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LA VALLE 

Silvia Veronese 

Cervelli Italiani nella terra 

dell'innovazione. 

Italian minds in the land of 

innovation. 

Con foto di Flavia Loreto 

nfidential - Not for distribution - pre-production copy “

“TRUE 

CREATIVITY AND 

INNOVATION COME 

FROM BEING ABLE TO STAND 

AT THE INTERSECTION OF ART 

AND SCIENCE.” 

“LA VERA CREATIVITÀ E 

INNOVAZIONE DERIVANO 

DALL’ABILITÀ DI SPOSARE 

LE ARTI E CON LA SCIENZA.” 

WALTER ISAACSON 

“NOW IS NO 

TIME TO THINK OF 

WHAT YOU DO NOT HAVE. 

THINK OF WHAT YOU CAN DO 

WITH THAT THERE IS.” 

“ORA NON È TEMPO PER 

PENSARE A CIÒ CHE NON HAI. 

PENSA A QUELLO CHE PUOI 

FARE CON QUELLO 

CHE C’È.” 

” Il vecchio e il mare” 

HERNEST HEMINGWAY 

“THERE 

ARE TWO POSSIBLE 

OUTCOMES: IF THE RESULT 

CONFIRMS THE HYPOTHESIS, THEN 

YOU’VE MADE A MEASUREMENT. 

IF THE RESULT IS CONTRARY TO THE 

HYPOTHESIS, THEN YOU’VE MADE 

A DISCOVERY.” 

“CI SONO SOLTANTO DUE POSSIBILI 

CONCLUSIONI: SE IL RISULTATO 

CONFERMA L’POTESI, ALLORA HAI 

APPENA FATTO UNA MISURA. 

SE IL RISULTATO È CONTRARIO ALLE 

IPOTESI, ALLORA HAI FATTO 

UNA SCOPERTA.” 

“Confidential - Not for distribution - pre-production copy “ 

“THE 

FIRST PRINCIPLE IS 

THAT YOU MUST NOT FOOL 

YOURSELF—AND YOU ARE 

THE EASIEST PERSON TO FOOL.” 

“IL PRIMO PRINCIPIO È CHE NON 

DEVI PRENDERE IN GIRO TE 

STESSO E TU SEI LA PERSONA PIÙ 

FACILE DA PRENDERE 

IN GIRO.” 

R. FEYNMAN FROM HIS 

COMMENCEMENT 

SPEECH IN 1974 

ENRICO FERMI 

“PROGRESS LIES 

NOT IN ENHANCING 

WHAT IS, BUT IN ADVANCING 

TOWARD WHAT WILL BE.” 

“IL PROGRESSO NON È 

MIGLIORARE QUELLO CHE È, 

MA AVANZARE VERSO 

IL FUTURO.” 

KHALIL GIBRAN

“NON SI 

VEDE BENE CHE COL 

CUORE. L’ESSENZIALE 

È INVISIBILE AGLI OCCHI.” 

“IT IS ONLY WITH THE HEART 

THAT ONE CAN SEE RIGHT – 

WHAT IS ESSENTIAL IS 

INVISIBLE TO THE EYE.” 

“Little prince “ 

ANTOINE 

DE SAINT-EXUPÉRY 

“NO MAN 

IS MORE UNHAPPY 

THAN HE WHO NEVER 

FACES ADVERSITY. FOR HE IS NOT 

PERMITTED TO PROVE 

HIMSELF.” 

“NULLA MI SEMBRA PIÙ 

INFELICE DI COLUI AL QUALE NON 

CAPITA MAI NESSUNA 

AVVERSITÀ. INFATTI, 

A COSTUI NON È STATO 

POSSIBILE PROVARE 

LE PROPRIE CAPACITÀ.” 

SENECA 

“EVEN IF 

YOU FALL ON YOUR 

FACE, YOU’RE STILL 

MOVING FORWARD.” 

“PROGREDISCI SEMPRE 

ANCHE SE CADI 

SBATTENDO 

LA FACCIA.” 

VICTOR KIAM 


“IMAGINATION 

IS MORE IMPORTANT 

THAN KNOWLEDGE.” 

“L’IMMAGINAZIONE 

E’ PIU IMPORTANTE 

DELLA CONOSCENZA.” 

ALBERT EINSTEIN 

“EDUCARE 

UN BAMBINO NON È 

RIEMPIRE UN VASO, MA È 

ACCENDERE UN FUOCO.” 

“EDUCATION IS NOT THE 

FILLING OF A PAIL, BUT THE 

LIGHTING OF A FIRE.” 

MICHEL DE MONTAIGNE

“Confidential - Not for distribution - pre-production copy “

La Silicon Valley, nome tanto celebrato nel campo 

della tecnologia, appare a molti come un luogo 

misterioso, una realtà lontana a cui tanti aspirano, 

un mix di creatività, poco rispetto per le regole, 

e un influsso continuo di fondi. Ma come si è creato 

un posto così unico al mondo, che da più di venti 

anni attira le migliori menti di questo pianeta? 

È una Big Apple più grande di New York, rispecchia 

lo spirito americano di indipendenza, impreditoria, 

premia l’iniziativa personale. 

La Silicon Valley non guarda come ti vesti. “Fail 

often, fail fast”, è lo yoga mentale. 

Fallire rapidamente e spesso ricorda la Silicon 

Valley. Il fallimento è un simbolo di progresso, non 

una stigma. La positività della valle (che valle non è, 

ma piuttosto un’area peninsulare contenuta 

a nord dalla bellissima baia di San Francisco e a sud 

dalla cittadina di San Jose) è penetrante 

e contagiosa. Per lavorare nella Silicon Valley devi 

essere un ottimista. Nessuno scienziato basa il suo 

lavoro sulla speranza. 

Piu’ uno conosce, meglio affronta il futuro. 

Eppure avere successo nella Silicon Valley non 

è facile. I ritmi sono elevati, anche per i più tenaci. 

La mediocrità alla Salieri non sopravvive. 

È il Mozart che eccelle. La Silicon Valley cresce, 

e la California nel 2018 si è piazzata al 5 posto come 

potenza economica mondiale. 

Qui lavorano i più ricchi, ma sulle strade di San 

Francisco i senza tetto sono numerosi. 

L’energia della valley è un connubio di gente, 

di quello che in inglese si chiama ‘diversity’, 

diversità di culture, razze, modi di pensare ed agire. 

E tra questi ci sono gli italiani, numerosi e di 

successo. Hanno fondato compagnie, sono alla 

guida dei centri universitari di ricerca più 

all’avanguardia nel mondo come Stanford 

e Berkeley. Sono arrivati qui un po’ per caso. 

Nelle loro interviste raccontano che non hanno 

chiuso una porta dietro di loro, non sono scappati 

da nulla, ma hanno aperto una porta davanti a loro, 

hanno seguito un’opportunità. Immensamente grati 

e fieri di essere italiani, non hanno mai dimenticato 

l’italia e contano di tornare. 

Sono cervelli italiani nel mondo. 


Odignis voluptatiis veliberum abo. Neque consed et 

aspedita qui dolutate pro tem qui id est, officab il 

magnam, ipsusae. Met aborporuptia si delit ra dolut 

experempor aceatem qui tem facero bea apeles 

coreserenim que quatemporem fuga. Picia perum 

quatis dolestrum que nost, culparchit, to occulpa 

incia cus eum, vel et auteste eribus excepta sene 

maxim dolore solum et volorest, sus qui blatisqui 

adis mollit renducium la simin endi comnimu sanditis 

quasperes que re nos quo cus, tectemqui simus, 

to eum quia nulparum ulligent fugitam, cus mint 

omnisquo que non pel ipid exeriam, cus ne ne earcien 

daerchi llandio officius doles aligent et voluptur, 

ullutem poreium qui volupta tiusam veribusapide 

autem sam autam adipiciendi dolore eumquatur, 

abor aliquas apis eictur auta por ma di cus aspitin 

ctotam, aut voluptatquae electo et, quature con 

nem alit, cullanto con nihilig enihicipsam id molesse 

caecerum acepedi cietur, ium restio berioria 

et veliquo dio officipsum id mod quiaspiet harupta 

tatatur? Quia sunt. 

Natectiore nonserror asitenture et hilles aut porecep 

ratet, officipsa el magnim vellam, opta plit magnim 

ratatin ea dolore commolo ribusandae molecabo. 

Nulparc hillore stiunti illente mporere perios 

reritis sunt rem quae volecta cone volut que sam 

fugiatur susciusa sequam et atet ut offic tem quibus 

demo mos molor am ulluptius aut fuga. Ut eossum 

que est expla samus et lam si natendis eos eicatae 

mil molupti berspe dolorep eritatem autae verum 

velectem. Nam fugit et, tessi comnihicit et deliquam 

fuga. Ita sed quas etur maximod que prepro mincia 

con rernate poresti qui dit que venisti voluptur alitaerrum 

que dero et ad quation sequis et porem a 

nonseque voluptiunt haria doluptur modiorestio et 

as sum sae molor am ulluptius aut fuga. Ut eossum 





con rernate poresti qui dit que venisti voluptur 

alitaerrum que dero et ad quation sequis et porem 

a nonseque voluptiunt haria doluptur modiorestio 

et as sum sae lor am ulluptius aut fuga. Ut eossum 






“Learning 

is the only thing 

the mind 

never exhausts, 


never fears, 

and never 

regrets.” 

Leonardo da Vinci

“ Learning 


the mind 



never fears, 

and never 

regrets.” 

Leonardo da Vinci








Dagli hippy all’high-tech, 

breve storia della Silicon 

Valley 

Al 367 di Addison Ave, a Palo Alto in California, una 

targa in bronzo ricorda il luogo di nascita della Silicon 

Valley. La targa è posta davanti al garage in cui 

William R. Hewlett e David Packard, siamo nel 1938, 

creano il primo oscillatore audio. Spinti dal professor 

Frederick Terman della Stanford University, che 

aveva incoraggiato i neo-laureati ad avviare le proprie 

imprese in loco, anziché andare a lavorare per 

le grandi aziende a Est, fondano la Hewlett-Packard. 

Due anni dopo al Bell Labs, William Shockley inventa 

il transistor e nel 1956 lascia l’azienda e fonda la 

Shockley Semiconductor Labs a Mountain View. Un 

anno dopo un gruppo di impiegati, gli “Otto traditori”, 

insieme a Sherman Fairchild fonda la Fairchild 

Semiconductor, e poi alcuni di essi, nel 1968, creano 

la Intel a Santa Clara. 

Il decennio si chiude con la nascita del progetto Arpanet, 

di cui fa parte lo Stanford Research Institute 

e con l’apertura del laboratorio Parc della Xerox a 

Palo Alto. Nel 1971, il giornalista Don Hoefler scrive 

un report sull’industria dei semi conduttori che 

prospera nella valle di Santa Clara, e lo intitola Silicon 

Valley USA, battezzando, una volta per sempre, 

l’area che ancora oggi è il centro del mondo, per 

quanto riguarda i colossi high-tech e le start-up più 

innovative. 

La visione del professore Terman, che dopo aver visitato 

molte aziende condotte con successo da persone 

poco istruite, si chiese cosa avrebbero potuto 

ottenere dei laureati, diede il via a quella che viene 

riconosciuta come la prima fase della Silicon Valley – 

dagli anni 30 all’inizio dei 70 – che corrisponde allo 

sviluppo delle tecnologie elettroniche e alla realizzazione 

dei circuiti integrati. La seconda fase – dai 70 

ai 90 – che ha tra i protagonisti Steve Jobs, vede la 

nascita dei personal computer, e la terza – dagli anni 

90 in poi – ha al centro la diffusione di Internet. Tali 

fasi non possono essere scollegate dall’area geografica, 

tanto da poter affermare che la nascita e 

l’evoluzione della Silicon Valley non avrebbero potuto 

avere luogo altrove, lontano dalla California, 

lontano da un mix unico di elementi che, soltanto lì, 

coesistevano. 

Negli anni 60 sulla West Coast si diffonde la cultura 

hippy definita anche “Controcultura”. Il nome riassume 

il contrasto con la cultura mainstream di uno 






















































stato impegnato sul fronte estero con la guerra del 

Vietnam e diviso, su quello interno, tra sostenitori, 

pacifisti e ampi strati della popolazione impegnati 

nelle lotte per i diritti civili. 

I giovani, che non si riconoscono nella cultura dominante 

sono alla ricerca di un’alternativa, e molti 

di loro la trovano nelle comuni. Delusi dalla società, 

anziché combattere, scappano via convinti che il 

fulcro del cambiamento non sia nelle armi di massa, 

ma nelle coscienze. Laddove la cultura dominante si 

basa sul conflitto, le comuni sono caratterizzate da 

un ideale di vita in armonia. 

L’interconnessione tra il movimento hippy e lo sviluppo 

dell’industria tecnologica è raccontata a fondo 

dal giornalista John Markoff. Nel suo libro, What 

the Dormouse Said: How the Sixties Counterculture 

Shaped the Personal Computer Industry, l’autore 

ricostruisce i collegamenti tra il mondo psichedelico 

e quello tecnologico, a partire dalla nascita di una 

rete prima della rete. La California del tempo era 

un crocevia di spiriti liberi, in cui due istanze apparentemente 

opposte, individualismo e condivisione, 

coesistevano. La creatività, esaltata da sostanze 

come l’acido lisergico, concedeva visioni: vere e proprie 

anticipazioni del futuro. Un esempio raccontato 

da Markoff, simboleggia il passaggio tra gli ultimi 

stralci psichedelici della controcultura e la cybercultura 

che sta per nascere: nel 1974, l’ingegnere Daniel 

Ingalls della Xerox, dopo aver assunto una pasticca 

di LSD ha la visione dei menu pop-up che oggi 

tutti usiamo. In quel momento nascono le moderne 

interfaccia grafiche. 

Il passaggio focale di tutta la storia sta nel pensiero 

rivoluzionario che vede la tecnologia, fino ad allora 

appannaggio del mondo militare, delle grandi aziende 

e delle università, come un qualcosa che può 

essere adottato dalle masse, per creare una società 

alternativa. Gli hippy rintanati nelle comuni nel deserto 

e nei boschi hanno bisogno di sopravvivere, e 

proprio qui entra in gioco una figura fondamentale, 

Stewart Brand, che crea il Whole Earth Catalogue. 

Definito da molti “il libro che cambiò il mondo”, diviene 

il riferimento principale della controcultura. Si 

tratta di un compendio, una enciclopedia di idee su 

tutto ciò che, secondo l’autore, deve essere diffuso 

e reso noto. Un motore di ricerca su carta con informazioni 

sull’energia alternativa, il riciclaggio, 

l’agricoltura biologica, computer e tecnologie. Una 

guida che aiuta gli abitanti delle comuni a sopravvivere 

facendo, costruendo, inventando e, parola 

chiave, condividendo. 

Definito come l’internet prima di internet, la guida, 






















































DAGLI HIPPY ALL HIGH-TECH, BREVE STORIA DELLA SILICON VALLEY

democratica e libera, cambia il modo di pensare alle 

informazioni, di scambiarsele, rende le persone 

consapevoli le une delle altre. Nel 1972 compare 

sul Catalogo la calcolatrice tascabile HP-35, il primo 

calcolatore nella storia della controcultura: in un 

epoca in cui i chip venivano usati sui missili, i californiani 

se ne appropriano mettendoli in mano all’uomo 

della strada. È lo spirito californiano: condividere, in 

modo utile e individualistico la tecnologia, non più 

esclusiva dello stato, trasformandola in un elemento 

di liberazione. 

Agli inizi degli anni Settanta, le comuni si svuotano, 

ma come comprende il visionario Stewart Brand, 

dove queste hanno fallito può riuscire il computer. 

La sua premonizione, nata da una visita al laboratorio 

di Intelligenza Artificiale dell’Università di Stanford 

e allo Xerox Research Center, è che la nuova 

comune sarà quella digitale, i nuovi hippy saranno i 

programmatori, che di notte si affrontano nel rivoluzionario 

gioco Spacewar, in una comunità libera e 

immateriale. Nel 1985 Brand ne diviene parte con il 

progetto The Well, il precursone dei social network. 

Dieci anni dopo, in un articolo sul Time dichiara “We 

owe it all to the hippies”, dobbiamo tutto agli hippy, 

“Dimenticate le proteste antimilitariste, Woodstock 

e perfino i capelli lunghi: la vera eredità della 

generazione dei 60 è la rivoluzione informatica”. 

Il mix unico di elementi che ha portato all’esistenza 

della Silicon Valley, è stato riassunto in 8 punti da 

Larry Sonsini. 

Nipote di immigrati italiani, definito dalla rivista Fortune 

come l’avvocato più influente e connesso del 

settore industriale USA, si laurea a Berkeley negli 

anni 60, e con John Wilson fonda uno studio legale 

a Palo alto. 

Tra gli altri, ha il merito di aver portato sul mercato 

azionario Netscape, Apple, Pixar, Google e Twitter. 

Il mix individuato da Sonsini è formato prima di tutto 

dal talento imprenditoriale. Ritorna qui lo spirito 

californiano, per cui il motto è “fail fast, fail often”, 

come dire: prova, rischia, fallisci in fretta e perfeziona 

la tua idea. 

Gli altri ingredienti sono il rispetto per la libertà personale, 

tipica delle zone di frontiera; l’integrazione 

di tante razze e culture; la meritocrazia; l’accesso 

al capitale; una rete di Università e centri di ricerca 

accessibili a tutti (benché se ne abbia il merito); una 

cultura aziendale che consente la mobilità. Per finire 

un sistema di Governo che investe nella ricerca e 

tutela la proprietà intellettuale. 

Questo mix, presente in tutto e per tutto solo nella 

Silicon Valley, ha visto nella terza fase, quella degli 






















































anni 90, la nascita dei colossi che ancora oggi dominano 

la valle, spinti dalla rivoluzione di Internet. 

Oggi siamo nel pieno dell’evoluzione verso la quarta 

fase, con l’Apple Park Cupertino e i village di Google 

e Amazon, che ricordano un po’ le comuni. In esse si 

respira la stessa volontà di staccarsi, di essere altro 

dalla società, che portò tanti giovani a lasciare le città 

alla ricerca di qualcosa che ancora non c’era, ma 

che sarebbe venuto in una forma inimmaginabile. 

In questi microcosmi la Silicon Valley è permeata 

ancora da quello spirito californiano, libero, capace 

di percepire in anticipo che le cose stanno cambiando, 

che possono essere cambiate con la creatività 

mista all’ingegno e alla voglia di rischiare. 

L’unico modo per realizzare le proprie utopie. 

















PERCHÉ 

LE PERSONE CHE 

SONO ABBASTANZA 

FOLLI DA PENSARE 

DI POTER CAMBIARE 

IL MONDO SONO 

COLORO CHE 

LO CAMBIANO 

DAVVERO 


E’ 

SOLAMENTE 

DICENDO ‘NO’ 

CHE PUOI 

CONCENTRARTI 

SULLE COSE 

VERAMENTE 

IMPORTANTI 

DECIDERE 

COSA NON 

FARE È TANTO 

IMPORTANTE 

QUANTO 

DECIDERE CHE 

FARE 


La distanza invisibile: 

differenze culturali 

tra Italia e Silicon Valley 

La distanza geografica tra l’Italia e Silicon Valley non è 

difficile da calcolare: circa 10,000 km da Roma, 9,500 km 

da Milano. 

Più difficile da quantificare è la distanza culturale. 

Tutti gli emigrati nella Bay Area, italiani e non, in qualsiasi 

professione, l’hanno sperimentata sulla propria pelle: la 

difficoltà di adattamento, la perplessità di fronte a situazioni 

a prima vista normali, ma in realtà indecifrabili, la 

sensazione di non riuscire comprendere alcune sottili, ma 

innegabili differenze. 

Mossi da ambizioni professionali, spesso accompagnati 

da un bagaglio di conoscenze e di competenze altamente 

specializzate, gli italiani che si trasferiscono in Silicon Valley 

rappresentano un mix eclettico: ricercatori, studenti, 

imprenditori, manager, scienziati, professionisti, docenti. 

Tutti si avvicinano alla meta con determinazione, ma anche 

con una certa trepidazione. A questa si aggiunge un 

intenso shock culturale alquanto inaspettato. 

La maggior parte di loro dispone di una buona, se non 

ottima padronanza della lingua inglese, di un livello di 

istruzione spesso superiore alla media, e di una apertura 

mentale acquisita grazie a frequenti viaggi all’estero, 

soggiorni studio, o esperienze di lavoro Internazionali - 

tutti fiori all’occhiello del sistema italiano, e più in generale 

europeo. Basti pensare che il 26% dei residenti europei 

nella Bay Area è in possesso di un Master o di un titolo di 

studio equivalente, una percentuale nettamente superiore 

alla media dei residenti locali (17%). 

Quando si imbarcano in aereo, diretti a San Francico o 

San Josè, magari danno un’occhiata ad uno dei tanti gruppi 

online di Italiani residenti nella Silicon Valley, o leggono 

le ultime novità sul San Josè Mercury News o San Francisco 

Chronicle. 

Il viaggio è lungo e spesso prevede uno scalo. Ma la distanza 

forse è un bene in quanto fornisce più tempo per 

prepararsi mentalmente a quello che ci aspetta. E fornisce 

l’occasione – anche per chi già ha familiarità con la cultura 

di Silicon Valley – di sostituire la “scheda mentale” ed 

iniziare ad adottare la forma mentis di un residente perfettamente 

integrato. 

Quali sono le difficoltà culturali con cui tutti si scontrano? 

Odignis Odignis voluptatiis veliberum abo. Neque 

consed et aspedita qui dolutate pro tem qui id est, 

officab il magnam, ipsusae. Met aborporuptia si 

delit ra dolut experempor aceatem qui tem facero 

bea apeles coreserenim que quatemporem fuga. Picia 

perum quatis dolestrum que nost, culparchit, to 

occulpa incia cus eum, vel et auteste eribus excepta 

sene maxim dolore solum et volorest, sus qui blatisqui 

adis mollit renducium la simin endi comnimu 

sanditis quasperes que re nos quo cus, tectemqui 

simus, to eum quia nulparum ulligent fugitam, cus 

mint omnisquo que non pel ipid exeriam, cus ne ne 

earcien daerchi llandio officius doles aligent et voluptur, 



abor aliquas apis eictur auta por ma di cus 

aspitin ctotam, aut voluptatquae electo et, quature 

con nem alit, cullanto con nihilig enihicipsam id 

molesse caecerum acepedi cietur, ium restio berioria 

































quaspe 


DIFFERENZE CULTURALI NELLA SILICON VALLEY

IL TEMPO REGNA SOVRANO 

La prima cosa che colpisce è una diversa concezione del 

tempo. 

“Qui usiamo un orologio diverso”, nota Pasquale Esposito, 

tenore che si è trasferito da Napoli a San Jose e che 

in prima persona si è imbattuto nel diverso stile di vita. 

È uno shock per tutti. Dai tempi di risposta tipici per una 

mail, al rispetto per le scadenze, all’abitudine a programmare 

gli impegni sociali con largo anticipo, l’orologio 

domina l’esistenza del expat a Silicon Valley. La 

puntualità è d’obbligo, ed anche i canonici dieci minuti di 

ritardo destano sospetti e sono sinonimo di scarsa professionalità. 

Questo perché la cultura americana aderisce ad una 

concezione del tempo definita “linear active” 1 , dove i 

vari impegni si susseguono in maniera lineare ed efficiente, 

senza sovrapposizioni, massimizzando la produttività 

nell’arco della giornata. Ciò che conta sono i risultati, 

più delle relazioni. “Time is money” è un’espressione 

comune negli Stati Uniti, e in particolare nella Silicon 

Valley, dove i soldi in generale abbondano, ma il tempo 

scarseggia e quindi è considerato uno dei beni più preziosi. 

La cultura italiana aderisce invece ad un concetto del 

tempo definito “multi active”, dove vari impegni si affastellano 

in parallelo, con una certa tolleranza per ritardi 

o piccole deviazioni di percorso, dove efficienza e produttività 

sono misurate su un arco temporale più lungo. 

L’ossessione per l’orologio non si limita all’attenzione ai 

minuti e allo scorrere del tempo. 

Si esprime anche nel modo di concepire le relazioni 

umane, che sono spesso viste in maniera apertamente 

opportunistica e utilitaria nella SV, dove anche per 

prendere un caffè con un conoscente spesso si prende 

appuntamento con giorni o settimane di anticipo. 

L’ARTE DELLA PERSUASIONE. 

Un’altra differenza culturale fondamentale consiste nei 

diversi modelli di argomentazione logica prevalenti. In 

Italia si predilige un modello definito deduttivo 2 , dove 

dalle premesse si arriva alle conclusioni secondo uno 

schema persuasivo fortemente teorico mirato a risolvere 

il problema nel suo complesso; nella cultura anglosassone 

invece prevale il modello induttivo, dove le conclusioni 

sono espresse immediatamente, seguite da dettagli 

e spunti pratici, secondo uno schema persuasivo mirato 

alla risoluzione di parti del problema. 

Anche in questo caso si intravede ancora una diversa 

concezione del tempo, in quanto il modello induttivo 

Odignis Odignis voluptatiis veliberum abo. Neque consed 

et aspedita qui dolutate pro tem qui id est, officab 

il magnam, ipsusae. Met aborporuptia si delit ra dolut 

experempor aceatem qui tem facero bea apeles coreserenim 

que quatemporem fuga. Picia perum quatis dolestrum 

que nost, culparchit, to occulpa incia cus eum, 

vel et auteste eribus excepta sene maxim dolore solum 

et volorest, sus qui blatisqui adis mollit renducium la 

simin endi comnimu sanditis quasperes que re nos quo 

cus, tectemqui simus, to eum quia nulparum ulligent 

fugitam, cus mint omnisquo que non pel ipid exeriam, 

cus ne ne earcien daerchi llandio officius doles aligent 

et voluptur, ullutem poreium qui volupta tiusam veribusapide 


abor aliquas apis eictur auta por ma di cus aspitin ctotam, 

aut voluptatquae electo et, quature con nem alit, 

cullanto con nihilig enihicipsam id molesse caecerum 

acepedi cietur, ium restio berioria et veliquo dio officipsum 

id mod quiaspiet harupta tatatur? Quia sunt. 


aspedita qui dolutate pro tem qui id est, officab il magnam, 

ipsusae. Met aborporuptia si delit ra dolut experempor 

aceatem qui tem facero bea apeles coreserenim 


que nost, culparchit, to occulpa incia cus eum, vel et 

auteste eribus excepta sene maxim dolore solum et 

volorest, sus qui blatisqui adis mollit renducium la simin 

endi comnimu sanditis quasperes que re nos quo cus, 

tectemqui simus, to eum quia nulparum ulligent fugitam, 

cus mint omnisquo que non pel ipid exeriam, cus 

ne ne earcien daerchi llandio officius doles aligent et 

voluptur, ullutem poreium qui volupta tiusam veribusapide 
















quaspe 

quiaspiet harupta tatatur? Quia sunt. cietur, ium 

restio berioria et veliquo dio officipsum id mod quia- 
















































endi comnimu sanditis quaspe 

quiaspiet harupta tatatur? Quia sunt. cietur, ium restio 

berioria et veliquo dio officipsum id mod quiaspiet harichiede 

un’esposizione efficiente e veloce, quello deduttivo 

più lunga ed articolata. 

Questa differenza culturale si manifesta in presentazioni, 

discorsi, o interventi orali, durante i quali i nostri 

connazionali devono convincere i propri interlocutori 

in pochi minuti - minuti americani, non italiani, quindi 

senza possibilità di estensioni! 

La tentazione di riproporre modelli espositivi a noi ben 

conosciuti – ovvero il modello deduttivo cartesiano, predominante 

nel sistema educativo italiano - è forte ed è 

spesso la scelta più naturale. Ma si tratta di un errore, in 

quanto un ragionamento lungo e complesso induce i 

nostri amici di Silicon Valley allo sbadiglio. Qui prevale 

una logica più pratica. Meglio privilegiare ragionamenti 

lineari che non si soffermano sui problemi, ma enfatizzano 

le soluzioni. 

Tuttavia, questa tendenza a considerare i problemi nel 

loro complesso può anche rivelarsi un vantaggio per 

molti professionisti italiani: è sicuramente ritenuta un 

grande pregio dei giovani ingegneri italiani, ricercati dalle 

aziende di Silicon Valley proprio per la loro capacità di 

analizzare i problemi nella loro totalità e individuare 

soluzioni complessive e di largo respiro, che spesso si 

rivelano flessibili e durature, anziché affidarsi a rimedi 

specifici e mirati, che spesso si rivelano solo temporanei. 


OCCHIO AL FEEDBACK 

“Good job! è un’espressione molto comune a Silicon 

Valley, alla quale ci si abitua velocemente; 

noi italiani, abituati a critiche esplicite e spesso spietate, 

non crediamo alle nostre orecchie quando riceviamo 

dei complimenti sul lavoro. Sentirsi dire “Good Job” è 

la norma. Ma cosa significa veramente? Scordiamoci la 

trasparenza: dire quello che si pensa veramente, senza 

filtri, è poco comune qui. Il modello di feedback prevalente 

è il cosiddetto “sandwich model” 3: pensiamo ad 

un panino imbottito dove la vera sostanza è contenuta 

tra due strati meno saporiti. Ovvero, dare e ricevere 

feedback richiede diplomazia e attenzione: tipicamente 

si iniziacon un commento positivo, si passa al vero feedback, 

e si conclude con un altro commento positivo. 

Chi lo fornisce deve dimostrare tatto, chi lo riceve deve 

saper ascoltare tra le righe e non lasciarsi sfuggire nulla, 

a meno di non voler fraintendere il significato. La tentazione 

di controbattere o trovare giustificazioni è considerata 

irritante perché fa perdere tempo. 

GLI INCONTRI DI NETWORKING 

Anche gli eventi di networking professionali, fenomeno 


















































berioria et veliquo dio officipsum id mod quiaspiet hatipico 

della Silicon Valley, sono ricchi di malintesi culturali. 

La conversazione normalmente si snoda naturale su 

temi piacevoli ma scontati, come sport, viaggi, libri; si 

evitano temi considerati controversi, come politica o 

situazioni spiacevoli. 

Per cui salute (o salutismo) va bene ma malattia no; 

traguardi sportivi, allenamenti intensi vanno benissimo 

ma difficoltà personali no. Queste conversazioni spesso 

lasciano perplessi i partecipanti stranieri, non solo italiani, 

ma europei in generale. Essi si aspetterebbero un 

confronto più approfondito su temi anche spinosi e rimangono 

con l’amaro in bocca di fronte a conversazioni 

che ritengono superficiali. Ma non sono superficiali per i 

nostri colleghi americani: sono semplicemente rispettose 

dei limiti personali. 

ELOGIO DEL FALLIMENTO 

Un tema che tuttavia non manca mai, con grande sorpresa 

dei nostri connazionali, è quello del fallimento: 

a Silicon Valley fallire è motivo di onore, un’esperienza 

non da stigmatizzare ma al contrario da celebrare. “Fail 

early and often,” si sente dire. Nel processo di maturazione 

professionale, il fallimento è considerato una 

tappa imprescindibile e necessaria per guadagnarsi la fiducia 

dei superiori o di possibili investitori. A patto però 

che produca un’autoriflessione sui propri errori; una 

sorta di autoesame che sfocia nel superamento di 

alcune carenze personali. Brindare al fallimento? Impensabile 

in Italia, normale a Silicon Valley. 

ADDIO ALLA FORMALITÀ 

L’informalità è un’altra caratteristica di Silicon Valley; il 

mito del CEO in felpa è ben noto; a questo si aggiunge 

l’insofferenza per i titoli accademici: non si viene mai 

presentati come dottore, ingegnere, o avvocato, ma 

semplicemente con il proprio nome di battesimo, o in 

casi formali, con nome e cognome e ruolo lavorativo. Il 

potere sembra meno visibile: non si distingue immediatamente 

chi è in posizione di superiorità gerarchica in 

base a manifestazioni esteriori quali abiti, titoli, ufficio. 

L’informalità è caratteristica di culture considerate “low 

context” 4 , e la cultura americana ne è un esempio: 

ovvero una cultura dove il significato non dipende dal 

contesto ma semplicemente dalle espressioni che utilizziamo. 

La cultura italiana è considerata sicuramente più 

“high context”, dove tutto ciò che diciamo va contestualizzato,e 

il significato non dipende solo dalle parole ma 

anche, appunto, dal contesto: elementi quale il tono di 

voce, la situazione ecc. Eppure, non è tutto così sempli- 


ce: per esempio, a Silicon Valley si tende ad esprime il 

proprio disaccordo con toni decisamente più modulati 

che non a Roma. L’espressione “we agree to 

disagree” (siamo d’accordo di non essere d’accordo) non 

è vista come una contraddizione di termini ma come una 

manifestazione di rispetto reciproco. 

Flessibilità e agilità mentale sono doti necessarie per 

adattarsi con successo allo stile di vita e di lavoro di 

Silicon Valley – doti che per fortuna sono caratteristiche 

del DNA italiano. Al momento dell’atterraggio nella 

Bay Area, tutti dobbiamo soffermarci un secondo per 

riprogrammare le nostre funzioni cognitive e introdurre 

la scheda “americana” nel cervello. Ed anche con il 

beneficio di anni di esperienza, molto spesso decifrare 

situazioni inattese continua ad essere un rebus, a volte 

esasperante, a volte divertente. 

Elisabetta Ghisini 

Professor of Practice, Hult International 

Business School Presidente, COMITES, 

San Francisco 

























1 Richard Lewis, When Cultures Collide, 

Nicholas Brealey Publishing, 2006; pag. 

53 -57 

2 Erin Meyer, The Culture Map, Public 

Affairs Books, 2014; pag. 89 - 104 


Affairs Books, 2014; Capitolo 2 

4 Edward Hall, Beyond Culture, Anchor 

Books, 1976 


NELLA 

SILICON VALLEY 

FALLIRE È MOTIVO 

DI ONORE, UN’ESPERIENZA 

NON DA STIGMATIZZARE MA 

AL CONTRARIO DA 

CELEBRARE. “FAIL EARLY 

AND OFTEN,” 

SI SENTE DIRE. 

LA PUNTUALITÀ 

È D’OBBLIGO, ED 

ANCHE I CANONICI 

“Confidential - Not for distribution DIECI - pre-production MINUTI DI copy “ 

RITARDO DESTANO 

SOSPETTI E SONO 

SINONIMO DI SCARSA 

PROFESSIONALITÀ. 

QUI PREVALE 

UNA LOGICA PIÙ 

PRATICA. MEGLIO 

PRIVILEGIARE 

RAGIONAMENTI 

LINEARI CHE NON SI 

SOFFERMANO SUI 

PROBLEMI, MA 

ENFATIZZANO LE 

SOLUZIONI.

Le Donne, la Scienza e la 

Valle 

“LA SCIENZA È DONNA”. Lo ha detto, in più di 

un’occasione Margherita Hack, una delle più famose 

astrofisiche del secolo, un’italiana, che della scienza, 

almeno in parte, ha fatto la storia. E a guardare la 

sua vita, che come la racconta lei sembra un fortunato 

susseguirsi di casi ed occasioni, quasi non ci si 

crede. Laureatasi in Fisica durante un periodo storico 

in cui le materie scientifiche erano comunque 

viste come appannaggio maschile, Margherita è diventata, 

fra le altre sue cariche, direttore 

dell’osservatorio astronomico di Trieste, portandolo 

a fama internazionale. 

Ma la lista delle donne che hanno fatto delle materie 

scientifiche una ragione di vita, è lunga e complessa. 

“Marie Curie - ci ricorda la Hack – era una donna 

ed è stata una delle più importanti menti dell’ultimo 

secolo”. 

La Silicon Valley non e’ da meno. Le donne della 

Silicon Valley sono ancora poche, ma il numero sta 

crescendo. E’ la mentalita’ che deve cambiare. 

La Bay area lavora in un sistema dove il 50% delle 

donne hanno un MBA, sono dottori, avvocati o PhD. 

Le donne aprono società con una frequenza cinque 

volte superiore agli uomini. Sebbene siano una grande 

potenza, le statistiche non riflettono il loro potere. 

Gli uomini hanno 60% più possibilità di ricevere 

fondi, e sono la maggioranza nel campo degli investimenti. 

Ma le donne nella Bay area ci sono in tutti i campi, 

da Janet Napolitano, a capo delle università della 

California, e Maria Grazia Roncarolo, direttrice del 

laboratorio sulla ricerca delle cellule stamili a 

Stanford, a Cristina Dalle Ore che studia la superficie 

di plutone alla NASA a Ermelinda Porpiglia a 

capo dell’associazione delle donne nella scienza della 

Silicon Valley. 

Anche se guardiamo all’Italia soltanto, i nomi non 

mancano: Rita Levi Montalcini a cui è andato anche 

un premio Nobel per le sue ricerche sullo sviluppo 

della fibra nervosa cerebrale. E ancora la fisica 

Fabiola Gianotti, prima donna a diventare direttore 

del CERN, Samantha Cristoforetti, prima astronauta 

italiana, Lucia Volano, prima donna a dirigere i laboratori 

di fisica nucleare del Gran Sasso. E poi 

Caterina Falleni, 30 anni appena compiuti e già famosa 

per avere inventato un frigorifero che funziona 

senza corrente, o Elena Cattaneo, biologa impegnata 

nella ricerca sulle staminali: un esercito di nomi 

che si allarga e che si sta costrunedo, non senza 




















































quaspe 


problemi e ostacoli una voce e dei modelli di riferimento 

condivisi. Per le donne impegnate nella scienza 

però è quasi un percorso ad ostacoli, 

Secondo i dati di una recente pubblicazione 

dell’Unione Europea, il gap di genere nella ricerca 

scientifica è ancora troppo alto e la Commissione ha 

chiamato gli Stati Membri ad intervenire in maniera 

attiva proponendo politiche atte a ridurlo. Il motivo 

è anche di natura economica. Colmare il divario 

nell’istruzione e nella ricerca scientifica, ha recentemente 

dichiarato Mariya Gabriel, Commissaria 

Europea per l’Economia e la Società Digitale, porterebbe 

ad un incremento annuale del Pil di ben 16 

miliardi di Euro, solo in Europa. 

Quello delle differenze di genere, nella Scienza, ma 

anche in altri capi della produttività e del sapere, 

non è un problema lineare, con una soluzione universale 

e totalizzante, ma è piuttosto una condizione 

che prende le mosse dal substrato culturale della 

società, o meglio da quella che è l’idea di ruolo 

femminile prodotta da un contesto sociale. 

Per metterlo in prospettiva, basti pensare che se a 

livello accademico le differenze di genere si stanno 

lentamente colmando e i dati sono più che positivi 

per il numero di donne che raggiungono la laurea in 

materie scientifiche, nella ricerca e nel mercato del 

lavoro, la presenza femminile resta quello che l’Unesco 

ha definito nel suo “World Science Report”, un 






























“tubo forato”. Ovvero le dispersioni sono numerose 

e dovute a tanti fattori, come ha commentato la 

Fisica Laura Meda, classe ‘57 con otto brevetti 

all’attivo e centinaia di pubblicazioni firmate, in una 

sua recente intervista al Corriere della Sera. 

La maternità in primis, ma anche la cura degli anziani 

e della famiglia, sono alcuni dei fattori chiave 

che ancora oggi costringono le donne, e le italiane 

soprattutto, a fare scelte obbligate e troppo spesso 

a rinunciare alla carriera per sopperire ad una mancanza 

di servizi dovuta, almeno seconda la Meda, 

ad una cattiva tradizione culturale. La stessa che in 

Italia ad esempio preferisce uomini a capo di gruppi 

decisionali “un fatto che è stato superato in altre 

nazioni - spiega la Meda - dove, ad esempio, i servizi 

alla persona sono molto più sviluppati dei nostri e 

la donna che lavora può contare su supporti fondamentali 

sia in caso di maternità sia in caso di cura 

degli anziani, i due fattori che limitano maggiormente 

la nostra libertà”. 

Se poi aggiungiamo il fatto che in Italia ancora oggi, 

secondo una recente ricerca di ValoreD, il 51% 

dei genitori e il 57% degli insegnanti hanno pregiudizi 

di genere inconsapevoli verso le ragazze per 

quanto riguarda le materie scientifiche, il quadro è 

completo. Eppure il fatto che se ne parli e che ci 

siano interventi effettivi a livello politico e di impresa, 

è un chiaro segnale di come le cose stiano 

lentamente cambiando. La Silicon Valley non e’ da 

meno, servono piu’ donne in posizioni di rilievo, 

come dice Sheryl Sandberg, Direttore Operativo di 

Facebook nel suo libro “Facciamoci Avanti”. 

La strada verso l’azzeramento delle differenze di 

genere è oggi, forse più che mai, aperta sia in Italia 

che negli Stati Uniti. Lo si capisce anche dall’atteggiamento 

dei mezzi di comunicazione che danno 

sempre più spazio alle donne che conquistano un 

primato, trasformandole in modelli da seguire e 

imitare, oppure dalle tante campagne dei brand 

internazionali che oggi ruotano attorno al 

fempowerment (potenza femminile), fino a considerare 

il successo globale raccolto da movimenti come 

#MeToo, #YoTambien, #QuellaVoltaChe. 

Un’onda di rinnovamento che non solo offre modelli 

e punti di riferimento per le nuove generazioni, ma 

soprattutto strumenti interattivi il cui scopo ultimo 

è forse fare della ricerca e della scienza una piattaforma 

accessibile a tutti, un laboratorio di idee vada 

oltre le differenze di genere, per contribuire a gettare 

le basi di una società diversa, migliore per tutti. 

Emanuela Calderoni 


















































Odignis voluptatiis velib 

Odignis voluptatiis veliberum abo. Neque consed 

et aspedita qui dolutate pro tem qui id est, officab il 


LA SILICON VAL- 

LEY NON E’ DA 

MENO, SERVONO 

PIU’ DONNE IN 

POSIZIONI DI 

RILIEVO. 

SHERYL SANDBERG 


“NON IMPORTA 

DA DOVE VIENI, 

QUI NELLA 

VALLEY PUOI 

SCEGLIERE CHI 

ESSERE.”

Una finestra sul mondo italiano 

Lorenzo Ortona 

Console Generale d’Italia a San Francisco 

La Valle del Silicio, è una raccolta di interviste che 

si propone di far conoscere meglio la collettività italiana 

della Bay Area di San Francisco, ascoltando sia le voci 

dell’immigrazione di questi ultimi anni che quelle degli 

ingegneri italiani pionieri degli anni settanta che tramite 

lo storico centro Olivetti per l’innovazione hanno avuto un 

ruolo determinante nella creazione della Silicon Valley. 

Vi è anche la testimonianza di un’italo-americana, Janet 

Napolitano, che tanto ha contribuito alla storia 

recente degli Stati Uniti da ultimo come Presidente 

dell’Università della California. Il Ministero degli 

Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale 

tramite un contributo speciale al Comites 

di San Francisco - anagraficamente il più giovane della 

rete nel mondo – ha voluto offrire un’opportunità 

di aprire una finestra su un mondo italiano ancora poco 

conosciuto, formato da italiani che hanno deciso 

di viaggiare ai confini del mondo occidentale, tutti 

accomunati dallo stesso spirito pionieristico e con 

il desiderio di contribuire a formare un mondo migliore 

nella capitale globale dell’innovazione. 

Gli intervistati partecipano attivamente al mondo della 

ricerca, delle grandi corporate dell’high tech, delle start 

up, e della cultura della Bay Area di San Francisco. 

Un’area relativamente piccola rispetto al resto degli Stati 

Uniti, circa 80 kmq, che raggruppa i giganti high tech del 

mondo, la più grande concentrazione di fondi di venture 

capital, le prime Università’ a livello globale, il più alto 

tasso pro capite di start up al mondo e quattro laboratori 

di ricerca nazionali. 

Lo straordinario contributo dei nostri connazionali va 

conosciuto eapprezzato e collegato il più possibile 

al mondo dell’innovazione e della ricerca italiana al fine 

di accelerare quel processo di ricerca e digitalizzazione 

dei processi manifatturieri delle nostre imprese che si sta 

sviluppando in Italia a seguito della gravissima crisi 

economica che ha colpito l’Europa in questi recenti anni. 

Il sostegno della Farnesina a questo sforzo di conoscere 

e rappresentare le vite degli italiani nella Bay Area di San 

Francisco intende essere anche e soprattutto la 

testimonianza della stima che l’Italia nutre nei 

confronti di tutti coloro che lavorano con operosità, 

passione, umanità e ingegno in questa parte del mondo 














































e di come continua a seguirne le vicende con animo 

orgoglioso e grato dei loro successi e delle loro 

affermazioni che contribuiscono ulteriormente allo 

sviluppo di una sempre più stretta collaborazione fra 

la California e l’Italia. 

Sono lieto che con questo tipo di contributi il COMITES 

possa efficacemente far sentire la sua presenza in seno 

alla collettività italiana della Bay Area di San Francisco 

sostenendo al contempo anche questo Consolato 

Generale nel creare un canale attraverso il quale 

si intensifica il flusso di informazioni che consentono 

all’Italia di conoscere in modo ancora piu’ approfondito 

le esigenze dei nostri connazionali all’estero. 





berioria et veliquo dio officipsum id mod quiaspiet harupta 

tatatur 










46

“CREDO 

VERAMENTE 

CHE PER I GIOVANI 

SIA IMPORTANTE 

PUNTARE 

ALL’EDUCAZIONE, 

TROVARE LA 

PROPRIA 

PASSIONE , 

PERSEGUIRLA 

ED AVERE 

IL CORAGGIO 

DI CORRERE 

DEI RISCHI.” 


Janet Napolitano 

PRESIDENTE DELLE UNIVERSITA’ DELLA CALIFORNIA, EX SEGRETARIO DELLA SICUREZZA NAZIONALE DEGLI STATI UNITI 

PRESIDENT, UNIVERSITY OF CALIFORNIA FORMER SECRETARY OF THE UNITED STATES HOMELAND SECURITY

IL SOGNO AMERICANO 

Nella storia della sua famiglia c’è tutta l’idea del Sogno 

Americano. Dal nonno che da San Marco, piccolo borgo 

del Foggiano prese il mare all’inizio del Novecento, con 

una valigia e pochi spicci in tasca, a lei, prima donna a 

ricoprire la carica di segretario alla Sicurezza Interna, 

sotto la presidenza di Barak Obama. In meno di cinquant’anni 

Janet Napolitano può dire di avere fatto la 

storia. Del resto, lei è una di quelle donne che non si dimenticano 

facilmente. Non solo è stata la prima ad essere 

eletta segretario alla sicurezza, è stata anche a diventare 

presidente dell’università della California, un centro 

con 10 campus, cinque centri medici, tre laboratori 

nazionali affiliati e un programma statale per l’agricoltura 

e le risorse naturali. Un’epopea familiare che sembra 

quasi un romanzo, costruita con coraggio, un pezzo alla 

volta, un sacrificio dopo l’altro. “Anni fa – racconta – durante 

una cerimonia di naturalizzazione ad Ellis Island, 

pensai a lui, a mio nonno, morto quando avevo solo sei 

anni, e guardando le foto dei migranti, leggendo le loro 

storie, mi resi conto del suo coraggio, quello che serve 

per abbandonare tutto senza avere certezze, seguendo 

solo la speranza di costruirsi una vita migliore”. Una vita 

da lavoratore che da Chicago lo portò fino ai cantieri 

Navali della California e alla fabbrica della Ford: “Lavorava 

ovunque, mio nonno, dove poteva o dove trovava”. 

Una dedizione che alla fine permise al figlio di studiare, 

di prendere un Phd, diventando poi preside della Facoltà 

di Medicina dell’Università del New Mexico. “E’ il sogno 

americano – sottolinea Janet Napolitano - , quello che 

rende possibile cambiare le sorti di una famiglia in una 

sola generazione”. E forse anche per questo lei, poco 

più di cinquant’anni dopo, ha intrapreso, prima nella sua 

famiglia una carriera politica che l’ha portata ad amministrare 

le delicate dinamiche dell’immigrazione e, in 

Arizona, dell’educazione. 

L’ORGOGLIO ITALIANO 

“Sono orgogliosa delle mie origini italiane e mi spiace 

di non avere mantenuto la lingua, ma in casa si parlava 

inglese, perché erano tempi diversi”. Certo restano le 

tradizioni, la cucina, la musica, l’arte e forse quella caparbietà 

che serve per cambiare la storia. “I miei genitori 

mi hanno sempre sostenuta, anche e forse soprattutto 

insegnandomi che per realizzare qualcosa, qualsiasi 

cosa, ci dovevo mettere tutto l’impegno possibile, ci dovevo 

credere sul serio”. 

Una lezione che si porta dietro ancora oggi, come politico 

e soprattutto come presidente di una delle più pre- 

THE AMERICAN DREAM 

In her family’s story, there is the whole idea of the American 

Dream. From her grandfather who, from San Marco, 

a small suburb of Foggiano, took to the sea at the beginning 

of the twentieth century with a suitcase and a few dollars 

in his pocket, to her, the first woman to be appointed 

to the position of secretary of Homeland Security under 

the presidency of Barack Obama. In less than five years, 

Janet Napolitano can say she made history. As for the 

rest, she is one of those women whom one does not easily 

forget. Not only was she the first to be appointed Secretary 

of Homeland Security, she also became president of 

the University of California, a center with ten campuses, 

five medical centers, three national affiliated laboratories, 

and a state program for agriculture and natural resources. 

A familiar epic story which almost seems like a novel, 

built with courage, one piece at a time, one sacrifice after 

another. “Years ago—she says—during a naturalization 

ceremony at Ellis Island, I thought about him, about my 

grandfather; he died when I was only six years old, and 

looking at the photos of immigrants, reading their stories, I 

realized his courage, which is used to abandon everything 

without having any certainty, following only the hope to 

build a better life.” A life as a worker which brought him 

from Chicago to the naval shipyards of California and to 

the Ford factory: “He worked everywhere, my grandfather, 

where he was able or where he found it.” A self-denial 

which in the end allowed his son to study, to earn a 

Ph.D., then become dean of the School of Medicine at the 

University of New Mexico. “It is the American dream—underscores 

Janet Napolitano--, that which makes it possible 

to change the destiny of a family in just one generation.” 

And perhaps it is also for this reason she, a little more than 

fifty years later, has undertaken, the first in her family, 

a political career which has brought her to administrate 

the delicate dynamics of immigration and, in Arizona, of 

education. 


ITALIAN PRIDE 

“I am proud of my Italian origins, and I am sorry that I did 

not learn the language, but, at home, we spoke English, 

because those were different times.” Certainly the traditions, 

the cooking, the music, the art remain, perhaps 

along with that stubbornness which helps change history. 

“My parents always supported me, even, and perhaps 

above all, teaching me that in order to achieve something, 

whatever it may be, I had to be as diligent as possible; I 

had to seriously believe in it.” 

A lesson which she still carries today, as a politician and, 

EDUCATION


stigiose università degli Stati Uniti. “Credo veramente 

che per i giovani, soprattutto oggi, sia importante puntare 

sull’educazione – spiega – per costruirsi un futuro 

occorre scegliere di perseguire i propri sogni e rischiare 

tutto per realizzarli, senza digressioni o ripensamenti”. 

Perché correre rischi alla fine fa parte del gioco e 

il successo appartiene a quelli testardi abbastanza da 

perseguirlo. 

Come Janet Napolitano: “Il mio interesse per la politica 

nacque durante il processo Watergate – racconta - , 

c’erano delle donne fantastiche impegnate nel dibattimento, 

penso al discorso d’apertura dell’udienza di 

Barbara Jordan, o a Elisabeth Holtzman, modelli a cui 

mi ispirai quando decisi di intraprendere la carriera 

politica”. Una scelta non facile, soprattutto considerati 

i tempi. “Sono convinta che le donne in politica possano 

portare un diverso punto di vita, un modo nuovo di 

rapportarsi con l’idea di leadership e con il concetto di 

amministrazione in genere”. 

Perché alla fine il compito di un buon politico è quello 

di gettare le basi affinché un modello di società possa 

concretizzarsi: “Devi conoscerti a fondo, saper comuabove 

all, as president of one of the most prestigious 

universities in the United States. “I truly believe that for 

young people, especially today, it is important to focus 

on education—she explains—in order to build oneself a 

future, it is necessary to choose to pursue one’s dreams 

and to risk everything in order to achieve them, without 

digressions or second thoughts..” Because running risks in 

the end is part of the game and success belongs to those 

stubborn enough to pursue it. 

As Janet Napolitano: “My interest for politics was born 

during the Watergate hearings—she explains--, there were 

some fantastic women involved in the debate; I think about 

the opening remarks of the hearing by Barbara Jordan, or 

about Elisabeth Holtzman, models who inspired me when 

I decided to undertake a political career.” Not an easy 

choice, especially considering the times. “I am convinced 

that women in politics can bring a different point of view, 

a new way to relate to the idea of leadership and to the 

concept of administration in general.” 

Because, in the end, the task of a good politician is to lay 

the foundation so that a model of society can materialize: 

“You have to know yourself well, know how to communi- 

LA VALLE DEL SILICIO 49

nicare le tue idee, ma soprattutto avere ben presente la 

differenza fra essere un leader ed essere un manager, 

così da saper creare una visione più ambiziosa per la tua 

amministrazione”. Non sempre è facile ovviamente; gli 

ostacoli non mancano, e ieri come oggi le donne in politica 

continuano ad essere poche. 

Ecco perché forse serve ambizione, ma anche caparbietà, 

coraggio e senso del dovere: tutte qualità che 

legano Janet Napolitano alla sua famiglia. Perché come 

suo padre mai smise di sostenerla nelle sue scelte e le fu 

accanto dalle lezioni di Clarinetto che lei volle prendere 

da bambina fino alla sua prima campagna elettorale, suo 

nonno mai smise di credere nel figlio e diede l’anima per 

permettergli di conseguire quel dottorato che alla fine 

cambiò le sorti di un’intera famiglia. 

Il sogno americano è tutto lì, per Janet Napolitano e per 

i tanti altri che nell’ultimo secolo hanno preso e continuano 

a prendere il mare per inseguirlo: è la possibilità 

di cambiare, di realizzare qualcosa, la spinta a costruirsi 

un futuro migliore. “Ai giovani dico che bisogna avere il 

coraggio di rischiare – conclude lei - e la perseveranza di 

continuare a credere nei propri sogni”. 

cate your ideas, but, above all, have a clear idea of the 

difference between being a leader and being a manager, 

so you know how to create a more ambitious vision for 

your administration.” It is not always easy, obviously; 

the obstacles are not lacking, and, yesterday like today, 

women in politics continue to be few in number. 

Here is the reason why ambition is perhaps useful, but 

also stubbornness, courage, and a sense of duty: all of 

the qualities which tie Janet Napolitano to her family. 

Because just as her father never stopped supporting 

her in her choices and was next to her from her clarinet 

lessons, which she wanted to take as a child, to her first 

electoral campaign, her grandfather never stopped believing 

in his son and gave his soul to allow him to pursue 

that doctorate, which, in the end, changed the destiny of 

an entire family. 

The American dream is all there, for Janet Napolitano 

and for many others who, in the last century, took to and 

continue to take to the sea to follow it: it is the possibility 

to change, to achieve something, the push to build a 

better future for oneself. “To young people I say that it is 

necessary to have the courage to take risks—she concludes—and 

the perseverance to continue to believe in one’s 

own dreams.” 


EDUCATION



“L’UOMO 

HA SAPUTO 

RISPONDERE ALLE 

SFIDE CHE LA VITA 

GLI PRESENTAVA 

NON TANTO CON 

MUTAZIONI 

GENETICHE, MA 

SOPRATTUTTO 

CON INVENZIONI 

CULTURALI.” 


Luigi Cavalli Sforza 

PROFESSORE, UNIVERSITA’ DI STANFORD, GENETISTA DELLE POPOLAZIONI 

PROFESSOR AT STANFORD UNIVERSITY, POPULATION GENETICIST

Osservare la storia dell’uomo con gli occhi di Luigi 

Cavalli Sforza, è come immergersi in un mare di conoscenze, 

che spiazza al primo impatto, ma che alla lunga 

rinfresca e apre la mente, imponendoci di considerare la 

diversità con occhi diversi. Quelli del genetista genovese, 

che ormai novantenne porta avanti un progetto nato nel 

1963, o forse anche prima, e condotto meticolosamente 

dall’Italia a Stanford, in California con precisione 

e passione: quello di raccontare la storia degli 

antenati. O meglio, lasciare che la racconti la scienza, 

l’unica che possiede le risposte di cui abbiamo bisogno 

per sopravvivere, come individui ma soprattutto, come 

specie. 

Nato il 25 gennaio del 1922, Luigi Cavalli Sforza ha 

studiato Medicina, una scelta di cui non era certo almeno 

all’inizio ma che gli ha permesso di scampare alla 

chiamata alle Armi della Seconda Guerra Mondiale e di 

partecipare, nel 1942 ad una conferenza che gli avrebbe 

cambiato la vita. Era uno dei primi simposi di genetisti 

organizzato a Stoccolma sul tema dei batteri e Cavalli 

Sforza era stato invitato come relatore. Fra il pubblico, 

il caso ha voluto, ci fosse anche Ronald Fisher, padre 

della statistica moderna che all’epoca insegnava a Cambridge 

e che dopo averlo ascoltato gli ha offerto di andare 

a lavorare con lui. 

Fisher proprio in quegli anni stava teorizzando uno 

studio sulla sessualità come metodo riproduttivo dei 

batteri. “Oggi per noi, questo è normale, ma all’epoca 

non si sapeva nulla di genetica, tutto andava provato”, 

racconta Cavalli Sforza nel corso di una sua recente 

intervista. Così è iniziata la sua avventura che dai batteri 

studiati a Cambridge, lo ha portato in Italia prima 

e in California, professore a Stanford poi, ad occuparsi 

invece dell’uomo. Il ritratto che ne traspare ridimensiona 

l’ego di un’intera specie. Ma nello stesso tempo libera 

dalla paradossale ignoranza che ancora oggi ci fa credere 

a menzogne prive di fondamento scientifico, come 

ad esempio il razzismo. “Il colore bianco della pelle – ha 

raccontato più volte – è dovuto esclusivamente al fatto 

che in determinate aree si consumavano quasi esclusivamente 

cereali, che non hanno vitamina D; dunque, attraverso 

una mutazione genetica, si è resa l’epidermide 

più chiara così da rendere possibile la produzione della 

vitamina mancante grazie ai raggi solari”. 

E ancora: “La ragione per cui gli Europei sono economicamente 

avvantaggiati rispetto ad altre popolazioni 

è probabilmente dovuto all’area soltanto geografica dove 

si sono stanziati, più ricca di animali che potevano venire 

addomesticati rispetto alle altre”. 

Il caso dunque, unito alla selezione naturale ci ha reso 

quello che siamo. Per Cavalli Sforza, però, questo non 

è mai stato sufficiente. Nelle sue ricerche, il genetista 





que quatemporem fuga. Picia perum quatis 

dolestrum que nost, culparchit, to occulpa incia 

cus eum, vel et auteste eribus excepta sene maxim 

dolore solum et volorest, sus qui blatisqui adis mollit 

renducium la simin endi comnimu sanditis quasperes 

que re nos quo cus, tectemqui simus, to eum 

quia nulparum ulligent fugitam, cus mint omnisquo 

que non pel ipid exeriam, cus ne ne earcien daerchi 

llandio officius doles aligent et voluptur, ullutem 

poreium qui volupta tiusam veribusapide autem sam 

autam adipiciendi dolore eumquatur, abor aliquas 

apis eictur auta por ma di cus aspitin ctotam, aut 

voluptatquae electo et, quature con nem alit, cullanto 

con nihilig enihicipsam id molesse caecerum acepedi 

cietur, ium restio berioria et veliquo dio officipsum 





Nulparc hillore stiunti illente mporere perios reritis 

sunt rem quae volecta cone volut que sam fugiatur 

susciusa sequam et atet ut offic tem quibus demo 

mos molor am ulluptius aut fuga. Ut eossum que est 

expla samus et lam si natendis eos eicatae mil molupti 

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non si è limitato a considerare la storia umana come solo 

frutto di evoluzione genetica. Al Dna ha aggiunto la cultura, 

intesa come l’ntero bagaglio di conoscenze e credenze 

che accompagnano un individuo fin dall’infanzia. In una sua 

recente lezione infatti, ha sottolineato proprio come negli 

ultimi 10 mila anni, l’evoluzione umana è stata soprattutto 

culturale. Nella sua storia più recente infatti “l’uomo ha 

saputo rispondere alle sfide che la vita gli presentava non 

tanto con mutazioni genetiche, ma soprattutto con invenzioni 

culturali”. 

Eppure tutto è iniziato circa 100 mila anni fa: “Gli studi 

fatti sul DNA mitocondriale e il cromosoma Y ci portano a 

trovare il nostro comune antenato nell’Africa orientale”, 

dove un gruppo di ominidi ha iniziato a lasciare le foreste 

per spostarsi in pianura. Una mutazione genetica li aveva 

resi in grado di camminare sulle gambe, rendendo quindi 

le mani libere per dedicarsi ad altri compiti. Come realizzare 

strumenti per la caccia o la raccolta. E poi è arrivata 

la scoperta del fuoco, che ha reso i cibi più digeribili e ci ha 

permesso si avere mascelle più piccole, adatte a sviluppare 

quella che è stata forse la nostra più importante invenzione: 

il linguaggio. “Sappiamo che l’uomo parlava un linguaggio 

comune perché ognuno di noi può imparare qualsiasi 

altra lingua parlata sulla Terra”. Se un bimbo eschimese 

dovesse venire cresciuto da una famiglia di pigmei, parlerebbe 

la loro lingua come un nativo senza problemi. “Lo 

sviluppo di un linguaggio ci ha permesso di comunicare 

idee, di tramandare conoscenza e in sostanza di gettare le 

base per quell’evoluzione culturale che ci scolpisce come 

specie ancora oggi”. 

Nella storia degli antenati, 50 mila anni fa l’uomo ricopre 

il pianeta, sbaragliando la concorrenza degli altri ominidi, 

come i Neanderthal. 

Poi, 10 mila anni fa circa la svolta. “Troppo numerosi per 

continua ad essere una società di soli cacciatori, per 

la prima volta come specie abbiamo risposto ad una sfida 

evolutiva, non con una mutazione genetica, ma con una 

rivoluzione scientifica a cui è seguita una conseguente innovazione 

tecnologia: l’agricoltura”. 

L’archeologia conferma i dati della genetica, analizati da 

Cavalli Sforza in anni di minuziosa catalogazione e analisi. 

A cominciare dagli anni di Parma, dove sfruttando i dati disponibili 

negli archivi parrocchiali, il genetista ha ricostruito 

la storia di intere famiglie confrontando il patrimonio genetico 

dei discendenti, e dimostrando per la prima volta il 

drift, ovvero la deriva genetica, quella componente dell’evoluzione 

di una specie dovuta a fattori casuali e quindi 

analizzabile con metodi statistici. 

“La deriva genetica è più visibile in popolazioni più piccole, 

ma interessa anche quelle più grandi, in sostanza ci condiziona 

tutti” . E’ una delle quattro forze che determinal’evoluzione 

di una specie, assieme alla mutazione, la selezione 























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naturale e la migrazione. Quattro fattori che spesso si 

intersecano fra di loro e che si influenzano a vicenda, 

ma che hanno un unico scopo: la sopravvivenza del più 

adatto. Che sia un gene, un tratto, o un intero gruppo di 

individui. 

“La pastorizia e l’agricoltura ci hanno permesso di arrivare 

dove siamo, ovvero ai sei miliardi di esseri umani 

che abitano oggi il pianeta”. Non solo, grazie alla medicina 

“abbiamo quasi del tutto sconfitto la selezione naturale”. 

Anche nella lotta alle malattie, la ricerca ha fatto 

passi straordinari; “Si è quasi portati a credere che non 

esistano malattie che non si possa evitare di contrarre, o 

di combattere”. Eppure tutto questo ha un prezzo, ovvero 

un nuovo e drastico sovrappopolamento del 

pianeta: “Ancora una volta siamo in troppi e le risorse 

disponibili non sono sufficienti, oggi più che mai dobbiamo 

prestare orecchio alla scienza, l’unica che ha le 

risposte che ci servono per sopravvivere e continuare ad 

evolverci”. ne continuiamo ad avere tante, come il bel 

progetto delle “Rebel girls” nato come un magazine interattivo 

per l’infanzia, diventato un libro (Storie della Buona 

Notte per Bambine Ribelli) e oggi in testa alle classifiche 

del New York Times”, Oppure come “Ad Espresso”, 

una piattaforma software per permettere l’organizzazione 

e la gestione del budget di digital marketing. “Lavorare 

in Silicon Valley significa essere circondati da gente 

che ha voglia di fare, che si lamenta poco e che produce 

tanto”. In Italia è diverso: il talento non manca, ma le 

occasioni per concretizzarlo in progetti attuativi sono 

poche, senza dimenticare le complessita’ del mercato. 

Ed è un peccato, perché occasioni di crescita e sviluppo 

ce ne sono, ma vengono ignorate. “Il fatto di crescere 

circondati dal bello ci rende ottimi candidati per fare del 

software design, per tutto ciò che riguarda le interazioni 

uomo - macchina, ambiti professionali che non vengono 

considerati”. Il design italiano non è solo cibo e moda, 

ma è anche programmazione, è telefonia, è interattività. 

“Pensiamo alle applicazioni e quanta progettazione grafica 

c’è dietro ogni software, pensiamo a quanto l’Italia 

possa dare!”. Eppure, forse in un contesto completamente 

diverso, il fatto di crescere in un ambiente 

pieno di costrizioni è alla fine anche fonte di talento. 

“Serve un mercato che sia autosufficiente, in Europa ad 

esempio c’;è interesse per le startup, ma questo non 

viene concretizzato in una reale possibilità di sviluppo”. 

Silicon Valley non si riesce dunque a replicare. Eppure 

l’immagine della bay si sta incrinando. O almeno appannando. 

“È evidente che la tecnologia influenza ambiti 

molto più vasti rispetto a quelli che in un primo tempo 

venivano considerati, ambiti come la comunicazione e 

l’informazione”. I giganti della Bay Area hanno compreso 

le implicazioni sollevate dal loro modo di fare business, 






















































ma capirle soltanto non basta. “Da un paio d’anni, le 

negatività del sistema della Silicon Valley sono un po’ più 

evidenti – conclude Marinucci – complici i costi estremamente 

alti, i senza tetto, la mancanza di una rete sociale, 

l’estrema razionalizzazione del mondo del lavoro”. 

Sono tutti aspetti, questi, che hanno modificato l’;indice 

di percezione e di conseguenza le opinioni a proposito 

della qualità di vita nella Bay Area. Ma restano giusto 

questo, e alla fine hanno un peso relativo. Perché Silicon 

Valley resta comunque l’;unica officina mondiale a disposizione 

per innovazione e ricerca. La speranza è che 

grazie a modelli come “Mind the bridge”, non rimanga 

l’;unica opzione possibile. 













daerchi llandio officius doles aligent et volup- 


“ANCORA UNA VOLTA 

SIAMO IN TROPPI E LE 

RISORSE DISPONIBILI NON 

SONO SUFFICIENTI, OGGI PIÙ 

CHE MAI DOBBIAMO 

PRESTARE ORECCHIO ALLA 

SCIENZA, L’UNICA CHE HA LE 

RISPOSTE CHE CI SERVONO 

PER SOPRAVVIVERE 

E CONTINUARE AD 

EVOLVERCI.”


“I COMPUTER 

SONO STUPIDI MA 

SONO MOLTO 

PRECISI, NOI 

SIAMO IMPRECISI 

MA MOLTO 

INTELLIGENTI. 

INSIEME 

POSSIAMO FARE 

DI PIÙ E MEGLIO.” 


Federico Faggin 

PRESIDENTE DELLA FONDAZIONE FAGGIN (FISICO, INVENTORE ED IMPRENDITORE) 

PRESIDENT OF THE FAGGIN FOUNDATION (PHYSICIST, INVENTOR AND ENTREPRENEUR

FEDERICO FAGGIN, L’UOMO DEL MICROCHIP 

«Ho seguito una passione e dentro vi ho trovato 

centinaia di opportunità». Federico Faggin è la 

miglior rappresentazione vivente di chi crede in se 

stesso e nelle sue intuizioni. Fisico, pioniere, creatore 

dei primi microprocessori di successo e del 

touchscreen. Oggi studia la consapevolezza e le 

potenzialità del cervello umano. «Ho creato il primo 

microchip, ma il nostro cervello è molto di più di 

un computer». Con la doppia cittadinanza, è l’unico 

italiano presente sul Walk of Fame del Computer 

History Museum di Mountain View. Ha contribuito, 

più di ogni altro, al mondo della tecnologia e della 

Silicon Valley. Di lui, Bill Gates ha detto: «Prima 

di Faggin, la Silicon Valley era semplicemente la 

Valley». Nel 2011, Obama lo ha premiato con una 

medaglia d’oro per l’innovazione. 

DA PERITO A FISICO 

Classe 1941, la prima infanzia è in campagna a Isola 

Vicentina. Scuole a Vicenza. A 11 anni, costruisce 

il suo primo aeromodello e impara a creare un prodotto 

da zero («Tutto il mio mondo era dentro a quel 

modellino e lì mi sono innamorato del futuro»). Figlio 

di un professore di Storia della Filosofia, si iscrive, 

contro il volere del padre, a un istituto tecnico 

e prende il diploma di perito radiotecnico. A 18 

anni è già all’Olivetti di Borgolombardo. Il destino 

gli offre la prima grande occasione. Il suo capo ha 

un incidente, Faggin prende il suo posto. Progetta 

e costruisce un piccolo calcolatore elettronico sperimentale. 

A 19 anni guida un team di 4 tecnici, ma 

lascia l’Olivetti e decide di iscriversi a Fisica. «I periti, 

fino a quell’anno, non erano ammessi all’università. 

Mio padre apparteneva a quella generazione di 

uomini colti che consideravano gli istituti industriali 

scuole di serie B». Faggin passa il test di ammissione, 

si laurea in meno di 4 anni e con 110 e lode, si 

mantiene durante tutti gli studi e dimostra al padre 

che anche un perito può laurearsi in Fisica. Assistente 

incaricato per qualche anno («ma l’università 

si muoveva troppo lentamente per me»), inizia 

presto a lavorare per la SGS, un’azienda di Agrate 

Brianza (MI), associata alla Fairchild Semiconductor 

di Palo Alto. Ed ecco la seconda circostanza favorevole. 

Le due ditte (come le chiama Faggin) decidono 

di fare uno scambio. Un ingegnere americano viene 

inviato in Italia e Faggin viene mandato nel gruppo 

di ricerca e sviluppo in California. Doveva rimanere 

















































con rernate poresti qui dit que venisti voluptur ali- 



sei mesi, ma allo scadere del tempo è assunto dalla 

Fairchild Semiconductor, che intanto si era separata 

dalla SGS-Fairchild. «Era il 1968 e a quel tempo 

ho creato un processo molto noto per chi è esperto 

di tecnologia: il processo MOS Silicon Gate, che ha 

permesso di fare circuiti integrati MOS molto più veloci 

e affidabili e nuovi tipi di circuiti integrati. Questa 

tecnologia è stata poi adottata da tutto il mondo 

e ha dominato l’industria per 40 anni». Nel 1970 

passa a Intel. «Avevo 28 anni e voglia di fare. Vedevo 

le potenzialità del Silicon Gate e volevo progettare 

circuiti complessi. È lì che ho progettato il primo 

microprocessore commerciale al mondo (Intel 4004) 

e ho anche sviluppato il primo di seconda generazione 

(Intel 8080)» 

I PRIMI MICROPROCESSORI 

Passano 5 anni, Faggin considera di rientrare in 

Italia («ma c’erano le Brigate rosse e scioperi a singhiozzo). 

Decide così di rimanere in California con 

la moglie Elvia e di creare un’impresa tutta sua. A 

quel punto però iniziano i problemi. «Andy Grove mi 

disse: se te ne vai, sarai cancellato dalla storia. Mi 























ratet, officipsa el magnim vellam, opta plit

ha lanciato una vera maledizione, promettendomi 

che mi avrebbe tolto qualsiasi paternità del processore». 

Per molti anni, l’invenzione del microprocessore 

è stata attribuita principalmente a Ted Hoff e al 

suo ingegnere, responsabili di aver fatto l’architettura 

(«Una cosa che potevano fare in molti»). Grazie 

alla moglie Elvia, che ha fatto una vera e propria 

battaglia di controinformazione, oggi tutto il mondo 

riconosce nell’italiano l’inventore del microchip. 

«Una delle lezioni più importanti che ho imparato 

nella vita è che, girandoti indietro, non devi guardare 

soltanto agli errori che hai fatto. Spesso si sbaglia 

di più quando si sceglie la non azione. Ho vinto le 

battaglie perché le ho affrontate». Startupper ante 

litteram, uscito da Intel, Faggin avvia una startup 

dopo l’altra. Alla Zilog inventa il Z80, microprocessore 

di 8 bit di terza generazione, e il microcontrollore 

Z8 che sono ancor oggi in produzione. Crea 

poi la Cygnet Technologies: qui sviluppa un telefono 

intelligente che integra voci e dati e che permetteva 

di fare, già allora, alcune cose che oggi si fanno con 

un iPhone. Nel 1986 avvia la Snaptics, dove sviluppa 

i primi touchpad e touchscreen, che hanno cambiato 

letteralmente il modo con cui interfacciamo con 

i nostri computer. Durante gli anni da imprenditore 

Faggin vive momenti di grandissima crescita personale. 

«I primi anni sono stati incredibili. Ero un tecnico 

che doveva imparare a occuparsi di business, 

fundraising, assunzioni. Ho assunto 1.000 persone 

in tre anni. Ho visto il mondo con occhi completamente 

diversi. Quando diventi imprenditore, devi 

sviluppare l’intuito e la capacità di capire le situazioni 

al volo. E solo allora ho riconosciuto a me stesso 

che proprio l’intuito era la mia dote principale e che 

dovevo coltivarla». Ma un computer puo’ essere 

consapevole? Durante gli anni della Synaptics, inizia 

a studiare la consapevolezza e a chiedersi: è possibile 

costruire un computer consapevole? Studia le 

neuroscienze e la biologia e si convince che la consapevolezza 

non può essere, come sostengono gli 

scienziati, una proprietà che esce dalla materia, ma 

piuttosto una proprietà dell’universo che esiste sin 

dall’inizio. «La consapevolezza è la capacita di avere 

un’esperienza basata su sentimenti, pensieri, emozioni. 

Ha a che fare con la spiritualità, è l’aspetto 

che ci lega alla natura olistica della realtà. Noi siamo 

parte integrante di un tutto. La scienza nega la realtà 

spirituale e la spiritualità spesso nega la realtà 

fisica. Eppure sono due facce della stessa medaglia». 




































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mincia con rernate poresti qui dit que venisti 


porem a nonseque voluptiunt haria doluptur modio- 



“I REGARD CONSCIOUSNESS AS FUNDAMENTAL. 

I REGARD MATTER AS DERIVATIVE FROM 

CONSCIOUSNESS. EVERYTHING THAT WE TALK 

ABOUT, EVERYTHING THAT WE REGARD AS EXISTING, 

POSTULATES CONSCIOUSNESS.” 

“IO CONSIDERO LA COSCIENZA COME 

FONDAMENTALE, E LA MATERIA UN DERIVATO DELLA 

COSCIENZA. NON POSSIAMO ANDARE OLTRE LA 

COSCIENZA. TUTTO CIÒ DI CUI DISCORRIAMO, TUTTO 

CIÒ CHE NOI CONSIDERIAMO COME ESISTENTE, 

RICHIEDE UNA COSCIENZA.” 

Max Planck

giato». Faggin non ama attaccare l’Italia («I confronti 

non sono mai simpatici»), ma riconosce che non è 

un Paese dove è facile fare business. «Soffro nel vedere 

tanti giovani italiani senza lavoro. A loro dico: 

abbiate coraggio e staccatevi dal nido. Abbandonate 

la razionalità, uscite da una situazione che non funziona 

e andatevene dall’Italia se non trovate lavoro. 

Ritornerete. Ma non buttate via gli anni migliori 

nella ricerca di un lavoro che non c’è. Ascoltate le 

vostre passioni, perché lì dentro c’è il talento e da lì 

nascono le opportunità… Non dobbiamo essere tutti 

scienziati, ingegneri, matematici. Ma tutti dobbiamo 

dare il maggior contributo possibile nel campo che ci 

appassiona». 

LA TERRA DOVE E’ PIU’ FACILE DIRE DI SI’. 

Da 50 anni a Palo Alto, con moglie e tre figli nati e 

cresciuti in California, Faggin ha scelto di vivere nella 

terra dove è più facile dire di sì, provare, riprovare 

e fallire senza paura («In Italia se fallisci, ti mettono 

in castigo»). La California è il centro del mondo hi 

tech, la quinta potenza economica del mondo. «Non 

ha mai perso un colpo. È riuscita a mantenere il suo 

vantaggio tecnologico fin dagli anni 60. Qui sono 

nati i semi conduttori, i computer, i microprocessori, 

il software, le telecomunicazioni, Internet, i 

social network. È prima zona al mondo per robotica 





























e intelligenza artificiale. Le auto elettriche sono nate 

qui. Tesla, anziché avvitare un motore elettrico a 

una macchina tradizionale, ha iniziato da un foglio 

bianco e ha costruito da zero una macchina elettrica 

come si deve. Da qui partirà la prossima grande 

rivoluzione dell’auto autonoma. E ancora: la prima 

azienda nel campo delle biotecnologie e la prima 

casa farmaceutica al mondo a produrre pillole 

anticoncezionali (la Syntex) portano la firma della Silicon 

Valley. Il segreto? Ogni giorno da tutto il mondo 

atterrano i migliori talenti. Hanno gli occhi che 

luccicano e un forte spirito imprenditoriale. Trovano 

un ecosistema già fatto, che funziona bene e continuano 

così ad alimentare questo circolo virtuoso». 

FAGGIN E LA SILICON VALLEY 

Il rovescio della medaglia? «La Silicon Valley oggi è 

troppo affollata, il traffico è pesante, le case costano 

troppo, le infrastrutture non si possono espandere… 

All’inizio della mia carriera, 50 anni fa, coinvolgeva 

200mila persone. Ora siamo 7 milioni». La sua prossima 

sfida? «Volgo il mio sguardo all’interno dell’essere 

umano. Il mio obiettivo è riuscire a far capire 

che siamo molto di più delle macchine. Siamo macchine 

sì, ma al tempo stesso non lo siamo. I computer 

sono stupidi ma sono molto precisi, noi siamo 

imprecisi ma molto intelligenti. Insieme possiamo 

fare di più e meglio». 






























“DEL RESTO PER 

FARCELA NELLA 

BAY AREA, 

BISOGNA ESSERE 

UN PÒ FATTI COSÌ: 

SEMPRE PRONTI A 

RISCHIARE TUTTO. 

RISCHIAMMO 

TUTTO E FUMMO 

PREMIATI.” 


Giacomo Marini 

IMPRENDITORE, INVESTITORE, COSTRUTTORE DI SQUADRE AZIENDALI 

ENTREPRENEUR, INVESTOR, COMPANY AND TEAM BUILDER

GIACOMO MARINI, DAL MOUSE AL ROBOT 

DA PESCARA ALLA CALIFORNIA 

Da Cugnoli, in provincia di Pescara, alla California, passando 

per le chart board di alcune delle aziende hi-tech 

che hanno fatto la storia. Giacomo Marini, oggi fondatore 

e direttore di Noventi, nei suoi oltre sessant’anni, 

ha creato e visto crescere colossi quali Logitech e Neato 

Robotics. Fra i primi a laurearsi in informatica, ha lavorato 

per IBM e Olivetti, prima di fare il salto in California, 

con Daniel Borel e Pierluigi Zappacosta: “Allora il 

concetto di compagnia impegnata nell’hardware delle 

periferiche era nuovo sul mercato e noi, che abbiamo 

lanciato il mouse, le prime fotocamere digitali, le casse 

acustiche per PC, eravamo dei precursori”. Erano gli 

anni della Logitech. “Andammo in Giappone a cercarci 

clienti, non ci 

spaventava nulla”. Giovani e con la voglia di sfondare 

nel cuore. Del resto per farcela nella Bay Area, bisogna 

essere un pò fatti così: sempre pronti a rischiare tutto. 

“Quando – racconta Marini – anni dopo la Logitech, 

con Noventi (società specializzata in investimenti mirati 

a compagnie hi–tech), decidemmo di puntare su Neato 

Robotics, fu un salto nel buio, all’epoca nessuno credeva 

che i robot per la casa potessero interessare il grande 

pubblico e diventare commercializzabili, ….si sbagliavano”. 

Infatti, anni dopo la Neato è finita nelle mani della 

Vorkwek, compagnia tedesca produttrice di Folletto e 






















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et lam si natendis eos eicatae mil molupti berspe dolorep 

eritatem autae verum velectem. Nam fugit et, 


Bimby. 

Marini è sempre stato un precursore. “Rischiammo tutto 

e fummo premiati.” 

UN’ESPERIENZA CALIFORNIANA NEGLI 

ANNI OTTANTA 

Trasferitosi in California negli Anni Ottanta, Marini ha 

visto la Silicon Valley cambiare. “In quegli anni, quando 

ci siamo spostati negli Stati Uniti con Logitech, noi eravamo 

un’eccezione”. Sede americana, anima europea 

e affari ovunque, anche in Asia. “Quando iniziarono a 

fondare startup per il mobile le cose in Silicon Valley 

iniziarono a cambiare”. 

