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Gli indifferenti - Scienze della Formazione

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<strong>Gli</strong> <strong>indifferenti</strong><br />

I sociologi, Pier Paolo Pasolini e la modernizzazione dell’Italia 1<br />

Matteo Bortolini<br />

Università di Padova<br />

1<br />

La conoscenza non deve a un certo punto cedere il<br />

passo all’azione, anche illuminata, bensì<br />

determinare l’azione (…) Per far questo<br />

occorrono nuovi atteggiamenti, nuovi strumenti,<br />

nuovi metodi di ricerca, una nuova scienza: la si<br />

chiami come si vuole.<br />

Alessandro Pizzorno, 1956<br />

Case non ancora finite<br />

e già in rovina,<br />

cresciute sul dorso di un pendio,<br />

senza radici, forsennate al cielo.<br />

Roberto Roversi, 1956<br />

Passando in rassegna i più recenti studi sociologici sulla mafia, Nando<br />

dalla Chiesa si interroga sul paradosso di una università che, pur essendo<br />

nata dalle riforme post-Sessantotto, è rimasta per lungo tempo<br />

serenamente assente e indifferente di fronte alle tensioni e ai problemi del<br />

Paese. Quando finalmente hanno cominciato a occuparsi di mafia, gli<br />

scienziati sociali accademici hanno prodotto una «letteratura dimezzata»<br />

– carente di schemi concettuali, dimentica del suo passato e sorda alle<br />

molte suggestioni provenienti dalla letteratura «non scientifica». Scrive<br />

allora dalla Chiesa:<br />

Solo una visione asfittica del sapere può legittimare l’idea che si possa<br />

costruire conoscenza e immaginazione su una qualsiasi materia solo nel<br />

recinto <strong>della</strong> cosiddetta «produzione scientifica» (…) Sarebbe possibile,<br />

ancora, a sociologi e antropologi analizzare il mutamento <strong>della</strong> società italiana<br />

degli anni Settanta ignorando gli Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini?<br />

(ibidem, 431).<br />

1 Grazie a Andrea Mubi Brighenti, Luca Carbone, Paolo Costa, Valentina Etzi, Pier<br />

Paolo Poggio, Marco Santoro e alla redazione di «Studi culturali» per i suggerimenti.<br />

Un ringraziamento speciale va a René Capovin per avermi fatto ragionare ancora una<br />

volta: molte delle idee che presento (e almeno un’intera frase) non ci sarebbero senza<br />

di lui.


In realtà, l’opera di Pasolini attira l’attenzione degli scienziati sociali 2 da<br />

quasi vent’anni. Già nel 1994, in un articolo pubblicato sulla «Rassegna<br />

italiana di sociologia» nell’ambito di una monografia su sociologia e<br />

letteratura, Franco Sarcinelli sottolinea la lucidità di Pasolini<br />

nell’analizzare le trasformazioni <strong>della</strong> società italiana e ne riconduce gli<br />

schemi concettuali a quelli <strong>della</strong> Scuola di Francoforte. Concentrandosi<br />

su Petrolio, Sarcinelli (1994, 221) inquadra la «singolare forma di<br />

sociologia comprendente di tipo qualitativo» di Pasolini come un<br />

originale «ingaggio fisico, un corpo a corpo che diventa un a-priori<br />

conoscitivo ed interpretativo dei fenomeni e dei processi sociali». Due<br />

anni dopo Franco Cassano (1996, 111, 117-118) dedica allo scrittore<br />

friulano un intero capitolo del Pensiero meridiano, e attribuisce la sua<br />

capacità profetica a una esperienza «non dialettica <strong>della</strong> contraddizione»<br />

che mantiene, e anzi moltiplica, i contrasti. Nel secondo volume <strong>della</strong> sua<br />

storia <strong>della</strong> sociologia italiana, dedicato agli anni Settanta, Filippo<br />

Barbano (2003, 107-108) riconosce la fecondità delle anticipazioni di<br />

Pasolini sull’«immaturità culturale, politica e sociale» del Paese – un<br />

giudizio condiviso da Giulio Sapelli (2005), che dedica alla lettura<br />

pasoliniana del neocapitalismo un intero volume, e da Domenico Perrotta<br />

(2008, 131), che evoca Pasolini nell’ambito di una più ampia<br />

riconsiderazione <strong>della</strong> pratica etnografica e dei suoi ambienti extrascientifici.<br />

Da ultimo, Luca Carbone (2011) ricostruisce dal punto di vista<br />

dell’«agire sociale come presenza auto-manifestantesi» i molteplici<br />

percorsi antropologici di Pasolini nell’ambito di un progetto di riscoperta<br />

delle «altre sociologie» in cui si discute, oltre che di Gabriel Tarde, Karl<br />

Popper e Antonio Gramsci, anche di Edmondo De Amicis, Luigi<br />

Pirandello, Elias Canetti e Italo Calvino (Toscano 2011).<br />

L’unanime apprezzamento di cui gode Pasolini porta a chiedersi<br />

come mai i sociologi italiani abbiano tardato tanto a (ri)scoprirlo. Se è<br />

vero, come hanno osservato su altri fronti Enzo Golino (1995), Roberto<br />

Carnero (2010) e Filippo La Porta (2012), che l’opera di Pasolini è<br />

2 Naturalmente concentrarsi sui sociologi significa lasciare da parte la quasi totalità<br />

dell’immensa letteratura secondaria su Pasolini, tra cui segnalo solo, per vicinanza al<br />

mio tema, le note prese di posizione di Alfonso Berardinelli (2003; 2008) e le<br />

segnalazioni di Enzo Golino (1995) sugli usi occasionali e strumentali dell’opera<br />

dello scrittore friulano.<br />

2


caratterizzata da una fortissima unità tematica e concettuale, già alla fine<br />

degli anni Cinquanta era possibile intravedere nelle sue poesie, nei<br />

romanzi e in una inchiesta come Comizi d’amore – il documentario sulla<br />

sessualità girato nel 1963 – quella critica dello «sviluppo senza<br />

progresso» e del «Nuovo Potere» che oggi entusiasma i sociologi.<br />

Implicita negli scritti di Cassano e dalla Chiesa è l’idea che la riscoperta<br />

di Pasolini, così come di altri autori «non scientifici», sia resa possibile<br />

dalle molteplici svolte culturali, linguistiche ed ermeneutiche di una<br />

scienza sociale ormai compiutamente post-positivistica, per la quale la<br />

conventio ad excludendum di narrativa civile, letteratura e poesia non ha<br />

più alcuna ragion d’essere 3 . Il profondo mutamento delle premesse<br />

epistemologiche <strong>della</strong> scienza sociale spiega l’affollarsi sulle ceneri di<br />

Pasolini. D’altronde, ricordano Sarcinelli (1994, 219-220) e Carbone<br />

(2011), la dura critica che Franco Ferrarotti rivolge allo scrittore friulano<br />

nel contesto dell’ampio dibattito sollevato dagli interventi sulla<br />

«rivoluzione antropologica» si basa su una comprensione <strong>della</strong> disciplina<br />

radicalmente diversa da quella condivisa oggi. In un articolo uscito su<br />

«Paese sera» nel giugno 1974, Ferrarotti (2008a) denuncia l’abisso tra<br />

analisi scientifica e creatività artistica, rivendicando il diritto di rimanere<br />

indifferente di fronte alla «nostalgia del vissuto» di Pasolini.<br />

Semplificando, il Ferrarotti modernista, scientista e «nordista» si<br />

contrapporrebbe a una sociologia post-positivistica e acentrica, capace di<br />

combinare paradigmi ermeneutici, postcoloniali e «sudisti» e di cogliere<br />

nei saperi non scientifici qualcosa di più di una suggestione o di un<br />

suggerimento.<br />

In questo articolo vorrei inquadrare il rapporto tra i sociologi e<br />

Pasolini nei termini di una diversa narrazione, attenta non solo alle idee,<br />

ma anche alle loro condizioni strutturali e sistemiche. La tesi è che<br />

l’attacco di Ferrarotti allo scrittore friulano – e più in generale<br />

l’indifferenza dei sociologi nei confronti di quest’ultimo – rifletta la più<br />

ampia configurazione di convinzioni e condizioni in cui si trova chi, tra i<br />

sostenitori <strong>della</strong> «nuova sociologia» italiana, persegue una strategia di<br />

3 Scrive infatti Sarcinelli (1994, 219) che «lo statuto scientifico di una scienza sociale<br />

come la sociologia è notoriamente discutibile, almeno quanto discutibile la<br />

definizione dell’espressione linguistica “statuto scientifico”». La medesima<br />

convinzione sta alla base del pensiero meridiano di Cassano (1996).<br />

3


assimilazione alle élite tecnocratiche e modernizzatrici: gli accademici<br />

che criticano o ignorano 4 Pasolini nei primi anni Settanta sono quelli che<br />

da vent’anni promuovono a gran voce la «sociologia-scienza» contro la<br />

«sociologia-letteratura» – la distinzione ordinatrice è di Alessandro<br />

Pizzorno (1956), – difendendo l’autonomia del proprio sapere contro i<br />

discorsi e i saperi degli intellettuali impegnati. Poiché le prese di<br />

posizione si intrecciano senza soluzione di continuità, e nella maggior<br />

parte dei casi senza alcuna strategia cosciente, con le posizioni di chi le<br />

enuncia 5 , è facile interpretare il dibattito come una discussione sulla<br />

modernizzazione e le sue conseguenze. Secondo la mia ipotesi, invece, il<br />

rifiuto di prendere Pasolini sul serio si inquadra come un episodio, in sé<br />

marginale, di un più ampio processo di delimitazione e coagulazione che<br />

porta la sociologia italiana a espellere tutta una serie di esperienze di<br />

ricerca e a costituirsi in una forma precisa. E se è vero che la storia<br />

depositata nella struttura del campo si riflette inevitabilmente sulle idee e<br />

le posizioni di chi prende la parola, è da questa forma che dovrebbero<br />

prendere le distanze i sociologi di oggi.<br />

Pier Paolo Pasolini e l’Italia del neocapitalismo<br />

Rimasti nella memoria collettiva come interventi scandalosi e<br />

profetici, gli articoli pubblicati da Pier Paolo Pasolini 6 sul «Corriere <strong>della</strong><br />

4 Le due posture potrebbero apparire antitetiche. In realtà, come vedremo,<br />

l’atteggiamento infastidito dei pochi critici di Pasolini è semplicemente<br />

un’estremizzazione dell’indifferenza <strong>della</strong> maggioranza degli scienziati sociali. Noto<br />

incidentalmente che dal punto di vista <strong>della</strong> sociologia degli intellettuali le premesse<br />

sarebbero perfette per un dibattito: gli oggetti sono i medesimi, l’interlocutore è<br />

celebre, il suo radicalismo lo rende un bersaglio facile, e i grandi quotidiani su cui<br />

avviene la discussione sono vetrine assai appetibili (Collins 2002).<br />

5 Sarà evidente il mio debito teorico nei confronti <strong>della</strong> sociologia del campo <strong>della</strong><br />

produzione culturale di Pierre Bourdieu, su cui si possono vedere Bourdieu (2005) e<br />

