02. Istituzione totale
Chapter 2 of Stigma: storia di un'istituzione totale In such a controverse and extraordinary period, I wanted to discuss important themes. I tried to graphically communicate strong emotions in order to engage readers and make them reflect, so that they can form their own opinion about events, that should not be forgotten and from which we can still learn. This is the reason why I chose to deal with the topic of mental health during the 1900s in Trentino-Alto Adige and its most exemplary establishment: the Pergine Valsugana ex-asylum. The main concept is to present a total institution in its purpose: give an order to society by getting problematic and eccentric individuals away and isolate them in asylums, just like in jails. In its continuous interweaving of order and eccentricity, this project, Stigma: storia di un’istituzione totale, aims to present facts from the point of view of an ordered and hierarchical institution.
Chapter 2 of Stigma: storia di un'istituzione totale
In such a controverse and extraordinary period, I wanted to discuss important themes. I tried to graphically communicate strong emotions in order to engage readers and make them reflect, so that they can form their own opinion about events, that should not be forgotten and from which we can still learn. This is the reason why I chose to deal with the topic of mental health during the 1900s in Trentino-Alto Adige and its most exemplary establishment: the Pergine Valsugana ex-asylum. The main concept is to present a total institution in its purpose: give an order to society by getting problematic and eccentric individuals away and isolate them in asylums, just like in jails. In its continuous interweaving of order and eccentricity, this project, Stigma: storia di un’istituzione totale, aims to present facts from the point of view of an ordered and hierarchical institution.
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02. Istituzione totale
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E – vi preghiamo – quello che succede ogni giorno
[non trovatelo naturale.]
Di nulla sia detto: è naturale
in questi tempi di sanguinoso smarrimento,
ordinato disordine, pianificato arbitrio,
disumana umanità,
così che nulla valga
come cosa immutabile.
- Bertolt Brecht, L’eccezione e la regola
Pazienti dell’ex Ospedale
psichiatrico di Pergine.
dal filmato documentario
Il lavoro [in]visibile
ISTITUZIONE TOTALE
Contesto storico generale dell’ex Ospedale
Psichiatrico di Pergine Valsugana
08
Introduzione
Un’istituzione totale tra ordine ed eccentricità
10
Paragrafo 1
La storia manicomiale in Trentino - Alto Adige
16
Paragrafo 2
Dalla Grande Guerra al 2002
26
Paragrafo 3
Alcuni dati ufficiali
Istituzione
dalle origini alla fine
Pazienti dell’Ospedale
psichiatrico di Firenze, 1968.
CARLA CERATI / courtesy
Elena Ceratti.
“ perchè dove vengono
tutelati i diritti dei più
deboli, improbabili,
eccentrici, sicuramente
crescono i diritti di tutti ”
Beppe Dall’Acqua
totale
8
STIGMA
Un’istutuzione totale
tra ordine ed eccentricità
Testo di Alfredo Vivardelli
L’Ospedale psichiatrico di Pergine Valsugana ha compiuto 120
anni quando, nel novembre del 2002, in ottemperanza alla delibera
n. 3356 del 14 dicembre 2001 della Provincia autonoma di
Trento, ha smesso di essere ospedale e si è riorganizzato in sette
strutture psichiatriche, una residenza sanitaria assistenziale per
pazienti disabili e geriatrici e una residenza sanitaria assistenziale
psichiatrica. Questo passaggio è l’ultimo, in termini cronologici, di
un percorso che ha risentito delle grandi trasformazioni politiche,
sociali, culturali e scientifiche che hanno preceduto e accompagnato
la nostra istituzione.
All’inizio dell’Ottocento, in piena epoca illuminista, il disturbo
mentale era considerato «una alterazione della capacità morale
e una perversione della volontà». La cura consisteva in una mescolanza
inestricabile di trattamenti medici tradizionali (purghe,
salassi, digiuni, riposi, bagni caldi e freddi, ecc.) e di trattamenti
educativi. In base a questa concezione i pazienti venivano sottoposti
a forme di tirocinio repressivo con lo scopo di «modellare
e ristrut- turare rigidamente lo spirito». In seguito, ma sempre
fedeli a questo orientamento, si affacciarono tentativi più umanitari
e liberali e meno repressivi: si trattava di far assorbire più fiduciosamente
ai malati di mente una personale autodisciplina e
autorepressione senza passare attraverso il terrore, l’umiliazione
e la violenza. L’ideologia della scienza della fine dell’Ottocento,
lo sviluppo del metodo anatomo-clinico e i grandi successi della
medicina contribuirono allo sviluppo della ideologia medica positivista
anche in psichiatria. Con questa concezione il malato di
mente non è più una persona che si comporta in modo abnorme,
ma solo un organismo che funziona male. Il comportamento del
malato psichiatrico ritorna a essere incomprensibile: una eventuale
comprensibilità è fuori questione, non ha alcun interesse,
ISTITUZIONE TOTALE 9
non ha alcun peso. La psichiatria, nel momento in cui raggruppa
i sintomi e i decorsi clinici, cristallizza al loro interno qualsiasi sospetto
di dramma umano e ogni residuo di storicità.
