03.04.2013 Views

LAPSUS DI LUPUS IN FABULA - I sognatori

LAPSUS DI LUPUS IN FABULA - I sognatori

LAPSUS DI LUPUS IN FABULA - I sognatori

SHOW MORE
SHOW LESS

You also want an ePaper? Increase the reach of your titles

YUMPU automatically turns print PDFs into web optimized ePapers that Google loves.

FLAVIO PAGANI<br />

<strong>LAPSUS</strong>


© I <strong>sognatori</strong>, Lecce<br />

ISBN 978-88-95068-04-6<br />

Per contattare la casa editrice I <strong>sognatori</strong>,<br />

consultare il sito internet:<br />

www.casadei<strong>sognatori</strong>.com<br />

e il blog:<br />

casadei<strong>sognatori</strong>.splinder.com<br />

In copertina:<br />

disegno di Francesca Santamaria<br />

lapsus by casa editrice I <strong>sognatori</strong> is licensed under a Creative<br />

Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate<br />

2.5 Italia License.


Ogni riferimento puramente reale<br />

è meramente casuale<br />

Un particolare grazie a<br />

Giovanni Orelli, Alberto Panicucci,<br />

Maria Vispa, Francesca Zocchi e Anna Martelli.


Dedicato a tutte le piccole donne<br />

e i piccoli uomini veri che varcano file, semafori<br />

e mari d’asfalto della realtà quotidiana,<br />

senza pugnalare alle spalle,<br />

armati solo della forza delle idee e degli ideali.<br />

<strong>IN</strong>TRODUZIONE<br />

Anche in questo romanzaccio, come nel mondo, niente capita a<br />

casaccio, nemmeno un ago conficcato in una gomma. Neppure il<br />

chiodo fisso di una fantasia confitta in testa, neanche una gomma<br />

da masticare appiccicata sotto una suola o una pugnalata tra le<br />

scapole. Eppure, ogni dettaglio di questo libraccio ci permette di<br />

evadere dal caos. Persino dall’ingorgo tra Corso Buenos Aires e<br />

Via Leoncavallo delle cinque e mezza del pomeriggio. Per concentrarci<br />

meglio sugli indizi delle atrocità, o sulle tracce dei ritornelli,<br />

su cui é imbastita questa storia male… detta, ecco che<br />

devo chiederti di leggere tra le righe, esplorare cioè nel bianco<br />

che c’è tra una falsariga e l’altra. Prova quindi per un momento,<br />

breve come un tuffo nell’abisso, a lanciarti nel fondale vuoto di<br />

una pagina vuota. Aspetta che la macchi una stilla azzurra, vomitata<br />

da un calamaio, o una goccia scarlatta, sputata da un’arteria.<br />

Insomma, prima di rivelarti il volto dell’assassino protagonista di<br />

questa storia e i suoi errori, devo cercare, almeno per un paio di<br />

pagine, di condurti oltre via dei Fiori Chiari e la via Gluck. Al di<br />

là di quel candore, di quella purezza rifranta dal bianco.


CAPITOLO 1<br />

Ritrovamento delle modalità d’abuso del lapsus in fabula<br />

Tutte le storie iniziano da questo vuoto apparente, tinto di bianco,<br />

da questo spazio libero:<br />

Allora? Riesci a scorgerlo? È quello di un foglio, prima che lo<br />

macchi una goccia di nero fumo, di seppia, d’indaco… o di sugo<br />

al pomodoro, d’inchiostro carminio o di sangue.<br />

Se ti sei voltato a testa in giù per decifrare queste righe rivoltate,<br />

prima che siano pure rivoltanti, è meglio che torni a raddrizzare<br />

il libro e ad orientarti in una retta… prospettiva. Qui siamo<br />

a Sud delle Alpi, tra porta Lodovica e porta Garibaldi, e la prossimità<br />

con le spume del Mediterraneo ci porta a ravvisare — in<br />

un capoverso vuoto — una distesa bianca di sabbia.<br />

Se in questo fondale latteo scorgessimo una macchia rossa, potremmo<br />

ravvisarvi un’oasi di colore, un lago di fuoco visto dalla


luna, una manciata di crepuscolo. Potremmo riconoscervi la pupilla<br />

di un demonio, una goccia distillata da un miocardio spremuto<br />

come un’arancia, uno zampillo di una ciliegia rubata dal<br />

giardino del re. Eppure, il bianco sembra chiudere ogni spiraglio<br />

di senso, a nulla vale sussurrare o urlare “apriti sesamo” e lo scenario<br />

si ostina a restare candido.<br />

Ora, il bianco di questo foglio sembra aprire un vuoto arido<br />

come il deserto, ma quando uno schizzo di cervello avrà macchiato<br />

la pagina, allora rimpiangerai il lindore di questo capoverso<br />

sgombro d’ideo… o di pittogrammi. Stai ancora sgranando gli<br />

occhi senza scorgere una goccia d’inchiostro simpatico o un pixel<br />

di senso? Se saprai gettare la tua pupilla, come una pallina da<br />

golf, al di là di via Anfiteatro, oltre questo scenario di carta apparentemente<br />

deserto, potrai vedere trasparire dalla filigrana alcune<br />

bollicine… bianche, ed inquadrare un coccio di senso.<br />

Potresti tastare, schiacciare la pagina e spremerne ebbrezza o liquore,<br />

come da un babà. Ma per il momento questo foglio non<br />

trasuda inchiostri di quelle verità che ci svelerà un mostro, forse<br />

più diabolico di quello che abitava al numero 3 di Corso di Porta<br />

Romana, ma la cellulosa lascia trapelare soltanto sudore e tralucere<br />

solo un bianco desolante. Lo stesso bianco che spargevano<br />

in questa città gli untori. No, non stropicciare, non esplorare questa<br />

pagina a tastoni, ma solo con i fari antinebbia del tuo sguar-


do. Cattura il mistero di un tesoro bianco, celato da una manciata<br />

di sabbia candida o gli orrori nascosti in un pugno di candore arido<br />

come il sale, il sale di un mare misterioso che sommerge una<br />

polena scolpita nelle paronomasie, nell’ultima darsena di una<br />

città che ha scordato i contatti con l’Adriatico.<br />

Se il tuo occhio è caduto sul foglio, riprenditelo pure, prima che<br />

il bianco lo inghiotta con un morso. Scorgi una delle bollicine<br />

che intrappola l’aspirante protagonista? Non accostare troppo lo<br />

sguardo alla pagina e non sbuffare, perché il tuo respiro potrebbe<br />

far deflagrare una di queste bolle… rivelando già uno degli orrori<br />

su cui è intessuta la realtà e pure quella porzione di mondo che<br />

descrive questo romanzo di sgomenti. Facciamola breve, perché<br />

non hai tempo da perdere, perché hai magari l’auto parcheggiata<br />

in divieto in via Manzoni, o il numero del biglietto con cui ti sei<br />

posto in fila sta per essere chiamato: facciamo finta che abbia<br />

scorto davvero una bollicina e poi ancora un’altra, fino ad incorniciare<br />

un dedalo di schiuma.<br />

Aspetta, guarda bene la nube, anche se non l’hai inquadrata<br />

davvero, anche se il grigio di questa metropoli già la sta risucchiando.<br />

Dimentica il vigile che si avvicina alla tua vettura in<br />

doppia fila in via Garibaldi, armato di taccuino. Osserva attentamente<br />

questo nembo, come se vi si celasse un ufo e scoprirai<br />

quello che ancora manca a questa storia: delle mani, dei polsi,<br />

delle braccia, persino dei piedi. Finalmente, è apparso all’oriz-<br />

zonte il profilo di una specie riconoscibile: un corpo umano. No,


non è un corpo mutilato, non è un cadavere: quello arriverà solo<br />

in seguito, con ferocie che ci faranno rimpiangere il lindore di<br />

una pagina vuota. Si tratta di un essere vivo. No, il volto del protagonista<br />

non traspare ancora, rimane celato dietro un velo, bianco,<br />

di candide bollicine.<br />

Ecco, finalmente hai rinvenuto dei cerchi. Questa storia, infatti,<br />

non segue le rette di un quadrato, ma le linee curve di un cerchio<br />

dove tutto, anche il più insignificante particolare, è destinato a<br />

tornare e a caricarsi di senso, persino un volto strappato e gettato<br />

nel pruneto di un parco o nella selva umana di un marciapiede.<br />

Se il tuo sguardo ha osato abbastanza, potrai discernere un cumulo<br />

di bianco, di candide bolle d’aria, di gas o di fantasia, da<br />

cui emergono due braccia. Ma come diavolo si può pretendere<br />

che qualcuno creda all’esistenza di una minuscola nuvola munita<br />

di braccia? Eppure, accidenti, questa storiaccia esordisce proprio<br />

così, con una piccola mostruosità. Devi solo aspettare un attimo<br />

che il velo bianco, che ammanta questo essere bizzarro, venga<br />

dissolto da un soffio di vento o da una zaffata di smog emessa da<br />

qualche aereo di passaggio.<br />

La piccola creatura, grazie a cui s’innesca questo racconto,<br />

nuotava in un’effervescenza di bollicine bianche, galleggiava ormai<br />

da tanto tempo che la punta delle dita si era raggrinzita. I<br />

suoi piedi erano minuscoli, eppure sommuovevano frangenti che<br />

sfioravano quel bordo di mondo denominato “orizzonte”. Il bambino<br />

ondeggiava su una spuma profumata come il sapone, chiudeva<br />

gli occhi e uno zefiro sospingeva la sua vela maestra oltre i<br />

cavalloni. Il fanciullo si librava su una schiuma candida come un<br />

cirro in un cielo azzurro. Ecco, con le sue braccine si era aggrappato<br />

ad una nuvola che volava al di sopra dei lampioni, oltre la


torre del Filarete, l’Arco della Pace, oltre quel campanile dei<br />

Carmelitani che si elevò ad altezze astronomiche e fu il più alto<br />

della città, prima di essere abbattuto per far spazio a piazza Missori.<br />

Il fanciullo si alzò ancora, si elevò anche al di sopra della<br />

torre Velasca, del grattacielo Pirelli e del “fregacielo” elicoidale<br />

in costruzione, fino a rasentare la cima dei cipressi, dei platani,<br />

dei salici del parco… Il bimbo lambì un aquilone, un piccione,<br />

un corvo, una rondine, un enorme pallone aerostatico, uno stormo<br />

di barboni, di clochard che volavano, aggrappati ad una scopa<br />

di saggina. Trapassò una nube e raggiunse un paperotto gonfiabile<br />

di plastica issato dal vento, ma un angelo in carne ed ossa<br />

rimosse il tappo.<br />

Una donna premurosa svuotò la nube e la mongolfiera. La<br />

mamma sgonfiò tutto, persino il papero di plastica e il sogno… e<br />

ricondusse il fanciullo sulla superficie terrestre, dove regnavano<br />

le leggi della forza di gravità: La donna sollevò il tappo della vasca da<br />

bagno, avvolse il figlio in un morbido asciugamano bianco e liberò<br />

un soffio, uno sbuffo di vento caldo che asciugò i capelli.<br />

La madre lo rassicurò: Allacciò<br />

l’ultimo bottone del cappotto del piccolo e gli sorrise: <br />

Non era facile camminare su uno stretto marciapiede brulicante<br />

di gomiti che corrono per raggiungere il lavoro… per una piccola<br />

donna che guidava un trabiccolo. Il fanciullo sussultò: <br />

La mamma rassicurò il bambino: Il figlioletto<br />

pretese comunque che il passeggino non calpestasse l’effigie<br />

della santa madre.


La mamma con il passeggino si ostinò ad avanzare nel pruneto<br />

di braccia, piedi, gomiti. A volte, rapita da un raptus, avrebbe desiderato<br />

conquistarsi un passaggio nella ressa a colpi di scimitarra.<br />

In un arrembaggio, come Jolanda, la figlia del corsaro nero.<br />

Altre volte, quando la sua rabbia era più contenuta, avrebbe voluto<br />

pilotare un carro falcato e aprirsi un varco in quell’am-masso<br />

di carne. Non era semplice procedere, senza un carro armato,<br />

su un angusto marciapiede pullulante di braccia che sgomitavano<br />

per arrivare al lavoro. Era come seguire, senza salvagente, un<br />

torrente in piena, parallelo ad un altro che scorreva in senso contrario:<br />

insomma, due torrenti di decine di pedoni frettolosi…<br />

D’altra parte, è strano parlare di fiumi in una città che non ne ha.<br />

Tutti i borghi lontani dal mare, infatti, hanno almeno un ruscello<br />

che vi scorre in mezzo. Questa città, invece, si muove attorno a<br />

fiumi di gente che fluttuano in meno di due metri di asfalto, talvolta<br />

in un metro solo. Camminare sul marciapiede sarebbe potuto<br />

sembrare facile o persino banale, se a farlo non fosse stata<br />

una donna minuta con un bambino. Il piccolo avrebbe potuto benissimo<br />

procedere sulle sue gambine, ma col rischio di essere<br />

travolto o urtato dalla fiumana; sarebbe stato scaraventato oltre il<br />

marciapiede, sulla strada, dove sfrecciavano dei mostri metallici<br />

che avevano ormai risucchiato l’anima dei loro proprietari: viaggiatori<br />

che si erano fusi come i centauri in un essere, per metà<br />

auto e per metà uomo, che dai polmoni eruttava smog. La mamma<br />

dovette allora riporre la sua piccola creatura in un passeggino,<br />

occupare così quasi due corsie dell’affollato marciapiede e<br />

attirarsi gli sguardi inviperiti dei pedoni.<br />

Ogni giorno, su quel maledetto marciapiede, la donna con il<br />

passeggino si attirava i soliti rimproveri e improperi dei passanti.<br />

Avrebbe voluto balzare su una scopa e decollare, sfrecciare oltre<br />

i pinnacoli della cattedrale gotica, ma le magie si compiono solo<br />

negli spettacoli cinematografici o nelle fantasie epifaniche calzate<br />

da un bambino. Un pomeriggio, presso porta Venezia, un giovane<br />

con il cappello da basket smise di cincischiare con il<br />

“game” del suo cellulare e le brontolò addosso:


gnora, faccia largo, che noi dobbiamo andare a lavorare!> La<br />

donna osò rispondere: Un frettoloso signore con la<br />

coppola chiosò: La madre replicò:<br />

Una donna con il foulard la rimproverò: La mamma la fulminò con lo sguardo: <br />

A questo punto il piccolo avrebbe bramato cancellare tutto il<br />

marciapiede con una gomma e tornare proprio a quel bianco iniziale<br />

da cui eravamo partiti con tanta fatica. Il fanciullo avrebbe<br />

voluto stringere la colomba dei desideri, perdersi nelle sue piume<br />

nivee e chiudersi nel candore di quella nuvola da cui era decollato<br />

questo racconto.<br />

Ma no, il bimbo non intendeva ricadere nel bianco di una pagina<br />

vuota, ma solo tornare raggomitolato nella candida porcellana<br />

di una vasca da bagno, traboccante di bollicine nivee, riempirsi i<br />

polmoni di aria e gonfiare il suo paperotto. Eppure la realtà lo riportò lì, in quel marciapiede<br />

dominato dalla forza di gravità; o solo dalla forza, o dalla<br />

gravità e basta. La mamma evitò una gomitata nello stomaco<br />

di un passante con la cravatta firmata, riparandosi con il manico<br />

della carrozzina. Un venditore ambulante le offrì un pacchetto di<br />

nivei fazzoletti: la madre li fissò e sperò di perdersi nel<br />

bianco,


nel desolante, ma quieto vuoto di un quadratino di carta immacolato<br />

in attesa di una lacrima.<br />

Ma l’urto di un ragazzo con il gameboy la catapultò di nuovo<br />

nella realtà, su quel marciapiede brulicante di carne e gomiti.<br />

La mamma guardò stupita<br />

quel mercante gentile che si allontanava sommerso dalla<br />

marea umana, inforcò di nuovo la carrozzina e riprese la sua<br />

gimcana sul marciapiede asfaltato dall’affanno. Poi passò un<br />

vecchio che spingeva un carrello della spesa e si attirò tutti gli<br />

odi della folla, permettendo alla mamma con il suo trabiccolo di<br />

procedere indisturbata sul marciapiede.<br />

In quella desolazione di catrame e cemento si sarebbe aperta<br />

una chiazza di rosso che nessun fazzoletto avrebbe potuto prosciugare.<br />

No, non sarebbe stato un arabesco di sangue, non ancora:<br />

sarebbe stato un fiore amaranto smarrito in una macchia di<br />

verde, da cui la metropoli non sarebbe riuscita a pulirsi. Ma la<br />

madre non presagiva ancora nulla della macchia che l’attendeva,<br />

per cui lo sfondo, su cui si scriveva la sua storia, restava bianco,<br />

proprio come il fondale di questa pagina.<br />

Tutti i pomeriggi, la mamma con il passeggino arrivava in<br />

un’oasi di pace, dove si percepivano solo in lontananza vetture<br />

che urlavano e automobilisti che lanciavano versi simili a clacson.<br />

Giunta tra i pioppi, i platani e le aiuole, la madre poteva finalmente<br />

liberare i suoi pensieri e il figlio… sedersi sfinita su<br />

una panchina, sotto un cedro. Raccomandava sempre: e intanto sfogliava<br />

una rivista, mentre il fanciullo esplorava le macchie… di verde.<br />

Il bimbo si<br />

girò e vide un anziano signore che lo invitava a sedersi accanto a<br />

lui sulla panchina. Che tizio strano: era vecchio, ma aveva un<br />

baffo nero ed uno biondo. Il suo aspetto era reso ancora più inquietante<br />

da una benda nera sull’occhio. La mamma gli aveva


spiegato che il parco era infestato da barboni alcolizzati. Il piccolo<br />

restò a distanza e chiese: Il vecchio si toccò il<br />

baffo biondo, sorrise e sussurrò: Il bimbo<br />

gli si avvicinò, senza osare sedersi, lui si sistemò la benda sull’occhio<br />

e mormorò: Abbassò la voce<br />

e costrinse così il bambino, per sentirlo, ad avvicinarsi ancora di<br />

più a quello strano megafono sormontato da quei buffi mustacchi.<br />

L’anziano si toccò i baffi e bisbigliò: <br />

Il piccolo si sedette accanto al vecchio e lui continuò: In lontananza si udì la<br />

madre che chiamava il figlio: Il vecchio si accarezzò il baffo nero e si affrettò a<br />

narrare. Il racconto fu interrotto dalla madre: <br />

Se la donna avesse soltanto lasciato aprire bocca al cantafavole<br />

avrebbe capito molte cose. Ma, sopraffatta dal timore, la<br />

madre prese il piccolo per mano e lo trascinò via: La<br />

madre avrebbe voluto guidare il suo cucciolo in un parco recintato<br />

e vietato ai comuni mortali, come quello del conte Manomorta,<br />

o condurlo al sicuro in un prato interdetto ad anima viva,<br />

come quello dell’antico anfiteatro romano, ma si ricordò di essere<br />

comune, pure mortale e per giunta ancora dotata di un’anima,<br />

viva.


Ogni volta, la mamma raccomandava al bimbo di non raccattare<br />

nulla e sempre, quando risalivano sull’autobus, il figlio recava<br />

sul passeggino pigne, margherite o quadrifogli che rimirava nella<br />

sua stanzetta come tesori, fino a quando le palpebre si facevano<br />

pesanti e si addormentava. Un pomeriggio il piccolo raccolse un<br />

brandello di un foglio molto strano. Era il frammento di un papiro.<br />

Il bimbo si voltò e rivide il vecchio con<br />

cui la madre gli aveva proibito di parlare. Il piccolo non poteva<br />

sbagliarsi: era proprio lo stesso strano tizio dell’altra volta: non<br />

vi erano in città molti altri individui con un baffo nero ed uno<br />

biondo e una benda sull’occhio! Il piccolo osservò: Il vegliardo si accarezzò i baffi e replicò:<br />

Gli<br />

fece cenno di tacere e con un gesto lo invitò ad avvicinarsi. Il<br />

vecchio si lisciò il baffo nero e quello biondo e sussurrò: <br />

Il bimbo camminava oltre aiuole di tulipani e di camelie, alla<br />

ricerca di un quadrifoglio o di un altro germoglio di fortuna, ma<br />

la madre lo sorvegliava senza posa, dall’ombra del suo cedro,<br />

con l’amorevole cura di un cerbero: <br />

Un giorno il figlio, nonostante le raccomandazioni della madre,<br />

rinvenne tra le siepi di garofani qualcosa d’insolito:


obiettò lei, ma alla fine si accinse<br />

a decifrare quello strano messaggio: Più volte interruppe la lettura, borbottando<br />

che si trattava di stupidaggini scritte da un pazzo, ma il bambino<br />

pretese che proseguisse fino alla fine. La madre stralunò gli occhi<br />

e borbottò: <br />

<strong>DI</strong>STRUZIONI E MODALITÀ D’ABUSO DEL RAPTUS <strong>IN</strong> FABU-<br />

LA<br />

Attenzione, in questa storiaccia si mettono in scena mostruosità<br />

incredibili, tanto mostruose da essere indescrivibili. L’assunzione<br />

di questo romanzo è controindicato per chi ama narrazioni ricche<br />

di descrizioni e raffigurazioni doviziose di particolari: in questo brogliaccio<br />

luoghi e personaggi sono descritti in modo indefinito, per<br />

lasciare che sia il loro agire, o l’immaginazione dei lettori, a definirli.<br />

In questo brogliaccio, ricamato su errori orrendamente umani,<br />

siti ed anime sono rappresentati in modo tanto incerto, da lasciare<br />

indeterminato il loro nome: se quindi odiate una storia di anonimati,<br />

in cui sia un’innominata o un innominato a farla da padroni, evitate<br />

queste pagine equivoche.<br />

Questa miscela romanzesca è sconsigliata per coloro che non<br />

apprezzano la contaminazione delle favole con il fumetto o con il<br />

giallo, delle bellezze delle favole con l’horror del mondo reale, o<br />

l’innesto di code di pesce su donne bellissime, o di orchi e altri<br />

mostri nella realtà dei lettori. Insomma evitino questo libraccio coloro<br />

che non provano gusto a sviscerare i lupus, i lapsus e i raptus<br />

di fantasia che si celano nella realtà… La sperimentazione su cavie<br />

umane ne ha provato un effetto ipertensivo, ipotensivo, cardiotonico,<br />

con influssi positivi anche sul diaframma, sull’ipofisi, sulle<br />

ghiandole surrenali...