Prima, “le compagnie americane erano più focalizzate 

verso il mercato interno e la crescita fino a raggiungere 

una massa critica, prima di gettarsi sulle piattaforme 

internazionali”. Con l’aumento della mobilità del mercato, 

“le cose sono iniziate da subito ad essere molto 

diverse - sottolinea Marini - , si è sviluppata una tendenza 

ad affrontare il mercato globale piu’ presto nella vita 

dell’azienda startup.”. Questo però non è l’unico vettore 

del cambiamento che sta interessando la California. Ce 

n’è un secondo in atto, ugualmente forte, ma diametralmente 

opposto, quasi in netta controtendenza rispetto 

al primo, “è il fatto - evidenzia Marini - che nonostante 

questa internazionalità di mercati, le aziende della Silicon 

Valley, tendono a crescere ed espandersi localmente 

nella Bay Area”. Prima era diverso: “Negli anni Ottanta 

si nasceva nella Bay Area e ci si ampliava in Texas, nello 

stato di Washington o altrove in America – aggiunge -, 

mentre oggi questo non accade più e i colossi della Bay 

Area, come Facebook o Apple, quando crescono, non 

si muovono, restano dove sono”. Forse si tratta di una 

questione di cultura, alla fine il nome Cupertino parla da 

sé. Ma forse c’è di più, forse “È una questione di mentalità 

secondo me – commenta - di una visione del mercato 

che si sta lentamente provincializzando”. Una sorta di 

cerchio che si chiude. “Oggi i colossi della Silicon Valley 

hanno molta cassa, rispetto ai grandi di prima”. Quando 

HP o Olivetti crescevano, “avevano risorse finanziarie, 

ma in una quantità non certo paragonabile a quella che 

oggi vantano compagnie quali Facebook, Google o Apple”. 

Questo crea uno sbilanciamento, un divario economico 

che va ad impattare sul sistema, deteriorandolo. 

Eppure questa non è certo la prima volta che la Bay viene 

data per spacciata. “Io negli anni Ottanta già sostenevo 

che questa situazione paradossale non poteva durare 

per sempre, e sono stato smentito”. Forse dunque capiterà 

ancora: “Alla fine la Silicon Valley riesce sempre a 

























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rernate poresti qui dit que venisti voluptur alitaerrum 


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et as sum lupti am ulluptius aut fuga. Ut eossum 

que est expla samus et lam si natendis eos eicatae mil 


einventare se stessa e forse è proprio per questo che ci 

sono cose possibili soltanto qui e non altrove”. 

IL TALENTO ITALIANO 

Nonostante la Bay Area sia il cuore trainante dello sviluppo 

tecnologico internazionale, esistono progetti interessanti 

anche altrove. In Italia, ad esempio, “a Milano, 

qualche anno fa,abbiamo lanciato con Neato un piccolo 

centro di ricerca che punta a produrre applicazioni per 

la Cloud”. Il talento non manca: “L’Italia è piena di talenti 

e con i costi della 

produzione e del lavoro dimezzatisi negli ultimi anni, 

potenzialmente può attrarre investimenti importanti”. 

Anche dalla Bay Area: “Si ha l’impressione che le frontiere 

piano piano stiano cadendo, fra i giovani c’è sempre 

più interesse a guardare al di là del cortile di casa, 

della città natale, a cercare occasioni di sviluppo e crescita, 

ovunque si riescano a trovare”. Certo si tratta di 

avere coraggio e no, non si tratta di fuggire, ma semplicemente 

di seguire le orme dei propri sogni e di cogliere 

le occasioni là, dove si presentano. Come Marini e i tanti 

italiani che la Silicon Valley l’hanno fatta davvero. 






















ratatin ea dolore commolo ribusandae molecabo. Nul- 



RISCHIAMMO 

TUTTO 

E FUMMO 

PREMIATI


“MI CHIESERO 

SE VOLEVO FARE 

SEI MESI DI 

RICERCA 

ALL’ESTERO, 

IO SCELSI 

BERKELEY 

PERCHÉ VOLEVO 

ANDARE A VEDERE 

UN POSTO 

DOVE SI FACEVA 

INNOVAZIONE 

SUL SERIO.” 


Antonio Sangiovanni Vincentelli 

THE EDGAR L. AND HAROLD H. BUTTNER CHAIR OF ELECTRICAL ENGINEERING AND COMPUTER 

SCIENCES AT THE UNIVERSITY OF CALIFORNIA, BERKELEY

ALBERTO, UNA VITA DEDICATA ALLA SCIENZA 

DELL’ELETTRONICA. 

Piove a Singapore mentre Alberto Sangiovanni 

Vincentelli ci racconta di come sia finito, quasi per 

caso, a fare il ricercatore a Berkeley. “Io sono 

diplomato al classico e al Politecnico ci sono andato 

perché allora era tradizione che i migliori al liceo ci 

andassero nonostante la mia predilezione per 

filosofia e fisica”. 

Vincentelli è una delle maggiori autorità in materia 

in Electronic Design Automation (automazione 

della progettazione di sistemi e circuiti elettronici, 

ovvero quella categoria di strumenti software ormai 

divenuti assolutamente necessari per progettare), e 

il suo curriculum è uno di quelli che non si 

dimenticano facilmente. Docente a Berkeley, e professore 

onorario al Politecnico di Torino, membro 

dell’Advisory Board del Politecnico di Milano, imprenditore 

e fondatore di diverse imprese tra cui 

due quotate al NASDAQ: Cadence (valuta sul mercato 

azionario12,5 miliardi di dollari), e Synopsis (13,5 

miliardi di dollari), consulente da oltre trent’anni per 

i giganti dei circuiti integrati e del settore 

automobilistico, presidente del comitato nazionale 

per i garanti della ricerca (CNGR), presidente del 

Comitato Strategico del Fondo strategico italiano. 

Solo per citare i più importanti. Settant’anni dedicati 

alla tecnologia e alla scienza, una vita che da Milano, 

lo ha trascinato, inizialmente controvoglia, fino 

alla California, a Boston, a New York, trasformandolo 

in una delle maggiori voci nel panorama della 

ricerca internazionale. 

FINIRE IN AMERICA PER CASO 

“Al liceo, non sopportavo tutto quello che sapeva 

di meccanica, di disegno e di macchine elettriche, 

ma alla fine mi sono ritrovato laureato prima, 

e professore incaricato poi, al Politecnico di Milano 

(1974)”. Anche in America ci è finito per caso: 

“I professori che gestivano il mio istituto, mi 

chiesero di passare sei mesi negli Stati Uniti per rafforzare 

le mie capacita’ di fare ricerca ad alto livello; 

io scelsi Berkeley perché quella università era considerata 

la migliore nei settori che mi interessavano”. 

L’arrivo negli Stati Uniti ancora se lo ricorda: “Era il 

3 luglio del 1975, il giorno prima della festa 

dell’indipendenza – racconta – e, ricordo, fu durissimo 

abituarmi a Berkeley”. Alla fine però “mi 

piacque molto fare ricerca con persone veramente 

eccezionali. Dato il successo del mio programma di 

ricerca che portò risultati in breve tempo, i colleghi 

di Berkeley mi chiesero se volessi ritornare almeno 




















































as sum lupti 



per un anno come visiting professor**. Io volevo 

tornare a Milano, dove mi trovavo benissimo, 

e accampai una scusa per rifiutare; dissi loro che 

proprio non potevo farlo per gli impegni che avevo 

preso al Politecnico incluso il corso che dovevo 

tenere”. Non si immaginava certo il resto: “Quando 

tornai in Italia la vigilia di Natale del 1975, incontrai 

il direttore dell’Istituto di Elettrotecnica ed 

Elettronica, che mi disse che non c’erano problemi 

per il mio ritorno a Berkeley. Anzi, che il Politecnico 

era felicissimo di avere un suo giovane che insegnasse 

a Berkeley: mi chiesi come avesse saputo della 

offerta di Berkeley e alla fine, scoprii, che i colleghi 

di Berkeley gli avevano scritto una lettera a mia 

insaputa chiedendo di lasciarmi tornare ancora un 

anno negli Stati Uniti. Alla fine, mi toccò partire”. 

INSEGNAMENTO A BERKELEY 

A Berkeley mi trovai ad insegnare cinque corsi 

trimestrali, due per gli undergraduate e tre per 

dottorandi, un bel carico! “Non sapevo neppure 




















et veliquo dio officipsum id mod quiaspiet harupta

come si organizzavano i corsi negli Stati Uniti, 

neppure come si faceva a valutare la preparazione 

degli studenti. Ricordo che il primo giorno di lezione, 

quando arrivai in aula, non c’era nessuno. 

Io, che credevo di non essere all’altezza e che quindi 

certo che nessuno si sarebbe presentato, mi sedetti 

sconsolato in uno dei banchi ad aspettare”. 

Gli studenti presero ad arrivare agli spicciolati minuti 

più tardi: “Scoprii che era normale iniziare dieci 

minuti dopo l’orario prestabilito da uno studente, 

Joe Grey, che entrato in aula si era seduto accanto 

a me, credendomi un compagno di corso”. 

Ignaro di chi fossi, dato che avevo più o meno l’età 

degli studenti, Grey fece dei commenti sul nome 

(impronunciabile in inglese) di questo professore. 

A Grey prese un colpo quando alla fine mi alzai e mi 

presentai alla classe come il docente. Con molti di 

quegli studenti strinsi un’amicizia profonda: li vedo 

ancora oggi anche se sono passati oltre 

quarant’anni”. Grey è diventato un mio caro amico. 

Dopo il primo trimestre di pura sofferenza, il caso 

fece di nuovo capolino nella vita di Vincentelli: 

“Proprio in quei giorni il Dipartimento aprì un concorso 

per un posto tenure track*, i miei colleghi di 

Berkeley mi chiesero di partecipare. Grande soddisfazione, 

ma io volevo tornare in Italia dove tutto 

sommato mi trovavo meglio. Ma in USA, non è facile 

farsi dire di no! Quindi mi tesero un tranello: mi 

convinsero a candidarmi sapendo che mi sarei piazzato 

bene, e questo sarebbe servito per la mia 

carriera al Politecnico. Mi fecero credere che sarebbe 

stato molto difficile “vincere” in quanto le 

candidature arrivate erano oltre un centinaio e in 

tanti avevano titoli migliori dei miei”. Ma il destino 

aveva pianificato diversamente: “Ricevetti una chiamata 

alle undici della sera dal capo del dipartimento 

che si congratulò perché’ avevo vinto il concorso!” 

In Italia, tutti i miei colleghi ne furono felici: “Tutti 

tranne me, che sembravo proprio non riuscire a tornare”. 

Ancora una volta i primi anni furono difficili 

anche perche’ doveva conquistare la “tenure” che 

nelle migliori università costa lacrime e sangue in 

impegno e studio. 

LE RICERCHE ALL’IBM 

Nel 1980 la svolta. “Dopo aver ottenuto la tenure 

e il titolo di Associate Professor, l’IBM mi offrì di 

trascorrere un anno nel loro centro di ricerca a 

Yorktown Heights, nello stato di New York. 

L’occasione di lavorare in quel centro di ricerca allora 

prestigiosissimo mi consentì di sviluppare nuovi 

temi di ricerca oltre a continuare secondo le linee 






















































“SERVE INVESTIRE 

NELLA SCUOLA, 

NELL’UNIVERSITÀ, NELLA 

TECNOLOGIA – 

EVIDENZIA – IL POLITECNICO 

È UN’ISOLA FELICE, 

UN’ECCEZIONE, 

MA IN ITALIA I TALENTI 

CI SONO, BASTA 

COLTIVARLI.” 



















nem alit, cullanto con nihilig enihicipsam id momache 

avevo impostato a Berkeley. Incredibile, ma 

vero mi venne anche proposto di rimanere a lavorare 

a New York, ma il freddo di quell’anno insieme 

alla mia predilezione per l’insegnamento mi convinsero 

a tornare in California”. Nel 1982, da professore 

associato Vincentelli passò dunque a professore 

ordinario in soli due anni: “Le mie ricerche sui 

circuiti integrati iniziavano a dare frutti e l’interesse 

dell’industria era evidente”. Con un collega e amico 

australiano decise quindi di diventare imprenditore, 

anche stavolta quasi per caso. Nacque, così, la 

Cadence Design Systems che “si occupava appunto 

di sviluppare strumenti di progettazione per i 

circuiti integrati basandosi sulle ricerche fatte a 

Berkeley. Oltre agli investitori della Silicon Valley, 

General Electric, National Semiconductors, Harris 

Semiconductors e Ericsson parteciparono al 

capitale”. Al momento della quotazione in borsa di


Cadence, nel 1987, facemmo partire un’altra 

impresa, Synopsys. “Le mie ricerche e le imprese 

attirarono l’attenzione del Massachusetts Institute of 

Technology (MIT) e proprio nel 1987 io e 8 dei mie 

studenti di dottorato ci trasferimmo con l’idea di 

collaborare con i quattro centri di ricerca afferenti al 

Dipartimento di Electrical Engineering and 

Computer Science.” Alla fine però Vincentelli tornò 

a Berkeley dopo un anno: “Io mi affeziono ai posti 

e alle persone, a Berkeley come al Politecnico, che 

in tutti questi anni non ho mai abbandonato”. 

Oltre che come imprenditore e docente universitario, 

Vincentelli ha decenni di esperienza anche come 

consulente, in particolare per l’industria dei semiconduttori 

e quella automobilistica. “Nel 1988 il 

direttore generale di Magneti Marelli Autronica, Daniele 

Pecchini, mi contattò per avere una consulenza 

sulle architetture e sulle metodologie di progetto per 

circuiti e sistemi per l’automobile”. 


















nem alit, cullanto con nihilig enihicipsam id momagnim 

ratatin ea dolore commolo ribusandae mole-

Quello fu l’inizio di una collaborazione anche personale 

che ancora va avanti ora. Il lavoro che stavo 

facendo con Magneti Marelli porto’ allo sviluppo di 

nuovi metodi di progettazione che attirarono 

l’attenzione delle imprese tedesche del settore. Per 

prima, Mercedes: “Collaborai con loro per quattro 

anni e li aiutai ad aprire il loro centro di ricerca in 

Silicon Valley”. Dopo la Mercedes, fu la volta della 

BMW: “Ricordo che all’epoca io guidavo una Alfa 

equipaggiata da Magneti Marelli. In BMW, che mi 

aveva chiesto di fare consulenze per loro sullo sviluppo 

della elettronica nella vettura, non erano troppo 

contenti del fatto che un loro consulente guidasse 

una macchina che non fosse una BMW 

e ogni mese mi mandavano una BMW diversa per 

convincermi a rinunciare alla mia Alfa. Peraltro, io 

alla mia Alfa non rinunciai e le vetture che arrivavano 

a Berkeley, finirono nelle mani dei miei studenti 

di dottorato con loro grande gioia! Potete immaginare 

la curiosità suscitata da questi eventi tra i miei 

colleghi che non sapevano cosa pensare”. 

IL TELELAVORO TRA LA CALIFORNIA E L’ITALIA. 

Oggi Vincentelli torna spesso in Italia: “Trascorro ad 

intermittenza circa quattro mesi in Italia, collaborando 

con imprese, università ed enti di ricerca”. 

E certo non si considera un cervello in fuga: 

“Io sono stato un cervello prestato agli Stati Uniti, 

non sono fuggito, anzi, l’Italia l’ho sempre portata 

nel cuore”. Quello in cui crede lo ha ribadito più 

volte, come ad esempio nel discorso di apertura del 

155esimo anno accademico del Politecnico di 

Milano. E per il futuro dell’Italia ha una parola sola: 

innovazione basata sulla ricerca e sull’educazione. 

“Serve investire nella scuola, nell’università, nella 

tecnologia – evidenzia – il Politecnico investe in 

ricerca e nei giovani. In Italia i talenti ci sono, basta 

coltivarli”. Evitando gli errori come, “ridurre le materie 

fondamentali (ad esempio matematica e fisica) 

a beneficio delle “tecniche”, normare gli anni di preparazione 

per i dottorati, trattare tutte le università 

nello stesso modo”. Ci sono tanti livelli di eccellenza, 

per Vincentelli, al di là e al di qua dell’Atlantico, 

in Usa come in Italia. Ognuna ha bisogno di un supporto 

diverso. 

“Occorre dare modo a tutti di brillare nel proprio 

campo e con le loro peculiarità, non pretendere che 

tutti debbano essere tenuti ad uno standard comune, 

perché quando si livella, si livella in basso, sempre”. 

non c’era nessuno e io, che credevo di avere 

sbagliato ancora prima di iniziare, mi sedetti in uno 

dei banchi ad aspettare”. 























































“I NOSTRI 

STUDENTI, 

SOPRATTUTTO 

QUANDO 

COMBINANO UNA 

LAUREA IN 

ECONOMIA A 

UN’ISTRUZIONE 

CLASSICA, SONO 

ESTREMAMENTE 

PREPARATI PER 

IL MONDO.” 


Luca Maestri 

DIRETTORE FINANZIARIO 

CHIEF FINANCIAL OFFICER 

APPLE


LUCA, L’ITALIANO ALLE FINANZE DI APPLE 

È considerato l’italiano di maggior peso nell’economia 

internazionale, dopo Mario Draghi. È fra i dirigenti 

più pagati al mondo. Gestisce un patrimonio 

aziendale di 280 miliardi di euro. Eppure Luca 

Maestri, 55 anni, vicepresidentee Chief Financial 

Officer (CFO) di Apple, l’uomo che risponde direttamente 

a Tim Cook, l’erede di Steve Jobs, ha una 

visione semplice del successo. «Ho imparato sulla mia 

pelle che puoi passare la vita a lavorare sui tuoi punti 

di forza o sulle tue debolezze. A un certo punto però 

è più produttivo concentrarti sui tuoi punti di forza». 

UN CARRIERA AL TOP DELLA FINANZA 

Liceo classico, laurea in Economia alla Luiss Guido 

Carli di Roma, Master in Science of Management alla 

Boston University, Maestri a 26 anni è già fuori Italia. 

«Volevo vedere il mondo. Esplorarlo. E – grazie 

alla formazione che ho ricevuto nel nostro Paese- ho 

lavorato in Europa, Asia, America Latina, Stati Uniti. 

Sono convinto che l’Italia abbia un sistema educativo 

fenomenale. I nostri studenti, soprattutto quando 

combinano una laurea in economia a un’istruzione 

classica, sono estremamente preparati per il mondo». 

La sua carriera: CFO per 20 anni alla General Motors, 

poi CFO alla Nokia Siemens Networks e infine 

alla Xerox, appena prima di Apple. «Vivo all’estero da 


























velectem. Nam fugit et, tessi comnihicit et deliquam

oltre 25 anni: c’è un affetto incondizionato nei confronti 

del nostro Paese. E l’essere italiano è stato per 

me un asset enorme. Siamo noi ad attaccarci degli 

stereotipi. Ero io il primo a credere che non avrei 

fatto molta carriera in General Motors . Mia moglie, 

che è americana, mi ha insegnato che le loro aziende 

sono molto più inclusive». Quando ha iniziato a lavorare 

all’estero, Maestri non parlava benissimo l’inglese 

ma si è messo alla prova e ha imparato tutto direttamente 

sul campo. «Spesso mi sono state attribuite 

responsabilità di cui io stesso mi meravigliavo, magari 

a volte anche più grandi di me. La migliore palestra 

l’ho fatto proprio in quelle occasioni» ha dichiarato 

nel 2016, quando è stato premiato come L’Alumnus 

dell’anno alla Luiss di Roma. 

LA VITA AD APPLE 

La vita in Apple? «A parte le levatacce - la mattina 

comincio alle 4.30 - lavorare alla Apple e’ un po’ 

come appartenere ad un esercito e, al tempo stesso, 

ad un monastero» ha raccontato durante un incontro 

al Consolato italiano di New York, moderato dalla 

giornalista Maria Teresa Cometto, e ripreso poi dal 

Corriere della Sera. «”Esercito” perché per sviluppare 

e produrre prodotti complessi con parti di provenienza 

diversa che poi vanno consegnati tempestivamente 

ovunque nel mondo, ci vuole una disciplina ferrea. 




























“OGGI È MOLTO 

PIÙ FACILE AVERE 

OPPORTUNITÀ 

CHE 30 ANNI FA. 

BASTA AVERE 

AMBIZIONE 

E VOGLIA DI 

ASSUMERSI DEI 

RISCHI.”

“LA NOSTRA 

PROFESSIONE STA NEI 

DETTAGLI. E LA RICETTA 

AZIENDALE NON STA NEL 

PRODOTTO SPECIFICO MA 

NELL’ECOSISTEMA 


COMPOSTO DA HARDWARE, 

SOFTWARE E SERVIZI. 

LA CHIAVE STA 

NELLA LORO 

INTEGRAZIONE.”

“Monastero” perché alla Apple l’ego lo devi mettere 

da parte: contano i valori comuni, il lavoro del team, 

l’armonia del gruppo». Ogni lunedi mattina, i principali 

10 top manager fanno una riunione per parlare di 

dettagli estremi. «La nostra professione sta nei dettagli. 

E la ricetta aziendale non sta nel prodotto specifico 

ma “nell’ecosistema composto da hardware, 

software e servizi. La chiave sta nella loro 

integrazione». 

LA SPINTA DELLA SILICON VALLEY 

Innamorato del suo lavoro e della sua famiglia, Luca 

Maestri se non si fosse occupato di finanza, avrebbe 

fatto il giornalista sportivo. «Il successo arriva quando 

fai della tua passione il tuo lavoro. Amo il calcio 

e tifo per la Juventus» ha raccontato. In Silicon Valley 

è tesoriere dello Juventus Club Silicon Valley, 

il club dei tifosi creato da Fabrizio Capobianco. 

Si incontrano spesso a Cru, un bar a Redwood City 

fondato da un bergamasco dove si mangia focaccia 

burrata e prosciutto, parlando di calcio e startup. 

Ai giovani italiani, in più occasioni ha consigliato: 

«studiate il coding, apre la mente, è un po’ come il 

latino e il greco. E non rassegnatevi. Oggi è molto più 

facile avere opportunità che 30 anni fa. Basta avere 

ambizione e voglia di assumersi dei rischi. Se avete 

una bella idea, venite a San Francisco a farvela finanziare. 

Gli italiani rappresentano l’eccellenza in tanti 

campi. E sono convinto che il prossimo Steve Jobs 

potrebbe nascere in Italia». 





“Confidential - Not for distribution coreserenim - que pre-production quatemporem fuga. Picia copy perum “ 










autem sam autam adipiciendi dolore eumquatur,


86

“QUELLO CHE 

SPINGE I GIOVANI 

A RESTARE IN 

AMERICA E’ IL 

FATTO DI POTER 

AVERE UNA 

CARRIERA 

BRILLANTE 


SEMPLICEMENTE 

METTENDO SUL 

PIATTO IL PROPRIO 

TALENTO.” 

Maria Grazia Roncarolo 

PROFESSORE IN PEDIATRIA, MEDICO RICERCATORE ESPERTO IN TERAPIA CELLULARE E GENICA 

PROFESSOR IN PEDIATRICS, PHYSICIAN SCIENTIST EXPERT IN CELL AND GENE THERAPY


CURARE L’INCURABILE CON LE CELLULE 

STAMINALI 

Ci sono idee che nascono in gioventù e che poi si 

aggrappano alle persone fino a diventare obbiettivi 

irrinunciabili, idee che sembrano sogni ma poi 

diventano la realtà, idee che trovano cervelli brillanti 

che le possono mettere in pratica. 

“Curare l’incurabile”: la Professoressa Maria Grazia 

Roncarolo ha fatto di questa idea lo scopo della sua 

vita, che l’ha portata a raggiungere traguardi che 

hanno segnato il progresso dell’immunologia e della 

biologia molecolare in tutto il mondo. 

Torinese, fin dall’inizio della sua carriera ha optato 

per un approccio che prevede lo stretto rapporto 

tra la ricerca in laboratorio e la clinica, sia nel campo 

ematologico che in quello ematologico. 

Il focus della sua ricerca è l’identificazione dei meccanismi 

che stanno alla base dei difetti immunologici 

e lo studio di nuove strategie terapeutiche per 

i bambini nati con un’immunodeficienza combinata 

grave o SCID (i cosiddetti “bambini bolla”), o con 

altre forme di immunodeficienza primaria. 

Partita da Milano come direttore scientifico dell’Isti- 
























BIOTECH

“BISOGNA ELIMINARE 

IL VALORE LEGALE DEL 

TITOLO DI STUDIO, FARE 

COME SI FA IN AMERICA,IN CUI 

SI È ASSUNTI E LICENZIATI 

SENZA PASSARE PER UN 

CONCORSO. IN AMERICA SONO 

LE UNIVERSITÀ CHE PAGANO 

I DIPENDENTI E NON LO 

STATO, SE SEI VALIDO RESTI 

E BASTA, È UN SISTEMA 

CHE CREA MOBILITÀ E 

COMPETIZIONE.” 


tuto Scientifico Universitario San Raffaele, e’ 

impiegata presso l’Università di Stanford come codirettore 

dell’Institute for Stem Cell Biology and 

Regenerative Medicine, e come capo della Division 

of Pediatric Stem Cell Transplantation and 

Regenerative Medicine. 

GIOVANI CHE VENGONO E GIOVANI CHE VANNO 

L’avventura in Silicon Valley inizia con una chiamata 

all’istituto DNAX, a Palo Alto, in California, dove l’attività 

di ricerca era incentrata sulla biologia cellulare 

e molecolare. 

Qui mette il suo talento italiano a disposizione di un 

team composto da studiosi originari di ogni parte del 

mondo. 

Ma quale è la competenza tutta italiana che ha poi 

fatto la differenza negli Stati Uniti? Secondo Maria 

Grazia la differenza sta nel fatto che in un contesto 

di lavoro fortemente settorializzato, in cui ognuno 

“coltiva il suo orticello”, gli italiani hanno una capacità 

unica di adattamento, unita ad una vocazione al 

lavoro duro e a una tendenza a dare valore ai rapporti 

umani. 























ratatin ea dolore commolo ribusandae molecabo.

In Italia si tende a non focalizzare gli studi su un 

singolo argomento, ma si tende a fornire allo 

studente una cultura di base molto ampia e molto 

forte, in contrasto con il concetto di “Super 

specializzazione” che invece vige negli States e che 

determina appunto poi una forte settorializzazione 

anche sul lavoro. 

Il consiglio ai giovani italiani che vorrebbero fare 

un’esperienza di studio o di lavoro negli Stati 

Uniti è quello di affrontare questa avventura non a 

metà del loro percorso formativo ma o all’inizio, o 

alla fine, da laureati. 

In America il fatto di sapere di poter avere una carriera 

brillante semplicemente mettendo sul piatto il 

proprio talento è quello che spinge i giovani a restare. 

Le poche persone che hanno provato a cambiare 

le cose in Italia se ne sono dovute andare. Ho elaborato 

un lutto per questa realtà, ma continua a deprimermi”. 

LE DONNE E LA LEADERSHIP 

Maria Grazia Roncarolo non è solo un’italiana che 

ha avuto apprezzamento e successo all’estero, ma è 

anche una donna italiana, e in quanto tale ha avuto 

la possibilità di notare le profondissime differenze 

che ci sono tra la nostra cultura e quella degli Stati 

Uniti, in termine di parità di genere e possibilità per 

una donna di assumere un ruolo di leader all’interno 

di un’azienda o, come nel suo caso, una leadership 

nel settore delle ricerca. 

Secondo le sue parole “Nel campo della scienza una 

donna è vista sempre in un ruolo subalterno, a meno 

che non sia una cosiddetta “donna con le palle”. 

In America le donne sono più protette, ed è più 

normale che possano avere un ruolo di leadership, 

anche se ho notato una mancanza di coesione femminile, 

che porta le donne a farsi in un certo senso 

la guerra tra di loro, a differenza di quanto accade in 

ambito maschile”. 

Alla DNAX la professoressa è stata un esempio di 

quella che si può definire “solidarietà femminile”, 

reclutando nel suo team un gran numero di donne 

giovani e talentuose perché “bisogna aiutare le 

donne, non parlando di diversità e, in primo luogo, 

dando l’esempio: i miei figli sono cresciuti vedendo 

una mamma che ha sempre lavorato tanto, e anche 

il figlio maschio ha imparato che una donna può 

costruirsi con lo studio e il lavoro il proprio grande 

successo. 






















































GIOVANI TALENTI E RICERCA 

Maria Grazia Roncarolo non ha dubbi a riguardo, 

BIOTECH

in Italia per supportare i giovani talenti è necessario 

smantellare il sistema accademico universitario: 

“Bisogna eliminare il valore legale del titolo di studio, 

fare come si fa in America, in cui si è assunti e 

licenziati senza passare per un concorso. In America 

sono le università che pagano i dipendenti e non lo 

Stato, se sei valido resti e basta, è un sistema che 

crea mobilità e competizione”. 

Diametralmente opposto, racconta la Professoressa, 

è anche il modo di vedere la ricerca in America, 

rispetto a quanto succede in Italia. Un medico che fa 

ricerca negli Stati Uniti è considerato un privilegiato, 

appartenente a un’élite, mentre il clinico è considerato 

nettamente inferiore rispetto ai ricercatori. 

In Italia succede esattamente il contrario, e si è 

abituati a vedere in corsia i professoroni col corteo 

dietro che hanno un successo fenomenale, mentre 

il ricercatore è relegato a un ruolo sicuramente di 

serie b, con poche gratificazioni non solo sul piano 

economico ma anche su quello del riconoscimento 

professionale del proprio lavoro. 

Per il futuro c’è da sperare dunque che giovani e 

donne italiani possano seguire l’esempio di questa 

donna straordinaria, e capire che anche un’esperienza 

all’estero non significa rinnegare le proprie radici, 

bensì portare la propria italianità al servizio di sistemi 

di lavoro e di studio diversi in cui può essere non 

solo apprezzata, ma anche coltivata e fatta fiorire. 



il magnam, ipsusae. Met aborporuptia si delit 

ra dolut experempor aceatem qui tem facero bea 

apeles coreserenim que quatemporem fuga. Picia 







mint omnisquo que non pel ipid exeriam, cus ne 

ne earcien daerchi llandio officius doles aligent et 


autem sam autam adipiciendi dolore 

eumquatur, abor aliquas maxim dolore solum et 

volorest, sus qui blatisqui adis mollit renducium 

la simin endi comnimu sanditis quasperes que re 

nos quo cus, tectemqui simus, to eum quia nulparum 

ulligent fugitam, cus mint omnisquo que non 

pel ipid exeriam, cus ne ne earcien daerchi llandio 

officius doles aligent et voluptur, ullutem poreium 

qui volupta tiusam veribusapide autem sam autam 

adipiciendi dolore eumquatur, abor aliquas maxim 







“LA COSA PIÙ 

BELLA CHE 

PUOI FARE 

NELLA TUA VITA 

È GUADAGNARE 

UN MILIARDO 

DI DOLLARI 

SALVANDO UN 

MILIARDO DI 

PERSONE.” 


Riccardo Sabatini 

SCIENZIATO ED IMPRENDITORE, GENOMICA COMPUTAZIONALE 

SCIENTIST, ENTREPRENEUR COMPUTATIONAL GENOMICS

RICCARDO, IL RAGAZZO DEL DNA 

C’è un giovane italiano che tra San Francisco e Boston 

sta scrivendo il futuro dell’umanità e il primo 

grande capitolo della medicina personalizzata. 

Applica la tecnologia del machine learning e la meccanica 

quantistica alla genomica per prevenire e curare 

le malattie del nostro secolo. Si chiama Riccardo 

Sabatini, è di Cremona, ha 36 anni, una grande 

capacità dialettica ereditata dalla madre e lo spirito 

imprenditoriale tutto del padre. 

Innamorato da sempre dei numeri, ha presto sviluppato 

il talento per interpretarli e fin da bambino 

ha un sogno: programmare il sistema immunitario 

dell’essere umano. «A 14 anni ho chiesto in regalo 

un manuale di diagnosi medica». 

IL CORAGGIO DI CHIEDERE E CAMBIARE 

La sua storia: laurea in fisica a Brescia, master in 

meccanica quantistica a Trieste, dottorato in Sissa 

(Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati), 

post dottorato in Epfl, Sabatini è un talento della fisica 

passato alla genomica. Qualche anno fa intuisce 

che la sua capacità di lavorare con i numeri poteva 

essere messa al servizio di chi legge il codice della 

vita. Scrive una e-mail a Craig Venter, l’uomo che 

per primo ha sequenziato il DNA, e che in quel periodo 

sta lanciando in California Human Longevity, 

la startup che studia il genoma per farci vivere meglio 

e più a lungo. Dopo 6 giorni viene invitato a San 

Diego, dopo 10 giorni viene assunto e ottiene il visto 

01, un visto speciale per stranieri con abilità eccezionali. 

Arrivato in Silicon Valley, ha sviluppato con 

altri ricercatori un algoritmo in grado di ricostruire 

l’altezza, il peso, e addirittura la faccia solamente da 

qualche goccia di sangue. È considerato uno dei giovani 

scienziati più influenti al mondo, ma Sabatini è 

da sempre un imprenditore. Oggi ha lasciato un 

posto da sogno al fianco di Craig Venter in una compagnia 

che vale miliardi di dollari per creare la sua 

startup. Si chiama Orionis Biosciences e si occupa di 

proteomica. «Studiamo come il nostro DNA risponde 

a ogni singolo farmaco o tossina. Stiamo lavorando 

per creare una nuova tipologia di farmaci in 

grado di colpire nel punto esatto e senza effetti collaterali, 

ma è ancora presto per 

parlarne...» spiega Sabatini. 

ESPERIENZA TED 

Unico speaker italiano del Ted 2016, la conferenza 

delle menti più brillanti al mondo, Sabatini è stato il 

protagonista di un talk che lo ha consacrato a livello 






















































mondiale. Per spiegare la complessità del suo lavoro, 

Riccardo ha stampato (per la prima volta al 

mondo) il genoma personale di Craig Venter: 450 

chili di libri, 175 volumi, 262.000 pagine, 

3 miliardi di lettere. «Quando sfogli quelle pagine, 

sfogli il manuale di istruzioni di un essere umano e 

tutti i suoi segreti. Propensione a malattie, caratteri 

somatici, come sono fatte le sue proteine. 

Hai accesso a gran parte di quello che compone un 

individuo, un codice che è ancora sconosciuto. Ne 

conosciamo forse il 2%, ma ci stiamo lavorando. E 

tutto viaggia a una velocità incredibile. In pratica 

alleniamo le macchine a imparare, alzando sempre 

più i limiti e le sfide, per arrivare a una vera medicina 

personalizzata. 

La cosa straordinaria di questa tecnologia? Abbiamo 

digitalizzato il problema della vita. 

Prima si faceva tutto in laboratorio: era costoso e 

lento. Oggi possiamo applicare la potenza di calcolo 

dei computer e lo sviluppo avrà la scalabilità e la 

velocità del digitale». 

IL GIOVANE INNOVATORE NELLA GENETICA 

Dopo il Ted, Sabatini ha raggiunto la consacrazione 

a livello mondiale. È andato a cena con Al Gore, 

conosce Elon Musk ( fondatore della casa automobilistica 

Tesla), ha accesso a tutti gli investitori della 

Valley. Barak Obama lo ha chiamato alla Casa Bianca 

come Young Innovator in Health, unico europeo 

alla The White House Frontiers Conference 2016 e 

su YouTube si possono trovare quei tre minuti che 

hanno incantato tutti. «L’Italia mi ha dato la formazione, 

l’America le connessioni. Ho passato la vita a 

imparare. Ho incontrato persone che mi hanno fatto 

giocare oltre le regole standard e mi hanno spinto a 

cambiamenti di rotta che mi hanno fatto crescere. 

Nella Bay Area, il vero asset non è tanto la tecnologia 

quanto la rete di persone che vogliono che tu 

abbia successo. 

Se sei una persona trasparente che ha voglia di rischiare 

in maniera costruttiva e non speculativa, tutti 

ti aiutano. Quando ho raccontato a Craig Venter il 

mio progetto, e che mi sarei licenziato per inseguire 

un sogno, lui ha esclamato: “Quello che vuoi fare è 

una cosa fighissima, ma è troppo presto. Sei in anticipo 

di almeno 10 anni”. Gli ho risposto: “Ho la 

stessa età che avevi tu, quando hai mappato il genoma 

umano e tutti ti dicevano che non si poteva 

fare». A quel punto, ha aggiunto: «Vuoi farlo con 

me? Se hai bisogno di aiuto, sono qui». 

Rientrare in Italia? «Quando mi fanno questa dofuga. 

Ita sed quas etur maximod que prepro mincia 





















































manda, resto sempre sorpreso. Seguo molti progetti 

nel nostro Paese e torno circa 7 volte in un anno… 

Il concetto di stare fermo in una nazione per me è 

superato. Mi trovo a mio agio a Londra, a Boston, in 

Guatemala, a San Francisco. Adoro Parigi. Ho amici 

iraniani, somali. La mia più grande fortuna? Avere 

un passaporto italiano che mi permette di andare 

ovunque. E ovunque nel mondo tutti amano l’Italia». 

Riccardo, oggi, vive tra San Francisco e Boston. È 

co-founder di Refugees Action HUB center al MIT, 

il progetto che porta l’istruzione digitale e la scienza 

dei dati dell istituto di tecnologia del Massachusetts 

ai rifugiati e alle popolazioni sfollate. È stato 

chairman per l’intelligenza artificiale del G7 nel 2017 

ed è co-fondatore della Quantum Espresso Foundation 

(http://foundation.quantum-espresso.org/). 

Instancabile, appassionato, non si ferma mai. Nei 

prossimi due mesi sarà in Cina, Messico, California, 

Europa, New York, Boston, Australia, Indonesia e 

ancora Cina. «La cosa più bella che puoi fare nella 

tua vita è guadagnare un miliardo di dollari salvando 

un miliardo di persone». 




















et as sum sae molor am ulluptius aut fuga. Ut eossumolor 

am ulluptius aut fuga. Ut eossumolor am 

ulluptius aut fuga. Ut eossum 


“ABBIAMO 

DIGITALIZZATO IL 

PROBLEMA DELLA VITA. 

PRIMA SI FACEVA TUTTO IN 

LABORATORIO: ERA COSTOSO 

E LENTO. OGGI POSSIAMO 


APPLICARE LA POTENZA DI 

CALCOLO DEI COMPUTER E 

LO SVILUPPO AVRÀ LA 

SCALABILITÀ E LA 

VELOCITÀ DEL 

DIGITALE.”


“SEMBRAVA QUASI 

CHE LA DONNA 

FOSSE L’UNICA FRA 

TUTTE LE FEMMINE, 

DI OGNI SPECIE 

ANIMALE E UMANA, 

A NON MOSTRARE 

ASPETTI 

COMPETITIVI, 

QUANDO IN NATURA 

ACCADE L’ESATTO 

CONTRARIO.” 


Alessandra Cassar 

PROFESSORE DI ECONOMIA 

PROFESSOR OF ECONOMICS 

UNIVERSITY OF SAN FRANCISCO

L’ECONOMISTA “Confidential DELLA COMPETITIVITA’ - Not for FEMMINILE distribution - pre-production copy “ 

C’è chi misura l’altezza di una persona. Chi invece 

controlla pressione o battito cardiaco. Alessandra 

Cassar invece ne misura la competitività. Lei, che 

lavora all’Università di San Francisco dove si occupa 

di Economia Sperimentale, studia il comportamento 

umano nelle varie sfere economiche per comprenderne 

i limiti e le pulsioni che portano un determinato 

gruppo sociale ad avere più successo di altri. 

In particolare, Alessandra Cassar si occupa di competitività 

femminile. “Quello che mi ha spinto a lavorare 

in questo campo, e’ stato il notare che ovunque, nella 

maggior parte degli studi, le donne apparivano meno 

competitive, e questo “fatto” veniva offerto come 

spiegazione, quasi una giustificazione “naturale”, del 

motivo per cui le donne non hanno ancora raggiunta 

la parita’ dal punto di vista economico con gli uomini”. 

Eppure qualcosa non quadrava: “Sembrava quasi 

che la donna fosse l’unica fra tutte le femmine, di 

ogni specie animale e umana, a non mostrare aspetti 

competitivi, quando in natura e per tutte le altre 

specie, accade l’esatto contrario e le femmine risultano 

altamente competitive per la riproduzione, per la 

prole, per lo stato sociale, per il cibo o il territorio” - 

sottolinea Cassar. 


























a Ita sed quas etur maximod que prepro mincia


Qualcosa quindi non aveva senso. Da qui l’intuizione 

che forse i metodi usati erano proprio quelli che 

ci precludevano di portare alla luce altre sfere, altri 

domini ugualmente importanti, anche se diversi, per 

comprendere in comportamento di genere. Da qui, il 

via alle sue ricerche, oggi considerate all’avanguardia 

del settore: “Il problema era che i dati e i metodi sperimentali 

di raccolta erano biased, creati per registrare 

e amplificare i tratti come si manifestano nei maschi 

e non necessariamente nelle femmine, lasciando 

inesplorati interi settori dove la competitivita’ femminile 

emerge e/o domina. A mancare, infatti, era una 

griglia di riferimento che prendesse in considerazione 

specifiche femminili - o tweak - non solo biologiche 

ma anche culturali e sociali. 

“La mia vita è stata un susseguirsi di casi, percorsi 

non voluti, spesso opportunita’ celate dietro 

condizioni apparentemente sfavorevoli, una “pianificazione” 

del tutto casuale, random in inglese, che 

ha scandito il passo e a cui io mi sono adeguata”. 

Un’avventura “che da Parma – racconta Cassar - mi 

ha portato, un passo alla volta, fino a San Francisco, 

a fare quelli che in gergo sono chiamati giochi economici.” 



























LE CARATTERISTICHE DEL SUCCESSO 

“Del resto – scherza – il mio professore mi diceva 

sempre che se la vita regala limoni, la cosa migliore 

e’ fare il limoncello”. 

“L’Universita’ di San Francisco è un’università focalizzata 

sull’insegnamento che attrae studenti da tutte 

le parti del mondo. Il Dipartimento di Economia offre 

un master in Economia dello Sviluppo che richiede 

agli studenti di passare due mesi a fare ricerca sul 

campo in paesi in via di sviluppo”. E così è nata l’idea 

di portare l’analisi fuori dal laboratorio coi computer, 

e di lasciare parlare, come base di ricerca, coloro che 

abitano il mondo intero, non solo gli studenti universitari 

di università Americane (i classici “soggetti” 

degli esperimenti). 

Appunto, per misurare la competitività: “Per centinaia 

di anni abbiamo analizzato e catalogato il sapere 

utilizzando un punto di vista prettamente maschile 

– sottolinea - il femminile non era neppure contemplato, 

e, quando considerato, veniva analizzato attraverso 

una lente colma di stereotipi, portando avanti 

idee sostenute da dati essi stessi raccolti in maniera 

biased”. Le sue ricerche hanno iniziato a fare luce su 

di un aspetto particolare della competitività, ovvero il 

ruolo della donna come madre e il fatto che, come in 

tutte le altre specie, la competivita’ puo’ essere addirittura 

piu’ forte rispetto a quella maschile. 

“Io credo fortemente che ottimismo, positività e voglia 

di realizzare qualcosa che abbia significato 

siano caratteristiche imprescindibili del successo – 

racconta – tutti noi, nella vita, abbiamo a che fare 

con eventi che ci spiazzano o ci spaventano perché ci 

prendono in contropiede”. In questi casi, per 

Cassar, la differenza è il modo in cui i singoli reagiscono 

all’inaspettato. “Quando mi trasferii a San 

Francisco temevo di essere entrata in un piccolo ateneo 

con meno possibilità di far ricerca rispetto ad 

altri, maggiori e più importanti – racconta – , ma mi 

sbagliavo: quando iniziai a capire che, anche se 

non avevo un laboratorio, potevo invece far ricerca 

sul campo, mi resi conto che questo era un 

grandissimo vantaggio e iniziai a produrre una pubblicazione 

dopo l’altra creando le basi della mia 

carriera”. Se la passione per fare qualcosa c’e’, uno 

trova sempre e comunque il modo di seguirla. 

Spesso la strada non e’ un rettilineo, ma le cose piu’ 

belle si trovano proprio nelle curve e nei meandri 

inaspettati. 

La California per caso 

Cassar in America ci è capitata per caso. “Dopo la 

laurea in Scienze Economiche a Parma – sottolinea 





























– ottenni una borsa di studio per un PHD all’estero”. 

All’epoca Internet non era ancora in tutte le case: la 

California capitò ancora una volta per caso: “Fu il 

mio professore (Gilberto Seravalli) a dirmi che era 

bellissima – ricorda Alessandra Cassar – io, che non 

avevo idea neppure di come compilare una domanda, 

gli credetti sulla parola, e pochi mesi dopo partii 

per la mia avventura americana”. 

E fu amore a prima vista. Le differenze fra la società 

italiana e quella americana sono numerose. Ma una 

in particolare, per Alessandra Cassar, è il nocciolo del 

problema. Se l’Italia vuole ripartire, quindi, e ripartire 

davvero, si deve reinventare e darsi regole e istituzioni 

che funzionino, indipendentemente dal singolo. 

Dalla legge, dai tribunali, dalle università. “Qui negli 

Stati Uniti ogni università si assicura di assumere il 

meglio come personale docente, perché gli studenti 

pagano anche 50 mila dollari l’anno per avere 

un’istruzione di qualità assoluta e progetti di ricerca 

innovativi; se mancassero docenti qualificati, 

se venissero assunti i mediocri, gli studenti andrebbero 

da un’altra parte”. La competitività dunque fra poli 

universitari è alla base della qualità della ricerca e del 

sistema meritocratico che rende possibile lo 

sviluppo dell’intero Paese. E in Italia? È un Paese che 

ha tantissime potenzialità, che ha carisma e talento. 

E che può fare grandi cose. Alessandra Cassar in 

Italia ci torna ogni estate, da turista. “Se fosse possibile 

fare le mie ricerche in Italia magari potrei anche 

pensare di tornare, ma per il momento questa resta 

un’ipotesi”. Il rapporto comunque resta stretto. “La 

comunità italiana della Bay Area è unita e ogni anno 

organizza eventi e manifestazioni volte a promuovere 

l’immagine del nostro Paese all’Estero”. Un’istantanea 

contemporanea e multifaccettata, di cui almeno in 

parte, proprio gli italiani d’America stanno contribuendo 

a gettare le basi.’ 


























a Ita sed quas etur maximod que prepro mincia 




as sum sae lor am ulluptius aut fuga. Ut eossum 









“SEMBRAVA 

QUASI CHE FRA TUTTE 

LE SPECIE ANIMALI SOLO 

LA FEMMINA UMANA NON 

FOSSE IN COMPETIZIONE, 

NÉ PER LA PROLE, 

NÉ PER TERRITORIO, IL CIBO 

O LA RIPRODUZIONE,QUANDO 

IN NATURA E PER TUTTE LE 

ALTRE SPECIE, 


CONTRARIO.”


“LE PERSONE 

PIÙ INCENTIVATE 

SONO GLI 

IMMIGRANTI 

DI PRIMA 

GENERAZIONE, 

POICHÉ’ NON 

HANNO PIÙ UN 

PASSATO SU CUI 

APPOGGIARSI E 

VOGLIONO AVER 

SUCCESSO 

A TUTTI I COSTI.” 


Gianluca Rattazzi 

IMPRENDITORE 

SERIAL ENTREPRENEUR

DALLA TECNOLOGIA A PILOTA DI RALLY 

Imprenditore seriale, pilota di rally, amico di premi Nobel, 

Gianluca Rattazzi è tutto fuorché un uomo comune. È un 

po’ il simbolo di quella Silicon Valley che affascina e confonde 

tanto al di qua quanto al di là dell’Oceano. 

Infatti, si potrebbe quasi dire che per lui, quello di finire 

all’estero è stato quasi un destino segnato. 

Per i genitori, il padre avvocato e la madre medico, l’Italia 

era sì un Paese stupendo, ma pure terribilmente inaffidabile. 

“Era, e forse rimane, un posto dove potrai anche 

essere il più bravo di tutti, ma se ad un concorso pubblico, 

ti dovesse capitare di competere contro il figlio di un 

qualche personaggio importante o anche solo vagamente 

conosciuto, stai pur certo che non sarai tu a venire scelto”, 

racconta. E per suoi genitori la meritocrazia era la 

condizione essenziale anche solo per pensare di costruirsi 

un futuro. “In mente avevano per me la Germania e 

per mia sorella la Francia, quindi entrambi siamo un po’ 

cresciuti con la consapevolezza che in Italia ci saremmo 

rimasti giusto fino alla laurea”. 

L’occasione per lasciare il vecchio Continente arriva per 

Rattazzi alla fine degli Anni Settanta quando a Roma incontra 

Emilio Segre’, premio per la fisica, impegnato 

a scrivere un libro su di un altro Nobel italiano, Enrico 

Fermi. “Incontrai Segre’ a Roma, dove studiavo fisica, 

parlammo, ci piacemmo subito e iniziai a collaborare con 

lui per il suo libro”. Da lì poco dopo, la decisione di lasciare 

l’Italia e di trasferirsi in California con lui. “Era un 

uomo eccezionalmente colto, trascorrere un anno con lui 

fu incredibile, mi insegnò tantissimo - racconta Rattazzi 

– amava la Storia e la sapeva raccontare ed io che ne ero 

un avido appassionato non mi stancavo di ascoltarlo”. 

Anche durante le obbligatorie escursioni nei boschi 

californiani nel fine settimana: “Amava smodatamente 

il campeggio e io, che non l’ho mai sopportato, mi trovavo 

mio malgrado, zaino in spalla a marciare per miglia nel 

bel mezzo del nulla”. 

LA FORTUNA AIUTA GLI AUDACI 

Io ho sempre creduto nella fortuna, il cui primo esempio 

fu quello di conoscere Emilio Segre’. Nel 1978, conobbi 

ad una festa una ragazza Italiana (Chiara Filippone-Thaulero) 

che era venuta in California a fare un corso biennale 

di specializzazione in Genetica e Biologia Molecolare. 

Scoprimmo che avevamo vissuto a Roma in due palazzi 

contigui, per dieci anni, senza mai esserci conosciuti. 

Dopo poco ci sposammo e lei continuò la sua carriera a 

Stanford University, dove Luca Cavalli-Sforza le offri il 

suo primo lavoro. Da questa unione sono nati tre figli, che 















































que dero et ad quation sequis mil molupti 





que dero et ad quation sequis et porem a Ita sed 



per loro scelta lavorano come imprenditori nel mondo di 

Silicon Valley, continuando il ciclo della mia vita. 

IN CALIFORNIA ALLA OLIVETTI 

In California Rattazzi alla fine ci resta. Diventa assistente 

ricercatore a Berkeley prima, poi passa all’Olivetti dove 

lavora per quattro anni. “A Berkeley mi sentii dire che io 

con il computer ero bravissimo, ma capire la fisica attraverso 

i dati non era il mio forte, quindi quando mi capitò 

di lasciare la professione accademica per disegnare una 

nuova linea di computer alla Olivetti, la presi al volo”. Per 

Rattazzi infatti le cose erano state chiare fin da subito. Tra 

la fisica pura e la tecnologia, quest’ultima vinceva a mani 

basse. “All’epoca, a Berkeley, avevano bisogno di computers 

per esaminare i dati degli esperimenti di fisica e mi ci 

misero a trafficare appunto perché io, a detta loro, ero 

bravo a sviluppare il software necessario ad acquisire ed 

elaborare dati”. E lì, la svolta: “Mi fu subito chiaro che 

l’informatica mi piaceva molto di più della fisica e decisi 

quindi di mettermi a studiare Electrical Engineering 

& Computer Science per riempire alcune lagune 

dovute all’aver imparato il tutto da me, senza partire da 
























con rernate poresti qui dit que venisti voluptur

una base accademica”. 

Poi, l’incontro con Enzo Torresi, presidente dell’Olivetti 

Advanced Technology Center. “Passai alla Olivetti e ci 

rimasi per quattro anni – spiega –, Enzo mi diceva sempre 

che le mie competenze erano chiave per lo sviluppo dei 

nuovi computer Olivetti”. Nel 1984, però, il sogno finisce 

quando la Compagnia decide di tornare in Italia: “Io 

volevo restare in America, quindi presi una strada diversa 

- racconta -, feci colloqui e alla fine approdai alla Validec, 

una piccola compagnia che faceva reti avanzate wired e 

wireless per ristoranti”. Il gruppo era nato guarda caso 

dall’idea di un ristoratore che aveva immaginato la possibilità 

di dotare i camerieri di un dispositivo elettronico che 

permettesse loro di prendere ordini, spedirli in cucina e 

contemporaneamente aggiornare l’inventario dei prodotti 

disponibili e delle entrate, l’antenato della tavoletta 

digitale insomma. Quasi subito, imparai il vecchio detto 

di Silicon Valley, che quando si hanno dei collaboratori 

di alta qualità bisogna sempre portarseli dietro. Iniziai 

con tre ingegneri Italiani (Carlo Garbagnati, Luciano dalle 

Ore e Francesco Lacapra) che mi hanno seguito nelle mie 

peripezie attraverso gli anni. Attraverso gli anni, ho imparato 

da Doug Leone a Sequoia, che le persone più incentivate 

sono gli immigranti di prima generazione, poiché’ 

non hanno più un passato su cui appoggiarsi e vogliono 

aver successo a tutti i costi, specie avendo fatto il salto da 

un mondo all’altro. Le persone chiave nelle mie compagnie 

sono state in maggioranza di questo tipo, da Italiani, 

a Israeliani, Cinesi ed altre nazionalità. Oggi gli immigrati 

orientali (Cina, India e Korea) sono fondatori di circa 

metà delle nuove compagnie in Silicon Valley. 

Dopo un anno il gruppo Validec viene venduto, e Rattazzi 

decide che è giunto il momento di aprire una compagnia 

sua. Inizia con la Parallan con cui sviluppa l’idea di servers 

per elaborare i dati di vari personal computer connessi fra 

loro, poi quando la Parallan viene quotata in borsa 

e successivamente acquisita dalla IBM, è parte del team 

fondatore della P-Com, che si occupava di sistemi di telecomunicazione 

per trasmettere dati e collegare vari computer 

situati in edifici differenti. Venduta anche la P-Com, 

dopo essere stata quotata in borsa, Rattazzi acquisisce 

una piccola compagnia di otto anni, il cui amministratore 

delegato era uno degli investitori originali, interessato a 

vendere il gruppo poiché la compagnia non riusciva più a 

crescere. Si trattava della Meridian Data, società di banche 

dati per mercati verticali. “Ci inventammo dei nuovi 

prodotti, che affiancammo a quelli esistenti, e riuscimmo 

a farla crescere rapidamente, il che ci permise di quotarla 

in borsa, e tre anni dopo venne acquisita dalla Quantum”. 






















































“A BERKELEY 

MI SENTII DIRE CHE IO 

CON IL COMPUTER ERO 

BRAVISSIMO, MA CAPIRE 

LA FISICA ATTRAVERSO I DATI 

NON ERA IL MIO FORTE, 

QUINDI QUANDO MI CAPITÒ DI 

LASCIARE LA PROFESSIONE 

ACCADEMICA PER DISEGNARE 

UNA NUOVA LINEA DI 

COMPUTER ALLA 

OLIVETTI, LA 

PRESI AL VOLO”. 

Venduta anche la Meridian, Rattazzi decide di dedicarsi 

per un po’ alla sua vera passione: quella per le 

auto da corsa. “L’amore per i motori c’è sempre stato, 

ma per i miei genitori non se n’è mai parlato, figurarsi”. 

In Italia, durante l’università, aveva fatto qualcosina 

come pilota di motocross, ma nulla di più: “A fine 

AnniNovanta ho iniziato a fare gare in Europa con 

le auto d’epoca, in particolare con quelle degli Anni 

Sessanta, le mie preferite; nel 2005 ho anche vinto il 

Tour De France nella mia categoria con una Ferrari 

250 LM”. Intanto, fra una gara e l’altra, conosce un 

ragazzo inglese che ha un’idea eccezionale: realizzare 

un server, compatibile con Intel ma con un’architettura 

che gli conferisca una potenza dieci volte 

superiore. Così nasce BlueArc, con la quale torna in 

California a tempo pieno. Più avanti, la società viene 

quotata in borsa con un fatturato di oltre 100 milioni 

l’anno per poi essere acquistata dalla Hitachi. Poi, arriva 

il suo quinto gruppo, MaxiScale: “L’idea, è quella 

di creare una piattaforma Web che renda possibile un 

numero superiore di accessi, con maggiore efficienza 

a costi più bassi”. Insomma, la base del WEB 2.0. 

Dall’Italia, all’America e ritorno, quindi. Ma a distanza 

di anni, la sua impressione del Paese resta la stessa. 

“L’Italia è ancora quella che non piaceva ai miei genitori, 

un Paese meraviglioso ma sbagliato”. E guardando 

al futuro, lui cita Montanelli, “che parlando del 

futuro dell’Italia diceva: gli italiani li vedo bene, perché 

sanno andar via, adattarsi nel loro nuovo paese, 

e combinando la loro inventività con il lavoro avranno 

successo, mentre l’Italia invece purtroppo, no”. La 

speranza è che fra i tanti che sono partiti e che 

continueranno a farlo, qualcuno faccia come lui e alla 

fine, anche solo per poco, torni indietro portando in 

Italia un po’ d’America. 






































“SONO STATO 

ASSUNTO COME 

INGEGNERE, IN UN 

REPARTO APPENA 

NATO, LAVORANDO 

SULLA SIMULAZIONE 

E LA PROGETTAZIONE 

DEL POWERTRAIN 

ELETTRICO. LÌ HO 

AVUTO LA FORTUNA 

DI AVERE UN CAPO 

CHE NON MI HA SOLO 

DIRETTO, MA MI HA 

ANCHE AIUTATO A 

DIVENTARE IL 

PROFESSIONISTA CHE 

SONO.” 


Riccardo Biasini 

INGEGNERE DELL’AUTO A GUIDA AUTONOMA 

SELF-DRIVING CAR ENGINEER

Riccardo, l’ingegnere delle macchine del futuro 

Come l’ingegnere aerospaziale Riccardo Biasini sia 

finito in un garage della California a sviluppare prototipi 

di self –driving cars per George Hotz, l’hacker 

più famoso degli Stati Uniti, è una di quelle storie 

che vanno raccontate per bene. 

Lui, che la matematica ce l’ha nel DNA, ma che alla 

fine ha capitolato per ingegneria, ha sempre avuto 

ben chiare nella testa due cose. La prima era la 

voglia di lasciare l’Italia per gli Stati Uniti, un’idea 

che lo aveva preso durante una internship estiva 

al Fermi Lab di Chicago e che non lo aveva più abbandonato. 

E la seconda era la convinzione di voler 

lavorare alla Tesla. “Quando mi ritrovai a Chicago a 

fare ricerca per la prima volta – racconta – mi fu ben 

chiaro nella testa il fatto di volerci ritornare”. Anche, 

e forse soprattutto per evitare il rischio di finire 

a fare un lavoro diverso in Italia, dove gli ingegneri si 

ritrovano troppo spesso a fare i consulenti per societa’ 

di capitali. “Ecco, io volevo fare l’ingegnere e 

volevo farlo studiando e sviluppando progetti interessanti, 

di quelli che contano”. E qui entra in gioco 

la Tesla, di cui Biasini si è appassionato durante la 

sua seconda internship, questa volta presso l’italianissima 

Dallara, società di auto da corsa considerata 

una delle eccellenze nostrane: “Ero alla fine del 

quinto anno e alla Dallara mi resi conto di quanto mi 

piacesse lavorare sull’aspetto energetico delle auto, 

sulla trazione e su tutto ciò che riguarda il suo sviluppo. 

In particolare mi appassionai alle auto elettriche”. 

A quel punto, Biasini si è affidato a Google, nel 

senso che ha ricercato in maniera precisa, 

“le varie aziende che nel mondo stavano lavorando 

a progetti interessanti riguardanti le automobili 

elettriche”. E qui è spuntata Tesla. “Ho iniziato a 

leggere ed ad informarmi sull’azienda e più ne sapevo, 

più mi convincevo di voler lavorare per loro”. 

Dopo la laurea la decisione quindi di spostarsi negli 

Usa. All’inizio in Ohio, al Center for Automotive 

Research, ma con in testa la California in generale 

ed Elon Musk in particolare. Nel 2010, dopo una 

rincorsa durata qualche anno, la Tesla lo ha contattato: 

“Sono stato assunto come ingegnere, in un 

reparto appena nato, lavorando sulla simulazione 

e la progettazione del powertrain elettrico. Li’ ho 

avuto la fortuna di avere un capo che non mi ha 

solo diretto, ma mi ha anche aiutato a diventare 

il professionista che sono”. Un mentore, quindi, 

perché “se avessi avuto un’altra figura con cui rapportarmi, 

forse la mia intera esperienza alla Tesla 

sarebbe stata alquando differente”. Negli ultimi due 

anni, Riccardo Biasini si è avvicinato allo studio e 






















































“RICORDO CHE 

NEL 2015, DURANTE 

UNA CONFERENZA 

ELON MUSK DISSE CHE 

DI LÌ A DUE ANNI UN’AUTO 

DELLA TESLA AVREBBE 

VIAGGIATO DA NEW YORK 

A LOS ANGELES SENZA 

ALCUN SUPPORTO 

UMANO.” 


alla progettazione delle machine a guida autonoma. 

“Ora il futuro sta andando in una direzione precisa, 

che è quella di computer sempre più presenti nelle 

nostre vite e sempre più attivi nella direzione della 

nostra quotidianità”. Anche nei trasporti. “Ricordo 

che nel 2015, durante una conferenza Elon Musk 

disse che di lì a due anni un’auto della Tesla avrebbe 

viaggiato da New York a Los Angeles senza alcun 

supporto umano, ora siamo nel 2018 e questo non 

si è ancora verificato forse perché l’intero settore 

era quasi vittima di un generale ottimismo gonfiato 

dall’euforia e purtroppo smentito dalla realtà”. Questo 

però non significa affatto che non si raggiungerà 

mai quel traguardo anzi. “Credo che tra cinque anni 

circa, potremmo iniziare a pensare a commercializzare 

auto con sistemi di guida autonoma altamente 

indipendenti”. 

Lavoro alla Tesla 

Riccardo Biasini nel 2016 alla Tesla era sulla strada 

per diventare un dirigente. “Lavoravo su di un 

progetto già fortemente in track, ovvero, privo di 

quella indipendenza e di quella libertà che i progetti 

embrionali sono invece in grado di offrire; ti con- 
























sentono voli di immaginazione che spesso portano 

un’idea, che una volta realizzata, cambia il mondo. 

“Sono convinto che nel mio futuro prima o poi ci 

sarà la direzione di un grosso progetto ma non in 

questo momento, perche’ voglio ancora continuare 

ad imparare”. Pioniere, dunque, alla ricerca di innovazione 

e sviluppo. 

“Per questo motivo ho pensato di lasciare e di rischiare, 

lavorando per una startup, perché proprio 

quel mondo mi dava l’idea di essere giovane, innovativo 

ed estremamente agile, sia nella struttura che 

nei progetti”. Ed è qui che entra in gioco il garage di 

George Hotz: “Divenne famoso, oltre che per essere 

stato il primo a violare un iPhone, anche e soprattutto 

per avere prodotto in tre mesi un progetto di 

software dedicato all’automazione di una vettura 

che nulla aveva da invidiare ai piani sviluppati dai 

colossi dell’auto”. Ecco dunque come Biasini è finito 

a lavorare per comma.ai. “Abbiamo sviluppato 

un software, con codice largamente open source, 

che attraverso uno dei nostri kit si può connettere 

ad un’auto offrendo strumenti di guida assistita 

estremamente avanzati”. L’obiettivo di Biasini oggi è 

quello di produrre un’auto che si guida da sola per 

step, sfruttando principalmente modelli di machine 

learning affiancati a metodi di controllo tradizionali. 

“Produrre un’auto in grado di viaggiare senza l’ausilio 

umano è un’impresa non solo titanica, ma anche 

estremamente difficile, soprattutto considerando la 

competizione del settore”. Tutti, insomma ci stanno 

lavorando. “Quello che facciamo noi è perseguire 

lo stesso obiettivo ma step-by-step, offrendo nello 

stesso tempo prodotti commercializzabili sul mercato”. 

La diffusione dei sistemi ad intelligenza artificiale 

Se guarda al futuro, Biasini quell’obiettivo lo vede 

vicino. E non solo per le auto che si guidano da sole, 

anche e soprattutto per la diffusione di sistemi ad 

intelligenza artificiale. In sostanza computer in grado 

di imparare, di autoevolversi e di raggiungere e 

infine superare, gli esseri umani . “Fra qualche anno, 

non so se fra 10, 20 o magari anche solo 5, arriveremo 

a quel limite, e a quel punto fare previsioni, in 

particolare sul lavoro futuro, diventa impossibile”. 

E allora tutto sarà forse da riconsiderare, o forse 

si tratterà ancora una volta di uscire dagli schemi e 

di guardare la realtà in maniera diversa. Che è poi 

quello che Biasini, e tanti altri come lui, hanno fatto 

per tutta la vita. “In Italia, fare un percorso come il 

mio, fatto di internship all’estero e in azienda, non 

è stato facile - spiega – perché questo tipo di scelta 

veniva, e forse continua ad essere, considerata 























































come qualcosa che fa perdere tempo, e forse è 

vero, mi sarei laureato prima se in estate, al posto di 

andare a Chicago, avessi studiato”. La domanda da 

porsi, però, è un’altra: “Avrei capito che lavoro voler 

fare senza quel tipo di esperienza professionale?”. 

Non si tratta dunque di una perdita, ma di un investimento 

sulla strada da intraprendere. “In Italia è 

difficile uscire dagli schemi anche se gli italiani sono 

portati ad uscire dagli schemi, e proprio il fatto che 

volevo provarci mi ha costretto ad affrontare sfide 

inaspettate e con molti imprevistii”. Ecco la capacità 

di gestire l’imprevisto e di vedere comunque non un 

ostacolo ma un’occasione di crescita e di sviluppo. 

Insomma, una porta aperta verso il domani. 














nonseque voluptiunt haria doluptur modiorestio et


“L’IMPORTANTE È 

PROVARCI ED 

IMPARARE QUALCOSA 

DI NUOVO 

DURANTE IL VIAGGIO. 

COME QUANDO IN 

MONTAGNA SI SCALA 

LA CIMA E SI PROCEDE 

A TENTONI DA UNA 

PIETRA ALL’ALTRA, 

DA UN DIRUPO 

ALL’ALTRO. PERCHÉ 

L’UNICO INSUCCESSO 

NELLA VITA, È IL NON 

PROVARCI.” 


Michele Battelli 

MANAGER A GOOGLE ED ESPLORATORE 

GOOGLE PRODUCT MANAGER AND ADVENTURER

Michele, da Google in California all’Everest 

Dalle cime del Kashmir a quelle dell’Argentina, fino 

all’Everest. Quella di Michele Battelli, ingegnere 

elettronico prima a Google in California ed oggi a 

Londra, è stata e continua ad essere una vita all’insegna 

dell’avventura. Una di quelle che vanno prese alla 

leggera, mai troppo sul serio. Occhi in vetta e piedi 

ben piantati al suolo, sempre avanti, un passo dopo 

l’altro, senza mai dimenticare che andare è la parte 

più facile. Quella difficile è tornare indietro. Una 

lezione amara che Michele purtroppo ha vissuto sulla 

pelle nel 2015 quando una valanga sull’Everest ha 

travolto il campo base portandosi via l’amico e compagno 

scalate Dan Fredinburg, con altre 9 mila persone 

in tutta la regione. 

Battelli, dopo la laurea in Ingegneria Elettronica a 

Ferrara, e il PhD in Ingegneria Informatica a Boston, 

è approdato a Google in California: “Era l’estate del 

2006 e decisi di fare uno stage lavorativo. All’epoca 

facevo ricerca in reti wireless e trovai un team di Google 

che faceva ricerca in quel campo”. Dopo cinque 

mesi di stage, il ritorno a Boston per completare il 

dottorato, e al tempo stesso l’arrivo dell’offerta di 

rimanere Google: “Io non avevo ancora terminato le 

pubblicazioni scientifiche per completare il dottorato, 

ma non volevo perdere quell’occasione; quindi per 

quattro mesi quasi non dormii, ma alla fine terminai 

tutto e mi trasferii a Mountain View, alla sede di Google”. 






























Un lavoro viaggiando per il mondo 

A Google Battelli, dalle reti wireless, è passato ad Enterprise 

Search e infine venne è passato ad un team 

specializzato in mercati emergenti: “È stata un’esperienza 

estremamente gratificante – racconta – il mio 

team portava internet nelle scuole di zone rurali di 

Paesi emergenti, e questo mi permetteva di vedere 

posti unici in paesi come il Perù, l’Argentina, la 

Colombia, il Kenya e tanti altri, lavorando sul territorio, 

fra la gente”. Infine Battelli è approdato allo 

sviluppo di nuovi prodotti: “L’ultimo mio progetto a 

Google è stato il Google OnHub, il router wifi per la 

casa, simile all’Alexa di Amazon”. 

Sono stati anni intensi. Non solo a livello lavorativo. 

“Le nostre avventure erano tutte organizzate nel nostro 

tempo libero, durante le vacanze – evidenzia –, 

dopo le prime spedizioni abbiamo iniziato a portare le 

telecamere speciali di Google StreetView con noi, per 

documentare i percorsi e rendere accessibili quelle 

cime, e quei paesaggi, al resto del mondo”. 

Battelli, Dan Fredinburg e Florian Nagl hanno raggiunto 

e fotografato alcuni dei luoghi più impervi del 

pianeta. E le avventure per il gruppo certo non sono 

mai venute meno: “Del resto – spiega – quando ci si 

confronta con certe sfide, il pericolo esiste e tutti noi 

ne siamo sempre stati consapevoli”. Non solo 

sull’Everest, anche prima, in altri luoghi. Come 

quando in Indonesia vennero sequestrati da un gruppo 

di mercenari sull’isola di Papua: “Ci hanno rinchiuso 

in una stanza senza finestre e per due giorni ci 

hanno interrogato: eventualmente con i metodi giusti, 

siamo riusciti a negoziare il rilascio”. 

E una volta liberi? “Beh abbiamo continuato con la 

nostra scalata”. Perché la vita va avanti, non aspetta 

nessuno. Come le occasioni. “Vanno colte quando 

arrivano e seguite, una dopo l’altra con passione e 

determinazione”. E un pò di sfrontatezza, come quella 

che serve a decidere di scalare quelle cime. 

L’Himalaya 

Era il 2010: “È iniziato tutto per caso – spiega – ero 

in India, all’epoca lavoravo per Google Enterprise a 

Hyderabad. Mi sono ritrovato da solo durante un fine 

settimana del Diwali, il festival delle luci, per cui decisi 

esplorare il Paese, e per evitare luoghi turistici, 

presi il primo volo disponibile per una regione remota 

meno conosciuta: il Ladakh”. Il Ladakh è una regione 

nello stato indiano del Jammu e Kashmir, al confine 

con il Tibet e il Pakistan, una zona contesa ed impervia 

che ospita i confini occidentali della catena dell’Himalaya, 

una vera bellezza remota della montagna. 

“Sono stato ospite di un rifugiato tibetano, in una del- 























































le sue tende nomadi tradizionali, e ho pranzato con i 

monaci al monastero”. Un resort con qualche tenda 

e poco altro. La vista era però di quelle che tolgono il 

fiato: l’Himalaya con le sue vette impossibili. Tornato 

in California, il caso ha fatto la sua. “Per coincidenza, 

mentre io ero di stanza in India, un mio collega era in 

Nepal e anche per lui fu il primo incontro con l’Himalaya”. 

Ed era proprio Dan Fredinburg, che tornato poi 

come Michele negli Usa, “ha spedito una mail all’intera 

compagnia proponendo una spedizione in Argentina 

per allenarsi sulle Ande”. In tanti hanno risposto, 

“ma all’aeroporto, la mattina della partenza, c’eravamo 

solo io e lui”. È stato l’inizio delle loro avventure. 

Fino all’Everest. “Lo abbiamo tentato due volte – 

spiega Michele –: la prima volta, nel 2014, una 

valanga che ci ha mancato di poco ma uccise 16 

persone e distrusse la via, ci costrinse a tornare indietro”. 

La seconda è andata peggio. Era il 25 aprile del 

2015: la spedizione di Michele era ferma al campo 

base. Tutto era pronto per la salita alla vetta, quando 

un terremoto dell’ottavo grado della scala Mercalli, 





















tatatur? Quia sunt.

con epicentro a Gorkha, ha colpito in pieno l’Everest. 

“Io ero in tenda con Dan”. All’improvviso un rumore 

assordante: “È qualcosa che non dimenticherò mai, 

un rombo profondo, uno di quelli che fanno vibrare 

tutto”. La tenda è scivolata a valle e Michele come 

altri è corso fuori. Dietro di lui, l’amico. 

“È stata una questione di secondi, Dan era appena 

dietro di me: io mi sono gettato in un crepaccio e ho 

visto la valanga passarmi sopra la testa”. Dan Fredinburg 

invece non ce l’ha fatta. 

La montagna va rispettata 

“La montagna va rispettata”, sottolinea Michele che 

in Italia, tanti anni prima del Nepal, dell’India e del 

sogno delle sette cime, andava sulle Dolomiti. La passione 

è nata lì e nonostante le tragedie, nonostante il 

freddo, le unghie perse per i geloni e la fatica, ancora 

non l’abbandona. “In futuro vedremo, forse l’Alaska o 

l’Antartico”. E poi? “Poi si vedrà, perché nella vita 

bisogna cogliere le opportunità quando si presentano, 

una dopo l’altra, con mente aperta ed umiltà”. 

L’importante è provarci ed imparare qualcosa di nuovo 

durante il viaggio. Come quando in montagna si 

scala la cima e si procede a tentoni da una pietra 

all’altra, da un dirupo all’altro. “Perché l’unico insuccesso 

nella vita, è il non provarci”. 

E l’Italia? “È in me, nella mia storia, in quello che 

faccio, in quello che sogno”. L’Italia è casa: “Sono 

orgoglioso di essere italiano e forse un giorno tornerò 

a casa”. Michele Battelli, dopo 13 anni a negli Stati 

Uniti, è tornato in Europa, a Londra. 

Se rimarrà o meno, ancora, Michele Battelli non lo sa 

dire. “Non mi sono mai lasciato influenzare dai sentimenti 

o dalla nostalgia nel fare scelte importanti, a 

spingermi è sempre stata l’opportunità, il bisogno di 

cogliere l’occasione giusta, la voglia di sperimentare e 

di scoprire cose nuove”. Un consiglio per l’Italia e per 

i giovani che in Italia sognano la California? “Quello di 

avere mente aperte, di aprirsi al mondo, di accettare 

ciò che è diverso, perché è proprio in questa commistione 

di esperienze, in questo brodo di culture che 

si formano occasioni di crescita e che si fa innovazione”. 

Un pò come fare l’apripista, come esplorare 

sentieri diversi, per raggiungere nuove vette. Michele 

Battelli va avanti anche se ancora non sa dove la strada 

alla fine deciderà di condurlo: “Che sia in Europa, 

in America o in Asia, poco importa, la vita è un’avventura 

e come tale va presa, senza mai mollare o darsi 

per vinti”. Un viaggio in cordata verse picchi ignoti, 

ancora tutti da conquistare. 





















































“LAVORARE IN 


SIGNIFICA 

ESSERE 

CIRCONDATI DA 

GENTE CHE HA 

VOGLIA DI FARE, 

CHE SI LAMENTA 

POCO E CHE 

PRODUCE TANTO.” 


Marco Marinucci 

FONDATORE E CEO DI “MIND THE BRIDGE” 

FOUNDER & CEO OF MIND THE BRIDGE - “CHIEF BRIDGE BUILDER”


Marco Marinucci, da Trento alle startup della Valley 

Quando Marco Marinucci ha lavorato alla sua prima 

startup, a poco più di vent’anni, non c’era nulla, se 

non un vago contesto di possibilità. Era come gettarsi 

alla cieca senza istruzioni o bussole, su un mare 

in tempesta. Anzi, come dice spesso lui, in una tempesta 

perfetta. 

Laureato in ingegneria, si è spostato all’Istituto di Ricerca 

di Intelligenza Artificiale IRST di Trento per l’ultimo 

anno e la tesi: “Erasmus ancora non c’era e Trento era 

il polo di ricerca più internazionale che potessi raggiungere”. 

Ed stato un bene, perché proprio a Trento passavano 

spesso docenti provenienti dalle migliori università 

del mondo. Stanford inclusa. “Io non volevo fare l’ingegnere, 

anche il mio percorso di studi era sui generis”. 

Erano gli anni Novanta e Marinucci studiava le applicazioni 

dei sistemi di intelligenza artificiale: “Fantascienza 

















ctotam, aut voluptatquae electo et, quature con


per l’epoca – sottolinea – eppure, era quello che mi 

interessava, anche perché mi dava la possibilità di guardarmi 

attorno, verso un contesto internazionale 

che in Italia mancava”. Da Trento agli Stati Uniti e poi 

di nuovo in Europa, ad Oxford prima e nel Sud della 

Francia dopo, in quella che all’epoca veniva considerata 

la Silicon Valley europea e di cui oggi non resta che un 

vago ricordo. “Dalla Francia tornai negli Stati uniti, più 

per seguire la mia fidanzata e lì, alla fine, finii per restare, 

lavorando prima per la casa editrice Giunti e poi per 

Google”. All’epoca questa era una compagnia diversa, 

con un migliaio di dipendenti o poco più, non il colosso 

di oggi, “ma per me, che arrivavo dai primi embrioni di 

startup, Google era già una grossa azienda, era la possibilità 

di studiare le meccaniche del business in un dei 

poli più interessanti del momento”. 

Il ponte virtuale, Mind the Bridge 

















aspitin ctotam, aut voluptatquae electo et, quature

La svolta nei primi anni del 2000: “Fu una serie di coincidenze 

a dirla tutta, non solo il fatto che mi ritrovai a 

fare il volontario in Ghana per dieci giorni grazie alla 

Google Foundation, e neppure solo il fatto che dopo 

sette anni negli Usa finalmente mi sentivo parte di quella 

società, di quel gruppo, ma fu anche,e forse soprattutto, 

la nascita dei miei figli, il diventare genitore a costringermi 

a pormi delle domande, ad interrogarmi non solo sul 

mio futuro, ma anche sulle mie radici”. “Mind the Bridge” 

è nata così: “L’idea era appunto quella di creare un 

ponte fra industria tradizionale e startup, intrecciare una 

rete supporto per i giovani imprenditori e fornire loro le 

basi per iniziare, regalare loro quello che non avevo avuto 

io: feedback, contatti e, quasi, istruzioni per l’uso”. 

Era un pò il voler ripagare l’Italia per quello che aveva 

offerto in termini di formazione, cultura e identità. 

“Mind the Bridge oggi lavora a San Francisco in due 

ambiti ben distinti, da una parte gli investimenti veri e 

propri, dall’altra una fondazione a sostegno dei giovani 

imprenditori, in collaborazione con università, premi e 

corsi di formazione”. E di progetti in questi anni ne ha 

lanciati tanti, molti dei quali si sono fermati a Google o 

sono stati acquisiti: “Di startup italiane ne abbiamo 

avute e ne continuiamo ad avere tante, come il bel progetto 

delle “Rebel girls”, nato come un magazine 

interattivo per l’infanzia, diventato un libro (Storie della 

Buona Notte per Bambine Ribelli) e oggi in testa alle 

classifiche del New York Times”, oppure come “Ad 

Espresso”, una piattaforma software per permettere 

l’organizzazione e la gestione del budget di digital marketing 

poi acquisita dal gruppoHootsuite. 

Il lavoro in Silicon Valley 

“Lavorare in Silicon Valley significa essere circondati da 

gente che ha voglia di fare, che si lamenta poco e che 

produce tanto”. In Italia è diverso: il talento non manca, 

ma le occasioni per concretizzarlo in progetti attuativi 

sono poche, senza dimenticare le complessità del mercato. 

Ed è un peccato, perché occasioni di crescita e 

sviluppo ce ne sono, ma non trovano spesso sbocco di 

crescita. 

“Il fatto di crescere circondati da arte e estetica ci rende 

ottimi candidati per fare del software design, per tutto 

ciò che riguarda le interazioni uomo - macchina, ambiti 

professionali che non vengono considerati”. Il design 

italiano non è solo cibo e moda, ma è anche programmazione, 

è design di prodotto, è interattività. “Pensiamo 

alle applicazioni e quanta progettazione grafica (UI/UX) 

c’è dietro ogni software, pensiamo a quanto l’Italia possa 

dare!”. Eppure il fatto di crescere in un ambiente pieno 

di costrizioni è alla fine anche fonte di sviluppo di talento. 

“Serve un mercato che sia autosufficiente, in Europa 












































haria doluptur modiorestio et as sum sae porem a 










ad esempio c’è interesse per le startup, ma ancora non 

esistono le condizioni che accelerino la crescita delle 

startup, e, soprattutto le opzioni di “Exit” (uscita in borsa 

o acquisizione) che rendendo l’economia delle startup 

auto sostenibile”. 

Silicon Valley non si riesce dunque a replicare 

Eppure l’immagine della Bay Area si sta incrinando. 

O almeno appannando. “È evidente che la tecnologia 

influenza ambiti molto più vasti rispetto a quelli che in 

un primo tempo venivano considerati, ambiti come la 

comunicazione e l’informazione o la politica”. I giganti 

della Bay Area hanno compreso le implicazioni sollevate 

dal loro modo di fare business, ma capirle soltanto non 

basta. 

“Da un paio d’anni, le negatività del sistema della Silicon 

Valley sono un pò più evidenti – conclude Marinucci – 

complici i costi estremamente alti, i senza tetto, la mancanza 

di una rete sociale, l’estrema razionalizzazione del 

mondo del lavoro”. Sono tutti aspetti, questi, che hanno 

modificato l’indice di percezione e di conseguenza le opinioni 

a proposito della qualità di vita nella Bay Area. Ma 

restano giusto questo, e alla fine hanno un peso relativo. 

