NOTIZIARIO DELLA
BANCA POPOLARE
DI SONDRIO
N. 115 - APRILE 2011
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In copertina:
il Tulipano alpino (Tulipa australis)
rara varietà botanica
delle Orobie valtellinesi
(foto Mauro Lanfranchi)
Terza pagina
Divagazioni sul tempo
4 UMBERTO ECO
Italia 150
Il Risorgimento e la Valtellina
10 FRANCO MONTEFORTE
Tre umili preti
che hanno fatto grande l’Italia
26 Mons. DANIELE ROTA
Economia - Finanza
Il listino azionario è in vendita
41 ALESSANDRO BOLOGNESI
Indagine conoscitiva
sui mercati degli strumenti fi nanziari
42 GIUSEPPE MUSSARI
André Meyer,
banchiere leggendario (e scorbutico)
49 GIANCARLO GALLI
La Cina e i Fondi sovrani:
la crescita di una potenza geo-economica
ALBERTO QUADRIO CURZIO
52 VALERIA MICELI
SOMMARIO
Personaggi
Peter Peter.
Quando il palato si mette in viaggio
57 ALESSANDRO MELAZZINI
Gianrico Tedeschi o della vitalità geniale
64 EDGARDA FERRI
Franz e il suo doppio: i gemelli Liszt
68 MELANIA G. MAZZUCCO
Giustizia
La medicina difensiva danneggia
il paziente e la fi nanza pubblica
77 ALFONSO MARRA
La Costituzione Italiana.
Conoscerla per amarla
80 FRANCESCO SAVERIO CERRACCHIO
Incontri BPS
Fede e scienza
86 Card. GIANFRANCO RAVASI
Quale futuro per l’economia in Europa
90 GUIDO TABELLINI
Attualità
Tibet Tawo Tadra
98 FAUSTO SASSI
La nuova meccanica
e la ricerca interdisciplinare
110 EDOARDO MAZZA
Elzeviri
In viaggio con Brunilde e Rosamunda
116 GIORGIO TORELLI
Tortura per adolescenti
122 LUCA GOLDONI
Immanuel Kant. La pace della ragione
123 GAVINO MANCA
Società e costume
La lingua italiana si trasforma
126 VITTORIO MATHIEU
Salute
Cos’è la buona medicina?
128 ALESSANDRO BERTOLINI
Provincia ieri e oggi
Il senso del non senso
134 REMO BRACCHI
Il giro della Valle Poschiavina
LUISA ANGELICI e
140 ANTONIO BOSCACCI
Paesaggi senza tempo
Piacenza, a fi anco del Po
142 GIGLIOLA MAGRINI
Reportage
Impressioni di un viaggio in Corsica
150 ROBERTO RUOZI
Notiziario della
BANCA POPOLARE DI SONDRIO
N. 115 - APRILE 2011
Gli amici dell’uomo
Allevare correttamente
una tartarughina acquatica
160 PIERO M. BIANCHI
Oltre la Valle
Honoré II, premier Seigneur de Monaco
à porter le titre de Prince
164 RENÉ NOVELLA
Le trasformazioni economiche e sociali
del Chiavarese dall’Unità d’Italia al 1914
168 MARCO DORIA
Momenti Pirovano
Tutti all’appello a 3.000 metri
per assistere alle lezioni...
175 e non solo di sci
Dalla “Suisse”
Un costruttore di futuro
181 CARLO DE BENEDETTI
Adriano Olivetti e il “secolo breve”
182 FABRIZIO FAZIOLI
Adriano Olivetti,
ritratto di un imprenditore illuminato
186 VALERIO CASTRONOVO
Adriano Olivetti: tra sogno e realtà
MAURO LEO BARANZINI e
190 FABRIZIO FAZIOLI
Comunità e Cantoni:
alla ricerca di libertà politica
196 DAVIDE CADEDDU
La Fondazione Adriano Olivetti
200 LAURA OLIVETTI
Cronache aziendali
Acqua del Burkina
202 WAIDER VOLTA
204 Fatti di casa nostra
4 TERZA PAGINA
Divagazioni
sul tempo
Archivi Alinari
UMBERTO ECO
NOTIZIARIO
Terza pagina
Che cosa faceva Dio, prima
di fare il cielo e la
terra? Preparava l’inferno
per chi vuole occuparsi
di problemi troppo diffi cili. Colui
che ha citato questa battuta (evidentemente
già antica ai suoi tempi),
avvertendo che si trattava di
uno scherzo, parlava con molta
serietà ed affrontava uno dei massimi
problemi della fi losofi a di tutti
i secoli: il tempo. Si trattava di
sant’Agostino, che appunto al tempo
dedica il libro XI delle sue Confessioni.