L’assunzione di questo incastro di racconti è incompatibile con<br />

chi non crede nel potere della scrittura creativa, nella contaminazione<br />

delle grafie con le rime, nella confusione delle metafore con<br />

le consonanze, nella fusione delle raffigurazioni reali in quelle riflesse,<br />

o nelle immagini fantastiche, o negli echi del “C’era una<br />

volta”. Questo libretto è assolutamente controindicato per coloro<br />

che pretendono di viaggiare soltanto su aerei senza ritardi, su autostrade<br />

rettilinee senza rallentamenti, o su treni semivuoti con l’aria<br />

condizionata... insomma a coloro che non sanno adeguarsi agli<br />

imprevisti. Il canovaccio seguito dal romanzo s’inerpica, sprofonda<br />

e si contorce in cerchi di mostruosità, gorghi di delittuose grafie,<br />

gerghi, ghirigori di anagrammatiche consonanze, non su una linea<br />

retta. In questa contorsione, il filo del racconto si attorciglia spesso<br />

sul collo di più di una vittima, producendo raccapriccianti delitti, uccidendo<br />

innocenti, mostri, massacrando persino amanti dei gialli o<br />

delle favole, per cui si sconsiglia il libro ai deboli di cuore… e di<br />

stomaco.<br />

Si sconsiglia vivamente questo atipico romanzo a tutti coloro che<br />

non hanno mai creduto nell’esistenza dei draghi, di Medusa, di<br />

Giano, di Ecate, delle streghe, delle sirene, di Cappuccetto Rosso,<br />

di Heidi... di altri mostri di cattiveria, di bruttezza o di bontà e che<br />

rinnegano di avervi creduto. Si guardino da questo libraccio tutti<br />

coloro che credono che il paese delle favole sia un’isola a sé stante<br />

e non una metafora viva del mondo in cui viviamo.<br />

Se volete giocare un brutto tiro ad un individuo qualsiasi delle categorie<br />

per cui questo romanzo di favole è controindicato... allora<br />

rapitelo per un giorno, legatelo, imbavagliatelo e costringetelo a<br />

sfogliare questi gialli. E, se la vittima si chiude apposta gli occhi,<br />

allora leggete per lui... e continuate, senza pietà, nonostante le<br />

sue smorfie, a infliggergli queste favole!<br />

Il bimbo era incredibilmente incuriosito da quelle indicazioni:<br />

<br />


cespugli non ci sono i lupi! Insomma, cosa c’è di pericoloso in<br />

qualche pagina di favole?> <br />

Il<br />

bambino s’incaponì… e la mamma obbligò il figlio a rientrare in<br />

anticipo a casa. Il piccolo si avventurò in una fuga impossibile tra<br />

le aiuole. La mamma lo rincorse, imprecando per un collant impigliato<br />

tra le rose. Il bambino si issò su un faggio, ma la madre lo<br />

agguantò per un polpaccio: La donna afferrò il figlio per la mano e lo trascinò<br />

verso casa. Lo costrinse ad entrare su un<br />

tram gremito di gente: immaginatevi il disappunto dei passeggeri<br />

quando si avvidero che la madre aveva con sé un passeggino. La<br />

donna si fece scudo con il passeggino… e si conquistò un posto a<br />

sedere.<br />

Mentre il tram li riportava verso il loro quartiere, il bimbo teneva<br />

una mano in tasca. La mamma capì subito che celava qualcosa.<br />

I passeggeri reagivano indispettiti<br />

ai capricci del piccolo. La donna provò a dirgli: Ma il fanciullo si mise a schiamazzare,<br />

in modo sempre più acuto, tanto che la madre, per zittirlo, capitolò<br />

e si accinse, sbuffando, a bofonchiare un racconto.


CAPITOLO 2<br />

Il gigante dalla testa mostruosa<br />

La carrozza era stipata di gente, più gremita del Rocket o di una<br />

sala d’attesa del Fatebenefratelli, traboccante di una moltitudine<br />

che sembrava fondersi nell’unico corpo di un solo mostro da cui<br />

spuntavano tante teste, borse, valigette e persino delle baguette<br />

di chi aveva appena fatto la spesa. Quell’ammasso di carne umana<br />

aveva un aspetto quasi bestiale: da quell’intrico di gambe,<br />

nasi, occhi, orecchie, braccia, cellulari emergevano persino delle<br />

zampe e una coda. Il bimbo notò che un signore con la coppola<br />

portava in braccio un piccolo cane, un volpino. Salì sul vagone<br />

un violinista ambulante: provò ad inforcare il suo strumento e a<br />

liberare una melodia, ma l’angusto spazio lo costrinse ad urtare<br />

con l’archetto la testa di un giovane con il cappello da basket e<br />

sfiorò l’occhio di un signore con la cravatta firmata, che tentava<br />

di portare il cellulare all’orecchio, accanto ad un uomo in tuta<br />

blu che si affannava per vedere dal suo videotelefono, la telecronaca<br />

di una partita di calcio… Il violinista causò nella carrozza<br />

un tamponamento a catena che provocò la reazione stizzita dalla<br />

folla, che lo spintonò fuori alla prima fermata. Un ragazzo si affannava<br />

a giocare col gameboy incluso nel suo telefonino, ma<br />

era troppo stretto per muovere agevolmente i pulsanti; allora un<br />

anziano vicino lo aiutava ad azionare uno dei tasti e lo incitava<br />

ad affrettarsi: Il giovane uomo col berretto da basket<br />

ne approfittò per mordere indisturbato la baguette di una<br />

grassa signora con il foulard, a cui il signore con la coppola borbottò:<br />

La<br />

signora lo squadrò e mugugnò: <br />

Il bambino non voleva aspettare di attraccare a casa: La madre esitava e rispose: Il figlio la incoraggiò: Poi


il fanciullo s’interruppe per osservare qualcosa d’insolito che si<br />

stava compiendo nel tram. L’intrigo di teste e membra dei passeggeri<br />

era tale che un borseggiatore, mascherato sotto l’aria di<br />

un distinto signore in cravatta firmata, rubò un portafoglio e un<br />

cellulare. No, l’avvenimento insolito non era costituito da questo<br />

ennesimo furto, ma dal fatto che il ladro, confuso dalla calca, ripose<br />

per sbaglio la refurtiva nella tasca di un ignaro passeggero.<br />

Il piccolo provò a rivelarlo alla madre. La madre non poté credere che<br />

un signore così elegante fosse un borsaiolo e si sforzò di distrarre<br />

il figlio: Impugnò il foglio, aggrottò<br />

le ciglia e si accinse a raccontare: Ma la madre dovette interrompersi<br />

suo malgrado: Il figlio scosse il capo: La madre incominciò a leggere… e, nelle parti in cui i<br />

suoi occhi non giungevano, procedette a naso colmando i buchi<br />

della storia con la sua immaginazione. Mentre narrava, tutti i telefonini<br />

tacevano: pareva che li avessero spenti apposta… Insomma,<br />

sembrava che tutti i passeggeri, compreso il cane, tendessero<br />

l’orecchio per ascoltarla. Persino il ragazzo col gameboy<br />

interruppe la sua partita, anche se forse aveva solo esaurito le<br />

batterie.<br />

LA FAVOLA DEL GIGANTE DALLA TESTA MOSTRUOSA<br />


l’omaccione non aveva mai avuto un secondo occhio: lo si poteva<br />

intuire ad esempio dall’assenza di un secondo sopracciglio…<br />

e da un altro particolare più inquietante. Quando varcava la<br />

frontiera, i doganieri rigiravano la sua carta d’identità più volte,<br />

prima di capire come e dove guardarla. L’unico globo oculare,<br />

di cui era stato provvisto sin dalla nascita, era incastonato in<br />

mezzo alla fronte, poco sopra il naso. Il ciclope viveva in una<br />

grotta buia senza mai uscire alla luce, nemmeno per fare shopping.><br />

Il bambino chiese: La madre abbozzò una spiegazione: Il fanciullo domandò<br />

ancora: La mamma cercò di<br />

esaudire la sua curiosità: Il bimbo opinò: e intanto si coprì<br />

un occhio con una manina. La madre tentò di chiarire il mistero<br />

<br />

Il fanciullo si stupì: La madre continuò:


volle approfondire la conoscenza e gli disse: “Ehi tu, piccolo,<br />

vieni qui che ti voglio divorare!” Ulisse, che non poteva contraddire<br />

la sua fama di furbo, fece finta di non sentire. “Ehi tu,<br />

nanerottolo: se sei ospite di qualcuno che ti ha invitato a pranzo,<br />

puoi anche rispondere quando ti si rivolge la parola!” Ulisse<br />

dovette dare una risposta: “Ah, stai dicendo a me? Scusa, ma<br />

pensavo che ti rivolgessi a qualcun altro!” Il colosso non si fece<br />

incantare: “E che, ti sembro strabico?” Ulisse fece il mortificato:<br />

“Potresti anche chiamarmi per nome!” Stavolta fu Polifemo<br />

a scusarsi: “Scusa ma… sai, questo nome, Nessuno, mi sembra<br />

strano!” Replicò Ulisse: “Certo che anche la tua dimora mi<br />

sembra bizzarra: come si può chiamare casa una grotta?!” Il ciclope<br />

si offese: “Che pignolo! Odio le persone che cercano le<br />

pagliuzze negli occhi!” Ulisse lo corresse: “Forse volevi dire<br />

che odi le persone che non vedono la trave nel proprio occhio?”<br />

Polifemo reagì sempre più irritato: “Volevo dire che non mi<br />

piacciono le persone che fanno di ogni pagliuzza una trave! E<br />

poi io non ho nessuna trave nell’occhio!” Ulisse, per il momento,<br />

preferì dargli ragione e, indovinando la sua antipatia, gli<br />

suggerì: “Se ti sono così indigesto potresti mangiarmi per ultimo”.<br />

Poi, però, quando il ciclope ebbe ingurgitato un paio dei<br />

suoi compagni, gli offrì un otre di vino. Sperava che così si addormentasse…><br />

Un ragazzo con un cappello da basket interruppe il racconto della<br />

madre del bimbo: <br />

La madre rispose volentieri:


malefici, secondo il punto di vista da cui si guarda. Da una parte<br />

il titano, privato di quell’occhio che gli permetteva di vedere<br />

solo il male, riuscì a percepire anche il bene… Dall’altro lato,<br />

avendo perso la vista durante un sogno, il gigante fu ancora in<br />

grado di guardare, ma solo attraverso le ciclopiche fotografie del<br />

sonno. Insomma, poté anche scorgere il bene, ma unicamente<br />

tramite i sogni!> <br />

La mamma tossì, si schiarì la voce e procedette nei dedali della<br />

narrazione: <br />

Intervenne la signora con il foulard: Il ragazzo col<br />

berretto da basket si permise d’intromettersi: La mamma allargò le braccia: Un signore con la coppola volle<br />

dire la propria: Ma un altro<br />

incredulo omuncolo con i baffi grigi insinuò: Iniziò tra i passeggeri, persino tra quelli che erano appena saliti<br />

sul tram, una gara per cogliere una fine della favola che piacesse<br />

di più al bambino. Il vegliardo con la coppola borbottò:<br />

Quando giunsero verso il capolinea,<br />

l’anziano con la coppola enunciò la sua versione dell’ultimo<br />

racconto del gigante cieco: Il


ambino osservò puntiglioso: <br />

Il vecchio si tolse la coppola, si grattò il capo e mormorò:<br />

Ma il giovane con il berretto da basket non si lasciò incantare<br />

e obiettò: Il bardo ammise subito la sua colpa:<br />

Poi<br />

la tenzone di racconti fu troncata da uno squillo.<br />

Per un attimo il ragazzo con il gameboy sperò che il suo aggeggio<br />

avesse ripreso a respirare. In effetti echeggiava un cellulare, ma si trattava<br />

di quello sbagliato. Era il telefonino che il borseggiatore aveva<br />

riposto, confuso dalla ressa, in una tasca non sua… Il derubato<br />

si accorse subito del furto, ma accusò la persona sbagliata. Il vero<br />

ladro finse di unirsi agli sguardi scandalizzati di tutti, sguardi che<br />

esponevano un innocente alla gogna. L’accusato, un signore con<br />

un vistoso riporto, si difese con la ferocia di chi é veramente privo<br />

di colpa. Gli onesti cittadini reagirono ancora più accanitamente:<br />

commentò ghignando il ragazzo<br />

con il cappello da basket: S’intromise il bambino:<br />

L’uomo con la<br />

cravatta firmata si offese e pretese le scuse della madre. La


folla si divise tra chi accusava l’uno e chi accusava l’altro. Ne<br />

nacque un putiferio. Il signore con la coppola cominciò a ringhiare.<br />

No, era il suo cane, che giunse ad abbaiare. Il giovane con il<br />

cappello da basket ne approfittò per dare indisturbato altri morsi<br />

alla baguette della signora con il foulard. La madre si affrettò a<br />

trascinare il figlio fuori dal tram in subbuglio. La donna accomodò il figlio nel<br />

passeggino sentenziando: <br />

L’indomani il fanciullo scalpitò per tornare a tutti costi nel parco,<br />

anche se era nuvoloso e minacciava di piovere. Ecco, pensò la<br />

mamma, persino quegli uccelli neri dal lungo becco volano basso<br />

per paura della pioggia. La donna si sedette sulla panchina, sotto il<br />

gigantesco cedro, a sfogliare una rivista; intanto, con la coda dell’occhio<br />

sorvegliava il figlio. Il bambino giocava nel parco alla ricerca<br />

di altre favole… Improvvisamente, tornò di corsa dalla<br />

mamma. Di solito le recava una pigna, una foglia, una lumaca o<br />

un maggiolino, ma stavolta sembrava che avesse rinvenuto qualcosa<br />

di più particolare. Il piccolo era affannato, incuriosito e nel<br />

contempo allarmato: La madre era convinta che si trattasse di una statua<br />

decapitata da qualche vandalo: Il figlioletto<br />

tirò la madre per la manica: <br />

Il bimbo si allontanò, ma per pochissimo tempo, troppo poco<br />

perché la donna potesse finire l’articolo. Il piccolo molestatore tirò<br />

la madre per il gomito: La madre si rassegnò a<br />

non poter leggiucchiare la sua rivista. I due frugarono tra le siepi e


i cespugli. Il figlio disse: La mamma osservò:<br />

Il bambino<br />

osservò: La<br />

madre chiese: Il<br />

figlio rispose con la pazienza di una maestrina: La madre fu presa<br />

dall’orrore e non si avvide di un particolare: quel cranio tranciato,<br />

sanguinante, aveva un baffo nero ed uno biondo. La mamma si lasciò<br />

rapire dall’emozione, perse la testa e lanciò un urlo, un grido<br />

acuto che fece scappare le torve creature appollaiate sugli alberi<br />

vicini… Un passante con lo zaino rosso, rosso come un fiore scarlatto<br />

irrorato dal rivolo che era sgorgato dalla testa mozzata, intravide<br />

degli uccelli neri dal lungo becco accovacciati su un cedro secolare:<br />

solo in un secondo momento riconobbe dei corvi.<br />

L’attenzione si concentrò sull’oggetto più insolito di questa storia:<br />

quella maledetta testa falciata. Abbandoniamo per il momento<br />

la donna e il suo bambino, ma non dimentichiamoli, perché niente<br />

è casuale, in questa storia apparentemente caotica. Tutto è destinato<br />

a celare e rivelare un importante significato, persino il più piccolo<br />

dettaglio o personaggio, incrociato da questi due personaggi<br />

uniti da un legame di sangue. Tutto e tutti sono destinati a tornare<br />

a galla in una pozza di eritrociti o a ritrovarsi uniti da vincoli di<br />

sangue.


PRIMO ATTO<br />

In ogni favola che si rispetti, persino nel più lillipuziano dei semicantoni,<br />

non vi è solo un grand’uomo nella parte del protagonista.<br />

C’è pure un piccolo essere, che impersona il ruolo dell’antagonista.<br />

Talvolta è invisibile come una cimice, talora infido<br />

come un serpente, qualche volta speranzoso come un umano. In<br />

tutte le favole c’è sempre un mostro o almeno un<br />

mostriciattolo… che questa volta prese il sopravvento sull’eroe,<br />

facendogli perdere la faccia. Strappando, estirpando il suo volto<br />

con una lama più affilata di un pennino. Poco importa, legioni di<br />

scultori avrebbero sostituito quel capo dilaniato con miriadi di<br />

mezzi busti, che avrebbero riprodotto all’infinito e tramandato ai<br />

posteri quel viso vilipeso.