Perché Silicon Valley resta comunque l’mondiale a disposizione 


grazie a modelli come “Mind the Bridge”, non rimanga 

l’unica opzione possibile. 






























“IL DESIGN 

ITALIANO NON È SOLO 

CIBO E MODA, MA È ANCHE 

PROGRAMMAZIONE, 

È TELEFONIA, 

È INTERATTIVITÀ. PENSIAMO 

ALLE APPLICAZIONI E 

QUANTA PROGETTAZIONE 

GRAFICA C’È DIETRO OGNI 

SOFTWARE, PENSIAMO 

A QUANTO L’ITALIA 

POSSA DARE!”


“LA MIA 

PRIMA RISPOSTA? 

TU SEI PAZZO.” 


Gabriele Bibop Gresta 

PRESIDENTE HYPERLOOP TRANSPORTATION TECHNOLOGIES 

CHAIRMAN OF HYPERLOOP TRANSPORTATION TECHNOLOGIES

TI PORTERÒ DA LOS ANGELES A SAN 

FRANCISCO IN 30 MINUTI 

Sta per partire un treno che viaggia alla velocità del 

suono, a 1.220 km all’ora, sicuro e sostenibile. 

Non è fantascienza. Il merito è anche di un italiano, che 

ha preso Hyperloop, l’idea di Elon Musk (l’uomo di Tesla 

e SpaceX), e lo sta trasformando in realtà. Lui si chiama 

Gabriele Bibop Gresta, 46 anni, scienziato, artista, 

venture capitalist e imprenditore. Ha co-fondato 

Hyperloop Transportation Technologies (HTT), la startup 

nata in California nel 2013 che costruirà, per prima al 

mondo, un treno supersonico per passeggeri e merci. 

Nato a Terni, Gresta è cresciuto ad Arezzo, laurea in 

Filosofia, master in Informatica. Giovanissimo 

produttore e autore di programmi televisivi sulla Rai 

e su Mtv, nel 2001 ha fondato la società di produzione 

e distribuzione di contenuti Bibop che ha poi ceduto a 

Telecom Italia, per 6 milioni di euro. Nel 2003, Gresta 

è stato il fondatore (con Enrico Gasperini e Alberto 

Fioravanti) di Digital Magics, l’incubatore che aiuta le 

startup italiane a crescere. Arrivato in California, 

ha creato la prima azienda al mondo basata su un modello 

di business collaborativo. Coordina un team di 800 

persone, tra ingegneri, scienziati, esperti di tecnologia e 

di design, di 42 Paesi diversi. Ha uffici ovunque nel mondo: 

Abu Dhabi, Dubai, Bratislava, Tolosa, Contagem 

(Brasile) e Barcellona. Ha firmato accordi governativi con 

Stati Uniti, Emirati Arabi, Europa, India, Indonesia. 

Nell’ultimo round di finanziamenti, con la sua HTT ha 

raccolto 113 milioni di dollari. Oratore di fama 

mondiale, nominato tra i Technology Pioneers 2018, 

Gresta è stato speaker al World Economic Forum, al 

Ted, alle Nazioni Unite. Gira il mondo, racconta il suo 

lavoro sui social, è visto come una rockstar. 

L’INIZIO DELLA CAPSULA A LIEVITAZIONE 

MAGNETICA 

Ma facciamo un passo indietro. Nel 2013, Elon Musk 

lancia l’idea di Hyperloop, una capsula a levitazione 

magnetica che viaggia all’interno di un doppio tubo a 

bassa pressione. Mette online il suo progetto in open 

source e dice: ecco un’idea a disposizione del mondo, 

aiuterò chiunque la vorrà realizzare. «Il primo a 

rispondere è stato il mio socio tedesco, Dirk Ahlborn. 

Ha preso il White Paper di Elon e lo ha pubblicato sul 

suo sito. Just for fun. Ed è successo qualcosa di incredibile… 

In un mese ha ricevuto 100 feedback da scienziati 

di tutto il mondo. Gente che arrivava da Tesla, SpaceX, 

NASA, MIT, Boeing. Scienziati che avevano anche lavo- 

































et as sum saetet, officipsa el magnim vellam, opta 

plit magnim ratatin ea dolore commolo ribusandae molecabo. 



susciusa sequam et atet ut offic tem quibus demo mos 

molor am ulluptius aut fuga. Ut eossum que est expla 

samus et lam si natendis eos eicatae mil molupti berspe 

dolorep eritatem autae verum velectem. Nam fugit 

et, tessi comnihicit et deliquam fuga. Ita sed quas etur 

maximod que prepro mincia con rernate poresti qui dit 

que venisti voluptur alitaerrum que dero et ad quation 

sequis et porem a nonseque voluptiunt haria doluptur 

modiorestio et as sum saetet, officipsa el magnim vellam, 

opta plit magnim ratatin ea dolore commolo ribusandae 



sam fugiatur susciusa sequam et atet ut offic tem qui- 



rato con Einstein e che dicevano: “È una bella idea. Se 

hai bisogno, ci sono”. Intanto io avevo appena concluso 

il progetto di quotazione di Digital Magics su Aim di Borsa 

Italiana, avevo fatto un’exit e deciso di trasferirmi a 

Los Angeles. Qui ho conosciuto Dirk che mi ha proposto 

di fare il treno di Musk. La mia prima risposta? “Tu sei 

pazzo”. Ma più leggevo il White Paper, più mi intrigavo. 

Ho iniziato a fare due diligence per approfondire. Chiamavo 

gli scienziati e tutti mi dicevano: è un’idea realizzabile, 

può risolvere il problema mondiale della mobilità, 

facciamola insieme. A quel punto ho capito che Dirk 

stava creando qualcosa di molto più grande di un’azienda. 

Si trattava di una nuova generazione di imprese che 

possono cambiare il mondo». 

IL MODELLO DI CROWDSOURCING 

Il modello di Gresta e socio è i il crowdsourcing, un 

approccio completamente diverso da quello tradizionale. 

C’è un tema, si lancia una sfida online, si raccolgono 

tutte le idee su come realizzarla e poi si parte. In cambio 

del proprio contributo si ricevono stock option dell’iniziativa. 

Per questo HyperloopTT è studiata anche all’Università 

di Harvard come case history ed è stata definita 

la più grande startup del Pianeta. Intanto a Tolosa stan- 
























rem quae volecta cone volut que sam fugiatur susciusa

no costruendo il primo vagone con un diametro interno 

di 4 metri. E’ quasi pronta la capsula passeggeri che sarà 

ultimata a Carbures, in Spagna. «Faremo il primo viaggio 

di prova passeggeri entro la fine dell’anno. Questo 

progetto è un gioiello di ingegneria, il primo al mondo 

basato sull’efficienza e sull’abbondanza. I costi di costruzione 

e di gestione sono bassi. Fra 8 anni, l’efficienza dei 

nostri panelli solari sarà così alta che potremo coprire 

tutti i costi della struttura e non si pagherà nemmeno 

il biglietto». Gresta ama la tecnologia. Si definisce un 

“transumanista“. Vuole lanciare un nuovo Rinascimento, 

che adotti l’intelligenza artificiale per migliorare le nostre 

vite. «Lasciamo fare alle macchine quello che sanno fare 

e riprendiamoci in mano il nostro tempo. Tutti gli astronauti 

che sono andati nello spazio hanno riportato un 

fenomeno che la Nasa ha definito overview effect, effetto 

della veduta d’insieme. Dallo spazio si girano verso la 

Terra e vedono un pianeta piccolo, fragile, tenuto insieme 

da un super fragilissimo ozono. Un’immagine che 

torna nei loro giorni, cambiando profondamente la loro 

visione. L’astronauta Yvonne Cagle mi ha insegnato tantissimo 

e voglio condividere con tutti la lezione. Dall’alto 

capisci che non esistono confini e non esiste la proprietà. 

Siamo una tribù che vive insieme, abbiamo un tempo 

limitatissimo e dovremmo viverlo al meglio». Come vedi 

l’Italia da fuori? «Ho scritto un tweet, che è 

stato molto criticato dai media. Diceva: “Addio Italia con 

amore e odio”. Io odio i nostri limiti, la nostra 

italianità, le invidie, le accuse. Fallisci e ti mettono nel 

registro dei falliti. Invece ti dovrebbero mettere nel 

registro dei coraggiosi: perché è li che impari. Hai fallito? 

Bravo, ti do un premio e studiamo perché. 

Dovremmo costruire un nuovo modello per l’Italia basato 

sulle esperienze. Fallisci veloce e avanti. L’Italia 

deve ridisegnare se stessa. Abbiamo rubato i sogni ai 

giovani. E questo è il più grande crimine che abbiamo 

commesso. E a loro dico: sviluppate una personalità autonoma. 

Buttate l’identità. Vestitevi come vi pare. 

Invito le donne a fare ingegneria, matematica, facoltà 

scientifiche e a diventare scienziate. Infine, ringrazio 

Elon Musk: non ci ha aiutato, ma l’esposizione mediatica 

che abbiamo avuto grazie a lui è stata enorme. Per 

anni si è parlato del treno supersonico di Musk e questo 

ci ha avvantaggiato… ma finalmente oggi si parla di 

noi. Viva l’Italia». 



































molecabo. Nulparc hillore stiunti illente mporere perios 



demo mos molor am ulluptius aut fuga. Ut eossum que 

est expla samus et lam si natendis eos eicatae mil molupti 




poresti qui dit que venisti voluptur alitaerrum que dero 

et ad quation sequis et porem a nonseque voluptiunt 

haria doluptur modiorestio et as sum saetet, officipsa 


“FALLISCI 

E TI METTONO NEL 

REGISTRO DEI 

FALLITI. INVECE TI 

DOVREBBERO METTERE 


NEL REGISTRO DEI 

CORAGGIOSI: 

PERCHÉ È LI CHE 

IMPARI.”


“LE OCCASIONI 

VANNO COLTE 

QUANDO 

ARRIVANO 

E SEGUITE, UNA 

DOPO L’ALTRA 

CON PASSIONE E 

DETERMINAZIONE.” 


Massimo Sgrelli e Luigi Bajetti 

SOCI FONDATORI E PARTNER LOMBARDSTREET.IO 

FOUNDERS & MANAGING PARTNERS LOMBARDSTREET.IO VENTURES

Massimo Sgrelli e Luigi Bajetti, nella vita si occupano di 

fare i cacciatori di talenti. Li cercano, li trovano, ci investono 

e li lanciano in Silicon Valley.Il loro prototipo di 

imprenditore pensa in grande, è ambizioso, sa di cosa sta 

parlando. E soprattutto è italiano. Già perché gli italiani, 

nonostante abbiano tutte le carte in regole per sfondare da 

qualsiasi parte e in qualsiasi campo, sono ancora troppo 

poco proiettati verso il successo e spaventati oltremisura 

dalla possibilità di fallire. 

QUESTIONE CULTURALE 

“E’ quasi una questione culturale -racconta Bajetti, nato 

e cresciuto nel bresciano in una famiglia di imprenditori – 

qualcosa che non si impara a scuola e che se non coltivi, 

rischi di perdere”. Lui, che in Italia ha studiato lettere moderne, 

ma poi si è buttato nel campo della tecnologia per 

passione e da zero ha fondato in pochi anni uno dei maggiori 

Internet providers italiani, mette subito il dito nella 

piaga: “Fare business con aziende italiane a volte significa 

vedersi rifilare un contratto di mille pagine per 1.500 dollari 

di prodotto, perché in patria si cerca ancora per forza 

la quadratura del cerchio, qui invece o si decide di fare 

business e di investire oppure no” . La cultura americana, 

soprattutto quando si parla di affari, non ha mezzitoni. “Si 

parla di bianco o nero, di sì o no - aggiunge Bajetti – tutto 

è semplice, chiaro e soprattutto trasparente, nel senso che 

Obitae resto dolum exero illam, simodia sinctus aut 

aceprat ecullan ditaquas adi omni demporest inci coritis 

dolor reptas debitas que nat quae. Nam que peria eturio. 

Hillorem. Ut facepuda doluptatia solorro rerempor 

minia voles possuntes dollent volupta ectorem odist, 

quasimo tenimolorum none acilis voloreperum aboresed 

mollam facil imusapi entiis venduci piderum, tem 

fugit ut faciis idella nienisquam volorum soloribuscit pel 

ipiducia alicae dolupta velenime vollore ndandae mod 

esequas nonseque nienis dolorrovit quam, ipsunda endemporro 

omnime dolorest que nestium et mil ilicabore 

officta sperum est vellaboribus diorruptas volupta tiorendae 

lam, sum faccus, quo ea es nonsedi gnaturit aut 

perum entecte mpelibus dolorercia con endus andae. 

Occatende si optate porum voluptis autatibus esequibea 

consecus ium abo. Ut aliciti stibusam eium sinis 

magnatis magnis aces mollacepuda comnis sed magnati 

corioratur? 

Hilluptatur, adi nes conem es eliquo exped eum nos 

aspit, ventio voloria dolupta sam, quos exersperspe eos 

moluptatem enditati id ea volorio. Tatquis sit plignatust 

aliciat ellectur am rehenet ab illuptatur archill aboremp 

orempor rovitia nditatium, andaessint quo il molupta 

tiaectem qui dolum el ipsa et, optatur sam andignatur, 

sa voluptae nobis incil is ut qui in et ipsa susaestem 

voloria derianis con esserio nsequi venimus exerunt aut 


è accessibile a chiunque “. In Italia le cose sono diverse e 

in parte la colpa è delle istituzioni farraginose: “Le cose 

adesso stanno cambiando, ma c’è ancora tanta paura di 

fallire, mentre invece il fallimento fa parte del gioco”. Si 

tenta cento volte e alla fine ci si riesce. E se si ha fortuna, 

come per la coppia di LombardStreet.io Ventures, società 

di investimenti con il cuore in Italia e il cervello nella Bay 

Area, ci si riesce spesso, se non sempre. Come quando 

Bajetti, subito dopo avere venduto la sua prima azienda ad 

un competitor più grande, decise di scommettere sul primo 

modello di cellulare dual SIM. “Mi misi in società con un 

ragazzo di Brescia e decidemmo di finanziare il brevetto, 

poi qualche anno dopo altri produttori uscirono con il loro 

modello di dual SIM e a quel punto decidemmo di iniziare 

una battaglia legale che dopo otto anni riuscimmo a vincere, 

facendoci pagare le Royalties per il mercato italiano”. 

SOGNARE IN GRANDE 

Anche Massimo Sgrelli ha l’anima dell’imprenditore. Lui, 

che nasce “tecnologo” come il padre che all’informatica si 

dedicava già negli Anni Settanta, dopo la Laurea, un tirocinio 

in Telecom, che all’epoca si chiamava Sip, e un tentativo 

alla Fininvest, interrotto dalla caduta del NASDAQ, 

fonda la sua prima azienda. La fa crescere per 10 anni e 

poi cambia focus. Si sposta in America, dove fonda la sua 

prima Inc. ed al contempo inizia a cercare start-up su cui 

puntare. “Mi è sempre piaciuta la gente che sogna in grande 

- racconta lui -come una coppia di ragazzi, uno di 19 

anni e l’altro di appena 21, li incontrai in America dove cercavano 

investitori per la loro idea; in Italia avevano bussato 

ad ogni porta nel Gotha della finanza ma senza risultati”. 

Sgrelli scherza: “Sembravano due che erano appena scappati 

di casa, avevano quasi finito i soldi, ma la passione 

con cui raccontavano la loro idea era di quelle difficili da 

ignorare. Ci investii 100 mila dollari con altri 3 ragazzi di 

YouTube, oggi sono una bellissima azienda che cresce ed 

hanno raccolto capitali dai maggiori VC di Silicon Valley. E 

l’Italia? “Ho provato a proporre ad altri italiani di investire 

con me, ma tranne qualche imprenditore amico, i “grandi” 

si sono sempre tutti sempre tirati indietro”. 

Troppa paura e forse una mentalità un po’ ristretta con 

cui è difficile confrontarsi. “Gli italiani sono ottimi ingegneri, 

incredibili lavoratori, ben preparati da un sistema 

universitario che richiede molto – aggiunge Sgrelli –, con 

un unico vizio: riescono a complicare anche le cose più 

semplici. Forse fa parte della nostra natura o della scuola 

che, nostro malgrado, ci troviamo a dover fare abitando 

nel paese”. 


















corioratur? 









odi aut molorro tem eate cus int quiatur, sae sita solupta 

sperro 

ugit ut faciis idella nienisquam volorum soloribuscit pel 










corioratur? 










sperro 



IL LAVORO DA VENTURE CAPITAL 

Sgrelli e Bajetti si sono incontrati nel 2014. “Ci siamo trovati 

bene assieme, abbiamo collaborato per un paio d’anni 

e alla fine, abbiamo deciso di aprire LombardStreet.io 

Ventures, che dopo appena un anno di vita ha già investito 

in diversi bei progetti”. Il modello è quello di altri italiani: 

business e marketing in Silicon Valley, ingegneri in Italia. 

“Noi finanziamo principalmente progetti italiani, li esportiamo 

negli Stati Uniti – spiegano – e la gente che cerchiamo 

è quella che non ha paura di mettersi in gioco, a cui il 

posto fisso è sempre andato stretto e che mira a realizzare 

qualcosa di grande”. Il talento non manca così come l’incapacità 

di sapersi vendere. “Agli ingegneri italiani devi letteralmente 

cavare fuori quello che sanno fare – aggiungono 

– e a noi va bene così, perché significa avere a che fare con 

persone autentiche, che offrono capacità reali e non inventate 

o gonfiate, come troppo spesso accade”. 

Il come trovarli, questi talenti, sembra una maratona, una 

corsa agli ostacoli. “Prima di tutto facciamo networking, 

conosciamo persone che ci propongono aziende o prodotti 

interessanti, lavoriamo di content marketing quando troviamo 

il tempo ed infine partecipiamo a tutti gli eventi più 

Por sant. Agnatibea cusam, custi cone numque volori 

officab oremolu pidusam vellab ipit andebit elit volore 

vidiatur? 

Beari niet es maxime dolupta tiatusapis doluptin nonsequid 

molo dolupta spienissi aperit est perumquam 

repro blant quidit re que venit plitatur ad quo qui torestias 

eicient, sum natio ma voluptatquia soluptaecusa 

volorrum quossediatus doluptas aboreiunda voluptatur 

am abo. Et litaessimi, ullabor iberferrum id est, omnis 

issitatem qui blaut volupie ndellatias ilit, sit, qui quisquis 

sequid quam, officiur? 

Pudi asi conseque iderit occum as dipsam, volore nullace 

puditatincid maionse quaesed quam velignamendi 

omnimus cipsandis duciist apid ea sum re sum deniet 

am seculla niscit qui nobit aut dolupti istota consequassum 

fugias re eumquaestia et evelibus ne nimagni 

molupta tibuscid ea eatus et, untor as ut etustrunto essi 

aliqui te solori il mi, qui aribus. 

Rum sunt et hillorum harcid ut que odit esequatur, 

cum aut faccatem rem a debisto recepti undunt porions 

equasit laudaecatur? Qui conem sequo temque as 

volessum eosti dus aut quae nempernam et et volorro

interessanti. Viviamo costantemente fra Italia e California”. 

Una vita in viaggio, quindi, a rincorrere l’ambizione e la 

genialità. Non è cosa da poco: “A volte penso a come la Bay 

Area sia davvero un posto stupendo dove vivere – aggiunge 

Bajetti – eppure non è bella come le Dolomiti ad esempio; 

ecco c’è da pensare a quanto potrebbe essere grande l’Italia 

se metabolizzasse almeno un po’ del sistema Americano”. 

Ma è possibile? Per Loro sì. “Basterebbe proporre modelli 

più positivi – aggiunge Sgrelli – e puntare su di un sistema 

di sviluppo incentivante e meno punitivo, basterebbe insegnare 

ai giovani a fare impresa, a credere nelle proprie 

capacità e nei propri sogni e soprattutto a non avere paura 

di rischiare”. Ecco, così l’Italia diventerebbe come la Silicon 

Valley, anzi forse addirittura più grande. 



vidiatur? 



















volessum eosti dus aut quae nempernam et et volorro 

esequat ionsed quo omnimodissit aut fugiat vel et inci 


“SEMBRAVANO DUE 

CHE ERANO APPENA 

SCAPPATI DI CASA, 

AVEVANO QUASI 

FINITO I SOLDI, MA 

LA PASSIONE CON 

CUI RACCONTAVANO 

LA LORO IDEA ERA DI 

QUELLE DIFFICILI DA 

IGNORARE.”


“NON SI VIENE A SAN 

FRANCISCO PER 

BALLARE I CLASSICI, 

QUELLI FANNO 

PARTE DELLA 

CULTURA EUROPEA, 

NON DI QUELLA 

STATUNITENSE, 

SI VIENE QUI PER 

SPERIMENTARE, 

PER OSARE E PER 

LAVORARE CON 

I COREOGRAFI, 

CHE SONO 

ASSOLUTAMENTE 

IMPAREGGIABILI.” 


Carlo Di Lanno 

PRIMO BALLERINO 

PRINCIPAL DANCER 

SAN FRANCISCO BALLET

Danzando tra Napoli e San Francisco 

Ha poco più di vent’anni ha già danzato con alcune 

fra le maggiori promesse del balletto contemporaneo, 

come Polina Semionova, nel “Lago dei cigni” 

di Nureyev, e Svetlana Zakharova, con cui ha interpretato 

il concerto DSCH di Ratmansky. 

Eppure tutto è iniziato a Marano, borgata popolare 

della cintura settentrionale di Napoli, dove i genitori 

avevano un negozio di ortofrutta proprio di fronte 

ad una scuola di ballo. La passione di Carlo Di Lanno 

per la danza è nata così. Astro nascente della scena 

del balletto internazionale, primo ballerino al San 

Francisco Ballet, Carlo ricorda che bambino andava 

ad assistere ai saggi di danza di quella scuola di 

periferia con la famiglia. “Avrò avuto due o tre anni, 

ma già mi intrigava”. E mentre il padre e il fratello 

sgattaiolavano fuori, annoiati da tutù e ballerine 

sulle punte, lui e la madre restavano sempre fino alla 

fine. 

“Mi ci volle un pò per convincere i miei genitori a 

mandarmi a scuola di ballo – aggiunge – prima dovetti 

imparare a nuotare, ma alla fine ce la feci e a 

nove anni, iniziai a danzare”. E fu subito chiaro che 

in lui il talento non mancava. “Un anno dopo passai 

ad una scuola di Napoli, dove studiai danza per altri 

cinque anni – racconta – poi, forse anche in parte 

perché non volevo lavorare per quella Compagnia, 

mi trasferii a Milano, alla scuola di ballo della Scala, 

dove completai il mio ciclo di studi”. 

Una vita in movimento 

Carlo alla Scala ci lavorò un anno soltanto, almeno 

all’inizio, poi si trasferì a Berlino. 

“Rientrato in Italia per una vacanza incontrai il 

direttore della Scala, che mi promise ruoli 

importanti e alla fine mi convinse a tornare”. 

Fu per lui una stagione intensa ed appassionante 

dal punto di vista lavorativo, ma non certo priva 

di problemi. “Essere un giovane ballerino alla Scala 

non è facile, essere giovane ed avere talento lo è 

anche di meno”. “Io lavoravo molto, interpretai il 

Don Quixote e il Lago dei Cigni, su 12 serate, sei 

erano mie”. Eppure, nonostante lavorasse come 

“Solo”, per contratto era semplicemente un 

junior: nove settimane di lavoro e cinque giorni di 

ferie fra un rinnovo e l’altro. “Il direttore mi convinse 

a partecipare alle selezioni della Compagnia, 

io ci provai, andò male”. A soli 19 anni era considerato 

troppo giovane per essere un primo ballerino 

alla Scala. Anche se effettivamente quella parte l’aveva 

già. “Per assurdo, il direttore della Compagnia 























































aveva il potere di farmi ballare, ma non quello di 

farmi assumere”. Fu in quel momento che prese la 

decisione di partire. “Non lo nego, io dall’ Italia me 

ne sono andato, lasciando il mio cuore, ma con la 

voglia di provare qualcosa di nuovo”. Le selezioni 

della Scala avevano innescato la voglia di cambiamento, 

di cercare qualcosa di diverso, altrove: 

“Mandai dei video, iniziai a guardarmi in giro, non 








dolore solum et volorest, sus qui blatisqui adis mollit


trascorse molto tempo che venni contattato dalla 

Compagnia di San Francisco – spiega -, li incontrai, 

mi piacque l’ambiente e partii”. Fu assunto come 

solista fin da subito, e due anni più tardi divenne 

“Principal”, il rango più alto che un ballerino possa 

raggiungere all’interno di una compagnia. 

Nella compagnia di San Francisco Ballet 

“Il gruppo di San Francisco è stupendo, sia per i ballerini 

che ne fanno parte, ma anche per il management 

che lo rende quello che è; – racconta – in Italia 

il talento e le potenzialità sono spesso soffocate da 

una gestione miope e dalla burocrazia”. E poi c’è la 

gente: “A Milano se qualcosa va di moda lo si osanna, 

se è stupendo, ma non fa parte dello star system 

viene quasi sempre ignorato”. Anche nel balletto: 

“Non è solo questo – aggiunge – c’è anche quell’atteggiamento 

antipatico che fa lodare solo chi ce l’ha 

fatta altrove, come se l’individuo acquistasse talento 

all’improvviso”. La passione e la bravura c’erano già, 

ma fintanto che si resta in Patria vengono messe da 

parte e ignorate. 

In America è diverso: “Non si viene a San Francisco 
















abor aliquasucium la simin endi comnimu sanditis 

quasperes que re nos quo cus, tectemqui simus, to 

eum quia nulparum ulligent fugitam, cus mint omnisquo 

que non pel ipid exeriam, cus ne ne earcien 




abor aliquasucium la simin endi comnimu sanditis

per ballare i classici, quelli fanno parte della cultura 

europea, non di quella statunitense – aggiunge -, si 

viene qui per sperimentare, per osare e per lavorare 

con i coreografi, che sono assolutamente impareggiabili”. 

Anche il pubblico è diverso: “La prima volta 

che interpretando una scena drammatica sentii 

ridacchiare la platea ci rimasi male – racconta – 

adesso sono quasi convito che sia una reazione legata 

al fatto che la cultura anglosassone non apprezza 

i drammi, ne è estranea”. Certo non sempre è facile 

per chi fa arte rapportarsi con quelli che la 

bravura la apprezzano, ma non la capiscono sul 

serio: “Se da un lato il pubblico ha il diritto di interpretare 

una scena come meglio crede, dall’altro 

sono convinto che la mia sensibilità artistica e la mia 

esperienza vadano prese in considerazione e 

abbiano comunque un peso maggiore, quantomeno 

nella definizione della tecnica”. Eppure, è vero 

anche il contrario, perché quasi sempre, fra la folla 

che riempie il teatro la sera della prima, qualcuno 

torna sempre. “C’è qui a San Francisco un gruppo di 

appassionati che assistono ad ogni spettacolo della 

Compagnia, si siedono nei soliti posti in platea, e 

ogni volta che entro in scena quasi li cerco con lo 

sguardo”. L’arte conquista, e alla fine quando cala 

il sipario, qualcosa al pubblico resta. E se per tanti 

il balletto non è che una moda, per alcuni diventa 

un’abitudine e, alla fine, una passione. 

Come per quel bimbo di Marano di Napoli che 

amava assistere ai saggi di danza di una scuola di 

periferia ad ogni inizio d’estate. 
















eumquatur, abor aliquasucium la simin endi comnimu 


simus, to eum quia nulparum ulligent fugitam, 


ne ne earcien daerchi llandio officius doles aligent 

et voluptur, ullutem poreium qui volupta tiusam 

veribusapide autem sam autam adipiciendi dolore 








eumquatur, abor aliquas 


“C’È QUI 

A SAN FRANCISCO UN 

GRUPPO DI APPASSIONATI 

CHE ASSISTONO AD OGNI 

SPETTACOLO DELLA 

COMPAGNIA, SI SIEDONO NEI 

SOLITI POSTI IN PLATEA, 

E OGNI VOLTA CHE ENTRO 

IN SCENA QUASI LI CERCO 

CON LO SGUARDO.”


“IO AMO QUELLO 

CHE FACCIO, AMO 

IL FATTO DI VIVERE 

IN UN LUOGO DOVE 

LA SCIENZA E LA 

CAPACITÀ DI FARE 

RICERCA SIANO 

CONSIDERATE 

COME QUALCOSA 

DI FONDAMENTALE 

ALLO SVILUPPO.” 


Leonardo Senatore 

PROFESSORE DI FISICA 

PHYSICS PROFESSOR 

STANFORD UNIVERSITY

LEONARDO, ECCELLENZA ITALIANA DELLA 

FISICA, DALLA NORMALE DI PISA AI LABORATORI 

DI EINSTEIN 

Ci sono due categorie di persone. Quelle che di fronte 

al cambiamento, vedono una porta aperta. 

E quelle che invece si ostinano a guardarsi alle spalle 

e rimpiangono la porta che dietro di loro si è appena 

chiusa. 

Leonardo Senatore appartiene, per ovvi motivi, alla 

prima categoria. E lo dimostra il fatto che dalla 

Normale di Pisa è finito, un pò per caso un pò per talento, 

al MIT di Boston prima, ad Harvard e Princeton 

(negli stessi laboratori dove insegnò Einstein) dopo, 

fino ad arrivare a Stanford, dove oggi insegna fisica 

teoretica. Lui è un fisico teorico, uno di quelli che con 

carta e penna si interroga sulle leggi che muovono 

l’universo. E di talento ne ha da vendere. “Io però 

non mi sono mai sentito troppo bravo – racconta –e 

sono quasi rimasto stupito quando ho scoperto di 

avere vinto la cattedra a Stanford”. Bravi, però, bisogna 

esserlo davvero. Prima di tutto perché diventare 

professori universitari di ruolo a 31 anni non è da 

tutti. Secondariamente perché diventarlo a Stanford, 

è davvero per pochi. “Io, che faccio fisica teoretica 

– spiega Senatore – mi occupo di formulare, attraverso 

espressioni matematiche, le leggi che regolano 

l’universo”. Lo dice così, Senatore, come se fosse un 

qualcosa di semplice. E forse per lui lo è davvero, 

soprattutto perché mentre si racconta l’amore che 

prova per la sua materia è quasi palpabile: “Io mi 

sento un privilegiato, perché ho l’indubbio piacere di 

svegliarmi alla mattina e di poter pensare alle ragioni 

che hanno portato alla nascita delle stelle, ai grandi 

temi che da sempre interessano l’uomo”. Il suo è un 

tipo di ricerca che ha poco a che fare con le applicazioni 

pratiche o i test di laboratorio: “Carta e penna è 

tutto ciò di cui ho bisogno per mettermi a lavorare”. 

Del resto alla fisica teorica le applicazioni pratiche 

non interessano. “Noi studiamo le leggi che muovono 

il cosmo, quelle che hanno portato alla nascita delle 

galassie e che continuano a dare una forma all’universo”. 

Ma la differenza con le scienze applicate non si 

ferma qui. “L’aspetto positivo è che ogni nostra scoperta 

è utile per tutta l’umanità e non solo per uno 

Stato o un ateneo”. 

NEW HORIZON PHYSICS PRIZE, IL PREMIO NOBEL 

PER I GIOVANI 

Senatore racconta la sua vita ed i suoi successi quasi 

con stupore: “Mi sono appassionato alla fisica poco 

alla volta, al liceo ero bravo ma non certo il migliore, 

all’università sono passato da Ingegneria a Fisica, sen- 



























daerchi llandio officius doles aligent et voluptur, ullutem 

poreium qui volupta tiusam veribusapide autem 

sam autam adipiciendi dolore eumquatur, abor 

aliquastis quasperes que re nos quo cus, tectemqui 




















eumquatur, abor aliquastis quasperes que re nos 

quo cus, tectemqui simus, to eum quia nulparum 

ulligent fugitam, cus mint omnisquo que non pel 



tendomi quasi inadatto e forse per questo ho voluto 

spostarmi al MIT di Boston per il PhD, volevo darmi la 

possibilità di avere una preparazione più sistematica”. 

Non immaginava certo di arrivare negli Usa e di restarci. 

“Io pensavo all’inizio che ci sarei rimasto giusto 

il tempo di finire il PhD, poi è arrivato il Post doc ad 

Harvard e Princeton”. E alla fine la cattedra. “Ma è 

stato quasi un caso – spiega – perché se io da un lato 

sono sempre stato affascinato dagli Usa e dal fatto di 

essere, fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, 

il centro della ricerca scientifica soprattutto in materia 

di fisica, mai avrei immaginato di finirci a vivere e 

ad insegnare”. Eppure, è successo. “L’Italia ha eccellenti 

scuole di Fisica, del resto abbiamo una forte 

tradizione in materia, il problema è forse un altro: la 

ricerca scientifica ha bisogno soprattutto di persone 

che la sostengano e la valorizzino. “Tempo fa ho 

ricevuto il New Horizon Physics Prize, un premio che 

incarna forse lo spirito della Silicon Valley meglio di 

tante parole”. 

Si tratta di un riconoscimento dedicato agli scienziati 

e nato con l’idea che alla società debbano essere proposti 

modelli alternativi. Non solo star e sportivi, ma 

anche uomini di scienza. Anche e soprattutto loro. 
























quasperes que re nos quo cus, tectemqui simus, to

Perché se si vuole cambiare il mondo, serve la conoscenza, 

serve la logica e soprattutto serve la capacità 

di interrogarsi e di lavorare sui grandi temi che da 

sempre appassionano l’umanità. 

IO AMO QUELLO CHE FACCIO. 

“Lo sviluppo nasce da picchi di eccellenza”. Lo stesso 

vale a suo dire per le università. “La fisica teorica è 

una materia che non ha sviluppi pratici immediati”: 

Anche se, senza fisica teorica non avremmo avuto 

l’elettricità ad esempio, né la corsa allo spazio, né 

tanto meno internet. “C’è però da sottolineare come 

insegni qualcosa di cui si nutrono tutte le discipline, 

ovvero la capacità di pensare in modo critico, l’abilità 

analitica”. Il che non è poco soprattutto oggi. “In 

una scuola dove le scienze teoriche sono forti, anche 

quelle applicate troveranno giovamento”. Questo è 

un pò lo scheletro della stessa Silicon Valley, un posto 

che, certo, è fatto dai giganti di scienze applicate, ma 

che è cresciuto attorno a due poli universitari di altissima 

qualità. 

“Io amo quello che faccio”. Ma soprattutto, “amo il 

fatto di vivere in un luogo dove la scienza e la capacità 

di fare ricerca siano considerate come qualcosa 

di fondamentale allo sviluppo”. Forse è vero che il 

fatto di sapere come l’universo abbia circa 13 miliardi 

di anni non porta un ritorno economico immediato. 

Ma sul lungo periodo le cose cambiano. “Negli ultimi 

trent’anni abbiamo imparato tantissimo della storia 

del cosmo, conosciamo come si è sviluppato 

e stiamo iniziando a descriverne la crescita attraverso 

formule universali”. Ad esempio, Senatore ha recentemente 

pubblicato una ricerca sulle equazioni che 

descrivono le dinamiche delle galassie su larga scala. 

Ecco, praticamente nell’immediato descrivere l’espansione 

di una galassia non cambia nulla. 

D’altro canto, è proprio da equazioni come queste 

che, nella storia della Fisica, importanti applicazioni 

per l’umanità sono inaspettatamente scaturite. 









































“PERCHÉ SE 

SI VUOLE CAMBIARE 

IL MONDO, SERVE LA 

CONOSCENZA, SERVE 

LA LOGICA E SOPRATTUTTO 

SERVE LA CAPACITÀ DI 


INTERROGARSI E DI 

LAVORARE SUI GRANDI 

TEMI CHE DA SEMPRE 

OSSESSIONANO 

L’UMANITÀ.”

L’era dello spazio 2.0 

Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando, nel lontano 

1969, gli Stati Uniti d’America lanciarono l’Apollo 11: 

con l’atterraggio sulla Luna dell’astronauta Neil 

Armstrong portarono a termine una delle missioni più 

importanti nella storia dell’uomo, dando così inizio alla 

corsa per la conquista dello spazio. 

Peccato che tutto ciò fosse solo un puro affare governativo. 

Sarà anche stato “un piccolo passo per l’uomo, 

ma un grande balzo per l’umanità”, ma, il vero obiettivo 

all’epoca era la supremazia politica ed economica da 

parte di USA e URSS nel periodo della Guerra Fredda. 

Oggi la situazione è ben diversa: non ci sono più interessi 

politici o smanie di supremazia e lo spazio significa 

innovazione e continua ricerca della vita oltre la 

Terra; è iniziata una vera e propria nuova generazione di 

conquiste spaziali, che sta dando vita al cosiddetto fenomeno 

dello “Space 2.0”. Con questo termine non solo ci 

si riferisce alle varie nuove scoperte avvenute nel campo 

delle tecnologie spaziali, ma anche e soprattutto alla 

radicale rivoluzione del concetto di “viaggio 

nello spazio”. 

Con la nuova presidenza USA intenzionata a tagliare i 

fondi al programma ISS (International Space Station) 

entro il 2025 ed il crescente interesse da parte di 

settori come l’industria mineraria, estrattiva, edile e turistica 

nei viaggi cosmici, stanno prendendo piede sempre 

più investitori privati. Ne sono la prova due tra le 

più importanti aziende cresciute vertiginosamente negli 

ultimi anni: SpaceX e OneWeb. 

La prima nasce nel lontano 2002 dal sogno del visionario 

e attuale cofondatore e CEO di Tesla Motors, Elon 

Musk. Da diversi anni progetta razzi e veicoli spaziali e 

dal 2012 si occupa del rifornimento della ISS. Oltretutto 

ha appena testato con grande successo il suo” Falcon 

Heavy”, uno tra i più grandi e potenti razzi spaziali mai 

costruito e capace di tornare a terra in totale autonomia. 

Il successo dell’operazione è stato fondamentale per 

Musk: ha trovato un nuovo modo di riutilizzare le risorse 

e di rendere sempre più verosimile la possibilità di portare 

i primi turisti in orbita. L’obiettivo principale rimane 

però quello di ridurre i costi di accesso allo spazio e di 

portare i primi astronauti su Marte entro il 2024. 

Eppure Musk non risulta il primo ad aver tentato di far 

viaggiare dei turisti a più di 100 km di altezza. Un altro 

grande colosso, capitanato dall’ eclettico fondatore 

del Virgin Group Richard Branson, tenta da ben 10 anni 

di costruire un aeroveicolo che permetta ad 8 fortunati 

passeggeri, (e con “fortunati” si intende veramente 

fortunati dato che il prezzo del biglietto equivale a spendere 

200.000$ a testa), di salire nella mesosfera e gode- 






















































e della sensazione di vuoto per circa 6 minuti e di una 

vista panoramica unica. 

Purtroppo il sogno svanisce nel 2015, quando durante 

un test di volo perde la vita uno dei due piloti e la Virgin 

Galactic si trova così privata della licenza ad effettuare 

voli extra orbitali per ben due anni. Solo da poco si 

è rimessa in gioco, ritentando l’impresa con un nuovo 

veicolo chiamato SpaceShipTwo. 

L’altra grande protagonista tra le aziende di nuova generazione 

è OneWeb, la quale, fondata solo nel 2012 e 

sotto la guida dell’imprenditore ed ingegnere Greg 

Wyler, ha ottenuto investimenti per 500 milioni di dollari 

per la costruzione di una costellazione di 650 satelliti di 

telecomunicazione che, circolando su un’orbita bassa, 

dovrebbero fornire un accesso mondiale ad internet a 

partire dal 2019. 

Insomma, lo Spazio 2.0 sta aprendo la strada a nuovi 

mercati ancora inesplorati e potrebbe quindi diventare 

sempre più una questione “commerciale” non più 

legata ad interessi politici. 

E se ancora non siete convinti, basti pensare che già nel 

2016 il Gruppo Tauri ha dimostrato come ci sia stata 

un’impennata degli investimenti nelle tecnologie 

spaziali: 2.9 miliardi di dollari spesi, di cui l’80% solo 

negli ultimi 5 anni. I maggiori investimenti sono avvenuti 

nel 2015 con SpaceX, 1 miliardo di dollari e OneWeb, 

500 milioni di dollari. 

Lo spazio sta continuando ad attirare maggiore attenzione 

nella Silicon Valley e nelle comunità d’investimento 

di tutto il mondo. Le varie imprese spaziali attraggono 

un numero sempre più alto di investitori proprio per via 

della nascita di nuovi sistemi tecnologici a basso costo e 

per il potenziale di rendimenti che se ne possono trarre. 

Una delle maggiori fonti di denaro potrebbero proprio 

essere i satelliti, da decenni accumulatori di dati proprietari 

e pronti ad essere usati in una moltitudine di applicazioni. 

Rappresentano un elemento fondamentale 

nell’industria spaziale in quanto presentano cicli di innovazione 

e diffusione molto rapidi, oltre a strutture e costi 

tra i più bassi per ciò che riguarda le tecnologie spaziali. 

Si stima che tra il 2016 e il 2022 ne verranno lanciate 

circa 3000 unità. 

L’obiettivo principale dei protagonisti dello Space 2.0 

rimarrà sicuramente sempre quello di ampliare la conoscenza 

dell’universo, ma è anche vero che dai primi 

passi della conquista dello spazio fino alle imprese straordinarie 

di oggi, l’universo è sempre stato una fonte di 

innovazione e tecnologia, filosofia che ha portato alla nascita 

di un progetto tutto italiano: il polo scientifico KET 

Lab (Key Enabling Technologies Lab) di Tor Vergata. 

Un’unione di laboratori multidisciplinari finalizzati al trasferimento 

delle conoscenze tecnologiche aerospaziali al 

mondo delle piccole e medie imprese. 






















































Il progetto nasce nel 2015 dalla collaborazione tra l’A- 

SI (Agenzia Spaziale Italiana) ed il Consorzio di Ricerca 

Hypatia ed è il primo laboratorio di questo tipo in Italia, 

in cui lavorano quotidianamente circa 30 dipendenti tra 

personale amministrativo e tecnico. 

Si occupa principalmente di avviare e promuovere numerosi 

progetti di ricerca volti alla sostenibilità ambientale 

e la conservazione della qualità della vita nei 

settori dei materiali innovativi e delle tecnologie per l’energia 

da fonti rinnovabili. 

Da non dimenticare anche il contributo fondamentale 

che l’azienda italiana Leonardo-Finmeccanica sta dando 

al progetto ExoMars: una missione sviluppata dall’Agenzia 

Spaziale Europea (ESA) e dall’Agenzia Spaziale Russa 

(Roscosmos) e finalizzata all’esplorazione del pianeta 

Marte tramite una sonda robotica nel 2020. 

Leonardo fornisce circa il 40% delle soluzioni tecnologiche 

che verranno integrate nel quadro complessivo della 

missione e ha da poco annunciato l’esito positivo dei test 

condotti dalla trivella che verrà montata sul rover. 

Quest’ultima è stata sviluppata nel polo Leonardo di 

Nerviano e durante l’operazione ExoMars avrà il compito 

fondamentale di osservare il sottosuolo marziano attraverso 

lo spettrometro integrato al suo interno e di trovare 

quindi possibili forme di vita. 



























“PERCHÉ SE 










OSSESSIONANO 

L’UMANITÀ.”




“QUI, NELLA 

VALLE DEL SILICIO, 

RISCHIARE E SPESSO 

FALLIRE SONO 

CONSIDERATI 

MOMENTI DI 

CRESCITA E 

OPPORTUNITA’, 

QUASI 

PRECONDIZIONI 

PER REALIZZARSI.” 


“HERE IN THE SILICON VALLEY TRYING 

AND FAILING OFTEN IS CONSIDERED 

A GROWTH OPPORTUNITY, ALMOST A 

PREREQUISITE FOR SUCCESS”. 

Simone D’amico 

PROFESSORE DI INGEGNERIA AEROSPAZIALE 

PROFESSOR OF AERONAUTICS AND ASTRONAUTICS 

STANFORD UNIVERSITY

Simone, allo studio della tecnologia spaziale del 

futuro e di sciami di nano-satelliti 

È soprattutto una questione di adattamento. È la 

capacità di fare come l’acqua, ovvero trasformarsi 

in qualcosa di compatibile con l’ambiente circostante. 

Questo, secondo Simone D’Amico, professore 

a Stanford di Aeronautica ed Astronautica nonché 

fondatore e direttore dello SLAB, lo Space Rendezvous 

Laboratory collegato all’università californiana, 

è stata la caratteristica che forse più di ogni altra gli 

ha permesso di diventare quello che è. Vale a dire 

uno dei massimi esperti mondiali in materia di satelliti 

e meccanica del volo spaziale. 

È stata una questione d’istinto – racconta – ricordo 

che ero in fila al Politecnico e dovevo scegliere il mio 

major”. In Italia funziona così: l’ambito di studi viene 

scelto ancora prima di iniziare l’Università, mentre a 

Stanford accade l’opposto, al punto che forse la libertà 

rende gli studenti incapaci di scegliere alla fine 

in che cosa vogliono laurearsi. “Ero in fila e non 

sapevo se optare per l’infinitamente grande, ovvero 

ingegneria spaziale, o l’infinitesimamente piccolo, 

ovvero ingegneria nucleare, due campi opposti che 

alla fine si incontrano nell’astrofisica quantistica”. 

La prima ha avuto la meglio: “Ho preparato la mia 

tesi in Germania, al DLR, il German Aerospace Center, 

dove mi hanno assunto subito dopo la laurea”. 

In Germania sono nati i suoi primi progetti di volo 

in formazione di satelliti, GRACE, TanDEM-X e 

PRISMA, fiori all’occhiello della tecnologia spaziale 

odierna e delle sue incredibili applicazioni nello studio 

della Terra e dei pianeti. 

“Io mi occupo di realizzare i sistemi di intelligenza 

a bordo dei satelliti, quelli che permettono loro di 

muoversi in maniera autonoma, di coordinarsi ed 

interfacciarsi”. La questione è di spessore. E non 

soltanto metaforicamente parlando. 

“Mandare un satellite in orbita è molto costoso ed 

è per questa ragione che industria e ricerca spaziale 

si stanno spostando verso la miniaturizzazione e 

la distribuzione di funzionalita’ attraverso sciami di 

nano-satelliti”. 

Il problema da affrontare e’ quello degli spazi, perché 

un satellite piccolo non puo’ imbarcare tutte le 

strumentazioni che invece trovavano posto in uno 

più grande. “Quello su cui si basano le mie ricerche 

è costruire un sistema di guida che permetta a più 

satelliti di funzionare come uno solo”. In sostanza 

una rete di nano-satelliti più piccoli, in grado di 

creare un’apertura sintetica di dimensioni chilometriche 

e adattabili, distribuendo la spesa e riducendo 

i costi. 























































Per farlo però i satelliti devono poter essere in grado 

di relazionarsi fra loro, comportandosi come uno 

sciame appunto. 

Ma a cosa serve tutto questo? Le applicazioni sono 

molteplici, in aree quali scienze della Terra (geodesia, 

clima), astronomia e astrofisica (esoplaneti, onde 

gravitazinali), ed esplorazione spaziale (grandi strutture, 

robotica). Ad esempio, sottolinea D’Amico, una 

formazione di nano-satelliti puo’ mappare in maniera 

precisa gli asteroidi che gravitano fra la terra e il sole 

o nei campi esterni e che sono molto difficili da osservare 

per la loro ridotta luminosita’. Come accaduto 

qualche mese fa, quando alla NASA, con cui D’Amico 

collabora attraverso lo SLAB si sono ritrovati per le 

mani un asteroide con un’orbita aperta molto remota, 

che proveniva da un altro sistema e che non compariva 

in nessuna delle mappe conosciute. 

“All’inizio si pensava ad una cometa, ma non aveva 

la caratteristica coda generata dalla pressione solare 

durante il suo avvicinamento, si e’ quindi capito si 

trattasse di un oggetto interstellare con orbita iperbolica 

proveniente da un altro sistema solare”. In 

sostanza si è scoperto il primo oggetto intergalattico 











































































expla samus et lam si natendis eos eicatae mil moregistrato 

dall’umanità. “Ecco a questo serviranno 

tecnologie satellitari avanzate, proprio uno degli 

ultimi miei progetti in collaborazione con la NASA 

prevede la realizzazione del sistema di navigazione 

per uno sciame di nano-satelliti destinati a mappare 

in maniera precisa, la forma, gravita’, e composizione 

di asteroidi”. E poi c’è tutto ciò che gravita attorno 

a New Space or Space 2.0, la cosiddetta 

democratizzazione dello spazio. “La differenza è che 

prima enti come la NASA elaboravano missioni di 

estrema precisione ed importanza con costi altissimi”. 

Questo porta ad avere risultati eccellenti certo, 

ma in un tempo lungo e con una spesa che può 

essere affrontata solo da uno Stato, non certo da 

un privato. “Con la miniaturizzazione dei satelliti è 

diventato possibile anche per soggetti privati gettarsi 

nel campo, ma con un atteggiamento diverso, ovvero 

la possibilità di lanciare sistemi potenzialmente 

imperfetti da testare nello spazio e migliorare iterativamente”. 

Oggi, infatti, non si parla solo di nano-satelliti, strumenti 

di dieci chili appena, “ma sono allo studio pico-satelliti 

e femto-satelliti, da pochi grammi l’uno”. 

Le differenze fra “al di là” e “al di qua” dell’Atlantico 

Questo progressivo rimpicciolire gli strumenti ha 

creato nuove aperture nel mercato. “Adesso servono 

lanciatori a misura, perché quelli che abbiamo hanno 

piattaforme create per satelliti molto più grandi”. 

E poi serve anche interrogarsi sul pattume spaziale. 

“Non si tratta di densità, quanto di velocità – spiega 

D’Amico – un detrito spaziale viaggia a velocita’ di 

km al secondo e se dovesse impattare con un satellite 

o una navicella causerebbe delle ripercussioni 

spaventose”. Al punto che Donald J. Kessler, ricercatore 

della NASA, ha pubblicato alla fine degli Anni 

Ottanta, una ricerca detta la sindrome di Kessler, 

secondo la quale superata una certa densità critica 

di detriti spaziali si scatena una reazione a catena 

esponenziale che aumenterà nel tempo ancora di 

più la densità degli oggetti fino al punto da impedire 

all’uomo di lasciare l’orbita terrestre. In altre parole 

creando una gabbia impenetrabile di spazzatura in 

orbita tutt’attorno al pianeta. “È una visione 

pessimistica questa che speriamo non si realizzerà 

mai, anche perché è stato approvato un codice di 

condotta per le missioni spaziali, secondo il quale 

chiunque lanci qualsiasi strumento in orbita dovrà 

accertarsi di renderlo inerme o distruggerlo, 

senza lasciare detriti, entro 25 anni”. Space 2.0 sta 

vedendo la nascita di tantissime startup, in America 

e in Europa. Ma c’è una differenza sostanziale tra 


“CON LA 

MINIATURIZZAZIONE 

DEI SATELLITI È DIVENTATO 

POSSIBILE ANCHE PER 

SOGGETTI PRIVATI GETTARSI 

NEL CAMPO, MA CON UN 

ATTEGGIAMENTO DIVERSO, 

OVVERO LA POSSIBILITÀ DI 

LANCIARE SISTEMI 

POTENZIALMENTE IMPERFETTI 

DA TESTARE NELLO SPAZIO 

E MIGLIORARE 

ITERATIVAMENTE.” 

le due sponde dell’oceano. “Quelle europee– spiega 

D’Amico – nascono spesso come appendici sovvenzionate 

da università o grandi gruppi privati gia’ 

stabiliti, mentre quelle americane no”. 

Di nuovo dunque le differenze fra “al di là” e “al di 

qua” dell’Atlantico. “Quando presentai uno dei miei 

primi progetti GRACE in Italia, durante una conferenza, 

io da giovanissimo ricercatore mandai il mio 

Curriculum a tutti i partecipanti, ma non mi rispose 

nessuno”. 

In America, soprattutto nelle università, vige la regola 

non scritta che uno studente laureato in un ateneo 

debba fare il PhD o Postdoc o continuare la carriera 

accedemica in un diverso polo universitario. La 

mobilità è un valore e viene non solo auspicata, ma 

direttamente forzata. In Italia invece accade spesso 

l’opposto ed è limitante. “Le cose stanno cambiando, 

ma il processo è lento”. 

Resta la qualità del sistema universitario italiano, 

che forma ottimi studenti, ma sembra incapace alle 

volte di offrire loro possibilità di crescita professionale. 

Per D’Amico è anche una questione di accettazione 

del rischio. “Qui, nella Valle del Silicio, rischiare 

e spesso fallire sono considerati momenti di 

crescita e opportunita’, quasi precondizioni per 

realizzarsi”. In Europa si tende a non rischiare affatto. 

Il sistema previdenziale si è lentamente trasformato 

in una rete a mantenimento dello status quo. 

Occorre trovare il giusto mezzo. Ma se a parole è facile, 

praticamente dipende dalle politiche degli Stati. 

“Le università possono migliorare il sistema, possono 

cercare di proporre integrazione e sviluppo, ma 

se lasciate sole, qui come in Europa, affronteranno 

ostacoli insormontabili”. 

sed quas etur maximod que prepro mincia con 



voluptiunt haria doluptur modiorestio et as 

sum sae lor am ulluptius aut fuga. Ut eossum que 

est expla samus et lam si natendis eos eicatae mil 

molupti berspe dolorep eritatem autae verum velectem. 

Nam fugit et, tessi comnihicit et deliquam 







mil mo sed quas etur maximod que prepro mincia 






















SALVATORE MANDRA 

“Confidential - Not for distribution SPACE - pre-production copy “


“UN GIORNO 

VOGLIO 

TORNARE, PERCHÉ 

SONO GRATO AL 

MIO PAESE DELLA 

CULTURA E DELLA 

FORMAZIONE 

CHE MI HA DATO.” 


Roberto Carlino 

INGEGNERE AEROSPAZIALE – HARDWARE E SOFTWARE DI VOLO 

AEROSPACE ENGINEER – FLIGHT SOFTWARE AND HARDWARE TEST ENGINEER

ROBERTO, ANDARE NELLO SPAZIO, 

UN SOGNO RIBELLE. 

Da Napoli all’Olanda e poi dal Belgio di nuovo a Roma 

fino ad arrivare alla Nasa. Roberto Carlino ha seguito 

un sogno ribelle, quello di andare nello spazio. Se 

non fisicamente, almeno in parte, attraverso il suo 

lavoro, le sue idee, i suoi progetti e, oggi, anche i suoi 

robots. In testa, fin da bambino, i libri di Carl Sagan e 

Stephen Hawking. “I miei erano medici entrambi 

e mio fratello sta studiando medicina – racconta – io 

però sono sempre stato il ribelle della famiglia e alla 

fine mi sono iscritto ad ingegneria”. La svolta per lui 

è arrivata presto, quando grazie ad un Erasmus ha 

respirato per la prima volta quell’aria da cittadino del 

mondo che poi non lo avrebbe più abbandonato. 

Dopo il master a Roma, e un tirocinio in Italia, 

è arrivata la telefonata della vita. “La società spaziale 

italiana per cui stavo facendo tirocinio non mi aveva 

riconfermato, io avevo mandato decine di lettere e 

curriculum vitae in tutta Italia, ma senza risposta, poi 

il caso ha voluto che un paio di giorni dopo essere 

stato scartato da Roma, sia stato chiamato dalla 

California e senza pensarci due volte sono partito”. 

LA ROBOTICA SPAZIALE 

A Alla Nasa, Carlino oggi si occupa di robotica: “Stiamo 

lavorando ad una nuova generazione di robot che 

diventeranno assistenti autonomi degli astronauti”. 

Si tratta di piccole postazioni lavoro “in grado di muoversi 

senza ausilioumano, spostarsi sulla stazione 

spaziale grazie ad un sistema di mappatura e che saranno 

in grado di aiutare gli astronauti nelle mansioni 

più lunghe o ripetitive”. Questi piccoli robot quadrati 

si chiamano AstroBee e sono programmati per svolgere 

compiti, calcoli e addirittura ritrovare strumenti 

o fungere da piccoli laboratori. “Attualmente stiamo 

collaborando con un’università che ha progettato un 

braccio meccanico per permettere agli AstroBee di 

muoversi con un ridotto consumo energetico, usando 

un braccio semovente per aggrapparsi e spostarsi 

all’interno della stazione spaziale grazie all’assenza di 

gravità”. Per due anni, Carlino invece ha lavorato ad 

un progetto per un nuovo telescopio che andrà a 

sostituire Kepler. “La Nasa ha in testa una roadmap 

ben precisa per scoprire la vita nello spazio”. 

E scoprire e’ il termine esatto, perché bastano i numero 

per rendersi conto di quanto siano minime le 

probabilità che l’uomo sia solo nell’universo:“Grazie a 

Kepler sappiamo che ogni stella della nostra galassia 

ha almeno un pianeta, ora esistono 3 – 400 miliardi 

di stelle solo nella nostra Galassia”. Ma non basta, 

la Via Lattea non è che un medio agglomerato alla 























































periferia nell’universo, ci sono miliardi di galassie 

più grandi nello spazio profondo, molte delle quali 

di gran lunga più grandi della nostra. Infatti, proprio 

grazie a Kepler, “abbiamo scoperto i primi esopianeti 

e ne continuiamo a trovare di nuovi”. Il telescopio è 

talmente sofisticato da riuscire a catturare la minima 

variazione di luce che passa di fronte ad una stella; 

“è come pensare ad una lente in grado fotografare 

una coccinella che passa di fronte ad un faro, da migliaia 

di chilometri di distanza”. 

ALLA RICERCA DELLA VITA 

Eppure gli esopianeti non sono l’unico luogo dove 

la Nasa cerca la vita: “Stiamo guardando anche nel 

sistema solare, che è un pò come dire a casa nostra”. 

Ovviamente da noi gli scienziati dell’agenzia non cercano 

forme organiche complesse, si accontentano di 

elementi semplici, come microbi e forme unicellulari. 

“Sono allo studio vari progetti che riguardano Marte, 

la luna di Giove Europa e quelle di Saturno, Titano ed 

Encelado, dove potrebbero venire scoperti elementi 

simili”. Su Marte esistevano le caratteristiche per 



















caecerum acepedi cietur, ium restio berioria et veliquo 

dio officipsum id mod quiaspiet harupta tatatur? 

Quia sunt. 

Natectiore nonserror asitenture et hilles aut porecep

ospitare la vita, “e tracce di quel passato potrebbero 

essere rimaste, ad esempio sotto la crosta del pianeta”. 

La Nasa non è l’unica a guardare allo spazio, 

anche i privati e gli stessi consulenti che lavorano per 

l’agenzia puntano alle stelle. “L’uomo ha sempre avuto 

la tendenza a sottostimare i cambiamenti oltre i 10 

anni e a sovrastimare quelli possibili in cinque anni, 

eppure la curva esponenziale dell’innovazione tecnologica 

è chiara e quasi sempre prevede piccoli e minimi 

passi nei primi otto o dieci anni, da una scoperta, 

con una conseguente rivoluzione su scala globale a 

10 o 15 anni di distanza”. È accaduto con Internet o 

con il computer, ad esempio. Accadrà anche con lo 

spazio.” 

In tutto questo, gli Stati Uniti sono ancora una volta in 

testa, anche grazie ad investimenti governativi importanti, 

che rendono possibili progetti del genere. “In 

Italia le potenzialità ci sono, ma la loro attuazione è 

ancora latente”. Continuano infatti ad essere poche le 

occasioni per i giovani così come gli investimenti dello 

Stato in ricerca e sviluppo. “Non lo nego, io dall’Italia 

me ne sono andato con un ricordo amaro, e in questo 

momento di rinunciare al sogno di una vita, quello di 

lavorare per la Nasa, non se ne parla”. Questo però 

non significa che le cose rimarranno sempre così: 

“Un giorno voglio tornare, perché sono grato al mio 

Paese della cultura e della formazione che mi ha 

dato”. Il sogno dunque è anche quello di contraccambiare: 

“Voglio fare la mia parte per cambiare le cose, 

o almeno provarci”. A cominciare da dove sa di poter 

dare il meglio: ovvero la scuola, e con lei l’istruzione, 

l’innovazione e soprattutto la scienza. 


































“GRAZIE 

A KEPLER SAPPIAMO 

CHE OGNI STELLA 

DELLA NOSTRA 

GALASSIA HA ALMENO 

UN PIANETA, ORA 

ESISTONO 3 – 400 

MILIARDI DI STELLE 

SOLO NELLA NOSTRA 

GALASSIA.” 



“SU UNO CHE QUI 

RIESCE 

A COSTRUIRSI 

UNAPROPRIA IDEA 

DI SUCCESSO, 

CE NE SONO 

MILLE CHE 

SCOMPAIONO.” 



PROFESSORE DI COMMUNICAZIONE 

PROFESSOR OF PRACTICE 

HULT INTERNATIONAL BUSINESS SCHOOL

CULTURA AMERICANA E ITALIANA 

Famiglia milanese, cultura internazionale fin dai banchi 

di scuola, Elisabetta Ghisini ha fatto della mediazine 

culturale, o meglio, per dirla all’americana, delllacross-cultural 

communication la sua professione. 

Prima come manager, oggi come insegnante. 

“In America capii che la ricchezza del bagaglio culturale 

costruito anche grazie alla scuola italiana poteva essere 

utilizzata non solo per fare comunicazione aziendale in 

maniera efficace, ma anche e soprattutto per riuscire a 

mediare fra culture diverse in ambiti distinti ”. 

Una sfida non da poco, soprattutto se si considera 

il contesto in cui questa viene declinata: la Silicon Valley 

e, più in generale, la Bay Area. Già, perché se c’è 

un’idea da precisare, per Ghisini è proprio quello del 

contesto geografico del luogo. 

“Non amo parlare di Silicon Valley, non tanto perché 

non ne riconosco l’importanza, quanto piuttosto perché 

credo vada analizzata diversamente”. 

Da una parte a livello geografico. “Parlare di Silicon 

Valley è riduttivo – spiega – i suoi confini, se non fisici 

sicuramente mentali, sono più vasti e abbracciano tutta 

la Bay Area”. E poi c’è quell’ idea, anche italiana, 

secondo la quale la Silicon Valley sia un po’ una panacea 

per tutti i mali, “un concetto quasi agiografico, 

una Eldorado adattabile a chiunque, un luogo altro”. 

Ecco, non è così. “Su uno che qui riesce a costruirsi una 

propria idea di successo, ce ne sono mille che 

scompaiono (o gettano la spugna)”. Servono muscoli, 

serve coraggio, iniziativa, e anche molta fortuna. 

E spesso tutto questo può anche non essere sufficiente. 

PERCHÉ NO? 

“Arrivai negli Stati Uniti per la prima volta a metà degli 

Anni Novanta - racconta – all’epoca fresca di Laurea, 

lavoravo già da qualche anno per la McKinsey che mi 

propose di andare per qualche mese agli uffici di San 

Francisco, e io accettai”. Non c’era un piano ben 

preciso, “semplicemente la voglia di cogliere 

un’occasione, che è un po’ quella mentalità da ‘why not’ 

che diventa una sorta di selezione all’origine per tutti 

coloro che come noi decidono di intraprendere percorsi 

nuovi in Paesi diversi”. L’America degli Anni Novanta per 

Ghisini fu davvero una sorpresa. “Per me, che arrivavo 

da Milano, San Francisco apparve almeno all’inizio un pò 

piccola, quasi provinciale”. All’epoca poi, “c’erano 

ancora parecchie idee stereotipate sugli italiani e sull’Italia 

- aggiunge – un posto di cui si pensava più alla sua 

storia passata che non a quella presente e di cui si 































voluptur alitaerrum que dero et ad quation sequis et porem 

a nonseque voluptiunt haria doluptur modiorestio et 

as sum sae quation sequis et porem a nonseque voluptiunt 

haria doluptur modiorestio et as sum saeore stiunti 

illente mporere perios reritis sunt rem quae volecta cone 

volut que sam fugiatur susciusa sequam et atet ut offic 

tem quibus demo mos molor am ulluptius aut fuga. Ut 








quation sequis et porem a nonseque voluptiunt haria doluptur 

modiorestio et as sum saeore stiunti illente mporere 


sam fugiatur susciusa sequam et atet ut offic tem quibus 




ignoravano tecnologie e potenzialità”. 

Tornata in Italia per qualche mese, Ghisini decise di 

ripartire anche grazie ad un contratto che la McKinsey le 

offrì proprio a San Francisco “Mi fecero direttore 

dell’ufficio comunicazione, che non è cosa da poco, 

soprattutto se si considera che io non fossi americana 

e non avessi studiato negli Stati Uniti”. Dalla McKinsey, 

passò alla Burson – Marsteller, e poi a Stanford, alla 

San Francisco University, per finire oggi alla Hult Business 

School; alla docenza universitaria affianca l’attivita 

di consulente di comunicazione aziendale come libera 

professionista “Ma non mi sono mai sentita un cervello 

in fuga, semplicemente una professionista globale”. 

LA CAPACITA’ DI AUTOGENERAZIONE 

DELLA VALLEY 

Intanto San Francisco, la Bay Area e forse anche 

l’America cambiavano. Ci fu la crisi del 2008, che poi 

lentamente passò, il boom edilizio e quello degli affitti. 

La Silicon Valley venne data per spacciata, poi si riprese 

e crebbe di nuovo: il cerchio si chiuse. “La Silicon Valley 

ha sempre avuto questi periodi altalenanti di boom 






















ratatin ea dolore commolo ribusandae molecabo. Nul-

seguiti da depressioni più o meno intense – aggiunge 

Ghisini – eppure ha sempre dimostrato la propria 

capacità di auto – rigenerazione”. Anche l’America negli 

anni è cambiata. “Se prima l’Europa quasi non veniva 

considerata e la globalizzazione invece era un concetto 

che si declinava tutto ad Oriente, oggi il vecchio 

continente è stato nettamente rivalutato, soprattutto 

qui, sulla costa Ovest”. 

Ma forse ancora non basta. Perché se è vero da un lato 

che gli Stati Uniti in generale, e la Bay Area in 

particolare, sono luoghi di migranti, costruiti attraverso 

varie mescolanze, è altrettanto vero che proprio questa 

commistione forzata rischia a volte di diventare terreno 

fertile per incomprensioni . 

“Esistono atteggiamenti anche diametralmente opposti 

fra persone che appartengono a culture o contesti 

sociali diversi”. Come ad esempio fra gli italiani e gli 

americani: “E qui - aggiunge Ghisini - non sto dando un 

giudizio, semplicemente mi limito a fare una 

constatazione”. Gli italiani, ad esempio, sono bravi 

funamboli nel risolvere problemi contingenti e 

inaspettati, creativi di pancia e di cuore, perché cresciuti 

spesso nell’incertezza e circondati dal bello, il che 

acuisce la creatività Eppure, non sono pragmatici come 

gli americani che invece si presentano fin da subito 

come ottimi organizzatori. “Se guardiamo bene a queste 

differenze vediamo però che portano entrambe a dei 

benefici, nella vita di tutti i giorni, come nel business”. 

Qui entra in gioco la comunicazione interculturale, vera 

arma segreta, che nella sua forma positiva e propositiva 
































appresenta uno scambio, in cui nessuno perde nulla e 

tutti imparano qualcosa. “Penso – aggiunge – all’idea di 

“giving back” (tradotto letteralmente come dare indietro 

o meglio fare qualcosa di proattivo per il sociale) che 

ancora non e’ molto diffusa in Italia ma che qui 

è talmente forte e sentita da rappresentare una delle 

peculiarità più belle degli Stati Uniti”. 

La stessa idea di successo è personale e sarebbe 

riduttivo standardizzarla all’idea “dell’imprenditore con 

la Ferrari e il jet privato – spiega Ghisini - perché si può 

avere successo in tanto modi, dipende da ciò in cui si 

crede e, alla fine, dalle cose che più si amano fare”. 

Che poi, è un po’ la sintesi della vera ricerca della 

felicità. 















“SU UNO CHE 

QUI RIESCE A 

COSTRUIRSI UNA 

PROPRIA IDEA DI 

SUCCESSO, 

CE NE SONO 

MILLE CHE 


SCOMPAIONO.”


“QUELLO FU UN VERO 

SALTO NEL BUIO. 

OGGI,ANCHE PER 

MISSIONI COME 

QUELLA SULLA LUNA, 

I RISCHI SONO 

CALCOLATI, MA 

ALLORA, CON GLI 

STRUMENTI 

DELL’EPOCA, L’IDEA 

DI ATTRAVERSARE 

L’ATLANTICO FU 

QUALCOSA DI 

VERAMENTE 

CORAGGIOSO.” 


Yurek Parodi 

INGEGNERE SISTEMI SPAZIALI 

SPACE SYSTEMS ENGINEER 

NASA AMES RESEARCH CENTER

LA SCIENZA DELLA VITA SU MARTE 

Fra dieci anni lui si vede sulla Luna ad estrarre acqua 

dai poli. Per Jurek Parodi, quello che lo ha portato da 

Genova alla NASA a Moffet Field in California, 

è stato un viaggio emozionante. O meglio, ne è stato 

l’inizio. Perché, come sottolinea, “siamo solo agli albori 

dell’esplorazione spaziale, solo all’inizio di quello 

che è destinato a diventare un rapporto stretto fra 

l’uomo e tutto ciò che esiste al di fuori dell’atmosfera”. 

Lo spazio profondo, con i suoi segreti, aspetta. 

E lui, Jurek, è pronto a partire. “Mi offrissero un 

posto per una missione interspaziale accetterei senza 

pensarci due volte, del resto è sempre stato il mio 

sogno”. 

Papà genovese e madre polacca, Jurek ha preso un 

aereo per la prima volta a cinque mesi. E forse l’amore 

per l’ingegneria aerospaziale è nata proprio da 

lì. “Ricordo che mentre i miei compagni disegnavano 

animali e casette, io fin da piccolo disegnavo aerei”. 

In quarta feci una ricerca di 72 pagine sullo spazio, 

come a sancire una scelta che da lì in poi non l’avrebbe 

più abbandonato. “Ho sempre avuto le idee chiare 

su quello che volevo fare – racconta – a differenza dei 

miei compagni, io volevo lo spazio”. E alla fine l’ha 

ottenuto. Liceo scientifico prima, laurea al Politecnico 

di Torino poi: la svolta alla fine della Specialistica. 

APPRODARE ALLE NASA 

“Vinsi una borsa di studio di sei mesi per preparare 

la tesi in un’università di Chicago”. Le cose però andavano 

per le lunghe: “Mentre aspettavo la risposta 

dell’Ateneo avevo finito tutti gli esami, chiesi allora 

al mio professore di tesi altre opzioni, e fu così che 

finii in California a lavorare per un progetto di Alenia 

Space”. L’idea era di fare quattro giorni di ricerche da 

Alenia e uno alla NASA: “Ma la NASA non fu d’accordo 

e io finii a spendere quasi tutto il mio tempo 

all’agenzia”. Fu emozionante, ma non era che l’inizio. 

Il giorno dopo la tesi la proposta: “Mi chiesero di 

tornare negli Stati Uniti per continuare a lavorare sul 

progetto che avevo iniziato e io accettai”. Tre mesi 

dopo era in California. “Iniziai ad occuparmi di studiare 

modi per ottimizzare i sistemi di supporto vitale 

per la stazione spaziale”, ambito di ricerca su cui 

ancora oggi lavora. “Le cose negli ultimi anni sono 

cambiate – spiega – se infatti prima qualsiasi cosa 

venisse pensata per le missioni spaziali era semplicemente 

un prodotto meccanico ed ingegneristico, 

adesso si sta facendo strada l’idea che per 

sopravvivere davvero nello spazio profondo dobbiamo 

prendere esempio dalla Natura”. Jurek Parodi lavora 

infatti per il settore di Bioingegneria della NASA, 
















































fuga. Ita sed quas etur 

con rernate poresti qus et lam si natendis eos eicatae 

mil molupti berspe dolorep eritatem autae 


deliquam fuga. Ita sed quas etur maximod que 



quello che fa parte della più grande Space Science 

division. “Sono tre i fattori su cui dobbiamo lavorare 

per assicurare la sopravvivenza dell’uomo nello spazio: 

acqua, ossigeno e protezioni dalle radiazioni 

cosmiche”. Fintanto che la stazione spaziale orbita 

attorno alla terra il problema non sussiste: “Se manca 

acqua o cibo, li possiamo spedire agli astronauti, se si 

rompe qualcosa, lo possiamo aggiustare”. Ma il giorno 

in cui l’uomo partirà per Marte questo non sarà 

possibile: “Siamo all’nizio della ricerca nel campo – 

spiega Parodi – ora come ora, con le tecnologie in 

nostro possesso, gli astronauti non sopravvivrebbero 

al viaggio su Marte ad esempio a causa delle radiazioni 

cosmiche da cui non sappiamo ancora come proteggerci”. 

Eppure, le cose possono cambiare. 

“Se pensiamo alla storia dell’uomo. 

Possiamo osservare come siamo passati dal viaggiare 

via nave seguendo le coste del Mediterraneo ai 

velieri, ai transatlantici, fino agli aerei e agli shuttle”. 

Da attraversare bracci di mare, da riva a riva, siamo 

arrivati sulla Luna: “Ce lo hanno permesso la tecnologia 

e la scienza”. E poi c’è l’innata curiosità umana, 

la stessa che mosse Cristoforo Colombo a lasciare 

il Portogallo per andare alla scoperta delle Indie. 

“Quello fu un vero salto nel buio – commenta Parodi 

– oggi, anche per missioni come quella sulla Luna, 


























reritis sunt rem quae volecta cone volut que sam

National Aeronautics and Space Administration 

Synthetic Biological Membranes (SBM) 

Abdelrahman Budair 1 , Michael Flynn 2 , Jaione Romero-Mangado 2 , Jurek Parodi 2 

1 

University of Cambridge, 2 NASA Ames Research Center 

Abstract 

One of the problems faced by long human space flight missions is the reliability of the advanced life support systems. It affects both the safety and the cost of the mission. This project tests and develops a novel membrane that uses a biomimetic 

technology to generate the Synthetic Biological Membrane (SBM). This membrane increases the reliability of the system by mimicking biological membranes found in the cells of the human body. A lipid-based membrane was developed to purify 

wastewater that has the ability to self-repair when exposed to physical or chemical damage. The SBM uses forward osmosis to purify water that includes genetically modified organisms that are grown in the osmotic agent secreting fatty acids that 

diffuse across the membrane to the feed, providing a sacrificial protective layer on the active side of the membrane. Different membranes are being tested in the lab by first trying to foul the membrane using calcium carbonate and then by trying to 

defoul it with the genetically modified cyanobacteria providing the needed fatty acids as a sacrificial layer. Other experiments are conducted to test the permeability of the membranes for certain desirable fatty acids and their role in protecting the 

membrane from any mineral scale, organic fouling, and oxidative damage. This technology is suitable to be used in human missions to Mars that lasts two or three years without the need to repair the membranes in addition to its capability of 

revolutionizing water treatment on Earth. 

Experimental Methodology 

Feed O.A. Day #3 O.A. Day #3 O.A. Day #8 

T.O.C (wt%) 20.7 4.6 4.9 6.7 

FeedLoop 

Pressure 

Transducer 

OALoop 

Pressure 

Transducer 

Total organic carbon (T.O.C) results show transfer of the palmitic acid from the feed side to the 

osmotic agent (O.A.) side that proves the permeation of the fatty acids across the membrane. 

FeedTank 

FeedLoop 

FeedLoop 

FlowMeter 

FeedPump 

FeedScale 

MembraneContactors 

Pressure 

Differen al 

Transmi er 

OALoop 

OALoop 

FlowMeter 

OAPump 

OAScale 

OATank 

• Genetically engineered strains of Synechococcus sp. PCC 

7002 (SO7) produces palmitic acid, myristic acid and stearic 

acid (red arrows) in concentrations reaching >130 mg/L. 

• These fatty acids will provide a sacrificial layer for the 

synthetic biological membrane. 

• SO7 were grown in A+ 

supplemented 

with 

spectinomycin sulfate at 26 

°C, 150rpm,60 umol/m 2 s in a 

16 h light and 8 h dark cycle. 

• Each column of the 96 well 

plate contains A+ and a 

different salt concentration 

(NaCl) to determine the salt 

tolerance of SO7 for future 

growth in the OA. 

• The above diagram represents the system used to test 

the biomimetic membrane. An efficient water treatment 

system for human space missions to purify urine, 

hygiene water and humidity condensate into potable 

water. 

• Forward osmosis process is used to purify the solution 

with a driving force created by the osmotic pressure 

difference. Water crosses the membrane to the osmotic 

agent side that has higher osmotic pressure, separating 

it from its contaminants. 

• Two experiments were conducted 

1. Fouling of the membrane: 

Calcium carbonate was used in the feed side and a 

NaCl solution as the osmotic agent to create the 

osmotic potential difference. Decrease in 

efficiency of the membrane was noticed as the 

flow rate decreases with each further run. A study 

conducted on the effect of number of hour runs on 

the efficiency of the membrane. Fatty acids 

produced by genetically modified cyanobacteria 

will be used to mitigate membrane fouling. 

2. Permeation for fatty acids across the membrane: 

Palmitic acid was used as a representative of the 

three fatty acids secreted by the genetically 

modified cyanobactetria. A study for the 

permeation of palmitic acid across the membrane 

was conducted by measuring the total organic 

carbon (T.O.C) on the osmotic agent side. The 

fatty acids will work as a sacrificial layer (crossing 

the membrane to the active side of it) removing 

any fouling materials. Raman Spectroscopy was 

Volume [ml] 

Results 

Raman Spectroscopy spectra of the control FO membrane (red) and the FO membrane used 

for FA permeation studies (blue). The data was collected using a 785 nm laser and the samples 

were focused through a 50x objective of the microscope. The spectrometer was operated in the 

extended mode at 500 mW laser power. The signal was recorded from 365 to 3200 cm- 1 and 

the acquisition time for all spectra was 60 s. 

Osmotic Agent 

900 

• The diagram shows a decrease 

850 in the flow rate of the system in 

the last run that lasted 8 days. 

800 

• Calcium carbonate is found to 

750 be one of the factors for 

membranes to foul. 

Conclusion and Future Work 

700 

Contact Information 

650 

O.A. #1 O.A. #2 

O.A. #3 O.A. #4 

600 

O.A. #5 O.A. #6 

Abdelrahman Budair: 

Michael Flynn: 

550 

O.A. #7 

www.nasa.gov 

• a.a.budair@gmail.com 

• michael.flynn@nasa.gov 

“Confidential used to identify the layer formed - by Not the fatty acid. for distribution - pre-production 

500 

Jaione Romero-Mangado: 

Jurek Parodi: 

copy “ 

12:00:00 AM 1:12:00 AM 2:24:00 AM 3:36:00 AM 4:48:00 AM 6:00:00 AM 7:12:00 AM 8:24:00 AM 

Time 

The diagram shows the growth rate of SO7 as a function of salinity (2.5%-9% NaCl) during 14 days. 

Optical density (OD) readings were taken every 24 hours until no additional growth was detected. 

The membrane efficiency decreased over time when using Calcium Carbonate in the feed 

solution. Palmitic acid was found to pass across the membrane and precipitated on the membrane 

creatin a sacrificial layer. The genetically modified Synechococcus sp. produced palmitic acid, 

myristic acid and stearic acid and it grows in salt concentrations between 2.5-9%. The next step is 

to integrate all the work in one system and test its reliability for water purification and its ability to 

repair itself without the need of human intervention. 

References 

• Ruffing, A. M. (2014). Improved free fatty acid production in cyanobacteria with Synechococcus 

sp. PCC 7002 as host. Frontiers in bioengineering and biotechnology, 2. 

• Flynn, M., Romero, J., Parodi, J., Mancenelli, R., Dougherty, M., & Loftus, D. (2016, July). 

Synthetic Biological Membrane. 46th International Conference on Environmental Systems. 

Acknowledgments 

Special thanks to the Crown Prince Foundation (CPF) for funding this internship program from 

Jordan. Also to NASA Ames Research Center and NASA International Internships Program I^2 for 

their great support offering this unique opportunity to conduct this research under their supervision. 

• jaione.romeromangado@nasa.gov 

• jurek.parodi@nasa.gov 

i rischi sono calcolati, ma allora, con gli strumenti 

dell’epoca, l’idea di attraversare l’Atlantico fu qualcosa 

di veramente coraggioso”. 

LIBERTA’ E DINAMISMO 

In America da cinque anni, Jurek Parodi si sente un 

cittadino del mondo. “Dell’Italia apprezzo la cultura, 

l’educazione che mi ha dato, e soprattutto il senso di 

appartenenza, l’identità se vogliamo – sottolinea - ma 

anche qui in America, e forse in California specialmente, 

ci sono cose da amare, come il fatto di unire 

tanti mondi diversi senza appartenere a nessuno”. 

Libertà e dinamismo, quindi, che Parodi ritrova ogni 

giorno aprendo le porte dei laboratori della NASA. 

“Non c’è nulla che non ami della mia vita all’agenzia, 

– racconta – la mia è stata una questione di fortuna, 

certo, ma anche di merito, perché ho lavorato tanto 

per arrivare dove sono”. Nel suo futuro c’è e continuerà 

ad esserci, la scienza anche se come questa 

continuerà a svilupparsi, in che modi e soprattutto in 

quali settori, dipenderà probabilmente da altri fattori. 

