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Saul Kripke: la teoria del riferimento diretto - Scienze della Formazione

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<strong>Saul</strong> <strong>Kripke</strong>: <strong>la</strong> <strong>teoria</strong> <strong>del</strong> <strong>riferimento</strong> <strong>diretto</strong><br />

[Cfr. W. Lycan, Filosofia <strong>del</strong> Linguaggio, cap. 3, pp. 44-60; cap. 4, pp. 62-76]<br />

[S. <strong>Kripke</strong> (1972), Naming and Necessity: lettura di brani selezionati e tradotti in A. Iacona e E.<br />

Paganini (a cura di)., Filosofia <strong>del</strong> Linguaggio, pp. 151- 176]<br />

Abbiamo visto che, per Frege, sia i nomi propri che le descrizioni definite sono termini<br />

singo<strong>la</strong>ri: il loro <strong>la</strong>voro è quello di contribuire un oggetto al<strong>la</strong> determinazione <strong>del</strong> valore di verità<br />

degli enunciati in cui occorrono. Abbiamo anche visto che, invece, per Russell né le descrizioni<br />

definite, né <strong>la</strong> stragrande maggioranza dei nomi propri sono termini singo<strong>la</strong>ri: Russell pensa<br />

infatti che il loro <strong>la</strong>voro sia quello di contribuire il valore semantico di espressioni quantificate al<strong>la</strong><br />

determinazione <strong>del</strong> valore di verità degli enunciati in cui occorrono.<br />

Nonostante tale netta divergenza riguardo al contributo semantico di nomi propri e<br />

descrizioni definite, però, Frege e Russell sono d’accordo nell’affermare che nomi propri e<br />

descrizioni definite funzionano allo stesso modo: tanto per Frege quanto per Russell, infatti, i nomi<br />

propri non sono che abbreviazioni di descrizioni definite (a rigore, bisognerebbe riconoscere che<br />

solo Russell afferma esplicitamente che i nomi propri sono abbreviazioni di descrizioni definite; ma<br />

non sembra <strong>del</strong> tutto scorretto attribuire tale tesi anche a Frege, dato che egli sostiene che a) il<br />

Senso di un nome proprio è il Senso <strong>del</strong><strong>la</strong> descrizione ad esso associata; e che b) poiché è il Senso a<br />

determinare <strong>la</strong> Denotazione di un’espressione, <strong>la</strong> Denotazione di un nome proprio sarà quel<strong>la</strong>, se<br />

c’è, determinata dal Senso <strong>del</strong><strong>la</strong> descrizione ad esso associata). Ad esempio, il nome proprio “Alice<br />

Cooper” non è che una comoda abbreviazione <strong>del</strong><strong>la</strong> descrizione definita “il famoso cantante shock-<br />

rock”. E’ in virtù anche di tale equivalenza che il contributo semantico dei nomi propri è il<br />

medesimo di quello <strong>del</strong>le descrizioni definite (un oggetto per Frege, e una quantificazione<br />

esistenziale per Russell).<br />

Nel sostenere che i nomi propri sono abbreviazioni di descrizioni definite, e che quindi le<br />

descrizioni definite fanno in un certo senso parte <strong>del</strong> significato dei nomi propri, pur nelle<br />

reciproche divergenze Frege e Russell si opponevano entrambi ad una <strong>teoria</strong> precedente, ovvero<br />

al<strong>la</strong> <strong>teoria</strong> di J. S. Mill. La <strong>teoria</strong> milliana dei nomi propri sosteneva che non c’è null’altro nel<br />

significato di un nome proprio a parte l’oggetto cui il nome si riferisce: il nostro concetto pre-


teorico di significato, re<strong>la</strong>tivamente ai nomi propri, va caratterizzato solo e semplicemente<br />

attraverso <strong>la</strong> nozione di <strong>riferimento</strong>. Ad esempio, il nome proprio “Galileo Galilei” significa (si<br />

riferisce a) l’individuo Galileo Galilei; il nome proprio “Londra” significa (si riferisce a) l’oggetto<br />

Londra. Le immediate, ovvie difficoltà per una <strong>teoria</strong> milliana dei nomi propri non sono che un<br />

aspetto dei problemi che, in generale, avevano spinto Frege a postu<strong>la</strong>re <strong>la</strong> nozione di Senso: il<br />

problema <strong>del</strong>l’informatività, il problema dei contesti indiretti, il problema dei termini<br />

singo<strong>la</strong>ri vuoti.<br />

C’è un altro modo di caratterizzare <strong>la</strong> convergenza di vedute di Frege e Russell riguardo al<br />

significato dei nomi propri. Opponendosi al millianesimo, entrambi tali autori abbracciavano una<br />

<strong>teoria</strong> descrittivista <strong>del</strong> significato dei nomi propri. Nel prossimo paragrafo ci occuperemo di<br />

<strong>del</strong>ineare più in dettaglio tale <strong>teoria</strong>; fare questo ci servirà ad apprezzare il pensiero di <strong>Saul</strong> <strong>Kripke</strong><br />

(n. 1941), l’autore di cui ci occupiamo in questa dispensa. <strong>Kripke</strong>, infatti, muove una serie di<br />

obiezioni decisive alle tesi di Frege e Russell secondo cui nomi propri e descrizioni definite<br />

sarebbero espressioni che si comportano, a livello semantico, allo stesso modo. <strong>Kripke</strong> mostra che<br />

se <strong>la</strong> <strong>teoria</strong> milliana dei nomi propri ha gravi difficoltà, anche il descrittivismo di Frege e Russell<br />

non naviga certo in acque migliori. Cominciamo allora, come annunciato, con il vedere più<br />

precisamente in cosa consista il descrittivismo, ovvero il bersaglio polemico di <strong>Kripke</strong>.<br />

1. Il descrittivismo<br />

L’idea fondamentale che caratterizza il descrittivismo è che <strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione tra un nome<br />

proprio e l’oggetto cui si riferisce non è una re<strong>la</strong>zione diretta, bensì una re<strong>la</strong>zione mediata,<br />

indiretta: <strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione tra un nome proprio e il suo <strong>riferimento</strong> è sempre mediata, infatti, da una<br />

descrizione definita (o più di una, come vedremo). In ciò, il descrittivismo si oppone al<br />

millianesimo, secondo cui invece <strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione di <strong>riferimento</strong> è una re<strong>la</strong>zione diretta.<br />

Cerchiamo allora di chiarire in che senso, per i descrittivisti, <strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione tra un nome e<br />

l’oggetto che esso designa è una re<strong>la</strong>zione indiretta. Se definiamo il <strong>riferimento</strong> in questo modo:<br />

Riferimento: <strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione diretta che c’è tra un nome e l’oggetto di cui esso è nome<br />

e <strong>la</strong> nozione di soddisfazione in questo modo:<br />

Soddisfazione: <strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione che c’è tra una descrizione definita e l’oggetto di cui essa è vera<br />

possiamo dire che il descrittivismo coincide con <strong>la</strong> tesi che <strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione di <strong>riferimento</strong> non è una<br />

re<strong>la</strong>zione primitiva: essa va analizzata nei termini <strong>del</strong><strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione che c’è tra una descrizione definita<br />

e l’oggetto di cui essa è vera. In altri termini, <strong>la</strong> nozione di <strong>riferimento</strong> per i descrittivisti è riducibile


al<strong>la</strong> nozione di soddisfazione. Un sostenitore <strong>del</strong><strong>la</strong> <strong>teoria</strong> milliana, invece, affermerà che <strong>la</strong><br />

re<strong>la</strong>zione di <strong>riferimento</strong> tra un nome proprio e l’oggetto che designa è una re<strong>la</strong>zione primitiva,<br />

ovvero non analizzabile attraverso <strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione di soddisfazione. Possiamo schematizzare il tutto<br />

così:<br />

Teoria descrittivista Teoria milliana<br />

Nome proprio Nome proprio<br />

(associato a; abbreviazione di)<br />

Descrizione definita (<strong>riferimento</strong> in<strong>diretto</strong>) (<strong>riferimento</strong> <strong>diretto</strong>)<br />

(soddisfazione)<br />

Oggetto Oggetto<br />

Siamo allora già in grado di vedere perché Frege e Russell sono dei descrittivisti. Per Frege,<br />

<strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione di <strong>riferimento</strong> esistente tra un nome proprio e l’oggetto che esso designa è una re<strong>la</strong>zione<br />

indiretta: è una re<strong>la</strong>zione mediata da quel<strong>la</strong> esistente tra <strong>la</strong> descrizione definita associata al nome e<br />

l’oggetto di cui essa è vera, cioè dal<strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione di soddisfazione. In altre parole, <strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione di<br />

<strong>riferimento</strong> per Frege è mediata dal<strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione esistente tra il Senso <strong>del</strong> nome – espresso mediante<br />

una descrizione definita – e l’oggetto che il nome designa (<strong>la</strong> Denotazione <strong>del</strong> nome).<br />

Per Russell, analogamente, <strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione di <strong>riferimento</strong> esistente tra un nome proprio e<br />

l’oggetto che esso designa è una re<strong>la</strong>zione indiretta: il nome proprio ha un valore semantico, che è<br />

quello <strong>del</strong><strong>la</strong> descrizione definita che esso abbrevia; tale valore semantico è una quantificazione<br />

esistenziale che è soddisfatta dall’oggetto che è il <strong>riferimento</strong> <strong>del</strong> nome. L’oggetto che il nome<br />

designa non è quindi un oggetto cui il nome si riferisce direttamente; è l’oggetto che soddisfa <strong>la</strong><br />

descrizione definita che abbrevia il nome. Ad esempio, se il nome proprio “Keplero” si riferisce a<br />