L’Ospedale psichiatrico di Pergine ha iniziato la sua attività nel
1882 proprio in piena epoca positivista per rispondere coerentemente
a queste concezioni della malattia mentale e al suo trattamento
che era appunto previsto esclusivamente negli istituti
manicomiali. Il regime normativo italiano con la legge del 1904 e il
successivo regolamento, consacrava questa impostazione e per
sessant’anni circa la nostra struttura è cresciuta di dimensioni
per far fronte alla sempre maggiore richiesta di cura. Certo è che
la malattia mentale rimaneva avvolta da una atmosfera di paura,
diffidenza, pericolosità, incomprensibilità, ineluttabilità, incurabilità
e per questo il paziente veniva tendenzialmente escluso dai
luoghi di vita. I movimenti politici e culturali del 1968 introdussero
una visione completamente diversa della malattia mentale e del
portatore di tale sofferenza. Un fiorire di ricerche in ambito biologico,
sociologico e psicologico fornirono interpretazioni etiopatogenetiche
cui conseguirono interventi sempre più articolati e
sofisticati capaci di risolvere o quanto meno di ridurre l’incidenza
del processo patologico nella vita quotidiana delle persone colpite
da una sofferenza psichiatrica. La Provincia autonoma di Trento,
dando un segnale forte di lungimiranza, nel 1975 deliberava «il
graduale decentramento dei servizi di salute mentale dell’Ospedale
psichiatrico di Pergine presso le divisioni psichiatriche degli
ospedali generali la cui attività sarà strettamente integrata e coordinata
con i servizi territoriali di salute mentale decentrati nei
Comprensori in modo da assicurare la continuità preventiva, curativa,
riabilitativa dell’intervento psichiatrico».
Nel 1978 veniva emanata la legge 180 ripresa successivamente
dalla legge 833 che ricalcava in pieno i principi ispiratori della
delibera della PAT. Questa legge si basava su principi rivoluzionari
riguardanti la sofferenza psichica e i sistemi di cura e ha dato l’avvio
ad un’epoca ricca di ricerca e sperimentazione.
Tutti questi complessi e delicati percorsi, per la parte clinica,
sono testimoniati nelle migliaia di fascicoli contenenti le cartelle
cliniche dei ricoverati, cartelle che descrivono l’evoluzione delle
diagnosi e dei trattamenti come riflesso del progredire della ricerca
medico-psichiatrica e psicologica e dei cambiamenti culturali.
10
STIGMA
la storia manicomiale
in trentino-alto adige
Ospedale psichiatrico Pergine Valsugana;
dal filmato documentario Il lavoro [in]visibile.
Testo tratto dal libro Castagne Matte
a cura di Felice Ficco e Rodolfo Taiani, 2013.
Primo
ISTITUZIONE TOTALE 11
DA HALL A PERGINE
Giuseppe Pantozzi nelle prime pagine del suo studio Gli spazi
della follia: storia della psichiatria nel Tirolo e nel Trentino: 1839-1942
si domanda a quando far risalire in territorio tirolese il primo interesse
per la cura sanitaria di soggetti affetti da turbe mentali. A questo
interrogativo non è ancora possibile dare una risposta precisa. Esistono,
infatti, elementi che datano al 1776 e a Maria Teresa d’Austria
il proposito di realizzare un grande manicomio provinciale, ma è anche
vero che questo progetto, subito accantonato, sembrava orientato
più a risolvere il problema di come rendere inoffensive persone
ritenute pericolose o per lo meno scomode che non quello di assisterle
da un punto di vista sanitario.
Un altro episodio poco noto si registra nel 1807, quando in periodo
bavaro, il Magistrato consolare di Trento si trovò a esaminare la
proposta governativa di aprire due istituti per il «ricovero dei pazzi»
con sede l’uno a Innsbruck e l’altro a Trento o Rovereto. Anche questo
progetto, del quale s’ignorano i contenuti, non conobbe, però,
alcuna realizzazione. Sarà Francesco I, al di là di ogni considerazione
sul piano dal quale muoveva il suo interesse - d’ordine pubblico,
assistenziale, medico-sanitario o tutti e tre insieme -, a imprimere
una svolta decisiva alla questione in territorio austriaco. L’assistenza
degli infermi di mente e la gestione degli istituti a ciò dedicati, i
manicomi, fu inclusa con risoluzione sovrana del 28 aprile 1824 fra
le materie di diretta pertinenza dello Stato centrale. Fu ciò che permise
di aggirare l’ostacolo finanziario e di realizzare un manicomio
anche in Tirolo. Il primo manicomio provinciale, progettato fin dal
1820 dall’allora protomedico provinciale Johann Nepomuk Ehrhart
(1779-1860), fu così inaugurato ufficialmente l’1 settembre 1830 ad
Hall, vicino a Innsbruck. La sua capacità originaria era di settantacinque
posti letto. Successivi interventi la elevarono a 125 e successivamente
a 250 posti letto, ma mai in numero sufficiente da poter
soddisfare la richiesta di ricoveri proveniente da tutto il Tirolo. Il
12
STIGMA
«È altrsì il caso di ricordare
come nel 1841 il solo ospedale
1:
di Trento ospitasse circa 40
pazzi, cifra quadrupla rispetto
al passato e segno inequivocabile
dell’insorgere di quella
patologia, la pellagra, che
sarà la maggior tributaria nella
seconda metà del secolo del
locale manicomio di Pergine».
