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ALBERTO ZUCCHETTA

DANTE GIOTTO CANGRANDE

E IL FASCINO SEGRETO DELLE STELLE

INTRODUZIONE DI

VITTORIO SGARBI

© Copyright: Alberto Zucchetta 2021- albertozucchetta@tiscali.it

Tutti i diritti letterari riservati. Vietata la riproduzione anche parziale dello studio

e delle tavole senza l’autorizzazione scritta dell’autore

Stampato in Italia da Tipografia Campisi, Vicenza

Gingko Edizioni, Verona 2021

ISBN 978-88-31229-29-6

STUDIO TRA SIMBOLOGIA E MATEMATICA

DELLA STELLA SCALIGERA IN ORO DEL XIV SECOLO

In copertina:

La costellazione del Cane Maggiore.

Haggadàh di Barcellona. Metà del XIV secolo. British Library di Londra Add. MS 14761



DANTE GIOTTO CANGRANDE

INDICE

E IL FASCINO SEGRETO DELLE STELLE

INTRODUZIONE

pag. 7

PROLOGO

Pag. 11

TESTI DI

Claudio Bellinati

Lionello Puppi

Vittorio Sgarbi

Alberto Zucchetta

Cristian Zucchetta

IL SEGRETO DELL’ O DI GIOTTO

pag. 17

AFFASCINATI DALLE STELLE

pag. 25

IL TESORO NASCOSTO

pag. 29

LA STELLA DELLA SAPIENZA NELLA BASILICA DI ASSISI

pag. 39

TRA STORIA E LEGGENDA

pag. 43

DANTE ALLA CORTE SCALIGERA

pag. 55

LA COMMEDIA, UNA CATTEDRALE INNALZATA A DIO

pag. 59

CANGRANDE I DELLA SCALA

pag. 63

SVELATO IL MISTERO DELLA STELLA SCALIGERA

pag. 77

DAL COMPASSO AL COMPUTER

pag. 103



Giotto, o dell’intellettualizzazione dell’artista

di

Vittorio Sgarbi

Orafo e studioso. Non so quanti altri casi possano essere attualmente paragonati a quello di Alberto Zucchetta. Una figura

di altri tempi, si potrebbe dire, quando la dimestichezza con i metalli preziosi fusi si mischiava alle conoscenze dell’alchimia,

la parascienza esoterica che ricercava il segreto più profondo della materia così come oggi farebbe la fisica nucleare.

Ma anche in passato queste figure, fra la chimica, l’arte, la filosofia e la magia, erano rare. Così, quando Zucchetta si

propone in veste di studioso come in questa circostanza, è difficile sottrarsi dalla tentazione di vederlo affermare i diritti

della sapientia tutta speciale che deriva dalla pratica diretta di un certo mestiere, un po’ come gli alchimisti di una volta.

Una razza, insomma, piuttosto diversa da quella di studiosi come me che per imparare non si sono dovuti sporcare le

mani. Uno dei fuochi di questo libro è costituito da Giotto. Permetterà allora Zucchetta che provi a rendermi utile al suo

libro accennando a un discorso sul contesto storico entro cui inquadrare la figura davvero rivoluzionaria di Giotto, senza

entrare nel merito della sua arte. Prima del Rinascimento gli artisti erano ritenuti intellettualmente figli di un Dio minore,

praticando attività che non rientravano tra le discipline liberali, le uniche che esentavano lo spirito dalla necessità materiale

(“mechanica”) cui erano invece sottoposti i mestieri artigianali; la stragrande maggioranza degli artisti era illetterata,

e ciò precludeva loro la possibilità di sviluppare solide conoscenze culturali; anche quando gli aspetti dotti risultano,

sono le committenze colte a chiedere all’arte di farsi “illustrazione”. Con Giotto, però, certe obiezioni, accettabili per la

maggior parte degli artisti che l’hanno preceduto e per buona parte di quelli che lo hanno seguito lungo il Trecento, non

sono altrettanto valide. Non farei appello alla testimonianza di Cennino Cennini, conoscitore peraltro come pochi della

dignità pienamente artigianale della professione pittorica (“sapere tritare, o ver macinare, incollare, impannare, ingessare,

e radere i gessi, e pulirli, rilevare di gesso, mettere di bolo, mettere d’oro, brunire, temperare, campeggiare, spolverare,

grattare, granare, o vero camusciare, ritagliare, colorire, adornare, e invernicare in tavola o vero in cona. Lavorare in muro,

bisogna bagnare, smaltare, fregiare, pulire, disegnare, colorire in fresco, trarre a fine in secco, temperare, adornare, finire

in muro...”), quando riferisce di un Giotto, suo sommo ispiratore, avvezzo alle più alte discipline del pensiero, per le quali

è lecito immaginare che non fosse un illetterato.

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E’ quel “rimutò l’arte del dipignere di greco in latino”, per dirla ancora con Cennini, che connota la posizione di Giotto in

un modo assolutamente nuovo rispetto a tutto ciò che lo ha preceduto, a diventare fattore attivo di due processi culturali

paralleli, l’uno a contenere l’altro per intersecarsi con esso: da una parte la presa di coscienza sempre più consolidata

dell’Europa cristiana, non più disposta a riconoscersi anche visivamente in un’identità, quella bizantina, alla quale viene

contrapposto il recupero dell’eredità latina nella sua radice più autentica, gloriosa, per quanto pagana, introducendo i

germi di una mentalità che porterà in seguito, sebbene attraverso vicende non sempre regolari e uniformi, all’Umanesimo

e al Rinascimento; dall’altra la diversa considerazione, proprio per il ruolo speciale che avevano svolto all’interno della

civiltà latina in via di orgoglioso recupero, che le classi intellettuali stavano rivolgendo alle arti manuali a fine estetico.

Di questo secondo aspetto è emblematica, anche nella sua contraddittorietà, la rappresentazione che ne fornisce Francesco

Petrarca, eccezionale estimatore del passato classico che contribuisce a riscoprire con nuovo piglio filologico, e come tale

costretto a rispettare l’arte tramandata dalla civiltà greco-romana con spirito di reverenza, ma portato a coltivare pregiudizio

cristiana per tutto ciò che, secondo Sant’Agostino, era “vana bellezza” in grado di distogliere dalla contemplazione

del bello autentico, di natura esclusivamente divina. Malgrado ciò, Petrarca non rinunciava a collezionare arte, non solo

reperti antichi ma anche opere di contemporanei che non giustifica più solo per essere illustrazioni di libri eccelsi, per

esempio di Giotto, di cui lascia in testamento al patavino Francesco I da Carrara la famosa, misteriosa “Icona” mariana

“la cui bellezza non è capita dai non addottrinati” (in materia religiosa, s’intende), “mentre i maestri, nell’arte ne rimangono

stupiti”, e Simone Martini, a cui commissiona l’ancora più famoso e misterioso ritratto di Laura. Seppure Petrarca

ritenga insuperabile il modello antico, è comunque consapevole che anche la modernità di artisti come Giotto e Simone

Martini possa contribuire a un certo recupero della grandezza perduta, migliorando la civiltà del presente. È l’implicito

riconoscimento di una missione che viene condivisa con la letteratura, tale da emancipare la pittura dalla condizione intellettualmente

inferiore di ars mechanica. Del resto già Dante, altro fuoco degli interessi di Zucchetta, quando nel canto

undecimo del Purgatorio dice al fatto di essere diventato il migliore poeta del suo tempo, non aveva trovato di meglio che

paragonarsi a un pittore suo contemporaneo, evidentemente non più guardato con la sufficienza riservata ai “vili” artigiani.

Un pittore non come gli altri, un pittore di genere nuovo, che stava facendo salire l’arte al rango di attività intellettuale:

Giotto, naturalmente, con il quale si stava ritornando non ai tempi degli antichi romani, ma a quelli del greco Apelle che

i romani poterono solo mitizzare, così come sostiene Giovanni Boccaccio nella Genealogia Deorum Gentilium. Giotto,

dice ancora Boccaccio nella giornata sesta, novella quinta del Decameron, “migliore dipintor del mondo”, ma anche “bellissimo

favellatore” come si conviene a persona culturalmente attrezzata, che nella sua arte è stato capace di ripristinare il

principio mimetico caro agli antichi, lo stesso che sarà di faro per il Rinascimento: “uno ingegno di tanta eccellenzia, che

niuna cosa dà la natura, madre di tutte le cose e operatrice col continuo girar de‘ cieli, che egli con lo stile e con la penna

o col pennello non dipignesse sì simile a quella, che non simile, anzi più tosto dessa paresse…”.

Dante e Giotto hanno un’ altra possibile affinità, la relazione con Verona e con Cangrande della Scala, grande eroe della

riscossa ghibellina, formidabile guerriero in grado di esercitare la forza della armi lungo un territorio compreso fra Belluno,

Feltre, Treviso, Padova e Mantova. E’ ampiamente accertata la relazione di Dante, che a Cangrande, come attesta

la famosa Epistola XIII, dedicò il Paradiso (“Neque ipsi preheminentie vestre congruum comperi magis quam Comedie

sublimem canticam, que decoratur titulo Paradisi; et illam sub presenti epistola, tanquam sub epigrammate proprio dedicatam,

vobis adscribo, vobis offero, vobis denique recommendo”; “non ne ho trovato uno adeguato all’eccellenza vostra

più di quella cantica sublime della Commedia che è stata intitolata Paradiso. E questa, con la presente lettera,come se

fosse dedicata con personale epigrafe, a voi la intitolo, offro e raccomando”), citandolo nel discorso di Cacciaguida, canto

XVII della cantica terza, che preannuncia l’esilio del poeta, ma con esso la possibilità di conoscere personalità eccellenti

proprio come il Can Francesco veronese, allora ancora bambino, il cui destino veniva favorito da una particolare convergenza

astrale (Con lui vedrai colui che ‘mpresso fue nascendo, sì da questa stella forte, che notabili fier l’opere sue… A

lui ‘aspetta e a’ suoi benefici; per lui fia trasmutata molta gente, cambiando condizion ricchi e mendici). Lodando Cane, è

probabile che Dante pensasse già alle sorti della sua discendenza. E’ infatti a Verona che si sistemano i suoi figli maschi,

Jacopo prendendo gli ordini, Pietro diventando giudice dopo gli studi di diritto, grazie all’appoggio costante di Cane,

affrontati a Bologna, e facendosi nel contempo divulgatore dell’opera del padre, forse effigiato in un affresco nella chiesa

veronese di Sant’Anastasia riscoperto qualche tempo fa da Anna Lerario. Meno chiaro è come, e quanto, Giotto ebbe realmente

a che fare con Cane, come vorrebbe una certa tradizione vasariana che gli attribuisce a riguardo una tavola per una

chiesa francescana e uno specifico ritratto, chissà se in relazione con quello che Maurizio Brunelli avrebbe rinvenuto in

un affresco del Maestro del Redentore a San Fermo Maggiore, la chiesa dove fra l’altro si trova la cappella degli Alighieri

“veronesizzati”. L’eventuale dimostrazione dei rapporti di Giotto con Cangrande, in parallelo a quelli con gli Alighieri attesterebbe

della nuova apertura mentale con la quale non solo letterati e pittori, ma anche uomini di potere guardavano alle

attività intellettuali così come si stavano riconfigurando al principio del Trecento (“Parran faville de la sua virtute in non

curar d’argento né d’affanni,” dice ancora Dante nel XVII del Paradiso, come a dire che il condottiero Cane, a distinguerlo

della maggior parte dei suoi colleghi, non si curava troppo delle ricchezze materiali e delle ambizioni terrene), in anticipo

rispetto a quello che sarebbe avvenuto nei due secoli seguenti. In fondo, cosa fu il Rinascimento, se non il tentativo di

nobilitare culturalmente signorie che volevano giustificare il loro predominio in modo diverso dalla semplice prepotenza

delle armi? Giotto, insomma, precursore dell’Umanesimo più di quanto non sia riuscito a fare qualunque scrittore della

sua epoca, nel segno dell’antico riscoperto e attualizzato che diventerà decisivo nei decenni a seguire. È questa la sua

rivoluzione maggiore.

Vittorio Sgarbi

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PROLOGO

Nell’arco di tempo in cui Cangrande I della Scala governò Verona nei primi decenni del Trecento, due straordinari

personaggi erano destinati a lasciare un segno indelebile nella storia universale della letteratura e dell’arte. Possiamo indicarli

come i precursori dell’Umanesimo. Dante, per più anni, e Giotto saltuariamente frequentarono la corte del principe

scaligero, portando in riva all’Adige la linfa di nuove conoscenze.

Dante Alighieri, genio creatore affascinato dalle stelle, dotato della scintilla fluita nel rapporto innovativo con la tradizione,

trovò alimento nella riscoperta della cultura antica, quando il numero, la geometria e gli astri regolavano la vita

dell’uomo. Un sicuro rifugio intellettuale, mistico e velato, al riparo dai rigori dell’Inquisizione, appartenente al pensiero

filosofico religioso patrimonio degli spiriti illuminati.

Scienze innovative, che non potevano essere disvelate, giungevano dall’Oriente. Giotto, architetto e pittore, le applicò,

raggiungendo una fama di cui soltanto le persone profondamente acculturate potevano intendere l’origine.

Soltanto un mezzo poteva aver ispirato i due geni decisi a tramandare il loro segreto. Come gli astri erano creduti capaci

di comunicare le loro influenze sulla vita degli uomini collegando l’alto al basso secondo il credo dominante di quei secoli,

Dante e Giotto affidarono alle “stelle” il loro segreto. Sta tutta qui la chiave interpretativa delle loro creazioni, che

dovevano essere matematicamente perfette e armoniche come una melodia da innalzare al Creatore, secondo l’intuizione

di sant’Agostino: “Dio ha dato un numero a tutte le cose”. E l’uomo, nelle sue creazioni, doveva attenersi a questi princìpi.

Lo studio, secondo il dettato dei classici ma validato dal computer, chiarisce attraverso un antico procedimento scientifico

il potere matematico e filosofico, alla luce del firmamento stellato di Dante, delle “stelle della sapienza” individuate nelle

opere di Giotto a Padova e Firenze, quelle di frate Elia nel paliotto dell’altare maggiore nella basilica d’Assisi e di quella

meravigliosa stella “ermetico-sacrale” in oro e gemme preziose -fondata sul numero tre, come la Commedia- custodita

nel Museo di Castelvecchio a Verona. Stella che, come ragionevolmente ipotizzato, è essere appartenuta al tesoro di Cangrande

I, principe della signoria Scaligera, amico di Dante.

Alberto Zucchetta

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LA POESIA DEL NUMERO E LA MATEMATICA DELL’ANIMA

di

Claudio Bellinati

“omnia in mensura et numero et pondere”

(Lib. Sapies.XI, 21)

(tutte le cose in misura, numero e peso...)

Visitando la Cappella di Giotto all’Arena di Padova, ho pensato spesso a quello che Galileo era solito

affermare: e cioè, che la matematica e la geometria servono a capire il mondo; perché numeri e figure

geometriche sono la grammatica e la sintassi, con le quali il Creatore ha plasmato l’Universo. E pertanto

sono veramente grato al professor Alberto Zucchetta di aver approfondito, e dimostrato con formule

ineccepibili, quelle che il Bouleau chiamava: le geometrie segrete dei pittori, o che il Pacioli definiva:

la divina proporzione. Soffermandoci a pensare secondo le coordinate tessute dalla penna e dal compasso

del prof. Zucchetta, torna spontaneo il riferirci ai Pensieri di Pascal; il quale affermava, con geniale

intuizione, che la bellezza della medicina è nella guarigione, la bellezza della poesia nell’emozione, la

bellezza della geometria nella dimostrazione.

Viene così approfondita la conoscenza di un sistema logico-matematico, che attraverso i numeri primi

tenta di trovare una filosofia nelle leggi dell’Universo. Era, questo, il grande sogno di Leibniz, Eulero,

Gauss; e di molti altri studiosi, affascinati dalla bellezza della legge dei numeri primi e dal suo ricorrere

nelle leggi del cosmo. Si tratta in fondo di delineare una risposta ai grandi problemi posti, da Kant, Russel,

Godei, Cohen nel tentativo di poter comprendere quell’armonia e quella bellezza dell’universo, per

la quale Berenson esclamava: “Giotto! Giotto, quale problema!”.

Il Berenson stesso, tuttavia, dinanzi alla grandezza e all’armonia dell’opera di Giotto, soggiungeva: Goditi

Giotto! come per dire: Affidati alla contemplazione del capolavoro di Giotto. Sentirai che in lui si

fonde l’emozione del colore con l’armonia musicale dello spazio; in una sintesi, che diviene folgorazione,

e luce intellettuale. Proprio come quella, che fu la visione di Dante, nel Paradiso, quando esclamò:

“Luce intellettual, piena d’amore; amor di vero ben, pien di letizia; letizia che trascende ogni dolzore”

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Il 4 aprile 2001, in uno degli incontri promossi dal Comune di Padova, nell’ambito delle manifestazioni

“Da Giotto a Donatello”,1 introducendo la conferenza di Alberto Zucchetta, studioso di simbologia e

gioielli medievali, su come Giotto avesse ideato -concettualmente- il Giudizio Universale affermavo di

volermi riferire soprattutto alla splendida pubblicazione di C. Bouleau, dal titolo, “La geometria segreta

dei pittori”.

Vi è dunque tutto un mondo da scoprire, fatto di “numerologia, matematica, geometria sacra, simbolismo

e filosofia”, come ben afferma lo Zucchetta. Un mondo, nel quale, prendendo lo spunto dall’O di Giotto

(non una lettera dell’alfabeto, ma la tipica forma del cerchio, con formule basate sulla tetraktys greca) si

giunge ad una stupenda delineazione di figure geometriche e di spazi, dove regna il compasso; ma dove

soprattutto regna una bellissima armonia, che nasce dai ritmi musicali della composizione, come nei fregi

decorativi del Partenone (cfr. i frammenti del British Museum di Londra). Se noi prendiamo in mano

il Salterio di Bianca di Castiglia (+1252) vediamo che nella scena dell’astronomo con il suo astrolabio

balza nitida la vitruviana simmetria. Nel grande cerchio, con un esagono inscritto e ricavato attraverso la

famosa forma pitagorica della tetraktys, è contenuto il cielo (fatto di stelle a otto raggi, simbolo dell’infinito).“Le

linee costitutive dell’esagono inscritto stabiliscono il punto di sospensione dell’astrolabio, la

direzione del rotolo, l’altezza dei gradini, le pieghe della veste, il limite delle teste... Così, anche qui il

compasso regna; non c’è curva, profilo, ornamento, che non gli ubbidisca”. Dalla “geometria segreta”

di questi studiosi della bellezza, fino alla divina proporzione di fra Luca Pacioli, vi è tutto un mondo da

studiare; la cui bellezza diviene spesso musicalità, per simmetria di linee e per una ricerca di “libertà”,

pur fra i canoni imposti dalla ricerca della simmetria. Anche oggi, inseguendo il grande sogno di Leibniz,

Eulero, Gaus e di altri celebri matematici, si cerca di dare una risposta, non solo alla legge dei numeri

primi: ma anche a quella che presiede le armonie del Cosmo. Si tratta in fondo di delineare una risposta

ai grandi problemi, posti da Kant, Russel, Godei, Cohen, circa l’armonia del Cosmo e il vero significato

della bellezza.

Ben a ragione lo Zucchetta, afferma che in Giotto “troviamo quella poesia del numero e la matematica

dell’anima” che erano già state rivelate da Zenone e Pitagora; da Quintiliano, Vitruvio e Boezio. Soprattutto

Severino Boezio ci svela come la “musica coelestis” (quella che viene rappresentata anche nella

scena del Mandato, nella Cappella Scrovegni) sia costituita da alcuni strumenti, quali la cetra, la tibia ed

altri, che servono alla melodia. C’è anche una recondita ricerca di musicalità, di bellezza, nella composizione

così complessa del Giudizio Universale”. Se la musica è “amore di bellezza”, (affermava Platone),

e se la musica è “conoscenza dell’armonia”, (specificava sant’Agostino), è evidente che la parete, dalla

quale prendeva intonazione tutta la composizione pittorica del celebre monumento, doveva rispondere ai

canoni più alti della “geometria segreta”. Anche qui Giotto non si allontana da uno schema iconografico

bizantino.

Ma lo fa, usando le interpretazioni della sua alta fantasia; non allontanandosi dai contenuti delle cosiddette

“pseudo lettere paoline” (che giravano in quell'epoca anche nelle nostre regioni), ma appellandosi

a quella autentica erudizione “matematico-geometrica”, di cui era ricca la cultura dei pittori più celebrati.

Aveva ragione il Petrarca di affermare che anche per la sua “icona” (Madonna e Bimbo) ci voleva

l'intelligenza dei Maestri, per poterla capire. Non certo l'effimero giudizio di chi si appella a una propria

soggettività, per giudicare della bellezza di un dipinto: “artis magistri...stupent”.

Una dalle pubblicazioni più importanti circa il tema del Giudizio Universale è senza dubbio il volume di

Yves Christe, dal titolo: “Il Giudizio Universale nell'arte del Medioevo” (Milano, 2000). Precisando che

“ampie perdite hanno falsato la nostra conoscenza della realtà” nella indagine delle rappresentazioni più

antiche del Giudizio Universale, l'autore offre splendide immagini nel campo della pittura e della scultura

(indimenticabile è il sorriso sulle labbra di molti beati, nella famosa composizione che orna il tempio

di Bourges S. Etienne). La scena, che sfocia nel leitmotiv della “gloria di Dio”, già nel secondo Trecento

presenta una tipologia, atta ad affermare il trionfo della Croce di Cristo.

Per quanto attiene a Pietro Cavallini e a Giotto, l'autore sottolinea l'affinità con la presentazione della

Croce nei pulpiti toscani (due angeli ne sostengono le estremità). Anche la presenza dei nove cori angelici

(e della schiera dai santi) diviene una nota fondamentale del Giudizio Universale mentre si avverte una

conoscenza sempre più precisa di una tipologia dei predecessori negli gli artisti del Trecento, l'autore lascia

sottintendere ch'essi ne siano esperti anche nelle varie tecniche: basate sopra una precisa conoscenza

di una cultura matematico- geometrica, ancorata all'uso continuato del compasso.

Le ricerche condotte con fine intuizione e larga conoscenza ed esperienza da Zucchetta, rivelano non

solo la conoscenza delle leggi della euritmia e della bellezza da parte di Giotto, nei suoi dipinti all'Arena

di Padova, ma svelano anche il vasto possesso di una cultura, che si può catalogare come stupendo esito,

di quella che il Bouleau chiama “la segreta geometria dei pittori”.

1 Claudio Bellinati

1 Mons. Claudio Bellinati, è stato direttore della Biblioteca Capitolare di Padova e membro della Pontificia Commissione per i beni culturali

della Chiesa. Estratto dal libro “Il segreto della O di Giotto”, di A. Zucchetta, presentato al Museo Civico agli Eremitani. Padova, 4 aprile 2001

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IL SEGRETO DELL’ O DI GIOTTO

TRA ESOTERISMO E MATEMATICA, NELLA CAPPELLA DEGLI SCROVEGNI

“Giotto,

la cui bellezza non è capita dai non addottrinati,

mentre i maestri, nell’arte ne rimangono stupiti” 1

Giotto, Giudizio Universale. Cappella degli Scrovegni, 1300-1305, Padova1

Giotto precursore dell’Umanesimo più di quanto non sia riuscito a fare qualunque scrittore della sua epoca, nel segno

dell’antico riscoperto e attualizzato che diventerà decisivo nei decenni a seguire (dall’introduzione di Vittorio Sgarbi)

Lo studio in oggetto, presentato nel 2001 al Museo Civico agli Eremitani di Padova, ha svelato, attraverso una accurata

e convincente ricerca, come Giotto abbia impiegato nella ideazione concettuale del ciclo pittorico della Cappella degli

Scrovegni un’ antica formula ermetica di ispirazione pitagorica.