Keplero, per Russell, è solo perché “Keplero” abbrevia una descrizione definita quale “Lo<br />

scopritore <strong>del</strong><strong>la</strong> forma ellittica <strong>del</strong>l’orbita dei pianeti”, e tale descrizione definita ha un valore<br />

semantico <strong>del</strong> tipo “Esiste uno e un solo oggetto x che è lo scopritore <strong>del</strong><strong>la</strong> forma ellittica <strong>del</strong>l’orbita<br />

dei pianeti”, il quale è soddisfatto da un unico argomento, ovvero l’oggetto Keplero.<br />

N.B. Non a caso, per Russell, gli unici nomi propri genuini, ovvero gli unici nomi logicamente<br />

propri sono quelli che stanno in una re<strong>la</strong>zione di <strong>riferimento</strong> <strong>diretto</strong> con l’oggetto che essi<br />

designano. Tali nomi logicamente propri sono i dimostrativi “questo” e “quello”, quando sono usati<br />

per riferirsi a dati percettivi immediati, ad esempio per riferirsi a un dato percettivo di bianchezza:


solo in questi casi, infatti, abbiamo una conoscenza diretta (o “acquaintance”, direbbe Russell)<br />

<strong>del</strong>l’oggetto designato, ovvero conosciamo l’oggetto indipendentemente da qualsiasi informazione<br />

lo riguardi. Il nome logicamente proprio non è cioè l’abbreviazione di una descrizione definita, ma<br />

un nome che si riferisce direttamente all’oggetto di cui è nome. Per chiarire questo punto, è bene<br />

marcare il contrasto che per Russell contrappone i nomi propri ordinari (quelli non genuini) ai nomi<br />

logicamente propri. Nomi propri ordinari come “Mario”, “Keplero”, “Londra”, ecc. sono nomi che<br />

apprendiamo/usiamo anche se non abbiamo conoscenza diretta <strong>del</strong>l’oggetto, cioè anche se non<br />

conosciamo mediante esperienza sensibile l’oggetto: apprendiamo/usiamo il nome “Socrate” anche<br />

se nessuno di noi ha potuto avere esperienza diretta di Socrate. Proprio perché non possiamo avere<br />

esperienza diretta <strong>del</strong>l’oggetto designato, i nomi propri ordinari si riferiscono all’oggetto che<br />

designano solo in quanto quell’oggetto “cade sotto una determinata descrizione”: conosciamo<br />

l’oggetto che designano solo in modo in<strong>diretto</strong>, ovvero per mezzo di una descrizione definita. Nel<br />

caso dei nomi logicamente propri, invece, conosciamo l’oggetto (o meglio il dato percettivo) cui si<br />

riferiscono indipendentemente da qualsiasi informazione lo riguardi: ne abbiamo una conoscenza<br />

diretta, ovvero non lo conosciamo per mezzo di una descrizione definita. Proprio perché si<br />

riferiscono direttamente al<strong>la</strong> cosa stessa, non possiamo apprendere/usare tali nomi senza sapere<br />

immediatamente a cosa si riferiscono.<br />

1.1 La <strong>teoria</strong> descrittivista: Frege e Russell<br />

Vista l’idea fondamentale che anima il descrittivismo, procediamo a darne una<br />

caratterizzazione più precisa. Possiamo caratterizzare (una prima versione de) il descrittivismo<br />

come quel<strong>la</strong> posizione teorica riguardo al significato dei nomi propri che sostiene <strong>la</strong> congiunzione<br />

di due tesi, le seguenti:<br />

Teoria descrittivista<br />

(i) Ad ogni nome proprio N è associata una descrizione definita in<br />

grado di determinare l’oggetto cui N si riferisce<br />

(ii) Tale descrizione definita è il significato di N<br />

Anche in questo caso possiamo capire perché Frege e Russell sono dei descrittivisti. Tanto per<br />

Frege quanto per Russell i nomi propri sono abbreviazioni di descrizioni definite: a ciascun nome<br />

proprio è associata una descrizione definita in grado di determinare l’oggetto cui il nome si<br />

riferisce. Tanto per Frege quanto per Russell allora vale <strong>la</strong> tesi (i). Per Frege, inoltre, tale<br />

descrizione definita ci restituisce il Senso <strong>del</strong> nome proprio: dato che il Senso è per Frege ciò che<br />

afferriamo di un’espressione quando <strong>la</strong> comprendiamo, possiamo dire che <strong>la</strong> descrizione definita


associata al nome è il significato <strong>del</strong> nome proprio (o meglio: una componente <strong>del</strong> significato <strong>del</strong><br />

nome proprio; l’altra componente è <strong>la</strong> Denotazione). Per Russell, <strong>la</strong> descrizione definita ci<br />

restituisce, per così dire, <strong>la</strong> reale natura di un nome proprio a livello di forma logica: il valore<br />

semantico <strong>del</strong> nome proprio è il valore semantico <strong>del</strong><strong>la</strong> descrizione definita che abbrevia. Quindi, <strong>la</strong><br />

descrizione definita ci dà il significato <strong>del</strong> nome proprio. Tanto per Frege quanto per Russell allora<br />

vale <strong>la</strong> tesi (ii).<br />

1.2 La <strong>teoria</strong> descrittivista dei concetti agglomerati<br />

La versione <strong>del</strong> descrittivismo <strong>del</strong>ineata sopra non è, in realtà, <strong>la</strong> versione <strong>del</strong> descrittivismo<br />

su cui <strong>Kripke</strong> maggiormente si concentra. Tale versione, infatti, fu soppiantata da una <strong>teoria</strong> più<br />

e<strong>la</strong>borata, nata dall’esigenza di superare alcuni problemi cui il descrittivismo a <strong>la</strong> Frege-Russell<br />

andava incontro. Stiamo par<strong>la</strong>ndo <strong>del</strong><strong>la</strong> <strong>teoria</strong> descrittivista dei concetti agglomerati.<br />

Vediamo innanzitutto quali sono i problemi cui va incontro <strong>la</strong> versione “semplice” <strong>del</strong><br />

descrittivismo. Sono problemi di cui Frege, come abbiamo visto, era consapevole. In primo luogo,<br />

se affermiamo che a ciascun nome proprio è associata una descrizione definita, e quel<strong>la</strong> descrizione<br />

definita è il significato <strong>del</strong> nome, abbiamo il problema di dire qual è questa descrizione. Di fatto,<br />

par<strong>la</strong>nti diversi, ma anche uno stesso par<strong>la</strong>nte in tempi diversi, associano varie e diverse descrizioni<br />

definite allo stesso nome. Il nome proprio “Alice Cooper” sarà ad esempio di volta in volta<br />

equivalente a “Il famoso cantante shock-rock”, “L’ex cantante degli Spiders”, “L’amico di Frank<br />

Zappa”….. Quale di queste descrizioni dobbiamo considerare come significato di “Alice Cooper”?<br />

Se diciamo “tutte”, allora dovremmo dire che i nomi propri cambiano il loro significato a seconda<br />

<strong>del</strong> par<strong>la</strong>nte che li proferisce, o che hanno tanti significati quante sono le descrizioni che di volta in<br />

volta vengono loro associate. Ma questo è imp<strong>la</strong>usibile. In secondo luogo, <strong>la</strong> descrizione definita<br />

associata al nome dovrebbe essere in grado di determinare l’oggetto cui il nome si riferisce. Ma<br />

spesso siamo in grado di descrivere l’oggetto in molti modi diversi: “Mosè” è di volta in volta<br />

equivalente a “L’uomo che ha condotto gli Ebrei attraverso il deserto”, “L’uomo che da bambino<br />

visse al<strong>la</strong> corte <strong>del</strong> faraone”, “L’uomo che fu salvato dalle acque <strong>del</strong> Nilo”, ecc. Qual è allora <strong>la</strong><br />

descrizione definita decisiva per determinare il <strong>riferimento</strong> <strong>del</strong> nome? Tutte? La maggioranza, una<br />

buona parte? Le più importanti? In realtà, come osserva Wittgenstein, ogni possibile descrizione<br />

definita è rilevante, ma nessuna è decisiva: se anche scoprissimo che una descrizione non è vera<br />

<strong>del</strong>l’oggetto, o che più descrizioni non sono vere <strong>del</strong>l’oggetto, non per questo vorremmo concludere<br />

che il nome è privo di <strong>riferimento</strong>. Il che però ripropone <strong>la</strong> domanda precedente, in forma diversa:<br />

quando esattamente dovremmo concludere che il nome è privo di <strong>riferimento</strong>? Quando scopriamo,<br />

ad esempio, che “Mosè” non ha fatto una <strong>del</strong>le cose che gli attribuiamo, quando non ne ha fatte due,<br />

tre, 10? Di più? Le più importanti?


