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UN GRANDE CUORE BLU

NUmero Uno del Magazine Un Grande Cuore Blu

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<strong>UN</strong><br />

<strong>GRANDE</strong><br />

CUOR E<br />

<strong>BLU</strong>


Hanno collaborato a questo numero:<br />

Testi: Francesco Lo Iudice, Corrado Ricci, Federico Göttsche<br />

Bebert, Tonino Sposito, Margary Frassi, Lia e Pia Riva, Niccolò<br />

Dall’Asta, Gaetano Dario Gargiulo, Edgardo Facchi, Gabriele<br />

Corlazzoli/Sea Shepherd, Roberto Roccati, Francesco Saverio<br />

Aiello, Ferdinando Boero, Roberta Roccati, Agostino Gallozzi,<br />

Carlo Rolandi, Vasco Fronzoni.<br />

Fotografie e illustrazioni: Francesco Rastrelli, Roberta<br />

Roccati, Archivio The Classic Yacht Experience, Blue Passion<br />

Photo, Archivio Carlo Riva, Monaco Boat Service, Guillaume<br />

Plisson, Alberto Pedrali, Gaetano Dario Gargiulo, Sea<br />

Shepherd Global, Marco Gargiulo, ©AA.VV. Google, Alberto<br />

Gennari, Archivio Carlo Rolandi, Claudio Ripa, Edoardo<br />

Ruspantini, ©Agenzia Catalana de l’Aigua<br />

“W<br />

elcome aboard”, Benvenuti a bordo sul Numero 1 di “Un<br />

grande cuore blu”, 100 pagine stampate al sapore di sale, da<br />

aggiungere alla collezione iniziata con il Numero 0: una conferma<br />

dell’appassionato interesse con cui amici e associati mi hanno<br />

seguito nell’impresa di raccontare il mare e le sue infinite meraviglie.<br />

Così come il mare non ha confini, anche Mare Nostrum vuole<br />

spaziare dal mar Mediterraneo, con il reportage dell’Expedition<br />

Sicily dell’Associazione alla scoperta delle saline di Trapani,<br />

all’altro lato del mondo, con le immagini dei fondali australiani alla<br />

scoperta di Nemo o delle tradizioni Maori della Nuova Zelanda.<br />

Da sempre amanti della vela, abbiamo voluto coniugare la<br />

tradizione della flotta di vele latine delle Isole Kerkennah con il<br />

concetto di yachting lifestyle da gentleman d’antan che si gode<br />

a bordo delle imbarcazioni di The Classic Yacht Experience, per<br />

poi farci guidare in un excursus storico sulla storia delle Olimpiadi.<br />

Non tutto ciò che si può definire “imbarcazione” deve<br />

necessariamente navigare per poterne meritare il titolo: ne<br />

sono un esempio il magnifico modellino del S/Y Lulworth 1920,<br />

fedelissima e laboriosa riproduzione dell’originale e il Bucintoro dei<br />

Savoia, che per la sua sontuosità ha meritato un posto d’onore<br />

nell’allestimento reale della Reggia di Venaria.<br />

Anche in questo numero abbiamo voluto dedicare un servizio ad<br />

un personaggio d’eccellenza che ha lasciato un segno indelebile<br />

nella storia della nautica mondiale: per sua stessa definizione, il<br />

“barcaiolo che amava le sfide”, Carlo Riva, raccontato dalla sua<br />

famiglia nei momenti di vita privata per mare.<br />

Siamo infine orgogliosi di presentare la neonata collaborazione<br />

con Sea Shepherd, che ci ricorda come il mare, per restare un<br />

patrimonio dell’umanità da godere anche in futuro, necessita di<br />

un’azione costante di tutela da parte di ciascuno di noi.<br />

Lascio a voi scoprire gli altri interessanti articoli della rivista:<br />

buona lettura e “Think Blue”<br />

Tutti i diritti riservati<br />

Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta o<br />

trasmessa in alcuna forma o mediante alcun mezzo, in maniera<br />

totale o parziale, senza l’autorizzazione scritta dell’Editore.<br />

L’editore si è curato di ottenere dai titolari del copyright<br />

l’autorizzazione a pubblicare le immagini presenti in questo<br />

numero. L’editore è a disposizione degli aventi diritto con i<br />

quali non è stato possibile comunicare.<br />

Un Grande Cuore Blu<br />

Edizione semestrale a tiratura limitata per i soci<br />

dell’Associazione Culturale Mare Nostrum<br />

N°1 - Luglio 2018<br />

Editore: Associazione Culturale Mare Nostrum<br />

Ideazione: Blue Passion snc<br />

Direttore editoriale: Francesco Rastrelli<br />

Impaginazione e grafica: Viscontiart.com<br />

Stampa: Effegi - Portici (NA)<br />

Copertina: “Nuotando nel blu” - Le Castella (KR)<br />

foto di Francesco Rastrelli<br />

Questo numero è stato realizzato<br />

grazie alla BrokerCast srl


in questo numero:<br />

pag 6<br />

pag 12<br />

pag 18<br />

pag 24<br />

Mare Nostrum - isole Kerkennah<br />

Arte e mestieri - Mani sapienti<br />

Benvenuti a bordo - The return of Gentleman Yachting<br />

Nel mare - Sapore di Sale<br />

pag 30 Personaggio - Carlo Riva<br />

pag 36 Photogallery - Finding Nemo<br />

pag 42 L’arte e il mare - Lullworth 1920<br />

pag 48<br />

Rubrica - Sea Sheperd<br />

pag 56 Restauro - La barca sublime<br />

pag 64<br />

pag 70<br />

pag 76<br />

pag 80<br />

pag 86<br />

pag 94<br />

pag 96<br />

Medicina - SOS meduse<br />

Dal mondo - Kia Ora Maori<br />

Economia - il sistema portuale<br />

Storia - Cinque cerchi nel blu<br />

Archeologia - Baia sommersa: il mito<br />

Salviamo il mare - Rifiuti incontrollati<br />

Chi, perchè - Associazione Mare Nostrum


Mare Nostrum<br />

isole Kerkennah<br />

anima mediterranea<br />

Testi di Francesco Lo Iudice<br />

presidente dell’A.S. Aurora<br />

Foto di Francesco Rastrelli<br />

Barche a vela latina per la pesca del<br />

polpo con la Gargoulette (Anfora)<br />

6<br />

7


L’arcipelago delle Kerkennah è una delle tre maggiori depressioni del<br />

litorale tunisino, a 32 km dalla costa di Sfax, considerata come il vivaio<br />

di un sistema naturale marino ancora ben conservato. Le isole sono<br />

particolarmente ricche di crostacei, gamberetti, molluschi, seppie, polpi e<br />

vongole così come di spugne. L’economia locale è basata principalmente<br />

sulla figura del pescatore, attorno al quale si sviluppano le attività artigianali: il<br />

maestro d’ascia, che costruisce unicamente imbarcazioni di legno (feluke), le<br />

donne che preparano le vele di cotone e le attrezzature per la pesca (nasse e<br />

reti) che vengono utilizzate sia in mare aperto ma anche nelle “charfie”, la vera<br />

caretteristica di questo arcipelago. Il termine charfia in arabo significa “onesto”<br />

e viene utilizzato a Kerkennah per definire quei tratti di mare in cui viene<br />

catturato il pesce, delimitati da foglie di palma e oggetto di titoli di proprietà<br />

privata come se fossero appezzamenti di terreno. Nei secoli passati questi<br />

luoghi venivano gestiti dal “Rais” (capo) del villaggio, che si impegnava a<br />

distribuire il prodotto di queste riserve agli abitanti più bisognosi e a curarne la<br />

funzionalità a nome della collettività. Il prodotto che veniva pescato all’interno<br />

di queste charfie era considerato di pregevole qualità perché non veniva<br />

stressato dalle reti ma era raccolto dalle nasse, che quindi lo lasciavano vivo<br />

sino al momento della cattura. Ancora oggi esistono questi poderi acquatici<br />

tramandati da generazione in generazione, con titoli di proprietà che li<br />

rendono caratteristici ed unici nel Mediterraneo.<br />

Altra tipica pesca di queste isole, risalente all’epoca dei Romani che<br />

dominarono il Nord Africa nei primi tre secoli d.C., è quella del polpo con<br />

le “gargouletes”, ossia la cattura del mollusco<br />

con delle piccole anfore. La tecnica è molto<br />

semplice: si filano in mare una serie di piccole<br />

anfore appuntite, legate tra loro, e le si adagia sui<br />

bassi fondali; il giorno successivo si recuperano,<br />

sperando che i polpi le abbiano scambiate per<br />

rifugi sicuri dove ripararsi. Anche in questo caso<br />

la pesca non è invasiva perché la preda viene<br />

catturata viva e le anfore recuperate per essere<br />

riutilizzate.<br />

8<br />

9


SOS Kerkennah<br />

Kerkennah è un arcipelago caratterizzato da una natura<br />

splendida, meta di numerosi turisti. Il mare è il pilastro<br />

dell’economia locale in quanto attrae visitatori ma fornisce<br />

anche la principale fonte di sostentamento per gli isolani che<br />

dipendono dai metodi di pesca tradizionali (charfia), dalla pesca<br />

del polpo e dalla raccolta delle spugne di mare.<br />

Kerkennah è direttamente minacciata dall’esplorazione e<br />

dallo sfruttamento delle compagnie petrolifere e del gas che<br />

realizzano profitti significativi a scapito dello sviluppo dell’isola<br />

e della salvaguardia del suo ambiente. Negli ultimi anni, l’isola è<br />

stata vittima di frequenti incidenti dovuti alle fuoriuscite di petrolio,<br />

che mettono in pericolo la biodiversità marina, inquinano le<br />

spiagge e danneggiano la vita quotidiana dei pescatori. L’ultimo<br />

incidente è del 21 novembre 2017 e ha causato la morte di<br />

molte specie marine, nonostante la poca attenzione dei media,<br />

la mancata ricerca di responsabilità e l’assenza di soluzioni<br />

prospettate per la protezione delle isole tunisine. Attualmente<br />

l’Unione locale per l’agricoltura e la pesca (ULAP), l’associazione<br />

Al-Qartan per lo sviluppo sostenibile, la cultura e lo spettacolo, la<br />

società civile di Kerkennah e Greenpeace Mediterranean si sono<br />

fatti promotori di richieste dirette al Governatore di Sfax Adel Al<br />

Khabathani, al Ministro degli Affari Locali e dell’Ambiente Riadh<br />

Mouakher e al Capo del Governo tunisino Youssef Chahed.<br />

Per informazioni:<br />

facebook.com/soskerkennah/<br />

Cantiere a Teboulba<br />

Anfiteatro Romano di El Jem<br />

Le imbarcazioni da pesca più comuni sono le feluke di<br />

legno (simili ai nostri gozzi) che non hanno derive, si possono<br />

spiaggiare facilmente e sono molto adatte alla navigazione locale<br />

perché, in caso di bassa marea, si possono adagiare su un lato<br />

e poi riprendere a galleggiare quando ritorna l’alta marea.<br />

La cucina tipica è basata principalmente sui prodotti della<br />

pesca, anche perché l’isola nei secoli ha subito un cambiamento<br />

climatico tendente alla desertificazione, quindi il clima arido e<br />

le scarse risorse idriche non permettono coltivazioni intensive;<br />

la maggior parte dei prodotti agricoli vengono importati dalla<br />

terraferma con un servizio di traghetti dal porto di Sfax.<br />

I piatti più richiesti sono il cuscus al polpo, i pesci grigliati<br />

come le triglie, il cefalo di mare aperto (diverso e molto più<br />

gustoso di quello delle foci dei fiumi) e le orate.<br />

In questa zona esistono ancora posti incantevoli ove è<br />

possibile ammirare mosaici risalenti all’epoca romana, come a<br />

Sidi Fredj o presso il Museo della Cultura di Kerkennah, dove<br />

sono raccolti gli oggetti e i costumi tradizionali degli abitanti<br />

degli 11 villaggi dell’arcipelago. Molti mosaici di Kerkennah<br />

sono stati trasferiti e ricomposti al Museo del Bardo di Tunisi<br />

(considerato il più importante al mondo per la raccolta di<br />

mosaici e reperti di epoca romana, a circa 300 km dall’isola):<br />

raffigurano principalmente scene di pescatori o di navigatori che<br />

hanno attraversato questi lidi e anche immagini di Ulisse che,<br />

legato all’albero maestro della sua imbarcazione, volle sentire<br />

il canto delle Sirene ma fece tappare con la cera le orecchie<br />

del suo equipaggio affinché non cadesse nella tentazione di<br />

abbandonare la nave per seguirle sulla terraferma. Ci sono varie<br />

ipotesi su quale fosse questa isola ma in Tunisia prevale quella<br />

che si tratti di Djerba, non lontana da Kerkennah.<br />

10<br />

Mosaico di Ulisse, Musee Bardo-Tunis<br />

11


Arte e mestieri<br />

Mani<br />

sapienti<br />

il Corpo della Mano<br />

di Pablo Neruda<br />

Una mano è un corpo,<br />

un corpo è una mano,<br />

cosa facciamo<br />

con la mano del corpo<br />

o il corpo della mano?<br />

Raccogliamo da terra e mare:<br />

sappiamo fino al fondo,<br />

viviamo corpo a corpo,<br />

e mano a mano è andata la vita,<br />

raggiungere, possedere,<br />

toccare, intrecciare e salutare.<br />

Testo di Corrado Ricci<br />

Foto di Francesco Rastrelli<br />

13


Può capitare che incespichino nei congiuntivi, che<br />

annaspino nella ricerca delle parole per trasmettere un<br />

concetto ma se a “parlare” sono le loro mani, allora<br />

ciò che arriva al cuore è pura poesia. Maestri d’ascia,<br />

attrezzatori navali, carpentieri in ferro, subacquei e<br />

vogatori devono alle mani le loro prodezze creative, gioie<br />

e tribolazioni del lavoro, successi professionali e sportivi,<br />

piacere del fruitore dei beni che derivano dai gesti che<br />

da esse prendono forma, per dare forma: che sia una<br />

tavola di fasciame, un bozzello, un’impiombatura, una<br />

remata. Le loro mani sono qui raccontate negli scatti di<br />

Francesco Rastrelli, dimostrando che anche il suo dito<br />

indice, nel semplice gesto di pigiare il pulsante della<br />

macchina fotografica, può essere un atto capace di<br />

generare poesia, combinandosi, nella scelta migliore dei<br />

tempi, nel mosaico degli altri fattori alla base della foto<br />

d’autore: luce, regolazione del diaframma, inquadratura.<br />

15


Ruvide, callose, segnate dalle cicatrici, sgraziate... le mani dei poeti<br />

del legno, del ferro, delle cime pulsano di amore per i vari elementi<br />

che con esse vivono in simbiosi. Queste immagini le celebrano, dando<br />

evidenza a quello che è il frutto di esperienza, applicazione, custodia<br />

di segreti, intuizioni, errori: fattori che, attraverso la fotografia, non si<br />

possono raccontare nel loro divenire temporale ma si possono cogliere<br />

sul piano della sintesi.<br />

Più delle parole, le immagini spiegano, testimoniano.<br />

Più dei concetti elaborati, le mani si fanno sapienza, strumenti del<br />

processo creativo che matura nel cervello, che si alimenta nello spirito.<br />

Sì, le mani sapienti non sono solo espressione di tecnica, ma di<br />

interiorità, spiritualità: espressione dell’anima.<br />

16<br />

17


Benvenuti a bordo<br />

The return of<br />

Gentleman<br />

Yachting<br />

Testi di Federico Göttsche Bebert<br />

Foto di Francesco Rastrelli<br />

19


Barone<br />

Raben-Levetzau<br />

su Orianda<br />

negli anni 50<br />

Puritan<br />

The Classic Yacht Experience nasce dalla visione di un<br />

gruppo di appassionati armatori di barche d’epoca, con l’obiettivo di conservare i valori e l’esperienza di<br />

quell’andar per mare di inizio secolo che ispirò innumerevoli avventurosi, artisti, scrittori e romantici di ogni parte del mondo e che<br />

ancora oggi, nonostante l’inarrestabile impeto del progresso, è in grado di far sognare chi è così fortunato da venirne in contatto.<br />

Oggi TCYE vanta una flotta di sette yacht d’epoca, costruiti prima del secondo conflitto mondiale da diversi armatori, in luoghi<br />

diversi e per diversi scopi e sono oggi gestiti da un unico team di professionisti che condividono lo stesso interesse, entusiasmo,<br />

conoscenza e passione per queste imbarcazioni.<br />

Parte della flotta è costituita dalle grandi golette: il maestoso “Puritan” del 1930, goletta aurica di 126 piedi (38,4m) disegnata<br />

da John G. Alden, uno dei più acclamati architetti navali americani del periodo; l’elegante “Orianda” del 1937, una goletta<br />

bermudiana di 85 piedi (26m) costruita nel cantiere di Carl Andersen a Faaborg, su disegno del famoso progettista svedese Oscar<br />