Questa ricerca, che prende lo spunto dalla leggendaria “O” di Giotto (dimostrando che non è una lettera bensì un cerchio

che racchiude una formula basata sulla tetraktys, elaboratrice di infiniti rapporti armonici) si snoda nel mondo della scienza

medievale intrisa di numerologia, matematica, geometria sacra, simbolismo e filosofia.

L’ esposizione articolata lungo un percorso d’immagini ha dimostrato come Giotto abbia ideato concettualmente il Giudizio

Universale, attraverso l’armonia dei rapporti matematici e filosofico-religiosi. Cennini, nel suo Libro dell’arte (XIV

secolo) concepisce la vita del pittore come un corso di studi in teologia e filosofia; si può quindi capire come Giotto sia

intervenuto non solo da architetto, disegnando in rapporto armonico il grande finestrone gotico che si apre sulla parete

del Giudizio Universale, ma anche sotto l’aspetto esoterico, rappresentandolo simbolicamente quale “sorgente di luce

divina”: luce che penetra non a caso nel tempietto attraverso la grande finestra, scorporata in tre parti, diffondendo la luce

nello stesso tempo unita e trina, richiamando in maniera sublime il mistero della Trinità.

Infine, vengono svelate le segrete geometrie racchiuse nelle lampade, dipinte nella finzione scenica dei due misteriosi

Coretti,2 quasi che Giotto le abbia concepite a firma dell’opera padovana. Si potrebbe intendere la conferma di un procedimento,

rimasto celato per 700 anni, teso al raggiungimento di quell’armonia e perfezione che le persone colte del tempo

credevano assolutamente necessarie per avvicinarsi alla “grandezza divina”.

1 Dal testamento di Francesco Petrarca, 4 aprile 1370

1Immagine tratta da: Giotto, Padua felix Atlante iconografico della Cappella Scrovegni. Bellinati Claudio. Vianello libri, 1997

2 Quest’arte così difficile...Alberto Zucchetta intagliator di gioie a cura di Lionello Puppi, vedi pag. 364 - EBS, Verona, 2005

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Giudizio Universale. Studio grafico

Giudizio Universale. Studio grafico

L’immagine in negativo, con la parte racchiusa dal cerchio,

permette di evidenziare lo studio grafico, da me eseguito, che

svela come Giotto abbia impiegato l’esagramma e la tetraktys

per realizzare la composizione e comunicare attraverso le

“geometrie sacre” il pensiero filosofico-religioso dell’opera.

Per gli iniziati le “geometrie sacre” sono i caratteri di un

linguaggio segreto, credendo loro di avvicinarsi al divino.

Sant’Agostino affermava che “Dio ha dato un numero a tutte

le cose”e che solo attraverso le scienze esatte la creatività

dell’uomo poteva specchiare sulla terra e opere del Creatore.

Il pensiero filosofico di Platone e di Pitagora, divinatori del

numero, è tornato in auge nel Medioevo grazie alla traduzione

dei primi libri di scienza provenienti dal vicino Oriente.

Dante e Giotto furono le personalità che più di altre personificarono

il pensiero culturale del Medioevo e che, sicuramente,

influenzarono la corte Scaligera anche con questo concetto

espresso da Tommaso d’Aquino: «I corpi celesti sono la

causa di tutto ciò che accade nel mondo sublunare». Più che

un’arte, la musica era intesa come scienza della proporzione

e dell’armonia, strutturata matematicamente com’era concepita

l’armonia delle sfere celesti, opera del Creatore

Ingrandimento a colori della porzione circolare segnata in

rosso nell’immagine a fianco ed è riferita alla parte geometricamente

centrale della composizione totale dell’opera.

La linea orizzontale che passa del centro divide in due aree

semicircolari il disco: l’Alto e il basso. Nella mezza luna

superiore campeggia il Cristo giudicante e tutte le figure

di angeli e santi; sotto, Giotto, dipinge tutte le scene che

riguardano, invece, le vicende terrene. Si possono notare le

perfette corrispondenze tra immagini del dipinto e il tracciato

dei diametri verticale e orizzontale della croce ch’è

inserita perfettamente nelle geometrie del cerchio. Sopra i

dieci angeli (10 numero perfetto) si posano sul perimetro

del cerchio dove all’interno Giotto dipinge il Cristo in trono.

In questo particolare del dipinto che segna la centralità

dell’opera, matematica, geometrie e pensiero filosofico

religioso, si fondono armonicamente esaltando il genio di

Giotto “…la cui bellezza non è capita dai non addottrinati,

mentre i maestri nell’arte, ne rimangono stupiti” (Petrarca)

Le geometrie sacre nella grande finestra trilobata, fonte di luce mistica

Rapporti armonici fondati nel cerchio. Tre immagini che possono rappresentare la Trinità: Lo Spirito Santo, fonte di Luce rappresentata

dalla finestra a tre luci; Il Padre giudicante, assiso sul trono; il Figlio, espresso in forma simbolica dalla croce della Passione.

Le tre immagini sono state create in perfette aree circolari in rapporto armonico tra di esse.

Questo mio studio è stato illustrato per la prima volta a Padova nel 2001 al Museo Civico agli Eremitani, presentato da Claudio

Bellinati, in occasione delle manifestazioni organizzate dal Comune di Padova, per il Settecentesimo anno dalla consacrazione della

Cappella degli Scrovegni, avvenuta il 25 marzo del 1305.

La ricerca è tesa a svelare come Giotto abbia impiegato nella ideazione del Giudizio Universale, un’antica formula ermetica di

ispirazione pitagorica. Lo studio, che prende lo spunto dalla leggendaria O di Giotto, dimostra che questa O non è una lettera, ma

bensì un cerchio che racchiude un’antica formula geometrico-matematica, capace di elaborare infiniti rapporti armonici, basata sulla

tetraktys e sull’esagramma. A quel tempo la cultura religiosa dettata dai Padri della Chiesa doveva dimostrare che l’opera dell’uomo

sulla Terra doveva perseguire i canoni di perfezione matematica utilizzati dal Creatore per realizzare l’armonia dell’Universo.

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L’ O DI GIOTTO

«Quando ormai Giotto di Bondone (1266-1337) era un pittore affermato, papa Benedetto XI lo interpellò per fargli affrescare

alcune stanze del suo palazzo. Prima di affidargli il lavoro però gli chiese di dimostrargli il suo miglior dipinto.

Giotto allora intinse il pennello e senza l’aiuto di alcun strumento tracciò a mano libera un cerchio perfetto». Era nato

il famosissimo O di Giotto!

Questa storia tratta dal Vasari, che conosciamo tutti già da bambini, mi ha sempre incuriosito e mi son chiesto domande

altrettanto curiose, le quali peraltro sono rimaste allora senza risposte, eccezione fatta per la banalità del racconto (apud

indoctos homines). Altre fonti indicano Bonifacio VIII essere il Papa della leggenda dell’O di Giotto, facendo interpellare

il Maestro toscano per la commissione di pitture in alcune basiliche romane.

Però, come l’esperienza insegna, ben sappiamo che ogni leggenda, per quanto inverosimile appaia, nasconde spesso un

fondo di verità. Più avanti negli anni, mi sono chiesto ripetutamente cosa potesse rappresentare quella «O», dipinta da

Giotto perfetta come un cerchio, e come mai il papa si fosse lasciato convincere da quella esibizione più teatrale che artistica

da parte di un Maestro affermato, vedendo tracciare quel cerchio. Certo, per quanto perfetta fosse la «O» disegnata da

Giotto a mano libera, non poteva essere quella la prova determinante e persuasiva della magnificenza artistica del pittore.

Quella «O», per convincere il papa ad assumere Giotto, doveva avere un significato recondito molto, ma molto profondo.

Mi incuriosì anche il fatto che il saggio voluto da Benedetto XI (papa da ottobre 1303 a luglio 1304) fosse passato alla

storia come la «O» di Giotto e non come il cerchio di Giotto.

Sappiamo che i Fenici aggiunsero la lettera «O» alla scrittura ieratica egizia. Essa indicava l’occhio, e nel maiuscolo

aveva spesso un punto nel mezzo. Fin dal primo cristianesimo servì ad indicare il termine, lo scopo finale delle cose. In

architettura rappresenta il cerchio e il rosone, immagini che sono comunemente conosciute per la loro rilevanza simbolica.

Quindi la lettera «O» poteva aver assunto un significato ambiguo, teso a nascondere le proprietà irrivelabili del cerchio

tanto care ai filosofi dell’antico Egitto, dai quali Pitagora e Platone le hanno apprese, e tenute nascoste con inviolabile

segreto. Un libro in particolare, « Scienza platonica fondata nel cerchio» (Tartini), mi fece meditare sul fondamento della

dottrina di Platone; e mi chiesi in che misura gli insegnamenti del filosofo greco potevano aver inciso sulla cultura e

sull’arte medievale.

Il cerchio è la figura primordiale nell’ambito della religione in quanto esprime l’unità del numero 10, «poiché l’unità costituisce

il centro e la circonferenza di tutte le cose». Platone è stato sempre considerato dai suoi discepoli ed estimatori

Giotto. Madonna di Ognissanti, 1310. Gallerie degli Uffizi, Firenze

come il «Geomètra sommo»: un grande saggio che sviluppa un illuminato pensiero filosofico dove proporzione, geometria

Lo studio geometrico-matematico, che svela il segreto della O di Giotto nel famoso dipinto del Maestro toscano, consente

di percepire la presenza di un pensiero filosofico religioso. Si tratta di una antica scienza basata sulla tetraktys

conduce a quella sola matematica figura, il cerchio, capace di contenere in se stessa la natura di cui è immagine.

e numero si fondono in un concetto scientifico inseparabile, composto di cinque gradi. Platone indica un percorso che

che permette di armonizzare la composizione e trasmettere il linguaggio espresso dalle geometrie sacre. Un genere

«Adunque, è assolutamente ed unicamente necessaria la figura circolare, perché tra tutte le possibili è l’unica che contenga

di comunicazione segreta che soltanto le persone iniziate alle scienze matematiche del Vicino Oriente riuscivano a

in sé la natura dell’uno e dello stesso. Se dopo l’immagine si ha la scienza, nel cerchio deve trovarsi il fondamento della

comprendere e impiegare nelle loro opere, per renderle perfette e innalzarsi al mistero divino

dottrina di Platone» (G.Tartini).

20 21



Come Platone, anche Pitagora considerava il numero un dono divino. La sua dottrina assumeva i contorni di una disciplina

trascendentale ed ermetica capace di generare figure concettualmente matematiche prodotte da una scienza inscindibile

dal numero che vedeva il numero inseparabile dalle ragioni della geometria e delle proporzioni. Rapporti

che perseguivano l’acquisizione della scienza suprema attraverso la ricerca scientifica della perfezione e dell’armonia.

Sua infatti fu una scoperta decisiva: il piacere estetico procurato da un accordo musicale è descrivibile in termini matematici.

La scienza di Pitagora tende a «divinare le invisibili armonie dell’universo, a decifrarne l’ordinata trama di occulte proporzioni

e corrispondenze». Sua, infatti, fu una scoperta decisiva: il piacere estetico procurato da un accordo musicale è

descrivibile in termini matematici. Pitagora ha reso visibile ai suoi discepoli attraverso la geometria e il numero la sua dottrina

occulta. Scienze che indicavano rispettivamente il corpo, lo spirito e l’anima, racchiuse e inscritte geometricamente

in un cerchio più grande. Princìpi che Giotto, architetto e pittore, ha impiegato per rendere armonicamente perfette le sue

opere, come risulta nella Madonna di Ognissanti,1 alla Galleria degli Uffizi, e nel Giudizio Universale, nella Cappella

degli Scrovegni di Padova.

Ma due furono i grandi pensatori e letterati che permisero alla scienza del numero da loro coltivata di procedere dall’età

classica al Medioevo: sant’Agostino e Severino Boezio. Nel «De Libero arbitrio» troviamo illuminante questa proposizione:

«Gli artisti di tutte le forme corporee hanno certe misure con le quali compongono convenientemente le opere; e tanto

si adoperano con i loro strumenti nel fare, finché l’oggetto esteriore venga a corrispondere quanto più si può a quella

luce di armonia che sentono dentro l’opera, per via dei sensi, venga a piacere a quell’interno giudice che contempla i

numeri supremi » (Agostino 354-430). Un concetto che si collega alla sapienza di Giotto in maniera ancora più esplicita

ed inquietante lo troviamo nei versi di chiusura della Commedia: «Qual è ‘l geometra che tutto s’affige /per misurar lo

cerchio, e non ritrova, / pensando, quel principio ond’elli indige / tal era io a quella vista nova: / veder volea come

si convenne / l’imago al cerchio, e come vi s’indova»: versi il cui significato nel nostro caso si sdoppia, illuminandoci,

distinguendosi da quello palese e più diffusamente accreditato della «quadratura del cerchio».

La Madonna di Ognissanti

Conosciuta anche come «Madonna in Maestà», viene citata per la prima volta come opera di Giotto, nella chiesa fiorentina

di Ognissanti, in un documento del 1418. È considerato uno dei capolavori del Maestro. Annamaria Petrioli-Tofani, già

direttrice della Galleria degli Uffizi, ha permesso tra l’altro di rendere visibili le venature del pavimento sotto il trono della

Madonna, tipiche del marmo di Verona, accreditando la tesi degli storici secondo cui il quadro venne eseguito dopo il soggiorno

a Padova dove Giotto affrescò (1303-1305) la Cappella degli Scrovegni. Ho preso in considerazione questo dipinto,

universalmente attribuito a Giotto, per eseguire degli attenti studi finalizzati alla ricerca del pensiero filosofico-religioso,

presente in quel tempo nelle persone colte, di dottrina e sapienza, ipotizzando che esso avesse guidato il Maestro nella

formulazione concettuale della scena. Oltre alle note caratteristiche di simmetria che balzano evidenti nella disposizione

degli Angeli e Santi, traspare un altrettanto evidente rigore geometrico nel disporre i volumi architettonici e le altre figure

ai lati del trono. Un dipinto che si è rivelato fondato sul cerchio, impiegando la formula geometrico-matematica della tetraktys,

per rendere perfetta e armonica la composizione religiosa secondo il dettato dei Padri della Chiesa.

Ma il particolare che più mi ha colpito è stata la stella rappresentata come fosse un gioiello, collocata tra l’aureola della

Madonna e quella del Bambino, che mi ha riallacciato allo studio del gioiello scaligero a forma di stella (di fattura

veneziana e riconducibile a mio parere ai primi decenni del ’300, quando a Verona governava Cangrande I della Scala,

celebrato da Dante (Paradiso, canto XVII).

1Alberto Zucchetta, Il segreto dell’O di Giotto, presentazione di Renzo Chiarelli, Stamperia Valdonega, Verona, 2000

TRA STORIA E LEGGENDA

Affascinante la storia del ritrovamento di un misterioso gioiello medievale a forma di stella facente parte del “tesoretto”

rinvenuto casualmente durante una banale operazione di scavo nella cantina di una abitazione in via Gaetano Trezza a

Verona nel 1938. Una stella tornata alla luce come un segno del destino. Un destino che, a mio parere, annoda la preziosa

stella (attraverso piccoli ma significativi particolari sostenuti da una accurata ricerca sull’interpretazione dei simboli e sul

significato che nel Medioevo aveva la scienza dei numeri, le gemme ed il loro colore) alla figura di Cangrande I della

Scala (1291 -1329). Approfondendo lo studio, ho trovato convincente l’idea che il gioiello a forma di stella facesse parte

del corredo funebre del Principe deposto nell’arca sepolcrale adiacente la chiesa di Santa Maria Antica a Verona.

La storia e la cronaca riconducono a tre distinti avvenimenti accaduti in anni diversi e, secondo me, collegati tra di loro da

una serie di deduzioni che hanno per ora soltanto un riscontro logico reso visibile da una sceneggiatura ragionevolmente

immaginata, attinta però da annotazioni letterarie e confortato dal parere di alcuni emeriti studiosi.

I fatti del racconto ci riconducono all’occupazione di Verona del 1797 da parte delle truppe di Napoleone Bonaparte, che

costrinsero la città a subire indiscriminati saccheggi e soprusi di ogni genere, gettando la popolazione nella disperazione

più assoluta.

I tre momenti storici che a mio avviso legano il pettorale a forma di stella a Cangrande I della Scala, sono così riepilogati

in ordine di tempo.

I predatori dell’arca scaligera

L’ occupazione di Verona nel 1797 da parte delle truppe Francesi, consumata in un clima di violenze, saccheggi e

terrore, mise in ginocchio la città. Non furono risparmiati monasteri, conventi, palazzi e semplici abitazioni, chiese e

cimiteri furono profanati e depredati di ogni cosa di valore.

Alla ricerca degli ori di Cangrande e dei manoscritti di Dante

Il VI centenario della morte di Dante, coltivava in qualcuno la segreta speranza di scoprire non solo qualche oggetto

prezioso che verosimilmente, poteva far parte del corredo funebre del principe, ma anche di trovare il manoscritto dell’Alighieri

riguardante il Paradiso o quantomeno la parte che il Poeta aveva dedicato allo scaligero. I rapporti di ospitalità

e amicizia che Cangrande I aveva intrattenuto con l’Alighieri sono noti e trovano il loro maggior riscontro letterario nel

canto XVII del Paradiso. Nel corso di questa prima visitazione ufficiale nella tomba del principe scaligero si scoprirono

tracce di una precedente quanto frettolosa ricognizione a scopo di razzia.

Il corpo di Cangrande viene trovato scomposto, piegato sul fianco destro con le vesti lacerate ed in parte raggomitolate

ai piedi al fine, è lecito immaginare, di trafugare dal defunto gli ornamenti preziosi che verosimilmente doveva indossare

quale corredo funebre al momento della tumulazione. Anche alcune tracce di cera stearica rinvenute all’interno dell’urna

fanno supporre che l’incursione banditesca sia da attribuire alle soldataglie di Napoleone durante l’occupazione di Verona.

Infatti quel particolare tipo di cera era prodotto in Francia per la fabbricazione di candele, e molte scorte di queste

candele arrivano in Italia al seguito delle truppe di Napoleone Bonaparte.

Il ritrovamento del “tesoretto” di via Trezza, documento di Lanfranco Franzoni

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AFFASCINATI DALLE STELLE

Stella di giotto Stella della sapienza stella scaligera

Dante, profondo conoscitore dell’astrologia, affascinato dalle stelle

Miniatura, terzo quarto del secolo XIV

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Una stella torna a brillare

Una “stella” di straordinaria bellezza, è tornata a brillare dopo 600 anni per uno strano gioco del destino

che ha annodato delle banali vicende tra vicini di casa con la straordinaria e quanto casuale scoperta di

un tesoro sepolto, composto di gioielli antichi, monete, perle e pietre preziose, avvenuta a Verona nel

1938. Tra i reperti venuti alla luce si annota il misterioso e intrigante, per quando riguarda il significato

simbolico nel contesto medievale, gioiello a forma di stella.

Dopo le prime stime ufficiali dettate da un arido criterio mercantile e di spartizione del valore del bene

stimato, che svilivano il vero significato culturale e storico dei reperti, illustri studiosi facevano chiarezza

per quanto ha riguardato la provenienza e la raffinata bottega orafa che gli ha eseguiti.

Su queste basi si procederà ad un radicale approfondimento della ricerca che confermerà con elaborati

tecnici e comparativi la provenienza veneziana dei reperti, inoltre esporrà nuove ipotesi sulla committenza

scaligera, e proporrà una originale lettura in chiave filosofico-religiosa (ovvero ermetica) tenendo

ben presente l’epoca nella quale sono stati ideati e realizzati i reperti, approdando a risultati di grande interesse

e suggestione, aprendo un nuovo spiraglio di luce nel panorama della cultura medievale italiana.

Tra gli oggetti del ritrovamento quello che attrasse subito la mia attenzione fu il gioiello dalla suggestiva

forma ispirata ad un stella. Mi colpì il preciso ordinamento delle pietre preziose, la matematica struttura

rivelata nell’ideare il disegno, ed infine la stimolante ricerca che si affacciava sul significato simbolico

legato alle geometrie e ai colori delle gemme. Come descritto nella pagina precedente, si tratta di un

raffinatissimo elaborato in oro di elevata caratura che misura 15 centimetri di ampiezza, con un grande

rubino tondeggiante, non sfaccettato di colore rosso vellutato, incastonato nel centro della stella, con un

contorno di dodici perle. Inoltre si contano ventiquattro rubini balàsci afgani, tondeggianti, di colore

rosa-violaceo; diciotto smeraldi indiani, non sfaccettati, e duecentodue perle orientali, registrando un

peso complessivo di grammi 243,5.1 Ma vediamo nel documento di Lanfranco Franzoni, inviatomi nel

dicembre del 1988, alcune note di cronaca del tempo e quali e quanti oggetti era composto il “tesoretto”

Stella scaligera

di via Trezza.

Bottega orafa veneziana, terza decade del secolo XIV. Museo di Castelvecchio, Verona

1 Una stella nel destino di Cangrande. L’Arena di Verona, Terza pagina, 27 novembre 1988. Lo studio di Alberto Zucchetta sulla Stella

Questo affascinante e straordinario pettorale a forma di stella, misura 15 centimetri di ampiezza e pesa 243,5 grammi d’oro

scaligera, presentato nel 1988 nella sala convegni della Cassa di Risparmio di Verona, rende noto per primo l’ipotesi di una connessione

ed è tempestato di 245 fra pietre preziose e perle orientali. L’ideazione geometrica del disegno, e il numero delle gemme

astrologica e matematica della stella scaligera con Cangrande I della Scala. Le altre relazioni sono state tenute da Pierpaolo Brugnoli,

basato sul numero 3, nasconde un mistero. Mistero che sarà svelato nel corso dello studio.

Gian Paolo Marchi e Lanfranco Franzoni.

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IL TESORO NASCOSTO

b - Rosetta

IL TESORO

Documento

1 - Stella scaligera. Terza decade del secolo XIV

2 - Spilla in oro del secolo XIV, con perle, zaffìri, rubini e smeraldi

In questa pagina sono illustrati alcuni tra

i reperti in oro e gemme più preziosi del

“tesoretto”, conservati al Museo di Castelvecchio

di Verona, rinvenuto casualmente

in una cassetta di mattoni durante uno

scavo. Lo studio, oltre che a confermare le

conclusioni tecnico stilistiche del Toesca,

ha indagato soprattutto il significato simbolico

degli oggetti medievali e ipotizzato

il suo committente.1

1 Le immagini di questa pagina sono state riprese a scopo didattico dal catalogo della mostra, gli scaligeri 1277-1387,

a cura di G.M.Varanini. Arnoldo Mondadori Editore. Verona, 1988

1

6 - Cintura, XIV secolo

La prima notizia sulla sensazionale scoperta è contenuta nel giornale “L’Arena” di domenica 20 novembre 1938, sotto il

titolo: “La pignatta del tesoro ovvero il tesoro nella cantina”. Ivi si riferisce che, avendo il nuovo proprietario dell’immobile

di via Gaetano Trezza 21, angolo via Paradiso, sig. Oreste Perdonà, avviato dei lavori nella cantina, nel corso di uno

scavo due muratori avevano scoperto una cassetta di mattoni che rivelò subito il suo eccezionale contenuto. L’articolo

continua informando che sabato 19 il Vice Podestà avvocato Zanella, il Pretore Capo Comm. Calderazzi, il direttore dei

Musei Prof. Avena, il commissario aggiunto di P.S. Criscuoli e l’orefice Passeroni si sono recati nella casa del ritrovamento

per prendere in consegna i vari oggetti longobardi rinvenuti. Non si precisa chi avesse formulato l’attribuzione dei

reperti all’età longobarda. Il cronista quindi continua in tono scherzoso: “Nella sede ufficiale della Società della Pignata,

nella trattoria omonima, di fronte al Lungadige Donatelli, oggi si riunisca l’amplissimo e nobile Consiglio e decida se

nulla osta che al suddetto sig. Perdonà, proprietario fortunato di una cantina tanto ben fornita, sia conferito con le insegne

d’uso il titolo cavalleresco della Pignata”.

