe<br />

usato il termine “neuroscienziato” per il cuoco. J. Leher l’ha fatto nel 2007 (Proust era un<br />

neuroscienziato, Codice, Torino, 2008). Il libro non è solo su Proust, oggetto di un capitolo<br />

come Escoffier, ma «narra di alcuni artisti che anticiparono le scoperte dei neuroscienziati».<br />

In verità, però Leher non sostiene che Escoffier stesse studiando il cervello e, alla domanda<br />

«Come ha fatto Escoffier a inventare una collezione di piatti tanto efficace?», non chiama in<br />

causa il cervello, bensì l’esperienza del cuoco: «Prendendo sul serio le proprie esperienze»<br />

(ivi, pp. xi e 65). Nondimeno, nel capitolo su Cézanne (Zeki non è citato), l’artista diventa<br />

psicologo eccelso: «le sue astrazioni rivelano la nostra anatomia» mentale; e, siccome “mente”<br />

viene a significare “cervello”, anche neurologo: «È come se l’artista avesse smontato il cervello<br />

e osservato come avviene la visione». «Cézanne non poteva sfuggire alle furtive interpretazioni<br />

del suo cervello. Nei suoi quadri astratti voleva rivelare questo processo psicologico, renderci<br />

consapevoli del modo particolare in cui la mente crea la realtà». «Cézanne cercava la realtà<br />

avventurandosi dentro di sé. Sapeva che la mente crea il mondo, proprio come il pittore crea<br />

il quadro». Infine: «I moderni studi neurofisiologici sulla corteccia visiva hanno confermato<br />

le intuizioni di Cézanne e degli psicologi della Gestalt», i quali «decisero di dimostrare che il<br />

processo della visione altera il mondo che osserviamo», «sostennero» che ciò «che pensiamo<br />

essere là fuori» al contrario è dentro la mente, e «per provare le loro teorie della percezione,<br />

i gestaltici usarono le illusioni ottiche. […] Secondo i gestaltici, queste banali illusioni sono<br />

la prova che tutto ciò che vediamo è un’illusione. […] Diversamente dai wundtiani, che<br />

partivano dai frammenti sensoriali, i gestaltici partivano dalla realtà così come la sperimentiamo<br />

davvero» (ivi, rispettivamente pp. 93, 91, 99, 102). Tranne l’ultima frase, e escluso il<br />

323


“davvero”, l’interpretazione della teoria dei gestaltisti è semplicemente falsa. La cosa singolare<br />

è che per sostenerlo si citi M. G. Ash, La psicologia della Gestalt nella cultura tedesca dal 1890<br />

al 1967 (1998), Angeli, Milano, 2004. Del resto, se si ritiene che la realtà è una nostra personale<br />

creazione il “come stanno le cose” è proprio ciò che è impossibile andare a verificare.<br />

33<br />

Un passo avanti, ma non in questa direzione, lo fa Ticini: «Per riuscire a comprendere<br />

in modo esauriente la mente umana e le funzioni del cervello, oggi si cerca un approccio<br />

multidisciplinare: filosofi, fisici, ingegneri, medici e biologi – che collettivamente chiameremo<br />

neuroscienziati» (L. F. Ticini, La neuroestetica: un passo verso la comprensione della creatività<br />

umana?, in I. Licata, a cura di, Connessioni inattese. Crossing tra arte e scienza, Politi,<br />

Milano, 2009, pp. 166-167. Il ragionamento, o meglio le libere associazioni che portano al<br />

“collettivamente” sembrano essere: senza il cervello non c’è mente, il cervello è studiato dai<br />

neuroscienziati, chiunque studia la mente è un neuroscienziato. Mentre non ci si spiega perché,<br />

trattandosi di mente, si lascino fuori dal “collettivo” gli psicologi, non può non stupire<br />

questo modo di considerare il “multidisciplinare”.<br />

34<br />

S. Zeki, La visione dall’interno, cit., p. 17.<br />

35<br />

Ivi, p. 244.<br />

36<br />

Sulla questione cfr. L. Pizzo Russo, 2005, La psicologia ovvero la negazione del senso<br />

comune, “Nuova civiltà <strong>delle</strong> macchine”, xxiii (2005), pp. 19-30 [ora supra, pp. 17-30].<br />

37<br />

R. Arnheim, Pensieri sull’educazione artistica (1989), Aesthetica, Palermo, 2007 2 , pp.<br />

61-65.<br />

38<br />

S. Zeki, La visione dall’interno, cit., p. 38. Cervello artista è il titolo del capitolo sull’arte<br />

– «il più speculativo del libro» – di V. S. Ramachandran, Che cosa sappiamo della mente,<br />

cit., p. 43; Cervello pittore è il titolo dell’articolo di L. F. Ticini, cit. Entrambi i lavori sono<br />

presenti in http://www.neuroesthetics.org.<br />

39<br />

S. Zeki, La visione dall’interno, cit., pp. 27, 28, 26, 26 e 24. La prima frase è una<br />

citazione che Zeki trae da J. Revière, e che reincontreremo quando tratterò del cubismo.<br />

Verrebbe voglia di chiedere: “come sono gli oggetti nella realtà”? a che ci serve il sistema<br />

percettivo se non li vediamo come sono? e come lo sappiamo? Ma Zeki intende il “non come<br />

li vediamo” «non come ci appaiono nelle varie situazioni, in base ai soli effetti che producono<br />

sulla retina» (ivi, p. 28, corsivo mio), come se percepissimo non oggetti ma i loro effetti sulla<br />

retina, neanche fossimo oculisti che guardano dentro gli occhi dei pazienti. È con frasi di<br />

questo tipo, in linea con la tradizionale svalutazione dei sensi, e in contraddizione con “la<br />

nuova concezione della visione”, comunque, che Zeki intona il suo peana al cervello visivo.<br />

40<br />

Ivi, p. 25, corsivo mio.<br />

41<br />

Ad affermarlo è R. Huyghe (1973), riportato da S. Price (I primitivi traditi (1989),<br />

Einaudi, Torino 1992, pp. 90-91) che opportunamente lo critica come sostenitore della presunta<br />

“anonimia” e “atemporalità” dell’arte “primitiva”. Per Huyghe «il modo più facile di<br />

ricordare una data caratteristica del mondo reale è quella di tradurla in forme geometriche,<br />

che sono fondamentali e universali. L’arte africana e dell’Oceania è geometrica perché i suoi<br />

creatori imitano istintivamente i processi della natura. Non è assolutamente il risultato di una<br />

ricerca elaborata e intenzionale, come l’arte occidentale, ma il modo innato di vedere il mondo».<br />

L’“essenziale” di Zeki caratterizza ancora solo l’arte primitiva e appartiene alla natura.<br />

Gli anonimi primitivi imiterebbero i processi della natura (non i processi del cervello) e lo<br />

fanno con “forme geometriche”, neanche sapessero della lingua matematica con cui è scritto<br />

il libro della natura. Ma, anche per Huyghe, lo fanno istintivamente, non istruiti da Galilei.<br />

42<br />

H. Read, Art and Evolution of Man (1951), cit. in E. Kris, Ricerche psicoanalitiche<br />

sull’arte (1952), Einaudi, Torino, 1967, p. 87.<br />

43<br />

L. Pizzo Russo, Il disegno infantile. Storia teorie pratiche (1988), Aesthetica, Palermo,<br />

2015 2 .<br />

44<br />

S. Pinker, L’istinto del linguaggio. Come la mente crea il linguaggio (1994), Mondadori,<br />

Milano, 1997, p. 11.<br />

45<br />

A. Leroi-Gourhan, 1964, Il gesto e la parola. Tecnica e linguaggio (1964), Einaudi,<br />

Torino, 1977, p. 136.<br />

46<br />

L. Maffei e A. Fiorentini, Arte e cervello, Zanichelli, Bologna, 2008 2 , pp. 65, 61 e 64.<br />

47 S. Zeki, La visione dall’interno, cit., pp. 40, 59, 40 e 41, corsivo mio. Data l’importanza<br />

che Zeki assegna alla costanza, mi pare opportuno riportare senza omissioni la continuazione<br />

della prima citazione che segna il passaggio dalla definizione di arte alla “costanza”<br />

e alla “costanza allargata”: «Una definizione di arte quale quella da me proposta si presta<br />

a un’ampia gamma di applicazioni. Gli psicologi e i neurobiologi parlano comunemente di<br />

costanza in relazione ad attributi specifici della visione come il colore o la forma, intendendo<br />

324


con questo che il colore di un oggetto non cambia molto quando viene viene guardato in<br />

diverse condizioni di luminosità, né cambia la sua forma quando viene guardato da distanze o<br />

angolazioni differenti. Tuttavia la nozione di costanza ha, o dovrebbe avere, un ben più vasto<br />

campo applicativo. Può essere riferita a un oggetto o a relazioni tra oggetti, a volti, situazioni<br />

o anche a concetti più astratti come giustizia, onore e patriottismo. Qui ne esplorerò due<br />

aspetti, collegati tra loro. Il primo lo chiamerò costanza situazionale […]. Quanto al secondo<br />

aspetto, che chiamerò costanza implicita […]».<br />

48<br />

Ivi, pp. 41, 48, 54, 43, corsivo mio. Più incisivamente: «La definizione neurobiologica<br />

dell’ambiguità è dunque opposta alla definizione fornita dal dizionario; non è un’incertezza<br />

ma una certezza: la certezza di molte interpretazioni ugualmente plausibili, ognuna <strong>delle</strong> quali<br />

diviene egemone quando giunge a uno stato di coscienza» (Id., Neurologia dell’ambiguità, cit.,<br />

p. 85). «Le caratteristiche dell’ambiguità nell’arte non sono specifiche dell’ambito artistico.<br />

Si tratta piuttosto di una proprietà generale del cervello che viene spesso a confrontarsi con<br />

situazioni o visioni che si aprono a più di una, e talvolta molte interpretazioni» (ivi, p. 84).<br />

Perciò distingue una “ambiguità semplice” e una “ambiguità di livello superiore”. E mentre<br />

non ha senso chiedersi se l’ambiguità è nell’arte o è “proprietà del cervello”, posto che l’arte<br />

è nel cervello, apprendiamo che il cubo di Necker, ribattezzato Kanizsa, è ambiguo neurogicamente<br />

(ambiguità semplice) tanto quanto un’opera di Vermeer (ambiguità situazionale).<br />

Col che vengono equiparate la “bistabilità” del cubo (iscritta nello stimolo) per cui abbiamo<br />

due esiti percettivi, e la molteplicità <strong>delle</strong> interpretazioni dovuta a una presunta “multistabilità”<br />

dell’opera (di cui però non c’è traccia nello stimolo), e viene a perdersi la differenza<br />

tra percepire e interpretare. Nell’uno e nell’altro caso è sempre il cervello a “interpretare”.<br />

O anche «i triangoli non-finiti di Kanizsa e le sculture non-finite di Michelangelo», per il<br />

cui confronto Zeki teme di essere «accusato di sminuire l’importanza del grande scultore»,<br />

quando invece a porre problemi è un cervello che nel caso del triangolo di Kanizsa «porta<br />

il disegno a “compimento”», e «nella Pietà Rondanini di Michelangelo la capacità di fornire<br />

interpretazioni multiple viene portata a un livello ulteriore». In mezzo – tra il triangolo e<br />

la Pietà – sta il cubo di Necker, termine di confronto del “livello ulteriore”, per il quale il<br />

cervello «può interpretare le linee di intersezione come appartenenti a uno dei tre piani» (ivi,<br />

p. 110). Di livello in livello, solo interpretazione su interpretazioni, neanche il circolo ermeneutico<br />

fosse stato pensato per il cervello. È questa sorta di “naturalizzazione”, “inconsapevole”,<br />

dell’ermeneutica a fare problema. Si cfr. anche S. Zeki, The Neural Sources of Salvador<br />

Dali’s Ambiguity, 2005, www.vislab.ucl.ac.uk: sostenendo che ne Il mercato degli schiavi Dalì<br />

ha sfruttato lo stesso meccanismo presente nella figura di Rubin “vaso/profili”, Zeki non<br />

sviluppa la catena <strong>delle</strong> interpretazioni, ma si limita alle interpretazioni – più propriamente<br />

percezioni – rese possibili dalla bistabilità: vaso o profili, Voltaire o donne.<br />

49<br />

Id., Neurologia dell’ambiguità, cit., p. 85, corsivo mio.<br />

50<br />

Id., The Neural Sources of Salvador Dali’s, cit.<br />

51<br />

Id., La visione dall’interno, cit., pp. 43 e 46.<br />

52<br />

R. Arnheim, Percetti oggettivi valori oggettivi (1986), in Id., Intuizione e intelletto.<br />

Nuovi saggi di psicologia dell’arte, Feltrinelli, Milano, 1987, pp. 343 e 353-354, corsivo mio. La<br />

differenza col significato di “ambiguità” di Zeki, non è nell’essere “neurologica” di quest’ultima,<br />

bensì nella valutazione positiva di Zeki <strong>delle</strong> conseguenze dell’ambiguità: l’ambiguità<br />

dell’opera rende corrette tutte le interpretazioni. Per Arnheim, l’opera non è ambigua, e<br />

le interpretazioni possono essere corrette, quando rispettano il livello di realtà dell’opera,<br />

o scorrette; qualora l’opera presenti “un’autentica ambiguità”, come ad esempio in Dalì, il<br />

principio generale non viene meno e le interpretazioni non possono essere di fantasia. Per le<br />

“domande senza risposte” cfr. Id., L’immagine e le parole, Mimesis, Milano, 2009 2 , pp. 95-101.<br />

53<br />

S. Zeki, Neurologia dell’ambiguità, cit., 86.<br />

54<br />

Id., Neurologia del non finito, Il Sole-24 Ore, 26 settembre 2004.<br />

55<br />

L. F. Ticini, Desiderio e Immaginazione, “Stile arte”, 2004, http://www.neuroestetica.<br />

it/images/desiderio.jpg.<br />

56<br />

D. Freedberg, Il potere <strong>delle</strong> immagini (1989), Einaudi, Torino, 1993, p. 608. Quando<br />

l’ha sostenuto la neuroestetica non era ancora nata. Oggi, che la giudica molto positivamente<br />

(cfr. Id., Empatia, movimento ed emozione, 2004, in G. Lucignani e A. Pinotti, a cura di, Immagini<br />

della mente, cit.), continuerebbe a considerare la Vergine “sfigurata” o concorderebbe<br />

che così può meglio “soddisfare il cervello”?<br />

57<br />

S. Zeki, La visione dall’interno, cit., pp. 55-56, corsivo mio. Zeki, però, è convinto di<br />

“trovare” bell’e pronto il concetto di “forma preesistente”, un ready-made: Plotino «aveva<br />

dopo tutto formulato una profonda verità neurologica riguardo alle forme […]. Del resto<br />

325


incontreremo questo stesso concetto di forma preesistente anche negli scritti dei teorici del<br />

cubismo», ibidem.<br />

58<br />

R. Arnheim, Arte e percezione visiva (1974 2 ), Feltrinelli, Milano, 2002 17 , p. 125.<br />

59<br />

S. Zeki, La visione dall’interno, cit., pp. 57 e 66. «Senza arrivare a una formulazione<br />

esplicita e certo senza esserne consapevole, con la sua dottrina <strong>delle</strong> idee Platone confrontava<br />

“l’illusione” della pittura con la realtà della percezione, cioè con una funzione del cervello.<br />

[…] Platone quindi pensava in un certo senso che la pittura dovesse ampliare il proprio<br />

orizzonte e, per quanto possibile, il proprio potenziale conoscitivo, in modo da metterci in<br />

condizione, osservando un unico quadro, di acquisire la conoscenza di tutti gli esemplari<br />

della categoria rappresentata. Quella che in Platone è solo un’intuizione, diviene in Schopenhauer<br />

una dottrina esplicita. […]. Dunque, secondo Platone e altri filosofi con la stessa<br />

impostazione, la pittura dovrebbe sforzarsi di diventare quello che in termini neurologici si<br />

può descrivere come una ricerca di costanti, un mezzo per trascendere tutte “le forme singole<br />

e le particolarità di ogni tipo” e conseguire ciò che il cervello compie in modo immediato»,<br />

ivi, p. 59.<br />

60<br />

Ivi, p. 63.<br />

61<br />

La classifica è di I. Carter (Pillow talk with a bunch of artists, http://www.guardian.<br />

co.uk/artanddesign/2009/jan/04/famous-beds-art) che ha messo al primo posto la Venere di<br />

Urbino di Tiziano e ha considerato My Bed di Tracey Emin, esposto alla Tate Britain come<br />

opera selezionata per il “Turner Prize”, il letto più famoso dell’arte contemporanea.<br />

62<br />

«Il concetto – la registrazione immagazzinata nel cervello – reso reale in un quadro e<br />

quindi trasformato in idea», ivi, 64.<br />

63<br />

Ivi, pp. 60 e 64, corsivo mio. Il passo riportato è di L. Brion-Guerry, e Zeki lo sottoscrive<br />

in toto.<br />

64<br />

R. Arnheim, Arte e percezione visiva, cit., pp. 127 e 122.<br />

65<br />

S. Zeki, La visione dall’interno, cit., pp. 45-46.<br />

66<br />

Ivi, p. 209. Zeki lo afferma solo relativamente all’arte fauve. Ma vedremo che la “sfida”,<br />

non al cervello come Zeki ritiene, bensì alla legge della costanza, riguarda anche surrealismo<br />

e cubismo. Il “fallimento”, ovviamente, ne conseguirebbe se la costanza avesse il valore di<br />

legge artistica.<br />

67<br />

Ivi, pp. 59 e 60.<br />

68<br />

Ivi, p. 66.<br />

69<br />

Ivi, pp. 68-70.<br />

70<br />

Ivi, p. 209.<br />

71<br />

E. Husserl, Ricerche Logiche, vol. ii (1901), Il Saggiatore, Milano, 1968, p. 25. Il passo<br />

è una citazione di Stumpf.<br />

72<br />

S. Zeki, La visione dall’interno, cit., pp. 223, 225 e 226, corsivo mio.<br />

73<br />

Ivi, p. 224.<br />

74<br />

L. F. Ticini, Cervello pittore, cit.<br />

75<br />

Ibidem. Lo stesso concetto è già, ovviamente, espresso da Zeki (La visione dall’interno,<br />

cit., p. 209): «Il loro fallimento ebbe una conseguenza interessante, che ha suggerito esperimenti<br />

fisiologici che, a loro volta, hanno fornito indicazioni significative sul modo in cui il<br />

cervello gestisce i colori».<br />

76<br />

Leonardo Da Vinci, Trattato della pittura, Libri d’Arte, Roma s.d., § 254.<br />

77<br />

S. Zeki, La visione dall’interno, cit., p. 68.<br />

78<br />

R. Arnheim, Arte e percezione visiva, cit., 148.<br />

79<br />

«In effetti – continua Zeki (La visione dall’interno, cit., pp. 225-226) – questo è ciò<br />

che lo stesso Mondrian aveva in mente, poiché cercò di portare il processo di astrazione al<br />

limite, limite definito come la rappresentazione non di una qualche forma particolare, ma<br />

degli elementi costanti <strong>delle</strong> forme e dei colori. I colori dei rettangoli così prodotti appartengono<br />

a forme astratte». Il rettangolo non è una forma naturale, ma è una forma facilmente<br />

percepibile (anche i bambini piccoli la discriminano), e riconoscibile come rettangolo, a meno<br />

che il cervello non abbia fatto neanche la scuola elementare.<br />

80<br />

Ivi, pp. 230-231. A pagina 213 si può ammirare un simil-Mondrian.<br />

81<br />

Addizionando l’“inferenza inconscia” di Helmholtz e la “memoria cromatica” di Hering<br />

e equiparando la somma al meccanismo automatico di Land, conclude che sebbene «possano<br />

venire considerati opposti tra loro», somma e meccanismo «in realtà entrambi sono validi»: «Il<br />

tipo di elaborazione elementare alla quale si riferisce Land, è implicito nel sistema cognitivo di<br />

Helmholtz-Hering, che va semplicemente oltre tale elaborazione», ivi, pp. 226 e 230.<br />

82<br />

Ibidem.<br />

326


83<br />

Ivi, p. 71.<br />

84<br />

J. Rivière, Tendenze attuali della pittura (1912), in E. F. Fry [1966], Cubismo, Mazzotta,<br />

Milano, 1967, pp. 100-113, corsivo mio.<br />

85<br />

Il giudizio è di E. F. Fry, Cubismo, cit., p. 114.<br />

86<br />

S. Zeki, La visione dall’interno, cit., pp. 71, 72, 78, 72, 77, 78.<br />

87<br />

R. Arnheim, Arte e percezione visiva, cit., p. 146.<br />

88<br />

A. Gleizes e J. Metzinger, Cubismo (1912), in E. F. Fry, Cubismo, cit., pp. 148-149.<br />

89<br />

S. Zeki, La visione dall’interno, cit., p. 78.<br />

90<br />

Ivi, p. 74.<br />

91<br />

Ivi, pp. 117, 77 e 77.<br />

92<br />

P. Picasso, Dichiarazione a Marius de Zayas (1923), in E. F. Fry, Cubismo, cit., pp.<br />

235, 235 e 233.<br />

93<br />

R. Arnheim, Arte e percezione visiva, cit., p. 121.<br />

94<br />

S. Zeki, La visione dall’interno, cit., pp. 121 e 122.<br />

95<br />

D. H. Hubel, Occhio, cervello e visione (1988), Zanichelli, Bologna, 1989, p. 21.<br />

96<br />

S. Zeki, La visione dall’interno, cit., pp. 125, 122, 146, corsivo mio.<br />

97<br />

Ivi, pp. 127 e 126.<br />

98<br />

L. Maffei e A. Fiorentini, Arte e cervello, cit., pp. 62-64: Per i due neuroscienziati<br />

«è per questo che quando l’uomo tracciò il contorno del bisonte sulla parete della caverna,<br />

gli astanti riconobbero in quei segni un linguaggio familiare, e l’insieme dei segni richiamò<br />

l’immagine dell’animale al quale il loro compagno voleva riferirsi. I segni tracciati dal primo<br />

disegnatore esprimevano il vocabolario del cervello e per gli altri fu facile leggere», ibidem.<br />

Dopo la versione scimmiesca del mito dell’origine dell’arte (cfr. L. Pizzo Russo, Al di qua<br />

dell’immagine, “Fieri. Annali del Dipartimento di Filosofia, Storia e Critica dei Saperi”, 4<br />

(dicembre 2006), p. 318 [ora supra, pp. 59-86]) adesso abbiamo anche quella neuroestetica.<br />

99<br />

S. Zeki, La visione dall’interno, cit., pp. 134, 136, 139-140, 138, corsivo mio.<br />

100<br />

L. Pizzo Russo, Percezione e immagine, “Rivista di estetica”, 33 (3/2006), pp. 211-236<br />

[ora supra, pp. 87-116].<br />

101<br />

S. Zeki, La visione dall’interno, cit., pp. 134, 143, 145, 146, 145.<br />

102<br />

Ma già per Leonardo (cit., § 41) «il principio della scienza della pittura è il punto, il<br />

secondo è la linea, il terzo è la superficie, il quarto è il corpo che si veste di tal superficie; e<br />

questo è quanto a quello che si finge, cioè esso corpo che si finge, perché invero la pittura<br />

non si estende piú oltre che la superficie, per la quale si finge il corpo figura di qualunque<br />

cosa evidente».<br />

103<br />

D. H. Hubel, Occhio, cervello e visione, cit., p. 38.<br />

104<br />

Zeki, La visione dall’interno, cit., pp. 143, 141 e 130. Relativamente alla geometria,<br />

Zeki, confortato da Mondrian per il quale «è necessario ridurre le forme naturali ai loro<br />

elementi costanti», ci rassicura che «questa attenzione particolare alle linee in molte <strong>delle</strong><br />

opere d’arte più moderne e astratte non deriva, quasi certamente, da conoscenze geometriche<br />

profonde, ma semplicemente dagli esperimenti degli artisti per ridurre l’insieme <strong>delle</strong> forme<br />

all’essenziale, o, posto in termini neurologici, per cercare e trovare che cosa può essere l’essenza<br />

di una forma così come è rappresentata nel cervello», ivi, p. 134.<br />

105<br />

Ivi, p. 146. Lo potevo fare anch’io è il titolo di un libro di F. Bonami (Mondadori,<br />

Milano, 2007) che, come recita il sottotitolo, mira a spiegare Perché l’arte contemporanea è<br />

davvero arte.<br />

106<br />

S. Zeki, La visione dall’interno, cit., pp. 135-136, corsivo mio. La citazione dentro la<br />

citazione – “quell’idea preesistente che è in noi” – è di Gleizes e Metzinger, gli stessi che<br />

sottolineano la relazioni tra linee, ovvero i modi del loro rapportarsi, a cui Zeki è indifferente.<br />

“Sentimenti soggettivi” si chiamavano allora le qualità espressive. Il “sebbene” di Zeki, che<br />

pure parla (ma non tematizza) di «forza espressiva» di un quadro (ivi, p. 25) o di «espressioni<br />

del volto» (ivi, p. 62, e soprattutto pp. 194-208) è indicativo del fatto che, come per le “relazioni”,<br />

la neuroestetica non tiene in nessun conto l’importanza data loro dagli artisti e dall’estetica.<br />

107<br />

W. Köhler, La psicologia della Gestalt (1947 2 ), Feltrinelli, Milano, 1961, p. 24.<br />

108<br />

S. Zeki, La visione dall’interno, cit., p. 149 (solo la prima citazione) e p. 153.<br />

109<br />

Ivi, pp. 157, 159, 162, 165 e 165, corsivo mio.<br />

110<br />

Ivi, pp. 166, 169 e 175.<br />

111<br />

Ivi, pp. 166, 168, 175 e 180. «Quest’analisi ci lascia ancora con il problema di come<br />

il cervello colleghi tutti questi movimenti e trasformi il mobile in una unità complessiva, differenziandolo<br />

dallo sfondo, una questione cui la neurologia non ha ancora dato una risposta<br />

adeguata», ivi, p. 182.<br />

327


112<br />

Ivi, pp. 183, 185.<br />

113<br />

Ivi, pp. 185 e 187. Con la precisione che La città che sale di Boccioni – un «esempio<br />

profetico» – «fornisce forse il primo gradino nell’apoteosi finale del moto nell’arte cinetica»,<br />

ivi, p. 175. Invece Duchamp, «il movimento fu centrale nel [suo] pensiero […], lungi dall’essere<br />

capace di sezionare le sensazioni, almeno le sensazioni cinetiche, di fatto sperimentava<br />

<strong>delle</strong> forti difficoltà di realizzazione», ivi, pp. 169-170. Con Homage to New York «il ciclo era<br />

completo, e La città che sale di Boccioni veniva messa in disparte in un’esuberante ostentazione<br />

di movimento». Insomma si era raggiunta la perfezione per il gusto di V 5<br />

; mentre nel<br />

mondo dell’arte, alla perfezione, più realisticamente, ci si avvicina, ma non la si raggiunge:<br />

l’oggetto, «trasformato in emblema dell’arte» del Novecento è «quello che più si avvicina alla<br />

perfezione: difatti è riuscito a non esistere» (H. Rosenberg, La s-definizione dell’arte, 1972,<br />

Feltrinelli, Milano, 1975, p. 149.<br />

114<br />

S. Zeki, La visione dall’interno, cit., pp. 185-187.<br />

115<br />

Ivi, pp. 188-189.<br />

116<br />

Recentemente Zeki (In praise of subjective truths, “American Journal of Physiology”, n.<br />