problema era avvertito in particolare nel Tirolo meridionale, ossia
il Trentino, dove pressoché contemporaneamente all’apertura di
Hall fu preclusa, con disposizione del 5 giugno 1835, la possibilità
di trasferire i pazienti, come in passato, anche negli istituti del
Lombardo-Veneto, fra i quali la Casa della Pietà a Verona, l’ospedale
di San Giovanni e Paolo o San Servolo a Venezia, l’ospedale
della Senavra a Milano e via dicendo. Di fatto l’allontanamento o
l’abbandono a se stessi dei malati di mente non poteva più costituire
una soluzione accettabile del problema. Lì dove non poteva
arrivare l’Istituto di Hall, occorreva intervenire ampliando la
disponibilità locale di posti letto. Si suggerì così l’adozione di una
nuova misura: un decreto dell’8 giugno 1838 stabilì l’obbligo per
ogni ospedale di predisporre al proprio interno degli appositi spazi
da dedicare al ricovero dei mentecatti. Una soluzione rivelatasi
subito insoddisfacente poiché la maggior parte di tali istituti non
disponeva di locali adeguati e i pochi restanti dovettero affrontare
i seri problemi di funzionamento e organizzazione interna posti
da questa categoria di malati. Caso emblematico è quello di
Trento, che si trovò ben presto a fronteggiare una vera e propria
emergenza, a causa del consistente numero di ricoverati1. Guarda
caso, fu proprio il medico civico Francesco Saverio Proch, responsabile
della gestione dell’ospedale civile di Trento, a pubblicare
nel 1850 un memoriale dal titolo inequivocabile di Necessità
d’un manicomio nel territorio della reggenza di Trento. In questo
testo si auspicava la realizzazione in territorio trentino di un secondo
manicomio provinciale. Le motivazioni addotte dal medico
trentino erano molteplici, ma si riconducevano, tolte quelle suggerite
dagli interessi contingenti legati al suo ruolo istituzionale,
a un doppio ordine di ragioni: fornire garanzia di assistenza ai pazienti
trentini, il cui ricovero ad Hall era impedito dalla scarsità di
posti disponibili e talvolta anche dalle difficoltà di collegamento
e favorirne il recupero inserendoli in un ambiente di cura culturalmente
affine per lingua e consuetudini . L’appello del medico
Proch non sortì nell’immediato alcun effetto, ma certamente non
cadde ignorato. Le sue parole e le sue argomentazioni saranno,
infatti, riprese in un testo anonimo dal titolo Sulla necessità di erigere
un asilo per i pazzi incurabili e pericolosi nonché sui mezzi
occorrevoli per realizzare questo progetto, stampato a Innsbruck
nel 1856.
ISTITUZIONE TOTALE 13
Direttore del manicomio con alcuni medici;
dal filmato documentario Il lavoro [in]visibile.
Ci vollero, tuttavia, altri anni di confronto, talvolta di accesa polemica,
nonché l’aggravarsi delle condizioni economico-sociali e
conseguentemente sanitarie della popolazione trentina, perché
la Dieta tirolese andasse a deliberare, il 12 ottobre 1874, la costruzione
di un secondo manicomio nel territorio del Tirolo italiano. Si
affermava così il principio che ogni malato fosse assistito nel proprio
territorio d’origine e soprattutto in strutture ritenute idonee a
tale scopo, rifuggendo soluzioni tampone come l’affidamento a
singoli privati che avevano fatto della custodia dei malati di mente
una vera e propria professione.
14
STIGMA
Trascorsero altri anni prima di decidere l’ubicazione dell’istituto
e di concludere i lavori. L’edificio, realizzato a Pergine Valsugana
dall’impresa Scotoni di Trento fra il 1879 e il 1881, fu progettato
dall’ing. Josef Huter e rispettava la consueta forma ad E sdraiata
della pianta edificiale, ampiamente utilizzata per simili costruzioni
anche in altre parti dell’Impero. Il nuovo istituto entrò in attività
nell’agosto del 18822 e ben presto, nonostante la disponibilità
di circa duecento posti letto, dovette affrontare problemi di
sovraffollamento.
Planimetria dell’Istituto, 1885;
dal filmato documentario Il lavoro [in]visibile.
2: I primi malati giunsero a
Pergine il 14 Agosto 1882. Si
trattava di 29 pazienti uomini
provemienti da Hall, ai quali si
aggiunmsero il 12 settembra
altri 18. Il gruppo dei primi
ospiti di Pergine fu dunque
completato con l’arrivo il 7
settembre e il 15 settembre
con rispettivamente 29 e 15
pazienti donne.
Già il 16 giugno 1883, in occasione di una visita al manicomio
di Pergine Valsugana da parte degli iscritti all’Associazione medica
trentina, l’allora direttore della struttura Heinrich Sterz (1851*)
ebbe a lamentarsi del fatto che i 204 letti del nuovo manicomio
erano pressoché occupati per intero e che continuando di questo
passo e visto lo scarso numero di licenziati guariti o morti,
quanto prima sarebbe stato necessario «sospendere l’accettazione».
Risulta pertanto comprensibile come solo dodici anni
dopo l’apertura, nel 1894, fu deciso di ricavare nuovi posti letto,
colmando la separazione che divideva I reparti dei semi-agitati
e agitati da quelli centrali. Due nuove costruzioni di tre piani, con
stanze pensate dapprima come locali di isolamento, ma più tardi
arredate con due o anche tre letti, permisero di recuperare una
ventina di posti Si trattava, peraltro, solo del primo di una lunga e
ininterrotta serie di interventi, che senza mai giungere a risolvere
ISTITUZIONE TOTALE 15
3: Una dettagliata descrizione
della situazione del manicomio
di Pergine Valsugana al
termine di questa prima serie
d’interventi è offerta dall’allora
direttore Pius Dejaco, riportato
a pagina 23 di questo libro.
definitivamente il cronico problema della carenza di posti, finì per
innescare, almeno apparentemente, un processo affatto contrario.