Già nel citare quella battuta
scherzosa, Agostino anticipava
una conclusione su cui si troverebbe
oggi d’accordo anche un
teorico del Big Bang: il tempo nasce
in quel preciso istante, solo
dal Big Bang in avanti si può parlare
di “prima” e di “dopo”, e quindi
non ci si può chiedere che cosa
avvenisse “prima” della nascita
del tempo.
Del tempo si erano occupati
i fi losofi greci, e la defi nizione che
aveva avuto più fortuna era stata
quella di Aristotele (Fisica IV, 11,
219 b 1): «Il tempo è il numero del
movimento secondo il prima e il
dopo». Non molto diversamente
secondo Crisippo il tempo era
«l’intervallo del movimento del
mondo» – dove intervallo non deve
intendersi come «spazio vuoto tra
due cose», perché il termine greco
era diástêma, il termine che si
usava per l’intervallo musicale (e
cioè il “rapporto” tra due suoni), e
dunque non era un “vuoto”, un silenzio,
bensì un “pieno” che l’orecchio
sentiva. Locke, nel correggere
parzialmente Aristotele (Saggio
sull’intelletto umano, II, XIV, 19),
diceva che il tempo non misura
necessariamente il movimento,
ma «ogni apparenza o alterazione
di idee costante e periodica», così
che se il sole, invece di muoversi
Mauro Lanfranchi
nel cielo, semplicemente aumentasse
o diminuisse l’intensità della
sua luce, questo alternarsi regolato
potrebbe servire come parametro
per misurare il tempo. Ottima
correzione, perché legittima anche
gli orologi non meccanici come
quelli atomici. Ma siamo sempre a
una idea del tempo come ordine e
successione, e questa concezione
del tempo non cambia neppure
con Leibniz e Newton. In effetti
non cambia neppure da Kant a
Einstein, quando nel tempo si vede
l’ordine di una catena causale
– salvo che, e uso una defi nizione
di Reichenbach, a cui torneremo
più avanti, «la teoria della relatività
non presuppone una direzione ma
solo un ordine del tempo» (The
Direction of Time. Berkeley and Los
Angeles: University of California
Press 1954, p. 42).
Se il tempo è la misura precisa
di una successione ordinata di
stati, era dunque ovvio che, come
è avvenuto in tutte le civiltà, il primo
criterio oggettivo di misura
fosse stato dato dal movimento
degli astri (che è movimento, ma
anche ritorno e “apparenza periodica
e costante”). Ma se il tempo
fosse solo questo, allora sarebbe
interessante chiederci perché per
tanti secoli gli uomini hanno misurato
gli anni, i mesi e i giorni, ma
hanno tardato molto a misurare le
ore e i minuti. È che per misurare
ore e minuti è stato necessario
attendere strumenti meccanica-
Per misurare ore
e minuti è stato
necessario attendere
strumenti
meccanicamente
precisi. Nella pagina
a fianco: Giorgio
Vasari (1511-74):
Allegoria del tempo,
particolare del
Giudizio universale.
Firenze, Duomo di
Santa Maria del
Fiore.
Hours and minutes
could not be
measured until there
were mechanically
precise instruments.
On the facing page:
Giorgio Vasari
(1511-74): Allegory of
time, detail of the
Last Judgement.
Florence, Cathedral
of Santa Maria del
Fiore.
mente precisi, e quanto fosse arduo
dividere l’anno in un numero
preciso di giorni ce lo dicono le vicissitudini
dei vari calendari. Per
millenni l’unico orologio sicuro è
rimasto il canto del gallo e a una
economia eminentemente agricola
bastava ritmare la vita individuale
sul sorgere e sul tramontare del
sole, e quella sociale sulla successione
delle stagioni. Per millenni il
concetto di puntualità è rimasto
assai vago, e al massimo si misuravano
alcune parti del giorno sui
ritmi della preghiera e sul suono
delle campane.
Quanto a noi, fi gli della civiltà
degli orologi, talora dimostriamo
ancora di avere idee molto imprecise
sulla misurazione del tempo.
