Sguardi Dalla Nebbia - Catalogo
Catalogo della mostra "Sguardi dalla nebbia"
Catalogo della mostra "Sguardi dalla nebbia"
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CITTÀ DI OPPEANO
“
“« Fotografare è riconoscere nello stesso istante
e in frazione di secondo un evento
e il rigoroso assetto delle forme percepite con lo sguardo
che esprimono e significano tale evento.
È porre sulla stessa linea di mira mente, occhi, cuore.
È un modo di vivere »
Hanry Cartier-Bresson, affermazione riprodotta in Maria Carusi, Magic Mirror, 2005 , p.10.
”
PREMESSA
In assenza di ogni qualsivoglia esplicita richiesta, la fotografia, nella sua dimensione quintessenziata di opera
d’arte, induce l’ignaro spettatore del nostro tempo a “prendere posizione” rispetto ad essa: ne consegue,
pertanto, che l’immagine stessa subisca, in un continuo gioco di allusioni, rimandi, cromie e chiaroscuri,
un’effettiva metamorfosi strutturale ed ermeneutica. L’opera fotografica assume, quindi, le sembianze
trasfigurate di un “imputato” al cospetto del quale viene catalizzata l’attenzione individuale al fine di
consentire una copiosa produzione di giudizi muti orientati a rendere il pubblico attuale sempre più
“complice” e meno “giudice” rispetto al fenomeno artistico in questione. Si tratta di un’immagine fotografica
tutt’altro che innocente, giacché efficacemente produttiva di conseguenze ed effetti sicuramente inevitabili e
ineliminabili, nonché perfettamente conformi alle tendenze contemporanee in virtù delle quali “è il pubblico
che si espone all’opera e non viceversa” 1 .
Nel panorama surreale e immaginifico le creazioni fotografiche operano come una sorta di “macchina della
verità” dell’io artistico, lumeggiando le più intime, oscure, autentiche ed inconfessabili passioni dell’artista in
quanto tale: nella fotografia, infatti, non è possibile racchiudere altro da ciò che il pensiero, l’anima ed i sensi
siano stati in grado di elaborare ed informare.
A rigore di ragionamento, non è così azzardato ritenere che la fotografia stessa sia assimilabile ad uno
specchio riflettente non solo il visibile e l’invisibile, ma anche l’ideato e l’improbabile: è la sfinge-oracolo che,
contemporaneamente, visualizza l’enigma e risolve il segreto. Pienamente autonoma e indipendente dalle
costrizioni contingenti, l’immagine fotografica si cala perfettamente nel ruolo d’icona del costume attuale,
esprimendo sia con pacatezza sia con intensa drammaticità le molteplici sfaccettature della condizione
umana, quale testimone occulto di una sensibilità più complessa e fortemente allusiva di un’inestinguibile
dimensione estetica, etica e, perfino, poetica ivi sottesa.
1. Sul punto si veda De Dominicis G., L’opinione dell’artista. L’arte e la Biennale, in Quadri e Sculture, 1998, p. 21.
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LA FOTOGRAFIA
La mostra di Angelo Lanza presso l’Arsenale Austriaco di Verona,
organizzata da BHR Group 2 , è fortemente orientata a “catturare”,
senza margine di compromesso, l’intima essenza dell’opera
fotografica attraverso la presentazione di un ciclo di ben ventinove
ritratti raffiguranti una serie di personaggi selezionati tra gli abitanti
del ridente paese di Ca’ degli Oppi, in provincia di Verona.
Com’è noto, “fotografare”, significa “mettere a fuoco” non solo un
aspetto della realtà, ma anche ciò che maggiormente colpisce ed
emoziona il fotografo: sul punto l’analisi etimologica suggerisce
osservazioni e ulteriori implicazioni che sconfinano in assetti
concettuali e terminologici propri del vocabolario psicologico.