L’articolazione interna dell’ospedale, progettata originariamente
secondo principi teorici che distribuivano e distinguevano gli
spazi in rapporto alle diverse tipologie d’infermità, finirà per svilupparsi
obbedendo a ben altre logiche, giungendo quasi a negare
i presupposti di partenza: la crescente domanda di ricoveri
e la sua soddisfazione imponevano un’organizzazione degli spazi
affatto slegata dalla pratica medico-psichiatrica stessa e razione
di ordine medico-teorico. E si tratta di una dinamica che sembra
accompagnare l’intera storia dell’ospedale di Pergine Valsugana,
continuamente interessata da interventi di ristrutturazione o allargamento
fino al momento in cui il manicomio stesso non perse la
sua centralità nel processo di trattamento e recupero del disagio
psichico. Sul finire dell’Ottocento il medico croato Aurel Zlatarovic
(1855*), direttore del manicomio, propose un ulteriore ampliamento
della struttura. I lavori iniziarono nel 1903 e furono conclusi
nel 1905. Furono costruiti due nuovi padiglioni da cinquanta posti
letto ciascuno (denominati dopo la guerra dal nuovo direttore Guido
Garbini «Gennaro Pandolfi» e «Gaetano Perusini» in onore di
due caduti di guerra italiani); furono realizzati nuove sistemazioni
e adattamenti al vecchio edificio; furono innalzate una nuova
sede per la cucina, una nuova portineria, un’officina da fabbro e
una camera mortuaria. Fu inoltre acquistato il podere Gasperini a
Vigalzano a uso di colonia agricola, passaggio che segnò anche
l’avvio di un programma di cura ergoterapico, secondo le indicazioni
teoriche formulate dal suo principale fautore, il medico Carlo
Livi, attivo presso il manicomio di Reggio Emilia3.
16
STIGMA
dalla grande guerra al 2002
Visita ad una paziente.
Immagine dal filmato documentario
Il lavoro [in]visibile.
Testo tratto dal libro Castagne Matte
a cura di Felice Ficco e Rodolfo Taiani, 2013.
Secondo
ISTITUZIONE TOTALE 17
SOVRAFFOLLAMENTI E GUERRE
4: Per un approfondimetno sul
tema del manicomio durante i
due grandi conflitti, consultare
il capitolo di questo testi Gusci.
Seguì la Grande Guerra4 e con essa, nel marzo del 1916, la decisione
di destinare l’edificio principale del manicomio a ospedale
militare. L’istituto fu così evacuato ei suoi malati, ad eccezione
di coloro rimasti presso la colonia agricola, trasferiti in altri istituti
dell’Impero austroungarico: Bohnice, Hall, Klosterneu- burg,
Kremsier, Mauer-Ochling, Praga, Vienna, Ybbs. Dei 504 pazienti
trasferiti fecero ritorno, a fine conflitto, solo 181 con una percentuale
media di mortalità pari al 66% (il minimo fu registrato
a Kremsier con il 43% il massimo a Ybbs ea Vienna con valori
compresi fra il 90% e il 95%).
La conclusione della Grande Guerra e il passaggio del territorio
corrispondente all’odierna regione Trentino-Alto Adige all’Italia avviarono
l’iter legislativo del passaggio dell’Ospedale psichiatrico,
denominato dal 1920 «Ospedale provinciale della Venezia Tridentina»,
dall’amministrazione austriaca a quella italiana. L’atto finale
fu il R. D. 31 gennaio 1929, n. 204 con il quale fu decretata, a partire
dall’1 luglio 1929, l’estensione alle province di recente annesse
al Regno d’Italia della legge italiana sui manicomi del 14 febbraio
1904, n. 36 e del rispettivo regolamento del 16 agosto 1909, n.
615. Ma un’altra importante novità va segnalata in questa fase di
transizione e che caratterizzerà fortemente tutta la successiva
storia del manicomio perginese: con la modifica dei confini statali
cominciarono ad affluire a Pergine anche malati di lingua tedesca
e ladina, alcuni dei quali trasferiti dal manicomio di Hall fra il
1923 e il 1925. La condizione di convivenza di individui di cultura e
lingua fra loro diverse di fatto contribuirà a connotare in termini di
transculturalità ante litteram gran parte della storia della psichiatria
perginese, assegnandogli quei caratteri che, seppur parte di
un’esperienza più subita che consapevolmente vissuta, l’hanno
resa, ad eccezione probabilmente delle sole strutture di Gorizia
e Trieste, pressoché unica nel panorama nazionale. In ogni caso,
18
STIGMA
l’aumento del numero dei ricoveri, a seguito anche dell’ampliamento
del territorio di competenza, concorse a riacutizzare l’annoso
problema degli spazi. Una prima parziale soluzione fu offerta
dalla firma nel dicembre del 1922 di una convenzione per il
ricovero presso l’Istituto Attilio Romani di Nomi di cento pazienti
indicati come «innocui e tranquilli».
Nel 1926 fu deciso inoltre di elevare di un piano le propagini e
situato di fronte all’edificio centrale, fu inaugurato nel luglio 1927:
la sua capienza era di circa centoventi posti letto ed era destinato
a ospitare anche il laboratorio di analisi mediche. Il secondo
padiglione, intitolato ad Angelo Valdagni5 fu aperto nel 1934
ed era destinato ad accogliere le donne e i laboratori. Il terzo, che
Soldati con infermier negli anni della Grande Guerra;
dal filmato documentario Il lavoro [in]visibile
avrebbe dovuto ospitare gli uomini, non fu invece mai realizzato,
essendosi nel frattempo concretizzata un’alternativa.
Dal 1936 fu infatti affidata alla direzione dell’Ospedale psichiatrico
di Pergine la sorveglianza sulla «Colonia agricola provinciale
per infermi di mente tranquilli» istituita con deliberazione
n. 143 del 30 settembre di quell’anno dalla Provincia di Bolzano
a Stadio, nel comune di Vadena. A conclusione di tutti questi interventi,
la ricettività complessiva dell’istituto era salita a settecentocinquanta
posti letto. Gli anni della seconda guerra mondiale
corrisposero sicuramente a uno dei periodi più oscuri e
ISTITUZIONE TOTALE 19
5: L’avvocato perginese Angelo
Valdagni (1869-1933) fu uno dei
più ardanti fautori del programma
di ampliamento dell’ ospedale
di Pergine Valsugana.