W. Dahlstrom.<br />

Nei mesi estivi, “Puritan” e “Orianda” solcano le onde del Mediterraneo offrendo ai propri ospiti un’esperienza fuori dalla solita<br />

nozione del charter commerciale. Sulle imbarcazioni di The Classic Yacht Experience, infatti, non si ha la sensazione di essere<br />

ospiti, bensì armatori temporanei. Sarà per i modi dell’equipaggio, selezionato e preparato con precisione assoluta, per l’accortezza<br />

nei dettagli anche minori o per la storia che, volente o nolente, permea da ogni angolo dell’imbarcazione ma, dal momento<br />

dell’imbarco, chiunque salga a bordo di “Puritan” ed “Orianda” si sente piacevolmente accolto da un ambiente elegante e distinto,<br />

immutato da quando fu concepito, quasi novant’anni fa.<br />

In testa d’albero su Orianda<br />

Marga in regata alle<br />

Voiles de Saint Tropez<br />

L’esperienza unica consiste nell’essere trasportati indietro nel tempo, lasciandosi alle<br />

spalle le complicazioni del mondo moderno, che cedono il posto a un’atmosfera di relax<br />

d’altri tempi.<br />

The Classic Yacht Experience si sta affermando anche nel mondo delle regate<br />

d’epoca, infondendo nuova linfa vitale alla classe dei cutter aurici appartenenti alla regola<br />

internazionale dei 10 metri. Grazie alla curiosità di alcuni degli armatori di “Orianda” e<br />

“Puritan”, tra cui Tomas de Vargas Machuca, socio dell’Associazione Mare Nostrum, la<br />

cui passione ha inizio in giovine età con il restauro di Delfino (ketch di 17 metri attribuito a<br />

John G. Alden), il progetto della salvaguardia delle barche da regata 10mR ha inizio con la<br />

scoperta dello scafo, piuttosto rovinato, di “Marga”, cutter aurico del 1910 che partecipò alle<br />

regate delle Olimpiadi di Stoccolma nel 1912.<br />

Completato il progetto di restauro di “Marga”, che oggigiorno presenzia alle maggiori<br />

regate del circuito storico nel Mediterraneo, The Classic Yacht Experience si sta occupando<br />

di restaurare alcuni tra i più importanti yacht appartenenti alla prima regola 10mR, tra cui<br />

“Tonino” (disegno di William Fife III, disegno del 1911) appartenuta al Re di Spagna, “Astarte”<br />

del 1907, ritenuto il primo 10mR costruito, “Orchis I” e “Linth II”, due yacht progettati da Max<br />

Oertz rispettivamente nel 1910 e 1908 e pensati perduti fino a quando non furono riscoperti<br />

qualche mese fa in un capannone in Cornovaglia.<br />

20<br />

21


Sempre fedele alla propria missione di ricreare il mondo dello yachting d’antan,<br />

i 10mR affiancano “Puritan” e “Orianda” nell’obiettivo di trasportare indietro nel<br />

tempo chiunque vi salga a bordo, non solo per la natura storica degli splendidi scafi,<br />

bensì per la cura a 360 gradi di ogni singolo dettaglio.<br />

Anche quelli di cui non vi accorgereste mai.<br />

www.theclassicyachtexperience.com<br />

22<br />

23


Nel mare<br />

Sapore<br />

di sale<br />

“C’è mpuostu chinu ramuri e na cosa<br />

ca ti pigghia lu cori chistu è mpuostu,<br />

mpuostu incantatu chistu è mpuostu<br />

alluciatu e ciaurusu,<br />

è mpuostu chiamatu sicilia”<br />

Testi di Tonino Sposito<br />

Foto di Francesco Rastrelli<br />

25


Nel mese di luglio del 2017, il Presidente<br />

dell’Associazione Mare Nostrum, Francesco Rastrelli,<br />

accompagnato dal Socio e videomaker Lello Lenguito,<br />

ha inaugurato la prima “spedizione” in terra di Sicilia<br />

in veste di fotografo, per documentare quel tratto di<br />

“giardino del Mediterraneo” in cui si trova la cittadina di<br />

Trapani.<br />

Questa ridente località costiera è nota per essere<br />

la “Città dei due ori”: quello rosso, il corallo pescato<br />

nel limpido mare circostante, fa bella mostra di sé nel<br />

Museo Pepoli.<br />

L’altro oro, il più antico, quello bianco, è il sale, la<br />

cui origine è successiva alla caduta dei Longobardi ad<br />

opera di Carlo Magno: il Sacro Romano Impero costituì i<br />

feudi imperiali con lo scopo di mantenere un passaggio<br />

sicuro verso il mare e assegnò questi territori a famiglie<br />

fedeli che li gestirono per secoli, controllando le vallate<br />

e garantendo, in cambio di gabelle, la sicurezza dei<br />

convogli. Proprio dalle odierne vie del sale, divenute<br />

meta di escursioni e trekking, snodandosi in ambienti<br />

integri e di particolare interesse naturalistico, ha avuto<br />

inizio la documentazione fotografica di Mare Nostrum.<br />

Il sale marino di Trapani è un prodotto italiano a<br />

indicazione geografica protetta, estratto in gran parte<br />

all’interno della Riserva naturale integrale Saline di<br />

Trapani e Paceco, con una produzione in costante<br />

aumento, circa 80.000 tonnellate/anno. Il procedimento<br />

artigianale dura 5-7 mesi e la raccolta avviene durante il<br />

periodo estivo, nei mesi di luglio e agosto.<br />

Il sale marino di Trapani è inoltre inserito nell’elenco<br />

dei prodotti agroalimentari tradizionali siciliani,<br />

riconosciuti dal Ministero delle Politiche Agricole,<br />

Alimentari e Forestali, è presidio Slow Food ed è stato<br />

riconosciuto IGP dal Ministero delle Politiche Agricole.<br />

26<br />

27


Nelle piccole saline a conduzione tradizionale (la cui costruzione è stata realizzata tra il 1200<br />

e il 1800) si produce soprattutto sale integrale: nelle vasche salanti, da 8 a 25, grandi in media<br />

ciascuna circa 2500mq (50m x 50m), si producono circa 80-90 tonnellate per vasca. Il metodo<br />

di coltivazione è una “scienza” tramandata nei secoli dai responsabili della<br />

produzione, i cosiddetti “curatoli”, che con antichi gesti indirizzano<br />

l’acqua del mare di vasca in vasca, concentrandola in quantità<br />

diverse fino ad estrarne i preziosi cristalli. Le caratteristiche<br />

del prodotto variano a seconda dei venti a cui è esposto e<br />

della qualità dei suoli delle vasche dove il sale si concentra:<br />

all’interno della stessa salina si possono avere qualità di<br />

sale differenti da vasca a vasca e addirittura, all’interno<br />

della stessa vasca, qualità di sale con caratteristiche<br />

differenti. Per esempio il sale che si forma nel centro della<br />

vasca salante ha sempre dei cristalli molto grandi ed è<br />

il sale più pregiato e puro, mentre quello che si deposita<br />

nei bordi è un sale molto più fino ma generalmente meno<br />

pulito. A questo tipo di sale, che viene detto sale da<br />

precipitazione, recentemente si è aggiunto il cosiddetto<br />

“fior di sale”, raccolto sulla superfice dell’acqua delle vasche<br />

salanti tramite dei retini. Questo sale si presenta con dei cristalli<br />

di circa 1-4 mm, molto soffici al palato e apprezzato dagli chef per<br />

guarnire e insaporire sofisticate pietanze.<br />

Sia il sale per precipitazione che quello da superficie, viene raccolto<br />

con la massima cura, nel modo più pulito possibile e viene poi confezionato<br />

senza nessun tipo di lavorazione, tranne la molitura a rulli delle qualità fini.<br />

Il sale marino integrale è considerato, in Medicina Biologica, un<br />

coadiuvante della normale alimentazione ed è un prezioso rimedio per<br />

numerose carenze che generano squilibri ormonali, ghiandolari, nervosi.<br />

Il sale integrale, a differenza di<br />

quello raffinato, contiene almeno 70<br />

delle 84 sostanze che sono presenti<br />

nell’acqua di mare: oltre al sodio e<br />

al cloro, si trovano «impurità» minerali<br />

(solfati, calcio, magnesio, potassio, ferro<br />

e minerali traccia), molto preziose per la<br />

salute. I Soci di Mare Nostrum testano<br />

in prima persona le qualità benefiche del<br />

sale, immergendosi nell’acqua “Fatta”<br />

delle vasche delle saline, che durante la<br />

maturazione del sale diventa di colore<br />

rosa e ricchissima di oligominerali.<br />

La visita allo Stagnone di Marsala è<br />

stata resa memorabile dalla possibilità<br />

di navigare nelle acque circostanti a<br />

bordo di una vela latina, costruita e<br />

armata dal Maestro Franco Bonanno,<br />

mastro d’ascia dell’omonimo cantiere<br />

marsalese, che ha guidato Mare<br />

Nostrum alla scoperta di un altro<br />

tesoro della zona: il Giovinetto di<br />

Mozia, statua di efebo in marmo<br />

del 450 a.C., conservata al Museo<br />

Whithaker dell’Isola di Mozia, dove<br />

fu portata dai Cartaginesi dopo<br />

il saccheggio di Selinunte e poi<br />

scoperta nel 1979, durante una<br />

campagna di scavi archeologici<br />

dell’Università di Palermo.<br />

Arrivederci con “Sapore di sale, sapore di mare”.<br />

Per gustare il vero sale di Trapani: www.sosalt.it<br />

in volo sulle Saline Rosa all’isola lunga dello Stagnone, Marsala<br />

28<br />

29


Personaggio<br />

Carlo Riva<br />

il barcaiolo che<br />

amava le sfide<br />

Testo di Margary Frassi<br />

Foto di Archivio Carlo Riva, Monaco Boat<br />

Service/Guillaume Plisson, Alberto Pedrali<br />

2012: a novant’anni Carlo Riva ancora<br />

sulla cresta dell’onda a bordo del suo Lipicar IV<br />

30<br />

31


“Profumo di mare, sete di libertà, nostalgica voglia di<br />

navigare l’Egeo, calmo o furioso, da sempre mio incanto,<br />

mio maestro e padrone”. Così titola un capitolo del libro<br />

autobiografico di Carlo Riva in cui riporta il diario di bordo,<br />

molto minuzioso, di una traversata del 1964 da Gallipoli a Corfù<br />

a bordo dell’Aquarama Lipicar I.<br />

Già, il mare! Pur essendo nato sulle acque abbastanza<br />

tranquille del Lago d’Iseo, è il mare ad aver esercitato su<br />

di lui, fin dalla giovinezza, un forte fascino, un’attrazione<br />

intensa, oserei dire fatale, che lo ha spinto a cimentarsi nella<br />

costruzione di barche in grado di affrontare le sue insidie.<br />

Si può dire sia stato il leitmotiv della sua vita di “barcaiolo”,<br />

costruire motoscafi e yacht che potessero navigare sui mari<br />

di tutto il mondo. Le sue barche sono state infatti pensate e<br />

progettate per il mare nelle linee delle sue carene per garantire<br />

la sicurezza in navigazione, non disgiunte dai canoni della<br />

bellezza per forme, materiali, accessori, colori. Ma è sulla<br />

sicurezza che ha sempre posto l’accento. Una parola ricorrente<br />

in tutte le interviste che rilasciava: “In una barca Riva non<br />

bisogna guardare solo l’estetica – soleva ripetere – Voi donne,<br />

vi fermate all’esteriorità (lo diceva con tono canzonatorio).<br />

Occorre invece guardarci dentro, dove gli occhi non penetrano,<br />

per comprendere quanto è importante il fattore sicurezza nelle<br />

barche Riva”. Al riguardo cito un aneddoto. Si infuriò molto<br />

quando il mitico Tilin di Portofino (Attilio Cupido), divenuto<br />

suo caro amico e grande estimatore nel corso del tempo,<br />

osò apostrofare i Riva, con una certa sufficienza, “barche<br />

da lago”. “Dovette presto ricredersi – raccontava il due volte<br />

“pioniere della nautica” con malcelato orgoglio – quando li vide<br />

sfrecciare sul mare con una tenuta straordinaria, una facilità di<br />

navigazione, al completo riparo da spruzzi”.<br />

E il mare che tanto amava gli procurò tanta gioia durante<br />

i suoi nove anni di navigazione alla scoperta delle incantevoli<br />

isole e baie greche a bordo dei suoi quattro Aquarama su cui<br />

c’erano moglie e figlie che dovevamo sottostare agli ordini ferrei<br />

del capitano. Erano viaggi di piacere, di relax, ma nello stesso<br />

tempo di lavoro durante i quali osservava il comportamento<br />

dell’imbarcazione, annotando le modifiche tecniche e pratiche<br />

che avrebbe poi eseguito al rientro per migliorare sempre più la<br />

sicurezza.<br />

Passione e richiamo del mare, le spinte, nel pieno della sua<br />

attività di costruttore di barche in mogano, a cimentarsi anche<br />

nella progettazione di motoryacht in acciaio.<br />

“Ero elettrizzato dall’idea di affrontare i marosi del Nord dove c’è una grande tradizione di navi in acciaio”, diceva quando<br />

parlava dei Caravelle costruiti in Olanda nel Cantiere de Vries di Aalsmeer negli anni ’60, cantiere pressoché sconosciuto, oggi<br />

invece al top mondiale del settore. Fu la solida tradizione cantieristica di quella piccola realtà, allora artigianale, a colpire Carlo Riva,<br />

insieme all’ordine che vi regnava. Un ordine non fine a se stesso, ma funzionale al lavoro. Fu un connubio felice dove tradizione<br />

olandese, design Riva e motorizzazione Rolls Royce si fusero per far nascere nel 1961 il primo motoryacht di 21,80 metri, il<br />

Caravelle n. 574, dell’armatore francese Georges Cravero, che lo battezzo “Jeaclopie II”. La partnership con i de Vries durò fino al<br />

1965: furono costruiti 7 Caravelle e 1 Atlantic. Si concluse la collaborazione per ragioni di lontananza - l’attività fu infatti trasferita<br />

in Italia al C.R.N. di Ancona - ma non l’amicizia e il rapporto di grande stima tra le due famiglie. Fondatori e figli de Vries hanno<br />

sempre mantenuto stretti contatti con l’imprenditore, ambasciatore del made in Italy, attraverso un fitto scambio epistolare anche<br />

in anni non lontani. Fu una gioia immensa quando nel 2010 la famiglia de Vries gli comunicò che avevano restaurato il Caravelle<br />

“Serena” del 1964 al cui varo in Olanda parteciparono la moglie Licia Vigani e Lia, la primogenita. L’ingegnere inviò tutte le<br />

informazioni che aveva su questo motoryacht il cui ultimo armatore fu Pietro Casella, patron del noto marchio alimentare Biffi, che lo<br />

aveva ribattezzato “Alcor”, nome di una stella bianca dell’Orsa Maggiore.<br />

Per molti anni, prima che fosse venduto, questo magnifico Caravelle è stato ormeggiato nel Porto Carlo Riva di Rapallo,<br />

ammirato e fotografato da tutti i diportisti.<br />

“Quando non c’erano i computer<br />

e solo la mano scorreva,<br />

libera di fissare idee e pensieri”<br />

32<br />

33


Per mare con papà<br />

(Grecia primo amore!)<br />

Almeno il 50% delle vacanze più belle della nostra vita (l’altro 50 lo<br />

dobbiamo a mariti, figli e amici fraterni) l’abbiamo passato in Grecia, con<br />

nostro padre, nostra madre , la nostra famiglia e gli amici più cari.<br />

Ogni nuova barca De Vries, nata dalla penna e dal cuore di nostro<br />

padre, veniva testata e messa a dura prova personalmente da lui e dalla<br />

ciurma di figlie e amici vari, di solito nel Mar Egeo; al traino il nostro<br />

Aquarama Lipicar, per intrufolarci in ogni piccola caletta di ogni piccola<br />

isola greca.<br />

Con grande tenerezza e riconoscenza ricordiamo di quei giorni<br />

l’entusiasmo da ragazzino di nostro padre, la sua voglia di avventura<br />

(sempre con barche però perfettamente preparate!), la sua gioia di vivere e la<br />

riconoscenza per ogni incontro, novità, sorpresa che trovavamo sulla nostra<br />

rotta. Dalla scoperta di calette nascoste, alla gita a dorso di mulo verso il<br />

monastero più sperduto dell’isola, all’amicizia con i pescatori locali, uomini<br />

di mare e quindi degni della più entusiastica considerazione... cose semplici,<br />

ma ognuna fonte di allegria, risate e meraviglia.<br />

Grazie papà. La passione per il tuo lavoro è stata passione per la vita,<br />

magnifica, sempre amata, anche nei giorni di dolore, guardata con gli occhi<br />

limpidi di un ragazzo senza età.<br />

Una testa dura innamorata della vita<br />

Mio nonno, come ogni nonno, amava raccontare le storie della sua vita ai suoi nipoti.<br />