Basta controllare quanti articoli e
quanti libri più o meno seri erano
usciti all’approssimarsi della fi ne
del secondo millennio per discute-
Digressions on time
Thinkers and philosophers have endeavoured for years to give a
definition to the concept of time. For Aristotle, time is the number
of motion in respect of before and after. For Chrysippus, it is the
interval of the world’s motion. For Locke, on the other hand, time
does not measure motion, but each constant and periodic
appearance or alteration of ideas. The first criterion of measurement
in this perspective was the motion of the stars. Basing the evaluation
of time on the motion of the sun, it was not until the introduction of
the first accurate mechanical clocks in relatively recent times that a
meaning could be given to the idea of punctuality. But measuring
does not mean understanding what time is. St. Augustine said that
before the creation of the world, God prepared hell for those who
wanted to deal with problems that were too difficult.
re se esso terminasse il 31 dicembre
1999 o il 31 dicembre 2000.
Sembra impossibile che ci fosse
disaccordo: è ovvio che il millennio
fi nisce con il dicembre dell’anno
2000, così come la prima decina
fi nisce con il numero 10 e la seconda
inizia con il numero 11.
Queste cose le sanno molto bene
i bibliofi li: una volta deciso che gli
incunaboli sono i libri a stampa
prodotti entro la fi ne del XV secolo,
si considerano incunaboli i libri
stampati entro il 31 dicembre
1500 (e non il 31 dicembre 1499).
Ma è la cifra tonda che fa effetto,
ed è a causa di quei due zeri che
si temeva (ricordate?) che entrasse
in scena il Millennium Bug, il
verme del millennio che avrebbe
bloccato i computer di tutto il mondo
i quali, costruiti per calcolare gli
anni in due cifre, dopo il 99 avrebbero
contrassegnato l’anno Duemila
con 00, confondendolo così
col 1900.
Sul problema di quando fi nisse
il secolo ci sono state discussioni
tra fi ne XVII secolo e inizio
XVIII, tra fi ne XVIII e inizio XIX, e tra
fi ne XIX e inizio XX – e credo che
continueremo la discussione anche
nel dicembre 2999. Non c’è
nulla da fare, il sentimento popolare
vince sul buonsenso e sulla
scienza e, come i nostri antenati
hanno festeggiato l’inizio del Ventesimo
secolo al primo gennaio
1900, così abbiamo fatto noi (sbagliando)
per il Ventunesimo – e
TERZA PAGINA 5
Fotolia
forse abbiamo fatto bene, altrimenti
il millennio sarebbe iniziato
nel 2001, sotto il segno catastrofi
co dell’attentato alle Due Torri.
Il computo del tempo fa perdere
la testa anche alle persone
colte. Ho letto vari articoli, sul fi nire
del 1999, in cui la colpa del
dibattito sulla fi ne del millennio
sarebbe risalita a Dionigi il Piccolo,
che nel sesto secolo d.C. aveva
proposto di far cominciare il
computo degli anni dalla nascita
di Cristo. Prima si calcolavano dal
regno di Diocleziano, e in molti
casi dalla data dell’inizio del mondo,
immaginatevi con quale precisione.
Ora è certo che Dionigi
aveva nettamente sbagliato la
data della nascita di Gesù, che
dovrebbe aver avuto luogo da
quattro a sei anni prima, per cui è
legittimo sospettare che il nostro
millennio avesse dovuto fi nire nel
1997 o giù di lì. Quello che è tuttavia
curioso è che molti attribuivano
a Dionigi un secondo errore:
siccome egli non poteva conoscere
lo zero (che – passato dagli
indiani agli arabi – è stato introdotto
in Occidente solo secoli
dopo), avrebbe fatto iniziare la
storia della cristianità dall’anno 1.
6 TERZA PAGINA
Se avesse considerato un anno
zero, si dice, non avremmo avuto
di che discutere, e il secondo millennio
sarebbe fi nito incontestabilmente
col 31 dicembre 1999.
Grande bestialità (non imputabile
a Dionigi ma ai suoi cattivi
interpreti). Immaginiamo per assurdo
che Dionigi fosse stato competente
in matematica indiana, e
avesse fatto nascere Gesù nell’anno
Zero. Forse che Maria e Giusep-
pe, dopo dodici mesi, avrebbero
detto che Gesù compiva zero anni,
e che ne avrebbe compiuto uno
solo allo scadere dell’anno seguente?
Evidentemente non è così
che noi calcoliamo i nostri anni,
perché nel momento in cui nasciamo
(e chiamiamolo pure “istante
zero”) stiamo iniziando il nostro
primo anno di vita; e non si vede
perché dovremmo fare in modo
diverso coi secoli. Ma ho citato
l’episodio per dire che, con tutti i
nostri orologi, meccanici e atomici,
di fronte al computo del tempo noi
siamo ancora capaci di perdere la
testa.
Il fatto è che noi misuriamo il
tempo ma questo non ci consente
affatto di capire che cosa sia, e se
sia giusto misurarlo metricamen-
Noi misuriamo il
tempo ma questo
non ci consente
affatto di capire che
cosa sia, e se sia
giusto misurarlo
metricamente.