CAPITOLO 3<br />

Retroscena del primo delitto<br />

Anche quel venerdì, l’eco di manifesti, giornali, radio, televisioni<br />

e corni delle Alpi annunciava in ogni cantone che la favola<br />

si accingeva a emergere dal mondo astratto dell’ideale per materializzarsi<br />

nella realtà, alla portata di tutti. Un grand’uomo stava<br />

incantando la gente non con il “c’era una volta”, ma con un<br />

“adesso c’è, qui, ora, la vostra favola… e la potete acquistare in<br />

comode rate”. Quel personaggio così importante, quel signore<br />

così vincente, sorridente, elegante e convincente era capace di<br />

essere dalla parte di tutti: da quella dei tanti manager di successo<br />

come l’onorevole Saulo Cresonte, suo fratello, come pure dalla<br />

parte dei lavoratori precari, degli impiegati dei call center, degli<br />

alpigiani, dei disoccupati e dei pensionati…<br />

Il padre dell’antagonista di questa storia, aveva convertito i<br />

propri risparmi nelle azioni del Bingo Ambrosiano, ma in poco<br />

tempo tutti i suoi sogni furono trucidati o suicidati: le sue speranze<br />

perirono con capitani di un istituto di credito ritenuto inaffondabile<br />

come il Titanic: uno finì impiccato sotto un ponte di Londra,<br />

l’altro fu avvelenato da un caffé. In seguito al dissesto finanziario<br />

del padre, il figlio aveva dovuto abbandonare gli studi e<br />

precipitarsi a lavorare: divenne così marionettista. Riuscì a guadagnarsi<br />

da vivere e a racimolare un po’ di grana per sposarsi. Il<br />

nostro sfortunato agonista, che nel frattempo aveva avuto una figlia,<br />

decise di affidare i suoi denari alla più potente economia del<br />

mondo, gli Stati Uniti, nelle azioni di una promettente società petrolifera,<br />

la Enrun, ma, nonostante godesse anche dell’amicizia<br />

del presidente americano, anche questa società fallì. Il nostro antieroe<br />

investì i risparmi accantonati per la prole in un paese noto<br />

in tutto il mondo per affidabilità e sicurezza: il puparo puntò il<br />

suo denaro sulle azioni della compagnia di bandiera elvetica…<br />

Ma persino la Svizzair si schiantò al suolo con un rovinoso


crack… finanziario. Si rassegnò a tornare in Italia e stavolta, per<br />

non perdere nuovamente tutto, cambiò settore, passò a quello alimentare<br />

e ipotecò tutti i beni di famiglia non in una sola società,<br />

ma in due: Investì tutto nelle azioni della Pomidori e della Carmalot…<br />

e anche stavolta il marionettista perse tutto. Tuttavia,<br />

volle mostrare più fiducia di Giobbe e credere nella sua fortuna:<br />

comprò le azioni della squadra di hockey più blasonata del paese,<br />

ma in seguito alla corruzione di alcuni arbitri, fu retrocessa in<br />

serie C.<br />

Ecco, mi rinfaccerete voi, avevi promesso una favola e adesso<br />

ci stai raccontando una consueta, noiosa cronaca di una vicissitudine<br />

quotidiana condivisa, loro malgrado, da tanti, troppi, comuni<br />

mortali. Qui purtroppo, stava succedendo di peggio: la cronaca<br />

cedeva il passo al giallo. Un orrendo delitto avrebbe compromesso<br />

la favola, riportandoci nelle nefandezze della realtà.<br />

Sembrava che tutto fosse definitivamente rovinato da una disfatta<br />

più grave di quella di Marignano, ma il nostro antagonista<br />

aveva investito in politica su un protagonista di successo: Il piccolo attore di questa storia aveva dato<br />

la sua fiducia a quel signore capace di realizzare il sogno di un<br />

paese in cui si sarebbero pagate meno tasse, ma ricevuto più lavori,<br />

più sussidi di disoccupazione, più borse di studio, più pensioni,<br />

con scuole, discoteche, ospedali, poste, tribunali, ferrovie<br />

ed aerei meno cari, ma più efficienti. L’anonimo interprete di<br />

questo romanzaccio aveva creduto in questo nobiluomo che<br />

scendeva dal suo elicottero per mischiarsi con la gente comune,<br />

prendere il carrello e fare la spesa, o fare la fila per andare allo<br />

stadio, gomito a gomito con gli altri tifosi ad incitare i Wolfs, gli<br />

eroi della squadra detentrice del titolo nazionale d’hockey su


ghiaccio. Un giorno, il modesto agonista di questa storiaccia aveva<br />

consegnato al grande signore il voto grazie al quale era stato<br />

eletto in Consiglio Nazionale e poi in quello Federale. Quando<br />

era stato eletto, l’onorevole Saulo Cresonte, per ringraziarlo, gli<br />

aveva spedito un fermacarte in marmo che riproduceva la sua testa.<br />

Il piccolo antagonista di questa favola chiese udienza al venerato<br />

Cresonte. L’onorato gli concesse un appuntamento tre mesi<br />

dopo, ma l’annullò all’ultimo momento per un impegno con il<br />

Consiglio Federale. L’incontro fu ancora cancellato e poi rinviato<br />

per due anni. Quando approdarono alla fine del quadriennio<br />

della legislatura, il faccia a faccia non poté più essere procrastinato.<br />

Nel giorno del fatidico colloquio, il marionettista perse più<br />

tempo in bagno per radersi e ritoccare il suo pizzetto: tutto<br />

avrebbe dovuto essere perfetto. Era in procinto di uscire di casa,<br />

quando squillò il telefono. Era indeciso se rispondere. Finalmente<br />

alzò la cornetta: Il marionettista non volle sentire<br />

il compenso che il Signore gli offriva: si diceva infatti che il<br />

principe arrecasse più sfortuna di un gatto nero. E poi doveva affrettarsi<br />

per recarsi all’appuntamento con Saulo Cresonte. Il puparo<br />

balbettò: <br />

Abbassò il ricevitore e fece le corna. Rallentò un attimo, colto da<br />

un dubbio e per risolvere quell’esitazione toccò ferro, ma poi,<br />

perseguitato ancora dalla nomea del conte, tastò pure i suoi gioielli.<br />

Il marionettista girovagò svariati quarti d’ora alla ricerca di un<br />

parcheggio: un normale automobilista si sarebbe snervato con<br />

un’ulcera, ma sapeva che quella era la prova imposta dall’alto<br />

per decidere se poteva essere degno di venire innalzato, sia pur<br />

per un attimo, sulla cima della società. Il manovratore di marionette<br />

si presentò all’ingresso del palazzo di Saulo Cresonte. Presto<br />

sarebbe asceso all’apice del grattacielo, all’ultimo piano e ricevuto<br />

da Sua Sommità. Superò un maggiore dei dragoni, un


manipolo di alabardieri e un drappello di majorette di guardia.<br />

Fu perquisito da un eunuco ed introdotto in una sala d’aspetto.<br />

Attese un paio d’ore, sfogliando fardelli di riviste pubblicate da<br />

società dei Cresonte e poi, finalmente, una maggiorata, mora<br />

come la liquirizia, gli annunciò che il venerabile si degnava di riceverlo.<br />

Finalmente, il marionettista si trovò al cospetto di un<br />

personaggio che aveva fatto la storia del Bel Paese. Narrare ciò<br />

che gli comparve davanti è difficile, troppo arduo per una descrizione<br />

tradizionale. Eppure, il viso di Saulo Cresonte si presentava<br />

davvero così:<br />

Sì è vero, lo so, avevamo dichiarato che non avremmo fatto<br />

uso di una descrizione dettagliata e ne abbiamo addirittura abusato,<br />

procedendo al discutibile uso di una tecnica di rappresentazione<br />

del personaggio già utilizzata da Govoni. Tranquillizzatevi,<br />

perché questo è l’unico personaggio di questo romanzo che<br />

meriti una raffigurazione tale da bucare lo schermo come la pagina.<br />

L’onorevole Saulo si accarezzò la lunga chioma bionda, si aprì<br />

in un sorriso che illuminò tutta la stanza e guardò con iridi che in<br />

quel momento erano verdi come un semaforo. Fece accomodare


il marionettista su una poltroncina in pelle e lo invitò ad aspettare:<br />

si stava facendo radere dal suo barbiere personale; il venerabile<br />

sopportava i peli sulla lingua, ma odiava avere peli sul viso,<br />

per cui si faceva fare la barba almeno due volte al giorno. Il venerabile<br />

Cresonte disse: Mentre ascoltava, il marionettista notò che sulla scrivania<br />

c’era un fermacarte identico a quello che gli era stato regalato,<br />

ma era in oro. L’onorabile proseguì: Saulo<br />

Cresonte si cosparse il volto di dopobarba. Si cambiò le lenti a<br />

contatto, esibì uno sguardo azzurro e porse la mano al marionettista.<br />

Il cantafavole gli strinse la mano avvertendo subito una<br />

sensazione di viscido, ma sembrava che l’onorevole Cresonte lo<br />

leggesse nel pensiero: Il piccolo uomo esitò un attimo davanti al grande:<br />

Il venerabile<br />

lo fermò: L’onorabile<br />

fece uscire il barbiere, trasmise un ordine ad un citofono sulla<br />

scrivania e una fotomodella, bionda come il sole, venne a serrare<br />

lo studio. Saulo Cresonte non avrebbe più riaperto quell’uscio.<br />

Nessuno sarebbe più uscito da quella porta: non vivo, alme-


no. Il gestore del piccolo teatro di pupazzi di cartapesta e fili si<br />

ritrovò finalmente di fronte all’onorevole Saulo Cresonte. Chi di<br />

loro era il vero favoliere? Chi di lavoro propinava favole irrealizzabili,<br />

e chi ― di professione ― smerciava favole da attuare veramente?<br />

Chi tra loro due era l’autentico marionettista: colui che<br />

tendeva le fila di pupazzi di cartapesta o chi, dal teatro della politica<br />

e dell’economia, tirava le fila di migliaia di piccoli uomini<br />

affamati di briciole di potere, fama o soldi? Il vero favoliere era<br />

chi coltivava le favole sul palco della fantasia o chi le realizzava<br />

dietro le quinte? In quello studio, attorno a quella scrivania, non<br />

vi era in discussione solo una diatriba di finanziamento, ma una<br />

questione esistenziale, su chi meritasse il titolo di favoliere.<br />

Cosa successe dentro lo studio, prima che una guardia vi facesse<br />

irruzione, non lo sappiamo, ma possiamo congetturarlo, sulla<br />

base degli importanti indizi rilevati attorno ad un lago di sangue.<br />

Sulla scrivania dell’onorevole, si sarebbe compiuto un disonorevole<br />

delitto, un orrore i cui effetti avrebbero definitivamente stravolto<br />

l’esistenza del colpevole e di chi gli stava appresso, scatenando<br />

un vortice di vendette che avrebbero pure sconvolto la<br />

vita di chi si sarebbe posto sulle tracce dell’assassino.<br />

CAPITOLO 4<br />

In un capo senza filo<br />

Il giovedì, ventiquattr’ore prima del fatidico appuntamento con<br />

l’onorevole Saulo, il manovratore di personaggi di cartapesta si<br />

era insinuato in via Fortuna, via Belgioioso e via Desiderio ed<br />

era sgusciato in via Concordia e in via Costanza, per sboccare in<br />

via Gioia. Tali vie non erano contigue e il tragitto derivato da<br />

tale traiettoria era maledettamente lungo e contorto. Il nocchiero<br />

avrebbe potuto convincersi che quel percorso era stato compiuto<br />

per scansare le colonne di vetture. In realtà, in cuor suo sapeva


che quell’itinerario era stato svolto per inseguire le emozioni suscitate<br />

da quei nomi. Eppure era consapevole che via della Fortuna<br />

non esisteva, che era solo una sua personale traduzione dal tedesco<br />

di “Gluck”. Era pure cosciente del fatto che non era “gioia”<br />

il vero nome di quella via, dato che era legata ad un certo<br />

Melchiorre, che non era nemmeno uno dei re magi. Ciò che contava<br />

non era il percorso reale, ma quello messo in atto dall’immaginazione.<br />

Appena un giorno prima del fatale venerdì in cui si sarebbe incontrato<br />

con l’onorato Saulo Cresonte, l’animatore delle creature<br />

di legno aveva decantato delle favole, senza sapere che quelle<br />

bizzarre storie anticipavano le avventure o le sventure che, di lì a<br />

poco, avrebbero sovvertito l’ordine della sua vita:<br />

<br />


“Io sono il manovratore delle marionette!”. Allora la fanciulla<br />

si rammentò di essere un pupazzo e perse l’equilibrio, perché un<br />

burattino non può restare eretto senza una mano che lo sostenga,<br />

perché una marionetta non può reggersi senza fili. E, risucchiata<br />

dalla forza di gravità, crollò al suolo, tra gli asfodeli e i<br />

gladioli, smarrendo i sensi. Quando la svegliarono, bofonchiò<br />

che non poteva alzarsi, perché era una marionetta senza fili.<br />

“Ma tu sei una donna!”, le rimproverano sbalorditi. Se lo ripeté<br />

ancora nel bagno, davanti ad un grande specchio. Per riprendersi<br />

si sciacquò la faccia con l’acqua fredda e poi, per ridestarsi<br />

completamente, si dette una lavata di capo. Già, si ridisse,<br />

mentre gingillava con l’asciugacapelli, non solo era una donna,<br />

ma una moglie e una madre. Intanto qualcuno, fuori, bussava<br />

sempre più insistentemente, chiedendo lo specchio e il lavandino<br />

liberi. Ma lei non avrebbe voluto essere lì... Avrebbe desiderato<br />

essere un palloncino giallo dal filo spezzato sospeso nel caldo<br />

soffio dell’aurora.<br />

C’era una volta una fanciulla che scoprì l’oceano nella vasca<br />

da bagno. Ma quello non era né lo scirocco né il fohn, non era<br />

un vento caldo del sud o del nord, ma il soffio dell’asciugacapel-<br />

li e quella non era l’alba, bensì la luce al neon del bagno. Glielo<br />

ricordò il marito quando la implorò, mentre percuoteva la porta:<br />

“Ho bisogno dello specchio e della doccia! Per favore, devo<br />

andare a lavorare!”. La donna girò la chiave… e in quel giro<br />

vide roteare il mondo, l’orologio delle sue emozioni, la giostra<br />

dei suoi pensieri, il giradischi dei suoi sogni.><br />

Il marionettista si grattò il pizzetto, afferrò la chiave e chiuse il<br />

teatro, a doppia mandata, senza sapere che la realtà avrebbe superato<br />

la fantasia, al punto da realizzare immaginazioni senza<br />

fine, senza un capo capace di sviscerarne il senso.


CAPITOLO 5<br />

Fuga dal primo delitto<br />

Il cantafavole cercò di eclissarsi, facendosi inghiottire da un<br />

mostro di metallo che si tuffò nelle viscere della terra, seguendo<br />

linee parallele come binari. Il serpente di ferro penetrò in una<br />

galleria e si arrestò alla prima stazione. Spalancò le sue paratie<br />

come fossero fauci e ingurgitò altri passeggeri. Mentre era nella<br />

metropolitana, il raccontafavole notò che una manica della camicia<br />

era macchiata di rosso e si cacciò la mano in tasca. Si sentiva<br />

come un bambino imbrattato di marmellata rubata. Si accorse<br />

che il collo della camicia era impiastricciato di sangue. Per nascondere<br />

quella compromettente macchia, si portò la mano alla<br />

nuca e finse di avere un torcicollo. Ma non era finita, perché aveva<br />

anche un calzino insudiciato dal sangue: lo nascose agli altri<br />

passeggeri, appoggiandovi davanti la borsa. In quel momento, gli<br />

parve che tutti i manifesti, i tabelloni e tutti gli schermi pubblicitari<br />

glorificassero il nitore; gli sembrò che demonizzassero le patacche<br />

più microscopiche, celebrando le qualità di detersivi più<br />

prodigiosi dell’acqua di Lourdes. Il marionettista aveva l’impressione<br />

che la chiazza fosse dotata di una forza motrice propria capace<br />

di spostarla, insinuarla nei posti più imbarazzanti. Per nascondersi<br />

allo sguardo altrui, avrebbe voluto sprofondare per terra.<br />

D’altra parte, quel treno lo stava conducendo sempre più sottoterra,<br />

ma gli pareva che lo stesse trascinando verso l’inferno.<br />

La guardia del corpo sapeva che non doveva assolutamente disturbare<br />

l’onorevole Saulo Cresonte, mentre era nel suo studio.<br />

Eppure, quell’uscio era sigillato da troppo tempo. Bussò e mormorò:<br />

Dallo studio<br />

non si udì nulla. Il gorilla provò ad aprire la porta, ma era chiusa<br />

a chiave. La guardia bussò più energicamente e urlò: Prese a pugni la porta e poi decise<br />

di agire come i poliziotti dei film americani, abbattendola con


un calcio. Si slogò la gamba, ma non riuscì a scalfire la soglia. Si<br />

decise a sciogliere il nodo gordiano che sbarrava quell’ingresso<br />

con la violenza: impugnò la rivoltella e sparò alla serratura. Il<br />

proiettile rimbalzò sul pomo della porta e lese la coscia della segretaria.<br />

Per un attimo la guardia del corpo si perse a contemplare<br />

quell’opera d’arte sfregiata: si sentì come un vandalo che aveva<br />

deturpato la Gioconda.<br />

Tornato in superficie, il marionettista camminava claudicante,<br />

tenendo la gamba tesa, per non scoprire il calzino con la patacca<br />

vermiglia. Mentre arrancava sul marciapiede, gli si appiccicò addosso<br />

un venditore di moccichini. Ma il mercante insistette: Pur di<br />

levarselo di dosso gli comprò un pacchetto di pezzuole di carta.<br />

Per fortuna la segretaria era stata colpita solo di striscio, ma il<br />

gorilla pensò che il padrone non gli avrebbe perdonato nemmeno<br />

una scalfittura di quel capolavoro di anatomia femminile. La<br />

guardia del corpo raddrizzò la mira e sparò un altro colpo contro<br />

la serratura. Finalmente l’uscio si spalancò e l’orrore si distese<br />

davanti al gorilla. Il corpo di Saulo Cresonte giaceva sulla scrivania,<br />

in una pozzanghera di sangue. L’unico volto che rimaneva<br />

dell’onorevole era quello delle foto e dei busti sulla scrivania;<br />

era stato decapitato e della testa mozzata non vi era in giro nemmeno<br />

un pezzo: neanche un bulbo oculare, il lobo di un orecchio<br />

o uno schizzo di cervello. La segretaria entrò nell’ufficio, vide<br />

quel corpo mutilato e lanciò un urlo: La finestra<br />

era spalancata: l’assassino doveva essere fuggito da lì e<br />

poi essersi calato per una grondaia e per una scala antincendio.<br />

Per le strade, le auto della polizia sfrecciavano a sirene spiegate,<br />

mentre gli elicotteri delle forze dell’ordine sorvolavano la città.<br />

La gente si guardava, chiedendosi cosa fosse successo. L’o-


micida entrò in un centro commerciale per rifarsi un’identità e liberarsi<br />

delle macchie del suo passato. Andò in bagno e lavò una<br />

patacca di rosso che gli insudiciava il collo. Nonostante il sapone,<br />

quei grumi di sangue coagulato non volevano essere cacciati<br />

dalla scena. Il mostro doveva procurarsi degli abiti lindi, immacolati,<br />

rispettabili, capaci di celare le macchie della sua anima.<br />

Il sergente Colombo piombò sul luogo del delitto, appena in<br />

tempo per fermare l’opera devastante della segretaria; armata di<br />

straccio stava già pulendo tutto dicendo: Il fratello della vittima, il presidente<br />

Costantino Cresonte, si fece portare con un elicottero sul sito<br />

del misfatto.<br />

Ecco che un nuovo importante personaggio si stava affacciando,<br />

troppo importante per rappresentarlo in modo originale e degno<br />

di Lui. Descriverlo era tanto arduo quanto raffigurare Dio.<br />

Eppure, il volto di Costantino Cresonte si presentava veramente<br />

così:<br />

Sì, lo so, suo fratello, il defunto Saulo Cresonte, era già stato<br />

rappresentato nello stesso identico modo, ma i due, un po’ grazie


a madre natura, un po’ in virtù di un demiurgo munito di bisturi,<br />

si assomigliavano tremendamente, proprio come i fratelli di Michael<br />

Jackson.<br />

Il sergente stava scattando foto e cercando qualche impronta digitale<br />

non ancora cancellata dalla furia ripulente della segretaria.<br />

Il presidente, Costantino Cresonte, si rivolse al poliziotto: Colombo lo corresse: Costantino lo guardò in<br />

tralice: Colombo sudò freddo; avrebbe dovuto<br />

ammettere: ma si morse la lingua e<br />

si difese o protesse il superiore non presente: Costantino Cresonte disse al sergente: <br />

Prima che la polizia emanasse il suo identikit, l’assassino acquistò<br />

una parrucca finta. Poi entrò da un ottico per procurarsi<br />

degli occhiali con una spessa montatura. Dal televisore di un negozio,<br />

sentì Tina Corrodi, la direttrice del telegiornale che, in<br />

un’edizione straordinaria, dava la linea al reporter Cuco Zucca<br />

che annunciava una clamorosa notizia: Saulo Cresonte, il fratello<br />

del premier, era stato orrendamente ucciso. Ritornò in bagno e si<br />

aggiustò gli abiti in modo da sembrare più corpulento di quello<br />

che era. Nella fretta, per poco non dimenticò la borsa con il cimelio<br />

trafugato.<br />

Mentre la televisione trasmetteva a tamburo battente la notizia<br />

del delitto, il favoliere prese un taxi. Il taxista chiese cortesemente:<br />

Il cantafavole rispose


seccato: Per essere sicuro di non essere<br />

pedinato, seguì un tragitto contorto. Varcò via Monte Titano,<br />

via Monte Nero e via Piave, valicò val di Fiemme, via Vesuvio,<br />

via Monte Nevoso e pure via Valtellina. Gli parve di salire<br />

con le sue gambe, veramente, per quei monti o per quelle valli,<br />

tanto che gli venne il fiatone. Il favoliere indirizzò il taxi lontano<br />

dal centro del ciclone, verso la periferia, nei bassifondi della metropoli.<br />

Si recò in uno scantinato e disse: Il contraffattore fece notare: e gli chiese: L’assassino si accarezzò il pizzetto e pensò: <br />