Per far fronte a tali problemi, J. Searle propose <strong>la</strong> Teoria descrittivista dei concetti<br />

agglomerati. Per Searle, ciascun nome proprio è associato non ad una descrizione definita, ma ad<br />

un agglomerato di descrizioni definite, ovvero ad un “insieme” non ben precisabile di descrizioni<br />

definite. In una data comunità linguistica, ovvero in un dato linguaggio L, ciascun nome proprio è<br />

equivalente non ad una singo<strong>la</strong> descrizione ma ad un agglomerato di descrizioni definite, che a<br />

livello formale può essere reso attraverso una disgiunzione di descrizione definite. Ad esempio, il<br />

nome proprio “Aristotele” sarà equivalente a qualcosa come “Il maestro di Alessandro Magno Lo<br />

sco<strong>la</strong>ro di P<strong>la</strong>tone Il filosofo greco nato a Stagira … L’autore <strong>del</strong><strong>la</strong> Metafisica”, dove è<br />

appunto il simbolo per <strong>la</strong> disgiunzione.<br />

Comprendere un nome proprio in quel linguaggio significherà associare a quel nome un<br />

numero sufficiente, ancorché vago e imprecisato, di descrizioni definite facenti parti di<br />

quell’agglomerato. E’ l’agglomerato, e non una singo<strong>la</strong> descrizione, a essere in grado di<br />

determinare l’oggetto cui il nome proprio si riferisce. In base a ciò, possiamo formu<strong>la</strong>re <strong>la</strong> Teoria<br />

descrittivista dei concetti agglomerati come <strong>la</strong> congiunzione di due tesi, così:<br />

Teoria descrittivista dei concetti agglomerati<br />

(i) Ad ogni nome proprio N è associato un agglomerato di descrizioni definite in<br />

grado di determinare l’oggetto cui N si riferisce<br />

(ii) Tale agglomerato di descrizioni definite è il significato di N<br />

Potrebbe sembrare che, così riformu<strong>la</strong>to, il descrittivismo risulti meglio equipaggiato contro i<br />

problemi menzionati sopra. Infatti, non c’è più il problema di scegliere quale, tra le varie descrizioni<br />

definite, sia quel<strong>la</strong> che è il significato <strong>del</strong> nome, o, alternativamente, di dover sostenere che il nome<br />

ha un significato diverso a seconda <strong>del</strong> par<strong>la</strong>nte che lo usa; nel linguaggio L, ciascun nome proprio<br />

significa <strong>la</strong> disgiunzione <strong>del</strong>le descrizioni definite che <strong>la</strong> comunità dei par<strong>la</strong>nti associa a quel nome.<br />

Analogamente, non c’è più il problema di dire quale sia <strong>la</strong> descrizione definita deputata a svolgere il<br />

ruolo di determinante <strong>del</strong> <strong>riferimento</strong>; l’agglomerato è ora ciò che svolge quel <strong>la</strong>voro.<br />

In realtà, nemmeno così riformu<strong>la</strong>to, il descrittivismo è al riparo da serie obiezioni. Come<br />

<strong>Kripke</strong> ha avuto il merito di mostrare, è l’intera rappresentazione descrittiva dei nomi propri<br />

ad essere sbagliata. Vediamo, allora, in cosa consistono le critiche di <strong>Kripke</strong> al<strong>la</strong> <strong>teoria</strong> descrittiva.<br />

2. Gli argomenti di <strong>Kripke</strong> contro il descrittivismo<br />

In una serie di tre lezioni tenute a Princeton nel 1970, poi raccolte nel libro Nome e<br />

Necessità (1972), <strong>Kripke</strong> sferrò una serie di attacchi decisivi contro il descrittivismo. Tali attacchi


possono essere raggruppati in tre tipologie: <strong>Kripke</strong> confuta il descrittivismo attraverso argomenti di<br />

tipo 1) modale, 2) semantico, e 3) epistemico.<br />

Gli argomenti di tipo 1) e 3) sono diretti a confutare <strong>la</strong> tesi (ii) <strong>del</strong> descrittivismo. A tale<br />

tesi <strong>Kripke</strong> oppone <strong>la</strong> tesi <strong>del</strong><strong>la</strong> rigidità dei nomi propri: contrariamente a quanto sostenevano<br />

Frege e Russell, per <strong>Kripke</strong> nomi propri e descrizioni definite non si comportano affatto allo<br />

stesso modo.<br />

L’argomento di tipo 2), invece, serve a confutare <strong>la</strong> tesi (i) <strong>del</strong> descrittivismo: a tale tesi<br />

<strong>Kripke</strong> risponde con <strong>la</strong> <strong>teoria</strong> <strong>del</strong> <strong>riferimento</strong> <strong>diretto</strong> e con <strong>la</strong> <strong>teoria</strong> causale <strong>del</strong> <strong>riferimento</strong>.<br />

Per comprendere bene le critiche di <strong>Kripke</strong> al descrittivismo, abbiamo bisogno di chiarire<br />

preliminarmente le seguenti distinzioni:<br />

a) verità necessaria ≠ verità contingente<br />

Verità necessaria. Consideriamo gli enunciati:<br />

(1) Due più due fa quattro<br />

(2) Tutti gli scapoli sono uomini non sposati<br />

(1) e (2) sono chiaramente enunciati veri. Ora chiediamoci: le cose avrebbero potuto andare in<br />

maniera tale da far risultare l’enunciato (1) falso? Ci sono cioè circostanze possibili in cui 2+2 non<br />

faccia 4? E analogamente: potrebbe accadere che gli scapoli siano uomini sposati, ci sono cioè<br />

circostanze possibili in grado di falsificare l’enunciato (2)? La risposta, in entrambi i casi, è<br />

negativa: anche se il mondo fosse diverso da come è adesso (anche se <strong>la</strong> storia <strong>del</strong> mondo avesse<br />

seguito tutt’altro corso), 2+2 farebbe sempre 4 e gli scapoli sarebbero ancora uomini non sposati.<br />

Non ci sono, cioè, circostanze che possono rendere falsi questi enunciati.<br />

Le verità espresse da (1) e (2) sono verità necessarie: (1) e (2) sono necessariamente veri. Se<br />

un enunciato è necessariamente vero, non ci sono circostanze possibili in grado di falsificarlo (e<br />

analogamente: se un enunciato è necessariamente falso, non è possibile vi siano circostanze che lo<br />

rendono vero).<br />

<strong>Kripke</strong> esprime <strong>la</strong> nozione di necessità ricorrendo al<strong>la</strong> nozione di mondo logicamente<br />

possibile, o più semplicemente di “mondo possibile”. Il mondo così come lo conosciamo, ovvero il<br />

mondo attuale (wa) in cui Obama è l’attuale presidente degli Usa, <strong>la</strong> Disney fa cartoni animati, <strong>la</strong><br />

Bellucci è tanto bel<strong>la</strong> quanto poco portata per <strong>la</strong> recitazione – è, di fatto, solo uno dei mondi che<br />

avrebbero potuto darsi, ovvero solo uno tra i tanti mondi possibili. Un mondo identico all’attuale,


ma in cui è H. Clinton ad essere l’attuale presidente degli Usa, è un mondo possibile; un mondo<br />

identico all’attuale, ma in cui <strong>la</strong> Disney produce solo film per adulti e <strong>la</strong> Bellucci ha vinto un Oscar<br />

come miglior attrice nel 2009 è un altro mondo possibile; un mondo in cui accadono tutte queste<br />

cose e in più <strong>la</strong> Francia è attualmente una monarchia che ha ridotto in schiavitù Europa ed Asia, è<br />

un altro mondo possibile ancora. Indichiamo i vari mondi possibili con una w (dall’inglese world)<br />

seguita da un numero: w1, w2, w3, … In base a tale nozione, dicevamo, <strong>Kripke</strong> definisce quel<strong>la</strong> di<br />

necessità in questo modo:<br />

Verità necessaria: verità che è tale non solo nel mondo attuale, ma in tutti i mondi<br />

logicamente possibili<br />

Verità contingente. Consideriamo gli enunciati:<br />

(3) L’Italia ha vinto i mondiali nel 2006<br />

(4) Obama è il presidente degli USA<br />

(3) e (4) sono veri. Ora chiediamoci: le cose avrebbero potuto andare in modo tale da rendere falsi<br />

questi due enunciati? Sarebbe stato possibile, cioè, che l’Italia non avesse vinto i mondiali, o che<br />

qualcun altro, e non Obama, fosse stato eletto presidente degli Usa? La risposta è che sì, sarebbe<br />

stato possibile. Nonostante (3) e (4) siano enunciati attualmente veri, nonostante sia vero cioè che<br />

l’Italia ha vinto i mondiali nel 2006 e che Obama è il presidente degli Usa, non c’è nessuna<br />

contraddizione nell’ammettere che le cose sarebbero potute andare diversamente: <strong>la</strong> Francia, e non<br />

l’Italia avrebbe potuto vincere i mondiali; <strong>la</strong> Clinton, e non Obama, avrebbe potuto essere eletta al<strong>la</strong><br />

presidenza degli Usa.<br />

In termini di mondi possibili, possiamo riformu<strong>la</strong>re quanto appena detto affermando che<br />

nonostante i due enunciati siano veri nel mondo attuale wa, ci sono mondi possibili w1, …, wi in<br />

cui essi sono falsi. Possiamo allora definire <strong>la</strong> verità contingente in questo modo:<br />