Alla fine di ogni cena a casa insieme, si accendeva una sigaretta (“Ma ne fumo solo metà, guarda”) e una parola, un nome o un luogo menzionato da<br />

qualcuno, poteva diventare un appiglio dal quale risalire per la china di un ricordo. Episodi della sua vita che non solo ricordava, ma quasi riviveva, con gli occhi<br />

che brillavano, davanti a noi.<br />

Noi ascoltavamo attenti storie che sembravano uscire da un libro di avventure, ambientate in luoghi lontani (dagli Stati Uniti alle isole della Grecia) e vicini<br />

(il lago d’Iseo, Portofino), popolate da personaggi famosi, con barche, motori, cromature, tempeste, mare e un ragazzo intelligente, con la testa dura e piena di<br />

domande: mio nonno.<br />

I racconti volavano dalle storie d’infanzia, con le fughe dalla colonia estiva per spiare i vicini cantieri navali, alla gioventù, con i primi lavori nel cantiere del<br />

bisnonno Serafino, dove dovette conquistarsi la fiducia degli operai. A volte invece raccontava del suo primo viaggio negli Stati Uniti, pieno di meraviglia, che nella<br />

mia mente ha i colori di un film con Cary Grant o James Stewart, o della traversata del mar Ionio in tempesta sul suo fido Carlina, che da piccolo immaginavo<br />

come i fortunali affrontati da Ulisse.<br />

Credo che l’amore abbia guidato la vita di mio nonno. L’amore e la forza, il coraggio e la perseveranza necessari ad ascoltare cosa l’amore gli sussurrasse<br />

all’orecchio.<br />

L’amore per le sue barche e per tutte le barche e di lì l’amore per il mare e le sue meraviglie; l’amore per le cose ben fatte, anzi, fatte al meglio, con attenzione<br />

e intenzione e pensiero; l’amore per la scoperta e l’esplorazione di questo mondo, con le sue terre e i suoi cieli, i mari e gli animali che lo popolano. L’amore per gli<br />

uomini e le donne che ha incontrato, per le loro storie e le loro vicende, le loro idee e le loro speranze.<br />

Una vita che valga la pena di essere vissuta non deve dimenticare mai l’amore e l’impegno che l’amore richiede.<br />

Questo è l’insegnamento che mio nonno mi ha lasciato con la sua vita e che spero di non dimenticare mai.<br />

Niccolò Dall’Asta<br />

Pia e Lia Riva<br />

1998, Rapallo: “Riva Days”<br />

34<br />

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Photogallery<br />

Finding<br />

Nemo<br />

Pesce pagliaccio in anemone<br />

Testo e foto di Gaetano Dario Gargiulo<br />

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Sin da bambino, sfogliando le<br />

pagine dell’Enciclopedia del Mare<br />

edita da Jacques-Yves Cousteau,<br />

coltivavo il desiderio di vedere da vicino<br />

i pesci pagliaccio nei loro anemoni.<br />

Diventai così un subacqueo e poi un<br />

fotografo subacqueo. Per anni mi<br />

sono immerso con amici sui fondali<br />

di Marina Grande e della Penisola<br />

Sorrentina, prevalentemente di notte<br />

e soprattutto d’inverno, quando le<br />

spiagge erano vuote e ritornavano<br />

proprietà delle creature marine. Fu<br />

solo nel 2006, quando mi trasferii in<br />

Australia, che finalmente riuscii ad<br />

immergermi con i pesci pagliaccio.<br />

Presto scoprii il motivo per cui<br />

molti li chiamano “hooligan fishes”: ti<br />

prendono a testate e ti attaccano in<br />

gruppo. Per scattare le foto degli adulti<br />

che accudiscono le uova, ho dovuto<br />

sopportare diverse testate e morsi!<br />

Per fortuna non porto i capelli lunghi<br />

perchè ho visto i pesci pagliaccio tirare<br />

i capelli fluenti delle donne sub e mi è<br />

stato riferito che non è piacevole…<br />

Pesci mandarino in accoppiamento<br />

Bavosa (fang blenny) a guardia del nido<br />

Squalo (Sand tiger shark)<br />

comune nelle acque Australiane<br />

Pesce pagliaccio giovanile (Nemo)<br />

in anemone<br />

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Leone marino australiano<br />

Gargiulo Gaetano Dario<br />

Fotografo subacqueo dal 1998, dapprima con<br />

Nikonos V, poi con Nikon F801 scafandrata e ultimamente<br />

con Nikon D800 e Olympus TG4. Ama sperimentare e<br />

costruirsi da solo lenti aggiuntive e apparati di illuminazione.<br />

Vive a Sydney, Australia dal 2006 e si dedica alla caccia<br />

fotografica settimanalmente. preferibilmente in Botany<br />

Bay (famosa per la presenza dell’idiotropiscis lumnitzeri),<br />

in Chowder Bay (nota per l’abbondanza di cavallucci<br />

marini e rane pescatrici), a Kurnell (dove si trova una<br />

grande colonia di weedy sea-dragons) e a Nelson Bay<br />

(nota per le immersione con gli squali)<br />

Seppia velenosa Pajama striped cuttlefish<br />

Le immersioni tropicali però non sono solo avventure “alla ricerca<br />

di Nemo” ma un tripudio di colori e forme che catturano l’occhio e<br />

l’immaginazione.<br />

Fotografando nel Mediterraneo, è quasi d’obbligo ritrarre i cavallucci<br />

marini, che purtroppo stanno diventando rari e sempre più schivi. Qui a<br />

Sydney, fortunatamente, la situazione è diversa e in alcune immersioni<br />

se ne possono contare anche cinque specie diverse. Naturalmente<br />

dai “normali” cavallucci marini, alle due specie di “drago” il passaggio<br />

è breve; la specie weedy sea-dragon si trova nella zona in cui vivo,<br />

mentre la leafy sea-dragon si trova solo nei pressi di Adelaide. Nel 2004<br />

una nuova specie di syngnathidae è stata catalogata proprio qui nel<br />

fiordo di Sydney: si tratta dell’“idiotropiscis lumnitzeri”, un cavalluccio/<br />

pesce ago dalle dimensioni pigmee ma coloratissimo e molto difficile<br />

da trovare, tanto che la loro collocazione è gelosamente custodita dai<br />

pochi eletti che li hanno scovati e che regolarmente li visitano.<br />

Grazie alla grande corrente discendente dal barrier-reef, le specie<br />

tropicali quali il pesce ago fantasma e il grande cavalluccio marino si<br />

trovano sempre più spesso: chissà che magari arrivi anche Nemo…<br />

Negli anni la mia passione per le immersioni notturne e su fondi<br />

sabbiosi si è intensificata e si è addirittura accresciuta da quando mi<br />

sono trasferito in Australia, grazie alla natura selvaggia dell’ambiente<br />

locale. Il fondo fangoso e l’oceano Pacifico (che tale, spesso, è solo<br />

di nome) rendono la visibilità nel fiordo di Sydney alquanto bassa. Per<br />

fare belle immersioni, però, non occorre andare in profondità, spesso<br />

si rimane quasi a pelo d’acqua: insieme a tante strane creature, a volte<br />

faccio incontri “pericolosi” o forse me li vado a cercare…<br />

I miei siti di caccia fotografica preferiti sono Botany Bay (famosa<br />

per la presenza dell’idiotropiscis lumnitzeri), Chowder Bay (nota per<br />

l’abbondanza di cavallucci marini e rane pescatrici), Kurnell (dove si<br />

trova una grande colonia di weedy sea-dragons) e Nelson Bay (nota<br />

per le immersione con gli squali).<br />

Hippocampus Withey,<br />

ippocampo bianco, variante nera<br />

Leafy sea-dragon<br />

Sting Ray tropicale<br />

Seppia comune in livrea di accoppiamento<br />

Idiotropiscis lumnitzeri<br />

Sydney’s Pygmy Pipehorse<br />

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L’arte e il mare<br />

Lulworth<br />

Testi di Edgardo Facchi<br />

Foto di Francesco Rastrelli<br />

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Poppa con il punto di scotta della randa<br />

192043


Timoneria con l'assimetro e la chiesuola di bussola<br />

Particolare del ponte con piede d'albero maggiore<br />

Un Modello d’Arte o l’arte su misura<br />

Lo studio attento dei disegni originali, 107 tavole di schizzi e quote prese<br />

direttamente sul vero cutter aurico del 1920, due anni di lavoro: così, nel<br />

laboratorio di Luciano Rolla, una delle più belle Signore del Mare è stata riprodotta<br />

in un modello di grandi dimensioni, che fa della puntigliosa adesione all’originale il<br />

suo vanto maggiore.<br />

L’ingresso nel mondo del modellismo per Luciano Rolla è iniziato nella prima metà degli anni Cinquanta. In quel periodo erano<br />

introvabili aiuti e materiali idonei alla costruzione ed era perciò necessario sopperire sfruttando le proprie competenze e facendosi<br />

aiutare dai numerosi artigiani, allora attivi nelle città. “Fu grazie alle loro conoscenze e al loro aiuto che mi innamorai del modellismo<br />

navale”, dichiara Rolla. La sua avventura iniziò con la costruzione del famoso vascello Victory, anche se, per la mancanza di<br />

documentazione storica e tecnica e per la limitata disponibilità di attrezzatura per la lavorazione dei materiali, questo primo<br />

modello non lo terminò mai. “Non mi scoraggiai”, racconta, “anzi, capii che il modellismo era soprattutto ricerca, documentazione,<br />

conoscenza della storia e delle tecniche della navigazione. Non è un caso che nel tempo abbia accumulato un patrimonio di oltre<br />

millecinquecento volumi, con decine di migliaia di rilievi e disegni di cantiere”.<br />

Uno degli ultimi modelli usciti dal piccolo cantiere di Rolla è il mitico “Big Five” Lulworth, un cutter aurico costruito nel 1920 a<br />

Southampton. Si tratta di un vero Stradivari del mare, acquistato nell’anno 2000 dall’olandese Johan Van de Bruele e, nel periodo<br />

2004 – 2006, è stato oggetto di un restauro che ha suscitato il plauso dei cultori dello yachting d’epoca. L’intervento fu effettuato a<br />

Viareggio presso il cantiere Classic Yacht Darsena dove, oltre allo stesso Rolla, si alternavano maestranze provenienti da 16 diverse<br />

nazioni.<br />

Per la costruzione del modello sono state impiegate ben 2000 ore di lavoro, trascorse quasi integralmente nel laboratorio. Man<br />

mano che il modello si realizzava in altezza e lunghezza, questo suo “cantiere” diventava tuttavia sempre più piccolo e ingombro,<br />

tanto che l’alberatura e l’attrezzatura ha dovuto essere completata all’interno del suo appartamento .<br />

“Quando decisi di cimentarmi nel modello”, continua Rolla “capii di aver bisogno delle esatte dimensioni di tutto quanto doveva<br />

essere riprodotto, come le sovrastrutture, l’alberatura, tutti i tipi di bozzelli e l’attrezzatura. Realizzai così 107 tavole di schizzi in<br />

formato A4, per un totale di oltre 4000 quote rilevate sui singoli particolari da riprodurre. Mi procurai copie di tutti i disegni originali<br />

risalenti al 1920 e quelli di cantiere elaborati dallo Studio Faggioni della Spezia, incaricato nel rifinire gli interni”.<br />

Rolla posiziona il pescecane "portafortuna"<br />

44<br />

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Il modellista alle prese con il boma<br />

Lande in ottone e vari bozzelli<br />

autocostruiti in legno di mogano<br />

Scala reale di accesso alla nave<br />

Con questa mole di elementi è stato possibile costruire nei minimi<br />

dettagli l’imponente modello in scala 1:30 del Lulworth (lunghezza di 1,54<br />

m e altezza totale di 2,25 m, con una larghezza del ponte di 0,22 m). Tutti<br />

gli elementi in scala del modello sono stati costruiti utilizzando gli stessi<br />

legni impiegati nella costruzione della nave vera e mantenendo il medesimo<br />

numero di tavolati in mogano che formano i tambucci, gli osteriggi e i<br />

casotti. Stessa attenzione è stata dedicata al rivestimento del ponte con<br />

doghe in teak, che in parte erano intestate sul trincarino e terminavano nel<br />

tavolato centrale del ponte, riproducendo il classico effetto a lisca di pesce.<br />

La ferramenta dell’alberatura, i winch, gli arridatoi, i passacavi, le bitte,<br />

le griglie dei casotti, i candelieri, l’elica a passo variabile, l’albero motore<br />

e il suo supporto, la chiesuola della bussola, l’assiometro, il telegrafo di<br />

macchina, i fanali di via, le lanterne, i golfari, le caviglie, le gallocce sono<br />

stati riprodotti con i metalli usati sul vero cutter: ottone, acciaio, bronzo<br />

e rame. Rolla ha inoltre dedicato una speciale attenzione all’alberatura in<br />

legno di douglas: ha cercato un particolare rigatino finissimo. L’albero di<br />

maestra, più l’alberetto, sul vero Lulworth misura 52 metri, nel suo modello<br />

arriva a 1,73 metri e riproduce i diametri e le sezioni diverse, presenti alle<br />

varie altezze, dove sono posizionati i collari delle tre crocette e gli ancoraggi<br />

dei vari tiranti delle manovre fisse e correnti. Stessa procedura è stata<br />

adottata per la costruzione del boma, lungo 0,90 metri (27 nel reale), del<br />

picco di 0,53 metri(16 nel vero cutter) e del bompresso di 0,32 metri(9,5<br />

sulla goletta).<br />

Per dare un esempio della complessità e delle cure usate nella<br />

costruzione del modello, è sufficiente fornire gli elementi che si sono resi<br />

necessari per la costruzione del tender di una lunghezza di 182 millimetri<br />

fuori tutto. Questa piccola imbarcazione ha chiglia, dritti, fasciame e<br />

ordinate, con una posa di 20 ordini di fasciame “a paro” su 20 costole,<br />

è costituita da 225 particolari su 485 quote diverse misurate sulla vera<br />

imbarcazione di servizio.<br />

Il tender “Alice”<br />

Ruota timone composta da 21 pezzi e chiesuola di bussola<br />

Quando il modello del Lulworth è stato terminato,<br />

ha lasciato finalmente vuoto il laboratorio di Luciano<br />

Rolla ma per molto: subito dopo, infatti, il tornio del<br />

modellista è tornato a ronzare per un’altra avventura…<br />

46<br />

47


Rubrica<br />

SEA<br />

SHEPHERD<br />

“Se gli oceani muoiono, moriamo anche noi”.<br />

Testo di Gabriele Corlazzoli/Sea Shepherd<br />

Foto di archivio Sea Shepherd Global<br />

48<br />

49


Costituita nel 1977 da Paul Watson, Sea Shepherd si batte<br />

da oltre quarant’anni per proteggere la vita negli ambienti marini<br />

di tutto il mondo. Una missione che porta la “Flotta di Nettuno”,<br />

attualmente composta da dodici navi, a solcare i mari dei cinque<br />

continenti per contrastare la distruzione dell’uomo negli oceani<br />

e proteggere tutti gli esseri viventi che li popolano. Una missione<br />

dove la passione per il mare e la volontà di difendere, conservare<br />

e proteggere la biodiversità in questo meraviglioso ecosistema<br />

uniscono persone di tutte le età, provenienti da tutto il mondo,<br />

in un unico, grande equipaggio.<br />

Gli intensi anni di attività di Sea Shepherd sono sempre stati<br />

contraddistinti da un approccio fortemente orientato all’azione<br />

diretta. Un approccio che ha guidato gli equipaggi in ogni singola<br />

operazione sul campo, anche nel lontano oceano antartico:<br />

un luogo vasto e incontaminato dove la vita delle balene viene<br />

minacciata ogni anno dalla flotta baleniera giapponese sotto la falsa<br />

bandiera della ricerca. Ogni anno Sea Shepherd ha combattuto in<br />

prima linea per fermare questo massacro con ogni mezzo a sua<br />

disposizione, interponendosi tra le navi arpionatrici e le balene<br />

mostrando al mondo intero le terrificanti attività del Giappone. Una<br />

lotta grazie alla quale sono state salvate più di seimila balene. Le<br />

attività dell’uomo, tuttavia, minacciano i cetacei anche in altre zone<br />

del pianeta.<br />

Nonostante la creazione di un santuario per proteggere la<br />

vaquita, infatti, il Golfo del Messico vede ogni giorno diminuire la<br />

popolazione di questo meraviglioso cetaceo, attualmente a forte<br />

rischio di estinzione con meno di venti esemplari rimasti. La causa<br />

di questo tragico fenomeno è la pesca illegale del Totoaba, una<br />

pratica che provoca la morte di numerosi animali marini a causa<br />

delle reti utilizzate dai bracconieri.<br />

Nello specifico, questo pesce viene pescato per la sua vescica<br />

natatoria, venduta a caro prezzo sul mercato nero asiatico e, da<br />

quattro anni, Sea Shepherd lotta per contrastare questa crudeltà<br />

e proteggere la vaquita dall’estinzione con Operazione Milagro, in<br />

collaborazione con le autorità messicane: un’operazione che ha<br />

portato, solo nel 2017, alla rimozione di più di duecento reti e alla<br />

liberazione di più di settecento animali marini. Un passo importante<br />

nella battaglia contro un tipo di pesca che minaccia l’intero<br />

ecosistema marino: la pesca INN (Illegale, Non dichiarata e Non<br />

regolamentata), che oggi costituisce fino al 40% di tutto il pescato<br />

mondiale. Un mercato che ogni giorno uccide specie protette o<br />

a rischio di estinzione, danneggia gravemente il nostro pianeta e<br />

sfrutta esseri umani in tutto il mondo.<br />

50<br />

51


Gli sforzi di Sea Shepherd su questo<br />

fronte hanno portato la Flotta di Nettuno<br />

di nuovo nelle acque dell’Oceano<br />

Antartico con Operation Icefish per<br />

fermare le Bandit Six, le sei navi pirata<br />

sulla lista viola dell’Interpol che da almeno<br />

10 anni, cambiando nome e bandiera,<br />

depredano i mari e pescano senza riserve<br />

il tootfish, una specie di merluzzo in via di<br />

estinzione. Un’operazione che ha messo<br />

in luce, inoltre, le terribili condizioni in<br />

cui le persone erano costrette a vivere<br />

sulle navi, senza alcun rispetto per i diritti<br />

umani, e il traffico di persone che avveniva<br />

su questi pescherecci illegali. Grazie alla<br />

tenacia dei volontari, la Flotta di Nettuno<br />

è riuscita ad intercettare e portare alla<br />

giustizia le Bandit Six, realizzando un<br />

inseguimento record di 110 giorni, lungo<br />

19.540 miglia marine per fermare la<br />

nave pirata Thunder, che infine decise di<br />

autoaffondarsi al largo delle coste di São<br />

Tomé en Principe. Prima che la nave si<br />

inabissasse, l’equipaggio della nave pirata<br />

è stato tratto in salvo da Sea Shepherd<br />

mentre un team di volontari è salito a<br />

bordo della nave per raccogliere le prove<br />

delle attività illegali.<br />

In seguito ad<br />

Operation Icefish,<br />

tre ufficiali della Thunder<br />

sono stati condannati a<br />

pene detentive di 32 e 36<br />

mesi con una multa di 15<br />

milioni di euro per<br />

reati ambientali.<br />

53


Attualmente Sea Shepherd è impegnata nella lotta al bracconaggio anche in Tanzania, Gabon e Liberia<br />