Bourdieu (1984) e, più in generale, Bourdieu (1995) e i saggi raccolti in Paolucci<br />

(2010).<br />

6 Citando dall’edizione dei Saggi sulla politica e sulla società, curata da Walter Siti e<br />

Silvia De Laude per Mondadori, aggiungo tra parentesi quadre l’anno <strong>della</strong><br />

pubblicazione originale degli interventi di Pasolini per orientare il lettore da un punto<br />

di vista cronologico. La raccolta mondadoriana degli scritti politici e sociali di<br />

Pasolini (1999), ancorché incompleta e discutibile (Carbone 2011), mette in evidenza<br />

la continuità <strong>della</strong> riflessione del regista già a partire dagli anni Cinquanta. Rimando<br />

4


Sera» e il «Tempo» tra il 1973 e il 1975, poi raccolti in Lettere luterane e<br />

Scritti corsari, sono in realtà l’ultima tappa di una lunga e spericolata<br />

riflessione sulla storia d’Italia che riprende alcuni dei temi più profondi<br />

<strong>della</strong> poetica pasoliniana (Bellocchio 1999; Siciliano 2005; Baldoni e<br />

Borgna 2010; Didi-Huberman 2010; Galli 2010). Pasolini legge i fatti del<br />

giorno sullo sfondo di una più ampia interpretazione <strong>della</strong> modernizzazione<br />

che si compendia, e si radicalizza, nell’immagine <strong>della</strong> «rivoluzione<br />

antropologica». Una cornice teorica che combina Marx e Gramsci con<br />

Freud a Pasolini di evidenziare lo sfasamento tra forme di vita e modelli<br />

culturali, per cui il mutamento strutturale precede e informa il mutamento<br />

culturale, che si attua più lentamente del primo e ne risulta trasfigurato. Il<br />

quadro prevede la successione di tre grandi fasi: il mondo contadino,<br />

uguale a sé stesso per «quattordicimila anni» (Pasolini 1999 [1974], 303);<br />

l’epoca «paleoindustriale», teatro di imponenti cambiamenti economici e<br />

politici ma non culturali; l’affermarsi del Nuovo potere, che trasforma<br />

radicalmente modelli simbolici e visioni del mondo.<br />

La tradizione contadina è per Pasolini (1999 [1974], 320-321) un<br />

tutto unico, articolato ma sempre uguale, un residuo rimasto all’interno<br />

del tempo nuovo: «L’universo contadino (…) è l’avanzo di una civiltà<br />

precedente (o di un cumulo di civiltà precedenti tutte molto analoghe tra<br />

loro)». È un mondo integrato, le cui strutture di base definiscono una vita<br />

«felice e fiera» nella sua ripetitiva immediatezza. Nella tradizione, così<br />

come nel passaggio alla prima modernità, cattolicesimo e cultura<br />

contadina appaiono sovrapposti e indistinguibili: «Fino a oggi la Chiesa è<br />

stata la Chiesa di un universo contadino, il quale ha tolto al cristianesimo<br />

il suo solo momento originale rispetto a tutte le altre religioni, cioè<br />

Cristo» (Pasolini 1999 [1974], 359-360). Pur enorme, lo scollamento tra<br />

il piano teologico e quello istituzionale non impensierisce nessuno: non la<br />

Chiesa, che lo utilizza per controllare le masse, ma neppure il contadino,<br />

«il cui modo di essere religioso era molto al di qua di tale<br />

contraddizione» (Pasolini 1999 [1974], 302).<br />

Al di là <strong>della</strong> sua costituitiva ipocrisia, il consenso sociale tipico<br />

dell’«Italietta paleoindustriale» garantisce un ordine tutto sommato<br />

all’appendice di tale edizione per notizie dettagliate, anche se a tratti imprecise, del<br />

dibattito del triennio 1973-1975.<br />

5


apprezzabile nella sua incapacità di modificare le forme di vita esistenti<br />

(Pasolini 1999 [1974], 293). È la continuità con il mondo precedente a<br />

spiegare l’ambivalente «nostalgia» che Pasolini (1999 [1974], 461)<br />

mostra per il periodo di passaggio fra tradizione e neocapitalismo:<br />

Il popolo è sempre sostanzialmente libero (…) Perché chi possiede una propria<br />

cultura e si esprime attraverso di essa è libero e ricco, anche se ciò che egli è e<br />

esprime è (rispetto alla classe che lo domina) mancanza di libertà e miseria.<br />

Nell’immediata felicità del cascherino, il garzone romano che consegna il<br />

pane fischiando e motteggiando, Pasolini (1999 [1974], 330-331) vede<br />

l’imperturbabilità delle classi subalterne tradizionali, garantita dalla<br />

mancanza di mobilità sociale e, quindi, di competizione con le altre<br />

classi. Lo scrittore non guarda con nostalgia all’Italietta (Pasolini 1999<br />

[1974], 319), quanto piuttosto all’«immenso» mondo contadino che<br />

persiste sotto il manto ipocrita <strong>della</strong> prima.<br />

E tuttavia, l’Italietta porta in sé i germi di una più profonda<br />

trasformazione, letta da Pasolini (1999 [1975], 407) come «genocidio<br />

delle classi subalterne». Lo specchio si incrina nel momento in cui i<br />

valori irriflessivi <strong>della</strong> vita contadina vengono proiettati sulla dimensione,<br />

sconosciuta alla tradizione, <strong>della</strong> nazione mobilitata (Pasolini 1999<br />

[1975], 370-371). Ciò apre la strada a quello che Pasolini (1999 [1973],<br />

281) chiama il Nuovo potere del capitalismo realizzato:<br />

La Borghesia rappresentava un nuovo spirito che non è certo quello fascista:<br />

un nuovo spirito che si sarebbe dimostrato dapprima competitivo con quello<br />

religioso (…) e avrebbe finito poi col prendere il suo posto nel fornire agli<br />

uomini una visione totale e unica <strong>della</strong> vita.<br />

Mediante la produzione del superfluo, l’edonismo e un forma di sviluppo<br />

cinica e indiscriminata, il neocapitalismo si è affermato come visione del<br />

mondo capillare e comprensiva, che sta sullo stesso piano di quella<br />

visione religiosa con cui per tutto il boom economico aveva convissuto in<br />

una sorta di tregua interessata (Pasolini 1999 [1974], 298). Una volta<br />

affermatosi, tuttavia, il neocapitalismo ripudia la Chiesa, la cultura<br />

contadina e il decoro piccolo-borghese.<br />

6


A ciò si accompagna un processo di omologazione tra le classi:<br />

borghesi e operai, contadini e sottoproletari emergono ora da una stessa<br />

matrice simbolico-segnica, agiscono nello stesso modo e vogliono le<br />

stesse cose – anzi, la loro volontà è diventata quella del volere fine a sé<br />

stesso. Le vecchie distinzioni politiche subiscono un destino analogo:<br />

essere comunisti o fascisti diventa una scelta astratta, un atto di volontà<br />

sradicato e spesso del tutto casuale, uno «schema morto da riempire<br />

gesticolando». In una sorta di gioco tragico, la scelta politica non<br />

corrisponde più a concrete e reali aspirazioni – è per questo che, nel<br />

celebre articolo sui capelli lunghi, Pasolini (1999 [1973], 276 ss.) bolla la<br />

«ribellione giovanile» come un simulacro necessario alla piena<br />

omologazione. Si tratta di un processo brutale che ha un carattere non<br />

solo radicale e definitivo, ma anche disperante:<br />

Era impossibile che gli italiani reagissero peggio di così a tale trauma storico.<br />

Essi sono divenuti in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo degenerato,<br />

ridicolo, mostruoso, criminale (Pasolini 1999 [1975], 408).<br />

Se è vero che l’Italia è stata unificata davvero solo dal neocapitalismo, e<br />

dunque la tradizione è stata cancellata da un movimento senza precedenti,<br />

la nuova cultura resta artificiosa, strumentale, opaca. L’edonismo produce<br />

paradossalmente una diffusa e implacabile tristezza. Doversamente dal<br />

cascherino romano, i giovani degli anni Settanta sono tesi e insoddisfatti,<br />

incapaci di cogliere con immediatezza la forma di vita che pure stanno<br />

vivendo:<br />

L’allegria è sempre esagerata, ostentata, aggressiva, offensiva. La tristezza<br />

fisica di cui parlo è profondamente nevrotica. Ora che il modello sociale da<br />

realizzare non è più quello <strong>della</strong> propria classe, ma imposto dal potere, molti<br />

non sono appunto in grado di realizzarlo. E ciò li umilia orrendamente<br />

(Pasolini 1999 [1974], 330).<br />

Edonismo e consumismo propongono ai subalterni modelli irraggiungibili<br />

che ingenerano, per la prima volta, sentimenti di vergogna e<br />

inadeguatezza. Ma anche i giovani borghesi, perso l’esempio dei padri,<br />

condividono la medesima inerzia esistenziale (Pasolini 1999 [1975], 544-<br />

545). Il cambiamento epocale ha cancellato sia i ceti medi cattolici sia il<br />

7


«popolo» come fenomeno dotato di una propria storia arcaica. Oggi,<br />

scrive Pasolini (1999 [1975], 547), borghesi e proletari sono ricompresi<br />

entro un unico modello di comportamento fondato sul disprezzo <strong>della</strong><br />

povertà e <strong>della</strong> sua cultura. Nel celebre capitolo sui giovani infelici che<br />

apre le Lettere luterane, lo scrittore riassume la sua idea in una sola frase:<br />

