Marco Cavalli
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I mostri hanno sempre ragione<br />
di <strong>Marco</strong> <strong>Cavalli</strong><br />
Un’opera di letteratura si fa in fretta a riconoscerla: è quella che, una volta<br />
letta, mette addosso una voglia irresistibile di parlarne. Se davvero è un’opera<br />
di letteratura, il linguaggio che suscita nel lettore sarà il suo e soltanto il suo -<br />
ovvero, di solito, un linguaggio di statura inferiore, di gran lunga inadeguato<br />
allo scopo. Un ingolfamento di linguaggio: un balbettio, un vuoto di parole.<br />
Insomma, un linguaggio immancabilmente velleitario. Talvolta il lettore<br />
prova a rimediare facendo la mimesi della prosa dello scrittore, ricalcandone<br />
lo stile. Ricalca perché incapace di disegnare con parole sue - unico dato<br />
significativo che si può ricavare da simili operazioni scimmiesche. L’opera di<br />
letteratura, infatti, ha una caratteristica ulteriore che la rende riconoscibile: si<br />
astiene dal parlare di sé direttamente, in prima persona. L’oggetto dei suoi<br />
discorsi, anche quando è la letteratura stessa, cioè la forma in cui quei discorsi<br />
sono tenuti, è sempre l’altro da sé.<br />
Questa è anche una delle morali acquattate tra le pagine del nuovo romanzo<br />
di Aldo Busi, El especialista de Barcelona: un uomo autenticamente umano<br />
mette la sua umanità non nella tela che dipinge ma nella mano che regge il<br />
pennello. L’umanità non può entrare senza falsificarsi in una narrazione in<br />
cui sarebbe protagonista l’umanità di chi narra; e tuttavia, se stiamo a un’altra<br />
delle numerose tangenti di discorso che solcano El especialista de Barcelona,<br />
solo un uomo autenticamente umano è capace di narrazione. Dove non c’è<br />
umanità, non c’è racconto.<br />
El especialista de Barcelona pone ai lettori un problema su cui si arrovella<br />
anche il protagonista e narratore del romanzo. Costui è uno scrittore di una<br />
certa età che ha scelto da un pezzo di non scrivere più. Seduto su una sedia<br />
isolata all’ingresso della Rambla, elenca le ragioni della sua astensione a una
foglia in bilico su un platano. Ragioni tutte più o meno riconducibili alla<br />
figura di un docente universitario di Barcellona, uno specialista “in madrigali<br />
angolani del secolo XVI” che lo scrittore ha frequentato negli ultimi<br />
venticinque anni.<br />
La storia di questo non-rapporto è in se stessa dimenticabile, perché niente<br />
nell’especialista lo distingue dalla media dei complessati e velleitari e<br />
furbastri ipocriti a loro insaputa con cui lo scrittore si è intrattenuto in<br />
passato e deve continuare a intrattenersi al presente in mancanza di<br />
alternative.<br />
“Era così teatralmente, folcloristicamente, odiosamente infrequentabile e in<br />
buona fede malintenzionata il mio especialista de Barcelona che la solidarietà<br />
che mi suscitava, scaturita dal ribrezzo più profondo e quasi anodino, era più<br />
forte di me, e il mio giudizio negativo, anzi, repulsivo su di lui era così<br />
instabile che mi bastava vederlo arrivare nel suo giubbettino di pelle nera<br />
troppo stretto per quel torace dalle grosse tettine più la pancetta che gli<br />
cominciava dallo sterno, i jeans di due taglie in meno e quegli stivaletti a<br />
punta con fibbia, e tacchi consistenti tanto da dargli un’inclinazione sempre<br />
un po’ prospiciente, e quel tocco di giallo sfacciato girocollo per sciogliere<br />
ogni mia riserva e psichico vapore nauseabondo al minimo contatto.” (p. 98)<br />
La solidarietà che spinge lo scrittore oltre il ribrezzo ideologico ispiratogli<br />
dall’especialista, è soprattutto una reazione alla legittimità di quel ribrezzo. È<br />