Verità contingente: verità che è tale nel mondo attuale, ma non in tutti i mondi<br />

logicamente possibili<br />

b) verità analitica ≠ verità sintetica<br />

Tale distinzione è collegata a quel<strong>la</strong> tra verità necessarie e contingenti, ma non<br />

perfettamente sovrapponibile.<br />

Verità analitica. Un enunciato è analiticamente vero se e solo se è vero esclusivamente in virtù


<strong>del</strong> significato dei suoi costituenti. Ad esempio:<br />

(5) Tutti gli scapoli sono uomini non sposati<br />

Ci basta conoscere il significato di “scapolo” e degli altri costituenti <strong>del</strong>l’enunciato per sapere che<br />

(5) è vero. Kant diceva che un enunciato è analiticamente vero quando il concetto <strong>del</strong> predicato è<br />

già contenuto nel concetto <strong>del</strong> soggetto.<br />

Verità sintetica. Un enunciato è sinteticamente vero se e solo se è vero non esclusivamente in<br />

virtù <strong>del</strong> significato dei suoi costituenti. In altre parole, per decidere che l’enunciato è vero,<br />

dobbiamo andare a vedere cosa succede nel mondo, non ci basta conoscere il significato dei suoi<br />

costituenti. Ad esempio:<br />

(6) Bush era presidente degli USA nel 2006<br />

Non ci basta conoscere il significato di “Bush” o degli altri costituenti <strong>del</strong>l’enunciato per sapere che<br />

(6) è vero. Dobbiamo andare a control<strong>la</strong>re nel mondo se (6) è vero o falso. Kant diceva che un<br />

enunciato è sinteticamente vero quando il concetto <strong>del</strong> predicato non è già contenuto nel concetto<br />

<strong>del</strong> soggetto.<br />

N.B. Come accennato, potrebbe sembrare che le distinzioni a) e b) siano sovrapponibili. In realtà,<br />

mentre sembra non controverso che tutte le verità analitiche siano necessarie, c’è disputa sul<strong>la</strong><br />

questione se tutte le verità necessarie siano anche verità analitiche (ad esempio, Kant riteneva che<br />

“2+2=4” fosse un enunciato necessario, ma non analitico).<br />

Precisate tali distinzioni, possiamo affrontare le critiche di <strong>Kripke</strong> al descrittivismo, che per<br />

brevità considereremo direttamente nel<strong>la</strong> sua versione <strong>del</strong><strong>la</strong> <strong>teoria</strong> dei concetti agglomerati (a meno<br />

di esplicite segna<strong>la</strong>zioni).<br />

2.1 Argomento modale<br />

La modalità di una certa proposizione p è il modo in cui p è vera: se p è vera, può essere<br />

necessariamente vera, o vera in modo contingente. Il punto generale <strong>del</strong>l’argomento modale è che<br />

se accettiamo <strong>la</strong> tesi descrittivista (ii) secondo cui ciascun nome proprio è sinonimo di un<br />

agglomerato di descrizioni definite, finiamo per avere conseguenze inaccettabili dal punto di vista<br />

modale: finiamo per considerare analitici, e quindi necessari, enunciati che non sono tali.<br />

Supponiamo allora, come vogliono i descrittivisti, che il nome proprio “Aristotele” sia


sinonimo (cioè abbia lo stesso significato) <strong>del</strong><strong>la</strong> disgiunzione “Il maestro di Alessandro Magno <br />

Lo sco<strong>la</strong>ro di P<strong>la</strong>tone Il filosofo greco nato a Stagira L’autore <strong>del</strong><strong>la</strong> Metafisica”<br />

(semplifichiamo un po’ le cose e supponiamo che le descrizioni <strong>del</strong>l’agglomerato siano solo<br />

queste). Consideriamo allora il seguente enunciato:<br />

(7) Aristotele è il maestro di Alessandro Magno oppure lo sco<strong>la</strong>ro di P<strong>la</strong>tone oppure il<br />

filosofo greco nato a Stagira oppure l’autore <strong>del</strong><strong>la</strong> Metafisica<br />

Se “Aristotele” è sinonimo <strong>del</strong>l’agglomerato “Il maestro di Alessandro Magno Lo sco<strong>la</strong>ro di<br />

P<strong>la</strong>tone Il filosofo greco nato a Stagira L’autore <strong>del</strong><strong>la</strong> Metafisica”, allora per il Principio di<br />

Sostituibilità dobbiamo poter sostituire l’una all’altra tali espressioni in (7) e ottenere un enunciato<br />

perfettamente equivalente a (7). Il risultato <strong>del</strong><strong>la</strong> sostituzione è:<br />

(8) Il maestro di Alessandro Magno oppure lo sco<strong>la</strong>ro di P<strong>la</strong>tone oppure il filosofo greco<br />

nato a Stagira oppure l’autore <strong>del</strong><strong>la</strong> Metafisica è il maestro di Alessandro Magno oppure<br />

lo sco<strong>la</strong>ro di P<strong>la</strong>tone oppure il filosofo greco nato a Stagira oppure l’autore <strong>del</strong><strong>la</strong><br />

Metafisica<br />

Ora, (8) è un enunciato analitico: non abbiamo bisogno di control<strong>la</strong>re come stanno le cose nel<br />

mondo per sapere che è vero, ci è sufficiente essere competenti nell’italiano. Ma se è analitico,<br />

allora è necessariamente vero (è una tesi generalmente accettata che tutti gli enunciati analitici siano<br />

anche enunciati necessari). Ma se (8) è equivalente a (7), allora dobbiamo avere che anche (7) è<br />

analitico, e quindi necessario. Ma questo è assurdo: il fatto che Aristotele sia stato il maestro di<br />

Alessandro Magno, lo sco<strong>la</strong>ro di P<strong>la</strong>tone ecc. è un fatto contingente. Ci sono cioè mondi possibili in<br />

cui Aristotele non è né il maestro di Alessandro Magno, né lo sco<strong>la</strong>ro di P<strong>la</strong>tone, né un filosofo<br />

greco, e nemmeno l’autore <strong>del</strong><strong>la</strong> Metafisica. In altre parole, (7) è un enunciato contingente.<br />

Quindi, se accettiamo il descrittivismo (in partico<strong>la</strong>re, <strong>la</strong> tesi (ii)) e se accettiamo il Principio<br />

di Sostituibilità, finiamo per dover dire che sono analitici, e quindi necessari, enunciati come (7) che<br />

invece sono chiaramente contingenti. Quindi, <strong>del</strong>le due l’una: o rifiutiamo il Principio di<br />

Sostituibilità, o rifiutiamo <strong>la</strong> tesi descrittivista secondo cui i nomi propri sono sinonimi di<br />

agglomerati di descrizioni definite. Ma rifiutare il Principio di Sostituibilità è una mossa da<br />

escludere; quindi, è <strong>la</strong> tesi descrittivista (ii) che deve essere abbandonata.<br />

2.2 Argomento semantico<br />

L’argomento semantico attacca, invece, <strong>la</strong> tesi (i) <strong>del</strong> descrittivismo: <strong>la</strong> tesi secondo cui ogni<br />

nome proprio è associato ad un agglomerato di descrizioni definite in grado di determinare il<br />

<strong>riferimento</strong> <strong>del</strong> nome proprio. Ad esempio, per il descrittivismo il <strong>riferimento</strong> di Aristotele,


l’oggetto cioè che il nome designa, è quell’oggetto (se c’è) che soddisfa l’agglomerato “Il maestro<br />

di Alessandro Magno Lo sco<strong>la</strong>ro di P<strong>la</strong>tone Il filosofo greco nato a Stagira … L’autore<br />

<strong>del</strong><strong>la</strong> Metafisica”. Consideriamo allora il seguente caso:<br />

Caso di Gö<strong>del</strong>/Schmidt: E’ noto che Gö<strong>del</strong> fu il logico che per primo dimostrò<br />

l’incompletezza <strong>del</strong><strong>la</strong> matematica. Per un descrittivista (ragioniamo qui per comodità con <strong>la</strong><br />

versione semplice <strong>del</strong> descrittivismo) l’oggetto cui il nome proprio “Gö<strong>del</strong>” si riferisce sarà allora<br />

l’oggetto che soddisfa <strong>la</strong> descrizione definita “Il logico che ha dimostrato l’incompletezza<br />

<strong>del</strong>l’aritmetica”. Immaginiamo, però, che improvvisamente si scopra che l’incompletezza<br />

<strong>del</strong>l’aritmetica è stata dimostrata non da Gö<strong>del</strong>, ma da un certo Schmidt. Gö<strong>del</strong> si è limitato a<br />

sottrargli il manoscritto e a far passare per sua <strong>la</strong> dimostrazione. Nello scenario descritto, dice<br />

<strong>Kripke</strong>, un descrittivista è costretto a dire che il nome proprio “Gö<strong>del</strong>” si riferisce – e si è sempre<br />

riferito, all’insaputa dei par<strong>la</strong>nti – all’individuo Schmidt, e non all’individuo Gö<strong>del</strong>: è infatti<br />