«La nostra colpa di padri consisterebbe in questo: nel credere che la storia<br />

non sia e non possa essere che la storia borghese» (Pasolini 1999 [1975],<br />

547).<br />

Coraggio intellettuale o sfogo poetico?<br />

La tesi <strong>della</strong> rivoluzione antropologica frutta a Pasolini le critiche di<br />

amici e nemici: se Alberto Moravia rimprovera allo scrittore di non<br />

riconoscere l’importanza delle scelte ideali che distinguono fascisti e<br />

antifascisti, il dirigente comunista Maurizio Ferrara lo accusa di rifarsi a<br />

un «sedimento lombrosiano vagamente razziale». Lucio Colletti e Italo<br />

Calvino condannano Pasolini per la sua nostalgia dell’Italietta, mentre il<br />

giornalista Andrea Barbato definisce «penoso» il suo declino intellettuale<br />

– solo Leonardo Sciascia riconosce un qualche valore alle sue tesi (Siti e<br />

De Laude 1999, 1764 ss.; Siciliano 2005, 421 ss.). Un perfetto esempio<br />

<strong>della</strong> reazione del mondo politico e culturale che dovrebbe essergli più<br />

vicino è un articolo pubblicato da Fabio Mussi (1974) su «Rinascita» il<br />

28 giugno 1974. Pagato a Pasolini il pegno <strong>della</strong> libertà artistica, Mussi lo<br />

accusa di «voler tradurre le sue curiosità e i suoi liberi scandagli in<br />

linguaggio direttamente politico» e ne descrive le tesi come il frutto di<br />

vere e proprie ossessioni. L’omologazione culturale e la rivoluzione<br />

antropologica paiono tutt’altro che realizzate a Mussi, che contesta la<br />

visione sistemica dello scrittore e attribuisce alla Democrazia Cristiana un<br />

ruolo assai più attivo nella costruzione di una società fondata su<br />

anticomunismo, interclassismo e ricerca del successo individuale. Le<br />

trasformazioni <strong>della</strong> cultura italiana derivano da processi strutturali di<br />

medio periodo – migrazioni, nuovi mezzi di comunicazione, scuola<br />

pubblica, urbanizzazione, impegno politico – e non dal macro-fenomeno<br />

del neocapitalismo. Mussi vuole sottolineare i risultati dell’azione politica<br />

del proletariato, cioè del Pci:<br />

8


Se «l’Italia scomoda e rustica non c’è più» è anche perché le classi subalterne<br />

hanno lottato per superarla, e dunque nei caratteri nuovi degli italiani c’è<br />

anche il segno <strong>della</strong> loro storia e <strong>della</strong> storia degli intellettuali che hanno<br />

saputo svincolarsi dalla soggezione ai gruppi dominanti (…) Pasolini non<br />

capisce che la scelta soggettiva può (…) liberare dal conformismo e aiutare la<br />

ragione a vincere la nevrosi.<br />

Lo scrittore, è la conclusione, è a tal punto affascinato dalla ricerca di una<br />

«diversità innocente e incontaminata» da scambiare la realtà con<br />

l’impasto di ideologia e scetticismo che lo ossessiona. Le sue non sono<br />

considerazioni politiche o sociologiche, ma clamorosi abbagli, i frutti di<br />

«un modo trasognato di vivere gli avvenimenti che conduce facilmente<br />

all’equivoco».<br />

Le argomentazioni di Mussi riprendono e sviluppano alcune delle<br />

tesi presentate da Franco Ferrarotti in un articolo pubblicato qualche<br />

giorno prima su «Paese Sera». Secondo il sociologo le descrizioni e le<br />

analisi di Pasolini sulla modernizzazione, «tutte culturologiche», non<br />

sono in grado di cogliere le basi oggettive del problema italiano – gli<br />

interessi economici e le collusioni tra i vertici – e finiscono per ridursi a<br />

una «suggestione vaporosamente irrazionale», incapace di andare oltre<br />

l’invettiva personale e tutta concentrata su una descrizione <strong>della</strong> «bassa<br />

manovalanza para-fascista» (Ferrarotti 2008a, 89). L’esito di una analisi<br />

incapace di distinguere tra Fanfani e Berlinguer è un discorso appannato,<br />

ambiguo e, in ultima istanza, pericoloso: Ferrarotti chiede polemicamente<br />

agli italiani se se la sentono di «tornare cenciosi» per soddisfare<br />

l’esigente palato di un artista che, individualmente, gode appieno dei<br />

benefici materiali e culturali del neocapitalismo (ibidem, 91).<br />

Ma c’e dell’altro. Ferrarotti, infatti, non si ferma alle prese di<br />

posizione dello scrittore, ma procede a criticarne gli strumenti e la<br />

mancanza di metodo. Il sociologo accusa infatti Pasolini di non avere le<br />

carte in regola: con le sue interpretazioni «insufficientemente analitiche»,<br />

egli «trasferisce di peso esperienze biografiche e umori altamente<br />

personali sul piano dell’analisi scientifica (…) Ma l’impresa è indebita e<br />

non va molto al di là <strong>della</strong> contaminazione linguistica» (ibidem, 89).<br />

Quella di Pasolini, in altre parole, è una pretesa ingiustificata che va<br />

immediatamente smascherata per quello che è, una sorta di gioco di<br />

9


società in cui si nega la possibilità stessa di una comprensione razionale –<br />

controllata, metodica, scientifica – dei problemi sociali. Ciò tende<br />

paradossalmente a trasformarla nel suo contrario:<br />

Il «coraggio intellettuale» è alleato al più, in questo caso, dello sfogo poetico.<br />

Sfiora già di per sé il rischio <strong>della</strong> rinuncia a criteri di indagine razionali, quel<br />

venire meno <strong>della</strong> distinzione fra passione e ideologia, fra ricerca e sentimento<br />

che costituisce la premessa del decisionismo, cioè del fare per fare, fascista<br />

(ibidem, 89).<br />

La critica di Ferrarotti è definitiva: l’errore di Pasolini sta tanto nel<br />

contenuto dell’analisi quanto nel tentativo di trasformare la sua poesia in<br />

sociologia-letteratura e, addirittura, far passare quest’ultima per sociologia-scienza.<br />

La sociologia-scienza, invece, è tutt’altro: è una sobria<br />

chiarezza teorica e descrittiva che sola permette di fronteggiare i<br />

problemi dello sviluppo del Paese (ibidem, 93).<br />

Come ho anticipato, la presa di posizione del sociologo esprime una<br />

preoccupazione tipica degli intellettuali impegnati nel processo di<br />

«rinascita <strong>della</strong> sociologia» nel secondo dopoguerra: per Ferrarotti<br />

Pasolini non è solo il portabandiera di una lettura eccentrica del caso<br />

italiano, ma anche l’ennesima minaccia che rischia di mettere in pericolo<br />

il (già scarso) prestigio delle scienze sociali. Come altri prima di lui,<br />

Pasolini va circoscritto, definito, escluso.<br />

Autonomia e coinvolgimento: i sociologi nel secondo dopoguerra<br />

Seguendo una impostazione retrospettiva e semplicistica, si suole<br />

dividere il campo sociologico italiano del secondo dopoguerra in due<br />

spazi chiaramente delimitati: un’area metodologicamente accorta,<br />

focalizzata sullo studio del processo di modernizzazione e legata in<br />

misura crescente a un milieu internazionale, e un’area assai politicizzata,<br />

che fa uso delle tecniche dell’inchiesta sociale per modificare l’impatto<br />

dell’industrializ-zazione sulle classi subalterne. Chi riprende in mano testi<br />

e documenti degli anni Cinquanta e Sessanta trova, in realtà, una<br />

situazione abbastanza aperta e fluida da garantire il moltiplicarsi delle<br />

10


esperienze di ricerca e un intenso scambio di uomini e idee 7 . Al di là delle<br />

storie e delle esperienze individuali, la gran parte dei ricercatori coetanei<br />

di Pasolini – oltre a Ferrarotti e Pizzorno, penso a Achille Ardigò, Danilo<br />

Dolci, Filippo Barbano, Danilo Montaldi, Angelo Pagani, Luciano<br />

Gallino, Francesco Alberoni e Sabino Acquaviva – è accomunata dalla<br />

ricerca di un punto di equilibrio tra la rivendicazione dell’autonomia del<br />

sapere sociologico, da una parte, e il coinvolgimento politico del<br />

ricercatore, dall’altra. In questo paragrafo cercherò di mostrare come la<br />

scelta di privilegiare il primo aspetto non sia interpretabile come<br />

un’opzione unicamente intellettuale, ma piuttosto come un elemento<br />

entro una più ampia strategia finalizzata all’inclusione dei sociologi tra le<br />

élite modernizzatrici e alla legittimazione <strong>della</strong> sociologia in quanto<br />

disciplina accademica. Pur legati a gruppi, interessi, partiti e movimenti,<br />

questi sociologi utilizzano la retorica dell’«obiettività» e<br />

dell’irriducibilità di un sapere specialistico ed esoterico, presentato come<br />

chiaramente distinto dalle pratiche degli intellettuali che guardano nella<br />

direzione delle classi subalterne. Se i primi creano «la sociologia<br />

italiana», i secondi vengono progressivamente ridefiniti come «nonsociologi»<br />

o, nella migliore delle ipotesi, come proponenti di una<br />

sociologia-letteratura buona per commuovere i lettori ma scientificamente<br />

inaffidabile, e dunque inadatta a risolvere i problemi del Paese.<br />

Nel piano di lavoro dei «Quaderni di sociologia», la rivista che fonda<br />

nel 1951 con l’aiuto del filosofo Nicola Abbagnano, Ferrarotti indica<br />

nella «sociologia applicata» la vera novità per la cultura italiana, e la<br />

descrive così:<br />

Si tratta di raccogliere dati empirici e di organizzarli intorno e in funzione di<br />

una definita ipotesi di lavoro o <strong>della</strong> soluzione di qualche problema posto<br />

dallo sviluppo strutturale, badando a non forzarne l’obiettività e quindi senza<br />

infirmarne il valore scientifico (Ferrarotti 1951, 3).<br />

7 Lo stato delle ricerche sulla storia <strong>della</strong> sociologia italiana è piuttosto deludente. I<br />

testi di riferimento sono Balbo et al. (1975), Barbano (1998), Siebert (1998), Barbano<br />