come se lo scrittore sentisse che allontanarsi da un soggetto tanto<br />
umanamente sgradevole non rappresenta la soluzione del problema, ma ne<br />
faccia parte.<br />
La sgradevolezza dell’especialista è particolare perché il personaggio in<br />
questione non ha più niente di particolare, cioè non ha spessore politico. È il<br />
campione a caso di una umanità fatta a stampino in cui “gli altri sono gli uni,<br />
vai con uno e ti ritrovi l’altro”, storica ormai solo per modo di dire e<br />
intercambiabile: il trionfo del due al posto di uno come espressione del niente<br />
del tutto. I dualismi sessuali, istituzionali e ideologici non identificano più
altrettante realtà, sono solo doppioni di una medesima disperazione. Tra i<br />
papaboys e gli indignados non c’è che una differenza di slogan e di<br />
abbigliamento: il conformismo è lo stesso. Persino i luoghi geografici si<br />
equivalgono, fanno paese. Siamo a Barcellona, in Spagna, ma potremmo<br />
trovarci in Italia, a Montichiari, tanto identici e antiquati sono i<br />
provincialismi e le diatribe municipali in cui si spacca la penisola (qui<br />
castigliano vs. catalano, lì italiano vs. dialetto, ed è divertente seguire lo<br />
scrittore mentre cerca nella sua tastiera mentale gli accenti corretti per parole<br />
di per se stesse intelligibili anche senza inflessione).<br />
La scena surreale su cui si apre il romanzo – lo scrittore seduto da solo a<br />
colloquio con una foglia di platano – indica una sopravvenuta (nello scrittore)<br />
stanchezza-stitichezza, è la prova di una volontà di non tirare fuori più niente<br />
da sé se non tra sé e sé, poiché “c’erano una volta gli altri e poi<br />
improvvisamente scomparvero dalla faccia della terra e io non fui pertanto<br />
più un altro per nessuno.” (p. 56)<br />
In più d’una occasione lo scrittore ripete alla foglia di aver già scritto quanto<br />
le va dicendo. La “scomparsa dell’altro” ha origini remote e documentabili,<br />
benché ignorate, e investe retroattivamente l’umanità che ha fatto da<br />
incubatrice all’odierno sistema “delle bestie feroci contro le bestie inermi in<br />
attesa di inferocirsi”. Rimosso, accantonato, dimenticato dai suoi simili, lo<br />
scrittore ha alle spalle libri non meno coraggiosi ed esatti di quello che stiamo<br />
leggendo. Egli è determinato a non scriverlo appunto perché lo ha già fatto, e<br />
vanamente; perché agli occhi del prossimo è come se lui non avesse scritto e<br />
fatto niente, a parte passare in televisione di quando in quando: “… su una<br />
sedia sono stato folgorato da una ricompensa ancora più impensabile e<br />
impensabilmente vitale per me, la più esaltante e inedita di tutte: scrivere<br />
nella testa, scrivere per me un bel romanzo che potessi leggere solo io, intanto<br />
che, seduto e dimenticato da qualche parte, si sarebbe fatta sera da sé.<br />
Scrivere un gran bel romanzo solo per me e che, come me, sarebbe rimasto<br />
cancellato. Sconosciuto davvero, sconosciuto del tutto, sconosciuto per
sempre, non sfogliato, non sfiorato, non irretito, non leggiucchiato …” (pp.<br />
336-337)<br />
L’informazione che l’intelligenza dello scrittore non può ormai tacere, che non<br />
è più libera di nascondere a se stessa, è di esserci, e soprattutto di esserci<br />
stata. Il che rende la disumanizzazione globale in corso un processo di<br />
disfacimento accolto e perseguito dagli uomini e dalle donne che ne sono<br />
compartecipi, non una fatalità storica conseguente a una mancanza di<br />
alternative.<br />
Non spetta più allo scrittore riconoscere l’altro negli altri allorché l’unico<br />
sconosciuto ancora da riconoscere è rimasto lui. La sua intelligenza, compiuto<br />
ormai il periplo anche di se stessa, è impossibilitata a guardare oltre. Se<br />