Morì proprio durante la prima
fase della progettazione.
6: Elemtento esplicitamente
richiamato nel titolo dell’opera
Manicomi come lager, pubblicato
dallo sorico Angelo De
Boca nel 1966 .
terribili della storia di Pergine Valsugana. L’ombra del programma
T4 messo a punto dal regime nazista per la soppressione fisica
degli individui affetti da menomazioni fisiche e psichiche, proiettò
le proprie ombre anche sul locale Ospedale psichiatrico. Il
26 maggio 1940, 299 infermi di lingua tedesca furono trasferiti,
in base all’accordo italo-tedesco sulle opzioni del 1939 (legge
21 agosto, n. 1241), alla volta dell’Ospedale psichiatrico tedesco
di Zwiefalten e di qui per altre destinazioni ancora. Di molti di
loro, inghiottiti dal folle progetto di politica razziale impostato dal
governo nazista fin dal 1933, si persero definitivamente le tracce.
Per questa e per tutte le altre tragiche vicende che la segnarono,
la seconda guerra mondiale ha costituito uno spartiacque anche
nella storia dell’assistenza psichiatrica sia in Italia sia più limitatamente
a Pergine Valsugana. Negli anni del dopoguerra, infatti, è
l’impianto stesso dell’assistenza psichiatrica, così come appariva
concepito, a essere oggetto di profonda critica. Nel tracciare
esplicitamente un parallelo fra manicomi e lager6 s’invocava
un atteggiamento meno discriminatorio nei confronti dei malati e
una maggiore attenzione alla loro cura, intervenendo su tutti quei
meccanismi insiti nell’organizzazione e nel funzionamento stessi
di simili istituzioni che di fatto ne vanificavano ogni supposta
funzione terapeutica. Primo fra tutti il sovraffollamento. La media
giornaliera dei degenti a Pergine Valsugana continuò ad aumentare
ininterrottamente fino a raggiungere, negli anni sessanta, la
considerevole cifra di 1.600/1.700 individui. Già nel 1959, nella
sua relazione annuale, il direttore Emilio Dossi aveva affermato
senza mezzi termini che l’affollamento annullava l’effetto di qualsiasi
cura. Ciò nonostante l’Ospedale psichiatrico di Pergine Valsugana
doveva far fronte alle continue richieste di ricovero e pertanto
era condannato a una crescita continua: nel 1949 fu aperto
un nuovo reparto per quaranta malate croniche tranquille al maso
Martini; nel 1959 si ricavò dal vecchio fienile un padiglione per lavoratori,
intitolato a Silvio Ferretti; nel 1965, infine, fu inaugurato il
padiglione «Luigi Benedetti», capace di 240 posti letto.
Questo fu però anche l’ultimo intervento in ordine di tempo
condotto sul Complesso edificiale dell’Ospedale psichiatrico. La
risoluzione del grave problema gestione e funzionamento interni,
posto dal costante aumento del numero di ricoverati, aveva
oramai imboccato altre strade e puntava decisamente al superamento
del concetto tradizionale stesso di assistenza psichiatrica
20
STIGMA
7: In tale contesto è sufficiente
ricordare la pubblicazione di
Harry Stuck Sallivan Conceptions
of Modern Psychiatry
(1961). Sullivan già a partire
dagli anni venti, aveva sviluppato
una serrata critica della
commistione tra neurologia e
psichiatria, sostenendo piuttosto
la necassità di mettere
in relazione quat’ultima con la
psicologia clinica e la ricerca
sociologica.
e a una diversa articolazione dei luoghi deputati a ospitarla. Se da
una parte, pertanto, nella prima metà degli anni sessanta, si apriva
un nuovo padiglione, dall’altra si consolidavano quelle istanze
sociali che puntavano alla trasformazione delle istituzioni psichiatriche,
attraverso l’apertura dei manicomi verso l’esterno e
la fondazione dei centri d’igiene mentale sul territorio. Istanze, in
altri termini, che miravano contemporaneamente sia a una complessiva
ridefinizione e ridimensionamento delle funzioni manicomiali,
sia a un potenziamento delle strutture di assistenza
decentrate. Obiettivo finale era quello di realizzare un intervento
più mirato ed efficace, capace di rispondere a una crescente
e diffusa domanda di cure, assecondata dai nuovi orientamenti
medico-psichiatrici in tema di diagnosi e trattamento dei disturbi
mentali7. Un ruolo in tale processo di rinnovamento lo ebbe sicuramente
anche l’avvento degli psicofarmaci. Nel 1956 fu introdotto
il Largactil, nome commerciale della clorpromazina, scoperta
nel 1952 e considerata la progenitrice di tutti i neurolettici. L’anno
dopo s’iniziò a utilizzare il Tofranil, nome commerciale dell’imipramina,
principio attivo ad azione antidepressiva. Si trattò di importanti
innovazioni che incisero profondamente sull’organizzazione
interna dell’ospedale e consentiranno, secondo taluni, assai più
delle istanze riformatrici emerse nel dibattito interno alla scienza
psichiatrica, la riduzione del ricorso a pratiche di tipo coercitivo e
il superamento della vecchia concezione di manicomio luogo innanzi
tutto di segregazione e custodia. Un primo passo concreto
in questa direzione fu possibile grazie alla legge 18 marzo 1968,
n. 431, la cosiddetta legge Mariotti, che istituì i «centri o servizi di
igiene mentale» (CIM) (articolo 3). L’articolo 1 stabiliva che l’Ospedale
psichiatrico doveva essere organizzato in divisioni (da due a
cinque) con un massimo di 625 come posti letto, introducendo
pertanto una struttura di tipo ospedaliero che ne riduceva sensibilmente
le dimensioni. Altre novità introdotte da questa legge
erano l’ammissione volontaria su richiesta del malato per accertamento
diagnostico e cura (articolo 4), l’abrogazione dell’art.
