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Elizabeth George - Punizione

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L’autrice

Elizabeth George, sempre in vetta alle classifiche del New York Times, è

autrice di venti thriller psicologici, quattro romanzi per ragazzi, un saggio e

due raccolte di racconti.

Una carriera che le ha valso molti riconoscimenti fra cui l’Anthony Award,

l’Agatha Award, due nomination agli Edgar Awards, il primo posto al Grand

Prix de Littérature Policière e al MIMI, il prestigioso premio tedesco dedicato

alla crime fiction. Vive nello stato di Washington.

www.ElizabethGeorgeOnline.com



www.longanesi.it

facebook.com/Longanesi

@LibriLonganesi

www.illibraio.it

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

Longanesi & C. © 2018 - Milano

Gruppo editoriale Mauri Spagnol

ISBN 978-88-304-5162-9

Titolo originale

The Punishment She Deserves

In copertina: foto © Sandra Cunningham / Arcangel Images

Grafica di Andrea Falsetti / Cahetel

Copyright © 2018 by Susan Elizabeth George

Prima edizione digitale: maggio 2018

Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.

È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.


PUNIZIONE

Per Tom, Ira e Frank

Con amore e gratitudine.

Sono stata fortunata.


Perché stendersi sulla ruota da tortura

del passato e del futuro?

La mente che cerca di dare forma al domani al di là

delle proprie capacità non troverà riposo.

RUMI

La profondità del momento è maggiore di quella del futuro.

E dai campi del passato

cosa puoi raccogliere di nuovo?

RĀBI’A AL-BAŞRĪ


PARTE PRIMA


15 DICEMBRE

Baker Close

Ludlow

Shropshire

A Ludlow cominciò a nevicare la sera, quando la maggior parte della gente

aveva già cenato e lavava i piatti prima di piazzarsi sul divano a guardare la

televisione. A dire il vero non c’era molto da fare in città in quelle ore, a parte

scegliere un canale tv oppure andare al pub. Ma dal momento che Ludlow,

coi suoi palazzi medievali e le stradine lastricate, era diventata nel corso degli

anni una meta sempre più ambita da pensionati in cerca di tranquillità, era

raro che qualcuno si lamentasse per l’assenza di vita notturna.

Come tanti altri abitanti di Ludlow, anche Gaz Ruddock stava lavando i

piatti quando si accorse che nevicava. Fuori era buio e nel vetro della finestra

sopra il lavello Gaz vedeva quasi soltanto il proprio riflesso e quello

dell’anziano signore in piedi accanto a lui con uno strofinaccio in mano. Ma

una luce in fondo al giardino dietro la casa illuminava i fiocchi. E nel giro di

pochi minuti quella che sembrava una lieve spolverata si trasformò in una

vera e propria cortina che scendeva mossa dal vento.

«Non mi piace per niente, sai? Lo dico sempre. Ma è fiato sprecato.»

Gaz si voltò a guardarlo. Non credeva che Robert Simmons stesse parlando

della neve, e ne ebbe la conferma quando vide che il vecchio con lo

strofinaccio in mano non stava guardando la finestra bensì la spazzola con cui

lui strofinava i piatti.

«Quella roba è poco igienica» disse il vecchio Rob. «Continuo a

ripetertelo, ma tu non mi dai retta.»

Gaz sorrise, non al vecchio Rob – pensava sempre al suo coinquilino con

quell’aggettivo prima del nome, come se in casa con loro ci fosse anche un

giovane Rob – ma al proprio riflesso. Non passava sera senza che Rob

brontolasse perché lavava i piatti con la spazzola, e ogni volta lui gli faceva


notare che era molto più igienico che immergerli insieme con posate,

bicchieri e pentole in una bacinella di acqua e sapone come se a ogni

passaggio l’acqua miracolosamente si sterilizzasse.

«L’unica cosa che funziona meglio di questa» diceva Gaz agitando in aria

la spazzola «è la lavastoviglie. Basta che me lo dici e vado a comprartene

una, Rob. Questione di un attimo. E te la installo pure.»

«Bah» replicava Rob. «Ho resistito ottantasei anni e passa senza

lavastoviglie e penso di poter arrivare tranquillamente alla tomba così. Le

comodità della vita moderna, bah!»

«Il forno a microonde ce l’hai, però» gli ricordava allora Gaz.

«Quello è diverso» era la risposta, brusca.

Se Gaz a quel punto chiedeva cosa c’era di diverso tra possedere un forno

a microonde e una lavastoviglie, il vecchio Rob rispondeva immancabilmente

con uno sbuffo, un’alzata di spalle e un «È diverso e basta» e l’argomento era

chiuso.

A Gaz non importava granché. Non era un gran cuoco, quindi non c’erano

mai molte stoviglie da pulire. Quella sera avevano mangiato patate farcite con

una scatoletta di chili con carne e, come contorno, insalata di lattuga e mais.

Le patate le aveva cotte nel microonde e la lattina del chili era di quelle con

l’apertura a strappo, quindi non c’era voluto neppure l’apriscatole. Si trattava

di lavare in tutto due piatti, un cucchiaio di legno, alcune posate e le due

tazze in cui avevano bevuto il tè.

Gaz avrebbe potuto lavare e asciugare tutto da solo, ma il vecchio Rob

insisteva per dargli una mano. La sua unica figlia, Abigail, telefonava una

volta alla settimana per avere notizie del padre, e per Rob era importante che

Gaz le riferisse che era in forma e pieno di grinta esattamente come il primo

giorno della loro convivenza. Ma Gaz era convinto che, anche senza

l’appuntamento telefonico settimanale con Abigail, il vecchio Rob avrebbe

comunque insistito per aiutare. Era l’unica condizione che aveva posto per

accettare di prendere in casa qualcuno.

Dopo che gli era morta la moglie, Rob Simmons aveva vissuto da solo per

sei anni, poi la figlia aveva deciso che stava diventando troppo sbadato.

C’erano le medicine da prendere due volte al giorno, e poi il timore che

cadesse e nessuno lo trovasse per chissà quanto tempo. Qualcuno doveva

occuparsi di lui, aveva detto Abigail al padre, e Rob, di fronte all’alternativa

fra dividere la propria casa con uno sconosciuto scelto con cura e lasciare


Ludlow per andare a stare con Abigail, i suoi quattro figli e il marito – che

non gli era piaciuto fin dal giorno in cui si era presentato per portare la sua

unica figlia a ballare a Shrewsbury – si era aggrappato all’idea di un

coinquilino come a un salvagente.

E il coinquilino in questione era Gaz Ruddock, al secolo Gary. Gaz era un

agente di polizia ausiliario, lavoro che svolgeva prevalentemente di giorno, e

dal momento che di solito faceva i suoi giri di pattuglia a Ludlow a piedi o in

bicicletta, come i bobbies degli anni Venti, se necessario poteva passare a

dare un’occhiata al vecchio Rob anche durante la giornata. L’accordo per lui

era perfetto: come agente ausiliario guadagnava poco e Rob, oltre all’alloggio

gratis, gli dava anche qualcosina a fine mese.

Il cellulare suonò mentre Gaz puliva il piano del lavandino e Rob piegava

con cura lo strofinaccio per appenderlo ad asciugare sopra i fornelli. Gaz

lanciò uno sguardo al display per vedere chi fosse e, notando l’occhiataccia

del vecchio Rob, prese in considerazione di non rispondere. Ormai vivevano

insieme da parecchio tempo e Rob aveva capito che cosa stava per succedere.

Una telefonata a quell’ora di solito voleva dire un cambiamento dei

programmi per la serata.

«Tra poco comincia Ballando con le stelle» gli ricordò Rob. Era la sua

trasmissione preferita. «E su Sky danno un film con Clint Eastwood. Quello

con la donna fuori di testa.»

«Non sono tutte fuori di testa?» Gaz decise di lasciar scattare la segreteria.

Doveva piazzare il vecchio Rob davanti alla tv con il telecomando in mano.

«Non così tanto» replicò il vecchio. «Questa qui è la tizia che gli chiede di

trasmettere alla radio una certa canzone. Hai presente? Poi decide che Clint

Eastwood deve diventare il suo uomo, forse finiscono anche a letto, non mi

ricordo. Certo che gli uomini non capiscono più niente quando c’è di mezzo

una donna, eh? E lei gli entra in casa e spacca tutto quello che le capita sotto

mano.»

«Brivido nella notte» disse Gaz.

«Allora te lo ricordi.»

«Certo che me lo ricordo. Mi è passata la voglia di mettermi con una

donna, da quando ho visto quel film.»

La risata del vecchio Rob si trasformò in un attacco di tosse che a Gaz non

piacque per niente. Rob aveva fumato fino a settantaquattro anni, quando

quattro bypass lo avevano convinto a rinunciare al tabacco. Ma i sessant’anni


di sigarette prima dell’operazione avevano comunque lasciato strascichi

sufficienti a farlo morire di cancro o di enfisema.

«Tutto bene, Rob?»

«Tutto bene, sì. Perché me lo chiedi?» ribatté il vecchio guardandolo male.

«Così, nessun motivo in particolare» disse Gaz. «Vediamo di sistemarti

davanti alla tv, allora. Hai bisogno di andare in bagno, prima?»

«Che razza di domande mi fai? Lo so da solo, quando devo pisciare.»

«Non stavo dicendo che non lo sai.»

«Bene. Quando avrò bisogno di qualcuno che mi scrolla il...»

«Capito, capito.» Gaz seguì il vecchio Rob in salotto. Non gli piaceva il

modo in cui camminava, tutto storto, con una mano appoggiata alla parete per

non perdere l’equilibrio. Avrebbe dovuto usare il bastone, ma era cocciuto

come un mulo. Non ne voleva sapere e, appena qualcuno glielo consigliava,

di colpo sembrava saldo come la rocca di Gibilterra.

Appena arrivato in salotto, Rob si accomodò in poltrona. Gaz accese il

caminetto elettrico e chiuse le tende, poi recuperò il telecomando e trovò il

canale di Ballando con le stelle. Mancavano cinque minuti all’inizio della

trasmissione, giusto il tempo per andare a preparare l’Ovomaltina.

Trovò la tazza della sera di Rob al suo posto nella credenza. Era decorata

con una foto dei suoi nipoti assieme a Babbo Natale, sbiadita a furia di

lavaggi, e aveva il manico – a forma di corona di edera e agrifoglio – un po’

sbeccato. Ma il vecchio Rob si rifiutava di bere l’Ovomaltina in un’altra

tazza. Aveva sempre da ridire sui nipoti, ma Gaz ci aveva messo poco a

capire che in realtà li adorava.

Tornò nel salotto con l’Ovomaltina. Il cellulare ricominciò a squillare e di

nuovo Gaz lo ignorò per finire di sistemare Rob. Il programma era appena

cominciato e l’inizio era la sua parte preferita.

Gli piaceva guardare le ballerine, sia le concorrenti sia le professioniste che

insegnavano il cha-cha-cha, il foxtrot, i balli viennesi o quello che era. Più di

tutto gli piacevano le scollature generose dei costumi e la vista di quelle

donne che scuotevano il seno nella foga della danza, ricordandogli

piacevolmente che a ottantasei anni suonati era ancora vivo.

«Guarda che roba, eh?» Il vecchio Rob sospirò e sollevò la tazza in un

brindisi allo schermo. «Hai mai visto delle poppe del genere? Avessi dieci

anni di meno, glielo farei vedere io cosa si può fare con delle poppe così,

altro che storie!»


Gaz ridacchiò, ma suo malgrado, perché veniva da un ambiente in cui le

donne erano tenute su un piedistallo. Esseri sessuati, certo, ma perché la

sessualità rientrava nel piano di Dio e quel piano non prevedeva di mettersi a

disposizione degli uomini mostrando le «poppe» in tv. Ma era inutile cercare

di far cambiare idea a un vecchietto assatanato come Rob Simmons, per il

quale Ballando con le stelle rappresentava il momento clou della settimana.

Gaz prese il plaid posato sullo schienale del divano e glielo sistemò sulle

gambe magre come stecchi. Consultò Radio Times per accertarsi che in

seconda serata fosse effettivamente in programma Brivido nella notte e lasciò

Rob a ridacchiare delle battute insulse del presentatore e dei giurati.

Aveva appoggiato il cellulare in cucina. Lo recuperò e si sedette al tavolo.

La chiamata lo aveva messo un po’ in agitazione. Al West Mercia College

stava per concludersi il quadrimestre autunnale. Finiti gli esami, gli studenti

si preparavano alle vacanze di Natale e molto probabilmente quella sera si

sarebbero ubriacati in massa.

Toccò il display per richiamare. Clo rispose dopo il primo squillo e disse:

«Qui da noi nevica, Gaz. E lì?»

Sicuramente non gli aveva telefonato per fornirgli un aggiornamento sulle

condizioni meteo. Era solo un modo per cominciare una conversazione che,

altrettanto sicuramente, sarebbe sfociata in una richiesta non del tutto

ortodossa. Gaz decise di darle del filo da torcere. «Anche qui» rispose. «Sarà

un disastro per il traffico, ma se non altro la gente se ne starà a casa.»

«Siamo alla vigilia delle vacanze, Gaz. I ragazzi non staranno a casa. Non

gliene frega niente se nevica, grandina, piove o tira vento.»

«Non devono mica consegnare la posta» le fece notare.

«Cosa?»

«Neve, grandine, pioggia. Nulla ferma i postini britannici.»

«Ecco, facciamo conto che siano come i postini. Non si lasceranno fermare

dal maltempo.»

Gaz aspettò il seguito. Che impiegò un istante ad arrivare.

«Le dispiacerebbe buttare un occhio su mio figlio, Gaz? Mentre fa il suo

solito giro. Perché farà un giro, vero? Con questo tempo, immagino che non

sarà l’unico agente ausiliario a cui viene chiesto di controllare i ragazzi nei

pub, stasera.»

Gaz ne dubitava. Il West Mercia College era l’unico di tutto lo Shropshire

ed era poco verosimile che gli ausiliari dei dintorni si avventurassero sotto la


neve senza motivo. Ma non stette a discutere. Era affezionato a Clo e alla sua

famiglia. Pur sapendo che lei se ne approfittava, esaudire quella richiesta non

gli sarebbe costato molto.

Sollevò ugualmente una piccola obiezione: «Trev non sarà contento che io

vada a controllare, però».

«Trev non lo saprà mai, perché lei non glielo dirà. E io non glielo dico di

sicuro.»

«Se ha paura che qualcuno faccia la spia, non è certo di me che si deve

preoccupare.»

Seguì un breve silenzio. A Gaz parve di vederla incassare il colpo. Se, per

qualche motivo, Clo era ancora al lavoro, era senza dubbio seduta alla

scrivania, immacolata e in perfetto ordine. Se invece si trovava a casa, era

probabilmente in camera da letto con indosso qualcosa che le sembrava

adatto a una mogliettina desiderosa di far contento il marito. Gli aveva già

detto più di una volta, scherzando, che a Trev piaceva tenera, dolce e

ubbidiente, tutte caratteristiche che non le venivano particolarmente naturali.

«Come le dicevo, fra poco iniziano le vacanze, i ragazzi festeggiano

ubriacandosi, c’è ghiaccio sulle strade... Nessuno si stupirà di vederla in giro

a controllare che non combinino guai, nemmeno Finnegan.»

Non aveva tutti i torti. E comunque uscire a fare un giro avrebbe avuto altri

vantaggi, oltre a quello di prendere una boccata d’aria gelida. «D’accordo, ci

vado» disse. «Ma ha senso solo se esco più tardi. A quest’ora sono ancora

tutti sobri.»

«Capito» rispose Clo. «Grazie, Gaz. Mi faccia sapere cosa combina.»

«Certo.»

St. Julian’s Well

Ludlow

Shropshire

Missa Lomax osservò i vestiti che la sua amica Dena – Ding per gli amici –

aveva steso sul letto. Tre gonne, un pullover di cachemire, due camicette di

seta, un top di maglia con applicazioni argentate che sembravano ghiaccioli.

Li aveva tirati fuori da un grosso zaino. «La più adatta è quella nera, Missa. È

molto elastica» disse.


Era indispensabile che lo fosse: i vestiti erano di Ding, e lei e Missa

avevano un fisico molto diverso. Ding era piccolina e formosa, con curve da

donna ma bassa di statura, Missa era fatta a pera – se non stava attenta,

ingrassava sui fianchi –, ma era quindici centimetri più alta dell’amica. Missa

però non si era portata a Ludlow nulla di adatto a una festa. Non ci aveva

proprio pensato, quando era partita per il college, perché il suo scopo non era

divertirsi e uscire la sera, ma studiare biologia, chimica, matematica e

francese in vista dell’università.

«Sono tutte troppo corte per me» disse, indicando le gonne.

«Vanno di moda corte, e poi che differenza fa?»

Per Missa faceva differenza eccome. «Non potrò andare in bici» si limitò a

rispondere.

«Non si va in giro in bici con questo tempo.» Era stata Rabiah Lomax a

intervenire, entrando in camera di Missa con una tuta da ginnastica viola e i

piedi nudi, con lo smalto alle unghie, sui toni del rosso e del verde in

omaggio al Natale e con un alberello dorato sull’alluce. «Prendete un taxi.

Offro io, andata e ritorno.»

«Ma Ding è venuta in bici, nonna» ribatté Missa. «Non può...»

«Sei una temeraria, Dena Donaldson» disse la nonna di Missa. «Puoi

andare in taxi e tornare a prendere la bici un altro giorno, no?»

«Grazie, signora Lomax. A buon rendere» disse Ding sollevata.

«Non ti preoccupare» replicò Rabiah. «L’importante è che vi divertiate.»

Poi si rivolse a Missa. «Niente libri, almeno per una sera. Nella vita non si

può solo studiare e far contenti i genitori.» Missa le lanciò un’occhiata, ma

tacque. La nonna proseguì in tono allegro. «Vediamo un po’ questi vestiti.»

Si avvicinò al letto, guardò le varie opzioni e scelse la gonna nera. Missa vide

che Ding sorrideva soddisfatta.

«Provati questa e vediamo come ti sta» ordinò Rabiah. «Ti presterei

volentieri qualcosa io, ma nel guardaroba ho solo costumi da ballo e tute per

andare a correre. Non ho niente di adatto. A parte le scarpe, forse. Ti ci

vogliono un paio di scarpe.» Agitando una mano, si avviò verso la sua

camera mentre Missa si toglieva le scarpe da ginnastica e i jeans, e Ding

frugava nel comò in cerca di «un paio di calze decenti».

Missa si infilò la gonna di Ding. Essendo elastica, le stava, ma le stringeva

in vita come un laccio emostatico. «Uff, non so, Ding» disse.

Ding si voltò con un paio di collant neri in mano. «Ti sta da dio!» esclamò.


«È perfetta. Vedrai che ti sbaveranno dietro tutti.»

«Non ci tengo particolarmente.»

«Sì, invece. Non vuol mica dire che ci devi stare. Tieni, mettiti queste. Ti

devo far vedere una cosa.» Le passò le calze e andò a prendere nello zaino un

reggiseno di pizzo.

«Non mi starà mai» disse Missa.

«Non è mio» le disse Ding. «È il tuo regalo di Natale. Te lo do adesso,

però. Su, prendilo. Non morde.»

Missa non portava biancheria di pizzo, ma non voleva offendere Ding.

«Che bello!» commentò Rabiah quando vide il reggiseno che Ding faceva

dondolare tenendolo con due dita. «Da dove viene?»

«È il mio regalo per Missa» spiegò Ding. «Così forse smetterà di portare la

canottiera.»

«Non porto la canottiera» protestò Missa. «È che... il pizzo mi dà prurito.»

«Mi sembra un sacrificio accettabile per...» Rabiah s’interruppe. «Dena

Donaldson, non le avrai mica comprato un reggiseno push-up?» esclamò poi.

Ding rise. Missa arrossì, ma prese il reggiseno, si voltò pudicamente di

spalle e se lo provò. Si guardò allo specchio e arrossì ancora di più.

«Vieni qui!» Ding le diede il top con i ghiaccioli argentati. La scollatura

metteva in risalto l’effetto push-up del reggiseno. «Fa-vo-lo-so!» decretò

Ding. «Guardati allo specchio. Oh, signora Lomax! Che meraviglia! Anche

quelle sono per Missa?»

Missa vide che si riferiva a un paio di scarpe. Le guardò e si chiese quando

fosse stata l’ultima volta che sua nonna le aveva messe. La Rabiah che

conosceva lei portava esclusivamente scarpe da corsa o da ginnastica, a meno

che non fosse scalza o vestita per i suoi balli tradizionali. Da quando era in

pensione, non seguiva più la moda, neppure di sfuggita, e le scarpe che aveva

in mano dovevano risalire a prima ancora che diventasse insegnante.

Dovevano essere del periodo in cui faceva parte delle Rockettes.

«Non saprei» disse Missa, dubbiosa.

«Poche storie!» replicò Rabiah. «Sono comodissime. Provatele. Vediamo

se sono della tua misura.»

Lo erano. Rabiah disse che Missa doveva assolutamente metterle e che non

voleva sentire «discorsi assurdi». «Tanto con questo tempo non dovrai certo

attraversare a piedi la città. Ora, Dena Donaldson, immagino che tu abbia

portato dei trucchi per fare bella la nostra Missa mentre io chiamo il taxi.»


«Devo strapparle anche le sopracciglia?» chiese Ding.

«Servizio completo, grazie» rispose Rabiah.

Quality Square

Ludlow

Shropshire

In realtà non era un taxi, ma una macchina a noleggio con conducente. La

nonna di Missa insistette per pagare in anticipo sia l’andata che il ritorno, in

modo che fosse ben chiaro a tutti che null’altro era dovuto alla fine della

serata.

«Allora siamo a posto così» disse all’autista.

L’uomo parlava un inglese così stentato che Ding dubitava avesse capito

che doveva portarle in Quality Square, figuriamoci riaccompagnarle a St.

Julian’s Well. Ma l’uomo annuì alle parole di Rabiah e si diede un gran

daffare per assicurarsi che Ding e Missa allacciassero le cinture sul sedile

posteriore della sua Audi.

Se possedeva un’Audi, pensò Ding, gli affari tanto male non dovevano

andargli. Il fatto però che alla prima curva la macchina avesse sbandato sulla

strada ghiacciata induceva a pensare che avesse bisogno di gomme nuove.

Ding si mise comoda e prese Missa per la mano. «Ci divertiremo un sacco.

Ce lo meritiamo tutte e due, nella maniera più assoluta» disse.

La verità era che a meritarselo era solo Missa, perché Ding non perdeva

mai un’occasione per divertirsi. Per Missa, però, le cose stavano

diversamente.

Da tempo Ding aveva l’abitudine di cercare su Google tutte le persone con

cui pensava di poter fare amicizia e, dopo tre sole lezioni del corso di

matematica che seguivano insieme, aveva deciso che la bella ragazza di

origine indiana con la pelle perfetta e i denti leggermente distanziati poteva

essere una conoscenza interessante. L’aveva cercata su Internet, aveva

seguito qualche link e aveva scoperto che Melissa Lomax era la maggiore di

tre sorelle e che quella di mezzo era mancata dieci mesi prima. Aveva

appreso anche che era di Ironbridge, che suo padre faceva il farmacista e sua

madre la pediatra, e che sua nonna Rabiah era una ex Rockettes, insegnante

in pensione e campionessa in carica della Maratona di Londra per la sua


fascia d’età.

A Ding piaceva essere informata sulle persone che frequentava e credeva

che tutti fossero come lei. Si stupiva, perciò, quando scopriva che gli altri non

andavano a curiosare in rete per decidere se valeva la pena di fare amicizia o

di mettersi con una certa persona. A suo parere, le ricerche su Internet

facevano risparmiare parecchio tempo. Era sempre meglio sapere se si aveva

a che fare con un potenziale psicopatico.

Il tragitto da St. Julian’s Well a Quality Square non era lungo, ma sotto la

neve ci volle più del solito. Con quel tempaccio non c’era praticamente

nessuno in giro – un fatto insolito, in quel periodo dell’anno – ma Corve

Street e il Bull Ring erano illuminati e le vetrine dei negozi con luci e

decorazioni natalizie creavano un’atmosfera allegra in cui quasi ci si

aspettava di vedere cantori dickensiani a ogni angolo di strada.

La prospettiva del Natale non era particolarmente allettante per Ding.

Erano anni che vacanze e feste comandate la lasciavano indifferente, ma era

disposta a fingere, se necessario, quindi disse in tono entusiasta: «Che bello!

È come essere nel paese delle fate, no?»

Missa guardava fuori e Ding le lesse in faccia i dubbi che aveva, non tanto

sulla bellezza dello scenario che stavano attraversando, quanto sui

divertimenti promessi da Ding. «Secondo me non ci sarà nessuno stasera»

disse.

«Alla vigilia delle vacanze? Senza più esami da dare? Ci sarà un sacco di

gente, soprattutto dove andiamo noi.»

Ding aveva le idee chiare su quale fosse il pub migliore di Ludlow, dal

momento che abitava vicino al West Mercia College e passava un numero

considerevole di serate a bere con gli amici allo Hart and Hind in Quality

Square.

Il taxi non poteva portarle fino a destinazione. Era entrato nel centro

storico di Ludlow e percorreva strade sempre più strette, fra edifici medievali,

diretto in Castle Square, la piazza del castello del XII secolo dove, da sempre,

i banchi del mercato offrivano merci di ogni genere, dai pasticci di maiale

alle scodelle per il porridge. Il groviglio di viuzze tutto intorno ospitava nei

suoi palazzi storici negozi, pensioni, bar e ristoranti.

L’auto percorse King Street e le lasciò davanti all’unico accesso a Quality

Square, un vicolo attraverso il quale, volendo, gli autisti più coraggiosi

sarebbero potuti entrare nella piazza in macchina. Dal momento però che, una


volta entrati, non potevano uscire se non ripassando di lì, gli unici che si

arrischiavano erano i residenti che abitavano sopra i negozi, le boutique e le

gallerie d’arte che delimitavano tre lati della piazza.

Sul quarto lato una stradina acciottolata si affacciava su uno spiazzo verde

ed era lì che Ding intendeva portare Missa, dopo essersi fatte dare il numero

di cellulare del tassista per chiamarlo quando fosse stata l’ora di tornare a

casa. «Su, andiamo a divertirci» disse Ding, mentre Missa prendeva il

biglietto da visita con un sorriso pieno di gratitudine e lo infilava nella borsa

a tracolla.

Si infilarono nel vicoletto stando attente a dove posavano i piedi, perché il

rischio di prendere una storta camminando sull’acciottolato con i tacchi era

altissimo; la piazza era scivolosa per la neve e anche i marciapiedi erano poco

praticabili. Passarono tra due macchine ferme all’altezza di una galleria

d’arte; accanto all’ingresso c’era la scultura di metallo di una donna vestita di

pizzo che la neve aveva già coperto di bianco. I rami dei sempreverdi nelle

vicinanze stavano cominciando a piegarsi sotto il peso del manto candido.

Come previsto da Ding, non erano le sole ad aver scelto quella meta:

quando arrivarono sul quarto lato della piazza, videro che nonostante la neve

sullo spiazzo c’era un folto gruppo di fumatori. Alcuni avevano posato i

bicchieri sui davanzali del pub, mentre altri erano seduti ai tavoli all’aperto,

riscaldati da stufe e coperte.

«Questo è lo Hart and Hind» spiegò Ding all’amica. Nato nel Cinquecento

come locanda di posta per le diligenze, il pub era uno dei ritrovi preferiti

degli studenti del West Mercia College. In realtà di pub ce n’erano molti altri

in città, ma lo Hart and Hind era il più gettonato, non solo perché era vicino

al college e consentiva di ubriacarsi appena usciti da lezione, ma anche

perché il proprietario tollerava lo smercio di «sostanze psicotrope illegali».

«Ding, io droga non ne prendo» disse Missa.

«Certo che no!» approvò Ding. «Sei pure astemia!» Dopodiché le confidò:

«Ovviamente ci sono anche delle camere al piano di sopra, visto che una

volta era una locanda. Però lui non le affitta».

«Lui chi?»

«Jack. Il proprietario. Ne ha due, di stanze, voglio dire, e se lo paghi in

contanti te le lascia usare per un po’.»

Missa aggrottò la fronte. «Non hai appena detto che non le affitta?»

Massì, ci siamo capite, dai!, stava per esclamare Ding, ma Missa viveva in


un mondo tutto suo e certe cose bisognava spiegargliele a chiare lettere.

Ding aveva scoperto quasi subito che per Missa la verginità era molto

importante. Era una ragazza d’altri tempi, che si manteneva pura nel caso

fosse arrivato il principe azzurro con una scarpa di cristallo in cerca di una

fanciulla illibata. L’unica disponibile nel raggio di mille miglia e due

continenti sarebbe stata lei.

Ding aveva perso la verginità a tredici anni. Ci aveva provato anche prima,

ma finché non le erano cresciute due tette degne di quel nome nessuno era

parso interessato. Per lei togliersi il pensiero di farsi deflorare era stato un

enorme sollievo e non capiva come mai Missa ci tenesse tanto. Il suo ricordo

di quel momento topico cominciava con lei che, per quanto obnubilata

dall’alcol, esclamava inorridita: «E io dovrei farmi infilare dentro quel

coso?», proseguiva con il disagevole posizionamento su una delle panche in

fondo alla chiesa di St. James, non lontano da Much Wenlock, e si

concludeva con il suo amante che alla decima spinta esalava un grugnito di

soddisfazione.

La porta del pub si aprì e Ding e Missa furono investite da un’ondata di

musica a tutto volume. I Bee Gees, pensò Ding. Oddio, fra poco metteranno

gli Abba. Prese per mano Missa e la trascinò lungo un corridoio rivestito di

legno scuro molto antico, in un mare di spalle nude, gambe nude, paillettes,

lustrini e glitter, pantaloni aderenti e gente che ballava scatenata sulle note di

Stayin’ Alive.

In fondo al corridoio c’era il bar. La musica faceva vibrare il pavimento.

Lo scopo era far ballare la gente per farle venire sete e indurla a comprare

birra, sidro, cocktail e altre bevande. Ding faticò parecchio per farsi largo tra i

gruppi di ragazzi che si dimenavano a tempo di musica, scrivevano sms o

scattavano selfie e i gruppi altrettanto folti in attesa al banco, dove il titolare

del pub e il nipote facevano il possibile per stare al passo con le ordinazioni.

Sentì frammenti di frasi:

«Non ci posso credere!»

«Se ti dico che l’ha fatto!»

«... e ha mancato il gabinetto di un chilometro. I maschi sono veramente...»

«... durante le vacanze e ti avverto se...»

«... in Costa Azzurra a Capodanno, cazzo, e non chiedermi perché...»

«... si crede che, se me lo scopo, allora...»

Ding rischiò di perdere la mano di Missa nella folla, ma riuscì a stringerla


finché vide uno dei suoi due coinquilini maschi seduto a un tavolo sotto una

sfilza di vecchie foto di Ludlow ai tempi che furono. Era Bruce Castle, suo

assiduo compagno di letto, soprannominato ironicamente Brutus per la sua

bassa statura. Beveva sidro e Ding, vedendo che aveva davanti due bicchieri

vuoti, capì qual era il suo obiettivo: essere abbastanza ubriaco da avere una

giustificazione nel caso una ragazza lo prendesse a schiaffi per averle infilato

una mano sotto la gonna.

Brutus era elegantissimo come al solito e, quando Ding e Missa lo

raggiunsero, la prima cosa che disse fu: «Wow, che sventola!» Lo disse a

Missa, alludendo ovviamente ai vestiti superaderenti. «Vieni qui e fatti

palpare.»

Ding gli si mise accanto e indicò a Missa una delle sedie, poi disse a

Brutus: «Smettila. Pensi che a una donna faccia piacere sentirsi dire queste

cose?»

Brutus non era per nulla imbarazzato. «Non so cosa toccare prima, se il

culo o le tette.» Ciò gli valse un pugno sul braccio, assestato in modo da

fargli il più male possibile. «Cristo, Ding! Cos’è che ti brucia?» reagì.

«Vai a prenderci da bere» ribatté Ding.

«Oh, io non...» provò a obiettare Missa.

Ding la mise a tacere con un gesto. «Non necessariamente qualcosa di

alcolico. Un sidro. Vedrai che ti piace.» Lanciò un’occhiata a Brutus, che si

alzò pesantemente e si avviò barcollando verso il banco. Ding lo guardò

impensierita. Non le piaceva, quando era sbronzo. Alticcio, d’accordo;

fumato, okay; ma quando si sbronzava non era più lui, e Ding non capiva

come mai avesse cominciato a darci dentro già a inizio serata. Non era nei

piani.

Vide che Missa si guardava intorno osservando le ragazze in abiti succinti

che sghignazzavano e sgomitavano e i maschi che stavano loro addosso e

cercavano di attaccar discorso. Si chiese se la sua amica si fosse accorta della

manovra in corso vicino al bar, dove il titolare, Jack Korhonen, lanciava la

chiave di una delle due camere a un ragazzo che teneva un braccio intorno

alla vita di una tipa con un tubino di paillettes, un po’ malferma sulle gambe.

Il ragazzo afferrò al volo la chiave e fece voltare la ragazza verso le scale.

Brutus tornò con tre pinte e ne posò una davanti a Missa. Ding osservò

attentamente la sua amica mentre beveva il primo sorso e capì che non si era

accorta che la bevanda era alcolica. Il sidro era dolce e frizzante, un modo


gradevole per raggiungere la felicità in breve tempo.

Brutus avvicinò la sedia a quella di Ding e le disse all’orecchio: «Hai un

profumo divino, stasera», poi le posò una mano sulla coscia e cominciò a

salire. Lei lo bloccò e gli piegò le dita all’indietro. «Ehi! Cosa cazzo hai,

stasera?» gridò Brutus.

Non ci fu bisogno di rispondere, perché in quel momento li raggiunse il

terzo coinquilino. «Cerca di essere un po’ più romantico, Brutus. Così ti fotti

da solo» disse.

«Vorrei che mi fottesse lei, invece» ribatté Brutus.

«Mi fai morire!» Finn Freeman rise e prese una sedia da un tavolo vicino,

ignorando una ragazza che protestò: «Ehi! È nostra, quella!»

Si sedette, prese il sidro di Brutus e ne bevve un gran sorso. Poi fece una

smorfia. «Cazzo, come fai a bere ’sta merda?»

Ding vide che Missa aveva abbassato lo sguardo, scandalizzata dal

turpiloquio di Finn. Era un’altra delle caratteristiche di Missa che le

ispiravano tenerezza: non diceva mai parolacce e non cercava di nascondere

il proprio imbarazzo davanti a chi imprecava in sua presenza.

Ding sapeva che Finn non lo faceva apposta. Era un bravo ragazzo, in

fondo, nonostante si fosse rasato mezza testa per farsela tatuare. Non era un

look particolarmente attraente ma, contento lui...

«Chi mi offre una Guinness?» chiese Finn senza rivolgersi a nessuno in

particolare.

«A proposito di merda» commentò in tono disinvolto Ding.

Brutus invece lo prese sul serio. Sapeva che altrimenti, nonostante quello

che aveva appena detto sul sidro, prima avrebbe svuotato il suo bicchiere, poi

sarebbe passato a quelli di Ding e Missa. Finn aveva qualche problemino con

l’alcol ma, come Ding aveva appreso in quei mesi, non era l’unico dei suoi

guai.

Il più grosso era la madre. Finn la chiamava Hovercraft perché tendeva a

controllargli la vita come se lavorasse per i servizi segreti. Era per colpa della

madre che Finn aveva ideato un piano per andare in Spagna dai nonni anziché

passare le vacanze di Natale con i suoi. Purtroppo non aveva i soldi per

arrivarci e quando aveva telefonato a sua nonna per chiederle di finanziarlo,

si era sentito rispondere dal nonno che, dopo aver accolto la duplice richiesta

di un invito a passare il Natale in Spagna e di un biglietto aereo, aveva

chiamato a sua insaputa la madre per assicurarsi che fosse d’accordo a


trascorrere le festività senza il suo unico figlio.

E così era saltato tutto. Finn era riuscito a farsi dare il permesso di

rimanere a Ludlow due giorni in più inventandosi di dover assistere alla recita

natalizia dei bambini organizzata dalla chiesa. Fortunatamente sua madre se

l’era bevuta. Il massimo che era riuscito a ottenere, però, erano stati due

giorni di libertà dopo gli esami, e non era per niente contento.

«Allora, come ha fatto Ding a convincerti a uscire?» chiese a Missa. «Ti ho

sempre visto con la testa sui libri.»

«Lei è una che si impegna sul serio» lo informò Ding.

«Contrariamente a te» ribatté Finn. «Non ti ho mai visto studiare niente.»

Brutus tornò con la Guinness. «Sei in debito» gli disse.

«Come al solito» replicò Finn e brindò alla loro salute. «Buon Natale e

balle varie.» Ingollò un quarto del boccale in un sorso solo. «Siamo seri»

aggiunse poi. «Abbiamo una missione: bere fino alla devastazione.»

Ding non poté fare a meno di sorridere. Finn non lo sapeva, ma anche lei

aveva la stessa intenzione.

Quality Square

Ludlow

Shropshire

I problemi legati all’abuso di alcol erano molteplici: ragazze che vomitavano

per strada, ragazzi che orinavano dove gli pareva, marciapiedi pieni di

sporcizia, bottiglie rotte, aiuole calpestate e bidoni della spazzatura rovesciati,

liti furibonde, alterchi con tanto di capelli strappati e ditate negli occhi, risse,

furti di borse, portafogli e cellulari... L’elenco dei guai era lungo, benché la

situazione fosse meno grave rispetto alle grandi città dove, quando i pub

chiudevano, c’erano altri locali che restavano aperti fino a tardi e

permettevano ai giovani di tracannare alcolici tutta la notte.

A Ludlow no, ma Gaz Ruddock aveva scoperto che non faceva una grande

differenza. Nella prima settimana di servizio come agente ausiliario si era

reso conto che, a fronte di una popolazione in cui la percentuale di pensionati

aumentava di anno in anno, i proprietari dei pub avevano imparato a coltivare

fasce di clienti abituati a fare le ore piccole.

Gaz arrivò a Castle Square a mezzanotte passata. Aveva iniziato il suo giro


dai pub di periferia pensando che, se Finnegan Freeman era intenzionato a

sbronzarsi sul serio, non sarebbe stato così stupido da farlo nel pub più vicino

al West Mercia College, di cui era studente. Ma la sua ipotesi si rivelò errata.

Parcheggiò la Panda davanti alla rosticceria Harp Lane Deli, che come al

solito partecipava al concorso per la miglior vetrina natalizia. A Halloween

aveva vinto il primo premio e con ogni probabilità l’avrebbe vinto di nuovo,

a giudicare dall’enorme Babbo Natale con una fila di finti bambini che

aspettavano di salirgli sulle ginocchia e a fianco un elfo dall’aria vispa con

una catasta di doni fra le braccia.

Gaz aprì la portiera e scese. La neve cominciava ad accumularsi sui

davanzali e la piazza del mercato era già coperta da una coltre candida. Con

le mura illuminate del castello sullo sfondo pareva di essere dentro

un’enorme boccia in un turbinio di fiocchi. Era bellissimo e Gaz si sarebbe

fermato volentieri ad ammirare la scena, se non avesse avuto un freddo cane e

una gran voglia di concludere al più presto la ricerca di Finnegan Freeman.

Prese il vicoletto che dalla piazza del mercato portava a Quality Square.

Quando vi sbucò, sentì subito il chiasso: musica, voci e risate rimbombavano

nella piazza come se il pub fosse dentro una cassa di risonanza. Non fu

sorpreso di trovare cinque residenti usciti di casa con giacca a vento, sciarpa,

berretto e stivali, comprensibilmente furibondi. Due di loro gli andarono

incontro appena lo videro comparire alla luce di uno dei lampioni e lo

informarono che «era ora che venisse qualcuno a fare qualcosa per questo

casino». Su quale fosse il casino cui si riferivano non occorrevano ulteriori

spiegazioni.

Gaz consigliò loro di tornare a casa e lasciare che ci pensasse lui. A

giudicare dal fracasso, doveva esserci un bel numero di ragazzi sia dentro il

pub sia fuori e per farli andare via ci sarebbe voluto un po’ di tempo.

Girò l’angolo e mentre andava verso lo spiazzo notò una ventina di ragazzi

ubriachi radunati intorno alle stufe. Alcuni bevevano e fumavano appoggiati

al muro del pub, altri pomiciavano nell’ombra. L’odore dolciastro della

marijuana era sempre più forte a mano a mano che si avvicinava all’ingresso

del locale.

Soffiò nel fischietto, ma il suono fu sovrastato dalle note di Waterloo che

provenivano dall’interno del pub. La prima cosa da fare era fermare la

musica. Nel corridoio vide due ragazze ubriache fradice, palpeggiate da

cinque ragazzi ben vestiti che scommettevano fra loro – in termini che Gaz


non avrebbe osato ripetere nemmeno al vecchio Rob – su quanto in là

sarebbero riusciti ad arrivare prima che le loro vittime si rendessero conto di

quel che stava succedendo.

Si rabbuiò. Era schifato. Si fece largo in mezzo al gruppetto mettendo fine

a quell’assalto. Uno dei ragazzi gli si rivoltò contro, pronto a fargli assaggiare

qualcosa di cui Gaz non aveva nessuna voglia, ma nel vedere la divisa

abbassò il pugno.

«Bravo» disse Gaz. «Ora vattene e porta via anche i tuoi amici.»

Prese per mano le due ragazze e proseguì fino al bar. Sentì puzza di vomito

e fece sedere lì le due malcapitate nella speranza che il tanfo le inducesse a

rimettere o facesse passare loro la sbornia. Quale delle due, per lui era

indifferente.

Il proprietario, Jack Korhonen, era dietro il banco e chiacchierava con una

ragazzina che poteva avere al massimo quindici anni. Non si accorse di nulla

finché Gaz non prese per il colletto la ragazzina urlandole in faccia:

«Minorenne».

«Ho diciotto anni» farfugliò lei.

«Se tu hai diciotto anni, io ne ho settantadue. Sparisci prima che ti riporti a

casa io a forza.»

«Non può...»

«Posso, l’ho già fatto e lo farò ancora. Puoi tornare a casa in punta di piedi

sperando che nessuno si accorga di niente, oppure ti accompagno io, busso

alla porta e ti affido personalmente a mamma e papà. Scegli tu. Cosa

preferisci?»

La ragazzina lo guardò male, ma se ne andò. Gaz la vide sparire nel

corridoio diretta all’uscita e con una certa soddisfazione vide altre tre ragazze

più o meno della stessa età che la seguivano a ruota. Si voltò verso Korhonen,

che alzò le mani come a dire Io non c’entro niente e gli ordinò: «Spegni la

musica. È ora di darci un taglio».

«Non è ancora l’orario di chiusura» protestò lui.

«Annuncia che stai per prendere le ultime ordinazioni, Jack. C’è qualcuno

nelle stanze di sopra?»

«Quali stanze?»

«Già, quali stanze? Di’ a come-si-chiama» ribatté Gaz indicando con un

gesto il nipote di Jack, «di andare ad avvisarli che la festa è finita. Altrimenti

entro io a interromperli sul più bello. Allora, la spegni questa musica, sì o


no?»

Jack Korhonen sbuffò, ma Gaz sapeva che era tutta scena, infatti gli Abba

vennero zittiti. Si alzò qualche grido di protesta. «Ultimo giro, signori. Mi

dispiace» annunciò Jack nel silenzio che seguì.

Ci furono altre proteste, che Gaz ignorò avviandosi verso i tavoli. Non

aveva ancora visto Finnegan Freeman. Lo trovò seduto a un tavolo in fondo,

con la testa appoggiata sulle braccia, intrecciate sul ripiano. Vicino a lui c’era

un ragazzo azzimato con uno smartphone in mano e il braccio teso; una

ragazza indiana gli stava appiccicata e insieme guardavano ridendo un video

sul cellulare.

Gaz si incamminò verso il gruppetto e inciampò in qualcosa. Guardò per

terra e vide una ragazza stesa a sonnecchiare contro il muro. La riconobbe:

Dena Donaldson, Ding per gli amici e, per Gaz, una che rischiava di

diventare alcolista.

Si chinò, la prese per le ascelle e la mise in piedi. Quando Dena lo

riconobbe, si svegliò come se le fosse passata di colpo la sbornia. «Sto bene,

sto bene. Tutto a posto» disse.

«Sicura?» le domandò Gaz. «Io non direi. A me sembra che questa

potrebbe essere la volta che ti porto a casa da tua madre e tuo padre, così

vedono come...»

«No.» L’espressione di Dena si irrigidì.

«Ah, no? Quindi pensi che tua madre e tuo padre...»

«Non è mio padre.»

«Be’, mia cara, anche se non lo è, probabilmente gli interessa sapere come

passi le serate. Non trovi? Se non sei d’accordo dimmelo, perché...»

«Non posso lasciare qui Missa. Ho promesso a sua nonna che sarei stata

con lei. E non mi tocchi!» Cercò di liberarsi dalla stretta di Gaz. «Missa,

andiamo. Cerca il numero di telefono del taxi» gridò.

Missa distolse gli occhi da quello che stava guardando, e il ragazzo anche.

Entrambi videro l’agente ausiliario. «Ehi, non è pericolosa. La lasci andare.

Se la prenda con qualcun...» disse il ragazzo a Gaz.

«Vaffanculo, Gaz.» Era la voce di Finnegan, che aveva alzato la testa e

naturalmente aveva subito capito come mai Gaz fosse lì.

«Alzati, Finn» gli disse Gaz. «Devo portarti a casa e metterti a letto.»

Finnegan reagì indietreggiando verso il muro. «No, cazzo!»

Gli altri assistettero perplessi a quello scambio, stupiti che Finn desse del


tu all’agente ausiliario di Ludlow. «Non a Worcester. Intendo qui a Ludlow,

nel tuo letto, con quello che preferisci: cioccolata calda, Ovomaltina, quello

che vuoi» disse Gaz.

«Com’è che conosci così bene ’sto pezzente, Finn?»

Gaz sentì ribollire il sangue. Detestava l’arroganza dei ragazzini

privilegiati. Si voltò di scatto.

«Brutus!» disse Dena, e dal tono evidentemente il ragazzo capì che gli

conveniva lasciar perdere. Con un’alzata di spalle riabbassò gli occhi sullo

smartphone e riportò l’attenzione su quello che stava guardando.

Gaz glielo strappò di mano e se lo infilò in tasca prima ancora che Brutus –

che razza di nome era per uno che a rugby poteva essere più un mediano di

mischia che una seconda linea? – si accorgesse di non averlo più. «Adesso ve

ne tornate tutti a casa. Ultimo giro, come avete già sentito. Avete cinque

minuti al massimo per bere quello che ordinate» disse poi a lui e agli altri.

Vide con soddisfazione che alcuni ragazzi se ne stavano andando e che dalla

scala in fondo al locale scendeva il più giovane dei due baristi seguito da due

coppie di ragazzi. Erano scarmigliati e si sarebbero meritati un predicozzo,

ma Gaz aveva già abbastanza da fare con i quattro che aveva davanti.

«Deciditi, signorina» disse a Dena.

«Ti porto a casa» fece poi, rivolto a Finn.

«E voi due filate prima che mi venga in mente cosa fare di voi» aggiunse,

rivolto agli altri.

«Va bene, ho deciso. Può portarci tutti» rispose Dena. E prima che Gaz

avesse il tempo di spiegarle che non svolgeva servizio taxi, aggiunse:

«Abitiamo insieme, come ben sa. Accetto volentieri il passaggio e penso che

anche gli altri siano d’accordo. Venite?» chiese sfacciatamente agli amici,

prendendo il cappotto e cercando la borsetta da sera vintage che aveva

mollato per terra. «Possiamo continuare a festeggiare a casa, come mi sembra

di capire che ci stia suggerendo il poliziotto. Giusto, agente ausiliario?»

A Gaz non sfuggì il tono sarcastico di quell’ultima domanda da cui

traspariva la soddisfazione di aver avuto la meglio su di lui. Sì. Certo.

Vedremo.


4 MAGGIO

Soho

Londra

Prima di tutto si era dovuta procurare l’abbigliamento adatto e aveva optato

per la massima semplicità. Aveva già decine di T-shirt con scritte che

potevano andare bene – solo alcune erano veramente inaccettabili –, quindi

l’unica cosa che aveva dovuto comprare erano due paia di leggings, neri

perché il nero snellisce e se c’era una cosa che voleva era sembrare più

snella. Poi naturalmente occorrevano le scarpe, e lì c’era una scelta

straordinariamente vasta di cui mai avrebbe immaginato l’esistenza su

Internet o da qualsiasi altra parte. Nere, certo, la maggior parte erano nere,

ma ce n’erano anche beige, rosa, rosse, bianche e argentate. Oppure glitterate.

Con la suola in cuoio, resina, gomma e di un materiale sintetico di origine

non meglio precisata ma auspicabilmente ecocompatibile. Poi bisognava

scegliere tra lacci e fiocchi. Oppure cinghino con fibbia alla caviglia. E infine

c’erano i ferri. Punta, punta e tacco, né punta né tacco... Ma per quale motivo

qualcuno avrebbe dovuto comprarsi un paio di scarpe da tip tap senza

claquette? Alla fine optò per il rosso – il suo colore standard in fatto di

calzature – e per il cinghino con fibbia, perché non pensava di riuscire a

tenere sotto controllo lacci o fiocchi per tutto il tempo necessario, ovvero i

novanta minuti di ciascuna lezione.

L’ultima cosa che Barbara Havers avrebbe mai immaginato, quando aveva

accettato di iscriversi a un corso di tip tap con Dorothea Harriman, la

segretaria del dipartimento della Metropolitan Police in cui lavorava, era che

la danza potesse piacerle. Aveva detto di sì soltanto perché non ne poteva più

di ascoltare le infinite argomentazioni di Dorothea sui benefici del tip tap.

Barbara aborriva qualsiasi forma di esercizio fisico, fatta eccezione per la

corsa con il carrello su e giù per i corridoi del supermercato, ma aveva

esaurito le scuse dietro cui nascondersi.


Se non altro era riuscita a far sì che Dorothea la smettesse di impicciarsi

della sua vita sentimentale o, più precisamente, della sua mancanza di una

vita sentimentale. Era bastato invocare il nome di un poliziotto italiano –

Salvatore Lo Bianco – conosciuto l’anno precedente. La notizia aveva

suscitato l’interesse di Dorothea, ulteriormente stuzzicato quando Barbara le

aveva comunicato che aspettava una visita dell’ispettore Lo Bianco e dei suoi

due figli durante le vacanze di Natale. Il viaggio, purtroppo, era stato

annullato perché Marco, il figlio dodicenne di Lo Bianco, era stato ricoverato

per un’appendicectomia d’urgenza. Ma Barbara aveva saggiamente evitato di

confidare la propria delusione a Dorothea. Per quanto ne sapesse la segretaria

del dipartimento, la visita era avvenuta e presto sarebbe sfociata in un più o

meno plausibile lieto fine.

Sul corso di tip tap, tuttavia, Dorothea era stata assai meno malleabile e

così, da ormai sette mesi, Barbara si era ritrovata una volta alla settimana in

una scuola di danza di Southall dove aveva appreso che uno shuffle era

composto da un brush avanti e indietro, uno slap era un brush tap senza

trasferire il peso, e un Maxie Ford era composto da quattro passi base diversi

che i deboli di cuore e lenti di gamba non sarebbero mai riusciti a

padroneggiare. Lo stesso si poteva dire per quegli allievi che non si

allenavano tutti i giorni.

Nei primi tempi Barbara si era semplicemente rifiutata di allenarsi a casa.

Le sue mansioni di sergente investigativo a New Scotland Yard non le

lasciavano molte ore libere in cui esercitarsi nello shuffle, nel Buffalo o in

chissà che altro. E l’istruttore, pur avendo avuto la bontà di iniziare i neofiti

per gradi e con molti incoraggiamenti, non era rimasto del tutto soddisfatto

dei suoi progressi e alla decima lezione glielo aveva detto chiaro e tondo.

«Bisogna impegnarsi» le aveva detto mentre lei e Dorothea riponevano le

scarpe da ballo negli appositi sacchetti di tela in cui le portavano

religiosamente a Southall una volta alla settimana. «Se pensa ai progressi che

hanno fatto le altre signore, che pure hanno impedimenti maggiori...»

Sì, certo. Era la sacrosanta verità. Barbara sapeva che l’istruttore si riferiva

al gruppo di giovani donne musulmane che frequentavano lo stesso corso cui

si erano iscritte lei e Dorothea e che, nonostante l’abbigliamento pudico,

erano quasi tutte già in grado di eseguire un Cincinnati mentre Barbara era

ancora al semplice flap. Era il risultato della disciplina con cui facevano ciò

che veniva loro raccomandato, ovvero allenarsi, allenarsi, allenarsi.


«La aiuterò a mettersi in pari» aveva promesso Dorothea all’istruttore, che

si chiamava Kazatimiru – «Ma potete chiamarmi Kaz, naturalmente» – e che

per essere immigrato di recente dalla Bielorussia parlava un inglese

straordinariamente corretto, con una lieve traccia di accento slavo. «Abbia

fiducia in lei» gli aveva detto Dorothea.

Barbara sapeva che Kaz si era invaghito di Dorothea. Pochi uomini

resistevano al suo fascino. Perciò, quando Dorothea l’aveva pregato in tono

fascinoso di avere pazienza, Kaz si era lasciato lavorare come cera calda fra

le sue mani curatissime. A quel punto Barbara aveva pensato di essere a

posto. Si era illusa di potersi presentare a lezione e fingere di sapere quello

che faceva: purché producesse i rumori giusti con le sue scarpette rosse, tutto

le sarebbe stato perdonato. Ma aveva fatto i conti senza Dorothea.

Avrebbero fatto allenamenti supplementari dopo il lavoro, le aveva

annunciato la segretaria del dipartimento. Non voglio sentire scuse, sergente

Havers. C’era una lista d’attesa di donne che non vedevano l’ora di iscriversi

al corso di Kaz e, se Barbara non si fosse dimostrata all’altezza con le

claquette, sarebbe stata prontamente sostituita.

Solo giurando sulla testa di sua madre Barbara era riuscita a convincere

Dorothea a desistere. L’idea della segretaria era allenarsi al dipartimento, in

fondo alle scale, vicino ai distributori automatici, dove c’era abbastanza

spazio per provare shim sham, shuffle e scuffle, riffle e riff. Ci mancava solo

quello, aveva pensato Barbara, per dare il colpo di grazia alla sua reputazione

agli occhi dei colleghi. Aveva giurato che si sarebbe esercitata a casa tutte le

sere, e l’aveva fatto. Per almeno un mese.

Era migliorata quanto bastava per ottenere un cenno di approvazione da

parte di Kaz e un sorriso da Dorothea. Ma aveva tenuto nascosta a tutti la sua

passione per la danza.

Dopo un po’ si era accorta di aver perso quasi sette chili praticamente

senza sforzo. Si era dovuta comprare una gonna di una taglia in meno e

quando annodava la coulisse dei pantaloni la parte di cordone che avanzava

era ogni settimana un po’ più lunga. Presto avrebbe dovuto scendere di una

taglia anche per quelli. Forse un giorno sarebbe diventata il ritratto della

bellezza filiforme, aveva pensato. A questo mondo erano successe cose anche

più strane.

D’altro canto, i chili persi aprivano la strada alla possibilità di rimpinzarsi

di curry due sere alla settimana. E di mangiare quantità enormi di naan. Non


scondito, si badi bene, ma con burro all’aglio, oppure burro e spezie e miele e

mandorle. Tutte le varianti di naan che riusciva a trovare, insomma.

Stava per recuperare tutto il peso perduto quando Kaz aveva cominciato a

parlare della Tap Jam Session. Barbara era al settimo mese di lezioni e stava

pensando a un buon dahl di lenticchie servito con naan e tagliatelle al

salmone (non era contraria alle mescolanze etniche in fatto di cibo) quando

Dorothea le aveva detto: «Dobbiamo assolutamente andarci, sergente

investigativo Havers. È libera giovedì sera, vero?»

Barbara si era riscossa dalla sua visione di carboidrati senza limiti. Giovedì

sera? Libera? Esisteva forse un altro aggettivo che si poteva applicare a una

qualsiasi delle sere della sua vita? Stupidamente, aveva annuito. «Ottimo!»

aveva esclamato Dorothea, poi, rivolta a Kaz, aveva gridato: «Conti su di

noi!» Barbara avrebbe dovuto intuire che c’era sotto qualcosa. Ma fu solo

dopo la lezione, mentre andavano verso la stazione della metropolitana, che

scoprì in cosa si era lasciata coinvolgere.

«Ci divertiremo da matti!» disse Dorothea. «E ci sarà anche Kaz. Sarà sul

palco con noi per la Renegade.»

Fu dalla parola palco che Barbara capì che per il giovedì successivo si

sarebbe dovuta inventare un’improvvisa malattia invalidante. A quanto

pareva, infatti, si era appena impegnata a partecipare a una jam session di tip

tap, che decisamente non rientrava fra le dieci cose che desiderava fare prima

di morire.

Tentò di farsi esonerare adducendo piedi piatti e alluci valghi. «Non provi

nemmeno a tirarsi indietro, sergente investigativo Havers» fu la serafica

reazione di Dorothea. E, come se non bastasse, informò Barbara che doveva

portare le claquette al lavoro il giorno prestabilito e che, in caso contrario, il

sergente investigativo Winston Nkata sarebbe stato lieto di accompagnarla a

casa a prenderle. Oppure l’ispettore Lynley. Gli piaceva usare la sua bella

macchina, no? Sicuramente avrebbe fatto volentieri un giro fino a Chalk

Farm e ritorno.

«Va bene, va bene.» Barbara si arrese. «Ma se pensa che io abbia

intenzione di esibirmi, si sbaglia di grosso.»

E così il giovedì sera si ritrovò a Soho.

Le strade erano affollate, non solo perché era ufficialmente cominciata la

stagione turistica, ma anche perché era bel tempo e perché Soho attirava

frequentatori di locali notturni, cinema, teatri e ristoranti nonché gente cui


piaceva guardarsi intorno, ballare e bere. Fu necessario sgomitare parecchio,

quindi, per arrivare in Old Compton Street dove si trovava il nightclub Ella

D’s.

Al piano superiore, due volte al mese, si teneva una Tap Jam Session che,

come Barbara apprese ben presto, consisteva in Jam Mash, Renegade Jam e

Solo Tap. Tre eventi che Barbara si ripromise di evitare come la peste non

appena scoprì in cosa consistevano.

La Jam Mash era in pieno svolgimento, quando arrivarono. Rimasero per

un quarto d’ora fuori ad aspettare che Kaz si palesasse e illustrasse loro le

tanto decantate delizie dell’Ella D’s. Poi Dorothea annunciò spazientita che

«gli abbiamo dato una chance e l’ha sprecata» ed entrò nel club, da dove

provenivano musica e qualcosa di molto simile allo scalpitare di un branco di

pony appena ferrati.

Il volume aumentò a mano a mano che salivano le scale e, oltre alle voci

dei Big Bad Voodoo Daddy, sentirono una donna che urlava al microfono:

«Scuffle, scuffle! E ora un flap! Bene. Adesso guardate».

In realtà Kaz non le aveva affatto abbandonate. Lo scoprirono entrando in

una grande sala con una pedana rialzata da una parte, una ventina di sedie

accostate al muro e un gruppo di persone meno numeroso di quanto Barbara

sperasse. Era chiaro che non sarebbe passata inosservata, se si fosse unita alle

danze.

Kaz era sulla pedana assieme a una donna robusta con un look anni

Cinquanta. Niente tacchi alti, naturalmente, ma claquette lucidissime di cui

faceva uso con straordinaria perizia. Annunciava i passi e li eseguiva con

Kaz. Davanti alla pedana, tre file di ballerini tentavano di imitarli.

«Oh, che bellezza!» esclamò Dorothea.

Per motivi imperscrutabili, aveva scelto per l’occasione una mise vintage.

A lezione andava sempre in body e calzamaglia, nascosti sotto i pantaloni

fino al momento di entrare in pista, ma quella sera aveva optato per gonna a

ruota, camicetta annodata sotto il seno e, in testa, fascia con fiocco alla Betty

Boop. Barbara stabilì che doveva essere un modo per rimanere in incognito e

si rammaricò di non aver pensato anche lei a una soluzione del genere.

Dorothea non era però in incognito per Kaz, che individuò lei e Barbara in

meno di trenta secondi, saltò giù dal palco e andò loro incontro al ritmo di

Cincinnati. Con il sesto senso di un provetto ballerino, appena prima di finire

loro addosso mandandole entrambe a gambe all’aria si produsse in una


giravolta impeccabile.

«Che spettacolo!» esclamò, alludendo ovviamente a Dorothea. Barbara

aveva optato come sempre per la semplicità: scarpe da ginnastica, leggings e

una T-shirt con la scritta: NON STO RIDENDO DI TE. HO SOLO

DIMENTICATO DI PRENDERE LE PASTIGLIE.

Dorothea sorrise e fece una piccola riverenza. «Complimenti!» disse

riferendosi all’esibizione di poco prima. «Chi è lei?» chiese poi.

«È KJ Fowler» rispose Kaz fiero, «la ballerina di tip tap numero uno nel

Regno Unito.»

KJ Fowler intanto continuava ad annunciare passi e combinazioni. La

musica finì e subito partì un altro brano, Johnny Got a Boom Boom.

«Mettetevi le scarpe, signore. È ora di darsi una mossa» disse Kaz.

E lo fece in direzione della pedana, dove KJ Fowler stava eseguendo una

serie di passi che misero a dura prova coloro che cercavano di seguirla, con il

risultato che sembrava di essere nella metropolitana all’ora di punta anziché

in una sala da ballo. Con gli occhi accesi, Dorothea disse a Barbara:

«Claquette».

In disparte, si infilarono le scarpe da tip tap. Mentre Barbara cercava

disperatamente un motivo credibile per una improvvisa paralisi, Dorothea la

trascinò in pista. Sul palco KJ Fowler stava eseguendo un cramp roll cui Kaz,

dietro sue istruzioni, fece seguire una combinazione vertiginosa di passi che

solo un pazzo avrebbe tentato di emulare. Alcuni tuttavia ci provarono e, fra

questi, anche Dorothea. Barbara si fece da parte e rimase a guardare.

Bisognava ammetterlo: Dorothea era brava. Era quasi al livello di potersi

esibire in un assolo. E avendo come rivali Barbara e le giovani musulmane, ci

sarebbe arrivata in un batter d’occhio.

Sopravvissero a quasi venti minuti di Jam Mash. Barbara grondava sudore

e cercava di escogitare un modo per tagliare la corda senza che Dorothea se

ne accorgesse, quando la musica si interruppe – grazie a Dio – e JK Fowler

informò i presenti che il tempo era scaduto. Sulle prime Barbara pensò a una

beneaugurata liberazione, ma un attimo dopo KJ annunciò un evento molto

speciale: i Tap Jazz Fury, ospiti d’onore all’Ella D’s.

La notizia fu accolta con applausi e acclamazioni e come dal nulla si

materializzò sul palco un complesso di musicisti jazz. Appena cominciarono

a suonare, i presenti si scatenarono. Alcuni dei ballerini erano così lesti di

gambe che a Barbara venne una mezza idea di continuare solo per il gusto di


vedere se riusciva a raggiungere un decimo della loro bravura.

Ma era solo una mezza idea e fu stroncata sul nascere da una vibrazione

proveniente dall’altezza della cintura, dove aveva il cellulare. Anche se, in

via del tutto eccezionale, aveva dedicato quel giovedì sera al tip tap, era pur

sempre reperibile. E il cellulare che vibrava poteva voler dire una cosa sola: il

dovere la chiamava.

Estrasse il telefono dai recessi del girovita e lo guardò. Era il

sovrintendente Isabelle Ardery. Generalmente la chiamava solo per

rinfacciarle qualche malefatta, perciò prima di rispondere Barbara procedette

a un rapido esame di coscienza, senza riscontrare anomalie di sorta.

Considerato il baccano nella sala, ritenne opportuno andare a rispondere

altrove. Toccò una spalla a Dorothea, le mostrò il telefono e senza emettere

suono sillabò Ardery. Dorothea gemette «Oh no!» ma naturalmente sapeva

che non c’era niente da fare: Barbara doveva rispondere.

Non fece però in tempo a prendere la chiamata prima che scattasse la

segreteria. Uscì dalla sala facendosi largo a spallate e si diresse nel bagno

delle donne, in fondo al corridoio. Entrò e ascoltò il breve messaggio. «Non

la chiamo perché è reperibile, sergente, ma le ricordo che è tenuta a

rispondere al telefono. Perché non lo fa?»

Barbara richiamò. «Mi scusi, capo. Sono in un posto rumoroso. Non ho

fatto in tempo a rispondere. Che succede?» disse prima che Isabelle Ardery si

lanciasse in un’invettiva.

«Domani lei va alla sede della West Mercia Police» disse il sovrintendente

Ardery senza preamboli.

«Ma... Ma cosa ho fatto? Non ho sgarrato nemmeno una volta da

quando...»

«Non sia paranoica» la interruppe Isabelle. «Ho detto ’lei va’, non ’lei è

stata trasferita’. Domattina si porti la valigia in ufficio e cerchi di arrivare

presto.»

Wandsworth

Londra

Isabelle Ardery aveva capito subito che le era stato affidato un compito molto

delicato. Un’indagine su un altro corpo di polizia era sempre e comunque


imbarazzante, ma se di mezzo c’era la morte di una persona in custodia

cautelare era ancora peggio. La cosa peggiore in assoluto, poi, era quando in

quel genere di indagine si intrometteva la politica. Pochi istanti dopo essere

entrata nell’ufficio del vicecommissario Sir David Hillier, Isabelle capì che

gli ingredienti c’erano tutti.

Da dietro la sua scrivania di segretaria, Judi MacIntosh – Judi con la i, mi

raccomando – le diede una discreta indicazione di quello che l’aspettava

specificando che Sir David era a colloquio con un membro del Parlamento.

«Uno che non ho mai sentito nominare» ammise, dal che Isabelle dedusse che

il parlamentare in questione era uno sconosciuto senza incarichi ufficiali.

«Come si chiama?» chiese a Judi prima di girare la maniglia ed entrare

nella stanza.

«Quentin Walker» rispose la segretaria. E aggiunse: «Non ho la minima

idea del motivo per cui è qui, ma sono sessantacinque minuti che parlano».

Quentin Walker era stato eletto nel collegio di Birmingham. Quando

Isabelle aprì la porta, lui e Hillier si alzarono dalle sedie intorno a un piccolo

tavolo da riunioni su cui si trovavano un bricco di caffè e due tazze già usate,

più una terza pulita. Dopo le presentazioni, Hillier la invitò con un cenno a

servirsi e Isabelle lo fece.

Il vicecommissario le raccontò senza tanti giri di parole che il 25 marzo,

sotto la giurisdizione della West Mercia Police, un uomo era morto in stato di

fermo. Come di consueto, sull’episodio era stata aperta un’inchiesta della

commissione indipendente per i reclami contro la polizia, secondo la quale,

nonostante alcune irregolarità, non vi erano gli estremi per coinvolgere il

Crown Prosecution Service. Non era stato commesso alcun reato: si trattava

di suicidio.

Isabelle guardò Quentin Walker. Non sembrava esserci alcuna

giustificazione per la sua presenza, a meno che l’individuo in questione non

fosse morto a Birmingham, ovvero nel suo collegio elettorale. Ma il fatto che

il defunto fosse sotto la custodia della West Mercia Police sembrava

escludere questa ipotesi.

«Chi era il morto?» chiese Isabelle.

«Un certo Ian Druitt.»

«Ed era sotto custodia dove?»

«Ludlow.»

Strano. Ludlow non era affatto vicino a Birmingham. Isabelle guardò di


nuovo Quentin Walker.

Era impassibile. Isabelle notò che era un bell’uomo, capelli castani curati e

mani che non dovevano mai aver fatto un lavoro pesante. Aveva anche una

pelle splendida. Isabelle si chiese se nel suo ufficio al Parlamento si

presentasse tutte le mattine un barbiere che dopo la rasatura gli applicava

panni caldi sul viso.

«Perché Druitt era in custodia cautelare? Lo sappiamo?» domandò.

Di nuovo fu Hillier a rispondere. «Molestie sessuali su minorenni.» Il tono

era asciutto.

«Ah.» Isabelle posò la tazza sul piattino. «Come si sono svolti esattamente

i fatti?» Stava ancora aspettando di sentire la voce di Quentin Walker. Non

era certo andato alla Metropolitan Police per una visita di cortesia. E aveva

almeno dieci anni meno di Hillier, quindi non potevano essere ex compagni

di studi.

«Si è impiccato mentre aspettava che lo trasferissero da Ludlow alla

camera di sicurezza di Shrewsbury» le disse Hillier. «Era stato portato alla

stazione di polizia di Ludlow in attesa dell’arrivo dei colleghi di

Shrewsbury.» Alzò le spalle, ma sembrava sinceramente dispiaciuto. «Un

gran pasticcio.»

«Ma perché l’avevano portato a Ludlow? Perché non direttamente a

Shrewsbury?»

«Magari qualcuno ha pensato che le accuse imponessero di intervenire

subito e, dal momento che a Ludlow c’è una stazione di polizia...»

«Non c’era nessuno a sorvegliarlo?»

«La stazione non è presidiata.»

Isabelle guardò prima Hillier, poi il parlamentare, poi di nuovo Hillier. Un

suicidio in una stazione di polizia non presidiata non era «un gran pasticcio»,

ma un disastro colossale che preannunciava un’azione legale.

Era molto strano, perciò, che la commissione IPCC avesse deciso di non

coinvolgere il Crown Prosecution Service. Nella vicenda c’erano parecchie

irregolarità e Isabelle aveva la sensazione che la risposta di Hillier alla sua

domanda successiva ne avrebbe rivelate altre.

«Chi ha eseguito il fermo?»

«L’agente ausiliario di Ludlow. Ha seguito alla lettera gli ordini ricevuti:

prelevare il soggetto, portarlo alla stazione di Ludlow e aspettare che una

pattuglia venisse a prenderlo da Shrewsbury.»


«Non occorre che io le faccia notare quanto sia anomalo, Sir David. Un

fermo eseguito da un agente ausiliario? I giornalisti ci si saranno buttati a

pesce, quando questo... come ha detto che si chiamava?... Druitt, giusto?

Quando questo Druitt si è ammazzato. Perché la commissione per i reclami

non ha sottoposto la cosa al Crown Prosecution Service?»

«Come le ho detto, la commissione ha svolto le sue indagini senza trovare

gli estremi di reato. Si tratta di una questione disciplinare, non di un illecito.

Tuttavia, il fatto che Druitt sia stato portato in una stazione non presidiata,

che il fermo sia stato effettuato da un agente ausiliario, che il suicida dovesse

rispondere di presunte molestie sessuali su minorenni... Lei capirà qual è il

problema.»

Isabelle capiva benissimo. I pedofili erano odiati e detestati. Un pedofilo

morto in stato di custodia non lasciava presagire nulla di buono. Ma il fatto

che si richiedesse un supplemento di inchiesta, dopo che la commissione

IPCC aveva concluso che non sussisteva alcun reato, voleva dire che c’era

sotto qualcos’altro.

«Non capisco come mai lei è qui, onorevole Walker. È in qualche modo

coinvolto nella vicenda?» disse Isabelle.

«Il decesso sembra sospetto.» Quentin Walker estrasse dal taschino un

fazzoletto bianco e se lo premette con delicatezza sulle labbra.

«Ma evidentemente la commissione IPCC non l’ha ritenuto tale, se ha

concluso che è stato un suicidio. È una disgrazia, ma pare si tratti solo di

abbandono del posto di servizio da parte dell’agente ausiliario. Perché il

decesso sarebbe sospetto?» replicò Isabelle.

Walker le spiegò che Ian Druitt aveva aperto un circolo per l’infanzia, un

doposcuola per maschi e femmine presso la chiesa parrocchiale di St.

Laurence a Ludlow. L’iniziativa aveva avuto successo ed era molto

ammirata. Non c’era mai stata la minima ombra di scandalo e nessuno dei

bambini che frequentavano quella sorta di oratorio aveva mai espresso la

minima lamentela sul conto di Druitt. Da ciò nascevano le perplessità, tanto

che qualcuno si era rivolto al proprio rappresentante in Parlamento per

ottenere delle risposte.

«Ma Ludlow non rientra nel suo collegio elettorale» osservò Isabelle. «Il

che mi fa pensare che questo qualcuno avesse un rapporto personale o con lei

o con il morto. Sbaglio?»

Dall’occhiata che Walker lanciò a Hillier, Isabelle dedusse che la sua


domanda lo aveva in qualche modo rassicurato. Evidentemente l’onorevole

nutriva dei dubbi sul suo conto. Vederglieli manifestare, sia pure in modo

indiretto, la irritò. Era esasperante che le donne fossero ancora poco

considerate.

«C’è un rapporto personale, onorevole Walker?»

«Tra i miei elettori c’è Clive Druitt» rispose il parlamentare. «Ha mai

sentito nominare la Druitt Craft Breweries?»

Isabelle scosse la testa, anche se le suonava vagamente familiare.

«È un birrificio con annesso gastropub» spiegò Walker. «Ha aperto il

primo a Birmingham. Adesso ne ha otto.»

Questo probabilmente significava che Druitt era ricco, pensò Isabelle. E a

sua volta questo significava che il suo politico di riferimento lo teneva in

attenta considerazione. «È parente del morto?» chiese Isabelle.

«Ian Druitt era suo figlio. Clive, comprensibilmente, non crede né che

fosse pedofilo, né che si sia suicidato.»

Quale genitore vuole sentirsi dire che suo figlio è un criminale? pensò

Isabelle. Tuttavia, dopo aver indagato, la commissione IPCC aveva dato al

padre del defunto la deplorevole e tragica conferma che Ian Druitt si era tolto

la vita. Walker non poteva non averlo spiegato a Druitt senior. Isabelle

faticava a capire per quale motivo la Metropolitan Police fosse stata coinvolta

nella vicenda.

Lanciò un’occhiata a Hillier. «Continuo a non vedere...» disse.

Hillier la interruppe. «I fondi per le forze dell’ordine hanno subito tagli

pesantissimi in quella zona del Paese. L’onorevole Walker ci sta chiedendo di

accertare che queste ristrettezze finanziarie non abbiano alcuna attinenza con

i fatti in questione.» Aveva sottolineato la parola accertare. Il compito di

Isabelle, dunque, era incaricare qualcuno di calmare le acque e rassicurare il

signor Druitt in modo che non ricorresse alle vie legali. L’idea non le

sorrideva affatto, ma Isabelle sapeva che non era il caso di polemizzare con il

vicecommissario.

«Posso mandare Philip Hale, Sir David. Ha appena finito...»

«Preferirei che se ne occupasse personalmente, Isabelle. È una questione

che richiede una certa delicatezza.»

Il sovrintendente Ardery rimase impassibile. Era un compito adatto a un

ispettore investigativo, a dir tanto. Ma anche se non fosse stato così, l’ultima

cosa di cui aveva bisogno in quel momento era una trasferta nello Shropshire.


«Se parliamo di delicatezza, potrebbe essere più adatto l’ispettore

investigativo Lynley.»

«Forse. Ma io vorrei che se ne occupasse lei. Con il sergente investigativo

Havers a farle da braccio destro. Vista la buona prova di sé che ha dato nel

Dorset, sono certo che se la caverà egregiamente anche nello Shropshire.»

A Isabelle non sfuggì che il vicecommissario stava cercando di dirle

qualcosa e subito recepì il messaggio. «Ah, sì» disse. «Non avevo pensato al

sergente. Sono pienamente d’accordo con lei, signore.»

Hillier le scoccò un sorriso. «Lo immaginavo» disse. Poi si rivolse al

parlamentare e aggiunse: «Sarò sincero, onorevole Walker. Siamo sotto

organico ovunque, a causa dei provvedimenti del governo. Possiamo

dedicarle non più di cinque giorni. Dopodiché, il sovrintendente Ardery e il

sergente investigativo Havers dovranno rientrare a Londra».

Walker ebbe il buon senso di non obiettare. «La ringrazio. Ho capito. Mi

consenta di essere altrettanto sincero. Ero contrario ai tagli alle forze

dell’ordine. Sono dalla vostra parte. E lo sarò ancora di più quando questa

faccenda sarà stata risolta» disse.

Poco dopo si congedò. Hillier aveva già fatto segno a Isabelle di rimanere

dov’era e, quando la porta si fu chiusa alle spalle del deputato, tornò a

sedersi. Scrutò Isabelle con aria meditabonda.

«Confido che questa avventura nello Shropshire ci consentirà di

raggiungere finalmente il nostro scopo» disse poi.

Isabelle aveva capito benissimo a cosa alludeva il vicecommissario. «È

mia intenzione fare in modo che sia così» gli disse.

Wandsworth

Londra

Quella sera, a casa, Isabelle Ardery fece i bagagli per la trasferta nelle

Midlands. Prima, però, andò a cercare la vodka. Aveva già bevuto un martini,

ma si disse che aveva diritto a un altro drink, visto che la giornata era stata

lunga e piena di sviluppi inaspettati.

Lo sorseggiò mentre sceglieva biancheria, pantaloni, maglie e camicia da

notte per il viaggio. Aveva preso l’abitudine di mescolare vodka e ghiaccio,

anziché metterli nello shaker, perché così le faceva più effetto: la vita


assumeva contorni più morbidi, e in quel periodo Isabelle aveva un gran

bisogno di cambiare prospettiva, per via del bastardo dell’ex marito e del suo

cosiddetto «indispensabile» avanzamento di carriera. «Potrai venire a trovarci

durante le vacanze, Isabelle» le aveva detto in tono viscidamente cortese.

«Avremo una casa abbastanza grande o, se preferirai stare per conto tuo,

sicuramente ci saranno degli alberghi adatti nelle vicinanze. O magari un bed

and breakfast.Non sarebbe male, no? E, prima che tu me lo chieda, no, i

ragazzi non potranno venire a passare le vacanze da te. È fuori discussione.»

Isabelle non intendeva dare all’ex marito la soddisfazione di perdere le

staffe. Sapeva in quali sabbie mobili si sarebbero impantanati, se gli avesse

detto anche soltanto «Per piacere, Bob»: sarebbe iniziata una disquisizione

del genere «Sai benissimo perché non è possibile, Isabelle». E da lì sarebbero

finiti a parlare del loro passato comune, con l’ennesima discussione inutile

che sarebbe prontamente degenerata in uno scambio di accuse e smentite.

Meglio lasciar perdere.

Finì il vodka martini prima di terminare i bagagli, ma aveva già preso

quasi tutto il necessario e quindi sapeva che non rischiava di combinare

grossi guai. Soddisfatta del proprio grado di sobrietà, rabboccò il cocktail e

mise con cura in valigia la bottiglia di vodka. Ultimamente dormiva male e di

sicuro avrebbe dormito anche peggio in un letto non suo. La vodka le serviva

come sonnifero. Non c’era niente di male.

Dopo aver terminato i preparativi per il viaggio e aver messo la valigia

vicino alla porta, andò al telefono. Sapeva a memoria tutti e due i numeri e

fece quello di casa, anziché del cellulare. Se non avesse risposto, avrebbe

lasciato un messaggio. Non voleva disturbarlo, nel caso avesse deciso di

passare la notte altrove.

Lynley la riconobbe dalla voce, come prevedibile. Parve sorpreso e anche

un po’ diffidente. Dopo un «Pronto, ciao», proseguì con un «Tutto bene?» in

tono decisamente troppo disinvolto.

Isabelle si diede un contegno. Occorrevano dizione impeccabile e

sicurezza. «Bene, grazie, Tommy. Ti disturbo?» disse, che era un modo per

chiedere velatamente «Daidre è con te?» e «Siete affaccendati in quello in cui

spesso sono affaccendati gli amanti alle dieci di sera?»

«Stavo facendo una cosa, ma può aspettare» rispose affabile Lynley.

«Charlie mi ha chiesto di aiutarlo a ripassare la parte. Ti ho detto che gli

hanno affidato un ruolo niente male in una pièce di Mamet? Non è nel West


End, e nemmeno a Londra, a dire il vero, ma a quanto pare purché sia nelle

Home Counties è da considerarsi un successo.»

In sottofondo si sentì una voce che Isabelle riconobbe: Charlie Denton, che

da anni viveva con Thomas Lynley nella bella casa di Belgravia e, in cambio

di vitto e alloggio, fungeva da cameriere, cuoco, governante, attendente e in

generale da factotum, salvo prendersi il tempo necessario per perseguire una

carriera teatrale che fino a quel momento era consistita soltanto in occasionali

particine qua e là, anzi, più là che qua.

«Sì, certo, hai perfettamente ragione» disse Lynley a Charlie. «Quello che

conta è che sia Mamet.» Poi, a Isabelle: «È anche in attesa di una chiamata

dalla BBC».

«Davvero?»

«L’esperienza che ha fatto qui in Eaton Terrace gli ha dato una certa

credibilità, diciamo così, in fatto di ruoli in costume. Con un po’ di fortuna,

impersonerà il valletto irascibile in una serie di dodici episodi ambientata a

fine Ottocento. Sta chiedendo a tutti di tenere le dita incrociate.»

«Digli che le mie lo sono già.»

«Sarà felice di saperlo.»

«Hai qualche minuto da dedicarmi?»

«Certo. Abbiamo finito. O perlomeno io ho finito. Charlie andrebbe avanti

fino all’alba. È successo qualcosa?»

Isabelle gli fece un resoconto abbreviato: il suicidio, la West Mercia

Police, la commissione IPCC, un parlamentare e il suo ricco sostenitore. Alla

fine Lynley disse quel che era logico aspettarsi: «Se l’IPCC ha stabilito che

non ci sono reati da perseguire, cos’altro vuole Walker?»

«È solo una formalità, si tratta di gettare acqua sul fuoco. La Metropolitan

Police getta l’acqua nell’interesse di un parlamentare cui senza dubbio in

futuro chiederà di ricambiare il favore.»

«Tipico di Hillier.»

«Eh, già.»

«Quando vuoi che parta? Volevo fare una puntata in Cornovaglia, ma

posso tranquillamente rimandare.»

«Ti devo chiedere di rimandare, Tommy, ma non per andare nelle

Midlands.»

«Ah. E allora chi...?»

«Hillier mi ha chiesto di occuparmene personalmente.»


L’annuncio fu accolto dal silenzio di Lynley. Anche lui si rendeva conto di

quanto fosse anomalo che Isabelle seguisse una faccenda che normalmente

sarebbe toccata a un collega di rango inferiore. Inoltre, c’era il problema non

indifferente di chi avrebbe preso il posto del sovrintendente durante la

trasferta.

«Mi sostituirai tu. La missione nelle Midlands non sarà lunga, quindi non

dovrai rimandare di molto la Cornovaglia. A proposito, tutto bene, spero?»

disse Isabelle.

Alludeva ai parenti di Lynley, che vivevano in Cornovaglia, non lontano

dal mare, in una tenuta – a quanto si diceva – enorme che fino a quel

momento erano riusciti a conservare intatta senza alzare bandiera bianca e

cedere tutto al National Trust o all’English Heritage. Lynley la rassicurò. Si

trattava semplicemente della visita che faceva ai suoi ogni anno, resa un po’

più complicata in quella occasione dal fatto che sua sorella e la figlia

adolescente avevano venduto nello Yorkshire per trasferirsi in Cornovaglia

dalla madre e dal fratello. «Ma, come dicevo, è un viaggio che posso

rimandare senza problemi» concluse.

«Grazie della disponibilità, Tommy. So che ti spettano dei giorni di ferie, a

proposito.»

Erano arrivati alla parte più delicata della conversazione. Thomas Lynley

era un uomo cortese, colto, di sangue blu, con un polveroso titolo nobiliare

che probabilmente sfoderava per prenotare senza difficoltà nei ristoranti

migliori di Londra, ma di sicuro non era uno stupido. Aveva senza dubbio

subodorato che c’era sotto qualcosa e non ci avrebbe messo molto a capire di

che cosa si trattava. Tanto valeva parlare chiaro. «Porterò con me il sergente

Havers. Le ho detto di presentarsi con lo zaino pronto. Te lo dico perché, nel

caso arrivassi dopo che siamo andate via, non stia a chiederti dov’è sparita».

Anche a questo Lynley reagì con un silenzio. A Isabelle pareva di vedere

gli ingranaggi che lavoravano dentro la sua testa. Un attimo dopo le disse:

«Isabelle, non sarebbe meglio...»

«Non chiamarmi Isabelle!»

«Scusa» disse lui. «Riguardo al farti accompagnare da Barbara... Non

sarebbe più adatto il sergente Nkata? Considerando di cosa si tratta, non ti

sembra che ci vorrebbe una... una mano più leggera?»

Certo, Nkata sarebbe stato più adatto. Winston Nkata era un uomo che,

quando gli si dava un ordine, lo eseguiva, un abile professionista che fino a


quel momento non aveva mai avuto difficoltà a collaborare con il resto del

team investigativo agli ordini di Isabelle Ardery. Il sergente Nkata era

sicuramente più affidabile di Barbara, ma non si prestava al raggiungimento

dello scopo ultimo di Isabelle Ardery. Lynley l’avrebbe di certo capito, presto

o tardi.

«Mi piacerebbe assistere alla riabilitazione completa di Barbara» replicò.

«Si è comportata discretamente dopo la trasferta in Italia e questa è, almeno

per me, l’ultima prova che le resta da superare.»

«Stai dicendo che se Barbara riesce a portare a termine questa inchiesta

senza...» Lynley esitò nella scelta delle parole e alla fine optò per: «... senza

uscire dal seminato, strapperai la domanda di trasferimento?»

«Distruggendo il suo sogno naïf di un futuro a Berwick-upon-Tweed? Sì,

sono pronta a mettere la lettera nel tritadocumenti.»

Benché sembrasse soddisfatto, Lynley avrebbe continuato a dubitare delle

sue intenzioni. Isabelle lo sapeva ed era pronta a scommettere che, non

appena chiusa la telefonata con lei, l’ispettore avrebbe chiamato subito il

sergente per farle un predicozzo, nella speranza che quella donna esasperante

per una volta gli desse retta. Le pareva quasi di sentirlo, con quella sua voce

pacata, un misto tra l’inglese di Eton e quello della BBC: «Barbara, questa è

un’occasione potenzialmente decisiva per il suo futuro. Se mi è concesso,

suggerisco di non sottovalutarla.»

«Sono sul pezzo» avrebbe risposto il sergente Havers. «Sopra, sotto,

dentro, dove le pare. Eviterò anche di fumare durante il viaggio. Dovrebbe

fare buona impressione, no?»

«L’impressione migliore la farà offrendo suggerimenti costruttivi anziché

polemiche, scegliendo un abbigliamento professionale e rispettando le

procedure in ogni fase dell’inchiesta» avrebbe replicato Lynley. «Sono stato

chiaro?»

«Come l’acqua del mar dei Caraibi» gli avrebbe risposto lei, spigliata. «Si

fidi di me, ispettore. Non combinerò guai, stavolta.»

«Mi raccomando» avrebbe concluso lui. Poi avrebbe chiuso la chiamata,

ma sarebbe rimasto dubbioso. Nessuno meglio di lui conosceva Barbara

Havers, avendo lavorato con lei per anni. Combinare guai era la sua

specialità.

Isabelle, dal canto suo, era ragionevolmente sicura di aver dato a Barbara

Havers corda sufficiente per impiccarsi con le sue stesse mani: non le restava


che indietreggiare un po’ rispetto al patibolo per avere una visuale migliore

nel momento in cui la botola si fosse aperta sotto i suoi piedi.


5 MAGGIO

Hindlip

Herefordshire

La prima cosa che Barbara Havers notò quando finalmente le lasciarono

entrare nel grande complesso dove aveva sede la West Mercia Police fu che

era un luogo molto isolato. Si erano dovute fermare alla reception, che si

trovava in un edificio a sé, per mostrare i tesserini e informare l’agente di

guardia che avevano appuntamento con il capo della polizia, il quale in teoria

doveva aver già dato disposizioni perché fossero autorizzate a entrare

immediatamente. In pratica non l’aveva fatto e Barbara ne dedusse che i

pezzi grossi locali non le avrebbero accolte con una pioggia di petali di rosa.

Quando furono finalmente autorizzate a passare, risalirono in macchina e

superarono vari cancelli lungo una strada da cui non si vedeva una

costruzione che fosse una. L’unica cosa bene in vista erano le telecamere. Ce

n’erano ovunque, ma puntate su ettari di campagna che nessun terrorista sano

di mente – sia del posto sia di altra provenienza – si sarebbe mai azzardato ad

attraversare. Perché non c’era un solo albero dietro cui nascondersi, non un

cespuglio, non una pecora di passaggio. Niente di niente fino al parcheggio.

Gli uffici amministrativi si trovavano in una ex villa sontuosamente

ricoperta di vite americana. Il vialetto che portava al maestoso edificio era

addolcito dalla presenza di arbusti e di alcune aiuole ben curate in cui stavano

cominciando a fiorire le rose. Oltre alla villa c’erano alcuni edifici di più

recente costruzione e dal parco circostante provenivano latrati che facevano

pensare a un centro di addestramento per unità cinofile. Quando si

avvicinarono all’ingresso principale, Barbara notò che probabilmente era in

corso qualche attività didattica per allievi ufficiali: un cartello a forma di

freccia con la scritta FORMAZIONE CADETTI indicava il percorso verso un

edificio che, a giudicare dalla forma, doveva essere stato la cappella della

villa.


Barbara e Isabelle erano partite da Londra quattro ore e mezzo prima. Non

esisteva un itinerario diretto: bisognava scegliere fra varie autostrade e strade

a grande percorrenza dove, con un po’ di fortuna, ogni tanto c’era un tratto a

quattro corsie senza cantieri. Quando finalmente erano arrivate a Hindlip,

l’unico pensiero di Barbara era trovare il modo di accendersi una sigaretta e

mettere sotto i denti un bel pasticcio di carne e rognone. Perché lungo la

strada Isabelle Ardery si era fermata per fare benzina, ma per il resto aveva

limitato le soste ai bisogni fisiologici particolarmente urgenti. E comunque

appena uscite dal bagno erano risalite subito in macchina. Barbara aveva

ritenuto prudente non suggerire pause pranzo.

«Questa è un’occasione più unica che rara» le aveva detto a quattr’occhi

l’ispettore Lynley prima della partenza. «Spero che saprà sfruttarla al

meglio.»

«Ho intenzione di chinare il capo tutte le volte che sarà necessario» gli

aveva assicurato Barbara. «Probabilmente al ritorno sarò diventata gobba.»

«Non la prenda alla leggera, Barbara» aveva replicato Lynley.

«Contrariamente a me, il sovrintendente ha una tolleranza limitata per le

iniziative estemporanee. Le converrà seguire le regole, altrimenti le

conseguenze saranno pesanti.»

Barbara si era spazientita. «Sì, sì, d’accordo. Non sono un’idiota,

ispettore.»

Il colloquio era stato interrotto da Dorothea Harriman. Evidentemente la

segretaria del dipartimento era stata informata della partenza da Lynley o da

Ardery, perché aveva indicato il piccolo trolley di Barbara dicendo: «Spero

che abbia messo in valigia anche le claquette, sergente investigativo. Sa

quanto è facile rimanere indietro. Come mai ieri sera non mi ha detto che

sarebbe partita? Avrei chiesto a Kaz di prepararle una registrazione della

musica per esercitarsi in albergo. Così dovrà provare senza

accompagnamento. Quante lezioni perderà? Con il saggio a luglio...»

«Saggio?» La domanda era giunta da Lynley, che aveva ascoltato con aria

decisamente troppo interessata per i gusti di Barbara.

Dorothea l’aveva informato che «il 6 luglio ci sarà un saggio di danza e

parteciperà anche il corso principianti».

«Un saggio di danza?» Lynley aveva inarcato un aristocratico sopracciglio.

Barbara aveva capito che la chiacchierata con Dorothea andava troncata al

più presto. «Sì. Bene. Certo. Comunque sia. A proposito dello Shropshire,


ispettore» si era affrettata a dire, sperando di dirottare la conversazione.

Era una pia illusione, naturalmente. Dorothea Harriman era la campionessa

europea delle tecniche antidirottamento. «Non ricorda, ispettore, che le ho

parlato di iscrivermi a un corso di tip tap con il sergente investigativo?»

aveva detto a Lynley.

«Vi siete iscritte, quindi. E siete già abbastanza brave da partecipare a un

saggio? Complimenti.» Lynley aveva rivolto un cenno del capo a Barbara e

aveva detto: «Sergente, lei non finirà mai di sorprendermi. Dove si terrà il

saggio di luglio? Mi piacerebbe...»

«Inutile che glielo dica» aveva ribattuto Barbara lanciando un’occhiata

minacciosa a Dorothea. «Non sarà invitato.» Poi aveva detto a Lynley con

una certa foga: «Non si offenda, ispettore: non inviterò nessuno. E se sono

fortunata nelle Midlands mi romperò una gamba, così non potrò nemmeno

salire sul palco».

«Pfui!» aveva esclamato Dorothea. «Ispettore investigativo Lynley, la

inviterò io.»

«Dorothea, sbaglio o ha appena detto pfui?» aveva replicato Lynley

pacatamente.

«Neanche Dorothea finirà mai di sorprenderci, ispettore» aveva detto

Barbara.

In quel momento, invece, non fu una sorpresa né per Barbara né per

Isabelle Ardery scoprire che, dopo essersi presentate all’enorme banco

rotondo della reception nell’atrio della villa, l’anticamera non era finita. Il

capo della polizia era in riunione. Le avrebbe ricevute solo dopo essersi

liberato.

Hindlip

Herefordshire

Isabelle non si aspettava un’accoglienza calorosa da parte dei funzionari della

West Mercia Police. L’intervento di New Scotland Yard significava che

qualcuno pensava che avessero violato le procedure operative e che quel

qualcuno era assai scontento.

Di solito quel genere di scontentezza si manifestava con la nomina di

avvocati che intraprendevano azioni legali potenzialmente molto costose,


oppure con incessanti telefonate da parte di infimi tabloid e di autorevoli

quotidiani che disponevano ancora di fondi sufficienti per quel tipo di

inchieste giornalistiche, invise alla maggior parte delle persone e alla maggior

parte delle istituzioni. Tuttavia non si era verificata nessuna di quelle due

ipotesi. Non era stato nominato alcun avvocato, non c’erano state minacce di

querele e i giornali che avevano dato la notizia della morte del fermato e delle

relative indagini dopo un po’ erano passati ad altro. Il fatto che ci fosse un

supplemento di inchiesta, voluto da un parlamentare... Non c’era da

meravigliarsi, secondo Isabelle, che lei e il sergente Havers venissero lasciate

a rinfrescarsi le idee per ben venticinque minuti.

Dopo i primi cinque, Barbara Havers chiese educatamente il permesso di

uscire a fumare una sigaretta. Isabelle fu tentata di ordinarle di rimanere

dov’era, ma doveva riconoscere che nel viaggio, durante il quale lei si era

deliberatamente fermata soltanto per fare benzina e una volta per andare in

bagno, Barbara si era dimostrata quanto mai collaborativa. Si era persino

vestita con cura, anche se chissà dov’era andata a pescare quell’orrendo

cardigan di un grigio che decisamente non le donava, pieno di pelucchi che

parevano pustole di vaiolo. Alla richiesta di fumare una sigaretta, perciò,

Isabelle annuì. Le disse solo di sbrigarsi, e il sergente obbedì.

Finalmente una poliziotta venne a prenderle e fece loro strada lungo uno

scalone e oltre l’imponente porta a due battenti di quello che un tempo

doveva essere stato il salotto della villa. Era una grande stanza con finestre

spettacolari e splendidi bassorilievi sul soffitto, al centro del quale pendeva il

lampadario originale di cristallo, circondato da un rosone di frutta di gesso;

sulla mensola dell’enorme caminetto di marmo, sorretta da cariatidi, facevano

bella mostra di sé due foto di matrimonio e una targa.

Dopo essersi sentita dire che il capo della polizia era momentaneamente

fuori ufficio ma le avrebbe raggiunte subito, Isabelle incrociò le braccia e

represse l’istinto di ribattere acida qualcosa tipo «Abbiamo capito l’antifona».

Si sforzò invece di concentrarsi sulla stanza e su come doveva essere stata in

passato. Con l’arredamento attuale era difficile immaginare divani e poltrone

d’epoca graziosamente disposti intorno a tavolini ideali per il caffè, per il tè e

per garbate conversazioni postprandiali. Dietro la scrivania del capo della

polizia, che occupava buona parte dello spazio, c’era una libreria da ufficio

con una serie di faldoni telati o plastificati, tenuti su da pile di cartelline in

diversi stadi di decomposizione. Sopra le cartelline c’erano una polverosa


collezione di giocattoli in ferro battuto e un cestino con tre palle da cricket.

Su un lato, fra due finestre con spessi tendoni, c’era un tavolo con cinque

sedie intorno e una caraffa d’acqua con cinque bicchieri, il che faceva

pensare che il colloquio con il capo della polizia si sarebbe svolto lì.

Il sergente Havers si era avvicinata a una delle finestre. Senza dubbio

avrebbe voluto essere fuori a fumare un’altra sigaretta. E, senza dubbio,

aveva fame. Anche Isabelle aveva una fame da lupo, ma non era il momento

per mangiare.

I due battenti della porta si spalancarono contemporaneamente, come aperti

da due valletti invisibili, e nella sala entrò un uomo in divisa che

assomigliava vagamente al duca di Windsor dopo dieci anni di matrimonio

con Wallis Simpson. Senza dare loro il benvenuto, rivolse a Isabelle Ardery

un «Signora» e riservò a Barbara Havers un’occhiata da cui si capiva

chiaramente che non la considerava neppure degna di un saluto.

Non si presentò, ma Isabelle non si scompose per questo, né per il fatto che

l’avesse chiamata «signora». In ogni caso, non c’era bisogno che si

presentasse: Isabelle sapeva che era il comandante Patrick Wyatt. Riguardo al

«signora», l’avrebbe corretto al momento opportuno.

Senza neppure invitarle ad accomodarsi, Wyatt esordì: «Non sono contento

di vederla qui» e rimase in attesa della sua reazione.

Isabelle Ardery fu collaborativa. «Nemmeno io sono contenta di essere

qui. E neppure il sergente Havers. Abbiamo intenzione di restare il meno

possibile, stendere un rapporto per i nostri superiori e andarcene.»

Questo parve ammorbidirlo leggermente. Indicò il tavolo con le cinque

sedie. «Caffè?» chiese. Dopo aver declinato l’offerta e lanciato un’occhiata a

Barbara, che declinò a sua volta, Isabelle disse che l’acqua andava benissimo,

grazie infinite. Senza attendere che Wyatt riempisse i bicchieri, si sedette e

fece gli onori di casa. Anche Barbara prese posto e bevve un sorso con

l’espressione di chi si aspetta la cicuta ma, visto che non ci sono altri liquidi a

disposizione, preferisce morire avvelenato anziché di sete.

Quando anche Wyatt si fu accomodato, Isabelle andò dritta al nocciolo

della questione. «Il sergente Havers e io ci troviamo in una posizione non

facile. Non siamo qui per criticare.»

«Mi fa piacere sentirglielo dire.» Wyatt prese il bicchiere, lo vuotò d’un

fiato e lo riempì di nuovo. Isabelle notò che Barbara sembrava sollevata nel

vedere che non era collassato dopo il primo sorso.


«I tagli stanno facendo danni ovunque» continuò Isabelle. «So che per voi

è stato un duro colpo...»

«Talmente duro che siamo ridotti a milleottocento agenti per tutto lo

Herefordshire, lo Shropshire e il Worcestershire. Non abbiamo abbastanza

uomini per svolgere i tradizionali servizi di pattuglia e intere città sono

affidate a volontari di polizia e alla vigilanza di vicinato. Se succede

qualcosa, ci vogliono come minimo venti minuti perché uno dei nostri arrivi

sul posto. Sempre che non siano già tutti impegnati in altri interventi.»

«A Londra la situazione è più o meno la stessa» osservò Isabelle.

Wyatt si schiarì la gola e guardò Barbara Havers come se fosse la

personificazione delle conseguenze nefaste dei tagli di bilancio. Barbara lo

guardò a sua volta senza dire nulla, tutt’altro che intimidita.

«Innanzi tutto vorrei mettere in chiaro una cosa» disse Wyatt. «La sera in

questione, non appena è arrivata la segnalazione, è stata subito mandata

un’ambulanza, ma non c’era più nulla da fare. A quel punto è intervenuto

l’ispettore investigativo di turno. Non un agente di pattuglia, badi bene – non

ce n’era uno disponibile, purtroppo – e nemmeno un ispettore di turno. Il

capo della centrale operativa ha mandato un funzionario investigativo, che si

è precipitato immediatamente a Ludlow, ha condotto le necessarie indagini e

a tempo debito ha avvertito la commissione per i reclami.»

«A tempo debito?»

«Nel giro di tre ore. Prima ha effettuato un sopralluogo, ha interrogato sia i

soccorritori sia l’agente presente alla stazione e ha chiamato il medico legale.

È stato fatto tutto come da regolamento.»

«Capisco» disse Isabelle. La West Mercia Police aveva applicato una

versione comprensibilmente abbreviata della procedura standard: anziché

mandare un agente di pattuglia, seguito da un ispettore di turno e infine da un

funzionario della divisione investigativa, avevano mandato direttamente

quest’ultimo. In caso di decesso in custodia cautelare era prevista una

procedura speciale e chi aveva ricevuto la chiamata al 999 non poteva non

saperlo.

«È stata condotta un’altra indagine, parallela a quella dell’IPCC?» chiese

Isabelle Ardery.

«Un’inchiesta su come è potuto accadere questo guaio? Sì» rispose Wyatt.

«Entrambe le indagini sono state molto approfondite e i due rapporti sono

stati portati a conoscenza dei familiari della vittima, ma solo il rapporto della


commissione IPCC è stato reso pubblico e messo a disposizione della stampa.

Se devo essere sincero, il motivo per cui a questo punto la Metropolitan

Police abbia deciso di intervenire va al di là della mia comprensione.»

«Siamo qui per fornire rassicurazioni a un membro del Parlamento che sta

ricevendo notevoli pressioni dal padre del defunto.»

«Maledetta politica!» In quel momento suonò il telefono sulla scrivania,

grossa come una portaerei, e Wyatt si alzò per andare a rispondere. «Mi

dica.» Ascoltò la risposta. «La faccia salire subito» aggiunse poi.

Si avvicinò agli scaffali dietro la scrivania, prese una pila di cartelline, le

posò sul tavolo e tornò a sedersi.

Isabelle le guardò senza toccarle. Avrebbe avuto tutto il tempo per

esaminarle. Per il momento, voleva soltanto farsi dare un quadro generale.

«Sappiamo che il decesso è avvenuto alla stazione di polizia di Ludlow e che

quella sera la stazione non era presidiata. Com’è esattamente la situazione a

Ludlow?»

«Abbiamo dovuto chiudere diverse stazioni in tutte e tre le contee» spiegò

Wyatt. Indicò una grande mappa appesa al muro fra le due finestre, vicino al

punto in cui erano seduti, e Isabelle notò che comprendeva Herefordshire,

Shropshire e Worcestershire. «Nel caso di Ludlow, la stazione non è

presidiata ma viene usata dagli agenti in servizio di pattuglia quando hanno

bisogno di computer o di creare un’unità di crisi.»

«C’è una camera di sicurezza?»

Wyatt scosse la testa. Non c’era un luogo specifico dove tenere sotto

chiave i sospettati. Non c’erano neppure stanze per gli interrogatori, ma agli

agenti di pattuglia era consentito portare alla stazione i fermati per

interrogarli, se necessario.

«Ci hanno detto che il fermo non è stato effettuato da un agente di

pattuglia, ma da un ausiliario.»

Patrick Wyatt confermò. L’uomo morto all’interno della stazione di polizia

di Ludlow era stato portato lì da un agente ausiliario, il quale aveva ricevuto

dal suo superiore l’ordine di aspettare gli agenti di pattuglia da Shrewsbury,

al momento occupati in una serie di furti. Erano stati messi a segno colpi in

otto case e cinque negozi, in due città diverse, e gli agenti di Shrewsbury

stavano dando una mano nei sopralluoghi ai pochi ispettori disponibili.

Prevedevano che ci sarebbero volute almeno quattro ore prima di riuscire ad

arrivare a Ludlow.


«Che fretta c’era di procedere al fermo?»

Wyatt non lo sapeva, dal momento che l’ordine di fermare il presunto

pedofilo doveva essere partito dal diretto superiore dell’agente ausiliario,

responsabile di tutti gli ausiliari della zona. A lui risultava che fosse giunta

una telefonata in cui Ian Druitt veniva accusato di molestie sessuali su

minori. Una telefonata anonima. Al 999, il numero per le segnalazioni di reati

urgenti. Fatta dal telefono esterno di emergenza della stazione di polizia di

Ludlow.

«Telefono esterno?» chiese Barbara Havers. Isabelle vide che aveva tirato

fuori dalla borsa a tracolla un bloc-notes apparentemente nuovo e un

portamine.

Tutti i posti di polizia chiusi o non presidiati, spiegò Wyatt, erano dotati di

un telefono esterno per permettere agli utenti di comunicare con l’unità che

gestiva le emergenze e i reati gravi.

«Quindi si è proceduto subito al fermo sulla base di quella chiamata?»

domandò Isabelle. «Mi sembra che si sarebbe potuto benissimo aspettare

qualche ora, o anche un giorno, che si liberasse un agente di pattuglia.»

Wyatt la pensava come lei. La disgrazia, a suo parere, era frutto di due

fattori concomitanti: la serie di furti che aveva impegnato tutti gli agenti

titolari e il fatto che la denuncia riguardasse un caso di pedofilia, reato che in

quegli ultimi tempi la polizia aveva imparato a prendere molto sul serio.

In quel momento bussarono alla porta. Il comandante si alzò e fece entrare

una donna vestita in modo non molto diverso da Barbara Havers. Wyatt la

presentò: era l’ispettore investigativo Pajer. I capelli neri e lisci che le

incorniciavano il viso ovale avevano un bel taglio, ma le borse sotto gli occhi

e le labbra terribilmente screpolate le davano un’aria sfinita. Oltretutto aveva

le mani arrossate, come se avesse svolto lavori pesanti. Se non avesse avuto

con sé una ventiquattrore, Isabelle avrebbe pensato che fosse la donna delle

pulizie.

L’ispettore Pajer si rivolse a Isabelle. «Mi chiami pure Bernadette.» Si fece

avanti e strinse la mano prima a lei, poi a Barbara. Si sedette su una delle

sedie libere e si versò un bicchiere d’acqua senza aspettare che le venisse

offerto. Quindi aprì la valigetta, tirò fuori una pila di cartelline

portadocumenti e aspettò che il comandante Wyatt tornasse a sedersi.

Posò le mani sui documenti che aveva portato. «Prima di tutto, vorrei che

mi diceste per quale motivo sono stata convocata» disse.


«Il suo operato non è in discussione, Bernadette» le spiegò Wyatt.

«Con tutto il rispetto, comandante, se sono stata convocata alla sede

centrale per parlare con dei funzionari della Metropolitan Police, ho paura

che non sia così» replicò Bernadette Pajer.

A quel punto Isabelle capì di essere di fronte all’ispettore investigativo di

turno la sera in cui era morto Ian Druitt. Era l’inchiesta di Bernadette Pajer –

e quella dell’IPCC – che lei e Barbara avevano il compito di vagliare. Come

aveva fatto poco prima con Wyatt, Isabelle spiegò anche all’ispettore Pajer i

risvolti politici della situazione, ribadendo la propria intenzione di tornare a

Londra il più presto possibile.

Bernadette Pajer la ascoltò, annuì e posò le cartelline sul tavolo vicino a

quelle che vi aveva già messo Wyatt. Poi cominciò a raccontare.

Quando era arrivata alla stazione di polizia di Ludlow, disse, erano presenti

i paramedici, che avevano tentato invano di rianimare Ian Druitt, e l’agente

ausiliario che aveva proceduto al fermo, un certo Gary Ruddock. Il corpo era

stato spostato e il laccio con cui Druitt si era impiccato gli era stato tolto dal

collo.

«Che tipo di laccio era?» chiese Isabelle.

A quel punto Bernadette Pajer prese da una delle cartelline alcune foto

scattate sul posto, fra cui una di una lunga striscia di tessuto rosso scarlatto,

larga circa dieci centimetri. Era una stola, spiegò. Faceva parte dei paramenti

usati per celebrare le funzioni religiose.

«Il morto era un prete?» domandò Isabelle.

«Un diacono. Non ve l’hanno detto?»

Isabelle guardò Barbara, che aveva la bocca aperta a formare una O:

evidentemente anche lei si stava chiedendo come mai a Londra nessuno le

avesse informate di quel particolare. «Capisco. Continui, la prego», disse.

Secondo l’ausiliario che aveva eseguito il fermo, quando era andato a

prenderlo per portarlo alla stazione di polizia, Druitt aveva appena finito di

celebrare la funzione serale nella chiesa di St. Laurence e si stava togliendo i

paramenti in sacrestia. Evidentemente si era portato via la stola, infilandola

nella tasca della giacca a vento.

«Non potrebbe averla presa Ruddock, invece?» chiese Barbara Havers.

L’ispettore Pajer rispose che anche lei se l’era chiesto, ma le sembrava

altamente improbabile. Prendere la stola avrebbe presupposto un piano, una

premeditazione, mentre era un puro caso che a prelevare Druitt fosse stato


mandato proprio lui. A parte il fatto che Ruddock sapeva benissimo che se

l’uomo fosse morto durante il fermo sarebbero partite due inchieste, non una.

Bernadette Pajer sembrava aver fatto ogni cosa a dovere: aveva chiesto

l’intervento di un medico legale del ministero degli Interni; aveva fatto

allontanare i soccorritori e Ruddock; aveva raccolto le loro dichiarazioni

separatamente; per precauzione aveva telefonato anche alla Scientifica e

aveva fatto prelevare indumenti, impronte e tutto quello che poteva servire

nel caso fosse stato stabilito che si era trattato di omicidio e non di suicidio.

Non si era pronunciata in merito. Aveva fatto semplicemente quello che

bisognava fare in quelle circostanze. Era tutto documentato nei dossier:

c’erano tutte le deposizioni, da quella dell’operatore che aveva preso la

chiamata dell’ausiliario in preda al panico a quelle dei soccorritori che

avevano tentato di far ripartire il cuore di Druitt con il defibrillatore.

«E l’IPCC?» domandò Isabelle.

Bernadette Pajer ribadì di aver richiesto l’intervento di un ispettore della

commissione per i reclami contro la polizia non appena il medico legale

aveva terminato l’esame formale del corpo. L’ispettore era stato inviato

l’indomani e aveva interrogato per prima lei, e a seguire tutti gli altri.

Isabelle capì che Bernadette Pajer non intendeva aggiungere altro perché

rimise le foto nella cartellina, che allineò alle altre sul tavolo. Poi guardò

Wyatt con aria interrogativa come a dire che, se non c’era altro, visto che

erano tutti oberati di lavoro...

«Se non ha altre domande...» disse Wyatt a Isabelle, e l’ispettore Pajer fece

per alzarsi.

«Mi chiedo se qualcuno si sia premurato di verificare che questo ausiliario,

Ruddock, fosse davvero l’unico agente disponibile per procedere al fermo di

Ian Druitt» disse Isabelle.

«’Questo ausiliario’ ha sempre lavorato bene ed è rimasto traumatizzato,

non solo perché è morta una persona che era sotto la sua responsabilità, ma

anche perché è consapevole delle conseguenze che questo avrà sulla sua

carriera. Il suo compito era portare Druitt alla stazione e aspettare che lo

trasferissero a Shrewsbury. E lui lo ha eseguito alla lettera» ribatté secco

Wyatt.

«Perché non lo ha portato direttamente a Shrewsbury?» A porre la

domanda fu Barbara Havers, con la matita pronta per prendere nota della

risposta.


«Ruddock ha fatto quello che gli è stato ordinato di fare dal suo superiore»

replicò Wyatt. «Ovvero dal sergente responsabile degli ausiliari del West

Mercia. Immagino che l’ispettore Pajer abbia raccolto anche la sua

deposizione» concluse con un’occhiata a Bernadette Pajer.

«Il problema – lo vedrete leggendo il rapporto, naturalmente – è che

Ruddock si è dovuto occupare anche di un’abbuffata alcolica in corso nel

centro di Ludlow» intervenne lei.

«Sta dicendo che, dopo aver fermato Druitt, Ruddock ha lasciato la

stazione?» Di nuovo la domanda era giunta da Barbara Havers.

«Certo che no!» esclamò Wyatt.

«Ma allora come...?»

A quel punto il capo della polizia si alzò e guardò l’orologio. «Vi abbiamo

dedicato tutto il tempo che potevamo. Troverete ciò che vi serve in questi

documenti, che presumo siate tenute a leggere. O sbaglio?» disse.

Non sbagli, pensò Isabelle. Ma non lo disse perché, ovviamente, il capo

della polizia lo sapeva già.

Ludlow

Shropshire

Ding stava facendo esattamente quello che aveva giurato di non fare dopo

aver visto Brutus e quella vacca di Allison Franklin che si fermavano con il

kajak e si baciavano proprio davanti alla diga di Horseshoe. Stava scappando.

Se le cose fossero andate come dovevano andare, non li avrebbe nemmeno

visti. Se fosse entrata in casa... Da lì, pur essendo nelle vicinanze del fiume

Teme, la diga non si vedeva. Invece, rientrata a Ludlow di cattivo umore,

aveva notato la Volvo davanti al portone e aveva pensato bene di andare a

fare due passi.

Aveva trascorso il pomeriggio a guardare sua madre che faceva da guida

turistica ai pochi visitatori paganti interessati a esplorare quel mausoleo di

casa Donaldson. A Ding dava fastidio non tanto che degli estranei alitassero

sull’argenteria di famiglia – tanto più che l’argenteria di famiglia non esisteva

– quanto vedere sua madre ridotta così, a farsi in quattro per compiacerli. Si

inventava storie ridicole su quelle che aveva deciso di chiamare la «sala di re

Giacomo», la «camera della regina Elisabetta» e il «salone delle Teste


Rotonde». Ding digrignava i denti ogni volta che la sentiva pronunciare con

voce altisonante la frase «Ebbene, è qui che nel 1663...» Era l’incipit della

Presa di Cardew Hall e di chissà quali altre storie che Ding ignorava perché a

quel punto si sforzava sempre di non ascoltare. La maggior parte delle volte

ci riusciva, anche perché il suo compito consisteva nello stare all’ingresso a

vendere biglietti ai turisti e incassare i soldi dei chutney e delle marmellate di

sua madre. Chutney e marmellate che, se non altro, avevano il pregio di

essere genuini, benché Ding non si sarebbe stupita più di tanto se sua madre,

in caso di scarso raccolto, avesse comprato da Sainsbury’s qualche cassa di

marmellata di fragole da spacciare come produzione propria.

L’unica cosa vera tra le tante panzane che raccontava nel corso della visita

guidata era che la casa si chiamava Cardew Hall. Si era sempre chiamata

così, anche se la madre di Ding non aveva nemmeno un antenato che ci

avesse vissuto: aveva ereditato quella specie di rudere da un prozio senza figli

e aveva preso la folle decisione di non venderla immediatamente a un

imprenditore che intendeva trasformarlo in un albergo del circuito Relais &

Châteaux.

Per tutti questi motivi, e soprattutto perché c’era sempre un disperato

bisogno di soldi per riparare le tubature, rifare l’impianto elettrico,

ristrutturare la cucina e i bagni e liberare l’edificio da muffe, funghi e da una

varietà inimmaginabile di insetti e parassiti, Ding era costretta a presentarsi

due pomeriggi la settimana durante l’ultimo quadrimestre e tutti i pomeriggi

durante le vacanze estive per espletare il suo dovere filiale, ovvero gestire la

biglietteria. Detestava ogni minuto che passava all’ingresso di Cardew Hall,

ma il patto che aveva stretto con la madre era quello: era libera di stare a

Ludlow per conto suo a condizione di presentarsi nei giorni in cui la villa era

aperta al pubblico. Ogni volta, però, quell’esperienza la esasperava.

Quel giorno, rientrando a Ludlow, aveva voglia di rilassarsi, ma appena

arrivata sul Temeside aveva capito che in casa le sarebbe stato difficile, se

non addirittura impossibile. Aveva riconosciuto subito la Volvo parcheggiata

sul marciapiede davanti al portone, infatti, e aveva dedotto che la madre di

Finn Freeman era venuta a trovarlo. Sapendo che ogni sua visita si

trasformava in una lite – dopo due minuti che parlava con la madre, Finn ci

bisticciava – Ding aveva deciso di andare in cerca di un po’ di tranquillità sul

lungofiume e il posto più adatto le era sembrato la diga di Horseshoe, poco

più avanti. Da lì c’era una bella vista e, siccome con la primavera erano


arrivati diversi uccelli acquatici, magari sarebbe riuscita a vedere gli

anatroccoli, che la mettevano sempre di buon umore.

Invece sul Teme aveva sorpreso Brutus e Allison Franklin con le labbra

incollate, i kajak legati tra loro per facilitare il suddetto incollaggio. Vedere

Brutus che baciava Allison era stata la ciliegina sulla torta di un pomeriggio

disastroso. Era come se le si fosse spezzato qualcosa dentro. Brutus era

l’unica persona su cui poteva contare, ora che Missa se n’era andata da

Ludlow. Certo, era stata sciocca a illudersi, dal momento che Brutus aveva

messo in chiaro fin da subito che potevano solo essere amici, sia pure con un

rapporto privilegiato. Ma quando Ding aveva accettato quella clausola, aveva

dato per scontato che Brutus non avrebbe coltivato «rapporti privilegiati» con

altre ragazze, e soprattutto non a meno di duecento metri da casa. Dalla casa

in cui vivevano insieme.

Li stava guardando – Brutus e l’insopportabile Allison – quando a pochi

passi da lei partì l’allarme di un’auto e un piccolo stormo di germani reali

prese il volo starnazzando. Brutus e Allison, nel fiume, si staccarono e

fortuna volle che Brutus la vedesse. Ding si voltò di scatto per andarsene, ma

sentì un cordiale: «Ehi, Ding! Com’è andata questa volta?»

Si girò e vedendo la loro aria compiaciuta le venne voglia di correre nel

fiume come un personaggio dei cartoni animati e andare a cavarle gli occhi.

Ma l’unica cosa che fece fu strillare: «Tu... Tu...!» con una tonalità che

ricordava il miagolio di un gatto cui qualcuno avesse chiuso la coda in una

porta. Fu ancora più umiliante che vederli pomiciare ed essere beccata a

guardarli. Fece di nuovo dietrofront, scese dal marciapiede e rischiò di essere

travolta da un autobus. Il mancato investimento le provocò una scarica di

adrenalina e la fece rinsavire quanto bastava per tornare a casa senza ulteriori

incidenti.

Appena entrata, sentì Finn e la madre che se ne dicevano di tutti i colori.

Doveva essere qualcosa di grave, perché di solito lo facevano al telefono, non

di persona. In realtà Ding aveva visto la signora Freeman solo una volta,

assieme al marito, l’autunno precedente, quando erano venuti a portare a Finn

una libreria e un comò. Era stata una visita brevissima. Finn li aveva rispediti

con una fretta giustificabile solo in caso di incendio.

In quel momento, nel salotto, la signora Freeman stava dicendo: «Se c’è

una cosa che odio, e sai che non odio niente, è il modo in cui quell’uomo ti ha

gettato fumo negli occhi».


«Non è vero un cazzo. Era una brava persona. Ed era mio amico. Tu non

sopporti che io abbia degli amici, mamma. Ammettilo.»

Seguì un momento di silenzio. Ding sentì che uno dei due prendeva fiato,

probabilmente nel tentativo di calmarsi. Sapeva che avrebbe dovuto

approfittare di quell’attimo di quiete per rivelare la propria presenza, ma non

lo fece. Rimase dov’era a origliare. Se non altro, la distraeva dal pensiero di

Brutus e di Cardew Hall.

«Pensi davvero...?» disse dopo un po’ la madre di Finn. Fece un’altra

pausa. «Stai cercando di difendere Ian Druitt? È questo che stai cercando di

fare?» aggiunse poi.

«C’è poco da difendere, visto che è morto» ribatté Finn.

«Ascoltami bene, Finnegan. Mi hanno detto che Scotland Yard ha aperto

un’inchiesta. È possibile che vengano a parlare anche con te.»

«Perché?»

«Perché sono qui per verificare la correttezza delle indagini svolte dopo il

suicidio di Ian Druitt.»

«Non è possibile che Ian si sia...»

«D’accordo, vedila come vuoi tu, ma sappi che stanno indagando ed è

molto probabile che salti fuori anche il tuo nome. Se ti fanno delle domande e

tu neghi qualcosa quando invece sai che è vero...»

«Non so se è vero» la interruppe Finn. «So solo che Ian era mio amico e

che io i miei amici li conosco. E questo non ho nessuna intenzione di negarlo.

Pensi che non l’avrei saputo, se avesse messo le mani addosso a dei bambini?

Era una brava persona, e le brave persone non...»

«Oddio, Finn! Cosa credi, che i pedofili se ne stiano fuori dalle scuole a

sbavare, con i pantaloni sbottonati e il batacchio di fuori? A volte credi di

conoscere una persona e poi scopri che è completamente diversa da quello

che pensavi. Promettimi che ti terrai alla larga da tutto quello che riguarda la

morte di quel disgraziato.»

«Hai appena detto che Scotland Yard mi verrà a cercare. Cosa vuoi che

faccia? Che me ne vada da Ludlow?»

«Ho detto che potrebbero venirti a cercare. E che, nel caso, dovrai dire la

verità.»

«Posso dirgli alcune cose che li metteranno di ottimo umore.»

«In che senso? Finnegan, c’è bisogno che ti dica chiaro e tondo che sono a

un passo dal chiudere questa storia del college e farti tornare a casa con noi?»


Ding pensò che poteva essere il momento adatto per interromperli, per cui

aprì e chiuse di nuovo la porta d’ingresso, questa volta sbattendola, si avviò

nel corridoio e fece retromarcia per fermarsi sulla soglia del salotto. Vide che

Finn era stravaccato sul divano nella posizione ideale per mandare

definitivamente in bestia la madre, la quale, in piedi in mezzo alla stanza, lo

squadrava dall’alto in basso. «Ah, salve» disse Ding e la signora Freeman si

voltò di scatto. «Non entrare, se non vuoi che se la prenda anche con te»

l’avvertì Finn.

«Dena.» La signora Freeman fece una faccia che era un chiaro invito a

tirare dritto, salire di sopra e non impicciarsi oltre.

Se non fosse stata reduce da una giornata funestata prima da Cardew Hall e

poi da Brutus, Ding sarebbe sicuramente entrata nel salotto e si sarebbe

piazzata su una delle grosse poltrone a sacco solo per il gusto di dar noia alla

madre di Finn. Ma nello stato in cui era preferì starsene per conto suo. E poi

doveva studiare, per cui salutò Finn e andò verso le scale.

«Riprendiamo il discorso» furono le ultime parole che sentì, dette dalla

madre di Finn.

«Sì, dai» replicò sarcastico lui.

Siccome la sua camera era sul retro, Ding non sentì altro. Soprattutto

perché, per non sbagliare, chiuse la porta.

In camera aveva un bollitore elettrico per farsi il tè la mattina. Lo accese.

Stava per mettersi a studiare, con la tazza sulla scrivania, vicino al

quaderno, quando la porta si spalancò. Si voltò e, vedendo che era Brutus, lo

incenerì con lo sguardo.

«Lasciami in pace» disse. «Ho avuto una giornata di merda.»

«Non è venuto nessuno?»

Il fatto che Brutus alludesse al pomeriggio a Cardew Hall, quando sapeva

benissimo di averle rovinato quella che poteva essere una serata decente

facendo il cretino con Allison Franklin, la mandò su tutte le furie. «Non

parlavo di quello, Bruce» ribatté.

Lui ignorò il Bruce. «Avete avuto un bel po’ di visite, allora?» disse, e con

una faccia tosta insopportabile entrò e chiuse addirittura la porta a chiave,

come se avesse in programma di spassarsela un po’.

«Se proprio lo vuoi sapere, tre tedeschi e un’americana con tanto di blocnotes

e registratore. Ora, se non ti dispiace...» Si girò verso la scrivania.

Brutus si avvicinò e cominciò a massaggiarle le spalle e il collo. Sapeva


che le piaceva. Era una tecnica che aveva usato un sacco di volte come

preliminare. Pensava veramente che lei volesse fare sesso meno di mezz’ora

dopo averlo visto ficcare la lingua in gola a Allison Franklin?

Ding se lo scrollò di dosso. «Vattene.» E poi, dato che lui continuava a

massaggiare: «Lasciami in pace».

Brutus lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, ma non se ne andò. «Quindi

mi hai visto con Allison. Cos’hai visto? Tutto?»

«Tutto cosa? Hai fatto altro, oltre a leccarle le tonsille? A cosa ti riferisci?

Le hai infilato un dito?»

Brutus taceva. Ding fu costretta a girarsi sulla sedia e guardarlo. Era

spettinato, come se Allison avesse giocato con i suoi capelli biondi e folti, e

aveva una manica spiegazzata, quanto bastava per immaginare la mano di

Allison che si insinuava su per il braccio a palpargli i muscoli. Perché Brutus

era molto muscoloso. Sollevava pesi da quando si era reso conto che più di

uno e sessantadue di statura non sarebbe mai diventato.

«Allora?» gli chiese. «Rispondi: sì o no?»

«Pensavo che io e te fossimo d’accordo. Non vuol dire un cazzo.»

«Che cosa, non vuol dire un cazzo? Quello che fai con me? Quello che fai

con Allison? O quello che fai con chiunque abbia una passera e due tette?»

«Il nostro non è un rapporto esclusivo, Ding. Te l’ho detto fin dall’inizio.

Ti ho spiegato quali sono le mie esigenze. Sono fatto così. La maggior parte

degli uomini è fatta così. Sono fedeli soltanto perché altrimenti non ne

prendono più. Quindi tu dovresti essere...»

«Non dirmi cosa dovrei essere!»

«... grata del fatto che almeno tra di noi le cose sono chiare e trasparenti. Io

ti ho sempre detto la verità.»

«Oh, scusami tanto se non ti ho mai ringraziato! Dovrei apprezzare la tua

sincerità, capisco. Dovrei complimentarmi con te perché ti senti libero di

togliere le mutande alle altre a cento metri da casa nostra e sotto gli occhi di

tutti!» Ding non riuscì a imporsi di non strillare in tono sempre più isterico.

«Se sapevi di non poter stare con me a queste condizioni, dovevi dirmelo

subito. Invece sei stata zitta. E perché? Perché pensavi che anche se sono

fatto così – e te l’avevo detto chiaro e tondo – nel tuo caso avrei fatto

un’eccezione.»

«Non è vero!»

«Ma allora perché fai tutte ’ste scene? Di solito ti piace, no? Ci stai


comunque, anche se sai che sono appena andato con...»

Ding gli diede uno spintone. «Sparisci!» gridò. «Esci da questa stanza,

altrimenti mi metto a urlare. E urlo ai quattro venti che tu... Guarda che lo

dico a tutti, giuro...» Gli lanciò un libro addosso.

Brutus si scansò, ma restò nella stanza, forse trattenuto dalle sue parole.

«Cos’è che dici a tutti, Ding?» Il tono si era fatto di colpo serissimo. «Cos’è

che vuoi urlare ai quattro venti?»

«A un certo punto mi sono svegliata, hai capito? Mi sono svegliata, e tu

non c’eri.»

Ludlow

Shropshire

L’albergo era nel centro storico di Ludlow, proprio di fronte al castello, in

cima a un promontorio sopra il fiume Teme, che scorreva placido

fiancheggiato da salici e faggi, a ovest e a sud della cittadina e, insieme al

fiume Corve sul lato nord, formava una sorta di fossato naturale.

Griffith Hall aveva vissuto molte vite, dopo essere stata la dimora di

famiglia dei Griffith, vassalli per diverse generazioni dei conti di March. Era

stata un’esclusiva scuola maschile e durante la guerra un centro di recupero

per militari feriti, poi era diventata un museo e infine era stata trasformata in

quello che era ancora oggi: uno squallido albergo che avrebbe avuto bisogno

di cospicui investimenti. I rigogliosi cespugli di peonie e ortensie fiorite

lungo il muro di pietra che separava il parcheggio dal prato non bastavano a

compensare l’aria di decadenza che aleggiava un po’ ovunque.

La camera di Isabelle era a un piano alto. Ci si arrivava dopo tante di

quelle scale, porte antincendio e corridoi che lei si pentì di non aver lasciato

una scia di briciole di pane in modo da ritrovare la strada per scendere a fare

colazione l’indomani mattina. Aveva però il vantaggio di essere una suite,

composta da due stanze spaziose e un bagno. Le finestre davano una sui tetti

della città medievale, una su un angolo del castello e la terza, nascosta da

pesanti tende, sul muro del palazzo di fronte. Quando Isabelle le aprì per far

entrare più luce, si trovò davanti un anziano signore in pigiama. La giacca era

sbottonata e lasciava scoperto il petto incavato e villoso, che il vecchietto si

accarezzava con aria meditabonda. Vide Isabelle e la salutò arditamente con


la mano. Lei tirò le tende e si ripromise di non aprirle mai più.

Disfece in fretta i bagagli. Aveva chiamato la reception per chiedere

ghiaccio e limone e, mentre era nel bagno a sistemare i cosmetici sul carrello

di vimini bianco che fungeva da toeletta, arrivò il servizio in camera. Si trovò

davanti un ragazzo sui vent’anni con un’evidente passione per le ciglia finte e

l’eyeliner nero e, ai lobi delle orecchie, due dilatatori in cui sarebbe potuta

passare una pallina da golf, lo stesso che accoglieva gli ospiti e fungeva da

facchino.

Isabelle vide che le aveva portato un bicchiere con due cubetti di ghiaccio

e una fetta di limone in bilico sul bordo. Aveva immaginato che le portassero

un secchiello, per quanto piccolo, e un piattino con più fette di limone, ma

evitò di lamentarsi subito: per quel che ne sapeva, il povero ragazzo era anche

il cameriere ed era meglio non fargli venire voglia di sputarle nel piatto. Lo

ringraziò il più calorosamente possibile, poi andò al comodino dove aveva

nascosto vodka e acqua tonica. Considerando che al momento era la sua

unica occasione per farsi un drink in segreto, decise di non lesinare sulla

vodka. Cinque cl di acqua tonica e vodka fino a riempire il bicchiere. Bevve

avidamente. Era proprio quello che ci voleva e se lo era meritato.

Era chiaro che Thomas Lynley doveva aver parlato con il sergente Havers

prima della partenza per lo Shropshire. Barbara si era dimostrata

estremamente collaborativa fin dal principio, nonostante Isabelle l’avesse

messa più volte alla prova. Durante la prima breve sosta per fare rifornimento

e la seconda per andare alla toilette, le aveva suggerito di comprarsi un

sacchetto di patatine o qualcosa del genere, perché «non ci fermeremo più»,

ma il sergente non aveva battuto ciglio. Anzi la seconda volta era tornata in

macchina con due mele e gliene aveva offerta una con aria virtuosa.

Aveva continuato a comportarsi in maniera ineccepibile anche durante

l’incontro con il capo della polizia. Se si era risentita perché lei non l’aveva

presentata al comandante Wyatt – cosa che quel galantuomo di Lynley mai

avrebbe omesso di fare – non ne aveva dato segno. Si era limitata a prendere

appunti, porre qualche domanda ogni tanto e aspettare ulteriori istruzioni.

Non aveva fatto commenti neppure quando le era stata mostrata la camera

al Griffith Hall Hotel, che Isabelle aveva chiesto spoglia e spartana come la

cella di una novizia in un convento di clausura. L’unica concessione che

aveva fatto era che ci fosse il bagno – doccia, water, lavabo, e nulla di più,

chiaro? – ma il letto doveva essere necessariamente singolo, aveva precisato.


Se invece di un letto era una branda da campeggio, meglio ancora. Isabelle

aveva scoperto da tempo che Barbara Havers viveva in una catapecchia, un

ex capanno degli attrezzi riconvertito. Se si fosse azzardata a lamentarsi,

Isabelle era pronta a rinfacciarglielo. Ma Barbara non si era lamentata. Era

entrata, aveva posato la borsa sul letto e aveva chiesto se il televisore

funzionava. A quanto pareva, seguiva EastEnders fin da quando era nel

ventre materno.

«Non avrà molto tempo per guardare la televisione» l’aveva ammonita

Isabelle consegnandole i dossier messi a disposizione dall’ispettore Pajer e

dal comandante Wyatt. «Deve leggere questi.»

Barbara aveva sgranato gli occhi, ma si era ben guardata dal proporre di

fare a metà per accorciare i tempi.

Si incontrarono al bar prima di cena, come d’accordo. Qualcuno –

sicuramente Lynley – doveva aver suggerito a Barbara di cambiarsi per la

cena, ma la sua interpretazione del termine «cambiarsi» era stata

evidentemente letterale, perché si era limitata a sostituire quel che aveva

indosso con altri indumenti dello stesso genere. Si presentò in pantaloni

beige, scarpe con i lacci marroni e una camicetta azzurra ben avviata verso la

consunzione ma non era ancora giunta alla meta. Il vodka tonic però aveva

ammorbidito Isabelle, che non fece commenti sulla mise del sergente e si

sedette su una delle poltrone di pelle facendo segno a Barbara di accomodarsi

sull’altra.

Il sergente la guardò perplessa, poi lanciò un’occhiata verso la sala

ristorante e, optando per un tono contrito, disse: «Scusi se mi permetto, ma...

Voglio dire, dato che non abbiamo pranzato...»

Era chiaro che non era mai stata in un albergo, né a cinque stelle né altro.

Qualche B&B, forse, o un pub con delle stanze, ma evidentemente non aveva

mai messo piede in un hotel con bar, ristorante e sala per la prima colazione e

non sapeva come comportarsi.

«Funziona così, sergente» disse Isabelle. «Si sieda. Ci porteranno il menu.

Io ordino un drink. Ne prenda uno anche lei. A quest’ora siamo ufficialmente

fuori servizio.»

Barbara esitò. Aveva portato con sé alcune cartelline portadocumenti e se

le stringeva al petto a mo’ di scudo.

«Non penso che l’ispettore Lynley l’abbia costretta a cenare sempre da...

che so... Little Chef? Non mi sembra il genere di locale frequentato


dall’ispettore. Si sieda, le dico. Qualcuno verrà a prendere le ordinazioni.

Negli hotel hanno un sesto senso per queste cose» continuò Isabelle.

Barbara si rassegnò, ma rimase seduta sul bordo del divano con le

cartelline strette al petto. Chiaramente si era preparata a una cena di lavoro e

forse si aspettava che Isabelle da un momento all’altro saltasse su e dicesse

che aveva scherzato.

Poco dopo, come previsto, arrivò qualcuno con il menu. E quel qualcuno

era Mister Ciglia Finte. Isabelle gli chiese come si chiamava.

«Peace» rispose il ragazzo.

«Come, scusi? Ha detto che si chiama Peace?»

«Peace on Earth» precisò il ragazzo. «Pace in terra. A mia madre piaceva

fare affermazioni di principio.»

«Ah. E ha fratelli o sorelle, Peace?»

«End of Hunger» rispose. «Ma dopo ’No alla fame nel mondo’ non è più

riuscita a rimanere incinta. Meglio così, probabilmente.» Consegnò loro i

menu. «Gradite qualcosa da bere?» chiese.

Isabelle era più che pronta per il secondo drink della serata. «Un vodka

martini, liscio, con le olive. Rimescolato e non shakerato, per cortesia.

Sergente, lei cosa prende?»

Barbara Havers stava studiando la lista dei cocktail con la fronte

aggrottata, muovendo le labbra mentre leggeva nomi e descrizioni. «Anche

per me. Quello con la vodka» rispose alla fine, con disinvoltura.

«È sicura?» Isabelle dubitava che Barbara Havers avesse mai bevuto un

vodka martini.

«Sicura come la neve sulle Alpi.»

Isabelle fece un cenno a Peace on Earth. «Due vodka martini, allora.»

«Subito» rispose il ragazzo e andò dietro il banco a prepararli.

Isabelle si chiese se facesse anche da cuoco. Fino a quel momento in tutto

l’albergo non si era visto nessun altro dipendente.

«Chissà se si tiene la madre mummificata in cantina» mormorò Barbara

guardandosi intorno nella sala. Erano le uniche clienti.

«La madre mummificata?» chiese Isabelle, accigliata.

«Be’, sa quando si dice di diffidare dei ritratti con gli occhi che ti seguono

e non fare la doccia se ha la tenda invece della porta di vetro? Anthony

Perkins? Janet Leigh? Il Bates Motel?» Vedendo che Isabelle non reagiva,

Barbara continuò: «Santo cielo, capo, non ha mai visto Psyco?» Mimò una


serie di coltellate accompagnate da opportuni effetti sonori. «Il sangue che

scorre nello scarico della doccia?»

«Devo essermelo perso.»

«Perso?» esclamò Barbara stupefatta. A giudicare dall’espressione,

avrebbe voluto chiedere a Isabelle se era stata in coma per qualche decennio.

«Sì, me lo sono perso, sergente. È obbligatorio vederlo prima di andare in

vacanza e cercare un posto dove dormire?»

«No, ma... Cioè, nella nostra cultura ci sono delle pietre miliari, no?»

«Può darsi, ma dubito che una morte violenta dietro la tenda di una doccia

rientri nella categoria.»

Peace on Earth portò una ciotola di noci e noccioline e una di grissini al

formaggio. Barbara Havers le guardò vogliosa, ma non si servì. Isabelle prese

un grissino e le passò la ciotola. Il sergente ne prese uno e lo tenne tra due

dita come un sigaro, quasi aspettasse il permesso di metterselo in bocca.

Quando Isabelle diede un morso al proprio, Barbara la imitò. La precisione

snervante con cui ripeteva ogni suo movimento spinse il sovrintendente a

chiedersi se nel tempo libero Barbara si dedicasse all’arte del mimo.

«Che cosa ha scoperto?» le chiese indicando i dossier.

Barbara Havers le parlò della telefonata anonima al 999 che, come tutte le

chiamate, era stata registrata. Fra i documenti dell’IPCC c’era una

trascrizione, ed era stata proprio quella ad attirare l’attenzione del sergente.

Un uomo che non si era identificato aveva accusato Ian Druitt di molestie

sessuali su minorenni. «Non sopporto l’ipocrisia. Quello stronzo importuna i

bambini, maschi e femmine. La cosa va avanti da anni, ma tutti si rifiutano di

vedere. Tale e quale la stramaledetta Chiesa cattolica» aveva poi aggiunto.

«Lì per lì mi sono chiesta come mai quella chiamata fosse stata presa tanto

sul serio. In fondo è come una lettera anonima, no? Uno che ce l’ha con

Druitt chiama il 999 e lo accusa di essere un pedofilo senza fornire nessuna

prova. Eppure i poliziotti si precipitano a fermarlo» disse Barbara Havers.

«Dal momento che la pedofilia è un reato gravissimo su cui la polizia tende

a intervenire immediatamente...» Isabelle Ardery lasciò la frase in sospeso:

Barbara poteva arrivarci benissimo da sola. Quella telefonata era

paragonabile a una segnalazione anonima in cui uno diceva di aver visto un

vicino nascondere un cadavere in giardino. Era inevitabile che gli ingranaggi

si mettessero in moto.

«Lo so, capisco. Ma l’ultima parte, quella sulla Chiesa cattolica...»


Isabelle aveva preso un altro grissino, ma lo tenne sospeso senza

metterselo in bocca. «Chiesa cattolica?»

«Pedofilia, Chiesa cattolica. Non le viene in mente niente?»

«Cosa dovrebbe venirmi in mente, a parte il fatto che è risaputo che certi

preti abusavano dei chierichetti e i loro superiori, pur sapendolo, non hanno

mosso un dito?»

«Appunto. Questo Ian Druitt era un diacono, non un prete a tutti gli effetti.

Quindi aveva un superiore qui a Ludlow, il quale magari era al corrente ma

non ha fatto nulla per fermarlo.»

«Sta dicendo che la motivazione della telefonata anonima è questa?

Dimostrare che la Chiesa anglicana ha fatto esattamente come la Chiesa

cattolica? Benissimo, e con questo?»

«Con questo, un diacono anglicano si è tolto la vita alla stazione di polizia

di Ludlow senza nemmeno sapere perché ce l’avevano portato. Stando al

rapporto dell’IPCC, l’agente ausiliario lo ha fermato senza dargli spiegazioni

perché lui non sapeva nemmeno per quale motivo gli era stato ordinato di

eseguire il fermo. E subito dopo il tizio si è ammazzato? Non ha senso.»

«Ha senso se si considera che, essendo un diacono, Ian Druitt si sarà visto

condannato non appena l’agente ausiliario si è presentato in sacrestia con

l’ordine di fermo. Come si chiama l’agente?»

Barbara Havers scartabellò fra i documenti. Arrivò Peace on Earth con i

due cocktail. «Gary Ruddock» rispose Barbara. «E quello che volevo dire

è...»

«Grazie, Peace. Posso darti del tu, vero?» disse Isabelle con enfasi. Non

voleva che qualcuno – e meno che mai il factotum di un albergo – sentisse i

discorsi che stava facendo con Barbara Havers.

«Per me non c’è problema» rispose Peace on Earth posando i bicchieri.

Barbara si affrettò a chiudere la cartelletta. Prese il vodka martini e senza

lasciare a Isabelle il tempo di consigliarle di centellinarlo, ne mandò giù una

sorsata come se fosse acqua minerale. Grazie a Dio non le prese fuoco la

testa. «Forte, eh?» riuscì a mormorare a stento.

Peace, nel frattempo, si era tramutato in cameriere. Tirò fuori carta e penna

e chiese cosa volessero mangiare. Isabelle scelse la vellutata per cominciare e

poi l’agnello – cottura media – mentre Barbara, che non aveva consultato il

menu, e forse non lo aveva proprio visto, con il filo di voce che le restava

dopo la vodka disse che avrebbe preso la stessa cosa, benché sembrasse


stupita che fosse possibile scegliere il grado di cottura dell’agnello. Quando il

ragazzo si fu allontanato – probabilmente per andare a cucinare – Isabelle

fece notare a Barbara che il fatto che Ian Druitt fosse un diacono della Chiesa

anglicana spiegava due elementi del caso. Primo, il motivo per cui la

telefonata era stata anonima. «Un genitore tendenzialmente non vuole che il

figlio venga interrogato dalla polizia riguardo a eventuali molestie. Specie se

a molestarlo è stato un diacono, perché alla fine è la parola del bambino

contro quella di un religioso.» Il secondo elemento era la tempestività con cui

era stato emesso l’ordine di fermo. «Il parlamentare che si è rivolto a Hillier,

Quentin Walker, ha detto che Druitt aveva organizzato un doposcuola qui a

Ludlow. Quindi, se molestava i bambini, vista la posizione di responsabilità

che occupava, avranno ritenuto necessario fermarlo al più presto.»

Barbara Havers però non sembrava convinta. «Oppure può essere andata

così, capo: qualcuno ha cercato di incastrarlo per qualcosa che non aveva

fatto» disse dopo averci riflettuto un po’.

Ludlow

Shropshire

Erano le undici e mezzo di sera, ma Barbara doveva assolutamente uscire a

prendere una boccata d’aria. Sapeva di aver fatto una cazzata. Dopo

l’aperitivo a base di vodka e martini, durante la cena avevano bevuto due

bottiglie di vino rosso. Una tazza di caffè – nero, forte e amaro – non era

bastata a farle ritrovare la sobrietà. Se Isabelle Ardery l’aveva fatta bere

apposta, per metterla alla prova, Barbara era consapevole di non aver

superato il test.

Il sovrintendente, dal canto suo, non aveva battuto ciglio e alla fine della

cena invece del caffè aveva ingollato due bicchieri di Porto. Reggeva l’alcol

in maniera straordinaria. L’unico segno che non fosse del tutto immune agli

effetti dell’alcol era stato quando, durante la cena, aveva ricevuto una

telefonata. Aveva guardato chi era e aveva detto a Barbara: «Devo

rispondere». Si era alzata per uscire dal ristorante e, andando verso la porta,

aveva sbandato leggermente. Ma poteva anche averlo fatto per evitare

un’increspatura nella moquette.

Barbara aveva sentito che diceva: «Ma io mi sono rivolta a lei proprio


perché risolvesse il problema». Quando era tornata, aveva una faccia

impassibile: quale che fosse l’argomento di cui aveva discusso al telefono,

l’aveva chiuso nel momento in cui aveva salutato il suo interlocutore.

Sembrava decisamente abile nel dividere la vita in compartimenti stagni.

Dopo cena, mentre salivano le scale, Isabelle le aveva illustrato i

programmi per l’indomani. Appuntamento per la prima colazione alle sette e

mezzo, dopodiché la giornata prevedeva un colloquio con l’agente ausiliario

che aveva portato Ian Druitt alla stazione di Ludlow, una visita al padre del

defunto e una chiacchierata con il vicario della chiesa di St. Laurence che,

secondo i documenti in loro possesso, era quella in cui Ian Druitt esercitava

le funzioni di diacono.

«Buonanotte, sergente. Dorma bene» aveva detto alla fine Isabelle Ardery.

Barbara, malferma sulle gambe, osservò la propria stanza e capì che, lungi

dal dormire bene, difficilmente sarebbe riuscita a chiudere occhio. Tanto per

cominciare, la stanza le ondeggiava intorno a una tale velocità che temeva di

non riuscire ad arrivare al letto. In secondo luogo, il letto era talmente stretto

e a prima vista talmente scomodo che, se anche fosse riuscita a raggiungerlo,

molto probabilmente avrebbe passato la notte come un prigioniero sulla ruota

della tortura.

Non era nata ieri, e aveva capito benissimo il motivo per cui Isabelle

Ardery l’aveva portata con sé in trasferta nello Herefordshire e poi nello

Shropshire. Non appena le aveva annunciato che non avrebbero fatto una

sosta per pranzare, aveva intuito che il sovrintendente avrebbe approfittato di

quella missione non per spingerla sull’orlo del baratro, ma per farcela cadere

dentro. L’antipatia di Isabelle nei suoi confronti era nata quasi subito ed era

cresciuta a ritmo costante, nonostante Barbara fosse riuscita a non macchiarsi

di alcuna grave colpa fino al giorno in cui era andata in Italia di propria

iniziativa contravvenendo agli ordini che le erano stati impartiti. L’aver

passato informazioni a un giornalista che scriveva per uno dei più infimi

tabloid del Paese non aveva migliorato la situazione; farlo più di una volta

aveva segnato la sua condanna. Per questo ora non aveva grandi difficoltà a

fare pronostici sul proprio destino. Secondo l’ispettore Lynley la trasferta era

un’occasione per riscattarsi, ma Barbara era certa che si trattasse invece di

una mossa per stroncare definitivamente la sua carriera e rendere inevitabile

il trasferimento a Berwick-upon-Tweed.

Quella camera d’albergo rientrava nel piano. Non c’era bisogno di vedere


la stanza di Isabelle Ardery per sapere che era molto diversa da quella

assegnata a Barbara, che un tempo doveva essere stata l’alloggio condiviso

dalla sguattera con la lavandaia e con la casara, sempre che in epoche di

maggior gloria Griffith Hall avesse anche un caseificio. Ma alle orecchie di

Isabelle Ardery non sarebbe mai giunta la minima lamentela da parte del

sergente Havers. A costo di dormire per terra, qualora il pavimento si fosse

rivelato meno duro del materasso.

L’alcol, però, rischiava di vanificare un’intera giornata di sforzi per rigare

dritto. Era completamente ubriaca, e questo non prometteva nulla di buono

per l’indomani. Doveva smaltire la sbornia. E doveva assolutamente fumare

una sigaretta. Siccome all’interno dell’hotel era vietato fumare – come

dappertutto, oramai, rifletté amaramente –, decise che forse con una

passeggiata notturna sarebbe riuscita a soddisfare entrambe le esigenze. Si

lavò la faccia nel bagno grande quanto un confessionale, prese la borsa,

controllò di avere le sigarette e scese barcollando alla reception.

Non c’era nessuno, ma sul bancone trovò una pila di cartine turistiche,

cartoline del castello e decine di dépliant che proponevano gite ed escursioni

nello Shropshire. Prese una cartina e la aprì. Nonostante gli occhi le

ballassero la polka, riuscì a vedere che era in gran parte occupata da

pubblicità di negozi, bar, ristoranti e gallerie d’arte, ma nel mezzo c’era una

mappa abbastanza dettagliata del centro storico. Grazie alla presenza del

castello, le fu facile orientarsi e, malgrado il giramento di testa, riuscì a

stabilire una rotta che la portasse fuori dal dedalo di viuzze del centro storico

fino alla stazione di polizia e ritorno.

Uscì con la cartina in una mano e le sigarette nell’altra. Mentre erano a

cena, aveva piovuto. L’aria era fresca e prometteva sobrietà. Sentì l’odore di

fumo di legna di una stufa o un camino accesi nelle vicinanze, un odore

gradevole che a Londra non si sentiva più da quando era vietato bruciare

legna in città. Alcuni se ne infischiavano e lo facevano lo stesso, ma era

comunque un profumo così raro che dava l’impressione di aver fatto un

viaggio all’indietro nel tempo.

L’architettura di Ludlow contribuiva non poco. Il Griffith Hall faceva parte

di una schiera di edifici che testimoniavano il passare dei secoli. Una targa su

una delle case spiegava che le costruzioni di epoca medievale erano state

restaurate nel periodo della Reggenza, mantenendo però l’impianto originale,

mentre all’angolo di Castle Square un caffè del Novecento fiancheggiava una


casa Tudor con travi a vista.

Barbara ebbe una sorta di spaesamento temporale, ma la musica poco

distante e un brusio di voci allegre le confermarono che si trovava nel terzo

millennio. Riconobbe il chiacchiericcio tipico in prossimità dei pub da

quando non si può più bere e fumare contemporaneamente e chi ha il vizio

della sigaretta è costretto a uscire. Immaginò che i bevitori/fumatori in

questione fossero perlopiù studenti, poiché dall’altra parte della strada vide

un arco fra due edifici sormontato dalla scritta WEST MERCIA COLLEGE in

lettere di acciaio lucido.

L’ultimo posto dove Barbara desiderava mettere piede era un pub. Si

accese la prima sigaretta e proseguì. Aveva la testa ovattata. Il suo massimo,

normalmente, era una pinta di birra alla settimana. Si maledisse per aver

accettato di bere superalcolici. Come diavolo aveva potuto mandare giù un

vodka martini? C’era da chiedersi dove fosse il confine tra cortese

accondiscendenza e stupidità totale.

In High Street incontrò una sola persona: un uomo con un sacco a pelo

sotto il braccio e una borsa di plastica in mano. Aveva uno zaino sulle spalle

ed era accompagnato da un pastore tedesco. Sembrava in procinto di

sistemarsi per la notte nell’androne di un palazzo di pietra che, secondo la

cartina, si chiamava Buttercross. Barbara era sul marciapiede opposto, quindi

non riuscì a vederlo bene, ma prese nota del fatto che a Ludlow c’era chi

dormiva per strada. Le parve strano.

Non c’era traffico a quell’ora. La vita notturna pareva limitata a qualche

pub, mentre la clientela dei ristoranti a quanto pareva cenava presto e se ne

andava subito a dormire.

Seguendo il percorso prestabilito, Barbara si trovò in un vicoletto che

portava ai cancelli del Renaissance Flea Market, il mercato delle pulci che

prometteva un assortimento di merci di cui lei non aveva alcun bisogno. Era

poco illuminato e Barbara lo percorse velocemente, ritrovandosi in una curva

dove secondo la cartina si incontravano Upper Galdeford Street e Lower

Galdeford Street.

Lì era tutto diverso: lasciandosi alle spalle il mercato delle pulci, Barbara

era uscita dal centro storico. La strada era più larga, una sorta di

circonvallazione che permetteva di aggirare la parte medievale della città, ed

era fiancheggiata da case a schiera con anonime facciate grigie o rivestite di

mattoni, con un solo gradino davanti alla porta. Il vento lì era pungente, e lo


era ancora di più quando Barbara giunse a destinazione.

La stazione di polizia si trovava all’angolo tra Lower Galdeford Street e

Townsend Close, non lontano da Weeping Cross Lane che, secondo la

cartina, scendeva fino al Teme. Probabilmente era proprio la vicinanza del

fiume a rendere l’aria più fredda.

Le dimensioni della stazione di polizia la sorpresero: era una palazzina a

due piani, di mattoni rossi, più grande di quanto si aspettasse. Il cartello

bianco e blu con la scritta POLICE STATION era sull’angolo sudorientale.

Una scaletta di pietra conduceva a una robusta porta di legno sormontata da

una pensilina non particolarmente elegante, ma utile per ripararsi dalla

pioggia.

Barbara salì gli scalini. Era abbastanza lucida da notare la telecamera di

sorveglianza puntata proprio sulla scaletta, sul marciapiede antistante e su

parte della strada. Vide anche che, a sinistra del portone, c’era un telefono

affiancato da un cartello in cui si spiegava ai potenziali utenti che, sollevando

il ricevitore, sarebbero stati messi in comunicazione con un operatore cui

avrebbero dovuto specificare da quale stazione chiamavano, oltre a nome,

cognome, numero di telefono e indirizzo. «Eventuali segnalazioni riguardanti

la legge del 2003 sui reati sessuali vanno effettuate da una delle seguenti

stazioni» concludeva il messaggio. Barbara lesse l’elenco e vide che Ludlow

non era compresa.

Questo la fece riflettere. La denuncia contro Ian Druitt riguardava reati

sessuali puniti dalla legge del 2003. Chissà se l’operatore che aveva risposto

alla chiamata aveva sollevato obiezioni, si chiese Barbara. E chissà perché la

polizia aveva deciso di intervenire sulla base della denuncia anonima di uno

che chiaramente non aveva ottemperato alla richiesta di specificare il proprio

nome, cognome, numero di telefono e indirizzo. Tuttavia, se nella precedente

indagine era stata individuata la posizione del telefono da cui era stata sporta

la denuncia, era ragionevole supporre che la registrazione della telecamera

puntata sulla scaletta mostrasse la persona che aveva effettuato la chiamata.

Restava però da spiegare perché mai l’anonimo informatore avesse deciso di

usare il telefono esterno della stazione di polizia anziché un qualsiasi telefono

pubblico della città.

Barbara si allontanò dal portone, scese gli scalini e studiò a lungo la

stazione. Alcune finestre del primo piano erano socchiuse, a conferma di

quanto aveva detto il comandante Wyatt, e cioè che la stazione veniva ancora


occasionalmente utilizzata. In quel momento tutte le luci erano spente, tranne

quella dell’ingresso, al pianterreno.

Sul retro c’era un parcheggio riservato ai veicoli di servizio e Barbara vide

una macchina ferma, con i fari spenti, a una certa distanza dall’edificio. Era

girata con il muso verso l’uscita, pronta a partire a tutta velocità. Barbara

stava per voltarsi e andarsene per la sua strada quando si accorse che

sull’auto c’era qualcuno. Intravide del movimento al posto di guida, un uomo

che reclinava lo schienale. Considerando l’ora, il posto e la situazione della

polizia dello Shropshire, dedusse che si trattava di uno degli agenti di

pattuglia che stava schiacciando un pisolino, mentre il collega manteneva le

apparenze continuando a pattugliare da solo. All’ora convenuta, il collega

l’avrebbe svegliato via radio e si sarebbero dati il cambio. Succedeva, anche

se era poco professionale. Più i tagli al bilancio incidevano sulle condizioni di

lavoro dei poliziotti, pensò Barbara, meno gli agenti erano disposti a

impegnarsi nel proprio lavoro.

Quality Square

Ludlow

Shropshire

«Il nipote, giusto?» chiese Francie Adamucci a Chelsea Lloyd. Poi fece una

delle sue classiche mosse, quella con i capelli: se li scostò dalla spalla destra

facendoli ricadere in modo molto sexy sul lato sinistro della faccia.

«Davvero? Il nipote? È troooppo giovane.»

«Allora mi stai dicendo che a te piace l’altro.» Con la birra che aveva in

mano – la quarta, ma chi le contava più? – Chelsea indicò vagamente nella

direzione del banco, dove Jack Korhonen stava spillando con grande cura una

pinta di Guinness per uno che avrà avuto a dir poco centottantatré anni. «A

me risulta che sia sposato, Fran.»

«A me risulta che non fa nessuna differenza.»

Ding ascoltava le sue due amiche impegnate in una tipica conversazione

Francie-Chelsea. Da qualsiasi argomento partissero, quando bevevano

finivano sempre per parlare di maschi e stilare classifiche dei più carini nelle

immediate vicinanze. Nel caso specifico i papabili erano tre: il vecchietto che

aspettava con ansia la Guinness, il proprietario di mezz’età dello Hard and


Hind e suo nipote ventenne, di cui Ding non riusciva mai a ricordare il nome.

C’erano altri uomini nel pub, ma erano improponibili. Ding stabilì che

l’unico che Francie poteva trovare interessante era Jack Korhonen.

Era uscita con le amiche perché non sopportava di rimanere a casa. Finn

era stato costretto ad andare a cena fuori con la madre ed era tornato di un

umore così pestilenziale che era meglio stargli alla larga. Quanto a Brutus...

Ding aveva deciso di adottare l’interpretazione di «rapporto privilegiato» che

lui le aveva illustrato nel pomeriggio e di uscire con Francie e Chelsea.

«Non ci credo! Hai avuto il coraggio di...?» esclamò Chelsea, che parlava

nascondendosi la bocca dietro la mano e sgranando gli occhi azzurri come

una quindicenne.

«Altroché, se l’ho avuto» replicò Francie. «Voglio dire: se uno ti piace, che

senso ha non provarci?»

«Ma avrà... Oddio, Francie, avrà, cioè, non so... quarant’anni, se non di

più...»

«È stata solo una botta e via» minimizzò Francie con leggerezza. «Mica ho

intenzione di sposarmelo.»

«Ma se sua moglie...»

«Sono separati in casa» dichiarò Francie con un tono annoiato da cui si

capiva che a lei non importava niente. «Sono comproprietari del pub e vivono

insieme, ma ognuno ha la sua camera. Lei va per la sua strada e lui per la

sua.»

«Come fai a saperlo?»

«Me lo ha detto lui.»

Chelsea spalancò ulteriormente gli occhi. «Ma ci sei o ci fai? È la balla che

ti raccontano tutti gli uomini sposati quando gli fa comodo!» Poi li socchiuse

riflettendo con aria smaliziata su quello che le aveva riferito Francie. «Non ci

credo. E dove l’avresti fatta, questa scopata da urlo con Jack Korhonen?»

disse.

«Che domanda stupida! Dove vuoi che l’abbia fatta? Mai sentito parlare

delle due stanze al piano di sopra?» Si rivolse a Ding: «Ding le conosce.

Vero, Ding?»

L’interpellata non ebbe bisogno di rispondere perché dalla scala dietro il

banco stava scendendo la prova vivente dell’esistenza di quelle stanze: una

ragazza formosa con un body aderentissimo e il suo accompagnatore, che

faceva dondolare dal dito una chiave con un portachiavi grosso come una


scarpa. Entrambi avevano gli occhi insolitamente lucidi. Il ragazzo restituì a

Korhonen nipote la chiave insieme con due biglietti da venti sterline. Il nipote

annuì, sorrise e mise i soldi in una specie di minisecchiello del carbone che si

trovava lì accanto, anziché nella cassa. Subito dopo un’altra coppia si fece

consegnare la chiave e salì le scale.

«Oddio» esclamò Chelsea. «Non cambiano nemmeno le lenzuola?»

«Erano abbastanza pulite, quando le abbiamo usate noi» commentò

Francie.

«Abbastanza pulite non basta. C’è da prendersi qualche brutta malattia!»

Francie alzò le spalle: non voleva perdere tempo a discutere di igiene e

malattie, e Chelsea scosse la testa. «Comunque non ci credo. Non ha senso

andare a letto con uno così vecchio.»

«Te l’ho detto, mi eccita da morire. E avevo voglia di divertirmi un po’. È

solo sesso, Chelsea. Se non avessi un esame domani, ci farei un pensierino

anche stasera.»

Detto questo, mandò giù il resto della birra. Chelsea la imitò come sempre

e Francie chiese a Ding se era pronta ad andare. Ding disse che sarebbe

rimasta al pub. «Ci vediamo domani mattina» promise.

Dopo che le altre due furono uscite, Ding ordinò un’altra lager al nipote,

ma intanto occhieggiò lo zio e si chiese come mai Francie Adamucci, che

volendo poteva portarsi a letto qualsiasi maschio, avesse deciso di andare

proprio con lui.

Non era brutto, bisognava ammetterlo. Era brizzolato, ma aveva tanti

capelli, belli e ricci. Anche la barba era mezza grigia, ma ben curata, e gli

donava. Portava occhiali alla moda con la montatura rotonda che gli davano

un’aria da intellettuale. Però usava le bretelle invece della cintura e, benché le

scegliesse colorate o a fantasia, secondo lei lo invecchiavano. Non che

pensasse spesso a Jack Korhonen, ma quando succedeva trovava che fosse un

po’ vecchiotto. Troppo per andarci a letto. A meno che non scopasse da dio,

naturalmente.

Quelle riflessioni su Jack inevitabilmente portarono Ding a riflettere su

Brutus. Scopava da dio? No. Nessun diciottenne scopava da dio, nemmeno

Brutus, che faceva sesso come se temesse che le donne stessero per sparire

dalla faccia della terra. Jack Korhonen, però... un uomo di quell’età, con

decenni di esperienza... Se Francie era così sicura che fosse un amante

straordinario, o glielo aveva raccontato qualcuno, oppure lo aveva


sperimentato di persona. Altrimenti avrebbe dimostrato interesse per il nipote

– come si chiamava? – e invece non l’aveva considerato nemmeno quando

Chelsea aveva detto che secondo lei non era male. Tutto sembrava

confermare che Jack scopava da dio, pensò Ding. Se Francie era stata con

Jack Korhonen, un motivo doveva esserci.

Si accorse che Jack stava guardando nella sua direzione. Naturale, dal

momento che oltre a essere una cliente pagante era anche l’unico esemplare

di sesso femminile in quella parte del locale. Ding inclinò la testa di lato e

incrociò il suo sguardo. Poi prese il bicchiere e bevve. Quando lo posò, si

passò la lingua sul labbro superiore per togliere inesistenti tracce di schiuma.

Il nipote uscì da dietro il banco e andò verso alcuni tavoli lasciati liberi da

studenti che, come Francie, avevano esami da preparare o compiti da finire o

lezione molto presto il giorno dopo. Si mise a raccogliere bicchieri e pulire i

tavoli e non si accorse che dal piano di sopra era scesa un’altra coppia.

Fu Jack Korhonen a occuparsene: ritirò la chiave, prese i soldi, li mise nel

piccolo secchiello da carbone e guardò i due andare via. Poi si voltò per

raccogliere i bicchieri lasciati da Francie e Chelsea. «Le tue amiche ti hanno

abbandonato, eh?» le disse. Ding avrebbe potuto lasciare che il discorso si

concentrasse su Francie e Chelsea, invece optò per: «Non pensavo che fossi

tu a gestire le stanze».

«Quali stanze?» ribatté lui mentre immergeva i bicchieri nel liquido non

meglio identificato con cui li lavava.

«Hai capito benissimo.»

«Veramente no. Di che stanze parli?»

«E dai, Jack!» Si stupì lei stessa di averlo chiamato per nome, consapevole

che si trattava di un segnale e nello stesso tempo non del tutto sicura di

volersi spingere a tanto. «Quel tipo ti ha restituito una chiave. E ti ha dato dei

soldi.»

«Quale tipo? Quale chiave? Hai le traveggole? Le allucinazioni?» chiese

Jack.

Poi la squadrò in maniera inequivocabile: angoli della bocca piegati

leggermente all’insù, narici lievemente dilatate, sguardo che scendeva

fugacemente sul seno per poi cercare i suoi occhi.

Ding capì che ci stava provando e si chinò per mostrargli meglio la

scollatura. Passò il dito indice sull’orlo del bicchiere. «Mi prendi in giro,

vero? Francie dice che le usi anche tu, quelle stanze» sussurrò.


«Francie?» Jack stava asciugando i bicchieri. Il nipote ne portò altri in un

catino di plastica, ma Jack non lo degnò di uno sguardo. «Fa male a dirlo in

giro: pensavo che mantenesse il nostro piccolo segreto.»

«E scommetto che ne hai tanti, di piccoli segreti.» Ding passò di nuovo il

dito sull’orlo del bicchiere, poi se lo portò alle labbra e se lo succhiò

lentamente.

Jack la guardò. «Ehi, bella, ti conviene stare attenta. Gli uomini si fanno

un’idea sbagliata, se ti comporti così.»

«Chi ti dice che sia l’idea sbagliata?» ribatté Ding.

Jack rimase un momento in silenzio, prima di rispondere. «Se è questo che

vuoi, non ho problemi ad accontentarti.» In tre secondi posò sul banco la

chiave riconsegnata dalla coppia scesa poco prima da una delle stanze al

piano di sopra. «O vuoi provocarmi e basta?» disse. «Hai l’aria di una che si

tira indietro sul più bello. Scommetto che all’ultimo momento scappi via.»

«Mai stata una che si tira indietro» dichiarò Ding.

«Se lo dici tu» replicò Jack, e andò a prendere il catino pieno di bicchieri

sporchi. Nel frattempo si avvicinò il nipote. Guardò la chiave, guardò Ding e

poi lo zio. E lasciò la chiave dov’era.

Ding bevve due lunghi sorsi di birra. Era piacevolmente eccitata. Si disse

che non c’era nulla di male, in fondo. Lo facevano tutti, e lei aveva un motivo

di più.

Aveva creduto che fra lei e Brutus ci fosse qualcosa di serio. Quando lui le

aveva detto che erano solo «amici di letto», pensava che sarebbe stato

abbastanza facile trasformare quell’amicizia particolare in qualcosa di più.

Invece adesso si rendeva conto che non era possibile. E così prese la chiave.

Vide che sul portachiavi c’era il numero 2. Doveva soltanto salire le scale e

cercare la porta giusta. Si accorse che Jack Korhonen la guardava con aria

scettica: era una che la faceva annusare e basta, o una vera donna come

Francie Adamucci?

Prese il bicchiere e si avviò verso le scale lanciandogli un’occhiata. Non

aveva dubbi sul fatto che lui l’avrebbe seguita.

Nel corridoio al primo piano due lampadine illuminavano di luce fioca le

porte delle due stanze. Una terza, al centro, era socchiusa: era il bagno in

comune a disposizione dei clienti che desideravano fermarsi per la notte, ma

doveva essere un caso raro, perché evidentemente la soluzione «albergo a

ore» rendeva molto di più.


Dalla camera contrassegnata con il numero 1 provenivano grugniti e gemiti

e il ritmico richiamo delle molle di un materasso. Mentre Ding passava, una

donna urlò «Sì, sì, sì!» e il ritmo del cigolio si intensificò, mentre le urla si

trasformavano in gridolini di piacere.

Ding passò oltre, bevendo un altro sorso di birra. Era pronta a scolarsi tutta

la pinta. Per una volta, si sentiva totalmente libera.

Entrò nel bagno. Il buonsenso le suggeriva di usarlo. Da lì sentì ancora più

chiari i grugniti provenienti dalla stanza numero 1. Si chiese quanto ci

avrebbe messo lui a venire, se ce l’avrebbe fatta o se, sfinito, si sarebbe

dovuto accontentare. Per la ragazza sembrava essere andata alla grande. Non

urlava più, mentre il suo compagno continuava a darci dentro.

Tirare o non tirare lo sciacquone, si chiese Ding. Meglio di no. Non voleva

mettere in imbarazzo la coppia nella stanza numero 1 – benché chi usava

quelle camere non doveva essere particolarmente propenso all’imbarazzo –,

ma soprattutto non voleva che lui si distraesse dal suo sforzo prolungato. Uscì

dal bagno in punta di piedi, andò verso la stanza numero 2 ed entrò facendo

meno rumore che poteva.

Fu investita dall’odore, che la accolse come una padrona di casa troppo

ansiosa di ricevere i suoi ospiti. Era un misto di femmina che si lava poco,

maschio che non usa deodorante, sesso, lenzuola sporche e una dose

massiccia di un profumatore per ambienti che non riusciva a coprire il tanfo.

Nessuno aveva pensato ad aprire la finestra e Ding si accinse a provvedere,

ma scoprì che era bloccata e con i vetri così luridi che a stento si capiva dove

si affacciava, ovvero sull’acciottolato di Church Street, con i lampioni che

proiettavano coni di luce su due gallerie d’arte e un negozio di formaggi.

Voltò le spalle alla finestra per osservare la stanza. Non aveva acceso la

luce e, nella penombra, intravide l’arredamento decisamente minimalista: un

cassettone, una poltrona sfondata, un letto matrimoniale, un comodino con

lampada. Sopra al letto era appesa una stampa che non riuscì a distinguere,

ma a giudicare da come pendeva diritta doveva essere stata inchiodata

direttamente al muro. Non c’erano altri fronzoli e il letto era un nudo

materasso: qualcuno aveva tolto le lenzuola puzzolenti, che erano

ammucchiate in un angolo.

Sul cassettone c’era un cestino di potpourri. Ding lo annusò: sapeva più

che altro di polvere. Accanto c’era la bomboletta di un deodorante per

ambienti, che spruzzò fino a consumarla tutta. Mandò giù il resto della birra,


si sedette sulla poltrona e aspettò.

Jack arrivò prima di quanto si aspettasse, meno di dieci minuti dopo che lei

era salita di sopra. Entrò senza bussare e cominciò subito a tossire. «Che c’è?

Hai la passione della lavanda?»

A parte questo, non fece commenti sulle condizioni della stanza. Chiuse la

porta e, come Ding, non accese la luce. Si abbassò le bretelle, tirò fuori la

camicia dai pantaloni e andò verso di lei. «Non scappi sul più bello, vero?

Non sei una che la fa annusare e basta?»

«Vedi tu. Se non ricordo male, non mi hai trascinato qui di peso.»

Jack ridacchiò. «Sei un bel tipo, sai? Sei al college, o cosa?»

«Cosa te ne frega?»

«Non me ne frega niente, ma non voglio trovarmi nei guai perché mi sono

portato a letto una quindicenne. Quanti anni hai?»

«Diciotto. E tu?»

«Mi piaci.»

«Non è questo che volevo sapere.»

«Immagino. Ma non ho intenzione di dirti altro. Vieni qua.» La fece alzare

in piedi e cominciò a baciarla, cogliendola alla sprovvista. Di sicuro ci sapeva

fare, pensò Ding. Baciava in un modo che ti faceva venir voglia di lasciarlo

fare per un’intera settimana. Mentre la baciava, le prese le mani e se le infilò

sotto la camicia, per poi cingerle i fianchi e avvicinarla a sé. Incominciò ad

accarezzarla, le sganciò il reggiseno e le strizzò i capezzoli fin quasi a farle

male, mollandoli un attimo prima che lei gridasse. Sembrava che lo sapesse, e

forse era così. Fitte di puro piacere le andavano a finire esattamente dove lui

voleva che andassero.

Si staccò da lei e la guardò annuendo come se in qualche modo Ding gli

avesse dato la conferma che cercava. Andò verso il letto e si sfilò la camicia

dalla testa, come Ding aveva visto fare nei film, quando la fretta era tale che

persino sbottonarsi era tempo sprecato. La buttò sul letto, si tolse le scarpe e

si abbassò i pantaloni. Ding vide che non portava le mutande.

Sapeva di dover fare qualcosa: aiutarlo a finire di denudarsi oppure

spogliarsi lei. Ma era rimasta impietrita alla vista della sua schiena

muscolosa, dei glutei scultorei, delle gambe e delle braccia...

Jack si voltò verso di lei e Ding gli vide il vello di peli scuri e grigi sul

petto, che si stringeva all’altezza della vita per riallargarsi più in basso a

formare il folto nido dal quale si ergeva il membro, mentre in alto gli arrivava


appena sotto il collo dove la corda... Era una corda, una cravatta, o la cintura

di una vestaglia?

«Ti piace? Quasi tutte le ragazze ne vanno pazze.»

... E lei non sapeva cosa fare, cosa voleva dire, e così rimase zitta, senza

dire una parola sulla corda, la cravatta, la cintura della vestaglia. Come

poteva?

«Cosa aspetti? Spogliati, bella. Mica voglio stare qui in eterno.» E la mano

si strinse intorno al pene per dargli un aiuto, visto che lei non stava facendo

quello che avrebbe dovuto, ovvero togliersi i vestiti, avvicinarsi e mettersi a

cavalcioni su di lui e sfregarglisi contro perché sentisse quanto era eccitata al

solo vederlo e toccarlo, solo che non lo era affatto, non più, non in quel

modo.

Ding andò verso la porta, ma lui la afferrò. «Ehi! Cosa fai? Ti aspettavi

qualcosa di diverso? Volevi cuori e fiori, musica e baci sul collo, invece di

questo?» Le mise una mano fra le gambe e, mentre la attirava a sé, disse:

«Dammi retta, ragazzina, vedrai che ti piacerà farlo in modo un po’ brutale.

Perché credi che tornino da me le tue amiche, le tue compagne di college?»

La fece voltare verso il letto, le sollevò la gonna e cominciò a tirare l’elastico

dei collant. Ding cacciò un urlo.

«Cosa cazzo...? Ma cosa fai? Piantala di gridare, dai!» La lasciò andare.

Ding si precipitò verso la porta temendo che lui cercasse di fermarla, ma

non lo fece, naturalmente, perché non era un violento; era un uomo che si

portava a letto tutte le donne che voleva, come voleva e quando voleva, e se

lei non ci stava – ed era chiaramente così – non l’avrebbe costretta.

Ding arrivò in fondo alle scale in un baleno e altrettanto velocemente

raggiunse la porta e uscì nella notte.


6 MAGGIO

Ludlow

Shropshire

Al mattino Barbara telefonò all’ispettore Lynley. Nonostante la camminata,

non era riuscita a smaltire l’alcol ingurgitato la sera precedente. Aveva

dormito poco o niente e non soltanto per il fatto che la stanza ondeggiava

come un traghetto durante una traversata particolarmente burrascosa della

Manica, ma anche perché di ritorno dal suo giro per Ludlow aveva chiamato

Peace on Earth, svegliandolo chissà dove, e si era fatta preparare un intero

bricco di caffè. Dal momento che nella sua stanza non c’era abbastanza

spazio per lavorare, si era sistemata nel bar dell’hotel, dove la sera prima

aveva bevuto il primo – e ultimo – vodka martini della sua vita. Tracannando

caffè, aveva esaminato i dossier della West Mercia Police e aveva messo per

iscritto ciò che aveva notato durante la passeggiata serale.

Aspettò che fossero le sei e un quarto per chiamare Lynley dalla camera

con il pretesto di parlargli del castello che vedeva dalla finestra. Era presto,

ma Lynley era un tipo mattiniero.

A rispondere al cellulare, però, fu una donna. «Salve, Barbara. Siamo in un

momento critico. Non glielo posso passare.» Barbara ne dedusse che non

aveva sbagliato numero e che stava parlando con Daidre Trahair, il cui lavoro

allo zoo di Londra imponeva risvegli antelucani quanto quelli dell’ispettore.

Restò interdetta. Era al corrente della relazione di Lynley con la

veterinaria, ma lui non le aveva mai parlato esplicitamente di nottate passate

con Daidre Trahair. «Forse preferisco non sapere di che momento critico si

tratta. Può dirgli di richiamarmi appena lo avrete superato?» Nell’attimo in

cui quelle parole uscirono dalle sue labbra, Barbara si rese conto che forse

sarebbe stato meglio evitare le frasi ambigue.

Daidre però si mise a ridere. «Sta preparando la colazione. Uno spettacolo

molto interessante: non avevo mai visto nessuno strapazzare le uova in questo


modo.»

«Scusi se mi permetto, ma se fossi in lei, non le mangerei» interloquì

Barbara. «A quanto mi risulta, non gli riesce nemmeno il pane tostato.»

«Grazie dell’avvertimento. Approfitterò della sua telefonata per finire io di

cuocerle. Ora glielo passo.»

«Barbara, è successo qualcosa?» esordì poco dopo Lynley.

«Ho superato brillantemente tutti gli ostacoli fino all’ora di cena, e mi

creda, ispettore, fin dal primo momento me li ha messi davanti uno dopo

l’altro come biada davanti a un cavallo» gli rispose.

«Mi racconti» disse Lynley.

Barbara gli riferì tutto dalla A alla Z: dal viaggio Londra-Ludlow con una

sola sosta per fare benzina e una per andare in bagno fino all’aperitivo e alla

cena. Non gli nascose nulla. Aveva bisogno di un consiglio su come

procedere prima di rivedere il sovrintendente a colazione, e la pancia le

diceva che confessare i propri peccati a Lynley l’avrebbe aiutata a non

commetterne altri.

«Un vodka martini e poi anche il vino?» chiese Lynley al termine della

confessione. «Per lei è tanto, Barbara. Non ha pensato...?»

«Appunto, non ho pensato. Lei mi ha proposto di bere qualcosa perché

eravamo fuori servizio, e il tipo era già lì – Peace on Earth, si chiama.

Incredibile, eh? – a chiederci cosa volevamo ordinare... La lista era piena di

cocktail dai nomi improbabili – a proposito, cosa diavolo è un Sunset in New

Mexico? – e ho pensato... Non so cosa ho pensato, fatto sta che ho detto va

bene, prendo la stessa cosa che prende lei. Un bicchiere di vodka grande

quanto il cappello di paglia che si mette mia madre a Pasqua. Poi il vino. Alla

fine ho preso il caffè, ma il danno ormai era fatto e lei sapeva che ero ubriaca.

Voglio dire, come poteva non saperlo? È già tanto se non ho vomitato per le

scale. Invece lei non ha avuto il minimo... Cioè, ha sbandato leggermente

quando è uscita dal ristorante per rispondere al telefono, ma poi basta. Non

aveva nemmeno la lingua impastata.»

Lynley rifletté un attimo. «Io non mi preoccuperei» disse.

«Ma devo chiederle scusa? Le spiego che di solito bevo solo birra, e non

più di una alla settimana?»

«No, non le dica niente» rispose pronto Lynley. «A parte metterla alla

prova – e questo doveva aspettarselo, Barbara – come si è comportata?»

aggiunse poi.


«Come al solito. Della serie: ’Io sono l’ape regina, la leggenda, la dea’.

L’unica eccezione, come le dicevo, è stata quando ha ricevuto quella

telefonata, ieri sera. Ha risposto e ho sentito che parlava con qualcuno a cui si

era rivolta perché le risolvesse qualche problema, e non sembrava per niente

contenta.»

Lynley tacque. Forse si stava chiedendo se rivelarle qualcosa. Barbara lo

sperava, soprattutto se si trattava di informazioni che potevano facilitarle i

rapporti con Isabelle Ardery, ma decise di non insistere. Thomas Lynley era

innanzitutto un gentiluomo. Se Isabelle Ardery gli aveva confidato qualcosa

in segreto, non avrebbe mai tradito la sua fiducia, né per amore, né per

denaro, né per lealtà nei confronti di Barbara Havers.

«Se pensa che ieri sera Isabelle l’abbia fatta bere per metterla alla prova...»

le disse dopo un po’ Lynley.

«Se?» sottolineò Barbara.

«... sia più prudente. Non bisogna per forza accettare tutto quello che viene

offerto. Si può dire educatamente di no. Come si sente stamattina?»

«In uno stato pietoso.»

«Ah. Faccia il possibile perché non si noti, e vedrà che filerà tutto liscio.»

«È che...» Barbara moriva dalla voglia di rivelargli il vero motivo della

telefonata, ovvero che avrebbe tanto voluto che a Ludlow ci fosse lui: o al

posto suo come braccio destro di Ardery, o al posto di Ardery con lei –

Barbara – come braccio destro. Si rese conto anche che la sua opzione

preferita era la seconda e che quindi era meglio non finire la frase.

«È che...?» la incoraggiò Lynley.

«Niente. Spero di riuscire a mandar giù qualcosa a colazione.»

«Ce la farà. Almeno una volta ci siamo passati tutti. Stringa i denti,

sergente.»

Lynley chiuse la telefonata. Barbara non sapeva se la conversazione

l’avesse fatta stare meglio o peggio, ma non aveva scampo: doveva scendere

a fare colazione.

Trovò il sovrintendente Ardery che concludeva una telefonata al cellulare,

mentre Peace on Earth stava arrivando al tavolo con una caffettiera a

stantuffo. Isabelle lo invitò a versare il caffè e, dopo un’occhiata a Barbara,

aggiunse: «Immagino che ce ne vorrà un’altra».

Barbara si trovò costretta a replicare. «Da oggi in poi berrò solo acqua del

rubinetto. Al massimo, ma proprio al massimo, con un cubetto di ghiaccio e


una fetta di limone.»

Le labbra di Isabelle Ardery accennarono un sorriso così lieve che poteva

anche essere un tic involontario. «Può pure darsi che gliene portino due di

cubetti, com’è successo a me. Beva un caffè.» Prese il proprio e lo bevve

nero. Le tremava leggermente la mano.

«Sono andata a fare un giro, ieri sera.»

«Ammirevole.» Isabelle Ardery si astenne dall’aggiungere: «considerato

lo stato in cui era». «E come le è parsa la ridente città di Ludlow?»

«Meno illuminata di quanto mi aspettassi. Un sacco di stradine sembrano

fatte apposta per gli scippatori. Ma sono riuscita a trovare quello che cercavo:

la stazione di polizia.»

«E?»

In quell’istante arrivò Peace on Earth con la seconda caffettiera e il blocnotes

da cameriere. Isabelle Ardery ordinò – sbalorditivo – una tradizionale

colazione all’inglese. Barbara optò per l’unica cosa che sperava di riuscire a

mandare giù, il porridge. Peace la guardò come se da lei si aspettasse di

meglio. Come avrebbe fatto ad affrontare la giornata a stomaco semivuoto?

«È tutto, grazie» e non accennò al fatto che di solito faceva colazione con una

o due tortine al cioccolato e una tazza di tè.

Appena il cameriere si fu allontanato, Barbara raccontò a Isabelle Ardery

quello che aveva scoperto alla stazione non presidiata, compresa la

videocamera di sorveglianza, la posizione del telefono esterno, il cartello che

informava gli utenti della procedura da seguire per segnalare i reati sessuali,

la finestra socchiusa a riprova che, come aveva spiegato il comandante

Wyatt, di tanto in tanto la stazione veniva usata e, infine, la Panda nel

parcheggio con il poliziotto sul sedile reclinato all’indietro.

«Ci ho pensato un po’ su» disse. «Il tipo in macchina ieri sera, secondo me,

era un agente che schiacciava un pisolino lasciando il suo collega a

pattugliare da solo per un’ora o due. Poi fanno cambio e dorme l’altro.»

«Cosa c’entra questo con il caso per cui siamo qui?» chiese Isabelle

guardandola da sopra la tazza. Aveva finito il primo caffè e stava bevendo il

secondo.

«Magari la sera in cui è morto Druitt la dormita se la stava facendo

l’ausiliario, quel Gary Ruddock. Non era dentro la stazione, era in

macchina...»

«Ma perché sarebbe dovuto uscire? Non c’era nessuno nella stazione a


parte lui e Ian Druitt, no?»

«Magari è andato a dormire in uno degli uffici. In ogni caso, è il fatto del

sonnellino che mi ha dato da pensare. Mi sembra inverosimile che Druitt sia

riuscito a uccidersi con l’agente ausiliario dentro la stazione e nel pieno

possesso delle sue facoltà. Qualcosa di anomalo quella sera doveva esserci,

secondo me, e quel qualcosa potrebbe essere che l’ausiliario dormiva.»

Isabelle Ardery annuì. «La sua posizione peggiorerebbe parecchio, se così

fosse. D’accordo, allora: stamattina vada dall’ausiliario e veda cosa riesce a

cavargli oltre a quello che sappiamo già. Confronti quello che le dirà con

quello che ha detto all’ispettore Pajer e all’IPCC. Che noi siamo qui lo saprà

già, quindi è inutile sperare nell’effetto sorpresa. Ah, si faccia mostrare dove

è avvenuto il suicidio.»

«Giusto. Certo. Però pensavo che dovremmo anche...»

«Sì?» Il tono era interessato, ma Isabelle socchiuse gli occhi in quel suo

classico modo.

«L’agente ausiliario» disse Barbara, affrettandosi a cambiare argomento.

«Certo. Vado.»

Isabelle Ardery fece un altro sorriso simil-tic. «Brava. Nel frattempo, io ho

contattato Clive Druitt. Uno dei suoi birrifici è a Kidderminster. Andrò a

parlargli e cercherò di convincerlo a non ricorrere alle vie legali. Ho già

capito che vuole farmi una testa così sul fatto che il suo ragazzo – così lo

chiama – non può essersi impiccato perché il suicidio è ’un abominio agli

occhi di Dio’, per usare le sue stesse parole. Vedremo.»

Ludlow

Shropshire

Quando telefonò all’agente ausiliario Gary Ruddock per fissare un incontro,

Barbara scoprì che la sua disponibilità dipendeva da un certo «vecchio Rob»,

l’anziano pensionato presso cui abitava. Quella mattina doveva

accompagnarlo dal medico per una visita che aveva a che fare con la vescica

del vecchietto, la prostata, l’incontinenza sempre più grave. In poche parole,

non si poteva rimandare. Ruddock, però, era pronto a incontrare il sergente

investigativo Havers alla stazione di polizia dopo la visita. Intorno alle undici

e mezzo poteva andare?


Al telefono sembrava un tipo per bene. Avendo una madre molto anziana,

Barbara capiva la situazione, benché lei non vivesse più con la madre da

molto tempo. E visto che assistere il padrone di casa sembrava far parte dei

doveri di Gary Ruddock, Barbara accettò la proposta.