guardasse oltre, vedrebbe un altrove ideale, fantasticato, e farebbe harakiri; il<br />
passo successivo, l’unico possibile, è la reversibilità dello sguardo: essere visti<br />
per poter continuare a vedere di nuovo. Ci vorrebbe un altro, qualcuno che si<br />
accorgesse dell’umanità dello scrittore e acconsentisse finalmente a parlarne,<br />
individuando così, col semplice atto di riconoscerla nel prossimo, anche la sua<br />
propria umanità.<br />
In breve, El especialista de Barcelona si situa non solo rispetto a una<br />
cronologia ma anche rispetto a una bibliografia. O meglio, la cronologia del<br />
romanzo include, senza mai averne tenuto conto, l’opera letteraria dello<br />
scrittore. Costui è obbligato, per così dire, a tenerne conto al posto di chi<br />
dovrebbe farlo, e prende questa risoluzione paradossale nonostante tutti gli<br />
inconvenienti e i pericoli che comporta. Tra i quali, non ultimo, il rischio di<br />
contrarre quel complesso del padreterno o “sindrome dello psiconano” che<br />
accomuna i personaggi apparentemente più diversi e sconcertanti del<br />
romanzo.<br />
Un’umanità identificabile esclusivamente in un suo rappresentante, e da lui<br />
soltanto, sarebbe infatti l’ennesima umanità taroccata alla radice, una<br />
contraddizione in termini che in quanto a capacità di autoinganno non<br />
avrebbe niente da invidiare all’umanità genericamente fraudolenta degli
umani di sempre. Conoscendo in anticipo il rischio, lo scrittore decide di<br />
prenderlo per le corna, di giocare d’anticipo, conscio che “bisogna decidersi a<br />
precedere i tempi: l’unico modo per un’azienda europea di far fronte alla<br />
concorrenza asiatica è produrre e commercializzare da sé i propri falsi.” (p.<br />
142) Attorniato da persone inadeguate sia a parlare con sincerità sia a<br />
riconoscerla, lo scrittore si rassegna a produrre anche lui un falso; nel suo<br />
caso, un romanzo “mentale” che si cancella intanto che va scrivendosi; per<br />
giunta, un romanzo su un’umanità immemore e degna solo di oblio in cui la<br />
memoria è usata non per ricordare i fatti bensì per dimenticarli; un romanzo<br />
dove fare piazza pulita di personaggi uguali tra loro e desolanti significa<br />
distinguerli l’uno dall’altro e guardarne la desolazione con occhi non<br />
sconsolati.<br />
Lo scrittore inserirà nel romanzo proprio l’uomo in cui corre il rischio di<br />
trasformarsi a forza di pensare alla propria come all’unica umanità rimasta,<br />
cioè l’uomo che si ritiene superiore agli altri. Accanto a lui, metterà l’uomo<br />
che gli è complementare, il suddito che si prosterna ai piedi dell’uomo<br />
superiore da lui stesso innalzato e idolatrato, giacché “non è bello togliere al<br />
popolo bue l’altarino del vittimismo che innalza l’idolo da odiare e da temere<br />
per farne il capro espiatorio in prospettiva e intanto da adorare sgravandosi di<br />
ogni responsabilità personale e individuale, eh.” (pp. 357-358)<br />
Sembra impossibile che, da dentro un sentimento così pronunciato della<br />
propria eccezionalità o esuberanza d’umanità, lo scrittore riesca a produrre<br />
un antiromanzo che è un vero romanzo il cui io narrante risulta non il custode<br />
di una propria inalienabile umanità, quanto il depositario ad interim<br />
dell’umanità che manca agli altri. Eppure è questa l’impressione che si ricava<br />
leggendo El especialista de Barcelona.<br />
Il personaggio dello scrittore è dotato di molte virtù, ma ognuna di esse non è,<br />
a ben guardare, che un riflesso della medesima pietas in contesti diversi.<br />
Ognuna di queste virtù implica i vizi degli altri anziché cancellarli, e perciò si<br />
espone al pericolo di essere fraintesa, scambiata per una perversione.