(2003), Rinauro (2002) e Pugliese (2008). Interessante è anche Ferrarotti (2008b), che<br />

raccoglie vecchi saggi degli anni Sessanta. In questi volumi troviamo, implicita o<br />

esplicita, la rappresentazione dualistica del campo di cui dico sopra.<br />

11


I temi privilegiati di questo discorso sociologico sono il rapporto tra città<br />

e campagna, il lavoro industriale e l’organizzazione <strong>della</strong> cultura;<br />

l’auspicata divisione del lavoro tra centri di raccolta dati e il sociologo,<br />

inteso come «organizzatore metodico di dati elementari, di per sé muti ed<br />

equivoci», punta a esplicitare e attuare il potenziale «terapeutico» <strong>della</strong><br />

giovane scienza sociale (ibidem, 6). Qualche anno dopo, Ferrarotti<br />

(1955a, 56) scrive che la sociologia in Italia è «pressochè inesistente»<br />

come scienza rigorosa capace di separare lo studio empirico dei fenomeni<br />

dalla «norma precettistica».<br />

Nonostante il linguaggio e i riferimenti intellettuali siano in gran<br />

parte diversi, troviamo gli stessi toni negli scritti dei sociologi neocritici<br />

di ascendenza marxista 8 . In un celebre scambio pubblicato sulla rivista<br />

«Opinione» nel 1956, Roberto Guiducci e Alessandro Pizzorno discutono<br />

<strong>della</strong> possibilità di praticare forme di «conricerca» capaci di giovarsi del<br />

pieno supporto del movimento operaio e di costruire una «sociologia<br />

vivente» metodologicamente rigorosa e, al tempo stesso, aperta alla<br />

«compartecipazione attiva fra sociologo e osservato» (Guiducci 1956,<br />

23). Pizzorno (1956, 26) auspica il definitivo superamento del populismo<br />

meridionalista di Carlo Levi e Rocco Scotellaro in favore di «metodi<br />

adottabili concordemente e coerentemente da tutto un fronte (…) di<br />

ricercatori, in qualche modo organizzati o in rapporto fra di loro». Come<br />

già Ferrarotti, Pizzorno auspica e prefigura l’emergere di un campo<br />

disciplinare autonomo ma capace di entrare in contatto con settori<br />

importanti <strong>della</strong> società italiana e di «attivizzarli».<br />

La presa di posizione circa l’equilibrio relativo tra il polo<br />

dell’autonomia del sapere sociologico e quello del coinvolgimento<br />

politico riflette le posizioni che i sociologi occupano all’intersezione tra<br />

campo politico e campo accademico e le strategie da essi attuate per<br />

accedere alle posizioni congruenti con i loro orientamenti politici e<br />

8 Soprattutto socialisti, in quanto per tutti gli anni Cinquanta Pci e Cgil considerano la<br />

sociologia come uno strumento di «mistificazione, oppressione e corruzione<br />

ideologica» o addirittura un cumulo di «idiozie specializzate» (vedi Pizzorno 1998,<br />

21; Balbo et al. 1975, 52). Nei primi anni Sessanta il giudizio comincia a cambiare,<br />

ma ancora nel 1965 Raniero Panzieri lamenta il ritardo dei marxisti rispetto alla<br />

sociologia come «scienza limitata» (cit. in Barbano 1998, 412-413). Si veda anche il<br />

capitolo dedicato a marxismo e sociologia in Rinauro (2002) nonché, più in generale,<br />

Fofi (2005).<br />

12


sociali di fondo. I sociologi che abbracciano il progetto di costruire<br />

un’Italia moderna e razionalizzata cercano un rapporto privilegiato con le<br />

élite politiche, economiche ed ecclesiali che qualche anno più tardi<br />

daranno vita al primo centrosinistra. Al Nord ciò significa interagire con<br />

Cisl, Acli, camere di commercio e imprenditori illuminati come Adriano<br />

Olivetti, con il coordinamento del Centro nazionale di prevenzione e<br />

difesa sociale di Milano e del gruppo del Mulino, con sede a Bologna,<br />

due organizzazioni che raccolgono magistrati, professionisti e docenti<br />

universitari (Franzinelli e Poggio 2004; Balbo et al. 1975). Al Sud la<br />

Sezione sociologica <strong>della</strong> Svimez, fondata nel 1953, e il Centro di<br />

specializzazione e ricerche economico-agrarie per il Mezzogiorno, creato<br />

da Manlio Rossi-Doria a Portici nel 1959, nascono sotto gli auspici di<br />

Unesco e Ford Foundation (Marselli 1962; Boffo 2008). La Chiesa<br />

cattolica promuove una propria «sociologia religiosa», appoggiandosi<br />

all’Università del Sacro Cuore e a un folto gruppo di autodidatti, tra cui<br />

padre Agostino Gemelli e don Silvano Burgalassi 9 .<br />

9 I temi delle ricerche sono tipici del processo di modernizzazione: industrializzazione,<br />

urbanizzazione, razionalizzazione e mutamento culturale (Ferrarotti 1955b;<br />

Acquaviva 1959; Gallino 1960; Pizzorno 1960). L’impatto <strong>della</strong> riforma agraria del<br />

1948 sullo stato di sviluppo economico, sociale e culturale delle zone più arretrate<br />

sono l’oggetto privilegiato delle cosiddette «ricerche di comunità», che propongono<br />

una serie di approfondimenti concettuali sui temi <strong>della</strong> comunità locale, del rapporto<br />

tra città e campagna e del processo di razionalizzazione (Ardigò 1958). Più avanti, i<br />

sociologi cominciano a occuparsi di migrazioni interne e nuovi consumi, con studi<br />

importanti di Gallino (1972) e Alberoni (1960; 1964), che sottolineano le tensioni<br />

psicologiche e culturali ma anche le possibilità di integrazione delle masse di<br />

lavoratori che abbandonano le campagne del Sud per le fabbriche del Nord.<br />

L’intreccio tra persone e istituzioni e la difficoltà inerente a ogni semplificazione sono<br />

ben restituiti da questa lunga descrizione di Rinauro (2002, 683-684): «Al principio<br />

degli anni 60 i principali sociologi “di sinistra” erano già entrati da anni o si<br />

apprestavano a farlo nelle cosiddette organizzazioni di ricerca “di terza forza” e dei<br />

“monopoli”, non foss’altro che per la scarsità di alternative quando ancora<br />

l’Università, l’amministrazione pubblica e specialmente le organizzazioni del<br />

movimento operaio non offrivano spazi istituzionali alla sociologia; Roberto Guiducci<br />

diveniva membro <strong>della</strong> Fondazione Olivetti, Franco Momigliano era capo ufficio<br />

studi economici <strong>della</strong> Olivetti S.p.a. e poi membro <strong>della</strong> Fondazione Olivetti,<br />

Alessandro Pizzorno e Antonio Carbonaro erano al Centro di ricerche <strong>della</strong> Olivetti<br />

S.p.a. sin dai primi anni 50 e Carbonaro sin dal 1952 era redattore <strong>della</strong> rivista<br />

“Tecnica e organizzazione”. Luciano Gallino era capo ufficio studi e relazioni sociali<br />

<strong>della</strong> Olivetti S.p.a., Norberto Bobbio, direttore dell’Istituto di scienze politiche<br />

13


Alle élite modernizzatrici – «gli industriali, gli operatori economici<br />

dei più diversi tipi, i pubblici amministratori, gli organizzatori politici e<br />

sindacali» (Treves 1960, 174) – i sociologi si propongono come i latori di<br />

un sapere scientifico obiettivo e direttamente applicabile alla soluzione<br />

dei problemi dello sviluppo. Già alla fine degli anni Quaranta l’immagine<br />

è quella del tecnico capace di usare strumenti originali ed efficaci:<br />

Una riforma agraria (…) può riuscire solo se si presenta e si attua come<br />

strumento di potenziamento dell’agricoltura (…) Ottenere questo, tuttavia, si<br />

può solo se la riforma agraria risulterà perfettamente adeguata alla realtà (…)<br />

Ciò significa che il maggior pericolo per una riforma agraria è rappresentato<br />

dai giuristi e dai legislatori (…) La riforma agraria, viceversa, deve essere<br />

impostata e realizzata dai tecnici, con criteri prevalentemente tecnici (Manlio<br />

Rossi-Doria, 1947, cit. in Barbano 1998, 163).<br />

La padronanza del metodo scientifico per lo studio dei fenomeni sociali<br />

legittima i sociologi come elemento cruciale e necessario del processo di<br />

transizione dalla tradizione a una società in cui ethos democratico e<br />

spirito imprenditoriale possano darsi per acquisiti. Auspicando un nuovo<br />

«illuminismo di massa» dopo i fatti d’Ungheria, Giuseppe M. Bonazzi<br />

scrive su «Opinione» che<br />

la ricerca deve essere permanentemente intesa come l’unico ambito in cui è<br />

possibile pervenire a conoscenze e formulare giudizi (descrittivi, valutativi e<br />

prescrittivi). Nulla è accettabile se non è controllato dalla ricerca, nulla è<br />

definibile se non in termini di ricerca. Il criterio stesso con cui occorre<br />

proseguire l’indagine non deve essere ricercato che nelle indicazioni<br />

emergenti via via dalla situazione esaminata (Bonazzi 1956-1957, 1, corsivo<br />

mio).<br />

E ancora, Ferrarotti (1961, 5) descrive la sociologia come «scienza<br />

rigorosa e non gratuita, ossia come analisi concettualmente orientata ed<br />

dell’Università di Torino, per conto <strong>della</strong> Fondazione Olivetti entrava nel comitato<br />

direttivo del Cospos, il Comitato per le scienze politiche e sociali (1965) (…) Con<br />

Lelio Basso, Antonio Banfi, la Rossanda, Tullio Seppilli, la Massucco Costa e altri,<br />

già dagli anni 50 erano membri dei pochi centri di ricerca e rappresentanza<br />

sociologica politicamente meno schierati, il Centro nazionale di prevenzione e difesa<br />

sociale e l’Associazione italiana di scienze sociali».<br />

14


empiricamente garantita di situazioni umane significative». La bilancia<br />

pende dalla parte dell’autonomia del metodo sociologico – e quindi del<br />

distacco necessario al costituirsi di un sapere obiettivo –, ma ciò non è<br />

dovuto all’abbandono del coinvolgimento politico, né a una fede<br />

irriflessiva in una scienza wertfrei, né tantomeno a preferenze personali;<br />

in realtà è dovuto a tutte queste cose combinate in una complessiva<br />

strategia di posizionamento professionale che i sociologi attivano vis à vis<br />

le élite tecnocratiche <strong>della</strong> modernizzazione.<br />

La strategia dei sociologi comprende una martellante azione di<br />

lobbying per l’istituzione di nuove cattedre universitarie 10 . Insieme<br />

all’utilizzo delle forme discorsive tipiche dell’accademia italiana, la<br />

rivendicazione dell’utilità pratica di un sapere autonomo e irriducibile è<br />

l’arma per eccellenza nella battaglia per l’università (Pellizzi 1956;<br />

Ferrarotti 2011). Un buon esempio di tale atteggiamento, intellettuale e<br />

strategico insieme 11 , è un celebre saggio di Ferrarotti del 1960, La<br />

sociologia come partecipazione. Ferrarotti intende traghettare la<br />

sociologia oltre la crisi delle categorie ottocentesche lasciandosi alle<br />

spalle anche le impostazioni dominanti alla fine degli anni Cinquanta,<br />

cioè il funzionalismo parsonsiano e le sue critiche conflittualiste. Si tratta<br />

di sociologie che privilegiano lo schema teorico-concettuale sul dato<br />

empirico, mettendo da parte la realtà del sociale in un malcompreso<br />

«pregiudizio <strong>della</strong> totalità» che vorrebbe imitare le scienze naturali<br />