“Sembra che la nostra società viva sull’orlo di una 






















Natectiore nonserror asitenture et hilles aut pore-

nuova corsa allo spazio, simile forse a quella degli 

anni Cinquanta e Sessanta, una gara che, oggi come 

allora, nasce soprattutto per una questione di delicati 

equilibri geopolitici”. Cosa porterà all’umanità 

è ancora presto per dirlo. “Se penso al mondo fra 

trent’anni immagino basi lunari, con la presenza umana 

più o meno stabile sul nostro satellite”. E Marte, 

invece? “Dipende – spiega – non ci siamo ancora, ma 

un giorno forse non lontano, ci arriveremo”. Come 

Colombo che raggiunse le Americhe. E come i tanti 

altri pionieri che nei secoli ci hanno condotto, un 

viaggio alla volta, dove siamo. “Serve spirito di sacrificio, 

commenta Parodi - passione e fortuna, forse”. 

Ma anche il coraggio di prendere e salpare, senza 

sapere se dall’altra parte c’è qualcosa da scoprire, oppure 

no. 

Perché alla fine, in ogni avventura, non conta tanto la 

destinazione, ma il viaggio stesso: ovvero l’andare a 

vedere che cosa si nasconde dall’altra dell’orizzonte. 





















“DELL’ITALIA 

APPREZZO LA CULTURA, 

L’EDUCAZIONE CHE MI HA 

DATO, E SOPRATTUTTO IL 

SENSO DI APPARTENENZA, 

L’IDENTITÀ SE VOGLIAMO – 

SOTTOLINEA - MA ANCHE QUI 

IN AMERICA, E FORSE IN 

CALIFORNIA SPECIALMENTE, 

CI SONO COSE DA AMARE, COME 

IL FATTO DI UNIRE TANTI 

MONDI DIVERSI SENZA 

APPARTENERE 

A NESSUNO.”


Foto di Carlo Borlenghi

“PER CONQUISTAR- 

LO(IL PODIO), NON 

BASTA APPLICARE 

IL CONOSCIUTO, 

OCCORRE FARE 

UN PASSO IN PIÙ, 

SVILUPPARE 

TECNOLOGIE CHE 

“Confidential 

PERMETTANO 

- Not for distribution - pre-production copy “ 

TEMPI DA RECORD, 

PERCHÉ NELLA 

VELA VINCE LA 

SCIENZA, OVVERO 

LA BARCA 

MIGLIORE.” 

Giorgio Provinciali 

DISEGNATORE DI BARCHE A VELA E FLUIDODINAMICO LUNA ROSSA 

SAILBOATS APPENDAGES DESIGNER AND FLUID DYNAMICIST 

INGEGNERE

Foto di Carlo Borlenghi 

Sono bastati due minuti e quarantaquattro secondi 

per cambiare di colpo il mondo della vela. Il tempo 

di un caffè, di una corsa in ascensore. Del viaggio 

dall’ultima boa al traguardo in quel 14 febbraio 

2010, quando nella baia di San Francisco, Usa17 trimarano 

del team BMW Oracle Racing vince la Coppa 

America su Alinghi 2-0 dopo una rimonta straordinaria, 

di quelle risalite destinate a rimanere negli 

annali delle competizioni sportive. Lui, Giorgio Provinciali, 

ingegnere navale e aeronautico, all’epoca 

con Luna Rossa e oggi parte del Team Oracle, quel 

giorno se lo ricorda bene. Da uno svantaggio di 8 – 

1, alla vittoria: “Era come se all’improvviso si fossero 

messi a volare sull’acqua”. Una questione di 

equilibri, di calcoli e di tentativi, come sa bene lui 

che di professione fa l’esploratore. Uno di quelli sui 

generis, che attraverso i numeri e leggi della fisica, 

vanno alla ricerca della performance perfetta. 

Giorgio Provinciali che quella perfezione la cerca nel 

design di scafo e vele, lavora sui dettagli, 

esplorando ogni millimetro disponibile: “La sfida per 

noi progettisti è quella di sfruttare ogni angolo della 

barca per guadagnare decimi, o anche solo centesimi 

di nodo”. Passare ad Oracle per lui “ è stata una 

scelta difficile; – spiega – Luna Rossa era la mia famiglia”. 

Ma per crescere professionalmente spesso 

ci si deve gettare in ambienti più scomodi: “Lavorare 

con il team di Oracle è meno semplice, eppure stimolante 

e intensamente appagante per le sfide progettuali 

e di design che mi permette di affrontare”. 

Nato nel 1969 a Milano si trasferisce in Francia ad 

11 anni, per tornare in Italia tre anni dopo. Si iscrive 

al Politecnico di Milano, in Ingegneria Aerospaziale e 

lì scopre il Progetto Time. “Ci dava la possibilità 

di frequentare per tre anni una scuola all’estero e di 

conseguire la doppia laurea”. Giorgio fa le valigie e 

parte per Parigi dove per tre anni frequenta l’Ecole 

Nationale Supérieure de Techniques Avancées in 

Ingegneria Navale. E lì la svolta. “Gli studenti del 

corso precedente avevano iniziato a lavorare al 















“Confidential - Not for distribution autam adipiciendi - pre-production dolore eumquatur, abor copy aliquas “ 

















poresti qui dit que venisti voluptur alitaerrum que 

dero et ad quation sequis et porem a nonseque voluptiunt 

haria doluptur modiorestio et as sum sae 






dero et ad quation sequis et porem a nonseque vo-




















































expla samus et lam si natendis eos eicatae mil moprogetto 

di un catamarano di nuova generazione – 

ricorda – il prototipo era pronto, ma la classe che lo 

aveva realizzato si era laureata, quindi il mio gruppo 

iniziò a metterci le mani”. Nel 1993 si laurea in 

Ingegneria Navale, nel 1995 consegue anche la laurea 

al Politecnico in Ingegneria Aerospaziale e nel 

1996 il catamarano a cui aveva lavorato per tre anni 

batte il record del mondo di velocità in categoria 

D. “Se guardo la mia vita mi rendo conto che la 

svolta principale, nasce proprio da quegli anni parigini 

che mi hanno permesso di seguire strade inconsuete”. 

Percorsi diversi, che dai lidi italiani lo 

conducono ai moli del trimarano americano. Usa17 

era una barca spaventosa. Ali grandi come quelle di 

un boeing, scafo ultraleggero e un’appendice in più, 

il foil – la pinna che permette ai catamarani stabilità 

assoluta - di cui Giorgio Provinciali, passato al team 

americano, inizia ad occuparsi, assieme al design 

delle vele e dello scafo, In Italia ci torna spesso: “Da 

che ho iniziato a viaggiare le mie trasferte sono state 

sempre più lunghe e distanti, ma l’Italia la porto 

nel cuore, sempre”. E con lei, anche il talento degli 

italiani. “Se c’è una cosa in cui credo che gli italiani 

siano veramente capaci – spiega – è quella di saper 

reagire agli imprevisti, di dare il meglio quando le 

cose vanno per il verso sbagliato e quando si tratta 

di ricominciare senza programmi”. Non è da tutti: 

“Lavoro e ho lavorato con tantissimi giovani 

ingegneri italiani e devo dire che la loro preparazione 

è sempre stata all’altezza delle aspettative – 

spiega – un fatto, questo, che dovrebbe portarci tutti 

a riconsiderare la qualità del nostro sistema scolastico”. 

Di San Francisco, ha un bel ricordo. “Si ha l’impressione 

che in California possa succedere di tutto, 

ci si sente quasi circondati dalla consapevolezza di 

vivere nel luogo in cui nascono le idee e si faccia 

innovazione per davvero”. Della Silicon Valley ricorda 

le lunghe ore passate al lavoro, ma anche la 

sensazione di trovarsi in un ambiente diverso, aperto 

ad ogni stimolo esterno, in grado di fare innovazione 

senza limiti o barriere, come in Coppa America. 

“Vincere l’America’s Cup, aggiudicarsi il trofeo più 

difficile, è il filo che ci muove tutti, che ci spinge 

a dare sempre di più, a cercare ogni centesimo di 

nodo, a sfruttare ogni fibra dello scafo, ogni millimetro 

di vela, per arrivare al podio”. Ed il parrallelismo 

con la Silicon Valley resta evidente: “Per conquistarlo, 

non basta applicare il conosciuto, occorre fare un 

passo in più, sviluppare tecnologie che permettano 

tempi da record, perché nella vela vince la scienza, 

ovvero la barca migliore”. Proprio come fra i giganti 

della Silicon Valley. 






190

“IL 35% DEL MIO 

STIPENDIO VIENE 

DA FONDI PER LA 

RICERCA, NON 

DALL’UNIVERSITÀ 

E QUESTO È UNO 

STIMOLO A FARE 

SEMPRE DI PIÙ.” 


Alberto Salleo 

PROFESSORE ASSOCIATO DI SCIENZA ED INGEGNERIA DEI MATERIALI 

ASSOCIATE PROFESSOR OF MATERIALS SCIENCE AND ENGINEERING 

STANFORD UNIVERSITY


ALLA SCOPERTA DEI MATERIALI CHE GOVERNA- 

NO LA NOSTRA ESISTENZA 

Studiare l’infinitamente piccolo, lavorare a livello 

atomico e molecolare per fare scoperte di 

importanza globale, applicabili in tanti settori, da 

quello tecnologico, alla medicina, alla produzione 

energetica, è il vasto ambito di cui si occupa la 

scienza dei materiali, campo in cui lavora, da quasi 

un quarto di secolo, il professor Alberto Salleo. 

Dopo la laurea in Chimica in Italia nel 1994, comincia 

un dottorato di ricerca presso l’Università di 

Roma, quando gli si presenta l’occasione di una borsa 

di studio Fulbright. Si tratta di un programma che 

dal 1948 si occupa di favorire gli scambi accademici 

tra l’Italia e gli Stati Uniti, attraverso progetti di specializzazione 

post lauream. Grazie a questa borsa 

Salleo ha avuto l’opportunità di scegliere un’università 

statunitense in cui continuare il proprio percorso 

di ricerca, e dopo essere stato accettato a Berkeley, 

la più rinomata università pubblica nel mondo, ha 

svolto il suo dottorato al Lawrence Livermore Lab, 

un laboratorio di ricerca del Dipartimento dell’Energia 

degli Stati Uniti d’America. Quegli anni al Liver- 
























SCIENCE

more sono stati finalizzati allo studio di un problema 

riguardante l’uso di fasci laser per ottenere la fusione 

nucleare, il NIF – National Ignition Facility. 

Detto in parole semplici, i fasci laser rovinavano le 

lenti usate per concentrare i fasci, che ogni tanto 

finivano addirittura con l’esplodere. 

Una volta conseguito il Ph.D. in Materials Science, 

siamo nel 2001, ha colto l’opportunità di lavorare 

allo Xerox Palo Alto Research Center. Detto anche 

“Xerox PARC”, era uno dei laboratori più ambiti 

della Silicon Valley. «PARC si occupava di “blue sky 

research”, cioe’ di ricerca fondamentale e si progettavano 

elementi che lasciavano intravedere come 

sarebbe stato il futuro – racconta Salleo – ho lavorato 

sui materiali plastici da usare su circuiti stampati. 

Oggi in quel laboratorio si testano anche applicazioni 

bioelettroniche». 

LA TECNOLOGIA MINIATURIZZATA ALL’INTERNO 

DEL CORPO UMANO 

Ai profani la scienza dei materiali può sembrare una 

materia oscura, lontana dalla vita di tutti i giorni, ma 

i settori in cui si applica sono tanti, alcuni ci riguardano 

molto da vicino: uno di questi è la medicina. 

«Grazie allo studio dei materiali, si creano cose 

come i trasduttori di segnali neuronali che possono 

essere inseriti nel cervello, oltre che pompe ioniche 

a livello cellulare. Si può immaginare, ad esempio, 

un sistema chiuso con un sensore che possa rilevare 































nascere». 

Applicazioni “Confidential lontanissime e - vicinissime Not for all’uomo, distribution tis dolestrum - pre-production que nost, culparchit, to occulpa copy incia “ 

l’infinitamente piccolo che opera sull’infinitamente cus eum, vel et auteste eribus excepta sene maxim 

grande: «questo è uno dei temi più scandagliati nella dolore solum et volorest, sus qui blatisqui adis mollit 

Silicon Valley, riuscire ad applicare il know-how della 

miniaturizzazione in campi diversi, perché il res que re nos quo cus, tectemqui simus, to eum 

renducium la simin endi comnimu sanditis quaspe- 

potere di calcolo di chip di piccole dimensioni è quia nulparum ulligent fugitam, cus mint omnisquo 

enorme e la tecnologia che lo ha creato 



è potentissima e si può applicare a diversi campi». 

Salleo oggi dirige un gruppo di ricerca alla Stanford poreium qui volupta tiusam veribusapide autem sam 

University. Il “Salleo Research Group” è focalizzato autam adipiciendi dolore eumquatur, abor aliquas 

proprio sui nuovi materiali, sulle loro applicazioni su apis eictur auta por ma di cus aspitin ctotam, aut 

larga scala, sulla struttura e le proprietà dei semiconduttori 

polimerici, sulle nano strutture. Le applito 

con nihilig enihicipsam id molesse caecerum ace- 

voluptatquae electo et, quature con nem alit, cullancazioni 

che studiano vanno da celle solari e dispositivi 

che imitano la funzionalità delle sinapsi e sensori sum id mod quiaspiet harupta tatatur? Quia sunt. 

pedi cietur, ium restio berioria et veliquo dio officip- 

“wearable” (indossabili) per la diagnostica in tempo Natectiore nonserror asitenture et hilles aut porecep 

reale e la “precision medicine”. 



LA SPINTA ALLA RICERCA DELLE UNIVERSITÀ Nulparc hillore stiunti illente mporere perios reritis 

AMERICANE 


«Mi considero uno che è finito qui per diverse circostanze 

– dichiara – ma non sono fuggito da una mos molor am ulluptius aut fuga. Ut eossum que est 


situazione tremenda. Anzi, mi ritenevo abbastanza expla samus et lam si natendis eos eicatae mil molupti 


soddisfatto, ero già entrato in un circuito che mi 

avrebbe portato a diventare ricercatore in tempi Nam fugit et, tessi comnihicit et deliquam fuga. Ita 

brevi». Una delle caratteristiche della Silicon Valley e sed quas etur maximod que prepro mincia con reri 

livelli di calcio, potassio, oppure possa prevedere 

l’arrivo un attacco epilettico analizzando le onde 

cerebrali, e che potrebbe anche rilasciare un farmaco 

se necessario per fermare l’attacco epilettico sul 





que quatemporem fuga. Picia perum qua- 

194 SCIENCE

“QUESTO 

È UNO DEI TEMI PIÙ 

SCANDAGLIATI NELLA 

SILICON VALLEY, RIUSCIRE 

AD APPLICARE IL 

KNOW-HOW DELLA 


IN CAMPI DIVERSI, PERCHÉ 

IL POTERE DI CALCOLO DI 

CHIP DI PICCOLE 

DIMENSIONI È 

ENORME.” 

del sistema americano è la possibilità di fare rete, di 

scambiare idee e opinioni con colleghi in tutti i campi, 

mentre in Italia i sistemi tendono a 





essere più insulari». 

Una “Confidential delle differenze fondamentali - Not sta anche for nelle distribution coreserenim - que pre-production quatemporem fuga. Picia copy perum “ 

somme che lo Stato investe nella ricerca: «Il 


35% del mio stipendio viene da fondi per la ricerca, incia cus eum, vel et auteste eribus excepta sene 

non dall’Università e questo è uno stimolo 


a fare sempre di più». 



Alberto Salleo non rinnega dunque l’esperienza 

fatta in Italia: «L’educazione italiana mi ha dato una to eum quia nulparum ulligent fugitam, cus mint 

base solida, che mi è stata utile nella formazione in omnisquo que non pel ipid exeriam, cus ne ne earcien 


America. I corsi erano ben strutturati. Devo dire che 

anche gli studenti italiani con cui ho a che fare qui tur, ullutem poreium qui volupta tiusam veribusapide 


sono molto preparati». «Io insegno termodinamica, 

e nel mio ambito i sistemi che non hanno differenza abor aliquas apis eictur auta por ma di cus aspitin 

di potenziale chimico sono in equilibrio, e dove c’è ctotam, aut voluptatquae electo et, quature con 

equilibrio non succede nulla. Per far muovere nem alit, cullanto con nihilig enihicipsam id molesse 

le cose, occorre una differenza di potenziale chimico. 

Se non c’è mobilità, sono tutti fermi ad 

qui simus, to eum quia nulparum ulligent fugitam, 

caecerumtis quasperes que re nos quo cus, tectem- 

aspettare». Ed è quello che deve succedere nel cus mint omnisquo que non pel ipid exeriam, cus 

mondo universitario del nostro Paese, i giovani ne ne earcien daerchi llandio officius doles aligent 

devono essere stimolati dallo scambio con i colleghi 

e con l’esterno, e devono avere possibilita’ di veribusapide autem sam autam adipiciendi dolore 


“upwards mobility” nella loro carriera. In mancanza eumquatur, abor aliquas apis eictur auta por ma di 

di cio’, il sistema è statico. 

cus aspitin ctotam, aut voluptatquae electo et, quature 

con nem alit, cullanto con nihilig enihicipsam 

Come ebbe a dire una volta il fisico statunitense 

Howard Hathaway Aiken «Il problema in questo id molesse caecerumtis quasperes que re nos quo 

settore non è impedire alle persone di rubare le tue cus, tectemqui simus, to eum quia nulparum ulligent 

fugitam, cus mint omnisquo que non pel idee, ma è far in modo che lo facciano». 

ipid


“NELLA FERRARI, 

NELLA DUCATI 

C’È TANTA 

TECNOLOGIA, 

EPPURE 

ALL’ESTERO 

SEMBRA QUASI 

CHE TUTTO 


L’HIGH – TECH 

LO FACCIA 

QUALCUN 

ALTRO.” 

Fabrizio Capobianco 

PRESIDENTE TOK.TV 

TOK.TV CEO


Parlare di lui è un po’ come incontrare un Robin 

Hood contemporaneo, un genio pacato, un visionario 

sorridente. Fabrizio Cabobianco, CEO e fondatore 

di Funambol e TOK tv in Silicon Valley ci vive da 

vent’anni. Ma dentro si sente italiano. Anzi, di più. 

Un paladino all’italiana. E per capirlo basta guardare 

al suo lavoro. A quelle aziende fondate, sì, nella Bay 

Area, con capitali Americani. Ma con un’anima tricolore. 

“Si prende da una parte – scherza – e si porta 

qui, come Robin Hood; perché in Italia il genio non 

manca, mentre, invece, in America, scarseggia”. 

Nato nel 1970 in Valtellina, Capobianco si è laureato 

a Pavia in Ingegneria. “Noi della Valtellina la città, Milano, 

la saltiamo proprio - racconta -, è troppo grande, 

preferiamo qualcosa di più piccolo, come Pavia, 

dove aveva studiato mio padre, dove si è laureato mio 

fratello e dove, adesso, ci sta mio nipote”. 

La passione per la tecnologia era iniziata molto prima 

dell’Ateneo, così come quella per l’America. 

“Io ho imparato a programmare dalle riviste, allora 

non è che ci fossero molte possibilità”. E il suo primo 

computer se l’è comprato da solo. “C’erano i Commodore 

e quelli della ZX Sprectrum, con il tastierino 

di plastica”. Per i genitori, entrambi medici psichiatri, 

il computer non era che un gioco. Per Fabrizio Cabobianco 

invece una vera e propria passione che si è 



























portato dietro per il resto della vita. 

“In un mondo dove tutto è complicato, il fatto che 

l’algoritmo di un software possa funzionare e continui 

a farlo, da un senso di pace, di ordine”. Come 

fare del bricolage, come realizzare una mensola: “La 

finisci, la fissi al muro, ci metti le valigie e sai che hai 

fatto qualcosa di bello, qualcosa che serve”. 

E poi per Capobianco nel software c’è design e creatività. 

“Gli italiani sono bravi a fare software, hanno 

talento, sono ottimi problem solver, non si impantanano 

mai loro, a differenza degli americani”. Forse 

anche per una questione di substrato culturale che 

nel bene o nel male, insegna a tutti la cosiddetta arte 

di arrangiarsi. A mancare in Italia, per Capobianco, 

sono altre cose. Come fare seriamente del marketing 

sulle capacità di innovazione e sviluppo del Paese, o 

come promuovere politiche volte a rendere il mercato 

del lavoro e quello dell’impresa più agili e meno burocratizzati. 

“Nella Ferrari, nella Ducati c’è tanta tecnologia, 

eppure all’estero sembra quasi che tutto l’high 

– tech lo faccia qualcun altro”. Certo, tutti ricordano 

l’Olivetti: “Ma si tratta di un’azienda soltanto e di progetti 

ormai passati: il mondo cambia e un nome non 

basta più”. 

E allora forse si capisce meglio il sogno americano di 

Fabrizio Capobianco. “Fin da bambino per me la Silicon 

Valley era quel posto incredibile dove accadeva di 

tutto”. 

Dopo il Dottorato la prima occasione: “Alla mia fidanzata 

di allora, che poi è diventata mia moglie, era 

stato proposto nel 1995 di passare qualche mese in 

un laboratorio biotech americano e io l’ho seguita, 

come ‘invited scientist’ alla Hewlett - Packard qua a 

Palo Alto”. Da lì il primo incontro con la rete: “Ero in 

laboratorio, ho incrociato questa cosa che chiamavano 

Internet e ho pensato subito... ‘questo spacca’ ”. 

Da lì è nata la sua prima azienda italiana, la Internet 

Graffiti. “Avevo 23 anni e ovviamente non avevo la 

minima idea di cosa stessi facendo – scherza – : abbiamo 

iniziato a girare l’Italia e a proporre siti internet 

ad aziende del territorio, che non avevano neppure 

una mail che funzionasse! Siamo stati anche al Touring 

Club, che per me era perfetto per Internet: ricordo 

che il presidente quando glielo proposi, mi rispose: 

‘Interessante questa cosa, ma io non posso fare 

business con uno di 23 anni’ ”. Un problema, questo, 

purtroppo tutto italiano: “In America non succederebbe 

mai, se dici qualcosa che ha senso ti danno 

retta, perché l’età non conta proprio”. 

L’esperienza della Internet Graffiti, in ogni caso Capobianco 

la ricorda volentieri: “Abbiamo imparato 

tantissimo, c’era questa situazione curiosa delle reti 






















































Internet che facevano giri assurdi per arrivare in Italia, 

a volte ci mettevo di meno a collegarmi alle mie 

pagine italiane da Palo Alto che non dai server di Pavia 

dove il segnale passava per la Svezia e poi tornava 

indietro”. 

Difficoltà e sfide non sono mancate. Così come la 

voglia di scoprire qualcosa di nuovo, di tentare altre 

strade. Di andare là dove fare impresa continua 

ad essere più facile. Ad avere un senso: in America. 

Funambol è nata così: “Tutto è iniziato perché non 

riuscivo a trovare un modo per sincronizzare i miei 

contatti telefonici da un cellulare all’altro”. L’azienda, 

che propone un servizio di cloud storage multipiattaforma, 

è nata in America, ma ancora una volta con 

talenti sono tutti italiani: “Il problema, qui alla Silicon 

Valley, è che i programmatori bravi sono quelli si 

stanno aprendo le loro startup, poi ci sono quelli che 

lavorano per progetti innovativi e infine quelli che, se 

vogliono stare sul sicuro, vanno a Google o a Facebook; 

alle aziende più piccole, quelle appena aperte, 

restano i mediocri, gente che per giunta si aspettano 

villa, piscina e cibo gourmet”. I peggiori, insomma. 

“Per cui io mi sono detto: ma di ingegneri bravi, di 

talenti veri, io ne conosco tantissimi, l’Italia è piena”. 

Ed ecco che Funambol è nata con sede americana 

e polo a Pavia. “Ad un certo punto siamo riusciti ad 

avere il sindaco, il presidente della Regione e il rettore 

dell’Università che andavano d’accordo, ed è partito 

il progetto per l’hub tecnologico di Pavia che oggi 

raccoglie tante belle realtà; ricordo staccai il primo 

assegno e che realizzai uno dei primi edifici del complesso”. 

Eppure Funambol di clienti italiani non ne ha. “Abbiamo 

Orange, Telefonica, TIM Brasile, praticamente 

partner in tutta l’America Latina e in Asia, ma nessuno 

in Italia”. Capirci qualcosa non è facile: “Provai a 

parlare con TIM e Wind, all’epoca, ricordo incontrai 

anche Franco Bernabè,ma alla fine non se ne fece 

nulla”. Le ragioni sono tante, a cominciare da un’esterofilia 

esasperata unita anche una mancanza di 

fiducia nelle capacità del Paese. Non solo. A pesare 

è pure un’apatia costante verso il cambiamento, un 

immobilismo forzato e forzoso che di fatto paralizza 

le spinte più innovative del Paese. “Quando uno status 

quo viene mantenuto a forza, non si tratta più di 

difendere la speranza, è il contrario”. Anche perché, 

al di là dei muri o delle barriere, mentali o fisiche che 

siano, il mondo cambia ugualmente. 

TOK tv è un esempio di questo cambiamento. “Amo il 

calcio, anzi, amo lo sport, ma guardarlo da solo non è 

la stessa cosa, per risolvere il problema, ho creato un 

software che mi permettesse di guardare una partita 






















































in contatto con amici e familiari: oggi TOK tv è partner 

fra gli altri di Juventus, Barcellona, Real Madrid 

e Paris Saint Germain che sole faranno un miliardo di 

fan”. 

TOK tv, come Funambol ha un’anima doppia. Capitali 

americani e ingegneri italiani. Anzi, non solo italiani. 

“Il bacino è il mondo - sottolinea – TOK tv non ha un 

ufficio e i programmatori lavorano da casa, perché 

oggi non serve più essere nella stessa stanza, quando 

con Skype basta schiacciare un tasto per organizzare 

un meeting e quando la fibra ottica c’è ormai ovunque”. 

Il cambiamento resta dunque uno stato constante, un 

processo di crescita che va abbracciato e a cui ci si 

deve adattare. Altrimenti si rischia di scomparire, di 

seccare e venire spazzati via. Perché il domani, per 

Fabrizio Capobianco, non aspetta nessuno. E’ già qui: 

liquido e multiculturale, come le sue idee diventate 

aziende; creativo e fascinoso, come il design italiano 

che da sempre di porta nel cuore. Ed è pieno di 

passione. Perché il segreto del successo è proprio 

dedicare la vita a qualcosa che si ami davvero. “E’ il 

consiglio che do a mia figlia tutti i giorni – conclude -, 

è quello che le auguro di realizzare nel suo futuro”. 
























magnim ratatin ea dolore commolo ribusandae mo- 



“QUESTO SI 

CHIAMA 

GIVE BACK, 

RESTITUIRE. 

È LA COSA PIÙ 

BELLA CHE 

L’AMERICA 

MERITOCRATICA 

MI HA 

INSEGNATO.” 


Christian Ferri 

PRESIDENTE 

PRESIDENT 

BLOCKSTAR

È l’evangelista della blockchain in Silicon Valley e 

nel mondo intero. Calca i palcoscenici dei più grandi 

summit internazionali dedicati a questa tecnologia, 

per spiegare ad aziende, grandi organizzazioni e governi 

come capire e integrare la blockchain. Si chiama 

Christian Ferri, ha 35 anni, è arrivato in Usa a 21 anni 

con una valigia piena di sogni. «Scappavo da un’Italia 

che mi stava stretta e volevo farcela da solo». In tasca 

ha una laurea triennale in Economia a Udine, nel cuore 

il fascino per l’America e l’amore per una ragazza 

che poi lo ha raggiunto. 

Arrivato con un visto di lavoro, durante i primi tempi 

Christian fa uno stage in marketing per la Leovince di 

San Francisco, un’azienda italiana che produce pezzi 

di ricambio e marmitte per la vespa. Non parla bene 

l’inglese e di sera studia. Cinque giorni su sette va alla 

Berkeley University per seguire i corsi di lingua. 

I primi mesi sono da incubo. «Si chiama culture shock 

e ti sconvolge la vita». Poi il tempo passa, Christian 

si crea un gruppo di amici, ha un mentore (Vittorio 

Viarengo, italiano che da tempo vive in Silicon Valley) 

e trova nuove opportunità. Da San Francisco va 

a Los Angeles, dove lavora per tre anni come manager 

commerciale per Snaidero. Intanto, la fidanzata 

Elena Vendrame si laurea in Medicina a Padova e lo 

raggiunge a Los Angeles, dove trova lavoro all’Università 

della California come ricercatrice. Passa qualche 

tempo, la coppia si trasferisce sulla costa orientale. 

Elena frequenta la specialità in Medicina interna alla 

University of Pennsylvania a Philadelphia (oggi è una 

scienziata che lavora a Stanford). Christian va nello 

Stato della Grande Mela, fa un Master in Business 

Administration alla Cornell University e la sua vita 

cambia. 

Entra in una società di consulenza importante, la 

PricewaterhouseCooper. «Per quattro anni mi sono 

occupato di consulenza strategica nel settore tecnologico. 

Poi un giorno un amico mi ha parlato di Bitcoin. 

Era il 2013. Ho iniziato a studiare il White Paper di 

Satoshi Nakamoto, ho capito la blockchain e mi sono 

appassionato. Ho frequentato convegni, seminari, ho 

studiato moltissimo fino a quando la gente ha iniziato 

a chiedermi consigli».Oggi Christian è il fondatore e 

Ceo di BlockStar, società di consulenza e investimento 

che aiuta le grandi aziende a capire la tecnologia 

blockchain e a trovare fondi tramite Venture Capital 

o Initial Coin Offerings (ICO). Siede nel consiglio di 

amministrazione di 14 aziende che si basano sulla sua 

guida per l’uso della blockchain. Sta scrivendo il primo 

manuale sull’argomento. È stato uno dei primi investitori 

in Protocol Ventures, il primo fondo di fondi 

con base a San Francisco, che investe in fondi specia- 























































lizzati in criptovalute. Sta collaborando con Gibilterra 

per creare il primo ecosistema dedicato alle cripto. 

Lavora con la Commissione europea come advisor 

all’osservatorio di blockchain per guidare le iniziative 

a livello europeo. «Ci deve essere una regola, che sia 

in grado di distinguere il buono dal cattivo». 

Il bello della blockchain? «Rende tutto più trasparente. 

Permette che circolino informazioni corrette. Decentralizzate. 

Ridurrà i costi. Cambierà la nostra vita 

e il nostro modo di fare business. Le sue applicazioni? 

Dalle cose minime a quelle più complesse. Grazie alla 

blockchain, la Commissione europea potrà rimuovere 

le barriere digitali tra gli Stati membri. I sistemi saranno 

tutti integrati. Se io sono italiano, ma vivo in Germania, 

la mia ID sarà sulla blockchain, e potrò rice- 
















vere una nuova Carta d’identità in loco, senza dover 

tornare in Italia apposta. Nel campo medico, un’applicazione 

su tutte: quella basata sul permesso di vedere 

le informazioni. Sto seguendo un’azienda che sta già 

creando un protocollo, basato sulla blockchain, che 

consentirà ai pazienti di avere la proprietà dei propri 

dati sulla salute, da tenere in un wallet apposito. 

Perché devo dare all’ospedale le mie informazioni che 

magari verranno vendute, a mia insaputa, alle grandi 

aziende farmaceutiche? Saremo noi a conservarle e 

decidere a chi darle, per quanto tempo e a che prezzo. 

I dati su blockchain sono immutabili, trasparenti e 

non manomettibilii». 

Christian gira il mondo per parlare alle conferenze, 

ma non è ancora stato invitato in Italia. Guarda il 

nostro Paese con nostalgia e voglia di fare. «Mi piacerebbe 

creare un ecosistema della blockchain in Italia. 

È un’opportunità unica nella storia. Cerco di educare 

le persone a prendere il buono di questa rivoluzione. 

C’è ancora molta diffidenza. Ma in fondo l’innovazione 

ha bisogno di gente che dica: “Non ci credo, tutto 

questo è una bolla”. Anche voi pensate cosi? Uno 

degli ultimi post che Satoshi Nakamoto ha messo su 

un forum per rispondere a chi continuava a dubitare 

della sua invenzione, è stato: «Listen: either you get it 

or you don’t, you’ll see» (Senti: «Che tu ci creda o no, 

vedrai»). 





























“IL BELLO DELLA 

BLOCKCHAIN? 

RENDE TUTTO PIÙ 

TRASPARENTE. 

PERMETTE CHE CIRCOLINO 

INFORMAZIONI 

CORRETTE. 

DECENTRALIZZATE. 


RIDURRÀ 

- Not for distribution 

I COSTI.” 

- pre-production copy “ 

Intanto per restituire il successo che ha nella Bay 

Area, dove tutti lo chiamano “The Professor“, Christian 

risponde ogni giorno a decine di email di giovani 

che gli chiedono consigli su come arrivare in Usa. 

«A tutti loro, dico: trovatevi un mentore, uno che 

creda in voi e che vi consigli, e non smettete mai di 

sognare». È dedicato ai giovani italiani che cercano 

informazioni, il portale “Come Si USA“, che Christian 

e sua moglie Elena hanno creato. Basta un click per 

ricevere consigli da chi vive e lavora qui. «Questo si 

chiama Give Back, restituire. È la cosa più bella che 

l’America meritocratica mi ha insegnato». 












omnisquo que non pel ipid exeriam, cus ne ne ear-


208

“LA PARTE PIÙ 

DURA? CREARE 

IL TEAM GIUSTO 

SENZA QUELLO 

NON SI VA DA 

NESSUNA PARTE, 

PERCHÉ ALLA FINE 

OGNI AZIENDA 

È FATTA 

DI PERSONE.” 


Andrea Motto 

INGEGNERE E ARTISTA 

ENGINEER AND ARTIST


‘Se tutto questo fosse possibile, non saremmo neppure 

qui’. Potrebbe venire riassunta semplicemente 

così l’avventura americana di Andrea Motto, ingegnere 

italiano trasferitosi a San Francisco con un 

sogno da realizzare e la voglia di mettersi in gioco. 

Perché l’America significa anche essere pronti a 

‘rendere possibile – sottolinea - quello che è impossibile, 

altrimenti lo farebbero tutti, o quantomeno 

qualcuno lo avrebbe già fatto’. 

Andrea Motto - CEO di ‘ProxToMe’, startup che 

ha sviluppato una tecnolgia basata sull’accesso in 

sicurezza a servizi fisici utilizzando reti bluetooth 

disponibili - a San Francisco ci è arrivato nel giugno 

del 2012 con altri due soci, Carlo Capello e Adriano 

Marcoretto. Nel Delaware ha fondato ‘ProxToMe’, 

figlia di un’idea, nata in Italia, sviluppata negli anni 

del Politecnico di Torino, e subito dopo ha aperto la 

sede nella Bay Area. 

‘Io vengo da una famiglia di imprenditori – racconta 

– e forse per questa ragione ho sempre voluto creare 

qualcosa di mio’. 

Lui, a dire la verità, prima voleva il fare il DJ e produrre 

un disco. Genitori speaker radiofonici, è cre- 
























STARTUP




















































expla samus et lam si natendis eos eicatae mil mosciuto 

fra note e vinili, con la voglia di fare musica. 

Poi l’informatica ha avuto la meglio ed è nata ‘Prox- 

ToMe’: “In questa stanza, ci sono reti invisibili 

e inutilizzate”. Reti wifi, onde radio, reti che collegano 

oggetti fisici allo spazio virtuale. “Quello che 

noi rendiamo possibile è sfruttare queste risorse, 

abbattere le barriere e rendere più facile e veloci i 

collegamenti’. 

Le applicazioni sono infinite. ‘Quando siamo arrivati 

qui abbiamo incontrato colossi come Samsung, 

Facebook, Apple”. In mano una storia e un prototipo 

perché in America voler fare qualcosa non basta. 

“Qui bisogna provare di poterlo fare – sottolinea - e 

noi ci siamo riusciti, testando la nostra app in varie 

occasioni come il Concerto dei Motel Connection, 

i Digital Days e anche a Milano per un evento organizzato 

dalla Bacardi”. 

Andrea Motto, negli USA ci vive da quattro anni 

ormai , ma la tecnologia di ProxToMe, l’ha sviluppata 

in Italia: ‘Dopo la Laurea ho iniziato a lavorarci 

nel mio tempo libero’. Poi è arrivata l’occasione 

giusta. ‘Ho partecipato ad un evento organizzato da 

Carlo Capello e sono stato colpito dal suo carisma, 

gli ho parlato del mio prototipo, lui mi ha suggerito 

di iscrivermi ad un concorso della TIM riservato ai 

giovani imprenditori’. Andrea non aveva nulla da 

perdere: ‘Se anche non avessi vinto, se pure non mi 

fossi qualificato, avrei avuto feedback importanti’, 

quelli che nel tempo fanno la differenza. 

Invece ha vinto. ‘Sono arrivato primo e ho mollato 

tutto’. Con lui Carlo Capello e, più tardi, anche 

Adriano Marconetto. In testa l’America. ‘Ci siamo 

guardati e ci siamo detti: Why not?’ 

Perché proprio l’America, è facile da capire. ‘La nostra 

tecnologia va inserita in servizi più grandi’. Servizi 

che negli States già ci sono. ‘In Italia - continua 

Andrea – sarebbe difficile trovare l’azienda giusta a 

cui rivolgersi’. 

Italiani negli States con una marcia in più? ‘Forse – 

dice– sicuramente io mi sento un artista, perché 

attraverso l’informatica creo dal nulla qualcosa che 

prima non c’era’. Arte, quindi, come approccio creativo 

alla materia e soluzione pragmatica di un problema. 

Ma, anche e forse soprattutto, come visione 

futuristica e innovativa. Qualcosa che gli italiani 

hanno nel DNA. 

Creatività, voglia di riscatto e modestia. Anche quella. 

Già perché il loro centro di sviluppo, Andrea e 

Carlo, lo hanno lasciato per la maggior parte nel 

Torinese, in mani a giovani developers italiani. E in 

America, a differenza di startup gonfiate dal marketing, 

loro restano con i piedi per terra. ‘Ci siamo 


presi il tempo di fare le cose fatte bene e per diventare 

redditizi ci abbiamo messo tre anni’. 

Le difficoltà non sono mancate. ‘La nostra tecnologia 

si basa sulla Proximity, ovvero la possibilità di 

utilizzare il Bluetooth per accedere alle reti disponibili, 

ad esempio per un pagamento o un acquisto’. 

Ma quando Andrea l’aveva proposta, inizialmente lo 

avevano preso per pazzo. ‘Tutti ci remavano contro 

e mi sentivo dire soltanto che stavo puntando su di 

una tecnologia destinata a sparire’. Non era vero. Il 

problema era che in Italia il Bluetooth veniva usato 

male e manco a farlo apposta il mercato lo ha 

confermato. Ad un certo punto,infatti, i gadget 

Bluetooth hanno iniziato a spuntare da ogni parte: 

auricolari, orologi collegati al telefonino, altoparlanti, 

addirittura capi d’abbigliamento. Ma non solo, ‘il 

mercato – evidenzia - ha iniziato a considerarne il 

valore’. 

La parte più dura? ‘Creare il team giusto – dice 

Andrea – senza quello non si va da nessuna parte, 

perché alla fine ogni azienda è fatta di persone’. 

Andrea Motto di idee ne ha tante e nel suo futuro 

ci stanno tutte. Una startup è a tempo determinato, 

può durare quattro o cinque anni. Poi si trasforma 

oppure viene acquisita. Già ma dopo? ‘Dopo se ne 

apre un’altra’. Per lui è una forma mentis: ‘Io, se mi 

guardo in giro, - dice - vedo un problema e penso 

alla soluzione’. Non è una questione di età. E’ quel 

pizzico di follia, di imprudenza e di pragmaticità 

artistica che Andrea Motto ha nel DNA. ‘Anche per 

questo – racconta – a volte si prendono delle sportellate 

in faccia’. 

Sbagliare, come diceva Steve Jobs, fa parte del gioco. 

‘Perché fare innovazione – sottolinea 

l’imprenditore torinese - significa andare dove nessuno 

è mai andato’. 

A volte, quando si guarda a chi come lui ha scelto di 

inseguire un sogno, esce solo una storia di successo. 

Ma c’è di più, ‘non si vedono i sacrifici’. E’ la resistenza, 

il carattere che fa la differenza. Quello che 

gli americano chiamano essere ‘resilient’. Lui, dice, 

non si abbatte, anzi: ‘E’ quello che accomuna tutti 

quelli che hanno fatto la nostra stessa scelta, di 

fronte ad un problema si deve tirare fuori il meglio’. 

Quella grinta che spinge ad adattarsi, a cercare nuove 

strade, a cercare l’America. E per avere successo 

la formula è sempre la stessa: ‘Umiltà, spirito di 

sacrificio, onestà e soprattutto passione, perché se 

questa manca, il resto non conta’. 











































saeoresti qui dit que venisti voluptur alitaerrum que 



molor am ulluptius aut fuga. Ut eossum que est 





STARTUP


“CI SIAMO 

GUARDATI E 

CI SIAMO DETTI: 

WHY NOT?”


“VIVERE LA 


SIGNIFICA 

ACCETTARNE 

IL CARATTERE 

E I PRINCIPI CHE 

LA REGOLANO, 

OVVERO QUEL 


MISTO 


DI 


APERTURA, 

DI RESISTENZA 

E DI CORAGGIO CHE 

LA RENDONO UNICA 

NEL SUO GENERE.” 

Paolo Privitera 

CEO DI EVENSI, IMPREDITORE ED INNOVATORE 

EVENSI CEO AND CO-FOUNDER, GLOBAL ENTREPRENEUR AND INNOVATOR

“Serendipity”, ovvero l’arte di lasciarsi guidare dal 

caso, felicemente. Per Paolo Privitera. CEO di Evensi, 

innovatore e imprenditore italiano trasferito nella 

Bay Area, quello di “serendipity” non è un concetto, 

ma un vero e proprio stile di vita. 

È una questione di equilibri ed energia, una forma 

mentis che in Silicon Valley trova la sua massima 

espressione. Del resto, “questo è uno dei pochissimi 

luoghi al mondo, dove ogni incontro casuale, 

porta con se un network di centinaia di contatti”, 

un file-rouge di rimandi che altrove non è possibile. 

“Vivere la Silicon Valley significa accettarne il carattere 

e i principi che la regolano, ovvero quel misto di 

apertura, di resistenza e di coraggio che la rendono 

unica nel suo genere”. 

Un luogo altro, dove pensare fuori dagli schemi è 

diventata una conditio sine qua non, ovvero una 

caratteristica indispensabile per diventarne parte 

integrante. 

“Io credo che tutto sia collegato, è una questione di 

energia, una visione del lavoro e della vita che è diversa 

dal concetto tutto europeo di attività obbligata 

per sopravvivere, di compartimenti separati e distinti: 

qui si tratta di seguire la passione, di costruire 

qualcosa di nuovo per amore e interesse e di farlo 

funzionare, nel mondo reale”. Privitera, questo, lo fa 

da sempre. 

Da quando a 16 anni ha aperto la sua prima azienda 

in Italia, diventando uno dei primi ad avere una connessione 

internet e accaparrandosi il dominio della 

sua città, Mestre. “Ricordo che uno dei pochissimi 

siti disponibili era quello della Nasa che io contattai 

per una ricerca, mi mandarono un pacco con una 

miniatura dell’Hubble e trenta CDs per i miei compagni 

di classe”. 

Lui è sempre stato un innovatore: “Quando dovetti 

iscrivermi in Università cambiai idea all’ultimo minuto 

e invece di design decisi di seguire Computer 

Science, che alla Ca’ Foscari di Venezia aveva appena 

aperto e che si avvicinava alla mia già sviluppata 

passione per la programmazione”. Programmare 

significa costruire una struttura virtuale e non è poi 

così distante dal design o dall’architettura. Il senso 

del bello c’è e, oggi più che mai, diventa centrale in 

quanto la nostra quotidianità si dipana anche, e forse 

soprattutto, attraverso piani virtuali. 

Dopo la laurea la decisione di andare a New York 

per tre mesi: “Ci andai, tornai in Italia e ripartii di 

nuovo, stavolta per un anno”. Terminati anche questi 

12 mesi, “Tornai a casa, vendetti la mia auto e 

ripartii per gli Stati Uniti”. Fu la svolta, ovvero il 

momento in cui si rese conto di volerci restare, negli 












































as sum saeoresti qui dit que venisti voluptur alitaerrum 










Usa, per sempre. O quasi. “All’inizio non volevo lavorare, 

la mia idea era quella di assimilare la cultura 

americana, ma iniziai a fare consulenze e un cliente, 

alla fine, mi chiese di trasferirmi a Los Angeles per 

tre mesi”. A Privitera la East Coast non piaceva all’epoca, 

ma si convinse e partì. “Il progetto terminò a 

Natale, il cliente era contento e alla fine io decisi di 

fermarmi a Los Angeles un altro pò”. Una parentesi 

che si è poi trasformata in residenza ufficiale. Prima 

a Los Angeles e poi, alla fine, a San Francisco. 

In quegli anni, stava lavorando ad un prototipo di 

piattaforma social: Facebook non c’era ancora, e il 

suo progetto, costruito in un appartamento adibito 

ad ufficio con un cucinotto che divideva con un’altra 

azienda, aveva raccolto consensi e successi. 

Poi un giorno, “scoprii che i ragazzi della compagnia 

vicina, quelli con cui prendevo caffè e panino nel 

cucinotto in comune, erano quelli di MySpace, che 

si stavano gettando sul mercato e io, invece di continuare 

ad investire e a lavorare sulla mia piattaforma, 

venni preso dal panico, lasciai tutto e un anno dopo 

scoprii che Facebook, lanciato ufficialmente, era 

una versione riveduta e corretta di quello che avevo 

costruito io”. 

Le occasioni alla Silicon Valley vanno prese e cavalcate 

senza pensarci due volte, “ma all’epoca per me 

era diverso, non avevo un network e forse non ero 

pronto”. 

Da un progetto all’altro, Privitera non getta la spugna. 

Da San Francisco torna in Italia, fa il pendolare 

fra Roma, Venezia e New York per un anno circa. 

Poi, scoprendo quasi per caso che il governo Cileno 

voleva raccogliere a Santiago i migliori cervelli sul 

pianeta per ricostruire lo Stato, manda la sua candidatura, 

mentre parallelamente decide di lasciare il 

lavoro in Italia per ritornare a San Francisco. “Ecco, 






































“GRAZIE 

A PERSONE 

CHE MI SONO STATE 

VICINE HO INIZIATO A 

RICOSTRUIRE TUTTO, 

PERCHÉ UNA LEZIONE CHE VA 

IMPARATA È CHE IL 


FALLIMENTO È 

SEMPLICEMENTE UNO STEP 

FONDAMENTALE DEL 

SUCCESSO.”

proprio quando stavo per tornare sulla East Coast, 

subito dopo aver detto ai miei clienti che sarei stato 

di nuovo disponibile per riprendere i vari progetti 

avviati, ho scoperto di essere stato selezionato per 

trascorrere 4 mesi in Cile e ho accettato, pur sapendo 

di stare per fare un salto nel buio”. L’esperienza 

cilena, però, è una di quelle che cambiano la vita, o 

meglio le prospettive e la visione del mondo. “Era 

emozionante perché mi sono ritrovato in un ambiente 

estremamente innovativo e internazionale, 

un mondo che si era riunito non per depredare o far 

soldi, ma per costruire qualcosa, per collaborare”. 

Tornato sulla East Coast apre una startup, o meglio 

un embrione di startup “perché all’epoca non c’erano 

ancora”. Poi, nel 2013, il mondo gli crolla addosso. 

“È capitato tutto in una settimana o poco meno – 

racconta – la mia fidanzata mi ha lasciato, mi è stato 

diagnosticato un cancro e il mio socio mi ha mollato, 

poco prima del lancio della compagnia con gli investitori 

e con i bilanci pieni di buchi finanziari di cui io 

non avevo il minimo sentore”. Eppure, lui, ancora 

una volta non ha mollato. “Grazie a persone che mi 

sono state vicine ho iniziato a ricostruire tutto, perché 

una lezione che va imparata è che il fallimento è 

semplicemente uno step fondamentale del successo”. 

Senza sbagliare prima, non si riesce poi: fallire 

è una lezione da imparare, un corso accelerato che 

la vita offre, senza il quale si rischia di restare per 

sempre in un limbo di mediocrità e grigiore, che alla 

fine uccide ogni impulso di crescita e innovazione. 

“Sono ripartito dalla salute, scoprendo che il cancro 

non c’era”. E poi dal lavoro. “Ho ricostruito la 

mia azienda, mettendoci la faccia di fronte agli investitori, 

risanandone il bilancio e rimettendola in 

piedi”. E poi l’amore, con Enrica, che già conosceva 

ma di cui si è follemente innamorato all’ingresso di 

un supermercato, in un pomeriggio qualunque sulla 

East Coast. Cinque anni dopo quel novembre 2013, 

Privitera ha fondato Evensi, una startup che si occupa 

di raccogliere su di un’unica piattaforma gli 

eventi pubblicizzati su social media e internet e che 

oggi vanta 40 milioni di iscritti e 5 milioni di events 

makers. Ma non basta, è anche diventato padre e 

sta vivendo uno dei momenti più felici e produttivi 

della vita. “Guardando indietro rifarei esattamente 

le scelte che ho fatto, perché sono state il percorso 

che mi ha portato dove sono”. La felicità in fondo è 

guardare la vita e cercare di considerarne per ogni 

istante gli aspetti positivi e di crescita che offre. “La 

felicità è serendipity e forse Silicon Valley, è proprio 

l’unico posto al mondo dove questo concetto diventa 

stile di vita”. 























































“L’ITALIA È UN 

POSTO UNICO 

E, QUANDO SEI 

ALL’ESTERO, 

SCOPRI CON 

OGGETTIVITÀ LE 

RICCHEZZE CHE 

ABBIAMO, QUALI 

LA NOSTRA 

STORIA, LE 

NOSTRE 

TRADIZIONI E I 

NOSTRI VALORI.” 


Andrea Calcagno 

IMPRENDITORE ED INNOVATORE 

ENTREPRENEUR AND INNOVATOR


IL SOGNO IMPRENDITORIALE IN SILICON 

VALLEY 

Sono passati ormai 4 anni da quando Andrea è partito 

con la sua famiglia – sua moglie Elena e sua figlia 

Ilaria di solo 6 mesi – il suo co-fondatore Davide 

Quadrini ed un gruppo di italiani che fanno parte del 

progetto per sviluppare il sogno imprenditoriale in Silicon 

Valley. 

Un periodo abbastanza lungo che ti permette di conoscere 

le cose positive e negative di un ambiente 

molto particolare dove nascono e si sviluppano ormai 

quasi tutte le innovazioni più importanti che segnano la 

crescita dell’economica e il nostro modo di vivere 

a livello globale. 

Dopo alcuni anni spesi in Italia a sviluppare imprese innovative 

che gli permettono di diventare un riferimento 

italiano nell’ambito delle tecnologie mobili, Andrea decide 

che è il momento di lanciare un progetto che possa 

avere un respiro globale nel posto dove la tecnologie 

nascono. Con un team consolidato da alcuni anni, 
























Andrea lancia una nuova startup Cloud4Wi nel Gennaio 

nel 2014 che vede subito l’investimento di 4 Milioni di 

dollari da parte di United Ventures con Massimiliano 

Magrini come Investor Director. 

Cloud4Wi fornisce una soluzione Cloud di nome 

Volare in grado di aiutare i retailer a capire il 

comportamento delle persone all’interno dei negozi 

permettendo di fare campagne di marketing in 

prossimità. 

Il nome Volare della soluzione nasce dal nome della 

canzone di Modugno che nel 1958 vince Sanremo, 

anno in cui l’Italia riparte a livello economico e sociale 

per diventare in pochi anni una delle più importanti 

potenze economiche Europee e Mondiali. 

L’azienda ha il centro dello sviluppo di prodotto a 

Pisa mentre la sede principale è a San Francisco. 

Cosa ha spinto Andrea e il suo team a trasferirsi 

in Silicon Valley? È stata determinante l’ambizione 

di dimostrare che noi Italiani siamo in grado di sviluppare 

progetti che possano raggiungere una leadership 

di mercato e realizzare una monetizzazione 

per gli investitori. 























Nel 2017 l’azienda chiude un nuovo round di finanziamento 

con 11.5 milioni di dollari che vede la 

partecipazione di United Ventures e Opus Capital 

con Gill Cogan, fondatore di Light Speed Ventures, 

e una delle persone più conosciute nel mondo dei 

Venture Capital della Silicon Valley. Gill crede che 

l’Italia possa replicare il successo di Israele. 

In poco meno di 4 anni brand internazionali molto 

importanti come Prada, Bulgari, Zegna, Aldi, Clarks, 

Loro Piana, Valentino, Coop, Carmila, Burger King, 

McDonalds, Adecco e aziende come Ferrovie dello 

Stato, Anas, Autostrade e tante altre hanno adottato 

la soluzione Volare. 

MADE IN ITALY IN SILICON VALLEY 

Dopo quattro anni, si capiscono tante cose e Andrea 

ci condivide come l’Italia è un posto unico e, quando 

sei all’estero, scopri con oggettività le ricchezze che 

abbiamo, quali la nostra storia, le nostre tradizioni 

e i nostri valori. 

Andrea e il team stanno lavorando duro per far 

crescere la loro realtà e per realizzare il loro sogno, 

ossia quello di affermarsi a livello globale e dar vita 

a un caso di successo Made In Italy in Silicon Valley 

con un “exit” in grado di portare credibilità al movimento 

delle startup italiano che resta comunque 

molto fragile. 

Il sogno di Andrea, dopo il progetto di Cloud4Wi, è 

di rientrare in Italia e dar vita ad un’accademia sulle 

nuove tecnologie per giovani talenti dai 13 ai 18 anni 

che hanno voglia sviluppare il proprio progetto 

imprenditoriale e/o le proprie idee di innovazione 

portando avanti i propri studi, mettendo a disposizione 

la propria esperienza e anche il supporto 

economico per il progetto.Magrini come Investor 

Director. 

Cloud4Wi fornisce una soluzione cloud di nome Volare 

in grado di aiutare i retailer a capire il comportamento 

delle persone all’interno dei negozi 

permettendo di fare campagne di marketing in prossimità. 








Cosa ha spinto Andrea e il suo team a trasferirsi in 

Silicon Valley? È stata determinante l’ambizione di 

dimostrare che noi Italiani siamo in grado di sviluppare 

progetti che possano raggiungere una leader- 






















































ship di mercato e realizzare una monetizzazione per gli 

investitori. 


con 11.5 milioni di dollari che vede la partecipazione 

di United Ventures e Opus Capital con Gill 

Cogan, fondatore di Light Speed Ventures, e una delle 

persone più conosciute nel mondo dei Venture Capital 

della Silicon Valley. Gill crede che l’Italia possa replicare 

il successo di Israele. 







Dopo quattro anni, si capiscono tante cose e Andrea ci 

condivide come l’Italia è un posto unico e, quando sei 

all’estero, scopri con oggettività le ricchezze che abbiamo, 

quali la nostra storia, le nostre tradizioni 


Andrea e il team stanno lavorando duro per far crescere 

la loro realtà e per realizzare il loro sogno, ossia 

quello di affermarsi a livello globale e dar vita a un 

caso di successo Made In Italy in Silicon Valley con un 

“exit” in grado di portare credibilità al movimento delle 

startup italiano che resta comunque 


Il sogno di Andrea, dopo il progetto di Cloud4Wi, è di 

rientrare in Italia e dar vita ad un’accademia sulle nuove 

tecnologie per giovani talenti dai 13 ai 18 anni che 

hanno voglia sviluppare il proprio progetto imprenditoriale 

e/o leproprie idee di innovazione portando avanti 

i propri studi, mettendo a disposizione la propria esperienza 

e anche il supporto economico per il progetto. 




































“L’ITALIA 

PUÒ ESSERE 

UNA LEADERSHIP 

DI MERCATO E 

REALIZZARE UNA 

MONETIZZAZIONE 

PER GLI INVESTITORI 

COME HA FATTO 

ISRAELE”


226

“UNO SCUGNIZZO 

DI NAPOLI IMPARA 

PRIMA DI UN 

AMERCANO 

IL CONCETTO 

TANTO DI MODA 

QUI A STANFORD 

DEL DESIGN 


THINKING.” 


Adriano Farano 

SOCIO FONDATORE DI PACTIO 

CO-FOUNDER OF PACTIO

«La Silicon Valley mi ha cambiato la vita. Ma se 

ce l’ho fatta è solo per un motivo culturale. Sono 

un uomo del Sud. Partito da Cava de’ Tirreni, alle 

porte della Costiera Amalfitana, ho portato con me 

l’arte di arrangiarmi e la voglia di farcela». Adriano 

Farano, 38 anni, ha creato in California Watchup, 

un’App per iPad e iPhone che reinventa il concetto 

di telegiornale e permette di avere in un’unica applicazione 

video-news di diverse emittenti. La sua 

startup, avviata con 600 dollari, ha raccolto finanziamenti 

per milioni di dollari, ha conquistato investitori 

come Microsoft, ha convinto editori come 

Cnn, Cbs, Washington Post, Wall Street Journal. 

Così è cresciuta moltissimo e a fine 2016 è stata 

acquisita da un grande gruppo. «Per Menlo Park 

ero un ragazzo italiano arrivato dal nulla. Non conoscevo 

nessuno e dovevo dimostrare di avere le 

carte in regola. Il mio era un problema di credibilità. 

Ero però nel posto più meritocratico del mondo» 

racconta Farano. Ex bambino prodigio, Farano è 

stato fulminato dalla passione per le video-news a 9 

anni. «Era il 1989. Il primo telegiornale che ho visto 

nella mia vita raccontava il crollo del muro di Berlino. 

Il giorno dopo, a scuola, mi sono accorto che 

nessuno dei miei compagni aveva sentito la notizia. 

Tornato a casa, ho preso dei fogli e messo insieme 

quello che ho chiamato “Il giornalino di Berlino”. 

Facevo le fotocopie e lo vendevo per 500 lire. Ho 

“assunto” 4 bambini che sapevano scrivere e disegnare 

e prodotto 5 numeri. Quando la maestra si è 

accorta che a scuola giravano dei soldi, ha vietato 

la pubblicazione. In America mi avrebbero dato un 

premio. Lì ho capito, seppur inconsciamente, che 

per farcela sarei dovuto andare altrove». Nel 2001, 

Farano è già in Francia. A 20 anni firma il suo primo 

reportage su Le Figaro. A 21 anni è uno studente 

Erasmus a Strasburgo. Qui fonda un giornale online, 

multilingue: lo chiama CaféBabel.com. Esiste 

ancora, ha il supporto dalla Commissione Europea 

e redazioni in 35 città. Grazie a questa esperienza, 

nel 2010, vince la Knight Fellowships, una borsa di 

ricerca della Stanford University che offre a 20 giornalisti 

di tutto il mondo la possibilità di lanciare un 

progetto sperimentale per rinnovare il giornalismo. 

«Era la mia grande occasione. Sono partito per la 

California nel 2012, con mia moglie francese e due 

figli (la più piccola aveva 3 mesi). Avevamo la casa, 

il visto, un sacco di appoggi». Ma un anno passa in 

fretta, il visto scade e Farano deve tornare in Europa. 

«Mi sentivo come Cenerentola alla fine della 

festa, perché ormai ero innamorato di questo angolo 

di mondo e volevo restare». Si impegna, ottiene un 






















































MEDIA

visto per “aliens with extraordinary abilities”, inizia 

a lavorare a Watchup. «La più grande difficoltà per 

una startup è raccogliere il primo mezzo milione di 

dollari. Ho cercato più di 1.000 investitori. Di questi 

solo 100 mi hanno fissato un appuntamento. In 89 

mi hanno detto: «No, grazie» ma io non mollavo. Ci 

credevo. In 11 mi hanno fatto un assegno». 

Sono diventato padre per la terza volta e ho capito 

che dovevo fare una nuova impresa. Da giornalista 

e imprenditore ho guardato con sospetto l’epidemia 

delle fake news. La disinformazione è solo la punta 

dell’iceberg di un problema molto più grande: l’erosione 

della fiducia nei media. Così è nata l’idea 

di Pactio, dal latino patto, la mia nuova startup. 

Promuove un giornalismo nuovo che si fonda su un 

patto tra il giornalista e i suoi lettori: il giornalista si 


mil molupti berspe dolorep Odignis voluptatiis veliberum 

abo. Neque consed et aspedita qui dolutate 

pro tem qui id est, officab il magnam, ipsusae. Met 

aborporuptia si delit ra dolut experempor aceatem 

qui tem facero bea apeles coreserenim que quatemporem 

fuga. Picia perum quatis dolestrum que 

nost, culparchit, to occulpa incia cus eum, vel et 


volorest, sus qui blatisqui adis mollit renducium la 

simin endi comnimu sanditis quasperes que re nos 



ipid exeriam, cus ne ne earcien daerchi llandio officius 

doles aligent et voluptur, ullutem poreium qui 

volupta tiusam veribusapide autem sam autam adipiciendi 

dolore eumquatur, abor aliquas apis eictur 

auta por ma di cus aspitin ctotam, aut voluptatquae 

electo et, quature con nem alit, cullanto con nihilig 

enihicipsam id molesse caecerum acepedi cietur, 

ium restio berioria et veliquo dio officipsum id mod 

quiaspiet harupta tatatur? Quia sunt. 

































impegna a fornire servizi di qualità e viene pagato 

direttamente dal lettore». «Non mi sento un cervello 

in fuga. Ho inseguito un’opportunità. Se guardo 

indietro, vedo la mia storia come un insieme di 

eventi concatenati. Come in natura, ci sono onde ed 

energia che collegano tutto, così accade nelle nostre 

vite. Ho messo energia e passione in quello che ho 

fatto e le cose si sono sviluppate quasi per magia, da 

sole. Ricordi la teoria dei puntini di Steve Jobs? Nella 

vita esiste un disegno, bisogna crederci, guardarsi 

indietro e cercare di unire i puntini. Duro lavoro e 

tenacia premiano sempre. Soprattutto se ci aggiungi 

un tocco di creatività italiana e - nel mio caso- di 

sana passione partenopea. L’Italia? «Mi ha dato tanto, 

radici e cultura umanistica. Crescere tra Omero 

e Dante nel mio liceo classico di Cava è stato per 

me il miglior allenamento per padroneggiare l’arte 

del Keynote (PowerPoint per Mac). Che lo chiamino 

pure storytelling. Per me è ars oratoria. Per trovare 

investitori, nuovi partner o colleghi è fondamentale 

sapersi raccontare. Ulisse e Medea, gli eroi dell’antichità, 

sono stati i miei maestri di vita. Leggendo 

le loro storie ho imparato a viaggiare, a inseguire i 

miei sogni, e a crederci fino in fondo. Nonostante le 
























Natectiore nonserror asitenture et hilles aut pore- 

MEDIA

difficoltà. Ai giovani italiani dico “fuitevenne”. Non 

è una colpa lasciare il proprio Paese, se non ci sono 

opportunità. Noi emigrati non siamo più italiani al 

100%, non siamo americani al 100%. Siamo qualcosa 

di ibrido. E provo tanta fierezza nell’esserlo. 

Siamo quasi una “nuova razza”, un modello più 

cosmopolita, multiculturale, aperto. Capaci, lo spero 

– nonostante Trump e la Brexit- di andare verso 

un sistema che permetta l’ideale kantiano della pace 

perpetua». Tornare a casa? «I miei tre figli passano, 

ogni estate, due mesi tra Francia e Italia. Voglio che 

imparino bene la più bella delle lingue, l’italiano. 

Come fai a tradurre in inglese la parola sfizio o il 

concetto napoletano di “cazzimma”, l’arte di arrangiarsi? 

Per il resto, a loro non manca nemmeno la 

pizza. Qui nella mia casa in California ho costruito 

un forno per la pizza in argilla: la mia più grande 

soddisfazione è preparare il lievito madre. Cose che 

non avrei mai fatto se fossi rimasto in Italia…». 

cep ratet, officipsa el magnim vellam, opta plit magnim 


















con rernate poresti qui dit. 

“IL CARTACEO 


NON È MORTO. 

LA RICERCA HA 

DIMOSTRATO CHE 

IL CERVELLO REAGISCE 

A UN’INFORMAZIONE 

SU CARTA IN MANIERA 

MOLTO PIÙ 

ANALITICA CHE 

SU SCHERMO.”


“PASSIONE PER 

QUELLO SI FA, 

CORAGGIO E 

SOPRATTUTTO 

UNA MENTE 

APERTA, CAPACE 

DI MISCHIARE 

LINGUAGGI 

CREATIVI E 

ABILITÀ CHE 

SERVANO AD 

AFFRONTARE IL 

FUTURO.” 


Luca Prasso 

ARTISTA A GOOGLE, ARCHEOLOGO DEL FUTURO 

TECHNICAL ARTIST AT GOOGLE, REVERSE ARCHEOLOGIST


Bisogna nutrire la mente per restare ragazzini. Serve 

coltivare capacità che possano tornare utili a fare 

un lavoro che ancora non c’è. Questo il consiglio che 

Luca Prasso lancia ai più giovani. A quelli che come 

lui sognano l’America. La storia di Prasso è una di 

quelle sui generis. Una di quelle storie che non si 

dimenticano. Nato a Verona, appassionato di disegno, 

dalla Lombardia finisce a lavorare prima alla DreamWork 

Animation e poi a Google, passando per un 

caleidoscopio di opportunità e avventure. Filo conduttore 

di tutte, la sua innata capacità di riempire gli 

spazi vuoti fra un punto e l’altro, una genialità che lo 

rende capace osservare una storia, una situazione, 

un compito da un diverso punto di vista. Lui però alle 

definizioni da manuale ne preferisce un’altra. Quella 

di storyteller. Si identifica come qualcuno capace di 

raccontare. E di farlo utilizzando strumenti diversi. 

Dal disegno, ai cartoni animati alla computer grafica. 

“Ricordo che riuscii a convincere mio padre ad aprirmi 

un negozio di computer e io lì, nel retrobottega 

imparai a programmare”. Era un gioco, un modo per 

esprimere quella inesauribile voglia creativa che non 

l’abbandona ancora oggi. In America ci è arrivato 

oltre 20 anni fa. “Avevo due bauli, una valigia e una 
























Natectiore nonserror asitenture et hilles aut pore

icicletta che si ruppe durante il viaggio”. Pochissimi 

soldi in tasca e tanti sogni da realizzare. “Avevo venduto 

l’auto, il frigorifero e poche altre cose che possedevo 

a Milano ed ero arrivato, con la voglia di fare 

qualcosa di nuovo”. Allora la Silicon Valley non esisteva 

ancora: “Inizia a lavorare alla Dreamwork quando 

Hollywood, dopo che la Pixar lanciò ‘Toy Story’, 

si accorse che poteva fare film utilizzando la computer 

grafica”. Prasso ha lavorato prima ad “Ants” 

(‘Formiche’, in Italia) e poi a “Shrek”, grazie al quale 

la DreamWork ha vinto l’Oscar. “Io facevo parte di 

un piccolo gruppo che si occupava di far muovere i 

personaggi, di deformarli; eravamo qualcosa a metà 

fra tecnici e artisti”. E lui, che si è sempre definito un 

uomo da bottega, in quel contesto ci stava benissimo. 

“Io sono sempre stato circondato da artigiani e creativi, 

ricordo che da sempre prendevo i personaggi 

dipinti dagli amici pittori e li trasformavo in cartoni 

animati, davo loro una storia a cui appartenere”. 

Gente come Cavazzano e Iacovitti, artisti della scena 

italiana degli Anni Novanta: “Era la stessa cosa che 

facevo con la mia prima Super Otto, una macchinetta 

che mi aveva regalato mio padre da bambino e che 

mi permetteva di scattare fotogrammi e di farci dei 

cartoni animati”. La passione inizia lì: “Anche a scuola 

mi portavo fogli bucati che nascondevo sotto il banco 

e su cui disegnavo ininterrottamente”. Una passione 

che lo ha trascinato al di là dell’Atlantico, in una California 

molto diversa da quella di oggi. “Quando sono 

arrivato non c’era nulla, né Google, né Facebook - 

racconta – noi vivevamo in questo castello mentale 

all’interno del quale raccontavamo storie, personaggi, 

avventure”. Poi un giorno il contesto cambia, la Bay 

Area si sveglia, e quella che era un’attività pionieristica 

si trasforma in routine. “A quel punto ho mollato 

tutto e all’età di 48 anni ho aperto una startup, con 

l’idea di fare applicazioni per bambini”. Il punto per 

Prasso era stato l’accorgersi che gli strumenti narrativi 

si erano evoluti e dall’idea di avere uno spettatore 

come fruitore passivo di una storia si era passati a 

quella di creare mondi e narrazioni per una platea attiva. 

“Internet, gli smartphone hanno messo al centro 

lo spettatore e tutt’attorno gli attori, cambiando drasticamente 

la prospettiva del racconto”. 

Luca Prasso però nella sua startup voleva fare qualcosa 

di diverso: “Avevo in mente di creare strumenti 

che permettessero ai bambini di conoscere il mondo 

reale, che li trasportassero fuori dal vituale, nel 

presente, in quello che c’è”. Una prospettiva in netta 

controtendenza rispetto ad un mercato che puntava 

– e continua a farlo - a trascinare tutti nel fantastico. 

“Le nostre applicazioni ottennero un discreto 
























Natectiore nonserror asitenture et hilles aut pore 






























successo, Apple ci mise in prima pagina”. Ma non fu 

abbastanza: “Non avevamo fondi per il marketing, né 

potevamo permetterci grandi personaggi che ci sponsorizzassero 

e allora abbiamo chiuso”. A oltre cinquant’anni 

Luca Prasso si è rimesso in gioco di nuovo 

e da imprenditore è diventato consulente. “Ho scoperto 

un piccolo gruppo di Google che si occupava di 

fare storytelling applicato alle nuove tecnologie, Spotlight 

Stories”. Inizia come consulente esterno prima 

e poi entra a far parte della compagnia. “Io mi sento 

un vent’enne e non mi spaventa l’idea di confrontarmi 

con tecnologie e strumenti nuovi, anzi mi esalta, mi fa 

sentire vivo”. 

E’ quello che gli inglesi chiamano “ingenuity”: che 

non significa ingenuità, ma che è la capacità di approcciare 

qualcosa di nuovo a mente fresca, l’abilità 

di tracciare linee fra i punti del discorso, ottenendo 

così prospettive diverse, aperte all’inaspettato, a 

quello che ancora non esiste, ma ci potrebbe essere. 

“E’ quello che facciamo a Google tutti i giorni, 

ovvero l’immaginarci l’uso della tecnologia per un 

futuro prossimo di cui non possediamo che accenni”. 

Costruire storie, alla fine, è anche questo: guardare 

al reale ed pensare a come sarà il mondo fra dieci, 

vent’anni, o anche solo domani. 

E l’Italia? “La porto nel cuore e magari, chissà, un 

giorno riuscirò a fare lì quello che faccio qui: ma per 

ora non è possibile, perché ho bisogno di essere 






























“IO MI SENTO 

UN VENTENNE 

E NON MI SPAVENTA 

L’IDEA DI 

CONFRONTARMI 

CON TECNOLOGIE 

E STRUMENTI NUOVI, 

ANZI MI ESALTA, 

MI FA SENTIRE 

VIVO.”


circondato da quest’humus creativo, da questo capitale 

umano, che rende la Silicon Valley quello che è, 

ovvero il posto ideale dove far nascere nuove idee”. 

E per i ragazzi un messaggio chiaro: “Passione per 

quello si fa, coraggio e soprattutto una mente aperta, 

capace di mischiare linguaggi creativi e abilità che 

servano ad affrontare il futuro”. Un forma mentis 

multimediale, in grado di pensare la società come 

sarà, non tanto com’è. 

“Oggi le grandi compagnie si stanno aprendo ai creativi 

che come me non sono ingegneri e neppure 

artisti, ma qualcosa che sta a metà fra i due mondi”. 

Perché nell’epoca degli smartphone e delle case domotiche, 

nel tempo del virtuale e dell’intelligenza artificiale, 

essere narratori, maestri pupari di marionette 

interattive, è un’arte. “L’uomo racconta e si racconta 

da migliaia di anni”. E indipendentemente dagli strumenti, 

non smetterà mai di farlo. 


















ium restio berioria et veliquo dio officipsum id mod


238

“CONSIGLIO DI 

STUDIARE, DI NON 

SMETTERE MAI DI 

IMPARARE. ANCHE 

NELLA MUSICA 

BISOGNA SAPERE 

INNOVARE: MENTRE 

I TEATRI LIRICI SI 

LAMENTANO DELLA- 

SCARSA AFFLUENZA, 

I CONCERTI DI BOCELLI 

SONO ESAURITI. 

I GIOVANI DEVONO 

COMPRENDERE 

COSA MANCA 

NELLA SOCIETÀ 

LOCALE E SAPER 

COLMARE IL GAP.” 


Pasquale Esposito 

TENORE 

TENOR

Pasquale Esposito, il cantante d’opera in California 

La sua avventura americana dimostra il valore universale 

dell’arte e della musica italiana. 

Dopo una semplice vacanza a Palo Alto nel 1998, al 

ritorno a casa Pasquale decide di partecipare alla 

lotteria per la Green Card. Due anni più tardi riceve 

una fatidica telefonata dal Consolato Americano 

di Napoli. Al momento rimane sbalordito: “Scusi, 

di quale lotteria sta parlando?” credendo fosse uno 

scherzo. Nonostante l’opposizione della famiglia, 

contraria al trasferimento, e nonostante le sue stesse 

esitazioni dettate dal forte legame con le radici 

napoletane, decide di non rinunciare a questa sfida. 

Appena atterrato nella Bay Area, un ufficiale del INS 

(Dipartimento di Immigrazione e Naturalizzazione) 

lo intervista e lo interroga sulla sua professione. La 

risposta “musicista” non sembra convincerlo. Subito 

l’ufficiale gli chiarisce che non riuscirà mai a mantenersi 

facendo quel mestiere, lo informa che deve cercarsi 

un lavoro vero al più presto, e gli consegna una 

lista di possibili occupazioni. “Sicuramente è stato 

uno shock, ma mi ha aperto gli occhi – e non mi 

sarebbe mai successo in Italia!” 

Gli inizi non sono stati facili. Con una padronanza 

della lingua abbastanza limitata, ha fatto un po’ di 

tutto, lavorando in bar e ristoranti, sempre però seguendo 

la sua passione per la musica; 

Appena riesce ad acquistare una tastiera ed un microfono, 

inizia ad offrire delle serate musicali 

in ristoranti della zona. A quel punto capisce che c’è 

spazio per la tradizione italiana del pianobar. 

“Mi accorsi che c’era molto interesse per la musica 

italiana, un interesse che spaziava generi e generazioni.” 

La sua formazione musicale eclettica e la sua 

creatività napoletana si rivelano un punto di forza 

inaspettato, perché gli consentono di spaziare dalle 

melodie italiane tradizionali, all’opera, al pop, offrendo 

un range molto ampio. 






















































Le difficolta e l’etica del successo della Silicon valley 

Le difficoltà non mancano. Trovarsi solo, lontano 

dalle proprie radici, non è semplice. Una vita sociale 

completamente diversa, meno collegiale e spontanea, 

è spesso motivo di sconforto: molti non ce la fanno. 

Dell’Italia infatti gli mancano i piccoli piaceri quotidiani: 

“I pomeriggi pigri, ritrovarmi in piazza con gli amici.” 

E riconosce che l’Italia gli ha dato molto: “Il senso 

della famiglia e delle radici. Un forte senso di identità 

che è stata la mia ancora di salvezza nei momenti più 

difficili.” Per Pasquale la difficoltà maggiore consiste 

nel riscoprire sé stesso nonostante la lontananza dalla 

madrepatria. “Devo molto al mondo italoamericano, 

ARTS


molto legato alla cultura degli antenati emigrati dall’Italia. 

Il loro amore per l’arte e la musica italiana mi 

ha sostenuto e incoraggiato.” Riconosce che essere 

italiani è una grande fortuna. 

Ma il nuovo contesto indubbiamente presenta dei 

vantaggi, che Pasquale sa cogliere: “Io non l’ho vista 

come una limitazione, ma come un processo di adattamento,” 

riflette Pasquale. 

“Quando sei nato, cresciuto, e vissuto a Napoli, tra 

l’altro in periodo molto difficile per la città, e ti trasferisci 

qui dove tutto funziona, chiaramente ti devi 

adattare. Ma questo ambiente così diverso mi ha 

permesso di concentrarmi molto sul lavoro.” 

Si laurea in canto lirico alla San Jose State University, 

e l’etica del successo di Silicon Valley lo sprona a raggiungere 

traguardi forse prima insperati: “Non so se 

in Italia sarei riuscito ad avere le stesse soddisfazioni, 

non so se sarei riuscito a fare un programma simile a 

quello trasmesso su PBS nel 2015 “Pasquale Esposito 

celebrates Enrico Caruso” seguito da 200 milioni di 

persone.” Una maratona concertistica filmata tra la 

costiera amalfitana e altri luoghi cari ad Enrico Caruso 

durante la quale Pasquale interpreta un ampio 

























ARTS

















































con rernate poresti qui dit que venisti voluptur alirepertorio 

di arie rese famose da Caruso. Nel 2018, 

Pasquale ritorna su PBS con unnuovo programma di 

grande successo,“Pasquale Esposito celebrates Italian 

Piazzas”: un tour de force musicale sulle piazze italiane 

che presenta mix originale di musica dal vivo e 

spezzoni di documentario. 

La più grande soddisfazione rimane la capacità di 

portare gioia ai suoi fan italoamericani riaccendendo 

in loro l’amore per l’Italia tramite la musica. 

E poiché la musica è un linguaggio universale, il suo 

club di fan si allarga oltre i confini della comunità 

italoamericana e ora include chiunque si riconosca 

nella storia dell’emigrazione. “Per me il dono più 

grande che il mio pubblico può farmi è venire ai miei 

concerti. In un’epoca dove hai tutto a portata di mano 

su Internet - anche la musica - il tempo è il dono più 

prezioso.” 

Per i giovani che vogliono emulare la sua esperienza 

ed emigrare seguendo le proprie inclinazioni artistiche, 

ha un consiglio preciso: “Consiglio di studiare, di 

non smettere mai di imparare. Anche nella musica bisogna 

sapere innovare: mentre i teatri lirici si lamentano 

della scarsa affluenza, i concerti di Bocelli sono 

tutti esauriti. I giovani devono comprendere cosa 

manca nella società locale e saper colmare il gap.” 

La musica ormai è un business globale: Pasquale 

collabora con orchestre europee per effettuare registrazioni 

classiche (lo fa anche Hollywood!), mentre si 

rivolge in Italia per produrre delle chitarre. 

“Sicuramente qui si vive con maggiore intensità, nel 

bene e nel male. Qui usiamo un orologio diverso, che 

va molto più veloce. Però i sacrifici vengono ricompensati 

da grandi soddisfazioni.” 

Gli aneddoti divertenti sono tanti. Come quando il 

manager del ristorante di Francis Ford Coppola, nel 

cuore di North Beach a San Francisco, lo informa 

che due signore sono rimaste colpite dalla sua performance 

e desiderano parlargli in privato. Con un 

inglese ancora un po’ incerto, si stupisce quando gli 

propongono un lavoro in una “Shower”, chiedendosi 

come avrebbe potuto cantare sotto la doccia con 200 

donne. In realtà si tratta della “wedding shower”, 

ovvero delll’addio al nubilato della figlia di una di 

quelle signore! “Cantare ai matrimoni e altre feste è 

stata per me un’esperienza importantissima, una tappa 

fondamentale della mia carriera qui, perché mi ha 

dato l’opportunità di rapportarmi con la comunità 

italoamericana e di capire cosa significasse la tradizione 

musicale italiana per loro.” 


Autore: 


Silvia Veronese, nata e cresciuta tra Verona e Courmayeur, 

arriva negli Stati Uniti negli anni ‘80 per lavorare 

nei centri di IBM a fianco del premio Nobel Murray 

Gellmann e Benoit Mandelbrot, inventore delle teorie 

frattali. Dopo aver insegnato matematica applicata 

e biologia computazionale all’Università dello Utah, 

arriva in Silicon Valley dove fonda diverse startups 

e diventa top manager aziendale in societa’ come HP. 

Silvia ha tre bellissime figlie nate negli Stati Uniti, 

ma italianissime, che amano il gelato, la vera pizza 

napoletana e le favole di Gianni Rodari. 


mincia con rernate poresti qui dit que venisti voluptur 

alitaerrum deliquam fuga. Ita sed quas etur maximod 


voluptur alitaerrum deliquam fuga. Ita sed quas etur 

maximod que prepro mincia con rernate poresti qui 

dit que venisti voluptur alitaerrum deliquam fuga. Ita 



Ringraziamenti 


Mauro Batocchi 

COMITES 

Consolato Generale d’Italia 

a San Francisco 

NASA 

University of San Francisco 

Stanford University 

University of California at Berkeley 

Silicon Valley Study Tour 

Dolce e Gabbana 

Collaboratori/ 

Collaborators: 

Emanuela Bricco 

Eleonora Chioda 


Lana Kotwicki 

Paolo Marenco 

Ermelinda Porpiglia 

Delphine Veronese-Milin 

Sophia Veronese-Milin

Fotografia/Photo: 

Flavia Loreto 

Flavia Loreto è una fotografa specializzata nel ritratto. Nata a Roma 

nel 1968, ha trascorso più di vent’anni 

in Germania dove ha aperto il suo primo studio 

fotografico. Dal 2016 vive in California e lavora come fotografa freelance. 

Flavia ha collaborato con agenzie pubblicitarie, riviste e giornali. 