Mauro Lanfranchi
We measure time
but this does not let
us understand at all
what it is and
whether it is right to
measure it metrically.
te. Torniamo a sant’Agostino.
All’inizio della sua rifl essione egli
sembra condividere l’idea aristotelica,
e infatti dice che, a differenza
dell’eternità, che è immobile, un
tempo è lungo per la successione
di molti movimenti, che non possono
estendersi nello stesso tempo.
Anzi, egli dice «per molti movimenti
che passano oltre, che ci oltrepassano».
Pare dunque che ciò
che lo colpisce nello scorrere di
questi movimenti, è che essi diventano
tempo passato. E proprio
da questa considerazione egli inizia
a rifl ettere che, mentre nell’eternità
tutto è presente, il tempo sia
un curioso fenomeno per cui ogni
passato è come cacciato via dal
futuro, ed ogni futuro consegue dal
passato, e sia passato che futuro
fl uiscono dal presente. Eppure, si
chiede Agostino, come possono
esistere passato e futuro se il
passato non è più e il futuro non è
ancora? Avremo dunque un eterno
presente? Ma un eterno presente
sarebbe eternità, e non tempo. E
infi ne, anche a voler considerare il
presente, possiamo dire che il
mese in corso sia presente, mentre
ne sono presenti solo un giorno,
un’ora, un minuto, un secondo?
Non appena cerca di defi nire
la durata di questo secondo presente,
Agostino si rende conto che
anch’essa può essere infi nitamente
suddivisa in entità sempre più
brevi e che, quand’anche la più
breve di queste unità fosse defi nibile,
essa passerebbe così rapidamente
dal futuro al passato da
non avere la minima durata, «nullum
habet spatium» – e si noti come
anche qui, per indicare una
durata temporale, egli usasse un
termine spaziale.
Ed ecco che ogni defi nizione
del tempo in termini di entità misurabile
entra in crisi, e Agostino lo
dice a chiare lettere (XIII, 29). Egli
non è d’accordo sul fatto che il
tempo dipenda dal moto del sole,
della luna e degli astri. Perché il
tempo non potrebbe essere il moto
di qualsiasi corpo, persino (e qui
Agostino anticipa Locke, e quindi
non solo l’idea di orologio meccanico
ma anche quella di orologio
atomico) il moto circolare e perio-
dico della ruota di un vasaio? Ma
Agostino fa di più. In XIII, 30 ricorda
il «fermati o sole!» di Giosuè: in
quel momento il sole, e con lui
tutti gli astri, si era fermato, eppure
il tempo continuava ad andare
avanti (e ancora una volta egli usa
un termine spaziale, ibat).
Quale era il tempo che “andava
avanti” quando il sole si era
fermato? Direi che era il tempo
della coscienza (e forse del corpo)
di Giosuè. E infatti Agostino, nel
negare la connessione diretta del
tempo coi moti celesti, subito avanza
l’ipotesi che esso sia l’estensione,
l’estendersi dell’anima.
Dunque, diceva Agostino, noi
non possiamo misurare né il passato,
né il presente, né il futuro
(che non ci sono mai) e tuttavia
misuriamo il tempo, quando diciamo
che un certo tempo è lungo,
che non passa mai, o che è passato
molto in fretta. Agostino stava
dunque parlando di una misura
non metrica del tempo, quella che
mettiamo in opera quando ci pare
che una giornata noiosa sia durata
moltissimo, e un’ora piacevole sia
passata troppo in fretta. E qui avviene
il colpo di scena agostiniano:
questa misura avviene nella memoria.
La vera misura del tempo è
Photo Oilime
Le pagine che
sant’Agostino
(350-430) dedica
al tema del tempo
appaiono tra le più
moderne, concise e
rivelatrici di tutta la
storia del pensiero
filosofico.
The pages by St.
Augustine (350-430)
on the subject of
time are some of the
most modern,
concise and revealing
in the whole of the
history of
philosophical
thought.
Nel celebre passo
biblico del «Fermati
o sole», il tempo che
andava avanti era
forse il tempo della
coscienza – e anche
del corpo – di
Giosuè.
In the famous Biblical
passage of “Sun,
stand thou still”, the
time which moved
forward was perhaps
the time of Joshua’s
conscience – and
also of his body.
una misura interiore. Secoli dopo
Bergson opporrà al tempo metrico
degli orologi il tempo della coscienza,
la durata interiore. Potremmo
leggere le bellissime pagine
di Bergson (per esempio nel
Saggio sui dati immediati della coscienza
– e interrogarci sui rapporti
tra il tempo di Bergson e il tempo
di Proust) ma è certo che Agostino
ha parlato per primo, e le
sue pagine sul tempo appaiono
tra le più moderne, concise e rivelatrici
di tutta la storia del pensiero
fi losofi co.