587/12, 2009, p. 2826, corsivo mio), attribuendo una certa oggettività a Enigma, parrebbe avere<br />

cambiato idea: «Enigma è solo uno dei tanti esempi in cui la soggettiva realtà percepita diventa<br />

oggettiva, nel senso che essa non può essere annullata, anche alla luce di una superiore conoscenza<br />

cognitiva che la realtà percepita è illusoria, un termine un po’ perverso progettato per<br />

sottolineare la separazione tra realtà oggettiva e soggettiva, senza riconoscere il fatto che l’unica<br />

realtà percettiva che il cervello ha è la realtà soggettiva del cervello». In realtà la percezione di<br />

cui tesse le lodi rimane – in quanto è dovuta al cervello – soggettiva, la verità della percezione<br />

viene argomentata con esempi tradizionalmente ritenuti soggettivi come, ad esempio, il colore,<br />

e poi ci sarebbe una realtà non percettiva che è oggettiva. Cfr. anche Id., Neurologia dell’ambiguità,<br />

cit., pp, 94 e 96, dove spiegando la costanza del colore sostiene che l’operazione del<br />

confronto che la origina «è svolta dal cervello», ma continua che «il risultato appartiene solo al<br />

cervello e non al mondo esterno». Evidentemente per “mondo esterno” intende il mondo della<br />

fisica, dato che anche chi nulla sa dell’operazione del cervello fa esperienza del “risultato” nel<br />

mondo esterno comunemente inteso. Se no, cosa saprebbe della “costanza” anche chi tutto sa<br />

del cervello? «Se osservi un cervello non osservi il suo mondo» (P. Bozzi, Dal noumeno cervello<br />

ai fenomeni o dai fenomeni al noumeno, 1991, in Id., Un mondo sotto osservazione. Scritti sul<br />

realismo, Mimesis, Milano, 2007). E che se ne farebbe il cervello – certamente il sistema più<br />

complesso dell’universo e il più importante tra quelli di cui siamo dotati (vedi nota 126) – della<br />

costanza? Per Zeki il fenomenico non è oggettivamente reale. Così il famoso triangolo di Kanizsa,<br />

che percepiscono persino le galline come ha dimostrato Vallortigara (Cervello di gallina.<br />

Visite (guidate) tra etologia e neuroscienze, Bollati Boringhieri, Torino, 2005) è inesistente, o, nei<br />

suoi termini: una «<strong>delle</strong> figure illusorie» perché è una «struttura oggettivamente “incompiuta».<br />

Come mai noi, le galline e specie intermedie la percepiamo “completa”? La risposta ormai<br />

la sappiamo: «Perché il cervello tenta di completarla nel modo più plausibile e interpreta la<br />

struttura della luminanze della figura di Kanizsa come un triangolo. Vi sono sicuramente altre<br />

interpretazioni che il cervello sarebbe in grado di formulare, ma esse risultano assai meno plausibili»<br />

(S. Zeki, Neurologia dell’ambiguità, cit., p. 96, corsivo mio). E, mentre mi stupisco per<br />

il “tenta” e meno che mai capisco come sappia il neurofisiologo di “altre interpretazioni del<br />

cervello”, mi rallegro che la tesi da me sostenuta (L. Pizzo Russo, Percezione e immagine, cit.,<br />

pp. 221-223) è corretta e a prova di correlato corticale: la visione dell’immagine, ci dice Zeki,<br />

attiva non solo le cellule selettive all’orientamento <strong>delle</strong> aree V 2<br />

e V 3<br />

(che darebbero ragione ai<br />

tanti che come lui sostengono che la figura è «costituita di sole linee»), ma anche l’area loc,<br />

«area del cervello umano dedicata al riconoscimento degli oggetti».<br />

117<br />

S. Zeki, La visione dall’interno, cit., p. 183.<br />

118<br />

Ivi, pp. 231-235, corsivo mio.<br />

119<br />

Ivi, pp. 233-235.<br />

120<br />

Ivi, pp. 235 e 233.<br />

121<br />

Ivi, pp. 103, 193, 208 e 110. La man che ubbidisce all’intelletto di Michelangelo è l’unica<br />

occorrenza della parola “mano” in tutto il testo. E perde immediatamente la sua operosità,<br />

intendendo con intelletto il cervello, il quale ovviamente non ha mani. «L’apparato motorio», il<br />

riferimento è a quello del bambino, compare solo quando Zeki accenna al «desiderio degli artisti<br />

di potere vedere e dipingere il mondo con gli occhi innocenti di un bambino piccolo […]. A<br />

livello cerebrale, l’innocenza a cui aspirano gli artisti è un mito» (ivi pp. 114-115). L’assenza del<br />

corpo, del resto, è in linea con la «strana situazione» stigmatizzata da Damasio (Alla ricerca di<br />

Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello, Adelphi, Milano, 2003, pp. 227-228): «La scoperta di<br />

328


un nesso causale diretto dal cervello alla mente e di una dipendenza della seconda dal primo,<br />

è naturalmente un fatto positivo, ma […] non ha eliminato la scissione dualistica fra mente e<br />

corpo. Semplicemente si è limitata a spostarla. Nelle concezioni moderne più attuali e diffuse,<br />

mente e cervello si ritrovano insieme da un lato, mentre il corpo (ossia l’intero organismo senza<br />

il cervello) finisce dall’altro. Adesso la scissione separa il cervello e il corpo propriamente detto<br />

[…]. Purtroppo questa inquadratura dualistica fa ancora da schermo impedendoci di vedere<br />

ciò che è chiaramente davanti ai nostri occhi – il corpo nella sua completezza, e la sua rilevanza<br />

nella formazione della mente». Mi pare, però, utile ricordare la distinzione di Köhler (Il posto<br />

del valore in un mondo di fatti, cit., pp. 55-56) tra corpo e organismo: «Fenomenicamente l’“Io”<br />

corporeo non è un’entità fisica posta al di fuori della nostra immediata esperienza come lo è<br />

l’organismo fisico: esso è piuttosto un evento dotato di mutevoli proprietà del quale abbiamo<br />

direttamente esperienza, di sforzi e di attività. […] È molto importante che le affermazioni di<br />

carattere fenomenologico non vengano mai confuse con le ipotesi e anche con la conoscenza<br />

della genesi funzionale dei dati fenomenici». Ed è da segnalare che C. Casco (La Gestalt nelle<br />

neuroscienze della visione, “Teorie& Modelli”, ix/ii-iii, 2004, p. 142), analizzando il concetto<br />

di isomorfismo dei gestaltisti, soprattutto di Köhler, conclude che «se la Gestalt fosse nata 50<br />

anni più tardi, forse alcuni gestaltisti sarebbero stati anche neuroscienziati».<br />

122<br />

Ivi, p. 236.<br />

123<br />

Ivi, pp. 236, 241, 237, 242.<br />

124<br />

R. Arnheim, Il pensiero visivo (1969), Einaudi, Torino, 1974, p. 57.<br />

125<br />

S. Zeki, La visione dall’interno, cit., pp. 241-242 e 244. Abbiamo visto che la neuroestetica<br />

nulla di scientifico ha da dire sull’arte. Eppure Zeki, (http://profzeki.blogspot.com/2009/11/<br />

beauty-without-brain.html) dopo avere assistito a un programma televisivo «molto interessante»,<br />

una panoramica dall’arte rupestre all’arte contemporanea, intitolato “What is Beauty”, lamenta<br />

nel suo blog che il cervello non è stato neanche nominato: «“Che cos’è la bellezza?” Mi chiedo:<br />

oggi, si può davvero rispondere o anche solo avvicinarsi a tale questione senza neppure<br />

il più vago riferimento al cervello?». «Bellezza senza cervello»: una stranezza, quando già si<br />

riconosce al cervello pure il gusto. Come si legge nell’articolo di Paola Suraci sul seminario<br />

di neuroestetica tenuto da Zeki all’Accademia di Belle <strong>Arti</strong> di Messina nel luglio del 2004<br />

(http://www.neuroesthetics.org/pdf/gazzetta_del_sud.png) «lo studio <strong>delle</strong> basi neurobiologiche<br />

dell’ambiguità può fornirci, pertanto, conoscenze sui processi fisiologici che il cervello attiva<br />

quando completa ciò che è stato solo accennato su una tela o quando termina, secondo il<br />

proprio gusto estetico, una scultura lasciata incompleta, spesso volutamente, dall’artista». Il<br />

non finito, da “trucco neurologico” può trasformarsi in “trucco studentesco” per non portare<br />

a termine il proprio lavoro.<br />

126<br />

J. Piaget, Le scienze dell’uomo (1970), Laterza, Roma-Bari, 1973, p. 89.<br />

127<br />

L. Maffei (Il mondo del cervello, Laterza, Roma-Bari, 1998, p. 10), ricordando che i<br />

neuroni nel cervello sono circa 100 miliardi, e che ogni neurone ha da 1.000 a 10.000 connessioni<br />

con altri neuroni – a contarle, un secondo per ognuna, occorrerebbero 32 milioni<br />

di anni – rileva che «teoricamente, i gradi di libertà del cervello sono quasi infiniti; anche se<br />

si assume che il neurone sia un semplice elemento binario – in altre parole un operatore che<br />

può avere solo due valori, zero o uno, nel nostro caso con (1) o senza (0) impulsi nervosi – si<br />

giunge alle seguenti valutazioni. Il numero dei neuroni del cervello umano, come abbiamo<br />

detto, è dell’ordine di 10 all’undicesima; i possibili stati dei neuroni sono quindi dell’ordine<br />

di 2 elevato alla potenza di 10 all’undicesima, un numero colossale che sembra essere più<br />

grande del numero <strong>delle</strong> particelle dell’universo. Se poi si considera più verosimilmente il<br />

numero <strong>delle</strong> sinapsi attive o inattive si giunge a numeri dell’ordine di 2 elevato alla potenza<br />

di 10 alla quattordicesima o alla quindicesima». A fronte di questa complessità, Maffei fa la<br />

seguente riflessione: «Credo che, se anche conoscessi tutti questi possibili stati sinaptici, non<br />

saprei probabilmente se siete felici o infelici, né conoscerei il tono e l’armonia <strong>delle</strong> vostre<br />

parole. Tutte le considerazioni che si possono fare sul cervello come strumento a sé non sono<br />

destinate ad andare molto lontano, perché il cervello interagisce con il corpo, con il mondo<br />

esterno e, naturalmente, con se stesso».<br />

128<br />

R. Arnheim, Linguaggio astratto e metafora (1948) in Id., Verso una psicologia dell’arte.<br />

Espressione visiva, simboli e interpretazione (1966), Einaudi, Torino, 1969, p. 323.<br />

129<br />

S. Zeki, La visione dall’interno, cit., p. 26.<br />

130<br />

R. Arnheim, Il pensiero visivo, cit., pp. 47, 51, 53 e 51-52.<br />

131<br />

S. Zeki, La visione dall’interno, cit., pp. 66, 69, 55 e 54.<br />

132<br />

Ivi, p. 63.<br />

133<br />

G. W. F. Hegel, Estetica (1836-38), Milano, Feltrinelli, 1963, p. 216.<br />

329


134<br />

R. Arnheim, Astrazione percettiva ed arte (1947), in Id., Verso una psicologia dell’arte,<br />

cit., p. 48.<br />

135<br />

Id., La prospettiva invertita e l’assioma del realismo, in Intuizione e intelletto. Nuovi<br />

saggi di psicologia dell’arte (1972), Feltrinelli, Milano, 1987, pp. 191-192.<br />

136<br />

Come nella tradizione di ricerca gestaltista, dove, per dirlo con F. Brentano (La psicologia<br />

dal punto di vista empirico, 1874, Laterza, Roma-Bari, 1997, p. 76), «non c’è una psiche,<br />

per lo meno non per noi; eppure una psicologia non solo può, ma deve esserci».<br />

137<br />

W. Tatarkiewicz, Storia di sei Idee (1976), Aesthetica, Palermo, 2004 5 , p. 290.<br />

138<br />

Persino a proposito di Monet e la serie Rouen, e di Cézanne e la serie Sainte-Victoire,<br />

ciò che conta sarebbero gli elementi costanti: «Il fatto che entrambi abbiano deciso di rappresentare<br />

la stessa scena in situazioni diverse, riflette, credo, la comprensione istintiva da<br />

parte loro di dovere cercare gli elementi costanti, astrarre le proprietà e le qualità essenziali<br />

<strong>delle</strong> scene e degli oggetti in condizioni sempre mutevoli, e così imitare inconsapevolmente<br />

la funzione del cervello visivo», ivi, p. 237.<br />

139<br />

W. Köhler, An old pseudoproblem, in M. Henle, The Selected Papers of Wolfgang<br />

Köhler (1929), Liveright, New York, 1971.<br />

140<br />

Zeki (Intervista al neurobiologo Semir Zeki, “Avvenire”, 2 dicembre 2003, corsivo mio),<br />

alla domanda di A. Lavazza: «Molti aspetti dell’arte però sfuggono all’analisi neurologica..»,<br />

risponde: «Sfuggono oggi, ma io spero non per molto tempo. La neuroestetica è ancora nella<br />

sua infanzia. Molti aspetti che sembrano sfuggenti, grazie anche a nuove tecniche, potranno<br />

essere compresi in termini di psicologia del cervello».<br />

141<br />

Id., “La Repubblica”, 5 settembre 2009.<br />

142<br />

«L’occhio e la mano sono il padre e la madre dell’attività artistica». Ad affermarlo<br />

è Arnheim (Arte e percezione visiva, cit., p. 150) che sa bene che occhio e mano senza il<br />

cervello non sono né occhio né mano, come pure che la mano sembrerebbe aver perso la<br />

sua centralità con le nuove tecnologie. Mi piace anche ricordare l’incisiva affermazione del<br />

paleontologo André Leroi-Gourhan (Il gesto e la parola, 1964, Torino, Einaudi, 1977, p. 246)<br />

che vale in generale e non solo per la pittura: «La mano ha il suo linguaggio la cui espressione<br />

è in rapporto con la visione, la faccia ha il suo che è legato all’audizione».<br />

143<br />

S. Zeki, La visione dall’interno, cit., p. 18.<br />

144<br />

Sulle qualità espressive cfr. l’importante volume di A. Argenton, Arte e espressione.<br />

Studi e ricerche di psicologia dell’arte, Il Poligrafo, Padova, 2008; e, sui fraintendimenti cui<br />

hanno dato luogo, L. Pizzo Russo, So quel che senti. Neuroni specchio, arte ed empatia, ETS,<br />

Pisa, 2009.<br />

145<br />

La Tavola rotonda alla quale ho partecipato, si inseriva nella settimana di manifestazioni<br />

sull’arte dal significativo titolo “Fuori Quadro: dalla rappresentazione alla realtà”: un’arte<br />

«non più soltanto come quadro o scultura da guardare».<br />

146<br />

“Le vacanze intelligenti”, dopo l’omonimo episodio di Alberto Sordi, sono diventate<br />

un vero e proprio business in continua espansione.<br />

147<br />

S. Zeki, La visione dall’interno, cit., p. 26.<br />

148<br />

D. Hume, La regola del gusto (1757), Laterza, Bari, 1967, p. 31. Hume usa “mind”<br />

e non “brain”. Dopo averlo scritto, ho scoperto che la neuroestetica ha già provveduto: «la<br />

bellezza è nel cervello di chi guarda», L. F. Ticini, D – “La Repubblica”, 8 novembre, 2008<br />

(http://www.neuroestetica.it/articles.html).<br />

149<br />

S. Zeki, La visione dall’interno, cit., p. 242.<br />

150<br />

Id., Neurologia del non finito, cit. Trattandosi di un giornale, preciso che quanto citato<br />

non compare nel titolo o nell’occhiello ma è il neurobiologo a sostenerlo: «Con lo sviluppo <strong>delle</strong><br />

tecniche di imaging […] le ricerche degli ultimi anni, in particolare sulla parte visiva che costituisce<br />

forse un terzo dell’intero cervello, ci hanno portato a considerarlo un organo creativo».<br />

151<br />

I versi leopardiani sono: «Dipinte in queste rive / Son dell’umana gente / Le magnifiche<br />

sorti e progressive», G. Leopardi, La Ginestra o il fiore del deserto, vv. 49-51, in Id., Tutte<br />

le opere di Giacomo Leopardi, Poesie e prose, i, Mondadori, Milano, 1958, p. 120.<br />

152<br />

Anche il rammarico è del pittore Conti: «Ah, perché non possiamo dipingere direttamente<br />

cogli occhi? Nel lungo percorso dagli occhi, attraverso il braccio e fino al pennello,<br />

quanto mai va perduto!», G. E. Lessing, Emilia Galotti (1772), in Id., Teatro, UTET, Torino,<br />

p. 110. Sembra fare eco a Conti L. F. Ticini (Desiderio e Immaginazione, cit.): l’idea «è sempre<br />

superiore alla capacità espressiva <strong>delle</strong> mani, <strong>delle</strong> parole o della pellicola».<br />

153<br />

Pittura lingua morta? È la domanda posta recentemente ad artisti, critici e curatori da<br />

«Flash Art», 2009, p. 273, http://www.flashartonline.it. Cfr. anche J. Jiménez, Teoria dell’arte<br />

(2002), Aesthetica, Palermo, 2007.<br />

330


Educazione estetica nel ventunesimo secolo? *<br />

Come intendere l’educazione estetica? A parte i percorsi formativi<br />

specialistici, ad esempio il Conservatorio, la si è intesa come “educazione<br />

con l’arte o attraverso l’arte” ed “educazione all’arte”. Quando<br />

sul finire dell’Ottocento Franz Cižek, un pittore viennese, apre la prima<br />

scuola d’arte per bambini l’intento dichiarato è stato quello di “educare<br />

all’arte”; di contro la proposta di Herbert Read è l’esempio più noto di<br />

“educazione con l’arte o attraverso l’arte”. Oggi che l’arte ha perduto<br />

la sua esemplarità, per dirla con Emilio Garroni, possiamo continuare a<br />

considerarla in questi modi? C’è chi ritiene che no, e propone un’educazione<br />

estetica non “esemplare”. Ma c’è ancora un altro modo in cui<br />

potremmo intenderla. Avrete seguito il dibattito sul “Nuovo realismo”,<br />

che dall’agosto scorso continua a occupare le pagine dei quotidiani.<br />

Io non l’ho seguito via via; mi ci sono imbattuta per caso un mese fa.<br />

Dato il mio interesse a distinguere percezione e interpretazione mi sono<br />

messa a leggere, e dopo avere letti tutti gli interventi (in verità mi sono<br />

fermata a n. 144, e poi ho spigolato qui e là), ho dovuto costatare che,<br />

se chi tace acconsente, l’estetica è filosofia della percezione. Il «fatto –<br />

come si legge nel Manifesto di Maurizio Ferraris – che si sia tornati a<br />

considerare l’estetica non come una filosofia dell’illusione, bensì come<br />

una filosofia della percezione, ha rivelato una nuova disponibilità nei<br />

confronti del mondo esterno, di un reale che esorbita dagli schemi<br />

concettuali, e che ne è indipendente – proprio come non ci è possibile,<br />

con la sola forza della riflessione, correggere le illusioni ottiche, o<br />

cambiare i colori degli oggetti che ci circondano» 1 .<br />

Mi sono chiesta: se ciò fosse davvero condiviso, “educazione estetica”<br />

verrebbe a significare educazione alla percezione e non all’“illusione”.<br />

E non sarebbe una novità: già negli anni settanta del Novecento,<br />

si proponeva di risolvere le due concezioni in cui era stata<br />

articolata l’educazione estetica di Schiller in educazione visiva, intesa<br />

come educazione alla percezione. Per di più, sono convinta dell’importanza<br />

di educare a percepire. Ciononostante, sosterrò che è oppor-<br />

* Relazione introduttiva al Convegno “Educazione estetica” promosso dalla Società<br />

Italiana d’Estetica (Pistoia, 26-27 aprile 2012) e pubblicata nel sito web della Società<br />

(http://www.siestetica.it/ > testi).<br />

331


tuno mantenere il riferimento alle arti per due ordini di motivi: uno<br />

interno alla percezione, l’altro relativo all’educazione e alle urgenze che<br />

il patrimonio culturale pone soprattutto in Italia. Ma intanto, fatti e<br />

interpretazioni, il cuore del dibattito che tutti ha appassionato, come<br />

intenderli? Quali sono i fatti e quali le interpretazioni? Gli oggetti<br />

artistici sono fatti o interpretazioni? A prima vista parrebbe che gli<br />

oggetti incontrati dal percettore siano i fatti: bicchieri, tavoli, sedie,<br />

voi, io, tutto quello che è qui presente, ovviamente anche la ciabatta<br />

di Ferraris e le opere artistiche della cui educazione oggi ci occupiamo,<br />

siano fatti non interpretazioni.<br />

Fatti, però, sono pure quelli della scienza. E, come precisano gli<br />

epistemologi post-positivisti, «un fatto non esiste mai allo stato puro,<br />

bensì […] è sempre solidale di un’interpretazione» 2 . È “fatto”, appunto,<br />

non un oggetto già strutturato di suo che lo scienziato incontra.<br />

Salvo poi a presentare il fatto come scoperta: la scoperta dei neuroni<br />

specchio, per esemplificare dall’ambito culturale considerato il più rigoroso.<br />

I neuroni scoperti dai neuroscienziati di Parma che scaricano<br />

sia quando un macaco mette in bocca una nocciolina sia quando a<br />

metterla in bocca è lo sperimentatore non è ancora un fatto. Lo diventa<br />

quando gli sperimentatori decidono di intenderli come neuroni<br />

specchio e di caratterizzarli come simulazione mentale o come simulazione<br />

incarnata.<br />

Incontriamo un bicchiere con acqua, ma che sia mezzo pieno o<br />

mezzo vuoto è già un’interpretazione. Minima, e possiamo sempre concordare<br />

che nel bicchiere l’acqua è a metà, e anche che è poca per chi<br />

è assetato – il mezzo vuoto – e tanta per chi vuole solo umettare la<br />

punta di un fazzoletto per pulire gli occhiali – il mezzo pieno. Certo,<br />

non è così facile accertare cose più complesse, ma è sull’accertamento<br />

che si basano le nostre vite, come pure la ricerca scientifica – anche<br />

quando chi la produce teorizzi che percepire è interpretare – o quella<br />

artistica. L’esempio del bicchiere per dire che siamo pronti a passare<br />

immediatamente dal dato al fatto. Forse perciò siamo così poco sensibili<br />

a distinguere percezione e interpretazione. Dovremmo essere educati<br />

a farlo, ma come può l’educazione riuscirci quando gli educatori sono<br />

esposti continuamente ad argomenti all’insegna del fatto che la «percezione<br />

e l’interpretazione non sono attività separabili» 3 ? Appunto, un<br />

“fatto” questo, e dovremmo avere gli strumenti e il tempo per valutare<br />

criticamente le prove portate a sostegno se solo tenessimo fermo<br />

che «la capacità di distinguere all’interno del mondo dell’esperienza<br />

tra le proprietà che esistono indipendentemente dalle manipolazioni<br />

mentali dell’osservatore e quelle che sono dovute a tali manipolazioni<br />

è di un’importanza biologica fondamentale per cavarsela nel nostro<br />

ambiente» 4 .<br />

Ci sono significati sedimentati che continuano ad agire, anche quando<br />

sono caduti i loro supporti teorici, e ci sono anche significati talmen-<br />

332


te radicati nel sentire culturale, per i quali la scienza si preoccupa di<br />

trovare sempre nuove ragioni per giustificarli. È il caso della teoria della<br />

percezione indiretta, che fa il suo esordio scientifico con Helmholtz e<br />

che, nonostante la rigorosa confutazione fattane dai gestaltisti, i quali<br />

prima di Popper elaborano il concetto di confutazione, è tuttora<br />

dominante in psicologia e pervasiva nella cultura non solo scientifica.<br />

Basti pensare al successo dell’ultimo libro di Gregory, nella cui quarta<br />

di copertina leggiamo: «Possiamo credere a ciò che vediamo con i nostri<br />

occhi? Le nostre percezioni ci mettono davvero in contatto con il<br />

mondo reale? E che ne è allora di quelle illusioni di cui tutti abbiamo<br />

fatto esperienza? In questo ricco e affascinante volume, Richard Gregory<br />

illustra i molti modi in cui il nostro cervello può essere ingannato:<br />

la distorsione, la cecità ai dettagli o al cambiamento, il paradosso. Ma<br />

proprio le illusioni possono esserci d’aiuto per capire come il cervello<br />

percepisce la realtà che ci circonda. Per interpretarla, non ci affidiamo<br />

ai nostri occhi ma a presupposti innati sul modo in cui funziona il mondo.<br />

Per questo le illusioni si prendono gioco di noi: vediamo ciò che<br />

ci aspettiamo di vedere. Se non fosse così, non vi sarebbero illusioni e<br />

non esisterebbe alcuna magia».<br />

Da un punto di vista scientifico le illusioni non sono importanti in<br />

quanto senza di esse “non esisterebbe alcuna magia”, quanto perché,<br />

spiega lo scienziato, «le illusioni costituiscono la più forte dimostrazione<br />

del fatto che la percezione è legata solo indirettamente al mondo degli<br />

oggetti [...], le percezioni sono sostanzialmente <strong>delle</strong> ipotesi, molto simili<br />

alle ipotesi predittive della scienza». Pertanto «è facile dimostrare<br />

che la percezione non è attendibile. Infatti almeno in laboratorio, ma in<br />

verità anche nelle gallerie d’arte in cui le illusioni abbondano, è facilissimo<br />

ingannare i sensi e disturbare la percezione» 5 . Se per Gregory non<br />

tutto è illusione, non manca chi sostiene che i sensi ingannano sempre:<br />

«Si potrebbe, in effetti, pensare che esistano da un lato i meccanismi<br />

della percezione in sé stessa e da un altro quelli <strong>delle</strong> sue deformazioni<br />

o “illusioni”. Per esempio, in presenza di figure come quella di Müller-<br />

Lyer si converrebbe di dissociare da una parte i processi della valutazione<br />

“normale” <strong>delle</strong> lunghezze e dall’altra i fattori particolari che<br />

perturbano in questo caso tale valutazione. Però una siffatta separazione<br />

si ispira probabilmente ai modelli presi a prestito dalle attività cognitive<br />

superiori, in seno alle quali è effettivamente legittimo distinguere, per<br />

esempio, le strutture del ragionamento corretto e quelle degli errori.<br />

[…] Ora, nel campo <strong>delle</strong> percezioni, non soltanto il soggetto non<br />

riesce quasi mai a dissociare gli errori sistematici dalle sue percezioni<br />

approssimativamente esatte, ma anche e soprattutto è possibile addirittura<br />

chiedersi se la presenza di deformazioni non sia inerente alla<br />

natura stessa dei meccanismi percettivi» 6 . Il passo citato è del grande<br />

Piaget che, fino all’avvento di H. Gardner con il suo Formae mentis,<br />

è stato il riferimento fondamentale per la formazione degli insegnanti.<br />

333


E, se Piaget ritiene le illusioni «consustanziali con la percezione» 7 , in<br />

psicologia c’è chi si spinge a criticare il termine stesso di “illusione”,<br />

giudicato «forviante in quanto rimanda ad una concezione secondo la<br />

quale esisterebbe una percezione “veridica” del mondo esterno, concezione<br />

che ha fatto il suo tempo» 8 . E chi vuole apparire sorpassato?<br />

Per il neohelmoltziano Gregory, che ci assicura che dalla teoria <strong>delle</strong><br />

inferenze inconsce di Helmholtz alla sua il passo è consequenziale e<br />

breve, «il concetto chiave della psicologia cognitivista dopo il crollo<br />

del comportamentismo è che noi costruiamo le descrizioni cerebrali<br />

del mondo degli oggetti» 9 . E siccome il cervello è dentro il nostro<br />

cranio e il mondo è là fuori, diventa necessario il ricorso al meccanismo<br />

della proiezione. Certo, che il mondo sia una rappresentazione cerebrale<br />

costruita da noi e proiettata all’esterno dagli occhi è un pensiero<br />

sorprendente, ammette Gregory, ma c’è un esperimento che chiunque<br />

può fare per convincersene: provate a guardare un oggetto con una<br />

luce intensa, quindi spostate lo sguardo su una superficie come una<br />

parete. Vedrete l’immagine retinica proiettata sulla parete. L’immagine<br />

postuma dovrebbe convincervi che il mondo è la proiezione di rappresentazioni.<br />