Tra le sue mostre: Donne (Düsseldorf 2013) - A Day 

in Naples (San Francisco 2017). Oltre alla fotografia, 

Flavia ama trascorrere il tempo con i suoi tre figli: Sven, Mark e Erik. 

Carlo Borlenghi 


Carlo Borlenghi, fotografo di fama internazionale da più di 30 anni 

lavora nel campo della vela. Dal 1987 e’ il fotografo ufficiale dell’America’s 

Cup e degli eventi nautici internazionali Rolex. Nel 1983 ha 

ottenuto il premio “Marian Skubin” per la migliore fotografia sportiva 

pubblicata in Italia. 

Vincitore di numerosi premi tra cui il riconoscimento ‘per i molti anni 

di intensa attività a favore del mondo della vela’ dal Presidente della 

Repubblica Giorgio Napolitano. Ha seguito Luna Rossa durante l’America’s 

Cup a San Francisco nel 2013. 

Le interviste Luca Maestri, Adriano Farano, Christian Ferri, Federico Faggin, Bibop Gresta sono state realizzate da Eleonora Chioda, giornalista economica.

“THERE IS 

AS YET INSUFFICIENT 

DATA FOR A 

MEANINGFUL ANSWER” 

“NON CI SONO MAI 

ABBASTANZA DATI PER 

UNA RISPOSTA 

COMPLETA” 

“The last question” 

ISAAC ASIMOV 

PER ASPERA 

AD ASTRA 

THROUGH HARDSHIP 

TO THE STARS 

“A GOAL 

IS A DREAM 

WITH A DEADLINE” 

“UN GOAL E’ UN 

“Confidential ATTRAVERSO - Not LE for distribution - pre-production copy “ 

ASPERITÀ SINO ALLE 

SOGNO CON UN 

STELLE 

OBBIETTIVO” 

NAPOLEON HILL 

“THAT’S BEEN 

ONE OF MY MANTRAS 

— FOCUS AND SIMPLICITY. 

SIMPLE CAN BE HARDER THAN 

COMPLEX: YOU HAVE TO WORK HARD 

TO GET YOUR THINKING CLEAN TO MAKE 

IT SIMPLE. BUT IT’S WORTH IT IN THE END 

BECAUSE ONCE YOU GET THERE, YOU CAN 

MOVE MOUNTAINS” 

“QUESTO È UNO DEI MIEI MANTRAS 

– CONCENTRAZIONE E SEMPLICITÀ’ – 

LA SEMPLICITÀ’ È PIÙ DIFFICILE 

DELLA COMPLESSITÀ. DEVI LAVORARE 

DURO PER RENDERE LE COSE SEMPLICI. 

MA NE VALE LA PENAPERCHE’ 

QUANDO CI ARRIVI, PUOI 

SPOSTARE MONTAGNE” 

STEVE JOBS

“INIZIARE 

UN NUOVO CAMMINO 

CI SPAVENTA, MA DOPO 

OGNI PASSO CI RENDIAMO 

CONTO DI QUANTO FOSSE 

PERICOLOSO RIMANERE FERMI.” 

“NEW ADVENTURES CAN BE 

SCARY, BUT AFTER EACH STEP 

ONE REALIZES HOW 

DANGEROUS IT WOULD HAVE 

BEEN TO STAND STILL.” 

ROBERTO BENIGNI 

“WHEN 

YOU INNOVATE, 

YOU’VE GOT TO BE 

PREPARED FOR 

EVERYONE TELLING YOU 

YOU’RE NUTS” 

“QUANDO INVENTI, 

PREPARATI AD ESSERE 

PRESO PER UN MATTO.” 

LARRY ELLISON 


“THE ONLY 

REAL FAILURE IS THE 

FAILURE TO TRY AND THE 

MEASURE OF SUCCESS 

IS HOW WE COPE WITH 

DISAPPOINTMENT.” 

“IL PIU GRANDE FALLIMENTO 

E’ IL NON PROVARE; 

IL SUCCESSO E’ PROPORZIONALE 

ALLA NOSTRA ABILITA’ DI 

GESTIRE IL FALLIMENTO. 

DEBORAH 

MOGGACH 

“IF 

EVERYTHING 

IS UNDER CONTROL, 

YOU’RE NOT GOING FAST 

ENOUGH!” 

“IF EVERYTHING IS 

UNDER CONTROL, 

YOU’RE NOT GOING 

FAST ENOUGH!” 

MARIO 

ANDRETTI

UN LIBRO SUGLI ITALIANI 

IN SILICON VALLEY 

SONO ITALIANI, ITALIANISSIMI, MA HANNO LASCIATO 

L’ITALIA PER AVVENTURARSI IN CALIFORNIA NELLA 

SILICON VALLEY. DIETRO STORIE DI SUCCESSO 

C’È’ ARDUO LAVORO E TANTI FALLIMENTI. ED UNA 

GRANDE PASSIONE PER L’ITALIA. DA OLIVETTI ALLA 

APPLE ALLE STARTUPS SONO STORIE RACCONTATE 

DA LORO, IN PRIMA PERSONA. DA JANET NAPOLITANO, 

EX-SEGRETARIO DELLA SICUREZZA NAZIONALE DEGLI 

STATI UNITI A LUCA MAESTRI, DIRETTORE FINANZIARIO 

DELLA APPLE, AI RAGAZZI DELLA NASA CHE 

“Confidential STUDIANO LA - Not VITA for SU distribution MARTE, AL - pre-production MITICO FEDERICO copy “ 

FAGGIN, PADRE DEL MICROPROCESSORE. 

UNA RACCOLTA DI ESPERIENZE PERSONALI DI STORIE 

DI VITA. E’ LA NUOVA IMMIGRAZIONE, CHE NON 

CHIUDE PORTE, MA VA INCONTRO AL FUTURO. 

SONO CERVELLI ITALIANI NEL MONDO. 

E’ LA VALLE DEL SILICIO. 

LIBRO REALIZZATO GRAZIE AL CONTRIBUTO DEL MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI E DELLA COOPERAZIONE 

INTERNAZIONALE CON IL SOSTEGNO DEL CONSOLATO GENERALE D’ITALIA A SAN FRANCISCO. 

BOOK PUBLISHED THANKS TO THE CONTRIBUTION OF THE MINISTRY OF FOREIGN AFFAIRS AND INTERNATIONAL 

COOPERATION OF ITALY WITH THE SUPPORT OF THE CONSULATE GENERAL OF ITALY IN SAN FRANCISCO.

LA VALLE DEL SILICIO SILICON VALLEY 

“Co

LA VALLE 


Cervelli Italiani nella terra 

dell'innovazione. 

Italian minds in the land of 

innovation. 

Con foto di Flavia Loreto 

nfidential - Not for distribution - pre-production copy “

“TRUE 

CREATIVITY AND 

INNOVATION COME 

FROM BEING ABLE TO STAND 

AT THE INTERSECTION OF ART 

AND SCIENCE.” 

“LA VERA CREATIVITÀ E 

INNOVAZIONE DERIVANO 

DALL’ABILITÀ DI SPOSARE 

LE ARTI E CON LA SCIENZA.” 

WALTER ISAACSON 

“NOW IS NO 

TIME TO THINK OF 

WHAT YOU DO NOT HAVE. 

THINK OF WHAT YOU CAN DO 

WITH THAT THERE IS.” 

“ORA NON È TEMPO PER 

PENSARE A CIÒ CHE NON HAI. 

PENSA A QUELLO CHE PUOI 

FARE CON QUELLO 

CHE C’È.” 

” Il vecchio e il mare” 

HERNEST HEMINGWAY 

“THERE 

ARE TWO POSSIBLE 

OUTCOMES: IF THE RESULT 

CONFIRMS THE HYPOTHESIS, THEN 

YOU’VE MADE A MEASUREMENT. 

IF THE RESULT IS CONTRARY TO THE 

HYPOTHESIS, THEN YOU’VE MADE 

A DISCOVERY.” 

“CI SONO SOLTANTO DUE POSSIBILI 

CONCLUSIONI: SE IL RISULTATO 

CONFERMA L’POTESI, ALLORA HAI 

APPENA FATTO UNA MISURA. 

SE IL RISULTATO È CONTRARIO ALLE 

IPOTESI, ALLORA HAI FATTO 

UNA SCOPERTA.” 


“THE 

FIRST PRINCIPLE IS 

THAT YOU MUST NOT FOOL 

YOURSELF—AND YOU ARE 

THE EASIEST PERSON TO FOOL.” 

“IL PRIMO PRINCIPIO È CHE NON 

DEVI PRENDERE IN GIRO TE 

STESSO E TU SEI LA PERSONA PIÙ 

FACILE DA PRENDERE 

IN GIRO.” 

R. FEYNMAN FROM HIS 

COMMENCEMENT 

SPEECH IN 1974 

ENRICO FERMI 

“PROGRESS LIES 

NOT IN ENHANCING 

WHAT IS, BUT IN ADVANCING 

TOWARD WHAT WILL BE.” 

“IL PROGRESSO NON È 

MIGLIORARE QUELLO CHE È, 

MA AVANZARE VERSO 

IL FUTURO.” 

KHALIL GIBRAN

“NON SI 

VEDE BENE CHE COL 

CUORE. L’ESSENZIALE 

È INVISIBILE AGLI OCCHI.” 

“IT IS ONLY WITH THE HEART 

THAT ONE CAN SEE RIGHT – 

WHAT IS ESSENTIAL IS 

INVISIBLE TO THE EYE.” 

“Little prince “ 

ANTOINE 

DE SAINT-EXUPÉRY 

“NO MAN 

IS MORE UNHAPPY 

THAN HE WHO NEVER 

FACES ADVERSITY. FOR HE IS NOT 

PERMITTED TO PROVE 

HIMSELF.” 

“NULLA MI SEMBRA PIÙ 

INFELICE DI COLUI AL QUALE NON 

CAPITA MAI NESSUNA 

AVVERSITÀ. INFATTI, 

A COSTUI NON È STATO 

POSSIBILE PROVARE 

LE PROPRIE CAPACITÀ.” 

SENECA 

“EVEN IF 

YOU FALL ON YOUR 

FACE, YOU’RE STILL 

MOVING FORWARD.” 

“PROGREDISCI SEMPRE 

ANCHE SE CADI 

SBATTENDO 

LA FACCIA.” 

VICTOR KIAM 


“IMAGINATION 

IS MORE IMPORTANT 

THAN KNOWLEDGE.” 

“L’IMMAGINAZIONE 

E’ PIU IMPORTANTE 

DELLA CONOSCENZA.” 

ALBERT EINSTEIN 

“EDUCARE 

UN BAMBINO NON È 

RIEMPIRE UN VASO, MA È 

ACCENDERE UN FUOCO.” 

“EDUCATION IS NOT THE 

FILLING OF A PAIL, BUT THE 

LIGHTING OF A FIRE.” 

MICHEL DE MONTAIGNE


La Silicon Valley, nome tanto celebrato nel campo 

della tecnologia, appare a molti come un luogo 

misterioso, una realtà lontana a cui tanti aspirano, 

un mix di creatività, poco rispetto per le regole, 

e un influsso continuo di fondi. Ma come si è creato 

un posto così unico al mondo, che da più di venti 

anni attira le migliori menti di questo pianeta? 

È una Big Apple più grande di New York, rispecchia 

lo spirito americano di indipendenza, impreditoria, 

premia l’iniziativa personale. 

La Silicon Valley non guarda come ti vesti. “Fail 

often, fail fast”, è lo yoga mentale. 

Fallire rapidamente e spesso ricorda la Silicon 

Valley. Il fallimento è un simbolo di progresso, non 

una stigma. La positività della valle (che valle non è, 

ma piuttosto un’area peninsulare contenuta 

a nord dalla bellissima baia di San Francisco e a sud 

dalla cittadina di San Jose) è penetrante 

e contagiosa. Per lavorare nella Silicon Valley devi 

essere un ottimista. Nessuno scienziato basa il suo 

lavoro sulla speranza. 

Piu’ uno conosce, meglio affronta il futuro. 

Eppure avere successo nella Silicon Valley non 

è facile. I ritmi sono elevati, anche per i più tenaci. 

La mediocrità alla Salieri non sopravvive. 

È il Mozart che eccelle. La Silicon Valley cresce, 

e la California nel 2018 si è piazzata al 5 posto come 

potenza economica mondiale. 

Qui lavorano i più ricchi, ma sulle strade di San 

Francisco i senza tetto sono numerosi. 

L’energia della valley è un connubio di gente, 

di quello che in inglese si chiama ‘diversity’, 

diversità di culture, razze, modi di pensare ed agire. 

E tra questi ci sono gli italiani, numerosi e di 

successo. Hanno fondato compagnie, sono alla 

guida dei centri universitari di ricerca più 

all’avanguardia nel mondo come Stanford 

e Berkeley. Sono arrivati qui un po’ per caso. 

Nelle loro interviste raccontano che non hanno 

chiuso una porta dietro di loro, non sono scappati 

da nulla, ma hanno aperto una porta davanti a loro, 

hanno seguito un’opportunità. Immensamente grati 

e fieri di essere italiani, non hanno mai dimenticato 

l’italia e contano di tornare. 

Sono cervelli italiani nel mondo. 



















































“Learning 


the mind 



never fears, 

and never 

regrets.” 

Leonardo da Vinci

“ Learning 


the mind 



never fears, 

and never 

regrets.” 

Leonardo da Vinci











Con foto di Flavia Loreto

Essere italiani in California 



officab il magnam, ipsusae. Met aborporuptia si delit 















con nem alit, cullanto con nihilig enihicipsam id molesse 



















apis eictur auta por ma di cus aspitin ctotam, aut voluptatquae 

electo et, quature con nem alit, cullanto 


cietur, ium restio berioria et veliquo dio officipsum id 

mod quiaspiet harupta tatatur? Quia sunt. 





























































quaspe 


INTRODUCTION

es que re nos quo cus, tectemqui simus, to eum 










id mod quiaspiet harupta tatatur? Quia sunt. cietur, 



restio berioria et veliquo dio officipsum id mod quiaspiet 

harupta tatatur 

res que re nos quo cus, tectemqui simus, to eum 





sam autam adipiciendi dolore eumquatur, abor aliquas 

apis eictur auta por ma di cus aspitin ctotam, 



acepedi cietur, ium restio berioria et veliquo 


Quia sunt. cietur, ium restio berioria et veliquo dio 

officipsum id mod quiaspiet harupta tatatur? Quia 

sunt. cietur, ium restio berioria et veliquo dio officipsum 

id mod quiaspiet harupta tatatur 


Storia degli italiani in 

California 



officab il magnam, ipsusae. Met aborporuptia si delit 















con nem alit, cullanto con nihilig enihicipsam id molesse 


















































































quaspe 


STORIA DEGLI ITALIANI IN CALIFORNIA













id mod quiaspiet harupta tatatur? Quia sunt. cietur, 



restio berioria et veliquo dio officipsum id mod quiaspiet 

harupta tatatur 

res que re nos quo cus, tectemqui simus, to eum 





sam autam adipiciendi dolore eumquatur, abor aliquas 

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acepedi cietur, ium restio berioria et veliquo 


Quia sunt. cietur, ium restio berioria et veliquo dio 

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DOLUPTA 

TIIS CONET 

HARCID QUO 

ET ODIGNIS 

VOLUPT 

DOLUPTA 

TIIS CONET 

HARCID QUO 

ET ODIGNIS 

VOLUPT 



Dagli hippy all’high-tech, 

breve storia della Silicon 

Valley 

Al 367 di Addison Ave, a Palo Alto in California, una 

targa in bronzo ricorda il luogo di nascita della Silicon 

Valley. La targa è posta davanti al garage in cui 

William R. Hewlett e David Packard, siamo nel 1938, 

creano il primo oscillatore audio. Spinti dal professor 

Frederick Terman della Stanford University, che 

aveva incoraggiato i neo-laureati ad avviare le proprie 

imprese in loco, anziché andare a lavorare per 

le grandi aziende a Est, fondano la Hewlett-Packard. 

Due anni dopo al Bell Labs, William Shockley inventa 

il transistor e nel 1956 lascia l’azienda e fonda la 

Shockley Semiconductor Labs a Mountain View. Un 

anno dopo un gruppo di impiegati, gli “Otto traditori”, 

insieme a Sherman Fairchild fonda la Fairchild 

Semiconductor, e poi alcuni di essi, nel 1968, creano 

la Intel a Santa Clara. 

Il decennio si chiude con la nascita del progetto Arpanet, 

di cui fa parte lo Stanford Research Institute 

e con l’apertura del laboratorio Parc della Xerox a 

Palo Alto. Nel 1971, il giornalista Don Hoefler scrive 

un report sull’industria dei semi conduttori che 

prospera nella valle di Santa Clara, e lo intitola Silicon 

Valley USA, battezzando, una volta per sempre, 

l’area che ancora oggi è il centro del mondo, per 

quanto riguarda i colossi high-tech e le start-up più 

innovative. 

La visione del professore Terman, che dopo aver visitato 

molte aziende condotte con successo da persone 

poco istruite, si chiese cosa avrebbero potuto 

ottenere dei laureati, diede il via a quella che viene 

riconosciuta come la prima fase della Silicon Valley – 

dagli anni 30 all’inizio dei 70 – che corrisponde allo 

sviluppo delle tecnologie elettroniche e alla realizzazione 

dei circuiti integrati. La seconda fase – dai 70 

ai 90 – che ha tra i protagonisti Steve Jobs, vede la 

nascita dei personal computer, e la terza – dagli anni 

90 in poi – ha al centro la diffusione di Internet. Tali 

fasi non possono essere scollegate dall’area geografica, 

tanto da poter affermare che la nascita e 

l’evoluzione della Silicon Valley non avrebbero potuto 

avere luogo altrove, lontano dalla California, 

lontano da un mix unico di elementi che, soltanto lì, 

coesistevano. 

Negli anni 60 sulla West Coast si diffonde la cultura 

hippy definita anche “Controcultura”. Il nome riassume 

il contrasto con la cultura mainstream di uno 






















































stato impegnato sul fronte estero con la guerra del 

Vietnam e diviso, su quello interno, tra sostenitori, 

pacifisti e ampi strati della popolazione impegnati 

nelle lotte per i diritti civili. 

I giovani, che non si riconoscono nella cultura dominante 

sono alla ricerca di un’alternativa, e molti 

di loro la trovano nelle comuni. Delusi dalla società, 

anziché combattere, scappano via convinti che il 

fulcro del cambiamento non sia nelle armi di massa, 

ma nelle coscienze. Laddove la cultura dominante si 

basa sul conflitto, le comuni sono caratterizzate da 

un ideale di vita in armonia. 

L’interconnessione tra il movimento hippy e lo sviluppo 

dell’industria tecnologica è raccontata a fondo 

dal giornalista John Markoff. Nel suo libro, What 

the Dormouse Said: How the Sixties Counterculture 

Shaped the Personal Computer Industry, l’autore 

ricostruisce i collegamenti tra il mondo psichedelico 

e quello tecnologico, a partire dalla nascita di una 

rete prima della rete. La California del tempo era 

un crocevia di spiriti liberi, in cui due istanze apparentemente 

opposte, individualismo e condivisione, 

coesistevano. La creatività, esaltata da sostanze 

come l’acido lisergico, concedeva visioni: vere e proprie 

anticipazioni del futuro. Un esempio raccontato 

da Markoff, simboleggia il passaggio tra gli ultimi 

stralci psichedelici della controcultura e la cybercultura 

che sta per nascere: nel 1974, l’ingegnere Daniel 

Ingalls della Xerox, dopo aver assunto una pasticca 

di LSD ha la visione dei menu pop-up che oggi 

tutti usiamo. In quel momento nascono le moderne 

interfaccia grafiche. 

Il passaggio focale di tutta la storia sta nel pensiero 

rivoluzionario che vede la tecnologia, fino ad allora 

appannaggio del mondo militare, delle grandi aziende 

e delle università, come un qualcosa che può 

essere adottato dalle masse, per creare una società 

alternativa. Gli hippy rintanati nelle comuni nel deserto 

e nei boschi hanno bisogno di sopravvivere, e 

proprio qui entra in gioco una figura fondamentale, 

Stewart Brand, che crea il Whole Earth Catalogue. 

Definito da molti “il libro che cambiò il mondo”, diviene 

il riferimento principale della controcultura. Si 

tratta di un compendio, una enciclopedia di idee su 

tutto ciò che, secondo l’autore, deve essere diffuso 

e reso noto. Un motore di ricerca su carta con informazioni 

sull’energia alternativa, il riciclaggio, 

l’agricoltura biologica, computer e tecnologie. Una 

guida che aiuta gli abitanti delle comuni a sopravvivere 

facendo, costruendo, inventando e, parola 

chiave, condividendo. 

Definito come l’internet prima di internet, la guida, 























































democratica e libera, cambia il modo di pensare alle 

informazioni, di scambiarsele, rende le persone 

consapevoli le une delle altre. Nel 1972 compare 

sul Catalogo la calcolatrice tascabile HP-35, il primo 

calcolatore nella storia della controcultura: in un 

epoca in cui i chip venivano usati sui missili, i californiani 

se ne appropriano mettendoli in mano all’uomo 

della strada. È lo spirito californiano: condividere, in 

modo utile e individualistico la tecnologia, non più 

esclusiva dello stato, trasformandola in un elemento 

di liberazione. 

Agli inizi degli anni Settanta, le comuni si svuotano, 

ma come comprende il visionario Stewart Brand, 

dove queste hanno fallito può riuscire il computer. 

La sua premonizione, nata da una visita al laboratorio 

di Intelligenza Artificiale dell’Università di Stanford 

e allo Xerox Research Center, è che la nuova 

comune sarà quella digitale, i nuovi hippy saranno i 

programmatori, che di notte si affrontano nel rivoluzionario 

gioco Spacewar, in una comunità libera e 

immateriale. Nel 1985 Brand ne diviene parte con il 

progetto The Well, il precursone dei social network. 

Dieci anni dopo, in un articolo sul Time dichiara “We 

owe it all to the hippies”, dobbiamo tutto agli hippy, 

“Dimenticate le proteste antimilitariste, Woodstock 

e perfino i capelli lunghi: la vera eredità della 

generazione dei 60 è la rivoluzione informatica”. 

Il mix unico di elementi che ha portato all’esistenza 

della Silicon Valley, è stato riassunto in 8 punti da 

Larry Sonsini. 

Nipote di immigrati italiani, definito dalla rivista Fortune 

come l’avvocato più influente e connesso del 

settore industriale USA, si laurea a Berkeley negli 

anni 60, e con John Wilson fonda uno studio legale 

a Palo alto. 

Tra gli altri, ha il merito di aver portato sul mercato 

azionario Netscape, Apple, Pixar, Google e Twitter. 

Il mix individuato da Sonsini è formato prima di tutto 

dal talento imprenditoriale. Ritorna qui lo spirito 

californiano, per cui il motto è “fail fast, fail often”, 

come dire: prova, rischia, fallisci in fretta e perfeziona 

la tua idea. 

Gli altri ingredienti sono il rispetto per la libertà personale, 

tipica delle zone di frontiera; l’integrazione 

di tante razze e culture; la meritocrazia; l’accesso 

al capitale; una rete di Università e centri di ricerca 

accessibili a tutti (benché se ne abbia il merito); una 

cultura aziendale che consente la mobilità. Per finire 

un sistema di Governo che investe nella ricerca e 

tutela la proprietà intellettuale. 

Questo mix, presente in tutto e per tutto solo nella 

Silicon Valley, ha visto nella terza fase, quella degli 






















































anni 90, la nascita dei colossi che ancora oggi dominano 

la valle, spinti dalla rivoluzione di Internet. 

Oggi siamo nel pieno dell’evoluzione verso la quarta 

fase, con l’Apple Park Cupertino e i village di Google 

e Amazon, che ricordano un po’ le comuni. In esse si 

respira la stessa volontà di staccarsi, di essere altro 

dalla società, che portò tanti giovani a lasciare le città 

alla ricerca di qualcosa che ancora non c’era, ma 

che sarebbe venuto in una forma inimmaginabile. 

In questi microcosmi la Silicon Valley è permeata 

ancora da quello spirito californiano, libero, capace 

di percepire in anticipo che le cose stanno cambiando, 

che possono essere cambiate con la creatività 

mista all’ingegno e alla voglia di rischiare. 

L’unico modo per realizzare le proprie utopie. 

















PERCHÉ 

LE PERSONE CHE 

SONO ABBASTANZA 

FOLLI DA PENSARE 

DI POTER CAMBIARE 

IL MONDO SONO 

COLORO CHE 

LO CAMBIANO 

DAVVERO 


E’ 

SOLAMENTE 

DICENDO ‘NO’ 

CHE PUOI 

CONCENTRARTI 

SULLE COSE 

VERAMENTE 

IMPORTANTI 

DECIDERE 

COSA NON 

FARE È TANTO 

IMPORTANTE 

QUANTO 

DECIDERE CHE 

FARE 



Italian immigration 















































sed quas etur maximod que prepro minci 



























































La distanza invisibile: 

differenze culturali 

tra Italia e Silicon Valley 

La distanza geografica tra l’Italia e Silicon Valley non è 

difficile da calcolare: circa 10,000 km da Roma, 9,500 km 

da Milano. 

Più difficile da quantificare è la distanza culturale. 

Tutti gli emigrati nella Bay Area, italiani e non, in qualsiasi 

professione, l’hanno sperimentata sulla propria pelle: la 

difficoltà di adattamento, la perplessità di fronte a situazioni 

a prima vista normali, ma in realtà indecifrabili, la 

sensazione di non riuscire comprendere alcune sottili, ma 

innegabili differenze. 

Mossi da ambizioni professionali, spesso accompagnati 

da un bagaglio di conoscenze e di competenze altamente 

specializzate, gli italiani che si trasferiscono in Silicon Valley 

rappresentano un mix eclettico: ricercatori, studenti, 

imprenditori, manager, scienziati, professionisti, docenti. 

Tutti si avvicinano alla meta con determinazione, ma anche 

con una certa trepidazione. A questa si aggiunge un 

intenso shock culturale alquanto inaspettato. 

La maggior parte di loro dispone di una buona, se non 

ottima padronanza della lingua inglese, di un livello di 

istruzione spesso superiore alla media, e di una apertura 

mentale acquisita grazie a frequenti viaggi all’estero, 

soggiorni studio, o esperienze di lavoro Internazionali - 

tutti fiori all’occhiello del sistema italiano, e più in generale 

europeo. Basti pensare che il 26% dei residenti europei 

nella Bay Area è in possesso di un Master o di un titolo di 

studio equivalente, una percentuale nettamente superiore 

alla media dei residenti locali (17%). 

Quando si imbarcano in aereo, diretti a San Francico o 

San Josè, magari danno un’occhiata ad uno dei tanti gruppi 

online di Italiani residenti nella Silicon Valley, o leggono 

le ultime novità sul San Josè Mercury News o San Francisco 

Chronicle. 

Il viaggio è lungo e spesso prevede uno scalo. Ma la distanza 

forse è un bene in quanto fornisce più tempo per 

prepararsi mentalmente a quello che ci aspetta. E fornisce 

l’occasione – anche per chi già ha familiarità con la cultura 

di Silicon Valley – di sostituire la “scheda mentale” ed 

iniziare ad adottare la forma mentis di un residente perfettamente 

integrato. 

Quali sono le difficoltà culturali con cui tutti si scontrano? 




















































quaspe 



IL TEMPO REGNA SOVRANO 

La prima cosa che colpisce è una diversa concezione del 

tempo. 

“Qui usiamo un orologio diverso”, nota Pasquale Esposito, 

tenore che si è trasferito da Napoli a San Jose e che 

in prima persona si è imbattuto nel diverso stile di vita. 

È uno shock per tutti. Dai tempi di risposta tipici per una 

mail, al rispetto per le scadenze, all’abitudine a programmare 

gli impegni sociali con largo anticipo, l’orologio 

domina l’esistenza del expat a Silicon Valley. La 

puntualità è d’obbligo, ed anche i canonici dieci minuti di 

ritardo destano sospetti e sono sinonimo di scarsa professionalità. 

Questo perché la cultura americana aderisce ad una 

concezione del tempo definita “linear active” 1 , dove i 

vari impegni si susseguono in maniera lineare ed efficiente, 

senza sovrapposizioni, massimizzando la produttività 

nell’arco della giornata. Ciò che conta sono i risultati, 

più delle relazioni. “Time is money” è un’espressione 

comune negli Stati Uniti, e in particolare nella Silicon 

Valley, dove i soldi in generale abbondano, ma il tempo 

scarseggia e quindi è considerato uno dei beni più preziosi. 

La cultura italiana aderisce invece ad un concetto del 

tempo definito “multi active”, dove vari impegni si affastellano 

in parallelo, con una certa tolleranza per ritardi 

o piccole deviazioni di percorso, dove efficienza e produttività 

sono misurate su un arco temporale più lungo. 

L’ossessione per l’orologio non si limita all’attenzione ai 

minuti e allo scorrere del tempo. 

Si esprime anche nel modo di concepire le relazioni 

umane, che sono spesso viste in maniera apertamente 

opportunistica e utilitaria nella SV, dove anche per 

prendere un caffè con un conoscente spesso si prende 

appuntamento con giorni o settimane di anticipo. 

L’ARTE DELLA PERSUASIONE. 

Un’altra differenza culturale fondamentale consiste nei 

diversi modelli di argomentazione logica prevalenti. In 

Italia si predilige un modello definito deduttivo 2 , dove 

dalle premesse si arriva alle conclusioni secondo uno 

schema persuasivo fortemente teorico mirato a risolvere 

il problema nel suo complesso; nella cultura anglosassone 

invece prevale il modello induttivo, dove le conclusioni 

sono espresse immediatamente, seguite da dettagli 

e spunti pratici, secondo uno schema persuasivo mirato 

alla risoluzione di parti del problema. 

Anche in questo caso si intravede ancora una diversa 

concezione del tempo, in quanto il modello induttivo 
















































quaspe 


restio berioria et veliquo dio officipsum id mod quia- 


















































berioria et veliquo dio officipsum id mod quiaspiet harichiede 

un’esposizione efficiente e veloce, quello deduttivo 

più lunga ed articolata. 

Questa differenza culturale si manifesta in presentazioni, 

discorsi, o interventi orali, durante i quali i nostri 

connazionali devono convincere i propri interlocutori 

in pochi minuti - minuti americani, non italiani, quindi 

senza possibilità di estensioni! 

La tentazione di riproporre modelli espositivi a noi ben 

conosciuti – ovvero il modello deduttivo cartesiano, predominante 

nel sistema educativo italiano - è forte ed è 

spesso la scelta più naturale. Ma si tratta di un errore, in 

quanto un ragionamento lungo e complesso induce i 

nostri amici di Silicon Valley allo sbadiglio. Qui prevale 

una logica più pratica. Meglio privilegiare ragionamenti 

lineari che non si soffermano sui problemi, ma enfatizzano 

le soluzioni. 

Tuttavia, questa tendenza a considerare i problemi nel 

loro complesso può anche rivelarsi un vantaggio per 

molti professionisti italiani: è sicuramente ritenuta un 

grande pregio dei giovani ingegneri italiani, ricercati dalle 

aziende di Silicon Valley proprio per la loro capacità di 

analizzare i problemi nella loro totalità e individuare 

soluzioni complessive e di largo respiro, che spesso si 

rivelano flessibili e durature, anziché affidarsi a rimedi 

specifici e mirati, che spesso si rivelano solo temporanei. 


OCCHIO AL FEEDBACK 

“Good job! è un’espressione molto comune a Silicon 

Valley, alla quale ci si abitua velocemente; 

noi italiani, abituati a critiche esplicite e spesso spietate, 

non crediamo alle nostre orecchie quando riceviamo 

dei complimenti sul lavoro. Sentirsi dire “Good Job” è 

la norma. Ma cosa significa veramente? Scordiamoci la 

trasparenza: dire quello che si pensa veramente, senza 

filtri, è poco comune qui. Il modello di feedback prevalente 

è il cosiddetto “sandwich model” 3: pensiamo ad 

un panino imbottito dove la vera sostanza è contenuta 

tra due strati meno saporiti. Ovvero, dare e ricevere 

feedback richiede diplomazia e attenzione: tipicamente 

si iniziacon un commento positivo, si passa al vero feedback, 

e si conclude con un altro commento positivo. 

Chi lo fornisce deve dimostrare tatto, chi lo riceve deve 

saper ascoltare tra le righe e non lasciarsi sfuggire nulla, 

a meno di non voler fraintendere il significato. La tentazione 

di controbattere o trovare giustificazioni è considerata 

irritante perché fa perdere tempo. 

GLI INCONTRI DI NETWORKING 

Anche gli eventi di networking professionali, fenomeno 


















































berioria et veliquo dio officipsum id mod quiaspiet hatipico 

della Silicon Valley, sono ricchi di malintesi culturali. 

La conversazione normalmente si snoda naturale su 

temi piacevoli ma scontati, come sport, viaggi, libri; si 

evitano temi considerati controversi, come politica o 

situazioni spiacevoli. 

Per cui salute (o salutismo) va bene ma malattia no; 

traguardi sportivi, allenamenti intensi vanno benissimo 

ma difficoltà personali no. Queste conversazioni spesso 

lasciano perplessi i partecipanti stranieri, non solo italiani, 

ma europei in generale. Essi si aspetterebbero un 

confronto più approfondito su temi anche spinosi e rimangono 

con l’amaro in bocca di fronte a conversazioni 

che ritengono superficiali. Ma non sono superficiali per i 

nostri colleghi americani: sono semplicemente rispettose 

dei limiti personali. 

ELOGIO DEL FALLIMENTO 

Un tema che tuttavia non manca mai, con grande sorpresa 

dei nostri connazionali, è quello del fallimento: 

a Silicon Valley fallire è motivo di onore, un’esperienza 

non da stigmatizzare ma al contrario da celebrare. “Fail 

early and often,” si sente dire. Nel processo di maturazione 

professionale, il fallimento è considerato una 

tappa imprescindibile e necessaria per guadagnarsi la fiducia 

dei superiori o di possibili investitori. A patto però 

che produca un’autoriflessione sui propri errori; una 

sorta di autoesame che sfocia nel superamento di 

alcune carenze personali. Brindare al fallimento? Impensabile 

in Italia, normale a Silicon Valley. 

ADDIO ALLA FORMALITÀ 

L’informalità è un’altra caratteristica di Silicon Valley; il 

mito del CEO in felpa è ben noto; a questo si aggiunge 

l’insofferenza per i titoli accademici: non si viene mai 

presentati come dottore, ingegnere, o avvocato, ma 

semplicemente con il proprio nome di battesimo, o in 

casi formali, con nome e cognome e ruolo lavorativo. Il 

potere sembra meno visibile: non si distingue immediatamente 

chi è in posizione di superiorità gerarchica in 

base a manifestazioni esteriori quali abiti, titoli, ufficio. 

L’informalità è caratteristica di culture considerate “low 

context” 4 , e la cultura americana ne è un esempio: 

ovvero una cultura dove il significato non dipende dal 

contesto ma semplicemente dalle espressioni che utilizziamo. 

La cultura italiana è considerata sicuramente più 

“high context”, dove tutto ciò che diciamo va contestualizzato,e 

il significato non dipende solo dalle parole ma 

anche, appunto, dal contesto: elementi quale il tono di 

voce, la situazione ecc. Eppure, non è tutto così sempli- 


ce: per esempio, a Silicon Valley si tende ad esprime il 

proprio disaccordo con toni decisamente più modulati 

che non a Roma. L’espressione “we agree to 

disagree” (siamo d’accordo di non essere d’accordo) non 

è vista come una contraddizione di termini ma come una 

manifestazione di rispetto reciproco. 

Flessibilità e agilità mentale sono doti necessarie per 

adattarsi con successo allo stile di vita e di lavoro di 

Silicon Valley – doti che per fortuna sono caratteristiche 

del DNA italiano. Al momento dell’atterraggio nella 

Bay Area, tutti dobbiamo soffermarci un secondo per 

riprogrammare le nostre funzioni cognitive e introdurre 

la scheda “americana” nel cervello. Ed anche con il 

beneficio di anni di esperienza, molto spesso decifrare 

situazioni inattese continua ad essere un rebus, a volte 

esasperante, a volte divertente. 


Professor of Practice, Hult International 

Business School Presidente, COMITES, 

San Francisco 

























1 Richard Lewis, When Cultures Collide, 

Nicholas Brealey Publishing, 2006; pag. 

53 -57 


Affairs Books, 2014; pag. 89 - 104 


Affairs Books, 2014; Capitolo 2 

4 Edward Hall, Beyond Culture, Anchor 

Books, 1976 


NELLA 


FALLIRE È MOTIVO 

DI ONORE, UN’ESPERIENZA 

NON DA STIGMATIZZARE MA 

AL CONTRARIO DA 

CELEBRARE. “FAIL EARLY 

AND OFTEN,” 

SI SENTE DIRE. 

LA PUNTUALITÀ 

È D’OBBLIGO, ED 

ANCHE I CANONICI 

“Confidential - Not for distribution DIECI - pre-production MINUTI DI copy “ 

RITARDO DESTANO 

SOSPETTI E SONO 

SINONIMO DI SCARSA 

PROFESSIONALITÀ. 

QUI PREVALE 

UNA LOGICA PIÙ 

PRATICA. MEGLIO 

PRIVILEGIARE 

RAGIONAMENTI 

LINEARI CHE NON SI 

SOFFERMANO SUI 

PROBLEMI, MA 

ENFATIZZANO LE 

SOLUZIONI.

Le Donne, la Scienza e la 

Valle 

“LA SCIENZA È DONNA”. Lo ha detto, in più di 

un’occasione Margherita Hack, una delle più famose 

astrofisiche del secolo, un’italiana, che della scienza, 

almeno in parte, ha fatto la storia. E a guardare la 

sua vita, che come la racconta lei sembra un fortunato 

susseguirsi di casi ed occasioni, quasi non ci si 

crede. Laureatasi in Fisica durante un periodo storico 

in cui le materie scientifiche erano comunque 

viste come appannaggio maschile, Margherita è diventata, 

fra le altre sue cariche, direttore 

dell’osservatorio astronomico di Trieste, portandolo 

a fama internazionale. 

Ma la lista delle donne che hanno fatto delle materie 

scientifiche una ragione di vita, è lunga e complessa. 

“Marie Curie - ci ricorda la Hack – era una donna 

ed è stata una delle più importanti menti dell’ultimo 

secolo”. 

La Silicon Valley non e’ da meno. Le donne della 

Silicon Valley sono ancora poche, ma il numero sta 

crescendo. E’ la mentalita’ che deve cambiare. 

La Bay area lavora in un sistema dove il 50% delle 

donne hanno un MBA, sono dottori, avvocati o PhD. 

Le donne aprono società con una frequenza cinque 

volte superiore agli uomini. Sebbene siano una grande 

potenza, le statistiche non riflettono il loro potere. 

Gli uomini hanno 60% più possibilità di ricevere 

fondi, e sono la maggioranza nel campo degli investimenti. 

Ma le donne nella Bay area ci sono in tutti i campi, 

da Janet Napolitano, a capo delle università della 

California, e Maria Grazia Roncarolo, direttrice del 

laboratorio sulla ricerca delle cellule stamili a 

Stanford, a Cristina Dalle Ore che studia la superficie 

di plutone alla NASA a Ermelinda Porpiglia a 

capo dell’associazione delle donne nella scienza della 

Silicon Valley. 

Anche se guardiamo all’Italia soltanto, i nomi non 

mancano: Rita Levi Montalcini a cui è andato anche 

un premio Nobel per le sue ricerche sullo sviluppo 

della fibra nervosa cerebrale. E ancora la fisica 

Fabiola Gianotti, prima donna a diventare direttore 

del CERN, Samantha Cristoforetti, prima astronauta 

italiana, Lucia Volano, prima donna a dirigere i laboratori 

di fisica nucleare del Gran Sasso. E poi 

Caterina Falleni, 30 anni appena compiuti e già famosa 

per avere inventato un frigorifero che funziona 

senza corrente, o Elena Cattaneo, biologa impegnata 

nella ricerca sulle staminali: un esercito di nomi 

che si allarga e che si sta costrunedo, non senza 




















































quaspe 


problemi e ostacoli una voce e dei modelli di riferimento 

condivisi. Per le donne impegnate nella scienza 

però è quasi un percorso ad ostacoli, 

Secondo i dati di una recente pubblicazione 

dell’Unione Europea, il gap di genere nella ricerca 

scientifica è ancora troppo alto e la Commissione ha 

chiamato gli Stati Membri ad intervenire in maniera 

attiva proponendo politiche atte a ridurlo. Il motivo 

è anche di natura economica. Colmare il divario 

nell’istruzione e nella ricerca scientifica, ha recentemente 

dichiarato Mariya Gabriel, Commissaria 

Europea per l’Economia e la Società Digitale, porterebbe 

ad un incremento annuale del Pil di ben 16 

miliardi di Euro, solo in Europa. 

Quello delle differenze di genere, nella Scienza, ma 

anche in altri capi della produttività e del sapere, 

non è un problema lineare, con una soluzione universale 

e totalizzante, ma è piuttosto una condizione 

che prende le mosse dal substrato culturale della 

società, o meglio da quella che è l’idea di ruolo 

femminile prodotta da un contesto sociale. 

Per metterlo in prospettiva, basti pensare che se a 

livello accademico le differenze di genere si stanno 

lentamente colmando e i dati sono più che positivi 

per il numero di donne che raggiungono la laurea in 

materie scientifiche, nella ricerca e nel mercato del 

lavoro, la presenza femminile resta quello che l’Unesco 

ha definito nel suo “World Science Report”, un 






























“tubo forato”. Ovvero le dispersioni sono numerose 

e dovute a tanti fattori, come ha commentato la 

Fisica Laura Meda, classe ‘57 con otto brevetti 

all’attivo e centinaia di pubblicazioni firmate, in una 

sua recente intervista al Corriere della Sera. 

La maternità in primis, ma anche la cura degli anziani 

e della famiglia, sono alcuni dei fattori chiave 

che ancora oggi costringono le donne, e le italiane 

soprattutto, a fare scelte obbligate e troppo spesso 

a rinunciare alla carriera per sopperire ad una mancanza 

di servizi dovuta, almeno seconda la Meda, 

ad una cattiva tradizione culturale. La stessa che in 

Italia ad esempio preferisce uomini a capo di gruppi 

decisionali “un fatto che è stato superato in altre 

nazioni - spiega la Meda - dove, ad esempio, i servizi 

alla persona sono molto più sviluppati dei nostri e 

la donna che lavora può contare su supporti fondamentali 

sia in caso di maternità sia in caso di cura 

degli anziani, i due fattori che limitano maggiormente 

la nostra libertà”. 

Se poi aggiungiamo il fatto che in Italia ancora oggi, 

secondo una recente ricerca di ValoreD, il 51% 

dei genitori e il 57% degli insegnanti hanno pregiudizi 

di genere inconsapevoli verso le ragazze per 

quanto riguarda le materie scientifiche, il quadro è 

completo. Eppure il fatto che se ne parli e che ci 

siano interventi effettivi a livello politico e di impresa, 

è un chiaro segnale di come le cose stiano 

lentamente cambiando. La Silicon Valley non e’ da 

meno, servono piu’ donne in posizioni di rilievo, 

come dice Sheryl Sandberg, Direttore Operativo di 

Facebook nel suo libro “Facciamoci Avanti”. 

La strada verso l’azzeramento delle differenze di 

genere è oggi, forse più che mai, aperta sia in Italia 

che negli Stati Uniti. Lo si capisce anche dall’atteggiamento 

dei mezzi di comunicazione che danno 

sempre più spazio alle donne che conquistano un 

primato, trasformandole in modelli da seguire e 

imitare, oppure dalle tante campagne dei brand 

internazionali che oggi ruotano attorno al 

fempowerment (potenza femminile), fino a considerare 

il successo globale raccolto da movimenti come 

#MeToo, #YoTambien, #QuellaVoltaChe. 

Un’onda di rinnovamento che non solo offre modelli 

e punti di riferimento per le nuove generazioni, ma 

soprattutto strumenti interattivi il cui scopo ultimo 

è forse fare della ricerca e della scienza una piattaforma 

accessibile a tutti, un laboratorio di idee vada 

oltre le differenze di genere, per contribuire a gettare 

le basi di una società diversa, migliore per tutti. 

Emanuela Calderoni 






















































LA SILICON VAL- 

LEY NON E’ DA 

MENO, SERVONO 

PIU’ DONNE IN 

POSIZIONI DI 

RILIEVO. 

SHERYL SANDBERG 


“NON IMPORTA 

DA DOVE VIENI, 

QUI NELLA 

VALLEY PUOI 

SCEGLIERE CHI 

ESSERE.”

Una finestra sul mondo italiano 


Console Generale d’Italia a San Francisco 

La Valle del Silicio, è una raccolta di interviste che 

si propone di far conoscere meglio la collettività italiana 

della Bay Area di San Francisco, ascoltando sia le voci 

dell’immigrazione di questi ultimi anni che quelle degli 

ingegneri italiani pionieri degli anni settanta che tramite 

lo storico centro Olivetti per l’innovazione hanno avuto un 

ruolo determinante nella creazione della Silicon Valley. 

Vi è anche la testimonianza di un’italo-americana, Janet 

Napolitano, che tanto ha contribuito alla storia 

recente degli Stati Uniti da ultimo come Presidente 

dell’Università della California. Il Ministero degli 

Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale 

tramite un contributo speciale al Comites 

di San Francisco - anagraficamente il più giovane della 

rete nel mondo – ha voluto offrire un’opportunità 

di aprire una finestra su un mondo italiano ancora poco 

conosciuto, formato da italiani che hanno deciso 

di viaggiare ai confini del mondo occidentale, tutti 

accomunati dallo stesso spirito pionieristico e con 

il desiderio di contribuire a formare un mondo migliore 

nella capitale globale dell’innovazione. 

Gli intervistati partecipano attivamente al mondo della 

ricerca, delle grandi corporate dell’high tech, delle start 

up, e della cultura della Bay Area di San Francisco. 

Un’area relativamente piccola rispetto al resto degli Stati 

Uniti, circa 80 kmq, che raggruppa i giganti high tech del 

mondo, la più grande concentrazione di fondi di venture 

capital, le prime Università’ a livello globale, il più alto 

tasso pro capite di start up al mondo e quattro laboratori 

di ricerca nazionali. 

Lo straordinario contributo dei nostri connazionali va 

conosciuto eapprezzato e collegato il più possibile 

al mondo dell’innovazione e della ricerca italiana al fine 

di accelerare quel processo di ricerca e digitalizzazione 

dei processi manifatturieri delle nostre imprese che si sta 

sviluppando in Italia a seguito della gravissima crisi 

economica che ha colpito l’Europa in questi recenti anni. 

Il sostegno della Farnesina a questo sforzo di conoscere 

e rappresentare le vite degli italiani nella Bay Area di San 

Francisco intende essere anche e soprattutto la 

testimonianza della stima che l’Italia nutre nei 

confronti di tutti coloro che lavorano con operosità, 

passione, umanità e ingegno in questa parte del mondo 














































e di come continua a seguirne le vicende con animo 

orgoglioso e grato dei loro successi e delle loro 

affermazioni che contribuiscono ulteriormente allo 

sviluppo di una sempre più stretta collaborazione fra 

la California e l’Italia. 

Sono lieto che con questo tipo di contributi il COMITES 

possa efficacemente far sentire la sua presenza in seno 

alla collettività italiana della Bay Area di San Francisco 

sostenendo al contempo anche questo Consolato 

Generale nel creare un canale attraverso il quale 

si intensifica il flusso di informazioni che consentono 

all’Italia di conoscere in modo ancora piu’ approfondito 

le esigenze dei nostri connazionali all’estero. 





berioria et veliquo dio officipsum id mod quiaspiet harupta 

tatatur 










46

“CREDO 

VERAMENTE 

CHE PER I GIOVANI 

SIA IMPORTANTE 

PUNTARE 

ALL’EDUCAZIONE, 

TROVARE LA 

PROPRIA 

PASSIONE , 

PERSEGUIRLA 

ED AVERE 

IL CORAGGIO 

DI CORRERE 

DEI RISCHI.” 


Janet Napolitano 

PRESIDENTE DELLE UNIVERSITA’ DELLA CALIFORNIA, EX SEGRETARIO DELLA SICUREZZA NAZIONALE DEGLI STATI UNITI 

PRESIDENT, UNIVERSITY OF CALIFORNIA FORMER SECRETARY OF THE UNITED STATES HOMELAND SECURITY

IL SOGNO AMERICANO 

Nella storia della sua famiglia c’è tutta l’idea del Sogno 

Americano. Dal nonno che da San Marco, piccolo borgo 

del Foggiano prese il mare all’inizio del Novecento, con 

una valigia e pochi spicci in tasca, a lei, prima donna a 

ricoprire la carica di segretario alla Sicurezza Interna, 

sotto la presidenza di Barak Obama. In meno di cinquant’anni 

Janet Napolitano può dire di avere fatto la 

storia. Del resto, lei è una di quelle donne che non si dimenticano 

facilmente. Non solo è stata la prima ad essere 

eletta segretario alla sicurezza, è stata anche a diventare 

presidente dell’università della California, un centro 

con 10 campus, cinque centri medici, tre laboratori 

nazionali affiliati e un programma statale per l’agricoltura 

e le risorse naturali. Un’epopea familiare che sembra 

quasi un romanzo, costruita con coraggio, un pezzo alla 

volta, un sacrificio dopo l’altro. “Anni fa – racconta – durante 

una cerimonia di naturalizzazione ad Ellis Island, 

pensai a lui, a mio nonno, morto quando avevo solo sei 

anni, e guardando le foto dei migranti, leggendo le loro 

storie, mi resi conto del suo coraggio, quello che serve 

per abbandonare tutto senza avere certezze, seguendo 

solo la speranza di costruirsi una vita migliore”. Una vita 

da lavoratore che da Chicago lo portò fino ai cantieri 

Navali della California e alla fabbrica della Ford: “Lavorava 

ovunque, mio nonno, dove poteva o dove trovava”. 

Una dedizione che alla fine permise al figlio di studiare, 

di prendere un Phd, diventando poi preside della Facoltà 

di Medicina dell’Università del New Mexico. “E’ il sogno 

americano – sottolinea Janet Napolitano - , quello che 

rende possibile cambiare le sorti di una famiglia in una 

sola generazione”. E forse anche per questo lei, poco 

più di cinquant’anni dopo, ha intrapreso, prima nella sua 

famiglia una carriera politica che l’ha portata ad amministrare 

le delicate dinamiche dell’immigrazione e, in 

Arizona, dell’educazione. 

L’ORGOGLIO ITALIANO 

“Sono orgogliosa delle mie origini italiane e mi spiace 

di non avere mantenuto la lingua, ma in casa si parlava 

inglese, perché erano tempi diversi”. Certo restano le 

tradizioni, la cucina, la musica, l’arte e forse quella caparbietà 

che serve per cambiare la storia. “I miei genitori 

mi hanno sempre sostenuta, anche e forse soprattutto 

insegnandomi che per realizzare qualcosa, qualsiasi 

cosa, ci dovevo mettere tutto l’impegno possibile, ci dovevo 

credere sul serio”. 

Una lezione che si porta dietro ancora oggi, come politico 

e soprattutto come presidente di una delle più pre- 

THE AMERICAN DREAM 

In her family’s story, there is the whole idea of the American 

Dream. From her grandfather who, from San Marco, 

a small suburb of Foggiano, took to the sea at the beginning 

of the twentieth century with a suitcase and a few dollars 

in his pocket, to her, the first woman to be appointed 

to the position of secretary of Homeland Security under 

the presidency of Barack Obama. In less than five years, 

Janet Napolitano can say she made history. As for the 

rest, she is one of those women whom one does not easily 

forget. Not only was she the first to be appointed Secretary 

of Homeland Security, she also became president of 

the University of California, a center with ten campuses, 

five medical centers, three national affiliated laboratories, 

and a state program for agriculture and natural resources. 

A familiar epic story which almost seems like a novel, 

built with courage, one piece at a time, one sacrifice after 

another. “Years ago—she says—during a naturalization 

ceremony at Ellis Island, I thought about him, about my 

grandfather; he died when I was only six years old, and 

looking at the photos of immigrants, reading their stories, I 

realized his courage, which is used to abandon everything 

without having any certainty, following only the hope to 

build a better life.” A life as a worker which brought him 

from Chicago to the naval shipyards of California and to 

the Ford factory: “He worked everywhere, my grandfather, 

where he was able or where he found it.” A self-denial 

which in the end allowed his son to study, to earn a 

Ph.D., then become dean of the School of Medicine at the 

University of New Mexico. “It is the American dream—underscores 

Janet Napolitano--, that which makes it possible 

to change the destiny of a family in just one generation.” 

And perhaps it is also for this reason she, a little more than 

fifty years later, has undertaken, the first in her family, 

a political career which has brought her to administrate 

the delicate dynamics of immigration and, in Arizona, of 

education. 


ITALIAN PRIDE 

“I am proud of my Italian origins, and I am sorry that I did 

not learn the language, but, at home, we spoke English, 

because those were different times.” Certainly the traditions, 

the cooking, the music, the art remain, perhaps 

along with that stubbornness which helps change history. 

“My parents always supported me, even, and perhaps 

above all, teaching me that in order to achieve something, 

whatever it may be, I had to be as diligent as possible; I 

had to seriously believe in it.” 

A lesson which she still carries today, as a politician and, 

EDUCATION


stigiose università degli Stati Uniti. “Credo veramente 

che per i giovani, soprattutto oggi, sia importante puntare 

sull’educazione – spiega – per costruirsi un futuro 

occorre scegliere di perseguire i propri sogni e rischiare 

tutto per realizzarli, senza digressioni o ripensamenti”. 

Perché correre rischi alla fine fa parte del gioco e 

il successo appartiene a quelli testardi abbastanza da 

perseguirlo. 

Come Janet Napolitano: “Il mio interesse per la politica 

nacque durante il processo Watergate – racconta - , 

c’erano delle donne fantastiche impegnate nel dibattimento, 

penso al discorso d’apertura dell’udienza di 

Barbara Jordan, o a Elisabeth Holtzman, modelli a cui 

mi ispirai quando decisi di intraprendere la carriera 

politica”. Una scelta non facile, soprattutto considerati 

i tempi. “Sono convinta che le donne in politica possano 

portare un diverso punto di vita, un modo nuovo di 

rapportarsi con l’idea di leadership e con il concetto di 

amministrazione in genere”. 

Perché alla fine il compito di un buon politico è quello 

di gettare le basi affinché un modello di società possa 

concretizzarsi: “Devi conoscerti a fondo, saper comuabove 

all, as president of one of the most prestigious 

universities in the United States. “I truly believe that for 

young people, especially today, it is important to focus 

on education—she explains—in order to build oneself a 

future, it is necessary to choose to pursue one’s dreams 

and to risk everything in order to achieve them, without 

digressions or second thoughts..” Because running risks in 

the end is part of the game and success belongs to those 

stubborn enough to pursue it. 

As Janet Napolitano: “My interest for politics was born 

during the Watergate hearings—she explains--, there were 

some fantastic women involved in the debate; I think about 

the opening remarks of the hearing by Barbara Jordan, or 

about Elisabeth Holtzman, models who inspired me when 

I decided to undertake a political career.” Not an easy 

choice, especially considering the times. “I am convinced 

that women in politics can bring a different point of view, 

a new way to relate to the idea of leadership and to the 

concept of administration in general.” 

Because, in the end, the task of a good politician is to lay 

the foundation so that a model of society can materialize: 

“You have to know yourself well, know how to communi- 

LA VALLE DEL SILICIO 49

nicare le tue idee, ma soprattutto avere ben presente la 

differenza fra essere un leader ed essere un manager, 

così da saper creare una visione più ambiziosa per la tua 

amministrazione”. Non sempre è facile ovviamente; gli 

ostacoli non mancano, e ieri come oggi le donne in politica 

continuano ad essere poche. 

Ecco perché forse serve ambizione, ma anche caparbietà, 

coraggio e senso del dovere: tutte qualità che 

legano Janet Napolitano alla sua famiglia. Perché come 

suo padre mai smise di sostenerla nelle sue scelte e le fu 

accanto dalle lezioni di Clarinetto che lei volle prendere 

da bambina fino alla sua prima campagna elettorale, suo 

nonno mai smise di credere nel figlio e diede l’anima per 

permettergli di conseguire quel dottorato che alla fine 

cambiò le sorti di un’intera famiglia. 

Il sogno americano è tutto lì, per Janet Napolitano e per 

i tanti altri che nell’ultimo secolo hanno preso e continuano 

a prendere il mare per inseguirlo: è la possibilità 

di cambiare, di realizzare qualcosa, la spinta a costruirsi 

un futuro migliore. “Ai giovani dico che bisogna avere il 

coraggio di rischiare – conclude lei - e la perseveranza di 

continuare a credere nei propri sogni”. 

cate your ideas, but, above all, have a clear idea of the 

difference between being a leader and being a manager, 

so you know how to create a more ambitious vision for 

your administration.” It is not always easy, obviously; 

the obstacles are not lacking, and, yesterday like today, 

women in politics continue to be few in number. 

Here is the reason why ambition is perhaps useful, but 

also stubbornness, courage, and a sense of duty: all of 

the qualities which tie Janet Napolitano to her family. 

Because just as her father never stopped supporting 

her in her choices and was next to her from her clarinet 

lessons, which she wanted to take as a child, to her first 

electoral campaign, her grandfather never stopped believing 

in his son and gave his soul to allow him to pursue 

that doctorate, which, in the end, changed the destiny of 

an entire family. 

The American dream is all there, for Janet Napolitano 

and for many others who, in the last century, took to and 

continue to take to the sea to follow it: it is the possibility 

to change, to achieve something, the push to build a 

better future for oneself. “To young people I say that it is 

necessary to have the courage to take risks—she concludes—and 

the perseverance to continue to believe in one’s 

own dreams.” 


EDUCATION



“L’UOMO 

HA SAPUTO 

RISPONDERE ALLE 

SFIDE CHE LA VITA 

GLI PRESENTAVA 

NON TANTO CON 

MUTAZIONI 

GENETICHE, MA 

SOPRATTUTTO 

CON INVENZIONI 

CULTURALI.” 


Luigi Cavalli Sforza 

PROFESSORE, UNIVERSITA’ DI STANFORD, GENETISTA DELLE POPOLAZIONI 

PROFESSOR AT STANFORD UNIVERSITY, POPULATION GENETICIST

Osservare la storia dell’uomo con gli occhi di Luigi 

Cavalli Sforza, è come immergersi in un mare di conoscenze, 

che spiazza al primo impatto, ma che alla lunga 

rinfresca e apre la mente, imponendoci di considerare la 

diversità con occhi diversi. Quelli del genetista genovese, 

che ormai novantenne porta avanti un progetto nato nel 

1963, o forse anche prima, e condotto meticolosamente 

dall’Italia a Stanford, in California con precisione 

e passione: quello di raccontare la storia degli 

antenati. O meglio, lasciare che la racconti la scienza, 

l’unica che possiede le risposte di cui abbiamo bisogno 

per sopravvivere, come individui ma soprattutto, come 

specie. 

Nato il 25 gennaio del 1922, Luigi Cavalli Sforza ha 

studiato Medicina, una scelta di cui non era certo almeno 

all’inizio ma che gli ha permesso di scampare alla 

chiamata alle Armi della Seconda Guerra Mondiale e di 

partecipare, nel 1942 ad una conferenza che gli avrebbe 

cambiato la vita. Era uno dei primi simposi di genetisti 

organizzato a Stoccolma sul tema dei batteri e Cavalli 

Sforza era stato invitato come relatore. Fra il pubblico, 

il caso ha voluto, ci fosse anche Ronald Fisher, padre 

della statistica moderna che all’epoca insegnava a Cambridge 

e che dopo averlo ascoltato gli ha offerto di andare 

a lavorare con lui. 

Fisher proprio in quegli anni stava teorizzando uno 

studio sulla sessualità come metodo riproduttivo dei 

batteri. “Oggi per noi, questo è normale, ma all’epoca 

non si sapeva nulla di genetica, tutto andava provato”, 

racconta Cavalli Sforza nel corso di una sua recente 

intervista. Così è iniziata la sua avventura che dai batteri 

studiati a Cambridge, lo ha portato in Italia prima 

e in California, professore a Stanford poi, ad occuparsi 

invece dell’uomo. Il ritratto che ne traspare ridimensiona 

l’ego di un’intera specie. Ma nello stesso tempo libera 

dalla paradossale ignoranza che ancora oggi ci fa credere 

a menzogne prive di fondamento scientifico, come 

ad esempio il razzismo. “Il colore bianco della pelle – ha 

raccontato più volte – è dovuto esclusivamente al fatto 

che in determinate aree si consumavano quasi esclusivamente 

cereali, che non hanno vitamina D; dunque, attraverso 

una mutazione genetica, si è resa l’epidermide 

più chiara così da rendere possibile la produzione della 

vitamina mancante grazie ai raggi solari”. 

E ancora: “La ragione per cui gli Europei sono economicamente 

avvantaggiati rispetto ad altre popolazioni 

è probabilmente dovuto all’area soltanto geografica dove 

si sono stanziati, più ricca di animali che potevano venire 

addomesticati rispetto alle altre”. 

Il caso dunque, unito alla selezione naturale ci ha reso 

quello che siamo. Per Cavalli Sforza, però, questo non 

è mai stato sufficiente. Nelle sue ricerche, il genetista 






















































non si è limitato a considerare la storia umana come solo 

frutto di evoluzione genetica. Al Dna ha aggiunto la cultura, 

intesa come l’ntero bagaglio di conoscenze e credenze 

che accompagnano un individuo fin dall’infanzia. In una sua 

recente lezione infatti, ha sottolineato proprio come negli 

ultimi 10 mila anni, l’evoluzione umana è stata soprattutto 

culturale. Nella sua storia più recente infatti “l’uomo ha 

saputo rispondere alle sfide che la vita gli presentava non 

tanto con mutazioni genetiche, ma soprattutto con invenzioni 

culturali”. 

Eppure tutto è iniziato circa 100 mila anni fa: “Gli studi 

fatti sul DNA mitocondriale e il cromosoma Y ci portano a 

trovare il nostro comune antenato nell’Africa orientale”, 

dove un gruppo di ominidi ha iniziato a lasciare le foreste 

per spostarsi in pianura. Una mutazione genetica li aveva 

resi in grado di camminare sulle gambe, rendendo quindi 

le mani libere per dedicarsi ad altri compiti. Come realizzare 

strumenti per la caccia o la raccolta. E poi è arrivata 

la scoperta del fuoco, che ha reso i cibi più digeribili e ci ha 

permesso si avere mascelle più piccole, adatte a sviluppare 

quella che è stata forse la nostra più importante invenzione: 

il linguaggio. “Sappiamo che l’uomo parlava un linguaggio 

comune perché ognuno di noi può imparare qualsiasi 

altra lingua parlata sulla Terra”. Se un bimbo eschimese 

dovesse venire cresciuto da una famiglia di pigmei, parlerebbe 

la loro lingua come un nativo senza problemi. “Lo 

sviluppo di un linguaggio ci ha permesso di comunicare 

idee, di tramandare conoscenza e in sostanza di gettare le 

base per quell’evoluzione culturale che ci scolpisce come 

specie ancora oggi”. 

Nella storia degli antenati, 50 mila anni fa l’uomo ricopre 

il pianeta, sbaragliando la concorrenza degli altri ominidi, 

come i Neanderthal. 

Poi, 10 mila anni fa circa la svolta. “Troppo numerosi per 

continua ad essere una società di soli cacciatori, per 

la prima volta come specie abbiamo risposto ad una sfida 

evolutiva, non con una mutazione genetica, ma con una 

rivoluzione scientifica a cui è seguita una conseguente innovazione 

tecnologia: l’agricoltura”. 

L’archeologia conferma i dati della genetica, analizati da 

Cavalli Sforza in anni di minuziosa catalogazione e analisi. 

A cominciare dagli anni di Parma, dove sfruttando i dati disponibili 

negli archivi parrocchiali, il genetista ha ricostruito 

la storia di intere famiglie confrontando il patrimonio genetico 

dei discendenti, e dimostrando per la prima volta il 

drift, ovvero la deriva genetica, quella componente dell’evoluzione 

di una specie dovuta a fattori casuali e quindi 

analizzabile con metodi statistici. 

“La deriva genetica è più visibile in popolazioni più piccole, 

ma interessa anche quelle più grandi, in sostanza ci condiziona 

tutti” . E’ una delle quattro forze che determinal’evoluzione 

di una specie, assieme alla mutazione, la selezione 












































haria doluptur modiorestio et as sum sae porem 


etrrum que dero et ad quation sequis et porem a 

nonseque voluptiunt haria doluptur modiorestio 

et as sum sae porem a nonseque voluptiunt haria 

doluptur modiorestio et as sum sae porem a nonseque 

voluptiunt haria doluptur modiorestio etrrum 




naturale e la migrazione. Quattro fattori che spesso si 

intersecano fra di loro e che si influenzano a vicenda, 

ma che hanno un unico scopo: la sopravvivenza del più 

adatto. Che sia un gene, un tratto, o un intero gruppo di 

individui. 

“La pastorizia e l’agricoltura ci hanno permesso di arrivare 

dove siamo, ovvero ai sei miliardi di esseri umani 

che abitano oggi il pianeta”. Non solo, grazie alla medicina 

“abbiamo quasi del tutto sconfitto la selezione naturale”. 

Anche nella lotta alle malattie, la ricerca ha fatto 

passi straordinari; “Si è quasi portati a credere che non 

esistano malattie che non si possa evitare di contrarre, o 

di combattere”. Eppure tutto questo ha un prezzo, ovvero 

un nuovo e drastico sovrappopolamento del 

pianeta: “Ancora una volta siamo in troppi e le risorse 

disponibili non sono sufficienti, oggi più che mai dobbiamo 

prestare orecchio alla scienza, l’unica che ha le 

risposte che ci servono per sopravvivere e continuare ad 

evolverci”. ne continuiamo ad avere tante, come il bel 

progetto delle “Rebel girls” nato come un magazine interattivo 

per l’infanzia, diventato un libro (Storie della Buona 

Notte per Bambine Ribelli) e oggi in testa alle classifiche 

del New York Times”, Oppure come “Ad Espresso”, 

una piattaforma software per permettere l’organizzazione 

e la gestione del budget di digital marketing. “Lavorare 

in Silicon Valley significa essere circondati da gente 

che ha voglia di fare, che si lamenta poco e che produce 

tanto”. In Italia è diverso: il talento non manca, ma le 

occasioni per concretizzarlo in progetti attuativi sono 

poche, senza dimenticare le complessita’ del mercato. 

Ed è un peccato, perché occasioni di crescita e sviluppo 

ce ne sono, ma vengono ignorate. “Il fatto di crescere 

circondati dal bello ci rende ottimi candidati per fare del 

software design, per tutto ciò che riguarda le interazioni 

uomo - macchina, ambiti professionali che non vengono 

considerati”. Il design italiano non è solo cibo e moda, 

ma è anche programmazione, è telefonia, è interattività. 

“Pensiamo alle applicazioni e quanta progettazione grafica 

c’è dietro ogni software, pensiamo a quanto l’Italia 

possa dare!”. Eppure, forse in un contesto completamente 

diverso, il fatto di crescere in un ambiente 

pieno di costrizioni è alla fine anche fonte di talento. 

“Serve un mercato che sia autosufficiente, in Europa ad 

esempio c’;è interesse per le startup, ma questo non 

viene concretizzato in una reale possibilità di sviluppo”. 

Silicon Valley non si riesce dunque a replicare. Eppure 

l’immagine della bay si sta incrinando. O almeno appannando. 

“È evidente che la tecnologia influenza ambiti 

molto più vasti rispetto a quelli che in un primo tempo 

venivano considerati, ambiti come la comunicazione e 

l’informazione”. I giganti della Bay Area hanno compreso 

le implicazioni sollevate dal loro modo di fare business, 






















































ma capirle soltanto non basta. “Da un paio d’anni, le 

negatività del sistema della Silicon Valley sono un po’ più 

evidenti – conclude Marinucci – complici i costi estremamente 

alti, i senza tetto, la mancanza di una rete sociale, 

l’estrema razionalizzazione del mondo del lavoro”. 

Sono tutti aspetti, questi, che hanno modificato l’;indice 

di percezione e di conseguenza le opinioni a proposito 

della qualità di vita nella Bay Area. Ma restano giusto 

questo, e alla fine hanno un peso relativo. Perché Silicon 

Valley resta comunque l’;unica officina mondiale a disposizione 


grazie a modelli come “Mind the bridge”, non rimanga 

l’;unica opzione possibile. 















“ANCORA UNA VOLTA 

SIAMO IN TROPPI E LE 

RISORSE DISPONIBILI NON 

SONO SUFFICIENTI, OGGI PIÙ 

CHE MAI DOBBIAMO 

PRESTARE ORECCHIO ALLA 

SCIENZA, L’UNICA CHE HA LE 

RISPOSTE CHE CI SERVONO 

PER SOPRAVVIVERE 

E CONTINUARE AD 

EVOLVERCI.”


“I COMPUTER 

SONO STUPIDI MA 

SONO MOLTO 

PRECISI, NOI 

SIAMO IMPRECISI 

MA MOLTO 

INTELLIGENTI. 

INSIEME 

POSSIAMO FARE 

DI PIÙ E MEGLIO.” 


Federico Faggin 

PRESIDENTE DELLA FONDAZIONE FAGGIN (FISICO, INVENTORE ED IMPRENDITORE) 

PRESIDENT OF THE FAGGIN FOUNDATION (PHYSICIST, INVENTOR AND ENTREPRENEUR

FEDERICO FAGGIN, L’UOMO DEL MICROCHIP 

«Ho seguito una passione e dentro vi ho trovato 

centinaia di opportunità». Federico Faggin è la 

miglior rappresentazione vivente di chi crede in se 

stesso e nelle sue intuizioni. Fisico, pioniere, creatore 

dei primi microprocessori di successo e del 

touchscreen. Oggi studia la consapevolezza e le 

potenzialità del cervello umano. «Ho creato il primo 

microchip, ma il nostro cervello è molto di più di 

un computer». Con la doppia cittadinanza, è l’unico 

italiano presente sul Walk of Fame del Computer 

History Museum di Mountain View. Ha contribuito, 

più di ogni altro, al mondo della tecnologia e della 

Silicon Valley. Di lui, Bill Gates ha detto: «Prima 

di Faggin, la Silicon Valley era semplicemente la 

Valley». Nel 2011, Obama lo ha premiato con una 

medaglia d’oro per l’innovazione. 

DA PERITO A FISICO 

Classe 1941, la prima infanzia è in campagna a Isola 

Vicentina. Scuole a Vicenza. A 11 anni, costruisce 

il suo primo aeromodello e impara a creare un prodotto 

da zero («Tutto il mio mondo era dentro a quel 

modellino e lì mi sono innamorato del futuro»). Figlio 

di un professore di Storia della Filosofia, si iscrive, 

contro il volere del padre, a un istituto tecnico 

e prende il diploma di perito radiotecnico. A 18 

anni è già all’Olivetti di Borgolombardo. Il destino 

gli offre la prima grande occasione. Il suo capo ha 

un incidente, Faggin prende il suo posto. Progetta 

e costruisce un piccolo calcolatore elettronico sperimentale. 

A 19 anni guida un team di 4 tecnici, ma 

lascia l’Olivetti e decide di iscriversi a Fisica. «I periti, 

fino a quell’anno, non erano ammessi all’università. 

Mio padre apparteneva a quella generazione di 

uomini colti che consideravano gli istituti industriali 

scuole di serie B». Faggin passa il test di ammissione, 

si laurea in meno di 4 anni e con 110 e lode, si 

mantiene durante tutti gli studi e dimostra al padre 

che anche un perito può laurearsi in Fisica. Assistente 

incaricato per qualche anno («ma l’università 

si muoveva troppo lentamente per me»), inizia 

presto a lavorare per la SGS, un’azienda di Agrate 

Brianza (MI), associata alla Fairchild Semiconductor 

di Palo Alto. Ed ecco la seconda circostanza favorevole. 

Le due ditte (come le chiama Faggin) decidono 

di fare uno scambio. Un ingegnere americano viene 

inviato in Italia e Faggin viene mandato nel gruppo 

di ricerca e sviluppo in California. Doveva rimanere 




















































sei mesi, ma allo scadere del tempo è assunto dalla 

Fairchild Semiconductor, che intanto si era separata 

dalla SGS-Fairchild. «Era il 1968 e a quel tempo 

ho creato un processo molto noto per chi è esperto 

di tecnologia: il processo MOS Silicon Gate, che ha 

permesso di fare circuiti integrati MOS molto più veloci 

e affidabili e nuovi tipi di circuiti integrati. Questa 

tecnologia è stata poi adottata da tutto il mondo 

e ha dominato l’industria per 40 anni». Nel 1970 

passa a Intel. «Avevo 28 anni e voglia di fare. Vedevo 

le potenzialità del Silicon Gate e volevo progettare 

circuiti complessi. È lì che ho progettato il primo 

microprocessore commerciale al mondo (Intel 4004) 

e ho anche sviluppato il primo di seconda generazione 

(Intel 8080)» 

I PRIMI MICROPROCESSORI 

Passano 5 anni, Faggin considera di rientrare in 

Italia («ma c’erano le Brigate rosse e scioperi a singhiozzo). 

Decide così di rimanere in California con 

la moglie Elvia e di creare un’impresa tutta sua. A 

quel punto però iniziano i problemi. «Andy Grove mi 

disse: se te ne vai, sarai cancellato dalla storia. Mi 
























ha lanciato una vera maledizione, promettendomi 

che mi avrebbe tolto qualsiasi paternità del processore». 

Per molti anni, l’invenzione del microprocessore 

è stata attribuita principalmente a Ted Hoff e al 

suo ingegnere, responsabili di aver fatto l’architettura 

(«Una cosa che potevano fare in molti»). Grazie 

alla moglie Elvia, che ha fatto una vera e propria 

battaglia di controinformazione, oggi tutto il mondo 

riconosce nell’italiano l’inventore del microchip. 

«Una delle lezioni più importanti che ho imparato 

nella vita è che, girandoti indietro, non devi guardare 

soltanto agli errori che hai fatto. Spesso si sbaglia 

di più quando si sceglie la non azione. Ho vinto le 

battaglie perché le ho affrontate». Startupper ante 

litteram, uscito da Intel, Faggin avvia una startup 

dopo l’altra. Alla Zilog inventa il Z80, microprocessore 

di 8 bit di terza generazione, e il microcontrollore 

Z8 che sono ancor oggi in produzione. Crea 

poi la Cygnet Technologies: qui sviluppa un telefono 

intelligente che integra voci e dati e che permetteva 

di fare, già allora, alcune cose che oggi si fanno con 

un iPhone. Nel 1986 avvia la Snaptics, dove sviluppa 

i primi touchpad e touchscreen, che hanno cambiato 

letteralmente il modo con cui interfacciamo con 

i nostri computer. Durante gli anni da imprenditore 

Faggin vive momenti di grandissima crescita personale. 

«I primi anni sono stati incredibili. Ero un tecnico 

che doveva imparare a occuparsi di business, 

fundraising, assunzioni. Ho assunto 1.000 persone 

in tre anni. Ho visto il mondo con occhi completamente 

diversi. Quando diventi imprenditore, devi 

sviluppare l’intuito e la capacità di capire le situazioni 

al volo. E solo allora ho riconosciuto a me stesso 

che proprio l’intuito era la mia dote principale e che 

dovevo coltivarla». Ma un computer puo’ essere 

consapevole? Durante gli anni della Synaptics, inizia 

a studiare la consapevolezza e a chiedersi: è possibile 

costruire un computer consapevole? Studia le 

neuroscienze e la biologia e si convince che la consapevolezza 

non può essere, come sostengono gli 

scienziati, una proprietà che esce dalla materia, ma 

piuttosto una proprietà dell’universo che esiste sin 

dall’inizio. «La consapevolezza è la capacita di avere 

un’esperienza basata su sentimenti, pensieri, emozioni. 

Ha a che fare con la spiritualità, è l’aspetto 

che ci lega alla natura olistica della realtà. Noi siamo 

parte integrante di un tutto. La scienza nega la realtà 

spirituale e la spiritualità spesso nega la realtà 

fisica. Eppure sono due facce della stessa medaglia». 




































as sum sae Natectiore nonserror asitenture et hilles 

aut porecep ratet, officipsa el magnim vellam, opta 




sam fugiatur susciusa sequam et atet ut offic tem 

quibus demo mos molor am ulluptius aut fuga. Ut 

eossum que est expla samus et lam si natendis eos 

eicatae mil molupti berspe dolorep eritatem autae 



mincia con rernate poresti qui dit que venisti 


porem a nonseque voluptiunt haria doluptur modio- 



“I REGARD CONSCIOUSNESS AS FUNDAMENTAL. 

I REGARD MATTER AS DERIVATIVE FROM 

CONSCIOUSNESS. EVERYTHING THAT WE TALK 

ABOUT, EVERYTHING THAT WE REGARD AS EXISTING, 

POSTULATES CONSCIOUSNESS.” 

“IO CONSIDERO LA COSCIENZA COME 

FONDAMENTALE, E LA MATERIA UN DERIVATO DELLA 

COSCIENZA. NON POSSIAMO ANDARE OLTRE LA 

COSCIENZA. TUTTO CIÒ DI CUI DISCORRIAMO, TUTTO 

CIÒ CHE NOI CONSIDERIAMO COME ESISTENTE, 

RICHIEDE UNA COSCIENZA.” 

Max Planck

giato». Faggin non ama attaccare l’Italia («I confronti 

non sono mai simpatici»), ma riconosce che non è 

un Paese dove è facile fare business. «Soffro nel vedere 

tanti giovani italiani senza lavoro. A loro dico: 

abbiate coraggio e staccatevi dal nido. Abbandonate 

la razionalità, uscite da una situazione che non funziona 

e andatevene dall’Italia se non trovate lavoro. 

Ritornerete. Ma non buttate via gli anni migliori 

nella ricerca di un lavoro che non c’è. Ascoltate le 

vostre passioni, perché lì dentro c’è il talento e da lì 

nascono le opportunità… Non dobbiamo essere tutti 

scienziati, ingegneri, matematici. Ma tutti dobbiamo 

dare il maggior contributo possibile nel campo che ci 

appassiona». 

LA TERRA DOVE E’ PIU’ FACILE DIRE DI SI’. 

Da 50 anni a Palo Alto, con moglie e tre figli nati e 

cresciuti in California, Faggin ha scelto di vivere nella 

terra dove è più facile dire di sì, provare, riprovare 

e fallire senza paura («In Italia se fallisci, ti mettono 

in castigo»). La California è il centro del mondo hi 

tech, la quinta potenza economica del mondo. «Non 

ha mai perso un colpo. È riuscita a mantenere il suo 

vantaggio tecnologico fin dagli anni 60. Qui sono 

nati i semi conduttori, i computer, i microprocessori, 

il software, le telecomunicazioni, Internet, i 

social network. È prima zona al mondo per robotica 





























e intelligenza artificiale. Le auto elettriche sono nate 

qui. Tesla, anziché avvitare un motore elettrico a 

una macchina tradizionale, ha iniziato da un foglio 

bianco e ha costruito da zero una macchina elettrica 

come si deve. Da qui partirà la prossima grande 

rivoluzione dell’auto autonoma. E ancora: la prima 

azienda nel campo delle biotecnologie e la prima 

casa farmaceutica al mondo a produrre pillole 

anticoncezionali (la Syntex) portano la firma della Silicon 

Valley. Il segreto? Ogni giorno da tutto il mondo 

atterrano i migliori talenti. Hanno gli occhi che 

luccicano e un forte spirito imprenditoriale. Trovano 

un ecosistema già fatto, che funziona bene e continuano 

così ad alimentare questo circolo virtuoso». 

FAGGIN E LA SILICON VALLEY 

Il rovescio della medaglia? «La Silicon Valley oggi è 

troppo affollata, il traffico è pesante, le case costano 

troppo, le infrastrutture non si possono espandere… 

All’inizio della mia carriera, 50 anni fa, coinvolgeva 

200mila persone. Ora siamo 7 milioni». La sua prossima 

sfida? «Volgo il mio sguardo all’interno dell’essere 

umano. Il mio obiettivo è riuscire a far capire 

che siamo molto di più delle macchine. Siamo macchine 

sì, ma al tempo stesso non lo siamo. I computer 

sono stupidi ma sono molto precisi, noi siamo 

imprecisi ma molto intelligenti. Insieme possiamo 

fare di più e meglio». 






























“DEL RESTO PER 

FARCELA NELLA 

BAY AREA, 

BISOGNA ESSERE 

UN PÒ FATTI COSÌ: 

SEMPRE PRONTI A 

RISCHIARE TUTTO. 

RISCHIAMMO 

TUTTO E FUMMO 

PREMIATI.” 


Giacomo Marini 

IMPRENDITORE, INVESTITORE, COSTRUTTORE DI SQUADRE AZIENDALI 

ENTREPRENEUR, INVESTOR, COMPANY AND TEAM BUILDER

GIACOMO MARINI, DAL MOUSE AL ROBOT 

DA PESCARA ALLA CALIFORNIA 

Da Cugnoli, in provincia di Pescara, alla California, passando 

per le chart board di alcune delle aziende hi-tech 

che hanno fatto la storia. Giacomo Marini, oggi fondatore 

e direttore di Noventi, nei suoi oltre sessant’anni, 

ha creato e visto crescere colossi quali Logitech e Neato 

Robotics. Fra i primi a laurearsi in informatica, ha lavorato 

per IBM e Olivetti, prima di fare il salto in California, 

con Daniel Borel e Pierluigi Zappacosta: “Allora il 

concetto di compagnia impegnata nell’hardware delle 

periferiche era nuovo sul mercato e noi, che abbiamo 

lanciato il mouse, le prime fotocamere digitali, le casse 

acustiche per PC, eravamo dei precursori”. Erano gli 

anni della Logitech. “Andammo in Giappone a cercarci 

clienti, non ci 

spaventava nulla”. Giovani e con la voglia di sfondare 

nel cuore. Del resto per farcela nella Bay Area, bisogna 

essere un pò fatti così: sempre pronti a rischiare tutto. 