Nessuno intende negare l’utilità
del tempo degli orologi, ma è
certo che esso s’intreccia (se non
nella scienza, almeno nella nostra
vita quotidiana) con il tempo della
coscienza e della memoria. E qui
occorrerebbe aprire un nuovo paragrafo
sul tempo della fenomenologia
(Husserl) o sul tempo di Heidegger:
il quale non è così lontano
da un tempo oggettivo, che è quello
biologico, e quello fi sico dell’entropia,
per cui tutti i viventi tendono
al nulla, ovvero (non c’era bisogno
di Heidegger per scoprirlo)
tutti gli uomini sono mortali. Ma
Heidegger cerca di far convivere
questo tempo biologico e fi sico,
spietato, con il tempo del progetto
o dell’unica possibilità che ci è
concessa: come si può vivere accettando
quello che si è stati, ed
essere-per-la-morte?
Non ci si attenda da queste
poche note una ricostruzione globale
del problema del tempo. Non
lo si può fare per mancanza di
tempo. Qui si vogliono solo esprimere
alcune perplessità. E molte
delle nostre perplessità sono manifestate
dal linguaggio che usiamo
per parlare del tempo. Certo
non siamo perplessi quando diciamo
che sono le nove meno
dieci del 21 dicembre. Infatti ci
pare che il tempo degli orologi e
quello dell’astronomia non c’ingannino
mai – anche se il Phileas
Fogg del Giro del mondo in ottanta
giorni di Jules Verne credeva di
essere tornato a Londra il 21 dicembre,
e dunque in ritardo rispetto
alla sua scommessa, mentre
quel giorno per i londinesi era
ancora il 20, poiché Fogg, compiendo
il giro del mondo da ovest
a est, aveva guadagnato un giorno.
In ogni caso siamo sempre
imbarazzati a nominare il tempo
della durata interiore.
Il tempo cammina davanti a
noi o dietro a noi? Non è domanda
oziosa, visto che – se guardiamo
sempre verso oriente – diciamo
che sono, poniamo, le 6 di mattina
quando il sole è in un certo punto
del cielo davanti ai nostri occhi, e
che saranno le 6 del pomeriggio
quando il sole sarà in un altro
punto alle nostre spalle. Noi dunque
pensiamo di avere il passato
TERZA PAGINA 7
Photo Oilime
davanti a noi e il futuro alle spalle?
Pare che in alcune culture sia così,
perché il passato lo conosciamo
già (e quindi lo abbiamo davanti
agli occhi) mentre del futuro non
sappiamo ancora nulla. Ma basta
esaminare le nostre abitudini linguistiche
occidentali per accorgerci
che in realtà, quando parliamo,
sembra che noi ragioniamo nel
modo opposto: noi parliamo delle
settimane che abbiamo davanti a
noi prima di fi nire un certo lavoro,
dei mesi che ci siamo lasciati alle
spalle, e diciamo «se mi volto a ricordare
i giorni della mia infanzia...».
Sicuro? Però parliamo anche
delle settimane seguenti, e pare
che pensiamo a qualcosa che ci
segue, e dunque da dietro, e non
che ci precede. Allora è di nuovo il
futuro che sta alle nostre spalle?
Ma non basta. Noi parliamo
come se pensassimo che il futuro
è qualcosa che prima o poi verrà
qui, dove siamo ora, mentre il passato
si è allontanato da noi. Noi
diciamo che «verrà (qui) il tempo in
cui...» e che gli anni della fanciullezza
se ne sono andati (lontano
da qui). Non c’è nulla di meno razionale
di questo modo di esprimersi
perché, se anche dovessimo
vedere futuro e passato in
termini spaziali, il futuro dovrebbe
essere un posto dove noi andremo,
prima o poi, non una cosa che
viene nel posto in cui siamo ora. E,
del pari, dovremmo dire che noi
siamo andati via dal passato in cui
eravamo, non che il passato se ne
è andato via da dove siamo ora.
Adatto liberamente un bell’esperimento
mentale (Derek Bickerton,
The Roots of Language.
Ann Arbor: Karoma, 1981, p. 270):
supponiamo che mi trovi a interagire
da un anno con una tribù
molto ma molto primitiva, di cui
conosco il linguaggio in modo assai
rozzo (nomi di oggetti e azioni
elementari, verbi all’infi nito, nomi
propri senza pronomi, eccetera).