(Ferrarotti 1961, 20-21). Al fine di assicurare «la formulazione in termini<br />

scientificamente rilevanti di una situazione umana problematica concepita<br />

come una struttura sociale totale», la sociologia deve abbandonare sia gli<br />

schematismi teorici sia «l’espressione generalizzata di principi di<br />

preferenza personale» (ibidem, 14-15), andando verso una comune<br />

«intuizione ideativa originaria», cioè una problematizzazione a un tempo<br />

«tecnica» e «umana», tra ricercatore e «ricercato» (ibidem, 22). Scrive<br />

Ferrarotti:<br />

10 Fino al 1961 l’unica cattedra di sociologia presente in una università italiana è<br />

quella di Camillo Pellizzi a Firenze. Si veda la rappresentazione del problema data da<br />

Evangelisti (1960) e da Treves (1960).<br />

11 Il mio riferimento iniziale alla sociologia <strong>della</strong> cultura di Bourdieu dovrebbe<br />

rendere superflua qualsivoglia domanda sulla «autenticità» delle prese di posizione<br />

dei sociologi.<br />

15


Le categorie concettuali vanno sviluppate direttamente e senza mediazioni nel<br />

lavoro di ricerca. Si evita l’apriorismo metafisicizzante solo attraverso la<br />

compromissione necessariamente implicita nella ricerca sociologica intesa<br />

come «partecipazione». Ciò non significa alcuna concessione all’idilliaco o al<br />

filantropico (ibidem, 21).<br />

Ma cosa significa, in questo caso, partecipazione? Siamo di fronte<br />

all’abbandono dell’autonomia a favore del coinvolgimento? Non<br />

esattamente: la sociologia comprendente proposta da Ferrarotti concede<br />

al soggetto «ricercato» di negoziare, «entro certi limiti», gli scopi <strong>della</strong><br />

ricerca e la comprensione del dato per finalità che si presentano come<br />

intrinsecamente e unicamente scientifiche. E d’altronde i riferimenti di<br />

Ferrarotti sono tipici di una discussione del tutto interna all’accademia:<br />

Platone, Aristotele e Tommaso e, più vicino temporalmente, il<br />

Methodenstreit di Dilthey, Windelband e Rickert, nonché le posizioni di<br />

Max Weber, che rimane il punto di partenza e insieme di arrivo<br />

dell’intero discorso.<br />

Istituzionalizzazione e crisi <strong>della</strong> sociologia italiana<br />

Nel 1961, un anno dopo il saggio di Ferrarotti sulla sociologia come<br />

partecipazione, i sociologi fanno il punto sulla capacità <strong>della</strong> propria<br />

«cultura positiva» – come la definirà poi Barbano (1998, 230) – di<br />

influenzare le élite <strong>della</strong> modernizzazione in un importante congresso dal<br />

titolo «Sociologi e centri di decisione politica e sociale». Nella relazione<br />

conclusiva, Renato Treves (1962, 11) rilancia la sociologia-scienza<br />

distinguendo il «vecchio sociologo di biblioteca» dal sociologo «nuovo»,<br />

impegnato nella ricerca empirica e desideroso di vedere i risultati dei<br />

propri studi utilizzati nella progettazione e nella realizzazione delle<br />

politiche pubbliche – un concetto più volte ripetuto dagli altri<br />

partecipanti, tra cui Gilberto Marselli (1962, 179-180), secondo il quale<br />

in una società soggetta a rapide trasformazioni «non è più consentito<br />

affidarsi all’improvvisazione e all’intuizione; è, invece, necessario darsi<br />

un metodo e valersi di tutti quegli strumenti, che, da tempo, il progresso<br />

scientifico va mettendo a punto». Consapevoli e delle difficoltà di<br />

diffondere la conoscenza sociologica e <strong>della</strong> propria scarsa incisività sugli<br />

16


altri gruppi professionali o di potere, i sociologi ripiegano sulla richiesta<br />

di una definitiva istituzionalizzazione accademica <strong>della</strong> disciplina, vista<br />

come garanzia di autonomia e possibilità di implementare attività di<br />

ricerca del tutto indipendenti. Non è un caso che il primo concorso a<br />

cattedra, già celebrato al momento del convegno (Barbano 1998, 253-<br />

261; Treves 1962, 26), venga vinto da una terna che comprende<br />

Ferrarotti, Pizzorno e uno studioso del tutto allineato al progetto di<br />

modernizzazione, Giovanni Sartori.<br />

L’entrata nell’università, tuttavia, non basta a garantire ai sociologi<br />

l’autorevolezza necessaria a ispirare e guidare il mutamento di un Paese<br />

sempre più ripiegato su se stesso. Dieci anni più tardi, con molte ricerche<br />

e molti concorsi sulle spalle, gli scienziati sociali accademici si<br />

incontrano a Torino per fare i conti con un profondo stato di crisi. Il titolo<br />

del convegno, «Ricerca sociologica e ruolo del sociologo», non riesce a<br />

nascondere i problemi di una disciplina colpita dalla sclerotizzazione<br />

accademica, dalla critica «da sinistra» del Sessantotto e dal generale<br />

crollo di progettualità di una società che si avvita in una crisi profonda<br />

(Rossi 1971, 11-12). Il sogno del sociologo riformatore che doveva farsi<br />

èlite e ispirare l’azione politica è ormai appannato e i giovani Alessandro<br />

Cavalli e Vittorio Capecchi intervengono proponendo nuovi equilibri tra<br />

autonomia e coinvolgimento. Il pendolo parrebbe oscillare nella direzione<br />

<strong>della</strong> ricerca partecipata. Commentando la proposta di Capecchi – che si<br />

esprime contro la formalizzazione concettuale e per un pieno<br />

coinvolgimento personale del ricercatore – Pizzorno (1971, 353) afferma<br />

senza contraddizione il proprio disinteresse per le «convenzioni <strong>della</strong><br />

comunità scientifica», un’attenzione prioritaria per i soggetti collettivi<br />

«con cui si è solidali» e la necessità di essere scientificamente<br />

intransigenti (vedi anche Rositi in Aa. Vv. 2010).<br />

Ciò non significa, tuttavia, che la partita sia chiusa. Insieme a<br />

Sartori, Alberoni e molti altri, Pizzorno partecipa di lì a poco a un<br />

complesso progetto ideato da Fabio Luca Cavazza, Stephen Graubard e<br />

Ubaldo Scassellati, al fine rilanciare le scienze sociali autonome e<br />

professionalizzate. Il caso italiano, ponderoso volume uscito per Garzanti<br />

17


nel 1974 12 , si propone di rinsaldare i rapporti degli scienziati sociali<br />

italiani con l’establishment scientifico (e politico) internazionale:<br />

Non esiste una importante «scuola» di studi italiani contemporanei all’interno<br />

del Mercato Comune; nè in altre parti del mondo (…) È quindi inevitabile che<br />

gli studi sull’Italia contemporanea siano iniziative (…) soprattutto italiane,<br />

una specie di monopolio nazionale (…) Questo libro si presenta come primo<br />

esperimento di un dialogo transnazionale (Graubard 1974, 46-47).<br />

Il titolo del volume restituisce icasticamente l’orientamento dei curatori:<br />

l’Italia è «un caso» tra gli altri, un caso che può essere compreso da<br />

scienze sociali rigorose nella raccolta e nella interpretazione dei dati.<br />

Parlando delle ricerche sulla geografia elettorale, Cavazza (1974, 7) ritrae<br />

l’Italia come un «sistema» da studiare attraverso la validazione di ipotesi<br />

ricavate grazie a una rigorosa traduzione <strong>della</strong> realtà in dati scientifici.<br />

Le molte diagnosi ripetono il mantra dei modernizzatori: all’Itlia<br />

mancano razionalità, spirito democratico, alternanza politica, formazione<br />

delle classi dirigenti; mancano predisposizione al rischio, voglia di<br />

innovare, universalismo – mancano, in poche parole, le personalità e i<br />

valori «non-arcaici» necessari a realizzare pienamente il processo di<br />

modernizzazione. Sociologi, politologi ed economisti disegnano un<br />

circolo vizioso tra «la classe politica, l’apparato burocratico e i circoli<br />

clientelari e parentali» e cercano il modo per interromperne gli effetti<br />

nefasti (ibidem, 9). Il loro sguardo si sofferma sul triangolo Stato,<br />

mercato e società civile, un sistema che va fatto funzionare<br />

12 L’elenco degli autori è una sorta di parterre de roy delle scienze sociali dei primi<br />

anni Settanta: se gli stranieri sono Robert Bellah, Juan Linz, Jacques Le Goff,<br />

Suzanne Berger, Charles Kindleberger, Andrew Shonfield, Stanley Hoffman, Karl<br />

Kaiser, Gerald Holton e François Bourricaud, tra gli italiani troviamo Giorgio Galli,<br />

Gabriele De Rosa, Francesco Forte, Romano Prodi e Cesare Merlini. L’aspetto più<br />

interessante del progetto è che tra il 1972 e il 1973 alcuni degli studiosi stranieri<br />

attraversano il Paese a spese <strong>della</strong> Fondazione Agnelli incontrando imprenditori,<br />

politici, prelati e intellettuali per «farsi un’idea» dell’Italia anni Settanta, come recita<br />

il sottotitolo del volume, e scrivere un saggio a partire dal «proprio» punto di vista,<br />

cioè dal punto di vista delle scienze sociali mainstream (Graubard 1974, 47-48).<br />

Cavazza, Graubard e Scassellati sono rispettivamente editore del Mulino, direttore di<br />

Daedalus e direttore <strong>della</strong> Fondazione Agnelli.<br />

18


azionalmente, risolvendo problemi tecnici che comprendono anche la<br />

costituzione del necessario ethos borghese e democratico.<br />

Coerenti con il loro progetto, gli scienziati sociali si rivolgono alle<br />

élite, ai tecnocrati e ai quadri <strong>della</strong> nuova Italia che però, come abbiamo<br />

visto, tengono ben chiusa la porta <strong>della</strong> stanza dei bottoni; anzi, come<br />

scrive Giovanni Bechelloni (1974, 648) recensendo il volume, «lo iato tra<br />

il momento dell’analisi e il momento <strong>della</strong> decisione politica» va<br />

addirittura accrescendosi. Cavazza (1974, 13) descrive un malessere che<br />

rispecchia la delusione di chi, per primo, aveva creduto di poter dare un<br />

contributo alla modernizzazione dell’Italia:<br />

Vi è nel Paese, ormai da non pochi anni, una sensazione di malessere, assai<br />

diffusa, e intensamente percepita. Essa è diventata la compagna quotidiana<br />

dell’uomo di cultura che non ha perso l’uso critico dell’intelligenza;<br />

dell’operatore economico e dell’operatore sociale che s’ostinano a conferire<br />

razionalità e senso professionale al loro mestiere; di quegli strati <strong>della</strong> classe<br />

politica, periferici e inferiori, che non credono all’ineluttabilità di dover<br />

sempre e comunque convertire in dubbie manipolazioni i loro convincimenti;<br />

e, infine, la sensazione di malessere non risparmia il comune cittadino che<br />

conduce vita non impegnata ma attende ai casi suoi come meglio sa e può.<br />

Se l’infelicità descritta da Pasolini era l’infelicità chi vorrebbe starsene in<br />

pace ma non può (più), l’infelicità descritta da Cavazza è quella di chi<br />

vorrebbe fare ma (ancora) non può. L’anno è lo stesso – il 1974 – ma le<br />

due diagnosi non potrebbero essere più diverse.<br />

Difendere un confine: i sociologi e Pasolini<br />

Alla luce <strong>della</strong> storia <strong>della</strong> sociologia italiana tra la fine <strong>della</strong><br />