Si ritrovò così alcune ore libere a disposizione. Valutò se telefonare al

sovrintendente Ardery per chiederle cosa doveva fare mentre lei cercava di

placare il padre di Ian Druitt, ma abbandonò l’idea in quanto dimostrava uno

scarso spirito di iniziativa. Lynley sarebbe rimasto deluso.

Aveva il tempo di andare alla chiesa di St. Laurence – ammesso che

riuscisse a trovarla nel dedalo di stradine del centro storico –; nelle vicinanze

sicuramente avrebbe trovato anche la casa parrocchiale. Rivolgere qualche

domanda al vicario e farsi dire che cosa sapeva sul diacono e come l’aveva

saputo le parve una valida alternativa rispetto a poltrire in albergo in attesa

che Gary Ruddock si liberasse dai suoi impegni di badante.

Uscendo, vide che la giornata si annunciava splendida. Dall’altra parte

della strada, i prati davanti al castello luccicavano per la pioggia della sera

prima e nelle aiuole occhieggiavano fiori azzurri, bianchi e gialli.

Individuò sulla cartina un percorso che, tagliando Castle Square in

diagonale, l’avrebbe portata nei pressi della chiesa di St. Laurence, circondata

dai palazzi storici che nei secoli le erano stati costruiti tutto intorno. Nella

piazza gli ambulanti stavano allestendo il mercato, che offriva

prevalentemente generi alimentari e, a giudicare dagli aromi che aleggiavano

nell’aria, soprattutto prodotti da forno.

Arrivata sul lato nord della piazza, Barbara imboccò Church Lane, uno dei

due vicoli strettissimi che conducevano verso est. Era pieno di negozietti che

vendevano un po’ di tutto, dal formaggio alle scacchiere. La chiesa si trovava

poco più avanti e il suo lato ovest guardava verso una serie di case disposte a

ferro di cavallo che un tempo dovevano essere state ospizi per mendicanti.

C’erano due ingressi, uno a sud e uno a ovest, e quello a sud sembrava il

principale. Dal momento che dove c’è una chiesa in genere ci sono delle

persone, e fra queste qualcuno che presumibilmente sa dove si trova la

canonica, Barbara decise di dare un’occhiata all’interno.

La chiesa era sorprendente, oltre che per la posizione, completamente

nascosta dalle case a parte la torre campanaria centrale merlata, anche per le

dimensioni. Era enorme, a testimonianza della ricchezza che il commercio

della lana aveva assicurato a Ludlow nei secoli passati. Era di arenaria


rossiccia, con imponenti contrafforti, finestre in stile gotico e guglie che

sormontavano i quattro angoli della torre campanaria. A nord c’era un piccolo

camposanto ombreggiato da alberi di tasso. Nel cielo azzurro volteggiavano

strillando alcune taccole.

La porta era aperta. Dentro la chiesa, invece del silenzio contemplativo che

si aspettava, Barbara trovò un’accesa discussione in corso tra due donne, una

più vecchia e una più giovane, su quanti mazzi di fiori fossero «davvero

necessari, Vanessa» per addobbare la chiesa in vista di un imminente

matrimonio. «I soldi non ci mancano, mamma» ribatté Vanessa, petulante. «E

non voglio che ci vengano a mancare» disse la madre. «Hai due sorelle e

anche loro hanno diritto a un bel matrimonio.» Si spostarono verso il coro, in

fondo al quale c’era una finestra gotica con un’antica vetrata colorata che

doveva essere in qualche modo sfuggita alla furia iconoclasta di Thomas

Cromwell.

Barbara smise di ascoltarle: aveva visto un uomo che si dirigeva verso una

cappella con un’altra finestra enorme – anche questa con i vetri colorati – e

un piccolo altare. A giudicare dall’abbigliamento doveva essere un prete, così

decise di fare un tentativo. Tirò fuori dalla borsa il tesserino, disse «Mi scusi»

e si avvicinò.

L’uomo si voltò. Era più vicino ai settanta che ai sessanta e aveva i capelli

grigio ferro pettinati all’indietro in un’onda che pareva scolpita, il viso liscio,

sopracciglia scure e folte e orecchie grandi da vecchio. Inclinò la testa da una

parte senza dire nulla, lanciando però un’occhiata ansiosa nella direzione da

cui venivano le voci di Vanessa e della madre. Probabilmente temeva che

Barbara stesse per chiedergli di intervenire nella disputa sui fiori.

Barbara si presentò, gli spiegò nei dettagli il motivo della propria visita a

Ludlow e concluse con la richiesta di parlare di Ian Druitt con il vicario. Per

caso era lui? Sì, era lui. Si chiamava Christopher Spencer ed era ben lieto di

accontentarla. Parve ancora più lieto di uscire dalla chiesa, perché la lite sugli

addobbi nuziali stava salendo di tono. Vanessa evidentemente era abituata ad

alzare la voce per ottenere quello che voleva.

La canonica non era distante, disse il reverendo Spencer, bastava

attraversare il camposanto. Le dispiaceva se parlavano là invece che in

chiesa? Sua moglie gli aveva assegnato una lista di cose da fare e «le

signore» lo avevano distolto, spiegò indicando con un cenno della testa

madre e figlia. Barbara rispose che per lei andava benissimo.


Quando furono in casa, le offrì un caffè. Barbara rifiutò. Allora le offrì un

tè, ma di nuovo Barbara declinò. Spencer disse che, se non era un problema,

mentre parlavano avrebbe pulito la gabbia delle cocorite. Le sarebbe stato

molto grato, perché era una delle incombenze che gli aveva affidato sua

moglie, la quale aveva il terrore dei pennuti, benedetta donna.

Barbara gli disse che non aveva nulla né contro i pennuti né contro il fatto

che pulisse la gabbia, purché non le chiedesse di aiutarlo. «Ma no, si figuri!»

esclamò scandalizzato il reverendo. «Prego, le faccio strada.»

Dalla cucina la portò in quella che doveva essere stata la dispensa della

vecchia casa. Lì, su una mensola di marmo, era posata una grossa gabbia

occupata da due cocorite coloratissime che osservarono con un certo interesse

l’avvicinamento del vicario.

«Non le teniamo sempre qui» spiegò il reverendo. «Avrebbero pochi

stimoli. Tranne le mattine in cui pulisco la gabbia, stanno nel salotto vicino

alla finestra.»

«Capisco» disse Barbara.

«Si chiamano Ferdinando e Miranda» continuò Spencer. «’Questa rozza

magia ora rinnego’ eccetera eccetera.»

«Ah.» Barbara non sapeva come interpretare quella dichiarazione, ma

immaginò che per Lynley sarebbe stato come bere un bicchiere d’acqua di

fonte.

«Si chiamavano già così quando li abbiamo presi» aggiunse. «Ci sarebbero

stati nomi migliori, secondo me, ma perlomeno non si chiamano Romeo e

Giulietta. Devo confessare, però, che non li distinguo uno dall’altra. Sarebbe

stato utile vederli impegnati in certe attività, ma non mi è mai capitato.

Comunque sembra che nemmeno loro sappiano chi è Ferdinando e chi è

Miranda. Vuole sedersi? Posso andarle a prendere una sedia in cucina. O uno

sgabello. Preferisce uno sgabello?»

Barbara rispose che preferiva stare in piedi in modo da seguire meglio le

operazioni di pulizia della gabbia, nell’improbabile eventualità che un giorno

le venisse voglia di prendere due cocorite. Il reverendo si mise all’opera. Aprì

la gabbia e vi infilò una mano di taglio in maniera che i due pennuti ci si

posassero sopra. Poi ritirò la mano e le cocorite saltarono disciplinatamente

sul tetto della gabbia. «Pronto caffè?» disse una delle due. «Latte e

zucchero?» replicò l’altra.

Il vicario spiegò che erano le uniche due frasi che sapevano e che nessuno


gliele aveva insegnate. Le avevano imparate così, come fanno gli uccelli.

Quasi in risposta alle sue parole, le cocorite emisero un verso roco e presero

il volo. Barbara chinò la testa, perché puntarono dritto verso di lei prima di

sparire in cucina.

«Non si preoccupi» disse tranquillamente Spencer staccando il fondo della

gabbia. Barbara vide che conteneva una quantità sbalorditiva di guano.

«Torneranno, quando avranno fame.» Spencer accartocciò i fogli di giornale

con cui era foderato il fondo, li mise da parte e prese alcuni fogli puliti da un

cesto posato per terra. «Cosa posso fare per lei? Cosa vuole sapere su Ian?»

chiese poi.

«Tutto quello che le viene in mente» rispose Barbara.

Il reverendo parve riflettere su cosa dirle mentre sistemava i nuovi fogli di

giornale. Poi tolse tutti i posatoi per pulirli e cominciò a parlare.

Barbara apprese che Druitt era laureato in sociologia e aveva intrapreso gli

studi per diventare prete anglicano solo dopo la laurea, pensando che la

Chiesa fosse il modo migliore per mettere a frutto ciò che aveva imparato

all’università. Aveva frequentato tutti i corsi richiesti, ma non era arrivato al

sacerdozio perché purtroppo non aveva passato l’esame necessario per

l’ordinazione.

«L’ha tentato varie volte» raccontò Spencer scuotendo la testa con

rammarico. «Poveraccio. Troppo emotivo. Non ce l’ha fatta e ha deciso di

accontentarsi del diaconato. E si è dimostrato un ottimo diacono, devo dire.»

A quel punto si interruppe per andare a prendere qualcosa in un secchio di

plastica in un angolo. Tornò con una spazzola di metallo con cui cominciò a

pulire i posatoi di legno, facendo cadere altro guano su un altro foglio di

giornale. Barbara prese nota del fatto che le cocorite non sembravano avere

alcun problema intestinale. Sempre che avessero un intestino. Non sapeva

nulla dell’anatomia degli uccelli, a parte il fatto che sono dotati di un becco e

due ali. «Per noi è stata una benedizione che sia restato qui a Ludlow. Anche

se...» Spencer esitò, con un posatoio in una mano e la spazzola nell’altra.

Dalla cucina una delle cocorite chiese di nuovo se il caffè era pronto. L’altra

non rispose. «Benedizione o non benedizione, a volte esagerava un po’.»

«In che senso, scusi?»

Spencer continuò a spazzolare vigorosamente, mettendo da una parte i

posatoi a mano a mano che finiva di pulirli. «Aveva improntato la sua

esistenza sulle Beatitudini» rispose. «La sua regola di vita era compiere opere


di bene, ma a volte la applicava in modo estremo. Anni fa aveva fondato il

circolo per l’infanzia, distribuiva pasti agli infermi e agli anziani, offriva

anche assistenza gratuita alle vittime della criminalità – un buon modo per

mettere in pratica la sua preparazione sociologica, devo dire – registrava

audiolibri per i ciechi, occasionalmente faceva sostegno nelle scuole

elementari, contribuiva alla manutenzione dei sentieri... Stava organizzando

un gruppo di supporto per i giovani a rischio di alcolismo, che qui a Ludlow

purtroppo sono tanti.»

«Come funzionava l’iscrizione al circolo per l’infanzia?» chiese Barbara

quando il vicario ebbe concluso l’elenco delle encomiabili attività di

volontariato di Ian Druitt.

«Santo cielo.» Spencer parve riflettere sulla domanda e sul perché non

sapeva rispondere. Frugò di nuovo nel secchio e tirò fuori una bomboletta che

spruzzò abbondantemente sulle sbarre della gabbia. «Veramente, il circolo fa

parte della vita della città da tanto tempo che non glielo saprei dire, sergente.

Credo che l’idea sia venuta dal consiglio comunale, oltre che dalle scuole. È

stata una loro richiesta e credo che i bambini vengano iscritti tramite loro.

Ma, come le dicevo, non sono sicuro. Posso dirle però che, come spesso

succede in questi casi, il progetto è partito lentamente. All’inizio serviva per

tenere occupati i bambini dopo la scuola, ma con il tempo è cresciuto, tanto

che ogni anno Ian prendeva uno studente del college per farsi aiutare.»

«Studente del college» si appuntò Barbara nel bloc-notes, e sottolineò.

«Può darmi qualche nome?»

«Purtroppo no.» Spencer passò uno straccio sui lati della gabbia. «Però

posso dirle che Ian scriveva tutto, quindi da qualche parte ci sarà l’elenco.

Penso che lo troverete fra le sue cose.»

«Il mio capo è andato a parlare con il padre. Può darsi che ci possa

consegnare un po’ di roba del figlio. Qui non c’è più niente di suo? Mi

piacerebbe dare un’occhiata, se le è rimasto qualcosa.»

Spencer, sorpreso, mise da parte lo straccio. «Oh, Ian non viveva qui,

sergente. Gliel’avevo proposto. Per mia moglie e per me la casa parrocchiale

è troppo grande, abbiamo un sacco di camere che non usiamo. Ma Ian

preferiva stare per conto suo, avere la sua privacy. Vado a prenderle

l’indirizzo, se vuole.»

Senza aspettare che Barbara rispondesse, il vicario se ne andò. A Barbara

formicolavano le dita pensando alle possibili implicazioni di quel dettaglio.


Che bisogno aveva Druitt di vivere per conto suo quando avrebbe potuto

abitare lì, vicinissimo alla chiesa, pagando un modico affitto o addirittura

gratis? Il suo era semplice desiderio di privacy, o aveva qualcosa da

nascondere?

Spencer tornò con una busta sulla quale aveva scritto l’indirizzo di casa di

Ian Druitt. Barbara lo lesse, ma non le disse assolutamente nulla perché non

conosceva la zona. Avere sotto gli occhi l’indirizzo, però, la portò alla

domanda successiva. Era, a suo avviso, la domanda più logica da porre al

reverendo.

«Do per scontato che lei sia al corrente del motivo per cui il signor Druitt è

stato fermato. Giusto?»

Spencer annuì e le guance gli avvamparono di un colore innaturale.

Barbara ebbe l’impressione che fosse in grave imbarazzo perché la piantò in

asso per andare a prendere una scatola di mangime per uccelli e riempire la

mangiatoia appesa su un lato della gabbia. «Non credo che fosse pedofilo,

sergente. Ha lavorato nella nostra parrocchia per oltre quindici anni e non c’è

mai stato il minimo accenno a comportamenti sconvenienti da parte sua»

disse.

Barbara non aprì bocca. Lo aveva imparato molto tempo prima da Thomas

Lynley: a volte il silenzio è più efficace di una domanda. Guardò il vicario

sistemare la mangiatoia e andare in cucina a prendere l’acqua. Fuori, non

lontano dalla canonica, si accese un motore molto rumoroso. Qualcuno,

pensò Barbara, stava tagliando l’erba nel camposanto.

Spencer tornò con l’abbeveratoio pieno. «Certo, nessuno immaginava che

la pedofilia fosse così diffusa nella Chiesa cattolica...» disse fissandolo alla

gabbia. «E anche nella nostra Chiesa anglicana, come purtroppo sappiamo

ora. È sempre esistita, e generazioni di vescovi e arcivescovi hanno coperto i

responsabili... È una cosa vergognosa e imperdonabile.» Alzò lo sguardo.

Dalla sua espressione traspariva il timore di non aver vigilato abbastanza

quando il suo contributo sarebbe stato più che mai necessario. «Le assicuro

che...» Scosse la testa come per scacciare, più che un’idea, una sensazione.

«Cosa?» disse Barbara.

«Che se avessi saputo qualcosa, se avessi avuto il minimo sentore, o il

minimo sospetto sul conto di Ian, sarei intervenuto subito.»

Barbara annuì, ma una cosa era certa: quelle parole erano facili da dire, a

posteriori.


Bewdley

Worcestershire

Isabelle parcheggiò di fronte al birrificio di Druitt, che non era a

Kidderminster bensì sulla Kidderminster Road, a ovest del paesino di

Bewdley. Non aveva avuto difficoltà a trovarlo. Era vicino al fiume Severn e

alla Severn Valley Railway ed era ben visibile sia dall’argine sia dalla

ferrovia: era un edificio storico, un ex magazzino situato nella posizione

ideale per una sosta lungo il tragitto da Ludlow a Birmingham, o viceversa.

Isabelle aspettò qualche minuto prima di presentarsi all’appuntamento. Era

arrivata in anticipo e il caffè che si era fermata a prendere lungo la strada le

aveva messo un po’ di sete. Non avendo con sé una bottiglia d’acqua – un

errore che non intendeva ripetere – frugò nella borsa e trovò una delle sue

mignon. Di solito beveva sempre la stessa vodka ma, quando, oltre a

comprare la bottiglia della sua marca abituale, aveva fatto rifornimento di

bottigliette monodose da tenere in borsa per la trasferta nello Shropshire,

aveva optato per la varietà. Quella che aveva in mano era importata

dall’Ucraina, lesse sull’etichetta. Erano solo due sorsi, non di più, ma

potevano bastare per placare la sete.

La telefonata che aveva ricevuto all’ora di colazione era del suo avvocato

di Londra, evidentemente ansioso di «farla ragionare»: Isabelle se n’era

accorta dalla voce e dal tono conciliante che negli ultimi tempi usava con lei.

Sherlock Wainwright (per ritrovarsi un nome del genere doveva aver avuto

dei genitori davvero folli) sosteneva di volerla distogliere da una battaglia

legale che le sarebbe costata un capitale e che era destinata a perdere, ma

Isabelle cominciava a sospettare che volesse soltanto mantenere immacolato

il proprio curriculum professionale. Lo aveva scelto proprio perché vinceva

un numero impressionante di cause, ma a ogni nuova discussione si

convinceva sempre di più che Wainwright poteva vantare una percentuale

così elevata di successi solo perché accettava esclusivamente cause che era

sicuro di vincere.

«Possiamo ritornare un attimo sui termini del suo divorzio?» le aveva

chiesto. «Fondamentalmente, la difficoltà che abbiamo adesso deriva dal fatto

che lei all’epoca ha accettato di rinunciare all’affidamento dei figli. Dato che


il genitore affidatario è Robert Ardery e lei non si è mai opposta, neppure

quando i bambini erano piccoli e sarebbe stato più facile sostenere che

avevano bisogno della madre...»

Isabelle aveva stretto i denti e si era compiaciuta di riuscire a non ribattere.

«... contestare i termini adesso che sono più grandicelli è molto più arduo.

La controparte sosterrà che finora la figura materna di riferimento è stata la

moglie del suo ex marito, Sandra, e che per tutto questo tempo gli accordi

presi in sede di divorzio hanno funzionato piuttosto bene. Lei ha potuto

esercitare il diritto di visita...»

«In incontri vigilati» gli aveva fatto notare. «Con loro due sempre presenti.

In ’tutto questo tempo’, come dice lei, sono stata sola con i miei figli una

volta soltanto, quando Bob e Sandra avevano una cena a Londra e hanno

lasciato i bambini a dormire da me per trascorrere una notte romantica in

hotel. È successo una volta sola, e i bambini sono stati da me dalle cinque del

pomeriggio alle dieci della mattina dopo. Mi dica una cosa, avvocato

Wainwright, come si sentirebbe, se fosse nei miei panni?»

«Sarei frustrato quanto lei e farei il possibile per impedire l’evoluzione che

si sta prospettando.»

«L’evoluzione che si sta prospettando, come la chiama lei, prevede il

trasferimento dei bambini in Nuova Zelanda.» Isabelle si era resa conto del

proprio tono gelido. «A Auckland, in Nuova Zelanda. All’altro capo del

mondo.»

«Capisco perfettamente. Ma il documento che lei ha sottoscritto non dice

assolutamente nulla sulla residenza dei bambini e non specifica in quale

Paese debbano abitare. Continuo a non capire perché l’avvocato che l’ha

assistita in fase di divorzio non le abbia consigliato di contestare certe

clausole e di imporre che i minori vivano nello stesso Paese della madre.»

Perché ho dovuto accettare tutte le condizioni poste da Bob, aveva pensato

Isabelle, guardandosi bene dal dirlo ad alta voce. Perché altrimenti Bob

avrebbe svelato tutti i retroscena della mia vita ai miei superiori. Per me

sarebbe stata la fine, e lui lo sapeva. Perché bevo. Ma non sono un’alcolista.

Quello stronzo di Bob lo sa benissimo, ma ha fatto di tutto per ottenere

l’affidamento dei bambini e quattro mesi dopo – quattro mesi! – si è messo in

casa la sua stramaledetta Sandra.

«Ho sottovalutato l’importanza di alcune clausole, all’epoca» aveva detto.

Era una bugia. Quello che aveva sottovalutato era la possibilità che un giorno


Bob ricevesse un’offerta che gli consentisse di salire qualche gradino verso il

successo. E nonostante quei gradini si trovassero a Auckland, dentro di sé

Isabelle capiva perché Bob non volesse lasciarsi sfuggire l’occasione. Erano

entrambi professionalmente molto ambiziosi.

Ma il punto non era quello. Il punto era che la Nuova Zelanda era dall’altra

parte del mondo: quanto spesso poteva realisticamente prevedere di andare a

trovare i suoi figli laggiù?

«Non credo sia un motivo valido per contestare l’accordo» aveva detto

Wainwright.

«Voglio impedirgli di partire» aveva ribattuto Isabelle. «Voglio poter

vedere i miei figli. Non mi interessa quanto mi costerà. Troverò i soldi per

pagarle la parcella.»

In quel momento aveva visto arrivare Barbara Havers – pallida come uno

straccio, ma in piedi – e aveva chiuso la chiamata. Le tremavano le mani per

la rabbia e per i postumi di tutta la vodka, il vino e il porto della sera

precedente e si era pentita di non aver bevuto un goccetto prima di scendere a

parlare con il sergente, ma ormai era troppo tardi. Non aveva potuto far altro

che mandare giù quasi tutta la disgustosa colazione dell’albergo fingendo di

stare benissimo. Poi si era congedata da Barbara Havers e aveva bevuto un

dito della vodka che teneva in camera, prima di uscire dall’albergo con le

mignon di riserva nella borsa.

Seduta in macchina di fronte al birrificio, lanciò nel vano portaoggetti la

bottiglietta vuota, si mise in bocca quattro mentine extra strong per evitare

problemi di alito e, dopo essersi ritoccata il rossetto, guardò da una parte e

dall’altra e attraversò la strada per andare all’appuntamento.

Il birrificio era ancora chiuso, ma una Mercedes ultimo modello

parcheggiata davanti all’ingresso faceva pensare che Clive Druitt fosse già

sul posto. Evidentemente l’aveva vista arrivare – Isabelle si augurò che non

l’avesse vista anche tracannare la vodka, ma dando un’occhiata verso la

macchina sull’altro lato della strada decise che era poco probabile –, perché

un uomo che forse era lui le aprì la porta di vetro satinato. Vi era incisa, negli

stessi caratteri elaborati dell’insegna al neon sulla facciata dell’ex magazzino,

la scritta DRUITT CRAFT BREWERY e sotto, in tondo, Fine Lagers, Ales, and

Ciders.

«È di Scotland Yard?» Il tono era rigido, come se si stesse imponendo di

non giudicarla troppo presto, di ascoltare il suo punto di vista e cercare di


capire che intenzioni avesse. Dopo che Isabelle Ardery ebbe annuito, l’uomo

si presentò. «Clive Druitt. Grazie di essere venuta.»

«Non occorre che mi ringrazi. Apprezzo che mi abbia ricevuto qui anziché

a Birmingham.»

«Dovevo venire qui comunque» replicò. «Si accomodi. Siamo

praticamente soli. Il personale di cucina non arriva prima delle dieci e

mezzo.»

Chiuse a chiave la porta e le fece cenno di seguirlo. Il pavimento del locale

era di legno di recupero, scurito dal tempo e rovinato quanto bastava per

risultare alla moda. Anche il resto dell’arredo era scuro: un lungo bancone

graffiato, tavoli e sedie di stili ed epoche diverse, che contrastavano con i

cinque enormi serbatoi in acciaio dietro un pannello di vetro pulitissimo alle

spalle del banco, dai quali spuntavano pompe, tubi e tubicini. Gli aromi di

lievito, luppolo e cereali tostati che permeavano l’aria erano la migliore

pubblicità possibile alla birra della casa.

Druitt fece strada verso un tavolo lungo e stretto, stile refettorio, con due

panche al posto delle sedie. Vi erano posati sopra, in fila, diversi scatoloni,

alcuni chiusi e altri aperti. «Il mio ragazzo non si è ammazzato» dichiarò, e,

come se stesse per mostrare la prova inequivocabile di quell’affermazione,

estrasse da una delle scatole una foto di famiglia piuttosto grande, in cornice,

e gliela porse.

Vi era ritratto quello che Isabelle immaginò fosse il clan Druitt al gran

completo: madre, padre, figli adulti con rispettivi consorti, uno stuolo di

nipoti e uno springer spaniel che sembrava appena reduce dalla toelettatura.

Erano stati messi in posa da un fotografo professionista che aveva

giustamente suggerito loro di vestirsi tutti allo stesso modo. Avevano scelto

blue jeans e camicia bianca anche se – va detto – due uomini e una signora

avrebbero fatto meglio a indossare qualcosa che nascondesse un po’ di più i

cospicui rotoli di ciccia.

Non le fu difficile riconoscere Ian: era al centro del gruppo dei figli grandi

ed era l’unico a non indossare jeans e camicia bianca, ma l’abito talare.

Isabelle immaginò che la foto fosse stata scattata in occasione della sua

ordinazione, o come altro si chiamava la cerimonia in cui uno veniva

ufficialmente proclamato diacono.

A parte le foto del cadavere contenute nel dossier dell’ispettore Pajer, era

la prima volta che Isabelle vedeva Ian Druitt. Come i fratelli e le sorelle, i


genitori e i vari nipoti, aveva i capelli rossi. Era anche occhialuto e parecchio

in carne, con le spalle un po’ curve, quasi volesse sembrare meno alto di

quello che era o, più probabilmente, passare inosservato. Perché quelle tre

caratteristiche – capelli rossi, occhiali e chili di troppo – da sempre attiravano

irresistibilmente i bulli. Isabelle si chiese se, da bambino, avesse subito i

soprusi dei compagni e se questo avesse avuto delle conseguenze su di lui.

«Non può essersi ucciso. Non l’avrebbe mai fatto» disse Clive Druitt come

se le avesse letto nel pensiero.

Isabelle lo guardò. La morte del figlio lo aveva visibilmente provato: era

smunto, pieno di rughe e, se nella foto di famiglia era già piuttosto magro,

adesso era addirittura emaciato, con gli zigomi sporgenti e le guance scavate,

gli occhi infossati e i polsi sottili. I capelli erano sbiaditi, non più rossi, ma

color paglia.

Isabelle non era stata inviata nello Shropshire per dimostrare o confutare le

accuse contro il defunto, ma evitò di puntualizzarlo. Era lì per verificare la

correttezza delle due inchieste e quindi l’operato della polizia, non le ragioni

che potevano aver portato Ian Druitt al suicidio. La sua inchiesta

supplementare, opportunamente approfondita e accompagnata da

un’esauriente spiegazione delle presunte irregolarità, avrebbe di certo portato

alle stesse identiche conclusioni delle due inchieste precedenti.

Tuttavia le conveniva essere prudente: poteva darsi che Clive Druitt fosse

irritato per il mancato coinvolgimento della magistratura. «A Londra ho

parlato con l’onorevole Walker e con il vicecommissario Hillier. L’onorevole

mi ha esposto le sue perplessità, signor Druitt. Ho ben chiara la situazione»

disse Isabelle. Era una mezza verità, ma lei si trovava lì per rassicurare Druitt

sul fatto che i suoi timori venivano presi sul serio. «Il mio sergente e io

verificheremo le precedenti indagini, sulla base delle quali il medico legale ha

stabilito che si è trattato di suicidio.»

Druitt non era un ingenuo e capì che la presenza di New Scotland Yard

non significava la riapertura del caso. «Ian non aveva nessun motivo per

farlo. Chieda a chi vuole: glielo confermeranno tutti» disse. Si avvicinò a uno

degli scatoloni chiusi e lo aprì. Isabelle vide che conteneva soprattutto

indumenti. Druitt ci frugò dentro e, non trovando ciò che cercava, ne aprì un

altro. Questa volta ebbe più fortuna e, dopo una pila di maglioni di lana ben

piegati, tirò fuori una tavoletta di legno e invitò Isabelle a «dare un’occhiata».

Isabelle vide che era di ciliegio e che vi era incollata una targa di ottone


con le parole Ludlow e Uomo dell’anno e, sotto, il nome Ian Druitt seguito da

una data di inizio marzo. Sopra la dedica c’era un’incisione del castello di

Ludlow con una bandiera che sventolava sul torrione centrale. Doveva essere

un riconoscimento importante, pensò Isabelle, non un attestato qualsiasi.

«Glielo avevano dato il sindaco e il consiglio comunale» spiegò Druitt.

«Glielo hanno consegnato durante una cerimonia con tanto di discorsi

ufficiali, rinfresco e concerto dei musicisti del college. Le ripeto, mio figlio

non aveva alcun motivo per togliersi la vita. Aveva un sacco di amici che gli

volevano bene, aveva tutto ciò che poteva desiderare...»

Aveva anche un’accusa di pedofilia che gli pendeva sulla testa, pensò

Isabelle, ma non lo disse. Sapeva che quel premio in realtà non significava

nulla; era un bel gesto e basta. Anzi, onorificenze e fanfare potevano aver

indotto qualcuno già incattivito nei confronti del diacono a mettere in moto

anonimamente la macchina del fango.

«Ian non è mai stato depresso in vita sua. Era sempre allegro, contento di

quello che aveva. Uno così si suicida, secondo lei?» continuò Clive Druitt.

Isabelle si chiese se Druitt fosse a conoscenza della denuncia anonima.

Immaginava di sì. Com’era possibile che non lo sapesse? Probabilmente però

non voleva affrontare l’idea che il figlio fosse pedofilo. Nessun genitore

vorrebbe sentir dire una cosa simile di suo figlio.

«E questo, guardi anche questo» aggiunse Druitt. Aveva tirato fuori dallo

scatolone un giornale piegato. Isabelle vide che era una testata locale: The

Ludlow Echo.

In prima pagina c’era un articolo sulla cerimonia di consegna del premio

«Uomo dell’anno», in cui erano elencate tutte le encomiabili attività di Ian

Druitt a Ludlow, nonché i suoi meriti passati, presenti e futuri. Era un

curriculum di tutto rispetto, ma non serviva a dimostrare che Druitt non si era

suicidato. E poi, se Ian Druitt non si era tolto la vita, i casi erano due: o lo

aveva ammazzato qualcuno, oppure era morto accidentalmente. La prima

ipotesi era improbabile, tenuto conto del luogo in cui era morto, e la seconda

addirittura impossibile, sempre per lo stesso motivo.

«Signor Druitt, le assicuro che la mia collega e io non tralasceremo alcun

aspetto di ciò che è avvenuto quella sera alla stazione di polizia di Ludlow.

Esamineremo i rapporti che sono stati stilati e l’operato di polizia e IPCC. Se

c’è stato qualcosa di anomalo, lo scopriremo» disse Isabelle.

Clive Druitt si voltò a guardarla e Isabelle si accorse che stava cercando di


capire che cosa avesse voluto dire esattamente. Si accorse anche che non

erano soli come pensava, perché c’era una ragazza con una tuta da lavoro che

controllava i serbatoi dietro la parete di vetro prendendo appunti su una

lavagnetta.

«Non avete intenzione di riaprire il caso, vero? Siete venuti a nascondere la

polvere sotto il tappeto. Mi stia bene a sentire, sovrintendente come si

chiama, questa cosa con me non funziona. Voglio che il caso venga riaperto e

Walker mi ha assicurato che sarebbe successo dopo che ne avesse parlato con

voi» disse Druitt con aria sagace.

«Questo è solo l’inizio.» Isabelle si sforzò di usare un tono ragionevole.

«La mia collega e io verificheremo che non ci siano state irregolarità e

redigeremo un rapporto sulla base del quale i nostri superiori prenderanno

una decisione. Non sta a noi ordinare la riapertura del caso, ma a qualcuno

ben più in alto di noi.» Non era la verità, ma ci andava abbastanza vicino.

Avrebbero potuto condurre indagini più accurate, riparlare con tutte le

persone che erano già state interrogate e spaccare il capello in quattro, ma in

quella fase Isabelle era convinta che sarebbe stato un inutile spreco di tempo

e denaro.

«Voglio che parliate con tutti quelli che conoscevano il mio ragazzo. E

quando dico tutti, intendo veramente tutti. E soprattutto voglio che facciate il

terzo grado a quella specie di poliziotto che ha lasciato Ian da solo per non si

sa quanto tempo e non si sa quale ragione. Altrimenti, sentirete i miei

avvocati. Tutti i miei avvocati» disse Druitt.

Ops, pensò Isabelle. La faccenda si stava facendo più spinosa del previsto.

Druitt avrebbe sicuramente ricontattato il suo politico di riferimento, se le sue

richieste non fossero state soddisfatte, e lei doveva cercare di placarlo prima

che intentasse un’azione legale. Hillier non voleva trovarsi ad affrontare né

gli avvocati di Druitt né il parlamentare. Lo stesso valeva per il comandante

Wyatt e per tutti gli altri. «Ho capito perfettamente, signor Druitt. Posso

prendere questi, per cortesia?» disse indicando l’ultimo scatolone.

«Gli effetti personali di Ian? A cosa le servono? Vuole distruggerli?»

«Assolutamente no! Glieli chiedo perché potrebbe esserci qualcosa di utile

per le indagini.»

«Ma me li restituirete, vero?»

«Certo. Ora le do una ricevuta.»

«Glielo chiedo perché non mi fido di voi, visto che dite che Ian si è


ammazzato. Gli uomini di fede non si tolgono la vita, e Ian era un uomo di

fede.»

Ludlow

Shropshire

Alla luce del giorno la stazione di polizia non le parve molto diversa rispetto

a quando l’aveva vista di notte con la luce accesa nell’ingresso, le finestre

socchiuse e la Panda nel parcheggio. In quel momento il piazzale era vuoto, e

Barbara dedusse che l’agente ausiliario non era ancora arrivato. Questo le

dava l’opportunità di procedere a una breve ricognizione diurna, che

cominciò immediatamente.

Davanti alla palazzina a forma di L c’era una fila di cespugli ben potati che

la separavano da un prato in discesa. Barbara vide che fra il muro e le piante

c’era abbastanza spazio per passare e raggiungere il parcheggio girando

intorno all’edificio. Così fece e scorse una telecamera a circuito chiuso

puntata sopra la porta sul retro. A parte quella e l’altra che si trovava sopra

l’ingresso principale, non sembravano esserci ulteriori apparecchi di

videosorveglianza.

Tornò sul davanti e guardò la telecamera che, come aveva notato la sera

precedente, era puntata verso la strada e inquadrava parte della carreggiata, il

marciapiede e i gradini che portavano all’ingresso. Si chiese quanto fosse

ampio l’angolo dell’obiettivo. Oltre a riprendere chi si avvicinava alla

stazione e saliva la scaletta, inquadrava anche l’ingresso e il telefono montato

accanto al portone? La telecamera era fissa o la si poteva girare in modo da

cambiare inquadratura?

Stava riflettendo su queste domande quando passò un’autopattuglia.

Barbara tornò nel parcheggio. Dall’auto stava scendendo un tizio. «Il

sergente Havers? Scusi il ritardo. Il vecchio Rob ci ha messo un po’ a

sistemarsi, quando l’ho riportato a casa» disse. Era l’agente ausiliario Gary

Ruddock.

Barbara vide che era un uomo robusto, alto più di un metro e ottanta,

muscoloso. Aveva i capelli scuri tagliati molto corti, ma non a zero tipo

hooligan, il viso ovale e perfettamente rasato, l’aria pulita.

Si presentò con una stretta di mano decisa. «Gary Ruddock. Gaz,


veramente. È tanto che aspetta?»

«Barbara» replicò lei. «Pochi minuti. Rob è suo nonno?»

«È il mio padrone di casa, diciamo. Non vuole andare in un ricovero. È

ancora troppo arzillo. Ma non vuole nemmeno andare a stare da sua figlia

Abby. Io rappresento il compromesso. Gli do una mano alla sera e alla

mattina e, quando lavoro, c’è un vicino che gli dà un’occhiata. Venga,

entriamo.»

«Si può girare, quella?» chiese Barbara.

Ruddock, che aveva infilato la chiave nella serratura, si voltò e seguì la

direzione del suo sguardo. «La telecamera? Non ne ho idea. Non so

nemmeno se funziona, ora che la stazione non è presidiata. Possiamo provare

a ruotarla, dopo. Ci dev’essere una scopa, da qualche parte.» Fece strada.

«Caffè? Acqua? Tè? La filtriamo. L’acqua, intendo. Ce ne dovrebbe essere

una caraffa nel frigo» disse.

Barbara rispose che l’acqua andava benissimo. Lui annunciò che, se non le

dispiaceva, si sarebbe fatto un caffè. La portò in quella che, quando la

stazione funzionava a pieno ritmo, doveva essere stata la cucina a

disposizione degli agenti e che adesso era usata come deposito. Accatastati in

un angolo c’erano scatoloni con varie date scritte sopra, risme di carta e

cartucce di ricambio per stampanti.

«Che peccato» osservò Barbara.

Ruddock si voltò e vide che si stava guardando intorno. «I tagli sono stati

pesanti» disse. «È uno dei motivi per cui non potrò mai diventare un

poliziotto vero e proprio. Dopo quello che è successo, poi... Sono fortunato

ad avere ancora il posto da ausiliario. Be’, veramente ero fortunato anche

prima, perché ho problemi di lettura.»

«Problemi di lettura?» ripeté Barbara, perplessa.

Ruddock proseguì con la preparazione del caffè: tirò fuori da un armadio

un barattolo di Nescafé, un bollitore elettrico e un tazzone con il logo della

RSPCA, la lega protezione animali. «Inverto le parole e le lettere» le spiegò.

«Per tanto tempo ho pensato che fosse colpa del metodo di studio che

usavamo, ma poi sono scappato a Belfast e ho frequentato dei corsi speciali, e

non è cambiato nulla.»

Fece scorrere l’acqua e sciacquò un bicchiere per Barbara, glielo porse e

lasciò che si servisse da sola dalla caraffa.

«In che senso è ’scappato’ a Belfast?» gli domandò lei.


Ruddock riempì il bollitore e lo accese. «Oh, scusi. Fino a quindici anni ho

vissuto in una setta. Nel Donegal.»

«Davvero?»

«Eh, sì. Si davano molto da fare per moltiplicarsi, un po’ meno per tirare

su i figli e dargli un’educazione. Quando me ne sono andato, pensavo di

riuscire a recuperare, invece, come le dicevo, non ce l’ho fatta. Temo di

essere sia dislessico sia disgrafico. Per questo sono riuscito a diventare

soltanto agente ausiliario: c’è meno da scrivere, rispetto alla polizia regolare.

Ma lei lo sa, non c’è bisogno che glielo dica io.»

Il bollitore si spense con un clic, Ruddock si fece il caffè e indicò a

Barbara il lungo tavolo davanti all’unica finestra della stanza, con due sedie

di plastica infilate sotto. Si sedettero e quando Ruddock prese con entrambe

le mani la tazza della RSPCA Barbara vide che aveva un tatuaggio sul polso

sinistro. Tre lettere spesse, scure, tutte maiuscole: CAT. «Le piacciono i gatti,

eh?» gli disse indicandolo con un cenno della testa.

Ruddock rise. «Cat è il nome di mia madre. Tutti noi bambini ne avevamo

uno. Così sapevamo chi era nostra madre.»

«Un tatuaggio?» chiese Barbara e, quando lui annuì, aggiunse: «Che

strano. Di solito quando c’è un dubbio è sul padre».

«Altro che dubbio! Per sapere chi era nostro padre avremmo dovuto fare il

test del DNA. Il principio era diffondere il seme. Come le dicevo, i membri

della setta si davano molto da fare a moltiplicarsi senza badare troppo al

come, quando e con chi.»

«Ma chi era vostra madre lo sapevate, no?»

«Solo dai tatuaggi, perché una volta svezzati i bambini non stavano più con

la madre, ma tutti insieme in una specie di nursery e la mamma la vedevamo

molto poco per via... be’, per via dell’andate e moltiplicatevi, che era il lavoro

delle donne, non so se mi spiego. I tatuaggi servivano perché uno non

inseminasse la madre o la sorella, una volta raggiunta l’età per fare sesso.»

Barbara ci pensò su un momento. «Scusi se glielo dico, ma mi sembra un

po’... un po’ sopra le righe» replicò.

«Assolutamente!» rincarò Ruddock, per nulla offeso. «Immagino possa

capire perché me ne sono andato appena ho potuto. Sono scappato e non sono

mai più tornato.» Bevve un sorso di caffè senza fare il minimo rumore.

Lynley avrebbe apprezzato, pensò Barbara. Nel suo ambiente, si imparava a

bere senza far rumore sulle ginocchia della tata, probabilmente usando una


tazza d’argento con le iniziali incise. Ruddock posò il caffè. «A cosa è dovuto

l’intervento della Metropolitan Police in questa storia?» disse.

«Non gliel’hanno detto?»

Ruddock scosse la testa. «Ho parlato solo con l’IPCC e con l’ispettore che

è venuto subito dopo il fatto. Poi basta.»

«C’è un interessamento della Camera dei Comuni. Mi dispiace, ma

dobbiamo ricominciare daccapo.» Tirò fuori carta e matita. Ruddock sospirò.

«Mi dispiace» ripeté Barbara.

«È solo che sembra non finire mai. Capisco che lei deve fare il suo lavoro,

ma...»

E Barbara partì proprio dal lavoro, chiedendogli come fosse riuscito a

conservare il posto dopo che un individuo in stato di fermo si era ucciso

mentre si trovava alla stazione di polizia di Ludlow sotto la sua

responsabilità.

«È stata la sede centrale del West Mercia» rispose Ruddock sinceramente.

«Il mio capo mi ha detto che qualcuno in sede ha preso le mie parti, qualcuno

molto in alto.»

Barbara ne prese nota. Strano che un funzionario di grado elevato si fosse

esposto per Ruddock, visto il baccano sollevato dal suicidio di Ian Druitt.

Sarebbe stato più prudente nascondere l’ausiliario incriminato sotto il tappeto

o, meglio ancora, metterlo alla porta. «Ha idea del perché?» chiese.

«Perché qualcuno ha preso le mie parti?» replicò Ruddock e Barbara

confermò con un cenno. «Ho conosciuto un paio di pezzi grossi ai corsi di

addestramento che ho fatto a Hindlip. Ci ho solo scambiato quattro

chiacchiere, niente di che. Ma mi era sembrata una buona idea, nel caso me li

fossi trovati in commissione all’esame per passare ad agente di pattuglia.» Si

strinse nelle spalle con aria vagamente imbarazzata. «È stata... be’... diciamo

che è stata una mossa politica.»

«Politica e intelligente» commentò Barbara. Ruddock avrà avuto delle

difficoltà a leggere e scrivere, ma non era uno stupido se aveva avuto

quell’idea. «E dov’è la scuola di addestramento? Vicino alla sede?»

«Sì, nello stesso complesso, quindi è abbastanza facile per i funzionari di

stanza alla sede tenere qualche corso ogni tanto.» Bevve un altro sorso e con

il pollice tracciò la lettera R sulla tazza. «Vuol sapere la verità? Dopo quello

che è successo, mi aspettavo di essere licenziato in tronco. Ringrazio che non

sia andata così.»


Barbara non disse nulla. Durante l’addestramento Ruddock doveva essersi

ingraziato personaggi importanti.

«Sono stato così stupido!» continuò. «Quando sono andato a prelevarlo, si

stava togliendo i paramenti dopo la funzione. Ho aspettato che fosse pronto,

ma non sono stato attento a tutto quello che faceva. Perché avrei dovuto? Era

un prete... Quando ha finito, ha preso la giacca a vento appesa dietro la porta

e siamo usciti.»

«Le ha chiesto il motivo del fermo?»

«Un sacco di volte. Ma io non ne avevo la minima idea. Il mio sergente mi

aveva detto di portarlo in stazione e io non ho pensato a chiedere perché. Poi,

dopo un’oretta che eravamo lì ad aspettare quelli di Shrewsbury, ci sono stati

dei problemi con dei ragazzi ubriachi e mi sono dovuto occupare di loro.»

«È uscito dalla stazione?»

«No, no. Mai» ribatté Ruddock. «Non potevo uscire finché c’era il signor

Druitt. Ma ho dovuto fare un giro di telefonate a tutti i pub. Cristo.

Dovrebbero smetterla di servire da bere ai ragazzi quando sono ubriachi, ma

se ne fregano, pur di incassare.»

Quindi si era distratto, aveva altro per la testa, pensò Barbara. La versione

data da Ruddock fin lì non era cambiata rispetto a quella riportata nei dossier

che aveva letto durante la notte. Le parve ammirevole che non cercasse di

edulcorare i fatti. «Mi farebbe vedere dove è successo?» gli domandò.

Evidentemente Ruddock si aspettava quella richiesta, perché si alzò senza

esitazione, lasciando il caffè sul tavolo. «Da questa parte» disse.

Imboccarono un corridoio. Alle pareti – di quel giallo che sembrava

d’obbligo nei corridoi degli uffici pubblici, una brutta via di mezzo fra il

senape e il color alga – c’erano ancora bacheche con manifesti e avvisi

polverosi, e in più di una stanza Barbara intravide dei computer, a

dimostrazione che la stazione veniva ancora usata occasionalmente dagli

agenti in servizio da quelle parti. Forse era per questo che se uno voleva farsi

un pisolino durante il turno di notte andava a dormire in macchina, anziché

rimanere dentro la stazione.

«Quanti sono gli agenti che usano questa struttura?» chiese.

Ruddock stava aprendo una porta con una targhetta senza nome, una di

quelle che di solito servono a identificare l’ufficio dei pezzi grossi. «A parte

quelli delle pattuglie di zona?» Fece una pausa come per calcolare chi altri

poteva aver bisogno di utilizzare quegli spazi per attività di polizia. «Gli


ispettori dell’Investigativa, direi, se vogliono accedere ai database. I membri

delle squadre Anticrimine, per lo stesso motivo. Quelli della Buoncostume.

Gli agenti di pattuglia, come le dicevo. Io, dal momento che la mia zona di

competenza è Ludlow.»

Barbara entrò dopo di lui nella stanza in cui si era tolto la vita Ian Druitt.

Sia secondo il rapporto dell’IPCC sia secondo quello dell’ispettore Pajer,

Druitt aveva usato una stola e la maniglia del guardaroba, ma nel rapporto

della Pajer c’era un particolare in più, che Barbara aveva sottolineato e sul

quale voleva chiedere chiarimenti. Era un’irregolarità che le era parsa

bizzarra.

Quando una persona veniva fermata e portata in una stazione di polizia per

essere interrogata, era normale che venissero usate le manette. Era successo

anche nel caso di Ian Druitt, tant’è vero che nel referto dell’autopsia venivano

citate abrasioni ai polsi prodotte da manette di plastica, del tipo a fascetta. Se

ne poteva dedurre o che fossero state strette troppo, oppure che Druitt avesse

cercato di liberarsi. Ma anche entrambe le cose, pensò Barbara: se erano

molto strette, a maggior ragione doveva aver cercato di togliersele o

allentarle.

«Secondo il rapporto dell’ispettore Pajer» disse, «lei ha tolto le manette di

plastica al signor Druitt perché si era lamentato di avere le mani intorpidite.

Si dibatteva? Cercava di liberarsi? E perché ha usato delle fascette di plastica

anziché normali manette?»

«Perché avevo quelle» rispose Ruddock. «E non erano troppo strette. Non

le stringo mai troppo. Sto solo attento che non si possano aprire.»

«Comunque a Druitt le ha tagliate?»

Ruddock si massaggiò la fronte. «Continuava a ripetere che gli facevano

male le mani, che non si sentiva più le dita. Insisteva a voce sempre più alta.

A un certo punto sono andato e gliele ho tagliate.»

«Perché non è rimasto con lui?»

«Nessuno mi aveva detto che dovevo stare con lui. Le ripeto, non sapevo

nemmeno perché l’avevamo fermato. A me avevano semplicemente detto di

portarlo qui e tenercelo finché non arrivavano gli agenti di pattuglia per

trasferirlo a Shrewsbury. Magari mi avessero spiegato il perché! Sapevo

soltanto che doveva essere interrogato, punto e basta. Con questo non voglio

giustificarmi. È colpa mia se è successo questo casino.»

«Cosa ha fatto, dopo averlo lasciato solo?»


Era scritto nel rapporto di Pajer, ma Barbara voleva sentirglielo dire a viva

voce. «Come le dicevo, mi hanno telefonato per segnalare un’abbuffata

alcolica in centro. Da qui non potevo fare niente, a parte telefonare al pub in

questione – lo Hart and Hind – e dire che smettessero di servire da bere ai

ragazzi. Poi ho dovuto chiamare anche gli altri pub del circondario in modo

che se si fossero spostati altrove, non fossero riusciti comunque a procurarsi

alcolici.»

«Da dove le ha fatte, queste telefonate?»

«Da uno degli uffici. E il fatto è successo mentre ero di là a telefonare.

Non sono uscito dalla stazione. Non me lo sarei mai sognato. Solo che ero in

un’altra stanza. Se mi avessero avvertito che era un soggetto a rischio, non

l’avrei mai lasciato solo. Ma nessuno mi aveva detto niente. E così io ho

pensato di poter tranquillamente telefonare ai pub.»

Lasciare solo Ian Druitt era stato un errore madornale, ma non era l’unico

commesso quella sera.

Non era la prima volta che un soggetto sotto custodia si suicidava. Alcuni

si erano impiccati con la cintura di contenzione, altri avevano dato testate nel

muro fino a procurarsi un ematoma letale o si erano tagliati le vene in un

bagno con uno spuntone di metallo di cui nessuno si era mai accorto. Volere

è potere. C’era stato persino uno che era riuscito a garrotarsi con i suoi stessi

calzini. Era impossibile prevenire tutte le forme di autolesionismo. La polizia

faceva del suo meglio, ma ogni tanto veniva messa in scacco.

Quello che dava da pensare a Barbara, però, era che la stazione di Ludlow

era il posto ideale per far fuori qualcuno e inscenare un suicidio. Druitt

poteva essere stato ucciso da Ruddock o da un altro agente che Ruddock

cercava di coprire. Essendo accusato di pedofilia, Druitt era sicuramente a

rischio a prescindere. L’unica falla del ragionamento era che Gary Ruddock

sosteneva di non sapere per quale motivo fosse stato fermato Druitt. A meno

che, naturalmente, non stesse mentendo.

«Ho visto la trascrizione della chiamata al 999 che ha provocato il fermo di

Druitt.»

Ruddock la guardò con circospezione, come se temesse di essere accusato

anche per quella denuncia, oltre che per la morte di Ian Druitt. «Sì?» disse.

«La persona che ha chiamato fra le altre cose ha detto che non sopportava

l’ipocrisia. Secondo il mio capo alludeva alla pedofilia e al fatto che Druitt

era un diacono. Lei cosa ne pensa?»


Ruddock rifletté. Con un cenno, Barbara gli fece capire che potevano

uscire dalla stanza. Non aveva visto nulla che potesse fornire una muta

testimonianza sulla morte di Druitt, solo i normali segni di usura di tutti gli

uffici abbandonati: vetri sporchi, graffi sul linoleum, chiodi cui un tempo

erano appesi diplomi e certificati, ciuffi di polvere accumulata negli angoli.

«L’unica cosa che mi viene in mente è quell’onorificenza che gli avevano

dato. Persino il vecchio Rob l’aveva letto sul giornale. Forse all’autore della

denuncia aveva fatto rabbia che lo premiassero» disse Ruddock quando

furono di nuovo nel corridoio.

«Quale onorificenza?» Nei dossier non si parlava di nessuna onorificenza.

«Uomo dell’anno di Ludlow. Rob legge sempre il giornale e a cena mi

racconta le novità. Era uscito un articolo.»

«Su Ian Druitt Uomo dell’anno? Quando?»

Ruddock cercò di ricordare. «Non sono sicuro. Due o tre mesi fa? C’era

stata una cerimonia in municipio e nella foto sul giornale Druitt era con il

sindaco. Forse... Uomo dell’anno un pedofilo... L’ipocrisia potrebbe essere

quella, no?»

Potrebbe, pensò Barbara. Ma prima di tutto bisognava chiedersi se il

timore di un’indagine potesse essere bastato a spingere Ian Druitt a togliersi

la vita. E, in secondo luogo, se la nomina a Uomo dell’anno potesse essere

bastata a spingere qualcuno a ucciderlo prima di un’eventuale indagine.

Ludlow

Shropshire

«Sembra un tipo per bene» disse il sergente Havers a Isabelle per concludere.

«E molto grato di essere ancora in servizio. Sa di essere in difetto per aver

lasciato solo Druitt, ma dice anche che non aveva la minima idea del motivo

per cui l’avevano fermato.»

«Ha detto qualcosa che non era riportato nei rapporti di Pajer e

dell’IPCC?»

«Con loro non ha parlato della sua infanzia, quindi queste sono

informazioni nuove, per quel che possono valere.»

Erano vicino al Ludford Bridge, davanti al Charlton Arms, un’antica

locanda sull’altra sponda del fiume rispetto al centro di Ludlow, non lontano


dal paesino da cui prendeva nome il ponte. Dai faggi frondosi che lo

circondavano veniva un gran cicaleccio e si vedevano sfrecciare e volteggiare

nell’aria numerosi uccelli. Isabelle le aveva dato appuntamento lì, quando

Barbara le aveva telefonato per informarla di aver concluso il colloquio con

l’agente ausiliario Ruddock. Pareva che avesse «qualche problemino di

apprendimento», le aveva riferito. «È dislessico e disgrafico.»

«Come mai non è stato licenziato? Lo sappiamo?»

«Dice di essere stato protetto da un funzionario della sede centrale che

l’aveva conosciuto durante l’addestramento.»

«Doveva essere il primo della classe» commentò Isabelle. «Ma mi sembra

impossibile tenuto conto della dislessia e della disgrafia, giusto?»

«Dice che si arruffianava gli insegnanti sperando che gli servisse per fare

carriera.»

«Be’, direi che se l’è giocata male» commentò Isabelle.

Barbara Havers annuì. Si era accesa una sigaretta, approfittando

dell’occasione per incamerare nicotina prima che Isabelle le desse qualche

altro incarico. Ma Isabelle non voleva darle altri incarichi: voleva entrare al

Charlton Arms, sedersi a uno dei tavoli con vista sul fiume e porre rimedio al

nervosismo che la faceva fremere dalla testa ai piedi. Ma un drink a quell’ora

non sarebbe stato giustificabile agli occhi di nessuno, tranne che ai propri, e

perciò disse: «Il padre del suicida vuole un’altra inchiesta con fiocchi e

controfiocchi».

Barbara buttò fuori una nuvola di fumo e lanciò il mozzicone nel fiume.

Isabelle ne seguì la traiettoria fino all’acqua e la guardò come a dire Le pare

il caso? «Scusi, ero soprappensiero» disse Barbara.

«Speriamo che un cigno non lo prenda per un pezzo di pane.»

«Vero. Non lo faccio più. E lei che cosa gli ha detto?»

«Al signor Druitt? Mi sono fatta dare nove scatoloni di effetti personali del

figlio e gli ho promesso che li esamineremo con cura in cerca di prove. Che

scopriremo indizi, escluderemo false piste, leggeremo le viscere come gli

aruspici... Che faremo di tutto, insomma. L’importante è tenerlo lontano dal

telefono, perché mi ha assicurato che la sua prossima mossa sarà chiamare gli

avvocati. Al plurale. Dobbiamo evitare che succeda.»

«Da dove cominciamo? Dagli scatoloni?»

«Santo cielo, no. Ha altro da raccontarmi?»

«Il vicario, direi.»


Isabelle le lanciò un’altra occhiata. Distolse lo sguardo dal Charlton Arms

perché la vista del locale era una tentazione troppo forte. «Allora, il vicario?»

domandò.

E vedendo che Barbara esitava, aggiunse spazientita: «Su, sergente,

sentiamo».

Barbara le spiegò che, quando aveva scoperto che Gary Ruddock non era

disponibile a incontrarla subito, aveva deciso di andare a parlare con il

vicario di St. Laurence. Sperava di aver fatto bene.

«Sergente, era nell’elenco delle cose da fare. Perché mi chiede se ha fatto

bene? Vada avanti» ribatté Isabelle.

E Barbara lo fece. Aveva preso appunti – sia durante la conversazione con

il reverendo sia durante il colloquio con Ruddock – e consultò il taccuino.

Elencò a Isabelle quelli che probabilmente erano stati gli svariati motivi

per cui Ian Druitt era stato nominato Uomo dell’anno. Era una lista molto

simile a quella che Isabelle aveva letto sul giornale mostratole da Clive

Druitt. Il diacono partecipava a tutte le iniziative di responsabilità sociale di

Ludlow. Barbara concluse menzionando il doposcuola. «C’è uno studente del

college che gli dava una mano. Penso che dovremmo parlargli» disse.

«Perché?»

«Se la faccenda della pedofilia è vera, mi sembra che dobbiamo...»

«Sergente, non siamo qui per stabilire se Ian Druitt fosse veramente un

pedofilo oppure no. Il nostro mandato non è questo. Pensavo che lo sapesse.

Se non lo sa, le ricordo che siamo qui per accertare che l’ispettore Pajer e

l’IPCC abbiano fatto quel che dovevano fare, per riesaminare i loro rapporti e

verificare che non abbiano trascurato nulla riguardo alla morte del fermato.

Se proprio dobbiamo parlare con qualcun altro, a questo punto, è il medico

legale.»

Barbara non rispose, ma Isabelle vide che qualcosa la turbava.

«Ha scoperto qualche lacuna nell’operato di Bernadette Pajer e della

commissione IPCC?» chiese perentoria. «Se sì, voglio sapere di cosa si

tratta.»

«Per ora no» ammise Barbara. «Ma...»

«Niente ma. La lacuna o c’è, o non c’è, sergente.»

«Be’, sia il vicario che il padre del morto affermano che...»

«Quello che affermano il vicario e il padre del morto non ha niente a che

vedere con quello che è davvero successo. Quando uno si suicida senza un


motivo evidente, la gente fa fatica a crederci. È umano. Un’overdose? Non

l’ha fatto apposta. Un colpo di pistola? L’hanno ammazzato. Si è dato fuoco?

Una delle due a scelta.»

«La morte accidentale in una stazione di polizia è esclusa, capo» protestò

Barbara. «E quindi...»

«E quindi si è suicidato. Forse lei non ha idea di quanto sia difficile

simulare il suicidio per impiccagione e, nel caso specifico, il suicidio per

impiccagione alla maniglia di un guardaroba. Scoprire se quest’uomo avesse

o meno un motivo per togliersi la vita esula dal nostro incarico. Per quel che

ne sappiamo, era Rebecca de Winter e le avevano appena diagnosticato un

tumore incurabile.»

«Solo che...» Barbara esitò.

«Cosa?»

«Be’, solo che lei era stata ammazzata, capo.»

«Chi?»

«Rebecca de Winter. L’ha ammazzata Max, si ricorda? E il tumore è il

motivo per cui viene scagionato. In realtà lei voleva che lui la uccidesse,

perché sapeva che sarebbe morta comunque, ma se l’avesse ammazzata lui e

poi l’avessero preso, lei sarebbe riuscita finalmente a rovinargli la vita, come

sognava di fare fin dall’inizio.»

«Santo cielo, sergente» esclamò Isabelle. «Non siamo in un melodramma

degli anni Quaranta.»

«Sì, ha ragione. C’è un’altra cosa, però: Druitt non viveva con il reverendo

e la moglie, nonostante la casa parrocchiale sia enorme. Preferiva stare per

conto suo, ha detto il vicario. Voleva avere la sua privacy. La mia domanda è:

a cosa gli serviva la privacy? Se trovassimo qualcuno che sa come mai Druitt

teneva tanto alla privacy, potremmo chiedergli anche...»

«Ora basta.» Isabelle alzò le mani. «Andiamo a parlare con il medico

legale. A quanto pare è l’unica cosa che potrà convincerla che le due indagini

precedenti sono valide.»

Long Mynd

Shropshire

Anziché all’ospedale dove era stata eseguita l’autopsia di Ian Druitt, la


dottoressa Nancy Scannell diede loro appuntamento in una zona dello

Shropshire che si chiamava Long Mynd, dove si trovava il club di volo a vela

di cui faceva parte. Nancy Scannell era comproprietaria di un aliante e quel

giorno toccava a lei assistere uno dei soci del West Midlands Gliding Club

nel lancio del velivolo.

L’altopiano di Long Mynd era parecchi chilometri a nord di Ludlow e vi si

arrivava percorrendo strade a mano a mano più strette e più ripide, dove

talora passava a stento una macchina. Non era raro vedere fagiani che

sbucavano dalle siepi o trovare pecore ferme in mezzo alla strada come se

fosse di loro esclusiva proprietà. Isabelle e Barbara ebbero la conferma che il

passaggio di un’auto da quelle parti era un evento raro quando videro un

nutrito gruppo di germani reali – maschi, femmine e piccoli – attraversare

tranquillamente la strada, ignari o forse incuranti del pericolo. Isabelle

inchiodò imprecando, e Barbara si rallegrò che non li avesse spiaccicati

sull’asfalto.

Il sovrintendente aveva i nervi a fior di pelle. Barbara se n’era accorta

mentre parlavano al Ludford Bridge e ancora di più se ne rendeva conto

adesso dal modo in cui guidava. Quando erano arrivate a un bivio nel

villaggio praticamente disabitato di Plowden, dove un cartello sbiadito dalle

intemperie indicava la direzione del West Midlands Gliding Club, aveva

addirittura pensato di offrirsi di darle il cambio perché da quel punto in poi la

strada diventava una carrareccia che saliva a una pendenza impressionante e

Isabelle aveva le nocche bianche da quanto stringeva il volante.

Erano salite verso il villaggio di Asterton, che più che un villaggio

sembrava una fattoria. Lì un’altra freccia indicò loro l’ennesima salita, con

una cabina telefonica sul ciglio della strada e il fondo più dissestato che mai.

Alla fine arrivarono all’aeroclub, annunciato da un grande cartello con foto di

piloti e passeggeri sorridenti che si sforzavano di sembrare tranquillissimi

mentre volavano senza motore nel cielo azzurro.

Alla struttura si accedeva attraverso un cancello che trovarono aperto

nonostante un cartello con la scritta SI PREGA DI TENERE CHIUSO. Era

un’accozzaglia di baracche in lamiera ondulata disposte su un pianoro quasi

completamente privo di vegetazione, a parte l’erba tra cui brucavano

numerose pecore ben pasciute. Oltre alle baracche c’erano degli hangar

costruiti con i materiali più svariati, davanti ai quali erano allineati alcuni

alianti mentre altri erano in fase di sbarco dai rimorchi su cui erano posati.


Dietro agli alianti c’erano alcuni veicoli fermi e, dietro ancora, una

costruzione più solida che doveva essere la sede del club, dotata di reception,

uffici, sale riunioni e caffetteria. Era lì che avevano appuntamento con la

dottoressa Scannell.

Erano in ritardo. A un certo punto avevano preso il bivio sbagliato, finendo

in uno dei molteplici villaggi sparsi in quella parte dello Shropshire e

allungando il viaggio di parecchi chilometri. Trovarono la dottoressa Scannell

che le aspettava, ma non di buon umore. La conclusione di Barbara fu che al

momento l’anatomopatologa e Isabelle Ardery erano ottimamente assortite.

«Mi rimangono solo dieci minuti» comunicò la dottoressa. Quando erano

entrate, si era alzata da un lungo tavolo. Era vestita casual, con jeans e

camicia di flanella a quadri. Da sotto il berretto da baseball le spuntavano

folti ciuffi di capelli sale e pepe. «Mi aspettano sulla pista» aggiunse. «Mi

dispiace, ma non è possibile rimandare.»

Nella sala c’erano altri piloti che mangiavano e, vicino alla grande vetrata

con vista sull’altipiano, un gruppetto che parlava ad alta voce e sghignazzava

sulla conferenza della mattina, che era stata «una palla mortale». A quanto

pareva, la dottoressa Scannell voleva parlare con loro in privato, perché le

portò in un’altra stanza con una lavagna bianca e vari grafici appesi al muro,

che doveva essere la sala riunioni. Ma invece di fermarsi lì, proseguì fino al

bar del club, che in quel momento era deserto.

Barbara, a disagio, lanciò un’occhiata a Isabelle Ardery che teneva lo

sguardo fisso in avanti, verso un tavolo in fondo alla stanza. Quasi fosse un

invito, la dottoressa Scannell fece strada in quella direzione.

Guardò l’orologio che aveva al polso, molto tecnologico, pensò Barbara,

con un sacco di quadranti e accessori che le fornivano ogni sorta di

informazioni. «Nove minuti. Cosa volete sapere?» disse.

Barbara aveva il referto dell’autopsia. Isabelle Ardery lo prese e lo porse

alla dottoressa. «Il mio sergente ha qualche perplessità sul fatto che si sia

trattato di suicidio» disse.

«Ah sì?» Nancy Scannell guardò Barbara con indifferenza. Si tolse il

berretto e i capelli schizzarono fuori come cuccioli quando si apre il recinto.

«Solo per via della maniglia» precisò Barbara un po’ intimidita dal piglio

sicuro dell’anatomopatologa. «E perché a detta di tutti non aveva tendenze

suicide.»

«Che uno avesse o meno tendenze suicide è irrilevante.» La dottoressa


Scannell tirò fuori dal taschino della camicia un paio di mezzi occhiali e se li

mise sul naso. «Si tratta solo di stabilire se si è suicidato o no, e Druitt si è

suicidato. Non è stata una morte accidentale né un omicidio.»

Aprì la cartella e ne posò sul tavolo il contenuto: alcune fotografie del

cadavere, la trascrizione delle osservazioni che aveva dettato al registratore

durante l’autopsia, i risultati delle analisi tossicologiche e il referto finale.

Cominciò a illustrare il referto e le foto, dopo averle avvicinate a Barbara

perché le guardasse. Dato il poco tempo a disposizione, parlava in fretta,

senza mai fermarsi a chiedere se avessero domande o se qualcosa fosse poco

chiaro.

Partì dalla congestione venosa che, sommata all’asfissia, aveva causato il

decesso. A provocare la congestione venosa era stato un paramento liturgico,

per la precisione una stola, usata come cappio. Essendo più larga e più

morbida di una corda o simili, la stola non era penetrata in profondità. Il

sergente sapeva che cosa significava? Senza aspettare la risposta,

l’anatomopatologa spiegò che per quel motivo anziché un’ipossia cerebrale

dovuta a compressione delle arterie si era verificato un blocco da

compressione delle vene giugulari. Ne era conseguito un arresto della

circolazione cerebrale – «Il sangue ha smesso di andare e venire dal cervello,

in parole povere» chiarì la dottoressa – che aveva provocato un aumento della

pressione venosa nella scatola cranica. La morte doveva essere sopraggiunta

dopo tre-cinque minuti, perché per occludere le giugulari bastava una

pressione di due chili.

La dottoressa Scannell cominciò a indicare le foto una per una, fermandosi

solo una frazione di secondo per dare un’occhiata all’orologio. Come il

sergente poteva vedere dalle foto scattate in situ, le caratteristiche del suicidio

c’erano tutte: le tipiche distorsioni del viso, la protrusione degli occhi, le

piccole emorragie puntiformi – «Si chiamano petecchie» – all’interno delle

labbra. Ma, soprattutto, le ecchimosi sul collo.

«Vedo, vedo tutto. Solo che non capisco come faccia uno, da solo, a

impiccarsi alla maniglia di un guardaroba» disse Barbara.

«Basta volerlo» sentenziò la dottoressa Scannell. «Il soggetto si abbandona

in avanti e lascia che il peso del corpo provochi la congestione venosa di cui

vi dicevo, la quale a sua volta provoca la perdita di coscienza e l’arresto

circolatorio a livello cerebrale. È una dinamica che si osserva anche in casi di

morte accidentale – un buon esempio è l’autoerotismo – ma ammazzare una


persona in questo modo è davvero difficile. I segni sul collo sarebbero

diversi.»

Lividi e solchi sul collo cambiavano a seconda di una serie di fattori: peso

corporeo, tipo di cappio, tipo di nodo, tempo totale di sospensione eccetera.

«Non c’è nulla che smentisca l’ipotesi del suicidio» concluse la dottoressa

Scannell.

«Nemmeno i polsi?»

«I polsi?» L’anatomopatologa guardò prima le foto e poi le proprie

osservazioni. «Si riferisce alle abrasioni? Sono compatibili con quanto

dichiarato dall’agente che ha eseguito il fermo. Le manette erano del tipo a

fascetta, di plastica, ed erano state strette eccessivamente. Comunque è stato

sciocco togliergliele...»

«Forse invece è stato furbo» intervenne Barbara. «Se l’avesse ammazzato

lui, intendo. Per farlo passare per un suicidio. O anche se qualcun altro fosse

entrato nella stazione e avesse ammazzato Druitt, e poi l’ausiliario avesse

scoperto il corpo, si fosse fatto prendere dal panico e avesse cercato di farlo

passare per suicidio. Non potrebbe essere andata così?»

Dall’espressione della dottoressa Scannell si intuiva che stava prendendo

in considerazione quell’ipotesi, o che l’aveva già fatto. «Potrebbe essere

andata così, certo.» Barbara stava già per lanciare a Isabelle Ardery

un’occhiata significativa quando Nancy Scannell aggiunse: «Potrebbe anche

essere apparso l’angelo Gabriele e averlo fatto fuori lui. Adesso, scusate, ma

devo andare». Si alzò. «Mi aspettano sulla pista. Avete mai visto un aliante

decollare con il verricello? No? Allora venite con me. Penso vi possa

piacere».

A Barbara non poteva importare di meno di assistere al lancio di un

aliante, ma pur di avere ancora qualche minuto per parlare con la dottoressa

Scannell era disposta a fingersi interessata. Così, prima che il sovrintendente

sollevasse obiezioni, balzò in piedi con l’aria entusiasta di chi va pazzo per i

verricelli. Isabelle non la seguì e rimase seduta nel bar, per la gioia di

Barbara.

Fuori si era alzato il vento. C’era odore di fumo proveniente da un

campeggio per roulotte nelle vicinanze, cui si mescolavano altri odori di

prodotti chimici, benzina e anche un vago olezzo di letame.

Nancy Scannell si avviò verso un grande spiazzo erboso e Barbara dovette

allungare il passo per starle dietro. Di fronte alla sede del club vide un trattore


che, nel tentativo di allontanare le pecore al pascolo, compiva strane

evoluzioni su quella che sembrava essere l’unica pista del campo di volo. A

quanto pareva, l’aliante in attesa in fondo alla pista doveva essere lanciato

piuttosto in fretta, una volta disperso il gregge, prima che gli ovini tornassero

a piazzarsi sulla sua traiettoria.

Ai due estremi della pista, lunga circa un chilometro e mezzo, c’erano due

strani automezzi a quattro ruote con un enorme rullo e un operatore a bordo.

Barbara immaginò che si trattasse dei verricelli. Tra un mezzo e l’altro

correva un robusto cavo d’acciaio, dal quale partiva un altro cavo

perpendicolare cui era agganciato l’aliante.

La dottoressa Scannell non pareva incline a continuare la conversazione,

ma Barbara non si lasciò scoraggiare perché aveva ancora una domanda da

farle. «E lo strangolamento?»

«Lo strangolamento?» ribatté l’anatomopatologa mentre cercava di ficcare

sotto il berretto i capelli che le volavano dappertutto. Fece un cenno al pilota,

che era in piedi vicino al posto di pilotaggio aperto e guardava le nuvole in

lontananza sforzandosi di capire chissà che cosa. «Arrivo!» gridò. «Uhuh!

Sto arrivando!»

Quando Barbara vide che anche il pilota era una donna, si chiese se il

gruppo di comproprietari dell’aliante fosse tutto al femminile.

«Lo esclude?» chiese. «Per quale motivo non è possibile che qualcuno lo

abbia strangolato con la stola e poi lo abbia legato alla maniglia per farlo

sembrare un suicidio?»

«I segni sul collo sarebbero diversi.» La dottoressa si spazientì e non fece

nulla per nasconderlo. La si poteva anche capire, pensò Barbara. In fondo

stavano mettendo in discussione la sua competenza professionale.

«Cioè?»

«Si volti.» L’anatomopatologa tirò fuori dalla tasca dei jeans un foulard.

«Perché?»

«Si volti, le dico. Mi ha fatto una domanda e io le do la risposta.»

Barbara ubbidì e, quando si fu voltata, la dottoressa le passò il foulard

intorno al collo. Poi lo serrò leggermente. «Se io adesso la strangolassi,

sergente, le lascerei sul collo un segno orizzontale. Dopo potrei anche

impiccarla, ma il segno principale rimarrebbe comunque. Se lei invece si

impiccasse, il segno sarebbe diagonale, così. Ecco perché. Ora, se vuole

scusarmi...»


Detto questo, si allontanò rimettendosi in tasca il foulard. Raggiunse la

pilota e insieme cominciarono a ispezionare l’aliante. Poco dopo un tizio si

allontanò dal verricello per controllare le ali e vari aggeggi qua e là. L’uomo

tornò al verricello e, mentre la dottoressa Scannell teneva l’ala ferma e

parallela al terreno, la pilota salì a bordo e si chiuse dentro.

Il lancio durò meno di un minuto: Nancy Scannell mostrò il pollice alzato

al verricellista, il quale lampeggiò con i fari all’operatore dell’altro verricello

a un chilometro e mezzo di distanza. Tutto era pronto. Il cavo di acciaio

cominciò a scorrere dal verricello più vicino verso quello più lontano,

trainando l’aliante che, dopo una cinquantina di metri, si sollevò da terra, salì

fino a due o trecento metri, poi si sganciò dal cavo secondario e prese il volo.

Porca Eva, pensò Barbara incredula guardando l’aliante che si librava

silenzioso nel cielo. Solo un pazzo poteva appassionarsi a uno sport del

genere.

Long Mynd

Shropshire

Rimasta sola nel bar, Isabelle si impose di non cedere, nonostante dall’altra

parte della sala le due file di bottiglie sugli scaffali ammiccassero nella

penombra. In fondo, sarebbe bastato un attimo per andare dietro il banco di

formica a guardare, solo per curiosità, i tipi e le marche di liquori che i

volovelisti bevevano dopo aver passato la giornata a planare in cielo.

Probabilmente si tenevano d’occhio a vicenda per essere sicuri che nessuno si

facesse un goccetto prima di decollare.

Isabelle si disse che il suo interesse per le bevande che il bar del club

serviva ai soci era puramente accademico. A cosa davano la precedenza, fra

prezzo e qualità? E fra quantità e qualità? La vodka era aromatizzata? E il

gin? Quella era una bottiglia di Macallan e, se sì, di quanti anni? Un semplice

interesse, una curiosità passeggera, il desiderio momentaneo di aprire una

bottiglia, annusare il profumo e lasciare che facesse quello che sanno fare i

profumi, ovvero far riemergere alla mente ricordi che si sostituissero a ciò

che aveva in mente in quel momento. Peccato che ora Isabelle Ardery avesse

in mente esattamente ciò che aveva quel giorno. Uno solo, uno solo e poi

basta, nessuno se ne sarebbe accorto, e i gemelli, grazie a Dio, si erano


finalmente addormentati dopo una mattinata, un’intera mattinata, e poi un

pomeriggio in cui prima uno e poi l’altro si erano rifiutati di stare buoni e non

avevano fatto altro che capricci finché...

Isabelle si alzò. Prese la borsa e uscì dal bar. Riattraversò la sala riunioni e

tornò nella caffetteria, dove prima c’erano i piloti che sghignazzavano

davanti alla vetrata. Ne erano rimasti solo due, immersi in una conversazione

su qualcosa di molto serio, a giudicare dalle voci sommesse. Non fecero caso

a lei, e fu meglio così, visto quanto era nervosa.

Cercò di distrarsi guardando le Marche gallesi, che tutti consideravano un

panorama straordinario nella sua vastità. In lontananza vide dei cumulonembi

e un aliante che volteggiava verso l’alto, poi un altro. Chissà se c’erano

rumori lassù, o se si sentiva solo il vento.

Si accorse di avere le unghie conficcate nel palmo delle mani e si chiese a

che punto delle sue divagazioni mentali aveva serrato i pugni. Se avesse

chinato lo sguardo, avrebbe visto quattro profondi segni a mezzaluna in

ciascuna mano, ma non aveva alcuna intenzione di guardare per non vedere

ciò che quei segni le avrebbero detto su lei stessa. Doveva e voleva uscire da

quel posto al più presto perché si rendeva conto che il baratro era lì, davanti a

lei, e sarebbe bastato pochissimo per precipitarvi, e sarebbe stato molto simile

a lanciarsi con uno di quegli alianti che volavano in lontananza, no?

«Capo?»

Isabelle si voltò e vide Barbara Havers. Chissà da quanto tempo era lì. Ma

il tono del sergente era tranquillo, l’aveva chiamata solo per avvertirla che

aveva finito di parlare con la dottoressa ed era tornata. «Ha visto quello che

voleva vedere?» chiese Isabelle. «Ha sentito quello che voleva sentire?»

Barbara Havers annuì, anche se la risposta che le diede – «Più o meno,

direi» – non fu del tutto rassicurante.

«Allora andiamo» replicò Isabelle. E si incamminò verso l’uscita.

Passarono davanti alla toilette. Una puntatina nel bagno prima di rimettersi in

viaggio era ragionevole: Isabelle disse a Barbara che l’avrebbe raggiunta alla

macchina e le indicò con il pollice che aveva un impellente bisogno di fare

una piccola deviazione. Come previsto, il sergente disse che ne avrebbe

approfittato per fumarsi una sigaretta, se non le dispiaceva. E naturalmente

Isabelle ribatté che non le dispiaceva affatto.

Una mignon non bastava, ma era sempre meglio che niente e Isabelle la

bevve tutta in un sorso non appena ebbe chiuso la porta. Poi nascose il vuoto


in fondo al cestino della spazzatura e si guardò allo specchio. Si passò il

rossetto sulle labbra e un po’ anche sulle guance, spalmandolo bene con le

dita. Poi si mise in bocca una mentina per l’alito, uscì e raggiunse Barbara,

che come al solito stava incamerando la maggior quantità di nicotina

possibile e intanto guardava la pista e si mordicchiava il labbro inferiore.

Il suo atteggiamento poteva essere interpretato in diversi modi, oppure

ignorato. Isabelle propendeva per quest’ultima opzione, ma essendo un

funzionario di polizia da cui ci si aspettava una certa competenza sapeva di

dover mostrare un minimo di interesse. «C’è qualcosa che la preoccupa,

sergente» disse, quindi.

Barbara smise di fissare la pista, si strinse nelle spalle e replicò con un

mezzo sorriso. «Dal mio punto di vista, direi che i puntini sulle i ci sono

tutti.» Buttò il mozzicone sulla terra battuta e si accertò che fosse spento. «Se

lei è pronta, per me possiamo andare. Vuole che guidi io, capo? Finora ha

sempre guidato lei e...»

«No» rispose Isabelle in tono più brusco di quanto volesse, perché c’era

qualcosa che non le piaceva in quell’offerta. Poi, per rimediare, aggiunse con

un sorriso che sperava sembrasse sincero: «Le prometto di non mettere a

repentaglio la vita dei germani reali. Venga».

Barbara sfruttò il viaggio di ritorno a Ludlow per studiare i dossier che si

era portata e confrontare meticolosamente le informazioni che riportavano

con quelle che si era appuntata nel bloc-notes. Lavorava con una

concentrazione che a Isabelle parve innaturale e un po’ sospetta, come

l’attenzione con cui poco prima guardava la pista. «La vedo perplessa,

sergente. Cos’è che non la convince?» disse Isabelle dopo un quarto d’ora di

silenzio sempre più carico di tensione, perlomeno ai suoi occhi.

Barbara Havers alzò la testa con un’espressione da cerbiatto sorpreso dai

fari di un’auto. Si affrettò a cercare di mascherarla. «È che... Ha notato

quante cose tutte insieme? A Shrewsbury c’è una serie di furti, così tocca

all’agente ausiliario di Ludlow andare a prelevare il diacono. Poi vengono

segnalati dei ragazzi che si stanno ubriacando in centro, così l’ausiliario deve

occuparsene e il diacono rimane solo. I furti, il fermo, l’abbuffata alcolica, il

suicidio. Tutto nella stessa sera?»

Isabelle frenò. C’erano due pecore comodamente sdraiate in mezzo alla

strada. Suonò il clacson. Le pecore guardarono la macchina con suprema

indifferenza. «Maledizione» esclamò Isabelle. Spalancò la portiera, si sporse


e gridò: «Via di lì! Toglietevi di mezzo! Via!» Con tutta calma, le pecore si

alzarono. Isabelle richiuse la portiera sbattendola con violenza e si rivolse a

Barbara. «Sta insinuando che sia stato tutto orchestrato di proposito? I furti, il

fermo, un’ubriacatura di gruppo che ha richiesto l’intervento delle forze

dell’ordine? Ha idea del grado di collusione che ci vorrebbe per organizzare

una cosa simile?»

«Sono d’accordo con lei. Ma tutte queste coincidenze... Mi fanno pensare

che la faccenda avrebbe dovuto essere sottoposta al Crown Prosecution

Service. E dal momento che non lo è stata... Voglio dire, non le sembra

che...?»

L’esitazione del sergente era veramente esasperante. «Sputi il rospo,

Barbara» disse Isabelle.

«È che... Collusione su vasta scala e insabbiamento sono due cose diverse.

E a volte nel cercare l’una si perde di vista l’altro.»

Erano arrivati alla cabina telefonica dove bisognava girare a sinistra per

riprendere la strada per Ludlow. Isabelle pigiò sul freno con più forza di

quanto intendesse. «Cosa sta cercando di dire?» domandò senza cercare di

nascondere l’irritazione. «Niente. Ma dal momento che vogliamo mettere i

puntini sulle i...»

«Gliel’ho già spiegato: non siamo qui per indagare su un presunto

omicidio. Siamo qui per verificare la correttezza di due inchieste già svolte su

un suicidio. Non possiamo continuare ad andare avanti e indietro in questo

modo perché finiremmo impantanate in troppi dettagli e non possiamo

permettercelo. Hillier non ci ha concesso abbastanza tempo.»

«Capito» rispose Barbara. «Lo sapevo. Ma visto che un po’ di tempo lo

abbiamo – in questo preciso momento, intendo – ho qui l’indirizzo del

diacono, perché me lo ha dato il vicario. Non sembra strano anche a lei che

non volesse stare nella casa parrocchiale con il vicario e la moglie?»

«No, non mi sembra strano. E me lo ha già chiesto. Quindi adesso le faccio

una domanda io: lei vorrebbe abitare assieme a un reverendo e signora?»

«Io no. Neanche per sogno. Ma se fossi diacono e avessi bisogno di una

stanza e me ne offrissero una a... a venti metri dalla mia chiesa, perché non

dovrei accettare? Se non altro, per risparmiare sull’affitto. Invece lui non ci è

voluto stare. Ci sarà bene un motivo... Ma su questo fatto non c’è nemmeno

un cenno in nessuno dei due rapporti.»

Isabelle sospirò. Barbara Havers era veramente esasperante. «D’accordo»


disse. «Ho capito dove vuole andare a parare. Lei ha la sensazione che

dobbiamo andare a vedere dove abitava e cercare... cosa? Uno scheletro in

cantina? Un teschio nel barbecue? Non mi dica altro. Mi dia l’indirizzo e

basta.»

Burway

Shropshire

Ian Druitt abitava in un piccolo complesso residenziale che comprendeva due

vie senza uscita e un vialetto che non aveva neppure un nome. Le case erano

bifamiliari, ognuna con il suo garage accanto. Davanti a quella di Ian Druitt

c’era un furgone giallo con la portiera aperta. Sulla fiancata erano disegnati

alcuni vasi e fioriere in ceramica straripanti di fiori e foglie, accompagnati

dalla scritta BEVANS’ BEAUTIES, da un numero di telefono, un sito web e un

indirizzo email. Una donna in salopette mimetica e maglietta a maniche corte

vi stava caricando grossi sacchi di terra. Aveva un fazzoletto annodato

intorno al collo e in testa un cappello con una tesa così larga da fare ombra a

lei e a eventuali passanti.

«È questo l’indirizzo?» chiese Isabelle a Barbara, che controllò di nuovo i

propri appunti e annuì. La conclusione possibile era una sola ed era davanti ai

loro occhi: Ian Druitt non viveva solo. Poi la donna si voltò verso di loro e

Isabelle vide che aveva più o meno la stessa età di Druitt. La cosa le parve

sorprendente.

Secondo lo standard per cui i sessantacinquenni erano definiti «di mezza

età» come se dovessero vivere fino a centotrent’anni, quella era una giovane

donna sui quaranta. Vedendo che Isabelle e Barbara si avvicinavano, si

interruppe e si aggiustò sul naso un paio di occhiali da sole alla John Lennon.

Sul furgone c’erano già alcuni vasi simili a quelli reclamizzati sulla fiancata,

oltre a decine di piante di vario tipo.

Isabelle fece le presentazioni e sia lei che Barbara mostrarono il tesserino.

La donna, come prevedibile, parve sconcertata da quell’intrusione di New

Scotland Yard nella sua vita, ma disse in tono molto cordiale che si chiamava

Flora Bevans e aggiunse: «Lo so, sembra uno scherzo. Flora. Come se i miei

sapessero già che lavoro avrei fatto».

Isabelle disse che avevano avuto l’indirizzo dal vicario della chiesa di St.


Laurence e Flora Bevans spiegò che Ian Druitt aveva in affitto una stanza da

lei. Flora Bevans cantava nel coro di St. Laurence e aveva saputo da una delle

anziane signore che ne facevano parte – «Avete presente come cercano

sempre di trovare una sistemazione a tutti?» – che Ian Druitt viveva nella

casa parrocchiale con il reverendo Spencer e la moglie, ma gli dispiaceva

disturbarli con la musica e quindi stava cercando un posto dove trasferirsi.

«Io avevo una camera in più e i soldi mi facevano comodo, come a tutti»

disse francamente. «Ho pensato che, se la musica mi avesse dato fastidio,

bastava che mi togliessi l’apparecchio acustico. Così gliene ho parlato, lui è

venuto a vedere e ci siamo messi d’accordo. Tra di noi non c’era nulla»

puntualizzò. «Attrazione fisica? Zero. Ma era una persona deliziosa. E

lasciava il bagno così pulito che sembrava una pubblicità, una cosa non da

poco per un uomo. Ne ho uno solo. Di bagno, intendo. Dividevamo sia il

bagno sia la cucina, ma siamo andati d’accordo fin dall’inizio. Ho solo

dovuto chiedergli di non sbattere la porta quando rientrava tardi la sera, ma

ha imparato subito.»

«Rientrava tardi la sera?» chiesero in coro Isabelle e Barbara.

«Ian era coinvolto in mille attività. Ventiquattr’ore non gli bastavano»

rispose Flora.

«Abbiamo saputo che ha ricevuto un premio per il suo impegno sociale»

osservò Barbara.

«Oh, sì, e ne andava molto fiero. Ve lo mostrerei, ma i suoi sono venuti a

prendere tutta la sua roba, una volta passato il polverone su come era morto.

Poveraccio.» Si tolse il fazzoletto dal collo e lo usò per asciugarsi il viso,

anche se non faceva particolarmente caldo e non sembrava sudata. «Uno si

sente sempre un po’ responsabile, davanti a un suicidio. Non me lo sarei mai

aspettato. Era un uomo di fede, e gli uomini di fede dovrebbero avere... –

come dire? – più risorse spirituali, presumo. È stato uno shock. Quando

quella sera non l’ho sentito rientrare, non avrei mai immaginato che

l’avessero arrestato, e quando ho saputo perché ci sono rimasta malissimo.

Non solo per me, che forse mi ero presa in casa un pedofilo, ma anche per la

sua famiglia. Dire che erano sconvolti, quando sono passati a ritirare le sue

cose, è poco. Non c’è da meravigliarsi, del resto. Venire a sapere qualcosa di

brutto su un familiare non fa mai piacere, ma sentire che ha molestato dei

bambini... Un uomo di chiesa, per di più... Dev’essere un’esperienza

devastante.»


«Lei pensa che le accuse fossero fondate?» domandò Barbara.

«Cosa ne so?» rispose Flora Bevans. «Se si pensa a quante mogli non

sanno di essere sposate con un serial killer tipo Peter Sutcliffe, che va in giro

con un martello sporco di sangue o con chissà cos’altro nel bagagliaio, cosa

volete che sappia una padrona di casa dell’inquilino cui affitta una stanza?

Qui a casa mia non ha mai fatto niente di strano, grazie a Dio. E devo dire

che, se mai, non capisco dove trovasse il tempo. Ora che ci penso...»

Aggrottò la fronte.

«Sì?» disse Isabelle.

«Ho ancora la sua agenda. Me l’ero dimenticata. Avrei dovuto consegnarla

a qualcuno – aveva appuntamenti a tutte le ore del giorno – ma non ci ho

pensato. Immagino che vi interessi, no? O forse dovrei spedirla a suo padre.

La teneva in cucina sotto il telefono e quando ho radunato le sue cose mi è

sfuggita.»

L’agenda avrebbe spalancato le porte a nuovi campi di indagine che

Isabelle non desiderava particolarmente esplorare, ma Barbara Havers fu più

pronta di lei e figuriamoci se non diceva che l’agenda era proprio quello che

ci voleva, grazie mille.

«Venite con me.» Flora Bevans andò verso la porta e le invitò a entrare.

Si ritrovarono in un piccolo ingresso quadrato con foto di composizioni

floreali alle pareti che Isabelle immaginò fossero opera di Flora Bevans. Era

un’artista, a giudicare da quelle immagini. In fatto di piante, il massimo che

Isabelle poteva pensare di tenere in un vaso era l’edera, sperando che non

morisse se dimenticava di innaffiarla per qualche settimana.

Flora le fece entrare nella cucina, arredata di tutto punto e molto ordinata;

aprì un cassetto, tirò fuori l’agenda e la porse a Barbara Havers. Era

un’agenda normale, con giorni della settimana e ore del giorno, e un pensiero

cui ispirarsi in cima a ogni pagina. Barbara cominciò a sfogliarla. Isabelle, un

po’ discosta, vide che, come aveva preannunciato Flora Bevans, l’agenda era

piena di appuntamenti. Mentre Barbara li studiava, Isabelle notò il chiasso

che proveniva da dietro la casa. Era il suono inconfondibile di bambini che

giocano: urla, tonfi, risate e ogni tanto la voce di un adulto che li richiamava

all’ordine.

«Abbiamo una scuola qui vicino» spiegò Flora. «Durante gli intervalli c’è

un po’ di confusione, ma nel fine settimana e durante le vacanze è un

paradiso. Il quartiere più tranquillo della città, secondo me. Penso che anche


Ian lo apprezzasse.»

Havers alzò la testa. «Dal davanti non si sente niente.»

«È vero» convenne Flora. «La mia camera è affacciata sulla strada, quindi

la scuola non mi dà nessun fastidio. Ian invece aveva la stanza sul retro e si

beccava tutto il rumore, se era in casa quando i bambini erano in cortile.»

«Possiamo dare un’occhiata?» chiese Barbara, aggiungendo subito dopo:

«Va bene, capo?»

Isabelle annuì. Flora le accompagnò al piano di sopra e disse che potevano

fermarsi a guardare – anche se non c’era molto da vedere – ma che lei doveva

tornare a lavorare, se per loro non era un problema. Potevano chiudere la

porta d’ingresso, una volta finito: non usava mai la chiave, tanto in casa non

c’era niente che valesse la pena di rubare.

Nella camera del morto, Isabelle e Barbara scoprirono due cose: primo, che

dal cortile della scuola veniva un fracasso parecchio fastidioso, se uno aveva

bisogno di tranquillità durante il giorno; secondo, che dalla finestra si vedeva

benissimo il cortile asfaltato dove un centinaio di alunni, maschi e femmine,

giocavano al sole. Come sempre a quell’età, riuscivano a fare un gran

baccano saltando la corda, giocando a pallone, alla campana. Alcuni erano

impegnati in quella che poteva sembrare una mischia di rugby e che era

invece una gara a chi riusciva a far scoppiare un palloncino saltandoci sopra.

Il tutto sotto la sorveglianza di una donna che li guardava imbronciata con le

braccia conserte e un fischietto da vigile intorno al collo.

«Chissà se era venuto a stare qui per questo» mormorò Barbara Havers

raggiungendo il sovrintendente alla finestra. «È l’ideale, se ti piacciono i

ragazzini, no?»

I bambini nel cortile avevano più o meno l’età dei suoi figli, pensò

Isabelle. Giocavano con la stessa grinta dei gemelli, con la stessa passione.

Aveva capito subito che due gemelli sarebbero stati impegnativi per una

madre come lei, ma non avrebbe mai immaginato di poterli perdere.

Purtroppo il pensiero dei danni che poteva fare loro quando si riduceva in

quello stato non era bastato a fermarla. Il più grave dei suoi peccati era stato

questo. Degli altri meglio non parlare.

«... poteva sfogarsi anche solo stando qui alla finestra, immagino» stava

dicendo, pensosa, Barbara Havers. «Bisogna tenerlo presente. Senza che

nessuno se ne accorgesse.»

Isabelle si riscosse. «Di cosa sta parlando, sergente?»


«Magari si metteva qui a... a lucidarsi l’arnese.»

«Come ha detto, scusi?»

Barbara si affrettò a cercare di rimediare. «A farsi una...»

Isabelle questa volta capì. «A masturbarsi? Guardando i ragazzini?»

«Be’, sì. Hai la scuola proprio sotto la finestra, nessuno ti vede... Flora è

sempre in giro con i suoi vasi e le sue piante, lui ha la casa tutta per sé, sente

gli scolari nel cortile ed ecco che il vecchio amico si sveglia e vuole una bella

stretta di mano.»

«Sergente Havers, usa un linguaggio così colorito quando parla con

l’ispettore Lynley?»

Barbara fece una smorfia. «Mi scusi.»

«Perché, sinceramente» continuò Isabelle «non riesco a immaginare che

l’ispettore Lynley si esprima in termini altrettanto coloriti con lei.»

«Ha perfettamente ragione, capo. Lui non userebbe mai certe espressioni.

Signore com’è, piuttosto si taglia la lingua. Non gli verrebbe nemmeno in

mente. Di usare un linguaggio colorito, intendo. Con l’educazione che ha

ricevuto... non so se mi spiego. Voglio dire, sappiamo tutti che è un

gentiluomo e quindi... Chissà come si comporta con... chiamiamolo il... il lato

scabroso de... insomma.»

«Capisco.» Isabelle conosceva piuttosto bene Lynley. Avevano avuto una

relazione per un certo periodo e, se era vero che Lynley era la

personificazione della signorilità e della discrezione, c’erano aspetti

dell’educazione ricevuta da un uomo che andavano a farsi benedire, se una

donna ci si metteva d’impegno. E dal momento che con Thomas Lynley

Isabelle si era impegnata eccome, gli aveva sentito dire cose che, pur essendo

ben lontane dalla volgarità del linguaggio di Barbara, quest’ultima non gli

avrebbe mai sentito pronunciare. Isabelle tornò a guardare dalla finestra.

«Non lo escludo. Che Ian Druitt da qui guardasse i ragazzini. Sappiamo

entrambe che il genere umano è capace di tutto» disse.

Nella stanza c’erano solo i mobili: un letto, un comò, un piccolo scrittoio

con un unico cassetto e una sedia. I cassetti del comò erano vuoti, come pure

quello dello scrittoio, e le pareti erano spoglie. Un buco sopra il letto faceva

pensare che ci fosse stato appeso qualcosa e, considerato lo stile monastico

della stanza, Isabelle immaginò un crocifisso.

Non c’era altro che fosse degno di nota, per quanto potesse vedere.

L’agenda sembrava confermare che Ian Druitt era un fanatico del


volontariato, come aveva affermato più di una persona. Una vita che a lei

pareva faticosa, ma non sospetta. La missione nello Shropshire, pertanto,

poteva dirsi conclusa.

Naturalmente il sergente Havers non era dello stesso parere, tant’è che

mentre scendevano le scale disse: «Immagino che dovremo controllare tutte

le carabattole che le ha dato Druitt senior. Magari c’è qualcosa che

corrisponde a quel che è scritto nell’agenda, no? Soprattutto se si tratta di

documenti e cose del genere... Voglio dire, solo per verificare che tutto torni.

Per essere sicure di non aver trascurato niente». Poi aggiunse, quasi a

prevenire eventuali proteste da parte di Isabelle: «Immagino che il padre se lo

aspetti. Non le pare?»

No, non mi pare, pensò Isabelle. Forse invece il sergente Havers non aveva

tutti i torti. Ci mancava solo quella maledetta agenda. Fece un sospiro. «E

secondo lei qual è il modo migliore di procedere?»

«Be’, negli scatoloni che ci ha dato il padre potrebbe esserci qualcosa che è

sfuggito finora.» Vedendo che Isabelle non rispondeva, continuò: «Posso

guardarci io, se lei ha altre cose cui pensare».

L’unica altra cosa cui aveva da pensare Isabelle era un vodka tonic con più

vodka che tonic, ma non poteva ordinare al sergente Havers di esaminare il

contenuto di tutti quegli scatoloni da sola mentre lei si faceva i fatti suoi, e

quindi convenne che era un lavoro da affrontare insieme. Ora che avevano

anche l’agenda di quel povero disgraziato, bisognava occuparsene, perché era

un reperto di proprietà del morto che chiaramente era sfuggito alle due

inchieste precedenti.

«Controlliamo insieme. Possiamo farlo in albergo, e magari chiediamo a

Peace se ci può preparare un panino» disse perciò.

Alla luce dei fatti, gran parte degli oggetti personali di Ian Druitt si rivelò

di scarso interesse. Portarono gli scatoloni all’hotel, li allinearono sul

pavimento della sala e cominciarono ad aprirli mentre Peace on Earth

procurava due panini con prosciutto e uova sode, a malapena commestibili.

Isabelle ordinò l’agognato vodka tonic e chiese al sergente se desiderasse

ordinare qualcosa di forte anche lei. Barbara, però, pareva decisa a rimanere

sobria e si limitò a chiedere un’acqua minerale. L’unica sua concessione fu

un sacchetto di patatine per accompagnare il panino.

Si divisero il lavoro. Isabelle iniziò dalla scatola che conteneva un lettore

cd portatile e una collezione musicale piuttosto eclettica, dalla classica al


country americano. C’era anche un iPod che il diacono avrà usato per

ascoltare musica, con la relativa docking station.

Barbara intanto tirava fuori da un’altra scatola gli indumenti che Druitt

portava quando non si vestiva da prete. Non erano molti e come prevedibile

erano tutti ben piegati, di colori neutri e piuttosto anonimi. In mezzo ai

vestiti, forse per proteggerla, c’era una semplice croce lucida, di legno

pregiato. Dietro c’era una targhetta con la dedica: «A Ian con affetto, mamma

e papà» e una data, probabilmente quella dell’ordinazione a diacono. In fondo

alla scatola c’era una cartellina con un elenco di nomi maschili e femminili,

indirizzi e numeri di telefono. Dovevano essere gli iscritti al circolo

doposcuola e i nomi fra parentesi accanto a ciascuno dovevano essere quelli

dei genitori. Sotto ancora c’erano un giornale piegato e una pila di volantini

di spettacoli di un gruppo musicale, gli Hangdog Hillbillies. Ognuno si

riferiva a un concerto diverso, in una sede e una data diversa, con una diversa

foto della band. Ian Druitt, a quanto pareva, suonava il bidofono – uno

strumento artigianale ricavato da un secchio di metallo e da un manico di

scopa – mentre gli altri membri suonavano il banjo, le percussioni su un’asse

da bucato o con dei cucchiai e la chitarra. Si esibivano vestiti secondo lo stile

country del gruppo e in un’altra scatola Isabelle trovò vari indumenti che Ian

Druitt probabilmente portava ai concerti: pantaloni sbiaditi, salopette,

scarponi, T-shirt consunte, camicie da lavoro lise e cappelli di vari tipi.

Il giornale era una copia del Ludlow Echo con l’articolo su Druitt Uomo

dell’anno. Barbara lo lesse dall’inizio alla fine e, dato che Isabelle l’aveva

soltanto visto di sfuggita, recitò ad alta voce l’elenco delle attività di

volontariato del diacono: membro del gruppo incaricato della catturasterilizzazione-liberazione

dei gatti randagi, direttore del circolo per

l’infanzia di Ludlow, membro della Victim Volunteers Society, catalizzatore

del nascente gruppo degli Street pastors, direttore del coro della parrocchia di

St. Laurence. Inoltre visitava malati, anziani e convalescenti ricoverati nelle

case di cura.

«Porca Eva» concluse Barbara quando arrivò in fondo. «Dove lo trovava il

tempo per fare il diacono?»

Isabelle che, come Barbara, non sapeva in cosa consistessero esattamente

le mansioni di un diacono, ipotizzò: «Forse era quello il suo compito».

«Può darsi» replicò Barbara, ma con scarsa convinzione.

Isabelle la guardò: il sergente rimuginava strizzando gli occhi, ma appena


si sentì osservata assunse un’espressione del tutto neutrale. Isabelle lo trovò

un atteggiamento poco collaborativo, oltre che irritante. «La smetta,

sergente» disse, rendendosi immediatamente conto di sembrare una madre

che si rivolge alla figlia adolescente che ha appena imparato a rispondere per

le rime.

Barbara trasalì. «Di fare cosa?»

«Se sta pensando qualcosa, mi piacerebbe saperlo.»

«Scusi, capo. Io...»

«E la smetta di scusarsi!»

«Scusi.» Barbara si nascose la bocca dietro una mano.

Isabelle la guardò esasperata. «Cerchiamo di sintonizzarci sulla stessa

lunghezza d’onda. Siamo qui per risolvere questa faccenda. Prima ci

riusciamo, prima possiamo tornarcene a Londra. Che cosa voleva dirmi?»

«Solo che mi sembra un po’ troppo.» Barbara indicò il giornale, dove

c’erano anche interviste a una serie di persone che avevano beneficiato in un

modo o nell’altro delle varie attività di Druitt e ai suoi collaboratori. Come

c’era da aspettarsi, parlavano tutti in termini entusiastici del suo impegno per

i giovani di Ludlow, della sua generosità, della sua cordialità e cortesia. «È

come se... Ha presente ’la signora protesta troppo’?»

«Ma cosa dice? Quale signora?»

«Oh. Scus... Ops. È una frase di Shakespeare, dall’Amleto.»

Isabelle, che era in ginocchio vicino a uno scatolone, si sedette sui talloni e

osservò con grande attenzione Barbara. «Sbaglio o dall’ispettore Lynley ha

appreso competenze interdisciplinari? Applicate sistematicamente

Shakespeare quando indagate insieme?»

Barbara Havers ridacchiò. «L’ispettore Lynley sta solo cercando di

insegnarmi ad apprezzare i capolavori della letteratura. Immagino che,

quando padroneggerò Shakespeare, vorrà passare a Dickens. Si concentra

soprattutto sulle opere più sanguinose, quelle dove viene ammazzato

qualcuno. Per ora ho ben chiaro l’Amleto. Con Macbeth faccio ancora un po’

di confusione.»

Isabelle esitò. C’era qualcosa nello sguardo di Barbara che... «Sta

scherzando, vero?» disse.

«Be’, sì. Un pochino.»

«Sul fatto che non padroneggia il Macbeth, giusto? Scommetto che è in

grado di citarlo a memoria anche nel sonno.»


«No, no!» si affrettò a rispondere Barbara. «Voglio dire, a parte il brano

sul pugnale insanguinato. Be’, no, forse so a memoria anche quello di

Macbeth che ha ucciso il sonno e il monologo della macchia.»

«Ah.» Isabelle tornò all’argomento da dove erano partite. «E cosa c’entra

la signora che protesta troppo con quello che stiamo facendo?»

Barbara Havers indicò l’articolo di giornale. «Be’, mi sembra che se uno fa

tutto questo volontariato, un motivo ci deve essere e non vorrei che Druitt lo

facesse per salvare le apparenze. Nella telefonata al 999, quella frase

sull’ipocrisia... E poi tutto questo gran parlare di quanto Druitt era... non so

nemmeno io come definirlo.»

«Encomiabile? Ammirevole? Di una bontà irreprensibile?»

«È come se cercasse di fare tutto quello che deve fare un buon cristiano per

accontentare il Signore. Come se avesse un elenco di opere buone che

spuntava una per una. A me sembra un filo esagerato e mi viene da pensare

che avesse qualcosa da nascondere. Magari uno ha letto questo articolo e si è

detto ’Aspetta un attimo, che adesso lo sistemo io’. E ha fatto quella

telefonata anonima perché non sopportava di vedere che tutti lo incensavano

quando in realtà si meritava di...»

«Finire in galera» concluse per lei Isabelle.

«Si sparge la voce e a qualcuno viene il dubbio che tanto Uomo dell’anno

non era.»

«D’accordo» disse Isabelle. «Ma non possiamo escludere che la denuncia

sia stata sporta non per indignazione, ma per vendetta.»

«Anche la vendetta quadra con l’ipotesi della pedofilia, no? ’Hai fatto

questo a mio figlio – o, meglio ancora, a me quando avevo dieci anni – e

adesso me la paghi.’ Una cosa così.»

«Sì, ci sta. Sono abbastanza d’accordo con lei, sergente. L’onorificenza,

l’articolo in prima pagina, la telefonata anonima... Potrebbe esserci un

collegamento, no?»

Barbara pareva molto soddisfatta, e Isabelle non voleva che si

ringalluzzisse troppo e pensasse di poter fare di testa sua. Perciò disse: «Ma

spero che lei sia d’accordo con me sul fatto che per vendicarsi non occorreva

necessariamente ammazzarlo. Bastava rovinargli la reputazione, e per questo

era sufficiente che venisse fermato, indagato, processato. A prescindere

dall’esito, sarebbe stato un uomo finito».

«Sì, certo» convenne Barbara, ma non parve per niente scoraggiata. «C’è


ancora questa da controllare, però» aggiunse mostrando l’agenda che

avevano avuto da Flora Bevans. «La colonna A» disse agitando la mano in

cui la teneva «va confrontata con la colonna B» concluse indicando l’articolo.

«E cioè?»

«E cioè potrebbe esserci qualcosa nell’agenda che nessuno ha mai preso in

considerazione perché nessuno l’ha mai vista. E se vogliamo che Druitt

senior non chiami i suoi avvocati, penso ci convenga controllare.»

Ludlow

Shropshire

Barbara Havers si congedò da Isabelle Ardery con la sensazione di essere

riuscita a vincere un round. Prima dell’appuntamento con il sovrintendente

per l’aperitivo, si dedicò a sfogliare l’agenda e scoprì che qualcosa che valeva

la pena di approfondire c’era.

Quando scese al bar, però, si accorse che quel giorno al Griffith Hall erano

arrivati nuovi clienti, grandi bevitori di champagne, e la loro presenza le

impedì di affrontare qualsiasi discorso di lavoro sia nella fase degli

stuzzichini e dei drink – vodka martini per Isabelle e, per Barbara, una mezza

pinta di birra che si fece durare per tutta la cena – sia in quella del pasto vero

e proprio.

A Isabelle squillò il cellulare tre volte durante stuzzichini, drink e cena, ma

lei si limitò a dare un’occhiata per controllare chi chiamava – due volte con

un’espressione di assoluto disgusto – e lasciò che scattasse la segreteria.

Quando tornarono nel bar per il caffè, il telefono suonò per la quarta volta e il

sovrintendente rispose, si alzò dal divano e uscì. «Hillier» disse a Barbara.

Meglio te che me, pensò Barbara. Per come lo conosceva, il

vicecommissario voleva senza dubbio che portassero a termine la missione e

tornassero dallo Shropshire al più presto.

Barbara aveva con sé il rapporto della commissione per i reclami contro la

polizia e, mentre Isabelle era al telefono, lo aprì per individuare quello che

secondo lei era l’elemento chiave nelle indagini, ovvero che cosa stava

facendo l’agente ausiliario Gary Ruddock quando aveva lasciato il diacono

libero di impiccarsi e che cosa aveva fatto subito dopo averlo trovato esanime

appeso a una maniglia.


Vide che la versione dei fatti fornita da Ruddock era stata confermata da

tutti: il titolare dello Hart and Hind in Quality Square aveva dichiarato che

quella sera era in corso un’abbuffata alcolica nel suo locale; i proprietari degli

altri pub della città ricordavano che l’agente ausiliario aveva telefonato

invitandoli a non servire alcolici a ragazzi ubriachi perché, se ci fossero stati

problemi, lui non sarebbe potuto intervenire; il suo diretto superiore aveva

comprovato il dettaglio dei furti a Shrewsbury, a causa dei quali a gestire

Druitt era stato mandato Gary Ruddock. Inoltre, i paramedici intervenuti sul

posto dopo la chiamata al 999 fatta da Gary Ruddock in preda al panico

avevano descritto così la situazione che avevano trovato: Druitt steso per

terra, supino – senza più il cappio al collo – e Ruddock che tentava di

rianimarlo e gridava «Su, forza! Respira, disgraziato!» come se il defunto

potesse sentirlo. I soccorritori avevano fatto il possibile per rianimarlo pur

avendo capito subito che Druitt era morto. Alla fine, tutti gli sforzi si erano

rivelati vani e l’agente ausiliario si era trovato a dover rispondere del decesso

del diacono.

Decesso che si sarebbe potuto evitare se, invece che a Ludlow, Ian Druitt

fosse stato portato a Shrewsbury, dove il sergente cui era assegnata la camera

di sicurezza avrebbe garantito il rispetto della procedura prevista: confiscare

al fermato tutto ciò che poteva essere usato per togliersi la vita, chiamare due

garanti dei diritti delle persone private della libertà personale a verificare che

le condizioni di detenzione fossero ineccepibili e, qualora il diacono non ne

avesse già uno, nominare un avvocato d’ufficio. Poiché non era stato fatto

nulla di tutto questo Barbara Havers, per conto della Metropolitan Police,

aveva ancora una curiosità da togliersi. E, quando Isabelle Ardery tornò dalla

sua telefonata e chiese a Peace on Earth di portarle un doppio bicchiere di

Porto, Barbara espresse il desiderio di ritirarsi presto per studiare ancora un

po’ l’agenda di Druitt. Con suo grande sollievo, il sovrintendente non fece

obiezioni.

Salita in camera, Barbara posò il dossier sul suo letto da monaca e,

ignorando completamente l’agenda, chiamò la reception per una richiesta

bizzarra. Sì, le fu risposto dopo una pausa, era possibile farle trovare una

scopa nella hall. Ma non prima di mezz’ora, perché nel ristorante c’erano

ospiti ancora impegnati con caffè e ammazzacaffè. Se la signorina Havers

poteva aspettare... Certo che posso aspettare, rispose la signorina Havers.

Posò il telefono e approfittò dell’attesa per ricontrollare l’itinerario sulla


pianta della città.

Doveva uscire dall’hotel senza farsi vedere dal sovrintendente. Pur

ritenendo ciò che si accingeva a fare del tutto ragionevole, preferiva agire

all’insaputa di Isabelle Ardery per evitare che la interpretasse come

un’iniziativa personale, come un’insubordinazione. Era già successo in

passato, no? Per non destare sospetti, prima di scendere le scale e avviarsi

verso l’uscita prese un pacchetto di Player’s, i fiammiferi e la chiave della

camera, come una qualsiasi cliente di un hotel non fumatori che esce un

attimo a fumarsi una sigaretta. Se Isabelle Ardery l’avesse vista con la borsa,

si sarebbe certamente insospettita. Già sarebbe stato difficile spiegare il

perché della scopa.

Fu fortunata e arrivò nella hall senza intoppi. Non c’era nessuno e la scopa

era dove promesso, vicino alla porta, dietro un attaccapanni. Barbara la prese,

si affrettò a uscire e si avviò verso Castle Square con la scopa in spalla.

Benché fosse tardi, era una bella serata e non era la sola in giro per la città: un

gruppetto di studenti con libri e zainetti tornava a casa e alcune persone

passeggiavano sul sentiero intorno alle mura del castello. Davanti

all’auditorium di Mill Street c’era un pullman fermo per far salire una

comitiva di pensionati reduci da uno spettacolo. Come prima di cena, non

c’era praticamente traffico, solo un taxi parcheggiato in cima a Church Street.

Alla fine del colloquio con l’agente ausiliario, le era passato di mente di

provare a girare la videocamera con una scopa, come suggerito dallo stesso

Ruddock. Adesso che se l’era procurata, però, aveva intenzione di controllare

sia quella puntata sul marciapiede e sulla scala di accesso alla stazione, sia

quella sul retro rivolta verso il parcheggio.

Arrivata al posto di polizia, procedette a una rapida ricognizione. Come

nell’altra occasione in cui c’era andata di sera, vide una luce accesa e una

Panda nel parcheggio. Questa volta però a bordo non c’era nessuno. Barbara

si avvicinò e controllò le portiere: erano chiuse a chiave.

Già che si trovava sul retro, con il manico della scopa provò a spostare la

telecamera a lato della porta. Era fissa, non c’era modo di ruotarla. Ne

dedusse che doveva avere un obiettivo con un’apertura sufficiente a

inquadrare sia i due gradini davanti alla porta sia il parcheggio.

Andiamo a vedere davanti, pensò. Mentre si avviava rasente il muro,

tenendosi nascosta dietro i cespugli come un ladro nella notte, davanti alla

stazione passò una macchina della polizia che girò l’angolo ed entrò nel


parcheggio sparendo alla sua vista. Poco dopo Barbara sentì che il motore si

spegneva.

Tornò sui propri passi e con circospezione sbirciò da dietro l’angolo.

L’auto era andata a fermarsi in retromarcia nel punto più lontano, contro il

muro di mattoni, in modo da rimanere nell’ombra proiettata da un albero del

giardino accanto. Barbara aspettò un minuto, ma nessuno scese e non accadde

niente.

Stava per andarsene quando la portiera lato passeggero si aprì e per un

attimo la luce di cortesia illuminò l’abitacolo e i suoi occupanti. L’agente

ausiliario Gary Ruddock era al volante e con lui c’era una ragazza sui

vent’anni, capelli lunghi, non molto alta. Stava per scendere e Barbara sentì

chiaramente che diceva: «... me ne frego». La risposta di Ruddock fu

inintelligibile, ma evidentemente tale da indurre la ragazza a esitare. Intanto

Ruddock scese dal proprio lato e la guardò da sopra il tetto dell’auto.

Rimasero a fissarsi, lui con espressione paziente e lei non si sa, perché

Barbara non riusciva a vederla in faccia. Non dissero altro, ma dopo circa

quindici secondi la ragazza risalì in macchina, e subito dopo anche Ruddock.

Barbara non vide niente, assolutamente niente. Ma qualcosa successe e

Barbara, che non era priva di immaginazione e sapeva contare, decise che

uno più uno più due fa quattro: dove il primo uno era la macchina, il secondo

il buio, e due erano Ruddock e la sua accompagnatrice. O a bordo di

quell’auto di servizio era in corso una dissertazione notturna sullo stato

dell’economia, o la confessione di qualche malefatta che richiedeva di restare

il più possibile nell’ombra, oppure Ruddock e la sua giovane amica stavano

facendo ciò che spesso fanno un uomo e una donna quando si appartano in

macchina al buio.

E forse Gary Ruddock era impegnato in questo stesso genere di attività

anche quando il diacono si era legato la stola al collo dentro la stazione. Se

così era, di certo Ruddock non voleva che si venisse a sapere. Le aveva detto

che viveva in casa di un vecchietto, la ragazza probabilmente abitava ancora

con i suoi oppure divideva un appartamento con altri studenti e, supposto che

volessero giocare al dottore – e non fare una dotta chiacchierata notturna –

avevano bisogno di privacy. Pur essendo arredata in modo spartano, la

stazione sarebbe potuta essere il luogo ideale, ma con il diacono in attesa di

trasferimento a Shrewsbury era meglio evitare. Perché, allora, non farlo in

macchina, come si usava fin da quando era stata inventata l’automobile? A


mali estremi, estremi rimedi, e in quel caso il rimedio non era nemmeno così

disperato. Bastava spostarsi sul sedile posteriore, liberarsi degli indumenti

indispensabili, darci dentro per cinque minuti o anche meno, e la cosa era

fatta. Aggiungici tre minuti di preliminari e due per un po’ di coccole post

coitum, trenta secondi per rivestirsi, il tempo di riaccompagnare la

pollastrella nel pollaio, e Ruddock poteva essere di nuovo sul pezzo.

Al ritorno, però, Ruddock aveva scoperto cos’era successo mentre lui e la

ragazza se la spassavano nel parcheggio, aveva capito che per il diacono non

c’era più niente da fare e si era affrettato a telefonare a tutti i pub per coprirsi;

poi aveva chiamato il 999 e recitato la parte di quello che tenta

disperatamente di rianimare un suicida. Non doveva essergli riuscito molto

difficile, visto che disperato lo era davvero: aveva combinato un gran casino

e, se qualcuno avesse scoperto la verità, la sua carriera sarebbe finita.

In effetti le cose potevano essere andate così. Ruddock contava sul fatto

che i titolari dei pub confermassero che lui aveva telefonato ma non fossero

in grado di dire esattamente a che ora. E, se le loro dichiarazioni non avessero

completamente cozzato con l’ora del decesso stabilita dall’anatomopatologa,

Ruddock sarebbe stato al di sopra di ogni sospetto. A patto che nessuno

venisse a sapere che si era appartato in macchina con una ragazza.

Barbara si nascose chiedendosi per quanto tempo ci sarebbe dovuta

rimanere. La prospettiva di restare a lungo rannicchiata dietro un cespuglio

non le sorrideva particolarmente, ma era inevitabile, dal momento che non

voleva farsi beccare da Ruddock e dalla sua amichetta mentre armeggiava

con una scopa intorno alla telecamera.

Passò circa un quarto d’ora prima che l’auto ripartisse. Barbara rimase

acquattata come un ladro finché non l’ebbe sentita allontanarsi, poi si alzò e

si spostò sul davanti della stazione. Quando si avvicinò all’ingresso, si accese

una luce azionata da un sensore di movimento.

Barbara si piazzò sotto la videocamera e vi accostò delicatamente il

manico della scopa. Fu sufficiente una lieve pressione per spostarla in modo

che inquadrasse la porta e il telefono esterno alla sua sinistra. Barbara rimase

soddisfatta. Significava che, se una persona voleva usare quel telefono

mantenendo l’anonimato, bastava che facesse quel che aveva appena fatto lei:

passare dal parcheggio, compiere il giro stando attenta a non essere ripresa

dalla videocamera puntata sulla porta e ruotarla in modo che fosse rivolta

verso la scala. Poi era libera di telefonare senza comparire nel filmato.


Restava da chiedersi per quale motivo la persona che aveva chiamato non

avesse poi rimesso la videocamera nella posizione originale, ma era un

interrogativo che si prestava a più di una risposta. Forse era stato sorpreso

dall’arrivo dell’ausiliario o di un altro poliziotto ed era stato costretto a

darsela a gambe, oppure aveva spostato la telecamera qualche giorno prima e

intendeva rimetterla in posizione qualche giorno dopo, ma nel trambusto

seguito al suicidio di Druitt aveva lasciato perdere. O, ancora, la videocamera

era sempre stata puntata sul marciapiede e sulla scala anziché sul portone.

Sicuramente le spiegazioni potevano essere più d’una e per scoprire qual era

quella giusta bisognava visionare le riprese.

Barbara decise di rileggere i rapporti per vedere se citavano la posizione

della videocamera. Se non ne parlavano – e Barbara era quasi certa che fosse

così – avrebbe dovuto convincere il sovrintendente che era necessario

visionare le registrazioni non solo del giorno in cui era stata fatta la denuncia

anonima, ma anche di quelli subito prima e subito dopo. Era un passo

indispensabile.


7 MAGGIO

Ludlow

Shropshire

Isabelle aveva visto Barbara Havers uscire dall’hotel la sera prima. L’aveva

vista passare dalla porta del bar, dove aveva appena finito il secondo

bicchiere di Porto, e si era insospettita vedendola incamminarsi con una

scopa in spalla. Era chiaro che, nonostante l’ora tarda, il sergente stava

andando a indagare per conto proprio.

Subito dopo che la porta dell’albergo si era richiusa, a Isabelle era squillato

il cellulare. Non appena aveva visto il nome sul display, aveva preso la sua

decisione. Sherlock Wainwright voleva senza dubbio spingerla ad adottare un

atteggiamento più morbido nei confronti dell’ex marito, e Isabelle non aveva

nessuna voglia di parlargli. Così aveva lasciato scattare la segreteria e aveva

seguito Barbara.

Trovandosi per la prima volta fuori di sera, aveva notato gli odori di

Ludlow: il leggero profumo proveniente dai davanzali fioriti lungo la strada e

l’improvvisa zaffata di marijuana che usciva da una finestra spalancata

insieme alla musica rap e a due voci maschili che parlavano forte.

Davanti a lei, Barbara aveva svoltato in Castle Square. Arrivata all’angolo,

aveva visto il sergente camminare sul marciapiede lungo il lato sud della

piazza. I negozi erano chiusi, ma alla luce dei lampioni si vedevano, dentro le

vetrine, libri, souvenir e, in un negozio di roba usata, vestiti. Era piuttosto

tardi e c’era poca gente in giro, anche se dal chiacchiericcio e dalle risate che

si sentivano nelle vicinanze doveva esserci un pub ancora aperto. Anziché

andare in quella direzione, Barbara aveva proseguito verso King Street e il

Bull Ring, da dove si era addentrata in una zona pedonale poco illuminata.

Isabelle aveva preso in considerazione l’ipotesi che fosse semplicemente

uscita a fare una passeggiata e si fosse portata appresso la scopa per eventuale

autodifesa, e stava quasi per tornare indietro, ma poi aveva notato che ai


margini della zona pedonale c’era una strada su cui in quel momento, sotto la

luce di un lampione, era passata un’autopattuglia. Il posto di polizia doveva

essere poco lontano, ed era là – aveva stabilito Isabelle – che doveva essere

diretta Barbara Havers.

Dunque il sergente aveva preso un’iniziativa personale. Isabelle non le

aveva dato ordini specifici su come passare il resto della serata, ma lei stava

andando alla stazione di polizia con una scopa in spalla, probabilmente per

controllare le telecamere a circuito chiuso. Se da una parte questo – a seconda

dell’esito – rischiava di allungare il loro soggiorno a Ludlow, era vero anche

che fino a quel momento non avevano trovato nulla che indicasse che Ian

Druitt non si era suicidato ed era verosimile che le videocamere lo

confermassero. Isabelle aveva seguito Barbara Havers finché non era stata

sicura che la sua meta fosse proprio la stazione di polizia, poi aveva fatto

dietrofront e se n’era tornata in albergo.

Al risveglio, l’indomani mattina, si preparò ad ascoltare il messaggio che

Sherlock Wainwright le aveva lasciato la sera prima. La preparazione

consisteva in un dito di vodka, che versò nel bicchiere del bagno usando

come misurino il tappo della bottiglia. Tre tappi, non una goccia di più. Per

prepararsi mentalmente potevano bastare.

Nel messaggio Wainwright le chiedeva di richiamarlo perché, diceva,

aveva buone notizie per lei: Robert Ardery aveva proposto un compromesso

che, secondo Wainwright, le sarebbe piaciuto molto.

Isabelle lo richiamò e gli chiese subito di che cosa si trattava. «Sono

contento che mi abbia richiamato, grazie. Ora le leggo la proposta. L’ho

ricevuta dall’avvocato di suo marito ieri...» rispose Wainwright.

«Ex marito.»

«Sì. Certo. Scusi. L’ho ricevuta dall’avvocato del suo ex marito ieri sera e

le ho subito telefonato.»

«Mi dispiace, dormivo già.»

«Nessun problema. Non c’è una data entro la quale bisogna rispondere.

Allora, gliela leggo?»

Isabelle rispose di sì, ma precisò che voleva solo la sostanza, non la lettura

integrale di un documento in legalese. Wainwright la accontentò e le spiegò

che Robert Ardery aveva magnanimamente proposto che Isabelle potesse

avere incontri non vigilati con i figli ogni volta che fosse andata a trovarli a

Auckland. Si impegnava a lasciarglieli per interi weekend nella casa, cottage


o appartamento che lei avrebbe affittato, o eventualmente anche in albergo. In

questo modo, annunciò Wainwright, Robert Ardery le offriva un ampio

ventaglio di opportunità per incontrare i figli in Nuova Zelanda. Era disposto

addirittura a permetterle di portare i bambini fuori Auckland per soggiorni

fino a un massimo di tre notti in località scelte da Isabelle. Previa

approvazione della meta da parte di Robert, ovviamente, ma dal momento

che c’erano decine di località turistiche, non sarebbe stato un problema.

Queste gite dovevano svolgersi durante le vacanze scolastiche, naturalmente.

E Robert voleva che i figli stessero con lui per Natale, ma qualora Isabelle

avesse deciso di andarli a trovare in quel periodo sarebbe stata invitata al

tradizionale pranzo di Natale in famiglia.

«Pare che i gemelli siano entusiasti all’idea. Ho guardato cosa offre la

Nuova Zelanda per le vacanze. La penisola di Coromandel non è lontana da

Auckland, e la Bay of Islands...» concluse Wainwright.

«No» rispose Isabelle.

Seguì un silenzio nel quale Isabelle sentì un televisore accendersi di colpo

in una delle stanze vicine, con il telegiornale di SkyNews a un volume

altissimo, subito abbassato. «Spero si renda conto che aver proposto un

compromesso mette il signor Ardery in buona luce. Il giudice vedrà la cosa

con favore» replicò l’avvocato.

«Non ne dubito, anche perché non ha mai conosciuto il mio ex marito. Ma

dal momento che io invece lo conosco, e molto bene, la mia risposta rimane

la stessa. No» ribatté Isabelle.

«La prego di rifletterci, Isabelle. Se le visite in Nuova Zelanda andranno

bene, non è escluso che fra due o tre anni l’accordo possa essere rivisto.»

Isabelle si morse la lingua per non dire quello che pensava veramente. Due

o tre anni? Dopo un silenzio durante il quale cercò di raccogliere la poca

pazienza che le restava, dichiarò: «Il discorso finisce qui, avvocato. Proceda

secondo le istruzioni che già le ho dato».

«Ma l’avvocato della controparte...» Isabelle chiuse la chiamata perché

l’unica cosa che le interessava in tutta quella faccenda era che i suoi figli

rimanessero nel Paese in cui viveva lei. Questo voleva e questo avrebbe

ottenuto, a costo di trascinare l’ex marito davanti a tutti i giudici del regno. E

se Sherlock Wainwright non era d’accordo, Sherlock Wainwright sarebbe

stato sollevato dall’incarico a calci nel sedere.

Furibonda, Isabelle fece il numero di Bob. Le rispose la moglie. Non perse


tempo tempo in convenevoli. «Fammi parlare con James e Laurence.»

«Isabelle, che piacere sentirti! Non posso accontentarti, purtroppo, perché

sono già usciti per andare a scuola» replicò Sandra.

«Risparmiami le bugie, Sandra. Sono le sette del mattino. Passameli

immediatamente perché altrimenti giuro su Dio che...»

«Perché dovrei mentirti?» Il tono di Sandra era di una ragionevolezza

insopportabile. «Hai tutto il diritto di parlare con loro, lo so benissimo. Già

che ci sentiamo, però, ti rendi conto dell’effetto che gli fa questo dramma

giudiziario?»

«Questo dramma giudiziario, se lo vuoi chiamare così, esiste soltanto

perché tu e Bob state cercando di allontanarli da me.»

«Già, tu la vedi così. Perché tutto ruota sempre intorno a te, vero?»

«Brutta stronza...»

«Il punto è questo, Isabelle.» Era la voce di Bob. Dopo aver provocato

Isabelle, la stronza gli aveva passato il telefono perché la sentisse inveire. «Il

punto è proprio questo» ribadì. «Non voglio che i bambini assistano a scene

come questa.»

«E così hai deciso che la cosa migliore sia portarli a vivere il più lontano

possibile dalla loro madre? E fargliela vedere dove? In un albergo di

Auckland? È questo il compromesso che mi offri?»

«Sii ragionevole» le disse nel tono più ipocrita possibile. «Non ho nessuna

intenzione di mandarli da Auckland a Londra per venire a trovare te, se è

questo che avevi in mente.»

«Quello che ho in mente è farti un’ingiunzione per impedirti di portarli

all’altro capo del mondo.»

«Scordatelo. Sono sicuro che l’avvocato ti ha già spiegato che la tua è una

pretesa assurda. A questo punto, possiamo continuare a buttare soldi in

avvocati, oppure tu puoi guardare in faccia la realtà. Dipende da te.»

«Sono la loro madre. Li ho messi al mondo io. Li ho cresciuti fino a...»

«Non parliamo di come pensavi di ’crescere’ James e Laurence» la

interruppe, secco. «Se riuscissi per un attimo a vedere al di là della tua rabbia,

capiresti che ti sto offrendo molto più di quello che hai avuto finora. Devi

soltanto comprarti un biglietto per Auckland tutte le volte che vuoi vederli e

trovare un posto adatto dove passare con loro il weekend. Ti sono venuto

incontro anche sulle vacanze, che potrete trascorrere insieme quando verrai a

trovarli. Non nel periodo scolastico, ma mi sembra una richiesta del tutto


accettabile. Inoltre, Sandra e io siamo pronti a darteli per metà delle vacanze

estive, sempre a Auckland. Il giorno di Natale no, ma se ci sarai anche tu il

25 dicembre ti inviteremo volentieri a pranzo, e se li vorrai venire a trovare a

Pasqua o per il compleanno, nessun problema. Dovremo decidere la durata

delle visite, ma mi sembra un problema meno grosso di come lo fai tu.»

«Per fortuna che ci sei tu che sei così assennato, eh?» ribatté Isabelle,

sarcastica.

«Sto cercando di fare la cosa migliore per tutti.»

«Perché mi odi così tanto?»

Bob rimase zitto un momento, poi riprese con voce alterata. «Io non ti

odio. Sei tu che lo pensi. Ma quello che pensi tu ormai è talmente distorto

dall’alcol... Isabelle, vuoi che contiamo quante volte in tutti questi anni ti ho

supplicato di farti aiutare, di curarti?»

«È giusto che io abbia un rapporto con i miei figli. Ed è giusto che loro

abbiano un rapporto con la loro madre. Il legame che esiste tra una madre e i

suoi figli non si può spezzare» riuscì a dire a stento, raggelata.

«James e Laurence hanno una madre. Non voglio offenderti, Isabelle,

ma...»

«Non vuoi offendermi? E allora perché mi dici queste cose?»

«... sai anche tu che è la verità. Sandra ha fatto loro da madre da quando

avevano meno di due anni. Tu hai un legame di sangue con loro, e basta.

Lasciar perdere tutto tranne il legame di sangue è stata una tua scelta. Se

adesso te la rimangi, mi dispiace, ma avresti dovuto pensarci quando abbiamo

divorziato. Non è colpa mia.»

«Sei un bastardo.» Faceva così fatica a parlare che le sembrava di doversi

strappare le parole dalla gola a una a una. «Non la smetterai mai di punirmi,

vero?»

«Sei tu che ti punisci. Il perché lo sai solo tu. Io non ne ho la minima

idea.»

«È la mamma? È la mamma?»

Isabelle sentì uno dei figli in sottofondo. «Bugiarda! Mi ha mentito!

Fammi parlare con i bambini!» esclamò.

«Non sei in condizione di parlare con loro. Ritelefona quando sarai sobria

e, se saranno in casa, te li passerò. Adesso ti saluto, Isabelle. Dobbiamo

andare a scuola.»

Isabelle si ritrovò con il telefono in mano e un gran silenzio intorno. I nervi


le dicevano che doveva assolutamente fare qualcosa, la mente anche, il cuore

le batteva fortissimo e le prudevano talmente i palmi delle mani che se li

sarebbe grattati a sangue.

Prese la bottiglia della vodka e vide quanto le tremava la mano. La rabbia

la spingeva ad agire e si rendeva conto che, se in quel momento le sue

possibilità erano limitate, un goccetto l’avrebbe aiutata se non altro a smettere

di tremare e avrebbe placato quel terribile prurito. Tuttavia, posò la bottiglia

sul comodino e, guardandola, contò i motivi: beveva per voglia, per bisogno,

per desiderio, per sete, e poi per sentirsi sicura, per raggiungere la tranquillità,

la pace, l’oblio. Tremava dalla voglia di bere. Lo desiderava come se fosse un

amante fra le cui braccia riusciva a dimenticare qualsiasi cosa. Dopo le due

telefonate da cui era reduce, se lo meritava, oltre ad averne bisogno. Questa

volta non usò il tappo come misurino. Bevve direttamente dalla bottiglia.

Ludlow

Shropshire

Andando a fare colazione Isabelle si imbatté in Peace on Earth. Stava per

chiedergli di portarle un bricco di caffè e una sola fetta di pane tostato quando

dal bar sbucò Barbara Havers, che evidentemente la aspettava al varco.

Aveva un’espressione di cui Isabelle avrebbe fatto volentieri a meno: era

chiaro che non stava nella pelle.

«Capo, ha un minuto?» chiese e, senza aspettare la risposta, andò verso la

porta dell’albergo, uscì e si voltò a guardarla in un modo da cui si capiva che

aveva qualcosa di importante da svelarle.

A Isabelle non restò che seguirla. Quando l’ebbe raggiunta, Barbara la

condusse verso il marciapiede. Dall’altra parte della strada un giardiniere

tagliava l’erba intorno alle mura del castello con un macchinario a benzina

che faceva un rumore paragonabile a quello di un reattore in fase di decollo.

Isabelle pensò con rammarico al caffè che non aveva ancora bevuto.

Barbara Havers stringeva al petto il rapporto della commissione IPCC e

quello dell’ispettore Pajer e si mise a parlare con smodato entusiasmo,

annunciando di doverle riferire una novità per la quale, a suo dire, risultava

che a Ludlow ci fossero ancora molte cose da approfondire.

«Ah, sì?» replicò Isabelle in tono vago, sperando che Barbara non si


dilungasse troppo.

Certo che sì. Barbara passò a illustrare quelli che definì «aspetti di

importanza cruciale» da lei acclarati durante la notte. Solo una delle due

videocamere installate fuori della stazione di polizia era mobile, le disse,

mentre l’altra era fissa. Rileggendo ancora una volta il rapporto dell’IPCC,

aveva visto che la commissione aveva notato questa particolarità, precisando

inoltre che la videocamera fissa – quella sul retro – non funzionava. A suo

avviso si trattava di un elemento di capitale importanza perché, mentre lei

conduceva il suo sopralluogo non autorizzato, un’auto di servizio con Gary

Ruddock al volante era entrata nel parcheggio sul retro.

«E perché lo trova così rilevante?» chiese Isabelle. Il tosaerba con il

motore a reazione le stava trapanando il cervello. Aveva assolutamente

bisogno di un caffè.

Era un elemento rilevante per via della scena cui aveva assistito poco dopo,

spiegò Barbara: l’agente ausiliario e una ragazza erano scesi, si erano

guardati in cagnesco per un po’ e poi erano risaliti sulla macchina che – è

bene precisarlo – Ruddock aveva parcheggiato nel punto più buio di tutto lo

spiazzo. «Mi risulta un solo motivo per cui un tipo e una tipa si appartano al

buio su una macchina» aggiunse.

«Non ha detto che erano scesi?»

«Per dieci secondi. Poi sono risaliti e sono restati in macchina per un po’.

Se vuole il mio parere, è successo anche la notte del fattaccio ed è per questo

che Gary Ruddock ha lasciato solo Ian Druitt. Non è stato filmato soltanto

perché la videocamera sul retro non funziona.»

«Sta dicendo che Ruddock ha portato Druitt alla stazione, è ripartito per

andare a prendere una ragazza, l’ha portata lì, ha avuto con lei un convegno

di natura imprecisata a bordo della macchina, l’ha riaccompagnata chissà

dove e poi è tornato alla stazione? Come può una persona essere così

stupida?»

«No, non penso che le cose siano andate proprio in questo modo» replicò il

sergente con estrema prontezza. Con una certa enfasi tirò fuori una piantina

della città e fece segno a Isabelle di seguirla verso il muretto che separava il

parcheggio dell’hotel dal giardino. Poi, porgendole i dossier, aprì la mappa e

disse: «Guardi qua». Un imperativo tutto sommato superfluo, perché

cos’altro si aspettava da Isabelle? Le indicò un punto e le fece la poco

sorprendente rivelazione che il posto di polizia si trovava lì. «Ora le mostro


una cosa. Dal fiume si arriva alla stazione di polizia anche passando di qui.»

Indicò a Isabelle una strada curva che si chiamava Weeping Cross Lane e

che dal Temeside portava in direzione nord verso Lower Galdeford Street

dove, all’angolo con Townsend Close, si trovava la stazione di polizia. Ora,

se lungo quel percorso c’erano delle telecamere...

Isabelle la interruppe. «Mi sembra che questa storia stia completamente

sfuggendo di mano, sergente.» Barbara la guardò senza capire, e allora

Isabelle chiarì. «Ho la sensazione che lei stia per suggerire di andare a

controllare queste presunte telecamere e visionare le registrazioni relative alla

sera in questione, sempre che nel frattempo non siano state cancellate.

Perché?»

«Perché potrebbe apparire la ragazza che...»

«Sergente, ammesso che ci siano riprese di una ragazza in Weeping Cross

Lane la sera in questione, non possiamo dimostrare che la stava percorrendo

per andare dal lungofiume alla stazione di polizia per incontrarsi con

Ruddock. Ma lei questo lo sa perfettamente.»

«C’è dell’altro, però.» Barbara porse a Isabelle la piantina della città per

farsi restituire i rapporti e tirare fuori un documento che avevano trovato fra

gli effetti personali del diacono: l’elenco di nomi, indirizzi e numeri di

telefono di tutti coloro che avevano a che fare con il circolo per l’infanzia.

Fra questi c’era un indirizzo sul Temeside, che corrispondeva a un certo

Finnegan Freeman.

«Vede» disse, «l’idea di una donna che si presenta a un appuntamento

clandestino con Ruddock mi ha fatto venire in mente di controllare sulla

mappa come potrebbe esserci arrivata senza che nessuno la notasse. E il fatto

che uno dei possibili itinerari partisse dal Temeside mi ha spinto a rileggere

l’elenco dei bambini del doposcuola, perché il nome mi suonava familiare. Il

nome della strada, Temeside, intendo. E infatti, l’indirizzo compare

nell’elenco.»

«Siamo tornati all’ipotesi della pedofilia, quindi?» Isabelle non nascose

quanto era stanca e stufa. «Secondo lei, quindi, sul Temeside abiterebbe un

bambino vittima di abusi, il cui genitore...»

«Oh, no, non è un bambino.» Barbara Havers le mostrò di nuovo l’elenco e

le fece notare che Finnegan Freeman era l’unico nome che non era seguito da

una parentesi con quello dei genitori. «Quando ho parlato con il reverendo

Spencer – si ricorda? – mi ha detto che Druitt si faceva aiutare da uno


studente del college. Potrebbe essere questo Finnegan Freeman, che è l’unico

per cui non sono indicati i genitori. Se così fosse, e considerando che l’IPCC

ha visionato soltanto le riprese della sera in cui Druitt è morto...»

«Che cos’altro avrebbero dovuto visionare?» chiese Isabelle. Si accorse

che le tremava la mano in cui teneva la cartina e si affrettò ad abbassarla.

«Quelle del giorno in cui è stata effettuata la telefonata anonima» replicò

Barbara. «Non possiamo non tenere conto di quella telefonata, perché è

evidente che chi l’ha fatta voleva che Druitt venisse fermato e interrogato. Su

questo siamo d’accordo, no?»

Isabelle fece un gesto quasi regale che Barbara interpretò correttamente

come un continui pure. «Supponiamo che l’autore della telefonata volesse

che Druitt venisse fermato e portato alla stazione di polizia per poterlo far

fuori» ipotizzò. «E supponiamo che questa persona si fosse informata bene e

sapesse che certe sere Ruddock non teneva compagnia al vecchio e quindi...»

«Quale vecchio? Dove diavolo vuole andare a parare con tutti questi

discorsi?»

«Il vecchio non c’entra: è il tipo cui Ruddock fa da badante in cambio di

vitto, alloggio e un piccolo stipendio. Supponiamo che qualcuno sapesse che

quando ha la serata libera – è probabile che sia sempre la stessa – Ruddock

porta la sua amichetta nel parcheggio del posto di polizia. E che questo

qualcuno sapesse anche chi era la ragazza. Questo qualcuno e l’amichetta di

Ruddock potrebbero essersi messi d’accordo: il qualcuno, dopo aver fatto la

telefonata anonima, ha aspettato che Druitt venisse fermato e che lei attirasse

Ruddock fuori dalla stazione, poi ha fatto fuori Druitt...»

Isabelle, frastornata dalla complessità dello scenario descritto da Barbara,

non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. «Sergente» disse dopo un po’.

Fece alcuni respiri prima di aggiungere: «Possiamo continuare a produrre

ipotesi per un’intera settimana. O anche per un anno».

«Certo. Lo so. Capisco. Ma il punto è che la commissione non ha indagato

su questo aspetto perché non sapeva di Ruddock e della sua amichetta nel

parcheggio.»

Isabelle fece appello a una pazienza di cui aveva ormai esaurito

completamente le riserve. «L’IPCC non ha indagato su questo perché il suo

compito era indagare sul suicidio avvenuto all’interno della stazione di

polizia di Ludlow e nel corso dell’indagine non ha riscontrato nulla che

indicasse la possibilità che si fosse trattato di un omicidio. Mi sembra che


questo qualcosa voglia dire, no?»

Barbara tacque, ma l’angolo sinistro della bocca le si contrasse come se si

fosse morsa l’interno della guancia per non ribattere. Era ammirevole, visto

che mai prima di allora aveva dato segno di ritenere che l’autocontrollo fosse

una delle doti essenziali nel loro settore. Il sergente guardò verso l’albergo

come se cercasse conferma delle proprie idee, forse da Peace on Earth. Poi

guardò il castello e il tosaerba, fortunatamente spento, e il giardiniere che,

sfortunatamente, stava versando benzina nel serbatoio per riaccenderlo. «Con

il dovuto rispetto, capo, a volte quando le prove non si trovano è perché non

si cerca abbastanza o perché qualcuno non vuole che vengano trovate» disse

cauta.

«Dove vuole arrivare? Venga al punto, sergente.»

«Il punto è quello che ho già detto: nessuno ha visionato le riprese del

giorno della denuncia. E nessuno ha parlato con questo Finnegan, che guarda

caso abita nelle vicinanze. Non sto dicendo che significhi necessariamente

qualcosa, ma che potrebbe significare qualcosa eppure è stato trascurato. Non

siamo venute qui per questo, più o meno?»

Oddio, pensò Isabelle. Non sarebbero mai più riuscite ad andarsene da

Ludlow. Sarebbero rimaste lì in eterno, proprio ora che lei doveva tornare a

Londra per combattere come si doveva contro Bob e Sandra. Purtroppo però

quella rompiscatole del sergente Havers aveva ragione. A volte forzava i fatti

come una contorsionista cinese forza le sue articolazioni, ma la realtà era

quella: nessuno aveva parlato con Finnegan Freeman e nessuno aveva preso

visione dei filmati relativi al giorno della telefonata anonima.

A quel punto non poté fare a meno di pensare a Clive Druitt e alle sue

minacce di ricorrere alle vie legali. Lui e i suoi avvocati aspettavano con

ansia l’esito della missione nello Shropshire. Per evitare un’azione legale e la

pubblicità negativa che ne sarebbe inevitabilmente derivata, Isabelle doveva

accertarsi che fosse stata individuata, esaminata e spazzata via ogni ragnatela

in ogni angolo. E la ragnatela più grossa, fin dal primo momento, era la

presunta pedofilia di Ian Druitt.

Non c’erano alternative: bisognava visionare le riprese relative al giorno

della denuncia anonima e bisognava anche parlare con Finnegan Freeman.

Ma il peggio doveva ancora venire, perché Barbara prese in mano un oggetto

che fino a quel momento Isabelle non aveva notato: l’agenda di Druitt.

«C’è anche questa» annunciò in tono allegro.


St. Julian’s Well

Ludlow

Shropshire

Rabiah Lomax era appena uscita dalla doccia quando sentì suonare il

telefono. Decise di lasciar scattare la segreteria e si avvolse in un telo da

bagno grande, morbido, intiepidito sullo scaldasalviette e di un bianco

virginale, proprio come piacevano a lei. Si stava godendo l’abbraccio del

tessuto caldo quando sentì una voce di donna che diceva «...Metropolitan

Police» ed ebbe un ripensamento sulla scelta di non rispondere. Andò in

camera, dove si trovava il telefono più vicino, lo sollevò e disse: «Pronto. Mi

scusi, ha detto Metropolitan Police?» pensando che fosse una delle amiche

con cui andava a correre la mattina che voleva farle uno scherzo. Proprio quel

giorno Rabiah aveva parlato di quanto le piaceva quell’attore nero strafigo

dal nome impronunciabile, quello che recitava in una serie poliziesca in onda

in quel periodo. Sì, doveva essere una delle sue amiche che voleva prenderla

in giro. «È la collega di quel bel nero con il nome strano? Potrebbe

mandarmelo un attimo? Sono stata vittima di un reato e ho bisogno di essere

consolata».

«Come, scusi? Sono il sovrintendente Isabelle Ardery della Metropolitan

Police. Con chi parlo?» replicò la voce.

Rabiah ebbe un nuovo ripensamento. La telefonata non era uno scherzo.

«Se si chiama Lomax, abbiamo bisogno di parlarle» proseguì la voce.

Inutile negare, pensò Rabiah. «A che proposito?»

«Ne deduco che lei si chiami Lomax.»

«Sì. E lei?»

La donna ripeté: Ardery. Sovrintendente. Metropolitan Police. Se la

signora Lomax fosse gentilmente rimasta in casa, la polizia sarebbe passata

subito da lei. Andava bene di lì a dieci minuti?

Vedersi piombare in casa la polizia non era mai piacevole, ma Rabiah non

poteva dire di no e suggerì che venissero dopo mezz’ora, perché era appena

tornata da una corsa e voleva fare la doccia. Dopo la doccia doveva vestirsi

eccetera eccetera, quindi mezz’ora – anzi no, facciamo un’ora – poteva

andare bene. La tipa della Metropolitan Police non sollevò obiezioni e, dopo


essersi fatta dare l’indirizzo, la salutò.

Chiaramente Rabiah non aveva bisogno di tutto quel tempo, perché la

doccia l’aveva già fatta e per truccarsi le bastavano due minuti, più altri trenta

secondi per pettinarsi, la maggior parte dei quali dedicati alla ricerca del

pettine. Le serviva un’ora per chiamare il suo avvocato. Aveva visto

abbastanza polizieschi per sapere che parlare di qualsiasi argomento con la

polizia senza la presenza di un legale era una stupidaggine da evitare a tutti i

costi.

Cercò il numero nella rubrica e chiamò Aeschylus Kong. Lo aveva scelto

anni prima, quando aveva deciso di fare testamento, esclusivamente

consultando l’elenco telefonico. Come resistere a un nome e cognome così

pittoreschi?

Le bastò dire «Sta per arrivare da me la polizia» perché glielo passassero

immediatamente. «Rabiah, ha fatto bene a telefonarmi in questa circostanza

quanto mai singolare. Sono lieto di constatare che lei si rende conto di quanto

sia saggio consultare un legale prima di un colloquio con la polizia» disse

Aeschylus con la sua rassicurante voce tenorile. Suonava sempre come una

via di mezzo tra un gentiluomo settecentesco, Confucio e un oroscopo cinese.

«Sarò da lei appena possibile. Eviti di parlare, se dovessero arrivare prima di

me.»

«Devo tenerli sulla porta o posso lasciarli entrare?»

«Sulla porta è preferibile, ma la cortesia consiglia l’ingresso in casa.»

Confucio, pensò Rabiah.

«Li lasci pure entrare in casa, ma metta bene in chiaro che non profferirà

parola prima del mio arrivo» continuò l’avvocato.

«Non è un atteggiamento sospetto?»

«Assolutamente sì. Ma lei ha qualcosa da nascondere alla polizia?»

«A parte il cadavere in giardino?»

«Ah, già. Be’, se si presentano armati di vanghe, non li lasci entrare.»

Le era simpatico anche perché sapeva stare allo scherzo.

Disse che sarebbe arrivato al più presto e Rabiah tornò in bagno a finire di

asciugarsi. Si pettinò, si applicò come sempre sul viso uno strato di crema

solare, poi un po’ di colore e infine andò a cercare qualcosa da mettersi.

Indossava sempre tute sportive, quando non si metteva in ghingheri, e non

intendeva certo mettersi in ghingheri per la polizia. Scelse la tuta verde lime,

poi prese i sandali, ma mentre se li infilava si accorse di avere lo smalto alle


unghie dei piedi rovinato. Imprecò fra sé e andò a cercare il solvente.

Detestava non avere le unghie in ordine. Aveva bisogno di una pedicure.

Decise di telefonare all’estetista, che stava a Craven Arms, e prendere un

appuntamento. Becky era contraria a dare lo smalto alle unghie dei piedi

prima di giugno – sosteneva che da novembre in poi le unghie dovevano

respirare, anche se Rabiah pensava che non ne avessero alcun bisogno –, e

siccome non aveva tempo per stare a discutere, mentì dicendo che le serviva

una manicure. Avrebbe affrontato la discussione sulle unghie dei piedi al

momento.

Si stava togliendo energicamente lo smalto quando suonarono alla porta.

Ci vollero altre due scampanellate prima che andasse ad aprire, perché mai e

poi mai si sarebbe presentata alla polizia con metà unghie già pulite e metà

ancora con lo smalto, e per di più rovinato. Quando finalmente spalancò la

porta, si trovò davanti due donne, una stangona bionda che stava per

riprovare a suonare e una che, a voler essere generosi, sarà arrivata a uno e

sessanta.

Erano in borghese, potevano essere chiunque, pensò Rabiah. Ma in fondo

anche alla televisione gli ispettori di polizia giravano in borghese. Perché si

sarebbero dovute presentare in divisa?

«Signora Lomax? Sono il sovrintendente Isabelle Ardery della

Metropolitan Police» disse la stangona e le mostrò il tesserino. Indicò con un

cenno del capo la collega e la presentò come Barbara Havers. A Rabiah

sfuggì il grado, perché stava cercando di capire come mai nella foto sul

tesserino Isabelle Ardery dimostrasse dieci anni di più.

Le restituì il documento e rifletté sulla conclusione precipitosa e

chiaramente maschilista che aveva tratto dalla telefonata di poco prima.

Nonostante fosse in possesso di tutte le stagioni di Prime Suspect in dvd,

sentendo la voce di una donna aveva immaginato che si presentasse

accompagnata da un uomo di grado superiore.

«Grazie di averci ricevute» disse Isabelle Ardery e aspettò quel che era

normale aspettarsi, ovvero che Rabiah le invitasse a entrare. Rabiah avrebbe

voluto lasciarle fuori fino all’arrivo di Aeschylus, ma oltre sessant’anni di

condizionamenti sociali la costrinsero a tenere la porta aperta e farle passare.

Le condusse nel salotto e le informò che stava per arrivare il suo avvocato.

Le due donne la guardarono sorprese. «È la tv. Non capisco perché non

chiedono mai di telefonare all’avvocato, quando devono parlare con la


polizia» spiegò Rabiah.

«Rallenta il ritmo» replicò la più bassa delle due, Barbara Havers.

«Come?» chiese, suo malgrado, Rabiah.

«Se non ci sono avvocati di mezzo, la storia va avanti più spedita. Si arriva

prima alla confessione, o a scoprire qualche indizio importante.»

«Lei ha qualche indizio da darci?» chiese Isabelle a Rabiah.

«Non credo proprio. Non so neppure cosa siete venute a fare. Stavo

andando in cucina. Gradite qualcosa? Caffè, tè, acqua minerale, succo di

frutta? Ho solo pompelmo. Sono una patita del pompelmo, in qualunque

forma. Ma adesso prendo un caffè. Non ho fatto colazione. Della colazione

posso fare a meno, ma del caffè no.»

«Ah, già: si fa il caffè per prendere tempo. Per me acqua minerale, grazie»

replicò il sovrintendente . L’altra disse che anche per lei andava benissimo un

bicchiere d’acqua.

Rabiah stava preparando il vassoio da portare in salotto quando si sentì

un’altra scampanellata. Era Aeschylus Kong che le fece il suo solito saluto a

metà tra un inchino e una stretta di mano, mettendosi la sinistra sulla parte

destra del petto, come se il cuore si fosse spostato durante la notte. «Magari

fossero tutti prudenti come lei!» disse a Rabiah, che gli spiegò dove trovare le

due poliziotte e gli chiese se gradiva un caffè.

Le rispose che sì, un caffè era l’ideale, senza latte e con un cucchiaino di

zucchero. Mentre Aeschylus andava nel salotto, Rabiah tornò in cucina, da

dove lo sentì che si presentava alle due funzionarie della Metropolitan Police.

A rispondere fu quella di grado più alto, Ardery. Rabiah sentì che l’altra

era un sergente investigativo.

Quando li raggiunse con il vassoio, vide che erano ancora tutti in piedi

come se la stessero aspettando. Aeschylus guardava il giardino dietro la casa,

quella che si chiamava Havers sfogliava un album di ricordi delle Rockettes e

il sovrintendente aveva preso una delle foto sulla mensola del caminetto e la

stava studiando con grande attenzione. Rabiah non vedeva quale fosse, ma

non le sfuggì che il sovrintendente la passava alla collega la quale, dopo

averla guardata, le lanciò un’occhiata significativa e la rimise al suo posto. A

quel punto Rabiah notò che era la foto di Volare, Cantare, il gruppo di piloti

di cui faceva parte, in posa davanti all’aliante che avevano comprato in

società. Visto l’interesse dimostrato dalle due, Rabiah si chiese se l’aliante

non fosse di provenienza illecita.


Quando tutti ebbero finito di bere, chi il caffè chi l’acqua, Aeschylus

propose di sedersi. Poi, lisciandosi con una mano i capelli che non avevano

alcun bisogno di essere lisciati, si rivolse alle due poliziotte. «Se ho ben

capito, desiderate parlare con la mia cliente.»

«Ci ha stupito che la signora abbia ritenuto necessaria la sua presenza,

avvocato» replicò Ardery.

«Ha seguito il mio consiglio, lo stesso che darei a qualsiasi cliente che mi

contattasse dicendo che la polizia vuole parlargli. Non dovete dedurne che la

signora sia colpevole di alcunché.»

«Certo» lo rassicurò Ardery. «Trovo semplicemente un po’ strano che, pur

non sapendo quale fosse il motivo della nostra visita, la signora abbia

chiamato subito il suo avvocato.»

Aeschylus aprì per un attimo le mani in un gesto conciliante. «Cosa

possiamo fare per voi?» disse.

«La sua cliente è l’unica Lomax nell’elenco telefonico di Ludlow, dove

compare come R. Lomax.»

«R. come Rabiah, sì» confermò Aeschylus. «Le donne dovrebbero sempre

far mettere solo le iniziali sia sull’elenco del telefono sia sulla

corrispondenza. Per precauzione. Prego, continui pure, sovrintendente.»

Rabiah vide che l’altra, quella che si chiamava Havers, tirava fuori dalla

borsa a tracolla un bloc-notes e un portamine. Le sarebbe piaciuto sapere che

bisogno c’era di prendere nota di quello che dicevano lei e Aeschylus Kong,

ma non fece domande. Se era il caso di chiederlo, senza dubbio l’avrebbe

fatto l’avvocato.

«Conosce Ian Druitt?» le domandò Ardery.

Rabiah guardò Aeschylus, che la autorizzò a rispondere con un cenno del

capo. «È l’uomo che è morto alla stazione di polizia qualche mese fa» disse.

«Se lo ricorda, eh?» chiese Havers alzando la testa dal taccuino.

«Il giornale e la televisione ne hanno parlato per giorni» rispose Rabiah.

«Lo conosceva?» chiese di nuovo Ardery.

«Non vado in chiesa.»

«Quindi sa che era un diacono.»

Rabiah stava per rispondere, ma Aeschylus le toccò una mano e

intervenne. «Anche il fatto che era diacono è stato reso noto dal giornale e dai

notiziari locali. Lo sapevo persino io, che non vado in chiesa e non frequento

alcuna congregazione religiosa. È un’informazione di pubblico dominio,


ampiamente divulgata.»

«Certo.» Il sovrintendente non batté ciglio. «Quel che non è stato reso

noto, però, è che nell’agenda del defunto compare il nome Lomax.

Sergente?»

Il sergente Havers sfogliò all’indietro il taccuino per consultare un

appunto. «Sette volte. Tra il 28 gennaio e il 15 marzo» disse.

Prima di aprir bocca, Rabiah cercò di prevedere tutte le possibili

implicazioni della sua risposta. «Si trattava di un problema di famiglia. Ma

non l’ho incontrato in quanto uomo di chiesa» decise di dire.

«Posso chiederle per quale motivo vi siete incontrati?»

«Le dispiace spiegarci che importanza ha?» intervenne garbatamente

Aeschylus.

«Il sergente e io siamo qui per un approfondimento delle due inchieste

svolte finora sulla morte del signor Druitt.»

A Rabiah questa spiegazione piacque ancora meno della notizia che il

nome Lomax appariva per ben sette volte nell’agenda del morto. «Il mio

problema è che ho due figli tossicodipendenti. Uno si sta disintossicando e

l’altro no. Quello che si sta disintossicando ha attraversato un gran brutto

periodo. Un anno e mezzo fa gli è morta la figlia di mezzo dopo una lunga

malattia e non riesce a farsene una ragione. Volevo o, meglio, sentivo il

bisogno di parlarne con qualcuno e mi è stato consigliato il signor Druitt.»

«Chi glielo ha consigliato?» chiese il sovrintendente.

Rabiah tacque. Ecco cosa succedeva quando parlando con la polizia uno si

lasciava sfuggire qualcosa più di un sì o di un no. Doveva sforzarsi di

rispondere a monosillabi.

Fuori un gatto fece uno di quei miagolii spaventosi che preludono a una

zuffa. Un altro gli rispose a tono e si udirono urla selvagge: la lite era

scoppiata. Rabiah fece una smorfia e si chiese se fosse il caso di uscire un

attimo per mandarli via, ma gli altri non sembravano nemmeno sentirli.

«Signora Lomax?» disse il sovrintendente.

«Sto cercando di ricordare. Potrebbe avermelo consigliato qualcuno del

gruppo dei balli popolari. O forse una delle persone con cui mi alleno.»

«In cosa si allena, signora Lomax?»

«Corsa.»

«Ma non ricorda di preciso chi sia stato?»

«Come mai non si ricorda?»


Le due poliziotte avevano parlato contemporaneamente. Intervenne

Aeschylus. «Non vedo che importanza abbia questo particolare. Non siete

certamente qui per verificare le capacità mnemoniche della mia cliente. Vi ha

spiegato perché il suo nome compariva nell’agenda del signor Druitt e io

sono pronto a testimoniare che quanto vi ha detto sulla morte di sua nipote

corrisponde a verità, benché neanche questo abbia la minima attinenza con la

questione di chi le abbia consigliato di rivolgersi al signor Druitt.»

«D’accordo» rispose Ardery. «Dove vi siete incontrati per questi

colloqui?» chiese a Rabiah.

La donna vide che Aeschylus stava per intervenire di nuovo, ma vide

anche che in quel modo rischiavano di continuare a girare in tondo per chissà

quanto tempo. «Non ho difficoltà a rispondere, Aeschylus» disse. Poi si

rivolse al sovrintendente. «Dipendeva dagli impegni che avevamo. Qualche

volta qui, ma perlopiù al bar» dichiarò.

«Non capisco. Il giorno e l’ora segnati sull’agenda sono sempre gli stessi.»

«Quello che intende dire la mia cliente» intervenne Aeschylus «è che

mentre il giorno e l’ora erano sempre gli stessi, il posto poteva variare a

seconda degli altri impegni che lei o il signor Druitt avevano prima o dopo

l’appuntamento.»

«È una donna molto occupata, eh?» commentò il sergente Havers.

«Sì» replicò Rabiah.

«Che cosa fa?»

Aeschylus si alzò. «Stiamo andando veramente fuori tema. La mia cliente

vi ha spiegato perché si è incontrata con il signor Druitt. Se non avete altre

domande in proposito, intendo concludere qui il colloquio. Le dispiace,

Rabiah?»

A Rabiah non dispiaceva affatto.

Isabelle Ardery guardò negli occhi Aeschylus Kong per fargli capire chi

comandava veramente, poi si rivolse a Rabiah. «Mi sembra che le sue

spiegazioni siano state esaustive.» E alla collega: «Sergente Havers, ha un

biglietto da visita?»

Seguirono alcuni momenti di silenzio piuttosto teso. Il sergente frugò nella

borsa, trovò i biglietti e ne porse uno al sovrintendente, che a sua volta lo

porse con fare cerimonioso a Aeschylus Kong. «Se la sua cliente dovesse

ricordare qualcosa di pertinente riguardo ai colloqui che ha avuto con il

signor Druitt, la prego di telefonare al sergente.»


«Cosa mai potrà venirmi in mente?» chiese Rabiah, e se ne pentì subito.

Prese lo stesso il biglietto che Aeschylus le porgeva.

«Questo lo lascio decidere a lei» replicò il sovrintendente.

St. Julian’s Well

Ludlow

Shropshire

Quella foto richiedeva una spiegazione. Barbara immaginava che il

sovrintendente sollevasse la questione un nanosecondo dopo che Rabiah

Lomax ebbe chiuso la porta alle loro spalle. C’era sotto qualcosa, e Isabelle

Ardery non poteva non averlo capito. Barbara la guardò di sottecchi mentre

andavano alla macchina. Siccome quando vi arrivarono Isabelle ancora non

aveva detto niente, decise di buttarsi.

«Come la vogliamo chiamare la coincidenza dell’aliante?»

Isabelle Ardery sbloccò le portiere. «Si riferisce alla foto? Non ci vedo

nessuna coincidenza.»

Durante il ritorno verso il centro di Ludlow Barbara rimuginò in silenzio

per un po’. «A me sembra strano da morire» disse poi.

«Non siamo a Londra, sergente. Siamo in una piccola città. Il fatto che

Nancy Scannell e Rabiah Lomax compaiano insieme in una fotografia

davanti a un aliante non significa nulla. O vuole attribuirgli un significato

lei?»

«Mi sembra rilevante, visto che tutte e due conoscevano quel poveraccio.

Rabiah Lomax e Nancy Scannell, voglio dire.»

«Nancy Scannell non conosceva ’quel poveraccio’. Gli ha fatto l’autopsia.

Se c’è qualcosa di importante che mi sfugge, mi dica cos’è, perché mi sembra

che lei stia insinuando che ci sia stata una collusione tra Nancy Scannell –

che avrebbe alterato i fatti osservati sul cadavere – e Rabiah Lomax, per via

degli appuntamenti con Druitt.»

«Nel rapporto dell’IPCC la Lomax non è citata» disse Barbara. «Non si

sono accorti del suo legame con il morto. E non compare nemmeno nel

rapporto dell’ispettore Pajer.»

«Perché avrebbero dovuto citarla? Non esiste alcun legame. E comunque

non avevano l’agenda.» Il tono tagliente di Isabelle Ardery lasciava intendere


che era meglio non insistere. «Stavano indagando sul suicidio di un soggetto

in stato di fermo, sergente. Punto e basta. Davvero lei pensa che Rabiah

Lomax, con la complicità di Nancy Scannell, si sia introdotta per motivi

sconosciuti nella stazione di polizia di Ludlow e, sempre per motivi

sconosciuti, abbia immobilizzato Ian Druitt, lo abbia legato a una maniglia e

lo abbia lasciato morire? Qual è il movente? Dove sono le prove? Come

avrebbero fatto? O lei ipotizza che abbiano anche organizzato i furti che

tenevano occupati i colleghi di Shrewsbury? E magari una delle due ha pure

camuffato la voce per fare la denuncia anonima sulla pedofilia e ha servito

all’agente ausiliario una pozione preparata dalla strega del paese per farlo

cadere in un sonno profondo e poter agire indisturbata?»

«Ruddock ha tutto l’interesse a non rivelare nulla» disse Barbara.

«Potrebbe aver fatto entrare l’assassino, che potrebbe aver compiuto il delitto

mentre lui opportunamente si allontanava per telefonare ai pub.»

«Quindi adesso i colpevoli potrebbero essere Rabiah Lomax, Nancy

Scannell e pure l’agente ausiliario della città? E tutto questo in base a una

foto di un gruppo di persone che sorridono intorno a un aliante?»

Barbara percepì la frustrazione del sovrintendente e cercò di spiegarsi

meglio. Voleva farle capire che lei e Lynley partivano sempre dal

presupposto che tutto è possibile, niente è mai troppo assurdo e anche le cose

più assurde possono rivelarsi verosimili, quando si tratta di omicidio. Lo

stesso dicasi per ciò che è improbabile, inconcepibile, o inspiegabile. Se

Lynley era un investigatore tanto in gamba era proprio perché non escludeva

mai nessuna eventualità. Non era di quelli che cercano di arrivare a un arresto

il prima possibile per riuscire a tornare a casa in tempo per la cena. Isabelle

Ardery, invece, sembrava sempre più propensa a quel tipo di approccio. Solo

che il suo obiettivo non era tornare a casa per la cena, ma per qualcos’altro.

Barbara se n’era accorta da un po’. Lo sentiva nell’aria anche in quel

momento.

«A proposito» continuò il sovrintendente, «che ne è stato dell’altra sua

teoria, quella dell’ausiliario e della sua amichetta chiusi in macchina a

pomiciare mentre l’assassino si introduceva nella stazione di polizia?»

«È che...» cominciò Barbara.

«Sul serio, sergente. Non possiamo andare avanti così. Sono disposta a

parlare con questo Finnegan Freeman, chiunque sia, ma poi basta. Finora l’ho

assecondata ogni volta che ha sollevato un dubbio, ma non intendo spingermi


oltre.»

«È che, quando mi ha mostrato quella foto, ho pensato...»

«Posso ricordarle che è grazie alle sue pensate che lei si trova nella sua

attuale situazione?» sbottò Isabelle.

Barbara sapeva dove voleva andare a parare Ardery ed era convinta di

sapere anche quando era il momento di cambiare direzione o addirittura di

fare marcia indietro. «Forse sto guardando le cose dal punto di vista

sbagliato» disse, anche se non lo credeva affatto.

«Mi fa piacere sentirglielo dire» replicò Isabelle Ardery.

«Resta la telefonata anonima, però.»

Isabelle la fulminò con un’occhiata. «E cioè?»

«Se vogliamo essere sicure che questo Clive Druitt si persuada che

abbiamo riesaminato tutto il riesaminabile, forse sarebbe ora di visionare le

riprese effettuate il giorno della telefonata anonima.» E, senza darle il tempo

di obiettare, aggiunse: «Potrei farlo io mentre lei parla con Finnegan

Freeman, capo. Quanto tempo ci vorrà? Meno di un’ora, secondo me. Così

potremo dire di aver sviscerato rigorosamente tutti gli aspetti che potrebbero

spingere Clive Druitt a rivolgersi ai suoi avvocati».

Isabelle Ardery si prese la testa fra la mani. Aveva l’aria di una donna

sull’orlo di una crisi di nervi. «D’accordo. Le riprese della videosorveglianza

il giorno della telefonata, punto e basta. Spero di essere stata chiara,

sergente» disse.

Barbara le assicurò di sì.

Ludlow

Shropshire

Quando fece il numero di cellulare dell’agente ausiliario per parlargli delle

riprese della videosorveglianza, Barbara scoprì che non era ancora in

servizio. Il vecchio Rob era caduto, le spiegò Gary Ruddock, e lui lo aveva

accompagnato al pronto soccorso. Ora stava rientrando a Ludlow e sarebbe

arrivato alla stazione di polizia nel giro di quarantacinque minuti. Per Barbara

era perfetto. Voleva prima verificare un piccolo particolare, cui non aveva

fatto cenno con Isabelle Ardery.

A suo modo di vedere – che in effetti era diverso da quello del


sovrintendente – se qualcuno aveva dato a Ian Druitt una bella spinta verso

l’aldilà, questo qualcuno era o l’agente ausiliario, per motivi al momento

sconosciuti, oppure una persona, anch’essa per il momento sconosciuta, che

si era introdotta nella stazione di polizia mentre l’ausiliario era in altre

faccende affaccendato. Secondo Barbara, queste altre faccende vedevano la

partecipazione di un’auto di servizio e di una donna, e potevano essere in

qualche modo dimostrate. E per questo si avviò verso la stazione.

Partì con l’idea che qualcuno – l’amica di Ruddock che si presentava per

un rapido spogliarello sul sedile posteriore dell’auto, oppure un assassino

intenzionato a strangolare Druitt – fosse arrivato alla stazione di polizia

seguendo l’itinerario che aveva mostrato a Isabelle Ardery quella mattina.

Giunta alla stazione, proseguì per un breve tratto e imboccò Weeping Cross

Lane. Lì rallentò il passo e si guardò intorno in cerca di telecamere di

sorveglianza come se ne vedevano ovunque a Londra. Era nella zona

commerciale di Ludlow, dove avevano sede aziende e negozi che

soddisfacevano le più svariate esigenze, dal noleggio di un furgone

all’acquisto di attrezzature per l’equitazione. Barbara vide almeno otto

videocamere, ma avvicinandosi si accorse che nessuna era puntata verso la

strada. Mai una gioia, pensò. D’altro canto, però, questo significava che

chiunque sarebbe potuto arrivare alla stazione di polizia dal lungofiume senza

essere fotografato o filmato.

Proseguì fino in fondo a Weeping Cross Lane e si trovò sul Temeside. Dal

momento che l’interrogando Finnegan Freeman viveva lì, pensò le potesse

essere utile scoprire in quale casa abitasse esattamente. Controllò l’indirizzo

sul taccuino e si diresse verso il Ludford Bridge. Un attimo dopo vide l’auto

di Isabelle Ardery fermarsi sul marciapiede davanti all’ultima casa di un

complesso a schiera che si chiamava Clifton Villas.

Barbara esitò. Sapendo che il sovrintendente non si aspettava di trovarla

sul Temeside, prese in considerazione la possibilità di fare dietrofront e

tornare rapidamente in Weeping Cross Lane dove, se necessario, si sarebbe

potuta nascondere dietro un cassonetto. Non era il caso di preoccuparsi, però:

Isabelle Ardery non scese subito dalla macchina. Aveva parcheggiato con il

muso rivolto verso Barbara, ma aveva la testa posata sul volante e rimase così

per circa un minuto prima di aprire la portiera. Poi si aggiustò i capelli,

guardò l’orologio e si avviò verso la casa. A quel punto Barbara la perse di

vista, perché era scomparsa dietro il piccolo portico che sormontava


l’ingresso. Tornò alla stazione di polizia e si sedette su un gradino a riflettere

su tutte le stranezze che aveva visto fare al sovrintendente e che avrebbe

preferito non vedere.

Quella mattina, per esempio, Isabelle aveva decisamente qualcosa che non

andava. E il problema non era che Barbara l’aveva intercettata prima che

potesse fare colazione. Era così pallida che probabilmente non sarebbe

comunque riuscita a mandare giù niente. E non era neppure il fatto che non

avesse ancora bevuto il caffè. Il problema era il tremore della mano destra

quando aveva preso la cartina, la rapidità con cui aveva abbassato la mano

quando si era accorta che non riusciva a tenerla ferma. Barbara era giunta alla

conclusione che il sovrintendente era in uno stato in cui rischiava di non

notare particolari che invece avrebbe dovuto notare. Ma lei purtroppo non

poteva parlare di queste cose con nessuno.

Circa dieci minuti più tardi, arrivò l’agente ausiliario. Parcheggiò, la salutò

agitando cordialmente una mano e andò ad aprire la porta sul retro. Barbara,

intanto, cominciò a parlargli della telecamera sul davanti e del fatto che si

poteva spostare con facilità. «Quindi la mia speranza è che il giorno in cui è

stata fatta la denuncia al 999 fosse in una posizione diversa» concluse. Era

vero solo in parte. In realtà Barbara aveva in mente anche altro. «Come sta il

vecchio Rob?» chiese per portare il discorso dove le serviva.

«Quando l’ho lasciato stava parlando di uova, pancetta e salsicce. Le

mangia solo una volta alla settimana e stamattina, con il fatto che è caduto, ha

dovuto saltare. Sperava che gliele preparassi io, ma si sbagliava, poveraccio.»

Ruddock fece strada nel corridoio verso l’ingresso principale della

stazione, accendendo i neon che si riflettevano spietati sul pavimento di

linoleum e, pensò Barbara, sui suoi capelli sporchi. «Mi sembra che gli sia

parecchio affezionato» disse.

«È impossibile non affezionarsi a uno che a quell’età è ancora così pieno di

vita» rispose Ruddock.

«D’altro canto, però, vivere con un pensionato a volte le sarà d’impiccio»

osservò lei.

«In che senso?» Ruddock aprì la porta della guardiola dove un tempo

sedeva l’usciere che accoglieva i visitatori. Era un locale molto piccolo, dove

c’era spazio a stento per due persone. Da una parte c’era una scrivania su cui

era posato un vecchio terminale. Ruddock lo accese e aspettò che entrasse

lentamente in funzione.


«Per la vita sentimentale e cose così» disse Barbara.

«Eh?» Ruddock le voltò le spalle.

«Pensavo che dev’essere difficile avere un po’ di privacy, vivendo con un

vecchietto.»

Ruddock rise. «Se avessi una vita sentimentale. Con quello che guadagno,

meglio lasciar perdere. A una donna potrei offrire una pizza e una birra il

giorno che prendo lo stipendio, e poi basta. Quindi me ne sto alla larga. Dalle

donne, voglio dire.»

Barbara archiviò mentalmente l’informazione alla voce «fattoidi

interessanti». Non sapeva come interpretarla.

Lo schermo alle spalle di Ruddock si accese e, dopo pochi comandi sulla

tastiera, si divise in due. Una metà era completamente nera – «Sembra

proprio che la telecamera sul retro non funzioni, come pensavo» commentò

Ruddock – e nell’altra si vedevano uno spicchio di strada e di marciapiede, il

vialetto e la scala che conducevano al portone. Ruddock digitò altri comandi

e sullo schermo cominciarono a scorrere le immagini. L’inquadratura era

sempre la stessa, ma videro passare auto, mamme che spingevano carrozzine

e passeggini, gente che faceva jogging e due persone che salivano la scala

dirette verso l’ingresso e, presumibilmente, scoprivano che la stazione era

chiusa. Poi Ruddock fermò le immagini alla notte in questione, perché la

telefonata era stata fatta di notte, come in fondo c’era da aspettarsi, Non

videro niente, se non per l’appunto la notte buia e l’indicazione dell’ora,

pochi minuti dopo la mezzanotte. L’inquadratura era identica a quella

dell’inizio: uno spicchio della via davanti alla stazione, il marciapiede, la

scala e una parte del sentiero che conduceva al portone.

Barbara non si aspettava di scorgere un individuo con una maschera alla

Hannibal Lecter che alzava gli occhi verso la telecamera per poi ruotarla in

modo che non inquadrasse l’ingresso. Era in cerca di qualcos’altro. Chiese a

Ruddock di tornare ancora indietro. Lui eseguì e, dopo un po’, l’immagine

cambiò e sullo schermo apparve un’inquadratura dell’area immediatamente

intorno al portone. Quando Barbara gli chiese di mandare avanti lentamente

le immagini verso la sera della morte di Druitt, riuscì a individuare un

momento in cui lo schermo diventava tutto nero. Subito dopo ricompariva la

stessa inquadratura di tutte le riprese effettuate dalla telefonata anonima in

poi, dove non si vedeva la porta bensì il percorso di avvicinamento alla porta

stessa. Prima di quello stacco nero, invece, per quanto indietro si tornasse, la


telecamera era sempre puntata sull’ingresso, e quindi anche sul telefono

esterno.

Barbara chiese quanto tempo fosse trascorso tra lo spostamento della

telecamera e la telefonata anonima. Ruddock esaminò le immagini e disse che

erano passati sei giorni. «Quindi il nostro uomo – o la nostra donna – sapeva

che la videocamera era mobile e l’ha spostata con parecchi giorni di anticipo

in modo che se qualcuno, come me, avesse voluto visionare le immagini della

notte della telefonata fosse indotto a credere che la telecamera fosse sempre

stata puntata verso la strada e non sul telefono esterno» commentò Barbara.

Indicò l’immagine fissa sullo schermo. «Una volta puntata la telecamera

verso la scala, bastava avvicinarsi rasentando il muro per non essere ripresi.»

«La videocamera però avrebbe dovuto filmare quello che l’ha spostata» le

fece notare Ruddock. «A meno che...»

Non era uno stupido. Aveva capito che la telecamera era stata girata da

spenta. Ma per spegnerla bisognava entrare dentro la stazione. E bisognava

agire con grande rapidità, in modo che il nero durasse poco e passasse

inosservato, nel caso qualcuno avesse fatto scorrere le immagini all’indietro

per vedere se l’autore della chiamata anonima era stato ripreso. Chiunque

avesse controllato il nastro avrebbe scoperto che la notte della telefonata la

telecamera inquadrava la strada e non la porta e solo tornando indietro di altri

sei giorni avrebbe notato la posizione originaria della telecamera e l’assenza

di immagini nel momento in cui era stata spostata.

Ruddock era costernato e glielo si leggeva chiaramente in faccia. «Chi ha

chiamato il 999 per denunciare Druitt avrebbe potuto usare qualsiasi altro

telefono. Ovviamente per rimanere anonimo doveva evitare telefono di casa e

cellulare, ma una qualsiasi cabina telefonica sarebbe andata bene, purché nei

paraggi non ci fosse una telecamera di sorveglianza» disse Barbara.

«Perché è venuto a telefonare qui, allora?» chiese Ruddock. «E si è preso

la briga di spostare la telecamera?»

Barbara lo fissava. Ruddock fissava lei. Dopo un attimo, capì. «L’ha fatto

per incastrare me. Ecco perché ha usato il nostro telefono esterno» mormorò.

«Già. Mi faccia l’elenco dei suoi nemici, Gary.»

«Oddio. Credevo di non averne.»

Barbara pensò all’uso che gli aveva visto fare del parcheggio con il favore

del buio e fu tentata di chiedergli chi era la donna con cui si era appartato in

macchina, ma decise di tenersi la domanda per un’altra occasione. «Per


esperienza, direi che almeno un nemico lo abbiamo tutti» disse invece.

Ruddock si voltò a guardare di nuovo lo schermo, poi le lanciò

un’occhiata. «Ma perché non ha telefonato subito dopo aver spostato la

videocamera? E perché dopo non l’ha rimessa nella posizione iniziale?»

chiese.

«Forse è stato interrotto e non ne ha avuto il tempo. Oppure voleva lasciar

passare qualche giorno per farci credere che la telecamera fosse sempre stata

in quella posizione, o magari per il solito motivo.»

«E cioè?»

Barbara si strinse nelle spalle. «Nessuno riesce a pensare a tutto, quando

commette un reato.»

Ludlow

Shropshire

La prima volta che vide Finnegan Freeman, Isabelle si augurò che i suoi figli

non diventassero così, indipendentemente da chi ne avesse la custodia. Aveva

i dread, ma la metà sinistra della testa era rasata e coperta da un inquietante

tatuaggio, il ritratto di una donna che urlava selvaggiamente mostrando

l’ugola e lunghi canini, uno dei quali grondava sangue.

Anche per il resto Finnegan non era certo un figurino. L’abbigliamento

non era dei peggiori, sebbene i jeans fossero eccessivamente logori e la

camicia di flanella praticamente trasparente da quanto era lisa. Ai piedi

calzava dei sandali, approfittando forse del mite clima primaverile, e aveva le

unghie laccate di nero. Portava una treccina di cuoio intorno alla caviglia

destra e un orecchino, anch’esso di cuoio, al lobo sinistro; più che un

orecchino, però, sembrava un’escrescenza. Non era un brutto ragazzo, ma

nell’insieme sembrava uscito da un quadro di Munch.

Lo aveva incontrato in quello che passava per il salotto di una casa sul

Temeside, l’ultima di una schiera di villette che sembravano di epoca

edoardiana, a giudicare dalle mattonelle sulla facciata, con girasoli gialli su

sfondo verde scuro come la porta. Le mattonelle erano in buone condizioni,

la porta non altrettanto: recava i segni delle botte prese probabilmente nel

corso di numerosi traslochi ed era stata coperta di adesivi e decalcomanie da

qualche appassionato del Mago di Oz in generale e delle scimmie volanti in


particolare.

Isabelle era stata invitata a ruotare la maniglia e spingere la porta da un

urlo proveniente dall’interno – «Non è chiusa a chiave, chiunque tu sia!» – e

aveva trovato il proprietario nel salotto che mangiava un burrito leggendo una

graphic novel. Era seduto su un divano coperto di chintz che probabilmente

proveniva dalla soffitta di qualche anziana parente, davanti a un tavolino

basso di età imprecisabile. Il resto dell’arredamento era costituito da tre

poltrone a sacco, una sedia di legno, una lampada a piantana, un televisore e

una stufetta elettrica le cui condizioni facevano temere un cortocircuito, se

qualcuno avesse incautamente provato ad accenderla. Con ogni probabilità

non veniva utilizzata spesso, però, perché l’attizzatoio, il caminetto e la

parete tutt’intorno erano neri di fuliggine. Alla faccia del cartello affisso sulla

mensola, che proibiva di accendere il fuoco.

Finnegan Freeman dichiarò di essere Finnegan Freeman, quando Isabelle

chiese di lui. «Chi è che lo vuole e perché?» aveva ribattuto all’inizio, ma poi

Isabelle aveva risposto che a cercarlo era New Scotland Yard e il motivo era

Ian Druitt. A quel punto Freeman fu più che felice di dichiarare: «Sono io,

allora. Vi ha telefonato mia madre, vero?»

«Per quale ragione sua madre dovrebbe aver telefonato a New Scotland

Yard?» chiese Isabelle.

«Aspetta solo che combini qualche casino abbastanza grave per farmi

tornare a casa.»

«Ne combina spesso, quindi.»

Freeman sorrise e addentò il burrito. «A mia madre dà fastidio che mi

diverta. È fatta così» spiegò mentre masticava.

Isabelle gli assicurò che sua madre non aveva telefonato alla polizia e che,

anche se l’avesse fatto, la Metropolitan Police non si occupava di giovani a

rischio su richiesta dei genitori, ma aveva competenze diverse.

«Non sono a rischio» replicò Freeman. «Mi diverto e basta. Mia madre

dice che sono strafottente, ma non se lo immagina neanche come sarei, se

facessi davvero lo strafottente. Le verrebbe un colpo.»

«Capisco.» Isabelle lo informò che, a seguito della morte di Ian Druitt

nella stazione di polizia, era venuta a Ludlow insieme con una collega per

verificare le conclusioni cui era giunta la commissione indipendente per i

reclami contro la polizia.

A quel punto il ragazzo posò il burrito sullo strofinaccio che usava a mo’


di piatto e la scrutò cercando di capire quanto c’era di vero nelle sue parole.

Isabelle provò la strana sensazione di essere valutata da una persona più acuta

e sensibile di quanto il suo aspetto e il suo modo di esprimersi lasciassero

intendere.

«E io che cosa c’entro?» disse Freeman.

«Abbiamo trovato il suo nome fra gli effetti personali del morto, in cima

all’elenco degli iscritti a un circolo per l’infanzia. Il suo era l’unico nome

senza l’indicazione dei genitori, perciò abbiamo dedotto che lei fosse

l’assistente del signor Druitt.»

«Che intuito!» replicò il ragazzo.

«Quindi è vero che lei gli faceva da assistente. Che compiti aveva?»

Finnegan Freeman per un attimo sembrò ricordarsi qualcosa che

vagamente somigliava alle buone maniere perché si spostò e batté una mano

su una delle tante gobbe del divano. «Se vuole posare le chiappe...» Isabelle

accettò l’invito a sedersi accanto a lui, anche se avvicinandosi percepì un

intenso odore di calzini sporchi. Bizzarro, visto che il ragazzo era scalzo.

Isabelle aspettò che Finnegan le spiegasse quali mansioni svolgeva nel

circolo di Druitt.

«Gli davo una mano con i compiti, li aiutavo a prepararsi la roba da

ginnastica, gli insegnavo a usare Internet per le ricerche che dovevano fare

per la scuola. A volte andavamo a fare delle passeggiate. E gli davo le

dimostrazioni.»

«Cioè?» Isabelle si augurò che le dimostrazioni cui accennava Finnegan

non riguardassero abbigliamento e igiene personale.

Il ragazzo le mostrò le mani. Erano piccole, rispetto al resto. «Di karate. Ai

bambini piace un casino.»

«Irrobustisce parecchio, mi risulta» osservò Isabelle.

Finnegan le lanciò un’occhiata come a dire che aveva capito dove voleva

andare a parare. «Non è mica un reato essere forti, per quel che ne so.»

«Certo» concordò Isabelle, poi spostò il discorso su Druitt. «Che tipo era?»

chiese.

«È semplice» replicò Finnegan. «Non era il tipo che si suicida. L’ho detto

a tutti quelli con cui ne ho parlato, ma sembra che non gliene freghi niente a

nessuno di quello che penso io.»

«Sono qui per ascoltarla, Finnegan.»

«Finn» la corresse lui.


«Scusi. Sono qui per sentire che cosa ne pensa, Finn.»

«Perché?»

«Perché lavorava con lui al circolo per l’infanzia.»

«Lei vuole sapere se li molestava, vero? Se si è fatto fuori perché aveva

paura che lo metteste con le spalle al muro, eh?»