Schmidt, e non Gö<strong>del</strong>, l’oggetto che soddisfa <strong>la</strong> descrizione definita “Il logico che ha dimostrato<br />

l’incompletezza <strong>del</strong>l’aritmetica”. Ma questo è assurdo: nello scenario descritto vorremmo piuttosto<br />

continuare a usare “Gö<strong>del</strong>” per riferirci a Gö<strong>del</strong>: vorremmo dire non che “Gö<strong>del</strong>” non si riferisce<br />

più a Gö<strong>del</strong>, ma semplicemente che Gö<strong>del</strong> non ha fatto le cose che credevamo. Dato che <strong>la</strong> tesi<br />

descrittivista (i) conduce a conseguenze inaccettabili, cioè al<strong>la</strong> conseguenza che, nello scenario<br />

ipotizzato, “Gö<strong>del</strong>” si riferisce a Schmidt anziché a Gö<strong>del</strong> (come intuitivamente invece vorremmo<br />

dire), <strong>la</strong> tesi descrittivista (i) va rigettata.<br />

Più nello specifico, si consideri quanto segue. Una proprietà è una condizione sufficiente per<br />

un’altra proprietà quando tutto ciò che ha <strong>la</strong> prima proprietà ha anche <strong>la</strong> seconda (ad esempio, <strong>la</strong><br />

proprietà di essere padre è condizione sufficiente per avere anche <strong>la</strong> proprietà di essere genitore). Se<br />

è così, il caso di Gö<strong>del</strong>/Schmidt dimostra che essere l’oggetto che soddisfa le descrizioni definite<br />

associate al nome proprio non è una condizione sufficiente a fare <strong>del</strong>l’oggetto il <strong>riferimento</strong> <strong>del</strong><br />

nome proprio: Schmidt è quell’unico oggetto che soddisfa <strong>la</strong> descrizione associata al nome “Gö<strong>del</strong>”,<br />

eppure non è il <strong>riferimento</strong> di quest’ultimo.<br />

Se il caso di Gö<strong>del</strong>/Schmidt dimostra che non è sufficiente, per poter dire che un oggetto è il<br />

<strong>riferimento</strong> di un nome proprio, che quell’oggetto abbia <strong>la</strong> proprietà di soddisfare le descrizioni<br />

definite associate al nome proprio, i casi seguenti dimostrano che avere tale proprietà non è<br />

nemmeno una condizione necessaria perché l’oggetto sia il <strong>riferimento</strong> <strong>del</strong> nome, dove una<br />

proprietà è condizione necessaria ad un’altra proprietà quando tutto ciò che non ha <strong>la</strong> prima<br />

proprietà non ha nemmeno <strong>la</strong> seconda (ad esempio, essere padre è condizione necessaria – ma non


sufficiente – per essere nonno):<br />

Caso di Richard Feynman e caso di Cicerone: Comunemente, i par<strong>la</strong>nti ordinari non sono in<br />

grado di associare ai nomi propri “Richard Feynman” e “Cicerone” nul<strong>la</strong> più che descrizioni come,<br />

rispettivamente, “un fisico”, “un fisico famoso”, o “un fisico o qualcosa <strong>del</strong> genere”, e “un famoso<br />

oratore romano”. Come si vede, tali descrizioni non sono nemmeno descrizioni definite: esse sono<br />

certamente soddisfatte da più di un individuo (di fisici famosi e di oratori romani ce ne sono<br />

diversi). Eppure, sembra proprio che anche il par<strong>la</strong>nte ordinario riesca a riferirsi a Richard Feynman<br />

e a Cicerone quando usa i loro nomi. Possiamo ad esempio immaginare un uomo, che sul conto di<br />

Feynman non saprebbe dire altro che era un famoso fisico, dire al padre “Stasera al<strong>la</strong> tv intervistano<br />

Feynman”. In un caso <strong>del</strong> genere, sembra p<strong>la</strong>usibile dire che, nonostante tutto, il par<strong>la</strong>nte riesce a<br />

riferirsi all’individuo Feynman. Quindi, non è necessario che un oggetto soddisfi univocamente le<br />

descrizioni definite associate al nome proprio per essere il <strong>riferimento</strong> di quel nome: nel caso di<br />

“Feynman” e in quello di “Cicerone”, le descrizioni mediamente associate a tali nomi non sono<br />

soddisfatte da un unico individuo, eppure i par<strong>la</strong>nti riescono lo stesso a riferirsi all’oggetto<br />

(all’individuo Feynman, e all’individuo Cicerone).<br />

Ergo, l’argomento semantico dimostra che <strong>la</strong> tesi (i) dei descrittivisti non è sostenibile. Più<br />

nello specifico, dimostra che il fatto che un oggetto abbia <strong>la</strong> proprietà di soddisfare alle descrizioni<br />

definite associate ad un nome proprio non è una condizione né necessaria né sufficiente affinché<br />

quell’oggetto abbia <strong>la</strong> proprietà di essere il <strong>riferimento</strong> <strong>del</strong> nome proprio.<br />

2.3 Argomento epistemico<br />

L’aggettivo “epistemico” ci dice che questo argomento concerne l’ambito <strong>del</strong><strong>la</strong><br />

conoscenza. Per comprenderlo bene, allora, abbiamo bisogno di rivedere <strong>la</strong> distinzione:<br />

c) verità a priori ≠ verità a posteriori<br />

Verità a priori. Sono verità a priori tutte quelle verità conoscibili indipendentemente<br />

dall’esperienza. Ad esempio, i seguenti enunciati sono veri a priori:<br />

(5) Tutti gli scapoli sono uomini non sposati<br />

(9) Un oggetto o è identico a se stesso<br />

Verità a posteriori. Verità che non sono conoscibili indipendentemente dall’esperienza. Ad<br />

esempio, il seguente enunciato è vero a posteriori:


(6) Bush era presidente degli USA nel 2006<br />

La verità di (6), infatti, è una verità che posso conoscere solo sapendo come sono andate le cose<br />

(quindi, attraverso l’esperienza).<br />

N.B. La distinzione tra verità necessarie e verità contingenti è una distinzione metafisica:<br />

riguarda il modo in cui le cose sono, o avrebbero potuto essere, oggettivamente. La distinzione<br />

invece tra verità a priori e verità a posteriori è una distinzione epistemica: riguarda il modo in<br />

cui le cose sono o possono essere conosciute da noi. Riguarda cioè <strong>la</strong> nostra conoscenza <strong>del</strong>le cose,<br />

non come le cose sono in loro stesse, oggettivamente.<br />

Veniamo allora all’argomento epistemico. In generale, sembra <strong>del</strong> tutto p<strong>la</strong>usibile assumere<br />

che se due enunciati hanno lo stesso significato, allora hanno lo stesso profilo epistemico, cioè <strong>la</strong><br />

loro verità (o falsità) è conosciuta esattamente allo stesso modo: se l’enunciato e1 ha lo stesso<br />

significato di e2, e se conosciamo <strong>la</strong> verità di e1 a priori, allora anche <strong>la</strong> verità di e2 sarà tale da poter<br />

essere conosciuta a priori. Ma, osserva <strong>Kripke</strong>, se uniamo tale assunzione p<strong>la</strong>usibile al<strong>la</strong> tesi<br />

descrittivista (ii), abbiamo conseguenze spiacevoli dal punto di vista epistemico. Si consideri,<br />

infatti, il seguente enunciato:<br />

(10) Espero è <strong>la</strong> prima stel<strong>la</strong> visibile <strong>la</strong> sera<br />

(10) è certamente un enunciato vero, e vero a posteriori. Assumiamo ora, come vuole il<br />

descrittivista, che “Espero” sia sinonimo di “La prima stel<strong>la</strong> visibile <strong>la</strong> sera”. Ma se è così, devo<br />

poter sostituire queste espressioni l’una all’altra in (10) senza che, per l’assunzione di partenza, (10)<br />

cambi il proprio profilo epistemico. Sostituiamo allora “La prima stel<strong>la</strong> visibile <strong>la</strong> sera” a “Espero”<br />

in (10), e vediamo che succede. Otteniamo il seguente enunciato:<br />

(11) La prima stel<strong>la</strong> visibile <strong>la</strong> sera è <strong>la</strong> prima stel<strong>la</strong> visibile <strong>la</strong> sera<br />

(11), contrariamente a (10), è vero sì, ma vero a priori. Dato che (11) non ha lo stesso profilo<br />

epistemico di (10), e dato che l’assunzione di partenza sembra non criticabile, ad essere errata deve<br />

essere <strong>la</strong> tesi descrittivista (ii) – cioè <strong>la</strong> tesi che ci ha spinto a considerare come sinonimi (10) e (11).<br />

3. La rigidità dei nomi propri<br />

3.1 Rigidità dei nomi propri vs. non rigidità <strong>del</strong>le descrizioni definite<br />

Cos’è che, per <strong>Kripke</strong>, i descrittivisti non avevano capito? Pensate al<strong>la</strong> struttura degli


argomenti modale e epistemico. Il nocciolo di tali argomenti è far vedere che <strong>la</strong> tesi descrittivista<br />

secondo cui ciascun nome proprio è sinonimo di una o più descrizioni definite conduce a<br />

conseguenze inaccettabili sul piano <strong>del</strong>lo statuto modale e epistemico <strong>del</strong><strong>la</strong> verità di certi enunciati.<br />