Semplificando, è pacifico che il corpo macchina fotografico sia
tecnicamente dotato di un’ottica dalla quale dipende la profondità
di campo ovvero la messa a fuoco di un determinato
soggetto/oggetto: il tempo di esposizione, la velocità di scatto, il
“disegnare” con la luce sono, a loro volta, tutti termini ed
espressioni che, addetti ai lavori e non, impiegano abitualmente e
quotidianamente.
La psicoanalisi, invece, ha compiuto, in materia, un ulteriore passo,
ravvisando, di fatto, la possibilità di concepire la macchina
fotografica come una sorta di estensione dell’apparato visivo: con
estrema sintesi, quindi, dinanzi ad un qualsiasi evento carico di
tensione emotiva, il cervello umano produce immediatamente e,
quasi automaticamente, l’immagine che si intende immortalare
mediante l’utilizzo del supporto fotografico.
Pensiamo, ad esempio, alla velocità dello scatto, a quanta luce dare
all’immagine, a quale particolare esaltare, alla scelta del colore
ovvero del bianco e nero: ogni minima decisione implica, quindi,
una valutazione intellettuale che si traduce, sul piano squisitamente
psicologico, nella possibilità di “imprimere su carta” un nostro
status interiore e molto soggettivo.
Secondo Cartier-Bresson 3 e lo stesso Angelo Lanza, “fotografare” è
un “modo di vivere”: pertanto, compatibilmente con le attuali
risultanze psicologiche, il fermo immagine fotografico corrisponde
alla cristallizzazione di una rappresentazione psichica a cui però si
sottrae la componente statica a favore di una rinnovata dinamicità
e profondità interiore.
Da quanto detto si evince come la fotografia acquisti la valenza di
medium tra la realtà fisica e la realtà psicologica: si tratta di una
sorta di ponte ideale tra l’interno e l’esterno ove l’esterno viene
introiettato e, soprattutto, trasformato dall’interiorità dirompente ed
inarrestabile del fotografo.
In una frazione di secondo, infatti, il fotografo deve porre in essere
un “doppio movimento” ovvero andare dall’esterno all’interno e
viceversa: ed è proprio questo secondo passaggio che appare
maggiormente intriso della soggettività dell’artista come risulta, ad
esempio, nell’ipotesi in cui si paragonino due fotografie
appartenenti a due diversi fotografi, ma connotate da un’identità di
oggetto spazio-temporale.
Ciascun fotografo, quindi, catturerà l’immagine esteriore che sarà,
però, interpretata in chiave del tutto soggettiva: la fotografia
“prenderà corpo” dal valore attribuitole dall’artista in forza del
proprio bagaglio esperienziale ed emozionale, con la conseguenza
che il discrimine tra le due immagini risiederà, piuttosto, in una
differente percezione inconscia.
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L’affermazione di Cartier-Bresson suggerisce, inoltre, come il fotografo debba essere
opportunamente dotato d’intuizione, pensiero, sensazione e sentimento al fine di allineare, in una
porzione di tempo estremamente breve, mente, occhi e, soprattutto, cuore.
Analogamente, il fotografo sarà chiamato a pensare, meditare, valutare e “sentire” pienamente
l’immagine esterna, determinandone tanto una riproduzione fedele sul piano oggettivo, quanto
un’esaltazione intima e valoriale sul versante strettamente soggettivo.
La fotografia si dimostra, quindi, un’arte di difficile acquisizione: implica studi tecnici accurati per
assimilarne regole e fondamenti, ma soprattutto la predisposizione del fotografo-artista a
“emozionare” il pubblico attraverso la sapiente canalizzazione, nello scatto fotografico, del suo
sconfinato e irripetibile mondo immaginifico interiore.
Emozionare con una fotografia non è, dunque, semplice tecnica ma opera d’arte vera e propria che
spinge l’osservatore a interrogarsi non solo sull’immagine, ma anche sull’intrinseco significato della
stessa: in altri termini, al cospetto di ogni qualsivoglia fotografia, chi guarda dovrebbe essere
implicitamente invitato a compiere il “doppio movimento” del fotografo, ovvero ad andare, come già
anticipato, dall’esterno all’interno e, poi, nuovamente all’esterno.