L’omicida si tuffò nelle pozzanghere dell’immagina-<br />

zione, pescò dalle reminescenze della sua infanzia e borbottò:<br />

Il falsario gli consigliò: <br />

Con la sua nuova identità, “Yanez de Gomera”, il mostro comprò<br />

un biglietto d’aereo per una località esotica che aveva conosciuto<br />

da ragazzo nei romanzi di Salgari. Poi il capitano delle<br />

marionette ricapitò a casa e il narratore decapitante volle recapitare<br />

ai familiari stille di affetti preziose come capitali. Dall’isola<br />

in cui sarebbe fuggito, il favoliere non avrebbe potuto fornire o<br />

esigere alcuna notizia, per non offrire tracce utili alla polizia. Sapeva<br />

che non avrebbe potuto fare come Mattia Pascal e tornare<br />

indietro. Il marionettista entrò in casa accolto festosamente dalla<br />

figlia. Ripose la borsa e l’abbracciò. La bimba chiese: Il padre non poteva<br />

confessare cosa ci occultava, ma volle comunque concederle un<br />

obolo: Giocò con sua figlia, la accompagnò<br />

a letto e aprì un libro, per svelarle un’ultima avventura<br />

della fantasia. Chiuse le tende, come fossero le propaggini di un


sipario e sfogliò una storia, ma senza leggere. In realtà non scandagliava<br />

i caratteri d’inchiostro che si delineavano sulle pagine,<br />

ma rovistava nella storia che era scritta dentro di sé, nel sangue.<br />

Frugò nelle iridi della bimba e disse: Il<br />

marionettista le rimboccò le coperte e aprì un varco nel sipario<br />

del fantastico con la lama del “C’era una volta”. Si accarezzò il<br />

pizzetto e sussurrò alla figlia: . Poi si avvicinò all’orecchio della bambina, le<br />

infilò il chicco di una fiaba sotto il cuscino e le bisbigliò in modo<br />

tanto basso che nessuno, tranne la piccola, poté sentire.<br />

L’indomani il favoliere non sarebbe fuggito subito, per non<br />

rendere troppo evidente la sua colpevolezza: i segugi sulle tracce<br />

dell’assassino di Saulo Cresonte avrebbero sicuramente controllato<br />

la lista dei passeggeri in partenza. Il marionettista avrebbe<br />

fatto finta di niente, rispettando i suoi impegni di lavoro ed allestendo<br />

i suoi spettacoli fino a sera. Poi sarebbe rientrato tardi a<br />

casa, con il cielo stellato, quando la sua figlioletta già dormiva,<br />

avrebbe passato un’ultima notte nel nido domestico e il giorno<br />

seguente, nella quiete dell’alba domenicale, quando i familiari<br />

ancora russavano, si sarebbe diretto all’aeroporto e sarebbe decollato…<br />

verso la clandestinità.<br />

CAPITOLO 6<br />

Oltre cartine in fumo


Il posacenere dell’ispettore era stracolmo di mozziconi. Nei<br />

film americani i detective sono quasi sempre fuori, in strada, nei<br />

bar, nelle bische, nei casini, nei casinò… Ma qui non eravamo né<br />

in America, né in un film. Qui la burocrazia non funzionava né<br />

come oltralpe né come oltreoceano e le formalità lo obbligavano<br />

a fuggire la vita reale per tuffarsi in un mare di formulari. Eravamo<br />

in una dura realtà tinta di grigio: il grigio della nebbia tralucente<br />

da un’anonima metropoli a Nord del Mediterraneo, il grigio<br />

dello smog trapelante da una città qualsiasi a Sud delle Alpi,<br />

il grigio della nicotina, cui il nostro protagonista si aggrappava<br />

per non lasciare che la propria vitalità andasse in fumo, per non<br />

farsi catturare dalla lenza del sonno, per non essere rapito dalla<br />

sonnolenza della routine. Nella realtà, il nostro eroe doveva svolgere<br />

gran parte della sua guerra contro il male tra le carte, affrontare<br />

l’idra della burocrazia, sfidare la noia di un ufficio, tra fogli<br />

intrappolati in computer infettati da virus, o in pagine incastrate<br />

in stampanti povere d’inchiostro, o in polverosi schedari fatti di<br />

carta che si erigevano in un enorme castello… di cellulosa. Nella<br />

realtà, la lotta del paladino del bene contro il male si compiva<br />

mentre inseguiva i cattivi attraverso le loro tracce cartacee: le ricevute<br />

fiscali, le fatture, gli scontrini, gli estratti conto, i bilanci<br />

di società finanziarie fantasma, che gli orchi avevano dimenticato<br />

dietro di loro tra un misfatto e l’altro.<br />

Ogni giorno, il vice commissario Bossettoni avrebbe voluto debellare<br />

l’ingiustizia, ma un turno di otto ore non bastava per vincere<br />

la guerra contro il male: rinviava sempre il ritorno a casa di<br />

qualche ora, ma si doveva rassegnare a staccare senza aver guadagnato<br />

nemmeno una scaramuccia. Stavolta, l’ispettore si preparava<br />

ad abbandonare l’ufficio giusto in tempo per approdare in<br />

orario al desco serale. Proprio quando si accingeva a varcare<br />

la soglia del commissariato, ecco che squillò il telefono. Dall’altro<br />

capo del filo, il sergente Colombo annunciò che era stata<br />

decapitata una testa eminente. Bossettoni non prese alla lettera le


parole del suo sergente ed intese che era stato ucciso il capo di<br />

una banda molto importante. Pensava si trattasse del solito gangster.<br />

Il vice commissario implorò il sergente Colombo: Poi Bossettoni rinfacciò<br />

precedenti favori, promise persino di regalare una scatola di<br />

Avana e poté, almeno fino al giorno seguente, scaricare il caso al<br />

collega. Mentre aspirava l’ennesima boccata di tabacco, tirò un<br />

sospiro di sollievo che liberò dai suoi polmoni uno sbuffo di<br />

fumo: quell’alito di nebbia si unì alle nuvolaglie di smog che incombevano<br />

sui santi accovacciati sopra le guglie del duomo. Il<br />

commissario poté tornare alla guida della sua vita: a bordo della<br />

sua vettura, gli era consentito riprendere ad essere una persona<br />

normale. Impugnò il volante, il cambio e una sigaretta, ardente di<br />

desiderio d’Itaca e si diresse verso il nido dove lo attendevano<br />

moglie e figlio.<br />

Un papà vagava come un Ulisse con la sua automobile, attorno<br />

alla sua casa, alla ricerca di un parcheggio. Un tir con un faro<br />

rotto, più sinistro di Polifemo, rischiò di travolgere la sua automobilina.<br />

Da un manifesto pubblicitario, una ninfa più seducente<br />

di Circe lo invitava ad evadere dalla sua vettura e a fuggire in<br />

un’isola pedonale. Proprio come Odisseo, proprio quando sembrava<br />

aver pescato nel mare d’asfalto un porto in cui ormeggiare<br />

il suo mezzo, ecco che il posteggio era carpito da automobilisti<br />

più aggressivi di un lestrigone o altri mostri omerici. Ma la confederazione<br />

elvetica era allora lontana, più remota dell’Itaca che<br />

stava cercando in quel mare d’asfalto. Fu costretto ad avventurarsi<br />

in una doppia rotonda; nella frenesia del traffico, la sua utilitaria<br />

parve una zattera in un mare di catrame incandescente<br />

scosso dall’ira di Poseidone. Nel frattempo il sole era tramontato


e le tenebre ormai calate. Più il nostro eroe annaspava per avvicinarsi<br />

al suo quartiere e più la minaccia di una multa, o un fuoristrada<br />

speronante, lo distanziava dalla sua Itaca. La sua Penelope<br />

telefonò seccata: Schivò le sirene più insidiose: quelle di<br />

un’autoambulanza che sbucava da un marciapiede e quella di<br />

un’auto della polizia lanciata in un inseguimento con l’accanimento<br />

di un cerbero e, finalmente, il nostro novello Odisseo si<br />

pose in salvo in un parcheggio per il carico e lo scarico.<br />

Proprio sopra il parcheggio, troneggiava da un manifesto una<br />

prorompente venere in bikini che sussurrava Il messaggio si offriva a diverse<br />

interpretazioni: infatti “Filippos” era il marchio di un un’auto<br />

sportiva, di un profumo, di un orologio di lusso e di un pacchetto<br />

di sigarette. L’intera città era tappezzata di gigantografie della<br />

pubblicità, ma nessuna ritraeva la fotomodella per intero, perché<br />

l’inquadratura ingrandiva solo una parte del corpo. L’unica a non<br />

essere mai ripresa per intero era la testa, quasi che il fotografo<br />

avesse voluto decapitare la modella. Eppure in tutta la città nessuno<br />

si accorse di quel ghigliottinamento.<br />

Il papà si avviò verso il focolare domestico. Un uccello sinistro<br />

si frappose tra l’eroe e la sua meta e gli sbarrò il passo: no, non si<br />

trattava di un avvoltoio inviato dal signore dell’Ade, ma di un<br />

piccione che non voleva smuoversi; il padre non si avvide che il<br />

volatile era solo un’effige dipinta da un madonnaro sul marciapiede.<br />

Scantonò quel minuscolo mostro di guano, ma un altro<br />

ostacolo gli si parò davanti. Un venditore ambulante di accendini,<br />

torvo come Efesto, gli rammentò che era un fumatore: gli<br />

comprò una stilla di fuoco. Poi si ricordò di avere quasi esaurito<br />

la scorta di sigarette ed entrò nel bar sottocasa; il tabaccaio abbassò<br />

il tono della voce e gli bisbigliò: Bossettoni non<br />

credette alle sue orecchie: Il tabaccaio<br />

annuì:


uno scherzo. Ecco vede, ne ho qui uno sottaceto, uno sottovuoto<br />

ed uno sottoghiaccio, ciascuno munito del certificato del ministero<br />

della sanità!> Il vicecommissario fece una smorfia di disappunto:<br />

Il tabaccaio aveva<br />

già la risposta pronta: Bossettoni<br />

non accettò ancora la sfida e si limitò ad acquistare due pacchetti.<br />

Prima di salire in ascensore si fumò un’ultima sigaretta. Scese<br />

dal lift, ma prima di varcare la soglia di casa, decise di consumarsi<br />

ancora una paglia, giurando che quella sarebbe stata davvero<br />

l’ultima. Aprì la porta di casa, ma dietro di essa non vi era<br />

nessuno ad attenderlo, nemmeno un cane cieco. Eppure dentro la<br />

sua dimora c’erano la moglie e due bambini: il figlio Pietro e un<br />

cuginetto più piccolo, in visita per un paio di giorni. I bimbi sembravano<br />

non riconoscerlo, non si capiva se perché i minuti persi<br />

dal padre alla ricerca del posteggio fossero stati lunghi come decenni…<br />

o semplicemente perché i fanciulli fossero ipnotizzati da<br />

una Circe dell’etere. <br />

Uno dei bimbi, che si gustava un lecca-lecca alla fragola, lo implorò:<br />

Il figlio lo invitò: Il padre si accomodò sul divano, i<br />

bimbi gli si sedettero in grembo ed il più grande cercò di spiegargli<br />

le tecniche e le magie di combattimento dei Pokemon:<br />

Il padre tentennò, sperando che la moglie lo chiamasse<br />

a cena: Il bimbo<br />

scosse la testa con la rassegnazione di un professore che getta<br />

perle di saggezza ad alunni stolti come porci: Per fortuna<br />

la moglie entrò in salotto, dette un bacio al marito e impose a tutti<br />

di andare a tavola. L’attore di questa odissea si sedette al suo


desco e commentò: La sua Penelope osservò argutamente: Ulisse sospirò, si fece rapire<br />

dai banchetti di Calipso e di Circe, ma ritornò in fretta alla realtà<br />

e chiese: <br />

Dopo cena, la famiglia si sedette là dove un tempo vi era il focolare<br />

ed ognuno si contese il telecomando. Tra un canale e l’altro,<br />

i principi dell’informazione, capitanati da Tina Corrodi, annunciavano<br />

nuovi particolari sul delitto che aveva appena scosso<br />

la nazione. La madre avrebbe voluto vedere “Anna dei mille<br />

giorni”, un lungometraggio sull’amore di Anna Bolena, mentre il<br />

padre, ammiratore di Rita Hayworth, avrebbe voluto guardare<br />

“Salomè”. Il bambino più piccolo avrebbe desiderato sfidare la<br />

paura con il film “Il mistero di Sleepy Hollow”, mentre il più<br />

grande avrebbe voluto sintonizzarsi su “Storie incredibili” di<br />

Spielberg. I bimbi si fecero piagnucolosi, la voce della moglie<br />

isterica: Alla<br />

fine il padre propose un compromesso: <br />

La moglie sembrava d’accordo, ma i bambini non ne<br />

vollero sapere: La<br />

madre obiettò: I genitori avevano ormai deciso che l’intera<br />

famiglia sarebbe andata a teatro. Il bimbo più piccolo scoppiò<br />

in lacrime, mentre il più grande cercava di nascondere le chiavi<br />

dell’auto. Il<br />

bimbo più piccolo si disperò: La madre sentenziò: <br />

Il padre ritrovò le chiavi della vettura. Il cuginetto fu caricato a<br />

forza sulla macchina. Durante il viaggio il più grande protestò:<br />

Il papà<br />

obiettò:


Mentre guidava, il vicecommissario pensò alle sigarette che<br />

avrebbe dovuto bruciare per vincere il polmone messo in palio<br />

dal tabaccaio. Se aveva cominciato a fumare regolarmente dall’età<br />

di quindici anni, ciò significava che, svuotando ogni giorno<br />

un pacchetto di venti sigarette, ne avrebbe aspirate 600 al mese,<br />

7200 all’anno, 72 mila ogni dieci anni e 360 mila in cinquant’anni.<br />

Ma se fosse sopravvissuto fino a 80 anni, in 65 anni di nicotinismo,<br />

ne avrebbe potute esaurire 468 mila. Vivendo fino a 85<br />

anni avrebbe potuto incenerirne 504 mila. Difficilmente sarebbe<br />

giunto a quella veneranda età senza un tumore al torace, ma se<br />

avesse raddoppiato il consumo a due pacchetti quotidiani, accendendo<br />

una paglia ogni 24 minuti di veglia, avrebbe potuto, in 70<br />

anni di tabagismo, respirare oltre un milione di sigarette ed aggiudicarsi<br />

così DUE polmoni nuovi!<br />

Quando si fermarono ad un semaforo deserto, il bambino più<br />

piccolo approfittò della sosta forzata per evadere dal finestrino.<br />

La donna lo afferrò per un piede, lo trascinò verso di sé e se lo<br />

mise in braccio. Il bambino più grande oppose resistenza, anche<br />

quando ormai erano in fila per ritirare i biglietti: <br />

CAPITOLO 7<br />

Tra mostruosità della carta<br />

Il commissario e sua moglie con ― loro malgrado ― nipote e<br />

figlio al seguito, presero posto in platea. Tra il pubblico non c’era<br />

gente in abito da sera, ma solo gente comune nei suoi consueti,<br />

dimessi abiti di tutti i giorni: c’era ad esempio un uomo con la<br />

tuta blu da lavoro e suo figlio o un signore con la coppola e il


suo volpino; c’era ad esempio una massaia che dopo aver fatto la<br />

spesa era venuta direttamente in platea, lasciando che una baguette<br />

spuntasse da una delle borse. Una voce dal palcoscenico<br />

annunciò: Il favoliere avrebbe voluto rivelare storie indimenticabili,<br />

che echeggiassero canzoni di gesta straordinarie, da<br />

tramandare di generazione in generazione. Purtroppo, il nostro<br />

bardo avrebbe dovuto imbarcare i suoi racconti su una penna, affidarli<br />

ai mari tempestosi dell’inchiostro e farli trasportare lontano<br />

da vele effimere, fabbricate con un materiale fragile come la<br />

carta. Perché trascrivere le sue storie su pagine destinate ad ingiallire,<br />

a decomporsi e ad essere spazzate via, entro pochi decenni,<br />

dal vento del tempo? Del resto, gli spettatori non pretendevano<br />

di leggere e ricordare, ma solo di divertirsi. Per questo, il<br />

contastorie non aveva voluto ricorrere all’inchiostro e si accontentava<br />

di raccontare, per il puro gusto di narrare, affidandosi ad<br />

eroi fragili, fatti di cartapesta, che si muovevano su scenari e<br />

fondali ritagliati nel cartone. Il favoliere si lambì la barba, aprì il<br />

sipario di carta crespa e si decise a dare voce alle marionette:<br />

<br />

Con tali pezzi di carta il cantafavole ricavò aquiloni, deltaplani,<br />

aquile bicipiti… che condussero gli eroi della favola ― impersonati<br />

da marionette di cartapesta ― e gli spettatori verso lidi remoti…<br />

Finché la quiete fu scossa da una sirena. Che fosse il canto<br />

di un essere per metà donna e l’altra pesce? La moglie sferrò<br />

una delicata gomitata tra le costole del suo uomo: Il marito<br />

avrebbe voluto dare poco peso all’allarme, ma lui non era un<br />

comune mortale, bensì un pubblico ufficiale. Il vicecommissario<br />

Bossettoni prese in mano la situazione


dobbiamo evacuare il teatro! Fate passare avanti i bambini, poi le<br />

donne, dopo i vecchi e infine gli altri!> Il nipotino del commissario<br />

chiese: La signora rispose stizzita: . Una dodicenne si offese perché la volevano<br />

fare evacuare tra le bambine e non tra le donne. Si precipitarono<br />

ordinatamente fuori, calpestando qualche borsetta caduta. Nell’affanno,<br />

una signora con il foulard perse dalla sporta della spesa<br />

una baguette, che fu raccattata con i denti dal volpino del signore<br />

con la coppola.<br />

Quando furono all’esterno, sul marciapiede, i signori Bassettoni<br />

si accorsero che mancava il figlio. La mamma ricordò: Il padre lo scoprì davanti ad un gabinetto, in<br />

una nuvola di fumo provocata da una sigaretta accesa: Il poliziotto, che già presagiva la scoperta di<br />

oscuri traffici alla scuola elementare, ricevette un’ennesima delusione<br />

quando il figlio rivelò: <br />

Bossettoni maledisse il giorno in cui aveva cominciato a fumare,<br />

e poi il figlio. <br />

Il piccolo cercò di negare l’evidenza: Il padre dovette<br />

riconoscere che era forse più sfacciato di tanti criminali che aveva<br />

colto in castagna: Anche con le mani nel sacco,<br />

il figlio si difese con caponeria: <br />

Il padre lo afferrò per un orecchio e lo trascinò fuori dal<br />

bagno: Bossettoni affidò la piccola canaglia alla<br />

madre e disse: In realtà,<br />

l’ispettore uscì alla chetichella per consumare una sigaretta: do-


veva farlo di nascosto, perché aveva detto alla moglie che aveva<br />

smesso di fumare.<br />

Il pubblico riprese posto tra le sedie del teatro. Il signore con la<br />

coppola litigò con il suo cane, ma alla fine prevalse sul quadrupede<br />

e restituì la baguette alla signora con il foulard. Le luci della<br />

platea si spensero e si accesero i riflettori sul palcoscenico. Lo<br />

spettacolo ricominciò da dove era stato troncato… Il cantastorie<br />

si sfiorò il pizzetto e annunciò: <br />

Ancora una volta, lo spettacolo fu interrotto. Degli uomini in<br />

uniforme irruppero nel teatro: Bossettoni si avvide che<br />

erano poliziotti: riconobbe che erano guidati da Colombo, il suo<br />

sergente. Il poliziotto spiegò:


I bambini erano spaventati, i ragazzi divertiti dalla novità, gli<br />

adulti scocciati da quell’ennesimo contrattempo. La famiglia<br />

Bossettoni raggiunse il figlioletto, che era già all’esterno. Osservò il padre: Il<br />

bimbo tratteggiò una difesa: Il padre lo mise con le<br />

spalle al muro: Il figlioletto fu costretto a confessare dalla minaccia<br />

di rivedere tutto lo spettacolo dall’inizio: <br />

Intanto i poliziotti perquisivano tutto il teatro in cerca di congegni<br />

esplosivi nascosti. Il sergente Colombo rinvenne una borsa<br />

sul palco e si accinse ad aprirla. Il marionettista giunse in quel<br />

momento e urlò: Al<br />

poliziotto parve che il raccontafavole fosse un po’ troppo allarmato,<br />

s’insospettì e si accinse a spalancare comunque la borsa:<br />

se l’avesse schiusa non vi avrebbe rinvenuto un ordigno, ma un<br />

macabro trofeo. Il favoliere gli fermò la mano e i due presero a<br />

tirare la sporta l’uno verso l’altro. Colombo gridò: Il favoliere replicò: Bossettoni arrivò giusto in tempo per<br />

mettere fine a quella contesa: <br />

Il figlio fu trascinato da Bossettoni dentro il teatro, mentre si divincolava:<br />