Ciò che i descrittivisti non avevano capito, allora, è che i nomi propri non si comportano allo<br />

stesso modo <strong>del</strong>le descrizioni definite. I nomi propri non sono sinonimi di descrizioni definite<br />

perché queste due c<strong>la</strong>ssi di espressioni funzionano in modo molto diverso l’una dall’altra: i nomi<br />

propri, dice <strong>Kripke</strong>, sono designatori rigidi; le descrizioni definite, invece, sono designatori non<br />

rigidi.<br />

In generale, <strong>Kripke</strong> definisce designatore rigido qualsiasi espressione che abbia il<br />

medesimo <strong>riferimento</strong> in tutti i mondi logicamente possibili. Come tutti gli altri nomi propri, il<br />

nome proprio “Aristotele” è un designatore rigido perché si riferisce all’individuo Aristotele in tutti<br />

i mondi possibili, cioè al medesimo individuo che, nel mondo attuale, è stato chiamato Aristotele.<br />

La descrizione definita “il maestro di Alessandro Magno”, invece, come tutte le altre descrizioni<br />

definite è un designatore non rigido perché non si riferisce al medesimo individuo in tutti i mondi<br />

possibili: nel mondo wa si riferisce ad Aristotele, ma è possibile che in w1 (mettiamo) si riferisca a<br />

Tizio, in w2 a Caio, in w3.. e così via. “Aristotele” si riferisce ad Aristotele in tutti i mondi possibili;<br />

“il maestro di Alessandro Magno”, invece, si riferisce, in ciascun mondo, all’individuo che è il<br />

maestro di Alessandro Magno in quel mondo.<br />

La distinzione tra designatori rigidi (i nomi propri) e designatori non rigidi (le descrizioni<br />

definite) permette allora di spiegare in modo adeguato il contrasto tra l’enunciato:<br />

e l’enunciato:<br />

(1) Aristotele è il maestro di Alessandro Magno<br />

(2) Il maestro di Alessandro Magno è il maestro di Alessandro Magno<br />

Certamente vogliamo ancora dire che (2) è analitico, e necessario: in ogni mondo possibile<br />

l’individuo che è il maestro di A. Magno in quel mondo, è l’individuo che è il maestro di A. Magno<br />

in quel mondo. Ma (1) risulta ora, come desiderato, sintetico e contingente: sintetico perché non c’è<br />

nul<strong>la</strong> nel significato di “Aristotele” che ci dica che Aristotele è il maestro di A. Magno;<br />

contingente, perché se “Aristotele” si riferisce ad Aristotele in tutti i mondi, non in tutti i mondi <strong>la</strong><br />

descrizione definita “il maestro di Alessandro Magno” si riferisce ad Aristotele: non in tutti i mondi,<br />

cioè, Aristotele è il maestro di A. Magno. Vale a dire, ci sono mondi wi in cui Aristotele non è il<br />

maestro di A. Magno, i.e. mondi in cui (1) è falso. Ma se è così, (1) è contingente.


N.B. Quando <strong>Kripke</strong> dice che “Aristotele” si riferisce ad Aristotele in tutti i mondi, non<br />

vuole dire che il nome proprio “Aristotele” non avrebbe potuto essere usato per riferirsi ad un<br />

individuo diverso da Aristotele; vuole dire soltanto che, una volta chiamato l’individuo Aristotele<br />

col nome “Aristotele” nel mondo attuale wa, quell’individuo rimane Aristotele in tutti i mondi.<br />

Usiamo cioè il nome “Aristotele” per riferirci al medesimo individuo sia quando parliamo <strong>del</strong><br />

mondo attuale, sia quando parliamo di altri mondi possibili (ovvero, di situazioni contro-fattuali).<br />

<strong>Kripke</strong> scrive che “i mondi possibili sono stipu<strong>la</strong>ti, non scoperti con potenti telescopi” (p.<br />

160). Con ciò egli sottolinea il fatto che non dobbiamo pensare ai mondi possibili in termini<br />

qualitativi, cioè nei termini <strong>del</strong>le proprietà e re<strong>la</strong>zioni che descrivono gli oggetti che stanno in quei<br />

mondi, come se i mondi possibili fossero appunto dei pianeti che noi osserviamo di lontano e poi<br />

descriviamo: altrimenti quando parliamo di situazioni contro-fattuali che riguardano, ad esempio,<br />

Aristotele, saremo costretti ad andare a cercare, in ciascun mondo possibile, non Aristotele ma per<br />

così dire l’individuo che, in quel mondo, più gli somiglia. Quando ci chiediamo se Aristotele<br />

avrebbe potuto non essere il maestro di Alessandro Magno, non ci stiamo chiedendo se<br />

avrebbe potuto non essere il maestro di A. Magno un individuo simile ad Aristotele (altrimenti<br />

<strong>la</strong> nostra domanda avrebbe risposte diverse a seconda che annoverassimo o no l’essere stato il<br />

maestro di A. Magno fra le proprietà rilevanti per decidere chi, in questo o quel mondo, assomigli di<br />

più ad Aristotele): ce lo stiamo chiedendo di Aristotele, ovvero <strong>del</strong>l’individuo che chiamiamo<br />

“Aristotele” nel mondo attuale. In poche parole, gli individui che si trovano nei mondi possibili<br />

sono esattamente quelli che “ci mettiamo” noi quando facciamo le nostre ipotesi contro-fattuali.<br />

3.2 Enunciati necessari a posteriori<br />

La tesi <strong>del</strong><strong>la</strong> rigidità dei nomi propri ha conseguenze importanti per quanto riguarda i<br />

rapporti tra verità necessarie e verità a priori. Prima di <strong>Kripke</strong>, <strong>la</strong> tendenza diffusa era quel<strong>la</strong> di<br />

pensare che tutte le verità necessarie fossero anche verità a priori. Il ragionamento che si faceva può<br />

essere ricostruito come segue:<br />

Argomento tradizionale per <strong>la</strong> tesi: e necessariamente vero → e vero a priori<br />

(1) Se un enunciato è necessariamente vero, allora è vero in tutti i mondi logicamente<br />

possibili<br />

(2) Ma se è vero in tutti i mondi, allora è vero indipendentemente dalle caratteristiche<br />

empiriche di ciascun mondo, compreso il mondo attuale<br />

(3) Ma allora, <strong>la</strong> verità di quell’enunciato sarà conoscibile indipendentemente dalle<br />

caratteristiche empiriche di ciascun mondo, compreso il mondo attuale<br />

(4) Ma se <strong>la</strong> verità di quell’enunciato è conoscibile indipendentemente dalle caratteristiche


empiriche di ogni mondo, allora essa è conoscibile a priori________________<br />

(5) Quindi, se un enunciato è necessariamente vero, esso è anche vero a priori<br />

<strong>Kripke</strong> confuta tale argomento facendo vedere che, in realtà, ci sono enunciati che pur essendo<br />

necessariamente veri, sono veri a posteriori. Il ragionamento di <strong>Kripke</strong> è il seguente. Siano N e M<br />

nomi propri. Supponiamo, inoltre, che “N è M” sia vero: se è così, allora N si riferisce allo stesso<br />

oggetto cui si riferisce M, diciamo x. Data <strong>la</strong> tesi <strong>del</strong><strong>la</strong> rigidità dei nomi propri, N si riferirà ad x<br />

in tutti i mondi possibili; analogamente, M si riferirà ad x in tutti i mondi possibili. Ma allora “N è<br />

M” oltre ad essere vero è necessariamente vero. Nonostante ciò, l’enunciato sarà a posteriori:<br />

abbiamo infatti bisogno di vedere come stanno le cose nel mondo per sapere che l’oggetto cui N si<br />

riferisce è il medesimo cui si riferisce M.<br />

Chiariamo tale ragionamento con un esempio. Sia N il nome proprio “Espero”, e M il nome<br />

proprio “Fosforo”. Consideriamo allora il seguente enunciato:<br />

(12) Espero è Fosforo<br />

Sappiamo, a posteriori, che (12) è un enunciato vero: l’astronomia ci dice che, in effetti, l’oggetto<br />

cui i due nomi si riferiscono è lo stesso, ovvero il pianeta Venere. Data <strong>la</strong> tesi <strong>del</strong><strong>la</strong> rigidità dei nomi<br />

propri, però, “Espero” si riferisce al pianeta Venere in tutti i mondi possibili, e lo stesso vale per<br />

“Fosforo”. Ma se “Espero” e “Fosforo” si riferiscono al pianeta Venere in tutti i mondi possibili,<br />

allora (12) è vero in tutti i mondi possibili, vale a dire, (12) è necessariamente vero. (12) è quindi un<br />

enunciato necessario a posteriori: esprime una verità che è tale in tutti i mondi, anche se non c’è<br />

modo di conoscere tale verità se non attraverso l’esperienza.<br />

4. La <strong>teoria</strong> <strong>del</strong> <strong>riferimento</strong> <strong>diretto</strong><br />

Abbiamo detto che l’idea fondamentale che caratterizza il descrittivismo è che <strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione<br />

tra un nome proprio e l’oggetto cui si riferisce non è una re<strong>la</strong>zione diretta, bensì una re<strong>la</strong>zione<br />

mediata, indiretta: <strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione tra un nome proprio e il suo <strong>riferimento</strong> è sempre mediata, infatti, da<br />

una descrizione definita. Equivalentemente, possiamo dire che l’idea fondamentale che caratterizza<br />

il descrittivismo è che <strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione di <strong>riferimento</strong> non è una re<strong>la</strong>zione primitiva: essa va analizzata<br />

nei termini <strong>del</strong><strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione che c’è tra una descrizione definita e l’oggetto di cui essa è vera, ovvero<br />

nei termini <strong>del</strong><strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione di soddisfazione.<br />