«Qualsiasi cosa mi vuole dire, Finn, io la sto a sentire. Vorrei ascoltare la

sua opinione su qualsiasi argomento legato al signor Druitt.»

«Parla come mia madre.»

«Sono madre anch’io. Ti entra nel sangue. Ha un’opinione riguardo al

signor Druitt, Finn?»

«Sì» rispose. «Era una brava persona, ecco qual è la mia opinione. Gli

stavano a cuore tutti i bambini del circolo, li seguiva uno per uno. Li

mandavano da lui apposta, perché li seguiva molto di più dei loro genitori.

Non gli ho mai visto mettere le mani addosso a nessuno di quei bambini, a

parte forse – e dico forse perché davanti a me non è mai capitato o comunque

non me lo ricordo – una pacca sulla spalla o sulla testa o roba così. A parte

questo, non ha mai fatto niente di niente. Era bravissimo, li trattava bene.»

«Capisco» replicò Isabelle.

Finnegan Freeman sbuffò. «Meno male.»

«Le molestie sui minori fanno parte di un processo di seduzione che di

solito si svolge nell’arco di parecchio tempo, in cui il bambino viene

sottoposto a un lento lavaggio del cervello che lo porta ad accettare le

molestie come parte del rapporto» disse Isabelle.

Finnegan, che mentre lei parlava aveva ripreso in mano il burrito, a quel

punto lo lanciò con tanta foga che lo strofinaccio scivolò sul tavolo e il

burrito si spiaccicò sulla moquette. In ogni caso sembrava che il pavimento

non venisse pulito da una o due generazioni, quindi l’impiastro di fagioli,

formaggio e salse varie non cambiò di molto l’aspetto generale. «Mi è stata a

sentire?» le chiese stizzito.

«Sì, certo. Ma vede, Finnegan, se un uomo...»

«Finn!» la interruppe urlando. «Mi chiamo Finn, okay? Finn!»

«Mi scusi, sì. Finn. Se un uomo riesce a compiere molestie su minori senza

essere denunciato è proprio perché in apparenza è come lei mi ha descritto il

signor Druitt: attento, affettuoso, impegnato. Se le vittime e i relativi parenti,

ma anche i suoi amici, avessero di lui un’impressione diversa, non

riuscirebbe a fare quello che fa. Ma immagino che lei queste cose le sappia.»


«Io so solo che non ha molestato nessuno di quei bambini. Me lo sarebbero

venuti a dire, altrimenti.»

«E lei?» chiese Isabelle.

Finnegan Freeman arrossì. «Non ho mai fatto niente di inopportuno con

quei bambini! Non mi starà accusando di...?»

«No, no. Mi scusi» si affrettò a dire Isabelle, chiedendosi che conclusioni

avrebbe tratto il sergente Havers, magari ispirandosi alle conoscenze

shakespeariane che le aveva trasmesso Lynley, nel sentirlo reagire così e nel

notare le incongruenze linguistiche del ragazzo, che sembrava non aver

ancora deciso a quale classe sociale apparteneva. «Le stavo chiedendo se il

signor Druitt l’avesse mai molestata.»

Finnegan divenne ancora più rosso, se possibile. «Mi stia bene a sentire:

era gentile con tutti, specialmente con le vittime di bullismo. Sapeva che cosa

voleva dire e insegnava ai bambini che i bulli hanno bisogno di sentirsi

importanti e che l’unica maniera per farli smettere è reagire, a parole o a

pugni, quello che serve.»

«È per questo che si è dato al karate?»

«Mi ci ha portato mio padre. Sì, i bulli se la sono presa anche con me. Ma

la prima volta che gli ho fatto vedere cosa sapevo fare, hanno smesso. E fare

a un bambino le cose che dite che faceva Ian... È una forma di bullismo pure

quella, no? E Ian non era un bullo. Lo sapeva, che cosa voleva dire.»

«Era stato vittima di bullismo pure lui, quindi» dedusse Isabelle. «O si

riferisce ad abusi sessuali subiti da piccolo? Le ha confidato di essere stato

molestato?»

«Ma no!» A Finnegan venne la voce stridula.

«No cosa? Non era stato vittima di bullismo o non era stato molestato da

piccolo?» chiese Isabelle.

«Tutt’e due! Ma se lei la pensa diversamente e crede che una volta

cresciuto abbia fatto lo stesso anche lui, perché non lo va a chiedere

direttamente ai bambini? Li interroghi uno per uno. Vedrà che non è

assolutamente vero che era un pedofilo.»

Si fermò per prendere fiato e nel silenzio si sentì un rumore di passi sulle

scale. Un attimo dopo comparve sulla porta una ragazza. «Ehi, Finn. Io

vado...» disse. Quando vide Isabelle, si bloccò. «Scusate. Non sapevo che

avessi compagnia.»

Isabelle ne dubitava, visto che Finn aveva alzato la voce. Era impossibile


che non l’avesse sentito. Non avevano certo le pareti insonorizzate, in quella

casa.

La ragazza entrò nel salotto come aspettandosi di essere presentata. Aveva

l’aria di una studentessa, capelli lunghi con colpi di sole che sembravano

opera di un bravo parrucchiere, fisico minuto ma procace. «Piacere, Dena

Donaldson, Ding per gli amici» disse.

«Fa’ attenzione, questa è della polizia. È venuta apposta da Scotland Yard

per estorcermi la verità» disse Finnegan.

Ding squadrò Isabelle con la stessa attenzione con cui Isabelle aveva

osservato lei. «Non porta la divisa?» chiese, come se fosse cruciale

«È un’ispettrice di polizia» precisò Finnegan. «La guardi la televisione,

no? Gli ispettori mica portano la divisa. Vuole sapere di Ian.»

«Druitt?»

«Di quale altro Ian vuoi che si tratti? Mi sembri un po’ rintronata. Hai

bevuto troppo ieri sera?»

La ragazza non replicò. Si tolse lo zaino che aveva in spalla, lo posò per

terra e si sistemò la gonna fucsia con un gesto che forse era nervoso, oppure

voleva passare come tale. Poi si sistemò anche il foulard che aveva intorno al

collo, con un disegno di fiori e nuvole che riprendevano il colore della gonna

e il grigio della maglia.

«Conosceva il signor Druitt?» le chiese Isabelle.

La ragazza fece una faccia stupita e guardò prima Finnegan, poi il

caminetto e da ultimo Isabelle. «Cosa le interessa?» domandò.

«Voglio sapere se lo conosceva e come l’aveva conosciuto» chiarì Isabelle.

«Non... Cioè, in realtà... Nel senso...»

«Cristo santo, Ding, di’ quello che devi dire e falla finita» intervenne

Finnegan spazientito.

«Ne ho solo sentito parlare» disse Ding a Isabelle. «Da Finn, soprattutto.»

«E poi?»

«E poi cosa? Chi altro conoscevo?»

«No.» A Isabelle aveva ricominciato a pulsare la testa. Doveva prendere

provvedimenti, e al più presto. «Ha detto che ha sentito parlare del signor

Druitt soprattutto da Finn. Chi altro gliene ha parlato?»

«Ah!» Ding incrociò le braccia sotto i seni, mettendoli in evidenza.

Isabelle rimaneva sconcertata ogni volta che vedeva una donna compiere quel

gesto: era come se tanti anni di lotte non avessero cambiato niente. Mostra le


tette e avrai il mondo ai tuoi piedi. «Forse solo da lui. Mi sa che Brutus non

lo conosceva.»

«Brutus?» chiese Isabelle. «È un vostro amico? Abita qui con voi?»

«Bruce Castle» precisò Ding. «Abita qui con noi, ma lo chiamiamo tutti

Brutus. È... una presa in giro.»

«Perché è un tappo» spiegò concisamente Finnegan.

«Nel senso che non si è completamente sviluppato?» chiese Isabelle. «Che

è rimasto un po’ bambino?»

Finnegan capì perfettamente dove voleva arrivare Isabelle. «Ian non ha mai

fatto niente a nessuno, né qui né altrove» dichiarò con foga. «Brutus non

avrebbe mai... Nel senso: Brutus non si lascia mettere i piedi in testa da

nessuno» disse Ding contemporaneamente.

«Lei è al corrente delle accuse di pedofilia, vero?»

«Sì. Be’, sì.» Ding lanciò un’occhiata impaurita a Finnegan. «Lo sanno

tutti. Me l’ha detto Finn, mi pare. O forse l’ho sentito mentre lo raccontava a

sua mamma. Sì, credo che sia andata così. Non è vero, Finn? È così che sono

venuta a saperlo, mi sa. Oppure l’ho letto da qualche parte.»

«Cosa ne so io?» Finn sembrava di colpo annoiato, o forse era una posa.

«Qui dentro si sente tutto, vero?» chiese Isabelle alla ragazza.

«È una casa piccola» rispose Ding. «È inevitabile. Non c’è bisogno di

origliare. È per questo, capisce? Voglio dire, non è che il signor Druitt

venisse qui. In realtà non lo conoscevamo. Brutus e io, intendo. No, non lo

conoscevamo. Finn sì, ovviamente.»

«Non capisco bene cosa devo inferire da ciò che sta dicendo, signorina»

rimarcò Isabelle.

«Non deve inferire proprio niente! Solo che io e Brutus non sappiamo

niente. Finn non so.»

Finn guardava la ragazza con espressione perplessa ma anche lievemente

ostile, notò Isabelle. «Non stavi uscendo, Ding?» le chiese. «Non farai tardi?»

Ding raccolse da terra lo zainetto e se lo mise in spalla. Non sembrava

offesa. «Spero che riesca a ottenere le informazioni che cerca» disse

rivolgendosi a Isabelle.

«Da Finn?»

«Be’, sì. Visto che, come le dicevo...»

«Lei e Brutus non conoscevate Ian Druitt.»


Ludlow

Shropshire

Ding inforcò la bicicletta come se stesse per andare alla lezione di geografia.

E forse l’avrebbe fatto, se non si fosse spaventata trovando una poliziotta di

Scotland Yard nel salotto di casa. Quello spavento e la breve conversazione

con la donna le avevano fatto passare ogni velleità scolastica. Doveva però

dare l’impressione di essere diretta al college, e quindi partì verso Lower

Broad Street. Se l’avesse imboccata, sarebbe arrivata alla palazzina dove si

teneva la lezione, in fondo a Silk Mill Lane. Ma non la imboccò. A distanza

di sicurezza dalla casa, entrò nel parcheggio del negozio di tappeti persiani

dove era in corso una svendita totale per prossima chiusura, come in ogni

altro negozio di tappeti persiani d’Inghilterra. Ad annunciarla era un grande

cartello che campeggiava in vetrina. Dopo tanti anni in bella vista era ormai

sbiadito, ma i proprietari parevano non preoccuparsi del fatto che ciò potesse

smentire la veridicità della loro affermazione.

Come sempre, fuori dal negozio c’era una pila di tappeti. Ding si fermò lì

accanto, scese dalla bici e cominciò a sollevarne gli angoli come se stesse

cercando quello che meglio si adattava alla sua camera da letto. Dopo pochi

istanti fu raggiunta dal proprietario. Non era mediorientale, come ci si

sarebbe potuti aspettare, ma scozzese. Parlava con un accento di Glasgow

talmente forte che non si capiva una parola di quello che diceva. Avesse

parlato in farsi, probabilmente Ding avrebbe avuto meno problemi.

Gli spiegò che stava solo dando un’occhiata. «Per adesso no, la ringrazio»

disse, dopo che lui le ebbe risposto con una frase incomprensibile. In realtà il

suo scopo era aspettare in un luogo appartato di poter rientrare in casa.

Si rendeva conto di aver dato risposte poco credibili alla poliziotta. Appena

Finn le aveva spiegato chi era, la paura le aveva offuscato la mente. Trovare

una di Scotland Yard che parlava con Finn in salotto era l’ultima cosa che si

aspettava.

Rimase a guardare tappeti per una decina di minuti, se non di più, e dovette

sostenere una conversazione con lo scozzese che pareva incentrata sul

rovescio dei tappeti. Di nuovo, Ding non aveva idea di cosa le stesse dicendo,

ma poiché era riuscita a isolare le parole «a mano» e «nodi» e l’uomo toccava

la parte inferiore dei tappeti, annuì. «Giusto, giusto.» Per fortuna si rivelò una

risposta adeguata. Alla fine ringraziò il negoziante e riportò la bicicletta sulla


strada.

La macchina della poliziotta non c’era più. Via libera. Ding impiegò meno

di un minuto per tornare a casa e mollare la bici sul piccolo spiazzo di

cemento davanti alla porta. Facendo meno rumore che poteva, corse verso le

scale. Inutile. «Ehi, tu!» Finn la chiamò dal salotto. Ding si fermò e vide che

era disteso sull’orribile divano che avevano preso in uno dei tanti negozi di

beneficenza di Ludlow. Stava togliendo qualcosa da un burrito e si puliva le

dita sulla fodera stinta del divano.

Vedendo che lasciava strisciate di salsa sul tessuto gli disse: «E se

qualcuno ci si volesse sedere?»

Finnegan la ignorò. «Cosa volevi dire esattamente?» disse.

«Quando?»

«Quando parlavi di te e Brutus. Si capiva lontano un miglio che volevi

dirottare i suoi sospetti su di me.»

«Non so di cosa stai parlando.»

«Sì, certo» fece lui, ispezionando il fondo del burrito. Una volta stabilito

che era ancora commestibile, lo addentò. «Secondo me lo sai benissimo,

invece.»

Si alzò e sul divano rimase impressa la forma del suo sedere, così come vi

era rimasta impressa quella del sedere della poliziotta. Si avvicinò a Ding

masticando più rumorosamente del necessario. «Te lo devo dire, Ding: non

capisco cos’hai in testa da un po’ di tempo a questa parte.»

«Niente, Finn.» Si avviò verso le scale, ma lui le si parò di fronte.

«Lasciami passare.»

«Non te lo sto mica impedendo.»

«Sì, invece.»

«Non ti piace, eh? Allora dimmi cosa cazzo sta succedendo.»

«Niente. È solo che non mi va che la gente pensi male di me quando non

ho fatto nulla.»

«Specie se si tratta di un poliziotto, vero? E come mai, Ding? Mi nascondi

qualcosa?»

«No!»

«Be’, non dai questa impressione, mi spiace tanto.»

«Non so che impressione do» rispose lei. «Però adesso levati dai piedi.»

Lo spinse da una parte e corse di sopra. «Non sono deficiente, Ding» le

gridò dietro Finn. Fu l’ultima cosa che sentì perché entrò in camera sua e


chiuse la porta a chiave.

Andò subito ad aprire l’armadio e cominciò a tirare fuori i vestiti. Aveva

fretta di mettere le mani su quello che cercava, ma non strappò gli abiti dalle

grucce per buttarli per terra come fanno nei film per indicare che il

protagonista è in preda al panico. Li staccò ordinatamente e li stese sul letto.

A causa delle sue vicissitudini familiari, era costretta a comprarsi i vestiti

con i suoi soldi da anni, mettendo da parte gli incassi del suo lavoro come

babysitter, dogsitter, commessa, strappatrice di erbacce, innaffiatrice di piante

in vaso e varie altre mansioni che le era capitato di svolgere nel poco tempo

libero, da quando aveva dodici anni. Perciò teneva con grande cura ogni

scarpa, gonna, jeans, maglietta, pullover e stivale che possedeva e non si

separava da nulla finché non diventava importabile. Non se lo poteva

permettere.

Adesso, però... Doveva liberarsi di due cose cui teneva tantissimo, che

conservava in fondo all’armadio, e fu costretta a frugare fra la roba invernale

per recuperarle, appese insieme su un’unica gruccia. Le aveva nascoste sotto

il cappotto di lana rosso e fu proprio quello che alla fine tolse dall’armadio e

portò verso il letto. Lo sbottonò e guardò la gonna e il top che aveva

imboscato sotto. Senza darsi il tempo di rimuginare su quanto li aveva pagati

e su quanto avrebbe sentito la loro mancanza, li prese e cercò una borsa di

plastica sul fondo dell’armadio.

Non se la sentì di infilarli dentro così com’erano, dovette prima piegarli

con cura e poi riporli nella borsa di plastica che mise nello zainetto. Provò a

dirsi che non era il caso, ma non ci credeva neanche lei.

Ludlow

Shropshire

Barbara Havers sapeva di dover andare alla centrale operativa di Shrewsbury

per ascoltare il messaggio all’origine del fermo di Ian Druitt e del suo

trasferimento nella stazione di polizia di Ludlow la sera della sua morte.

Aveva letto e riletto la trascrizione nel rapporto redatto dall’IPCC – ormai la

sapeva a memoria – ma era ancora convinta che ai colleghi che avevano

condotto le indagini potesse essere sfuggito qualcosa. Poteva trattarsi di un

particolare da nulla, magari un’espressione tipica di qualcuno che Druitt


frequentava, oppure un rumore di fondo che poteva essere collegato a una

persona fino a quel momento neppure sfiorata dai sospetti.

Era perfettamente conscia del fatto che ascoltare la chiamata al 999 andava

oltre l’incarico che le aveva affidato Isabelle Ardery, ma si sentiva in dovere

di non lasciare nulla di intentato.

Shrewsbury distava una cinquantina di chilometri da Ludlow e percorrendo

la A49 era abbastanza certa di riuscire a fare un salto là e tornare indietro nel

giro di un paio d’ore senza che il sovrintendente se ne accorgesse. Chiese a

Gary Ruddock di prestarle l’auto di servizio o accompagnarla a Shrewsbury,

e lui optò per la seconda soluzione.

Avevano percorso una quindicina di chilometri quando le squillò il

cellulare. Barbara lo tirò fuori dalla borsa e controllò il display pur sapendo

già chi era. Ne ebbe conferma e non rispose. Avrebbe detto a Isabelle Ardery

che non l’aveva sentito suonare. La toilette era sempre un’ottima scusa.

Avrebbe dovuto escogitarne un’altra per giustificare il fatto che non l’aveva

richiamata, ma le sarebbe venuto in mente qualcosa prima di rivederla.

Cinque minuti dopo la suoneria partì di nuovo. Stavolta Ruddock la

guardò, vedendo che non rispondeva. «Ah, gli uomini...» bofonchiò Barbara.

Sospirò e alzò gli occhi al cielo.

Ruddock le avrebbe creduto, se trenta secondi dopo non fosse squillato

anche a lui il cellulare. «Agente ausiliario Ruddock» rispose senza guardare il

display. Seguì un momento di silenzio. Ruddock ascoltò ciò che gli stava

dicendo il suo interlocutore, poi rispose: «Sì, è qui con me. La sto portando a

Shrewsbury per...»

Barbara gemette. Ruddock rimase in ascolto ancora un po’, poi le passò il

cellulare. «Il sovrintendente» mormorò in tono di scuse.

Prima di rispondere, Barbara si chiese come avesse fatto Isabelle Ardery a

procurarsi il numero di cellulare di Ruddock. Non doveva essere stato

difficile, concluse: bastava una telefonata alla sede di West Mercia, in fondo.

Barbara parlò a raffica per non dare a Isabelle il tempo di domandarsi come

mai non avesse risposto alle chiamate sul suo cellulare. «Buongiorno. Dopo

aver visionato le riprese delle telecamere di sorveglianza, ho ritenuto che il

passo successivo per logica dovesse...»

«L’ho forse autorizzata a compiere passi di sua iniziativa?» la interruppe

Isabelle. «Mi sembra di ricordare di aver usato l’espressione ’punto e basta’ e

di non aver parlato di passi successivi. Sa come viene organizzata


un’indagine, sergente Havers? Dall’alto in basso, non viceversa.»

«Io non...»

«Chieda a Ruddock di fare inversione e tornate a Ludlow.»

«Il fatto è che...»

«Non c’è fatto che tenga» sbottò Isabelle Ardery. «Lei deve limitarsi agli

incarichi che le vengono affidati, sergente Havers. Se vuole che io la autorizzi

a compiere un passo che ritiene indispensabile – e non è affatto detto che io

lo faccia – deve parlarmene e chiedermi il permesso. È chiaro? O ha bisogno

di un ripasso su come funziona la gerarchia?»

«È chiaro» rispose Barbara sconfortata. Come aveva fatto a illudersi che i

rapporti con Isabelle Ardery stessero migliorando? Era stato un abbaglio

completo. «Mi atterrò agli ordini» disse.

«Mi fa piacere sentirglielo dire. Quando ci vediamo?»

«Siamo a una ventina di minuti da Ludlow.»

«La aspetto qui fra venticinque minuti, allora. Se ritarda anche solo di

cinque minuti, dovrà darmi spiegazioni esaurienti, capito?»

«Capito.» Barbara non poteva lasciare che finisse così, con una lavata di

capo da parte del suo superiore di fronte all’ausiliario. L’imbarazzo, la

frustrazione, l’impossibilità di averla vinta con Isabelle anche solo su un

punto la spinsero a fingere che quella telefonata riguardasse anche

qualcos’altro, oltre alla sua incapacità di attenersi agli ordini. Perciò chiese:

«Com’è andata con Finnegan Freeman? Ha scoperto qualcosa di utile?»

«Sempre le stesse cose. Ai suoi occhi, Druitt era Gesù Cristo reincarnato.

Brutto soggetto, comunque.»

«Chi? Druitt o Freeman?»

«Freeman. Provo pena per i suoi genitori.»

«Capisco» replicò Barbara. «A fra poco.»

«Ci conto, sergente» ribadì Isabelle, e chiuse la chiamata.

Ruddock lanciò un’occhiata a Barbara. «Ci sono novità?»

«E chi lo sa?» rispose Barbara. «Dobbiamo tornare indietro. Fra

venticinque minuti devo farmi trovare al suo cospetto o uno di noi due si

trasformerà in una zucca.»

Ludlow

Shorpshire


Riuscirono ad arrivare a Ludlow in ventidue minuti esatti perché Ruddock fu

così gentile da andare a velocità sostenuta, ma Castle Square era talmente

affollata, fra bancarelle, gente che faceva la spesa e turisti, che l’unico modo

per portare Barbara davanti al Griffith Hall sarebbe stato salire sul

marciapiede e attraversare la piazza fino a Dinham Street.

Ruddock riuscì a malapena ad accostare. Oltre al mercatino vero e proprio,

c’erano individui che esponevano la mercanzia direttamente su un plaid, a

volte bloccando la strada a chi voleva raggiungere le bancarelle.

«Porca miseria» imprecò l’ausiliario. Poi si rivolse a Barbara. «Ogni

quindici giorni devo farli sgomberare. Non hanno il permesso di vendere al

mercato, ma ci vengono lo stesso.»

Aprì la portiera e scese. Barbara lo imitò e riconobbe uno degli ambulanti

abusivi: era il vagabondo che aveva incontrato durante il suo primo giro a

piedi per la città insieme al suo cane. «Chi è il tipo con il pastore tedesco?»

chiese a Ruddock.

Ruddock seguì il suo sguardo. «Si chiama Harry» rispose.

«L’ho visto l’altra sera. Dorme dove capita?»

«Già» rispose Ruddock. «Spero sempre che vada a stare in un’altra città,

ma evidentemente qui si trova bene. Non le ha dato noia, vero?»

«Non ci siamo neanche parlati. Ormai fa parte dell’arredo urbano, quindi?»

«Esatto.» Ruddock annuì e si incamminò verso i venditori abusivi. Barbara

si dispiacque di aver nominato Harry perché Ruddock andò per primo da lui a

ordinargli di sgomberare. Gli si accucciò accanto e lo trattò con gentilezza,

ma Harry si dimostrò poco collaborativo e a un certo punto Ruddock fu

costretto a prendere la merce in esposizione e metterla da una parte.

Barbara si allontanò a grandi passi verso il Griffith Hall preparandosi

mentalmente all’incontro con Isabelle Ardery. Al momento di entrare, era

ormai certa di aver trovato il modo di rientrare nelle grazie del

sovrintendente.

Isabelle la stava aspettando nel dehors dell’hotel, sulla terrazza disseminata

di fioriere ricolme e affacciata su un prato che digradava verso il fiume in

lontananza. Era seduta e scriveva sul cellulare. Temendo che il messaggio

che Ardery stava digitando a tutta velocità potesse avere come oggetto il suo

tentativo di andare a Shrewsbury, Barbara decise di interromperla prima che

lo inviasse. C’era una sola persona cui Isabelle Ardery poteva sentire il

bisogno di comunicare le insubordinazioni di Barbara.


«Ah, è qui, capo?» disse, avvicinandosi, poi prese una sedia e si sedette al

tavolo con lei. «Mi scusi, ha perfettamente ragione. A volte mi lascio

trascinare. Non succederà più.»

«No, non succederà più perché per noi è finita qui» replicò Isabelle.

Barbara notò l’uso del plurale e cercò di consolarsi con quello. «C’è un

tale, però, con cui varrebbe la pena di parlare, sempre che lei mi autorizzi»

disse. «L’ho visto in giro, so come si chiama e non compare nei rapporti della

commissione IPCC.»

Isabelle posò il cellulare sul tavolo e Barbara si concesse un nanosecondo

di sollievo nel constatare che il messaggio non era ancora decollato alla volta

di Londra e, con quasi assoluta certezza, dell’ufficio del vicecommissario

Hillier. Il suo obiettivo era distrarre il sovrintendente in maniera che non

partisse proprio.

«E chi sarebbe questo ’tale’?» chiese Isabelle.

«Si chiama Harry, ma non so il cognome. Dorme in giro per la città e io ho

il sospetto che abbia informazioni sulla presunta pedofilia di Ian Druitt.

Potrebbe aver visto qualcosa.»

«Mi sta dicendo che questo Harry potrebbe aver assistito a molestie

perpetrate da Ian Druitt su minori? E dove? Non può pretendere che io ci

creda, sergente. Da quanto emerso finora, Ian Druitt era tutt’altro che fesso.»

«Questo Harry, però, potrebbe aver visto Druitt caricare un ragazzino in

macchina, o accompagnarlo a piedi da qualche parte...»

«Potrebbe aver visto anche Babbo Natale caricare un elfo sulla slitta.

Abbiamo congetture che puntano in entrambe le direzioni, riguardo a Ian

Druitt, sia verso la colpevolezza sia verso l’innocenza. E comunque non

siamo venute qui per questo.»

«Con tutto il rispetto, sovrintendente, nella direzione della colpevolezza

abbiamo un unico elemento, e cioè la denuncia anonima» ribatté Barbara in

tono pacato. «Tutti gli altri dichiarano che no, impossibile, non c’è manco da

parlarne.»

In quel momento Peace on Earth varcò la portafinestra e si avvicinò per

chiedere a Barbara se desiderasse qualcosa. L’unica cosa che Barbara

desiderava in quel momento, però, era un grimaldello per aprire la testa di

Isabelle Ardery e farle capire il proprio punto di vista. Siccome Isabelle non

ordinò nulla, a Barbara non parve il caso di farsi portare qualcuno di quei

croissant, pasticcini, torte e paste che certamente languivano in cucina e che


lei avrebbe volentieri spazzolato. Optò per la soluzione più saggia e rispose

che no, grazie, stava bene così.

Isabelle aspettò che il giovane se ne fosse andato prima di parlare. «Glielo

ripeto per l’ultima volta: non siamo qui per accertare se Ian Druitt fosse o

meno pedofilo. Lei però si ostina a indirizzare le indagini in quella direzione,

invece di concentrarsi sul suicidio e la relativa inchiesta. Eppure è proprio

questo che dobbiamo accertare: come è morto Ian Druitt e come ha lavorato

l’IPCC. Possiamo chiederci per quale ragione il capo della centrale operativa,

sulla base di una telefonata anonima, abbia preso la folle decisione di far

arrestare subito il sospetto, anziché aspettare che si liberassero gli agenti

preposti a quel tipo di incarico. Ma il punto è che quella decisione è stata

presa e si è trasformata in tragedia, perché l’accusato si è tolto la vita

piuttosto che vedere infangati il proprio nome, la propria reputazione, la

propria esistenza.»

«Sempre che si sia suicidato veramente» puntualizzò Barbara. «Perché la

sua morte può sembrare un suicidio, ma anche un omicidio: deve ammetterlo,

sovrintendente Ardery. La denuncia di pedofilia sporta telefonicamente

potrebbe essere un espediente per condurlo all’interno della stazione di

polizia.»

Isabelle infilò lo smartphone nella borsa. Sembrava voler prendere tempo

per ritrovare la calma. Dopo un po’ riprese. «Non stiamo indagando su

questo, sergente. Quante volte glielo devo ripetere? Comunque, per

tranquillizzarla riguardo ai suoi sospetti, la informo che ho interrogato

Finnegan Freeman ottenendo poco o nulla, a parte accorate proteste di

innocenza sul conto di Ian Druitt. Lo avevamo previsto, ammetterà. Ho avuto

anche la fortuna – se così vogliamo chiamarla – di scambiare due chiacchiere

con la ragazza che abita con lui, la quale ha citato un terzo coinquilino, un

certo Brutus, cercando di convincermi che è all’oscuro di tutto.»

«Brutus?»

«Il vero nome è Bruce Castle. Ma il punto non è questo. Il punto è che le

indagini potrebbero andare avanti all’infinito e noi non abbiamo né il tempo

né le risorse per approfondire più di tanto. È un lusso che non ci possiamo

permettere.»

«Lo capisco. Sul serio. Tuttavia penso...»

«Per l’amor di Dio, sergente! Lei non deve ’pensare’. Lei deve analizzare i

fatti: cos’è successo quella sera, che cos’ha fatto l’ispettore Pajer e come ha


agito la commissione una volta che è stata investita della questione.»

Barbara si accorse che Isabelle stava per alzarsi e che la doveva bloccare a

tutti i costi, perché non era finita lì, c’era ancora un dettaglio da chiarire e,

benché fosse un dettaglio minimo, si sa che in un’indagine i dettagli sono

importanti quando non risolutivi. «Sono pienamente d’accordo con lei, capo»

disse. «Ho letto e riletto i rapporti ed è proprio per questo che, visionando i

filmati della telecamera di sorveglianza con Ruddock, mi sono accorta che

l’IPCC ha guardato le riprese della sera della telefonata e quelle della sera

dell’omicidio, ma non quelle di sei giorni prima della telefonata. Infatti il

rapporto non ne parla. Le riprese effettuate sei giorni prima della telefonata,

però, mostrano che la telecamera è stata spostata in maniera tale da

permettere di telefonare senza essere ripresi. La mia tesi è che, se si sono

lasciati sfuggire questo, possono essersi lasciati sfuggire chissà cos’altro. Per

esempio qualche indizio nel corso della telefonata, motivo per cui stavo

andando a Shrewsbury per riascoltarla.»

«Ma loro l’hanno ascoltata? Ci hanno trovato qualcosa di strano? La

risposta è sì alla prima domanda e no alla seconda. Che cosa spera di trovare

che non sia già nella trascrizione? Un coro greco in sottofondo grazie al quale

identificare l’autore della telefonata? E identificarlo a cosa ci servirebbe,

ammesso che ci riuscissimo?»

«Non lo so, lo ammetto. Ma l’altra sera ho visto Ruddock nel parcheggio

che ci dava dentro con...»

«La smetta! Usi un linguaggio adatto a un esponente della polizia, per

favore.»

Barbara cambiò subito registro. «Ho visto Ruddock con una ragazza – che

fra parentesi nega di avere – a bordo dell’automobile di servizio. Come la

sera del nostro arrivo, peraltro, perché quella sera ho avuto l’impressione che

un agente stesse schiacciando un pisolino in macchina, ma nel frattempo ho

capito che invece doveva essere Ruddock con la ragazza, perché il tipo

disteso con lo schienale reclinato all’indietro aveva l’aria troppo beata e

quindi probabilmente lei gli stava facendo un bel lavoretto...» Non appena

vide l’espressione scandalizzata di Ardery, Barbara si corresse: «Gli stava

praticando una fellatio».

«Che cosa significa? Che mentre l’agente Ruddock godeva delle

prestazioni sessuali di una giovane donna nel parcheggio quella sera,

qualcuno è entrato nella stazione di polizia, ha ucciso Druitt ed è uscito senza


che nessuno lo notasse e – l’abbiamo già detto ma giova ripeterlo – senza

lasciare traccia alcuna del proprio passaggio? Non ha nulla che lo indichi,

lungi dal provarlo, sergente. Druitt si è ucciso per motivi che non conosciamo

e l’autopsia lo conferma: non c’è altro da dire. Potremmo andare avanti a

dibattere se era o meno innocente per i prossimi dieci anni, ma la verità è che

le persone si suicidano per ragioni cui non sempre riusciamo a risalire: una

grave depressione che mascheravano bene, una crisi spirituale, un crollo

psicologico, un’improvvisa diagnosi infausta, un cambiamento di vita

insopportabile, instabilità mentale... In questi casi amici e parenti si rifiutano

di credere al suicidio perché se lo accettassero dovrebbero farsi un esame di

coscienza e, mi creda, è difficile per chiunque. Certi preferiscono morire,

piuttosto che guardarsi dentro e fare i conti con...»

Dopo un istante di silenzio, Barbara la incoraggiò a concludere. «Con

cosa?»

Isabelle Ardery si alzò in piedi e prese la borsa. «Niente» rispose.

«Abbiamo portato a termine il nostro incarico. Prepari la valigia: domattina

partiamo.»

Ludlow

Shropshire

«Barbara.» Il tono di Lynley al telefono era estremamente posato. Era stato a

sentire tutto il suo racconto senza interromperla e Barbara capì che adesso

aveva qualcosa di cauto e ponderato da dire. Si irritò, come al solito. Avrebbe

voluto che le dicesse: «Oddio! Sarà meglio che me ne occupi

immediatamente». Pia illusione. Lynley non si esprimeva così. Tant’è che le

chiese: «Non le devo ricordare il motivo per cui è lì, vero, Barbara?»

«No, lo so benissimo. E comunque ci pensa Sua Altezza a ricordarmelo

tutte le volte che può. Il problema è che...»

«Se per risolvere questo problema, qualunque esso sia, deve prendere

iniziative personali, Barbara, ci pensi bene» la interruppe Lynley mantenendo

il suo tono paziente. «Perché a me sembra che facendosi accompagnare a

Shrewsbury da...»

«Alla centrale operativa di Shrewsbury c’è...»

«Facendosi accompagnare a Shrewsbury per poter ascoltare la


registrazione di una telefonata di cui aveva già la trascrizione, lo ha già

fatto.»

«Cosa?»

«Ha preso un’iniziativa personale. Ne abbiamo già parlato, Barbara. Se

continua così, sa come andrà a finire.»

Barbara sentì voci distanti in sottofondo, lo squillo di un telefono, la voce

di Dorothea Harriman che parlava dalla porta dell’ufficio di Isabelle Ardery,

che in quel periodo era occupato da Lynley, facente funzioni del

sovrintendente. Cominciò: «Ispettore investigativo Lynl...» Ma Lynley la

bloccò subito: «Mi dia cinque minuti, per cortesia».

Poi si rivolse a Barbara. «Non dobbiamo tornarci su un’altra volta, no?»

In realtà sì, pensò Barbara. «Il sovrintendente si fissa sul mandato che

abbiamo ricevuto e non vede ciò che ha sotto il naso» disse invece.

«E cioè? Glielo chiedo perché, stando a ciò che mi ha riferito, sotto il naso

del sovrintendente Ardery c’è l’incarico affidatole da Hillier. A meno che non

sia intervenuta qualche novità nel frattempo, deve attenersi agli ordini. È

cambiato qualcosa, Barbara? Cos’è successo per indurla a farmi questa

telefonata?»

«Non le so rispondere» ammise Barbara. «Qualcosa potrebbe esserci stato,

però. Vede, è stata spostata una telecamera di sorveglianza e nel rapporto

dell’IPCC non c’è una sola parola al riguardo. Allora io mi domando: non è

che il rapporto omette anche altro?»

«Anche se fosse, Barbara, ritengo improbabile che l’omissione riguardi

quella telefonata. Credo proprio che la commissione abbia studiato

attentamente la registrazione e abbia interrogato tutte le persone coinvolte.

Ne sono quasi certo e penso che lei abbia ricevuto tutta la documentazione

relativa al caso.»

«Ho avuto modo di vedere cose che loro non hanno visto, ispettore, perché

sono successe quando loro avevano già scritto il rapporto.»

«Barbara.» Lynley stava perdendo la pazienza: aveva del lavoro in

sospeso, impegni, appuntamenti, ed era ora che Barbara imparasse a

sbrigarsela da sola senza doverlo chiamare per confidargli i suoi dubbi.

«Ispettore» rispose.

«Non è stata mandata nello Shropshire per condurre nuove indagini o per

procedere a una nuova valutazione e interpretazione dei fatti. Lei questo lo sa,

e se Isabelle le dice di...»


«Isabelle, Isabelle» gli fece il verso Barbara, pentendosene

immediatamente. «Scusi.» Lynley non replicò e quindi Barbara passò a

esternargli il vero motivo per cui l’aveva chiamato. «Beve, ispettore.»

Silenzio. Barbara non fiatò, sapendo che Lynley aveva bisogno di un

momento per assorbire la mazzata. «In che senso ’beve’?» le chiese dopo un

po’.

«Come ’in che senso’? Nell’unico senso possibile. Ha un problema e beve.

Mi dispiace dirglielo, ispettore, ma è la pura e semplice verità.»

«La verità è raramente pura, e mai semplice.»

«Come dice?»

«Non importa. Il sovrintendente può concedersi un drink, quando non è in

servizio.»

«Mi creda, ispettore: non stiamo parlando di un drink, singolare. Quella ci

dà dentro, penso abbia anche delle riserve in camera, e questo le impedisce di

vedere le cose con lucidità.»

«Le sue sono insinuazioni gravi, sergente.»

«Le mie non sono insinuazioni: sono dati di fatto.»

«Le ha fatto richieste irragionevoli? Ha trascurato di leggere la

documentazione che vi è stata fornita? Ha assegnato a lei il grosso del lavoro

per ciondolare in giro?»

«No» rispose Barbara. «Allo stesso tempo, però...»

«Cos’è che la preoccupa, allora? Perché la mia impressione è che le roda

non riuscire a piegare Isabelle alle sue pretese.»

«A me preme semplicemente...»

«Quel che preme a lei è irrilevante, Barbara. Non capisce che sta facendo

esattamente le stesse cose che l’hanno messa nella posizione di estrema

precarietà in cui si trova?»

«Lo so. È per questo che le ho telefonato.»

«Per sentirsi dire cosa, Barbara? Sa che ho le mani legate.»

«Però...»

«Però cosa?»

Però lei c’è andato a letto, avrebbe voluto dire. E quindi un certo

ascendente su Isabelle ce l’ha. Interceda per me, la supplico! Ma non poteva

dirlo, perché c’era un limite ai limiti che uno poteva superare e, oltrepassati

certi, non si torna indietro. Perciò rimase zitta.

Lynley continuò, la ragionevolezza fatta persona. «Non ci sono né ma né


però: ci sono soltanto compiti da portare a termine e, a quanto lei mi ha detto

finora, Barbara, mi sembra che Isabelle – il sovrintendente Ardery – stia

svolgendo correttamente il lavoro che vi è stato affidato, ossia verificare che

il rapporto della commissione IPCC sia completo e obiettivo, in maniera tale

da poter riferire a Hillier, il quale a sua volta riferirà all’onorevole che ha

voluto il supplemento di inchiesta, che spiegherà al padre del morto che è

stato fatto tutto come andava fatto e gli porgerà le condoglianze da parte di

tutti noi.»

Barbara stette zitta perché non sapeva che altro dire per perorare la propria

causa.

«Mi sente, Barbara?» chiese Lynley.

«Purtroppo sì.»

«Mi ascolti: deve solo cercare di non sgarrare. Non mi sembra così

difficile.»

«È che...» Si rese conto da sola del proprio tono sconfitto ma, pur

riconoscendo che era sbagliato, non riuscì a rimediare. «È che beve davvero

troppo, ispettore.»

«Lo sa per certo o è una sua illazione?»

«Ho questa impressione» rispose Barbara.

«Che potrebbe essere influenzata dal fatto che lei vorrebbe muoversi in un

certo modo e Isabelle glielo impedisce. O sbaglio?» Siccome Barbara non

rispose, Lynley la chiamò: «Barbara?» Lei non poté non notare la gentilezza

nella sua voce, quel tratto distintivo che tradiva il suo sangue blu.

«Forse» rispose Barbara.

«Infatti.»

«Forse» ammise Barbara. «Solo che... Cosa si fa?»

«Lo sa, Barbara. Si ubbidisce agli ordini. Sono certo che ci riuscirà. Non vi

resta molto tempo da passare insieme.»

«Forse» ripeté Barbara per la terza volta. E Lynley le riversò addosso tutta

la sua irritante compassione. «Non deve per forza essere d’accordo, Barbara.

Non le chiedo tanto. Si rassegni e basta» disse.

«Va bene, ispettore.»

Ma non appena ebbe chiuso la comunicazione, si lasciò cadere sul lettino

monastico di quella cella monastica in cui l’aveva relegata Isabelle. Aveva

sperato che Lynley intercedesse per lei, prendesse le sue parti, facesse da

tramite fra lei e Isabelle, facesse qualcosa, per la miseria. Era delusa. Come


minimo, Lynley avrebbe dovuto telefonare al sovrintendente e suggerirle di

lasciarle un po’ di spazio di manovra. E poi voleva disperatamente che lui

capisse che stavolta non era lei a combinare guai, ma il sovrintendente

Ardery. Purtroppo Lynley era stato irremovibile e adesso restava un’unica

cosa da fare.

Tirò su il telefono e si fece passare la camera di Isabelle. Le disse che

avrebbe saltato la cena perché era stanca morta.

«Va bene» fu la risposta di Isabelle. «Ci vediamo domani mattina con i

bagagli pronti.»

Ludlow

Shropshire

Isabelle aveva posato la valigia sul letto, ma non aveva ancora cominciato a

riempirla. Stava aspettando il ghiaccio che aveva chiesto alla reception e non

intendeva muovere un dito prima di aver bevuto il bicchiere della staffa.

Aveva specificato che gliene portassero un secchiello e non tre o quattro

miseri cubetti in una ciotola. Senza dubbio, aveva fatto notare

all’onnipresente Peace on Earth, l’hotel disponeva di un secchiello per servire

lo champagne, vero? Bene, che portasse quello.

Aveva già bevuto un bicchiere della staffa nel bar dell’albergo, ma siccome

non doveva andare da nessuna parte, poteva berne un altro. Aveva il controllo

della situazione, non sentiva gli effetti del vino bevuto a cena e del brandy

con cui aveva ammazzato il caffè. Un vodka tonic non le avrebbe fatto alcun

male.

Quando Peace si presentò con il secchiello in mano, Isabelle lo ringraziò

sbrigativamente e si mise all’opera. Sì, un vodka tonic era proprio quello che

ci voleva, pensò. Si sarebbe andato a depositare sull’altra vodka, sul vino e

sul brandy, che erano già ben avviati verso lo smaltimento, assorbiti dal cibo

che aveva mangiato a cena.

Si preparò il cocktail e se lo portò sul divano. Si accomodò e cominciò a

berlo riflettendo sull’indagine come la vedeva lei e come si incaponiva a

vederla Barbara Havers.

Le perplessità del sergente Havers le parevano prive di fondamento o

irrilevanti. Perché non era stato interpellato il Crown Prosecution Service?


Perché la commissione aveva stabilito che non c’era alcun reato e, in assenza

di reato, la magistratura non si muove. Perché Ruddock non era rimasto nella

stessa stanza del diacono? Perché nessuno gli aveva detto di farlo e non

sapeva che fosse stato accusato di qualcosa. Gli era stato semplicemente

comunicato che gli agenti di pattuglia sarebbero andati a prenderlo per

trasferirlo a Shrewsbury e l’IPCC l’aveva confermato. Quanto allo

spostamento della videocamera di sorveglianza prima della telefonata... se

uno voleva restare anonimo non poteva farsi riprendere da una videocamera,

no?

Si erano spinte molto oltre rispetto a quello che Hillier aveva chiesto loro

di fare nello Shropshire. Avevano rintracciato la Lomax, che compariva

sull’agenda del diacono, e avevano parlato con Finnegan Freeman, il primo

della lista di nomi del circolo dell’infanzia. Avevano incontrato il reverendo

Spencer e avuto un colloquio con Flora Bevans. Erano persino andate a

parlare con l’anatomopatologa, nonostante avessero il referto dell’autopsia.

Barbara continuava a non essere soddisfatta, ma non era per riaprire le

indagini che erano state mandate nello Shropshire.

Finì il bicchiere e si alzò. Per un istante le girò la testa. Si era tirata su

troppo in fretta, pensò. E si ripromise di starci più attenta.

Stava per mettersi a fare la valigia quando le squillò il telefono. Lo andò a

prendere, guardò il display e le venne il nervoso. Era stufa marcia di avere a

che fare con Bob, con la splendida vita che lo aspettava in Nuova Zelanda e

con la sua volontà di portare i gemelli all’altro capo del pianeta. Accettò la

chiamata. «Cos’altro vuoi? Un chilo di carne?» Biascicava leggermente.

Drizzò la schiena, andò ad aprire la finestra e sentì la voce di Sandra che

diceva: «Ah. Ancora vodka o sei passata al whisky?»

Isabelle si affacciò per prendere una boccata d’aria fresca. «Cosa vuoi?»

chiese.

«Domanda significativa.»

«Cosa vuoi, Sandra?» ripeté spazientita.

«Mi aspettavo che, vedendo una chiamata da questo numero, tu guardassi

l’ora e ti preoccupassi che uno dei bambini si fosse fatto male. O che fosse

successo qualcosa a Bob, quando hai sentito che ero io.»

«Ah, ti aspettavi questo? Be’, evidentemente io non ho l’aureola come te.»

Sulla parola aureola si impappinò.

«Non si tratta di avere l’aureola, Isabelle, ma un minimo di istinto


materno.»

Quanto era stronza quella donna! «Non capisco come tu faccia a dire una

cosa del genere sapendo benissimo che tuo marito...» Isabelle lo disse con

supremo disprezzo, non riuscì a farne a meno. «... mi ha impedito

scientemente di esercitare il mio istinto materno.»

«Pensi che ruoti tutto intorno a te, vero?» ribatté Sandra. «Sai benissimo

che è stato il tribunale a decidere fin dall’inizio.»

«Sì, certo. Ovvio.» Isabelle andò verso il letto. Sul comodino c’erano la

vodka, l’acqua tonica e il ghiaccio. Aveva la lingua asciutta. Non si sarebbe

fatta mettere i piedi in testa. «Che cosa vuoi, Sandra? Dimmelo e finiscila»

disse.

«Ti rendi conto di come parli? Hai bevuto?» ribatté Sandra. «Già, perché te

lo chiedo? Sei sempre attaccata alla bottiglia.»

«Visto che a quanto pare non senti quello che dico, butto giù.»

«Non vincerai mai, lo sai benissimo» disse Sandra cambiando tattica. «Ti

chiedo di lasciar perdere. Bob si sta rovinando la salute per questa storia. E

anche i bambini soffrono. Fallo per loro, se non altro.»

«Non ti preoccupa nemmeno un po’ che Bob li voglia allontanare in

maniera definitiva dalla loro stessa madre? Certo, mi concede di passare

moltissimo tempo con loro, a patto che sia in Nuova Zelanda!»

«Mi fa piacere che tu abbia usato il verbo concedere. Ti concede di tenerli

con te quando verrai a trovarli in Nuova Zelanda, di trascorrere le vacanze

con loro in Nuova Zelanda. Cosa vuoi di più? Quando finirà questo tira-emolla?»

«Voglio che i miei figli restino a portata di madre. Finirà quando l’avrò

ottenuto.»

«Non puoi illuderti che un giudice ti dia ragione...»

«Lo hai già detto.»

«... consentendoti di bloccare la carriera di Bob.»

«Io non blocco proprio niente. Può fare tutta la carriera che vuole in

qualsiasi parte del mondo e pure su Marte, se vuole. Basta che non si porti

appresso i miei figli.»

«Che sono anche suoi» puntualizzò Sandra. «Anzi, soprattutto suoi, visto

che li ha sempre tenuti lui da quando vi siete separati, per il motivo che tutti

sappiamo. Ma in tribunale verrà fuori tutto: l’alcol, gli abusi...»

«Io non ho mai abus...»


«Non mettevi la vodka nel biberon per farli dormire?»

«Non mi minacciare, Sandra.»

Sandra fece uno dei suoi sospiri da povera saggia che cerca di far ragionare

una pazza furiosa. «Non ti sto minacciando. Ti sto solo dicendo che queste

cose in tribunale verranno fuori.»

«Pazienza. Sarà la sua parola contro la mia.»

«Contro la parola di un’alcolista. Isabelle, riflettici. Pensa bene se ti

conviene o no. Perché le cose che verranno fuori in tribunale non ti

metteranno in buona luce, per quanto in gamba sia il tuo avvocato. A me

sembra che stiamo sprecando tutti un sacco di soldi in carte bollate.»

«Per me non è un problema. Passami Bob.»

«È con i bambini. A quest’ora vanno a letto, immagino che tu lo sappia.

Sta tenendo loro compagnia.»

«Hanno nove anni. Possono anche addormentarsi da soli.»

«Be’, si vede che non li conosci. Rifletti su quello che ti ho detto, per

favore. Pensa alle parcelle che pagherai al tuo avvocato per i prossimi dieci

anni, o alle conseguenze per la tua carriera delle cose che emergeranno in

tribunale. Secondo me, conviene che ti concentri sul tuo lavoro e lasci

perdere il resto. In fondo per te è sempre stato più importante di James e

Laurence, no?»

Quando la sentì nominare i suoi figli, chiuse la comunicazione in preda

all’ira funesta.

Subito dopo provò a richiamare, ma le rispose la segreteria. Non lasciò

messaggi e riprovò. Di nuovo la segreteria. Tentò una terza volta con lo

stesso risultato. Prese la vodka e se ne versò un bicchiere.

Il cellulare squillò. Isabelle lo afferrò e rispose urlando: «Stammi bene a

sentire, lurido verme bastardo. Se pensi di poter...»

«Sovrintendente Ardery?»

La stanza cominciò a ondeggiare. Aveva riconosciuto la voce: era il

vicecommissario Hillier.

Si lasciò cadere sul letto e balbettò. «Sh-cusi. Credevo... P-pensavo...»

Riprenditi!, si disse. «Stavo litigando con il mio ex marito e sua moglie. Mi

sh-cusi. P-pensavo che fossero loro.»

Silenzio. Troppo lungo. Isabelle pensò che Hillier avesse riattaccato, poi

però sentì che diceva: «Mi ha telefonato Quentin Walker».

Isabelle cercò di visualizzare una faccia che corrispondesse a quel nome,


ma non le venne in mente nessuno. «Mi scusi?»

«Il deputato di Birmingham. Clive Druitt lo ha di nuovo contattato. Vuole

che la magistratura apra un’inchiesta.»

Isabelle stava per dire che anche il sergente Havers era di quell’idea, ma

preferì evitare di gettare benzina sul fuoco di quella delicata conversazione.

«N-non ci sono gli estremi. N-non abbiamo trovato illeciti. Inadempienza,

forse, ma all’agente ausiliario non erano stati comunicati i motivi per cui il

vicario... o il diacono... mi scusi. L’agente ausiliario non conosceva il motivo

del fermo, di cosa era accusato» disse.

«Dobbiamo dargli qualcosa di più. A Walker, intendo. E a Druitt. Basta

una piccola cosa. Una cosa qualsiasi.»

Isabelle cercò di concentrarsi, ma sentiva un dolore sempre più intenso

dietro gli occhi e aveva una gran voglia di dormire, lasciarsi scivolare

nell’oblio, abbandonarsi ai sogni indotti dall’alcol. Si premette le dita sugli

occhi.

«Mi sente, sovrintendente?»

Si era assopita. Aveva sentito tutti i muscoli rilassarsi piacevolmente e la

mente le si era svuotata di colpo. La pace era a portata di mano. Con un

piccolo sforzo, l’avrebbe trovata.

Si riscosse. «Sh-ì. Sì, sono qui. Stavo pensando. Abbiamo l’agenda del

morto, che la commissione non ha potuto consultare. Contiene una serie di

appuntamenti che potremmo controllare uno per uno, ma ci vorrà tempo e

non so a cosa potrebbe portare. Finora tutto conferma il suicidio. Il sergente

Havers ha scoperto che una delle videocamere di sorveglianza è stata spostata

prima della denuncia anonima, nient’altro. L’IPCC non se n’è accorta, ma è

l’unico particolare che si è lasciata sfuggire.»

«Mmm. Sì, capisco» disse Hillier. «Può andare. Rediga un rapporto

circostanziato al suo ritorno a Londra. Lo presenteremo a Walker perché lo

dia a Druitt.»

«Senz’altro.» Isabelle fece il saluto militare e si vide riflessa nello specchio

della camera d’albergo. Doveva essersi messa le mani nei capelli durante la

telefonata con Sandra perché erano scompigliati e sporchi. Si chiese quando

aveva fatto la doccia l’ultima volta. Non se lo ricordava più.

«A proposito del sergente Havers» disse Hillier. «Novità?»

Isabelle si alzò e si avvicinò allo specchio per guardarsi meglio. Si osservò

le zampe di gallina intorno agli occhi. «No. A un certo punto si è messa in


testa di andare a Shrewsbury a sentire la registrazione della telefonata

anonima, ma l’ho rimessa in riga, visto che le avevo semplicemente detto di

visionare i filmati delle videocamere.»

«Era un ordine?» le chiese severo.

«Purtroppo no. No, non era un ordine.»

Silenzio. Isabelle immaginò che Hillier stesse scuotendo la testa deluso.

Era vero, però, che Barbara si stava comportando in maniera ineccepibile, a

parte il cedimento su Shrewsbury.

«Non riusciamo proprio a cavare un ragno dal buco, eh?» disse Hillier.

«È furba. Scommetto che parla ogni giorno con Lynley per farsi

consigliare.»

«Eh, già. Lynley» disse Hillier con il tono di chi avrebbe spedito volentieri

a Berwick-upon-Tweed pure lui. «Proceda, sovrintendente. Ci vediamo

domani pomeriggio.»

Ludlow

Shropshire

Barbara aspettò a lungo prima di uscire dall’hotel. Aveva la borsa e le

sigarette e nessuno avrebbe potuto dirle niente, vedendola allontanarsi per

fumare o per andare a mangiare un boccone, dato che non era scesa a cena.

Aveva pensato di raggiungere a piedi Lower Galdeford Street, per

controllare se l’agente ausiliario Ruddock si fosse appartato di nuovo nel

parcheggio della stazione di polizia di Townsend Close con la sua non meglio

identificata accompagnatrice. Fino a quel momento Barbara non aveva fatto

alcun progresso nelle sue discussioni con Isabelle Ardery a proposito di

Ruddock, dell’auto di servizio e della sua accompagnatrice, non era riuscita a

convincerla che l’abbandono del posto di servizio da parte di Ruddock poteva

aver avuto un ruolo nella morte di Ian Druitt. Era noto che l’agente aveva

lasciato solo Ian Druitt: lo aveva ammesso lui stesso, spiegando che cosa era

andato a fare. In realtà, però, si era infrattato sul sedile posteriore dell’auto di

servizio: era molto diverso, rispetto a spostarsi nell’ufficio accanto per

telefonare a una serie di pub. Mentre Ruddock era impegnato con la sua

amichetta, qualcuno si sarebbe potuto introdurre nella stazione di polizia

passando dal parcheggio per poi uccidere il diacono, inscenare il suicidio e


dileguarsi nel nulla.

Certo, secondo la dottoressa Nancy Scannell l’esame autoptico escludeva

la messinscena, ma Barbara non riusciva a togliersi dalla testa la foto

dell’anatomopatologa in mezzo a un gruppo di appassionati di alianti che

aveva visto in casa di Rabiah Lomax. Non poteva essere irrilevante. Barbara

se lo sentiva.

Per questo continuava a cercare la verità nascosta sotto la versione

universalmente riconosciuta di ciò che era accaduto la sera della morte di Ian

Druitt. E la sua ricerca la stava portando ad attraversare Castle Square e a

percorrere il vicoletto che conduceva a Quality Square, dove aveva

intenzione di entrare allo Hart and Hind e ordinare mezza pinta di birra e un

sacchetto di patatine o uno spuntino caldo, se possibile. Nel pub, avrebbe

attaccato discorso con qualcuno che non fosse il proprietario, per vedere se

trovava conferma a ciò che Ruddock aveva dichiarato, ovvero che la sera in

cui era morto Ian Druitt in città era in corso un’abbuffata alcolica che aveva

richiesto il suo intervento. Se avesse ottenuto le conferme che desiderava,

non era sicura di cosa ne avrebbe fatto, ma riteneva giusto provarci

comunque.

Ruddock era un bravo ragazzo. Barbara non voleva che perdesse il lavoro a

causa della storia di Druitt, ma anche i bravi ragazzi ogni tanto sbagliano – si

considerava lei stessa una brava persona e di errori ne aveva commessi un

sacco – e Ruddock non era stato del tutto trasparente sull’esatta natura del

proprio sbaglio.

Entrò nel pub e andò diritta al bancone. Il locale era praticamente vuoto.

A servire erano due uomini, uno più vecchio e uno più giovane. Barbara

fece la sua ordinazione al più vecchio. «Una mezza di Joule’s Pale Ale» gli

disse e, guardando la lavagna con il menu, chiese se c’erano ancora patate al

forno ripiene. Il barista le spiegò che le stavano tenendo in caldo da

mezzogiorno, quindi a quell’ora non sarebbero state il massimo, ma Barbara

rispose che non importava e chiese ragguagli sui possibili ripieni. Il barista

disse che in cucina avevano scatolette di vario tipo, ma che lui le consigliava

burro e mais. «Va bene tutto. Non sono una gourmet.» Lui le rivolse

un’occhiata come a dire che l’aveva capito.

Le servì la mezza pinta e scomparve nel retro dove con ogni probabilità si

trovava la cucina. Un istante dopo dalla scala di servizio scesero due

adolescenti, un ragazzo e una ragazza. Il ragazzo consegnò una chiave con un


enorme portachiavi e due banconote da venti sterline al barista più giovane,

che mise i soldi in un contenitore dietro la cassa e ripose la chiave sotto il

bancone. Interessante, pensò Barbara.

Il barista più vecchio tornò con la patata ripiena e le posate. «Evadete

sistematicamente il fisco o l’affitto delle stanze in nero è un piccolo extra una

volta ogni tanto?» gli disse Barbara.

«Come dice, scusi?»

«Ho appena visto due fanciulli troppo giovani per disporre di un luogo in

cui appartarsi consegnare al suo collega una chiave e due biglietti da venti.»

«Ah.» Le fece un sorriso lupesco. «Offro un po’ di privacy a chi ne ha

bisogno.»

«Su base oraria, presumo.»

«Cosa non si fa per guadagnarsi il pane.» La squadrò con più attenzione.

«Lei ha la vista lunga, eh?»

«Per vedere quei due non occorreva avere un occhio di lince.»

L’uomo rise brevemente. «Tipico» osservò. Spillò una pinta per una donna

di una certa età con una cofana di capelli corvini che la faceva sembrare una

superstite degli anni Sessanta. Il barista la salutò. «Georgie continua a darti il

tormento, Doreen?» le chiese, poi le passò il bicchiere facendolo scivolare sul

bancone.

«Sono qui, no?» replicò lei.

«Caccialo di casa e fa’ di me quello che vuoi.»

La donna scoppiò in una risata cavallina mostrando denti così storti da far

venire le palpitazioni a un ortodontista. «Se lo dici tu, Jack» rispose. Prese il

bicchiere e tornò al tavolo.

Jack pescò da sotto il bancone uno straccio umido e pulì gli aloni lasciati

dagli avventori che non avevano ancora scoperto l’utilità dei sottobicchieri

sparpagliati qua e là. «Non ci conosciamo, vero?» disse a Barbara.

«Conosce tutti quelli che vengono a bere qui?»

«Più o meno» rispose. «Fa bene agli affari.» Tese la mano e si presentò

«Jack Korhonen.»

«Barbara Havers» si presentò lei. E cominciò a mangiare. La patata farcita

era calda, perlomeno, e la cucina era stata generosa con il burro. Il mais era in

scatola, ma una volta che ebbe aggiunto sale, pepe, brown sauce e un pizzico

di mostarda, andò giù che era un piacere. «Ho chiesto in giro e mi hanno

detto tutti che questo era il posto ideale» disse.


«Per la location, principalmente. Siamo a due passi dal college. Questo

attira più clienti della lap dance.»

«Non ce ne sono molti stasera, però.»

«Siamo a metà settimana. Ed è quasi orario di chiusura.»

Il barista più giovane stava pulendo i tavoli e raccogliendo i bicchieri. Ne

portò una pila a Jack. «Di sopra non c’è più nessuno» disse alzando gli occhi

verso le stanze al primo piano. «Centoventi sterline. Serata fiacca.»

«Sarà ora di cambiare le lenzuola» replicò Jack. Risero di gusto. Poi Jack

si voltò verso Barbara. «Non mi ha detto come mai è in città. Non penso sia

qui in vacanza, a meno che non passi le ferie da sola.»

Che Barbara passasse le ferie da sola era vero, quando trovava il tempo di

farle. «Sono appassionata di storia» rispose, visto che Ludlow sembrava

brulicare di storia.

«Ah, be’. Allora è venuta nel posto giusto» fece Jack Korhonen. «Quale, in

particolare?»

«Come dice?» chiese Barbara.

«Che tipo di storia: universale, inglese, dei celti, degli angli, dei sassoni?»

«Ah» replicò Barbara. «Dei re. I Plantageneti, soprattutto.»

«Grandissimi attaccabrighe» sentenziò lui con un cenno del capo.

«Sì, per le guerre erano portati, non c’è che dire.»

«Su quali si concentra, in particolare?»

«Guerre?»

«No, Plantageneti.»

La domanda la mise in grave difficoltà. Era convinta di riuscire a farsene

venire in mente uno, invece... Poteva azzardare un Edoardo, visto che la

storia inglese era costellata di Edoardi, ma se poi Korhonen le avesse chiesto

quale, non sarebbe stata in grado di rispondere. Non tutti gli Edoardi erano

Plantageneti, no? Edoardo VIII, per esempio, quello che aveva abdicato per

amore, mica era un Plantageneto, no? Cos’era, un Windsor? Si chiamavano

già Windsor a quei tempi? A parte il fatto che non era manco sicura che fosse

esistito un Edoardo VIII: forse si confondeva con Enrico VIII, che non era

sicuramente un Plantageneto. Gliel’aveva detto Lynley, laureato in storia a

Oxford con il massimo dei voti. Ma forse invece Lynley si riferiva a Enrico

VII. Perché i reali non si sforzavano di trovare nomi un po’ diversi per

facilitare le cose ai poveri studenti? Gavino V, per esempio, non suonava

male.


«Il problema è proprio questo, capisce? Non ho ancora deciso su quali

concentrarmi. Voglio visitare il castello, comunque. Ci andrò domattina a

cercare ispirazione. Chissà mai» rispose alla fine.

«Ah. Edoardo V, allora. Benché anche Edoardo IV ci abbia vissuto

qualche anno da bambino, quando non era ancora re. E Mary Tudor.»

Santo Iddio! pensò Barbara. Doveva assolutamente cambiare discorso al

più presto. «Potrei rivolgermi a qualche luminare che insegna al college,

magari. Chi mi consiglia?» disse.

«Non saprei proprio. Non conosco luminari. A meno che non vengano a

bere qui, ma a quel punto sono clienti come tutti gli altri. L’alcol è la grande

livella, creda a me. Piace a tutti, dagli hooligan ai membri della famiglia

reale. Ad alcuni fin troppo.»

«C’è tanta gente che si ubriaca fino a star male? Ci sono anche qui le

abbuffate alcoliche?»

Korhonen si fece subito più guardingo. Si mise a pulire il bancone e le

spine della birra. «Sì, a volte capita. In genere teniamo la situazione sotto

controllo, però.»

«Non come nelle grandi città, eh?»

«Gliel’ho detto, ci stiamo attenti. E in ogni caso, se gli animi cominciano a

scaldarsi, io sono più fortunato di tanti miei colleghi perché qualcuno da

Quality Square immancabilmente chiama la polizia che viene a calmarli. Agli

altri tocca arrangiarsi da soli» disse indicando con il pollice dietro la schiena

immaginari titolari di pub nel resto di Ludlow. «Per un periodo ci sono state

delle ronde di bravi cristiani che raccattavano i ragazzini che vomitavano agli

angoli di strada e li riaccompagnavano a casa. Poi però hanno smesso e

adesso ognuno deve cavarsela da sé.»

Cominciò a prendere i bicchieri sporchi portati dal barista più giovane.

Barbara non sapeva come farsi dire ciò che le premeva sapere, ovvero se la

sera in cui era morto Ian Druitt Gary Ruddock fosse stato chiamato a fermare

un’abbuffata alcolica in corso in vari pub e avesse gestito la situazione dalla

stazione di polizia. Parlare di ubriachezza molesta in termini generali era un

conto, ma entrare nello specifico di una determinata sera significava rischiare

che Ruddock venisse a sapere che Barbara stava verificando la sua versione

dei fatti, già considerata attendibile dall’IPCC.

Barbara stava per fare un tentativo in quella direzione quando Jack

Korhonen disse: «Eccolo lì». Barbara si voltò e vide che Gary Ruddock era


entrato nel pub. Doveva essere un cliente abituale perché Korhonen gli disse:

«Com’è che stasera ti presenti così tardi?»

Ruddock si avvicinò al bancone. «Non siamo riusciti ad arrivare in tempo

al bagno e Rob se l’è fatta addosso, purtroppo. Gli ho dovuto fare la doccia.»

«Povero te» commentò Korhonen.

Ruddock si rivolse a Barbara. «La sua capa si è poi data una calmata?»

«Vi conoscete?» domandò Korhonen prima che lei potesse rispondere.

«Barbara Havers, Scotland Yard» replicò Ruddock.

«Guarda guarda» borbottò Korhonen accennando un sorrisetto. «Mi ha

taciuto questo piccolo dettaglio. Abbiamo parlato solo di Plantageneti.»

«Discorsi impegnati» commentò Gary Ruddock.

Barbara decise che era ora di congedarsi. Disse che doveva andare e chiese

il conto. «A Scotland Yard offro io, signora. Torni quando ha deciso su quale

Plantageneto concentrare i suoi studi, okay? Chissà mai che non la possa

aiutare. In una maniera o nell’altra» rispose Korhonen.

Barbara disse che sì, certamente, grazie. Poi si rivolse a Ruddock.

«Domani mattina torniamo a Londra. La ringrazio della collaborazione.»

«Se posso fare ancora qualcosa...»

«Be’, non mi dispiacerebbe ascoltare la registrazione di quella telefonata,

in qualche modo. Mi può aiutare lei?»

«Ah, la telefonata...» Ruddock annuì e parve meditarci su. «Posso provare

a fargliela avere per posta elettronica, se vuole» propose.

«Di che telefonata parlate?» si intromise Korhonen.

«Quella che è arrivata al 999 riguardo al tipo che è morto, Ian Druitt. Hai

presente? Il diacono. Quello che...»

«Ossignore. Certo, certo. Druitt.»

«Il sergente e io stavamo andando a sentire la registrazione, ma il suo capo

l’ha richiamata a Ludlow.» Poi si rivolse a Barbara. «Farò un tentativo.»

«Grazie» disse Barbara. «Molto gentili.» Salutò con un cenno i due uomini

e uscì dal pub. Aveva ottenuto ben poco, solo la conferma che quando a

Ludlow c’era un’abbuffata alcolica era Gary Ruddock a occuparsene. Era

meno di zero. Le restava la speranza che Ruddock riuscisse a mettere le mani

sulla registrazione, certo, ma a parte questo niente.

Fuori, le luci forti illuminavano i tavoli, le sedie e gli ombrelloni chiusi che

costituivano il dehors del pub. In quel momento, non c’era nessuno. Quality

Square era proprio lì accanto e Barbara si rese conto che il vociare degli


avventori seduti all’esterno doveva essere fastidiosissimo per chi ci abitava.

La piazza era piccola, faceva da cassa armonica, e benché al piano terra, a

parte due palazzi antichi, fossero quasi tutti negozi, al primo piano c’erano

degli appartamenti. Chi ci abitava di certo non voleva essere disturbato da

universitari ubriachi che schiamazzavano sotto le finestre.

Barbara ripercorse i propri passi lungo il vicoletto e Castle Square. Nella

piazza c’era qualcuno. Vide prima di tutto il cane lupo disteso sul

marciapiede davanti al negozio di formaggi di Church Street, il muso

appoggiato sulle zampe anteriori. Sulla porta del negozio, nell’ombra, c’era

un ammasso di coperte che dopo un po’ si mosse. Spuntò un braccio.

Evidentemente Harry aveva scelto di dormire lì, quella notte. Barbara decise

di scambiare quattro chiacchiere.

Si avvicinò e il pastore tedesco alzò la testa ed emise un ringhio. «Buona,

Pea» disse Harry. E cambiò leggermente posizione. Stava appoggiato alla

parete perché non aveva abbastanza spazio per distendersi. Batté la mano

vicino al proprio giaciglio – Barbara riconobbe un sacco a pelo di età e di

grado di pulizia indeterminabili – e, trovata la torcia elettrica, la accese e la

puntò in faccia alla nuova arrivata. Quasi a comando, Pea si alzò. «Indietro»

ordinò l’uomo. Barbara si bloccò all’istante, non volendo assolutamente

entrare in conflitto con un cane che sembrava il migliore amico di una SS.

«Oh, mi scusi. Non dicevo a lei. Intendevo Sweet Pea, che si preoccupa per

me e mi difende anche quando non ce n’è bisogno. Tranquilla, Pea» disse

Harry.

Il suo modo di parlare la colse di sorpresa. Harry sembrava un presentatore

televisivo, aveva una dizione perfetta che ormai, nell’era dei regionalismi,

nessuno coltivava più. Barbara non avrebbe saputo dire che cosa si

aspettasse, ma di sicuro non quello.

«Lei è Harry.»

«La signora con cui ho il piacere di parlare invece si chiama...?»

«Barbara Havers» si presentò lei. «New Scotland Yard.»

«Perbacco! Questa proprio non me l’aspettavo.» Posò la torcia elettrica e si

apprestò a uscire dal giaciglio, ma Barbara lo pregò di non scomodarsi. Le

sarebbe piaciuto scambiare due parole con lui, se non aveva nulla in

contrario.

«Volentieri» rispose Harry. «Basta che non si tratti di un programma

statale per liberare le città da chi dorme per strada.»


«Esistono programmi del genere?»

«Non ne ho la più pallida idea, ma non mi sorprenderebbe se ci fossero,

con i partiti politici che ci ritroviamo. Per alcuni vedere uno che dorme per

strada è intollerabile, tant’è vero che cercavo sempre di rimanere in aperta

campagna, a ridosso di un paese o di una cittadina per potermi avvalere di

servizi come negozi, uffici postali, banche e così via.»

«E adesso non più?»

«Come dice, scusi?»

«Non dorme più in aperta campagna?»

«Purtroppo no. Come potrei? Ho una certa età, ormai. Ho bisogno di

maggior riparo.»

Indicò la rientranza dentro cui si era accomodato. «E poi mia sorella

preferisce sapere dove trovarmi in caso di emergenza, sebbene io non capisca

a quali emergenze si riferisca. La prego, mi consenta di alzarmi.

Chiacchierare con lei da questa posizione mi mette in imbarazzo, oltre che

farmi venire il torcicollo.»

Non aspettò che Barbara replicasse e uscì dal sacco a pelo. Poi prese la

torcia e si alzò. Era alto e slanciato. Da quella distanza, Barbara ebbe modo di

vedere che era sbarbato e aveva i capelli grigi puliti, anche se troppo lunghi.

Spense la torcia. «Così risparmio le pile» spiegò. «E lei non mi sembra

pericolosa» aggiunse un istante dopo.

«Non lo sono. Possiamo andare a parlare da qualche parte?» propose

Barbara.

Alla luce di un lampione distante una ventina di metri, vide che l’uomo

sorrideva. «Soffro di claustrofobia, purtroppo» rispose lui dispiaciuto.

«Quindi, non in un luogo chiuso.»

«Per questo dorme all’addiaccio? Non le basterebbe dormire con la finestra

aperta?»

«No, purtroppo. Fino a un po’ di tempo fa ci riuscivo, ma ora non più.

Complimenti, signora Havers: lei è una poliziotta in gamba. Mi ha estorto un

sacco di informazioni nel giro di pochissimo. Che grado ha? Non voglio

chiamarla ’signora’.»

«Sergente investigativo. Barbara va benissimo, comunque.»

«Mi hanno educato a dare del lei alle persone che non conosco bene,

sergente. Mi chiamo Henry Rochester e, come lei ha scoperto, mi chiamano

tutti Harry. Come posso aiutarla, sergente investigativo Havers?»


«L’ho vista in giro per Ludlow, signor Rochester. Anche al mercato, dove

vendeva della merce.»

«Harry. Per favore.»

«Va bene. Ma allora io sono Barbara.»

«D’accordo. Ha ragione, Barbara. E sì, giro molto per la città, soprattutto

in centro. Mi piace l’atmosfera, la storia. A volte sembra quasi di sentire il

rumore degli zoccoli dei cavalli degli York che escono al galoppo dal

castello.»

Barbara preferiva evitare altre brutte figure. «È uno storico?» domandò.

«Lo ero, ai tempi in cui mi bastava aprire le finestre per riuscire a resistere

dentro un’aula. Insegnavo storia.»

«Non dev’essere stato facile mollare tutto.»

«La serenità sta nella capacità di adattarsi alle vicissitudini della vita. Ho

poche necessità e quando mi serve qualcosa accedo ai miei risparmi

attraverso gli sportelli automatici. Grazie all’ingegnosità di mio padre

nell’inventare modi sempre nuovi per asciugarsi le mani nei luoghi pubblici,

io e mia sorella abbiamo ereditato una piccola fortuna, se mi perdona la

volgarità: non sta bene parlare di denaro. Catherine nutre parecchie

perplessità circa il mio stile di vita, ma evita di esternarmele. Insomma, vivo

senza il peso delle responsabilità.»

«E all’aria aperta.»

«E all’aria aperta.»

«L’inclemenza del clima non è un problema? Come fa d’inverno?»

«Sono di robusta costituzione, per fortuna. E ho un conoscente che nelle

giornate peggiori mi ospita in uno spazio, totalmente aperto, sotto la sua

abitazione, dove lascio anche i miei effetti personali come vestiti pesanti,

sacco a pelo invernale eccetera eccetera. Mi considero un uomo fortunato, in

fin dei conti.»

Si erano incamminati verso Castle Square, dove alcune panchine

consentivano di ammirare comodamente le mura merlate del castello,

illuminate come al solito. Sweet Pea li accompagnò, rimanendo a fianco di

Harry Rochester per tutto il tragitto e, quando si sedettero, si piazzò ai piedi

del padrone.

«Posso chiederle come mai è qui a Ludlow, Barbara?»

«Per una morte avvenuta all’interno del posto di polizia il marzo scorso.

Ne ha sentito parlare?» Barbara dubitava che Harry fosse al corrente della


morte di Ian Druitt; dava per scontato che la lettura dei giornali e la visione

dei notiziari in tv gli fosse in qualche modo preclusa, vivendo per strada.

Ma ancora una volta Harry Rochester la sorprese. «Oh, sì. Pover’uomo.»

«Lo conosceva?» Barbara tirò fuori le sigarette e ne offrì una a Harry, il

quale rispose che no, grazie, aveva smesso. Poi però cambiò idea e borbottò

che una ogni tanto se la poteva concedere. Barbara gli assicurò che, con tutta

l’aria buona che respirava, sicuramente un po’ di nicotina ogni tanto non gli

avrebbe nuociuto. Gli ripeté la domanda porgendogli l’accendino di plastica.

«Gli ho parlato solo una volta. Mi voleva dare una giacca a vento e io l’ho

rifiutata. Lo vedevo spesso, però. In effetti vedo tanta gente in giro per la

città. Alcuni li conosco solo di vista, altri meglio.»

«Nessuno le dice nulla, vedendola dormire per strada? Le autorità non le

hanno mai chiesto di spostarsi altrove?»

«La polizia, intende? No, mai successo. Lei sa che non abbiamo una forza

di polizia fissa sul territorio, vero? L’unico esponente delle forze dell’ordine

in città è l’agente Ruddock.»

«L’ausiliario» precisò Barbara. «Lo conosce, quindi.»

«So chi è perché ha il compito di mantenere l’ordine per le strade della

città. Ma non lo conosco bene.»

«La fa spostare da dove si sistema?»

«Qualche volta è successo. Se mi piazzo in punti in cui do noia a qualcuno.

Ci sto attento, di solito, ma capita che mi sistemi nel posto sbagliato. I

ristoranti, per esempio, non gradiscono avere qualcuno che dorme davanti

all’ingresso, anche se sono chiusi.»

«Da dove altro l’ha fatta spostare?»

«Le scuole elementari sono un altro posto che non va bene. Ma ho

l’impressione che l’agente Ruddock mi consideri innocuo, devo dire, perché

mi tratta con gentilezza. ’Salve, Harry. Mi raccomando, eh?’ mi dice. Le

uniche volte che usa toni più bruschi è quando mi becca a vendere sulla

piazza del mercato. Non ho la licenza, di conseguenza...»

Barbara aspirò una boccata di fumo e annuì. «L’ho visto, oggi, quando è

venuto a farla sgomberare. Perché vende al mercato, se non ha bisogno di

soldi?»

Harry fece cadere la cenere sul lastricato, aspirò un’altra boccata di fumo e

spense la sigaretta sotto la scarpa per poi infilarsi in tasca il mozzicone.

«Odio gli sprechi» dichiarò.


Per un attimo Barbara pensò si riferisse alla sigaretta, ma poi capì che stava

parlando del mercato. «Vende oggetti usati che trova in giro?»

«È inconcepibile quanta roba butta via la gente. Io la recupero e la rivendo.

Ogni tanto l’agente Ruddock si innervosisce. Ma è sempre molto equo:

quando caccia via me, caccia via tutti quelli senza licenza.»

«È tollerante, quindi.»

«Con me sì, abbastanza. È un brav’uomo e fa un lavoro faticoso. Non

voglio rendergli la vita difficile.»

«Perché faticoso?» domandò Barbara.

«Be’, a me sembra faticoso fare la ronda per il centro, controllare le

saracinesche e riaccompagnare a casa studenti ubriachi che non sono in grado

neanche di tornare a casa a piedi, figuriamoci di guidare.»

«Lo ha incontrato la sera della morte di Ian Druitt, per caso? Gli è stato

chiesto di portare Druitt alla stazione di polizia e immagino che fosse andato

a prenderlo alla chiesa di St. Laurence. Era marzo.»

Harry si grattò la testa. «Non me lo ricordo. Le sere sono tutte uguali per

me, le confondo. È successo qualcosa di particolare, oltre alla morte di Druitt,

che mi aiuti a ricordare?»

Barbara ci pensò su un momento. Harry Rochester aveva ragione: la gente

non ricorda che cosa è successo una determinata sera, a parte gli abitudinari

che si vedono sconvolgere la routine da un evento eccezionale. C’era una

cosa, però, che forse avrebbe aiutato Harry Rochester a fare mente locale.

«C’è stata un’abbuffata alcolica che l’agente Ruddock non è riuscito a

fermare come fa di solito e che quindi potrebbe essere andata per le lunghe.»

«Ce ne sono fin troppe, qui a Ludlow» osservò Harry. «In genere l’agente

Ruddock interviene e ristabilisce l’ordine, ma non mi viene in mente una sera

in cui non è successo.»

«La sera di cui parliamo è intervenuto per telefono e quindi forse non è

stato altrettanto efficace.»

Harry rifletté un momento. «Per la verità, non so quanto possa servire un

intervento telefonico. Di solito le gestisce di persona» commentò.

«In che modo?»

«Non glielo so dire. Penso che prima di tutto faccia uscire gli ubriachi dal

pub e li faccia allontanare. Qualche volta l’ho visto caricarne due o tre in

macchina e portarli a casa. Cioè, do per scontato che li riaccompagnasse a

casa. In realtà forse li portava alla stazione di polizia a smaltire la sbornia.


Non lo posso sapere. Eccolo che arriva, però. Lo chieda a lui.»

Durante il colloquio con Harry, Barbara non guardava verso il vicolo che

portava in Quality Square. In quel momento si voltò da quella parte e vide

che stava arrivando Gary Ruddock. Ruddock li vide e li salutò con la mano,

ma non si avvicinò.

«Mi raccomando voi due, eh?» si limitò a dire bonariamente. Andò alla

macchina, che aveva parcheggiato vicino all’ingresso del West Mercia

College, salì a bordo e partì lungo Dinham Street. Barbara dedusse che stava

tornando a casa e si chiese come mai, dopo aver fatto la doccia al vecchio

Rob, avesse deciso di uscire.


8 MAGGIO

Victoria

Londra

Isabelle Ardery cercava di non perdere la pazienza, in attesa che il

vicecommissario rientrasse in ufficio dopo la pausa pranzo. Secondo Judicon-la-i,

Sir David era andato a Marylebone a un appuntamento con un

politico piuttosto influente di cui non aveva fatto il nome. La segretaria non

aveva informazioni aggiuntive, salvo il fatto che il vicecommissario era in

ritardo. Senza dubbio era colpa del traffico. Glielo aveva consigliato, di

prendere la metropolitana, ma... be’, sapevano com’era Sir David.

In effetti Isabelle non riusciva a immaginare che David Hillier si

abbassasse a prendere un treno sotterraneo da St. James’s Park a Baker Street

e ritorno: non essendoci una linea diretta per Marylebone, avrebbe dovuto

cambiare, quindi aveva preferito senz’altro farsi portare in auto, anche se

significava impiegare molto più tempo.

Isabelle aveva i nervi a fior di pelle. Sapeva cosa le sarebbe servito per

calmare l’ansia che le procurava l’incontro con il suo superiore, ma non

poteva permettersi di sgarrare. Doveva sforzarsi di resistere. Già c’era il

rischio che l’imprevista chiamata del vicecommissario la sera prima avesse

pesantemente compromesso la sua reputazione professionale. Doveva

rimediare. Quella mattina, prima di partire dallo Shropshire, aveva messo a

punto un piano.

Anzitutto aveva buttato via la vodka. Ne erano rimaste quattro dita, forse

un filino di più. Ne aveva ingollato metà e il resto l’aveva rovesciato nel

lavabo. Poi aveva gettato la bottiglia nella spazzatura e si era detta: «Basta

così». La telefonata della sera prima con Sir David Hillier era esattamente ciò

di cui aveva bisogno per dare un taglio definitivo all’abuso di alcol.

Poco dopo, Peace on Earth aveva bussato alla porta della camera con il

caffè che aveva ordinato. Lo aveva bevuto mentre si vestiva e, quando aveva


incontrato Barbara alla reception per consegnare la chiave, era perfettamente

lucida.

«Ho buone notizie» furono le prime parole che il sergente Havers le aveva

rivolto. Non propriamente musica per le sue orecchie. «Ne parliamo in

autostrada, sergente» aveva risposto Isabelle.

Barbara aveva aperto la bocca per ribattere, ma poi ci aveva ripensato e

aveva mantenuto il silenzio fino all’imbocco della M5. Appena Isabelle si era

immessa nel traffico, il sergente aveva iniziato il suo discorsetto. Non

avevano fatto colazione e Isabelle sperava che aspettasse almeno che si

fermassero a un Welcome Break, ma non c’era stato verso. Quella donna

impossibile aveva attaccato a parlare come se si fosse scolata pure lei

un’intera caffettiera.

Le aveva elencato una serie di punti, entrando nei dettagli e fornendole

conferme che nessuno le aveva chiesto, e Isabelle aveva capito che anche la

sera prima era andata in giro per Ludlow a condurre indagini non autorizzate.

Sosteneva di essere uscita «a cercare qualcosa da mettere sotto i denti visto

che la cucina dell’albergo era già chiusa», ma era una scusa talmente ridicola

che a Isabelle era venuta voglia di interromperla e chiederle se la prendeva

per scema.

Barbara Havers non avrebbe certamente gradito l’interruzione, visto che

enumerava fatti a una velocità di poco inferiore a quella della luce. Sì, a

Ludlow l’alcolismo giovanile era una piaga; sì, l’ausiliario veniva spesso

chiamato per allontanare dai pub gli ubriachi e «la cosa interessante» era che

un testimone aveva dichiarato di averlo visto caricarsene in macchina un

certo numero per accompagnarli... chissà dove. A casa dei genitori, alla

stazione di polizia, nei dormitori del college o... il teste non glielo aveva

saputo dire. Si chiamava Harry Rochester e dormiva per strada, le aveva

spiegato.

A quel punto Isabelle era intervenuta. «È lodevole che lei abbia cercato

conferma alla versione fornita dall’agente ausiliario, ma non capisco dove

voglia arrivare.»

«Voglio arrivare qui: Harry Rochester non mi ha saputo dire se la sera del

fermo di Druitt fosse in corso un’abbuffata alcolica.»

Isabelle avrebbe chiuso gli occhi e si sarebbe tappata le orecchie, se non

fosse stata al volante. Quando aveva visto un cartello che segnalava la

presenza di un Welcome Break a tre chilometri di distanza, aveva ringraziato


il Cielo di averglielo messo sulla strada. «Fermiamoci a fare colazione,

sergente» aveva proposto. Poi, vedendo che Barbara continuava imperterrita

a parlare, aveva aggiunto: «Riprenderemo il discorso».

L’entusiasmo per le nuove scoperte non aveva tolto l’appetito al sergente,

che aveva snobbato le opzioni più salutistiche e modaiole tipo frutta fresca e

secca e yogurt e aveva ordinato una tradizionale colazione all’inglese.

Isabelle aveva preso una banana e un latte macchiato da Caffè Nero e aveva

raggiunto Barbara al tavolo della caffetteria, dove si stava rimpinzando di

uova strapazzate, salsicce, funghi e pomodori grigliati, fagioli in salsa e pane

tostato, più un misterioso triangolo che sembrava cartone impanato e fritto. Il

tutto accompagnato da tè cui aveva aggiunto latte e numerose bustine di

zucchero.

«Allora» aveva detto fra un boccone e l’altro. «La cosa interessante è che

la commissione IPCC non ha parlato con Harry Rochester. Non sapeva

neppure che fosse coinvolto.»

«Coinvolto?» Isabelle aveva preso l’abitudine di bere il latte macchiato con

la cannuccia. Era molto più facile che litigare con il bicchiere termico e il

coperchio di plastica. Lo aveva assaggiato, aveva constatato che era appena

tiepido, aveva sospirato e preso in considerazione l’ipotesi di portarlo indietro

e farsene preparare un altro. Troppa fatica, aveva stabilito subito dopo. Era

già così faticosa Barbara... «A quanto mi ha appena raccontato, l’unico

contributo offerto da questo Rochester alla nostra indagine è che a Ludlow

esiste il fenomeno delle abbuffate alcoliche.»

«E che la sera in questione non ricorda che ce ne siano state.»

«Posso farle notare che ciò che ricorda o non ricorda un vagabondo ha

un’importanza relativa, dato che di un vagabondo si tratta?»

«Rochester non è un vagabondo» aveva ribattuto Barbara, sottolineando il

punto con la forchetta da cui pendeva pericolosamente un pezzo di salsiccia.

«Dorme per strada perché soffre di claustrofobia.»

«Ah, be’, il fatto che un claustrofobico senza fissa dimora non ricordi se

una determinata sera di oltre due mesi fa fosse o meno in corso un’abbuffata

alcolica...»

«Nel rapporto della commissione è scritto che il titolare dello Hart and

Hind conferma l’abbuffata e che altri pub del centro hanno dichiarato di aver

ricevuto una telefonata da parte di Gary Ruddock. Una delle chiamate che lui

sostiene di aver fatto quando ha lasciato solo Druitt per un periodo di tempo


sufficiente perché si appendesse a una maniglia. Ma la cosa interessante è che

il titolare dello Hart and Hind ha un piccolo giro d’affari in nero su cui ha

bisogno che Ruddock chiuda un occhio, e cioè le camere che affitta a ore,

quindi ha tutto l’interesse a confermare la versione di Ruddock, no? Quanto

agli altri pub che Ruddock avrebbe chiamato... A pensarci bene, cosa ne

sapevano loro se in Quality Square era in corso un’abbuffata alcolica?

Sapevano solo quello che Ruddock aveva detto per telefono. E questo

significa che...»

«Basta così, sergente.» Isabelle aveva sottolineato ciò che aveva già

sottolineato mille volte da quando erano arrivate a Ludlow, ovvero che il loro

mandato era un altro. «Adesso noi torniamo a Londra e redigiamo il rapporto

richiesto da Hillier, che lo consegnerà a Quentin Walker, e poi torneremo al

nostro lavoro. Spero che sia d’accordo, sergente» aveva aggiunto poi.

«Sì. Solo che...»

«Si metterà a scrivere il rapporto appena arriveremo in Victoria Street. Era

questo che stava per dire, sergente Havers?»

Barbara aveva abbassato gli occhi e, dopo un momento, aveva risposto:

«Sissignore».

«Perfetto.»

Isabelle aveva controllato che Barbara Havers stesse lavorando al rapporto,

prima di recarsi al Tower Block. Adesso era lì, in attesa di parlare con il

vicecommissario, e tirò un sospiro di sollievo quando lo vide arrivare, venti

minuti dopo l’orario prefissato e con un altro appuntamento dieci minuti

dopo.

Uscì dall’ascensore parlando al cellulare. «Il ricevimento è per i genitori,

Laura, non per i nonni. Per favore, di’ a Catherine che suo padre non ci sarà.

Ha faccende più importanti da sbrigare, rispetto alla gara di torte delle

mamme... Certo che sto scherzando. ... No, cara, non ci posso venire. Ci

vediamo stasera... Certo, certo.» Si infilò in tasca il cellulare e si rivolse a

Isabelle. «Sette nipoti a scuola sono sei di troppo. Ha il rapporto?»

Aprì la porta dell’ufficio, le fece segno di accomodarsi e disse a Judi-conla-i:

«Devo annullare l’appuntamento con Stanwood. Gliene fissi un altro la

settimana prossima. Al mattino». Poi seguì Isabelle nell’ufficio e chiuse la

porta. Non le offrì tè, caffè o acqua minerale, a indicare che le avrebbe

concesso soltanto pochi minuti.

«Se ne sta occupando il sergente Havers. Glielo faccio avere in giornata o


al massimo domani mattina» disse Isabelle.

«Perché è qui, allora?»

Isabelle si fece coraggio. Doveva chiedere scusa senza essere troppo

sottomessa. «Volevo scusarmi per ieri sera.»

Hillier non le disse di sedersi e restò in piedi vicino alla scrivania. La

osservò e si lasciò guardare da lei: era grande e grosso, folti capelli grigio

ferro, lineamenti delicati e gote rosse, nient’affatto bello. Avrebbe cercato di

metterla in soggezione e lei doveva evitare di farsi intimidire.

«Per cosa, sovrintendente?» le domandò.

«Avevo preso una pastiglia per dormire. Sto litigando con il mio ex per

questioni che mi tormentano togliendomi spesso il sonno. La sua chiamata di

ieri sera mi ha svegliato. Mi perdoni.»

Hillier rimase zitto. Isabelle immaginò che stesse mettendo in relazione le

sue giustificazioni con gli insulti con cui aveva aperto la telefonata la sera

prima convinta di parlare con Bob. Non aveva dato l’impressione di essere né

assonnata né confusa, lo sapeva. L’unica possibilità era che Hillier pensasse

di averla destata da un incubo. Piuttosto improbabile, ma era comunque

necessario che Isabelle si scusasse: lo aveva stabilito non appena aveva

riconosciuto la sua voce al telefono.

«Sono farmaci che prendo raramente, ma è sconsigliato utilizzare

macchinari e roba varia dopo l’assunzione. Non avevo mai parlato per

telefono dopo averli presi e... Confido nella sua comprensione» aggiunse.

Hillier continuava a stare zitto, maledetto lui. Di solito non era mai così

impenetrabile. Isabelle stava sudando freddo. Si disse che in quel momento

aveva il pieno controllo della situazione, era se stessa al cento per cento, e

così intendeva restare. Aveva già fin troppe grane.

Finalmente Hillier aprì bocca. «Che cosa diamo a Walker? Ha bisogno di

qualcosa da consegnare al signor Druitt di Birmingham. Siamo in grado di

accontentarlo?» chiese perentorio.

«Il sergente Havers sta completando il rapporto che intendo revisionare»

rispose Isabelle. «Dovesse esserci la necessità di... sistemarlo, dirò al sergente

di provvedere. Ho conosciuto il signor Druitt e non l’ho trovato

irragionevole. È affranto per la storia del figlio e lo si può capire. Ma poiché

non si può conoscere nessuno fino in fondo, meno che mai un figlio adulto,

penso che prima o poi scenderà a più miti consigli.»

«Ovvero?»


«Ovvero accetterà il fatto che il figlio si è suicidato, che se anche non fosse

stato pedofilo come si diceva poteva avere altri motivi per togliersi la vita,

motivi che magari non scopriremo mai. Perché nulla indica che Ian Druitt

non si sia suicidato. E nessuno di noi è tenuto a scoprire le ragioni per cui si è

tolto la vita. Né il primo ispettore che si è occupato del caso, Pajer, né la

commissione IPCC avevano questo compito: le loro indagini erano limitate

ad accertare la dinamica dei fatti. Possiamo aggiungere che saremo lieti di

passare l’incartamento alla magistratura e, anzi, lo raccomando caldamente

perché è giusto che ci rivolgiamo al Crown Prosecution Service, se Druitt

ancora non sarà convinto, ma la commissione non ha rilevato gli estremi di

alcun reato e pertanto difficilmente si arriverà a un processo.»

Hillier continuava a guardarla in un modo che Isabelle trovava inutilmente

intimidatorio. In fondo sarebbero dovuti essere dalla stessa parte, no? Decise

che aveva parlato abbastanza e rimase in silenzio in attesa che parlasse lui.

Dalle finestre dell’ufficio vide uno stormo di piccioni che volavano

magicamente all’unisono sullo sfondo del cielo azzurro. Si impose di

guardare fuori finché Hillier non si fosse deciso ad aprire bocca.

«Sì, mi piace. Va bene» le disse alla fine.

«Grazie, Sir David» replicò Isabelle. «E mi scusi di nuovo per...»

«Ne usa spesso, sovrintendente?»

Fu il tono brusco con cui glielo chiese a metterla in allarme. «Mi scusi?»

«I sonniferi. Prende spesso le pastiglie di cui parlava?»

«No, no, signore. Molto raramente, anzi, quasi mai.»

«Bene. Continui così. Non vorrei che una sera ne prendesse troppe per

errore.»

«Si figuri, signore.»

Hillier andò dietro la scrivania e Isabelle capì che il colloquio era concluso.

Lo ringraziò un’ultima volta e si voltò verso la porta. Quando già aveva

impugnato la maniglia, Hillier disse ancora una cosa.

«Marchi stretto il sergente Havers, mi raccomando. Prima o poi qualcosa

combinerà. Diamole tempo.»

«Sì, signor commissario.»

«E diamole anche corda» aggiunse. «Si impiccherà da sola.»

Victoria


Londra

Perlomeno il viaggio di ritorno non era stato sfiancante come quello da

Londra a Ludlow. Sì, erano partite molto presto, ma Barbara per la sveglia

del cellulare aveva scelto ormai da tempo l’Ouverture 1812. Gliel’aveva

consigliata quasi per caso l’ispettore Lynley, e in effetti in certe occasioni

funzionava, catapultandola giù dal letto non appena cominciavano le

cannonate. Era nel minuscolo bagno, quando Peace on Earth aveva bussato

alla porta della camera con il vassoio del caffè. Ne aveva appena portato uno

«alla sua compagna», le disse, e aveva pensato di servirlo anche a lei. «Offre

la casa» aveva specificato con aria comprensiva, per quanto possa risultare

comprensivo alle cinque del mattino un ragazzo con i lobi delle orecchie

spropositatamente dilatati.

Lì per lì Barbara si era scoraggiata vedendo che a quell’ora l’hotel non

serviva ancora la colazione, ma lungo la strada, su proposta del

sovrintendente Ardery, si erano fermate a un Welcome Break. E meno male,

perché appena erano arrivate a Victoria Street, Isabelle le aveva affibbiato il

compito di scrivere un rapporto che il vicecommissario Hillier potesse trovare

accettabile. Entro le sedici, aveva specificato, in modo da poterlo rivedere in

tempo per consegnarlo a Hillier prima che uscisse dall’ufficio.

Barbara aveva capito cosa ci si attendeva da lei. Il rapporto doveva

soddisfare certe aspettative e lei avrebbe dovuto correggerlo e ricorreggerlo

finché tutti gli interessati non avessero dato la loro approvazione.

Aveva provato a farle capire che ascoltare la telefonata al 999 era

prioritario, rispetto a scrivere un rapporto che sarebbe andato a finire nelle

mani di un membro del Parlamento e forse anche di un padre disperato, ma

Isabelle era stata irremovibile: secondo lei, ascoltare quella registrazione era

inutile. E aveva concluso dicendo chiaro e tondo che era «stufa di sentirla

battere sempre sullo stesso tasto, sergente, anche perché lei insiste per fare

questa cosa ma non sa fornire valide motivazioni, a meno che non mi sia

sfuggito qualcosa tutte le volte che abbiamo affrontato l’argomento».

«Ho la sensazione che sia importante» aveva risposto Barbara, rassegnata.

E si era messa a scrivere. Le sedici erano le sedici e sicuramente Isabelle

Ardery le sarebbe piombata davanti alla scrivania alle sedici e zero tre, se lei

non si fosse presentata nel suo ufficio entro l’ora prefissata con il rapporto

pronto.


Ci stava diligentemente lavorando quando le suonò il telefono. Era Gary

Ruddock e chiamava per avvisarla di essere riuscito a procurarsi la

registrazione che Barbara gli aveva chiesto. Gliel’aveva mandata per email.

Aveva già avuto modo di ascoltarla?

«Non ancora» gli rispose. «Sono impegnata a scrivere uno stramaledetto

rapporto per i miei superiori. Grazie mille, comunque. Spero non abbia

dovuto faticare troppo, Gary.»

«Troppo no» replicò lui. «Me lo faccia sapere, mi raccomando, se trova

qualcosa di interessante nella telefonata.»

Barbara glielo promise. Mise un attimo da parte il rapporto per controllare

la casella di posta, certa che Isabelle Ardery non sarebbe spuntata dal nulla

dietro di lei come il bersaglio di un tiro a segno al luna park. Trovò il

messaggio di Ruddock: Lega la registrzone e mi dica se trova qualsoca e se a

bisogno di altro.

Caspita, imprecò fra sé. Ecco perché quel povero cristo non era riuscito a

salire oltre al grado di ausiliario. Anzi, era sorprendente che fosse arrivato fin

lì.

Aprì l’allegato e frugò nei cassetti della scrivania in cerca di un paio di

auricolari. Come previsto, non ne trovò. Winston Nkata per fortuna era

l’esatto opposto di Barbara e, sempre pronto a ogni evenienza, le prestò i

suoi.

Barbara ascoltò il file audio. Avendo memorizzato la trascrizione, constatò

che riportava fedelmente ogni parola. Ardery l’aveva avvertita che sarebbe

andata così. Barbara lo riascoltò un’altra volta. Due. Avrebbe voluto

riconoscere la voce ma, come prevedibile, l’autore della telefonata aveva

parlato pianissimo, quasi bisbigliando. Barbara sperava in una folgorazione

improvvisa, ma si sarebbe accontentata anche di un’illuminazione parziale o

di un banale particolare di infinitesimo interesse. Speranza vana, purtroppo.

Le esse sibilanti dell’autore della chiamata potevano essere un tentativo di

camuffare la voce. Alla fine fu costretta ad ammettere che a effettuare quella

denuncia dal telefono esterno della stazione di polizia poteva essere stato

chiunque, dal netturbino della zona a Dracula.

Poi se ne accorse.

Quando fece per scollegarsi, vide la data del file: diciannove giorni prima

del fermo del diacono. Era un particolare che non era stato riportato da

nessuna parte, pur essendo piuttosto significativo. Nei diciannove giorni


trascorsi tra la telefonata e il fermo di Ian Druitt, doveva essere successo

qualcosa e quel qualcosa doveva essere un’indagine da cui erano emersi

elementi tali da condurre al fermo dell’uomo. Ma se era così – ed era logico

supporre che lo fosse – come mai non se ne parlava da nessuna parte? Come

mai non era specificato che su Ian Druitt era stata condotta un’indagine

preliminare?

Questo sì che era significativo. Questo sì che andava riferito al

sovrintendente Ardery. Era il particolare che gettava nuova luce sui fatti di

Ludlow, anche se quella luce faceva apparire più verosimile l’ipotesi che il

diacono fosse proprio quello che l’anonimo autore della denuncia sosteneva

fosse, ovvero un pedofilo.

Barbara era immersa in quelle riflessioni quando si vide davanti Dorothea

Harriman in uno dei suoi abitini estivi, probabilmente indossato a scopo

scaramantico, per far smettere di piovere. «Sergente investigativo Havers?»

la chiamò. «Com’è andata?»

«Ho fatto la brava bambina» rispose Barbara. «Con alcune piccole

eccezioni sulle quali non intendo soffermarmi.»

Dorothea batté un piede per terra. Aveva dei tacchi vertiginosi. «Stavo

parlando dell’allenamento. Si è esercitata tutte le sere, vero?»

«Mai saltata una sera» mentì Barbara.

«Ottimo.»

«Mi fa piacere che approvi.»

«Perché mancano solo due settimane all’audizione per solisti e piccole

coreografie di gruppo.» Barbara la guardò perplessa, e così Dorothea spiegò:

«Il saggio di danza di luglio! Pensavo che io e lei potremmo fare un duetto,

oppure chiedere a una delle musulmane di unirsi a noi e proporre un trio.

Umaymah, pensavo. È la più seria del gruppo e con un pezzo di Cole

Porter...»

Ci manca solo questa, pensò Barbara. È il momento di defilarsi. Meglio

morire, piuttosto che esibirsi in un saggio di tip tap. «Senta, Dee, io non sono

al vostro livello. Voi due siete brave, io sono uno zero. Anzi, un meno dieci.

Fatelo lei e Umaymah» disse Barbara mentre Dee continuava a blaterare.

«Non se ne parla nemmeno. Lei è perfettamente in grado di eseguire la

coreografia che avevo in mente. Se usiamo quel pezzo di Cole Porter,

Anything Goes, ha presente?»

«Le mie conoscenze musicali non vanno oltre Buddy Holly.»


«Non importa. Le piacerà, ne sono sicura. E se ha delle perplessità circa

Umaymah, possiamo lasciare che decida Kaz. La vengo a prendere stasera

alla solita ora così andiamo insieme, okay?»

Barbara si era scordata della lezione di tip tap. Ringraziò il cielo di non

avere niente di adatto a parte le scarpe, che erano nella valigia perché era

stata diligente e se le era portate a Ludlow, dove si era ben guardata

dall’indossarle. «Non ho i vestiti adatti, Dee» rispose.

Dorothea agitò le mani. «Non è un problema: ho un body in più. E non mi

dica che non ci entra, perché sul serio, sergente Havers, è dimagrita

tantissimo! Avrà perso... un bel po’ di chili, no? Quale preferisce: quello

rosso o quello nero?»

«Rosso» rispose Barbara. «Così fa pendant con le scarpe.»

Dorothea disse che avrebbe pensato a tutto lei e se ne andò sui tacchi a

spillo. Guardandola mentre si allontanava, Barbara sperò che prima di

riguadagnare la sua postazione di lavoro inciampasse e si rompesse una

rotula.

Purtroppo non fu così.

Victoria

Londra

Thomas Lynley stava per andare via, quando Barbara Havers lo raggiunse

accanto alla sua Healey Elliott nel parcheggio sotterraneo. Aveva una

cartellina in mano e un’espressione mesta da cui Lynley dedusse che il

rapporto sulla trasferta a Ludlow era da rifare.

Abbassò il finestrino. «A chi non andava bene?»

«Al sovrintendente. L’unico vantaggio è che stasera salto la lezione di tip

tap perché devo riscrivere tutto.»

«Non è un vantaggio da poco. Salga, Barbara.»

«Non posso allontanarmi. Ordini del sovrintendente Ardery.»

«Toccherà stare qui anche a me, allora. Parliamo in macchina.» Spense il

motore e Barbara Havers fece il giro, aprì la portiera e si accomodò sul sedile

del passeggero.

«Perché il rapporto è da rifare?» chiese Lynley.

Sapeva che Isabelle aveva lasciato a lei l’incombenza e che Barbara si era


messa al lavoro non appena tornata a Londra con il sovrintendente. Le aveva

portato un tramezzino e un tè alle tre e mezzo. Barbara non si era alzata dalla

scrivania se non per andare al gabinetto. Non era neanche uscita a fumare.

«La commissione per i reclami contro la polizia ha omesso una cosa

importante, ispettore, e io l’ho scritto nel rapporto. Quando il sovrintendente

l’ha letto, mi ha chiesto di tagliare l’intero paragrafo.»

«Che cosa ha omesso la commissione?»

«Il fatto che fossero passati diciannove giorni dalla denuncia al fermo.

L’IPCC non vi fa cenno nel suo rapporto. Forse non se n’è accorta.»

«Lei cosa pensa?»

«Che non l’abbiano notato. Stava per sfuggire anche a me. Però ho il

sospetto che in quei diciannove giorni qualcuno nello Shropshire abbia

indagato su Ian Druitt. Se lo scrivo nel rapporto – che probabilmente c’è stata

un’inchiesta a seguito della denuncia che ha portato al fermo del presunto

pedofilo – il padre del diacono non sarà molto contento. E neanche Hillier.»

«Capisco.»

«Quindi io posso fare come mi dice il sovrintendente, e cioè espungere dal

mio rapporto la storia dei diciannove giorni, oppure mandare tutto così com’è

al padre del morto.» Sollevò la cartellina con il rapporto non ancora

censurato. «Oppure all’onorevole. Se espungo... be’, sa cosa vuol dire. A casa

mia, si chiama insabbiare.»

«Ossignore.»

«Il Signore al momento non è disponibile, ma lei sì, ispettore. Che cosa mi

consiglia di fare?»

Lynley non sapeva che cosa risponderle. Non aveva la sfera di cristallo

neanche lui. Se Barbara avesse espunto un elemento che riteneva importante

come le aveva ordinato Isabelle Ardery, oltre a venir meno ai propri principi,

si sarebbe resa complice di omissione in atti d’ufficio. Se invece avesse

mantenuto il rapporto così com’era e avesse bypassato Isabelle mandandolo

direttamente al padre del morto o al suo deputato di riferimento, avrebbe

perso il posto.

«Non sono in grado di dirle che cosa deve fare, Barbara. Lo sa benissimo»

rispose.

«Sì, lo so» replicò lei.

«L’unico consiglio che posso darle è tenere conto dell’effetto che avrebbe

sul padre del morto ricevere quest’informazione aggiuntiva.»


«Perché avvalora l’ipotesi che il figlio fosse davvero pedofilo?»

«Non so» rispose Lynley. «Ma mi permetta di chiederle una cosa: come ha

ottenuto questa informazione?»

«Che qualcuno deve aver indagato su Ian Druitt? Ho chiesto a Ruddock se

riusciva a procurarmi la registrazione della denuncia anonima e lui me l’ha

spedita con la posta elettronica. Era specificata la data e ho visto che era

antecedente al fermo di Druitt di parecchi giorni.»

«Isabelle non ha sentito la registrazione?»

Barbara scosse la testa. «Mi aveva detto... In parole povere mi aveva

ordinato di non richiedere la registrazione in quanto avevamo già la

trascrizione della denuncia. Poi però Ruddock mi ha telefonato e mi ha detto

che me l’avrebbe mandata e io ho pensato che se smettevo di scrivere per

cinque minuti non succedeva niente.»

«Quindi ha contravvenuto a un preciso ordine del sovrintendente.»

Barbara rimase zitta. Qualcuno passò dietro la Healey Elliott e Lynley vide

che era il suo collega Philip Hale che si dirigeva verso la propria auto insieme

a Winston Nkata. Parlavano fitto e non si accorsero di lui e Barbara. Meglio

così.

«Capisco che si possa vederla in questo modo» ammise alla fine Barbara.

«Però...»

«Nessun però, sergente. Lei aveva ricevuto un ordine preciso.»

Barbara annuì, ma lo guardò come se sperasse di ottenere da lui qualcosa

che Lynley non poteva, e non voleva, darle. «Qualsiasi cosa proponessi di

fare, continua a ripetermi, anzi, continuava a ripetermi, che esulava dal nostro

mandato» disse.

«Ed era vero?»

«Per certi versi, sì» rispose Barbara.

«Quindi...» fu la conclusione di Lynley.

Tuttavia, quando Barbara se ne andò a capo chino, non partì alla volta di

Belsize Park, dove lo aspettava Daidre Trahair, e rimase in macchina a

riflettere. Dopo un po’ chiamò Daidre, le disse che avrebbe fatto tardi a causa

di un imprevisto e si avviò verso gli ascensori.

Entrò nell’ufficio di Isabelle e vide che si stava preparando a tornare a

casa. Sgombrava la scrivania infilando pratiche nei cassetti e incartamenti

nella ventiquattrore, ma quando lo sentì arrivare alzò la testa. «Ah, è venuta a

raccontarti tutto. Avrei dovuto immaginarlo. Voglio chiarire un paio di cose,


prima che tu cerchi di convincermi in un senso o nell’altro. Le ho detto che

voglio trovare il rapporto riveduto e corretto sulla scrivania domani mattina e,

se dovrà star qui tutta la notte, peggio per lei. Se pensavi di intrometterti,

cercherò di farla breve: lei ha i suoi ordini, io ho i miei e tu hai i tuoi. È così

che funziona, Tommy.»

«E quali sarebbero i miei ordini?»

«Tenerti fuori da faccende che non ti riguardano.» Finì di riporre i

documenti e chiuse la ventiquattrore. Siccome era in piedi, era di statura

superiore alla media e aveva un tacco cinque, si ritrovò con gli occhi alla

stessa altezza di quelli di Lynley. «Mi rendo conto che non ti piace essere

tenuto ai margini, ma nel caso tu avessi bisogno di qualche delucidazione,

sono pronta.»

«Se riguarda Barbara Havers, riguarda anche me» replicò Lynley.

«Lavoriamo insieme da molti anni e vorrei che la nostra collaborazione

continuasse anche in futuro. Non voglio che le venga imposto un

trasferimento perché si rifiuta di ubbidire a un ordine che comporta un

insabbiamento della verità.»

«Per favore, Tommy» replicò Isabelle, seccata. «Puoi evitare di parlare

come un professore di Oxford? Sei irritante, quando parli in questo modo, e

pure antipatico. Lo so perché parli così con me. La mia domanda è: cosa

pensi di ottenere sfoggiando i tuoi nobili natali?»

Lynley conosceva abbastanza Isabelle, sul piano sia professionale che

personale, da capire che stava cercando di cambiare discorso. «Barbara teme

che, se inserirà nel suo rapporto quello che ritiene essere un elemento

importante che la commissione per i reclami contro la polizia ha trascurato,

ignorato o cancellato da...»

«Stai insinuando che qualcuno della commissione abbia deliberatamente

omesso un particolare rilevante ai fini delle indagini... così, senza motivo?

Come ho cercato di spiegare al sergente Havers, la commissione aveva il

compito di chiarire le circostanze della morte di Ian Druitt, punto e basta. Il

loro mandato era appurare i motivi del fermo e di conseguenza anche il

nostro si limitava a questo. Il sergente Havers fa fatica ad accettarlo, forse

perché è abituata a indagare su casi di omicidio e non sulla correttezza

formale di una procedura giudiziaria. Può darsi che mi sbagli, naturalmente.

Dimmi, Tommy, tu cosa ne pensi?»

Lynley ammirò la manovra per spostare il discorso su di lui. «Non è


meglio per tutti se si scopre la verità?» rispose.

«Quale verità, Tommy? Il sergente Havers e io abbiamo già fatto più del

necessario. Abbiamo parlato con la padrona di casa di Druitt, abbiamo

verificato informazioni trovate sulla sua agenda, abbiamo rintracciato una

signora con cui si era incontrato un certo numero di volte prima di morire. Io

ho anche interrogato lo studente del college che gli dava una mano al circolo

per l’infanzia e il sergente ha parlato con il titolare di un pub e con un

vagabondo che ha assistito ad abbuffate alcoliche come quella che l’agente

ausiliario è stato chiamato a fermare la sera in questione. Barbara ha letto

dieci volte tutti i rapporti che ci sono stati messi a disposizione ed è venuta

con me a parlare con la dottoressa che ha effettuato l’autopsia. Mi posso

fermare qui o preferisci che continui? Perché ho l’impressione che la tua

teoria sia che...»

«Io non ho nessuna teoria, Isabelle.»

«... la tua teoria sia che, se l’indagine non riesce a dimostrare la veridicità o

la falsità di un’accusa che è indimostrabile senza testimoni o prove concrete –

cioè la pedofilia –, allora non è stata condotta in modo adeguato. Non sono

d’accordo. E non voglio che mi chiami Isabelle. Adesso, per favore, vorrei

andarmene a casa. È stata una giornata pesante.»

Lynley stette zitto un momento per fare il punto della situazione e per

valutare se fosse il caso di parlare o aspettare ancora. Poi andò a chiudere la

porta.

«L’argomento è chiuso, ispettore» disse Isabelle.

«Barbara a Ludlow si è accorta che esageri con l’alcol. Me ne ha parlato

mentre eravate in trasferta» disse Lynley.

Isabelle non ribatté, ma Lynley vide che si premeva la mano contro la

coscia con una tale forza che non le arrivava il sangue alla punta delle dita.

«Non far finta di non vedere dove ti sta portando questa cosa» le disse.

«Dove ti ha già portato.»

«Prima di tutto, non ti permettere di fare simili affermazioni» rispose

Isabelle a voce minacciosamente bassa. «Il mio consumo di alcol è moderato

e non dovrebbe essere motivo di preoccupazione per nessuno. Secondo,

preferirei che il sergente Havers evitasse di venirti a raccontare ogni cosa che

faccio. Nella sua posizione, oltre che inopportuno, è anche pericoloso.»

«Motivo per cui è venuta a raccontarlo solo a me. Possiamo sederci e

parlare un momento, per favore?» Le indicò le due sedie davanti alla


scrivania.

«No, non possiamo. Mi sembra di aver detto chiaro e tondo che non ce n’è

motivo. Se Barbara trae delle conclusioni su di me e le comunica a te e a

chissà chi altri...»

«Non lo ha fatto.»

«Quale delle due cose non ha fatto? No, non rispondere: la prima la

sappiamo già. Ha parlato con te senza aver manifestato il minimo disagio con

me. Anzi: ne ha approfittato per bere pure lei.»

«Cos’altro poteva fare, Isabelle? L’hai messa in condizione di non poter

dire nulla, pena il trasferimento al Nord. Avrà avuto paura di rifiutare un

drink. Non puoi non saperlo.»

«E tu non puoi non sapere che merita di trovarsi in questa situazione.»

«È vero, l’anno scorso ha sgarrato in maniera inqualificabile, ma tu sei

bravissima a spostare il discorso dal tema che non vuoi affrontare

introducendo argomenti che mettono il tuo interlocutore sulla difensiva.»

«Se Barbara Havers si mette sulla difensiva è perché...»

«Non sto parlando di Barbara Havers, per la miseria!»

Lynley era esasperato, principalmente con se stesso: aveva imparato da

molto tempo che alzare la voce con un tossico era del tutto inutile. Glielo

aveva insegnato suo fratello. Aspettò di aver ritrovato la calma. «Isabelle»

disse.

«Quante volte te lo devo dire, che non voglio...»

«Isabelle. Se vai avanti così, perderai ogni cosa. Hai già perso tuo marito e

i tuoi...»

«Taci!»

«... figli e fra un po’ perderai anche il lavoro. Non vuoi che succeda, vero?

Stai combattendo su più fronti e non ce la fai più.» Lynley avrebbe voluto che

Isabelle si sedesse. Avrebbe voluto sedersi con lei. Se fosse stato su una sedia

di fronte a lei, avrebbe potuto prenderle la mano e farle capire che

comprendeva la sua situazione, si immedesimava. Si illudeva che quel

contatto fisico l’avrebbe commossa. «Secondo me, tu questo non riesci a

vederlo perché è superiore alle tue forze, perché se lo vedessi dovresti

ammetterlo e, se lo ammettessi, dovresti prendere provvedimenti.

Provvedimenti seri e sensati, intendo, non pagare avvocati perché combattano

contro i mulini a vento» disse.

Isabelle stette un momento zitta, ma Lynley notò che le pulsava una vena


sulla tempia. «Sei il mio più amaro rimpianto, Tommy. Non so come abbia

fatto a mettermi con te. Sei molto bravo a letto, certo, e non sarò la prima che

te lo dice. Ma che tu adesso approfitti di un mio momento di debolezza per

rivolgermi queste accuse pesantissime... Quale sarà il tuo prossimo passo?

Andare a parlare con Hillier?»

«Non ti lascerò cambiare discorso e spostare la conversazione sul nostro

rapporto, di cui sostieni di essere amaramente pentita. Va bene, ne prendo

atto. Da parte mia, posso dire che forse mettermi con te non è stata una

grande idea, ma stavamo vivendo entrambi un momento di estrema fragilità.»

«Non ho mai vissuto momenti di ’estrema fragilità’. E sono impermeabile

ai tuoi modi formali.»

«Va bene. Come vuoi. Ma non è questo il punto. Non stiamo parlando di

noi e della nostra relazione, ma del fatto che bevi troppo e non per sfuggire ai

problemi e allo stress come all’inizio, ma perché non puoi più farne a meno.

Pensi di riuscire a controllarti, ma non è vero, e dopo Ludlow dovresti

esserne consapevole. Hai bisogno di aiuto.»

«Non certo da te.»

«Non mi sto offrendo volontario. Ma non voglio neppure farmi da parte e

assistere alla rovina tua e di quelli che ti stanno intorno. Gestisci il tuo

alcolismo come meglio credi, ma non prendertela con Barbara Havers. Perché

sappi che, se la farai trasferire altrove per ripicca, io non resterò a guardare.

Farò qualcosa che a te non piacerà.»

Si voltò per andarsene, ma le parole di Isabelle lo costrinsero a fermarsi.

«Non ti azzardare a minacciarmi.» Lynley si girò nuovamente per

guardarla in faccia. Isabelle proseguì gelida: «Sai a che cosa potrebbe

portarmi l’ultima frase che hai detto? Ti rendi conto che Hillier non vede

l’ora di sbarazzarsi di te, oltre che di Barbara? O ti illudi che un titolo

nobiliare ammuffito possa metterti in qualche modo al riparo? Hillier non

vede l’ora che tu commetta un errore per poterti scatenare contro l’inferno,

perché è invidioso della tua bella casa londinese e della tua fatiscente tenuta

in Cornovaglia, perché vorrebbe avere anche lui un titolo nobiliare oltre al

suo stupido ’cavaliere’ ed è convinto che tu, essendo un gradino sopra di lui

nella gerarchia delle insulsaggini, possa rallentare la sua ascesa a... cos’è che

vuole diventare? Baronetto?»

«Isabelle, devi...»

«Non dirmi cosa devo o non devo fare. Non sta a te.» Fece un gesto a


indicare l’ufficio in cui si trovavano, la conversazione in cui erano impegnati.

«Ti conviene credermi se ti dico che questo è esattamente ciò che Hillier sta

aspettando da te» proseguì. «Un imperdonabile atto di insubordinazione che

renda impossibile la tua permanenza nella Metropolitan Police. Basta che io

pronunci una parola... che riferisca ciò che ci siamo detti in questo ufficio...

una parola soltanto e...»

Lynley vide che Isabelle era scossa da un tremito convulso e aveva

bisogno di bere qualcosa. Aveva un aspetto così sofferente che quasi gli

venne voglia di aprire il cassetto della scrivania e prenderle una mignon di

vodka: era sicuro che ne avesse qualcuna nascosta lì dentro.

La guardò negli occhi. «Isabelle, ti parlo sia da collega che da amico: tu

stai male, hai paura, ma non sei l’unica, perché abbiamo tutti le nostre paure e

le nostre sofferenze, e cerchiamo di barcamenarci meglio che possiamo. Me

compreso, come tu ben sai. La modalità che hai scelto per far fronte ai tuoi

problemi, però, rischia di distruggere tutto ciò che hai di più caro e io voglio

essere sicuro che tu ne sia cosciente. Spero che tu faccia in modo che ciò non

succeda.»

Non aveva altro da dirle. Aspettò che lei replicasse, ma Isabelle rimase

zitta e dopo un po’ lui la salutò con un cenno del capo e se ne andò. Si fermò

un istante dietro la porta chiusa e sentì il rumore del cassetto che si apriva, ne

riconobbe il cigolio perché era stato seduto anche lui a quella scrivania

quando era sovrintendente facente funzioni in attesa che le alte sfere

decidessero chi mettere al posto di Malcolm Webberly, appena andato in

pensione.

Era il cassetto in basso a destra. Ci voleva un po’ di forza, per aprirlo, e si

rese conto che Isabelle faceva fatica. Poi sentì ciò che sperava di non sentire,

ovvero il rumore di un oggetto che veniva posato sul piano della scrivania,

seguito da un altro oggetto dieci, quindici secondi dopo. Isabelle avrebbe

fatto sparire entrambe le mignon nella borsetta, dopo averle svuotate.

Si guardò le scarpe e rifletté sulla situazione. Poi andò a cercare Barbara

Havers.


PARTE SECONDA

«Nulla ci inganna meglio delle bugie che

raccontiamo a noi stessi.»

RAYMOND TELLER,

illusionista della coppia Penn & Teller


15 MAGGIO

Wandsworth

Londra

Isabelle aveva passato la notte sul divano, anziché a letto, e quando si svegliò

aveva mal di schiena e il torcicollo, oltre che un terribile mal di testa. A

interrompere il suo sonno non furono né la sveglia né il televisore, che era

rimasto acceso tutta la notte, ma una sete insopportabile e il bisogno

impellente di andare al gabinetto.

Quando si fu tirata in piedi, si accorse di avere ancora addosso i vestiti che

si era messa per andare a cena con i figli a Maidstone. Erano stati da Pizza

Hut perché Isabelle era stata così incauta da lasciare a James e Laurence la

scelta del ristorante. Lei immaginava un posticino grazioso, i bambini

eleganti e lei con una mise raffinata, non code interminabili, tavolacci in

plastica, seggiole appiccicose, luci al neon e discussioni su aggiunta di olive,

funghi e altre porcherie. E, soprattutto, non immaginava che Bob e Sandra

volessero a tutti i costi accompagnarli e si sedessero abbastanza distanti da

non sentire che cosa si dicevano Isabelle e i bambini, ma abbastanza vicini da

osservare le loro interazioni e intervenire nel caso fosse successo qualcosa

che non gradivano.

Portare i figli a mangiare fuori una sera era il minimo che Bob e Sandra

dovevano concederle, aveva insistito Isabelle. Avevano vinto su tutti i fronti:

i bambini sarebbero partiti e lei li avrebbe persi per sempre. Aveva voglia di

spiegare personalmente a James e Laurence che i loro rapporti con la mamma

da lì in avanti sarebbero stati diversi e lo aveva fatto presente a Bob.

Alla fine aveva deciso di non portarlo in tribunale. Una lunga e

approfondita telefonata da parte dell’avvocato di Bob a Sherlock Wainwright

l’aveva indotta a desistere. Bob aveva astutamente aspettato fino a poterle

dire «non mi lasci altra scelta, Isabelle» e a quel punto aveva svelato al

proprio legale una serie di assi nella manica che questi aveva prontamente


riferito a Sherlock Wainwright, il quale non era stato affatto contento di

scoprire ciò che Isabelle gli aveva tenuto nascosto.

Con il tono severo di un preside, le aveva detto per telefono: «Pertanto lei

può riconoscere che la proposta di suo marito è il massimo che può sperare di

ottenere, date le circostanze, oppure mandarmi a quel paese e trovarsi un altro

avvocato. La realtà però è questa e qualunque legale la rappresenti prima o

poi ci si scontrerà. Il mio consiglio spassionato è di accettare i termini della

proposta del suo ex marito e risparmiare i soldi che spenderebbe in avvocati

per poter andare più spesso in Nuova Zelanda a trovare i suoi figli».

Isabelle avrebbe voluto continuare a battersi, ma sapeva che Bob aveva il

coltello dalla parte del manico. Glielo aveva messo in mano lei, peraltro. Che

cosa le restava, a parte la carriera che Bob minacciava di distruggerle se non

lo avesse assecondato? E così si era arresa, ma aveva preteso di portare fuori

a cena i gemelli. Erano finiti al Pizza Hut di Maidstone.

Le pareva quasi di sentire le parole con cui Bob aveva cercato di

influenzare i bambini sulla scelta del ristorante. «La mamma vi vuole portare

nel posto che vi piace di più. Il migliore dei migliori, secondo voi» aveva

quasi sicuramente detto, sapendo che cosa avrebbero scelto. Voleva farli

andare al Pizza Hut perché al Pizza Hut non servivano vino, birra e meno che

mai vodka.

I bambini erano a disagio, nonostante sembrassero conoscere benissimo il

locale. Laurence si contorceva come se avesse le mutande troppo strette e

James continuava a lanciare occhiate verso Bob e Sandra, come per

implorarli di correre in suo soccorso. Isabelle aveva fatto il possibile per

tenere viva la conversazione, parlando di tutte le cose che avrebbero fatto

insieme quando fosse andata a trovarli in Nuova Zelanda, chiedendo loro

della scuola che avrebbero frequentato e cosa sapessero del Paese nel quale

stavano per trasferirsi. Non c’erano animali velenosi, lo sapevano? C’erano

un sacco di opossum pelosi, però: ne avevano mai visto uno? E poi in Nuova

Zelanda si poteva fare surf e nuotare con i delfini, e c’era una spiaggia con

sorgenti termali sotterranee, in cui se scavavi un buco nella sabbia si riempiva

di acqua calda. Erano contenti di andare ad abitare lì?

Alle sue domande rispondeva soltanto Laurence, perché James stava a testa

bassa oppure guardava verso Bob e Sandra. Dopo un po’, esasperata, Isabelle

aveva battuto una mano sul tavolo e gli aveva chiesto bruscamente di prestare

un po’ di attenzione a lei, santo cielo! James allora era scoppiato a piangere e


Sandra era accorsa in suo aiuto. «Tranquillo, tesoro, c’è qui la tua mamma.»

Isabelle si era infuriata al punto che aveva temuto le partisse un embolo.

Sandra aveva preso in braccio James e gli aveva detto che la mamma lo

portava a casa, di non preoccuparsi. Isabelle aveva capito che protestare

avrebbe solo creato ulteriore scompiglio e le si sarebbe ritorto contro.

Sandra era andata via tenendo per mano il bambino scosso da un pianto

disperato e Bob era rimasto lì temendo che lei piantasse una grana di fronte a

Laurence, il quale, come suo solito, aveva fatto da paciere. Le aveva spiegato

che James era solo «un po’ preoccupato della scuola neozelandese, perché era

il più lento della classe e i suoi compagni lo prendevano in giro». Quando

Isabelle aveva ribattuto che James non era lento, Laurence aveva replicato:

«Purtroppo sì, mamma».

Avevano finito di mangiare in fretta e Laurence aveva declinato l’offerta di

un dessert. Isabelle aveva capito che non vedeva l’ora di tornare a casa da

James e, se la serata non fosse stata un disastro completo, si sarebbe

rallegrata di quel livello di solidarietà e premura fraterna. Appena Laurence

aveva scostato il piatto, Bob era comparso al suo fianco. «Siamo pronti,

allora?» aveva detto allegro. Isabelle si era offerta di accompagnarli a casa

ma Bob aveva rifiutato. «Prendiamo un taxi, grazie.»

Mentre Laurence si incamminava verso l’uscita, Bob aveva avuto la grazia

di dirle: «Scusa per Sandra. È iperprotettiva nei confronti dei bambini. È

saltata su subito e non mi ha dato il tempo di fermarla».

Isabelle aveva stentato a digerire quelle scuse, provenienti dall’uomo che

le stava rovinando la vita. «È questo che mi devo aspettare, d’ora in poi?»

«In che senso?» le aveva chiesto Bob.

«Nel senso che non mi sarà concesso di passare del tempo in privato con i

miei figli, che dovrò restare ai margini della loro vita, esclusa dal ruolo di

madre, relegata a quello di estranea che ogni tanto si fa viva per rompere le

scatole?»

Bob aveva guardato Laurence che, come Isabelle sapeva benissimo, era in

ansia perché temeva litigassero. Poi si era rivolto di nuovo a lei. «Sei tu che ti

sei messa in questa situazione, non capisci?»

E senza nemmeno aspettare che lei rispondesse aveva raggiunto Laurence,

gli aveva poggiato una mano sulla spalla e lo aveva condotto fuori, per

cercare un taxi. Isabelle era tornata a Londra con la sensazione che un mostro

le avesse strappato a morsi le budella. Aveva stabilito che meritava una


piccola consolazione a parziale risarcimento della serata disastrosa e aveva

tirato fuori la vodka dal freezer, se ne era versata tre dita, ci aveva aggiunto

un po’ di succo di cranberry e si era andata a sedere sul divano con bottiglia e

bicchiere. Aveva acceso la televisione e aveva trovato un film in costume in

cui minatori con la faccia annerita scendevano sotto terra armati di piccozza

mentre un bellone dai pettorali marmorei mieteva grano a petto nudo. Si era

lasciata sprofondare fra i cuscini e aveva guardato il drammone senza vederlo

veramente e senza pensare, bevendo fino a obnubilare la mente.

La televisione trasmetteva il notiziario del mattino a un volume

insostenibile. Isabelle cercò il telecomando e lo trovò, inspiegabilmente,

dentro una scarpa. Spense mentre andavano in onda le previsioni del tempo e

si diresse faticosamente verso il bagno. Constatato lo stato impresentabile dei

capelli, il trucco sfatto e gli occhi rossi, si spogliò cercando con l’altra mano

il collirio nell’armadietto. Dopo un po’ lo trovò, ma non riuscì a metterselo

perché le tremava troppo la mano. Decise di fare una doccia.

Sotto il getto di acqua calda, si chiese che ore fossero e si rimproverò di

non aver controllato prima. Finì in fretta di lavarsi, lasciandosi

semplicemente scorrere l’acqua addosso sulla testa e lungo la schiena per la

maggior parte del tempo, e trovò l’orologio dopo lunghe ricerche. Lo aveva

lasciato nel freezer, al posto della bottiglia di vodka, che era rimasta invece

sul tavolino basso davanti al divano. Si impose di non guardarla e di non

pensarci e andò a vestirsi in camera da letto.

Poi tornò nel bagno e si applicò fondotinta e fard senza problemi. Quando

riprovò a mettersi il collirio e a truccarsi palpebre e ciglia, tuttavia, il tremito

si ripresentò e fu costretta ad ammettere che la doccia non era servita a nulla.

Decise perciò di porre rimedio nell’unica maniera possibile. Era solo per

bloccare il tremore e rendersi presentabile per il lavoro, si disse. E poi se lo

meritava: la sera prima con James e Laurence non aveva bevuto neanche un

goccio. In qualche modo, se lo doveva.

Chalk Farm

Londra

Barbara era contenta di poter tornare alle tortine, dopo le colazioni malsane di

Ludlow. Già solo le uova le avevano certamente alzato il colesterolo, per non


parlare della pancetta, del pane e burro e poi i funghi, i fagioli, la

marmellata... Era un miracolo che fosse sopravvissuta abbastanza a lungo da

potersi tostare una tortina cioccolato e caramello. La accompagnò a un tè PG

Tips con latte e due zollette di zucchero. Senza il minimo senso di colpa, si

accese la prima sigaretta della giornata godendosi quel momento di

beatitudine. Non era ancora sveglia del tutto, decise: aveva bisogno di

qualcosa di più. La sera prima era stata un’esperienza epica: cena con Kaz e

Dorothea dopo la lezione di tip tap.

Quando aveva capito che Kaz sarebbe uscito con loro, aveva cercato di

svicolare. Era convinta che fosse la cosa giusta da fare: dopo tutto Dorothea

si era presentata alla lezione con un abbigliamento degno di Catwoman e

Barbara era sicura di non essere l’unica del gruppo a pensare che la tutina

aderentissima dalla scollatura vertiginosa fosse una scelta finalizzata a far

colpo sull’istruttore.

Dorothea però non aveva voluto sentire ragioni: Barbara doveva

accompagnarla per forza, erano una squadra e quindi dove fosse andata l’una

sarebbe dovuta andare anche l’altra. Nel caso specifico, Barbara doveva

cenare con Dorothea. E con Kaz.

Era venuto fuori che Dorothea aveva un secondo fine e che quel secondo

fine riguardava l’audizione per il saggio di danza di luglio: come prevedibile,

infatti, aveva eseguito una prova impeccabile, ma Barbara non altrettanto e di

conseguenza era stata relegata a una coreografia di gruppo cui comunque non

aveva alcuna intenzione di partecipare. Dorothea era stata affiancata alla

talentuosa e determinata Umaymah. Barbara aveva cercato di mascherare

l’enorme sollievo e aveva detto a Dorothea, fingendosi delusa: «Meglio così,

alla fine». Dorothea non se l’era bevuta.

E l’aveva voluta a tutti i costi portare a cena. A tavola, aveva spiegato a

Kaz che la sua coreografia richiedeva una quantità di ancheggiamenti e

sculettate che difficilmente avrebbero riscosso l’approvazione del marito di

Umaymah, per non parlare di suo padre, dei suoi fratelli e degli altri uomini

della famiglia. Barbara l’aveva guardata come a dire: Quale coreografia?

Dorothea però aveva finto di non essersene accorta e aveva rivolto gli

occhioni celesti all’istruttore per sfoderare un sorriso che poteva solo

significare: Vieni a me, mio prediletto.

Barbara aveva cercato di togliere il disturbo in due occasioni. Le era chiaro

che, perlomeno agli occhi di Kaz, era la quinta ruota del carro. Dorothea


glielo aveva impedito entrambe le volte e aveva lasciato che si allontanasse

dal tavolo soltanto quando Barbara le aveva fatto notare che, se avesse

continuato a impedirle di andare alla toilette, avrebbe messo in imbarazzo

tutti facendosela addosso. Una volta ottenuto il permesso di alzarsi dal posto

che Dorothea le aveva assegnato – schiacciata fra il tavolo e il muro, tanto

che per districarsi aveva dovuto far alzare i suoi commensali e quelli del

tavolo vicino – Barbara si era data alla fuga. Aveva avvertito Dorothea con

un sms soltanto dopo essere salita sulla metropolitana: «Mi sono venuti i

piedi piatti. Kaz vuole restare solo con lei. Faccia la brava, mi raccomando».

Nonostante la fuga, era arrivata a casa più tardi del previsto e la prospettiva di

esibirsi in pubblico con le scarpette da tip tap le aveva messo un’ansia tale

che per prendere sonno aveva dovuto sfogliare la sua copia consunta del

Bartlett’s Familiar Quotations nella sezione dedicata a Shakespeare,

cercando nuove citazioni sull’omicidio. Fino a quel momento si era limitata

alle tragedie e ultimamente aveva letto quelle tratte dall’Otello, pur dubitando

di trovarsi in una situazione che le consentisse di declamare «tua figlia e il

Moro stanno facendo la bestia a due groppe» o «io presi per la gola il cane

circonciso e lo finii così». Meditando su questo, si era finalmente

addormentata, ma pochissimo tempo dopo le cannonate della 1812 l’avevano

buttata giù dal letto.

Stava finendo le briciole della seconda tortina quando le squillò il cellulare,

che aveva lasciato sul tavolino accanto al divano letto su cui ogni notte dava

appuntamento a Morfeo. Lo guardò male sperando che smettesse di

riproporle l’attacco della sigla di Ai confini della realtà. Dopo dieci secondi

la musichetta smise, ma cinque secondi dopo riprese. Temendo che la cosa si

ripetesse senza soluzione di continuità fino al suo ingresso in ufficio, Barbara

si alzò da tavola e andò a rispondere.

Dorothea Harriman era affannata. «Sergente investigativo Havers?»

«Se si aspettava di parlare con qualcun altro, devo darle una delusione»

rispose Barbara. «È stata una notte di fuoco?»

«Volevo avvisarla, Barbara: è furibonda» rispose Dorothea sottovoce.

«Di chi stiamo parlando?»

«Di Sua Eccellenza: e di chi altro? Vuole vederla subito.»

«Sa perché?»

«No. So solo che ha a che fare con il vicecommissario. Sinceramente,

preferisco non sapere altro.»


Barbara chiuse la chiamata. Una convocazione immediata nell’ufficio del

sovrintendente Ardery non era di buon auspicio, come inizio di giornata.

Imprecò fra sé e sospirò. Poi infilò nel tostapane una terza tortina.

Victoria

Londra

La scelta migliore per arrivare in poco tempo in Victoria Street da Chalk

Farm non esisteva: Barbara poteva lasciarsi stritolare dal traffico oppure

affidarsi alla notoriamente inaffidabile Northern Line. Per non pagare la

congestion charge optò per la metropolitana e percorse la strada che separava

casa sua dalla stazione di Chalk Farm con il piglio di un marciatore olimpico.

L’attesa in stazione fu sgradevole e la quantità di gente che aspettava il

treno ancora di più, ma il peggio fu senza dubbio il viaggio su un treno

affollatissimo che sarebbe stato il sogno di qualunque terrorista. I pendolari si

ignoravano come al solito e sgomitavano in cerca della postazione migliore

come gattini in cerca della tetta, ma contemporaneamente scrivevano sul

cellulare, leggevano il giornale oppure ascoltavano musica con gli auricolari.

Barbara si ritrovò accanto a un tizio che stava mangiando un sandwich con le

sardine.

Impiegò quasi un’ora ad arrivare alla stazione di St. James’s Park. Corse in

strada e si diresse a passo svelto verso il complesso grigio di New Scotland

Yard, che si ergeva dinanzi a lei come un monolite. Prima di entrare dovette

sottoporsi ai consueti controlli, code infinite, raggi X, altre code,

perquisizioni che diventavano più complesse ogni anno che passava.

Finalmente raggiunse gli ascensori.

Stava correndo verso l’ufficio di Isabelle Ardery quando il sovrintendente

fece capolino dalla porta e ringhiò a Dorothea: «Mi sembrava di averle detto

di convocarla immediatamente. Dove diavolo è?» Prima che Dorothea

potesse replicare, vide Barbara. «Venga» le ordinò, poi fece dietrofront e

rientrò in ufficio.

Barbara e Dorothea si scambiarono un’occhiata. «Quando è arrivata, il

vicecommissario la stava aspettando. Avevano la porta chiusa, ma li ho

sentiti alzare la voce» mormorò Dorothea.

Maledizione, pensò Barbara.


Entrò senza sapere che cosa aspettarsi, temendo di trovarsi di fronte Hillier

nella sua versione peggiore, ma il sovrintendente Ardery era sola. «Chiuda la

porta!» la apostrofò in piedi dietro la scrivania.

Barbara eseguì all’istante.

Mentre quest’ultima si avvicinava, Isabelle prese in mano una cartellina.

«Si sieda» ordinò, e quando Barbara si accomodò sulla sedia davanti alla

scrivania, le lanciò addosso la cartellina. «Lei qui ha finito» decretò. «Firmi.»

Barbara la guardò sgomenta. «Cos’è successo?»

«Firmi e si tolga dai piedi. Svuoti la sua postazione e stia attenta a prendere

soltanto ciò che le appartiene. Se le trovo addosso una graffetta non sua,

sappia che...»

«Mi dica che cosa è successo!» la interruppe Barbara.

«Stia zitta e firmi quel foglio. Deve essere contenta che sia solo un

trasferimento e non ciò che meriterebbe, e cioè il licenziamento. Se fosse in

mio potere, farei in modo che nessuna forza di polizia al mondo la assumesse

neppure come lavacessi. Le è chiaro il concetto?»

«No!» urlò Barbara. Intuiva che doveva essere successo qualcosa di

terribile, ma non aveva la minima idea di cosa potesse essere. «Ho fatto tutto

quello che mi ha chiesto. Ha ammesso lei stessa che ho... che non ho...» si

difese. Aveva perso il filo del discorso, tanto era confusa. Si impose di

mantenere il controllo. «Se vuole che firmi la domanda di trasferimento»

disse, «mi deve almeno spiegare perché. So che Hillier la aspettava al varco

stamattina e deduco che sia successo qualcosa di...»

«Mi ha sentito?» Isabelle aprì il cassetto della scrivania, prese una

manciata di penne e gliele lanciò addosso. «L’ha fatta veramente grossa,

sergente, e lei è specializzata nel farle grosse. Ma le assicuro che questa è

l’ultima volta che mi...»

«Non è vero! Cos’ho fatto? Me lo dica!»

«Le ho detto di firmare quel foglio!» Isabelle fece il giro della scrivania,

raccolse una delle penne che erano cadute per terra, prese la mano di Barbara

e gliela fece impugnare. Poi spinse più vicino al tavolo la sedia su cui era

seduta. «Metta la sua firma su quel modulo! O ha intenzione di disubbidire

anche a quest’ordine? Perché lei fa sempre di testa sua, crede di essere

onnisciente, Dio sceso in terra. Indipendentemente da ciò che le viene

chiesto, da come le viene chiesto e da quando le viene chiesto, con supremo

disprezzo delle regole, se lei non è d’accordo, se la cosa non le piace o non la


vuole fare, lei si rifiuta. Adesso firmi!» urlò.

«Ma non... La smetta!» Barbara spinse via Isabelle e fece per alzarsi, ma

Isabelle la costrinse a tornare a sedersi. «Basta! Mi ha stufato! Nessuno ne

può più di lei! Pensava di passare inosservata? Pensava di riuscire a farla

franca? È davvero così ottusa?» strillò.

«Inosservata? Farla franca? Mi vuole dire che cosa...»

Inaspettatamente, si intromise una voce. «Lasciala stare, Isabelle. Non ha

fatto niente».

Si voltarono entrambe e videro che Lynley si era unito a loro. «Chi ti ha

autorizzato a entrare? Vattene immediatamente, altrimenti ti farò trascinare

via a forza da...» gridò Isabelle.

«Non è stata Barbara» disse Lynley con la massima calma, com’era suo

uso e costume. «Non sa di cosa parli.»

«Non schierarti dalla sua parte.»

«Non sarebbe in grado di parlare neanche sotto tortura» insistette Lynley.

«Gliel’ho mandato io.»

«Che cosa ha mandato?» urlò Barbara. «A chi? Cosa?»

«Il primo rapporto che ha scritto» rispose Lynley. «Quello che il

sovrintendente le ha fatto correggere. L’ho mandato io a Clive Druitt, di cui

non ho fatto fatica a trovare l’indirizzo. Suppongo che Druitt sia andato dal

suo deputato di riferimento, il quale a sua volta deve aver contattato Hillier.

Ci accusano di aver insabbiato il caso o di essere dei perfetti incompetenti.»

Poi si rivolse a Isabelle. «Quale delle due, sovrintendente Ardery?»

La risposta di Isabelle fu di gelida rabbia. «Scendi dal piedistallo,

presuntuoso che non sei altro. Ti rendi conto di quello che hai scatenato?»

Invece di rispondere a Isabelle, Lynley si rivolse a Barbara. «Forse è

meglio che ci lasci soli, sergente».

«Lei non va da nessuna parte!» urlò Isabelle. «Non abbiamo ancora finito.»

Lynley, che era rimasto vicino alla porta, a quel punto si avvicinò a

Isabelle e la guardò dritto negli occhi. A Barbara sembrò che l’elettricità che

scorreva fra loro fosse sufficiente a far funzionare un frigorifero per un mese.

«Come dicevo, Barbara non ne sa niente» disse Lynley in tono assolutamente

ragionevole. «Mi ha dato il rapporto perché lo leggessi e mi ha confidato le

proprie perplessità riguardo alla parte che le avevi chiesto di espungere.

Voleva la mia opinione e io gliel’ho data.»

«Me lo immagino!» esclamò sdegnata Isabelle. «E che opinione si era fatto


il sommo Lord Asherton, nella sua smisurata superbia?»

«Mi ha detto che dovevo fare quello che mi aveva ordinato lei,

sovrintendente» si affrettò a precisare Barbara. «E io ho corretto il rapporto.

Gliel’ho consegnato, no? Togliendo la parte che riguardava...»

«Andatevene, tutti e due! Via da qui!»

Isabelle tornò dietro la scrivania e Barbara decise di non aver bisogno di

ulteriori inviti per levare le tende. Si alzò, mise un piede su una delle penne

che le aveva lanciato contro il sovrintendente e scivolò. Lynley la sorresse,

impedendole di cadere, e Barbara scattò rapida verso la porta in cerca di

acque più tranquille mentre Lynley diceva: «Cerca di capire, Isabelle, che ci

sono dei motivi per cui...»

Barbara chiuse la porta mentre Isabelle gridava: «Tu non ti rendi conto di

quello che hai fatto! Ma non te ne importa nulla, vero? A te importa solo la

tua visione del mondo, perché ti credi un essere superiore in quanto

aristocratico, ma sei insopportabile!»

Con la porta chiusa, Barbara non riuscì a decifrare la risposta di Lynley.

Colse però la replica di Isabelle, perché fu pronunciata a un volume

esageratamente alto. «Non mi dare colpe che non ho! Non ci provare

nemmeno! Ti immischi nelle faccende altrui perché la tua vita... la tua

miserabile vita... La famiglia in cui sei nato che ti ha agevolato in qualsiasi

cosa decidessi di fare...»

Altro borbottio di Lynley, seguito da: «Non voglio sentire un’altra parola.

Sparisci, prima che chiami la sicurezza. Mi hai sentito? Sei diventato sordo?

T’ho detto di andartene!»

Barbara scappò e vide che Dorothea stava facendo lo stesso.

Victoria

Londra

Andò a rifugiarsi nella toilette con il cuore a mille. Aveva bisogno di un

attimo per riprendersi. Anche un po’ di più. Tutta la mattina, magari. Aveva

una voglia matta di fumare, ma non voleva rischiare. In un altro momento

magari ci avrebbe provato, soffiando il fumo nel gabinetto e sperando di

occultare il reato tirando ripetutamente lo sciacquone, pur sapendo che non

era sufficiente. Date le circostanze, però, accendersi una sigaretta lì sarebbe


stato un suicidio. Aprì il rubinetto e meditò se mettere la faccia sotto il misero

getto.

Era sconvolta da ciò che aveva fatto Lynley. Non era la prima volta che

metteva la propria carriera sull’altare del sacrificio, ma era sicuramente la

prima volta che agiva in maniera subdola. Lynley non era subdolo. Era più il

tipo da lanciare il guanto di sfida con gesto plateale. Probabilmente era per

via delle sue nobili origini, nelle vene gli scorreva sangue blu. Chissà come

avrebbe reagito il vicecommissario nell’apprendere che era stato Lynley a

spedire a Clive Druitt il rapporto in versione originale, si chiese.

Probabilmente gli sarebbe venuto un colpo apoplettico.

Non appena si fu ripresa nella quiete della toilette, tornò alla scrivania e si

rese conto del fermento generale. Lynley era tornato nel suo ufficio, con la

porta aperta, imperturbabile come al solito. Barbara lanciò un’occhiata al

sergente Winston Nkata, che piegò la testa di lato e alzò le spalle. Raggiunse

Lynley.

L’ispettore investigativo stava per fare una telefonata, ma quando vide

Barbara sulla porta si bloccò. Inarcando un sopracciglio le chiese con grande

pacatezza che cosa desiderasse. «Ispettore, io non... Perché l’ha fatto?

Potrebbe... voglio dire... non è una...» rispose lei.

Lynley le rivolse un mezzo sorriso. «È la prima volta che rimane senza

parole da quando la conosco, Barbara.»

«Perché l’ha fatto?»

Lynley alzò una mano e poi la riabbassò. Era un suo gesto tipico, che

significava: Cos’altro potevo fare? In realtà Barbara avrebbe potuto

elencargli un bel po’ di altre cose che avrebbe potuto fare. «Allora?»

«Verrà fuori tutto, sergente. Tutto quanto. Isabelle – il sovrintendente

Ardery – ne è consapevole, mi creda» rispose Lynley.

Barbara annuì. Aveva capito. Lynley non stava parlando soltanto delle due

versioni del rapporto.

Victoria

Londra

Era passato da poco mezzogiorno quando Lynley ricevette il messaggio che

aveva previsto. Era sorpreso che non fosse arrivato prima: pensava di avere


appena il tempo di rientrare in ufficio prima che Judi MacIntosh, novello

arcangelo Gabriele senza la tromba, gli facesse giungere la voce dalle alte

sfere. Invece al Tower Block era cominciato tutto con la convocazione del

vicecommissario da parte del commissario. Judi, che faceva da segretaria a

entrambi, riferì a Lynley in tono sommesso, da confessionale, che si era

trattato di un lungo colloquio a porte chiuse. Al termine, Hillier aveva

richiesto in tono adirato di chiamare immediatamente Lynley e lei aveva

pensato di agevolare l’ispettore inventandosi che Lynley al momento non si

trovava al Victoria Block. Lo aveva fatto perché, a suo avviso, Sir David

aveva bisogno di un’oretta per sbollire. E di conseguenza aveva aspettato a

informarlo che Dorothea Harriman l’aveva avvertita del presunto ritorno di

Lynley in ufficio. Judi concluse chiedendo a Lynley il permesso di informare

Hillier che stava per raggiungerlo. Ora? Lynley promise di andarci subito.

Isabelle doveva aver parlato con Hillier. Poiché le fiamme ormai le

lambivano i piedi, era naturale che si adoperasse perché anche Lynley venisse

messo al rogo. Se Hillier aveva la schiuma alla bocca e una gran voglia di

metterle le mani al collo – «Vacci piano con le metafore!» si disse Lynley –

per cercare di salvarsi, Isabelle non poteva fare altro che prendersela con chi

aveva spedito il rapporto a Clive Druitt.

Non poteva biasimarla. Non poteva neanche accusarla di aver sbagliato,

dicendo a Barbara di togliere dal rapporto ogni riferimento ai giorni trascorsi

fra la denuncia anonima e il fermo, da cui si poteva inferire che sulla presunta

pedofilia di Ian Druitt qualcuno avesse indagato o avrebbe dovuto indagare.

Forse non era un fatto rilevante ai fini del mandato che era stata chiamata a

svolgere nello Shropshire, ma era comunque rilevante perché un uomo era

morto mentre si trovava in stato di fermo. E di conseguenza, secondo Lynley,

andava specificato nel rapporto.

Quando entrò nell’ufficio, il vicecommissario gli indicò con un cenno del

capo una sedia. «Mi aiuti, ispettore: sto cercando di capire quale fra i

numerosi cumuli di letame in cui siamo immersi rappresenti la peggior

castroneria commessa in queste ultime settimane. Lei cosa ne pensa?»

Hillier non era tipo da chiedere lumi a un sottoposto. Per carattere, prima

sganciava la bomba e poi si interrogava sulla precisione del lancio. Lynley

sapeva che il vicecommissario si aspettava che lui desse la risposta sbagliata

e gli fornisse un pretesto per fare ciò che aveva comunque già deciso di fare.

Il problema era capire che cosa avesse deciso di fare Hillier. Lynley non era


preoccupato tanto per sé, quanto per Barbara.

«È stato informato del fatto che ho mandato a Clive Druitt il rapporto del

sergente Havers prima che lo correggesse, vedo» disse.

«Holmes, lei mi meraviglia» rispose Hillier sardonico, senza cambiare

espressione.

«Ero d’accordo con il sergente Havers.»

«Mi sta dicendo che spedire il rapporto a Druitt è stata un’idea del sergente

Havers?»

«No. Lei non ha neanche nominato il signor Druitt. Mi ha espresso le sue

perplessità riguardo all’opportunità di modificare il rapporto come da ordini

ricevuti e mi ha chiesto un parere. Per poterglielo dare, ho dovuto leggere

entrambe le versioni del rapporto. Mi sembra ovvio che la questione dei

diciannove giorni fra la denuncia anonima e il fermo di Ian Druitt andasse

approfondita. Faceva parte del nostro accordo.»

«Infatti.» Hillier non lo disse come se approvasse il ragionamento di

Lynley, ma come se stesse semplicemente seguendo il suo filo logico.

«Secondo Barbara, o la commissione per i reclami contro la polizia ha

notato che era passato del tempo fra la denuncia e il fermo e non l’ha ritenuto

rilevante, oppure – ed è più probabile – non l’ha notato proprio. Sono

d’accordo con lei e mi sembra che ometterlo rischi di peggiorare

ulteriormente la situazione.»

«Lei dice?»

«Cosa, signor vicecommissario?»

«Che rischia di peggiorare la situazione. Nel qual caso, mi chiedo come

mai non sia andato a esternare le sue preoccupazioni al suo diretto superiore.»

Hillier intrecciò le dita sulla scrivania e Lynley notò che aveva le unghie

curatissime e un anello d’oro con sigillo. Resse lo sguardo di Hillier e pensò

che quell’ufficio era veramente silenzioso, con la porta chiusa. Vi regnava

una quiete da chiesa, rotta soltanto dalla sirena di un’autoambulanza che

passava.

«È stata Isabelle Ardery a impartire quell’ordine. Di fatto non ha lasciato

alternative al sergente Havers. Un uomo è morto in stato di custodia cautelare

e...»

«Crede che non ne sia al corrente?» lo interruppe burbero Hillier.

«... e io credo che suo padre meriti di sapere che cosa è effettivamente

successo. O, nel caso specifico, che cosa non è successo e cioè che nessuno


ha prestato attenzione all’intervallo di diciannove giorni fra la denuncia e il

fermo, nessuno ha neppure specificato che c’era stato. Non potevamo non

scriverlo nel nostro rapporto.»

Lynley avrebbe potuto proseguire, sottolineando che la testardaggine con

cui Isabelle si era rifiutata di riconoscere l’importanza di quella cosa, o anche

solo l’esistenza del problema, era preoccupante, ma non voleva che né

Barbara Havers né Isabelle subissero le conseguenze di un gesto che aveva

scelto lui di fare.

Non lo rassicurò vedere che Hillier si alzava per andare alla finestra a

guardare fuori. Da dove era seduto, Lynley vedeva soltanto il cielo azzurro,

ma Hillier aveva modo di ammirare il verde oltre i palazzi lungo Birdcage

Walk.

«Quella donna ha fatto una cazzata monumentale» commentò Hillier.

«Mi permetta, ma non sono d’accordo» ribatté pronto Lynley. «Ha cercato

fin dall’inizio di chiarire i punti oscuri in modo tale che, se la cosa fosse finita

in tribunale, noi fossimo...»

«Non mi riferivo a Barbara Havers» lo interruppe Hillier. «Che pure è la

regina delle cazzate monumentali. No, mi riferivo a Isabelle Ardery. È stata

colpa sua. Le assicuro che mi costa fatica ammettere che stavolta il sergente

Havers non ha responsabilità nel pasticcio in cui è coinvolta. Non sappiamo

cosa sia successo al sovrintendente, ma vogliamo andare a fondo alla

questione.»

Lynley notò con un certo sgomento l’uso del noi, ma sperò che si trattasse

di un plurale maiestatis. Stette zitto in attesa che Hillier chiarisse.

«Sono stato un idiota a confermarle l’incarico a tempo indeterminato.

Adesso licenziarla sarebbe un incubo. Strozzerei Malcolm, se fosse qui.»

Lynley seguì il ragionamento del vicecommissario fino alla sua logica

conclusione: Malcolm era Malcolm Webberly, che occupava la poltrona di

sovrintendente prima di Isabelle e aveva deciso di andare in pensione

anticipata a seguito di un omicidio stradale. La carica era stata offerta

anzitutto a Lynley, che però aveva rifiutato, quindi l’attuale distribuzione

delle cariche era la conseguenza di una scelta di Lynley. In quel momento la

situazione era assai precaria e Lynley si sentì male al pensiero di poter essere

la causa del licenziamento di Isabelle.

«Il suo modo di vedere le cose non era scorretto, comunque» disse.

Hillier si voltò. Avendo la finestra alle spalle, era controluce e Lynley non


riusciva a vedere la sua espressione. «Il modo di vedere le cose di chi?»

domandò Hillier.

«Del sovrintendente Ardery. Secondo lei, lo scopo della missione nello

Shropshire era verificare il rapporto della commissione per i reclami contro la

polizia e stop. Il rapporto edulcorato...»

«La prego di evitare certi termini, ispettore. La situazione è già abbastanza

critica.»

«Il secondo rapporto di Barbara Havers lo evidenzia: il mandato ricevuto

dal sovrintendente si limitava a quello.»

Hillier tornò a sedersi, giocherellò un momento con la penna che aveva

davanti. «Non può tenere il piede in due scarpe, ispettore. O lei ha sbagliato a

spedire il rapporto nella versione originale, o ha sbagliato Isabelle Ardery a

ordinare al sergente Havers di correggerlo. Quale sceglie?»

Bella trappola, pensò Lynley. «Dipende dai punti di vista» rispose.

«Lei quale sceglie, ispettore?»

«Non si tratta di scegliere. Esistono entrambi.»

Hillier sbuffò. «Lei è proprio un bel tipo, sa?»

«Mi scusi?»

«Ha sempre la risposta pronta. Anche in questa situazione, che ha portato

un parlamentare a presentare un reclamo contro la polizia che sfocerà quasi

certamente in un’azione legale più o meno pretestuosa. Sono riuscito a

ottenere altri dieci giorni di tempo, ma se non riusciremo a produrre risultati

soddisfacenti... qualche testa cadrà. Mi sono spiegato?»

Lynley non era per nulla contento di come si stavano mettendo le cose.

«Risultati soddisfacenti?» chiese. «A che cosa si riferisce?»

«Al lavoro che lei dovrà svolgere, ispettore. Credeva di potersi

immischiare in questa faccenda e poi lavarsene le mani?»

Lynley capì dove voleva andare a parare Hillier e si rese conto di essersela

cercata. Provò comunque a svicolare. «Mi scusi, ma ho già dovuto annullare

le ferie quando...»

Hillier scoppiò in una sonora risata. «Crede che mi importi qualcosa delle

sue ferie?» Non aspettò risposta. «Ci andrà lei nello Shropshire, ispettore

Lynley, e spalerà via tutto il letame che si è accumulato, a costo di farlo con

un cucchiaino da tè. Le è chiaro? Il sergente Havers verrà con lei. Se fra tutti

e due non riuscirete a risolvere questo pasticcio nell’arco di otto giorni,

tenuto conto che uno se ne andrà per il viaggio e uno per redigere il rapporto,


ne risponderete a me. Sia voi due sia il sovrintendente Ardery. Sono stato

chiaro?»

Non c’era nulla da dire. «Chiarissimo» rispose Lynley.

«Mi fa piacere. Può andare, ispettore. Non voglio sapere niente finché non

avrete risolto. In maniera soddisfacente, ripeto. A mio insindacabile

giudizio.»


16 MAGGIO

Ludlow

Shropshire

Non c’era un solo aspetto della sua vita ancora integro. Si sentiva come uno

specchio infranto da una pietrata, percorso da centinaia di crepe che partivano

tutte dallo stesso punto. Ding faceva talmente fatica a tirarsi giù dal letto la

mattina che certe volte non si alzava nemmeno. E la causa di tutto era stata

lei, quindi non aveva neppure l’illusoria consolazione di potersela prendere

con qualcun altro.

Aveva messo in chiaro con Brutus che se il loro era un rapporto di amicizia

«privilegiata», anche lei poteva frequentare altre persone. Finn, per esempio.

Ding era ubriaca, lui era fumato e l’incontro era stato disastroso sotto tutti i

punti di vista. Ma, come lei sperava, la mattina dopo Brutus aveva incrociato

Finn mentre usciva da camera sua e il commento di Finn – «Pure io, Brucie»

– non necessitava di ulteriori spiegazioni poiché Finn era nudo, lo aveva detto

ridendo e aveva accompagnato la frase con un’eloquente mossa del bacino.

«Anche a te Ding fa certe cose? E tu vai con le altre?» aveva aggiunto, nel

caso Brutus non avesse capito.

Quella stessa sera Brutus aveva portato a casa Allison Franklin. L’aveva

preceduta lungo le scale e lei si era prodotta in risate e gridolini, aveva fatto

la ritrosa ma al momento di salire aveva lanciato un’occhiata trionfante verso

il salotto, dove Ding stava cercando di sintonizzare meglio il televisore

antidiluviano che aveva portato lì mesi prima da Cardew Hall. Finn era con

lei e credeva di aiutarla brontolando che le femmine sono negate per la

tecnologia e insistendo perché lasciasse fare a lui.

Ding aveva sentito aprire la porta d’ingresso, l’aveva sentita chiudere e

aveva riconosciuto la voce sommessa di Allison Franklin che diceva: «Non

ce la faccio, Bruce. Sul serio. Con lei in casa non ce la posso fare». Ding si

era sforzata di ignorarli, ma era stato impossibile, specie perché Finn aveva


urlato ai due mentre salivano le scale: «Silenziate gli orgasmi, per cortesia.

Cercheremo di tenere basso il volume pure noi».

Gli occhi di Ding avevano incontrato quelli di Brutus. Lui era rimasto

impassibile e lei aveva fatto la faccia indifferente. Li aveva sentiti salire e

chiudersi in camera e non li aveva più rivisti fino al giorno dopo.

Non si aspettava di soffrire così tanto. L’unica era provare a distrarsi e la

distrazione più facile le bussava alla porta quasi ogni sera, dopo la prima

notte. Ogni volta lei apriva e faceva in modo che Finn se ne andasse

soddisfatto e tornasse la sera successiva.

Dopo la terza volta, Brutus gliene aveva parlato. Non a casa, ma in Castle

Square. Ding stava andando a lezione per cui Brutus aveva avuto poco tempo

per dirle ciò che le voleva dire, per fortuna.

«Dobbiamo parlare, io e te.» E, senza aspettare che Ding rispondesse,

perché ovviamente si era accorto che era arrabbiata e non gli rivolgeva la

parola, aveva dichiarato: «Ho recepito il messaggio».

«Quale messaggio?» Ding aveva finto stupore. «Non so di cosa parli. Se

alludi a me e Finn...»

«Non esiste nessun ’me e Finn’. Così come non esiste un ’me e te’.»

«Hai una bella faccia tosta.»

«Per favore, Ding. Quello che stai facendo con Finn... non è da te. Non ti si

addice.»

Le era venuta voglia di dargli uno spintone e farlo cadere per terra, di

prenderlo a calci negli stinchi e comportarsi come una bambina di otto anni,

perché Brutus la conosceva troppo bene e lei lo odiava per questo.

«Abbiamo un’amicizia ’privilegiata’» gli aveva detto. «Io e Finn. E la cosa

non ti riguarda.»

«Non fare l’idiota, Ding. Sai perfettamente che lo fai per ripicca: visto che

io mi scopo Allison, tu ti scopi Finn. Non ci saresti mai andata, se io non mi

fossi portato a letto Allison.»

«Ah, è così che la pensi, eh? Mi leggi nel pensiero? O la regola vale solo

per te?»

«La regola vale se uno vuol farla valere.» Brutus aveva spostato il peso da

un piede all’altro e si era passato una mano fra i capelli. Come al solito,

sembrava un figurino: non c’era da meravigliarsi che le ragazze cascassero

tutte ai suoi piedi. «Il fatto è che... Insomma, non è che tu non mi piaci, Ding.

Mi piaci molto, anzi. Moltissimo. Ma a parte questo... L’esclusiva... Non so


come fartelo entrare in testa, Ding: l’esclusiva non fa per me. Non mi basta.»

«Questo l’ho capito» aveva ribattuto lei. «E ho capito anche che non basta

nemmeno a me. Devo ringraziarti: condividere le gioie del sesso è molto più

bello e non me ne sarei mai resa conto, se tu non mi avessi fatto ingoiare

quella stronza di Allison. Anzi, mi correggo: se non te lo fossi fatto ingoiare

tu da quella stronza di Allison.»

Brutus aveva fatto una smorfia schifata. «Neppure la volgarità ti si addice.

Non è da te. Dichiariamo una tregua».

«Che ne sai tu di cosa mi si addice e cosa no?» Ding aveva alzato la voce.

«Dici di volere una tregua, ma in realtà quello che vuoi è che io ti aspetti, che

me ne resti lì, nella speranza che tu ti stanchi di lei e mi faccia la grazia di

tornare da me sul Temeside, per risparmiarti la fatica di doverti portare a casa

Allison.»

«Sei ingiusta.» Brutus era arrossito, però, e Ding aveva capito di aver

colpito nel segno.

«Perché?» gli aveva chiesto. «In che cosa sono ingiusta? No, non c’è

bisogno che tu mi risponda. Il problema non è portarti a casa Allison, vero? Il

problema è fare in modo che finito di scopare si tolga dalle palle, no? Non te

la riesci a scrollare di dosso.» Era scoppiata a ridere. Suonava isterica alle sue

stesse orecchie, ma sapeva di aver colpito nel segno. «Oddio, che incubo! Lei

vuole dormire nel tuo letto e tu vorresti che invece si rivestisse e se ne

tornasse a casa, ma non puoi dirglielo, vero? Non puoi dirle: ’Grazie della

scopata, ma adesso, se non ti dispiace...’ È un bel problema!»

Si aspettava che lui se ne andasse furibondo, ma Bruce era rimasto lì,

l’aveva lasciata finire senza distogliere lo sguardo. «Non riesci a tirare le

conclusioni, vero?» aveva detto.

«Quali conclusioni, Brucie?» aveva ribattuto lei.

«Con te restavo.»

«Dove?»

«Dormivo con te. In camera tua. Con te restavo. Perché tu sei diversa da

tutte le altre. Con te restavo perché per te provavo qualcosa di diverso. Lo

provo ancora.»

Ma c’era qualcosa che non la convinceva nel suo tono. Ding lo sentiva,

percepiva l’ombra di panico. E aveva capito perché le aveva voluto parlare in

Castle Square. Ora le era assolutamente chiaro sia cosa voleva da lei sia che,

per ottenerlo, mentiva.


Era rimasta arrabbiata tutto il giorno. Sapeva che la collera l’avrebbe

aiutata a fare ciò che aveva deciso di fare.

Appena arrivò alla casa sul Temeside, salì in camera sua e tirò fuori

dall’armadio gli indumenti che nove giorni prima aveva provato a buttare via

senza riuscirci. C’era andata vicino: li aveva tenuti sospesi sopra un mucchio

di spazzatura puzzolente, ma alla fine non ce l’aveva fatta. Avrebbe voluto

liberarsene, si rendeva conto che era indispensabile, ma all’ultimo momento

aveva ritirato la mano. Poteva tenerli nascosti, si era detta. E un giorno

avrebbe potuto ricominciare a indossarli, no?

Aprì la borsa di plastica in cui aveva riposto la gonna e il top con i lustrini.

Li tirò fuori, li sistemò con cura sul letto e aspettò che Brutus tornasse a casa.

Lo sentì entrare perché era di nuovo con quella deficiente di Allison. Li udì

mormorare e ridere piano, baciarsi nel corridoio e poi aprire la porta della

camera di Bruce.

Aspettò di sentirla richiudere, prese i vestiti, gli piombò nella stanza senza

bussare e glieli lanciò. «Io ti ho protetto. Fanne quello che vuoi» disse.

Si accorse in quel momento che la ragazza assieme a Brutus non era

Allison Franklin, ma Francie Adamucci. Aveva gli occhi spiritati ed era in

ginocchio sul pavimento, pronta ad abbassargli i pantaloni.

«Ding?» esclamò con una risata, senza interrompere il gesto. «Vuoi unirti a

noi?»

Hindlip

Herefordshire

La seconda visita alla sede della West Mercia Police richiese le stesse

procedure tediose della prima. Barbara e Lynley cominciarono con

l’interminabile attesa nella lontanissima palazzina dell’accettazione, che mise

a dura prova la loro pazienza. Poi raggiunsero in macchina l’edificio

principale, attraversando un’ampia zona sorvegliata da numerose

videocamere a circuito chiuso. Seguì un breve interludio in cui Lynley cercò

parcheggio a distanza di sicurezza dagli altri mezzi posteggiati. Lo faceva per

preservare la verniciatura da un milione di dollari della sua amata vettura

color rame, lucidata a mano centimetro per centimetro. Il noiosissimo iter

riprese con un’anticamera piuttosto lunga in attesa del comandante Wyatt, a


dimostrazione – se ce ne fosse stato bisogno – di quanto fosse sgradita la

visita della Metropolitan Police nello Shropshire.

Dopo dieci minuti, Lynley pose fine al tormento. Si avvicinò all’enorme

bancone della reception e si rivolse a uno dei civili di turno. «Abbiamo

perfettamente capito il messaggio del comandante Wyatt. Adesso, però, lo

avverta che stiamo salendo, visto che il sergente investigativo Havers

conosce la strada. Oppure, se preferisce, gli facciamo una sorpresa.

Sergente?» E indicò la scala con un cenno del capo.

Barbara lo raggiunse contenta, mentre alle loro spalle l’impiegato alzava

prima la voce per protestare e poi la cornetta del telefono. «Prego,

accomodatevi. Il comandante Wyatt vi sta aspettando» disse un attimo dopo.

Barbara a quel punto era già in cima alle scale e Lynley era un gradino dietro

di lei.

Si avviarono verso l’imponente porta a due battenti, uno dei quali era

aperto. Barbara entrò e si vide venire incontro il comandante Patrick Wyatt

con espressione granitica.

«Guardi che...»

«Abbiamo capito che non ha tempo per noi, comandante Wyatt. Neanche

noi abbiamo tempo da perdere, però. Possiamo anche discutere su chi ha più

ragione a essere indignato, ma forse conviene che andiamo dritti al sodo»

intervenne Lynley.

Accipicchia, pensò Barbara. Sta usando la Voce. Era da un po’ che non la

sfoderava più, probabilmente perché si rendeva conto che, se c’era un pesce

fuor d’acqua, quel pesce era lui ed era meglio non sottolinearlo. Di tanto in

tanto, tuttavia, era necessario. Sentendo la Voce, l’interlocutore rimaneva

spiazzato e Lynley ne approfittava.

«Non siamo qui per fare le pulci al modo in cui lavorate, e non siamo

venuti di nostra spontanea volontà» disse. «La commissione per i reclami

contro la polizia che ha indagato sul caso di Ludlow ha trascurato un

dettaglio e noi abbiamo il compito di chiarire i punti rimasti oscuri. Non

siamo qui per voi, ma per l’IPCC.»

Be’, rifletté Barbara, non era proprio così. Ma il discorsetto di Lynley ebbe

il merito di cogliere di sorpresa Wyatt e di amplificare l’effetto della Voce:

anziché essere sulla difensiva, adesso Wyatt era disarmato, almeno in parte.

«Continui.» Wyatt non li invitò ad accomodarsi, ma il suo sguardo si fece

un po’ meno granitico, il suo atteggiamento lievemente più disposto


all’ascolto.

«Permette?» disse Lynley, senza dare a Wyatt il tempo di rispondere,

chiuse la porta. Non chiese di accomodarsi al tavolo, per non dare a Wyatt la

possibilità di dirgli di no.

Barbara assistette al duello verbale senza intervenire perché era conscia di

avere la delicatezza di un elefante e di tendere a frantumare fin troppe

porcellane in quel particolare tipo di negozio.

Lynley spiegò a Wyatt che alla Metropolitan Police serviva sapere che

cosa era stato fatto nei diciannove giorni intercorsi fra la denuncia anonima

contro Ian Druitt e il fermo del diacono della chiesa di St. Laurence.

Diciannove giorni erano un tempo sufficiente per verificare almeno di

sfuggita la veridicità delle accuse contro Druitt, ma il rapporto dell’IPCC non

faceva riferimento a indagini di sorta. Che cosa era in grado di dire il capo

della polizia a proposito di quei diciannove giorni?

Wyatt doveva essersi preparato, quando aveva saputo che la Metropolitan

Police stava per tornare nello Shropshire, ma le informazioni in suo possesso

erano poche: la commissione IPCC non faceva cenno ad alcuna indagine

perché non ne era stata svolta nessuna. Se la telefonata anonima avesse

riguardato un possibile omicidio sarebbe stata presa con maggiore serietà, ma

la chiamata si limitava a denigrare un uomo di Chiesa che era appena stato

insignito di un’onorificenza pubblica a Ludlow. L’operatore aveva seguito la

procedura e aveva protocollato la denuncia. Quando il funzionario di turno

l’aveva esaminata, l’aveva trattata come l’avrebbe trattata chiunque altro, e

cioè come la telefonata di un mitomane mosso dalla gelosia o dalla sete di

vendetta.

«Un’accusa di pedofilia non va sottovalutata» ribatté Lynley.

«Naturalmente no» rispose Wyatt. «Ma essendo una denuncia isolata,

senza altre voci o insinuazioni a supportarla, e per di più indirizzata alla

centrale operativa sbagliata – ma questo è un altro discorso – che cosa

avrebbe fatto lei al nostro posto?»

Wyatt proseguì spiegando loro che Druitt sarebbe potuto essere convocato

dai colleghi della stazione di polizia più vicina, a Shrewsbury, ma poiché non

si apre un’inchiesta a seguito di un’unica denuncia anonima, l’interrogatorio

sarebbe consistito in domande tipo «Che cosa ha da dire su questa

telefonata?» e Druitt avrebbe risposto che l’accusa era totalmente campata

per aria. Certo, se non fossero stati sotto organico, avrebbero potuto


interrogare tutti gli uomini, le donne e i bambini con cui il diacono aveva

avuto contatti da quando lavorava alla chiesa di St. Laurence.

«Purtroppo, però, siamo sotto organico» concluse. «Disponiamo di una

sola squadra Omicidi in tutta la zona, che si occupa anche di aggressioni,

stupri e altri reati violenti. Facciamo il possibile. Quindi, spero che capiate

come mai una denuncia anonima a carico di un diacono della chiesa di St.

Laurence non sia finita in cima alla lista delle priorità.»

Certo che capivano, però... come mai allora Ian Druitt diciannove giorni

dopo era stato fermato e condotto alla stazione di polizia di Ludlow? Se non

erano state svolte indagini, come mai il diacono era stato arrestato?

«Dev’essere emerso qualcos’altro nel frattempo» puntualizzò Lynley. «Il

sergente ha saputo dall’agente ausiliario di Ludlow...»

«Gary Ruddock» precisò Barbara. Wyatt le lanciò un’occhiataccia, ma

Barbara non si lasciò intimidire. «Gary Ruddock mi ha detto di aver ricevuto

l’ordine di procedere al fermo dal suo sergente, che deve averlo ricevuto a

sua volta da qualcun altro, a maggior ragione se non erano state svolte

indagini. Dico bene?»

«Lei sa chi ha emesso l’ordine di cattura?» domandò Lynley a Wyatt.

«Non mi occupo dei dettagli, ispettore. Le ho detto tutto quello che potevo.

Chieda ragguagli al sergente dell’ausiliario Ruddock: essendo stata lei a

ordinargli di portare il diacono alla stazione di polizia, sarà in grado di

soddisfare la vostra curiosità.»

Lynley chiese come si chiamava.

Geraldine Gunderson, rispose il comandante Wyatt, e consigliò ai due

colleghi della Metropolitan Police di chiedere i suoi recapiti in segreteria.

Much Wenlock

Shropshire

Mentre andavano verso la Healey Elliott, una volta usciti dalla sede della

polizia, Barbara si accese una sigaretta e la fumò con l’avidità del condannato

a morte deciso a godersi gli ultimi istanti di vita. «Più cose scopriamo, meno

senso ha l’intera faccenda» sentenziò da dentro una nuvola grigiastra.

«Stanno diciannove giorni senza indagare e poi lo arrestano. Per come la

vedo io, qualcuno sa più di quello che dice. E quel qualcuno è qui dietro.»


Indicò la sede della West Mercia Police. «E non vuole che la Metropolitan

Police venga a ficcare il naso.»

Lynley non poteva che essere in buona parte d’accordo. Il fermo di Ian

Druitt di regolare aveva ben poco e il fatto che il diacono fosse morto

all’interno della stazione di polizia era alquanto sospetto. Tuttavia il chi, il

cosa e il perché erano ancora tutti da valutare, e gli riusciva difficile attribuire

delle colpe ai vertici della West Mercia Police.

«Non vorrei essere nei panni del comandante» disse. «Proprio quando gli

riducono le risorse all’osso, si trova a dover gestire la morte di un uomo sotto

custodia cautelare. Wyatt si affida all’IPCC, che svolge le sue indagini e

stabilisce che la morte di Druitt è stata un evento sfortunato, ma non

criminoso. Pensa che la cosa sia finita lì, invece si vede piombare da Londra

lei e Isabelle Ardery. Vi riceve, vi mette a disposizione quello che ha e di

nuovo pensa che sia finita lì. Invece noi torniamo e lui approfondisce, ci dice

tutto quello che sa. Noi però continuiamo ad avere dei dubbi che lui non è in

grado di chiarire. Uno stress dopo l’altro. Si può capire che non veda l’ora di

chiudere il caso e dimenticarselo.»

Arrivarono alla macchina e si posizionarono ognuno sul proprio lato in

attesa che Barbara finisse la sigaretta. «Mi stupisce che la prenda con tanta

filosofia, ispettore. Soprattutto dopo che ha dovuto di nuovo rimandare la sua

vacanza in Cornovaglia» disse lei.

Lynley spostò lo sguardo da Barbara all’operazione in corso dietro di lei,

che vedeva coinvolti numerosi cadetti in assetto antisommossa. Era una vista

ben poco rassicurante. «Pazienza» disse. «Non prometteva di essere una

vacanza da sogno, in ogni caso.»

«Maretta in campo sentimentale?»

«Daidre è bravissima a escogitare scuse.»

Barbara gettò il mozzicone per terra e lo spense sotto la suola. «Secondo

lei cosa si aspetta dalla vostra vacanza in Cornovaglia? Che lei la butti nel

pozzo di una delle vecchie miniere della sua famiglia?»

«Può darsi che sia proprio quella la sua paura, in effetti» rispose ironico

Lynley. Aprì la portiera ed entrambi salirono.

«Si è preso una bella gatta da pelare, mi sa. Come ho già avuto modo di

ripeterle più volte» disse Barbara, dopo che si furono allacciati le cinture e

Lynley ebbe messo in moto.

«Lo so. Ma resto ottimista.»


«La ammiro per questo. Posso dire, però, che...»

«Tanto me lo direbbe comunque» la interruppe Lynley.

«La prospettiva di finire in Cornovaglia in una villa con trecento stanze

non è delle più allettanti.»

«Howenstow non è quel genere di residenza, Barbara.»

«Sarà. Io mi immagino un’immensa quadreria in cui sono esposti secoli di

ritratti dei Lynley che ti guardano dall’alto in basso.»

«Non la definirei ’immensa’.»

«Ah! Lo sapevo che c’era la quadreria.»

Lynley la fulminò con un’occhiata, sapendo che Barbara l’avrebbe

interpretata correttamente. «Non ho proposto a Daidre di sposarmi, Barbara,

ma ormai è più di un anno che stiamo insieme e pensavo che prima o poi

avrei dovuto farle conoscere mia madre. E gli altri, ovviamente» disse.

«Il maggiordomo, intende? Le sguattere?»

«Non abbiamo servitù residente, sergente. Viene qualcuno a darci una

mano, sì, ma non tutti i giorni. Quanto al maggiordomo, per quanto possa

essere imbarazzante averne uno in casa, è ultracentenario e nessuno ricorda

più chi lo abbia assunto. Lasciarlo in mezzo a una strada alla sua età per non

offendere le ansie egualitarie di qualcuno sarebbe un atto di crudeltà.»

«Molto spiritoso. Scherzi pure, ma secondo me Daidre ha paura che lei la

voglia mettere alla prova. Che voglia verificare se sa quale delle venticinque

forchette con cui apparecchiate la tavola va usata per le salsicce con il purè.

Non che voi insozziate i vostri piatti di finissima porcellana con salsicce e

purè.»

«Infatti» confermò Lynley.

«E quindi? Cosa ha intenzione di fare? Persistere?»

«Persistere è la cosa che mi riesce meglio.»

Quando uscirono dal quartier generale della polizia, Barbara stava

sfogliando il voluminoso atlante stradale. Lynley lo preferiva a qualsiasi

navigatore, gli piaceva avere un’idea della regione che stavano attraversando

che il GPS dello smartphone non era in grado di fornirgli. Barbara brontolò

come suo solito, ma alla fine si rassegnò. E riuscì a guidarlo fino alla

cittadina di Much Wenlock senza sbagliare una svolta, anche se nel centro di

Kidderminster a un certo punto gli fece percorrere una rotatoria tre volte

prima di riuscire a leggere il cartello giusto. Giunti a destinazione, si

trovarono nell’ennesima pittoresca località inglese, con architetture medievali


in legno e palazzi georgiani che mandavano in visibilio i turisti armati di

macchina fotografica. La lunga storia della cittadina era incarnata dalla

Guildhall, la sede delle corporazioni, con le sue enormi colonne in rovere,

costruita sull’antica prigione. Era un edificio di legno, con timpani e finestre

dai vetri a piombo, e i ceppi di ferro un tempo usati per le flagellazioni erano

lì a ricordare una giustizia più severa e sbrigativa.

L’indirizzo del sergente Geraldine Gunderson non era chiarissimo,

com’era normale in un paese in cui il postino conosce tutti. Il civico era il 3,

ma non c’era via: soltanto «La Fattoria», seguito dalla dicitura «Vic. al

Convento». Il Convento non fu difficile da trovare, poiché era un monumento

storico e come tale era indicato piuttosto bene, in modo da consentire ai

turisti di non perderselo. Anche seguendo le indicazioni, tuttavia, per

individuarlo ci volle un po’, perché era nascosto non soltanto da un muro di

pietra, ma anche da file di tigli, faggi e cedri. Lo superarono, imboccarono

una stradina così stretta che Lynley temette di rigare la carrozzeria e

finalmente giunsero a una grande costruzione antica, con travi a vista,

suddivisa in una serie di cottage di ragguardevoli dimensioni, che un cartello

indicava come «La Fattoria». Per fortuna i cottage erano numerati e quindi

dovettero semplicemente cercare un posto dove parcheggiare la Healey

Elliott al riparo dai trattori di passaggio.

Una volta lasciata l’auto – con Barbara che come al solito protestava per i

duecento metri che le toccava fare a piedi per tornare dallo spiazzo dove

Lynley si era fermato più avanti lungo la stradina – trovarono senza problemi

il sergente Gunderson. Il suo lotto della ex fattoria suddivisa in unità abitative

era il più derelitto, ma forse era solo un’impressione dovuta al giardinetto sul

davanti, poco curato e quasi completamente invaso da un glicine, che era

stato lasciato libero di soffocare qualsiasi tentativo di insediamento da parte

di altri vegetali. Arrancarono fra le erbacce fino alla porta, che aveva un

grosso batacchio arrugginito. Non essendoci campanello, batterlo un paio di

volte sul legno grezzo era l’unico modo per annunciarsi.

Ad aprire fu una donna alta e affannata. «Siete della Metropolitan Police,

immagino. Venite, accomodatevi. Ero nel bel mezzo di...» Si scostò per

lasciarli entrare, chiuse la porta e fece strada lungo un corridoio di pietra

verso il salotto. Sul tavolo c’era un grande pezzo di stoffa verde che copriva

parzialmente un’anima di fil di ferro di forma allungata. C’erano anche

forbici, una pinzatrice e un rotolo di nastro adesivo che dovevano servire a


fissare la stoffa alla struttura portante. Con gli stessi strumenti era stato

confezionato un grosso pezzo di polistirolo la cui forma ricordava vagamente

una gorgiera elisabettiana, che giaceva da una parte protetto da un foglio di

plastica da imballi in attesa di essere rivestito di tessuto giallo a pois rosa.

Gerry Gunderson parlò con franchezza. «Lo so, sono una pessima sarta,

ma la mia figlia maggiore ha alzato la mano, quando la maestra ha chiesto chi

avrebbe preparato il costume del bruco che fuma il narghilè per il tè

pomeridiano di raccolta fondi per la scuola. Ne organizzano troppi, se volete

sapere come la penso. Questo, ovviamente, è ambientato nel Paese delle

meraviglie. O forse no, è ispirato ad Attraverso lo specchio. Non ne ho idea.

Dovrei essere contenta che Miriam non abbia alzato la mano per le torte o il

rinfresco, visto che cucino ancora peggio di come cucio. Almeno però avrei

potuto comprare qualcosa di pronto, mentre un costume da bruco dove lo

trovo? Il narghilè è stato facile: li vendono su Internet. Ma un costume da

bruco non sono riuscita a trovarlo nemmeno a pagarlo oro.»

«Lei è il sergente Gunderson?» verificò Lynley.

«Ah, già, mi scusi. Gerry.»

Lynley si presentò e presentò anche Barbara. Gerry Gunderson li ringraziò

di averle concesso una pausa dall’ingrato compito, perché quel costume la

stava facendo diventare matta e c’era il rischio che mettesse le mani addosso

alla figlia, non appena le si fosse presentata davanti. Offrì loro limonata fatta

in casa, avvertendoli che era «un tantino aspra, perché ci metto poco

zucchero». Sia Lynley che Barbara la accettarono volentieri e la padrona di

casa propose di andare a sedersi all’aperto, dato che era una bella giornata. Lì

si sarebbero goduti il sole, sempre che non avessero nulla contro le galline.

Lynley e Barbara la seguirono nella cucina, piuttosto ordinata, per poi uscire

nel giardino sul retro dove razzolavano sette galline mentre altre due stavano

appollaiate su un tavolo rotondo, di legno, circondato da sedie incrostate da

licheni millenari.

«Non vi preoccupate per i licheni: in questo periodo dell’anno non si

attaccano ai vestiti e a me piacciono un sacco» li tranquillizzò Gerry

Gunderson. Scacciò i pollastri e invitò i due ospiti a mettersi comodi e a

«godersela», mentre lei andava un momento in cucina. Lynley non sapeva

bene che cosa li avesse esortati a godersi: le galline, i licheni, le condizioni di

quel giardino che sembrava un’aia o la collina di fronte, coperta da carpini

cresciuti senza alcuna manutenzione?