“L’Arena” di martedì 22 novembre ritornava sull’argomento con alcune precisazioni che potevano risultare particolarmente

utili ai giocatori del Lotto. Il rinvenimento si dice avvenuto esattamente fra le ore 10 e le 10 e 30 di martedì 15,

durante lavori di scavo in cantina per la realizzazione di un pozzo nero. Il sig. Perdonà non era riuscito ad accordarsi con

un proprietario confinante per collocare la fossa in un cortiletto contiguo alla sua casa. Il rifiuto del vicino poco gentile

fu determinante per la scoperta del tesoretto. Il cronista prosegue informando che lunedì 21 novembre la Soprintendenza

ha provveduto a verificare gli oggetti rinvenuti, confermandone l’importanza storico artistica e valutandoli di due periodi

diversi, parte di età barbarica e parte di età successiva.

Dopo il 26 novembre (1938) la stampa locale si disinteressò dell’argomento. Ulteriori decisive notizie si attingono invece

dall’Archivio del Museo di Castelvecchio. Ivi infatti si conserva copia di un verbale di consegna, in quattro cartelle dattiloscritte,

datato 5 ottobre 1939. Il documento fu redatto nella sede municipale e sottoscritto da quindici persone, il cui

elenco è aperto dal Vice Podestà Zanella e chiuso dal Direttore dei Musei Avena. Era presente, e sottoscrisse il documento

prima di Avena, don Giuseppe Trecca, intervenuto a richiesta del sig. Perdonà. La riunione ebbe luogo per procedere

alla consegna dei preziosi, fino allora custoditi presso la Cassa di Risparmio, al Soprintendente alle Gallerie di Mantova,

Cremona e Verona, prof. Leandro Ozzola, onde potesse avviarsi la procedura per la corresponsione dei premi agli aventi

diritto. Gli intervenuti, ad eccezione del Comune di Verona, chiesero però che, fino al riconoscimento della qualità delle

pietre, gli oggetti venissero depositati in una cassetta di sicurezza presso la locale Cassa di Risparmio.

28 29



Da questo momento e per quasi due anni e mezzo la vicenda non si arricchiva di ulteriori elementi ma nel segreto degli

uffici statali la pratica faceva lentamente la sua strada. Infatti nell’archivio di Castelvecchio copia di una lettera al Soprintendente

di Mantova, in data 14 marzo 1941 fa riemergere il tema del “Tesoro di via G. Trezza”. Il Podestà, dopo aver rievocato

i precedenti della vicenda, scrive al Soprintendente: “Poiché, secondo recenti notizie sono state risolte le questioni

relative al ritrovamento e ai conseguenti diritti dei proprietari del terreno e dei ritrovatori, sarebbe vivo desiderio della

cittadinanza che detti oggetti fossero dati in deposito al Museo di Castelvecchio, anche perché dalla conservazione in loco

essi assumerebbero un particolare valore storico. Nel farmi interprete di questo desiderio cittadino vi prego d’interessarvi

benevolmente perché il Ministero dell’Educazione Nazionale consenta alla consegna in deposito. La richiesta del Podestà,

appoggiata dal Soprintendente Ozzola, ebbe favorevole e rapida risposta dal Ministero competente (11 aprile 1941) ed il

27 maggio dello stesso anno nell’ufficio del Direttore del Museo di Castelvecchio, il Soprintendente alle Gallerie di Mantova,

Cremona e Verona, Leandro Ozzola, e il Vice Podestà del Comune, Gianni Boccoli, coll’assistenza del Direttore del

Museo, Antonio Avena, stipularono un “Verbale” in cui si dichiarava che il Museo di Castelvecchio, secondo il disposto

ministeriale, riceveva in consegna “a titolo di deposito temporaneo”, per essere conservato ed esposto nel Museo stesso,

il Tesoro scoperto nel novembre 1938 in Verona, in via Trezza n.21. Seguiva la descrizione del “Tesoro” con relativa

valutazione dei pezzi.

Può interessare conoscere tali valutazioni, che furono il risultato di una stima peritale accettata dalle parti. Per brevità si

sintetizza la descrizione:

1) Fermaglio in oro con perle, rubini e smeraldi, in forma di stella con sei raggi

maggiori e sei minori, del diametro massimo di mm150 e del peso di gr. 243,5

Lire 30.000. (circa 270.000,00 €)

2) Spilla in oro con perle, zaffìri, rubini e smeraldi. Lunghezza mm100, larghezza mm 59, peso gr. 96. Lire 25.000.

3) Pendaglio in oro con perle, zaffìri, rubini e calcedoni di varia colorazione. Si compone di due parti snodate

e connesse fra loro a cerniera. Lunghezza mm187, peso gr. 84. Lire 10.000.

4) Elementi di collana in numero di 77, montati su lamina d’oro con perle, rubini e smeraldi.

Peso complessivo gr. 225. Lire 10.000.

5) Due anelli d’oro recanti sul costone due zaffìri sfaccettati detti di Ceylon. Lire 2.500.

6) Elementi di una grande cintura:

a) nove dischi a doppia lamina argentea e la superiore dorata con l’orlo rilevato e

bucato per accogliere perline, ché però mancano completamente, e ricoperta di smalto turchino, adorno di una

decorazione finissima a girari. Diametro mm 48.

b) Una piastra centrale pentalobata di argento dorato, con smalto uguale a quello dei dischi,

sormontata al centro da una rosetta fatta di perle, rubini e fogliette d’argento e smalto,

mm135x90.

c) Un attacco rettangolare-mistilineo, formato e ornato come i dischi: mm 60x48.

d) Tre attacchi d’argento dorato costituiti da una sbarretta recante due anelli.

e) Un piccolo gancio d’argento.

f) Alcuni frammenti di piccole rosette, del tipo di quella ornante la piastra di cui alla lettera b con perle e rubini,

del peso complessivo di gr. 37, per complessive Lire 2.500.

g) Perle orientali sciolte e bucate, che potevano ornare gli orli dei sopra descritti dischi, del

peso complessivo di gr.200. Senza valore perché decomposte.

Sommando le singole valutazioni si ha un totale di lire 80.000. Lo Stato che, naturalmente, aveva scelto di tenere il

“tesoretto” nella sua totalità, doveva corrispondere agli aventi diritto la metà della cifra accettata dalle parti come valore

del reperto, (Legge 1089,del 1 giugno 1939). Quindi al proprietario dell’immobile, agli ex proprietari (di cui sembra sia

stato riconosciuto il diritto alla partecipazione) e ai tre rinvenitori spettava complessivamente la cifra di lire 40.000, che,

divisa per cinque, fruttò 8.000 lire (circa 72.000,00 €) a testa agli aventi diritto.

A questo punto, se si fosse trattato di tempi normali, il “tesoretto” avrebbe potuto essere esposto al pubblico, dopo circa

tre anni dal rinvenimento. Ma i tempi erano quelli di guerra ed i gioielli vennero riposti e da allora iniziarono anche per

loro le stesse traversie che afflissero tutte le opere d’arte di Castelvecchio, celate nei rifugi, che furono via via reperiti

in luoghi diversi, di volta in volta ritenuti più sicuri, fino all’ultimo rifugio negli arcovoli dell’Arena. Vennero finalmente

esposti al pubblico soltanto nel 1947, a nove anni dal ritrovamento, con l’occasione della Mostra ’’Capolavori

della pittura veronese”, aperta a Castelvecchio da marzo a ottobre. La Mostra si proponeva di offrire riunite le massime

testimonianze della pittura veronese, uscite dai rifugi di guerra e restaurate, prima del loro rientro nelle rispettive sedi di

provenienza.

Nel 1951, il “tesoretto” appare citato in una pubblicazione di alto livello scientifico: “Il Trecento” di Pietro Toesca, dove

si definisce non anteriore a questo secolo poiché vi è una cintura con fermaglio a smalto trasparente su argento inciso.

Per l’incastonatura delle gemme si richiamava il confronto con quelle della Pala d’Oro.

Nel 1954 il “tesoretto” viene citato per la prima volta in una pubblicazione sul Museo, redatta da Antonio Avena e compresa

nella serie “Itinerari dei Musei e Monumenti d’Italia”. Ivi, all’inizio della Sala II, ov’erano esposti i maestri più

rappresentativi della pittura veneziana e veronese del Settecento, troviamo: “Tesoro Scaligero della fine del XIII secolo,

una fornitura d’ori e smalti con pietre di rara caratura e raffinata legatura, scoperti in una pentola sotto una casa di via

G. Trezza”. La prima edizione della Guida, datata A. XV E.P., cioè 1937, è anteriore alla scoperta del tesoretto. Il pezzo

più significativo, la grande stella a dodici raggi, figura in una tavola a colori della guida “Il Museo di Castelvecchio” a

cura di A. Aldrighetti, (Neri Pozza editore, I960), sotto la definizione di oreficeria veneziana del Trecento.

Nel 1962 Licisco Magagnato nel volume “Arte e Civiltà del Medioevo Veronese” riproduce i due gioielli principali e

rinvia al giudizio del Toesca.

Un inquadramento stilistico e storico del tesoretto vide la luce nel 1983, in occasione della Mostra “Le stoffe di Cangrande”,

tenuta presso il Museo di Castelvecchio. Il saggio, a firma di Jasminka De Luigi, collega il tesoretto alla bottega

orafa veneziana che ha prodotto la Pala d’Oro di S. Marco, proponendo una datazione prossima al 1339, quando Alberto

II e Martino II della Scala ottennero la cittadinanza veneziana, con godimento delle prerogative proprie dei nobili.

L’occasione di questa Mostra fu infine di stimolo per Alberto Zucchetta ad occuparsi dei gioielli e principalmente

della grande stella, proponendone una nuova lettura, imperniata su valenze astrologiche espressamente connesse alla

personalità di Cangrande I. (L’Arena, 27 nov. 1988)1

Lanfranco Franzoni *

*Atti della Giornata di studio in ricordo di Lanfranco Franzoni, Una vita per i Musei. (Verona, 24 novembre 2015), a cura di Margherita Bolla,

1Estratto da civiltà veronese. Della Scala Edizioni, Verona 6 aprile 1990

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Documento

Documento

Lettera accompagnatoria della

La prima notizia apparsa sulla

relazione tenuta dal prof. Lanfranco

stampa dello studio incentrato

Franzoni, alla presenta-

sulla Stella scaligera, pubbli-

zione dello studio di Zucchetta

cata sul quotidiano L’Arena di

sui gioielli scaligeri, inviatagli

Verona, il 27 novembre 1988.

nel 1988.

Successivamente, un ciclo di

Lo studio sulla misteriosa stella,

conferenze dedicate allo studio

iniziò negli anni in cui era direttore

“ Il mistero della Stella, e

dei Musei civici di Verona,

il pensiero filosofico negli ori

Licisco Magagnato; si insediò

scaligeri del Trecento” si sono

nel 1955 e vi rimase alla guida

svolte al Museo “Francesco

per 31 anni innalzando con le

Gonzaga” di Mantova, quindi

sue iniziative l’aspetto culturale

a Verona, alla Fondazione

di Verona. Fondamentale l’intelligente

Museo Miniscalchi Erizzo, alla

opera di restauro del

Biblioteca Civica di Verona or-

Museo, affidata ad un giovane e

ganizzata dall’Archeoclub, e

geniale Carlo Scarpa.

alla Società Letteraria di Verona,

Francesca Rossi, è l’attuale direttrice

con gli interventi di Da-

dei Musei civici di Verona,

niela Brunelli, Paola Marini,

succeduta a Paola Marini

Gian Battista Ruffo, e moderaniela

nel 2017

ta da Michelangelo Bellinetti.

32 33



TRA VENEZIA E VERONA

LA MARCATURA DELL’ORO A VENEZIA

È importante citare il “tesoretto” con i gioielli di epoca scaligera rinvenuti

casualmente da uno scavo in una abitazione in via Gaetano Trezza a Verona

nel 1938 e conservati al Museo di Castelvecchio, dove spicca per magnificenza

il prezioso gioiello a forma di stella di foggia orientale. Un oggetto in

oro puro di 243,5 grammi con incastonati 245 tra smeraldi, rubini bàlasci e

perle orientali, realizzato a Venezia verosimilmente nella terza decade del

‘300. Periodo stimato come lascia intendere l’assenza dei punzoni ufficiali

della Zecca della Serenissima sull’oggetto e le vicende storiche trattate nel

libro.

Oltre all’immagine culturale, simbolica e tecnica, è l’aspetto giuridico che

permette di ipotizzare la realizzazione della preziosa stella negli anni che

intercorrono prima della morte di Cangrande I avvenuta a Treviso nel 1329.

Infatti nella stella scaligera va rilevata l’assenza dei marchi legali -pratica

tollerata in precedenza, che però incrementava il commercio illegale dell’oro

con notevole danno alle casse della Serenissima- che la Repubblica di

Venezia impose con una Terminazione del 23 Ottobre 1335, stabilendo che

ogni oggetto doveva essere portato alla Zecca per essere bollato con il pubblico

sigillo di San Marco, e dovesse essere marcato con il contrassegno

dell’orefice che l’aveva eseguito o con quello proprio della bottega. Poi, i

manufatti dovevano essere posti all’esame dei due Sazadori o Tocadori e

una volta accertata la caratura dell’oro questi due ufficiali della Zecca dovevano

apporre il loro punzone di contrassegno. Quindi almeno negli oggetti di

maggior pregio, vedi la citata stella scaligera, dovevano esserci cinque bolli

punzonati: 1-quello dell’orafo; 2-quello della bottega; 3-quello del primo Sazador

(accertatore del titolo dell’oro); 4-quello del secondo Sazador o Tocador.

Tutto doveva svolgersi alla presenza del N.H. Masser che registrava le

operazioni, quindi infine veniva bollato con il sigillo della figura del Leone

di San Marco in moleca. Non essendoci questi cinque marchi alla data del

1335, è ragionevole pensare che la stella sia stata consegnata al committente

scaligero prima della Terminazione del 1335, e come ipotizzato nello studio,

arrivata alla corte di Cangrande I, grazie agli ottimi rapporti che lo scaligero

teneva con la Repubblica di San Marco, con godimento delle prerogative dei

nobili veneziani.

A

B

C

Tavole di comparazione tra alcuni elementi della

Pala d’oro della basilica di San Marco a Venezia

e la fibbia scaligera in oro e gemme rinvenuta

casualmente, assieme ad altri gioielli del XIV secolo,

nel 1938 a Verona.

Nella figura A a sinistra e in alto, vediamo alcuni

elementi della Pala d’oro, isolati dal contesto

principale per la loro assoluta somiglianza con gli

elementi che compongono la fibbia “ovale” scaligera,

illustrata nella figura accanto.

Nella figura B notiamo gli elementi in oro perle e

pietre preziose, tratti dalla Pala d’oro,1 che ricomposti

secondo la disposizione danno la forma alla

fibbia scaligera. E’ importante vedere come i vari

elementi decorativi a forma di foglie e i castoni

a “torretta” siano identici, sia nel disegno sia

nella tecnica d’esecuzione, a quelli della fibbia

veronese.

Nella figura C è raffigurata la fibbia “ovale” scaligera

da comparare con gli elementi tratti dalla

Pala d’oro di Venezia: misura cm. 11 x 6 e pesa

96 grammi; sono incastonate 9 pietre preziose e

34 perle. Numeri di alto valore simbolico che troviamo

con godimento delle prerogative dei nobili

veneziani anche nella grande stella di Castelvecchio.

Le perle e le pietre preziose sono state ordinate

seguendo la disposizione della spilla originale.

Attraverso lo studio di comparazione grafica ho

potuto dimostrare quanto già rilevato da Pietro

Toesca, ottenendo così una copia pressoché

identica che lascia pochi dubbi sulla provenienza

e sullo stile che riconduce a quella bottega veneziana

che riordinò con nuove gemme e decori la

Pala d’oro, grazie anche al lascito di una cospicua

somma di denaro da parte di Pietro Nano,1 l’astrologo,

negromante, consigliere fidato di Cangrande

I della Scala.

1 Gino Barbieri, gli scaligeri 1277-1387, pag. 336 Arnoldo Mondadori Editore. Verona, 1988

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LA STELLA DI GIOTTO

TRE STELLE A CONFRONTO

Stella di Giotto. La ricostruzione della stella, in argento dorato, onice

coralli e pietre dure, ottenuta con la formula della tetraktys, e verificata

al computer, risulta identica alla stella originale dipinta da Giotto

Gli studi da me effettuati sul prezioso gioiello scaligero a

forma di stella, hanno consentito di individuare il procedimento

geometrico-matematico eseguito da Giotto nel grande

dipinto Madonna di Ognissanti (1310-1311). Nel particolare

emerge con evidenza la stella a sei punte tra le due aureole,

ideata come fosse un gioiello. Lo studio dimostra come la

stella di Giotto sia stata pensata secondo la formula matematica

della tetraktys. Una prima verifica svelava che il diametro

di questa stella, moltiplicato per10 dava la misura del

trono della Madonna; se moltiplicato per 20 dava l’ampiezza

del dipinto. Proseguendo lo studio è risultato che tutto il dipinto

era stato progettato impiegando il teorema pitagorico

della tetraktys fondata sul cerchio. La famosa O di Giotto!

Stella di Giotto. Verifica sulla stella originale del dipinto Madonna

di Ognissanti. Lo studio geometrico basato sulla tetraktys, disegnato

su carta trasparente, consente sovrapposto di verificare l’esattezza

del procedimento

Lo studio sul gioiello scaligero a forma di stella del Trecento

veronese, intrapreso negli anni Settanta, non sarebbe

stato fecondo di sviluppi se non si fossero presentate altre

analoghe situazioni, (la stella dipinta da Giotto nella Madonna

di Ognissanti e la stella del "San Giorgio" di Karlštejn,

dipinta da Tomaso da Modena) che sostenessero i risultati

raggiunti in quella prima esperienza.

La ricerca iniziò quando l'allora direttore del Museo di Castelvecchio

di Verona, Licisco Magagnato, mi chiese un parere

sui gioielli medievali, conosciuti come il "tesoretto” di

via Trezza, che avevano dato adito ad una serie di ipotesi

- alcune molto suggestive - dopo il casuale ritrovamento del

1938 nel sottosuolo di una vecchia cantina di Verona.

Tra questi preziosi reperti del XIV secolo, uno spiccava in

modo particolare: si trattava del meraviglioso gioiello in oro

a forma di stella, tempestata di 245 fra perle, rubini e smeraldi

orientali.

Questo originalissimo oggetto in oro dalle ragguardevoli

dimensioni (mm 150 di estensione) e peso (circa 250 grammi)

mi pose davanti alla domanda: la posizione delle gemme

e il perfetto disegno dalle linee armoniche era frutto del

buon gusto dell'artefice, oppure il risultato, il frutto di una

mente iniziata a quelle sapienze così radicate nel Medioevo

come la geometria, il linguaggio dei simboli, la scienza dei

numeri, astrologia, il significato dei colori e delle pietre preziose,

la filosofia ermetico-religiosa?

La risposta dopo anni di studio mi convinse che soltanto

una mente culturalmente preparata poteva aver ideato quel

meraviglioso gioiello.

Lo studio del prezioso elaborato a forma di stella mi portò

ad interessarmi a tutto ciò che aveva attinenza con questo

soggetto: e finalmente quando mi capitò di notare la splendida

stella dipinta da Giotto nella Maestà di Ognissanti, mi

ritornò alla mente la leggenda della O di Giotto. Quella creduta

essere una O, in realtà si trattava di un cerchio geometrico

con inscritta la formula matematica della tetraktys.

Racconto, però, che m’ apparve sotto tutt'altra luce, tanto

da indurmi ad aprire un nuovo capitolo di studio e più

tardi convinse l'Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere

di Verona a pubblicare i risultati nel libro "Il segreto dell'O

di Giotto, il pensiero filosofico-religioso nella Madonna di

Ognissanti”, con la presentazione di Renzo Chiarelli.1

Forse avevo trovato l'anello mancante che poteva darmi la

ragione dello studio della stella scaligera e, nello stesso tempo,

poteva schiudermi la via ad una ricerca più razionale ed

affascinante che mi avrebbe consentito, qualche anno dopo,

di credere di aver intuito il pensiero profondo di un artista

definito dai critici d'arte di tutti i tempi: "Iniziatore di una

rinnovata pittura”.

Giotto, la cui fede non è mai in discussione, segue il dettato

dei Padri della Chiesa i quali scorgevano nel numero

l'espressione dell'ordine divino. Sant'Agostino afferma che

"Dio ha dato un numero a tutte le cose”. Infatti, l'idea pitagorica

di numero come armonia divina fu ripresa totalmente

da numeristi cattolici i quali, però, si affrettarono a modificare

il concetto di numero-idea secondo le convinzioni

ortodosse. Lo studio sulla pittura concettuale di Giotto, ed

anche su alcuni suoi seguaci, mi convinse che il numero

diveniva il mezzo per visualizzare un concetto, del quale

assumeva la valenza di simbolo nella realizzazione dell’opera.

In questa maniera si potevano determinare i punti

geometrico-matematici che andavano a formare l’occulta

intelaiatura sulla quale costruire l’ambiente della composizione

e quindi delle immagini, ideate matematicamente per

raggiungere quell’armonia delle sfere, nelle quali era presente

tutto il sapere scientifico unitamente ai più profondi

concetti religiosi. Nel medioevo era diffuso tra i letterati, gli

artisti, ma anche nel mondo dei Maestri selle Arti seguire

certe regole segrete “come quelle degli architetti seguaci

essi pure del mistero del numero: regole che il maestro rivelava

solo ai discepoli più quotati”.

1 Renzo Chiarelli, già direttore della Soprintendenza alle Gallerie degli

Uffizi di Firenze fino a Soprintendente ai beni artistici e storici di

Modena-Reggio e successivamente del Veneto.

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LA STELLA DEL SAN GIORGIO

LA STELLA DELLA SAPIENZA NELLA BASILICA DI ASSISI

Ricordo che sono rimasto piacevolmente emozionato

quando il direttore del Museo Civico d’Arte di Pordenone

prof. Gilberto Ganzer,1 mi ha comunicato di aver colto una

similitudine d’immagine fra il gioiello appeso al collare del

San Giorgio -dipinto da Tomaso da Modena (1326-1379)

nella seconda metà del Trecento- e il gioiello a forma di

stella del “tesoretto” veronese, forse appartenuto al principe

scaligero Cangrande I della Scala. Dal conseguente studio,

da me eseguito sulla stella di Tomaso da Modena, è risultato

che il pittore ha impiegato gli stessi principi geometrici,

basati sul l’esagramma e sulla tetraktys pitagorica, che

avevo precedentemente scoperti nella stella del “tesoretto”

scaligero e nella stella dipinta da Giotto. Si evince che questi

temi -riproposti in maniera occulta nel Medioevo- erano

impiegati da persone di elevata cultura, per progettare e realizzare

in maniera armonica e matematica, perfetti elaborati

concettuali nel campo delle arti.

Nel percorso della mostra vengono illustrate le varie fasi di

progettazione della stella del San Giorgio di Karlštejn, iniziando

da un punto segnato su di un foglio. Da quel punto,

con l’ausilio del compasso e del righello, si svilupperanno

in rapide sequenze tutte le operazioni geometriche che conducono

all’elaborazione del disegno del gioiello, ripercorrendo

lo stesso procedimento usato da Tomaso da Modena

seicento anni addietro. Un teorema fondato nel cerchio, che

si può considerare un vero strumento (si potrebbe dire un

computer del ‘300) elaboratore d’infiniti rapporti armonici.

E’ sorprendente notare come questo procedimento sia stato

identico a quello impiegato dall’ideatore della stella scaligera

conservata, assieme agli altri gioielli del “tesoretto”,

nel Museo di Castelvecchio di Verona.