“Quando – racconta Marini – anni dopo la Logitech, 

con Noventi (società specializzata in investimenti mirati 

a compagnie hi–tech), decidemmo di puntare su Neato 

Robotics, fu un salto nel buio, all’epoca nessuno credeva 

che i robot per la casa potessero interessare il grande 

pubblico e diventare commercializzabili, ….si sbagliavano”. 

Infatti, anni dopo la Neato è finita nelle mani della 

Vorkwek, compagnia tedesca produttrice di Folletto e 




























eritatem autae verum velectem. Nam fugit et, 


Bimby. 

Marini è sempre stato un precursore. “Rischiammo tutto 

e fummo premiati.” 

UN’ESPERIENZA CALIFORNIANA NEGLI 

ANNI OTTANTA 

Trasferitosi in California negli Anni Ottanta, Marini ha 

visto la Silicon Valley cambiare. “In quegli anni, quando 

ci siamo spostati negli Stati Uniti con Logitech, noi eravamo 

un’eccezione”. Sede americana, anima europea 

e affari ovunque, anche in Asia. “Quando iniziarono a 

fondare startup per il mobile le cose in Silicon Valley 

iniziarono a cambiare”. 

Prima, “le compagnie americane erano più focalizzate 

verso il mercato interno e la crescita fino a raggiungere 

una massa critica, prima di gettarsi sulle piattaforme 

internazionali”. Con l’aumento della mobilità del mercato, 

“le cose sono iniziate da subito ad essere molto 

diverse - sottolinea Marini - , si è sviluppata una tendenza 

ad affrontare il mercato globale piu’ presto nella vita 

dell’azienda startup.”. Questo però non è l’unico vettore 

del cambiamento che sta interessando la California. Ce 

n’è un secondo in atto, ugualmente forte, ma diametralmente 

opposto, quasi in netta controtendenza rispetto 

al primo, “è il fatto - evidenzia Marini - che nonostante 

questa internazionalità di mercati, le aziende della Silicon 

Valley, tendono a crescere ed espandersi localmente 

nella Bay Area”. Prima era diverso: “Negli anni Ottanta 

si nasceva nella Bay Area e ci si ampliava in Texas, nello 

stato di Washington o altrove in America – aggiunge -, 

mentre oggi questo non accade più e i colossi della Bay 

Area, come Facebook o Apple, quando crescono, non 

si muovono, restano dove sono”. Forse si tratta di una 

questione di cultura, alla fine il nome Cupertino parla da 

sé. Ma forse c’è di più, forse “È una questione di mentalità 

secondo me – commenta - di una visione del mercato 

che si sta lentamente provincializzando”. Una sorta di 

cerchio che si chiude. “Oggi i colossi della Silicon Valley 

hanno molta cassa, rispetto ai grandi di prima”. Quando 

HP o Olivetti crescevano, “avevano risorse finanziarie, 

ma in una quantità non certo paragonabile a quella che 

oggi vantano compagnie quali Facebook, Google o Apple”. 

Questo crea uno sbilanciamento, un divario economico 

che va ad impattare sul sistema, deteriorandolo. 

Eppure questa non è certo la prima volta che la Bay viene 

data per spacciata. “Io negli anni Ottanta già sostenevo 

che questa situazione paradossale non poteva durare 

per sempre, e sono stato smentito”. Forse dunque capiterà 

ancora: “Alla fine la Silicon Valley riesce sempre a 

































et as sum sae molor am ulluptius aut fuga. Ut 







voluptiunt haria doluptur modiorestio et as sum sae lor 








et as sum lupti am ulluptius aut fuga. Ut eossum 

que est expla samus et lam si natendis eos eicatae mil 


einventare se stessa e forse è proprio per questo che ci 

sono cose possibili soltanto qui e non altrove”. 

IL TALENTO ITALIANO 

Nonostante la Bay Area sia il cuore trainante dello sviluppo 

tecnologico internazionale, esistono progetti interessanti 

anche altrove. In Italia, ad esempio, “a Milano, 

qualche anno fa,abbiamo lanciato con Neato un piccolo 

centro di ricerca che punta a produrre applicazioni per 

la Cloud”. Il talento non manca: “L’Italia è piena di talenti 

e con i costi della 

produzione e del lavoro dimezzatisi negli ultimi anni, 

potenzialmente può attrarre investimenti importanti”. 

Anche dalla Bay Area: “Si ha l’impressione che le frontiere 

piano piano stiano cadendo, fra i giovani c’è sempre 

più interesse a guardare al di là del cortile di casa, 

della città natale, a cercare occasioni di sviluppo e crescita, 

ovunque si riescano a trovare”. Certo si tratta di 

avere coraggio e no, non si tratta di fuggire, ma semplicemente 

di seguire le orme dei propri sogni e di cogliere 

le occasioni là, dove si presentano. Come Marini e i tanti 

italiani che la Silicon Valley l’hanno fatta davvero. 






















ratatin ea dolore commolo ribusandae molecabo. Nul- 



RISCHIAMMO 

TUTTO 

E FUMMO 

PREMIATI


“MI CHIESERO 

SE VOLEVO FARE 

SEI MESI DI 

RICERCA 

ALL’ESTERO, 

IO SCELSI 

BERKELEY 

PERCHÉ VOLEVO 

ANDARE A VEDERE 

UN POSTO 

DOVE SI FACEVA 

INNOVAZIONE 

SUL SERIO.” 


Antonio Sangiovanni Vincentelli 

THE EDGAR L. AND HAROLD H. BUTTNER CHAIR OF ELECTRICAL ENGINEERING AND COMPUTER 

SCIENCES AT THE UNIVERSITY OF CALIFORNIA, BERKELEY

ALBERTO, UNA VITA DEDICATA ALLA SCIENZA 

DELL’ELETTRONICA. 

Piove a Singapore mentre Alberto Sangiovanni 

Vincentelli ci racconta di come sia finito, quasi per 

caso, a fare il ricercatore a Berkeley. “Io sono 

diplomato al classico e al Politecnico ci sono andato 

perché allora era tradizione che i migliori al liceo ci 

andassero nonostante la mia predilezione per 

filosofia e fisica”. 

Vincentelli è una delle maggiori autorità in materia 

in Electronic Design Automation (automazione 

della progettazione di sistemi e circuiti elettronici, 

ovvero quella categoria di strumenti software ormai 

divenuti assolutamente necessari per progettare), e 

il suo curriculum è uno di quelli che non si 

dimenticano facilmente. Docente a Berkeley, e professore 

onorario al Politecnico di Torino, membro 

dell’Advisory Board del Politecnico di Milano, imprenditore 

e fondatore di diverse imprese tra cui 

due quotate al NASDAQ: Cadence (valuta sul mercato 

azionario12,5 miliardi di dollari), e Synopsis (13,5 

miliardi di dollari), consulente da oltre trent’anni per 

i giganti dei circuiti integrati e del settore 

automobilistico, presidente del comitato nazionale 

per i garanti della ricerca (CNGR), presidente del 

Comitato Strategico del Fondo strategico italiano. 

Solo per citare i più importanti. Settant’anni dedicati 

alla tecnologia e alla scienza, una vita che da Milano, 

lo ha trascinato, inizialmente controvoglia, fino 

alla California, a Boston, a New York, trasformandolo 

in una delle maggiori voci nel panorama della 

ricerca internazionale. 

FINIRE IN AMERICA PER CASO 

“Al liceo, non sopportavo tutto quello che sapeva 

di meccanica, di disegno e di macchine elettriche, 

ma alla fine mi sono ritrovato laureato prima, 

e professore incaricato poi, al Politecnico di Milano 

(1974)”. Anche in America ci è finito per caso: 

“I professori che gestivano il mio istituto, mi 

chiesero di passare sei mesi negli Stati Uniti per rafforzare 

le mie capacita’ di fare ricerca ad alto livello; 

io scelsi Berkeley perché quella università era considerata 

la migliore nei settori che mi interessavano”. 

L’arrivo negli Stati Uniti ancora se lo ricorda: “Era il 

3 luglio del 1975, il giorno prima della festa 

dell’indipendenza – racconta – e, ricordo, fu durissimo 

abituarmi a Berkeley”. Alla fine però “mi 

piacque molto fare ricerca con persone veramente 

eccezionali. Dato il successo del mio programma di 

ricerca che portò risultati in breve tempo, i colleghi 

di Berkeley mi chiesero se volessi ritornare almeno 




















































as sum lupti 



per un anno come visiting professor**. Io volevo 

tornare a Milano, dove mi trovavo benissimo, 

e accampai una scusa per rifiutare; dissi loro che 

proprio non potevo farlo per gli impegni che avevo 

preso al Politecnico incluso il corso che dovevo 

tenere”. Non si immaginava certo il resto: “Quando 

tornai in Italia la vigilia di Natale del 1975, incontrai 

il direttore dell’Istituto di Elettrotecnica ed 

Elettronica, che mi disse che non c’erano problemi 

per il mio ritorno a Berkeley. Anzi, che il Politecnico 

era felicissimo di avere un suo giovane che insegnasse 

a Berkeley: mi chiesi come avesse saputo della 

offerta di Berkeley e alla fine, scoprii, che i colleghi 

di Berkeley gli avevano scritto una lettera a mia 

insaputa chiedendo di lasciarmi tornare ancora un 

anno negli Stati Uniti. Alla fine, mi toccò partire”. 

INSEGNAMENTO A BERKELEY 

A Berkeley mi trovai ad insegnare cinque corsi 

trimestrali, due per gli undergraduate e tre per 

dottorandi, un bel carico! “Non sapevo neppure 




















et veliquo dio officipsum id mod quiaspiet harupta

come si organizzavano i corsi negli Stati Uniti, 

neppure come si faceva a valutare la preparazione 

degli studenti. Ricordo che il primo giorno di lezione, 

quando arrivai in aula, non c’era nessuno. 

Io, che credevo di non essere all’altezza e che quindi 

certo che nessuno si sarebbe presentato, mi sedetti 

sconsolato in uno dei banchi ad aspettare”. 

Gli studenti presero ad arrivare agli spicciolati minuti 

più tardi: “Scoprii che era normale iniziare dieci 

minuti dopo l’orario prestabilito da uno studente, 

Joe Grey, che entrato in aula si era seduto accanto 

a me, credendomi un compagno di corso”. 

Ignaro di chi fossi, dato che avevo più o meno l’età 

degli studenti, Grey fece dei commenti sul nome 

(impronunciabile in inglese) di questo professore. 

A Grey prese un colpo quando alla fine mi alzai e mi 

presentai alla classe come il docente. Con molti di 

quegli studenti strinsi un’amicizia profonda: li vedo 

ancora oggi anche se sono passati oltre 

quarant’anni”. Grey è diventato un mio caro amico. 

Dopo il primo trimestre di pura sofferenza, il caso 

fece di nuovo capolino nella vita di Vincentelli: 

“Proprio in quei giorni il Dipartimento aprì un concorso 

per un posto tenure track*, i miei colleghi di 

Berkeley mi chiesero di partecipare. Grande soddisfazione, 

ma io volevo tornare in Italia dove tutto 

sommato mi trovavo meglio. Ma in USA, non è facile 

farsi dire di no! Quindi mi tesero un tranello: mi 

convinsero a candidarmi sapendo che mi sarei piazzato 

bene, e questo sarebbe servito per la mia 

carriera al Politecnico. Mi fecero credere che sarebbe 

stato molto difficile “vincere” in quanto le 

candidature arrivate erano oltre un centinaio e in 

tanti avevano titoli migliori dei miei”. Ma il destino 

aveva pianificato diversamente: “Ricevetti una chiamata 

alle undici della sera dal capo del dipartimento 

che si congratulò perché’ avevo vinto il concorso!” 

In Italia, tutti i miei colleghi ne furono felici: “Tutti 

tranne me, che sembravo proprio non riuscire a tornare”. 

Ancora una volta i primi anni furono difficili 

anche perche’ doveva conquistare la “tenure” che 

nelle migliori università costa lacrime e sangue in 

impegno e studio. 

LE RICERCHE ALL’IBM 

Nel 1980 la svolta. “Dopo aver ottenuto la tenure 

e il titolo di Associate Professor, l’IBM mi offrì di 

trascorrere un anno nel loro centro di ricerca a 

Yorktown Heights, nello stato di New York. 

L’occasione di lavorare in quel centro di ricerca allora 

prestigiosissimo mi consentì di sviluppare nuovi 

temi di ricerca oltre a continuare secondo le linee 






















































“SERVE INVESTIRE 

NELLA SCUOLA, 

NELL’UNIVERSITÀ, NELLA 

TECNOLOGIA – 

EVIDENZIA – IL POLITECNICO 

È UN’ISOLA FELICE, 

UN’ECCEZIONE, 

MA IN ITALIA I TALENTI 

CI SONO, BASTA 

COLTIVARLI.” 



















nem alit, cullanto con nihilig enihicipsam id momache 

avevo impostato a Berkeley. Incredibile, ma 

vero mi venne anche proposto di rimanere a lavorare 

a New York, ma il freddo di quell’anno insieme 

alla mia predilezione per l’insegnamento mi convinsero 

a tornare in California”. Nel 1982, da professore 

associato Vincentelli passò dunque a professore 

ordinario in soli due anni: “Le mie ricerche sui 

circuiti integrati iniziavano a dare frutti e l’interesse 

dell’industria era evidente”. Con un collega e amico 

australiano decise quindi di diventare imprenditore, 

anche stavolta quasi per caso. Nacque, così, la 

Cadence Design Systems che “si occupava appunto 

di sviluppare strumenti di progettazione per i 

circuiti integrati basandosi sulle ricerche fatte a 

Berkeley. Oltre agli investitori della Silicon Valley, 

General Electric, National Semiconductors, Harris 

Semiconductors e Ericsson parteciparono al 

capitale”. Al momento della quotazione in borsa di


Cadence, nel 1987, facemmo partire un’altra 

impresa, Synopsys. “Le mie ricerche e le imprese 

attirarono l’attenzione del Massachusetts Institute of 

Technology (MIT) e proprio nel 1987 io e 8 dei mie 

studenti di dottorato ci trasferimmo con l’idea di 

collaborare con i quattro centri di ricerca afferenti al 

Dipartimento di Electrical Engineering and 

Computer Science.” Alla fine però Vincentelli tornò 

a Berkeley dopo un anno: “Io mi affeziono ai posti 

e alle persone, a Berkeley come al Politecnico, che 

in tutti questi anni non ho mai abbandonato”. 

Oltre che come imprenditore e docente universitario, 

Vincentelli ha decenni di esperienza anche come 

consulente, in particolare per l’industria dei semiconduttori 

e quella automobilistica. “Nel 1988 il 

direttore generale di Magneti Marelli Autronica, Daniele 

Pecchini, mi contattò per avere una consulenza 

sulle architetture e sulle metodologie di progetto per 

circuiti e sistemi per l’automobile”. 



















ratatin ea dolore commolo ribusandae mole-

Quello fu l’inizio di una collaborazione anche personale 

che ancora va avanti ora. Il lavoro che stavo 

facendo con Magneti Marelli porto’ allo sviluppo di 

nuovi metodi di progettazione che attirarono 

l’attenzione delle imprese tedesche del settore. Per 

prima, Mercedes: “Collaborai con loro per quattro 

anni e li aiutai ad aprire il loro centro di ricerca in 

Silicon Valley”. Dopo la Mercedes, fu la volta della 

BMW: “Ricordo che all’epoca io guidavo una Alfa 

equipaggiata da Magneti Marelli. In BMW, che mi 

aveva chiesto di fare consulenze per loro sullo sviluppo 

della elettronica nella vettura, non erano troppo 

contenti del fatto che un loro consulente guidasse 

una macchina che non fosse una BMW 

e ogni mese mi mandavano una BMW diversa per 

convincermi a rinunciare alla mia Alfa. Peraltro, io 

alla mia Alfa non rinunciai e le vetture che arrivavano 

a Berkeley, finirono nelle mani dei miei studenti 

di dottorato con loro grande gioia! Potete immaginare 

la curiosità suscitata da questi eventi tra i miei 

colleghi che non sapevano cosa pensare”. 

IL TELELAVORO TRA LA CALIFORNIA E L’ITALIA. 

Oggi Vincentelli torna spesso in Italia: “Trascorro ad 

intermittenza circa quattro mesi in Italia, collaborando 

con imprese, università ed enti di ricerca”. 

E certo non si considera un cervello in fuga: 

“Io sono stato un cervello prestato agli Stati Uniti, 

non sono fuggito, anzi, l’Italia l’ho sempre portata 

nel cuore”. Quello in cui crede lo ha ribadito più 

volte, come ad esempio nel discorso di apertura del 

155esimo anno accademico del Politecnico di 

Milano. E per il futuro dell’Italia ha una parola sola: 

innovazione basata sulla ricerca e sull’educazione. 

“Serve investire nella scuola, nell’università, nella 

tecnologia – evidenzia – il Politecnico investe in 

ricerca e nei giovani. In Italia i talenti ci sono, basta 

coltivarli”. Evitando gli errori come, “ridurre le materie 

fondamentali (ad esempio matematica e fisica) 

a beneficio delle “tecniche”, normare gli anni di preparazione 

per i dottorati, trattare tutte le università 

nello stesso modo”. Ci sono tanti livelli di eccellenza, 

per Vincentelli, al di là e al di qua dell’Atlantico, 

in Usa come in Italia. Ognuna ha bisogno di un supporto 

diverso. 

“Occorre dare modo a tutti di brillare nel proprio 

campo e con le loro peculiarità, non pretendere che 

tutti debbano essere tenuti ad uno standard comune, 

perché quando si livella, si livella in basso, sempre”. 

non c’era nessuno e io, che credevo di avere 

sbagliato ancora prima di iniziare, mi sedetti in uno 

dei banchi ad aspettare”. 























































“I NOSTRI 

STUDENTI, 

SOPRATTUTTO 

QUANDO 

COMBINANO UNA 

LAUREA IN 

ECONOMIA A 

UN’ISTRUZIONE 

CLASSICA, SONO 

ESTREMAMENTE 

PREPARATI PER 

IL MONDO.” 


Luca Maestri 

DIRETTORE FINANZIARIO 

CHIEF FINANCIAL OFFICER 

APPLE


LUCA, L’ITALIANO ALLE FINANZE DI APPLE 

È considerato l’italiano di maggior peso nell’economia 

internazionale, dopo Mario Draghi. È fra i dirigenti 

più pagati al mondo. Gestisce un patrimonio 

aziendale di 280 miliardi di euro. Eppure Luca 

Maestri, 55 anni, vicepresidentee Chief Financial 

Officer (CFO) di Apple, l’uomo che risponde direttamente 

a Tim Cook, l’erede di Steve Jobs, ha una 

visione semplice del successo. «Ho imparato sulla mia 

pelle che puoi passare la vita a lavorare sui tuoi punti 

di forza o sulle tue debolezze. A un certo punto però 

è più produttivo concentrarti sui tuoi punti di forza». 

UN CARRIERA AL TOP DELLA FINANZA 

Liceo classico, laurea in Economia alla Luiss Guido 

Carli di Roma, Master in Science of Management alla 

Boston University, Maestri a 26 anni è già fuori Italia. 

«Volevo vedere il mondo. Esplorarlo. E – grazie 

alla formazione che ho ricevuto nel nostro Paese- ho 

lavorato in Europa, Asia, America Latina, Stati Uniti. 

Sono convinto che l’Italia abbia un sistema educativo 

fenomenale. I nostri studenti, soprattutto quando 

combinano una laurea in economia a un’istruzione 

classica, sono estremamente preparati per il mondo». 

La sua carriera: CFO per 20 anni alla General Motors, 

poi CFO alla Nokia Siemens Networks e infine 

alla Xerox, appena prima di Apple. «Vivo all’estero da 


























velectem. Nam fugit et, tessi comnihicit et deliquam

oltre 25 anni: c’è un affetto incondizionato nei confronti 

del nostro Paese. E l’essere italiano è stato per 

me un asset enorme. Siamo noi ad attaccarci degli 

stereotipi. Ero io il primo a credere che non avrei 

fatto molta carriera in General Motors . Mia moglie, 

che è americana, mi ha insegnato che le loro aziende 

sono molto più inclusive». Quando ha iniziato a lavorare 

all’estero, Maestri non parlava benissimo l’inglese 

ma si è messo alla prova e ha imparato tutto direttamente 

sul campo. «Spesso mi sono state attribuite 

responsabilità di cui io stesso mi meravigliavo, magari 

a volte anche più grandi di me. La migliore palestra 

l’ho fatto proprio in quelle occasioni» ha dichiarato 

nel 2016, quando è stato premiato come L’Alumnus 

dell’anno alla Luiss di Roma. 

LA VITA AD APPLE 

La vita in Apple? «A parte le levatacce - la mattina 

comincio alle 4.30 - lavorare alla Apple e’ un po’ 

come appartenere ad un esercito e, al tempo stesso, 

ad un monastero» ha raccontato durante un incontro 

al Consolato italiano di New York, moderato dalla 

giornalista Maria Teresa Cometto, e ripreso poi dal 

Corriere della Sera. «”Esercito” perché per sviluppare 

e produrre prodotti complessi con parti di provenienza 

diversa che poi vanno consegnati tempestivamente 

ovunque nel mondo, ci vuole una disciplina ferrea. 




























“OGGI È MOLTO 

PIÙ FACILE AVERE 

OPPORTUNITÀ 

CHE 30 ANNI FA. 

BASTA AVERE 

AMBIZIONE 

E VOGLIA DI 

ASSUMERSI DEI 

RISCHI.”

“LA NOSTRA 

PROFESSIONE STA NEI 

DETTAGLI. E LA RICETTA 

AZIENDALE NON STA NEL 

PRODOTTO SPECIFICO MA 

NELL’ECOSISTEMA 


COMPOSTO DA HARDWARE, 

SOFTWARE E SERVIZI. 

LA CHIAVE STA 

NELLA LORO 

INTEGRAZIONE.”

“Monastero” perché alla Apple l’ego lo devi mettere 

da parte: contano i valori comuni, il lavoro del team, 

l’armonia del gruppo». Ogni lunedi mattina, i principali 

10 top manager fanno una riunione per parlare di 

dettagli estremi. «La nostra professione sta nei dettagli. 

E la ricetta aziendale non sta nel prodotto specifico 

ma “nell’ecosistema composto da hardware, 

software e servizi. La chiave sta nella loro 

integrazione». 

LA SPINTA DELLA SILICON VALLEY 

Innamorato del suo lavoro e della sua famiglia, Luca 

Maestri se non si fosse occupato di finanza, avrebbe 

fatto il giornalista sportivo. «Il successo arriva quando 

fai della tua passione il tuo lavoro. Amo il calcio 

e tifo per la Juventus» ha raccontato. In Silicon Valley 

è tesoriere dello Juventus Club Silicon Valley, 

il club dei tifosi creato da Fabrizio Capobianco. 

Si incontrano spesso a Cru, un bar a Redwood City 

fondato da un bergamasco dove si mangia focaccia 

burrata e prosciutto, parlando di calcio e startup. 

Ai giovani italiani, in più occasioni ha consigliato: 

«studiate il coding, apre la mente, è un po’ come il 

latino e il greco. E non rassegnatevi. Oggi è molto più 

facile avere opportunità che 30 anni fa. Basta avere 

ambizione e voglia di assumersi dei rischi. Se avete 

una bella idea, venite a San Francisco a farvela finanziare. 

Gli italiani rappresentano l’eccellenza in tanti 

campi. E sono convinto che il prossimo Steve Jobs 

potrebbe nascere in Italia». 





“Confidential - Not for distribution coreserenim - que pre-production quatemporem fuga. Picia copy perum “ 












86

“QUELLO CHE 

SPINGE I GIOVANI 

A RESTARE IN 

AMERICA E’ IL 

FATTO DI POTER 

AVERE UNA 

CARRIERA 

BRILLANTE 


SEMPLICEMENTE 

METTENDO SUL 

PIATTO IL PROPRIO 

TALENTO.” 

Maria Grazia Roncarolo 

PROFESSORE IN PEDIATRIA, MEDICO RICERCATORE ESPERTO IN TERAPIA CELLULARE E GENICA 

PROFESSOR IN PEDIATRICS, PHYSICIAN SCIENTIST EXPERT IN CELL AND GENE THERAPY


CURARE L’INCURABILE CON LE CELLULE 

STAMINALI 

Ci sono idee che nascono in gioventù e che poi si 

aggrappano alle persone fino a diventare obbiettivi 

irrinunciabili, idee che sembrano sogni ma poi 

diventano la realtà, idee che trovano cervelli brillanti 

che le possono mettere in pratica. 

“Curare l’incurabile”: la Professoressa Maria Grazia 

Roncarolo ha fatto di questa idea lo scopo della sua 

vita, che l’ha portata a raggiungere traguardi che 

hanno segnato il progresso dell’immunologia e della 

biologia molecolare in tutto il mondo. 

Torinese, fin dall’inizio della sua carriera ha optato 

per un approccio che prevede lo stretto rapporto 

tra la ricerca in laboratorio e la clinica, sia nel campo 

ematologico che in quello ematologico. 

Il focus della sua ricerca è l’identificazione dei meccanismi 

che stanno alla base dei difetti immunologici 

e lo studio di nuove strategie terapeutiche per 

i bambini nati con un’immunodeficienza combinata 

grave o SCID (i cosiddetti “bambini bolla”), o con 

altre forme di immunodeficienza primaria. 

Partita da Milano come direttore scientifico dell’Isti- 
























BIOTECH

“BISOGNA ELIMINARE 

IL VALORE LEGALE DEL 

TITOLO DI STUDIO, FARE 

COME SI FA IN AMERICA,IN CUI 

SI È ASSUNTI E LICENZIATI 

SENZA PASSARE PER UN 

CONCORSO. IN AMERICA SONO 

LE UNIVERSITÀ CHE PAGANO 

I DIPENDENTI E NON LO 

STATO, SE SEI VALIDO RESTI 

E BASTA, È UN SISTEMA 

CHE CREA MOBILITÀ E 

COMPETIZIONE.” 


tuto Scientifico Universitario San Raffaele, e’ 

impiegata presso l’Università di Stanford come codirettore 

dell’Institute for Stem Cell Biology and 

Regenerative Medicine, e come capo della Division 

of Pediatric Stem Cell Transplantation and 

Regenerative Medicine. 

GIOVANI CHE VENGONO E GIOVANI CHE VANNO 

L’avventura in Silicon Valley inizia con una chiamata 

all’istituto DNAX, a Palo Alto, in California, dove l’attività 

di ricerca era incentrata sulla biologia cellulare 

e molecolare. 

Qui mette il suo talento italiano a disposizione di un 

team composto da studiosi originari di ogni parte del 

mondo. 

Ma quale è la competenza tutta italiana che ha poi 

fatto la differenza negli Stati Uniti? Secondo Maria 

Grazia la differenza sta nel fatto che in un contesto 

di lavoro fortemente settorializzato, in cui ognuno 

“coltiva il suo orticello”, gli italiani hanno una capacità 

unica di adattamento, unita ad una vocazione al 

lavoro duro e a una tendenza a dare valore ai rapporti 

umani. 
























In Italia si tende a non focalizzare gli studi su un 

singolo argomento, ma si tende a fornire allo 

studente una cultura di base molto ampia e molto 

forte, in contrasto con il concetto di “Super 

specializzazione” che invece vige negli States e che 

determina appunto poi una forte settorializzazione 

anche sul lavoro. 

Il consiglio ai giovani italiani che vorrebbero fare 

un’esperienza di studio o di lavoro negli Stati 

Uniti è quello di affrontare questa avventura non a 

metà del loro percorso formativo ma o all’inizio, o 

alla fine, da laureati. 

In America il fatto di sapere di poter avere una carriera 

brillante semplicemente mettendo sul piatto il 

proprio talento è quello che spinge i giovani a restare. 

Le poche persone che hanno provato a cambiare 

le cose in Italia se ne sono dovute andare. Ho elaborato 

un lutto per questa realtà, ma continua a deprimermi”. 

LE DONNE E LA LEADERSHIP 

Maria Grazia Roncarolo non è solo un’italiana che 

ha avuto apprezzamento e successo all’estero, ma è 

anche una donna italiana, e in quanto tale ha avuto 

la possibilità di notare le profondissime differenze 

che ci sono tra la nostra cultura e quella degli Stati 

Uniti, in termine di parità di genere e possibilità per 

una donna di assumere un ruolo di leader all’interno 

di un’azienda o, come nel suo caso, una leadership 

nel settore delle ricerca. 

Secondo le sue parole “Nel campo della scienza una 

donna è vista sempre in un ruolo subalterno, a meno 

che non sia una cosiddetta “donna con le palle”. 

In America le donne sono più protette, ed è più 

normale che possano avere un ruolo di leadership, 

anche se ho notato una mancanza di coesione femminile, 

che porta le donne a farsi in un certo senso 

la guerra tra di loro, a differenza di quanto accade in 

ambito maschile”. 

Alla DNAX la professoressa è stata un esempio di 

quella che si può definire “solidarietà femminile”, 

reclutando nel suo team un gran numero di donne 

giovani e talentuose perché “bisogna aiutare le 

donne, non parlando di diversità e, in primo luogo, 

dando l’esempio: i miei figli sono cresciuti vedendo 

una mamma che ha sempre lavorato tanto, e anche 

il figlio maschio ha imparato che una donna può 

costruirsi con lo studio e il lavoro il proprio grande 

successo. 






















































GIOVANI TALENTI E RICERCA 

Maria Grazia Roncarolo non ha dubbi a riguardo, 

BIOTECH

in Italia per supportare i giovani talenti è necessario 

smantellare il sistema accademico universitario: 

“Bisogna eliminare il valore legale del titolo di studio, 

fare come si fa in America, in cui si è assunti e 

licenziati senza passare per un concorso. In America 

sono le università che pagano i dipendenti e non lo 

Stato, se sei valido resti e basta, è un sistema che 

crea mobilità e competizione”. 

Diametralmente opposto, racconta la Professoressa, 

è anche il modo di vedere la ricerca in America, 

rispetto a quanto succede in Italia. Un medico che fa 

ricerca negli Stati Uniti è considerato un privilegiato, 

appartenente a un’élite, mentre il clinico è considerato 

nettamente inferiore rispetto ai ricercatori. 

In Italia succede esattamente il contrario, e si è 

abituati a vedere in corsia i professoroni col corteo 

dietro che hanno un successo fenomenale, mentre 

il ricercatore è relegato a un ruolo sicuramente di 

serie b, con poche gratificazioni non solo sul piano 

economico ma anche su quello del riconoscimento 

professionale del proprio lavoro. 

Per il futuro c’è da sperare dunque che giovani e 

donne italiani possano seguire l’esempio di questa 

donna straordinaria, e capire che anche un’esperienza 

all’estero non significa rinnegare le proprie radici, 

bensì portare la propria italianità al servizio di sistemi 

di lavoro e di studio diversi in cui può essere non 

solo apprezzata, ma anche coltivata e fatta fiorire. 
















eumquatur, abor aliquas maxim dolore solum et 

volorest, sus qui blatisqui adis mollit renducium 

la simin endi comnimu sanditis quasperes que re 

nos quo cus, tectemqui simus, to eum quia nulparum 

ulligent fugitam, cus mint omnisquo que non 

pel ipid exeriam, cus ne ne earcien daerchi llandio 

officius doles aligent et voluptur, ullutem poreium 

qui volupta tiusam veribusapide autem sam autam 

adipiciendi dolore eumquatur, abor aliquas maxim 







“LA COSA PIÙ 

BELLA CHE 

PUOI FARE 

NELLA TUA VITA 

È GUADAGNARE 

UN MILIARDO 

DI DOLLARI 

SALVANDO UN 

MILIARDO DI 

PERSONE.” 


Riccardo Sabatini 

SCIENZIATO ED IMPRENDITORE, GENOMICA COMPUTAZIONALE 

SCIENTIST, ENTREPRENEUR COMPUTATIONAL GENOMICS

RICCARDO, IL RAGAZZO DEL DNA 

C’è un giovane italiano che tra San Francisco e Boston 

sta scrivendo il futuro dell’umanità e il primo 

grande capitolo della medicina personalizzata. 

Applica la tecnologia del machine learning e la meccanica 

quantistica alla genomica per prevenire e curare 

le malattie del nostro secolo. Si chiama Riccardo 

Sabatini, è di Cremona, ha 36 anni, una grande 

capacità dialettica ereditata dalla madre e lo spirito 

imprenditoriale tutto del padre. 

Innamorato da sempre dei numeri, ha presto sviluppato 

il talento per interpretarli e fin da bambino 

ha un sogno: programmare il sistema immunitario 

dell’essere umano. «A 14 anni ho chiesto in regalo 

un manuale di diagnosi medica». 

IL CORAGGIO DI CHIEDERE E CAMBIARE 

La sua storia: laurea in fisica a Brescia, master in 

meccanica quantistica a Trieste, dottorato in Sissa 

(Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati), 

post dottorato in Epfl, Sabatini è un talento della fisica 

passato alla genomica. Qualche anno fa intuisce 

che la sua capacità di lavorare con i numeri poteva 

essere messa al servizio di chi legge il codice della 

vita. Scrive una e-mail a Craig Venter, l’uomo che 

per primo ha sequenziato il DNA, e che in quel periodo 

sta lanciando in California Human Longevity, 

la startup che studia il genoma per farci vivere meglio 

e più a lungo. Dopo 6 giorni viene invitato a San 

Diego, dopo 10 giorni viene assunto e ottiene il visto 

01, un visto speciale per stranieri con abilità eccezionali. 

Arrivato in Silicon Valley, ha sviluppato con 

altri ricercatori un algoritmo in grado di ricostruire 

l’altezza, il peso, e addirittura la faccia solamente da 

qualche goccia di sangue. È considerato uno dei giovani 

scienziati più influenti al mondo, ma Sabatini è 

da sempre un imprenditore. Oggi ha lasciato un 

posto da sogno al fianco di Craig Venter in una compagnia 

che vale miliardi di dollari per creare la sua 

startup. Si chiama Orionis Biosciences e si occupa di 

proteomica. «Studiamo come il nostro DNA risponde 

a ogni singolo farmaco o tossina. Stiamo lavorando 

per creare una nuova tipologia di farmaci in 

grado di colpire nel punto esatto e senza effetti collaterali, 

ma è ancora presto per 

parlarne...» spiega Sabatini. 

ESPERIENZA TED 

Unico speaker italiano del Ted 2016, la conferenza 

delle menti più brillanti al mondo, Sabatini è stato il 

protagonista di un talk che lo ha consacrato a livello 






















































mondiale. Per spiegare la complessità del suo lavoro, 

Riccardo ha stampato (per la prima volta al 

mondo) il genoma personale di Craig Venter: 450 

chili di libri, 175 volumi, 262.000 pagine, 

3 miliardi di lettere. «Quando sfogli quelle pagine, 

sfogli il manuale di istruzioni di un essere umano e 

tutti i suoi segreti. Propensione a malattie, caratteri 

somatici, come sono fatte le sue proteine. 

Hai accesso a gran parte di quello che compone un 

individuo, un codice che è ancora sconosciuto. Ne 

conosciamo forse il 2%, ma ci stiamo lavorando. E 

tutto viaggia a una velocità incredibile. In pratica 

alleniamo le macchine a imparare, alzando sempre 

più i limiti e le sfide, per arrivare a una vera medicina 

personalizzata. 

La cosa straordinaria di questa tecnologia? Abbiamo 

digitalizzato il problema della vita. 

Prima si faceva tutto in laboratorio: era costoso e 

lento. Oggi possiamo applicare la potenza di calcolo 

dei computer e lo sviluppo avrà la scalabilità e la 

velocità del digitale». 

IL GIOVANE INNOVATORE NELLA GENETICA 

Dopo il Ted, Sabatini ha raggiunto la consacrazione 

a livello mondiale. È andato a cena con Al Gore, 

conosce Elon Musk ( fondatore della casa automobilistica 

Tesla), ha accesso a tutti gli investitori della 

Valley. Barak Obama lo ha chiamato alla Casa Bianca 

come Young Innovator in Health, unico europeo 

alla The White House Frontiers Conference 2016 e 

su YouTube si possono trovare quei tre minuti che 

hanno incantato tutti. «L’Italia mi ha dato la formazione, 

l’America le connessioni. Ho passato la vita a 

imparare. Ho incontrato persone che mi hanno fatto 

giocare oltre le regole standard e mi hanno spinto a 

cambiamenti di rotta che mi hanno fatto crescere. 

Nella Bay Area, il vero asset non è tanto la tecnologia 

quanto la rete di persone che vogliono che tu 

abbia successo. 

Se sei una persona trasparente che ha voglia di rischiare 

in maniera costruttiva e non speculativa, tutti 

ti aiutano. Quando ho raccontato a Craig Venter il 

mio progetto, e che mi sarei licenziato per inseguire 

un sogno, lui ha esclamato: “Quello che vuoi fare è 

una cosa fighissima, ma è troppo presto. Sei in anticipo 

di almeno 10 anni”. Gli ho risposto: “Ho la 

stessa età che avevi tu, quando hai mappato il genoma 

umano e tutti ti dicevano che non si poteva 

fare». A quel punto, ha aggiunto: «Vuoi farlo con 

me? Se hai bisogno di aiuto, sono qui». 

Rientrare in Italia? «Quando mi fanno questa dofuga. 

Ita sed quas etur maximod que prepro mincia 





















































manda, resto sempre sorpreso. Seguo molti progetti 

nel nostro Paese e torno circa 7 volte in un anno… 

Il concetto di stare fermo in una nazione per me è 

superato. Mi trovo a mio agio a Londra, a Boston, in 

Guatemala, a San Francisco. Adoro Parigi. Ho amici 

iraniani, somali. La mia più grande fortuna? Avere 

un passaporto italiano che mi permette di andare 

ovunque. E ovunque nel mondo tutti amano l’Italia». 

Riccardo, oggi, vive tra San Francisco e Boston. È 

co-founder di Refugees Action HUB center al MIT, 

il progetto che porta l’istruzione digitale e la scienza 

dei dati dell istituto di tecnologia del Massachusetts 

ai rifugiati e alle popolazioni sfollate. È stato 

chairman per l’intelligenza artificiale del G7 nel 2017 

ed è co-fondatore della Quantum Espresso Foundation 

(http://foundation.quantum-espresso.org/). 

Instancabile, appassionato, non si ferma mai. Nei 

prossimi due mesi sarà in Cina, Messico, California, 

Europa, New York, Boston, Australia, Indonesia e 

ancora Cina. «La cosa più bella che puoi fare nella 

tua vita è guadagnare un miliardo di dollari salvando 

un miliardo di persone». 




















et as sum sae molor am ulluptius aut fuga. Ut eossumolor 

am ulluptius aut fuga. Ut eossumolor am 

ulluptius aut fuga. Ut eossum 


“ABBIAMO 

DIGITALIZZATO IL 

PROBLEMA DELLA VITA. 

PRIMA SI FACEVA TUTTO IN 

LABORATORIO: ERA COSTOSO 

E LENTO. OGGI POSSIAMO 


APPLICARE LA POTENZA DI 

CALCOLO DEI COMPUTER E 

LO SVILUPPO AVRÀ LA 

SCALABILITÀ E LA 

VELOCITÀ DEL 

DIGITALE.”


“SEMBRAVA QUASI 

CHE LA DONNA 

FOSSE L’UNICA FRA 

TUTTE LE FEMMINE, 

DI OGNI SPECIE 

ANIMALE E UMANA, 

A NON MOSTRARE 

ASPETTI 

COMPETITIVI, 

QUANDO IN NATURA 


CONTRARIO.” 


Alessandra Cassar 

PROFESSORE DI ECONOMIA 

PROFESSOR OF ECONOMICS 

UNIVERSITY OF SAN FRANCISCO

L’ECONOMISTA “Confidential DELLA COMPETITIVITA’ - Not for FEMMINILE distribution - pre-production copy “ 

C’è chi misura l’altezza di una persona. Chi invece 

controlla pressione o battito cardiaco. Alessandra 

Cassar invece ne misura la competitività. Lei, che 

lavora all’Università di San Francisco dove si occupa 

di Economia Sperimentale, studia il comportamento 

umano nelle varie sfere economiche per comprenderne 

i limiti e le pulsioni che portano un determinato 

gruppo sociale ad avere più successo di altri. 

In particolare, Alessandra Cassar si occupa di competitività 

femminile. “Quello che mi ha spinto a lavorare 

in questo campo, e’ stato il notare che ovunque, nella 

maggior parte degli studi, le donne apparivano meno 

competitive, e questo “fatto” veniva offerto come 

spiegazione, quasi una giustificazione “naturale”, del 

motivo per cui le donne non hanno ancora raggiunta 

la parita’ dal punto di vista economico con gli uomini”. 

Eppure qualcosa non quadrava: “Sembrava quasi 

che la donna fosse l’unica fra tutte le femmine, di 

ogni specie animale e umana, a non mostrare aspetti 

competitivi, quando in natura e per tutte le altre 

specie, accade l’esatto contrario e le femmine risultano 

altamente competitive per la riproduzione, per la 

prole, per lo stato sociale, per il cibo o il territorio” - 

sottolinea Cassar. 




























Qualcosa quindi non aveva senso. Da qui l’intuizione 

che forse i metodi usati erano proprio quelli che 

ci precludevano di portare alla luce altre sfere, altri 

domini ugualmente importanti, anche se diversi, per 

comprendere in comportamento di genere. Da qui, il 

via alle sue ricerche, oggi considerate all’avanguardia 

del settore: “Il problema era che i dati e i metodi sperimentali 

di raccolta erano biased, creati per registrare 

e amplificare i tratti come si manifestano nei maschi 

e non necessariamente nelle femmine, lasciando 

inesplorati interi settori dove la competitivita’ femminile 

emerge e/o domina. A mancare, infatti, era una 

griglia di riferimento che prendesse in considerazione 

specifiche femminili - o tweak - non solo biologiche 

ma anche culturali e sociali. 

“La mia vita è stata un susseguirsi di casi, percorsi 

non voluti, spesso opportunita’ celate dietro 

condizioni apparentemente sfavorevoli, una “pianificazione” 

del tutto casuale, random in inglese, che 

ha scandito il passo e a cui io mi sono adeguata”. 

Un’avventura “che da Parma – racconta Cassar - mi 

ha portato, un passo alla volta, fino a San Francisco, 

a fare quelli che in gergo sono chiamati giochi economici.” 



























LE CARATTERISTICHE DEL SUCCESSO 

“Del resto – scherza – il mio professore mi diceva 

sempre che se la vita regala limoni, la cosa migliore 

e’ fare il limoncello”. 

“L’Universita’ di San Francisco è un’università focalizzata 

sull’insegnamento che attrae studenti da tutte 

le parti del mondo. Il Dipartimento di Economia offre 

un master in Economia dello Sviluppo che richiede 

agli studenti di passare due mesi a fare ricerca sul 

campo in paesi in via di sviluppo”. E così è nata l’idea 

di portare l’analisi fuori dal laboratorio coi computer, 

e di lasciare parlare, come base di ricerca, coloro che 

abitano il mondo intero, non solo gli studenti universitari 

di università Americane (i classici “soggetti” 

degli esperimenti). 

Appunto, per misurare la competitività: “Per centinaia 

di anni abbiamo analizzato e catalogato il sapere 

utilizzando un punto di vista prettamente maschile 

– sottolinea - il femminile non era neppure contemplato, 

e, quando considerato, veniva analizzato attraverso 

una lente colma di stereotipi, portando avanti 

idee sostenute da dati essi stessi raccolti in maniera 

biased”. Le sue ricerche hanno iniziato a fare luce su 

di un aspetto particolare della competitività, ovvero il 

ruolo della donna come madre e il fatto che, come in 

tutte le altre specie, la competivita’ puo’ essere addirittura 

piu’ forte rispetto a quella maschile. 

“Io credo fortemente che ottimismo, positività e voglia 

di realizzare qualcosa che abbia significato 

siano caratteristiche imprescindibili del successo – 

racconta – tutti noi, nella vita, abbiamo a che fare 

con eventi che ci spiazzano o ci spaventano perché ci 

prendono in contropiede”. In questi casi, per 

Cassar, la differenza è il modo in cui i singoli reagiscono 

all’inaspettato. “Quando mi trasferii a San 

Francisco temevo di essere entrata in un piccolo ateneo 

con meno possibilità di far ricerca rispetto ad 

altri, maggiori e più importanti – racconta – , ma mi 

sbagliavo: quando iniziai a capire che, anche se 

non avevo un laboratorio, potevo invece far ricerca 

sul campo, mi resi conto che questo era un 

grandissimo vantaggio e iniziai a produrre una pubblicazione 

dopo l’altra creando le basi della mia 

carriera”. Se la passione per fare qualcosa c’e’, uno 

trova sempre e comunque il modo di seguirla. 

Spesso la strada non e’ un rettilineo, ma le cose piu’ 

belle si trovano proprio nelle curve e nei meandri 

inaspettati. 

La California per caso 

Cassar in America ci è capitata per caso. “Dopo la 

laurea in Scienze Economiche a Parma – sottolinea 





























– ottenni una borsa di studio per un PHD all’estero”. 

All’epoca Internet non era ancora in tutte le case: la 

California capitò ancora una volta per caso: “Fu il 

mio professore (Gilberto Seravalli) a dirmi che era 

bellissima – ricorda Alessandra Cassar – io, che non 

avevo idea neppure di come compilare una domanda, 

gli credetti sulla parola, e pochi mesi dopo partii 

per la mia avventura americana”. 

E fu amore a prima vista. Le differenze fra la società 

italiana e quella americana sono numerose. Ma una 

in particolare, per Alessandra Cassar, è il nocciolo del 

problema. Se l’Italia vuole ripartire, quindi, e ripartire 

davvero, si deve reinventare e darsi regole e istituzioni 

che funzionino, indipendentemente dal singolo. 

Dalla legge, dai tribunali, dalle università. “Qui negli 

Stati Uniti ogni università si assicura di assumere il 

meglio come personale docente, perché gli studenti 

pagano anche 50 mila dollari l’anno per avere 

un’istruzione di qualità assoluta e progetti di ricerca 

innovativi; se mancassero docenti qualificati, 

se venissero assunti i mediocri, gli studenti andrebbero 

da un’altra parte”. La competitività dunque fra poli 

universitari è alla base della qualità della ricerca e del 

sistema meritocratico che rende possibile lo 

sviluppo dell’intero Paese. E in Italia? È un Paese che 

ha tantissime potenzialità, che ha carisma e talento. 

E che può fare grandi cose. Alessandra Cassar in 

Italia ci torna ogni estate, da turista. “Se fosse possibile 

fare le mie ricerche in Italia magari potrei anche 

pensare di tornare, ma per il momento questa resta 

un’ipotesi”. Il rapporto comunque resta stretto. “La 

comunità italiana della Bay Area è unita e ogni anno 

organizza eventi e manifestazioni volte a promuovere 

l’immagine del nostro Paese all’Estero”. Un’istantanea 

contemporanea e multifaccettata, di cui almeno in 

parte, proprio gli italiani d’America stanno contribuendo 

a gettare le basi.’ 







































“SEMBRAVA 

QUASI CHE FRA TUTTE 

LE SPECIE ANIMALI SOLO 

LA FEMMINA UMANA NON 

FOSSE IN COMPETIZIONE, 

NÉ PER LA PROLE, 

NÉ PER TERRITORIO, IL CIBO 

O LA RIPRODUZIONE,QUANDO 

IN NATURA E PER TUTTE LE 

ALTRE SPECIE, 


CONTRARIO.”


“LE PERSONE 

PIÙ INCENTIVATE 

SONO GLI 

IMMIGRANTI 

DI PRIMA 

GENERAZIONE, 

POICHÉ’ NON 

HANNO PIÙ UN 

PASSATO SU CUI 

APPOGGIARSI E 

VOGLIONO AVER 

SUCCESSO 

A TUTTI I COSTI.” 


Gianluca Rattazzi 

IMPRENDITORE 

SERIAL ENTREPRENEUR

DALLA TECNOLOGIA A PILOTA DI RALLY 

Imprenditore seriale, pilota di rally, amico di premi Nobel, 

Gianluca Rattazzi è tutto fuorché un uomo comune. È un 

po’ il simbolo di quella Silicon Valley che affascina e confonde 

tanto al di qua quanto al di là dell’Oceano. 

Infatti, si potrebbe quasi dire che per lui, quello di finire 

all’estero è stato quasi un destino segnato. 

Per i genitori, il padre avvocato e la madre medico, l’Italia 

era sì un Paese stupendo, ma pure terribilmente inaffidabile. 

“Era, e forse rimane, un posto dove potrai anche 

essere il più bravo di tutti, ma se ad un concorso pubblico, 

ti dovesse capitare di competere contro il figlio di un 

qualche personaggio importante o anche solo vagamente 

conosciuto, stai pur certo che non sarai tu a venire scelto”, 

racconta. E per suoi genitori la meritocrazia era la 

condizione essenziale anche solo per pensare di costruirsi 

un futuro. “In mente avevano per me la Germania e 

per mia sorella la Francia, quindi entrambi siamo un po’ 

cresciuti con la consapevolezza che in Italia ci saremmo 

rimasti giusto fino alla laurea”. 

L’occasione per lasciare il vecchio Continente arriva per 

Rattazzi alla fine degli Anni Settanta quando a Roma incontra 

Emilio Segre’, premio per la fisica, impegnato 

a scrivere un libro su di un altro Nobel italiano, Enrico 

Fermi. “Incontrai Segre’ a Roma, dove studiavo fisica, 

parlammo, ci piacemmo subito e iniziai a collaborare con 

lui per il suo libro”. Da lì poco dopo, la decisione di lasciare 

l’Italia e di trasferirsi in California con lui. “Era un 

uomo eccezionalmente colto, trascorrere un anno con lui 

fu incredibile, mi insegnò tantissimo - racconta Rattazzi 

– amava la Storia e la sapeva raccontare ed io che ne ero 

un avido appassionato non mi stancavo di ascoltarlo”. 

Anche durante le obbligatorie escursioni nei boschi 

californiani nel fine settimana: “Amava smodatamente 

il campeggio e io, che non l’ho mai sopportato, mi trovavo 

mio malgrado, zaino in spalla a marciare per miglia nel 

bel mezzo del nulla”. 

LA FORTUNA AIUTA GLI AUDACI 

Io ho sempre creduto nella fortuna, il cui primo esempio 

fu quello di conoscere Emilio Segre’. Nel 1978, conobbi 

ad una festa una ragazza Italiana (Chiara Filippone-Thaulero) 

che era venuta in California a fare un corso biennale 

di specializzazione in Genetica e Biologia Molecolare. 

Scoprimmo che avevamo vissuto a Roma in due palazzi 

contigui, per dieci anni, senza mai esserci conosciuti. 

Dopo poco ci sposammo e lei continuò la sua carriera a 

Stanford University, dove Luca Cavalli-Sforza le offri il 

suo primo lavoro. Da questa unione sono nati tre figli, che 























































per loro scelta lavorano come imprenditori nel mondo di 

Silicon Valley, continuando il ciclo della mia vita. 

IN CALIFORNIA ALLA OLIVETTI 

In California Rattazzi alla fine ci resta. Diventa assistente 

ricercatore a Berkeley prima, poi passa all’Olivetti dove 

lavora per quattro anni. “A Berkeley mi sentii dire che io 

con il computer ero bravissimo, ma capire la fisica attraverso 

i dati non era il mio forte, quindi quando mi capitò 

di lasciare la professione accademica per disegnare una 

nuova linea di computer alla Olivetti, la presi al volo”. Per 

Rattazzi infatti le cose erano state chiare fin da subito. Tra 

la fisica pura e la tecnologia, quest’ultima vinceva a mani 

basse. “All’epoca, a Berkeley, avevano bisogno di computers 

per esaminare i dati degli esperimenti di fisica e mi ci 

misero a trafficare appunto perché io, a detta loro, ero 

bravo a sviluppare il software necessario ad acquisire ed 

elaborare dati”. E lì, la svolta: “Mi fu subito chiaro che 

l’informatica mi piaceva molto di più della fisica e decisi 

quindi di mettermi a studiare Electrical Engineering 

& Computer Science per riempire alcune lagune 

dovute all’aver imparato il tutto da me, senza partire da 
























con rernate poresti qui dit que venisti voluptur

una base accademica”. 

Poi, l’incontro con Enzo Torresi, presidente dell’Olivetti 

Advanced Technology Center. “Passai alla Olivetti e ci 

rimasi per quattro anni – spiega –, Enzo mi diceva sempre 

che le mie competenze erano chiave per lo sviluppo dei 

nuovi computer Olivetti”. Nel 1984, però, il sogno finisce 

quando la Compagnia decide di tornare in Italia: “Io 

volevo restare in America, quindi presi una strada diversa 

- racconta -, feci colloqui e alla fine approdai alla Validec, 

una piccola compagnia che faceva reti avanzate wired e 

wireless per ristoranti”. Il gruppo era nato guarda caso 

dall’idea di un ristoratore che aveva immaginato la possibilità 

di dotare i camerieri di un dispositivo elettronico che 

permettesse loro di prendere ordini, spedirli in cucina e 

contemporaneamente aggiornare l’inventario dei prodotti 

disponibili e delle entrate, l’antenato della tavoletta 

digitale insomma. Quasi subito, imparai il vecchio detto 

di Silicon Valley, che quando si hanno dei collaboratori 

di alta qualità bisogna sempre portarseli dietro. Iniziai 

con tre ingegneri Italiani (Carlo Garbagnati, Luciano dalle 

Ore e Francesco Lacapra) che mi hanno seguito nelle mie 

peripezie attraverso gli anni. Attraverso gli anni, ho imparato 

da Doug Leone a Sequoia, che le persone più incentivate 

sono gli immigranti di prima generazione, poiché’ 

non hanno più un passato su cui appoggiarsi e vogliono 

aver successo a tutti i costi, specie avendo fatto il salto da 

un mondo all’altro. Le persone chiave nelle mie compagnie 

sono state in maggioranza di questo tipo, da Italiani, 

a Israeliani, Cinesi ed altre nazionalità. Oggi gli immigrati 

orientali (Cina, India e Korea) sono fondatori di circa 

metà delle nuove compagnie in Silicon Valley. 

Dopo un anno il gruppo Validec viene venduto, e Rattazzi 

decide che è giunto il momento di aprire una compagnia 

sua. Inizia con la Parallan con cui sviluppa l’idea di servers 

per elaborare i dati di vari personal computer connessi fra 

loro, poi quando la Parallan viene quotata in borsa 

e successivamente acquisita dalla IBM, è parte del team 

fondatore della P-Com, che si occupava di sistemi di telecomunicazione 

per trasmettere dati e collegare vari computer 

situati in edifici differenti. Venduta anche la P-Com, 

dopo essere stata quotata in borsa, Rattazzi acquisisce 

una piccola compagnia di otto anni, il cui amministratore 

delegato era uno degli investitori originali, interessato a 

vendere il gruppo poiché la compagnia non riusciva più a 

crescere. Si trattava della Meridian Data, società di banche 

dati per mercati verticali. “Ci inventammo dei nuovi 

prodotti, che affiancammo a quelli esistenti, e riuscimmo 

a farla crescere rapidamente, il che ci permise di quotarla 

in borsa, e tre anni dopo venne acquisita dalla Quantum”. 






















































“A BERKELEY 

MI SENTII DIRE CHE IO 

CON IL COMPUTER ERO 

BRAVISSIMO, MA CAPIRE 

LA FISICA ATTRAVERSO I DATI 

NON ERA IL MIO FORTE, 

QUINDI QUANDO MI CAPITÒ DI 

LASCIARE LA PROFESSIONE 

ACCADEMICA PER DISEGNARE 

UNA NUOVA LINEA DI 

COMPUTER ALLA 

OLIVETTI, LA 

PRESI AL VOLO”. 

Venduta anche la Meridian, Rattazzi decide di dedicarsi 

per un po’ alla sua vera passione: quella per le 

auto da corsa. “L’amore per i motori c’è sempre stato, 

ma per i miei genitori non se n’è mai parlato, figurarsi”. 

In Italia, durante l’università, aveva fatto qualcosina 

come pilota di motocross, ma nulla di più: “A fine 

AnniNovanta ho iniziato a fare gare in Europa con 

le auto d’epoca, in particolare con quelle degli Anni 

Sessanta, le mie preferite; nel 2005 ho anche vinto il 

Tour De France nella mia categoria con una Ferrari 

250 LM”. Intanto, fra una gara e l’altra, conosce un 

ragazzo inglese che ha un’idea eccezionale: realizzare 

un server, compatibile con Intel ma con un’architettura 

che gli conferisca una potenza dieci volte 

superiore. Così nasce BlueArc, con la quale torna in 

California a tempo pieno. Più avanti, la società viene 

quotata in borsa con un fatturato di oltre 100 milioni 

l’anno per poi essere acquistata dalla Hitachi. Poi, arriva 

il suo quinto gruppo, MaxiScale: “L’idea, è quella 

di creare una piattaforma Web che renda possibile un 

numero superiore di accessi, con maggiore efficienza 

a costi più bassi”. Insomma, la base del WEB 2.0. 

Dall’Italia, all’America e ritorno, quindi. Ma a distanza 

di anni, la sua impressione del Paese resta la stessa. 

“L’Italia è ancora quella che non piaceva ai miei genitori, 

un Paese meraviglioso ma sbagliato”. E guardando 

al futuro, lui cita Montanelli, “che parlando del 

futuro dell’Italia diceva: gli italiani li vedo bene, perché 

sanno andar via, adattarsi nel loro nuovo paese, 

e combinando la loro inventività con il lavoro avranno 

successo, mentre l’Italia invece purtroppo, no”. La 

speranza è che fra i tanti che sono partiti e che 

continueranno a farlo, qualcuno faccia come lui e alla 

fine, anche solo per poco, torni indietro portando in 

Italia un po’ d’America. 






































“SONO STATO 

ASSUNTO COME 

INGEGNERE, IN UN 

REPARTO APPENA 

NATO, LAVORANDO 

SULLA SIMULAZIONE 

E LA PROGETTAZIONE 

DEL POWERTRAIN 

ELETTRICO. LÌ HO 

AVUTO LA FORTUNA 

DI AVERE UN CAPO 

CHE NON MI HA SOLO 

DIRETTO, MA MI HA 

ANCHE AIUTATO A 

DIVENTARE IL 

PROFESSIONISTA CHE 

SONO.” 


Riccardo Biasini 

INGEGNERE DELL’AUTO A GUIDA AUTONOMA 

SELF-DRIVING CAR ENGINEER

Riccardo, l’ingegnere delle macchine del futuro 

Come l’ingegnere aerospaziale Riccardo Biasini sia 

finito in un garage della California a sviluppare prototipi 

di self –driving cars per George Hotz, l’hacker 

più famoso degli Stati Uniti, è una di quelle storie 

che vanno raccontate per bene. 

Lui, che la matematica ce l’ha nel DNA, ma che alla 

fine ha capitolato per ingegneria, ha sempre avuto 

ben chiare nella testa due cose. La prima era la 

voglia di lasciare l’Italia per gli Stati Uniti, un’idea 

che lo aveva preso durante una internship estiva 

al Fermi Lab di Chicago e che non lo aveva più abbandonato. 

E la seconda era la convinzione di voler 

lavorare alla Tesla. “Quando mi ritrovai a Chicago a 

fare ricerca per la prima volta – racconta – mi fu ben 

chiaro nella testa il fatto di volerci ritornare”. Anche, 

e forse soprattutto per evitare il rischio di finire 

a fare un lavoro diverso in Italia, dove gli ingegneri si 

ritrovano troppo spesso a fare i consulenti per societa’ 

di capitali. “Ecco, io volevo fare l’ingegnere e 

volevo farlo studiando e sviluppando progetti interessanti, 

di quelli che contano”. E qui entra in gioco 

la Tesla, di cui Biasini si è appassionato durante la 

sua seconda internship, questa volta presso l’italianissima 

Dallara, società di auto da corsa considerata 

una delle eccellenze nostrane: “Ero alla fine del 

quinto anno e alla Dallara mi resi conto di quanto mi 

piacesse lavorare sull’aspetto energetico delle auto, 

sulla trazione e su tutto ciò che riguarda il suo sviluppo. 

In particolare mi appassionai alle auto elettriche”. 

A quel punto, Biasini si è affidato a Google, nel 

senso che ha ricercato in maniera precisa, 

“le varie aziende che nel mondo stavano lavorando 

a progetti interessanti riguardanti le automobili 

elettriche”. E qui è spuntata Tesla. “Ho iniziato a 

leggere ed ad informarmi sull’azienda e più ne sapevo, 

più mi convincevo di voler lavorare per loro”. 

Dopo la laurea la decisione quindi di spostarsi negli 

Usa. All’inizio in Ohio, al Center for Automotive 

Research, ma con in testa la California in generale 

ed Elon Musk in particolare. Nel 2010, dopo una 

rincorsa durata qualche anno, la Tesla lo ha contattato: 

“Sono stato assunto come ingegnere, in un 

reparto appena nato, lavorando sulla simulazione 

e la progettazione del powertrain elettrico. Li’ ho 

avuto la fortuna di avere un capo che non mi ha 

solo diretto, ma mi ha anche aiutato a diventare 

il professionista che sono”. Un mentore, quindi, 

perché “se avessi avuto un’altra figura con cui rapportarmi, 

forse la mia intera esperienza alla Tesla 

sarebbe stata alquando differente”. Negli ultimi due 

anni, Riccardo Biasini si è avvicinato allo studio e 






















































“RICORDO CHE 

NEL 2015, DURANTE 

UNA CONFERENZA 

ELON MUSK DISSE CHE 

DI LÌ A DUE ANNI UN’AUTO 

DELLA TESLA AVREBBE 

VIAGGIATO DA NEW YORK 

A LOS ANGELES SENZA 

ALCUN SUPPORTO 

UMANO.” 


alla progettazione delle machine a guida autonoma. 

“Ora il futuro sta andando in una direzione precisa, 

che è quella di computer sempre più presenti nelle 

nostre vite e sempre più attivi nella direzione della 

nostra quotidianità”. Anche nei trasporti. “Ricordo 

che nel 2015, durante una conferenza Elon Musk 

disse che di lì a due anni un’auto della Tesla avrebbe 

viaggiato da New York a Los Angeles senza alcun 

supporto umano, ora siamo nel 2018 e questo non 

si è ancora verificato forse perché l’intero settore 

era quasi vittima di un generale ottimismo gonfiato 

dall’euforia e purtroppo smentito dalla realtà”. Questo 

però non significa affatto che non si raggiungerà 

mai quel traguardo anzi. “Credo che tra cinque anni 

circa, potremmo iniziare a pensare a commercializzare 

auto con sistemi di guida autonoma altamente 

indipendenti”. 

Lavoro alla Tesla 

Riccardo Biasini nel 2016 alla Tesla era sulla strada 

per diventare un dirigente. “Lavoravo su di un 

progetto già fortemente in track, ovvero, privo di 

quella indipendenza e di quella libertà che i progetti 

embrionali sono invece in grado di offrire; ti con- 
























sentono voli di immaginazione che spesso portano 

un’idea, che una volta realizzata, cambia il mondo. 

“Sono convinto che nel mio futuro prima o poi ci 

sarà la direzione di un grosso progetto ma non in 

questo momento, perche’ voglio ancora continuare 

ad imparare”. Pioniere, dunque, alla ricerca di innovazione 

e sviluppo. 

“Per questo motivo ho pensato di lasciare e di rischiare, 

lavorando per una startup, perché proprio 

quel mondo mi dava l’idea di essere giovane, innovativo 

ed estremamente agile, sia nella struttura che 

nei progetti”. Ed è qui che entra in gioco il garage di 

George Hotz: “Divenne famoso, oltre che per essere 

stato il primo a violare un iPhone, anche e soprattutto 

per avere prodotto in tre mesi un progetto di 

software dedicato all’automazione di una vettura 

che nulla aveva da invidiare ai piani sviluppati dai 

colossi dell’auto”. Ecco dunque come Biasini è finito 

a lavorare per comma.ai. “Abbiamo sviluppato 

un software, con codice largamente open source, 

che attraverso uno dei nostri kit si può connettere 

ad un’auto offrendo strumenti di guida assistita 

estremamente avanzati”. L’obiettivo di Biasini oggi è 

quello di produrre un’auto che si guida da sola per 

step, sfruttando principalmente modelli di machine 

learning affiancati a metodi di controllo tradizionali. 

“Produrre un’auto in grado di viaggiare senza l’ausilio 

umano è un’impresa non solo titanica, ma anche 

estremamente difficile, soprattutto considerando la 

competizione del settore”. Tutti, insomma ci stanno 

lavorando. “Quello che facciamo noi è perseguire 

lo stesso obiettivo ma step-by-step, offrendo nello 

stesso tempo prodotti commercializzabili sul mercato”. 

La diffusione dei sistemi ad intelligenza artificiale 

Se guarda al futuro, Biasini quell’obiettivo lo vede 

vicino. E non solo per le auto che si guidano da sole, 

anche e soprattutto per la diffusione di sistemi ad 

intelligenza artificiale. In sostanza computer in grado 

di imparare, di autoevolversi e di raggiungere e 

infine superare, gli esseri umani . “Fra qualche anno, 

non so se fra 10, 20 o magari anche solo 5, arriveremo 

a quel limite, e a quel punto fare previsioni, in 

particolare sul lavoro futuro, diventa impossibile”. 

E allora tutto sarà forse da riconsiderare, o forse 

si tratterà ancora una volta di uscire dagli schemi e 

di guardare la realtà in maniera diversa. Che è poi 

quello che Biasini, e tanti altri come lui, hanno fatto 

per tutta la vita. “In Italia, fare un percorso come il 

mio, fatto di internship all’estero e in azienda, non 

è stato facile - spiega – perché questo tipo di scelta 

veniva, e forse continua ad essere, considerata 























































come qualcosa che fa perdere tempo, e forse è 

vero, mi sarei laureato prima se in estate, al posto di 

andare a Chicago, avessi studiato”. La domanda da 

porsi, però, è un’altra: “Avrei capito che lavoro voler 

fare senza quel tipo di esperienza professionale?”. 

Non si tratta dunque di una perdita, ma di un investimento 

sulla strada da intraprendere. “In Italia è 

difficile uscire dagli schemi anche se gli italiani sono 

portati ad uscire dagli schemi, e proprio il fatto che 

volevo provarci mi ha costretto ad affrontare sfide 

inaspettate e con molti imprevistii”. Ecco la capacità 

di gestire l’imprevisto e di vedere comunque non un 

ostacolo ma un’occasione di crescita e di sviluppo. 

Insomma, una porta aperta verso il domani. 














nonseque voluptiunt haria doluptur modiorestio et


“L’IMPORTANTE È 

PROVARCI ED 

IMPARARE QUALCOSA 

DI NUOVO 

DURANTE IL VIAGGIO. 

COME QUANDO IN 

MONTAGNA SI SCALA 

LA CIMA E SI PROCEDE 

A TENTONI DA UNA 

PIETRA ALL’ALTRA, 

DA UN DIRUPO 

ALL’ALTRO. PERCHÉ 

L’UNICO INSUCCESSO 

NELLA VITA, È IL NON 

PROVARCI.” 


Michele Battelli 

MANAGER A GOOGLE ED ESPLORATORE 

GOOGLE PRODUCT MANAGER AND ADVENTURER

Michele, da Google in California all’Everest 

Dalle cime del Kashmir a quelle dell’Argentina, fino 

all’Everest. Quella di Michele Battelli, ingegnere 

elettronico prima a Google in California ed oggi a 

Londra, è stata e continua ad essere una vita all’insegna 

dell’avventura. Una di quelle che vanno prese alla 

leggera, mai troppo sul serio. Occhi in vetta e piedi 

ben piantati al suolo, sempre avanti, un passo dopo 

l’altro, senza mai dimenticare che andare è la parte 

più facile. Quella difficile è tornare indietro. Una 

lezione amara che Michele purtroppo ha vissuto sulla 

pelle nel 2015 quando una valanga sull’Everest ha 

travolto il campo base portandosi via l’amico e compagno 

scalate Dan Fredinburg, con altre 9 mila persone 

in tutta la regione. 

Battelli, dopo la laurea in Ingegneria Elettronica a 

Ferrara, e il PhD in Ingegneria Informatica a Boston, 

è approdato a Google in California: “Era l’estate del 

2006 e decisi di fare uno stage lavorativo. All’epoca 

facevo ricerca in reti wireless e trovai un team di Google 

che faceva ricerca in quel campo”. Dopo cinque 

mesi di stage, il ritorno a Boston per completare il 

dottorato, e al tempo stesso l’arrivo dell’offerta di 

rimanere Google: “Io non avevo ancora terminato le 

pubblicazioni scientifiche per completare il dottorato, 

ma non volevo perdere quell’occasione; quindi per 

quattro mesi quasi non dormii, ma alla fine terminai 

tutto e mi trasferii a Mountain View, alla sede di Google”. 






























Un lavoro viaggiando per il mondo 

A Google Battelli, dalle reti wireless, è passato ad Enterprise 

Search e infine venne è passato ad un team 

specializzato in mercati emergenti: “È stata un’esperienza 

estremamente gratificante – racconta – il mio 

team portava internet nelle scuole di zone rurali di 

Paesi emergenti, e questo mi permetteva di vedere 

posti unici in paesi come il Perù, l’Argentina, la 

Colombia, il Kenya e tanti altri, lavorando sul territorio, 

fra la gente”. Infine Battelli è approdato allo 

sviluppo di nuovi prodotti: “L’ultimo mio progetto a 

Google è stato il Google OnHub, il router wifi per la 

casa, simile all’Alexa di Amazon”. 

Sono stati anni intensi. Non solo a livello lavorativo. 

“Le nostre avventure erano tutte organizzate nel nostro 

tempo libero, durante le vacanze – evidenzia –, 

dopo le prime spedizioni abbiamo iniziato a portare le 

telecamere speciali di Google StreetView con noi, per 

documentare i percorsi e rendere accessibili quelle 

cime, e quei paesaggi, al resto del mondo”. 

Battelli, Dan Fredinburg e Florian Nagl hanno raggiunto 

e fotografato alcuni dei luoghi più impervi del 

pianeta. E le avventure per il gruppo certo non sono 

mai venute meno: “Del resto – spiega – quando ci si 

confronta con certe sfide, il pericolo esiste e tutti noi 

ne siamo sempre stati consapevoli”. Non solo 

sull’Everest, anche prima, in altri luoghi. Come 

quando in Indonesia vennero sequestrati da un gruppo 

di mercenari sull’isola di Papua: “Ci hanno rinchiuso 

in una stanza senza finestre e per due giorni ci 

hanno interrogato: eventualmente con i metodi giusti, 

siamo riusciti a negoziare il rilascio”. 

E una volta liberi? “Beh abbiamo continuato con la 

nostra scalata”. Perché la vita va avanti, non aspetta 

nessuno. Come le occasioni. “Vanno colte quando 

arrivano e seguite, una dopo l’altra con passione e 

determinazione”. E un pò di sfrontatezza, come quella 

che serve a decidere di scalare quelle cime. 

L’Himalaya 

Era il 2010: “È iniziato tutto per caso – spiega – ero 

in India, all’epoca lavoravo per Google Enterprise a 

Hyderabad. Mi sono ritrovato da solo durante un fine 

settimana del Diwali, il festival delle luci, per cui decisi 

esplorare il Paese, e per evitare luoghi turistici, 

presi il primo volo disponibile per una regione remota 

meno conosciuta: il Ladakh”. Il Ladakh è una regione 

nello stato indiano del Jammu e Kashmir, al confine 

con il Tibet e il Pakistan, una zona contesa ed impervia 

che ospita i confini occidentali della catena dell’Himalaya, 

una vera bellezza remota della montagna. 

“Sono stato ospite di un rifugiato tibetano, in una del- 























































le sue tende nomadi tradizionali, e ho pranzato con i 

monaci al monastero”. Un resort con qualche tenda 

e poco altro. La vista era però di quelle che tolgono il 

fiato: l’Himalaya con le sue vette impossibili. Tornato 

in California, il caso ha fatto la sua. “Per coincidenza, 

mentre io ero di stanza in India, un mio collega era in 

Nepal e anche per lui fu il primo incontro con l’Himalaya”. 

Ed era proprio Dan Fredinburg, che tornato poi 

come Michele negli Usa, “ha spedito una mail all’intera 

compagnia proponendo una spedizione in Argentina 

per allenarsi sulle Ande”. In tanti hanno risposto, 

“ma all’aeroporto, la mattina della partenza, c’eravamo 

solo io e lui”. È stato l’inizio delle loro avventure. 

Fino all’Everest. “Lo abbiamo tentato due volte – 

spiega Michele –: la prima volta, nel 2014, una 

valanga che ci ha mancato di poco ma uccise 16 

persone e distrusse la via, ci costrinse a tornare indietro”. 

La seconda è andata peggio. Era il 25 aprile del 

2015: la spedizione di Michele era ferma al campo 

base. Tutto era pronto per la salita alla vetta, quando 

un terremoto dell’ottavo grado della scala Mercalli, 





















tatatur? Quia sunt.

con epicentro a Gorkha, ha colpito in pieno l’Everest. 

“Io ero in tenda con Dan”. All’improvviso un rumore 

assordante: “È qualcosa che non dimenticherò mai, 

un rombo profondo, uno di quelli che fanno vibrare 

tutto”. La tenda è scivolata a valle e Michele come 

altri è corso fuori. Dietro di lui, l’amico. 

“È stata una questione di secondi, Dan era appena 

dietro di me: io mi sono gettato in un crepaccio e ho 

visto la valanga passarmi sopra la testa”. Dan Fredinburg 

invece non ce l’ha fatta. 

La montagna va rispettata 

“La montagna va rispettata”, sottolinea Michele che 

in Italia, tanti anni prima del Nepal, dell’India e del 

sogno delle sette cime, andava sulle Dolomiti. La passione 

è nata lì e nonostante le tragedie, nonostante il 

freddo, le unghie perse per i geloni e la fatica, ancora 

non l’abbandona. “In futuro vedremo, forse l’Alaska o 

l’Antartico”. E poi? “Poi si vedrà, perché nella vita 

bisogna cogliere le opportunità quando si presentano, 

una dopo l’altra, con mente aperta ed umiltà”. 

L’importante è provarci ed imparare qualcosa di nuovo 

durante il viaggio. Come quando in montagna si 

scala la cima e si procede a tentoni da una pietra 

all’altra, da un dirupo all’altro. “Perché l’unico insuccesso 

nella vita, è il non provarci”. 

E l’Italia? “È in me, nella mia storia, in quello che 

faccio, in quello che sogno”. L’Italia è casa: “Sono 

orgoglioso di essere italiano e forse un giorno tornerò 

a casa”. Michele Battelli, dopo 13 anni a negli Stati 

Uniti, è tornato in Europa, a Londra. 

Se rimarrà o meno, ancora, Michele Battelli non lo sa 

dire. “Non mi sono mai lasciato influenzare dai sentimenti 

o dalla nostalgia nel fare scelte importanti, a 

spingermi è sempre stata l’opportunità, il bisogno di 

cogliere l’occasione giusta, la voglia di sperimentare e 

di scoprire cose nuove”. Un consiglio per l’Italia e per 

i giovani che in Italia sognano la California? “Quello di 

avere mente aperte, di aprirsi al mondo, di accettare 

ciò che è diverso, perché è proprio in questa commistione 

di esperienze, in questo brodo di culture che 

si formano occasioni di crescita e che si fa innovazione”. 

Un pò come fare l’apripista, come esplorare 

sentieri diversi, per raggiungere nuove vette. Michele 

Battelli va avanti anche se ancora non sa dove la strada 

alla fine deciderà di condurlo: “Che sia in Europa, 

in America o in Asia, poco importa, la vita è un’avventura 

e come tale va presa, senza mai mollare o darsi 

per vinti”. Un viaggio in cordata verse picchi ignoti, 

ancora tutti da conquistare. 





















































“LAVORARE IN 


SIGNIFICA 

ESSERE 

CIRCONDATI DA 

GENTE CHE HA 

VOGLIA DI FARE, 

CHE SI LAMENTA 

POCO E CHE 

PRODUCE TANTO.” 


Marco Marinucci 

FONDATORE E CEO DI “MIND THE BRIDGE” 

FOUNDER & CEO OF MIND THE BRIDGE - “CHIEF BRIDGE BUILDER”


Marco Marinucci, da Trento alle startup della Valley 

Quando Marco Marinucci ha lavorato alla sua prima 

startup, a poco più di vent’anni, non c’era nulla, se 

non un vago contesto di possibilità. Era come gettarsi 

alla cieca senza istruzioni o bussole, su un mare 

in tempesta. Anzi, come dice spesso lui, in una tempesta 

perfetta. 

Laureato in ingegneria, si è spostato all’Istituto di Ricerca 

di Intelligenza Artificiale IRST di Trento per l’ultimo 

anno e la tesi: “Erasmus ancora non c’era e Trento era 

il polo di ricerca più internazionale che potessi raggiungere”. 

Ed stato un bene, perché proprio a Trento passavano 

spesso docenti provenienti dalle migliori università 

del mondo. Stanford inclusa. “Io non volevo fare l’ingegnere, 

anche il mio percorso di studi era sui generis”. 

Erano gli anni Novanta e Marinucci studiava le applicazioni 

dei sistemi di intelligenza artificiale: “Fantascienza 

















ctotam, aut voluptatquae electo et, quature con


per l’epoca – sottolinea – eppure, era quello che mi 

interessava, anche perché mi dava la possibilità di guardarmi 

attorno, verso un contesto internazionale 

che in Italia mancava”. Da Trento agli Stati Uniti e poi 

di nuovo in Europa, ad Oxford prima e nel Sud della 

Francia dopo, in quella che all’epoca veniva considerata 

la Silicon Valley europea e di cui oggi non resta che un 

vago ricordo. “Dalla Francia tornai negli Stati uniti, più 

per seguire la mia fidanzata e lì, alla fine, finii per restare, 

lavorando prima per la casa editrice Giunti e poi per 

Google”. All’epoca questa era una compagnia diversa, 

con un migliaio di dipendenti o poco più, non il colosso 

di oggi, “ma per me, che arrivavo dai primi embrioni di 

startup, Google era già una grossa azienda, era la possibilità 

di studiare le meccaniche del business in un dei 

poli più interessanti del momento”. 

Il ponte virtuale, Mind the Bridge 

















aspitin ctotam, aut voluptatquae electo et, quature

La svolta nei primi anni del 2000: “Fu una serie di coincidenze 

a dirla tutta, non solo il fatto che mi ritrovai a 

fare il volontario in Ghana per dieci giorni grazie alla 

Google Foundation, e neppure solo il fatto che dopo 

sette anni negli Usa finalmente mi sentivo parte di quella 

società, di quel gruppo, ma fu anche,e forse soprattutto, 

la nascita dei miei figli, il diventare genitore a costringermi 

a pormi delle domande, ad interrogarmi non solo sul 

mio futuro, ma anche sulle mie radici”. “Mind the Bridge” 

è nata così: “L’idea era appunto quella di creare un 

ponte fra industria tradizionale e startup, intrecciare una 

rete supporto per i giovani imprenditori e fornire loro le 

basi per iniziare, regalare loro quello che non avevo avuto 

io: feedback, contatti e, quasi, istruzioni per l’uso”. 

Era un pò il voler ripagare l’Italia per quello che aveva 

offerto in termini di formazione, cultura e identità. 

“Mind the Bridge oggi lavora a San Francisco in due 

ambiti ben distinti, da una parte gli investimenti veri e 

propri, dall’altra una fondazione a sostegno dei giovani 

imprenditori, in collaborazione con università, premi e 

corsi di formazione”. E di progetti in questi anni ne ha 

lanciati tanti, molti dei quali si sono fermati a Google o 

sono stati acquisiti: “Di startup italiane ne abbiamo 

avute e ne continuiamo ad avere tante, come il bel progetto 

delle “Rebel girls”, nato come un magazine 

interattivo per l’infanzia, diventato un libro (Storie della 

Buona Notte per Bambine Ribelli) e oggi in testa alle 

classifiche del New York Times”, oppure come “Ad 

Espresso”, una piattaforma software per permettere 

l’organizzazione e la gestione del budget di digital marketing 

poi acquisita dal gruppoHootsuite. 

Il lavoro in Silicon Valley 

“Lavorare in Silicon Valley significa essere circondati da 

gente che ha voglia di fare, che si lamenta poco e che 

produce tanto”. In Italia è diverso: il talento non manca, 

ma le occasioni per concretizzarlo in progetti attuativi 

sono poche, senza dimenticare le complessità del mercato. 

Ed è un peccato, perché occasioni di crescita e 

sviluppo ce ne sono, ma non trovano spesso sbocco di 

crescita. 

“Il fatto di crescere circondati da arte e estetica ci rende 

ottimi candidati per fare del software design, per tutto 

ciò che riguarda le interazioni uomo - macchina, ambiti 

professionali che non vengono considerati”. Il design 

italiano non è solo cibo e moda, ma è anche programmazione, 

è design di prodotto, è interattività. “Pensiamo 

alle applicazioni e quanta progettazione grafica (UI/UX) 

c’è dietro ogni software, pensiamo a quanto l’Italia possa 

dare!”. Eppure il fatto di crescere in un ambiente pieno 

di costrizioni è alla fine anche fonte di sviluppo di talento. 