Sto accompagnando a caccia Og
e Ug: essi hanno appena ferito un
orso, che si è rifugiato sanguinante
nella sua caverna. Ug vuole inseguire
l’orso nella tana per fi nirlo.
Ma io ricordo che qualche mese
8 TERZA PAGINA
prima Ig aveva ferito un orso, lo
aveva seguito baldanzoso nella
tana, e l’orso aveva avuto ancora
forza suffi ciente per divorarlo. Vorrei
ricordare a Ug quel precedente,
ma per farlo dovrei potere dire che
ricordo un fatto passato, ma non
so esprimere né tempi verbali né
concetti come ricordo che. Così mi
limito a dire Eco vede orso. Ug e Og
credono ovviamente che abbia
avvistato un altro orso, e si spaventano.
Io cerco di rassicurarli:
Orso non qui. Ma i due traggono
solo la conclusione che faccio
scherzi di pessimo gusto nel momento
meno adatto. Io insisto:
Orso uccide Ig. Ma gli altri mi rispondono:
No, Ig morto! Insomma,
dovrei desistere, e Ug sarebbe
perduto.
Ricorro allora a una interpretazione
non verbale, bensì visiva.
Dicendo Ig e orso mi batto con un
dito sul capo, o sul cuore, o sul
ventre (a seconda di dove presuma
che essi collochino la memoria).
Poi disegno sul terreno due fi gure,
e le indico come Ig e orso; alle
spalle di Ig disegno immagini di
fasi lunari, sperando che essi capiscano
che voglio dire “molte lune
fa” e infi ne ridisegno l’orso che
uccide Ig. Se provo è perché presumo
che i miei interlocutori abbiano
Nella pagina a
fianco: per Henri
Louis Bergson
(1859-1941) al tempo
metrico degli orologi
si oppone il tempo
della coscienza, la
durata interiore.
On the facing page:
for Henri Louis
Bergson (1859-1941)
the metric time of
clocks was opposed
to the time of the
conscience, the inner
duration.
Fototeca Gilardi
Forse il vero
protagonista del
viaggio straordinario
di Phileas Fogg è
proprio il tempo,
scandito dal battito
di orologi che
segnano ore diverse
nelle più disparate
zone geografiche
del pianeta.
Time is perhaps the
real protagonist of
the extraordinary
journey made by
Phileas Fogg: marked
by the ticking of the
clocks showing
different times
in the different
geographical areas.
le nozioni del ricordare, e quelle di
presente, passato e futuro. Ma
siccome debbo interpretare quelle
nozioni visivamente, non so se per
essi il futuro sia davanti o di dietro.
Può darsi che la mia interpretazione
risulti incomprensibile ai nativi.
Se io pongo l’orso che uccide Ig a
sinistra e per essi il passato sta a
destra, la mia scommessa sarà
perduta – e perduto sarà Ug.
Ecco un caso interessante in
cui passato, futuro, vita e morte
dipendono da convenzioni semiotiche.
E – si badi bene – non c’è
nulla nella mia concezione del
passato e del futuro che mi possa
dire come i miei interlocutori lo
concepiscono spazialmente.
Naturalmente uno scienziato
potrebbe dirmi che questi sono
incidenti dovuti alla varietà dei linguaggi,
e che il mio imbarazzo (e
quello di Og e Ug) non ha nulla a
che fare con una concezione scientifi
ca del tempo. Certamente non
sto scrivendo per dire che le nostre
concezioni ingenue, e i difetti
delle nostre lingue, possono incidere
sulle concezioni scientifi che
del tempo. Ho elaborato un rispetto
quasi religioso per le concezioni
scientifi che (e non ingenue) del
tempo sin da quando ho letto The
direction of time di Reichenbach,
secondo cui nell’universo della
nostra esperienza esistono catene
causali aperte (A causa B, B causa
C, C causa D e così all’infi nito) ma
si possono concepire catene causali
chiuse (A causa B, B causa C
e C causa A): in tali situazioni io
potrei viaggiare nel passato, incontrare
mia nonna ancora ragazza,
sposarla, e diventare nonno di me
stesso.
Queste cose non accadono
nel mondo della nostra esperienza,
ma certamente accadono nei
romanzi di Science Fiction, e in
tali casi noi lettori siamo obbligati
a concepire tempi con catene causali
chiuse, in cui dunque la freccia
del tempo può invertire la propria
direzione. Come facciamo a pensare
questi universi, come facciamo
a immaginarceli, visto che di
fatto li immaginiamo, altrimenti
non potremmo capire le storie che
li riguardano?