1 Gilberto Ganzer, Imperatori e Condottieri sull’Antica Via del Sale,

ARBE Modena, 2000

La fedele riproduzione in oro e gemme, della stella dipinta

da Tomaso da Modena -seguace di Giotto- nel collare del

san Giorgio di Karlštejn (Praga), è stata ideata con lo stesso

procedimento sia della stella di Giotto, sia della stella

di Castelvecchio, come risulta sovrapposta nella dimostrazione

grafica

“Nel sagrato erboso della basilica, il prato è diventato un tappeto di mattoni, intonaci, calcinacci, ogni frammento con

qualche macchia di colore, soprattutto oro e azzurro, i lembi del cielo stellato che era dipinto sulle vele del transetto

sopra l’abside. Sono le particelle recuperate (migliaia dopo l’apocalisse delle 11,41), sono i tasselli del grande puzzle

impossibile che i restauratori tentano comunque di ricostruire” (Francobaldo Chiocci, in II Giornale del 28.9.97 p.5).

Era la mattina del 26 settembre 1997 quando un violenta scossa di terremoto fece crollare, causando quattro vittime, la

parte della volta a crociera d’ingresso della chiesa Superiore di Assisi, con raffigurato san Gerolamo, da molti attribuito alla

scuola di Giotto e da alcuni addirittura come opera giovanile del Maestro. Lo strazio per i morti e per l’immane catastrofe

che ha colpito uno dei monumenti più rappresentativi dell’arte mondiale fu enorme.

Enorme fu la mia meraviglia quando seguendo il telegiornale della sera di Canale 5 vidi l’immagine che inquadrava un cumulo

di macerie sulle quali spiccava una piastrella tonda a mosaico colorato con un disegno geometrico a forma di stella

regolare a sei punte, formata da due triangoli equilateri sovrapposti. All’interno della composizione della stella notavo 12

piccole stelle, con una più grande al centro, disposte con precisione matematica, disegnando l’immagine geometrica della

tetraktys. Si trattava dello stesso misterioso indizio trovato nella Cappella degli Scrovegni, in un affresco di Giotto, suscitando

molto interesse anche al prof. Lionello Puppi,1 che in quell’anno si accingeva a curare un libro sulla mia attività.

La considerazione più inquietante che mi colpì fu quella di constatare che non si trattava di un semplice frammento staccatosi

da un contesto pittorico e decorativo più ampio, ma di un elemento eseguito su di una mattonella perfettamente circolare

con uno spessore considerevole di alcuni centimetri, la cui collocazione doveva assolvere ad un significato simbolico

più rilevante, simile ad un sigillo. Dalle immagini registrate sono riuscito a contare esattamente il numero delle tessere che

mi avrebbero dato le misure fondamentali per la perfetta ricostruzione del disegno basato sui rapporti ottenuti dal lato

del quadrato, 10; dal lato triangolo equilatero, 12; e dal diametro del cerchio, 14.

Su questa base ho potuto ricostruire la formella “matematica” e presentare la mia ricerca a Renzo Chiarelli,2 che mi suggeri

di recarmi ad Assisi per approfondire l’indagine. Visionato il mio disegno e chiesto dove la formella era collocata prima

del disastro, non senza stupore, il Ministro generale della basilica di San Francesco d’Assisi Fra Agostino Gardin e il

prefetto bibliotecario Fra Pasquale Magro, mi confermavano la precisione della ricostruzione grafica, trattandosi di una

delle tre formelle a forma di stella esagrammata staccatasi dal paliotto dell’altare maggiore della basilica. La presenza di

questo misterioso sigillo “matematico” a forma di stella, potrebbe essere un indizio importante della presenza della mano

di Giotto nel ciclo affrescato delle storie di san Francesco d’Assisi attribuito in parte al Maestro toscano e alla sua scuola,

dipinto tra il 1292 e il 1296. Una basilica non senza misteri, dove hanno operato i maestri comacini iniziati all’Ars Regia,

ovvero le leggi dell’armonia, che regolano i rapporti tra tutti gli esseri e la natura che li circonda. Con il termine Ars Regia

si indica l’arte, la tecnica e tutte le regole di costruzione dei templi e degli edifici sacri e non stupisce la presenza della stella

a sei punte che allude ai contatti culturali con il Vicino Oriente che frate Elia, fondatore della basilica, sicuramente doveva

aver avuto.

1 Lionello Puppi, Quest’arte così difficile...Alberto Zucchetta intagliator di gioie, Editoriale Bertolazzi STEI, Verona, 2005

2 Renzo Chiarelli, già direttore della Soprintendenza alle Gallerie di Firenze fino a Soprintendente ai beni artistici e storici di Modena-

Reggio e successivamente del Veneto

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DA GIOTTO A RAFFAELLO

Studio. Rilievo della stella ottenuto con l’ausilio della Tetraktys Studio. Rilievo della “stella della sapienza” di Assisi

La scuola di Atene. Raffaello. Vaticano(1509-1511)

Nella lavagnetta è raffigurato l’esagramma a forma di

stella tracciato con il compasso da “Euclide”

Esagrammi rivelatori

In questi due straordinari particolari

della “Scuola d’Atene”, dipinta

da Raffaello nella Stanza della Segnatura

in Vaticano tra 1509 e il

1511, compaiono tracciate in due

separate lavagnette quelle che sono

state le misteriose formule geometrico-matematiche

dell’ermetismo

medievale, che potevano generare

infiniti armonici rapporti nel

campo dell’arte. Nella lavagnetta

di sinistra, con Pitagora, è rappresentata

la formula della tetraktys e

in quella a fianco è rappresentato

l’esagramma inscritto con il compasso

nel cerchio!

Esattamente duecento anni prima,

intorno al 1310, Giotto dipingeva

a Firenze la tavola con la Madonna

di Ognissanti, lasciando ermeticamente

celata nella misteriosa stella,

che compare tra l’aureola della

Madonna e quella del Bambino,

l’ermetica formula dell’esagramma.

Un identico “segnale” si trova nella

Cappella degli Scrovegni a Padova

Cappella degli Scrovegni. Giotto. Particolare del personaggio con

la viella, nella scena “Maria ritorna a Nazareth”, dove si notano i

due emblematici esagrammi tracciati sullo strumento

La scuola di Atene. Raffaello

Paliotto dell’altare maggiore della basilica superiore di Assisi

Si ritiene ideato da frate Elia, per la ricchezza dei simboli presenti nella

composizione ed evidenziati nello studio. L’assieme dei motivi geometrici

delle stelle e delle spirali, esprimono un alto valore simbolico. La

stella a colori è al centro di quattro volute,che si collegano al simbolo

cosmico delle spirali, che indicano l’ascesa dell’anima al cielo stellato

con il significato cristiano di Rinascita e di Salvezza attraverso Cristo.

Simbolo cosmico che troviamo nella statua celebrativa di Cangrande I a

cavallo, posta sopra la sua arca funebre. Lo stesso simbolo inciso compare

in una cintura di 3000 anni a.C. rinvenuta in una sepoltura nella

necropoli di Baldaria a Cologna Veneta nel Veronese.

Paliotto in mosaico con le “stelle della sapienza”

La grande “stella della sapienza”, evidenziata nell’immagine, si trova

rappresentata tre volte, circoscritta ognuna da quattro spirali,

simbolo della rotazione cosmica della sfera celeste. Sono immagini

che troviamo fin dall’antichità nella tipologia funeraria. Bellissimo

il simbolo del Cosmo che racchiude due stelline esagrammate e due

stelline raggianti luce. Si potrebbe leggere: l’uomo attraverso la fede

e la conoscenza si innalza anche dopo la morte verso la luce divina.

La basilica, progettata da frate Elia, è l’unica chiesa con l’ingresso a

Oriente, indirizzata verso l’Illuminazione.

Due secoli dopo Giotto, Raffaello

nella scena ispirata ai personaggi

delle scienze e della filosofia dell’Antica

Grecia, dipinti nella stanza

della Segnatura in Vaticano, svela

nelle due lavagnette le formule “segrete”

della tetraktys -funzionale

alla matematica- e dell’esagramma

-funzionale alla geometria- formule

impiegate dal Maestro toscano nel

Giudizio Universale, nella Cappella

degli Scrovegni a Padova 1303-1305

e nella Madonna di Ognissanti, 1310

ca. agli Uffizi di Firenze, imponendosi

come innovatore e precursore

dell’Umanesimo.

A fianco, Pitagora e la lavagnetta

con la tetraktys

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TRA STORIA E LEGGENDA

Giotto. “Maria ritorna a Nazareth”, particolare con gli esagrammi a forma di stella. Cappella degli Scrovegni, Padova

La Vergine, con sette ancelle, accolta da tre musici con viella e clarine. Tralasciando la fondamentale simbologia espressa dai numeri dei personaggi

nella scena, 1 (Maria, già con l’aureola) del 3 e del 7, è nel particolare della viella che si notano due esagrammi, con un punto al centro. Inoltre la

presenza di sei punti equidistanti dal centro dei due esagrammi, sono disposti a sottintendere la possibile tracciatura di un cerchio (come per studio

evidenziato in verde). La presenza di questi simboli, sia numerici sia geometrici, conducono ad una interpretazione dal significato straordinario.

Si potrebbe pensare che i due esagrammi a forma di stella rappresentino la “firma” esoterica del Maestro toscano. Un segnale che può essere capito

soltanto dalle persone allora iniziate all’Art nuova, sinonimo di arte e scienza, della quale il Petrarca scriveva di Giotto:

“...la cui bellezza non è capita dai non addottrinati, mentre i maestri, nell’arte ne rimangono stupiti”

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Piccoli frammenti indiziari

L’arca del principe scaligero Cangrande I, terza decade del XIV secolo. Chiesa di Santa Maria Antica,Verona

Come accade nelle ricerche archeologiche di scavo per indagare il passato, anche noi iniziamo lo studio analizzando i

fatti e i piccoli frammenti indiziari sedimentati in ordine di tempo a partire da quello che una serie di deduzioni ci trasporta

all’epoca dell’occupazione di Verona avvenuta da parte delle truppe di Napoleone alla fine del ‘700. Non v’è dubbio

che l’inizio sia promettente, ricco di fascino e di mistero, soprattutto se la nostra vicenda comincia con la scoperta di un

tesoro, anzi di un “tesoretto”, come fu allora battezzato, ma che con il passare del tempo si è rivelato invece essere uno dei

ritrovamenti più importanti e suggestivi riguardanti non solo l’oreficeria profana del 1300.

Immaginiamoci per un momento di fare un balzo indietro nel tempo e di essere spettatori di una vicenda accaduta a

Verona nel 1797, ovviamente rivissuta e annodata con ragionata immaginazione, ma che potrebbe nei punti salienti e nei

contenuti essere vicina agli accadimenti reali.

Quando nel maggio del 1796 si diffuse in città la notizia dell’arrivo delle truppe Francesi, una sorta di panico serpeggiò

non solo tra i cittadini ma anche tra gli amministratori, molti dei quali abbandonarono la città “in fretta e furia”. Tra la

gente più semplice molti cercarono rifugio nelle campagne limitrofe, mentre i benestanti si spinsero nei territori di Vicenza

e Venezia. Altri lasciarono la città a bordo di barconi diretti verso il Polesine. L’allora Provveditore della Serenissima

per Verona, Nicolò Foscarini, nell’imminenza dell’arrivo delle truppe di occupazione emise un’ordinanza che imponeva

la chiusura di tutte le botteghe e le case, con esclusione delle osterie e le rivendite di generi alimentari fino a nuovo ordine.

Evidentemente non c’erano le premesse che Napoleone e le sue truppe fossero accolti con benevolenza dai veronesi, certi

a loro volta che la convivenza con i soldati invasori sarebbe stata tutt’altro che facile. Era diffusa la convinzione che i sentimenti

di antipatia espressi dal Bonaparte verso i veronesi sarebbero stati il tacito viatico per creare un clima di soprusi,

ruberie e terrore sulla città.

Bastano poche parole di un cronista dell’epoca per capire in quale situazione si era venuta a trovare la popolazione di

una città sottomessa da dodicimila soldati occupanti: “Verona era tutta spaventata perché i soldati andavano per tutte le

contrade e dove trovavano i portoni dei palazzi aperti, andavano dentro, senza domandar alli padroni. Poi subito venuti,

tutte le donne che trovavano per le strade, se potevano, le conducevano via. La soldataglia mal pagata, stremata dalle

marce disastrose e abbruttita dai combattimenti, sfogava la sua rabbia attraverso ruberie e saccheggi. Conventi e chiese

non venivano risparmiati”.

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L’OSTERIA “DUE STELLE”

Una suggestiva ipotesi

In quel giorno d’autunno di quasi due secoli fa la pioggia era caduta a scrosci, accompagnata da fredde raffiche di

Così, Giovanni Solinas, racconta nella sua “Storia di Verona” di queste incursioni nei luoghi sacri, descritte da alcuni

vento montebaldino, interrompendo così un lungo periodo particolarmente asciutto. Aveva piovuto incessantemente da

cronisti del tempo. “I francesi in quella chiesa hanno fatto di tutto, perché hanno spezzato fin le lastre (i coperchi) delle

due giorni e soltanto al volgere dell’imbrunire uno squarcio tra le nuvole aveva permesso ai vermigli raggi del tramonto

sepolture, disturbando anche i poveri morti. Anzi avendone trovato uno vestito di ferro in un sepolcro, con una spada da

di illuminare le facciate delle case e dei palazzi di Verona, ancora grondanti d’acqua. I fendenti di luce metallica che si

una parte che erano centinaia e centinaia d’anni che era stato seppellito, hanno portato via anche quello e non si sa poi di

insinuavano tra i muri lucidi e i vicoli inzuppati, contrastavano con il grigio plumbeo e sinistro del cielo. La magica

lui cosa ne abbiano fatto”. Un altro testimone oculare scrisse che i Francesi, appena accampati, “si misero a girare per le

atmosfera che si era improvvisamente venuta a creare metteva in risalto i colori policromi dei palazzi affrescati le cui

contrade ed assalire le case ed a fare diversi saccheggi incutendo grandi timori.

figure dipinte, vestite di mille riflessi dorati, sembravano d’un tratto animarsi per partecipare a quell’inatteso incanto di

Uguale sorte toccò ai conventi di San Bernardino, di Sant’Anastasia, di San Tommaso, di San Francesco di Paola e alle

luci fiammeggianti.

chiese di Santa Maria della Vittoria, del Soccorso e delle Maddalene. Un grosso rischio lo corse l’8 marzo 1797 anche

L’Adige, nel volgere della giornata, si era copiosamente alimentato di acqua coprendo le secche ghiaiose formatesi nei

il convento del Santo Spirito, dove le truppe napoleoniche circondarono il monastero con l’intenzione di saccheggiarlo.

mesi estivi. Grossi rami di alberi scendevano trascinati dalla corrente costringendo i “satieri” e gli addetti ai mulini costruiti

sulle zattere di proteggere le grandi ruote di legno e di rinforzare gli ormeggi. Verso la montagna dense nuvole scure si

L’assalto fu sventato dalla prontezza delle suore che suonando le campane radunarono una gran folla che fece desistere i

soldati dalla delittuosa impresa, costringendoli alla fuga”.

accalcavano minacciose lasciando presagire che la notte sarebbe stata buia e foriera di nuova pioggia.

Ed è in quel tempo che immaginiamo di essere nella Verona occupata dai Francesi, testimoni di alcuni fatti inerenti le

Il proprietario di una delle poche osterie rimaste aperte, situata nel rione della Bra dei Molinari, sfidando l’inclemenza del

vicende del “tesoretto” nascosto e la sua misteriosa stella.

tempo aveva acceso, brontolando, la lucerna ad olio dell’insegna. I pochi avventori della giornata avevano dato un magro

guadagno all’oste, Righetto Luterino, e nulla faceva presagire che con quel tempo da lupi nuovi ospiti sarebbero arrivati

alla sua locanda. Soltanto quattro soldati francesi si trovavano nel locale intenti nel gioco delle carte. Erano seduti ad un

tavolo nei pressi dell’ampio focolare e nonostante avessero bevuto parecchi bicchieri di vino, si comportavano in modo

assai tranquillo quasi avvertissero la magnetica necessità di adeguarsi alla pausa concessa dal maltempo, certi di un rinnovato

scatenarsi degli elementi nel corso della notte.

Poco lontano dalla locanda del Righetto un battello che doveva aver sfidato le acque rapinose del fiume, evidentemente

non senza gravi motivi, attraccò a fatica ai bordi di una zattera saldamente ormeggiata all’argine di Sottoriva.

L’uomo che stava dritto a prua diede l’ordine di coprire con un telo alcune scale a pioli sistemate sul fondo del battello

accanto a quelle che sembravano essere delle spranghe di ferro appoggiate sopra diversi rotoli di corda robusta e una

grossa sacca di pelle contenente ad alcuni attrezzi da muratore o scalpellino. Subito dopo delle ombre indistinte scesero

dall’imbarcazione e avanzando a balzi irregolari, cercando di evitare le pozze d’acqua, mossero velocemente in direzione

della locanda.

Il buio era caduto rapidamente sulla città e il chiarore della lanterna era un sicuro punto di riferimento per il gruppetto di

persone che si stava avvicinando. L’oste vide spalancarsi la porta con impeto e dopo qualche istante entrarono un ufficiale

napoleonico accompagnato da due soldati e un’altra persona, la quale dalla veste poteva essere un monaco domenicano.

I quattro soldati, dimostrando di conoscerli, balzarono in piedi e si fecero incontro ai nuovi arrivati, tradendo nel saluto e

nella voce uno stato d’ansia lungamente represso nelle ore dell’attesa. Il taverniere, con rinnovato buonumore e ostentata

cortesia pregò i sopraggiunti di accomodarsi e ordinare, pensando fiducioso di rimediare una giornata rovinata nei guadagni

dalle intemperanze del tempo.

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Il monaco poggiò sul tavolo annerito dal fumo alcune candele steariche prudentemente tenute di scorta per la lanterna,

ancora accesa, la quale a malapena era servita a diradare l’oscurità durante il tragitto dal battello alla locanda.

Dopo aver consumato una cena a base di tacchino, pane e formaggi della Lessinia, innaffiata di buon vino pigiato nelle valli

circostanti, l’ufficiale sembrò abbandonare il rigore formale imposto dal suo grado avviando con il religioso una serrata

conversazione in discreta lingua italiana. L’argomento riguardava la grande passione che Napoleone nutriva per le antiche

scienze divinatorie. Si diceva che la nomina di Bonaparte avvenuta nel marzo del 1796, a generale capo dell’Armata d’Italia,

fosse stata predetta dal monaco benedettino Bonaventura Guyon, priore di Saint-Pierre de Lagny.

Inoltre correva voce tra gli alti ufficiali che Napoleone possedesse un antico papiro con raffigurate le 78 lame di Ermete,

particolarmente adatte a predire il destino a quei fortunati soggetti nati sotto l’influenza di una delle quattro costellazioni

cardinali, o segni fissi (Toro, Leone, Scorpione e Acquario), i cui arcani corrispondono ai quattro misteri della Sfinge.

Questo breviario magico porta il nome di “oracolo samaritano”, essendo stato scritto in Samaria, dopo la caduta di Gerusalemme

e la perdita dell’Arca dell’Alleanza, probabilmente da qualche levita giudeo sfuggito alle armate babilonesi.

Poiché il saggio benedettino Guyon (Napoleone lo nominerà il 31 dicembre del 1799 membro onorario dell’Istituto

d’Egitto e bibliotecario del palazzo delle Tuileries), nel leggere il destino del generale, aveva scoperto quattro carte che

rappresentavano quattro oggetti sacri custoditi nell’Arca dell’Alleanza assieme alle tavole della Legge, gli predisse se

avesse avuto fede, un immediato futuro di gloria. “La fede -esclamò Napoleone Bonaparte- potrei anche averla, sempre

che il Sigillo di Salomone mantenga le promesse!”.

Il monaco domenicano era stato per tutto il tempo in silenzio ad ascoltare il racconto dell’ufficiale francese. Poi, con la

voce di ha preso una grave decisione disse: “In cambio della promessa che il nostro convento venga rispettato e protetto

dalle cruenti incursioni dei soldati francesi, vi accompagnerò nel luogo santo dove in un’arca, assieme ad un tesoro e

manoscritti di grande valore, potrete trovare un potente talismano a forma di stella, tempestato di pietre preziose, che vi

garantirà l’incondizionato apprezzamento del vostro generale”.

La candela della lanterna, ridottasi al lumicino, fece capire agli astanti che l’ora si era fatta tarda. Il gruppo prese frettolosamente

congedo promettendo all’oste che il giorno dopo sarebbe stato pagato profumatamente: ben oltre i 12 troni

richiesti. Allo sconsolato oste, non rimase altro che registrare nel suo diario l’ammontare della somma, sperando più nella

parola del monaco che di quella dell’ufficiale francese.

La profanazione dell’arca

In questa incisione è raffigurata una veduta di Verona nel periodo dell’occupazione francese da parte di Napoleone

La notte era calata sulla città e le raffiche di vento freddo misto a pioggia avevano ripreso a battere i vicoli e le case con

inaudita insistenza. Nel frattempo il manipolo di soldati guidati dal monaco avevano prelevato dall’imbarcazione due

scale, alcune spranghe di ferro, dei grossi rotoli di corda, una cassetta di legno contenente alcune candele, e poi mazze di

ferro, cunei di legno e altri arnesi da scalpellino e all’incerta luce delle lanterne si avviarono verso il vicino cimitero dei

principi scaligeri.

Le folate di vento, smembrato dalle sinuose strutture architettoniche delle Arche funebri, si tramutava in laceranti sibili e

pareva evocare sinistri lamenti alimentando le ataviche paure dettate dalle superstizioni che attanagliavano in quel tempo

le persone di ogni ceto. Evidentemente il gruppetto di soldati attirati dal miraggio del tesoro che avrebbero trovato nella

tomba del principe scaligero si fecero coraggio e apprestarono le scale fino a salire sul pesante lastrone di marmo che

sorregge l’Arca di Cangrande I della Scala.

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L’operazione di sollevamento della pesante lastra che copriva l’urna funebre non fu un’impresa facile. Bisognava spostare

la pesantissima sovrastruttura di pietra con la raffigurazione marmorea di Cangrande, giacente su un letto coperto da un

drappo pieghettato finemente scolpito, posta sopra il coperchio sepolcrale. Furono allestiti dei paranchi che permettessero

alle corde di imbracare la scultura, quindi facendo leva con le spranghe di ferro, fu possibile alzarla quel tanto da poter

infilare dei cunei, e con l’ausilio di altre e corde, si poté infine farla ruotare di quel tanto che bastava per intravedere

l’interno. Nessuno osava proferire parola ed ogni ordine era sussurrato o dettato da rapidi gesti. Dopo aver raggiunto il

suo culmine il vento si era improvvisamente placato. Soltanto sordi brontolii rimbombavano in lontananza alternandosi

al baluginare dei lampi, conferendo tutt’intorno una atmosfera irreale. Proprio nel momento in cui il coperchio era stato

spostato sufficientemente per esplorare l’urna, una sciabolata di luce provocata da un lampo permise di far vedere ad occhio

umano dopo quattro secoli trascorsi nelle tenebre, la sagoma spettrale del grande condottiero scaligero, avvolto in un

serico sudario.

Presi dall’emozione i soldati accesero alcune candele steariche nelle lanterne per illuminare l’interno dell’urna. Con dei

rampini tolsero frettolosamente il telo che avvolgeva il corpo del principe. Strappato il sudario apparve il condottiero regalmente

composto nella sua preziosa sopravveste di tessuto orientale dove si potevano notare eleganti motivi a foggia

di pigna ricamati in oro e argento. Anche sotto la salma si poteva scorgere un bellissimo drappo anch’esso ricamato d’oro.

Le braccia erano conserte sul corpo mentre le mani, guarnite da due anelli in oro con pietre, stringevano l’impugnatura

della spada simbolo del comando. La sopravveste che si apriva all’altezza dello sterno era fermata da uno straordinario

gioiello a spilla che bloccava con grande evidenza i due ampi risvolti del girocollo.