Confutando, mediante l’argomento semantico, <strong>la</strong> validità <strong>del</strong><strong>la</strong> tesi descrittivista (i), <strong>Kripke</strong><br />

confuta al<strong>la</strong> radice <strong>la</strong> viabilità di tale idea descrittivista. Se infatti le descrizioni definite associate ad<br />

un nome proprio non sono condizioni né necessarie né sufficienti a determinare l’oggetto cui il


nome si riferisce (se, cioè, <strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione di <strong>riferimento</strong> tra il nome e l’oggetto che esso designa non<br />

può e non deve essere analizzata attraverso <strong>la</strong> re<strong>la</strong>zione di soddisfazione), allora il nome proprio si<br />

riferisce all’oggetto che esso designa in maniera diretta, immediata. Ecco perché chiamiamo <strong>la</strong><br />

<strong>teoria</strong> di <strong>Kripke</strong> “Teoria <strong>del</strong> Riferimento Diretto”.<br />

5. La <strong>teoria</strong> causale <strong>del</strong> <strong>riferimento</strong><br />

In realtà, <strong>la</strong> tesi di <strong>Kripke</strong> <strong>del</strong> <strong>riferimento</strong> <strong>diretto</strong>, ovvero <strong>la</strong> tesi secondo cui le descrizioni<br />

definite non servono a fissare il <strong>riferimento</strong> di un nome proprio, ammette <strong>del</strong>le eccezioni. Per<br />

vedere quali sono queste eccezioni, dobbiamo passare per quel<strong>la</strong> che <strong>Kripke</strong> chiama <strong>la</strong> <strong>teoria</strong><br />

causale <strong>del</strong> <strong>riferimento</strong>.<br />

5.1 La catena causale<br />

Chiediamoci allora: se il <strong>riferimento</strong> di un nome proprio non è fissato tramite descrizioni<br />

definite, come viene fissato? Seppur problematico, il descrittivismo aveva almeno il merito di<br />

offrirci una spiegazione sul modo in cui il <strong>riferimento</strong> viene fissato, sul modo, cioè, in cui riusciamo<br />

a riferirci ad oggetti tramite i nomi propri: riusciamo a riferirci ad oggetti perché associamo a<br />

ciascun nome proprio alcune conoscenze circa l’oggetto che designa, e queste conoscenze sono<br />

esplicitate da descrizioni definite. Ma ora che <strong>Kripke</strong>, mediante l’argomento semantico, ha demolito<br />

<strong>la</strong> sostenibilità di tale tesi descrittivista (<strong>la</strong> (i)), come possiamo spiegare come avviene il “fissaggio”<br />

<strong>del</strong> <strong>riferimento</strong>?<br />

<strong>Kripke</strong> risponde a tale domanda con <strong>la</strong> Teoria Causale <strong>del</strong> Riferimento. Per comprendere<br />

in cosa consista tale <strong>teoria</strong>, andiamo alle pp. 169-170 di Nome e Necessità, e leggiamo il brano che<br />

va da “Nasce qualcuno, un bambino; i suoi genitori lo chiamano con un certo nome” fino a “riferirsi<br />

a Feynman anche se non sa identificarlo in maniera univoca.” Cosa ci dice <strong>Kripke</strong> in questi<br />

paragrafi? In primo luogo, egli afferma che il fatto che un certo nome proprio N abbia un certo<br />

<strong>riferimento</strong> presuppone l’esistenza di una catena causale che collega il <strong>riferimento</strong> al par<strong>la</strong>nte. Ciò<br />

che fissa o determina il <strong>riferimento</strong> per <strong>Kripke</strong>, allora, non è il fatto che l’oggetto che il nome<br />

designa soddisfa un certo agglomerato di descrizioni definite associate al nome proprio; è piuttosto<br />

l’esistenza di una catena causale che va dall’oggetto al par<strong>la</strong>nte che usa il nome proprio in quel<br />

momento. Vediamo allora com’è fatta tale catena causale:<br />

a) il primissimo anello è rappresentato dal battesimo iniziale, cioè dal<strong>la</strong> primissima<br />

assegnazione <strong>del</strong> nome proprio all’individuo. Come avviene tale battesimo? <strong>Kripke</strong> ce lo dice un<br />

po’ più in là nel testo, a p. 171:


Ha luogo un battesimo iniziale. In questo caso un oggetto può essere denominato<br />

mediante un’ostensione, oppure il <strong>riferimento</strong> <strong>del</strong> nome può essere fissato mediante<br />

una descrizione.<br />

Il battesimo può dunque avvenire mediante ostensione, ovvero mostrando/indicando l’oggetto e<br />

assegnandogli un nome, oppure mediante descrizione definita. In quest’ultimo caso, il nome è<br />

introdotto per designare qualunque oggetto soddisfi quel<strong>la</strong> descrizione definita. Pensate al caso di<br />

“Jack lo Squartatore”: questo nome fu introdotto dal<strong>la</strong> polizia di Londra per designare l’individuo,<br />

chiunque egli fosse, che era l’autore di certi efferati omicidi seriali. P<strong>la</strong>usibilmente, il battesimo per<br />

descrizione è utilizzato ogni qualvolta non possiamo essere in contatto <strong>diretto</strong> con l’oggetto, ogni<br />

volta cioè che il battesimo non può avvenire per ostensione: quando abbiamo a che fare con oggetti<br />

astratti, futuri, ipotetici, o <strong>la</strong> cui effettiva identità ci sfugge, come nel caso di Jack lo Squartatore.<br />

Torneremo più in là su questo punto, dato che questo è il luogo dove cercare le eccezioni al<strong>la</strong> tesi<br />

generale di <strong>Kripke</strong> secondo cui le descrizioni definite associate ad un nome proprio non ne<br />

determinano il <strong>riferimento</strong>.<br />

b) Dopo il battesimo, gli anelli ulteriori <strong>del</strong><strong>la</strong> catena sono costituiti dai vari eventi<br />

comunicativi attraverso cui il nome, o meglio, l’uso <strong>del</strong> nome, viene trasmesso da un par<strong>la</strong>nte<br />

all’altro. Pensate al caso <strong>del</strong><strong>la</strong> nascita di un bambino. L’atto <strong>del</strong> battesimo Kripkiano coincide con<br />

<strong>la</strong> primissima assegnazione <strong>del</strong> nome al bambino da parte dei genitori. Gli anelli successivi sono i<br />

vari atti comunicativi con cui il nome comincia a diffondersi: un anello può essere <strong>la</strong> conversazione<br />

tra i genitori e le infermiere che scriveranno il nome <strong>del</strong> bimbo sul suo braccialetto; un altro anello<br />

può essere <strong>la</strong> conversazione con i nonni, che apprendono il nome; un altro anello ancora <strong>la</strong><br />

comunicazione ufficiale <strong>del</strong><strong>la</strong> nascita <strong>del</strong> bimbo all’anagrafe, fatta dai nonni; e così via.<br />

c) N.B. Se un par<strong>la</strong>nte, ad un certo punto <strong>del</strong><strong>la</strong> catena, non è più in grado di caratterizzare<br />

descrittivamente <strong>la</strong> persona o <strong>la</strong> cosa cui il nome è stato attribuito attraverso il battesimo, ciò non<br />

significa che <strong>la</strong> catena si sia interrotta: in bocca a quel par<strong>la</strong>nte, il nome continua ad avere lo stesso<br />

<strong>riferimento</strong> che aveva all’origine. Ed è chiaro che debba essere così, pena un ritorno al<br />

descrittivismo.<br />

Ora, <strong>Kripke</strong> precisa più volte nel testo (un esempio per tutti, in fondo a p. 170) che <strong>la</strong> sua<br />

<strong>teoria</strong> causale è più “l’immagine di una <strong>teoria</strong>” che non una <strong>teoria</strong> vera e propria <strong>del</strong> modo in cui il<br />

<strong>riferimento</strong> di un nome proprio viene fissato. Per essere una <strong>teoria</strong> vera e propria, dovrebbe<br />

specificare una serie di condizioni necessarie e sufficienti che <strong>la</strong> catena causale deve soddisfare per


essere una catena che effettivamente fissa o determina il <strong>riferimento</strong>, cioè una catena che riesce a<br />

compiere il <strong>la</strong>voro che è stata chiamata a fare. Si veda, a questo proposito, quanto <strong>Kripke</strong> dice a p.<br />

170, nel brano che va da “il nome viene trasmesso da un anello all’altro ma naturalmente non<br />

basterà, per effettuar un <strong>riferimento</strong>, una catena causale di tipo qualunque…” a “per poter rendere<br />

questa <strong>teoria</strong> una <strong>teoria</strong> <strong>del</strong> <strong>riferimento</strong> davvero rigorosa”.<br />

Affinché dunque <strong>la</strong> catena causale riesca effettivamente ad assicurare <strong>la</strong> trasmissione<br />

corretta di un nome, affinché cioè essa riesca ad assicurare che il par<strong>la</strong>nte p usi N con il suo<br />