Esaminiamo una situazione
analoga a quella raccontata, per
esempio, da fi lm come Ritorno al
futuro. Sintetizzando la storia al
massimo, si pensi a un personaggio,
che chiameremo Tom1, il quale
viaggia nel futuro dove arriva
come Tom2 (un Tom di poche ore
più anziano di Tom1, e che noi
possiamo immaginare così come
se Tom1 fosse partito da Parigi per
arrivare come Tom2 a New York
sette ore dopo). Ma a questo punto
Tom2 viaggia all’indietro nel
tempo, e torna come Tom3 nel
tempo di partenza poche ore prima
di esserne partito. Tom3, arrivato
nel passato, incontra Tom1
proprio mentre stava per partire
per il futuro. A questo punto Tom3
decide di inseguire Tom1, torna nel
futuro e (avendo una macchina
temporale più potente) vi arriva
come Tom4 pochi minuti prima
che vi arrivi Tom1.
Ci sono ottime ragioni per
affermare che il lettore non riesca
a concepire una situazione del
genere. Invece accade che, nel
racconto scritto, il Tom con cui il
lettore si identifi ca (quello dal cui
punto di vista sono guardati gli altri
Tom) sia sempre quello con l’esponente
più alto – e nella trasposizione
cinematografi ca il Tom con cui
lo spettatore si identifi ca è quello,
per così dire, sulle cui spalle è
collocata la camera. Insomma, in
qualsiasi incontro tra TomX e
TomX+1, chi dice “io” (e chi guarda)
è sempre TomX+1.
Quindi, come già accadeva
con le espressioni linguistiche citate
prima – per cui nel linguaggio
quotidiano noi leghiamo il tempo
alla nostra corporalità, e lo pensiamo
vicino e distante dal nostro
corpo, legato insomma alla nostra
coscienza – anche qui il tempo e i
suoi paradossi sono percepiti dal
punto di vista della nostra situazione
corporale.
Ma, a pensarci bene, a una
situazione corporale erano legati
tutti gli “orologi” di cui si è servita
l’umanità prima dell’invenzione degli
orologi meccanici: si misurava il
tempo sul moto visibile degli astri
e il “sorgere” o il “calare” del sole
erano movimenti solo rispetto al
nostro punto di vista (in effetti, al
di fuori del nostro punto di vista,
era la Terra a muoversi, ma non lo
sapevamo e non ce ne importava
nulla). Con l’avvento degli orologi si
è cercato di rendere simili al nostro
corpo anche quelle macchine
non antropomorfe, dando loro dei
tratti animaleschi. Il XVIII secolo ci
offre una serie di belle poesie sugli
orologi visti come mostri dai denti
digrignanti, che masticano o sillabano
i secondi che ci separano
dalla morte – la nostra, non quella
delle galassie. E basti citare questo
terribile sonetto di Ciro di Pers:
Fotolia
Shutterstock
Nobile ordigno di dentate rote
lacera il giorno e lo divide in ore,
ed ha scritto di fuor con fosche note
a chi legger le sa: SEMPRE SI MORE.
Mentre il metallo concavo percuote,
voce funesta mi risuona al core;
né del fato spiegar meglio si puote
che con voce di bronzo il rio tenore.
Perch’io non speri mai riposo o pace,
questo, che sembra in un timpano e tromba,
mi sfi da ognor contro all’età vorace.
E con que’ colpi onde ’l metal rimbomba,
affretta il corso al secolo fugace,
e perché s’apra, ognor picchia alla tomba.
È pur vero che oggi non riusciamo
più a pensare da un punto
di vista umano (o almeno animale)
un orologio atomico, e nemmeno
quello del nostro computer, tuttavia
non si deve temere. Non smetteremo
mai di pensare il tempo dal
punto di vista del nostro corpo.
Dopotutto noi, che invecchiamo
giorno per giorno, siamo l’orologio
di noi stessi. Basta fare quattro
fl essioni, scendere le scale di corsa,
cercare di saltare una siepe, e
ci accorgiamo che è passato tempo
da quando avevamo vent’anni.
Come siamo fortunati a essere
animali mortali! Teniamo il tempo
sotto controllo.
Noi, figli della civiltà
degli orologi,
dimostriamo ancora
di avere idee molto
imprecise sulla
misurazione del
tempo.
As children of
the civilization of
clocks, we show that
we still have very
inaccurate ideas on
measuring time.