Chi guarda non dovrebbe interrogarsi riduttivamente sulle capacità tecniche di chi scatta, ma
dovrebbe essere, piuttosto, investito e “fagocitato” dall’onda emozionale che l’immagine fotografica
trasmette, riproducendo perfettamente quell’affascinante tsunami emotivo che aveva già travolto,
all’origine, il fotografo e la sua anima di artista.
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metropoli lombarda conosce, durante una mostra, il
famoso fotografo statunitense, Victor Skrebneski 4 ,
originario di Chicago, impegnato nel patinato mondo
della moda.
Da questo incontro fortuito, il classico “colpo di
fortuna”, la passione e propensione di Angelo Lanza
per la fotografia aumenta in modo esponenziale
tanto che dal 1995 il suo rapporto con la macchina
fotografica non è più di mero diletto, ma diviene
un’effettiva scelta lavorativa tanto che è lo stesso
fotografo ad affermare: “ provo a farne un mestiere... ”.
Sull’esempio del maestro Skrebneski e fortemente
motivato dal fermento dell’ambiente milanese, da
sempre fucina e centro nevralgico per la moda,
il fotografo Lanza orienta la sua attività lavorativa
nella realizzazione di fotografie commerciali per i
circuiti del fashion system milanese.
Egli sottolinea, infatti, che: “non mi considero un
artista, sono semplicemente un creativo, non vedo le
fotografie come arte: prendiamo, ad esempio,
Man Ray o Irving Penn che hanno sempre fatto foto
commerciali proprio perché era commercio!
Perché la foto è puro commercio.”
Nonostante la scelta professionale, l’atto di
“fotografare” non si appiattisce nell’esperienza lanziana a
mero scatto meccanico: ogni tocco, ogni click
4. Sul punto si veda Skrebneski V., Skrebneski: the edge of the light, Grafis Edizioni, Bologna, 1991, pp. 100-45.
Victor Skrebneski, nato a Chicago nel 1929, è un fotografo di origini russo-polacche.
Nel 1943 studia presso la School of Art Institute di Chicago e dal 1947 al 1949 frequenta con profitto l’Illinois Institute of Technology . Nel 1952 apre a Chicago il suo studio.
Skrebneski diviene un fotografo di moda particolarmente conosciuto per la realizzazione di importanti campagne pubblicitarie per note società della cosmesi, quali,
ad esempio, Estée Lauder Inc. Ha fotografato diverse celebrità , tra cui Cindy Crawford, Oprah Winfrey,
Audrey Hepburn, Diana Ross, Hubert de Givenchy, Diahann Carroll e François Truffaut.
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lascia sempre trasparire un moto spontaneo e quando l’occhio è
sull’obiettivo fotografico e la mano si accinge a scattare, si genera una
libertà interpretativa senza vincoli.
Intorno all’artista il mondo è come fosse congelato: è la magia del
click fotografico che scioglie e plasma un movimento creativo che si
completa nel risultato finale, con la conseguenza che la stessa modella
non è più un semplice soggetto da immortalare, ma diviene la
protagonista narrante della storia di quello scatto.
Quanto detto, ovviamente, è in netta controtendenza con la prassi
operata da altri fotografi di respiro internazionale, maggiormente
propensi ad ammettere un approccio esclusivamente commerciale nei
confronti dell’esperienza fotografica: in Giappone, ad esempio, è del
tutto inesistente questo tipo di libertà interpretativa 5 tanto che la
fotografia stessa si riduce ad uno sterile processo meccanico.
Così facendo, il soggetto viene ritratto a figura intera, in posa statica e
raramente interagisce con il fotografo, guardando l’obiettivo:
il risultato attinge, pertanto, alla mera rappresentazione di un
soggetto-oggetto, di un “tipo”.