Sotto la palandrana si scorgeva sul petto del principe una ricchissima collana d’oro con incastonati una lunga teoria di

rubini, smeraldi e perle. Sul collo ricamato del camice era stata posta una raffinato gioiello stilisticamente in parure con

la splendida fermezza della sopravveste e della collana. Gioielli di così rara bellezza all’epoca non si erano mai visti.

L’ufficiale francese che comandava il manipolo di predatori rimase impietrito da quell’improvvisa apparizione. La forma

dell’oggetto posato tra i risvolti della sopravveste era quella di un pettorale a forma di stella la cui luminescenza era provocata

da una moltitudine di gemme e di perle che mettevano in risalto il disegno.

I rubini e gli smeraldi incastonati nel gioiello si accesero improvvisamente riflettendo e moltiplicando sinistramente la

luce delle candele. La raffinata struttura, che si intuiva in oro, della stella elaborata con arte bizantina, era così lucente

che sembrava essere appena uscita dai crogioli di un orafo sublime. Il cielo era tornato ad essere lacerato dai lampi i cui

bagliori sembravano aver dato la vita alle pietre preziose del raffinatissimo talismano.

Il vento aveva ripreso vigore tanto da insinuarsi nell’urna sollevando in un turbine una moltitudine di foglie, fiorellini e

frammenti di rametti secchi che avevano costituito il letto profumato che serviva ad isolare, assieme al drappo, il corpo

mummificato del principe dal fondo del sarcofago.

Una raffica più violenta e gelida di vento spense le candele e la luce sinistra dei lampi conferiva al volto di Cangrande

una espressione di tragica impotenza segnata da un ghigno terribile. La paura si impossessò degli armigeri e l’ufficiale

attanagliato da una indicibile emozione ordinò con voce soffocata di affrettarsi nella ricerca dei preziosi.

La sopravveste fu strappata con le baionette dei fucili e fatta scivolare verso i calzari, scoprendo così la preziosa cintura in

stoffa, che cingeva in vita l’abito del principe scaligero. Per toglierla dovettero volgere su di un fianco il corpo profanato

del condottiero. Una volta sfilata è apparsa una lavorazione di raffinata bellezza con applicati elementi in argento dorato

di forma circolare, operati a smalto con decorazioni a racemi, alternati a preziose borchie con pietre preziose e perle.

Per toglierla dovettero volgere su di un fianco il corpo profanato del condottiero.

All’altezza del cuore spiccava lo splendido gioiello in oro a forma di stella tempestato di gemme e perle. Era il talismano

di Cangrande, simboleggiante la stella Sirio, che all’epoca veniva chiamata Cane, e nei testi di cosmologia viene raffigurata

tra le fauci del Canis Major, la costellazione del Cane maggiore. Cane era il nome con il quale veniva chiamato

anche il principe scaligero! L’ufficiale con un gesto isterico strappò la stella dall’abito del principe e la mostrò al monaco,

chiedendo: “E’ questo il talismano del principe scaligero?” Il religioso che aveva seguito fino a quel momento tutte le

operazioni mormorando preghiere e versetti della Apocalisse, annuì e con la voce rotta dall’emozione disse: “Si. Questo

è il talismano usato da Cangrande per la divinazione, progettato a forma di stella per simboleggiare la stella Cane, la

stella più lucente del firmamento che l’uomo possa vedere ad occhio nudo. Sirio, allora chiamata Cane, che nel cielo di

Marte splende nella costellazione del Cane Maggiore!”.

Poi agitando un rotolo pergamenaceo che era stato tolto dall’arca e gettato a terra con disprezzo da un soldato, declamò

con voce terribile, scaricando una tensione troppo a lungo repressa, una frase della Commedia che aveva il crisma di una

sentenza: “...impresso fue, nascendo sì da questa stella forte, che mirabili fien l’opere sue!”.

Il monaco avvicinatosi all’ufficiale napoleonico indicò la statua di Cangrande posta al culmine del tempietto funebre:

“Vede l’elmo di Cangrande? E’ raffigurato da un cane alato, proprio per simboleggiare per mezzo delle ali che il cane appartiene

alla sfera celeste del cielo e precisamente alla costellazione del Cane Maggiore, nella quale dimora Cane. Mitica

stella adorata anche dalla cultura degli antichi Egizi e che tanto fascino esercita al suo Imperatore.

Se osserva bene la statua, dietro la testa del condottiero, vedrà una stella incisa a sette punte. Lei sa che il sette è il numero

misterico per eccellenza: è il risultato del numero quattro, che simboleggia le vicende terrene, sommato al tre, numero

mistico legato al cielo. Un simbolo che vuole significare l’unione tra l’alto e il basso, tra il celo e la terra, ovvero, tra il

divino e l’umano. Infatti queste spirali incise sul telo copri sella rappresentano l’Universo. Significa l’eterna aspirazione

dell’uomo che tende verso l’Alto, condizione che si realizza compiutamente soltanto con la morte, quando lo spirito abbandona

sulla terra il corpo senza vita per congiungersi con le entità celesti nelle più alte sfere del Cosmo.

Anche noi Domenicani simbolicamente siamo legati alla costellazione del Cane Maggiore, che anticamente veniva raffigurata

da un cane con una torcia (Sirio) tra le fauci. Per noi quella torcia aveva il significato di luce, ovvero la parola

illuminata di Dio e noi Domenicani, come dice il nome, siamo i “cani” a guardia della casa del Signore. Nelle nostre statue

spesso raffiguriamo san Domenico con una stella in fronte, proprio per ricordare attraverso quel simbolo le nostre origini”.

La giornata seguente stava per concludersi quando entrarono nella locanda di Sottoriva due soldati francesi appartenenti

al gruppo che aveva lautamente cenato la sera precedente. Il buon Righino, fattosi scaltro, disse che in cucina non era rimasto

più nulla. Allora uno dei due soldati fece tintinnare sul tavolo alcune monete d’argento, e quasi per incanto la tavola

si imbandì di ogni prelibatezza. Il buon vino di Valpolicella non tardò a sciogliere la lingua ai due armigeri di “Franza”

i quali sembravano, più che saziare un robusto appetito, celebrare un fortunato evento. L’innata curiosità dal locandiere

non fu del tutto appagata per la difficoltà oggettiva di comprendere la parlata dei due francesi.

Però, in alcune frasi ricorrevano spesso termini a lui comprensibili come “bijou”, “or”, e soprattutto “étoile”, ovvero, stella.

Avvicinatosi ai due con il pretesto di mescere un vinello prelibato, si fece coraggio e chiese informazioni sul significato

di questa misteriosa “étoile”. Per tutta risposta i due soldati francesi si alzarono e pagarono l’ospitalità, cosa che accadeva

assai di rado durante l’occupazione, con due grossi d’argento.

Soltanto più tardi l’oste si avvide che le monete risalivano ad almeno quattro secoli prima. Tempo in cui a Verona governava

Cangrande I della Scala (1291-1329) considerato il personaggio più prestigioso, colto e potente di tutta la dinastia

scaligera.

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Al castello di San Felice, sulla collinetta che domina a nord l’ansa dell’Adige, la guarnigione francese aveva piazzato

uno dei suoi cannoni rivolto verso il centro della città. La popolazione era in fermento ed il malumore contro le truppe

d’occupazione stava assumendo i toni di una propria e vera rivolta.

I ricordi brucianti del massacro dei popolani veronesi nell’agguato di Castelvecchio, l’incursione ladresca che sottrasse

tutti i valori conservati al Santo Monte di Pietà e i terribili giorni che, dal 25 aprile al 6 maggio, hanno visto il frenetico

saccheggio della città accompagnato da arresti e condanne a morte, avevano portato i veronesi ad un clima di esasperazione.

L’ufficiale che nei mesi precedenti aveva guidato la spedizione notturna violando l’arca di Cangrande e trafugato i

preziosi gioielli, era particolarmente preoccupato dalla situazione di grave pericolo che stava instaurandosi in città a causa

degli avvenimenti bellici contro gli Austriaci che insanguinavano il territorio veronese. La soldataglia francese non era

amata dai veronesi che si erano visti violare le abitazioni, saccheggiare senza ritegno chiese e conventi. I palazzi più rappresentativi

erano stati occupati dai generali napoleonici. In una di queste abitazioni ubicata nella contrada di San Nazaro,

in una via che dalla riva dell’Adige conduce a Porta Vescovo (oggi via Gaetano Trezza, angolo via Paradiso), l’ufficiale

aveva la sua residenza. Avuto notizia che gli Austriaci scendevano in forze dalla valle dell’Adige, guidati dal generale

Wurmer, pensò di occultare i gioielli di Cangrande interrandoli nel sottosuolo della cantina. Costruì con dei mattoni un

minuscolo ripostiglio, uno scrigno di mattoni, adatto a custodire il prezioso tesoro in attesa di tempi migliori.

Sfortunatamente per lui nelle settimane successive gli avvenimenti bellici peggiorarono al punto che le truppe francesi,

smobilitati gli accampamenti, tolti i cannoni dalle fortificazioni, abbandonarono frettolosamente la città.

A seguito del trattato di Campoformio gli Austriaci entrarono a Verona il 21 gennaio 1798, stabilendosi nei territori alla

sinistra dell’Adige. Occuparono così anche quella che fu l’abitazione dell’ufficiale francese, senza immaginare minimamente

che nella cantina di quella casa fosse stato occultato un tesoro.

Evidentemente il nostro ufficiale francese non fece più ritorno a Verona per riprendere il prezioso talismano e gli altri

gioielli, che rimasero sepolti nell’oblio fino al ritrovamento casuale del 1938. Forse era scritto nel destino del principe

Scaligero che la stella più lucente del firmamento, “Cane”,1 che portava il suo nome non avrebbe mai lasciato Verona e

tanto meno non avrebbe mai abbandonato il suo signore, nemmeno dopo la morte.

Infatti, nonostante le straordinarie vicende che per quasi settecento anni avvolsero di mistero questi gioielli, il destino

volle che la stella di Cangrande I tornasse a brillare in quella che possiamo considerare la dimora più prestigiosa dei principi

scaligeri, la “Reggia” di Cangrande II, oggi conosciuta come Castelvecchio e sede dell’omonimo museo.

A.Z.

RITRATTO DI CANGRANDE I

Calco in gesso del volto di Cangrande, realizzato dallo scultore Nereo Costantini (1905-1969)

“Scultori veronesi del Trecento” Gian Lorenzo Mellini, Electa, 1971

1 Cangrande I, alla nascita viene chiamato Cane Francesco, poi, reso famoso, chiamato Can Grande I. Cangrande I della Scala, Hans Spangenberg

(Berlino,1892-1895). Traduzione di Maurizio Brunelli e Alessandro Volpi. Grafiche Fiorini, Verona, 1993

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DANTE ALLA CORTE SCALIGERA

Stella di Dante. Il poeta fiorentino in esilio, ricevuto da Cangrande. Codice parigino del secolo XV

Nel firmamento stellato, vediamo Dante con Beatrice raffigurati nel VII Cielo di Saturno. Sotto, Dante accolto dallo Scaligero,

in una rappresentazione puramente di “cronaca terrena ”; quella in alto invece è riferita al misticismo celeste, narrata

in uno dei passi più alti della Commedia. Che significato possono avere queste due scene? Il poeta, nel canto XXI del Paradiso,

sarà spinto da un cenno di Beatrice a salire la scala santa per raggiungere la gloria mistica. Dopo questa prima originale

similitudine, voluta dal miniaturista tra la scala celeste e la scala araldica raffigurata nel sigillo di Cangrande -anch’essa

con il significato simbolico di salire verso l’alto- un’altra similitudine la troviamo al centro del cielo stellato dove brilla

una grande stella che sembra alludere, per sottile analogia, alla stella astrologica legata al nome del principe Scaligero. Nel

Medioevo questa stella luminosissima veniva chiamata Cane (Sirio), con dimora nella costellazione del Cane Maggiore.

“La memoria di Dante è legata indissolubilmente alla Verona Scaligera, e la figura severa del poeta e quel suo viso

dalle linee rigide e spiccate risorgono subito davanti alla nostra mente ogni volta che vediamo Cangrande dall’alto del

suo monumento con la spada in pugno e negli occhi la gioia della vittoria, guardare la città che fu sua, le mura merlate

che cingono le colline a ricordo delle sue lotte epiche e il palazzo dove egli accolse gli omaggi di tutta l’Italia ghibellina.

La menzione specifica che Dante fa di questo suo primo rifugio, i ricordi dei novellieri e cronisti, la famosa disputa del

1320 e la dimora fissatavi dalla famiglia per sempre fanno di Verona, con Firenze e Ravenna, una delle città particolarmente

dantesche”. Con queste parole Luigi Simeoni racconta Verona ai tempi di Dante, in occasione del Seicentenario

dantesco, celebrato a Verona nel 1921.

Dante è stato ospite degli Scaligeri a più riprese. Quando l’Alighieri arrivò per la prima volta nella città scaligera, la

struttura urbanistica si articolava prevalentemente sulla geometrica intelaiatura Romana. Una trentina di torri e campanili

si disegnavano alti indicando che ai loro piedi c’era una chiesa o un palazzo gentilizio. La basilica romanica di San Zeno

fu sicuramente la prima ad esser vista dal poeta poco prima del suo ingresso a Verona nel 1302. C’era la chiesa di San

Fermo, da poco passata dai Benedettini ai Francescani, mentre Santa Anastasia, innalzata dai Domenicani non era ancora

terminata del tutto. Anche la chiesa di Sant’Eufemia, che vide più tardi Dante ospite degli Agostiniani, era in costruzione.

La presenza a Verona di Dante Alighieri permette di illuminare, attraverso documentazioni letterarie, l’aspetto spirituale,

filosofico e religioso dell’uomo del ‘300. Emerge marcatamente la linea di cristianizzazione dei concetti del passato indicata

con forza dai Padri della Chiesa. Concetti difficilmente sradicabili dalle convinzioni popolari che hanno dato come

risultato una osmosi di simboli ed immagini che si annodano su se stessi.

L’astrologia, ai tempi di Dante, era una scienza tanto consolidata da esser insegnata nelle maggiori università italiane.

E nessun alto ingegno avrebbe negato l’influenza degli astri su ogni manifestazione della vita. Dante traeva ottimismo

dal fatto di essere nato sotto l’influenza favorevole degli astri, annunciato al suo concepimento dall’apparire di una stella

cometa che si credeva provenire dal cielo di Marte.

Nella Divina Commedia, Dante Alighieri, profondo conoscitore dell’astronomia, riesce a intessere molte considerazioni

astronomiche, ma le presenta quasi come fossero un codice segreto in un’opera strutturalmente basata su una variante

dei sopracitati schemi. La Chiesa di Roma aveva più familiarità con l’astrologia che con l’indagine scientifica: in questo

campo seguiva le indicazioni di sant’Isidoro da Siviglia, che distingueva l’astrologia medica, meteorologica e politica da

quella profetica e di magia nera. Dante Alighieri, fu sottoposto per le sue idee alla continua attenzione della Santa Inquisizione

rischiando il rogo perché criticava la corruzione morale e spirituale della Chiesa, come dimostrato nell’Inferno

della “Divina Commedia”. Costretto all’esilio, fu accolto a Verona dagli Scaligeri, dedicando a Cangrande I, amico e

protettore, la terza cantica del Paradiso. Cantica del Paradiso che viene collocata tra il 1316 e il 1321.

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Giotto. Forse è l’autoritratto di Giotto, dipinto nel Giudizio Universale

nella Cappella degli Scrovegni a Padova (1300-1305). Quando

Dante morì a Ravenna nel 1321, Giotto volle ricordarlo dipingendo il

suo ritratto nel ciclo pittorico di Palazzo del Podestà a Firenze, dove

sono raffigurate le Storie della Maddalena, di san Giovanni Battista,

l’Inferno e il Paradiso, con chiara allusione alla Commedia del poeta.

Dante. Ritratto dell’Alighieri, dipinto da Giotto, (1321-1337) nella

Cappella della Maddalena nel Palazzo del Podestà di Firenze.

Oggi si può ammirare al primo piano del Palazzo del Bargello. Si

tratta del più antico ritratto di Dante Alighieri, da allora preso a

modello per rappresentare il volto del sommo poeta nel seguito dei

secoli.

Viene naturale pensare come l’argomento degli astri celesti sia stato dibattuto alla corte di Cane non solo da Dante, che

delle stelle ne è il cantore più alto, ma soprattutto dagli astrologi e sapienti consiglieri del Principe scaligero. Giotto stesso,

architetto e pittore iniziato alle nuove scienze, dipinge nel 1303-1305 una stella cometa forse pensando a quella apparsa

alla fine dell’estate del 1301. Intorno agli anni 1310-1311, Giotto, dipinge nuovamente una stella, quasi fosse il progetto

di un gioiello, nella Madonna di Ognissanti agli Uffizi di Firenze. Lo studio dimostrerà che è stata ideata impiegando la

formula della tetraktys. Stella che troverà la sua corrispondenza scientifica e misure con la stella scaligera di Castelvecchio

di Verona, realizzata quasi vent’anni dopo. Forse qualcuno penserà sia stato Dante a suggerire a Cane di dotarsi di

un cosmogramma a foggia di stella per ingraziarsi il suo destino e che sia stato Giotto, aduso alle geometrie, di progettare

matematicamente (come la stella della Madonna di Ognissanti) il grande gioiello stellato. Più tardi, Tomaso da Modena

(1326-1379) - seguace di Giotto - dipingerà un gioiello a forma di stella appeso al collare del San Giorgio, nel trittico

dimorato al Castello di Karlštejn vicino a Praga, basato sulle “geometrie segrete” apprese dal Maestro toscano.

Questi due atteggiamenti coesistenti tra di loro si notano principalmente nei confronti della tradizione astrologica orientale.

Un esempio sono le raffigurazioni del portale della Cattedrale di San Feliciano a Foligno, del 1201, dove il Cristo

è associato al Sole, Maria alla Luna e gli Apostoli alle dodici stelle, volendo esprimere il “nuovo tempo della Grazia”,

senza rifiutare, ma incorporando la speculazione pagana. Cristo è rappresentato come “Cronocrator”, ovvero “Signore del

Tempo”. E i cicli del tempo, le Bibbie miniate, i calendari, le raffigurazioni dei Mesi accompagnate da quelle dei segni

zodiacali, le prime traduzioni degli autori classici, introdotte e diffuse nel XIII secolo nei maggiori centri culturali italiani,

dovevano essere ben note a Dante, quando ideò la Commedia tessendola di un perfetto abito filosofico-matematico.

Francesco Magini notava che nel colloquio tra Cacciaguida e Dante “appaiono somiglianze di costruzione e di procedimento

che ci riportano ad un passo dal famoso del libro VI dell’Eneide, cioè alla predizione della Sibilla ad Enea nell’antro

di Cuma”, in somiglianza con il canto XVII del Paradiso, riguardante Cangrande I. “Dante proietta dunque l’immagine

di Cangrande della Verona del primo Trecento in un cielo di santi-guerrieri biblici e cristiani...”.

La scala a cinque pioli che compare assieme al cane alato nello stemma del principe scaligero è un chiaro simbolo che lega

Cangrande alla magia del cielo stellato. I cinque pioli della scala hanno lo stesso significato archetipo delle cinque dita

della mano. In origine l’uomo conosceva soltanto cinque pianeti.1 Fin dalla più remota antichità le dita erano strettamente

collegate agli astri prendendone il nome e ricevendone gli influssi. Soltanto più tardi con l’aggiunta del Sole e della Luna

i pianeti furono identificati con il numero sette.

Per la kabbala ciascun dito incasella nelle falangi un numero. Nella pratica alchemica, molto diffusa nel Medioevo, le

cinque dita della mano rappresentavano i cinque simboli della trasmutazione. Dunque, la scala di Cangrande si lega al

pentagramma, alla croce, al numero cinque e a tutti i suoi significati, astrologici, alchemici, gematrici e magico-religiosi.

Scala, che in definitiva diventa il mezzo indispensabile per raggiungere il cielo, le stelle, la divinità. Ma soprattutto la

scala di Can Francesco porta alla luce nell’ambito dei misteri e della fede della stella Cane (Sirio), raffigurata simbolicamente

negli stemmi e nei sigilli, dal cane alato. Congetture sostenute da un pensiero matematico, certamente… fascinazione

per il mistero, anche. Di sicuro aiutano ad immedesimarsi con la cultura del tempo e stimolano una seducente e

irresistibile attrazione per la ricerca.

1 Gian Maria Sesti, Le dimore del Cielo, Novecento Editrice, Palermo,1987

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IL NOME DI DANTE IN UN PROCESSO DI MAGIA

LA COMMEDIA, UNA CATTEDRALE INNALZATA A DIO

Dante, raffigurato con la barba

assieme a Beatrice sotto un cielo

stellato. Nel Medioevo le persone

barbute erano ritenute capaci di

praticare la magia, fare sortilegi e

tenere contatti con gli spiriti delle

tenebre. Credenze che si erano diffuse

fra il popolo dopo la pubblicazione

dell’Inferno di Dante

Le donne veronesi e la barba di Dante

“Il nome di Dante si trova in un frammento di processo

contro Matteo e Galeazzo Visconti per tentato sortilegio

verso il papa Giovanni XXII, che trovandosi in Avignone

e si sentiva sempre mal sicuro tra le persone che lo circondavano,

nonostante la bella contessa di Foix gli avesse fatto

il dono d’un corno costituito a guisa di coltello e fornito

della virtù (diceva lei) di scoprire il veleno in ogni cibo”.

Francesco d’Ovidio condensa nel seguente breve sunto ciò

che è riportato nel citato processo: «Nell’ottobre del 1319

il milanese Bartolomeo Cagnolati fu richiesto da Matteo

Visconti d’incantare una statuetta d’argento raffigurante

il papa, per affrettargli la morte. Vi si rifiutò, dicendosi

ignoro dell’arte; ma il Visconti insisté, sapendo com’ei

possedesse il « zuccum de napello » (meraviglioso filtro)

occorrente per suffumigare la statuetta. Rispose d’aver buttato

via quel succo per ingiunzione di un frate, sì che il

Visconti lo licenziò, minacciandogli la morte se avesse fiatato

della faccenda; e chiamò il veronese Pietro Nani1 che

par si prestasse a far l’incantesimo. Intanto il Cagnolati,

che dal fiatare non s’era astenuto, fu chiamato ad Avignone,

e nell’interrogatorio del febbraio 1320, attestò codesta

roba”.2 Confermando il nome di Dante: Alegurio da Firenze.

Virgilio e Dante.

In questa inconsueta immagine, il Poeta è

raffigurato con la barba. Virgilio, suo Maestro,

al tempo era considerato un mago con

poteri divinatori e così si afferma anche di

Dante, in un documento conservato in Vaticano

Dante Alighieri, nell’universalità del suo genio che travalica tempo e spazio, profondo conoscitore dell’astrologia e

“mago”, addottrinato in discipline occulte, esprime e impronta la “Divina Commedia” sulle sue conoscenze esoteriche,

poema che non può essere interamente compreso senza nozioni astrologiche.

“Il profondo amore di Dante per Virgilio, reso ancora più manifesto dopo la divulgazione della cantica dell’Inferno in

cui si diceva che appunto Virgilio ve lo aveva condotto, la rinomanza del poeta mantovano ritenuto mago, diedero occasione

a taluni di credere pure Dante maestro di magia. In quei tempi non era difficile che il dotto passasse per mago. La

superstizione delle donne veronesi che nel colore della barba di Dante riscontravano la consuetudine del poeta col mondo

sotterraneo, il rompere in pianto ch’egli fa alla vista degli indovini (Inferno, canto XXII) perché vollero «veder troppo

davante» ed il rimprovero del Maestro per quella ragione di siffatta credenza. Anche in seguito, Benvenuto da Imola, e

di più il Lana, diedero simile interpretazione al canto degli indovini. Il Lana anzi aggiunse: «E qui (l’autore) tacitamente

vuole notificar che alcun tempo fu ch’elli era inviluppato in questo peccato di divinazione, e però pianse con essi».