Chiese la madre preoccupata: Rispose il<br />

bimbo: Bossettoni, intanto, pensava che<br />

nel paese di Rousseau, Pestalozzi, Piaget e Jung avrebbero sapu-


to adeguatamente psicanalizzare ed educare un caso disperato<br />

come quello di suo figlio. Ma la Confederazione Pedagogica era<br />

lontana e non gli restava che ricorrere a metodi più spiccioli, ma<br />

più pratici ed economici. Per non correre rischi, il vicecommissario<br />

legò con le manette una caviglia del figlio ad una sedia. In<br />

questo modo lo spettacolo poté finalmente proseguire e il favoliere<br />

poté concludere una volta per tutte le avventure del cavaliere<br />

arlecchino con un “e vissero felici e contenti”.<br />

La famiglia Bossettoni uscì dal teatro. Il capofamiglia non trovava<br />

più l’auto. Fu assalito dal timore che l’avessero rubata, proprio<br />

a lui, ad un poliziotto. <br />

Poi gli venne in mente di averla parcheggiata in un altro<br />

luogo, ma non ricordava dove. Per fortuna il figlioletto si rammentò<br />

che stava proprio dopo un viale di platani. Montarono in<br />

auto, il figlio salì in braccio alla madre, l’abbracciò e le sussurrò:<br />

<br />

CAPITOLO 8<br />

Tuffandosi nella macchia<br />

Il favoliere si armò di rasoio e si scrutò un’ultima volta allo<br />

specchio. Quella era l’ultima volta in cui avrebbe riconosciuto,<br />

attraverso quel volto, la sua vecchia identità. Fissò l’attrezzo da<br />

barbiere, contemplò quella lama antica, ma ancora affilata e rilucente.<br />

Ecco, adesso avrebbe dato un taglio al suo essere. Il rasoio<br />

tremò e fu colto da un’esitazione, ma non aveva scelta: era con le<br />

spalle al muro… di una parete piastrellata. Si gettò in volto una<br />

manciata d’acqua, si spruzzò della schiuma e si rase il pizzetto.<br />

Risparmiò i baffi: quelli li avrebbe lasciati crescere. Gli sembra-


va che dei lunghi mustacchi si adattassero bene alla sua nuova<br />

identità, quella di Yanez de Gomera: gli davano un’aria più vissuta,<br />

anche se non ancora abbastanza tenebrosa. Per avere un<br />

aspetto più virile si rase i capelli a zero. Così i baffi risaltavano<br />

di più, ma mancava ancora qualcosa. Avrebbe potuto aggiungere<br />

degli occhiali scuri da sole, ma erano troppo convenzionali. Sarebbe<br />

occorso qualcosa di più originale, di più forte per un personaggio<br />

trasgressivo come un pirata. Decise di mettersi una<br />

benda sull’occhio… Sul destro o sul sinistro? Avrebbe dovuto<br />

coprire l’occhio che percepiva il bene o il male? Poi, pensò di<br />

tingersi i baffi di biondo. Si tinse il baffo destro, ma esaurì l’acqua<br />

ossigenata, per cui l’altro mustacchio restava nero. Ormai<br />

non vi era tempo per riparare a quell’obbrobrio e radersi completamente:<br />

la polizia lo tallonava e un velivolo lo aspettava. Chiuse<br />

la porta del bagno dietro di sé, lasciando che lo sciacquone trasportasse,<br />

verso le fogne dell’oblio, le tracce dei suoi capelli, del<br />

suo pizzo e della sua vecchia identità.<br />

Il sole si affacciava in una timida aurora. Era tempo di darsi<br />

alla macchia, fuggendo lontano dalla giungla d’asfalto. Dette un<br />

ultimo bacio alla moglie e alla figlioletta addormentate. Quella<br />

mattina Yanez non prese l’automobile; temeva che la sua targa<br />

fosse già stata segnalata alla polizia, e di poter incappare così nei<br />

numerosi posti di blocco, che rendevano più chilometrici del solito<br />

i serpenti di auto che si attorcigliavano attorno agli incroci.<br />

Salì sul metrò: gli sembrò strano che il vagone non fosse gremito<br />

di pendolari ma, oltre ad essere presto, era domenica. Accanto a<br />

lui, una grassa signora con il foulard reggeva una borsa dalla<br />

quale spuntava una baguette, che un giovane ragazzo con un<br />

cappello da basket addentò. Tutti erano distratti da un piccolo<br />

cane, un volpino tenuto in braccio da un vecchio signore con la<br />

coppola, che digrignava i denti. Ringhiava contro Yanez. Per<br />

fortuna l’aeroporto era ormai vicino.<br />

Dagli schermi dei televisori dell’aeroporto, i tre cronisti del<br />

momento, Tina Corrodi, Cuco Zucca e Filippa De Marini, si passavano<br />

continuamente la linea, come una pallina da pingpong,


per aggiornare spettatori e passeggeri sull’ultimo delitto che aveva<br />

sconvolto il Bel Paese. Yanez, si toccò il baffo nero e quello<br />

biondo e si immerse in un opuscolo turistico della Malesia. Yanez<br />

de Gomera planò su Singapore, e poi prese un battello che, il<br />

lunedì, lo sbarcò nella più grande isola dell’Indonesia. Ecco, finalmente<br />

era giunto il momento di tuffarsi nella macchia di verde,<br />

e lì, nella giungla tra il Sarawak e il Kalimantan, levarsi, lavarsi<br />

di dosso la terribile macchia, di sangue, che deturpava la<br />

sua anima. Teneva con sé solo una piccola borsa a mano e il passaporto.<br />

Essendo braccato, doveva essere il più leggero possibile.<br />

Non appena si addentrò nella giungla del Borneo, bruciò il passaporto:<br />

il nome che c’era stampato, Yanez de Gomera, era falso.<br />

Entrando in quella natura selvaggia voleva liberarsi dell’ultima<br />

falsità imposta dalla civiltà. Avrebbe chiesto ospitalità agli ultimi<br />

Dayachi che ancora vivevano nel cuore della giungla, resistendo<br />

alle orde di motoseghe e ruspe che volevano abbattere la loro<br />

casa: la foresta. Sapeva che quando li avrebbe raggiunti non sarebbe<br />

servito esibire il passaporto: per dimostrare quel che si è<br />

nella giungla basta il proprio valore. Facile a dirsi, e difficile a<br />

farsi, ora aveva varcato il mare, l’oceano che si frapponeva tra il<br />

dire e il fare, tra gli oltre quattromila metri del monte Kinabalu e<br />

le anse infinite del fiume Kapuas. Nel cuore del Borneo, perso<br />

nel mare di verde tra Balikpapan e Tawai, non riusciva nemmeno<br />

a capire in quale direzione cercare i dayachi, gli ultimi cacciatori<br />

di teste. Non poteva chiedere indicazioni in giro, perché erano<br />

in guerra con il governo e sarebbe stato arrestato come un<br />

fiancheggiatore dei ribelli. Per alcuni chilometri, si fece dare un<br />

passaggio su per il fiume da alcuni cercatori d’oro che vivevano<br />

su una giunca o su un prahos. Li salutò e si addentrò nella foresta<br />

tra acacie sovrastate da oranghi. Fatta eccezione dei buceri, dei<br />

gibboni, di qualche iguana, non s’imbatté in altra anima viva.<br />

Eppure aveva sempre la sensazione di essere spiato, dalla polizia,<br />

dai guerriglieri o dalle belve. Si addormentò sotto un teck,<br />

accanto alla sua borsa, sognando avventure. Mentre russava, un<br />

mostro gli si avvicinò con passo felino. Per fortuna, non era un


hariman-bintang, la terribile pantera della Sonda, per cui poté<br />

proseguire i suoi sogni. Si trattava di una tigre che annusò la sua<br />

borsa, la divorò come antipasto e poi gli addentò un calcagno.<br />

Trasalì, urlò di dolore, scagliò una pietra contro la fiera, ma non<br />

riuscì a centrarla, perché teneva le palpebre abbassate. Quando la<br />

tigre gli strappò la gamba, riapri gli occhi e si accorse che quello<br />

era solo un incubo. Per lo spavento uno dei sopraccigli cambiò<br />

colore: divenne quasi bianco in confronto all’altro, che restò<br />

nero, ma osservandolo meglio era biondo. Forse l’incubo della<br />

tigre era un sogno, il desiderio di un’avventura che lo ridestasse<br />

da quella tremenda monotonia?<br />

Là, tra i banani, i teck, le piante di ananas, di caucciù o di sandalo,<br />

il cammino procedeva lentamente, senza il minimo sussulto,<br />

tanto piano che ad ogni sosta si assopiva. Nel dormiveglia gli<br />

parve di avvertire un fetore, forse l’esalazione di carne marcia:<br />

che il trofeo che celava nella borsa stesse per putrefarsi? Una<br />

mosca gli si posò addosso: la scacciò e l’insetto si depose su un<br />

fiore enorme. Per un attimo pensò che quella corolla paresse gigantesca<br />

al confronto delle piccole dimensioni dell’insetto; poi<br />

avvicinò una mano al fiore e si accorse che il bocciolo era veramente<br />

enorme: misurava quasi un metro. Spalancò gli occhi e si<br />

dette un pizzicotto: quella non era la percezione di un incubo, ma<br />

della realtà. I petali si richiusero e inghiottirono la mosca. Yanez<br />

si allontanò per paura che il fiore ingurgitasse anche lui. Settimane<br />

dopo, i penan gli spiegarono che si trattava della Rafflesia Arnoldi,<br />

il più grande fiore del mondo, che viveva nelle isole della<br />

Sonda.<br />

Fu presto ripreso dal tedio della lentezza, tanto che rimpianse<br />

pure un incubo che lo scuotesse da quella assenza di movimento.<br />

Provò a scrollarsi la noia di dosso mettendosi in cammino, cercando<br />

i cacciatori di teste, ma non capiva dove fossero. Sapeva<br />

che i dayachi vivevano nel cuore della foresta, ma gli era gravoso<br />

persino riconoscere la giungla. Nei film e nei romanzi la giungla<br />

è traboccante di piante e animali esotici. Nella realtà flora e<br />

fauna si nascondono e si disperdono in una zona intermedia, ibri-


da, grigia, dove si mescono piantagioni, radure, orti, boscaglie,<br />

arbusti, acquitrini, mangrovie, cadaveri di foreste bruciate dai<br />

contadini o rase al suolo dai tagliaboschi. Gli unici esseri esotici<br />

di cui vi era abbondanza erano i ragni e i serpenti e, soprattutto,<br />

le zanzare. Ogni tanto, incontrava capanne popolate da gente locale,<br />

ma gli era difficile riconoscere tra loro gli antichi guerrieri:<br />

tutti avevano addosso segni di civiltà, come un cappellino da basket,<br />

una maglietta con lo slogan Scola Cola o un orologio, che<br />

contaminavano la realtà selvaggia, incontaminata, che Yanez<br />

bramava. Quella realtà che aveva letto nei romanzi di Salgari o<br />

di Kipling. Quei romanzi scritti due secoli addietro, prima che si<br />

diffondesse nel mondo la corrente elettrica: là dove vi era l’elettricità<br />

la gente non si radunava più davanti a un focolare per raccontare,<br />

ma attorno al televisore, muti, a contemplare sogni che<br />

lì, nella foresta, erano impossibili. Nella giungla il cammino non<br />

procedeva per avventure o grandi imprese a ritmo di rock, come<br />

scontri con il leone o i pitoni o guerrieri armati di kriss o di cerbottana.<br />

No. Lì, nelle profondità della foresta, la vita procedeva<br />

lenta, silente, immobile, nutrendosi di piccoli gesti come il taglio<br />

della legna, l’accensione di un fuoco e lunghe soste: ore ed ore<br />

ad attendere su un sampan che un tilapia abboccasse alla lenza o<br />

seduto sul suo macabro bagaglio, giorni ed intere notti ad aspettare<br />

che una preda si lasciasse trafiggere da una lancia o catturare<br />

da una trappola. Era scappato dall’Europa per evadere dalle attese<br />

nell’ingorgo stradale o in una fila al supermercato ed ora si ritrovava<br />

costretto ad attese ancora più lunghe.<br />

Dapprima quella soste forzate gli sembrarono tremende, profonde<br />

quanto l’oceano che aveva varcato. Yanez captava quasi<br />

ogni giorno gli strofinii, i fruscii, i brusii, persino gli sguardi di<br />

qualcuno che lo spiava. Poi imparò a combattere la noia o la paranoia<br />

senza restare con le mani in mano: intagliava ciotole, intrecciava<br />

cesti, aguzzava frecce, raccoglieva paku, ananas, miding<br />

e banane, ammazzava il tempo e qualche scorpione. Certo<br />

non era facile farlo con una borsa in mano, ma non poteva separarsene.<br />

Ad un certo punto, persino l’attesa con la lenza sulle


sponde del Batang Rejang non divenne più un vuoto, ma un’attività<br />

che riempiva, arricchiva il suo tempo, gli dava la possibilità<br />

di trasecolare e di contemplare caimani, fenicotteri e altre curiose<br />

creature che popolavano il fiume nella giungla. Trovò il centro<br />

della foresta, grazie alla furia distruttiva che incalzava alla sua<br />

periferia. No, non era lo tsunami, ma una devastazione meno forte,<br />

ma alla lunga altrettanto rovinosa: era la forza delle ruspe e<br />

delle motoseghe che abbattevano gli alberi per venderne il legname.<br />

Fuggendo alla distruzione dei tagliaboschi giunse nel cuore<br />

della giungla dei dayachi. Attraversò le montagne del Pejunajan,<br />

le anse del Kapuas, del Mahhkanum e del Barito. Varcò la giungla<br />

del Kalimantan e giunse nella foresta del Sarawak, da cui gli<br />

oranghi, arroccati sui rami come fossero su bertesche, spiavano<br />

l’intruso dai bizzarri mustacchi. Non vedeva ancora i dayachi,<br />

ma gli pareva di udirne il respiro. Talvolta credeva di scorgerli<br />

con la coda dell’occhio, ma appena si voltava sentiva qualcuno<br />

che fuggiva tra le frasche. Che fossero quei mostri antropomorfi<br />

noti come “meia”, “mias” o “maias”? Se non mostrava di accorgersi<br />

di essere osservato, allora avvertiva che chi lo spiava si avvicinava.<br />

Fu così, facendo finta di nulla, che si ritrovò circondato<br />

dai dayachi. Appena rivolse loro la parola, i guerrieri si allontanarono.<br />

Stavolta, però, non scomparirono nella macchia. Yanez<br />

li inseguì, ma si accorse che non facevano nulla per dileguarsi.<br />

Lasciavano che il bianco li pedinasse. Che volessero attirarlo in<br />

una trappola? Lì seguì fino al loro villaggio di capanne abbarbicate<br />

tra gli alberi. Yanez<br />

s’introdusse nel villaggio, ma nessuno pareva accorgersi della<br />

sua presenza. Si spinse persino dentro una capanna, ma nessuno<br />

sembrava in grado di vederlo. Osservò i Dayachi mentre si tatuavano.<br />

Provò a fare “Marameo” a tutti i bambini della tribù, ma<br />

neppure loro parevano notarlo. Che fosse divenuto etereo o impercettibile?<br />

Ma, se fosse stato invisibile, non avrebbe potuto<br />

nemmeno lui vedere le sue mani, le sue braccia, il suo corpo. Si<br />

avvicinò ad un fuoco, dove degli uomini tatuati cucinavano della


carne di bue dentro foglie di simpoh e disse sorridendo: Urlò saluti ad un gruppo<br />

di donne occupate a farsi un tatuaggio, ma nessuna lo guardò.<br />

Notò di avere meno peso delle mosche: quelle almeno erano cacciate<br />

dai dayachi. Che fosse diventato un fantasma? Oppure era<br />

lui ad essere capitato in un villaggio di spettri? Che fosse stato<br />

condannato anche lui, come Ulisse o Enea ad una spedizione nel<br />

regno delle ombre? O costretto, come Dante, ad affrontare un<br />

viaggio nel regno dei trapassati? Ma se quegli esseri erano ombre<br />

o morti, come era possibile che riuscisse a nutrirsi del loro<br />

cibo? Che fosse giunto come Astolfo sul pianeta dei folli… o<br />

delle anime perse? Sembrava che lui ― o il villaggio nella giungla<br />

― non esistesse, eppure poteva mangiare, bere, scaldarsi al<br />

fuoco dei dayachi. Solo una cosa non riusciva a compiere: farsi<br />

un tatuaggio sulla schiena, per il quale avrebbe avuto bisogno<br />

dell’aiuto di qualcuno, che però ignorava completamente l’esistenza<br />

di Yanez. Insomma, lì non era nessuno, era proprio diventato<br />

l’incarnazione di nessuno, di un uomo fatto di nulla. O forse<br />

erano gli altri a non esistere? Chi era lui, nel mezzo di quella<br />

grande isola tra due oceani? Provò ancora a mettersi in contatto<br />

con i suoi simili: Nessuno<br />

reagiva. O forse tutti non rispondevano a nessuno, perché<br />

lui era proprio il signor Nessuno. Insomma, come avrebbe potuto<br />

dimostrare di essere qualcuno?<br />

CAPITOLO 9<br />

In un regno senza capo


Il favoliere si chiese come sarebbe stato possibile essere riconosciuto<br />

con un nome, Yanez de Gomera, che non era il suo! Lì,<br />

sbattuto nella giungla, senza un vero documento, era arduo non<br />

solo dimostrare la propria identità, ma persino palesare la propria<br />

esistenza. Si appoggiò ad un grande albero di teck su cui erano<br />

appollaiate delle scimmie proboscidate: forse il loro enorme naso<br />

avrebbe percepito almeno l’odore di Yanez? L’ex marionettista<br />

si prese la testa fra le mani. Non disponeva nemmeno di uno<br />

specchio per provare la propria apparenza. Che fare per dimostrare<br />

che lui NON era il signor Nessuno? Chiuse gli occhi, accarezzò<br />

il baffo nero e quello biondo e si sforzò di tornare indietro,<br />

di ricordare quando era qualcuno, quando era un qualcuno che<br />

cominciava ad esistere proprio davanti ad uno specchio…<br />

Innanzi ai suoi occhi si stendeva il buio:<br />

Poi, in questo buio, oscuro come una macchia indistinta di inchiostro,<br />

s’intravide un pertugio, il barbaglio di un carattere scritto<br />

da un’esile luce, ma imperversavano ancora le tenebre.<br />

Da questa pagina cupa non trapelava un’oscurità qualsiasi, ma<br />

un grumo nero, che risucchiava tutto quanto c’era attorno: le


stelle, ogni riflessione di luce e persino la sua identità. Stava per<br />

essere catturato da un buco nero. Poi il suono della sveglia gli<br />

fece capire che quel buio non esisteva veramente, ma era solo<br />

creato dalle tapparelle abbassate sulle sue pupille. Per dissolvere<br />

il buco nero nella normalità della notte, bastava riaprire gli occhi.<br />

Alle sei e trentacinque si svegliò. Alle sei e quaranta, con la<br />

stessa solennità del primo uomo sulla luna, pose il piede sulla<br />

terra, oltre quella che prima era un’astronave da sogno ed ora<br />

soltanto un letto. Alle sei e quarantacinque, con la stessa velocità<br />

di un astronauta su Marte, si avventurò verso uno specchio che<br />

dimostrasse che lui era un essere umano e non un marziano, ma<br />

la via era sbarrata. Una paratia si frapponeva fra lui e lo specchio.<br />

Il bagno era già occupato da un essere che, data l’ora,<br />

avrebbe potuto essere più estraneo di un marziano. Alle sei e cinquanta<br />

il marito conquistò l’ingresso del bagno. Compì tutte le<br />

operazioni che ancora oggi svolge un uomo all’alba, prima di recarsi<br />

al lavoro. Alle sette e dodici in punto si osservò davanti allo<br />

specchio, si chiese per un attimo chi fosse, si armò di una forbice,<br />

si spuntò il pizzetto, si pettinò. Alle sette e venticinque, con<br />

dieci minuti di anticipo, avviò l’auto. Quel giorno era martedì e<br />

quindi, oltre a far benzina, avrebbe dovuto controllare le gomme.<br />

Il marito era un uomo meticoloso, con la testa sulle spalle.<br />

Quel giorno era più assonnato del solito. Accese l’autoradio per<br />

svegliarsi; la cronista Filippa De Marini annunciava le consuete<br />

privatizzazioni realizzate quel giorno dal premier: L’automobilista<br />

credette di trovarsi in un sogno e si fece cogliere da un colpo di<br />

sonno. Si accorse all’ultimo momento di un anziano signore con<br />

la coppola che portava al guinzaglio il cane… e dovette frenare<br />

bruscamente, facendo stridere le gomme, per non investirlo.