con la forte partecipazione delle autorità locali, che non hanno risorse e mezzi sufficienti per proteggere<br />

le proprie acque autonomamente. Questa collaborazione ha permesso a Sea Shepherd di ispezionare<br />

pescherecci, effettuare controlli nelle acque territoriali, portare alla luce numerose attività criminali<br />

con importanti risultati. In Liberia, infatti, è stata fermata la nave Labiko 2, presente sulla<br />

lista nera internazionale, trovata con una fabbrica di olio di fegato di squalo a bordo.<br />

In particolare, la nave utilizzava illegalmente lunghissime reti da posta per<br />

pescare squali delle grandi profondità che processava direttamente a<br />

bordo per massimizzare la caccia, in quanto per produrre l’olio di<br />

squalo è necessario processare una grande quantità di esemplari.<br />

I documenti sequestrati hanno dimostrato che la nave ha ucciso<br />

circa 500.000 squali all’anno. Una caccia che sta mettendo in serio<br />

pericolo la sopravvivenza di questi animali, che rischiano rapidamente<br />

l’estinzione in diverse aree del mondo a causa dell’intenso bracconaggio e del<br />

lento ritmo di riproduzione della specie.<br />

L’intensa lotta di Sea Shepherd per proteggere i nostri mari, tuttavia, non riguarda soltanto località remote e lontane dalla<br />

realtà italiana. Nel Mar Mediterraneo, infatti, sono state avviate ben due campagne di fondamentale importanza per la salvaguardia<br />

degli animali marini nelle nostre acque: Operazione Siracusa, avviata nel 2014 in collaborazione con le autorità tra cui la Guardia<br />

Costiera, la Guardia di Finanza e la Polizia Ambientale, per difendere l’area marina protetta del Plemmirio dal bracconaggio della<br />

cernia bruna e del riccio rosso, e Operation Jairo Mediterraneo, per la protezione dei nidi di Caretta Caretta lungo la costa del<br />

Cilento, entrambe con risultati eccellenti per l’ecosistema marino.<br />

Nonostante le numerose campagne e i traguardi raggiunti nel corso degli anni, è necessario ricordare che Sea Shepherd è<br />

un’organizzazione non-governativa che riesce a proteggere gli ambienti marini di tutto il mondo solamente grazie alle donazioni<br />

dei propri sostenitori in collaborazione con Governi e autorità nazionali ed internazionali, e al lavoro e la passione degli instancabili<br />

volontari impegnati in mare e a terra a difendere, conservare e proteggere i sette decimi di questo pianeta Blu.<br />

L’estinzione delle specie marine avviene in<br />

silenzio, lasciando per sempre il vuoto dietro di<br />

sé. Sea Shepherd è intenzionata a lottare in prima<br />

linea per difendere ogni forma di vita, noi compresi,<br />

da questo triste destino perché, come afferma il<br />

Capitano e Fondatore Paul Watson, se gli oceani<br />

muoiono, moriamo anche noi.<br />

www.seashepherd.it<br />

54


Restauro<br />

La barca<br />

sublime<br />

Il piccolo bucintoro dei Savoia<br />

Testo di Roberto Roccati<br />

Foto di Francesco Rastrelli<br />

56<br />

57


“La barca sublime”, ovvero una peota lusoria (di rappresentanza<br />

e divertimento) risalente al 1730, unico esemplare di piccolo<br />

Bucintoro veneziano settecentesco esistente al mondo, è stata<br />

collocata nel 2012 nella Scuderia Grande della Reggia di Venaria<br />

(Patrimonio Mondiale dell’Unesco, alle porte di Torino) e aperta<br />

al pubblico con un magnifico allestimento scenografico curato<br />

dall’arch. Gianfranco Gritella, che ha valorizzato questo esemplare<br />

con mirabili giochi di luce e riflessi.<br />

Questa sontuosa barca fluviale, riccamente adornata, di<br />

dimensioni ridotte rispetto ai Bucintori, venne commissionata<br />

da Vittorio Amedeo II, Duca di Savoia e Re di Sardegna, ad un<br />

cantiere di Burano, lo “squero di padron Zuanne” (il cantiere del<br />

mastro d’ascia Giovanni), per suggellare più strettamente i legami<br />

diplomatici tra il Regno Sabaudo e la Serenissima Repubblica di<br />

Venezia e ricomporre così una querelle sull’uso dell’Isola di Cipro<br />

che aveva interrotto i rapporti diplomatici a partire dal ‘600.<br />

La peota, con le sue statue dorate a prua ed a poppa, la cabina<br />

centrale (tiemo) e la vela issata, sembra navigare spinta da otto<br />

remi sullo specchio riflettente dell’allestimento scenico. Si ipotizza<br />

che l’apparato decorativo, realizzato da Matteo Calderoni, sia stato<br />

ispirato dall’Abate Filippo Juvarra da Messina, architetto di fiducia<br />

dei Savoia e autore di molti complessi architettonici di stile tardo<br />

barocco in Torino.<br />

Il gruppo scultoreo a prua (alto 2,40 m dalla cinta) rappresenta<br />

Narciso che si specchia con stupore nelle calme acque del fiume<br />

(in quella che puiò essere interpretata come un’allegoria che mostra<br />

lo specchiarsi del Re Vittorio Amedeo II nell’immagine del figlio<br />

Carlo Emanuele III, nuovo Re di Sardegna, a favore del quale aveva<br />

abdicato) con a fianco due vecchi sdraiati che versano da otri le<br />

58<br />

acque simboleggianti il Po e l’ Adige, rispettivamente i due maggiori fiumi del Piemonte e del Veneto e che, sfociando entrambi<br />

nell’alto Adriatico, riunivano metaforicamente le due regioni. A poppa, due cavalli marini scalpitanti con la coda da pistrice vengono<br />

cavalcati da due putti, uno per lato della barra del timone, che rappresenta un drago marino: il timone, chiamato in veneziano<br />

“ribolla”, è stato scolpito da Egidio Goyel.<br />

A mezza barca si eleva la cabina lunga 5 metri, detta tiemo, dotata di cinque finestrelle vetrate per lato, con montanti lignei<br />

decorati, utilizzata per i passeggeri reali ed i loro ospiti, che potevano accomodarsi su due troni e “cadreghe alla dolfina” ai lati.<br />

L’interno è rivestito di velluti rossi alternati a tavole dipinte che illustrano la storia dei Savoia; il soffitto è diviso in tre campi, con figure<br />

di colore blu su fondo dorato; a prua della cabina,<br />

è collocato l’emblema sabaudo sorretto da due<br />

leoni rampanti e sormontato dalla corona reale, con<br />

le insegne araldiche, tra cui quella della Sardegna<br />

con i 4 mori (o Croce di Alcoraz) contornata da una<br />

cornice ricca dei tipici “nodi Savoia”.<br />

Lungo le fiancate della Peota Reale corrono<br />

preziosi intagli, rappresentanti Nereidi e Tritoni. Dalla<br />

falchetta sporgono 8 forcole (scalmi,) quattro a prua<br />

e quattro a poppa, con due morsi aperti ciascuna<br />

per l’appoggio dei remi; la barra del timone era<br />

manovrata dall’ultimo vogatore. Sotto una fascia<br />

rosso cinabro, lo scafo è nero per l’uso della pece<br />

che veniva impiegata per l’impermeabilizzazione<br />

dell’opera viva e contrasta elegantemente con la<br />

cinta dorata.<br />

Come ben dice la giornalista Gabriella Bernardi,<br />

la barca era “un autentico palcoscenico sulle acque,<br />

nei momenti più rappresentativi dei cerimoniali di<br />

corte”: il costo pagato dai Savoia fu di 34.000 Lire di<br />

Piemonte, pari a circa 3 milioni di euro attuali, di cui<br />

molti dovuti al rivestimento di oro zecchino.<br />

59


Lo scafo<br />

In termini nautici, è doveroso precisare che questa barca è una “Peota” e non un Bucintoro o “Bucio de Oro”: la prima, adibita<br />

alla pesca, al trasporto o al traino, aveva buone doti di navigazione grazie alla spinta di otto vogatori mentre il Bucintoro era molto<br />

più grande (l= 34 m) e soprattutto più alto, avendo due ponti, pertanto doveva essere trainato in Laguna, quando a bordo si trovava<br />

il Doge per “lo sposalizio col Mare”, solo in assenza di forti venti, che altrimenti lo avrebbero fatto ribaltare.<br />

Lo scafo robusto a fondo piatto è in legno di quercia, lungo 15,57 m, largo 2,80 m (baglio massimo), con fiancate alte circa<br />

1 metro e un peso di 6.000 Kg; il pescaggio è di poche decine di cm e la linea di galleggiamento non coincide con la superficie<br />

a specchio a causa della presenza della slitta di alaggio (per il ricovero in capanno), che si è voluto conservare quale elemento<br />

integrale della barca.<br />

La sezione maestra di una barca lagunare a fondo piatto, privo di chiglia, è costituita da elementi lignei rettilinei, disposti<br />

trasversalmente sul fondo detti “piani”; su ciascuno di questi sono inchiodati alle estremità due elementi verticali, diritti o curvi,<br />

denominati “sanconi”. Lo scheletro è rinforzato da elementi longitudinali: il “paramezzale” posto al centro del fondo, le “parascusole”<br />

sugli spigoli dello stesso; i “sinturini” che collegano a metà altezza i sanconi, i “mancoli” o bitte di ormeggio. Il dritto di prua era<br />

rientrante mentre quello di poppa era diritto, con il timone scorrevole lungo gli agugliotti.<br />

Lo scafo è copertato a prua ed a poppa del tiemo, per consentire la voga in piedi e per evitare acqua in sentina; è inoltre<br />

protetto a prua da una sorta di rostro a forma di lancia e, lungo i masconi, corre distanziato un parabordo in ferro battuto per evitare<br />

eventuali urti. A completamento delle attrezzature in ferro, va citata l’ancora (“il fero da buttare a fondo”) e il consistente anello,<br />

disposto sul dritto di prua, per il fissaggio del cavo di traino.<br />

Il piano velico<br />

Dell’armo velico originale si sono ritrovati tutti i “ legni” mentre la vela, in cotone tinto a mano, è stata rifatta a Venezia nel 2014<br />

da Gilberto Penzo, profondo conoscitore delle barche lagunari: i ferzi sono verticali e la loro cucitura è rinforzata da un “bigorello”; il<br />

colore celeste, volutamente sbiadito, è stato fissato col sale al tessuto in cotone.<br />

L’armo è del tipo “a verga secca”, una sorta di transizione dalla vela triangolare a quella aurica. L’albero, alto circa 10 m e<br />

collocato immediatamente a pruavia della cabina e dotato di tacchi per raggiungere la sommità, regge un’antenna inclinata verso<br />

prua. La parte anteriore dell’antenna è priva di vela mentre, dall’inizio della cabina fino alla penna, la vela trapezoidale è inferita<br />

nella snella antenna per prendere più vento possibile nella parte alta; la parte inferiore della vela è irrigidita da una sorta di boma.<br />

L’antenna, issata all’albero da una drizza e collegata ad esso da una trozza, è governata a prua mediante un caricabasso ed a<br />

poppa dalla scotta annodata al boma. La penna, porzione terminale dell’antenna, è sostenuta dalla baranzina e governata da due<br />

ostine, alternativamente cazzate sopravento, a seconda dell’andatura di bolina.<br />

L’albero, dotato di sartie tese mediante le bigotte, può essere facilmente abbattuto in vista del passaggio sotto i ponti; la sua<br />

stabilità è dovuta all’appoggio del piede sul paramezzale e dal ritegno fornito in coperta da opportuni bagli collegati fra di loro.<br />

L’attrezzatura, sempre realizzata da Penzo, è completa di bozzelli a due vie, trozza e mandorle per la formazione dei paranchi e<br />

rinvii delle scotte.<br />

La fiamma, la bandiera a prua e lo stendardo (issato quando il Re saliva a bordo) completavano l’effetto scenico dell’aurea<br />

60<br />

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Peota Sabauda da parata.<br />

Il trasporto<br />

Un convoglio formato dalla Peota, da un burchiello per<br />

il carico e da due gondole di appoggio, partì dalla Laguna<br />

Veneta nell’agosto del 1731. Il primo tratto di navigazione fu<br />

coperto a vela ma poi si dovette ricorrere al traino dei cavalli<br />

lungo la sponda dei canali endolagunari ed, in seguito, al<br />

traino dei buoi lungo i marciapiedi di alaggio del Po.<br />

Il viaggio, esclusivamente diurno, durò circa un mese,<br />

con sette tappe intermedie (Chioggia, Brondolo,<br />

Brescella, Cremona, Pavia, Frassinetto) e un<br />

ultimo tratto particolarmente impegnativo per<br />

la presenza di rocce nell’alveo del fiume e di<br />

mulini galleggianti. Il 2 settembre 1731 il<br />

convoglio giunge a Torino e la Peota sfila<br />

davanti al porto fluviale della città, situato<br />

presso il Ponte di Po, per poi venire<br />

collocata presso il Castello del Valentino,<br />

in una darsena galleggiante coperta da un<br />

tetto a capanna, a mezzo di un invaso a<br />

slitta.<br />

Da allora la Peota Reale divenne<br />

protagonista di viaggi per acqua, feste<br />

fluviali, matrimoni regali e visite di Stato fino al<br />

1873, quando Vittorio Emanuele II la donò ai<br />

Musei Civici Torinesi, che la allestirono nella<br />

Sala Acaja del sontuoso Palazzo Madama.<br />

Il restauro<br />

Per consentire il restauro degli spazi in cui la Peota era custodita a Palazzo Madama, essa fu condotta nel 2000 nel laboratorio<br />

Nicola Restauri di Aramengo (Asti), dove venne sottoposta ad un attento monitoraggio del grado di umidità del legno: lo scafo,<br />

infatti, risultava in parte soggetto a marcescenza a causa dell’acqua dolce, molto più dannosa di quella del mare perché priva di<br />

sale. Alcune parti lignee vennero sostituite, altre integrate o consolidate, diverse ordinate vennero raddoppiate.<br />

La seconda fase del restauro, quella che ci ha riconsegnato la Peota Reale in tutto il suo splendore, è avvenuto viceversa nella<br />

Scuderia Grande della Reggia di Venaria, ad opera del Centro di Conservazione e Restauro, sotto la direzione di Pinin Brambilla<br />