“O voi ch’avete li ‘ntelletti sani, mirate la dottrina che s’asconde sotto ‘l velame de li versi strani”

(Inferno IX, 61-63)

La Commedia è una composizione poetica, si potrebbe dire un canto di lode, dedicato al mistero della Trinità,

che vede Dante impegnato nel suo triplice viaggio nello sforzo di avvicinarsi il più possibile al Dio, Uno e Trino.

Questa mia ricerca tende a chiarire quale strumento Dante, abbia potuto impiegare per raggiungere il suo

scopo. Cioè, avere come guida uno schema matematicamente geometrico, simile alla tavola pitagorica, sulla

quale far combaciare i concetti del testo, rime e simmetrie, con il linguaggio “sottile” e filosofico dei numeri.

Come i costruttori di cattedrali hanno innalzato il loro tempio a Dio, rispettosi delle leggi divine, Dante ha innalzato

il suo mirabile edificio poetico, con geometrica precisione, ossequiente al dettato dei Padri della Chiesa.

Per poter comprendere meglio il percorso dell’esposizione dello studio, dobbiamo fare un viaggio all’indietro

nel tempo di oltre 700 anni e immergerci nella Verona medievale del secolo XIV, dove la società viveva

preda della superstizione nell’incertezza del domani, tra conflitti e carestie, dove la medicina era empirica e dipendente,

come tutte le attività dell’uomo, dagli umori degli astri, mentre la cultura più avanzata doveva essere

veicolata segretamente dagli studiosi per non essere accusati di eresia dalla Santa Inquisizione e finire sul rogo.

Siamo nei primi decenni del ‘300 e tre sono i nomi che si legano al mio studio: Cangrande I, Dante e Giotto.

La ricerca mi ha portato a credere che Dante nel suo soggiorno a Verona, ospite del principe scaligero, suggerì a Cangrande

di ordinare agli orafi veneziani di realizzare il misterioso gioiello a forma la stella, prezioso elaborato matematico

simile a quello dipinto da Giotto sopra l’aureola di Gesù Bambino nella Madonna di Ognissanti. Dante stesso affermava:

“Se tu segui la tua stella non puoi fallire a glorioso porto” e, a Cangrande I della Scala, questo assioma calza perfettamente.

Dante, per rendere armonico e perfetto il suo poema, deve rispettare le simmetrie e la numerologia nel testo, seguendo il dettato

degli illuminati, da sant’Agostino a san Tommaso D’Aquino, da san Bonaventura a Severino Boezio. E ancora una volta il

numero 34 sarà, come in Giotto e nella stella, da me attribuita a Cangrande, la chiave di lettura per svelare un componimento

medievale, sia dal punto di vista delle proporzioni armoniche, sia da quello filosofico: il 3 rappresenta la sfera dello Spirito, il 4

la sfera della componente umana, terrestre. Il misterioso Terque Quaterque emerge nei punti più importanti della Commedia1

Dante crede che l’anno della morte di Cristo sia il 34 dell’era volgare. Il diavolo Malacoda, racconta del terremoto che

fece crollare il ponte che porta dalla V alla VI Bolgia : esattamente sono passati dal momento del crollo 1266 anni + 34

(anno della morte di Cristo) = 1300 d.C. Anno del primo Giubileo voluto da Bonifacio VIII. Questi numeri li troviamo

dominanti nella Stella scaligera: 1266, la cui radice è 15 (1+2+6+6 = 15). Sono 15 i cm del diametro della stella, la cui

radice è 6 (1+5= 6) numero dell’ordine, dell’armonia; per Dante, il 6 è il numero della creazione:

“Colui che rivolse il sesto/ allo stremo del mondo”.

34 sono le perle della corona della stella scaligera in oro che divide la superficie circolare con i 12 puntali stellati (raggio

della stella cm 7+7 =14 diametro + 1 centimetro delle perle sui puntali = a 15) La somma di 3+4 è uguale a 7, numero

misterico per eccellenza.

Quindi, Dante, prima che poeta, deve vestire i panni del geomètra. Immagina l’Inferno, a forma di cono rovesciato, con

la parte più stretta che arriva, attraversando nove cerchi, al centro della terra, dove dimora Lucifero nel lago ghiacciato.

1 Natascia L. Carlotto, Pietro “Nan” da Marano, contributo in Le stoffe di Cangrande. Alinari, Firenze 1983

2 L’ estratto del testo di Andrea De Ritis, e le immagini di questa pagina, sono derivati dal volume del Seicentesimo anno dalla morte di Dante

1 P. Vinassa De Regny, Dante e il simbolismo pitagorico, Il Trivio e il Quadrivio, pag. 93. Fratelli Melita Editori. Milano, 1988

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IL LINGUAGGIO SOTTILE NELLA COMMEDIA DI DANTE

Dante, non è soltanto un medievale erudito, ma un addottrinato alle scienze antiche del Vicino Oriente che veicolavano

dalla Spagna con estrema prudenza e segretezza nei circoli fiorentini del sapere. Gli uomini medievali di cultura davano

dei significati particolari ai numeri, perché essi esprimevano l’ordine e l’armonia dell’Universo.1

La Divina Commedia si divide in 3 cantiche. Proprio nella prima cantica troviamo il numero 34. Nell’Inferno dopo il

primo canto, è come un prologo, vi sono 33 canti; altri 33 sono nel Purgatorio e 33 nel Paradiso.

Il Purgatorio è una montagna, anch’essa a forma di cono simmetricamente uguale per forma e volume all’Inferno, divisa

in sette cornici (o gradini), ma aggiungendo l’antipurgatorio e la sommità, ovvero il Paradiso terrestre, si arriva al numero

di nove.

Dante per progettare geometricamente il suo Paradiso, formato da nove cieli, segue la teoria tolemaica, o geocentrica,

che pone la terra al centro dell’universo, mentre tutti i corpi celesti e quelli dell’Empireo, girano attorno ad essa.

Essendo geometricamente identici i coni dell’Inferno e del Purgatorio, esattamente come due triangoli equilateri inscritti

in un cerchio, anche i canti devono essere numericamente uguali, e vengono disposti lungo il diametro verticale del cerchio

dove viene racchiusa geometricamente ognuna delle tre cantiche. Il 3 e i suoi multipli sono l’ordito matematico del

poema. La somma di tutti i canti dà il numero 100, ovvero la perfettissima potenza del numero 10, numero riservato dalla

chiesa a Dio.

Inoltre, lo studio geometrico mi ha permesso di svelare l’apparente anomalia del numero 34 dell’Inferno, rispetto alle

altre due cantiche, dove la geometria dantesca ci rivela la grandezza del pensiero scientifico del poeta. Quando Dante e

Virgilio arrivano al centro della Terra, per risalire devono capovolgersi, altrimenti uscirebbero con i piedi. Per rendere

geometrico questo passaggio, che dovrà allacciarsi alle geometrie del Purgatorio, Dante aggiunge il canto XXXIV, rappresentato

nella tavola geometrica da un nuovo cerchietto. Da un lato, quello basso, segnerà esattamente il centro della

Terra, mentre una volta capovolto segnerà in alto il pertugio tondo, “che porta al ciel per rimirar le stelle”. Inoltre il

numero di questo canto, il 34, segnerà il centro geometrico dove immagino Dante abbia puntato il compasso per tracciare

i cerchi concentrici del Paradiso, imitando la mappa geocentrica di Tolomeo, sui quali disporre in perfetto ordine geometrico

le sue mirabili terzine.

Infine, nell’ultimo canto del Paradiso, Dante rivelerà attraverso il “parlar sottile” la formula per svelare l’impianto geometrico

della Commedia: “Ne la profonda e chiara sussistenza de l’alto lume, parvermi tre giri di tre colori e d’una

contenenza; e l’un da l’altro, come iri da iri, parea reflesso, e ’l terzo parea foco che quinci e quindi igualmente si spiri”.

Con l’aiuto della formula pitagorica della tetraktys, questa visione formata da “tre giri di tre colori e una contenenza”

prenderà la forma geometrica di tre cerchi racchiusi in una circonferenza, per integrarsi con l’esagramma.2

Tommaso D’Aquino, dottore della Chiesa, nel suo “Summa” descrive quali sono i tre movimenti, ripresi da Aristotele,

riferiti all’uomo. Movimenti che svelano le tre prime operazioni per comporre, appunto, l’esagramma, ovvero il procedimento

per costruire la tavola geometrica, lo spartito sul quale io credo Dante abbia concepito in sublime armonia il suo

inno alla Trinità divina.3

Dante, si interroga prima che la sua mente umana venga illuminata e svelare il mistero che l’affliggeva 1

(Elaborazione grafica dell’autore, tratta da un dipinto di Philipp Veit, L’Empireo, 1818-1830)

In questo studio della Commedia, Zucchetta sottolinea la convinzione di molti dantisti che: “Il mondo nascosto di Dante era un

mondo sacro e il pensiero simbolico non era che la forma decantata al livello dei dotti, del pensiero mageikos, nel quale si

1 Grazia Cotroni - DIESSE Didattica e istruzione scolastica

immergeva la mentalità comune”

2 Dante uno e trino A. Zucchetta. Gingko Edizioni. Verona, 2022

1 Immagine emblematica tratta dal volume in via di pubblicazione Dante uno e trino (A.Zucchetta)

3 Dante dà i numeri, Inferno e Paradiso nella tetraktys pitagorica. A. Zucchetta, giornale L’Arena, 29.10.2011

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Cangrande I a cavallo. Autore ignoto del secolo XIV. Museo di Castelvecchio Verona

La statua equestre di Cangrande I della Scala, come ricordato da Pierluigi Bianchetti e Marisa Laurenzi Tabasso, autori

dello studio sui materiali nell’ultimo restauro 1995, è stata scolpita da un blocco calcareo di pietra gallina o pietra statuaria

di Avesa, località del complesso collinare di Verona. Notevole la presenza di simboli che legano lo scaligero al cielo.

Il sogno della madre

CANGRANDE I DELLA SCALA

“Verde da Salizzole, prima di dare alla luce il suo terzo figlio, sognò che da lei nasceva un cane che dei suoi latrati riempiva

la terra; perciò Francesco fu chiamato Cane, dissero i letterati del suo tempo. Anche la madre di Ezzelino III avanti

il parto avrebbe sognato che le nasceva un cane con una fiaccola in bocca, con la quale incendiava le contrade; pure

la madre di san Domenico avrebbe avuto il medesimo sogno premonitore del cane con la fiaccola, ma per illuminare il

mondo”.

Spesso mi sono chiesto come mai un personaggio come Cangrande I dalla Scala non abbia affascinato il variegato mondo

degli intellettuali in generale e sostenuto, salvo eccezioni di gran valore culturale come Hans Spangenberg, soltanto

dagli studiosi locali per un dovere di appartenenza, di devozione patriottica, di cultura, senza riuscire ad accendere quel

faro che conferirebbe al Principe scaligero la luce internazionale che merita. Il nome di Cangrande1 non si può associare

alla figura del cane, buono, fedele, amico dell’uomo, apparendo nel mondo occidentale come figura simbolicamente

secondaria. In campo artistico, nei dipinti, è un elemento di contorno, lo vediamo ritratto sotto i tavoli delle mense, o

accovacciato ai piedi qualche dama. Solo una lettura storico-astrologica, come era in vigore al tempo, può rivalutare la

figura di Cangrande. Cane è la stella più lucente dell’Universo; Cane Maggiore, la sua costellazione nel Cosmo, Dante è

il signore delle stelle e Cane (Sirio) va considerata la stella del destino di Cangrande! Quindi si tratterebbe, sull’esempio

dei Classici, o dell’Antico Egitto, di un eroe “divinizzato”, come i suoi simboli raccontano e che i contemporanei non

hanno ancora colto. Una nuova narrazione, darà al signore scaligero la fama che merita.

Come osserva Maurizio Brunelli,1 “è un dato di fatto che Cangrande, nonostante alcuni studi anche recenti, risulti ancora

pressoché sconosciuto fuori delle mura di Verona. Chi ha sentito parlare di lui lo deve quasi esclusivamente alla lettura

delle terzine del XVII canto del Paradiso che Dante volle dedicargli. Non crediamo pertanto di esagerare dicendo che

se non fosse per il sommo poeta lo Scaligero sarebbe uno dei tanti personaggi che si perdono nella penombra del nostro

Medioevo”. Anche l’origine dell’intimo significato della parola, Cangrande I, è stato liquidato con estrema semplicità

dalle apparenze fuorvianti. Il fatto che l’analisi si sia fermata all’immagine di un cane che latra, certamente nell’inconscio

collettivo non ha aiutato ha rendere aulica la figura e la personalità più rappresentativa del Trecento veronese. Meritevole

lo studio di Otto HÖfler (Vienna, 1921-1987), che indaga il simbolo del cane nel suo volume “Cangrande di Verona e il

simbolo del Cane presso i Longobardi”, donando un contributo dedicato alla storia italiana e veronese, servendosi di fonti

raramente prese in esame. Come Dante, che si riferisce a Cangrande come al nobile Veltro, il levriero che vincerà la lupa,

per una giusta interpretazione del nome non bisogna derogare dal titolo “Cane”. Alla fine, anche per il celebre studioso

germanico, l’origine del nome di Cangrande resta un mistero. Lo stesso Mario Carrara,2 autore di un attento e puntuale

studio sugli Scaligeri, si limita a riportare congetture come quella di collegarlo al titolo regale di Khan dei Tartari (1206 -

1227), rimanendo convinto che il nome Cane, rispecchiasse “simboli di fedeltà in amore e di fierezza in combattimento”.

Qualche riserva la farei sulla fedeltà in amore di Cangrande I.

Tra i popoli indoeuropei l’astrologia è stata datata fin dal III millennio a.C., con le sue radici nei sistemi di calcolo calendariali

utilizzati per prevedere i cambiamenti stagionali e conseguentemente per interpretare i cicli celesti come segni

della comunicazione dal divino all’umano.

1 Maurizio Brunelli, Cangrande, Dante e il ruolo delle stelle, Gingko Edizioni,Verona, 2019

2 Mario Carrara, Gli Scaligeri, Dall’Oglio Editore, Verona, 1964

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Excelsa Scala

Per comprendere certi significati contenuti nelle opere creative del passato è necessario, come ha condiviso Renzo

Chiarelli, immergersi il più possibile in quelle realtà lontane. Alcuni simboli legati al cosmo, che troviamo descritti nella

civiltà assiro-babilonese - vedi la dea Ishtar - furono mutuati e utilizzati dal cristianesimo con nuovi significati. Utilizzati

per individuare le stelle nelle costellazioni nella mappa del cielo, gli antichi astronomi diedero ad esse nomi e forme e di

animali. Nelle rappresentazioni simboliche terrestri, misero le ali a qualsiasi figura di uomo o animale, che avesse una

corrispondenza con il cosmo. Quindi, nel cristianesimo, troviamo simboli con le ali oltre all’Aquila e all’Angelo, anche

il Toro e il Leone, dove gli astronomi di Babilonia avevano chiamato con questi nomi altrettante costellazioni. Figure

cosmiche, per indicare che la gloria di Dio si estende in cielo, in terra e ogni luogo. Seguendo questo ragionamento, anche

il cane alato scaligero, può rappresentare un simbolo legato alle vicende del cosmo. Nello stemma araldico campeggia

la scala, per indicare la salita verso l’alto, per arrivare alle costellazioni dove dimorano le stelle. Per ora è soltanto uno

spiraglio teso a far luce sui significati simbolici, che tanta rilevanza avevano in quei secoli regolando ogni attività umana.

Nel Convivio, Dante, sulla scorta della speculazione platonica sull’identità della natura delle anime e delle stelle, trova

un preciso pensiero in sant’Alberto Magno, che una volta liberate dal corpo, tendono a raggiungersi “in pace astra pete”.

Stelle, simbolo di immortalità, con le quali Dante chiude le tre cantiche della Commedia, al quale non doveva essere

sconosciuto quanto scritto nel reliquiario di s. Candido conservato nel Trésor de l’Abbaye di Saint-Maurice d’Agaune in

Svizzera: “il suo spirito guadagna gli astri: in cambio della morte gli è data la vita”. Per nulla fantasiosa l’ipotesi che Dante,

negli anni di permanenza alla corte di Cangrande I, abbia addottrinato lo scaligero sulla concezione stessa del potere

collegata con la simbologia astrale, giacché il sovrano è considerato “particeps siderum” così da giustificarne la regalità.

Negli anni che videro Cangrande rendere dominante la Signoria scaligera, l’astrologia era la scienza principale accettata

universalmente. Una scienza così radicata tanto che nemmeno le bolle papali, all’alba delle nuove scoperte, non riuscirono

ad eliminare del tutto l’interesse per l’astrologia, considerata per millenni una scienza. Come annota Brendan Dooley,

in “Storia della Scienza”, in un saggio del 2002, “Il grande prestigio di cui gli studi astrologici seguitarono a godere

non deve sorprendere: all’inizio dell’Età moderna, infatti, l’esistenza degli influssi dei pianeti era ancora un assioma per

i filosofi della Natura. Le analogie individuabili tra il macrocosmo delle sfere celesti e il microcosmo del corpo umano

non erano solo efficaci strumenti di spiegazione, ma indicavano l’esistenza di grandi forze universali. Sia l’astrologia sia

l’astronomia, quindi, costituivano una sezione fondamentale della dottrina medica ed entrambe furono introdotte nei programmi

universitari di medicina, di cui rimasero parte integrante fino alla metà del XVII secolo”.

Cangrande aveva trasformato la sua corte in una « excelsa Scala », una vera accademia di scienze e di cultura frequentata

dai maggiori maestri delle Arti tempo, pensiamo a Dante e a Giotto, introducendo le novità acquisite in ogni campo della

scienza. L’ingresso degli studiosi europei nelle biblioteche del califfato nella Spagna islamica e la conquista della Sicilia

da parte dei normanni, permise ai letterati francesi, italiani, tedeschi e inglesi di accedere al sapere arabo e non persero

tempo a consultare e tradurre un patrimonio culturale che getterà le basi all’umanesimo occidentale.

I cantori dell’epoca, da veri cronisti, descrivevano entusiasti i ritmi della signoria scaligera rendendo un affresco idilliaco

della vita di quella dimora considerata uno dei centri più colti d’Europa. E Cangrande può essere considerato, con Federico

II, un precursore dell’europeismo moderno.

Immagine della costellazione mesopotamica del Leone

Virgo alata. La costellazione della Vergine, che vediamo

nell’uranografia di Caprarola, è formata da un folto

gruppo di stelle tra le più luminose della volta celes

te, conos ciuta fin dal tem po degli As s iro -babilones i

Antica raffigurazione del Leone alato di S.Marco

Ishtar. Questa divinità assira, dea dell’amore e

della guerra, era sorella gemella del Sole e nel

culto astrale identificata per Venere e per questo

motivo raffigurata con le ali per associarla al cielo

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Sigillo di Cangrande I. Il cane in posizione astrologica

La stella di san Domenico

“Domini canis”, ovvero i cani del Signore, appellativo che prende

spunto dalla leggenda che narra della madre di San Domenico,

che al momento del parto pare abbia avuto la visione di un cane

con una fiaccola fiammeggiante tra le fauci. Fonte luminosa, sinonimo

del verbo divino per i frati predicatori che dovevano portare

il Vangelo in tutto il mondo. Ma quello che colpisce è il simbolo

della stella che rimane tutt’ora nell’iconografia domenicana e

che anticamente trovava la sua radice astrologica nella costellazione

del Cane Maggiore dove dimora la stella Sirio (nel Medioevo

chiamata Cane) interpretata nel cristianesimo come fiaccola.

Similmente la madre di Cangrande, narra la leggenda, prima di

dare alla luce Can Francesco, che diventerà Cangrande I, sognò

un cane che latrava fiamme. In astrologia, secondo la scienza del

tempo, queste visioni servivano a dare un potere divinatorio a chi

nasceva sotto un influsso astrale molto potente: un predestinato,

in questo caso, legato alla stella più luminosa. E la stella Cane

(Sirio) è la più lucente che occhio umano vede dalla Terra, con

un immenso retaggio simbolico maturano in millenni di storia.

Il sogno della madre. San Domenico con la stella della

sapienza sulla fronte. Breviario miniato di Belville, risalente

al 1323-1326. Biblioteca Nazionale di Francia.

LE PROFEZIE NELLE STELLE

1 Profezia di Brunetto Latini:

“Se tu segui la tua stella, non puoi fallire al

glorioso porto...”

Nel canto XXII del Paradiso, riferendosi alla sua

nascita quando il Sole era nel segno dei Gemelli,

Dante ammette:

“ O gloriose stelle o lume pregno

di gran virtù, dal quale io riconosco

tutto, qual che si sia, il mio ingegno...”

Il Cane Maggiore nella Poetica Astronomica di Igino.

Roma, II secolo d.C.

La costellazione del Canis Major, dipinta in affresco da un artista anonimo nella

volta del salone dello Zodiaco di Caprarola, riprende la postura del cane nel

sigillo trecentesco di Cangrande I

Nell’immagine del sigillo di Cangrande I della Scala, si può notare come la figura del cane sia molto simile alle rappresentazioni

delle mappe astrologiche della costellazione del Cane Maggiore, dove brilla Sirio, la stella più lucente che l’uomo

può vedere a occhio nudo dalla Terra. Tutto fa supporre che l’intagliatore del sigillo di Cangrande abbia ripreso la figura

del cane dalle illustrazioni delle antiche mappe delle costellazioni.

Divina Commedia - MS. Holkham mise. 48 (terzo quarto del XIV secolo),

Bodleian Library, Oxford.

Nel cielo dominato da Saturno (la Montagna Sacra) gli spiriti contemplanti

(san Benedetto) amanti dell’astronomia affascinano il Poeta. In numerosi passi

dell’opera dantesca sono contenuti espliciti riferimenti alla dottrina astrologica,

con riferimento al reale potere o influenza dei cieli e delle stelle sulle vicende

umane

2 Profezia di Dante, a Cangrande:

“...impresso fue, nascendo sì da questa stella

forte, che mirabili fien l’opere sue!”.

1 Commedia, Inferno Canto XV - VII girone

2 Commedia, Paradiso Canto XVII

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Cangrande e l’Oriente

La “sezione aurea” impiegata nel progettare i disegni delle stoffe orientali degli abiti di Cangrande I.

Nel particolare del grafico si evidenzia la figura stellata a 6 punte, racchiusa in un cerchio

Le geometrie e i rapporti armonici dei disegni che decoravano i tessuti di sultani, papi e principi del Medioevo, armonizzati

con i colori, erano praticati nelle culture del vicino ed stremo Oriente. Molti di questi Paesi avevano rapporti

commerciali con Venezia. Fondamentale il commento del Sangiorgi1, e di Paola Frattaroli, sui rilievi eseguiti sui reperti

delle stoffe di Cangrande “Il rapporto geometrico, sotteso alla scritta, è incentrato sulla “sezione aurea” dalla quale è

derivata anche l’altezza del disegno. La “sezione aurea” utilizzata per la scritta, è stata ottenuta dall’accostamento di

due quadrati, proiettando orizzontalmente, con un arco di cerchio, la loro diagonale”. A Venezia l’arte dei “tessitori dei

panni de seda”, appresa in Oriente, si è costituita in scuola nel 1262 e raggiunse il suo massimo splendore nel Trecento.

Con questa arte arrivarono dall’Oriente a Venezia, oltre alle spezie, ori e gemme, anche le scienze della geometria e dei

matematici algoristi.