Dunque non c’è niente di insolito nel fatto che lo scrittore accetti l’invito<br />
dell’especialista a fare da testimone al suo matrimonio gay. Né che, ospite del<br />
miniappartamento del promesso sposo, si accorga fin dal primo giorno che<br />
questi non intende accontentarsi di un elettrodomestico quale regalo di nozze,<br />
ma pretende dallo scrittore che si trasformi lui in un elettrodomestico, di<br />
quelli multiuso e a garanzia illimitata.<br />
Andare ospite dell’especialista, di fatto per fargli da inserviente factotum, è in<br />
effetti un autentico invito a nozze per uno che preferisce continuare a farsi<br />
sequestrare da esseri umani indegni di questo appellativo piuttosto che<br />
sequestrarsi da sé ed esiliarsi da un’umanità sentita ormai come indegna di<br />
memoria e di menzione.<br />
Durante sette giorni, lo scrittore sonda il divario antropologico e quasi<br />
metafisico che lo divide dall’especialista dentro il suo stesso habitat. Un<br />
abisso su cui, pur di colmarlo, lo scrittore rovescia a piene mani lealtà,<br />
urbanità, fair play, senso della pulizia e del decoro, e denaro di tasca propria.<br />
L’astio, l’incuria, l’ostilità che il professorino di Barcellona gli manifesta,<br />
intercalati da un’espansività melliflua e allusiva, sembrano invocare<br />
l’applicazione della legge del taglione, e ottengono invece un’intensificarsi di<br />
generosità. “Che si dicesse che lo facevo per mettermi in mostra o perché ero<br />
un invertito in tutto, non mi riguardava. Esperienza più inebriante non<br />
l’aveva fatta ancora nessuno, mi sembrava, e ero andato perfezionandone la<br />
metodologia estrapolandola da ogni singolo caso e riaggiornandone la sintesi<br />
sociofilosofica. Con questo, non credevo di fare del bene a nessuno, né<br />
concreto né liquido, culturale, quindi non mi davo arie, era più facile che me<br />
ne lamentassi che non me ne gloriassi, mi seccava di privarmi delle cose di cui<br />
mi privavo, ma sentivo che dovevo farlo se erano doppioni di cose, e che una<br />
doveva bastarmi, (...).” (p.217)<br />
La pietas dello scrittore non si spiega in termini di affetto o di bontà. “La<br />
sintesi per resistere al dolore di fare del bene per niente, del bene in sé, non<br />
aveva alcun fondamento nella semplice bontà (…), occorreva mettere all’opera
un sistema di resistenza a ogni possibile e prevista frustrazione. Tanto per<br />
cominciare, (…) creare una spietatezza al contrario, la lotta senza quartiere al<br />
cinismo dei semplici che schifano il fare del bene perché ‘nessuna buona<br />
azione resterà impunita’, dovevo armarmi del cinismo più inattaccabile:<br />
l’anticinismo.” (p.219)<br />
Senza l’affetto, la pietas sarebbe vuota; ma l’affetto non basta. C’è una pietas<br />
che esclude le complicità equivoche dell’affetto e che consiste nell’essere<br />
devoti all’umanità in quanto progenitrice anche dei sentimenti elaborati<br />
contro di essa. Questa è pietas, perché comporta l’accettazione di un vincolo<br />
che non si è scelto. L’affetto muta, quando è sentito come un dovere d’affetto.<br />
Senza tale vincolo, la devozione non sarebbe più un dovere ma uno slancio<br />
episodico, accidentale, oppure si ridurrebbe a opportunismo, alla gratitudine<br />
per la considerazione, i favori, le cure ricevute. Mai l’affetto dello scrittore si<br />
mostra tanto chiaramente come quando l’especialista e la sua orda di parenti<br />
gliene fanno di tutte.<br />
La famiglia fin troppo allargata dell’especialista è un campionario di sogni<br />
della ragione alla Goya. Sono mostri antropomorfi che non si guardano mai<br />
allo specchio, non dubitano mai, non sbagliano mai. Simpatici e caciaroni,<br />
incapaci di servire e di dominare, di amare e di accettare amore, sono troppo<br />
abituati alla doppia vita per farvi caso, troppo inetti e lontani dalle cause delle<br />
loro azioni per essere innocenti o colpevoli. Quanto più beatamente e con<br />
superbia vivono i loro sogni da svegli, tanto più deboli si rivelano nella vita;<br />
così deboli che è impossibile rendersene conto in mancanza di una debolezza<br />
che faccia contrasto, come quella della scrittore.<br />
La famiglia descritta ne El especialista de Barcelona è tradizionale per<br />
definizione, specie quando si vuole trasgressiva per moda. Le rivoluzioni e<br />
mutazioni che ne sconvolgono l’assetto sono tutte di parata. Sono<br />
ringiovanimenti, ritocchi di chirurgia plastica. L’ordine dei fattori, anche se<br />
invertito, non cambia il prodotto (“Fare una cosa e chiamarla il contrario,<br />