Gerry Gunderson si assentò troppo brevemente perché Lynley e Barbara

avessero il tempo di darsi una risposta: entrò in casa e un attimo dopo tornò

con una grande teglia da forno che usava a mo’ di vassoio per la limonata di

sua produzione.

Lynley la guardò, mentre disponeva i bicchieri sul tavolo, e stabilì che non

aveva nulla di inglese a parte l’accento, che era quello delle Midlands:

carnagione olivastra, capelli neri come il carbone, occhi castani e un naso da

nobildonna italiana.

Gerry Gunderson si sedette e guardò Barbara e Lynley che assaggiavano la

limonata. «Allora? Troppo aspra?»

«No, non è affatto male» rispose Barbara.

Gerry Gunderson sembrò piacevolmente colpita dal suo apprezzamento.

Anche Lynley provò la bevanda e constatò che era molto diluita. Ma forse era

meglio così, vista la scarsa quantità di zucchero. Posato il bicchiere, cominciò

a spiegare come mai erano venuti nello Shropshire.

«Sì, sì, lo so. Non ho bisogno che mi faccia un riassunto di quello che è

successo» replicò Gerry Gunderson.

«Ovvero?»

«Ovvero quella sera di marzo in cui è iniziata tutta questa storia. Non

penso me la dimenticherò mai, ispettore.»

«Thomas.»

«Thomas» ripeté lei.

«Che cosa ci può dire di quella sera?» Mentre Lynley poneva la domanda,

Barbara tirò fuori bloc-notes e matita. Lynley notò con piacere che era

passata ai portamine, come quelli che usava Nkata.

Gerry Gunderson procedette a un breve resoconto dei fatti, confermando

ciò che Barbara aveva scritto nel suo rapporto, ovvero che gli agenti di

pattuglia di Shrewsbury erano stati allertati per una serie di furti in

appartamenti e negozi e quindi non erano potuti andare a prendere Ian Druitt

a Ludlow. Precisò di non essere al corrente di alcuna indagine sulla presunta

pedofilia di Druitt svolta prima del fermo e di aver scoperto che «quel

maledetto pasticcio» era nato da una denuncia anonima solo dopo che Druitt

«si era fatto fuori». Quando gliel’avevano detto, era rimasta basita. In

sostanza, Gerry Gunderson non sapeva che cosa frullasse in testa ai suoi

colleghi né perché le cose fossero andate così.

«In parte è colpa mia, lo so. L’ho detto al mio capo» disse anche.


«Perché è colpa sua?» domandò Barbara.

«Mio marito ha un cancro al colon. È in ospedale. Dovrebbe farcela, ma è

stato un inferno. A volte mi distraggo e sicuramente quella sera può darsi che

avessi la testa altrove, ma in fondo il mio compito è solo quello di coordinare

gli ausiliari della zona. Mi è stato detto di comunicare al nostro agente di

Ludlow di fermare Druitt, e l’ho fatto. Non ho chiesto come mai lo

dovessimo portare dentro. Immagino sia così anche per voi: quando ricevo un

ordine, lo eseguo.»

Lynley evitò di obiettare che non tutti si comportavano in quel modo e che

per esempio Barbara Havers aveva disatteso gli ordini in numerose occasioni.

Chiese invece da chi aveva ricevuto l’ordine di contattare l’ausiliario e

mandarlo a prendere Ian Druitt. La risposta di Gerry Gunderson lo colse alla

sprovvista.

«Dalla sede centrale.»

Lynley guardò Barbara, che gli rivolse un’occhiata significativa: fino a

quel momento non era emerso nulla che facesse risalire l’ordine alla sede

della West Mercia Police.

«Nella persona di chi, esattamente?» chiese Lynley.

«Del vice» rispose Gerry Gunderson.

«Vicecomandante?» chiarì Barbara.

«Alla sede centrale abbiamo incontrato solo il comandante Wyatt. Nessuno

ha mai parlato di un vice» spiegò Lynley.

Gerry Gunderson non parve stupita. Prese il bicchiere e bevve un sorso di

limonata. «Io di questo non so nulla. Quello che posso dirvi è che a me la

chiamata è arrivata dal vicecomandante: dovevo contattare l’agente ausiliario

di Ludlow e dirgli di portare Ian Druitt alla stazione di polizia e aspettare i

colleghi di Shrewsbury che dovevano trasferirlo in camera di sicurezza.

Questo lei mi ha ordinato e questo io ho fatto: ho telefonato a Gary Ruddock

e gli ho trasmesso gli ordini.»

«Lei?» chiese Barbara.

«Io cosa?»

«Il sergente Havers si riferiva al vicecomandante: è una donna?» domandò

Lynley. «Come si chiama?»

«Ah, sì, scusate» disse Gerry Gunderson. «Freeman. Clover Freeman. È

stata lei a darmi l’ordine.»


Much Wenlock

Shropshire

«C’è qualcosa che mi lascia alquanto perplessa, ispettore» disse Barbara

Havers fermandosi appena fuori della porta di Geraldine Gunderson e

facendo ciò che Lynley purtroppo si aspettava: frugare nella borsa in cerca

del pacchetto di Player’s per poi accendersene una.

Lynley, sempre più preoccupato per le conseguenze che quel brutto vizio

poteva avere sulla salute del sergente, avrebbe voluto chiederle per

l’ennesima volta quando aveva intenzione di smettere, ma preferì astenersi.

Barbara gli avrebbe risposto che gli ex fumatori sono bacchettoni e fanatici

quanto gli ex atei che ritrovano la fede. «A parte le doti sartoriali del

sergente, intende?» disse quindi.

Si fecero largo nella giungla di glicine ed erbacce e guadagnarono

incolumi la stradina. Un improvviso krrr krrr li allertò della possibile

presenza di una pernice. Barbara buttò fuori il fumo. «Si è presa una bella

gatta da pelare, poveraccia. Quel costume non assomiglia per niente al bruco

di Alice nel Paese delle Meraviglie» replicò.

Lynley si voltò verso di lei. «Dunque, se non sono le doti sartoriali della

Gunderson, cos’è che la lascia perplessa, Barbara?» osservò sarcastico.

«La più straordinaria delle coincidenze, ispettore. Il vicecomandante di cui

parlava la Gunderson, la donna che le ha ordinato di far portare Ian Druitt alla

stazione di Ludlow...?»

«Clover Freeman» precisò Lynley.

«Non è la prima Freeman che ci capita tra le mani in quest’inchiesta.»

Altra boccata di fumo, più profonda delle altre. Lynley si disse che Barbara

doveva veramente darsi una regolata e smettere.

«Avete incontrato un altro Freeman?»

«Io no, ma il sovrintendente è andata a parlargli: Finnegan Freeman,

aiutava Druitt in quella specie di doposcuola. A quanto mi risulta, non le ha

detto che aveva una parente nelle forze dell’ordine, quando Ardery l’ha

interrogato.»

«Forse non sono parenti. Freeman non è un cognome insolito.»

«Non quanto Stravinskij, d’accordo.»

Lynley alzò un sopracciglio. «Sergente, lei non finisce mai di stupirmi.»

«Non so perché l’ho detto. Non saprei fischiettarle neanche una nota.»


«Va be’, continui.»

«La mia idea è che, quando il sovrintendente Ardery è andato a

interrogarlo, il ragazzo glielo avrebbe sicuramente detto, se sua madre – o

anche sua nonna o sua zia – fosse stata vicecomandante. Vicecomandante è

un grado molto più alto di sovrintendente! Allora, se ti piomba in casa una

poliziotta londinese, non le dici che hai parenti nelle alte sfere della polizia?»

«Per quale motivo, Barbara? Ammesso che siano effettivamente parenti.»

«Per provocarla, metterla in difficoltà. E per farsi trattare con i guanti.

Invece non le ha detto niente. Mi chiedo perché.» Rimase zitta un momento a

guardare la punta incandescente della Player’s.

«Le ripeto che potrebbe non esserci alcuna parentela.»

«Sì, certo. Ma forse c’è. O forse il ragazzo lo ha detto al sovrintendente e il

sovrintendente, per qualche motivo, non l’ha detto a me.»

Lynley conosceva troppo bene Barbara per non capire il sottinteso.

«Perché voleva tornare a Londra il prima possibile e sapeva che il legame di

parentela tra uno degli individui coinvolti e il vicecomandante della West

Mercia Police avrebbe complicato le cose? Perché rendere noto questo

particolare sarebbe stato come lanciare un osso a un branco di cani affamati?»

chiosò.

«Non è un paragone lusinghiero, ma sì, per questo.»

«Chiedo scusa: non l’ho fatto apposta» precisò Lynley. «E comunque si

trattava di una metafora, non di una similitudine. Quindi il sovrintendente

Ardery potrebbe aver volutamente minimizzato un elemento che invece

poteva risultare cruciale...»

«È possibile, no? Aveva fretta di rientrare a Londra e, se mi avesse detto

questa cosa su Freeman, sapeva benissimo che io mi sarei messa a scuoterla

come fanno gli scoiattoli con le nocciole per capire cosa ne potevo ricavare.»

Vedendo l’occhiata di Lynley, si corresse: «Sì, lo so che gli scoiattoli non

scuotono le nocciole. Ma il concetto è chiaro, no?»

«Interessante» fu la laconica risposta di Lynley. Raggiunsero la Healey

Elliott e si appoggiarono alla fiancata, mentre Barbara finiva la sigaretta. Su

un lato della strada c’era una siepe più alta di Lynley, dall’altro c’erano

campi di grano talmente ordinati e perfetti che sembravano un’opera divina.

Il vento faceva frusciare le spighe. Il cielo azzurro punteggiato di nuvolette

bianche completava il panorama idilliaco.

Barbara buttò il mozzicone per terra e lo schiacciò con la punta della


scarpa. «A me sembra che ci sia qualcosa di più» disse. Lynley capì che

Barbara non credeva si trattasse di una mera coincidenza. «Supponiamo che

sia parente di Finnegan. Magari sapeva che dietro le accuse di pedofilia c’era

un fondamento, o comunque pensava che ci potesse essere, e voleva scoprirlo

in fretta, perché suo figlio, suo nipote, o quello che era, lavorava con il

diacono e rischiava di finire nei guai.»

Lynley ci rifletté un momento, poi aprì la portiera per salire in macchina e

accese il motore. «Oppure il figlio, nipote, o quello che era, è l’autore della

denuncia» disse.

«Esatto. Il suo parente. Scopre qualcosa» mormorò Barbara pensosa.

«Vede o sente qualcosa...»

«È testimone oculare di qualcosa» ipotizzò Lynley.

«Oppure glielo dice uno dei bambini dell’oratorio. Lui non ci crede, ma fa

due controlli e scopre che è vero. Però è ancora un ragazzo, a quanto ci ha

riferito Ardery, e come tutti i ragazzi non vuole assolutamente fare la figura

dell’infame, quindi usa il telefono esterno della stazione di polizia di Ludlow

e fa una chiamata anonima. Vuole solo impedire che la cosa vada avanti.

Siccome però non succede niente, cosa fa? Va dalla mamma, la zia, la nonna

o quello che è, e lei, che è il vicecomandante, mette in moto la macchina.»

«Ci starebbe, vero?»

«Però il sovrintendente ha detto che Finnegan si è infiammato, quando

hanno parlato delle accuse di pedofilia, e ha difeso Druitt a spada tratta.

Certo, poteva essere una messinscena. Magari si è scaldato apposta per non

tradirsi, perché nessuno sospettasse che era stato proprio lui a denunciarlo.»

Lynley fece inversione e partì verso il paese. Gli sembrava che fosse

giunto il momento di andare dal vicecomandante Clover Freeman per

ascoltare la sua versione dei fatti che avevano portato alla morte di un

diacono anglicano.

Barbara provò a raggiungerla telefonicamente mentre Lynley guidava.

Chiamò la sede della West Mercia Police, ma le dissero che Clover Freeman

era già andata via. Barbara però riuscì a farsi dare il numero di cellulare dalla

segretaria del comandante, dopo averle spiegato che era una questione

urgente, che i due rappresentanti della Metropolitan Police le dovevano

parlare di persona per chiarire il suo ruolo nella morte di Ian Druitt. Non fu

necessario insistere. Lynley si complimentò con lei. Tornarono in paese e

Lynley parcheggiò nei pressi della Guildhall, dove una donna con un bastone


da selfie sorrideva al suo telefono rovinando quello che sarebbe potuto essere

un bello scatto dell’edificio più fotografato di Much Wenlock.

Ascoltò distrattamente la trattativa di Barbara con il vicecomandante

Freeman, la quale sosteneva che il colloquio con la Metropolitan Police

poteva aspettare fino all’indomani, visto che lei era già quasi a casa.

Seguì un tira e molla in cui Barbara ribatteva educatamente «No,

comandante», e poi «Sì, comandante», e poi ancora «Purtroppo è necessario,

comandante», per finire con «Sì, sì, possiamo venire noi da lei, certo». Il

risultato fu che, data l’ora, sarebbero andati a casa del vicecomandante

Clover Freeman a Worcester per le venti e trenta, dopo essersi fermati a

mangiare un boccone per strada. Se fosse stata così gentile da mandarle

l’indirizzo via sms... «Grazie, comandante.»

Chiuse la telefonata. «Ci aspetta per le otto e mezzo, ma non era per niente

contenta» disse Barbara a Lynley.

«Sì, ho avuto anch’io questa impressione» fu la replica dell’ispettore.

Worcester

Herefordshire

Trevor Freeman tornò dall’escursione con i Rambling Rogues e si guardò gli

scarponi. Non andavano bene: erano troppo puliti.

Prese i bastoncini da trekking e andò nel giardino sul retro, vicino a quella

che sarebbe dovuta essere una bordura fiorita ma non lo era, in quanto non ci

crescevano né fiori né erba. Con l’aiuto della manichetta per l’irrigazione,

creò una bella pozza di fanghiglia, la mescolò con uno dei bastoni e,

raggiunta la consistenza desiderata, vi entrò con gli scarponi. Pestò il fango

per un po’ e tornò alla porta di casa per lasciare in bella vista calzature e

bastoncini adeguatamente infangati.

Entrò in casa e andò a prendere il cellulare, che non aveva portato con sé

all’escursione, dato che il regolamento dei Rambling Rogues ne vietava

l’uso. Solo il capogruppo aveva un telefono per le emergenze. Nel caso a

qualcuno fosse venuto un infarto o un ictus, non potevano lasciarlo morire

per mancanza di mezzi di comunicazione.

Trevor vide che aveva quattro chiamate senza risposta, tre delle quali erano

di Clover e la quarta di Gaz Ruddock. Ascoltò i messaggi in segreteria e


rimase sbigottito sentendo la prima richiesta di Clover: poteva per cortesia

chiamare Gaz Ruddock e invitarlo a cena la sera dopo? Nel secondo

messaggio Clover gli chiedeva se aveva chiamato Gaz Ruddock e se Gaz

aveva accettato l’invito a cena. Il terzo messaggio era: «Perché non mi hai

ancora richiamato?»

Tutto ciò gli parve bizzarro, e anche un po’ inquietante. Perché Clover non

aveva chiamato direttamente Gaz Ruddock? Da quando in qua sprecava

tempo a chiamare tre volte il marito mentre era in gita con i Rambling

Rogues anziché fare personalmente la telefonata che le serviva?

Meditando sulla questione, Trevor aprì il frigo, prese l’acqua minerale

frizzante e bevve. Non trovando una risposta soddisfacente, vagamente

turbato, chiamò l’ausiliario come richiesto e lo sorprese mentre faceva la

spesa. Gaz disse che quella sera voleva preparare gli spaghetti alla bolognese

e gli servivano un paio di ingredienti e, senza dargli il tempo di invitarlo a

cena, gli riferì della nuova visita degli ispettori di Scotland Yard.

«Arrivano di nuovo quelli di Scotland Yard» lo informò. «Me l’ha detto il

mio sergente oggi pomeriggio. Per il suicidio di Druitt. Lei ne è al corrente,

Trev?»

Strana domanda, pensò Trevor. Era solo merito di Clover, se Gaz non era

stato licenziato dopo la morte di Druitt. Per lei era una sorta di protetto fin dai

tempi dell’addestramento. Gaz non poteva pensare che Clover non avesse

informato il marito su tutta quella storia. «Come farei a non esserne al

corrente, Gaz?» disse.

«Non intendevo... cioè... non il fatto che è morto, ma che torna Scotland

Yard. Clo glielo ha detto? Mi chiedo solo come mai non mi abbia telefonato.

Pensavo che mi avvertisse. Non può non saperlo.»

«Non ne ho idea, non l’ho ancora vista. La faccio chiamare appena rincasa,

va bene?»

«Grazie. È solo che...»

«È preoccupato, lo so. Lo capisco.»

«Si dice in giro che ci sarà un processo.»

«È presto per pensarci. Una cosa per volta. Clover voleva invitarla a cena

domani, se le fa piacere.»

Presero accordi e, fatto il suo dovere, Trevor aprì il frigorifero. Era il cuoco

della famiglia dal giorno in cui aveva sposato una poliziotta con orari di

lavoro impossibili e quella sera voleva preparare un piatto di verdure alla


cinese. Annusò una confezione di tofu chiedendosi se fosse andato a male.

Squillò il telefono.

Vide che era Clover e rispose. «Signora Freeman! Credevo di trovarla a

casa, sa? Speravo mi volesse concedere un po’ del suo tempo... Cosa dice, è

interessata?»

«Sei riuscito a parlare con Gaz? Come mai non mi hai richiamato?» gli

rispose lei.

«Cos’è tutto ’sto affanno per Gaz, Clover? A proposito, è in ansia perché

Scotland Yard ha messo in programma un’altra puntatina nello Shropshire.»

«Non l’ha messa in programma: sono già qui» replicò lei. «Wyatt è in uno

stato che non ti dico. Ha ragione, poveraccio. È un casino.» Sospirò e

proseguì. «Non importa. Sono giù di corda. Torno presto. Cosa dici, mi fermo

a comprare qualcosa di pronto o cucini tu?»

Non gli sarebbe dispiaciuto farle comprare qualcosa di pronto, ma sapeva

che era stanca e preferiva tornare subito a casa. «Non preoccuparti: preparo

qualcosa io» le rispose, pur avendo constatato che il sedano era molle come il

fallo di un eunuco, i peperoni erano vecchi – sia quello rosso sia quello verde

– e l’unica cipolla stava assumendo una sfumatura grigiastra ben poco

appetitosa. «Un buon piatto salutare. Seguito da qualcos’altro di salutare.»

«Ah sì? Non ti prometto niente, ho avuto una giornataccia.»

Conclusa la telefonata, Trevor buttò il riso integrale, abbondante perché

non c’era molto altro da mangiare, e andò a prendere il vino. Se Clover era

giù di corda, un bel bicchiere le avrebbe fatto sicuramente piacere. Scelse una

bottiglia di Tempranillo fra quelle che tenevano nel sottoscala e la stappò.

Decise che il vino sarebbe stato migliore se avesse decantato un po’ nei

bicchieri. Lo versò in due calici ballon, poi stabilì che il suo non aveva

nessun bisogno di decantare.

Lo sorseggiò affettando tutte le verdure utilizzabili che aveva trovato in

casa. Qualche tempo prima si era comprato un wok elettrico, ma non aveva

ancora imparato a usarlo e quindi prese la padella grande e vi versò l’olio.

Stava per pelare l’aglio quando sentì sbattere una portiera. Prese il bicchiere

di Clover e corse ad aprire.

Clover era in versione sobria e severa, come sempre quando andava a

lavorare: chignon, divisa impeccabilmente stirata anche dopo ore che la

indossava, semplici orecchini d’oro e nessun altro gioiello a parte la fede e

l’anello di fidanzamento. Aveva l’aria esausta ma, come sempre, Trevor la


trovò irresistibile.

Come previsto, guardò gli scarponi e i bastoncini da trekking. Poi alzò lo

sguardo verso di lui e accettò il bicchiere. «Quanto avete camminato?»

Trevor rispose che avevano sfiorato i venti chilometri e lei fischiò. «Certo e

gli asini volano» disse.

Ma lo baciò lì sulla soglia. Fu un bacio lungo, che lui non fece nulla per

accorciare. Poi Clover staccò le labbra dalle sue. «Palpami per bene: i vicini

hanno bisogno di distrazioni» sussurrò.

Trevor fu lieto di compiacerla. Nonostante Clover fosse reduce da una

giornataccia, forse c’era ancora un barlume di speranza.

«Sai che sei il bipede più mangiabile di tutti?» gli disse, poi rise e gli

accarezzò la patta. «Mmm. Forse non sei proprio un bipede...»

Trevor decise che il sesso sarebbe stato il preludio ideale alla cena e alla

conversazione. Se si fossero rotolati per un po’ fra le lenzuola, o anche lì

nell’ingresso, poi Clover sarebbe stata meno nervosa. Senza dargli il tempo di

prenderle il capezzolo sinistro fra le dita, però, Clover fece un passo indietro.

«Sta bruciando qualcosa?» chiese.

Oddio! Se n’era completamente dimenticato. «Cazzo!» imprecò. «Devo

rimediare. La cena sarà pronta tra poco. Scusa per... la foga e tutto il resto.»

«Va bene così. Sono stanca morta.»

«Magari più tardi?»

«Vediamo. Conviene che adesso...» Annusò l’aria. «Cos’è? Riso?»

«Che fiuto!» si complimentò Trevor.

Corse in cucina e scoprì che il riso si era attaccato sul fondo della pentola,

ma il resto era mangiabile. Così, sperando che Clover fosse salita in camera

da letto a cambiarsi, a mettersi qualcosa di comodo e sexy, facile da sfilare,

finì di preparare la cena.

Clover lo raggiunse mentre stava rosolando il tofu. Si versò un altro

bicchiere di Tempranillo e gli mostrò la bottiglia con aria interrogativa, ma

Trevor scosse la testa. Era già abbastanza brillo, dopo un bicchiere e mezzo.

Clover si sedette a tavola. Trevor si accorse che era nervosa: spostava le

posate, piegava i tovaglioli, riallineava i piatti. Non era da lei essere così

pignola. «Brutta storia?» le chiese.

«Questa di Scotland Yard? Fammi bere un altro po’, prima.» Sollevò il

bicchiere, ma solo per ammirare il color rosso granato del vino spagnolo.

«Davvero avete camminato per venti chilometri?» gli chiese furbescamente.


Trevor fece la faccia vergognosa. «No.»

«Una nota di merito per la sincerità. Siete arrivati fino al pub e basta?»

«È vero, ero con i Rambling Rogues, ma c’è stato... un piccolo cambio di

itinerario.»

«Ovvero?»

Trevor si finse concentratissimo sulla cottura del tofu, ma poi Clover lo

chiamò con quel tono che voleva dire: Se non rispondi sono guai!

«Cinque chilometri» confessò e le lanciò un’occhiata.

Clover alzò gli occhi al cielo. «Santo Dio, Trev. Hai una palestra! Se non

riesci a trovare il tempo per fare un po’ di esercizio fisico tu...»

«Lo so» replicò lui. «Lo troverò. Mi sembra che tu abbia già abbastanza

pensieri: non ti preoccupare anche per me. Se rinuncio a birra e fritture perdo

due chili in una settimana.»

«Come no, un altro asino con le ali...»

Battibeccarono amichevolmente ancora un po’, mentre lui finiva di

preparare e portava la cena in tavola, che era in una nicchia con vista sul

giardino dietro la casa. A maggio l’erba sarebbe dovuta essere bella fitta, ma

non riuscivano mai a trovare il tempo per fare giardinaggio. Si erano limitati

a sparpagliare per il prato quattordici tipi di semi diversi nella speranza che

qualcosa crescesse. Non era andata malissimo, tutto sommato, perché qualche

fiore qua e là era spuntato, sopravvivendo a una lotta darwiniana.

«Scotland Yard?» chiese Trevor.

«Fammi bere ancora un po’. Raccontami la tua giornata.»

Non c’era granché da raccontare. In un centro fitness non succedeva mai

nulla di esaltante: lezioni di spinning, hot yoga, nuoto, zumba, pesi... Al

massimo poteva capitare che un vecchietto avesse un colpo per l’eccessivo

allenamento e venisse portato via in ambulanza o che un personal trainer

palpeggiasse con troppa foga le giovani mamme intente a recuperare il peso

forma.

«Niente di che. Sono andato con i Rogues, abbiamo visto un sacco di

alberi, spaventato una mezza dozzina di cerbiatti, avvistato conigli e gazze.

Mi sono occupato delle paghe e ho parlato al telefono con Gaz. Tutto qui. A

proposito, penso che gli farebbe piacere se lo chiamassi per rassicurarlo:

sembrava un po’ agitato per il ritorno di Scotland Yard.»

Vide che Clover non mangiava con appetito. Si era sciolta i capelli e in

quel momento vi passò le dita per scostarli dalla fronte. «Sì, immagino»


disse. «Non so cos’altro posso fare per lui, però. Il problema principale è

Finnegan, comunque.»

Trevor aggrottò la fronte. Clover se ne accorse e si spiegò meglio.

«Andranno di nuovo a parlargli, presumo.»

«Be’, certo. In fondo Finn e Druitt erano amici.»

«No, proprio amici no. Finnegan era convinto di conoscerlo bene e

nessuno riuscirà mai a fargli entrare in testa che invece non lo conosceva

affatto.»

«Nessuno?»

«Che cosa?»

«Hai detto ’nessuno’, ma immagino ti riferissi a te.»

«Conosco meglio di lui il lato oscuro dell’umanità.»

«Non posso che darti ragione. D’altra parte, nostro figlio si impegnava

parecchio in quel doposcuola, non ci andava tanto per passare il tempo. Gli

interessava davvero. Vedeva le cose dall’interno, non ti pare?»

«Vedeva quello che gli si voleva far vedere. La passione con cui sostiene

l’innocenza di Druitt è... è folle, Trev. Santo Cielo, vorrei che non l’avesse

mai conosciuto.»

Trevor aveva ripreso a mangiare, ma a quel punto alzò gli occhi. Non disse

nulla, non ce n’era bisogno. Clover gli leggeva nel pensiero, da sempre.

«Sì, sì, lo so» gli disse. «Sono stata io a insistere perché si impegnasse in

qualcosa di socialmente utile. Sono stata io a porla come condizione, se

voleva andare a stare da solo. Sono stata io ad approvare il doposcuola di

Druitt, come programma socialmente utile. Lo so, lo so. Capisco tutto.

Volevo soltanto che facesse un po’ di volontariato, tutto qui. Non pensavo

che sarebbe diventata la sua ragione di vita.»

«Non è diventata la sua ragione di vita» puntualizzò Trevor.

«Non lo so. È andato tutto a rotoli: io volevo trovargli un’occupazione utile

per il tempo libero in maniera che non passasse le giornate a... non lo so... a

bere, a drogarsi, a fare sesso promiscuo... Invece guarda tu cos’è venuto

fuori: comunque la rigiri, è un disastro. Se penso che il mio scopo era evitare

che finisse in prigione...»

Trevor non rispose, perché voleva che Clover ci arrivasse da sola, che si

rendesse conto delle cose che diceva a proposito del loro figlio. Era vero,

Finnegan era stato difficile fin da bambino, ma non era un criminale e non era

a rischio di prigione. Era scapestrato, questo sì. Strafottente e a volte


ingovernabile, è vero, ma era un bravo ragazzo.

Dopo un momento di silenzio, Clover assunse un tono completamente

diverso. «Va bene, ho capito dove volevi farmi arrivare. Ma non si tratta di

Finnegan, e forse non è mai stato lui il problema. Ammetto di essere

esagerata, ma sono sotto stress, Trev. Se l’operato della West Mercia Police è

sotto esame, vuol dire che siamo tutti sotto esame, e Gaz Ruddock in

particolare. Di nuovo. Probabilmente ho paura che Finnegan peggiori la

situazione facendo affermazioni imprudenti riguardo a Druitt.»

«Peggiori la situazione per chi?» Trevor pose quella domanda con cautela,

conscio di avventurarsi in acque di cui, prima di quella conversazione,

ignorava l’esistenza.

«Per Gaz, immagino. È la quarta volta che finisce sotto esame. Prima o poi

lo licenzieranno» rispose Clover.

«Possibile. In fondo, però, sono problemi suoi.»

«Non mi sembra giusto che debba subire ancora una volta lo stesso

trattamento.»

«Giusto o non giusto...» Trevor prese in mano il bicchiere, ma prima di

bere aggiunse: «A dire il vero, Clover, non capisco come mai ti preoccupi

tanto per lui».

«È normale che mi preoccupi, Trevor! L’ho assunto io, ho creduto di

vedere in lui qualcosa di speciale, ho investito in lui, ho fatto di lui il mio

protetto. E lui si è comportato splendidamente fino... fino alla storia di Ian

Druitt. Siccome prima non aveva mai compiuto un passo falso, non voglio

che perda il posto, e poi...»

Trevor notò la sua esitazione e pensò che o le era appena venuta in mente

un’altra cosa, oppure Clover non voleva avventurarsi troppo vicino a

qualcosa di cui preferiva tenerlo all’oscuro.

«E poi cosa?» le chiese.

Clover rimase zitta. Guardò il vino nel bicchiere, lo fece roteare, ne bevve

un sorso.

«Che cosa, Clover?»

«Be’, se fa brutta figura lui, faccio brutta figura anch’io. Non voglio fare

brutta figura e suppongo che neanche tu vorresti, se fossi al mio posto.»

«Nient’altro?»

«Cos’altro ci dovrebbe essere?»

«La questione è proprio questa, secondo me» rispose Trevor dopo un


istante di dubbio. Si rendeva conto che rischiava di intorbidare quelle stesse

acque di cui fino a poco prima ignorava l’esistenza, ma era indispensabile

chiarire. «Non ci avevo mai pensato, ma... cos’è veramente per te Gaz

Ruddock, Clover?»

La moglie lo fissò per un tempo che a lui parve lunghissimo, ma che forse

non lo era. «Cosa diavolo vorresti dire con questa domanda?» rispose.

«Quello che ho detto: cos’è veramente per te Gaz Ruddock. Qualcosa di

più di quel promettente ragazzino in cui hai creduto di vedere qualcosa ’di

speciale’?»

«Mi sembra di essermi già spiegata in modo più che esauriente.»

«Davvero? In modo esauriente?»

«Che cosa stai insinuando, Trev?»

«Ti sto semplicemente facendo una domanda. Sei in ansia per Gaz

Ruddock e mi sembra logico che io ti chieda come mai. No?»

«Non lo so» rispose Clover. «Vediamo le cose in maniera diversa.» Posò il

tovagliolo sul tavolo e le posate sul piatto. «Sarà meglio che ci diamo una

mossa: quelli di Scotland Yard stanno per arrivare. Se ti pare il caso, esponi a

loro i tuoi dubbi.»

Worcester

Herefordshire

Il vicecomandante Clover Freeman abitava in un complesso residenziale di

recente costruzione, con villette dotate di garage e ampi giardini fioriti.

Quella dei Freeman era identica a tutte le altre a parte il giardino, che era

poco curato.

Suonarono il campanello e vennero accolti non dal vicecomandante

Freeman ma da un uomo che si presentò come il marito, Trevor Freeman.

Aveva lineamenti marcati e la testa rasata per nascondere la calvizie. Era alto

poco meno di Lynley, ma molto più massiccio sul girovita, come tanti uomini

della sua età, che doveva aggirarsi fra i quarantacinque e i cinquantacinque.

Lynley escluse l’ipotesi nonna: se Clover Freeman era parente di Finnegan,

doveva essere o la mamma o la zia.

Trevor Freeman spiegò ai due poliziotti che Clover stava preparando il

caffè. Se volevano accomodarsi, li avrebbe raggiunti di lì a poco. Indicò loro


la porta aperta di una sala con un finto caminetto spento e un televisore

maxischermo sintonizzato su Shakespeare a colazione.

Lynley e Barbara entrarono e Trevor Freeman li seguì. Una delle pareti era

riservata alle foto di famiglia. Sembrava che i due avessero un solo figlio,

ritratto in varie età in una serie di immagini disposte intorno a quella centrale,

in cui Clover e Trevor Freeman, meno che trentenni, apparivano raggianti nel

giorno delle loro nozze, lui con una criniera di capelli ricci. Inaspettatamente,

a Lynley tornò in mente il giorno delle sue nozze con Helen e, per un breve

istante, l’emozione del momento in cui erano stati dichiarati marito e moglie.

Provò una fitta al cuore nel riandare a quel sì pronunciato senza capire, la cui

rilevanza sarebbe apparsa solo quando aveva rischiato di farsela portare via

da qualcun altro. Poi l’aveva persa comunque, ma quello era un terreno sul

quale non era ancora pronto ad avventurarsi.

«È suo figlio?» disse Barbara Havers.

«Sì. Quello è Finn, sì» rispose Trevor Freeman.

«Bel ragazzo» osservò Barbara.

«Lo era, prima di rasarsi a zero e farsi tatuare la testa. Adesso lo è un po’

meno.»

«Ahi ahi» esclamò Barbara. «Be’, almeno, quando i capelli ricresceranno,

il tatuaggio non si vedrà più. Probabilmente.»

L’uomo si grattò la testa. «Sperando che non abbia preso da me»

commentò.

Barbara osservò le altre foto. «È figlio unico?»

«Ne avremmo voluti di più, ma non è successo. C’è ancora tempo, forse.»

«Quanti anni ha?»

«Diciannove. Abita a Ludlow. Frequenta il college.»

«Speriamo che prima o poi trovi la sua strada. Piacere, Clover Freeman.»

Lynley e Barbara si voltarono. Il vicecomandante era sulla porta con un

vassoio in mano, sul quale erano posati una caffettiera a pressione, tazze e

accessori vari. Il marito corse a prenderglielo per consentirle di stringere la

mano ai due ospiti, che si presentarono. Clover Freeman li pregò di

accomodarsi e servì loro il caffè prima di versarne una tazza per sé. Ce

n’erano soltanto tre e il motivo apparve chiaro quando disse: «Trev, se hai

altro da fare, non è necessario che resti con noi». Poi si voltò verso Lynley

per averne conferma. «Dico bene, ispettore?»

«Non siete qui per Finn, vero?» domandò Trevor, come se la scelta se


ritirarsi o restare dipendesse da quello.

«Direi proprio di no. Ce ne sarebbe motivo?» rispose garbato Lynley.

«No, a quanto ne so» rispose Clover.

«Allora vi lascio al vostro lavoro» fu la conclusione di Trevor Freeman.

Un attimo dopo lo sentirono salire le scale. Poi udirono voci in televisione a

un volume esagerato, che subito venne abbassato.

Lynley ebbe quindi il tempo di studiare Clover Freeman, una volta stabilito

che era la madre del Finnegan di cui gli aveva parlato Barbara e che Isabelle

aveva interrogato. Non era alta, ma il top aderente e smanicato metteva in

evidenza un fisico scolpito, con le braccia e le spalle muscolose di chi si

allena regolarmente con i pesi. Anche le gambe fasciate dai leggings

confermavano la sua perfetta forma fisica. Clover Freeman non aveva un

grammo di grasso.

«Come posso esservi utile? Il comandante Wyatt mi ha detto che siete stati

in sede. Purtroppo non ero in ufficio quando siete andati a parlargli» disse il

vicecomandante con la tazza del caffè in mano.

Lynley fece cenno a Barbara di cominciare. «Il nostro sovrin... Il

sovrintendente Ardery ha parlato con Finnegan nel corso della nostra prima

trasferta qui e lui non le ha detto che sua madre era nella polizia. E neanche

che era stata lei a dare ordine di fermare il suo amico Ian Druitt.»

Clover Freeman guardò prima Barbara, poi Lynley e quindi di nuovo

Barbara. «Devo commentare?»

«Stiamo cercando di chiarire i legami fra i personaggi coinvolti nelle

indagini» rispose Lynley.

«Non saranno molti, immagino.»

«Questo è uno» replicò Barbara. «Lei, suo figlio, Ian Druitt, Geraldine

Gunderson e suppongo di doverci mettere anche Gary Ruddock... È lui a

lasciarci maggiormente perplessi.»

«Per quale motivo?»

Barbara si strinse nelle spalle. «Ogni volta che approfondiamo le

circostanze della morte di Ian Druitt, viene fuori un legame nuovo.»

Il vicecomandante prese il cucchiaino e girò il caffè. «Capisco. Be’, il mio

legame con questa storia è attraverso mio figlio, il quale a sua volta era legato

al signor Druitt, che io non ho mai incontrato di persona. Per il resto si tratta

di rapporti gerarchici tra le persone che sono intervenute la sera del suicidio

di Druitt.»


Lynley si rese conto che continuare di quel passo avrebbe portato

semplicemente a una discussione sui diversi punti di vista di loro tre riguardo

alla morte di Druitt e cambiò approccio. «Siamo tornati nello Shropshire

perché il sergente Havers ha scoperto che sono passati diciannove giorni fra

la denuncia anonima e la morte di Ian Druitt. Il rapporto dell’IPCC non fa

cenno a questo aspetto, né riferisce ciò che è accaduto in quel lasso di tempo.

Parlando con il comandante Wyatt oggi abbiamo appreso che non vennero

svolte indagini a seguito della denuncia per pedofilia. Dal momento che è

stata lei a prendere provvedimenti, dopo diciannove giorni, speravamo che ci

spiegasse cosa l’ha spinta ad agire.»

Clover Freeman ascoltò Lynley attentamente, guardandolo fisso. «La

spiegazione è semplice: fino a quel momento ignoravo che fosse stata sporta

denuncia» rispose poi.

«E come lo è venuta a sapere?» Lynley notò che Barbara aveva tirato fuori

il bloc-notes e anche Clover Freeman se ne accorse. Dalla faccia, non sembrò

affatto contenta.

Si accigliò e, dopo aver riflettuto un momento, rispose: «Se ben ricordo,

l’ho sentito dire al centro di addestramento. Avevamo una riunione con

parecchie persone – è nel complesso dove si trova la sede – e a un certo punto

se n’è parlato. Un diacono della chiesa accusato di pedofilia».

«Può essere più specifica?» chiese Lynley.

«Mi dispiace, ma quel giorno avevo un sacco di cose da fare. Posso dirvi

soltanto che erano in molti a parlarne. Mi spiace, ma non ricordo con

precisione.»

«Come mai ordinò il fermo di Druitt?» domandò Barbara. «È la prassi, in

un caso del genere? Voglio dire, è chiaro che una denuncia a proposito di

un’indagine in corso viene trasmessa immediatamente a chi se ne sta

occupando, ma qui non c’era nessun fascicolo aperto, a quanto ci risulta.»

«È vero» rispose Clover Freeman. «Ma si trattava di un’accusa di pedofilia

che era stata ignorata e la cosa mi ha colpito parecchio, sia come

vicecomandante sia come madre.»

«Quindi ha telefonato alla Gunderson e le ha detto di portarlo dentro.»

«Più o meno, sì. Le ho ordinato di incaricare qualcuno di fermarlo.»

«Quanto tempo dopo essere venuta a sapere della denuncia anonima?»

chiese Lynley.

«Come dicevo, la sera stessa. Le ho telefonato e le ho detto di mandare


qualcuno a prenderlo e trasferirlo nella stazione di Ludlow e lei ha eseguito.

Avrete di sicuro la documentazione che vi è stata fornita la volta scorsa, no?

È spiegato tutto lì.»

«Se ci vuole rinfrescare la memoria...» chiese educatamente Lynley.

Clover Freeman si alterò. Fu una reazione minima, una lieve contrazione

nella regione degli occhi che sarebbe facilmente sfuggita a chi non fosse stato

più che attento. Lynley dedusse da quel moto di stizza quasi impercettibile

che la Freeman sapeva benissimo che né lui né Barbara avevano bisogno che

lei rinfrescasse loro la memoria, ma speravano di farla cadere in

contraddizione.

«Per esempio, come mai non ha chiamato i colleghi di Shrewsbury e non

ha chiesto a loro di occuparsene?»

«L’ho fatto» rispose Clover Freeman. «Non potevano, perché avevano

un’operazione da gestire. Perciò ho chiamato Gerry Gunderson, che è

responsabile degli ausiliari di zona, e le ho chiesto di mandare l’ausiliario di

Ludlow.»

«Perché tanta fretta?» domandò Lynley. «Poteva comunque occuparsene la

polizia di Shrewsbury una volta conclusa l’operazione. Il fermo di Druitt

poteva aspettare.»

«Sì, certo» ammise il vicecomandante. «Sono in parte responsabile per il

modo in cui è stata gestita la faccenda. Vedete, Finnegan...» E indicò con la

testa le fotografie appese al muro. «Finnegan lavorava con Druitt. Se ci fosse

stato anche solo un minimo fondamento... » Prese la tazza fra le due mani.

Sembrava a disagio. «Volevo che stesse lontano da Finnegan, se c’era la

possibilità anche remota che fosse veramente un pedofilo. Volevo

interrogarlo approfonditamente.» Bevve un sorso di caffè e posò la tazza sul

tavolino. «Ho avuto una reazione esagerata, ispettore» aggiunse poi in tono

sincero. «Druitt, Finnegan, la pedofilia, il doposcuola, la denuncia per

molestie... Volevo capire com’era la situazione per via di mio figlio.» Inclinò

la testa verso la porta. «Trev direbbe che non è la prima volta che metto

Finnegan al primo posto. Solo che in questo caso è finita tragicamente.»

«Gary Ruddock mi ha detto di aver lasciato solo Druitt per gestire altri

problemi in città» disse Barbara.

«Non di essere uscito dalla stazione di polizia, vero?»

«No. Di aver lasciato solo Druitt nella stanza.»

«Come pensavo» replicò il vicecomandante. «Mi è stato detto che era in


corso un’abbuffata alcolica in centro. Ma immagino che voi lo sappiate già.

Lo avrete appurato nel corso della vostra prima visita.»

«Siamo tornati per via dell’intervallo di diciannove giorni fra la denuncia e

il fermo» le ricordò Lynley.

«Sì, e per Clive Druitt, il padre del defunto. Nessuno vorrebbe la pubblicità

che accompagnerebbe un’azione legale, se mai dovesse intentarla» aggiunse

Barbara.

«Mi dispiace tantissimo» disse Clover Freeman. «La colpa in fondo è mia,

ne sono consapevole. Credetemi, se tornassi indietro...»

«È sempre così» commentò Barbara.

Ludlow

Shropshire

Barbara Havers sapeva che era sbagliato odiare Clover Freeman solo perché,

pur avendo dieci anni più di lei, aveva il fisico di una campionessa olimpica.

La diffidenza che Barbara provava nei suoi confronti, la voglia matta di

scoprire che era colpevole di qualcosa, era dettata dall’invidia. Sembrava

proprio che la Freeman potesse essere accusata soltanto di curare la propria

forma fisica con una serie di attrezzi che Barbara aveva adocchiato nel

solarium adiacente alla sala. Probabilmente era pure vegetariana, maledetta

lei.

Non esternò queste sue riflessioni all’ispettore durante il viaggio di ritorno

al Griffith Hall, dove avrebbero di nuovo soggiornato. Si soffermò piuttosto

su un’altra caratteristica di Clover Freeman, che si era autodefinita una madre

iperprotettiva. A suo parere, spiegò a Lynley, quella iperprotettività nei

confronti del figlio nel caso specifico poteva essersi concretizzata in due

modi: la Freeman era stata troppo impulsiva perché temeva che le accuse

fossero fondate – e quindi voleva tenere il figlio lontano da Druitt – oppure

perché aveva paura che Finnegan fosse in qualche modo coinvolto.

«Magari per un po’ sta a guardare e basta, poi decide di unirsi al suo amico

e di dare qualche palpatina anche lui» disse. Lynley le lanciò un’occhiataccia

e lei si scusò prontamente. Rifletté ancora un po’. «O magari è lui a mettere

le mani addosso ai bambini, Druitt lo becca e lui per difendersi lo accusa.

Non abita lontano dalla stazione di polizia, fra parentesi.»


Dopo qualche minuto di guida silenziosa e, immaginò Barbara,

meditabonda, Lynley si espresse. «Sono entrambe ipotesi plausibili, per

quanto sgradevoli.»

Altro silenzio. Stava imbrunendo. Lì al Nord, benché la distanza non fosse

molta, le giornate erano più lunghe che a Londra. Meno grattacieli a oscurare

prematuramente il sole, pensò Barbara. Spazi aperti, colline basse e solo

boschi cedui a spezzare la linea dell’orizzonte.

«Questa cosa della pedofilia, Barbara...» Lynley non portò a termine la

frase e rimase pensoso. Barbara si chiese se intendesse andare avanti oppure

no, ma poi Lynley aggiunse: «Uno che conoscevo dai tempi di Eton aveva

queste inclinazioni».

«Un professore?»

«No, un ex studente. Sosteneva di non aver mai ceduto ai propri istinti, ma

aveva alcune foto. Le teneva accuratamente nascoste, ma nel corso di

un’indagine le ho trovate.» Si voltò verso di lei e Barbara lo vide per la prima

volta non solo in imbarazzo, ma anche turbato.

«Cristo, John Corntel!» esclamò Barbara. «L’ha coperto, ispettore? Non ha

pensato che...? E se in questo preciso momento stesse...? Voglio dire, adesso

potrebbe mettere in pratica ciò che fino a un certo punto si è limitato a

guardare. Signore Gesù!»

«Lo so, non ne vado fiero» mormorò Lynley. «Siamo ancora in contatto.

Sostiene di esserne uscito, ma Dio solo sa se è vero.»

«Cos’è? Una confessione?» chiese Barbara. «Dopo tutto ’sto tempo?

Quanti segreti mi tiene nascosti, ispettore?»

«Non ci ho dormito, Barbara, per un sacco di tempo. Sono perfettamente

consapevole di avere delle responsabilità. Non soltanto in questa vicenda.»

Barbara capì che Lynley stava parlando della morte di Helen. Non aveva la

minima colpa per ciò che era successo a sua moglie, ma si rifiutava di

accettarlo. Preferì non infierire, visto quello che le aveva appena confessato.

Non si capacitava che Lynley fosse venuto meno alle proprie responsabilità

in una questione così grave, ma perlomeno ora riusciva a vedere l’ispettore

come un essere umano.

Erano a Leominster e stavano per imboccare la A49 per Ludlow, quando

Lynley riaprì bocca. «Ho ripensato a quella vecchia storia per via delle

fotografie. Fra gli effetti personali di Druitt c’era qualcosa che suggeriva una

tendenza pedofila?»


«Foto di bambini nudi? Pedopornografia? Se parliamo di foto vere e

proprie, no. Ma ormai i maniaci non vanno su Internet?»

«Sì. Di solito, sì. Ian Druitt possedeva un computer? Un portatile? Un

tablet?»

«Non abbiamo trovato niente» rispose Barbara. «Ma siccome non navigava

nell’oro, ci sta.»

«E Clive Druitt?»

«Vuole sapere se ci ha consegnato dispositivi elettronici del figlio? La

risposta è no. Naturalmente, può darsi che Ian Druitt avesse un computer e

che suo padre se lo sia tenuto. Magari gli serviva. Anche se... Non mi sembra

sia spiantato: poteva comprarsene uno nuovo. Perché si sarebbe dovuto tenere

quello del figlio?»

«Se conteneva qualcosa...» ipotizzò Lynley.

«Prima avrebbe dovuto controllare in memoria. E questo significa che

avrebbe dovuto sapere che doveva cercare qualcosa. Sinceramente, mi

sembra poco plausibile.»

«E la donna da cui abitava? Quella che gli affittava la stanza? Come si

chiama?»

«Flora Bevans. Potrebbe essersi tenuta lei il portatile o il tablet di Druitt.

Non so se l’avrebbe consegnato a Druitt padre, se ne avesse avuto bisogno.»

«Oppure Ian Druitt andava su Internet usando lo smartphone» azzardò

Lynley.

«Purtroppo, però...»

«Non mi dica che non avete nemmeno il cellulare!» Lynley la guardò.

Aveva imboccato la A49 e stavano percorrendo un rettilineo. «Non ha senso.

Druitt non abitava nella casa parrocchiale e il vicario doveva avere la

possibilità di contattarlo. Ammettiamo pure che in casa avesse un fisso: cosa

faceva? Rientrava ogni volta che doveva ascoltare i messaggi, aveva

qualcuno che gli prendeva le telefonate quando era fuori? Mi sembra

impossibile che non avesse il cellulare. Dobbiamo scoprire dov’è.»

La logica di Lynley era stringente e Barbara si vergognò di non averci

pensato prima. Quando aveva esaminato gli effetti personali di Druitt, non le

era venuto in mente di chiedersi se il diacono usasse dei dispositivi

elettronici. «Secondo me» disse, «dobbiamo chiedere innanzitutto al

reverendo Spencer, ispettore. È del tutto estraneo alla vicenda. Ci dirà la

verità senza girarci intorno: computer, portatile, tablet, cellulare e chi più ne


ha più ne metta.»

«Andremo a parlargli domattina, allora.»

Era tardi, quando arrivarono al Griffith Hall. Lynley si infilò con la sua

preziosa vettura nello stretto varco che conduceva al parcheggio e la lasciò

lontana dagli altri mezzi e a distanza di sicurezza da eventuali passanti.

Raccolsero le loro cose e pochi minuti dopo salutarono Peace on Earth, che si

dichiarò lieto di rivedere Barbara e si presentò a Lynley sfoggiando i suoi

enormi dilatatori.

«Vi ho dato le stesse camere dell’altra volta» disse premuroso. Poi si

rivolse a Barbara. «La accompagno, se non ricorda la strada o ha bisogno che

le porti la valigia.»

Barbara stava per rispondergli che sia la stanza sia l’hotel le sarebbero

rimasti per sempre impressi nella memoria, ma si trattenne. «Non si disturbi:

faccio da sola. Venga, ispettore» e partì verso le scale.

Arrivarono a quella che era stata la stanza di Barbara e Lynley aprì la

porta. «Oh» disse, poi posò la valigia per terra.

«Ispettore, questa è la mia camera. La sua è l’altra.»

«Non si preoccupi, sergente. È soltanto per dormire» replicò Lynley.

«Sicuro? Voglio dire... La camera del sovrintendente Ardery è più grande,

più... Ho l’impressione che mi abbia messo qui per dispetto.»

«Quando si alloggia a spese della Metropolitan Police, ci si deve

accontentare. Le porto la valigia fino alla sua camera?»

«Ce la faccio da sola» rispose Barbara. «Se mi accompagna, poi per

tornare qui si perde: è un dedalo di corridoi, scale interne, scale esterne... È

sicuro di non volere la stanza del sovrintendente?»

«Non sarà molto diversa da questa, no?»

«Be’, un po’ sì.»


17 MAGGIO

Ludlow

Shropshire

Barbara vide che Lynley si alzava da tavola con una smorfia, dopo la

colazione, e capì che avrebbe dovuto insistere. La sera prima aveva fatto un

rapido giro per la suite – non sapeva come altro definirla – in cui aveva

soggiornato il sovrintendente Ardery ed era tornata di corsa alla camera di

Lynley con la valigia in mano. Sì, certo le avrebbe fatto piacere avere la

camera del sovrintendente, a spese proprie non si sarebbe mai potuta

permettere un simile lusso, ma non era giusto, sul serio.

Lynley le aveva aperto con lo spazzolino da denti in mano. La striscia di

dentifricio era applicata perfettamente: il suo dentista doveva essere fiero di

lui. L’aveva guardata sbattendo le ciglia. «Cosa c’è, sergente?» aveva chiesto.

«Dobbiamo scambiarci le camere, ispettore» aveva risposto Barbara.

«Davvero? E perché?»

«Appena la vedrà, capirà. Non ha ancora disfatto i bagagli, giusto? A parte

spazzolino e dentifricio, intendo. E filo interdentale, immagino, visto che lei

prende molto sul serio l’igiene orale.»

«Sono lieto che se ne sia accorta, Barbara.»

«Sì. Allora, raccolga le sue cose: le faccio strada.» Aveva lasciato cadere la

sacca per terra e l’aveva spinta dentro con un piede.

«Perché?» aveva ripetuto Lynley.

«Perché ci dobbiamo scambiare le camere? Perché l’altra è molto più bella,

più adatta ai suoi standard... nobiliari.»

«Non dica scempiaggini, sergente» era stata la reazione di Lynley. «Ci

dormiremo e basta. Io, almeno, non la userò per altro. Lei non so. Dovesse

mai incontrare un provetto ballerino di tip tap – e le giuro che Dorothea

Harriman non mi ha detto nulla – conviene che abbia la stanza più grande. Ci

vediamo domattina.»


Barbara era sicura che l’ispettore se ne sarebbe pentito e, quando gli vide

in faccia quella smorfia di dolore, ne ebbe la conferma. Lynley tuttavia si

rifiutò di dirle come aveva dormito – o non dormito – e, finita la colazione,

andarono a parlare al reverendo.

Quando arrivarono lo videro uscire dalla chiesa di St. Laurence. Doveva

aver appena terminato di celebrare il rito mattutino, perché era in compagnia

di un certo numero di vecchiette che dovevano essere parrocchiane, tutte con

il medesimo libretto sottobraccio. Era una congregazione alquanto sparuta,

pensò Barbara, ma era un giorno feriale e forse il motivo era quello.

Dopo aver congedato le vecchiette, Christopher Spencer notò Barbara e

Lynley. Andò loro incontro appena fuori dalla recinzione in ferro battuto che

circondava la chiesa.

«Sergente Havers» disse, cordiale. «È tornata o non è mai partita?»

Barbara rimase favorevolmente impressionata dal fatto che ricordasse

come si chiamava, ma rifletté che probabilmente il reverendo aveva imparato

a memorizzare i nomi delle persone perché doveva ricordare quelli dei suoi

parrocchiani. «Sono tornata» rispose e gli presentò Lynley. «Speravamo di

poterle parlare un attimo. Ha tempo?»

«Certo. Volete venire in canonica? Vi preparo un caffè. Non credo di avere

altro da offrirvi, però, a parte qualche biscotto stantio.»

Barbara e Lynley dissero che avevano appena fatto colazione. «Ci

tratteniamo poco» aggiunse poi Barbara.

«Venite» disse il reverendo indicando il portone della chiesa. «Possiamo

parlare anche qui, staremo tranquilli. La mattina dei giorni feriali vengono

pochi fedeli. Anche nei festivi, a dire il vero. Tranne quando le chiese si

riempiono per gli attentati terroristici.»

Lynley e Barbara dissero che per loro andava bene parlare in chiesa e il

reverendo li accompagnò in quella che chiamò la St. John’s Chapel.

Barbara la riconobbe subito: la splendida finestra in stile gotico era

indimenticabile, con i suoi vetri colorati scampati alla distruzione.

Spencer parlò per primo. «Immagino che siate tornati per Ian. Non so che

cosa dirvi più di quello che vi ho già detto l’altra volta.»

Lynley prese in mano la situazione. «Le circostanze della sua morte non

sono ancora del tutto chiare. Siamo qui per approfondire.»

«E cominciate con me?»

«Abbiamo cominciato ieri.»


«Qualcuno vi ha parlato di me?»

«Volevamo soltanto farle alcune domande che l’altra volta non le abbiamo

fatto.»

«Capisco. Be’, non sono sicuro di potervi essere d’aiuto, ma sono a vostra

completa disposizione.»

Lynley lo ringraziò con i suoi modi cortesi. Poi fece cenno a Barbara che

disse: «L’altra volta, il padre di Druitt ha consegnato al sovrintendente

Ardery gli effetti personali del diacono e noi li abbiamo esaminati con cura

senza riscontrare alcuna anomalia, se posso esprimermi così».

«Anomalie rispetto al fatto che Ian era un uomo di Dio, presumo.» Spencer

si aggiustò gli occhiali, che gli erano scivolati sulla punta del naso, ma che gli

riscivolarono giù subito dopo.

«Esatto» disse Barbara. «Ma l’ispettore e io... Pensiamo che manchino

alcune cose e volevamo controllare con lei. Ian ha vissuto con lei e sua

moglie per un certo periodo, giusto?»

«Per un po’, sì. Le assicuro che né io né Constance ci saremmo mai tenuti

qualcosa di Ian. Ce ne saremmo accorti, se avesse dimenticato qualcosa.

Glielo avremmo restituito. E anche i nostri figli e i nostri nipoti...»

Barbara si affrettò a rassicurare il reverendo che non stavano accusando i

suoi discendenti di cleptomania. «Ci chiedevamo semplicemente se gli aveste

visto usare gli oggetti che ci sembrano mancare, ma che non sappiamo se lui

effettivamente avesse» spiegò.

«Ho capito. A che cosa vi riferite?»

«Cellulare, portatile, tablet, computer...»

Spencer annuì. «Quando stava da noi, usava il computer della casa

parrocchiale. È un bestione enorme e vecchissimo, ma per quello che ci

dobbiamo fare noi va più che bene. Suppongo leggesse la posta elettronica e

lo usasse per tenere i contatti. Che cosa avesse dove è andato ad abitare poi

non vi so dire. Potrebbe essersi comprato qualcosa. Quando stava qui, però,

non aveva nient’altro, o almeno io non l’ho mai visto usare nulla.»

«Neppure il cellulare?»

«Ah, sì, scusatemi. Il cellulare lo aveva. Era uno smartphone, o come si

chiamano.»

Barbara lanciò a Lynley un’occhiata trionfale. «Fra gli oggetti consegnati

da suo padre il cellulare non c’era e Flora Bevans, la signora presso cui Ian

aveva preso in affitto la camera, dice che non è neanche lì. Secondo lei dove


potrebbe essere?» chiese.

Spencer guardò nel vuoto. «Strano. Non capisco come mai non fosse fra i

suoi effetti personali. A meno che non sia rimasto da qualche parte... Siete

sicuri che non gliel’abbiano sequestrato quando è stato fermato? Lo dico

perché Ian lo teneva sempre con sé e quindi do per scontato che lo avesse

anche quella sera. Lo chiamavano in continuazione da una parte e dall’altra e

cercava di essere sempre disponibile, se qualcuno aveva bisogno. Non si

faceva telefonare in canonica o al numero di casa.»

Rimasero un istante in silenzio a riflettere sulla questione. «Se ricordo bene

quello che è scritto nell’incartamento, quando è stato fermato era in chiesa e

stava celebrando una funzione, oppure si stava svestendo appena finito di

celebrarla. Dico bene?» disse Lynley pensoso.

Spencer sorrise. «Ma certo! La sacrestia. L’avrà lasciato lì quando ha

indossato i paramenti. La forza dell’abitudine. Non voleva che suonasse

durante la funzione. Venite.»

Uscirono dalla cappella e, attraverso la navata centrale, raggiunsero il coro,

dove si trovava la porta di rovere della sacrestia. Il vicario accese le luci, che

illuminarono dall’alto alcuni armadi chiusi, una cassettiera e vetrine in cui

erano conservati sottochiave calici, patene, crocifissi e altri accessori

sacerdotali.

«Ecco» disse Spencer. «Sarà qui da qualche parte. Direi di guardare nei

cassetti, prima di tutto. In quegli armadi ci sono casule, cotte e pianete, i

paramenti più ingombranti. Le casule hanno le tasche, ma non credo proprio

che Ian celebrasse con il cellulare in tasca. No, controlliamo i cassetti.»

Barbara notò che nei più larghi erano riposte candide tovaglie da altare

inamidate e suppellettili nei vari colori liturgici. Nient’altro. Accanto ai

cassetti più larghi, tuttavia, ce n’era una fila di più stretti con stole, candele,

brochure sulla storia della chiesa, cartoline e... un cellulare e un mazzo di

chiavi.

«Ci siamo, amici cari» disse Christopher Spencer. «Dev’essere di Ian,

perché mio non è. E queste saranno le chiavi della macchina.»

Ma certo! pensò Barbara. Ian Druitt doveva per forza avere una macchina!

Non poteva abitare a casa di Flora Bevans e far fronte a tutti i suoi numerosi

impegni spostandosi con i mezzi pubblici. Era un’altra delle cose che non

aveva pensato di controllare durante la visita con Isabelle Ardery e se ne

vergognò moltissimo. Guardò Lynley per misurare il suo livello di


irritazione, ma lo vide pensoso.

«Lei sa dove Druitt ha lasciato la macchina?» chiese a Spencer.

Spencer si morse il labbro. «Qui intorno i parcheggi sono riservati ai

residenti o al carico e scarico delle merci, anche se ogni tanto un posto a

pagamento si trova, ma la sosta massima consentita è di due ore. Penso che

Ian cercasse di posteggiare dove poteva fermarsi più di due ore» rispose.

Rifletté ancora un po’. «Ci sono due parcheggi che potrebbe aver usato: uno è

dietro il West Mercia College, vicino a Castle Square, e l’altro è nei pressi

della biblioteca, dall’altra parte di Corve Street, poco più avanti del Bull

Ring, ha presente? Da lì alla chiesa sono solo due passi. In ogni caso, a

quest’ora gliel’avranno portata via» disse con aria mortificata. «Rimozione

forzata. Non usano le ganasce, di solito.»

«Non potrebbe averla presa il padre con un altro paio di chiavi?» chiese

Lynley.

«È possibile. Se sapeva dove era posteggiata...»

«Non le ha fatto domande riguardo all’automobile del figlio?»

Spencer scosse la testa. «Voi siete i primi.»

«Che macchina aveva?» domandò Barbara.

«Ossignore, mi dovete scusare, ma sono negato, con le macchine. L’ho

vista, ma non saprei dirvi che macchina fosse, a parte che era azzurra. E

vecchia. Non so dirvi altro.»

Ludlow

Shropshire

Prima di congedarsi, Lynley disse al reverendo che forse avrebbero portato

via il computer per farlo esaminare da un tecnico della Scientifica. Poiché Ian

Druitt lo aveva usato nel periodo in cui era stato dagli Spencer, poteva aver

lasciato tracce utili ai fini delle indagini. Spencer fece una faccia preoccupata

nel sentirgli pronunciare la parola «tracce», ma non chiese chiarimenti e

assicurò che non c’erano problemi, avrebbe consegnato il computer alla

polizia, se necessario.

Lynley e Barbara lo salutarono e se ne andarono. La prima cosa da fare era

trovare un caricatore per il cellulare di Druitt, che nel frattempo si era

scaricato. Lynley suggerì di incamminarsi verso l’hotel, dove probabilmente


ne avevano un discreto assortimento per gli ospiti smemorati e distratti.

Il mercato a quell’ora era in pieno svolgimento. Sulle bancarelle erano

esposti indumenti, biancheria per la casa e cianfrusaglie assortite e Lynley si

sorprese dell’interesse di Barbara. Ne capì il perché quando lei gli disse:

«Quello è Harry, ispettore». Invece di dirigersi verso le bancarelle, andò da

una fila di cinque ambulanti con la mercanzia esposta su un telo steso per

terra in fondo alla piazza.

Harry era un uomo di mezz’età con un pastore tedesco piuttosto

minaccioso. Aveva i vestiti puliti ma stropicciati: i pantaloni erano un po’

corti, la maglia da golf aveva ricamato sulla sinistra, all’altezza del cuore,

«St. Andrews». Ai piedi aveva un paio di Birkenstock e in testa un cappello

di paglia. Se lo tolse quando vide arrivare Barbara, alzandosi e producendosi

in un inchino. Anche il pastore tedesco si alzò, ma anziché inchinarsi

scodinzolò con foga. Era una femmina e si chiamava Sweet Pea, scoprì

Lynley. Era dolce come un gattino, gli assicurò Barbara.

«Cosa vende di bello, oggi?» chiese poi all’uomo. «E quanto spera di

riuscire a resistere, prima che l’ausiliario la faccia sgomberare?»

«Devo cercare di ingraziarmi l’agente Ruddock» rispose Harry con una

voce che si avvicinava moltissimo alla Voce con la V maiuscola. Lynley

rimase sorpreso. «Mi duole avere rapporti tanto conflittuali con lui. Non

vorrei contrariarlo.»

«Allora perché lo fa?»

«È disdicevole che nella società moderna ci siano tanti sprechi.»

Lynley capì che si riferiva agli articoli in esposizione sulla sua coperta: un

paio di cesoie da vendemmia tutte ossidate, due guinzagli in cuoio, quattro

tazzine di porcellana senza piattino, due piatti in ottime condizioni, un

righello vetusto, un goniometro, un compasso, una bussola e un orologio

Swatch, oltre a tre cardigan ben piegati.

«E poi mi piace conversare con le persone che si fermano a guardare»

proseguì Harry. «Se sto seduto sul marciapiede a suonare il piffero davanti a

una vetrina, nessuno mi rivolge la parola. Ho notato che in generale i cittadini

preferiscono evitare chi dorme per strada. Probabilmente temono di sentirsi

chiedere denaro o altro. La presenza di Sweet Pea non aiuta, peraltro. Lei è

l’unica ad avermi avvicinato mentre sonnecchiavo davanti a un negozio. Chi

è il suo accompagnatore, se non sono indiscreto?»

«L’ispettore investigativo Lynley» rispose Barbara. «Anche lui, come me,


è della Metropolitan Police.»

«Posso chiedere che cosa vi porta a Ludlow?»

«In questo momento, stiamo cercando un caricatore per un cellulare.

Siamo riusciti a mettere le mani sullo smartphone di Ian Druitt.»

«Perbacco! È un risultato importante?»

«Non lo sapremo finché non l’avremo acceso. Non è che lei ha un

caricatore, vero?»

«Ho un telefono, sì. Tempo fa ho ceduto alle ansie di mia sorella per il

fatto che dormo all’aperto e seguo questo stile di vita. Però non ho il

caricatore, visto che non saprei dove attaccarlo. A ricaricarmi il cellulare è il

mio personal banker. Glielo lascio un paio d’ore e me lo riporta carico.»

Altra sorpresa: come mai quello spaventapasseri aveva un personal

banker? Lynley evitò di intervenire e lasciò continuare Barbara.

«Che cosa ci racconta? È successo qualcosa di interessante?» chiese lei.

«Abbuffate alcoliche, risse in piazza, caseifici in sciopero?»

Sovrappensiero, Harry si sollevò la maglietta e si grattò la pancia bianca.

«Al castello stanno provando per il festival shakespeariano e un’attrice ieri si

è fratturata una gamba cadendo in una botola che non era stata chiusa

correttamente, ma dubito che lei volesse sapere questo. E poi... Mi lasci

pensare... Ah. Due giorni fa si è guastato un pullman davanti alla sala da

concerto e trentotto anziane signore in twin set e scarpe con i lacci sono

rimaste tre ore ad aspettare che ne arrivasse un altro. Avrei detto che donne di

quell’età portassero più pazienza, avendone già passate di cotte e di crude,

invece agitavano stizzite i bastoni da passeggio e un deambulatore è stato

usato come arma impropria. Per fortuna l’agente Ruddock ha parlato a lungo

con loro e le ha placate, altrimenti sarebbe scoppiata una rivolta geriatrica.»

«È intervenuto anche per allontanare gli ubriachi dallo Hart and Hind,

dopo che sono partita?»

«Non mi risulta, ma naturalmente è possibile, visto che i giovani bevono

troppo e il college è proprio dietro l’angolo.»

«Non ha più fatto salire nessuno sull’auto di servizio, però?»

Harry guardò prima lei e poi Lynley. L’ispettore notò che aveva lo sguardo

intelligente e sincero. «Spero che non sia nei guai, poverino. È un brav’uomo,

anche se non ci permette di vendere la nostra mercanzia» disse indicando gli

altri abusivi. «Suppongo non dipenda da lui, peraltro: segue le direttive del

sindaco e del consiglio municipale. Non possiamo biasimarlo, se svolge il suo


lavoro.»

Lynley non aveva ben capito dove volesse arrivare Barbara e si chiese se la

conversazione con Harry avesse un obiettivo preciso. Immaginava di sì,

perché dopo aver scambiato ancora qualche parola, lo salutò e gli

raccomandò di tenere sotto controllo la situazione e riferirle se fosse successo

qualcosa di interessante. A tale scopo, gli diede il proprio biglietto da visita.

Mentre tornavano al Griffith Hall disse a Lynley: «Quel tipo vede tutto: mi

ha raccontato lui che l’ausiliario carica in macchina gli studenti del college

che hanno bevuto troppo e li accompagna... dove li accompagna. Io avevo già

visto una sera Ruddock sull’auto di servizio con una ragazza, a fare non so

cosa. Mi ha poi confessato di non avere la ragazza e quindi mi sono posta

qualche domanda. Come ho detto al sovrintendente, se anche la sera del fatto

era chiuso sull’auto di servizio a fare le porcherie, chiunque sarebbe potuto

entrare per ammazzare Druitt. E se davvero è andata così, lui adesso starà

cercando di coprirsi per non passare guai».

Entrarono nell’hotel e un ragazzo che stava parlando al telefono – non

Peace on Earth – alzò una mano per fermarli. Chiuse la chiamata e si rivolse a

Barbara. «C’è un messaggio per lei.» Le porse un foglietto ripiegato, che

Barbara aprì e lesse. «È passato a cercarci l’agente ausiliario Ruddock. Dice

di telefonargli se abbiamo bisogno di qualcosa, che possiamo contare su di

lui.» Alzò gli occhi dal foglietto. «Immagino lo vorrà conoscere, ispettore»

aggiunse.

«Sì, certo» rispose Lynley.

Il concierge li informò che c’era un signore che li aspettava al bar. «Gli ho

spiegato che non sapevo a che ora sareste tornati, ma lui ha voluto aspettare

comunque.»

Il signore in questione era Clive Druitt. Stava bevendo un caffè e, quando

li vide, si alzò in piedi. «Siete voi gli ispettori della Metropolitan Police?

L’onorevole mi ha avvertito del vostro arrivo.»

Disse che aveva portato con sé gli effetti personali del figlio, nel caso

avessero voluto esaminarli di nuovo. Il sovrintendente Ardery – «quell’altra»,

la definì Druitt, facendo venire i capelli dritti a Barbara – gli aveva assicurato

di averli controllati con cura senza trovare nulla di rilevante, ma gli aveva

fatto «una brutta impressione» quando si erano visti a Kidderminster e gli era

sembrato che avesse l’alito un po’... «Be’, non importa. Non si occupa più lei

del caso, no?»


Lynley rispose che in quel momento gli incaricati erano lui e Barbara e

riuscì almeno in parte a rassicurarlo. Non volle sapere altro sull’alito di

Isabelle perché non era il caso di gettare benzina sul fuoco. Ringraziò Clive

Druitt di essersi scomodato per loro e gli chiese se suo figlio possedesse un

computer, un tablet o un portatile.

«Ian?» replicò l’uomo con una risatina. «Non credo proprio. Non amava la

tecnologia. Anni fa aveva un computer, ma una volta decise di cancellare

alcuni file che secondo lui non servivano a niente e finì per formattare il disco

fisso. Era imbranatissimo.»

«Non usava la posta elettronica, Facebook, LinkedIn...?» domandò

Barbara.

«Forse, ma attraverso lo smartphone. Che però non era fra i suoi effetti

personali. Mi piacerebbe tanto scoprire che fine ha fatto.»

«È in nostro possesso» gli rivelò Lynley. In quel momento comparve

Peace on Earth per chiedere se volessero un caffè, una bottiglietta di minerale

o una spremuta. «Grazie. Ci servirebbe qualcuno che portasse queste scatole

su in camera mia» rispose Lynley.

«Meglio che le portiamo da me» intervenne Barbara. «C’è più spazio, se

vogliamo procedere a un nuovo controllo.»

«Lo spero bene» disse Clive Druitt. «Io vorrei che controllaste nuovamente

tutto quanto. E che stavolta faceste un lavoro accurato.»

«Anche il lavoro svolto finora è stato accurato» ribatté Lynley e, senza

dare a Druitt il tempo di obiettare, gli chiese la data di nascita e il numero di

telefono di tutti i membri della famiglia, spiegando che il cellulare di Ian

probabilmente aveva una password e che era possibile che il diacono si fosse

ispirato a quelli, come fa la maggior parte della gente.

Druitt gli chiese per quando gli servissero e Lynley rispose educatamente

che la cosa migliore sarebbe stata mettersi subito all’opera. Barbara prese

taccuino e matita meccanica e assunse un’espressione di estremo interesse per

le rivelazioni che Druitt si accingeva a fare. In realtà Druitt dovette telefonare

alla moglie, perché ricordava solo la data di nascita del primogenito e

neanche di quella era sicuro al cento per cento. Per fortuna la signora Druitt

era più preparata e lui dettò tutte le informazioni a Barbara, che ne prese nota.

Alla fine dell’elenco, Druitt stette a sentire ancora qualcosa che aveva da

dirgli la moglie e poi informò Barbara che Ian era molto affezionato a una

prozia, per cui ritenevano prudente darle anche la data di nascita e il numero


di telefono della zia Uma.

Conclusa la telefonata, si rivolse a Lynley. «Che cosa pensate di trovare

nel telefono di Ian?» gli chiese a bruciapelo.

«È la prassi. Faremo richiesta dei tabulati telefonici, ma se nel frattempo

riusciamo ad accedere ai dati, tanto di guadagnato.»

«Mio figlio è pulito» dichiarò Druitt. «Sono tutte bugie.»

Prese una grossa busta imbottita e la diede a Lynley, il quale constatò che

conteneva un portafoglio, una bibbia, un libro di orazioni, una rubrica e un

fascio di bollette che Druitt aveva saldato dopo la morte del figlio. Barbara

scrisse una ricevuta e gliela consegnò. «Se non c’è altro...» disse Druitt

mentre si alzava.

Una cosa veramente ci sarebbe stata, disse Lynley. Stavano cercando

l’automobile di Ian, ma per il momento avevano soltanto le chiavi. L’aveva

per caso lui? Altrimenti, avrebbe saputo dire loro marca, modello, anno di

immatricolazione?

No, Druitt non sapeva dove fosse, ma spiegò che si trattava di una Hillman

del 1962, azzurra, con ampie chiazze di ruggine sui parafanghi e alcune

vecchie decalcomanie sul lunotto posteriore, perlopiù inneggianti ai Kinks e

ai Rolling Stones. Non ricordava il numero di targa, ma non dovevano esserci

molte auto così a Ludlow.

Prese dalla tasca le chiavi della propria macchina. «L’hanno ucciso. Ve lo

posso assicurare: Ian è stato ammazzato» disse.

Lynley replicò con tutto il tatto che gli riuscì. «È difficile inscenare un

suicidio per impiccagione.»

«Sarà» ribatté Druitt. «Ma in questo caso ci sono riusciti.»

Ludlow

Shropshire

Brutus non si era nemmeno inventato una scusa e questo rendeva la cosa

ancora più offensiva. Era vero che Ding andava a letto con Finn e che Finn

abitava in casa con loro, ma lui e Brutus non erano mai stati amici.

Invece Brutus aveva deciso scientemente di portarsi a letto Francie.

Doveva esserla andata a cercare, prendendola come una sfida con se stesso.

«Vediamo se riesco a farmela.» Ma l’altra faccia della medaglia era: «È


questo che vuoi, Ding? Guarda che io non mi spavento di fronte a nulla». Era

proprio nello stile di Brutus. E non era giusto, ma proprio per niente. Brutus

non aveva capito un tubo, ma questo non lo scusava. Se aveva portato a casa

Francie, quando sarebbe potuto benissimo andare a casa di lei, oppure farlo in

macchina o in camporella, era stato per mandare un messaggio a lei, Ding. «E

va bene, hai deciso che vuoi fare così e così stai facendo. Ma con le mie

amiche no» aveva stabilito lei. «C’è un limite a tutto.»

Voleva parlare con Francie e sapeva che non sarebbe stato difficile trovarla

perché Francie era un’abitudinaria, quando non le veniva la fregola e si

appartava con chiunque fosse sufficientemente dotato. Perciò Ding aspettò di

aver sbollito la rabbia abbastanza da riuscire a non pensare a Francie in

ginocchio davanti alla patta di Brutus e andò a cercarla alla lezione di disegno

dal vero.

L’aula era in fondo al Palmers’ Hall Campus di Mill Street, una delle tre

sedi in cui si svolgevano lezioni e laboratori. Le aule riservate al disegno

erano accanto a quelle di fotografia e stampa digitale e vicino a Scienze della

comunicazione. Le finestre dell’aula di disegno dal vivo erano parzialmente

oscurate e così la porta, per evitare che i curiosi sbirciassero le modelle nude.

Non appena Ding l’aprì, l’insegnante le andò incontro con una mano

alzata, per indicarle che si doveva fermare dov’era. Ding spiegò a quella

matrona dal camice bianco sporco di pittura e carboncino che doveva parlare

un momento con Francie Adamucci. «È impegnata. Devi aspettare la pausa.

Puoi attendere fuori. Grazie. Qui non sono ammessi esterni» rispose la

professoressa.

«È importante. Sono sicura che a Francie non dà fastidio.»

«Dà fastidio a me.»

«Non si preoccupi, professoressa Maxwell» intervenne Francie dalla

pedana su cui posava di tre quarti, completamente nuda, con una corona

d’alloro in testa e una cesta di frutta appoggiata sul fianco. «È una mia amica.

Se vuole stare, per me non c’è problema.» Non mosse la testa e non si spostò

di un millimetro, parlando, come a dimostrare che l’intrusione di Ding non

avrebbe in alcun modo nuociuto alla lezione.

«Basta che non ti distragga» replicò la professoressa.

«Stia tranquilla» disse Francie. «Vero, Ding?»

Ding assicurò che si sarebbe trattenuta solo per poco ed ebbe il permesso

di avvicinarsi alla modella. Quando raggiunse Francie si rese conto però che


non erano le condizioni migliori per affrontare un argomento così delicato,

dato che non poteva neppure guardarla negli occhi. E poi il fatto che fosse in

costume adamitico la metteva in imbarazzo: Francie era bellissima e molto

più sexy di lei. Ding aveva tutto quello che serviva, ma in quantità minore.

Contrariamente a molte ragazze, Francie non si depilava completamente il

pube. Faceva in modo che fosse un triangolo perfetto, ma non esagerava nella

rimozione dei peli, non sembrava una bambina, una modella di biancheria

intima o una pornostar. Se a un ragazzo non piaceva vedere il suo cespuglio,

che andasse a farsi friggere: Francie non aveva intenzione di adeguare il

proprio corpo alle fantasie morbose dei maschi. Naturalmente, si depilava

tutto il resto: ascelle, gambe e persino le dita dei piedi. E non tollerava peli

intorno ai capezzoli, ovviamente. Ma c’era una bella differenza fra essere una

vera donna e una donna vera, sosteneva. Qualsiasi cosa volesse dire.

Ding si avvicinò più che poté alla pedana. «Voglio solo sapere se è stato

lui o sei stata tu» le disse sottovoce.

Francie non finse di non capire. «A cominciare, intendi?»

«Sì. Al resto pensiamo dopo.»

«Guarda che non vuol dire niente» disse Francie. «Brutus è carino, ma non

è che io... Cioè, a me non frega niente di lui. Cos’ha, diciotto anni? Cosa me

ne faccio di uno di diciott’anni, secondo te?»

«Intanto non me lo stai dicendo» sibilò Ding.

«Che cosa non ti sto dicendo?»

«Se hai iniziato tu o lui. Non mi hai risposto.»

«Chi ha cominciato? Aspetta che mi concentro un attimo.» Francie

aggrottò la fronte ripensando, o perlomeno facendo finta di ripensare, a

quello che era successo nella camera di Brutus. «Il problema è... Non me lo

ricordo» disse alla fine.

«Ah, be’, allora... E io ci dovrei credere?»

«Mi conosci, no?» Ding non replicò, e allora Francie sospirò. «Va bene, ci

provo.» E dopo un attimo di presunta riflessione rispose: «Lui era sul kayak».

«Da solo?»

«No, era con una. Non so chi.»

«Descrivimela.»

«Non saprei. Non è che li ho guardati. Aveva le spalle curve, mi pare. E un

taglio di capelli orrendo. Indossava una canottiera – questo me lo ricordo – e

pantaloncini da corsa improponibili. Li ho visti quando è scesa dal kayak.


Larghi sul culo e di un colore terrificante. Color piselli andati a male.»

Ding alzò gli occhi al cielo. Francie notava il taglio di capelli e

l’abbigliamento: nient’altro. «Continua.»

«Ero uscita di casa e stavo attraversando il Ludford Bridge, mi sono sentita

chiamare e li ho visti assieme, Brutus e Miss Piselli Marci. Aveva un paio di

quegli occhiali che cambiano colore a seconda della luce e una roba al collo,

grande, tipo medaglia olimpica.»

«Allison Franklin» concluse Ding. La descrizione era abbastanza calzante.

«Può darsi» disse Francie. «Quindi, come dicevo, mi sono sentita chiamare

e ho risposto: ’Che muscoli! Sei in forma, eh?’ O qualcosa del genere.»

«Sei sempre la solita» fu il commento di Ding.

«Dicevo per scherzo...» ribatté Francie guardandola un attimo. La prof la

richiamò. «Scherzavo. Stavo scherzando. Solo che Brutus... Insomma, l’ha

preso per un invito, perché mi ha chiesto di aspettarlo, che mi voleva parlare

del laboratorio di biologia.»

«Tu non studi biologia, Francie. E lui neanche.»

«E infatti ho capito che era tutta una scusa. Pensavo volesse scaricarla e gli

servissi io. Non potevo dargli torto, visto com’era conciata. Se non sei più

che carina, devi stare attenta a cosa ti metti addosso. Comunque, avevo capito

giusto perché appena sono scesi dal kayak Brutus le ha infilato la lingua in

bocca e le ha messo una mano sul sedere, forse per rassicurarla, ma poi lei se

n’è andata e lui è venuto via con me. Per un ripasso approfondito di biologia.

Non nel senso tradizionale del termine.»

Ding cominciava a sentire caldo. La stanza era torrida per consentire a

Francie di stare nuda – comunque aveva i capezzoli inturgiditi – e alcuni

degli studenti erano sudati, ma Ding aveva caldo perché era furibonda. Disse

a voce più alta di quanto intendesse: «Quindi sei stata tu a cominciare? O è

stato Brutus? Chi è stato?»

Francie la guardò male, poi chiese alla professoressa Maxwell se poteva

fare una breve pausa. Il cesto della frutta era pesante, disse. Cinque minuti,

massimo dieci.

La prof le accordò cinque minuti di pausa e Francie posò il cesto e scese

dalla pedana. Aveva una vestaglia con cui si sarebbe potuta coprire, ma non

se la mise e rimase nuda. Fece strada a Ding verso un angolo della stanza

dove erano riposti tele, fogli da disegno e altri accessori.

«Senti» disse. «Hai sempre detto che fra te e Brutus non c’era un rapporto


esclusivo. Non credevo fosse la fine del mondo.»

«Chi ha cominciato?» chiese per l’ennesima volta Ding.

«Tutti e due, probabilmente. Non lo so, Ding.»

«Raccontami com’è andata. Nei dettagli.»

Francie spostò il peso da un piede all’altro e si grattò distrattamente il

pube. «Se non sbaglio, gli ho chiesto che cosa intendeva con la storia del

laboratorio di biologia e lui ha risposto che aveva voglia di novità e mi ha

fatto uno dei suoi sorrisi. Bisogna dire che è proprio carino, anche se è un po’

troppo giovane per i miei gusti. Fatto sta che gli ho chiesto: ’Che tipo di

novità?’ E lui mi ha fatto un altro dei suoi sorrisi e poi si è scostato i capelli

dalla fronte e mi ha guardato. Hai presente come...?»

«Sì, ho presente» replicò Ding. «Continua.»

«Così siamo andati da lui, ci siamo fumati una canna e abbiamo

cominciato a pomiciare. Tutto qui.»

«Ma per favore!» Ding alzò la voce. Tre disegnatori alzarono la testa dal

foglio. «Non eri in ginocchio a pregare per la pace nel mondo» sussurrò.

«No, certo» disse Francie. «Non era una cosa seria, però. Eravamo lì, lui è

stato carino... Mi sembrava giusto...»

Francie si interruppe: Ding aveva le lacrime agli occhi. Ed era imbufalita,

perché non voleva assolutamente farsi vedere in quello stato.

«Oddio, Ding! Non avevate un rapporto esclusivo e per me è stata una cosa

così, per divertirsi, sesso e basta. Roba di venti minuti...» disse Francie.

«Vuoi dirmi...» Ding aveva le labbra talmente secche che temeva le si

spaccassero. «Vuoi dirmi che quando vi ho sbattuto la porta in faccia, voi...

avete continuato? Come se non vi avessi beccato? Come se non ve ne

importasse niente che vi avessi beccato?»

«Non avremmo dovuto? Perché? Eravamo andati lì apposta! Senti, Ding,

mi hai raccontato che ti sei fatta tutti quei ragazzi a Cardew Hall, il fornitore

di vasetti di vetro di tua madre, quell’altro in fondo alla chiesa durante le

vacanze di Pasqua, l’operaio che era venuto a ripararvi il tetto... Erano

balle?»

«No, ma non è questo il punto» ribatté Ding. «Tu sapevi che io e Brutus...

Viviamo insieme, Francie.»

«Abitate nella stessa casa» puntualizzò Francie. «Non pensavo che te la

prendessi così. Davvero. Pensi che l’avrei fatto, se avessi saputo che...? E

comunque è finita lì, perché Brutus non ci riusciva. A venirmi in bocca,


intendo. E così abbiamo...»

«Smettila!» strillò Ding, tappandosi le orecchie.

«Scusa! Scusa!» gridò Francie. «Se avessi immaginato che ci tenevi così

tanto a lui, non...»

«Non ci tengo così tanto. Pensavo di sì, ma non è vero.»

Francie alzò gli occhi e vide che la Maxwell si stava avvicinando con

passo deciso. «Per me è stato sesso e basta. Ti ho invitata a fare una cosa a

tre, ti ricordi? Sarebbe stato divertente. Poi però ho visto la faccia che hai

fatto e ho capito che non era il caso di insistere. Solo che non mi aspettavo

che te la prendessi così, sapendo della sfilza di ragazzi che ti eri fatta a

Cardew Hall. Continui a spassartela, Ding, o adesso c’è soltanto Brutus?

Perché se è così, voglio morire: non volevo farti uno sgarbo. Sono stata una

cretina. Scusami» disse in fretta.

«Pensavate di concludere il vostro tête-à-tête, signorine belle?» La

Maxwell era piuttosto seccata.

«Ding! Ding!» furono le ultime parole che Ding sentì, quando corse verso

la porta. Le veniva da piangere, non sapeva perché. E non voleva neanche

cercare di capirlo. Perché era tutto vero, le avventure che aveva raccontato a

Francie erano realmente accadute, aveva fatto davvero quelle cose con quei

ragazzi a Cardew Hall. Anzi, a Francie non aveva riferito tutto. Brutus, però,

era sempre stato un gradino sopra gli altri, per Ding. Solo che sapeva com’era

fatto, sapeva che tipo era, e non sapeva che cosa farci.

Ludlow

Shropshire

Lynley si accollò la ricerca della Hillman di Ian Druitt mentre Barbara restò

in albergo con il cellulare del morto, un caricatore fornito – come speravano –

dalla reception e un elenco di date di nascita e numeri di telefono dei parenti

più stretti, compresa la zia Uma. Dal canto suo, Lynley aveva deciso di

cominciare da St. Laurence, nella remota ipotesi che Druitt avesse trovato un

posto senza limiti di sosta nei pressi della chiesa.

Uscì dall’albergo e si incamminò verso Castle Square. La piazza era

piuttosto affollata, perché tre pullman si erano appena fermati in cima a Mill

Street riversando decine di turisti fra i banchi del mercato.


Invece di provare a farsi largo fra la folla, Lynley preferì proseguire sul

marciapiede e attraversare la piazza sul lato orientale, dove vide Harry

Rochester e gli altri venditori abusivi. Un agente li stava facendo sgomberare.

Doveva essere Gary Ruddock, l’ausiliario di Ludlow, pensò. Era alto più di

un metro e ottanta e aveva un fisico massiccio, pur non essendo grasso, e la

faccia rotonda. Lynley lo aveva immaginato più giovane, poco più che

ventenne, invece doveva essere sulla trentina. Stava parlando con Harry

Rochester e non sembrava né particolarmente scorbutico, né aggressivo.

Lynley non si avvicinò e attraversò prima di raggiungerli, imboccando una

stradina lastricata che portava alla chiesa. Era larga poco più dei carri dei

mercanti che un tempo vi passavano per andare al castello e sbucava in

College Street, proprio di fronte a St. Laurence. Lynley vide lì il primo dei

parcheggi possibili, ma notò anche un cartello con le restrizioni cui aveva

accennato il reverendo Spencer: la sosta lungo tutta la strada era riservata ai

residenti e le auto prive del permesso potevano fermarsi fino a un massimo di

due ore, limite oltre il quale scattava la rimozione forzata. Era una strada

residenziale costeggiata da palazzine di mattoni rossi fino a Linney Street,

dove le case erano più antiche e si affacciavano sul fiume Corve. Anche lì la

sosta era riservata ai residenti e le sanzioni per i trasgressori erano elencate

con grande precisione. Se Ian Druitt avesse parcheggiato lì, con ogni

probabilità la sua Hillman sarebbe stata rimossa già la sera in cui era morto.

Prima di chiamare il numero indicato sui cartelli, Lynley decise di

controllare il posteggio pubblico più vicino, che secondo la cartina di cui

disponeva era dietro il West Mercia College, sul lato nord del castello. Era

una bella giornata e una passeggiatina non gli dispiaceva affatto.

Tornò in piazza e vide che Rochester e gli altri abusivi non c’erano più.

L’ausiliario invece era dalla parte opposta del mercato, nei pressi di un

furgone bianco che vendeva vari tipi di salsiccia arrosto, i cui effluvi

facevano venire l’acquolina in bocca anche da lontano.

Ruddock parlava con quello che probabilmente era il proprietario del

furgone e gli dava istruzioni sul modo di esporre una lavagna su cui erano

elencate le varie proposte e i relativi prezzi. Al momento bloccava l’accesso

al West Mercia College e l’agente voleva che la spostasse. L’uomo aveva

l’aria seccata.

Lynley si voltò per andare a cercare il parcheggio e lo trovò senza

problemi dietro gli edifici del college. Poiché era a pagamento, la Hillman di


Druitt sicuramente nel frattempo era stata rimossa, sempre che fosse stata

lasciata lì. Meglio controllare comunque, pensò. C’erano molte macchine,

probabilmente degli studenti del college, ma lo spiazzo non era enorme e

nell’arco di dieci minuti lo perlustrò tutto senza trovare nessuna Hillman del

1962. Il mezzo più vecchio sembrava un camper Volkswagen in condizioni

abominevoli.

Il numero di telefono del servizio di rimozione forzata era indicato in

diversi punti e Lynley decise di chiamarlo, anziché andare a controllare il

parcheggio vicino alla biblioteca. Per fortuna esisteva soltanto un luogo in cui

venivano portati i veicoli rimossi e l’impiegato spiegò a Lynley che si

trovava a nord-est della città, sulla A4117 appena dopo Rockgreen. Lo si

riconosceva dall’enorme elefante rosa girevole accanto all’ingresso. Dio solo

sapeva perché i proprietari lo avessero piazzato lì, ma il lato positivo era che

lo si vedeva da chilometri di distanza.

Siccome Lynley non aveva voglia di andare fino al deposito, per quanto

l’elefante rosa lo incuriosisse, telefonò per chiedere se la Hillman fosse stata

portata lì. Gli risposero di attendere e Lynley restò in linea per un tempo

esageratamente lungo, durante il quale ebbe modo di vedere due studenti che

si passavano del denaro in cambio di una bustina contenente senza dubbio

qualche sostanza illegale, ma poi la signora al telefono gli diede

l’informazione che desiderava: sì, fra i veicoli rimossi c’era una Hillman del

1962. Era sua?

No, rispose Lynley. Lui era della polizia. Il proprietario della Hillman era

morto e loro stavano cercando la sua automobile.

Chi salda il conto, allora? gli domandò la donna. C’era il costo della

rimozione più la tariffa giornaliera.

Lynley promise di versare personalmente i soldi della multa. Era più facile

che attivare la procedura legale per ottenere il veicolo senza pagare.

Il deposito dei veicoli rimossi era lontano e Lynley voleva tornare con la

Hillman, quindi chiamò un taxi. Dopo una breve attesa in cima a Mill Street,

lo vide arrivare, guidato da una signora di una certa età. L’autoradio era

sintonizzata su un canale di classic rock, per fortuna soft.

Attraversarono Ludlow e la tassista comunicò a Lynley che non c’era una

strada diretta per Rockgreen. Questo significò ascoltare Where the Boys Are

seguita da Judy’s Turn to Cry e Johnny Angel.

L’elefante rosa comparve nel bel mezzo di Tell Laura I Love Her. Lynley


pagò la corsa e si chiese come fosse riuscito a risparmiarsi quegli

struggimenti adolescenziali. A sedici anni aveva altro a cui pensare, concluse:

suo padre stava per morire, sua madre aveva una relazione con l’oncologo,

suo fratello minore era già perduto e lui viveva nella confusione e nella

sofferenza.

Entrò nel centro rimozioni e si diresse verso un caravan che sembrava

essere utilizzato sia come abitazione sia come ufficio. I titolari erano una

coppia sui settanta e indossavano la stessa tuta con il nome ricamato sopra:

lui era Totally Roger, lei The Absolute Lucinda, che evidentemente

rispondeva anche al telefono. Lynley mostrò ai coniugi le proprie credenziali

e spiegò che la Hillman era del signor Ian Druitt, deceduto nel mese di marzo.

Nessuno dei due l’aveva mai sentito nominare. Il fatto che Lynley fosse di

Scotland Yard, però, li mise un po’ in agitazione. «E cos’aveva fatto questo

signore?» chiese Roger. «Era ricercato?» chiese invece Lucinda. Parevano

poco propensi a lasciargli portare via il mezzo senza ulteriori prove del fatto

che era autorizzato a ritirarlo. Lynley era stupito che volessero tenere la

Hillman posteggiata lì ancora per chissà quanto e spiegò loro che avrebbe

certamente potuto procurarsi tutta la documentazione necessaria, ma a quel

punto il veicolo sarebbe stato sequestrato e loro non avrebbero incassato un

penny.

Si rivelò un’argomentazione decisiva. The Absolute Lucinda prese la carta

di credito di Lynley per prelevare la somma dovuta e Totally Roger lo

accompagnò alla macchina, che era già stata spostata in fondo alla fila.

Avendo intuito di non avere il coltello dalla parte del manico, i due

furbacchioni avevano deciso di ottenere quel che potevano.

Lynley ringraziò Roger e osservò con attenzione il veicolo che aveva

appena riscattato. Le gomme erano lisce e sul parafango anteriore destro c’era

un’ammaccatura piuttosto evidente, ma per il resto la Hillman era come Clive

Druitt l’aveva descritta: vecchia, arrugginita e con decalcomanie degli anni

Sessanta sul lunotto posteriore. Evidentemente il primo proprietario

collezionava ricordi dei concerti dell’epoca. Come Clive Druitt aveva

correttamente anticipato, la sua band preferita erano i Kinks, seguiti dagli

Stones.

Lynley aprì la portiera e controllò gli interni. Anche i sedili erano originali,

come tutto il resto. In qualche punto la fodera era scucita e sbiadita dal sole.

Lynley si sedette al posto di guida e provò l’accensione. La Hillman, priva


di quell’elettronica moderna che fa scaricare subito la batteria, prese vita al

primo colpo. Lynley la spostò su un lato dello spiazzo, spense il motore e la

perquisì centimetro per centimetro. Incominciò dal bagagliaio, dove scoprì

che Ian Druitt non era particolarmente preciso, almeno per quanto riguardava

la sua automobile. C’erano gli attrezzi per cambiare una gomma (ma non la

ruota di scorta) e una collezione di plaid dall’aria alquanto vissuta. C’erano

anche cinque lattine di olio nuove, segno che la Hillman ne bruciava

parecchio, e tre vuote, in attesa di venire smaltite in maniera adeguata. Da

una parte c’erano un vecchio pullover appallottolato e un rullo adesivo che

rigurgitava peli di animale. A far luce sul suo impiego, due gabbie per gatti

con la targhetta «Gattile» e relativo numero di telefono.

Non c’era altro, a parte polvere e terra, e quindi Lynley passò a esaminare

l’abitacolo. Ian Druitt usava l’auto come ufficio mobile, constatò, perché sul

sedile posteriore, riunite in un apposito contenitore di cartone, c’erano diverse

cartelline. Non erano disposte secondo un ordine riconoscibile, ma vi trovò

ricevute di lavori effettuati sulla macchina, volantini che pubblicizzavano gli

Hangdog Hillbillies, il gruppo musicale di cui Druitt faceva parte come

indicato nel rapporto di Barbara, pagine stampate da Internet su iniziative

antialcol in varie città del Regno Unito e una su un programma di

volontariato a favore delle vittime di violenza, dieci anni di schede

carburante, la fattura da cui risultavano la data dell’acquisto, il costo e il

chilometraggio della vettura, una raccolta di sermoni di autorevoli pastori

anglicani e un libro di poesie di William Butler Yeats con un segnalibro alla

pagina di La seconda venuta. Sotto il contenitore di cartone c’era uno

stradario del Regno Unito vecchio di vent’anni, con numerose orecchie alle

pagine. Lynley lo sfogliò senza trovare nulla di strano, tipo delle X che

segnalavano destinazioni speciali.

Sul fondo, fra i sedili anteriori e posteriori, c’era un bidone di metallo

zincato con un manico di scopa legato con una corda. Lynley si stupì e per un

attimo si interrogò sul possibile utilizzo di quel bizzarro oggetto, finché non

gli venne in mente che negli Hangdog Hillbillies il diacono suonava il

bidofono.

Rimise a posto il sedile del passeggero, vi si sedette e aprì il vano

portaoggetti. Scoprì che Druitt aveva l’obbligo di guida con le lenti e teneva

gli occhiali in una custodia di pelle. Trovò inoltre il libretto di circolazione e

le ricevute del pagamento dell’assicurazione. In fondo al vano portaoggetti,


c’erano una tessera del Royal Automobile Club e una brochure sulle proprietà

del National Trust, da cui dedusse che Druitt era interessato alla storia

religiosa, architettonica e nobiliare del Paese. Ma a sollecitare

particolarmente la sua attenzione fu il primo indizio del fatto che il diacono

fosse sessualmente attivo: una scatola da venti profilattici. Lynley la aprì e

vide che mancavano parecchie bustine.

Ludlow

Shropshire

C’era una cosa di cui Barbara era sicura, dopo aver litigato per un’ora con il

cellulare di Ian Druitt: se ci fosse stata lei a Bletchley Park a cercare di

decifrare i messaggi in codice durante la guerra, l’Inghilterra sarebbe stata

invasa dai nazisti. Mentre Lynley era in altre faccende affaccendato, aveva

provato a sbloccare il telefono usando tutte le date di nascita dell’elenco in un

senso e nell’altro e persino mescolandole fra loro, operazione che accentuò

notevolmente la sua confusione. Poi aveva provato con gli indirizzi forniti da

Clive Druitt, senza ottenere alcun risultato. Per evitare che il maledetto

smartphone andasse in blocco, ogni tre tentativi lo riavviava. Alla fine si era

arresa e aveva lasciato perdere, dedicandosi all’agenda di Ian Druitt. Aveva

ripercorso a ritroso gli appuntamenti del diacono dal giorno della sua morte

cercando sull’elenco telefonico di Ludlow tutte le persone citate per

contattarle una per una.

Non trovò il numero di tutti quelli con cui il diacono aveva preso

appuntamento, forse perché abitavano altrove, o forse semplicemente perché

avevano chiesto di non comparire sull’elenco telefonico. Nessuno di quelli

che riuscì a contattare ebbe remore ad ammettere di averlo conosciuto. Fu

un’operazione che richiese diverse ore, ma consentì a Barbara di apprendere

alcuni particolari che forse non avrebbe definito propriamente interessanti,

ma che la aiutarono a ricostruire i movimenti del diacono nelle ultime

settimane di vita.

Quando Lynley tornò con la Hillman, Barbara era fuori dell’hotel a fumare

una sigaretta e trovò assai divertente vedere l’ispettore al volante di una

simile carretta. Lo aveva visto così a disagio a bordo di una vettura soltanto

un’altra volta, quando gli aveva dato un passaggio sulla sua Mini. Che


l’ispettore avesse dovuto contaminare il pregiato tessuto del suo completo

salendo su quel trabiccolo la faceva morir dal ridere.

Lynley parcheggiò vicino a lei e scese. «È riuscito a trovarla, quindi» disse

Barbara. «Sembra peggio della mia. Non credevo fosse possibile.»

«Anche l’abitacolo ricorda la sua Mini» replicò Lynley. «Mancano solo le

cartacce e gli involucri dei fast-food. Il diacono mangiava prevalentemente a

casa, immagino.»

«Oppure buttava i contenitori nei cestini della spazzatura.»

«Be’, certo.» Lynley scaricò alcuni oggetti dalla Hillman.

«Ha trovato materiale probatorio importante, ispettore?»

«Ho scoperto che il diacono aveva una vita intensa» rispose Lynley. Disse

che l’avrebbe lasciata al suo vizio e andò ad aspettarla nel bar dell’albergo.

Barbara fumò avidamente il resto della sigaretta e lo raggiunse. Entrando,

vide che Lynley aveva disposto una serie di cartelline sul tavolo e diceva a

Peace on Earth, che gli ronzava intorno curioso, che sì, avrebbe gradito una

tazza di tè, molto gentile. Lapsang souchong, se possibile, oppure Assam.

«Earl Grey?» chiese Peace on Earth speranzoso.

«Va bene lo stesso» rispose Lynley. Poi, si rivolse a Barbara. «Sergente?

Gradisce un Earl Grey o teme che diluisca gli effetti tutt’altro che salutari

della sigaretta che ha appena fumato?»

«Molto spiritoso» commentò Barbara. «Per me PG Tips, grazie» disse a

Peace on Earth. «Se proprio non si può fare altrimenti, va bene anche l’Earl

Grey.»

Lynley aspettò che il ragazzo si allontanasse e chiese a Barbara se avesse

fatto progressi con lo smartphone. Barbara ammise la disfatta, ma poi spiegò

di aver ottenuto qualche risultato consultando l’agenda del diacono e l’elenco

telefonico di Ludlow.

Quando era uscita a fumare, aveva riposto il bloc-notes nella borsa. Lo tirò

fuori, lo aprì, si tolse dalla lingua un pezzetto di tabacco e cominciò. Aveva

parlato con i genitori di due bambini che frequentavano il doposcuola,

raccontò, perché Druitt voleva conoscere i genitori, prima di accettare nuovi

iscritti.

«Lo adoravano» spiegò a Lynley. «A sentir loro, li aiutava a fare i compiti,

li faceva giocare, li portava in gita e nient’altro.»

Druitt aveva in agenda un appuntamento a Birmingham, continuò Barbara.

Con una donna che aveva organizzato un servizio di pattugliamento


volontario per assistere i ragazzi che bevevano troppo, facevano uso di

sostanze o si dedicavano ad attività poco raccomandabili. «La norma,

insomma» commentò. «Questi volontari li raccattano per strada e li portano

in un centro di accoglienza, per così dire, e gli danno minestra, caffè, tè,

tramezzini o non so cosa per farli tornare sobri. Il diacono stava cercando di

creare una cosa del genere a Ludlow e immagino che Gary Ruddock gli desse

una mano. Dobbiamo chiederglielo. Druitt non poteva fare tutto da solo e

sarà stato più che felice di avere qualche aiutante.»

Rivelò a Lynley che sull’agenda di Ian Druitt compariva spesso il nome

MacMurra. Il signor Declan MacMurra e Druitt avevano in comune l’amore

per i gatti.

«Prendevano i randagi, li sterilizzavano e li lasciavano nuovamente in

libertà?» chiese Lynley. «Sulla macchina di Druitt ci sono due gabbie.»

«Sono di MacMurra, ispettore» lo informò Barbara. «Mi ha chiesto che

fine avessero fatto, quando ci siamo parlati al telefono. Grande appassionato

di gatti.»

Proseguì con Randy, Blake e Stu, gli unici che sull’agenda comparivano

con il nome di battesimo. Erano i membri della band, gli Hangdog Hillbillies.

Barbara l’aveva capito guardando dentro uno degli scatoloni portati da Clive

Druitt, in cui c’erano i volantini con i nomi dei musicisti: Randy al banjo,

Blake alla chitarra, Stu alle percussioni. Neanche lì erano specificati i

cognomi e quindi non aveva potuto mettersi in contatto con loro, ma andando

in uno dei locali in cui si erano esibiti probabilmente sarebbero riusciti a farsi

dare i nomi completi.

Nell’agenda era citato spesso anche Spencer, tre volte all’ora di cena. Altri

due nomi appartenevano a individui che il diacono era andato a trovare nella

camera di sicurezza della stazione di polizia di Shrewsbury.

Lynley prese una delle cartelline che aveva trovato sulla Hillman. «Qui

aveva del materiale sull’assistenza volontaria ai detenuti» disse.

«Già l’altra volta dicevano tutti che era un invasato delle opere di bene.»

«Altri nomi?»

«Due parrocchiani infermi, uno in ospedale, quattro vittime di reati vari.

Niente di che, intendiamoci. Reati lievi, anche se una delle vittime di scippo

ha riportato un trauma cranico.»

«È un altro dei programmi di volontariato su cui Druitt aveva del

materiale» disse Lynley, cercando fra i documenti. «Vittime di violenza»


lesse. Mentre Barbara apriva la cartellina per dare un’occhiata ai fogli che

conteneva, Lynley osservò: «È curioso, però».

«Cosa?»

«Che fosse coinvolto in così tante attività di volontariato. Anche per un

uomo di Chiesa, mi sembrano un po’ troppe.»

«Anch’io e il sovrintendente l’abbiamo pensato, la prima volta.» Barbara

rifletté su ciò che aveva scoperto nel corso del precedente soggiorno a

Ludlow. «Il reverendo Spencer mi ha detto che Druitt non era riuscito a

passare il concorso da prete, o come si chiama. Che aveva provato cinque

volte e non era mai passato, che la cosa gli pesava. Potrebbe essere che

queste attività...» disse indicando i volantini, «fossero un modo per

compensare la sua incapacità di servire Dio e il prossimo suo come avrebbe

voluto.»

Lynley annuì, ma rimase pensieroso. «In macchina ho trovato anche dei

profilattici» disse. «Una scatola da venti, e ne restano solo dieci. Che cosa le

fa pensare?»

«Magari li distribuiva ai ragazzi. Ai più grandi, intendo. Mi sembra rientri

nel personaggio, non crede?»

«Oppure?»

«La risposta più ovvia: aveva un’amante e prendeva opportune

precauzioni. Strano, però.»

«Che avesse un’amante?»

Barbara scosse la testa. «Che nessuno ce ne abbia parlato. Apertamente o

per allusioni. D’altra parte...» sollevò l’agenda del diacono, «qui qualcosina

c’è. La Lomax.»

«Sospetta che i profilattici fossero per lei?»

«No, a meno che Druitt non fosse gerontofilo. Io e il sovrintendente le

abbiamo parlato: avrà settant’anni.»

«E quindi?»

«Compare nell’agenda ben sette volte, ispettore. A noi ha spiegato che

andava da Druitt perché la sua famiglia è in crisi e aveva bisogno di parlarne

con qualcuno.»

«Lo trova inverosimile? Era un uomo di Chiesa, dopotutto.»

«Sì, ma la Lomax a noi ha detto di non essere religiosa e quando le

abbiamo chiesto come mai si fosse rivolta proprio a lui si è tenuta sul vago. E

comunque Druitt non faceva questo genere di cose. Voglio dire, tutti quelli


con cui abbiamo parlato ci hanno detto che era bravissimo, buonissimo e tutto

il resto, ma non uno di loro ha mai detto di essersi rivolto a lui come guida

spirituale. E la signora Lomax... Be’, si è fatta assistere dall’avvocato, quando

siamo andate a parlarle. Secondo me, vale la pena approfondire.»

«Approfondiamo, allora» disse Lynley.

St. Julian’s Well

Ludlow

Shropshire

Quando Rabiah Lomax aprì la porta e si trovò di fronte la poliziotta sciattona,

di cui non ricordava il nome, e il suo collega damerino, prese brevemente in

considerazione di chiamare Aeschylus, ma poi decise di soprassedere. Aveva

parecchie faccende da sbrigare, prima fra tutte chiamare i membri del

comitato per la manutenzione e le riparazioni, e concordare la data della

prossima riunione. Se avesse chiamato Aeschylus, poi avrebbe dovuto

aspettare che arrivasse. Meglio gestire i due poliziotti da sola e sbarazzarsi di

loro il più in fretta possibile.

La Sciattona prese la parola. «Signora Lomax, possiamo rubarle due

minuti, per favore? Le presento l’ispettore investigativo Lynley. Ci scusi per

il disturbo, ma stiamo ancora indagando e vorremmo chiederle conferma di

qualche particolare. Vuole farsi assistere dal suo avvocato?»

Sviluppo interessante, pensò Rabiah, scervellandosi per farsi venire in

mente come si chiamava la Sciattona. Da quando in qua la polizia ti invitava

a contattare il tuo avvocato? In tv succedeva l’opposto. «Mi scusi, non

ricordo il suo nome» rispose.

«Barbara Havers» rispose la Sciattona. «Ci concede due minuti?»

«È successo qualcosa?»

«Perché pensa che sia successo qualcosa?»

«Non so. Io non ho altro da aggiungere a quello che vi ho già detto su

Druitt. È per lui che siete venuti, vero?»

Con un eloquio elegante come gli abiti che indossava, l’ispettore

investigativo intervenne. «Il sergente Havers e io abbiamo ricevuto l’incarico

di approfondire le circostanze del decesso del signor Druitt.»

«Cosa c’è da approfondire? Ripeto: io non ho niente da aggiungere a


quello che ho già detto.»

«Ci ha fornito qualche informazione, sì. Ma sono emersi altri elementi e

vorremmo chiarirli. Possiamo entrare?» replicò il sergente Havers.

Rabiah si lanciò un’occhiata alle spalle. Fu un gesto istintivo, che non

avrebbe saputo spiegare. «Certo, certo» rispose senza neanche provare a

essere gentile.

Si fece da parte per lasciarli passare e non offrì loro né da bere né altro.

Quando Barbara le chiese per favore un bicchier d’acqua, fece una faccia

scocciata. Anche l’ispettore gradiva un po’ d’acqua, se non era troppo

disturbo. Rabiah si insospettì: sembrava un piano premeditato. Avrebbe

voluto rispondere che potevano comprarsi una bottiglietta d’acqua da qualche

parte, se avevano sete, ma avrebbe significato partire con il piede sbagliato.

Perciò andò in cucina a prendere due bicchieri e li riempì solo a metà. Tornò

in salotto giusto in tempo per accorgersi che il sergente posava sulla mensola

del caminetto una delle cornici. Capì che si trattava di nuovo della foto di

gruppo intorno all’aliante.

«Ecco a voi.» Rabiah porse loro i bicchieri, ma nessuno dei due bevve.

Volevano metterla a disagio, concluse. Decise di non lasciarsi suggestionare.

«Che cosa volete sapere da me, stavolta?»

L’ispettore rivolse al sergente un cenno quasi impercettibile, di cui Rabiah

non si sarebbe accorta se non l’avesse guardato proprio in quel momento.

«Allora, abbiamo parlato con tutte le persone citate nell’agenda di Druitt,

dove compare anche il suo nome, signora Lomax. Non siamo riusciti a

parlare proprio con tutti, perché siete moltissimi, ma abbiamo rilevato uno

schema ricorrente e volevamo farle qualche domanda in proposito» disse il

sergente.

«Dubito di potervi aiutare a rilevare schemi ricorrenti nelle agende altrui,

sergente.»

«Chissà» rispose Barbara in tono allegro. «Pare che Druitt fosse impegnato

in mille attività di volontariato, alle quali, per un verso o per l’altro, erano

legati tutti i suoi appuntamenti in agenda.» Cominciò a enumerarle contando

sulle dita e Rabiah capì che voleva arrivare da qualche parte. «L’oratorio o

quello che era per i bambini, le ronde per raccattare gli ubriachi in giro per la

città, l’assistenza alle vittime, le visite ai detenuti a Shrewsbury, il coro della

chiesa, la vigilanza di vicinato per le strade della città... E poi ha incontrato il

sindaco e tre consiglieri comunali.»


Rabiah si sforzava di sembrare interessata, ma cominciò a sudare. «Non

capisco dove volete arrivare né perché siete venuti da me» disse. «Siete qui

da giorni a interrogare le persone sull’agenda di Druitt?»

«Ottima domanda» ribatté il sergente Havers mimando il saluto militare

con un dito soltanto. «Ho svolto le mie ricerche per telefono e, a parte il

sindaco e i consiglieri comunali, ogni nome appariva una volta soltanto.»

«Continuo a non capire dove vuole andare a parare» disse Rabiah.

«Ora glielo spiego: quando siamo venuti l’altra volta, io e il sovrintendente

Ardery, lei ci ha detto che vedeva il diacono per parlargli dei suoi problemi di

famiglia.»

«Esatto. L’ho detto e lo confermo.»

«Bene. La cosa strana, però, è che il signor Druitt non faceva da guida

spirituale a chi aveva problemi in famiglia. Lei potrebbe obiettare che i

ragazzini frequentavano il suo doposcuola perché le loro famiglie avevano

dei problemi, ma non è la stessa cosa. Perciò volevo chiederle: c’è per caso

qualcosa che vuole rettificare nelle sue dichiarazioni?» Barbara si interruppe

e bevve un sorso d’acqua. L’altro poliziotto, invece, non aveva nemmeno

toccato il bicchiere, notò Rabiah.

«Quali affermazioni?» domandò, ma la voce le uscì un po’ troppo stridula.

«Quelle che ha reso a me e al sovrintendente Ardery la volta scorsa a

proposito dei problemi famigliari di cui avrebbe parlato con Druitt nel corso

dei vostri colloqui. Sette colloqui per parlare della sua famiglia.»

Rabiah si rese conto di dover dare qualche spiegazione più circostanziata e

rimpianse di non aver preso nota delle storie che aveva raccontato alle due

poliziotte la volta precedente. Si affidò alla propria memoria e improvvisò.

«Il diacono e io abbiamo parlato del mio figlio maggiore.»

«Avevate un rapporto speciale, quindi. Lei è l’unica persona a cui il

diacono offriva conforto spirituale» rimarcò il sergente.

«Se è così, forse avevamo davvero un rapporto speciale» osservò Rabiah.

Un momento dopo capì che il sergente e l’ispettore si aspettavano ulteriori

dettagli che lei non aveva nessuna intenzione di fornire. «Vi serve altro?»

«Se magari può dirci qualcosa a proposito dei problemi di suo figlio...»

Ma certo, pensò Rabiah, il sergente aveva preso nota di quello che lei

aveva detto l’altra volta. Stava per dirle di andarsi a rileggere gli appunti,

invece di rompere le scatole a lei, ma si trattenne. «Ve l’ho spiegato: stavamo

passando un brutto periodo.»


«Succede» disse il sergente. In tono solenne e al tempo stesso curioso.

«Perché brutto?» chiese.

«Non sono affari vostri, credo» rispose Rabiah.

«Ha ragione. Peccato, però, che l’uomo con cui ne parlava nel frattempo

sia morto.»

«Pensa che le due cose siano legate? Come dicevo, sono andata a parlargli

per via di mio figlio David.»

«Quello che ha perso la figlia?»

«No, la figlia è morta a Tim» precisò Rabiah, e si rese conto troppo tardi di

esserci cascata.

Il sergente annuì. «La volta scorsa ci ha detto che era per via del figlio che

aveva perso una bambina che era andata a parlare a Druitt. Quello che fa uso

di sostanze, dico bene? Di cosa fa uso, signora Lomax? Alcol? Droga?»

«Tutti e due i miei figli hanno una dipendenza. Uno sta cercando di

uscirne, l’altro no. È possibile che io abbia parlato di entrambi, nel corso dei

miei sette incontri con il diacono. A Tim è morta una figlia, David è stato

lasciato dalla moglie, che si è portata via i miei nipoti... I figli continuano a

essere una preoccupazione anche da adulti, sapete? Se non lo sapete adesso,

lo scoprirete con il tempo.» Si alzò e si mise le mani sui fianchi. «Se non c’è

altro...»

Il sergente lanciò un’occhiata all’ispettore, che era rimasto attento e

fastidiosamente zitto tutto il tempo, gli occhi fissi su Rabiah. Nonostante la

sottile cicatrice sul labbro superiore, Rabiah lo trovava un bell’uomo, pacato

e sicuro di sé come piaceva a lei. Secondo lei, infatti, gli uomini dovevano

essere guardati, ammirati, magari anche corteggiati, ma se evitavano di aprire

bocca era meglio.

Alla fine Lynley pronunciò la prima frase da quando era entrato. «Per il

momento no, non c’è altro» disse.

St. Julian’s Well

Ludlow

Shropshire

Lynley se ne accorgeva, quando Barbara mordeva il freno. I segnali in genere

erano due: anziché procedere con la solita andatura rilassata, partiva a passo


di carica con il piglio di chi deve affrontare una tempesta, anche in assenza di

vento, e assumeva un’espressione del tipo: Hai visto che avevo ragione io?

Quell’espressione poteva scaturire da una certezza già acquisita oppure in

fase di acquisizione. Tornando alla macchina, Lynley riscontrò la presenza di

entrambi i segnali: andatura ed espressione.

«L’ha vista anche lei, vero?» Barbara parlò sottovoce e si voltò furtiva,

quasi temesse di veder spuntare da dietro un cespuglio qualcuno con un

registratore in mano.

«Sì, ma non sono sicuro del significato da attribuire a questa coincidenza.»

Barbara si bloccò sui suoi passi. «E se non fosse una coincidenza?»

Lynley si voltò a guardare la casa, che era in ordine, ben tenuta, senza

nulla di sinistro a distinguerla dalle altre lungo la strada. «Rabiah Lomax e

Clover Freeman compaiono in quella foto di gruppo assieme a un’altra decina

di persone, davanti a un aliante che presumo tutte loro pilotino. Fanno parte

di un club o qualcosa del genere?» disse.

Barbara ignorò la domanda perché, come spesso accadeva, aveva un’altra

cosa importantissima da dirgli. «Sì, sì, ma lasci perdere Rabiah Lomax. Non

dicevo lei, ma quell’altra.»

«Clover Freeman.»

«Nancy Scannell.»

«Chi?»

«Nancy Scannell, ispettore. In quella foto c’è anche lei, oltre a Clover

Freeman e alla signora Lomax. È anche lei pilota di quell’aliante. Ed è

l’anatomopatologa che ha effettuato l’autopsia su Ian Druitt e ha stabilito che

si era suicidato. Capisce, ispettore?»

Quel che Lynley capiva era prima di tutto che Barbara era sovreccitata. Il

fatto che Nancy Scannell facesse parte di quel club – sempre che fosse

davvero così – era meno sorprendente rispetto alla presenza di Clover

Freeman in compagnia di Rabiah Lomax. «Barbara, ci pensi un attimo» disse.

«Non vuol dire niente. È normale che due persone che hanno contatti

professionali scoprano di avere un interesse comune al di fuori del lavoro.

C’è un aerodromo in zona?»

«Sul Long Mynd, sì. Ci siamo andate, io e il sovrintendente. Per parlare

con Nancy Scannell. Ci ha dato appuntamento lì perché doveva aiutare

qualcuno a lanciare un aliante. In seguito abbiamo scoperto che anche Rabiah

Lomax fa parte del club, che quell’aliante era anche suo. A mio avviso come


coincidenza è molto poco incidentale.»

«Sciocchezze» decretò Lynley. «Dubito che nello Shropshire ci sia più di

un aeroclub. Se ce n’è uno soltanto e queste due signore hanno la passione

del volo, è normale che lo frequentino entrambe. Oltretutto, si conoscono per

lavoro. Potrebbero essersi incontrate all’aerodromo, oppure potrebbe esserci

stato un avviso in bacheca per appassionati di alianti: chi fosse interessato ad

acquistarne uno in comproprietà, pregasi contattare eccetera eccetera.

Potrebbero aver avuto insieme l’idea di comprarlo, oppure potrebbero averla

avuta separatamente, ognuna per conto suo, e aver scoperto alla prima

riunione di potenziali acquirenti di avere entrambe lo stesso progetto. Quello

che voglio dire, in sostanza, è che ci sono diverse spiegazioni possibili,

nessuna delle quali è di per sé sospetta.»

«Invece il punto è...»

«Il punto è che avevano un interesse comune. Teniamone conto, d’accordo,

ma non costruiamoci su un castello. Potrebbe essere rilevante come no,

Barbara, e io le sconsiglio di attribuirgli troppi significati.»

Barbara si voltò dall’altra parte. Lynley capì dalla sua espressione che

stava per controbattere e la anticipò. «Controlli se Ruddock ha provato a

contattarla.»

Avevano telefonato all’agente ausiliario prima di uscire dall’hotel, ma

avevano trovato la segreteria telefonica. Barbara gli aveva lasciato detto di

richiamare appena poteva, senza specificare il motivo.

A casa di Rabiah Lomax, però, aveva silenziato il telefono. Lo tirò fuori

dalla borsa. «Non ha chiamato. Quindi secondo lei non dovremmo...» disse a

Lynley.

«Secondo me, non dobbiamo tirare conclusioni affrettate, sergente. Una

cosa per volta.»

«Il tempo stringe, però» gli fece notare Barbara. «Ne abbiamo poco.»

«Poco, ma non pochissimo» puntualizzò Lynley.

Barbara non era d’accordo.


18 MAGGIO

Worcester

Herefordshire

Trevor Freeman si svegliò al buio con la testa e il resto del corpo intorpiditi

come se avesse preso un sonnifero. Si sentiva come se fosse stato ibernato

per un volo spaziale lungo un secolo, e per un attimo si dispiacque di non

essere in una di quelle capsule fantascientifiche perché la coscienza tornando

a poco a poco gli riportava alla mente immagini che avrebbe preferito

dimenticare e che invece lo travolsero. Più lui cercava di scacciarle, più si

imponevano con prepotenza. Traevano la loro forza da diverse fonti, tra cui

due brandelli della conversazione della sera prima. E poi c’era la sua condotta

insaziabilmente libidinosa.

Gaz Ruddock era andato a cena da loro come da programma. Trevor

l’aveva invitato su richiesta della moglie. La chiacchierata con Clover sul

tema del macchinoso invito dell’agente ausiliario, lungi dall’essere

chiarificatrice, aveva aumentato i suoi sospetti e l’aveva reso ancora più

diffidente sia a cena sia dopo. Avevano mangiato bistecca, patate arrosto,

insalata e dolce al cucchiaio in giardino e dal principio alla fine, ogni parola,

gesto, tono di voce e sguardo gli era sembrato carico di significati reconditi.

L’abbigliamento scelto da Clover per la serata l’aveva tutt’altro che

rassicurato. Con lui si vestiva sempre in modo sottilmente sexy, ma per

l’occasione aveva deciso di rinunciare a ogni sottigliezza e optare per un paio

di pantaloni da cui spuntavano le caviglie più belle dell’universo, sandali che

faceva dondolare mollemente dall’alluce e un top che lasciava scoperta una

spalla. Come se non bastasse, era senza reggiseno, forse a rimarcare che

aveva dovuto prepararsi in fretta, con il risultato che l’occhio non poteva che

cadere sui capezzoli sempre turgidi.

Naturalmente aveva fatto in modo di avere una scusa per le sue scelte in

fatto di abbigliamento, era troppo brava per trascurarlo. Trevor era in cucina a


preparare la marinata per le bistecche, quando Clover era tornata dal lavoro.

Era andata a salutarlo e si era offerta di apparecchiare la tavola. Prima, però,

voleva mettersi comoda. Mentre lui controllava le patate nel forno, lo aveva

chiamato dalla camera da letto. «Trev, puoi salire a darmi una mano?» E

poiché le bistecche erano a marinare, le patate dovevano cuocere ancora e

restava da preparare soltanto l’insalata, era salito a vedere di che cosa aveva

bisogno Clover.

L’aveva trovata in camera da letto travestita da suora. Il costume doveva

essere nel pacco che aveva trovato davanti alla porta quando era rientrato, e

dentro quel pacco doveva esserci anche il costume da prete che adesso era

disteso sul letto. Trevor avrebbe dovuto indossarlo per il giochino che Clover

aveva in mente: il sacerdote sedotto dalla monaca, oppure la pia monaca

sedotta dal sacerdote. La seconda ipotesi sembrava più probabile, visto che

Clover aveva costruito una sorta di inginocchiatoio sistemando l’ottomana

davanti al comò e vi si era posizionata in atteggiamento di preghiera, con un

rosario in mano.

Sentendolo entrare, si era girata e gli aveva rivolto uno sguardo pudico, da

verginella. Aveva teso il braccio verso di lui. «Posso confessarmi, padre?»

aveva sussurato.

Trevor aveva esitato un attimo perché, sebbene morisse dalla voglia di

stare al gioco, c’era pochissimo tempo. «Volentieri, sorella» aveva

sussurrato.

Clover aveva guardato il letto e la tonaca da prete. «Deve indossare la

veste, padre?»

«Farei volentieri anche questo. C’è un problema, però: sta per arrivare

Gaz.»

Clover era tornata se stessa in un istante. «Porca miseria, me n’ero

scordata. Ho visto che era arrivato il pacco e non ho capito più niente.» Era

scoppiata a ridere. «Vorrà dire che faremo svelti, allora. Nella mia testa

sarebbe dovuto essere il prete a orchestrare il tutto, ma pazienza. Vieni,

tesoro. Vieni a vedere che cos’ha in mente per te suor Rosaria.»

«Mi induci in tentazione.»

«Sempre. Vieni, padre Freeman.»

Trevor era scoppiato a ridere. «Davvero, Clover, non abbiamo tempo.»

«Sì che lo abbiamo! Non hai idea di cosa riuscirò a fare in pochi...»

In quel momento era suonato il campanello. «Venti secondi sono troppo


pochi anche per te, mia cara. Ci tocca rimandare a dopo» le aveva risposto.

Le era andato vicino e l’aveva baciata e accarezzata in mezzo alle gambe, ma

quando lei aveva provato ad abbassargli la zip dei pantaloni si era ritratto. Era

uscito ed era andato ad aprire la porta a Gaz Ruddock.

Il giochetto proposto da Clover avrebbe dovuto tenergli occupata la mente

tutta la sera. La prospettiva di quello che li aspettava a fine serata lo avrebbe

effettivamente distratto, se mentre usciva sul patio con il caffè non avesse

sentito Gaz che diceva a Clover: «Possiamo pure provarci, se...» Gaz aveva

lasciato la frase a metà e cambiato discorso, lodando l’ottima cena e

dichiarandosi invidioso delle capacità culinarie di Trevor.

Quest’ultimo non si era lasciato sviare, però. «Che cos’è che volete

provare a fare, voi due?» e aveva domandato con il tono più disinvolto che gli

era riuscito.

«Parlavamo di Scotland Yard» aveva risposto Clover. «Sai come va a

finire, se si sente sotto pressione.»

«Chi?»

«Finnegan. Chi altro?»

Trevor aveva aspettato un momento, lasciando che la domanda rimanesse

sospesa. «Non saprei. Dimmelo tu» disse.

Clover era sembrata piuttosto sorpresa. «Se andranno di nuovo da lui, lo

metteranno alle strette. Vorrei essere presente al colloquio. Se non ci potrò

essere io, vorrei che ci fosse almeno Gaz» aveva continuato.

Trevor aveva la netta impressione che Clover avesse abilmente cambiato

discorso, ma non poteva accusarla di non aver risposto alla sua domanda,

perché la conversazione aveva mantenuto un filo logico. Si era detto perciò

che era il desiderio a renderlo troppo geloso e la cosa sarebbe finita lì, se non

avesse sentito Clover salutare Gaz a fine serata con un: «Ne parliamo poi».

Di cosa dovevano parlare? Perché tutto quel segreto? Che bisogno c’era di

bisbigliare per non farsi sentire da lui?

Con la testa piena di dubbi e di sospetti, aveva visto Clover chiudere la

porta, voltarsi verso di lui e trasalire: evidentemente non si aspettava di

trovarlo così vicino. Senza dargli il tempo di fare domande, però, si era

scusata. «Devo correre di sopra, tesoro.» E lo aveva lasciato lì impalato.

Da quel momento in poi, Clover aveva avuto vita facile: Trevor era uscito

a ritirare gli attrezzi del barbecue per lavarli e lei lo aveva raggiunto fuori.

Aveva di nuovo il vestito da suora, ma stavolta si era messa solo il velo, il


soggolo e il rosario a mo’ di cintura.

Il suo primo pensiero era stato: «Cristo! E i vicini?» Si era guardato in giro

per controllare le finestre che davano sul loro giardino, ma non aveva avuto il

tempo di sollevare obiezioni, perché Clover gli era andata vicino. «Suor

Rosaria ha qualcosa di speciale per lei, padre» aveva mormorato. Ciò detto,

gli aveva messo le mani sui fianchi.

«Sono stanco morto, Clover. Facciamo un’altra sera» aveva risposto, ma

era una balla, perché in realtà era eccitatissimo.

«Non se ne parla neanche» aveva ribattuto lei, spostando le mani verso la

zip.

Trevor aveva protestato, usando come scusa il fatto che Gaz si era

trattenuto più a lungo del previsto.

«La volontà di Dio prima di tutto, amore» aveva ribattuto Clover in tono

pio.

«Tu dici?» aveva tentennato lui, mentre Clover gli accarezzava la pelle

nuda.

«Certo.» Si era seduta sul tavolo e aveva allargato le gambe. «Vieni, sia

fatta la sua volontà.»

Trevor aveva capitolato. Clover sapeva benissimo che sarebbe andata a

finire così, perché di fronte a lei Trevor diventava inerme come un pesce con

un amo piantato in gola. La volontà di Dio era stata fatta in giardino e poi di

nuovo in camera da letto. Dopo aver lavato i piatti, infatti, Trevor era salito in

camera e aveva trovato Clover inginocchiata come prima di cena, intenta a

recitare il rosario, questa volta con il costume completo. Da brava suorina,

aveva finto sorpresa e raccapriccio nel vedere un estraneo introdursi nella sua

cella e interrompere le sue devozioni.

Trevor era stato più che contento di trovarla così e di recitare la parte dello

sconosciuto che voleva possederla nonostante le proteste virginali di lei.

Accogliendolo con un «Chi è lei? Che cosa fa qui?» Clover gli aveva dato il

la. Alla fine, stremati, si erano addormentati.

Con Clover era sempre così. Lo conosceva fin troppo bene, sapeva che con

lei era come un sedicenne arrapato e lo stuzzicava con giochetti sempre nuovi

e sempre più maliziosi. Clover sapeva che il modo più semplice ed efficace

per distrarlo e impedirgli di entrare nella sua mente era dargli libero accesso

al proprio corpo perfetto.

In quel momento Trevor si girò nel letto. Era mattino presto e lui puzzava


di sudore. Avrebbe dovuto farsi la doccia, invece si infilò una tuta da

ginnastica e scese di sotto. Sentì il ronzio della cyclette nel solarium e capì

che Clover si stava allenando. Pedalava a una velocità che per lui sarebbe

stata impossibile.

Era un’altra caratteristica di Clover: teneva tantissimo alla forma fisica.

Fino a pochi giorni prima Trevor aveva creduto che fosse per via di suo

padre, che a causa della vita sedentaria (faceva lo psicanalista), del fumo e

dell’alcol, era morto prematuramente all’età di cinquantaquattro anni. Clover

diceva di non voler fare la stessa fine e Trevor la ammirava per la costanza

con cui si allenava. In fondo era per quello che si erano conosciuti, ai tempi

in cui anche lui passava le giornate a fare sport, invece di delegare gli

allenamenti ai suoi sottoposti. Adesso, però, Trevor aveva il dubbio che

Clover lo facesse non per la salute, ma per mantenersi giovane, bella e soda, e

non necessariamente a beneficio del marito.

La raggiunse nel solarium. Fuori albeggiava, ma era ancora abbastanza

buio perché si potesse vedere riflesso nei vetri: stanco, un po’ sovrappeso,

guance flaccide anziché solide e forti. Clover non si accorse di lui perché

indossava le cuffie ed era concentrata sull’esercizio. Gli asciugamani che

aveva posato tutt’intorno alla cyclette erano bagnati di sudore.

Le passò davanti e si sedette sulla panca. Clover alzò gli occhi sorpresa,

perché in genere Trevor non si alzava prima delle sette. Si tolse le cuffiette,

ma continuò a pedalare. Trevor era convinto che sua moglie avesse il cuore di

una ventenne.

Partì un fischio che decretava la fine della fase aerobica e Clover passò alla

fase defaticante, respiri profondi e ritmo meno intenso. Aveva la schiena

perfettamente dritta. «Ti sei alzato presto. Non ti ho svegliato io, vero?»

«Figurati! Ero praticamente in coma. Mi hai messo qualcosa nel vino?»

«Ti ho messo qualcosa da un’altra parte. Due volte. E mi è sembrato che tu

gradissi. Anzi, se vuoi replicare...»

Trevor sapeva di dover rispondere con qualcosa di altrettanto provocante,

di doversi alzare e avvicinarsi a lei e metterle le mani addosso. Se l’avesse

fatto, sarebbe andata a finire come voleva Clover e lui si sarebbe detto per

l’ennesima volta che era un uomo fortunato ad avere una donna così, perché

di donne così ce n’è una su un milione, tanto vale godersi la vita e smettere di

farsi tanti problemi. Dopo i due amplessi della sera prima, tuttavia, l’offerta

di Clover non poteva certo scaturire da un ardente desiderio che poteva essere


placato esclusivamente in un modo.

Trevor le lesse in faccia che aveva capito che qualcosa non andava. Se non

era rimasto a poltrire come al solito, voleva dire che aveva un tarlo in testa.

Parlò per prima e Trevor intuì che voleva mettersi in posizione di

vantaggio. Ciò che gli disse, tuttavia, lo sorprese. «Ho una confessione da

farti. Mi stai a sentire?»

Trevor si fece subito circospetto. «Che cosa mi devi confessare?»

«Il sesso di ieri sera era voluto, avevo voglia di fare l’amore con te. Ma

non ti posso nascondere che avevo altre cose per la testa.»

Trevor non si aspettava che Clover andasse dritta al punto, ma non capiva

a cosa alludesse e glielo disse.

«Non volevo parlare di Finnegan con te» gli rispose Clover.

Altra sorpresa. Trevor aggrottò la fronte. «Di cosa, in particolare?» chiese.

Clover rallentò la pedalata, prese la bottiglietta di acqua e ne bevve metà.

«Sono certa che non approverai.»

«Ti ascolto.»

Clover fece un respiro profondo. «Ho preso accordi con Gaz. Avrei

preferito tenerti all’oscuro, ma ho la sensazione che... Ti conosco troppo

bene, non riesci a nascondermi niente. E ieri sera ho visto che avevi

subodorato... Senti, Trev, io e te abbiamo sempre avuto due approcci diversi

con Finnegan. Adesso è a Ludlow, ha molta più libertà di quanta non ne

avesse qui. L’idea di passare il Natale in Spagna, per esempio. Voglio dire, ci

ho pensato su e... Cioè... Tu sai com’è fatto, no?»

Trevor sapeva com’era fatta lei, in realtà: Clover non era mai a corto di

parole. Se non riusciva a finire una frase, voleva dire che era in grave

difficoltà. Stava per dargli una notizia spiacevole. «Perché non mi dici quel

che mi devi dire senza girarci tanto intorno?» disse.

Clover rallentò ulteriormente la pedalata, ma non sembrava ancora pronta a

scendere dalla cyclette. «Va bene. Ho chiesto a Gaz di tenerlo d’occhio»

disse.

«In che senso?»

«Gli ho chiesto di controllare che Finnegan non faccia cazzate e di

avvertirmi se ne fa. Sai com’è fatto, no? È un incosciente, a volte. E adesso

che è libero di bere quanto gli pare e di farsi tutte le canne che vuole – perché

sicuramente è questo che fa, a Ludlow, e lo sai anche tu –, ora che ha accesso

alle altre droghe di cui fanno uso i ragazzi della sua età... Insomma, ho paura.


E siccome ho avuto modo di conoscere Gaz al centro di addestramento e di

constatare che è volenteroso, disponibile, sempre pronto a compiacere i

superiori, ho pensato di chiedergli di dare un’occhiata a nostro figlio.»

Trevor tacque, riflettendo sulle parole della moglie. Si rese conto che

Clover stava cercando di capire che effetto gli aveva fatto quella confessione.

Evidentemente trasse le sue conclusioni perché riprese a parlare in fretta.

«Avrei dovuto dirtelo prima, ma sapevo che non saresti stato d’accordo e

credevo che Gaz riuscisse a fare quello che gli avevo chiesto senza che tu e

Finnegan lo scopriste. Doveva passare per una sorta di amico di famiglia.

Con la storia di Ian Druitt, però, è diventato tutto molto più complicato e io

non volevo che fra me e te restassero dei non detti. Perciò ho deciso di

confessare.»

Quando si trattava di Clover e Finnegan, Trevor provava un senso di

frustrazione che gli provocava i crampi alle budella. «Il vero problema non è

Finn» disse, «ma la tua incapacità di accettare che non puoi controllare ogni

sua mossa. È da quando aveva sei anni che reagisce male alle tue

intromissioni, Clover, ma tu continui imperterrita.»

«Senti, caro, ammetto di aver sbagliato a non dirtelo subito, ma sapevo che

ti saresti opposto.»

«Mi sarei opposto perché è l’ennesima tua iniziativa che lo farà

imbestialire, sempre che non lo spinga verso le cose da cui vorresti tenerlo

lontano: alcol, droghe, rave e chi più ne ha più ne metta.»

«Non sono d’accordo. Io e te la vediamo in modo completamente diverso.

Da sempre.»

«Cristo, Clover!» Trevor si passò una mano sul volto e sulla testa.

«Possiamo lasciare che il passato detti il nostro modo di fare i genitori,

oppure possiamo decidere di essere i genitori che vogliamo essere basandoci

sul nostro passato. Questa cosa che stai facendo con Finn a quale delle due

categorie appartiene, secondo te?»

«Questa cosa? Quale cosa? Sembri mio padre. Qui lui non c’entra. E non

c’entra nemmeno mia madre. E non c’entrano neanche tuo padre, tua madre e

i tuoi fratelli seduti intorno a un tavolo a recitare la sceneggiata della bella

famigliola. Lo so benissimo che ti manca, che l’avresti voluta anche tu, e mi

dispiace di non essere riuscita a dartela, va bene?»

Mossa astuta, pensò Trevor. Ma non ci sarebbe cascato. «Sono totalmente

d’accordo con te. Qui c’entriamo solo noi due, il modo in cui ci rapportiamo


con Finn e il ruolo di Gaz Ruddock nel quadro generale» disse.

«Quale quadro generale? Gli ho semplicemente chiesto di tenere d’occhio

Finn, tutto qui.»

«Davvero? Sicura che non ci sia altro? Gli hai chiesto questo favore e

basta?»

«Gli ho chiesto questo favore perché è tutto il giorno in giro per Ludlow e

vede quello che succede, sente cosa dice la gente. È facilissimo, per lui,

controllare se Finnegan si comporta bene. È un’esperienza nuova, per Finn: è

la prima volta che sta fuori di casa, che abita con altri studenti, che è in

condizioni di vivere certe esperienze. Sono preoccupata e, onestamente, mi

riesce difficile capire come faccia tu a non esserlo. Come mai non lo sei mai

stato.»

«Non si può vegliare sui figli in ogni singolo momento, farli crescere nella

bambagia...»

«Non è questo che sto facendo.» Clover scese dalla cyclette, raccolse da

terra uno degli asciugamani e si strofinò energicamente. «Come fai a non

capire che sto solo cercando di compiere il mio dovere di madre? Ma

lasciamo perdere. Non ho voglia di impelagarmi in questi discorsi e di

passare per una madre squilibrata che non riesce a non intromettersi nella vita

del figlio. Se tu ritieni di doverlo informare del provvedimento che ho preso –

per il suo bene – fa’ pure.»

Ciò detto, prese anche l’altro asciugamano e la bottiglietta dell’acqua

minerale e se ne andò, lasciandolo lì dov’era. In genere dopo la cyclette si

allenava con i pesi, ma per quel giorno evidentemente aveva deciso di

rinunciare.

Trevor aveva bisogno di un caffè e andò in cucina a prepararlo. Fu solo

quando sentì lo scroscio della doccia al primo piano che si accorse che

Clover, tirando in ballo Finnegan, lo aveva abilmente sviato dalla

conversazione che lui aveva in mente.

Era una donna di un’astuzia diabolica. Era riuscita a non dirgli nulla di ciò

che voleva sapere.

Ludlow

Shropshire


Lynley aveva appena finito di farsi la doccia quando sentì suonare il

cellulare. Sperava che fosse Daidre, invece era Isabelle. Alle sette di mattina

non si sentiva pronto ad ascoltare il sovrintendente, quindi lasciò che

scattasse la segreteria e tornò nel bagno per radersi la barba.

Aveva voluto mostrarsi gentile con Barbara lasciandole la camera di

Isabelle, ma la cavalleria cominciava a pesargli. Il letto era talmente scomodo

che la sera prima aveva spostato per terra il materasso e aveva dormito sul

pavimento. Il bagno sarebbe stato l’ideale per uno gnomo: la doccia era più

piccola di una cabina telefonica e lo specchio sopra il lavabo era minuscolo.

In camera però non ce n’erano altri e gli toccava specchiarsi nel televisore

spento, dopo aver chiuso le tende e acceso la luce. Anche così, vedeva

soltanto la propria sagoma nera.

Stava togliendo la condensa dallo specchio quando sentì partire di nuovo la

suoneria del cellulare. Andò a vedere chi era e, scoprendo che stavolta era

Daidre, tirò un sospiro di sollievo e rispose.

«Prima di tutto devo chiederti se Barbara sta provando il numero di tip tap

come le è stato raccomandato» disse lei.

«Le ho lasciato la camera più grande, quindi lo spazio ce l’ha. Se poi ne

approfitti o meno è tutto da vedere.»

«Devo avvertire Dorothea che è il caso di tirarle le orecchie?»

«Sai benissimo che cosa se ne fa Barbara delle tirate d’orecchie. Lasciamo

a Dorothea la sorpresa di vedere Barbara in azione, sperando che dia il

meglio di sé. Non vedo l’ora. Naturalmente, non le ho anticipato nulla di

quello che abbiamo in mente.»

«Sei crudele.»

«’Debbo essere crudele solo per essere pietoso’, però forse Ofelia non ne

era molto contenta. Come stai, cara? Sei allo zoo o ancora a casa?»

Silenzio. Non avrebbe dovuto chiamarla «cara». Ma poi le aveva fatto una

domanda tranquilla cui lei si appigliò. «Sono a casa. Devo partire per la

Cornovaglia.»

Bello scherzo del destino, pensò Lynley, anche se era ovvio che Daidre

non aveva in programma di andare a Howenstow a conoscere la sua famiglia.

«Cos’è successo?» chiese.

«Be’...» La sentì sospirare e si chiese in che parte della casa si trovasse in

quel momento. Nella cucina che aveva ristrutturato, decise, accanto alla

portafinestra del giardino infestato dalle erbacce. Probabilmente si era


preparata un cappuccino senza zucchero né dolcificante e l’aveva posato

sull’isola, pronta a berlo. Doveva essersi vestita per il viaggio, non per andare

allo zoo, abiti comodi e capelli biondi raccolti dietro la testa. E si era

sicuramente pulita le lenti degli occhiali rimuovendo gli aloni del giorno

prima.

«Mi ha telefonato Gwynder ieri sera» disse. «Se voglio dirle addio, devo

andare adesso.»

«E tu vuoi?»

«Il problema è questo. L’ho già fatto, ma talmente tanto tempo fa che

adesso quella parte della mia vita sembra non appartenermi più.»

«Capisco.»

«Faccio fatica a stabilire se la mia riluttanza a vederla un’ultima volta

derivi da amarezza, rabbia o totale indifferenza.»

«Un mix, probabilmente. Oppure nessuna delle tre. Forse la tua riluttanza è

normale. Non ti ha fatto da madre, in fondo. Ti ha messo al mondo, ma poi ha

fatto poco altro. Sia per te che per tuo fratello e tua sorella.»

«Vorrei tanto essere come Gwynder. Vorrei tanto vedere nostra madre

come una che più di così non poteva fare, ma non ci riesco.»

«Chi conosce la vostra storia non può che capirti se decidi di non andare, e

di certo non può darti addosso.»

«Porto il suo nome, però. Il mio vero nome, Tommy. Quello che mi ha

dato lei, quasi presentisse come sarebbe andata a finire.»

«Già. Edrek» rispose Lynley. Edrek, che voleva dire «rimpianto». Quel

nome, così come la nascita in una piazzuola lungo una strada in Cornovaglia,

l’infanzia in un caravan sulle rive di un torrente nel quale il padre era

convinto di trovare stagno a sufficienza per mandare avanti la famiglia,

facevano parte di un passato dal quale Daidre si era riscattata quando lei e i

suoi fratelli erano stati allontanati dai genitori colpevoli di gravissime

negligenze: non li avevano mandati a scuola, non li avevano mai portati da un

medico, li avevano cresciuti nel disordine e nella sporcizia, con i pidocchi e i

denti marci. Lynley avrebbe voluto dire a Daidre che non doveva nulla ai

suoi genitori, sebbene sua madre fosse in punto di morte, ma lo trattenne quel

nome, Edrek, e la consapevolezza di come si sarebbe potuta sentire un giorno

se non avesse fatto quell’ultimo sforzo per dire addio al passato.

«Vorrei che fossi qui con me» gli disse lei.

«Non sono bravo nell’arte di dispensare consigli.»


«Ma sei bravo nell’arte di starmi vicino. Ti chiederei di accompagnarmi.

Vorrei averti al mio fianco.»

«Mi dispiace, in questo momento è proprio impossibile. Mi sono cacciato

in questa situazione con le mie stesse mani e, se non mi riscatto in qualche

modo, finirò a fare l’agente di quartiere a Penzance. O a Berwick-upon-

Tweed insieme a Barbara. Quindi, qualsiasi cosa tu decida, dovrai farla da

sola. Sarò con te con il cuore, però. Voglio solo dirti che conviene sempre

risolvere questo genere di sospesi, quando se ne presenta l’occasione. E

adesso potrebbe essere il momento giusto. Mi spiace dirtelo, ma lo penso.

Spero che tu non rimpianga di avermi telefonato.»

Seguì un lungo silenzio. A un certo punto Lynley temette che fosse caduta

la linea e pronunciò il suo nome.

«Sì, sì, ci sono. Stavo riflettendo.»

«Se andare o meno?»

«No. Ho deciso che vado.»

«Su cosa riflettevi, allora?»

«Se rimpiangerò mai di averti telefonato.»

«E a quale conclusione sei giunta, se posso chiedere?»

«Non credo. Non credo che avrò mai rimpianti. Indipendentemente da

come andrà a finire questa storia.»

Si salutarono e Lynley rimase un momento seduto sull’unica sedia della

stanza, accanto a un tavolino stretto. Si fermò a pensare, ascoltò il ritmo

regolare del proprio cuore e si chiese cosa significava scegliere di amare

nuovamente dopo un lutto devastante.

Aveva ancora in mano il cellulare, quando partì la suoneria e rispose senza

guardare il display.

«C’è altro?» disse senza preamboli Isabelle.

Non le chiese a che cosa si riferisse e non addolcì la pillola. Forse

l’avrebbe fatto, se Daidre non gli avesse appena detto che avrebbe voluto

averlo al fianco in quel momento e lui non fosse stato bloccato lì senza la

possibilità di accompagnarla in Cornovaglia. «Ian Druitt aveva un cellulare e

un’automobile che abbiamo recuperato. E abbiamo scoperto che il

vicecomandante della West Mercia Police è la madre del ragazzo con cui sei

andata a parlare. Lei e l’anatomopatologa che ha effettuato l’autopsia su

Druitt sono socie di un aeroclub e forse comproprietarie di un aliante. Il

vicecomandante, che si chiama Clover Freeman, ha telefonato al sergente


dell’ausiliario e le ha dato l’ordine di fermare Ian Druitt perché fosse

interrogato. Tutti questi elementi puntano nella medesima direzione: Barbara

aveva ragione a scrivere il rapporto come l’aveva scritto prima che tu glielo

facessi correggere.»

Isabelle restò zitta. Forse meditava sulle possibili conseguenze. Lynley

entrò in modalità polemica. «Cosa ti è venuto in mente di dire a Barbara di

modificare il rapporto? Eravate venute qui per...»

«Non provare nemmeno a insegnarmi il mio mestiere» sbottò Isabelle.

«... per verificare il lavoro della commissione per i reclami contro la

polizia riguardo alla morte di un uomo in stato di fermo, e Barbara questo ha

fatto. Druitt è stato fermato diciannove giorni dopo la denuncia, e in quelle

settimane non è stata svolta alcuna indagine. Questo significa che non c’era

un motivo plausibile per procedere al fermo. Era lì che Barbara voleva

arrivare. Perché tu hai tentato in tutti i modi di impedirglielo?»

«Siamo andate a Ludlow al solo scopo di valutare la correttezza del lavoro

che la commissione ha svolto a seguito della morte di Druitt – non prima – e

questo abbiamo fatto. Il resto non c’entra.»

«Sei impazzita?»

«Come osi rivolgerti a me in questo modo? Chi ti credi di essere?»

«Lascia perdere, Isabelle: con me non attacca. E, già che ci sei, rifletti

anche su questo. Clive Druitt è venuto a parlarci in albergo. Si è accorto che

avevi bevuto, quando vi siete incontrati. Se lo ha accennato a me, penso

proprio che lo abbia riferito anche al suo amico onorevole. E cosa abbia fatto

il suo amico onorevole di questa informazione...» Lasciò che fosse Isabelle a

concludere.

«Ci mancava solo questa» disse lei dopo un po’ con un filo di voce. «Ti

stai chiedendo quando toccherò il fondo, vero, Tommy?» aggiunse in tono

alterato.

Lynley non negò, perché era la verità. D’altra parte, provava per lei la

compassione di chi ha già avuto a che fare con un tossico. «Senti, Isabelle,

non sei la prima e non sarai neanche l’ultima» disse. «Se fosse facile, quelli

che rischiano di perdere tutto come te smetterebbero. Se fosse facile,

smetteresti, perché vuoi bene ai tuoi figli e li hai persi, così come hai perso

tuo marito e adesso rischi di perdere il lavoro. Io credo che in fondo tu questo

lo sappia, ma non riesci a liberarti del mostro che ti tiene in pugno. Se non te

ne liberi, però, sarà la fine. Lo capisci, Isabelle? Te ne rendi conto anche solo


lontanamente?»

«Non farne un dramma, Tommy. Non sono a certi livelli. Tu mi vedi

sull’orlo del baratro, ma esageri. Non sono messa così male.»

Lynley alzò gli occhi al cielo e si augurò che qualcuno riuscisse a farle

vedere la luce. Per esperienza diretta, però, sapeva che l’unica persona che

poteva far vedere la luce a Isabelle Ardery era Isabelle Ardery e che questo

sarebbe successo soltanto il giorno in cui non ne avesse potuto più dei guai

che il suo vizio le procurava.

«Stamattina parleremo con l’ausiliario, spero. Abbiamo cercato di fissare

un appuntamento ieri, ma non siamo riusciti a contattarlo. Barbara gli ha

lasciato un messaggio in segreteria, ma lui si è limitato a recapitarle un

biglietto in albergo. Poi parleremo anche con Finnegan Freeman. A te che

impressione ha fatto?» disse.

«Si atteggia a proletario in cerca di emancipazione e parla di conseguenza.

Troppo spesso con la bocca piena, fra l’altro. Quando l’ho visto io, stava

mangiando un burrito. Difende Druitt a spada tratta.»

«È interessante, non trovi? Che lui fosse amico di Druitt e che il fermo sia

partito da sua madre, intendo.»

Isabelle rimase in silenzio un attimo. Lynley sapeva che si era resa conto di

quanto fosse stata approssimativa nella sua ansia di chiudere la missione e

tornare a Londra ed evitò di sottolinearlo. «Buon lavoro, Tommy. Spero che

riusciate a farvi dire qualcosa di illuminante dall’ausiliario. Barbara aveva

ragione, adesso l’ho capito» disse dopo un po’ Isabelle.

Era il primo barlume di speranza che Isabelle gli dava, pensò Lynley. Si

salutarono. Era giunto il momento di affrontare la giornata.

Ludlow

Shropshire

Rabiah Lomax aveva imparato da tempo che una bella corsetta mattutina le

schiariva le idee e le rendeva più facile la giornata. Aveva preso l’abitudine

quando i figli erano adolescenti e la facevano ammattire. Uscire prima

dell’alba per le strade deserte la aiutava a dimenticare per un po’ le sbronze di

David – che lui minimizzava, ovviamente – e le canne di Tim. Quel momento

era esclusivamente suo, si diceva: i figli e le grane potevano aspettare.


Quando uscì di casa la mattina dopo la seconda visita della Metropolitan

Police, non seguì il suo percorso abituale. Di solito passava per Breadwalk,

un sentiero che da Lower Dinham Street costeggiava in quota il fiume Teme

fra tigli e ontani e arrivava al Ludford Bridge, da cui si godeva uno splendido

panorama. In certe mattine la luce dell’alba sui tetti antichi della città era

spettacolare. Quel giorno però voleva passare sul lungofiume e quindi prese

per St. Julian’s Well.

Voleva vedere dove abitava Dena Donaldson. Aveva parlato al telefono

con sua nipote la sera prima e inaspettatamente il discorso era caduto su

Dena.

A Rabiah non piaceva mentire. Aveva sempre aderito al principio «di’ la

verità perché è più facile da ricordare». La prima volta, alla Metropolitan

Police aveva mentito per necessità: in quel contesto era la cosa più semplice.

Aver mentito anche la seconda, però, era più grave e poteva causare

parecchie complicazioni sia a lei sia alla sua famiglia.

Per questo aveva valutato tutte le possibili opzioni che aveva davanti e

aveva deciso di telefonare a Missa. La prima volta non l’aveva fatto perché

non l’aveva ritenuto necessario. E poi in famiglia avevano la tendenza a non

svegliare il can che dorme, se solo era possibile, e Rabiah aveva seguito la

tradizione sperando che fosse la cosa migliore, dicendosi che non era compito

suo intervenire nella vita dei suoi figli ormai adulti, delle relative consorti e

dei nipoti.

Meditando sulle due visite della Metropolitan Police, su ciò che le avevano

detto, su ciò che aveva detto lei, sulle loro domande e le sue risposte, però,

aveva cambiato atteggiamento, abbandonando il vivi-e-lascia-vivere che

caratterizzava i suoi rapporti con i figli e le loro famiglie. Aveva aspettato che

fosse abbastanza tardi perché Missa si fosse ritirata in camera sua e quindi

fosse fuori della portata dei genitori, e aveva cercato il suo numero in rubrica.

Non aveva perso tempo in convenevoli. «Parlami dei tuoi appuntamenti

con Ian Druitt, Missa.»

Era seguito un lungo silenzio durante il quale Rabiah aveva sentito cantare

in sottofondo uno che si atteggiava a crooner degli anni Quaranta e si era

chiesta se Missa stesse guardando un talent show. Evidentemente era da sola

davanti al televisore perché a un certo punto aveva azzerato l’audio e aveva

chiesto: «Di cosa stai parlando, nonna?»

«Ho avuto due colloqui con gli ispettori della Metropolitan Police riguardo


a Ian Druitt. Vorrei evitare di doverli rivedere, anche se temo non sia

possibile.»

«La polizia di Londra?»

«Esatto. La prima volta, ho chiamato Aeschylus e ho lasciato parlare lui,

ma stavolta ero sola. Cercavano il Lomax che si era incontrato con il diacono

della chiesa di St. Laurence – ovvero, come ben sai, Ian Druitt – e io ho detto

che ero io.»

«E perché? Lo conoscevi?»

«Mi mette ansia averglielo detto. Non tanto perché mi secca aver mentito

alla polizia – anche se mi secca, eccome – ma perché detesto farmi trovare

impreparata. Quindi adesso dimmi: per cosa vi siete incontrati tu e Druitt? Se

devo continuare a mentire, vorrei sapere almeno cosa c’è sotto.»

Altro silenzio. La sua durata lasciava intendere che le successive parole di

Missa non sarebbero state del tutto veritiere. «Io non ho mai incontrato

Druitt, nonna.»

«Come mai allora il nostro cognome compare sette volte sulla sua

agenda?»

«Sette volte? Non ho nessun motivo per incontrare il diacono di una chiesa

neanche una volta, figurati sette! Qualcuno si è presentato come Lomax.»

«Perché avrebbe dovuto, scusa?» Nel momento stesso in cui l’aveva

chiesto, però, le erano venute in mente diverse possibili motivazioni. La

prima era: «così non mi scoprono».

«Nonna» aveva detto Missa. E aveva aspettato un po’ prima di aggiungere:

«Probabilmente è stata Ding».

«Perché dovrebbe...?»

«Sarà andata a chiedere consiglio su Brutus. Bruce Castle, hai presente? È

il suo ragazzo, più o meno. Vanno in crisi un giorno sì e l’altro pure. Finché

io sono stata a Ludlow, almeno. Magari è andata a parlargli perché vorrebbe

cambiare vita e non sa come fare. Non penso avesse cattive intenzioni.

Voglio dire, crearci dei problemi usando il nostro cognome.»

«Non va bene che qualcuno usi il nostro cognome, indipendentemente dal

perché e dal percome» aveva ribattuto Rabiah. «Voglio parlare con quella

ragazza.»

Missa si era affrettata a dissuaderla. «No, per favore.»

«Perché no?»

«Perché sta passando un brutto periodo, poveraccia. Per la storia di Brutus.


Lui va con le altre e pretende che lei lo accetti, e invece lei ci sta male, anche

se fa finta di niente, e ora che finalmente ha avuto il coraggio di mollarlo...

Non vorrei che adesso, se protestiamo perché ha usato il nostro cognome, non

riuscisse più a stargli lontana. Capisci?»

No, Rabiah non capiva. Un conto era non interferire nelle scelte dei suoi

figli e relative famiglie, un conto era fare lo stesso con un’estranea che aveva

messo la sua famiglia in una situazione incresciosa...

In quel momento stava attraversando il fiume sotto una luce bellissima.

Sull’acqua c’era un cigno solitario, che si rassettava le piume prima di

sbattere le ali. Rabiah pensò che fosse un uccello incredibile, sia per le

dimensioni sia per l’aspetto. I cigni sembravano miti, placidi, di buon

carattere. E invece da un momento all’altro potevano diventare molto

aggressivi.

Nelle case sul Temeside incominciavano ad accendersi le luci, ma in quella

di Dena Donaldson le finestre erano tutte buie e, da ciò che Rabiah vide

sbirciando dal bovindo, non si era ancora alzato nessuno. Si fermò un

momento a pensare a Ding, a cosa sapeva di lei e a quello che le aveva

raccontato Missa la sera prima.

Avrebbe voluto provare pena per quella poveretta cui il ragazzo imponeva

una relazione aperta e da un certo punto di vista le dispiaceva davvero per lei,

ma non poteva dare retta a Missa e lasciarla in pace. Doveva assolutamente

parlare con Dena Donaldson. Non era affatto sufficiente aver scoperto perché

il nome Lomax compariva sette volte nell’agenda di un morto.

Ludlow

Shropshire

Ding aveva passato una nottataccia. Dopo aver parlato con Francie Adamucci

aveva fatto un po’ di autocoscienza e aveva riflettuto a lungo sul motivo per

cui si infuriava tanto con Brutus perché si portava a letto tutte quelle che

incontrava. Lei, Dena Donaldson, aveva passato gli ultimi cinque anni a fare

praticamente la stessa cosa a Much Wenlock. Bastava che uno la guardasse

due volte e lei ci stava. «Sono fatta così» non era una spiegazione sufficiente,

per lei. Forse per Brutus sì, ma lei non ci credeva, perché la conseguenza

logica di «sono fatta così» è «e sarò sempre la stessa», e lei non ambiva a


diventare la macchina da sesso numero uno di tutto lo Shropshire. Chi

l’avesse vista in azione la sera prima non l’avrebbe mai detto, però.

Era uscita da sola. Aveva bisogno di una pausa dallo studio e soprattutto

dal testo che doveva consegnare il giorno dopo, si era detta, ma siccome ne

aveva scritto soltanto una minima parte, aveva pensato che tanto valeva

lasciar perdere e si era convinta che le serviva una boccata d’aria. La sua

stanza puzzava di chiuso, una passeggiatina le avrebbe fatto bene.

Ma fra una cosa e l’altra... La passeggiatina l’aveva condotta allo Hart and

Hind, dove non era più stata – da sola – da quando era scappata di corsa dalla

stanza numero due e da Jack Korhonen. Non ci sarebbe entrata neanche

quella sera, se avesse visto qualcuno che conosceva. Purtroppo, però, non

c’era nessuno: se voleva bersi una pinta, doveva ordinarla lei. O a Jack o a

suo nipote.

Si era già avvicinata al bancone dalla parte del nipote, ma Jack aveva detto:

«Ci penso io, Peter. Tu pensa ai bicchieri». Così il nipote era andato a ritirare

dai tavoli i bicchieri sporchi.

«Stavolta sii un po’ più esplicita su quello che vuoi» le aveva detto.

«Cerchiamo di evitare i malintesi, va bene?»

«Non so a cosa ti riferisci» aveva risposto Ding.

«Mettiamola così: sei qui per bagnarti il becco o qualcos’altro?»

«Quanto sei volgare!»

«Lo so. Ma a me volgare piace. A te? Sai, la prima volta che ti ho visto –

mesi e mesi fa – ho pensato che eri perfetta per me. Ho pensato: ’Quella è

una bomba, vedrai che nel giro di qualche settimana ti dà un segnale’.»

«Be’, è passato un po’ più tempo, no?»

«Sì. C’è voluto un filo di più, ma alla fine il segnale è arrivato. Tu bagnata,

io duro. E quel che segue.»

«Non sei un gentiluomo, sai?»

«E tu vieni qui da sola in cerca di gentiluomini? O sotto sotto aspiri a

qualcosa di più eccitante? O sei di quelle che te la fanno annusare e basta

perché hanno qualcosa che non va nella testa?»

«Io non ho niente che non va nella testa.»

«I fatti parlano, no? Il modo in cui ti vedo io è diverso dal modo in cui ti

vedi tu.»

«Io sono una persona normalissima. Nor-ma-lis-si-ma.»

Korhonen aveva annuito. «Se lo dici tu... Al tuo posto, però, vorrei


dimostrarlo con i fatti. Perché, vedi, la maggior parte delle ragazze della tua

età non si rendono conto di quello che fanno e finiscono per cacciarsi in

situazioni da cui esce un ritratto di loro ben diverso da quello che avevano in

testa. E quando succede... Be’, allora, scappano.»

Ding sapeva a che cosa si riferiva Korhonen, ma quella sera era andata così

e nel frattempo erano cambiate tante cose. «Se è questo che pensi, dammi la

chiave di una delle tue stanze. Ci vuole poco a correggere il tiro.»

Jack si era voltato verso il nipote, che era abbastanza vicino e doveva aver

sentito tutto. Ding aveva provato un moto di vergogna. «Tu cosa ne pensi,

Peter? Le do un’altra chance?» aveva detto Jack.

«Se non vuoi dargliela tu, gliela do io, la chance» aveva risposto Peter

posando una pila di bicchieri sul bancone.

«Toglitelo dalla testa» aveva ribattuto lo zio. Aveva allungato il braccio,

aveva preso una chiave e l’aveva data a Ding. «Cinque minuti, bella. Fatti

trovare pronta.»

E lei aveva ubbidito: si era tolta tutto quello che aveva addosso davanti alla

finestra, la schiena contro il vetro e la faccia verso la stanza buia. Non era per

niente agitata. Quando doveva dimostrare a se stessa chi era, Dena Donaldson

non si tirava indietro.

Jack era arrivato e lei gli era andata incontro e gli aveva afferrato una

ciocca di capelli, lunghi e castani, per avvicinare a sé la sua bocca. Mentre lui

la baciava, lei gli aveva cercato il membro. Era già duro. Bene, aveva

pensato. L’avrebbe fatto indurire ancora di più. L’avrebbe portato a

desiderare di farlo come non l’aveva mai fatto e l’avrebbero fatto come lui

non l’aveva mai fatto. Si era impegnata e alle due del mattino Jack Korhonen

aveva avuto ben chiaro che Dena Donaldson non era una che te la faceva

annusare e basta.

Ding era tornata a casa indolenzita. Aveva salito faticosamente le scale,

certa che si sarebbe addormentata appena avesse posato la testa sul cuscino. E

invece si era ritrovata a chiedersi: «Cosa c’è che non va in te, Ding». Poteva

continuare a scopare come un riccio con chiunque incontrasse, ma di certo

questo non l’avrebbe aiutata a rispondere alla domanda.

Quando si era stufata di rigirarsi nel letto, si era messa a sedere con un

gemito, meditando se fare una doccia e andare a lezione. Stava per alzarsi

quando sentì suonare il cellulare.

Era sul comodino. Lo prese e rispose senza controllare chi fosse. Quando


sentì nome e occupazione del suo interlocutore, rimpianse di aver risposto.

«Parlo con Dena Donaldson?» chiese la voce femminile. «Sono Greta

Yates, la psicologa del college. La chiamo per fissare un appuntamento con

lei, sempre che sia ancora interessata a frequentare il West Mercia College. È

ancora interessata?»

A Ding non fregava niente, in realtà, ma non aveva voglia di discussioni e

quindi rispose che sì, certo. Quando pensava di riceverla?

Ludlow

Shropshire

Barbara fece presente a Lynley che fino alla stazione di polizia si poteva

benissimo andare a piedi, ma lui insistette per prendere la macchina. E se una

volta parlato con Gary Ruddock fossero dovuti andare da qualche parte? Se

dopo il colloquio fosse stato necessario parlare con qualcuno o effettuare

qualche verifica, con la macchina sarebbe stato tutto più agevole.

Uscirono dall’hotel alle otto e mezzo e Barbara, facendo da navigatore, si

rese conto che per andare alla stazione di polizia in macchina bisognava

passare davanti alla casa di Finnegan Freeman. La indicò a Lynley e gli

spiegò che da lì c’era anche la possibilità di raggiungere velocemente la

stazione di polizia a piedi o in bicicletta.

A differenza del sovrintendente Ardery, l’ispettore lo considerò un

dettaglio degno di nota. «Ottimo lavoro, Barbara» le disse. «Potrebbe

rivelarsi un’informazione utile.»

Raggiunsero la stazione di polizia all’angolo tra Townsend Close e Lower

Galdeford Street e trovarono l’agente ausiliario nel parcheggio, che li

aspettava appoggiato all’automobile di servizio. Sollevò il bicchiere del caffè

a mo’ di saluto e si avvicinò per presentarsi a Lynley.

«Immagino vorrete vedere l’interno» disse indicando la stazione di polizia.

Lynley disse che sì, volentieri, gli interessava soprattutto visitare la stanza

in cui Ian Druitt era morto. Ruddock rispose che non c’erano problemi, la

porta non era chiusa a chiave e Barbara poteva fargli strada. Aveva

l’impressione che preferissero procedere al sopralluogo senza di lui, che forse

la sua presenza li avrebbe disturbati.

Sebbene non ci fosse granché da vedere, Barbara apprezzò l’offerta di


Ruddock, pensando che così lei e Lynley avrebbero potuto parlare

liberamente. Si incamminò e Lynley la seguì, mentre Ruddock si sedette su

un gradino della scaletta sul retro e inforcò gli occhiali scuri per godersi il

sole primaverile. Si preannunciava una splendida giornata.

Barbara accompagnò Lynley nell’ufficio in cui era morto il diacono. Come

ricordava, c’era ben poco da vedere: la scrivania con accanto la poltroncina

malconcia, una bacheca vuota e pezzetti di scotch alle pareti, dove un tempo

era appeso qualcosa. E poi il guardaroba, con la maniglia a cui Druitt era

stato trovato impiccato. Gli riferì quello che aveva dichiarato la dottoressa

Scannell, e cioè che il decesso in quel tipo di impiccagione avviene a causa

della pressione sulle giugulari che porta a congestione venosa e quindi a

perdita di coscienza e morte. Lynley la ascoltò guardandosi intorno. Spostò la

poltroncina per osservarla, ma non trovò nulla di particolare. Girò per la

stanza scrutando ogni particolare, dalla polvere sul davanzale ai graffi sul

linoleum.

Dopo un po’ uscirono dalla stanza e andarono a visitare il resto della

palazzina: l’ex cucinino, i monitor all’accettazione sui quali scorrevano le

immagini riprese dalle videocamere dell’impianto a circuito chiuso, che

documentavano chi entrava e chi usciva, i computer a disposizione degli

agenti che passavano di lì nel corso dei loro pattugliamenti e gli altri uffici,

nei quali si sarebbe potuto appostare qualcuno. Barbara concluse il tour

portando Lynley all’esterno, a verificare quanto era facile spostare la

telecamera dell’ingresso principale.

Completato il giro, tornarono da Gary Ruddock, che appena li vide si alzò

dal gradino su cui era seduto e si pulì i pantaloni. «È stato utile?» chiese.

«Tutto è utile» rispose Lynley. Si appoggiò al muro di mattoni e guardò il

parcheggio. Barbara era curiosa di vedere dove avrebbe portato il discorso

con Ruddock. «Ho ispezionato la macchina di Druitt. Lei lo conosceva

bene?»

«No, bene no. Se lo incontravo per strada lo salutavo, ogni tanto parlavamo

del tempo e cose così. E sapevo che lavorava alla chiesa di St. Laurence,

ovviamente.»

«Niente di più?»

«Direi di no.» Anche Ruddock guardava il parcheggio, come Lynley.

«Avrei dovuto sapere qualcosa? Nel senso: avete trovato qualcosa sulla sua

macchina?» aggiunse.


«Bella domanda. Perché me l’ha fatta?»

«Be’, non credo che spacciasse droga o facesse niente di losco, però, se

dicevano che era pedofilo...»

«Si riferisce a materiale pedopornografico, foto o roba del genere? No, non

c’era niente del genere. Anche se... Nessuno ha mai accennato al fatto che

Druitt avesse una relazione, però nel vano portaoggetti della sua auto c’era

una confezione di profilattici. Le sembrerò prevenuto, ma non mi aspettavo di

trovare preservativi nella macchina di un diacono scapolo.»

«Magari li distribuiva ai ragazzi» disse Ruddock. «Ne frequentava tanti,

non solo attraverso la chiesa.»

«Conosceva Freeman, per esempio» disse Barbara. «Lo ha confermato

anche il vicecomandante: Finnegan Freeman aiutava Druitt al doposcuola.

Lei lo sapeva, Gary?»

Ruddock annuì. «Magari li dava a lui. A lui e agli altri ragazzi, intendo. È

normale che un uomo di fede si preoccupi che non facciano scemenze.»

«Se non li usava lui, in effetti è la spiegazione più logica» disse Lynley.

«Quanti anni ha Finnegan Freeman?» domandò Barbara. Provò a

rispondersi da sola. «Diciotto? Diciannove? Magari il ragazzo gli ha

confidato che lo faceva ma non usava precauzioni e il diacono si è

preoccupato e ha cercato di rimediare.»

Ruddock non rispose e a Barbara quel silenzio parve strano. Le dispiaceva

che avesse gli occhiali da sole: non riusciva a capire se Ruddock stesse

pensando a come rispondere o a come evitare di rispondere. In entrambi i

casi, non capiva che bisogno ci fosse. L’unica ragione plausibile di

quell’inspiegabile silenzio era che non volesse parlare di Finnegan Freeman

perché sapeva qualcosa sui rapporti fra lui e il morto e perché Finnegan

Freeman era il figlio di un suo superiore.

«Non è nemmeno da escludere che le accuse contro Druitt fossero fondate»

disse. «Magari aveva i preservativi perché molestava veramente i ragazzini,

però ci teneva a fare le cose per benino.»

«Anche questa è un’ipotesi da tenere in considerazione» disse Lynley. «Per

quanto sgradevole sia l’immagine da lei evocata, sergente.»

«La telefonata anonima diceva che Druitt era pedofilo» ricordò Ruddock.

«Sì, ma raramente chi abusa di un minore utilizza il profilattico. Tutto

sommato, l’ipotesi più verosimile è che Druitt li distribuisse ai ragazzi. O che

avesse una relazione di cui finora non sapevamo nulla.»


«Scusate, ma... Posso fare una domanda?» Ruddock era titubante, ma

Lynley lo esortò a continuare con un cenno del capo. «Cosa sperate di

scoprire? Nel senso: dal fatto che Druitt avesse dei preservativi.»

«In tutta onestà, niente di particolare» rispose Lynley. «Ma non è un

dettaglio insignificante e, in attesa di elementi più rilevanti, accogliamo

tutto.»

Burway

Shropshire

Decisero di sentire Flora Bevans. I nuovi elementi che suggerivano

l’esistenza di amanti presenti o passate, mariti gelosi, diverbi, conflitti,

lacrime, passioni e peccati capitali – ovvero i profilattici – imponevano di

indagare più a fondo. Gary Ruddock era stato solo in grado di azzardare

ipotesi, ma forse Flora Bevans sapeva qualcosa di più.

Mentre Lynley studiava l’itinerario, Barbara controllò gli appunti che

aveva preso nei colloqui con le persone citate nell’agenda di Druitt che era

riuscita a contattare fino a quel momento. Nessuno aveva mai accennato alla

possibilità che il diacono avesse un rapporto privilegiato con qualcuno che

non fosse Dio, ma era vero che lei non aveva posto domande specifiche.

Sarebbe stata costretta a ricontattarli tutti, se Flora Bevans non fosse riuscita

a dar loro qualche soddisfazione sulla questione profilattici.

Trovarono il furgone con la scritta Bevan’s Beauties posteggiato nel

vialetto e dedussero che la fiorista era in casa. Barbara suonò il campanello e

Flora si presentò alla porta con il cellulare premuto contro l’orecchio e un

dito alzato a segnalare ai suoi visitatori che era impegnata. Quando riconobbe

Barbara, fece una faccia stupita. «Può restare un attimo in linea?» disse al

telefono, e poi si rivolse a lei: «Non mi aspettavo di rivederla».

«Le presento l’ispettore Lynley. Possiamo parlarle un momento?» replicò

Barbara.

Flora li fece entrare. «Prego, accomodatevi. Finisco con questo cliente e

sono da voi.» Si diresse verso il retro della casa e riprese la telefonata. «Le

dimensioni dell’urna sono più importanti di quanto possa sembrare a prima

vista. Se è troppo grande...»

Barbara e Lynley erano rimasti nel piccolo ingresso. «Si occupa di


cremazioni?» mormorò Lynley.

Barbara aggrottò la fronte. «Come dice, scusi?»

«Parlava di un’urna. Si occupa di cremazioni?»

«Ah! No, no. È una fiorista. Parlava di vasi. Vasi grandi, da esterni. O

anche da interni, non so.»

Flora Bevans li raggiunse. «Scusate. Devo preparare gli addobbi floreali di

un matrimonio, i vasi da sistemare nel giardino dove si svolgerà la festa. La

sposa vuole certi colori, la madre della sposa, siccome il giardino è suo, ne

vuole altri, la madre dello sposo ha già comprato il vestito e pretende che i

fiori siano intonati alla sua mise e anche a quella della testimone, che pare sia

fucsia. Una scelta a mio parere orrenda anche in estate, ma purtroppo non sta

a me decidere. Comunque, veniamo a noi. Non credo siate qui per ordinare

dei fiori. Mi scusi, non ricordo il suo nome.»

Barbara si presentò. Poi ripresentò anche Lynley.

«È per il povero Ian?» domandò Flora. «Volevate rivedere la sua camera?»

«Veramente volevamo parlare di profilattici» spiegò Barbara.

«Ah, be’, allora! Andiamo a sederci: mi avete incuriosita.» Li portò nel

salotto. «Prego, accomodatevi. Metta pure quelle riviste per terra, ispettore.

Posso offrirvi un tè? Un caffè, un bicchier d’acqua? Oh, scusate: non avevo

visto che Jeffrey era lì. Aspetti, lo sposto.»

Jeffrey era un gatto dello stesso identico colore del divano. Era

acciambellato in un angolo e Barbara aveva rischiato di schiacciarlo

sedendosi. Il micio alzò la testa chiaramente infastidito e miagolò seccato

quando Flora lo prese in braccio. Ma dopo che la padrona lo ebbe sistemato

in cima all’albero tiragraffi più gigantesco che Barbara avesse mai visto, da

dove si godeva di una bella panoramica sulla strada, Jeffrey parve

maggiormente disposto a perdonare l’interruzione del suo sonnellino.

Barbara e Lynley rifiutarono educatamente i generi di conforto proposti

dalla padrona di casa e si sedettero. «Non credo proprio di potervi essere

d’aiuto. Profilattici? Perché arrossisco soltanto a pronunciare la parola?»

disse Flora.

«Ne abbiamo trovato una confezione nella macchina di Ian» la informò

Lynley.

«Sul serio? Quindi faceva il monello.»

«Prendendo le dovute precauzioni» replicò Barbara.

«Certo, certo. Ma cosa volete che vi dica al riguardo?»


«Se Druitt aveva quei profilattici, con ogni probabilità li usava» rimarcò

Lynley.

Flora rifletté su quell’affermazione e sulle sue implicazioni. «L’ispettore in

realtà voleva chiederle se lei e Druitt eravate amanti» chiosò Barbara.

«Oddio, no! L’ho già detto alla vostra collega: non c’era assolutamente

niente fra noi, nemmeno la minima attrazione. Io per lui ero la padrona di

casa e lui per me non era niente. E comunque non la persona che volessi far

entrare nel mio letto. Non che ci fosse qualcosa che non andava in lui,

tutt’altro, era un uomo molto gradevole. Ma non c’è mai stata la minima

attrazione fra noi, ripeto, a parte il fatto che fare sesso con un inquilino non è

una grande idea. E se poi quello si piglia delle libertà e non ti paga l’affitto?

Oppure ti si appiccica e non ti molla più? Insomma, non ero io la... come

dire? La beneficiaria dei preservativi di Ian.»

«Druitt ha mai accennato a una o più ’beneficiarie’?» domandò Lynley.

«Magari camuffandolo come un rapporto di altra natura, che non le aveva

destato nessun dubbio?» aggiunse Barbara.

«Be’, è difficile» rispose Flora. «Ian frequentava un sacco di persone, sia

attraverso la parrocchia e la chiesa sia attraverso le attività di volontariato.

Poteva essere chiunque.»

«Maschio o femmina?» chiese Lynley.

«Aiuto! Non ne ho idea. Se aveva una relazione, però, di certo non la

sbandierava in giro. Anzi, era il massimo della discrezione: mai un accenno,

una telefonata, una lettera, una cartolina... E quando ho messo a posto in

camera sua, dopo la tragedia, non ho trovato niente che potesse far pensare...

Che so, un fiore secco, un biglietto del cinema o del teatro...»

«Magari aveva una relazione con una donna sposata» azzardò Lynley.

«Be’, sì, potrebbe essere» replicò Flora Bevans. «Ma, di nuovo, io non ho

mai subodorato niente.»

«Oppure con una minorenne» azzardò Barbara.

«Ossignore! Non mi piace pensare che Ian, uomo di Chiesa e tutto, potesse

mettersi con una ragazzina. Mi sentivo tranquillissima con lui in casa, sa?»

«Nessuno dice che fosse coinvolto in attività criminali» la rassicurò

Lynley.

«Be’... a parte la questione della pedofilia» gli ricordò Barbara.

«Sì, certo.»

«Guardate, non riesco neanche a parlarne. Non ci credo assolutamente.


Non riesco neppure a immaginare che Ian facesse certe cose. Mi spiace non

potervi aiutare, ma sulla base di quanto ho visto e sentito in questa casa, che

come vedete è una casa piccola, Ian era un uomo di fede, moralmente

integerrimo. Ne sono convinta.» Sospirò, si posò le mani sulle cosce e si alzò.

«Mi spiace non esservi di maggiore aiuto» concluse. «Vi siete scomodati per

niente.»

Barbara cercò nella borsa un biglietto da visita e lo porse alla fiorista con la

solita raccomandazione di chiamare se le fosse venuto in mente qualcosa. Poi

anche lei e Lynley si alzarono e si avviarono verso la porta. Prima di uscire, a

Barbara venne in mente di rivolgere un’altra domanda alla padrona di casa:

Ian Druitt conosceva la sua data di nascita? Dopo tutto abitava lì da qualche

anno, no?

«Strana domanda, ma sì, Ian sapeva in che giorno sono nata» replicò Flora.

Barbara glielo chiese e Flora glielo disse.

Senza lasciarle il tempo di domandarle come mai volesse sapere quando

compiva gli anni, Barbara chiuse il taccuino. «Grazie mille. Le manderò gli

auguri» disse.

Una volta per strada, provò a inserire quei numeri nel telefono di Druitt.

Sorrise e alzò gli occhi verso Lynley.

«Tombola!» esclamò.

Bromfield

Shropshire

Visto che erano sulla Bromfield Road, da casa di Flora Bevans andarono a

Bromfield, dove nella traversa subito dopo l’ufficio postale trovarono una

componente essenziale di ogni paesino di campagna: il pub. Impiegarono otto

minuti ad arrivarci, perché la prima volta non svoltarono al punto giusto e

Lynley fu costretto a cercare uno slargo per fare inversione. Barbara passò

tutto il tempo a trafficare con lo smartphone di Druitt che, naturalmente, non

era stato più usato dal giorno della sua morte.

«Bella caccia al tesoro. Che Iddio benedica gli smartphone. Come dice la

canzone, We’re in the money. Da dov’è uscita quella canzone, a proposito?»

disse a Lynley.

«Quello che mi chiedo è dove lei l’abbia sentita, Barbara» osservò Lynley.


«Non essendo rock anni Cinquanta.»

«È comunque un ottimo pezzo da tip tap» lo informò lei.

«Giusto! A proposito, Daidre mi ha pregato di chiederle come va. Il tip tap,

intendo.»

«Daidre? E cosa diavolo le...»

«È molto interessata, sergente. E non è l’unica, come ben ricorderà. Mi

dica: va tutto bene? Glielo domando perché temo mi chiamerà Dee Harriman

e mi conviene farmi trovare informato, se non voglio uscire dalle sue grazie.»

«Le dica che sullo heel drop ormai non mi batte nessuno, ma la danza

irlandese continua a darmi dei problemi. Umaymah è la scelta migliore, se

vuole evitare uova marce sulle scarpette nuove, glielo riferisca.»

«Mi ricordi la data, sergente.»

«Aspetti e speri, ispettore. Non gliela dirò mai.»

Scoprirono che il pub era non soltanto l’unica rivendita di alcolici del

paese, ma anche il ritrovo di un ambizioso gruppo di uomini appassionati di

lavori a maglia. Sotto la guida di un pensionato, che a giudicare dalla pelle

segnata dalle intemperie sembrava aver trascorso tutta la vita in mare, erano

impegnati in un progetto comune che poteva essere o una calza molto lunga o

una sciarpa molto corta. Difficile a dirsi, ma i colori facevano pensare a un

utilizzo in ambito militare. La lezione era accompagnata da abbondanti

libagioni, che contribuivano al buon umore dei partecipanti, decisamente

chiassosi.

Scelsero un tavolo e Barbara tirò fuori il bloc-notes. «Su questi aggeggi»

cominciò, sventolando il cellulare, «resta tutto registrato per due mesi:

chiamate in entrata e in uscita, chiamate perse, messaggi... Non c’è più

bisogno di richiederli a chi di dovere. E visto che questo non è stato più

adoperato dalla sera in cui è morto Ian Druitt, siamo a cavallo. O, perlomeno,

più a cavallo che con un vecchio telefono. Adesso, però, vuole essere così

gentile da ordinarmi una gassosa? Io nel frattempo vedo cosa riesco a

scoprire in termini di chi, come, e perché.»

«Nient’altro?» domandò Lynley prima di avviarsi verso il bancone.

«Qualcosa di commestibile non mi dispiacerebbe. Un pacchetto di patatine,

tipo. Se le hanno, aceto e sale, altrimenti alla cotica di maiale. Grazie, eh.»

Lynley era inorridito, ma eseguì. Nel tempo che impiegò ad attrarre

l’attenzione del titolare, ordinare una gassosa, un caffè e un pacchetto di

patatine, farseli servire e tornare al tavolo, Barbara passò al setaccio le prime


settimane di telefonate. Confrontava i numeri sul cellulare di Druitt con quelli

che si era annotata sul taccuino, gente con cui il diacono aveva a che fare per

le sue varie attività e che compariva sulla sua agenda. Stava cominciando la

quarta settimana, quando Lynley posò il vassoio sul tavolo.

«Grazie» disse Barbara. «Se le va, si pigli pure qualche patatina,

ispettore.»

«Come se avessi accettato» rispose Lynley.

«Mi aprirebbe il sacchetto, per piacere?»

Lynley eseguì. Barbara prese il sacchetto e lo rovesciò, spargendo le

patatine sul piano del tavolo, incurante di germi, batteri, malattie sociali e

sporcizia in genere. Vedendola sgranocchiare, Lynley pensò che a quel punto

l’ispettore Havers doveva aver sviluppato un sistema immunitario degno di

avanzati studi scientifici.

«Abbiamo il reverendo Spencer, una signora della vigilanza di vicinato con

cui ho parlato, Flora Bevans, le due vittime di violenza che compaiono

sull’agenda, il padre e il tipo del gattile. Poi ci sono telefonate da e verso

numeri che io nei miei appunti non ho, ma che intendo chiamare. Prima, però,

finisco i due mesi di dati a nostra disposizione» gli riferì, masticando.

Lynley annuì e prese dalla zuccheriera un cucchiaino di granelli di dubbia

provenienza, cercando di evitare i grumi lasciati dai cucchiaini bagnati di

precedenti avventori. «Quindi finora non ha trovato nulla di esaltante?» disse.