604, comma 2, del codice di procedura penale, che prescriveva
l’obbligo di annotare nel casellario giudiziario i provvedimenti di
ricovero e loro revoca dei malati mentali (articolo 11) e infine l’inserimento,
per la prima volta, della figura dello psicologo nell’assistenza
psichiatrica pubblica. In provincia di Trento si diede esecuzione
al dispositivo di legge nazionale istituendo, con D.P.G.P.
ISTITUZIONE TOTALE 21
del 2 ottobre 1968, n. 297/1560 legisl., il servizio d’igiene mentale.
Il raccordo con l’esterno stava diventando così una realtà e fu
senz’altro rafforzato da un altro importante cambiamento di poco
successivo che interessò l’ospedale di Pergine Valsugana. Nei
primi anni settanta, oltre al varo della legge provinciale 22 gennaio
1971, n. 3, che, insistendo nella relazione introduttiva sull’importanza
della prevenzione e della riabilitazione, istituiva il ruolo
speciale dei servizi di salute mentale in sostituzione del ruolo
speciale dell’Ospedale psichiatrico, veniva avviata la cosiddetta
«settorializzazione», ossia una nuova suddivisione interna dell’Ospedale
psichiatrico di Pergine Valsugana basata, non più sulla
forma o intensità della malattia, ma sull’area geografica di provenienza
dei malati.
In questo modo si dava priorità al principio della continuità
Confezione degli anni 50 del farmaco Largactil;
dal filmato documentario Il lavoro [in]visibile.
terapeutica fra il trattamento di cura garantito esternamente e
quello dispensato internamente alle strutture di ricovero. Il cambiamento
su cui tanto si era dibattuto nel corso degli anni sessanta
era entrato sicuramente nella sua fase di maggiore accelerazione.
All’orizzonte di questo complesso e difficile cammino
verso il decentramento e una diversa articolazione dell’assistenza
psichiatrica, dei quali tante altre tappe intermedie andrebbero
ricordate, stava ormai delineandosi il varo della legge 13 maggio
1978, n. 180, nota convenzionalmente come «Legge Basaglia,
con la quale fu decretato la chiusura del manicomi in Italia e nelle
province autonome di Trento e di Bolzano (articolo 7). Il 17 luglio
1978 furono così bloccate le ammissioni di coatti e volontari non
22
STIGMA
recidivi all’Ospedale psichiatrico di Pergine. I recidivi volontari furono
ancora accettati, ma solo fino al dicembre 1980, termine poi
prorogato all’aprile 1981. Per i recidivi volontari altoatesini invece il
termine ultimo di ammissione fu spostato al dicembre 1981. Dal 1
gennaio 1982 la competenza sul servizio di salute mentale fu trasferito
dalla Provincia all’Unità sanitaria locale. Presso l’Ospedale
psichiatrico rimasero quei malati ancora degenti al momento
dell’entrata in vigore della riforma. In questi anni anche l’ospedale
di Pergine iniziò ad assumere l’improprio prefisso di ex: improprio
poiché, al di là delle certezze enunciate da una legge che
decretava la chiusura del manicomi, di fatto Pergine Valsugana,
cosi come altre analoghe strutture psichiatriche in Italia, continuò
a funzionare con tutti i problemi del passato e forse qualcuno
in più. Una serie di fattori fece sì, infatti, che l’équipe manicomiale,
divisa dal resto del servizi psichiatrici territoriali e ospedalieri
di fresca attuazione, si trovasse a operare isolatamente riproponendo
gli antichi limiti del manicomio. Si tratta di una parentesi di
storia ancora poco indagata, durata, nel caso di Pergine Valsugana,
quasi un quarto di secolo e opacizzata dal rapido avvio di
un processo di rimozione di una memoria percepita, giudicata e
vissuta universalmente come scomoda8. In ultimo una delibera
del Direttore generale dell’Azienda provinciale servizi sanitari, la
n. 1314 del 29 ottobre 2002, ha concluso la vicenda ultracentenaria
di questa struttura, consegnandola definitivamente all’analisi e
alla ricostruzione storica, a beneficio di tutti coloro che vorranno
rintracciarvi le ragioni e le motivazioni di un agire.
8: In controtendenza rispetto a
questo processo, è opportuno
segnalare l’iniziativa promossa
dalla Fondazione Benetton studi
ricerche, che ha realizzato
il censimento degli ospefdali
psichiatrici.