ascriverlo all’altro quello che vuoi fare tu o che addirittura stai facendo tu. È
l’inversione, l’invertitismo, l’inverso, chiamalo come vuoi, che fa rigare dritto<br />
il mondo”, p. 270). Invano le trame dei rapporti si complicano e si<br />
scompaginano: lo schema sottinteso è fisso ed elementare quanto i canovacci<br />
della commedia dell’arte a cui sembra ispirarsi.<br />
Questa famiglia – come il suo nucleo molecolare, la coppia – è programmata<br />
per restare nel tempo arrestando il tempo. Resta in vita cibandosi dei suoi<br />
resti, come un insetto dei propri escrementi. Niente nasce, tutto si riproduce<br />
soltanto. L’unica sessualità ammessa come tale e praticata è incestuosa.<br />
Maternità e paternità sono condizioni per poter fare sesso, non conseguenze<br />
del sesso fatto. Non è necessario che i legami siano di sangue, basta credere e<br />
dare a intendere che lo siano.<br />
È un sistema chiuso dove non c’è spazio che per il “noi” tribale, percorso da<br />
pedofili e gerontofili che non saranno mai vecchi e che non sono mai stati<br />
bambini. Dominati dalla biologia, credono di rovesciare i ruoli invertendo i<br />
sessi, di fatto lasciando immutate gerarchie e relazioni di potere, poiché<br />
maschio e femmina sono parti sociali soggette al vento mutevole della storia e<br />
delle sue decifrazioni. (Una donna che spera di rovesciare la sua condizione<br />
sottomessa diventando un maschio, da maschio crederà di comandare<br />
ordinando a un sottoposto di sottometterlo. Da donna il suo modo di volere la<br />
sottomissione era subirla, da maschio non può subire la sottomissione se non<br />
pretendendola.)<br />
Giunto al sesto giorno di servitù volontaria in quella gabbia di animali pazzi,<br />
lo scrittore si rende conto che rischia o di finire sbranato o di sbranare a<br />
propria volta. Trattare con umanità dei mostri è pericoloso almeno quanto<br />
non riconoscergliene una. L’unica profilassi è strapparsi di dosso gli artigli<br />
finché non si è ancora il mostro cui l’especialista e quelli come lui aspirano a<br />
trasformare lo scrittore per potergli dire che il mostro è lui.<br />
Il protagonismo dei tempi moderni, secondo Busi, non dà scampo: o lo<br />
contrai da te isolandoti dagli appestati, o te l’attaccano loro per contagio<br />
(“Dalle epidemie di un tempo qualcuno poteva salvarsi, da quelle di oggi non
si salva nessuno”, p. 133). Dopo aver fatto di tutto per evitare di divinizzare la<br />
propria comprensione dell’umano, lo scrittore deve sottrarsi alla tentazione di<br />
finire schiavo, per comprensione fattasi routine, di un nano che si crede un<br />
dio e che alimenta il suo miraggio di innalzamento personale grazie al gioco al<br />
ribasso cui sottomette l’intelligenza altrui.<br />
Nel lasciare l’appartamento dell’especialista, lo scrittore non immagina che di<br />
lì a pochi minuti farà trasloco nell’appartamento della vicina di casa,<br />
soprannominata Fata della Candeggina. Casa che sta a quella dell’especialista<br />
come una reggia sta a un tugurio, con arredi tanto preziosi quanto opprimenti<br />
e che non sono neanche arredi da salotto, ma da museo, ai quali un lusso<br />
magnatizio internazionale fornisce l’adeguato sfondo di tappeti, serre,<br />
cristalleria. Per lo scrittore, penetrare nell’antro fatato di questa Alcina è<br />
come vedersi venire incontro la maschera dell’intelligenza trasfigurata<br />
dall’operazione di lifting cui si è prestata per la stupidità di voler rimanere<br />
uguale a se stessa, per non aver più voluto guardarsi con occhi non suoi.<br />
La Fata della Candeggina è una apparizione gotica, sul ciglio dell’inverosimile<br />
romanzesco. Essa è la personificazione dell’ipercoscienza, dell’intelligenza che<br />
si crede assoluta. È evidentemente un fake, un doppio apocrifo dello scrittore:<br />
la dimostrazione per via di letteratura che, se lasciata a ruotare intorno al<br />
proprio perno, la lucidità più illuminata, che da sola tutto riflette, raggiunge le<br />
stesse vertigini di ottundimento della famiglia di massa al massimo del suo<br />
oscurantismo.<br />
I discorsi della Fata sono tutti dimostrativi ed esibizionistici. Con la verbosità<br />
del predicatore, fornisce delucidazioni non richieste, racconta quant’è<br />
tollerante e previdente e generosa, e nel farlo si compiace di minimizzare<br />
l’illegalità e la brutalità dei mezzi cui ricorre. La presenza dello scrittore le<br />
serve per mimare una parvenza di collegialità e complicità, come si vede dal<br />
modo civettuolo in cui la Fata parla della condizione dell’especialista: per<br />
antifrasi, cioè affettando di invidiarla.