«Finora no, ma qualcosa non mi torna. Per esempio, manca un numero che

mi sarei aspettata di trovare.»

«E cioè?»

Barbara si infilò in bocca una manciata di patatine, masticò e bevve un

sorso di gassosa. «Prima di tutto, a meno che il numero di Rabiah Lomax non

sia fra quelli che non ho ancora identificato, non risultano chiamate fra lei e il

diacono. E a me pare un po’ strano, considerato che si sono visti sette volte e

presumibilmente per incontrarsi dovevano mettersi d’accordo» disse.

«Può darsi che la prima telefonata di Rabiah Lomax a Druitt risalga al

periodo antecedente quello che abbiamo a disposizione, Barbara, e che da

allora in poi non abbiano più avuto bisogno di sentirsi.»

«È possibile, sì» ammise Barbara. «Magari alla fine di ogni incontro si

accordavano per quello successivo. Oppure la Lomax ci ha riempito di palle.»

«Succede, nel nostro lavoro. E poi? Cos’altro non la convince?»

«Gary Ruddock.»


«Per quale motivo?»

«Perché nelle settimane che ho controllato finora, Druitt l’ha chiamato

cinque volte e lui tre.»

«Sul serio?»

«Secondo me, è un dettaglio di cui dobbiamo tenere conto. Tanto più che

Ruddock ci ha detto che lo conosceva solo di vista.» Prese un’altra manciata

di patatine e se le mangiò con gusto. «Ha notato anche lei che, quando il

discorso è caduto su Finnegan Freeman, Ruddock è improvvisamente

ammutolito? Forse sperava che io passassi ad altro prima che gli toccasse dire

qualcosa.»

«O rispondere alle nostre domande su di lui. Su Freeman, intendo.»

«Certo.»

«Dunque c’è qualcosa che non quadra in quello che ci ha raccontato su

Druitt?»

«Ruddock? Eccome. Io la vedo così: una telefonata, passi. Ci può stare.

Ma otto? Otto proprio non me le so spiegare.»

«Non scordiamoci che Druitt prestava assistenza alle vittime di violenza.

Forse era Ruddock a segnalargliele.»

«Forse. Ma cos’è successo a Ludlow in quel periodo, se si sono dovuti

telefonare otto volte in...?» Guardò il telefono. «Undici giorni.»

Lynley annuì pensoso. «Allora magari si sono sentiti per il ragazzo,

Finnegan.»

«Il sovrintendente non ha una bella opinione di lui. Magari aveva

combinato qualche casino e Druitt ne era a conoscenza. Oppure era Ruddock

a sapere qualcosa e aveva chiesto a Druitt di tenerlo d’occhio.»

«Spaccio, furti, scippi, graffiti, tag, risse...»

«Sappiamo che pratica il karate.»

«... affettamento abusivo di cocomeri con il dito indice?»

Barbara alzò gli occhi al cielo. «Scherzi pure, ispettore. Io però glielo devo

dire: l’agente ausiliario Ruddock ha qualcosa che non mi convince, che mi

rode le budella, perché a ogni due per tre esce fuori qualcosa di sospetto sul

suo conto.»

«Vuole spiegarsi meglio, sergente?»

Barbara fece una spunta immaginaria. «Il fatto che la telecamera della

stazione di polizia sia stata spostata a impianto di sorveglianza spento; il fatto

che Ruddock potrebbe essersi appartato con una ragazza sull’auto di servizio


la sera in cui Druitt è morto; il fatto che con me ha sostenuto di non avere una

ragazza quando evidentemente ha qualcosa in ballo con la tizia dell’auto di

servizio; il fatto che dichiara di aver lasciato Druitt da solo per andare a

telefonare ai pub in un altro ufficio. Adesso scopriamo pure che ci ha tenuto

nascoste otto telefonate con il diacono. E probabilmente non è finita qui:

chissà quanto altro scopriremo sul conto dell’ausiliario Gary Ruddock.

Secondo me, è ora di torchiarlo per benino, ispettore.»

«Sono d’accordo con lei sulla necessità di approfondire, Barbara» rispose

Lynley. «Ma attualmente temo che ci sia un unico modo per metterlo in

difficoltà.»

«Ovvero?»

«Il suo cellulare. Potrebbe rivelarci informazioni preziose. Con quello di

Druitt è andata così, no?»

Barbara rifletté un istante, poi replicò. «Possiamo richiedere i tabulati, ma

ci vorranno giorni. Ammesso e non concesso che riusciamo a convincere un

magistrato a emettere un mandato sulla base del poco che abbiamo. E

dall’emissione del mandato alla consegna dei tabulati c’è ancora da aspettare.

Secondo lei, Hillier ci darà tutto questo tempo?»

«Non penso proprio. Per questo proporrei di agire in maniera più diretta e

creativa. Approfitteremo della piena disponibilità che ci ha promesso

l’ausiliario.»

Barbara lo guardò allibita. «Chiedendogli di consegnarci il telefono?»

«Esatto. Ci pensi: come fa a rifiutare? Se la mettiamo giù bene, la nostra

richiesta gli parrà ineludibile. È possibile addirittura che ci prevenga,

consegnandocelo di sua spontanea volontà.»

Barbara rifletté un istante. «Quando vuole, lei è furbo come una volpe,

ispettore» disse poi.

«Mi chiamo Volpe di secondo nome.»

«Perfetto.» Barbara chiuse il bloc-notes e lo infilò in borsa. Poi mise via

anche il cellulare e pulì il tavolo dalle briciole facendosele cadere nella mano.

Per un attimo Lynley temette che se le mangiasse direttamente dalla

superficie del tavolo, come aveva fatto con le patatine. Barbara colse la sua

espressione inorridita. «Anche per me c’è un limite, ispettore.»

«Grazie al cielo» esclamò Lynley. «Ma questo ci rientra» aggiunse

Barbara. E si leccò le briciole dal palmo.


Ludlow

Shropshire

Barbara apprezzava l’approccio diretto proposto da Lynley per mettere le

grinfie sul telefonino di Ruddock, ma aveva delle perplessità sulla sua

efficacia. L’agente ausiliario non sapeva che erano entrati in possesso dello

smartphone del morto, naturalmente, e questo giocava a loro vantaggio.

D’altra parte, poiché Ruddock aveva già ammesso di sapere che Finnegan

Freeman e Druitt si conoscevano, Barbara dubitava che studiare il suo

registro delle chiamate potesse far luce su tutte le ombre che lo circondavano.

Telefonando all’agente ausiliario scoprirono che non si trovava alla

stazione di polizia. Ruddock rimase lievemente sorpreso di sentirli, ma fu

collaborativo come sempre. Spiegò a Barbara che in quel momento si trovava

al centro caravan vicino al Ludlow Business Park, perché uno dei mezzi era

stato forzato. Volevano raggiungerlo lì? Era sulla A49. Oppure potevano

aspettarlo alla stazione di polizia. Purtroppo aveva chiuso a chiave, altrimenti

avrebbe detto loro di accomodarsi.

Optarono per la seconda proposta e Ruddock promise di raggiungerli

prima che poteva. Ma ne avrebbe avuto ancora per un’oretta, pensava.

Durante il tragitto verso la stazione di polizia di Ludlow, Barbara cominciò

a chiamare i numeri registrati sul telefono di Druitt e continuò una volta

arrivati, in attesa che li raggiungesse Ruddock. Scoprì così che Druitt aveva

parlato con i presidi di tre scuole elementari che avevano raccomandato ai

loro alunni il suo doposcuola, con alcuni genitori per organizzare il trasporto

dei bambini a una gara di ginnastica, con l’organista e con uno dei membri

del coro della chiesa per cambiare le musiche. Druitt poi era stato in contatto

con il padre, la madre e tre fratelli in vista dei festeggiamenti per il

novantacinquesimo compleanno della nonna paterna. A certi numeri Barbara

trovò la segreteria telefonica, quindi lasciò un messaggio chiedendo di essere

richiamata.

Quando ebbe concluso il lavoro sullo smartphone, Lynley le spiegò che

aveva pensato al discorso da fare a Ruddock perché non potesse rifiutarsi di

consegnare il cellulare. Glielo espose appena prima che l’ausiliario arrivasse.

Gli andarono incontro nel parcheggio. «Possiamo sederci a parlare un

momento, Gary? Sono emersi alcuni particolari che l’ispettore e io vorremmo

approfondire» disse Barbara.


«Certo» rispose Ruddock. «A vostra disposizione.» Li accompagnò nella

cucina dove aveva già fatto accomodare Barbara una volta, si scusò e andò a

prendere un’altra sedia. Tornò poco dopo spingendo una poltroncina da

ufficio.

Avevano stabilito che sarebbe stato Lynley a dirgli che avevano lo

smartphone di Druitt. Lo aveva lasciato in sagrestia, spiegò, quando Ruddock

era andato a prelevarlo alla chiesa di St. Laurence per trasferirlo alla stazione

di polizia. Ruddock annuì e rimase ad aspettare il seguito.

«Prima di tutto lo abbiamo messo in carica e, quando finalmente siamo

riusciti a risalire alla password e sbloccarlo...» disse Barbara.

«Grazie al sergente Havers» la interruppe Lynley.

«Molto gentile, ispettore» ringraziò lei. «Faccio del mio meglio.» Poi si

rivolse a Ruddock. «Come dicevo, quando finalmente siamo riusciti a

sbloccarlo, abbiamo controllato il registro delle chiamate. In entrata e in

uscita.»

«Nei due mesi precedenti la morte di Druitt. Si può accedere a due mesi di

dati e da marzo il telefono non era più stato usato» intervenne Lynley.

Ruddock li sorprese. «E avete trovato il mio numero. Ci siamo parlati

spesso, in quel periodo» disse.

«Infatti il suo numero compare» disse Barbara. «Sia in entrata che in

uscita.»

«Stiamo interrogando tutti coloro che sono stati in contatto telefonico con

Druitt in quei due mesi per farci dire il motivo della chiamata» spiegò

Lynley.

«Quindi volete che vi spieghi perché ci sentivamo, suppongo.» Guardò

Barbara, poi Lynley, poi Barbara.

«Esatto» rispose lei.

«Me lo fate vedere un attimo?» chiese Ruddock. Barbara gli consegnò il

cellulare di Druitt. «Torna indietro di un bel po’» disse lui.

«Perché non è più stato usato dalla sera della morte» ribadì Barbara.

Ruddock annuì pensoso. Sembrava riflettere su cosa dire e cosa no. «Non

c’entra niente con quello che è successo. Mi chiamava per Finnegan

Freeman» dichiarò alla fine.

«Il figlio del vicecomandante» disse Lynley.

«Druitt era preoccupato. In realtà tutti quelli che conoscono Finn prima o

poi si preoccupano. Tanto per cominciare, c’è il suo aspetto. E poi i modi.


Non è cattivo, ma si rende antipatico. Druitt lo seguiva con più attenzione,

penso. Nel senso che se avesse avuto come assistente un altro ragazzo,

sarebbe stato meno attento.»

«Temeva che potesse combinare qualche guaio?»

«Probabile. Voleva sapere se Finn era mai finito nei pasticci, da quando

era a Ludlow. A parte bere troppo, si era comportato bene, e io gliel’ho

detto.»

«L’ha chiamata più di una volta, però. Come mai? Non era convinto?»

«Se ben ricordo, aveva una brutta sensazione e cercava qualcuno che gliela

confermasse oppure gliela facesse passare. Io non sono stato capace di fare né

una cosa né l’altra. Il ragazzo ogni tanto si fuma una canna, ma lo fanno un

po’ tutti. Beve, ma non si è mai messo nei guai. Questo ho detto a Druitt.

Dopo un po’, però, lui mi ha richiamato per farsi dare i recapiti dei genitori.

Non ha voluto dirmi il motivo, mi ha spiegato semplicemente che aveva

bisogno di parlare con loro ma non voleva che il ragazzo lo sapesse e quindi

non poteva chiedere a lui direttamente. Sapeva che sua madre lavora in

polizia – glielo deve aver detto Finn, oppure qualcun altro del doposcuola – e

voleva che io lo aiutassi a contattarla di nascosto da Finn.»

«Se voleva discuterne con i genitori, sarà stata una cosa seria» osservò

Lynley. «Non le ha accennato proprio nulla?»

«Gliel’ho chiesto, ma lui mi ha risposto che non era sicuro e che non

voleva giudicare prima di aver appurato la cosa» rispose Ruddock. «Ho avuto

l’impressione che fosse preoccupato che Finn... non lo so, che avesse una

cattiva influenza sui bambini, forse. E volesse confrontarsi con i genitori.»

«In che senso?»

«Non lo so» replicò Ruddock. «Poteva essere qualsiasi cosa. Chiedergli se

da bambino avesse mai rubacchiato gli spiccioli delle offerte in chiesa, o se

da bambino gli avevano dato tanti antidolorifici in seguito a qualche

infortunio, per esempio. Se era soggetto a bruschi cambiamenti di umore

senza apparente motivo. Ma sono ipotesi mie: Druitt non mi ha detto per

quale motivo voleva parlare con i genitori di Finn. Io gli ho dato il numero

della madre, che conosco perché lavora in polizia. Basta, nient’altro.»

«Finn Freeman salta fuori spesso in questa indagine» commentò Lynley.

«Tutte le strade portano a lui» sentenziò Barbara.

«Mi spiace non potervi dire di più» mormorò Ruddock. «Quello che

sapevo ve l’ho detto.»


«Riconosce qualcuno di quei numeri?» chiese Lynley, indicando con un

cenno lo smartphone che Ruddock aveva ancora in mano.

Ruddock li guardò servizievole e mortificato al tempo stesso. «Sono un

disastro, ve lo devo confessare. Quando devo telefonare, cerco nella rubrica e

premo il tasto. Non so nemmeno il mio numero. Sono anche discalculico,

capite? Sbaglio le cifre» spiegò.

Barbara ricordava che Ruddock aveva ammesso sin da subito di avere

problemi di apprendimento. Fece un cenno impercettibile a Lynley. Silenzio.

Si finsero immersi in profonde meditazioni: Barbara guardava fisso l’orribile

linoleum grigio con le braccia conserte e le labbra arricciate e Lynley, fronte

aggrottata, si tormentava la cicatrice sul labbro superiore e guardava fuori

della finestra.

Dopo trenta secondi buoni, Lynley parlò. «C’è un punto che lei forse è in

grado di chiarirci.»

«Se posso, volentieri» rispose Ruddock.

«Riguarda la sera della morte di Druitt. Lei ha dichiarato al sergente

Havers di aver saputo che in città era in corso un’abbuffata alcolica e di

essere intervenuto telefonando a una serie di pub. Perciò ha lasciato Druitt da

solo e mentre lei non c’era lui si è impiccato.»

«Mi dispiace tantissimo di...»

«La capisco. Ma ho controllato quanti pub ci sono a Ludlow e ho calcolato

che per chiamarli tutti e convincerli a chiudere...»

«Non voleva che chiudessero, ispettore. Voleva soltanto che smettessero di

servire alcolici ai ragazzi del college» precisò Barbara.

«Va bene» disse Lynley. Poi si rivolse a Ruddock. «Il sergente Havers e io

ci chiedevamo come mai lei abbia impiegato tanto tempo. Lei ha dichiarato di

aver impiegato... Barbara?»

Havers fece finta di controllare i propri appunti. «Poco meno di novanta

minuti, ispettore.»

«Insomma, ci siamo domandati se non fosse successo qualcos’altro, in quei

novanta minuti.»

«No, no.» Ruddock, però, era arrossito.

Barbara si protese verso di lui. «Gary, la prima volta che sono stata a

Ludlow, una sera sono venuta a vedere la stazione. Saranno state... non so...

le dieci e mezzo? C’erano tutte le luci spente, ma a un certo punto ho visto

un’auto di servizio.»


«C’è quasi sempre» osservò Ruddock.

«Era proprio in fondo, nel punto più buio e più lontano. In sé, non vuol

dire niente, ma quella sera dall’auto ho visto scendere una ragazza e poi lei,

Gary. Siete rimasti un attimo lì a guardarvi in cagnesco e poi siete risaliti. E

siete rimasti un po’.»

Ruddock restò zitto e immobile.

«Quindi» disse Barbara, come fosse un punto e a capo. «Abbiamo un lui e

una lei su una macchina ferma nel punto più buio di un parcheggio vuoto.

Cosa le fa pensare?»

Ruddock stava già per replicare, ma Barbara non aveva finito e lo anticipò.

«Mi pare di ricordare che lei mi avesse detto di non avere una fidanzata. Se

non era la sua fidanzata...?»

«Non potevo raccontarle la verità, sergente.» Era diventato paonazzo. «Se

no lei sarebbe andata a cercarla e io non potevo permetterlo. Mi dispiace. È

colpa mia, lo so. È colpa mia se il diacono ha fatto la fine che ha fatto. Ma

non potevo sbandierare ai quattro venti... Nella mia posizione...»

Occorreva fare chiarezza. Barbara lanciò un’occhiata a Lynley per capire

le sue intenzioni. «Si riferisce forse al fatto che quella sera lei lasciò solo

Druitt non soltanto per telefonare ai pub, ma anche...» chiese Lynley a

Ruddock.

«Per fare sesso» concluse Barbara, sapendo che Lynley, gentiluomo

com’era, avrebbe usato un eufemismo. «Per divertirsi un po’. Sull’auto di

servizio posteggiata qui fuori.»

Ruddock evitò il suo sguardo. «Ci eravamo già messi d’accordo. Io e lei.

Prima che mi dicessero di portarlo dentro. Senza specificarmi per quale

motivo, lo ripeto. Della pedofilia io non sapevo niente. Sapevo solo che

doveva aspettare lì che lo venissero a prendere per portarlo a Shrewsbury. E

quindi davo per scontato... Cioè, non immaginavo minimamente che potesse

andare a finire in quel modo.»

«Lo ha lasciato da solo.» Lynley aspettò che Ruddock annuisse. «E mentre

era da solo Druitt ha avuto il tempo di impiccarsi» aggiunse.

«Oppure l’assassino ha avuto il tempo di ucciderlo e inscenare il suicidio»

interloquì Barbara. Ruddock si voltò di scatto per guardarla in faccia. «Non

possiamo escluderlo, giusto? È possibilissimo che mentre lei e la sua amica ci

davate dentro come ricci l’assassino abbia raggiunto Druitt, sapendo che lei e

la sua amica eravate impegnati altrove» gli disse.


«No!» esclamò Ruddock. «È impossibile! Non è andata così!»

«Ci dica come si chiama la donna che era con lei» chiese Lynley.

«Dobbiamo interrogare tutte le persone informate dei fatti, Gary» disse

Barbara. «E quindi anche questa donna.»

«Lei non c’entra niente» protestò Ruddock, accalorandosi. «Non sa... Non

sapeva nemmeno chi era Druitt.»

«Sarà, ma dobbiamo chiederlo alla signorina in questione» insistette

Lynley.

«In fondo una sua conferma per lei sarebbe un alibi, Gary.»

Questa considerazione ebbe l’effetto che avevano sperato, notò Barbara.

Ruddock era sull’orlo del baratro: poteva buttarsi di sotto oppure fare un

passo indietro. Non aveva altre scelte.

«Non voglio che la trasciniate in questa storia. È sposata. Mi assumo le

mie responsabilità. Ho mancato ai miei doveri e sono l’unico colpevole: lei

non c’entra» rispose Ruddock con voce roca.

«Ci dia il cellulare, allora» disse Barbara. «La cerchiamo direttamente lì.

Lo capisce, Gary? È la cosa più semplice, meno ufficiale. Almeno resta fra

noi. Se scomodiamo un giudice per avere un regolare mandato, la cosa

diventa di pubblico dominio...»

Erano arrivati al dunque. Dipendeva tutto da quello che l’ausiliario voleva

o non voleva far sapere, specie ai suoi superiori. Barbara e Lynley contavano

sul fatto che l’interesse personale di Ruddock avesse la meglio su tutto il

resto.

E così fu. Ruddock consegnò loro il cellulare.

«Se la sua amica è registrata qui, la troveremo» disse Lynley. «C’è

qualcosa che vuole dirci, prima che cominciamo i nostri controlli?»

«Non è registrata lì» disse Ruddock.

«Lo appureremo» replicò Lynley. «C’è qualcun altro registrato qui di cui

ci vuole parlare o preferisce che ci arriviamo da soli?»

Ruddock rifletté un momento guardando la finestra, poi spostò lo sguardo

su di loro. Impossibile dire se avesse deciso di mentire o se avesse soppesato

le conseguenze di ciò che stava per dichiarare. «Troverete un certo numero di

telefonate con Trevor Freeman.»

«Il marito del vicecomandante» chiarì Barbara.

«Mi ha chiesto di tenere d’occhio Finn, che a casa ha dato un po’ di

problemi. Vedete, Trev pensa che io possa fargli da fratello maggiore, o


qualcosa del genere. Il problema è che lui e Clo...»

«È molto in confidenza con il vicecomandante, vedo» disse Barbara, che

non riusciva nemmeno a prendere in considerazione di chiamare il

sovrintendente Isa o Hillier Dave. Peraltro, se solo si fosse azzardata a

provarci, si sarebbe beccata un calcio nel sedere.

«Non le do del tu e in pubblico non la chiamo per nome» precisò Ruddock.

«Il fatto è che mi ha preso sotto la sua ala protettrice e mi ha presentato ai

suoi familiari, soprattutto a Finn. Ci siamo simpatici, io e Finn.»

«Capisco» rispose Barbara. Poi si rivolse a Lynley. «Ispettore?»

Lynley annuì. «Abbiamo chiarito ciò che ci serviva.» Si alzò. «Tuttavia, è

sorprendente» aggiunse.

«Cosa è sorprendente?» chiese Ruddock.

«Che Finnegan Freeman abbia un ruolo così centrale in questa vicenda.»

Barbara e Lynley se ne andarono con il cellulare dell’ausiliario.

«Scommetto che si è già precipitato sul telefono fisso per contattare tutti

quelli di cui ricorda il numero. Cercherà di avvertire più gente che può»

osservò Barbara mentre salivano sulla Healey Elliott.

«Non saprei» ribatté Lynley. «Sulla questione del cellulare, tendo a

credergli. Non pensa, Barbara, che la tecnologia ci stia rimbecillendo? Non

memorizziamo più i numeri, non li annotiamo neanche su agende e rubriche

perché basta un clic sullo smartphone per...»

«... metterci in contatto con Tizio o con Caio» concluse per lui Barbara.

«Sì, è vero.»

«Il progresso istupidisce.»

Barbara gli lanciò un’occhiata significativa. «Ispettore, quando pensa di

mettersi al passo con i tempi? La trovo in ritardo di una decina d’anni, o forse

di un centinaio...»

«Anche Helen me lo rimproverava» rispose Lynley con un sorriso. «Ma,

visto che anche lei aveva difficoltà a usare il microonde, mi perdonava questa

mia tendenza al luddismo.»

«Mah» sbuffò Barbara.

«L’importante è che abbiamo il cellulare di Ruddock.» Abbassò il

finestrino, ma non mise in moto. «Posso farle una domanda, sergente? Lei

crede alle telefonate fra Ruddock e Trevor Freeman?» continuò.

«Riguardo al giovane Finnegan? Alla storia che l’ausiliario gli facesse da

fratello maggiore?» Aspettò che Lynley annuisse. «È possibile che quel


ragazzo abbia bisogno di un angelo custode. Al sovrintendente non ha fatto

una buona impressione» aggiunse.

«Andiamo da lui, sergente. Vediamo che impressione farà a noi.»

Worcester

Herefordshire

Trevor Freeman doveva ammettere che la relazione con la moglie era iniziata

secondo i più triti stereotipi. Lei lavorava nella divisione investigativa da

poco, fresca di studi ma ambiziosa e determinata a far carriera. E ad avere

una forma fisica perfetta, tanto che si era procurata un personal trainer. E il

personal trainer era lui.

L’aveva trovata irresistibile fin da subito. Sapeva per esperienza che dopo

un certo numero di settimane di allenamento intenso i suoi allievi

incominciavano a battere la fiacca, maschi o femmine che fossero. Ma Clover

no. Si presentava puntualmente in palestra e svolgeva gli esercizi che lui le

aveva assegnato grugnendo e sudando senza ritegno. Questo, naturalmente,

l’aveva resa ancor più interessante agli occhi di Trevor.

E così l’aveva corteggiata, invitandola a prendere il caffè alla fine

dell’allenamento, offrendole l’aperitivo al bar dietro l’angolo, proponendo

una cena fuori. Niente: Clover rifiutava sempre. Trevor stava già per

arrendersi quando sua cognata lo aveva invitato a una festicciola

avvertendolo che aveva invitato anche una conoscente single che, a suo

parere, sarebbe andata bene per lui. L’aveva conosciuta a una corsa di

beneficenza, gli aveva spiegato.

Trevor era andato alla festa e aveva scoperto che la conoscente di sua

cognata, la donna single con interessi molto simili ai suoi, era Clover. Erano

rimasti stupefatti entrambi, erano scoppiati a ridere e avevano spiegato agli

altri ospiti il motivo di quella reazione. Dopo la festa, Clover aveva accettato

l’invito a cena di Trevor.

Al ristorante aveva messo subito in chiaro che non intendeva dare seguito

all’evidente attrazione che c’era fra loro. «Non sperare di portarmi a letto a

fine serata. So come funziona con voi maschietti e preferisco non lasciare

spazio ai fraintendimenti. Almeno hai chiara la mia posizione» aveva

decretato prima ancora di prendere in mano il menu.


Lo aveva detto con un tono così pragmatico che lui si era lasciato

completamente conquistare da quella che aveva giudicato un’onestà

disarmante, un’onestà cui sua moglie non era mai venuta meno per tutti

quegli anni di matrimonio. Adesso, però, era entrato in scena Gaz Ruddock, e

Trevor aveva sentito la moglie promettergli «ne parliamo in un altro

momento». Certo, Trevor avrebbe potuto scoprire nel giro di un quarto d’ora

che cosa avevano ancora da dirsi sua moglie e l’ausiliario, che necessità

avevano di «parlarne in un altro momento», se avesse evitato di ragionare con

il basso ventre.

Era nel suo ufficio della Freeman Athletics a riflettere su questo punto

quando gli squillò il telefono. Aveva appena deciso di scendere nella sala

delle macchine perché aveva visto uno dei personal trainer prendersi un po’

troppa confidenza con una signora che andava lì per dimagrire ed era ancora

abbastanza fuori forma da accogliere con entusiasmo le avance di un giovane

stallone, purché non fossero eccessivamente sguaiate. E poiché Boyd era

bravissimo a corteggiare le donne, Trevor trovava indispensabile intervenire.

Il telefono tuttavia lo bloccò. Smise di guardare oltre la vetrata e vide che

era la linea privata: Clover o Finn, pensò.

Invece era Gaz. «Ho provato a chiamare Clo, ma non è in ufficio e al

cellulare non risponde. Posso parlare con lei, Trev? Così poi le riferisce?»

Trevor capì al volo che gli era capitata tra le mani una ghiotta occasione.

«Mi deve lasciare un messaggio sull’argomento di cui lei e Clo vi eravate

ripromessi di parlare, Gaz?» rispose. Non si premurò di esprimere il concetto

in maniera più diplomatica.

Attimo di silenzio. «Non capisco» disse Gaz, poi.

«Ieri sera, prima che lei andasse via, vi siete detti che vi sareste sentiti a

breve.»

Altro silenzio, nel quale Trevor ebbe l’impressione che Gaz Ruddock

stesse cercando di farsi venire in mente una scusa credibile. «Ah, sì» disse

alla fine. «È per via di Scotland Yard. Telefono per loro. Sono venuti due

volte e pensavo che Clo lo dovesse sapere.»

«Quindi non mi ha chiamato per quello di cui vi eravate ripromessi di

parlare» concluse Trevor. Voleva mettere l’ausiliario con le spalle al muro,

finalmente. A Clover era impossibile estorcere informazioni che si era messa

in testa di tacere, ma per fortuna Gaz Ruddock non era altrettanto astuto.

«Senta, le posso dire soltanto che... Cioè, soprattutto riguarda Finn. Clo mi


ha chiesto di... in un certo senso di coinvolgere Finn in qualcosa di utile,

diciamo. Visto che ora Druitt è morto e non può più fare il volontario al

doposcuola. Cioè, magari continueranno a tenere i bambini in un modo o

nell’altro, ma per adesso... Voglio dire, ora come ora è tutto sospeso. Magari

un domani... Se qualcuno se ne farà carico, o se assegneranno un altro

diacono alla chiesa di St. Laurence, o non so cosa. Perciò Clover si chiedeva

come se la cavasse Finn, ora che non ha più il volontariato a tenerlo

occupato» disse Gaz.

A Trevor non piaceva la piega che aveva preso la conversazione. «Sono al

corrente dell’accordo che avete preso, Gaz.»

Gaz rimase interdetto. «Quale accordo?»

«Quello che le ha proposto Clover l’autunno scorso. Le ha chiesto di tenere

d’occhio Finnegan e riferire a lei. Per questo la cerca, Gaz? Ha informazioni

da passarle sul conto di mio figlio?»

«Ah.» Trevor sentì che Gaz buttava fuori il fiato. Forse aveva tirato un

sospiro di sollievo. «Non propriamente. Ma mi fa piacere sapere che Clo le

ha parlato di questa cosa. Gliel’ha raccontato ieri sera? Ho avuto

l’impressione che lei avesse subodorato qualcosa, Trev.»

«Fin lì ci sono arrivato. Mi spiega cos’altro state tramando, voi due?»

«Non capisco.»

«Io penso che invece lei capisca benissimo, Gaz. Vorrei sapere come mai

ha chiamato me invece di lasciarle un messaggio in segreteria. O aveva paura

di compromettersi in qualche modo?»

«In che senso? Di cosa sta parlando, Trev?»

Trevor guardò di nuovo oltre la vetrata e vide che Boyd si era seduto a

cavalcioni sulla panca di fronte alla cliente di mezz’età, tutti e due a gambe

divaricate. Ossignore! Doveva togliere a Boyd certe idee dalla testa, ma in

quel momento aveva una cosa più urgente cui pensare. «Sto parlando del

fatto che lei e mia moglie avete preso accordi per risentirvi, quando lei l’ha

salutata ieri sera. E, prima di riferire a Clover qualunque messaggio, voglio

capire come stanno davvero le cose» disse a Ruddock mentre fulminava con

lo sguardo Boyd.

«Trev.» Il tono di Gaz era implorante. «Giuro su Dio che non so proprio a

cosa alluda. Insomma, io telefonavo perché pensavo che Clover dovesse

sapere che quelli di Scotland Yard mi hanno parlato di Finn, visto che Druitt

lo frequentava.»


«Ma cosa c’entra questo? Gaz, mi vuole spiegare che cosa sta

succedendo?»

«Niente. Clover mi ha chiesto di tenere d’occhio Finn e io credevo... mi

sembrava che...» Si interruppe, come per farsi coraggio o per riordinare i

pensieri. Quando riprese, lo fece con una certa precipitazione. «Senta, Trev.

Druitt mi aveva chiamato un paio di volte per parlarmi di Finn e io l’ho

riferito a Clo. L’ho riferito anche a quelli di Scotland Yard, oggi. Non ho

potuto evitarlo, perché hanno recuperato lo smartphone – di Druitt, intendo –

e quindi avevano visto che mi aveva cercato e mi hanno chiesto il motivo.

Adesso si sono presi pure il mio. È anche per questo che l’ho chiamata,

Trev.»

«Le hanno preso il cellulare, Gaz? Per farne cosa?»

«Per controllare tutto.»

«Tutto cosa?»

«Vede, certe volte, per parlarmi di Finn, Clo non usava il proprio cellulare

ma il suo, Trev. Cioè, me ne sono accorto perché a un certo punto ho visto

che mi chiamava sempre da quel numero, che prima invece non usava mai.

Insomma, di questo si tratta.» Ci fu un nuovo silenzio, e Trevor ebbe il

sospetto che Gaz si stesse facendo coraggio. «Alla fine gli ho detto – a quelli

di Scotland Yard, intendo – che mi avevate chiesto di dare un occhio a Finn e

che lei mi telefonava regolarmente per avere notizie, Trev. La contatteranno,

immagino. Chiameranno tutti i numeri sul mio cellulare. Vorranno una

conferma da parte sua, perché la procedura è quella. È meglio che gli dica che

mi aveva chiesto lei di tenere d’occhio Finn, perché se mettiamo di mezzo

Clover poi magari sorgono problemi. Non avrebbe senso, le pare?»

Gaz stava cercando di coprirsi: Trevor lesse fra le righe l’intenzione di

Ruddock come fosse stata una manifestazione d’intenti scritta a caratteri

cubitali. Voleva coprire se stesso e anche Clover e sarebbe stato interessante

sapere il perché. Ma incaponirsi a cavare informazioni dall’ausiliario in quel

momento sarebbe stato inopportuno e quindi promise di seguire le sue

raccomandazioni. Prima, però, doveva confrontarsi con la moglie.

Hindlip

Herefordshire


Prima di partire per Hindlip, Trevor diede una controllata al registro delle

chiamate sul suo cellulare. Non sapeva da quanto tempo andassero avanti le

conversazioni intime tra Clover e Gaz, perché poteva accedere soltanto a una

parte dei dati, ma gli bastò uno sguardo veloce per contare sei telefonate nel

periodo in cui la Metropolitan Police era stata a Ludlow la prima volta, tutte

la sera tardi o la mattina presto. Ma certo, pensò. Erano gli unici momenti in

cui Clover poteva mettere le mani sul cellulare del marito.

Quando arrivò alla sede della West Mercia Police, seppe dalla segretaria

che Clover non era in ufficio, ma al centro di addestramento. Stava tenendo

una lezione ai futuri agenti ausiliari sul tema Garantire la sicurezza sul

territorio. Voleva raggiungerla al centro e intercettarla a fine lezione oppure

preferiva aspettarla lì?

Trevor rispose che sarebbe andato a sentire la lezione di Clover, specificò

che sapeva arrivare al centro di addestramento da solo e si incamminò.

Affrontarla sul lavoro era stata una scelta meditata: Clover era abilissima a

scantonare e lui era troppo debole per resistere alle strategie diversive che

metteva in atto. Era necessario che la discussione avvenisse in un ambiente

dove lei non potesse contare sulla propria capacità di scatenare gli istinti

animali di Trevor.

Il centro di addestramento era oltre la cappella all’estremità dell’edificio

principale. Era una struttura di servizio, in netto contrasto con la sontuosa

villa antica in cui Clover, il comandante e i vari capireparto avevano i loro

uffici. Per entrare bastava aprire una semplice porta, poi si trattava di trovare

l’aula in cui i futuri ausiliari ascoltavano le sagge parole dei funzionari di

polizia seduti in cattedra.

Trevor si fermò in fondo all’aula, in piedi vicino alla doppia porta, testa

lievemente inclinata da una parte e occhi fissi sulla moglie. Quando lei lo

vide, si limitò ad arricciare le labbra nel più piccolo dei sorrisi. Era sorpresa

di vederlo lì, e non essendo stupida doveva aver capito che era successo

qualcosa. Non poteva sapere cosa, perché la sua presenza al corso aveva

impedito a Gaz di contattarla. E se anche fosse stata raggiungibile, con ogni

probabilità Gaz non avrebbe corso il rischio di chiamarla, nemmeno da un

telefono fisso, perché se il suo obiettivo era di proteggerla di certo conveniva

evitare qualunque contatto diretto.

Alla fine della lezione, gli ausiliari uscirono. I colleghi insegnanti di

Clover si scambiarono qualche commento raccogliendo le loro cose e se ne


andarono anche loro. Clover rimase da sola alla cattedra, impegnata a infilare

carte e fascicoli dentro la ventiquattrore.

Trevor le andò incontro e non perse tempo in convenevoli. «Perché

telefoni a Gaz dal mio cellulare? Non me ne sono accorto da solo: me lo ha

detto lui. Ha dovuto consegnare lo smartphone agli ispettori di Londra.»

«Ciao, tesoro. Anche a me fa molto piacere vederti» lo salutò lei. «È stata

una sorpresa alzare gli occhi e trovare il mio bel maritino in fondo all’aula.

Quando sei arrivato? Devi esserti annoiato a morte.»

«Gaz mi ha domandato un favore e ho pensato fosse meglio consultarti.

Vuole che io confermi ai due ispettori di Scotland Yard che sono stato io a

chiedergli di tenere d’occhio Finn e che le diverse chiamate in entrata e uscita

dal mio cellulare riguardavano la mia richiesta e le sue successive

comunicazioni a proposito di Finn. In parole povere, se non ti fosse chiaro,

mi ha chiesto di mentire alla polizia. A beneficio suo ma, evidentemente,

anche tuo: se io dicessi ai due ispettori che non so nulla di tutte quelle

telefonate da e per il numero di Gaz Ruddock nel mio registro delle chiamate

si metterebbero a indagare per scoprire chi è stato a usare il mio cellulare. Mi

segui, Clover?»

Lei passò un dito sulla cucitura della ventiquattrore e Trevor aspettò con

ansia che parlasse. Quando Clover aprì finalmente bocca, non fu per dargli la

risposta che lui si aspettava. «Capisco come la vedi. ’È stata proprio furba, ha

usato il mio cellulare per organizzare le tresche con l’amante perché l’ultima

cosa che uno va a controllare in certi casi è il proprio telefono.’ È questo che

pensi, vero? Mi vedi già accarezzare languidamente i possenti pettorali di

Gaz in attesa di avvinghiarmi a lui in chissà quale misteriosa alcova?»

Si aspettava che lui negasse, ma Trevor intuì che l’argomento di cui voleva

discutere con Clover, ovvero la promessa di risentirsi a breve che si erano

scambiati lei e Gaz, rischiava di trasformarsi in un diversivo per evitare

l’altro discorso che dovevano affrontare. Per distrarlo dal nocciolo del

problema, ovvero Finn, Clover gli aveva appena dipinto uno scenario che ben

si adattava allo stralcio di conversazione che Trevor aveva sentito e facendo

leva sulla sua gelosia cercava di metterlo al centro della discussione. Era una

sua classica strategia.

«Se anche tu, come Gaz, vuoi che menta alla polizia, nel caso mi

interpellino, bisogna che mi spieghi la faccenda nei particolari, perché devo

avere ben chiaro il quadro della situazione.»


Clover rimase di nuovo in silenzio. Fuori, da qualche parte, dei cani

abbaiarono. Era ora di cena, pensò Trevor. «E va bene. Non ci girerò attorno.

Immagino che tu voglia i fatti nudi e crudi» disse infine Clover.

«Esatto.»

«Va bene. Ian Druitt aveva dei dubbi su Finn, e da parecchio tempo. Così

ha telefonato a Gaz per parlargliene, sapendo che lui e Finnegan si

conoscono.»

«Che genere di dubbi?»

«Dubbi del tipo: ’È un bravo ragazzo ma ho paura che nasconda qualcosa e

spero che quel qualcosa non sia quello che penso io’. Gaz mi ha telefonato

per riferirmi il suo colloquio con Druitt. Dovevamo decidere come

comportarci.»

«In che senso, Clover? Smettila di tergiversare e parla chiaro. Non volevi

espormi i fatti nudi e crudi?»

«E va bene: alcol, marijuana, condotta non proprio irreprensibile in

presenza di minori.»

«Cosa significa di preciso? Stai dicendo che Finn distribuiva birra e vino ai

bambini del doposcuola? Che gli vendeva l’erba? Che li portava sulla cattiva

strada attraverso...» Si interruppe a metà. «Aspetta. Non stai insinuando che

Finn faceva qualcosa a quei ragazzini, vero? È di questo che stiamo

parlando?»

«Io non sto insinuando un bel niente. Ti sto riferendo quello che mi è stato

detto. Me lo hai chiesto e io ti ho risposto.»

«Non ci credo.»

«Neanch’io ci ho creduto, lì per lì.»

«Come sarebbe? Adesso ci credi?»

«Senti, ti sto dicendo quali erano le perplessità di Druitt su Finn e il motivo

per cui io e Gaz abbiamo parlato al telefono. Insomma, io lo avevo incaricato

di tener d’occhio Finnegan e Druitt gli aveva confidato di temere che

Finnegan avesse dei comportamenti potenzialmente pericolosi, del genere che

poi ti perseguita per il resto della tua esistenza. Non so a cosa si riferisse –

alcol, droga, sesso... – e continuo a non saperlo. In ogni caso, non volevo che

nostro figlio finisse nei guai, soprattutto perché ero stata io a suggerirgli di

impegnarsi con i bambini. La mia idea, alla luce dei fatti, è che Finnegan

avesse visto Druitt comportarsi in maniera sconveniente con un bambino e

che Druitt aveva preferito giocare d’anticipo accusando Finnegan prima che


Finnegan accusasse lui.»

«E dopo?»

«E dopo Gaz me l’ha riferito. Volevo che Finnegan prendesse le distanze

da Druitt il prima possibile, ma quel testone non ne voleva sapere di

abbandonare i bambini. Capisci che impressione poteva fare un

atteggiamento del genere? Sosteneva che il suo lavoro era importante, che

con Druitt andava d’accordo, che riusciva anche a dare delle piccole

dimostrazioni di karate ai bambini e così via. Quindi gli ho dovuto dire una

verità parziale, ma lui – sai com’è Finnegan – non ci ha creduto nemmeno per

un istante.»

«Quale verità parziale?»

«Soltanto che Druitt aveva espresso a Gaz alcune perplessità sul modo in

cui Finnegan interagiva con i bambini. Mi sono tenuta sul vago. Non potevo

che tenermi sul vago.»

«E perché, Clover? Perché non gli potevi dire chiaro e tondo cos’era

successo, dandogli almeno la possibilità di difendersi?»

«Ma ti senti, perdio? Hai presente cosa significa dare a Finnegan la

possibilità di difendersi? Temevo che si infuriasse e che sfogasse la sua

rabbia in un modo che poteva finire per ritorcersi su di lui.»

«Quindi tu pensavi che...»

«Non pensavo niente. Volevo soltanto che Finnegan smettesse di

frequentare Druitt e il doposcuola. Poi invece a Druitt hanno dato addirittura

un premio ed è arrivata una denuncia anonima in cui lo accusavano di

pedofilia...»

«Ossignore! Tu pensi che sia stato Finn a telefonare al 999, vero? Per

ripicca, visto che Druitt era andato a parlare con Gaz.»

«Io non penso niente. Non so niente. Ma quando ho sentito di quella

telefonata anonima, non ho potuto ignorarla e ho chiesto di portare Druitt in

stazione per interrogarlo.»

Trevor ascoltò quest’ultimo passaggio con un crescente senso di orrore. Le

tessere del mosaico stavano andando una per una al loro posto, per formare

un quadro che non si sarebbe mai sognato di dover vedere. «Quindi Druitt

andava tolto di mezzo» disse a fatica.

Clover si portò una mano alla gola. «Per chi mi hai preso, santo Dio? No,

Druitt non andava ’tolto di mezzo’. Ma era essenziale indagare su quel

doposcuola, altrimenti sotto indagine sarebbe finito Finnegan. Lo conosci


anche tu, sai come reagisce, sai che si infiamma subito, che perde

completamente la capacità di ragionare. Non volevo che si ritrovasse in

quella situazione. Non voglio che ci si ritrovi neanche adesso. È un rischio

che non posso correre.» Clover prese la ventiquattrore dalla cattedra su cui

l’aveva posata e Trevor capì che, per quanto la riguardava, la conversazione

era finita lì.

Lui non era d’accordo, però. «Cosa significa ’un rischio che non puoi

correre’?» disse.

«Non voglio che parli con quelli della Metropolitan Police. Non voglio

nemmeno che gli si avvicinino. Non perché abbia qualcosa da nascondere,

ma perché...»

«Potrebbe pensare che sei stata tu a mandarli da lui.» Trevor non riusciva a

capacitarsi dei discorsi di sua moglie sulla verità e le bugie, sui crimini e le

loro conseguenze. «Cristo, Clover. Qui non si tratta di quello che Finn pensa

di te, non capisci? Stanno indagando su un possibile delitto. Se Finn non ha

fatto niente di male, può stare tranquillo.»

«Non ti credevo tanto ingenuo.» Si incamminò verso la porta in fondo

all’aula. Quando l’ebbe raggiunta, si voltò a guardarlo. «Tu non hai la

minima idea di come si lavora in polizia, perciò credimi: se durante un

colloquio con Finnegan dovesse mai emergere un particolare interessante, la

cosa non morirebbe certo lì. E allora, fra le perplessità che Druitt aveva sul

conto di Finnegan e il fatto che è morto impiccato, magari a Scotland Yard

viene il dubbio che non si sia suicidato, ma che qualcuno lo abbia

ammazzato, e un sospettato c’è, perché aveva un movente e chissà che non

venga fuori che aveva anche l’opportunità. Mi segui, Trevor?»

«Pensi che sia stato lui» mormorò Trevor con un filo di voce, inorridito dal

fatto che la moglie potesse anche solo concepire una simile idea. «Tu credi

che Finn...»

«Io non credo niente» ribatté lei. «Non ho un quadro completo dei fatti.

Non l’ho mai avuto. So solo quello che è stato detto, queste accuse che sono

circolate. So che Finnegan frequentava i bambini del doposcuola e vedo le

possibili implicazioni. Sono sua madre, per l’amor di Dio! Sono prima di

tutto sua madre. Finnegan è in cima ai miei pensieri. Tutto il resto passa in

secondo piano. Voglio che stia bene, Trevor, capisci? È la cosa che mi preme

di più al mondo.»

Trevor lasciò sedimentare quelle parole e la raggiunse sulla porta.


Camminando, prese dalla tasca il cellulare e lo agitò in direzione della

moglie. «Giusto per essere sicuro di aver tutto chiaro, anche tu vuoi che

menta alla polizia, nel caso vengano a chiedermi delucidazioni riguardo alle

telefonate dal mio cellulare a quello di Gaz? Volete davvero che io racconti ai

due ispettori che sono stato io a chiedergli di tenere d’occhio Finn, che la

richiesta è partita da me e che a me lui riferiva? Eh, Clover?» Lei continuò a

stare zitta, ma la sua espressione fissa era di per sé una risposta. «Se vi

illudete che quelli se la bevano e facciano a meno di parlare con Finn, siete

due imbecilli» le disse.

«Di’ tutto quello che vuoi alla Metropolitan Police» ribatté Clover.

«Raccontagli tutto quello che ti ho appena detto. Spiegagli che il mio

obiettivo è evitare che Finnegan si rovini la vita con le sue stesse mani e

prega che, quando andranno a parlare con lui, Finnegan sia in grado di tener

loro testa.»


19 MAGGIO

Ludlow

Shropshire

Ding aveva brevemente preso in considerazione l’idea di non presentarsi

all’appuntamento con la psicologa del college perché non riusciva a

immaginare in che modo potesse esserle utile. La verità era che aveva perso

completamente la voglia di trascinarsi a lezione ed era indietro con compiti e

verifiche. Il tutor l’aveva convocata più volte e aveva tentato in tutti i modi di

farle capire che doveva cambiare atteggiamento. La convocazione da parte di

Greta Yates, quindi, non era affatto una sorpresa. Piuttosto era sorprendente

che ci avesse messo così tanto ad arrivare. Dunque all’ora prestabilita, Ding

giunse al campus di Castle Square.

Aveva dormito male, ma ultimamente era sempre così. Aveva fatto sesso

con Finn, aveva fumato con lui una cannetta post-coitum, poi lo aveva

rispedito in camera sua. Finn non ne voleva sapere, a suo modo di vedere in

cambio dell’ottima erba lei avrebbe dovuto concedersi ancora una volta, ma

Ding era stata irremovibile. Tuttavia non era riuscita a prendere sonno prima

delle tre, quando finalmente le voci nella sua testa si erano zittite

concedendole un po’ di tregua e lasciandola in balia di sogni inquieti.

Greta Yates era un donnone di proporzioni gigantesche, con il respiro

catarroso e la voce di chi non riesce a incamerare abbastanza ossigeno.

Tornare alla scrivania dopo essersi affacciata alla porta dell’ufficio per

invitare Ding a entrare le costò uno sforzo tale che quando si sedette sulla

poltroncina era paonazza e Ding temette che le venisse un coccolone. Prese

un pacchetto di fazzolettini dal cassetto e lo posò in cima a una pila di

pratiche talmente alta che Ding si chiese se fosse la dimostrazione di un

enorme carico di lavoro o di scarse capacità organizzative.

I fazzolettini erano per lei: con due si asciugò la faccia e con un terzo si

soffiò il naso. Quindi intrecciò le dita, mostrando un enorme smeraldo che o


era finto oppure dimostrava che la Yates era ricca di famiglia, e squadrò

Ding.

Andò subito al punto. «Feste, pub o un folle amore? Ho visto che non abiti

con i tuoi genitori. È la prima volta che vivi per conto tuo?»

Ding approfittò del fatto che la Yates aveva parlato di genitori al plurale.

La scusa che si era preparata non era propriamente una bugia, pur non

essendo neppure la verità, e nel dirla riuscì persino a farsi venire le lacrime

agli occhi.

Era per via di suo padre, spiegò a Greta Yates con il mento che le tremava.

Aveva avuto un incidente ed era morto. In casa. Abitavano vicino a Much

Wenlock, in una casa vecchissima e in condizioni pietose, e venivano tutti

quanti cooptati nello sforzo di renderla vivibile. Nello specifico, lei doveva

tornare a casa ogni fine settimana a dare una mano. Il padre stava facendo dei

lavori all’impianto elettrico e... Lunga esitazione, per creare suspense e dare

modo alla sua interlocutrice di giungere da sola alla tragica conclusione.

Era morto fulminato, spiegò Ding. Sapeva che non era vero, anche se non

sapeva perché ne era così certa, ma era pur sempre la versione cui sua madre

era sempre rimasta fedele fin dal principio, dalla prima volta che Ding le

aveva chiesto fra le lacrime: «Ma mamma, che cosa stava facendo?»

Greta Yates si dimostrò immediatamente più comprensiva. «Condoglianze.

Quando è successo? Come mai il tutor non lo sapeva?»

Era successo quattordici anni prima, ma Ding non poteva certo dirglielo.

«Nel periodo di Pasqua» rispose.

«Ne hai parlato con qualcuno?»

Ding scosse la testa. «Ci siamo chiusi nel nostro lutto, in famiglia.»

«Be’, il tuo calo nel profitto dimostra che tenerti tutto dentro non è una

strategia vincente.»

Ding rispose che sì, lo sapeva, ma non poteva fare diversamente. Stava

troppo male, non riusciva a parlarne. Prima o poi avrebbe dovuto, se ne

rendeva conto, non stava gestendo bene la situazione e i voti erano lì a

dimostrarlo. Ne era consapevole, sul serio.

«Sai dove trovarmi» disse Greta Yates. «Se hai bisogno di sfogarti,

rivolgiti pure a me.»

Vista la quantità di scartoffie sulla scrivania, era improbabile che la Yates

potesse darle qualcosa di più di una vaga parola di conforto, un consiglio di

massima, un generico avvertimento sulle ripercussioni di una scarsa


frequenza di lezioni e laboratori. Ma dato che mentivano tutti, lei compresa,

un autentico sostegno morale era impossibile e quindi poco importava.

Ding ringraziò la psicologa e spiegò che il peggio era passato e stava

lentamente uscendo dalla crisi. Si sentiva un po’ meglio. Forse era la

primavera, con tutto quello che rappresentava: rinascita, speranza, la vita che

si rinnova eccetera eccetera.

«Pensi di riuscire a recuperare?» le chiese Greta Yates. Il tono era

affettuoso, ma con un nocciolo di severità.

Sì, rispose Ding. Dena Donaldson si sarebbe rimessa a studiare, la

dottoressa Yates poteva contarci.

«A volte faccio ancora un po’ fatica, ma penso davvero che il peggio sia

passato» ribadì Ding. Avrebbe voluto credere alle proprie parole, nonostante

fosse perfettamente consapevole che era solo l’ennesima bugia.

Ludlow

Shropshire

Usciti dall’hotel, invece di andare subito sul Temeside, Barbara e Lynley

fecero prima un salto alla stazione di polizia. Barbara disse a Lynley che

voleva mostrargli una cosa. Lynley mise in moto e lei lo diresse prima in

Broad Street e poi giù, verso il fiume, dove andarono a est fino a Weeping

Cross Lane. Svoltando a sinistra, si ritrovarono a meno di un minuto dalla

stazione di polizia di Ludlow. Barbara gli fece notare che i negozi erano

piuttosto arretrati rispetto alla strada, quindi chiunque fosse passato in

automobile, in bicicletta, a piedi, sui pattini o sui trampoli a molla non

sarebbe mai stato inquadrato dalle videocamere di sorveglianza piazzate

sopra le vetrine.

«Insomma, è un ottimo percorso alternativo da casa di Finnegan Freeman

alla stazione di polizia» concluse mentre Lynley svoltava in Townsend Close.

«Quando ci sono passata a piedi mi è sembrato interessante, e sono ancora

convinta che sia un particolare degno di nota, ispettore.»

«Soprattutto ora che sappiamo che cosa faceva in realtà Ruddock quando

Druitt è morto.»

«Arrivare alla stazione di polizia da quella strada sarebbe stato un gioco da

ragazzi. Nessuno avrebbe fatto caso a uno che passava a piedi o in bicicletta.


Da lì si va in centro, alla stazione ferroviaria, al Tesco e in chissà quanti altri

posti. Entrare senza farsi vedere dall’auto di servizio ferma nel parcheggio

non sarebbe stato un problema e, una volta all’interno, per arrivare a Druitt

bastava percorrere il corridoio.»

Lynley seguì lo sguardo di Barbara e vide che stava osservando il

parcheggio. «Vediamo cos’ha da dirci al riguardo Finnegan Freeman»

concluse l’ispettore. «E c’è anche un altro punto che vorrei buttare lì»

aggiunse poi.

«E cioè?»

«I rapporti fra il vicecomandante Freeman e Ruddock.» Lynley fece

inversione per tornare in Lower Galdeford Street e scendere lungo Weeping

Cross Lane fino al lungofiume. «Se Trevor Freeman ritiene di poter chiedere

a Ruddock di tenergli d’occhio il figlio, vuol dire che i due si conoscono

bene. Ma se Ruddock conosce bene lui, conoscerà bene anche il

vicecomandante. Magari si frequentano al di fuori dell’ambiente di lavoro.»

«Sì, potrebbero essere amanti» ipotizzò Barbara. «Clover Freeman avrà

una ventina d’anni più di Ruddock, ma ha un fisico da atleta. E quindi che si

rotoli nuda...»

«... con un giovane ausiliario...»

«... è un’ipotesi che non possiamo escludere. Magari per mettersi

d’accordo con l’amante usa il telefonino del marito.»

«Come dice lei, non dobbiamo trascurare nessuna ipotesi.»

Arrivarono alla casa di Finnegan Freeman, vicino a Weeping Cross Lane, e

parcheggiarono poco più avanti, con due ruote sul marciapiede. Bussarono,

poi suonarono il campanello.

La porta si aprì e si trovarono di fronte un ragazzo vestito come un figurino

e una ragazza con una gran testa di capelli scuri. Si tenevano per mano e

avevano l’aria di essere lì perché stavano uscendo, non per rispondere al

campanello.

«Scusate. Volevate qualcosa? Stavamo uscendo» disse il ragazzo.

Lynley mostrò il tesserino e presentò il sergente Havers. Senza lasciargli il

tempo di spiegare il motivo della visita, il ragazzo li anticipò. «Siete qui per

Finn?»

«Perché lo pensa?» chiese Lynley.

«Perché i poliziotti che vengono qui cercano sempre lui.»

«Voi siete...?»


«Bruce Castle» rispose il ragazzo. «Abito qui. E lei è Monica.»

«Jordan» aggiunse lei.

«E non abita con noi» precisò Castle. «Entrate. Vado a chiamare Finn.»

Lasciò la porta spalancata e andò verso le scale gridando: «Freeman! Ci

sono degli sbirri che ti cercano». Si voltò verso Lynley con un’alzata di

spalle. «Scusi, m’è scappato. Troppa televisione.» Alzò di nuovo la testa

verso il primo piano. «Freeman! Datti una mossa, coglione!» La ragazza,

Monica, scoppiò in una risatina nervosa.

Le grida di Bruce Castle non ottennero risposta. O Finn Freeman non era

in casa, oppure dormiva profondamente. Castle si voltò di nuovo verso di

loro. Volete che gli dica che... non lo so... che lo state cercando? Vi faccio

telefonare? Vi avverto quando lo vedo?»

Lynley prese un biglietto da visita e glielo porse. Anche Barbara gli diede

il proprio, per sicurezza. Castle se li infilò nel taschino della camicia firmata

e disse che, se volevano, potevano accomodarsi e aspettare. Oppure tornare

un’altra volta, eventualmente anche a sorpresa. «La porta non è mai chiusa a

chiave» li informò con una scrollata di spalle. «Di solito la mattina è il

momento migliore. Prima è, meglio è.»

E se ne andò insieme con Monica, lasciando la porta spalancata.

«Potremmo mettere tutto a soqquadro» propose Barbara. Guardò nel

salotto. «Ma lo è già. Caspita, come fanno a vivere in ’sto casino? Sembra di

stare in una discarica» aggiunse.

«I giovani si adattano facilmente» rispose Lynley. «Andiamocene.

Torneremo. La mattina presto, come ci ha consigliato il signor Castle.»

Uscirono e si tirarono dietro la porta. Barbara si incamminò, Lynley

controllò se Bruce Castle aveva detto la verità. Sì, la porta si riapriva senza

problemi. Ne avrebbero approfittato per svegliare Finnegan Freeman all’alba.

Ludlow

Shropshire

Ding si stava trascinando verso casa quando vide Brutus. Non conosceva la

ragazza che era con lui, ma dedusse dall’espressione svanita che si trattava

della sua ultima conquista. La cosa la lasciò stranamente indifferente. Dopo

l’incontro con Greta Yates e lo sforzo di imbastire delle frottole credibili,


vedere Brutus uscire di casa con l’ennesima ragazza non la turbò più di tanto.

Brutus, ovviamente, si aspettava che ci rimanesse malissimo e gli facesse

una scenata. Comprensibile, visto che di solito lei dava in escandescenze. Lo

stupì con la sua pacatezza. «Dimmi che Finn è andato a lezione, per una

volta.» Prima che lui le rispondesse, si presentò alla ragazza. «Ciao, sono

Dena. Ding, veramente. Ho la stanza vicina a quella di Brutus.»

«Monica» replicò la ragazza con un bel sorriso. Doveva aver portato

l’apparecchio, perché aveva una dentatura perfetta.

Brutus era spiazzato. «Stai andando a casa, Ding?» chiese. Il tono era

sospettoso, come se temesse che Dena Donaldson stesse per giocargli uno dei

suoi scherzetti per farlo ingelosire.

«Avevo un colloquio con la psicologa del college» gli rispose. Si passò una

mano fra i capelli e si rese conto di non essersi pettinata, quella mattina prima

di uscire. «Sono sfinita. Ho bisogno di dormire un po’. Dimmi che a casa non

c’è nessuno.»

«Non c’è nessuno» rispose Brutus.

«A parte la polizia» precisò Monica. «Sono rimasti lì.» Si voltò un istante e

poi rettificò. «Ah, no, eccoli. Evidentemente hanno deciso di non aspettare.»

«Altri poliziotti che vogliono parlare con Finn» spiegò Brutus a Ding. La

guardò attentamente, come cercando di leggerle nel pensiero. «Sicura di star

bene?»

Sì, sì, pensò Ding. Più o meno. Una cosa era certa, comunque: in quel

momento non voleva tra i piedi la polizia.

Erano in due: un uomo biondastro vestito come si sarebbe vestito Brutus se

fosse stato un palmo più alto e avesse avuto vent’anni di più e una donna

scarmigliata, capelli corti dal taglio informe, spettinata quanto Ding se non di

più. «Chi sono, esattamente?» domandò a Brutus. Lui prese dal taschino i due

biglietti da visita e glieli passò.

«Dalli a Finn, quando lo vedi. Non so di che cosa gli vogliano parlare.

Probabilmente di Druitt, come l’altra volta.»

Ding guardò i biglietti da visita e constatò che si trattava di due ispettori

inviati a Ludlow da Londra. «Se lo vedo, lo avverto» disse a Brutus.

«Perché non dovresti vederlo?» Brutus era diffidente. Strano, pensò Ding.

È ancora convinto che io stia fingendo.

«Non ho voglia di vedere nessuno, in questo momento. Mi ha fatto piacere

conoscerti, Monica» gli disse. Non aveva altro da aggiungere.


Si accorse che i due ispettori stavano guardando dalla sua parte.

Probabilmente avevano visto che Brutus le aveva dato i biglietti da visita e ne

avevano dedotto che anche lei conosceva Finn Freeman. Quasi sicuramente

avrebbero cercato di parlarle, ma lei non era proprio dell’umore. Era riuscita

a evitarli la prima volta che erano venuti a Ludlow e aveva intenzione di

replicare.

Stava pensando a come svicolare quando la situazione precipitò. Proprio

quando era sul punto di incamminarsi verso Lower Broad Street come per

andare a lezione, allontanandosi dunque dai poliziotti che erano fermi sul

marciapiede come se aspettassero lei, Rabiah Lomax non solo passò in

macchina, ma suonò il clacson e fece segno a Ding di aspettarla dov’era. Poi

accostò e scese. «Dena Donaldson, ti devo parlare» gridò. Ovviamente i

poliziotti videro e sentirono tutto.

Guardarono la signora Lomax che sbatteva la portiera, poi spostarono lo

sguardo su Ding e quindi si scambiarono un’occhiata.

Marca male, pensò Ding.

Ludlow

Shropshire

Rabiah Lomax vide i due di Scotland Yard un attimo dopo aver chiamato

Ding. Non aveva il tempo di elaborare una teoria sul perché fossero a casa di

Ding e su come avrebbero interpretato la sua presenza nello stesso luogo:

doveva focalizzarsi su un unico obiettivo, che consisteva nell’impedire a

Dena Donaldson di darsela a gambe.

E che Dena Donaldson volesse darsela a gambe era evidente. Rabiah

poteva leggere le sue intenzioni come se fosse il personaggio di un cartone

animato: una rapida occhiata panoramica, il busto ruotato verso il Ludford

Bridge, il piede già sollevato da terra. «Dobbiamo parlare, Ding. Vieni qui»

le gridò. «Quanto a voi, cari signori...» aggiunse rivolgendosi agli ispettori di

Scotland Yard che stavano attraversando la strada per andarle incontro, «non

ho tempo per un’altra chiacchierata con la polizia. Rivolgetevi al mio

avvocato. Si chiama Aeschylus Kong ed è sull’elenco telefonico. Chiamatelo

e prendete un appuntamento con lui, se mi volete parlare.»

Ding si fermò, i due ispettori no. «Ho dei problemi familiari, ancora non


l’avete capito?» disse Rabiah quando se li trovò davanti. E poi: «Ding, mi hai

sentito? Va’ a casa: ti raggiungo fra un attimo. Non provare a scappare, sai?

Tanto prima o poi ti becco».

Ding la prese sul serio, forse perché sapeva che Rabiah correva la

maratona mentre lei dopo cento metri aveva il fiatone. Colse al volo

l’occasione di tornare a casa e non degnò di uno sguardo né Rabiah né i

poliziotti.

L’uomo – Rabiah si ricordava il nome, Lynley – parlò per primo.

«Possiamo disturbarla un minuto, signora Lomax?»

La donna – come si chiamava? – spiegò: «Siamo entrati in possesso del

cellulare di Ian Druitt. Nonostante vi siate visti sette volte, non risultano

telefonate da o verso il suo numero, signora Lomax».

«E con questo?» sbottò lei. «Non vedete che non ho tempo per queste

stupidaggini?»

«Avrete pure fissato i vostri appuntamenti, no?» le fece notare Lynley.

«Come vi accordavate, se non per telefono?»

«Che assurdità!» esclamò lei. «Non so a che numero l’ho chiamato.

Probabilmente alla canonica. Non avevo certo il suo numero di cellulare.»

«Sta dicendo che...»

«Sto dicendo che in questo momento devo risolvere un problema familiare,

quindi ho cose più urgenti da fare che rispondere alle vostre domande qui su

due piedi. Come ho detto, se avete bisogno di me, chiamate Aeschylus Kong.

Il sergente lo conosce già.»

Ciò detto, li lasciò e si incamminò di gran carriera verso la casa di Ding.

Senza bussare, né suonare il campanello, aprì ed entrò.

Trovò la ragazza in quello che chiamavano salotto, una stanza arredata con

mobili di recupero che nessuno sembrava aver pulito dall’inizio dell’anno

accademico e dove si erano accumulati vasetti di yogurt, croste di pizza e

involucri di patatine appallottolati. Vi aleggiava un nauseante odore di calzini

e biancheria sporca. Rabiah non capiva come facesse Ding ad abitare in una

simile topaia.

Era seduta, con le ginocchia unite e i piedi divaricati, su un divano di

chintz costellato da macchie sulla cui provenienza Rabiah preferì sorvolare.

Sembrava una scolaretta che sa di averla fatta grossa.

«Cosa diavolo sta succedendo?» chiese Rabiah. «Esigo una spiegazione.

Ho parlato con Missa.»


Ding si passò la lingua sul labbro superiore. «Ah. È qui per Missa?»

«Sai benissimo che sono qui per Missa. Ti ripeto la domanda: che cosa sta

succedendo?»

Ding scosse la testa con un’espressione perplessa. «Mi scusi, signora

Lomax, ma non capisco di che cosa parla.»

«Adesso te lo spiego: la polizia è venuta da me e Missa mi ha detto che

all’origine di tutto ci sei tu. Non li ho mandati direttamente da te perché

prima volevo che mi dicessi la verità. O Missa è una bugiarda, o la bugiarda

sei tu. Oppure siete bugiarde tutt’e due. In ogni caso, io ho raggiunto il limite

della sopportazione. Preferisci parlare con me o con loro? Deciditi, prima che

perda la pazienza.»

Ding posò una mano sulla fodera lercia del divano e tenne l’altra chiusa a

pugno in grembo. «Su cosa staremmo mentendo?» disse.

«Sul diacono. Quello che è morto. Sulla sua agenda c’era il nostro nome e

la polizia vuole sapere come mai.»

«Per questo sono venuti da lei?»

«Non cambiare discorso: ti sei incontrata con lui sette volte dicendo che ti

chiamavi Lomax. Adesso mi spieghi perché e poi lo spieghi anche alla

polizia. Almeno mi libererò di loro una volta per tutte.»

«Non esiste» replicò Ding.

«Non ti azzardare a contraddirmi. E ringrazia che cinque minuti fa non ti

ho denunciato.»

«Non intendevo... Signora Lomax, io non ho mai detto di chiamarmi

Lomax e non ho mai incontrato il diacono. Non sapevo nemmeno chi fosse.

Se Missa le ha raccontato...» Ma preferì non finire la frase.

La concluse Rabiah al suo posto. «Una palla. È questo che volevi dire? E

per quale ragione avrebbe dovuto mentire?»

«Non lo so. Non so nemmeno perché andasse a parlare con lui.»

«Non mi prendere per scema. So cos’è l’amicizia fra donne e so che due

amiche, due carissime amiche, non hanno segreti l’una per l’altra. E tu e

Missa eravate carissime amiche. Poi, di colpo, a quella salta in testa di tornare

a casa e va via da Ludlow. Adesso scopro che forse aveva un buon motivo

per scappare così di corsa e che quel motivo è qui, seduto in questa stanza,

reo di aver usato il nostro nome per organizzare chissà quale piano.»

«Non è vero!» protestò Ding. «Io non ho fatto niente e continuate tutti a

darmi addosso. Non so niente...» Scoppiò a piangere. «Va tutto in merda, e


adesso c’è pure Monica, e tutte le sere quello alza la posta e io non riesco a

trattenermi. Vorrei, ma non ci riesco.»

Rabiah riconobbe la crisi isterica e cambiò tono. «Ossignore, Ding. Cosa ti

prende?»

«Se lo faccia dire da Missa!» urlò Ding fra le lacrime. «È lei la bugiarda,

non io!»

Ludlow

Shropshire

Per paura di sbagliare, Barbara Havers esitò, dopo il diverbio con Rabiah

Lomax. Sapeva di dover stare molto attenta a come riferiva a Lynley le

informazioni in suo possesso, perché non era in grado di valutarne la

veridicità. Lynley non avrebbe comunque reagito impulsivamente a quelle

novità – non era il tipo da farlo – ma un passo falso da parte loro poteva

essere fatale.

«Ecco un’altra coincidenza, sergente» osservò Lynley. «E cioè?» gli chiese

lei.

L’ispettore rimase sorpreso che non ci fosse già arrivata da sola. «Non

trova bizzarro che Rabiah Lomax fosse davanti a casa di Finnegan

Freeman?»

«Ah, in quel senso» replicò Barbara.

«Secondo lei di cosa si tratta? Non credo fosse qui per convincerlo a

entrare negli scout.»

«Penso che le coincidenze ormai siano troppe per poterle chiamare ancora

coincidenze.»

«Non posso darle torto.»

«Dobbiamo risentirla.»

«Mmm. Sì. Anche se non credo riusciremo a scoprire niente di nuovo, se si

trincererà dietro il suo avvocato. Ha sentito cos’ha detto alla ragazza?»

Barbara annuì. Lynley le aveva fornito un ottimo assist, di cui intendeva

approfittare. «A proposito, c’è un’altra cosa.»

Erano scesi al fiume e stavano ammirando una famigliola di cigni. Barbara

decise di accendersi una sigaretta e Lynley, automaticamente, si spostò

sopravvento.


Barbara aspirò una bella boccata di fumo. «La ragazza con cui parlava la

signora Lomax... Dena Donaldson, giusto? L’ha chiamata Ding, mi pare. Non

sono sicura al cento per cento perché sono passati dieci giorni ed era buio, ma

ho l’impressione che questa Ding...»

«Mi ricorda il nomignolo di mia madre, Dorothy, che si è sempre fatta

chiamare Daze. Non so perché. Mi dica.»

«Be’, lei l’avrà sempre chiamata ’mamma’, no? Oppure ’madre mia’,

’mater misericordiosa’ o come dite voi aristocratici. Comunque, tornando a

Ding: ho l’impressione di averla già vista.»

«Niente di sconvolgente, visto che Ludlow non è quella che si direbbe una

metropoli, sergente. A meno che lei non si riferisca a un luogo e una data di

particolare importanza. Dove le sembra di averla vista?»

«Nel parcheggio dietro la stazione di polizia.»

Lynley smise di guardare il fiume e si voltò di scatto. «Ah.»

«Credo sia la ragazza che era in macchina con Gary Ruddock quella sera.

Ma era buio, non posso giurarci. Comunque, le assomiglia tantissimo.»

Lynley guardò con aria pensierosa la casa in cui erano entrate Ding e

Rabiah Lomax.

«Quando si parla di donne, Ruddock va nel pallone. La prima volta che

gliel’ho chiesto mi ha risposto che no, non era fidanzato. Poi ha ammesso di

avere una relazione, ma sostiene che lei è sposata e lui non ci può dire chi è,

altrimenti la mette nei guai. Adesso salta fuori questa Ding, che abita nella

stessa casa di Finnegan Freeman, dalla quale si arriva alla stazione di polizia

di Ludlow in pochi minuti. Mi puzza, ispettore. Mi puzza come un pesce

fuori del frigo da tre giorni» spiegò Barbara.

«Sono d’accordo, sergente» disse Lynley. «Anche se era buio e lei l’ha

vista solo di sfuggita.»

«Sì, l’auto di servizio era posteggiata nel punto più buio e potrei

sbagliarmi. Ma quando è scesa, la luce nell’abitacolo si è accesa,

naturalmente. Lui l’ha raggiunta, le ha detto qualcosa e lei è risalita. Come se

lei a un certo punto avesse deciso di dargli il benservito e lui con quelle

parole le avesse fatto cambiare idea. Sono tornati in macchina e ci sono

restati un po’.»

«Il problema è se Ruddock mente riguardo alla donna sposata o ha più di

una relazione» osservò Lynley. «In entrambi i casi, il fatto che con lei si sia

dichiarato single... Come mai siete finiti sul tema, sergente?»


Barbara fece mente locale. «Gli ho chiesto del tatuaggio. Ha CAT tatuato

su un polso. Gli ho chiesto se era amante dei gatti e lui mi ha spiegato che

CAT stava per Catherine, non per gatto, e che Catherine era sua madre. È

nato in una comunità irlandese dove i figli venivano sottratti alle madri in

tenera età e crescevano in grande promiscuità, quindi dovevano avere un

tatuaggio per non accoppiarsi con madri e sorelle. Una storia da brividi. Forse

avrei dovuto approfondire, ma mi sembrava che ci fossero cose più urgenti...

Insomma, il sovrintendente non era d’accordo, lo sa».

Inaspettatamente, Lynley non manifestò la minima sorpresa. Si voltò e si

appoggiò al parapetto con le braccia conserte. «Povero Edipo, se avessero

tatuato anche lui gli avrebbero risparmiato un mucchio di problemi. Certo,

erano convinti di essersene sbarazzati definitivamente» disse.

Barbara era abituata alle dotte citazioni dell’ispettore e non replicò. Buttò

per terra il mozzicone e lo schiacciò sotto la suola. Lynley lo guardò, poi

guardò lei. Barbara sospirò, raccolse il mozzicone, lo sbriciolò e ne disperse i

frammenti nel vento.

«Stavo pensando una cosa» cominciò, e aspettò un cenno da Lynley per

proseguire. «Se l’ausiliario ha una storia con quella ragazza, lo saprà anche

qualcun altro, oltre a loro due.»

«Da cosa lo deduce?» domandò Lynley.

«Dal fatto che, se li ho visti io, li avrà visti insieme anche qualcun altro. Lì

nel parcheggio o altrove. Dobbiamo semplicemente trovare la persona che

potrebbe averli visti, e io un’idea l’avrei.»

Blists Hill Victorian Town

Shropshire

Nessuna orribile autostrada aveva sfregiato il territorio dello Shropshire, e di

conseguenza per andare da un posto all’altro talvolta si era costretti a

compiere lunghi giri. Il parco a tema di Blists Hill ne era un esempio. Era

vicino a Ironbridge, il ponte di ferro costruito sul fiume Severn e dunque

periodicamente esposto alle alluvioni. Blists Hill era molto più in alto di

Ironbridge, tuttavia, e si raggiungeva attraverso un fitto bosco di querce,

castagni e aceri che in quel periodo dell’anno erano pieni di nuove foglie da

cui filtravano sulla strada sprazzi di luce solare. Un intraprendente signore


aveva pensato di utilizzare i vecchi altiforni di mattoni, una miniera

abbandonata e un ingegnoso piano inclinato utilizzato un tempo per spostare

le imbarcazioni dal fiume allo Shropshire Canal per ricreare una cittadina del

1900 a scopo educativo e come attrazione turistica.

Rabiah Lomax andò lì, dopo aver lasciato Ding sul Temeside. Non visitava

il parco da anni, ma notò che continuava ad avere successo come meta di

gitanti e pensionati, ma anche come occasione per le scolaresche di vedere in

concreto ciò che leggevano sui libri di storia.

Rabiah si mise in coda per acquistare il biglietto. Avrebbe potuto

telefonare e chiedere alla nipote di venirla a prendere all’ingresso e farla

entrare gratis, ma preferiva coglierla di sorpresa. Perciò pagò una cifra

esorbitante – possibile che lo sconto per i pensionati fosse così irrisorio? – e

prese la cartina omaggio, benché non ne avesse alcun bisogno.

Rabiah sapeva benissimo dove trovare Missa. Sua madre le aveva

telefonato subito, quando Missa aveva dichiarato di voler abbandonare gli

studi. Aveva già espresso quel proposito prima di Natale, ma poi si era

lasciata convincere a tornare al college e riprovarci. Tuttavia qualche tempo

dopo era giunta a una decisione definitiva: l’università non faceva per lei, era

inutile continuare a studiare.

«Evidentemente pensa di poter fabbricare candele tutta la vita» aveva

recriminato Yasmina al telefono, amareggiata. «Potresti provare a farla

ragionare tu, mamma?»

Meglio fabbricare candele che friggere pesce e patatine, avrebbe voluto

ribattere Rabiah, ma aveva il sospetto che la nuora non fosse in vena di

battute. E così le aveva risposto che i giovani attraversano delle fasi, che

magari Missa ci avrebbe ripensato. Yasmina non la vedeva così e Rabiah la

capiva, perché Yasmina era sempre stata una donna determinata, anche da

giovane, che aveva inseguito con costanza il proprio obiettivo: diventare

pediatra. Certo, la gravidanza inaspettata le aveva fatto perdere un po’ di

tempo, ma alla fine era riuscita comunque nel suo intento. Perciò le risultava

inconcepibile che la figlia preferisse fabbricare candele in un parco a tema

piuttosto che andare all’università. «Non ragiona» aveva detto alla suocera.

«Sostiene che Justin non c’entra niente, ma io ci credo poco. Secondo me è

stato lui a farla tornare. Deve averle detto o fatto qualcosa. Non vorrei che

l’avesse minacciata di... Non lo so. Per favore, mamma, parlale tu. Timothy e

io ci abbiamo provato in tutti i modi, ma non siamo riusciti a smuoverla.»


Rabiah ci si era messa d’impegno, ma non aveva ottenuto alcun risultato.

Allora però non aveva abbastanza informazioni sotto mano. Ora almeno

conosceva le due diverse versioni dei fatti di Missa e di Ding, e aveva la

certezza che le stessero nascondendo qualcosa.

A Blists Hill si mettevano in scena le attività artigianali del periodo

vittoriano e per le strade si incontravano botteghe di stagnai, maniscalchi,

fabbri e artigiani, e poi negozianti, panettieri, macellai e persino una banca. Il

laboratorio per la fabbricazione di candele era a metà della via principale.

Nella bottega l’unica luce era quella che filtrava dalle due finestre e dalla

porta aperta. Rabiah entrò e si unì alla decina di visitatori che ascoltavano la

spiegazione di Missa. Era un lavoro monotono e Rabiah non avrebbe resistito

più di un giorno, al posto della nipote: gli stoppini, legati a un’assicella di

legno, venivano immersi in una specie di trogolo rettangolare pieno di sego

fuso e poi lasciati asciugare in attesa di venire immersi una seconda volta,

una terza... finché alla millesima immersione si otteneva una candela di

dimensioni ragionevoli. Rabiah faticava a immaginare un’occupazione più

noiosa sulla faccia della Terra.

Si posizionò in maniera che sua nipote la vedesse appena avesse alzato la

testa. Missa era vestita con una lunga sottana d’epoca e un grembiule pesante,

che doveva proteggerla dagli schizzi di cera. Spiegava che tradizionalmente a

fabbricare le candele erano gli uomini, che a quei tempi le donne erano

maestre, commesse, mogli e madri. «Posso farle una domanda?» chiese un

bambino. Missa sollevò la testa, vide Rabiah e sorrise. Rabiah tirò un sospiro

di sollievo, indicò l’orologio che aveva al polso e fece il gesto di portare alle

labbra una tazza. La nipote annuì e Rabiah si sentì ancora più rincuorata.

Prima di dirigersi al padiglione che ospitava la caffetteria, però, fece un

salto dal fabbro. Justin Goodayle, il fidanzato di Missa, stava terminando la

sua dimostrazione, che consisteva nel fabbricare un ferro di cavallo. Non

c’erano cavalli da ferrare, ma nella forgia ardeva un gran fuoco e su un

bancone c’erano tutti gli attrezzi necessari. Altri manufatti in ferro, come

pale, zappe e forconi, erano esposti in teche appese al muro e per terra erano

ammucchiati ganci di tutte le misure.

Rabiah aspettò che il gruppo di visitatori uscisse. Justin la scorse e la

salutò. Come Missa, sembrava contento di vederla.

«Sto per fare una pausa.» Si levò il grembiule di pelle e gli occhiali

protettivi, che non erano d’epoca vittoriana. Aveva due aloni sotto le ascelle e


il sudore gli colava lungo le guance e dentro la barba curata. Prese dalla tasca

un fazzoletto e si asciugò il volto.

Era un bel ragazzo, pensò Rabiah. Era stato bello sin da bambino. Aveva

folti capelli castani che teneva raccolti in un codino, come forse si usava ai

tempi, occhi profondi, scuri, e la faccia simpatica. Era grande e grosso come

ci si aspetta da un fabbro ferraio, con spalle e pettorali possenti. Rabiah

immaginava riscuotesse un discreto successo con le ragazze.

«Avresti voglia di passare la tua pausa con una vecchietta, magari davanti

a una tazza di tè?» gli propose.

«Non vedo vecchiette in giro» replicò lui. «Ma se la bella signora che ho di

fronte vuole farmi l’onore di prendere un tè con me, sarei lieto di accettare.»

«Ma come sei galante!» disse Rabiah. «Meriti anche uno scone.»

«Una fetta di torta no?»

Rabiah rise. Justin si assicurò di aver chiuso bene la porta della bottega e le

diede il braccio per dirigersi verso la caffetteria, che era davanti al luna park

vittoriano. Presero tazze, teiera e una fetta di torta al limone per Justin e

andarono a sedersi a un tavolino vicino ai banchi, dove i bambini, pagando

con monetine fuori corso, potevano tentare di aggiudicarsi ricchi premi e

cotillon sotto forma di caramelle, biglie e bamboline di gesso.

«Allora» cominciò Rabiah sollevando la tazza. «Sei contento che Missa sia

tornata a casa?»

«Sì.» Justin mangiò un boccone di torta.

«Sei contento anche che abbia rinunciato allo studio e all’università per

una vita più semplice?»

«Io non mi sono mai opposto al fatto che andasse all’università» rispose

Justin guardandola in tralice. «Qualunque scelta faccia per me va bene.

Comunque dico la verità: a me, che abbia piantato lì di studiare, non dispiace.

Voleva già farlo a dicembre, ma sua madre si è impuntata.»

«Sì, Yasmina me ne ha parlato» disse Rabiah. «Sinceramente, nessuno di

noi capisce perché Missa abbia deciso di ritirarsi.»

«A me ha detto che il corso di scienze era troppo pesante. Non tutti sono

portati per certe materie, no? Ma le scienze non le serviranno. Vogliamo dei

figli e Missa ha voglia di crescerli. Io manterrò la famiglia.»

«Avete programmi ben definiti, quindi» osservò Rabiah. «Missa non mi

aveva accennato niente. I suoi lo sanno?»

«Che cosa?»


«Che avete in programma di avere dei figli e di...»

«Ah, no. Be’, non ancora. Ma io e Missa stiamo insieme da un sacco di

tempo, di sicuro i suoi se l’aspettano, no? Io intanto continuo a mettere da

parte i soldi che ci servono. Vorrei che stessimo in una casa nostra. Dopo

esserci sposati, s’intende. Non vogliamo convivere. Missa non... Missa è

contraria. Prima del matrimonio, intendo. Sua madre l’ha educata così. Non

penso sia sbagliato, capiamoci. Aspettare le nozze, volevo dire. Però

Yasmina – cioè, la dottoressa Lomax – le ha inculcato che è una cosa

importantissima. Ma lei lo sa già, ovvio. Fatto sta che Missa l’ha messo in

chiaro subito, che prima del matrimonio non se ne parla.»

Rabiah faticava a raccapezzarsi. Justin era un libro aperto, ma spesso si

esprimeva in maniera comprensibile solo a lui. «Niente rapporti

prematrimoniali per evitare inconvenienti tipo quello che è capitato a mio

figlio e Yasmina?» chiese, per chiarire.

Justin arrossì lievemente e la guardò. «Missa vuole che la prima notte di

nozze sia un momento speciale e che se la sposa si veste di bianco

dev’essere... Io la rispetto, figuriamoci.» Strizzò gli occhi per il sole e guardò

la coppia che stava passando davanti a loro, mano di lei nella tasca posteriore

dei jeans di lui e viceversa. Si fermarono un istante e si baciarono sulla bocca.

Justin si voltò dall’altra parte. «Però un po’ mi scoccia» ammise. «Ho anch’io

i miei ormoni, in fondo, e certe volte con Missa... Va be’, in ogni caso presto

ci sposeremo. Posso aspettare.»

«Il mondo è pieno di ragazze» rimarcò Rabiah. «Molte delle quali

sarebbero felici di appartarsi con te in un fienile o chissà dove. Finché non vi

sposate, voglio dire. Sesso e basta. Una botta e via.»

Justin era scandalizzato. «Sta dicendo che...? Per sfogare la voglia e basta?

No, non farei mai una cosa del genere, signora Lomax. Non voglio tradire

Missa. E comunque, davvero, ora che Missa è tornata a casa manca poco. Ho

un po’ di soldi da parte e una seconda attività che mi frutta benino.»

«Hai un secondo lavoro?» domandò Rabiah.

«Ho una piccola impresa» spiegò Justin. «L’ho avviata da poco e quindi

non voglio pronunciarmi, ma è il lavoro che mi piace di più al mondo.» Le

mostrò le mani callose e piene di bruciature. «Questi sono i miei ferri del

mestiere. Finché mi funzionano le mani, sono a posto.»

«Nonna, che gioia vederti!»

Rabiah si voltò e vide che Missa era entrata nella caffetteria e si stava


avvicinando a loro con un biscotto di avena. Diede un bacio sulla testa alla

nonna e dopo essersi seduta divise in due il flapjack e ne porse una metà a

Justin. «Che giornata!» esclamò. «Ho passato la mattina a impedire ai

bambini delle elementari di infilare le mani nella vasca del sego. Tu come fai,

Justin? Da te non cercano di infilare le mani nella forgia?»

«Certo!» Justin, che aveva finito la torta, bevve il tè e guardò l’orologio

che teneva in tasca. Si alzò e avvolse la sua metà di biscotto in un

tovagliolino di carta. «Ai meno un quarto, allora». Missa, inspiegabilmente,

capì.

«Nonna, tu poi passi a casa nostra a trovare mamma, papà e Sati? Se resti

fino all’ora della chiusura, torno con te» disse.

Rabiah voleva parlare con Yasmina a tu per tu. «Vado via prima, tesoro.

Alla mia età non si regge un’immersione completa nell’età vittoriana. Torna

pure con Justin» rispose quindi.

Justin fece un’espressione allegra e si chinò per baciare Missa sulle labbra,

ma lei si voltò offrendogli la guancia. Dopo un attimo di esitazione, Justin si

accontentò del bacetto sulla guancia. Salutò Rabiah con un cenno del capo e

uscì. Rabiah notò che la cassiera e altre due ragazze in costume vittoriano lo

guardavano ammirate. Missa sembrava ignara di tutto.

«Come mai sei venuta fin qui?» chiese a Rabiah con un sorriso affettuoso.

«Avevo voglia di vederti.»

«Davvero?» Missa si ravviò i capelli dietro le orecchie. Erano sani e

lucidissimi, e questo – chissà perché – a Rabiah fece molto piacere. «Sei

venuta fin qui per me?» chiese, poi aggiunse precipitosamente: «Che bello!»

Rabiah si accorse che la nipote era diffidente. Se la nonna era venuta apposta

per lei da Ludlow doveva avere un motivo e con ogni probabilità si trattava di

un motivo spiacevole.

«Justin è sempre tanto innamorato» osservò Rabiah. La giostra con i

cavallini di foggia antica cominciò lentamente a girare accompagnata da una

musica d’organetto.

Missa giocherellò con il mezzo biscotto senza assaggiarlo. «Mmm» fu la

sua risposta.

«Mi ha detto che sta mettendo i soldi da parte perché ha un progetto»

continuò Rabiah. «E che ha messo su una piccola impresa in cui c’entravano

le sue mani. Non è entrato nei dettagli, ma ho intuito che ci fosse di mezzo

l’acquisto di una casa.»


«Be’, era stupido pensare che sarebbe rimasto tutta la vita a fare da

schiavetto ai suoi. A loro piacerebbe, lo so. Il padre dice che Justin è lo

zuccone di famiglia e sperava di tenerselo in casa in eterno, così da vecchio

avrebbe avuto chi lo accudiva. Come se a Justin non dispiacesse essere

trattato come lo scemo di famiglia e non volesse farsi una vita propria.»

«Ho visto! È molto determinato. E di questa attività che sta avviando tu

cosa sai? Te ne ha parlato?»

«Mi ha detto soltanto che sta mettendo da parte dei soldi» rispose Missa.

«Non che avesse messo su un’impresa.»

«Chiediglielo, parlagliene. O comunque...»

Missa la guardò sbalordita. «Scusa, ma perché?»

«Non essere ottusa, Missa: sai perfettamente che Justin ti vuole sposare,

fare dei figli e vivere con te finché morte non vi separi. Se a te sta bene,

siamo tutti contenti. Se però a te non sta bene... Insomma, ti sta bene o non ti

sta bene? Quando sei venuta a Ludlow volevi prenderti una piccola pausa da

lui. Me ne hai parlato a settembre. Adesso come siete messi? Voglio dire, tu

come ti senti? Justin mi ha già parlato di sé.»

«Come sempre, nonna» rispose Missa. «Siamo messi come siamo sempre

stati messi.»

Rabiah la fissò. «Missa, tu non sei un’ingenua. Io lo so.»

Missa inclinò la testa e la guardò con aria offesa, ma Rabiah non si lasciò

scoraggiare. Non era l’argomento su cui intendeva confrontarsi con sua

nipote, ma andava bene così.

«Mi chiedo come reagirà quando gli dirai che non hai nessuna intenzione

di vivere a Ironbridge, accudire una nidiata di bambini, lavargli la biancheria

e cucinargli le verdure biologiche del vostro orto.»

«Non sei gentile a parlare così» la rimproverò Missa.

«E tu, invece? Sei gentile?»

«Non capisco.»

«Sì che capisci. A quanto mi ha raccontato Justin, sei fissata con la

verginità, niente sesso prematrimoniale, e tutto il resto, quindi ne deduco

niente mano...»

«Nonna!»

«... bocca, posteriore e... Sant’Iddio! Cosa c’è?»

Missa aveva gli occhi pieni di lacrime. Rabiah si accorse di aver esagerato.

«Scusami, tesoro» mormorò.


Missa non rispose, ma si voltò dall’altra parte.

«Missa, è successo qualcosa fra te e Justin di cui...»

«Vorrei essere lasciata in pace, nonna. Perché nessuno mi lascia in pace?»

«Scusa» replicò Rabiah. «Perdonami, tesoro. Non sono venuta qui per

parlare di te e Justin.»

«Per cosa sei venuta, allora?»

«Ding e io ci siamo fatte una bella chiacchierata, stamattina. Siccome

quelli di Scotland Yard sono tornati da me una seconda volta, le ho voluto

parlare, prima di sguinzagliarglieli contro.»

Missa guardò la nonna con la stessa espressione aperta e franca di sempre.

«E cosa ti ha raccontato?»

«L’ho presa alla sprovvista. Forse avresti dovuto avvertirla, dopo che ci

siamo sentite per telefono, perché è rimasta senza parole, quando le ho

chiesto come mai aveva detto a Druitt di chiamarsi Lomax. Se tu le avessi

messo la pulce nell’orecchio, si sarebbe preparata una storiella per

giustificare i sette appuntamenti con il diacono. Da parte mia, le avrei

creduto, se mi avesse spiegato che aveva bisogno di mantenere l’incognito

con Druitt. Invece ha proprio negato di averlo visto e, quando ho insistito... è

crollata. Era a pezzi, Missa.»

«Perché l’avevi smascherata» ribatté Missa.

«No, credo sia stato più che altro perché non ha avuto il tempo di

inventarsi una bugia. Alla fine, mi ha consigliato di chiedere spiegazioni a te.

Ed eccomi qui. Un’ultima precisazione. All’inizio io e Ding abbiamo parlato

per strada e nei paraggi c’erano anche i due ispettori di Scotland Yard. Non

ho idea del perché fossero lì, forse volevano parlare con Ding anche loro.

L’ultima volta che sono venuti da me, mi hanno chiesto come mai il mio

numero non compariva nel cellulare di Druitt. Ho improvvisato una risposta

da Oscar, ma poi mi hanno visto con Ding e quindi temo sia stato inutile. C’è

qualcosa che mi vuoi dire, Missa? Nel caso, che sia la verità, per favore.»

Rabiah aspettò la risposta riflettendo sulla possibilità che fosse stata Missa

a incontrare il diacono sette volte prima di andare via da Ludlow. Di certo la

madre l’aveva messa sotto pressione per impedirle di mollare gli studi, la

stessa Rabiah le aveva dato della pazza e compagni e professori si erano

senza dubbio uniti al coro delle proteste. Missa si era lasciata convincere a

riprendere i corsi dopo le vacanze di Natale ma forse, ancora lacerata dai

dubbi, aveva chiesto aiuto a una persona del tutto estranea, per analizzare la


situazione in maniera obiettiva. Chi meglio di un uomo di Chiesa? In fin dei

conti Missa aveva tutto il diritto di consultarsi con chi le pareva, no? Che

male c’era?

«Mi ha telefonato lui. Druitt» disse Missa.

Rabiah proprio non se l’aspettava. «Ti ha chiamato lui?»

«Aveva sentito che volevo ritirarmi dal college e che avevo bisogno di

qualcuno che mi aiutasse a prendere una decisione. Immagino glielo avesse

detto il mio tutor. Anche lui, come tutti gli altri, non voleva che smettessi di

studiare.»

«Druitt non voleva che smettessi di studiare?» Rabiah non stava capendo

niente.

«No, il tutor! Non voleva che prendessi decisioni affrettate.»

«E quindi ti ha mandato a parlarne con un prete?»

«Più o meno. Forse sperava che riuscisse a farmi vedere altri aspetti della

questione, non lo so. Essendo un religioso...»

«Visto che alla fine hai lasciato tutto e sei tornata a casa, deduco che Druitt

approvasse la tua scelta. È così?» Rabiah lo chiese in tono leggero, sapendo

che Missa aveva lasciato Ludlow poco dopo che il diacono si era tolto la vita.

«La polizia ti vorrà parlare, Missa.»

«Non gli hai raccontato che andavi tu a parlare con Druitt?»

«Sì. Non credo però che Ding ti farà lo stesso favore. E sono sicura che i

due ispettori andranno a cercarla, dopo averla vista con me stamattina.»

«Sì, mi è chiaro. Quello che non capisco è cosa c’entri tutto questo con il

suo suicidio.»

«La polizia vuole scoprire che rapporti avevi con lui, immagino. Sei in

grado di spiegarglielo?»

Missa strinse fra le dita il tovagliolino di carta. «Cosa? Che rapporti avevo

con Druitt?»

«Che cosa c’è stato fra voi.»

«Cosa vuoi che ci sia stato? Non capisco.»

«Senti, Missa, io non lo so. Ma il nostro cognome compare troppo spesso

sull’agenda di quel diacono e la polizia sta indagando sul suo suicidio, vorrà

capire come mai si è ammazzato...»

«Io non c’entro niente. Abbiamo parlato soltanto di college e università.»

«Benissimo. Allora, se te lo chiedono, digli così. C’è solo una cosa che non

mi torna: come mai non l’hai detto subito, la prima volta che ti ho telefonato


per chiedertelo?» Rabiah restò in attesa di una risposta. Intuiva che c’era

sotto qualcosa, Missa era troppo tesa. Stava perdendo la pazienza, ma si

sforzò di usare un tono pacato. «Se il motivo è un altro, Missa, dovresti dirlo

alla polizia. Ammesso che te lo vengano a chiedere, ovvio.»

«No, non c’è nessun altro motivo» ribatté Missa. «Il fatto è che adesso mi

sento di nuovo a mio agio, nonna. Sono di nuovo me stessa e non devo

litigare con il mondo per difendere le mie scelte. Mi spiego?»

Si alzò in piedi, disse che doveva riprendere il lavoro nella bottega del

candelaio, che la pausa era finita. Stava bene, andava tutto bene. Non era il

caso che sua nonna mentisse alla polizia per tenerla alla larga da lei. Se

volevano interrogarla a proposito del signor Druitt, era disponibilissima a

parlare con loro.

«Mi ha solo aiutato a prendere una decisione» ripeté. «Non ha fatto altro.

Avevo bisogno di parlarne con qualcuno e ne ho parlato con lui.»

Coalbrookdale

Shropshire

Quando era al lavoro, Yasmina Lomax stava attenta a non guardare con

troppa insistenza il marito, che gestiva la farmacia del loro ambulatorio. Per

la maggior parte del tempo era così presa dai suoi piccoli pazienti e dai loro

genitori che non lo vedeva neanche e questo le dava l’alibi per convincersi

che Timothy non si infilava in tasca gli oppiacei. Timothy aveva vinto la

dipendenza dall’alcol dopo la nascita di Missa, si diceva, non aveva più avuto

ricadute e aveva solo bisogno di tempo, ma prima o poi si sarebbe

riavvicinato a lei. Se non fossero riusciti a ritrovarsi, la loro vita sarebbe

andata a rotoli. Già avevano problemi prima della morte di Janna...

Quando si erano conosciuti erano troppo giovani. I genitori di Yasmina

andavano d’accordo, anche se il loro era stato un matrimonio combinato, e

davano per scontato che lei si sarebbe adeguata alla tradizione. Dapprima

Yasmina li aveva assecondati, era addirittura andata con loro in India, dove

una cugina le aveva aperto gli occhi rivelandole che il vecchio che era stata

costretta a sposare aveva già sottomesso la prima moglie a suon di botte e

stupri e stava facendo lo stesso con lei. I genitori di Yasmina le avevano

spiegato che si trattava di un’eccezione alla regola dei matrimoni combinati,


ma non erano riusciti a rassicurarla. Prima di darla in sposa, tuttavia, le

avrebbero permesso di laurearsi e questo aveva placato le sue ansie.

Non era sua intenzione legarsi a un compagno di università. Il suo

obiettivo era concentrarsi sullo studio. E infatti era stato per ragioni di studio

che aveva incominciato a frequentare Timothy Lomax, capelli ricci, orecchie

a sventola e sorriso accattivante.

Lui era reduce da una festa all’università e lei studiava in un caffè con una

tazza di tè ormai freddo accanto. Timothy alla festa aveva bevuto ed era un

po’ brillo, glielo aveva confessato, aggiungendo che, senza un po’ di alcol in

corpo a infondergli coraggio, non sarebbe mai riuscito ad attaccare discorso

con lei. «Sei bellissima» le aveva detto. «Troppo bella per un tipo ordinario

come me: mi metti in soggezione.»

Yasmina non era abbastanza esperta per chiedergli se fosse il discorsetto

standard con cui abbordava le ragazze, ma in seguito il dubbio le era venuto.

A quel punto però era innamorata di lui, in quello stato in cui la ragione si

blocca e il corpo prende il sopravvento, mandando a monte progetti e piani

per il futuro nell’urgenza di soddisfare la libido. Yasmina non sapeva

neanche cosa fosse, la libido. Non l’aveva mai provata. E così aveva

chiamato «amore» l’attrazione per il corpo di lui e per quello che il corpo di

lui era in grado di produrre nel suo corpo. Era l’unica parola che aveva a sua

disposizione, quella che usavano nei film. Come altro poteva definirlo?

Erano stati fortunati per quattro mesi ma al quinto lei era rimasta incinta.

Timothy c’era stato attento, ma c’era sempre il rischio. E poi c’era stata

quell’unica volta, in cui la voglia era tanta e non c’erano preservativi a

portata di mano, non c’era da preoccuparsi, si sarebbe tirato indietro

all’ultimo momento. La famiglia l’aveva emarginata completamente. La

nascita di Missa e poi di Janna e Sati aveva attenuato il dolore per

l’allontanamento dai genitori e la gentilezza e disponibilità di Rabiah li

avevano aiutati a destreggiarsi fra tre figlie e due lavori impegnativi.

Le difficoltà però erano tante, nonostante l’aiuto di Rabiah. Yasmina era

troppo impegnata con lo studio e le figlie per rendersi conto di quanto lei e il

marito si erano allontanati. Si diceva che ce la stava mettendo tutta perché

cercava di soddisfare il marito anche quando era esausta: era uno dei doveri

che si era assunta con quel matrimonio affrettato. In fondo l’avevano educata

nella convinzione che il destino di una donna dipendeva da quei due

cromosomi che tale l’avevano resa. Toccava a lei fare da mangiare, tenere


pulita la casa, badare ai bambini, fare la spesa e stirare le camicie del marito.

E, quando lui allungava la mano per sfiorarle una coscia o accarezzarle il

seno svegliandola la mattina presto, partecipava attivamente, pur sperando

che finisse presto per poter tornare a dormire. Lo trovava sufficiente.

Timothy sarebbe dovuto essere soddisfatto.

Poi c’era stata la storia di Janna. Ti cade il mondo addosso, quando ti si

ammala gravemente un figlio, specie se è un mondo già imperfetto. È

inevitabile pensare a un castigo divino, indipendentemente dal proprio

retroterra religioso o spirituale. Non sei stata abbastanza brava. Non sei stata

una brava madre, non sei stata una brava moglie. Hai sbagliato.

Gli equilibri fra lei e Timothy erano saltati definitivamente quando nel

cranio della loro figlia di mezzo aveva cominciato a svilupparsi un mostro dai

lunghi tentacoli. Il fatto che Timothy non ritenesse la malattia un castigo

divino non aveva attenuato l’angoscia di Yasmina. Timothy non voleva starla

a sentire mentre gli elencava gli innumerevoli modi in cui lei, pur essendo

pediatra, aveva trascurato la figlia. Alla fine, aveva smesso di ascoltarla del

tutto.

Aveva iniziato a prendere oppiacei quando Janna si era ammalata, con la

scusa che non riusciva a dormire. In realtà aveva bisogno di evadere da

quello che inevitabilmente li aspettava, ovvero lo strazio di perdere la figlia.

La diagnosi si era purtroppo dimostrata corretta, aveva confermato il team di

specialisti, cercando di esprimersi nel modo più delicato possibile. Cinque

anni se si adotta un approccio aggressivo, altrimenti diciotto mesi. In ogni

caso, incurabile. Incurabile, nonostante la giovane età e lo stato di salute per

il resto perfetto. Erano desolati.

La gente tende a credere, pensava Yasmina, di poter riemergere

dall’incubo di perdere un figlio e in qualche modo ritrovare la strada verso

ciò che era prima. Forse per qualcuno era davvero così. Per lei però no.

Eppure ci aveva provato. Si era concentrata sulle due figlie che le erano

rimaste, aveva dedicato le proprie energie al lavoro e ai doveri di madre, ma

per il marito non era rimasto nulla.

Adesso Missa... Era cambiata tantissimo e Yasmina si era resa conto che

esiste più di un modo per perdere un figlio. Ma dopo tante perdite non voleva

arrendersi e con Missa non intendeva demordere. Il rischio era troppo grosso:

se lei non fosse intervenuta Missa si sarebbe giocata il futuro.

Timothy la vedeva diversamente. «Deve trovare la sua strada, non puoi


indicargliela tu» le diceva. Ma se non gliel’avesse indicata lei, Missa avrebbe

rischiato di finire come tante ragazze che Yasmina incontrava sul lavoro:

troppo giovani, con il pancione, un figlio nel passeggino con il moccio al

naso e l’altro aggrappato alle sottane. «Farà quella vita lì, se sposerà Justin

Goodayle» ribatteva Yasmina. «Non lo vuoi vedere perché ti sta simpatico.

Ed è vero, è un bravo ragazzo, ma non va bene che Missa lo sposi.» Allora lui

obiettava: «Continua a insistere, Yasmina, e la convincerai a sposarlo

davvero».

Perché doveva andare così? si chiedeva Yasmina. A lei premeva

semplicemente che le sue figlie si costruissero una vita professionale stabile e

non commettessero gli stessi suoi errori: rimanere incinta e diventare la

pecora nera della famiglia. Almeno di quello non si dovevano preoccupare,

comunque. A meno che Missa fosse rimasta incinta mentre era al West

Mercia College, avesse interrotto la gravidanza e adesso fosse tormentata dal

rimorso. Oppure che fosse incinta e avesse deciso di tenere il bambino...

Yasmina si rendeva conto che continuare a pensarci su rischiava di farla

impazzire e così quando lasciò l’ambulatorio fece un salto al supermercato di

Buildwas Road e spinse il carrello su e giù per i corridoi per mezz’ora

prendendo qua e là prodotti a caso nella speranza che potessero trasformarsi

da soli in una cena decente.

Il supermercato non era lontano da New Road, dove i Lomax abitavano in

una solida casa di mattoni con doppie finestre e un giardino in pendenza

infestato dall’edera e da arbusti un po’ trascurati. La via si inerpicava verso la

chiesa del paese, sovrastando il tratto di lungofiume noto come Wharfage,

che costituiva la principale strada di collegamento fra Ironbridge e il vicino

villaggio di Coalbrookdale.

La casa dei Lomax si affacciava sul fiume Severn e sul Wharfage.

Avevano anche il lusso di un garage, ma quando Yasmina rientrò vide che la

macchina di sua suocera bloccava l’accesso. Posteggiò lungo la strada e prese

le borse della spesa dal sedile posteriore.

Quando entrò in casa non era di ottimo umore e la sua irritazione aumentò

ulteriormente non appena vide che Rabiah era seduta in cucina con Sati e la

stava aiutando a fare i compiti. «Deve imparare a fare i compiti da sola» disse

alla suocera.

«Perché non ne approfitti per berti un tè e farti un bel bagno caldo? Usa un

buon bagnoschiuma profumato» rispose Rabiah pacatamente.


«Devo preparare la cena, mamma. E Sati deve fare i compiti da sola.»

Rabiah si alzò e diede alla nuora una pacca affettuosa sulla spalla, poi si

fece dare le borse. «Non riesce a fare gli esercizi, se prima non capisce la

regola. A cosa serve una prof di matematica in pensione, se non a questo?»

«Mi spiegava soltanto» si difese Sati. «Quando mi spiega Missa non ti

arrabbi.»

«Missa non ti dice il risultato» rispose Yasmina. «Alla fine voglio vedere il

quaderno e se invece di trovare la tua scrittura trovo quella della nonna...»

«Su, su, vai a riposarti. Faccio io» insistette Rabiah, per nulla offesa.

«Accendo il bollitore. Cos’hai comprato? Agnello. Va benissimo per i kebab.

Meno male, perché i kebab sono l’unica cosa che so cucinare.»

«A Natale hai fatto l’oca» puntualizzò Sati. «E fai anche il roastbeef e il

tacchino.»

«I pranzi delle feste non sono un problema» rispose Rabiah. «A me pesa

cucinare tutti i giorni, motivo per cui la maggior parte delle volte me la cavo

con minestra e crostini. Al pomodoro, o di lenticchie quando mi sento in vena

di qualcosa di più avventuroso. Adesso finisci i compiti così poi mi aiuti. La

mamma va a farsi un bel bagno. Dico sul serio, Yasmina. Appena è pronto il

tè, te lo porto su e, se non ti trovo a mollo, mi arrabbio.»

Yasmina conosceva la testardaggine di sua suocera e poiché non aveva

ancora pensato a cosa preparare con l’agnello e gli altri ingredienti che aveva

comprato non ebbe nulla in contrario a lasciar cucinare lei. La prospettiva di

un bagno caldo la attraeva, e anche quella del tè, del silenzio e della

solitudine.

Era immersa nell’acqua calda e profumata quando capì che avrebbe avuto

soltanto i primi due, ma non silenzio e solitudine. Rabiah bussò alla porta e,

quando Yasmina la invitò a entrare, si presentò con due tazze, non una. Porse

il tè a Yasmina e si sedette sul coperchio del water con l’altra tazza fra le

mani.

«Ah.» Yasmina non tentò neppure di mascherare il disappunto. «Come

temevo.»

«Non pensavi che fossi venuta soltanto per aiutare Sati a fare i compiti,

vero? Ti devo parlare. Sono venuti due ispettori da Londra a indagare sulla

morte di quel diacono, ti ricordi? Quello che si è suicidato nella stazione di

polizia di Ludlow.»

Yasmina assaggiò il tè. Come suo solito, Rabiah l’aveva fatto troppo


leggero. L’unica soluzione era tenere a portata di mano lo Yorkshire Tea, che

dopo due minuti di infusione era già così forte da rischiare di corroderti lo

smalto dei denti. Qualsiasi altra qualità, se preparata da Rabiah, si

trasformava in acqua sporca.

«Non credo tu sia venuta a parlarmi di due ispettori in visita da Londra,

mamma» ribatté Yasmina. «Comunque, sì, mi ricordo del diacono che si è

suicidato. Era su tutti i giornali.»

«Ma sui giornali non era specificato che il diacono aveva rapporti con un o

una Lomax» disse Rabiah. «E siccome io non sono, ho pensato che fosse

Missa. Ti ha per caso detto se lo conosceva? No? Be’, lasciami continuare. Il

cognome Lomax compariva sette volte sull’agenda del diacono, il che

dimostra che si sono visti regolarmente. A proposito, quelli di Scotland Yard

sono venuti da me due volte, quindi immagino non sia una bazzecola. Per ora

li ho depistati, ma dubito che si lasceranno prendere per il naso ancora a

lungo.»

Yasmina stava per uscire dalla vasca, dopo quelle rivelazioni, ma non lo

fece per pudore. Sua suocera contava proprio su questo. Non a caso le aveva

consigliato un bel bagno caldo. Se non voleva farsi vedere nuda dalla

suocera, Yasmina doveva restare sotto la schiuma, prigioniera di quella

conversazione. Non poteva che guardare Rabiah, il suo bel volto dalla pelle

ancora liscia, gli occhi castani e sinceri, il fisico scattante della maratoneta.

Stava male al pensiero che Missa le mentiva da mesi. Ogni volta che le

pareva di aver capito che cosa pensasse veramente la figlia, poco dopo

scopriva di essersi sbagliata.

«Hai parlato con Missa?» chiese alla suocera.

«Sì, prima di venire qui sono passata dal parco a tema. Ho parlato sia con

lei sia con Justin. A proposito, sostiene di non essere contrario al fatto che

Missa finisca il college e si iscriva all’università. Secondo me ha paura che,

se non si dimostra collaborativo su questo aspetto, tu non darai mai il... Come

si chiama? È un termine latino... Ah, ecco: l’imprimatur. Teme che non li

lascerai sposare, in sostanza.»

«E Missa che cosa ti ha detto?»

«Riguardo ai suoi rendez-vous con il diacono? All’inizio ha cercato di

farmi credere che era stata Ding a chiamare Druitt sotto falso nome. Poi ho

scoperto che non era vero, e allora mi ha detto che qualcuno lo aveva

interpellato perché la aiutasse a prendere una decisione riguardo al college,


forse il suo tutor. Neanche lui voleva che Missa abbandonasse gli studi e

quindi, quando Druitt l’ha contattata, ha immaginato che fosse stato lui a

dargli il numero. Ti risulta?»

Yasmina sapeva che cosa le stava chiedendo in realtà Rabiah, e sapeva

anche che la sua risposta l’avrebbe contrariata, ma poiché la verità stava a

metà strada fra ciò che Yasmina aveva fatto e ciò che era successo in seguito,

non poteva tacere. «Ho parlato con il tutor di Missa, sì. Non ho potuto farne a

meno: lei mi propinava una storia sempre diversa.»

«E cioè? Accampava scuse diverse per smettere di studiare?»

«All’inizio ha detto che lo faceva per Sati. Sati aveva particolarmente

bisogno che lei stesse a casa, visto che Janna...» Ancora non riusciva a dirlo.

Provò a mascherare la propria incapacità di ammettere la definitiva

scomparsa della figlia posando la tazza e prendendo la saponetta per lavarsi.

«Questo durante le vacanze di Natale. Io e Timothy siamo riusciti a

convincerla che non era il caso. Allora Missa è tornata a Ludlow promettendo

di riprovarci, ma poi ha tirato fuori il disturbo dell’attenzione. Faceva fatica a

concentrarsi, diceva. Forse era dislessica. Fatto sta che non riusciva più a

seguire le lezioni di scienze, mentre prima non aveva difficoltà. Era sicura di

non passare l’esame. Le ho spiegato che i disturbi di apprendimento non si

manifestano così, da un momento all’altro. In assenza di eventi traumatici,

perlomeno. Insisteva che voleva tornare a casa e così ho parlato con il tutor. E

sì, non c’è bisogno che tu me lo dica, mamma: Missa non avrebbe gradito la

mia intromissione. Infatti ho pregato il tutor di non dirle niente. Comunque

Missa gli aveva già parlato e lui era preoccupato quanto me.»

C’era una manopola da bagno pulita in cima a una pila di biancheria

piegata e Rabiah la porse a Yasmina. «E quindi? Cos’ha fatto? Ha chiamato il

vicario?» le disse.

«Ha chiesto alla psicologa del college di convocare Missa per un

colloquio, ma siccome io temevo che i tempi fossero troppo lunghi e Missa

nel frattempo mollasse tutto, mi sono fatta dare il numero e l’ho chiamata io.

Le ho lasciato un messaggio in segreteria. Due, per la verità. Non mi ha mai

richiamato.»

Rabiah annuì. Saggiamente, seguì la pista del: «E Tim è al corrente di tutto

questo?»

Yasmina non gradì i sottintesi di quella domanda. «Non ho segreti per

Timothy» replicò. Poi non poté fare a meno di aggiungere: «Anche se


purtroppo lui è convinto di poterne avere per me, Rabiah».

Il fatto che l’avesse chiamata per nome anziché «mamma» indicava che, se

Rabiah avesse chiesto delucidazioni, Yasmina gliele avrebbe date, ma non

sarebbero state gradevoli. «Non è il momento di parlare dei segreti di Tim.

Ha una piovra sulla schiena, ma finché non se ne renderà conto da solo noi

non possiamo farci niente» replicò Rabiah.

«Credimi, sta peggiorando a vista d’occhio» disse Yasmina. «Stai serena,

però: finché a qualcuno non verrà in mente di controllare le scorte in

farmacia, andremo avanti come se nulla fosse.» Vedendo l’espressione

sgomenta della suocera, si affrettò a rimediare. «Scusa, mamma, non volevo.

Perdonami. È che la tua domanda... No, aspetta, provo a rispondere. Ho

spiegato a Tim le mie intenzioni, gli ho detto che avrei chiamato il tutor. Lui

mi ha dato dell’impicciona. Quando poi Missa a marzo ha lasciato il college

ed è tornata a casa, ha dato la colpa a me. Dice che le ho forzato la mano, che

se l’avessi lasciata fare avrebbe trovato la sua strada e sarebbe andato a finire

tutto bene.»

«Come nelle favole» commentò Rabiah.

«Infatti. Timothy se le scrive e se le legge» concordò Yasmina.

Allington

Kent

Il viaggio fino al Kent fu insostenibile. Isabelle Ardery l’aveva previsto, data

l’ora e la vicinanza a Londra, ma, nonostante si fosse preparata

psicologicamente, il traffico la innervosì al punto che a un certo momento

non resse più e dovette fermarsi in una piazzuola. Fece qualche bel respiro

profondo cercando di calmarsi e di liberare la mente dal groviglio di pensieri

che la attanagliavano. Si sentiva un fallimento totale: aveva mandato in

malora la trasferta a Ludlow, aveva mandato in malora il suo matrimonio e

adesso stava mandando in malora la sua vita. Seduta immobile in macchina,

si concentrò sulla propria pelle per fermare il formicolio che rischiava di

salire fino alle corde vocali e farla gridare. Si aggrappò al volante e guardò i

veicoli passare sull’autostrada.

Rimpiangeva di non aver preso il treno. Sarebbe stato affollato, ma le

avrebbe consentito di raggiungere Maidstone senza trovarsi di fronte ai propri


problemi. In quel momento, non se lo poteva permettere. Doveva poter

contare su tutte le risorse mentali ed emotive che aveva per andare a casa di

Bob nel giorno previsto dagli accordi e parlare con i bambini da sola. Certo,

Bob e Sandra non glieli avrebbero lasciati portare più in là del giardino di

casa per paura che per James «fosse troppo come l’altra volta». Così si era

espresso Bob. Isabelle era disposta ad accettare le sue condizioni perché

voleva a tutti i costi parlare con i bambini.

Aveva bevuto un goccio prima di uscire dall’ufficio per farsi coraggio.

Dopo era andata nel bagno per lavarsi i denti con spazzolino e filo

interdentale e sciacquarsi la bocca con un po’ di collutorio in maniera da

cancellare qualsiasi traccia dall’alito. Aveva ripetuto l’operazione due volte e,

per buona misura, aveva anche succhiato qualche mentina e masticato un

chewing-gum alla menta. Poi, però, il traffico l’aveva mandata in crisi. E lì,

ferma sulla piazzuola, provò di nuovo quell’impulso irrefrenabile, quel

bisogno totalizzante che le impediva di pensare.

Aveva con sé il rimedio, ovviamente. Nel cassetto portaoggetti. Insieme

con spazzolino, dentifricio e collutorio. Questo significava che,

all’occorrenza...

Si disse che no, non avrebbe ceduto. Aspettò un varco per immettersi di

nuovo nel traffico e riprendere il viaggio. Venti minuti dopo, però, vide il

cartello di un Welcome Break. Si fermò nel posteggio dell’area di servizio a

telefonare a Bob, perché si stava facendo tardi. Fu una conversazione breve,

Bob fu gentile e comprensivo. Isabelle gli disse che il traffico era più intenso

di quanto si aspettava, che sarebbe arrivata a Allington in ritardo. Nessun

problema, replicò lui. Purtroppo il traffico era un problema insormontabile.

Conclusa la telefonata, Isabelle guardò l’autogrill. Era grande e

sicuramente l’offerta di cibi e bevande calde era variegata, ma tè e caffè

l’avrebbero resa ancor più nervosa di quanto già era e quindi forse le

conveniva limitarsi a mangiare un boccone.

Dentro di sé, tuttavia, la sola idea di ingurgitare cibo, caffè o tè la

infastidiva. Per calmarsi rapidamente la soluzione era soltanto una. L’aveva

lì, in macchina. Un paio di mignon di vodka, magari tre... No, tre no. Non era

a quei livelli. Due. Sì, due sarebbero bastate a fermare il tremito delle mani, e

fermare il tremito delle mani era indispensabile, perché se si fosse presentata

in quello stato i bambini si sarebbero spaventati. Tra l’altro, se le tremavano

già adesso, al suo arrivo il problema sarebbe stato ancor più evidente.


Ingollò due mignon una dopo l’altra, in fretta, e lasciò che entrassero in

circolo. Allungò la mano per chiudere il cassetto, ma all’ultimo momento

afferrò anche la terza bottiglietta e bevve pure quella. Provò un enorme

sollievo.

Prese tutto ciò che le serviva e andò alla toilette per lavarsi di nuovo i denti

con spazzolino, dentifricio e filo interdentale e concludere con un bel

gargarismo.

A quel punto andò nel piccolo Marks & Spencer all’interno dell’autogrill e

siccome era quasi ora di cena comprò un muffin, che mangiò tornando alla

macchina. Si sentiva molto meglio.

Bob e Sandra abitavano vicino alla chiusa sul fiume Medway e, quando

Isabelle si fermò davanti al loro bel cottage con la facciata in pietra, evitò di

fare paragoni con l’appartamento al piano interrato in cui abitava lei a sud del

Tamigi, fra la Wandsworth Prison e il Wandsworth Cemetery. Bob, Sandra e

i gemelli abitavano vicino a un frutteto, in una casa con vista sul fiume sotto

un enorme carpino.

Percorse il vialetto spazzato con cura, fra primule gialle, bianche e rosa.

Prima di suonare il campanello si soffiò nella mano per controllare l’alito e si

sistemò i capelli, scoprendo di aver perso un orecchino. Come aveva fatto a

perderlo? Si tolse velocemente l’orecchino superstite e suonò, ammirando la

felce rigogliosa nel portavasi di ferro battuto.

Le aprì Laurence. «Mamma!» gridò. «È arrivata la mamma, James!» Un

istante dopo alle sue spalle si materializzò Bob. «Ciao» la salutò e la squadrò

per controllare in che condizioni fosse, cercando di non darlo a vedere.

Prima che Isabelle mettesse piede in casa, comparve anche Sandra. Isabelle

fu cordiale, ma non riuscì a fare a meno di guardarsi intorno alla ricerca di

James. Laurence lo chiamò una seconda volta e finalmente il bimbo fece

capolino da dietro la porta della sala da pranzo. Isabelle stava per salutarlo,

ma Sandra intervenne. «Vieni a dare un bacino alla tua mamma, tesoro.» Gli

tese la mano. James si avvicinò a lei, che gli cinse le spalle con un braccio e

gli bisbigliò nell’orecchio qualcosa che Isabelle non sentì.

Fece il possibile per reprimere l’indignazione, ma in realtà avrebbe voluto

prendere suo figlio – perché James era figlio suo, non di Sandra – e

bisbigliargli nell’orecchio qualcosa anche lei. Si trattenne. «Ciao, tesoro.

Laurence e io andiamo in giardino a chiacchierare. Vuoi venire anche tu?»

disse. Siccome James non rispondeva, ostentò indifferenza. «Se cambi idea,


raggiungici» concluse.

Bob guardò sia lei sia Sandra. «Da questa parte» disse poi. Come se

Isabelle non sapesse da che parte era il giardino. Lo seguì docilmente, però,

tenendo Laurence per mano. «Sei contento di partire per la Nuova Zelanda?»

Aveva visto gli scatoloni pronti da montare e non dubitava che Sandra stesse

per imballare il suo servizio di porcellana inglese, dopo essere riuscita a

impossessarsi dei suoi figli.

Bob li accompagnò in un prato perfettamente rasato e li condusse sotto una

pergola dove c’erano un tavolo e alcune sedie. Isabelle notò che era un punto

del giardino visibile dall’interno della casa ed ebbe un moto di stizza che

represse prontamente. Bob stava cercando di capire fino a che punto lei

avrebbe retto senza dare in escandescenze. Non aveva nessuna intenzione di

cedere alle sue provocazioni. «Perfetto, grazie» disse. «Vedo se riesco a

convincere James» disse Bob prima di ritirarsi, con sua grande sorpresa.

Laurence le parlò allegramente della Nuova Zelanda, della scuola che

avrebbe frequentato con suo fratello e del suo problema principale in quel

momento. «Non faremo vacanze, quest’estate, mamma. Neanche un giorno,

sai? In Nuova Zelanda è tutto al contrario: quando qui è inverno laggiù è

estate e quando qui è estate laggiù è inverno. Così, quando arriveremo là, noi

avremo appena finito la scuola e loro avranno appena finito le vacanze estive!

Non è giusto...»

«Ma sarà una bella scuola, vedrai. Vi divertirete un sacco.»

«Anche papà dice così.» Si voltò un istante verso casa e abbassò il tono di

voce: «Non so se James si troverà tanto bene, sai? È così capriccioso! Cioè, è

sempre capriccioso, ma in questo periodo di più».

«A volte cose che a noi non costano nessuna fatica per altri sono molto

difficili» osservò Isabelle.

«Secondo me, lo fa apposta.» Laurence diede un calcio a una gamba del

tavolo.

La portafinestra si aprì e uscì Sandra con un vassoio, seguita da un

recalcitrante James, testa bassa e capelli sul viso. «Con questa bella giornata,

ci vuole un buon gelato!» disse Sandra, trillante.

Posò il vassoio sul tavolo e Isabelle vide tre coppette di gelato alla fragola

con salsa al cioccolato, nocciole tritate e una ciliegina in cima. Sandra aveva

previsto perfino una cialda per ciascuno. Stava tentando di prendere per la

gola James, in maniera che restasse con la madre e il fratello. «Il gelato di


solito aiuta» disse a Isabelle sottovoce. Poi si rivolse a James. «Vieni, su.

Non vorrai perderti questo buon gelato, no?»

Laurence lanciò un gridolino di gioia e James si andò a sedere sulla sedia

più lontana da Isabelle e impugnò il cucchiaio. Isabelle si trattenne

dall’ammonirlo. Tieni bene quel cucchiaio! Era grande abbastanza per tenere

le posate come si deve e Isabelle l’aveva già visto comportarsi a tavola molto

meglio di così, quindi sapeva che lo stava facendo apposta. Assaggiò il

gelato, si complimentò e attese che Sandra togliesse il disturbo.

«Sei contento anche tu di andare in Nuova Zelanda?» chiese a James

quando finalmente Sandra si levò dai piedi, probabilmente per piazzarsi

dietro una finestra a sbirciare. «È una bella avventura, vero? Laurence mi ha

detto che siete già iscritti a scuola e che purtroppo quest’estate farete poche

vacanze. Però, pensa che bello: Natale d’estate anziché d’inverno. Non è

emozionante? Natale in spiaggia. Invece del tacchino, un bel barbecue. Che

meraviglia!»

James continuava a non guardarla in faccia. Era sempre stato più timido

del fratello, ma in quel momento la differenza era esagerata e Isabelle si

offese: James si comportava così per punirla e non le sembrava giusto.

«Ce l’hai con me, James? Cos’è che ti intristisce? Sei preoccupato all’idea

di andare a vivere in Nuova...?»

Arrivò di corsa dal nulla un cane nero come il carbone e si lanciò contro il

tavolo abbaiando furiosamente. Era grosso e agitato, ma scodinzolava. Forse

voleva semplicemente stare con loro, in braccio o direttamente sul tavolo.

Abbaiava gioioso, correva, saltava e cercava di lappare il gelato, in

particolare quello di James.

Il bambino si mise a gridare, come se invece di un cane fosse arrivato King

Kong, e partì a razzo verso il fiume. Naturalmente il cane pensò che James

volesse giocare e lo rincorse, continuando ad abbaiare tutto allegro. «No! No!

Papà! Mamma! Mamma!» urlò James. Bob uscì di casa di corsa.

«Non ti fa niente!» gli disse. «Fermati, James! Oliver pensa che tu voglia

giocare!»

Ma James continuò a correre, dalla riva del fiume verso il frutteto e in

mezzo agli alberi. Isabelle si accorse che era scoppiato a piangere. Si alzò e

gli andò incontro.

Sandra uscì in giardino e cominciò a chiamarlo, a braccia aperte. «Bob,

allontana quel cagnaccio!» disse. E, a Isabelle: «Ci pensiamo noi, non ti


preoccupare. James! James! Sta’ tranquillo, papà adesso lo fa andar via.

Vedi? Ecco, guarda: il signor Horton è venuto a riprendere Oliver».

James a quel punto era con la schiena appoggiata al tronco di un melo e il

cane era davanti a lui. Era ovvio per tutti tranne che per James che voleva

giocare. «Mandalo via, mamma! Mandalo via!» Quando Bob lo raggiunse,

James era in piena crisi isterica. Si rannicchiò in posizione fetale e

singhiozzava talmente forte che Isabelle lo sentiva da dov’era rimasta.

«Chiedo scusa» disse il signor Horton. «Appena ho aperto la porta è

scappato come una furia» spiegò. «Stiamo cercando di ammaestrarlo, di

insegnargli come si deve comportare, ma è ancora... Oliver! Basta! Qui!»

Bob aveva raggiunto il cane e Oliver era felicissimo di avere un nuovo

potenziale compagno di giochi. Afferrarlo per il collare, allontanarlo da

James e restituirlo al padrone non costituì un problema.

Sandra intanto prese in braccio James, consolandolo e accarezzandogli la

testa come se fosse un poppante.

In tutta quella confusione, Laurence non si era mosso di un millimetro e

aveva gustato il suo gelato osservando la scena come se si fosse svolta in tv.

Isabelle tornò a sedersi al tavolo. «È sempre così, mamma. Oliver viene qui

perché gli piace il fiume, poi ci vede e vuole giocare ma James si spaventa.

Non capisce. È un coglione» le svelò.

«È una parolaccia, Laurence» replicò Isabelle.

«James è un coglione! James è un coglione!» gridò Laurence a suo fratello.

Bob intanto era andato da Sandra, aveva preso il bambino e, tenendogli una

mano sulla spalla, lo stava riportando da loro. «Smettila immediatamente!»

disse a Laurence.

«È vero! È vero!» insistette Laurence. «Sai che controlla di non avere

mostri sotto il letto prima di andare a dormire, mamma? Con me nella stessa

stanza! Io non guardo sotto il letto per vedere se ci sono dei mostri, no? Lui

invece sì. Perché è un coglione. Coglione, coglione, ha paura di un cagnone!»

«Basta!» ordinò Bob severo. «Mi sembra di essere stato chiaro.»

«Bob, vuoi che ci pensi io?» intervenne Sandra, che aveva seguito docile il

marito.

«Non ce n’è bisogno» rispose lui. «James, il cane è andato via. Puoi finire

il gelato con la tua mamma e tuo fratello: il signor Horton l’ha portato a casa

sua.»

«Se non lo vuoi finire tu, lo finisco io» disse Laurence. «Anzi...» E allungò


la mano per prendere la coppetta del fratello e mangiare il suo gelato.

«Stai esagerando, Laurence!» A Isabelle venne spontaneo intervenire.

«Non sai cos’ha in testa James. Non puoi sapere che cosa pensi, che paure

abbia. Non voglio sentirti mai più insultare tuo fratello. E smetti subito di

mangiare quel gelato: non è tuo!»

Seguì un silenzio sbalordito. Isabelle aveva il cuore a mille. Laurence

rimase con il cucchiaino a mezz’aria e James alzò la testa dalla spalla del

papà. Bob la fissava sbigottito e Sandra era rimasta a bocca aperta. Poi la

chiuse.

Isabelle capì di essersi spinta troppo in là e se ne pentì immediatamente:

ancora una volta, aveva dimostrato scarso autocontrollo. Bob però fece un

mezzo sorriso e Laurence posò il cucchiaino e restituì il gelato a suo fratello.

Bob fece sedere James, gli diede un bacio sulla testa e si voltò per tornare in

casa, prendendo Sandra per mano. Isabelle rimase di nuovo sola con i figli.

«Scusa se prima ho alzato la voce, Laurence. Non mi piace che prendi in

giro tuo fratello, però. Non è giusto. Non ti fa onore, sai?» disse in tono

sommesso.

Laurence guardò il gemello, poi di nuovo la madre. «Scusa, mamma»

mormorò.

«Non è a me che devi delle scuse, Laurence.»

Il bambino si voltò verso il fratello. «Scusa, James. Vorrei tanto che...

Scusami.»

James teneva gli occhi sul gelato senza toccarlo. Era in preda ai sentimenti

che una scena del genere può scatenare in un bambino di nove anni. Isabelle

non credeva di poterli comprendere, ma si rendeva conto di quanto fossero

diversi i suoi figli, pur essendo gemelli monozigoti. Aveva inoltre la

sensazione che, se James era così pauroso, fosse in larga parte colpa sua. «È

normale avere delle paure, James. Dei cani, dei mostri sotto il letto, dei lupi

nascosti nell’armadio, dei serpenti...» gli disse.

James non replicò, né alzò lo sguardo. Laurence sbuffò e gli lanciò

un’occhiataccia. Isabelle proseguì.

«Per superare le nostre paure, dobbiamo accettare di averle e guardarle in

faccia. Non c’è altro modo. Se non riusciamo a riconoscerle, diventano

sempre più grandi e ci rovinano la vita. Io lo so, James, e sai perché? Sai

perché sono espertissima in fatto di paure?»

Il bambino scosse la testa. Laurence aveva smesso di mangiare e la


guardava intensamente.

«Perché in tutta la mia vita non ho mai imparato ad affrontarle. Per questo

voi state con papà e Sandra e non con me. Per questo appena ho potuto sono

andata via da Maidstone e mi sono trasferita a Londra. Ma ho imparato che

scappare non serve a niente, perché le paure ti inseguono e continuano a

tormentarti finché non le guardi in faccia.»

«Ma tu fai la poliziotta!» protestò Laurence. «I poliziotti non hanno paura.

Non possono aver paura.»

«Io non ho paura dei criminali a cui do la caccia» ribatté Isabelle. «Ho

paura di vedere come sarei se accettassi le mie paure.»

Laurence aggrottò la fronte. Anche James sembrava perplesso, quando alzò

la testa. Ma sembrava anche che stesse riflettendo tra sé e Isabelle gli lasciò il

tempo di farlo.

«Hai paura di essere paurosa, mamma?» domandò infine James.

«Proprio così» rispose Isabelle, prendendogli il polso e rendendosi conto di

quanto era fragile. «E così, invece di affrontare le mie paure, ho cercato di

mandarle giù bevendo.»

«Come una medicina?»

«No, come una pozione che si prende per dimenticare. Affogavo le mie

paure nella vodka e quando vostro padre mi ha chiesto di smettere non ci

sono riuscita. E non ci sono riuscita perché avevo paura di provarci

veramente. E di conseguenza ho perso lui e ho perso voi. E adesso vi

trasferite e vi vedrò ancora meno. Mi dispiace tantissimo. Insomma, quello

che volevo dire è che le paure vanno superate, altrimenti si vive male, si

perdono un sacco di cose e di persone. Non voglio che tu faccia questa fine,

James. E nemmeno tu, Laurence.»

«Laurence non ha paura di niente» disse James.

Laurence teneva gli occhi fissi sul gelato ormai sciolto in cui girava il

cucchiaino. «Non è vero che non ho paura di niente, James» replicò.

«E di cosa avresti paura, allora?» James era incredulo.

«Di andare via dall’Inghilterra e di non tornare mai più e di...» Gli tremò il

labbro e iniziò a girare il cucchiaino con più foga.

«Di...?» lo pungolò James.

«Di non vedere più la mamma!» Scoppiò a piangere.

Isabelle si sentì mancare. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma non ci riuscì.


20 MAGGIO

Wandsworth

Londra

Qual era stata la sua paura più grande? Non perdere il marito, visto che si era

illusa stupidamente che Bob, come tanti altri uomini, non se la sentisse di

tornare a vivere da solo, abituato com’era ad avere una moglie al suo

servizio, benché Isabelle non fosse mai stata al servizio di nessuno, e meno

che mai del marito. E neppure perdere i figli. Era la loro mamma, li aveva

nutriti, cambiati quando se la facevano addosso, li aveva lavati e insaponati,

protetti dai pericoli. Aveva persino comprato un cancelletto da mettere in

cima alle scale perché non ruzzolassero giù... Non era la paura di perdere il

lavoro perché, pur essendo moglie e madre, era sempre riuscita a essere

professionale, distaccata e competente, anche quando a casa ne succedevano

di tutti i colori. No, non erano state queste le sue paure. La sua paura

principale era stata rimanere senza vodka.

Tornando a Londra dopo la serata con James e Laurence, Isabelle percepì

quel vuoto che ormai era parte di lei, l’abisso senza fine e traboccante di sensi

di colpa che si era creata con le sue stesse mani. La responsabilità delle paure

dei suoi figli, del loro dolore, era solo sua. In ultima analisi c’era lei

all’origine di tutte le loro ansie riguardo al trasferimento in Nuova Zelanda e

alla necessità di ambientarsi in un mondo completamente diverso, dove le

stagioni erano al contrario e li aspettava una scuola nuova dove avrebbero

dovuto farsi dei nuovi amici. Purtroppo, non era in grado di rassicurarli.

Al rientro dal Kent, si era accorta di non avere nessunissima voglia di

scendere la scala di ferro battuto ed entrare nel suo appartamento al piano

interrato avvolto da un silenzio che testimoniava le sue scelte sbagliate. E

così aveva parcheggiato e si era incamminata verso Trinity Road con

l’intenzione di andare avanti fino a non farcela più.

Non aveva in programma di entrare nella bottiglieria. Non pensava


neppure di trovarne una aperta. Invece l’aveva trovata, e a meno di un quarto

d’ora da casa.

Si era detta che avrebbe comprato un’acqua minerale. Aveva sete e, se

voleva camminare fino a non farcela più, era meglio idratarsi correttamente.

E così era entrata, imponendosi di guardare esclusivamente il frigo in fondo

al negozio, di fissare lo sguardo solo sulle bottigliette d’acqua.

Ne aveva presa una, soddisfatta di se stessa, l’aveva portata alla cassa,

l’aveva posata sul nastro trasportatore e aveva cercato gli spiccioli nella

borsa. Purtroppo, però, la cassiera le aveva detto: «Buonasera! Abitiamo di

fronte. Lei è il sovrintendente di polizia, vero? Me l’ha detto mia madre, che

è una pettegola di prima categoria e sa tutto di tutti». E Isabelle era stata

costretta ad alzare la testa. La cassiera era una ragazza di vent’anni o giù di lì,

con un granchio coloratissimo tatuato sul collo – davvero bizzarro – ma il

problema era che alle sue spalle c’era lo scaffale dei liquori. Isabelle aveva

sorriso automaticamente, come si fa in questi casi, e aveva risposto che sì,

lavorava in polizia, ma non le pareva di conoscere sua madre. Al che la

cassiera era scoppiata a ridere. «Lo so! Non esce mai. Sta tutto il giorno a

sbirciare da dietro le tende! Sono novanta pence, se non desidera altro» aveva

detto.

E così aveva finito per comprare due bottiglie di vodka Grey Goose. E

siccome non era tipo da lasciarsi fare la predica da nessuno e non permetteva

a nessuno di dirle che cosa doveva e non doveva fare – e chi ci provava poi se

ne pentiva – aveva stabilito di interrompere lì la sua passeggiata serale. Era

tornata a casa, aveva messo una bottiglia di vodka nel frigo e aveva aperto

l’altra.

L’aveva svegliata l’antifurto di un’automobile parcheggiata in una delle

strade vicine. Lì per lì aveva pensato che fosse ancora sera per via della luce

fioca che arrivava da fuori, poi però aveva guardato il tavolino di fronte al

divano su cui era sdraiata e aveva visto il bicchiere rovesciato e accanto la

bottiglia di Grey Goose. Era sicura di averla lasciata in cucina e invece

sembrava galleggiare in un laghetto di vodka costosissima, contenuta dai

bordi del tavolino.

Aveva la bocca impastata e una sete terribile. Posò i piedi per terra e si

accorse di essersi tolta i pantaloni e di avere gli slip infilati in una gamba

soltanto.

Per un attimo si domandò sbalordita se per caso non avesse lasciato entrare


qualcuno in casa, ma poi le venne in mente che a un certo punto era andata in

bagno e aveva preferito lasciare i pantaloni ammonticchiati per terra e poi si

era detta ridacchiando che era assurdo continuare ad andare avanti e indietro

dalla cucina per prepararsi l’ennesimo vodka martini. Solo che... come poteva

essere già ubriaca a quell’ora? Che ore potevano essere? Doveva essere

tornata a casa da un’oretta a dir tanto...

Guardò l’orologio e si rallegrò di averlo ancora. Segnava le cinque e pochi

minuti. Isabelle aggrottò la fronte perché: o l’orologio si era fermato – e non

era così perché la lancetta dei secondi girava – o il tempo andava alla

rovescia, oppure era già la mattina successiva. In ogni caso, le conveniva

dormire ancora un paio d’ore, dato che non riusciva neppure ad alzarsi dal

divano. Prima, però, forse era meglio chiamare in ufficio e lasciare un

messaggio a Dorothea Harriman per avvertire che non si sentiva bene. In

effetti le esplodeva la testa, e comunque quando era stata l’ultima volta che

aveva preso un giorno di malattia?

Isabelle non se lo ricordava e dubitava che Dorothea Harriman tenesse il

conto.

Ludlow

Shropshire

Lynley rimase favorevolmente colpito nel vedere Barbara Havers già pronta a

quell’ora. Evidentemente durante la notte aveva deciso di spuntarsi i capelli e

quando lui la guardò inclinando la testa da un lato gli disse: «Se avessi avuto

un altro specchio per vedermi dietro e sui lati sarebbero venuti meglio.

Pazienza. Sbagliando s’impara».

«Sagge parole. E comunque l’asimmetria ha un suo fascino» commentò

Lynley.

Barbara indicò le rovine del castello sull’altro lato della strada. «Ha notato

quanto siamo affezionati ai nostri mucchi di pietre? Credo che siamo l’unico

Paese al mondo in cui si dedicano interi programmi ai ruderi del passato.»

«Mi stupisce, sergente!» replicò Lynley. «Ha cambiato abitudini

televisive?»

«Assolutamente no» rispose Barbara. «Ho appena messo le nuove pile nel

telecomando.»


«Mi ero illuso che volesse farsi una cultura...»

«Oh, be’. So che questo castello ha a che fare con i Plantageneti, per

esempio. L’altra volta Harry mi ha raccontato di certi York che uscivano dal

castello a cavallo e gli York fanno parte dello stesso clan. Non ha specificato

esattamente chi, ma io non gli ho chiesto lumi, avendo già fatto la mia figura

con gli Edoardi. Non so se mi spiego.»

«Be’, questo castello ospitò più di un Edoardo, visto che si strappavano

Ludlow l’un l’altro come il servizio in una partita di tennis. Naturalmente,

alla fine se la aggiudicò l’usurpatore. Al pari di tutto il resto, compreso il

privilegio di raccontare la storia.»

«Mi scusi?»

«Enrico VII. La storia la scrivono i vincitori, Barbara. Andiamo?»

A parte un furgone del latte, a quell’ora antelucana non c’era nessuno in

giro. Impiegarono pochi minuti a raggiungere la casa di Finnegan Freeman.

Lynley suonò il campanello e, dato che nessuno rispose, bussò

energicamente. Invano. A quel punto provò la maniglia.

La porta non era chiusa a chiave e la casa era silenziosa. C’era odore di

uova bruciate, una puzza a metà fra il carbone e lo zolfo che proveniva da una

padella posata in fondo alle scale, con concrezioni nerastre sul fondo coperte

da uno strato di detersivo per i piatti.

Barbara si diresse verso la cucina, guardò dentro e scosse la testa per

segnalare a Lynley che non c’era nessuno intento a preparare o a consumare

la colazione. Alzò un dito e varcò la soglia. Lynley la sentì aprire e chiudere

sportelli. Conoscendola, sapeva che era tutto possibile: magari aveva deciso

di prepararsi due uova strapazzate. Ma Barbara ricomparve poco dopo con

due coperchi e Lynley capì al volo le sue intenzioni. Lanciò un’occhiata in

direzione del salotto per accertarsi che non ci fosse nessuno e si avviò su per

le scale con Barbara, stando attento a non urtare la padella bruciata.

Al primo piano c’erano tre camere da letto e un bagno. In giro non c’era

nessuno. La prima porta che provarono ad aprire era chiusa a chiave, la

seconda no. Lynley la spalancò senza fare rumore. «Non è proprio il principe

azzurro, eh?» commentò Barbara nel vedere il corpo scompostamente

sdraiato sul letto.

Era la verità: Finnegan Freeman non era granché bello, nel sonno. Aveva

la bocca aperta e un paio di boxer che sarebbero dovuti stare a mollo nella

candeggina un giorno intero per tornare bianchi. Russava leggermente.


Barbara si avvicinò al letto in punta di piedi e Lynley la seguì. La finestra

era chiusa e l’aria nella stanza era viziata e puzzolente: non solo sudore, ma

anche emissioni gassose in quantità. Barbara prese silenziosamente

posizione, guardò Lynley, inarcò un sopracciglio, aspettò che lui le desse il

via e batté i coperchi uno contro l’altro. «Svegliaaa!» gridò.

Finnegan rotolò giù dal letto e atterrò in posa da karateka. Poi, con un urlo

di guerra, cambiò posa: un vero spettacolo, in mutande.

Barbara abbassò i coperchi. «Caspita!» esclamò.

Lynley mostrò il tesserino e si presentò. «Ispettore investigativo Thomas

Lynley, New Scotland Yard. Abbiamo suonato il campanello, ma nessuno ha

risposto. La porta era aperta.»

«Dovreste starci attenti» aggiunse Barbara. «Anche se non c’è niente da

rubare, non credo le farebbe piacere trovarsi Biancaneve sdraiata sul letto.

Ma forse mi sbaglio.»

Finnegan era ancora in posizione da karate, ma si tirò su e sbottò. «Vi ha

mandati lei, vero? È stata lei!»

«Biancaneve?» domandò Barbara. «No, siamo venuti di nostra iniziativa,

l’ispettore e io. Quindi, se si riferiva a sua madre, il vicecomandante di

Ludlow Clover Freeman, le posso dire che no, non ci ha mandato lei. Vuole

vestirsi?»

«Io con voi non vengo. Non mi porterete da nessuna parte.»

«Vogliamo soltanto parlarle, Finn. Possiamo anche farlo qui, con lei in

mutande, seduti per terra o sul letto, oppure possiamo scendere e

accomodarci in cucina o in salotto. Consiglierei la cucina, personalmente. Se

vuole, le preparo il caffè.»

«Voglio un po’ di privacy per vestirmi.»

«Rimango io, sergente» si offrì Lynley. «Se lei intanto vuole portare giù i

coperchi e accendere il bollitore...»

Barbara annuì e li lasciò soli. Lynley vide una sedia in un angolo e la portò

vicino alla porta. Chiuse e si sedette.

«Devo pisciare» annunciò Finn.

«Prima si vesta, per cortesia. Non renda tutto più difficile, Finnegan.»

«Finn» lo corresse il ragazzo.

«Finn. Le prendo qualcosa da mettersi?»

«Certo, perché ho bisogno che me lo faccia qualcun altro?» Raccolse da

terra jeans e maglietta e se li infilò senza cerimonie. «Si leva, adesso?»


Lynley lo lasciò passare, ma lo seguì fino al bagno. «C’è la polizia!

Nascondete la refurtiva!» gridò Finn.

Entrò nel bagno e non si curò di chiudere la porta, permettendo così a

Lynley di assistere al rumoroso scroscio di urina e alle flatulenze che lo

accompagnarono. Poi uscì dal bagno senza tirare lo sciacquone e senza

lavarsi le mani e Lynley prese mentalmente nota di non stringergli la mano

prima di congedarsi.

Finn gli passò davanti. «È contro la legge piombare in casa della gente in

questo modo: non crediate che non lo sappia. Conosco i miei diritti. Se io non

ti apro e tu entri lo stesso è violazione di proprietà privata. E se mi trattieni

contro la mia volontà è sequestro di persona. Vi siete comportati come... Ma

come cazzo state, eh? Vi credete di essere come i poliziotti dei film? Potevate

abbattere la porta a calci, già che c’eravate. Siete convinti di poter intimidire

chiunque come e quando volete tanto nessuno protesta, nessuno dice un

cazzo. Ma con me non attacca: sappiatelo. Io so fin dove potete arrivare»

disse.

«Certo, certo. Andiamo in cucina?»

Una delle altre due porte si aprì e apparve un ragazzo. Bruce Castle, pensò

Lynley: così si chiamava. Dietro di lui c’era la ragazza con cui l’aveva visto

il giorno prima, Monica. Si mordicchiava la nocca dell’indice.

«Freeman, devi fare qualcosa: non può venirci in casa la polizia ogni due

per tre. Comincio a stancarmi» disse Bruce.

«Ma andatevene affanculo, tutti e due. Chi è lei, a proposito? E dov’è

Ding?» Andò a bussare alla terza porta. «Con chi sei, Ding? Lo fa meglio di

me e Brucie?»

Lynley lo prese per un braccio. «Ha esposto fin troppo chiaramente le sue

opinioni, Finnegan. Andiamo.»

Finn si ritrasse. «Finn! La prossima volta che mi mette le mani addosso, le

spezzo una clavicola: la avverto.»

«Perché proprio una clavicola?» domandò incuriosito Lynley. «Bene, è

pronto per il tè, adesso.»

Finn lo fulminò con quella che Lynley immaginò fosse la sua occhiata più

minacciosa e fece strada verso la scala, poi scese brontolando e pestando i

piedi. In cucina, Barbara aveva trovato tre tazze e una scatola di PG Tips. «Il

latte è rancido, ma qualcosa che assomiglia allo zucchero c’è» disse.

«Chi vi ha autorizzato a comportarvi come se foste a casa vostra?» protestò


Finn. «Conosco i miei diritti. Non potete usare le nostre cose come se...»

«Useremo una bustina di tè soltanto» lo interruppe Barbara. «E, se

preferisce, vado a chiedere al vicino se mi riempie d’acqua il bollitore.

Pensavo volesse sbarazzarsi di noi il più in fretta possibile, però. Se è così, le

conviene essere un po’ più cooperativo.»

Il ragazzo si accasciò su una delle tre sedie usate a mo’ di tavolo in un

angolo. Poco più in alto era appesa una bacheca a cui era stata fissata con una

puntina da disegno una tabella con turni di pulizia che, evidentemente, i

coinquilini ignoravano nella maniera più assoluta. La cucina in particolare era

in condizioni pietose: il lavello traboccava di piatti sporchi, i fornelli

parevano reduci da un esperimento scientifico finito male, le ante degli

sportelli erano aperte e c’erano scatolette, sacchetti e bottiglie da tutte le parti.

Il bollitore si spense automaticamente e Barbara preparò il tè usando, come

promesso, una bustina soltanto. Poi portò le tre tazze sul tavolo. «Io lo prendo

con lo zucchero» dichiarò Finn. Barbara allora gli porse una ciotola

contenente una montagnetta grigia da cui Finn staccò alcuni pezzetti a colpi

di cucchiaio.

«Allora: che cosa volete?» chiese. Dando per scontato che il ragazzo

sorbisse rumorosamente il tè, Lynley si era preparato al peggio, ma Finn gli

fece una piacevole sorpresa. Bevve senza far rumore. «Vi do cinque minuti,

perché ho lezione e non la voglio saltare. Scordatevi di trattenermi: non ne

avete il diritto. Non prendetemi per fesso perché non lo sono e conosco i

miei...»

«Diritti. Sì, abbiamo capito. Non la tratterremo, sebbene io abbia il forte

sospetto che lei non abbia lezione a quest’ora del mattino.»

«Chi dorme non piglia pesci» sentenziò Barbara.

«Dubito sia questo il caso.»

«Allora, si può sapere che cosa volete?» chiese Finn. «Vi ha mandato lei,

vero?»

«Sua madre?» chiese Barbara.

«Chi altro?»

«Perché avrebbe dovuto mandarci da lei, Finn?» domandò Lynley.

«Chiedeteglielo. Io proprio non lo so.»

«Non è stata sua madre a mandarci. Non funziona così. Siamo qui per

parlare di Ian Druitt.»

«Cosa c’è ancora da dire? Ho detto quello che ho detto e non ho niente da


aggiungere. Era in gamba, gentile con tutti e non ha mai alzato un dito su

quei bambini. È una balla pazzesca e infatti quel bastardo l’ha denunciato con

una chiamata anonima, perché nessuno può dire certe cose su Ian mettendoci

la faccia. Nessuno.»

«Strano che lei sappia che a telefonare è stato un uomo» osservò Barbara.

«Che cosa? State insinuando che sono stato io? Non saprei manco chi

chiamare per sparare una cazzata così.»

«Interessante, visto che sua madre è in polizia» insistette Barbara.

«Non sarei certo andato a dirlo a lei, se avessi pensato male di Ian, cosa

che non ho fatto, non faccio e mai farò.»

«E se Ian avesse pensato male di lei?» domandò Barbara.

Il ragazzo prese in mano la tazza e bevve un gran sorso di tè, stavolta

facendo rumore. «Nel senso?»

«Pare che Ian Druitt avesse delle perplessità sul suo conto» disse Lynley.

«Pare anche che volesse parlare con i suoi genitori, Finn» aggiunse

Barbara.

«Ma che cazzo dite?» Finn si indignò. «Ian non li conosceva, i miei

genitori. Non li ha mai incontrati.»

«Lo sappiamo» replicò Barbara. «Infatti ha chiesto in giro il loro numero

di cellulare.»

«Chi vi ha raccontato ’sta balla?»

Barbara alzò una mano come per interromperlo. «Non glielo posso dire: è

un’informazione riservata. Posso garantirle, però, che il diacono voleva

parlare di lei ai suoi genitori. L’ispettore può confermarlo.»

«Stronzate. Se Ian aveva un problema con me, me lo diceva direttamente.

Era fatto così. E non aveva nessun problema con me, perché facevo

esattamente quello che dovevo fare e cioè aiutavo i bambini a fare i compiti o

quello che dovevano fare, gli insegnavo a usare Internet per le ricerche della

scuola, li facevo giocare, organizzavo le squadre, li allenavo... Ho sempre

fatto tutto quello che mi veniva detto di fare.»

«Bravo. Molto bene. Purtroppo, però, sembra che le perplessità di Ian

Druitt non riguardassero le cose che doveva fare, ma eventuali libertà che lei

si prendeva e che avrebbe fatto meglio a non prendersi.»

«Tipo? Spacciare droga, convincere i bambini a farsi le canne, distribuire

pasticche? Insegnargli ad arrampicarsi su per le grondaie per aiutarmi a

svaligiare appartamenti?»


«Sono tutte ipotesi interessanti» replicò Barbara. «A lei quale sembra più

probabile?»

«Il signor Druitt ha parlato di ’influenza sui bambini’» disse Lynley. «Ha

espresso la propria preoccupazione per l’influenza che lei poteva avere.»

«Per quel che ne so, era previsto che avessi una qualche influenza»

protestò Finn.

«Dipende dall’influenza» ribadì Barbara. «E può darsi che Ian Druitt

usasse il termine come un...»

«Eufemismo?» suggerì Lynley.

«Esatto. L’influenza può essere di tanti tipi, non so se mi spiego» disse

Barbara al ragazzo.

Finn rimase zitto. Fuori gli uccellini cantavano. Un’automobile si mise in

moto rombando, con il motore su di giri. Finn guardò prima Barbara, poi

Lynley e poi di nuovo Barbara. Si ingobbì sulla sedia e prese la tazza fra le

mani. «Perché non parlate chiaro, così dopo vi caccio?» disse.

«È possibile che Druitt volesse parlare con i suoi genitori perché era

preoccupato di come lei si rapportava con i bambini, Finn» disse Lynley.

«In che senso?»

«Nel senso che le interazioni possono essere di molti tipi. C’è il genere che

ci ha descritto poco fa, in cui lei fa la parte del fratello maggiore e i ragazzini

la guardano come se fosse re Artù, e poi c’è il genere che è meglio tenere

segreto e ben nascosto. Se qualcuno avesse assistito a questo secondo tipo di

interazioni...»

«Non so di che cosa parlate» interloquì Finn.

«Vede, Finn, abbiamo acquisito una serie di fatti, numeri e così via, chi ha

fatto cosa, quali sono state le conseguenze... E ogni volta viene fuori il suo

nome. È come se lei fosse il ragno al centro della ragnatela» replicò Barbara.

«Abbiamo appreso che suo padre ha chiesto all’agente ausiliario di Ludlow

di tenerla d’occhio» lo informò Lynley. «Dal che si deduce che anche suo

padre nutriva perplessità sul suo conto, Finn.»

«Non esiste.» Finn si leccò le labbra. Aveva la lingua grigiastra. Spostò lo

sguardo su Barbara, poi di nuovo su Lynley. Sembrava aver perso di colpo

tutta la sua sicumera.

«Che cosa non esiste?» domandò Barbara. «Sono certa che lei capisce la

nostra situazione.» Fece un gesto vago alla sua destra. «Lei sa che da qui alla

stazione di polizia la strada è breve e poco frequentata, se si passa da


Weeping Cross Lane. Specie di notte. Si arriva dal lato del parcheggio e,

siccome la videocamera sopra l’ingresso posteriore della stazione non

funziona, si può entrare senza essere ripresi. Se Gary Ruddock fosse stato a

bordo dell’auto di servizio assieme alla sua amante, come a volte succede...»

«Gaz non ha nessuna amante. Se ne lamenta in continuazione.»

«... chiunque sarebbe potuto arrivare alla stazione e telefonare al 999...»

«Ve l’ho detto! Non so un bel niente di quella telefonata anonima, che

comunque era solo un mucchio di palle.»

«... ma anche far fuori Ian Druitt una sera di marzo e chiudergli la bocca

per sempre, in maniera che non riferisse le brutte cose che non avrebbe

dovuto vedere ma aveva visto lo stesso.»

«Come ha detto? No! Ma che idee vi siete fatti? Ve l’ha messo in testa

Gaz? Chiunque sia stato, è una cazzata. Se l’ha detto Ian, mentiva. O l’ha

detto un ragazzino che magari si è offeso per qualcosa che ho fatto e vuole

farmela pagare? In ogni caso, ve lo dico chiaramente: non sono obbligato a

parlare con voi e non intendo farlo. Avete capito? Perché state dicendo un

sacco di stronzate e chiunque abbia detto quelle cose di me è un bugiardo

schifoso.»

Spinse indietro la sedia facendola strisciare sul linoleum e uscì. Siccome

andò ad aprire la porta di casa, per un attimo Barbara e Lynley temettero che

volesse darsi alla fuga, invece si mise a gridare: «Uscite! Ho capito a che

gioco giocate e non ci sto! Andatevene!»

Siccome nessuno si mosse, chiuse la porta, facendola sbattere con tanta

violenza che le finestre della cucina tremarono, salì di sopra e si chiuse in

camera sua, sbattendo anche quella porta.

«Che scenata!» Barbara si diresse verso l’ingresso, ma al piano di sopra si

sentirono dei passi e quindi una voce di donna. «Se ne sono andati, Finn?»

Lieve bussare alla porta. «Sei qui, Finn? Che cosa voleva la polizia?»

Barbara guardò Lynley, che alzò una mano. Restarono dov’erano, in

silenzio. La ragazza dopo un po’ scese in cucina, li vide e rimase basita.

Indossava una camicia da notte di cotone e si chiuse pudicamente il colletto

con le dita. Era Dena Donaldson. Si voltò per tornare di sopra.

«Possiamo parlarle un attimo, Dena?» disse Lynley.

«Perché?»

«Curiosità.»

«Di cosa volete parlare?»


«Di Rabiah Lomax.»

Ding rimase immobile e li guardò, prima uno e poi l’altra. «Non ho fatto

niente di male. Non vedo perché dovrei parlare con voi» disse.

«Non è obbligata. Glielo stiamo chiedendo per piacere. Può rifiutarsi, se

crede.»

«Ma, se si rifiutasse, ci chiederemmo il perché.»

«La nostre indagini ci portano a questa casa» spiegò Lynley. «Se lei

riuscisse a chiarire alcuni punti, le saremmo molto grati.»

Sia pur con un’aria decisamente poco convinta, Dena scese di nuovo le

scale. Non era alta, notò Lynley, ma era ben proporzionata e aveva un bel

viso, sebbene in quel momento sembrasse piuttosto tesa.

Si avvicinò. «E va bene. Quali sono i punti da chiarire?» disse.

«Grazie» rispose Lynley. «Che rapporti ha con Rabiah Lomax?»

«Perché?»

«Perché è marginalmente coinvolta nei fatti su cui stiamo indagando.»

«Io però non c’entro niente.»

«D’accordo.»

Ding non replicò. «Quindi, se non le dispiace...» disse Barbara.

«Sono amica di Missa, la nipote. La signora Lomax è venuta qui ieri

perché mi doveva trasmettere un messaggio di Missa.»

«Strano che Missa abbia usato la nonna, anziché il cellulare» commentò

Barbara.

«Missa aveva una mia collana. Si era dimenticata di restituirmela e la

signora Lomax me l’ha portata.»

«Le ha portato la collana o le ha trasmesso un messaggio?» chiese Lynley.

«In che senso? Tutti e due.»

«In che cosa consisteva il messaggio?» domandò Barbara.

Dena inclinò la testa e la squadrò. «Non sono tenuta a dirvelo. È una cosa

personale e penso che non abbia a che fare con le vostre indagini. Missa

aveva un ragazzo, si erano lasciati e adesso stanno di nuovo insieme. Più di

questo non dico.»

«E lei, Dena?» chiese Barbara. «Anche lei ha un fidanzato?»

«No, in questo momento no.»

«Non sta con Gary Ruddock?»

«Chi?»

«L’agente ausiliario. L’ho vista con lui una sera alla stazione di polizia.


Dentro una macchina, per essere precisi. Come mai eravate assieme?»

Dena guardò Lynley e poi si rivolse di nuovo a Barbara. «Non lo conosco

nemmeno. So solo che viene allo Hart and Hind ogni volta che qualcuno si

lamenta per il baccano, perché qui a Ludlow la gente va a dormire alle sette e

mezzo e protesta al minimo rumore. Non sono mai salita sull’auto di

pattuglia. Allora okay: ho risposto alle vostre domande e adesso, se non vi

dispiace, tornerei in camera. Ho una...»

«Lezione, giusto?» disse Barbara. «In questa casa siete tutti secchioni, a

quanto pare.»

La ragazza salì di sopra e chiuse la porta. Un momento dopo si sentì

scrosciare l’acqua nella vasca da bagno.

«Giuro su Dio che era lei la ragazza con Ruddock» disse Barbara a Lynley.

«Non è possibile averne la certezza, sergente. Era buio e la macchina era in

fondo al parcheggio» rispose Lynely.

«Sì, però...»

Lynley la guardò e non capì perché gongolasse. «Però cosa?» chiese.

«Io non ho detto auto di pattuglia. Lei sì, invece.»

Lynley si voltò verso le scale e annuì pensieroso. «Abbiamo bisogno di

conferme» disse.

«D’accordo. Conosco uno che probabilmente è in grado di darcele.

Dobbiamo soltanto trovarlo.»

Worcester

Herefordshire

Trevor Freeman non aveva la più pallida idea di chi potesse telefonargli a

quell’ora inconsulta del mattino. Non erano nemmeno le sei e mezzo. Poi

lesse il nome sul display e gli venne la pelle d’oca. Scostò le coperte e

premette il tasto. «Finn? Tutto bene?» La risposta fu un misto di singhiozzi e

grida.

Trevor non capì nulla. «Calmati, Finn. Non capisco cosa dici. Che cosa è

successo? Hai avuto un incidente? Respira, Finn, perdio! Sei seduto? No?

Siediti da qualche parte e calmati. Sono qui. Riprenditi.»

Aspettò un momento. Sentì che Finn tirava su con il naso, cambiava posto,

ansimava come un corridore e poi cominciava a raccontare. Non seguì un filo


logico, ma Trevor capì comunque il succo del discorso: i due ispettori di New

Scotland Yard che erano venuti a Worcester a parlare con Clover erano andati

a cercarlo a casa, erano saliti in camera sua con delle padelle o delle pentole,

non si capiva perché, e l’avevano interrogato, torchiato, gli avevano fatto il

terzo grado o come si dice. Non era facile sentirsi dire una cosa del genere da

un figlio. Al termine di quel discorso sconclusionato, Trevor aveva un groppo

in gola. Si sforzò di mantenere il sangue freddo e di rassicurare Finn

dicendogli che avrebbe preso in mano lui la situazione.

«Ha mentito, papà. Non è vero niente!»

Trevor non sapeva se Finn stesse parlando di Gaz Ruddock o di Ian Druitt.

«Ci penso io, Finn. Tu non fare niente. Mi hai capito?»

«La storia dei bambini... Io ho fatto solo quello che dovevo, papà, te lo

giuro. Non mi verrebbe manco in mente... Perché quello è andato a dire che

io... E così adesso sono convinti... Credono che sia andato alla stazione di

polizia, ma non è vero. Io non ho fatto niente!»

«Ci penso io, Finn. Ti fidi di me?»

«Che cosa? Che cosa?»

«Tu stai lì e non ti muovere. Mi faccio sentire io.»

«Gli spaccherei la faccia a quel...»

«Lo so, ti capisco. Al tuo posto sarei arrabbiato quanto te. Ma non reagire.

Dammi retta.»

Chiuse la telefonata sconvolto. Sentì la radio accesa al piano di sotto, in

cucina. Clover era ancora a casa e stava ascoltando il notiziario. Certo che era

ancora a casa. Erano le sei e venticinque, Clover usciva dopo. Si diresse

verso la porta della camera, si accorse di essere nudo e cercò i boxer per terra.

Mentre si chinava a raccoglierli, la radio si spense, si udirono dei passi e il

rumore del portone che si apriva e si richiudeva. Clover era uscita.

Trevor si precipitò alla finestra, ma Clover era di schiena e gli venne in

mente di battere sul vetro soltanto quando ormai stava salendo in macchina.

Si infilò i boxer e corse di sotto, ma Clover partì prima che lui riuscisse ad

aprire la porta di casa, perché era maniaca della sicurezza, quando usciva

dava sempre due giri e la chiave non era appesa al solito gancetto.

Clover l’aveva nascosta! Aveva previsto tutto! Aveva intuito cosa stava

per succedere e non voleva essere presente, quando i nodi delle sue azioni

fossero venuti al pettine.

Trevor frugò nell’unico cassetto dello scrittoio nell’ingresso, dove


mettevano la posta in attesa di smistarla, ma la chiave non c’era. Provò in

cucina, spostando gli oggetti sui piani di lavoro e sul tavolo. La chiave era lì,

nel cestino in cui tenevano i tovaglioli di carta. Non ce l’aveva messa lui, ne

era certo. E quindi doveva avercela messa lei. La prese, andò ad aprire la

porta e corse in strada, dove aveva lasciato la sua macchina.

Quando provò a mettere in moto, si rese conto che gli tremavano le mani.

E anche le ginocchia, e le braccia... Era scosso da un tremito convulso, come

un bambino solo nel buio in preda a rabbia, paura, terrore, angoscia,

disperazione... Si tremava anche per la disperazione?

Partì all’inseguimento della moglie, che era una creatura abitudinaria e

percorreva sempre lo stesso itinerario. Ma tutti fanno sempre la stessa strada

per andare a lavorare, no? Non è una gita di piacere, si sceglie il percorso più

breve e più agevole. Nel caso di Clover, la A38.

Trevor raggiunse la statale, accese le luci di emergenza e suonò il clacson.

Quando la strada divenne a quattro corsie, si piazzò su quella di sorpasso e

premette al massimo l’acceleratore. Avvistò l’auto di Clover dopo meno di

dieci chilometri, perché lei stava guidando con prudenza, al contrario di lui.

Clover accostò alla prima occasione. Non era nemmeno una vera e propria

piazzuola, ma un minuscolo spiazzo sul ciglio della strada, fra i pioppi.

Scesero dalle rispettive automobili, lui con il cellulare in mano, che agitò

nella sua direzione. Clover fece una faccia stupita. E stupita era poco, visto

che Trevor era in mutande e scalzo. L’aria fresca del mattino lo fece

rabbrividire.

«Ho il cellulare nella borsa, Trev. Non è il tuo, quello? Avresti dovuto

provare a telefonarmi e te ne saresti accorto» gli disse.

«È andato tutto in malora» protestò lui. «Non so che cos’abbiate tramato,

voi due, ma sappi che è andato in malora.»

Clover sbiancò, sentendolo usare quel tono. «Cosa ti prende? Mi fai

paura.»

«Nostro figlio. Mi ha appena telefonato. Non l’avevo mai sentito in quello

stato.»

«Ha...? È...?»

«Gli ispettori di Londra si sono presentati in camera sua come gli Spiriti

del Natale passato, presente e futuro, lo hanno svegliato e lo hanno trascinato

in cucina per torchiarlo.»

«Oddio.» Clover guardò il cellulare che Trevor aveva ancora in mano, poi


spostò lo sguardo verso il traffico che scorreva vicinissimo a loro e arretrò fra

le due macchine. «Che cosa ha detto? Dov’è adesso? Non lo hanno arrestato,

vero?»

«Quando ho capito cosa cercava di dirmi fra i singhiozzi, mi...»

«È a casa, vero? Non l’hanno arrestato, vero?»

«La polizia lo ha interrogato riguardo a presunte scorrettezze nei confronti

di alunni di sei o sette anni, o quanti anni hanno i bambini di quel cazzo di

doposcuola in cui gli hai imposto di fare volontariato. I tuoi ispettori di

Londra...»

«Non sono miei.»

«... sono convinti che le perplessità di Druitt nei confronti di Finn avessero

a che fare con atti di pedofilia. Tu lo sapevi, Clover? Dimmelo, per favore.»

«Che cosa sapevo? Che New Scotland Yard sarebbe...»

«Non parlo di New Scotland Yard. Voglio sapere se tu eri al corrente del

fatto che le telefonate di Druitt a Gaz avevano come argomento principale la

condotta di Finn con quei bambini. Di questo parlavate tu e Gaz di nascosto

da me?»

«Ho cercato di spiegartelo, Trevor. Il problema è New Scotland Yard. So

come pensano, quelli, e so come lavorano: la prima volta che sono venuti a

Ludlow, ho raccomandato a Finnegan di non parlare con loro se non in

presenza di testimoni, ma lui non mi ha voluto dare retta ed ecco che cosa è

successo. I miei timori si sono avverati.»

«Ovvero? Avevi paura che la Metropolitan Police stabilisse che nostro

figlio è un pedofilo?»

«Ma, no, figurati! Avevo paura della Metropolitan Police, punto e basta.

Non volevo che Finn parlasse con loro a tu per tu, ma lui ha sottovalutato la

situazione, si è illuso di essere all’altezza, era convinto che si limitassero a

Ian Druitt e ai bambini del doposcuola. Perché il fulcro delle indagini era

questo, insieme con l’inchiesta della commissione per i reclami contro la

polizia. Ero convinta che fosse finita lì, invece sono tornati e adesso...»

«Finn pensa che siate stati tu e Gaz a mandare i due ispettori a parlare con

lui. Perché si è fatto questa idea, secondo te?»

«Non dire stupidaggini. Guarda, tremi tutto. Perché non saliamo in

macchina?»

«Stavolta non ci casco, ti avverto.»

«Cosa vuoi dire?»


«Se intendi mettermi a tacere come tuo solito, sappi che stavolta non mi

lascerò fregare.»

Clover alzò le braccia al cielo, come se chiedesse aiuto agli dei o volesse

strapparsi i capelli. «Perché avrei dovuto mandare quei due ispettori da nostro

figlio, Trevor? Faccio di tutto per proteggerlo da quando è nato: mi spieghi

perché di colpo avrei dovuto cambiare atteggiamento?» chiese.

«Perché è un ottimo specchietto per le allodole» rispose Trevor. «Se hai la

certezza che non ci sono prove contro di lui, hai la certezza che alla fine non

gli succederà nulla e quindi, anche se nel frattempo passa qualche grana...»

Clover fece un lungo respiro. O sta cercando di calmarsi, oppure sta

recitando la parte di quella che cerca di calmarsi, pensò Trevor. «Dimmi

chiaramente che cosa stai cercando di insinuare, per cortesia» gli disse.

«Ci sono cose che non vuoi si sappiano in giro, che non vuoi dire

nemmeno a me. Questo sarebbe il modo migliore per raggiungere il tuo

scopo.»

«A cosa ti riferisci?»

«Dimmelo tu, Clover. Io sono stufo di fare la figura del fesso.»

«È questo che pensi?»

«Sì, è questo che penso.»

Clover fece un passo verso di lui e gli parlò faccia a faccia. «Stammi bene

a sentire» sibilò. «Non volevo che si iscrivesse al West Mercia College, ma

l’ho lasciato andare lo stesso. Non volevo che andasse a stare per conto suo,

ma alla fine mi sono arresa. Sì, ho dei dubbi sulla sua capacità di cavarsela da

solo, ma mi sono adeguata perché lui ci teneva e tu anche. E adesso guarda in

che guaio siamo finiti. Dio solo sa che cosa ha detto a quei due ispettori. Dio

solo sa che cosa si sono messi in testa loro. Per una volta, Trevor, lo vuoi

capire che qui non c’entra niente il rapporto che ho con mio figlio o con

chiunque altro? Se vuoi darmi addosso, accusarmi di interferire troppo nella

vita di Finnegan, considera anche il ruolo che hai avuto tu nei rapporti fra me

e lui. Perché tu hai sempre avuto da dire la tua, persino sul modo in cui gli

cambiavo il pannolino. Non siamo mai stati solidali, come genitori: pensaci.

Se siamo arrivati a questo punto, è anche per questo. Adesso io devo andare

al lavoro. Voglio capire che cosa si può fare per rimediare, perché su una

cosa io e te siamo d’accordo.»

«E cioè?» chiese Trevor.

«Che non c’è lo straccio di una prova che Finnegan abbia commesso un


reato. E la prima cosa da evidenziare è questa. Quanto al resto...» Indicò sé e

il marito. «Ci penseremo a tempo debito.»

Si voltò e tornò alla macchina. Aveva lasciato il motore acceso, per cui non

dovette fare altro che immettersi nel traffico e lasciarlo lì nell’incertezza su

chi avesse avuto la meglio nella discussione.

Ludlow

Shropshire

Barbara Havers si aspettava di dover girare a lungo per la città prima di

trovare Harry Rochester e rimase sorpresa nel vederlo attraversare il Ludford

Bridge mentre lei e Lynley andavano verso Broad Street, la salita che portava

al centro storico. Lo indicò a Lynley, che accostò al marciapiede. «Ci pensi

lei, sergente. Non credo sia il caso di andare in due» le disse.

Barbara scese dall’auto e chiamò Rochester, che la salutò agitando in aria

il flauto. «Stamattina ha fatto una levataccia, eh?» esclamò.

«Anche lei, vedo» rispose Barbara. «Posso parlarle un attimo?»

«Certo.»

Si fermarono all’inizio del ponte, sul lato di Ludlow. Barbara salutò Sweet

Pea che, come sempre, stava ubbidiente vicino al padrone e scodinzolò nel

vederla, ma non le venne incontro.

«Già al lavoro?» chiese Harry a Barbara.

«Di solito a quest’ora sono ancora abbracciata al cuscino, ma oggi c’era

una cosa che andava fatta all’alba. Da dove arriva? Sta facendo una

passeggiata mattutina con Sweet Pea?»

«Sì e no» rispose Harry. «Abbiamo passato la notte vicino al fiume.»

«L’hanno mandata via dal centro?»

«No, no. Nella bella stagione Sweet Pea e io amiamo stare in mezzo alla

natura. C’è un prato lungo la Breadwalk da cui si gode una vista incantevole

sul castello. Ha il vantaggio di essere abbastanza lontano dal sentiero, così

posso lasciarci i miei miseri averi e girare con le mani libere. Alla sera vado a

riprenderli e magari mi cerco un posto più vicino al fiume. Su questa sponda,

perché l’altra è troppo ripida.» Fece un gesto vago in direzione del Charlton

Arms. «Conosce la Breadwalk?» chiese poi, evidentemente in vena di

chiacchiere. «La gente di Ludlow ci va a correre, a camminare, in bici oppure


a passeggio con il cane. È un buon modo per arrivare dal fondo di Dinham

Street a qui.»

«Una scorciatoia?»

«Sì. Ha una storia interessante, che a me piace molto. Si chiama Breadwalk

perché un tempo ci passavano gli operai, che venivano retribuiti non in

denaro, ma in pane, in modo che non potessero spendersi la paga in birra

affamando le famiglie. Un’idea niente male, se pensa a quanto beve la

gente.»

«Un po’ scomodo, però, se uno ha intenzione di mettere da parte qualcosa

per la vecchiaia, eh?»

«Sì, è vero, ma non credo che a quei tempi fossero in molti ad arrivare alla

vecchiaia. Viene con noi, sergente? Sweet Pea e io eravamo diretti verso

Castle Square.»

«Con qualcosa da vendere?»

«Oggi no, purtroppo. Andiamo al mercato a curiosare fra i banchi di

alimentari perché abbiamo un certo languorino. Ci sarà anche il furgone delle

salsicce, che a Sweet Pea interessa particolarmente. Cominciano a vendere

più tardi, ma dobbiamo fare anche una puntatina allo Spar per ritirare alcuni

articoli da toeletta che mi hanno preparato alla cassa. Non mi dispiacerebbe

trovare anche una copia del Guardian, benché si tratti comunque di notizie

del giorno prima e sempre brutte, tanto che a volte uno si chiede a cosa serva

leggere il giornale. Ma oggi sento il bisogno di informarmi.»

«Ha qualche presentimento?»

«Spero di no, perché quando mi succede di solito è per disastri tipo

terremoti, tsunami, uragani, alluvioni, tornado, o cose del genere. C’è anche

l’ispettore?»

«È in macchina» rispose Barbara indicando la direzione da cui era venuta.

«Vuole un passaggio fino alla piazza?»

«No, grazie, non sopporto di stare chiuso dentro una macchina. Riesco a

malapena a resistere trenta secondi dentro lo Spar per pagare i miei acquisti.

Posso esserle utile in qualche modo, Barbara? Glielo chiedo perché mi ha

fatto molto piacere incontrarla così di prima mattina, ma conoscendo il suo

mestiere non posso fare a meno di pensare che ci sia anche un secondo fine.»

«In effetti ha ragione, Harry. Volevo parlarle dell’agente ausiliario.» Harry

le aveva raccontato di aver visto più volte Gary Ruddock caricare in

macchina ragazzi ubriachi per accompagnarli a casa, alla stazione di polizia o


chissà dove. Ricordava di averglielo riferito?

Harry rispose che sì, gliene aveva parlato.

Barbara allora gli chiese se pensava di poter riconoscere qualcuno di quei

ragazzi e Harry rispose che non ne era sicuro. Li aveva visti con l’agente

Ruddock la sera tardi, o se non tardi comunque quando era già buio. Non

poteva vederli bene in faccia, a meno che non fossero proprio sotto un

lampione. No, non sarebbe stato in grado di identificarne nessuno. Oltretutto

Ludlow era piena di ragazzi, in particolare nella zona di Castle Square e del

West Mercia College. Per lui era difficile vedere una faccia giovane a

distanza di tempo e affermare con certezza che era la stessa persona che

aveva visto in precedenza in compagnia di Gary Ruddock. Non so se mi

spiego, sergente.

Barbara gli assicurò che si era spiegato benissimo, ma domandò

ugualmente: «Sarebbe disposto almeno a provarci?»

«Certo. Vuole che le telefoni appena vedo una faccia conosciuta?»

Barbara replicò che aveva in mente una cosa un po’ diversa. Visto che il

tempo prometteva bene – anche se, essendo in Inghilterra, non c’era da

fidarsi – aveva pensato di dargli appuntamento quella sera, insieme con

l’ispettore, nel dehors dello Hart and Hind. Aveva voglia di andare?

Harry rispose di sì, ma la avvertì che sarebbe rimasto all’esterno anche in

caso di pioggia. E voleva portare anche Sweet Pea.

Barbara accettò le condizioni, si misero d’accordo sull’ora e si salutarono.

Poi Barbara tornò da Lynley, che nel frattempo era sceso dall’auto e stava

osservando il fiume e una femmina di germano reale che nuotava tranquilla

con i suoi anatroccoli.

«Da dove veniva Harry così di buon mattino?»

«Ha detto che gli piace cambiare scenario, tempo permettendo.»

Lynley annuì. «Buono a sapersi. Più va in giro, più occasioni ha di agire,

interagire e assistere alle azioni di altri» disse dopo un po’, pensieroso.

«È quello che ho pensato anch’io» replicò Barbara, dopodiché gli spiegò

che aveva invitato Harry Rochester allo Hart and Hind quella sera nella

speranza che riconoscesse Dena Donaldson. Stava per dire ancora qualcosa

quando le suonò il cellulare. Dovette frugare un po’, ma riuscì a pescarlo in

fondo alla borsa prima che scattasse la segreteria.

Era Flora Bevans, mattiniera anche lei, evidentemente, che voleva fornirle

un’informazione. Ci aveva riflettuto un po’, prima di decidere che valeva la


pena di parlarne. «Forse non servirà a niente, ma mi è venuta in mente una

cosa a proposito di Ian» spiegò.

Barbara mostrò a Lynley il pollice alzato. «Qualsiasi informazione ci può

essere utile» replicò. Poi aspettò di sentire di che cosa si trattava.

«Più che altro riguarda mia sorella, veramente» cominciò Flora Bevans.

«Dato che siete a Ludlow... Siete qui, vero?»

«Davanti al Ludlow Bridge ad ammirare gli uccelli acquatici.»

«Oh, sì, è un gran bel posto. Una delle mie passeggiate preferite.»

«E sua sorella...?»

Flora capì che Barbara non si stava informando sulle scelte

escursionistiche di sua sorella. «Qualche mese fa, Greta mi ha telefonato per

chiedermi se Ian sarebbe stato disposto a parlare con uno studente del

college. Non mi ricordo più se si trattasse di un ragazzo o una ragazza, ma

forse Greta non lo ha specificato. Voleva sentire Ian per spiegargli meglio la

situazione. Sembrava una cosa piuttosto urgente» rispose.

«Sua sorella ha a che fare con il college?» domandò Barbara.

«Oh, mi scusi, ho dimenticato di specificarlo. È la psicologa del West

Mercia College.»

«E come mai non poteva gestire direttamente lei la cosa? Esulava dalle sue

competenze?»

«Non avrà avuto il tempo di occuparsene, immagino. C’è solo lei a fare

assistenza psicologica per tutto il college... Non so quanti siano esattamente

gli studenti, ma siamo nell’ordine delle centinaia. Magari si trattava di una

crisi spirituale, e quindi Ian era più indicato. Greta non mette piede in chiesa

dai tempi dell’adolescenza! Comunque sia, ho pensato di dovervelo dire,

visto che riguarda Ian. Le do il numero di mia sorella? Sono sicura che, se sa

qualcosa, ve lo dirà volentieri.»

Barbara rispose che sì, grazie, si sarebbe appuntata il numero di Greta, e se

le fosse venuto in mente qualcos’altro la poteva chiamare pure a qualsiasi ora

del giorno e della notte.

«Spero di non avervi disturbato inutilmente» disse Flora Bevans.

«Al contrario» le assicurò Barbara. Chiuse la chiamata e riferì a Lynley, il

quale convenne con lei che valeva la pena approfondire.

«Dopo colazione?» suggerì.

Barbara si rallegrò. «Lei mi conosce: quando c’è da mangiare, non dico

mai di no.»


St. Julian’s Well

Ludlow

Shropshire

Quando si era offerta di presiedere il comitato per la manutenzione e le

riparazioni di Volare, Cantare, Rabiah Lomax non immaginava fosse un

compito così impegnativo: il bello degli alianti è che, rispetto ai velivoli a

motore, c’è molto meno da mantenere e riparare. Quanto tempo poteva

volerci? Tuttavia, poco dopo che si era assunta quella responsabilità, uno dei

soci aveva dimenticato di abbassare il carrello prima dell’atterraggio e si era

aperta una discussione interminabile su chi dovesse pagare i danni. Una

fazione sosteneva che toccasse al pilota, l’altra lo riteneva ingiusto: la quota

associativa che scuciamo coprirà ben qualcosa al di là del piccolo rinfresco

che accompagna le riunioni mensili a Church Stretton, no? E l’assicurazione

a cosa serve, altrimenti? Una terza fazione proponeva di approfittare

dell’occasione per comprare un aliante nuovo. Ogni anno uscivano nuovi

modelli più accessoriati e più sicuri e il loro ormai era un pezzo da museo.

Tanto valeva cogliere l’occasione, a vantaggio di tutti. Così al comitato per la

manutenzione e le riparazioni era stato affidato il compito di pervenire a una

proposta da sottoporre all’assemblea dei soci, che aveva il compito di votarla.

Alla riunione di quella mattina era presente un rappresentante di ciascuna

delle tre fazioni. Rabiah si rallegrò di aver suggerito di cominciare

relativamente presto perché Dennis Crook e Ngaio Marsh Stewart (la cui

madre doveva avere una vera passione per Roderick Alleyn, il detective

protagonista dei gialli di Ngaio Marsh) sembravano più propensi a fare a

cazzotti in mezzo a una strada piuttosto che scendere a un compromesso.

Ngaio aveva appena detto «Amico mio, devi capire che...» – di solito

l’antifona di una tirata polemica – quando suonarono alla porta. Rabiah si

alzò per andare ad aprire rallegrandosi di avere una scusa per prendere le

distanze dalla crescente tensione, ma quando vide chi erano i suoi visitatori si

rallegrò altrettanto di avere una scusa per non farli entrare in casa.

«Mi dispiace, ma in questo momento non posso» disse. L’ispettore si

chiamava Lynley, ricordò, e la donna era il sergente Havers. «Sono in

riunione con il comitato, e sono la presidente.»


«Nessun problema. Possiamo aspettare» replicò Lynley.

«Possiamo anche assistere» propose Barbara.

«Purtroppo non ci sono abbastanza sedie. E vi assicuro che l’argomento

non è molto avvincente. Stiamo discutendo se riparare un aliante o

acquistarne uno nuovo.»

«Interessante» ribatté il sergente Havers. «Non trova, ispettore?»

«Sì, molto» dichiarò Lynley. «Ma se non ci sono abbastanza sedie...»

«Vi telefono appena abbiamo finito.»

«... possiamo benissimo aspettare in cucina. O in giardino. Oppure

possiamo parlare qui, senza bisogno di entrare.»

«Abbiamo sentito Greta Yates del West Mercia College, signora Lomax»

annunciò il sergente Havers in tono molto meno cordiale di quello che aveva

usato per i convenevoli. «E abbiamo scoperto che aveva messo in contatto

Ian Druitt – ricorda chi è, vero? Il diacono – con una ragazza che di nome fa

Melissa e di cognome Lomax. A me e all’ispettore qui presente sono venute

in mente due spiegazioni soltanto: o si tratta di una coincidenza e due Lomax

diverse sono andate a parlare con la stessa persona, che poco tempo dopo è

morta mentre si trovava in stato di fermo alla stazione di polizia di Ludlow,

oppure una Lomax è andata a parlargli mentre l’altra ha mentito alla polizia

che sta cercando di scoprire cosa diavolo sia successo a quel poveraccio.»

Intervenne Lynley. «Vuole illuminarci in proposito, signora Lomax? La

signora Yates è stata così gentile da darci i recapiti di Melissa Lomax...»

«Quindi adesso possiamo contattarla» aggiunse in tono cortese il sergente.

«Prima, però, abbiamo pensato che lei potesse far luce sull’intera vicenda.»

«Non è obbligata a farlo, naturalmente» continuò Barbara Havers. «Certo

che la situazione si sta facendo sempre più curiosa, perché sua nipote Melissa

è amica di Dena Donaldson e chissà cos’altro bolle in pentola. Tra l’altro il

numero di Melissa risulta due volte nel registro delle chiamate effettuate dal

diacono. Ho provato a comporlo anch’io, ma ho trovato la segreteria e non

sono stata richiamata.»

Fin dal momento in cui aveva sentito nominare Greta Yates, Rabiah aveva

cominciato a sudare. Era decisa a non lasciarsi intimidire, ma doveva

prendere tempo e provò di nuovo a usare come scusa la riunione del

comitato. Stavano discutendo una questione delicata, la cosa sarebbe

sicuramente andata per le lunghe e non voleva farli aspettare troppo. «Vi

chiamerò appena...»