Poiché le percezioni sono per più del 90% conoscenze<br />

memorizzate, sorge anche il problema di come distinguere il momento<br />

presente dal passato ricordato e dal futuro immaginato. Passare con un<br />

semaforo verde ricordato è pericoloso. Ma anche per questo c’è una<br />

spiegazione. I qualia, data l’evoluzione e la selezione naturale, devono<br />

pure servire a qualcosa, si dice Gregory, e trova per loro la funzione<br />

di contraddistinguere il presente: «Qualia flag the present» 10 . Ancora<br />

una volta l’esperimento che lo prova può essere fatto da chiunque:<br />

provate a guardare intensamente un oggetto verde, poi chiudete gli<br />

occhi e immaginatelo. Riaprite gli occhi e riguardate l’oggetto. Dovreste<br />

notare che il colore del quale ricordato è meno vivido del quale<br />

presente. È questa differenza di grado che vi salverà nella giungla del<br />

traffico cittadino.<br />

O considerate l’anatra/coniglio resa famosa da Wittgenstein. “Come<br />

è possibile che si veda una cosa conformemente a una interpretazione?”,<br />

si era chiesto il filosofo. Una domanda che sembra persino “strana”<br />

a chi teorizza che percepire è interpretare. La domanda di chi si<br />

ostina, nonostante i numerosi “fatti” scientifici contrari, a mantenere<br />

ferma la distinzione tra percezione e interpretazione. L’evidenza sperimentale<br />

del “fatto” che interpretiamo o anatra o coniglio è che i neuroni<br />

dell’area visiva che si attivano per anatra o per coniglio sono diversi,<br />

ci dice Gregory. E che questo sia un dato che può essere interpretato<br />

diversamente, non passa neanche per l’anticamera del cervello ermeneutico.<br />

Le percezioni, quindi, sono ipotesi come le ipotesi predittive<br />

della scienza. «Per questo motivo non abbiamo alcuna certezza. Per<br />

la scienza come per la percezione, i fenomeni non hanno significato in<br />

quanto tali: per avere significato devono essere interpretati» 11 .<br />

334


Poiché il tema del realismo è «strettamente connesso ai problemi<br />

della percezione», come ha dovuto a un certo punto riconoscere<br />

Putnam 12 , non è indifferente quanto la scienza va affermando sulla<br />

percezione. Non solo per le ricadute istituzionali che le teorie scientifiche<br />

hanno, ma anche per il consenso immediato e acritico che, complice<br />

l’analfabetismo scientifico, non possono non procurare. Se non<br />

stiamo attenti a come si intende la percezione, persino un’educazione<br />

alla percezione diventa educazione all’illusione. E se fosse vero che<br />

l’arte è essenzialmente illusione, un inganno per i sensi e un disturbo<br />

per la percezione, sarebbe difficile giustificarne il valore educativo e<br />

improponibile un’educazione estetica.<br />

Non essendo neohelmoltziana e per di più convinta che «prima di<br />

tutto nella vita comune noi [compresi gli smaliziati teorici della percezione<br />

indiretta, e più in generale i cognitivisti, e i tanti che con Gregory<br />

condividono il mondo come rappresentazione] siamo realisti ingenui»<br />

13 , ritorno, ma senza nessuna illusione, alla domanda: educazione<br />

estetica come educazione percettiva o come educazione artistica, cioè<br />

all’arte e/o con l’arte? Vorrei tentare di tenere assieme le due opzioni,<br />

non perché le ritenga equivalenti, ma perché se, da una parte, non c’è<br />

comprensione <strong>delle</strong> arti, anche dell’arte concettuale, senza percezione,<br />

dall’altra, per educare a percepire bisogna pure far percepire qualcosa,<br />

e passo ad argomentare brevemente i due motivi per cui ritengo opportuno<br />

non risolvere l’educazione estetica, cioè all’arte e/o con l’arte,<br />

in educazione percettiva.<br />

Il primo motivo, dicevo, è interno alla percezione: la percezione<br />

artistica è una percezione specializzata come lo è del resto la percezione<br />

scientifica, seppure in modo diverso. Proprio per questo necessita, come<br />

la scienza, di un ben preciso iter formativo, non dello spontaneismo che<br />

ha caratterizzato il passato. Consideriamo qualche elemento che differenzia<br />

percezione ecologica e percezione artistica. L’arte (una pittura,<br />

un’opera musicale, una scultura, una poesia, ecc.) non è un oggetto<br />

come un albero, una montagna, una mela, un arcobaleno, o qualsiasi<br />

altro oggetto naturale; è un oggetto prodotto da un soggetto: un artefatto,<br />

e non di uso comune. Un tavolo lo possiamo usare per consumare<br />

i pasti o per scrivere o come piano d’appoggio. Questo e altro non ci<br />

è possibile se il tavolo è dipinto. I prodotti artistici sono oggetti fatti<br />

per la percezione: immagini prodotte nelle logiche di un determinato<br />

medium. Col termine medium, poi, si fa «riferimento non soltanto alle<br />

proprietà fisiche del materiale ma anche allo stile di rappresentazione<br />

proprio di una specifica cultura o di un singolo artista» 14 . I vari media<br />

hanno caratteristiche differenti, e impongono restrizioni sensoriali che<br />

non si danno nell’esperienza diretta, ecologicamente intesa. Così, ad<br />

esempio, l’assolutezza dell’occhio per l’arte visiva, o dell’orecchio per<br />

la musica, sono artifici culturali dal momento che «i nostri occhi [o le<br />

nostre orecchie] non sono un meccanismo che funzioni indipendente-<br />

335


mente dal resto del corpo; ma lavorano in costante collaborazione con<br />

gli altri organi sensori» 15 . Riguardo agli scopi della vita quotidiana la<br />

percezione visiva è essenzialmente un mezzo di orientamento pratico,<br />

perciò le affordances di cui parla Gibson – oggi enfatizzate dalle teorie<br />

basate sul ciclo azione-percezione – possono bastare; non così nelle<br />

arti – «il miglior materiale per l’analisi <strong>delle</strong> forme complesse» 16 – per<br />

le quali bisogna sviluppare una sensibilità per i valori formali, per la<br />

composizione, per le relazioni spaziali, ecc.<br />

«Vi è una differenza immensa tra il vedere una cosa senza la matita<br />

in mano, e il vederla disegnandola», dice Valéry. E continua: «Anche<br />

l’oggetto più familiare ai nostri occhi diventa tutt’altro se ci si mette a<br />

disegnarlo: ci si accorge che non lo si conosceva, che non lo si era mai<br />

visto. Sino ad allora l’occhio non era servito che da intermediario. Ci<br />

faceva parlare, pensare, guidava i nostri passi, i nostri movimenti quali<br />

che fossero, risvegliava talvolta i nostri sentimenti. […] Ma il disegno<br />

dal vero di un oggetto conferisce all’occhio un certo comando alimentato<br />

dalla nostra volontà. […] Non posso precisare la mia percezione<br />

di una cosa senza disegnarla virtualmente, e non posso disegnare questa<br />

cosa senza un’attenzione volontaria che trasformi notevolmente ciò che<br />

prima avevo creduto di percepire e conoscere bene. Mi accorgo che non<br />

conoscevo ciò che conoscevo: il naso della mia migliore amica…» 17 . Lo<br />

stesso concetto è espresso da Arnheim, da cui ho tratto alcuni elementi<br />

per distinguere l’uso “distratto” dello sguardo dall’uso consapevolmente<br />

attento alle qualità percettive. E infine – ma solo per mettere fine all’elenco<br />

– gli oggetti artistici, poiché nascono da un’interpretazione del<br />

produttore, sembrano i più adeguati a scatenare la furia interpretativa<br />

del fruitore. Occorre educare a non far collassare da subito la percezione<br />

sull’interpretazione, educare allo sguardo e all’ascolto intelligente, a<br />

un pensiero sensibile che metta in moto un sentire adeguato.<br />

E veniamo al secondo motivo. Nell’agenda degli organismi internazionali<br />

che si occupano di educazione, l’educazione artistica – intesa<br />

nella doppia accezione di educare all’arte e con l’arte e che ha<br />

come riferimento privilegiato tutte le arti del Sistema – sta al primo<br />

posto. Come pure nelle dichiarazioni di intenti dei Paesi che fanno<br />

parte dell’Onu. Dopo l’appello lanciato nel 1999, dal Direttore generale<br />

dell’Unesco per “la promozione dell’educazione artistica e della<br />

creatività nella scuola”, e la richiesta agli Stati membri di assicurarne<br />

l’obbligatorietà dalla scuola materna all’istruzione secondaria, le dichiarazioni<br />

sul valore educativo <strong>delle</strong> arti si susseguono a ritmo serrato.<br />

Particolarmente significative sono le conferenze mondiali sull’educazione<br />

artistica organizzate dall’unesco, la prima a Lisbona nel 2006, e la<br />

seconda a Seoul nel 2010, i cui risultati sono confluiti in due importanti<br />

documenti, la “Road Map per l’educazione artistica” e l’“Agenda di<br />

Seoul: obiettivi per lo sviluppo dell’educazione artistica” 18 . Come si<br />

legge nella “Road Map”, «l’educazione artistica è un diritto umano<br />

336


universale», dato che la cultura e le arti «giocano un ruolo chiave in<br />

una educazione completa che permetta il pieno e armonioso sviluppo<br />

dell’individuo». Considerato che «le arti sono contemporaneamente la<br />

manifestazione della cultura e i mezzi di comunicazione <strong>delle</strong> conoscenze<br />

culturali», l’educazione artistica, oltre a essere promossa «per<br />

trasmettere la conoscenza e l’apprezzamento <strong>delle</strong> arti e della cultura<br />

da una generazione alla successiva», diventa lo strumento «per favorire<br />

la sensibilità culturale e sostenere le pratiche culturali» 19 . Al fine di aumentare<br />

la consapevolezza della comunità internazionale sull’importanza<br />

dell’educazione artistica, e promuovere gli obiettivi dell’“Agenda di<br />

Seoul” 20 , l’Unesco proclama l’“International Arts Education Week” 21 ,<br />

che avrà inizio proprio quest’anno, la quarta settimana di maggio 22 .<br />

Anche a livello degli organismi europei le iniziative documentate<br />

sono molteplici. Nell’incontro Europeo di Lisbona del 2000, i capi di<br />

Stato e di Governo dell’Unione Europea hanno concordato un obiettivo<br />

molto ambizioso: fare dell’Unione Europea, al termine del 2010, la<br />

società della conoscenza «più competitiva e più dinamica del mondo,<br />

in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e<br />

migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale» 23 . E, per lo<br />

più, “educazione cuturale” o è sinonimo di “educazione artistica”, o è<br />

“educazione generale” attraverso strumenti estetici 24 . “Homo ludens<br />

versus Homo economicus” è il significativo titolo di una Conferenza<br />

organizzata a Budapest nel 2003 dall’Assemblea <strong>delle</strong> Regioni Europee,<br />

che all’unanimità concorda di non considerare le arti un lusso, e<br />

piuttosto di metterle al centro dei sistemi educativi. Nel 2009, dichiarato<br />

“Anno europeo della creatività e dell’innovazione” dal Consiglio<br />

dell’Unione Europea, il tema della creatività artistica e dell’educazione<br />

artistica è stato al centro dell’attenzione. Parallelamente, nella “Risoluzione<br />

del 24 marzo 2009 sugli studi artistici nell’Unione Europea”,<br />

il Parlamento Europeo, sottolineando l’importanza dell’educazione<br />

artistica a tutti i livelli scolastici e pertanto la necessità di renderla<br />

obbligatoria, invita il Consiglio, la Commissione e gli Stati membri a<br />

«riconoscere quanto sia importante promuovere l’educazione artistica<br />

e la creatività nel contesto di un’economia basata sulla conoscenza, in<br />

conformità alla strategia di Lisbona»; a definire il suo ruolo «quale<br />

strumento pedagogico essenziale per valorizzare la cultura in un mondo<br />

globalizzato e multiculturale»; a «mettere a punto strategie comuni per<br />

promuovere politiche in materia di educazione artistica e di formazione<br />

di insegnanti specializzati in tale disciplina» 25 .<br />

L’Italia è considerata «un grande museo en plein air». Disseminate<br />

nel suo territorio vi sono 7282 chiese e abbazie, 4109 palazzi e residenze,<br />

2054 castelli e fortificazioni, 1034 monumenti dell’antichità, 491<br />

giardini storici, 3232 musei e altri 5559 siti di alta rilevanza culturale,<br />

nonché il maggior numero dei siti protetti dall’Unesco. Perciò si va<br />

diffondendo la convinzione che «il patrimonio storico e artistico nazio-<br />

337


nale rappresenta il grande giacimento petrolifero del Paese» 26 . Anche<br />

considerando solo il fine economico, educare all’arte dovrebbe diventare<br />

una priorità nazionale. È un giacimento per il cui sfruttamento<br />

non basta la mano d’opera. Occorrono menti educate a comprenderlo,<br />

a valutarlo, ad apprezzarlo.<br />

La scuola è in grado di provvedere? Le ricerche sulla situazione<br />

dell’educazione artistica e culturale evidenziano, che contro gli auspici<br />

<strong>delle</strong> Dichiarazioni, Convenzioni e Risoluzioni, non solo l’educazione<br />

artistica non è al centro dei programmi scolastici, ma neanche alla<br />

pari <strong>delle</strong> altre discipline, e che lettura, scrittura e apprendimento del<br />

calcolo continuano a dominare i programmi. Uno studio del 2009 commissionato<br />

dal Consiglio d’Europa conclude che, se tutte le dichiarazioni<br />

di politica nazionali sull’educazione mettono sistematicamente<br />

in evidenza l’importanza della dimensione culturale e la necessità di<br />

promuovere le attitudini artistiche e creative <strong>delle</strong> nuove generazioni,<br />

in pratica, lo status e l’offerta dell’insegnamento artistico nel sistema<br />

educativo sono molto poco evidenti 27 .<br />

I rapporti internazionali registrano un aumento dell’accesso all’istruzione,<br />

ma segnalano anche la bassa qualità della stessa. Ora, migliorare<br />

la qualità dell’educazione è stato individuato come uno degli<br />

obiettivi dell’educazione artistica. L’obiettivo, però, sembra irrealizzabile,<br />

dal momento che l’educazione artistica per incidere positivamente<br />

deve essere di qualità, e le ricerche sulla qualità di quest’ultima evidenziano<br />

che siamo lontani dall’avere raggiunto un livello anche solo<br />

minimo. Tranne poche eccezioni. Per l’Italia 28 , le scuole dell’infanzia<br />

di Reggio Emilia e di Pistoia si segnalano per il livello di eccellenza<br />

raggiunto. La scuola di Reggio Emilia è conosciuta in tutto il mondo<br />

soprattutto da quando Newsweek l’ha inserita tra le dieci migliori<br />

scuole del mondo, rendendola meta di turismo pedagogico 29 . L’approccio<br />

di Reggio Emilia, indicato dalle autorità internazionali come<br />

modello da seguire adattandolo alle diverse realtà culturali, è il sistema<br />

educativo dei cento linguaggi: un approccio che mira a restituire ai<br />

bambini i novantanove linguaggi 30 , ovvero i linguaggi dell’arte, di cui<br />

la scuola normalmente li priva. L’intento di Loris Malaguzzi, il genio<br />

guida di Reggio, è stato quello di aprire «varchi (questo è il nostro<br />

slogan) ai cento linguaggi dei bambini» 31 . Lo stesso accade con La<br />

pedagogia del buon gusto praticata a Pistoia, e, mi piace ricordare che<br />

Pistoia è conosciuta internazionalmente come A Child-Friendly City 32 .<br />

Se ci si documenta sulle pratiche educative di Reggio e di Pistoia<br />

avendo in mente le Lettere sull’educazione estetica, ci si convince che il<br />

progetto di Schiller è diventato operativo: in queste scuole «sensibilità<br />

e ragione sono contemporaneamente attive» 33 , dato che, come dice<br />

l’atelierista storica di Reggio Children, «il pensiero poetico non separa<br />

l’immaginazione dal cognitivo, l’emozione dalla razionalità, l’empatia<br />

dall’indagine approfondita. Accende tutte le percezioni, alimentando<br />

338


una relazione intensa con l’intorno. Costruisce un pensiero non conforme»<br />

34 . Non più “barbari” (il tipo dominante ai tempi di Schiller)<br />

né “selvaggi” (la maggioranza odierna, frutto dell’“estetizzazione della<br />

lebenswelt” e della sovrabbondanza di “stimolazione sensoriale” 35 )?<br />

Forse sì, se questo approccio non fosse un’eccezione, e se non fosse<br />

limitato alla scuola dell’infanzia. Di fatto, chi si richiama all’impulso al<br />

gioco per giustificare il valore educativo dell’arte, si scontra col fatto<br />

che «abbiamo relegato il gioco alla nostra infanzia» 36 .<br />

Pur così, e a fronte della povertà <strong>delle</strong> pratiche 37 , gli obiettivi<br />

dell’educazione artistica sono tali e tanti 38 , che ci si comincia a interrogare<br />

sulla «capacità dei programmi scolastici di raggiungere obiettivi<br />

così ampi e diversi» 39 . È realistico considerare l’educazione artistica<br />

«la panacea di tutte le aberrazioni presenti nella società globalizzata»,<br />

si chiede Michael Wimmer all’indomani della Conferenza di Lisbona?<br />

«Che sia il riscaldamento globale, la crescita della popolazione, la frammentazione<br />

sociale, l'inquinamento, la droga, la guerra o la violenza,<br />

l’educazione artistica sarebbe la soluzione per trovare risposte adeguate<br />

a queste sfide. Potrebbe essere, potrebbe non essere. Talvolta cresce il<br />

sospetto che vi sia una coincidenza nascosta tra una sempre maggiore<br />

marginalizzazione dell’educazione artistica e la grandiosità <strong>delle</strong> promesse<br />

formulate dai rispettivi lobbisti senza fornire alcuna prova dei<br />

risultati» 40 . Tra proclami altisonanti, tagli dei Governi e promesse di<br />

felicità, l’educazione artistica continua a essere la cenerentola dei sistemi<br />

scolastici, e gli occhi e le orecchie permangono ciechi e sordi alle<br />

logiche <strong>delle</strong> arti.<br />

Ken Robinson, il guru dell’educazione artistica, individua il nemico<br />

nella scuola – un sistema anti-arte – impossibile da riformare e bisognoso<br />

di un cambiamento radicale. La scuola, che dovrebbe promuovere<br />

l’educazione artistica, di fatto «uccide la creatività». Perciò riformarla,<br />

come si è fatto in questi anni in tutto il mondo, «non basta. Le<br />

riforme non servono più a niente, perché semplicemente migliorano un<br />

modello fallimentare. Ciò di cui abbiamo bisogno non è un’evoluzione,<br />

ma una rivoluzione nell’educazione» 41 . In sostanza, «il valore <strong>delle</strong> arti<br />

non è nell’apportare miglioramenti marginali alla periferia del sistema<br />

scolastico, ma nel trasformarne il cuore» 42 .<br />

E mi sono ricordata che un quarto di secolo fa in un intervento<br />

sull’argomento, evidenziando «le enormi speranze in essa riposte, e di<br />

contro gli inevitabili fallimenti cui è andata incontro», evidenziando<br />

che «in realtà, l’educazione estetica rivela un ruolo positivo non tanto<br />

nel proporsi disciplina tra altre discipline, ma nell’essersi configurata<br />

– proprio per gli scacchi riportati – la spina al fianco del sistema, una<br />

denuncia permanente, dopo la crisi della Ragione e la crisi dell’Arte,<br />

dell’assetto complessivo della cultura scolastica», concludevo che «l’intera<br />

vicenda può essere altamente istruttiva per ripensare non solo il<br />

senso e il significato del fare scuola ma soprattutto il come farla: una<br />

339


iformulazione del progetto educativo nella sua globalità, all’interno<br />

del quale ricontestualizzare anche l’annoso problema dell’educazione<br />

estetica» 43 . Per questo, dicevo, senza nessuna illusione.<br />

1<br />

M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari, 2012, p. 28. Per gli<br />

interventi, cfr. labont.it/dibattito-sul-nuovo-realismo<br />

2<br />

J. Piaget, Saggezza e illusioni della filosofia (1965), Einaudi, Torino, 1969, p. 44.<br />

3<br />

N. Goodman I linguaggi dell’arte (1968), Il Saggiatore, Milano, 1976, p. 13.<br />

4<br />

R. Arnheim, Per la salvezza dell’arte. Ventisei saggi (1992), Feltrinelli, Milano, 1994, p. 44.<br />

5<br />

R. L. Gregory, Curiose percezioni (1986), Il Mulino, Bologna, 1989, pp. 100-101 e 95-96.<br />

6<br />

J. Piaget, Lo sviluppo <strong>delle</strong> percezioni in funzione <strong>delle</strong> età (1967 2 ), in P. Fraisse e J.<br />

Piaget (a cura di), <strong>Psicologia</strong> sperimentale. vi: La percezione, Einaudi, Torino, 1975, pp. 7-8.<br />

7<br />

Id., I meccanismi percettivi (1961), Giunti-Barbera, Firenze, 1975, p. 26.<br />

8<br />

F. Purghé, N. Stucchi, A. Olivero, a cura di, La percezione visiva, UTET, Torino, 1999,<br />

p. 369.<br />

9<br />

R. Gregory, Brainy mind, “British Medical Journal”, 1998, 317, p. 1693.<br />

10<br />

Ivi, p. 1694.<br />

11<br />

Id., Vedere attraverso le illusioni (2009), Raffaello Cortina, Milano, 2010, pp. 9-10. Per<br />

anatra/coniglio, cfr. ivi, pp. 123-124.<br />

12<br />

H. Putnam, Mente corpo, mondo (1999), Il Mulino, Bologna, 2003, p. 28: «Per i primi<br />

venticinque anni della mia vita professionale di filosofo ho condiviso con i miei contemporanei<br />

l’idea di quali fossero i veri problemi metafisici e epistemologici, come pure il loro convincimento<br />

della (scarsa) rilevanza che la filosofia della percezione rivestiva per questi problemi.<br />

[…] intorno alla metà degli anni ’70 quando scrissi Realismo e ragione e Models and Reality,<br />

le mie prime due pubblicazioni sul tema del realismo, non ritenevo che tale argomento fosse<br />

strettamente connesso ai problemi della percezione».<br />

13<br />

W. Köhler, La psicologia della Gestalt (1947), Feltrinelli, Milano, 1961, p. 185.<br />

14<br />

R. Arnheim, Arte e percezione visiva (1954), Feltrinelli, Milano, 1962, p. 125.<br />

15<br />

Id., Film come arte (1959), Il Saggiatore, Milano, 1963 2 , p. 63.<br />

16<br />

Id., Arte e percezione visiva, cit., p. xviii.<br />

17<br />

P. Valéry Scritti sull’arte (1934), Guanda, Milano, 1984, p. 27.<br />

18<br />

Il Miur (http://www.istruzione.it/web/istruzione/prot8586_11) nel darne notizia, allega<br />

i documenti, tradotti in italiano, che tuttavia non si aprono. Come si legge nella nota,<br />

«L’Unesco, nella prospettiva della Seconda Conferenza mondiale sull’educazione artistica,<br />

aveva proposto un questionario destinato a valutare il grado di applicazione della Road Map<br />

in ciascun Stato membro. In tale ottica si inviano, alle istituzioni in indirizzo, il testo della<br />

Road Map e il questionario di monitoraggio sulle misure adottate nell’ambito dell’educazione<br />

artistica. […] Si invitano, pertanto, le istituzioni in indirizzo a compilare il questionario di<br />

monitoraggio sull’educazione artistica, che dovrà essere restituito entro il 15 settembre 2011<br />

e che permetterà di monitorare l’educazione artistica, a livello nazionale, creando le premesse<br />

per la realizzazione del Piano di iniziative legate all’Agenda di Seul 2010».<br />

19<br />

Road Map for Arts Education. The World Conference on Arts Education: Building Creative<br />

Capacities for the 21 st Century, Lisbon, 6-9 March 2006, pp. 3e 6, http://portal.unesco.org.<br />

20<br />

The Second World Conference on Arts Education. Seoul Agenda: Goals for the Development<br />

of Arts Education, http://www.unesco.org. Gli obiettivi, accompagnati dalle strategie<br />

per conseguirli, sono tre: (1) garantire che l’educazione artistica sia accessibile come componente<br />

fondamentale dell’educazione; (2) garantire che le attività e i programmi di educazione<br />

artistica siano di alta qualità; (3) applicare i principî e le pratiche dell’educazione artistica per<br />

contribuire a risolvere le sfide sociali e culturali.<br />

21<br />

General Conference, 36th, Paris, 2011, http://www.unesco.org.<br />

22<br />

Cfr. http//www.comace.org. ComACE (comunità di conoscenza artistica e culturale<br />

in europa) è un portale Web sull’educazione artistica e culturale negli Stati membri<br />

europei. Lo scopo è quello di promuovere e rendere sistematico lo scambio <strong>delle</strong> relative<br />

conoscenze e il confronto dei progetti realizzati.<br />

23<br />

Verso una società basata sulla conoscenza, http://europa.eu/abc/12lessons/lesson_8/<br />

index_it.htm.<br />

340


24<br />

Cfr. M. Wimmer, Promoting Cultural Education in Europe. A Contribution to Participation,<br />

Innovation and Quality (Pre-Conference Reader for the European Conference, 8-10<br />

June 2006), p. 24. http://www.unesco.org/new/en/culture.<br />

25<br />

http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP//TEXT+REPORT+A6-<br />

2009-0093+0+DOC+XML+V0//IT.<br />

26<br />

Dossier economia della cultura, 2009. Creatività e produzione culturale per la ripresa<br />

economica, www.diritto<strong>delle</strong>arti.it/DOSSIERECONOMIAdellaCULTURA 2009.htm<br />

27<br />

Eurydice, Arts and Cultural Education at School in Europe, 2009. http://eacea.ec.europa.<br />

eu/education/eurydice/documents/thematic_reports/113EN.pdf Eurydice ha un sito italiano:<br />

(EurydiceItalia) dove si può scaricare la versione italiana del rapporto.<br />

28<br />

Nell’insieme la valutazione internazionale sul nostro paese è negativa: «In Italia l’educazione<br />

artistica non è sistematicamente avallata nel sistema della scuola primaria e secondaria.<br />