Fin qui l’esposizione estremamente sintetica delle principali
tappe che hanno segnato la storia dell’assistenza psichiatrica in
Tirolo fra la fine del Settecento e il 2002 con un particolare riferimento
al manicomio poi Ospedale psichiatrico di Pergine Valsugana:
una presentazione che dà conto solo parzialmente dell’estrema
complessità dell’argomento e che non tocca una varietà
di altri temi, che attendono ancora di essere affrontati in modo organico
e complementare. Giuseppe Pantozzi, nel suo volume Gli
spazi della follia, ha sicuramente offerto un primo percorso ricco
di suggestioni, e Gianpiero Sciocchetti, in altri vari interventi (fra i
quali un ipertesto), ha saputo ricostruire con rara capacità di analisi
la storia edificiale dell’intero complesso. L’ordinamento dell’archivio
storico dell’ex Ospedale psichiatrico di Pergine Valsugana
ISTITUZIONE TOTALE 23
e la sua consultazione consentono, tuttavia, di approfondire ulteriormente
l’indagine e di ampliarla a una comunità dai confini assai
più vasti di quella locale e alle modalità, attraverso le quali la
sua popolazione si è relazionata con l’altro, con la malattia mentale,
con il disagio sociale e con tutte quelle problematiche di cui
inevitabilmente il manicomio è diventato contenitore e, talvolta silenzioso
e opaco, custode.
Personale infermieristico ad una maniifestazione
per un cambiamento della psichiatria;
dal filmato documentario Il lavoro [in]visibile.
Moto riformista degli anni ‘60;
dal filmato documentario Il lavoro [in]visibile.
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STIGMA
IL NON - MANICOMIO
(Gli spazi della follia: storia della psichiatria nel Tirolo e nel Trentino,
Giuseppe Pantozzi, 1989)
Le critiche rivolte all’ istituzione del manicomio generarono correnti
di opinione sul da fari: alcuni studiosi sostennero che sarebbe
stato utile emendare il manicomio de suoi difetti maggiori; altri
sostennero senz’altro la sua eliminazione. La teoria settorialistica
tendeva a eliminare dal sistema manicomiale uno dei suoi peggior
difetti, la discontinuità terapeutica, unendo organicamente settori
interni del l’istituto (organizzati in base alla provenienza territoriale
dei malati) con le strutture di prevenzione e riabilitazione esistenti
nei corrispondenti territori. La proposta della comunità terapeutica,
la quale tendeva a distruggere, all’interno dell’istituto, il mondo artificiale
che veniva creato, allo scopo di evitare al ricoverato le contraddizioni
e le avversità che esistono nella vita reale. Il mondo artificiale
non aiuta il malato ad affrontare le avversità. Invero, se la malattia
mentale consiste nella difficoltà di tenere le relazioni con gli altri,
quello si armonizza col male. Inoltre, è paternalistico, in quanto favorisce
i rapporti del malato con l’assistente, il quale suggerisce e guida
passo per passo il malato. Anzi crea una molteplicità di rapporti
singoli fra malato e assistente, in un clima asettico rispetto alle avversità
tipiche della vita di relazione.
Va creata, invece, nell’istituto una comunità di malati che abbiano
rapporti fra loro, eventualmente contrasti tra loro, discussioni fra
loro, e perché no, vertenze con la direzione. Solo una comunità, che
tratti i malati con comprensione dei suoi problemi di relazione, può
facilitare la guarigione. Il manicomio come mera custodia di ciascun
Farnco Basaglia;
dal filmato documentario
Il lavoro [in]visibile.
ISTITUZIONE TOTALE 25
9: Sapeva oltre tutto contribuire
con le sue stesse mani, con
ergoterapia, a mantenere in
vita l’istituto che lo segregava e
si formava la convinzione, non
percependo alcun compenso
per il suo lavoro, di appartenere
ad una categpria inferiore.
10: Il malato, per altro, non
conosceva i limiti della sua
malattia e quindi credeva che
ogni suo atto di contestazione
della realtà che vedava
fosse un’espressione della sua
sindrome.
singolo, come isolamento, allontanamento delle contraddizioni, è
un errore. Lo sostenne Franco Basaglia, cui si rifece quella corrente
di pensiero che condusse una lotta aperta al manicomio. Basaglia
proveniva dagli studi sulla fenomenologia di Husserl e sull’esistenzialismo
di Sartre e di Heidegger, allorché assunse la direzione del
manicomio di Gorizia. In sostanza Basaglia vedeva nel manicomio
non solo uno strumento superato, ma anche dannoso. Soprattutto
perché portava i malati ricoverati alla cronicità e all’abulia. La loro
vita era prestabilita, organizzata; la loro partecipazione personale
consisteva nell’adesione all’ordine: si sentivano incapsulati nell’ambito
psichiatrico come si erano sentiti imprigionati nel mondo esterno.
Le attività tipiche dei ricoverati in manicomio erano: mangiare,
dormire e far passare il tempo. I malati, quando non dormivano,
aspettavano i pasti, occupandosi nei cosiddetti «passatempi». E
dunque erano lasciati in uno stato di passività assoluta; subivano
un vero e proprio processo di mortificazione e di annullamento da
inedia. Tutto ciò aveva due possibili sbocchi: il malato diventava il
«buon malato», che non decideva niente e aveva rapporti di amicizia
con l’infermiere; il malato diventava il «malato ribelle»; aveva rapporti
di belligeranza continua con l’infermiere: l’infermiere lo prendeva
di punta, faceva si che rimanesse a lungo ricoverato. Il «buon
malato» si presentava ammansito, docile all’autorità infermieristica,
la quale si poggiava non su altro se non sulla negazione di ogni impulso
personale del malato preso in consegna. Il «buon malato» intuiva
che la sorveglianza degli infermieri era in funzione del rapporto
al medico. Capiva chi era il «padrone del vapore». E veniva occupato
nella cosiddetta ergoterapia, la quale determinava, a ben vedere,
una condizione subumana, una rassegnazione alla perdita della
propria personalità9. Il «malato ribelle» entrava nelle «squadre». Rimaneva
negli «androni» del manicomio a formare lo «zoccolo umano»,
il solo arredo di quegli spazi. Unico scampo che gli era lasciato,
di fronte alla prospettiva dell’annientamento, era la fuga nella
regressione psicotica, dove non c’è contraddizione, né dialettica.