Ne costituisce esempio, in questo senso, l’apparizione, nello studio
fotografico, della “donna giapponese”, impegnata in qualche mansione
domestica ovvero colta nell’atto di filare la seta oppure ancora
silenziosa protagonista dell’antico rituale della cerimonia del thè.
In tale contesto, la finzione raggiunge il suo culmine se si considera
che gli stessi soggetti ritratti sono degli attori, ciascuno “reclutato”
per interpretare “un ruolo”.
5. E’ noto che la difficoltà maggiore riscontrata nell’analisi della fotografia giapponese risalente alla seconda metà dell’Ottocento consista proprio nella mancanza e, molto
spesso, nell’effettiva impossibilità di stilare una ricostruzione storica compiuta circa lo sviluppo e l’affermazione di questa forma artistica all’interno del Paese nipponico.
A titolo esemplificativo, le stesse fotografie provenienti dall’Estremo Oriente e presenti nelle collezioni della Fototeca di Trieste, furono realizzate con scopi commerciali per
offrire ai turisti dei prodotti spendibili sul mercato con la funzione di souvenir.
Solitamente questi oggetti erano raccolti e commercializzati sotto forma di album fotografici, fermo restando che i fotografi giapponesi, a differenza di quelli occidentali, non
siglavano quasi mai con il proprio nome le singole immagini, ma l’album nel suo insieme. La maggior parte di questi album fotografici fu in seguito smembrata al fine di
proporre sul mercato le singole immagini come oggetti antichi da collezionare.
Per approfondire si veda: http://www.fototecatrieste.it/i-mercoledi-della-fototeca/la-fotografia-giappone-e-cina-in-posa/.
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IL CONTRIBUTO DI
GIANNEUGENIO
“Un padre e un figlio
si trovano in una stanza. Mettono via
cose di qualcuno che non ci sarà
mai più.
Senza parlare entrambi si chiedono:
prima o poi passerà il dolore? Ma tutti e
due sanno che non passerà mai. Solo, a
un certo punto, si trasformerà in
qualcosa di diverso e diventerà
sopportabile. Sarà come avere un
mattone in tasca. A volte si riuscirà
perfino a dimenticare che ce l'hai. Ma
ogni volta lo ritroverai, con tutto il suo
peso. Un peso che deve essere trasformato
in un’emozione e non nella paura di
dimenticare i momenti condivisi e il viso
di quella persona. Per fortuna gli esseri
umani hanno una meravigliosa
caratteristica: gli occhi guardano per
forza avanti.
Per mille motivi, per gli altri che
restano, per noi che restiamo, per la
gioia che ognuno cerca poi di provare,
per rimanere in piedi, per dare senso
alle cose. Quella tristezza cieca, se
per mettiamo che accada, può
trasformarsi in ricordi di enorme potenza.
La fotografia ha rivoluzionato il
modo di fare memoria. La
capacità di registrare un
frammento di vita per farne memoria è uno dei punti più alti
della fotografia, anche se spesso non ci si pensa. Le immagini
raccontano il nostro mondo, i nostri affetti, ci aiutano a fare
memoria della nostra vita. Con una mostra, ho ritenuto giusto
offrire alla città di Verona i 29 scatti del progetto fotografico
“Sguardi dalla nebbia”, eseguiti nel 2002 dal caro amico Angelo
Lanza. Sono volti di persone anziane di Cà degli Oppi, un
piccolo paese della pianura Veronese, dove sono nati l’amico
Angelo e mia mamma Agnese. Ora, queste persone, per lo più
scomparse, ritornano protagoniste a Verona e, poco importa,
che siano ritratti di persone comuni, questi scatti permettono al
pubblico di scoprire attraverso i loro sguardi, quanto potente sia
la fotografia nel fissare attimi della nostra vita e talvolta, come in
questo caso, l’anima delle persone. Dai loro occhi, la nostra
mente, ha la facoltà di richiamare esperienze, segni dimenticati,
la libertà di essere liberi dal tempo.