«Le ripeto, per noi aspettare non è un problema. E magari nel frattempo

può chiamare anche il suo avvocato.»

«Dal momento che mentire alla polizia non è mai una buona idea» chiosò

Barbara Havers.

Rabiah era con le spalle al muro. «Se volete aspettare in cucina...» disse.

«Vi sarei grata se non diceste a nessuno che siete della polizia.»

«Per me non c’è problema» dichiarò Barbara. «Per lei, ispettore? Potrebbe

spacciarsi per l’operaio venuto a riparare il tetto, che ne dice? O è meglio dire

che è l’idraulico, visto che andiamo in cucina?»

«Peccato che non mi sia portato la chiave inglese.»

Rabiah li fece entrare in fretta e tornò alla riunione dove, in sua assenza,

era stato deciso di sottoporre la questione all’assemblea dei soci. Il comitato

non era riuscito ad accordarsi su una proposta, le tre fazioni non erano state

capaci di giungere a un compromesso.

Prima di accompagnare alla porta l’ultimo dei membri, Rabiah aveva già

deciso che cosa dire ai due ispettori. Li raggiunse in cucina e rimase sorpresa

notando che l’uomo si alzava in piedi vedendola entrare, cosa che non le

capitava da anni. Rabiah partì subito con le spiegazioni, senza lasciare loro il

tempo di farle domande.

«La prima volta che siete venuti da me, ho cercato di proteggere mia

nipote. Ultimamente nella nostra famiglia ne sono successe di tutti i colori.

Un anno fa a Missa è morta una sorella dopo una lunga malattia. Missa

voleva abbandonare gli studi e tornare a casa per stare vicino all’altra sorella,

Sati, che sarebbe stata felicissima, ma tutti erano contrari. Ha annunciato la

sua decisione durante le vacanze di Natale e i suoi sono riusciti a convincerla

a tornare al West Mercia College. Era chiaro che non era contenta, ma

nessuno sapeva che si fosse addirittura rivolta a una guida spirituale. Io lo

ignoravo, quando siete venuti qui la prima volta. Però volevo parlare con lei,

prima che voi la interrogaste. Sono sicura che, nei miei panni, anche voi

avreste fatto la stessa cosa.»

«Forse sua nipote si è rivolta al diacono per altri motivi» suggerì Lynley.

«Missa non dice bugie» ribatté Rabiah. «È stata dura per tutti, dopo la

morte di Janna, e anche durante la malattia. Aveva tutte le ragioni per

chiedere sostegno psicologico.»

«È stata Greta Yates, però, a mandarla da Ian Druitt. Missa non si è rivolta

al diacono di sua spontanea volontà» le fece notare il sergente Havers.


«A prescindere da come si sono conosciuti, cosa c’entra mia nipote con la

morte di Ian Druitt?»

«Non lo sappiamo» disse Lynley.

«Ma stiamo cercando di scoprirlo» aggiunse Barbara Havers. «Perché,

vede, a quanto pare in questa storia tutti conoscono tutti. Noi siamo venuti da

lei per Ian Druitt, ma poi l’abbiamo vista parlare con Dena Donaldson, la

quale abita nella stessa casa di Finnegan Freeman, il quale faceva da

assistente nel doposcuola diretto da Ian Druitt, il quale vedeva regolarmente

sua nipote, la quale è molto amica di Dena Donaldson.»

«Sono tutti collegati» commentò Lynley.

«Posso spiegarvi facilmente la parte che mi riguarda» ribatté Rabiah,

sempre più sudata. «C’è stato un malinteso che volevo chiarire con Dena.

Pensavo fosse stata lei a incontrarsi con Ian Druitt usando il nostro nome.»

«Come mai lo pensava?» domandò il sergente.

«Perché lei e Missa sono amiche.»

Lynley la fissava senza farsi scrupoli. Rabiah notò che aveva gli occhi

marroni e lo trovò strano, visto che era biondo. Seguì un breve silenzio carico

di tensione durante il quale passò una macchina dai cui finestrini aperti

arrivava una fastidiosa musica rap. «Possiamo tornare brevemente

all’eventualità che sua nipote incontrasse il diacono per ragioni diverse da

quelle che ha riferito a lei?» disse dopo un po’ Lynley.

Santo Dio, pensò Rabiah, quanto era formale. Si mise immediatamente

sulla difensiva e dichiarò: «In famiglia non siamo religiosi, se è a questo che

allude. Non credo che Missa andasse da lui per discutere di Gesù Cristo, della

Trinità, della vita eterna o di questioni di fede».

«Abbiamo trovato dei preservativi nell’auto di Druitt. Una confezione già

cominciata.»

«State insinuando che Missa avesse rapporti sessuali con quell’uomo? No.

Impensabile. Missa ha un ragazzo a Ironbridge, con cui sta da molto tempo. E

vuole arrivare vergine al matrimonio. Vi sembrerà strano, ma è così: mia

nipote è una ragazza all’antica.»

«Ce ne sono» commentò Barbara Havers. «Tante sostengono di voler

rimanere pure e illibate... Finché non cambiano idea, non so se mi spiego.»

«Sta dicendo che ha trovato il diacono così affascinante da decidere di

andarci a letto? Non credo proprio.»

«Andremo a parlarle personalmente. È indispensabile» disse Lynley.


Certo, Rabiah se ne rendeva conto, ma non voleva che Missa venisse

interrogata dalla polizia, con tutti i problemi che già la assillavano.

«Lasciatela in pace, se potete. Non ha niente da dirvi. La morte di quel

poveraccio... Mia nipote non c’entra niente. Come faccio a convincervi?»

Nel momento stesso in cui formulò quella domanda si diede la risposta.

Ludlow

Shropshire

Yasmina Lomax era convinta che alla radice di tutti i problemi di sua figlia

Missa ci fosse la morte della sorella. Dopo aver assistito non solo alla morte

di Janna, ma anche al profondo distacco tra i suoi genitori che ne era seguito,

aveva deciso di cambiare la propria vita. Peccato che, se avesse perseverato

in quella scelta, i suoi problemi si sarebbero ulteriormente aggravati. Per

questo Yasmina quella mattina aveva cercato di parlarle e poi aveva annullato

tutti gli appuntamenti in ambulatorio ed era andata a Ludlow.

Con Missa non era riuscita a cavare un ragno dal buco. Si era alzata presto

– rallegrandosi, per una volta, che Timothy si fosse talmente impasticcato da

non sentire la sveglia – ed era andata in camera della figlia. Aveva aperto la

porta senza fare rumore ed era rimasta un momento a guardarla dormire. Poi

aveva osservato la stanza chiedendosi come avesse fatto fino a quel giorno a

non trovare strano che fosse ancora uguale a quando Missa era bambina:

c’erano i suoi libri di favole preferiti sugli scaffali, le bambole sedute

composte su un baule davanti alla finestra e un orsacchiotto che si chiamava

Eeshy Beeshy, nome ridicolo di cui nessuno ricordava più l’origine. Sul

comò c’era anche il portagioie che, quando sollevavi il coperchio, rivelava

una ballerina di plastica che danzava su uno specchio al ritmo del Tema di

Lara, inno all’amore infelice che ribadiva quanto fosse rischioso cedere alle

proprie passioni.

Yasmina lo aveva aperto, facendo partire la musichetta. «Mamma? Che ore

sono?» aveva chiesto Missa dal letto.

Yasmina aveva richiuso il portagioie, si era voltata e aveva detto: «Volevo

parlarti un momento. Vieni in cucina a prendere il tè, o parliamo qui?»

Missa si era girata sulla schiena e per un attimo era rimasta a fissare il

soffitto. Yasmina aveva temuto che la mandasse a quel paese, ma poco dopo


la ragazza si era messa a sedere e aveva bevuto un sorso d’acqua dal

bicchiere posato sul comodino. «Parliamo qui» aveva detto.

Yasmina aveva preso la sedia della scrivania e l’aveva avvicinata al letto.

«Tua nonna mi ha raccontato che la polizia l’ha interrogata e mi ha anche

detto della vostra chiacchierata.» Le era parso che l’espressione di Missa si

indurisse, ma aveva continuato lo stesso. «Non credo che tu avessi bisogno di

andare a consigliarti con un prete per decidere di ritirarti dal college. Quindi

vorrei che mi dicessi cosa c’è che non va.»

Missa si era voltata verso la finestra quasi desiderasse essere fuori, insieme

con gli uccellini che cinguettavano, ed era rimasta zitta.

Yasmina aveva ripreso. «Non vuoi dirmelo? Non capisco perché. È

successo qualcosa, ne sono sicura. Non sei andata a parlare con quel diacono

per il college e vorrei che...»

«Perché non me lo dici tu quello che pensi sia successo?» l’aveva interrotta

bruscamente Missa. «Per come la vedo io il problema è che tu ti rifiuti di

accettare che sono diversa da te e voglio cose diverse dalla vita. Non riesci a

fartene una ragione.»

Per Yasmina quella risposta era stata come uno schiaffo. «Non è vero.»

«No? Basta guardare quanto insisti su questa cosa. Sei venuta qui a

’parlarmi un momento’» aveva detto Missa, mimando le virgolette intorno

alle ultime parole, «eppure ho già cercato un sacco di volte di spiegarti che io

non voglio la vita che vorresti tu per me.»

«Che cosa vuoi, allora? Cos’è che vuoi?»

«Quante volte te lo devo ripetere? Non te lo ricordi più? Va be’, pazienza.

Te lo dico per l’ultima volta: voglio sposarmi e avere dei figli, vivere

semplicemente accanto all’uomo che amo e ai figli che avremo insieme. Ma

tu non riesci neppure a concepire l’idea di una vita così, e quindi pensi che io

abbia dei problemi. Il mio unico problema, mamma, è trovare il coraggio di

essere me stessa e non la persona che vorresti tu. Ecco perché mi sono rivolta

al signor Druitt!»

«Per trovare il coraggio di parlare a tua madre? Sei andata da lui non una o

due volte, ma ben sette! Per trovare il coraggio di parlare con me?»

«Sì! Guarda come reagisci... Continui a cercare un motivo segreto per la

mia decisione di smettere di studiare nonostante te l’abbia già spiegato mille

volte. Da dicembre. Solo che tu non mi sei stata a sentire.»

«Sì che ti sono stata a sentire.»


«A sentire forse sì, ma non hai voluto capire. L’unica cosa che hai detto è

che era troppo presto, che dovevo tornare a Ludlow, che dovevo finire

almeno il college, anche se non volevo andare all’università. Non te lo

ricordi? E io sono tornata al college perché alla fine, volente o nolente, faccio

sempre quello che vuoi tu. Sono andata a parlare con il diacono sette volte

perché qui non ho nessuno con cui parlare, nessuno che mi stia a sentire e

non cerchi subito di convincermi a diventare quello che non sono.»

«E cioè?»

«Te l’ho già detto! Te l’ho detto e ripetuto, ma non ti basta. Tu non mi

ascolti, perché quando ti metti in testa un’idea non ascolti nessuno.»

«Adesso ti sto ascoltando. Sto cercando di capire. Voglio sapere come ho

fatto a sbagliare al punto che tu ti sei dovuta andare a cercare quel diacono...

A proposito, sei stata tu ad andarlo a cercare?»

«Che differenza fa? No. Non sono stata io. È stato lui che ha cercato me, e

per fortuna, perché mi ha aiutato a capire determinate cose, mi ha aiutato a

capire cosa era giusto fare. Adesso che l’ho fatto, vorrei essere lasciata in

pace. Per favore, lasciami in pace.»

Detto questo, Missa aveva sollevato le coperte fino al collo e le aveva

voltato le spalle. E Yasmina l’aveva lasciata in pace come le aveva chiesto.

Ma la questione non era del tutto risolta e, convinta che ci fosse sotto

qualcos’altro, Yasmina partì da Ironbridge e andò a Ludlow, trovò

parcheggio in Broad Street e da lì, a piedi, arrivò in Castle Square. Passò fra i

banchi del mercato e, sul lato nordovest della piazza, varcò il cancello con la

scritta WEST MERCIA COLLEGE che luccicava al sole di quella bella giornata

primaverile.

Scoprì che la psicologa del college, Greta Yates, era in riunione. Le dissero

che poteva aspettare, ma non le garantirono che la dottoressa l’avrebbe

ricevuta, perché aveva molti appuntamenti. Yasmina decise di tentare

comunque. Si trattava di una faccenda urgente, spiegò.

Greta Yates tornò dalla riunione dopo quaranta minuti. Quando la vide,

Yasmina si ritrovò a osservarla da medico e notò i segni di ciò che prima o

poi l’avrebbe uccisa: pressione alta, obesità e diabete di tipo due. La

psicologa aveva l’affanno, il viso congestionato e la fronte sudata. Quando la

ricevette – dopo un’ulteriore breve attesa – Yasmina aggiunse all’elenco

anche lo stress lavorativo.

Nell’ufficio di Greta Yates regnava un tale disordine da far pensare che dei


ladri lo avessero visitato di recente e avessero rovesciato tutto sulla scrivania

e sul pavimento: raccoglitori, fogli stampati, brochure, pubblicazioni

dell’università, libri eccetera. Greta Yates tirò fuori da un cassetto una scatola

di fazzolettini di carta, ne prese uno, si asciugò il viso e poi si rivolse a

Yasmina. «Che strana coincidenza, signora Lomax. È la seconda volta oggi

che qualcuno viene a parlarmi di Missa.»

In altre circostanze, sentendosi chiamare «signora», Yasmina avrebbe

puntualizzato che era «dottoressa», ma questa volta soprassedette. Il fatto che

qualcun altro fosse già stato dalla psicologa a parlare di sua figlia era molto

più importante. «Chi altro è venuto?» domandò.

«Due funzionari di New Scotland Yard.»

Yasmina cercò di darsi una spiegazione: o Rabiah aveva cambiato idea e li

aveva informati del legame tra Missa e Druitt, oppure i due ispettori erano

andati a parlare di sua figlia con Greta Yates per qualche altro motivo. Si

sforzò di sembrare più confusa che in ansia per quella rivelazione. «Spero che

lei mi possa dire cosa desideravano. Missa non ha fatto niente di male, vero?»

replicò.

Greta Yates fece segno di no con la mano grassoccia. A un dito portava un

anello con una colossale pietra verde. «No, no, figuriamoci. Sono venuti a

parlare con me perché avevo contattato io Ian Druitt, tramite mia sorella.»

Yasmina rimase perplessa per quella risposta sibillina. «Riguardo a

Missa?»

«Riguardo alla possibilità di fissarle un colloquio, sì. Vede» disse

indicando con un gesto le pile di scartoffie sparse un po’ dappertutto, «il tutor

me l’aveva segnalata perché il suo rendimento era molto calato. Aveva

cominciato l’anno molto bene, ma poi... diciamo che si era adagiata. Il tutor

l’aveva convocata e voleva che anch’io le parlassi perché la ragazza aveva

detto di voler abbandonare gli studi e lui aveva avuto l’impressione che fosse

in profonda crisi. Considerata l’età, aveva immaginato che fosse un problema

sentimentale e sperava che con me si confidasse più facilmente.»

«Missa cosa gli aveva detto?»

«Soltanto che voleva smettere di studiare, e questo gli era sembrato strano

perché, come le accennavo, all’inizio dell’anno aveva ottimi voti.»

«E a lei Missa cosa ha detto?»

«Be’, tutto nasce da questo: il tutor pensava che le occorressero più

colloqui di sostegno, e aveva ragione perché un incontro soltanto non basta


per aiutare uno studente in difficoltà. Purtroppo però io riesco a malapena a

tenermi a galla in questo mare di scartoffie inutili. Resti tra noi che ne parlo

in questi termini, mi raccomando.» Indicò di nuovo le pratiche e i documenti

da cui era assediata e, proprio quando Yasmina stava per dire qualcosa,

riprese: «Tuttavia, sapevo che mia sorella aveva un inquilino prete che era

laureato in scienze sociali e le ho chiesto se fosse disposto a darmi una mano.

Lui mi ha telefonato e io gli ho dato il numero di Missa. La polizia stamattina

mi ha detto che Missa lo ha incontrato diverse volte».

«Ma si è comunque ritirata dal college. Sostiene di aver deciso di non

volersi iscrivere all’università e quindi trova inutile continuare a frequentare.

Ma io non ci credo.»

Greta Yates la guardò in modo abbastanza comprensivo. «Capisco che lei

sia preoccupata. La sua è una reazione comprensibilissima. In anni di lavoro

con i giovani, però, ho imparato che c’è un punto al di là del quale

l’intervento dei genitori diventa più un ostacolo che un aiuto.»

«È morto – sa? – il prete. Penso sia per questo che hanno mandato due

ispettori da Londra.»

«Lo so. Flora, mia sorella, mi ha detto che si è suicidato.»

La psicologa rimase per un po’ in silenzio a fissare con sguardo assente

una bacheca piena di fogli e foglietti. «Non penserà che sua figlia c’entri

qualcosa con la morte del diacono, vero?»

«Non so che cosa pensare. Missa si rifiuta di dare spiegazioni. Più le parlo,

più si chiude in se stessa. È cambiata. Non so perché.» Yasmina sentiva

montare l’ansia: Missa, il college, il diacono, il futuro, il passato, la morte di

Janna, Timothy che si impasticcava... Era arrivata a un punto critico, a un

momento cruciale che andava esplorato, sviscerato, fatto a pezzi, fermato...

Bisognava che qualcuno lo capisse, che qualcuno facesse qualcosa, perché lei

non sapeva più che pesci pigliare. Aveva bisogno di aiuto, di qualcuno che

prendesse in mano la situazione.

«Bisogna fare qualcosa, è chiaro. Dovrebbe venire qui per un colloquio.

Pensa di riuscire a convincerla?» disse Greta Yates, quasi le avesse letto nel

pensiero.

«Se glielo propongo io dirà sicuramente di no.»

«Capisco. Non c’è qualcun altro che potrebbe fare opera di persuasione?»

Yasmina ci pensò su. Una persona ci sarebbe stata, ma a sua volta avrebbe

dovuto essere persuasa ad agire contro i suoi stessi interessi.


La psicologa continuò. «Se riesce a portarmela, le parlerò volentieri.

Dev’esserci un motivo se non vuole più frequentare e penso che potrei

riuscire a scoprire qual è. Nel caso, le offrirò la possibilità di non perdere

l’anno.» Si sporse in avanti e intrecciò le dita in un gesto che pareva sincero.

«Cerchi di capire, signora Lomax: a volte i giovani hanno bisogno di tempo

per maturare e riuscire a vedere più chiaramente la direzione che hanno preso

e dove andranno a finire se proseguono su quella strada. Sbaglio, o per lei

non è stato facile dare a sua figlia il tempo per maturare la sua decisione?»

aggiunse.

«Non sbaglia» ammise Yasmina.

«Allora le è chiaro cosa fare a questo punto, no? Deve semplicemente

trovare una persona che riesca a convincere sua figlia a venire da me. Deleghi

a questa persona. E poi, per quanto questo le possa riuscire difficile, sia

paziente. Risolveremo il problema, vedrà.»

Worcester

Herefordshire

Per la prima volta da chissà quanto tempo Trevor Freeman aveva non solo

bisogno, ma anche voglia di un bell’allenamento intenso. Sapeva che solo

ammazzandosi di fatica sarebbe riuscito a smettere di pensare alla telefonata

che aveva ricevuto da suo figlio, alla conversazione che aveva avuto subito

dopo con la moglie e alle alternative che aveva davanti.

Appena arrivò alla Freeman Athletics, andò direttamente al tapis roulant.

Dal tapis roulant passò ai pesi e dai pesi alla cyclette. Poi ricominciò dal tapis

roulant. Grondava sudore e a un certo punto una delle istruttrici lasciò un

momento da sola una cliente e gli si avvicinò. «Datti una calmata, se non

vuoi che ti venga un infarto» disse. Trevor pensò che un infarto, una corsa in

ambulanza e un ricovero in ospedale non gli sarebbero affatto dispiaciuti.

Poi arrivarono i due poliziotti. Rimase sorpreso, perché non capiva come

avessero fatto a rintracciarlo, a meno che non fossero andati a cercarlo a casa

e, non trovandolo, avessero parlato con i vicini. Perché non gli avevano

semplicemente dato un colpo di telefono? Che bisogno c’era di venirlo a

cercare fino a Worcester?

Trovò da solo la risposta a quelle domande quando li guardò in faccia e


vide come lo studiavano: non si sarebbero accontentati di parlargli per

telefono perché volevano osservare ogni sua espressione, ogni esitazione e

ogni tic.

Gli chiesero di parlare in privato e lui li accompagnò nel proprio ufficio.

Consapevole di puzzare di sudore, chiuse la porta: se volevano interrogarlo,

che si beccassero pure l’odore.

Si rivolse all’uomo. «Mi ha telefonato mio figlio. Azzardatevi a parlargli di

nuovo senza che io sia presente e dovrete risponderne ai vostri superiori. Vi

sembra normale piombare in camera di un ragazzo mentre dorme e

spaventarlo in quel modo?»

«L’abbiamo cercato altre volte senza mai trovarlo in casa» replicò l’uomo.

Lynley, pensò Trevor, ecco come si chiamava: Lynley.

La donna, che era sergente – questo lo ricordava –, intervenne. «Abbiamo

bussato e suonato il campanello. Gli consigli di chiudere la porta a chiave, di

notte. Rischiano di ritrovarsi in casa chissà chi, se continuano a lasciarla

aperta.»

«Ne deduco che la nostra visita lo abbia turbato» disse Lynley.

«Visita? Così la chiamate? Secondo lei, che effetto avrebbe dovuto fargli?»

«Come mai ha telefonato a lei e non alla madre, che lavora in polizia?»

incalzò il sergente. «Strano. Ed è strano anche che non abbia chiamato

l’agente ausiliario, visto che abita in zona.»

«Io non ci trovo nulla di strano.»

«È che ci chiedevamo, io e l’ispettore, in quali rapporti sia l’agente

ausiliario con la famiglia Freeman.»

«Ruddock è un giovane come si deve. Mia moglie lo ha preso sotto la sua

ala, tutto qui. E comunque non vedo che cosa c’entri questo con la vostra

irruzione in camera di mio figlio all’alba.»

«Giovane... Lei lo definirebbe così, ispettore?» chiese Barbara a Lynley.

«Non è più di primo pelo...» convenne Lynley.

«Cosa diavolo c’entra l’età?» sbottò Trevor. Non capiva cosa volessero, né

come avessero fatto a metterlo così presto sulla difensiva. Era lui che voleva

mettere loro sulla difensiva! «Il centro di addestramento per gli agenti

ausiliari è all’interno del complesso della West Mercia Police, dove lavora

mia moglie. Finn e io abbiamo conosciuto Gaz Ruddock tramite lei» disse.

«Sua moglie lo ha portato a casa?» chiese il sergente Havers.

«Mia moglie voleva che Finn lo conoscesse. Pensava che potesse essere un


buon esempio per lui, una sorta di fratello maggiore. Finn è figlio unico,

vedete. Tutto è cominciato da lì.»

«Tutto?»

«Come?»

«Tutto cosa?» domandò Barbara Havers.

«Lo sapete già. Non sprechiamo tempo.»

Intervenne Lynley. «Sia gentile, ci rinfreschi la memoria.»

«Vogliamo essere sicuri di avere chiara la situazione» aggiunse il sergente.

«Come lei indubbiamente sa» spiegò Lynley, «l’agente ausiliario ci ha

detto che lei e sua moglie gli avete chiesto di tenere d’occhio vostro figlio a

Ludlow.»

«È stata un’idea di Clover» replicò Trevor. «Non voleva chiederlo lei a

Gaz, perché temeva che si sentisse costretto a dire di sì. Per via dei loro

rapporti.»

«Di quali rapporti stiamo parlando esattamente?» chiese il sergente.

Trevor si rallegrò di essere ancora accaldato dall’allenamento, perché il

doppio senso implicito in quella domanda lo fece avvampare. «Mi sembra

ovvio: Clover è una sua superiore! Se glielo avesse chiesto lei, Gaz non

avrebbe potuto rifiutare. Così ne ha parlato prima con me e, siccome l’idea

mi è sembrata buona, gliel’ho chiesto io.» Ecco fatto, pensò. L’ho detto.

Bianca o nera che fosse, aveva detto la bugia che gli era stato chiesto di dire.

Preferiva non pensare a che cosa se ne potesse dedurre sulla sua integrità

morale o sul suo rapporto con la moglie.

«Perché?» chiese Lynley.

«Ve l’ho appena detto.»

«L’ispettore non vuole sapere perché è stato lei a chiederlo, ma perché

pensavate che fosse necessario tenere d’occhio vostro figlio. Evidentemente

eravate preoccupati per qualcosa» spiegò il sergente Havers.

«L’abbiamo fatto per prudenza, direi, non per una preoccupazione

specifica. Finn è sempre stato molto vivace e sua madre temeva che,

trovandosi a Ludlow da solo, approfittasse della libertà che si trovava ad

avere per la prima volta in vita sua e si cacciasse in qualche guaio. Così ha

cercato di organizzargli il tempo libero.»

«Alla sua età immagino che si sarà risentito non poco» commentò Lynley.

«Di cosa?»

«L’ispettore intende dire che la maggior parte dei ragazzi dell’età di Finn si


scoccia se la madre gli organizza la vita o li fa pedinare» chiarì nuovamente il

sergente Havers.

«Non è questo che fa Gaz. Gli butta un occhio ogni tanto e basta.»

«Ed è questo che avrebbe dovuto fare anche Ian Druitt?» chiese Lynley.

A Trevor non piaceva il modo in cui se lo palleggiavano, spingendolo da

un argomento all’altro. Provò a riprendere il controllo della situazione. «Le

cose che avete detto a Finn stamattina, riguardo al fatto che Druitt aveva delle

’perplessità’ su di lui o roba del genere... Non so dove l’abbiate presa, ma è

una gran stronzata.»

«Cosa? Il fatto che Druitt avesse delle ’perplessità’ su vostro figlio o il

fatto che le abbia esternate?»

«Entrambi. Comunque, non importa. Finn è un bravo ragazzo. Questo ve lo

diranno tutti.»

«A quanto pare, però, Druitt voleva parlarne con voi» gli fece notare il

sergente. «A noi risulta che abbia cercato di contattarvi.»

«Non ci ha contattato, quindi, ammesso che ci volesse parlare di queste sue

presunte ’perplessità’, evidentemente a quel punto le aveva già risolte. In un

modo o nell’altro si era tranquillizzato.»

Lynley annuì, pensoso. «È proprio quello che stiamo cercando di accertare,

signor Freeman.»

«In che senso, scusi?»

«Nel senso che il signor Druitt è morto prima di riuscire a contattarvi»

rispose Lynley.

«Ed è una di quelle ’stronzate’ che noi poliziotti cerchiamo di capire fino

in fondo» aggiunse il sergente Havers.

Much Wenlock

Shropshire

Cardew Hall era visitabile tutti i giorni solo dal primo giugno in poi, quindi

Ding era sicura che nessuno si aspettasse il suo arrivo. Era esattamente ciò

che voleva. Anzi, avrebbe voluto che nessuno si accorgesse di lei, se

possibile. Razionalmente non le era chiaro il motivo di tutto ciò, ma glielo

diceva il suo corpo, che si trovava in uno stato a metà fra la tensione e il

malessere fisico. E per più di una ragione.


A Cardew Hall e dintorni si sentiva sempre presa in una specie di vortice,

perché era lì e a Much Wenlock che, appena aveva potuto, aveva inaugurato

la sua tendenza a portarsi a letto i ragazzi non appena ne aveva l’occasione.

Per molto tempo si era detta che lo faceva tanto per fare, per poterlo

raccontare alle amiche, per soddisfare le sue voglie. Ma la verità era un’altra.

La verità era che non aveva idea del perché lo faceva, se non per sputare in

faccia al maschio di turno, cosa che le procurava sempre grande

soddisfazione. Ma perché le veniva voglia di sputare in faccia, mordere,

graffiare, prendere a pugni chi scopava con lei? Doveva assolutamente

riuscire a scoprirlo, se non altro perché sentiva di dover mettere fine alla

sperimentazione sessuale cui si era dedicata in quegli anni. Così, non appena

terminarono le due ore di lezione giornaliere che aveva promesso a Greta

Yates, aveva preso un autobus che l’aveva portata nelle vicinanze di Cardew

Hall.

A quell’ora sua madre era sicuramente nella grande cucina a cuocere

pentoloni di marmellata e chutney da vendere ai turisti al termine della visita

guidata, e suo marito sarà stato occupato a controllare che nelle sale aperte al

pubblico non ci fossero lampadine bruciate, polvere ammucchiata negli

angoli o mobili da lucidare. Con un po’ di attenzione, sarebbe riuscita a non

farsi né vedere né sentire e avrebbe avuto tutto lo spazio e il tempo di cui

aveva bisogno per indagare, meditare e rimuginare per conto suo.

Dalla fermata dell’autobus impiegò una ventina di minuti per arrivare a

piedi a Cardew Hall, dove quasi ogni pianta era nel pieno della fioritura, tanto

che il giardino e le aiuole erano disseminati di colori, dal giallo delle primule

che bordeggiavano le distese erbose, al viola degli iris che attenuava l’effetto

cupo della pietra del muro di cinta.

Dal viale di accesso si vedeva il tetto di ardesia di St. James, la chiesa del

paese che un tempo era stata la chiesa del castello, dove i suoi antenati carichi

di soldi guardavano dall’alto in basso i loro scagnozzi avanzando lungo la

navata per raggiungere i posti loro riservati in prima fila. C’era ancora una

panca con il nome di famiglia. Non Donaldson, naturalmente, perché i quarti

di nobiltà venivano dal lato di sua madre, non da quello di suo padre.

Si bloccò su quel pensiero: suo padre. Non per il nome, ma per suo padre

in quanto tale, suo papà. E insieme alla parola «papà» si affacciò alla sua

coscienza anche qualcos’altro. Ding si fermò e, guardando il campanile,

cercò di mettere a fuoco, di recuperare un ricordo. Ma riuscì a ripescare


soltanto un senso di vuoto accompagnato da una specie di tremito sotto pelle,

qualcosa di molto simile alla paura. Sì, era paura.

Si voltò dall’altra parte, ma continuò ad avere la stessa sensazione anche

dopo essersi allontanata dalla chiesa per fare il giro di Cardew Hall e arrivare

sul retro, alla porta della cantina, cui si accedeva scendendo alcuni gradini

antichissimi, consunti dal passaggio di chissà quante persone nel corso dei

secoli.

Entrò e si trovò in un corridoio umido a malapena illuminato da deboli

lampadine che penzolavano dal soffitto. Lo strato di polvere e ragnatele era

così spesso che le travi di legno alle pareti sembravano grigie, mentre

passandoci sopra un dito si sarebbe visto che erano nere, perché erano state

ricavate dal fasciame di antiche navi della flotta inglese.

Il corridoio portava nelle viscere di Cardew Hall, nelle parti del palazzo

che non venivano mai aperte al pubblico: la cucina e il retrocucina, la

dispensa, il ripostiglio, la cantina dove veniva conservato il vino, il deposito

per le verdure e la lavanderia dove nei secoli passati tante povere ragazze si

erano rovinate le mani a furia di fare il bucato.

Ding si fermò nella semioscurità e tese le orecchie: c’era una radio accesa,

quindi sua madre era effettivamente in cucina. Sentì anche profumo di frutta

che cuoceva, e questo era un bene perché la marmellata l’avrebbe tenuta

occupata per un po’.

Poi Ding udì la voce del patrigno. Non se lo aspettava, ma evidentemente

anche lui era in cucina e parlava o con la moglie o al telefono. Le bastò

sentire il suono della sua voce per provare come sempre – ma perché? perché

le faceva quell’effetto? – prima un brivido e subito dopo una rabbia furiosa.

Stephen l’aveva sempre trattata bene, eppure le scatenava invariabilmente

quella reazione e Ding era stufa marcia di non capire cose che invece aveva

assoluto bisogno di capire, se voleva smettere di fare la vita che faceva. E che

era ora di smettere le era risultato chiaro dopo la serata con Jack Korhonen:

non era mai stata con uno che avrebbe potuto essere suo padre.

Pensando a suo padre, arrivò alla scala in fondo al corridoio, da cui si

raggiungeva la porta che separava le stanze della servitù da quelle padronali,

rivestita come da tradizione di panno verde. Un panno così consunto che

sembrava rosicchiato dai topi, o forse lo era veramente perché, diciamolo,

cosa c’è di meglio del panno per foderarsi il nido? E i nidi di topo a Cardew

Hall abbondavano, come pure quelli degli uccelli nei camini, e tutto a un


tratto Ding ebbe un flash: il nido di peli da cui si ergeva il membro. Ma

perché era così importante? Perché vedere un pene le faceva così

impressione? Perché si costringeva così spesso a guardarlo, a toccarlo, a

prenderlo in bocca, se lui glielo chiedeva, e quando mai lui non glielo

chiedeva? Volevano tutti metterglielo in bocca e in fondo non era quella la

chiave di tutto? L’uccello e ciò che si faceva con l’uccello. Dio mio Dio mio

Dio mio, cos’ho di sbagliato?

Quasi senza rendersene conto si ritrovò in cima alla scala, dentro la casa,

salì un’altra rampa, più larga e con le pareti rivestite di legno. La poca luce

che entrava dalla finestra del pianerottolo illuminava ritratti polverosi di

antenati sconosciuti. Una volta in cima, Ding percorse un corridoio semibuio,

anche questo con pannelli di legno alle pareti, e si fermò davanti a una grande

porta. Come sempre, era chiusa a chiave, perché nessuno voleva entrare in

quella stanza, nessuno voleva ricordare. Ma cosa? Cos’è che nessuno voleva

ricordare? Ding non lo sapeva, ma da come le batteva il cuore e da come le

tremavano le mani, sentiva di dover entrare in quella stanza.

Sapeva dove si trovava la chiave, e si rese conto in quel momento che

l’aveva sempre saputo. Si rivide accucciata in un angolo buio: era arrivata la

polizia, poi se n’era andata, e lei aveva visto sua madre chiudere la porta e

nascondere la chiave sopra un trumeau così alto che si era dovuta alzare in

punta di piedi, in modo che Ding non la potesse trovare, solo che Ding dal

suo angolo buio aveva visto dove era finita la chiave e aveva visto che in

tutto quel tempo sua mamma non aveva versato una lacrima, nemmeno una:

com’era possibile?

Il trumeau era ancora nello stesso posto. A Cardew Hall nessuno spostava

mai nulla e meno che mai i mobili di quelle dimensioni. Piccolina com’era,

Ding non arrivava a toccare la cimasa. Doveva salire su una sedia e così andò

in camera di sua madre a prendere uno sgabello, uno di quei trespoli di legno

intagliato con le gambe ammaccate che la gente porta dall’antiquario a far

valutare, per scoprire che vale a dir tanto venticinque sterline.

Lo trascinò nel corridoio e lo piazzò davanti al trumeau. Ci salì sopra,

allungò le braccia e tastò fra la polvere e la sporcizia, prima dietro la cimasa e

poi verso il centro, finché non trovò la chiave.

Scese dallo sgabello e si avvicinò alla porta con la chiave in mano. Per

poco non se la faceva addosso dalla paura, ma doveva assolutamente entrare

in quella stanza. Era sicura che lì dentro si nascondeva qualcosa di terribile e


doveva scoprire esattamente cos’era. Era la sua ultima chance di capire

perché si comportava come si comportava e perché avrebbe continuato a

comportarsi così per sempre, se non avesse aperto quella porta e non fosse

entrata nella stanza.

La chiave le scottava nel palmo della mano. La infilò nella toppa e girò. Il

cuore le batteva all’impazzata. Si fermò un momento e chiuse gli occhi, non

per non vedere ma per spingere indietro le lacrime che le colavano sulle

guance. Che stupida, pensò. È solo una stanza. Cosa mi aspetto di trovarci?

Una ridda di scheletri danzanti? Jack lo Squartatore? Spiritelli che lanciano

soprammobili di qua e di là?

Si impose di non fermarsi. Spalancò la porta e, benché le tremassero

talmente le gambe che temeva di non riuscire a muovere un passo, entrò.

Occhi aperti, braccia lungo i fianchi, mise un piede davanti all’altro sul

parquet e poi su un vecchio tappeto persiano...

Era una camera da letto come tante, a parte il fatto che odorava di chiuso,

nessuno la usava, nessuno cambiava mai l’aria, nessuno spolverava o passava

mai l’aspirapolvere. Era buia perché gli spessi tendoni erano chiusi, ma Ding

intravedeva i mobili e, a mano a mano che li osservava, il respiro le diventava

più affannoso: un cassettone, una poltrona, un armadio, un letto a

baldacchino, una toeletta... Di colpo ricordò che non aveva il permesso di

entrare in quella stanza nemmeno allora, ma lei era entrata lo stesso... Perché?

Perché era entrata? Ah sì, ora se lo ricordava. Era stato il cane, ma... c’era

davvero un cane? Sì, c’era. Era dentro la stanza? No, non era dentro la stanza,

però era lì, dove non aveva il permesso di stare, ed era seduto come gli aveva

insegnato il papà, e quando lei si era avvicinata per portarlo via perché

nessuno doveva disturbare il papà quando era in quella stanza il cane le aveva

mostrato i denti, cosa che non faceva mai perché lo sapeva che non bisognava

mostrare i denti, e poi aveva uggiolato e allora lei aveva aperto la porta,

perché aveva capito che il cane voleva – anzi no, doveva – entrare in quella

stanza come lei, ma cosa c’era, cosa c’era in quella stanza?

«Ding! Santo cielo! Mi era sembrato di sentire un rumore...»

Ding si voltò di scatto. Sulla soglia c’era sua madre con una mano sulla

bocca e un’espressione da cui Ding capì che qualcosa doveva esserci,

qualcosa che si nascondeva dentro di lei, ai margini della coscienza.

La madre tese la mano. «Mi hai fatto prendere uno spavento... Cosa ci fai

qui dentro? Esci» disse.


Sì! Fu quel gesto, quel gesto sommato alle parole: «Cosa ci fai qui dentro?

Esci». Di colpo a Ding tornò in mente tutto, tutto quanto. «Non è stato un

incidente. Mi hai detto che era stato un incidente, che stava facendo un

lavoretto, che stava riparando qualcosa nell’impianto elettrico. Per via del

cavo! Era un cavo elettrico e hai pensato che avrei creduto...» disse alla

madre. A un tratto ebbe la sensazione che insieme con le parole uscisse da lei

qualcosa di mefitico, un fluido micidiale che le avrebbe travolte e annegate

entrambe. «Era una bugia!» gridò. «Mi hai mentito, mi hai mentito, non hai

fatto altro che mentire!»

«Ding, vieni fuori di lì. Subito. Per piacere.»

Alle spalle della madre Ding vide Stephen ed ebbe un flash ancora

peggiore, perché se lo ricordò miglior amico di suo padre, suo compagno di

scuola... Stephen c’era anche subito dopo che era successo, no, anzi c’era

quando era successo e perché era lì? Che cosa faceva? Perché era a Cardew

Hall?

«L’hai ammazzato tu!» gridò. «Ora mi ricordo. Era...» Si guardò intorno e

lo trovò, lo vide, eccolo il letto con le colonne, sì, era quella la colonna di

legno, grossa e intagliata nello stesso legno scuro e robusto con cui era stata

costruita la casa, ed era lì che si era impiccato.

«Il cavo... il cavo... lo aveva intorno al collo e lui era... mamma, era nudo

ed era morto.»

A quel punto sua madre entrò nella stanza voltandosi indietro per rivolgersi

al marito. «Stephen, lascia fare a me. Lasciami...»

«... mentire» concluse per lei Ding in lacrime. «Stephen, lasciami

continuare a sparare balle, ecco che cosa volevi dire. Stephen lasciami

continuare a raccontare frottole su frottole in modo che Ding non sappia mai

cosa ho fatto, cosa abbiamo fatto, perché lo avete fatto tutti e due, l’avete

organizzato insieme, perché volevate stare insieme per...»

«Zitta! Stephen, ti prego, lasciaci sole.»

«È giusto che sappia che cosa è successo veramente» disse lui.

«Sì, lo so, ma adesso vattene. Ding, esci da questa stanza.»

Ding voleva uscire, certo che voleva uscire, e infatti uscì di corsa,

passando accanto alla madre e al patrigno, si precipitò nel corridoio verso lo

scalone per arrivare nell’atrio e uscire all’aperto, perché doveva

assolutamente andare via, solo che sua madre le gridava fermati! fermati! ma

lei non l’ascoltava, no, non le dava retta ed ecco la chiesa, il cimitero, ma la


strada, la strada era dalla parte opposta e doveva arrivare alla strada, perché là

c’era la fermata dell’autobus che l’avrebbe riportata a...

«Si è impiccato, Dena! Non voleva morire. È stato un incidente. Ma si è

ucciso con le sue stesse mani.»

Si voltò di scatto. «È una bugia! Anche questa è una bugia perché tu menti

sempre, mi hai sempre mentito e io ti odio!»

Ma la sua corsa era finita e Ding lo sapeva. Si lasciò cadere sull’erba

vicino a una lapide così vecchia e consunta che non si leggeva più niente,

serviva solo a indicare che lì sotto era sepolta da chissà quanto tempo una

persona di cui nessuno ricordava più nulla. Quando la madre la raggiunse non

protestò e quando le si sedette accanto sull’erba non cercò di scappare.

Lì per lì la madre tacque. Rimase ad aspettare in silenzio. Aspettava di

trovare il coraggio, pensò Ding. O forse soltanto di calmarsi.

Dopo un po’ le parlò. «Ding, avevi quattro anni appena compiuti. Non

potevo dirtelo perché non c’era modo di spiegare a una bambina di quattro

anni cosa stava facendo suo padre in quella stanza, né che era morto a causa

di quello che stava facendo. Come avresti potuto capire che usava quella

stanza per... che quando aveva voglia di... Era autoerotismo. Ecco come è

morto. Sai come funziona? Lo saprai sicuramente perché al giorno d’oggi voi

ragazzi sapete cose che non avreste mai saputo prima di Internet. Non avevo

idea di cosa combinasse in quella stanza. Sapevo solo che quando la porta era

chiusa non dovevamo entrare, perché lui si chiudeva dentro a leggere e

voleva poter leggere in pace per un’oretta, così diceva. Che aveva bisogno di

rilassarsi un po’. Molto tempo fa, ancora prima che tu nascessi, una volta

l’avevo sorpreso, ma non in quella stanza, perché non avevo ancora ereditato

questa casa. Mi aveva raccontato che lo aveva letto in un romanzo e si era

incuriosito e che l’aveva fatto solo quella volta e si era reso conto di quanto

fosse pericoloso. Mentiva, naturalmente, perché tutti mentono. Su questo hai

ragione, Dena, la gente racconta un sacco di bugie. Io ti ho mentito perché

non sapevo come spiegare a una bambina di quattro anni che aveva appena

trovato suo padre morto, nudo, appeso a una colonna del letto perché

voleva... perché aveva bisogno di... Ruotava tutto intorno a lui, al suo piacere,

a noi non pensava. E così un sabato pomeriggio è finito con un cavo elettrico

al collo, nudo, impiccato a una colonna del letto, con la faccia stravolta e gli

occhi fuori dalle orbite. Hai perfettamente ragione, io non ti ho detto niente

perché non volevo che tu ti ricordassi in che modo era morto e soprattutto il


motivo per cui era morto in quel modo.»

Ding si coprì la bocca con una mano. Sua madre piangeva. Rivide una

serie di immagini, scene che aveva seppellito così in fondo alla sua memoria

da dubitare che fossero vere: le uniformi dei poliziotti, qualcuno che

portava... che cosa? una borsa da dottore? Gente che passava nel corridoio; la

tonaca nera di un prete; una barella; un sacco lungo, scuro, chiuso con una

cerniera; il cane che abbaiava a tutti quegli sconosciuti; sua madre che

piangeva; un succedersi di domande e risposte; una donna che era entrata in

camera sua e si era seduta sull’orlo del letto ed era la pediatra, vero? E diceva

sopra la sua testa: «I bambini molto piccoli» e poi, a lei, «Vediamo se

possiamo aiutarti a dormire un po’ tesoro» perché aveva avuto un incubo,

vero? Era stato un brutto sogno a farle così paura e se si fosse addormentata

di nuovo poi, quando si fosse svegliata, sarebbe stato come se non fosse

successo niente.

Capì. Non perché suo padre si fosse giocato la vita in quel modo né perché

sua madre le avesse mentito per anni, ma per quale motivo lei aveva preso la

strada che aveva preso, una strada che non le dava niente e niente avrebbe

continuato a darle se lei avesse continuato a seguirla.

Coalbrookdale

Shropshire

Timothy era ancora al lavoro in farmacia quando, nel pomeriggio, Yasmina

tornò all’ambulatorio. Lo trovò intento a servire un antibiotico a un anziano

signore che era stato mandato dal farmacista di Broseley, rimasto

evidentemente senza quel tipo di medicinale. Riempita la boccetta con il

numero di pastiglie indicato sulla ricetta, Timothy fece quello che faceva

sempre: si mise a spiegare come andavano prese. Quando fu sicuro che il

cliente avesse capito, gli posò una mano sulla spalla. «Farà come le ho detto,

vero?» disse. «Sì, perché altrimenti mi verrà a cercare, immagino» rispose

burbero l’anziano signore.

«Bravo» concluse Timothy e lo congedò con una pacca sulla spalla.

L’uomo uscì e si diresse verso un minivan dove lo aspettava una donna che

doveva essere la figlia. Poi Timothy si rivolse a Yasmina.

«Hai marinato la scuola oggi?» le chiese in tono scherzoso, con lo stesso


sorriso di quando l’aveva conquistata tanti anni prima. «Dove sei stata? Al

cinema? A fare shopping?»

«Sono stata a Ludlow.»

Il sorriso si spense, sostituito da un’espressione preoccupata. «La mamma

non sta bene?»

«Sono andata al college» replicò Yasmina.

Passò un momento prima che Timothy dicesse, in un tono a metà fra il

rimprovero e la rassegnazione: «Yasmina...» Poi andò a chiudere a chiave la

porta e tornò dietro il banco per sistemare la cassa: estrasse il cassetto con i

soldi, lo posò da una parte e guardò la moglie. «È l’approccio sbagliato, lo

sai, vero?»

«Come fai a dirlo, se non sai nemmeno perché ci sono andata?»

Timothy prese tutte le banconote, tirò fuori da sotto il banco la busta di

pelle in cui le riponeva alla sera e le infilò dentro, quindi aggiunse anche gli

spiccioli e chiuse la cerniera. «Non sono stupido. Se sei andata al college,

sarà stato per Missa.»

«È vero.» Yasmina passò la mano sul banco. Era impolverato e si chiese se

dire qualcosa agli addetti alle pulizie o spolverarlo lei, visto che già due volte

si era lamentata invano del fatto che si limitavano a passare lo straccio sul

pavimento e non pulivano altro.

«Yasmina, non puoi non esserti accorta che facendo così la allontani. Non

occorre una laurea in psicologia.»

«Sto solo cercando di impedirle di fare una vita che non ha mai desiderato

e di cui inevitabilmente si pentirà.»

Timothy sospirò. Sistemato il denaro, passò ai farmaci. Trasferì tutti gli

oppiacei dagli scaffali agli appositi cestini di plastica nei quali venivano

chiusi in cassaforte con i soldi. «Il problema è che tu pensi di poter prevedere

il futuro quando invece capisci a malapena quello che sta succedendo nel

presente.»

«Io capisco soltanto che il mio compito di madre è aiutarla a impostare la

sua vita. Se tu, in quanto padre, non accetti di avere a tua volta questo

compito, mi metti nelle condizioni di dover fare tutto da sola.»

Timothy non si difese da quell’accusa e Yasmina interpretò il suo silenzio

come una pausa di riflessione. «Non credo sia mio compito insistere perché

Missa faccia una cosa che chiaramente non le va di fare» disse lui dopo un

po’.


«Non ti ricordi più che voleva finire il college e andare all’università?

Aveva un progetto di vita, mentre adesso non lo ha più. Non ti sembra

strano?»

«No, perché non sono d’accordo con la tua interpretazione dei fatti.»

Timothy andò nel retro, dove si trovava la cassaforte, e Yasmina sentì che la

apriva e metteva al sicuro denaro e oppiacei. Tornò poco dopo senza il

camice e le si parò davanti. Erano mesi che Yasmina non lo vedeva così da

vicino – a parte quando dormiva – e si accorse di quanto era provato. Era

invecchiato tantissimo in quegli ultimi anni, aveva rughe profonde agli angoli

della bocca e i capelli più sale che pepe. Negli occhi, anziché la vivacità di un

tempo, gli si leggeva solo il desiderio di arrivare al momento in cui avrebbe

finalmente preso una delle pillole sottratte alla farmacia per trovare l’oblio.

Timothy non aveva nessuna voglia di imbarcarsi in una discussione, ma

obiettò ugualmente: «Missa ha un progetto di vita. Diverso da quello che

aveva in origine, ma lo ha. Tu però non lo vuoi accettare».

«È un cambiamento troppo radicale. Ci dev’essere un motivo.»

«Una logica nel cambiamento di Missa c’è: ha provato il college, si è

accorta che non le piaceva e ha deciso di cambiare strada. Ce lo ha detto

chiaramente a dicembre: voleva ritirarsi e tornare a casa. Ma tu non sei

riuscita ad accettarlo.»

«Non era questione di accettare o meno. Io volevo solo che si rendesse

conto delle conseguenze. Alla sua età...»

«Non capisco perché continui a raccontarti tutte queste balle» la interruppe

Timothy. «Perché distorci in questo modo quello che è successo tra te e

Missa. I fatti sono fatti. Hai insistito perché tornasse a Ludlow dopo le

vacanze di Natale e facesse ancora un tentativo. Lei è sempre stata remissiva

– e mi piacerebbe parlarne, prima o poi – e ti ha ubbidito anche questa volta.

Ma se vuoi sapere la verità, per come l’ho vista allora e per come la vedo

adesso, gliel’hai imposto tu.»

Yasmina si offese e sentì montare la rabbia. «Secondo te gliel’ho imposto

io di tornare a Ludlow?»

«Sì. Secondo me, sì.»

«Sei sicuro? Ti sei bruciato talmente il cervello a suon di pasticche che non

ti ricordi nemmeno quello che succede alla tua famiglia.»

«Lascia perdere, Yasmina.»

Yasmina vide la tensione con cui incrociava le braccia sul petto. «No, non


lascio perdere. È ora di parlarne. Ogni sera ti impasticchi con i medicinali che

rubi dalla farmacia. Non sei in grado di vedere quello che hai chiaro e

lampante sotto gli occhi perché ti droghi per non pensare a Janna e non riesci

a...»

«Yasmina, smettila» le disse facendole segno di fermarsi.

«... non riesci ad affrontare quello che tutti noi ci sforziamo di affrontare

perché è ed è stato un inferno, sì, un inferno. Pensa a me, Timothy, che faccio

il medico e non mi sono accorta di niente. Sono pediatra, porca miseria, e non

ho capito che mia figlia non stava bene, non sono stata in grado di

interpretare correttamente i sintomi, mentre se avessi capito, se avessi... Sai

quanto mi piacerebbe impasticcarmi anch’io, dimenticare tutto? Vorrei vivere

nell’oblio, giorno e notte, se potessi. Ma poi cosa succederebbe? Esattamente

quello che è già successo, ecco cosa. La tua figlia maggiore cade a pezzi e tu

lasci che ’sia la persona che vuole essere’, qualunque cosa significhi, perché

così sei sollevato da ogni responsabilità, vero? Perché così puoi continuare a

drogarti in santa pace.»

«Piantala con questi discorsi.» Timothy andò verso l’interruttore della luce.

Yasmina lo seguì. «Di quello che fai tu ormai non mi importa più niente,

ma su Missa non ho intenzione di arrendermi.»

Timothy si voltò di scatto. «E cioè?»

«Greta Yates, la psicologa del college, vorrebbe parlare con lei per capire

che cosa è successo. Dice che, volendo, Missa ce la potrebbe ancora fare a

non perdere l’anno, ma per darle una mano hanno bisogno di capire il vero

motivo per cui ha smesso di frequentare.»

Timothy la fissava. «Ma tu mi ascolti quando ti parlo, eh?»

«Quando mi ha detto così, il mio primo pensiero è stato che se tu e io

parlassimo con Missa insieme e...» Yasmina stentava a trovare le parole. Si

interruppe, poi trovò la forza di continuare. «Se tu e io facessimo fronte

comune – solo riguardo all’andare a parlare con la psicologa del college –

Missa magari ci andrebbe.»

«Io non ci sto, Yasmina.»

«Sono sicura che Missa ci andrebbe, soprattutto se sa che si tratta solo di

un colloquio senza impegno.»

«Smettila, Yasmina.»

«Penso che Justin sarebbe disposto a incoraggiarla ad andare

all’appuntamento a Ludlow, se gli presentassimo la cosa nel modo giusto. Ho


intenzione di parlare anche con lui. Gli ho già accennato qualcosa. Siamo

d’accordo di vederci e pensavo che, se venissi anche tu...»

«Non puoi plasmare il mondo secondo la tua volontà» disse Timothy.

«Non intendo essere tuo complice in questa follia.»

«Come a dire che non ti interessa approfondire il perché di ciò che ci

accade.»

Timothy scoppiò in una risata sgradevole. «Se lo dici tu, Yasmina.»

A quel punto non le restava che cambiare programma e agire da sola.

Quando aveva telefonato a Justin da Ludlow e lui le aveva dato

appuntamento al Jackfield Tile Museum, era rimasta sorpresa. Jackfield era

un paesino sulla riva opposta del fiume Severn rispetto a Ironbridge, a sud-est

del ponte. La sede del museo era una fabbrica di ceramica dismessa, un

complesso costituito da vari edifici in mezzo al verde in cima a una collina, al

riparo dalle periodiche esondazioni del fiume. Vi venivano ancora prodotte

piccole quantità di piastrelle dipinte a mano e cotte sul posto con le tecniche e

le decorazioni tipiche dell’epoca vittoriana e edoardiana. La collezione

comprendeva migliaia di pezzi autentici, dai pannelli in maiolica raffiguranti

paesaggi o scene di vita domestica, alle piastrelle singole usate per decorare

caminetti, pavimenti, terrazzi o mobili.

Siccome nel complesso c’era più spazio di quanto ne fosse necessario per

le sale espositive e la produzione moderna, una parte veniva affittata a terzi.

Yasmina scoprì che Justin Goodayle aveva preso in affitto uno dei laboratori

annessi al museo e, all’ora convenuta, lo trovò ad aspettarla sulla porta.

Era con una ragazza che, a giudicare dalle macchie colorate sul grembiule,

doveva essere una delle ceramiste. Chiacchierava animatamente con Justin,

sorridendo, posandogli di tanto in tanto una mano sul braccio, giocherellando

con i ciuffi di capelli rossicci che le sfuggivano dal fazzoletto sulla testa, ma

lui pareva indifferente ai suoi tentativi di seduzione, che pure erano

chiarissimi a Yasmina.

Appena la vide arrivare, agitò con gioia una mano per salutarla e, quando

scese dalla macchina e gli andò incontro, le presentò la ragazza: Heather

Hawkes. Heather sorrise e disse che doveva andare. «Pensaci, Justin. È

invitata anche Missa» aggiunse poi.

«Glielo dirò» rispose Justin. «In questo periodo non ha tanta voglia di

vedere gente, però.»

«Allora vieni da solo.»


«Se mai. Vediamo.»

La ragazza parve soddisfatta. Mentre si voltava e si incamminava verso il

laboratorio di ceramica, Yasmina disse a Justin: «Ci conta, è chiaro».

Justin le fece uno dei suoi sorrisi sinceri da cui trasparì l’incertezza su

come interpretare le parole di Yasmina. «Sarebbe ben contenta di averti tutto

per lei, mi sa» chiarì lei.

«Oh, non credo, dottoressa Lomax. Io e Missa andavamo a scuola con sua

sorella. Conosco Heather da quando se la faceva ancora addosso. Venga con

me. Voglio farle vedere una cosa. Poi parliamo.»

Si voltò verso l’edificio di mattoni davanti al quale l’aveva aspettata con

Heather, tirò fuori dalla tasca dei jeans un mazzo di chiavi, ne infilò una nella

serratura lucidissima e spalancò la grande porta a due battenti.

Il laboratorio era illuminato da un lucernario e dai tubi al neon che Justin

accese entrando. Uno era appeso sopra un bancone da lavoro addossato alla

parete, sul quale erano disposti ordinatamente una serie di attrezzi e, verso il

muro, alcuni contenitori di latta con chiodi e viti di vari tipi. Da un lato del

bancone c’erano dei fogli arrotolati, alcuni tenuti con un elastico, altri

semplicemente avvolti su se stessi. In fondo all’area di lavoro c’erano diverse

seghe elettriche e, da una parte, un carrello con numerosi attrezzi appesi.

Sulla parete di fronte al bancone c’erano scaffali con barattoli di vernice,

pennelli e rulli, illuminati anch’essi da tubi al neon.

Nell’aria c’era odore di segatura e di pittura fresca, che apparentemente

veniva dalla struttura di legno al centro del laboratorio, una sorta di casotto di

superlusso, dipinto di azzurro, con rifiniture di un bianco immacolato. Vi si

entrava da una portafinestra incorniciata da una pergola in miniatura che a

Yasmina parve adatta per un glicine, una vigna o una rosa rampicante.

«Che ne dice?» chiese Justin con un’aria speranzosa che lo fece sembrare

ancora più giovane.

«Incredibile.» Yasmina si avvicinò chiedendosi chi potesse desiderare una

costruzione così raffinata per riporvi un tosaerba e qualche sacco di terra.

«Venga che le mostro l’interno.» Le passò davanti e spalancò la

portafinestra. «Questo è solo un prototipo, un campione dimostrativo. Prego.»

Yasmina vide che dentro la casetta c’erano un letto matrimoniale con

lenzuola e copriletto, un tavolino e due sedie. Sul tavolino era posato un

bollitore elettrico e alla parete soprastante era appesa una rastrelliera per

piatti e tazze. Dal soffitto pendeva un lampadario di ottone e ai lati del letto


erano state montate due abat-jour orientabili coordinate al lampadario.

Era tutto molto curato, pensò Yasmina, ma non capiva a che cosa servisse.

«Che bello!» disse. «Cos’è? Voglio dire, ha un nome?»

«Un nome tipo ’Shady Bower’ o roba del genere?»

Yasmina sorrise. «No, intendevo ’casetta da giardino’, per esempio.»

«Ah! Veramente è per il glamping, ma si può usare anche in altri modi.»

«Glamping?»

Yasmina varcò la portafinestra e si fermò ai piedi del letto. La testiera era

di ferro battuto, bianca come le rifiniture esterne, mentre le pareti erano

gialline e il copriletto aveva un motivo a fiori sulle stesse tinte.

Si voltò verso il ragazzo. «È straordinario, Justin. Non sapevo...» Non finì

la frase per non offenderlo dicendo quello che aveva pensato, ovvero che non

immaginava fosse così bravo. Perché non avrebbe dovuto?

«Quasi nessuno sa cos’è» disse Justin, evidentemente convinto che il suo

«non sapevo» si riferisse al glamping. «È un gradino al di sopra del camping.

Forse anche più di un gradino. Perché, vede, quando per esempio uno vuole

campeggiare nei terreni di un contadino nel Lake District, di solito si porta

appresso una roulotte oppure una tenda, che non è per niente comoda se

piove o tira vento. Invece così si trova già pronta una casetta come questa,

solida e resistente. La maggior parte sono su ruote, in modo che le autorità

non facciano storie al contadino dicendo che ha costruito una struttura

permanente abusiva.»

«E in più si può spostare da un punto all’altro» osservò Yasmina.

Justin annuì e riprese a spiegare, entusiasta, che le casette potevano essere

allacciate alla rete elettrica e anche all’acquedotto e alla fognatura. Erano

grandi abbastanza per due adulti e, con l’aggiunta di due brandine pieghevoli,

due bambini.

«Si adattano a molti usi diversi» continuò. «Ne ho costruita una per una

pittrice che ci ha ricavato il suo atelier, e un’altra che viene sfruttata come

sala da tè in un giardino. Vanno bene pure come cabine da spiaggia – anche

se sono un po’ troppo rifinite – e uno ci si può riparare se fa brutto tempo. Un

signore che sta dalle parti di Shrewsbury me ne ha ordinata una per tenerci gli

attrezzi da pesca e preparare le esche e gliel’ho fatta con le travi a vista.

Venga, gliela faccio vedere.»

Yasmina lo seguì al bancone, dove Justin prese uno dei fogli arrotolati e lo

aprì sul tavolo, fermandolo con i contenitori di chiodi e viti. Era il progetto di


una casetta simile a quella da cui erano appena usciti, ma in versione

«fienile»: al posto della portafinestra aveva una porta di legno divisa in

orizzontale che, nel disegno, era aperta per metà.

«Non sapevo che fossi anche un provetto falegname» disse Yasmina.

«Voglio dire, sapevo che sei un ottimo fabbro, ma lavorare il legno così...

Complimenti.»

Justin chinò il capo, compiaciuto. «Non brillo per intelligenza, ma ho delle

buone idee e due mani d’oro con cui realizzarle. Mia madre ripeteva sempre

che il trucco è seguire i propri talenti e io le ho dato retta. Mio fratello e le

mie sorelle sono molto più svegli di me. ’Justin è lo zuccone di famiglia’

diceva mio padre, invece mia mamma sosteneva che una volta che avessi

capito che cosa volevo fare nella vita lei mi avrebbe aiutato a realizzare il mio

sogno.»

«Da quanto tempo costruisci casette?»

«Quasi tre anni. Voglio mettere da parte i soldi che ci servono. Appena ne

avrò abbastanza, io e Missa...» Si interruppe, colto da un’improvvisa

timidezza. «Lei mi capisce.»

Yasmina si rallegrò per l’assist che inconsapevolmente il ragazzo le aveva

dato e affrontò l’argomento che le stava a cuore. «Anche Missa può

contribuire alla vostra vita insieme, Justin» disse.

«Certo» replicò lui. «E contribuirà sicuramente, perché tutti e due

vogliamo dei figli e vogliamo averli subito. Non troppi, sia chiaro. Magari

tre. Tre è il numero perfetto. Ne abbiamo parlato, con Missa. Più che altro

abbiamo parlato del quando. Ci siamo chiesti quale può essere il momento

migliore sia per lei sia per me. Ora che è tornata a lavorare a Blists Hill e che

io ho avviato questa attività e ho anche il lavoro di fabbro, secondo me ci

siamo quasi. Anche mia madre è d’accordo. Dice che i figli conviene farli

quando si è ancora abbastanza giovani da poterli rincorrere senza farsi venire

il fiatone. Così, quando saranno grandi e se ne andranno a stare per conto

loro, io e Missa avremo ancora un bel pezzo di vita davanti per fare quello

che ci piace. Missa è d’accordo.»

Justin parlava con una tale franchezza che per un attimo Yasmina fu sul

punto di cambiare idea, non sul fine – perché non ne vedeva che uno – ma sui

mezzi per raggiungerlo. Justin era un bravo ragazzo, anzi, un brav’uomo, e

adorava Missa, ma lasciare che la sposasse era inconcepibile e insensato.

Tuttavia Yasmina non glielo poteva dire, perché si sarebbe rifiutato di


aiutarla.

Finse di aver riflettuto sulle sue parole. «Capisco il tuo ragionamento. È

giustissimo» gli disse. Vide che Justin sorrideva soddisfatto. «Ma c’è anche

un altro aspetto da prendere in considerazione, ed è che entrambi dovete

avere un lavoro in modo che, se malauguratamente succedesse qualcosa a

uno dei due, l’altro abbia comunque un reddito sicuro» si affrettò ad

aggiungere.

Justin sorrise un po’ meno. «In che senso? Non capisco.»

«Tu hai il lavoro di fabbro e ora anche questa nuova attività, ma bisogna

che anche Missa abbia un mestiere.»

«Ah. Pensavo di farle tenere la contabilità della ditta a mano a mano che il

lavoro aumenterà. È una cosa che potrà fare mentre i bambini dormono e, più

avanti, quando saranno a scuola. Così potrà lavorare da casa.»

«Ma se ti succedesse qualcosa? Missa non sa lavorare né il legno né il

ferro. Farà la mamma, la casalinga e magari la candelaia nel parco a tema, ma

basterà a mantenere i figli, te e lei, se a un certo punto si trovasse a essere

l’unica che porta a casa uno stipendio?»

Justin aggrottò la fronte sforzandosi di capire. «Ma perché dovrebbe,

dottoressa? Finché ho le mani...»

«Il futuro è sempre incerto: non sappiamo che cosa ci potrà succedere. Una

malattia improvvisa, un infortunio, un problema fisico inatteso. Mi riferivo a

questo.»

Justin rimase a lungo in silenzio a guardarsi le mani. Yasmina si chiese se

stesse riflettendo su quanto gli aveva detto, ma Justin la sorprese. «Lei vuole

che Missa torni al college e poi si iscriva all’università.»

«La psicologa del college avrebbe piacere di vederla, Justin. Le ho parlato

oggi e mi ha spiegato che, quando uno studente decide di ritirarsi, lei lo

convoca per un colloquio per capire le sue motivazioni. Missa però non si è

presentata e a lei dispiace: vorrebbe valutare il suo livello di consapevolezza,

tutto qui.»

Justin alzò gli occhi e non per la prima volta Yasmina si rammaricò che

fosse così lento, come se la bellezza fisica dovesse essere sempre

necessariamente accompagnata dall’intelligenza. «Vuole che la convinca ad

andare a parlare con questa psicologa, giusto?» disse il ragazzo.

«Sì, Justin. Vorrei che tu l’accompagnassi a Ludlow e assistessi al

colloquio. Missa può fare di più che tenere la tua contabilità, avere dei figli e


fare la candelaia in un parco a tema. Justin, ragazzo mio, sono sicura che

anche tu la pensi così.»

Justin arrotolò lentamente il disegno e lo rimise insieme agli altri. «Missa

non ci vorrà andare» obiettò.

«Lo so, ma sono convinta che se glielo dici tu, nel modo giusto, ti starà a

sentire.»

«E quale sarebbe il modo giusto?» Il ragazzo si voltò e si appoggiò al

bancone con le mani nelle tasche dei jeans.

Yasmina si era già preparata il discorso. «Dille che sono venuta da te e che

ti ho chiesto di parlarle. Dille che non smetterò mai di desiderare per lei un

futuro professionale come il mio.»

«E questo dovrebbe convincerla?»

«Sì, perché le dirai anche che l’unico modo per convincermi a lasciar

perdere è andare a parlare con Greta Yates, la psicologa del college. Devi

dirle di insistere – con me, intendo – perché sia tu ad accompagnarla a

Ludlow e di insistere perché tu assista al colloquio con la dottoressa Yates.

Devi dirle che condividi le sue decisioni, compresa quella di ritirarsi dal West

Mercia College, ma che io ti ho sfinito per un’ora e hai capito che l’unico

modo per liberarvi di me è andare dalla psicologa e spiegarle i motivi per cui

Missa vuole smettere di studiare.»

Justin la guardò corrucciato e a Yasmina venne il dubbio che non fosse in

grado di portare a termine la missione. Forse avrebbe dovuto dargli una

scaletta da seguire. Poi però si impose di aver fiducia in lui, dato che stava

per offrirgli l’opportunità di una vita.

«Durante il colloquio, Justin, devi essere convinto che finire il college e

iscriversi all’università è la decisione più ragionevole, che tu condividi

perché vuoi che Missa abbia di che mantenere se stessa e i vostri figli

nell’eventualità che ti succeda qualcosa. Dopodiché, se Missa accetterà di

tornare al college, vorrei che fissaste una data» gli disse.

«Per cosa?»

«Per le nozze, caro» disse Yasmina con dolcezza. «Non potrete sposarvi

subito, è chiaro, ma non appena Missa avrà concluso gli studi, la settimana in

cui si laureerà, celebreremo le nozze. Faremo una bella festa, con tutti gli

annessi e connessi. E, dopo, potrai portarla in luna di miele in qualche posto

meraviglioso e potrai comprare la casa dove crescerete i vostri figli.»

Justin scosse la testa e sfregò con la punta di uno scarpone il pavimento


ruvido del laboratorio. «Sto mettendo da parte dei soldi, ma tutte queste

cose... non mi sembra... ci vorrà un po’» disse.

Yasmina gli posò una mano sul braccio. «Non hai capito, Justin. La casa e

la luna di miele saranno il nostro regalo di nozze. Da parte mia e di mio

marito.»

Justin alzò la testa di scatto, intimidito. «Oh, non potrei mai, dottoressa.

Non sarebbe giusto. Io sono l’uomo e spetta all’uomo... Un regalo così mi

sminuirebbe agli occhi di Missa ed è una cosa che non vorrei mai.»

Yasmina gli strinse il braccio e gli sorrise con grande affetto, perché

provava davvero un grande affetto per lui. «Credo che nulla potrebbe mai

sminuirti agli occhi di Missa. Comunque non dobbiamo decidere tutto

adesso. Quello che voglio sapere ora è soltanto se posso telefonare a Greta

Yates e prendere un appuntamento per Missa e te, per le cose che ci siamo

detti.»

«Missa non vorrà andarci» ribadì il ragazzo, ma con molta meno

convinzione.

«Questo è da vedere. Tutto dipende dal modo in cui glielo dirai. Pensaci.

Sei disposto a fare questa cosa per me? E per lei e per il vostro futuro

insieme?»

Justin sembrò riflettere. Forse, pensò Yasmina, si stava preparando

mentalmente il discorso da fare a Missa. «Quando, allora?» le chiese dopo un

po’.

«Quando parlerai con Missa? O quando andrete a Ludlow?»

«Tutt’e due» disse Justin.

«Il più presto possibile.»

Quality Square

Ludlow

Shropshire

La possibilità che Dena Donaldson quella sera non andasse allo Hart and

Hind c’era, ma a meno di appostarsi davanti a casa sua sul Temeside con

Harry Rochester nella speranza di vederla comparire, a Barbara il pub

sembrava la soluzione migliore. «Se tra Harry Rochester e l’ausiliario

Ruddock corre cattivo sangue, è possibile che questa spedizione sia del tutto


inutile, Barbara. Lo sa, vero?» disse Lynley mentre andavano verso Castle

Square.

«Sì, lo so» rispose lei. «Ma qualunque strada prendano le indagini, mi

ritrovo ad affrontare il fatto che Gaz Ruddock o ha manipolato la verità

quando non ne avrebbe avuto alcun bisogno, oppure ha omesso dettagli che

sapeva essere importanti. E più abbiamo approfondito, più omissioni sono

emerse: una misteriosa compagna, una giovane amante, uno studente da

tenere d’occhio, Finnegan Freeman, sua madre e suo padre, la sua

coinquilina... Secondo me, dobbiamo trovare il modo per metterlo alle strette

e costringerlo finalmente a dire la verità. Sono disposta a tutto pur di

riuscirci, persino a coinvolgere il barbone numero uno di Ludlow.»

Harry Rochester non c’era ancora quando, dopo aver evitato la rumorosa

gara di frisbee in corso a Quality Square, arrivarono allo Hart and Hind. Era

una bella serata e nel dehors c’era parecchia gente. A uno dei tavoli era in

corso una bizzarra partita a scacchi che vedeva contrapposte due squadre, una

maschile e una femminile, che si alternavano con quindici secondi a

disposizione per ogni giocatore. Se quello di turno perdeva un pezzo, doveva

togliersi un indumento. Le squadre erano composte da cinque giocatori

ciascuna e le ragazze stavano letteralmente lasciando i maschi in mutande.

Barbara entrò nel pub e, siccome dentro c’era meno gente che fuori, le

bastarono venti secondi per rendersi conto che ci aveva azzeccato: Dena

Donaldson era lì, seduta a un tavolo a bere qualcosa in compagnia di

un’amica. Perfetto. Si trattava semplicemente di mandare Harry Rochester a

compiere una breve ricognizione e sperare che riconoscesse in Dena una delle

ragazze che aveva visto caricare in macchina da Ruddock.

Ma Barbara aveva sottovalutato la gravità della claustrofobia di Harry

Rochester. Cos’erano trenta secondi dentro un pub? Nulla, ma evidentemente

per lui erano troppi.

Tornando da Lynley, Barbara vide che Harry era arrivato con Sweet Pea e

il necessario per dormire. Spiegò loro che, essendo dovuto venire in centro a

quell’ora, aveva pensato di pernottare nei paraggi, in una delle «strutture

all’aperto» di Ludlow.

«Vada un attimo dentro» propose Barbara rivolgendosi

contemporaneamente a Lynley e a Harry. «Ci vorrà meno di un minuto. Si

guardi intorno e veda se riconosce qualcuna delle ragazze di Ruddock. Faccia

caso a com’è vestita e...»


«Dentro?» Harry deglutì. «Non posso...»

«Noi la aspettiamo qui. O, se preferisce, posso entrare con lei e tenerle la

mano.»

«No, no» disse Harry. «Non ha capito. Non ce la posso fare.»

«Ma in banca per parlare con il suo personal banker ci va, no? Non è molto

diverso.»

«Viene fuori lui.»

«Come, scusi?»

«Esce lui. Gli telefono, lui esce un attimo e parliamo sul marciapiede. Non

sto al chiuso da... Cioè, sono anni che non entro in un locale. A parte lo Spar,

dove però, come le ho detto, sanno di che cosa ho bisogno e me lo fanno

trovare pronto alla cassa.»

«E se si ammala? Non va dal dottore?»

«Grazie a Dio godo di ottima salute.»

«Ma a noi serve che...»

A questo punto intervenne Lynley. «Aspetteremo che escano» propose e

consultò l’orologio da tasca. Barbara notò che Harry era molto impressionato

da quell’ennesimo anacronismo di Lynley. «Il pub chiuderà tra un’ora a dir

tanto» aggiunse quest’ultimo.

Harry parve sollevato. Scelsero un tavolo un po’ in disparte, da cui

sarebbero riusciti a vedere Dena Donaldson appena fosse uscita dal pub senza

che lei li notasse. Nell’attesa, seguirono la sfida a scacchi. Era chiaro che i

maschi erano partiti impreparati, con pochi capi di vestiario addosso. Due

erano già in mutande, mentre nessuna delle ragazze si era ancora spogliata.

Barbara si chiese che cosa prevedesse il regolamento in caso di scacco matto

e pensò che forse preferiva non assistere alla conclusione della partita.

A quanto pareva, però, non aveva motivo di preoccuparsi, perché

spostando lo sguardo verso la porta del pub vide spuntare Dena Donaldson.

Barbara lanciò un’occhiata a Lynley. Dena era sola, quindi non c’era pericolo

che Harry non la vedesse o la confondesse con un’altra ragazza. Barbara

aspettò. Dena entrò nella zona illuminata dalle lampadine e, sentendosi

chiamare, si girò mostrando la faccia. La sua amica la raggiunse e insieme si

incamminarono verso Quality Square chiacchierando animatamente.

«Ah» disse Harry. «Sì. Quella l’ho vista.»

Perfetto, pensò Barbara.

«Quale?» chiese Lynley, che era accanto a Harry ma dall’altra parte.


«La bionda.»

«Sono bionde tutte e due, Harry» gli fece notare Barbara.

«Oh, scusate. Giusto. La più alta.»

«Ma...»

«È sicuro?» domandò Lynley.

«Per quanto possibile, considerato che li ho visti di notte.»

Barbara avrebbe voluto prenderlo per le spalle e dargli una bella scrollata.

Non era quello in cui sperava. Non era quello che si aspettava e di cui aveva

bisogno. Ci mancava solo Harry Rochester che riconosceva un’altra ragazza,

invece di Dena Donaldson.

«Non la sua amica?» chiese. Valeva la pena tentare. «Bionda anche lei, ma

più bassa? Che ne dice di lei? L’ha vista bene in faccia, no?»

«Sì. Non è un volto nuovo. Ma non significa niente, incontro un sacco di

gente in giro.»

«L’ha vista in giro, ma non con Gary Ruddock?»

Harry Rochester scosse la testa. «Con altri studenti e con le amiche, ma

non con Ruddock, che io ricordi.» Rivolse uno sguardo desolato a Barbara.

«Era lei quella che speravate vi indicassi? Mi dispiace molto. Avrei voluto

aiutarvi.»

«Ci ha aiutato» lo rassicurò Lynley. Barbara, invece, avrebbe preferito

strozzarlo. Lynley le lanciò un’occhiata significativa. «Sergente? Vogliamo

andare? Vogliamo lasciare che il signor Rochester si scelga un posto dove

passare la notte?»

Barbara capì cosa stava cercando di dire: dovevano scappare e seguire la

ragazza indicata da Rochester.

Ludlow

Shropshire

Seguire la ragazza come suggerito da Lynley si rivelò superfluo. A quanto

pareva, l’argomento di cui lei e Dena Donaldson dovevano parlare non

richiese molto tempo, perché meno di un minuto dopo aver svoltato l’angolo

di Quality Square con Dena, la ragazza tornò indietro e rientrò nel pub.

«Allora devo restare?» chiese Harry Rochester appena la vide, ma la

prospettiva non sembrava allettarlo particolarmente.


Lynley rispose che non occorreva. Era necessario invece che il sergente

Havers lo aspettasse fuori. Capiva il suo disappunto, ma era inevitabile: il

proprietario del pub sapeva che Barbara era della polizia, mentre ignorava

che mestiere facesse Lynley.

Una volta entrato, Lynley vide che la ragazza era al bar e stava cercando di

scroccare da bere al titolare. Decise di aspettare che prendesse il suo drink,

pagandolo o meno, e che andasse a sedersi a un tavolo. Ma non accadde

nessuna delle due cose, quindi Lynley si avvicinò al banco.

«Posso parlarle un attimo?» disse alla ragazza. Subito dopo aggiunse, per

propiziare la conversazione: «Cosa beve?»

La ragazza si voltò leggermente e lo squadrò. «Ciao, bellone» disse.

«Finora ho bevuto birra, ma quasi quasi adesso preferirei un gin tonic.»

Lynley fece un cenno al barista che rise sguaiatamente, come se avesse già

assistito a manovre di quel genere da parte della ragazza.

«Tu non prendi niente?» chiese lei a Lynley. Abbassò un momento gli

occhi, forse per guardargli i pantaloni o forse per mettere in mostra le lunghe

ciglia. Sembravano vere, ma chi può mai dire? «Non mi piace bere da sola.

Mi chiamo Francie. E tu?»

«Thomas Lynley» rispose lui, poi, a voce più bassa, aggiunse: «New

Scotland Yard. Ho bisogno di parlarle».

La ragazza alzò la testa e spalancò gli occhi azzurri con aria più

strafottente che sorpresa. «Non mi sembra di aver commesso nessun reato

ultimamente. Mi arresti tu, almeno?» Gli mostrò i polsi. «Oppure posso fare

qualcos’altro per te?» sussurrò con finta timidezza. Poi, rivolta al titolare:

«Jack, secondo te le manette mi donano? Questo signore di Scotland Yard

vuole portarmi via. Sei geloso?»

Jack guardò dritto in faccia Lynley. «Siete di nuovo qui? Abbiamo già

assistito al primo round, e adesso ci tocca il secondo? È qui con quella che

’studia i Plantageneti’, per caso?» esclamò.

«Hai già compagnia per stasera, quindi?» chiese Francie a Lynley. «Che

peccato.»

Jack le servì il gin con due cubetti di ghiaccio, una fetta di limone e una

lattina di acqua tonica. Francie aprì la lattina, ne versò un goccio nel

bicchiere e assaggiò. «Sono... diciamo che sono pronta, agente» aggiunse

sorridendo.

Con il bicchiere in mano, andò verso la porta e si voltò a guardare se


Lynley la seguiva. Sì, le stava venendo dietro. Quando uscirono, li raggiunse

Barbara Havers. Francie la squadrò dalla testa ai piedi, poi guardò Lynley,

fece un mezzo sorriso che voleva essere da donna vissuta e chiese: «Dove

andiamo a fare due chiacchiere?»

Lynley non voleva rischiare di essere visto da Gary Ruddock, nel caso

fosse passato dal pub, e lanciò un’occhiata a Barbara che suggerì: «La chiesa

di St. Laurence non è lontana, ispettore, e c’è quel camposanto...?» Lynley

approvò con un cenno e Barbara fece strada.

«Volete interrogarmi al cimitero? Ma quando mai s’è vista una cosa del

genere?» disse Francie.

«Quando ci sono dei cadaveri da riesumare, per esempio» rispose Barbara

voltandosi indietro a guardarla. «Ma non è il nostro caso. Vogliamo

semplicemente un posto in cui poter parlare senza che nessuno ci veda. Se

vuole, andiamo da un’altra parte. Vive con i suoi? Per conto suo? Divide una

casa con qualcuno?»

«Va bene il cimitero» rispose Francie, e questo bastò per capire dove

viveva. I suoi genitori le avrebbero certamente fatto domande che preferiva

evitare, vedendola con due poliziotti.

Il cimitero non era buio, ma era sufficientemente appartato. Sotto uno degli

alberi di tasso più grandi l’ombra era molto fitta, ma per il resto era

illuminato dai lampioni che si trovavano lungo due lati. Barbara Havers si

diresse verso il tasso e Francie la seguì incespicando. Lynley chiudeva il

corteo.

«Sentiamo.» Francie scelse il punto più buio, appoggiò la schiena al tronco

dell’albero e spinse il petto in fuori. «Cosa volete?»

Prima di tutto, volevano capire di che natura erano i suoi rapporti con Dena

Donaldson.

«Ha combinato qualcosa?» La ragazza sembrava più incuriosita che

preoccupata. Bevve un sorso e guardò Lynley da sopra il bicchiere, ignorando

Barbara.

«È interessante che sia subito saltata a questa conclusione» osservò

Lynley.

«A quale conclusione dovrei saltare, se la polizia mi chiede notizie di una

persona? Per qualche motivo state raccogliendo informazioni su di lei, e di

sicuro non è perché Dena ha fatto domanda per entrare in polizia.»

«Perspicace» commentò Lynley.


«Abbiamo parlato con Dena e stiamo cercando conferma di alcune sue

dichiarazioni» spiegò Barbara.

«Vi abbiamo appena visto insieme» aggiunse Lynley. «E, dal momento

che vi conoscete, ci è sembrato giusto partire da lei.»

«Come sarebbe a dire che state ’cercando conferma di alcune sue

dichiarazioni’?» chiese Francie e, vedendo che non rispondevano, rifletté.

Spostò il peso da una gamba all’altra e mise una mano su un fianco. «Ehi,

non si sarà mica inventata qualche strana storia su di me? Perché, se è così,

sappiate che tutto è cominciato quando Ding mi ha beccato mentre me la

facevo con Brutus. Prima eravamo amicissime, io e lei. Quando ci ha beccato,

le ho spiegato che non ci sarei andata, con Brutus, se avessi pensato che lei

faceva anche solo minimamente sul serio con lui. Non mi è manco venuto in

mente, perché lo sanno tutti che la dà in giro e quindi... Che io fossi in

camera con lui non vuol dire niente e... Insomma, come dicevo, le ho

spiegato tutto un sacco di volte: perché siamo finiti a letto e che non

succederà più. Gliel’ho detto e ripetuto fino alla nausea. Quindi, se sta

cercando di inguaiarmi, e sarebbe capacissima perché è così... non so... in

questo periodo è intrattabile.»

«Un bel groviglio» osservò Barbara Havers. «Vediamo se ho capito bene:

siete coinvolti lei, Bruce Castle, Dena Donaldson e una serie di parti del

corpo, giusto? Suona un po’ come quella canzone che dice ’looking for love

in all the wrong places’.»

Lynley intervenne. «Si tratta di materiale molto interessante per un’analisi

dei rapporti umani, ma non siamo qui per parlare di quello che c’è stato fra

voi tre – Dena, Bruce e lei. Ci interessa molto di più quel che c’è stato fra lei

e l’agente ausiliario di Ludlow. Dena sostiene che...»

«Cosa? Che me la faccio anche con lui? Sta proprio cercando di

inguaiarmi, vero? Per via di Brutus. Tutto per quello stupido Brutus. Oppure

Dena sta cercando di inguaiare Ruddock? Ah, se è per questo, ci sono intere

macchinate di persone che sarebbero ben contente.»

«Perché?» domandò Lynley.

Francie bevve un altro sorso e strizzò gli occhi, pensierosa. «Chiedete in

giro, se volete risposte. Io la spia non la faccio. Ho già abbastanza problemi

così. Nel frattempo, concentratevi sui rapporti fra Ding e Gaz Ruddock,

invece di trascinare me in un cavolo di cimitero nel cuore della notte.»

«Il problema è che lei è stata riconosciuta» disse Barbara Havers.


«In che senso?»

«Nel senso che è stata vista in macchina insieme con l’ausiliario.»

«E chi mi avrebbe visto? Quando? Lasciate perdere. Non ditemelo

nemmeno, tanto chiunque sia stato vi ha raccontato delle gran balle.»

«Secondo la nostra fonte, lei era con Ruddock sull’auto di servizio. Per

quale ragione?»

«Cioè, qualcuno vi ha raccontato che sono stata arrestata? Non ho mai

violato la legge in vita mia. Controllate pure sui vostri computer o iPhone o

dove diavolo tenete le informazioni. Frances Adamucci. A-d-a-m-u-c-c-i.

Secondo nome, Sophia.»

«Nessuno ha detto che lei sia stata arrestata» puntualizzò Lynley.

«Le circostanze in cui è stata vista fanno pensare che l’arresto fosse

l’ultimo dei vostri pensieri: suoi, dell’ausiliario, del suo angelo custode,

dell’arcivescovo di Canterbury...» aggiunse Barbara.

«Ci è parso di capire che l’ausiliario è molto efficiente nel gestire gli

episodi di ubriachezza molesta che si verificano in città» rincarò Lynley.

«Abbiamo saputo che in più di un’occasione ha caricato in macchina e

portato via le persone ubriache. E sappiamo anche che ha una relazione che

vuole tenere segreta, soprattutto dopo che è morto un uomo che lui aveva

fermato. Ora, in quale di queste categorie rientra il suo rapporto con

l’ausiliario?»

«State insinuando che ho ammazzato qualcuno?»

«Tra le categorie citate dall’ispettore questa non c’era» le fece notare

Barbara.

Francie batté un piede per terra. Lynley notò che stava molto attenta a non

rovesciare il contenuto del bicchiere. «Non vedo perché dovrei mettermi in

una di quelle categorie.»

«Alla fine dei conti, potrebbe convenirle» disse Lynley. «Se non altro per

collocarsi al di sopra di ogni sospetto.»

«Sospetto di cosa?»

«Complicità in omicidio.»

«E che cavolo...? Ma cosa dite? Io non ho fatto niente. Non ho mai fatto

niente. Ding è completamente fuori di testa se...»

«Non si tratta di Ding» la interruppe Lynley. «Ding non ci ha detto nulla su

di lei e l’ausiliario.»

«E allora chi è stato? Lo voglio sapere!»


«Non possiamo svelare la sua identità» replicò Lynley. «Qualcuno stasera

l’ha riconosciuta. Afferma di averla vista a bordo dell’auto di servizio di

Ruddock. Noi non ce lo aspettavamo affatto.»

«Non sono mai salita su quella macchina, tranne quando Ruddock ci ha

riaccompagnati a casa ubriachi da Quality Square.»

«Riaccompagnati? Al plurale? Chi erano gli altri?» domandò Barbara

Havers.

«Chelsea. Le volte che è successo c’eravamo tutte e due. Ma è finita lì.

Quindi se qualcuno vi ha raccontato qualcosa di diverso, o è un bugiardo, o ci

vede male, oppure per qualche ragione vuole incastrarmi.»

«Per quale ragione?»

«Perché mi sono fatta il suo ragazzo, per esempio. E siccome questa cosa è

successa con Ding... L’ho già detto, non sapevo nemmeno che stessero

insieme! Sapevo che ogni tanto scopavano, ma così, come tutti, senza

impegno, per divertirsi un po’. E se non c’è Ding dietro a questa cosa, vi

conviene controllare un po’ meglio la persona che vi ha raccontato ’sta balla

perché, datemi retta, vi sta prendendo per i fondelli e sarebbe interessante

scoprire perché lo fa. È di questo che dovreste occuparvi, invece di trascinare

me in un cavolo di cimitero. Chiedete a chiunque allo Hart and Hind se sono

mai stata da sola con Ruddock. Chiedete a tutti quelli che stanno a bere fuori

dal pub. Chiedete a chiunque in Castle Square. Chiedete a chiunque al

mondo. E comunque perché non indagate su Ruddock, invece di prendervela

con me?»

«Si spieghi meglio» disse Lynley. «C’è qualcosa che dovremmo sapere

sull’ausiliario?»

«Se volete una risposta, dovete chiedere a qualcun altro. A Ding, per

esempio, oppure a lui direttamente. Ma con me avete finito di parlare!»

Detto questo, passò loro davanti e si incamminò nella direzione da cui

erano venuti. «Quanto a veemenza, la signorina non ha niente da invidiare a

nessuno» commentò Barbara.

«Non so se crederle o no» replicò Lynley.

«Non so se credere a qualcuno. Ma mi sembra che il prossimo di cui

dobbiamo occuparci sia Harry Rochester: o lo portiamo a fare l’esame della

vista, oppure dobbiamo scoprire a che gioco sta giocando.»

«Cristo, non se ne vede la fine, eh?» esclamò Lynley sbuffando.

«Vuole che ci pensi io?»


Lynley scosse la testa. «Penso che le informazioni che ci servono sul

signor Rochester non le troveremo a Ludlow. Telefonerò a Londra domani

mattina.»


21 MAGGIO

Ironbridge

Shropshire

Come sempre, Yasmina fu la prima ad alzarsi. Dalle tende tirate filtravano i

primi raggi del sole. Sentì il richiamo acuto dei tre pispoloni che tornavano

tutti gli anni a fare il nido nel bosco dietro casa Lomax. Il loro canto era

piacevole, ma l’assordante fischio conclusivo la svegliava tutte le mattine,

che lo volesse o no.

Timothy invece non li sentiva nemmeno. Un tempo sì, tanto che aveva

preso l’abitudine di mettersi i tappi nelle orecchie per poter dormire più di

quanto gli avrebbero permesso i tre pispoloni. Ma la necessità di isolarsi dal

rumore era cessata quando aveva cominciato a usare altri sistemi per

«facilitare il sonno». Se non lo svegliava Yasmina, ormai dormiva fino

all’una o alle due del pomeriggio.

Quella mattina il fatto che Timothy continuasse a ronfare stordito dai

farmaci non la infastidì. Il suo umore era cambiato da quando era riuscita a

convincere Justin Goodayle a collaborare alla sua strategia per rimettere

Missa in carreggiata.

La casa era immersa nel silenzio. Scese in cucina pensando di bere il tè

mattutino al tavolo che guardava verso il giardino. In uno dei punti più

soleggiati c’era un cespuglio di eliantemo con una nuvola di fiori rosa sullo

sfondo verde delle foglie. La fioritura era tragicamente effimera, ma finché

durava era di una bellezza irresistibile e Yasmina già pregustava quei pochi

minuti di solitudine con il suo tè e la vista dei fiori...

«Buongiorno, mamma.»

Quando sentì la voce di Missa, Yasmina si voltò di scatto verso il

soggiorno. Era seduta in poltrona con due valigie da una parte e tre scatoloni

dall’altra. Questi ultimi avevano sul fianco la scritta in rosso di una nota

marca di cereali per la prima colazione e, assurdamente, il primo pensiero di


Yasmina fu che a colazione Missa non mangiava cereali bensì yogurt e frutta.

Subito dopo pensò che la figlia fosse giunta alla sua stessa conclusione e

avesse capito che non doveva restare a Ironbridge, ma tornare a Ludlow. Poi,

in una sorta di rapidissimo flusso di coscienza, immaginò un nuovo

sorprendente scenario: Missa era andata di sua spontanea volontà a parlare

con Greta Yates e stava per tornare a Ludlow dalla nonna per riprendere a

studiare, rimettersi in pari e dare gli esami.

Yasmina cercò di mostrarsi sorpresa, e non le risultò affatto difficile,

perché mai si sarebbe aspettata una soluzione in tempi così brevi. Ma sia la

sorpresa che la soddisfazione svanirono non appena vide meglio l’espressione

della figlia. Non propriamente imbronciata, ma impenetrabile, quasi fosse lì

seduta da ore a rimuginare.

Yasmina indicò scatoloni e valigie. «Santo cielo, cos’è tutta questa roba?»

«Sto aspettando Justin» replicò Missa. «Ieri sera abbiamo parlato.»

Yasmina sentì una corrente di aria fresca alle caviglie e si chiese se la sera

precedente avesse dimenticato di chiudere la finestra della cucina. Era

possibile. Aveva tante di quelle cose per la testa... «Non sono sicura...»

cominciò, ma poi si accorse che non sapeva come continuare.

«E abbiamo parlato anche con i suoi» disse Missa. «Soltanto con sua

madre, in realtà. Le ha parlato Justin. L’osso duro è lei; il padre non crea

problemi, ma voi madri... Voi madri certe volte vi impuntate. Vero?»

Yasmina si chiese cosa c’entrassero i genitori di Justin con il ritorno di

Missa a Ludlow, ma non fece domande. Per ottenere qualche informazione in

più, però, qualcosa doveva dire. «Non capisco. Quegli scatoloni... le valigie...

Parti?» provò a chiedere.

Missa non rispose. Yasmina non si era mai sentita osservata in quel modo

da sua figlia. Sentiva avanzare qualcosa di insidioso che sgorgava da Missa e

strisciava verso di lei sulla moquette come una colata di lava. Avrebbe voluto

fermarla, o per lo meno deviarne il corso, ma non trovò le parole per farlo

senza nominare esplicitamente gli scatoloni, le valigie, Justin, i suoi genitori e

tutto ciò che comportavano.

«Tu non conosci Justin» disse Missa. «Credi di conoscerlo, e posso capire

perché. Justin sembra così... Scommetto che tu lo definiresti un sempliciotto.

Non molto intelligente, ingenuo, superficiale...»

«Non è vero, Missa. È sempre stato molto...»

«Lascia perdere.» Il tono di Missa era cambiato, si era fatto brusco. «Mi ha


raccontato tutto, mamma. Dalla A alla Z, per filo e per segno. Mi ha spiegato

il tuo Piano Strategico con la maiuscola, Obiettivo Università. Non pensavi

che me lo dicesse, perché lo consideravi come consideri chiunque abbia a che

fare con te, argilla da plasmare a tuo piacimento. Ma Justin non si lascia

manipolare e non è di argilla, ma di ferro, è autentico, e te lo ha dimostrato

fin dal principio. Solo che, invece dell’autenticità, tu hai visto in lui solo

semplicità e hai pensato di poterlo manovrare...»

«Missa, non è vero!»

«... alle mie spalle. Ma hai trascurato il fatto che per lui la verità è più

importante dei sogni o, in questo caso, dei regali che gli hai promesso.»

Yasmina avrebbe voluto farla tacere. Nell’aria c’era un odore strano,

nuovo, come di piscina, che non le piaceva. Si ripromise di parlarne con la

donna delle pulizie: non le andava che casa sua puzzasse di cloro. «Non so di

cosa stai parlando, Missa» disse.

«Santo cielo, mamma!» esclamò la ragazza. «Qui, adesso, nel nostro

salotto, ti sto dicendo che ieri sera Justin mi ha illustrato il tuo Piano

Strategico. Oh, ha cominciato come volevi tu, raccontandomi che l’avevi

implorato di parlarmi del West Mercia College, che l’unico modo perché tu la

smettessi di insistere era accompagnarmi dalla psicologa del college, che

dovevamo andarci insieme eccetera eccetera. Solo che non ce l’ha fatta,

capisci? Non è riuscito a fare quello che volevi tu perché sapeva che

nell’attimo in cui fossi salita in macchina con lui per andare a Ludlow glielo

avrei letto in faccia. E quindi mi ha detto la verità.»

«Missa, non puoi non capire quanto è importante che...»

La ragazza si alzò in piedi di scatto. «No. Non. Capisco» scandì alzando la

voce.

Sati si sarebbe svegliata e tutto sarebbe andato a rotoli, pensò Yasmina.

«Per favore, parliamone quando sarai...»

«No. Non ne parliamo più. Basta. Per te parlare significa che tu cominci, io

ti sto a sentire e quando provo a rispondere non riesco... non riesco a

rispondere... Fine. Mi sono stufata. Basta, basta, basta!»

«Smettila di strillare, così svegli tua sorella e tuo padre.»

«E tu non vuoi che si sveglino, vero? Perché se si svegliano c’è il rischio

che scoprano che hai tramato alle mie spalle. Potrebbero capire che cosa ti

importa veramente... Perché a te stanno a cuore le apparenze, non la realtà. E

se loro lo capiscono, per te è la fine, vero? Per te, come per questa famiglia


che è finita da un pezzo, solo che tu non lo vuoi ammettere e io non ne posso

più. È chiaro? Hai capito?» Missa prese una foto in cornice che era posata sul

tavolino accanto alla poltrona e la buttò per terra. «Sono stufa di questa

sceneggiata del cazzo! Non voglio più averci niente a che fare! Mai più!»

«Smettila! Smettila di parlare così e di fare l’isterica!»

«No, cazzo! Non voglio! Smettila di rompermi i coglioni!»

Lo urlò e, come prevedibile, subito dopo arrivò di corsa Sati.

Vide Yasmina e Missa che si guardavano in cagnesco, vide le valigie e gli

scatoloni e scoppiò a piangere. «Missa, no! No! No! Voglio venire anch’io!

Voglio venire con te! Ti prego!» Corse verso la sorella, ma Yasmina la

afferrò per un braccio.

«Sati, torna in camera tua» le ordinò a denti stretti. «Torna subito in

camera tua!» La spinse verso le scale.

«Smettila!» strillò Missa. «Lasciala in pace!»

«Missa!» gridò Sati.

«Non ti preoccupare» le disse Missa. «Tornerò a prenderti. Tornerò presto.

Non aver paura, Sati.»

Yasmina si voltò come una furia. «Sati non va da nessuna parte, e

nemmeno tu. Torna subito in camera tua e porta su le valigie. Al resto

penseremo quando tuo padre...»

«Tu non sai niente! Non sai niente di me e non lo saprai mai perché...

perché...» Missa cominciò a piangere ancora più disperatamente di Sati, con

un’angoscia che fece rabbrividire Yasmina.

«Oddio, Missa...» disse, ma la figlia la respinse.

In quel momento suonarono alla porta. Era Justin, naturalmente. E Missa si

buttò fra le sue braccia. Il ragazzo reagì come sempre. «Tranquilla, Missa. Va

tutto bene. Mia madre e mio padre sono d’accordo, come ti avevo detto.»

«Casa sua è qui» disse Yasmina. Bastarono quelle parole perché Missa si

precipitasse verso la porta e verso l’auto di Justin che l’aspettava.

Justin rimase dov’era, incerto fra seguire Missa per consolarla e prendere i

bagagli, come avevano concordato la sera prima.

«Dottoressa Lomax, non ce l’ho fatta. Gliel’ho dovuto dire e lei ha risposto

che non le importava niente. Né del matrimonio, né della casa, né della luna

di miele.» Justin arrossì come al solito e precisò: «Non voglio dire che non ci

sposeremo. Lo faremo, è quello che desideriamo tutti e due. E siamo disposti

ad aspettare. Intendevo il resto. Ma non si preoccupi. Mia mamma sostiene


che Missa può stare nella camera delle mie sorelle. Se ne sono andate da casa

da un pezzo e... be’...»

Ebbe il buon cuore di non far cenno alle lacrime che scorrevano sulle

guance di Yasmina, anche se ovviamente le vide benissimo. Le diede perfino

una leggera pacca sulla spalla, mentre si avvicinava per prendere le due

valigie di Missa. Sarebbe tornato subito a recuperare gli scatoloni, avvisò.

Era tutto così facile quando si aveva un buon piano.

E poco dopo se n’erano andati. Restava però da pensare a Sati, che si era

chiusa in camera e piangeva disperata. Solo che, quando arrivò in cima alle

scale, Yasmina vide che la figlia minore non era andata nella sua stanza, ma a

chiamare il padre perché intervenisse.

«Mamma, non si vuole svegliare!» singhiozzava la ragazzina tirando

Timothy per un braccio e gridando: «Papà! Papà!»

Yasmina corse vicino al letto e tirò via Sati. «Aspettami in camera tua» le

disse.

«Ma non si sveglia... Che cos’ha, mamma? Che cosa succede?»

Yasmina si chinò sul marito: era di un colore che non lasciava presagire

nulla di buono, però respirava, sia pure con un rantolo. Lo chiamò. Nessuna

risposta. Alzò la voce e lo chiamò di nuovo, mentre Sati alle sue spalle si

lasciava cadere per terra piangendo: «No... Noooo...»

Yasmina scostò lenzuola e coperte, salì sul letto e si mise a cavalcioni del

marito. Chiuse la mano a pugno e cominciò a premergli il centro del petto,

appoggiandosi sulla mano con tutto il proprio peso per esercitare maggior

pressione.

«Mamma, che cos’ha? Chiamo il 999. Devo chiamare il 999?» chiese Sati,

dietro di lei.

«No, no!» rispose ansimando Yasmina. Poi si rivolse al marito. «Timothy,

per amor del cielo! Timothy! Timothy!» Non poteva farlo portare al pronto

soccorso perché altrimenti sarebbe emerso tutto quanto: il suo vizio, il fatto

che sottraeva medicinali in farmacia, che aveva una vera e propria

dipendenza. «Va tutto bene, tesoro. Ha solo un po’ di difficoltà a... Vedrai

che ora gli passa. Guarda, Sati, adesso si sveglia...»

Grazie a Dio, Timothy si stava riprendendo davvero: sbatté le palpebre, poi

richiuse gli occhi. Yasmina gli diede uno schiaffo per farglieli riaprire e, con

uno strattone, lo fece mettere a sedere e poi in piedi. «Visto, Sati? Si è

svegliato. Sta bene. Ieri sera ha preso una pillola per dormire. Adesso lo porto


in bagno e ci chiudiamo un attimo dentro, ma va tutto bene, vedi?»

Sati era affranta. Yasmina era in preda a una furia tale che le sembrava di

avere una forza sovrumana: se necessario, sarebbe riuscita a portare Timothy

di peso nel bagno. Ma non ce ne fu bisogno.

«Sati, io...» disse Timothy, a testa bassa. Poi si afflosciò, appoggiandosi

alla moglie, ma quelle parole erano bastate a Sati, che indietreggiò e rimase a

fissarli dal corridoio sconvolta, con i pugni stretti sotto il mento. Prima di

chiudere la porta del bagno, Yasmina la guardò. «Mi dispiace. Sati, tesoro, mi

dispiace tanto.»

Ludlow

Shropshire

Riusciva a essere irritante per mille motivi, ma quando si trattava di

analizzare un caso Barbara Havers era capace di intuizioni azzeccatissime.

Lynley aveva grande fiducia in lei e la sera prima, quando erano tornati dal

cimitero al Griffith Hall ragionando su tutti gli ostacoli, gli intralci e i bastoni

fra le ruote che avevano dovuto superare, Lynley aveva ascoltato con grande

attenzione le sue considerazioni.

«Il problema, ispettore, è che è troppo alta» aveva cominciato Barbara.

«Francie A-d-a-m-u-c-c-i, come dice lei?»

«Esatto. Sono bionde tutte e due e hanno lo stesso look da studentessa-cheavrebbe-bisogno-di-un-parrucchiere.»

Non appena aveva finito di dirlo,

aveva inarcato un sopracciglio e si era affrettata a puntualizzare: «Lo so, lo

so: chi sono io per trovare da ridire sul taglio di capelli altrui? Ma ha capito in

che senso lo dico, vero? Tutte ’ste ragazze che vanno in giro come reduci

degli anni Sessanta... Gli mancano solo una coroncina di fiori in testa e un

biglietto per San Francisco. Ma il punto è che, nonostante siano tutte e due

bionde, la somiglianza finisce lì. La corporatura è completamente diversa.

Quella che ho visto con Ruddock era bassa. Lo so perché l’ho vista vicino

alla portiera dell’auto. Invece questa Francie è alta, magra e prosperosa.

L’invidia di tutte le femmine, insomma. E poi è vero che era buio, ma quando

quella sera la ragazza ha aperto la portiera per scendere dalla macchina, si è

accesa la luce e per un attimo l’ho vista in faccia. Non era lei!» A quel punto

Barbara aveva indicato con il pollice alle proprie spalle la direzione da cui


venivano. «E comunque resta il fatto dell’auto di pattuglia.»

«Cioè che è stata Dena Donaldson a nominare l’auto di pattuglia, mentre

lei aveva solo parlato di una macchina.»

«Qualcosa deve pur significare, e secondo me significa che è stata con

Ruddock. Se vuole il mio parere, qualcuno ci sta tenendo nascosto qualcosa.

Dena, Francie A-d-a-m eccetera, o magari anche Harry Rochester, che

potrebbe aver visto Dena ma adesso per qualche motivo sostiene di aver visto

Francie. Se ne rende conto anche lei, vero?»

Quello di cui si rendeva conto Lynley era che il tempo passava e di lì a

breve Hillier avrebbe preteso dei risultati per evitare a tutti quanti di finire nel

calderone di acqua bollente che il ministro degli Interni aveva pronto per

loro. «A tenerci nascosto qualcosa, sergente, oserei dire che è più di una

persona. Domani mattina telefono a Winston Nkata» aveva detto prima che

arrivassero all’albergo.

E infatti aspettò l’ora in cui il sergente prendeva servizio e gli telefonò.

Nkata gli rispose con il suo inconfondibile accento, un misto di Africa

Occidentale, Caraibi e Brixton. «Posso approfittare della sua bravura e

chiederle di farmi qualche ricerca, Winston? Siamo un po’ in difficoltà qui»

chiese Linley.

«Mi dica» replicò Winston cordialmente.

Lynley gli diede un elenco di nomi che cominciava con Harry Rochester e

terminava con Christopher Spencer, incluso più che altro per disperazione.

Alla fine, Winston Nkata fece un fischio. «Ci vorrà un po’. Cosa devo cercare

di preciso?»

«Qualunque cosa le sembri sospetta nel loro passato. Per il momento ci

interessa soprattutto Harry Rochester, ma se qualcun altro ha starnutito senza

mettersi la mano davanti alla bocca, ce lo segnali, per cortesia. Riesce a

farcela in giornata?»

«Sì. Sto svolgendo anche altre ricerche, ma...» Si interruppe. Lynley sentì

che qualcuno gli diceva qualcosa e Winston rispondeva: «Sì, è lui. Mi ha

appena chiamato» e poi, al telefono: «Dee Harriman vorrebbe parlarle un

attimo, ispettore».

Quando Dee gli disse «È il cielo che la manda, ispettore investigativo»,

Lynley rispose con tutta la lealtà di cui era capace. «A giudicare da quanto è

stanca la mattina, credo che Barbara si alleni tutte le sere, Dee. O forse prima

di colazione. Confesso che non le ho chiesto esattamente a che ora si metta in


comunicazione con Ginger Rogers. In ogni caso, a furia di ballare si sta

consumando i metatarsi. O i metacarpi? Farà un figurone al saggio di danza.

Mi raccomando, mi segni la data in agenda perché, nonostante le minacce di

Barbara, voglio assolutamente esserci.»

«Conto sulla sua presenza, ispettore, quindi se sta facendo dell’ironia...»

replicò Dee.

«Non oserei mai fare dell’ironia sul sergente Havers con le claquettes ai

piedi, mi creda.»

Dee rise. «Sarà uno spettacolo, vedrà. Barbara farà faville. Ma non è di

questo che volevo parlarle.»

«Ah, il cielo mi ha mandato per cosa, allora?»

Ci fu un momento di silenzio, poi Dee rispose a voce bassissima.

Sembrava che si fosse allontanata dalla scrivania di Nkata, o forse si era

voltata. «Non è venuta a lavorare. Ha di nuovo telefonato dandosi malata.

Non si ammala mai, ispettore. Cosa devo fare?»

«Il sovrintendente Ardery.»

«Chi, se no?»

«Forse sarebbe più corretto dire che non si è mai ammalata finora, Dee.» Il

tono di Lynley era volutamente tranquillo, ma la preoccupazione gli aveva

fatto serrare le dita intorno al cellulare. «E adesso invece non si sente bene.»

«Cosa devo fare? Me lo dica lei.»

«Le ha parlato?»

«Ha lasciato un messaggio. Come l’altra volta. Ma le telefoneranno – e

presto, ispettore – oppure telefoneranno a me per chiedere sue notizie. E io

non so che cosa dire, né che cosa fare. Forse, se la chiamasse lei... Perché,

vede, sono preoccupata. Lei mi dirà che non dovrei, che se sta male non sono

affari miei, ma se avesse sentito con che voce... Mi sembra che... Cioè, voglio

dire, posso parlare chiaro e dirle cosa penso, ispettore investigativo Lynley?»

«Cosa pensa?»

«Lei lo sa. E io so che lei lo sa perché certe volte le voci si sentono anche

attraverso le porte chiuse e io non sono una che origlia e non l’ho mai fatto,

ma ho visto che anche lei a volte si ferma davanti alla porta della sua stanza

per sentire se...»

«Dee.»

«Sì?»

Lynley rifletté su cosa rispondere. Dee Harriman era una persona corretta e


leale nei confronti di tutti, compresa Isabelle Ardery, ed era sicuramente in

buona fede. «In questo caso non possiamo fare niente» disse.

«È vero, sì. Ma se il sovrintendente Ardery venisse a sapere che se ne sono

accorte anche altre persone... Voglio dire... Invece che lei è al corrente già lo

sa, immagino.»

«E serve a qualcosa, secondo lei?»

Seguì un silenzio in cui Lynley udì altre voci in sottofondo. L’ufficio di

Londra era in piena attività. Dee aveva ragione a preoccuparsi, perché

qualcuno prima o poi avrebbe dovuto affrontare di petto la questione. Ma

quel qualcuno non sarebbe stato Thomas Lynley. Non era possibile. Né

poteva essere Dorothea Harriman. «No, a niente. Quindi che... che cosa

faccio?» rispose la donna.

«Non lo chieda a me. Sa già cosa deve fare.»

«Oddio, dovrei denunciarla?»

«Deve fare il suo lavoro, Dee» ribatté Lynley. «Il sovrintendente le ha

lasciato un messaggio dicendo che è malata. Lei è convinta che non sia vero,

e probabilmente ha ragione, ma dal momento che non ne ha la certezza e che

il sovrintendente non le ha detto...»

«Non mi dirà mai che deve smaltire la sbornia o che è troppo sconvolta per

presentarsi in ufficio!»

«... l’unica cosa che può fare è riferire quanto le è stato detto a chi dovesse

eventualmente chiederle notizie.»

«Quindi, se nessuno mi chiede niente...»

«Sa già cosa deve fare, non c’è bisogno che glielo dica io.»

«Ma non si può andare avanti così, ispettore investigativo.»

«E infatti non andrà avanti a lungo. I nodi vengono al pettine, prima o

poi.»

Si salutarono. Per telefonare Lynley si era seduto sul letto scomodissimo

della sua stanza simil-cella. Si guardò le scarpe e vide che avrebbero avuto

bisogno di una bella lucidata, ma purtroppo non aveva portato con sé il

necessario e in ogni caso non era bravo come Charlie Denton. Pensò di

telefonargli per chiedere come andava con Mamet, poi pensò di telefonare a

Daidre. Aveva anche lei le sue preoccupazioni: i genitori biologici, il fratello

e la sorella, la madre in punto di morte, eppure Lynley si chiese cosa

significasse quel suo silenzio in un momento in cui era costretta a tornare in

un mondo che era convinta di aver abbandonato per sempre. Daidre stava


affrontando i fantasmi del proprio passato senza di lui e Lynley non poteva

fare a meno di domandarsi come mai non sembrasse aver bisogno di lui in un

momento simile. Sottesa a quella domanda ce n’era inevitabilmente un’altra

più generale: abbiamo davvero bisogno degli altri?

A quella non sapeva rispondere, e non ci provò nemmeno.

Ludlow

Shropshire

Ding si svegliò nel letto in cui aveva dormito sola per tutta la notte. Non le

succedeva da tantissimo tempo. Non ricordava con esattezza da quando, ma

doveva essere da due settimane dopo l’inizio dei corsi, perché era più o meno

in quel periodo che si era messa con Brutus. E anche se lui poco dopo aveva

cominciato ad andare anche con altre ragazze, era sempre tornato a dormire

nel letto di Ding, tranne le notti in cui lei lo aveva mandato via perché l’aveva

fatta arrabbiare troppo con il suo... con il suo essere Brutus in tutto e per

tutto.

Oltre ad aver dormito sola, Ding non aveva fatto sesso né il giorno né la

notte prima. Se questo non era di per sé straordinario, lo era il fatto che fosse

riuscita a prendere sonno e a risvegliarsi senza grossi patemi. In passato

avrebbe cominciato subito a chiedersi con chi mettersi, come se senza

qualcuno con cui «mettersi» – ossia, fondamentalmente, con cui andare a

letto – potesse perdere la propria identità.

E sulla propria identità Ding continuava ad avere le idee piuttosto confuse.

Se non altro, però, adesso riusciva a ricostruire la parabola che da bambina

l’aveva portata a essere l’adolescente e poi la donna che era diventata.

L’aveva percorsa a velocità folle, bruciando le tappe nel tentativo disperato di

raggiungere una meta che non le era chiara. Non avendo chiaro dove stava

andando, anche se fosse giunta a destinazione difficilmente se ne sarebbe

accorta, e così finiva per cercare sempre e soltanto ciò che le era familiare,

pur non sapendo neppure perché le fosse familiare.

Nel momento terribile in cui aveva visto suo padre morto, nudo come un

verme, in qualche modo doveva aver intuito che aveva fatto quella fine per

via dell’arnese che gli pendeva fra le gambe e, nella sua mente di bambina,

doveva aver tratto qualche conclusione: solo così riusciva a spiegarsi la


ripugnanza che provava ogni volta che un uomo le chiedeva di fare qualcosa

con il suo arnese.

Ma allora, pensò Ding sdraiata nel letto a guardare il soffitto, se la sua

analisi era corretta, da dove veniva tutta la sua rabbia, in particolare quella

che provava nei confronti di Brutus e delle altre con cui era andato da quando

si era messo con lei? Ding se l’era sempre presa con quelle che gliela davano

e glielo prendevano in bocca, ma perché? E che cosa significava?

Ci pensò su per un po’ e la risposta le arrivò lenta ma chiarissima, così

limpida che capì subito da dove nasceva. Rivide le facce delle ragazze che

aveva sorpreso con Brutus: Allison, Monica, Francie. Riconosceva la loro

espressione: piacere, libidine, godimento. Comunque lo si volesse chiamare,

era qualcosa che lei non era in grado di provare. Ecco qual era il problema.

Allison che rideva, Monica con quell’aria da gatta soddisfatta, Francie che la

invitava a farlo in tre. Perché per Francie si trattava di un gioco, di un

divertimento e basta, mentre per Ding... Ding aveva sempre fatto sesso

soltanto per dire a se stessa che solo lei sapeva quanto era spregevole il

maschio della specie Homo sapiens.

Si alzò e frugò in un cassetto finché non trovò un paio di pantaloni e una

maglietta che sarebbero andati bene per fare yoga, ma che lei aveva

l’abitudine di portare quando stava in casa. Se li mise e uscì dalla stanza. Le

altre porte erano chiuse. Si avvicinò a quella di Brutus e bussò.

«Bru?» disse. «Posso parlarti un attimo?» Sentì parlottare brevemente

sottovoce, poi silenzio. «Non è niente di grave, Bru. Non aver paura, okay?»

Funzionò. Ding sentì cigolare le molle del materasso e poco dopo Brutus

aprì. Tenne la porta in modo che lei non vedesse dentro la stanza,

probabilmente perché si era portato a letto una ragazza nuova, la raggiunse

nel corridoio e richiuse la stanza. «Sì? Cosa c’è?»

Il tono era guardingo. Lanciò un’occhiata verso la stanza di Finn, poi

guardò di nuovo Ding. Indosso aveva soltanto i boxer.

«Posso parlarti?» chiese Ding. «È una cosa veloce. Puoi venire un

momento in camera mia?»

«Io e te non...»

«Non voglio parlarti di noi» lo interruppe Ding. «Sappiamo benissimo che

tra noi è finita. Ma devo chiederti una cosa e preferisco parlartene di là.»

Inclinò la testa verso la propria stanza.

Brutus si sforzò visibilmente di non perdere la pazienza. «Ding, te l’ho già


spiegato un sacco di volte. Non so come altro spiegartelo.»

«Non si tratta di questo. C’è una cosa che non mi hai mai spiegato, perché

io non te l’ho mai chiesta, ed è di quella che ti voglio parlare. Faccio presto,

vedrai.»

Brutus sospirò. «Okay. Dammi solo un momento» disse.

Tornò in camera, sgattaiolando dentro in modo da non scostare la porta più

di un palmo, e un attimo dopo Ding udì un mormorio, la voce di Brutus e

quella di una donna. La presenza di una sconosciuta la offendeva, ma si

accorse che non era tanto per gelosia nei confronti di Brutus, quanto per un

disagio tutto suo, e che era stato così fin dall’inizio.

Brutus tornò nel corridoio in jeans e maglietta e la seguì, ma si fermò sulla

soglia.

«Mica ti salto addosso» lo tranquillizzò Ding.

«Lo so, ma ho dovuto chiarirle che...» replicò Brutus.

«Capito.» Si rese conto nel momento stesso in cui lo diceva che non aveva

il minimo interesse. Non contava chi fosse la ragazza, perché fosse lì, che

cosa avesse fatto con Brutus. Non gliene importava niente. «Va bene così,

Bru. Adesso ho capito. Non siamo poi così diversi, io e te. Ci arriviamo in

modi diversi, ma in fondo la conclusione è la stessa.»

«Ah.» Brutus aveva l’aria ancora più guardinga di prima.

Ding continuò. «Comunque, non è di questo che ti volevo parlare. Devo

chiederti una cosa su quella sera in cui nevicava e ci siamo sbronzati allo Hart

and Hind, a dicembre.»

Brutus aggrottò la fronte. «È nevicato un sacco di volte. E ci siamo

sbronzati un sacco di volte.»

«Sì, ma quella sera io e te eravamo andati allo Hart and Hind con un piano

e abbiamo bevuto sidro invece che birra. Ti ricordi, Brutus?» Aspettò che gli

tornasse in mente, ma lui continuava a brancolare nel buio. «Quella sera io e

te avevamo un piano, ma le cose ci sono sfuggite di mano. C’era anche Finn.

Lui beveva Guinness mentre noi bevevamo sidro, e ti ricordi come ci siamo

ridotti? Non volevamo, perlomeno io e te, ma è andata così.»

Brutus annuì lentamente. «Me lo ricordo, sì. Abbiamo fatto una stronzata.»

«Peggio che una stronzata. Abbiamo fatto una cosa terribile. Ed è per

questo che le cose sono andate come sono andate.»

«In che senso? Non ti capisco, Ding.»

«Finora sono stata zitta, ma adesso ho bisogno di saperlo. Questa cosa mi


sta facendo impazzire da un sacco di tempo e ora voglio vederci chiaro, ma

per farlo ho bisogno di sapere dov’eri. Perché quella notte mi sono svegliata e

tu non c’eri e, come hai detto anche tu, dormivi sempre con me se... cioè...

quando lo facevamo di sera e non durante il giorno. Solo che quella notte mi

sono svegliata e tu non c’eri e non sei tornato proprio. Dove sei stato?»

Brutus la guardò perplesso. Non capiva perché, dopo tutti quei mesi, le

interessasse tanto una simile inezia. «Ero abbracciato al cesso» rispose dopo

un po’.

«Cosa?»

«Mi sono alzato per pisciare. Solo che mi girava la testa e mi veniva da

vomitare. Sono arrivato nel bagno appena in tempo e ho cacciato anche

l’anima e a un certo punto devo essere svenuto, perché mi ricordo che ho

pensato, quasi quasi mi riposo un momento qui per terra davanti al cesso, e

poi mi sono svegliato con Finn che mi pisciava in testa. Anzi, non solo in

testa. Sai com’è Finn, ha dei problemi a centrare la tazza. Regge l’alcol

meglio di me e non aveva bevuto sidro, lui.»

Ding si coprì la bocca con la mano. «Nel bagno» ripeté. «Quella notte,

quando mi sono svegliata, eri nel bagno?»

«Sì, ci sono rimasto finché non è arrivato Finn. Ma a quel punto fuori c’era

già luce. Sono tornato in camera mia e tanti saluti. Perché me lo chiedi,

Ding?»

Ding scosse la testa in preda all’incertezza. Era convinta di aver capito, ma

ora lo scenario era di nuovo cambiato. Doveva riflettere sulla cosa giusta da

fare.

Ludlow

Shropshire

«Fin dal primo momento, quando sono venuta qui con il sovrintendente,

quest’uomo non ha fatto altro che propinarci mezze verità, ispettore. Ha

omesso dettagli, ha descritto le cose prima in un modo e poi in un altro. Della

serie: ’Ah, già, mi sono dimenticato di dirvi che ho fatto una sfilza di

telefonate al marito del vicecomandante e pure a Ian Druitt. Ah, già, in effetti

conosco Finnegan Freeman. Non vi ho parlato delle perplessità che Druitt

aveva nei suoi confronti? A proposito, conosco parecchio bene una ragazza


che, combinazione, abita in casa con lui’.»

Barbara e Lynley erano sulla terrazza dell’albergo, dove tirava un’aria

fresca che avrebbe scoraggiato chiunque dal fare colazione all’aperto.

Neppure loro avevano intenzione di mangiare lì, ma a Ludlow arrivavano

ogni giorno più turisti e il Griffith Hall era sempre più affollato. Lynley aveva

riferito sottovoce a Barbara la telefonata con Winston Nkata e Barbara

avrebbe voluto richiamarlo per aggiungere alla lista anche Gary Ruddock.

Appena lei aveva cominciato a discutere su quell’idea, Lynley l’aveva portata

sulla terrazza, che non era visibile né dalla sala della prima colazione né dal

bar. Nel prato sottostante c’erano due giardinieri all’opera, ma erano piuttosto

lontani e si poteva parlare senza pericolo di essere sentiti.

Lynley era fin troppo pensieroso. Osservava i due giardinieri come se li

stesse confrontando mentalmente con gli addetti alla manutenzione del

latifondo di cui era proprietario in qualità di Lord Asherton. Barbara fremeva:

avrebbe voluto vederlo entrare in azione, anche se nemmeno lei avrebbe

saputo dire di quale genere di azione ci fosse bisogno. «Ispettore? Mi sente?

Qui Ludlow...»

Lynley si riscosse. «Condivido pienamente le anomalie che...»

«Anomalie?»

«... che ha messo in evidenza. Resta il fatto che, malgrado tutto ciò che

abbiamo visto e sentito, e che è in parte discutibile...»

«Discutibile?»

«... penso che lei sia concorde sulla totale assenza di un movente e...»

Lynley alzò la mano per impedirle di interromperlo di nuovo. «Anche se sono

d’accordo con lei che può essersi trattato di un gesto immotivato, suicidio o

omicidio che fosse, ammetterà che è stranissimo.»

«Stranissimo che siano passati diciannove giorni, intende.»

«Sì, ma non solo quello.»

«E quindi...?» Barbara cercò di incoraggiarlo.

«Sappiamo che c’è sotto qualcos’altro. Ragione in più per vedere cosa

riesce a scoprire Nkata. Ma il problema resta lo stesso che avevamo

all’inizio: non abbiamo testimoni e non abbiamo prove. Abbiamo solo un

teste che afferma di aver visto l’agente Ruddock portare degli ubriachi da

qualche parte, con ogni probabilità a casa. Per tutto il resto non c’è bisogno

che sia io a ricordarle che non abbiamo alcuna prova.»

«E questo non le sembra curioso? Non mi riferisco a Ruddock e agli


ubriachi, ma alla mancanza assoluta di testimoni. Compreso il fatto che

l’autore della telefonata a seguito della quale Druitt è stato fermato è sfuggito

alla sorveglianza. Non le sembra un po’ troppo comodo che la videocamera

fosse stata spostata in maniera da non riprendere il telefono? E che questa

stessa videocamera sia rimasta spenta per venti secondi, ovvero per il tempo

che è occorso a qualcuno per uscire, spostarla, tornare dentro e riaccenderla?

Secondo lei, chi è stato?»

«Sì, concordo con lei, Barbara. Non dimentichiamo, però, che la stazione

di Ludlow è frequentata da decine di persone e può accedervi praticamente

l’intero corpo della West Mercia Police. A che ora è stata effettuata la

telefonata anonima?»

«Intorno a mezzanotte.»

«Perché, a suo avviso, l’agente Ruddock, che avrebbe potuto spostare la

videocamera e fare quella telefonata in qualsiasi momento, si sarebbe dovuto

alzare nel cuore della notte quando gli sarebbe bastato aspettare di essere in

servizio da solo – come pare sia la maggior parte del tempo – per

manomettere la videocamera e fare la sua telefonata in tutta tranquillità?»

«Per farci credere che qualcuno lo vuole incastrare» osservò Barbara.

«Giusto» ammise Lynley. «Ma non abbiamo alcun elemento per

dimostrarlo.»

«Quindi finora abbiamo sprecato il nostro tempo? È questo che sta

dicendo?»

Nel prato uno dei giardinieri aveva messo in moto un tosaerba e si dirigeva

verso di loro, mentre l’altro spruzzava qualcosa su una rosa rampicante

nell’angolo più lontano del giardino. Lynley e Barbara si incamminarono

verso il Ludlow Castle, ma si fermarono a continuare il discorso sul

marciapiede di fronte al castello.

«No, non sto dicendo questo. Ma sa bene anche lei qual è il problema: il

delitto perfetto non esiste. Prima o poi una prova salta sempre fuori, a meno

che l’assassino riesca a simulare la morte naturale così bene che nessuno la

mette in dubbio. Se le cose stanno così – e mi riferisco all’impossibilità di

compiere un delitto perfetto – in mancanza di prove che Druitt sia stato

ammazzato, non possiamo che confermare la tesi iniziale. Per quanto possa

risultare sgradevole, si tratta di un suicidio.»

«Lo crede veramente?»

«Barbara, sono d’accordo che l’ausiliario sembra un personaggio


discutibile, ma la parola chiave è, come lei ben sa, sembra. Se non troviamo

qualcosa di concreto, le nostre restano insinuazioni e accuse campate per aria.

E le ricordo che presto dovremo tornare a Londra: immagino ci faranno

rientrare a breve.»

Barbara diede un calcio a un ciuffo d’erba cresciuta fra le pietre del

marciapiede. «Pazienza» borbottò. Poi però ebbe un’illuminazione e alzò lo

sguardo. «Io le ricordo invece la possibilità di ricorrere a qualche

stratagemma, ispettore.»

«Non escludo di farlo, mi creda. Non ora, però.»

Sugli spalti del castello qualcuno stava srotolando uno striscione che

reclamizzava l’imminente festival shakespeariano. Fra gli spettacoli in

programma c’era Tito Andronico. Lynley lo vide ed esclamò: «Oddio».

«Cosa?» chiese Barbara.

«Uno stupro, mani mozzate, una lingua tagliata a una donna ancora viva,

un pasticcio di carne fatto con pezzi di nemici uccisi. Non ci è ancora

arrivata?»

«Sono alle tragedie. Questa c’entra?»

«È una tragedia anche che venga messa in scena.»

Barbara rise, suo malgrado. «E Francie Adamucci, allora? Ci ha fatto

capire chiaramente che dovremmo indagare su Ruddock. Può darsi che alla

base di tutto ci sia lui e la sua abitudine di portare le studentesse troppo

ubriache alla stazione di polizia, o forse soltanto nel parcheggio. Magari non

è vero che ha una fidanzata di cui non vuol dire il nome per questioni di

’onore’. Magari ogni volta che si carica in macchina giovani ubriachi per

accompagnarli a casa se ne porta nel parcheggio una diversa.»

«E perché la ragazza dovrebbe starci, ammesso che ciò che afferma sia

vero?»

«Perché non vuole farsi vedere in quello stato, per esempio. Da mamma e

papà, oppure dal tutor, da un coinquilino, da chiunque. E l’unico modo per

evitarlo è accontentare il nostro Gaz.»

«E questo dove ci porta, Barbara?»

«A una prima spiegazione del motivo per cui Gaz Ruddock risulta

discutibile. Finora ha dato spiegazioni un tantino traballanti, ma legittime:

una relazione con una donna di cui non vuol fare il nome per questioni di

’onore’ – suona bene, bisogna riconoscerlo –, un incontro nel parcheggio la

sera in cui è morto Druitt, l’abbandono del posto di servizio e il successivo


harakiri in stile Lancillotto o cosa diavolo...»

«Lancillotto non ha...»

«Oh, lo so. Il punto è che Ruddock si dipinge come un cavaliere senza

macchia e senza paura, mentre invece approfitta delle studentesse ubriache

costringendole a fare sesso. E questo è un po’ meno legittimo. Vero è che

dovremmo trovarne una disposta a testimoniare. Però, a proposito di

stratagemmi, potremmo fargli credere che l’abbiamo trovata.»

«E se dovessimo farlo, questo dove ci porterebbe?»

Barbara rifletté sul passo logico successivo: Ruddock, le studentesse

ubriache, il parcheggio della stazione di polizia... Le venne un’idea. «Caspita,

ispettore! Ci porterebbe a una studentessa che va a confessare tutto a un

uomo di Dio! E l’uomo di Dio decide di andare a parlare con Ruddock e

allora Ruddock decide che bisogna prendere provvedimenti prima che Druitt

vada a parlare anche con qualcun altro, per esempio con i suoi superiori in

polizia. Sappiamo che una Lomax è andata da Druitt, ispettore.»

«Non mi venga a dire che le ci sono voluti sette appuntamenti per dire a

Druitt che Ruddock pretendeva favori sessuali da studentesse ubriache.»

«Se però lei era una delle vittime...»

«Senta, Barbara. Per smettere di far parte della categoria bastava smettere

di farsi trovare in giro ubriaca fradicia, no?»

«Ammesso che lui le raccolga in questo modo e per questo motivo.»

«E ammesso che le raccolga veramente, perché nessuno lo ha mai detto

chiaro e tondo.»

«Harry Rochester, sì.»

«Harry Rochester ha semplicemente visto l’ausiliario con dei giovani –

maschi e femmine – in apparente stato di ebbrezza, punto. Si rende conto del

problema, vero?»

Barbara guardò di nuovo il castello. Sugli spalti stavano srotolando un

altro striscione. L’importanza di chiamarsi Ernesto. Anche Lynley lo vide.

«Non è un antidoto all’altro, ma è già qualcosa» mormorò. «Allora?» chiese.

Barbara capì che non si riferiva a Oscar Wilde. «Senza prove, siamo a un

punto morto.»

«Anche se ci piace lo scenario Ruddock-studentessa ubriaca, per far

quadrare i conti stiamo trascurando parecchi dettagli importanti.»

«Me ne rendo conto» ammise Barbara. «Per esempio che ruolo hanno i

Freeman, il motivo delle telefonate fra Druitt e Ruddock, perché i Freeman


hanno chiesto a Ruddock di tenere d’occhio Finnegan e se questo sia

rilevante o meno, come mai è passato tanto tempo dalla denuncia al fermo di

Druitt. E... Cosa c’è, ispettore?»

Lynley aveva fatto schioccare le dita.

«Siamo due perfetti idioti, Barbara» le rispose.

«Perché?»

«I diciannove giorni fra la denuncia e il fermo...»

«Cioè?»

«Doveva essere Ruddock a eseguire il fermo. Questo poteva succedere

solo se gli agenti di Shrewsbury erano impegnati altrove. E ci sono voluti

diciannove giorni perché succedesse.»

«Vuol dire che Ruddock ha aspettato che i suoi colleghi fossero impegnati

altrove, per esempio per una serie di furti?»

Lynley scosse la testa. «No. Provi a seguire le briciole di pane, Barbara.

Non è stato Ruddock ad aspettare.»

Ludlow

Shropshire

La sera prima Trevor aveva fatto una cosa che non faceva da anni: era andato

al pub e aveva bevuto troppo. Clover non era tornata a casa per cena, aveva

telefonato dicendo che avrebbe finito tardi, e lui aveva deciso che non aveva

voglia di cucinare solo per sé ed era andato al pub a mangiare scampi fritti

con contorno di piselli e patatine. Aveva innaffiato il tutto con una pinta di

lager e, finito di mangiare, ne aveva ordinata un’altra. Poi un’altra e un’altra

ancora, fino ad arrivare a quattro. Per completare l’opera, aveva bevuto anche

due dita di Jameson. A quel punto era tornato a casa, dove aveva trovato

Clover in cucina intenta ad aprire la posta che si era accumulata negli ultimi

giorni.

Gli aveva lanciato un’occhiata. «Spero che tu non abbia guidato in queste

condizioni» aveva detto.

Trevor si era avvicinato, le si era piazzato davanti e aveva mimato un

saluto militare. «Soldatino a rapporto» aveva detto. «Si è presentato Mister

Scotland Yard e io gli ho raccontato la storia che volevi tu. L’ordine

mondiale è salvo.»


«Non mi piaci quando sei ubriaco, Trev. Se vuoi parlare...»

«Ho detto che voglio parlare?» E se n’era andato. Era entrato in camera di

Finn e aveva dormito nel letto singolo del figlio.

La mattina Clover era già uscita, quando si alzò. Meglio così, pensò,

perché aveva parecchio da fare e non voleva perdere tempo tentando per

l’ennesima volta di cavarle delle informazioni di bocca.

Andò dritto a Ludlow. Doveva parlare con Gaz Ruddock, non

necessariamente a lungo, ma al più presto. E quindi, appena arrivato in città,

chiamò l’ausiliario sul cellulare per sapere dove si trovava. Gli avrebbe fatto

piacere parlargli un attimo, spiegò. Aggiunse che era a Ludlow e poteva

incontrarlo dove e quando preferiva.

Gaz parve sorpreso che Trevor fosse in città, ma non chiese spiegazioni.

Disse che stava facendo il suo solito giro, era vicino al superstore di Station

Drive e stava andando verso la stazione ferroviaria, la biblioteca e il Bull

Ring. Trevor voleva incontrarlo lungo la strada?

Perfetto, rispose Trevor. Era alla stazione di polizia e il Bull Ring non era

lontano. Di lì a poco si sarebbero visti.

Il discorso si sarebbe potuto fare per telefono, ma Trevor voleva vederlo in

faccia. Appena si furono accordati, perciò, prese Lower Galdeford Street

verso Tower Street e il Bull Ring, sul quale si affacciava l’edificio più

fotografato di Ludlow, la pittoresca Feathers Inn con gli abbaini sul tetto e le

innumerevoli finestre che decoravano i tre piani della facciata.

Come al solito, davanti all’antica locanda c’erano varie persone intente a

immortalare il balcone decorato di fiori e i vetri a rombi su cui si rifletteva il

sole. Trevor vide Gaz Ruddock in posa insieme a un gruppo di turisti,

probabilmente convinti che fosse un esemplare del tradizionale e ormai

praticamente estinto bobby inglese.

Gaz lo notò e sorrise stringendosi nelle spalle come a dire «Cosa ci vuoi

fare?» Trevor aspettò che la foto venisse scattata e i turisti si allontanassero

ascoltando in cuffia le spiegazioni della guida, riconoscibile dalla bandierina.

A quel punto si avvicinò a Gaz. «Qual è la prossima tappa?» disse.

L’ausiliario rispose: «Mill Street, passando per Brand Lane e Bell Lane, ma

possiamo anche fermarci a prendere qualcosa, se vuole. Un caffè, o quello

che preferisce. Ma al Bull» – indicò l’hotel di fronte con il cortile dove un

tempo si fermavano le carrozze per far scendere i passeggeri – «non qui».

Trevor non aveva voglia né di mangiare né di bere, ma intendeva parlare


con Gaz guardandolo in faccia, e camminando sarebbe stato difficile, per cui

accettò. Il Bull andava benissimo.

A quell’ora il bar dell’hotel era semivuoto: c’erano solo un signore che, a

giudicare dall’abbigliamento, poteva essere un docente universitario e tre

giovani che Trevor immaginò essere studenti. Erano nell’angolo in fondo a

parlare tra loro e non fecero caso ai nuovi arrivati.

Trevor declinò l’offerta di un caffè, ma Ruddock andò al banco a ordinarne

uno per sé. Nel frattempo Trevor scelse il tavolo con le condizioni di luce

migliori. Aveva sgabelli, anziché sedie, quindi non sarebbero stati

particolarmente comodi, ma Trevor non aveva intenzione di fermarsi a lungo.

«Finn sta bene?» Gaz posò il caffè sul tavolo, ci aggiunse parecchio latte e

mescolò lentamente, quasi avesse paura di farlo tracimare girando il

cucchiaio con troppa forza.

«Meno bene di quello che vorrei. Scotland Yard gli ha fatto

un’improvvisata ieri mattina.»

Gaz si rabbuiò. «Deve averli morsi la tarantola, a quelli. Vuole che gli parli

e gli dica di non preoccuparsi? Non è l’unico da cui si sono presentati...»

Trevor lo osservò. Aveva una faccia così innocente... O era la sua

espressione naturale, se non la sua vera natura, oppure aveva imparato a

recitare molto bene. Quell’aria sincera e volenterosa sicuramente lo aiutava:

gli era servita durante l’addestramento e ancora di più per conservare il posto

dopo la morte di Druitt. Certo, poteva essergli utile anche al di fuori della vita

professionale.

«Non è il caso, grazie. Finn ha reagito bene. È rimasto un po’ scosso

quando si sono presentati in camera sua...» disse Trevor.

«Cosa?»

«Eh, sì. È stato uno shock. Di sicuro l’hanno fatto apposta. Ma l’ha

superata. Gli ho detto che sporgerò reclamo.»

«Sua moglie lo sa?»

«Perché me lo chiede?»

Gaz aggrottò la fronte, sorpreso da quella domanda. «Clover è più alta in

grado di quei due. Se hanno violato il regolamento, può senz’altro

intervenire. Dare un colpo di telefono a Londra, per esempio.»

«Ah» replicò Trevor. «Sì, l’autorità l’avrebbe. Mi stupisco che lei non si

sia mai lasciato intimidire, Gaz. Quasi nessuno, nella sua posizione, instaura

con un funzionario di grado più alto il rapporto che lei ha con mia moglie.»


«Non solo con sua moglie, Trev. Con tutti i pezzi grossi che insegnavano

al corso di addestramento.»

«Be’, con Clover ha sicuramente un rapporto stretto» osservò Trevor. «A

giudicare dal numero di chiamate che ho trovato sul mio cellulare, vi parlate

spesso.»

«Gliel’ho detto, è stato per Finn.»

«Sì, me l’ha detto.» Trevor lo guardò con un’espressione che voleva essere

benevola e paterna, ma forse non gli riuscì perché non si sentiva per nulla ben

disposto nei confronti di Gaz. Era giunto il momento di darci un taglio.

«Possiamo chiuderla qui, Gaz» disse.

«Cosa?»

«Smetta di tenere d’occhio Finn e riferire a sua madre.»

«Clover non vuole più che me ne occupi?»

«Vuole sicuramente. Se potesse, lo farebbe tenere d’occhio fino alla terza

età. Sono io che dico basta. Finn se la cava discretamente e può organizzarsi

la vita per conto suo.»

Gaz guardò la tazza. Un muscolo dietro la mandibola gli si contrasse

leggermente. «Se è questo che vuole, Trev» disse dopo un po’.

«Sì, è quello che voglio, e lo vuole anche Finn» replicò Trevor. «E sono

certo che, quando glielo dirò, anche Clover riconoscerà che è meglio così. A

nessuno fa piacere che la madre gli metta alle calcagna un angelo custode. O

un gorilla. Anche perché ormai Finn è maggiorenne. Per il resto, lasciamo le

cose come stanno. Ormai lei è praticamente un amico di famiglia, in fondo.»

Gaz alzò lo sguardo. «Lo spero. Siete importanti per me, Trev. Tutti

quanti.»

Trevor sorrise. «Sì, Gaz, lo so. Grazie.»

Ludlow

Shropshire

Ding si incamminò verso il Ludford Bridge a passo meno svelto di quanto

avrebbe dovuto considerando che stava andando a lezione, era in ritardo e

Greta Yates ne sarebbe stata sicuramente informata. Ma più veloce di così

non poteva camminare perché era assorta in un misto di riflessioni e ricordi

che la stavano portando a conclusioni inquietanti. Ormai aveva capito di


essersi lasciata ingannare da Finn Freeman. Come tutti, del resto.

La verità era che lei lo aveva usato per «vendicarsi» di Brutus senza

soffermarsi troppo a pensare a lui, a parte notare che come amante era

piuttosto imbranato. Adesso però si rendeva conto che la goffaggine di Finn

era un indizio per capire chi era davvero e fino a quel momento le era

sfuggito. Insomma, ora aveva chiaro quello che non avrebbe dovuto capire, o

forse nemmeno vedere, ma il problema era che non sapeva come comportarsi.

Mentre rifletteva su tutto questo, attraversò il Ludford Bridge in direzione

del Charlton Arms. Aveva deciso di passare da Breadwalk, che rimaneva

dietro il pub, in alto sul fiume, perché era la via più breve per arrivare in

Dinham Street, dove si trovava la chiesa sconsacrata in cui il suo tutor abitava

e dava lezione agli studenti.

Mentre procedeva di buon passo, si sentì chiamare per nome. Incredibile

ma vero, era Chelsea Lloyd. Dal momento che Chelsea, notoriamente, non si

alzava mai prima delle dieci e si era scelta l’orario delle lezioni in funzione

delle sue abitudini, Ding capì subito che c’era sotto qualcosa. Chelsea le andò

incontro quasi correndo.

«Finalmente!» esclamò. «Ti aspettavo davanti a casa di MacMurra. Lo

sapevi che c’è uno che dorme all’addiaccio sotto la casa? C’è una specie di

portico aperto che doveva far parte di una cripta o roba del genere e...»

«Mi aspettavi? Perché?» la interruppe Ding. «Sono in ritardo. Devo

sbrigarmi, Chelsea.»

«Ah, sì, scusa.» Chelsea si mise al passo con Ding. «Francie mi ha chiesto

di venirti a cercare. Dice che ha provato a spiegarti la faccenda di Brutus, ma

tu non hai voluto sentire ragioni. Accidenti, come sei in forma! Rallenta un

po’, ti spiace? Non riesco a starti dietro. Comunque, Francie si scusa

moltissimo. È fatta così, lo sai. Le piace divertirsi, no? E poi tu mica ci avevi

fatto capire che Brutus ti interessava davvero, giusto?»

«Non me ne importa niente, infatti.»

«Ah. Senti, puoi rallentare un attimo?»

«Sono già in ritardo, Chelsea. E non posso perdere la lezione, sono già

messa abbastanza male così. Se ti ha mandato da me per la storia di Brutus,

dille pure che non me ne frega più niente di lui. Prima sì, certo, ma ora basta.

Via libera, accomodatevi pure, fate quello che vi pare.»

«Allora posso dirle che non vuoi più cavarle gli occhi?»

«Puoi dirle quello che vuoi. Era questo il messaggio?»


«Puf!» Chelsea aveva il fiatone. «Devo mettermi a fare jogging, allenarmi

in qualche modo. No, non era questo. Il messaggio, cioè.» Rimase indietro

perché quel punto era più soleggiato, l’erba e i cespugli crescevano più

rigogliosi e il sentiero si stringeva, ma continuò a parlare lo stesso. «Voleva

dirti che ieri sera due poliziotti le hanno fatto un sacco di domande a

proposito di Gaz Ruddock. Pare che qualcuno l’abbia vista con lui».

«E con questo? Non mi sembra una gran novità. È stata praticamente con

tutti, no?» ribatté Ding.

«Vero. Sì.» Chelsea accelerò per raggiungerla. Il fiume, più in basso,

luccicava al sole. Dagli alberi vicino al ponte si alzarono in volo cinguettando

allegramente numerosi uccellini. «Ma con lui no. Non le è successo quello

che è successo a te, non so se mi spiego. Lui ci ha provato, ma sai com’è

Francie: non ha paura di niente e di nessuno. E poi i suoi sanno che beve e

che passa da un ragazzo all’altro, ma se ne sbattono. Quindi se Ruddock

sperava di ottenere qualcosa da lei, gli è andata buca. Ma lui cosa ne sa? Mica

la conosceva... Quando è stato? A ottobre scorso?»

Finalmente Ding rallentò. Anzi, si fermò proprio e si portò una mano su un

fianco. «Vuoi venire al punto, Chelsea?»

«Be’, sì, certo. Vedi, il problema è che a Francie scoccia essere presa in

giro. Lo so, lo so, non è niente di nuovo. Ma il fatto è che i poliziotti

continuavano a insistere e alla fine lei ha un po’ sclerato.»

Ding allungò il passo. Le sarebbe piaciuto capire dove volesse arrivare

Chelsea con quei discorsi fumosi, ma doveva andare a lezione. «Okay, ho

capito. Ha sclerato» disse.

«Sì, ha sclerato, e ha praticamente detto ai poliziotti che, se volevano

sapere qualcosa di più sul conto di Gaz Ruddock, dovevano chiedere a te.»

Ding si sentì cedere le gambe. Si voltò a guardarla. «E perché? Così ci

vado di mezzo io.»

«Te l’ho detto, l’hanno mandata in confusione. Lo fanno apposta, no?

Cercano di farti cadere in contraddizione. Senti, Francie è pentitissima di aver

fatto il tuo nome, e infatti mi ha mandato ad avvertirti. E comunque ha detto

anche che saremmo contenti tutti se qualcuno desse una lezione a Ruddock. E

questo distrae l’attenzione da te. Probabilmente non si ricordano nemmeno

che ti ha nominato, no? A parte il fatto che non si è inventata niente.»

Ding ritrovò le forze e si rimise in cammino. «Sai che consolazione sapere

che non si è inventata niente!» disse.


«Francie si scusa, Ding. Le dispiace davvero. Mi ha chiesto di dirtelo il

prima possibile, e come vedi l’ho fatto. Voleva avvisarti e darti una

possibilità.»

«Una possibilità di fare cosa, scusa?»

«Non lo so. Di prepararti le risposte, penso. Su Gaz Ruddock e tutto il

resto.»

Ludlow

Shropshire

Quando Lynley bussò alla porta della camera di Barbara, l’ultima cosa che si

aspettava di sentirsi dire dal sergente era: «Scusi. Mi dispiace molto, davvero.

Ho cercato di cedergliela, ispettore. Si ricorda?»

Poi Barbara si fece da parte per lasciarlo entrare e Lynley capì il motivo di

tanto imbarazzo: un’anticamera-salotto con divano, due poltrone e tavolino e

un bagno più spazioso di camera sua. Osservò la suite. «Si rende conto di non

avere scuse per non allenarsi, vero, sergente?» disse.

«Mi raccomando, non dica niente a Dorothea! Ecco, guardi.» Barbara posò

sul divano una sacca da viaggio, frugò fino in fondo e tirò fuori un paio di

scarpe rosse da tip tap. «Visto?»

«Non mi ha convinto: le suole mi sembrano pressoché intatte.»

«Ma se sono consumate! Giuro! Mi esercito tutte le sere. Chieda a quelli

della camera di sotto... Scommetto che pensano che l’albergo sia infestato dai

picchi.» Barbara lanciò le scarpe verso un mucchio di indumenti e roba varia.

«Ho liberato il letto» annunciò.

«Ora sono più tranquillo» disse Lynley. «Vediamo cosa abbiamo.»

Tirò fuori gli occhiali dal taschino ed entrò. Divise in due la pila di rapporti

e foto e, insieme, li sparsero sul letto. Mentre li sistemavano, Lynley disse:

«Secondo me, abbiamo trascurato la possibilità che si trattasse di

neutralizzare alcune persone, e noti che ho usato il plurale. Una andava tolta

di mezzo definitivamente...»

«Ian Druitt.»

«... mentre l’altra, Ruddock, in un modo o nell’altro andava messa

temporaneamente in condizioni di non nuocere. L’IPCC si è concentrata sul

suicidio di Druitt all’interno della stazione di polizia di Ludlow e su quanto è


stato fatto da lì in poi per chiarire le circostanze della sua morte. Lei e

Isabelle – il sovrintendente Ardery – avete indagato su questo e anche sulla

vita di Ian Druitt, per capire se c’era qualcuno che ce l’avesse con lui:

telefonate anonime, accuse di pedofilia, agende, incontri con varie persone.

Vi siete chieste che cosa facesse Druitt, chi conoscesse, che cosa sapesse e

per quale motivo qualcuno potesse volerlo morto. Poi noi due abbiamo

approfondito ulteriormente le indagini, ma senza arrivare a prenderli in

considerazione entrambi insieme: Ruddock e Druitt.»

«Druitt doveva essere portato alla stazione di polizia, ma solo ed

esclusivamente se era Ruddock a prelevarlo.»

«Già: perché il punto era che rimanesse a Ludlow. Se a eseguire il fermo

fossero stati gli agenti di Shrewsbury, il diacono sarebbe stato portato

direttamente là, nella cella di sicurezza.»

«Questo significa che, una volta partita l’accusa di pedofilia, qualcuno ha

cominciato a monitorare la situazione in attesa del momento giusto, che è

arrivato diciannove giorni dopo. Ruddock esegue gli ordini – va a prelevare

Ian Druitt e lo porta in stazione – e poi viene distratto e allontanato.» Barbara

guardava le foto allineate sul letto insieme ai vari documenti. «E come?»

domandò. «Sappiamo che ha telefonato ai pub, ma è un puro caso che sia

dovuto intervenire per un’abbuffata alcolica. E comunque un giro di

telefonate non l’avrebbe tenuto occupato abbastanza a lungo per consentire a

una terza persona di introdursi nella stazione di polizia e uccidere Druitt. A

meno che le telefonate non siano state un piccolo contrattempo, una faccenda

di cui si è dovuto occupare prima del grande evento, cioè l’incontro nel

parcheggio. Ma con chi?»

Lynley la guardò con un sopracciglio inarcato in attesa che ci arrivasse da

sola. Barbara non ci mise molto. «Con una che gli avrà dato appuntamento

dicendogli qualcosa tipo ’O stasera o mai più, mio bel maschione, quindi

cerca di esserci’. Così Druitt resta solo e lei dà il via libera all’assassino, che

può agire indisturbato mentre lei e Ruddock ci danno dentro in macchina.»

Barbara si morse un labbro, con l’espressione corrucciata. «Ma questo

vorrebbe dire che Ruddock...»

«... è in una posizione indifendibile. Pensa che Druitt si sia suicidato

mentre lui era sull’auto di servizio...»

«... a farsi una di cui nessuno deve sapere niente. Se così fosse, almeno

sulla sera fatidica, Ruddock ci avrebbe detto la verità. Solo che non vuole


dirci chi è la signora in questione. Caspita, ispettore. Ruddock sta facendo

harakiri non perché è un galantuomo, ma perché ha capito tutto! Se fa un

passo falso adesso – e in qualsiasi direzione vada, sarà un passo falso – è

fottuto. Perché sa che cosa è successo e sa anche che non c’è uno straccio di

prova.»

«Quindi la cosa più facile per lui è sottoscrivere la teoria del suicidio.

Quando ha chiamato il 999 era nel panico perché credeva che Druitt si fosse

veramente ucciso, ma subito dopo ha fatto due più due.»

«Adesso però gli sta crollando il mondo addosso. Tant’è che ha fatto tutte

quelle telefonate a Worcester...»

«Eh, già.»

Barbara Havers guardò le carte sparpagliate sul letto, poi di nuovo Lynley.

«Ma tutte le nostre ipotesi non ci faranno fare nemmeno un passo avanti,

finché non troviamo le prove.»

Lynley prese due foto e le mise una accanto all’altra. «Non è proprio così,

Barbara. Qualche prova l’abbiamo: qui, da qualche parte. Si tratta solo di

trovarle.»

Wandsworth

Londra

Isabelle non aveva intenzione di prendersi un altro giorno di malattia. In

realtà, ovviamente, nemmeno il giorno prima aveva in programma di restare a

casa, ma la situazione le era sfuggita di mano. Capita, a volte. Nel caso

specifico, una cosa aveva tirato l’altra finché Isabelle si era resa conto di non

poter assolutamente andare a lavorare, e l’unica soluzione possibile era stata

lasciare un messaggio dandosi malata.

Quel mattino, appena alzata, le sembrò di essersi del tutto ripresa dai suoi

malesseri. Si era svegliata più presto del solito, e questo le parve un buon

segno. Andò in cucina e mise su l’acqua per il caffè, dopo essersi versata il

solito succo d’arancia mattutino corretto con un goccio di vodka. Lo mandò

giù e si accorse che, stranamente, non si sentiva tanto bene. Doveva essere

perché non faceva un pasto decente da almeno quarantott’ore.

In seguito a quella riflessione, decise di cuocersi un uovo. Le erano sempre

piaciute le uova alla coque, accompagnate da pane integrale leggermente


abbrustolito. Prese un pentolino e un uovo e li mise sul fornello. Con il pane

ebbe qualche problema, perché era in parte colonizzato dalla muffa, ma ne

tagliò via un pezzo e mise a tostare il resto. Nel frattempo l’acqua era arrivata

a ebollizione e, avendo già provveduto a macinare il caffè, la versò nella

caffettiera a pressione. Poi si fermò un attimo. Un altro succo d’arancia ci

stava. Aveva un sapore un po’ strano, però, e per rimediare lo corresse con un

po’ di vodka. E poi una bella tazza di caffè.

Fin qui tutto bene. Benissimo, anzi. Aveva dimenticato di guardare a che

ora aveva messo a bollire l’uovo, ma dando un’occhiata all’orologio calcolò

che doveva essere pronto, e il pane era già tostato e imburrato.

Fu l’uovo a fregarla. Dopo aver dato alcuni colpetti al guscio e averlo

scoperchiato, si accorse di aver sbagliato i tempi. Non era cotto per niente.

Quando vide il viscidume giallastro che ne uscì con la prima cucchiaiata, lo

stomaco cominciò a farle le bizze. Isabelle si mise prontamente in bocca un

pezzo di pane, lo masticò e mandò giù, ma non fu sufficiente, e le tornò su

tutto quanto, succo d’arancia, caffè, pane tostato. Corse in bagno a vomitare.

Dopo il vomito, le venne il mal di testa. Quando si era svegliata non lo

aveva, ma subito dopo aver rigettato la colazione abortita ebbe le prime fitte

lancinanti di una cefalea che né due, né quattro, né venti pillole di

paracetamolo sarebbero state in grado di debellare. Isabelle era decisa a

vincerla con la sola forza di volontà in modo da poter andare a lavorare, però

prima doveva sdraiarsi un attimo. Si trascinò fino al letto e si coricò

mormorando che era una sfida tra mente e materia, e che la materia in

questione era solo qualche vaso sanguigno dentro il suo cervello. Si girò su

un fianco e abbracciò un cuscino. Dieci minuti, pensò.

Ma non bastarono e Isabelle capì che il rimedio ai suoi mali era uno solo:

la vodka.

Si disse che una donna come lei non poteva non farcela a gestire la

situazione. Si impose di alzarsi e andare in cucina e, sia pure con un certo

sforzo, ci riuscì. Calcolò che alcuni shot di Grey Goose non l’avrebbero stesa

per il secondo giorno di fila, e li bevve uno dietro l’altro.

La risvegliò il telefono che squillava. Guardò l’orologio: erano passate più

di due ore. Il suo primo pensiero furono la Met, Dorothea Harriman, Hillier e

Judi-con-la-i, malgrado non fosse ancora spaventosamente in ritardo. Si mise

a sedere, sentì lo stomaco che le saliva in gola e afferrò il cellulare.

Non era Scotland Yard. Era Bob. «Non ti spaventare, Isabelle, ma


Laurence ha avuto un piccolo incidente» le disse.

Isabelle si premette le dita sulle tempie. Sapeva di doversi sforzare di

parlare normalmente. «C-cos’è... susc.. successo?» chiese.

Silenzio. Poi: «Ha fatto un capitombolo a scuola e lo abbiamo portato al

pronto soccorso. Anzi, ce l’ho portato io. Sandra è con James, che come puoi

immaginare è rimasto piuttosto impressionato».

«Al p-pronto soccorso? Oh mio D-dio. Si è rotto?» Non era proprio quello

che voleva dire. Si mise una mano sotto il mento come per aiutarsi ad

articolare meglio le parole.

Altro silenzio, questa volta più lungo. «Ha un trauma cranico con frattura

lineare. Giocava ad arrampicarsi ed è caduto da uno dei muri di cinta, dove

non sarebbe dovuto salire. Ha perso i sensi...» disse poi Bob.

«Ossignore.»

«... ma per pochissimo tempo. Hanno chiamato l’ambulanza e adesso

siamo qui.»

Cosa poteva dire o fare Isabelle, dal momento che le parole le uscivano

tutte sbagliate e non era in grado neppure di alzarsi? «V-vengo a...?»

«È fuori pericolo. Dobbiamo tenerlo sotto osservazione nelle prossime

settimane e farlo stare tranquillo, ma non c’è che da aspettare che la frattura

si chiuda spontaneamente» replicò Bob.

«Oh, mio Dio.»

«Ti ho chiamato, Isabelle, perché chiede di te. Si dispera, e non è da lui.

Me lo sarei aspettato più da James che da Laurence, invece... Ti chiama in

continuazione. Lì per lì pensavo che volesse Sandra, naturalmente...»

Naturalmente?, pensò Isabelle.

«... perché diceva che voleva la mamma, e di solito la chiamano così, lo

sai. Ma quando Sandra è venuta al pronto soccorso, Laurence ha detto chiaro

e tondo che voleva te.»

Isabelle avrebbe dovuto alzarsi immediatamente e correre da suo figlio,

senza lasciarsi fermare da nulla e da nessuno. Era conscia di doverlo fare, ma

era conscia anche di non averne le forze. «Oh, Bob... Sono così... Puoi dirgli

che...? Digli...»

«Hai bevuto, vero?» le chiese lui a bruciapelo. «Sei in ufficio? No. Non è

possibile. Non puoi essere al lavoro in questo stato.»

«Non sono andata. Sto male. Penso sia influenza. Ho vomitato e ho la testa

che...»


«Basta, Isabelle. Devi smetterla!»

«Per piacere, digli che... che lo verrò a trovare. Digli che la mamma lo

andrà a trovare appena può.»

«E cioè?» Bob non aspettò che rispondesse. La sua non era una vera

domanda. «Non ho intenzione di mentire per coprirti. Laurence non è

stupido. E James neanche.»

«Bob. Bob! Passamelo un momento, almeno.»

«Nelle condizioni in cui sei? Non ho intenzione di farti parlare con lui

finché sei in questo stato.»

«Ma almeno digli...»

«Non gli dico niente. Datti una regolata, Isabelle, e quando ti sarai ripresa

gli potrai parlare di persona.»

Bob chiuse la chiamata e lei rimase lì a implorare che le passasse

Laurence, che la facesse parlare con James, a ripetere che stava benissimo,

che era sobria, che stava per raggiungerli ben sapendo che non era

assolutamente in condizione di guidare fino nel Kent. Si lasciò ricadere sul

letto. Ce la farò, ce la farò, ce la farò, ripeteva fra sé. Aveva solo bisogno di

riposo, ancora un giorno e poi...

Telefonò alla Met e per fortuna poté lasciare un messaggio: Dorothea non

era in ufficio, forse si era allontanata un attimo. Poi, siccome non poteva fare

altro, andò barcollando in cucina. La testa le martellava in maniera

insopportabile ed era scossa da un tremito convulso. Colpa dell’ansia, pensò.

Della preoccupazione. Laurence al pronto soccorso con la testa rotta, a

piangere perché voleva la sua mamma... Era fuori di sé per la

preoccupazione, ovvio. La sua era solo ansia.

Quando prese la bottiglia, si disse che ne aveva bisogno per placare l’ansia,

per prepararsi ad andare da suo figlio, per stare di nuovo bene anziché essere

costretta a fingere costantemente di...

No, no. La soluzione non era quella. Aveva bisogno di mangiare. No, di

bere. No. Un caffè l’avrebbe aiutata a rimettersi, poi avrebbe potuto

ricominciare a vivere come si deve, e non come aveva vissuto fino a quel

momento.

Bevve un’altra sorsata a garganella e si disse che era l’ultima. Dopo quella,

basta. Ma la preoccupazione l’assalì, insieme al pensiero che non poteva

andare da suo figlio mentre invece avrebbe dovuto stargli vicino perché in

fondo era lei la madre, gli voleva bene, l’aveva messo al mondo, gli aveva


cambiato i pannolini e l’aveva allattato, mentre Sandra mica aveva fatto

niente, non sapeva nemmeno cosa volesse dire avere un bambino, anzi, due,

che ti crescono nella pancia e poi escono fuori facendoti provare una

sofferenza e un dolore indicibili, e l’unico modo per affrontare quei dolori e

quella sofferenza che ti rodono dentro, come una creatura aliena che ti

mangia l’anima... Isabelle aveva delle ragioni, non delle scusanti, migliaia di

ragioni, e nessuno gliele poteva togliere né mai gliele avrebbe tolte.

Era in sé, quando suonarono alla porta. Era nel soggiorno e non si era

vestita e sì, aveva bevuto, ma era in sé. Tuttavia sapeva di non poter andare

ad aprire. Nemmeno quando, dopo tre scampanellate, cominciarono a

bussare.

Dopo un po’ le venne in mente che poteva essere Bob. Sì, era sicuramente

lui che, impietosito, era venuto a prenderla. Doveva soltanto fare un doccia

veloce, vestirsi e giurargli qualsiasi cosa le avesse chiesto di giurare in segno

di gratitudine per il fatto che era venuto fino a Londra per accompagnarla a

trovare il figlio all’ospedale.

Solo che... Andò alla porta e, grazie a Dio, non aprì e si limitò a guardare

dallo spioncino. Fu assalita da un senso di orrore che mai si sarebbe aspettata

di provare in tutti i lunghi anni in cui aveva avuto il controllo della propria

vita. Lì fuori, in tenuta da ufficio, c’era Dorothea Harriman che la chiamava

come al solito con il suo titolo ufficiale e continuava a bussare con l’aria di

una che non ha intenzione di arrendersi.

Ludlow

Shropshire

Il sabato sera studiarono fino a tardi le foto del cadavere di Ian Druitt, da tutti

i possibili punti di vista. Barbara era convinta di poter ormai disegnare a

memoria sia il cadavere sia la stanza dove era avvenuto il decesso, quando

Lynley decise finalmente di smettere, prese due foto, mise le altre nella loro

cartellina e si tolse gli occhiali. «Venga, andiamo a prendere una boccata

d’aria. Veramente dovrà guidarmi lei, perché non mi ricordo più come si

arriva a questa stanza.»

Barbara prese la borsa e si avviò lungo il dedalo di scale, porte tagliafuoco

e corridoi fino alla hall dell’albergo. Alla reception Peace on Earth rivolse


loro un’occhiata che a Barbara parve allusiva. Il fatto che un uomo e una

donna restassero chiusi per ore in una camera d’albergo aveva per lui un

significato inequivocabile. Da morir dal ridere, pensò Barbara, e fu tentata di

fare una battuta, ma lasciò perdere per non urtare la sensibilità di Lynley

prospettandogli uno scenario così raccapricciante. Si limitò quindi a seguirlo

in silenzio fuori dall’albergo.

Lynley si incamminò verso il castello. Barbara immaginò che la aspettasse

una dotta lezione su re, regine, battaglie e casate reali e lo prevenne. «Ho un

problema con i Plantageneti, ispettore. Sono troppi, per la miseria, li

confondo tutti.»

Lynley si fermò e si voltò a guardarla. «Ma cosa dice, sergente?»

«Là» rispose Barbara indicando il castello. «Stiamo andando là, vero? Il

torrione, il mastio, i bastioni...»

Lynley guardò prima lei, poi il castello, poi di nuovo lei. «Sergente, a volte

mi domando per chi mi abbia preso. Anche se» – a questo punto Barbara si

accorse che rideva sotto i baffi – «devo dire che la sua cultura in materia di

architettura fortificata mi riempie di ammirazione.»

«Non si lasci impressionare. Viene dai romanzi rosa, avventure erotiche di

damigelle prigioniere in un torrione e cose del genere... E poi ho La storia

fantastica in dvd. ’Hola. Mi nombre es Iñigo Montoya’ eccetera eccetera.

Credo di sapere a memoria tutti i dialoghi del film.»

«Complimenti comunque. Ora mi segua.»

Attraversò la strada per andare a sedersi su una panchina ai piedi delle

mura. C’era gente in giro, soprattutto padroni di cani o genitori che facevano

prendere aria a neonati sul passeggino. In mancanza di un panorama migliore,

Barbara li guardò.

Lynley le porse una delle foto che aveva portato con sé.

«Che cosa nota, sergente?»

Barbara la osservò. Il fotografo della Scientifica aveva documentato

centimetro per centimetro la stanza in cui era morto Druitt e in quella foto in

particolare si vedeva un angolo. C’era una sedia gialla, di plastica, impilabile,

rovesciata su un fianco. Sulla parete c’era una bacheca vuota con chiazze

sbiadite nei punti in cui erano stati appesi fogli e volantini. Accanto c’era la

finestra, visibile solo in parte; la veneziana era abbassata, con le stecche

rivolte all’insù.

«La veneziana» disse Barbara. «Da fuori non si poteva vedere dentro. Ma


non ne abbiamo già parlato? Non è sufficiente per incriminare una persona.

Chiunque potrebbe averla messa in quella posizione.»

«Verissimo. Nient’altro?»

Barbara guardò più da vicino per vedere se le era sfuggito qualcosa, per

esempio... Non sapeva neppure lei cosa cercare. Certo, trovare una

dichiarazione di colpevolezza incisa nel linoleum non sarebbe stato male...

«Essendoci solo la seggiola e la bacheca...» disse.

«Appunto. Le salta agli occhi qualcosa?»

«A che proposito?»

«La seggiola.»

«Intende il fatto che è rovesciata?»

«No. Il fatto che sia lì. L’unico altro mobile nella stanza era una scrivania,

come lei ben sa.»

«Giusto. Ma non potevano mettere Druitt ad aspettare in una stanza senza

dargli almeno una sedia.»

«D’accordo.»

«Quindi lei intende...» Guardò di nuovo la foto e poi Lynley. «Intende

questa sedia in particolare, vero?» Girò la foto per guardarla da

un’angolazione diversa. Sentendosi osservata da Lynley, capì che l’ispettore

doveva aver notato qualcosa. Non poteva trattarsi di sangue o peli o fibre o

altre prove materiali che in foto non si sarebbero visti, a parte il sangue, che

comunque non c’era.

Ripensò alle volte in cui aveva visitato la stazione di polizia di Ludlow, sia

con Lynley sia prima, da sola, e capì a cosa si riferiva. Si sentì mortificata di

non essersene accorta subito. «Quando siamo andati a parlare con Ruddock ci

ha fatto accomodare nel cucinino, dove aveva portato anche me la prima

volta» disse ripensando a ogni gesto compiuto quel giorno dall’ausiliario.

«Ma, siccome c’erano solo due seggiole, è dovuto andare a prenderne una

terza.»

«Esatto» disse Lynley.

«Ed è tornato spingendo una sedia da ufficio con le ruote. È a questo che

voleva arrivare? Perché? Può averla presa ovunque.»

Lynley si fece restituire la foto e la studiò. «Può averla presa ovunque, è

vero. Ma a turbarmi non è tanto questo, quanto il fatto che la sedia da ufficio

non compare in questa foto e, più in generale, non era nella stanza dove è

morto Druitt.»


«Forse l’avevano spostata perché serviva altrove, come quel giorno.»

«Sicuramente è stata spostata altrove» disse Lynley. «Ma dovremmo

chiederci perché è stata sostituita con una seggiola di plastica.»

«Chiediamocelo» convenne Barbara. «C’è da dire che quella con le ruote è

più comoda e nessuno vuole mettere comodo un potenziale pedofilo.»

«È vero, potrebbe trattarsi di una situazione tipo ’Cerchiamo di non

rendergli la vita troppo facile’. Ma questo presupporrebbe che Ruddock

conoscesse il motivo del fermo, mentre noi sappiamo che lo ignorava.»

«Che lo ignorava, però, l’ha detto lui.»

«C’è anche questo aspetto da considerare.» Lynley rimise la foto nella

busta e tirò fuori l’altra che aveva portato con sé, in cui si vedeva Druitt

morto, senza la stola al collo, steso supino sul pavimento dopo il tentativo di

rianimazione di Ruddock. Barbara guardò la foto, poi Lynley, poi di nuovo la

foto. Stava per chiedergli «E adesso cosa facciamo?» quando Lynley

intervenne. «Andiamo a parlare con il medico legale, sergente. Se a noi è

sfuggito qualcosa – per esempio il particolare della sedia –, è possibile che

sia sfuggito qualcosa anche a lei.»

Coalbrookdale

Shropshire

Sati si era lasciata convincere ad andare a scuola. Yasmina aveva aiutato

Timothy a infilarsi sotto la doccia, appoggiato alla parete ma in piedi, ed era

andata dalla figlia minore a rassicurarla: il papà stava bene e litigare, fra

madri e figlie, era inevitabile. Quello cui aveva assistito poco prima che

Missa se ne andasse con Justin era un semplice litigio. Erano cose che

succedevano e Sati non doveva preoccuparsi perché nel pomeriggio Yasmina

sarebbe andata a parlare con Missa e l’avrebbe riportata a casa. Quanto a suo

padre, svegliarlo era stato così difficile solo perché la sera prima aveva preso

un sonnifero.

Alla fine Sati, sia pur riluttante, era andata a scuola con il suo zainetto di

Hello Kitty e Yasmina era potuta tornare in bagno a occuparsi di Timothy.

«Potevi restarci secco» furono le sue prime parole. «Non ti basta tutto

quello che abbiamo passato? Sati ha visto morire sua sorella, ha appena visto

Missa andarsene di casa con armi e bagagli, e poi te, privo di sensi, con me


che ti prendevo a pugni sul petto per farti rinvenire. Ho rischiato di dover

usare il naloxone davanti a lei. È questo che vuoi? È questo che ci aspetta?»

«Ci siamo già» borbottò lui per tutta risposta.

Yasmina avrebbe voluto entrare nella doccia, afferrarlo per i capelli grigi e

riccioluti e sbattergli la testa contro il muro. «Ci stai rovinando la vita! Ci

credo che Missa non vuole più stare qui! Ci credo che se n’è andata!» gridò,

invece.

Timothy aprì gli occhi arrossati, sollevò la testa e la guardò. «Almeno lei

ha il coraggio di fare qualcosa, al contrario di noi due.»

Quelle parole spinsero Yasmina a domandarsi se davvero lo conosceva e

più tardi, all’ambulatorio, a tenerlo d’occhio attraverso la vetrata che li

separava per vedere se intascava altre pillole. Ma non poté restare a

sorvegliarlo tutto il giorno perché doveva mantenere la promessa fatta a Sati.

E per questo annullò gli ultimi quattro appuntamenti del pomeriggio.

Prima di tutto voleva andare a Blists Hill, ma la sua meta ultima era la casa

dove Justin Goodayle viveva con i suoi. Salì in macchina e uscì da

Coalbrookdale.

Arrivata a Blists Hill, andò direttamente alla bottega del candelaio, ma

trovò un’altra ragazza a spiegare a un gruppetto di turisti come si

fabbricavano le candele nell’epoca vittoriana. Appena guardò nella sua

direzione, Yasmina le chiese senza emettere suono: «Missa?» La ragazza

tornò per un attimo nel secolo presente. «Buongiorno, dottoressa Lomax. È al

fish and chips. Mary Reid è malata e Missa è l’unica che sa usare la

friggitrice» rispose.

Yasmina tornò sui suoi passi. Il negozio che cercava era in una delle strade

principali del parco ed era facile da localizzare grazie al profumino appetitoso

e all’insegna in stile antiquato che reclamizzava pesce e patate fritti nello

strutto. Missa era di schiena. Sul banco c’erano una fila di coni di carta in

attesa di essere riempiti e quattro clienti aspettavano di essere serviti. Missa

non dava spiegazioni sul proprio lavoro: c’era ben poco da dire sulla frittura

di pesce e patate.

A un certo punto si voltò, vide Yasmina in coda e rimase impassibile.

Riempì i coni di patate e aggiunse in ciascuno due pezzi di merluzzo fritti. I

clienti se ne andarono soddisfatti e Yasmina si avvicinò al banco. Ordinò un

cono. «A che ora finisci di lavorare, Missa? Vorrei parlarti» disse alla figlia,

quando lo ebbe in mano.


«Ci siamo già dette tutto quello che c’era da dire» replicò Missa.

«Vorrei parlarti lo stesso. A che ora finisci? Non credo che tu voglia

avermi qui in negozio tutto il tempo.»

Missa serrò le labbra riflettendo su quella prospettiva. «Ho l’ultima pausa

fra venti minuti. Se vuoi aspettare, per me va bene. Nel frattempo puoi andare

a cercare Justin per parlargli a quattr’occhi, se vuoi: so che ti piace.»

Yasmina non cadde nella trappola e non si difese. «Ti aspetto alla giostra,

tesoro» replicò, e uscì dal negozio con il suo cono di patate fritte in mano. Al

primo cestino della spazzatura che incontrò, le buttò senza averle neppure

assaggiate.

Vicino alla giostra c’era la caffetteria, con panchine su cui potevano

sedersi i genitori mentre i figli facevano un giro sui cavallini d’epoca.

Yasmina si accomodò e osservò il luna park vittoriano.

C’erano cinque stand con giochi a premi, ma l’attrazione più frequentata

dalle famiglie con bambini era la giostra. Non ce n’erano molti in groppa ai

cavalli di legno quel giorno, ma quei pochi ridevano e salutavano felici

dondolando a ritmo della musica sotto gli sguardi attenti di genitori e nonni.

A Yasmina si riempirono gli occhi di lacrime ricordando che anche le sue

figlie erano salite su quella giostra e avevano riso e salutato con la mano.

Missa, in particolare, aveva sempre amato la Victorian Town e Yasmina

aveva incoraggiato la sua passione per la storia regalandole libri illustrati e

bambole di carta con vestiti d’epoca. Mai avrebbe immaginato che il parco a

tema diventasse il suo lavoro.

Aspettò con pazienza, ripromettendosi di ascoltare Missa, di non discutere

e di non tentare di convincerla. Voleva a tutti i costi mantenere la calma

perché sapeva che, se non fosse riuscita a rappacificarsi subito con la figlia, il

dissidio sarebbe diventato insanabile.

Dopo un po’ Missa la raggiunse, si sedette sulla panchina e si mise anche

lei a guardare la giostra.

«Come ti piaceva!» disse Yasmina. «Dicevi che da grande saresti diventata

la padrona della giostra. Ti ricordi?»

«Abbiamo esaurito e straesaurito l’argomento Blists Hill» replicò acida la

ragazza.

«Non sono venuta per parlare di Blists Hill.»

«E di cosa, allora? Sei venuta a chiedermi scusa per aver cercato di

corrompere Justin con la falsa promessa di matrimoni, lune di miele e case da


sogno? È per questo che sei qui? A proposito, Linda è rimasta stupita. Non

sapeva che tu e papà aveste tanti soldi.»

«Adesso la chiami per nome? Non è più la signora Goodayle?»

Missa si scostò dal viso un capello immaginario. «Abbiamo parlato di

come la chiamerò quando Justin e io saremo sposati. Mamma non piace né a

lei né a me, e ha detto che preferisce che la chiami semplicemente Linda.

Signora Goodayle o signora Linda le sembra troppo formale.»

Yasmina non aveva nessuna voglia di entrare nei dettagli del futuro di sua

figlia nel clan Goodayle. «Ho sbagliato e ti chiedo scusa. Sono venuta a

chiederti di tornare a casa. Sati è rimasta malissimo per quello che è

successo.»

«A quale parte ti riferisci esattamente? Al tuo tentativo di strumentalizzare

Justin o al fatto che io mi sono ribellata?»

«A... Al fatto che te ne sei andata in quel modo... Non è bene che Sati

assista a una scena del genere alla sua età. Penso che tu te ne renda conto,

Missa.»

«Non è bene?» Missa assunse quell’espressione dura che Yasmina trovava

inquietante. «Non stiamo dando un cattivo esempio, se è questo che ti

preoccupa, mamma. Puoi dire a Sati che non vado a letto con Justin, ma ho

una camera tutta per me.» Distolse lo sguardo, mettendosi a osservare la

giostra e i bambini che si divertivano. Dopo un po’ riprese. «Continuo a

desiderare quello che ho sempre desiderato, e che mi hai inculcato tu,

peraltro. Sposarmi in bianco, vergine, pura come un agnello pasquale.»

«Sati ha perso Janna. Ha...»

«Tutti quanti abbiamo perso Janna.»

«... Ha dodici anni. Per lei rappresenti tutto.»

Missa fece una breve risata. «A te non importa quello che rappresento per

Sati, mamma.»

«Non è vero.»

«Se lo dici tu. Comunque, resterò dai Goodayle soltanto finché Justin e io

non avremo una casa nostra. Stiamo cercando una casetta in affitto. Ne

abbiamo vista una a Jackfield, vicino al fiume. C’è una sola camera da letto,

ma per il momento è sufficiente. Justin dormirà sul divano fino al giorno

fatidico. Non preoccuparti, mamma. Più avanti troveremo una casa più

grande, ma ci vorrà tempo. Il lavoro di Justin va bene, ma per ora quello che

incassa basta appena per comprare il materiale, pagare l’affitto del laboratorio


e poco altro. Aumenterà la produzione appena potrà assumere un aiutante.

Non sarà mai bravo come lui ma almeno gli darà una mano.» Guardò

Yasmina negli occhi. «Non pensavi che Justin avesse del talento, vero?»

«In questo momento la mia preoccupazione è Sati» ribadì Yasmina. «Che

tu farai quello che vuoi l’ho capito. Me lo avete detto tutti chiaro e tondo. Ma

Sati ha bisogno di te. Ti sto chiedendo di farlo per Sati.»

«Di’ a Sati che, se prendiamo in affitto il cottage, può venire a trovarci»

replicò Missa. «Poi tra non molto sarà libera anche lei.»

«Siamo a questi livelli, Missa? È davvero questa l’unica cosa che vuoi dire

a tua madre?»

Missa scosse la testa come se da sua madre non si aspettasse altro che quel

genere di domande. Era uno degli atteggiamenti della figlia che Yasmina

trovava insopportabili e che le facevano venire voglia di prenderla a schiaffi.

Da quando sua figlia era diventata così? E soprattutto, perché?

«Sapevo che avresti reagito così, mamma» replicò Missa. «Prendi tutto

come un’offesa personale, ma io ho semplicemente detto come stanno le

cose.»

Yasmina spostò lo sguardo sulla giostra che girava instancabile e sui

bambini entusiasti della loro cavalcata fantastica in groppa a finti cavalli.

«Allora non c’è altro da dire, tesoro mio.»

«Smettila di chiamarmi così. Non sono il tuo tesoro.»

Yasmina si voltò a guardarla. «Certo che sei il mio tesoro. Nonostante

tutto, sei sempre la mia figlia amatissima. Questo... questo brutto momento

tra noi passerà. Magari non proprio nel modo che vorrei io, ma...»

«Non proprio, mamma? Cosa vuol dire ’non proprio’? Io e Justin ci

sposeremo. Tu farai di tutto per impedircelo, lo so, ma noi ci sposeremo lo

stesso. L’hai capito, sì o no?»

«Missa...» Yasmina provava una tale oppressione che per un attimo

temette che stesse per venirle un infarto. «Ho capito. È inutile che io continui

a opporre resistenza. È chiaro. Ma vuoi spiegarmi il motivo di tanta fretta?

Non capisco che bisogno ci sia di prendere una decisione così precipitosa,

come se doveste dimostrare chissà che, come se aveste chissà quale urgenza.»

«Vogliamo sposarci al più presto» rispose Missa. «Vogliamo farlo ora

perché abbiamo deciso così. Perché ho deciso così. Non lo faccio per te, per

papà, per Sati o la nonna, e nemmeno per Justin. Per una volta, ho deciso io e

ho deciso per me.» Si alzò e Yasmina vide, con sorpresa, che si sforzava di


non piangere. Ne ebbe la conferma dalla fatica che le costò concludere

quell’incontro. «Questo voglio e questo farò. Non c’è altro da aggiungere.»

Ma non era vero. Yasmina in cuor suo lo sapeva, lo vedeva... Tutto a un

tratto ebbe un’illuminazione. «È una punizione, vero?» disse con un filo di

voce.

«Non tutto ruota intorno a te» fu la risposta.

«No, no, mi hai frainteso» replicò Yasmina. «Non stavo dicendo che vuoi

punire me, ma te stessa. Non so per quale motivo, ma la verità è questa, no?»

«E non sei neppure la detentrice della verità» ribatté Missa.

Wandsworth

Londra

Non si era fermata a lungo. Le era bastata un’occhiata per capire come mai il

sovrintendente aveva chiesto quei giorni di malattia. Si era presentata a

Wandsworth con minestra e panini comprati lungo la strada e aveva detto,

porgendoli a Isabelle: «Siamo tutti... Siamo... Speriamo che si rimetta

presto».

Isabelle aveva provato la tentazione fortissima di dare della spia a

Dorothea Harriman e si era dovuta mordere la lingua per non dirle qualcosa

tipo Sei venuta a ficcare il naso per conto di uno sbirro di mia conoscenza,

eh? Sapeva che Dorothea non sarebbe andata a spifferare il suo segreto a

tutto il dipartimento, ma di certo ne avrebbe parlato con l’ultima persona al

mondo cui Isabelle voleva farlo sapere.

Subito dopo aver messo alla porta la segretaria, era andata a versare la

minestra nel lavandino e aveva buttato i panini nella pattumiera. Non ne

aveva bisogno. Non aveva bisogno della compassione altrui.

Durante la giornata aveva provato più volte a telefonare a Bob, ma lui non

l’aveva richiamata. Allora aveva provato a chiamare Sandra e, verso le sei,

finalmente era riuscita a parlarle. Nel frattempo aveva bevuto un drink

soltanto, e solo per farsi forza. Era decisa a non perdere altri giorni di lavoro.

Era in grado di controllarsi.

Sandra rispose al cellulare. «Per piacere, non chiamarmi più, Isabelle. Ti

ho risposto solo per dirti che è l’ultima volta. D’ora in poi rivolgiti a Bob,

non a me.»


«Come sta Laurence?»

«Sta riposando. Non è stato molto contento di sapere che sua madre non

era in grado di guidare e quindi non poteva venire a trovarlo, ma Bob è

riuscito a fargliela mandare giù.»

«Gli ha riferito il mio messaggio?»

«Non so di cosa parli. Bob non mi ha detto niente e io non gli ho certo

chiesto se avevi mandato a dire qualcosa a tuo figlio.»

«È la mamma? È la mamma? Posso parlare con la mamma?»

Il tono di James era così pieno di speranza che aprì un varco nella corazza

di rabbia che Isabelle aveva indossato. «Ti prego, passami James.»

«Bob mi ha raccomandato...»

«Immagino. Ma vorrei parlargli lo stesso.»

«No, Isabelle. Tesoro, vai a vedere se nel lettore c’è ancora quel dvd. Ma

sì, quello che abbiamo guardato ieri sera.»

«Voglio parlare con la mia mamma. Voglio raccontarle di Laurence.»

«Sa già tutto di Laurence, James.»

«Non punirlo in questo modo» intervenne Isabelle. «Capisco che tu ce

l’abbia con me, ma James non ha fatto niente di male, a parte avere la

disgrazia di essere mio figlio. Passamelo, per favore.»

La moglie di Bob non rimase del tutto insensibile, perché poco dopo

Isabelle sentì la voce di James che diceva: «Vieni a Maidstone, mamma?

Quando vieni?»

«Appena possibile, tesoro.»

«Laurence guarirà?»

«Certo che guarirà. Non ti preoccupare.»

«Papà è preoccupato, me ne sono accorto.»

«Oh, stai tranquillo, James. I genitori si preoccupano sempre. Ci

preoccupiamo persino quando vi allacciate le scarpe, abbiamo paura che non

siano allacciate bene e che inciampiate nelle stringhe. Se vuoi, tu puoi

preoccuparti da fratello gemello.»

«E cioè?»

«Cioè facendo sentire Laurence davvero speciale, quando tornerà a casa.»

Silenzio. Isabelle lo immaginò intento a riflettere con grande serietà su

quelle parole. «Non so come» disse James dopo un po’.

«Be’, vediamo... Hai qualcosa di speciale che sai che gli piace?»

«Qualcosa da regalargli, intendi?»


«Anche solo da prestargli.»

«Il brontosauro? Siamo andati al museo – hai presente il museo di storia

naturale? – e papà ha detto che ci comprava un dinosauro per uno. Laurence

ha scelto il Tyrannosaurus rex, che è quello che scelgono tutti, e io ho preso il

brontosauro. Li abbiamo portati a scuola e tutti volevano vedere il mio

brontosauro perché il T. rex lo conoscevano già. L’avevano già visto al

cinema o alla tv, no? Invece che i brontosauri non erano feroci non lo sapeva

nessuno, per esempio, e mi hanno fatto un sacco di domande, e a Laurence

nessuno ha chiesto niente e lui c’è rimasto male. Potrei prestargli il

brontosauro. Solo per un po’, però. Mica per sempre.»

«Sì, puoi prestarglielo per un po’, sarebbe un bel gesto da parte tua,

James» disse Isabelle. «Potresti farglielo trovare sul letto quando torna a

casa.»

«Certo» rispose il bambino, pensieroso. «Potrei anche regalarglielo

proprio, però, vero, mamma? Allora sì che sarebbe una cosa speciale.»

«Decidi tu, James. Sei libero di fare come preferisci.»

«Allora quando vieni?»

«Appena posso.»

«Stasera?»