Seconda guerra mondiale e i primi anni Settanta, lo scontro tra Pasolini e<br />

Ferrarotti diventa facilmente comprensibile: lo scrittore è un pericolo<br />

tanto per le sue idee e le sue prese di posizione, quanto per la sua<br />

condizione di intellettuale pubblico che pretende di occuparsi di problemi<br />

che spettano ad altri. La domanda retorica del sociologo – «Il vecchio<br />

fascismo è per Pasolini singolarmente fotogenico; gli appare ancora<br />

legato a un’Italia agricola, pascolianamente proletaria, rustica, non<br />

consumistica, pronta al sacrificio… Ma chi glielo ha detto?» (Ferrarotti<br />

19


2008a, 90, corsivo mio) – esprime perfettamente l’acredine di chi si vede<br />

scippare oggetti, interpretazioni e possibilità di influenzare l’opinione<br />

pubblica. Un editoriale dedicato ai rischi che minano l’autonomia del<br />

giudizio sociologico – pubblicato dallo stesso Ferrarotti sulla «Critica<br />

sociologica» nella primavera del 1974 – riecheggia la polemica e<br />

aggiunge forse un ulteriore elemento per comprenderla:<br />

Per non parlare dei critici ex-ermetici o degli elzeviristi che ci passano sub<br />

specie sociologica i loro stanchi pettegolezzi. Nessun dubbio che il numero<br />

dei sociologi godrebbe di un notevole incremento; altrettanto indubbio però<br />

che l’autonomia e la serietà <strong>della</strong> ricerca sociologica subirebbero un<br />

corrispondente declino (C. S. 1974, 6-7).<br />

Tra tutti gli intellettuali engagé, Pasolini è pericoloso non solo per la<br />

sua visibilità o per la radicalità delle sue idee sul neocapitalismo, ma<br />

anche per via del suo complesso rapporto con le scienze sociali – che<br />

Ferrarotti bolla come semplice «contaminazione linguistica». Da una<br />

parte, infatti, lo scrittore non disdegna gli strumenti concettuali <strong>della</strong><br />

sociologia, usa spesso gli aggettivi «sociologico» e «semiotico» per le<br />

proprie analisi e fa riferimento a teorici sociali più o meno celebri e<br />

rigorosi anche all’interno di opere letterarie e teatrali – oltre a Marx,<br />

Gramsci, Freud e Jung, i nomi sono quelli di Durkheim, Marcuse,<br />

Goldmann, McLuhan, Veblen, Schumpeter, Kornhauser, Von Mises,<br />

Mannheim e, addirittura, Shils (Pasolini 1999, passim). Dall’altra, da<br />

marxista e «compagno di strada» del Pci, lo scrittore parla di una<br />

sociologia «indecifrabile» e «anestetizzante» (Pasolini 1999 [1966], 137;<br />

Pasolini 1999 [1974], 352), ormai lontana dall’ispirazione originaria <strong>della</strong><br />

«grande sociologia ottocentesca» che aveva cominciato a smontare la<br />

presunta innocenza progressista degli europei grazie al concetto di<br />

«cultura» (Carbone 2011) 13 . La sociologia che infastidisce Pasolini è<br />

quella che egli definisce – nell’articolo Prologo: E.M. del 1973 – la<br />

«sociologia salamina», e cioè la sociologia di Ferrarotti e dei suoi<br />

13 E ancora: «Sarebbe come se gli uomini politici del Pci si attendessero delle idee<br />

sociali e politiche utili dalla nuova sociologia, che sta rispetto alla vecchia sociologia<br />

del Durkheim o del Weber, esattamente come le nuove avanguardie stanno rispetto<br />

alle avanguardie del primo Novecento» (Pasolini 1999 [1965], 1085).<br />

20


coetanei – quella che ha importato in Italia il linguaggio e l’orientamento<br />

tecnocratico delle scienze sociali internazionali e ha previsto una piena<br />

razionalizzazione e tecnicizzazione dell’uomo e <strong>della</strong> società (Pasolini<br />

1999 [1973], 247). È questa la sociologia che Pasolini sente indifferente,<br />

nonostante essa si impegni, da decenni, proprio nell’analisi dei problemi<br />

del Paese e nella proposta di soluzioni razionali – la sua preferenza va<br />

alle ricerche, da altri definite letterarie, di Dolci e Montaldi (vedi per<br />

esempio Pasolini 1999 [1974], 505 ss.). Ma è anche, paradossalmente, la<br />

sociologia a cui viene accostato dai commentatori, che odono nelle sue<br />

analisi gli echi di due approcci altrimenti antitetici:<br />

[L’idea pasoliniana] di una progressiva integrazione «a progetto» <strong>della</strong> società<br />

intera (…) ha avuto largo corso in Europa e negli Stati Uniti in questo<br />

dopoguerra, e potremmo collocarla tra due poli opposti: la sociologia di<br />

importazione statunitense, convinta <strong>della</strong> neutralità rispetto alle classi e alle<br />

ideologie (…) [e] la teoria critica <strong>della</strong> società (Mussi 1974, 17).<br />

C’è, insomma, un problema di confini. Il celebre e perturbante Pasolini<br />

va, più di altri, chiaramente escluso dal novero dei sociologi al fine di<br />

difendere la specificità e l’integrità <strong>della</strong> disciplina a fronte di una crisi<br />

profonda. Ecco allora gli attacchi di Ferrarotti, ecco le parole di chi, come<br />

Camillo Pellizzi (1974, 192), si dice simpatetico con lo scrittore eppure<br />

sottolinea l’insufficienza delle sue «notazioni sociologiche a sciabolate».<br />

Il tono è lo stesso nell’articolo Le lucciole e i fuochi fatui 14 che<br />

l’antropologo Carlo Tullio-Altan affida alla «Critica sociologica» un<br />

anno dopo. Si tratta di un testo interessante perché, nonostante il titolo<br />

riveli immediatamente il bersaglio – il celebre «articolo delle lucciole»<br />

del febbraio 1975, – la critica a Pasolini arriva solo dopo un complicato<br />

itinerario sull’influenza dei valori <strong>della</strong> società contadina sulla crisi<br />

italiana tipico di una scrittura che vuole essere al cento per cento<br />

accademica. Prendendo le mosse dalla descrizione strutturale delle<br />

household neolitiche di Marshall Sahlins, Tullio-Altan (1975, 8-9)<br />

accosta i sistemi di produzione primitivi a quelli <strong>della</strong> tradizione<br />

meridionale e, dopo una debole critica a Banfield e al «familismo<br />

14 Sul singolare rapporto tra il giovane Pasolini e Tullio-Altan nel Friuli del dopo-lodo<br />

De Gasperi si veda Gaspari (2008).<br />

21


amorale», finisce per indicare quest’ultimo come il più formidabile<br />

ostacolo alla piena modernizzazione del Paese. L’industrializzazione,<br />

limitata alle regioni settentrionali, produce squilibri a livello nazionale,<br />

accentuando i dislivelli di sviluppo e spingendo masse di ex-contadini<br />

meridionali verso il Nord. Diversamente da quanto è riuscito a Stati Uniti<br />

e Gran Bretagna, di fronte agli evidenti problemi <strong>della</strong> modernizzazione<br />

l’Italia non riesce a ricostruire il «tessuto connettivo» <strong>della</strong> società civile<br />

(ibidem, 10-11). Il persistere di enormi sacche di particolarismo<br />

impedisce dunque ai «valori democratico-borghesi» di diffondersi tra le<br />

masse, e ciò finisce per produrre «personalità arcaiche» incapaci di<br />

assolvere ai compiti tipici di una società industrializzata (ibidem, 12, 15)<br />

– la vicinanza con le diagnosi del Caso italiano è evidente. Denuncia<br />

ancora l’antropologo:<br />

Lo sviluppo economico, l’urbanesimo e la società dei consumi ha condotto in<br />

Italia ad una misura maggiore di dislocazione e disgregazione sociale che non<br />

negli altri Paesi. Ciò è dovuto al sopravvivere in larghe zone geografiche e<br />

sociali dei valori legati ai residui delle unità domestiche di produzione in una<br />

situazione storica che li rende totalmente anacronistici (ibidem, 12-13).<br />

Ma ecco la zampata contro Pasolini: scambiare tali valori disfunzionali<br />

per una eredità culturale da salvaguardare e rilanciare è un’operazione<br />

radicalmente sbagliata: le «lucciole» sono in realtà «maligni fuochi fatui<br />

sulle tombe di un cimitero», buoni per «una deformazione in chiave<br />

romantica e nostalgica» <strong>della</strong> realtà ma non per una presa in carico<br />

razionale dei problemi del Paese. Il recupero delle culture contadine può<br />

essere una suggestione o una consolazione temporanea, ma non<br />

un’alternativa valida ai valori borghesi: «La soluzione va cercata<br />

guardando in avanti e non indietro» (ibidem, 13). Sarebbe necessaria,<br />

secondo Tullio-Altan, una politica culturale capace di spingere l’Italia a<br />

costruire un tessuto connettivo democratico e borghese, che potrebbe<br />

fondarsi su una riconsiderazione <strong>della</strong> protesta giovanile e studentesca – e<br />

questo è il compito, affatto astratto o accademico, che gli scienziati<br />

sociali potrebbero darsi per il tempo presente (ibidem, 17-18).<br />

La critica che gli scienziati sociali a Pasolini è duplice e colpisce<br />

tanto la sua interpretazione <strong>della</strong> modernizzazione italiana quanto le<br />