Il marito era un uomo meticoloso,<br />

con la testa sulle spalle, che ogni tanto si distraeva.<br />

Alle otto e trenta giunse sul posto di lavoro, timbrò con metodica<br />

precisione il cartellino, depositò la valigetta ventiquattrore…<br />

e inciampò in un volto mozzato. Orrore! Bellofronte era stato decapitato!<br />

L’uomo non si perse d’animo, raccolse i resti di quel<br />

corpo dilaniato e si accinse a medicare tutte le ferite dei pupazzi<br />

del suo teatrino. Il favoliere brandì uno straccio e cominciò a<br />

spolverare le marionette. Il sipario era tutto impolverato, per cui<br />

avrebbe dovuto essere portato in tintoria. Inoltre occorreva passare<br />

lo straccio sul pavimento, in una laboriosa gincana tra le sedie<br />

del pubblico. Almeno due poltroncine zoppe chiedevano supplicanti<br />

una gruccia. A tutte queste cose doveva pensare! Ma lui<br />

era un uomo con la testa sulle spalle, cosicché non poteva perdersi<br />

d’animo, per portare la pagnotta a casa.<br />

Versò sera, arrivò come sempre, più o meno numeroso, il pubblico.<br />

Alle venti e trenta, tra spettatori più o meno interessati,<br />

ebbe inizio lo spettacolo. Non sapeva ancora quale creatura<br />

avrebbe abboccato all’amo del suo “C’era una volta”. Gettò la<br />

lenza nel vuoto e aspettò che un personaggio, quella personalità<br />

che sarebbe divenuta la sua marionetta, vi si appigliasse.<br />

C’ERA UNA VOLTA UN UOMO <strong>IN</strong>CORONATO SENZA<br />

TESTA<br />

Essere un re senza testa comportava molti problemi, almeno<br />

per degli uomini seri, con importanti responsabilità, come ad<br />

esempio quelle che gravano su un capo di Stato. Si ha poca memoria,<br />

si pensa poco, si parla con poco senno. Ma del resto, che<br />

razza di Stato è un regno con un capo senza capo? E poi, ammettendo<br />

che si potesse trovare un bravo e onesto ciambellano<br />

che facesse le veci del re, dove appoggiare la corona? Qualcuno,<br />

dotato di sbrigativo senso pratico risponderà: Ma in questo modo il poveruomo non aveva mai le<br />

mani libere, e non poteva sbrigare le sue mansioni, anche quelle


pratiche come lavarsi i denti, farsi la barba o mettersi le dita nel<br />

naso.<br />

Il maniero della nostra favola aveva un’apparenza ingannevole,<br />

quasi quanto quella del mago Atlante. La rocca sembrava<br />

d’oro e d’argento. Sembrava: in effetti era avvolta da fogli di<br />

carta, perché tutto parte dalla carta, anche i castelli di queste<br />

favole. Si trattava però di carta speciale, particolarmente colorata<br />

e rilucente; quei fogli argentati e dorati celavano mura color<br />

ebano e torri color avorio… Ma non bisogna mai fermarsi<br />

alle apparenze. Tra i bastioni di quel che non era ebano ma cacao,<br />

e le bertesche di quel che non era avorio ma cioccolato<br />

bianco, risuonarono le trombe che annunciavano solennemente<br />

l’arrivo del re nella grande sala del castello.<br />

Sulla scena apparve il monarca, sontuoso, maestoso, con lungo<br />

mantello, passo marziale, forse addirittura reale. Teneva in<br />

mano scettro e corona e si accingeva a suggellare con la propria<br />

penna un trattato di pace con un potente reame vicino.<br />

Quando si sedette sul trono, il ciambellano si rese conto di un<br />

insormontabile dilemma. Come liberare la real mano necessaria<br />

alla firma del trattato? Rimettendosi la corona in capo? Ma il re<br />

in questione non aveva testa. Affidando per un istante la corona<br />

alle mani del ciambellano o del principino? Ma il trattato, per<br />

essere valido, doveva essere segnato da un re incoronato, dotato<br />

cioè di corona. Che razza di re è un sovrano incapace di tenere<br />

una corona? Rimasero tutti imbarazzati, impietriti in un gelido<br />

silenzio. Tranne Arlecchino, il giullare, che rideva: <br />

Del resto la funzione del buffone era quella di darsi al riso. Intanto<br />

la pace con il potente regno vicino non ebbe seguito.<br />

Il giorno seguente il re convocò Arlecchino. Il giullare capì subito<br />

che avrebbe subìto una bella lavata di capo. Nella sala del<br />

trono era stato convocato un omone a torso nudo, con un cappuccio<br />

nero, che affilava un’enorme scure. Che fosse il boia? Il<br />

sovrano indicò il buffone con lo scettro e lo incaricò di partire<br />

da quel castello per andare a cercare la preziosa testa reale


smarrita. Brandendo minaccioso lo scettro troneggiò: Ma come?<br />

Come faceva a proferire parola un uomo senza testa? Scriveva i<br />

suoi ordini su una pergamena che veniva letta ad alta voce dal<br />

ciambellano! Il monarca, gesticolando più rabbiosamente, sentenziò:<br />

Il menestrello<br />

giunse le mani in segno di preghiera: Il re<br />

scosse lo scettro in segno di diniego. Il buffone si gettò in ginocchio<br />

e cominciò a piangere implorando clemenza: Tanto insistette che il re disse: Arlecchino si lasciò scappare<br />

un osanna e un ma il sovrano gelò il suo sollievo<br />

con un’altra tremenda condanna.<br />

Il monarca puntò lo scettro verso Arlecchino ed emise una crudele<br />

sentenza: Il buffone<br />

di corte supplicò il monarca di affidargli impresa più facile:<br />

la conquista del vello d’oro, del dente dell’orco, o la denuncia<br />

di un concorso pubblico senza raccomandati, ma non una così<br />

ardua. Il re, appellandosi alla corona di cui comunque manteneva<br />

il possesso, insistette e gli intimò di eseguire il suo ordine,<br />

pena la decapitazione. Ad Arlecchino non restò che rassegnarsi<br />

all’obbedienza, giacché un sovrano senza testa resta sempre un<br />

monarca, mentre un giullare, un suddito, o un uomo senza cranio<br />

non è più nessuno. E, facendo un inchino, se ne partì da palazzo<br />

a capo chino.<br />

Il giullare raggirò la valle del Bieco e si avventurò nella vallata<br />

del mostro, tra verdeggianti valli che si stringevano in<br />

da urlo,<br />

si avvinghiavano nelle di vortici e si avviluppavano


nella di un inferno verde.<br />

Arlecchino si tuffò tra i meandri dei monti e dragò i mulinelli<br />

del fiume alla ricerca del drago, ma non scorse nulla, nemmeno<br />

un magro mostriciattolo. Il menestrello penetrò nelle fauci della<br />

montagna finché la gola della valle venne scossa dall’ugola della<br />

famelica fiera. grugnì vorace il drago digrignando i<br />

denti in un ghigno feroce. disse Arlecchino provocando il mostro, che<br />

riprese con un nuovo e più profondo che percorse<br />

l’intera gola della valle. Il mostro riprese con un “Arg” di<br />

terrore, incalzato dal giullare che strillava: <br />

Ma che diavolo di arma è una filastrocca contro un mostro<br />

così terribile?! Eppure, già il primo dardo del giullare spaccone<br />

picchiò duramente la bestia verde. Arlecchino scoccò allora una seconda filastrocca.<br />

Fiaccò il drago con fiocchi di versi finché il mostro si accasciò<br />

supplicando con voce fioca: Quindi l’enorme bestia<br />

cercò di reagire eruttando una colonna di fuoco alta quanto<br />

cento guerrieri. Ma il saltimbanco non si perse d’animo, schioccando<br />

crudele un’altra tremenda filastrocca che fece scricchiolare<br />

il nemico spaccandogli le ossa. Ma lo sciocco drago cercò di resistere. Fu allora che<br />

l’inesorabile Arlecchino finì il mostro gracchiando un’ultima filastrocca...<br />

Il mago Atlante attaccò ferocemente il menestrello. Con il suo<br />

bastone percosse la roccia aprendo enormi voragini che cercarono<br />

di inghiottire l’eroico giullare. Poi, con il suo corno chiamò<br />

dai più profondi abissi battaglioni di orchi con il muso da<br />

lupo che, ringhiando e ululando, presero d’assalto Arlecchino.


Tuttavia, nessuno dei sortilegi del re dei sabba poté vincere le filastrocche<br />

del saltimbanco.<br />

Arlecchino tornò al palazzo reale con la testa del re. Il monarca<br />

lo accolse trionfalmente porgendogli, quale suprema ricompensa,<br />

la mano della principessa o la nomina a cavaliere. Il sovrano<br />

ordinò che si festeggiasse l’eroe con un grande torneo e<br />

un banchetto. Furono divorati cinghiali, faraone, piramidi di<br />

anatre farcite, faraonici cervi allo spiedo. Dopo il dessert, quando<br />

giunsero all’ammazzacaffé, qualcuno dei convitati chiese ad<br />

Arlecchino di rivelare il segreto delle sue filastrocche, offrendo<br />

di pagarlo a peso d’oro. Ma l’eroe rispose, con un inchino, che:<br />

Proferì il<br />

giullare, gingillando con il suo giallo liuto, che: <br />

Il racconto del cantafavole echeggiò in uno spaventoso vuoto,<br />

nella voragine che la fame aveva aperto nel suo stomaco. Il favoliere<br />

riaprì gli occhi e smise di pensare al suo vecchio mestiere e<br />

alle storie che raccontava per campare. Aveva la pancia vuota e<br />

per sopravvivere nella giungla non gli sarebbe bastato narrare favole.<br />

CAPITOLO 10


Cercando un punto nella macchia<br />

Appollaiati tra i rami più alti dei bengkirai della foresta pluviale<br />

tra Labuan e Banjamsin, come se quelle cime fossero delle guglie,<br />

quella mattina gli oranghi assistevano divertiti allo scimmiesco<br />

tentativo di comunicazione di Yanez. Insomma, non era<br />

possibile che in quella selva nessuno si accorgesse di lui. Per<br />

l’ennesima volta, il favoliere si affannò per contattare il popolo<br />

della foresta, ma stavolta scandì meglio le parole: Nonostante la totale<br />

indifferenza, si rivolse ad una matrona che cucinava del tilapia<br />

nelle foglie di tapioca e poi s’indirizzò ad un vecchio che tatuava<br />

un coccodrillo sul dorso di un ragazzo, ma stavolta accompagnò<br />

le parole con i gesti. Nessuno lo degnava di<br />

uno sguardo. O forse tutti non potevano vedere nessuno, perché<br />

lui era davvero Nessuno. Si ridisse che lui era Yanez de Gomera,<br />

ma neppure lui se ne convinse: quel nome e cognome non erano<br />

suoi, né erano mai appartenuti ad un personaggio reale, ma solo<br />

ad una creazione della fantasia. Eppure non gli sarebbe bastato<br />

nemmeno affermare di essere James Brooke o il sultano del Brunei!<br />

Era pure lui, adesso, un personaggio immaginario? Per trovare<br />

una certezza sulla sua identità, non poteva nemmeno aggrapparsi<br />

al nome e al cognome del suo passato: li aveva bruciati<br />

assieme al passaporto, prima di darsi alla macchia. Colto da dubbi<br />

amletici, si sforzò di aggrapparsi all’unico elemento concreto<br />

ed assodato del suo passato: lo custodiva nella borsa. Accidenti!<br />

Perché un uomo con la testa sulle spalle come lui non ci aveva<br />

pensato prima?<br />

Nella sacca conservava l‘attestazione che lui un tempo era stato<br />

un uomo reale, capace di azioni vere, persino brutali. Preso dalla<br />

disperazione, l’ex favoliere aprì la sua borsa, afferrò il trofeo che<br />

conteneva e lo lanciò nella piazza, proprio nel centro attorno a


cui si raccoglievano le capanne. Neanche stavolta qualcuno dei<br />

dayachi si accorse del sussulto del forestiero o di quella testa recisa<br />

che per loro avrebbe dovuto costituire un segno di distinzione.<br />

Yanez poi capì che quella che per lui era una piazza per i tagliatori<br />

di teste, che vivevano in casupole abbarbicate tra gli alberi,<br />

era solo l’ennesimo vuoto tra i rami. Lo straniero scese dal<br />

bengkirai, afferrò per i capelli il capo mozzato, rimontò su per un<br />

teck e corresse la mira lanciandolo nella capanna che fungeva da<br />

sala riunioni dei penan.<br />

Una testa rotolò ai piedi dei dayachi. Gli occhi dell’onorevole<br />

Saulo Cresonte parevano scandagliare perplessi tutta quella gente.<br />

Solo allora i penan si ricordarono di essere dei dayachi e accettarono<br />

di vedere Yanez, ravvisando in lui un cacciatore di teste.<br />

Un uomo di mezz’età, dal fisico vigoroso, con il corpo decorato<br />

da rughe, cicatrici e tatuaggi, che dal piumaggio pareva fosse<br />

il loro capo, chiese: Il favoliere era ancora irritato per essere stato ignorato<br />

per tanto tempo: Il capo sorrise divertito: Yanez<br />

chiese: Un ragazzo<br />

dayaco lo corresse: Il favoliere<br />

riconobbe seccato: Il capo<br />

spiegò: Yanez tacque, abbassò lo sguardo e ammise:<br />

Il capo commentò: L’avventuriero balbettò:<br />

Il capo dei penan rise, seguito<br />

dalla risata di tutti i membri della tribù e da quella delle scimmie<br />

proboscidate a penzoloni sulle acacie vicine. Il capo chiese:<br />


vivere con dei guerrieri seminudi in guerra con la civiltà?> Yanez<br />

non demorse: Il capo<br />

ridacchiò ancora: Questa<br />

volta fu Yanez a sogghignare: Il capo dayaco spiegò perplesso: Yanez disse: e indicò il cranio che aveva<br />

portato con sé. Fu così che la tribù dei cacciatori di teschi accettò<br />

di fare un tatuaggio sulla schiena di Yanez: raffigurava un drago<br />

che ingurgitava la testa di un bianco. Da allora, i penan accolsero<br />

lo straniero come un loro fratello. Da quel giorno, in tutta l’Indonesia<br />

e la Malesia, si mormorò di un guerriero bianco, con un occhio<br />

solo, che guidava i dayachi nella lotta contro i mostri di ferro<br />

che minacciavano la giungla. Le ruspe dovettero essere scortate<br />

dai soldati, anche di notte. Ma dalla macchia, soffiati dal respiro<br />

attraverso le cerbottane, giungevano dardi avvelenati che<br />

colpivano i militari. I fanti si difendevano a casaccio in quell’inferno<br />

verde, sferrando alla cieca raffiche di mitra, senza vedere


l’aggressore. I soldati dovettero abbandonare le ruspe per dare la<br />

caccia ai guerriglieri arroccati sugli alberi come fossero torri di<br />

una reggia. Sulla testa di Yanez fu messa una taglia, ma lui riusciva<br />

sempre a dileguarsi protetto dal labirinto di tronchi. Per<br />

catturarlo avrebbero dovuto abbattere l’intera boscaglia. Il capo<br />

dei dayachi notò che quando combatteva contro i tagliaboschi,<br />

Yanez teneva scoperto l’occhio sinistro, mentre quando era al<br />

villaggio tra i dayachi mostrava l’occhio destro. Yanez cercò<br />

di spiegare: <br />

Talvolta la lama dei dayachi si avventava sul collo dei nemici.<br />

Ma amputare una testa non era così semplice, come può sembrare<br />

in epici finali come quelli di Golia o di Macbeth: il più delle<br />

volte occorreva menare sul collo del malcapitato più di un fendente<br />

e a volta la lama s’impigliava fra le cervicali. Purtroppo, in<br />

quella guerra, i dayachi non potevano fermarsi a mozzare la testa<br />

del nemico ucciso, ma dovevano subito svanire nella giungla.<br />

L’unico trofeo che potevano esibire era il racconto delle loro battaglie<br />

contro le ruspe. Ogni sera, i combattenti narravano gli<br />

eroismi di quel giorno e poi i vecchi decantavano le gesta dei<br />

duelli, in cui si rendeva onore al nemico ucciso conservandone la<br />

testa. Fino a notte fonda, i bambini della tribù ascoltavano l’eco<br />

di quelle imprese che già conoscevano, come se le avessero udite<br />

per la prima volta. Tutti, a turno, raccontavano una favola, strappandola<br />

dal proprio passato.<br />

Anche Yanez fu chiamato a narrare, proprio mentre una tarantola<br />

si avvicinava alla sua mano. Era stato abituato fino ad allora<br />

a parlare attraverso le sue marionette, ma si ritrovava nudo, privo<br />

di effetti speciali, armato soltanto di parole, ricordi e fantasia.<br />

Yanez dovette subito rinunciare a raccontare Salgari, perché conoscevano<br />

quella realtà troppo bene, meglio dello scrittore veronese.<br />

Un bambino con la cravatta firmata, gli fece subito notare<br />

ridacchiando: Yanez lo guardò perplesso, proprio quando la taran-


tola zampettava sulla sua mano e domandò al fanciullo: Il bimbo sorrise:<br />

De Gomera non trasalì,<br />

lasciò che la tarantola camminasse oltre la sua mano proseguendo<br />

il suo tragitto sul ramo di un albero di teck e si rammentò<br />

di essere un padre: Il<br />

piccolo non si scompose: De Gomera gli chiese: <br />

Il piccole scosse il capo: <br />

Armato di una torcia, lo straniero si prese in braccio il piccolo<br />

con la cravatta firmata e si accinse a favoleggiare realtà lontane<br />

da ogni bambino della tribù. Un coccodrillo si gettò poco oltre la<br />

riva dove Yanez raccontava, ma il contastorie con l’occhio bendato<br />

proseguì imperterrito: Nella selva si udì sibilare<br />

un pitone che interruppe per un attimo Yanez. Tra Samarinda<br />

e Pontianak non ne aveva mai visti di così grandi. Yanez dimenticò<br />

quel sibilo e riprese a sciorinare: <br />

Lontano si udì il ruggito di un leopardo, ma Yanez si accarezzò<br />

il baffo biondo e quello nero e si ostinò a sussurrare una<br />

favola ad un fanciullo con il cappello da basket… In lontananza<br />

si udiva passare un elicottero militare. Un pappagallo colorato<br />

come un arlecchino si accomodò su un ramo, vicino alla testa del<br />

contastorie, forse per trovare un rifugio dai predatori che infestavano<br />

la giungla, ma Yanez seguitò ad affabulare… Il pappagallo<br />

si appoggiò sulla spalla di Yanez, ma lui riprese a confabulare…


Anche quando si sentivano degli spari lontani, Yanez non mancava<br />

mai di borbottare una fiaba ai bambini. Ma ogni fanciullo<br />

cresceva e non si accontentava più di storie fantastiche. La giungla<br />

a pochi chilometri bruciava, estinguendo gli ultimi elefanti e<br />

gli ultimi rinoceronti, ma Yanez persisteva nel suo raccontare,<br />

faccia a faccia, a ciascun bambino, accarezzandosi la benda sull’occhio.<br />

Tutti erano tanto concentrati ad ascoltare gli echi di<br />

quei racconti che non si accorsero di un bambino, con il cappello<br />

da basket, che rubava del pane dalla sacca di una grassa matrona<br />

con il foulard.<br />

I ragazzi esigevano che riferisse una favola più prossima alla<br />

sua vita… Il bambino con il cappello da basket, seduto su un’altalena<br />

di liane, lo incalzò: Alla fine, Yanez si lisciò il baffo<br />

nero e quello biondo e si arrese: <br />

CAPITOLO 11<br />

Indimenticabile primo amore<br />

Quell’essere che si librava nella giungla tra Kota Kinabalu e<br />

Palangkaraya, proiettandosi da una liana all’altra, non era una<br />

scimmia, non un acrobata del circo, ma qualcosa di più. Inerpicatosi<br />

sull’albero più alto, lanciò un urlo simile all’ululato, allo yodel<br />

e al ruggito: lo sentirono i leopardi, i boscaioli, i dayachi e<br />

capirono che quello era Tarzan. Che diavolo ci fa il re della giungla<br />

africana nel Borneo? C’era giunto in missione per conto de-


gli svizzeri. Stava girando una pubblicità per una caramella elvetica<br />

contro il mal di gola. Il re della foresta dichiarò: <br />

come se tutti conoscessero l’acre odore di carne marcia emesso<br />

del gigantesco fiore carnivoro delle isole della Sonda. Per consentire<br />

all’attore che impersonava Tarzan di recitare per un paio<br />

di giorni in santa pace, l’agenzia pubblicitaria aveva dovuto pagare<br />

i boscaioli, affinché sospendessero momentaneamente il<br />

loro selvaggio taglio. Yanez e i dayachi osservavano divertiti<br />

l’intermezzo alla guerra offerto dalla pubblicità. L’indomani i<br />

penan avrebbero ripigliato a combattere il taglio degli alberi, con<br />

la mietitura di qualche testa. Forse già nella notte, si sarebbero<br />

insinuati nelle tende dei boscaioli sorprendendoli nel sonno.<br />

L’ispettore Bossettoni, il più accanito fumatore della polizia,<br />

era sulle tracce del mostro che aveva decollato l’azienda dell’onorevole<br />

Saulo Cresonte, non solo in senso figurato. L’assassino<br />

non aveva scordato dietro di sé vere tracce, odori evidenti, ma<br />

solo dei fumi: i moventi di un lavoro andato in fumo ad esempio.<br />

Forse, per familiarizzare con le cortine fumogene che si estendevano<br />

attorno alla figura dell’ucciso e dell’ucci- sore, il vice commissario<br />

Bossettoni accese più frequentemente le sigarette. L’investigatore<br />

aveva abbandonato la pista del movente politico per<br />

quello economico, stilando una lista di sospettati tra i debitori<br />

dell’ucciso. Indagò tra i fornitori di passaporti falsi: gli fu facile<br />

rintracciare un informatore, offrendo molte sigarette e la taglia<br />

che il presidente Costantino Cresonte aveva posto sulla testa dell’assassino<br />