«Stasera no, tesoro. Ma vengo presto, te lo prometto. Molto presto.»

Un attimo dopo Sandra riprese il telefono. «Spero che tu non gli abbia

promesso niente. L’hai già fatto un sacco di volte e le promesse non

mantenute...»

«Gli ho detto che verrò a trovarli e lo farò» puntualizzò Isabelle

interrompendola. «L’ho detto a James e tu puoi riferirlo a Laurence.»

«Devo riferire qualcosa anche a Bob?» Il tono di Sandra si fece

sgradevolmente malizioso.

Isabelle fu tentata di rispondere Sì: che non è stato molto fortunato

nemmeno con la seconda moglie, ma si trattenne. «Per piacere, chiedigli di

chiamarmi appena rientra. Sono preoccupata per Laurence.»

«Immagino» ribatté Sandra, e chiuse la chiamata.

Isabelle rimase seduta sul divano a guardare il brutto terrapieno fuori dalla

finestra. Ripensò a ciò che le aveva detto Sandra e dovette riconoscere che

era la verità: aveva più volte promesso ai figli cose che poi non aveva

mantenuto. Faremo questo e quell’altro insieme. Verrò una domenica

pomeriggio nella bella stagione e prenderemo una barca per fare un giro sul


fiume. Andremo a visitare il castello di Leeds. Andremo in gita a Rye. Un

vero e proprio catalogo di promesse non mantenute. Aveva dato la sua parola

e se l’era rimangiata non una, ma mille volte, e non solo con i ragazzi, ma

anche con Bob e Sandra e con i colleghi. Ma il peggio era che non aveva

mantenuto neppure le promesse che aveva fatto a se stessa. Non più di un

drink stasera, Isabelle. Ah, be’, facciamo due. Non metterti quelle mignon

nella borsa. Santo cielo, non nasconderle nel cassetto della scrivania.

L’elenco era lungo. Infinito, probabilmente.

Una passeggiata, pensò. Una passeggiata serale le avrebbe fatto bene. Era

il modo migliore per cominciare a mantenere l’impegno che aveva appena

preso con se stessa, ovvero non bere né quella sera né l’indomani mattina.

Uscì e si diresse verso Heathfield Road. Per arrivarci dovette passare lungo

il tetro muraglione del carcere di Wandsworth e quindi proseguire in

Magdalen Road. Fu lì che la sete le sferrò il primo attacco. Isabelle resistette.

No, stasera no. Allungò il passo e arrivò in Trinity Road, piena di negozi,

rivendite di giornali, qualche bar e una bottiglieria di cui era cliente.

La voglia di bere era tanta, ma di nuovo si disse no. Attraversò la strada e

procedette di buon passo verso l’entrata del Wandsworth Common, un bel

parco con alberi e prati dove spesso c’era gente che giocava a calcio. Una

volta era passata mentre era in corso una partita di baseball, anche se poi

qualcuno le aveva spiegato che non era baseball ma softball, che a quanto

pareva erano due sport diversi.

Imboccò il primo sentiero che le capitò. Camminava svelta. Il tempo era

bello e c’era gente in giro a godersi l’aria della sera. Una giovane coppia

faceva un picnic sull’erba, una famigliola aveva varato tre piccole barche a

vela in uno dei laghetti; su una panchina due ragazze guardavano assorte i

rispettivi smartphone, mentre su un’altra un’anziana signora con le calze

grinzose e un sacchetto di pane secco dava da mangiare ai piccioni.

Ecco come sarò a settant’anni, pensò Isabelle. Sola in un mondo in cui le

persone non erano mai sole, con nient’altro da fare se non dar da mangiare

agli uccelli.

«Nonna! Nonna!» Due bambine arrivarono di corsa, seguite a poca

distanza dai genitori. «Mamma, i piccioni sono già fin troppo grassi! Dai da

mangiare ai cigni, piuttosto» gridò il padre.

La nonna prese in braccio le nipotine, che la coprirono di baci. Le baciò a

sua volta e risero insieme.


Non sarò neppure così, pensò Isabelle. Doveva andarsene dal parco prima

di lasciarsi travolgere dalla disperazione.

Si rimise in cammino. Sempre più veloce, sempre più lontano, senza

guardare dove andava. Aveva il terrore di posare gli occhi su un’altra

rivendita di alcolici, perché sarebbe stata la fine.

Rimase sorpresa nel ritrovarsi sul Tamigi, perché non era partita con

l’intenzione di andare verso il fiume, e si stupì ancora di più quando si vide

davanti un ponte che non era il Wandsworth Bridge. Restò disorientata per un

attimo, poi vide una libreria che conosceva e capì di essere in Putney High

Street; il ponte era il Putney Bridge, che portava automobilisti, ciclisti e

pedoni verso Parsons Green, sulla sponda nord del fiume.

Non poteva fermarsi. Era troppo pericoloso. Si diresse perciò verso il ponte

e rallentò in prossimità di una chiesa rendendosi conto che non ce la faceva

più, sfinita da quella giornata infernale.

Sulla porta della chiesa c’era un cartello con l’orario delle funzioni. Era in

corso la preghiera della sera. Isabelle scelse fra le due opzioni che le si

presentavano: bere o pregare. Era consapevole di essere in una condizione

fisica da cui Dio non poteva liberarla, ma le alternative erano limitate e scelse

di aggrapparsi alla preghiera della sera.

La funzione era già cominciata, quando entrò. C’erano pochissime

persone. Chissà se, in un’epoca laica in cui la gente andava in chiesa solo a

Natale, a Pasqua e in occasione di matrimoni e funerali, i preti si

scoraggiavano. Lei si sarebbe sicuramente lasciata prendere dallo sconforto.

Scelse un banco e si sedette. Gli altri erano tutti in ginocchio e si sentì un

pesce fuor d’acqua: non metteva piede in una chiesa dal battesimo dei

gemelli. Sentì vagamente il prete intonare una preghiera, ma mise a fuoco

solo a un certo punto: «... come pecorelle smarrite. Abbiamo seguito troppo i

capricci e i desideri del nostro cuore; abbiamo mancato alle tue sante leggi;

abbiamo trascurato di compiere il nostro dovere e...» Si tappò le orecchie.

Non voleva sentire. Non c’era nessun Dio. Non esisteva niente, a parte uno

sconfinato vuoto siderale in cui tutti andavano alla deriva cercando un posto

dove la solitudine fosse meno terribile, visto che si muore soli e la morte

aspetta tutti al varco. «Abbiamo peccato.» Chiuse gli occhi e si mise la mano

stretta a pugno davanti alla bocca. «Risparmia, o Dio, coloro che confessano

le proprie colpe.» Isabelle non poteva ascoltare, non sopportava le parole di

quella preghiera.


Aprì gli occhi, vide il prete con i suoi paramenti ed ebbe l’impressione che

le stesse guardando dritto nel cuore. Non era possibile, perché si era seduta in

fondo alla navata, eppure sentiva che lo sguardo del prete le trapassava

l’anima e, se non era il prete, chi era? Dio? La sua coscienza? Chi la stava

accusando?

Prese dalla panca davanti un cuscino per le ginocchia e lo posò per terra.

La preghiera continuava con parole che cercavano di insegnarle qualcosa.

Non era di insegnamenti che aveva bisogno, ma a quanto pareva questo le

veniva offerto.

Ebbe qualche difficoltà a spostarsi dal banco su cui era seduta. In quel

momento della funzione nessun altro era in ginocchio, ma non importava.

Doveva inginocchiarsi perché altrimenti sarebbe corsa fuori dalla chiesa e

sarebbe andata a cercare da bere. Era l’unica cosa che le restava. Se c’era una

salvezza, doveva venire da dentro di lei.

Le persone che pregavano assieme al prete non la pensavano così. Quella

piccola congregazione credeva in qualcosa di molto diverso. Ma anche

Isabelle voleva credere in qualcosa, perché non poteva più credere in se

stessa.

«Oh ti prego oh ti prego oh ti prego» mormorò. Al terzo «ti prego»

cominciò a piangere.


22 MAGGIO

Ludlow

Shropshire

La prima telefonata giunse dal vicecommissario e Lynley si guardò bene dal

lasciar scattare la segreteria. Hillier diede il buongiorno a modo suo. «Sono

passati sei giorni. A che punto siamo?» Lynley decise di non puntualizzare

che, a voler essere precisi, i giorni erano solo cinque, al massimo cinque e

mezzo, perché il primo se n’era andato quasi tutto nel viaggio da Londra a

Ludlow, previa sosta alla sede della West Mercia Police. In ogni caso, prima

che potesse formulare una risposta, Hillier proseguì: «Mi ha chiamato

Quentin Walker. Voleva un aggiornamento e ha minacciato di rivolgersi al

ministero degli Interni, anche se vorrei proprio sapere cosa diavolo crede che

possa fare quell’idiota del ministro per ’spingere le cose nella direzione

giusta’. Quindi le chiedo: a che punto siete? Cosa avete scoperto, lei e il

famigerato sergente Havers?»

Lynley non ebbe difficoltà a immaginare la faccia rubiconda di Hillier che

diventava ancora più rossa. Che il vicecommissario fosse collerico era

risaputo. Che non gli fosse ancora venuto un ictus era quasi un miracolo.

«Stiamo restringendo il ventaglio delle ipotesi» rispose.

«E cioè?»

«Pensiamo che l’agente ausiliario di Ludlow possa essere stato manovrato

da qualcuno.»

«Da qualcuno? E chi?»

Lynley non volle rispondere dal vicecomandante della West Mercia Police

per paura che a Hillier venisse un colpo apoplettico. «Non siamo ancora in

grado di puntare il dito contro nessuno, commissario, ma oggi andremo a

riesaminare in modo più approfondito la scena del crimine e a parlare con

l’anatomopatologa» disse perciò.

«Quindi posso dire a Walker che la morte è sospetta?»


«È un’ipotesi che stiamo valutando.»

«Cosa cavolo significa che la state ’valutando’?»

«Significa che parlarne all’onorevole sarebbe prematuro.»

«Devo dedurre da questo suo spassionato consiglio che ipotizzare una

’morte sospetta’ non scoraggerà Clive Druitt dal mettere mano al portafoglio

e chiamare i suoi avvocati?»

«Al momento potrebbe sortire l’effetto opposto.»

«Si rende conto della posizione in cui mi trovo, vero? Non posso dire altro

che: ’Ci stanno lavorando. Le farò avere notizie appena possibile’.»

«Temo proprio di sì.»

«Cristo. Avrei fatto meglio a non telefonarle.» Hillier chiuse la chiamata.

Non sbatté giù il telefono solo perché aveva usato il cellulare, altrimenti lo

avrebbe fatto sicuramente, e con un certo gusto.

Lynley aveva appena finito di radersi quando arrivò la seconda telefonata.

Ormai non sperava neanche più che Daidre si facesse viva e pertanto non

rimase deluso nel vedere che era Nkata.

«Pulito come un neonato» furono le prime parole del sergente.

«Ha mai assistito a un parto?»

«No, ispettore.»

«Nemmeno io, ma ho visto le foto e ’pulito’ non mi sembra l’aggettivo più

calzante.»

«Vero. Ha ragione. Ma ha capito cosa intendevo. Rochester, Henry

Geoffrey, meglio noto come Harry, è esattamente quello che dice di essere,

cioè un professore di storia che ha dovuto smettere di insegnare: attacchi di

panico in aula, lezioni con le finestre spalancate nel cuore dell’inverno,

eccetera eccetera. L’unica piccola macchia nel suo passato è una denuncia per

vagabondaggio, ma risale a molti anni fa e non ha avuto seguito.»

«Nient’altro? Rapporti particolari con studenti – maschi, femmine o vie di

mezzo?»

«Niente di niente. Però ho scoperto perché soffre di quel disturbo.»

«La claustrofobia?»

«Sì. Una storia tristissima.»

Lynley andò ad aprire le tende. Dalla finestra, alla luce del mattino, si

vedeva parte del castello. Notò che nello striscione del Tito Andronico le

maiuscole grondavano sangue che si raccoglieva in due pozze rossastre.

Almeno gli spettatori erano avvertiti, pensò.


«È rilevante ai fini di questa vicenda?» chiese.

«Probabilmente no» rispose Nkata e cominciò a raccontare: il padre di

Harry Rochester, ingegnere elettrico, era un genio ed era convinto che anche

il figlio dovesse esserlo, esattamente nello stesso modo; quando si era accorto

che non era così, frustratissimo, aveva concluso che lo scarso rendimento del

ragazzo nelle materie scientifiche era dovuto a lazzaronaggine. «Perciò ha

deciso di dimostrargli l’importanza dell’elettricità facendogli provare il buio

più totale. E l’unico modo che ha trovato, nella casa in cui stavano, è stato

chiuderlo in un armadio ogni volta che prendeva un voto non all’altezza delle

sue aspettative. Il ragazzo ha passato tutte le vacanze scolastiche chiuso là

dentro, finché non è andato all’università. Ma a quel punto il danno ormai era

fatto.»

Mentre ascoltava, Lynley sentì montare l’indignazione. «Un giorno o

l’altro riuscirò a capire cos’ha nella testa certa gente, Winston.»

«In bocca al lupo, ispettore» rispose Nkata.

«Come ha saputo queste cose?»

«La storia dell’armadio? Ho rintracciato la sorella. Fatto sta che, come le

dicevo, Rochester in questa storia non c’entra, non ha niente da nascondere e

niente da dimostrare.»

Come in tutte le camere d’albergo, c’era un bollitore elettrico e mentre

parlavano Lynley mise a scaldare l’acqua per la prima tazza di tè della

giornata. «Ha tempo per un’altra piccola ricerca?» chiese a Nkata.

«Posso lavorarci fra un impegno e l’altro. Su chi?» replicò il sergente.

«Gary Ruddock, l’agente ausiliario di Ludlow. Stando a quello che ha

raccontato a Barbara, ha trascorsi che potrebbero essere illuminanti. È

cresciuto in una setta nel Donegal. Non so se valga la pena di approfondire,

ma poco fa mi ha chiamato Hillier e se, come è probabile, dovesse

richiamarmi, mi piacerebbe avere qualcosa da dirgli per salvarlo

dall’autodefenestrazione.»

«In che senso?»

«L’ho sentito sull’orlo del suicidio.»

Nkata rise. «Ci provo, allora. Le farò sapere.» E chiuse la chiamata.

Prima che arrivasse la terza telefonata, Lynley ebbe il tempo di vestirsi,

scendere le scale e fare colazione con Barbara Havers, la quale giurò sulla

testa del proprio gatto – animale che notoriamente non possedeva – di essersi

allenata per un’ora: al ritorno a Londra le sue doti di ballerina avrebbero


lasciato Dorothea Harriman senza parole. La terza telefonata giunse mentre

andavano alla stazione di polizia. Lynley, che era al volante, estrasse il

cellulare dal taschino e lo porse a Barbara.

«È Sua Altezza in persona» disse Barbara. «Vuole che gliela passi?»

No, grazie. Isabelle Ardery era l’ultima persona con la quale Lynley

desiderava parlare, non sapendo in che stato fosse. «Lasci scattare la

segreteria. Più tardi sentiamo il messaggio» disse.

«Ottima idea» approvò Barbara.

Avevano detto a Ruddock che avevano bisogno di vedere di nuovo la

stanza in cui si era impiccato Druitt. L’ausiliario era parso sorpreso da quella

richiesta, ma aveva dato loro appuntamento alla stazione prima del

quotidiano giro di ronda e, quando arrivarono, era già lì. Anziché aspettarli

nel parcheggio, però, era entrato lasciando la porta aperta. Lo trovarono

nell’ex cucina intento ad armeggiare intorno a un vecchio forno a microonde.

«State facendo passi avanti, mi pare di capire» furono le sue prime parole.

Poi posò una mano sul forno e aggiunse: «Magari riuscissi a farne anch’io

con quest’aggeggio. È un pezzo d’antiquariato, ma a volte funziona ancora».

Lynley disse che avrebbero dato una rapida occhiata alla stanza dove era

morto Druitt e se ne sarebbero andati.

«Conoscete la strada» replicò Ruddock. Evidentemente non riteneva

necessario accompagnarli.

La stanza era come la ricordavano, ma non come appariva nelle foto.

Anziché la seggiola di plastica della sera della morte di Druitt, c’era una sedia

da ufficio con le ruote. Tutto il resto era rimasto immutato.

Le bacheche non fornirono loro nuove informazioni, e neppure il cestino

della carta, né i buchi rimasti dove un tempo erano appese delle cornici. Sul

pavimento di linoleum videro i segni lasciati da mobili che, a giudicare dalla

forma, dovevano essere stati schedari e forse due librerie e una credenza. Per

il resto, l’usura del linoleum non era sorprendente, considerata l’età

dell’edificio. «Sembra quasi che anche qui qualcuno si sia allenato a ballare il

tip tap» osservò Barbara.

«Ah. Visto che non è la sola?»

«Questi la prima volta non li abbiamo visti» disse Barbara, mentre Lynley

stava esaminando le veneziane. Il tono non era molto speranzoso, però.

Lynley si voltò e vide che Barbara aveva spostato la sedia con le ruote ed

era accucciata a guardare sotto la scrivania. La raggiunse e notò numerosi


segni scuri nel linoleum che potevano essere stati lasciati a furia di spingere

indietro la sedia da qualcuno che portava scarpe con la suola di gomma.

Lynley alzò gli occhi e la guardò.

«Sì, lo so. Potrebbe essere stato uno che aveva smesso di fumare e per il

nervoso pestava compulsivamente i piedi per terra. A lei è successo?» disse

Barbara.

«Quando ho smesso di fumare?» replicò Lynley. «No, ma mi sono

mangiato le unghie per due anni.»

«Vede? È per questo che non smetto. Perché non voglio rovinarmi la

manicure.»

Barbara si rialzò. Andarono a esaminare la maniglia dell’armadio a cui si

era impiccato il diacono. Era robusta e poteva aver retto il peso di un uomo.

Poi osservarono un’ultima volta la stanza nel suo insieme.

«I morti non parlano» sentenziò Barbara con un sospiro.

«Purtroppo» commentò Lynley.

Tornarono nella cucina. Ruddock aveva smontato il pannello posteriore del

forno. Alzò gli occhi ed evidentemente notò qualcosa nella loro espressione,

perché domandò: «Trovato qualcosa di nuovo?»

«Non siamo sicuri» rispose Lynley. «Una cosa che forse è un po’ strana

c’è.»

Ruddock posò il cacciavite. «Che cosa?»

Lynley gli mostrò le foto scattate dalla Scientifica subito dopo la morte del

diacono. «Che cosa ci sa dire della sedia?» chiese. Poi si mise a spiegare: la

seggiola rovesciata era di plastica e non da ufficio e, a ben pensarci, non era

dell’altezza giusta per lavorare alla scrivania.

Ruddock rifletté un momento, poi scosse la testa. «Non saprei, non ci ho

mai pensato. L’ho trovata già lì, quando ho portato dentro Druitt. Voglio dire,

in piedi non potevo lasciarlo e l’unica sedia a disposizione era quella. Non ce

n’erano altre. Quello che so è come mai si è rovesciata: per rianimarlo l’ho

dovuto stendere per terra, ho spinto da una parte la scrivania e la sedia

dev’essere caduta. Ero... Be’, ero nel panico.»

Non era sorprendente che Ruddock fosse stato preso dal panico, visto che

aveva ammesso di essersi assentato, e per quale motivo. Certo, occorreva

chiarire con chi si fosse appartato nel parcheggio.

«Gary, un testimone ha dichiarato di averla vista nottetempo con diverse

ragazze del college. A bordo dell’auto di servizio. Cosa ci può dire al


riguardo?» gli chiese Lynley.

L’ausiliario ebbe un attimo di esitazione. «Saranno state sbronze. Trovo

pericoloso che le ragazze vadano in giro ubriache da sole, per cui le carico in

macchina e le accompagno a casa. Non sempre, ma a volte quando c’è

un’abbuffata alcolica succede. Quindi non mi stupisco che qualcuno mi abbia

visto con delle ragazze a bordo.»

«In questo caso era una sola» puntualizzò Barbara.

«Be’, li riaccompagno a casa uno per uno. Anche i maschi» rispose

Ruddock. «E siccome da queste parti gli studenti non abitano tutti assieme

ma stanno a casa dei genitori o in camere in affitto, per forza di cose alla fine

del giro mi ritrovo con uno soltanto.»

«Fa parte delle sue mansioni?» domandò Lynley. «Le è stato chiesto

ufficialmente di svolgere anche questo servizio?»

«Lo faccio perché mi sembra giusto farlo. Serve a evitare problemi più

grossi in futuro. È un deterrente. Riguardo al bere, intendo. Non mi piace

vedere i ragazzi finire nel baratro dell’alcolismo, non so se mi spiego. A

quell’età è facile cascarci e, secondo me, se i genitori li vedono tornare

sbronzi, dopo un po’ prendono provvedimenti. Chiaramente, non fa parte

delle mie mansioni, no.»

«Fra le studentesse che bevono troppo c’è anche Dena Donaldson?» chiese

Lynley.

«Oh, sì, altroché. Si fa chiamare Ding ed è una di quelle che non vivono

con i genitori, ma con altri studenti. Ha un vero problema di alcolismo,

secondo me, e l’ultima cosa che vuole è che io vada a parlarne ai suoi. La

tengo in riga proprio perché sa che, se sgarra, la porto immediatamente da

loro.»

«Siete stati visti nel parcheggio insieme» lo informò Lynley. «Di notte.»

«Non mi stupisco. L’ho portata qui più di una volta per darle una lavata di

capo. In realtà non ho granché voglia di riaccompagnarla dai suoi, un po’

perché abitano lontano, fuori Ludlow, e un po’ perché non mi piace fare il

poliziotto cattivo. Così l’ho portata qui più di una volta per spiegarle che cosa

le succederà se non la smette, che rischia di lasciarci la pelle, non so se rendo

l’idea. E la situazione un po’ è migliorata – voglio dire, adesso beve un po’

meno – ma ogni tanto ci ricasca e siamo daccapo.»

«Lei si prodiga in maniera veramente encomiabile» commentò Barbara.

«Quando sono ubriachi i giovani danno fastidio. La gente protesta, telefona


per gli schiamazzi. Voglio fare quello che posso per risolvere il problema,

anche se è poco.»

«Come il signor Druitt.»

Ruddock inclinò la testa, incerto su come interpretare quell’affermazione.

«Voleva creare un’organizzazione di Street Pastors, un gruppo di volontari

per togliere dalla strada i ragazzi ubriachi e offrire loro caffè, minestra, o non

so che. Ma non ha potuto realizzare il suo progetto, purtroppo» esplicitò

Barbara.

«È uno dei tanti motivi per cui sentiamo la sua mancanza» dichiarò

Ruddock.

Church Stretton

Shropshire

Insieme al vasto altopiano brullo di Long Mynd, le alture di origine vulcanica

delle Stretton Hills formavano la vallata in cui si trovava Church Stretton,

una cittadina di epoca vittoriana. Un tempo meta di villeggianti che andavano

a curarsi con le acque minerali della zona, Church Stretton aveva conservato

il suo aspetto ottocentesco, ma si era trasformata da località termale per

anziani con problemi di salute in centro frequentato da gente assai più arzilla.

Con gli zaini in spalla e i bastoncini da trekking, gli escursionisti partivano a

frotte per salire sull’altopiano di Long Mynd, da dove la vista spaziava fino al

Galles.

Barbara li vide, numerosi ed entusiasti per le strade della cittadina.

«Camminino pure, ’sti salutisti. Ma cosa è preso alla gente? Dove sono i bei

tempi di una volta?» disse stizzita.

«Eh, già» disse Lynley con un sarcasmo che non le sfuggì. «I bei tempi

della gotta e della tubercolosi...»

«Veda di non cominciare» replicò Barbara in tono ammonitore. «Come si

chiama il posto che devo cercare?»

«La forbice magica.»

«Detesto anche i nomi furbetti, oltre agli escursionisti. Gliel’ho detto?»

«Vuole accendersi una sigaretta? È questo che la mette così di cattivo

umore?»

«È lui che mi fa venire il nervoso. Io li ho visti insieme, ispettore. Lui e


quella Dena, o Ding, o come si chiama.»

«Ruddock non lo ha negato, sergente. E ci ha pure spiegato il perché.

Ammesso che sia vero.»

«Quindi avrebbe mentito riguardo all’altra? Quella sposata, quella di cui

non vuole dire il nome?»

«Può darsi. Dev’essere parecchio agitato, comunque.»

«Sa di tutte quelle telefonate a Trevor Freeman? Non è che magari aveva

una relazione con la moglie e chiamava il telefono di lui per fissare gli

appuntamenti? Chi andrebbe mai a controllare se sul suo cellulare sono

arrivate telefonate cui ha risposto qualcun altro? A lei verrebbe mai in mente?

A me no. Certo, lei ha Denton, che magari usa il suo cellulare per telefonare a

New York, a Broadway, oppure a Hollywood.»

«Hollywood va sempre tenuta presente» convenne Lynley. «Ah, siamo

arrivati. È là.»

«Cosa? La forbice magica? Scusi. Mi ero distratta.»

Quando entrarono Barbara si rese conto che chiamarlo salone di

parrucchiere era decisamente esagerato. Era dotato di due poltrone per taglio

e colore, ma per riuscire a lavorarci in due sarebbe stato necessario sgomitare

tutto il tempo: c’era a malapena posto sufficiente per una cliente e una

parrucchiera.

Nancy Scannell aveva dato loro appuntamento lì. Lynley le aveva fatto

notare che non gli sembrava il posto più adatto per un colloquio riservato, ma

la dottoressa aveva risposto che o se lo facevano andar bene, o avrebbero

dovuto aspettare la fine dell’udienza in tribunale cui doveva partecipare quel

giorno. Per ottenere quell’appuntamento dalla parrucchiera aveva

praticamente dovuto vendere il figlio primogenito: per un taglio da Dusty a

volte si aspettavano settimane, era l’unica che sapeva tagliare capelli ricci

come i suoi ed era giunto il momento del look estivo.

Look che, quando arrivarono, era in piena lavorazione: l’anatomopatologa

era sulla poltrona, Dusty le saltellava intorno con due paia di forbici e un

pettine fra i denti come una ballerina di flamenco con una rosa in bocca, e i

ciuffi di capelli volavano a destra e a manca. A quanto pareva, Nancy

Scannell aveva scelto un taglio molto corto e Dusty era felicissima di

accontentarla. Voleva farle anche la tinta, appresero quando si tolse il pettine

dalla bocca, ma Nancy Scannell aveva detto di no e Dusty stava cercando di

arrivare a un compromesso con «un piccolo ciuffo color magenta. Niente di


vistoso. Vedrà che le piacerà. La ringiovanirà quel tanto che basta». La

dottoressa non ne voleva sapere, però. I capelli grigi le piacevano, disse. Se li

era conquistati in anni di matrimonio, e stendiamo un velo pietoso

sull’argomento.

Dusty guardò Barbara e Lynley, ma soprattutto i capelli di Barbara. «Cos’è

successo? È andata a sbattere contro un tosaerba?» chiese.

«No, me li sono tagliati con le forbici da unghie» rispose Barbara.

«Non posso farci niente, temo. Sono troppo corti. Dovrà tornare quando

saranno un po’ cresciuti.»

«Me lo segno sull’agenda» promise Barbara. Poi, si rivolse

all’anatomopatologa. «Dottoressa Scannell, le presento l’ispettore Lynley.»

«Lo immaginavo» replicò la donna. «Allora, sentiamo.»

«Qui?» Lynley aveva dato per scontato che la dottoressa avesse dato loro

appuntamento dal parrucchiere per poi andare a parlare altrove.

«È l’unico modo, se volete parlarmi oggi» rispose Nancy Scannell. «Ha le

cuffiette?» chiese a Dusty.

«Eh? Oh, sì. Un momento.» Dusty frugò in un cassetto, tirò fuori un paio

di auricolari, se li mise e cominciò ad ascoltare musica dal cellulare per non

sentire quello che dicevano. Muovendo la testa a tempo, si rimise all’opera

con la massima disinvoltura, una sforbiciata qui, un’aggiustatina là,

allontanandosi ogni tanto per osservare il risultato, mentre loro tre parlavano.

«Siamo passati dalla stazione di polizia di Ludlow, abbiamo visto la stanza

dove è morto Ian Druitt» cominciò Lynley. «Abbiamo letto il suo referto e

abbiamo studiato le foto dell’autopsia. È sicura al cento per cento che Druitt

si sia suicidato?»

L’anatomopatologa gli chiese di mostrarle le foto. «Sono passati un bel po’

di mesi» disse. Barbara vide Dusty, incuriosita, sbirciare le foto da dietro le

spalle della dottoressa e subito dopo distogliere lo sguardo e rimettersi al

lavoro.

«Il cappio di stoffa ha reso tutto più difficile» dichiarò Nancy Scannell.

Indicò la stola rossa per terra vicino al corpo. «Il tessuto non lascia sulla pelle

i segni caratteristici dei cappi più comuni, tipo cinture di pelle o di tela,

cintole di accappatoio, cavi elettrici. Quel paramento... come si chiama più?

Lo sapevo, ma non ho più la memoria di una volta.»

«Stola» suggerì Lynley.

«Ah. Grazie. Dicevo, ha lasciato segni... ecco, nelle foto dell’autopsia si


vede... Le petecchie sono appena visibili. L’ecchimosi è lieve, ma risale sul

collo con un’angolazione che è tipica dei suicidi. L’ho detto al sergente,

quando è stata qui l’altra volta. All’aeroclub, non qui dal parrucchiere.»

«Il corpo era ancora appeso quando lei è arrivata sul posto?»

«L’intervento dell’agente aveva contaminato molte delle prove materiali.

Per tentare di rianimare il diacono – giustamente – l’aveva tirato giù e gli

aveva tolto la stola dal collo. Ma anche se non avesse spostato nulla, la

conclusione sarebbe stata la stessa. Il suicidio simulato si rivela quasi sempre

per quello che è.» Alzò la testa per guardarli. «E immagino che sia quello che

state cercando di dimostrare voi. Vi auguro di riuscirci, ma confermo il

referto e la diagnosi di suicidio. C’erano segni sufficienti: la smorfia del

volto, gli occhi protrusi e, come dicevo, le petecchie. Non c’erano tutti i segni

tipici, questo è vero, ma come sicuramente sapete è raro che ci siano proprio

tutti.»

«Abbiamo letto il suo referto» disse Lynley. «Siamo d’accordo che il volto

e il collo fanno pensare a un suicidio per impiccagione e che le abrasioni ai

polsi sono compatibili con le manette di plastica che l’agente ausiliario ha

dichiarato di aver usato al momento del fermo. L’agente ha spiegato inoltre

per quale motivo gliele ha tolte quando sono arrivati alla stazione di polizia.

Ma cosa intende quando dice che non erano presenti tutti i segni tipici,

dottoressa? Quali sono quelli che non ha riscontrato?»

Nancy Scannell restituì le foto e i documenti. Toccò il braccio di Dusty per

attirare la sua attenzione e indicarle un ciuffo di capelli che non la

convinceva, poi si rivolse a Lynley: «In un suicidio di questo genere – per

impiccagione, cioè – si verificano spesso movimenti convulsi delle gambe. In

questo caso, non c’erano segni sul pavimento. È possibile che il soggetto non

abbia scalciato, oppure che avesse un paio di scarpe che non lasciavano

segni, scarpe da ginnastica, per esempio. Ma è una lacuna poco significativa,

in un quadro generale per il resto esaustivo».

Barbara ebbe un guizzo. «Ispettore...?»

Lynley, che aveva pensato la stessa cosa, domandò all’anatomopatologa:

«Si riferisce all’assenza di righe lasciate dalle suole sul pavimento?»

«Sì. Ci sarebbero potute essere ma, come dicevo, le convulsioni non sono

garantite al cento per cento – scusate l’espressione – e potrebbero anche

essere avvenute senza che ne sia rimasta traccia.»

Barbara guardò Lynley. Lynley guardò Barbara. Nancy Scannell, che li


vedeva allo specchio, se ne accorse. «Cosa c’è?» domandò.

«Supponiamo che il diacono fosse seduto su una sedia: secondo lei, una

persona in piedi alle sue spalle potrebbe averlo strangolato inscenando poi un

suicidio per impiccagione?» replicò Lynley.

Nancy Scannell rifletté. «In quel caso, effettivamente, la stola potrebbe

aver lasciato sul collo segni analoghi. Ma ci sarebbero i segni sul pavimento:

nessuno si lascia strangolare senza opporre resistenza. Anche se avesse avuto

le manette ai polsi, il pover’uomo avrebbe sicuramente scalciato e tentato di

divincolarsi» rispose lentamente.

«Lasciando segni sul pavimento» concluse Lynley.

«Graffi sul linoleum» puntualizzò Barbara.

«Segni, graffi, righe, quello che volete.» Nancy Scannell annuì, poi chiese

scusa a Dusty che le aveva dato un colpetto sulla spalla per ricordarle di stare

ferma. «Sì, direi che in uno scenario del genere il linoleum dovrebbe essere

graffiato.»

Tombola, eureka, hurrà, eccetera eccetera, pensò Barbara. Quella sì che era

una svolta.

Worcester

Herefordshire

Era stato un gioco da ragazzi scambiare il cellulare con Clover. Tutti e due li

lasciavano in carica durante la notte e, siccome i telefoni erano identici e

avevano lo stesso codice pin nel caso dovessero usarli per un’emergenza, gli

era bastato prendere quello di Clover e lasciare che lei prendesse il suo, dopo

aver avuto l’accortezza di cambiare lo sfondo in modo che fosse uguale a

quello di lei. Anche questo era stato facile perché Clover non si era mai presa

la briga di scegliere una foto personale o di un bambino, un cane o un gatto

da usare come sfondo alle poche app che le servivano. In meno di un minuto

Trevor aveva trovato tra le immagini proposte dal proprio smartphone lo

stesso panorama marino usato da Clover e l’aveva selezionato.

Nel corso della giornata Clover si sarebbe sicuramente accorta della

sostituzione, ma nel frattempo lui avrebbe avuto il tempo di controllare ciò

che la conversazione avuta con Gaz il giorno prima gli aveva fatto venir

voglia di controllare. Perché Gaz era molto meno bravo a mentire di quanto


pensasse.

Subito dopo l’incontro con l’ausiliario, Trevor aveva esaminato

attentamente il proprio registro delle chiamate in entrata e in uscita, che

restava in memoria per due mesi, e aveva scoperto così che dal 22 marzo al

16 maggio c’era stato uno scambio costante di telefonate con Gaz Ruddock.

Come già aveva avuto modo di constatare nel corso del primo, rapido esame,

le chiamate da e verso il numero di Gaz Ruddock risultavano effettuate

prevalentemente la sera tardi oppure la mattina presto. Certi giorni ce n’era

una sola, altri addirittura quattro.

A quel punto aveva deciso di approfondire e risalire agli antefatti. Era vero

che sia Clover sia Gaz gli avevano assicurato che le telefonate riguardavano il

loro piano segreto per tenere d’occhio Finn a Ludlow, ma era davvero una

questione per cui c’era bisogno di parlarsi così spesso? Trevor esigeva delle

risposte e, per procurarsele, aveva cominciato con una chiamata al suo

provider. Aveva fornito tutti i codici e le password del caso e aveva spiegato

alla voce anonima dell’operatore che voleva controllare se quello scapestrato

di suo figlio avesse usato il suo telefono di nascosto. Poi aveva aspettato che

gli mandassero le informazioni richieste.

Appena le aveva avute davanti agli occhi, aveva notato una cosa

interessante: il fitto scambio di telefonate tra Clover e Gaz era iniziato il

primo marzo. Prima di quella data, per quanto indietro si tornasse, non

risultavano chiamate.

Era molto strano che Gaz, incaricato di tenere d’occhio Finn a Ludlow,

avesse cominciato a riferire regolarmente a Clover solo dal primo marzo. Le

spiegazioni possibili erano due: o nelle settimane precedenti la chiamava

direttamente sul suo cellulare, oppure non aveva ancora cominciato a tenere

d’occhio Finn.

A quel punto Trevor aveva deciso che doveva vederci chiaro ed era stato

allora che aveva scambiato il telefono con quello della moglie. Dopo aver

esaminato il registro delle chiamate in entrata e in uscita negli ultimi due

mesi, e dopo aver ripetuto la sceneggiata con il suo provider in modo da

accedere ai dati del periodo precedente, si rese conto di aver bisogno di

parlare con la moglie subito: non poteva aspettare fino alla sera. Fece perciò

il proprio numero di cellulare e, quando Clover rispose, cercò di parlare nel

tono più naturale che gli riuscì: «Scusa. Ci siamo scambiati i telefoni, amore.

Dev’essere stato quando li abbiamo staccati dal caricabatteria».


«Ah, ecco perché nessuno mi chiamava» replicò Clover. «Pensavo che

finalmente mi fosse capitato un giorno senza rotture di scatole. Di solito

cominciano alle sette e mezzo e non la finiscono più. A proposito, il mio

telefono ha suonato?»

«Appena mi sono accorto che era il tuo, ho lasciato scattare la segreteria.

Ma visto che sono arrivate parecchie telefonate, ho pensato che fosse meglio

avvertirti. Vuoi che li ascolti? I messaggi, intendo.»

«No, no.»

Trevor ebbe l’impressione che quella risposta fosse stata un po’ troppo

precipitosa. «Vuoi che te lo porti? In palestra per ora non ho impegni. Oppure

possiamo incontrarci a metà strada, se puoi» le propose.

«Ho una riunione dietro l’altra.»

«Allora te lo porto io.»

«Non vorrei darti troppo disturbo, Trev.»

«Nessun problema. Parto subito.»

Clover lo ringraziò molto della gentilezza e disse che gli sarebbe andata

incontro all’ingresso per risparmiargli la lunga trafila. «Va bene» disse

Trevor, pur sapendo che quella della moglie non era solo cortesia: nel caso

avessero avuto una discussione, i colleghi non avrebbero visto né sentito

nulla.

Quando Trevor arrivò, Clover era già lì ad aspettarlo e uscì dall’edificio

della reception agitando un braccio. In mano aveva il cellulare da restituirgli.

Trevor parcheggiò e aprì il finestrino dal lato del passeggero. «Sali» disse a

Clover quando si avvicinò.

Il tono non era sgarbato, ma Clover trasalì. «Ho solo pochi minuti, Trev»

gli disse.

«Sono più che sufficienti» replicò lui.

Clover si sedette in macchina e gli porse lo smartphone. Lui continuò a

tenere in mano quello di lei, che lo guardò con aria interrogativa.

«Questo scambio di telefoni...» disse Trevor. «Sono stato io. Ho fatto

apposta a prendere il tuo» continuò vedendo che non reagiva.

La guardò. Clover rimase impassibile e assolutamente immobile. «Ah.»

«Non mi chiedi perché?»

«Immagino che tu sia venuto qui apposta per dirmelo. Anche se,

sinceramente, non vedo il perché di tanta urgenza.»

Che faccia tosta! Trevor si chiese come avesse fatto a non accorgersi prima


della grande capacità di dissimulazione della moglie. Avrebbe dovuto

rendersene conto. Erano anni che gli proponeva i suoi giochetti erotici, resi

ancora più eccitanti dal fatto che in qualunque ruolo risultava sempre

credibilissima: scolaretta, suora, puttana, bigliettaia delle ferrovie, postina,

insegnante di yoga, cameriera d’albergo... Clover non fingeva, si

immedesimava completamente nel personaggio. Trevor doveva osservarla

con la massima attenzione, come se studiasse un vetrino sotto la lente di un

microscopio.

«Ho mentito alla Met come mi hai ordinato» le disse. «Però mi è venuta la

curiosità di scoprire qualcosa di più su tutte queste telefonate fra te e Gaz.

Penso che tu lo possa capire. Se devo mentire alla polizia, meglio che abbia

un’idea sia pur incompleta della verità, altrimenti diventa difficile mantenere

la coerenza. Non occorre che te lo dica, visto il mestiere che fai.»

«Non ne abbiamo già parlato?»

«Sì, in parte. Ma sai come funziona la curiosità. Sarà perché ho sposato

una poliziotta, fatto sta che il mio cervello ha cominciato a rimuginare su

quelle telefonate e mi è parso che l’unico modo per superare quest’ossessione

fosse appurare com’erano andate le cose. Voglio dire, Clover, era come se

avessi una macchina in moto perpetuo che mi martellava dentro la testa...»

Clover strizzò gli occhi. Come previsto, il tono disinvolto di Trevor non

l’aveva ingannata. «Sì, hai ragione. Ti ho chiesto molto» ammise.

«Mi fa piacere sentirtelo dire. Quindi ti sembra ragionevole che io abbia

cercato di capire il perché di tutte le telefonate tra il mio cellulare e il numero

di Gaz.»

«Quando Finnegan...»

«Oh, quello l’ho capito. A proposito, ho dato un taglio a questa buffonata

di ’tener d’occhio Finn’ che avete messo su tu e Gaz.» Trevor mimò le

virgolette con le dita.

Clover non mancò di notarlo. «Quindi ricominciamo con l’altra buffonata?

Quella in cui io non vedo l’ora di allargare le gambe e Gaz non vede l’ora di

infilarcisi in mezzo? E per darci appuntamento usiamo il tuo telefono?»

«Non sto dicendo questo, Clover, ma sto cominciando a pensare che tu

voglia spingermi a dirlo.»

«Io non voglio spingerti a dire niente, se non quello che pensi.»

«Ma allora, se non hai una storia con Gaz, vuol dire che Finn ha fatto

qualcosa che vuoi tenermi nascosto. Cos’è?»


Clover distolse lo sguardo. Davanti all’ingresso della sede si era fermata

una macchina. Clover la esaminò come se cercasse un dettaglio che le era

stato ordinato di trovare a tutti i costi. Dall’auto scese una donna di mezza età

con una borsa enorme, che meritava una perquisizione approfondita. Se si

fosse trattato di una prigione, in quella borsa ci sarebbe stata sicuramente una

torta con una lima nascosta dentro.

Clover fece un gran sospiro. «Non so cos’altro dirti, Trev. Continuiamo a

girarci intorno, ma io non ho nient’altro da aggiungere.»

«Prova a ripensare ai primi di marzo.»

Clover si voltò a guardarlo con aria sinceramente perplessa. «Le prime

telefonate fra te e Gaz con il mio cellulare risalgono a quel periodo.

Dall’inizio di marzo in poi c’è almeno una chiamata ogni sera, tardi. Ora, se

parlavate di Finn e se avevate bisogno di parlarvi così spesso, voglio sapere

che cosa ha combinato mio figlio, e voglio saperlo subito» continuò Trevor.

Clover allungò il braccio per aprire la portiera. «Non so di cosa mi stai

accusando o per chi mi prendi, ma mi sembra che abbiamo parlato

abbastanza, Trevor» disse.

«No. Non abbiamo ancora parlato del tuo telefono.»

«Non vedo a cosa possa servire.»

«Ah, sì? Te lo chiedo perché fra il 26 e il 27 febbraio ci sono otto chiamate

fra te e Gaz sul tuo cellulare, Clover. Otto chiamate in due giorni. Poi più

nulla, e il primo marzo le chiamate ricominciano sul mio telefono. Secondo

me, vuol dire che il 26 febbraio è successo qualcosa, oppure che a quel punto

tu e Gaz avete deciso che non vi sareste più sentiti tranne nei momenti in cui

tu potevi usare il mio cellulare.»

Clover scosse la testa con un’espressione disgustata. «E va bene. Te la sei

voluta. Gaz e io ci diamo dentro come ricci. Ho bisogno di un uomo più

giovane perché tu non mi basti più. È questo che vuoi sentirti dire?»

«Voglio sentirmi dire la verità. Se Finn ha fatto qualcosa, voglio sapere di

cosa si tratta.»

«Cosa potrà mai aver fatto, secondo te?»

«Druitt era preoccupato, no? Droga, alcol, bambini o chissà cos’altro. È di

questo che si tratta?»

«Santo cielo, Trev, per quel che ne sappiamo io e te sono tutte balle. C’è

bisogno che ti ricordi che abbiamo soltanto la parola di Gaz sul fatto che Ian

Druitt volesse parlarci?»


«Stai dicendo che Gaz vuole far ricadere su Finn la colpa di non so che

cosa?»

«Non ne ho idea! So solo che Finn a Ludlow sta meno bene di quello che

cerca di farci credere. Beve troppo, si fa le canne e ha saltato un sacco di

lezioni al college. È possibile che abbia provato anche droghe più pesanti.

Gaz mi ha tenuto al corrente. Poi, quando è morto Ian Druitt, gli è venuto in

mente che... Non so cosa gli sia venuto in mente, perché non gliel’ho lasciato

nemmeno dire, chiaro? Ma quando mi chiamava dovevo rispondere, per

Finnegan. Adesso capisci in che posizione mi sono trovata?»

Trevor non le aveva ancora rivelato l’ultima informazione perché lo

turbava anche solo pensarci, figuriamoci parlarne. Ma a quel punto fu

costretto a farlo. «Vi siete telefonati tre volte la sera in cui è morto il diacono,

Clover. Ho controllato la data.»

«Cosa?»

«Una volta hai chiamato tu e due volte Gaz. La sera in cui è morto Druitt.»

Clover lo fissò, poi aprì la portiera. Trevor pensò che stesse per scendere

senza dire altro, ma si sbagliava.

«Quindi, se ho ben capito, stai insinuando che Ian Druitt non si è suicidato,

ma che l’ho ammazzato io, direttamente o per interposta persona. Giusto?»

Clover aspettò, poi vedendo che suo marito taceva riprese: «Per chi mi hai

preso, Trev?»

La risposta gli sorse spontanea. «Non lo so. Il casino è proprio questo,

Clover.»

Ludlow

Shropshire

«Lo sapevo! Ha la coscienza sporca!» esclamò Barbara mentre Lynley

parcheggiava la Healey Elliott sul Temeside con due ruote sul marciapiede.

Aspettarono una pausa nel traffico prima di attraversare la strada.

«Non credo sia un’affermazione corretta, Barbara» replicò Lynley. «Non

sarà proprio immacolata, forse. Ma non possiamo ancora definirla sporca.»

«Su, ispettore. I segni sul linoleum, le sedie, le manette messe e poi tolte,

la telefonata anonima, la videocamera che si spegne per venti secondi e poi

risulta spostata, le studentesse caricate in macchina, le telefonate ai pub, le


amanti misteriose... Cos’altro vogliamo?»

«Tanto per cominciare vogliamo capire perché sono passati diciannove

giorni dalla denuncia al fermo e alla morte di Ian Druitt. Poi dobbiamo capire

cosa significa che a porre fine a quei diciannove giorni sia stata la madre di

Finnegan Freeman. Infine dobbiamo chiarire tutti i dettagli che lei ha appena

elencato.»

«D’accordo, ho capito dove vuole arrivare. Significa che c’è di mezzo

Finnegan. O sua madre. O suo padre. O Ruddock. In ogni caso, qualcuno che

fa parte del giro del vicecomandante.»

«Ed è per questo che dobbiamo scoprire chi c’era con Ruddock nel

parcheggio la sera dell’omicidio, sempre che ci fosse davvero qualcuno.»

«Sarà stato il colonnello Mustard con il candeliere» borbottò Barbara.

Lynley ridacchiò. «Sono contento che abbia capito dove volevo arrivare.»

Guardò l’orologio da tasca. Si stava facendo tardi. Hillier aveva fretta di

ottenere dei risultati. Se il caso fosse finito sulla scrivania del ministro degli

Interni, sarebbe stata una bella gatta da pelare. Quando gli suonò il cellulare,

il primo pensiero di Lynley fu che a Londra gli avessero letto nel pensiero.

Guardò lo schermo e vide che non aveva sbagliato di molto: era Isabelle

Ardery.

Non voleva parlarle in quel momento. Sapeva di dover rispondere, dopo il

resoconto che gli aveva fatto Dee Harriman, ma in quel momento aveva

bisogno di concentrarsi sull’indagine, che era già abbastanza complicata

senza le interferenze di Isabelle. Lasciò scattare la segreteria. Barbara se ne

accorse.

«È di nuovo il sovrintendente» disse Lynley.

«Purché non se la prenda con me» disse Barbara, e in quel momento stesso

partì la suoneria anche a lei. Guardò il cellulare e chiese: «Caspita, devo...?»

Non potevano ignorare entrambi le chiamate del sovrintendente. «Senta in

che stato è» disse Lynley.

«Cosa dico se mi chiede di lei?»

«Che sono andato dove sono andato e che mi riferirà il messaggio appena

mi vede.»

«E dov’è andato?»

«Sergente, non la credevo così priva di fantasia. Si faccia venire in mente

qualcosa. E se le chiede notizie sulle indagini, le dica che siamo alla stretta

finale.»


Tacque per ascoltare ciò che diceva Barbara al telefono:

«Sovrintendente?... Stavo proprio per... Eh? No, è uscito... Ha cominciato

presto, stamattina. Come dicevo, vogliamo andare sul Temeside per fare

quattro chiacchiere con Finn Freeman o con la sua coinquilina, quella

ragazza, Dena. Dovrebbero... Oh. No. Scusi. Forza dell’abitudine. Sì, sì, sono

sola... È andato a...» Si rese conto di quanto fosse difficile indicare un posto

preciso dove non ci fosse segnale e dove Lynley potesse non rispondere al

telefono, e prontamente cambiò scusa: «Sta cercando di contattare di nuovo

l’anatomopatologa per... Va bene, sì. Ma abbiamo già controllato due volte,

io e l’ispettore... Okay. Come non detto: guarderò di nuovo. Appena posso, e

poi la richiamo, va bene? ... A lei, sovrintendente.»

Chiuse la chiamata e lanciò a Lynley un’occhiata afflitta. «Dal tono sembra

che abbia bevuto quindici tazze di caffè. Vuole che ricontrolliamo le foto

della Scientifica. Che le telefoniamo quando le abbiamo davanti. Secondo

me, sta cercando di uscire da un mucchio di letame in punta di piedi per non

sporcarsi le suole delle scarpe.»

«Per quel che ci costa accontentarla... Più tardi le telefono.»

Barbara, imbronciata, sospirò e rimise il cellulare nella borsa. «Non si

stanca mai di comportarsi da gentiluomo?»

«Sono stato educato così fin dalla nascita, sergente. Oh. Siamo arrivati

giusto in tempo.» Indicò la casa: la ragazza di nome Ding stava uscendo.

Aveva uno zaino sulle spalle e andava verso una bici. Armeggiò con il

lucchetto, che non si voleva aprire. «Su, forza, apriti» lo sentirono borbottare,

quando si avvicinarono.

«Vuole una mano?» le chiese Lynley.

La ragazza si girò di scatto e, nel riconoscerli, indietreggiò di un passo.

«Finn non c’è» disse.

«Non importa» replicò Barbara. «È con lei che vogliamo parlare.»

La ragazza si insospettì all’istante e il suo sguardo cominciò a saltellare da

Barbara a Lynley e viceversa come un uccellino fra due rami.

«So che è stata Francie Adamucci a mettermi di mezzo, se siete qui per

quello» mise subito in chiaro. «Tenete presente che Francie la dà a tutti.»

«Le ruberemo solo pochi minuti» promise Lynley. «Comunque ha ragione:

Francie Adamucci ha fatto il suo nome, e l’agente ausiliario ha confermato

quanto da lei affermato. Ma noi vorremmo sentire anche la sua versione dei

fatti, Ding.»


«Sono due bugiardi e io non...»

«Non ha tempo, lo so. Come tutti» disse Barbara.

«Veramente stavo per dire che non sono tenuta a rispondere alle vostre

domande. Mi aspettano a casa.»

«A casa dei suoi genitori?» domandò Barbara. «La casa dove non vuole

farsi accompagnare da Gary Ruddock?»

«Chi ve l’ha detto?»

«Lui in persona. Dice che è per via del suo problema.»

«Quale problema?»

«Se ci concede qualche minuto, le spieghiamo tutto» intervenne Lynley.

La ragazza tornò al portone e lo aprì con una certa enfasi. Entrò in casa ma

diede chiaramente a intendere con la sua postura che non si sarebbe mossa di

un passo oltre l’ingresso. Che la trascinassero in salotto di peso, se volevano

dare una dimostrazione della brutalità di cui la polizia è capace. Con il peso

su una gamba e la mano sul fianco opposto, li guardò con aria di sfida.

«Più di un testimone l’ha vista con l’ausiliario Ruddock» cominciò Lynley.

Ding lo interruppe subito. «Più di una persona vi ha riempito di balle,

allora.»

«Non siamo venuti per chiederle i particolari» disse Lynley.

«In tutta confidenza preferiamo non saperli» si intromise Barbara. «Non ci

interessa sapere chi era sopra, chi sotto, e come. Massima riservatezza.»

«Io non ho mai...»

«Non è vero. Qualche volta sì.»

La ragazza parve sul punto di mettersi a piangere, reazione che contrastava

con l’atteggiamento ribelle che aveva tenuto fino a un attimo prima. C’è sotto

qualcosa, pensò Lynley. «Ding, non abbia paura: non ce l’abbiamo con lei.

Più di una persona, però, l’ha vista con l’ausiliario Ruddock, compreso il

sergente Havers qui presente, e ci serve sapere se era con lui sull’auto di

servizio la sera in cui il diacono Ian Druitt è morto all’interno della stazione

di polizia. Non ci interessa sapere in quali rapporti è con Gary Ruddock, ma

solo...» disse.

A Ding si riempirono gli occhi di lacrime. Si nascose la faccia con le mani

e cominciò a piangere come se niente al mondo potesse consolarla.

«Maledizione» mormorò Barbara mentre Lynley si avvicinava alla ragazza.

«Cos’è successo, Ding?» le domandò sottovoce Lynley. «È giunto il

momento di parlarne, direi.»


Barbara andò in cucina e un attimo dopo si sentì scorrere l’acqua e

riempire il bollitore. La risposta inglese a ogni problema, pensò Lynley.

Ding si lasciò scivolare con la schiena lungo il muro, ma Lynley la prese

per un braccio e la tirò su. Mentre singhiozzava, le tolse gentilmente lo zaino

e le mise un braccio sulle spalle. «Si calmi» le disse. «C’è qualcuno in casa?»

chiese e quando Ding, incapace di parlare, scosse la testa, aggiunse: «Era con

lui quella sera?»

«No...» gemette Ding.

Lynley la guidò verso la cucina. «Ding, abbiamo bisogno del suo aiuto per

capire...»

«Sì, ma no» balbettò lei fra le lacrime. «No.»

Come la volta precedente, Barbara aveva scostato una sedia dal tavolo e

aveva tirato fuori bustine di tè e tazze. Quella che per Lynley restava una

risposta sibillina, per lei evidentemente era chiara. «Intende sì, è stata con lui,

ma no, non la sera in cui è morto il diacono?» disse a Ding.

La ragazza annuì. Barbara le porse uno strofinaccio mentre Lynley tirava

fuori uno dei suoi fazzoletti candidi e perfettamente stirati. Ding prese lo

strofinaccio e vi nascose le faccia.

«Io... non... voglio...» Prese fiato e ricominciò: «Lui sa che non voglio...

andare a casa».

«Lo sappiamo. Ruddock ci ha detto che lei non vuole che lui la

riaccompagni a casa dai suoi» replicò Lynley. «E che il motivo è che non

vuole far sapere ai suoi che beve. Sostiene di averla beccata più di una volta

ubriaca. È così?»

Come la maggior parte delle persone, Dena Donaldson non era bella

quando piangeva. Era paonazza, aveva il naso rosso e le tremavano le labbra.

«C’è dell’altro. Certe se ne fregano di quello che dice, perché se lo possono

permettere, ma io no. È per questo che ci sto. Ha cominciato quando mi ha

beccato ubriaca e io gli ho detto di sì perché se mia mamma sapesse quanto

bevo mi farebbe tornare a casa, non mi lascerebbe continuare a stare qui, e io

a casa non ci potevo tornare, non me la sentivo, e adesso ho anche capito

perché. Lui lo sapeva e mi ha proposto questo patto: se fai quello che ti dico

io nel parcheggio della stazione di polizia, è come se non ti avessi mai

beccato. E io ci sono stata, perché voi non avete idea dell’orrore che mi

metteva l’idea di tornare dai miei. Se facevo quello che voleva, dopo lui mi

riportava qui sul Temeside invece che dai miei» riuscì a dire dopo un po’.


L’acqua era giunta a ebollizione. Barbara portò le tazze sul tavolo. Mentre

Lynley tentava di trovare un senso nelle parole di Ding, Barbara fece un salto

logico che forse solo una donna avrebbe potuto fare e riassunse lo sfogo della

ragazza. «Quando Ruddock la beccava in giro ubriaca, pretendeva da lei

favori sessuali in cambio del silenzio.»

Ding annuì e ricominciò a piangere.

«Lo fa solo con lei o anche con altre?» domandò Lynley.

«Forse anche con altre, non lo so. Con Francie no, perché a lei non gliene

frega niente. Può fare quello che le pare. La lasciano libera, sanno che non

possono... come dire?... legarle le mani o cose del genere.»

Lynley annuì. Nel vedere Ding con il mascara che le colava sulle guance e

qualche sbaffo nero sulla fronte provò l’impulso di pulirle la faccia, il

desiderio di proteggerla in qualche modo. «Ma lei ha continuato a

ubriacarsi?» le chiese.

Ding scosse la testa. «Quasi mai, ma... Ormai non fa differenza. Per lui,

cioè. Non mi viene a cercare solo se bevo: decide che ho bevuto e... Magari

sto tornando qui dalla biblioteca, me lo trovo davanti e non voglio che mi

porti dai miei e lui lo sa. Ero terrorizzata, quando è cominciata questa storia,

perché mi sembrava di essere finalmente riuscita a fuggire, solo che non

sapevo da cosa, e poi ho pensato, in fondo che importanza ha visto che agli

altri la do, ma tornare a stare da mia madre non posso, non posso proprio.»

«È in grado di dimostrare che non era con Ruddock la sera in cui è morto

Ian Druitt?» chiese Lynley. Come faceva Ding a sapere quando era stata con

l’ausiliario e quando no? A meno che non tenesse un diario... Lynley le disse

la data precisa.

«Quella sera no» disse Ding. «Se l’hanno visto con una ragazza quella

sera, non ero io.»

«Come fa a essere così sicura?» chiese Barbara.

«È il compleanno di mia madre» rispose Ding. «Ero a casa. A Much

Wenlock. Chiedete pure a Francie o a Chelsea, perché era prima che

Francie... Eravamo ancora amiche e le avevo invitate a Cardew Hall.»

Ironbridge

Shropshire


Yasmina non prese il carrello perché le bastava uno dei cestini disponibili

all’interno del supermercato. Quella sera sarebbero stati in tre a cena, ma non

aveva la forza di mettersi a cucinare e quindi aveva intenzione di prendere

piatti pronti, tirarli fuori dai contenitori e servirli a Tim e Sati come se li

avesse preparati lei.

Valutò le varie opzioni. La scelta non era facile perché non aveva appetito.

Ormai mangiava soltanto perché doveva nutrirsi, come se il cibo fosse una

medicina, oltre che per dare il buon esempio a Sati. Vedi, cara, la mamma

mangia e quindi devi mangiare anche tu.

Una quiche, pensò. Oppure lasagne al forno. Eglefino e piselli. Platessa e

patate fritte. Era difficile scegliere, quando non si sentiva più lo stimolo della

fame.

«Dottoressa Lomax! È lei, vero?»

Yasmina alzò lo sguardo. Una bella donna con gli occhi azzurri, una giacca

scozzese e dei pantaloni attillati le sorrideva incerta. Yasmina aggrottò la

fronte perché non aveva idea di chi fosse.

«Sono Selina Osborne» si presentò la donna. «Missa è stata mia alunna in

quarta.»

«Oh, sì, certo. Sul momento non l’avevo riconosciuta» replicò Yasmina,

benché in verità non si ricordasse affatto di lei.

«Sono i capelli» disse l’insegnante. «Ho cambiato colore e taglio. Come

sta? Immagino sarà contenta per Missa e Justin.»

Yasmina non capì. Contenta era l’ultima parola che avrebbe usato per

descrivere il proprio stato d’animo. «Come, scusi...?»

Selina Osborne rise. «Oh, mi perdoni. Ho visto l’annuncio all’ufficio dello

stato civile quando sono andata con Toby a fare le pubblicazioni.»

Arrossendo, le mostrò l’anello. «In realtà non volevo l’anello di

fidanzamento perché è la seconda volta sia per me che per lui e non mi

sembrava il caso, ma lui ha tanto insistito. Faremo solo il rito civile, ma

immagino che per Missa e Justin abbiate in programma ben altra cerimonia!

Li ricordo bene entrambi, soprattutto Justin, un così bel ragazzo, con quella

faccia seria e il ciuffo che gli cadeva sempre sugli occhi. Si vedeva già allora

che per lui esisteva solo Missa, e adesso si sposano...» Fece un’altra risatina e

si mise una mano sul cuore. «Non le dico quanto mi fa sentire vecchia...»

aggiunse.

Yasmina annuì e rispose con un filo di voce: «Eh, già».


«Me li saluti tanto, per cortesia. Gli faccia gli auguri da parte della

professoressa Osborne, futura signora Joyce.»

«Non mancherò» disse Yasmina.

Appena Selina Osborne si allontanò spingendo il carrello tutta allegra,

Yasmina cominciò a prendere confezioni a caso dagli scaffali. Non era

possibile, doveva esserci un errore. Sapeva fin dal principio che con ogni

probabilità sarebbe andata a finire così, eppure non riusciva a farsene una

ragione. Timothy l’aveva previsto, a modo suo Rabiah aveva tentato di

metterla in guardia, ma lei non aveva voluto ascoltarli.

Non le restava che rivolgersi all’unica persona che, forse, poteva rendersi

conto dell’assurdità di un matrimonio così affrettato tra Justin e Missa,

l’unica che quasi sicuramente era preoccupata quanto lei. Portò alla cassa i

suoi acquisti, uscì dal supermercato e andò al Museum of the Gorge.

Il museo aveva sede in una ex fonderia sulla sponda del fiume Severn, un

imponente edificio in mattoni progettato in modo da mascherarne la funzione

grazie a una serie di abbaini e alla merlatura sui lati est e ovest del tetto e

sulle ciminiere, che facevano pensare più a un castello che a uno stabilimento

siderurgico. Sulla facciata rivolta verso Ironbridge c’era una grande finestra

in stile gotico con vetri romboidali che ricordava molto una chiesa, quasi

l’architetto fosse stato indeciso su cosa scegliere per convincere gli abitanti

del circondario che eventuali peggioramenti nella qualità dell’aria che

respiravano e dell’acqua che bevevano non erano dovuti alla vicinanza di una

fonderia. I binari che entravano direttamente nell’edificio rendevano meno

credibile il travestimento, come pure il fatto che la costruzione si trovasse

vicinissima al fiume. E non a caso il Severn l’aveva più volte allagata, tanto

che era quasi un miracolo che fosse ancora in piedi.

Mancavano pochi minuti alla chiusura e nel parcheggio c’erano solo tre

auto. Yasmina entrò e chiese di Linda Goodayle: la mamma di Justin, infatti,

era la direttrice del museo. Yasmina sapeva quanto il clan Goodayle andava

fiero del fatto che Linda, entrata come cassiera quando il museo era ancora

semisconosciuto, avesse fatto carriera fino ad arrivare al vertice di quella che

era ormai un’importante istituzione culturale. Lo stesso, del resto, aveva fatto

il marito nel parco a tema di Blists Hill. Pur non essendo né laureati né

diplomati, i Goodayle erano intraprendenti, capaci e grintosi.

La cassiera parlò brevemente al telefono e riferì a Yasmina che la direttrice

aveva un paio di cose da finire e poi sarebbe scesa da lei. Nel frattempo, se


voleva, poteva fare un giro per le sale. C’era un nuovo diorama molto

interessante. Yasmina disse che avrebbe aspettato fuori, visto che c’era un bel

sole. La cassiera alzò le spalle e tornò a guardare lo schermo del computer.

Yasmina uscì e andò verso il muro in fondo al parcheggio. Il fiume

scorreva tranquillo. Vicino alla riva c’erano giacinti fioriti e ciuffi di erba

milza; più in alto, sull’argine, occhieggiavano infiorescenze di aconito. Sulla

sponda opposta salici e ontani offrivano al sole le foglie ancora tenere.

Maggio era sempre stato il mese preferito di Yasmina, ma quell’anno avrebbe

preferito passarlo in coma.

«Dottoressa Lomax?»

Yasmina si voltò. Naturalmente riconobbe Linda Goodayle, perché si

conoscevano da anni, ma riconobbe anche i sottintesi del fatto che non

l’avesse chiamata per nome. «Mi chiami Yasmina, per favore. Ha un attimo

da dedicarmi, Linda? Vorrei parlarle di una questione urgente.»

Linda la osservò con grande distacco. «Sì. Lo credo che le sembra urgente.

A voialtri non piacciono le sorprese, eh?» replicò.

Yasmina non era così ingenua da credere che quel tono brusco e il forte

accento locale con cui le aveva risposto fossero involontari. Erano un modo

per dirle Apparteniamo a classi sociali diverse e so benissimo quanto sei

snob.

Yasmina si morse le labbra. Non era un buon inizio. Linda Goodayle era

riuscita a metterla subito in difficoltà.

«Ma la vita è piena di sorprese, neh?» Linda frugò nella borsa e tirò fuori

un pacchetto di chewing-gum alla nicotina, di quelli che la gente usa per

smettere di fumare. Yasmina li vide, si rese conto che non sapeva neppure

che Linda fumasse e si chiese se non fosse anche quello indice di snobismo

da parte sua.

«Allora, di cos’è che vuole parlare, Yasmina? Del mio Justin, scommetto.»

Linda si mise in bocca un chewing-gum, appallottolò la carta e la ficcò nella

tasca del lungo cardigan. «Cioè, del mio Justin e della sua Missa. Per questo è

venuta fin qui.»

Ti prego, ti prego, smetti di usare questo tono, avrebbe voluto dirle

Yasmina, perché era chiaro che Linda lo faceva apposta per metterla in

difficoltà. Ma se l’avesse sottolineato si sarebbero impantanate in una diatriba

sul diverso status sociale dei loro figli e sui pregiudizi che Linda sicuramente

le attribuiva. Non era una questione di differenza di classe, ma i Goodayle


probabilmente la vedevano solo in quei termini.

«Saprà che hanno fatto le pubblicazioni» disse Yasmina. «Sono già esposte

in municipio.»

L’espressione di Linda si indurì immediatamente. «Certo che lo so. Mica

vivo fuori dal mondo, io» ribatté. «Volevo proprio vedere quanto ci avrebbe

messo a scoprirlo, dato che lei non ha certo l’abitudine di star dietro a chi si

sposa e chi no. Ma vedo che non c’è voluto molto.»

«L’ho saputo da una loro ex insegnante, che mi ha fermato per

complimentarsi.»

«Anche questa sarà stata una sorpresa, neh? Si aspettava le condoglianze,

scommetto.»

«Per piacere, Linda! So benissimo che è quello che i nostri figli

desiderano. So che... Mi sembra sia quello che vogliono tutti.» Linda stava

già per ribattere, ma Yasmina non gliene diede il tempo. «E io non ho niente

in contrario.»

«Veramente, non mi risulta.»

«Preferirei solo che non si sposassero così giovani. Quando ci si sposa

troppo presto...»

«Ho capito! Mi prende per scema?» Linda fece un pallone con il chewinggum

e lo fece scoppiare tra i denti. Fu senza dubbio un gesto deliberato, così

come l’accento marcato. Quando riprese a parlare, però, abbandonò la posa

da colletto blu. «Probabilmente pensa che in famiglia siamo tutti un po’

ottusi. Ma le sue... remore, o paure, o come vogliamo chiamarle, non

c’entrano niente con l’età dei ragazzi. Se Justin avesse ventotto anni e Missa

ventisei sarebbe lo stesso. Il vero motivo è che Justin non le piace.»

«Non è vero. È un ragazzo meraviglioso, ed è sempre stato molto caro a

tutta la famiglia, oltre che a Missa. Le mie obiezioni...»

«Ah, finalmente le chiama con il loro nome: obiezioni. Sputi il rospo.

Sentiamo cos’ha in contrario.»

«Non ho mai nascosto che tengo molto al fatto che Missa vada

all’università» disse Yasmina. «Ha una bella testa...»

«E Justin no, secondo lei?»

«... e sarebbe sbagliato da parte mia non incoraggiarla a mettere a frutto le

sue doti. Così come sarebbe stato sbagliato da parte sua non incoraggiare

Justin. Me ne ha parlato, quando mi ha fatto vedere le... le casettine che

costruisce.»


«Sono unità abitative per il glamping» puntualizzò Linda. «E gli riescono

molto bene. Cosa che non mi sorprende, perché ho sempre pensato che la sua

forza fosse la manualità.»

«Sono d’accordissimo. Così come la forza di Missa è l’intelligenza.»

«Okay. Ma su tutto il resto la pensiamo diversamente.»

«Cosa? Perché? Non penserà che Missa...»

«Penso che i nostri figli debbano scoprire da soli quali sono i loro punti di

forza» ribatté Linda. «Non devono vederseli imporre da noi genitori. Sono

sicura che lei ha delle aspettative per Missa, che però sono aspettative sue,

progetti che ha fatto per lei senza consultarla. Scommetto che ha deciso

cos’avrebbe fatto da grande il giorno in cui è nata.»

«Non è vero. Missa ha sempre espresso il desiderio di andare

all’università. Voleva laurearsi in una materia scientifica. Lo ha deciso

autonomamente e poi, di colpo, non ne ha più voluto sapere. Ha buttato via il

suo futuro senza spiegarmi perché.»

Linda distolse lo sguardo come se volesse lasciar riecheggiare nell’aria per

un po’ quelle parole. Ha buttato via il suo futuro. Si mise a fissare un negozio

di fronte al museo che vendeva cristalli, minerali provenienti da tutto il

mondo e dozzinali gioielli in argento. La proprietaria si preparava a chiudere

ed era uscita per togliere da un tavolino accanto alla porta alcune candele e

una tovaglia di lamé dorato.

Yasmina annuì. «E adesso ha detto a Sati che può andare a vivere in casa

con loro, quando lei e Justin saranno sposati. Concorderà con me sul fatto che

è inammissibile.»

Linda le voltò le spalle, andò verso il muro e sputò il chewing-gum. «Nella

casa che lei ha promesso a Justin se avesse convinto Missa a finire il college

e iscriversi all’università? Intende quella casa, Yasmina? Justin ci ha creduto,

sa? Ci ha creduto non perché è ottuso, come pensa lei, ma perché è onesto e

sincero. Non ha filtri, non ha secondi fini e crede che anche gli altri siano

come lui. Solo che purtroppo non siamo tutti così, meno che mai la sua futura

suocera.»

«Linda, per piacere. Non può volere che si sposino così presto.»

«Quello che voglio io non conta. Ai miei figli ho insegnato a prendere le

loro decisioni da soli e affrontarne le conseguenze. Lei pensa che il mio

Justin non sia all’altezza di Missa...»

«Non sto dicendo questo. Non l’ho mai detto.»


«... e può darsi che abbia ragione. Forse la lezione che Justin deve imparare

è questa: che non è adatto a una come Missa, anche se la ama. Ma può anche

darsi che invece sia Missa a non essere all’altezza di Justin. Può darsi che, in

fondo, sia anche lei come sua madre: incapace di credere nel talento e nella

bontà d’animo di Justin. Forse anche Missa, sotto sotto, crede che avere una

laurea sia più importante che essere se stessi nella vita. Non lo so, e

nemmeno lei lo sa, Yasmina. Ma io sono convinta che prima o poi lo

scopriremo.»

Fece un breve cenno del capo e si avviò alla macchina, una Audi

antidiluviana parcheggiata nello spazio riservato al «Direttore». Yasmina,

senza parole, stava per andare anche lei alla propria auto quando Linda si

voltò. «Quindi non intercederò per lei. È questo che era venuta a chiedermi,

vero? Tutti gli altri tentativi sono falliti e quindi le restavamo solo noi, i

genitori di Justin. ’Mettete fine a questa follia, restituite Missa a sua madre,

perché è con lei che deve stare.’ Se lo scordi. Non lo farei mai a uno dei miei

figli e non intendo farlo a Missa» aggiunse.

Yasmina rimase dov’era mentre Linda usciva dal parcheggio e poi si

allontanava al volante della Audi. Era come paralizzata, incapace di

muoversi. Non riusciva a credere che una madre potesse permettere che al

figlio succedesse ciò che stava succedendo a Justin. Il futuro stava per

investirli come un treno lanciato a tutta velocità e nessuno muoveva un dito

per tentare di deviarne la traiettoria.

Uscì dal parcheggio anche lei e si immise sulla strada lungo il fiume senza

vedere nulla. Era come se la collina alla sua sinistra e le case del paese non

esistessero, come se le fabbriche dove un tempo si produceva ferro per tutta

l’Inghilterra fossero svanite nel nulla. Yasmina vedeva soltanto il futuro che

aveva immaginato e quello che invece si prefigurava ora.

La sua unica speranza era Sati. Arrivò a casa e vide che Timothy era già

rientrato. Pregò che non le si leggesse in faccia il turbamento. Timothy non

avrebbe approvato l’iniziativa di andare a parlare con Linda Goodayle, così

come non aveva approvato nessuna delle cose che aveva fatto per aiutare

Missa a superare quel momento difficile.

Sollevò il sacchetto della spesa, si mise a tracolla la borsa e, sforzandosi di

sorridere, entrò in casa. Vide subito che non era il caso di temere che

Timothy le leggesse nel pensiero: Sati era sola in cucina alle prese con i

compiti di matematica. Era andato a stendersi un attimo, la informò la figlia a


voce bassa. Era molto stanco e non voleva cenare. Si scusava molto, ma

aveva bisogno di riposo.

Yasmina sapeva cosa intendeva il marito per «riposo» e fu tentata di

correre di sopra. Ma di quante cose doveva farsi carico una sola donna?

Arrivava il momento in cui bisognava decidere di affrontare un problema per

volta e stabilire delle priorità.

«Bene, mangeremo io e te, allora.» Yasmina posò la borsa della spesa sul

bancone e sorrise alla figlia. «Che brava ragazza sei, Sati. Come va con la

matematica?»

Sati scosse la testa e si morse il labbro inferiore risucchiandolo fra i denti.

Era una brutta abitudine che doveva togliersi, pensò Yasmina, ma non disse

nulla. Andò al tavolo, si fermò alle spalle della figlia e guardò il quaderno.

«Ohi ohi» esclamò vedendo quanto era pasticciato: cancellature,

correzioni, e in un punto c’erano anche alcune macchie che dovevano essere

di lacrime cadute sulla pagina. «Non può essere così difficile. Hai una bella

testa: devi solo imparare a usarla.»

«Non ci capisco niente» replicò Sati. «Non imparerò mai. Ma intanto la

matematica non mi servirà, quindi non vedo perché...»

«Sì che ti servirà, Sati. È la base di tante altre materie: scienza, tecnologia,

economia.»

«Per la poesia, per l’arte, per scrivere, non serve.»

«Ma... Voglio dire, non vorrai fare della scrittura la tua professione, no? A

meno che tu non finisca a insegnare... Ma perché con una bella testa come la

tua dovresti andare a insegnare? Hai solo bisogno di qualche lezione privata.

Troveremo qualcuno che ti dia ripetizioni.»

Sati la guardò in silenzio. Aveva solo dodici anni, ma i suoi occhi

sembravano antichi.

Yasmina svuotò la borsa della spesa per vedere che cosa aveva comprato.

Chili con carne, rape con formaggio cheddar, tortini di pasta sfoglia ripieni di

carne, spaghetti alla carbonara. Annunciò ridendo che il menu era a sorpresa,

cosa che a Sati sarebbe sicuramente piaciuta un sacco.

«Può aiutarmi Missa» mormorò la bambina con gli occhi fissi sul

quaderno. «Ha detto che lo fa volentieri.»

«Certo» replicò Yasmina. «Ma quando tornerà al college le sarà difficile

aiutarti. Non ti preoccupare, cercheremo un insegnante e, nel frattempo, può

darti una mano la nonna. Ci pensiamo domani, va bene? Poco fa ho


incontrato la professoressa Osborne al supermercato. Te la ricordi? Chiederò

a lei se ha qualcuno da consigliarci. Perché non smetti di studiare e non mi

aiuti a preparare la cena? E dopo guardiamo un po’ di tv, che ne dici?»

Sati annuì. Chiuse libri e quaderni, li prese e li portò in camera sua, da

brava ragazzina ubbidiente.

Quando tornò, Yasmina aveva apparecchiato la tavola e stava leggendo le

istruzioni sulle scatole delle varie portate di quella bizzarra cena. Si mise a

chiacchierare con la figlia di quel che avrebbero mangiato, raccontandole

divertita che quando aveva scelto quelle cose aveva la mente altrove: stava

pensando alle notizie che aveva letto su una rivista di gossip durante la pausa

pranzo, un matrimonio fra due celebrità, un divorzio che aveva fatto scalpore,

e poi la storia di una stupida americana che era andata sulle Montagne

Rocciose e aveva spruzzato addosso ai figli lo spray anti-orsi pensando che

servisse per tenere lontani gli orsi, quando invece andava spruzzato addosso

all’orso nel caso si avvicinasse! I figli della donna erano finiti al pronto

soccorso, poveretti. Ti immagini in che condizioni erano? ...il prurito? ...il

bruciore?

Sati parve trovare avvincente la storia. Che sciocca quella donna! Come

aveva potuto pensare che lo spray anti-orsi fosse come quello antizanzare?

Nello stesso tempo, però, non le si potevano dare tutti i torti, no, mamma?

Be’, sì, tesoro, ma solo se sullo spray ci fosse stato scritto «repellente

antiorsi», che era una cosa ben diversa. A proposito, cosa aveva voglia di

guardare alla tv? Voleva dare un’occhiata a Radio Times per vedere cosa

c’era in programma quella sera? Poteva scegliere. Si sarebbero sedute sul

divano vicine vicine, magari con un bel gelato al cioccolato. Ti va, Sati?

Scaldate le varie portate, Yasmina trasferì tutto dai contenitori ai piatti da

portata e servì in tavola. Toccò la sedia di Sati per invitarla ad accomodarsi e

le mise nella fondina il chili con carne. In un piatto piano le servì rape e

spaghetti alla carbonara.

«Non ho fame, mamma» disse Sati immobile dietro la sedia, guardando i

due piatti.

«Ma sì che hai fame» ribatté Yasmina. «Dobbiamo mangiare, sia io che te.

Siediti, siediti, tesoro. E dopo...»

«Mamma...»

«No, no, siediti, ho detto. Mangia almeno un po’. Fallo per me, Sati, per

piacere.»


La bambina sospirò, scostò la sedia dal tavolo e si sedette. Prese un

cucchiaio e, dopo aver giocherellato a lungo con il chili, ne prese un boccone

piccolissimo. Yasmina non la sgridò e non insistette perché mangiasse di più.

Prese il cucchiaio e lo affondò nel piatto cercando di ignorare lo sgradevole

misto di aromi delle pietanze che aveva messo in tavola.

Riprese a chiacchierare con la figlia del più e del meno. Un reality, una

gaffe commessa da un membro della famiglia reale, il bullismo in aumento, il

bullismo in calo: qualsiasi cosa le venisse in mente. Alla fine si fece coraggio

e arrivò dove doveva arrivare.

«Sati, tesoro, devo dirti una cosa che ho saputo oggi dalla professoressa

Osborne.» Attese un segno di interesse, che non arrivò. «L’ho incontrata oggi

pomeriggio al supermercato. Io ora te lo racconto e poi devo chiederti un

favore.»

Sati la guardò con i suoi occhi antichi. Era bellissima, pensò Yasmina. In

lei si erano mescolati tutti i tratti migliori dei due genitori. Era come se Missa

e Janna fossero state due tentativi, la prova generale, e Sati fosse il prodotto

finito, completamente perfezionato. A dodici anni era una ragazzina

adorabile. A venti avrebbe fatto voltare la gente per strada. Le donne

l’avrebbero invidiata e gli uomini desiderata. E Yasmina aveva il compito di

farle capire quanto fosse effimero tutto questo: la bellezza passa, la saggezza

rimane.

«Cosa?» domandò Sati. «Quale favore, mamma?»

«Aspetta, prima ti dico cosa ho saputo dalla Osborne.» A quel punto

Yasmina rivelò ciò che le aveva raccontato la professoressa: l’ufficio dello

stato civile, le pubblicazioni, il matrimonio imminente di Missa con Justin

Goodayle. «Vedi, Selina Osborne era andata a fare le pubblicazioni per il suo

matrimonio e ha visto quelle di Missa e Justin. Capisci?»

Mentre Yasmina parlava, Sati aveva abbassato gli occhi sul chili, poi aveva

preso la forchetta e spostato le rape con il cheddar qua e là per il piatto. Ma a

quel punto sollevò la testa, guardò in faccia Yasmina e disse qualcosa di

totalmente inatteso: «Non sono stupida, mamma».

Yasmina rise. Una risata chiaramente forzata, ma meglio di così non riuscì

a fare. Nel tono di Sati aveva percepito qualcosa di nuovo: la bambina si era

offesa.

«Scusami, Sati» le disse. «Non volevo dire questo. Volevo dire che, se

sono andati a fare le pubblicazioni, succederà presto. È perfettamente legale,


sia chiaro. Sono entrambi maggiorenni. Ma secondo me dobbiamo chiederci

se è davvero la cosa migliore per loro.» Fece una pausa per riordinare le idee

e decidere quale piega dare al discorso, quindi riprese: «Sati, il fatto è questo.

Se ci si sposa troppo giovani, quasi inevitabilmente il matrimonio fallisce e io

non sopporto l’idea che Missa vada incontro a un’esperienza così brutta. Tu

cosa ne pensi? Io penso – anzi, ne sono proprio convinta – che a te Missa

darebbe ascolto, perché sa che senti la sua mancanza, che hai bisogno di lei.

Vorrei che le parlassi tu, capisci? Vorrei che andassi a trovarla a casa dei

Goodayle oppure a Blists Hill – ti ci accompagno in macchina – e le

chiedessi di tornare a casa. Dille la verità: che la mamma è molto dispiaciuta

per il pasticcio del West Mercia College e le chiede scusa con tutto il cuore e

che tu, Sati, hai bisogno che ti stia vicino e se si sposa non potrà...»

«Mi ha detto che posso andare a stare da loro» dichiarò Sati di punto in

bianco.

Yasmina prese il bicchiere e bevve un sorso d’acqua. «Tesoro, se prendono

il cottage a Jackfield...»

«Me lo ha detto prima, mamma. Mi ha detto che, se voglio, quando lei e

Justin saranno sposati posso andare a vivere con loro. Non abiteranno in un

cottage piccolino, ne cercheranno uno più grande. Ha detto che ci sarà una

stanza anche per me, non quella degli ospiti, una proprio per me, e che posso

stare da loro.»

Yasmina si accorse di avere la bocca asciutta e le labbra secche. Le

sembrava di avere persino i palmi delle mani inariditi. «Sati, bambina mia,

non sei abbastanza grande per stare lontano da tua madre e tuo padre» disse.

«Mi ha promesso che mi dirà la data precisa del matrimonio, così ci posso

andare. E dopo lei e Justin mi verranno a prendere e starò a vivere da loro.»

Mentre la figlia parlava, Yasmina si rese conto di un aspetto tutt’altro che

trascurabile che fino a quel momento le era sfuggito. «Sapevi già che sono

andati in municipio per le pubblicazioni?»

«Missa me l’aveva detto, che avevano intenzione di andarci. Me lo hanno

detto insieme. Mi hanno anche chiesto se volevo andare con loro, ma io ho

risposto che ti saresti arrabbiata. Allora hanno detto che, se ti arrabbiavi,

pazienza. E che se avevo paura di te, Justin poteva venirmi a prendere. Ho

detto che tu non mi fai paura, ma non volevo farti arrabbiare, che preferivo

aspettare. Ma quando avranno tutto pronto andrò a stare da loro.»

Yasmina si appoggiò allo schienale. «Perché non mi hai detto niente?»


«Perché sapevo che avresti detto di no.»

«Non parlo di andare a stare con loro. Quello te lo puoi tranquillamente

scordare. Parlo de... delle pubblicazioni, delle nozze, dei loro progetti...»

Yasmina prese per un braccio Sati e glielo strinse con tanta forza che la figlia

lanciò un grido. «Si tratta del futuro di Missa!» esclamò. «Non lo capisci?

Questo non è un gioco! Non è uno schiaffo che date a me: si tratta della vita

di tua sorella, capisci? E tu, stupida, lo sapevi! Lo sapevi dall’inizio...»

Sati si divincolò. «Mi fai male, mamma!»

«Questo è niente. Ma cosa ti è preso? Dove hai la testa? Mi sarei potuta

presentare all’anagrafe. Avrei potuto impedirglielo. Avrei potuto...»

«È proprio quello che ha detto lei.» Sati aveva gli occhi lucidi. «Lo sapeva,

che avresti fatto qualsiasi cosa. Dice che la odi. Che odi lei e Justin e tutti

quelli che non fanno quello che vuoi tu.»

«Io non...»

«Mi fai male! Le unghie... Smettila, mamma. Smettila.» Sati scoppiò a

piangere. «Non voglio più stare qui. Non voglio più stare con te. Janna se n’è

andata e ora anche Missa e io non ho nessuno perché non conto niente e

andrò a stare con Missa e Justin e tu non puoi impedirmelo perché se ci provi

io scappo e non mi troverai mai più. Piuttosto vado a Londra e dormo per

strada e...»

Yasmina la colpì con tanta forza che le girò la testa dall’altra parte. Le ci

volle un attimo per rendersi conto che non le aveva dato un ceffone, come era

sua intenzione, ma un pugno. «Oh Sati... Mio Dio... Sati, figlia mia...»

Parlando, allentò la stretta intorno al braccio. Sati balzò in piedi e corse

verso la porta. Yasmina la chiamò con una disperazione nata dal rimpianto,

dal dolore e dalla piena consapevolezza di ciò che era accaduto.

La violenza con cui Sati sbatté la porta le disse che ormai il danno era

fatto.

St. Julian’s Well

Ludlow

Shropshire

Quando sentì suonare alla porta, il primo pensiero di Rabiah Lomax fu che la

polizia fosse tornata a interrogarla. Se funzionava come alla tv, sapevano che


una visita inaspettata fuori orario – soprattutto dopo le dieci di sera – avrebbe

sicuramente prodotto risultati migliori di quelli che erano riusciti a ottenere

nei tentativi precedenti.

Quando aprì la porta, però, si trovò faccia a faccia con il figlio minore. Il

fatto che avesse in mano una borsa della spesa nella quale sembrava avesse

infilato alla rinfusa qualche vestito non prometteva bene. Altrettanto poteva

dirsi della sua espressione, talmente angosciata che Rabiah capì subito che

doveva essere successo qualcosa di grave.

Si fece da parte per lasciarlo entrare. Timothy, senza aprir bocca, andò nel

salotto, si buttò sul divano e lasciò cadere per terra la borsa.

«Anche Sati» disse dopo un po’, e Rabiah si sentì trapassare da una fitta di

terrore. Si sedette nel primo posto che le capitò a tiro, un’ottomana.

Timothy si sfregò la faccia con una mano e Rabiah, da dove era seduta,

sentì il rumore del palmo sulle basette. Notò che il figlio aveva gli occhi rossi

ed ebbe un altro momento di panico al pensiero che avesse bevuto. Ma era

arrivato in macchina da Ironbridge e non sembrava ubriaco. C’erano anche le

pasticche, certo, ma non sembrava neppure stordito dai farmaci.

«Ha fatto scappare anche Sati» continuò. «Le sono corso dietro, quando

sono sceso. Ero in camera a fare un riposino, niente di più, e lei deve aver

pensato che avessi preso qualcosa e che sarei rimasto lì disteso come un

cadavere. Invece sonnecchiavo soltanto e le ho sentite litigare, poi la porta ha

sbattuto così forte che ha fatto tremare le finestre della camera. Com’è

possibile? Le case sono meno robuste di una volta?»

«Cos’è successo, Tim?» chiese Rabiah. «Mi stai facendo paura.»

«Mi daresti un bicchier d’acqua, mamma? Va benissimo del rubinetto, ma

se la hai anche frizzante... Ma faccio schifo. Perché mi preoccupo del tipo di

acqua che preferisco?»

Perché sei un egoista, avrebbe potuto dirgli la madre, e pensi solo ed

esclusivamente a te stesso. Invece rispose «Certo» e andò a prendergli una

bottiglia già aperta di San Pellegrino. Timothy bevve a canna.

«Cos’è successo?» domandò nuovamente Rabiah.

«Ieri mattina Missa se n’è andata di casa e stasera verso l’ora di cena se n’è

andata anche Sati.»

«Come sarebbe a dire ’se n’è andata’?»

«Pensavo che fosse da un’amica e quindi per prima cosa l’ho cercata lì, ma

alla fine l’ho trovata da Justin. Era logico, dato che Missa sta a casa sua.


Temporaneamente, a quanto ho capito. Solo fino al matrimonio, poi Sati

vuole andare a vivere con loro. Con Missa e Justin, cioè.» Parlava in tono

spento e quando ebbe finito Rabiah capì perché aveva gli occhi così rossi:

aveva pianto. Avrebbe voluto poter prendere su di sé tutto il dolore del figlio,

ma si accorse che inaspettatamente non provava alcun dolore. Rabbia, caso

mai. Non solo nei confronti di Timothy, ma di tutti quanti.

«Non la sopporto più» le confidò Timothy. «Ho resistito finché... finché

c’è stata Janna, ma non ce la faccio più... Si è messa in testa... Anzi, no, non

se l’è messo in testa adesso, l’ha sempre pensato, ero io che non volevo

vedere. All’inizio ho provato a parlargliene, ho provato a spiegarle che

comportandosi in quel modo avrebbe rovinato la vita a tutti. Ma lei non lo

voleva capire. Era suo dovere, diceva. Esattamente la stessa cosa che

dicevano a lei i suoi genitori. Formare, plasmare le figlie, farle entrare a

martellate nell’imbuto che hai preparato per loro. Nonostante l’abbia vissuto

sulla sua pelle, non capisce che ha preso il ruolo di madre nella maniera

sbagliata. Anzi, proprio per via della sua esperienza si è incaponita a volere

che le figlie evitassero di commettere i suoi stessi errori. Perché così ci

considera: errori. Lei, me, la fretta con cui ci siamo sposati. Contenta lei... Io

ci ho provato. Ora basta.»

Rabiah si rese conto che l’unico modo per non alzarsi dall’ottomana,

afferrare il figlio per le spalle e scuoterlo finché non batteva i denti era farsi

raccontare tutto dall’inizio alla fine, benché dai suoi discorsi confusi si fosse

già fatta un’idea. «Aiutami a capire che cosa è successo. Cos’ha fatto

Yasmina per farvi scappare tutti di casa?» disse.

Timothy cominciò a raccontare che Yasmina aveva tentato di arruolare

Justin perché convincesse Missa a concludere il college e l’università, Missa

lo era venuta a sapere e se n’era andata di casa. A quel punto Missa e Justin

avevano deciso – o forse l’avevano deciso ancora prima, va’ a saperlo – di

fare le pubblicazioni e Yasmina lo aveva scoperto ed era andata a parlare con

Linda Goodayle, ma il colloquio aveva avuto l’esito che aveva avuto e

Yasmina aveva cercato di coinvolgere anche Sati in quel pasticcio.

«Era fuori di sé, quando sono sceso in cucina» raccontò Tim. «Missa che si

voleva sposare così in fretta e io, il padre, che non facevo niente per

impedirglielo mettendo lei, Yasmina, nella condizione di dover implorare

Linda Goodayle. E poi, dopo che nemmeno quello aveva funzionato – ma

perché mai avrebbe dovuto? – ci ha provato con Sati. A quel punto non le è


restato altro che prendersela con me. È tutta colpa mia: la morte di Janna, le

decisioni di Missa, Sati che scappa di casa perché sua madre le ha dato un

pugno in faccia.»

«Un pugno in faccia?»

«Così mi ha detto, ma a quel punto era in piena crisi isterica.»

«Sati? Sei riuscito a parlarle?»

«Yasmina, non Sati. E poi ha cominciato a dire: ’Vai a cercarla, sbrigati,

invece di stordirti di pasticche come un tossico sotto un ponte. Vai, vai’. E io

sono andato, mamma, altroché se sono andato. Ho preso un po’ di vestiti e il

rasoio e me ne sono andato, proprio come mi ha detto lei.»

«Stai dicendo che non hai cercato Sati? Mi avevi detto che...»

«Sì che l’ho cercata, te l’ho detto. Volevo portarla qui con me, ma non ha

voluto separarsi da Missa e Missa non voleva separarsi da Justin e Justin non

voleva mollare nessuna delle due, dopo aver visto la faccia di Sati. Tu non

hai idea di come l’ha ridotta, mamma.» Sollevò lo sguardo verso il soffitto,

poi lo abbassò di nuovo sulla madre. «Dio mio, sono così stufo di non poter

far niente per proteggere le mie figlie».

Ora basta, decise Rabiah. Scattò in piedi come un corridore ai blocchi di

partenza. «Stavolta abbiamo davvero passato il limite, in questa maledetta

famiglia.»

Timothy giunse le mani come in preghiera. «Oh, mamma, grazie a Dio

almeno tu capisci, perché non c’è modo di...»

«Non sto parlando di Yasmina» lo interruppe Rabiah. Si avvicinò al figlio

seduto sul divano e lo guardò dall’alto in basso. «Non sto parlando né di

Missa, né di Sati né della povera Janna, ma di te. Cos’hai in testa? Oh, lascia

perdere. Cosa te lo chiedo a fare? Hai la stessa tara che ha tuo fratello, la

stessa tara che ha ammazzato tuo nonno, quindi perché tu dovresti essere

diverso, no? Dal giorno in cui hai pensato di farlo senza preservativo, una

volta, una volta sola, figurati se resta incinta, e comunque mi tirerò fuori, no?

Da quel momento di totale stupidità in poi, non hai fatto altro che prendere la

strada più facile e io ti ho assecondato aiutandoti, agevolandoti ogni volta.

Ma ora basta. Questa volta non andrà così, chiaro? Hai capito cosa ti sto

dicendo? Tu avrai raggiunto il limite della sopportazione con Yasmina, ma io

l’ho raggiunto con te. Togliti dalla testa di trasferirti qui, e non dirmi che non

era questo il tuo piano. Piuttosto, ti trasferisci a Tahiti. Devi smetterla di

comportarti come un bambino, e in fretta, perché non ho intenzione di


caricarmi sulle spalle le tue responsabilità. Se Yasmina ha sbagliato con le

ragazze – ed è vero, ha commesso errori gravissimi – tu non sei stato da

meno. Ha dovuto tirarle su da sola. Questo non giustifica il suo

comportamento, ma se non altro lei ci ha provato, pur con tutti i guai in cui si

è cacciata quando ha fatto la scemenza di innamorarsi di te.»

Non c’era dubbio, la sua invettiva lo aveva sconvolto. Ma Rabiah era

convinta che suo figlio fosse sull’orlo di quel baratro in cui era caduto il

fratello prima di lui, e aveva paura che vi precipitasse perdendo tutto quello

che aveva perché si rifiutava di crescere. Oddio, stava cominciando a

ragionare come una psicologa da talk show! Timothy non si assumeva le

responsabilità della sua vita, gli era molto più facile convincersi che tutto

fosse dovuto: alcol, droga, cibo, sesso, tutto quanto. Si rifiutava di

rimboccarsi le maniche e agire. Troppa fatica! Ma la vita è fatica ed era

giunto il momento che Timothy se ne rendesse conto.

«Smettila di guardarmi così» gli disse. «Chiudi la bocca, mettiti dritto e

piantala di dare la colpa agli altri. Puoi fermarti a dormire qui stanotte,

Timothy, ma solo perché è tardi. Domani mattina affronterai la situazione

comportandoti da marito, da padre e da uomo, e se pensi che non lo farai,

perché intanto non serve a niente e hai già provato e riprovato ma Yasmina

non sente ragioni e tanto vale piangerti addosso, sappi che io sarò al tuo

fianco. Non per schierarmi dalla tua parte, bada, ma per assicurarmi che tu ti

assuma le tue responsabilità. Adesso vai nella camera degli ospiti e non farti

più vedere fino a domani mattina.»

Per un attimo temette di aver esagerato. Poi Timothy disse la cosa che

meno si aspettava da lui: «Grazie, mamma». Andò nella camera degli ospiti

con il suo sacchetto di vestiti e chiuse la porta.


23 MAGGIO

Ludlow

Shropshire

Per esperienza Lynley sapeva che quando uno gioca sporco in un campo di

solito gioca sporco anche in altri e dopo la conversazione con Dena

Donaldson si era convinto che Barbara Havers avesse ragione a pensare che

l’ausiliario giocasse sporco, perlomeno riguardo alle ragazze del college. Il

problema era che non avevano prove concrete. Era vero che Harry Rochester

aveva visto più di una volta Ruddock caricare in macchina giovani ubriachi

per riportarli a casa e in un’occasione l’aveva visto solo con Francie

Adamucci sull’auto di servizio, ma nessun magistrato al mondo avrebbe mai

preso provvedimenti sulla base di così poco.

Anche Barbara aveva visto Ruddock con Dena Donaldson nel parcheggio

della stazione di polizia di notte, ma neppure la sua testimonianza sarebbe

servita a molto. Né quell’episodio né quello riferito da Harry Rochester

avevano valore probatorio. Se Dena e Francie avessero dichiarato che

l’ausiliario le aveva costrette ad avere rapporti sessuali con lui, Ruddock

avrebbe potuto ribattere con altrettanta credibilità che si trattava di accuse

false, che le ragazze mentivano per vendicarsi perché quando si ubriacavano

troppo lui le raccattava per strada, com’era suo dovere. Ripercorrere le

numerose occasioni in cui era dovuto intervenire per casi di ubriachezza

molesta avrebbe rafforzato la sua posizione e indebolito la testimonianza

delle ragazze. Insomma, nonostante Thomas Lynley e Barbara Havers si

fossero chiariti le idee su Gary Ruddock e sul fatto che approfittasse della

propria posizione, continuavano a non avere nessuna prova contro di lui.

Quella mattina Lynley si alzò, fece la doccia, si vestì, si preparò una tazza

di tè in camera – il caffè solubile messo a disposizione dall’albergo era

imbevibile – e, come prima iniziativa della giornata, telefonò a Nkata. Si

sedette sul letto e compose il numero. «Scoperto qualcosa di utile? Perché


Dio solo sa quanto ne abbiamo bisogno» disse appena sentì la voce del

sergente.

«È già una giornata storta?» ribatté Nkata.

«Mi sto semplicemente preparando al peggio.»

Nkata cominciò dalla sede della West Mercia Police, dove Ruddock aveva

seguito i corsi di addestramento per diventare ausiliario. Tutti gli istruttori

che era riuscito a rintracciare avevano riferito che Ruddock «si dava da fare

ed era molto volenteroso». A quanto pareva, ambiva a entrare in polizia –

nonostante i tagli al bilancio – e riteneva che diventare ausiliario fosse un

primo passo in quella direzione. Era più sveglio della maggior parte dei

compagni di corso...»

«Un momento» lo interruppe Lynley. «A noi risulta che abbia dei problemi

di apprendimento. Non è così?»

«Intendevo ’sveglio’ in un altro senso, ispettore» rispose Nkata e gli

raccontò che al centro di addestramento Ruddock aveva imparato a

compensare le proprie difficoltà socializzando il più possibile con insegnanti

e ufficiali. In questo modo si era fatto conoscere, sia di nome che di faccia,

raccontò Nkata a Lynley. «A quanto ho capito, alla fine del corso in pratica

aveva il posto garantito. Un posto da ausiliario, naturalmente, perché le

assunzioni di agenti effettivi erano di fatto bloccate.»

Era una notizia interessante, ma se ne poteva dedurre soltanto che

Ruddock, saggiamente, aveva cercato e trovato un sistema per ovviare alle

proprie difficoltà. «Nient’altro?» domandò Lynley.

«L’ambiente di provenienza mi sembra degno d’interesse.»

«Si riferisce alla setta nel Donegal, immagino.» Lynley aveva preparato il

tè in una di quelle teiere di metallo che si trovano in tutti gli alberghi e se ne

versò una seconda tazza.

«Sì» rispose Nkata. «È qui che la storia si fa interessante. Ruddock ha

raccontato a Barbara dell’intervento della polizia irlandese, una decina di

anni fa?»

«Per quale motivo?»

«Abusi sessuali. I capi della setta sostenevano che era la volontà di Dio,

scritta nei libri sacri – ’Crescete e moltiplicatevi e riempite la terra’ – e che

loro seguivano semplicemente il diktat di Nostro Signore. Solo che nessuno

poteva rifiutarsi, né i maschi né le femmine. Se un maschio sembrava

particolarmente fertile, lo portavano nel cosiddetto ’Palazzo della Volontà


Divina’ che, a quanto ho letto, non era un palazzo bensì un postaccio

infame.»

«Non stento a crederlo» commentò Lynley.

«Lì lo facevano accoppiare con una femmina scelta dai capi della setta,

senza badare all’età: i maschi cominciavano intorno ai dodici anni e le

femmine non appena potevano fare figli senza lasciarci la pelle. Quelle che si

sviluppavano tardi erano fortunate, ma le altre... Ce n’è stata una che ha

partorito a undici anni.»

«Cristo. Non ricordo di aver mai sentito nulla al riguardo, Winston.

All’epoca i giornali ne hanno parlato?»

«Probabilmente sì, ma la setta era nell’Eire, non nell’Irlanda del Nord, e di

conseguenza qui non sarà stata una notizia di primo piano. E, comunque,

dov’era lei e cosa faceva dieci anni fa? Io stavo cercando di uscire dalla gang

dei Bristol Warriors e di quello che succedeva fuori dall’Inghilterra non mi

importava più di tanto.»

«Che fine hanno fatto i bambini della setta?»

«I minorenni furono dati in affido. Quanti anni avrà avuto il vostro uomo?»

«Almeno sedici, penso. Ha detto a Barbara di essere fuggito dalla setta a

quindici anni.»

«In effetti per un periodo non si trova più niente su di lui, poi ricompare

come dal nulla a Belfast, nel settore edilizio, a diciott’anni. Da lì va nel

Galles, dove lavora come falegname, e poi in Inghilterra. Ma non ha mai

avuto problemi con la giustizia, ispettore. Forse a Barbara non ha raccontato

proprio tutto riguardo alla setta – tipo il Palazzo della Volontà Divina e simili

– ma grosso modo le cose che vi ha detto corrispondono alla verità.»

Non per questo si poteva escludere che fosse in qualche modo coinvolto,

pensò Lynley dopo aver messo giù il telefono. Ma dalle ricerche di Winston

Nkata non avevano appreso nulla che consentisse di mettere Ruddock con le

spalle al muro per quanto riguardava i suoi comportamenti con le ragazze di

Ludlow.

Quando sentì suonare il telefono della stanza, Lynley pensò che fosse

Nkata che aveva dimenticato qualcosa. «C’è altro?» disse senza chiedere chi

era, ma si sentì rispondere dalla voce burbera di Isabelle Ardery.

«Stai cercando di evitarmi, Tommy? Perché non mi hai richiamato?»

Il tono era assolutamente normale, e questo da una parte lo sollevò, ma

dall’altra lo preoccupò. «Scusa. Non abbiamo avuto un attimo di tregua, qui»


rispose.

«Quando ti telefono, esigo di essere richiamata. Sono la tua superiore

diretta. E se pensi che lo rimarrò ancora per poco, ti sbagli, Tommy.»

«Lungi da me» replicò Lynley.

«Mi fa piacere sentirtelo dire. Prendi le foto del suicidio, per favore.»

«In questo momento non le ho con me. Sono in camera del sergente

Hav...»

«Valle a prendere, allora, e quando le avrai in mano richiamami. Ti do

dieci minuti, non uno di più. E telefonami da un posto dove puoi parlare

senza che nessuno ti senta. Chiaro?»

«Nemmeno il sergente Havers?» chiese Lynley.

«Non essere ridicolo. Non vorrai farmi credere che non le riferiresti

comunque tutto quello che ci diciamo, vero? Adesso va’ a prendere quelle

foto e richiamami.»

Ironbridge

Shropshire

Rabiah aveva tirato giù dal letto il figlio all’alba. Non le sarebbe dispiaciuto

affatto dormire ancora un paio d’ore, ma era una delle tante cose che quel

giorno non erano destinate a succedere. Un’altra era che Yasmina e Timothy

andassero a lavorare: a costo di legarli alle sedie della cucina, Rabiah non

intendeva lasciarli uscire di casa. Per Timothy non sarebbe stato un problema,

perché senza dubbio in farmacia erano abituati ai suoi ritardi e alle assenze

ingiustificate. Per Yasmina il discorso era un po’ più complicato, perché

avrebbe dovuto annullare tutti gli appuntamenti della giornata. Ma non si

poteva fare diversamente. Bisognava fare un ultimo disperato tentativo,

Rabiah ne era convinta.

Si era preparata a battagliare fin dal momento in cui era andata a dare la

sveglia al figlio. Ciò che le aveva raccontato la sera prima l’aveva lasciata

talmente sbalordita che non gli aveva neppure frugato nelle tasche o nella

borsa per controllare che non avesse con sé droghe di qualche genere e, se si

era impasticcato, non sarebbe stato facile svegliarlo. Nel dubbio, Rabiah era

andata a chiamarlo con una brocca d’acqua, pronta a gettargliela in faccia. Lo

aveva trovato seduto sul letto con gli occhi chiusi, ma sveglio, tant’è vero che


li aveva aperti non appena l’aveva sentita entrare.

Timothy aveva visto la brocca. «Ho lasciato le pillole a casa. Nella fretta,

non le ho prese. Ma ho fatto male, perché non sono riuscito a dormire» aveva

detto.

«Nemmeno io. Alzati. Andiamo a Ironbridge.»

«Mamma...»

«Pensi che io abbia voglia di immischiarmi in queste cose? Credi che io

abbia una soluzione per i disastri che sei riuscito a combinare?»

«Se non hai soluzioni, cosa ti intrometti a fare?»

«Le soluzioni le hai tu, babbeo. Le avete tu e Yasmina, e oggi cercherete di

capire insieme quali sono.»

«Yasmina non vorrà nemmeno sentirne parlare.»

«E tu credi che a me interessi che cosa vuole o non vuole Yasmina? Alzati,

vestiti e sali in macchina. Andiamo a Ironbridge: tu vai avanti e io ti seguo

con la mia macchina.»

Timothy aveva detto che doveva fare la doccia. Rabiah gli aveva concesso

un quarto d’ora e, mentre lui era nel bagno, aveva raccolto i vestiti che

Timothy aveva buttato per terra, li aveva messi nella borsa e l’aveva piazzata

vicino alla porta di casa: un modo più che eloquente per chiarire che non

intendeva permettergli di sfuggire alle sue responsabilità trasferendosi da lei.

Timothy non aveva commentato, quando era tornato in camera già vestito.

Buon per lui che si era portato il ricambio in bagno, aveva pensato Rabiah,

perché se fosse dipeso da lei sarebbe tornato a Ironbridge in pigiama.

A quell’ora non c’era traffico. Avevano dovuto rallentare solo nei pressi di

Bridgnorth per un autoarticolato che stava facendo manovra per entrare nel

centro storico, ma per il resto la strada era deserta e bisognava solo stare

attenti a eventuali attraversamenti di animali.

Arrivati a Ironbridge, Rabiah disse a Timothy di aspettarla fuori ed entrò in

casa da sola. A giudicare dai rumori che provenivano dalla cucina, Yasmina

era già sveglia. Constatato che la nuora non si era accorta di niente, Rabiah

fece cenno a Timothy di avvicinarsi e gli ordinò sottovoce di aspettare

nell’ingresso finché non lo avesse chiamato.

Poi andò in cucina. Yasmina stava preparando un panino. Lo mise nello

zainetto di Hello Kitty di Sati, poi vi aggiunse una mela, alcuni biscotti con la

marmellata di fichi, un sacchetto di patatine e un succo di frutta con la

cannuccia.


«Non penserai che Sati mangi tutta quella roba dopo ieri sera, vero?» disse

Rabiah. Yasmina si girò di scatto ma si riprese prontamente dalla sorpresa di

vedersi comparire in cucina la suocera alle sei del mattino. Tornò a voltarsi

verso il tavolo. «Timothy ti ha raccontato tutto, quindi. Le porto lo zaino a

scuola. Voglio chiederle scusa.»

«Sei sicura che non sia prematuro?»

Yasmina si girò di nuovo a guardarla senza rispondere.

«Stai dando per scontato, primo, che dopo aver preso un pugno in faccia da

sua madre Sati oggi vada a scuola e, secondo, ammesso che ci vada, che

abbia voglia di parlarti» continuò Rabiah.

«Sia come sia, ci devo almeno provare, mamma» replicò Yasmina con aria

stranamente dignitosa, considerate le circostanze.

Rabiah si fece avanti, allungò un braccio e passandole davanti chiuse lo

zaino. «Te lo dico io cosa devi fare, visto il punto a cui siamo arrivati: devi

metterti seduta, qui o dove preferisci. E poi facciamo una bella chiacchierata

tutti e tre insieme.»

«Sati non c’è, lo sai.»

«Non sto parlando di Sati.» Rabiah gridò: «Timothy? Vieni qui».

Vedendo il figlio che arrivava dall’ingresso, Rabiah si ricordò di quando

era bambino e si rese conto di quanto poco fossero cambiate le cose. Timothy

aveva la stessa aria da cane bastonato di quando veniva sorpreso a fare una

marachella e sperava di farsi perdonare commuovendola. Era un trucco che in

passato aveva funzionato e Rabiah si pentì amaramente di esserci cascata

tante volte.

«Non sono venuta qui per risolvere i vostri problemi coniugali. Quelli, li

risolverete voi, se vorrete. Sono venuta per dirvi che non metterete piede

fuori da questa casa finché non ve lo dirò io. Penso al bene di Missa e Sati,

non al vostro. Ora vado a cercarle. Con un po’ di fortuna, riuscirò a riportarne

a casa almeno una. Se mi presento con voi, sapete benissimo che non

vorranno tornare» disse Rabiah appena Timothy fu in cucina.

«Mamma, lasciami venire con te» intervenne Timothy. «Io non ho fatto

niente...»

«Oddio, non crederai di non avere responsabilità in quello che è successo,

vero? Non mi interessa capire come siamo arrivati a questi livelli, e nemmeno

a te dovrebbe interessare. Sono qui per cercare di tenere unita la famiglia

finché siamo in tempo. Non ci sono alternative. Se non ve ne siete ancora


accorti, vi consiglio di aprire gli occhi. Non basta chiedere scusa per risolvere

il problema. Chiedere scusa non serve a niente, se poi non si cambia, e in

questa casa ci sono parecchie cose da cambiare. Mi sono spiegata? Non

importa che mi rispondiate. Datemi l’indirizzo dei Goodayle e rimanete qui

finché non ve lo dico io.»

Nessuno dei due si azzardò a controbattere. Yasmina le porse un foglietto

con l’indirizzo e Rabiah uscì.

Trovare la casa dei Goodayle non fu difficile: abitavano nella parte più alta

di Ironbridge, quasi a Woodside. Per arrivarci, Rabiah attraversò la zona in

cui durante la rivoluzione industriale vivevano i magnati proprietari delle

fabbriche locali che producevano gli oggetti più svariati, dai fermaporta in

ferro alle teiere di porcellana. Dopo un lungo periodo di declino, adesso le

grandi ville di mattoni dei ricchi del periodo georgiano venivano ristrutturate

e restituite all’antico splendore. Anche il quartiere dove vivevano i Goodayle,

che era più in alto, aveva visto tempi migliori ma era in lenta ripresa. La loro

casa, però, non rientrava fra quelle che erano state restaurate.

Come molte altre da quelle parti, era in mattoni e aveva un giardinetto sul

davanti. Rabiah parcheggiò, scese dalla macchina e, andando verso il

portone, vide che il giardino era stato trasformato in un campo di battaglia,

con gnomi di gesso vestiti con kilt scozzesi schierati di fronte a un

battaglione di altri gnomi, anch’essi di gesso, riconoscibili come soldati

britannici perché equipaggiati con bandiere del Regno Unito, moschetti di

plastica e spade di gomma. Molti dei soldati erano usciti malconci dallo

scontro con i guerrieri delle Highlands: due erano senza testa e a un altro

mancava un braccio.

Rabiah non poté fare a meno di sorridere. I Goodayle avevano cinque figli,

il maggiore dei quali aveva almeno dieci anni più di Justin: evidentemente il

giardino era teatro dei giochi dei nipotini, che dovevano avere una fantasia

piuttosto vivace.

Bussò con decisione alla porta e ad aprirle fu Sati. Aveva una ciotola di

cereali e un cucchiaio in mano e il mento sporco di latte. Quando vide

Rabiah, sgranò gli occhi. Evidentemente non sapeva cosa dire, perché

spalancò la bocca, la richiuse e, mordendosi il labbro, si voltò indietro a

guardare dentro la casa.

«Prima di tutto fai entrare la nonna e poi dalle un bacio, da brava» disse

Rabiah.


Sati indietreggiò, sempre con gli occhi sgranati. L’unico posto dove poteva

appoggiare la ciotola per ubbidire all’ordine della nonna era per terra, e così

fece. A Rabiah si strinse il cuore davanti a quel gesto di sottomissione. Le sue

nipoti erano troppo remissive. Come aveva potuto non accorgersene prima?

Abbracciò la bambina e le diede un bacio sulla testa. Poi le sollevò il

mento e le guardò i lividi sulla faccia. «La tua mamma è molto dispiaciuta

per quello che è successo. Vuole che torni a casa il tempo necessario per

chiederti scusa.»

A Sati vennero gli occhi lucidi, ma riuscì a trattenere le lacrime. «Missa

dice...»

«Stai tranquilla, Sati, non sono venuta per convincerti a tornare a casa. È

con Missa che voglio parlare. Tu sei libera di decidere se e quando tornare,

chiaro?»

Sati raccolse da terra la ciotola. «Sì» mormorò.

«Come va con la matematica? Continui ad avere difficoltà con i compiti?»

La bambina fece di sì con la testa.

«Vedremo di risolvere la questione. Nel frattempo, vai a chiamare Missa,

per piacere. Dille che le voglio parlare, ma non per convincerla a tornare da

vostra madre.»

«Okay» rispose Sati con un sorriso di una timidezza commovente. Poi si

avviò verso le scale e Rabiah entrò nel salotto.

Come il giardino, anche il salotto sembrava riservato ai nipotini: vide

decine di giocattoli divisi ordinatamente in scatole, ognuna con il nome del

proprietario, diversi giochi da tavolo su uno scaffale e, appesa alla porta di

comunicazione con la sala da pranzo, un’altalena da neonato. C’erano anche

tantissime foto: ritratti dei nipotini, matrimoni, battesimi, lauree. In una

vetrinetta piena di ninnoli Rabiah notò numerosi calchi di mani e piedi

infantili e scarpine da neonato conservate per ricordo.

«La signora Lomax, giusto?»

Rabiah si voltò di scatto. A rivolgerle la parola era stata una donna di

mezz’età in gonna scozzese, camicetta e gilet. Doveva essere Linda Goodayle

e aveva un’espressione tutt’altro che cordiale: era sicuramente convinta che la

nonna di Missa fosse lì in quanto portavoce della famiglia Lomax.

«Mi chiami Rabiah» le disse. «Chiedo perdono per l’intrusione. Sono

venuta per parlare con Missa. Di mia iniziativa, non per conto della madre. E

non si tratta di...» In cerca del modo migliore per spiegarsi, indicò con un


gesto la stanza. «Voglio parlarle solo di Ludlow» concluse.

«Missa a Ludlow non ci torna, se è questo che spera. Ha cercato di

spiegarlo ai suoi, ma non è servito a niente.»

«Capisco» replicò Rabiah. «Voglio dire, Missa è abbastanza grande per

decidere con la sua testa. Posso non essere d’accordo con le sue decisioni, ma

la vita è la sua.»

In quel momento si sentì rumore di passi per le scale e sulla soglia

comparve Justin. Rabiah rimase colpita dalla sua statura: nella bottega da

maniscalco vittoriano si notava meno. Come la madre, era vestito per andare

a lavorare, con i capelli raccolti.

«Se è venuta per cercare di farle cambiare idea, lasci perdere, signora

Lomax» disse Justin.

Rabiah lo guardò con aria interrogativa. «Quale idea? Quella di stare qui?

Non è per questo che sono venuta.»

«Mi riferivo al matrimonio» rispose Justin. «Ci sposiamo il mese

prossimo.»

Rabiah inorridì al pensiero che Missa si sposasse il mese dopo, con Justin

o con chiunque altro, tenuto conto della situazione disastrosa della sua

famiglia, e si chiese se fosse di quello che la nipote era andata a parlare con

Druitt. Trovò la voce per dire: «Congratulazioni. Non sapevo che aveste

deciso la data. Sapevo solo che avevate intenzione di sposarvi».

«La mamma non vuole» intervenne Missa, che li aveva raggiunti senza

fare rumore e si era fermata appena dietro Justin. A differenza del fidanzato e

della madre, doveva essersi appena alzata perché era in pantofole e vestaglia,

ancora tutta spettinata. «Se sei venuta per cercare di dissuadermi, puoi

andartene anche subito, nonna.»

Rabiah minimizzò con un gesto che sperava disarmasse non solo lei, ma

anche Justin e la madre. «Vieni a darmi un bacio, santo cielo» disse. «Per

quanto mi riguarda, puoi sposarti con chi vuoi e quando vuoi. Ma se non mi

inviti mi offendo.»

Missa, benché poco convinta, entrò nel salotto, si lasciò baciare e a sua

volta baciò la nonna. Il primo passo è fatto, pensò Rabiah. Il secondo era

liberarsi di Justin e della madre per poter parlare a quattr’occhi con la nipote.

«Posso avere una tazza di caffè, Justin?» disse, fregandosene di sembrare

arrogante o maleducata.

Il ragazzo e la madre si scambiarono un’occhiata carica di significato. Poi


Linda Goodayle fece lo sforzo di sembrare ospitale nonostante l’ora. «Ma

certo. Ci penso io. Si accomodi» disse.

Sistemata Linda, restava Justin, il quale non accennava ad andarsene.

Rabiah optò per la franchezza. «Justin, ho bisogno di parlare a tu per tu con

Missa. Non parleremo di voi due, quindi puoi stare tranquillo.»

Missa lo guardò e il ragazzo attese che fosse lei a decidere. «La nonna non

sta cercando di farmi cambiare idea, Justin, né di convincermi a fare niente»

gli assicurò Missa dopo averci pensato su per qualche istante. «Non

preoccuparti. Dillo anche a Sati, per favore.»

Justin se ne andò, ma a Rabiah parve evidente che lo faceva controvoglia.

Aspettò di sentirlo tornare al piano di sopra, poi cominciò velocemente: «Non

si tratta né di Sati, né di tua madre o di tuo padre. Non voglio parlare di come

sono, cos’hanno fatto, e via discorrendo. Sono qui per parlare di me e di te».

Missa la guardò comprensibilmente confusa: Rabiah e la nipote erano

sempre state molto legate e il solo fatto che ci fosse qualcosa da dire sul loro

rapporto era sconcertante.

Rabiah proseguì. «La polizia di Londra è venuta da me tre volte, Missa, e

per tre volte io ho mentito. Non c’è una sola persona nella nostra famiglia che

non dica bugie – tranne forse Sati, che è ancora troppo piccola per l’arte della

menzogna – ma è l’ora di finirla. Un momento, lasciami arrivare in fondo al

discorso. Ho voluto credere che hai chiesto sette colloqui a Ian Druitt perché

avevi bisogno di sostegno morale, visto che volevi abbandonare gli studi e

tutti ti imploravano di non farlo. Quello che non capisco è perché non hai

neppure cercato l’appoggio di tua nonna e, soprattutto, perché di colpo tu

abbia preso una decisione del genere. Non mi interrompere, ti prego. Non ho

ancora finito. Hai vissuto con me, in casa mia, e c’era una certa confidenza

tra noi. Ricordo benissimo che il college ti piaceva, prendevi ottimi voti,

andavi d’accordo con il tutor e frequentavi volentieri. Poi, di punto in bianco,

hai smesso.»

«Era diventato troppo difficile, nonna» disse Missa. «Ma nessuno...»

«Piantala, per favore. Una ragazza in gamba come te non passa da essere la

prima della classe a mollare tutto, quindi... dev’essere successo qualcosa tra

queste due fasi della tua vita. Ora, dai discorsi fumosi che mi ha fatto, ho

intuito che la tua amica Dena Donaldson sa di cosa si tratta. Ma è leale e non

me l’ha voluto dire. Quindi lo chiedo a te: che cosa è successo?»

Missa fece una risatina amara e distolse lo sguardo. «Dimmelo: lo voglio


sapere. I due ispettori di Scotland Yard sanno chi sei e dove trovarti»

insistette Rabiah.

«Non sanno che sono qui» ribatté Missa. «Qui non mi troveranno, a meno

che non glielo dica tu.»

«È quello che ho intenzione di fare, se non tiri fuori la verità. Non sto

scherzando, Missa. Stanno indagando su un suicidio che a quanto pare

suicidio non è stato e, se pensi che non interpellino tutti quelli che potrebbero

sapere qualcosa, sei veramente troppo ingenua. Il candore è sempre stato una

tua qualità, ma... Oh, Missa, cosa c’è?»

La nipote era scoppiata a piangere. Si nascondeva la bocca con le mani e si

premeva le unghie sulla faccia. Rabiah si alzò e andò ad abbracciarla. «Missa,

che succede? Ti prego, parla» le mormorò all’orecchio.

«È stato il sidro» disse la ragazza.

«Il sidro? Cosa diavolo...? Il sidro?»

«Ne avevo bevuto tantissimo. Non credevo che fosse così forte, invece mi

sono ubriacata e non potevo tornare a casa ubriaca, non potevo farmi vedere

da te nello stesso stato di papà e dello zio David. Non potevo, nonna!»

Ludlow

Shropshire

Dopo alcuni colpi secchi sulla porta, la voce baritonale e melliflua

dell’ispettore Lynley disse: «Barbara? Mi dispiace, ma devo svegliarla. Ha

telefonato Isabelle e...»

Isabelle, Isabelle, pensò Barbara sbuffando dentro di sé. «Va bene. Arrivo»

rispose e si alzò dal letto. Stava per aprire quando si rese conto di avere

indosso una delle T-shirt taglia XXXL che usava come camicie da notte.

Difficilmente il suo superiore diretto avrebbe trovato spiritoso lo slogan

stampato sul davanti: HAI ANCORA IL CORAGGIO DI PARLARE, CON LA

FACCIA CHE HO? «Un attimo. Devo vestirmi» gridò.

«Certo. Comunque il suo pigiama con Buddy Holly l’ho già visto. Si

ricorda? In Cornovaglia. A Casvelyn. Io ne avevo uno azzurro e lei uno con

Buddy Holly. Non le viene in mente nulla?» replicò Lynley.

«Secondo me lei aveva indosso solo un asciugamano bianco, dopo le

abluzioni mattutine.» Barbara si infilò velocemente un paio di pantaloni con


la coulisse.

«Sicura?» replicò Lynley. «Inorridisco alla sola idea di essere stato visto

con un asciugamano indosso in un bagno in comune. Meglio non pensarci.

Senta, Barbara, il sovrintendente vuole che la richiami con le foto della

Scientifica. Si è irritata perché ieri né io né lei le abbiamo risposto. Se vuole,

può anche passarmele da sotto la porta.»

Barbara non aveva nessuna intenzione di lasciare che Lynley parlasse con

il sovrintendente senza di lei: voleva sapere il motivo di tanta insistenza.

Decise di fregarsene della T-shirt, dal momento che frugando nel mucchio dei

vestiti ne aveva trovate soltanto due molto simili a quella che aveva indosso,

e andò ad aprire così com’era.

Lynley, naturalmente, era abbigliato in maniera inappuntabile. Lesse la

scritta sulla maglietta e il suo unico commento fu: «Ah, vedo che ha

abbandonato Buddy Holly».

«Scusi» replicò Barbara. «Non mi aspettavo che venisse a bussarmi alla

porta.»

«Non l’avrei fatto, se non fosse stata così perentoria. Mi riferisco al

sovrintendente, non a lei. Comunque non si preoccupi per la maglietta. Le ho

visto addosso anche di peggio.» Lynley aggrottò la fronte e cercò di

rimediare: «Scusi, mi sono espresso male. Posso...?» Le stava chiedendo il

permesso di entrare. Barbara, al suo posto, si sarebbe precipitata nella camera

senza tanti complimenti, ma Lynley era molto rispettoso.

Gli tenne la porta invitandolo ad accomodarsi. I dossier erano sul tavolo e

Lynley si sedette sul divano. Barbara pescò dal mucchio di vestiti una maglia

più adatta alle circostanze, andò in bagno, si tolse la T-shirt, si mise il

reggiseno che aveva lasciato appeso dietro la porta e quindi si infilò la

maglia. Uscendo dal bagno con quella mise più presentabile, vide che Lynley

aveva inforcato gli occhiali e stava parlando al cellulare, in modalità vivavoce

affinché anche lei potesse sentire tutto quello che diceva Isabelle Ardery.

Barbara arrivò a metà di una frase: «... solo le foto dove si vede il cadavere

e quel che c’è nelle vicinanze». Il sovrintendente aspettò che Lynley le

sfogliasse, tirasse fuori tutte quelle in cui si vedeva il corpo senza vita di Ian

Druitt dentro la stazione di polizia e le disponesse sul tavolino. «Le ho

davanti» disse.

«Ce n’è una dove si vede il laccio?»

«Non era un laccio. Era una...» puntualizzò Lynley.


«Una stola, lo so, Tommy. Chiamalo come ti pare, ma trovami una foto

dove si veda l’oggetto che aveva al collo e descrivimelo.»

Barbara si sedette accanto a Lynley. Si scambiarono un’occhiata, poi

Lynley eseguì e prese una foto in cui si vedevano sia il corpo di Druitt sia la

stola che aveva usato per impiccarsi: era sul pavimento, sinuosa come un

serpente che si scalda al sole.

«La ho davanti agli occhi» disse Lynley a Isabelle.

«Dimmi di che colore è» chiese lei.

«La stola? È rossa.»

«Come volevasi dimostrare» replicò Isabelle Ardery.

Mentre Barbara si chiedeva cosa diavolo pensasse di aver dimostrato,

Isabelle continuò. «Ieri sera sono entrata in una chiesa...»

Due paia di sopracciglia si inarcarono contemporaneamente.

«... vicino al Tamigi. Ero andata a fare una passeggiata, mi sono ritrovata

dalle parti del Putney Bridge e c’era una chiesa dove stavano celebrando la

preghiera della sera. Tutto molto formale, coro, prete, preghiere, canti...»

Barbara alzò gli occhi al cielo al pensiero di Isabelle Ardery che

improvvisamente trovava la fede, ma Lynley pareva interessatissimo.

«È stato il prete, Tommy» riprese Isabelle. «Il prete, o diacono, o cos’altro

era: l’ho visto e lì per lì non ci ho fatto caso, ma era vestito tutto di verde.»

Barbara non andava mai in chiesa, nemmeno a Natale, a Pasqua o in caso

di tragedie nazionali, e non era credente. Ma la cappella nella tenuta di

Lynley non si trovava lì per caso. Non solo vi erano sepolti gli antenati e i

parenti stretti dell’ispettore, ma vi si celebravano ancora le festività, e lui

faceva pur sempre parte della stirpe dei conti di Asherton, che da circa tre

secoli dava il buon esempio ai sottoposti.

Barbara perciò non si sorprese più di tanto quando gli sentì dire: «Oddio.

Era quaresima quando Druitt è morto e durante la quaresima si usano

paramenti viola».

«Non sapevo che il colore facesse differenza, ma mi sono incuriosita e

quando sono tornata a casa ho cercato in rete. Il rosso è il colore che si usa

più raramente di tutti, Tommy: a Pentecoste, nelle feste di alcuni santi, per i

sacramenti della cresima e dell’ordinazione. Ho controllato e non era il

giorno di nessun santo particolare» continuò il sovrintendente.

«Ed essendo prima di Pasqua, non era nemmeno Pentecoste» osservò

Lynley. «Avrei dovuto farci caso quando ho visto le foto.»


«Non importa» replicò Isabelle Ardery. «L’abbiamo smascherato, direi.»

«Sembra proprio di sì» disse Lynley.

Chiuse la chiamata e guardò Barbara con aria meditabonda. Ma Barbara

trovava che non fosse il caso di stare tanto a meditare. «È come diciamo

sempre, ispettore» disse.

«E cioè, sergente?»

«Nessuno pensa a tutto.»

Ironbridge

Shropshire

Yasmina lo sentì al piano di sopra che sbatteva porte, cassetti e sportelli come

un ladro in cerca di oggetti di valore. Quando lo raggiunse, era nel bagno. Le

parve strano, perché era il primo posto dove sarebbe dovuto andare a

guardare.

Yasmina sapeva che cosa stava cercando il marito, naturalmente. Timothy

invece ignorava che la sera prima, non vedendolo tornare a casa, Yasmina

aveva deciso di intervenire. Ma ormai, a giudicare dai gesti frenetici con cui

frugava disperato nel cassetto dove tenevano il necessario per il primo

soccorso, era sul punto di arrivarci. Yasmina si rese conto che doveva essere

già stato in bagno a cercare nell’armadietto dei medicinali, poi era passato

alle altre stanze e infine era tornato lì.

«Ho buttato via tutto» gli comunicò dalla soglia.

«Mi sembra ovvio! Avrei dovuto immaginarlo.»

Timothy la spinse da una parte e andò in camera. Si sedette sul letto a capo

chino, si mise le mani nei capelli e se li tirò con forza. Poi rialzò la testa.

«Possibile che tu non ti faccia mai gli affari tuoi?» disse.

«Mi dispiace per Sati» disse Yasmina. «Le ho dato quello schiaffo...»

«Quel pugno, vorrai dire. Non le hai dato uno schiaffo. La verità è un’altra,

Yasmina. Uno schiaffo perché si rifiutava di fare quello che volevi tu sarebbe

stato già abbastanza grave, ma un pugno? Hai idea delle conseguenze che può

avere? Credi forse che racconterà una frottola, quando il preside le chiederà

che cosa le è successo alla faccia? Perché glielo chiederà sicuramente. È suo

dovere. Pensi che gli racconterà che è andata a sbattere contro una porta

senza volerlo? La classica scusa che raccontano i bambini per paura di essere


dati in affido, vero?» Timothy fece una risata isterica, si alzò e andò alla

finestra. Sembrava volesse sfondare il vetro con un pugno, ma all’improvviso

si voltò verso Yasmina, che trasalì.

«Timothy, Sati non...»

«Chiudi quella bocca, una buona volta. Appena Sati racconterà come sono

andate veramente le cose, nessuno ti crederà più, qualsiasi balla tu ti inventi

per spiegare come mai nostra figlia ha un occhio nero.»

Yasmina fece un passo in avanti, ma continuò a tenersi al di fuori della sua

portata. «Non le ho fatto un occhio nero! Non volevo picchiarla!» protestò.

«La tua è coazione a ripetere. Sei come tuo padre. Con Sati hai reagito

esattamente come avrebbe reagito lui.»

C’era del vero nelle sue parole, ma non era tutta la verità. «Sto cercando...

Timothy, è tutta la vita che cerco di...» ribatté Yasmina.

«Non venirmi a dire che hai cercato di fare del tuo meglio. Risparmiami le

stronzate, e anch’io ti farò il favore di non accampare scuse per quello che è

successo. La realtà è questa, Yasmina: tu hai commesso un sacco di errori,

ma non posso giudicarti perché nemmeno io ho fatto il mio dovere. Avrei

dovuto fermarti, sgridarti, minacciarti, fare quello che dovrebbe fare un uomo

per riportare il buon senso nella propria famiglia. Invece tu mi hai permesso

di defilarmi e io mi sono disinteressato di tutto. E adesso non ho il coraggio

di guardarmi allo specchio.»

«Rivoglio le mie figlie» disse Yasmina. «Devo proteggerle.»

«Proteggerle da cosa, esattamente?»

«Voglio che non gli succeda niente di brutto» disse Yasmina cercando di

spiegare cosa desiderava per loro. «Che non si rovinino la vita, che non

commettano errori. Il mio compito è questo. Ma tu non lo vuoi capire. Perché

dovresti, del resto? È molto più comodo dare la colpa a me, che pure ho

voluto sempre e solo quello che era meglio per tutti noi.»

«E chi è che stabilisce qual è il meglio per tutti noi? Non occorre che tu mi

risponda. Lo so già. Anche Missa lo sa, e adesso pure Sati.» Andò verso la

porta della camera.

Yasmina gli sbarrò il passo. «Non puoi dire che io...»

Timothy la spinse da una parte. «Non mi sei stata a sentire, come al solito.

Ho ammesso che è anche colpa mia. Almeno tu hai fatto quello che era stato

fatto a te, mentre io non ho neppure quella scusa.»

Uscì dalla stanza, ma Yasmina lo seguì e scese le scale dietro di lui.


«Quello che è stato fatto a me, per usare le tue stesse parole, è darmi

un’istruzione, un indirizzo nella vita. Se volere la stessa cosa per le mie figlie

è una colpa, sono pronta ad assumermela» disse.

Arrivato in fondo alle scale, Timothy si voltò, con una mano sulla

ringhiera. «Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, Yasmina. La tua

famiglia ti ha rinnegato, non ti rivolgono la parola da vent’anni. E perché?

Perché hai commesso un errore: rimanere incinta. Anzi, no, siamo giusti:

sono io che ti ho messa incinta. Un errore non significa avere la vita rovinata

per sempre, ma loro si sono rifiutati di vederlo.»

«Rovinata no, ma più difficile sì. E io non voglio che le mie figlie abbiano

una vita difficile.»

«Davvero?» esclamò Timothy. «E ti sembra di avergliela resa più facile?»

Yasmina non rispose. Non poteva rispondere, perché si rendeva conto che

giravano a vuoto e rischiavano di imbarcarsi in una discussione interminabile.

«Ti ritroverai a mani vuote, Yasmina» continuò Timothy. «Ma io non

voglio fare la tua stessa fine.»

Andò verso la porta mentre lei gli ricordava: «Tua madre ha detto di

non...»

«Smettila» la interruppe. «Smettila, cazzo!»

In quel momento la porta si aprì ed entrò Rabiah. Dietro di lei c’era Missa.

«Grazie a Dio!» esclamò Yasmina correndole incontro. Poi guardò meglio.

«Dov’è Sati? Perché non avete portato anche lei?»

«Sati non deve sentire.» Rabiah fece entrare Missa e chiuse la porta.

Yasmina ebbe un presentimento, una fitta di terrore intensa quanto quella

che l’aveva scossa poco prima che le comunicassero la diagnosi infausta di

Janna. Vide che Missa aveva pianto e lesse in faccia a Rabiah che ciò che Sati

non doveva sentire sarebbe uscito dalle labbra di Missa.

Si rese conto di non voler ascoltare ciò che la figlia aveva da dire. Si sentì

travolgere da una consapevolezza angosciante e chiarissima: ciò che da mesi

turbava Missa non aveva a che fare né con Ironbridge, né con Justin

Goodayle né con il matrimonio.

Rabiah guidò la nipote nel salotto, le si sedette accanto sul sofà e disse a

Yasmina e Timothy di mettersi a sedere anche loro. Yasmina scelse una delle

poltrone, mentre Timothy rimase in piedi.

«Mi sono ubriacata di sidro.» Missa cominciò a parlare a occhi bassi,

guardandosi le mani strette a pugno in grembo.


L’ansia di Yasmina si trasformò in sollievo. Era di una semplice sbronza

che Missa si rifiutava di parlare! Perché sapeva quanto sarebbero rimasti

male i suoi scoprendo che si era ubriacata, perché conosceva la storia di suo

zio, di suo padre e del suo bisnonno... Fin da piccola le avevano inculcato

quanto era pericoloso il vizio del bere. «Yasmina, tesoro, non è il caso di...»

«Lasciala parlare» intervenne Rabiah in tono così secco che Yasmina si

ritrasse istintivamente sulla poltrona.

Missa guardò la nonna, che con un cenno del capo la invitò a continuare.

Yasmina desiderava disperatamente rassicurare la figlia, dirle che lei e

Timothy le avrebbero sempre voluto bene, che ubriacarsi una volta nella vita

era normale, tutti i ragazzi crescendo facevano esperienze di quel genere e

non era nulla di grave.

«Non sapevo che il sidro fosse così alcolico e quando lui me ne offriva un

bicchiere lo bevevo perché era buono, mi piaceva. Ha cominciato a girarmi la

testa, ma ho pensato che era lo stesso perché... perché mi stavo divertendo,

mi sentivo diversa dal solito e avevo voglia di cambiare un po’, di provare

un’esperienza nuova, per una volta. Ma dopo un po’ ero completamente

ubriaca e da quel momento non mi ricordo più niente. Ero così ubriaca che

non mi ricordo praticamente nulla, tranne che...»

Anche da lontano, dalla poltrona su cui era seduta, Yasmina percepì tutta

l’angoscia di Missa. Rabiah le aggiustò un ciuffo di capelli dietro l’orecchio e

le mormorò qualcosa che Yasmina non sentì.

Missa prese fiato e chinò la testa. «Mi sono addormentata sul divano. Non

mi ricordo nemmeno come ho fatto ad arrivarci. Mi ricordo solo che quando

mi sono svegliata era completamente buio. E lui...» Alzò una mano e se la

premette sulla guancia destra. «... era sopra di me. Non potevo muovermi.

Non riuscivo nemmeno a respirare. E poi...» Le spalle di Missa furono scosse

da un tremito e Yasmina capì che piangeva e nello stesso tempo non voleva

piangere davanti a loro.

«Devi dirglielo, Missa» la incoraggiò Rabiah. «Devono saperlo anche loro

per capire.»

Timothy fece un passo avanti come per andare dalla figlia, ma Rabiah lo

fermò. «Siediti e non ti muovere.» Timothy ubbidì. Vicino alla poltrona di

Yasmina ce n’era un’altra uguale e vi si sedette, ma sul bordo, come per

essere pronto a scattare in caso di necessità.

«Parla, Missa, ti prego» disse in tono pacato.


La ragazza sollevò la testa. Yasmina trattenne il fiato nel leggerle in faccia

tutta la profonda sofferenza che nascondeva da mesi. Missa riprese a parlare.

«Mi sono svegliata e mi sono accorta che non avevo più i vestiti. Cioè, la

gonna, i collant, le... Lì per lì non ho capito, ma poi lui ha cominciato a...

Era... Volevo spingerlo via, ma ero sdraiata sulla pancia e mi ha tappato la

bocca con una mano e mi ha tirato per i capelli e poi mi ha... mi ha...»

«Oh mio Dio!» Yasmina si coprì la bocca con la mano.

«Lo sentivo ansimare e mi ha fatto così male, così male...»

Timothy si alzò di scatto. «Chi? Chi è stato? Voglio sapere chi è stato.»

«Mamma» disse Missa con il viso rigato da lacrime che sembrava non

accorgersi di versare. «Mamma, ho sentito un dolore terribile e volevo farlo

smettere, ma non potevo... Ti prego, nonna, non costringermi a raccontarlo.»

Rabiah la abbracciò. Yasmina sentì sapore di sangue, tanta era la forza con

cui si era morsa le dita mentre Missa parlava.

Timothy cominciò a camminare avanti e indietro. «Chi è stato? Dimmi chi

è stato» chiedeva.

«Non lo sa» rispose Rabiah spazientita. «Non l’ha mai scoperto.»

Timothy si voltò di scatto verso di lei. «E tu? Ha detto che era sul divano,

no? Ti è entrato qualcuno in casa, ha aggredito mia figlia e tu...? Ti rendi

conto? Non puoi non sapere chi è! Pensaci! Tira fuori il nome!» Si avvicinò

alla madre, le prese la faccia con una mano e strinse come se fosse un frutto

da spremere.

«No!» gridò Missa.

Rabiah respinse Timothy. «Sei tu che non ti rendi conto.»

«Non dite niente a Justin» implorò Missa. «Vi prego, non dite niente a

Justin. Ho sempre insistito per arrivare vergine al matrimonio, gli ho detto

che volevo aspettare per via di quello che è successo alla mamma, che è

rimasta incinta e ha avuto la vita così difficile perché non era pronta e

neanche tu eri pronto e...» Si rivolse alla madre. «Mamma, sono ancora

vergine, vero? Non è stato un rapporto completo, sono ancora vergine, no?»

Yasmina provò in ogni fibra del suo essere tutto l’orrore della violenza

subita dalla figlia. «Per questo volevi tornare a casa... Ma io credevo di

sapere cos’era giusto per te... E invece era per questo che volevi tornare. Mio

Dio!» Avrebbe voluto prendersi a schiaffi. Di colpo capì la tendenza delle

donne a tagliarsi i capelli in segno di lutto e coprirsi di cenere dalla testa ai

piedi. Se avesse potuto, in quel momento l’avrebbe fatto anche lei. «Oddio,


Missa!» esclamò. «Dimmi che cosa posso fare, ti prego!»

Fu Rabiah a rispondere. «Puoi stare a sentire il resto. E anche tu,

Timothy.»

Ludlow

Shropshire

Avrei dovuto notarlo, si ripeteva Lynley. Che non ci avesse fatto caso

Barbara Havers era comprensibile: non era credente, a quanto gli risultava, e

anche se il funerale di suo padre era stato celebrato in chiesa, non poteva

sapere che i colori dei paramenti avevano un significato. Nemmeno Isabelle

era religiosa. Ma lui? Non poteva dire di credere in una qualche entità divina,

ma era andato in chiesa fino a quando si era iscritto all’università. E dopo

aver posto fine a un lungo periodo di allontanamento, ogni volta che andava a

trovare la madre in Cornovaglia la accompagnava alle funzioni. Perciò

avrebbe dovuto non solo far caso alla stola per terra accanto al corpo di Ian

Druitt, ma anche sapere che era del colore sbagliato per quel periodo

dell’anno.

Lasciò a Barbara il tempo di ricomporsi e tornò nella sua stanza riflettendo

sul passo successivo da compiere. Dalla serie di bizzarri indizi e di mezze

prove che avevano raccolto si deduceva che quasi certamente Ian Druitt era

stato ucciso. Era sufficiente per assicurare a Clive Druitt che il figlio non si

era suicidato, ma non per giustificare un arresto o un processo e, meno che

mai, la condanna che Druitt senior e la giustizia esigevano. Se avessero

sottoposto ciò che avevano al Crown Prosecution Service, Lynley e Barbara

sarebbero stati accolti con il massimo scetticismo e sia la West Mercia Police

sia la Metropolitan Police avrebbero fatto una pessima figura. La prima

perché aveva permesso che succedesse una cosa simile, la seconda perché si

era precipitata nello Shropshire a calmare le acque smosse da un ricco signore

il quale aveva tutte le ragioni – a questo punto Lynley ne era sicuro – di

mobilitare i propri legali o di far scoppiare uno scandalo mediatico nazionale

da cui sarebbero usciti tutti umiliati. Già gli pareva di sentire la prima

domanda che gli avrebbero rivolto i procuratori del Crown Prosecution

Service se avesse presentato loro i materiali che avevano raccolto fino a quel

momento: «E una stola rossa per terra che cosa dimostra esattamente?» E poi:


«Per quel che ne sa, ispettore, Ian Druitt poteva essere daltonico. Torni

quando l’avrà verificato e quando sarà in grado di dirci perché qualcuno

avrebbe dovuto volerlo uccidere».

Lynley e Barbara potevano soltanto riesaminare i vari elementi, erano soli

e avevano poco tempo a disposizione: bisognava trovare una soluzione

illuminante. Lynley scese per la prima colazione stilando mentalmente un

elenco di possibili opzioni. Barbara lo aspettava alla reception con una faccia

da cui si capiva chiaramente che mangiare era l’ultimo dei suoi pensieri.

«Andiamo ad arrestarlo, ispettore?»

«Sarebbe prematuro» replicò Lynley e vide subito che quella risposta non

era stata affatto gradita.

«Ma mi faccia il piacere! Cosa vuole di più? Un pugnale insanguinato con

le sue impronte?»

«Non sarebbe male» rispose Lynley. «Prima dobbiamo parlare con il

vicario.»

«E per quale motivo, di grazia?»

«Per chiedergli di lasciarci entrare in sacrestia.»

«E cosa ci torniamo a fare?»

«Dobbiamo assicurarci che quel che pensiamo sia effettivamente possibile.

Al momento, abbiamo solo supposizioni.»

Presero accordi per un secondo sopralluogo in sacrestia con una semplice

telefonata. Il vicario disse che li avrebbe aspettati volentieri in chiesa all’ora

che preferivano e, dopo aver fatto colazione, Lynley e Barbara si

incamminarono lungo la leggera salita di Dinham Street diretti verso Castle

Square e St. Laurence.

Come promesso, Christopher Spencer li aspettava in chiesa, pronto a

collaborare. Quando Lynley gli chiese se poteva lasciarli soli in sacrestia,

rimase lievemente sorpreso, ma dopo averci pensato un attimo acconsentì, li

accompagnò e disse che li avrebbe aspettati nella St. John’s Chapel.

Prima che si allontanasse, Lynley gli chiese se Ian Druitt fosse daltonico.

Spencer rispose che non gli risultava: il diacono non si era mai messo i

paramenti sbagliati e questo voleva dire che distingueva i colori, no?

Il vicario era al corrente del fatto che per impiccarsi Druitt pareva aver

usato una stola rossa? chiese ancora Lynley.

Il vicario rispose di no e precisò di non essersi accorto che mancava la

stola rossa perché non ne aveva ancora avuto bisogno: fino a Pentecoste la


liturgia non prevedeva l’uso di quel colore. Dopodiché uscì dalla sacrestia.

«Sappiamo che Druitt aveva appena finito di celebrare una funzione

quando Ruddock è venuto a prelevarlo» disse Lynley sottovoce a Barbara.

«Sappiamo anche che, prima di andare, si è tolto i paramenti e li ha messi

via.»

«Per la preghiera della sera un diacono si mette in pompa magna?» chiese

Barbara. «O anche un vicario, ora che ci penso?»

«Non mi sembra il caso di concentrarci su questo punto, al momento»

replicò Lynley. «Dobbiamo solo tenere presente che, nella vestizione, la stola

è l’ultima cosa che si indossa.» Andò verso i grandi armadi della sacrestia e li

aprì: vi erano appese tonache nere e cotte bianche.

Barbara, come previsto, capì al volo. «Se è l’ultima che si indossa, è la

prima che si toglie» disse. «Quando uno apre gli armadi dove stanno i vestiti,

dà le spalle a questi cassetti qui, dove sono riposte le stole. Druitt si è tolto la

stola viola, giusto? Perché Ruddock o chi per lui non ha preso quella? O

un’altra stola dello stesso colore?» Aprì i cassetti per vedere quante stole

c’erano. «Viola ce n’era una soltanto. Ce n’è una per ogni colore. Perché,

mentre Druitt era girato di spalle, Ruddock non ha preso quella che si era

appena tolto?»

«Forse Druitt non se l’è tolta vicino ai cassetti dove si trovano le altre

stole, ma qui, davanti all’armadio. Se l’è levata, l’ha posata nell’armadio per

appendere la cotta, poi si è sfilato la tonaca, ha appeso anche quella e alla fine

si è voltato per andare a mettere la stola al suo posto nel cassetto.»

«E nel frattempo Ruddock ha avuto il tempo di aprire il cassetto...»

«O anche più di uno.»

«... e arraffare la prima stola che gli è capitata sotto mano. Ma come mai

non ha notato la differenza?»

«Se uno non va in chiesa, non si rende conto che c’è differenza. A parte il

fatto che non sapeva ancora in che modo eliminare Druitt. Sapeva solo che

doveva eliminarlo.»

«Ma questo vorrebbe dire...» Barbara pareva riluttante a trarre le

conclusioni ad alta voce, e quell’insolita ritrosia era indice di quanto le

dispiacesse scoprire che c’era del marcio anche in polizia.

«Sì. Druitt non è stato fermato per pedofilia. Non era alla stazione di

polizia in attesa di essere trasferito a Shrewsbury. Lo si capisce da quei

diciannove giorni, Barbara, come giustamente ha intuito lei nel momento in


cui ha notato la data della telefonata che ha messo in moto tutta questa

faccenda.»

«Ruddock ha preso ordini da qualcuno fin dal principio. Se è lui il nostro

uomo, non è il solo.» «Caspita, ispettore» esclamò Barbara dopo aver

riflettuto un attimo.

«Eh, già» replicò Lynley.

Si voltò verso Barbara per decidere insieme la mossa successiva e proprio

in quel momento il cellulare del sergente squillò.

St. Julians’ Well

Ludlow

Shropshire

Conclusa la telefonata, Rabiah ripose il biglietto da visita del sergente Havers

nello stesso posto in cui l’aveva messo dopo il primo incontro con la

Metropolitan Police e tornò in salotto. Missa era rannicchiata in un angolo del

divano e stringeva fra le braccia un cuscino come fanno i bambini piccoli con

la loro coperta preferita. A Ironbridge aveva messo bene in chiaro che era

disposta a raccontare di nuovo tutto quanto, ma non in presenza dei genitori.

Ormai la polizia non poteva fare più niente, era passato troppo tempo, aveva

dichiarato. Rabiah aveva appoggiato la sua decisione di tornare a Ludlow

senza Yasmina. Timothy, infatti, nel frattempo si era dileguato.

Se ascoltarla raccontare quella storia in casa Goodayle era stato straziante,

la seconda volta era stato ancora peggio per via della reazione di Timothy.

Quando aveva capito che la violenza non era avvenuta a casa della nonna, si

era infuriato ancora di più e aveva cominciato a tempestare di domande

Missa.

«Chi è stato?» le chiedeva a voce alta, granitico, incurante delle sue

lacrime. «Chi? Pensaci! Non puoi non saperlo!»

«Smettila!» era intervenuta Yasmina, dopo essersi alzata in piedi per

cercare di allontanarlo dalla figlia.

«Non lo so! Era buio e non riuscivo...» aveva risposto Missa, piangendo.

«Allora dimmi chi ti ha offerto il sidro e perché diavolo ne hai bevuto così

tanto.»

«Non trattarla come se fosse colpa sua» gli aveva ordinato Rabiah.


«Eravamo usciti per festeggiare.» Missa aveva cercato di prendere fiato tra

un singhiozzo e l’altro. «Le vacanze di Natale. La fine degli esami.

Eravamo... Non dite niente a Justin. Per piacere, non ditelo a Justin.»

«Maledizione, dimmi...»

Rabiah era intervenuta, perché era chiaro che la nipote non ne poteva più.

«Era venuta a prenderla Ding. Erano d’accordo di uscire insieme e io l’avevo

incoraggiata a divertirsi, per una volta. Sono andata a dormire perché sapevo

che sarebbe rientrata tardi. Avevo già pagato al tassista anche il ritorno da

Quality Square e quindi pensavo che fosse tutto a posto» aveva spiegato.

«Ero troppo ubriaca» aveva detto Missa continuando a piangere.

«Perciò si è fermata da Ding, ed è là che è successo.»

«Papà, non potevo tornare a casa dalla nonna. Non potevo presentarmi da

lei in quello stato.»

«È crollata sul divano di Ding e qualcuno in quella casa l’ha sodomizzata

sperando che lei continuasse a dormire...»

«Oh, Missa!» aveva esclamato Yasmina.

«... e si accorgesse di essere stata violentata solo la mattina dopo, vedendo

il sangue, sentendo il dolore...»

«Perché non ci hai detto niente?» aveva piagnucolato Yasmina.

«Uno dei ragazzi che vivono in quella casa ti ha dato da bere sidro e tu

devi dirmi quale, perché voglio fargliela pagare. Chi è stato?» aveva detto

Timothy.

«Non avrei mai insistito perché tornassi a Ludlow, se l’avessi saputo.»

Questo l’aveva detto Yasmina tendendo le mani verso Missa, come per farsi

ammanettare. «Perché non mi hai mai detto niente?»

«È stata colpa mia.» Missa aveva alzato la voce. «Non lo capite? Il sidro

mi piaceva e ne ho bevuto troppo. Nessuno mi ha costretto a bere. Nessuno

mi ha drogata. Sono stata io e adesso voglio dimenticare tutto. Ho cercato di

dimenticare tutto fin dal primo momento e quindi non vi dirò altro, perché è

colpa mia e ho avuto quel che mi meritavo per essere stata così stupida ed

essermi ubriacata al punto da non poter tornare a casa.»

«No!» Yasmina le si era avvicinata, come Timothy poco prima, e Missa si

era tirata indietro. «Così punisci te stessa.»

«No!» aveva urlato Missa. «No! No!»

«Missa, amore mio, devi capire che...»

«Smettila!» aveva gridato la ragazza tappandosi le orecchie. «La nonna mi


ha portato qui per dirvelo e io ve l’ho detto e adesso non ne voglio più

parlare!»

«Cristo! Cristo!» aveva urlato Timothy uscendo di casa di corsa.

Adesso, a Ludlow, Rabiah e Missa aspettavano la polizia. «Veniamo

subito, il più in fretta possibile» aveva detto il sergente Havers al telefono.

Si presentarono venti minuti dopo. Rabiah non avrebbe mai immaginato di

poter essere contenta di rivedere i due ispettori, eppure lo era. Andò ad aprire

e li fece accomodare nel salotto, dove era rimasta Missa. Il sergente Havers

estrasse dalla borsa un bloc-notes e un portamine e si piazzò su una sedia

accanto al caminetto. L’ispettore Lynley si sedette sull’ottomana che fungeva

anche da tavolino. «Ah, Missa. Finalmente ci conosciamo. Abbiamo sentito

parlare di lei da Greta Yates e dalla sua amica Ding, e sappiamo che ha

iniziato l’anno accademico con risultati brillanti» disse con un bel sorriso.

Rabiah notò che Missa strinse più forte il cuscino. Forse se ne accorse

anche l’ispettore, perché disse: «Se la sente di parlare con noi? Possiamo

aspettare, se preferisce».

Rabiah vide che il sergente gli lanciava un’occhiataccia del tipo È

impazzito?

Lynley continuò: «Glielo chiedo perché a volte le persone, soprattutto se

molto giovani, hanno paura di parlare con la polizia. So che sua nonna ha un

avvocato di fiducia. Preferirebbe che ci fosse anche lui?»

Questa seconda proposta valse all’ispettore un’altra occhiataccia del

sergente, che questa volta parve chiedere: Le ha dato completamente di volta

il cervello?

«No! Nonna, io non...» rispose Missa.

«No, no, tranquilla» le disse Rabiah. «Sei libera di decidere, cara. È il mio

avvocato di fiducia, ma non devi per forza chiamarlo. Posso restare io con te,

se vuoi, oppure posso lasciarti sola con i signori della polizia.»

Missa preferiva che restasse e Rabiah le si sedette accanto sul divano,

come a Ironbridge, mentre raccontava tutto da capo. Il sergente Havers

prendeva appunti a una velocità tale da far pensare che stesse scrivendo tutto

parola per parola. Lynley si limitò ad ascoltare con la faccia seria.

Quando la ragazza ebbe finito, Lynley rimase in silenzio per un po’.

Sembrava riflettere sui vari aspetti della storia che aveva appena sentito. «Mi

dispiace moltissimo» le disse, e dopo un altro breve silenzio aggiunse:

«Immagino fosse di questo che parlava con Ian Druitt, dico bene?»


Missa scosse la testa e cominciò a giocherellare con la frangia del cuscino

che aveva fra le braccia. «Mi aveva telefonato lui, per via del mio tutor.»

Proseguì spiegando la catena di telefonate al termine della quale il diacono

l’aveva contattata. «Mi ha chiesto se volevo andare da lui per un colloquio,

visto che al college erano preoccupati per me. Io non volevo parlargli, ma ci

sono andata lo stesso perché...» Distolse lo sguardo e aggrottò la fronte come

per cercare di capire quale meccanismo della psiche l’avesse indotta ad

andare da Ian Druitt.

Rabiah le suggerì la risposta. «Perché fai fatica a dire di no.»

Missa emise un piccolo gemito e annuì. «Gli ho detto che volevo ritirarmi

dal college, gli ho raccontato che certe materie erano troppo difficili, ma lui

ha capito che c’era sotto qualcosa perché all’inizio dell’anno non avevo avuto

difficoltà. Mi ha fatto un sacco di domande, ha insistito. Era molto gentile.»

«Così lei gli ha confidato quel che ha appena raccontato a noi?» chiese

Lynley.

«Non tutto. Mi vergognavo troppo.»

«Non ha specificato le modalità dello stupro?»

«No. Quello non potevo raccontarglielo. È troppo orribile. E comunque

ormai non c’era più niente da fare, era tardi, erano passati mesi. L’unica cosa

che voglio è che Justin non lo venga mai a sapere.»

Lynley annuì. «Lo capisco, ma può spiegarmi perché dice che era ’troppo

tardi’?»

«Non c’erano prove.»

Rabiah vide che il sergente alzava di scatto la testa e guardava Lynley. «In

questi casi, ci sono sempre delle prove. Quando lei ha parlato con il diacono

sicuramente sul corpo non c’erano più tracce, le ferite erano guarite e il DNA

dello stupratore non c’era più, ma altri tipi di prove... Cos’ha fatto dei vestiti

che indossava quella sera?» disse Lynley.

«Appunto» rispose Missa. «Li avevo io.»

Con estrema prontezza il sergente Havers prese la parola. «Li ha ancora?»

«Li avevo infilati in un sacchetto» rispose Missa. «Le mutande e i collant.

Li avevo ficcati in fondo a un cassetto perché... non volevo dimenticare cosa

mi era successo quella sera per colpa della mia stupidità.»

«Lei non è stata e non è stupida» le disse Lynley, mentre il sergente

incalzava con le domande: «Sono qui? In questa casa? Li ha portati a

Ironbridge?»


Lynley zittì Barbara con un’occhiata e continuò, rivolto a Missa. «Ha

semplicemente commesso un errore, come milioni di ragazzi della sua età. E

ha subito conseguenze terribili...»

«Perché io...»

«Non c’è nessun perché. È qui che sbaglia. Lei vede un rapporto di causaeffetto

tra i due episodi: era ubriaca e quindi è stata violentata. In realtà è

soltanto una successione cronologica: le due cose non sono correlate.»

«Se non fossi stata ubriaca, non...»

«Non può saperlo.»

Nel silenzio che seguì, il sergente disse «Ispettore...» con un’urgenza che il

collega non pareva provare. Rabiah si sentì invadere dalla gratitudine per la

compassione che quell’uomo, con la sua calma, stava dimostrando alla

nipote. «Se lo dice lei...» replicò Missa.

«Lavoro in polizia da molti anni e posso assicurarle che è così» spiegò

Lynley. Guardò Rabiah, che approvò con la testa e senza emettere suono

sillabò: «Grazie».

«Mi parli degli indumenti. Ha nascosto la biancheria in fondo a un

cassetto, e poi?» continuò Lynley.

«È per questo che dico che è troppo tardi. L’ho data al signor Druitt.

Voleva consegnarla alla polizia per farla esaminare, così io non avrei più

avuto bisogno di parlarne con nessuno.»

«E cosa è emerso dai test?»

«Gli hanno detto che non risultava niente, che non c’erano tracce di... ha

capito?»

Rabiah vide che il sergente stava per intervenire ma si tratteneva, mentre

Lynley abbassava la testa riflettendo sulla risposta di Missa. «E gli altri

vestiti che aveva indosso quella sera, Missa? Di quelli cosa hanno detto?»

domandò poi l’ispettore.

La ragazza scosse la testa. «Io al diacono ho dato solo la biancheria. I

vestiti che avevo indosso quella sera non erano miei.»

Per Rabiah fu un’illuminazione. «È vero» mormorò. «I vestiti non erano

tuoi.»

Ludlow

Shropshire


Per andare da Francie Adamucci, Ding prese la bici perché Francie abitava a

Ludford poco dopo il vecchio ricovero dei senzatetto, non lontano dal ponte.

Era abbastanza presto e la trovò ancora a casa, come prevedibile. Anche

Francie stava per montare in sella alla sua bicicletta ma, quando vide Ding

imboccare il vialetto a semicerchio davanti al portone, si fermò, la guardò con

circospezione – sorprendente, tenuto conto che di solito prendeva tutto alla

leggera – e disse: «Ciao».

«Posso parlarti?» esordì Ding. «Mi hai messo in un bel casino con la

polizia, Francie.»

Francie si guardò alle spalle come se temesse che ci fosse qualcuno

affacciato alla finestra a origliare. Ma dietro di lei c’era solo un profondo

davanzale su cui erano in mostra alcuni oggetti di artigianato africano:

statuine, due cesti malridotti e una maschera veramente orribile. Ding

immaginò che fosse un modo per tenere lontani i ladri. Se i gusti dei padroni

di casa erano quelli, chi si sarebbe preso la briga di entrare a rubare?

«Lo so» disse Francie. «Scusami, Ding. Mi è sfuggito, non volevo. È stato

per via di quella brutta storia di Ruddock. Oddio, sembra il titolo di una

canzone, o di un libro: ’La brutta storia di Ruddock’.»

Tipico di Francie, pensò Ding: dopo dieci secondi, riusciva a dirottare

altrove qualsiasi conversazione. Non lo faceva apposta, era semplicemente il

modo di ragionare del suo cervello bislacco.

«Va be’. Possiamo parlare?» ripartì alla carica Ding.

Francie si strinse nelle spalle. «Ma sì, in fondo è solo geografia. Chi se ne

frega? Il mondo salterà in aria comunque perché qualche idiota sparerà un

missile nucleare contro qualche altro idiota. Non so cosa ci vado a fare, a

lezione. Vieni.»

Ding non pensava di entrare, ma Francie si diresse verso il portone. «Tua

madre e tuo padre...?» le chiese.

Francie rise. «Non penserai che siano qui il 23 maggio! Da qualche parte

c’è senz’altro un importantissimo evento etno-culturale cui non potevano

mancare.» Infilò la chiave nella serratura e aprì.

Ding lasciò la bici appoggiata a una delle colonne davanti alla casa. Non

era mai stata da Francie e non sapeva che abitasse in un palazzo che con ogni

probabilità era pure monumento nazionale. Seguì Francie in un atrio dal

soffitto altissimo. «Cos’era in passato questo posto?» le domandò.

Francie si guardò intorno come se lo vedesse per la prima volta. «Non ne


ho idea. È senza riscaldamento, senza doppi vetri, con le crepe nei muri e i

camini che non tirano. Non vedo l’ora di andare a stare in una casa qualsiasi,

purché sia stata costruita dopo il 1900. Appena posso, levo le tende.»

«Non lo sapevo.»

«Cosa?»

«Casa mia. Cioè, dove abito io... mia madre. Ci sei stata. Perché non hai

detto niente?»

«Almeno tua madre si sbatte per fare qualcosa. Qui invece crollerà tutto

prima che i miei si guardino intorno e lo rendano almeno vivibile. Vuoi

qualcosa?» Entrarono nella cucina, dove tutto risaliva come minimo al

dopoguerra. «Posso offrirti pane tostato e Marmite.»

Ding non aveva appetito. Al centro della stanza c’erano un tavolo

malridotto e alcuni sgabelli. Ne prese uno e si accomodò. Francie con un

salto si sedette sul bancone, trovò una banana nascosta in un mucchio di

carote e cipolle sul davanzale e gliela offrì. Ding scosse la testa e Francie la

sbucciò per sé.

«La polizia dice che qualcuno ti ha visto con Ruddock, come me»

cominciò Ding. «Perché non me l’hai mai detto?»

Francie masticò la banana e si grattò la testa. «È successo una volta sola –

che ci abbia provato, voglio dire – quindi non ci ho dato peso. E comunque

l’ho rimesso al suo posto. Non è andata come con te.»

«In che senso?»

«A me, non mi poteva ricattare.» Francie indicò con un gesto vago la

cucina, ma a Ding parve si riferisse a tutta la casa. «Pensi che mia madre e

mio padre facciano una piega se scoprono che mi sono presa una sbronza?

Impossibile. L’unica cosa che gli interessa sono le loro esperienze etnoculturali.

Quindi lui non poteva dirmi che, se non stavo al suo gioco, mi

riportava a casa a forza. A casa io ci sono già. Te lo giuro, Ding, non capisco

cosa si illudeva di ottenere da me» disse.

«Per questo ci ha provato quella sera lì e poi basta? Ti ha fatto salire in

macchina una sola volta?»

«Be’... veramente due, ma la seconda gli avevo dato appuntamento io. Sai,

la prima sera gli ho detto che, se avessi avuto voglia di prenderglielo in bocca

lo avrei fatto senza problemi, ma siccome non ne avevo voglia – ora proprio

non me la sento, agente – poteva pure riaccompagnarmi a casa.»

«E lui?»


«Mi ha riaccompagnato a casa. Non so cosa si aspettasse, ma i miei gli

hanno risposto qualcosa tipo: ’Non si azzardi a disturbarci mai più a

quest’ora, agente’. E quando se n’è andato mi hanno detto: ’Francie, per amor

del cielo, non bere troppo, che ti fa male’, e la cosa è finita lì. In certi casi fa

comodo avere dei genitori che se ne fregano altamente. Comunque, io ho

smesso di aspettarmi qualcosa da loro a dieci anni, dopo che si sono

dimenticati il mio compleanno.»

Francie rise amaramente. «Mi dispiace, Francie. Non lo sapevo» le disse

Ding.

«Tanto non mi importa niente di loro.» Francie scese con un salto dal

bancone, lanciò la buccia di banana nel lavandino e si stiracchiò.

«Comunque, la prima volta che Ruddock ha provato a ricattarmi e gli è

andata buca, gli ho detto che se mi dava il numero di cellulare gli facevo un

fischio, caso mai me ne fosse venuta voglia. E dentro di me ho pensato

’scordatelo’. Poi però, una sera che ero completamente brilla, ho detto

vediamo un po’ com’è farsi un poliziotto e gli ho telefonato. Magari mi

hanno visto con lui quella volta lì.»

«Dove siete andati? Cioè, dove ti ha portato?»

«Nel parcheggio dietro il college. E a te?»

«Alla stazione di polizia.»

«Dentro?!»

«Di solito nel parcheggio, ma dipendeva da quello che voleva fare.»

«Che porco. Dovresti denunciarlo.»

«L’ho detto a quelli di Scotland Yard. Praticamente sono stata costretta a

dirglielo.»

«Lo sistemeranno loro, Ding.» Francie girava per la cucina come se non

potesse rilassarsi nemmeno per un istante, ma a quel punto si fermò.

«Scusami tanto» disse.

«Non lo sapevi. Non sapevi quanto era grave, voglio dire.»

«Ah. Veramente intendevo per Brutus. Ti ho già chiesto scusa, ma adesso

mi dispiace ancora di più.»

«Ah.» Ding non era sicura di voler parlare di Brutus, soprattutto da quando

aveva capito che le cose erano andate diversamente da come pensava, ma

Francie pareva così mortificata che decise di chiudere anche quell’argomento.

«Non devi scusarti. Non ti avevo mica detto che era così importante per me.»

«Sì, ma... Insomma, che tu eri importante per lui lo vedevo e ci sono stata


lo stesso.»

«Credimi, Francie, a Brutus non importa niente di me.»

«Allora non lo conosci. Gli importa eccome. Deve ancora capire un sacco

di cose, per esempio per quale motivo deve farsi tutte quelle che incontra.

Forse non lo capirà mai, perché è difficile che i maschi si pongano queste

domande, eh? Ma tu sei speciale per lui, sei la più importante di tutte.»

«Dovrei accontentarmi di essere la prediletta del suo harem?»

«Oh, mica dicevo che devi restarci insieme. Volevo dire che un conto è

come si comporta e un conto è quello che pensa di te. Poi, se vuoi proprio

sapere cosa farei io nei tuoi panni, lo prenderei a calci in culo. È un bel

ragazzo, ma perché sprecarci del tempo?»

«Hai ragione.» Ding si accorse che a Francie veniva da sorridere, cosa che

mai avrebbe immaginato quella mattina quando aveva deciso di attraversare il

fiume per andare a parlarle. Adesso la capiva meglio di quanto si sarebbe mai

aspettata e questo le fece venire in mente che forse le sarebbe convenuto

guardare meglio chi aveva davanti, anziché cercare informazioni su Google

come aveva sempre fatto.

Dopo quella conversazione, rappacificate, Ding e Francie presero la bici e

attraversarono insieme il Ludford Bridge. Si salutarono in fondo a Broad

Street dandosi appuntamento due giorni dopo per andare a mangiare al

cinese, poi Ding ripartì verso il Temeside e Francie cambiò rapporto per

affrontare la salita.

Arrivata davanti a casa, Ding rimase perplessa nel vedere che la porta era

aperta. Era sicura di averla chiusa, quando era uscita, anche se non a chiave

perché erano mesi che avevano perso le chiavi e comunque in casa non c’era

nulla da rubare, a parte i computer. Ma lei aveva il suo nello zaino e i ragazzi,

se erano usciti, sicuramente si erano portati dietro il loro. Che avessero

lasciato la porta spalancata, però, le pareva un po’ eccessivo. Pazienza essere

sbadati, ma quello era un vero e proprio invito ai malintenzionati.

Entrò in casa e, di nuovo, esitò perché dopo aver chiuso la porta sentì dei

colpi al piano di sopra, poi uno schianto, un grido, gemiti e urla. Poi altri

colpi e una voce alterata che gridava: «Come hai osato metterle le mani

addosso?»

Brutus, pensò Ding, e salì le scale di corsa. Doveva essere stato colto in

flagrante dal fidanzato dell’ennesima ragazza.

Ding lo trovò sulla soglia della camera: per terra, sdraiato a pancia in giù,


con un braccio piegato in una posizione terribile rispetto al resto del corpo. Si

inginocchiò e lo chiamò. Brutus non rispose, ma appena lo toccò emise un

grido da animale ferito. «È stato Finn? Avete litigato?» gli disse.

Poi si rese conto che il rumore di colpi non era cessato. «È andato da Finn»

mormorò Brutus. Ding corse verso la camera. «Chi? Cosa succede? Finn!»

gridò.

La porta era socchiusa e all’improvviso era sceso il silenzio. Ding non

trovava il coraggio di guardare dentro. Quando finalmente si decise, dalla

camera uscì di corsa un uomo. Ding pensò a un tossico entrato in casa per

rubare e indietreggiò riparandosi la testa con le mani. Ma anziché aggredirla

l’uomo si precipitò giù per le scale.

Fu allora che Ding vide Finn. Era ridotto ancora peggio di Brutus: aveva

una ferita alla testa che sanguinava orribilmente e la faccia piena di tagli,

come se qualcuno avesse cercato di strappargli una guancia. Non si capiva se

fosse vivo o morto.

Anche Ding imboccò le scale di corsa, ma non perché sapesse dove andare.

Al contrario, non sapeva proprio cosa fare.

Ludlow

Shropshire

Lynley si preoccupò, quando scoprì che Missa aveva confidato ai genitori ciò

che le era successo soltanto quella mattina, e si preoccupò ancora di più

quando apprese che il padre alla fine del racconto era uscito di casa furibondo

e non aveva più dato notizie di sé. Quando poi arrivò con Barbara Havers sul

Temeside e vide un’ambulanza e un’auto della polizia davanti alla casa dove

abitava Dena Donaldson, temette di essere arrivato troppo tardi, che fosse

successo il peggio e che alle tragedie già avvenute se ne fosse aggiunta una

nuova.

Accostando al marciapiede, vide il ragazzo che chiamavano Brutus uscire

dal portone scortato da un agente, con il braccio destro legato sul petto con

una fasciatura temporanea. Avrebbe potuto pensare che l’agente lo stesse

arrestando, se non avesse notato che si fermava ad aspettare un paramedico,

saliva in macchina e accendeva le luci di emergenza. Il paramedico aiutò

Brutus a sistemarsi sul sedile, gli disse qualcosa, gli allacciò la cintura e tornò


in casa di corsa. L’auto partì a sirene spiegate e girò in Old Street: dal

momento che non era quella la strada per la stazione di polizia di Ludlow,

Lynley immaginò che l’agente stesse portando Brutus al più vicino pronto

soccorso.

L’ambulanza rimase dov’era. «La vedo brutta, ispettore» disse Barbara

Harvers.

«Anch’io, sergente» rispose Lynley.

Entrarono nella casa e vennero subito fermati da un altro agente di guardia

sulla porta del salotto, con un blocco con la spirale in mano. «Altolà. Dove

credete di andare? Siete sulla scena di un crimine» sbraitò.

Lynley e Barbara Havers mostrarono entrambi il tesserino. Le parole «New

Scotland Yard» non sortirono alcun effetto miracoloso, ma li salvarono dal

rischio di essere cacciati via in malo modo. «Abbiamo già chiesto rinforzi. Se

pensavate di offrire assistenza, non occorre» disse l’agente.

«Non sappiamo cosa sia successo e non vogliamo interferire» ribatté

Lynley. «Ma dobbiamo parlare al più presto con Dena Donaldson. È qui?»

«Finn! Se l’è presa con Finn!» Lynley vide che Ding era nel salotto, dove

evidentemente l’agente stava raccogliendo la sua deposizione. La ragazza

andò loro incontro torcendosi le mani.

«Ha visto chi è stato?» le domandò Lynley.

«Ehi, voi due, non vi ho appena...»

Ding interruppe l’agente. «Io parlo solo con loro» disse.

«Lei parla con chi le diciamo di parlare» ribatté secco l’agente.

«Mi sembra un approccio poco costruttivo» osservò Lynley.

«A voler usare un eufemismo» borbottò Barbara.

«Voi due, volete che vi butti fuori...?»

«Oddio! Non è morto, vero?» Ding guardò oltre le loro spalle e si coprì la

bocca con una mano.

Lynley e Barbara si voltarono e videro due soccorritori che scendevano le

scale trasportando una barella con le ruote ripiegate. Una sacca da flebo

dondolava appesa sopra il ferito. Un terzo operatore li seguiva con un

borsone in spalla. Il fatto che il ragazzo avesse la flebo e fosse avvolto in una

coperta e non in un sacco mortuario era rassicurante. Aveva un collare

cervicale e la testa fasciata, più cinque o sei cerotti a farfalla sul volto ferito.

Lynley si rivolse sottovoce a Barbara. «Segua l’ambulanza. Immagino

prenderà la stessa strada dell’autopattuglia. Cerchi di interrogare il ragazzo.


Non Finn, l’altro. Dubito che Finn sia in grado di parlare per un po’.»

Barbara annuì e prese le chiavi. Quando se ne fu andata, Lynley parlò con

Ding. «Tranquilla, è vivo. E Brutus è andato con l’altro agente sull’auto di

servizio.»

«Brutus non ha fatto niente! È entrato un uomo! L’ho visto!»

«No, no» si affrettò a rassicurarla Lynley. «Non volevo dire che è stato

arrestato. Immagino lo stesse portando all’ospedale perché sull’ambulanza

non c’è abbastanza posto. Avranno bisogno di spazio per assistere Finn.»

«Non chiedetemi di dirlo a sua madre!» implorò Ding. «Vi prego, non

voglio dirglielo io!»

«Non si preoccupi. C’è una procedura apposita. Non tocca a lei avvertire i

genitori.»

«Quando avete finito...» intervenne l’agente, spazientito.

Lynley, tuttavia, non aveva nessuna intenzione di andarsene. «Come le ho

già accennato, ho assolutamente bisogno di parlare con Dena. È urgente. Si

tratta di un’altra faccenda, ma ritengo probabile che sia legata a ciò che è

successo qui» ribatté. «Il sergente Havers e io abbiamo appena parlato con

Missa. Ci ha raccontato dell’aggressione» disse rivolto a Ding.

«Qualcuno è già al corrente di quello che è successo qui?» saltò su

l’agente. «Esigo spiegazioni!»

«Sto parlando di una violenza carnale avvenuta in questa casa nel dicembre

scorso» gli spiegò Lynley. E poi tornò a parlare con Ding. «Pare che si sia

confidata con la nonna, che è riuscita a convincerla a raccontarlo anche ai

genitori. Ho una domanda da farle, Ding. Ha visto cosa è successo qui oggi?»

«Non ero in casa. Brutus... L’ho trovato per terra e dalla stanza di Finn

venivano dei rumori spaventosi. Sono andata a vedere e...» raccontò la

ragazza piagnucolando e con voce tremante. Le si riempirono gli occhi di

lacrime. «Ero uscita per andare da Francie. Non pensavo che... Cioè, noi non

chiudiamo mai a chiave, anche perché le chiavi le abbiamo perse. Di solito

quando usciamo ognuno chiude a chiave la sua stanza, ma la porta di casa... E

infatti siete entrati anche voi quella mattina. Finn poi ha dato di matto e suo

padre ha promesso che ci pensava lui e noi abbiamo creduto, o almeno io ho

creduto...» Si interruppe, come colpita da un fulmine a ciel sereno. Poi si

mise le mani sulla faccia e sugli occhi e cominciò a gridare: «È colpa mia! È

colpa mia! Solo che non lo sapevo, non avevo capito, io sono scappata, ce

l’ho fatta, e lei invece no, ma non immaginavo e non è colpa mia se non mi è


venuto in mente, anche se invece avrei dovuto...»

«Ma cosa cazzo blatera questa adesso?» sbottò l’agente. «Toglietevi di

mezzo e lasciatemi lavorare, così mi faccio raccontare come sono andate le

cose.»

Lynley si voltò verso di lui, stupito dall’intensità della rabbia che gli

suscitava. Lo guardò bene in faccia e si rese conto di quanto era giovane,

inesperto, totalmente e imperdonabilmente male informato. «Venga con me,

agente» gli disse.

«Chi si crede di essere? Io non prendo ordini da...»

«Le ho detto di venire con me» ripeté Lynley. Lo disse a voce più alta di

quanto intendesse, e con un tono severo. Per la prima volta in vita sua, si

ritrovò ad assomigliare a suo padre, l’ultima persona al mondo che voleva

diventare. Portò l’agente fuori, parlando più piano ma sempre con severità.

«Abbiamo un omicidio, una violenza carnale e ora un’aggressione e un

tentato omicidio» gli spiegò guardandolo negli occhi. «E tutti questi reati

vedono coinvolte, in un modo o nell’altro, le stesse persone. Ora, se lei ha

intenzione di intralciare un’indagine in corso della Metropolitan Police

perché pensa che io sia fuori della mia giurisdizione, faccia pure, ma le

consiglio di pensarci bene. Non c’è il tempo per risolvere un conflitto di

competenza territoriale: sono in gioco delle vite umane. Mi creda, sarò ben

contento di prendere le sue generalità e fare in modo che la sua carriera

finisca nel giro di una settimana. Sono stato chiaro? Ha delle domande? Se sì,

le faccia subito perché, se vuole rientrare in questa casa, d’ora in poi dovrà

tacere.»

L’agente aprì la bocca e subito la richiuse. «Sì? Cosa voleva dire?» chiese

Lynley.

Nulla, a quanto pareva: l’agente tornò nel salotto in silenzio, si mise in

piedi vicino al televisore, non proprio sull’attenti, ma quasi, e lasciò che

Lynley riprendesse la conversazione con Ding.

La ragazza non gli diede il tempo di cominciare. «Non posso dirlo a sua

madre. La prego, non mi faccia raccontare tutto a sua madre» ripeté.

«Sia i genitori di Finn sia quelli di Brutus verranno informati dalla polizia

o dal pronto soccorso. Non è necessario che lo faccia lei.» Lynley indicò il

vecchio divano pieno di macchie e, quando Ding si sedette, le si mise vicino,

anche perché l’unica alternativa erano varie poltrone sacco da cui non voleva

doversi rialzare una volta concluso il colloquio. «Ha visto chi è stato a


picchiare Finn?» chiese.

Ding annuì fra le lacrime. «L’ho visto di schiena. Aveva in mano un

attizzatoio.»

Indicò il trespolo di ferro battuto cui erano appesi gli attrezzi per il

caminetto. L’attizzatoio non c’era: probabilmente l’aggressore l’aveva

portato con sé quando era fuggito. «Aveva già pestato Brutus e se la stava

prendendo con Finn.» A quel punto spalancò gli occhi. «Ma Finn fa karate!

Si vanta sempre che le sue mani sono due armi micidiali. Perché non si è

difeso?» aggiunse, stupita.

«Forse non è poi così bravo» suggerì Lynley. «Oppure non ne ha avuto il

tempo. Magari dormiva ed è stato sorpreso nel sonno. Ha riconosciuto

l’aggressore? Era un uomo? Un ragazzo? Magari un compagno di studi di

Finn?»

Ding guardò lontano, come fanno le persone quando cercano di ricordare

che cosa hanno visto esattamente. «Era un uomo, non un ragazzo. Era più

vecchio di noi» rispose.

«Potrebbe essere il padre di Missa Lomax?»

«Non conosco nessuno della sua famiglia a parte la nonna, perché Missa

sta... stava da sua nonna qui a Ludlow quando frequentava il college. Il padre

non l’ho mai visto.»

«Pensa di essere in grado di riconoscere il colpevole da una fotografia?»

Ding non era sicura. Forse l’uomo l’aveva sentita correre da Brutus, o

forse aveva pensato che Finn fosse morto: fatto sta che si era precipitato giù

per le scale e... Finn era lì, in un lago di sangue, e lei era corsa via e aveva

chiamato il 999 con il cellulare. Aveva troppa paura di restare in casa, perché

magari erano in tanti e lei non era in grado di difendersi. «La prego, non lo

dica a nessuno» aggiunse sottovoce. «Avrei dovuto soccorrerlo, cercare di

aiutarlo, ma avevo troppa paura, e pensavo che fosse entrato un tossico per

rubare, a parte il fatto che qui non c’è niente da rubare.»

«Non credo si trattasse di un tossicodipendente» ribatté Lynley. «Non

cercava né droga, né oggetti da rivendere per comprarsi una dose. Cercava

esattamente quello che ha trovato: Brutus e Finn.» Indicò il poliziotto ancora

in piedi accanto al televisore, che aveva preso appunti. «L’agente andrà

gentilmente a chiedere alla signora Lomax qualche foto da mostrarle. Nel

frattempo, io telefonerò a sua madre.»

Ding lo guardò inorridita. «A mia madre? Perché?»


«Stanno per arrivare i tecnici della Scientifica per il sopralluogo: questa

casa adesso è una scena del crimine. E in ogni caso non potrei lasciarla qui da

sola dopo quello che è successo» rispose Lynley. Tirò fuori il cellulare e le

chiese il numero della madre. Ding tentò di protestare: «Ma mia madre mi

farà...»

«Le spiegherò tutto io. Non si arrabbierà. Stia tranquilla, Ding, nessuno si

arrabbierà con lei» tagliò corto Lynley.

«Non voglio tornare a casa. La prego, non mi faccia tornare a casa.»

«Solo temporaneamente, finché la Scientifica non avrà finito il suo lavoro.

Le assicuro che sua madre capirà.» Digitò il numero e, mentre aspettava, fece

una promessa alla ragazza: «Spiegherò a sua madre che lei è totalmente

estranea ai fatti di oggi». Quando dall’altra parte si udì una voce di donna,

coprì il microfono con la mano e aggiunse: «Ma siccome si tratta di una

bugia – vero, Ding? – quello che io dirò a sua madre quando verrà a

prenderla dipende da quello che lei mi dirà appena avrò chiuso questa

telefonata». Era scorretto contrattare con la ragazza mentre era così

sconvolta, ma per il momento il fair play era stato messo in panchina e ci

sarebbe rimasto finché Lynley non fosse riuscito a far luce su tutto ciò che era

accaduto a Ludlow da dicembre in poi.

Lynley assicurò alla madre di Ding – che non si presentò come Donaldson,

ma come Welsby – che la figlia stava benone, ma che la sua casa di Ludlow

era temporaneamente inagibile ed era necessario che Ding trascorresse un

paio di giorni in famiglia. La signora poteva venirla a prendere al più presto?

No, non poteva passarle la figlia perché al momento era in un’altra stanza.

Ma la signora l’avrebbe trovata lì ad aspettarla.

«Adesso mi parli di quella serata al pub per festeggiare l’inizio delle

vacanze di Natale e mi spieghi che cosa è successo dopo che siete uscite dal

pub» disse a Ding subito dopo aver chiuso la chiamata.

Royal Shrewsbury Hospital

Shelton

Shropshire

Arrivarono al Royal Shrewsbury Hospital in tempo record grazie

all’autopattuglia messa a disposizione da Clover. Aveva dato l’ordine di


portarli all’ospedale a un agente esperto di guida veloce, che aveva percorso

il tragitto come se avesse il diavolo alle calcagna, sirene spiegate e

lampeggianti accesi, e aveva toccato il freno solo davanti all’ingresso del

pronto soccorso. Scesero dall’auto e corsero dentro.

«Mio figlio» disse Trevor all’impiegata all’accettazione e, siccome la

donna non alzò subito la testa, batté sul bancone e chiese: «Dov’è mio

figlio?»

Clover lo raggiunse e Trevor con la coda dell’occhio vide che mostrava il

proprio tesserino all’impiegata. Gli parve superfluo, visto che era in divisa,

ma in realtà spianò loro la strada, soprattutto dopo che Clover ebbe

specificato: «Sono il vicecomandante Freeman. Nostro figlio ha subito un

pestaggio a Ludlow».

L’impiegata prese il telefono. «George, la polizia è ancora lì? Ci sono i

genitori di un ragazzo.» Poi chiese a Clover: «Mi dice il suo nome, per

cortesia?»

Clover era sul punto di ribattere che gliel’aveva già detto, ma si trattenne.

«Clover Freeman. Lui è mio marito Trevor e nostro figlio si chiama

Finnegan» ripeté.

«Freeman» disse la donna al telefono. «Va bene, riferisco.» Poi si rivolse a

Clover. «Sta arrivando qualcuno della polizia per parlare con voi.»

«Perché non possiamo vedere nostro figlio? È grave?»