Barcilon e l’alta sorveglianza dell’allora soprintendente Carla Enrica Spantigati, ad opera di un gruppo di lavoro interdisciplinare di<br />

restauratori, diagnosti e storici dell’arte.<br />

Presso la Reggia sono state pulite le dorature delle statue in modo da far riemergere la lucentezza delle foglie d’oro che erano<br />

state ricoperte con porporina nell’ultimo restauro ottocentesco, sono stati rifatti i velluti, restaurati i decori e ricostituito l’armo velico<br />

con relativa vela in cotone. Il costo totale per trasporto, restauro e allestimento presso la Reggia, è stato di € 250.000, interamente<br />

finanziato dalla Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino.<br />

Per la visita dell’esposizione permanente, consultare il sito ufficiale www.lavenaria.it<br />

La Reggia di Venaria vista dal drone<br />

62<br />

63


Medicina<br />

SOS meduse<br />

Le meduse del Mar Mediterraneo, riconoscerle e difendersi senza temerle!<br />

Testo del Dott. Francesco Saverio Aiello - Dermatologo<br />

Foto di Marco Gargiulo, Blue Passion, ©Autori vari/Google<br />

65


Le meduse appartengono al gruppo dei Cnidari,<br />

insieme ai coralli e sono tra gli animali più affascinanti e<br />

antichi che vivono nei nostri mari; si stima, infatti, che<br />

esse non si siano più modificate sin dalla loro apparizione<br />

sulla Terra, circa settecento milioni di anni fa.<br />

Ecco di seguito le specie più comuni che possiamo incontrare nei nostri mari:<br />

La Pelagia Noctiluca, una delle meduse più comuni del Mare Nostrum, il cui veleno è tra i più urticanti e dolorosi. Il nome<br />

scientifico latino è legato alla sua capacità di “illuminarsi” di un colore verdastro durante la notte e per tale motivo è conosciuta<br />

anche col nome comune di medusa luminosa. Questa specie, avvistabile nelle acque costiere in primavera e autunno, ha un<br />

cappello che può superare i venti centimetri di diametro, mentre i temibili tentacoli velenosi possono arrivare fino a due metri di<br />

lunghezza. La colorazione è particolarmente affascinante e va dal rossastro al violetto.<br />

La Carybdea Marsupialis è una cubomedusa, come la letale cugina australiana del genere Chironex. Benché il livello di<br />

tossicità delle nematocisti nei suoi tentacoli non sia il medesimo, si tratta probabilmente della medusa più pericolosa nel nostro<br />

mare, dato che gli effetti del veleno possono causare uno shock anafilattico. Il nome cubomedusa è legato alla peculiare forma del<br />

cappello (o ombrella) del gruppo, che ricorda quella di una scatoletta cubica: esso non supera i tre centimetri di diametro, mentre i<br />

tentacoli arrivano a circa trenta. Benché corti, essendo filiformi i tentacoli tendono ad attorcigliarsi agli arti del malcapitato di turno,<br />

provocando dolorosissime ustioni. Nonostante le piccole dimensioni, è facile da avvistare in acqua per il colore rossastro dei suoi<br />

tentacoli.<br />

La Cotylorhiza Tuberculata o Cassiopea Mediterranea è una scifomedusa, ovvero una grande medusa prive di craspedo<br />

(cioè la lamella muscolare che si estende lungo l’ombrella), appartenente alla famiglia delle Cepheidae. Questo esemplare può<br />

raggiungere un massimo di 30 cm di diametro, possiede un particolare ombrello a forma di disco frastagliato giallo e verde, su cui<br />

si adagiano le zooxantelle (alghe unicellulari che vivono in simbiosi con l’ospite scelto). Possiede numerosi tentacoli distribuiti in<br />

maniera omogenea ma molto corti e termina con un particolare bottone apicale di colore blu e viola. È un animale che nuota e si<br />

sposta in maniera molto elegante, muovendo in maniera leggiadra il suo cappello. Preferisce nuotare a pochi metri di profondità,<br />

è possibile avvistarla nel Mar Mediterraneo, in particolare nel Mar Adriatico, soprattutto da ottobre a maggio. Nonostante le sue<br />

notevoli dimensioni, la Cassiopea Mediterranea non è assolutamente urticante, soltanto i soggetti più sensibili possono avvertire<br />

un piccolo pizzicore quando vengono a contatto dei tentacoli. Essendo prive di muscolatura, vengono trasportate dalla corrente<br />

(questo esemplare ha un minimo controllo grazie al cappello particolarmente pesante) e sono spesso in balia di predatori che si<br />

nutrono facilmente di loro. La Cassiopea Mediterranea è spesso accompagnata da piccoli pesciolini del genere dei Trachurus o<br />

Boops o Seriola, che trovano rifugio e nutrimenti tra i suoi tentacoli.<br />

La Rhopilema Nomadica, giunta nel mediterraneo dal Mar Rosso, è una medusa che preoccupa gli scienziati. Otre ad<br />

essere essere particolarmente urticante, infatti, forma banchi con migliaia e migliaia di esemplari ed ha la particolarità di essere<br />

enorme: può arrivare a cinquanta chilogrammi di peso e il suo cappello raggiunge i cinquanta centimetri di diametro. È facilmente<br />

riconoscibile per le dimensioni imponenti e la colorazione completamente bianca.<br />

La Cassiopea Andromeda è una delle meduse più curiose del Mar Mediterraneo, dove è arrivata attraverso il passaggio dal<br />

Canale di Suez. Il suo nome comune inglese è “upside-down meduse” poiché vive principalmente a testa all’ingiù poggiata sul<br />

fondale sabbioso, dove fa vibrare i suoi tentacoli per respirare e catturare le piccole prede di cui si nutre; per questa ragione viene<br />

spesso confusa con anemoni di mare e altri animali affini. La Cassiopea andromeda vive in simbiosi con alcune alghe e talvolta con<br />

un piccolo gamberetto, che non viene paralizzato dal suo veleno. Il cappello di questa specie è giallo-bruno e raggiunge i trenta<br />

centimetri di diametro, mentre i tentacoli sono corti e bluastri. Benché le sue punture siano rare, è bene prestarvi attenzione perchè<br />

sono molto dolorose e provocano eruzioni cutanee, vomito e gonfiore.<br />

La Drymonema Dalmatinum è la medusa più maestosa che sia possibile incontrare nel Mar Mediterraneo, dato che la sua<br />

ombrella può superare il metro di diametro, per quanto rara nei nostri mari. Bellissima da osservare per la peculiare forma del<br />

cappello e i numerosi tentacoli filamentosi, questa medusa è ritenuta molto tossica.<br />

La Chrysaora Hysoscella è una medusa piuttosto diffusa nell’Oceano Pacifico ma avvistamenti vengono fatti regolarmente<br />

anche nel Mar Adriatico e nel Golfo di Trieste. Questa specie è comunemente conosciuta col nome di medusa bruna o medusa<br />

compasso, a causa delle sedici bande marroni a forma di V che ornano tutta la superficie dell’ombrella. Può arrivare sino a<br />

quaranta metri di diametro e i suoi ventiquattro tentacoli possono superare il metro di lunghezza, caratteristiche che, insieme<br />

all’inconfondibile colorazione, la rendono facilmente riconoscibile in acqua. Se incontrata, è bene rimanere a debita distanza: il<br />

contatto con i tentacoli può infatti provocare dermatiti.<br />

66<br />

67


COME SI EVITANO LE MEDUSE?<br />

Guardare il mare: se ci sono, di solito si vedono e l’unico modo per evitarle è... non fare il bagno. Le meduse non ci attaccano,<br />

non vengono verso di noi: siamo noi che andiamo loro addosso. Come spiega Ferdinando Boero, biologo marino dell’Università del<br />

Salento: «Le meduse si spostano verticalmente, quindi possono stare in superficie e possono scendere sul fondo. Sono animali che<br />

si muovono e spesso vanno dove le portano le correnti. Non ci sono regole predefinite: le trovi ovunque, perché le meduse sono<br />

parte del plancton e si spostano con la corrente. Possono nuotare ma non riescono a contrastare il moto delle correnti».<br />

SE VEDO <strong>UN</strong>A MEDUSA LONTANA, POSSO TUFFARMI?<br />

Se ci sono meduse urticanti in mare è meglio non fare il bagno, a meno che non ce ne siano veramente pochissime. Le<br />

meduse che pungono hanno solitamente tentacoli molto lunghi: quelli della Pelagia arrivano a 10 metri mentre quelli della Physalia<br />

(chiamata anche Caravella Portoghese) raggiungono anche i 20 metri.<br />

Quindi anche se la medusa sembra lontana non è detto che i suoi tentacoli non siano vicini.<br />

LE MEDUSE POSSONO UCCIDERE?<br />

Sì, alcune meduse possono causare shock anafilattico. Inoltre, il forte dolore che provoca la puntura può essere fatale in<br />

individui con problemi cardiaci. In caso di reazione cutanea diffusa, difficoltà respiratorie, sudorazione, pallore e disorientamento,<br />

bisogna quindi recarsi immediatamente al Pronto Soccorso<br />

SI POSSONO TOCCARE LE MEDUSE NON URTICANTI?<br />

Meglio di no, anche se il loro veleno, per noi, è quasi innocuo. Anche i tentacoli delle meduse innocue, infatti, hanno i cnidocisti<br />

(i piccoli organelli cellulari che contengono il veleno) che possono restare sul palmo della mano e trasferire il veleno ad altre parti del<br />

corpo, provocando un’infiammazione.<br />

DI COSA È FATTO IL LIQUIDO URTICANTE DELLE MEDUSE?<br />

Da una miscela di tre proteine: una con effetto paralizzante, una con effetto infiammatorio e una neurotossica. «Non ci sono<br />

antidoti specifici per questi veleni - spiega Boero - che tuttavia sono termolabili, cioè si degradano ad alte temperature».<br />

COSA SI PROVA QUANDO SI È P<strong>UN</strong>TI?<br />

Una reazione infiammatoria locale provoca bruciore e dolore, la pelle si arrossa e compaiono piccoli pomfi, ma dopo circa 20<br />

minuti la sensazione di bruciore si esaurisce e resta una forte sensazione di prurito. Il grado di dolore-bruciore varia a seconda delle<br />

aree colpite e diventa insopportabile in caso sia colpita più del 50% della superficie corporea.<br />

COSA FARE QUANDO SI È P<strong>UN</strong>TI?<br />

Stare calmi, respirare normalmente, uscire subito dall’acqua e poi lavarsi la parte colpita con acqua di mare per tentare di diluire<br />

la sostanza tossica non ancore penetrata.<br />

RIMEDI DELLA NONNA: F<strong>UN</strong>ZIONANO?<br />

I rimedi fai da te, quali applicare sulla parte una pietra (o acqua) calda, strofinare con sabbia calda, lavare con ammoniaca<br />

(o urina), aceto o alcool, non solo sono inutili ma possono anche peggiorare la situazione. Il calore di una pietra o della sabbia<br />

non servono assolutamente perché per annullare le tossine bisognerebbe raggiungere una temperatura anche superiore ai<br />

50°C. Nemmeno l’ammoniaca e l’urina che la contiene servono: non sono disattivanti della tossina delle meduse e potrebbero<br />

ulteriormente infiammare la parte colpita.<br />

QUAL È LA MEDICAZIONE DA UTILIZZARE?<br />

Per avere un’immediata azione antiprurito e per bloccare la diffusione delle tossine è bene non<br />

grattarsi e applicare un gel astringente al cloruro d’alluminio. Purtroppo questo prodotto non è<br />

facile da reperire ma si può comunque farlo preparare dal farmacista ad una concentrazione<br />

del 5%. Gli spray lenitivi a base di acqua di mare e sostanze astringenti naturali funzionano<br />

altrettanto bene. Creme cortisoniche possono, in mancanza d’altro, essere efficaci ma il<br />

loro meccanismo d’azione è massimo dopo 20-30 minuti, quando ormai la maggior parte<br />

della reazione è esaurita naturalmente.<br />

COME EVITARE CICATRICI SULLA PELLE?<br />

Non bisogna esporre la parte al sole, ma proteggerla finché la reazione infiammatoria non si<br />

esaurisca completamente, in un tempo anche di alcune settimane. E’ consigliabile applicare sull’area<br />

interessata, se fotoesposta, creme solari con SPF 50+ o 100, ripetendo l’applicazione ogni 2 ore.<br />

OCCHIALINI, MASCHERA E TUTE ANTI-MEDUSA AIUTANO?<br />

Nuotare con gli occhialini o la maschera aiuta a guardare sott’acqua e a scorgere eventuali pericoli e una tuta da<br />

surf può proteggere la pelle.<br />

COSA SONO LE CREME ANTIMEDUSA?<br />

In letteratura medica le creme dette “antimedusa” sono state formulate studiando i meccanismi di protezione utilizzati dal pesce<br />

pagliaccio. Quelle attualmente in commercio sono associate a filtri solari e si basano su 4 principi:<br />

1. rendono scivolosa la pelle e di conseguenza difficile l’aggrapparsi dei tentacoli delle meduse;<br />

2. confondono il meccanismo di ricognizione della medusa;<br />

3. bloccano il sistema di attivazione delle cellule urticanti<br />

4. combattono la pressione osmotica che si forma all’interno dei nematocisti<br />

È VERO CHE LE MEDUSE AMANO I MARI PULITI E CALDI?<br />

La loro presenza non significa necessariamente che l’acqua sia pulita anche se, come tutti gli animali, le meduse non amano<br />

l’inquinamento. Dice Boero: «Ci sono specie che prediligono le acque fredde (incluse quelle artiche) e specie che prediligono quelle<br />

calde. Proprio come per i pesci, ci sono quelli tropicali, quelli artici, quelli costieri, quelli di profondità».<br />

C’È <strong>UN</strong>A STAGIONE IN CUI LE MEDUSE POPOLANO DI PIÙ I MARI?<br />

Di solito, le meduse diventano più abbondanti dopo la primavera.<br />

Dice Boero: «A febbraio - marzo c’è la fioritura del<br />

fitoplancton, a marzo – aprile quella dei crostacei e poi<br />

cominciano le meduse.La Velella (pur non essendo una<br />

medusa) è molto abbondante verso aprile maggio, mentre<br />

la Pelagia è più estiva».<br />

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Dal mondo<br />

KIA<br />

ORA<br />

MAORI<br />

Il popolo della terra, del mare e del vento<br />

Testi di Roberta Roccati<br />

Foto di Francesco Rastrelli - Blue Passion<br />

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“Toitu he whenua, whatungarongaro he<br />