“Serve un mercato che sia autosufficiente, in Europa 






















































ad esempio c’è interesse per le startup, ma ancora non 

esistono le condizioni che accelerino la crescita delle 

startup, e, soprattutto le opzioni di “Exit” (uscita in borsa 

o acquisizione) che rendendo l’economia delle startup 

auto sostenibile”. 

Silicon Valley non si riesce dunque a replicare 

Eppure l’immagine della Bay Area si sta incrinando. 

O almeno appannando. “È evidente che la tecnologia 

influenza ambiti molto più vasti rispetto a quelli che in 

un primo tempo venivano considerati, ambiti come la 

comunicazione e l’informazione o la politica”. I giganti 

della Bay Area hanno compreso le implicazioni sollevate 

dal loro modo di fare business, ma capirle soltanto non 

basta. 

“Da un paio d’anni, le negatività del sistema della Silicon 

Valley sono un pò più evidenti – conclude Marinucci – 

complici i costi estremamente alti, i senza tetto, la mancanza 

di una rete sociale, l’estrema razionalizzazione del 

mondo del lavoro”. Sono tutti aspetti, questi, che hanno 

modificato l’indice di percezione e di conseguenza le opinioni 

a proposito della qualità di vita nella Bay Area. Ma 

restano giusto questo, e alla fine hanno un peso relativo. 

Perché Silicon Valley resta comunque l’mondiale a disposizione 


grazie a modelli come “Mind the Bridge”, non rimanga 

l’unica opzione possibile. 






























“IL DESIGN 

ITALIANO NON È SOLO 

CIBO E MODA, MA È ANCHE 

PROGRAMMAZIONE, 

È TELEFONIA, 

È INTERATTIVITÀ. PENSIAMO 

ALLE APPLICAZIONI E 

QUANTA PROGETTAZIONE 

GRAFICA C’È DIETRO OGNI 

SOFTWARE, PENSIAMO 

A QUANTO L’ITALIA 

POSSA DARE!”


“LA MIA 

PRIMA RISPOSTA? 

TU SEI PAZZO.” 


Gabriele Bibop Gresta 

PRESIDENTE HYPERLOOP TRANSPORTATION TECHNOLOGIES 

CHAIRMAN OF HYPERLOOP TRANSPORTATION TECHNOLOGIES

TI PORTERÒ DA LOS ANGELES A SAN 

FRANCISCO IN 30 MINUTI 

Sta per partire un treno che viaggia alla velocità del 

suono, a 1.220 km all’ora, sicuro e sostenibile. 

Non è fantascienza. Il merito è anche di un italiano, che 

ha preso Hyperloop, l’idea di Elon Musk (l’uomo di Tesla 

e SpaceX), e lo sta trasformando in realtà. Lui si chiama 

Gabriele Bibop Gresta, 46 anni, scienziato, artista, 

venture capitalist e imprenditore. Ha co-fondato 

Hyperloop Transportation Technologies (HTT), la startup 

nata in California nel 2013 che costruirà, per prima al 

mondo, un treno supersonico per passeggeri e merci. 

Nato a Terni, Gresta è cresciuto ad Arezzo, laurea in 

Filosofia, master in Informatica. Giovanissimo 

produttore e autore di programmi televisivi sulla Rai 

e su Mtv, nel 2001 ha fondato la società di produzione 

e distribuzione di contenuti Bibop che ha poi ceduto a 

Telecom Italia, per 6 milioni di euro. Nel 2003, Gresta 

è stato il fondatore (con Enrico Gasperini e Alberto 

Fioravanti) di Digital Magics, l’incubatore che aiuta le 

startup italiane a crescere. Arrivato in California, 

ha creato la prima azienda al mondo basata su un modello 

di business collaborativo. Coordina un team di 800 

persone, tra ingegneri, scienziati, esperti di tecnologia e 

di design, di 42 Paesi diversi. Ha uffici ovunque nel mondo: 

Abu Dhabi, Dubai, Bratislava, Tolosa, Contagem 

(Brasile) e Barcellona. Ha firmato accordi governativi con 

Stati Uniti, Emirati Arabi, Europa, India, Indonesia. 

Nell’ultimo round di finanziamenti, con la sua HTT ha 

raccolto 113 milioni di dollari. Oratore di fama 

mondiale, nominato tra i Technology Pioneers 2018, 

Gresta è stato speaker al World Economic Forum, al 

Ted, alle Nazioni Unite. Gira il mondo, racconta il suo 

lavoro sui social, è visto come una rockstar. 

L’INIZIO DELLA CAPSULA A LIEVITAZIONE 

MAGNETICA 

Ma facciamo un passo indietro. Nel 2013, Elon Musk 

lancia l’idea di Hyperloop, una capsula a levitazione 

magnetica che viaggia all’interno di un doppio tubo a 

bassa pressione. Mette online il suo progetto in open 

source e dice: ecco un’idea a disposizione del mondo, 

aiuterò chiunque la vorrà realizzare. «Il primo a 

rispondere è stato il mio socio tedesco, Dirk Ahlborn. 

Ha preso il White Paper di Elon e lo ha pubblicato sul 

suo sito. Just for fun. Ed è successo qualcosa di incredibile… 

In un mese ha ricevuto 100 feedback da scienziati 

di tutto il mondo. Gente che arrivava da Tesla, SpaceX, 

NASA, MIT, Boeing. Scienziati che avevano anche lavo- 


































plit magnim ratatin ea dolore commolo ribusandae molecabo. 



susciusa sequam et atet ut offic tem quibus demo mos 

molor am ulluptius aut fuga. Ut eossum que est expla 

samus et lam si natendis eos eicatae mil molupti berspe 

dolorep eritatem autae verum velectem. Nam fugit 

et, tessi comnihicit et deliquam fuga. Ita sed quas etur 

maximod que prepro mincia con rernate poresti qui dit 

que venisti voluptur alitaerrum que dero et ad quation 

sequis et porem a nonseque voluptiunt haria doluptur 

modiorestio et as sum saetet, officipsa el magnim vellam, 

opta plit magnim ratatin ea dolore commolo ribusandae 



sam fugiatur susciusa sequam et atet ut offic tem qui- 



rato con Einstein e che dicevano: “È una bella idea. Se 

hai bisogno, ci sono”. Intanto io avevo appena concluso 

il progetto di quotazione di Digital Magics su Aim di Borsa 

Italiana, avevo fatto un’exit e deciso di trasferirmi a 

Los Angeles. Qui ho conosciuto Dirk che mi ha proposto 

di fare il treno di Musk. La mia prima risposta? “Tu sei 

pazzo”. Ma più leggevo il White Paper, più mi intrigavo. 

Ho iniziato a fare due diligence per approfondire. Chiamavo 

gli scienziati e tutti mi dicevano: è un’idea realizzabile, 

può risolvere il problema mondiale della mobilità, 

facciamola insieme. A quel punto ho capito che Dirk 

stava creando qualcosa di molto più grande di un’azienda. 

Si trattava di una nuova generazione di imprese che 

possono cambiare il mondo». 

IL MODELLO DI CROWDSOURCING 

Il modello di Gresta e socio è i il crowdsourcing, un 

approccio completamente diverso da quello tradizionale. 

C’è un tema, si lancia una sfida online, si raccolgono 

tutte le idee su come realizzarla e poi si parte. In cambio 

del proprio contributo si ricevono stock option dell’iniziativa. 

Per questo HyperloopTT è studiata anche all’Università 

di Harvard come case history ed è stata definita 

la più grande startup del Pianeta. Intanto a Tolosa stan- 
























rem quae volecta cone volut que sam fugiatur susciusa

no costruendo il primo vagone con un diametro interno 

di 4 metri. E’ quasi pronta la capsula passeggeri che sarà 

ultimata a Carbures, in Spagna. «Faremo il primo viaggio 

di prova passeggeri entro la fine dell’anno. Questo 

progetto è un gioiello di ingegneria, il primo al mondo 

basato sull’efficienza e sull’abbondanza. I costi di costruzione 

e di gestione sono bassi. Fra 8 anni, l’efficienza dei 

nostri panelli solari sarà così alta che potremo coprire 

tutti i costi della struttura e non si pagherà nemmeno 

il biglietto». Gresta ama la tecnologia. Si definisce un 

“transumanista“. Vuole lanciare un nuovo Rinascimento, 

che adotti l’intelligenza artificiale per migliorare le nostre 

vite. «Lasciamo fare alle macchine quello che sanno fare 

e riprendiamoci in mano il nostro tempo. Tutti gli astronauti 

che sono andati nello spazio hanno riportato un 

fenomeno che la Nasa ha definito overview effect, effetto 

della veduta d’insieme. Dallo spazio si girano verso la 

Terra e vedono un pianeta piccolo, fragile, tenuto insieme 

da un super fragilissimo ozono. Un’immagine che 

torna nei loro giorni, cambiando profondamente la loro 

visione. L’astronauta Yvonne Cagle mi ha insegnato tantissimo 

e voglio condividere con tutti la lezione. Dall’alto 

capisci che non esistono confini e non esiste la proprietà. 

Siamo una tribù che vive insieme, abbiamo un tempo 

limitatissimo e dovremmo viverlo al meglio». Come vedi 

l’Italia da fuori? «Ho scritto un tweet, che è 

stato molto criticato dai media. Diceva: “Addio Italia con 

amore e odio”. Io odio i nostri limiti, la nostra 

italianità, le invidie, le accuse. Fallisci e ti mettono nel 

registro dei falliti. Invece ti dovrebbero mettere nel 

registro dei coraggiosi: perché è li che impari. Hai fallito? 

Bravo, ti do un premio e studiamo perché. 

Dovremmo costruire un nuovo modello per l’Italia basato 

sulle esperienze. Fallisci veloce e avanti. L’Italia 

deve ridisegnare se stessa. Abbiamo rubato i sogni ai 

giovani. E questo è il più grande crimine che abbiamo 

commesso. E a loro dico: sviluppate una personalità autonoma. 

Buttate l’identità. Vestitevi come vi pare. 

Invito le donne a fare ingegneria, matematica, facoltà 

scientifiche e a diventare scienziate. Infine, ringrazio 

Elon Musk: non ci ha aiutato, ma l’esposizione mediatica 

che abbiamo avuto grazie a lui è stata enorme. Per 

anni si è parlato del treno supersonico di Musk e questo 

ci ha avvantaggiato… ma finalmente oggi si parla di 

noi. Viva l’Italia». 



































molecabo. Nulparc hillore stiunti illente mporere perios 




est expla samus et lam si natendis eos eicatae mil molupti 




poresti qui dit que venisti voluptur alitaerrum que dero 

et ad quation sequis et porem a nonseque voluptiunt 

haria doluptur modiorestio et as sum saetet, officipsa 


“FALLISCI 

E TI METTONO NEL 

REGISTRO DEI 

FALLITI. INVECE TI 

DOVREBBERO METTERE 


NEL REGISTRO DEI 

CORAGGIOSI: 

PERCHÉ È LI CHE 

IMPARI.”


“LE OCCASIONI 

VANNO COLTE 

QUANDO 

ARRIVANO 

E SEGUITE, UNA 

DOPO L’ALTRA 

CON PASSIONE E 

DETERMINAZIONE.” 


Massimo Sgrelli e Luigi Bajetti 

SOCI FONDATORI E PARTNER LOMBARDSTREET.IO 

FOUNDERS & MANAGING PARTNERS LOMBARDSTREET.IO VENTURES

Massimo Sgrelli e Luigi Bajetti, nella vita si occupano di 

fare i cacciatori di talenti. Li cercano, li trovano, ci investono 

e li lanciano in Silicon Valley.Il loro prototipo di 

imprenditore pensa in grande, è ambizioso, sa di cosa sta 

parlando. E soprattutto è italiano. Già perché gli italiani, 

nonostante abbiano tutte le carte in regole per sfondare da 

qualsiasi parte e in qualsiasi campo, sono ancora troppo 

poco proiettati verso il successo e spaventati oltremisura 

dalla possibilità di fallire. 

QUESTIONE CULTURALE 

“E’ quasi una questione culturale -racconta Bajetti, nato 

e cresciuto nel bresciano in una famiglia di imprenditori – 

qualcosa che non si impara a scuola e che se non coltivi, 

rischi di perdere”. Lui, che in Italia ha studiato lettere moderne, 

ma poi si è buttato nel campo della tecnologia per 

passione e da zero ha fondato in pochi anni uno dei maggiori 

Internet providers italiani, mette subito il dito nella 

piaga: “Fare business con aziende italiane a volte significa 

vedersi rifilare un contratto di mille pagine per 1.500 dollari 

di prodotto, perché in patria si cerca ancora per forza 

la quadratura del cerchio, qui invece o si decide di fare 

business e di investire oppure no” . La cultura americana, 

soprattutto quando si parla di affari, non ha mezzitoni. “Si 

parla di bianco o nero, di sì o no - aggiunge Bajetti – tutto 

è semplice, chiaro e soprattutto trasparente, nel senso che 


















corioratur? 










è accessibile a chiunque “. In Italia le cose sono diverse e 

in parte la colpa è delle istituzioni farraginose: “Le cose 

adesso stanno cambiando, ma c’è ancora tanta paura di 

fallire, mentre invece il fallimento fa parte del gioco”. Si 

tenta cento volte e alla fine ci si riesce. E se si ha fortuna, 

come per la coppia di LombardStreet.io Ventures, società 

di investimenti con il cuore in Italia e il cervello nella Bay 

Area, ci si riesce spesso, se non sempre. Come quando 

Bajetti, subito dopo avere venduto la sua prima azienda ad 

un competitor più grande, decise di scommettere sul primo 

modello di cellulare dual SIM. “Mi misi in società con un 

ragazzo di Brescia e decidemmo di finanziare il brevetto, 

poi qualche anno dopo altri produttori uscirono con il loro 

modello di dual SIM e a quel punto decidemmo di iniziare 

una battaglia legale che dopo otto anni riuscimmo a vincere, 

facendoci pagare le Royalties per il mercato italiano”. 

SOGNARE IN GRANDE 

Anche Massimo Sgrelli ha l’anima dell’imprenditore. Lui, 

che nasce “tecnologo” come il padre che all’informatica si 

dedicava già negli Anni Settanta, dopo la Laurea, un tirocinio 

in Telecom, che all’epoca si chiamava Sip, e un tentativo 

alla Fininvest, interrotto dalla caduta del NASDAQ, 

fonda la sua prima azienda. La fa crescere per 10 anni e 

poi cambia focus. Si sposta in America, dove fonda la sua 

prima Inc. ed al contempo inizia a cercare start-up su cui 

puntare. “Mi è sempre piaciuta la gente che sogna in grande 

- racconta lui -come una coppia di ragazzi, uno di 19 

anni e l’altro di appena 21, li incontrai in America dove cercavano 

investitori per la loro idea; in Italia avevano bussato 

ad ogni porta nel Gotha della finanza ma senza risultati”. 

Sgrelli scherza: “Sembravano due che erano appena scappati 

di casa, avevano quasi finito i soldi, ma la passione 

con cui raccontavano la loro idea era di quelle difficili da 

ignorare. Ci investii 100 mila dollari con altri 3 ragazzi di 

YouTube, oggi sono una bellissima azienda che cresce ed 

hanno raccolto capitali dai maggiori VC di Silicon Valley. E 

l’Italia? “Ho provato a proporre ad altri italiani di investire 

con me, ma tranne qualche imprenditore amico, i “grandi” 

si sono sempre tutti sempre tirati indietro”. 

Troppa paura e forse una mentalità un po’ ristretta con 

cui è difficile confrontarsi. “Gli italiani sono ottimi ingegneri, 

incredibili lavoratori, ben preparati da un sistema 

universitario che richiede molto – aggiunge Sgrelli –, con 

un unico vizio: riescono a complicare anche le cose più 

semplici. Forse fa parte della nostra natura o della scuola 

che, nostro malgrado, ci troviamo a dover fare abitando 

nel paese”. 


















corioratur? 










sperro 

ugit ut faciis idella nienisquam volorum soloribuscit pel 










corioratur? 










sperro 



IL LAVORO DA VENTURE CAPITAL 

Sgrelli e Bajetti si sono incontrati nel 2014. “Ci siamo trovati 

bene assieme, abbiamo collaborato per un paio d’anni 

e alla fine, abbiamo deciso di aprire LombardStreet.io 

Ventures, che dopo appena un anno di vita ha già investito 

in diversi bei progetti”. Il modello è quello di altri italiani: 

business e marketing in Silicon Valley, ingegneri in Italia. 

“Noi finanziamo principalmente progetti italiani, li esportiamo 

negli Stati Uniti – spiegano – e la gente che cerchiamo 

è quella che non ha paura di mettersi in gioco, a cui il 

posto fisso è sempre andato stretto e che mira a realizzare 

qualcosa di grande”. Il talento non manca così come l’incapacità 

di sapersi vendere. “Agli ingegneri italiani devi letteralmente 

cavare fuori quello che sanno fare – aggiungono 

– e a noi va bene così, perché significa avere a che fare con 

persone autentiche, che offrono capacità reali e non inventate 

o gonfiate, come troppo spesso accade”. 

Il come trovarli, questi talenti, sembra una maratona, una 

corsa agli ostacoli. “Prima di tutto facciamo networking, 

conosciamo persone che ci propongono aziende o prodotti 

interessanti, lavoriamo di content marketing quando troviamo 

il tempo ed infine partecipiamo a tutti gli eventi più 



vidiatur? 



















volessum eosti dus aut quae nempernam et et volorro

interessanti. Viviamo costantemente fra Italia e California”. 

Una vita in viaggio, quindi, a rincorrere l’ambizione e la 

genialità. Non è cosa da poco: “A volte penso a come la Bay 

Area sia davvero un posto stupendo dove vivere – aggiunge 

Bajetti – eppure non è bella come le Dolomiti ad esempio; 

ecco c’è da pensare a quanto potrebbe essere grande l’Italia 

se metabolizzasse almeno un po’ del sistema Americano”. 

Ma è possibile? Per Loro sì. “Basterebbe proporre modelli 

più positivi – aggiunge Sgrelli – e puntare su di un sistema 

di sviluppo incentivante e meno punitivo, basterebbe insegnare 

ai giovani a fare impresa, a credere nelle proprie 

capacità e nei propri sogni e soprattutto a non avere paura 

di rischiare”. Ecco, così l’Italia diventerebbe come la Silicon 

Valley, anzi forse addirittura più grande. 



vidiatur? 



















volessum eosti dus aut quae nempernam et et volorro 

esequat ionsed quo omnimodissit aut fugiat vel et inci 


“SEMBRAVANO DUE 

CHE ERANO APPENA 

SCAPPATI DI CASA, 

AVEVANO QUASI 

FINITO I SOLDI, MA 

LA PASSIONE CON 

CUI RACCONTAVANO 

LA LORO IDEA ERA DI 

QUELLE DIFFICILI DA 

IGNORARE.”


“NON SI VIENE A SAN 

FRANCISCO PER 

BALLARE I CLASSICI, 

QUELLI FANNO 

PARTE DELLA 

CULTURA EUROPEA, 

NON DI QUELLA 

STATUNITENSE, 

SI VIENE QUI PER 

SPERIMENTARE, 

PER OSARE E PER 

LAVORARE CON 

I COREOGRAFI, 

CHE SONO 

ASSOLUTAMENTE 

IMPAREGGIABILI.” 


Carlo Di Lanno 

PRIMO BALLERINO 

PRINCIPAL DANCER 

SAN FRANCISCO BALLET

Danzando tra Napoli e San Francisco 

Ha poco più di vent’anni ha già danzato con alcune 

fra le maggiori promesse del balletto contemporaneo, 

come Polina Semionova, nel “Lago dei cigni” 

di Nureyev, e Svetlana Zakharova, con cui ha interpretato 

il concerto DSCH di Ratmansky. 

Eppure tutto è iniziato a Marano, borgata popolare 

della cintura settentrionale di Napoli, dove i genitori 

avevano un negozio di ortofrutta proprio di fronte 

ad una scuola di ballo. La passione di Carlo Di Lanno 

per la danza è nata così. Astro nascente della scena 

del balletto internazionale, primo ballerino al San 

Francisco Ballet, Carlo ricorda che bambino andava 

ad assistere ai saggi di danza di quella scuola di 

periferia con la famiglia. “Avrò avuto due o tre anni, 

ma già mi intrigava”. E mentre il padre e il fratello 

sgattaiolavano fuori, annoiati da tutù e ballerine 

sulle punte, lui e la madre restavano sempre fino alla 

fine. 

“Mi ci volle un pò per convincere i miei genitori a 

mandarmi a scuola di ballo – aggiunge – prima dovetti 

imparare a nuotare, ma alla fine ce la feci e a 

nove anni, iniziai a danzare”. E fu subito chiaro che 

in lui il talento non mancava. “Un anno dopo passai 

ad una scuola di Napoli, dove studiai danza per altri 

cinque anni – racconta – poi, forse anche in parte 

perché non volevo lavorare per quella Compagnia, 

mi trasferii a Milano, alla scuola di ballo della Scala, 

dove completai il mio ciclo di studi”. 

Una vita in movimento 

Carlo alla Scala ci lavorò un anno soltanto, almeno 

all’inizio, poi si trasferì a Berlino. 

“Rientrato in Italia per una vacanza incontrai il 

direttore della Scala, che mi promise ruoli 

importanti e alla fine mi convinse a tornare”. 

Fu per lui una stagione intensa ed appassionante 

dal punto di vista lavorativo, ma non certo priva 

di problemi. “Essere un giovane ballerino alla Scala 

non è facile, essere giovane ed avere talento lo è 

anche di meno”. “Io lavoravo molto, interpretai il 

Don Quixote e il Lago dei Cigni, su 12 serate, sei 

erano mie”. Eppure, nonostante lavorasse come 

“Solo”, per contratto era semplicemente un 

junior: nove settimane di lavoro e cinque giorni di 

ferie fra un rinnovo e l’altro. “Il direttore mi convinse 

a partecipare alle selezioni della Compagnia, 

io ci provai, andò male”. A soli 19 anni era considerato 

troppo giovane per essere un primo ballerino 

alla Scala. Anche se effettivamente quella parte l’aveva 

già. “Per assurdo, il direttore della Compagnia 























































aveva il potere di farmi ballare, ma non quello di 

farmi assumere”. Fu in quel momento che prese la 

decisione di partire. “Non lo nego, io dall’ Italia me 

ne sono andato, lasciando il mio cuore, ma con la 

voglia di provare qualcosa di nuovo”. Le selezioni 

della Scala avevano innescato la voglia di cambiamento, 

di cercare qualcosa di diverso, altrove: 

“Mandai dei video, iniziai a guardarmi in giro, non 








dolore solum et volorest, sus qui blatisqui adis mollit


trascorse molto tempo che venni contattato dalla 

Compagnia di San Francisco – spiega -, li incontrai, 

mi piacque l’ambiente e partii”. Fu assunto come 

solista fin da subito, e due anni più tardi divenne 

“Principal”, il rango più alto che un ballerino possa 

raggiungere all’interno di una compagnia. 

Nella compagnia di San Francisco Ballet 

“Il gruppo di San Francisco è stupendo, sia per i ballerini 

che ne fanno parte, ma anche per il management 

che lo rende quello che è; – racconta – in Italia 

il talento e le potenzialità sono spesso soffocate da 

una gestione miope e dalla burocrazia”. E poi c’è la 

gente: “A Milano se qualcosa va di moda lo si osanna, 

se è stupendo, ma non fa parte dello star system 

viene quasi sempre ignorato”. Anche nel balletto: 

“Non è solo questo – aggiunge – c’è anche quell’atteggiamento 

antipatico che fa lodare solo chi ce l’ha 

fatta altrove, come se l’individuo acquistasse talento 

all’improvviso”. La passione e la bravura c’erano già, 

ma fintanto che si resta in Patria vengono messe da 

parte e ignorate. 

In America è diverso: “Non si viene a San Francisco 























abor aliquasucium la simin endi comnimu sanditis

per ballare i classici, quelli fanno parte della cultura 

europea, non di quella statunitense – aggiunge -, si 

viene qui per sperimentare, per osare e per lavorare 

con i coreografi, che sono assolutamente impareggiabili”. 

Anche il pubblico è diverso: “La prima volta 

che interpretando una scena drammatica sentii 

ridacchiare la platea ci rimasi male – racconta – 

adesso sono quasi convito che sia una reazione legata 

al fatto che la cultura anglosassone non apprezza 

i drammi, ne è estranea”. Certo non sempre è facile 

per chi fa arte rapportarsi con quelli che la 

bravura la apprezzano, ma non la capiscono sul 

serio: “Se da un lato il pubblico ha il diritto di interpretare 

una scena come meglio crede, dall’altro 

sono convinto che la mia sensibilità artistica e la mia 

esperienza vadano prese in considerazione e 

abbiano comunque un peso maggiore, quantomeno 

nella definizione della tecnica”. Eppure, è vero 

anche il contrario, perché quasi sempre, fra la folla 

che riempie il teatro la sera della prima, qualcuno 

torna sempre. “C’è qui a San Francisco un gruppo di 

appassionati che assistono ad ogni spettacolo della 

Compagnia, si siedono nei soliti posti in platea, e 

ogni volta che entro in scena quasi li cerco con lo 

sguardo”. L’arte conquista, e alla fine quando cala 

il sipario, qualcosa al pubblico resta. E se per tanti 

il balletto non è che una moda, per alcuni diventa 

un’abitudine e, alla fine, una passione. 

Come per quel bimbo di Marano di Napoli che 

amava assistere ai saggi di danza di una scuola di 

periferia ad ogni inizio d’estate. 






























eumquatur, abor aliquas 


“C’È QUI 

A SAN FRANCISCO UN 

GRUPPO DI APPASSIONATI 

CHE ASSISTONO AD OGNI 

SPETTACOLO DELLA 

COMPAGNIA, SI SIEDONO NEI 

SOLITI POSTI IN PLATEA, 

E OGNI VOLTA CHE ENTRO 

IN SCENA QUASI LI CERCO 

CON LO SGUARDO.”


“IO AMO QUELLO 

CHE FACCIO, AMO 

IL FATTO DI VIVERE 

IN UN LUOGO DOVE 

LA SCIENZA E LA 

CAPACITÀ DI FARE 

RICERCA SIANO 

CONSIDERATE 

COME QUALCOSA 

DI FONDAMENTALE 

ALLO SVILUPPO.” 


Leonardo Senatore 

PROFESSORE DI FISICA 

PHYSICS PROFESSOR 

STANFORD UNIVERSITY

LEONARDO, ECCELLENZA ITALIANA DELLA 

FISICA, DALLA NORMALE DI PISA AI LABORATORI 

DI EINSTEIN 

Ci sono due categorie di persone. Quelle che di fronte 

al cambiamento, vedono una porta aperta. 

E quelle che invece si ostinano a guardarsi alle spalle 

e rimpiangono la porta che dietro di loro si è appena 

chiusa. 

Leonardo Senatore appartiene, per ovvi motivi, alla 

prima categoria. E lo dimostra il fatto che dalla 

Normale di Pisa è finito, un pò per caso un pò per talento, 

al MIT di Boston prima, ad Harvard e Princeton 

(negli stessi laboratori dove insegnò Einstein) dopo, 

fino ad arrivare a Stanford, dove oggi insegna fisica 

teoretica. Lui è un fisico teorico, uno di quelli che con 

carta e penna si interroga sulle leggi che muovono 

l’universo. E di talento ne ha da vendere. “Io però 

non mi sono mai sentito troppo bravo – racconta –e 

sono quasi rimasto stupito quando ho scoperto di 

avere vinto la cattedra a Stanford”. Bravi, però, bisogna 

esserlo davvero. Prima di tutto perché diventare 

professori universitari di ruolo a 31 anni non è da 

tutti. Secondariamente perché diventarlo a Stanford, 

è davvero per pochi. “Io, che faccio fisica teoretica 

– spiega Senatore – mi occupo di formulare, attraverso 

espressioni matematiche, le leggi che regolano 

l’universo”. Lo dice così, Senatore, come se fosse un 

qualcosa di semplice. E forse per lui lo è davvero, 

soprattutto perché mentre si racconta l’amore che 

prova per la sua materia è quasi palpabile: “Io mi 

sento un privilegiato, perché ho l’indubbio piacere di 

svegliarmi alla mattina e di poter pensare alle ragioni 

che hanno portato alla nascita delle stelle, ai grandi 

temi che da sempre interessano l’uomo”. Il suo è un 

tipo di ricerca che ha poco a che fare con le applicazioni 

pratiche o i test di laboratorio: “Carta e penna è 

tutto ciò di cui ho bisogno per mettermi a lavorare”. 

Del resto alla fisica teorica le applicazioni pratiche 

non interessano. “Noi studiamo le leggi che muovono 

il cosmo, quelle che hanno portato alla nascita delle 

galassie e che continuano a dare una forma all’universo”. 

Ma la differenza con le scienze applicate non si 

ferma qui. “L’aspetto positivo è che ogni nostra scoperta 

è utile per tutta l’umanità e non solo per uno 

Stato o un ateneo”. 

NEW HORIZON PHYSICS PRIZE, IL PREMIO NOBEL 

PER I GIOVANI 

Senatore racconta la sua vita ed i suoi successi quasi 

con stupore: “Mi sono appassionato alla fisica poco 

alla volta, al liceo ero bravo ma non certo il migliore, 

all’università sono passato da Ingegneria a Fisica, sen- 


















































eumquatur, abor aliquastis quasperes que re nos 





tendomi quasi inadatto e forse per questo ho voluto 

spostarmi al MIT di Boston per il PhD, volevo darmi la 

possibilità di avere una preparazione più sistematica”. 

Non immaginava certo di arrivare negli Usa e di restarci. 

“Io pensavo all’inizio che ci sarei rimasto giusto 

il tempo di finire il PhD, poi è arrivato il Post doc ad 

Harvard e Princeton”. E alla fine la cattedra. “Ma è 

stato quasi un caso – spiega – perché se io da un lato 

sono sempre stato affascinato dagli Usa e dal fatto di 

essere, fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, 

il centro della ricerca scientifica soprattutto in materia 

di fisica, mai avrei immaginato di finirci a vivere e 

ad insegnare”. Eppure, è successo. “L’Italia ha eccellenti 

scuole di Fisica, del resto abbiamo una forte 

tradizione in materia, il problema è forse un altro: la 

ricerca scientifica ha bisogno soprattutto di persone 

che la sostengano e la valorizzino. “Tempo fa ho 

ricevuto il New Horizon Physics Prize, un premio che 

incarna forse lo spirito della Silicon Valley meglio di 

tante parole”. 

Si tratta di un riconoscimento dedicato agli scienziati 

e nato con l’idea che alla società debbano essere proposti 

modelli alternativi. Non solo star e sportivi, ma 

anche uomini di scienza. Anche e soprattutto loro. 
























quasperes que re nos quo cus, tectemqui simus, to

Perché se si vuole cambiare il mondo, serve la conoscenza, 

serve la logica e soprattutto serve la capacità 

di interrogarsi e di lavorare sui grandi temi che da 

sempre appassionano l’umanità. 

IO AMO QUELLO CHE FACCIO. 

“Lo sviluppo nasce da picchi di eccellenza”. Lo stesso 

vale a suo dire per le università. “La fisica teorica è 

una materia che non ha sviluppi pratici immediati”: 

Anche se, senza fisica teorica non avremmo avuto 

l’elettricità ad esempio, né la corsa allo spazio, né 

tanto meno internet. “C’è però da sottolineare come 

insegni qualcosa di cui si nutrono tutte le discipline, 

ovvero la capacità di pensare in modo critico, l’abilità 

analitica”. Il che non è poco soprattutto oggi. “In 

una scuola dove le scienze teoriche sono forti, anche 

quelle applicate troveranno giovamento”. Questo è 

un pò lo scheletro della stessa Silicon Valley, un posto 

che, certo, è fatto dai giganti di scienze applicate, ma 

che è cresciuto attorno a due poli universitari di altissima 

qualità. 

“Io amo quello che faccio”. Ma soprattutto, “amo il 

fatto di vivere in un luogo dove la scienza e la capacità 

di fare ricerca siano considerate come qualcosa 

di fondamentale allo sviluppo”. Forse è vero che il 

fatto di sapere come l’universo abbia circa 13 miliardi 

di anni non porta un ritorno economico immediato. 

Ma sul lungo periodo le cose cambiano. “Negli ultimi 

trent’anni abbiamo imparato tantissimo della storia 

del cosmo, conosciamo come si è sviluppato 

e stiamo iniziando a descriverne la crescita attraverso 

formule universali”. Ad esempio, Senatore ha recentemente 

pubblicato una ricerca sulle equazioni che 

descrivono le dinamiche delle galassie su larga scala. 

Ecco, praticamente nell’immediato descrivere l’espansione 

di una galassia non cambia nulla. 

D’altro canto, è proprio da equazioni come queste 

che, nella storia della Fisica, importanti applicazioni 

per l’umanità sono inaspettatamente scaturite. 









































“PERCHÉ SE 










OSSESSIONANO 

L’UMANITÀ.”

L’era dello spazio 2.0 

Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando, nel lontano 

1969, gli Stati Uniti d’America lanciarono l’Apollo 11: 

con l’atterraggio sulla Luna dell’astronauta Neil 

Armstrong portarono a termine una delle missioni più 

importanti nella storia dell’uomo, dando così inizio alla 

corsa per la conquista dello spazio. 

Peccato che tutto ciò fosse solo un puro affare governativo. 

Sarà anche stato “un piccolo passo per l’uomo, 

ma un grande balzo per l’umanità”, ma, il vero obiettivo 

all’epoca era la supremazia politica ed economica da 

parte di USA e URSS nel periodo della Guerra Fredda. 

Oggi la situazione è ben diversa: non ci sono più interessi 

politici o smanie di supremazia e lo spazio significa 

innovazione e continua ricerca della vita oltre la 

Terra; è iniziata una vera e propria nuova generazione di 

conquiste spaziali, che sta dando vita al cosiddetto fenomeno 

dello “Space 2.0”. Con questo termine non solo ci 

si riferisce alle varie nuove scoperte avvenute nel campo 

delle tecnologie spaziali, ma anche e soprattutto alla 

radicale rivoluzione del concetto di “viaggio 

nello spazio”. 

Con la nuova presidenza USA intenzionata a tagliare i 

fondi al programma ISS (International Space Station) 

entro il 2025 ed il crescente interesse da parte di 

settori come l’industria mineraria, estrattiva, edile e turistica 

nei viaggi cosmici, stanno prendendo piede sempre 

più investitori privati. Ne sono la prova due tra le 

più importanti aziende cresciute vertiginosamente negli 

ultimi anni: SpaceX e OneWeb. 

La prima nasce nel lontano 2002 dal sogno del visionario 

e attuale cofondatore e CEO di Tesla Motors, Elon 

Musk. Da diversi anni progetta razzi e veicoli spaziali e 

dal 2012 si occupa del rifornimento della ISS. Oltretutto 

ha appena testato con grande successo il suo” Falcon 

Heavy”, uno tra i più grandi e potenti razzi spaziali mai 

costruito e capace di tornare a terra in totale autonomia. 

Il successo dell’operazione è stato fondamentale per 

Musk: ha trovato un nuovo modo di riutilizzare le risorse 

e di rendere sempre più verosimile la possibilità di portare 

i primi turisti in orbita. L’obiettivo principale rimane 

però quello di ridurre i costi di accesso allo spazio e di 

portare i primi astronauti su Marte entro il 2024. 

Eppure Musk non risulta il primo ad aver tentato di far 

viaggiare dei turisti a più di 100 km di altezza. Un altro 

grande colosso, capitanato dall’ eclettico fondatore 

del Virgin Group Richard Branson, tenta da ben 10 anni 

di costruire un aeroveicolo che permetta ad 8 fortunati 

passeggeri, (e con “fortunati” si intende veramente 

fortunati dato che il prezzo del biglietto equivale a spendere 

200.000$ a testa), di salire nella mesosfera e gode- 






















































e della sensazione di vuoto per circa 6 minuti e di una 

vista panoramica unica. 

Purtroppo il sogno svanisce nel 2015, quando durante 

un test di volo perde la vita uno dei due piloti e la Virgin 

Galactic si trova così privata della licenza ad effettuare 

voli extra orbitali per ben due anni. Solo da poco si 

è rimessa in gioco, ritentando l’impresa con un nuovo 

veicolo chiamato SpaceShipTwo. 

L’altra grande protagonista tra le aziende di nuova generazione 

è OneWeb, la quale, fondata solo nel 2012 e 

sotto la guida dell’imprenditore ed ingegnere Greg 

Wyler, ha ottenuto investimenti per 500 milioni di dollari 

per la costruzione di una costellazione di 650 satelliti di 

telecomunicazione che, circolando su un’orbita bassa, 

dovrebbero fornire un accesso mondiale ad internet a 

partire dal 2019. 

Insomma, lo Spazio 2.0 sta aprendo la strada a nuovi 

mercati ancora inesplorati e potrebbe quindi diventare 

sempre più una questione “commerciale” non più 

legata ad interessi politici. 

E se ancora non siete convinti, basti pensare che già nel 

2016 il Gruppo Tauri ha dimostrato come ci sia stata 

un’impennata degli investimenti nelle tecnologie 

spaziali: 2.9 miliardi di dollari spesi, di cui l’80% solo 

negli ultimi 5 anni. I maggiori investimenti sono avvenuti 

nel 2015 con SpaceX, 1 miliardo di dollari e OneWeb, 

500 milioni di dollari. 

Lo spazio sta continuando ad attirare maggiore attenzione 

nella Silicon Valley e nelle comunità d’investimento 

di tutto il mondo. Le varie imprese spaziali attraggono 

un numero sempre più alto di investitori proprio per via 

della nascita di nuovi sistemi tecnologici a basso costo e 

per il potenziale di rendimenti che se ne possono trarre. 

Una delle maggiori fonti di denaro potrebbero proprio 

essere i satelliti, da decenni accumulatori di dati proprietari 

e pronti ad essere usati in una moltitudine di applicazioni. 

Rappresentano un elemento fondamentale 

nell’industria spaziale in quanto presentano cicli di innovazione 

e diffusione molto rapidi, oltre a strutture e costi 

tra i più bassi per ciò che riguarda le tecnologie spaziali. 

Si stima che tra il 2016 e il 2022 ne verranno lanciate 

circa 3000 unità. 

L’obiettivo principale dei protagonisti dello Space 2.0 

rimarrà sicuramente sempre quello di ampliare la conoscenza 

dell’universo, ma è anche vero che dai primi 

passi della conquista dello spazio fino alle imprese straordinarie 

di oggi, l’universo è sempre stato una fonte di 

innovazione e tecnologia, filosofia che ha portato alla nascita 

di un progetto tutto italiano: il polo scientifico KET 

Lab (Key Enabling Technologies Lab) di Tor Vergata. 

Un’unione di laboratori multidisciplinari finalizzati al trasferimento 

delle conoscenze tecnologiche aerospaziali al 

mondo delle piccole e medie imprese. 






















































Il progetto nasce nel 2015 dalla collaborazione tra l’A- 

SI (Agenzia Spaziale Italiana) ed il Consorzio di Ricerca 

Hypatia ed è il primo laboratorio di questo tipo in Italia, 

in cui lavorano quotidianamente circa 30 dipendenti tra 

personale amministrativo e tecnico. 

Si occupa principalmente di avviare e promuovere numerosi 

progetti di ricerca volti alla sostenibilità ambientale 

e la conservazione della qualità della vita nei 

settori dei materiali innovativi e delle tecnologie per l’energia 

da fonti rinnovabili. 

Da non dimenticare anche il contributo fondamentale 

che l’azienda italiana Leonardo-Finmeccanica sta dando 

al progetto ExoMars: una missione sviluppata dall’Agenzia 

Spaziale Europea (ESA) e dall’Agenzia Spaziale Russa 

(Roscosmos) e finalizzata all’esplorazione del pianeta 

Marte tramite una sonda robotica nel 2020. 

Leonardo fornisce circa il 40% delle soluzioni tecnologiche 

che verranno integrate nel quadro complessivo della 

missione e ha da poco annunciato l’esito positivo dei test 

condotti dalla trivella che verrà montata sul rover. 

Quest’ultima è stata sviluppata nel polo Leonardo di 

Nerviano e durante l’operazione ExoMars avrà il compito 

fondamentale di osservare il sottosuolo marziano attraverso 

lo spettrometro integrato al suo interno e di trovare 

quindi possibili forme di vita. 



























“PERCHÉ SE 










OSSESSIONANO 

L’UMANITÀ.”




“QUI, NELLA 

VALLE DEL SILICIO, 

RISCHIARE E SPESSO 

FALLIRE SONO 

CONSIDERATI 

MOMENTI DI 

CRESCITA E 

OPPORTUNITA’, 

QUASI 

PRECONDIZIONI 

PER REALIZZARSI.” 


“HERE IN THE SILICON VALLEY TRYING 

AND FAILING OFTEN IS CONSIDERED 

A GROWTH OPPORTUNITY, ALMOST A 

PREREQUISITE FOR SUCCESS”. 

Simone D’amico 

PROFESSORE DI INGEGNERIA AEROSPAZIALE 

PROFESSOR OF AERONAUTICS AND ASTRONAUTICS 

STANFORD UNIVERSITY

Simone, allo studio della tecnologia spaziale del 

futuro e di sciami di nano-satelliti 

È soprattutto una questione di adattamento. È la 

capacità di fare come l’acqua, ovvero trasformarsi 

in qualcosa di compatibile con l’ambiente circostante. 

Questo, secondo Simone D’Amico, professore 

a Stanford di Aeronautica ed Astronautica nonché 

fondatore e direttore dello SLAB, lo Space Rendezvous 

Laboratory collegato all’università californiana, 

è stata la caratteristica che forse più di ogni altra gli 

ha permesso di diventare quello che è. Vale a dire 

uno dei massimi esperti mondiali in materia di satelliti 

e meccanica del volo spaziale. 

È stata una questione d’istinto – racconta – ricordo 

che ero in fila al Politecnico e dovevo scegliere il mio 

major”. In Italia funziona così: l’ambito di studi viene 

scelto ancora prima di iniziare l’Università, mentre a 

Stanford accade l’opposto, al punto che forse la libertà 

rende gli studenti incapaci di scegliere alla fine 

in che cosa vogliono laurearsi. “Ero in fila e non 

sapevo se optare per l’infinitamente grande, ovvero 

ingegneria spaziale, o l’infinitesimamente piccolo, 

ovvero ingegneria nucleare, due campi opposti che 

alla fine si incontrano nell’astrofisica quantistica”. 

La prima ha avuto la meglio: “Ho preparato la mia 

tesi in Germania, al DLR, il German Aerospace Center, 

dove mi hanno assunto subito dopo la laurea”. 

In Germania sono nati i suoi primi progetti di volo 

in formazione di satelliti, GRACE, TanDEM-X e 

PRISMA, fiori all’occhiello della tecnologia spaziale 

odierna e delle sue incredibili applicazioni nello studio 

della Terra e dei pianeti. 

“Io mi occupo di realizzare i sistemi di intelligenza 

a bordo dei satelliti, quelli che permettono loro di 

muoversi in maniera autonoma, di coordinarsi ed 

interfacciarsi”. La questione è di spessore. E non 

soltanto metaforicamente parlando. 

“Mandare un satellite in orbita è molto costoso ed 

è per questa ragione che industria e ricerca spaziale 

si stanno spostando verso la miniaturizzazione e 

la distribuzione di funzionalita’ attraverso sciami di 

nano-satelliti”. 

Il problema da affrontare e’ quello degli spazi, perché 

un satellite piccolo non puo’ imbarcare tutte le 

strumentazioni che invece trovavano posto in uno 

più grande. “Quello su cui si basano le mie ricerche 

è costruire un sistema di guida che permetta a più 

satelliti di funzionare come uno solo”. In sostanza 

una rete di nano-satelliti più piccoli, in grado di 

creare un’apertura sintetica di dimensioni chilometriche 

e adattabili, distribuendo la spesa e riducendo 

i costi. 























































Per farlo però i satelliti devono poter essere in grado 

di relazionarsi fra loro, comportandosi come uno 

sciame appunto. 

Ma a cosa serve tutto questo? Le applicazioni sono 

molteplici, in aree quali scienze della Terra (geodesia, 

clima), astronomia e astrofisica (esoplaneti, onde 

gravitazinali), ed esplorazione spaziale (grandi strutture, 

robotica). Ad esempio, sottolinea D’Amico, una 

formazione di nano-satelliti puo’ mappare in maniera 

precisa gli asteroidi che gravitano fra la terra e il sole 

o nei campi esterni e che sono molto difficili da osservare 

per la loro ridotta luminosita’. Come accaduto 

qualche mese fa, quando alla NASA, con cui D’Amico 

collabora attraverso lo SLAB si sono ritrovati per le 

mani un asteroide con un’orbita aperta molto remota, 

che proveniva da un altro sistema e che non compariva 

in nessuna delle mappe conosciute. 

“All’inizio si pensava ad una cometa, ma non aveva 

la caratteristica coda generata dalla pressione solare 

durante il suo avvicinamento, si e’ quindi capito si 

trattasse di un oggetto interstellare con orbita iperbolica 

proveniente da un altro sistema solare”. In 

sostanza si è scoperto il primo oggetto intergalattico 











































































expla samus et lam si natendis eos eicatae mil moregistrato 

dall’umanità. “Ecco a questo serviranno 

tecnologie satellitari avanzate, proprio uno degli 

ultimi miei progetti in collaborazione con la NASA 

prevede la realizzazione del sistema di navigazione 

per uno sciame di nano-satelliti destinati a mappare 

in maniera precisa, la forma, gravita’, e composizione 

di asteroidi”. E poi c’è tutto ciò che gravita attorno 

a New Space or Space 2.0, la cosiddetta 

democratizzazione dello spazio. “La differenza è che 

prima enti come la NASA elaboravano missioni di 

estrema precisione ed importanza con costi altissimi”. 

Questo porta ad avere risultati eccellenti certo, 

ma in un tempo lungo e con una spesa che può 

essere affrontata solo da uno Stato, non certo da 

un privato. “Con la miniaturizzazione dei satelliti è 

diventato possibile anche per soggetti privati gettarsi 

nel campo, ma con un atteggiamento diverso, ovvero 

la possibilità di lanciare sistemi potenzialmente 

imperfetti da testare nello spazio e migliorare iterativamente”. 

Oggi, infatti, non si parla solo di nano-satelliti, strumenti 

di dieci chili appena, “ma sono allo studio pico-satelliti 

e femto-satelliti, da pochi grammi l’uno”. 

Le differenze fra “al di là” e “al di qua” dell’Atlantico 

Questo progressivo rimpicciolire gli strumenti ha 

creato nuove aperture nel mercato. “Adesso servono 

lanciatori a misura, perché quelli che abbiamo hanno 

piattaforme create per satelliti molto più grandi”. 

E poi serve anche interrogarsi sul pattume spaziale. 

“Non si tratta di densità, quanto di velocità – spiega 

D’Amico – un detrito spaziale viaggia a velocita’ di 

km al secondo e se dovesse impattare con un satellite 

o una navicella causerebbe delle ripercussioni 

spaventose”. Al punto che Donald J. Kessler, ricercatore 

della NASA, ha pubblicato alla fine degli Anni 

Ottanta, una ricerca detta la sindrome di Kessler, 

secondo la quale superata una certa densità critica 

di detriti spaziali si scatena una reazione a catena 

esponenziale che aumenterà nel tempo ancora di 

più la densità degli oggetti fino al punto da impedire 

all’uomo di lasciare l’orbita terrestre. In altre parole 

creando una gabbia impenetrabile di spazzatura in 

orbita tutt’attorno al pianeta. “È una visione 

pessimistica questa che speriamo non si realizzerà 

mai, anche perché è stato approvato un codice di 

condotta per le missioni spaziali, secondo il quale 

chiunque lanci qualsiasi strumento in orbita dovrà 

accertarsi di renderlo inerme o distruggerlo, 

senza lasciare detriti, entro 25 anni”. Space 2.0 sta 

vedendo la nascita di tantissime startup, in America 

e in Europa. Ma c’è una differenza sostanziale tra 


“CON LA 


DEI SATELLITI È DIVENTATO 

POSSIBILE ANCHE PER 

SOGGETTI PRIVATI GETTARSI 

NEL CAMPO, MA CON UN 

ATTEGGIAMENTO DIVERSO, 

OVVERO LA POSSIBILITÀ DI 

LANCIARE SISTEMI 

POTENZIALMENTE IMPERFETTI 

DA TESTARE NELLO SPAZIO 

E MIGLIORARE 

ITERATIVAMENTE.” 

le due sponde dell’oceano. “Quelle europee– spiega 

D’Amico – nascono spesso come appendici sovvenzionate 

da università o grandi gruppi privati gia’ 

stabiliti, mentre quelle americane no”. 

Di nuovo dunque le differenze fra “al di là” e “al di 

qua” dell’Atlantico. “Quando presentai uno dei miei 

primi progetti GRACE in Italia, durante una conferenza, 

io da giovanissimo ricercatore mandai il mio 

Curriculum a tutti i partecipanti, ma non mi rispose 

nessuno”. 

In America, soprattutto nelle università, vige la regola 

non scritta che uno studente laureato in un ateneo 

debba fare il PhD o Postdoc o continuare la carriera 

accedemica in un diverso polo universitario. La 

mobilità è un valore e viene non solo auspicata, ma 

direttamente forzata. In Italia invece accade spesso 

l’opposto ed è limitante. “Le cose stanno cambiando, 

ma il processo è lento”. 

Resta la qualità del sistema universitario italiano, 

che forma ottimi studenti, ma sembra incapace alle 

volte di offrire loro possibilità di crescita professionale. 

Per D’Amico è anche una questione di accettazione 

del rischio. “Qui, nella Valle del Silicio, rischiare 

e spesso fallire sono considerati momenti di 

crescita e opportunita’, quasi precondizioni per 

realizzarsi”. In Europa si tende a non rischiare affatto. 

Il sistema previdenziale si è lentamente trasformato 

in una rete a mantenimento dello status quo. 

Occorre trovare il giusto mezzo. Ma se a parole è facile, 

praticamente dipende dalle politiche degli Stati. 

“Le università possono migliorare il sistema, possono 

cercare di proporre integrazione e sviluppo, ma 

se lasciate sole, qui come in Europa, affronteranno 

ostacoli insormontabili”. 

sed quas etur maximod que prepro mincia con 



voluptiunt haria doluptur modiorestio et as 

sum sae lor am ulluptius aut fuga. Ut eossum que 

est expla samus et lam si natendis eos eicatae mil 

molupti berspe dolorep eritatem autae verum velectem. 

Nam fugit et, tessi comnihicit et deliquam 





























SALVATORE MANDRA 

“Confidential - Not for distribution SPACE - pre-production copy “


“UN GIORNO 

VOGLIO 

TORNARE, PERCHÉ 

SONO GRATO AL 

MIO PAESE DELLA 

CULTURA E DELLA 

FORMAZIONE 

CHE MI HA DATO.” 


Roberto Carlino 

INGEGNERE AEROSPAZIALE – HARDWARE E SOFTWARE DI VOLO 

AEROSPACE ENGINEER – FLIGHT SOFTWARE AND HARDWARE TEST ENGINEER

ROBERTO, ANDARE NELLO SPAZIO, 

UN SOGNO RIBELLE. 

Da Napoli all’Olanda e poi dal Belgio di nuovo a Roma 

fino ad arrivare alla Nasa. Roberto Carlino ha seguito 

un sogno ribelle, quello di andare nello spazio. Se 

non fisicamente, almeno in parte, attraverso il suo 

lavoro, le sue idee, i suoi progetti e, oggi, anche i suoi 

robots. In testa, fin da bambino, i libri di Carl Sagan e 

Stephen Hawking. “I miei erano medici entrambi 

e mio fratello sta studiando medicina – racconta – io 

però sono sempre stato il ribelle della famiglia e alla 

fine mi sono iscritto ad ingegneria”. La svolta per lui 

è arrivata presto, quando grazie ad un Erasmus ha 

respirato per la prima volta quell’aria da cittadino del 

mondo che poi non lo avrebbe più abbandonato. 

Dopo il master a Roma, e un tirocinio in Italia, 

è arrivata la telefonata della vita. “La società spaziale 

italiana per cui stavo facendo tirocinio non mi aveva 

riconfermato, io avevo mandato decine di lettere e 

curriculum vitae in tutta Italia, ma senza risposta, poi 

il caso ha voluto che un paio di giorni dopo essere 

stato scartato da Roma, sia stato chiamato dalla 

California e senza pensarci due volte sono partito”. 

LA ROBOTICA SPAZIALE 

A Alla Nasa, Carlino oggi si occupa di robotica: “Stiamo 

lavorando ad una nuova generazione di robot che 

diventeranno assistenti autonomi degli astronauti”. 

Si tratta di piccole postazioni lavoro “in grado di muoversi 

senza ausilioumano, spostarsi sulla stazione 

spaziale grazie ad un sistema di mappatura e che saranno 

in grado di aiutare gli astronauti nelle mansioni 

più lunghe o ripetitive”. Questi piccoli robot quadrati 

si chiamano AstroBee e sono programmati per svolgere 

compiti, calcoli e addirittura ritrovare strumenti 

o fungere da piccoli laboratori. “Attualmente stiamo 

collaborando con un’università che ha progettato un 

braccio meccanico per permettere agli AstroBee di 

muoversi con un ridotto consumo energetico, usando 

un braccio semovente per aggrapparsi e spostarsi 

all’interno della stazione spaziale grazie all’assenza di 

gravità”. Per due anni, Carlino invece ha lavorato ad 

un progetto per un nuovo telescopio che andrà a 

sostituire Kepler. “La Nasa ha in testa una roadmap 

ben precisa per scoprire la vita nello spazio”. 

E scoprire e’ il termine esatto, perché bastano i numero 

per rendersi conto di quanto siano minime le 

probabilità che l’uomo sia solo nell’universo:“Grazie a 

Kepler sappiamo che ogni stella della nostra galassia 

ha almeno un pianeta, ora esistono 3 – 400 miliardi 

di stelle solo nella nostra Galassia”. Ma non basta, 

la Via Lattea non è che un medio agglomerato alla 























































periferia nell’universo, ci sono miliardi di galassie 

più grandi nello spazio profondo, molte delle quali 

di gran lunga più grandi della nostra. Infatti, proprio 

grazie a Kepler, “abbiamo scoperto i primi esopianeti 

e ne continuiamo a trovare di nuovi”. Il telescopio è 

talmente sofisticato da riuscire a catturare la minima 

variazione di luce che passa di fronte ad una stella; 

“è come pensare ad una lente in grado fotografare 

una coccinella che passa di fronte ad un faro, da migliaia 

di chilometri di distanza”. 

ALLA RICERCA DELLA VITA 

Eppure gli esopianeti non sono l’unico luogo dove 

la Nasa cerca la vita: “Stiamo guardando anche nel 

sistema solare, che è un pò come dire a casa nostra”. 

Ovviamente da noi gli scienziati dell’agenzia non cercano 

forme organiche complesse, si accontentano di 

elementi semplici, come microbi e forme unicellulari. 

“Sono allo studio vari progetti che riguardano Marte, 

la luna di Giove Europa e quelle di Saturno, Titano ed 

Encelado, dove potrebbero venire scoperti elementi 

simili”. Su Marte esistevano le caratteristiche per 



















caecerum acepedi cietur, ium restio berioria et veliquo 


Quia sunt. 

Natectiore nonserror asitenture et hilles aut porecep

ospitare la vita, “e tracce di quel passato potrebbero 

essere rimaste, ad esempio sotto la crosta del pianeta”. 

La Nasa non è l’unica a guardare allo spazio, 

anche i privati e gli stessi consulenti che lavorano per 

l’agenzia puntano alle stelle. “L’uomo ha sempre avuto 

la tendenza a sottostimare i cambiamenti oltre i 10 

anni e a sovrastimare quelli possibili in cinque anni, 

eppure la curva esponenziale dell’innovazione tecnologica 

è chiara e quasi sempre prevede piccoli e minimi 

passi nei primi otto o dieci anni, da una scoperta, 

con una conseguente rivoluzione su scala globale a 

10 o 15 anni di distanza”. È accaduto con Internet o 

con il computer, ad esempio. Accadrà anche con lo 

spazio.” 

In tutto questo, gli Stati Uniti sono ancora una volta in 

testa, anche grazie ad investimenti governativi importanti, 

che rendono possibili progetti del genere. “In 

Italia le potenzialità ci sono, ma la loro attuazione è 

ancora latente”. Continuano infatti ad essere poche le 

occasioni per i giovani così come gli investimenti dello 

Stato in ricerca e sviluppo. “Non lo nego, io dall’Italia 

me ne sono andato con un ricordo amaro, e in questo 

momento di rinunciare al sogno di una vita, quello di 

lavorare per la Nasa, non se ne parla”. Questo però 

non significa che le cose rimarranno sempre così: 

“Un giorno voglio tornare, perché sono grato al mio 

Paese della cultura e della formazione che mi ha 

dato”. Il sogno dunque è anche quello di contraccambiare: 

“Voglio fare la mia parte per cambiare le cose, 

o almeno provarci”. A cominciare da dove sa di poter 

dare il meglio: ovvero la scuola, e con lei l’istruzione, 

l’innovazione e soprattutto la scienza. 


































“GRAZIE 

A KEPLER SAPPIAMO 

CHE OGNI STELLA 

DELLA NOSTRA 

GALASSIA HA ALMENO 

UN PIANETA, ORA 

ESISTONO 3 – 400 

MILIARDI DI STELLE 

SOLO NELLA NOSTRA 

GALASSIA.” 



“SU UNO CHE QUI 

RIESCE 

A COSTRUIRSI 

UNAPROPRIA IDEA 

DI SUCCESSO, 

CE NE SONO 

MILLE CHE 

SCOMPAIONO.” 



PROFESSORE DI COMMUNICAZIONE 

PROFESSOR OF PRACTICE 

HULT INTERNATIONAL BUSINESS SCHOOL

CULTURA AMERICANA E ITALIANA 

Famiglia milanese, cultura internazionale fin dai banchi 

di scuola, Elisabetta Ghisini ha fatto della mediazine 

culturale, o meglio, per dirla all’americana, delllacross-cultural 

communication la sua professione. 

Prima come manager, oggi come insegnante. 

“In America capii che la ricchezza del bagaglio culturale 

costruito anche grazie alla scuola italiana poteva essere 

utilizzata non solo per fare comunicazione aziendale in 

maniera efficace, ma anche e soprattutto per riuscire a 

mediare fra culture diverse in ambiti distinti ”. 

Una sfida non da poco, soprattutto se si considera 

il contesto in cui questa viene declinata: la Silicon Valley 

e, più in generale, la Bay Area. Già, perché se c’è 

un’idea da precisare, per Ghisini è proprio quello del 

contesto geografico del luogo. 

“Non amo parlare di Silicon Valley, non tanto perché 

non ne riconosco l’importanza, quanto piuttosto perché 

credo vada analizzata diversamente”. 

Da una parte a livello geografico. “Parlare di Silicon 

Valley è riduttivo – spiega – i suoi confini, se non fisici 

sicuramente mentali, sono più vasti e abbracciano tutta 

la Bay Area”. E poi c’è quell’ idea, anche italiana, 

secondo la quale la Silicon Valley sia un po’ una panacea 

per tutti i mali, “un concetto quasi agiografico, 

una Eldorado adattabile a chiunque, un luogo altro”. 

Ecco, non è così. “Su uno che qui riesce a costruirsi una 

propria idea di successo, ce ne sono mille che 

scompaiono (o gettano la spugna)”. Servono muscoli, 

serve coraggio, iniziativa, e anche molta fortuna. 

E spesso tutto questo può anche non essere sufficiente. 

PERCHÉ NO? 

“Arrivai negli Stati Uniti per la prima volta a metà degli 

Anni Novanta - racconta – all’epoca fresca di Laurea, 

lavoravo già da qualche anno per la McKinsey che mi 

propose di andare per qualche mese agli uffici di San 

Francisco, e io accettai”. Non c’era un piano ben 

preciso, “semplicemente la voglia di cogliere 

un’occasione, che è un po’ quella mentalità da ‘why not’ 

che diventa una sorta di selezione all’origine per tutti 

coloro che come noi decidono di intraprendere percorsi 

nuovi in Paesi diversi”. L’America degli Anni Novanta per 

Ghisini fu davvero una sorpresa. “Per me, che arrivavo 

da Milano, San Francisco apparve almeno all’inizio un pò 

piccola, quasi provinciale”. All’epoca poi, “c’erano 

ancora parecchie idee stereotipate sugli italiani e sull’Italia 

- aggiunge – un posto di cui si pensava più alla sua 

storia passata che non a quella presente e di cui si 































voluptur alitaerrum que dero et ad quation sequis et porem 

a nonseque voluptiunt haria doluptur modiorestio et 

as sum sae quation sequis et porem a nonseque voluptiunt 

haria doluptur modiorestio et as sum saeore stiunti 

illente mporere perios reritis sunt rem quae volecta cone 

volut que sam fugiatur susciusa sequam et atet ut offic 

tem quibus demo mos molor am ulluptius aut fuga. Ut 








quation sequis et porem a nonseque voluptiunt haria doluptur 

modiorestio et as sum saeore stiunti illente mporere 


sam fugiatur susciusa sequam et atet ut offic tem quibus 




ignoravano tecnologie e potenzialità”. 

Tornata in Italia per qualche mese, Ghisini decise di 

ripartire anche grazie ad un contratto che la McKinsey le 

offrì proprio a San Francisco “Mi fecero direttore 

dell’ufficio comunicazione, che non è cosa da poco, 

soprattutto se si considera che io non fossi americana 

e non avessi studiato negli Stati Uniti”. Dalla McKinsey, 

passò alla Burson – Marsteller, e poi a Stanford, alla 

San Francisco University, per finire oggi alla Hult Business 

School; alla docenza universitaria affianca l’attivita 

di consulente di comunicazione aziendale come libera 

professionista “Ma non mi sono mai sentita un cervello 

in fuga, semplicemente una professionista globale”. 

LA CAPACITA’ DI AUTOGENERAZIONE 

DELLA VALLEY 

Intanto San Francisco, la Bay Area e forse anche 

l’America cambiavano. Ci fu la crisi del 2008, che poi 

lentamente passò, il boom edilizio e quello degli affitti. 

La Silicon Valley venne data per spacciata, poi si riprese 

e crebbe di nuovo: il cerchio si chiuse. “La Silicon Valley 

ha sempre avuto questi periodi altalenanti di boom 






















ratatin ea dolore commolo ribusandae molecabo. Nul-

seguiti da depressioni più o meno intense – aggiunge 

Ghisini – eppure ha sempre dimostrato la propria 

capacità di auto – rigenerazione”. Anche l’America negli 

anni è cambiata. “Se prima l’Europa quasi non veniva 

considerata e la globalizzazione invece era un concetto 

che si declinava tutto ad Oriente, oggi il vecchio 

continente è stato nettamente rivalutato, soprattutto 

qui, sulla costa Ovest”. 

Ma forse ancora non basta. Perché se è vero da un lato 

che gli Stati Uniti in generale, e la Bay Area in 

particolare, sono luoghi di migranti, costruiti attraverso 

varie mescolanze, è altrettanto vero che proprio questa 

commistione forzata rischia a volte di diventare terreno 

fertile per incomprensioni . 

“Esistono atteggiamenti anche diametralmente opposti 

fra persone che appartengono a culture o contesti 

sociali diversi”. Come ad esempio fra gli italiani e gli 

americani: “E qui - aggiunge Ghisini - non sto dando un 

giudizio, semplicemente mi limito a fare una 

constatazione”. Gli italiani, ad esempio, sono bravi 

funamboli nel risolvere problemi contingenti e 

inaspettati, creativi di pancia e di cuore, perché cresciuti 

spesso nell’incertezza e circondati dal bello, il che 

acuisce la creatività Eppure, non sono pragmatici come 

gli americani che invece si presentano fin da subito 

come ottimi organizzatori. “Se guardiamo bene a queste 

differenze vediamo però che portano entrambe a dei 

benefici, nella vita di tutti i giorni, come nel business”. 

Qui entra in gioco la comunicazione interculturale, vera 

arma segreta, che nella sua forma positiva e propositiva 
































appresenta uno scambio, in cui nessuno perde nulla e 

tutti imparano qualcosa. “Penso – aggiunge – all’idea di 

“giving back” (tradotto letteralmente come dare indietro 

o meglio fare qualcosa di proattivo per il sociale) che 

ancora non e’ molto diffusa in Italia ma che qui 

è talmente forte e sentita da rappresentare una delle 

peculiarità più belle degli Stati Uniti”. 

La stessa idea di successo è personale e sarebbe 

riduttivo standardizzarla all’idea “dell’imprenditore con 

la Ferrari e il jet privato – spiega Ghisini - perché si può 

avere successo in tanto modi, dipende da ciò in cui si 

crede e, alla fine, dalle cose che più si amano fare”. 

Che poi, è un po’ la sintesi della vera ricerca della 

felicità. 















“SU UNO CHE 

QUI RIESCE A 

COSTRUIRSI UNA 

PROPRIA IDEA DI 

SUCCESSO, 

CE NE SONO 

MILLE CHE 


SCOMPAIONO.”


“QUELLO FU UN VERO 

SALTO NEL BUIO. 

OGGI,ANCHE PER 

MISSIONI COME 

QUELLA SULLA LUNA, 

I RISCHI SONO 

CALCOLATI, MA 

ALLORA, CON GLI 

STRUMENTI 

DELL’EPOCA, L’IDEA 

DI ATTRAVERSARE 

L’ATLANTICO FU 

QUALCOSA DI 

VERAMENTE 

CORAGGIOSO.” 


Yurek Parodi 

INGEGNERE SISTEMI SPAZIALI 

SPACE SYSTEMS ENGINEER 

NASA AMES RESEARCH CENTER

LA SCIENZA DELLA VITA SU MARTE 

Fra dieci anni lui si vede sulla Luna ad estrarre acqua 

dai poli. Per Jurek Parodi, quello che lo ha portato da 

Genova alla NASA a Moffet Field in California, 

è stato un viaggio emozionante. O meglio, ne è stato 

l’inizio. Perché, come sottolinea, “siamo solo agli albori 

dell’esplorazione spaziale, solo all’inizio di quello 

che è destinato a diventare un rapporto stretto fra 

l’uomo e tutto ciò che esiste al di fuori dell’atmosfera”. 

Lo spazio profondo, con i suoi segreti, aspetta. 

E lui, Jurek, è pronto a partire. “Mi offrissero un 

posto per una missione interspaziale accetterei senza 

pensarci due volte, del resto è sempre stato il mio 

sogno”. 

Papà genovese e madre polacca, Jurek ha preso un 

aereo per la prima volta a cinque mesi. E forse l’amore 

per l’ingegneria aerospaziale è nata proprio da 

lì. “Ricordo che mentre i miei compagni disegnavano 

animali e casette, io fin da piccolo disegnavo aerei”. 

In quarta feci una ricerca di 72 pagine sullo spazio, 

come a sancire una scelta che da lì in poi non l’avrebbe 

più abbandonato. “Ho sempre avuto le idee chiare 

su quello che volevo fare – racconta – a differenza dei 

miei compagni, io volevo lo spazio”. E alla fine l’ha 

ottenuto. Liceo scientifico prima, laurea al Politecnico 

di Torino poi: la svolta alla fine della Specialistica. 

APPRODARE ALLE NASA 

“Vinsi una borsa di studio di sei mesi per preparare 

la tesi in un’università di Chicago”. Le cose però andavano 

per le lunghe: “Mentre aspettavo la risposta 

dell’Ateneo avevo finito tutti gli esami, chiesi allora 

al mio professore di tesi altre opzioni, e fu così che 

finii in California a lavorare per un progetto di Alenia 

Space”. L’idea era di fare quattro giorni di ricerche da 

Alenia e uno alla NASA: “Ma la NASA non fu d’accordo 

e io finii a spendere quasi tutto il mio tempo 

all’agenzia”. Fu emozionante, ma non era che l’inizio. 

Il giorno dopo la tesi la proposta: “Mi chiesero di 

tornare negli Stati Uniti per continuare a lavorare sul 

progetto che avevo iniziato e io accettai”. Tre mesi 

dopo era in California. “Iniziai ad occuparmi di studiare 

modi per ottimizzare i sistemi di supporto vitale 

per la stazione spaziale”, ambito di ricerca su cui 

ancora oggi lavora. “Le cose negli ultimi anni sono 

cambiate – spiega – se infatti prima qualsiasi cosa 

venisse pensata per le missioni spaziali era semplicemente 

un prodotto meccanico ed ingegneristico, 

adesso si sta facendo strada l’idea che per 

sopravvivere davvero nello spazio profondo dobbiamo 

prendere esempio dalla Natura”. Jurek Parodi lavora 

infatti per il settore di Bioingegneria della NASA, 
















































fuga. Ita sed quas etur 

con rernate poresti qus et lam si natendis eos eicatae 

mil molupti berspe dolorep eritatem autae 


deliquam fuga. Ita sed quas etur maximod que 



quello che fa parte della più grande Space Science 

division. “Sono tre i fattori su cui dobbiamo lavorare 

per assicurare la sopravvivenza dell’uomo nello spazio: 

acqua, ossigeno e protezioni dalle radiazioni 

cosmiche”. Fintanto che la stazione spaziale orbita 

attorno alla terra il problema non sussiste: “Se manca 

acqua o cibo, li possiamo spedire agli astronauti, se si 

rompe qualcosa, lo possiamo aggiustare”. Ma il giorno 

in cui l’uomo partirà per Marte questo non sarà 

possibile: “Siamo all’nizio della ricerca nel campo – 

spiega Parodi – ora come ora, con le tecnologie in 

nostro possesso, gli astronauti non sopravvivrebbero 

al viaggio su Marte ad esempio a causa delle radiazioni 

cosmiche da cui non sappiamo ancora come proteggerci”. 

Eppure, le cose possono cambiare. 

“Se pensiamo alla storia dell’uomo. 

Possiamo osservare come siamo passati dal viaggiare 

via nave seguendo le coste del Mediterraneo ai 

velieri, ai transatlantici, fino agli aerei e agli shuttle”. 

Da attraversare bracci di mare, da riva a riva, siamo 

arrivati sulla Luna: “Ce lo hanno permesso la tecnologia 

e la scienza”. E poi c’è l’innata curiosità umana, 

la stessa che mosse Cristoforo Colombo a lasciare 

il Portogallo per andare alla scoperta delle Indie. 

“Quello fu un vero salto nel buio – commenta Parodi 

– oggi, anche per missioni come quella sulla Luna, 



























National Aeronautics and Space Administration 

Synthetic Biological Membranes (SBM) 

Abdelrahman Budair 1 , Michael Flynn 2 , Jaione Romero-Mangado 2 , Jurek Parodi 2 

1 

University of Cambridge, 2 NASA Ames Research Center 

Abstract 

One of the problems faced by long human space flight missions is the reliability of the advanced life support systems. It affects both the safety and the cost of the mission. This project tests and develops a novel membrane that uses a biomimetic 

technology to generate the Synthetic Biological Membrane (SBM). This membrane increases the reliability of the system by mimicking biological membranes found in the cells of the human body. A lipid-based membrane was developed to purify 

wastewater that has the ability to self-repair when exposed to physical or chemical damage. The SBM uses forward osmosis to purify water that includes genetically modified organisms that are grown in the osmotic agent secreting fatty acids that 

diffuse across the membrane to the feed, providing a sacrificial protective layer on the active side of the membrane. Different membranes are being tested in the lab by first trying to foul the membrane using calcium carbonate and then by trying to 

defoul it with the genetically modified cyanobacteria providing the needed fatty acids as a sacrificial layer. Other experiments are conducted to test the permeability of the membranes for certain desirable fatty acids and their role in protecting the 

membrane from any mineral scale, organic fouling, and oxidative damage. This technology is suitable to be used in human missions to Mars that lasts two or three years without the need to repair the membranes in addition to its capability of 

revolutionizing water treatment on Earth. 

Experimental Methodology 

Feed O.A. Day #3 O.A. Day #3 O.A. Day #8 

T.O.C (wt%) 20.7 4.6 4.9 6.7 

FeedLoop 

Pressure 

Transducer 

OALoop 

Pressure 

Transducer 

Total organic carbon (T.O.C) results show transfer of the palmitic acid from the feed side to the 

osmotic agent (O.A.) side that proves the permeation of the fatty acids across the membrane. 

FeedTank 

FeedLoop 

FeedLoop 

FlowMeter 

FeedPump 

FeedScale 

MembraneContactors 

Pressure 

Differen al 

Transmi er 

OALoop 

OALoop 

FlowMeter 

OAPump 

OAScale 

OATank 

• Genetically engineered strains of Synechococcus sp. PCC 

7002 (SO7) produces palmitic acid, myristic acid and stearic 

acid (red arrows) in concentrations reaching >130 mg/L. 

• These fatty acids will provide a sacrificial layer for the 

synthetic biological membrane. 

• SO7 were grown in A+ 

supplemented 

with 

spectinomycin sulfate at 26 

°C, 150rpm,60 umol/m 2 s in a 

16 h light and 8 h dark cycle. 

• Each column of the 96 well 

plate contains A+ and a 

different salt concentration 

(NaCl) to determine the salt 

tolerance of SO7 for future 

growth in the OA. 

• The above diagram represents the system used to test 

the biomimetic membrane. An efficient water treatment 

system for human space missions to purify urine, 

hygiene water and humidity condensate into potable 

water. 

• Forward osmosis process is used to purify the solution 

with a driving force created by the osmotic pressure 

difference. Water crosses the membrane to the osmotic 

agent side that has higher osmotic pressure, separating 

it from its contaminants. 

• Two experiments were conducted 

1. Fouling of the membrane: 

Calcium carbonate was used in the feed side and a 

NaCl solution as the osmotic agent to create the 

osmotic potential difference. Decrease in 

efficiency of the membrane was noticed as the 

flow rate decreases with each further run. A study 

conducted on the effect of number of hour runs on 

the efficiency of the membrane. Fatty acids 

produced by genetically modified cyanobacteria 

will be used to mitigate membrane fouling. 

2. Permeation for fatty acids across the membrane: 

Palmitic acid was used as a representative of the 

three fatty acids secreted by the genetically 

modified cyanobactetria. A study for the 

permeation of palmitic acid across the membrane 

was conducted by measuring the total organic 

carbon (T.O.C) on the osmotic agent side. The 

fatty acids will work as a sacrificial layer (crossing 

the membrane to the active side of it) removing 

any fouling materials. Raman Spectroscopy was 

Volume [ml] 

Results 

Raman Spectroscopy spectra of the control FO membrane (red) and the FO membrane used 

for FA permeation studies (blue). The data was collected using a 785 nm laser and the samples 

were focused through a 50x objective of the microscope. The spectrometer was operated in the 

extended mode at 500 mW laser power. The signal was recorded from 365 to 3200 cm- 1 and 

the acquisition time for all spectra was 60 s. 

Osmotic Agent 

900 

• The diagram shows a decrease 

850 in the flow rate of the system in 

the last run that lasted 8 days. 

800 

• Calcium carbonate is found to 

750 be one of the factors for 

membranes to foul. 

Conclusion and Future Work 

700 

Contact Information 

650 

O.A. #1 O.A. #2 

O.A. #3 O.A. #4 

600 

O.A. #5 O.A. #6 

Abdelrahman Budair: 

Michael Flynn: 

550 

O.A. #7 

www.nasa.gov 

• a.a.budair@gmail.com 

• michael.flynn@nasa.gov 

“Confidential used to identify the layer formed - by Not the fatty acid. for distribution - pre-production 

500 

Jaione Romero-Mangado: 

Jurek Parodi: 

copy “ 

12:00:00 AM 1:12:00 AM 2:24:00 AM 3:36:00 AM 4:48:00 AM 6:00:00 AM 7:12:00 AM 8:24:00 AM 

Time 

The diagram shows the growth rate of SO7 as a function of salinity (2.5%-9% NaCl) during 14 days. 

Optical density (OD) readings were taken every 24 hours until no additional growth was detected. 

The membrane efficiency decreased over time when using Calcium Carbonate in the feed 

solution. Palmitic acid was found to pass across the membrane and precipitated on the membrane 

creatin a sacrificial layer. The genetically modified Synechococcus sp. produced palmitic acid, 

myristic acid and stearic acid and it grows in salt concentrations between 2.5-9%. The next step is 

to integrate all the work in one system and test its reliability for water purification and its ability to 

repair itself without the need of human intervention. 

References 

• Ruffing, A. M. (2014). Improved free fatty acid production in cyanobacteria with Synechococcus 

sp. PCC 7002 as host. Frontiers in bioengineering and biotechnology, 2. 

• Flynn, M., Romero, J., Parodi, J., Mancenelli, R., Dougherty, M., & Loftus, D. (2016, July). 

Synthetic Biological Membrane. 46th International Conference on Environmental Systems. 

Acknowledgments 

Special thanks to the Crown Prince Foundation (CPF) for funding this internship program from 

Jordan. Also to NASA Ames Research Center and NASA International Internships Program I^2 for 

their great support offering this unique opportunity to conduct this research under their supervision. 

• jaione.romeromangado@nasa.gov 

• jurek.parodi@nasa.gov 

i rischi sono calcolati, ma allora, con gli strumenti 

dell’epoca, l’idea di attraversare l’Atlantico fu qualcosa 

di veramente coraggioso”. 

LIBERTA’ E DINAMISMO 

In America da cinque anni, Jurek Parodi si sente un 

cittadino del mondo. “Dell’Italia apprezzo la cultura, 

l’educazione che mi ha dato, e soprattutto il senso di 

appartenenza, l’identità se vogliamo – sottolinea - ma 

anche qui in America, e forse in California specialmente, 

ci sono cose da amare, come il fatto di unire 

tanti mondi diversi senza appartenere a nessuno”. 

Libertà e dinamismo, quindi, che Parodi ritrova ogni 

giorno aprendo le porte dei laboratori della NASA. 

“Non c’è nulla che non ami della mia vita all’agenzia, 

– racconta – la mia è stata una questione di fortuna, 

certo, ma anche di merito, perché ho lavorato tanto 

per arrivare dove sono”. Nel suo futuro c’è e continuerà 

ad esserci, la scienza anche se come questa 

continuerà a svilupparsi, in che modi e soprattutto in 

quali settori, dipenderà probabilmente da altri fattori. 

“Sembra che la nostra società viva sull’orlo di una 























nuova corsa allo spazio, simile forse a quella degli 

anni Cinquanta e Sessanta, una gara che, oggi come 

allora, nasce soprattutto per una questione di delicati 

equilibri geopolitici”. Cosa porterà all’umanità 

è ancora presto per dirlo. “Se penso al mondo fra 

trent’anni immagino basi lunari, con la presenza umana 

più o meno stabile sul nostro satellite”. E Marte, 

invece? “Dipende – spiega – non ci siamo ancora, ma 

un giorno forse non lontano, ci arriveremo”. Come 

Colombo che raggiunse le Americhe. E come i tanti 

altri pionieri che nei secoli ci hanno condotto, un 

viaggio alla volta, dove siamo. “Serve spirito di sacrificio, 

commenta Parodi - passione e fortuna, forse”. 

Ma anche il coraggio di prendere e salpare, senza 

sapere se dall’altra parte c’è qualcosa da scoprire, oppure 

no. 

Perché alla fine, in ogni avventura, non conta tanto la 

destinazione, ma il viaggio stesso: ovvero l’andare a 

vedere che cosa si nasconde dall’altra dell’orizzonte. 





















“DELL’ITALIA 

APPREZZO LA CULTURA, 

L’EDUCAZIONE CHE MI HA 

DATO, E SOPRATTUTTO IL 

SENSO DI APPARTENENZA, 

L’IDENTITÀ SE VOGLIAMO – 

SOTTOLINEA - MA ANCHE QUI 

IN AMERICA, E FORSE IN 

CALIFORNIA SPECIALMENTE, 

CI SONO COSE DA AMARE, COME 

IL FATTO DI UNIRE TANTI 

MONDI DIVERSI SENZA 

APPARTENERE 

A NESSUNO.”



“PER CONQUISTAR- 

LO(IL PODIO), NON 

BASTA APPLICARE 

IL CONOSCIUTO, 

OCCORRE FARE 

UN PASSO IN PIÙ, 

SVILUPPARE 

TECNOLOGIE CHE 


PERMETTANO 


TEMPI DA RECORD, 

PERCHÉ NELLA 

VELA VINCE LA 

SCIENZA, OVVERO 

LA BARCA 

MIGLIORE.” 

Giorgio Provinciali 

DISEGNATORE DI BARCHE A VELA E FLUIDODINAMICO LUNA ROSSA 

SAILBOATS APPENDAGES DESIGNER AND FLUID DYNAMICIST 

INGEGNERE

Foto di Carlo Borlenghi 

Sono bastati due minuti e quarantaquattro secondi 

per cambiare di colpo il mondo della vela. Il tempo 

di un caffè, di una corsa in ascensore. Del viaggio 

dall’ultima boa al traguardo in quel 14 febbraio 

2010, quando nella baia di San Francisco, Usa17 trimarano 

del team BMW Oracle Racing vince la Coppa 

America su Alinghi 2-0 dopo una rimonta straordinaria, 

di quelle risalite destinate a rimanere negli 

annali delle competizioni sportive. Lui, Giorgio Provinciali, 

ingegnere navale e aeronautico, all’epoca 

con Luna Rossa e oggi parte del Team Oracle, quel 

giorno se lo ricorda bene. Da uno svantaggio di 8 – 

1, alla vittoria: “Era come se all’improvviso si fossero 

messi a volare sull’acqua”. Una questione di 

equilibri, di calcoli e di tentativi, come sa bene lui 

che di professione fa l’esploratore. Uno di quelli sui 

generis, che attraverso i numeri e leggi della fisica, 

vanno alla ricerca della performance perfetta. 