22


pretese di verità avanzate dallo scrittore, la legittimità delle sue<br />

osservazioni, la praticabilità delle sue soluzioni. Al di là delle parole e<br />

dell’intento politico di Pasolini, fa problema la posizione da cui egli<br />

prende la parola, che potrebbe ingenerare una confusione tra la «fantasia<br />

poetica» dello scrittore e l’analisi razionale e distaccata del sociologo –<br />

ciò che fa problema è che nell’immaginario dell’opinione pubblica gli<br />

interventi di Pasolini siano davvero visti come esempi di analisi<br />

sociologica. Quando l’esangue dibattito tra Pasolini e i sociologi si<br />

interrompe per l’improvvisa morte dello scrittore il 2 novembre 1975, pur<br />

concedendogli l’onore delle armi Ferrarotti lo saluta reiterando un<br />

giudizio negativo:<br />

Da ultimo Pasolini usava termini e toccava temi tipici <strong>della</strong> ricerca<br />

sociologica. Istanze critiche contro il concetto riduttivo di industrializzazione<br />

o riflessioni intorno al carattere ambiguo dello sviluppo tecnico che, in bocca<br />

ai sociologi, non uscivano da ambiti specialistici ristretti, egli aveva il potere<br />

di attualizzarle, pur piegandole al proprio gusto, fino a farne materia di<br />

dibattito quotidiano anche scandalizzante, sempre sincero, presso il gran<br />

pubblico. Ci piace ricordarlo così, con la pietà che si addice a una fine tragica<br />

(Ferrarotti 1975, 170; vedi anche Ferrarotti 2008c).<br />

Fast forward<br />

Non sarà inutile, avviandomi a conclusione, ricordare un episodio che<br />

vede come protagonista un’altra delle «vittime» <strong>della</strong> costruzione e <strong>della</strong><br />

difesa <strong>della</strong> sociologia-scienza, un intellettuale che Pasolini tiene in<br />

grande considerazione – Danilo Montaldi. Già alla fine degli anni<br />

Cinquanta, l’accettazione dell’originario progetto <strong>della</strong> conricerca, la<br />

vicinanza con Pizzorno e Guiducci e l’auspicio di un pieno superamento<br />

del populismo meridionalista dovrebbero mettere Montaldi al riparo dalle<br />

critiche dei sociologi 15 . Il ricercatore cremonese, tuttavia, si spinge nella<br />

15 Si veda la sezione «Classici» del terzo fascicolo di «Studi culturali» del 2007 per<br />

una serie di lettere da cui emerge evidente la vicinanza di Montaldi agli altri sociologi<br />

(il giudizio sul populismo è nella lettera di Montaldi a Giuseppe Bartolucci pubblicata<br />

in Bertolotti e Capuzzo 2007, 444-445). Nell’introduzione di Autobiografie <strong>della</strong><br />

leggera Montaldi (1961) cita, sia pure in maniera non accademica, libri del tutto<br />

organici alle scienze sociali internazionali (Il crisantemo e la spada di Ruth Benedict<br />

23


direzione di una radicale compartecipazione di ricercatori e soggetti <strong>della</strong><br />

ricerca che infrange «il rapporto che è classico <strong>della</strong> sociologia borghese,<br />

[il quale] si esprime nelle diverse figure appunto di un indagatore di un<br />

oggetto (uomo) da analizzare» (Montaldi 1956, 31; vedi anche Bermani<br />

1998, 88-89, e Mangano 1992). Si tratta di una mossa che risulta<br />

indigesta per chi sta invece puntando sull’autonomia del sapere<br />

sociologico. Invitandolo a una riunione <strong>della</strong> redazione <strong>della</strong> rivista<br />

«Passato e presente», Pizzorno 16 chiede a Montaldi un intervento<br />

«realistico, non idealistico; generalizzabile, non eccezionalizzante;<br />

impietoso, non romantico; chirurgico, non magico». Insomma, la<br />

richiesta di Pizzorno è ancora una volta quella di abbandonare la<br />

sociologia-letteratura per la sociologia-scienza. D’altronde, dal punto di<br />

vista di ricercatori che puntano ad astrazioni categoriali – cittadini,<br />

lavoratori, consumatori, – interessanti in quanto variabili che agevolano o<br />

impediscono lo sviluppo del Paese, i protagonisti delle ricerche di<br />

Montaldi, così come quelli di Pasolini, sono, e non possono non essere,<br />

«testimoni inclassificabili» (Pasolini 1999 [1974], 505 ss.). Come ha<br />

scritto in altra occasione René Capovin (2008, 96),<br />

demologo e sociologo critico si rapportano al “popolo” in maniera oggettivante,<br />

evitando di caricare le proprie descrizioni di intenzioni apologetiche o<br />

pedagogiche, e questo fa dell’atteggiamento non-scientifico dello studioso non<br />

rigoroso (romantico o populista) il loro nemico comune.<br />

Montaldi non accetterà il consiglio, determinando così la propria<br />

esclusione dalla «storia» <strong>della</strong> sociologia italiana 17 . L’episodio è<br />

o il manuale di sociologia di Rumney e Maier che inaugura la collana di scienze<br />

sociali del Mulino); nel contributo dello stesso Montaldi a Milano, Corea (Alasia e<br />

Montaldi 1960) sono descritte le collaborazioni con sociologi accademici come<br />

Renato Treves.<br />

16 Il quale, non dimentichiamolo, dichiara negli stessi anni di puntare a un tipo di<br />

analisi sociologica che sia «dialogo al tempo stesso che ricerca, (…) attivizzazione di<br />

tutte quelle zone umane con cui entri in contatto, (…) aperta ad ogni osservazione, ad<br />

ogni verifica, ad ogni conclusione imprevedibile» (Pizzorno 1956, 26)<br />

17 La citazione da una lettera di Pizzorno a Montaldi del 1958 si trova in un articolo di<br />

Costanza Bertolotti (2007, 461-462), che parla anche delle analoghe critiche rivolte da<br />

Guiducci a Montaldi e sottolinea come il giudizio di Pizzorno su quest’ultimo sia<br />

rimasto sostanzialmente immutato fino a oggi (in Pizzorno 2005, per esempio).<br />

24


interessante perché mette in chiaro come i processi di definizione,<br />

delimitazione e organizzazione disciplinare nascano da dinamiche che<br />

toccano solo tangenzialmente la ricerca. Lo stesso vale, mutatis mutandis,<br />

per Pasolini: l’ossessione classificatrice e la continua sottolineatura delle<br />

appartenenze disciplinari sono problemi dei sociologi, non dello scrittore,<br />

come emerge evidente nella risposta a Ferrarotti affidata all’articolo<br />

Abrogare Pasolini del 26 luglio 1974. Pasolini (1999 [1974], 345-346)<br />

riconosce tranquillamente la differenza tra le due posizioni e le relative<br />

pretese di verità. Dal suo punto di vista, il fatto che le scienze sociali<br />

facciano parte dello strumentario concettuale dell’uomo di cultura del<br />

Ventesimo secolo non significa che ogni intellettuale pretenda di essere<br />

un sociologo in senso professionale. Il suo gioco è, al contrario, quello di<br />

rivendicare la legittimità dello sguardo di chi vive i problemi preoccupandosene<br />

e di proporsi come intellettuale sottoposto al solo giudizio<br />

del pubblico:<br />

Io non ho alle mie spalle nessuna autorevolezza: se non quella che mi proviene<br />

paradossalmente dal non averla e dal non averla voluta; dall’essermi mosso in<br />

condizione di non aver niente da perdere, e quindi di non esser fedele a nessun<br />

patto che non sia quello con un lettore che io considero del resto degno di ogni<br />

più scandalosa ricerca (Pasolini 1999 [1974], 356-357).<br />

L’immagine è quella del pensatore sradicato, a tal punto libero da legami<br />

da essere in grado di rivoluzionare continuamente ruoli, lealtà e punti di<br />

vista. Ed è proprio la distanza che Pasolini percepisce tra le scienze<br />

sociali e i loro costrutti concettuali, da una parte, e la vita vissuta,<br />

dall’altra a portarlo a reinterpretare l’indifferenza che Ferrarotti aveva<br />

rivendicato nei suoi confronti come distacco verso l’oggetto delle sue<br />

riflessioni:<br />

Abbracciando il medesimo punto di vista, commentando Milano, Corea Ferrarotti<br />

(1962, 171) nota «l’assenza di un preciso schema di riferimento, insufficientemente<br />

surrogato da uno stimolante, ma in più di un luogo approssimativo, excursus storicoeconomico».<br />

Si vedano Etnografia e ricerca qualitativa (2008), Barnao (2009) e<br />

Padovan (2007) per tre tipici interventi che si richiamano ai «sociologi dimenticati»<br />

(o emarginati: Dolci, Scotellaro e, appunto, Montaldi) rivendicando una linea di<br />

continuità per una sociologia orientata etnograficamente e/o pubblicamente.<br />

25


Si sono fatti, anzi, su questi problemi dei convegni internazionali di sociologi?<br />

È quanto mi oppone gentilmente Ferrarotti (…) per ridurmi a sua volta al<br />

silenzio e all’inesistenza. Ma proprio i nomi, proprio i nomi che tanto, e tanto<br />

piacevolmente sembrano esaustivi a Ferrarotti, proprio i nomi (melting pot!), e<br />

proprio i luoghi internazionali dove tali nomi vengono fatti dimostrano che il<br />

problema “italiano” non è stato neanche lontanamente affrontato (…) Quindi<br />

del problema italiano non se ne è mai parlato. O, se lo si è fatto, non lo si è<br />

saputo. Il felice nominalismo dei sociologi pare esaurirsi dentro la loro cerchia<br />

(…) Perché al sociologo e al politico di professione non importa<br />

personalmente nulla di “questo” giovane, di “questo” operaio (Pasolini 1999<br />

[1974], 345-346, corsivi miei).<br />

Alla virulenta critica di Ferrarotti e alla sua ostentata indifferenza<br />

Pasolini oppone il proprio pathos e la capacità di comprendere i problemi<br />

grazie a una piena partecipazione alle vite «personali» dei suoi<br />

concittadini. Dovrebbe essere ormai chiaro che quella che Pasolini<br />

interpreta come una indifferenza di carattere personale è in realtà un<br />

riflesso <strong>della</strong> posizione che i sociologi cercano di ricavare per sé<br />

all’intersezione tra il campo intellettuale e quello politico. Se al sociologo<br />

e al politico poco importa «personalmente» di «questo» o «quel» giovane<br />

è perché il loro sguardo deve essere astratto e generalizzante, o almeno<br />

questo è il modo in cui intendono il proprio contributo alla<br />

modernizzazione dell’Italia. È, dopotutto, l’idea che sta alla base<br />

dell’idea stessa di «metodo scientifico» condivisa (almeno al tempo) dalle<br />

scienze sociali internazionali: la verità emerge grazie al corretto utilizzo<br />

di procedure impersonali – si noti che questa concezione è importante<br />

anche e sopratutto per le scienze sociali che si pongono obiettivi<br />

operativi. Si tratta di una presa di posizione che non si impone per la<br />

forza intrinseca dei suoi argomenti, ma che va legittimata e difesa da altre<br />

prospettive concorrenti. L’incontro mancato tra i sociologi degli anni<br />

Sessanta e Settanta e Pasolini è dunque dovuto alla preoccupazione dei<br />

primi per la difesa delle proprie posizioni: Ferrarotti e Tullio-Altan<br />

puntano innanzitutto a erigere intorno allo scrittore un cordone sanitario,<br />

indicandolo come un poeta che fa indebitamente leva su un linguaggio<br />

scientifico per proporre ossessioni e preoccupazioni del tutto soggettive 18 .<br />