L’educazione musicale, in particolare, […] è unanimemente considerata del tutto insufficiente<br />

rispetto ai paesi limitrofi (Austria, Germania, Francia)», M. Wimmer, Pre-Conference Reader<br />

for the European Conference “Promoting Cultural Education in Europe. A Contribution to<br />

Participation, Innovation and Quality”, Graz (Austria), 8-10 June 2006, p. 89. www.unesco.<br />

org/culture.<br />

29<br />

B. Kantrowitz and P. Wingert, The 10 Best Schools in the World, Newsweek, Dec. 2<br />

1991. www.buildingblocksschool.com_files_Newsweek-Story-on-Reggio1_1_.pdf<br />

30<br />

Reggio Children, o dei novantanove linguaggi da restituire ai bambini, è il titolo dell’intervento<br />

di Vea Vecchi all’interno di TEDxReggioEmilia, 8-10-2011. http://www.tedxreggioemilia.com/2011/10/vea-vecchi-italians-do-it-better/.<br />

31<br />

C. Edwards, L. Gandini, G. Forman, The Hundred Languages of Children: The Reggio<br />

Emilia Approach to Early Childhood Education (1993), trad. it., I cento linguaggi dei bambini:<br />

L’approccio di Reggio Emilia all’educazione dell’infanzia, Junior, Bergamo, 1995, p. 96.<br />

32<br />

E. Becchi (a cura di), Una pedagogia del buon gusto, Angeli, Milano, 2010; C. Pope<br />

Edwards, L. Gandini, L. Peon-Casanova, J. Danielson, Bambini: Early Care in Education in<br />

Pistoia, Italy, a Child-Friendly City, Teachers College, New York, 2001.<br />

33<br />

Fr. Schiller, L’educazione estetica (1794), Aesthetica, Palermo, 2009 2 , p. 67.<br />

34<br />

V. Vecchi, cit.<br />

35<br />

La tipologia, ovviamente, è quella di Schiller (cit. p. 29), per il quale l’essere umano<br />

«può essere opposto a sé stesso in due modi: o in quanto selvaggio, se i suoi sentimenti dominano<br />

sui suoi principî, o in quanto barbaro, se i suoi principî distruggono i suoi sentimenti».<br />

Sul pericolo dell’“eccessiva stimolazione sensoriale” cui sono esposte le nuove generazioni si<br />

sofferma Arnheim (Intuizione e intelletto 1986, Feltrinelli, Milano, 1987, p. 275, trad. modificata),<br />

che insiste sulla necessità di promuovere l’educazione artistica come «sfida percettiva,<br />

nella quale una situazione esterna si pone di fronte alle persone in modo tale da mobilitare<br />

le loro capacità di cogliere, di interpretare, di spiegare e di migliorare. Insisto su questa differenza<br />

perché ci sono progetti educativi nei quali sembra che si passi sopra questo punto.<br />

Ci sono progetti per centri di stimolazione percettiva, luoghi di piacere pieni di forme e luci<br />

che si muovono a capriccio, di colori danzanti, di sinfonie di rumori, di tessiture da toccare<br />

e di cose da annusare». Fantasie più o meno costose, che divertono sì i sensi, ma che certo<br />

non hanno il valore educativo che si assegna loro.<br />

36<br />

A sottolinearlo è Richard Holloway (nel numero 1/2008, p. 10, di «Bambini in Europa»,<br />

dedicato a “I bambini e l’arte”), presidente del Consiglio Scozzese per le <strong>Arti</strong>, che<br />

giudica questa situazione una «tragedia» perché «“mette un coperchio” sulla nostra creatività,<br />

e quando sopprimiamo la creatività diventiamo, in buona sostanza, meno umani».<br />

37<br />

Tutte le ricerche e molti documenti, accanto all’enfasi sulle virtù dell’educazione artistica,<br />

segnalano che gli effetti positivi sull’apprendimento in generale e sulla formazione<br />

della persona ci sono solo con programmi di qualità. Perciò è cresciuta l’attenzione sulle<br />

caratteristiche dei programmi artistici di qualità. Nel documento prodotto per la conferenza<br />

di Lisbona, preparato dalla Division of Arts and Cultural Enterprise of Unesco Sector for<br />

Culture, vengono segnalati i seguenti punti: «1) partenariati attivi con persone e organizzazioni<br />

creative; 2) accessibile a tutti i bambini; 3) continuo aggiornamento professionale; 4)<br />

strutture organizzative flessibili; 5) responsabilità condivisa per la pianificazione e l’attuazione;<br />

6) frontiere permeabili tra l›organizzazione della scuola e la comunità; 7) valutazione dettagliata<br />

e strategie di valutazione», World Conference on Arts Education, “Building Creative<br />

Capacities for the 21st Century”, Lisbon, Portugal, 6-9 March 2006, Working Document, p.<br />

9, http://www.unesco.org/culture/lea.<br />

38<br />

Nella Road Map for Arts Education (cit., p. 16) si raccomanda, tra l’altro, di tenere<br />

341


conto che «l’educazione artistica, come forma di costruzione etica e civica, costituisce uno<br />

strumento fondamentale per l’integrazione sociale e può aiutare a risolvere i gravi problemi<br />

che stanno di fronte a molte società, tra cui la criminalità e la violenza, la persistenza dell’analfabetismo,<br />

le disuguaglianze di genere (ivi compreso l’insuccesso scolastico dei ragazzi),<br />

l’abuso e l’abbandono di minori, la corruzione politica e la disoccupazione».<br />

39<br />

Eurydice, Arts and Cultural Education at School in Europe, 2009, cit., p. 10.<br />

40<br />

M. Wimmer, cit., p. 26. Il riferimento critico è a Ken Robinson, un esperto mondiale<br />

dell’argomento e consulente di istituzioni governative e associazioni internazionali, che ha giocato<br />

un ruolo chiave sia nella preparazione che nello svolgimento della Conferenza di Lisbona.<br />

41<br />

K. Robinson, Do Schools Kill Creativity, TED Conference talk, 2006; e Bring on the<br />

learning revolution!, TED Conference talk, 2010; cfr. anche Id., Changing education parradigms,<br />

TED Conference talk, 2010. I video sono consultabili nel sito dell’autore (http://<br />

sirkenrobinson.com/skr/) e in http://www.ted.com/.<br />

42<br />

Id., The Arts and Education: Changing Track, in Aa. Vv., Thinking Creatively and Competing<br />

Globally: The Role of the Arts in Building, The Americans for the Arts 2007 National<br />

Arts Policy Roundtable, p. 13. http://www.artsusa.org/pdf/information_services/research/<br />

policy_roundtable/2007_essays.pdf<br />

43<br />

L. Pizzo Russo, Arte educazione estetica e processi mentali, in L. Pizzo Russo (a cura<br />

di), L’educazione estetica, Aesthetica, Palermo, 1986, p. 48.<br />

342


L’immagine dell’immagine *<br />

Che idea abbiamo dell’immagine? Di quale immagine parliamo<br />

quando usiamo il termine “immagine”? Qual è l’“immagine” che guida<br />

i nostri discorsi sull’immagine? Quali sono gli stereotipi che definiscono<br />

l’immagine dell’immagine? E quali gli assunti teorici di base relativi<br />

alla mente che ne determinano il successo? Sono questi gli interrogativi<br />

cui tenterò di dare una risposta.<br />

Quando diciamo “immagine” ciò che ci si presenta alla mente è<br />

qualcosa che ha a che fare con il visivo. Ma le immagini – ci dice la<br />

psicologia – non sono solo visive. Questa semplificazione, su cui del<br />

resto, tranne qualche eccezione, si è esercitata la riflessione dai Greci a<br />

noi, la assumerò come delimitazione: anch’io mi occuperò di immagine<br />

visiva. E però, anche limitatamente al visivo, le immagini sono molto<br />

diverse tra loro. Grafici, istogrammi e, più in generale, la variegata produzione<br />

per la quale Massironi ha proposto, senza fortuna, il termine<br />

«ipotetigrafia» 1 , la cui valenza iconica è indubitabile, non è stata quasi<br />

mai tenuta presente da quanti hanno indagato il funzionamento dell’immagine.<br />

L’universo iconico è stato per lo più considerato come unitario,<br />

come se le articolazioni rilevabili al suo interno fossero inessenziali.<br />

Oltre alle immagini che incontriamo, attaccate alle pareti di casa,<br />

conservate in un cassetto, sparse nelle pagine dei libri, raccolte nei<br />

musei (non solo di arte), affisse per le strade, brulicanti nel web…,<br />

abbiamo anche l’immagine mentale, che per la psicologia avrebbe domicilio<br />

nella mente. Le immagini nella mente. Creare ed utilizzare le<br />

immagini nel cervello, è il titolo di un fortunato libro di Kosslyn, uno<br />

psicologo considerato enfaticamente il «fondatore di una nuova area<br />

di ricerca» 2 . E poiché l’esse est percepi di Berkeley, senza l’occhio di<br />

Dio però, è un assunto indiscusso del rappresentazionalismo vigente<br />

nel paradigma di volta in volta egemone in psicologia – dal suo decollo<br />

scientifico al suo approdo cognitivista – si distingue tra “immagine<br />

percettiva”, che può essere “indifferentemente” un pezzo di mondo o<br />

una rappresentazione dello stesso, e “immagine non percettiva”, ovvero<br />

* Pubblicato in G. Bordi, I. Carlettini, M. L. Fobelli, M. R. Menna, P. Pogliani (a<br />

cura di), L’officina dello sguardo. Scritti in onore di Maria Andaloro, Roma, Gangemi,<br />

2014, vol. ii, pp. 13-19.<br />

343


l’immagine mentale 3 . Mondo e rappresentazioni del mondo finiscono<br />

così col coincidere.<br />

Se del mondo avessimo solo rappresentazioni, come avremmo potuto<br />

elaborare il concetto di rappresentazione? Se, come si assume e/o si<br />

argomenta, quando percepiamo avessimo sempre e solo immagini, come<br />

spiegare la distinzione, connaturata all’essere umano, tra l’immagine e<br />

ciò di cui l’immagine è immagine? Queste non possono, ovviamente,<br />

essere le domande di quanti assumono la “rappresentazione”come la<br />

chiave di volta della psicologia. Nel mondo «neurocentrato» – il termine<br />

è di un neuroscienziato 4 ma il credito assegnato alle spiegazioni<br />

neuro è incondizionato, tanto da generare neuromania 5 – la mente che,<br />

nonostante tutte le odierne critiche a Cartesio, continua a essere sentita<br />

come res, e non come il termine per significare i processi del percepire,<br />

del pensare, dell’immaginare, ecc., viene considerata come allocata nel<br />

cervello, o identificata con esso. E poiché le immagini sarebbero nella<br />

mente-cervello, si sostiene che esse<br />

ci consentono di risolvere almeno parzialmente l’enigma di come può il mondo<br />

essere posto dentro la mente. Le immagini mentali sono rappresentazioni come<br />

quelle che si formano durante la percezione […]. Questa scoperta è un grande<br />

passo avanti per spiegare come possano le rappresentazioni mentali in ultima<br />

analisi rimandare a cose del mondo esterno 6 .<br />

“Immagine percettiva e immagine non percettiva”, quindi. Ovviamente<br />

questo è uno dei tanti modi di designare la differenza, e, altrettanto<br />

ovviamente, ci sono modi diversi di organizzarla. Nell’ambito<br />

della neonata Image science, W. J. T. Mitchell, esemplarmente per il<br />

ruolo che riveste, pur distinguendo tra picture – «un oggetto materiale,<br />

qualcosa che si può bruciare o rompere» – e image – «ciò che<br />

appare in una picture, ciò che sopravvive alla sua distruzione» – considera<br />

l’immagine mentale picture (mental picture) e non image, perché<br />

«come ha osservato Hans Belting – appare in un corpo, nella memoria<br />

o nell’immaginazione» 7 .<br />

Chiediamoci: si può bruciare? Certo che no. Appare? Sì, ma bisogna<br />

ricorrere al metaforico occhio della mente, perché gli occhi con<br />

cui facciamo esperienza di ciò che appare nelle pictures non possono<br />

intercettarla. Proprio per questo il comportamentismo ha inaugurato<br />

la svolta iconoclasta in psicologia, e qualche anno prima si era potuto<br />

affermare l’aniconismo con la teoria del “pensiero puro”, immacolato<br />

come la madre di Dio. Senza immagini, ma non senza linguaggio,<br />

assunto, quest’ultimo, come fosse mezzo trasparente grazie al quale il<br />

processo del pensiero si manifesta. Da qui la persistenza in psicologia<br />

dell’endiadi pensiero-linguaggio – l’intelletto discorsivo che gli psicologi<br />

hanno ereditato dai filosofi – come pure il non avere a lungo<br />

ritenuto che l’arte, e più in generale l’immagine, potesse essere presa<br />

in considerazione per lo studio del pensiero.<br />

344


È curioso che Mitchell consideri l’immagine mentale come picture,<br />

dato che per lui «la relazione image/picture implica un ritorno all’oggettività»<br />

8 . Se l’immagine mentale è quanto di più soggettivo ci possa<br />

essere, e non può quindi promuovere l’oggettività, la mental picture,<br />

come anche la distinzione tra “immagine percettiva” e “immagine non<br />

percettiva”, possono darci, nondimeno, qualche indicazione sugli assunti<br />

inconsapevolmente assimilati che guidano la ricerca odierna.<br />

Giustamente è stato osservato che<br />

per gli psicologi che hanno condotto gli esperimenti sul ‘pensiero privo di immagini’,<br />

nonché per i loro osservatori, un’immagine era probabilmente quel tipo di<br />

cosa conosciuta in base alle illustrazioni realistiche o ai cartelli. Se consideravano<br />

quadri famosi del passato – un Raffaello, un Rembrandt, o persino un Courbet<br />

– con i soliti pregiudizi e senza tanta attenzione, avrebbero visto esplicitamente<br />

repliche precise della natura, paesaggi e interni, nature morte e figure umane 9 .<br />

A considerare la letteratura contemporanea sorge il sospetto che lo<br />

stereotipo di immagine che ha guidato la ricerca psicologica agli inizi<br />

del Novecento, sia ancora attivo: l’immagine è immagine di… e la somiglianza<br />

con ciò che rappresenta deve essere resa in modo realistico.<br />

Che «i dipinti astratti s[ia]no immagini che non vogliono essere immagini»<br />

10 è un’affermazione che depone a favore. Ovviamente in giro<br />

ci sono tante immagini che rispondono alle caratteristiche della piena<br />

figuratività, ma queste non possono essere considerate le proprietà uniche<br />

ed essenziali dell’immagine in generale e del suo funzionamento.<br />

C’è, comunque, nelle distinzioni riportate qualcosa di più profondamente<br />

annidato che le parole veicolano. Il mondo ridotto a immagine<br />

rimanda all’immagine retinica, lo stimolo prossimale dei primi<br />

laboratori di psicologia, senza un’eco dei dibattiti che l’hanno confutata,<br />

senza il rispetto per ciò che nello studio della percezione ha reso<br />

necessario l’approccio fenomenologico prima e quello ecologico dopo.<br />

Anzi, è recentissima l’autorevole affermazione che<br />

vedo una fruttiera con dell’uva sulla tavola poiché il mio cervello attribuisce<br />

le immagini che sono nei miei occhi all’uva, della quale ho conoscenza in base<br />

all’esperienza passata; le immagini hanno una buona probabilità di essere realmente<br />

uva 11 .<br />

Il mondo come mia rappresentazione impone di necessità la «compulsione<br />

a proiettar[lo]» all’esterno dove di fatto lo incontriamo 12 .<br />

Un movimento, quindi, dal dentro al fuori. Con la mental picture, che<br />

pure ricorda «ut pictura, ita visio» di Keplero, la picture si impone sul<br />

mental, e ciò che è fuori viene portato dentro. A partire dall’analogia<br />

istituita da Keplero, il primo «a rivolgere lo sguardo per la prima volta<br />

dal mondo alla sua rappresentazione, alla sua immagine sulla retina» 13<br />

tra immagine-dipinta e immagine-della retina, la percezione visiva, a<br />

lungo e a torto, è stata considerata “percezione pittorica”. “Dal dentro<br />

345


al fuori” e “dal fuori al dentro”: due movimenti contrari, ma ugualmente<br />

perniciosi per l’immagine e per ciò che la rende possibile. Due<br />

modi di non tenere ferma la distinzione tra il processo e il prodotto,<br />

ovvero tra la capacità umana, e solo umana a dispetto dell’Animal<br />

Art 14 , di fare o creare o produrre immagini, che si inscrive nell’ordine<br />

della storia evolutiva, e le immagini che vivono la loro vita nel mondo<br />

storico-culturale. Ritornerò sulla “vitalità” dell’immagine, che individua<br />

non solo l’arco cronologico della loro esistenza ma, soprattutto, il fatto<br />

che le immagini sembrano vive.<br />

Quanto all’immagine mentale se, più correttamente, la consideriamo<br />

«una configurazione di forze visive che determina il carattere dell’oggetto<br />

visivo», «uno scheletro strutturale» che, in quanto tale, «può essere<br />

rivestito da una grande varietà di forme», e teniamo presente che le<br />

forme vengono elaborate nelle logiche di un medium e non preesistono<br />

nella mente 15 , notiamo che, anche dopo la svolta visuale o iconica, e<br />

nonostante il gran parlare che si fa dei media, non si può certo dire che<br />

venga tenuto in gran conto il ruolo che questi rivestono nel processo<br />

di produzione di immagini. Anzi, la convinzione diffusa, esplicitata da<br />

Johnson-Laird, un cognitivista di fama mondiale, è che «il processo<br />

creativo deve avvenire internamente prima che i suoi risultati possano<br />

essere ‘registrati’ esternamente» 16 . Fuori dalla psicologia, diversamente<br />

espresso, il concetto è il seguente: l’image<br />

può essere pensata come entità immateriale, un’apparenza spettrale e fantasmatica<br />

che viene alla luce o nasce (il che può essere la stessa cosa) su un supporto<br />

materiale 17 .<br />

Esemplifico una posizione più vicina alla realtà dei fatti con un<br />

breve dialogo tra Ernst Gombrich e la pittrice Bridget Riley:<br />

EG: È il mezzo che ti sorprende?<br />

BR: In effetti è così. Una <strong>delle</strong> qualità più fantastiche della pittura è che le sue<br />

risorse sono inesauribili.<br />

EG: È il dialogo che si instaura con il mezzo, se preferisci. Tu stessa lo hai affermato<br />

da qualche parte. Sono sicuro che è molto, molto importante.<br />

BR: Sì, finché non inizi questo dialogo non vai da nessuna parte.<br />

EG: Non puoi semplicemente sdraiarti sul letto e immaginare cosa desideri<br />

dipingere?<br />

BR: Non è possibile!<br />

EG: Verrebbe fuori qualcosa di diverso?<br />

BR: Non puoi progettare in questo modo.<br />

EG: No.<br />

BR: Ma questo, ovviamente, è uno dei dati più esasperanti della pittura, perché<br />

per quanto si pensi di usare il proprio intelletto come tale, ci si rende conto<br />

di non poterlo fare nel solito modo. Ciò che normalmente sembra andare, qui<br />

non risulta adatto. Non sembra un problema di coerenza del pensiero quanto<br />

di risposta immediata.<br />

EG: Occorre rimanere disponibili a quanto il mezzo ci richiede?<br />

BR: Sì. E si ha bisogno per afferrarlo di tutta la propria esperienza e duttilità 18 .<br />

346


Il “dialogo” col medium non è esclusivo della pittura o <strong>delle</strong> arti. Si<br />

pensi alla logica da Aristotele fino ai nostri giorni, o alla geometria da<br />

Euclide fino alle geometrie non-euclidee. Come ha sostenuto Arnheim,<br />

«i pensieri vogliono forma, e la forma va derivata da un qualche medium».<br />

La creazione di un’opera<br />

consiste in un dialogo tra colui che la concepisce e la concezione che gradualmente<br />

prende forma nel medium. In nessun caso l’opera può essere descritta<br />

come la mera esecuzione della visione concepita nella mente dell’autore. Il medium<br />

offre sorprese e suggestioni. Perciò l’opera non è tanto una replica del<br />

concetto mentale quanto una continuazione dell’invenzione formatrice dell’artista<br />

19 .<br />

I media possono essere usati per scopi diversi (il linguaggio scientifico<br />

e il linguaggio poetico), sono storico-culturali (il linguaggio scientifico<br />

o la pittura di oggi non sono il linguaggio scientifico o la pittura<br />

del Settecento) e, poiché possiedono specifiche e peculiari proprietà<br />

(la pittura contemporanea per Riley, ecc.), strutturano, a loro modo,<br />

il prodotto del pensiero.<br />

Tutta la raffigurazione – ci dice Mitchell – si basa su una metafora visiva, sul<br />

‘vedere come’ (seeing as). Vedere in una macchia d’inchiostro un paesaggio<br />

significa operare una comparazione o un passaggio tra due percezioni visive 20 .<br />

Ed è noto che il “vedere come” di Wittgenstein è stato inteso come<br />

interpretare e non percepire. Non diversamente Gregory, tanto per l’interpretazione<br />

quanto per la macchia: «È sorprendente che una chiazza<br />

di colore sia vista come qualcosa di molto differente: per esempio<br />

una donna che piange». Con la precisazione, tutta psicologica, che «il<br />

significato è proiettato sulla chiazza in base all’esperienza trascorsa di<br />

donne e di pianto» 21 .<br />

Soffermiamoci sull’“Anatra-Coniglio”, o “Papero-Coniglio” o “Lepre-Anatra”<br />

(L-A) considerata a torto “illusione ottica” e a ragione «la<br />

più famosa metapicture della filosofia moderna» 22 . Non è del ruolo<br />

avuto in filosofia e degli stravolgimenti operati sul testo di Wittgenstein<br />

ciò di cui mi voglio occupare, ma di Gombrich, sicuramente più<br />

incisivo nell’ambito dell’immagine. La figura gli è servita per sostenere<br />

la tesi che la percezione è carica di teoria. Posta all’inizio di Arte e<br />

347


illusione come fosse un logo, rende visibile la tesi dell’autore: «vedere<br />

la forma indipendentemente dalla sua interpretazione»? «Questo (ce<br />

ne accorgiamo subito) non è realmente possibile». Vediamo o l’uno<br />

o l’altro animale: la forma cambia. E per Gombrich, non è il cambiamento<br />

che è indubitabile, ma il “modo misterioso” in cui lo fa: «non<br />

c’è dubbio che cambia in modo misterioso». Mentre il “mistero” del<br />

cambiamento è da mettere in conto alla teoria della percezione assunta,<br />

rilevo che la reversibilità della figura diventa la cifra del convincimento<br />

che l’ambiguità è, e per Gombrich lo è a evidenza, «la chiave dell’intero<br />

problema della lettura dell’immagine». Tutte le immagini sarebbero<br />

ambigue: anche se i più non se ne rendono conto, persino il «disegno<br />

a puro contorno di una mano è ambiguo. È impossibile dire se si tratta<br />

di una mano destra vista dall’alto o di una sinistra vista di sotto».<br />

Certo, l’immagine può risultare ambigua, ma ciò dipende dall’indeterminatezza,<br />

relativamente a “destra” e “sinistra”, che caratterizza<br />

questo particolare disegno, e non dall’ambiguità costitutiva dell’immagine<br />

in generale, né da come siamo fatti: «Non siamo consapevoli<br />

dell’ambiguità in sé, ma solo <strong>delle</strong> varie interpretazioni». Percepiamo<br />

un coniglio o un papero? No, più propriamente – sostiene Gombrich<br />

– «proiettiamo» la forma del coniglio o quella del papero 23 .<br />

Il Papero-Coniglio non è propriamente un’illusione, ma una figura<br />

bistabile come quella di Rubin. Consideriamo la «più famosa di tutte<br />

le illusioni» 24 , quella di Müller-Lyer.<br />

«Un’illusione visiva – si sostiene in psicologia – è una percezione<br />

che non corrisponde alla realtà» 25 . Confrontiamo questa definizione<br />

con quanto abbiamo sotto gli occhi. Perché il fatto che si vedano di dimensione<br />

diversa viene considerato un discostarsi dalla “configurazione<br />

reale”? Qual è la configurazione reale se non è quella che appare?<br />

Perché chiamare illusione una configurazione niente affatto illusoria,<br />

348


tant’è che chiunque può a proprio piacere, e ripetutamente, osservarla?<br />

Quali sono i parametri del “mondo reale” rispetto ai quali viene rilevato<br />

l’errore di valutazione? Qual è “la realtà cui non corrisponde”?<br />

La figura può essere considerata illusoria solo se si<br />

continua più o meno consapevolmente a credere che il sistema percettivo serva<br />

a darci in presa diretta le fattezze di quel mondo esterno che la fisica è andata<br />

costruendo lungo i secoli 26 .<br />

Il mondo “reale” della citazione è di fatto il mondo della scienza,<br />

e non quello della comune esperienza. Percepire è come fare scienza,<br />

sostiene Gregory e<br />

le illusioni costituiscono la più forte dimostrazione del fatto che […] le percezioni<br />

sono sostanzialmente <strong>delle</strong> ipotesi, molto simili alle ipotesi predittive<br />

della scienza 27 .<br />

E l’immagine? Se consideriamo che la produzione e la fruizione<br />

<strong>delle</strong> immagini<br />

è possibile solo perché non si fonda sugli aspetti squisitamente e quantitativamente<br />

geometrici <strong>delle</strong> tracce utilizzate, ma si fonda sulle condizioni del loro<br />

apparire 28 ,<br />

ci rendiamo conto di come e quanto le logiche dell’immagine possano<br />

essere stravolte, e soprattutto di come, anche dopo la svolta iconica,<br />

vale a dire “dalla parola all’immagine”, quest’ultima possa continuare<br />

a essere svalutata. Senza un’adeguata teoria della percezione e del<br />

pensiero, a cui in modo oppositivo la tradizione ha rispettivamente<br />

assegnato l’immagine e la parola, vale a dire senza rimuovere le cause<br />

che hanno determinato la subalternità della prima alla seconda, è<br />

difficile che si possano ottenere per l’immagine «gli stessi diritti che<br />

ha il linguaggio» 29 .<br />

Pur così, dopo Freedberg e Belting 30 , non è più possibile ignorarne<br />

il potere. Anzi che le immagini abbiano potere «è il cliché principale<br />

della cultura visuale contemporanea» 31 . L’effetto Narciso, l’effetto<br />

Pigmalione, l’effetto Tantalo, l’effetto Niobe, l’effetto Medusa… Non<br />

più miti del passato, ma modi con cui la contemporaneità si rapporta<br />

all’immagine. “Le immagini sono vive” è diventato un leitmotiv. E lo<br />

psicologo, data la teoria che promuove, si stupisce:<br />

Sono ‘cose’ che guardiamo, ma vediamo molto di più di ciò che è ‘fisicamente’<br />

presente. È molto strano che persone viste in queste immagini sembrino quasi<br />

vive, e dotate di una propria personalità, nonché sul punto di muoversi e parlare.<br />