tangata”: la terra è per sempre, gli uomini<br />

scompaiono. In questo proverbio in lingua Maori<br />

(il Te Reo è la lingua nazionale insieme all’inglese)<br />

risiede il principio radicato e condiviso che anima<br />

la vita odierna della popolazione indigena (ma<br />

non originaria) della Nuova Zelanda: tramandare i<br />

valori, la tradizione e la cultura degli antenati che,<br />

attraverso la fusione spirituale con gli elementi<br />

naturali, hanno creato il patrimonio imperituro<br />

del tangata whenua, il popolo della terra. Una<br />

terra che, in realtà essi hanno abitato solo dal<br />

1300 d.C. e in cui sono giunti tramite epici viaggi<br />

a bordo di canoe a vela, dopo essere partiti<br />

dalle isole della Polinesia orientale e aver dato<br />

prova di essere abilissimi navigatori nel saper<br />

interpretare la rotta tramite le stelle, le correnti, le<br />

nuvole e gli uccelli. Secondo la mitologia Maori,<br />

la Nuova Zelanda fu creata dal semi dio Maui<br />

che, nascosto sulla waka (canoa) di famiglia e<br />

usando il sangue del proprio naso come esca,<br />

lanciò un grande amo e pescò Te Ika a Maui (il<br />

pesce di Maui), che oggi è conosciuta come<br />

l’Isola del Nord. La tradizione leggendaria Maori<br />

narra invece che a scoprire la Nuova Zelanda fu<br />

Kupe, un navigatore in fuga da Hawaiiki (il luogo<br />

indefinito ed ancestrale da cui tutti i Maori hanno<br />

origine) dopo aver ucciso l’amante della donna<br />

di cui era innamorato: alla fine del viaggio egli<br />

raggiunse Aotearoa, “la Terra della Grande Nuvola<br />

Bianca” (in seguito definita “New Sealand” dallo<br />

scopritore olandese Abel Tasman) e vi portò il<br />

In volo su Bay of Islands<br />

resto del suo popolo. I Maori vissero<br />

qui isolati fino alla fine del 1700,<br />

quando l’approdo di James Cook diede il<br />

via ad una stagione di colonizzazione inglese e<br />

poi europea, non sempre pacifica, culminata con il<br />

Trattato di Waitangi, che nel 1840 sancì i rapporti<br />

tra i Maori e la Corona inglese. In questo periodo<br />

il termine Maori, che significa “normale” e che<br />

in passato veniva usato durante il racconto delle<br />

leggende tradizionali per distinguere gli uomini dagli<br />

spiriti e dalle figure mitologiche, divenne il simbolo<br />

della contrapposizione tra i “normali” abitanti della<br />

Nuova Zelanda e gli invasori bianchi pakeha.<br />

La popolazione Maori, in parte a causa delle<br />

guerre interne durante l’800, in parte a causa delle<br />

malattie portate dagli europei durante la colonizzazione,<br />

ha subito un drastico calo negli anni: oggi meno del<br />

15% della popolazione neozelandese è di origine Maori<br />

e tra questi sono quasi assenti coloro che non hanno<br />

alcuna traccia di sangue occidentale, dato l’alto numero<br />

di matrimoni interrazziali. Raggiungere la Nuova Zelanda<br />

alla scoperta di questo popolo, quindi, non significa visitare<br />

villaggi in cui tribu’ anacronistiche vivono in un passato<br />

non integrato, come accade per altri popoli indigeni. Oggi<br />

la comunità Maori, che perlopiù vive in aree urbane, si<br />

differenzia dal resto della popolazione soltanto per alcuni<br />

aspetti socio-culturali, più o meno accentuati, a seconda<br />

di zona, età ed educazione. La cultura Maori, prettamente<br />

orale, però non sembra soffrirne, ed è proprio nell’arte<br />

(con l’intarsio di legno, ossi e giada), nella riproposizione<br />

di antichi rituali (i tatuaggi, l’uso delle canoe, i miti) e<br />

nelle performance (le danze di guerra e le cerimonie di<br />

benvenuto) che ritrova il mana, l’orgoglio del suo popolo,<br />

simboleggiato dal colore rosso di ogni manufatto (in<br />

particolare, è rosso il legno intarsiato che costituisce la<br />

facciata della marae, la casa delle riunioni Maori, centro di<br />

vita quotidiana e spirituale).<br />

Lo strumento d’eccellenza per tramandare la tradizione<br />

orale Maori è sempre stata la scultura Whakairo: sul<br />

legno, soprattutto di totara, intagliato finemente e spesso<br />

arricchito con conchiglie paua incastonate, può essere<br />

raccontata una leggenda o l’intera storia di una tribù; i<br />

monili di pounamu, la pregiata giada verde, o gli ossi di<br />

balena sono intarsiati a guisa di simboli quali la spirale<br />

koru, la fronda di felce che rappresenta la rinascita, o il<br />

twist, le cui torsioni rappresentano i percorsi dell’amore<br />

e dell’amicizia. I manufatti diventano così degli oggetti<br />

sacri, tapu, dei tesori che assorbono lo spirito di chi li<br />

indossa, per sempre tramandato. “Se perdiamo le nostre<br />

arti e mestieri, perdiamo la nostra identità” sosteneva Clive<br />

Fugill, maestro intagliatore del Ta Wananga Whakairo di te<br />

Puia, la Scuola Nazionale di Scultura fondata nel 1963 per<br />

insegnare ai giovani, in 3 anni, i segreti del mestiere.<br />

Da forma di scrittura, o meglio, di narrazione, il<br />

tatuaggio Ta Moko sui volti di uomini e donne Maori è<br />

assurto a forma d’arte. Non si tratta di una semplice<br />

pigmentazione superficiale della pelle ma di un’incisione<br />

profonda e finemente cesellata, realizzata con la<br />

fuliggine ottenuta dalla combustione del pino bianco<br />

Kahikatea, mescolato con gomma di Kauri, che veniva<br />

inserita sottocute con uno scalpello Uhi fatto di ossa<br />

di ala d’albatros. Il primo Moko facciale veniva iniziato<br />

nella pubertà e passavano molti anni prima che venisse<br />

72<br />

73


INFO BOX<br />

www.aucklandmuseum.com<br />

Il Museo di Auckland vanta un’ampia collezione<br />

di taonga (tesori) Maori e racconta la storia di questa<br />

civiltà<br />

www.tepuia.com<br />

L’Istituto d’Arte Maori, collocato in un’incredibile<br />

zona geotermale, permette di visitare la Scuola<br />

Nazionale di Scultura e la marae (casa delle riunioni)<br />

con una tradizionale cerimonia di benvenuto<br />

www.mitai.co.nz<br />

In un villaggio Maori accuratamente ricreato, si<br />

può vivere l’intensa esperienza di assistere alla haka<br />

di vedere i guerrieri a bordo della waka (canoa) e<br />

conoscere la storia dei tatuaggi e delle armi Maori<br />

completato perché i disegni, che spesso raccontavano la storia della<br />

famiglia o le gesta del guerriero, venivano ideati per essere ampliati nel<br />

tempo e contribuivano a dare un aspetto minaccioso; quello sul mento<br />

e sulle labbra, simboleggiante il sangue che sgorga dopo aver ucciso il<br />

nemico, veniva portato solo dalle donne dei guerrieri Maori.<br />

Il modo migliore per vedere insieme le forme d’arte della scultura e<br />

del tatuaggio è senz’altro assistere ad una Kapa haka, la tradizionale<br />

Maori Performing Art, una danza ballata e suonata con tutto il corpo, per<br />

simboleggiare la sfida, il benvenuto, l’esultanza o il disprezzo contenuto<br />

nelle parole cantate: è l’espressione della passione, del vigore e dell’identità<br />

di una razza. È un rituale disciplinato ma emozionale che, particolarmente<br />

nella sua accezione guerriera, impressiona per la gestualità di roteare gli<br />

occhi, digrignare i denti, sbuffare, mostrare la lingua, battersi le cosce e<br />

dimenare le armi tradizionali, i patu e i taiaha; è singolare<br />

che lo sguardo delle donne durante la haka<br />

incuta più timore di quello degli uomini. Nelle<br />

performance che esprimono gioia è molto bello<br />

il wiri, il movimento tremolante delle mani che<br />

simboleggia la bellezza del mondo circostante,<br />

con la lucentezza delle acque e le foglie degli<br />

alberi mosse dalla brezza.<br />

www.tourismnewzealand.com<br />

L’Ufficio del Turismo neozelandese è tra i più<br />

efficienti e solerti.<br />

www.escaperentals.co.nz<br />

Il modo migliore per conoscere Aotearoa è<br />

noleggiare, in autonomia e sicurezza, un mezzo<br />

di trasporto affidabile. I fotografi hanno utilizzato<br />

WaterBoy, dal nome del ragazzo Maori dipinto sul<br />

furgone.<br />

“Ko taku reo taku ohooho, ko taku reo<br />

taku mapihi mauria”: il mio linguaggio è il<br />

mio risveglio, il mio linguaggio è la<br />

finestra della mia anima.<br />

74<br />

75


Nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa in quale porto vuol approdare.<br />

(Seneca)<br />

Ignoranti quem portum petat nullus suus ventus est.<br />

Economia<br />

il Sistema<br />

Portuale<br />

Intervista ad Agostino Gallozzi<br />

Fotografie di Francesco Rastrelli<br />

Nave in manovra al Porto di Salerno<br />

76


Presidente, si parla spesso dell’Italia come di una piattaforma logistica naturale nel Mediterraneo ma qual è in realtà il<br />

nostro mercato internazionale?<br />

“Partiamo dal presupposto che il mondo globalizzato è una realtà pienamente dinamica e operativa sin dagli inizi degli anni<br />

2000, quando si è verificato un importante trasferimento di attività produttive in Oriente, con il tentativo di mantenere in Occidente<br />

i mercati di consumo. L’Europa ha diminuito la propria capacità produttiva e di esportazione nell’illusione di poter produrre altrove<br />

e consumare da noi. Questo assetto ha subito un primo scossone con la crisi finanziaria del 2008, che ha modificato gli scenari<br />

mondiali. La crisi, nata negli Stati Uniti, si è manifestata in Europa a causa di una stretta creditizia: ne è risultata accelerata la<br />

riduzione dei consumi e ne ha risentito anche la nostra capacità di importazione, facendoci comprendere che la chiave di volta<br />

è quella di essere grandi produttori ed esportatori. D’altro canto, l’Italia è il secondo paese manifatturiero d’Europa, dopo la<br />

Germania, ed è un grande esportatore.<br />

Quando si parla, quindi, di scenario orientato al Mediterraneo, a mio avviso, si ha una visione parziale della realtà, perché l’Italia<br />

non ha, come riferimento principale, soltanto il Mediterraneo ma il mondo intero. Bisogna entrare in questa ottica, come economia<br />

italiana, come società italiana, come sistema Paese. Del resto il Made in Italy ha un raggio di penetrazione molto ampio: Nord<br />

Europa, Stati Uniti, Canada, la Cina e l’estremo Oriente”.<br />

Qual è il ruolo specifico della Campania e della sua portualità?<br />

“Noi siamo un grande Paese manifatturiero che ha la necessità di aumentare il suo PIL, vendendo di più sui mercati<br />

internazionali. Ha, quindi, bisogno di una rete di regional port in grado di accompagnare competitivamente la sua produzione.<br />

In Campania esiste già una forte realtà industriale che guarda ai mercati esteri: siamo una regione esportatrice e la portualità è<br />

una leva di sviluppo fondamentale ma non bisogna immaginare che la crescita di un porto determini automaticamente l’aumento<br />

dei traffici portuali, perché i porti hanno una funzione di accompagnamento della capacità di un’area di sviluppare produzione e<br />

consumi. I porti hanno una regìa istituzionale che non ha funzioni operative dirette ma è chiamata a mettere in campo la migliore<br />

infrastrutturazione possibile. L’organizzazione istituzionale, quindi, si occupa di offrire servizi competitivi ad un’area più vasta, che<br />

va anche oltre la regione Campania: verso Nord il primo porto che incontriamo dopo Napoli è Civitavecchia e verso Sud, dopo<br />

Salerno, è Gioia Tauro. L’area di influenza comprende anche il basso Lazio e l’alta Calabria.<br />

Salerno è un porto tradizionalmente export oriented: i volumi di merci movimentati sono importanti e, al netto del traffico dei<br />

petroli, movimenta più tonnellate di Napoli. Salerno sviluppa molto traffico-cargo con movimentazione delle merci, mentre Napoli<br />

invece ha la cantieristica, le crociere, i traghetti, i petroli”.<br />

Qual è il ruolo dei terminalisti indipendenti?<br />

“Il terminalista è il soggetto che ha l’esercizio dell’attività di<br />

movimentazione delle merci all’interno del porto. Organizza tutte<br />

le attività di imbarco e sbarco, ricezione e consegna delle merci,<br />

interlocuzione con le compagnie di navigazione del mondo, offre<br />

servizi alle aziende e, nello stesso tempo, cerca di attrarre le<br />

compagne di navigazione per attivare linee commerciali verso il<br />

più ampio numero di destinazioni raggiungibili.<br />

Noi, come Gruppo Gallozzi, abbiamo da poco celebrato i<br />

primi dieci anni della nostra sede operativa a Shangai, siamo<br />

presenti in Inghilterra da sempre, abbiamo aperto in Turchia<br />

e continuiamo il percorso espansivo nelle destinazioni che<br />

riteniamo strategiche a livello globale con prossime aperture<br />

in Spagna e Germania. Non dimentichiamo neppure la<br />

componente economica del turismo, con l’investimento di 85<br />

milioni di euro nel Marina d’Arechi: 600 barche già all’ormeggio,<br />

rispetto ai mille posti disponibili e una stima di crescita, per il<br />

2018, del 29%”.<br />

78<br />

79


Storia<br />

Cinque cerchi<br />

nel blu<br />

Carlo Rolandi: “Le mie nove Olimpiadi”<br />

Testi di Carlo Rolandi<br />

Riproduzioni dell’archivio Rolandi<br />

a cura di Francesco Rastrelli<br />

80<br />

81


Rispolverando l’album dei ricordi, mi rendo conto di aver eguagliato il record di<br />

Raimondo d’Inzeo, che rappresentò l’Italia negli Sport Equestri in ben nove Olimpiadi.<br />

Anch’io ho preso parte a nove Olimpiadi, cinque in qualità di atleta, tre come<br />

giudice internazionale ed una quale addetto alle pubbliche relazioni della<br />

Federazione Internazionale della Vela (allora IYRU). Ancora ricordo l’emozione della<br />

partecipazione alla mia prima Olimpiade di Londra nel 1948, quando le regate si<br />

svolsero a Torquay, nello Stretto della Manica e dove mi fu affidata la bandiera<br />

tricolore durante la Cerimonia di apertura, essendo il più giovane della squadra.<br />

Era questa la prima Olimpiade del dopo guerra ed è facile immaginare<br />

il nostro imbarazzo psicologico dovendoci trovare in terra ex-nemica a<br />

praticare lo Sport, un’attività che è sempre stata ritenuta la molla che<br />

spinge alla fratellanza dei popoli. Mi rimane oggi il ricordo di quei giorni<br />

splendidi trascorsi con velisti più anziani di me che, nelle ore di riposo, ci<br />

inculcavano quell’amore per la Vela che mi avrebbe poi accompagnato<br />

per tutta la vita. Ricordo ancora Bruno Bianchi, il genovese esperto<br />

di Regolamento di regata e membro tecnico della Federazione<br />

mondiale, nonché componente l’equipaggio del nostro Dragone<br />

“AUSONIA I-1”, che ci insegnava come fare i nodi marinari e<br />

come aver cura di far parte della squadra olimpica. Mi è rimasto<br />

impresso quanto mi disse, ben sessanta anni fa: “Quando si<br />

fa parte della Nazionale azzurra, occorre sentirsi impegnati in<br />

questa missione al punto tale che, quando attraversi una strada<br />

devi metterci più attenzione del solito, perché una tua assenza<br />

potrebbe compromettere l’attività della squadra”. Parole che<br />

oggi possono suonare come una musica fuori dai tempi<br />

ma che servono a capire con quanta semplicità e spirito di<br />

corpo allora si partecipava ad una Olimpiade.<br />

Le altre partecipazioni da atleta mi hanno visto a fianco<br />

di Tino Straulino, sempre nella Classe Star (dove ho<br />

regatato per ben 25 anni), sia come riserva del suo abituale<br />

prodiere Nico Rode, sia come titolare alla regata olimpica di Napoli nel 1960 e sono servite a farmi<br />

rafforzare il convincimento che la squadra olimpica è una vera squadra, che deve mettere da parte<br />

ogni individualismo e lavorare, come dicevano i Tre Moschettieri di Dumas, “Uno per tutti e tutti per<br />

uno”.<br />

Diverso è stato trovarsi al tavolo della Giuria Internazionale Olimpica, dove occorre mettere<br />

in atto tutta l’esperienza acquisita per poter decidere quei “casi” che spesso portano ad una<br />

assegnazione o meno della medaglia olimpica. Anche in questa veste occorre ricordarsi che si<br />

rappresenta la propria nazione si deve essere sempre all’altezza della situazione. Il confronto con<br />

altri giudici internazionali impegna tanto quanto l’essere in regata, perché non sempre si vedono<br />

le cose dallo stesso punto di vista e bisogna ricostruire i fatti facendo ricorso alle massime della<br />

giurisprudenza internazionale (i famosi “Casi Isaf) e all’ascolto dei testimoni, cercando di individuare<br />

l’esatto svolgimento dei fatti.<br />

Forse, però, la mia partecipazione più piacevole, perché meno impegnativa sul piano delle<br />

decisioni, è stata quella dell’Olimpiade di Barcellona nel 1992, dove ho avuto l’onore di ricevere,<br />

in nome e per conto della Federazione Internazionale, i Re, in carica od in esilio, e le<br />

Autorità, i Presidenti di Federazioni veliche nazionali ed internazionali: un ruolo piacevole,<br />

pieno di rispettose formalità alle quali lo Sport della Vela non ha mai inteso rinunziare.<br />

L’Olimpiade però richiede anche un notevole lavoro amministrativo e, per quanto<br />

riguarda la Vela, comprende la scelta della località, degli eventi ed infine delle barche. Una<br />

grande responsabilità, da questo punto di vista, è attribuita al C.I.O. (Comitato Olimpico<br />

Internazionale) che, dalla sua sede di Losanna, impone direttive vincolanti per i Comitati<br />

Olimpici Nazionali (il nostro CONI) e per le Federazioni internazionali e nazionali. La scelta della<br />

località dipende soprattutto da accordi di politica sportiva che devono rispettare certe rotazioni tra<br />

i sei Continenti, tentando di aiutare lo sviluppo dello Sport in nazioni sotto questo aspetto meno<br />

progredite e coprendo i costi di organizzazione attraverso contributi nazionali e sponsorizzazioni<br />

(eclatante è l’esempio della Coca Cola, che con il suo apporto economico che determinò la scelta<br />

di Atlanta).<br />

82<br />

83


L’impostazione delle moderne olimpiadi è stata fortemente influenzata<br />

dall’ingresso nell’agonismo di due elementi: il Professionismo e la<br />

Sponsorizzazione. Un tempo per partecipare alle Olimpiadi gli atleti<br />

venivano testati accuratamente e al minimo indizio di professionismo (chi<br />

non ricorda gli atleti americani eterni studenti dei college o gli atleti russi<br />

che erano inquadrati a vita nelle Forze armate dalla Stella rossa) venivano<br />

esclusi dalla partecipazione. Oggi, e io dico “purtroppo”, alle Olimpiadi<br />

partecipano tutti coloro che sono professionisti a vario titolo e che nello<br />