Ci si trova a guardare questi ritratti per restarne profondamente
affascinati. A immaginare e a pensare alle ragioni dello scatto
che quasi legge nel pensiero, tanto è forte la capacità di cogliere
l’intimità dei soggetti rappresentati. 29 ritratti, in bianco e nero,
che non sono interpreti solitari e isolati ma, parte di un valore
condiviso e patrimonio di una comunità di pianura.
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Perché quando
diciamo che un film
o
un libro
“sono invecchiati”,
di fatto parliamo di un cambiamento tutto
nostro. Non è l’opera che cambia, ma la
relazione tra l’opera e noi.
Quel film visto magari da bambini di cui
portiamo un ricordo incisivo di emozioni, o
comunque reazioni forti, rivisto dai gradini
più alti dell’età può avere effetti del tutto
diversi.C’è dunque una netta differenza fra
tempo ed età. Vale anche nei confronti del più
evidente marcatore dell’età, la decadenza
fisica. E la solitudine? Si dice che la solitudine
sia uno dei mali più crudeli dell’età avanzata:
in realtà, più il tempo passa più si sciolgono, o
almeno si rallentano, quei legami che ci
tenevano ancorati alla riva.
Ma sia quella vissuta come imposta dalla
scomparsa dei coetanei e dallo sguardo degli
altri, sia quella voluta come per un riflesso di
difesa o una forma di sfida, la solitudine non
va necessariamente considerata quale
ineluttabile prezzo della vecchiaia. Perché se
la solitudine è un segno dell’età, ”avere” la
nostra età significa vivere, e i suoi segni sono
dunque segni di vita.
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La produzione
artistica di un
individuo, intesa come espressione visiva,
sonora, olfattiva, tattile e gustativa a livello
primario della realtà, delle emozioni, dei
vissuti, delle esperienze e delle relazioni è il
modo più efficace di creare un canale
comunicativo per l’inconscio. Molto spesso si
sente parlare d’immaginario, di fantasia,
come se l’arte fosse la creazione dal nulla di
qualcosa di totalmente nuovo.
“Nuovo” soprattutto perché distante o non
presente nella realtà. Eppure il materiale di
partenza per produrre arte non è mai del tutto
nuovo e lo possediamo tutti, anche se è unico.
Il materiale di partenza è costituito dai nostri
ricordi, che vengono fissati e riorganizzati
durante il sonno tramite i sogni. Infatti, c’è
una relazione precisa tra il ricordo e il sogno:
i ricordi non si formano quando siamo svegli,
bensì si fissano quando dormiamo. Ciò che li
organizza è il sogno, in una specie di reset per
immagini. Il sognare ci permette di rielaborare
e conservare i ricordi, rielaborazione della
nostra storia che viene continuamente riscritta
attraverso scene e immagini camuffate.
Quindi tutto ciò che riesce a divenire
espressione del nostro mondo interiore è
un’opera d’arte.
Grazie Angelo per aver sognato questa opera.
“
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”
Un particolare ringraziamento va al caro amico Angelo
Lanza per la straordinaria disponibilità che ha reso
possibile la realizzazione della mostra nella sua auspicata
completezza.
Un vivo ringraziamento all’amico Arch. Stefano Beozzo
per la preziosa collaborazione.
Grazie anche alla Prof.ssa Cristina Nardi Spiller per
l’entusiasmo ed il suo incoraggiamento e all’Avv. Rosario
Russo per essersi prodigato affinché si potesse realizzare
questa mostra all’Arsenale Austriaco Franz Joseph I di
Verona. Infine un sentito ringraziamento va all’amico
Mauro Peretti sempre presente con il proprio contributo
nella realizzazione di eventi che riguardano la comunità del
paese di Cà degli Oppi.
E un grazie a tutte quelle persone lontane dalle scene e dai
riflettori che collaborano per migliorare questa umanità.
“
”