L’esclusione dal conformismo dell’especialista permette di scoprirne gli<br />
aspetti sordidi ma costringe la Fata a tradire il suo proprio bisogno di<br />
conformità, un conformismo elitario, che si crede speciale, diverso dal<br />
conformismo in braghe di tela. In realtà, il bonapartismo, la sguaiataggine<br />
sulle proprie debolezze, la spregiudicatezza fasulla perché sempre annunciata<br />
e mai posta in atto, l’oscillazione pendolare tra l’autodenigrazione e la<br />
megalomania, sono altrettanti pendant del complesso di inferiorità<br />
dell’especialista; sono il sigillo che un familismo elettivo appone alla<br />
familiarità del sangue, confermandola.<br />
Che sia la Corte di una Regina o lo sgabuzzino del Nano, la famiglia non cala<br />
da un certo diapason e avvisa di continuo che le sue stanze non sono semplici<br />
stanze e che non sono fatte per abitarci ma per essere guardate con<br />
ammirazione, o con disgusto. Accanto a questo diapason, lo scrittore registra<br />
una nota di sdilinquimento infantile, il vezzeggiativo abbinato allo stentoreo,<br />
segno di una trascuratezza fondamentale che nasce da un disamore<br />
inconfessato verso la vita, che sia in ricchezza o in povertà. Perché neanche la<br />
Fata della Candeggina è poi così temibile se ci si rende conto che la paura che<br />
incute è per tre quarti il bisogno di provarla che hanno le sue vittime. E che,<br />
forse, nessun sicario ha mai ricevuto ordine dalla Fata di eliminare uno<br />
scrittore che sa e ha capito troppo. C’è meno protagonismo, e più coraggio<br />
terra terra, nel riconoscere di essere “un morto civile, uno fatto fuori senza<br />
spargimento di sangue esterno, senza colpo ferire (…).” (p. 10) La sincera<br />
miseria di quel che si è, è sempre più interessante delle sue proiezioni.<br />
Chiunque, letto El especialista de Barcelona, voglia tradurre in parole sincere<br />
la sincerità delle sue impressioni di lettura, si ritrova a fare i conti con la<br />
miseria e l’insincerità delle parole sulle quali è abituato a puntellarsi.<br />
Insincerità che incomincia dal fatto di aver ricevuto in dote quelle parole<br />
senza fargli la tara o verificarne la provenienza.<br />
Il risultato è che si riescono a dire le proprie impressioni solo a patto di<br />
defraudarle della sincerità, che significa della loro forza espressiva a venire,
coincidente con la loro debolezza momentanea. Il che può avvenire usando un<br />
linguaggio non all’altezza, un linguaggio che intorbida anziché chiarificare, o<br />
(come nel caso della mimesi del linguaggio dell’opera) cercando di usare un<br />
linguaggio non essendone all’altezza. In quanti, recensendo il nuovo romanzo<br />
di Busi, si sforzano di allungare le gambe alla loro sintassi pur di mettersi alla<br />
pari con una prosa che calza stivali delle sette leghe! E quanti, nel tentativo di<br />
dare un’idea delle distanze colmate da quella prosa, l’hanno nanificata<br />
riducendola a una caricatura di se stessa.<br />
Insomma, se ci si vuole attenere alla sincerità delle proprie impressioni di<br />
lettura, bisogna essere disposti a considerare El especialista de Barcelona<br />
come uno specchio in cui si riflettono, invece che un equilibrio di pensiero e<br />
una disciplina di scrittura (tutte facoltà dell’autore), il profilo basso e la<br />
sicumera del lettore standard.<br />
Non si può parlare criticamente di questo romanzo se non si accetta un dato<br />
di fatto tanto imbarazzante quanto sicuro: vale a dire che è molto più<br />
attrezzato il romanzo a fare la critica dei lettori, che non i lettori a fare quella<br />
del romanzo.