18 Anche in una configurazione di campo profondamente cambiata, il giudizio dei<br />

sociologi <strong>della</strong> generazione del dopoguerra rimarrà più o meno lo stesso: Ferrarotti<br />

26


Da quanto detto in apertura, sembrerebbe che oggi i sociologi siano<br />

più aperti di un tempo alle suggestioni e ai contributi che vengono<br />

dall’esterno – la rivalutazione di Pasolini è parte di una più ampia<br />

riconsiderazione del contributo di poeti, letterati, artisti e «sociologiletterati».<br />

L’impressione, tuttavia, è che tale recupero avvenga da una<br />

posizione di debolezza – un ripiego più che un consapevole<br />

attraversamento di confini. Ciò dipende naturalmente dall’evolversi del<br />

campo sociologico italiano nei quarant’anni successivi allo scontro tra<br />

Ferrarotti e Pasolini – una storia che solo ora, e faticosamente, sta<br />

cominciando a essere affrontata. Secondo dinamiche che non si lasciano<br />

ridurre a una vicenda nazionale, ma che certamente prendono una forma<br />

specifica all’interno del campo sociologico italiano, la sociologia-scienza<br />

non si è mai realizzata secondo gli auspici dei rifondatori, e al tempo<br />

stesso anche la sociologia-letteratura è scomparsa, sostituita da una<br />

«sociologia-chiacchiera» che ha contribuito a costruire l’immagine del<br />

sociologo come lepido e conformista tuttologo che sforna a comando<br />

previsioni che nessuno si preoccuperà poi di verificare 19 . Tra società<br />

liquida e corsivi in prima pagina, i sociologi, o meglio alcuni di loro,<br />

hanno preso il posto degli elzeviristi temuti da Ferrarotti – a sua volta non<br />

indifferente alle lusinghe dei media – oppure hanno dichiarato<br />

ripeterà spesso la sua critica al dilettantismo di Pasolini (vedi per esempio Angeloni<br />

2011 e l’introduzione a Ferrarotti 1997), mentre il primo volume <strong>della</strong> storia <strong>della</strong><br />

sociologia di Filippo Barbano (1998) cita lo scrittore solo un paio di volte senza mai<br />

approfondirne idee e proposte. Il secondo volume, come ho già detto, è più generoso,<br />

ma non spiega perché negli anni Settanta i sociologi non prendessero sul serio le tesi<br />

di Pasolini nemmeno come pretesto per entrare nel dibattito pubblico.<br />

19 Anche in questo caso, come si suol dire, il problema è complesso e riguarda<br />

dinamiche che si presentano quasi ovunque (vedi per es. Posner 2003). Un aneddoto<br />

recente ci ricorda però le specificità dell’Italia: commentando la fine del contratto di<br />

Francesco Alberoni con il «Corriere <strong>della</strong> Sera» (settembre 2011), molti giornalisti e<br />

blogger hanno rilanciato la leggenda metropolitana <strong>della</strong> sostituzione di Pasolini<br />

come editorialista a favore dello stesso Alberoni alla metà degli anni Settanta.<br />

Sebbene non vera, questa storia viene utilizzata per descrivere icasticamente il declino<br />

<strong>della</strong> cultura italiana e dei suoi media (tra i giudizi rilanciati sui blog spopola quello di<br />

Marco Travaglio, da Beppegrillo.it: «Volete farvi quattro risate? Leggete Francesco<br />

Alberoni – sociologo del nulla, scalatore delle discese, esperto dell’ovvio – sul<br />

Corriere di oggi. Sulla prima pagina del Corriere, dove una volta scriveva Pasolini;<br />

oggi Alberoni»).<br />

27


«conversioni» scientifiche che hanno sollevato più di una perplessità 20 .<br />

Sul versante accademico, i sociologi non sono stati in grado di creare una<br />

vera e propria comunità scientifica nazionale e si sono tenuti<br />

generalmente ai margini di quella internazionale, restando legati ad<br />

ambienti esterni al campo scientifico ma senza riuscire a incidere davvero<br />

su di essi 21 .<br />

Al di là <strong>della</strong> ricostruzione storico-sociologica, allora, l’impressione<br />

è che sia cruciale recuperare, di Pasolini, non solo le idee o gli<br />

atteggiamenti ma anche, e forse soprattutto, le pratiche. Se Pasolini<br />

appare ancora troppo esotico, possiamo appoggiarci a un aforisma di uno<br />

scienziato sociale che non ha bisogno di presentarsi né di legittimarsi.<br />

Scrive Clifford Geertz (2001, 36) in un saggio intitolato Il pensare come<br />

atto morale:<br />

Poiché il pensiero è una condotta, i risultati del pensiero riflettono<br />

inevitabilmente la qualità del tipo di situazione umana in cui essi sono stati<br />

ottenuti.<br />

Prendere Pasolini sul serio significa interrogarsi non solo, e non tanto,<br />

sugli strumenti concettuali ed epistemici dei sociologi e degli altri<br />

scienziati sociali, quanto piuttosto sulla loro forma di vita: sulle<br />

istituzioni, le organizzazioni e le collettività entro i quali si svolgono le<br />

pratiche intellettuali e professionali. Lo nota Pierluigi Bellocchio (1999,<br />

xxix) facendo riferimento a quel mondo intellettuale che ho descritto fin<br />

troppo rapidamente e che oggi pare definitivamente tramontato:<br />

D’altronde, sarebbe pensabile un Pasolini a Torino tra i «merluzzi lessi<br />

surgelati» di via Biancamano, secondo la beffarda qualifica del romano<br />

20 Si vedano, a mo’ di esempio le critiche di Dal Lago (2010) e Barnao (2009) al<br />

recente mea culpa di Marzio Barbagli sull’immigrazione (Alberti 2009).<br />

21 Tra i molti interventi sul tema vorrei ricordare senza alcuna pretesa di completezza<br />

quelli di Bernardi, Bortolini, Mora, Pisati, Santoro, Chiesi, Dei, La Valle, Magatti e<br />

Padovan nei primi due numeri <strong>della</strong> rivista «Sociologica» (2007); la discussione<br />

cominciata da Guido Martinotti sul sito dell’enciclopedia Treccani e proseguita su<br />

quotidiani e riviste (2010); il dibattito sulla «Rassegna italiana di sociologia» con<br />

interventi di Santoro, Bagnasco, Baldassarri, Volontè, Sciarrone, de Leonardis, La<br />

Spina e Santambrogio (2011). Si vedano almeno Santoro (2007), Bortolini (2007) e<br />

Santoro (2011).<br />

28


Raniero Panzieri? O a Milano, per esempio nel gruppo di «Ragionamenti»,<br />

con Fortini e Guiducci, Momigliano e Pizzorno? Ospite assiduo <strong>della</strong> Casa<br />

<strong>della</strong> Cultura o del Club Turati? Occupato nell’ufficio studi di una banca o<br />

nell’ufficio stampa di un editore? O magari a Ivrea, nello staff di Olivetti, tra<br />

sociologi, urbanisti, economisti, architetti, psicologi, copywriter, designer?<br />

In altre parole, l’«indifferenza» rivendicata quarant’anni fa nei confronti<br />

del Pasolini preudo-sociologo va riconvertita in critica delle condizioni<br />

sociali entro le quali viene praticata la ricerca sociale e sociologica. In<br />

questo senso, sociologia-scienza e sociologia-letteratura possono giocarsi<br />

l’una insieme all’altra – altrimenti si rischia di usare la confusione dei<br />

generi come una sorta di giustificazione per vaghezze e imprecisioni,<br />

oppure di praticare la complementarietà tra i due lati del lavoro<br />

sociologico come una costante traduzione di ciò che sta oltre i limiti <strong>della</strong><br />

«scienza sociale» in una forma accettabile, impoverita e fintamente<br />

innovativa. Ciò, tuttavia, diventa possibile solo quando le forme di vita di<br />

chi pratica il mestiere di intellettuale – fuori e dentro l’accademia,<br />

lontano o vicino alle élite o ai subalterni, al centro o alla periferia <strong>della</strong><br />

sfera pubblica – riescono a trasformarsi di continuo senza sclerotizzarsi e,<br />

anche, a divincolarsi quando decenza e dignità richiedano un gesto di<br />

ponderata, ma anche gioiosa, intransigenza.<br />

Post scriptum<br />

La prima immagine è quella di una sala affollata. Un giovanissimo tecnocrate<br />

presenta il relatore: «Non ultima è questa la ragione per cui il segretariato del<br />

Secondo Simposio di Ricerca Motivazionale ha fatto cadere la sua scelta per la<br />

relazione di apertura sul nome del professor Giulio Carlo Pizzorno, che pur<br />

risiedendo da molti anni negli Stati Uniti non ha mai trascurato, anzi in questi<br />

anni ha seguito con attenzione più scrupolosa, la parabola di sviluppo<br />

dell’economia del nostro Paese. Laureato a Harvard e guest professor al MIT,<br />

il professor Pizzorno è uno dei più illustri collaboratori del professor Allen. In<br />

Italia egli intende aprire un Centro di Sociologia applicata al settore<br />

pubblicitario dei consumi. Tema <strong>della</strong> sua presente conferenza sarà: “Sviluppo<br />

<strong>della</strong> produzione e incremento dei consumi. Nuove prospettive offerte dalla<br />

conoscenza dell’Io segreto del consumatore”». Stacco. Rientrando a casa dopo<br />

aver firmato una montagna di cambiali per l’acquisto di un televisore nuovo, il<br />

signor Togni viene accolto sulla porta dal figlio Riky, il volto celato da un<br />

fazzoletto chiaro. Bang! Bang! «Fulminato!», scherza Togni: «Oggi chi sei?<br />

Sheppard? Sei Nembo Kid?». «No», fa il bambino con la testa. «Fammi<br />

29


pensare… sei l’Uomo mascherato! Sei Bufalo Bill!». «E chi è?». «E va bene»,<br />

capitola Togni, «ci rinuncio». «SONO PASOLINI!», urla Riky correndo via con<br />

la pistola in pugno. È il 1963, e l’incipit del Pollo ruspante – l’episodio di Ugo<br />

Gregoretti che chiude il film Laviamoci il cervello, altrimenti noto come<br />

Ro.Go.Pa.G. – ha già detto tutto quello che c’è da dire.<br />

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