<strong>riferimento</strong> originario, tale catena dovrà soddisfare certe condizioni. L’unica, importante<br />

condizione (necessaria, ma non sufficiente) che <strong>Kripke</strong> fornisce in tal senso è <strong>la</strong> seguente: chi<br />

riceve il nome proprio, in qualsiasi punto <strong>del</strong><strong>la</strong> catena egli si trovi, deve avere l’intenzione di<br />

usarlo con lo stesso <strong>riferimento</strong> con cui lo usava <strong>la</strong> persona da cui l’ha appreso. <strong>Kripke</strong> specifica<br />

tale condizione a p. 171, in fondo (brano che va da “Quando il nome ‘passa..” a “non soddisfo<br />

questa condizione”). E’ chiaro infatti che se ad un certo punto un par<strong>la</strong>nte non rispetta più tale<br />

condizione, e comincia ad usare e quindi a trasmettere un uso <strong>del</strong> nome in cui quest’ultimo non ha<br />

più il <strong>riferimento</strong> originario, <strong>la</strong> catena si spezza e il <strong>riferimento</strong> corretto non è più assicurato.<br />

5.2 Le eccezioni al<strong>la</strong> falsità <strong>del</strong><strong>la</strong> tesi descrittivista (i)<br />

Esaminata <strong>la</strong> <strong>teoria</strong> causale <strong>del</strong> <strong>riferimento</strong> di <strong>Kripke</strong>, siamo ora in grado di comprendere<br />

meglio quali siano le eccezioni che <strong>Kripke</strong> ammette al<strong>la</strong> falsità <strong>del</strong><strong>la</strong> tesi descrittivista (i). Infatti,<br />

abbiamo già incontrato queste eccezioni quando abbiamo trattato <strong>del</strong> battesimo per descrizione: gli<br />

unici casi in cui è vera <strong>la</strong> tesi descrittivista (i), secondo cui a determinare il <strong>riferimento</strong> di un<br />

nome proprio sono le descrizioni definite associate a quel nome, ovvero gli unici casi in cui il<br />

<strong>riferimento</strong> è in<strong>diretto</strong>, sono i casi di battesimo mediante descrizione definita.<br />

Come avevamo accennato sopra, il battesimo per descrizione si ha quando non è possibile<br />

procedere per ostensione: quando abbiamo bisogno, cioè, di assegnare nomi propri ad oggetti di cui<br />

però non possiamo avere esperienza sensibile diretta, come ad esempio si verifica nel caso di<br />

oggetti astratti, futuri, o ipotetici. Non essendo in contatto sensibile con questi oggetti, abbiamo<br />

bisogno, se vogliamo battezzarli, di individuare una certa loro proprietà che ne consenta<br />

l’individuazione in maniera univoca. Tale proprietà sarà naturalmente espressa mediante una<br />

descrizione definita.<br />

Pensate al nome proprio “Nettuno”. Nettuno fu, in origine, un oggetto puramente ipotetico:<br />

<strong>la</strong> sua esistenza venne ipotizzata per spiegare certe perturbazioni nell’orbita di Mercurio. Il<br />

battesimo di Nettuno fu allora un battesimo per descrizione, cioè un battesimo che ebbe luogo<br />

quando lo scienziato che lo ipotizzò disse qualcosa come “Chiamo “Nettuno” il pianeta che perturba<br />

l’orbita di Mercurio”: “Nettuno” è il nome proprio, <strong>la</strong> proprietà di essere il pianeta che perturba


l’orbita di Mercurio è <strong>la</strong> proprietà che ci serve ad individuare l’oggetto che vogliamo battezzare, e<br />

<strong>la</strong> descrizione definita “il pianeta che perturba l’orbita di Mercurio” sarà quindi <strong>la</strong> descrizione<br />

definita che l’oggetto, qualunque esso sia, dovrà soddisfare per essere il <strong>riferimento</strong> di “Nettuno”.<br />

5.3 Enunciati contingenti a priori<br />

Ammettere i casi di battesimo per descrizione come eccezioni al<strong>la</strong> falsità <strong>del</strong><strong>la</strong> tesi descrittivista (i)<br />

porta con sé una conseguenza rilevante sul piano dei rapporti tra <strong>la</strong> distinzione verità<br />

necessarie/contingenti da un <strong>la</strong>to, e <strong>la</strong> distinzione verità a priori/a posteriori dall’altro.<br />

Abbiamo già visto come <strong>Kripke</strong> dimostri l’esistenza di enunciati che, pur essendo a<br />

posteriori, sono necessari. Paralle<strong>la</strong>mente, egli mostra anche che vi sono enunciati che, pur<br />

essendo a priori, sono contingenti. Come <strong>la</strong> precedente, anche questa conclusione cui <strong>Kripke</strong><br />

perviene andava contro il modo di pensare comune all’epoca: si pensava, infatti, che tutte le verità a<br />

priori dovessero essere per forza di cose verità necessarie. Il ragionamento che si faceva era il<br />

seguente:<br />

Argomento tradizionale per <strong>la</strong> tesi: e vero a priori → e necessariamente vero<br />

(1) Se un enunciato è vero a priori, allora <strong>la</strong> sua verità è conosciuta indipendentemente<br />

dall’esperienza, ovvero indipendentemente da come è fatto il mondo attuale<br />

(2) Ma se una verità è conosciuta indipendentemente da come è fatto il mondo attuale, sarà<br />

conosciuta indipendentemente da come è fatto qualsiasi altro mondo logicamente<br />

possibile<br />

(3) Ma allora, se conosco una verità a priori conosco una verità che è tale in tutti i mondi<br />

possibili<br />

(4) Ma se una verità è tale in tutti i mondi possibili, allora essa è necessaria_______<br />

(5) Quindi, se un enunciato è vero a priori, esso è anche necessariamente vero<br />

<strong>Kripke</strong> dimostra <strong>la</strong> non correttezza di tale inferenza opponendo dei contro-esempi al<strong>la</strong> conclusione<br />

cui essa perviene: facendo vedere, cioè, che si danno casi di enunciati che, pur essendo veri a priori,<br />

sono contingentemente veri. Tali casi coincidono con i casi di battesimo per descrizione, che si ha,<br />

come abbiamo detto sopra, con oggetti con cui non possiamo essere in contatto <strong>diretto</strong>, causale:<br />

oggetti ipotetici, futuri, entità astratte.<br />

Prendiamo il caso <strong>del</strong> metro (ma possiamo fare lo stesso ragionamento con oggetti futuri –<br />

ad esempio <strong>la</strong> cometa che si troverà più vicina al<strong>la</strong> Terra nel 3010 – o con oggetti ipotetici come<br />

Nettuno, ovvero il pianeta che perturba l’orbita di Mercurio). Un metro è un oggetto astratto: è una<br />

lunghezza, una unità di misura. Supponiamo di essere colui che per primo ha introdotto il nome


proprio “metro” nel linguaggio, ovvero colui che ha battezzato una certa lunghezza col nome<br />

“metro”. Poiché una lunghezza è un oggetto astratto, non possiamo ricorrere ad un’operazione<br />

battesimale per ostensione (non possiamo dire “La vedi quel<strong>la</strong> lunghezza? La chiamo “metro””).<br />

Per individuar<strong>la</strong>, abbiamo bisogno di ricorrere ad una proprietà (anche non necessaria) di<br />

quell’entità, proprietà che verrà espressa mediante una descrizione definita. Sia allora tale proprietà<br />

<strong>la</strong> proprietà contingente di essere <strong>la</strong> lunghezza <strong>del</strong><strong>la</strong> sbarra S a t0. Il battesimo avverrà mediante una<br />

definizione di questo genere:<br />

(13) “metro” =(per definizione) <strong>la</strong> lunghezza <strong>del</strong><strong>la</strong> sbarra S a t0<br />

N.B. Con ciò non stiamo dicendo che “metro” è sinonimo <strong>del</strong><strong>la</strong> descrizione definita “<strong>la</strong> lunghezza<br />

<strong>del</strong><strong>la</strong> sbarra S a t0”. Stiamo solo fissando il <strong>riferimento</strong> <strong>del</strong> nome proprio “metro”: “metro” si<br />

riferisce, per definizione, a quell’oggetto astratto che ha <strong>la</strong> proprietà di essere <strong>la</strong> lunghezza <strong>del</strong><strong>la</strong><br />

sbarra S a t0.<br />

Esplicitiamo ora <strong>la</strong> stipu<strong>la</strong>zione in cui consiste l’atto di battesimo attraverso l’enunciato:<br />

(14) La lunghezza <strong>del</strong><strong>la</strong> sbarra S a t0 è un metro<br />

Ora, tale enunciato è contingente: ci sono mondi possibili in cui S a t0 è più lunga o più corta di<br />

quel che è nel mondo attuale; era perfettamente possibile che <strong>la</strong> sbarra S, a t0, fosse stata di<br />

lunghezza diversa da quel<strong>la</strong> che di fatto è. Nonostante ciò (e qui sta <strong>la</strong> forza <strong>del</strong> contro-esempio),<br />

per lo stipu<strong>la</strong>tore – si badi bene, solo per lui - (14) è vero a priori: colui che ha introdotto il nome<br />

“metro” conosce l’enunciato a priori perché non ha bisogno di andare a vedere com’è fatto il mondo<br />

per sapere che (14) è vero; che <strong>la</strong> lunghezza di S a t0 sia un metro è qualcosa che egli sa già, e per <strong>la</strong><br />

semplice ragione che è stato lui a deciderlo. In questo modo, quindi, <strong>Kripke</strong> dimostra che non è vero<br />

che tutte le verità a priori sono anche verità necessarie: ci sono infatti enunciati, come ad esempio<br />

(14), che pur essendo a priori sono contingenti.

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