Sport hanno trovato una fonte stabile di lavoro. Nella Vela dobbiamo<br />

rilevare una completa trasformazione qualitativa del parco atleti: i dilettanti<br />

sono rimasti soltanto quei velisti che praticano lo Sport nei weekend, con<br />

barche da crociera per veleggiate nelle isole mediterranee con a bordo la<br />

famiglia e gli amici. Tutti gli altri atleti, in particolare quelli che praticano lo<br />

sport con barche olimpiche, invece che con barche di interesse federale,<br />

vanno oggi inquadrati tra i professionisti della Vela.<br />

L’ingresso degli Sponsor è stato forse l’elemento determinante del<br />

cambiamento dello Sport velico: mi riferisco sia a quelli che ogni atleta<br />

riesce a procurarsi ed il cui nome campeggia sugli scafi, sulle vele, sui<br />

carrelli, persino sulle auto che rimorchiano le barche, ma soprattutto<br />

agli sponsor delle manifestazioni, che oggi hanno più voce in capitolo<br />

di quanto non ne abbiano gli stessi organizzatori, sia a livello locale che<br />

internazionale. Lo Sponsor mette a disposizione dell’Organizzazione una<br />

determinata somma e vuole che la regata si svolga nella località di maggior<br />

richiamo turistico, dove il ritorno di immagine è assicurato, trascurando le<br />

condizioni di vento e di mare che sono, in definitiva, quelle che assicurano<br />

una regata tecnicamente valida.<br />

Alle Olimpiadi si aggiunge il riparto tra le Federazioni Internazionali<br />

dei proventi dei diritti televisivi che, di solito, vengono erogati da chi ha<br />

presentato la migliore offerta al C.I.O. Questa grossa fetta del bilancio<br />

della Federazione Internazionale, nel caso della vela la World Sailing, ha<br />

completamente sconvolto la regata olimpica, che è stata trasformata da<br />

regata tecnica in regata “televisivamente appetibile”. Infatti il percorso della<br />

regata è stato totalmente cambiato, passando dai classici triangoli alternati<br />

da banane (percorso vento-poppa) a soli percorsi al vento, la cui durata<br />

oscilla dai 45 ai 75 minuti. Dieci regate, in luogo delle classiche sei con una<br />

prova di scarto, per avere più occasioni di partenza e di andatura in poppa,<br />

perché è stato ritenuto che sono questi i momenti che più interessano il<br />

pubblico televisivo. La Medal Race, l’ultima trovata olimpica, che include<br />

una finale tra i primi dieci equipaggi di ogni specialità con punteggio che<br />

vale il doppio, è stata l’ultima introduzione che ha spazzato via quanto<br />

84<br />

era rimasto di tecnico nella regata olimpica. Indubbiamente<br />

anche la “Coppa America” ha contribuito a trasformare la<br />

regata olimpica, rendendola comprensibile anche da parte<br />

dei non addetti ai lavori mediante rappresentazioni grafiche<br />

al computer. Ho sperimentato personalmente la validità di<br />

tale sistema quando ad Auckland mi sono trovato a bordo<br />

di un grosso yacht della North Sail: era più facile seguire la<br />

regata di Coppa attraverso il grande schermo della televisione<br />

di bordo che non servendosi di un binocolo, che a stento<br />

raggiungeva i regatanti. Il mondo di Coppa America, con i<br />

suoi veri Professionisti ed i suoi Sponsor di alto livello e grandi<br />

mezzi, non poteva non contaminare la regata olimpica: il<br />

cambiamento è stato realizzato dalle Federazioni Internazionali<br />

(le cui finanze sono state notevolmente rimpinguate) a piccoli<br />

passi, per non dare segnali di turbamento al mondo della Vela.<br />

Ed oggi ci troviamo con una Olimpiade basata su concetti<br />

moderni, completamente diversi da quelli del passato e certamente privi di grande significato tecnico, con il fine di soddisfare le<br />

piccole Federazioni, dei Paesi per lo più asiatici, dando spazio a imbarcazioni come la tavola a vela che, con tutto il rispetto per<br />

quanti la praticano, non può certamente essere paragonata ad uno scafo con chiglia o deriva e vele. Si sono abbandonate barche<br />

tradizionali per fare posto a barche ritenute più atletiche, dove timoniere e prodiere alloggiano su terrazze, dopo essere stati sospesi<br />

ad un “trapezio”. I timonieri oltre quarantenni possono pensare ad andare in pensione!! L’obiettivo è di portare sulla linea di partenza<br />

il maggior numero possibile di barche, attingendo soprattutto alle Federazioni dei piccoli Stati che non possono permettersi barche<br />

più grandi della tavola a vela o per singolo.<br />

85


Archeologia<br />

Baia<br />

sommersa:<br />

il mito<br />

Pavimentazione in coccio pesto<br />

Portus Julius<br />

86<br />

Testo di Vasco Fronzoni<br />

Fotografie di Francesco Rastrelli,<br />

Claudio Ripa e Edoardo Ruspantini<br />

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PREFAZIONE<br />

Negli anni sessanta andavo spesso a pescare sott’acqua nella zona flegrea e talvolta vedevo reperti archeologici, strutture<br />

in opus reticulatum e frammenti di pavimento decorati in mosaico.La mia preoccupazione maggiore erano i furti e così, oltre<br />

a stare molto attento a non rovinare niente quando mi sembrava di individuare qualcosa e scavavo leggermente con le mani,<br />

ricoprivo sempre quello che avevo trovato; questo però non era sufficiente: poiché l’esistenza di reperti era nota a molti e non era<br />

raro che qualcuno li recuperasse per venderli, mi capitava spesso di parlare dell’importanza di salvaguardare il nostro patrimonio<br />

archeologico e talvolta davo alle persone del luogo delle mance affinché, piuttosto che farne commercio, segnalassero a me la<br />

localizzazione dei reperti e li lasciassero sul posto.<br />

Decisi di prendere quante più informazioni possibili, oltre a quelle che mi stavo procurando sul campo, per organizzare una vera<br />

e propria ricerca.Un pescatore puteolano, Peppe ‘O Tabaccaro, era tra i più esperti conoscitori della zona perché andava all’alba a<br />

prendere le seppie dalla superficie e, nell’acqua chiara, vedeva bene i fondali. Talvolta andavo a pesca con lui che, dalla barca, mi<br />

seguiva e mi dava indicazioni circa le zone migliori in cui potevo incontrare non solo delle buone prede, ma anche resti archeologici.<br />

Un giorno segnalai alla Soprintendenza la presenza di reperti che mi sembravano di un certo interesse e il professor De<br />

Franciscis si propose di venire in barca con me, cosa che avvenne in varie occasioni; riportavo a galla per lui qualsiasi cosa<br />

che mi sembrasse interessante e lui con grande gioia prendeva questi reperti e ne teneva cura.Tra il 1967 e il 1969, con alcuni<br />

collaboratori e sotto la guida costante della Soprintendenza, recuperammo tra Pozzuoli e Miseno reperti di vario tipo, tra cui un<br />

altare nabateo, moltissime lucerne a Porto Giulio e le statue che in seguito furono identificate come parte del Ninfeo di Punta<br />

Epitaffio.<br />

Fu Martusciello, un altro pescatore della zona, a individuare dopo una mareggiata una statua acefala e a segnalarmela: si<br />

trattava – ma lo scoprimmo solo dopo – della statua di Ulisse. Chiesta l’autorizzazione, iniziammo le operazioni di recupero e,<br />

scavando, trovammo anche un’altra statua, che poi si rivelò essere quella di Baios; le statue furono portate al Castello di Baia e<br />

considerate, inizialmente, dei semplici liberti offerenti, finchè, circa un anno dopo, l’archeologo Bernard Andreae intuì che potesse<br />

trattarsi della scena omerica in cui Ulisse e Baios fanno ubriacare Polifemo.<br />

La statua di Polifemo non è stata mai trovata ma sull’impulso degli archeologi e a partire da quei ritrovamenti della fine degli anni<br />

Sessanta, all’inizio degli anni Ottanta fu stanziato un ingente finanziamento e fu realizzato un vero e proprio scavo che ha permesso<br />

agli studiosi di ricostruire nei dettagli la situazione<br />

completa del Ninfeo, mostrandone l’architettura e<br />

riportando alla luce anche le statue di Dioniso, di Ottavia<br />

Claudia, di Antonia Minore.<br />

Oggi i reperti sono visitabili presso il Museo<br />

Archeologico dei Campi Flegrei, nel castello di Baia, in<br />

una ricostruzione che mostra come doveva essere la<br />

situazione originaria.<br />

Claudio Ripa<br />

La storia di Baia sommersa è strettamente connessa con l’attività<br />

vulcanica. L’intera zona limitrofa, infatti, è caratterizzata da una enorme<br />

caldera di un maxi vulcano, che da Ovest ad Est abbraccia Ischia,<br />

Procida, Monte di Procida, Cuma, Miseno, Bacoli, Quarto, l’Averno,<br />

Lucrino, il cosiddetto Monte nuovo, Pozzuoli, Agnano, e si estende<br />

fino a Napoli ed al vulcano Vesuvio. Una vasta area costellata da tanti<br />

crateri vulcanici che, proprio per questa caratteristica, è conosciuta sin<br />

dall’antichità come “Campi Flegrei”, ovvero campi ardenti. Periodicamente<br />

in questo territorio si manifesta attività tellurica, sismica e bradisismica,<br />

ovverosia un più o meno ciclico innalzamento o abbassamento della terra,<br />

con evidenti effetti rispetto al mare ed alla linea di costa.<br />

In epoca romana, quelli che oggi sono i resti sommersi di Baia, erano<br />

quindi emersi. Innanzitutto erano situati in una posizione eccezionale:<br />

l’agglomerato baiano era situato in una posizione strategica. In piena<br />

Campania Felix, una regione feconda e produttiva, battuta dal sole, da<br />

venti favorevoli, dall’area salmastra e dai prodotti vulcanici, trasformati da<br />

reazioni chimiche in terreno estremamente fertile, era attiguo verso oriente<br />

agli affari, ovvero al frenetico ed attivissimo porto commerciale di Puteoli<br />

(la odierna Pozzuoli), il primo e più importante approdo verso Roma, ove<br />

facevano scalo tutte le merci trasportate dalle lontane province d’oriente,<br />

dalla Magna Grecia e dalla sponda Sud del Mediterraneo, organizzato<br />

con un sistema complesso di connessione con la Via Herculanea, il<br />

Lacus Baianus ed il Portus Iulius. Era inoltre protetto ad occidente dal<br />

porto militare di Misenum (la odierna Miseno, ove la legenda vuole che fu<br />

seppellito l’omonimo trombettiere di Enea), dove si trovava di stanza la<br />

più importante flotta dell’impero, la famosa Classis Praetoria Misenensis,<br />

approvvigionata idricamente da quel favoloso complesso architettonico<br />

noto oggi come Piscina Mirabilis, proprio quella flotta che, comandata da Plinio il Vecchio, passando al traverso di Baia mosse in<br />

soccorso delle popolazioni di Pompei, Ercolano e Stabia durante la tremenda eruzione del Vesuvio, nel 79 d.C.<br />

L’area di Baia in età romana doveva essere bellissima, tanto che tutto intorno vennero edificate numerose ville marittime, in un<br />

modo tale da diventare paradigma di uno stile architettonico, detto appunto baiano, caratterizzato da ville di otium costruite con<br />

grande sfoggio di materiali sul fianco della collina tufacea e declinanti verso il mare, impreziosite da terme private, templi, piscine,<br />

colonnati, marmi, statue, mosaici, cupole, archi, fontane e giardini, con i quartieri patrizi in alto e quelli servili più in basso, con un<br />

accesso diretto al mare, spesso corredate di peschiere, vasche e vivai per miticoltura ed approdi privati.<br />

Ci sono diverse false convinzioni che ruotano attorno a Baia. Innanzitutto non era una città e quindi oggi non ci troviamo a<br />

visitare una città sommersa. Erano tutte ville marittime di ricchi possidenti, paragonabili alle moderne case al mare delle località più<br />

esclusive, che spesso gareggiavano nel dare feste e banchetti divenuti memorabili; basti ricordare in letteratura i fasti attribuiti a<br />

Lucio Licinio Lucullo, Trimalcione e Sergio Orata. Inoltre, diversamente da come si crede, le ville di otium non erano ville dedite ai<br />

piaceri ed alla lussuria ma erano luoghi ameni ove trascorrere il tempo libero, immersi nella natura e nella tranquillità, le condizioni<br />

Dionisio con Pantera<br />

Lapide flotta misenate<br />

88<br />

89


ideali per coltivare spesso, oltre al ristoro, le arti delle Muse, quali il canto, la musica,la poesia, la recitazione.<br />

Otium inteso dunque come riposo creativo, in alternativa al negotium, ovvero il lavoro economicamente produttivo ma generante<br />

stress. In poco tempo Baia, grazie alle acque riscaldate dal calore vulcanico e ai fumi sulfurei, divenne presto un complesso termale<br />

molto importante, oltre che un luogo di villeggiatura elitario e molto ambito, decantato perfino da Orazio e Ovidio, dove ebbero<br />

una villa personaggi del calibro di Giulio Cesare, Pompeo, Cicerone, Caligola ed altri cesari, oltre che patrizi, senatori, mercanti,<br />

insomma la classe egemone dell’epoca.<br />

Di queste importanti costruzioni oggi si riesce a vedere ben poco, soltanto sparute tracce nascoste tra gli edifici moderni. I fasti<br />

del passato sono stati distrutti dalla patina del tempo, dalla mano dell’uomo e, soprattutto, dal bradisismo, che ha fatto sprofondare<br />

sotto la superficie marina la quasi totalità di ciò che era un tempo Baia. Sott’acqua, invece, una buona parte di questo patrimonio<br />

è ancora conservata: in fondo al mare le tracce di questo passato, sono pronte per essere svelate dall’esploratore subacqueo. È la<br />

storia che non vuole cadere nell’oblio dell’ignoranza o dell’indifferenza e che, affiorando dal fondo del mare, rivendica con forza la<br />

sua presenza e il diritto ad essere custodita, conosciuta e tramandata.<br />

Le prime testimonianze ufficiali di resti sommersi a Baia risalgono al 1956, attraverso dalle fotografie scattate durante un sorvolo<br />

da Raimondo Bucher, il quale verosimilmente, ufficiale pilota ma anche pioniere della subacquea, fu indotto alla ricognizione aerea<br />

dai racconti di pescatori locali, che ogni tanto “afferravano” nelle reti qualche reperto del passato. Da allora, dopo gli scavi di Punta<br />

Epitaffio condotti da Nino Lamboglia e Amedeo Maiuri, con la scoperta di manufatti eccezionali come le statue del Ninfeo e in<br />

seguito anche al rinvenimento nel porto di Pozzuoli di una statua e di un altare con iscrizioni nabatee, la zona è assurta agli onori<br />

delle cronache nazionali come location unica nel suo genere.<br />

Ha avuto così inizio il “Mito” di Baia, che passa attraverso la bonifica e la rimozione delle navi mercantili in disarmo, che fino<br />

agli anni ‘90 giacevano tra la riva di battigia e le antiche strutture subacquee, l’istituzione del Parco sommerso equiparato ad Area<br />

Marina Protetta, i diving che hanno voluto organizzare, a ragione, le visite ed i percorsi subacquei.<br />

Diversi e tutti unici sono i siti di immersione oggi visitabili, contraddistinti non solo dalle incredibili presenze di resti archeologici<br />

sommersi ma anche da vivaci esempi di flora e fauna subacquea, ripopolata grazie all’istituzione del Parco sommerso sin dal 2002.<br />

Tra le varie immersioni, possono essere ricordate:<br />

- il Ninfeo di Claudio (-7 metri): è uno dei più pregiati esempi di ninfei imperiali, costituito da una sala absidata (ovverosia<br />

con una pianta semicircolare) con prolungamento rettangolare, corredata di una vasca centrale e circondata da un corridoio e<br />

da quattro nicchie su entrambi i lati lunghi, ove sono state posizionate delle riproduzioni di statue, periodicamente ripulite ed i cui<br />

originali marmorei sono visibili nel Museo allestito nel vicino Castello Aragonese. Questa è forse l’attrazione principale per i visitatori<br />

subacquei di Baia. Delle otto statue che in epoca imperiale erano ospitate nel Ninfeo, ne sono state ritrovate soltanto sei. Il tema<br />

del gruppo marmoreo rappresenta il mito di Ulisse intento ad inebriare Polifemo, per liberare i suoi compagni imprigionati dal<br />

ciclope nella grotta, con l’intento di mangiarli. Vi è la statua di Ulisse che porge la coppa a Polifemo e quella di uno dei compagni<br />

che mantiene l’otre piena di vino. Vi sono poi due statue che rappresentano un giovane Dioniso ed altre due figure femminili: la<br />

prima è adulta ed è forse Antonia minore, rappresentata mentre indossa un diadema e<br />

reca in braccio un fanciullo mentre l’altra è una giovanetta ingioiellata, forse una<br />

figlia di Claudio morta in tenera età. Polifemo<br />

non è stato ancora trovato e si spera<br />

sempre che in un prossimo futuro,<br />

magari dopo una mareggiata,<br />

possa affiorare dal fondale<br />

sabbioso;<br />

Foto Edoardo Ruspantini<br />

Hippocampus camuso<br />

su pavimento policromo<br />

del palazzo di Claudio<br />

- la Villa dei Pisoni (-6 metri): gli autori la riportano come originariamente appartenuta alla omonima famiglia patrizia e poi<br />

fatta confiscare da Nerone scampato alla congiura che avevano ordito in suo danno. Si possono osservare colonne e corridoi che<br />

circondavano un patio interno, oltre a una fontana, una piscina termale e una peschiera;<br />