del fratello. Nonostante la nebbia stesa da tante stecche,<br />

il segugio scoprì che uno dei principali indiziati aveva richiesto<br />

un documento, intestato a Yanez de Gomera e con questo<br />

nominativo aveva acquistato un biglietto d’aereo per Singapore.<br />

Bossettoni comunicò la sua scoperta al diretto<br />

superiore, ma se ne pentì, perché il capo lo inviò subito sul posto.<br />

A nulla valse recarsi a Singapore e sopportare per 12 giorni


quel caldo opprimente infestato dalle zanzare, che tentava di<br />

scacciare con le esalazioni del tabacco. L’ispettore emetteva fiotti<br />

di sudore anche sotto la doccia. A distanza di tre settimane il<br />

ventilatore della sua stanza d’albergo si ruppe, e dopo aver consumato<br />

invano i polmoni in decine di pacchetti di sigarette, il<br />

detective decise di sospendere l’indagine.<br />

Sbatté nelle valigie la biancheria sporca, l’ultimo pacchetto di<br />

paglie e gli ultimi dubbi, si avviò per l’aeroporto e, mentre aspettava<br />

l’aereo per Malpensa, si fumò l’ultima cicca e acquistò il<br />

giornale. In prima pagina campeggiava la foto di una ruspa e di<br />

un blindato schiantati in un burrone; il titolo diceva: “Nuova incursione<br />

del bianco che guida i ribelli penan”. Il sottotitolo spiegava<br />

che nella notte i guerriglieri dayachi avevano segato parti<br />

delle strutture del ponte, che era crollato al passaggio di un convoglio<br />

di ruspe scortato dai carri armati. A questo punto, quelle<br />

ore della sua infanzia rubate allo studio, per divorare i romanzi di<br />

Salgari, produssero finalmente dei frutti: l’investigatore ricordò<br />

che Yanez era il nome di uno dei personaggi dello scrittore veronese<br />

e che il Borneo era una della sue zone operative. Bossettoni<br />

ebbe allora un’illuminazione: e se fosse stato proprio questo misterioso<br />

bianco, lo Yanez che il poliziotto braccava?<br />

Il vice commissario partì subito per il Borneo, affittò un fuoristrada,<br />

si procurò una scorta di stecche di sigarette e si addentrò<br />

nella foresta vergine. La sera, spossato per il viaggio, fermò la<br />

jeep in un minuscolo villaggio di boscaioli, dove offerse qualche<br />

paglia. Le zanzare lo attaccavano a sciami: Un indigeno<br />

gli chiese: Il vicecommissario respingeva gli attacchi delle anofele con<br />

una cortina fumogena sollevata dalle sue sigarette. Bossettoni affittò<br />

una camera, chiese un posacenere, calcolò quanti lustri gli<br />

mancassero per riscuotere il premio fedeltà che gli aveva promesso<br />

il suo tabaccaio e si addormentò all’istante con la sigaretta<br />

ancora accesa. Nella notte si sentirono i versi di un orso che russava…<br />

Ma gli orsi malesi dormivano piuttosto di giorno! No, si


trattava di Bossettoni. Il poliziotto russava come un orso, in un<br />

sonno così letargico che non si accorse che un dayaco era penetrato<br />

nella sua baracca. Il cacciatore di teste con un occhio solo<br />

alzò la sua lama e vibrò un secco colpo sulle cervicali dell’in-vestigatore.<br />

Il detective si svegliò di soprassalto, si portò una mano<br />

alla nuca e si avvide che si trattava soltanto di un incubo.<br />

Tormentato dall’insonnia, l’ispettore si rassegnò a fumare l’ultima<br />

stecca. Il segugio della polizia comprese che era impossibile<br />

snidare Yanez de Gomera dalla giungla, nemmeno facendo apposta<br />

a far cadere un mozzicone acceso nella selva… per appiccarvi<br />

il fuoco. E allora, tra una boccata di fumo e l’altra, decise<br />

di escogitare un trabocchetto, ricorrendo ad un’esca. Fece circolare<br />

la voce che la donna di Yanez era stata minacciata di morte<br />

da parte di fratelli massoni dell’ucciso.<br />

Yanez raccolse quella voce come una sfida. Bossettoni si sentiva<br />

addosso l’occhio del cacciatore di teste. L’ispettore sapeva,<br />

sentiva che stava provocando la morte, proprio come quando, accendendo<br />

una sigaretta, sfidava il cancro ai polmoni. Non chiuse<br />

occhio per parecchie notti e prese l’abitudine di fumare anche nel<br />

buio. Le sigarette non bastavano più: lo sbirro, ormai, doveva ricorrere<br />

ai sigari.<br />

Una sera il vicecommissario tentò di tenersi sveglio aggrappandosi<br />

alla nicotina, finché fu sopraffatto da una spossatezza che<br />

faceva pesare le sue palpebre come saracinesche. L’investigatore<br />

si addormentò dopo aver ispezionato l’allerta delle sentinelle.<br />

I suoi scrupoli furono vani, perché Yanez si calò da un “durion”,<br />

accoltellò un paio di guardie, s’incuneò fin nella sua tenda, si avvicinò<br />

al suo collo e recise la sua colonna vertebrale. Un urlo di<br />

dolore si elevò dalle tenebre che avvolgevano la giungla: l’ululato<br />

del vice commissario ridestato dall’ennesimo incubo. Gridarono<br />

anche le guardie, strappando tutti dal sonno: qualcuno era penetrato<br />

nell’accampamento. Si udirono degli spari contro l’intruso<br />

che si tuffava nell’oscurità.<br />

L’investigatore riaccese una lanterna a petrolio e vide in faccia<br />

la Fine, con un sogghigno che stringeva cuore, polmoni, budella:


la Morte gli sorrise e gli infilò un indice, una mano in bocca, in<br />

gola, nella trachea, fino a giungere agli alveoli, afferrare un polmone<br />

e strapparlo. No, la Fine non si manifestava sotto le mentite<br />

spoglie di una signora ammantata di nero e armata di falce,<br />

con un ghigno a trentadue denti perennemente stampato sul teschio.<br />

Si rivelava attraverso lo sguardo di un uomo comune, ma<br />

rispettabile, un tempo persino onorabile o venerabile. Guardando<br />

negli occhi la morte, Bossettoni si rese conto di quanto fosse attaccato<br />

alla vita e capì che non poteva più permettersi di sprecarne<br />

neppure un nanosecondo. Forse, fu la morte a scrutare nelle<br />

pupille del vicecommissario, a chiedergli di accendere un’altra<br />

sigaretta e di bruciare l’ennesimo brandello di alveoli. La soluzione<br />

più diretta, spicciola e meno ardua che riuscì a prendere fu<br />

quella di smettere di fumare.<br />

Quando il detective accese la sua lampada, si accorse che la visita<br />

di Yanez non era stata solo un incubo: accanto a lui, sul suo<br />

letto, giaceva un volto senza vita. L’ispettore guardò in faccia<br />

quell’essere: d’altra parte, oltre al viso, non vi era null’altro da<br />

osservare, anche se sembrava che quella testa troncata squadrasse<br />

Bossettoni. Quel viso senza collo sembrava quasi che sorridesse.<br />

Il vicecommissario raddrizzò il volto reciso afferrandolo per i<br />

capelli. Si domandò se quello potesse essere o meno l’onorevole<br />

Saulo Cresonte: avrebbe dovuto riconoscerlo dalla foto di un<br />

volto riportato in un passaporto, o attraverso delle impronte digitali<br />

inesistenti? Sembrava che quella testa mozzata esigesse di


sussurrargli: Le palpebre del morto erano ancora alzate e pareva<br />

che le pupille si intestardissero a fissare il mondo. L’ispettore si<br />

chiese cosa gli frullasse in testa, ma forse sarebbe stato più corretto<br />

domandarsi cosa gli frollasse nel cranio, visti i numerosi<br />

vermi che dilaniavano il suo encefalo in putrefazione. Il vicecommissario<br />

non scaricò la tensione nervosa accendendo come<br />

di consueto una paglia. Abbassò quelle palpebre sbarrate, raccolse<br />

il viso dell’ucciso e, rassegnandosi a restare senza il volto dell’assassino,<br />

si preparò a rimpatriare. Se non altro, non avrebbero<br />

potuto accusarlo di essere tornato a mani vuote! All’aeroporto<br />

chiese il prezzo del biglietto e un’affascinante hostess di terra gli<br />

rispose: Bossettoni volle fare una battuta,<br />

forse per impressionare la bella impiegata: Non l’avesse mai fatto, la hostess chiamò<br />

i superiori e pretesero che pagasse un secondo biglietto anche<br />

per il Cresonte!<br />

Sull’aereo, Bossettoni finì in un reparto non fumatori e non<br />

poté consumare nemmeno una cicca. Litigò con la hostess, perché<br />

si incaponì a lasciare la borsa con la testa del Cresonte sul<br />

sedile accanto: <br />

La hostess osservò che tutte le borse dovevano essere riposte<br />

nell’apposito portabagagli. Per non<br />

impressionare deboli di cuore e bambini, gli fu imposto di chiudere<br />

la testa mozzata nella sporta e quindi nel vano bagagli. Il<br />

commissario dovette arrendersi, ma pretese che gli servissero anche<br />

le bibite cui avrebbe avuto diritto il passeggero che giaceva<br />

nel bagagliaio.<br />

All’aeroporto vi era già ad attenderlo una folla di giornalisti, tra<br />

i quali svettavano Tina Corrodi, Filippa De Marini e Cuco Zucca.<br />

Il commissario cercò di aprirsi un varco in quel roveto di microfoni:<br />

Tina Corrodi approfittò della calca per strusciarsi<br />

addosso all’ispettore:


scia un’intervista?> Cuco Zucca dette una gomitata nello stomaco<br />

di Tina e ne approfittò Filippa De Marini per farsi avanti con<br />

una procace scollatura: <br />

Bossettoni la fulminò con lo sguardo: Filippa lo guardò stupita: Il vice commissario salì su un’auto guidata<br />

dal fido sergente Colombo e si allontanò da quella folla così curiosa.<br />

Il nocchiero gli offrì un sigaro, ma il commissario rifiutò:<br />

Dopo essere<br />

stato sfiorato dalla morte così da vicino, l’ispettore si era sentito<br />

più che mai attaccato alla vita e aveva deciso di smettere di fumare:<br />

in effetti, non toccò più una sigaretta, ma da allora cominciò<br />

a consumare ogni giorno decine di gomme da masticare… e<br />

prese ad imprecare con più frequenza e più enfasi di prima.<br />

La notte stava calando e i predatori di teste si accingevano a<br />

proferire favole. Yanez si stropicciò il baffo nero e quello biondo,<br />

mescolò le sue favole come fossero i tasselli di un “mahjong”<br />

o gli ingredienti di una ricetta “Nionya” e farfugliò: Fu subito interrotto: <br />

Il narratore bendato era in difficoltà, perché in quell’isola non vi<br />

erano lupi. Il contastorie, che avrebbe voluto<br />

terrorizzarli, si ritrovò spiazzato, perché in quella selva i predatori<br />

non erano disprezzati come sulle Alpi, ma erano persino<br />

venerati. Yanez, per incutere timore nei suoi ascoltatori, decise<br />

di ricorrere ad una creatura fantastica; quindi estrasse dalla tasca<br />

segreta della sua immaginazione il più tremendo dei mostri:<br />

ma fu di nuovo<br />

fermato.


che vola esiste veramente nel Borneo, è chiamato “drago”, ma<br />

non spaventa, perché non supera la grandezza di una mano e non<br />

erutta fuoco!> E i due risero della mostruosità dei draghi.<br />

Prestando orecchio a quella favola molti si assopirono. Yanez<br />

si preparò a chiudere anche la pupilla che non era bendata per<br />

dormire, ma ogni dayaco pretendeva un ennesimo racconto tutto<br />

per sé. Il contastorie cedette alle loro insistenze, si grattò l’occhio<br />

coperto, rimestò sensazioni antiche e moderne, come nelle<br />

pietanze Nyonya e affabulò: Stramazzarono tutti nel sonno, tranne il<br />

bimbo con la cravatta firmata ed un parrocchetto che si era posato<br />

su un ramo vicino a Yanez. Il fanciullo si divertiva a stringere<br />

e sciogliere il nodo della cravatta. Il contastorie lasciò che una<br />

tarantola gli zampettasse sul braccio e si allontanasse, si sistemò<br />

la benda sull’occhio e barbugliò: <br />

Yanez fece così perdere i sensi ai bambini più piccoli, persino<br />

agli ultimi oranghi svegli che ciondolavano da un teck, ma non il<br />

più grande, un ragazzino con il cappello da basket e suo fratello,<br />

un bimbo con la cravatta firmata. Chiesero i due fratelli, più curiosi<br />

di Pandora: Il signor Gomera si decise infine a confessare: I fanciulli però lo importunarono<br />

ancora: <br />

Il contastorie con un occhio solo si rassegnò a rispondere:<br />


CAPITOLO 12<br />

Su un filo senza capo<br />

Eva, la moglie del favoliere, si rese conto che da troppi capitoli<br />

era ferma in bagno. Che la smettesse di specchiarsi, se non voleva<br />

che i lettori si scordassero di lei: era tempo che uscisse da<br />

quelle ceramiche linde come pagine vuote per tornare sulla scena,<br />

senza timore di imbrattarsi d’inchiostro o di smog. La donna<br />

chiuse i rubinetti della doccia, indossò l’accappatoio, abbandonò<br />

le calde pareti del bagno e poi, subito, con i capelli ancora umidi,<br />

neri e lucidi come l’inchiostro appena stampato, lasciò le mura di<br />

casa. La donna spinse la porta dietro di sé, con la stessa leggerezza<br />

con cui si volta pagina. Uscì in strada in accappatoio? No, era<br />

assonnata, aveva fretta, ma non fino al punto da essere così sbadata.<br />

Eva varcò la frontiera oltre cui la sua sete, o la sua carta di<br />

identità, a nulla sarebbero valse per elevarla al di sopra dell’ano-<br />

nima moltitudine, quella calca per la quale si riduceva a due<br />

gambe e due gomiti in ritardo, in corsa verso la metropolitana.<br />

Calpestò una donna adagiata sul marciapiede, senza accorgersi<br />

che era una madonna affrescata da un madonnaro. Oltrepassò il<br />

semaforo rosso scansando due auto, un camion e una bicicletta<br />

che non sapevano se frenare o travolgerla. Ma occorreva essere<br />

più arditi, il metrò non attendeva, non apprezzava quei tardivi<br />

tentativi di coraggio, ben sapendo che il vero eroe si dimostra<br />

tale affrontando la marea della ressa urbana. Si buttò oltre il ponte<br />

levatoio del vagone della metropolitana, eludendo per un nanosecondo<br />

le porte che si proponevano di stritolarla. Le paratie si<br />

chiusero implacabili, inghiottendo la protagonista nel gigantesco<br />

mostro metallico, la balena che si tuffò negli alienanti abissi della<br />

città, ma l’eroina continuò anelante a galleggiare nei sogni<br />

della sua vasca da bagno… finché parole che annunciavano orrore<br />

la scuoterono dal suo torpore: “Ritrovato corpo squartato”, “Il<br />

giallo della testa mozzata”, “Sul luogo del delitto gli inquirenti


cercano ancora la testa della vittima”. Erano i brandelli di articoli<br />

dei giornali branditi dagli altri passeggeri. Notizie che lei afferrava<br />

solo a brani, nella calca del vagone, affannandosi di ricomporre<br />

quel macabro mosaico. Prima che avesse digerito quei titoli<br />

grondanti di sangue, il serpente delle viscere terrestri spalancò<br />

le sue fauci, espellendo tutti nella frenesia delle strade, dove il<br />

grigio dello smog sommerse il giallo annunciato quella mattina.<br />

La moglie del favoliere riemerse in superficie, tra marciapiedi<br />

brulicanti di tizi, caii e semproni che deambulavano frettolosi per<br />

raggiungere le postazioni di lavoro ed evitò per un soffio d’inabissarsi<br />

in un buco nero in cui era già precipitato un cosmonauta<br />

con la sua astronave ed un passante in giacca e cravatta: no, questa<br />

apertura verso lo spazio siderale non era vera, non era possibile<br />

in una metropoli così chiusa, ma era soltanto il dipinto ancora<br />

fresco di un madonnaro che raffigurava una madonna in uno<br />

scafandro. Eva scantonò un venditore di fiori, uno di fazzoletti,<br />

un altro di accendini e tre auto inferocite.<br />

Giunta appena in tempo, timbrò affannata il cartellino e si sedette<br />

trafelata al tavolo di lavoro. Un groviglio di fili si stendeva<br />

davanti a lei. Un roveto di intrichi, intrighi che lei avrebbe cercato<br />

di dipanare o ordinare con il suo modesto lavoro, districando<br />

un nodo delle corde vocali, liberando il sussurro legato ad ognuno<br />

di quegli intriganti intrecci. A volte, di fronte ad un compito<br />

così grande, si sentiva debole e minuta. A volte, presa dalla vertigine<br />

di quel vortice di parole, avrebbe voluto, proprio come faceva<br />

suo marito, stringere il capo della matassa e, tirandone il bandolo,<br />

avrebbe desiderato guidare come una marionettista tutte<br />

quelle voci. Ma nessuna di quelle vibrazioni delle corde vocali si<br />

sarebbe lasciata catturare e manovrare. Ognuna di quelle voci<br />

aveva una vita autonoma mossa da una forza libera come il vento<br />

e lei non era una regista, ma soltanto una telefonista.<br />

Eva si lasciò condurre dal vento, via, lontano dal call center, in<br />

un’impossibile fuga, lontano da tutti quei fili fugaci, quelle parole<br />

fuggenti, quei discorsi sfuggiti. Attraversò il paese dei draghi e<br />

dei maghi, finché fu proiettata sul letto della propria bimba, nel-


l’atto di raccontarle una favola. <br />

Ma la bimba la interruppe: Le pagine di questo libraccio<br />

volavano via, sospinte da fonemi senza senso, come<br />

aquiloni, rapaci di carta legati al filo dell’immaginazione, eppure<br />

la bambina s’intestardiva a non dormire, si ostinava a restare aggrappata<br />

alla coscienza. Allora la madre le cantò una filastrocca:<br />

<br />

commentò la bimba, che cominciava<br />

ad avere una testa troppo ingombrante per le fiabe. La<br />

madre scorse uno scarafaggio tra le lenzuola, ma non si perse<br />

d’animo e, prima che venisse visto anche dalla sua bambina, lo<br />

scacciò con un colpo di mano; per non correre il rischio che turbasse<br />

i sogni e le favole della sua figlioletta, lo schiacciò sotto la<br />

ciabatta e proseguì il suo tentativo d’incanto:


CAPITOLO 13<br />

Alla ricerca del capo della favola<br />

E pensare che aveva accettato di abboccare a quella pubblicità<br />

per concedersi una lunga pausa e smetterla una buona volta di rimuginare,<br />

di caricare la sua testa di ponderazioni e pesi. Non<br />

c’era tempo di arrestarsi per riflettere: doveva correre e basta, a<br />

gambe in spalla. Avrebbe voluto fermarsi un attimo per fare pipì,<br />

ma dovette procedere, non tanto perché mancasse il bagno (era<br />

in una foresta), ma perché non c’era tempo. E pensare che aveva<br />

accettato di andare lì, per farsi una vacanza, catturato dall’invito<br />

di una pubblicità. “Ah, dannata reclame!” Inciampò in una liana,<br />

e si chiese ancora una volta perché diavolo si fosse incantato in<br />

uno spot. Correva nella macchia, di notte… No, il suo non era<br />

più un viaggio di piacere, non era più un turista. Dovette fermarsi<br />

un attimo per riprendere fiato. Ah, maledetta quella pubblicità<br />

da cui si era lasciato inseguire! Aveva un tremendo mal di testa,<br />

forse perché aveva perso la sua coppola e il sole gli aveva battuto<br />

per troppo tempo sulla testa. Forse aveva la febbre, ma doveva<br />

proseguire comunque. No, non si stava affrettando per arrivare<br />

senza ritardo ad un appuntamento. A dire il vero non aveva una<br />

meta: stava solo fuggendo, dato che era lui la meta degli inseguitori.<br />

Certo, se si fosse fermato qualcuno avrebbe messo drasticamente<br />

fine alla sua emicrania. Era tallonato dai dayachi, che erano<br />

a caccia proprio della sua testa. Forse, se fosse giunto fino al<br />

fiume, avrebbe fatto perdere le sue tracce, ma l’acqua era infestata<br />

dai coccodrilli! I guerrieri lo braccavano nel labirinto verde<br />

con le lame sguainate. La preda umana cercò di nascondersi ai<br />

cacciatori di teste, tappandosi tra le radici di un enorme “durion”.<br />

Tuttavia un guerriero scoprì per terra la coppola che aveva smarrito<br />

e recuperò le tracce lasciate dalle sue orme… fino a quando<br />

lo sentì ansimare. L’inseguito tentò di scostare il cacciatore distraendolo<br />

con un rumore: gettò una pietra lontano e l’insegui-<br />

tore si diresse in quella direzione. La preda corse via e riuscì a


distaccarsi dai cacciatori. Dovette rallentare, per attenuare il fiatone<br />

e quindi la probabilità che i suoi ansimi fossero uditi dagli<br />

inseguitori. Mentre scendeva un pendio, inciampò in una liana,<br />

appoggiò male un piede, si slogò una caviglia e fu costretto ad<br />

una tappa.<br />

Anche un mostro coperto di peli si aggirava per quella foresta.<br />

Era un orso. Che stesse braccando anch’esso il signore senza<br />

coppola? Un momento: l’orso era bianco, candido come la neve.<br />

Ma cosa diavolo ci faceva un orso polare nella giungla tra Samarinda<br />

e Pontianak?<br />

Con un piede zoppicante, l’inseguito non solo fu costretto a rallentare,<br />

ma ad abbandonare il passo felpato e rendersi più rumoroso,<br />

ansimante per il dolore. Per riprendere le forze, si rifugiò<br />

dietro un teck… e “toppete”, fu colpito sulla nuca, dal manico di<br />

un kriss in agguato. Il dayaco lo afferrò per i capelli e alzò la<br />

lama pronto a menare il suo fendente. gridò<br />

la vittima. Il guerriero cercò d’incoraggiarlo: <br />

Filippa de Marini chiese al truccatore di ritoccarle la cipria:<br />

Filippa si aggiustò<br />

il reggiseno: Controllò la<br />

scaletta del telegiornale e chiese: <br />

Il dayaco vibrò un colpo deciso della lama sulle vertebre del<br />

malcapitato signore che aveva perso la coppola. La testa del disgraziato<br />

fu staccata dal corpo e sollevata dal vincitore trionfante.<br />

Il cranio fu mostrato a tutti durante il telegiornale: la cronista<br />

Filippa de Marini s’interruppe per concedere l’uso della favella a


quell’orrenda immagine. Le palpebre del capo mozzato continuarono<br />

a sbattere. Sul viso della vittima si delineò un sorriso.<br />

La bocca della testa troncata si mosse e dichiarò: <br />

Filippa de Marini si riprese la parola e la linea: La bella cronista<br />

si allacciò un bottone sulla procace scollatura, si meritò un<br />

primo piano delle telecamere e proseguì: <br />

Un orso polare si aggirava per la giungla urlando: Finalmente uno stregone gli portò il rimedio miracoloso:<br />

L’orso si cosparse con l’unguento<br />

magico e dai peli emerse una bellissima bionda, con i seni coperti<br />

unicamente dalle mani, che fu rapita da Tarzan. Impazzito per<br />

la conquista della procace pulzella, il re della foresta urlò di gioia,<br />

ma una raucedine stroncò il suo grido. Ecco però giungere la<br />

bionda, con un gonnellino di banane, ad offrirgli una caramella<br />

svizzera all’eucalipto. Sarebbe questa la normalità del mondo<br />

reale?<br />

Nascosti assieme ai macachi, ai leopardi e agli ultimi elefanti, i<br />

dayachi, abbarbicati su rami slanciati come pinnacoli, spiavano<br />

la troupe dell’agenzia pubblicitaria che riprendeva questo pietoso<br />

spot nella loro selva. No, questo era troppo. Quando videro la<br />

bionda con quel gonnellino, decisero d’intervenire. Circondarono<br />

la troupe e la assalirono. Stavano per sopraffare tutti, quando<br />

la scorta intervenne a raffiche di mitra. I cacciatori di teste dovettero<br />

ritirarsi, ma fuggendo s’impadronirono della bionda e la se-


questrarono nel loro covo. Sentenziò allora il capo tribù, rivolgendosi<br />

alla venere tremante: <br />

Yanez si tolse per un momento la benda sull’occhio e spiò la<br />

bionda mentre si allontanava. Il capo tribù si accorse che l’occhio<br />

dell’amico era caduto sul sedere della bellissima e gli chiese:<br />

Il guerriero<br />

bianco si grattò l’occhio coperto e scosse il capo: Il dayaco chiese: Il cacciatore bianco si strofinò l’occhio bendato e cercò<br />

di spiegare: Rincasare per spiarla da lontano, o per<br />

riabbracciarla? Rimpatriando come clandestino avrebbe dovuto<br />

affrontare la ferocia della polizia degli stranieri. E in seguito?<br />

Yanez sapeva che attorno alla sua donna si celavano branchi d’agenti<br />

e cecchini di polizie pubbliche, semi-privatizzate e private,<br />

in agguato, pronte a scagliarsi su di lui.<br />

Il capo dayaco volle offrire a Yanez un kriss, una lama con cui<br />

aveva tagliato molte teste, che gli era stato regalata da un nemico<br />

in punto di morte. Il vecchio guerriero lo guardò stupito: Yanez accettò il dono, ma ad un patto:


Il capo della tribù lo abbracciò augurando:<br />

Si sfregò<br />

il baffo biondo e rise: Il vecchio lo accompagnò fino ai margini<br />

del labirinto verde e gli chiese: Rispose l’altro<br />

cacciatore di teste, stropicciandosi il baffo nero: <br />

Il capo dayaco gli chiese: Il signor Nessuno osservò:<br />

Il dayaco sorrise: <br />

Il vecchio capo tribù ritornò nel cuore della giungla e raccontò ai<br />

suoi la favola di un signor Nessuno che si era avventurato oltre<br />

l’oceano, oltre l’immaginabile, per fare perdere la testa ad una<br />

principessa mozzando il capo del mostro più tremendo. Uno dei<br />

fanciulli chiese al capo: Il<br />

vecchio rispose: I bambini si lasciarono divorare dal sonno e<br />

là, nelle viscere di Morfeo, rincorsero i sogni raccontati dal vegliardo.


CAPITOLO 14<br />

Ritrovando un capo del filo<br />

Eva si specchiava nel bagno, mentre impugnava una spazzola.<br />

Ogni giorno lasciava annodare e sciogliere la sua chioma, come<br />

se fosse una tela. Avrebbe desiderato spazzolarsi all’infinito,<br />

sciogliendo tutti i nodi della vita, ma fuori qualcuno bussava. La<br />

donna del favoliere avrebbe voluto chiudere fuori dal bagno ogni<br />

preoccupazione, agganciare la sua chioma al lavandino e lasciare<br />

che vi si arrampicasse il suo Romeo oppure, aggrappandosi ai<br />

suoi capelli, calarsi nelle mille riflessioni moltiplicate da quello<br />

specchio, come se fosse una delle marionette che un tempo manovrava<br />

suo marito, prima che scomparisse. Ma dei colpi alla<br />

porta la richiamavano alla realtà, alla sua (pre)occupazione di lavoratrice,<br />

di adulta e di madre. Fuori la preoccupazione bussò<br />

ancora e disse: Eva imburrò le fette biscottate e le cosparse di<br />

marmellata: poi preparò per sé del caffé e per la sua bambina del<br />

latte con un cucchiaio di cacao.<br />

Eva e sua figlia s’incamminarono sul marciapiede verso il treno<br />

sotterraneo. La figlia disse: Non si avvidero che si<br />

trattava solo di una madonna dipinta da un madonnaro, su cui<br />

stazionava un colombo urbano e la madre replicò: Salirono sulla metropolitana. Miracolosamente,<br />

la mamma compì un’impresa più ardua dell’aper-<br />

tura di un guado nel Mar Rosso: si aprì un varco nella folla che<br />

gremiva il vagone fino ad un posto seduto. La fortuna le offrì anche<br />

notizie gratis. Prese in grembo la figlia e spiò le pagine che<br />

sfogliava il vicino. I titoli del quotidiano evocavano tragedie tremende,<br />

ma consuete e lontane: gli Stati Uniti avevano bombardato<br />

un nuovo covo di terroristi, che per rappresaglia avevano<br />

scatenato un nuovo attentato, che aveva provocato per ritorsione<br />

un attacco nucleare mirato con precisione chirurgica. Una picco-


la nota a piè di pagina segnalava che il covo era al centro di una<br />

metropoli. Mentre sbirciava dal giornale del vicino, un signore in<br />

giacca e cravatta ne approfittò per infilarle una mano in tasca.<br />

Eva sbottò: L’uomo in cravatta la guardò scandalizzato: Il signore distinto,<br />

si stizzì distintamente e si tuffò alla prima fermata oltre le<br />

paratie.<br />

La moglie del favoliere accompagnò la figlia a scuola, le raccomandò<br />

di fare la brava e la baciò. Poi Eva si recò al lavoro, timbrò<br />

il cartellino, e si sedette al tavolo da cui dirigeva tutte quelle<br />

voci. Ogni voce era un fiume di sillabe soffiato dall’aria nel cielo,<br />

di cui lei, tramite le sue umili mansioni, stringeva il filo. Non<br />

poteva pensare che dietro ciascuno di quei gomitoli srotolati tra<br />

le nuvole ci fossero altri esseri umani come lei, inchiodati a terra<br />

o ad una sedia. Dietro tutti quei bandoli spiegati nel vento ci vedeva<br />

volare pappagalli, comete, cervi volanti, aquile... Ogni filo<br />

si librava su parole senza senso, termini assurdi se estrapolati,<br />

sganciati dalla lingua o dal discorso cui si allacciavano. In fin dei<br />

conti, così le pareva, forse ciascuna voce faceva parte di un unico<br />

discorso di cui lei, attraverso il telefono, cercava di ritrovare il<br />

filo. Così, ad esempio, parole come pappagallo, cometa o cervo<br />

volante, che da sole non dicono nulla, attaccate ad un filo, o a<br />

una lingua come il portoghese, lo spagnolo, o il francese, significano<br />

soltanto aquilone. E lei, trasportata dal vento dell’immaginazione,<br />

non era più una semplice telefonista, ma una piuma,<br />

un’aquila, un aquilotto, oppure un balocco di carta colorata che<br />

volteggiava in una brezza.<br />

Ogni giorno, Eva sognava non di dirigere i fili di un telefono,<br />

ma quelli di un aquilone o di una marionetta, presa dalla nostalgia<br />

per quell’isola o quell’angolo di paradiso della fantasia che<br />

aveva costruito il suo uomo. Quel pomeriggio, alla fine del turno<br />

di lavoro, decise di recarsi nel luogo dove un tempo sorgeva il<br />

teatro di suo marito. Per anni non vi aveva messo piede, ma non<br />

aveva osato venderlo, sperando che il suo uomo tornasse e ri-


prendesse la guida delle marionette. Eva custodiva le chiavi del<br />

teatro sempre in tasca, assieme a quelle di casa. Attraversò la<br />

platea e il palco aspettando di trovarsi in un teatro di spettri sommersi<br />

dalla polvere e dalle ragnatele ma, inspiegabilmente, tutto<br />

(anche la marionetta del personaggio più oscuro, persino quella<br />

di Gano o di Giuda) era perfettamente pulito e ordinato, come se<br />

vi fosse stato tenuto uno spettacolo da poco. Eva chiese alla custode<br />

dello stabile se qualcuno fosse penetrato nel teatro. La portinaia<br />

la guardò perplessa e borbottò: Chi aveva pulito e ordinato il teatro? Che<br />

suo marito fosse ricomparso? Ma, allora, se il favoliere era tornato,<br />

perché non si faceva vivo?<br />

La madre continuò a comportarsi come di consueto: salì sul<br />

metrò, andò a prendere la figlia a scuola, le fece svolgere i compiti,<br />

le preparò la cena, guardò con lei la televisione, la accompagnò<br />

a letto, la accarezzò e le raccontò: La mamma fu fermata: <br />

La narratrice non si scoraggiò: Ma la figlia non voleva dimenticare il padre:<br />

La madre cercò di<br />

spiegare: La bimba sorrise<br />

e fece per alzarsi: La madre la rifece sdraiare:<br />

La piccola disse stizzita:<br />

La madre la invitò a fissarla<br />

negli occhi:


de! Così mi ha detto lui stesso prima di partire!> La figlia non<br />

parve consolarsi: La madre si mantenne tranquilla: La figlia non parve tranquillizzarsi:<br />

La mamma tentò di chiarire:<br />

Chiese alla figlioletta: La bimba<br />

annuì e la mamma annunciò: La<br />

figlia esultò: Eva spiegò: La figlia era entusiasta:<br />

La madre sussurrò: <br />

CAPITOLO 15<br />

Ritorno apparente alla normalità<br />

L’ammaestratore di marionette controllò l’orologio: era tempo<br />

che si recasse a scuola dalla sua bambina anche a costo di attraversare<br />

mare e monti. Per essere sicuro di non essere seguito,<br />

percorse una rotta contorta. Varcò rapidamente via Mar nero e


poi si perse in un’infinità di monti. Valicò via Monte Rosa, e poi<br />

le vie battezzate dal Monte Bianco, dal Monte Grappa, scavalcò<br />

via Val di Sole e via Monte Amiata. Forse per fuggire dalla noia<br />

di un orizzonte così chiuso, lineare, limitato solo dalla via percorsa,<br />

forse per evadere dal “piattume” della metropoli, ecco che<br />

a così tante vie erano stati affidati i toponimi di monti, passi<br />

montani e valli…<br />

Entro una manciata d’istanti sarebbe suonato il gong e sua figlia<br />

avrebbe concluso l’ultima lezione. Un muro di cemento sputò<br />

un uccello fatto di grigio che sfiorò il volto del favoliere: era<br />

un piccione che si era mimetizzato con il favore di uno sbuffo di<br />

smog. Quando giunse presso la scuola, il contafavole si mantenne<br />

a distanza… e lasciò che fosse la moglie ad andare a prendere<br />

la piccola. Ogni giorno, il favoliere si dava appuntamento lì non<br />

per mostrarsi alla moglie e alla figlia, ma per vederle. Non per<br />

spiarle, ma per accertarsi della loro esistenza ed incontrarle, abbracciarle<br />

almeno con lo sguardo. Era ancora ricercato da orde di<br />

agenti di polizie pubbliche e private, per cui doveva mantenersi<br />

nascosto, nella clandestinità, e rimanere Nessuno, un’anima senza<br />

nome e senza volto. Anni addietro, quando era fuggito nella<br />

giungla di un’isola della Sonda, era stato costretto a subire un<br />

dramma simile: era stato obbligato ad aggirarsi tra altri esseri viventi,<br />

i dayachi, senza essere riconosciuto o venendo identificato<br />

come il signor Nessuno. In quel frangente, il marionettista era<br />

costretto a rimanere sullo sfondo della scena dell’immensa metropoli,<br />

tra la folla di volti anonimi che scorrevano attorno a sua<br />

moglie Eva e a sua figlia, senza potere nemmeno rivolgere loro<br />

una parola.<br />

Già da alcuni giorni, la figlia aveva avuto il sentore di essere<br />

pedinata da qualcuno: nella notte le pareva di percepire il respiro<br />

di un essere che la spiava. Aveva rivolto domande alla madre<br />

sulla presenza del babau, del doppelgänger e di Belzebù, ma la<br />

mamma l’aveva rassicurata: lei era buona e quindi non aveva<br />

motivi di temere nessuno. Eppure, anche durante il giorno la figlia<br />

aveva la sensazione di essere braccata! Non poteva però trat-


tarsi di un fantasma malefico: infatti, si accorse di essere seguita,<br />

proprio in occasione di piccoli eventi positivi non spiegabili; dei<br />

miracoli, insomma. La madre, ora che era più grande, pretendeva<br />

che lei facesse la polvere nella sua stanza: la ragazzina disobbediva,<br />

più per pigrizia che per spirito di contraddizione, ma ogni<br />

scaffale, ogni suppellettile, ogni bambola, continuava a restare<br />

immune della polvere: com’era possibile? Eva si complimentò<br />

con la figlia perché aveva preso l’iniziativa di annaffiare i fiori:<br />

ma non era stata lei a farlo. C’era qualcuno che aiutava di nascosto<br />

la bambina? La figlia chiese alla madre: La mamma rispose: In<br />

effetti i pneumatici della sua bicicletta non si sgonfiavano mai:<br />

chi li pompava? Cominciò a pensare alla vicinanza di un angelo<br />

custode.<br />

La bambina non ebbe il coraggio di rivelare alla madre la presenza<br />

soprannaturale che la tallonava come un’ombra. Eppure,<br />

anche la mamma aveva la sensazione di essere seguita. Un mattino,<br />

Eva aveva persino smarrito il portafoglio, ma il giorno stesso<br />

era stato recapitato nella buca delle lettere, con tutti i soldi dentro.<br />

Un avvenimento fortunato, che divenne straordinario quando<br />

fu replicato alcuni anni dopo.<br />

Il cantafavole seguì moglie e figlia, per istanti, lunghi come<br />

mesi, stagioni, anni. Ogni volta che le vedeva, avrebbe desiderato<br />

rivolgere loro la parola. Ma era costretto a rimanere in silenzio,<br />

così vicino, ma così lontano. Avrebbe voluto almeno abbracciarle<br />

o accarezzarle, ma era obbligato a restare inabissato nell’anonimato<br />

dell’immensa folla di anime senza nome che popolava<br />

la metropoli. Un tempo, prima che l’effetto serra provocato dallo<br />

smog la sciogliesse, la nebbia avvolgeva l’intera città per mesi.<br />

Ora, sembrava che un’ultima nuvola di bruma avvolgesse il favoliere,<br />

soltanto lui, per proteggerlo dalle orde di segugi alla ricerca<br />

della taglia che pendeva sulla sua testa.<br />

Il cantastorie si recò ancora ad ammirare la sua figlioletta uscire<br />

di scuola. Ogni giorno la trovava più grande. Il contafavole si ac-


carezzò il baffo nero e quello biondo e seguì con lo sguardo la<br />

sua donna e la sua bambina, ancora per un attimo che cercò di<br />

prolungare con la moviola, finché si dileguarono nella moltitudine<br />

che si tuffava nel metrò. Allora, il domatore di marionette si<br />

rassegnò a tornare a mansioni più umili, ma necessarie.<br />

Il favoliere si sistemò la benda sull’occhio, impugnò un carrello<br />

e si avventurò in un labirinto di scaffali. Racimolò provviste dal<br />

reparto delle verdure, dalla macelleria, dal panificio. Visitò anche<br />

il settore del bricolage per raccogliere utensili per il suo teatro.<br />

Poi si aggrappò alla coda di una catena umana, di un serpente<br />

dalle molte teste e s’incolonnò rassegnato davanti alla cassa,<br />

in una fila infinita. Erano proprio queste operazioni ― il lavoro<br />

manuale, le pulizie, la spesa e le colonne ― che distinguevano la<br />

gente comune dai nobili, dagli eroi, o dai privilegiati.<br />

Lì, in fila, nel super-big-ipermercato, il favoliere era di fronte al<br />

commissario Bossettoni. L’ispettore non riconobbe, sotto quelle<br />

spoglie così mortali, dimesse, il criminale che ricercava da tanto<br />

tempo. Il vicecommissario lo guardò e disse: Al marionettista cadde dal carrello un rotolo di filo<br />

da pesca, lo stesso che usava per sorreggere le marionette, e una<br />

sega, la medesima che adoperava per ritagliare nuovi pupazzi. Il<br />

poliziotto in borghese li raccolse e li porse all’altro che ringraziò.


SECONDO ATTO<br />

Dopo aver affrontato la sua piccola guerra e la sua odissea in<br />

battigie remote, ecco che il cantastorie era approdato nuovamente<br />

nel mare d’asfalto della sua Itaca: il favoliere era stato<br />

quindi costretto non solo a restare in incognito, come già aveva<br />

fatto Ulisse, ma aveva dovuto persino rinunciare a rivolgere la<br />

parola ai suoi cari. L’inventafavole era ricomparso su un marciapiede<br />

tra via Virgilio, via Ariosto e via Pirandello, ma, per<br />

descriverne il ritorno, ecco che dobbiamo ricorrere ad un reset e<br />

ricondurre il nastro del racconto al punto di partenza di questa<br />

maledetta storia.

Hooray! Your file is uploaded and ready to be published.

Saved successfully!

Ooh no, something went wrong!