La nostra conoscenza <strong>delle</strong> persone dà vita a tele altrimenti morte, nonché<br />

a statue di pietra o di metallo 32 .<br />

349


Lo studioso dell’immagine prende atto che: «rimaniamo legati ai<br />

nostri atteggiamenti ‘magici e premoderni’ nei confronti degli oggetti,<br />

e in particolare <strong>delle</strong> immagini». Sostiene anche che, poiché le immagini<br />

non hanno diritti, il loro potere è il «potere del debole […]. Se<br />

le immagini sono persone, allora sono persone di colore», e, poiché la<br />

costruzione della spettatorialità è «basata sull’opposizione tra la donna<br />

immagine e l’uomo portatore dello sguardo», sarebbero di genere<br />

femminile 33 .<br />

Ma è vero? Le immagini sono vive? Possiamo considerarle persone?<br />

Per Mitchell – e non è il solo – non è una metafora. Feticismo,<br />

idolatria e totemismo, i primi due consegnati all’attenzione odierna da<br />

Freedberg e Belting, e il terzo riproposto da Mitchell, testimoniano<br />

«il plusvalore <strong>delle</strong> immagini» 34 . Dipinti e lacrime di James Elkins ci<br />

racconta di svenimenti e palpitazioni, di singhiozzi e allucinazioni, di<br />

turbamenti e commozioni, di vertigini e collassi, di stigmate e paralisi.<br />

E, però, le intense reazioni suscitate dalle immagini sono raccontate<br />

al passato:<br />

Una volta nell’Italia tardomedievale, i dipinti potevano far piangere le persone,<br />

e non una volta sola, ma per anni. Potevano ferire gli spettatori, farli sanguinare;<br />

erano capaci di guarire, di colpire, persino di trasfigurare coloro che li<br />

guardavano. Certi osservatori subivano lesioni e restavano persino paralizzati;<br />

insomma venivano letteralmente aggrediti dai dipinti 35 .<br />

E se più realisticamente considerassimo che le immagini non sono<br />

persone – neanche di colore e di genere femminile – che non sono<br />

vive come le persone ma, alcune non tutte, hanno «la qualità ‘percettiva’<br />

della vita» 36 ? E se, tenendo presente la differenza tra mondo e<br />

rappresentazione, procedessimo a rivedere le teorie dell’immagine e<br />

della mente? E invece no. Prigionieri dell’immagine dell’immagine, ci<br />

si “stranizza”, si parla di “magia” e “animismo”, e si preferisce o riattivare<br />

la nozione otto-novecentesca di Einfühlung, un costrutto elaborato<br />

per supplire a una teoria inadeguata della percezione, o ricorrere<br />

alle categorie antropologiche elaborate sempre in quel periodo per la<br />

“mentalità primitiva” 37 .<br />

Mitchell si chiede: Che cosa vogliono “davvero” le immagini? Chiediamoci,<br />

piuttosto: è davvero questo che dobbiamo volere per le immagini?<br />

È questa «un’idea di visualità appropriata alla loro ontologia»<br />

38 ?<br />

1<br />

Cfr. M. Massironi, Vedere con il disegno, Padova 1982, pp. 125-176.<br />

2<br />

È B. G. Bara a sostenerlo nella Presentazione all’edizione italiana di S. M. Kosslyn,<br />

Le immagini nella mente. Creare ed utilizzare le immagini nel cervello (1983), Firenze 1989.<br />

3<br />

Si sostiene che «gli esseri umani non possono, ovviamente, cogliere il mondo in modo<br />

diretto; ne posseggono soltanto una rappresentazione interiore, poiché il processo percettivo<br />

350


altro non è che la costruzione di un modello del mondo. Noi siamo incapaci di confrontare<br />

direttamente la rappresentazione percettiva del mondo con il mondo esterno – essa ‘è’ il nostro<br />

mondo», P. N. Johnson-Laird, Modelli mentali. Verso una scienza cognitiva del linguaggio,<br />

dell’inferenza e della coscienza (1983), Bologna 1988, p. 251. È tanto “ovvio” che sotto la<br />

voce “Rappresentazione” del Nuovo dizionario di psicologia di R. Doron, F. Parot e C. Del<br />

Miglio (Roma 2001) si legge: «In psicologia [...] la maggior parte dei tentativi contemporanei<br />

di spiegare la genesi e l’organizzazione <strong>delle</strong> conoscenze si colloca nella prospettiva aperta<br />

da Schopenhauer e di conseguenza si attribuisce la rappresentazione come suo principale<br />

oggetto di studio».<br />

4<br />

S. Rose, Il cervello del ventunesimo secolo. Spiegare, curare e manipolare la mente, Torino<br />

2005.<br />

5<br />

Cfr. P. Legrenzi, C. Umiltà, Neuro-mania. Il cervello non spiega chi siamo, Bologna 2009.<br />

6<br />

S. M. Kosslyn, Le immagini nella mente, cit., p. 116.<br />

7<br />

W. J. T. Mitchell, Scienza dell’immagine. Quattro concetti fondamentali (2007), in Id.,<br />

Pictorial Turn. Saggi di cultura visuale, Palermo 2008, p. 9.<br />

8<br />

Ibidem.<br />

9<br />

R. Arnheim, Il pensiero visivo (1969), Torino 1974, p. 137.<br />

10<br />

W. J. T. Mitchell, Che cosa vogliono ‘davvero’ le immagini? (1996), in Id., Pictorial Turn,<br />

cit., p. 154. Cfr. anche Id., Che cosa vogliono le immagini? (2005), in Teorie dell’immagine. Il<br />

dibattito contemporaneo, a cura di A. Pinotti, A. Somaini, Milano 2009, pp. 99-133.<br />

11<br />

R. L. Gregory, Vedere attraverso le illusioni (2009), Milano 2010, p. 185.<br />

12<br />

Cfr. W. Köhler, An old pseudoproblem (1929), in The Selected Papers of Wolfgang<br />

Köhler, a cura di M. Henle, New York 1971. Il “paradosso della localizzazione”, per cui il<br />

mondo sarebbe dentro di noi, e lo incontriamo fuori perché ve lo proiettiamo, è «un disgraziato<br />

pseudoproblema creato da un ragionamento scorretto». Il paradosso, come dimostra<br />

Köhler (Il posto del valore in un mondo di fatti, 1938, Firenze, 1969, pp. 99-100), si dissolve<br />

se evitiamo «con la massima cura quelle ambiguità che sorgono dal fatto che, persino nel<br />

linguaggio filosofico, molte parole siano usate in due significati, uno fenomenico e uno transfenomenico».<br />

13<br />

S. Alpers, Arte del descrivere. Scienza e pittura nel Seicento olandese (1983), Torino<br />

1999, p. 55.<br />

14<br />

Cfr. L. Pizzo Russo, Al di qua dell’immagine, in “Fieri. Annali del Dipartimento di<br />

Filosofia, Storia e Critica dei Saperi dell’Università degli Studi di Palermo”, 4 (2006), pp.<br />

331-336 [ora supra, pp. 59-86].<br />

15<br />

R. Arnheim, Arte e percezione visiva (1974 2 ), Milano 2002 17 , p. 91.<br />

16<br />

P. N. Johnson-Laird, Deduzione induzione creatività. Pensiero umano e pensiero meccanico<br />

(1993), Bologna 1994, p. 192, virgolette mie.<br />

17<br />

W. J. T. Mitchell, Scienza dell’immagine, cit. p. 10.<br />

18<br />

E. H. Gombrich, L’uso del colore e il suo effetto. Il come e il perché (1994), in Sentieri<br />

verso l’arte. I testi chiave di E. H. Gombrich (1996), a cura di R. Wooldfield, Milano 1997,<br />

p. 163.<br />

19<br />

R. Arnheim, Il pensiero visivo, cit., p. 266; e Id., Sulla duplicazione (1981), in Id.,<br />

Intuizione e intelletto. Nuovi saggi di psicologia dell’arte (1986), Milano 1997, p. 317.<br />

20<br />

W. J. T. Mitchell, Scienza dell’immagine, cit., p. 10.<br />

21<br />

R. L. Gregory, Vedere attraverso le illusioni, cit., p. 77.<br />

22<br />

W. J. T. Mitchell, Scienza dell’immagine, cit., p. 12.<br />

23<br />

E. H. Gombrich, Arte e illusione. Studio sulla psicologia della rappresentazione pittorica<br />

(1962 2 ), Torino 1965, pp. 6, 5, 284.<br />

24<br />

R. L. Gregory, Le illusioni ottiche (1969), in Illusione e realtà. Problemi della percezione<br />

visiva, “Letture da Le Scienze”, Milano 1978, p. 56.<br />

25<br />

O. Da Pos, E. Zambianchi, Illusioni ed effetti visivi. Una raccolta, Milano 1996, p. 13.<br />

26<br />

P. Bozzi, Fisica ingenua. Oscillazione, piani inclinati e altre storie: studi di psicologia<br />

della percezione, Milano 1990, p. 29.<br />

27<br />

R. L. Gregory, Curiose percezioni (1986), Bologna 1989, pp. 100-101.<br />

28<br />

M. Massironi, Comunicare per immagini. Introduzione alla geometria <strong>delle</strong> apparenze,<br />

Bologna 1989, p. 37.<br />

29<br />

W. J. T. Mitchell, Che cosa vogliono ‘davvero’ le immagini?, cit., p. 159.<br />

30<br />

D. Freedberg, Il potere <strong>delle</strong> immagini. Il mondo <strong>delle</strong> figure: reazioni e emozioni del<br />

pubblico (1989), Torino 1993; H. Belting, Il culto <strong>delle</strong> immagini. Storia dell’icona dall’età<br />

imperiale al tardo Medioevo (1990), Roma 2001.<br />

351


31<br />

W. J. T. Mitchell, Che cosa vogliono ‘davvero’ le immagini?, cit., p. 144.<br />

32<br />

R. L. Gregory, Vedere attraverso le illusioni, cit., p. 83.<br />

33<br />

W. J. T. Mitchell, Che cosa vogliono ‘davvero’ le immagini?, cit., pp. 143, 147.<br />

34<br />

Id., Il plusvalore <strong>delle</strong> immagini (2002), in Id., Pictorial Turn, cit., pp. 97-139.<br />

35<br />

J. Elkins, Dipinti e lacrime. Storie di gente che ha pianto davanti a un quadro (2001),<br />

Milano 2007, pp. 181-182.<br />

36<br />

R. Arnheim, La storia dell’arte e il dio partigiano (1962), in Id., Verso una psicologia<br />

dell’arte. Espressione visiva, simboli e interpretazione (1966), Torino 1969, p. 191: «Mai nelle<br />

arti, salvo in qualche episodio di illusionismo estremo, “essere vivo” ha significato essere simile<br />

agli esseri viventi: sempre dev’essere stata ovvia la differenza tra natura e simulacro. Le opere<br />

d’arte non soltanto sono <strong>delle</strong> “equivalenze” – per usare il termine di Gombrich – ma certo<br />

sempre sono state viste come tali. “Esser vivo” per un’opera significava manifestare la qualità<br />

“percettiva” della vita. Dato che questa qualità può ritrovarsi tanto negli oggetti animati che<br />

in quelli inanimati, tanto negli oggetti fisici che nelle loro immagini, la distinzione artistica tra<br />

mancanza di vita e vita è strettamente percettiva, non ontologica. Per questo motivo, un’investigazione<br />

fondata sul concetto ontologico di “illusione”non può che eludere il problema<br />

fondamentale della rappresentazione pittorica. Nei termini della dicotomia tra immagine e<br />

realtà fisica, la qualità “viva” dell’immagine deve apparire un paradosso da attribuire alla<br />

“coesistenza pacifica, nell’uomo, di atteggiamenti incompatibili”». La “coesistenza di atteggiamenti<br />

incompatibili” di Gombrich (il testo di Arnheim recensisce Arte e illusione. Studio sulla<br />

psicologia della rappresentazione pittorica) richiama «gli atteggiamenti magici e premoderni»<br />

nei confronti <strong>delle</strong> immagini, cui, secondo Mitchell (Che cosa vogliono ‘davvero’ le immagini?,<br />

cit., p. 143), rimaniamo legati. Per Arnheim, e in generale per la psicologia della Gestalt, “la<br />

qualità percettiva della vita”, è data dalle qualità espressive; giusta, però, l’avvertenza di non<br />

antropomorfizzare l’espressione e di non relegarla nel funzionamento della mente del primitivo<br />

e del bambino, ma di considerarla «come l’insieme di quelle modalità del comportamento organico<br />

e inorganico che appaiono nell’aspetto dinamico degli oggetti e degli eventi percettivi»,<br />

R. Arnheim, Arte e percezione visiva, cit., p. 362.<br />

37<br />

Per una critica di queste nozioni, cfr. L. Pizzo Russo, So quel che senti. Neuroni specchio,<br />

arte ed empatia, Pisa 2009.<br />

38<br />

W. J. T. Mitchell, Che cosa vogliono ‘davvero’ le immagini?, cit., p. 158<br />

352


Appendice


Una vita contro. Conversazione con Lucia Pizzo Russo *<br />

di Tiziana Andina e Carmelo Calì<br />

A volte sembra quasi che chi si dedica senza sosta a difendere un’idea,<br />

in fondo nella sostanza molto semplice, trascorra la propria vita<br />

sulle barricate. In realtà, spesso più efficace è immaginarne il lavoro<br />

come un percorso di ricerca che, anche nelle inattese svolte, esplicita<br />

con passione e rigore un’intuizione: se si vuole davvero comprendere<br />

l’essere umano, è necessario considerarlo come unità psicofisica, trattare<br />

la complessità della mente senza pregiudizi disciplinari. Il lavoro di<br />

Lucia Pizzo Russo ha sempre saggiato limiti e conseguenze di questa<br />

idea.<br />

Guidate da una concezione dei saperi umanista e di ampio respiro,<br />

per cui le scienze dure sono compagne fidate <strong>delle</strong> altre scienze, quelle<br />

una volta dette “dello spirito”, la ricerca e l’attività d’insegnamento di<br />

Lucia Pizzo Russo sono state mosse dall’esigenza di rispettare la complessità<br />

della mente. Comprendere la mente umana significa rendere<br />

giustizia alla percezione, alla sua intelligenza, non confondere razionalità<br />

e logica, rintracciare il nesso con i fenomeni che rende il pensiero<br />

intuitivo, riabilitare l’oggettività <strong>delle</strong> emozioni e dei valori, riscoprire<br />

che le vie dell’invenzione non arbitraria di forme rappresentative, simboliche<br />

e culturali, riconduce proprio all’intelligenza della percezione.<br />

Certo, il rapporto con le scienze – dure o morbide che fossero e con<br />

la psicologia in particolare – non sempre è stato facile, come del resto<br />

non è mai facile il rapporto con le persone o con le cose da cui ci attendiamo<br />

di più. Le richieste nei confronti della psicologia, così come della<br />

filosofia, è sempre stata esplicita e soprattutto chiara: entrambe non<br />

dovevano venir meno a quel compito millenario che è sempre consistito<br />

nello spiegare, nella maniera più semplice possibile, senza sofisticherie o<br />

rompicapi inutili ciò che ci circonda e accade nello spazio dei fenomeni,<br />

con l’idea che l’arte – grazie alla sua base percettiva – offra una via di<br />

accesso privilegiato.<br />

In questo quadro, il sapere non è puro concetto né l’esperienza è<br />

* Pubblicato nella “Rivista di estetica”, n.s., 48 (3/2011), pp. 3-11, fascicolo monografico<br />

intitolato Arte, psicologia e realismo. Saggi in onore di Lucia Pizzo Russo, a<br />

cura di T. Andina e C. Calì.<br />

355


costruzione del mondo e dei modi di studiarlo a partire da una tabula<br />

rasa. La percezione forma concetti visivi che si approssimano alla<br />

struttura <strong>delle</strong> cose, il pensiero intuitivo crea forme rappresentative e<br />

teorie a partire dall’esperienza percettiva in cui s’incontrano i vincoli<br />

di un mezzo espressivo e i fenomeni da cui astrarre le proprietà dei<br />

modelli scientifici.<br />

Comunque s’intendano i concetti, essi sono inaccessibili, mentre i concetti rappresentativi,<br />

stanno nel mondo, possiamo farne diretta esperienza, analizzarli,<br />

studiarli, ecc. L’arte essendo fruibile attraverso i sensi, a torto è sembrata non<br />

impegnare il pensiero; e, viceversa, la scienza, sembrerebbe fare a meno della<br />

percezione, come se il linguaggio tramite il quale la si rappresenta non impegnasse<br />

nessuno dei sensi. In quanto prodotte da donne e uomini, arte e scienza<br />

interessano l’agire motivato e non il solo processo cognitivo. Per produrre qualcosa,<br />

che sia arte, scienza o altro, la mente infatti non impegna solo se stessa<br />

come quando pensa, immagina, ricorda, sogna a occhi aperti ecc., ma deve agire<br />

come corpo e corpo potenziato dagli strumenti che va inventando (L. Pizzo<br />

Russo, Le arti e la psicologia, Milano, Il Castoro, 2004: 8-9).<br />

Dunque, un impegno ai confini tra le discipline, non per cancellarli<br />

bensì per restituire quella completezza e quella vastità di vedute che<br />

era l’obiettivo dei padri e che i figli hanno dimenticato, restituendo un<br />

mondo composto da mille e più tessere, un puzzle sempre più complicato<br />

e incomprensibile. Filosoficamente parlando l’origine di questa<br />

storia – a volerla raccontare – dovrebbe essere fatta risalire almeno<br />

a Descartes e, in fondo, la conosciamo tutti bene. Ciò di cui invece<br />

vorremmo dire qualcosa di più, chiedendone direttamente a Lucia, è<br />

la storia di questo impegno intellettuale.<br />

Cara Professoressa, iniziamo dall’idea di rendere arte e psicologia rilevanti<br />

l’una per l’altra per comprendere la mente e la cognizione umana.<br />

Muovendoci tra biografia e teoria, ci piacerebbe sapere qualcosa a proposito<br />

di quello che forse è stato il primo incontro tra questi interessi: i<br />

corsi di Brandi che extra curriculum decise di frequentare all’Università<br />

di Palermo e la sua tesi di laurea che seppur in psicologia aveva, forse<br />

un po’ curiosamente, proprio Brandi come correlatore.<br />

Arte e psicologia non erano certamente ambiti considerati vicini o<br />

affini. Il dams di Bologna che, guardando al Bauhaus avrebbe inserito<br />

nel suo statuto la <strong>Psicologia</strong> dell’arte e che a lungo non attiverà, era<br />

ancora in mente Dei. A quell’epoca, non era stata neppure istituita la<br />

cattedra di <strong>Psicologia</strong> dell’Arte per Arnheim all’Università di Harvard.<br />

Perciò i miei interessi per l’arte e per la psicologia seguivano percorsi<br />

diversi: da una parte la mia passione per le arti che si risolveva nel<br />

guardare, nell’ascoltare, nel leggere; dall’altra la mia esigenza di rigore<br />

che mi portava verso la scienza, verso la psicologia. Aspiravo a far<br />

356


parte del mondo della ricerca, e dopo l’esame di <strong>Psicologia</strong>, che allora<br />

era al primo anno di Filosofia, ho fatto domanda per l’“internato”<br />

nell’Istituto di <strong>Psicologia</strong>, diretto da Gastone Canziani. L’Istituto era<br />

ospitato al Policlinico. Così dal settembre 1962, in camice bianco come<br />

si usa in medicina, dalle otto alle 20, tranne le ore di lezione <strong>delle</strong> altre<br />

discipline, passavo le giornate tra libri, test e stabulari. In psicologia<br />

allora non vi era spazio per tenere insieme i miei due interessi. Una<br />

tesi di laurea che avesse preso come oggetto l’arte sarebbe stata bollata<br />

come non scientifica, postmoderna per citare <strong>Psicologia</strong> moderna<br />

e postmoderna di Luciano Mecacci, ma senza l’accezione positiva da<br />

lui data al termine.<br />

E il disegno infantile? E Brandi come correlatore?<br />

Seguivo Brandi perché mi affascinava il suo modo di fare lezione.<br />

Rendeva vive le opere: dandoci indicazioni con un lungo bastone (non<br />

c’erano ancora le penne laser) per orientare il nostro sguardo sulle riproduzioni<br />

di opere d’arte, ci insegnava a guardare; la stessa lezione<br />

che avrei ritrovato poi alla base del magistero di Arnheim. La lettura<br />

del suo Segno e immagine – un libro bellissimo – mi ha dato l’idea<br />

per l’argomento della tesi. La concezione allora in voga era che il disegno<br />

del bambino fosse arte. Che lo storico dell’arte venisse indicato<br />

come correlatore era quindi nelle cose. Solo che Brandi criticava la<br />

tesi dell’arte infantile, e Canziani la sosteneva. Dallo scontro ne sono<br />

uscita quasi indenne. Ecco, la scelta del soggetto della tesi era forse<br />

un modo di trovare un qualche spazio per l’altro mio interesse, mentre<br />

non pensavo proprio di coniugare dal punto di vista della ricerca<br />

ambiti considerati così distanti. Del resto, allora semmai era l’impostazione<br />

psicanalitica quella che sembrava più promettente, data anche<br />

l’idea del lavoro dell’artista come una sorta di intuizione irrazionale.<br />

Se poi si associa questa idea allo stereotipo per cui artisti si nasce, si<br />

comprende il successo in psicologia dell’arte infantile, e anche come<br />

il comportamentismo, ancora dominante, non avesse molto da dire.<br />

La nascita dell’Istituto di <strong>Psicologia</strong> di Palermo è legata al nome del<br />

professor Canziani. Come vi si conciliarono questi suoi interessi, data<br />

l’impostazione medico-psichiatrica del suo direttore e il clima scientifico<br />

degli anni ’60 ben delineato tra New Look e comportamentismo?<br />

L’interesse per il disegno era legittimo. L’Istituto ospitava il Centro<br />

di <strong>Psicologia</strong> del Lavoro, dove noi giovani avevamo l’opportunità di<br />

impadronirci degli strumenti usati in psicologia. Molti di questi strumenti<br />

erano test di disegno. Che si avesse la voglia di approfondirne la<br />

comprensione era persino auspicabile. Dopo la laurea ero poi diventata<br />

assistente volontaria di Liliana Terrana Riccobono – la prima allieva di<br />

Canziani, e la prima a insegnare <strong>Psicologia</strong> dell’età evolutiva in Sicilia,<br />

come allora si chiamava la <strong>Psicologia</strong> dello sviluppo – che era interes-<br />

357


sata al disegno e ai test di disegno. Somministrando test e studiando<br />

psicologia dello sviluppo, finii con l’occuparmi del test di disegno più<br />

usato, il “test dell’uomo” di Florence Goodenough. Era un test stravolto<br />

a partire dalla consegna e a finire alla valutazione. E tanto pressappochismo<br />

era insopportabile per chi aveva scelto psicologia proprio pensando<br />

di passare dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, per<br />

dirla con Koyré. Certo, la psicologia non è la fisica, ma, se è attraverso<br />

lo strumento che la precisione si incarna nel mondo del pressappoco,<br />

lo strumento in psicologia non può essere come un elastico che ognuno<br />

può deformare a proprio piacere. Per il test dell’uomo, usato non solo<br />

a fini diagnostici ma anche nella ricerca evolutiva, non meno fantasiosa<br />

della pratica, in Italia non esisteva nemmeno il manuale. Né lo strumento<br />

in psicologia è teoricamente neutrale. Perciò nell’Introduzione al<br />

famoso test che ho curato per i tipi della Giunti non mi sono preoccupata<br />

solo di consegna e scoring, ma anche di esplicitare i principî che<br />

ne avevano determinato la costruzione, e tentare di fornire un quadro<br />

teorico più adeguato utilizzando la teoria di Piaget.<br />

… ma è qui che nacque l’interesse per Piaget…<br />

L’interesse per Piaget nacque presto, ma non perché facesse parte<br />

dell’iter formativo esplicitamente o implicitamente suggerito dall’Istituto.<br />

Allora c’erano testi e ricerche che si riteneva più urgente leggere.<br />

L’attenzione alla filosofia e il metodo critico usato per la ricerca<br />

confliggevano con l’idea di scienza propagandata dal comportamentismo.<br />

È significativo che abbia incontrato la psicologia di Piaget in<br />

una conferenza sull’Epistemologia genetica organizzata dallo storico<br />

della filosofia e non dallo psicologo, alla quale però partecipò anche<br />

Canziani. L’istituto di <strong>Psicologia</strong> offriva la straordinaria opportunità<br />

di numerosi testi e riviste a portata di mano: quasi una vera e propria<br />

finestra sul mondo. Dovete pensare a un mondo privo del flusso quasi<br />

simultaneo di informazioni di oggi… In biblioteca, dove si poteva sostare<br />

dalla mattina alla sera, era presente persino l’intera serie di volumi<br />

dell’epistemologia genetica, volumi per lo più ancora intonsi. E trovai<br />

una psicologia complessa e rigorosa, attenta ai principî e all’analisi<br />

dei concetti: finalmente l’universo della precisione. Per di più, quando<br />

nel 1966 da <strong>Psicologia</strong> generale passai a <strong>Psicologia</strong> dell’età evolutiva,<br />

mi fu molto utile l’accanimento su questi testi, dato che da lì a poco<br />

sarebbe diventata la teoria di riferimento di quell’ambito disciplinare,<br />

senza contare che la sua concezione della genesi come esplicativa della<br />

struttura mi consentiva di continuare a pensarmi in psicologia generale.<br />

Ma, soprattutto, mi ha colpito e convinto il “non possiamo contraddirci”<br />

di Piaget, mi pare già di Kant, e ancora oggi mi sento di dire<br />

che le coordinate del mio pensiero sono quelle formatesi all’interno di<br />

questa disciplina del rigore.<br />

358


L’incontro con Arnheim avvenne invece in occasione di un ciclo di lezioni<br />

che tenne a Palermo. Come nacque l’interesse per un’altra fonte importante<br />

della sua ricerca che diverrà poi un vero punto di riferimento?<br />

L’incontro con Arnheim persona avvenne nell’83, ma l’incontro con<br />

i suoi testi è più o meno contemporaneo a quello con i testi di Piaget,<br />

o forse un po’ prima. Ancora una volta la segnalazione non mi veniva<br />

dalla psicologia. E però, mentre Piaget, come dicevo, era ben presente<br />

in biblioteca, mi pare di ricordare di non avere trovato lì Arnheim. In<br />

ogni caso Arte e percezione visiva che mi serviva per la tesi di laurea<br />

mi è stato regalato da un amico, significativamente, attivo nel campo<br />

<strong>delle</strong> arti. E il merito di averlo introdotto in Italia come sapete va a<br />

Gillo Dorfles, non a uno psicologo. Questo per dirvi che c’erano motivi<br />

sufficienti per scoraggiarne la frequentazione se si nutrivano interessi<br />

per la ricerca in psicologia. L’establishiment della psicologia lo ignorava,<br />

e aveva le sue buone ragioni: Arnheim si occupava di arte ed era<br />

gestaltista, una psicologia di cui reiteratamente si è annunciata la morte.<br />