- la Villa a Protiro (-6 metri): cosi nominata per il suo caratteristico porticato che proteggeva l’ingresso della dimora, corredata<br />

da affreschi e mosaici discretamente conservati;<br />

- la Secca Fumosa (-16 metri): è una immersione che si svolge tra dodici pilae (piloni) in opus reticulatum, che costituiscono i<br />

resti della barriera frangiflutti esterna del Portus Iulius. Qui è visibile il fenomeno delle “fumarole”, cioè delle emissioni di acqua calda<br />

e di gas provenienti dalla attività vulcanica del sottosuolo e che fanno innalzare la temperatura dell’acqua fino a 60° C.;<br />

- Portus Iulius (-5 metri): è un esteso sito di insediamento portuale, un complesso di strutture che si estendeva con un canale<br />

navigabile tra i laghi Averno e Lucrino, che con tutta probabilità costituiva l’arsenale della flotta romana di Miseno, ove si possono<br />

ammirare pavimenti, colonne, mosaici ed alcune strutture contraddistinte da diverse tecniche costruttive e stili, che vanno dal<br />

latericium, all’opus incertum, all’opus reticulatum.<br />

90<br />

91


Le immersioni subacquee a Baia sono caratterizzate da una serie<br />

di vantaggi difficilmente riproponibili altrove. Si può entrare in diretto<br />

contatto con testimonianze risalenti ad oltre duemila anni di storia, si<br />

può osservare la caratteristica vita di scoglio della flora e della fauna<br />

mediterranea, si possono ammirare le diverse tecniche costruttive<br />

impiegate in epoca romana oltre a mosaici unici al mondo: il tutto<br />

compiendo immersioni molto comode, in basso fondale, agevoli a<br />

tutti (abili e diversamente abili), perché contraddistinte da un livello<br />

di difficoltà pari a zero, talvolta accompagnate da una visibilità<br />

eccezionale. Inoltre, i vari diving situati sulla banchina del porto,<br />

oltre a noleggiare o vendere attrezzatura, offrono la possibilità di<br />

acquisire brevetti di specialità, come quello di immersioni dalla barca,<br />

immersioni biologiche, immersioni archeologiche, immersioni notturne.<br />

Punta Epitaffio:<br />

via Herculeanea<br />

Il Subaia Diving Center si trova nel suggestivo porto<br />

turistico di Baia, nel cuore dell’Area Marina Protetta di Baia.<br />

Il sito archeologico comprende numerosi luoghi che,<br />

trovandosi tutti a pochi metri di profondità, possono essere<br />

visitati, con guide autorizzate, da sub di qualsiasi livello di<br />

preparazione o addirittura in snorkeling. In pochi minuti di<br />

navigazione dal porto di Baia si possono raggiungere la Secca di<br />

Miseno, Nisida, Procida e Ischia, dove i sub più o meno esperti<br />

potranno ammirare i fantastici fondali.<br />

Il diving offre a tutti i suoi clienti ricarica ARA, Nitrox e Trimix,<br />

spogliatoi, docce calde ed area ristoro anche in inverno. Inoltre<br />

organizza tutto l’anno corsi sub per tutti i livelli, dalla subacquea<br />

ricreativa e tecnica con didattica SSI e IANTD.<br />

www.subaia.com<br />

Villa a Protiro: mosaico<br />

con decorazioni a pelte<br />

Mosaico ad onde<br />

Portus Julius<br />

92<br />

93


Salviamo il mare!<br />

il mozzicone di sigaretta<br />

Origine: bagni, strade cittadine,<br />

spiagge, canali di scarico.<br />

Comportamento: impedisce la<br />

digestione ad alcuni animali.<br />

Vita media: 10 anni.<br />

la lattina<br />

Origine: strade cittadine e<br />

spiagge.<br />

Comportamento: causa tagli e<br />

lesioni alla fauna marina ed alle<br />

persone che nuotano.<br />

Vita media: da 200 a 500 anni.<br />

la busta di plastica<br />

Origine: spiagge, strade<br />

cittadine e barche.<br />

Comportamento: può<br />

essere ingerita dagli animali<br />

causandone l’avvelenamento.<br />

Vita media: dai 35 ai 60 anni.<br />

il tappo di bottiglia<br />

Origine: spiagge, strade, strade e<br />

barche.<br />

Comportamento: causa problemi<br />

digestivi alla fauna marina.<br />

Vita media: 300 anni.<br />

i pezzi di plastica<br />

Origine: strade e fabbriche.<br />

Comportamento: possono essere ingeriti<br />

e causare avvelenamento.<br />

Vita media: migliaia di anni, dipende<br />

dalla quantità.<br />

il profilattico<br />

Origine: toilet e strade cittadine.<br />

Comportamento: possono essere ingeriti<br />

dagli animali e causare gravi problemi<br />

digestivi.<br />

Vita media: 30 anni.<br />

la damigiana di plastica<br />

Origine: strade cittadine,<br />

spiagge, canali di scarico.<br />

Comportamento: può essere<br />

ingerita dagli animali e<br />

causare avvelenamento.<br />

Vita media: da 400 a 600<br />

anni.<br />

la batteria<br />

Origine: strade cittadine e barche.<br />

Comportamento: i liquidi rilasciati sono<br />

altamente velenosi.<br />

Vita media: migliaia di anni.<br />

il coperchio di alluminio<br />

Origine: spiagge e barche.<br />

Comportamento: ha un effetto abrasivo sugli<br />

organismi che crescono sui fondali marini.<br />

Vita media: 10 anni.<br />

l’involucro degli alimenti<br />

Origine: spiagge e strade<br />

cittadine.<br />

Comportamento: causa seri<br />

danni alla flora e alla fauna<br />

marina.<br />

Vita media: dai 20 ai 30 anni.<br />

il foglio di alluminio<br />

Origine: spiagge strade e canali di<br />

scarico.<br />

Comportamento: può avvolgere<br />

alcuni organismi ed impedirgli di<br />

nutrirsi.<br />

Vita media: 5 anni.<br />

il diesel e l’olio motore<br />

Origine: barche.<br />

Comportamento: la sua tossicità distrugge<br />

l’habitat marino ovunque venga raggiunto.<br />

Vita media: dipende dalla quantità scaricata.<br />

la bottiglia di vetro<br />

Origine: strade, spiagge e barche.<br />

Comportamento: causa tagli e gravi danni ai<br />

nuotatori ed alla fauna marina.<br />

Vita media: migliaia di anni.<br />

la bottiglia di plastica<br />

Origine: strade cittadine, spiagge.<br />

Comportamento: intrappola alcune specie<br />

marine causandone gravi ferite o la morte.<br />

Vita media: 450 anni.<br />

la confezione di cartone<br />

Origine: strade cittadine, spiagge.<br />

Comportamento: ha un effetto abrasivo<br />

sugli organismi che crescono sul fondo<br />

marino.<br />

Vita media: da 25 a 50 anni.<br />

la busta di carta<br />

Origine: barche, spiagge.<br />

Comportamento: causa gravi effetti<br />

sulla digestione di alcune specie<br />

marine.<br />

Vita media: 4 settimane.<br />

l’assorbente<br />

Origine: strade, toilet e barche.<br />

Comportamento: impedisce la digestione ad<br />

alcuni animali che lo ingeriscono.<br />

Vita media: 25 anni.<br />

gli anelli di plastica<br />

Origine: bagni, strade cittadine.<br />

Comportamento: intrappolano organismi<br />

marini, causando gravi ferite o la morte.<br />

Vita media: 450 anni.<br />

In ogni parte del mondo, 8 milioni di tonnellate di rifiuti raggiungono il mare ogni giorno.<br />

Tutta questa spazzatura è generata dall’attività dell’uomo.<br />

Questa immondizia non riciclabile è gettata negli scarichi dei bagni, nelle strade, nei canali di<br />

scarico, sulle spiagge e in mare, trasformandosi in un terribile distruttore della vita marina.<br />

Ma tu per primo puoi fare qualcosa per fermare tutto questo.<br />

I rifiuti incontrollati sono una minaccia per i mari.<br />

94


Chi, perché<br />

Nel prossimo numero<br />

Un ampio servizio sarà dedicato<br />

al restauro della bellissima lancia<br />

“Franca”, che Ignazio Florio<br />

fece costruire per la moglie<br />

“Donna Franca” a fine ‘800.<br />

Non perdetevi il numero 2!<br />

L’Associazione Mare Nostrum è un’organizzazione no-profit che nasce con l’intento di promuovere ed accrescere<br />

la cultura del mare abbracciando a 360° tutte le aree di interesse quali: storia e tradizioni, biologia, pesca, arte<br />

marinaresca, costruzione navale, vela e motore, regate, navigazione, immersione, fotografia subacquea, video, arte<br />

e illustrazione, musica e suoni del mare, reportage viaggi e turismo.<br />

Lo spirito di gruppo della crew dei fondatori e degli associati si riassume nella filosofia di questa frase:<br />

“Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare legna,<br />

dividere i compiti e impartire ordini, ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito”.<br />

(Antoine de Saint-Exupéry)<br />

LA NOSTRA MISSIONE ED OBIETTIVI:<br />

L’Associazione Mare Nostrum, promuoverà iniziative per la conoscenza della Cultura del Mare. Far conoscere e<br />

diffondere la Cultura del Mare in tutte le sue forme, con corsi, pubblicazioni, esperienze, studi, esposizioni, meetings,<br />

proiezioni, blog e web site, concorsi ed altre iniziative. L’obiettivo è di diffondere la conoscenza al fine di proteggere<br />

il futuro dei nostri mari e il rispetto delle nostre origini e tradizioni.<br />

L’Associazione è gemellata in Italia e all’estero con Musei del Mare, Yacht Clubs, Circoli Velici<br />

e altre Associazioni aventi per obiettivo il Mare.<br />

Racconto di un socio:<br />

“Lord 330”, la barchetta bianca e gialla che da piccolo ribattezzai “Delfino Blu”, è stata la mia culla sul mare<br />

sulla quale mio padre mi ha insegnato, sin da tenera età, a conoscere il nostro meraviglioso mondo blu. Ricordo<br />

il beccheggiare calmo di quando per ore si stava al largo a pescare con la lenza, i paesaggi insoliti che potevo<br />

scorgere solo dall’imbarcazione, le frescure e il velo di mistero che avvertivo quando ci addentravamo in una delle<br />

tante grotte nella costa di Marina di Camerota. Tanti i ricordi legati al mare e alle tante esperienze di cui ho potuto<br />

precocemente godere e che hanno maturato in me un’ampia sensibilità sull’argomento. Grazie pa’.<br />

(Maurizio Visconti)<br />

SOCI FONDATORI:<br />

• Aprea Nino - Mastro d’Ascia / Antico Cantiere del Legno<br />

• Caputo Giovanni - Perito navale / Esperto di Arte Marinaresca<br />

• Di Lauro Enrico - Resp. Progettazione Comunitaria Settore Pesca e Turismo / Ristoratore<br />

• Faggioni Stefano - Yacht Designer<br />

• Marrone Massimo - Consulente Fiscale e del Lavoro / Revisore dei Conti<br />

• Parlato Massimo - Consulente Finanziario<br />

• Rastrelli Francesco - Pubblicitario / Fotografo<br />

• Rastrelli Paolo - Ricercatore e Scrittore navale / Fondatore del Centro Studi Tradizioni Nautiche<br />

• Roccati Roberta - Fotografa di Blue Passion Photo & Creative Agency<br />

• Tenti Emanuela - Illustratrice Navale<br />

SOCI ONORARI:<br />

• Bartoli Giancarlo - Esperto di attività subacquee ed oceanografiche<br />

• Dalla Vecchia Pippo - Velista / Presidente RYCC Savoia<br />

• Gargiulo Rosaria ed Enrico - Campioni del Mondo Fotosub<br />

• Maiorca Patrizia - Campionessa d’immersione in apnea<br />

• Marcolin Paolo - Presidente Otosub<br />

• Mottola di Amato Roberto - Campione del Mondo di Vela Tempest / Presidente CRVITA<br />

• Ripa Claudio - Campione del Mondo di pesca subaquea<br />

• Rolandi Carlo - Olimpionico pluricampione di vela, Presidente onorario FIV<br />

È possibile associarsi a<br />

Mare Nostrum inviando<br />

una richiesta a:<br />

info@associazionemarenostrum.com<br />

Una bella giornata<br />

di fine Maggio, sbarco<br />

dall’aliscafo a Favignana.<br />

Mi incammino, passo davanti al<br />

Palazzetto Florio, antica residenza dei<br />

miei Nonni. Ancora pochi minuti e arrivo alla<br />

Camparia: non la conosco, non ci sono mai entrata.<br />

Un cancello arrugginito, mangiato dalla salsedine e<br />

dal sole si apre e mi trovo in una corte grandissima. Sono<br />

circondata da “trizzane”, luoghi dove un tempo i “tonnaroti”<br />

custodivano le cime e le ancore per installare le reti che avrebbero<br />

intrappolato i tonni. Mi giro e dentro una “trizzana” vedo una barca:<br />

mi avvicino, è Franca, la lancia di mia Nonna Franca. L’emozione mi<br />

blocca, la guardo e mi avvicino piano, la tocco, la accarezzo. È stanca,<br />

vecchia ma bellissima! Una voce mi riporta in terra, è Tonino che parla.<br />

Mi rincuora: “Vedrai - mi dice - tornerà bellissima, tornerà a solcare il<br />

Mare di Favignana”. Aspetto quel giorno, saremo in molti al varo ed<br />

insieme a tutti gli amici che avranno contribuito perché ciò accada,<br />

potremo dire “Ben tornata a bordo Donna Franca!”<br />

Costanza Afan de Rivera, nipote di Donna Franca<br />

96


BrokerCast<br />

trova la soluzione migliore.<br />

La Brokercast S.r.l. può vantare una<br />

crescita professionale che le ha consentito<br />

di acquisire clienti come: Metropolitana di<br />

Napoli Spa che ha seguito il Broker nei<br />

vari steps professionali, Castaldo Spa,<br />

A&I Della Morte Spa, Gruppo Moccia,<br />

Brancaccio Costruzioni Spa., RCM<br />

Costruzioni S.r.l., Gruppo RAINONE,<br />

Consorzio Stabile Grandi Lavori, con opere<br />

significative nell’ambito portuale con i<br />

siti di Salerno, Taranto e Gaeta, Gruppo<br />

Magazzini Generali, Fadep Srl, Gori<br />

Spa Gestione Acque, Borselli & Pisani<br />

Spa, Copin Spa che effettua opere<br />

significative dei piani intermodali nella<br />

città di Pozzuoli ed in tutta l’area Flegrea,<br />

come ad esempio l’esecuzione dei lavori di<br />

adeguamento dell’intervento denominato<br />

C11, collegamento tangenziale di Napoli,<br />

rete costiera e Porto di Pozzuoli. Ed anche<br />

clienti come C.I.S. ed Interporto di Nola.<br />

La Società ha stipulato una consulenza<br />

con il Comune di Ischia, nonché con la<br />

Società Autostrade Meridionali S.p.A.<br />

Le Compagnie con le quali ha rapporti<br />

sono: il gruppo Generali, il gruppo<br />

Unipolsai, Allianz, AIG (Chartis Insurance),<br />

ACE, Groupama, LLOYD’S di Londra,<br />

Coface, Atradius, Sara, Roland, Reale<br />

Mutua, Helvetia, Great Lakes, SIAT, HDI.<br />

Da oltre due anni collabora in rapporto di<br />

consulenza con il delegato del consiglio<br />

nazionale dell’ordine degli Ingegneri<br />

per il rinnovo della convenzione di RC<br />

Professionale stipulata per l’ordine con un<br />

sindacato dei Lloyd’s di Londra.<br />

Centro Direzionale - Isola F3 · 80143 Napoli<br />

Tel. (+39) 081 7347372 · Fax (+39) 081 7347377<br />

La carta "Freelife Cento Fedrigoni" utilizzata per la stampa di questa rivista è prodotta<br />

interamente utilizzando materie prime riciclate ed è certificata FSC.<br />

www.brokercast.eu · info@brokercast.eu


associazionemarenostrum.com

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