1 Vedi il catalogo Le stoffe di Cangrande a cura di Licisco Magagnato. Alinari, Firenze 1983

La “sezione aurea”

Sembra esserci un filo che lega l’antica Costantinopoli e la Verona scaligera, passando da Venezia. Lo si intuì già alla

ricognizione nell’arca di Cangrande I, nel luglio del 1921. Gli studiosi del tempo erano orientati più all’indirizzo dettato

dalle celebrazioni dantesche piuttosto che alla figura del celebre signore scaligero. Ma fu scoperto il corredo tombale composto,

oltre ad altri interessanti reperti, da stoffe orientali come recita la relazione del Sangiorgi: «Telo di broccato d’oro

con iscrizioni arabe», evidenziando nelle stoffe caratteri che compaiono molto simili e geometricamente impostati, sia nei

decori delle stanze dei palazzi ottomani, sia nell’oggettistica: vedi la spada di Maometto il Conquistatore, conservata nel

Palazzo Topkapi di Istanbul. Iscrizioni arabe usate anche da Giotto apparentemente come decorazioni di rifinitura in alcuni

abiti di personaggi da lui dipinti, lasciando trasparire un’interesse per la proibita cultura orientale.

Il Topkapi è un palazzo museo con più di 52mila reperti, che coprono un periodo di tempo di 1.300 anni. Visitandolo ci

si rende conto quanto il gusto, lo stile, il genio nella lavorazione delle ceramiche, dei gioielli e specialmente dei tessuti

siano stati comuni alla tradizione della Serenissima e dell’impero Ottomano. I tessuti in velluto veneziano per i cafcani dei

Sultani, come nel ritratto del califfo ingioiellato, si distinguevano da quelli ottomani per le maglie multistrato e l’impiego

di fili in oro intrecciati a maglia. Una lavorazione che veniva usata per cucire sugli abiti cerimoniali e turbanti gioielli

composti prevalentemente da smeraldi, rubini e perle a forma di fiore o di stella. Infatti, già nel secolo XIV a Venezia, sia i

gioielli sia la tessitura del velluto grazie ai suoi telai innovativi, avevano raggiunto risultati di tale eccellenza che i sultani

di Bisanzio si fornivano spesso per i capi più pregiati dai maestri tessitori e orafi della città lagunare. A questo proposito

anche Verona è coinvolta culturalmente nell’intreccio tra Venezia e Costantinopoli. E anche in questo caso, la figura del

Principe scaligero si pone come luminosa testimonianza nella mostra “Le stoffe di Cangrande”, curata da Licisco Magagnato,

nel 1983.

Di grande interesse è stata anche la mostra «Venezia e Istanbul», allestita nel 2012 nelle sale delle scuderie imperiali del

Museo al Palazzo di Topkapi. È stata l’occasione per ripercorrere otto secoli di storia, cultura, arte annodate tra due città

più affascinanti del mondo. I tessuti, le pietre preziose, le perle e la magia dei gioielli scaligeri, la troviamo anche nelle sale

del tesoro dell’antico Palazzo del Topkapi di Istanbul, dove dalle terrazze lo sguardo accarezza sia il continente asiatico

che quello europeo. Nelle sale del Tesoro possiamo ammirare gli smeraldi privi di sfaccettature, come quelli dei gioielli di

Castelvecchio, che rendono ancor più misteriosa e primitiva la loro forza.

Tra gli oggetti più famosi si annota il prezioso pugnale ornato da tre smeraldi e ulteriormente arricchito di diamanti, fatto

fare dal sultano Mahmud I per donarlo al sovrano persiano Nadir Scià. Come si può rilevare anche nei secoli successivi

ben oltre il secolo XIV lo stile rimane immutato. Quando gli Ottomani conquistarono Costantinopoli i califfi islamici

avevano il compito di riparare, mantenere e produrre gioielli, suppellettili e arredi preziosi, mantenendo inalterato lo stile

e il significato simbolico religioso del passato.

Un’ altra a significativa testimonianza che ancora oggi possiamo ammirare a Istanbul è la preziosa e bellissima teca in oro

del dente di Maometto, realizzata nel secolo XVII che vede incastonate pietre di smeraldo e rubino della stessa foggia di

quelle incastonate nei gioielli scaligeri.

Altra analogia da segnalare sono i due candelabri in oro massiccio fatti fare dal sultano Abdulmecid, dove spiccano applicate

come gioielli sei stelle ciascuno, con pietre preziose e perle dalla fattura e dal disegno molto simili alla splendida

stella conservata al Museo di Castelvecchio di Verona.

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CANGRANDE I UN PRINCIPE PREDESTINATO DAGLI ASTRI

4- Stoffa, i colori oro e smeraldo della veste di

Cangrande I, li troviamo nelle gemme della stella

La Stella scaligera e il numero 34

3- Affresco scaligero con il motivo del

rosone, simbolo di luce divina

1- Stella scaligera, particolari. Retro del disco centrale della stella che riprende il

motivo del significato mistico del rosone. Il disegno delle finestre trilobate e quadrilobate,

richiamano i numeri 3 e 4 uniti, sotto intendendo il numero 34 delle perle

soprastanti della corona, come illustrato nella foto.

Il numero delle pietre e delle perle della stella sono multipli del 3 ad eccezione della

corona maggiore che ne conta 34. Questo numero fondamentale - formato dall’unione

del 3 e del 4, la cui somma è misterico numero 7 - che troviamo nei punti salienti della

Commedia, si è rivelato essere la chiave di lettura e del procedimento geometrico-matematico

impiegato per costruire la stella scaligera, utilizzando come allora soltanto il

righello e il compasso, iniziando da un punto tracciato su di un foglio bianco. Sembrerebbe

ideata come una costruzione di un modello della mente e dei suoi straordinari

poteri simili ad un sigillo ermetico1 o di un cosmogramma inteso come filosofia a

scopo meditativo.

La ricostruzione computerizzata della stella scaligera di Castelvecchio, che vedremo

più avanti, ha dimostrato come l’antico oggetto sia stato ideato secondo i principi geometrico-matematici

basati sulla formula pitagorica della tetraktis2, rivelatasi come un

vero “computer” dell’antichità.

1 Raffaela Gabriella Rizzo, La geografia dell’oro, EDUCatt Milano, 2020

2A. Rostagni, Il verbo di Pitagora, Torino 1924

1

2- Altichiero, rosoni che richiamano

il disegno della stella. S.Anastasia

Il signore delle stelle

Non c’è stato popolo che non abbia conferito ai colori grande attenzione e significato simbolico. Gli uomini di tutti

i tempi hanno sempre avuto bisogno di spiegare attraverso il simbolo il legame tra cielo e terra, tra divino e umano. Al

tempo degli Scaligeri, Verona era collocata dagli astrologi sotto il segno zodiacale del Toro e nei dotti trattati che si occupano

di questa materia il suo simbolismo è congiunto in qualche misura a quello della Luna. Verde di Salizzole, nel 1291

partoriva Can Francesco mentre il Sole si trovava nel segno di Venere, e nel pieno segno del Toro, mentre la Luna aveva

concluso i suoi nove cicli, ossia il periodo della gestazione per la nascita di Cangrande.1 Il Toro nella cultura ebraica

è legato al corno lunare della metamorfosi della prima settimana di crescita sopra il segno di Venere. Le pietre gialle e i

topazi in particolare sono le pietre che nell’antichità e nel Medioevo riconducono al simbolismo del Toro e della Luna. Il

colore giallo che troviamo dominante nelle vesti del principe scaligero rappresenta uno degli aspetti fondamentali per la

cultura del tempo.

Il giallo è associato alla luce del sole e quindi è sinonimo per eccellenza della vita. Giallo è il colore dell’oro, il più prezioso

dei metalli. San Giovanni nell’Apocalisse sacralizza il prezioso metallo giallo creando un collegamento con la tradizione

esoterica cristiana. L’oro rappresenta la divinità, il suo colore diventa simbolo di luce e di perfezione.

Nel Medioevo l’oro era considerato la sostanza perfetta e il suo colore ne diventa la sua più alta espressione. Per i faraoni è

il metallo solare seminatore di luce, per gli alchimisti è il simbolo dell’immortalità. Quindi il colore giallo per Cangrande I

riveste un duplice significato. Il primo riguarda le vicende terrene richiamando i concetti universali di forza, potenza e dominio.

Il secondo è di natura intellettuale e mistica: richiama il concetto filosofico e religioso di luce, di essere illuminato.

Passiamo al blu, che insieme al giallo è il colore della nostra città e il colore delle vesti del signore di Verona. Se consultiamo

il primo libro biblico, il Genesis troviamo scritto nella prima riga “In principio Dio creò il cielo e la terra”. E poco

più avanti: “Così avvenne la creazione della terra quando venne formata dal Cuore del Cielo”. Gli antichi erano convinti

che per potersi mettere in collegamento con la sfera del cielo bisognava adoperare una pietra preziosa di colore blu. Lo

zaffìro, era considerato per la sua rarità e bellezza la gemma ideale per collegare l’entità celeste con le necessità terrene.

Lo zaffìro, racchiude nella sua essenza cromatica il blu più profondo, il colore del cielo dove lo sguardo affonda senza

incontrare ostacoli, riscoprendo una porzione di quello stato di calma, sospensione e attesa che, secondo le scritture, doveva

aver preceduto l’attimo della Creazione. Il giallo e blu sono quindi due valori assoluti che uniti e contrapposti danno

origine a comportamenti e riti dal significato cosmico e religioso. Questa breve analisi ci aiuterà a comprendere meglio

anche il significato dei colori araldici che troviamo anche negli stemmi scaligeri e nella stella, con il suo grande rubino

centrale, simbolo della divinità e del potere. Rosso, è il colore di fondo dello stemma di Cangrande; di colori oro e verde

la sua veste.

I 18 smeraldi che troviamo nella stella scaligera sono il simbolo della vitalità cosmica, della forza fisica e della felicità

interiore e della rinascita. Questa pietra di colore verde è legata alla conoscenza segreta e consentiva di poter profetizzare.

Lo smeraldo incastonato nell’oro protegge dai pericoli e dagli spiriti malvagi e aiutava in modo particolarmente efficace

la lotta contro le forze del male. Il bianco delle perle, che contornano la stella, sono simbolo di luce e di purezza.

Fin dai tempi pre-biblici, dunque, le gemme furono strettamente usate nella costruzione di gioielli e monili con poteri

talismanici, sin da allora si diffuse quella che gli studiosi hanno definito come “la mistica delle gemme”.

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SIMBOLI SVELATI

La statua di Cangrande realizzata

per celebrare il principe scaligero,

collocata in origine sopra l’arca funebre,

è un opera che attraverso i

simboli presenti tende a collegare

il personaggio dopo la morte con il

cielo, come sembra indicare la grande

scala incisa sulla veste di schiena

del principe, circondata da rosette

a cinque punte (simboli del Sole e

delle stelle anche nell’iconografia

funeraria); significative le spirali sul

copri sella e soprattutto la stella a 7

raggi, che compare sul copricapo di

Canis hic Grandis. Quattro sono le

raffigurazioni a foggia di elmo del

Cane alato, ovvero la stella Canis

(Cane o Sirio). Da sottolineare che

la figura del cane alato è posta ai

quattro punti cardinali della statua

in modo che questo simbolo si potesse

vedere da tutti i quattro lati di

osservazione.

Viaggio verso le stelle

Nell’immagine scultorea di Cangrande I a cavallo, è bene evidenziato in alto

rilievo il cane alato, con il significato di aspirazione al cielo. A fianco, il disegno

dove si trovano evidenziati il simbolo cosmico della rosetta nel vortice di quattro

spirali. In molte culture questo antico simbolo rappresenta il “viaggio dopo la

morte”. Un ritorno alle stelle.

E’ interessante notare come la posizione dello stemma araldico del Cane alato sia

stato posto da essere visto da tutti e quattro i lati: davanti, sulla testa del cavallo,

dietro, sulle spalle di Cangrande e sui due lati, destro e sinistro, tra il braccio e la

coscia del condottiero. Visto dall’alto le quattro raffigurazioni formano una croce

perfettamente orientata.

*Alcune fotografie, e i disegni di queste due pagine, sono tratti dal libro sul restauro La statua

equestre di Cangrande I della Scala a cura di Sergio Marinelli e Giulia Tamanti. Neri Pozza,

Verona, 1995

Particolare. Sotto l’elmo, una rosetta,

nel vortice di quattro spirali cosmiche

Nell’arte funeraria medievale molti simboli di epoca pre romana, come la spirale

e la rosetta a cinque petali (sole o stella), vengono cristianizzati con tranci di vite

e foglie di acanto, con il significato di Rinascita e di Salvezza attraverso Cristo

Cangrande I con l’elmo alato, nella

battaglia di Vicenza

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Haggadàh di Barcellona. Metà del XIV secolo. British Library di Londra Add. MS 14761

Costellazione del Cane Maggiore, dove brilla la stella Cane (Sirio), disegnata come fosse un gioiello. In questa rara

miniatura, tratta dal codice ebraico Haggadàh di Barcellona, è dipinto un cane, che raffigura allegoricamente la costellazione

del Cane Maggiore, circondata da una lingua di fuoco (la canicola) e una grande stella. Ancora nel Medioevo, le

stelle erano credute la dimora delle anime dopo la morte. Dall’antichità, fino XVII secolo, l’astrologia era la scienza che

studiava l’influsso degli astri sugli eventi terreni, regolando e influenzando in ogni campo le decisioni dell’uomo.

Per i frati predicatori Domenicani, questa lingua di fuoco rappresentava la voce del Verbo di Dio, intesa come fonte di

luce per illuminare il mondo.

San Domenico1 (1170-1221) con la fronte “illuminata” dalla stella della sapienza

Nella narrazione sulle origini di questa stella legata ai frati predicatori Domenicani, si risale alla denominazione arcaica

del termine Domini canis, inteso come i “cani a guardia della casa Signore”. La leggenda, simile a quella di Can Francesco

(Cangrande I) racconta che la madre sognò di un cane che usciva dal suo ventre con una torcia accesa tra i denti.

Essendo che, in una società regolata dalla scienza dell’astrologia, la torcia luminosa che infiamma il cielo di luce, traeva

origine simbolica dalla luminosissima stella Cane (Sirio), con dimora nella costellazione del Cane Maggiore.

1 Busto di san Domenico. Terracotta di Niccolò dell’Arca. Collezione Vittorio Sgarbi. FMR n.37 anno 1985

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La Stella scaligera nella funzione astrologica

Il Razionale del giudizio.

Presentazione della Vergine al Tempio, particolare del Gran Sacerdote con il razionale del giudizio

Domenico Beverense (1624/1626) Chiesa di San Moisè, Venezia

La Stella scaligera potrebbe avere avuto in certe circostanze la funzione di cosmogramma, ovvero uno strumento impiegato dagli

Le rilevanti dimensioni della Stella scaligera, dal diametro di 15 centimetri per un centimetro e mezzo di spessore, il notevole peso

uomini di scienza della signoria Scaligera per la divinazione, creduto capace attraverso l’interpretazione del baluginare delle gem-

dell’oggetto tra oro, gemme e perle di 240 grammi e le dodici pietre preziose del rosone centrale della stella, mi hanno fatto pensare

me di collegare l’alto con il basso seguendo gli antichi riti divinatori praticati nel Medio Evo e quindi indagare gli astri sulle mappe

al razionale del giudizio del Gran Sacerdote degli Ebrei composto da dodici pietre preziose, da portare cinto al petto e consultato in

astrologiche adoperate per la lettura degli oroscopi e quindi poter formulare previsioni, emettere sentenze di giudizio, trovare certez-

quei secoli per dirimere questioni contrapposte o prendere decisioni importanti negli àmbiti civili e religiosi. Efud o razionale del

ze nelle difficili decisioni di governo e, come non ultima inquietante aspirazione, leggere il futuro per conoscere gli eventi del destino.

giudizio, collegato all’interpretazione della qabbalah ovvero il complesso delle dottrine mistiche ebraiche.

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SVELATO IL MISTERO DELLA STELLA SCALIGERA

Lo studio della volta stellata. Miniatura, fine XIV secolo

Non a caso una delle frasi della Bibbia più citate dai filosofi della natura del XII secolo era questa, tratta dal Libro della

Sapienza: “Tu hai disposto ogni cosa con misura, numero e peso”. E i sapienti studiavano le armonie del cielo per imitarle

sulla terra, attraverso la geometria e la matematica. La stella scaligera di Castelvecchio, si è rivelata attraverso gli studi

documentati in questo libro, un perfetto elaborato matematico, un cosmogramma capace di elaborare attraverso la sua

formula infiniti rapporti armonici. L’armonia delle opere degli architetti, degli scultori e dei pittori, dovevano rispecchiare

l’armonia matematica delle sfere celesti. “Il pitagorismo non si può intendere senza una profonda conoscenza della teoria

matematica della scala musicale”.1

1 Vincenzo Capparelli, La sapienza di Pitagora, Edizioni Mediterranee. Roma, 1988

STUDIO TRA SIMBOLOGIA E MATEMATICA

DELLA STELLA SCALIGERA IN ORO DEL XIV SECOLO

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Stella scaligera

Studio

Osservando la costruzione del gioiello a forma di stella,

composta da sei raggi maggiori e da sei raggi minori, colpisce

l’osservatore la presenza di un progetto basato sulla

geometria del disegno, come evidenziato dal triangolo

equilatero trasparente di verifica posato sull’oggetto. Il

triangolo disegnato con il vertice verso l’alto è definito

“triangolo attivo”.

La sovrapposizione dei due triangoli consentono di verificare

la geometrica posizione dei sei raggi maggiori della

stella ideata secondo un progetto matematico basato sul

numero tre e i suoi multipli. Infatti notiamo che su ogni

raggio maggiore ci sono tre perle e tre gemme; su ogni

raggio minore il numero tre è composto da una perle e due

gemme; nel rosone centrale il rubino è circondato da dodici

perle; segue una corona di dodici gemme, composta

Stella scaligera. XIV secolo, Museo di Castelvecchio, Verona

da sei smeraldi e sei rubini balàsci. La corona maggiore è

Lo studio di Alberto Zucchetta, Una stella nel destino di Cangrande, è stato presentato dall’autore alla Società Letteraria

La figura geometrica di questa stella formata da due triangoli,

o scudi sovrapposti, era conosciuta fin dal 1000 a.C. numeri dalla somma del 3+4 si evince il misterico numero

composta da 34 perle. Nel linguaggio velato medievale dei

di Verona, (11 Aprile 2011). Erano intervenuti il presidente onorario della Società Letteraria Giambattista Ruffo, la presidente

della Società Letteraria, Daniela Brunelli, la direttrice del Museo di Castelvecchio, Paola Marini e il presidente

chiamata in ebraico “Magen David” o Stella del Messia e dello spirito, 7. Numero che equivale alla misura del raggio

della stella.

dell’Ordine Giornalisti del Veneto, Michelangelo Bellinetti.

ancora oggi Sigillo di Salomone, con accenti esoterici

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Rovescio della Stella scaligera di Castelvecchio

Anche inel rosvescio della stella compare il numero 34. E’ composto secondo linguaggio simbolico medievale dai numeri rappresentati dalle 12

finestre trilobate (sinonimo di 3) e dalle 12 quadrilobate (sinonimo di 4). Dante, nella prima cantica della Commedia, rivede le stelle all’uscita

dall’Inferno nel canto 34. Come abbiamo visto da questo numero si risale alle dimensioni reali della Stella scaligera. 3+4=7, misura del raggio, x 2

= 14 diametro della struttura della stella. Da notare che il numero 14 è il numero delle 14 finestre che compongono il rosone traforato, inteso come

fonte di luce. Un disegno geometrico fondato sul numero 3 e nel cerchio che, come in Dante nel canto 34 del Paradiso, simboleggia Dio, cioè

quella figura geometrica che non ha inizio e non ha fine e che rappresenta la creazione divina. Il numero 3 è il numero dello spirito che attraverso

i suoi multipli avvicina alla conoscenza e al mistero della Trinità, che appare geometrizzata come tre cerchi di tre colori, ma di stessa dimensione.

Concetti che troviamo in Gioacchino Da Fiore e Tommaso D’Aquino, dai quali Dante, ha tratto convinta ispirazione.

La Tetraktys

Formula matematica attribuita a Pitagora, nato a Samo tra il 580 e il 570 a.C.

In questa antica pergamena è raffigurata la formula della tetraktys, racchiusa dall’Uroboro a forma di drago celeste che si morde la coda in una

rotazione cosmica circolare senza fine con il significato filosofico e matematico, in questo caso, del cerchio: quello che il Vasari chiamerà, attraverso

una ingenua “favoletta” recepita fino ad oggi, l’O di Giotto. In realtà papa Benedetto XI -come racconta il Vasari nel suo “Le vite de’ più

eccellenti pittori, scultori e architettori”- doveva ben conoscere, oltre alle note capacità artistiche di Giotto, anche l’alta formazione intellettuale

e di apertura alle nuove scienze, senza ricorrere al “test” di veder disegnare un cerchio a mano libera. A Toledo era attiva fin dal XIII secolo

una escuela de traductores di libri arabi, ed ebrei, che venivano riscritti in lingua latina, poi in castigliano ed infine in lingua volgare. Dante

e Giotto, li possiamo considerare i primi Maestri spirituali di queste nuove conoscenze, che hanno contribuito a rendere ancora più eccelse e

profondamente mistiche le loro opere.

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La tetraktys funzionale alla geometria, inscritta nel triangolo equilatero

dell’esagramma con i numeri 1,2,3,4 la cui somma è 10. Una

formula che consente di elaborare infiniti rapporti geometrici in perfetta

armonia, dando vita al linguaggio ermetico delle geometrie sacre

Studio. Le 10 perle della Stella scaligera corrispondono perfettamente,

nella prima verifica, alla formula della tetraktys pitagorica,

indicando, velatamente, un autore erudito alle scienze matematiche

del Vicino Oriente, proibite nel Medioevo dalla Curia romana

Studio. Nel proseguo della verifica sono state collocate tre nuove

perle sul triangolo equilatero passivo (vertice verso il basso) che

completano con le altre perle della tetraktys l’esagramma

Studio. In questo disegno viene stabilita attraverso la divisione del

diametro del cerchio in 10 segmenti regolari, l’ampiezza dell’esagramma

(colorato in blu) che determina l’ampiezza dei sei raggi minori

della Stella scaligera segnati dalla posizione delle perle

LA TETRAKTYS, FORMULA DELL’ARMONIA

Nella Stella scaligera si cela il segreto della sapienza antica

In questa tavola è rappresentata la formula della tetraktys pitagorica funzionale alla geometria. Si potrebbe dire un computer dell’antichità per le

perfette proprietà strutturali e matematiche che permettono all’operatore di creare qualsiasi progetto che sia armonicamente perfetto.

La Tetractys funzionale alla geometria rappresenta l’organizzazione dello spazio:

1. la prima riga rappresentava dimensioni zero (un punto)

2. la seconda riga rappresentava una dimensione (una linea di due punti)

3. la terza riga rappresentava due dimensioni (un piano definito da i tre punti di un triangolo)

4. la quarta riga rappresentava tre dimensioni (un tetraedro definito da quattro punti)

La Tetractys funzionale alla filosofia, si occupa delle origini e della struttura delle cose. Simboleggia i quattro elementi classici : fuoco, aria,

acqua e terra.

La Tetraktys, funzionale ai rapporti matematici e musicali, si avvale della formula numerica dei primi quattro numeri (1+2+3+4=10) che sommati

danno il perfettissimo 10.

I primi quattro numeri simboleggiano la musica universalis e il Cosmo come:

(1) Unità (Monade)

(2) Diade (Potenza)

(3) Armonia (Triade)

(4) Cosmo (Tetrade)

Le quattro file si sommano a dieci, che era un’unità di ordine superiore (La Decade).

L’intuizione delle geometrie applicate alla stella scaligera, ha permesso di individuare con l’ausilio della tetraktys la collocazione

delle perle che risulteranno armonicamente posizionate sull’oggetto secondo un processo matematico.

Nell’intersezione del triangolo attivo, con quello passivo - ovvero l’esagramma - sono individuati i numeri 1 - 2 - 3 - 4 identificativi

della tetraktys. Su questi numeri vengono posizionate in sequenza le perle che comporranno la tavola di verifica per il confronto con

l’immagine originale.