Perciò uno studioso “al confine della psicologia”. Pur così, Arnheim è<br />

sempre stato presente nella mia ricerca, ma…<br />

Sarebbe allora corretto dire che Arnheim sostituisce Piaget come punto di<br />

riferimento, grazie a una teoria comprensiva, e che al contempo rimane<br />

pur sempre un’impostazione piagetiana che permette di inquadrare la<br />

ricerca sempre nella prospettiva della psicologia generale?<br />

Tengo a precisare che lo stesso Arnheim per me fa psicologia generale.<br />

Certo, si è occupato di film, radio, pittura, scultura, musica,<br />

letteratura, insomma <strong>delle</strong> arti. Ed è stato considerato un critico d’arte,<br />

un estetologo, piuttosto che uno psicologo. Il mio interesse per lui deriva<br />

dal fatto che si occupava della mente, di percezione, di pensiero…<br />

Uno psicologo dei processi cognitivi a partire dall’arte, non dei processi<br />

cognitivi dell’arte. Del resto, quando l’oggetto non è l’arte, qual<br />

è l’oggetto della psicologia? “L’oggetto in generale”, si è detto. Ma che<br />

natura avrebbe? Gli oggetti non sono mai “in generale” ma sono sempre<br />

tangibili, visibili o a base percettiva. Se ci si pone questa domanda<br />

e si va a guardare, ci si accorge che gli oggetti studiati da Piaget, ad<br />

esempio, sono oggetti del pensiero scientifico, come ho argomentato<br />

altrove. Il problema dell’oggetto per lo studio della mente è importante,<br />

dato che non possiamo fare “sensate esperienze” della mente<br />

se non tramite gli oggetti. E anche quando l’oggetto lo si adoperi con<br />

consapevolezza critica, i dati vanno interpretati, e le interpretazioni,<br />

esplicitazioni di principî teorici, possono differire tanto da ingenerare<br />

il sospetto che non si tratti dello stesso oggetto Si pensi al quadrato di<br />

Mach e alla possibilità oggettiva che esso appaia con identità diverse<br />

a seconda dell’inclinazione: inclinato di un angolo, diventa un rombo.<br />

Due figure «geometricamente congruenti ma fisiologicamente (psicologicamente)<br />

diverse», precisa Mach. Per Piaget, percepire il rombo e<br />

359


non più il quadrato è dovuto all’“irreversibilità” del pensiero, un pensiero<br />

legato all’apparenza, incapace di cogliere la vera realtà <strong>delle</strong> cose.<br />

«C’è da suscitare le proteste di tutti gli artisti», controbatte Arnheim.<br />

Le ragioni della scienza per Piaget e le ragioni dell’arte per Arnheim.<br />

E però si tratta di autentiche caratteristiche percettive, se per me, per<br />

voi e per chiunque altro sono figure diverse, come Mach per primo<br />

ha evidenziato. E di lui, uno scienziato, certo non si può dire che non<br />

ha ancora raggiunto la reversibilità del pensiero. Ecco, le ragioni di<br />

Arnheim finirono col diventare via via sempre più le mie. L’idea di<br />

pensiero e l’idea di percezione di Piaget, articolate nella scelta degli<br />

oggetti sperimentali e nell’interpretazione dei dati, lo porta a teorizzare<br />

il rapporto della coppia filosofica sensi-intelletto come un rapporto di<br />

dominio: un pensiero “forte” e una percezione “debole”. Per i gestaltisti,<br />

che hanno messo in discussione l’assetto teorico-sperimentale della<br />

psicologia del loro tempo a partire da una riflessione sull’esperienza,<br />

possiamo parlare di una percezione “forte” e di un pensiero “produttivo”.<br />

Nessun rapporto di dominio però: la “forza” della percezione è<br />

volta a fronteggiare la complessità di ciò che incontriamo e di ciò che<br />

produciamo, non a imbrigliare il pensiero. La mente a doppio taglio<br />

di Arnheim… Che Piaget sia diventato popolare in psicologia generale<br />

e Arnheim no, è un segno del fatto che la mia generazione fin dalla<br />

scuola elementare è stata preparata all’incontro con Piaget.<br />

Nella bella intervista che lei raccolse da Arnheim, ci pare allora di leggere<br />

questa formazione di una nuova impostazione di ricerca, quasi fosse<br />

l’occasione di una vera e propria ri-scoperta per studiare la mente umana,<br />

la sua capacità di creare concetti e forme.<br />

Le cose in effetti non sono state così semplici. Prima di intervistarlo<br />

mi preoccupai ovviamente di rileggere quanto di lui avevo letto e di<br />

leggere quanto non avevo ancora letto. Pur così la sensazione che a<br />

lungo mi ha accompagnato è stata quella di non averlo ben capito, anzi<br />

di averlo frainteso. Ricordo che Arnheim quando mi mando l’ok per<br />

la stampa scherzosamente mi suggerì un titolo diverso: “Conversazione<br />

tra Rudolf Arnheim e Lucia Pizzo Russo”. E il successo della Conversazione,<br />

curiosamente, si trasformava in fastidio: il fastidio di un compito<br />

fatto male, come poi ho compreso. Continuavo a citare Arnheim e<br />

a lavorare all’interno della cornice teorica piagetiana. Più raccoglievo<br />

dati e elaboravo protocolli, più mi convincevo che ciò che rilevavo non<br />

corrispondeva alla teoria. Dati lontani dall’essere evidenze sperimentali<br />

della reversibilità del pensiero e del pensiero logico-formale, o ipoteticodeduttivo,<br />

o puro. Migliaia di protocolli inutilizzati. Ma non mettevo in<br />

discussione la teoria. Piuttosto rimpiangevo di non essermi formata a<br />

Ginevra, perché non mi abbandonava il sospetto di avere raccolto i dati<br />

in maniera non soddisfacente senza l’adeguato iter formativo vigente in<br />

quell’Istituto di ricerca. Per ritornare al quadrato inclinato di un an-<br />

360


golo, tutti percepivano il rombo, ma dovevo prima smontare un modo<br />

di pensare per comprendere a pieno le “ragioni” di Arnheim. Proprio<br />

in quel periodo stavo chiudendo Il disegno infantile. Storia, teoria e<br />

pratiche e accusai un vero e proprio blocco perché avevo intravisto un<br />

nuovo modo di fare ricerca che non padroneggiavo, abbastanza comunque<br />

per non sentire quasi più mio quel testo appena concluso. Il libro,<br />

infatti, uscì solo nel 1988. «Sfiorare un’idea e non coglierne l’essenza!»,<br />

come ha detto René Zazzo, uno psicologo un tempo famoso e oggi<br />

sconosciuto ai più. «Il primo affacciarsi di un’idea, resta spesso senza<br />

conseguenze, ci occorre un’occasione nuova per riscoprirla», continua<br />

Zazzo. È quanto mi è successo con Arnheim. L’occasione è stata il<br />

passaggio dall’insegnamento della <strong>Psicologia</strong> dell’età evolutiva alla <strong>Psicologia</strong><br />

<strong>delle</strong> arti. Un passaggio disciplinare non cercato, né auspicato,<br />

ma determinato da ragioni accademiche. Qui Piaget non funzionava<br />

proprio. Il patriarca della <strong>Psicologia</strong> dell’arte sì. A poco a poco mi<br />

sono resa conto che l’uso che avevo fatto fino ad allora di Arnheim era<br />

un’“assimilazione deformante” di Arnheim a Piaget. La nuova disciplina<br />

che dovevo rappresentare rendeva necessario un “decentramento”.<br />

“Assimilazione deformante” e “decentramento” sono concetti piagetiani,<br />

che, ironia della sorte, ero costretta a giocare proprio contro Piaget. A<br />

decentramento avvenuto, con Arnheim mi si aprì un mondo, un modo<br />

diverso di considerare l’esperienza, una teoria più adeguata per rendere<br />

conto della complessità dell’“oggetto” e della mente. La portata e<br />

l’importanza di Piaget per me rimarrà comunque sempre tale. Perciò<br />

ho dedicato a entrambi Che cos’è la <strong>Psicologia</strong> dell’arte. Ho impiegato<br />

anni per riacciuffare il pensiero di un autore che non è così facile da<br />

padroneggiare, come sembra a prima vista. Del resto è la prospettiva<br />

teorica della GestaltPsycologie a essere di difficile comprensione, dato<br />

il mainstream della psicologia. A proposito della ripresa nel corso degli<br />

anni ’80 <strong>delle</strong> leggi di Wertheimer da parte di molti teorici della percezione,<br />

Arnheim parla del «senso di estraneità» che lo coglie a leggere<br />

quanto viene detto sulla teoria della Gestalt. E ovviamente si preoccupa<br />

<strong>delle</strong> deformazioni cui è andata incontro. Si pensi allo slogan “Il tutto<br />

è più della somma <strong>delle</strong> parti”, col quale si identifica la psicologia della<br />

Gestalt: uno slogan che riduce il rapporto fra l’intero e le parti a una<br />

somma è in piena contraddizione con la teoria.<br />

Ci pare di ricordare che a volte, parlando di questo rischio di incomprensione,<br />

lei citasse il nome di Gombrich.<br />

Un grande storico dell’arte, di cui come tanti ho subito il fascino,<br />

anche se oggi Elkins, l’autore di Lacrime e pitture, elenca dieci ragioni<br />

per cui Gombrich non è riconducibile alla storia dell’arte. Una di queste<br />

è il suo interesse per la scienza e, in particolare per la psicologia.<br />

Ed è forse per questo che lo trovavo tanto interessante. Fin dalla tesi<br />

di laurea ho incontrato il suo nome assieme a quello di Arnheim, il<br />

361


inomio più frequentemente presente nella letteratura sull’argomento.<br />

In psicologia anche lui, come Arnheim, è considerato uno studioso<br />

“al confine con la psicologia”, nonostante tenga a precisare che non è<br />

uno psicologo, mentre Arnheim precisa che è uno psicologo. Fermo<br />

restando ciò, per Gombrich «tutta l’arte è concettuale» e per Arnheim<br />

«percepire è già concettualizzare». Su questa base consideravo simili<br />

le loro teorie e attribuivo le inevitabili differenze alle loro diverse formazioni<br />

culturali. Quando ne parlai con Arnheim, non fu d’accordo.<br />

E ovviamente aveva ragione, come mi sono resa conto dopo la Conversazione:<br />

avevo frainteso il concetto di “concetto percettivo”. Ero in<br />

buona compagnia di filosofi e psicologi, ma non è né una consolazione<br />

né una giustificazione. Piuttosto, questa mia incomprensione, e non è<br />

la sola, è uno dei motivi per cui avrei voluto rifare la Conversazione.<br />

Riprendiamo il tema dell’importanza degli oggetti d’arte per la ricerca<br />

sulla mente. Possiamo forse ricorrere a uno studioso di estetica come Garroni<br />

per formulare un’equivalenza che renda conto della specificità della<br />

ricerca in psicologia <strong>delle</strong> arti. È corretto dire che la psicologia dell’arte<br />

starebbe alla psicologia generale come, appunto per Garroni, l’estetica<br />

considerata però non come filosofia speciale starebbe alla filosofia?<br />

Emilio Garroni, un pensatore rigoroso che ho molto stimato anche<br />

come persona. L’estetica come “filosofia non speciale”. La sua critica<br />

all’estetica come “filosofia speciale” mi è stata molto utile per intendere<br />

la psicologia dell’arte di Arnheim come psicologia non speciale, diversamente<br />

dall’opinione corrente che la considera psicologia applicata. La<br />

psicologia di Arnheim ha sì come referente privilegiato l’arte, ma per<br />

capire l’esperienza e i processi cognitivi che la rendono possibile. Ritornando<br />

a Garroni, quando nel 1981 contribuii a organizzare il seminario<br />

“Estetica e <strong>Psicologia</strong>”, nel mio interverto su <strong>Psicologia</strong> dell’arte: stato<br />

e statuto ho fatto tesoro del suo modo di intendere il “principio del<br />

fare” e il “principio del dire”. Il suo concetto di “metaoperatività” mi<br />

servì per mettere assieme Piaget e Arnheim. E anche il suo Estetica ed<br />

Epistemologia, o il bel saggio sulla Creatività o la sua lettura di Kant<br />

mi sono stati molto utili. Più in generale, grande è il mio debito nei<br />

confronti degli studiosi italiani di estetica, il cui concetto di esperienza,<br />

e pour cause, non è quello forgiato nella modernità per le esigenze<br />

della fisica. Per anni ho partecipato e fatto tesoro dei loro interessanti<br />

dibattiti e mi piace ringraziarli dalla Rivista di estetica, da anni una<br />

rivista di “filosofia non speciale”.<br />

Ritorniamo allora a oggi. Come vede la psicologia, la psicologia <strong>delle</strong> arti<br />

e come le immagina nel futuro?<br />

Coltivo una speranza singolare: che la psicologia <strong>delle</strong> arti in qualche<br />

modo svanisca, poiché significherebbe che la psicologia generale<br />

ha riscoperto quei principî che erano a fondamento della GestaltPsy-<br />

362


chologie: ridare la giusta importanza alla percezione, all’esperienza, non<br />

confondere processi e prodotti della mente, o l’intero e le parti, o la<br />

reazione e l’oggetto cui si reagisce, o la soggettività genetica e la soggettività<br />

comunemente intesa… In breve, contro l’ipertrofia del soggetto,<br />

la psicologia dei percetti oggettivi e dei valori oggettivi.<br />

Da quanto detto e dal suo percorso intellettuale sembra quasi che per<br />

essere buoni psicologi non si possa che essere anche filosofi. Ci sembra<br />

opportuno allora lasciarci con un’ultima riflessione sul rapporto con la<br />

filosofia ricordando l’insegnamento di Paolo Bozzi...<br />

Paolo Bozzi rimane per me idealmente un allievo di Köhler: un gestaltista<br />

che ha resistito al ritorno <strong>delle</strong> tesi della Scuola di Graz che<br />

sono più in sintonia con il cognitivismo. Rispetto a me, lui ha avuto<br />

la fortuna di studiare e crescere in un Istituto in cui erano ben diffusi<br />

i suoi stessi interessi di ricerca, anche se ciò non doveva valere per<br />

l’analisi teorica dei principî. È lui a raccontare il veto posto alla pubblicazione<br />

di un suo libro perché la teoria veniva guardata con sospetto<br />

e a precisare che forse una copia dattiloscritta è ancora in possesso di<br />

R. Valdevit. Ma in giro c’è almeno un’altra copia che fortunosamente<br />

è finita nelle mie mani. Senza titolo, senza indice, ma con la data annotata<br />

a mano: «Febbraio 1966», e l’indicazione «2 a copia». L’amico,<br />

Ian Vestergen, me l’ha mandato precisandomi che «Bozzi scrive come<br />

Arnheim: loro parlano di Aristotele, Locke o Hume…». «Il mio amatissimo<br />

Hume, il mio straletto Aristotele», scrive Bozzi. Anch’io ho straletto<br />

qualche filosofo. Del resto, come sostiene Piaget, «ogni psicologo<br />

resta tributario della sua propria epistemologia», che ne sia consapevole<br />

o meno. Bozzi ne era criticamente consapevole. Mi piace ricordarlo<br />

per le bellissime introduzioni ai testi di Köhler e Wertheimer che sono<br />

un invito alla lettura dei classici. Ed è proprio la rilettura <strong>delle</strong> opere<br />

di Köhler che lo porta a sostenere che il suo pensiero appartiene al<br />

futuro della psicologia e non al suo passato. Non sono così ottimista: le<br />

tradizioni di ricerca tendono a perpetuarsi, e i rivoluzionari guardano<br />

al futuro non al passato. Nondimeno mi auguro che abbia ragione lui<br />

e torto io. Se la sua previsione è quella giusta, la mia speranza che la<br />

psicologia <strong>delle</strong> arti svanisca si avvererà.<br />

363


Appendice biobibliografica<br />

Cenni biografici<br />

1942<br />

Nasce a Belmonte Mezzagno, vicino Palermo, il 6 gennaio, ma viene<br />

registrata all’anagrafe giorno 14.<br />

1961<br />

In ottobre conosce Luigi Russo, come lei matricola universitaria<br />

nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo, con<br />

il quale stabilisce un intenso sodalizio durato tutta la vita.<br />

1965<br />

Il 30 novembre si laurea in Filosofia con una dissertazione d’impianto<br />

interdisciplinare dal titolo “La problematica del disegno infantile”<br />

(relatore Gastone Canziani, correlatore Cesare Brandi), ottenendo<br />

la massima votazione, la lode e la dignità di stampa.<br />

1966<br />

Viene nominata assistente volontario presso la cattedra di <strong>Psicologia</strong><br />

dell’età evolutiva della Facoltà di Magistero, dove diventerà<br />

assistente ordinario nel 1972.<br />

1968<br />

Il 31 agosto sposa Luigi Russo. Assume il nome di “Lucia Russo<br />

Pizzo” che muterà poi in “Lucia Pizzo Russo”.<br />

1970<br />

Nasce suo figlio Cesare.<br />

1972<br />

Nasce suo figlio Dario.<br />

1973<br />

Ottiene l’incarico dell’insegnamento di <strong>Psicologia</strong> dell’età evolutiva<br />

nella Facoltà di Magistero.<br />

1977<br />

Pubblica Introduzione al test del disegno dell’uomo.<br />

1980<br />

In novembre è socio fondatore del Centro Internazionale Studi di<br />

Estetica, di cui dirige la sezione di <strong>Psicologia</strong> <strong>delle</strong> arti.<br />

365


1982<br />

Pubblica Estetica e psicologia.<br />

1983<br />

In aprile incontra Rudolf Arnheim – invitato da Luigi Russo a tenere<br />

nella Facoltà di Lettere e Filosofia un ciclo di lezioni dal titolo<br />

“Il contributo della <strong>Psicologia</strong> <strong>delle</strong> arti all’Estetica” – con cui instaura<br />

un forte legame scientifico e personale.<br />

Ricorderà “Arnheim a Palermo” nel 1997 in una Festschrift americana.<br />

Pubblica Conversazione con Rudolf Arnheim.<br />

1984<br />

Inizia a collaborare con Elda Pucci, primo sindaco donna di una<br />

città metropolitana italiana e il primo a costituire il Comune di Palermo<br />

parte civile in un processo di mafia.<br />

Diviene socia del Soroptimist e dell’Ande (Associzione Nazionale<br />

Donne Elettrici), e più in generale partecipa attivamente anche<br />

negli anni successivi al movimento della società civile che sarà poi<br />

chiamato “primavera di Palermo”.<br />

1985<br />

In luglio è socio fondatore della University Press “Aesthetica Edizioni”,<br />

di cui viene eletta Presidente.<br />

Diviene professore associato di <strong>Psicologia</strong> <strong>delle</strong> arti nella Facoltà<br />

di Lettere e Filosofia.<br />

Tiene l’insegnamento di <strong>Psicologia</strong> nella Facoltà di Medicina.<br />

1986<br />

Pubblica L’educazione estetica.<br />

1988<br />

Pubblica Il disegno infantile. Storia teoria pratiche con la dedica:<br />

“A Cesare a Dario”.<br />

1990<br />

Fa parte del Collegio Docenti del Dottorato di Ricerca in “Disegno<br />

industriale, arti figurative e applicate”.<br />

1991<br />

Pubblica Che cos’è la psicologia dell’arte con la dedica: “A J. Piaget<br />

e a R. Arnheim | maestri | degli anni giovanili il primo | del presente<br />

il secondo”.<br />

A dicembre inizia a collaborare con la rivista femminile “Mezzocielo”,<br />

a fianco di Simona Mafai, Letizia Battaglia, Rosanna Pirajno.<br />

1993<br />

Invita Dacia Maraini a tenere un corso integrativo dell’insegnamento<br />

di <strong>Psicologia</strong> <strong>delle</strong> arti dal titolo “Il corpo della scrittura”.<br />

366


Fa parte del Collegio Docenti del Dottorato di Ricerca in “Estetica<br />

e teoria <strong>delle</strong> arti”, di cui diviene vicecoordinatore.<br />

1994<br />

Viene eletta, con larghissimo suffragio, in rappresentanza del gruppo<br />

“<strong>Arti</strong>” nei Comitati nazionali di consulenza del Consiglio Nazionale<br />

<strong>delle</strong> Ricerche.<br />

Vince il concorso di professore universitario di prima fascia nel settore<br />

di <strong>Psicologia</strong> generale e viene chiamata dalla Facoltà di Lettere<br />

e Filosofia nell’insegnamento di <strong>Psicologia</strong> <strong>delle</strong> arti, divenendo<br />

l’unico professore ordinario della disciplina nell’Università Italiana.<br />

1995<br />

Tiene l’insegnamento di <strong>Psicologia</strong> generale nella Facoltà di Lettere<br />

e Filosofia.<br />

1997<br />

Pubblica Genesi dell’immagine con la dedica: “A Luigi Russo”.<br />

1999<br />

Chiede il trasferimento della propria afferenza accademica dal settore<br />

disciplinare M10A (<strong>Psicologia</strong> Generale) al settore disciplinare<br />

M07D (Estetica), con la seguente motivazione: “All’atto del suo inquadramento<br />

in ruolo, avendo sostenuto il concorso a cattedra nel<br />

settore M10A, le sembrò naturale scegliere l’afferenza a tale settore.<br />

Tuttavia lo sviluppo della sua attività sempre meno ha trovato aderenza<br />

nell’ambito psicologico, che in Italia è poco interessato ai processi<br />

cognitivi del fare e fruire arte, in ragione di logiche dominanti<br />

nella ricerca psicologica che portano a considerare la <strong>Psicologia</strong><br />

dell’arte un campo di mera applicazione della <strong>Psicologia</strong> generale,<br />

determinandone una sostanziale marginalità. Laddove la tradizione<br />

estetologica italiana ha sempre guardato con molto interesse alle<br />

ricerche psicologiche dedicate all’arte, interesse che si è vieppiù intensificato<br />

negli ultimi lustri, offrendo importanti stimoli di ricerca<br />

e consentendo condizioni di feconda collaborazione scientifica”.<br />

Contestualmente, chiede la sua cancellazione dall’Ordine degli Psicologi.<br />

2001<br />

In aprile è socio fondatore della Società Italiana d’Estetica.<br />

2004<br />

Pubblica Le arti e la psicologia, con la dedica: “A Rudi | per i suoi<br />

cento anni”.<br />

In luglio partecipa ai festeggiamenti per il centenario della nascita<br />

di Arnheim che si tengono ad Ann Arbor negli Stati Uniti.<br />

Tiene l’insegnamento di <strong>Psicologia</strong> dell’arte nella Facoltà di Architettura.<br />

367


2005<br />

Pubblica Rudolf Arnheim. Arte e percezione visiva.<br />

2007<br />

Il 14 giugno pubblica su “L’Unità” il necrologio di Rudolf Arnheim.<br />

2009<br />

Pubblica So quel che senti. Neuroni specchio, arte ed empatia.<br />

2011<br />

Per il suo 70° genetliaco la “Rivista di estetica” le offre il volume<br />

Arte, psicologia e realismo. Saggi in onore di Lucia Pizzo Russo.<br />

2014<br />

Muore a Palermo il 12 settembre.<br />

Bibliografia<br />

— Recensione a Roberto Zavalloni (a cura di), La Pedagogia speciale e<br />

i suoi problemi, “Trimestre”, ii (1968), pp. 320-22.<br />

— La rilevazione degli interessi in età evolutiva (in coll. con S. Renda<br />

e L. Riccobono Terrana), “Bollettino di <strong>Psicologia</strong> Applicata”, 91-<br />

92-93 (1969), pp. 97-128.<br />

— Educazione sensoriale, “Enciclopedia Italiana della Pedagogia e della<br />

Scuola”, 2 (1969), pp. 180-81.<br />

— Materiale di sviluppo, “Enciclopedia Italiana della Pedagogia e della<br />

Scuola”, 3 (1970), p. 627.<br />

— Mente assorbente, “Enciclopedia Italiana della Pedagogia e della<br />

Scuola”, 3 (1970), p. 683.<br />

— Primo sondaggio sulla dinamica motivazione-percezione in età evolutiva<br />

(in coll. con E. Di Fiore e L. Terrana Riccobono), “Il Pisani”,<br />

xciv (1970), pp. 73-80.<br />

— Recensione a Vittorio D’Alessandro - Liliana Riccobono - Rosalia<br />

Russello, Indagine sulla scuola del preadolescente, “Trimestre”, v<br />

(1971), pp. 157-60.<br />

— <strong>Psicologia</strong> e igiene mentale nella scuola, “Il Pisani”, xcvi (1972),<br />

pp. 121-27.<br />

— Per un’ipotesi interpretativa dell’arte psicopatologica, “Il Pisani”,<br />

xcvii (1973), pp. 35-55.<br />

— Genesi e sviluppo del disegno infantile, “Il Pisani”, xcvii (1973),<br />

pp. 83-119.<br />

— La dinamica motivazione-percezione in età evolutiva (in coll. con L.<br />

Riccobono Terrana e E. Di Fiore), “Bollettino di <strong>Psicologia</strong> Applicata”,<br />

121-122-123 (1974), pp. 97-109.<br />

— La trasparenza nel disegno infantile, “Il Pisani”, xcviii (1974), pp.<br />

179-226.<br />

368


— Lo psicologo differenziale, “L’Inserto”, 3 (1975), pp. 6-9.<br />

— Influenza di alcuni stimoli motivanti sulla ‘autenticità’ del rendimento<br />

ai test (in coll. con L. Riccobono Terrana e R. Russello), “Rassegna<br />

di psicopedagogia clinica”, ii (1976), pp. 277-95.<br />

— Introduzione al test del disegno dell’uomo, Firenze, Giunti, 1977,<br />

280 pp.<br />

— Recensione a Maria Serena Vegetti (a cura di), La formazione dei concetti.<br />

Sviluppo mentale e apprendimento, “Età evolutiva”, 2 (1979),<br />

pp. 119-21.<br />

— Sull’artisticità del disegno infantile, Palermo, Stass, 1979 [seconda<br />

versione riveduta e integrata in “Ricerche di psicologia”, 21, 1982,<br />

pp. 109-136].<br />

— Recensione a Pina Cavallo Boggi, Immagine di sé e ruolo sessuale.<br />

Analisi psicologica della condizione femminile, “<strong>Psicologia</strong> e società”,<br />

2 (1979), p. 52.<br />

— Sulle mostre di disegno infantile, in Glauco Ceccarelli (a cura di),<br />

Il disegno infantile. Note su alcuni aspetti psicologici e pedagogici,<br />

Pesaro, 1979, pp. 11-15.<br />

— Recensione a A. M. Asprea - G. Villone Betocchi, Teoria dell’equità<br />

e sviluppo morale dall’infanzia all’età adulta, “<strong>Psicologia</strong> contemporanea”,<br />

vii (1980), pp. 63-64.<br />

— Cesare Brandi e la teoria del disegno infantile (in coll. con L. Russo),<br />

“Storia dell’arte”, 38-40 (1980), pp. 481-94.<br />

— Estetica e psicologia [presentazione e cura], Bologna, Il Mulino,<br />

1982, 180 pp.<br />

— La psicologia dell’arte: stato e statuto, in L. Pizzo Russo (a cura di),<br />

Estetica e psicologia, cit., pp. 159-178.<br />

— Introduzione alla prima ristampa dell’Introduzione al test del disegno<br />

dell’uomo, cit., 1983, pp. v-x.<br />

— Conversazione con Rudolf Arnheim, “Aesthetica Preprint”, 2 (dicembre<br />

1983), 52 pp.; ristampato in L. Pizzo Russo (a cura di),<br />

Rudolf Arnheim. Arte e percezione visiva, “Aesthetica Preprint Supplementa”,<br />

14 (aprile 2005), pp. 251-290<br />

— Il problema dell’arte infantile in una prospettiva psicoanalitica, in A.<br />

Rosati (a cura di), Estetica e psicoanalisi, Torino, Centro Scientifico<br />

Torinese, 1985, pp. 107-124.<br />

— L’educazione estetica [presentazione e cura], Palermo, Aesthetica,<br />

1986, 84 pp.<br />

— Arte, educazione estetica e processi mentali, in L. Pizzo Russo (a<br />

cura di), L’educazione estetica, cit., pp. 34-51.<br />

— Il modello teorico del disegno infantile, in A. Fusco - L. M. Lorenzetti<br />

(a cura di), <strong>Psicologia</strong> in letteratura, musica, arti figurative,<br />