Dunque una regressione veniva a sovrapporsi alla malattia originaria.
Questa ulteriore patologia rafforzava il malato nel suo sentimento
di esclusione, sollecitava le sue difese psicotiche. Il malato non
aveva altre possibilità di vita che le fantasie psicotiche10. In entrambi
i casi, sempre il ricoverato nei manicomi, era un uomo privato di
qualsiasi ruolo, costretto ad aderire a regole minuziose, a porsi nelle
mani di terzi in tutto, senza alcun potere sulla propria stessa vita.
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STIGMA
alcuni dati ufficiali
Manicomio di San Clemente, Italia (1979).
Raymond Depardon, Psychiatric asylum, 1979.
Testo tratto dal libro Castagne Matte
a cura di Felice Ficco e Rodolfo Taiani, 2013.
Terzo
ISTITUZIONE TOTALE 27
IL MANICOMIO PROVINCIALE TIROLESE DI PERGINE
(Pius Dejaco11, 1912)
La popolazione del Land Tirolese è bilingue; due terzi di essa
(tedesca e latina) abita nella parte nord del Tirolo, meta e italiana e
abita nel sud. Il bene linguistico è a Salorno, nella Val d’Adige. La
parte del Land che si trova a sud di Salorno, con la sua popolazione
italiana e prevalentemente contadina, costa il bacino di utenza
del «Manicomio provinciale-tirolese di Pergine» (così si denomina
ufficialmente).
I tedeschi e la gran parte dei ladini inviano i malati di mente
nell’Ospedale psichiatrico di Hall. Il Land Tirol, dunque, possedeva,
per la sua popolazione aggirantesi su 1.000.000 di abitanti,
due ospedali psichiatrici.
Ma non fu sempre così.
11:
Pius Dejaco ricoprì la carica
di direttore del Manicomio
Perginese dal 1912 al 1919.
L’Ospedale psichiatrico di Pergine esiste solo da tre decenni,
perché, prima, tutti i malati di mente dovevano essere custoditi a
Hall, provenendo dai più lontani e remoti paesi. La consapevolezza
delle difficoltà quasi insormontabili che incontrava il trasporto
dei malati di mente da così rilevanti lontananze, nelle condizioni
ancora manchevoli delle vie di comunicazione, non poteva sfuggire
alle autorità competenti. A questi ostacoli di comunicazione
si univano altri ostacoli, che avevano la loro origine nella grande
varietà delle peculiarità nazionali e culturali delle due etnie del
Land. Anche il cittadino ignaro di cose psichiatriche fu indotto a
riflettere se non fosse un controsenso portare un malato di mente
(per il trattamento specialistico) in un ambiente che era in aperto
contrasto con quello in cui era nato e cresciuto.
La grande diversità della lingua, dei costumi e degli usi, dell’alimentazione
e delle condizioni atmosferiche dell’ambiente in cui
il malato di mente veniva, ex abrupto, a trovarsi, poteva risolversi
solo in un danno per la salute psichica e, quindi, ritardare la
28
STIGMA
possibilità di guarigione. Nessuna meraviglia se la maggioranza
dei malati di mente, invece di poter fruire del beneficio di un trattamento
specialistico in adatto istituto, piombavano nella cronicità
perenne, in miseri ricoveri comunali o in ospizi o, addirittura, in
una di quelle strutture private che si fanno beffe delle regole igieniche.
Che ciò accadesse, risulta in tutta evidenza dai dati che il
Consiglio provinciale di sanità ha pubblicati nel 1873.
In Tirolo vi erano, allora, 2.200 malati di mente, dei quali solo
250 potevano essere accolti nel Manicomio di Hall; 410 erano
in custodia in ospizi e case di ricovero, dislocati in tutto il Land;
mentre 1.540 (dunque il 70% di tutti i malati di mente tirolesi di
quel tempo) erano in custodia a casa, senza aiuto alcuno dall’esterno.
[250 + 410 + 1540-2.200]. La Giunta del Land e il Comitato
dietale per le costruzioni avevano riconosciuto chiaramente
fin dal 1874 quanto, nelle dette condizioni, l’erezione di un Manicomio,
oppure un notevole ampliamento dell’istituto di Hall, fosse
urgente e irrinunciabile; perciò i Comuni italiani avvalendosi di
maggiori entrate ricavate da imposte aggiuntive, dovettero accollarsi
un contributo di misura pari all’importo col quale, a suo tempo,
i contributi del Comuni tedeschi per la costruzione del Manicomio
di Hall superarono i contributi del Comuni italiani.
Circa le domande se e dove erigere una costruzione nuova,
oppure se solo ampliare l’istituto di Hall: l’orientamento generale
della Dieta era che, per motivi sanitari e umanitari e, per certi
aspetti, anche finanziari, la costruzione di un secondo Manicomio
per la cura e l’assistenza dei malati di mente nel Tirolo italiano
fosse da preferire all’ampliamento dell’attuale istituto di Hall.
La Dieta decise il 12 ottobre 1874 di erigere il secondo manicomio
per la cura e l’assistenza dei malati di mente nel Tirolo italiano.
Gli alti costi, però, erano da sostenersi con mezzi provinciali; va
ricordato che i Comuni italiani, quasi senza eccezioni, si erano dichiarati
pronti a dare contributi volontari nella stessa misura in cui
i Comuni tedeschi avevano contribuito per la costruzione di Hall e
nei medesimi modi.
Foto nella pagina accanto:
pergine Valsugana nei
primi anni del ‘900;
dal filmato documentario
Il lavoro [in]visibile
ISTITUZIONE TOTALE 29