L’unione di questi due triangoli, sovrapposti e racchiusi nel cerchio, danno vita nel disegno ad una stella a sei punte. Si tratta della

figura geometrica più importante e misteriosa dalle infinite implicazioni scientifiche e matematiche. Racchiude infiniti significati

simbolici i quali hanno interessato le conoscenze iniziatiche e le religioni di ogni tempo. Nella religione ebraica questa figura viene

chiamata “Sigillo di Salomone” o “Stella di Davide”: un simbolo che deriva dalla Qabbalah (l’insieme degli insegnamenti esoterici

propri dell’ebraismo rabbinico) presente in tutte le sinagoghe.1

I matematici dell’antica Grecia, da questa figura, ne hanno ricavato una formula, la tetraktys, capace di formulare precisi rapporti

armonici applicabili a tutte le attività creative dell’uomo. La scoperta attribuita a Pitagora, dei rapporti tra musica e matematica, è

una testimonianza tra le più evidenti e conosciute. La Stella scaligera di Castelvecchio racchiude nel suo progetto tutta la sapienza

del mondo antico e solo un gioco del destino, e la perseveranza dello studio, hanno permesso di scoprire il suo segreto dopo 700 anni

di buio assoluto.

1 Katiuscia Lorenzini, Verona città fatata. Cierre edizioni, Verona, 2017

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Stella 2021. Il rubino centrale e le corone delle 12 e 34 perle

Stella 2021. Il rosone di gemme e perle

Questa operazione effettuata con il compasso determina, con l’ausilio della tetraktys, la corona delle 34 perle. Si punta il compasso in V1, con

apertura sulla perla 2 della tetraktys, e si interseca il diametro del cerchio verde in CM. Si punta il compasso in C (centro del rubino) con apertura

CM e si otterrà il cerchio che delimita il rosone. Anche la determinazione armonicamente geometrica della coroncina delle 12 perle e del

rubino, viene determinata con una operazione in rapporto matematico. Si punta il compasso in V1 con apertura sulla perla 3 della tetraktys e si

interseca il raggio inferiore del grande cerchio verde, determinando l’area della corona minore di perle che circonda “di luce” il rubino centrale

Si tratta di sei smeraldi, e di sei rubini balàsci di origine afgana, di colore roseo, tendente al violaceo che danno vita e colore al rosone, centro

della stella. Balàscio, gemma nota con questo nome fin dal Medioevo “...quivi nasce le pietre preziose che si chiamano balàsci, che sono molto

rare, e cavansi ne le montagne”. L’immagine del rosone della Stella scaligera, si integra perfettamente con le linee dello studio geometrico,

confermando la presenza di un procedimento intellettuale, matematico e simbolico legato alle scienze del tempo. Un oggetto creato per un personaggio

di altissimo lignaggio con un destino legato alle stelle, o soltanto ad una stella in particolare. E’ possibile che la scelta dell’astro del suo

destino sia caduta sulla stella più lucente dell’universo, che essere umano può vedere a occhio nudo dalla Terra

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Stella 2021. La tetraktys e i primi tre raggi maggiori in fase di costruzione

Studio della Stella 2021. Verifica del grafico della posizione dei tre raggi maggiori, della Stella 2021 in fase di costruzione, inseriti nel

triangolo della tetraktys. Le posizione delle perle isolate nello studio grafico, ottenuta con precise operazioni geometriche, sono destinate alla

verifica della corretta posizione delle perle che dovranno coincidere con la posizione delle perle originali dei raggi minori della stella scaligera

di Castelvecchio

Stella 2021. La tetraktys e i sei raggi maggiori in fase di costruzione

Studio della Stella 2021. In questa tavola di verifica della Stella 2021, parzialmente ricostruita con il centro e i sei raggi maggiori, possiamo

vedere le dodici perle, dei sei raggi minori mancanti, posizionate secondo il preciso procedimento geometrico-matematico già descritto. La struttura

di base è pronta al posizionamento dei sei raggi minori che la completeranno, per poi essere confrontata con la stella originale

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Dio che crea il mondo

Stella 2021, in argento dorato, rubino, gemme e perle

Miniatura nella Bibbia Moralizzata, Parigi 1220-1230, conservata nella Òsterreichische Nationalbibliothek, Vienna

Studio della Stella 2021. La verifica della Stella 2021, ricostruita attraverso il procedimento geometrico-matematico della tetraktys, impiegando

le stesse misure della Stella scaligera di Castelvecchio, e l’esatto numero delle pietre e delle perle, è pronta al confronto con la stella originale.

La creazione dell’Universo fondata emblematicamente nel cerchio, secondo il modello di Aristotele, perfezionato in seguito da Claudio Tolomeo,

La copia è stata realizzata manualmente a scopo didattico per studiare la tecnica orafa del XIV secolo, con la quale è stata realizzata dalla stessa

bottega orafa veneziana che qualche anno dopo ha arricchito con più di mille di pietre preziose la Pala d’oro della basilica di San Marco a

Dio costituiva il motore immobile che ingenerava un impulso perfettamente armonico al movimento delle sfere celesti. Il pensiero di Platone e

sant’Agostino, secondo i quali “Dio, geometrizzava tutto e aveva dato un numero ad ogni cosa”, nel Medioevo era accettato e seguito rigorosamente,

mantenendo questo credo fino agli inizi dell’età moderna

al colore delle antiche pietre di berillo e spinello presenti nella stella originale

Venezia, incastonandole con identico stile e la stessa tecnica operativa. Oltre al rubino centrale, sono state impiegate gemme di tormalina simili

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STUDIO E VERIFICHE DELLE MISURE E DELLE GEOMETRIE

NELLA STELLA SCALIGERA DEL XIV SECOLO

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Il progetto della Stella scaligera si basa sull’armonia del rapporti

Il progetto della Stella scaligera si basa sull’armonia del rapporti

Progetto geometrico utilizzando i numeri 2 e 3 della tetraktys per verificare la posizione delle due corone di perle della

stella originale. Le operazioni evidenziate ottenute puntando il compasso in V1con apertura 2 e ruotando, incontrando

la verticale, si determina C1, ovvero la misura della corona circolare (raggio di cm 3) delle 34 perle; puntando il

compasso in V1, con apertura 3, si ruota fino ad incontrare sulla verticale C2, determinando la coroncina delle 12 perle

che circonda il rubino centrale

Nell’immagine viene evidenziata l’operazione per ottenere il cerchio che determinerà la posizione e la misura dei raggi

minori. Si divide il diametro orizzontale in dieci segmenti uguali. Si punta il compasso in centro (rubino) con apertura 1

tracciando un cerchio, che sarà diviso in sei parti seguendo il disegno dell’esagramma. La verifica segnata dalla posizione

delle perle dei puntali certifica l’impianto perfetto del progetto geometrico-matematico della Stella scaligera

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Il progetto della Stella scaligera si basa sull’armonia del rapporti

L’immagine della stella scaligera sovrapposta allo schema geometrico conferma il progetto scientifico dell’opera

Verifica. Il progetto della Stella scaligera si basa sull’armonia e sulla perfezione del rapporti

Verifica dell’immagine della stella nella misura originale con le identiche operazioni dello studio grafico

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Stella scaligera, in oro, pietre preziose e perle. XIV secolo, in mostra permanente al Museo di Castelvecchio di Verona

Stella 2021. Copia della Stella scaligera di Castelvecchio

Questa copia misura 15 centimetri come l’originale. Creata esclusivamente a mano, rifinita in argento dorato, con un rubino

centrale, 202 perle coltivate e 42 gemme di uguale colore delle pietre preziose della Stella scaligera. La Stella 2021

è stata realizzata con le misure, e nel disegno, utilizzando l’antica formula della tetraktys. Lo studio ha permesso di svelare

i perfetti rapporti matematici dell’armonia e della bellezza della stella scaligera di Castelvecchio. E’ stata realizzata a

manualmente a scopo didattico avvalendosi dello stile e delle tecniche in uso nelle botteghe orafe veneziane del Trecento.

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LE DUE META’

Dal disegno alla realizzazione in laboratorio della Stella 2021

Nelle immagini alcune fasi della lavorazione iniziata dallo studio grafico del gioiello “matematico” a forma di stella.

In laboratorio si procede alla costruzione manuale dei vari elementi che dovranno corrispondere alle misure dell’originale

A destra, sullo sfondo nero, è raffigurata una metà della stella scaligera di Castelvecchio, messa a confronto con la metà della Stella

2021, su fondo bianco, ricostruita iniziando dall’analisi numerica della stella originale utilizzando per il progetto grafico esclusivamente

il righello e il compasso. La realizzazione manuale è stata eseguita con lo scopo didattico di studiare le tecniche in uso nel XIV

secolo, ben evidenziate anche nella grande spilla ovale del “tesoretto” di via Trezza, e soprattutto nella Pala d’oro, e nel Tesoro, della

Basilica di San Marco a Venezia. Il risultato di questa verifica è sorprendente, tanto che le due metà così simili e integrate potrebbero

a prima vista essere scambiate una con l’altra in un unicum perfetto.

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DAL COMPASSO AL COMPUTER

STUDIO E REALIZZAZIONE DI CRISTIAN ZUCCHETTA

NUMERI E SIMBOLOGIA DELLA STELLA

La bellezza della geometria sta nella dimostrazione1

A coronamento dei lunghi anni di studio dedicati alla stella scaligera in oro e gemme del XIV secolo conservata al Museo di Castelvecchio

di Verona (incoraggiato dall’allora direttore dei Musei civici prof. Licisco Magagnato) oggi possiamo ammirare la copia

fedele, realizzata a mano, impiegando a scopo didattico le antiche tecniche delle botteghe orafe medievali, incastonando lo stesso

numero di pietre e perle, e mantenendo le misure e dimensioni dell’originale. Ipotizzando un processo matematico nella ideazione,

si è proceduto come sette secoli fa, attraverso i calcoli di una antica formula attribuita Pitagora, a disegnare il gioiello a forma stella

soltanto con l’ausilio del righello e del compasso. Il risultato, documentato dai disegni e dalle tavole di verifica, non lascia dubbi sulla

attendibilità del progetto che risulta identico. Studi che sono serviti a svelare il procedimento geometrico-matematico del disegno, il

significato simbolico delle geometrie e dalle ricerche sulle vicende storiche che hanno indirizzato lo studio sulla figura di Cangrande I

della Scala, e successivamente approfondendo l’influenza culturale sul principe amico di Giotto e Dante, coinvolti in qualche misura,

è ipotizzabile, con la Stella di Castelvecchio e i suoi misteri rimasti inviolati da sette secoli.

Assodata la presenza di un impianto matematico nel disegno dell’oggetto, ottenuto soltanto con gli strumenti di allora, ovvero, il

compasso e il righello, con mio figlio Cristian, abbiamo deciso di verificare le operazioni matematiche acquisite, attraverso le

possibilità del computer e di ricreare in 3D la riproduzione virtuale della Stella scaligera, iniziando dal numeri composti 3 e 4 = 34,

numero ottenuto secondo una lettura medievale. C’è un verso nella Divina Commedia di Dante Alighieri che può farci riflettere:

“Raia da l’un, se si conosce, il cinque e il sei”

(Paradiso, XV, 57)

Chi è addentro nella tematica culturale dell’antica Grecia, dove nel Medioevo occidentale i campi delle scienze e delle arti si stavano

diffondendo segretamente tra le persone colte, non sfuggirà l’importanza dei numeri dai quali, attraverso la formula pitagorica della

tetraktys, è stata ideata concettualmente la Stella scaligera di Castelvecchio. Un prodigio dell’arte orafa profana, dove la creatività

esprime il più alto linguaggio matematico filosofico della bellezza, che fa diventare questo gioiello unico al mondo. I numeri dai

quali il compasso ha iniziato a determinare il disegno sono il 3, numero dello Spirito e il 4, numero della dimensione terrena, ovvero,

l’Alto e il basso. La somma di questi due numeri è 7: il numero misterico per eccellenza. Questo è anche il numero dei centimetri del

raggio della stella che assieme al 3 e al 4, sono i numeri fondamentali del linguaggio simbolico universale. Uniti, 3 e 4, formano il

34, ovvero la chiave di lettura che aprirà la porta della conoscenza per svelare il linguaggio matematico e filosofico della stella. Con

l’aggiunta delle perle sui puntali, si raggiungerà la misura di 15 centimetri di ampiezza dell’oggetto. Numeri che troveremo anche

nella struttura matematica della Commedia di Dante Alighieri, iniziando dal 34 che conclude numericamente la prima cantica della

1Blaise Pascal, Pensieri, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, Milano, 1999

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NOTE TECNICHE

Dopo 700 anni, un operatore sperimenta con il computer l’ideazione della stella scaligera di Castelvecchio e ne

certifica la perfezione matematica dei rapporti armonici ottenuti nel XIV secolo, utilizzando come strumenti soltanto

il righello e il compasso, avvalendosi per l’ideazione la formula matematica della tetraktys

Costruzione in 3D mediante l’uso di un programma parametrico abile a disegnare con il sistema vettoriale, e che consente

di modellare mesh digitali, ovvero creare solidi e facce modificabili tramite punti definiti.

Controllando costantemente le foto della stella originale, le misure e i rapporti matematici creati con gli strumenti dell’epoca,

sono stati poi disegnati e verificati al computer uno ad uno, oltre 750 componenti tra perle, pietre, supporti, castoni

e corpi principali, per renderli il più possibile fedeli alle caratteristiche del modello.

Dopo alcune settimane di lavoro, ultimata la costruzione dei singoli elementi, è stato effettuato un rendering, ovvero

state applicate le varie colorazioni ed effetti grafici per distinguere i diversi materiali che compongono l’oggetto dal

punto di vista estetico e cromatico.

LE VERIFICHE AL COMPUTER

In questa pagina sono raffigurate alcune fasi della ricostruzione matematica, ottenuta con un programma computerizzato, del disegno della stella

scaligera. La sequenza evolutiva delle quattro immagini, disposte in posizione di confronto con il disegno segnato nei punti determinati dalla

posizione delle pietre preziose, delle due corone di perle, del rubino centrale e delle dodici perle dei puntali della stella, permette di verificare la

perfetta concordanza con l’originale, confermando il progetto matematico. Le forme geometriche ottenute rappresentano, come affermava Galileo

Galilei “...un linguaggio scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi e altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile

intendere umanamente parola; senza questi è aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto”

Stella. Grafico di un raggio elaborato al PC

Nell’immagine grafica è fissato un momento del

lavoro svolto dall’operatore al computer, il quale

attraverso un sofisticato programma ordina il processo

matematico iniziando dai dati iniziali, ovvero

le misure reali della stella scaligera partendo dal

centro di un cerchio il cui raggio è di cm 7, elaborando

migliaia di dati per completare l’oggetto

che risulterà armonicamente perfetto e matematicamente

uguale all’originale.

Modellazione virtuale di un raggio

Nella foto accanto si nota una parte della corona

centrale della stella e di un raggio modellati virtualmente

al computer. A scopo didattico sono

evidenziati una riviera di perle già fissate, e altre in

corrispondenza dei relativi perni di fissaggio. Isolato

il castone a “torretta” del puntale del raggio;

tutto riprodotto con forme e misure esattamente

uguali agli elementi, pietre e perle, dell’originale.

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Stella 2021. I rapporti matematici della tetraktys con i quali è stata

costruita la stella nel XIV secolo, sono uguali ai rapporti ottenuti

con il computer, come dimostra l’immagine virtuale a confronto

con la stella in fase di lavoro (in alto) con la stessa formula utilizzata

dai matematici dell’antica Grecia.

Per realizzare manualmente la copia della stella scaligera di Castelvecchio,

sono state impiegate alcune tecniche in uso nel periodo

medievale. Come ad esempio, la realizzazione su lastra battuta e

sbalzata per i dodici raggi a “bacello” con i bordi merlati a seghetto,

il traforo delle 24 finestrelle e del motivo a raggiera del fondo a

disco della stella, i 48 castoni a “torretta” realizzati in fusione, il

castone a filo del rubino centrale, la trafilatura manuale del filo per i

perni delle 202 perle. Finita la struttura portante della stella, che ha

rispettato il disegno dell’originale e l’incastonatura delle pietre, si è

proceduto al fissaggio delle perle sui supporti a filo determinando

con questa operazione la fine del lavoro iniziato oltre dieci anni

fa. Lo stimolo finale è arrivato da mio figlio Cristian, che ha voluto

verificare la precisione dello studio manuale che si avvaleva di

una antica formula matematica, la tetraktys, ovvero il “computer

dell’antichità”. I programmi sofisticati dei quali oggi possono essere

dotati i moderni calcolatori permettono di ottenere la precisione

assoluta. Il confronto dello studio virtuale ha confermato che le teorie

dei Classici erano matematicamente corrette e in armonia con le

scienze filosofiche di quei secoli.

Stella virtuale. Lo studio computerizzato, completo nella sua struttura,

conferma il progetto matematico della stella scaligera. In evidenza

i castoni per le gemme e i perni per le perle, per completare i 12

LA STELLA VIRTUALE

L’elaborazione virtuale della stella scaligera di Castelvecchio, ha confermato in modo ineccepibile l’ideazione e del prezioso gioiello del XIV

secolo, secondo un preciso procedimento matematico basato sulla tetraktys pitagorica, realizzato soltanto con l’aiuto del righello e del compasso,

dimostrando la conoscenza delle nuove cognizioni scientifiche, allora considerate eretiche, che veicolavano in gran segreto tra i dotti del tempo.

Conoscenze scientifiche, che troviamo sotto forma velata nelle opere di Dante e nei dipinti di Giotto, che dovevano essere matematicamente

perfette. Così l’Alighieri si esprime:

“Le cose tutte quante/ hanno ordine tra loro e questo è forma/ (idea) che l’Universo a Dio fa somigliante”.

(Commedia, Paradiso, 103)

Nella pagina accanto, Cristian elabora al computer i dati della stella che permetteranno di verificare la concordanza matematica del disegno e

delle misure sia con la stella originale di Castelvecchio, sia con la Stella 2021 ricostruita in laboratorio

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«La filosofia è scrit ta in questo grandissimo libro che continuamente

ci sta aperto innanzi agli occhi

(la sfera dell’universo), ma non si può intendere se prima non

s’impara a inten der la lingua, e conoscere

i caratteri, nei quali è scritto. Egli è scritto in lingua ma tematica,

e i caratteri sono triangoli, cerchi ed

altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile

intendere umanamente parola; senza questi

è un aggi rarsi vanamente per uno oscuro labirinto».

Galileo Galilei, 1564-1642

(Il Saggiatore, 1623)

Quando la ruota dei cieli che tu, in quanto da essi desiderato, fai girare eternamente con quell’armonia...

La creazione delle stelle, del Sole e della Luna. Cappella Palatina, Palermo. In questa raffigurazione della creazione geometrizzata nel cerchio,

emerge evidente l’influsso cristianizzato della scienza arabo-bizantina, all’epoca avversata dalla Curia romana, dove geometria e numerologia

sono state le componenti fondamentali del pensiero culturale e artistico dell’area Orientale. Nel Medioevo, Giotto e Dante, sono stati gli artefici

della riscoperta scientifica e intellettuale del mondo antico, affascinati dal mistero delle stelle e dalla magia del Cosmo, costretti però ad operare,

oltre alle apparenze, con la massima prudenza e segretezza. Oggi sono considerati geni e precursori dell’età umanesimo-rinascimentale italiana

e la stella scaligera è una valida testimonianza del fermento innovativo e artistico patrimonio culturale sviluppatosi anche a Verona con Dante,

Giotto e Cangrande I.

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Lo studio articolato delle stelle

Dante: «e quindi uscimmo a riveder le stelle»

(Canto XXXIV e ultimo della prima cantica 139)

Stella scaligera (di Castelvecchio)....................................................................................... pag. 26

Stella di Giotto ...................................................................................................................... pag. 36

Stella di Assisi ............................................................................................................ ......... pag. 39

Stella di Dante ....................................................................................................................... pag. 54

Stella di Cangrande ............................................................................................................... pag. 73

Cristian Zucchetta

Diplomato maestro d’arte al Liceo artistico di Verona, si è specializzato nella progettazione, modellazione e ricostruzione

computerizzata di creazioni d’arte e restauro, con sofisticati programmi professionali in 3D Design, tra i quali Tinkercad,

SketchUp. Ultimo suo lavoro la modellazione e costruzione virtuale del gioiello del secolo XIV a forma di stella,

conservato nel Museo di Castelvecchio di Verona, confermando l’ideazione e il processo matematico del gioiello originale

realizzato nel Trecento dalla stessa bottega orafa veneziana che ha realizzato l’arricchimento della Pala d’oro della basilica

di San Marco, grazie alla cospicua donazione di Pieno Nano, astrologo e consigliere fidato di Cangrande I della Scala.

Stella 2021 (elaborazione manuale a scopo didattico) ......................................................... pag. 106

Stella virtuale (elaborazione 3D al PC )...............................................................................pag. 107

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“Il mondo immaginario del favoloso e internazionale

Medioevo veronese” – la definizione è di Licisco Magagnato

– seduce Alberto Zucchetta, che, inoltrandosi nell’esplorazione

di quel periodo fascinoso, si sofferma sui gioielli

conservati nel Museo di Castelvecchio a Verona. La misteriosa

“stella” aurea tempestata di perle e di pietre preziose

gli rivela la complessità e la profondità sacrali e spirituali

ermetico-religiose, impalcate dalla tradizione del gioiello,

che ritroverà nella nostalgia di infinito sprigionata dalle geometrie

matematiche delle sette sfere ed esagramma compenetrati

nel cerchio dell’altra magica “stella”, ricamata da

Giotto sul fondale del trono della “Madonna di Ognissanti”,

e ne traspone la scrupolosa ricostruzione grafica nell’oro

e nelle pietre di uno straordinario gioiello; o in quella del

San Giorgio dipinto da Tomaso da Modena nella cappella

della Santa Croce del Castello di Karlštejn che, del pari,

resuscita ed attualizza in un manufatto impressionante.

Lionello Puppi

Alberto Zucchetta

Maestro d’Arte, artista poliedrico scultore, orafo e medaglista,

è stato insegnante all’Istituto Statale d’arte di Venezia.

Giornalista pubblicista appassionato studioso di simbologia

e storia dell’arte medievale, per anni assiduo collaboratore

di varie testate per le pagine della cultura e dell’arte. Tra i

numerosi saggi sulla simbologia, da segnalare il libro che

svela “Il segreto dell’O di Giotto” nella Madonna di Ognissanti,

presentato da Renzo Chiarelli, a cura dell’Accademia

di Agricoltura Scienze e Lettere di Verona. Significative

le presentazioni nella sala del Romanino, dei Musei agli

Scrovegni, dello studio sul Giudizio Universale, introdotto

da Claudio Bellinati, in occasione delle manifestazioni padovane

“da Giotto a Donatello” del 2000, e quella de’ “Il

linguaggio sottile nella Commedia di Dante”, presentato a

Verona dal Comitato Dante Alighieri, nel 2011.

Innovatori i suoi studi sulla Pala d’oro della basilica di San

Marco di Venezia, sui gioielli scaligeri conservati al Museo

di Castelvecchio di Verona e in particolare al grande e misterioso

gioiello a forma di stella del secolo XIV. In occasione

dei suoi 40 anni di attività a Verona, Lionello Puppi, ha curato

un corposo volume “Quest’arte così difficile...Alberto

Zucchetta intagliator di gioie”.

Ha partecipato a numerose mostre collettive e personali in

vari Paesi del mondo riscuotendo numerosi riconoscimenti,

alcuni dei quali assegnati da alte cariche istituzionali. Ha

partecipato su invito a tre edizioni della Biennale Internazionale

d’Arte di Venezia, ricevendo nella XXXIII Edizione

il premio speciale per la “creatività nel gioiello”. Sue opere

si trovano in Vaticano, Musei e collezioni private in Italia e

all’estero. Vive a Verona, dove studia e lavora assieme a suo

figlio Cristian.





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