Roma, La Goliardica, 1986, pp. 451-466.<br />

— L’interpretazione psicologica del disegno infantile, in “Nuove Ipotesi”,<br />

iii (1988), pp. 1-15.<br />

369


— Media e processi mentali, in Atti del Convegno “Arte e nuovi media.<br />

Esperienza nel contemporaneo”, Ferrara, Anisa, 1988, pp. 119-27.<br />

— Il disegno infantile. Storia teoria pratiche, Palermo, Aesthetica, 1988,<br />

318 pp.; nuova edizione ivi, 2015, 292 pp.<br />

— Questionario-ricerca su l’educazione permanente a Palermo (in coll.<br />

con E. Giambalvo e U. Marchetta), Palermo, Ila Palma, 1989.<br />

— Pensare, educare all’arte, in Aa. Vv., Il sapere dell’immagine: arte<br />

contemporanea e scuola, Firenze, La Nuova Italia, 1991, pp. 39-58.<br />

— Che cos’è la psicologia dell’arte, “Aesthetica Preprint”, 32 (agosto<br />

1991), 120 pp.<br />

— Percezione e conoscenza, “Atque”, 1991, 4, pp. 45-89.<br />

— Presentazione e cura dell’edizione italiana di R. Arnheim, Pensieri<br />

sull’Educazione artistica, Palermo, Aesthetica, 1992, 116 pp.; nuova<br />

edizione, ivi, 2007, 118 pp.<br />

— Estetica e processi cognitivi, in P. Montani (a cura di), Senso e storia<br />

dell’estetica. Studi offerti a Emilio Garroni in occasione del suo 70°<br />

compleanno, Parma, Pratiche Editrice, 1995, pp. 559-582; ristampato<br />

in L. Pizzo Russo, Le arti e la psicologia, Milano, Il Castoro,<br />

2004, pp. 30-56.<br />

— Presentazione ad Alberto Argenton, Arte e cognizione, Milano, Raffaello<br />

Cortina, 1996, pp. ix-xvi.<br />

— Disegno e processi cognitivi, in P. Pellegrino (a cura di), L’Arte e le<br />

arti, Lecce, Argo, 1996, pp. 55-76.<br />

— Genesi dell’immagine, “Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia<br />

dell’Università di Palermo. Studi e Ricerche”, 28, Palermo, 1997,<br />

242 pp.; nuova edizione Milano, Mimesis, 2015, 260 pp.<br />

— Lucia Pizzo Russo, January 9, 1996-Rome, Italy [Arnheim a Palermo],<br />

in K. Kleinman, L. Van Duzer (Eds.), Rudolf Arnheim. Revealing<br />

Vision. Dialogues, Essays, Tributes, Ann Arbor, The University<br />

of Michigan Press, 1997, pp. 110-111.<br />

— La costellazione estetica, in Aa. Vv., Ripensare l’Estetica, “Aesthetica<br />

Preprint”, 58 (aprile 2000), pp. 101-114.<br />

— Il colore formante, “Rivista di estetica”, n.s., 17 (2/2001), pp. 109-<br />

141; ristampato in L. Pizzo Russo, Le arti e la psicologia, Milano,<br />

Il Castoro, 2004, pp. 57-113.<br />

— Il pensiero e le immagini, “Studi di estetica”, 24, 2001, pp 133-<br />

151; ristampato in L. Pizzo Russo, Le arti e la psicologia, cit., pp.<br />

114-131.<br />

— Le arti e la psicologia, “Rivista di estetica”, 23, (2/2003), pp. 164-<br />

202; ristampato in L. Pizzo Russo, Le arti e la psicologia, cit., pp.<br />

132-197.<br />

— Per Paolo Bozzi, “Rivista di Estetica”, n.s., 24 (3/2003), pp. 106-<br />

107.<br />

— <strong>Psicologia</strong> e psicologia dell’arte, “Fieri. Annali del Dipartimento di<br />

370


Filosofia, Storia e Critica dei Saperi”, 1 (giugno 2004), pp. 249-259;<br />

ristampato in L. Pizzo Russo, Le arti e la psicologia, cit., pp. 11-29.<br />

— Le arti e la psicologia, Milano, Il Castoro, 2004, 224 pp.<br />

— Media e processi cognitivi, in L. Pizzo Russo (a cura di), Rudolf Arnheim:<br />

Arte e percezione visiva, “Aesthetica Preprint Supplementa”,<br />

14 (aprile 2005), pp. 15-24; ora infra, pp. 7-16.<br />

— La psicologia ovvero la negazione del senso comune, “Nuova civiltà<br />

<strong>delle</strong> macchine”, xxiii (2005), pp. 19-30; ora infra, pp. 17-30.<br />

— Percezione e immagine nella rappresentazione artistica, “Rivista di<br />

estetica”, 30, (3/2005), pp. 221-244; ora infra, pp. 31-58.<br />

— Al di qua dell’immagine, “Fieri. Annali del Dipartimento di Filosofia,<br />

Storia e Critica dei Saperi”, 4 (dicembre 2006), pp. 311-336;<br />

ora infra, pp. 59-86.<br />

— Percezione e immagine, “Rivista di estetica”, 33 (3/2006), pp. 211-<br />

236; ora infra, pp. 87-116.<br />

— Da Schiller ad Arnheim: educazione e arte, in G. Bartoli e S. Mastandrea<br />

(a cura di), Rudolf Arnheim: una visione dell’arte, Roma,<br />

Anicia, 2006, pp. 81-108; ora infra, pp. 117-140.<br />

— Rudolf Arnheim e la formazione dell’uomo, Presentazione a Rudolf<br />

Arnheim, Pensieri sull’educazione artistica, Palermo, Aesthetica,<br />

2007 2 , pp. 7-49; ora infra, pp. 141-182.<br />

— Rudolf Arnheim e la logica dell’immagine, Introduzione a Rudolf<br />

Arnheim, L’immagine e le parole, Milano, Mimesis, 2007, pp. 7-23;<br />

ora infra, pp. 183-196.<br />

— La stupidità dei sensi. Sulla filosofia dell’arte di Arthur C. Danto,<br />

“Rivista di estetica”, 38 (2/2008), pp. 85-132; ora infra, pp. 197-<br />

244.<br />

— Arte ed emozione, in F. Desideri, G. Matteucci, J. M. Schaeffer<br />

(a cura di), Il fatto estetico. Tra emozione e cognizione, Pisa, ETS,<br />

2009, pp. 73-96; ora infra, pp. 245-266.<br />

— Espressione: empatia o percezione?, in L. Russo (a cura di), Logiche<br />

dell’espressione, “Aesthetica Preprint”, 85 (aprile 2009), pp. 63-74;<br />

ora infra, pp. 267-278.<br />

— So quel che senti. Neuroni specchio, arte ed empatia, Pisa, ETS, 2009,<br />

117 pp.; ristampa ivi, 2010.<br />

— Contro la neuroestetica, “Studi di estetica”, 41 (2011), pp. 7-86; ora<br />

infra, pp. 279-330.<br />

— Una vita contro. Conversazione con Lucia Pizzo Russo, in T. Andina<br />

e C. Calì (a cura di), Arte, psicologia e realismo. Saggi in onore di<br />

Lucia Pizzo Russo, “Rivista di estetica”, 48 (3/2011), pp. 3-11; ora<br />

infra, pp. 355-364.<br />

— Educazione estetica nel ventunesimo secolo?, Società Italiana d’Estetica,<br />

2012, http://www.siestetica.it/ > testi; ora infra, pp. 331-342.<br />

— L’immagine dell’immagine, in G. Bordi, I. Carlettini, M. L. Fobelli,<br />

M. R. Menna, P. Pogliani (a cura di), L’officina dello sguardo. Scritti<br />

371


in onore di Maria Andaloro, Roma, Gangemi, vol. ii, pp. 13-19; ora<br />

infra, pp. 343-354.<br />

— <strong>Psicologia</strong> <strong>delle</strong> <strong>Arti</strong>, “Aesthetica Preprint Supplementa”, 31 (settembre<br />