Giorgio Provinciali che quella perfezione la cerca nel 

design di scafo e vele, lavora sui dettagli, 

esplorando ogni millimetro disponibile: “La sfida per 

noi progettisti è quella di sfruttare ogni angolo della 

barca per guadagnare decimi, o anche solo centesimi 

di nodo”. Passare ad Oracle per lui “ è stata una 

scelta difficile; – spiega – Luna Rossa era la mia famiglia”. 

Ma per crescere professionalmente spesso 

ci si deve gettare in ambienti più scomodi: “Lavorare 

con il team di Oracle è meno semplice, eppure stimolante 

e intensamente appagante per le sfide progettuali 

e di design che mi permette di affrontare”. 

Nato nel 1969 a Milano si trasferisce in Francia ad 

11 anni, per tornare in Italia tre anni dopo. Si iscrive 

al Politecnico di Milano, in Ingegneria Aerospaziale e 

lì scopre il Progetto Time. “Ci dava la possibilità 

di frequentare per tre anni una scuola all’estero e di 

conseguire la doppia laurea”. Giorgio fa le valigie e 

parte per Parigi dove per tre anni frequenta l’Ecole 

Nationale Supérieure de Techniques Avancées in 

Ingegneria Navale. E lì la svolta. “Gli studenti del 

corso precedente avevano iniziato a lavorare al 















“Confidential - Not for distribution autam adipiciendi - pre-production dolore eumquatur, abor copy aliquas “ 

























dero et ad quation sequis et porem a nonseque vo-




















































expla samus et lam si natendis eos eicatae mil moprogetto 

di un catamarano di nuova generazione – 

ricorda – il prototipo era pronto, ma la classe che lo 

aveva realizzato si era laureata, quindi il mio gruppo 

iniziò a metterci le mani”. Nel 1993 si laurea in 

Ingegneria Navale, nel 1995 consegue anche la laurea 

al Politecnico in Ingegneria Aerospaziale e nel 

1996 il catamarano a cui aveva lavorato per tre anni 

batte il record del mondo di velocità in categoria 

D. “Se guardo la mia vita mi rendo conto che la 

svolta principale, nasce proprio da quegli anni parigini 

che mi hanno permesso di seguire strade inconsuete”. 

Percorsi diversi, che dai lidi italiani lo 

conducono ai moli del trimarano americano. Usa17 

era una barca spaventosa. Ali grandi come quelle di 

un boeing, scafo ultraleggero e un’appendice in più, 

il foil – la pinna che permette ai catamarani stabilità 

assoluta - di cui Giorgio Provinciali, passato al team 

americano, inizia ad occuparsi, assieme al design 

delle vele e dello scafo, In Italia ci torna spesso: “Da 

che ho iniziato a viaggiare le mie trasferte sono state 

sempre più lunghe e distanti, ma l’Italia la porto 

nel cuore, sempre”. E con lei, anche il talento degli 

italiani. “Se c’è una cosa in cui credo che gli italiani 

siano veramente capaci – spiega – è quella di saper 

reagire agli imprevisti, di dare il meglio quando le 

cose vanno per il verso sbagliato e quando si tratta 

di ricominciare senza programmi”. Non è da tutti: 

“Lavoro e ho lavorato con tantissimi giovani 

ingegneri italiani e devo dire che la loro preparazione 

è sempre stata all’altezza delle aspettative – 

spiega – un fatto, questo, che dovrebbe portarci tutti 

a riconsiderare la qualità del nostro sistema scolastico”. 

Di San Francisco, ha un bel ricordo. “Si ha l’impressione 

che in California possa succedere di tutto, 

ci si sente quasi circondati dalla consapevolezza di 

vivere nel luogo in cui nascono le idee e si faccia 

innovazione per davvero”. Della Silicon Valley ricorda 

le lunghe ore passate al lavoro, ma anche la 

sensazione di trovarsi in un ambiente diverso, aperto 

ad ogni stimolo esterno, in grado di fare innovazione 

senza limiti o barriere, come in Coppa America. 

“Vincere l’America’s Cup, aggiudicarsi il trofeo più 

difficile, è il filo che ci muove tutti, che ci spinge 

a dare sempre di più, a cercare ogni centesimo di 

nodo, a sfruttare ogni fibra dello scafo, ogni millimetro 

di vela, per arrivare al podio”. Ed il parrallelismo 

con la Silicon Valley resta evidente: “Per conquistarlo, 

non basta applicare il conosciuto, occorre fare un 

passo in più, sviluppare tecnologie che permettano 

tempi da record, perché nella vela vince la scienza, 

ovvero la barca migliore”. Proprio come fra i giganti 

della Silicon Valley. 






190

“IL 35% DEL MIO 

STIPENDIO VIENE 

DA FONDI PER LA 

RICERCA, NON 

DALL’UNIVERSITÀ 

E QUESTO È UNO 

STIMOLO A FARE 

SEMPRE DI PIÙ.” 


Alberto Salleo 

PROFESSORE ASSOCIATO DI SCIENZA ED INGEGNERIA DEI MATERIALI 

ASSOCIATE PROFESSOR OF MATERIALS SCIENCE AND ENGINEERING 

STANFORD UNIVERSITY


ALLA SCOPERTA DEI MATERIALI CHE GOVERNA- 

NO LA NOSTRA ESISTENZA 

Studiare l’infinitamente piccolo, lavorare a livello 

atomico e molecolare per fare scoperte di 

importanza globale, applicabili in tanti settori, da 

quello tecnologico, alla medicina, alla produzione 

energetica, è il vasto ambito di cui si occupa la 

scienza dei materiali, campo in cui lavora, da quasi 

un quarto di secolo, il professor Alberto Salleo. 

Dopo la laurea in Chimica in Italia nel 1994, comincia 

un dottorato di ricerca presso l’Università di 

Roma, quando gli si presenta l’occasione di una borsa 

di studio Fulbright. Si tratta di un programma che 

dal 1948 si occupa di favorire gli scambi accademici 

tra l’Italia e gli Stati Uniti, attraverso progetti di specializzazione 

post lauream. Grazie a questa borsa 

Salleo ha avuto l’opportunità di scegliere un’università 

statunitense in cui continuare il proprio percorso 

di ricerca, e dopo essere stato accettato a Berkeley, 

la più rinomata università pubblica nel mondo, ha 

svolto il suo dottorato al Lawrence Livermore Lab, 

un laboratorio di ricerca del Dipartimento dell’Energia 

degli Stati Uniti d’America. Quegli anni al Liver- 
























SCIENCE

more sono stati finalizzati allo studio di un problema 

riguardante l’uso di fasci laser per ottenere la fusione 

nucleare, il NIF – National Ignition Facility. 

Detto in parole semplici, i fasci laser rovinavano le 

lenti usate per concentrare i fasci, che ogni tanto 

finivano addirittura con l’esplodere. 

Una volta conseguito il Ph.D. in Materials Science, 

siamo nel 2001, ha colto l’opportunità di lavorare 

allo Xerox Palo Alto Research Center. Detto anche 

“Xerox PARC”, era uno dei laboratori più ambiti 

della Silicon Valley. «PARC si occupava di “blue sky 

research”, cioe’ di ricerca fondamentale e si progettavano 

elementi che lasciavano intravedere come 

sarebbe stato il futuro – racconta Salleo – ho lavorato 

sui materiali plastici da usare su circuiti stampati. 

Oggi in quel laboratorio si testano anche applicazioni 

bioelettroniche». 

LA TECNOLOGIA MINIATURIZZATA ALL’INTERNO 

DEL CORPO UMANO 

Ai profani la scienza dei materiali può sembrare una 

materia oscura, lontana dalla vita di tutti i giorni, ma 

i settori in cui si applica sono tanti, alcuni ci riguardano 

molto da vicino: uno di questi è la medicina. 

«Grazie allo studio dei materiali, si creano cose 

come i trasduttori di segnali neuronali che possono 

essere inseriti nel cervello, oltre che pompe ioniche 

a livello cellulare. Si può immaginare, ad esempio, 

un sistema chiuso con un sensore che possa rilevare 































nascere». 

Applicazioni “Confidential lontanissime e - vicinissime Not for all’uomo, distribution tis dolestrum - pre-production que nost, culparchit, to occulpa copy incia “ 

l’infinitamente piccolo che opera sull’infinitamente cus eum, vel et auteste eribus excepta sene maxim 

grande: «questo è uno dei temi più scandagliati nella dolore solum et volorest, sus qui blatisqui adis mollit 

Silicon Valley, riuscire ad applicare il know-how della 

miniaturizzazione in campi diversi, perché il res que re nos quo cus, tectemqui simus, to eum 


potere di calcolo di chip di piccole dimensioni è quia nulparum ulligent fugitam, cus mint omnisquo 

enorme e la tecnologia che lo ha creato 



è potentissima e si può applicare a diversi campi». 

Salleo oggi dirige un gruppo di ricerca alla Stanford poreium qui volupta tiusam veribusapide autem sam 

University. Il “Salleo Research Group” è focalizzato autam adipiciendi dolore eumquatur, abor aliquas 

proprio sui nuovi materiali, sulle loro applicazioni su apis eictur auta por ma di cus aspitin ctotam, aut 

larga scala, sulla struttura e le proprietà dei semiconduttori 

polimerici, sulle nano strutture. Le applito 

con nihilig enihicipsam id molesse caecerum ace- 

voluptatquae electo et, quature con nem alit, cullancazioni 

che studiano vanno da celle solari e dispositivi 

che imitano la funzionalità delle sinapsi e sensori sum id mod quiaspiet harupta tatatur? Quia sunt. 

pedi cietur, ium restio berioria et veliquo dio officip- 

“wearable” (indossabili) per la diagnostica in tempo Natectiore nonserror asitenture et hilles aut porecep 

reale e la “precision medicine”. 



LA SPINTA ALLA RICERCA DELLE UNIVERSITÀ Nulparc hillore stiunti illente mporere perios reritis 

AMERICANE 


«Mi considero uno che è finito qui per diverse circostanze 

– dichiara – ma non sono fuggito da una mos molor am ulluptius aut fuga. Ut eossum que est 


situazione tremenda. Anzi, mi ritenevo abbastanza expla samus et lam si natendis eos eicatae mil molupti 


soddisfatto, ero già entrato in un circuito che mi 

avrebbe portato a diventare ricercatore in tempi Nam fugit et, tessi comnihicit et deliquam fuga. Ita 

brevi». Una delle caratteristiche della Silicon Valley e sed quas etur maximod que prepro mincia con reri 

livelli di calcio, potassio, oppure possa prevedere 

l’arrivo un attacco epilettico analizzando le onde 

cerebrali, e che potrebbe anche rilasciare un farmaco 

se necessario per fermare l’attacco epilettico sul 





que quatemporem fuga. Picia perum qua- 

194 SCIENCE

“QUESTO 

È UNO DEI TEMI PIÙ 

SCANDAGLIATI NELLA 

SILICON VALLEY, RIUSCIRE 

AD APPLICARE IL 

KNOW-HOW DELLA 


IN CAMPI DIVERSI, PERCHÉ 

IL POTERE DI CALCOLO DI 

CHIP DI PICCOLE 

DIMENSIONI È 

ENORME.” 

del sistema americano è la possibilità di fare rete, di 

scambiare idee e opinioni con colleghi in tutti i campi, 

mentre in Italia i sistemi tendono a 





essere più insulari». 

Una “Confidential delle differenze fondamentali - Not sta anche for nelle distribution coreserenim - que pre-production quatemporem fuga. Picia copy perum “ 

somme che lo Stato investe nella ricerca: «Il 


35% del mio stipendio viene da fondi per la ricerca, incia cus eum, vel et auteste eribus excepta sene 

non dall’Università e questo è uno stimolo 


a fare sempre di più». 



Alberto Salleo non rinnega dunque l’esperienza 

fatta in Italia: «L’educazione italiana mi ha dato una to eum quia nulparum ulligent fugitam, cus mint 

base solida, che mi è stata utile nella formazione in omnisquo que non pel ipid exeriam, cus ne ne earcien 


America. I corsi erano ben strutturati. Devo dire che 

anche gli studenti italiani con cui ho a che fare qui tur, ullutem poreium qui volupta tiusam veribusapide 


sono molto preparati». «Io insegno termodinamica, 

e nel mio ambito i sistemi che non hanno differenza abor aliquas apis eictur auta por ma di cus aspitin 

di potenziale chimico sono in equilibrio, e dove c’è ctotam, aut voluptatquae electo et, quature con 

equilibrio non succede nulla. Per far muovere nem alit, cullanto con nihilig enihicipsam id molesse 

le cose, occorre una differenza di potenziale chimico. 

Se non c’è mobilità, sono tutti fermi ad 

qui simus, to eum quia nulparum ulligent fugitam, 

caecerumtis quasperes que re nos quo cus, tectem- 

aspettare». Ed è quello che deve succedere nel cus mint omnisquo que non pel ipid exeriam, cus 

mondo universitario del nostro Paese, i giovani ne ne earcien daerchi llandio officius doles aligent 

devono essere stimolati dallo scambio con i colleghi 

e con l’esterno, e devono avere possibilita’ di veribusapide autem sam autam adipiciendi dolore 


“upwards mobility” nella loro carriera. In mancanza eumquatur, abor aliquas apis eictur auta por ma di 

di cio’, il sistema è statico. 

cus aspitin ctotam, aut voluptatquae electo et, quature 

con nem alit, cullanto con nihilig enihicipsam 

Come ebbe a dire una volta il fisico statunitense 

Howard Hathaway Aiken «Il problema in questo id molesse caecerumtis quasperes que re nos quo 

settore non è impedire alle persone di rubare le tue cus, tectemqui simus, to eum quia nulparum ulligent 

fugitam, cus mint omnisquo que non pel idee, ma è far in modo che lo facciano». 

ipid


“NELLA FERRARI, 

NELLA DUCATI 

C’È TANTA 

TECNOLOGIA, 

EPPURE 

ALL’ESTERO 

SEMBRA QUASI 

CHE TUTTO 


L’HIGH – TECH 

LO FACCIA 

QUALCUN 

ALTRO.” 

Fabrizio Capobianco 

PRESIDENTE TOK.TV 

TOK.TV CEO


Parlare di lui è un po’ come incontrare un Robin 

Hood contemporaneo, un genio pacato, un visionario 

sorridente. Fabrizio Cabobianco, CEO e fondatore 

di Funambol e TOK tv in Silicon Valley ci vive da 

vent’anni. Ma dentro si sente italiano. Anzi, di più. 

Un paladino all’italiana. E per capirlo basta guardare 

al suo lavoro. A quelle aziende fondate, sì, nella Bay 

Area, con capitali Americani. Ma con un’anima tricolore. 

“Si prende da una parte – scherza – e si porta 

qui, come Robin Hood; perché in Italia il genio non 

manca, mentre, invece, in America, scarseggia”. 

Nato nel 1970 in Valtellina, Capobianco si è laureato 

a Pavia in Ingegneria. “Noi della Valtellina la città, Milano, 

la saltiamo proprio - racconta -, è troppo grande, 

preferiamo qualcosa di più piccolo, come Pavia, 

dove aveva studiato mio padre, dove si è laureato mio 

fratello e dove, adesso, ci sta mio nipote”. 

La passione per la tecnologia era iniziata molto prima 

dell’Ateneo, così come quella per l’America. 

“Io ho imparato a programmare dalle riviste, allora 

non è che ci fossero molte possibilità”. E il suo primo 

computer se l’è comprato da solo. “C’erano i Commodore 

e quelli della ZX Sprectrum, con il tastierino 

di plastica”. Per i genitori, entrambi medici psichiatri, 

il computer non era che un gioco. Per Fabrizio Cabobianco 

invece una vera e propria passione che si è 



























portato dietro per il resto della vita. 

“In un mondo dove tutto è complicato, il fatto che 

l’algoritmo di un software possa funzionare e continui 

a farlo, da un senso di pace, di ordine”. Come 

fare del bricolage, come realizzare una mensola: “La 

finisci, la fissi al muro, ci metti le valigie e sai che hai 

fatto qualcosa di bello, qualcosa che serve”. 

E poi per Capobianco nel software c’è design e creatività. 

“Gli italiani sono bravi a fare software, hanno 

talento, sono ottimi problem solver, non si impantanano 

mai loro, a differenza degli americani”. Forse 

anche per una questione di substrato culturale che 

nel bene o nel male, insegna a tutti la cosiddetta arte 

di arrangiarsi. A mancare in Italia, per Capobianco, 

sono altre cose. Come fare seriamente del marketing 

sulle capacità di innovazione e sviluppo del Paese, o 

come promuovere politiche volte a rendere il mercato 

del lavoro e quello dell’impresa più agili e meno burocratizzati. 

“Nella Ferrari, nella Ducati c’è tanta tecnologia, 

eppure all’estero sembra quasi che tutto l’high 

– tech lo faccia qualcun altro”. Certo, tutti ricordano 

l’Olivetti: “Ma si tratta di un’azienda soltanto e di progetti 

ormai passati: il mondo cambia e un nome non 

basta più”. 

E allora forse si capisce meglio il sogno americano di 

Fabrizio Capobianco. “Fin da bambino per me la Silicon 

Valley era quel posto incredibile dove accadeva di 

tutto”. 

Dopo il Dottorato la prima occasione: “Alla mia fidanzata 

di allora, che poi è diventata mia moglie, era 

stato proposto nel 1995 di passare qualche mese in 

un laboratorio biotech americano e io l’ho seguita, 

come ‘invited scientist’ alla Hewlett - Packard qua a 

Palo Alto”. Da lì il primo incontro con la rete: “Ero in 

laboratorio, ho incrociato questa cosa che chiamavano 

Internet e ho pensato subito... ‘questo spacca’ ”. 

Da lì è nata la sua prima azienda italiana, la Internet 

Graffiti. “Avevo 23 anni e ovviamente non avevo la 

minima idea di cosa stessi facendo – scherza – : abbiamo 

iniziato a girare l’Italia e a proporre siti internet 

ad aziende del territorio, che non avevano neppure 

una mail che funzionasse! Siamo stati anche al Touring 

Club, che per me era perfetto per Internet: ricordo 

che il presidente quando glielo proposi, mi rispose: 

‘Interessante questa cosa, ma io non posso fare 

business con uno di 23 anni’ ”. Un problema, questo, 

purtroppo tutto italiano: “In America non succederebbe 

mai, se dici qualcosa che ha senso ti danno 

retta, perché l’età non conta proprio”. 

L’esperienza della Internet Graffiti, in ogni caso Capobianco 

la ricorda volentieri: “Abbiamo imparato 

tantissimo, c’era questa situazione curiosa delle reti 






















































Internet che facevano giri assurdi per arrivare in Italia, 

a volte ci mettevo di meno a collegarmi alle mie 

pagine italiane da Palo Alto che non dai server di Pavia 

dove il segnale passava per la Svezia e poi tornava 

indietro”. 

Difficoltà e sfide non sono mancate. Così come la 

voglia di scoprire qualcosa di nuovo, di tentare altre 

strade. Di andare là dove fare impresa continua 

ad essere più facile. Ad avere un senso: in America. 

Funambol è nata così: “Tutto è iniziato perché non 

riuscivo a trovare un modo per sincronizzare i miei 

contatti telefonici da un cellulare all’altro”. L’azienda, 

che propone un servizio di cloud storage multipiattaforma, 

è nata in America, ma ancora una volta con 

talenti sono tutti italiani: “Il problema, qui alla Silicon 

Valley, è che i programmatori bravi sono quelli si 

stanno aprendo le loro startup, poi ci sono quelli che 

lavorano per progetti innovativi e infine quelli che, se 

vogliono stare sul sicuro, vanno a Google o a Facebook; 

alle aziende più piccole, quelle appena aperte, 

restano i mediocri, gente che per giunta si aspettano 

villa, piscina e cibo gourmet”. I peggiori, insomma. 

“Per cui io mi sono detto: ma di ingegneri bravi, di 

talenti veri, io ne conosco tantissimi, l’Italia è piena”. 

Ed ecco che Funambol è nata con sede americana 

e polo a Pavia. “Ad un certo punto siamo riusciti ad 

avere il sindaco, il presidente della Regione e il rettore 

dell’Università che andavano d’accordo, ed è partito 

il progetto per l’hub tecnologico di Pavia che oggi 

raccoglie tante belle realtà; ricordo staccai il primo 

assegno e che realizzai uno dei primi edifici del complesso”. 

Eppure Funambol di clienti italiani non ne ha. “Abbiamo 

Orange, Telefonica, TIM Brasile, praticamente 

partner in tutta l’America Latina e in Asia, ma nessuno 

in Italia”. Capirci qualcosa non è facile: “Provai a 

parlare con TIM e Wind, all’epoca, ricordo incontrai 

anche Franco Bernabè,ma alla fine non se ne fece 

nulla”. Le ragioni sono tante, a cominciare da un’esterofilia 

esasperata unita anche una mancanza di 

fiducia nelle capacità del Paese. Non solo. A pesare 

è pure un’apatia costante verso il cambiamento, un 

immobilismo forzato e forzoso che di fatto paralizza 

le spinte più innovative del Paese. “Quando uno status 

quo viene mantenuto a forza, non si tratta più di 

difendere la speranza, è il contrario”. Anche perché, 

al di là dei muri o delle barriere, mentali o fisiche che 

siano, il mondo cambia ugualmente. 

TOK tv è un esempio di questo cambiamento. “Amo il 

calcio, anzi, amo lo sport, ma guardarlo da solo non è 

la stessa cosa, per risolvere il problema, ho creato un 

software che mi permettesse di guardare una partita 






















































in contatto con amici e familiari: oggi TOK tv è partner 

fra gli altri di Juventus, Barcellona, Real Madrid 

e Paris Saint Germain che sole faranno un miliardo di 

fan”. 

TOK tv, come Funambol ha un’anima doppia. Capitali 

americani e ingegneri italiani. Anzi, non solo italiani. 

“Il bacino è il mondo - sottolinea – TOK tv non ha un 

ufficio e i programmatori lavorano da casa, perché 

oggi non serve più essere nella stessa stanza, quando 

con Skype basta schiacciare un tasto per organizzare 

un meeting e quando la fibra ottica c’è ormai ovunque”. 

Il cambiamento resta dunque uno stato constante, un 

processo di crescita che va abbracciato e a cui ci si 

deve adattare. Altrimenti si rischia di scomparire, di 

seccare e venire spazzati via. Perché il domani, per 

Fabrizio Capobianco, non aspetta nessuno. E’ già qui: 

liquido e multiculturale, come le sue idee diventate 

aziende; creativo e fascinoso, come il design italiano 

che da sempre di porta nel cuore. Ed è pieno di 

passione. Perché il segreto del successo è proprio 

dedicare la vita a qualcosa che si ami davvero. “E’ il 

consiglio che do a mia figlia tutti i giorni – conclude -, 

è quello che le auguro di realizzare nel suo futuro”. 
























magnim ratatin ea dolore commolo ribusandae mo- 



“QUESTO SI 

CHIAMA 

GIVE BACK, 

RESTITUIRE. 

È LA COSA PIÙ 

BELLA CHE 

L’AMERICA 

MERITOCRATICA 

MI HA 

INSEGNATO.” 


Christian Ferri 

PRESIDENTE 

PRESIDENT 

BLOCKSTAR

È l’evangelista della blockchain in Silicon Valley e 

nel mondo intero. Calca i palcoscenici dei più grandi 

summit internazionali dedicati a questa tecnologia, 

per spiegare ad aziende, grandi organizzazioni e governi 

come capire e integrare la blockchain. Si chiama 

Christian Ferri, ha 35 anni, è arrivato in Usa a 21 anni 

con una valigia piena di sogni. «Scappavo da un’Italia 

che mi stava stretta e volevo farcela da solo». In tasca 

ha una laurea triennale in Economia a Udine, nel cuore 

il fascino per l’America e l’amore per una ragazza 

che poi lo ha raggiunto. 

Arrivato con un visto di lavoro, durante i primi tempi 

Christian fa uno stage in marketing per la Leovince di 

San Francisco, un’azienda italiana che produce pezzi 

di ricambio e marmitte per la vespa. Non parla bene 

l’inglese e di sera studia. Cinque giorni su sette va alla 

Berkeley University per seguire i corsi di lingua. 

I primi mesi sono da incubo. «Si chiama culture shock 

e ti sconvolge la vita». Poi il tempo passa, Christian 

si crea un gruppo di amici, ha un mentore (Vittorio 

Viarengo, italiano che da tempo vive in Silicon Valley) 

e trova nuove opportunità. Da San Francisco va 

a Los Angeles, dove lavora per tre anni come manager 

commerciale per Snaidero. Intanto, la fidanzata 

Elena Vendrame si laurea in Medicina a Padova e lo 

raggiunge a Los Angeles, dove trova lavoro all’Università 

della California come ricercatrice. Passa qualche 

tempo, la coppia si trasferisce sulla costa orientale. 

Elena frequenta la specialità in Medicina interna alla 

University of Pennsylvania a Philadelphia (oggi è una 

scienziata che lavora a Stanford). Christian va nello 

Stato della Grande Mela, fa un Master in Business 

Administration alla Cornell University e la sua vita 

cambia. 

Entra in una società di consulenza importante, la 

PricewaterhouseCooper. «Per quattro anni mi sono 

occupato di consulenza strategica nel settore tecnologico. 

Poi un giorno un amico mi ha parlato di Bitcoin. 

Era il 2013. Ho iniziato a studiare il White Paper di 

Satoshi Nakamoto, ho capito la blockchain e mi sono 

appassionato. Ho frequentato convegni, seminari, ho 

studiato moltissimo fino a quando la gente ha iniziato 

a chiedermi consigli».Oggi Christian è il fondatore e 

Ceo di BlockStar, società di consulenza e investimento 

che aiuta le grandi aziende a capire la tecnologia 

blockchain e a trovare fondi tramite Venture Capital 

o Initial Coin Offerings (ICO). Siede nel consiglio di 

amministrazione di 14 aziende che si basano sulla sua 

guida per l’uso della blockchain. Sta scrivendo il primo 

manuale sull’argomento. È stato uno dei primi investitori 

in Protocol Ventures, il primo fondo di fondi 

con base a San Francisco, che investe in fondi specia- 























































lizzati in criptovalute. Sta collaborando con Gibilterra 

per creare il primo ecosistema dedicato alle cripto. 

Lavora con la Commissione europea come advisor 

all’osservatorio di blockchain per guidare le iniziative 

a livello europeo. «Ci deve essere una regola, che sia 

in grado di distinguere il buono dal cattivo». 

Il bello della blockchain? «Rende tutto più trasparente. 

Permette che circolino informazioni corrette. Decentralizzate. 

Ridurrà i costi. Cambierà la nostra vita 

e il nostro modo di fare business. Le sue applicazioni? 

Dalle cose minime a quelle più complesse. Grazie alla 

blockchain, la Commissione europea potrà rimuovere 

le barriere digitali tra gli Stati membri. I sistemi saranno 

tutti integrati. Se io sono italiano, ma vivo in Germania, 

la mia ID sarà sulla blockchain, e potrò rice- 
















vere una nuova Carta d’identità in loco, senza dover 

tornare in Italia apposta. Nel campo medico, un’applicazione 

su tutte: quella basata sul permesso di vedere 

le informazioni. Sto seguendo un’azienda che sta già 

creando un protocollo, basato sulla blockchain, che 

consentirà ai pazienti di avere la proprietà dei propri 

dati sulla salute, da tenere in un wallet apposito. 

Perché devo dare all’ospedale le mie informazioni che 

magari verranno vendute, a mia insaputa, alle grandi 

aziende farmaceutiche? Saremo noi a conservarle e 

decidere a chi darle, per quanto tempo e a che prezzo. 

I dati su blockchain sono immutabili, trasparenti e 

non manomettibilii». 

Christian gira il mondo per parlare alle conferenze, 

ma non è ancora stato invitato in Italia. Guarda il 

nostro Paese con nostalgia e voglia di fare. «Mi piacerebbe 

creare un ecosistema della blockchain in Italia. 

È un’opportunità unica nella storia. Cerco di educare 

le persone a prendere il buono di questa rivoluzione. 

C’è ancora molta diffidenza. Ma in fondo l’innovazione 

ha bisogno di gente che dica: “Non ci credo, tutto 

questo è una bolla”. Anche voi pensate cosi? Uno 

degli ultimi post che Satoshi Nakamoto ha messo su 

un forum per rispondere a chi continuava a dubitare 

della sua invenzione, è stato: «Listen: either you get it 

or you don’t, you’ll see» (Senti: «Che tu ci creda o no, 

vedrai»). 





























“IL BELLO DELLA 

BLOCKCHAIN? 

RENDE TUTTO PIÙ 

TRASPARENTE. 

PERMETTE CHE CIRCOLINO 

INFORMAZIONI 

CORRETTE. 

DECENTRALIZZATE. 


RIDURRÀ 


I COSTI.” 


Intanto per restituire il successo che ha nella Bay 

Area, dove tutti lo chiamano “The Professor“, Christian 

risponde ogni giorno a decine di email di giovani 

che gli chiedono consigli su come arrivare in Usa. 

«A tutti loro, dico: trovatevi un mentore, uno che 

creda in voi e che vi consigli, e non smettete mai di 

sognare». È dedicato ai giovani italiani che cercano 

informazioni, il portale “Come Si USA“, che Christian 

e sua moglie Elena hanno creato. Basta un click per 

ricevere consigli da chi vive e lavora qui. «Questo si 

chiama Give Back, restituire. È la cosa più bella che 

l’America meritocratica mi ha insegnato». 












omnisquo que non pel ipid exeriam, cus ne ne ear-


208

“LA PARTE PIÙ 

DURA? CREARE 

IL TEAM GIUSTO 

SENZA QUELLO 

NON SI VA DA 

NESSUNA PARTE, 

PERCHÉ ALLA FINE 

OGNI AZIENDA 

È FATTA 

DI PERSONE.” 


Andrea Motto 

INGEGNERE E ARTISTA 

ENGINEER AND ARTIST


‘Se tutto questo fosse possibile, non saremmo neppure 

qui’. Potrebbe venire riassunta semplicemente 

così l’avventura americana di Andrea Motto, ingegnere 

italiano trasferitosi a San Francisco con un 

sogno da realizzare e la voglia di mettersi in gioco. 

Perché l’America significa anche essere pronti a 

‘rendere possibile – sottolinea - quello che è impossibile, 

altrimenti lo farebbero tutti, o quantomeno 

qualcuno lo avrebbe già fatto’. 

Andrea Motto - CEO di ‘ProxToMe’, startup che 

ha sviluppato una tecnolgia basata sull’accesso in 

sicurezza a servizi fisici utilizzando reti bluetooth 

disponibili - a San Francisco ci è arrivato nel giugno 

del 2012 con altri due soci, Carlo Capello e Adriano 

Marcoretto. Nel Delaware ha fondato ‘ProxToMe’, 

figlia di un’idea, nata in Italia, sviluppata negli anni 

del Politecnico di Torino, e subito dopo ha aperto la 

sede nella Bay Area. 

‘Io vengo da una famiglia di imprenditori – racconta 

– e forse per questa ragione ho sempre voluto creare 

qualcosa di mio’. 

Lui, a dire la verità, prima voleva il fare il DJ e produrre 

un disco. Genitori speaker radiofonici, è cre- 
























STARTUP




















































expla samus et lam si natendis eos eicatae mil mosciuto 

fra note e vinili, con la voglia di fare musica. 

Poi l’informatica ha avuto la meglio ed è nata ‘Prox- 

ToMe’: “In questa stanza, ci sono reti invisibili 

e inutilizzate”. Reti wifi, onde radio, reti che collegano 

oggetti fisici allo spazio virtuale. “Quello che 

noi rendiamo possibile è sfruttare queste risorse, 

abbattere le barriere e rendere più facile e veloci i 

collegamenti’. 

Le applicazioni sono infinite. ‘Quando siamo arrivati 

qui abbiamo incontrato colossi come Samsung, 

Facebook, Apple”. In mano una storia e un prototipo 

perché in America voler fare qualcosa non basta. 

“Qui bisogna provare di poterlo fare – sottolinea - e 

noi ci siamo riusciti, testando la nostra app in varie 

occasioni come il Concerto dei Motel Connection, 

i Digital Days e anche a Milano per un evento organizzato 

dalla Bacardi”. 

Andrea Motto, negli USA ci vive da quattro anni 

ormai , ma la tecnologia di ProxToMe, l’ha sviluppata 

in Italia: ‘Dopo la Laurea ho iniziato a lavorarci 

nel mio tempo libero’. Poi è arrivata l’occasione 

giusta. ‘Ho partecipato ad un evento organizzato da 

Carlo Capello e sono stato colpito dal suo carisma, 

gli ho parlato del mio prototipo, lui mi ha suggerito 

di iscrivermi ad un concorso della TIM riservato ai 

giovani imprenditori’. Andrea non aveva nulla da 

perdere: ‘Se anche non avessi vinto, se pure non mi 

fossi qualificato, avrei avuto feedback importanti’, 

quelli che nel tempo fanno la differenza. 

Invece ha vinto. ‘Sono arrivato primo e ho mollato 

tutto’. Con lui Carlo Capello e, più tardi, anche 

Adriano Marconetto. In testa l’America. ‘Ci siamo 

guardati e ci siamo detti: Why not?’ 

Perché proprio l’America, è facile da capire. ‘La nostra 

tecnologia va inserita in servizi più grandi’. Servizi 

che negli States già ci sono. ‘In Italia - continua 

Andrea – sarebbe difficile trovare l’azienda giusta a 

cui rivolgersi’. 

Italiani negli States con una marcia in più? ‘Forse – 

dice– sicuramente io mi sento un artista, perché 

attraverso l’informatica creo dal nulla qualcosa che 

prima non c’era’. Arte, quindi, come approccio creativo 

alla materia e soluzione pragmatica di un problema. 

Ma, anche e forse soprattutto, come visione 

futuristica e innovativa. Qualcosa che gli italiani 

hanno nel DNA. 

Creatività, voglia di riscatto e modestia. Anche quella. 

Già perché il loro centro di sviluppo, Andrea e 

Carlo, lo hanno lasciato per la maggior parte nel 

Torinese, in mani a giovani developers italiani. E in 

America, a differenza di startup gonfiate dal marketing, 

loro restano con i piedi per terra. ‘Ci siamo 


presi il tempo di fare le cose fatte bene e per diventare 

redditizi ci abbiamo messo tre anni’. 

Le difficoltà non sono mancate. ‘La nostra tecnologia 

si basa sulla Proximity, ovvero la possibilità di 

utilizzare il Bluetooth per accedere alle reti disponibili, 

ad esempio per un pagamento o un acquisto’. 

Ma quando Andrea l’aveva proposta, inizialmente lo 

avevano preso per pazzo. ‘Tutti ci remavano contro 

e mi sentivo dire soltanto che stavo puntando su di 

una tecnologia destinata a sparire’. Non era vero. Il 

problema era che in Italia il Bluetooth veniva usato 

male e manco a farlo apposta il mercato lo ha 

confermato. Ad un certo punto,infatti, i gadget 

Bluetooth hanno iniziato a spuntare da ogni parte: 

auricolari, orologi collegati al telefonino, altoparlanti, 

addirittura capi d’abbigliamento. Ma non solo, ‘il 

mercato – evidenzia - ha iniziato a considerarne il 

valore’. 

La parte più dura? ‘Creare il team giusto – dice 

Andrea – senza quello non si va da nessuna parte, 

perché alla fine ogni azienda è fatta di persone’. 

Andrea Motto di idee ne ha tante e nel suo futuro 

ci stanno tutte. Una startup è a tempo determinato, 

può durare quattro o cinque anni. Poi si trasforma 

oppure viene acquisita. Già ma dopo? ‘Dopo se ne 

apre un’altra’. Per lui è una forma mentis: ‘Io, se mi 

guardo in giro, - dice - vedo un problema e penso 

alla soluzione’. Non è una questione di età. E’ quel 

pizzico di follia, di imprudenza e di pragmaticità 

artistica che Andrea Motto ha nel DNA. ‘Anche per 

questo – racconta – a volte si prendono delle sportellate 

in faccia’. 

Sbagliare, come diceva Steve Jobs, fa parte del gioco. 

‘Perché fare innovazione – sottolinea 

l’imprenditore torinese - significa andare dove nessuno 

è mai andato’. 

A volte, quando si guarda a chi come lui ha scelto di 

inseguire un sogno, esce solo una storia di successo. 

Ma c’è di più, ‘non si vedono i sacrifici’. E’ la resistenza, 

il carattere che fa la differenza. Quello che 

gli americano chiamano essere ‘resilient’. Lui, dice, 

non si abbatte, anzi: ‘E’ quello che accomuna tutti 

quelli che hanno fatto la nostra stessa scelta, di 

fronte ad un problema si deve tirare fuori il meglio’. 

Quella grinta che spinge ad adattarsi, a cercare nuove 

strade, a cercare l’America. E per avere successo 

la formula è sempre la stessa: ‘Umiltà, spirito di 

sacrificio, onestà e soprattutto passione, perché se 

questa manca, il resto non conta’. 











































saeoresti qui dit que venisti voluptur alitaerrum que 



molor am ulluptius aut fuga. Ut eossum que est 





STARTUP


“CI SIAMO 

GUARDATI E 

CI SIAMO DETTI: 

WHY NOT?”


“VIVERE LA 


SIGNIFICA 

ACCETTARNE 

IL CARATTERE 

E I PRINCIPI CHE 

LA REGOLANO, 

OVVERO QUEL 


MISTO 


DI 


APERTURA, 

DI RESISTENZA 

E DI CORAGGIO CHE 

LA RENDONO UNICA 

NEL SUO GENERE.” 

Paolo Privitera 

CEO DI EVENSI, IMPREDITORE ED INNOVATORE 

EVENSI CEO AND CO-FOUNDER, GLOBAL ENTREPRENEUR AND INNOVATOR

“Serendipity”, ovvero l’arte di lasciarsi guidare dal 

caso, felicemente. Per Paolo Privitera. CEO di Evensi, 

innovatore e imprenditore italiano trasferito nella 

Bay Area, quello di “serendipity” non è un concetto, 

ma un vero e proprio stile di vita. 

È una questione di equilibri ed energia, una forma 

mentis che in Silicon Valley trova la sua massima 

espressione. Del resto, “questo è uno dei pochissimi 

luoghi al mondo, dove ogni incontro casuale, 

porta con se un network di centinaia di contatti”, 

un file-rouge di rimandi che altrove non è possibile. 

“Vivere la Silicon Valley significa accettarne il carattere 

e i principi che la regolano, ovvero quel misto di 

apertura, di resistenza e di coraggio che la rendono 

unica nel suo genere”. 

Un luogo altro, dove pensare fuori dagli schemi è 

diventata una conditio sine qua non, ovvero una 

caratteristica indispensabile per diventarne parte 

integrante. 

“Io credo che tutto sia collegato, è una questione di 

energia, una visione del lavoro e della vita che è diversa 

dal concetto tutto europeo di attività obbligata 

per sopravvivere, di compartimenti separati e distinti: 

qui si tratta di seguire la passione, di costruire 

qualcosa di nuovo per amore e interesse e di farlo 

funzionare, nel mondo reale”. Privitera, questo, lo fa 

da sempre. 

Da quando a 16 anni ha aperto la sua prima azienda 

in Italia, diventando uno dei primi ad avere una connessione 

internet e accaparrandosi il dominio della 

sua città, Mestre. “Ricordo che uno dei pochissimi 

siti disponibili era quello della Nasa che io contattai 

per una ricerca, mi mandarono un pacco con una 

miniatura dell’Hubble e trenta CDs per i miei compagni 

di classe”. 

Lui è sempre stato un innovatore: “Quando dovetti 

iscrivermi in Università cambiai idea all’ultimo minuto 

e invece di design decisi di seguire Computer 

Science, che alla Ca’ Foscari di Venezia aveva appena 

aperto e che si avvicinava alla mia già sviluppata 

passione per la programmazione”. Programmare 

significa costruire una struttura virtuale e non è poi 

così distante dal design o dall’architettura. Il senso 

del bello c’è e, oggi più che mai, diventa centrale in 

quanto la nostra quotidianità si dipana anche, e forse 

soprattutto, attraverso piani virtuali. 

Dopo la laurea la decisione di andare a New York 

per tre mesi: “Ci andai, tornai in Italia e ripartii di 

nuovo, stavolta per un anno”. Terminati anche questi 

12 mesi, “Tornai a casa, vendetti la mia auto e 

ripartii per gli Stati Uniti”. Fu la svolta, ovvero il 

momento in cui si rese conto di volerci restare, negli 






















































Usa, per sempre. O quasi. “All’inizio non volevo lavorare, 

la mia idea era quella di assimilare la cultura 

americana, ma iniziai a fare consulenze e un cliente, 

alla fine, mi chiese di trasferirmi a Los Angeles per 

tre mesi”. A Privitera la East Coast non piaceva all’epoca, 

ma si convinse e partì. “Il progetto terminò a 

Natale, il cliente era contento e alla fine io decisi di 

fermarmi a Los Angeles un altro pò”. Una parentesi 

che si è poi trasformata in residenza ufficiale. Prima 

a Los Angeles e poi, alla fine, a San Francisco. 

In quegli anni, stava lavorando ad un prototipo di 

piattaforma social: Facebook non c’era ancora, e il 

suo progetto, costruito in un appartamento adibito 

ad ufficio con un cucinotto che divideva con un’altra 

azienda, aveva raccolto consensi e successi. 

Poi un giorno, “scoprii che i ragazzi della compagnia 

vicina, quelli con cui prendevo caffè e panino nel 

cucinotto in comune, erano quelli di MySpace, che 

si stavano gettando sul mercato e io, invece di continuare 

ad investire e a lavorare sulla mia piattaforma, 

venni preso dal panico, lasciai tutto e un anno dopo 

scoprii che Facebook, lanciato ufficialmente, era 

una versione riveduta e corretta di quello che avevo 

costruito io”. 

Le occasioni alla Silicon Valley vanno prese e cavalcate 

senza pensarci due volte, “ma all’epoca per me 

era diverso, non avevo un network e forse non ero 

pronto”. 

Da un progetto all’altro, Privitera non getta la spugna. 

Da San Francisco torna in Italia, fa il pendolare 

fra Roma, Venezia e New York per un anno circa. 

Poi, scoprendo quasi per caso che il governo Cileno 

voleva raccogliere a Santiago i migliori cervelli sul 

pianeta per ricostruire lo Stato, manda la sua candidatura, 

mentre parallelamente decide di lasciare il 

lavoro in Italia per ritornare a San Francisco. “Ecco, 






































“GRAZIE 

A PERSONE 

CHE MI SONO STATE 

VICINE HO INIZIATO A 

RICOSTRUIRE TUTTO, 

PERCHÉ UNA LEZIONE CHE VA 

IMPARATA È CHE IL 


FALLIMENTO È 

SEMPLICEMENTE UNO STEP 

FONDAMENTALE DEL 

SUCCESSO.”

proprio quando stavo per tornare sulla East Coast, 

subito dopo aver detto ai miei clienti che sarei stato 

di nuovo disponibile per riprendere i vari progetti 

avviati, ho scoperto di essere stato selezionato per 

trascorrere 4 mesi in Cile e ho accettato, pur sapendo 

di stare per fare un salto nel buio”. L’esperienza 

cilena, però, è una di quelle che cambiano la vita, o 

meglio le prospettive e la visione del mondo. “Era 

emozionante perché mi sono ritrovato in un ambiente 

estremamente innovativo e internazionale, 

un mondo che si era riunito non per depredare o far 

soldi, ma per costruire qualcosa, per collaborare”. 

Tornato sulla East Coast apre una startup, o meglio 

un embrione di startup “perché all’epoca non c’erano 

ancora”. Poi, nel 2013, il mondo gli crolla addosso. 

“È capitato tutto in una settimana o poco meno – 

racconta – la mia fidanzata mi ha lasciato, mi è stato 

diagnosticato un cancro e il mio socio mi ha mollato, 

poco prima del lancio della compagnia con gli investitori 

e con i bilanci pieni di buchi finanziari di cui io 

non avevo il minimo sentore”. Eppure, lui, ancora 

una volta non ha mollato. “Grazie a persone che mi 

sono state vicine ho iniziato a ricostruire tutto, perché 

una lezione che va imparata è che il fallimento è 

semplicemente uno step fondamentale del successo”. 

Senza sbagliare prima, non si riesce poi: fallire 

è una lezione da imparare, un corso accelerato che 

la vita offre, senza il quale si rischia di restare per 

sempre in un limbo di mediocrità e grigiore, che alla 

fine uccide ogni impulso di crescita e innovazione. 

“Sono ripartito dalla salute, scoprendo che il cancro 

non c’era”. E poi dal lavoro. “Ho ricostruito la 

mia azienda, mettendoci la faccia di fronte agli investitori, 

risanandone il bilancio e rimettendola in 

piedi”. E poi l’amore, con Enrica, che già conosceva 

ma di cui si è follemente innamorato all’ingresso di 

un supermercato, in un pomeriggio qualunque sulla 

East Coast. Cinque anni dopo quel novembre 2013, 

Privitera ha fondato Evensi, una startup che si occupa 

di raccogliere su di un’unica piattaforma gli 

eventi pubblicizzati su social media e internet e che 

oggi vanta 40 milioni di iscritti e 5 milioni di events 

makers. Ma non basta, è anche diventato padre e 

sta vivendo uno dei momenti più felici e produttivi 

della vita. “Guardando indietro rifarei esattamente 

le scelte che ho fatto, perché sono state il percorso 

che mi ha portato dove sono”. La felicità in fondo è 

guardare la vita e cercare di considerarne per ogni 

istante gli aspetti positivi e di crescita che offre. “La 

felicità è serendipity e forse Silicon Valley, è proprio 

l’unico posto al mondo dove questo concetto diventa 

stile di vita”. 























































“L’ITALIA È UN 

POSTO UNICO 

E, QUANDO SEI 

ALL’ESTERO, 

SCOPRI CON 

OGGETTIVITÀ LE 

RICCHEZZE CHE 

ABBIAMO, QUALI 

LA NOSTRA 

STORIA, LE 

NOSTRE 

TRADIZIONI E I 

NOSTRI VALORI.” 


Andrea Calcagno 

IMPRENDITORE ED INNOVATORE 

ENTREPRENEUR AND INNOVATOR


IL SOGNO IMPRENDITORIALE IN SILICON 

VALLEY 

Sono passati ormai 4 anni da quando Andrea è partito 

con la sua famiglia – sua moglie Elena e sua figlia 

Ilaria di solo 6 mesi – il suo co-fondatore Davide 

Quadrini ed un gruppo di italiani che fanno parte del 

progetto per sviluppare il sogno imprenditoriale in Silicon 

Valley. 

Un periodo abbastanza lungo che ti permette di conoscere 

le cose positive e negative di un ambiente 

molto particolare dove nascono e si sviluppano ormai 

quasi tutte le innovazioni più importanti che segnano la 

crescita dell’economica e il nostro modo di vivere 

a livello globale. 

Dopo alcuni anni spesi in Italia a sviluppare imprese innovative 

che gli permettono di diventare un riferimento 

italiano nell’ambito delle tecnologie mobili, Andrea decide 

che è il momento di lanciare un progetto che possa 

avere un respiro globale nel posto dove la tecnologie 

nascono. Con un team consolidato da alcuni anni, 
























Andrea lancia una nuova startup Cloud4Wi nel Gennaio 

nel 2014 che vede subito l’investimento di 4 Milioni di 

dollari da parte di United Ventures con Massimiliano 

Magrini come Investor Director. 

Cloud4Wi fornisce una soluzione Cloud di nome 

Volare in grado di aiutare i retailer a capire il 

comportamento delle persone all’interno dei negozi 

permettendo di fare campagne di marketing in 

prossimità. 








Cosa ha spinto Andrea e il suo team a trasferirsi 

in Silicon Valley? È stata determinante l’ambizione 

di dimostrare che noi Italiani siamo in grado di sviluppare 

progetti che possano raggiungere una leadership 

di mercato e realizzare una monetizzazione 

per gli investitori. 
























con 11.5 milioni di dollari che vede la 

partecipazione di United Ventures e Opus Capital 

con Gill Cogan, fondatore di Light Speed Ventures, 

e una delle persone più conosciute nel mondo dei 

Venture Capital della Silicon Valley. Gill crede che 

l’Italia possa replicare il successo di Israele. 







MADE IN ITALY IN SILICON VALLEY 

Dopo quattro anni, si capiscono tante cose e Andrea 

ci condivide come l’Italia è un posto unico e, quando 

sei all’estero, scopri con oggettività le ricchezze che 

abbiamo, quali la nostra storia, le nostre tradizioni 


Andrea e il team stanno lavorando duro per far 

crescere la loro realtà e per realizzare il loro sogno, 

ossia quello di affermarsi a livello globale e dar vita 

a un caso di successo Made In Italy in Silicon Valley 

con un “exit” in grado di portare credibilità al movimento 

delle startup italiano che resta comunque 


Il sogno di Andrea, dopo il progetto di Cloud4Wi, è 

di rientrare in Italia e dar vita ad un’accademia sulle 

nuove tecnologie per giovani talenti dai 13 ai 18 anni 

che hanno voglia sviluppare il proprio progetto 

imprenditoriale e/o le proprie idee di innovazione 

portando avanti i propri studi, mettendo a disposizione 

la propria esperienza e anche il supporto 

economico per il progetto.Magrini come Investor 

Director. 

Cloud4Wi fornisce una soluzione cloud di nome Volare 

in grado di aiutare i retailer a capire il comportamento 

delle persone all’interno dei negozi 

permettendo di fare campagne di marketing in prossimità. 








Cosa ha spinto Andrea e il suo team a trasferirsi in 

Silicon Valley? È stata determinante l’ambizione di 

dimostrare che noi Italiani siamo in grado di sviluppare 

progetti che possano raggiungere una leader- 






















































ship di mercato e realizzare una monetizzazione per gli 

investitori. 


con 11.5 milioni di dollari che vede la partecipazione 

di United Ventures e Opus Capital con Gill 

Cogan, fondatore di Light Speed Ventures, e una delle 

persone più conosciute nel mondo dei Venture Capital 

della Silicon Valley. Gill crede che l’Italia possa replicare 

il successo di Israele. 







Dopo quattro anni, si capiscono tante cose e Andrea ci 

condivide come l’Italia è un posto unico e, quando sei 

all’estero, scopri con oggettività le ricchezze che abbiamo, 

quali la nostra storia, le nostre tradizioni 


Andrea e il team stanno lavorando duro per far crescere 

la loro realtà e per realizzare il loro sogno, ossia 

quello di affermarsi a livello globale e dar vita a un 

caso di successo Made In Italy in Silicon Valley con un 

“exit” in grado di portare credibilità al movimento delle 

startup italiano che resta comunque 


Il sogno di Andrea, dopo il progetto di Cloud4Wi, è di 

rientrare in Italia e dar vita ad un’accademia sulle nuove 

tecnologie per giovani talenti dai 13 ai 18 anni che 

hanno voglia sviluppare il proprio progetto imprenditoriale 

e/o leproprie idee di innovazione portando avanti 

i propri studi, mettendo a disposizione la propria esperienza 

e anche il supporto economico per il progetto. 




































“L’ITALIA 

PUÒ ESSERE 

UNA LEADERSHIP 

DI MERCATO E 

REALIZZARE UNA 

MONETIZZAZIONE 

PER GLI INVESTITORI 

COME HA FATTO 

ISRAELE”


226

“UNO SCUGNIZZO 

DI NAPOLI IMPARA 

PRIMA DI UN 

AMERCANO 

IL CONCETTO 

TANTO DI MODA 

QUI A STANFORD 

DEL DESIGN 


THINKING.” 


Adriano Farano 

SOCIO FONDATORE DI PACTIO 

CO-FOUNDER OF PACTIO

«La Silicon Valley mi ha cambiato la vita. Ma se 

ce l’ho fatta è solo per un motivo culturale. Sono 

un uomo del Sud. Partito da Cava de’ Tirreni, alle 

porte della Costiera Amalfitana, ho portato con me 

l’arte di arrangiarmi e la voglia di farcela». Adriano 

Farano, 38 anni, ha creato in California Watchup, 

un’App per iPad e iPhone che reinventa il concetto 

di telegiornale e permette di avere in un’unica applicazione 

video-news di diverse emittenti. La sua 

startup, avviata con 600 dollari, ha raccolto finanziamenti 

per milioni di dollari, ha conquistato investitori 

come Microsoft, ha convinto editori come 

Cnn, Cbs, Washington Post, Wall Street Journal. 

Così è cresciuta moltissimo e a fine 2016 è stata 

acquisita da un grande gruppo. «Per Menlo Park 

ero un ragazzo italiano arrivato dal nulla. Non conoscevo 

nessuno e dovevo dimostrare di avere le 

carte in regola. Il mio era un problema di credibilità. 

Ero però nel posto più meritocratico del mondo» 

racconta Farano. Ex bambino prodigio, Farano è 

stato fulminato dalla passione per le video-news a 9 

anni. «Era il 1989. Il primo telegiornale che ho visto 

nella mia vita raccontava il crollo del muro di Berlino. 

Il giorno dopo, a scuola, mi sono accorto che 

nessuno dei miei compagni aveva sentito la notizia. 

Tornato a casa, ho preso dei fogli e messo insieme 

quello che ho chiamato “Il giornalino di Berlino”. 

Facevo le fotocopie e lo vendevo per 500 lire. Ho 

“assunto” 4 bambini che sapevano scrivere e disegnare 

e prodotto 5 numeri. Quando la maestra si è 

accorta che a scuola giravano dei soldi, ha vietato 

la pubblicazione. In America mi avrebbero dato un 

premio. Lì ho capito, seppur inconsciamente, che 

per farcela sarei dovuto andare altrove». Nel 2001, 

Farano è già in Francia. A 20 anni firma il suo primo 

reportage su Le Figaro. A 21 anni è uno studente 

Erasmus a Strasburgo. Qui fonda un giornale online, 

multilingue: lo chiama CaféBabel.com. Esiste 

ancora, ha il supporto dalla Commissione Europea 

e redazioni in 35 città. Grazie a questa esperienza, 

nel 2010, vince la Knight Fellowships, una borsa di 

ricerca della Stanford University che offre a 20 giornalisti 

di tutto il mondo la possibilità di lanciare un 

progetto sperimentale per rinnovare il giornalismo. 

«Era la mia grande occasione. Sono partito per la 

California nel 2012, con mia moglie francese e due 

figli (la più piccola aveva 3 mesi). Avevamo la casa, 

il visto, un sacco di appoggi». Ma un anno passa in 

fretta, il visto scade e Farano deve tornare in Europa. 

«Mi sentivo come Cenerentola alla fine della 

festa, perché ormai ero innamorato di questo angolo 

di mondo e volevo restare». Si impegna, ottiene un 






















































MEDIA

visto per “aliens with extraordinary abilities”, inizia 

a lavorare a Watchup. «La più grande difficoltà per 

una startup è raccogliere il primo mezzo milione di 

dollari. Ho cercato più di 1.000 investitori. Di questi 

solo 100 mi hanno fissato un appuntamento. In 89 

mi hanno detto: «No, grazie» ma io non mollavo. Ci 

credevo. In 11 mi hanno fatto un assegno». 

Sono diventato padre per la terza volta e ho capito 

che dovevo fare una nuova impresa. Da giornalista 

e imprenditore ho guardato con sospetto l’epidemia 

delle fake news. La disinformazione è solo la punta 

dell’iceberg di un problema molto più grande: l’erosione 

della fiducia nei media. Così è nata l’idea 

di Pactio, dal latino patto, la mia nuova startup. 

Promuove un giornalismo nuovo che si fonda su un 

patto tra il giornalista e i suoi lettori: il giornalista si 























































impegna a fornire servizi di qualità e viene pagato 

direttamente dal lettore». «Non mi sento un cervello 

in fuga. Ho inseguito un’opportunità. Se guardo 

indietro, vedo la mia storia come un insieme di 

eventi concatenati. Come in natura, ci sono onde ed 

energia che collegano tutto, così accade nelle nostre 

vite. Ho messo energia e passione in quello che ho 

fatto e le cose si sono sviluppate quasi per magia, da 

sole. Ricordi la teoria dei puntini di Steve Jobs? Nella 

vita esiste un disegno, bisogna crederci, guardarsi 

indietro e cercare di unire i puntini. Duro lavoro e 

tenacia premiano sempre. Soprattutto se ci aggiungi 

un tocco di creatività italiana e - nel mio caso- di 

sana passione partenopea. L’Italia? «Mi ha dato tanto, 

radici e cultura umanistica. Crescere tra Omero 

e Dante nel mio liceo classico di Cava è stato per 

me il miglior allenamento per padroneggiare l’arte 

del Keynote (PowerPoint per Mac). Che lo chiamino 

pure storytelling. Per me è ars oratoria. Per trovare 

investitori, nuovi partner o colleghi è fondamentale 

sapersi raccontare. Ulisse e Medea, gli eroi dell’antichità, 

sono stati i miei maestri di vita. Leggendo 

le loro storie ho imparato a viaggiare, a inseguire i 

miei sogni, e a crederci fino in fondo. Nonostante le 
























Natectiore nonserror asitenture et hilles aut pore- 

MEDIA

difficoltà. Ai giovani italiani dico “fuitevenne”. Non 

è una colpa lasciare il proprio Paese, se non ci sono 

opportunità. Noi emigrati non siamo più italiani al 

100%, non siamo americani al 100%. Siamo qualcosa 

di ibrido. E provo tanta fierezza nell’esserlo. 

Siamo quasi una “nuova razza”, un modello più 

cosmopolita, multiculturale, aperto. Capaci, lo spero 

– nonostante Trump e la Brexit- di andare verso 

un sistema che permetta l’ideale kantiano della pace 

perpetua». Tornare a casa? «I miei tre figli passano, 

ogni estate, due mesi tra Francia e Italia. Voglio che 

imparino bene la più bella delle lingue, l’italiano. 

Come fai a tradurre in inglese la parola sfizio o il 

concetto napoletano di “cazzimma”, l’arte di arrangiarsi? 

Per il resto, a loro non manca nemmeno la 

pizza. Qui nella mia casa in California ho costruito 

un forno per la pizza in argilla: la mia più grande 

soddisfazione è preparare il lievito madre. Cose che 

non avrei mai fatto se fossi rimasto in Italia…». 

cep ratet, officipsa el magnim vellam, opta plit magnim 


















con rernate poresti qui dit. 

“IL CARTACEO 


NON È MORTO. 

LA RICERCA HA 

DIMOSTRATO CHE 

IL CERVELLO REAGISCE 

A UN’INFORMAZIONE 

SU CARTA IN MANIERA 

MOLTO PIÙ 

ANALITICA CHE 

SU SCHERMO.”


“PASSIONE PER 

QUELLO SI FA, 

CORAGGIO E 

SOPRATTUTTO 

UNA MENTE 

APERTA, CAPACE 

DI MISCHIARE 

LINGUAGGI 

CREATIVI E 

ABILITÀ CHE 

SERVANO AD 

AFFRONTARE IL 

FUTURO.” 


Luca Prasso 

ARTISTA A GOOGLE, ARCHEOLOGO DEL FUTURO 

TECHNICAL ARTIST AT GOOGLE, REVERSE ARCHEOLOGIST


Bisogna nutrire la mente per restare ragazzini. Serve 

coltivare capacità che possano tornare utili a fare 

un lavoro che ancora non c’è. Questo il consiglio che 

Luca Prasso lancia ai più giovani. A quelli che come 

lui sognano l’America. La storia di Prasso è una di 

quelle sui generis. Una di quelle storie che non si 

dimenticano. Nato a Verona, appassionato di disegno, 

dalla Lombardia finisce a lavorare prima alla DreamWork 

Animation e poi a Google, passando per un 

caleidoscopio di opportunità e avventure. Filo conduttore 

di tutte, la sua innata capacità di riempire gli 

spazi vuoti fra un punto e l’altro, una genialità che lo 

rende capace osservare una storia, una situazione, 

un compito da un diverso punto di vista. Lui però alle 

definizioni da manuale ne preferisce un’altra. Quella 

di storyteller. Si identifica come qualcuno capace di 

raccontare. E di farlo utilizzando strumenti diversi. 

Dal disegno, ai cartoni animati alla computer grafica. 

“Ricordo che riuscii a convincere mio padre ad aprirmi 

un negozio di computer e io lì, nel retrobottega 

imparai a programmare”. Era un gioco, un modo per 

esprimere quella inesauribile voglia creativa che non 

l’abbandona ancora oggi. In America ci è arrivato 

oltre 20 anni fa. “Avevo due bauli, una valigia e una 
























Natectiore nonserror asitenture et hilles aut pore

icicletta che si ruppe durante il viaggio”. Pochissimi 

soldi in tasca e tanti sogni da realizzare. “Avevo venduto 

l’auto, il frigorifero e poche altre cose che possedevo 

a Milano ed ero arrivato, con la voglia di fare 

qualcosa di nuovo”. Allora la Silicon Valley non esisteva 

ancora: “Inizia a lavorare alla Dreamwork quando 

Hollywood, dopo che la Pixar lanciò ‘Toy Story’, 

si accorse che poteva fare film utilizzando la computer 

grafica”. Prasso ha lavorato prima ad “Ants” 

(‘Formiche’, in Italia) e poi a “Shrek”, grazie al quale 

la DreamWork ha vinto l’Oscar. “Io facevo parte di 

un piccolo gruppo che si occupava di far muovere i 

personaggi, di deformarli; eravamo qualcosa a metà 

fra tecnici e artisti”. E lui, che si è sempre definito un 

uomo da bottega, in quel contesto ci stava benissimo. 

“Io sono sempre stato circondato da artigiani e creativi, 

ricordo che da sempre prendevo i personaggi 

dipinti dagli amici pittori e li trasformavo in cartoni 

animati, davo loro una storia a cui appartenere”. 

Gente come Cavazzano e Iacovitti, artisti della scena 

italiana degli Anni Novanta: “Era la stessa cosa che 

facevo con la mia prima Super Otto, una macchinetta 

che mi aveva regalato mio padre da bambino e che 

mi permetteva di scattare fotogrammi e di farci dei 

cartoni animati”. La passione inizia lì: “Anche a scuola 

mi portavo fogli bucati che nascondevo sotto il banco 

e su cui disegnavo ininterrottamente”. Una passione 

che lo ha trascinato al di là dell’Atlantico, in una California 

molto diversa da quella di oggi. “Quando sono 

arrivato non c’era nulla, né Google, né Facebook - 

racconta – noi vivevamo in questo castello mentale 

all’interno del quale raccontavamo storie, personaggi, 

avventure”. Poi un giorno il contesto cambia, la Bay 

Area si sveglia, e quella che era un’attività pionieristica 

si trasforma in routine. “A quel punto ho mollato 

tutto e all’età di 48 anni ho aperto una startup, con 

l’idea di fare applicazioni per bambini”. Il punto per 

Prasso era stato l’accorgersi che gli strumenti narrativi 

si erano evoluti e dall’idea di avere uno spettatore 

come fruitore passivo di una storia si era passati a 

quella di creare mondi e narrazioni per una platea attiva. 

“Internet, gli smartphone hanno messo al centro 

lo spettatore e tutt’attorno gli attori, cambiando drasticamente 

la prospettiva del racconto”. 

Luca Prasso però nella sua startup voleva fare qualcosa 

di diverso: “Avevo in mente di creare strumenti 

che permettessero ai bambini di conoscere il mondo 

reale, che li trasportassero fuori dal vituale, nel 

presente, in quello che c’è”. Una prospettiva in netta 

controtendenza rispetto ad un mercato che puntava 

– e continua a farlo - a trascinare tutti nel fantastico. 

“Le nostre applicazioni ottennero un discreto 






















































successo, Apple ci mise in prima pagina”. Ma non fu 

abbastanza: “Non avevamo fondi per il marketing, né 

potevamo permetterci grandi personaggi che ci sponsorizzassero 

e allora abbiamo chiuso”. A oltre cinquant’anni 

Luca Prasso si è rimesso in gioco di nuovo 

e da imprenditore è diventato consulente. “Ho scoperto 

un piccolo gruppo di Google che si occupava di 

fare storytelling applicato alle nuove tecnologie, Spotlight 

Stories”. Inizia come consulente esterno prima 

e poi entra a far parte della compagnia. “Io mi sento 

un vent’enne e non mi spaventa l’idea di confrontarmi 

con tecnologie e strumenti nuovi, anzi mi esalta, mi fa 

sentire vivo”. 

E’ quello che gli inglesi chiamano “ingenuity”: che 

non significa ingenuità, ma che è la capacità di approcciare 

qualcosa di nuovo a mente fresca, l’abilità 

di tracciare linee fra i punti del discorso, ottenendo 

così prospettive diverse, aperte all’inaspettato, a 

quello che ancora non esiste, ma ci potrebbe essere. 

“E’ quello che facciamo a Google tutti i giorni, 

ovvero l’immaginarci l’uso della tecnologia per un 

futuro prossimo di cui non possediamo che accenni”. 

Costruire storie, alla fine, è anche questo: guardare 

al reale ed pensare a come sarà il mondo fra dieci, 

vent’anni, o anche solo domani. 

E l’Italia? “La porto nel cuore e magari, chissà, un 

giorno riuscirò a fare lì quello che faccio qui: ma per 

ora non è possibile, perché ho bisogno di essere 






























“IO MI SENTO 

UN VENTENNE 

E NON MI SPAVENTA 

L’IDEA DI 

CONFRONTARMI 

CON TECNOLOGIE 

E STRUMENTI NUOVI, 

ANZI MI ESALTA, 

MI FA SENTIRE 

VIVO.”


circondato da quest’humus creativo, da questo capitale 

umano, che rende la Silicon Valley quello che è, 

ovvero il posto ideale dove far nascere nuove idee”. 

E per i ragazzi un messaggio chiaro: “Passione per 

quello si fa, coraggio e soprattutto una mente aperta, 

capace di mischiare linguaggi creativi e abilità che 

servano ad affrontare il futuro”. Un forma mentis 

multimediale, in grado di pensare la società come 

sarà, non tanto com’è. 

“Oggi le grandi compagnie si stanno aprendo ai creativi 

che come me non sono ingegneri e neppure 

artisti, ma qualcosa che sta a metà fra i due mondi”. 

Perché nell’epoca degli smartphone e delle case domotiche, 

nel tempo del virtuale e dell’intelligenza artificiale, 

essere narratori, maestri pupari di marionette 

interattive, è un’arte. “L’uomo racconta e si racconta 

da migliaia di anni”. E indipendentemente dagli strumenti, 

non smetterà mai di farlo. 


















ium restio berioria et veliquo dio officipsum id mod


238

“CONSIGLIO DI 

STUDIARE, DI NON 

SMETTERE MAI DI 

IMPARARE. ANCHE 

NELLA MUSICA 

BISOGNA SAPERE 

INNOVARE: MENTRE 

I TEATRI LIRICI SI 

LAMENTANO DELLA- 

SCARSA AFFLUENZA, 

I CONCERTI DI BOCELLI 

SONO ESAURITI. 

I GIOVANI DEVONO 

COMPRENDERE 

COSA MANCA 

NELLA SOCIETÀ 

LOCALE E SAPER 

COLMARE IL GAP.” 


Pasquale Esposito 

TENORE 

TENOR

Pasquale Esposito, il cantante d’opera in California 

La sua avventura americana dimostra il valore universale 

dell’arte e della musica italiana. 

Dopo una semplice vacanza a Palo Alto nel 1998, al 

ritorno a casa Pasquale decide di partecipare alla 

lotteria per la Green Card. Due anni più tardi riceve 

una fatidica telefonata dal Consolato Americano 

di Napoli. Al momento rimane sbalordito: “Scusi, 

di quale lotteria sta parlando?” credendo fosse uno 

scherzo. Nonostante l’opposizione della famiglia, 

contraria al trasferimento, e nonostante le sue stesse 

esitazioni dettate dal forte legame con le radici 

napoletane, decide di non rinunciare a questa sfida. 

Appena atterrato nella Bay Area, un ufficiale del INS 

(Dipartimento di Immigrazione e Naturalizzazione) 

lo intervista e lo interroga sulla sua professione. La 

risposta “musicista” non sembra convincerlo. Subito 

l’ufficiale gli chiarisce che non riuscirà mai a mantenersi 

facendo quel mestiere, lo informa che deve cercarsi 

un lavoro vero al più presto, e gli consegna una 

lista di possibili occupazioni. “Sicuramente è stato 

uno shock, ma mi ha aperto gli occhi – e non mi 

sarebbe mai successo in Italia!” 

Gli inizi non sono stati facili. Con una padronanza 

della lingua abbastanza limitata, ha fatto un po’ di 

tutto, lavorando in bar e ristoranti, sempre però seguendo 

la sua passione per la musica; 

Appena riesce ad acquistare una tastiera ed un microfono, 

inizia ad offrire delle serate musicali 

in ristoranti della zona. A quel punto capisce che c’è 

spazio per la tradizione italiana del pianobar. 

“Mi accorsi che c’era molto interesse per la musica 

italiana, un interesse che spaziava generi e generazioni.” 

La sua formazione musicale eclettica e la sua 

creatività napoletana si rivelano un punto di forza 

inaspettato, perché gli consentono di spaziare dalle 

melodie italiane tradizionali, all’opera, al pop, offrendo 

un range molto ampio. 






















































Le difficolta e l’etica del successo della Silicon valley 

Le difficoltà non mancano. Trovarsi solo, lontano 

dalle proprie radici, non è semplice. Una vita sociale 

completamente diversa, meno collegiale e spontanea, 

è spesso motivo di sconforto: molti non ce la fanno. 

Dell’Italia infatti gli mancano i piccoli piaceri quotidiani: 

“I pomeriggi pigri, ritrovarmi in piazza con gli amici.” 

E riconosce che l’Italia gli ha dato molto: “Il senso 

della famiglia e delle radici. Un forte senso di identità 

che è stata la mia ancora di salvezza nei momenti più 

difficili.” Per Pasquale la difficoltà maggiore consiste 

nel riscoprire sé stesso nonostante la lontananza dalla 

madrepatria. “Devo molto al mondo italoamericano, 

ARTS


molto legato alla cultura degli antenati emigrati dall’Italia. 

Il loro amore per l’arte e la musica italiana mi 

ha sostenuto e incoraggiato.” Riconosce che essere 

italiani è una grande fortuna. 

Ma il nuovo contesto indubbiamente presenta dei 

vantaggi, che Pasquale sa cogliere: “Io non l’ho vista 

come una limitazione, ma come un processo di adattamento,” 

riflette Pasquale. 

“Quando sei nato, cresciuto, e vissuto a Napoli, tra 

l’altro in periodo molto difficile per la città, e ti trasferisci 

qui dove tutto funziona, chiaramente ti devi 

adattare. Ma questo ambiente così diverso mi ha 

permesso di concentrarmi molto sul lavoro.” 

Si laurea in canto lirico alla San Jose State University, 

e l’etica del successo di Silicon Valley lo sprona a raggiungere 

traguardi forse prima insperati: “Non so se 

in Italia sarei riuscito ad avere le stesse soddisfazioni, 

non so se sarei riuscito a fare un programma simile a 

quello trasmesso su PBS nel 2015 “Pasquale Esposito 

celebrates Enrico Caruso” seguito da 200 milioni di 

persone.” Una maratona concertistica filmata tra la 

costiera amalfitana e altri luoghi cari ad Enrico Caruso 

durante la quale Pasquale interpreta un ampio 

























ARTS

















































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di arie rese famose da Caruso. Nel 2018, 

Pasquale ritorna su PBS con unnuovo programma di 

grande successo,“Pasquale Esposito celebrates Italian 

Piazzas”: un tour de force musicale sulle piazze italiane 

che presenta mix originale di musica dal vivo e 

spezzoni di documentario. 

La più grande soddisfazione rimane la capacità di 

portare gioia ai suoi fan italoamericani riaccendendo 

in loro l’amore per l’Italia tramite la musica. 

E poiché la musica è un linguaggio universale, il suo 

club di fan si allarga oltre i confini della comunità 

italoamericana e ora include chiunque si riconosca 

nella storia dell’emigrazione. “Per me il dono più 

grande che il mio pubblico può farmi è venire ai miei 

concerti. In un’epoca dove hai tutto a portata di mano 

su Internet - anche la musica - il tempo è il dono più 

prezioso.” 

Per i giovani che vogliono emulare la sua esperienza 

ed emigrare seguendo le proprie inclinazioni artistiche, 

ha un consiglio preciso: “Consiglio di studiare, di 

non smettere mai di imparare. Anche nella musica bisogna 

sapere innovare: mentre i teatri lirici si lamentano 

della scarsa affluenza, i concerti di Bocelli sono 

tutti esauriti. I giovani devono comprendere cosa 

manca nella società locale e saper colmare il gap.” 

La musica ormai è un business globale: Pasquale 

collabora con orchestre europee per effettuare registrazioni 

classiche (lo fa anche Hollywood!), mentre si 

rivolge in Italia per produrre delle chitarre. 

“Sicuramente qui si vive con maggiore intensità, nel 

bene e nel male. Qui usiamo un orologio diverso, che 

va molto più veloce. Però i sacrifici vengono ricompensati 

da grandi soddisfazioni.” 

Gli aneddoti divertenti sono tanti. Come quando il 

manager del ristorante di Francis Ford Coppola, nel 

cuore di North Beach a San Francisco, lo informa 

che due signore sono rimaste colpite dalla sua performance 

e desiderano parlargli in privato. Con un 

inglese ancora un po’ incerto, si stupisce quando gli 

propongono un lavoro in una “Shower”, chiedendosi 

come avrebbe potuto cantare sotto la doccia con 200 

donne. In realtà si tratta della “wedding shower”, 

ovvero delll’addio al nubilato della figlia di una di 

quelle signore! “Cantare ai matrimoni e altre feste è 

stata per me un’esperienza importantissima, una tappa 

fondamentale della mia carriera qui, perché mi ha 

dato l’opportunità di rapportarmi con la comunità 

italoamericana e di capire cosa significasse la tradizione 

musicale italiana per loro.” 


Autore: 


Silvia Veronese, nata e cresciuta tra Verona e Courmayeur, 

arriva negli Stati Uniti negli anni ‘80 per lavorare 

nei centri di IBM a fianco del premio Nobel Murray 

Gellmann e Benoit Mandelbrot, inventore delle teorie 

frattali. Dopo aver insegnato matematica applicata 

e biologia computazionale all’Università dello Utah, 

arriva in Silicon Valley dove fonda diverse startups 

e diventa top manager aziendale in societa’ come HP. 

Silvia ha tre bellissime figlie nate negli Stati Uniti, 

ma italianissime, che amano il gelato, la vera pizza 

napoletana e le favole di Gianni Rodari. 


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Ringraziamenti 


Mauro Batocchi 

COMITES 

Consolato Generale d’Italia 

a San Francisco 

NASA 

University of San Francisco 

Stanford University 

University of California at Berkeley 

Silicon Valley Study Tour 

Dolce e Gabbana 

Collaboratori/ 

Collaborators: 

Emanuela Bricco 

Eleonora Chioda 


Lana Kotwicki 

Paolo Marenco 

Ermelinda Porpiglia 

Delphine Veronese-Milin 

Sophia Veronese-Milin

Fotografia/Photo: 

Flavia Loreto 

Flavia Loreto è una fotografa specializzata nel ritratto. Nata a Roma 

nel 1968, ha trascorso più di vent’anni 

in Germania dove ha aperto il suo primo studio 

fotografico. Dal 2016 vive in California e lavora come fotografa freelance. 

Flavia ha collaborato con agenzie pubblicitarie, riviste e giornali. 

Tra le sue mostre: Donne (Düsseldorf 2013) - A Day 

in Naples (San Francisco 2017). Oltre alla fotografia, 

Flavia ama trascorrere il tempo con i suoi tre figli: Sven, Mark e Erik. 

Carlo Borlenghi 


Carlo Borlenghi, fotografo di fama internazionale da più di 30 anni 

lavora nel campo della vela. Dal 1987 e’ il fotografo ufficiale dell’America’s 

Cup e degli eventi nautici internazionali Rolex. Nel 1983 ha 

ottenuto il premio “Marian Skubin” per la migliore fotografia sportiva 

pubblicata in Italia. 

Vincitore di numerosi premi tra cui il riconoscimento ‘per i molti anni 

di intensa attività a favore del mondo della vela’ dal Presidente della 

Repubblica Giorgio Napolitano. Ha seguito Luna Rossa durante l’America’s 

Cup a San Francisco nel 2013. 

Le interviste Luca Maestri, Adriano Farano, Christian Ferri, Federico Faggin, Bibop Gresta sono state realizzate da Eleonora Chioda, giornalista economica.

“THERE IS 

AS YET INSUFFICIENT 

DATA FOR A 

MEANINGFUL ANSWER” 

“NON CI SONO MAI 

ABBASTANZA DATI PER 

UNA RISPOSTA 

COMPLETA” 

“The last question” 

ISAAC ASIMOV 

PER ASPERA 

AD ASTRA 

THROUGH HARDSHIP 

TO THE STARS 

“A GOAL 

IS A DREAM 

WITH A DEADLINE” 

“UN GOAL E’ UN 

“Confidential ATTRAVERSO - Not LE for distribution - pre-production copy “ 

ASPERITÀ SINO ALLE 

SOGNO CON UN 

STELLE 

OBBIETTIVO” 

NAPOLEON HILL 

“THAT’S BEEN 

ONE OF MY MANTRAS 

— FOCUS AND SIMPLICITY. 

SIMPLE CAN BE HARDER THAN 

COMPLEX: YOU HAVE TO WORK HARD 

TO GET YOUR THINKING CLEAN TO MAKE 

IT SIMPLE. BUT IT’S WORTH IT IN THE END 

BECAUSE ONCE YOU GET THERE, YOU CAN 

MOVE MOUNTAINS” 

“QUESTO È UNO DEI MIEI MANTRAS 

– CONCENTRAZIONE E SEMPLICITÀ’ – 

LA SEMPLICITÀ’ È PIÙ DIFFICILE 

DELLA COMPLESSITÀ. DEVI LAVORARE 

DURO PER RENDERE LE COSE SEMPLICI. 

MA NE VALE LA PENAPERCHE’ 

QUANDO CI ARRIVI, PUOI 

SPOSTARE MONTAGNE” 

STEVE JOBS

“INIZIARE 

UN NUOVO CAMMINO 

CI SPAVENTA, MA DOPO 

OGNI PASSO CI RENDIAMO 

CONTO DI QUANTO FOSSE 

PERICOLOSO RIMANERE FERMI.” 

“NEW ADVENTURES CAN BE 

SCARY, BUT AFTER EACH STEP 

ONE REALIZES HOW 

DANGEROUS IT WOULD HAVE 

BEEN TO STAND STILL.” 

ROBERTO BENIGNI 

“WHEN 

YOU INNOVATE, 

YOU’VE GOT TO BE 

PREPARED FOR 

EVERYONE TELLING YOU 

YOU’RE NUTS” 

“QUANDO INVENTI, 

PREPARATI AD ESSERE 

PRESO PER UN MATTO.” 

LARRY ELLISON 


“THE ONLY 

REAL FAILURE IS THE 

FAILURE TO TRY AND THE 

MEASURE OF SUCCESS 

IS HOW WE COPE WITH 

DISAPPOINTMENT.” 

“IL PIU GRANDE FALLIMENTO 

E’ IL NON PROVARE; 

IL SUCCESSO E’ PROPORZIONALE 

ALLA NOSTRA ABILITA’ DI 

GESTIRE IL FALLIMENTO. 

DEBORAH 

MOGGACH 

“IF 

EVERYTHING 

IS UNDER CONTROL, 

YOU’RE NOT GOING FAST 

ENOUGH!” 

“IF EVERYTHING IS 

UNDER CONTROL, 

YOU’RE NOT GOING 

FAST ENOUGH!” 

MARIO 

ANDRETTI

UN LIBRO SUGLI ITALIANI 

IN SILICON VALLEY 

SONO ITALIANI, ITALIANISSIMI, MA HANNO LASCIATO 

L’ITALIA PER AVVENTURARSI IN CALIFORNIA NELLA 

SILICON VALLEY. DIETRO STORIE DI SUCCESSO 

C’È’ ARDUO LAVORO E TANTI FALLIMENTI. ED UNA 

GRANDE PASSIONE PER L’ITALIA. DA OLIVETTI ALLA 

APPLE ALLE STARTUPS SONO STORIE RACCONTATE 

DA LORO, IN PRIMA PERSONA. DA JANET NAPOLITANO, 

EX-SEGRETARIO DELLA SICUREZZA NAZIONALE DEGLI 

STATI UNITI A LUCA MAESTRI, DIRETTORE FINANZIARIO 

DELLA APPLE, AI RAGAZZI DELLA NASA CHE 

“Confidential STUDIANO LA - Not VITA for SU distribution MARTE, AL - pre-production MITICO FEDERICO copy “ 

FAGGIN, PADRE DEL MICROPROCESSORE. 

UNA RACCOLTA DI ESPERIENZE PERSONALI DI STORIE 

DI VITA. E’ LA NUOVA IMMIGRAZIONE, CHE NON 

CHIUDE PORTE, MA VA INCONTRO AL FUTURO. 

SONO CERVELLI ITALIANI NEL MONDO. 

E’ LA VALLE DEL SILICIO. 

LIBRO REALIZZATO GRAZIE AL CONTRIBUTO DEL MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI E DELLA COOPERAZIONE 

INTERNAZIONALE CON IL SOSTEGNO DEL CONSOLATO GENERALE D’ITALIA A SAN FRANCISCO. 

BOOK PUBLISHED THANKS TO THE CONTRIBUTION OF THE MINISTRY OF FOREIGN AFFAIRS AND INTERNATIONAL 

COOPERATION OF ITALY WITH THE SUPPORT OF THE CONSULATE GENERAL OF ITALY IN SAN FRANCISCO.

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