Trevor comprendeva il timore della moglie. Per comunicare una tragica

notizia ai genitori di un ragazzo ferito di norma si ricorre a un funzionario di

polizia, e questo Clover lo sapeva benissimo.

L’attesa durò all’incirca due minuti, ma il tempo parve rallentare come nei

peggiori incubi. Poi dalle viscere dell’ospedale spuntò l’ultima persona che

Trevor si aspettava di vedere lì: il sergente investigativo di New Scotland

Yard, Barbara Havers. Brandiva un taccuino come se avesse intenzione di

interrogarli e Trevor intuì che, se ci avesse anche solo provato, Clover le

avrebbe mangiato la faccia.

«È vivo» disse Barbara Havers. Trevor provò un moto di sollievo tale che

temette che gli cedessero le ginocchia.

«Che cosa è successo?» domandò Clover. «È grave?»

«Non sono al corrente della prognosi esatta» rispose il sergente, come se si

sforzasse di esprimersi in maniera corretta. «Sembra che gli siano entrati i

ladri in casa, ma il mio capo sta parlando con la ragazza che ha chiamato la


polizia. C’è anche un altro agente sul posto.»

«Gaz Ruddock?» chiese Clover.

Barbara Havers corrugò la fronte, come se trovasse la domanda non solo

sorprendente ma anche rivelatrice. «No, non Ruddock. Quello mandato dal

Pronto Intervento. Ho parlato con il coinquilino di vostro figlio. Lo

conoscete, vero? Dice che lo ha aggredito un uomo con un oggetto

contundente, forse un attizzatoio, oppure un cric. Pare sia entrato dalla porta,

che non era chiusa a chiave» rispose.

«Cristo santo. Perché non la chiudono?» esclamò Trevor.

«Sono ragazzi. Comunque. Vuol dire che non c’è stata effrazione. Il

coinquilino...» Guardò velocemente il bloc-notes. «Bruce Castle. È uscito da

camera sua per andare al gabinetto e si è trovato di fronte l’uomo, che ha

preso lo slancio per colpirlo con l’attrezzo. Lui ha sollevato il braccio per

parare il colpo e quello gliel’ha fratturato. Bruce ha urlato a vostro figlio di

chiamare il 999, ma non c’è stato il tempo, perché l’uomo è entrato in camera

e si è avventato anche contro vostro figlio.» Il sergente Havers alzò la testa e

per un attimo Trevor pensò che avesse concluso il racconto, invece lei li fissò

con intenzione. «Secondo il racconto di Bruce, l’uomo gridava che qualcuno

aveva fatto bere sua figlia, l’aveva fatta ubriacare, e poi l’aveva spogliata,

stuprata e...»

Trevor da lì in poi non sentì altro. Guardò Clover frastornato, mentre

frammenti sporadici e disparati si univano a formare un quadro sconcertante:

ecco cosa gli aveva tenuto nascosto Clover! Doveva averlo scoperto il 26

febbraio, perché le conversazioni telefoniche fra lei e Gaz Ruddock partivano

da quella data.

Riprese ad ascoltare. Clover stava dicendo: «... sua figlia? Quindi non era

un ragazzo. Bruce vi ha fornito una descrizione?»

«Piuttosto accurata, sì. Penso sia in grado di riconoscerlo.»

«Dunque sapete chi è» dichiarò tagliente Clover.

Barbara aspettò un momento prima di rispondere, forse soppesando il tono

di Clover. «Dal momento che ha parlato di una figlia violentata, una volta che

avremo scoperto chi è la figlia, avremo anche l’aggressore.»

Trevor si ricompose. «Sta dicendo che mio figlio... che nostro figlio...»

«Avete già raccolto la deposizione di Finnegan?»

«I medici gli stanno prestando le prime cure.»

«E la ragazza che ha chiamato il 999?»


«Come dicevo, è con l’ispettore Lynley. Anche lei abita con Bruce e vostro

figlio.»

«È stata...?»

«Grazie, sergente.» Clover lo interruppe e Trevor sentì montare la rabbia,

non soltanto perché sua moglie lo aveva zittito in pubblico, ma anche contro

se stesso per essersi fatto mettere tante volte i piedi in testa: era anche per

colpa sua, se si trovavano in quella situazione. «Posso chiederle come mai è

intervenuta lei sul luogo dell’aggressione?» aggiunse Clover.

Altra pausa irritante, durante la quale il sergente batté la matita contro il

bloc-notes. Trevor tornò a rendersi conto del movimento intorno a lui: una

lettiga spinta lungo il corridoio, una donna indiana in camice bianco che si

affacciava alla porta di una sala visite per chiedere una serie di farmaci e di

procedure mediche.

«L’ispettore Lynley e io abbiamo parlato con la ragazza. Dena,

soprannominata Ding. La conoscete?» disse alla fine Barbara Havers.

«A proposito dello stupro?» chiese Trevor.

«Sì, l’abbiamo vista, ma non la conosciamo bene» rispose Clover. «Non è

stata aggredita anche lei, vero?»

«All’inizio non era a casa. È arrivata mentre il pestaggio era in corso.»

«Grazie, sergente.» Poi Clover si voltò verso Trevor. «Andiamo a

scambiare due parole con i medici, tesoro.»

Prese il marito sottobraccio e tornò con lui verso l’accettazione.

«’Scambiare due parole’? Ti sembra il modo di esprimersi?» le disse Trevor.

Clover lo guidò da una parte, vicino al muro, e usò un tono sommesso, ma

rabbioso: «Senti, non voglio entrare nei dettagli in questa sede, e anche tu

dovresti evitare, per adesso. Cerchiamo solo di capire che cosa è successo,

senza addentrarci...»

«Sappiamo già che cosa è successo: in casa di Finnegan è entrato un uomo

convinto che qualcuno gli avesse violentato la figlia. O ti è sfuggito questo

particolare?» Clover si voltò dall’altra parte e a lui venne voglia di

costringerla con la forza a guardarlo in faccia. «È da questo che cercavate di

proteggerlo, vero? Tu e Gaz, sono mesi ormai che tramate. Tu pensi che

Finnegan abbia fatto ubriacare una ragazza per poi violentarla. Tu pensi

veramente che nostro figlio possa...» si limitò a dire.

Clover si voltò di scatto. «Smettila! Per favore, smettila. Hai idea di quanto

siano frequenti queste cose? Te ne stai chiuso nella tua bella palestra e non ti


rendi nemmeno conto di come vanno le cose qua fuori. Io invece lo so.

Succede continuamente. È pieno il mondo di femmine senza cervello che

bevono troppo e di maschi senza cervello che ne approfittano. A volte le

fanno bere, a volte le drogano, versano sonniferi nei drink... Lo capisci?»

«Io capisco che consideri nostro figlio capace di queste cose.»

«Perché queste cose succedono!» Era arrabbiatissima, si vedeva

chiaramente che l’avrebbe preso volentieri a botte. «E sono ’bravi’ ragazzi

che si mettono d’accordo con altri ’bravi’ ragazzi, oppure leggono una storia

del genere su Internet e pensano: perché non ci provo anch’io? E lo fanno,

senza pensare alle conseguenze perché a quell’età alle conseguenze non si

pensa mai. Poi però, se la cosa diventa di pubblico dominio, la loro vita è

rovinata. Io sto parlando di Finnegan, Trevor. Della vita di nostro figlio. Lo

capisci, adesso? Noi, i suoi genitori, non potremo fare nulla proteggerlo, se

dovesse essere accusato di una cosa del genere. Certo, gli troveremo un

avvocato e cercheremo di fargli entrare nella zucca che non deve più dire una

parola se non in sua presenza, sempre che ci dia retta, visto che, qualsiasi

cosa gli diciamo, Finnegan fa l’opposto. Ma più di così non potremo fare. E

qualora ci fossero le prove dello stupro – perché, credimi, non c’è ragazza al

mondo che chiede di farsi sodomizzare e quindi le prove ci saranno –

neanche l’avvocato potrà più fare niente, perché di fronte al DNA non c’è

niente da fare.»

Trevor la stava ascoltando senza sentire, perché per lui tutto si era fermato

dopo la parola «sodomizzare». Clover se ne accorse, evidentemente, perché

disse: «Sì, è andata così. Sei contento, adesso che lo sai?»

«Ma come diavolo...?» Trevor si inumidì le labbra, asciutte come pietra.

«Come fai tu a saperlo, Clover? Te l’ha detto Finn?»

Clover guardò il muro. «Ian Druitt ha consegnato le prove a Gaz» rispose.

«Ian Druitt?»

«Esatto. Capisci adesso?»

Ludlow

Shropshire

Dopo che l’agente fu uscito per andare a farsi dare le fotografie dalla signora

Lomax, Lynley accompagnò Ding al piano di sopra perché raccogliesse le


cose che le servivano per stare via qualche giorno. Di sicuro sua madre era

già partita per venire a prenderla e portarla a Much Wenlock e Ding si

rendeva conto che, se voleva evitare di ritrovarsi confinata in via definitiva a

Cardew Hall, le conveniva mostrarsi collaborativa. Perciò era pronta a

guardare le fotografie della nonna di Missa per indicare alla polizia il signor

Lomax e dire se era effettivamente lui l’uomo che aveva spaccato un braccio

a Brutus e la testa a Finn. Quanto a Cardew Hall, l’aver sviscerato i motivi

per cui detestava mettervi piede non cambiava nulla. La realtà continuava a

essere che da bambina aveva scoperto il cadavere di suo padre nudo, appeso a

una colonnina del letto, e che per anni aveva rimosso quel ricordo

comportandosi come si era comportata. Già era terribile dover stare qualche

giorno con la madre e suo marito finché la situazione a Ludlow non si fosse

sbrogliata, ma se il soggiorno avesse dovuto prolungarsi fino all’università...

no, non ce l’avrebbe fatta.

Mentre salivano le scale, Lynley le raccomandò di stare attenta a non

toccare nulla, perché su ogni superficie potevano esserci prove e tracce

materiali. Le chiese inoltre di controllare se fosse stato spostato o rimosso

qualcosa. Ding gli rispose che le pareva tutto uguale a prima e lui le porse un

paio di guanti di lattice e le concesse di prendere tre cambi di vestiti. Ding

prese una sacca e vi infilò più in fretta che poté tutto ciò di cui le sembrava di

aver bisogno. Per tutto il tempo Lynley rimase ad aspettarla in silenzio e lei si

sentì osservata in ogni minimo gesto. A un certo punto gli lanciò un’occhiata

e dalla sua espressione capì che, benché gentile, non lo si poteva certo

definire un amico.

Preparato il bagaglio, uscirono e si fermarono un attimo davanti alla casa,

in quello che chiamavano il giardinetto, ma che in realtà era solo lo spiazzo

asfaltato dove Brutus e Ding tenevano le biciclette. Le faceva piacere essere

fuori di casa, ma non si aspettava di trovare una piccola folla assembrata sul

marciapiede di fronte.

C’era anche il vicino di casa che, non appena li vide, si staccò dal gruppo

per andare loro incontro. Non era stato teso il nastro giallo – nessuno ne

aveva ancora avuto il tempo o forse i poliziotti non lo avevano con sé – e

quindi non c’erano barriere a trattenerlo. A Ding venne in mente che si

chiamava Keegan.

«Non può passare: siamo sulla scena di un crimine. Per favore, torni

dall’altra parte della strada» gli disse Lynley.


Il signor Keegan disse che aveva informazioni da dare alla polizia. Stava

concimando le rose proprio lì, spiegò indicando il giardinetto adiacente, e

aveva visto un uomo correre verso Old Street. Impugnava un bastone o

qualcosa del genere. Keegan non l’aveva visto benissimo in quanto era a una

certa distanza e lui non aveva gli occhiali, ma senza ombra di dubbio aveva

buttato il bastone o cos’era oltre il muretto, nel fiume. Se fossero andati a

controllare, magari l’avrebbero trovato sulla riva, o nell’acqua. «Sono

appassionato di polizieschi, capisce? Insomma, pensavo che potreste ordinare

un sopralluogo alla Scientifica» aggiunse.

Lynley lo ringraziò educatamente. Aveva fornito un utile contributo,

grazie. Avrebbero mandato qualcuno a perlustrare tutta la zona.

Keegan assunse un’espressione soddisfatta, da bravo cittadino che

collabora con le forze dell’ordine per risolvere un caso.

«Come sta Finn? Se la caverà?» chiese Ding, non appena l’uomo fu tornato

sul marciapiede di fronte, probabilmente ad aspettare sviluppi nelle indagini.

Lynley aspettò che Keegan fosse di nuovo in mezzo al gruppo, prima di

voltarsi verso la ragazza. «La mia collega ha promesso di chiamarmi appena

avrà notizie. Mi parli di quello che è successo prima di Natale. Senza

tralasciare nulla.»

«Ma ha detto che Missa...?»

«Dobbiamo raccogliere le diverse versioni dei fatti, Ding. Il sergente

Havers parlerà con Bruce – Brutus – all’ospedale. E con Finn, non appena

sarà in grado di rispondere.»

«Per capire se diciamo la verità?»

«Per avere la maggior quantità possibile di informazioni.»

Ding raccontò quello che ricordava: gli studenti del college erano andati in

massa allo Hart and Hind. Nevicava, faceva un freddo boia, ma Jack

Korhonen – «il proprietario del pub» – aveva acceso le stufe da esterno per

quelli che volevano uscire a fumare e per chi non trovava posto dentro, visto

che non voleva mandare via i clienti. Loro erano arrivati abbastanza presto

per accaparrarsi un tavolo – «Brutus è andato lì un po’ prima» – e Finn li

aveva raggiunti tre quarti d’ora dopo.

«Come siete andati?»

La nonna di Missa aveva chiamato un taxi per via del tempaccio e perché

non avessero problemi a tornare, nel caso fossero stati un filo... alticci.

Voleva che Missa passasse una bella serata, perché studiava un sacco, era


sempre tutta perfettina ed era l’ora che si divertisse un po’. Cioè, Ding la

pensava così, ma anche la signora Lomax era d’accordo.

«Credo che Missa non avesse mai messo piede in un pub» riferì. «Suo

padre è alcolista, mi sa. Lei non ne parla, ma mi sono fatta quest’idea. E una

volta ha detto che anche lo zio ha lo stesso problema. Missa ha paura di finire

come loro e quindi non beve. Nel senso che non tocca alcol.»

«E cos’aveva di diverso quella sera?»

«Volevamo... Cioè, io e Brutus volevamo che si lasciasse un po’ andare.

Era uno scherzo, non pensavamo di... Anche sua nonna pensava che Missa

dovesse mollare un po’ gli ormeggi. Le ha persino detto qualcosa tipo ’e datti

un po’ alla pazza gioia!’ Perché, vede, Missa non faceva altro che studiare e

naturalmente aveva una media stellare. Forse era anche per via del suo

ragazzo, suppongo.»

«Un compagno di college?»

«No, non studia. Sta a Ironbridge. Missa voleva prendersi una pausa,

mentre era qui a Ludlow, ma lui non la lasciava in pace, le telefonava tutti i

giorni, la riempiva di messaggi... Gliene mandava – non so – sei al giorno?»

«E Missa come la prendeva? Glielo ha mai confidato?»

«No, veramente no. So solo che la nonna non era granché contenta che

stessero insieme. Me lo ha detto Missa, una volta che lui l’ha chiamata.

’Meno male che non ero da mia nonna’, mi ha detto. Avevo l’impressione

che i suoi sperassero che incontrasse qualcuno qui, non so. Pensavano che

non avrebbe mai trovato nessun altro, se non si allontanava un po’ da lui,

capisce?» Ding continuava a stringere fra le mani la sacca con i vestiti. A un

certo punto la posò per terra, ma poi la riprese perché aveva bisogno di tenere

le mani occupate. «Comunque, era per questo che io e Brutus volevamo farla

sperimentare un po’. Volevamo che vedesse che ci si può anche divertire, se

ci si lascia andare. Abbiamo deciso che le avremmo fatto assaggiare il sidro.

Le è piaciuto e ci stavamo divertendo, ma Brutus come al solito ha

esagerato.»

«Ovvero?»

«Ovvero continuava a farla bere. Appena finiva un bicchiere gliene

metteva sotto il naso un altro. Quando Finn ci ha raggiunto, si è messo a bere

anche lui – lui però ha preso Guinness, non sidro – e ci siamo stonati come

biglie. È così che ci ha trovato Gaz Ruddock.» Nel ricordare quella sera, Ding

torceva i manici di stoffa della sacca, pensando a come era andata a finire e


alle responsabilità che lei aveva e che avrebbe preferito non avere. «Penso

fosse venuto a controllare Finn perché appena l’ha visto Finn s’è imbestialito.

Poi però Gaz ha visto me e ha notato in che stato ero e mi ha preso per un

braccio dicendo che mi portava a casa da mia madre, così lo vedeva con i

suoi occhi come mi comportavo a Ludlow.»

«Aveva davvero intenzione di accompagnarla a casa o era il suo solito

ricatto, come ci spiegava ieri?»

«A me è sembrato peggio del solito, perché era la prima volta che tirava in

ballo mia madre. Solo che non poteva portare a casa solo me, perché eravamo

in tanti ed eravamo tutti ubriachi marci, e così ci ha caricati in macchina dal

primo all’ultimo. Siccome sul sedile posteriore tutti non ci stavamo, mi ha

fatto sedere davanti e io ne ho approfittato per scappare, appena arrivati sul

Temeside. Gli altri li ha fatti entrare in casa a calci...»

«Anche Missa?»

«Non credo che volesse farsi vedere da sua nonna in quello stato.

Comunque io non lo sapevo, perché sono scappata di corsa più lontano che

potevo. Non volevo che mi costringesse a... capisce?»

«Dove si è rifugiata?»

«C’era la neve e si scivolava, e io mi sono resa conto che se mi avesse

rincorso mi avrebbe raggiunto senza problemi, perciò mi sono nascosta. Ha

presente il negozio di tappeti che c’è lungo la strada?» Indicò la direzione.

«Mi sono nascosta dietro i cassonetti, ma faceva un freddo cane e aveva

ricominciato a nevicare. Ci sarò rimasta, non so, un quarto d’ora? Venti

minuti? Poi non ce l’ho più fatta, non resistevo: sono uscita fuori, ho sbirciato

da dietro l’angolo, ho visto che l’auto di servizio di Ruddock era scomparsa e

sono tornata a casa.»

«E Missa era là, sul divano in salotto.»

«Non lo sapevo!» replicò Ding. «Non ho nemmeno guardato, pensavo che

avesse telefonato al tipo che ci aveva portato a Quality Square all’andata, si

erano già messi d’accordo, le aveva dato il biglietto da visita. Ero convinta

che fosse tornata a casa sua. Perciò sono salita in camera senza neppure

guardare.»

«L’ha vista la mattina dopo, quindi?» domandò Lynley.

«Neanche» rispose Ding. «Non c’era più. Era... A un certo punto doveva

aver telefonato al tassista, penso, perché la mattina quando sono scesa non

c’era.»


Lynley spostò lo sguardo. Fino a quel momento l’aveva fissata con tanta

intensità che Ding aveva avuto l’impressione che le scrutasse nel cervello per

accertare la verità. Mentre Ding aspettava la domanda successiva, davanti alla

casa si fermò un furgone bianco dal quale scesero tre uomini che aprirono il

portellone, tirarono fuori degli indumenti protettivi e li indossarono. Ding

aveva visto abbastanza telefilm per sapere che erano i tecnici della

Scientifica. L’ispettore le chiese di aspettare un momento, andò a parlare con

loro e tornò subito dopo. Subito dopo due operatori in tuta bianca entrarono

in casa con ingombranti cassette di attrezzi, mentre il terzo svolse un rotolo di

nastro giallo, proprio come alla tv.

Poi, quando tutti quelli della Scientifica furono scomparsi dentro la casa,

Lynley riprese il discorso. «Quando è che Missa le ha raccontato che cos’era

successo?» chiese a Ding.

«Qualche giorno dopo. Vedevo che stava male e quando mi ha confessato

di cosa si trattava lì per lì ho pensato che fosse stato Brutus. Era lui che

l’aveva fatta bere così tanto, capisce? Lo sapeva, che si sarebbe ridotta così

eppure... E poi Brutus è uno che ci prova con tutte.»

«A parte questo, cos’altro l’ha indotta a pensare che fosse stato lui?»

Ding abbassò gli occhi. Lo sguardo dell’ispettore era troppo penetrante.

Era un bell’uomo e aveva due occhi che... Non sapeva neanche lei come

descriverli: castani, persuasivi. Cercavano la verità. Rialzò lo sguardo ed

erano ancora lì che la fissavano. «Quando sono salita in camera, era nel mio

letto» disse.

«Brutus?»

«Dormivamo assieme quasi tutte le notti, in quel periodo, era normale.

Appena sono entrata, si è svegliato e voleva fare sesso come al solito. Io non

ci sono stata e lui si è irritato ma poi ci siamo addormentati. Quando dopo un

po’ mi sono svegliata, però... non c’era più. Così, quando Missa mi ha

raccontato, ho pensato che fosse stato lui, ma poi Brutus mi ha spiegato che

era in bagno, che si era sentito male e si era addormentato abbracciato alla

tazza del water e che dopo un po’ l’aveva svegliato Finn urinandogli addosso.

Finn non ha una gran mira, da questo punto di vista. Dice che Finn si era

sganasciato dalle risate. Io però di questo all’epoca non sapevo niente.

Sapevo solo che Brutus non era nel mio letto.»

«Non l’ha cercato?»

«Non mi è nemmeno venuto in mente. Perché avrei dovuto? Ho messo


insieme i pezzi solo dopo che Missa mi ha raccontato tutta la storia. O,

perlomeno, credevo di aver messo insieme i pezzi. In realtà non avevo

nessuna certezza. Missa non sapeva chi era stato.»

«Missa ci ha riferito di averne parlato con il signor Druitt. Si era accorto

che era turbata e l’aveva convinta a confidarsi. In realtà lei non voleva che lo

sapesse nessuno, si sente in colpa. Come mai a lei invece lo ha raccontato?»

«Oh, be’... anch’io, come il signor Druitt, mi sono accorta che era strana. E

poi si sentiva in colpa per il top che le avevo prestato, perché sapeva che mi

era costato una cifra e che ci tengo, ai miei vestiti.»

«Il top che le aveva prestato?» Lynley aveva l’aria confusa.

Ding gli spiegò che aveva prestato a Missa dei vestiti per la serata e che le

aveva dato in anticipo il suo regalo di Natale, un reggiseno di pizzo. Le

mutandine e i collant erano di Missa, ma gonna e maglia erano di Ding. «Non

aveva niente di carino da mettersi, nel senso che non lo possedeva proprio. E

così le ho prestato qualcosa io. Lei sa che compro i vestiti con i miei soldi da

quando ho undici anni e che ci sto attenta e li tratto con cura. Quando me li

ha restituiti piangeva, perché il top era strappato.»

«E le ha spiegato come mai.»

«Era così... Non lo so. Era troppo disperata, capisce? Non poteva essere

solo per una maglia che si poteva comunque rammendare. Io gliel’ho detto,

che si poteva riparare, ma lei continuava a piangere, a singhiozzare, e così le

ho chiesto cos’aveva. Gliel’ho chiesto talmente tante volte che alla fine me

l’ha detto. Ma mi ha supplicato in ginocchio di non dire niente a nessuno

perché... Si sentiva umiliata. La capivo, mi sarei sentita così anch’io. Gliel’ho

promesso e ho nascosto i vestiti nell’armadio chiedendomi se era stato Brutus

a... capisce? Poi Missa è andata a parlare con il diacono e lui le ha chiesto i

vestiti perché voleva farli analizzare e io... mi dispiace: ho mentito. Perché

non... cioè, se era stato Brutus, ci sarei rimasta malissimo. Preferivo non

saperlo. E così le ho raccontato una palla e lo so, ho sbagliato, però ormai

l’ho fatto. Le ho detto che avevo buttato via il top e che la gonna l’avevo

macchiata e portata in lavanderia.»

«E non era vero.»

«No. Avevo tenuto tutt’e due: sia la gonna sia il top. E un giorno che ho

litigato con Brutus, glieli ho tirati addosso.»

«E lui che cosa ne ha fatto? Li ha tenuti, che lei sappia?»

«Non lo so. Quando glieli ho tirati, eravamo in camera sua.» Non aveva


voglia di raccontare il resto, perché si vergognava di come erano stati per

molto tempo i rapporti fra lei e Brutus, ma se lo impose. «Vede, Brutus si era

portato a casa una che si è fermata a dormire in camera sua. Era la prima

volta che lo faceva. Io lo stavo proteggendo, benché temessi che fosse stato

lui, e lui si scopava... pardon... si portava a casa un’altra, sotto i miei occhi?

Ero indignata e così ho preso i vestiti, ho bussato alla sua porta e glieli ho

lanciati, gridandogli che l’avevo protetto, che non l’avevo denunciato e lui in

cambio... Non so cosa ne ha fatto. Li avrà buttati via.»

Lynley annuì. Guardò la casa, poi controllò l’ora su una cipolla vecchia

come il cucco. «Mi porti in camera di Brutus, per favore» disse.

Ding lo accompagnò.

Royal Shrewsbury Hospital

Shelton

Shropshire

Finn venne trasferito in reparto dal pronto soccorso e Trevor informò la

moglie che avrebbe trascorso la notte al capezzale del figlio. Erano le dieci di

sera. Disse a Clover che uno dei due doveva riposare ed essere lucido nel

caso il mattino dopo i medici li avessero messi davanti a scelte terapeutiche

importanti. L’avrebbe avvertita al minimo cambiamento delle condizioni di

Finn. E le avrebbe telefonato non appena avesse ripreso conoscenza. Secondo

i dottori, tuttavia, era improbabile che ciò avvenisse in tempi brevi. Quanto

alla prognosi a lungo termine, era possibile che Finn avesse dei vuoti di

memoria, ma avrebbero valutato meglio una volta che si fosse svegliato e

comunque sarebbe stata probabilmente una cosa temporanea.

Clover all’inizio non voleva andarsene, ma Trevor pian piano la persuase

che era meglio così. Lei però chiese che la stanza fosse piantonata, nel caso

l’aggressore ci avesse riprovato e Trevor acconsentì, benché non gli

sembrasse necessario. C’era poi il rischio che la poliziotta londinese fosse

ancora in giro per l’ospedale, e Trevor non voleva che disturbasse Finn.

Clover se ne andò in preda a un’ansia esagerata, ma Trevor si disse che era

comprensibile. In quel momento non poteva prendere in considerazione

eventuali altri motivi per lo stato di angoscia della moglie perché non voleva

che dalla sua espressione emergesse altro che premura per la stanchezza che


la opprimeva e la necessità che almeno uno di loro fosse in condizioni di

prendere eventuali decisioni cruciali. In realtà il suo scopo era rimanere solo

con Finn, nel caso avesse riacquistato conoscenza. Stava ancora cercando di

fare i conti con un concetto di cui Clover sembrava apparentemente convinta:

che Finn fosse capace di violentare una ragazza.

Prima che avessero il permesso di vedere Finn, Trevor le aveva chiesto di

spiegargli nel dettaglio tutto ciò che sapeva a proposito del presunto stupro e

quindi aveva appreso che i tre ragazzi che dividevano la casa erano andati a

bere in un pub del centro, quella sera fatidica di dicembre, dopo gli esami, ed

erano stati riaccompagnati da Gaz Ruddock perché erano ubriachi fradici.

Una di loro, Dena Donaldson, era scappata a piedi e più tardi un’altra ragazza

era stata aggredita mentre dormiva sul divano. «Capisci perché sono

preoccupata, adesso?» aveva ribadito Clover al termine del racconto.

Le aveva risposto che sì, capiva, ma a suo parere Finn non era tipo da fare

una cosa del genere. Allora Clover aveva alzato le mani in segno di resa e si

era rifiutata di aggiungere altro.

Trevor guardava Finn nel silenzio della stanza. Le ore passavano lente

senza che succedesse nulla. Ogni tanto entrava un infermiere a controllare i

segni vitali del ragazzo e a un certo punto arrivò il piantone, una donna che si

affacciò sulla soglia per dirgli che era tutto a posto e poi si mise di guardia

fuori della porta. Trevor non capì a cosa si riferisse, ma non chiese

chiarimenti. Solo con i propri pensieri, rifletté su eventuali indizi del fatto che

Finn avesse lati a lui del tutto sconosciuti.

Il ragazzo riprese conoscenza poco dopo le quattro del mattino. Trevor

sonnecchiava sulla sedia accanto al letto, nella stanza buia, ma si svegliò di

colpo sentendo il figlio che mormorava: «Mamma?» Balzò in piedi, accese la

luce e prese il bicchiere sul comodino.

«Ciao, Finn» disse. «La mamma è andata a casa a riposare. Hai sete?»

«Sì.» Finn prese la cannuccia e svuotò il bicchiere. «Grazie» sussurrò.

Dopo un momento, con una voce stanca e impastata che a Trevor ricordò il

figlio bambino, Finn chiese: «Chi era quel tipo, pa’?»

«L’uomo che ti ha aggredito? Non lo sappiamo.»

«Ho sentito... un casino...» Finn aveva le labbra secche e screpolate e

Trevor si ripromise di comprargli del burro di cacao. Chissà se c’era un

negozio dentro l’ospedale. «Sul momento ho pensato che fosse il padre di

qualche ragazza... che ce l’avesse con Brutus perché...» Si interruppe. «Mi


dai dell’altra acqua?»

«Vado subito a prendertela. Prima finisci quello che stavi per dire.»

«Credevo... magari Brutus alla fine si era fatto la tipa sbagliata e adesso il

padre si stava rifacendo su di lui... su Brutus.»

«Brutus è uno così?»

«È uno che scopa in giro. Oh, scusa, pa’. Comunque sì, per lui basta che

respirino.»

«Consenzienti o...?»

Finn aggrottò la fronte. Aveva un occhio chiuso e la testa bendata. Oltre al

trauma cranico, aveva una clavicola fratturata per la quale non si poteva fare

nulla a parte aspettare che si saldasse, una frattura alla spalla e una al polso.

Mosse la testa e fece una smorfia. «Che io sappia, non ha mai... cioè, sì,

consenzienti. Non so cos’ha, ma gli ronzano tutte attorno. Mi dai l’acqua?»

Trevor andò a riempire il bicchiere. Lasciò scorrere l’acqua nel lavabo in

preda a mille pensieri, verità, menzogne, azioni e reazioni. Rifletté anche

sulle proprie riflessioni, poi tornò dal figlio e lo aiutò a bere.

«Finn, prima delle vacanze di Natale è successo qualcosa a casa vostra» gli

disse.

Finn appoggiò la testa sul guanciale e chiuse gli occhi. «Cosa?» Sembrava

assonnato.

«È stata violentata una ragazza mentre dormiva ubriaca sul divano di casa

vostra.»

«Ding?»

«No, una sua amica. Eravate usciti insieme e lei non voleva tornare a casa

nello stato in cui era. Ti ricordi?»

Finn parve cercare nella memoria. «Non poteva essere Ding. A quanto ne

so, le scale di casa riesce sempre a farle. E quando era troppo ubriaca, la

aiutava Brutus» osservò poi. Rimase un istante zitto. «Dormivano insieme, in

quel periodo. Prima che Brutus ricominciasse ad andare con le altre. Non

resiste. Ed è irresistibile» aggiunse.

«Hai capito a quale sera mi riferisco? Ti ricordi di una ragazza che si è

fermata a dormire sul vostro divano?»

Finn non riaprì gli occhi, benché Trevor lo esortasse mentalmente a farlo.

La stanza era immersa nella penombra, ma era convinto che, se fosse riuscito

a guardare il figlio negli occhi, avrebbe capito la verità. E comunque già la

sapeva, no? Finn non avrebbe mai... non era capace di... non era il tipo,


qualunque cosa ne pensasse sua madre.

«Quale sera?» sussurrò Finn.

«Quella sera di dicembre in cui siete usciti, avete bevuto troppo, siete stati

accompagnati a casa in macchina, Ding è scappata a piedi e una sua amica si

è fermata a dormire da voi. Sei tornato a casa con lei. Ding non c’era, ma la

sua amica era con te.»

«Forse» rispose Finn con un filo di voce. Si stava addormentando.

Trevor gli toccò la spalla sana. «Prima delle vacanze di Natale, Finn. Ti

ricordi?»

Il ragazzo annuì. Disse «Natale» e nient’altro.


24 MAGGIO

Ironbridge

Shropshire

Yasmina aprì gli occhi alle cinque, due ore prima della sveglia, e si ritrovò

sola in casa come la sera precedente. Verso le otto e mezzo aveva appreso da

Rabiah che Missa sarebbe rimasta a dormire da lei a Ludlow e non si

aspettava che Sati tornasse da sola, senza che la sorella andasse a riprenderla.

Pensava che Timothy a una certa ora rientrasse, magari anche molto tardi, ma

non era stato così.

Chiamò Rabiah nonostante l’ora. Forse anche Timothy era andato a

dormire da lei. Ma Timothy non era da sua madre e Rabiah, scoprendo che la

nuora non aveva più sue notizie, rispose con un tono dal quale si capiva che

stava pensando agli scenari peggiori: guida in stato di ebbrezza, incidente

mortale, overdose di oppiacei e quant’altro.

«E Missa? Come sta Missa?» chiese Yasmina. «La polizia l’ha trattata

bene? Era molto provata?»

«Sono stati abbastanza gentili. È stato meno traumatico rispetto a quando

l’ha raccontato a te e a Tim.»

«Le dici che ho chiamato, per favore? Mi dispiace così tanto per... Non so,

mamma. L’ho messa in una situazione difficile con il mio...»

«L’unico colpevole è l’uomo che l’ha violentata, Yasmina. Ma ci

dobbiamo preparare a...»

Dall’esitazione della suocera Yasmina dedusse che il giorno prima era

successo qualcos’altro di cui era riluttante a parlare, perciò insistette. «Se ci

sono novità, mamma, me lo devi dire. Mi sembra di capire che ci sono stati

degli sviluppi. Sono così preoccupata per Timothy! Se è qualcosa che ha a

che vedere con lui, per favore, dimmelo.»

Rabiah ammise che era passato un agente a chiedere una foto di famiglia, e

in particolare una foto in cui si vedesse bene la faccia di Tim. Lei aveva


domandato a cosa gli servisse e l’agente le aveva risposto che lo ignorava,

che stava semplicemente eseguendo gli ordini.

«Non potevo non dargliela» disse. «Ma ho preteso di sapere dove la

portava e mi sono accorta che nicchiava. Yasmina, mia cara...» Non proseguì

la frase, ma Yasmina ebbe la netta sensazione che Rabiah sapesse per quale

motivo la polizia aveva voluto una foto di Timothy.

«Deve aver combinato qualcosa» disse.

Dopo la telefonata, si vestì per andare a lavorare, perché non sapeva

cos’altro fare. Aveva le mani legate. Se fosse andata da Sati, la figlia le

avrebbe chiesto di Missa e Yasmina non aveva né le energie né la fantasia per

inventarsi una scusa. Finché lei non fosse riuscita a scoprire qualcosa di più,

la sua figlia minore avrebbe dovuto fare appello alle proprie risorse interiori e

affrontare la giornata da sola.

Era giunta da poco a questa conclusione, quando arrivò Justin per rivelarle

ciò che Yasmina già sapeva, ovvero che Missa il giorno prima non si era

presentata al lavoro e non era tornata a dormire a casa.

«È venuta su a vestirsi» riferì a Yasmina. «Sua nonna pretendeva che

venisse a parlare con lei, signora Lomax, e Missa ha pensato di non poter

rifiutare. Dopo di che non è più tornata a casa.»

«È a Ludlow» gli disse Yasmina.

«Perché? Aveva gli occhi rossi, quando è salita a cambiarsi, aveva pianto...

Gliel’ho chiesto, ma lei non mi ha voluto dire perché e io vorrei sapere che

cosa le avete fatto, perché a me ha detto che doveva parlare con lei, signora

Lomax, e guardi, lo so che lei è contraria al matrimonio. Sono stato un

cretino anche solo a pensare che... Voglio sapere dov’è Missa.»

«Da sua nonna.»

«State cercando di separarci, vero? Missa lo dice sempre, che lei farebbe

qualsiasi cosa per impedirle di sposarmi, che sarebbe capace persino di

mandarla in India.»

«Non è vero.»

«Le ho telefonato una marea di volte, quando ho visto che non si è

presentata al lavoro, ma non mi risponde. Le avete sequestrato il cellulare?»

Yasmina percepì una sensazione di pericolo davanti a quel ragazzo grande

e grosso, animato da una collera che lei sapeva legittima. «Ti do il numero di

Rabiah. Chiamala e vedrai che...» gli disse.

«Non mi basta. Voglio sapere che cosa è successo.»


«Te lo dirà Missa. Io non posso: ho già commesso fin troppi errori. Mi

sento responsabile e mi scuso. Ti chiedo perdono, Justin.»

Justin si placò immediatamente. «Io la amo! Tornerà?» disse in tono

sommesso.

«Penso proprio di sì.»

«Non ne è sicura?»

«Non sono sicura di nulla. Ti do la mia parola, e posso capire che non ti

basti, ma è il massimo che posso fare.»

Per il momento era sufficiente. Justin si accontentò della parola di Yasmina

e andò a Blists Hill a lavorare dicendo che avrebbe provato a chiamare

Rabiah e che avrebbe insistito finché lei non avesse risposto.

Quaranta minuti dopo, Yasmina sentì un’auto fermarsi di fronte a casa e

corse alla finestra in tempo per vedere Timothy che scendeva ed esitava un

istante, appoggiando la testa sul tetto.

Yasmina andò alla porta e la aprì contemporaneamente a lui. Si ritrovarono

di fronte, uno sullo scalino, l’altra nel silenzio dell’ingresso. Pur desiderando

con tutta se stessa di non trovarle, Yasmina cercò delle tracce di sangue, e le

notò sulla spalla sinistra e sulla manica destra della camicia.

«La polizia è andata da tua madre» gli disse. «Volevano una tua foto.»

Timothy aveva l’aria distrutta. «Ho sistemato la faccenda.» Si diresse verso

le scale.

Lei gli si parò di fronte. «Che cos’hai fatto?» chiese.

«Te l’ho appena detto.»

«Dimmi la verità, Tim: hai fatto del male a qualcuno?»

Lui le rivolse uno sguardo così sprezzante che Yasmina arretrò di un passo.

«Non quanto ne hanno fatto loro a Missa» fu la sua risposta. La spinse da

parte e salì di sopra.

Yasmina chiuse la porta d’ingresso. Sentì Tim entrare in bagno e poi

l’acqua scrosciare nel lavabo per un tempo troppo breve perché avesse fatto

nulla di più che riempire il bicchiere che teneva sempre accanto al rubinetto

dell’acqua fredda. Salì di corsa: sapeva perfettamente che cosa aveva in

mente di fare suo marito e giurò a se stessa di impedirglielo. Dovevano a tutti

i costi parlare.

Arrivò troppo tardi: Timothy era riuscito a procurarsi altre pasticche e ne

aveva due nel palmo. Lei gliele fece cadere di mano. «Parlami!» gridò.

Per tutta risposta, Tim se ne fece scivolare nel palmo altre due e strinse il


pugno in maniera che Yasmina non riuscisse a togliergliele.

«Abbiamo già parlato abbastanza» le disse. E si cacciò in bocca le

pasticche. Le mandò giù e se ne andò.

Yasmina lo seguì in camera da letto. «Perché lo fai, Tim? Ci è morta una

figlia, un’altra è stata violentata, la terza ha paura a tornare a casa e tu? È

questo che fai? Ti prego, ti scongiuro. Ho bisogno di te. Abbiamo tutte

bisogno di te e tu... È questa la tua risposta?» urlò.

Timothy rimase zitto. Lasciò che il silenzio si prolungasse nella speranza

che lei si rendesse conto di ciò che aveva appena detto. Ma Yasmina non

poteva riascoltare le proprie parole: una volta pronunciate, non esistevano

più. Il problema del parlare era questo.

«Tu pensi che tutto quanto sia iniziato con Janna.» Timothy fece un gesto

in direzione del bagno e Yasmina capì che si riferiva alle pasticche. «Ti illudi

che fino alla sua malattia andasse tutto liscio. Secondo te, non l’abbiamo

gestita bene. E ancor meno la sua morte, vero?»

«Tu hai fatto di tutto per ottundere i tuoi sentimenti. Continui a far di tutto

per non sentire niente.»

«No, Yasmina» ribatté lui. «Non ho fatto di tutto. Non ho fatto un bel

niente. Ma tu ne sei convinta, perché secondo te c’è un unico modo per

gestire il lutto, cioè il tuo. Tutto quello che non va nella nostra famiglia, tra

te, me e le ragazze, deriva dal fatto che tu sei convinta di poter controllare

misticamente ogni aspetto della tua vita, compresi noi e le cose che ci

succedono.»

«Quello che dici è terribile, tenuto conto che ho dedicato la mia vita solo

ed esclusivamente a...»

«A manipolare il prossimo. Tu non ci consideri persone, Yasmina. Per te

siamo pezzi da muovere sulla scacchiera della tua vita. E tu non puoi

prenderne coscienza, perché allora ti toccherebbe fare quello che predichi a

me, e che mi accusi di non fare, ovvero affrontare la sofferenza, il lutto e...

non so cosa... forse ululare alla luna per protestare contro il destino crudele.»

«Dai pure la colpa a me. Usami come capro espiatorio. Se la colpa è mia,

per te è più facile abbandonarci senza rimorsi.»

Timothy si accigliò, si passò una mano sulla fronte e vi batté le dita.

«Yasmina, non stavo cercando di attribuire colpe all’uno o all’altra: stavo

dicendo le cose come stanno.» Andò verso il letto e si sdraiò, dandole la

schiena. Un minuto dopo dormiva.


E così Yasmina si ritrovò sola, con le recriminazioni, le accuse e i sensi di

colpa come unica compagnia.

Ludlow

Shropshire

Quella mattina, quando Lynley gli telefonò, Ruddock chiese subito dei

ragazzi. «Ieri è passato alla stazione di Ludlow un collega di Shrewsbury che

aveva bisogno di usare un computer» spiegò. «E mi ha raccontato cos’è

successo. Ho provato a contattare i Freeman una miriade di volte, ma non

rispondono. Come stanno i due ragazzi? Finn?»

«Il sergente Havers è stata in ospedale con i genitori tutto il pomeriggio»

rispose Lynley. «I genitori di Finn. Vorremmo parlare con lei.»

«Oddio! Non penserete che li abbia pestati io, vero?»

«L’aggressore è stato riconosciuto, e aveva un movente. O almeno,

riteniamo che fosse convinto di avere validi motivi.»

«E cioè?»

«Proprio di questo le vorremmo parlare. Veniamo da lei? Non è un

problema.»

No, no. Ruddock diede loro appuntamento alla stazione di polizia come le

altre volte. Se potevano concedergli una mezz’oretta...

Un quarto d’ora, replicò Lynley. Altrimenti sarebbero andati a casa sua.

Poteva dargli l’indirizzo?

Un quarto d’ora andava bene, rispose Ruddock. Al telefono si era

comportato normalmente, rifletté Lynley: aveva ammesso di aver provato a

contattare i Freeman, aveva parlato con disinvoltura dei ragazzi, era stato

disponibile.

Il giorno prima, quando gli operatori della Scientifica avevano dato loro il

via libera, Lynley e Dena Donaldson erano entrati in camera di Bruce Castle

a cercare la gonna e la maglia che lei gli aveva lanciato. Bruce si era limitato

a spostarle con un calcio sotto il letto. Purtroppo era un posto pieno di

polvere e di sporcizia. Ma la cosa peggiore era che erano passati mesi da

quando Missa Lomax le aveva indossate e nel frattempo erano rimaste

nell’armadio di Ding senza alcuna protezione ed erano state toccate sia da

Ding sia da Brutus, anche se solo con i piedi. Lynley però aveva comunque la


sensazione che potessero tornare utili, perciò le aveva infilate in una busta

gentilmente fornitagli dalla Scientifica.

Intanto era tornato l’agente con la foto di famiglia recuperata a casa di

Rabiah Lomax e Lynley l’aveva mostrata a Ding, la quale aveva riconosciuto

nel padre di Missa l’aggressore di Finn e Brutus. «Devo dire che l’ho visto...

non so... cinque secondi?» aveva precisato. Le avevano spiegato che l’uomo

sarebbe stato comunque identificato attraverso le impronte digitali che aveva

lasciato sull’attizzatoio e sulla porta d’ingresso in modo che non si sentisse

responsabile in prima persona dell’arresto e lei aveva annuito. «Mi dispiace,

capite» aveva detto.

Poi era venuta a prenderla sua madre per riportarla a Much Wenlock.

«Ding! Oh, Ding! Se penso che anche tu potevi essere...» era entrata

gridando. L’aveva abbracciata e baciata e accompagnata alla macchina

rivolgendo a Lynley un «Grazie!» sentito, come se avesse salvato la vita di

sua figlia, quando in realtà era stata proprio Ding a evitare tragedie peggiori.

Se non fosse rincasata all’ora in cui era rincasata, uno dei due ragazzi molto

probabilmente sarebbe morto.

Lynley a quel punto era tornato in albergo ad aspettare Barbara. Aveva

bisogno di riflettere con calma. Sicuramente le valutazioni di Barbara erano

corrette, ma in assenza di prove concrete sarebbe stato difficile inchiodare

Ruddock alle proprie responsabilità.

Quando Barbara era tornata da Shrewsbury, gli aveva riferito le

informazioni raccolte in ospedale. Non erano molte, visto che Finnegan

Freeman non aveva ancora ripreso conoscenza. Brutus era riuscito a

descrivere l’uomo che aveva incrociato uscendo da camera sua per andare nel

bagno. «Corrisponde a Timothy Lomax» aveva commentato Lynley.

Le aveva spiegato che Ding aveva riconosciuto Lomax in una foto e che,

grazie a un vicino, un buon osservatore, di nome Keegan, avevano recuperato

l’attizzatoio con cui erano stati picchiati i due ragazzi. Era stato buttato oltre

l’argine del Teme, vicino al Ludford Bridge. La Scientifica stava rilevando le

impronte.

Aveva deciso con Barbara di dormirci su e di riparlarne il mattino dopo. Il

programma era andare alla stazione di polizia per capire come mai dai test

sulla biancheria della ragazza violentata non era risultato nulla.

Lynley e Barbara si presentarono perciò all’appuntamento che Lynley

aveva fissato con Ruddock per telefono. L’ausiliario arrivò pochi minuti dopo


di loro. Era elegante e curato come al solito e aveva l’aria riposata.

Lynley prese dalla macchina la busta della Scientifica e notò che Ruddock

la adocchiava curioso, ma non diceva nulla. Li salutò con un cenno del capo e

aprì la porta della stazione di polizia. «Un caffè?» chiese.

Accettarono entrambi. Sarebbe stata l’occasione per osservare l’ausiliario.

Se non l’avesse offerto lui, glielo avrebbero chiesto.

Andarono nella vecchia cucina, dove c’erano due sedie soltanto. Lynley

posò su una la busta con le prove e Barbara appese la borsa allo schienale

dell’altra. «Vado a cercare una sedia» disse, e si diresse verso la stanza in cui

era morto Druitt per recuperare la poltroncina con le rotelle. Tornò

spingendola con i guanti di lattice, come le aveva raccomandato l’ispettore.

Ruddock era intento a versare il caffè in polvere nei mug e a sistemare le

bustine di zucchero e di latte liofilizzato. «Latte fresco purtroppo non ne ho»

disse con un sorriso. Si voltò e, vedendo Barbara con i guanti, tornò subito

serio.

«Non è il caso di strafare, sergente» ammonì Lynley in tono severo.

«Impronte digitali, DNA, prove materiali...» replicò Barbara risoluta. «Se è

stato seduto qui, qualche prova ci sarà per forza, no?»

«Si riferisce a Ian Druitt? Non è mai stato seduto lì. Era sulla sedia di

plastica nell’ufficio. Ve l’ho detto, quando mi avete chiesto spiegazioni sulle

fotografie scattate dalla Scientifica» chiese Ruddock.

«Non ora» disse Lynley a Barbara.

«E quando?» protestò Barbara. «Ora che abbiamo visto i graffi sul

linoleum e abbiamo acquisito nuove informazioni non ha più senso aspettare,

ispettore.»

«Posso chiedervi di cosa state parlando?» Ruddock sembrava turbato.

«Si sieda, per cortesia» disse Lynley a Barbara. «Una cosa per volta.»

Lei sbuffò. «Come al solito.» E si sedette sulla seggiola di plastica, non

sulla poltroncina. Prima, però, prese dalla borsa taccuino e matita. Lynley

spostò la busta dalla sedia al tavolo. Ruddock vi posò gli occhi un istante, poi

distolse lo sguardo.

«È successo qualcosa? Se volete che vi aiuti, dovete spiegarmi cosa. Io so

solo che ieri Finn Freeman e il suo amico...» disse.

«Brutus» intervenne Barbara. «Un tizio gli è entrato in casa urlando che gli

aveva stuprato la figlia e gli ha spezzato il braccio. Era convinto che fosse

stato uno dei due ragazzi, o lui o Finn.»


«E perché lo pensava?»

«Perché sua figlia è stata stuprata nel loro salotto.»

«Oggesù! E quando?»

«A dicembre, dopo gli esami. Quality Square era piena di ragazzi ubriachi

fradici e i residenti avevano protestato per via degli schiamazzi. Lei è

intervenuto e ha accompagnato a casa Finn e i suoi amici. Non se lo ricorda?»

«Sa quante volte avrò accompagnato a casa quei ragazzi, dall’autunno

scorso? Almeno dieci. Se dicono che li ho riportati a casa anche una sera di

dicembre, sarà vero» disse Ruddock.

«Ma quella sera le cose sono andate diversamente» disse Lynley. «Ding è

scesa dalla macchina ed è scappata a piedi. Dena Donaldson. E sull’auto di

servizio sono rimasti Finn, Brutus e una loro amica che non abitava lì sul

Temeside, ma non voleva presentarsi a casa in quello stato. È lei che è stata

violentata quella sera. Lo ha confidato soltanto a Ding, almeno all’inizio.

Prego, si sieda, agente Ruddock.»

«E il caffè?»

«Posso farne a meno, grazie. Lei, Barbara?»

«Anch’io.» Batté la matita sul taccuino aperto a una pagina bianca.

Ruddock non versò il caffè nemmeno per sé. Forse gli tremavano le mani e

non voleva che lo notassero. «Mi siedo anch’io, allora» e si accomodò sulla

poltroncina, che si mosse sul pavimento. Per fermarla, puntò i piedi per terra.

«Ecco perché era meglio quella di plastica» disse Barbara a Lynley,

indicando i piedi di Ruddock. «Ma questo l’avevamo già capito, vero?»

«Vero» rispose Lynley.

Ruddock rimase zitto. Batteva un piede per terra, ma quando si rese conto

che Barbara lo stava fissando, smise subito. «Avrei da fare. Per che cosa siete

venuti, esattamente?» disse.

Che faccia tosta! pensò Lynley, ma disse: «Oltre che con Ding, la ragazza

ha parlato dello stupro subito anche con Ian Druitt. Lo ha incontrato un certo

numero di volte».

«Sette» precisò Barbara.

«Il diacono ha impiegato un po’ prima di capire che cosa era successo,

perché la ragazza lo vedeva per un’altra questione. Dopo la violenza, aveva

deciso di abbandonare gli studi. Non voleva più tornare a Ludlow per la

sessione primaverile. I genitori hanno cercato di dissuaderla, ma il suo

profitto stava calando vertiginosamente e per una serie di circostanze che non


sto qui a riferirle la ragazza è finita a parlare con Druitt.»

Ruddock annuì. «Capisco: era un’ottima guida spirituale, a quanto

dicono.»

«Mmm. Già.» Lynley prese la busta e la posò per terra.

Intervenne Barbara. «Abbiamo parlato con la ragazza, Gary. Le abbiamo

parlato ieri. È stata dura per lei, ma alla fine si è decisa a raccontare tutto ai

genitori e ciò le ha reso meno difficile parlare anche con noi. Da quando è

stata stuprata a quando si è confidata con Druitt sono passati dei mesi e ormai

pensavano tutti che le prove fossero andate a farsi benedire, addosso a lei non

era rimasto niente e se fosse rimasto qualcosa di compromettente nel

frattempo si sarebbe contaminato. Solo che, vede, quella ragazza non aveva

mai bevuto in vita sua e si vergognava, pensava di essersela andata a cercare.

E così ha voluto conservare un souvenir di quella sera, anche se forse più che

un souvenir per lei era uno di quei cosi con cui si lacerano le carni i fanatici

religiosi, come si chiama?»

«Un flagello?» replicò Lynley, senza smettere di fissare Ruddock. «Un

cilicio?»

«Esatto» rispose Barbara. «In senso metaforico, ovviamente. Anche

perché, se ti flagelli la schiena come fa certa gente e vai in giro con la

maglietta macchiata di sangue prima o poi qualcuno se ne accorge.

Comunque. Questa ragazza ha conservato la biancheria intima così com’era,

senza lavarla. L’ha messa in un cassetto e, anche se non l’ha detto

esplicitamente, secondo me ogni tanto la tirava fuori per ricordarsi di quanto

era stata puttana, sgualdrina o quello che è. Ci sono ragazze che lo fanno, sa?

E questa ragazza aveva ricevuto un’educazione assai severa.»

«Ha consegnato la biancheria a Ian Druitt per farla analizzare» continuò

Lynley. «Ma lui le ha riferito che non era emerso nulla.»

«In questo modo si spiegherebbero le telefonate intercorse fra voi» disse

Barbara. «Dato che Druitt era un uomo retto, di certo voleva impedire allo

stupratore di farla franca e così le telefonava per sapere l’esito dei test. Lei lì

per lì gli avrà risposto che non era ancora arrivato, che ci voleva tempo, ma

lui non mollava l’osso, vero Gary? E così a un certo punto gli ha dovuto dire

che sì, i test erano stati effettuati, ma purtroppo non c’era nulla. E siccome lei

è un esponente delle forze dell’ordine – un poliziotto a tutti gli effetti – Ian

Druitt si è fidato, le ha creduto. Questo voleva dire che o la ragazza si era

inventata tutto per chissà quale ragione, oppure lo stupro c’era stato ma non


ne restava traccia. Sia in un caso che nell’altro, se la faccenda fosse diventata

di dominio pubblico, sarebbe stata la parola della ragazza contro quella dello

stupratore. Se non c’erano le prove, come dice giustamente lei...»

«A Ian Druitt, però, questa ragazza ha taciuto una cosa» proseguì Lynley.

«E cioè che la biancheria che indossava quella sera era sua, ma i vestiti no. E

la persona che glieli aveva prestati li ha conservati religiosamente per tutti

questi mesi e ieri ce li ha consegnati.» Toccò la busta con la punta delle dita.

«Siamo certi che ci sia ancora il DNA dello stupratore» disse Barbara. «Lei

che cosa ne pensa, Gary? Ci piacerebbe sentire la sua opinione. Abbiamo

capito alcune cose interessanti riguardo alla morte di Ian Druitt, a proposito.

Lascio a lei la parola, ispettore.»

Lynley lesse a Ruddock i suoi diritti in tono formale. L’agente non reagì,

salvo stringere un po’ di più i braccioli della poltroncina girevole.

«Ian Druitt sapeva dello stupro e sapeva che gli indumenti erano stati

conservati. Li ha consegnati a lei, agente, contando sul fatto che lei svolgesse

il proprio dovere» spiegò Lynley.

«Che consisteva nel protocollare il materiale probatorio e mandarlo ai

laboratori perché venisse sottoposto agli esami del caso» chiosò Barbara.

«Esami che avrebbero dimostrato...»

«Dovevo proteggerlo» la interruppe Ruddock. «Mi era stato chiesto di

proteggerlo. Avrei perso il lavoro, altrimenti.»

«Sta parlando di Finnegan Freeman?» domandò Lynley.

«Lei me l’aveva chiesto espressamente, quando Finn è venuto a stare a

Ludlow: voleva che lo tenessi d’occhio. Cosa potevo fare? Dire di no al

vicecomandante? Cosa avreste fatto voi al mio posto? Vi sareste rifiutati?

Non credo. E così, quando ho scoperto che... quando Druitt mi ha raccontato

cos’era successo in quella casa... Ho fatto quello che ho potuto.»

«E cioè?» chiese Lynley.

«L’ho detto al vice. Le ho riportato quello che mi era stato riferito,

specificando che, per quanto ne sapevamo, non era vero niente, la ragazza si

era inventata tutto. L’ho fatto presente anche a Druitt, la prima volta che me

ne ha parlato. Gli ho detto che quei ragazzi io li conoscevo, che mi sembrava

impossibile che fosse vero. Magari la ragazza si era arrabbiata per qualche

motivo e voleva vendicarsi. Gli ho consigliato di parlarne con lei e quando la

volta dopo il diacono mi ha consegnato mutandine e collant, ho capito dove

voleva andare a parare.»


«E quindi l’ha messo a tacere per sempre?»

«Ma no, figuratevi! Non mi è nemmeno venuto in mente! Ho pensato che

bastava far sparire le prove, e infatti le ho consegnate ed è finita lì. Lei però

credeva che non fosse sufficiente. Voleva evitare che si scoprisse che cosa

aveva fatto Finn a quella ragazza ubriaca. Peccato che Druitt lo sapesse già,

però. E quindi...»

«E quindi lei, Ruddock, l’ha tolto di mezzo» concluse Lynley.

«No! Giuro su Dio! Non gli ho torto un capello! Mi sono limitato ad

andare a prelevarlo alla chiesa di St. Laurence e portarlo qui in stazione. Poi

però sono uscito a telefonare e quando sono tornato l’ho trovato morto.»

«Dimentica la sacrestia» rimarcò Barbara.

Ruddock si passò la lingua sulle labbra e cominciò a battere nervosamente

il piede destro. Come prima, appena se ne rese conto, smise. «La sacrestia?»

«Ian Druitt si è levato i paramenti davanti a lei, giusto?» disse Lynley.

«Non è colpa mia se lui ne ha approfittato per infilarsi in tasca...»

«È lei che si è infilato in tasca la stola, Gary» intervenne Barbara. «E forse,

se fosse andato in chiesa un po’ più spesso, non avrebbe fatto questa figura da

perfetto idiota.»

«Va bene così, sergente» la riprese con garbo Lynley. Poi si rivolse a

Ruddock. «Ha preso la stola sbagliata. I colori hanno un significato ben

preciso. Ian Druitt non si è portato via la stola che indossava quel giorno,

perché era Quaresima e la stola sarebbe stata viola. La stola con cui è stato

strangolato, invece, è rossa.»

Silenzio assoluto. A quel punto Ruddock avrebbe potuto comportarsi come

un animale in trappola, invece rimase impassibile. Evidentemente aveva altre

carte da giocare. Ignorava però che anche Lynley aveva un asso nella manica.

La porta che dava sul parcheggio si aprì e Lynley fece un cenno a Barbara,

che si alzò e andò a vedere.

«È lei che ha insistito» spiegò Ruddock mentre Barbara era fuori. «Non

sentiva ragioni. Dopo che le ho detto che Druitt aveva scoperto quello che era

successo quella sera, che glielo aveva riferito la ragazza stessa... È stata lei a

tirare in ballo le prove e così ho detto al diacono che senza le prove non si

poteva fare niente. Lui allora è tornato dalla ragazza e me le ha portate. Non

potevo non dirlo al vice, a quel punto. Se fossi stato zitto, Finn sarebbe stato

arrestato e processato e condannato e avrebbe avuto la vita rovinata per un

errore di gioventù. Grave, certo, però... La ragazza avrebbe dimenticato, no?


Certo, era stata una brutta esperienza, ma dopo un po’ l’avrebbe superata e, se

fosse stata zitta, nessuno... Insomma, a me dispiaceva che Finn finisse in

galera, bollato a vita come stupratore. Perché lo sapevo, che sarebbe andata a

finire così, e lo sapeva anche Clover. Si sarebbe sparsa la voce, qualcuno ne

avrebbe di sicuro approfittato, e anche in carcere gliene avrebbero fatte

passare di tutti i colori. Sapendo che, in assenza di prove, si poteva evitare

tutto quanto...»

«Certo» disse Lynley accigliato. «Giusto per essere sicuri che io abbia

capito: la biancheria non doveva essere mandata ai laboratori perché non era

più stata indossata dopo la sera fatidica e quindi conservava il DNA dello

stupratore. L’ha tenuta lei o l’ha data al vicecomandante per dimostrarle che

aveva eseguito i suoi ordini?»

«L’ho data a lei, come ho già detto. Il problema però era che Druitt sapeva

e quindi il vice non poteva far finta di niente. Io non ce l’avevo con il

diacono, poveraccio: faceva soltanto il suo dovere. Il vice però non voleva

correre il rischio.»

«Quale rischio?»

«Che uno dei due – Druitt o la ragazza – non si bevesse la storia che sulla

biancheria non c’era DNA. Potevano rivolgersi alla polizia di Shrewsbury,

per esempio, raccontare tutto e chiedere come mai dalle analisi di laboratorio

non era risultato nulla, se la ragazza era stata sodomizzata.»

«Ah.» Lynley rimase un attimo zitto. Aveva un’espressione concentrata,

quasi stesse riprendendo in esame ogni cosa che si erano detti, soppesandola

attentamente. «Vede, Ruddock, il problema è proprio questo» disse, alla fine.

«Quale?»

«Che lei sa che la ragazza è stata sodomizzata.»

«Druitt...»

«No. Non lo sapeva né Druitt né nessun altro. La ragazza ha ammesso di

essere stata sodomizzata soltanto ieri. Si vergognava troppo.»

«Così vi ha detto, ma non sarà vero.»

«No, guardi, non l’ha detto a nessuno. Nella sua cultura – o, meglio, in

quella di sua madre – la verginità ha ancora un grandissimo valore.

Tecnicamente la ragazza è ancora vergine, ma per lei era infamante rivelare i

particolari della violenza subita. Temeva di essere considerata impura.»

«È stato Finn, ve lo giuro. È stato Finn.»

«Questo è ciò che ha fatto credere al vicecomandante Freeman, giusto?


Aveva bisogno che la madre del ragazzo andasse nel panico per poter

organizzare tutto: spostare la videocamera fuori della stazione, chiamare la

centrale operativa con una denuncia troppo vaga perché la polizia prendesse

subito provvedimenti, telefonare da qui per far sembrare che qualcuno

volesse incastrarla e, infine, allertare il sergente Gunderson in un momento in

cui i colleghi di Shrewsbury fossero in altre faccende affaccendati in modo

che, appena il vicecomandante avesse dato ordine di fermarlo, a prelevare

Druitt dovesse andare lei personalmente.»

«Vi dico che non...»

«La capisco. Ma quando siamo riusciti a mettere le mani sul cellulare di

Druitt la sua posizione si è fatta traballante, Ruddock, e lei non ha potuto far

altro che tirare in ballo Finnegan. Ci ha raccontato che Druitt aveva delle

perplessità sul suo conto, ma non era il ragazzo a preoccupare il diacono, che

conosceva la verità dei fatti e aveva le prove per dimostrarla. Prove che poi

ha incautamente consegnato a lei, agente.»

«Ho eseguito gli ordini, tutto qui. Me l’ha ordinato lei, il vicecomandante

Freeman.»

«Non posso escluderlo. Ma dubito che le abbia ordinato anche di

sodomizzare la ragazza. Sergente?» Si voltò verso il corridoio.

Barbara rientrò nella stanza accompagnata da due colleghi in divisa.

«Adesso lei va a Shrewsbury con loro, Gary» disse a Ruddock. «Dove

l’aspetta una magnifica camera di sicurezza.»

Royal Shrewsbury Hospital

Shelton

Shropshire

Clover si presentò nella stanza del figlio verso le nove e mezzo. Non era in

tenuta da lavoro. «Ti do il cambio. Vai a dormire» disse al marito.

Prima che Trevor potesse replicare, Finn si svegliò. «Mamma?» disse.

Clover si voltò verso il letto. «Sono qui, tesoro. Papà adesso va a casa a

riposare un po’, ma uno di noi resterà con te finché non avremo arrestato

quell’uomo.»

L’arrivo della moglie aveva messo Trevor a disagio. Non voleva

andarsene. «Resto ancora un po’» disse.


«Non c’è bisogno» ribatté Clover. «Se vengono a interrogarlo, è meglio

che ci sia io.»

«La polizia?» chiese Finn, con voce assonnata.

Clover si sedette sulla sedia che aveva occupato Trevor fino a poco prima e

si protese verso il ragazzo. «Ti chiederanno di rilasciare una dichiarazione,

Finnegan» spiegò. «A meno che tu non l’abbia già fatto. Sono già venuti a

parlarti di quello che è successo ieri, o di qualcos’altro?»

Finn aveva lo sguardo rivolto al soffitto, ma in quel momento si voltò

verso la madre, che poté così rendersi conto di come era ridotto: aveva la

faccia tumefatta e piena di lividi e punti di sutura, come un pugile dopo un

incontro. «Cosa?» le chiese.

«Potrebbero chiederti chiarimenti su una cosa che è successa a dicembre»

spiegò Clover. «Nel caso... se tirano fuori anche questo argomento, be’, sarò

qui con te, quindi non ti preoccupare. A meno che tu non abbia già parlato

con la polizia. Quando te l’ho chiesto, non mi hai risposto.» Si voltò verso

Trevor. «Non ha parlato con nessuno, vero? Non è che durante la notte quella

tipa di Scotland Yard si è rifatta viva, vero?»

«Scotland Yard?» chiese Finn.

Trevor spiegò: «La mamma è preoccupata che tu dica qualcosa che non va,

alla polizia o a qualcun altro» spiegò Trevor.

«Ma se prima...? Non vogliono una mia dichiarazione?»

«Non riguardo a ieri, Finn» precisò Trevor. «Intendevo quell’altra cosa,

quello di cui parlavamo stanotte.»

«Stanotte?» Finn strizzò gli occhi come se gli desse fastidio la luce che

entrava dalla finestra.

«Ti ricordi che abbiamo parlato di quella ragazza che è stata violentata a

casa vostra, sul Temeside?» disse Trevor. Si accorse dell’occhiataccia di

Clover ma non si scompose.

«Che ragazza, pa’? Ding non c’era, quando il tipo mi ha picchiato. Non

penso che...»

«Hai problemi di memoria, Finn. Fai confusione per via delle botte, ma i

medici dicono che è una cosa temporanea.»

«E se adesso non ricorda nulla...?» sussurrò Clover. Trevor ebbe

l’impressione che la moglie fosse sollevata. Troppo sollevata.

Si rivolse al figlio. «I due ispettori di Scotland Yard ti faranno qualche

domanda su una ragazza che si è fermata a dormire da voi prima di Natale


perché avevate bevuto troppo. La mamma vorrebbe evitarlo perché pare che

quella ragazza sia stata sodomizzata.»

Clover drizzò la schiena. «Per favore, Trevor, non...» disse, impettita.

Lui continuò imperterrito. «La mamma preferirebbe che tu non parlassi di

quella sera con nessuno, perché ha paura di ciò che potrebbe accadere se tu

rispondessi alle domande della polizia. E immagino preferisca che tu non dica

nulla nemmeno sulla persona che ha cercato di ucciderti.»

Clover si allontanò dal letto. «Ti posso parlare un attimo, Trevor?»

Prima che riuscisse a trascinare il marito nel corridoio per dirgli quello che

gli doveva dire, però, Finn chiese: «Ma... chi... sodomizzato? Mamma?»

Clover guardò il marito, inviperita. «Sei una carogna» gli disse, sottovoce.

«Fai uno sforzo di memoria, Finn. Cerca di ricordare quella sera di

dicembre» disse Trevor al figlio.

«Non può» sibilò Clover. «Il medico ha detto che per un po’ avrà problemi

di memoria.»

«Ci deve almeno provare, no?»

«Quello che deve fare è tacere. Non dire niente a nessuno. Mi sono

spiegata, Trevor?»

«Papà? Mamma?»

Trevor si rese conto che Finn era regredito, e non solo per il modo in cui

parlava: in quel letto di ospedale, con la testa bendata e gli occhi lucidi,

sembrava un bambino. Ma si sforzava di non piangere di fronte ai genitori.

«La mamma non ti lascerà parlare con la polizia, a meno che tu non la

convinca che non hai l’abitudine di approfittare delle ragazze ubriache sul

divano di casa.»

«Ma con che faccia tosta...?» ribatté Clover, a denti stretti.

«Che cosa avevi intenzione di fare? Prima o poi la polizia gli dovrà ben

parlare, no? Non puoi schivarli in eterno. Se vuoi essere presente al

colloquio, bene, ma non puoi rispondere al posto suo» sbottò Trevor.

«Lo faranno cadere in contraddizione. Sono specialisti in certe tecniche. Lo

saprò bene come lavora la polizia, no?»

«Basta che dica la verità...»

«Dio mio, quanto sei ingenuo! Dire la verità non significa nulla. La verità

non basta. Quando sono in ballo innocenza e colpevolezza, la verità va a farsi

benedire. Al primo passo falso, sei...»

«Tu pensi...» A Finn si incrinò la voce, come quand’era adolescente. Si


voltarono entrambi a guardarlo. «Tu pensi che sia stato io. Che io...» Alzò il

braccio sano e si coprì gli occhi.

A Clover suonò il cellulare. «Non rispondere» disse Trevor. Lei guardò il

display. «Non posso non rispondere. È la sede della West Mercia Police»

replicò.

Ciò detto, uscì dalla stanza.

Coventry

Warwickshire

Quando i genitori di Yasmina avevano scoperto che aveva sposato di

nascosto un ragazzo inglese al secondo anno di università, l’avevano

praticamente diseredata. Forse si sarebbero anche potuti rassegnare all’idea

che avesse scelto un uomo di religione, etnia e cultura diversa, ma che la

figlia fosse rimasta incinta prima delle nozze era inaccettabile. Perché la

gravidanza significava che aveva infranto un principio sacrosanto nella loro

religione e nella loro cultura, che voleva che le donne arrivassero illibate alle

nozze. A farli infuriare era anche il fatto che, dovendosi occupare di un

bambino alla sua giovane età, avrebbe inevitabilmente trascurato gli studi in

medicina. Essendo la maggiore di cinque femmine, avrebbe dovuto dare il

buon esempio alle sorelle, anziché traviarle. Perché il loro dovere di figlie era

prima di tutto studiare, poi costruirsi una carriera e quindi sposare un uomo

adatto e di pari cultura. A seguire tutto il resto: casa, figli, successi di vario

genere e soddisfazioni in grado di rendere orgogliosi i genitori.

Il padre e la madre di Yasmina erano convinti che lei si fosse giocata tutto

questo, violando il divieto di avere rapporti prematrimoniali, e quindi

l’avevano cacciata di casa. Da allora, Yasmina li aveva incontrati soltanto in

due occasioni: la prima quando aveva cercato di presentare loro la prima

nipotina e la seconda quando si era specializzata in pediatria. In entrambi i

casi, non le era stato concesso di mettere piede in casa. Ma quel giorno

Yasmina si era messa in viaggio perché doveva fare pace con i fantasmi del

passato.

Quando Timothy aveva ingoiato le pasticche e si era addormentato,

Yasmina era salita in soffitta e aveva aperto il vecchio baule pieno di vestiti.

Aveva stirato un sari e lo aveva indossato per andare a Coventry.


Aveva scelto il meno sgargiante fra quelli che aveva conservato sperando

di indossarlo in qualche occasione tipo il matrimonio delle sorelle o le feste

per la nascita dei loro bambini, ma non era mai stata invitata. Se lo sarebbe

dovuto aspettare, invece aveva continuato a sperare che con il tempo tutto

sarebbe stato dimenticato e sarebbe stata di nuovo la benvenuta in famiglia.

Il sari era verde scuro e Yasmina lo aveva indossato secondo lo stile Nivi,

drappeggiandolo come le sue mani ricordavano senza problemi,

avvolgendolo in vita per poi lasciare l’estremità libera – la pallu – appoggiata

sopra la spalla sinistra. Ai piedi indossava sandali, al polso sinistro alcuni

cerchietti d’oro e al braccio destro una fascia dorata. Aveva messo anche un

paio di grossi orecchini pendenti con tormaline verdi. Quando si era guardata

nello specchio, aveva visto un’indiana che non aveva dimenticato la propria

cultura: era quella la donna che voleva mostrare ai suoi genitori.

Si avvicinò alla porta con il sole che le batteva sulla nuca: si preannunciava

una bellissima giornata. Suonò il campanello. Dovette suonare un’altra volta,

prima che le aprissero. Si ritrovò di fronte la madre in tuta da ginnastica e

scarpe da corsa slacciate.

Dall’ultima volta che l’aveva vista, era ingrigita e aveva i capelli meno

folti. Squadrò Yasmina strizzando gli occhi, tanto che lei pensò che le desse

fastidio la luce e si spostò all’ombra. Aprirono bocca contemporaneamente.

«Madhur?» chiese la madre.

«Mamma» disse Yasmina.

«Madhur, non abbiamo dolci in casa. Ho tè, ma non latte e la casa non è

esattamente...» continuò la madre, come se non l’avesse sentita.

«Sono Yasmina, mamma.» Si chiese chi fosse Madhur.

«... in ordine. Sei venuta di nuovo a parlare di Rajni?»

«Mamma, sono Yasmina, la tua figlia maggiore. Yasmina. Mi fai entrare?»

«Non posso» rispose la madre. «Perdonami, ma Palash dice che non posso

lasciar entrare... E Rajni... non sapevi che si è sposata, Madhur? È parecchio

tempo, ormai. Non è più disponibile, anche se noi non la vediamo. Palash non

ha approvato la scelta del marito perché non l’avevi fatta tu e si è molto

arrabbiato per la mancanza di rispetto.» Di punto in bianco, cambiò discorso.

«Rajni, sei tu? Ma no, impossibile. Non è permesso. Rajni aspetta un

bambino, a meno che non l’abbia perso nel frattempo. Rajni, hai perso il

bambino? Ti sei dimenticata di prenderlo l’ultima volta che sei stata qui? Ma

non sei più stata qui, vero? È Bina che è stata qui?»


Yasmina cominciò a capire. «Palash c’è? Mamma, è in casa papà?» Non

era possibile che suo padre avesse lasciato la moglie a casa da sola in quello

stato.

«Rajni se l’è cavata bene» disse la madre di Yasmina. «Non è la vita che

avremmo voluto per lei, però il matrimonio... Ambika dice che le ha portato

ricchezza. Ambika non se la passa altrettanto bene, nonostante nutrissi grandi

speranze per lei. Palash sostiene che le è saltata qualche rotella.»

«Che cosa le è capitato?» domandò Yasmina. «Mamma, papà è in casa?

Per favore, fammi entrare.»

«Mi dispiace enormemente» disse la madre, cominciando a richiudere la

porta. «Palash non vuole.»

«Mamma!» Yasmina spinse leggermente per impedire alla madre di

chiuderle la porta in faccia.

«Madhur, Rajni, non dovete! Ambika non c’è. Palash dice sempre che...»

«Fammi entrare, mamma!»

La donna non aveva la forza di tenerla fuori e Yasmina riuscì a infilarsi in

casa anche se, non appena fu all’interno, se ne pentì. Pile di giornali, sacchetti

accartocciati, fotografie sparse sui tavoli e per terra, mobili macchiati, posta

intonsa, riviste cadute per terra e calpestate, piatti, tazze e bicchieri sporchi

ovunque.

«Non devi, non devi!» gridava la madre. «Palash! Palash! Madhur vuole

Rajni e Ambika si farà del male se tu non vieni subito! Palash!»

Udirono passi pesanti sopra di loro e sulle scale comparve un omone in

vestaglia. «Sì, Vedas, sì. Palash è qui, ma Madhur è morta. In India, Vedas,

tanto tempo fa. Ti sei dimenticata? Rajni e Ambika non ci sono più, mia cara.

E chi è questa signora che hai fatto entrare in casa, nonostante ti abbia

raccomandato di non...»

Non appena vide meglio Yasmina, ammutolì. Poi disse semplicemente:

«Tu».

Yasmina non gli lasciò il tempo di dire altro. «Che cosa è successo? La

mamma è... Papà, ti occupi di lei da solo? Da quanto è...?»

«Vattene» intimò il vecchio. «Hai visto cos’hai combinato? Ti sono venute

tutte dietro, come pecore che seguono il pastore.»

«Palash» disse la madre. «A che ora arriva Ambika, Palash? E Sevti?

Perché non vediamo più Sevti? Non è andata al mercato a fare la spesa per

noi?»


«Vedas, riposa la mente. Va’ in cucina e aspettami lì» disse Palash alla

moglie.

«Non vogliamo offrire un tè a Madhur?»

«Certo. Va’ a riempire il bollitore, Vedas. Mettici l’acqua e non fare altro.

Arrivo subito.»

La donna parve arrovellarsi sulla questione dell’acqua da mettere nel

bollitore e si allontanò verso la cucina borbottando: «Acqua, acqua». Urtò

una pila di giornali nel salotto e questo bastò a farle dimenticare il tè: si

inginocchiò e si mise a rimetterli a posto secondo un ordine che solo lei

conosceva.

Yasmina la guardò con un senso di crescente disperazione. «Posso fare

qualcosa? Dimmi che cosa posso fare. Dove sono le mie sorelle?» chiese.

Il padre arricciò il naso, come se avesse sentito un cattivo odore. «Lasciaci

soli» disse. «Siete morte per noi. I fantasmi delle mie figlie non possono

entrare in questa casa.»

Yasmina notò il plurale e rifletté sui possibili sottintesi. «Hai cacciato di

casa tutte noi sorelle?»

«Sei stata tu» dichiarò il vecchio. «Se sono come morte per noi, è perché

l’hai voluto tu. A me hai piantato un paletto nel cuore, a tua madre hai

distrutto la mente e quello che vedi è ciò che resta di noi. Lasciaci soli con il

nostro dolore e con la nostra vergogna.» La fece voltare a forza e la spinse

verso la porta.

Yasmina oppose resistenza. «Non sta scritto da nessuna parte che debba

finire così. Non capisci?»

«Fuori!» Palash alzò la voce, e anche un pugno. Le si avvicinò minaccioso

come faceva un tempo e come aveva senza dubbio continuato a fare con le

altre figlie.

Yasmina arretrò. «Dove sono le altre? Che ne è stato di loro? Dimmelo,

papà. Dimmi dove sono le mie sorelle» disse.

«Sono morte per noi!» gridò rabbioso. «Vattene per la tua strada e lasciaci

in pace! Qui nulla è cambiato e nulla cambierà.»

Royal Shrewsbury Hospital

Shelton

Shropshire


Barbara Havers era dispiaciuta di essersi persa il Grande Momento ma,

quando Lynley le aveva esposto il piano che aveva messo a punto per

costringere Ruddock ad autoincriminarsi, aveva capito all’istante che era il

modo migliore per arrivare alla verità sulla morte di Druitt e lo stupro di

Missa Lomax. Era rimasta nel corridoio della stazione di polizia di Ludlow

assieme agli agenti di pattuglia e, appena si era sentita chiamare da Lynley,

aveva capito che l’ispettore aveva ottenuto i risultati sperati.

Il resto del colloquio con l’agente ausiliario era stato forma, più che

sostanza. Lo avevano ammanettato come lui aveva ammanettato Ian Druitt, lo

avevano fatto salire sull’auto di pattuglia e lo avevano portato via a sirene

spiegate. Lei e Lynley avrebbero avuto modo di interrogarlo nella stazione di

polizia di Shrewsbury, ma prima dovevano occuparsi di Clover Freeman.

Lynley telefonò al comandante Wyatt dal posteggio della stazione e

Barbara sentì soltanto quello che diceva l’ispettore. Dopo un’attesa

interminabile – ma perché il comandante Wyatt doveva sempre farsi

desiderare? – Lynley gli disse semplicemente che lui e il sergente Havers

erano in procinto di partire da Ludlow per andare alla sede della West Mercia

Police in quanto avevano bisogno di parlare con il vicecomandante della

morte di Ian Druitt. Poteva per piacere fare in modo che Clover Freeman non

si allontanasse dal suo ufficio?

Lynley rimase un momento ad ascoltare la risposta di Wyatt mentre

Barbara scalpitava per la curiosità. Quando chiuse la comunicazione, la sentì

che borbottava: «Eddai! Eddai!» La informò che Clover Freeman quel giorno

non era andata a lavorare.

«Ossignore! Si è data alla fuga?»

«Non credo. Ha telefonato per dire che sarebbe rimasta con il figlio al

Royal Shrewsbury Hospital, che il marito aveva fatto la notte e voleva dargli

il cambio.»

«Dunque secondo lei se ne sta lì ad aspettare che andiamo a prenderla?»

«Immagino sia all’oscuro degli ultimi sviluppi. Se ci sbrighiamo, è

possibile che la troviamo al capezzale del ragazzo.»

Partirono immediatamente. L’ospedale non era distante, ma la strada era a

due corsie soltanto e i camion li rallentarono parecchio. Senza luci e sirena,

dovevano aspettare come tutti di riuscire a sorpassarli. Barbara era in preda a

un’ansia crescente, che il self-control di Lynley non faceva che aumentare.

Secondo lei, Clover Freeman aveva distrutto le prove già da tempo,


ammesso che Ruddock gliele avesse davvero consegnate. Rischiavano di

trovarsi in una situazione in cui era la parola di lui contro la parola di lei,

visto che sui vestiti recuperati sotto il letto di Brutus avrebbero senza dubbio

trovato il DNA di più persone. E poiché Ding aveva fornito prestazioni

sessuali a Ruddock affinché lui non la riportasse dalla madre quand’era

ubriaca, la presenza del DNA di Ruddock su quegli indumenti si sarebbe

potuta spiegare anche così.

Lynley la pensava diversamente. Se c’era qualcosa che avevano capito su

Clover Freeman, era che si ingegnava in ogni modo per mantenere il figlio

sotto il proprio controllo: l’aveva mandato a fare volontariato presso il

doposcuola di Ian Druitt e aveva chiesto a Ruddock di sorvegliarlo di

nascosto. Più il ragazzo cresceva, però, più per la madre diventava difficile

trattenerlo nella propria sfera di influenza: da questo punto di vista,

conservare le prove di uno stupro ai danni di una ragazza priva di sensi era

per lei fondamentale.

«Quindi è convinta che sia stato Finn» commentò Barbara al termine della

spiegazione di Lynley.

«Ruddock avrà fatto di tutto per convincerla.»

«Perché non buttare via tutto, allora?»

«Perché avere le prove le dà potere sul ragazzo» rispose Lynley,

spostandosi sulla destra per superare un trattore e due auto. La Healey Elliott

era vecchiotta, ma aveva un’ottima ripresa. Barbara guardò l’ispettore mentre

gli alberi lungo la strada si trasformavano in una verde macchia sfuocata. Le

parve di notare una certa soddisfazione sul suo volto per la performance della

vettura.

«Lo trovo come minimo azzardato» osservò Barbara. Non stava parlando

del sorpasso.

«Lo è, ma i possibili vantaggi sono enormi. Io credo che lei sia convinta di

aver agito per il bene del figlio. Se non altro, attenua il peso delle sue

responsabilità.»

«Mi fa specie, però» disse Barbara meditabonda. «Nel senso: al di là di

quello che le avrà raccontato Ruddock, Clover Freeman doveva avere un

motivo per pensare che sia stato Finn a violentare Missa Lomax?»

«Il ragazzo le prova tutte pur di far ammattire sua madre» replicò Lynley.

«Non mi sembra un cattivo ragazzo, ma il fatto che abbia adottato quel look,

per esempio, suggerisce un’indole ribelle. Chissà cos’altro ha combinato in


questi anni.»

Quando giunsero al Royal Shrewsbury Hospital, Lynley mostrò il tesserino

all’accettazione. Venne avvertito telefonicamente un agente che li raggiunse

subito. Lynley gli assicurò che desideravano parlare non con Finnegan, ma

con sua madre, e lui replicò che in quel momento con il ragazzo c’era

soltanto il padre.

«Sapevamo che la signora Freeman era venuta a dargli il cambio» obiettò

Lynley. «Non è così?»

«È stata qui un po’, ma poi se n’è andata» rispose l’uomo. «Forse il papà è

voluto restare a tutti i costi.»

«Parleremo con lui, allora» disse Lynley. «È una questione di una certa

urgenza.»

L’agente ci pensò su un momento, muovendo le labbra come se volesse

pulirsi i denti da eventuali rimasugli della colazione.

«Ci vorranno meno di cinque minuti» gli disse Lynley.

«Va bene. È che ho l’ordine di non lasciare entrare nessuno.»

«Se non possiamo entrare in camera, parleremo nel corridoio» ribatté

Lynley. «O sul tetto, nel parcheggio, in ascensore, vicino ai bidoni dei

rifiuti...» aggiunse Barbara, spazientita.

L’agente fece cenno di seguirlo. La camera di Finnegan Freeman aveva la

porta chiusa. L’agente pregò i due colleghi di Scotland Yard di aspettare ed

entrò. Dopo un attimo uscì con Trevor Freeman.

Il padre del ragazzo aveva l’aria distrutta. «Non potete parlare con Finn.

Non si è ancora ripreso, ha vuoti di memoria e se...» li prevenne.

«Non vogliamo parlare con lui, ma con sua moglie» lo interruppe Lynley.

«Sta meglio, comunque?»

«Sì, guarirà. Avete catturato il bastardo che lo ha ridotto così?»

«Un teste potrebbe averlo identificato e abbiamo mandato in laboratorio

l’oggetto contundente per rilevare le impronte digitali. Signor Freeman, ci

risulta che sua moglie sia stata qui. Sa dirci dov’è andata?»

«Ha ricevuto una telefonata» rispose Freeman. «Dalla sede della West

Mercia Police. È uscita in corridoio per parlare. Ho dato per scontato che

fosse Wyatt. Probabilmente aveva bisogno di lei a Hindlip.»

«Perché lo pensa?» domandò Barbara.

«Perché subito dopo è andata via. Non è neanche rientrata nella stanza,

intendo.» Guardò prima Barbara e poi Lynley, con un’espressione sempre più


turbata. «Cosa siete venuti a fare? Sono al corrente della situazione, a

proposito. Tengo a precisare che mio figlio non ha violentato né sodomizzato

nessuno. Non sapeva nemmeno che la ragazza si era fermata a dormire sul

Temeside. Dev’essere entrato qualcuno, perché non...»

«Lo sappiamo» lo interruppe Lynley. «Il presunto colpevole è stato

arrestato.»

«Chi è?»

«Non glielo posso ancora dire. Lo stanno interrogando e prima dobbiamo

avvisare la vittima e i suoi famigliari. Abbiamo bisogno di parlare con sua

moglie, però.»

«Volete che la chiami sul cellulare? O al telefono dell’ufficio?»

Lynley rifletté un istante e rifiutò l’offerta. Barbara sapeva che, vista la

situazione, preferiva non mettere la pulce nell’orecchio al vicecomandante.

Lynley dubitava che Clover Freeman fosse stata convocata a Hindlip e

preferiva accertarsene senza interpellarla direttamente.

Ringraziò Freeman e gli augurò in bocca al lupo per Finn. Sperava che il

ragazzo si rimettesse completamente e in fretta. Promise di farsi vivo.

Barbara lo seguì e tornarono insieme agli ascensori. Aveva un brutto

presentimento. Non rimase sorpresa, perciò, quando uscendo dall’ospedale

Lynley chiamò la stazione di polizia di Shrewsbury e chiese del sergente di

turno. Con lampeggianti e sirena accesi, infatti, l’auto che trasportava

Ruddock doveva essere arrivata prima di loro, nonostante la Healey Elliott

fosse una macchina da corsa e Lynley un discreto pilota, e prima di venire

chiusi in camera di sicurezza gli arrestati avevano diritto a una telefonata. Era

assai probabile che Gary Ruddock avesse scelto di chiamare Clover Freeman.

Dall’ospedale alla stazione di polizia la strada era breve.

«Se ha conservato le prove, è sicuramente andata a recuperarle» disse

Barbara mentre Lynley attendeva che gli passassero il sergente di turno.

«Non può fare altro che distruggerle, a questo punto.»

«È una possibilità» ammise Lynley.

«Quali sono le altre?»

Lynley non ebbe il tempo di risponderle perché cominciò a parlare al

telefono. Gary Ruddock era arrivato? Sì. La procedura di registrazione era

stata espletata? Bene. Ruddock aveva per caso chiesto di effettuare una

telefonata? Sì. Lynley rimase in ascolto per un tempo che a Barbara parve

spropositato. Al termine di quella risposta lunghissima da parte del sergente


di turno, Lynley chiese se Ruddock avesse ricevuto visite. Sì. E di nuovo

tacque per ascoltare. Barbara avrebbe voluto strappargli il telefono di mano

per sentire anche lei e stava per gridargli di mettere il vivavoce, ma si

trattenne. Lynley dopo un po’ ringraziò il sergente e chiuse la comunicazione.

«È andata a trovarlo» le disse.

«Hanno lasciato che Clover Freeman vedesse Ruddock?»

«Un sergente di turno non può certo opporsi se il vicecomandante chiede

di parlare con un arrestato.»

«Quindi Ruddock ha telefonato a lei.»

«Il sergente non me l’ha detto esplicitamente, ma pare che Ruddock abbia

spiegato alla persona che ha chiamato che era stato arrestato e che aveva

bisogno di parlarle. Il sergente ha dato per scontato che fosse il suo avvocato,

ma penso che lei concordi con me, Barbara, che l’ipotesi più probabile è che

Gary Ruddock abbia chiamato il vicecomandante e le abbia chiesto di

raggiungerlo. Lei si è precipitata subito alla stazione di polizia e ha chiesto di

vederlo, e lui le ha riferito tutto. Stando attento a omettere certe

informazioni.»

«Non le avrà certo raccontato di essere stato lui ad aggredire la povera

Missa Lomax, per esempio.»

«Be’, di sicuro gli conviene che Clover Freeman continui a pensare che sia

stato il figlio. Le avrà detto che stiamo per incastrare Finn per indurla a

distruggere le prove, ammesso che lei le abbia conservate per mantenere il

controllo sul figlio. A questo punto il rischio di tenerle è superiore agli

eventuali vantaggi.»

«Non può sbarazzarsene vicino a casa» osservò Barbara. «Sa benissimo

che, se necessario, controlleremo tutti i cestini della spazzatura e i cassonetti

di Worcester.»

«E neppure vicino all’ufficio» concordò Lynley. «Per le stesse ragioni.

Cosa resta, dunque?»

Barbara pensò ai luoghi in cui Clover Freeman avrebbe potuto liberarsi

delle prove. Non la conoscevano. Magari le aveva in macchina e stava per

lanciarle da un dirupo, oppure aveva acceso il barbecue in giardino per

bruciarle, stava cercando un centro commerciale per infilarle in uno dei

cassonetti all’esterno o era in partenza per Timbuctù. Per quel che ne

sapevano, Clover Freeman aveva prenotato un volo per...

«L’aeroclub, ispettore» disse Barbara. «È socia, no? Insieme con Rabiah


Lomax e Nancy Scannell. Ricorda la foto? Potrebbe prendere l’aliante e

lanciarle in un lago o in un pantano. Ovunque, in realtà. Basta che sorvoli un

posto inaccessibile o comunque difficile da raggiungere. Non le troveremmo

mai.»

«Dov’è l’aeroclub?» domandò Lynley.

«Sull’altipiano, oltre Church Stretton, nel bel mezzo del niente. Ci sono

andata con il sovrintendente per parlare con Nancy Scannell.»

«Si ricorda la strada?»

«Ci posso provare. Seguiamo le indicazioni per Long Mynd.»

«Come si chiama l’aeroclub?»

Barbara cercò di farselo venire in mente. Midlands qualcosa. Ebbe

un’illuminazione. «West Midlands Gliding Club» disse.

«Provi a telefonare. Nel caso il vicecomandante Freeman fosse lì, chieda

che le impediscano di prendere l’aliante.»

Barbara fece schioccare le dita soddisfatta: le era venuta in mente una cosa

di vitale importanza. «L’aliante del consorzio è danneggiato» disse. «Si

ricorda che Rabiah Lomax ce ne ha parlato, quando siamo andati a casa sua?

Stavano discutendo della riparazione del velivolo. Forse il vicecomandante

Clover non ne è al corrente e pensa di poterlo usare.»

«Magari non è l’unico aliante disponibile. Ne avranno uno per i voli

scuola, per esempio. O per chi vuole volare accompagnato da un pilota

esperto. Dobbiamo impedire a Clover Freeman di salire a bordo. Telefoni

all’aeroclub, sergente. E mi spieghi come arrivarci.»

Ironbridge

Shropshire

Quando Yasmina tornò a casa, scoprì che Timothy non soltanto era sveglio,

ma stava camminando lungo la salita che dal Wharfage portava a casa loro, in

New Road. Accostò e abbassò il finestrino. «Ti do un passaggio?»

Timothy la guardò e scosse la testa, facendole segno di proseguire da sola.

Yasmina per una volta riuscì a posteggiare nel garage e quando scese

dall’auto vide il marito poco lontano e lo aspettò. Timothy non fece caso a

come era vestita, o comunque non fece commenti sul sari. Entrò in casa e le

lasciò la porta aperta.


Yasmina vide che andava in cucina e salì di sopra a cambiarsi. Piegò il sari

per riportarlo in soffitta con i vari accessori e si vestì come al solito.

Quando scese in cucina vide che il marito si stava preparando un panino.

Sentendola arrivare, si voltò verso di lei. «Ne vuoi uno anche tu? Già che ci

sono... Ci metto formaggio, pomodoro, cipolla e pickle. Ero uscito per andare

al mercato, ma poi... non so. Mi è sembrato troppo lontano» le disse.

Yasmina accettò volentieri e Timothy preparò i panini in silenzio. Yasmina

avrebbe voluto chiedergli come mai era alzato, ma si trattenne. Riempì il

bollitore e lo accese. Poi prese il tè – Earl Grey per lui, Darjeeling per sé – e

due teiere da uno, che scaldò facendovi scorrere acqua calda dal rubinetto.

«È stata la mamma. Ha telefonato a un vicino» disse Timothy dopo un po’.

«Come hai detto, scusa?»

«La mamma ha telefonato qui tre, quattro volte, non so. Io però dormivo e

non ho sentito niente. Allora si è preoccupata e ha chiamato in ambulatorio.

A quel punto dev’essere andata nel panico... Per quanto possa andare nel

panico mia madre. In ogni caso, ha telefonato a Reg Douglas e gli ha chiesto

se poteva fare un salto a controllare che io non... Insomma, Reg Douglas mi

ha svegliato e mi ha raccomandato di chiamarla subito.»

«È successo qualcosa a Missa?» domandò subito Yasmina.

«Reg non lo sapeva. Non mi ha detto niente. Ma se mia madre aveva

telefonato a lui...» Timothy agitò in aria il coltellino con cui stava sistemando

sul pane il pickle... «Insomma Reg Douglas è venuto di corsa.» Guardò la

moglie. «Non avevo idea di dove fossi. Quando in ambulatorio mi hanno

detto che non c’eri, intendo. Non sei andata a lavorare.»

«Che cosa voleva Rabiah, Timothy? Perché ha telefonato a Reg Douglas?»

«Ha saputo dalla polizia che è stata arrestata una persona.»

Yasmina aveva troppa paura per chiederlo, ma si fece forza. «Chi hanno

arrestato? E per cosa?»

«Per Missa.»

«È stato uno dei ragazzi che...?»

«No, non sono stati loro. Rabiah mi ha detto che non gliel’hanno voluto

dire. L’agente che l’ha contattata aveva ordine di comunicarle semplicemente

che il presunto colpevole era stato arrestato e trasferito alla stazione di polizia

di Shrewsbury. Non farà più del male a nostra figlia.»

Il bollitore scattò e Yasmina versò l’acqua nelle teiere mentre Timothy

tagliava i panini in quattro parti e li sistemava su un piatto, per poi prendere


un piattino per sé e uno per la moglie. Yasmina recuperò tazze, tovaglioli,

latte e zucchero e si sedettero a consumare il tè pomeridiano. Stettero zitti un

momento, poi Yasmina gli raccontò dov’era stata.

«Il sari» notò lui.

«Credevo potesse servire.»

«Invece no?» Le versò il tè, poi si riempì la tazza ed entrambi presero un

quarto di panino.

«Ho pensato che si sarebbero ammorbiditi, se mi avessero visto con

l’abbigliamento tradizionale. Invece mia madre è andata in confusione e mio

padre forse non se n’è nemmeno accorto. Le hanno cacciate tutte. Hanno

riservato lo stesso trattamento anche a loro.»

«Le tue sorelle?»

«Tutte quante.»

«Non perché sono rimaste incinte, però. Non credo che abbiano commesso

il tuo stesso errore, vedendo quanto ti era costato.»

«Non lo so» replicò Yasmina. «Ma mio padre ha tagliato i ponti con loro, e

lui e la mamma sono completamente soli. In una casa che... roba che si vede

solo nei film, Timothy. Sono accumulatori compulsivi, non buttano nulla.»

Timothy fissò il panino per un tempo che a lei parve infinito, ma

probabilmente fu meno di trenta secondi, poi alzò la testa e la guardò

altrettanto a lungo. «Mi dispiace. Dev’essere stato molto brutto, per te,

Yasmina. Dove sono le tue sorelle? Che fine hanno fatto?»

«Non lo so. Le cercherò.» Prese un pezzo di panino, ma aveva la gola

troppo secca. Gli doveva dire una cosa. Posò il panino sul piatto e bevve un

sorso di tè. Un altro. «Avevi ragione su tutto» disse infine.

«Non ho più ragione su niente da anni.»

«Non è vero. Riguardo alle nostre figlie, hai sempre avuto ragione tu.»

Yasmina cercò le parole giuste per esprimere i sentimenti che le aveva

scatenato la visita a casa dei genitori, vedere cosa aveva riservato la vita a

loro e alle sue sorelle. «Timothy... rivederli mi ha fatto... Credo di aver capito

per la prima volta... Non so come descriverlo» disse.

«Non ce n’è bisogno. Me lo posso immaginare.»

«Volevo dirti che...» Sentendola esitare, Timothy la guardò e cambiò

espressione. Yasmina si chiese cosa avesse provocato quel mutamento:

compassione, speranza, inquietudine o solo rassegnazione di fronte al fatto

che era tutto perduto? Si fece coraggio. «Voglio che tu sappia che questa


frattura dentro di me, fra chi vorrei essere e chi sono stata... be’, è una cosa

contro cui dovrò combattere tutta la vita.»

«Non capisco.»

«Voglio imparare a essere compatibile anche con te e le ragazze, oltre che

con me stessa: è questo che sto dicendo. E mi dispiace di aver trascinato la

nostra famiglia in questa crisi.»

«Non è colpa solo tua.»

«Ma in parte sì e se ci penso, se analizzo quello che è successo, sto male da

morire.»

Tacque in attesa di qualcosa, non sapeva neppure lei cosa. In fondo, non si

aspettava niente. Doveva soltanto assumersi la responsabilità delle azioni che

aveva compiuto, delle scelte che aveva fatto, dei paraocchi che aveva deciso

di indossare. E Timothy doveva fare quello che sentiva di dover o voler fare.

«Rabiah la sta riaccompagnando a casa. Telefonava anche per quello.

Missa vuole tornare qui» le disse.

«A Ironbridge, vuoi dire?»

«No, qui. A casa.»

Yasmina meditò su quella novità. «Non so che sentimenti mi provochi

questa cosa. Più che altro, mi spaventa. Ho paura della mia stessa figlia?»

Poiché Timothy non diceva nulla, aggiunse: «Vorrà qualcosa da me e io non

so se sono in grado di darle ciò di cui ha bisogno».

«Prima di tutto potresti chiederle se ha bisogno» suggerì Timothy. «Glielo

dovremmo chiedere tutti e due.»

Long Mynd

Shropshire

Barbara Havers stava tentando di contattare l’aeroclub da quando era riuscita

a trovare il numero. Brontolò che le rispondeva sempre una «maledetta

vocina registrata» e poi sbottò: «Ma non ci lavora nessuno, in ’sto cacchio di

posto? A me sembrava che un ufficio ci fosse. Non hanno una segretaria?

Dov’è finita?»

«Insista» consigliò Lynley.

Viaggiavano a velocità sostenuta, ma Clover Freeman aveva un notevole

vantaggio. Dopo aver parlato con Gary Ruddock, doveva aver capito di


essere in grave pericolo, avendo orchestrato la morte del diacono, occultato

prove e ostacolato non solo l’inchiesta della commissione per i reclami contro

la polizia, ma anche i due supplementi di indagine da parte di New Scotland

Yard. La aspettava un lungo soggiorno nelle carceri di Sua Maestà, a meno

che non fosse riuscita a sbarazzarsi delle prove che suo figlio era uno

stupratore: perché di questo era convinta. A parte le telefonate con Gary

Ruddock usando il cellulare del marito, Lynley e Barbara non avevano nulla

di incriminante contro di lei, solo l’ipotesi che Clover Freeman avesse

aspettato diciannove giorni prima di procedere al fermo del diacono perché

voleva che fosse l’ausiliario Ruddock e non uno degli agenti titolari a

mettergli le manette ai polsi e portarlo in centrale. Ma se l’avessero sorpresa

con la biancheria che Missa Lomax aveva consegnato al morto sarebbe stato

molto difficile per lei giustificare in tribunale perché fosse in possesso di

quegli indumenti. E di sicuro li aveva con sé. Era troppo furba per non capire

che il cerchio si stava stringendo. Senza dubbio da quando Ruddock glieli

aveva consegnati il vicecomandante li aveva tenuti a portata di mano perché

non erano soltanto una prova schiacciante, ma anche un’arma infallibile con

la quale mantenere il rapporto morboso con suo figlio.

Corsero lungo la A49 fra campi di frumento. Furono fortunati e trovarono

meno traffico rispetto al tragitto da Ludlow e dopo un quarto d’ora soltanto

svoltarono sulla provinciale. Superarono velocemente il villaggio di All

Stretton ed erano quasi a Church Stretton quando Barbara gridò: «Giri qui,

ispettore. Qui!»

Lynley vide la deviazione solo all’ultimo, nascosta com’era fra gli alberi.

Era una strada stretta e dopo un po’ si restrinse ulteriormente. «Ahia! Scusi,

ispettore» disse il sergente.

Lynley capì che le dispiaceva per la Healey Elliott. Trovò tutt’altro che

rassicurante l’avvertimento successivo di Barbara: «Fra poco diventa ancora

peggio».

E in effetti fu così. «Ecco, dopo la cabina telefonica giri a destra» disse

Barbara. Erano in quella manciata di fattorie che andava sotto il nome di

Asterton. Lynley vide la ripida salita e si chiese se la Healey Elliott ce la

potesse fare. Scalò marcia, ma dovette frenare di colpo perché gli tagliarono

la strada una pecora e un agnellino. Imprecò. Barbara lo avvertì che la zona

era popolata anche da germani reali e scese per allontanare gli ovini a suon di

«Sciò sciò». Lynley riuscì a passare oltre, anche se non fu facile.


Barbara risalì in macchina e riprovò a chiamare l’aeroclub. Finalmente

qualcuno le rispose. Si presentò, spiegò che stava arrivando e chiese se

Clover Freeman fosse lì.

Rimase un momento a sentire. «Non può andare a vedere? Come sarebbe?

No, lei non era alla reception: ho provato a chiamare cento volte e non mi

ha...» disse poi.

Lynley le lanciò un’occhiata. Era paonazza. Dopo un po’ riprese a parlare.

«Mi stia a sentire, imbecille che non è altro. Questa è...»

«Sergente» la riprese sottovoce Lynley.

«... un’indagine per omicidio e la Freeman è coinvolta, per cui il suo

ostruzionismo è quantomeno... Va bene. Subito, però.» Mise la chiamata in

attesa e si rivolse a Lynley. «Ha mandato uno a vedere se c’è».

«È un posto grande?»

«Ci sono un certo numero di hangar e di baracche, casotti, costruzioni

varie e un cacchio di parcheggio per i caravan.» Imprecò. «Qui, ispettore.

Ecco: questo è l’ultimo tratto» disse in fretta.

A Lynley non dispiacque affatto, perché la strada era ridotta ormai a due

solchi paralleli in mezzo alla campagna. L’altopiano era una distesa enorme e

senz’alberi, che in quel periodo dell’anno era un tappeto giallo di ginestre con

qualche macchia verde di felci e strisce di erica che d’estate si sarebbero tinte

di viola. Era il posto ideale per volare con l’aliante. A ovest il panorama

digradava in morbide colline, alcune quarzitiche, altre vulcaniche. L’unica

vetta rocciosa era Stiperstones. Con le correnti giuste si poteva arrivare in

volo libero fino in Galles.

«A destra, ispettore!» gridò Barbara. In quel momento Lynley vide il

cartello e il cancello. Fece appena in tempo a frenare che Barbara scese dalla

macchina, spalancò il cancello e risalì di corsa indicando l’edificio principale

dietro lo spiazzo di ghiaia che fungeva da parcheggio.

Di fronte, a circa trecento metri di distanza, c’era la pista di lancio. Barbara

la indicò a Lynley. C’erano due alianti pronti al decollo, uno dietro l’altro, e

un terzo tenuto in equilibrio da un uomo che reggeva l’ala mentre un altro

munito di una cartellina rigida girava intorno al velivolo impegnato in quella

che sembrava un’ispezione.

«Vado?» disse Barbara, indicando la zona di lancio.

«Sì. Io controllo all’interno» rispose Lynley. E si avviò verso l’edificio

principale.


Cercò la reception e scoprì che le ricerche di Clover Freeman non avevano

prodotto risultati: non risultavano alianti prenotati a suo nome, non era stata

vista in giro e non aveva risposto agli annunci fatti agli altoparlanti sia esterni

sia interni.

Lynley imprecò fra sé. Eppure sembrava l’ipotesi più plausibile... Era una

pilota di alianti, era socia di quell’aeroclub, che peraltro era l’unico in tutto lo

Shropshire...

Socia dell’aeroclub, pensò. Chiese se Nancy Scannell fosse presente, se

avesse prenotato lei un volo.

Il segretario, un signore dalla carnagione bruna che sulla targhetta

identificativa aveva scritto «Kingsley» e che pareva aver trascorso gran parte

della sua vita a camminare all’aria aperta sulle colline dello Shropshire,

controllò i registri e i moduli che occorreva compilare per prendere gli alianti.

Scosse la testa. Nancy Scannell non compariva, purtroppo. Spiacente, disse.

L’unico aliante prenotato in quel momento era a nome Lomax. Non riusciva a

leggere il nome di battesimo perché era uno scarabocchio. Rachel, forse?

«Rabiah Lomax?» chiese Lynley. E, senza lasciargli il tempo di

rispondere, disse: «È già in volo? Può fare in modo che non decolli?»

Kingsley disse che il massimo che poteva fare era chiamare il verricellista.

«Quindi Clover Freeman non vi interessa più?» domandò.

«A bordo di quell’aliante c’è Clover Freeman» spiegò Lynley. «Sì.

Contatti il verricellista via radio. Gli dica che sto arrivando.»

Lynley partì di corsa. Vide Barbara in lontananza: correva verso i due

alianti ancora a terra. L’altro era già stato lanciato e stava prendendo quota

virando verso il Galles. Il velivolo successivo era in fase di ispezione, ma il

pilota era già ai comandi. Barbara era diretta verso quello.

Il problema più urgente, tuttavia, non era l’aliante, ma il verricello.

Dovevano fermarlo. Chiamò Barbara sul cellulare e si accorse di aver

commesso un errore vedendo che lei si fermava a cercare il telefono. Imprecò

e chiuse la chiamata. Barbara interruppe la ricerca del telefono, ma guardò

nella sua direzione. Vedendolo correre, ebbe un attimo di esitazione, ma lui le

fece segno di proseguire. Gridò. Se Clover Freeman era pronta al decollo,

non poteva comunque prendere il volo senza il verricellista e Barbara ne era

certamente consapevole. Non poteva non saperlo. Doveva fermare non

Clover Freeman, ma l’operatore prima che eseguisse le manovre necessarie al

lancio.


Barbara tuttavia fraintese il gesto di Lynley e continuò a correre verso gli

alianti. A quel punto dipendeva tutto da Kingsley, alla reception, che doveva

contattare via radio il verricellista giusto. Ce n’erano infatti due, uno a ogni

estremità della pista.

Barbara raggiunse l’aliante in coda per il lancio e batté con il pugno sulla

calotta di plexiglass, che dopo un attimo si sollevò. Barbara parlò brevemente

con il pilota e partì di corsa verso l’aliante davanti, ma proprio in quel

momento il verricellista dalla sua parte lampeggiò al collega dalla parte

opposta e l’aliante cominciò a muoversi. Barbara lo raggiunse. Scattò un

allarme. Barbara si lanciò sulla cabina di pilotaggio per cercare di aprirla e

riuscì ad afferrare il bordo della calotta di plexiglass, ma non ebbe il tempo di

sollevarla perché l’aliante si mosse in avanti e cominciò a prendere velocità:

troppo tardi. Barbara cadde e l’aliante si staccò da terra, trainato dal verricello

più distante. L’aerodinamica fece il resto. Nel giro di pochi secondi il

velivolo si librò in aria e prese quota. Lynley sapeva che si sarebbe sganciato

dal verricello non appena...

Si sganciò, ma a soli cinquecento piedi da terra, prima di aver preso

sufficiente quota, e precipitò.

Lynley sentì le grida alzarsi da ogni direzione. Le persone nel parcheggio,

che stavano osservando il decollo, si misero a correre verso il luogo

dell’incidente. Barbara si rialzò in piedi e partì a razzo verso l’aliante. «Ha

sganciato troppo presto! È stata lei!» urlò il verricellista mentre saltava giù

dalla macchina. Il pilota a bordo dell’aliante in attesa scese e corse a vedere

coprendosi la bocca con la mano. Altre persone nei paraggi si precipitarono

verso il punto dello schianto mentre da uno dei verricelli suonava un allarme,

forse per avvertire le persone all’interno dell’edificio.

Lynley e Barbara arrivarono contemporaneamente. Era già intervenuto

qualcuno dal parcheggio, che aveva rimosso la calotta. Il pilota era accasciato

da una parte, ancora legato all’imbracatura. Intanto la gente continuava ad

accorrere da tutte le direzioni, urlando e strepitando.

«Chi cazzo ha fatto l’ispezione pre-decollo?» chiese uno. «Io. Ma era tutto

a posto. Non...» rispose un altro.

«Come sta?»

«Come vuoi che stia, Franklin?»

«Dev’essere stato il gancio di traino.»

«Ti dico che ho controllato! È arrivata all’improvviso quella donna e di


colpo...»

«Tiriamola fuori.»

«No! Non toccarla! Potrebbe essere...»

«E che cazzo, Steve!»

«Quale donna? Dov’è?»

«Non capisci? È stata lei a sganciarsi. Non c’era niente che non andava, era

tutto...»

«Cosa le è saltato in mente di sganciarsi a quella quota, cazzo?»

«Magari non sapeva che...»

«Chi è?»

«È la prima volta che vola in solitaria...»

«Non ha fermato il lancio? Gliel’ho comunicato via radio, perdio! Gli ho

detto... C’è la polizia. Non so dove siano in questo momento, ma... Ah,

eccoli.»

«La polizia?»

All’improvviso scese il silenzio e tutti si guardarono in giro in cerca di

qualcuno da additare come responsabile dell’incidente. La polizia era un

ottimo candidato.

«Si è sganciata troppo presto» mormorò Barbara mortificata. «Mi dispiace,

credevo di riuscire a fermarla. Invece, appena mi ha visto...»

«Sapeva che per lei era la fine» disse Lynley. «Era consapevole di quello

che l’aspettava.»

Ironbridge

Shropshire

L’idea era fermarsi a prendere Sati, ma dopo un’attenta riflessione Rabiah

aveva deciso che, se avere in casa la sorellina avrebbe senza dubbio

rassicurato Missa, la sua presenza avrebbe reso più difficile il chiarimento

che la ragazza doveva assolutamente avere con i suoi genitori. Perciò, andò

direttamente a casa di Timothy e disse a Missa che Sati sarebbe rimasta dai

Goodayle finché lei non avesse chiesto a Justin di riportarla a casa. Justin era

al corrente che Missa stava tornando a Ironbridge con la nonna e voleva farle

sapere che era preoccupato, che aveva già parlato con Yasmina e che

aspettava notizie perché doveva dare qualche spiegazione a Sati. Non si erano


promessi di dirsi sempre e comunque la verità, loro due e Sati, qualsiasi cosa

fosse successa?

Missa ascoltò e tacque. «Grazie, nonna, di non averglielo detto» replicò.

«Perché avrei dovuto? Che opinione hai di tua nonna, se mi ritieni capace

anche solo di prenderlo in considerazione?»

«È che se lo sapesse... Voglio dire, tu pensi che a quel punto non mi

sposerebbe più, no?»

«Perché dovrei pensare una cosa simile? È assurdo.»

«La mamma lo pensa.»

«È assurdo, ti ripeto. Se c’è una cosa di cui siamo certi al cento per cento è

che Justin ti ama. Ti ha sempre voluto bene e sempre te ne vorrà. Anche tua

madre ne è consapevole, Missa, per quanto tu pensi che abbia sbagliato

riguardo a te, Justin, il vostro matrimonio, l’università e quant’altro. Nessuno

ha mai messo in dubbio il fatto che vi vogliate bene. Tu, forse, ma noi no.»

Rabiah si accorse che Missa continuò a riflettere su quelle parole per tutto

il tragitto da Ludlow. Era una sua caratteristica, ed era un difetto, oltre che

una virtù: Missa dava grande peso alle opinioni altrui, anche quando avrebbe

dovuto fregarsene altamente di ciò che gli altri pensavano di lei.

Conoscendo la nuora, Rabiah si aspettava che Yasmina corresse subito

incontro alla figlia, sentendole arrivare. La immaginava intenta a sbirciare

dalla finestra e mentre posteggiava credette di scorgerla dietro un vetro. Non

la vide comparire di corsa, però, e quando suonò il campanello fu Timothy ad

aprire la porta.

Abbracciò Missa, che per un attimo rimase impalata come una statua, ma

poi ricambiò l’abbraccio del padre. Timothy la accompagnò in casa

cingendole le spalle. «Grazie, mamma» disse, e Rabiah li seguì.

Yasmina era in salotto, più vicina alla cucina che all’ingresso. Tese la

mano verso la figlia ma la lasciò ricadere subito, attenta a non dare

l’impressione sbagliata.

Rabiah conosceva bene la nipote e quindi non si sorprese sentendole dire:

«Mi dispiace per il trambusto che ho causato».

Fu abbastanza per spingere Yasmina a fare un passo avanti, benché

titubante. «In tutto questo tu non hai nessuna colpa. Voglio che ti sia chiaro»

disse.

Missa non replicò. Sembrava confusa dalle parole di sua madre. Guardò

prima il padre e poi la nonna.


Nel silenzio, partì la suoneria del cellulare di Rabiah che guardò il display

e, non riconoscendo il numero, aggrottò le sopracciglia. «Pronto?» rispose in

tono pacato. E sentì la voce dell’ispettore di New Scotland Yard che la

informava della morte del vicecomandante di polizia Clover Freeman e

dell’arresto dell’ausiliario di Ludlow per la violenza subita da Missa. Rabiah

avrebbe voluto chiedere all’ispettore una serie di chiarimenti, ma non fece

domande. «Grazie. Ho accompagnato Missa a Ironbridge. Ha bisogno di lei?»

si limitò a replicare. Lynley le rispose che no, forse in un secondo momento,

si sarebbe fatto vivo.

Quando Rabiah rimise in borsa il cellulare, si accorse che la guardavano

tutti. «Scotland Yard ha arrestato l’agente ausiliario di Ludlow. È stato lui,

tesoro». Non guardò Timothy: avrebbero parlato dopo di ciò che aveva

combinato il giorno prima. Sentendo dell’arresto dell’ausiliario, però,

Timothy abbassò il braccio che teneva sulle spalle della figlia e andò a

sedersi sul divano con le mani penzoloni fra le ginocchia.

«Quella sera ci ha portati a casa lui, perché eravamo tutti ubriachi. Ma poi

è uscito, nonna. Credevo fosse andato a cercare Ding, che lo aveva fatto

arrabbiare. Lui voleva qualcosa e lei gli aveva detto di no. Quindi credevo

che fosse andato a cercare lei» disse Missa alla nonna.

«È possibile, ma evidentemente non l’ha trovata e così è tornato indietro.»

«Non dovevo fermarmi lì. Non dovevo bere.»

«Ti stai dando responsabilità che non hai, Missa» intervenne Yasmina.

«Lo sapevo, che non bisognava...»

«Avevi appena finito gli esami e volevi divertirti, per una sera.»

Missa chinò il capo, come se non potesse credere a ciò che le stava dicendo

sua madre, né tanto meno accettarlo.

Yasmina si avvicinò alla figlia. «Guardami negli occhi, Missa, se riesci. Se

non riesci, pazienza. L’importante è che tu ascolti quello che ti voglio dire.»

Non aspettò che la figlia replicasse e proseguì. «D’ora in poi voglio lasciare

che tu faccia la tua vita, Missa. Te lo dico con il cuore. In cambio ti chiedo

solo di perdonarmi, se mai sarai in grado. Non ora. Nemmeno lo voglio, ora,

è troppo presto e tu lo faresti solo perché ti senti in dovere di far contenta me,

non ti senti libera di compiere liberamente le tue scelte, come hai provato a

dirmi in più di un’occasione. Ho sbagliato nei tuoi confronti, Missa, lo so.

L’ho fatto a fin di bene, però, e spero che un giorno tu te ne renda conto. Non

mi fraintendere: non voglio con questo sminuire i miei errori. Non avrei


dovuto fare e dire certe cose e non avrei dovuto insistere. Ho sbagliato.»

«Mamma, io non ho mai voluto...»

«Con una madre come la tua, Missa?» la interruppe Yasmina. «Hai fatto

quello che potevi, credimi.»

Yasmina tese le mani verso la figlia. Rabiah esortò mentalmente Missa a

prenderle, a compiere un passo per dimostrare a Yasmina che il rapporto

madre-figlia che non avevano mai avuto si poteva almeno in parte ricucire.

Missa però restò immobile. «Posso chiamare Justin?» chiese.

Yasmina abbassò le braccia, ma la sua espressione rimase aperta,

disponibile, affettuosa. «Sarà contento di sentirti. Se ti fa piacere, digli pure

che ti raggiunga qui» rispose.

Missa la guardò come in attesa di ulteriori autorizzazioni. Poi guardò il

padre, che assentì. Infine si voltò verso Rabiah. «Aspetta con ansia una tua

telefonata, tesoro» disse la nonna.

«Gli propongo di venire con Sati, allora? Cosa ne pensi, nonna?»

Fu Yasmina a rispondere, però. «Solo se Sati desidera tornare» precisò.

Missa uscì dalla stanza e Rabiah attese di sentire i passi sulle scale e la

porta della camera che si chiudeva. Non disse nulla al figlio e alla nuora,

preparandosi all’inevitabile conversazione, pregando che la sua famiglia

avesse abbastanza coraggio per affrontarla.

Timothy si alzò dal divano. «Ti hanno dato il biglietto da visita, quando

sono venuti a parlarti?» chiese alla madre.

«La donna, sì» rispose Rabiah. «Il sergente investigativo.»

Timothy annuì e tese la mano per farselo dare. «La chiamo, allora.»

«Quando sono venuti a chiedermi una foto, non ho potuto...»

«Non ti preoccupare, mamma. Ho fatto tutto io» replicò Timothy. «Chi è

causa del suo mal... come dicono. Perciò tocca a me compiere i passi

necessari, adesso.»

Worcester

Herefordshire

Appena quelli di Scotland Yard se n’erano andati dall’ospedale, Trevor aveva

provato e riprovato a chiamare la moglie sul cellulare, ma lei non gli aveva

mai risposto. Aveva allora tentato di mettersi in contatto con Gaz Ruddock


ma anche con lui non aveva avuto successo.

A Finn non aveva detto nulla. Da quando i due ispettori si erano presentati

sulla porta della camera, Trevor aveva deciso di non abbandonare neanche

per un attimo il figlio: doveva capire che cosa stava succedendo e doveva

proteggere Finn in tutti i modi, tra cui risparmiargli un interrogatorio della

polizia. Con il passare delle ore, tuttavia, la sua ansia crebbe. Doveva essere

successo qualcosa, altrimenti Clover si sarebbe fatta sentire, vedendo che

aveva provato a chiamarla mille volte. Il suo silenzio scatenò in lui una ridda

di supposizioni. Quando finalmente, verso sera, gli squillò il cellulare, lo

prese e andò a rispondere nel corridoio. Finn sonnecchiava e non lo voleva

disturbare.

Era l’ispettore di Londra che era passato al Royal Shrewsbury Hospital per

cercare Clover. Chiese a Trevor dove si trovasse e gli diede appuntamento a

Worcester. Trevor rispose che era ancora a Shrewsbury con Finn, ma l’uomo

insistette: era indispensabile che si vedessero presso la sua abitazione di

Worcester. La camera di Finn non era piantonata? Trevor rispose che sì, il

piantone c’era ancora, e l’ispettore ribatté che allora poteva stare tranquillo, il

figlio non correva pericoli.

«Non riesco a contattare mia moglie» lo informò Trevor.

Era proprio di quello che desiderava parlargli a Worcester, replicò

l’ispettore. Al momento si trovava alla sede della West Mercia Police, a

Hindlip, insieme con il sergente Havers. Avevano appena finito di parlare con

il comandante Wyatt. A proposito, sua moglie non era andata in ufficio. Da

Shrewsbury si era diretta verso il Long Mynd.

«Come sarebbe a dire?» esclamò Trevor. «È andata all’aeroclub?»

Non riuscì a cavargli altro: Lynley insisteva per vedersi a Worcester. A che

ora pensava di riuscire a esserci?

Se voleva raccogliere altre informazioni, l’unica soluzione era accettare.

Trovò ad aspettarlo i due di Scotland Yard. Erano venuti con l’ultima

automobile a bordo della quale si aspettava di vedere due poliziotti. Avrebbe

sicuramente fatto un commento sull’auto d’epoca, se non avesse visto la loro

espressione cupa.

Si voltò dall’altra parte, come se cercasse di non guardare in faccia la

realtà. Li fece entrare in casa, accese la luce nell’ingresso e poi in salotto.

Quindi andò al mobile bar, lo aprì ed esaminò il contenuto alla ricerca di

qualcosa che attutisse la mazzata che stavano per dargli.


I due ispettori aspettarono che finisse e si voltasse. Lesse loro negli occhi

che la situazione era talmente grave da non poter essere attenuata da nulla, né

da un drink, né da una domanda, né da un resoconto dei miglioramenti di

Finn. Aveva capito cosa l’aspettava. «Come?» si limitò a chiedere.

«L’aliante è precipitato subito dopo il lancio» rispose Lynley.

«Era stato sabotato?»

«Si è sganciata troppo presto» replicò Barbara. «Mi ha visto, signor

Freeman, e ha capito.»

«Condoglianze» disse Lynley.

«Ha...?»

«È sopravvissuta per pochi istanti all’impatto e non ha ripreso conoscenza.

Non vuole sedersi?»

«Finn. Devo...» Improvvisamente si rese conto di essere arrabbiato. «E mi

avete fatto tornare a casa per questo? Non avevate voglia di scomodarvi per

venire fino a Shrewsbury e così mi avete costretto a lasciare mio figlio da

solo? Era così importante dirmelo qua? Per quale motivo? Cosa mi state

dicendo di mia moglie?»

Gli diedero un momento per ricomporsi e lui ne approfittò. Gli girava la

testa e a un certo punto, mentre guardava la parete con le foto di famiglia,

vide tutto nero. Corsero a sorreggerlo. Quando si riprese, vide che era stato

Lynley a impedirgli di cadere. Lo stava invitando a sedersi.

Poi cominciò a parlare e Trevor non poté fare altro che ascoltare. Si diceva

che lui non ne sapeva niente, che era all’oscuro di tutto, ma una parte di lui

era consapevole: l’aveva intuito fin dall’inizio e aveva avuto paura di

chiedere chiarimenti a Clover.

Non gli risparmiarono alcun dettaglio. Quando Lynley prendeva fiato,

attaccava il sergente Havers. E così Trevor venne a sapere cosa aveva fatto a

dicembre Gaz Ruddock alla ragazza ospite a casa di Finn, cosa era era

riuscito a far credere a Clover sull’autore della violenza e come tutto questo

era collegato con Ian Druitt, con le prove del reato, con un fermo fasullo e un

suicidio fasullo, e tutto perché Clover non poteva credere che suo figlio

potesse essere non soltanto innocente, ma addirittura ignaro del crimine

avvenuto dopo una sbronza colossale con gli amici.

Dopo avergli esposto con dovizia di particolari quella storia orripilante,

conclusero con uno sviluppo inaspettato. «Abbiamo perquisito l’aliante e

l’auto con cui si è recata sul Long Mynd» spiegò Lynley. «Abbiamo guardato


in ogni angolo di ogni edificio dell’aeroclub. Alla sede della West Mercia

Police il comandante Wyatt ci ha indicato l’ufficio di sua moglie e abbiamo

perquisito anche quello. Resta da controllare solo casa vostra. Speriamo di

trovare qui ciò che cerchiamo.»

Vent’anni di vita con Clover gli avevano aguzzato l’ingegno. «Perché mai

avrebbe dovuto nascondere qui delle prove? È insensato. Se pensava che

Finn...» Ma non finì la frase, perché comprese che per Clover avrebbe invece

avuto un senso nascondere in casa delle prove, se avesse considerato Finn

colpevole.

«Con il suo permesso, vorremmo dare un’occhiata» disse Lynley.

Impiegarono più di tre ore. Trevor non immaginava che per perquisire una

casa ci volesse così tanto tempo, ma fu un controllo puntuale e meticoloso.

Alla fine trovarono quel che cercavano in soffitta. Clover aveva conservato i

collant e la biancheria nella busta per le prove in cui li aveva riposti Ruddock,

nascosti in mezzo ai vestiti di Finn bambino, dentro una scatola di cartone.

Trevor trovò significativo che Clover avesse scelto proprio quel nascondiglio.

«Avevamo sempre sperato...» disse, scoraggiato. Ma non aveva senso

concludere la frase. «Cosa ne farete? Data la situazione, intendo.»

Lynley comprese la sua richiesta. «Le prove non sono state raccolte e

conservate correttamente e pertanto hanno un valore relativo. Sua moglie e

Ruddock lo sapevano. Ma il DNA dovrebbe chiarire le responsabilità. Se non

altro, escluderà suo figlio.»

Il sergente Havers indicò la busta. «Quando saprà che abbiamo questi, con

il DNA suo, e non di Finn, non so che spiegazioni potrà fornire Ruddock.

Tanto più che non aveva mai avuto a che fare con la ragazza, prima di quella

sera. Non beveva, non era mai stata trovata per strada ubriaca e quindi non

era fra quelle da cui Ruddock pretendeva favori sessuali in cambio del

silenzio. Altrimenti avrebbe potuto usare quegli incontri per giustificare la

presenza del suo DNA.»

«Quindi Ruddock non conosceva la ragazza che ha violentato?»

«Riteniamo di no, esatto.»

«Era incavolato con Dena Donaldson che gli era sfuggita e così è tornato

sul Temeside, ha visto la ragazza che dormiva sul divano e forse ha pensato

che fosse Ding, perché era buio, e ha deciso di punirla per la fuga, oppure

aveva solo bisogno di sfogare le sue voglie sulla prima che gli capitava»

spiegò il sergente Havers.


Trevor assorbì quelle informazioni. Sapeva che a quel punto avrebbe

dovuto provare qualcosa, qualunque cosa, ma era sopraffatto. Riusciva a

malapena a sentire il proprio corpo quando si muoveva, sentire delle

emozioni era al di là delle sue forze.

«Non so come lo dirò a Finn. Devo spiegargli che sua madre è morta

pensando che lui fosse uno stupratore? E che voleva tenerlo in pugno?»

Lynley parve riflettere sulle varie opzioni prima di rispondere: «Gli spieghi

che sua madre era un essere umano come tutti e che si è lasciata ingannare da

Ruddock. E che tutto ha avuto origine da quell’errore di giudizio».

«Perché ha creduto a lui, invece che a suo figlio?» chiese Trevor. Era una

domanda rivolta a se stesso, più che a loro, e infatti si diede la risposta da

solo. «Aveva paura di chiederglielo esplicitamente, di scoprire che suo figlio

non era come lei pensava, come lei avrebbe voluto che fosse... E poiché

temeva di non conoscerlo, si è lasciata convincere da Ruddock. Ossignore!»

Gli si incrinò la voce.

«Se la sente di rimanere da solo, signor Freeman?» Era stata la donna a

chiederglielo.

Trevor si ricompose. «Non rimango da solo, grazie. Torno in ospedale da

Finn.»

Ironbridge

Shropshire

Yasmina era contenta che la suocera si fosse trattenuta. Timothy aveva

telefonato a quelli di Scotland Yard, i quali lo avevano informato che

avrebbero mandato un’autopattuglia a prenderlo. Quando erano arrivati e lo

avevano portato via, Rabiah aveva perso il suo proverbiale autocontrollo ed

era crollata. Il dolore accumulato in anni di patemi e preoccupazioni aveva

dato la stura a una miriade di domande cui Yasmina non era in grado di dare

risposta.

Quando Sati e Justin erano tornati, Timothy non c’era più. Per fortuna, così

Sati si risparmiò la scena del padre arrestato dalla polizia. Era già abbastanza

diffidente e guardinga, quasi sentisse incombere la catastrofe su tutti i fronti,

e a Yasmina si strinse il cuore vedendo la sua faccina impaurita, il suo farsi

piccola piccola dietro a Justin.


Il ragazzo, dal canto suo, pareva invece intenzionato a fare chiarezza. «È

ora che la famiglia Lomax scopra finalmente le carte» esordì. Con il tono di

chi ha raggiunto il limite della sopportazione.

Yasmina comprendeva il suo disagio, ma restò zitta. Rabiah in quel

momento non c’era, ma Missa sì. «Ti devo delle spiegazioni, Justin. Andiamo

a fare due passi?»

Yasmina così rimase con Sati. Si guardarono a lungo, separate da un abisso

che solo una di loro poteva cercare di superare. «Mi dispiace, Sati. Ti

prometto che non succederà mai più» disse Yasmina.

Sati la guardò attonita. Dal modo in cui muoveva gli occhi, quasi cercasse

una via di fuga, Yasmina si accorse che era confusa. Era colpa sua, se sua

figlia reagiva a quel modo, pensò. «Ascoltami, Sati. Voglio restituirti la tua

vita» disse.

Sati si morse un labbro.

«Ti ho dato un ceffone...» Yasmina si corresse: «No, non è vero. Ti ho dato

un pugno. In un istante di rabbia. Mi dispiace, ma l’ho fatto apposta. In quel

momento, ero così arrabbiata che avevo voglia di farti male. Mi sembrava

l’unico modo per farti capire... Non so neanch’io cosa. Che avevo ragione io?

Che tu avevi torto? Non lo so più. Ma so che ho sbagliato e che non ho

giustificazioni per quello che ho fatto. Ti prometto che non cercherò scusanti.

Dovessi mai rinfacciarmelo in futuro, sappi che non negherò di averlo fatto e

non accamperò scuse. Mai, Sati. A meno che io non perda le mie facoltà

mentali.»

Yasmina sapeva che era un discorso troppo difficile per una ragazzina di

dodici anni, specie se reduce da un periodo duro come erano stati per Sati gli

ultimi due anni. Ma erano cose che sentiva di dover dire, che era

indispensabile chiarire per poter ricominciare.

Concluso il discorso, Yasmina aspettò che Sati replicasse. E, buona

com’era, Sati non la fece aspettare.

«Mamma!» esclamò, correndo ad abbracciarla. Yasmina la strinse a sé.

«Grazie» sussurrò.

Quando Missa tornò, Yasmina era di sopra con Sati e Rabiah. Erano

distese sul letto in cui Timothy non avrebbe più dormito per un bel po’ di

tempo. Completamente immobili, sfinite.

Missa rimase un istante sulla porta a osservarle. La luce era fioca: era

accesa soltanto l’abat-jour sul comodino. Yasmina vide la figlia perplessa.


«Abbiamo esaurito le risorse» spiegò.

«Ma la nonna...?» chiese Missa ansiosa.

Rabiah si mosse. Aveva un braccio sugli occhi, ma sentendo la voce di

Missa lo abbassò. «La nonna ne ha passate di peggiori, nella vita» disse alla

nipote. «O forse la peggiore è questa, ma ce la farò ugualmente. E tu?» Si

spostò e le fece segno di andarsi a sedere accanto a lei.

Con il fiato sospeso, aspettarono che Missa si decidesse a muovere il primo

passo verso di loro. Rabiah le prese una mano e se la accostò alla guancia.

Poi prese la mano di Sati e fece lo stesso. Sati si guardò intorno per accertarsi

di poterlo fare e prese la mano di Yasmina.

Rimasero lì a respirare insieme. Erano un unico organismo, in quel

momento: avevano l’energia per essere un organismo solo. Forse, con il

tempo, sarebbero tornate a essere individui.

Trascorsero una decina di minuti prima che Missa aprisse bocca. «Justin

vuole che aspettiamo. Mi ha assicurato che capisce. Il suo sogno resta sempre

lo stesso, ma dobbiamo aspettare a realizzarlo, dice. Lui prima deve far

crescere la sua impresa e io...»

«E tu cosa gli hai detto?» chiese Yasmina.

«Che ci volevo pensa...»

«No» la interruppe Yasmina. «Non volevo sapere che cosa gli hai risposto,

ma se gli hai parlato di quello che è successo a Ludlow prima di Natale.»

«La verità» rispose Missa.

«È per quello che vuole aspettare?» chiese Rabiah.

«No. Vuole aspettare perché pensa sia più giusto. Per tutti e due.»

«E tu sei d’accordo?» domandò Rabiah.

«Non so più neanche io che cosa penso, nonna.»

«Be’, siamo in due» replicò Rabiah.

«Tre» disse Yasmina.

Con Sati, erano quattro.


26 MAGGIO

Victoria

Londra

Dopo il suicidio di Clover Freeman e la confessione di Gary Ruddock,

occorse un’intera giornata per portare a termine il lavoro, dividendosi i

compiti. Barbara ebbe l’incarico di aggiornare tutti gli interessati sugli ultimi

sviluppi, se non altro per restituire loro un po’ di tranquillità. Si recò perciò

dal vicario della chiesa di St. Laurence per rassicurarlo sulla totale innocenza

di Ian Druitt e si accordò con Flora Bevans per incontrarla non a casa, bensì

in un giardino dove stava sistemando una serie di magnifiche fioriere, per

comunicarle che non aveva convissuto con un pedofilo. Andò a trovare

Brutus Castle e Ding Donaldson a casa loro, sul Temeside, e a Much

Wenlock per informare il sergente Gerry Gunderson della colpevolezza di

Ruddock. Lynley invece andò a Birmingham a riportare a Clive Druitt gli

effetti personali del figlio e riferirgli che Ian era stato scagionato da ogni

sospetto; da lì si recò alla sede della West Mercia Police a parlare con il

comandante e restituirgli il materiale che aveva messo a disposizione per le

indagini.

Il comandante Wyatt era comprensibilmente sotto shock. Doveva gestire

uno scandalo che l’opinione pubblica avrebbe faticato a dimenticare. Il danno

d’immagine era enorme e si profilava un processo che sarebbe stato un vero e

proprio incubo.

Lynley e Barbara incontrarono brevemente anche i Lomax e Lynley

telefonò a Rabiah per riferirle che il figlio Timothy aveva spiegato nel

dettaglio ai colleghi di Shrewsbury come si era svolta l’aggressione nel

Temeside. Lei reagì in modo pacato e non rivolse accuse a nessuno, tanto

meno alla polizia che «aveva fatto solo il suo dovere». Quando Lynley le

chiese come andavano le cose in famiglia, rispose: «Insomma».

La mattina seguente Lynley e Barbara partirono. Lynley spiegò a Peace on


Earth che Clive Druitt sarebbe andato a Ludlow a ritirare l’auto del figlio e si

misero in viaggio alla volta di Londra.

Andarono direttamente in Victoria Street. Erano in ufficio da meno di

cinque minuti, quando arrivò la telefonata, sgradita ma inevitabile, da Judi

MacIntosh, la quale li informava che il vicecommissario desiderava vederli.

«Vi aspetta» annunciò loro non appena si presentarono. «Non c’è da

preoccuparsi. Pare che al ministero degli Interni siano tutti soddisfatti»

aggiunse.

Lynley non vedeva come potessero essere soddisfatti, con tutti gli illeciti

che erano emersi, dal tentativo di insabbiamento all’omicidio. Per Clive

Druitt, tuttavia, era fondamentale dimostrare che il figlio era innocente, un

uomo di Chiesa per bene, e questa missione era stata portata a termine:

l’assassino era stato arrestato e sarebbe stato processato e la figura del

diacono era stata completamente riabilitata. Il padre della vittima era dunque

stato accontentato. Come avrebbero reagito i media e come avrebbero gestito

lo scandalo New Scotland Yard, il ministero degli Interni e la West Mercia

Police era tutto da vedere, ma non dipendeva da Hillier e questo all’onorevole

era stato fatto presente.

«La prima testa a cadere sarà quella di Wyatt» disse Hillier a Lynley e

Barbara. «È stato lui a nominare Clover Freeman sua vice e tocca a lui pagare

le conseguenze di una decisione così incauta. Complimenti: avete entrambi

svolto un ottimo lavoro. Quentin Walker vi ringrazia sentitamente. Mi ha

pregato di dirvelo.»

Erano stati convocati per questo, sembrava, perché subito dopo vennero

congedati. Lynley, perlomeno. Quando stavano per uscire dall’ufficio, infatti,

Hillier disse a Barbara di restare.

Barbara lanciò un’occhiata preoccupata a Lynley, che però non poteva

intervenire in suo soccorso.

Uscendo, sentì che Hillier le diceva: «Io e lei dobbiamo fare anche un altro

discorso, sergente».

Li lasciò turbato: non sapeva che direzione avrebbe potuto prendere la loro

conversazione, ma non poteva fare altro che tornare nel proprio ufficio e

attendere aggiornamenti.

Non riuscì ad arrivarci, tuttavia, perché Dorothea Harriman, vedendolo

passare davanti alla stanza di Isabelle Ardery, lo bloccò. «Il sovrintendente

desidera conferire con lei» gli annunciò. «Ha appena telefonato Judi-con-la-i


per avvertire Sua Eccellenza numero due che Sua Eccellenza numero uno

l’aveva appena congedata». Abbassò la voce. «Davvero ha lasciato andare

solo lei e trattenuto il sergente investigativo Havers?»

«Ho sentito che le doveva ’fare un discorso’» confermò Lynley.

«Ahi ahi ahi» esclamò Dorothea. «Non ha sentito altro?»

«Non sono bravo come lei, Dee» replicò Lynley. «Vado?» chiese poi,

indicando l’ufficio di Isabelle.

«Prego, prego, si accomodi» disse Dorothea. «Se permette, però, la avverto

che non è rimasta contentissima del fatto che abbia parlato prima con Hillier

che con lei».

Victoria

Londra

Isabelle si aspettava che venisse rispettata la gerarchia: Thomas Lynley e

Barbara Havers dovevano fare rapporto a lei, e lei doveva riferire a Hillier,

che a sua volta doveva rispondere al parlamentare di riferimento di Clive

Druitt. Non le piaceva essere bypassata.

Già questo era irritante, ma che Hillier avesse trattenuto Barbara e

congedato Lynley era intollerabile.

«Sovrintendente.» Lynley si rivolse a Isabelle con il massimo rispetto.

«Come mai siete andati da Hillier senza prima parlare con me?» Si rese

conto di essere stata troppo brusca, ma era tardi per fare marcia indietro.

«Eravamo arrivati da meno di cinque minuti, quando siamo stati

convocati» rispose Lynley, con quella sua cortesia esasperante.

«E il sergente Havers è ancora da Hillier?»

«Il vicecommissario le ha chiesto di restare.»

«È soddisfatto che il caso sia stato risolto?»

«Non ha stappato lo champagne. Abbiamo evitato che gli avvocati di Clive

Druitt ci facessero causa, sì, ma la quantità di pasticci e sotterfugi avvenuti da

marzo a ora ha scatenato l’indignazione dei media e dell’opinione pubblica.»

«Ti riferisci a me, vero?»

«Veramente, no. Le responsabilità sono condivise fra molti. Quello messo

peggio è il comandante della West Mercia Police, Patrick Wyatt. È successo

tutto nella sua giurisdizione e quindi...»


Isabelle lo interruppe. «Hillier le voleva parlare del fatto che bevo, vero? È

per questo che le ha chiesto di rimanere nel suo ufficio, lo sappiamo tutti e

due. Mi ha telefonato una sera in cui non ero molto in forma. Ho risposto solo

perché credevo che fosse Bob.»

Lynley non fece commenti, ma andò a chiudere la porta e Isabelle capì che

le voleva fare la predica. Non aveva voglia di sentirsi sgridare né da lui né da

nessun altro, però. Non avrebbe sopportato che Lynley le sottolineasse la

similitudine fra la situazione di Isabelle e quella del «minatore incenerito

dalla esplosione ch’egli stesso aveva preparato».

«Va bene, grazie. Puoi andare. Mi avevi avvertito, Tommy, così come mi

aveva avvertito Bob. Ho provato anch’io ad avvertire me stessa, ma non ci

sono riuscita» disse.

Lynley fu così cortese da guardarsi le scarpe per lasciarle il tempo di

ricomporsi. Isabelle si innervosì, perché non aveva nessun bisogno di

ricomporsi, era già composta, in perfetta forma fisica e mentale, lucida e tutto

il resto. Lynley le chiese se poteva sedersi.

«Non c’è granché da dire, Tommy. Volevo semplicemente conferma del

fatto che Hillier ha chiesto a Barbara di fermarsi nel suo ufficio perché le

doveva parlare a tu per tu. Sappiamo che cosa significa. Non c’è molto da

aggiungere.»

«Isabelle, vorrei che mi stessi a sentire, per una volta. Tu non mi hai mai

voluto...»

«Lo so. Non c’è bisogno che tu me lo ricordi. Mi sono cacciata nei guai da

sola, l’ho capito il giorno in cui mi sono trovata sulla porta di casa Dee

Harriman armata di minestra e sandwich, maledetta lei. Si è resa conto della

situazione e senza dubbio è andata a spifferarlo in giro.»

«Dee Harriman è una persona leale e devota, Isabelle» ribatté Lynley. «E

non è...»

«Fa i suoi interessi come tutti, qui dentro.»

«Sei ingiusta. Ha dato ampia dimostrazione di lealtà e non è...»

«Piantala, per favore. Non la difendere.»

«... non è l’unica. Se ancora non hai capito che...»

«La pianti di farmi la predica?»

«E tu la pianti di interrompermi?»

Erano vicinissimi, faccia a faccia. Isabelle provò un moto di imbarazzo e

andò a sedersi dietro la scrivania, facendogli sgarbatamente segno di


accomodarsi dall’altra parte. «Sei insopportabile, lo sei sempre stato. Lo so,

ho mandato in vacca la mia vita, la mia carriera, il mio futuro, il rapporto con

i miei figli. Credi che non lo sappia? Che abbia bisogno che me lo spieghi

tu?»

«No, ma vorrei comunque che tu ti rendessi conto che...»

«Quando dico che non voglio prediche, non voglio prediche!»

«Neanch’io voglio interruzioni.»

Lynley aveva alzato la voce. Perdeva la calma talmente di rado che per

Isabelle era quasi un piacere spingerlo ad alterarsi. Purtroppo, però, avevano

ricominciato a tremarle le mani e aveva troppi pensieri per la testa per potersi

godere quel momento.

Lynley trasse un respiro profondo. «Sto solo cercando di dirti che hai

frainteso Barbara Havers sin dal principio. Non hai mai voluto vedere

l’enorme contributo che Barbara dà a questo dipartimento, Isabelle, ma penso

che tu...»

«Smettila di chiamarmi...»

«Isabelle» ripeté lui con più enfasi di quanto fosse strettamente necessario.

«Barbara Havers sa tenere la bocca chiusa. Non è e non è mai stata una

spiona. Quanto al fatto che bevi, è solo ed esclusivamente un tuo problema.

Non mettere in mezzo né Barbara né Dee.» Si alzò e si diresse verso la porta.

«Ti ho forse dato il permesso di andartene?» si alterò Isabelle. Lui fece un

cenno come a dire che non gli interessava, prese la porta e uscì senza

richiuderla.

Le mani di Isabelle erano scosse da un tremito irrefrenabile. Le allacciò e

le posò sulla scrivania. Strinse i denti. Aveva un bisogno folle di... Sì, dopo

quel colloquio così antipatico, non poteva proprio farne a meno.

Spinse indietro la sedia e si allontanò dalla scrivania e dall’ultimo cassetto

a destra, in cui teneva la sua scorta. Andò alla finestra. Il cielo che si stava

rapidamente coprendo, l’asfalto, il marciapiede, gli uccellini. Non avrebbe

ceduto. Era padrona di sé e della propria vita, come sempre, si disse. Solo che

adesso era un po’ diverso. Un po’ tanto diverso. Aveva detto basta a una serie

di cattive abitudini. Non ci sarebbe ricascata. Assolutamente. Ce la poteva

fare. Bastava tenere a bada il cervello. Era il cervello che l’aveva tratta in

inganno con segnali fasulli, con l’idea che bere le serviva per rilassarsi, per

dormire, per eliminare le difficoltà e alleviare la tensione. Si era convinta che

fosse indispensabile, ma non era vero. Poteva farne a meno.


Peccato che si fosse spinta ben oltre quel limite. Lo testimoniava il tremito

alle mani, che si placava solo dopo che la vodka era entrata in circolo. Non

tremava perché si era messa in testa delle idee sbagliate su quello di cui aveva

bisogno per rilassarsi, dormire, eliminare le difficoltà e alleviare la tensione.

Ormai tremava perché l’alcol era diventato un’esigenza fisica. Quella che

prima era una scelta, adesso era una necessità.

Non poteva tollerarlo.

Doveva farlo.

Si avvicinò alla scrivania.

Victoria Street

Londra

Barbara rimase spiazzata, quando Hillier cominciò il loro colloquio privato

complimentandosi per il suo aspetto. Le sarebbe piaciuto credere che il

vicecommissario, sfidando il rischio di essere accusato di molestie, avesse

deciso di esprimere un apprezzamento sul suo fisico scattante, risultato di

severi allenamenti di tip tap, ma bisognava considerare che il suo

abbigliamento non evidenziava affatto il suo fisico scattante, sempre che lo si

potesse definire così. Indossava pantaloni larghi, una camicetta stropicciata e

scarpe con i lacci. Era comunque un passo avanti rispetto alle mise di una

volta, per cui ringraziò Hillier e, guardinga, attese di vedere che piega

avrebbe preso la conversazione.

«A quanto ho capito, lei ha cambiato radicalmente atteggiamento, in questi

ultimi tempi» continuò Hillier.

Barbara cercò di assumere un’espressione aperta e disponibile, ma

rimpianse di non avere al proprio fianco Lynley, l’unico in grado di salvarla,

grazie al suo genetico savoir faire, in caso di eventuali richieste di spiegazioni

da parte di Hillier su presunti errori da lei commessi.

«Sono contento che la seconda trasferta a Ludlow abbia prodotto risultati

migliori della prima» continuò Hillier. «Secondo lei, che cosa era andato

storto durante la prima visita?»

A Barbara venne la pelle d’oca. Rifletté sulle varie impostazioni che

poteva dare alla sua risposta e sulle relative conseguenze. «Era un caso

complesso, in cui determinati elementi, che prima davano una certa


impressione, sono poi risultati completamente diversi» disse. Si augurò che

fosse una spiegazione sufficiente.

Non lo era. «Può essere più precisa, per cortesia? Avendo partecipato sia

alla prima sia alla seconda trasferta, è l’unica che...»

«Ah, in quel senso? Be’, il sovrintendente e io non ci siamo sempre trovate

d’accordo. Succede. Forse io sono stata un po’ troppo... Un po’ poco...»

Hillier la fissava con sguardo da avvoltoio. «Parli pure liberamente,

sergente Havers.»

«Volevo fare un lavoro come si deve, capisce? Volevo essere sicura di aver

unito tutti i puntini, non so se mi spiego. Forse è per questo che sono stata più

ligia del solito.»

«Cosa mi dice del sovrintendente?»

«In che senso?»

«Univa i puntini? Non li univa?»

Barbara aveva paura di avventurarsi in quelle sabbie mobili. «Non credo di

capire, mi scusi. Il sovrintendente Ardery lavora bene, a quanto mi risulta»

rispose.

«Davvero?»

«Sissignore. Certo. Senza dubbio.» Barbara deglutì. Si era lasciata

prendere la mano: tre affermative erano troppe.

Hillier continuava a fissarla. Sembrava una sfida a chi abbassava prima lo

sguardo. «So che i rapporti fra lei e il sovrintendente Ardery sono tesi,

sergente, e non voglio che nascano problemi.»

«Ma no, assolutamente! Non so cosa le sia stato riferito e neanche glielo

chiedo, ma a parte qualche piccolo... Vede, l’agente ausiliario di Ludlow mi

ha mandato la registrazione di una telefonata, che io avevo richiesto

nonostante il sovrintendente mi avesse detto che bastava la trascrizione, che

già avevamo, e io nel mio rapporto ho scritto che...»

«Non è su questo che le chiedevo delucidazioni.»

«Mi scusi.»

Hillier si protese verso di lei e Barbara si agitò ulteriormente: era un gesto

confidenziale che confliggeva con la natura tutt’altro che confidenziale dei

suoi rapporti con il vicecommissario. «Adesso le faccio una domanda e vorrei

che mi rispondesse in tutta franchezza. Va bene?» le disse.

Ossignore! Barbara annuì.

«Perfetto. Ho l’impressione che il sovrintendente abbia ecceduto con il


bere durante la trasferta a Ludlow e che in talune occasioni sia arrivata al

punto di ubriacarsi. Tenuto conto di ciò che è successo al suo ritorno dallo

Shropshire, vorrei che lei mi desse una conferma riguardo alla sua condotta a

Ludlow, prima di prendere provvedimenti.»

Barbara non prevedeva che le venisse spianata la strada fino a quel punto.

Se l’avesse imboccata, non avrebbe fatto soltanto i propri interessi, ma quelli

di tutto il dipartimento. L’avrebbero ringraziata in molti, se avesse vuotato il

sacco.

Aggrottò la fronte, annuì e si augurò di avere un’espressione

ragionevolmente pensierosa. «Io non l’ho vista bere, commissario.»

Hillier la guardò di nuovo con occhi da rapace. «Sicura?»

Barbara si rese conto che quella domanda aveva più di un significato, ma

la risposta che poteva dare era una sola.

«Sicurissima.»

Victoria Street

Londra

Barbara ebbe appena il tempo di tornare alla sua scrivania che le squillò il

telefono. Non aveva voglia di parlare con nessuno, ma non poteva fare a

meno di rispondere. Era Dorothea Harriman. Quando riconobbe la voce, si

rese conto che avrebbe dovuto aspettarsi una sua telefonata. Quella sera

avevano lezione di ballo e Dee voleva certamente mettersi d’accordo.

Si scambiarono un paio di convenevoli, poi Barbara cercò di anticiparla:

«Io stasera non vengo, Dee. Sono stanca e devo riposare».

«Stasera?» fu la replica inattesa di Dee. «Ah, intende a Southall! Non

importa, vengo io da lei domani sera. Basta spostare il tavolo della cucina per

fare spazio. Umaymah è uscita dal gruppo, tra l’altro. Ha proprio lasciato il

corso. È incinta. Ma non si preoccupi, ho modificato la coreografia.»

«Dee...»

«Comunque non era per questo che la chiamavo. È convocata.»

«Di nuovo?»

«Stavolta è il sovrintendente a volerle parlare.» Abbassò la voce. «Le

consiglio di venire subito. È sconvolta dopo un colloquio a porte chiuse con

l’ispettore investigativo Lynley che non sembra essersi concluso bene.»


Barbara seguì il consiglio. Non parlava a tu per tu con Isabelle Ardery da

quando erano tornate insieme da Ludlow e avrebbe preferito evitare, ma non

vedeva come.

Isabelle Ardery era seduta alla scrivania, quando Barbara entrò. Le chiese

di chiudere la porta e accomodarsi e Barbara non lo trovò un segnale

incoraggiante, ma ubbidì. Si sistemò di fronte a quella piazza d’armi che era

la scrivania del sovrintendente e notò che era particolarmente in ordine. Quasi

del tutto sgombra, a dire il vero. La seconda cosa che notò fu che Isabelle era

immobile come una statua, dita intrecciate e faccia serissima.

«L’ispettore Lynley mi ha informato che avete risolto brillantemente il

caso» disse. «E che il signor Druitt è rimasto contento.»

Barbara percepì l’ostilità di Isabelle. «Una volta capita la storia della stola,

dei colori liturgici e tutto il resto... Voglio dire, appena lei ha telefonato

all’ispettore per dirglielo...» replicò, per non correre rischi.

«Non cerchi di indorare la pillola, Barbara. Sono consapevole di aver

intralciato le indagini. Mi è stato riferito che ha parlato a tu per tu con il

vicecommissario, a proposito.»

Barbara rispose in fretta. «Sì, mi ha chiesto di rimanere dopo che abbiamo

finito di far rapporto perché voleva sapere se...»

«Basta così. Non aggiunga altro.»

Barbara deglutì e iniziò a sudare.

Isabelle aprì un cassetto e tirò fuori un oggetto che Barbara riconobbe

immediatamente: era la sua pratica di trasferimento.

«Senta, capo, io... Per favore, non...» disse.

«Le ho chiesto di stare zitta, mi pare.» Isabelle usò un tono stizzito e aprì la

cartellina per prendere il foglio e spingerlo verso Barbara.

«Ma io ho fatto tutto quello che... Non mi sembra di... Per favore.»

«La prenda» disse Isabelle.

«Però...»

«La prenda, ho detto! Non le sto chiedendo di firmarla, sergente. Le sto

restituendo la sua domanda di trasferimento. Ha capito? È sua. Ne faccia

quello che vuole.»

«Che cosa? Vuol dire che...?»

«Prenda quella domanda, sergente.»

Barbara guardò il foglio, poi guardò Isabelle. «Non... Senta, non vuole che

le racconti cosa ci siamo detti con Hillier?»


«No.»

«Quindi io questa domanda di trasferimento la posso...?»

«Barbara, non sto parlando a vanvera. Io non parlo mai a vanvera. Se le

dico che può farne quello che vuole, può farne quello che vuole.»

Barbara prese il foglio con un gesto lento e misurato. Temeva che da un

momento all’altro Isabelle scoppiasse a ridere ed esclamasse che era tutto uno

scherzo, ma si sbagliava. Si mise in grembo la domanda di trasferimento e

aspettò che Isabelle aggiungesse qualcosa. Siccome taceva, dopo un po’ si

alzò.

«Grazie, sovrintendente» disse. Isabelle fece un cenno con il capo e

Barbara si avviò verso la porta. Prima di uscire, però, si fermò. «Se posso,

l’ispettore le ha per caso...?»

«L’ispettore Lynley non c’entra nulla» la interruppe Isabelle. «Questa è

una cosa fra noi due, Barbara.»

Victoria Street

Londra

Quando arrivò la telefonata del vicecommissario, Isabelle era pronta. Aveva

preso i provvedimenti necessari e aveva parlato con Bob, il quale le aveva

fornito rassicurazioni e le aveva dato ufficialmente la sua benedizione. Non

avendo nulla di scritto, a Isabelle non restava che prenderlo in parola.

Sistemato quel che c’era da sistemare, non era rimasto che aspettare di essere

convocata da Hillier tramite Judi-con-la-i.

Aveva raccolto mortificata le poche cose di sua proprietà: una foto dei

gemelli, una di lei e i gemelli, una tazza e dieci mignon di vodka. Era stato

tutto nella ventiquattrore, dove fino a quel momento Isabelle aveva riposto i

verbali redatti dai suoi sottoposti. Prese anche la borsa a spalla e si avviò

verso la porta. Sulla soglia, si fermò a dare un’ultima occhiata.

Che strano, pensò. Era soltanto una delle tante stanze di quel palazzo, no?

Per troppi anni aveva dato troppo peso a quell’ufficio, e a molti altri.

Spense le luci e chiuse. Si rallegrò che fosse tardi e non ci fosse nessuno in

giro. Preferiva non dover dare spiegazioni a nessuno.

Andò diretta da Hillier. La porta era aperta: il vicecommissario la

aspettava. Judi MacIntosh era già andata a casa e Hillier era seduto alla


scrivania. Isabelle rimase colpita dalla somiglianza fra la sua posizione e

quella che aveva assunto lei per ricevere Barbara Havers. Come lei, Hillier

teneva le mani giunte sopra la scrivania. A differenza di lei, giocherellava con

una matita.

Entrò e Hillier le disse di sedersi. Rispose che preferiva stare in piedi.

Hillier annuì e restò seduto.

Isabelle cominciò a parlare. «Mi piacerebbe poterle dire che frequenterò un

gruppo di auto-aiuto e che basterà quello. Ci andrei tutti i giorni, se pensassi

che fosse utile. Due volte al giorno, se necessario. Non ne ho mai frequentato

uno, anche se più di una volta ho pensato di farlo, ma temo di aver superato il

livello di guardia. Credo di aver sviluppato una dipendenza tale da richiedere

supervisione medica. Ho trovato una clinica che offre programmi di sei

settimane. Posso ricoverarmi subito.»

«Dov’è?» le chiese.

«Sull’isola di Wight. Il programma è diviso in due fasi: disintossicazione e

riabilitazione. Per la prima hanno ipotizzato una settimana.»

«E per la seconda?»

«Tutta la vita. Nel senso che nessuno recupera al cento per cento. Si

impara a conviverci.»

«A convivere con cosa?»

«Con la voglia di bere e con ciò che scatena la voglia di bere. Perciò, dopo

la disintossicazione, una volta che il bisogno fisico sparisce, ci sono cinque

settimane di colloqui, analisi e quant’altro per il bisogno psicologico,

dopodiché c’è la fase degli incontri quotidiani. Ne organizzano in tutta

Londra, al mattino, al pomeriggio, alla sera... Li si può frequentare a

volontà.»

Hillier annuì e posò la matita, ma vi appoggiò le mani sopra e cominciò a

farla rotolare sotto le dita.

«Vorrei avere la certezza di farcela, giurarle che non succederà più, ma in

tutta onestà non credo di poterlo promettere» riprese Isabelle.

«E questo dovrebbe tranquillizzarmi?»

«Glielo sto dicendo perché è così che mi sento in questo momento.» Si

sedette, posò la ventiquattrore per terra e tenne la borsa sulle gambe. «Mi

sono ripetuta tante volte che potevo smettere, e l’ho anche fatto. Ci sono

riuscita per un mese, due, giusto il tempo per convincermi di non esserne

schiava. In realtà, sono dipendente da anni.»


Hillier annuì. Isabelle non si aspettava lodi sperticate, sapeva di non

meritarle, ma avrebbe voluto qualcosa da lui, un briciolo di umanità. Ed era

ridicolo, visto che lei non era capace di dimostrare umanità a nessuno da

anni. Aveva bisogno di comprensione, compassione, perdono: qualsiasi cosa,

ma non quel silenzio prolungato.

«Vorrei che mi concedesse un periodo di aspettativa» disse. «Se potessi

mantenere il posto di lavoro, vedrei una luce alla fine del tunnel, mi

renderebbe più facile guardare avanti. Non sarà una passeggiata comunque,

ma almeno avrei... un obiettivo.»

Hillier si alzò e si avvicinò alle finestre. Stava arrivando giugno, con il suo

proverbiale tempo incerto, e piovigginava. In quel momento le gocce

punteggiavano soltanto i vetri, ma nel giro di pochissimo si sarebbero aperte

le cateratte.

«Non avrei dato a lei la carica di sovrintendente, se Lynley avesse

accettato la promozione. Lo sa, Isabelle, vero?» disse Hillier, senza voltarsi.

«Sì, sir David.»

«Ma non l’avrei promossa, se non l’avessi creduta all’altezza. La credo

ancora all’altezza, Isabelle, non per come è adesso, ma per come potrebbe

essere.»

Isabelle non parlò. Era gratificata, ma sapeva che Hillier non aveva ancora

finito.

Infatti il vicecommissario si voltò verso di lei e la squadrò da capo a piedi,

poi tornò lentamente a sedersi e giunse di nuovo le mani.

«Le concedo l’aspettativa» disse alla fine. «Vinca i suoi demoni e torni: ne

riparleremo.»

«Grazie, sir David.»

«Quando pensa di partire?»

«Subito.»

«Vento in poppa, allora.»

Isabelle si sforzò di sorridere senza riuscirci granché bene, raccolse la

ventiquattrore, salutò Hillier e si avviò. Il vicecommissario la bloccò. «A

proposito, il sergente Havers non mi ha detto nulla. Sappia che gliel’ho

chiesto espressamente e ha negato. Si è rifiutata di gettarla in pasto alle

belve.»

«Tommy me l’aveva preannunciato» replicò Isabelle. Poi, siccome era la

verità ed era giusto dirlo, aggiunse: «È brava nel suo lavoro, sir David. Fa


ammattire tutti quanti, ma è un’ottima professionista».

Hillier sospirò. «Mi faciliterebbe la vita, sa?»

«Che cosa?»

«Se fosse un’inetta totale. Ma non lo è, lo so. E neanche Lynley, che mi fa

ammattire quasi quanto la Havers.»

A quel punto sorridere le venne più facile. «Non posso che essere

d’accordo, sir David. Ma bisogna ammettere che sanno fare il loro lavoro»

disse a Hillier.


6 LUGLIO

Southall

Londra

«Barbara non ti perdonerà mai: ne sei consapevole, vero?» chiese Daidre.

«Ha detto chiaro e tondo che non voleva conoscenti fra il pubblico.»

«Col tempo mi ringrazierà. Lì per lì si arrabbierà moltissimo, ma poi le

passerà.»

«Tu sei pazzo» fu la replica di Daidre.

«’Non son pazzo, altro che quando il vento spira dal nord-nord-ovest;

quando vien da mezzodì, so distinguere un falco da un airone’.» Lynley

strinse il volante della Healey Elliott e la guardò di traverso. «Sono contento

che tu sia tornata a Londra, Daidre.»

L’ultima assenza era stata relativamente breve, ma da un mese e mezzo a

quella parte le continue trasferte in Cornovaglia avevano assorbito

praticamente tutto il tempo libero di Daidre. Lynley avrebbe voluto

accompagnarla, ma lei preferiva di no. Erano la sua famiglia, problemi suoi,

non era il caso che lui se li accollasse.

La madre biologica era morta, tradita come tanti dalle cure miracolose in

cui aveva riposto ogni speranza. Era stata una lunga agonia, resa ancora più

dolorosa dalle sue credenze e dalle condizioni di vita sue, del marito e degli

altri due figli adulti. Aveva rifiutato fino all’ultimo il ricovero in ospedale e

persino le cure palliative perché Dio le avrebbe indicato la strada da

percorrere con i suoi rimedi miracolosi.

Dopo che era morta, Daidre si era posta il problema di come comportarsi

con il padre e con i fratelli e, anche in quel caso, aveva rifiutato l’aiuto che

Lynley le aveva gentilmente offerto. «Che cosa siamo l’uno per l’altra,

allora?» le aveva chiesto lui. «Quello che devo fare non ha nulla a che vedere

con il nostro rapporto» aveva risposto Daidre. «Come io non metto becco nei

tuoi affari di famiglia, Tommy, ti pregherei di non intrometterti nei miei.»


Lynley avrebbe voluto che Daidre si intromettesse un po’ di più, per la

verità. Le aveva espresso il desiderio di portarla a Howenstow e presentarla a

sua madre, suo fratello, sua sorella e sua nipote, ma Daidre per il momento

aveva sempre svicolato.

Lynley dava per scontato che prima o poi Daidre avrebbe capitolato, anche

perché aveva ceduto il cottage di Polcare Cove ai fratelli, Goron e Gwynder

Udy, i quali avevano accettato di lasciare il caravan che invece il padre si

rifiutava di abbandonare, convinto contro ogni evidenza di poter diventare

ricco trovando stagno nei fiumi. I due gemelli si stavano trasferendo nel

rifugio in campagna della sorella maggiore, un villino isolato dove Daidre

trascorreva i weekend all’epoca in cui lavorava allo zoo di Bristol. Era

abbastanza spaziosa, aveva spiegato a Lynley: i suoi fratelli avrebbero avuto

una camera per uno e diviso il bagno.

Quando Lynley le aveva fatto notare «E tu, Daidre? Sei così affezionata a

quel posto!» aveva risposto: «Posso continuare ad andarci: basta che dorma

sul divano...»

«Così smetterà di essere un buen retiro.»

«Per certi versi, sì. Ma non posso lasciarli in quel caravan e questa è

l’unica soluzione praticabile. Non verrebbero mai a stare in città.»

«Sono disposti a trasferirsi, però.»

«Sono terrorizzati e li si può capire: hanno vissuto in quel posto orrendo da

quando, a diciott’anni, sono tornati dai nostri genitori dopo un affido

disastroso. Meritano di più, poveracci. Offrire loro la mia seconda casa era il

minimo che potessi fare.»

«Mi dispiace vederti così...»

«Tommy, io e te abbiamo fatto vite talmente diverse che non penso tu

possa capire.»

«Sei ingiusta.»

«Davvero? Pensa se ti avessero allontanato dai tuoi genitori e fossi finito a

Falmouth in una casa bellissima, presso una famiglia meravigliosa in grado di

darti cose che fino a quel momento non ti saresti mai sognato di avere, e poi

ti fossi reso conto che i tuoi fratelli erano stati molto più sfortunati e non

avevano ricevuto le cose che avevi ricevuto tu. Come ti sentiresti?»

«Capisco.»

«No, non credo. Non ci sei passato. Goron e Gwynder sono stati defraudati

dalla possibilità di condurre una vita normale e io voglio fare il possibile per


restituirgliela. Chiamali sensi di colpa o come vuoi: il fatto è che non voglio

abbandonarli a un destino orribile come il loro passato.»

Lynley detestava quel genere di discorsi, che lo condannavano senza

appello al ruolo di chi non può capire. Se ribatteva, la discussione andava

avanti per ore. A un certo punto, era meglio lasciar perdere. Ma sebbene

fosse bravo a tacere, si rendeva conto di essere molto meno bravo a

dimenticare.

Alla fine, però, si era detto che poteva essere una soluzione vantaggiosa:

Daidre non aveva fatto una piega a dormire su un materasso per terra durante

i lavori di ristrutturazione della casa di Londra, ma con ogni probabilità non

le sarebbe particolarmente piaciuto riposare sul divano ogni volta che

decideva di andare in Cornovaglia e, tutto sommato, avrebbe preferito stare

con lui nella tenuta di famiglia nei pressi di Lamorna Cove.

Barbara gli aveva fatto notare che l’ipotesi che Daidre acconsentisse a un

soggiorno nell’enorme villa in Cornovaglia dell’ispettore era remota. «Non ci

scommetterei neanche un centesimo.» Andava detto, però, che Barbara

Havers non era propriamente l’epitome dell’ottimismo.

«Potrebbe offendersi a morte, sai?» disse Daidre, come leggendogli nel

pensiero.

Lynley capì che voleva cambiare discorso e mentì a cuor leggero. «Sì, lo

so.» In realtà, lo riteneva improbabile. Era sicuro che il suo piano si sarebbe

concluso brillantemente e Barbara alla fine lo avrebbe ringraziato.

«Mi conforta che tu ti renda conto del rischio che corri, Tommy. Dovevi

proprio coinvolgere tutti?»

«Mi è sembrato più semplice così» rispose Lynley. «La presenza di

Winston era imprescindibile.»

«Va bene. Ma quella dei suoi genitori?»

«Non potevo impedirgli di portare anche loro. Winston non ha segreti per i

suoi genitori e pare che tengano moltissimo a vedere Barbara Havers in

versione tippettara. Quasi quanto a vedere Barbara Havers prendere lezioni di

cucina da Alice Nkata.»

«E tutti gli altri a cui l’hai detto?»

«Quali altri? Denton, intendi?»

«Non fare il finto tonto: Denton, Simon, Deborah, Philip Hale e signora...

Chi altro hai coinvolto, Tommy?»

«La famiglia di Dorothea ci sarà senz’altro, ma li ha invitati lei.»


«Sei un uomo impossibile» concluse Daidre. «Non immaginavo avessi una

vena così maligna.»

Il saggio di tip tap si teneva vicino a dove si era tenuto il corso durante

l’anno, all’interno di un centro culturale di quartiere. Barbara, ovviamente,

non ne aveva fatto parola con nessuno, ma Dorothea era stata lieta di indicare

all’ispettore investigativo una pagina web dove erano riportati luogo, data e

orario dell’evento, con tanto di programma.

Si preannunciava una serata indimenticabile, pensò Lynley: non stava nella

pelle all’idea di vedere Barbara e Dorothea conquistare imperitura fama come

ballerine di tip tap.

Southall

Londra

Barbara era fuori di sé. Non soltanto il loro numero era stato relegato in

quello che veniva chiamato con un eufemismo «Secondo Atto», ma era

addirittura il penultimo della serata. Questo significava che il suo piano –

fuggire dal centro culturale entro un’ora dall’arrivo – andava a farsi friggere.

Ma la cosa più preoccupante era che, quando aveva sbirciato il pubblico da

dietro le quinte, aveva intravisto Winston Nkata. Non passava facilmente

inosservato, essendo alto due metri come i suoi genitori, pure loro in sala ad

assistere alla sua pubblica umiliazione.

Che Winston fosse presente al suo saggio di danza era inquietante – anzi,

no: era irritante oltre ogni limite – ma che fra il pubblico ci fossero anche

Simon St. James e sua moglie Deborah – vecchi amici di Lynley – e... Era

Charlie Denton quello che stava prendendo posto vicino a...? Era il padre di

Deborah, quello seminascosto fra tre donne con il burqa? Vedendo quelle

persone, Barbara passò dalla rabbia nei confronti di Lynley all’invidia per

l’abbigliamento delle tre signore in nero: quanto avrebbe voluto anche lei

sparire sotto un lenzuolo di qualsiasi colore, anziché essere costretta a

indossare i costumi disegnati da Dorothea!

Era partita con un’idea stile Anni Ruggenti. A sentir lei, ci si era buttata

anima e corpo ed era rimasta estremamente delusa nell’apprendere che la

musica di Cole Porter era posteriore. «Meglio anni Trenta» aveva suggerito

Kaz. «Art Deco e cose del genere.»


Perciò Dorothea aveva rinunciato a frange, perle e piumaggi per

concentrarsi sui costumi da marinaretta. Barbara non lo riteneva un gran

miglioramento, ma era contenta di non dover mostrare le gambe.

Avevano fatto prove su prove, da quando Barbara era tornata dallo

Shropshire. Dorothea sosteneva occorresse memorizzare i passi e sviluppare

automatismi tali per cui i muscoli reagivano istintivamente alla musica. «È la

memoria muscolare» aveva dichiarato. «Quella per cui non ci si scorda mai

come si va in bicicletta.»

«Altra attività in cui non intendo esibirmi di fronte a un pubblico più o

meno pagante» aveva risposto Barbara. Invece era proprio sul punto di

esibirsi. Dopo il primo atto e l’intervallo, anche il secondo atto volgeva al

termine.

Stava per salire sul palco un gruppetto di tippettari imbranati come quelli

che li avevano preceduti, dopo i quali sarebbe toccato a Barbara e Dorothea

presentare il loro numero. Erano pronte: vestite alla marinara con tanto di

berrettino e bastone da passeggio. Barbara aveva tentato in tutti i modi di

convincere Dorothea a rinunciare al bastone con la scusa che le sembrava

poco marinaresco. Da quando in qua lo si usa a bordo delle navi? Dorothea

ribatteva che «dava un tocco particolare all’insieme». «Non vede, Barbara?»

Veramente no, Barbara non vedeva. Ma non era il caso di litigare per un

bastone, no?

Perlomeno, si disse cercando di consolarsi, non era fra gli otto ballerini

vestiti da frutti che stavano danzando in quel momento intorno a un oggetto

che sembrava una zattera gonfiabile ma sarebbe dovuta essere una fruttiera. A

qualcuno era venuta la brillante idea di imbastire una coreografia sulle note di

Hooray for Hollywood a base di frutti che prendevano vita. Barbara avrebbe

provato pena per l’ananas, se avesse avuto le energie psicofisiche per

compatire qualcun altro a parte se stessa.

Quando il pubblico applaudì entusiasta il numero della fruttiera,

nonostante la banana e il melone a un certo punto si fossero urtati ruzzolando

per terra, Dorothea si mise a battere le mani tutta emozionata. «Ci siamo! È

arrivato il momento per cui ci siamo impegnate tanto!» gridò. Barbara

avrebbe voluto ribattere che lei, più che per quel momento, si era impegnata a

cercare di rompersi una caviglia, ma non era riuscita a infortunarsi abbastanza

gravemente. Aveva solo un’unghia incarnita. «Faremo faville!» esclamò

Dorothea.


«È stata lei a dirlo a Winston?» chiese Barbara truce.

Dorothea si batté una mano sul petto. «Che cosa? Il sergente investigativo

Nkata è venuto a vederci? Perché avrei dovuto dire a lui o chiunque altro...?»

«Per avere una claque, suppongo.»

«Sergente investigativo Havers, non abbiamo alcun bisogno di portarci la

claque. Saremo sensazionali!»

«Prendo nota del fatto che non ha risposto alla mia domanda, Dee.»

«Quale domanda?»

«Se è stata lei a informare Winston di questo evento straordinario.»

Dorothea, che si era chinata per allacciarsi le scarpe da tip tap, si tirò su.

«L’avrà saputo dall’ispettore investigativo» rispose.

«Che cosa?»

Dorothea si coprì la bocca con una mano. «Non potevo non dargli neanche

un piccolo indizio! Ha insistito tanto... E poi ha promesso di portarle una

sorpresa. Non le piacciono le sorprese, Barbara?» farfugliò.

«Se la sorpresa consiste nel sergente Nkata e famiglia, più tutti gli amici e

conoscenti di Lynley, ne avrei fatto volentieri a meno. È fortunata che non le

lancio le claquette, Dee.»

«Non gliel’ho detto io! Mi sono limitata a dirgli l’indirizzo del sito web.

L’avrà scoperto lì, giuro. Ho messo bene in chiaro che più di questo non avrei

rivelato.»

«A quel punto era in grado di trovare da solo tutto ciò che gli serviva.»

«Su, su, non faccia così!» disse Dorothea. «Attenzione: sta partendo la

musica. E vai col Cincinnati!»

Entrarono in scena danzando e Barbara si disse che tutto sommato non

sarebbe stata la fine del mondo, se anche i suoi colleghi l’avessero vista fare

una brutta figura. Non sarebbe stata la prima volta, no? Che problema c’era?

Quando comparvero sul palco accompagnate dalle note di Cole Porter,

dalla platea partì un coro di incoraggiamento. Il brano non aveva nulla a che

fare con i costumi scelti, ma nessuno ci fece caso. Qualcuno intonò un «Barba-ra!

Bar-ba-ra!» Non era il caso di interpretarla come un’ovazione, ma

Barbara si disse che i suoi colleghi non avevano alcuna nozione di tip tap: se

anche lei e Dee avessero commesso qualche errore, nessuno se ne sarebbe

accorto. L’importante era non cadere rovinosamente per terra e fingere che

fosse tutto sotto controllo.

Andò come doveva andare: non fu un’esecuzione impeccabile ma neppure


disastrosa. Barbara riuscì a ricordare la sequenza iniziale e confuse il riffle

con lo scuffle soltanto una volta. Sorridere durante tutta la performance

mormorando sottovoce «riff, jump, shim sham, cramp roll» si rivelò

un’impresa e non sempre ci riuscì. Dorothea non smise un istante il sorriso a

trentadue denti, ma lei compensò lanciando qualche occhiata in direzione del

pubblico.

A un certo punto, però, rischiò di perdere completamente la

determinazione e la qualità della sua performance registrò un calo: la persona

seduta vicino a Charlie Denton non era il padre di Deborah St. James.

A ritmo di tip tap, Barbara guadagnò le quinte.

Southall

Londra

Non c’erano camerini e Barbara era dovuta andare al centro culturale vestita

da marinaretta. Gli unici a non arrivare già vestiti erano stati i ballerini con il

costume da frutta, che poteva essere indossato sopra gli abiti normali. Gli altri

non avevano la possibilità di uscire dal centro in incognito.

A Barbara quindi non restava che scappare via al più presto. Non si fermò

a riflettere sul perché sentiva di doversi rendere irreperibile: l’impulso della

fuga aveva preso il sopravvento.

Una volta raggiunte le quinte, sgomitò per farsi largo fra una coppia Frede-Ginger

e un gruppo di bambini in frac e cappello a cilindro. Sentì che Kaz

la chiamava: «Cosa c’è, Barbara?» Non si fermò: che pensasse pure a un

attacco di panico post-entrata in scena o a una vendetta premeditata nei

confronti di Dorothea, che l’aveva coinvolta contro la sua volontà. In fondo

Barbara poteva essersi storta una caviglia, oppure essere stata colta da una

colica improvvisa o dalla peste bubbonica: chissenefrega di cosa avrebbe

pensato Kaz. E chissenefrega di cosa avrebbe pensato Dorothea ritrovandosi

sola sul palco a terminare il numero come se l’uscita di scena di Barbara a

metà pezzo fosse stata deliberata. Quando al termine Barbara non si fosse

presentata a ricevere gli applausi, qualcuno forse l’avrebbe trovato strano, ma

chissenefrega anche di quello. Barbara voleva scappare il più lontano

possibile da lì: l’unica cosa che le importava era quella.

Il peggio era che... Non aveva idea del motivo per cui voleva scomparire. Il


peggio era che... Non aveva idea di cosa potesse voler dire la presenza fra il

pubblico dell’ispettore Salvatore Lo Bianco. Doveva averlo contattato

Lynley, e la cosa peggiore in assoluto era... Ma perché l’ispettore aveva

deciso di umiliarla in quel modo?

Si sentì chiamare, mentre si avvicinava alla Mini. Lynley non era uno

sciocco e, pur non intendendosi di tip tap, doveva aver capito al volo la

situazione. Aveva visto l’espressione di Barbara e poi quella di Dorothea e

aveva fatto due più due.

Si voltò di scatto: «Perché, ispettore? Perché?» gli urlò. «Credeva forse di

farmi piacere? Pensava che sarei stata contenta? Le avevo detto

esplicitamente di non venire. Gliel’avevo chiesto per favore. E lei invece, non

solo si presenta impunemente, ma si porta appresso anche Salvatore e il resto

della banda: Simon, Deborah, Charlie... Winston. Tutta la famiglia Nkata.

Già che c’era, poteva invitare anche i miei vicini di casa.»

Lynley alzò le mani in segno di resa. «Barbara, per cortesia, mi ascolti.»

«No!» urlò lei. «Non la ascolto, va bene? Chi si crede di essere per pensare

di sapere cosa mi fa piacere e cosa no? Lei non sa proprio niente! Mi ha

messo in ridicolo davanti ai miei colleghi, ai miei amici, davanti a...» Non

riuscì a finire. Era talmente furibonda che non sapeva trovare le parole per

esprimere la propria sacra indignazione.

«Non ho invitato io Salvatore» replicò Lynley. Poi, si girò a guardare il

centro culturale. «No, non è vero. L’ho invitato, sì, ma non dall’Italia.

Sarebbe venuto a Londra comunque. Si è iscritto a un corso di inglese»

precisò.

«Un corso di inglese? E perché?»

«Non ne ho idea. Glielo chieda. È ospite a casa mia e, quando abbiamo

capito che oggi sarebbe stato qui...»

«Ha pensato bene di farmi fare una figuraccia anche davanti a lui, oltre che

davanti a tutti gli altri.»

«Non capisco perché si ostini a trarre questa conclusione. Perché mai avrei

dovuto farle fare una figuraccia?»

«Perché... perché io faccio sempre figuracce!» urlò Barbara, di colpo

consapevole di una verità che aveva cercato di rimuovere per tutta la vita.

«Sono una buona a nulla, ecco cosa sono.»

«Non lo pensa veramente, Barbara.»

«Mi guardi! Sa che cosa significa essere come sono io, con i miei umili


natali, senza la possibilità di... di...» Si impose di non aggiungere altro,

perché sapeva che se avesse continuato sarebbe scoppiata a piangere e non

stava né in cielo né in terra che scoppiasse a piangere di fronte a Lynley, nel

parcheggio di un centro culturale di Southall, vestita da marinaretta.

«Venga con me, Barbara» disse Lynley in tono imperioso. Non era

propriamente la Voce con la V maiuscola, ma era comunque una voce

autorevole. Barbara restò dov’era e lui insistette: «Su, Barbara, faccia come

ho detto. Esegua gli ordini».

«E se non li eseguissi?» lo provocò lei.

«Le sconsiglio anche solo di provarci.»

Ciò detto, si voltò e se ne andò, senza neppure controllare che lei lo

seguisse. Barbara prese in considerazione di disubbidire, ma dal tono che

Lynley aveva usato intuiva che era meglio assecondarlo. E così gli andò

dietro.

Quando rientrò nel centro culturale, erano in corso i ringraziamenti dei

ballerini. Uno per uno, i partecipanti al saggio salivano sul palco a prendere

gli applausi di familiari, amici e sostenitori. Barbara ebbe un presentimento e

le parole di Lynley le confermarono che aveva visto giusto. «Quando sarà il

turno di Dorothea, salirà sul palco con lei, Barbara. Non per se stessa, ma per

Dee, che le è sinceramente affezionata. Come tutti noi, peraltro. Le vogliamo

tutti bene, Barbara, ma capisco che non è il momento per farglielo presente.»

«Non posso...»

«Sì che può, Barbara. Non solo può: deve» obiettò Lynley. «Passi dal

corridoio centrale e si comporti come se fosse una scelta intenzionale,

altrimenti dovrà risponderne a me. Sono stato chiaro, sergente?»

Barbara era sbigottita. Avrebbe voluto ribattere che Lynley non si poteva

permettere di trattarla in quel modo, che aveva torto marcio, che era scorretto

da parte sua far pesare il proprio status sociale. Aveva voglia di apostrofarlo

dicendogli: Lei non mi conosce, non sa niente di me, non sa cos’ho nella

testa e mai lo saprà.

Solo che non era vero. Non era mai stato vero. Thomas Lynley sapeva

molte più cose di quanto la gente credesse e soprattutto comprendeva la lotta

interiore di Barbara e lei questo lo sapeva proprio perché lui non vi aveva mai

fatto cenno e non ne parlava neanche in quel momento. Lo evitava per lei, per

rispetto nei suoi confronti.

Dorothea comparve sul palco e il pubblico la applaudì. Sorrideva, ma c’era


qualcosa di un po’ forzato nella sua espressione, che non era da lei.

«Vada!» disse Lynley, e Barbara capì che non poteva indugiare.

Corse lungo il corridoio centrale e saltò sul palco con tanta foga che perse

l’equilibrio e cadde ai piedi di Dorothea. Ma, come le aveva raccomandato

Lynley, finse di averlo fatto di proposito.


RINGRAZIAMENTI

Ogni volta che mi appresto a scrivere un romanzo della serie di Lynley,

scelgo in quale regione d’Inghilterra ambientarlo. Mi informo, la visito e

raccolgo dati e notizie nella speranza che mi aiutino nell’elaborazione dei

personaggi, della trama e delle sottotrame.

Per questo romanzo devo ringraziare il comandante della West Mercia

Police, Anthony Bangham, che si è lasciato intervistare e mi ha spiegato gli

effetti che la riduzione dei fondi ha avuto sul lavoro delle forze di polizia in

quella parte del Paese e ha risposto alle mie email ogni volta che ho avuto

bisogno del suo aiuto per risolvere un problema.

Jon Hall, presidente del Midland Gliding Club sull’altipiano di Long Mynd

è stato gentilissimo a farmi visitare l’aeroclub e mostrarmi come viene

assemblato un aliante, i vari modi in cui viene lanciato e altre particolarità del

volo a vela. Mi dispiace non aver accettato la sua offerta di portarmi a fare un

giro.

Il sindaco di Ludlow, Paul Draper, mi ha ricevuto nella sede del consiglio

comunale e mi ha spiegato le ripercussioni che i tagli ai finanziamenti per

l’ordine pubblico hanno avuto sulla vita delle piccole città in generale e su

Ludlow in particolare.

Swati Gambler della Hodder & Stoughton è stata come al solito bravissima

ad andare a scovare le informazioni di cui avevo bisogno, mentre Nick Sayers

mi ha aiutato a usare correttamente l’inglese britannico.

Negli Stati Uniti, la collega scrittrice Patricia Smiley, ballerina di tip tap,

mi ha aiutato nei passi di danza, la mia assistente Charlene Coe è stata

straordinaria nello svolgere le ricerche necessarie sui tanti argomenti toccati

dal romanzo, e il mio editor, Brian Tart, è stato la pazienza personificata

nell’attendere che io completassi l’opera. Un grazie a mio marito, Tom

McCabe, che non sarebbe potuto essere più comprensivo e mi ha sostenuto

durante il lungo periodo della stesura.


Sono stata sostenuta anche dalle mie «Sistahs»: Karen Joy Fowler, Gail

Tsukiyama, Nancy Horan e Jane Hamilton. Siete mitiche!

Mi assumo interamente la responsabilità degli errori che sono sicuramente

rimasti.

Elizabeth George

Whidbey Island, Washington

27 agosto 2017


Indice

L’autrice

Frontespizio

Pagina di copyright

Parte prima

15 Dicembre

4 Maggio

5 Maggio

6 Maggio

7 Maggio

8 Maggio

Parte seconda

15 Maggio

16 Maggio

17 Maggio

18 Maggio

19 Maggio

20 Maggio

21 Maggio

22 Maggio

23 Maggio

24 Maggio

26 Maggio

6 Luglio

Ringraziamenti

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