2015), 384 pp.<br />

372


Indice dei nomi<br />

Abbagnano, N., 56.<br />

Adorno, Th. W., 200, 237, 240.<br />

Adriano, C., 243.<br />

Afro (Afro Libio Basaldella), 59, 81.<br />

Agostino, sant’, 81.<br />

Albers, J., 307.<br />

Albertazzi, G., 59, 81.<br />

Allesch, C. G., 321, 322.<br />

Alpers, S., 51, 351.<br />

Alpha, scimpanzé, 65.<br />

Ames, A. jr., 90.<br />

Amsterdamski, S., 50, 53, 58.<br />

Anassagora, 61, 62.<br />

Andaloro, M., 343, 372.<br />

Andersen, H. Ch., 97, 159.<br />

Andina, T., 28, 210, 236, 240, 241,<br />

355, 371.<br />

Angelini, G., 244.<br />

Antinucci, F., 84.<br />

Antonelli, A., 112.<br />

Antonelli, M., 109.<br />

Apollinaire, G., 303.<br />

Arensberg, W., 236.<br />

Argan, G. C., 73.<br />

Argenton, A., 258, 330, 370.<br />

Aristotele, 45, 46, 61, 62, 82, 113,<br />

295, 347, 363.<br />

Arnheim, R., 7-10, 12-16, 22, 32, 43,<br />

45-48, 50, 54, 57, 58, 79, 84, 85,<br />

91, 106, 108, 109, 111, 113-115,<br />

117, 120-130, 132-143, 145-150,<br />

154, 156, 159, 162-168, 170, 171,<br />

173-178, 181-195, 212, 213, 229,<br />

230, 232, 233, 236-240, 243, 247-<br />

249, 251, 253-255, 258, 259, 262,<br />

263, 275, 276, 278, 289, 302, 318,<br />

325-327, 329, 330, 340, 341, 347,<br />

351, 352, 356, 357, 359-362, 365-<br />

368, 370, 371.<br />

Arp, J., 323.<br />

Asch, S. E., 144, 145, 178.<br />

Ash, M. G., 324.<br />

Asprea, A. M., 369.<br />

Attardo Magrini, M., 243.<br />

Austin, J. L., 52, 56, 92, 109, 138.<br />

Axia, G., 154, 179.<br />

Ayer, A. J., 234.<br />

Bagni, P., 242.<br />

Baj, E., 178.<br />

Baldwin, A. L., 150, 178.<br />

Bales, R. F., 178.<br />

Balla, G., 310.<br />

Banksy, 63.<br />

Bara, B. G., 82, 350.<br />

Barbero, C., 241.<br />

Barnaba, ratto, 22.<br />

Barrow, J. D., 57, 58.<br />

Bartoli, G., 117, 178, 181, 243, 371.<br />

Bateson, G., 107, 154, 166, 178.<br />

Battacchi, M. W., 150, 178.<br />

Battaglia, L., 366.<br />

Batteux, Ch., 81, 83, 218, 237, 240,<br />

246, 258.<br />

Battistina, C., 259.<br />

Becchi, E., 341.<br />

Bell, C., 230.<br />

Bellone, E., 56.<br />

Belting, H., 108, 344, 349, 350, 351.<br />

Benjamin, W., 251, 261.<br />

Benussi, V., 95, 109, 113.<br />

Beretta, A., 53.<br />

Berkeley, G., 44, 269, 275.<br />

Bermudez, J. L., 52.<br />

373


Bernardini, C., 57.<br />

Bernini, G. L., 223.<br />

Bertalanffy, L. von, 154, 155, 178.<br />

Bertin, G. M., 142, 178.<br />

Bertozzi & Casoni (G. Bertozzi e S.<br />

Dal Monte Casoni), 211.<br />

Besoli, S., 321.<br />

Beth, E. W., 172, 178.<br />

Betsy, scimpanzé, 64, 82.<br />

Bettini, M., 67, 83.<br />

Bianchi, E., 242.<br />

Bianchi, I., 28.<br />

Bicmont, J., 74.<br />

Bidlo, M., 88-91, 211, 236.<br />

Biondi, G., 83.<br />

Bisiach, E., 51.<br />

Blavier, A., 58.<br />

Blum, I., 244.<br />

Boas, G. 151, 178.<br />

Boccioni, U., 310, 328.<br />

Boella, L., 260, 261, 275, 276.<br />

Bollino, F., 240.<br />

Bolter, J. D., 156, 178.<br />

Bonami, F., 261, 276, 327.<br />

Bonazzoli, L. F., 83.<br />

Boncinelli, E., 29.<br />

Bonino, G., 244.<br />

Bonito Oliva, A., 235.<br />

Bonobo, scimpanzé, 81.<br />

Boole, G., 157.<br />

Bordi, G., 343, 371.<br />

Borghi, A. M., 110.<br />

Bouveresse, J., 56.<br />

Boyle, R., 50.<br />

Bozzi, P., 37, 53, 54, 56-58, 95, 109-<br />

111, 114, 155, 168, 170, 171, 178,<br />

179, 263, 277, 328, 351, 363, 370.<br />

Bradamante, L., 108.<br />

Bradley, B. S., 151, 179.<br />

Brâncusi, C., 214, 236.<br />

Brandi, C., 59, 61, 73, 75, 81, 82,<br />

241, 356, 357, 365, 369.<br />

Brentano, F., 330.<br />

Bricmont, J., 84.<br />

Brion-Guerry, L., 326.<br />

Brockman, J., 258.<br />

Bronfenbrenner, U., 153, 154, 179.<br />

Brunelleschi, F., 15.<br />

Bruner, J., 142, 149, 172, 179.<br />

Bruno, G., 61, 62, 82.<br />

Brusa Zappellini, G., 82.<br />

Bucelli, V., 242.<br />

Burba, O., 244.<br />

Burn, G., 82.<br />

Burri, A., 59, 81.<br />

Butades, 66.<br />

Calder, A., 310, 311, 313.<br />

Calì, C., 51, 240, 264, 355, 371.<br />

Calvino, I., 133, 134, 140, 232, 240.<br />

Camaioni, L., 29, 55, 84, 179, 180.<br />

Camici, M. G., 240.<br />

Canova, A., 293, 294.<br />

Canziani, G., 357, 358, 365.<br />

Capogrossi, G., 59, 81.<br />

Cappelletti, V., 242.<br />

Cappuccio, M., 258, 261, 264, 275,<br />

278.<br />

Caramelli, S., 142, 180, 182.<br />

Caravaggio (Michelangelo Merisi,<br />

detto), 13, 192, 257, 273, 275.<br />

Cardona, G. R., 243.<br />

Carenini, M., 55.<br />

Carlettini, I., 343, 371.<br />

Carmagnola, F., 52, 134, 135, 137,<br />

138.<br />

Carnap, R., 234.<br />

Carrada, G., 260.<br />

Carroll, L., 57.<br />

Carter, I., 326.<br />

Cartesio (Renée Descartes, detto),<br />

156, 159, 204, 240, 257, 262,<br />

283, 356.<br />

Casati, G., 57.<br />

Casati, R., 54, 55, 57.<br />

Casco, C., 329.<br />

Cassirer, E., 231, 259, 277,<br />

Caterina da Siena, santa, 253, 262.<br />

Cavallo Boggi, P., 369.<br />

Ceccarelli, G., 369.<br />

Celli, G., 82.<br />

Cesa-Bianchi, M., 53, 109.<br />

Cézanne, P., 49, 58, 90, 216, 315,<br />

323, 330.<br />

Ch’ing Yuan, 201, 232.<br />

Chandrasekhar, S., 161, 179.<br />

Changeux, J.-P., 159, 161, 162, 179.<br />

Chardin, J.-B.-S., 66, 83.<br />

374


Chavée, A. 110.<br />

Chiari, S., 179, 180.<br />

Chomsky, N., 149.<br />

Churchill, W., 72, 254.<br />

Cimatti, F., 82, 263, 277.<br />

Cižek, F., 81, 85, 331.<br />

Clair, J., 235, 240.<br />

Clark, A., 18, 28, 112, 163, 179.<br />

Clausberg, K., 107.<br />

Congo, scimpanzé, 64, 65, 67-71, 79,<br />

82, 84.<br />

Connes, A., 159, 161, 179.<br />

Conti, P., 330.<br />

Copernico, N., 43, 50, 203.<br />

Copley, W., 64, 208.<br />

Coren, S., 54, 55, 109.<br />

Cornoldi, C., 154, 179.<br />

Corot, J.-B. C., 301, 313.<br />

Courbet, G., 345.<br />

Criqui, J.-P., 233.<br />

Croce, B., 83, 258.<br />

Curi, U., 155, 179.<br />

Cusano, N., 249.<br />

D’Alessandro, V., 368.<br />

D’Alessio, M., 151, 179.<br />

D’Angelo, M. R., 241.<br />

D’Angelo, P., 235, 241, 242.<br />

D’Urso, V., 258.<br />

Daimond, M., 74.<br />

Dalí, S., 67, 208, 235, 325.<br />

Damasio, A. R., 239, 240, 257, 259,<br />

262, 283, 328, 341,<br />

Danielson, J., 341.<br />

Dante Alighieri, 147, 321.<br />

Danto, A. C., 76, 83, 89, 91, 84, 108,<br />

112, 197-244, 281, 319, 322, 371.<br />

Darwin, Ch., 61, 62, 156, 159.<br />

Davidson, D., 204, 233.<br />

De Angelis, E., 240.<br />

De Chirico, G., 313.<br />

De Kerckhove, D., 138.<br />

De Monticelli, R., 261.<br />

De Rosa, M. R., 262.<br />

De Seta, C., 174, 179.<br />

De Toni, G., 242.<br />

De Vivo, G., 244.<br />

De Waal, F., 65, 72, 82, 83, 84, 238,<br />

241.<br />

Debesse, M., 179, 182.<br />

Degas, D., 296.<br />

Del Miglio, C., 55, 107, 351.<br />

Deleule, D., 28.<br />

Democrito, 43, 60.<br />

Depero, F., 310.<br />

Descartes, vedi Cartesio.<br />

Desideri, F., 245, 371.<br />

Dewey, J., 34, 47, 52, 123, 137, 147,<br />

151, 179, 197, 198, 230, 241.<br />

Di Monte, M., 241.<br />

Di Fiore, E., 368.<br />

Di Giacomo, G., 81.<br />

Di Stefano, G., 149, 179, 182.<br />

Diamond, J., 64, 82-85, 177, 179,<br />

238, 241.<br />

Dickie, G., 214.<br />

Diderot, D., 165, 179,<br />

Donald, M., 82, 85.<br />

Donald, scimpanzé, 76, 77, 82, 85.<br />

Donatello (Donato di Nicolò di Betto<br />

Bardi, detto), 137.<br />

Doran, M., 58.<br />

Dorfles, G., 135, 206, 240, 241, 287,<br />

359.<br />

Doron, R., 55, 107, 351.<br />

Droz, R., 53.<br />

Du Bos, J.-B., 258, 276.<br />

Duchamp, M., 67, 70, 80, 197, 202-<br />

209, 212-215, 227, 229, 230, 232-<br />

36, 239-241, 243, 310, 328.<br />

Dufrenne, M., 52, 137.<br />

Duncan, I., 166.<br />

Dürer, A., 73.<br />

Duride, 300.<br />

Eco, U., 178, 179, 258.<br />

Edelman, G. M., 52, 54, 56.<br />

Edwards, B., 174, 179.<br />

Edwards, C., 341.<br />

Ehrenfels, Ch. von, 8, 113.<br />

Einstein, A., 39, 148.<br />

Eliot, G., 215, 216.<br />

Eliza, computer, 157.<br />

Elkins, J., 250, 260, 262, 350, 352,<br />

361.<br />

Emin, T., 295, 326.<br />

Emmer, M., 161, 179.<br />

Engel, P., 54, 56, 321,<br />

375


Engels, Fr., 61.<br />

Erdmann, B., 321.<br />

Eris, 218.<br />

Ernst, M., 313.<br />

Escher, M., 17, 28.<br />

Escoffier, A., 323.<br />

Evaristi, M., 63.<br />

Eysenck, M. W., 50.<br />

Fama Pampaloni, L., 244.<br />

Farr, R. M., 179, 181.<br />

Fechner, Th., 11, 321.<br />

Federici, R., 241.<br />

Feigenbaum, E., 18.<br />

Ferraresi, S., 243.<br />

Ferraris, M., 57, 58, 108, 110, 111,<br />

138, 331, 340.<br />

Ferretti, F., 241.<br />

Feyerabend, P., 205, 322.<br />

Fiedler, K., 84.<br />

Filograsso, L., 243.<br />

Fiorentini, A., 85, 324, 327.<br />

Floridi, L., 112.<br />

Fobelli, M. L., 343, 371.<br />

Focillon, H., 61, 82.<br />

Fodor, J. A., 26, 29, 33, 40, 52, 55,<br />

154, 155, 158, 162, 163, 171, 173,<br />

179, 209, 222, 225, 228, 229, 235,<br />

237, 239, 241.<br />

Fontana, L., 7, 255, 257, 273, 275.<br />

Formaggio, D., 52, 137.<br />

Forman, G., 341.<br />

Formigari, L., 243.<br />

Fornero, G., 56.<br />

Fraisse, P., 109, 340.<br />

Franzini, E., 107.<br />

Frazzetto, G., 177, 179.<br />

Freedberg, D., 246, 251, 253, 254,<br />

256-259, 261, 263, 273, 276-278,<br />

294, 325, 349-351.<br />

Freeman, N. H., 179.<br />

Frege, G., 56, 321.<br />

Freud, S., 10, 148, 178, 179.<br />

Fry, E. F., 327.<br />

Fry, R., 315.<br />

Funari, E., 242.<br />

Fusco, A., 369.<br />

Gabo, N., 290, 310.<br />

Gage, Ph, 229, 239.<br />

Galati, D., 257.<br />

Galilei, G., 31, 38, 43-46, 50, 55-57,<br />

197, 321.<br />

Gallese, V., 29, 77, 177, 179, 246,<br />

257-259, 263, 264, 273, 277, 278.<br />

Gambazzi, P., 237, 242.<br />

Gandini, L., 341.<br />

Garau, A., 179.<br />

Gardner, H., 50, 155-157, 161, 177,<br />

180, 322, 333.<br />

Garroni, E., 242, 331, 362.<br />

Garroni, G., 110.<br />

Gasquet, J., 58.<br />

Gazzaniga, M. S., 322.<br />

Geiger, M., 258, 261, 275, 321, 322.<br />

Gentile, G., 242.<br />

Gerbino, W., 109.<br />

Gericault, Th., 296.<br />

Gesell, A., 76.<br />

Giambalvo, E., 147, 180, 370.<br />

Gibson, J. J., 33, 38, 51, 54, 81, 95,<br />

107, 114, 115, 154, 180, 236, 241,<br />

336.<br />

Gill, F., 135.<br />

Gimpel, J., 83.<br />

Giorello, G., 58.<br />

Giorgione (Giorgio Barbarelli, detto),<br />

209.<br />

Giotto, 253, 262.<br />

Giovanelli, G., 150, 178.<br />

Girard, J.-Y., 159, 180, 181.<br />

Gleizes, A., 302, 308, 303, 327.<br />

Gobbo, C. 151, 180.<br />

Gödel, K., 159, 160, 181.<br />

Goethe, J. W. von, 138, 141, 234,<br />

242.<br />

Goldberg, M., 308.<br />

Goldman, A. I., 29.<br />

Goleman, D., 249, 259.<br />

Gombrich, E. H., 28, 35, 58, 61, 81,<br />

82, 85, 91, 98, 100, 101, 103, 107,<br />

108, 110, 111, 136, 137, 170, 225,<br />

238, 239, 241, 254, 262, 263, 285,<br />

302, 346-348, 351, 352, 361, 362.<br />

Goodenough, F., 358.<br />

Goodman, N., 34, 52, 123, 124, 129,<br />

138, 166, 180, 197, 225, 230,<br />

242, 247, 248-251, 258-260, 340.<br />

376


Goya, F, 257, 275.<br />

Gozzano, S., 84, 177, 180.<br />

Gray, P., 109.<br />

Greenberg, C., 205, 208.<br />

Gregory, R. L., 35, 52-54, 107, 109,<br />

110, 297, 323, 333-335, 340, 347,<br />

349, 351, 352.<br />

Greta Garbo, 296.<br />

Griffero, T., 107.<br />

Gris, J., 304.<br />

Gua, scimpanzé, 76, 77, 85.<br />

Guercio, G., 242.<br />

Guerra, A., 242.<br />

Guggenheim, J. S., 8.<br />

Gutemberg, J., 167.<br />

Hacking, I., 29.<br />

Hadamard, J., 161, 180.<br />

Hæckel, E., 291.<br />

Hanson, N. R., 103-105, 111-113,<br />

222, 223, 231, 238, 242.<br />

Hardy, G. H., 161, 180.<br />

Harré, R., 171, 180.<br />

Harvey, J., 206, 210, 219, 234, 281.<br />

Hastie, B., 80, 81.<br />

Hawkins, D., 152, 180.<br />

Hearst, E., 50.<br />

Hebb, D. O., 29.<br />

Hegel, G. W. F., 206, 208, 217-220,<br />

230, 234, 236, 237, 242, 288, 295,<br />

317, 318, 329.<br />

Heidegger, M., 276, 261.<br />

Heider, F., 178.<br />

Heisenberg, W., 54,<br />

Helmholtz, H. von, 39, 163, 223-225,<br />

239, 242, 285, 301, 321, 323, 326,<br />

333, 334.<br />

Helson, H., 304,<br />

Henle, M., 28, 180, 182, 262, 330,<br />

351.<br />

Herder, J. G. von, 136.<br />

Hering, E., 301, 326.<br />

Hirst, D., 63, 82.<br />

Hochberg, J., 51.<br />

Hohenegger, H., 242.<br />

Hokusai, K., 72, 84.<br />

Holloway, R., 341.<br />

Honderich, T., 56.<br />

Hong, H., 65.<br />

Hubel, D. H., 306, 308, 327.<br />

Hughes, H. C., 110.<br />

Humboldt, W. von, 136.<br />

Hume, D., 54, 320, 330, 363.<br />

Husserl, E., 256, 261, 263, 264, 277,<br />

298, 326.<br />

Hutcheson, Fr., 218, 237, 242.<br />

Huxley, J., 61, 62, 64, 66, 67, 82.<br />

Huxley, T. H., 61, 62.<br />

Huyghe, R., 324.<br />

Iacoboni, M., 276, 278.<br />

Icaro, 300.<br />

Inchini, T., 110.<br />

Inhelder, B., 85.<br />

Italia, C., 241.<br />

Izzolino, M., 110.<br />

Jacob, F., 51.<br />

James, W., 112, 113, 223, 245.<br />

Jastrow, J., 98, 99, 106, 110, 111.<br />

Jauss, H. R., 142.<br />

Jaworska, K., 244.<br />

Jiménez, J., 236, 242, 330.<br />

Job, R., 162, 180.<br />

Johnson-Laird, Ph. N., 39, 55, 107,<br />

155-157, 180, 351, 346.<br />

Julius, A., 107.<br />

Jung, C. G., 149.<br />

Kagan, J., 84.<br />

Kahnweiler, D., 302.<br />

Kandinskij, V. V., 66, 68, 83, 221,<br />

222, 228, 238, 242, 296, 306,<br />

307, 310.<br />

Kanizsa, G., 28, 48, 53, 58, 96, 97,<br />

103, 108-111, 142, 167, 168-171,<br />

180, 182, 243, 325, 328.<br />

Kant, I., 38, 44, 48, 113, 119, 122,<br />

123, 127, 134, 135, 199, 211, 216,<br />

228, 231, 235, 237-239, 241, 242,<br />

251, 288, 295, 358, 362.<br />

Kantrowitz, B., 341.<br />

Kanzi, scimpanzé, 70, 84.<br />

Karmiloff-Smith, A., 29, 55.<br />

Keller, H., 158.<br />

Kellogg, L. A., 76.<br />

Kellogg, W. N., 76.<br />

Kemp, M., 15.<br />

377


Kennard, G., 323.<br />

Keplero, G., 32, 39, 50, 51, 104, 105,<br />

112, 222, 223, 345.<br />

Kiekegaard, S., 209.<br />

Kihlstrom, J. F., 110.<br />

Kirkegaard, S., 83.<br />

Klee, P., 307.<br />

Klein, Y., 80.<br />

Kleinginna, M. A., 257.<br />

Kleinginna, P. A., 257.<br />

Kleinmann, K., 370.<br />

Kline, F., 64.<br />

Koffka, K., 11, 16, 20, 23, 28, 95,<br />

111, 183, 239, 242.<br />

Köhler, W., 11, 16, 28, 29, 39, 40-42,<br />

44, 54-57, 72, 85, 95, 105-108,<br />

111-115, 137-139, 145, 148, 180,<br />

183, 225, 236, 238, 239, 242, 252,<br />

259, 262, 263, 276, 277, 308, 309,<br />

322, 327, 329, 330, 340, 351, 363.<br />

Koko, gorilla, 65, 71, 72.<br />

Komar, V., 80, 82, 208, 235.<br />

Kooning, W. de, 64, 233.<br />

Koopa, tartaruga, 65, 80.<br />

Koppelberg, D., 231, 242,<br />

Kosslyn, S. M., 51, 343, 350, 351,<br />

Kosuth, J, 81, 85, 230, 232, 242.<br />

Koyre, A., 53, 358.<br />

Kramer, S., 50.<br />

Kris, E., 85, 324.<br />

Kristeller, P. O., 234, 242.<br />

Kristeva, J., 74.<br />

Kuhn, T. S., 103, 104, 111, 112, 223,<br />

238, 242.<br />

Kunda, scimpanzé, 68.<br />

La Mettrie, J. O. de, 156, 159.<br />

Lacoste, Ch., 303.<br />

Làdavas, E., 174, 180.<br />

Lady Noja, orang utan, 65.<br />

Lamb, R., 171, 180.<br />

Lancieri, A., 241.<br />

Land, E. H., 301, 326.<br />

Langer, S. K., 200, 230-232, 243, 248,<br />

259.<br />

Lavazza, A., 330.<br />

Lavoisier, A.-L. de, 50.<br />

Lecis, P. L., 50.<br />

LeDoux, J., 249, 250, 259, 260.<br />

Léger, F., 236, 303.<br />

Legrenzi, P., 28, 161, 109, 114, 167,<br />

180, 275, 278, 322, 351.<br />

Leher, J., 323.<br />

Leibniz, G. W. von, 211, 228.<br />

Lenat, D., 18.<br />

Leonardo da Vinci, 46, 69, 208, 211,<br />

253, 261, 262, 300, 326.<br />

Leopardi, G., 321, 330.<br />

Leroi-Gourhan, A., 82, 85, 324, 330.<br />

Lessing, G. E., 7, 321, 330.<br />

Leviant, I, 311, 312.<br />

Levy, M., 68.<br />

Lévy-Bruhl, L., 253.<br />

Lewin, K., 178.<br />

Lewin, R., 84.<br />

Licata, I., 324.<br />

Lichtenstein, R., 216.<br />

Lin, M. 219, 220.<br />

Linden, E., 84.<br />

Lindsay, P. H., 155, 180.<br />

Lipchitz, J., 304.<br />

Lipps, Th., 252, 254-256, 260-263,<br />

267, 268, 270, 273-276, 321.<br />

Locke, J., 54-56, 363.<br />

Lombardo-Radice, G., 242.<br />

Loran, E., 216.<br />

Lorenzetti, L. M., 369.<br />

Luccio, R., 53, 57, 112, 155, 159,<br />

163, 180, 241.<br />

Lucignani, G., 258, 276, 323, 325.<br />

Luigi xv, 267.<br />

Lumbelli, L. 142, 180.<br />

Lyons, W., 29.<br />

Macaluso, F., 240.<br />

Mach, H., 212, 213, 236, 243, 359.<br />

Mafai, S., 366.<br />

Maffei, L., 85, 327, 324, 329.<br />

Magritte, R., 39, 50, 58, 88-90, 107,<br />

110, 297, 298, 313, 318.<br />

Malaguzzi, L., 338.<br />

Malevič, K. S., 202, 210, 264, 302,<br />

306-311, 313.<br />

Mandelbrot, B., 73.<br />

Manotta, M., 321.<br />

Mansfield Sullivan, A., 158.<br />

Maraini, D., 366.<br />

Marchetta, U., 370.<br />

378


Marcialis, M. T., 50.<br />

Marcuse, H., 137, 145, 176, 180,<br />

251.<br />

Marhaba, S., 28.<br />

Marilyn Monroe, 296.<br />

Marks, J., 92, 177, 180.<br />

Marr, D. C., 33, 51.<br />

Marsonet, M., 51.<br />

Martinelli, R., 321.<br />

Massironi, M., 54, 109, 168, 180,<br />

343, 350, 351.<br />

Mastandrea, S., 117, 178, 181, 243,<br />

371.<br />

Matisse, H., 13, 192, 220, 233, 300.<br />

Matteucci, G., 17, 107, 241, 243,<br />

245, 371.<br />

Matteuzzi, M., 55.<br />

Mazzocco, A, 161, 180.<br />

Mazzotta, M., 181.<br />

McClelland, J. L., 163, 181, 182.<br />

McDowell, J., 58, 138.<br />

McLuhan, M., 125, 138, 181, 167.<br />

Meazzini, P., 28, 52, 138, 167, 180.<br />

Mecacci, L., 114, 171, 180, 357.<br />

Medawar, P. B., 161, 181.<br />

Medusa, 349.<br />

Meinong, A. von, 95, 113.<br />

Melamid, A., 80, 208, 235.<br />

Mendel, G., 68.<br />

Menna, M. R., 343, 371.<br />

Merker, N., 242.<br />

Merleau-Ponty, M., 43, 56, 256, 263,<br />

274, 277.<br />

Metelli, F., 53.<br />

Metzger ,W., 40, 48, 54-56, 113, 238,<br />

239, 243. 262, 276.<br />

Metzinger, J., 302, 303, 308, 327.<br />

Meyer, R. M., 251.<br />

Mialaret, G., 179, 182.<br />

Michael, gorilla, 72, 65.<br />

Michelangelo Buonarroti, 110, 193,<br />

237, 257, 275, 283, 291, 294,<br />

296, 300, 318, 321, 325, 328.<br />

Migliorini, E., 52, 137, 240, 242,<br />

Mill, J., 20, 28.<br />

Mink, J., 235, 243.<br />

Miró, J., 80, 233.<br />

Mitchell, W. J. T., 344, 345, 347,<br />

350-352.<br />

Mondrian, P., 264, 284, 301, 305,<br />

306, 308, 313, 326, 327.<br />

Monet, Cl., 73, 221, 238, 284, 315,<br />

316, 320, 330.<br />

Montani, P., 370.<br />

Moore, H., 214, 232.<br />

Morelli, G., 207, 235.<br />

Morena, C., 244.<br />

Morris, D., 65, 67-69, 71, 73, 75, 80,<br />

82-85, 208, 235, 243, 259.<br />

Morris, R., 204, 232, 233.<br />

Moscovici, S., 154, 179, 181.<br />

Mr. Mutt (vedi Duchamp, M.).<br />

Müller, J., 321.<br />

Müller-Lyer, F. C., 36, 37, 44, 45, 92-<br />

96, 109, 307, 333, 348.<br />

Mulligan, K., 57.<br />

Murger, H., 229.<br />

Musgrave, A., 56.<br />

Nagel, E., 180, 181, 231.<br />

Napoleone Bonaparte, 236.<br />

Narciso, 349.<br />

Necker, L. A., 325.<br />

Neisser, U. 154, 155, 181.<br />

Neumann, J. von, 155, 158, 163.<br />

Newman, B., 200.<br />

Newman, J. R., 180, 181.<br />

Newton, I., 45, 209, 210.<br />

Nicholson, B., 313,<br />

Nietzsche, Fr., 126, 148.<br />

Niobe, 349.<br />

Nonveiller, G., 174, 181.<br />

Norman, D. A., 155, 180, 260.<br />

O’Reilly, K. (Kira), 63, 80, 81.<br />

Oatley, K., 55.<br />

Odifreddi, P., 110.<br />

Olivero, A., 54, 109, 110, 340.<br />

Olson, D. R., 175, 181.<br />

Origgi, G., 258.<br />

Pagli, P., 244.<br />

Palmer, S. E., 109, 111, 114, 238, 243.<br />

Palmieri, M., 110.<br />

Palmonari, A., 144, 181.<br />

Parisi, D., 159, 162, 163, 181.<br />

Parot, F., 55, 107, 351.<br />

Parrasio, 39.<br />

379


Parsons, T., 178.<br />

Patella, G., 244.<br />

Paternoster, A., 52.<br />

Patterson, F., detta Penny, 71, 84.<br />

Pavlov, I. P., 137.<br />

Peacocke, C., 52.<br />

Pedio, R., 240.<br />

Peirce, Ch. S., 259.<br />

Peitgen, H. O., 161, 181.<br />

Peleo, 218, 219, 220,<br />

Penrose, R., 65,159, 160, 181.<br />

Peon-Casanova, L., 341.<br />

Perniola, M., 84, 137, 138.<br />

Perretta, G., 177, 181.<br />

Pert, C., 260.<br />

Peruzzi, G., 55, 57.<br />

Petitot, J., 44, 57.<br />

Pettinati, G., 243.<br />

Pevsner, A., 310.<br />

Piaget, J., 36, 53, 74-77, 79, 84, 85,<br />

93, 103, 109, 149-152, 154, 163,<br />

170, 172, 178, 181, 197, 212, 213,<br />

228, 230, 236, 243, 329, 334, 340,<br />

358-363, 366.<br />

Piattelli Palmarini, M., 112, 164, 181.<br />

Piazzano, P., 258.<br />

Picabia, F., 233.<br />

Picasso, P., 65, 68, 73, 83, 90, 238,<br />

240, 302, 304, 327,<br />

Pigmalione, 65, 137, 144, 157, 182,<br />

349.<br />

Pinker, S., 74, 84, 85, 324.<br />

Pinna, G., 136, 138, 244.<br />

Pinotti, A., 84, 258, 261, 262, 275,<br />

276, 323, 325, 351.<br />

Pinto, maialino, 65.<br />

Pinto, R., 108, 241.<br />

Pirajno, R., 366.<br />

Planck, M., 54.<br />

Platone, 35, 42, 52, 92, 107, 249, 295,<br />

297, 298, 317, 326.<br />

Plinio Gaio Secondo, detto il Vecchio,<br />

66, 83.<br />

Plotino, 288, 294.<br />

Poggio, T., 58, 138, 159, 161, 162,<br />

181.<br />

Pogliani, P., 343, 371.<br />

Pollock, J., 64, 67, 69, 73, 90, 231,<br />

255, 257, 273, 275.<br />

Pontecorvo, C., 144, 151, 181.<br />

Pontecorvo, M., 181.<br />

Ponti, M. B., 50.<br />

Ponzo, E., 151, 181, 182.<br />

Popper, K. R., 54, 56, 100, 103, 302,<br />

321, 333.<br />

Pos, O. da, 53, 109, 351.<br />

Price, S., 324.<br />

Proust, M., 323.<br />

Pseudo Dionigi, 81.<br />

Pucci, E., 366.<br />

Purghé, F., 54, 109, 110, 340.<br />

Putnam, H., 38, 51, 72, 84, 139, 340.<br />

Putnam, I., 52, 54, 138.<br />

Quintavalle, A. C., 182.<br />

Raffaello Sanzio, 7, 321.<br />

Rahmy, M., 53.<br />

Rainer, A., 68.<br />

Rainone, A., 258, 276.<br />

Ramachandran, V. S., 258, 321, 324.<br />

Rauschenberg, R., 295.<br />

Raynal, M., 303.<br />

Read, H., 67, 75, 85, 145, 182, 324,<br />

331.<br />

Reichenbach, H., 234.<br />

Reid, Th., 20.<br />

Reinhardt, A., 202, 307.<br />

Rembrandt Harmenszoon van Rijn,<br />

193, 238, 260, 293, 345.<br />

Renda, S., 368.<br />

Renée, elefante, 80.<br />

Restak, R. M., 239, 243.<br />

Restany, P., 235.<br />

Reuchlin, M., 153, 182.<br />

Revière, J., 324.<br />

Richter, H., 232-235, 244.<br />

Richter, P. H., 161, 181.<br />

Rickards, O., 83.<br />

Righi, A., 242.<br />

Riley, B., 346, 347.<br />

Rivière, J., 301, 302, 327.<br />

Rizzolatti, G., 85, 77, 177, 182, 258,<br />

259, 264, 277.<br />

Roatta, C., 241.<br />

Robinson, K., 339, 342.<br />

Rorschach, H., 255, 263, 292.<br />

Rosati, A., 369.<br />

380


Rosch, E., 10.<br />

Rose, S., 351.<br />

Rosenberg, H., 81, 134, 145, 182,<br />

233, 235, 244, 320, 328, 365.<br />

Rosenthal, R., 144, 182.<br />

Rousseau, J.-J., 122.<br />

Ruby, elefante, 65.<br />

Rumelhart, D. E., 163, 181, 182.<br />

Rumiati, R., 162, 180.<br />

Ruskin, J., 78, 85, 225.<br />

Russell, B., 54, 57, 234.<br />

Russello, R., 368, 369.<br />

Russo, C., 365.<br />

Russo, D., 365.<br />

Russo, L., 139, 244, 258, 267, 276,<br />

322, 365-367, 369.<br />

Sacks, O., 54, 236, 239, 244.<br />

Sagi, A., 54.<br />

Salmon, A., 303.<br />

Sanouillet, M., 241.<br />

Santayana, G., 237, 244.<br />

Savage-Rumbaugh, E., 84.<br />

Savardi, U., 28.<br />

Sborgi, C., 242.<br />

Scaglione, M., 239, 244.<br />

Scaramuzza, G., 237, 242.<br />

Scarpat, L., 261.<br />

Schaeffer, J. M., 245, 371.<br />

Scharmann, I., 178.<br />

Scheler, M., 275.<br />

Schiller, Fr., 33, 34, 52, 117, 118,<br />

120, 121-125, 129, 134-138, 145,<br />

176, 182, 207, 243, 244, 331, 338,<br />

341.<br />

Schlegel, Fr., 138.<br />

Schoemaker, S., 54.<br />

Schopenauer, A., 38, 44, 54, 55, 57,<br />

118, 288, 295, 326,<br />

Schwartz, G., 260.<br />

Sciascia, L., 147.<br />

Scorza, G., 160, 176, 182.<br />

Scott, S. C., 263.<br />

Scrivano, F., 84.<br />

Searle, J. R., 51.<br />

Senaldi, M., 52, 108, 134, 135, 137,<br />

138, 241.<br />

Serra, A., 240.<br />

Sers, F., 242.<br />

Seurat, G., 15.<br />

Shakespeare, W., 321.<br />

Shattuck, R., 244, 233.<br />

Simion, F., 179, 180.<br />

Simoncini, F., 81.<br />

Sinigaglia, C., 85, 177, 182, 258, 264,<br />

277,<br />

Sirigatti, S., 53, 109.<br />

Skinner, B. F., 28.<br />

Sokal, A., 74, 84.<br />

Somaini, A., 351.<br />

Somenzi, V., 182.<br />

Sordi, A., 330.<br />

Soro, G., 51.<br />

Sosio, L., 241-243.<br />

Souriau, É., 63-65, 82.<br />

Sovrano, V. A., 110.<br />

Spada, C., 241.<br />

Spinicci, P., 275.<br />

Spinoza, B., 328.<br />

Stendhal (Marie-Henri Beyle, detto),<br />

250, 260.<br />

Stich, S. P., 28.<br />

Stirner, M., 232.<br />

Strata, P., 58.<br />

Stucchi, N., 54, 109, 110, 242, 340.<br />

Stumpf, C., 298.<br />

Suppes, P., 231.<br />

Suraci, P., 329.<br />

Sweeney, J. J., 230.<br />

Sylvester, D., 67, 208.<br />

Taj, tigre bianca, 65.<br />

Tallandini, M. A., 149-151, 179, 182.<br />

Tansey, M., 221.<br />

Tantalo, 349.<br />

Tarizzo, D., 243.<br />

Tarski, A., 234.<br />

Tatarkiewicz, W., 81, 83, 231, 244,<br />

330.<br />

Tattersall, I., 82.<br />

Taylor, S. E., 146, 182.<br />

Terrana Riccobono, L., 357, 368,<br />

369.<br />

Tessarolo, L. 68.<br />

Teti, 218, 219, 220.<br />

Thiery, A., 174, 182.<br />

Ticini, L. F., 110, 293, 322, 324-326,<br />

330.<br />

381


Tillie, cane, 65, 80.<br />

Tinbergen, N., 65, 80.<br />

Tinguely, J., 310, 311.<br />

Titchener, E., 21, 28, 261, 276.<br />

Tiziano Vecellio, 202, 254, 326.<br />

Tolomeo, Cl., 203.<br />

Tommaso, san, 257, 273.<br />

Tononi, G., 44, 52, 54, 56, 57, 321.<br />

Toth, I., 249, 259.<br />

Trentin, R., 258.<br />

Trevarhen, C., 82.<br />

Trimarco, A., 135.<br />

Turing, A. M., 155, 156-160, 162,<br />

182, 198.<br />

Twombly, C., 233,<br />

Tycho Brahe, 104, 105, 112, 223.<br />

Tzara, T., 200.<br />

Umiltà, C. A., 168, 174, 180, 182,<br />

275, 278, 322, 351.<br />

Valdevit, R., 363.<br />

Valentini, P., 151, 150, 182.<br />

Valéry, P., 14, 16, 134, 322, 336, 340,<br />

Vallortigara, G., 84, 110, 114, 328.<br />

Van Dongen, Kees, 300.<br />

Van Duzer, L., 370.<br />

Van Gogh, V., 43, 295.<br />

Varela, J., 261.<br />

Varin, D., 242.<br />

Varzi, A., 54, 55, 57, 110.<br />

Vasari, G, 71.<br />

Vattimo, G., 260, 262.<br />

Vecchi, V., 341.<br />

Vegetti, M. S., 369.<br />

Velázquez, D., 309.<br />

Velotti, S., 240, 241.<br />

Venere, 254, 309.<br />

Vermeer, J., 291-293, 296, 314, 325.<br />

Vestergen, I., 259, 278.<br />

Vettese, A., 234, 244.<br />

Vico, G. B., 68, 290.<br />

Vidari, G., 242.<br />

Villone Betocchi, G., 369.<br />

Viola, W., 85.<br />

Vischer, R., 262, 264, 268, 269, 275.<br />

Vitta, M., 244-<br />

Voltaire (François-Marie Arouet, detto),<br />

325.<br />

Vygotskij, L. S., 152, 182.<br />

Wagner, R., 321.<br />

Warburton, N., 138, 234, 244, 257.<br />

Warhol, A., 90, 91, 206, 208, 209,<br />

211, 234, 236, 242, 281.<br />

Wartofsky, M., 231.<br />

Watanabe, S., 73, 238.<br />

Watson, E., 83.<br />

Watson, J. B., 18, 24-29, 52, 138.<br />

Watteau, J.-A., 66.<br />

Wechsler, J., 161, 182.<br />

Weisz, J., 154, 182.<br />

Weizenbaum, J., 157, 182.<br />

Werner, H., 178, 263,<br />

Wertheimer, M., 10, 20, 28, 95, 105,<br />

113, 137, 146, 182-184, 195, 223,<br />

244, 259, 361, 363.<br />

Wiesel, T., 306, 308.<br />

Wimmer, M., 339, 341.<br />

Winckelmann, J. J., 293, 294.<br />

Wingert, P., 341.<br />

Witasek, St., 113.<br />

Wittgenstein, L., 19, 20, 26, 28, 34,<br />

36, 47, 52, 98, 101-106, 110-115,<br />

123, 137, 164, 165, 182, 202, 222,<br />

234, 238, 334, 347.<br />

Wojnar, I., 142, 144, 145, 176, 182.<br />

Wooldfield, R., 351.<br />

Woolf, V., 13, 16.<br />

Worringer, W., 262, 265, 276.<br />

Wtewael, J., 218, 220.<br />

Wundt, W., 18, 21-24, 29, 43, 50, 51,<br />

Wunenburger, J.-J., 107.<br />

Zambianchi, E., 53, 109, 351.<br />

Zavalloni, R., 368.<br />

Zayas, M. de, 327.<br />

Zazzo, R., 150-152, 182, 361.<br />

Zeki, S., 58, 107, 177, 182, 233, 239,<br />

240, 244, 257, 264, 280, 283-285,<br />

287, 288, 290, 291, 294, 295, 297-<br />

303, 305, 307, 308, 311, 312-329.<br />

Zeus, 53.<br />

Zeusi, 39.<br />

382


Aesthetica Preprint<br />

Supplementa<br />

1 Breitinger e l’estetica dell’Illuminismo tedesco, di S. Tedesco<br />

2 Il corpo dello stile: Storia dell’arte come storia dell’estetica a partire da Semper, Riegl,<br />

Wölfflin, di A. Pinotti<br />

3 Georges Bataille e l’estetica del male, di M. B. Ponti<br />

4 L’altro sapere: Bello, Arte, Immagine in Leon Battista Alberti, di E. Di Stefano<br />

5 Tre saggi di estetica, di E. Migliorini<br />

6 L’estetica di Baumgarten, di S. Tedesco<br />

7 Le forme dell’apparire: Estetica, ermeneutica ed umanesimo nel pensiero di Ernesto<br />

Grassi, di R. Messori<br />

8 Gian Vincenzo Gravina e l’estetica del delirio, di R. Lo Bianco<br />

9 La nuova estetica italiana, a cura di L. Russo<br />

10 Husserl e l’immagine, di C. Calì<br />

11 Il Gusto nell’estetica del Settecento, di G. Morpurgo-Tagliabue<br />

12 Arte e Idea: Francisco de Hollanda e l’estetica del Cinquecento, di E. Di Stefano<br />

13 Pœta quasi creator: Estetica e poesia in Mathias Casimir Sarbiewski, di A. Li Vigni<br />

14 Rudolf Arnheim: Arte e percezione visiva, a cura di L. Pizzo Russo<br />

15 Jean-Bapiste Du Bos e l’estetica dello spettatore, a cura di L. Russo<br />

16 Il metodo e la storia, di S. Tedesco<br />

17 Implexe, fare, vedere: L’estetica nei Cahiers di Paul Valéry, di E. Crescimanno<br />

18 Arte ed estetica in Nelson Goodman, di L. Marchetti<br />

19 Attraverso l’immagine: In ricordo di Cesare Brandi, a cura di L. Russo<br />

20 Prima dell’età dell’arte: Hans Belting e l’immagine medievale, di L. Vargiu<br />

21 Esperienza estetica: A partire da John Dewey, a cura di L. Russo<br />

22 La maledizione della parola, di F. Mauthner<br />

23 Premio Nuova Estetica, a cura di L. Russo<br />

24 Poesia vivente: Una lettura di Hölderlin, di M. Portera<br />

25 Dopo l’Estetica, a cura di L. Russo<br />

26 Premio Nuova Estetica, a cura di L. Russo<br />

27 La regola del Capriccio: Alle origini di una idea estetica, di F. P. Campione<br />

28 Premio Nuova Estetica, a cura di L. Russo<br />

29 Sull’Emozione, a cura di L. Russo e Salvatore Tedesco<br />

30 Verso la Neoestetica. Un pellegrinaggio disciplinare, di L. Russo<br />

31 <strong>Psicologia</strong> <strong>delle</strong> <strong>Arti</strong>, di L. Pizzo Russo


Aesthetica Preprint ©<br />

Supplementa<br />

Collana editoriale del Centro Internazionale Studi di Estetica<br />

Direttore responsabile Luigi Russo<br />

Comitato Scientifico: Leonardo Amoroso, Maria Andaloro, Hans-Dieter Bahr,<br />

Fernando Bollino, Francesco Casetti, Paolo D’Angelo, Fabrizio Desideri, Giuseppe<br />

Di Giacomo, Gillo Dorfles, Maurizio Ferraris, Elio Franzini, Enrico Fubini,<br />

Tonino Griffero, Stephen Halliwell, José Jiménez, Jerrold Levinson, Giovanni<br />

Lombardo, Giovanni Matteucci, Winfried Menninghaus, Mario Perniola, Giuseppe<br />

Pucci, Roberto Salizzoni, Baldine Saint Girons, Giuseppe Sertoli, Richard<br />

Shusterman, Victor Stoichita, Massimo Venturi Ferriolo, Claudio Vicentini<br />

Comitato di Redazione: Francesco Paolo Campione, Elisabetta Di Stefano, Salvatore<br />

Tedesco<br />

Segretario di Redazione Emanuele Crescimanno<br />

Aesthetica Preprint si avvale della procedura di peer review<br />

Presso l’Università degli Studi di Palermo<br />

Viale <strong>delle</strong> Scienze, Edificio 12, i-90128 Palermo<br />

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Stampato in Palermo dalla Tipografia Luxograph srl<br />

Registrato presso il Tribunale di Palermo il 27 gennaio 1984, n. 3<br />

Iscritto al Registro degli Operatori di Comunicazione il 29 agosto 2001, n. 6868<br />

Associato all’Unione Stampa Periodica Italiana<br />

issn 0393-8522


Psychology of Arts<br />

For the first anniversary since Lucia Pizzo Russo passed away (12th<br />

september 2014), this volume collects her last papers (2005-2014)<br />

that had been published in various places: “Media and Cognitive<br />

Processes”, “The Psychology or Denying the Common Sense”, “Perception<br />

and Pictures in the <strong>Arti</strong>stic Representation”, “On this Side<br />

of Images”, “Perception and Pictures”, “From Schiller to Arnheim:<br />

Education and Art”, “Rudolf Arnheim and the Education of Man”,<br />

“Rudolf Arnheim and the Logic of Pictures”, “The Silliness of the<br />

Senses: On Arthur C. Danto Philosophy of Art”, “Art and Emotion”,<br />

“Expression: Empathy or Perception?”, “Against the Neuroaesthetics”,<br />

“Aesthetic Education in the xix Century?”, “The Image of Images”.<br />

The volume presents as an Appendix the interview: “A Life Against.<br />

Conversation with Lucia Pizzo Russo”.<br />

Lucia Pizzo Russo (1942-2014) taught Psychology of Arts at the<br />

University of Palermo. Her major works are: Introduction to the<br />

Human Drawing Tests (1977, 1983 2 ), Aesthetics and Psychology<br />

(1982), A Conversation with Rudolf Arnheim (1983, 2005 2 ),<br />

Aesthetic Education (1986), Children’s Drawing. History, Theory<br />

and Practice (1988, 2015 2 ), What the Psychology of Arts is (1991),<br />

The Genesis of Images (1997, 2015 2 ),The Arts and the Psychology<br />

(2004), Rudolf Arnheim. Art and Visual Perception (2005), I know<br />

what You Feel. Mirror Neurons, Art and Empathy (2009, 2010 2 ).<br />

Centro Internazionale Studi di Estetica, Viale <strong>delle</strong> Scienze, I-90128 Palermo

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