TERZA PAGINA 9
Il Risorgimento e la Valtellina
Appello di clero e liberali ai patrioti valtellinesi durante l’insurrezione
contro gli austriaci nella primavera del ’48. A destra: Antonio Caimi,
Ritratto di Antonio Maffei, olio su tela, 1847 (Sondrio, Museo valtellinese
di storia e arte).
Appeal by the clergy and liberals to the Valtellina patriots during the
uprising against the Austrians in the spring of 1848. On the right:
Antonio Caimi, Portrait of Antonio Maffei, oil on canvas, 1847 (Sondrio,
Valtellina Museum of History and Art).
La partecipazione dei valtellinesi e valchiavennaschi
al Risorgimento fu attiva e corale e
riguardò tutte le classi sociali. Essa non si limitò
al solo territorio provinciale, ma si dispiegò
sull’intero scenario nazionale con uomini
come Luigi Torelli, Giovanni ed Emilio
Visconti Venosta, Maurizio Quadrio e Ulisse
Salis, esponenti delle due anime del Risorgimento,
quella liberal-moderata e quella democratico-mazziniana,
che nei momenti decisivi
si ritrovarono insieme nel comune obiettivo
dell’Unità d’Italia.
10 ITALIA 150
FRANCO MONTEFORTE
Storico e giornalista
Il clero liberale
Nel 1852 l’arciprete di Sondrio,
Antonio Maffei, organizzava il
solenne trasporto delle spoglie del
suo lontano predecessore, Nicolò
Rusca, morto nel 1618 sotto tortura
a Thusis per mano dei protestanti
grigioni, dalla chiesa della
Sassella, dove erano murate, nella
Collegiata di Sondrio. In quella
occasione, lo stesso Maffei pronunciava
un discorso in cui, esaltando
la lotta del Rusca per la libertà
religiosa dei cattolici valtellinesi
nel ’600, fi niva per esaltare
tutte le lotte per la libertà e l’indipendenza.
Nel clima patriottico di
quegli anni, la fi gura di Nicolò Rusca
si trasfi gurava così in quella di
un eroe risorgimentale ante litteram
e l’arciprete Maffei poneva il
Risorgimento valtellinese sotto il
segno della continuità con la battaglia
combattuta dalla valle, nei
secoli precedenti, contro il dominio
straniero dei Grigioni, una battaglia
che, alla fi ne del Settecento,
nel clima della Lombardia napoleonica,
aveva visto il clero valtellinese
mettersi alla testa del popolo
assecondandone le aspirazioni di
libertà.
E in effetti, una delle particolarità
più clamorose del Risorgimento
in Valtellina fu appunto
l’orientamento liberale e fi lorisorgimentale
del clero, in consonanza
con quello di gran parte del clero
lombardo e in aperto dissenso
con l’orientamento generale della
Chiesa, che del Risorgimento fu
acerrima avversaria, e con quello
dello stesso vescovo di Como,
monsignor Angelo Romanò, di
fronte al quale l’arciprete Maffei
pronunziò nel 1852 il suo discorso
sulla libertà.
Proprio all’arciprete Antonio
Maffei dobbiamo quel Sommario
delle vicende politiche della Valtellina
dal marzo 1848 a tutto il 1859
(Sondrio, Brughera ed Ardizzi,
1873) che costituisce una delle
principali fonti storiche per la ricostruzione
delle vicende risorgimentali
in provincia di Sondrio e il documento
più significativo di
quell’orientamento liberal-moderato
del clero di cui il Maffei fu in
Valtellina il capofi la riconosciuto.
Non si contano, infatti, in Valtellina,
i preti, i curati e i sottocurati
delle più sperdute frazioni che appoggiarono
allora il movimento
patriottico. Fin dal ’48 in molte
chiese valtellinesi si benedirono le
bandiere italiane dei volontari che
partivano e si cantava il Te Deum
dopo ogni vittoria sugli austriaci.
Don Martino Anzi, il celebre botanico
bormino, don G. B. De Picchi,
prevosto di Chiavenna, don Giuseppe
Rizzetti, prevosto di Ardenno,
don Tommaso Valenti a Bormio,
il canonico Giuseppe Salis a
Tirano, non sono che i primi nomi
che vengono in mente di questi
preti liberali in Valtellina. Nel 1861,
all’indomani dell’Unità, su 298
ecclesiastici presenti in Valtellina
Cortesia MVSA Sondrio - Foto Pollini
solo tre verranno segnalati nei
rapporti della Prefettura per le loro
posizioni intransigenti contro il
nuovo Stato unitario.
Fu grazie a questo orientamento,
d’altronde, se, come ha
notato Giulio Spini, il mondo contadino
valtellinese non fu ostile,
come in Meridione, al moto risorgimentale,
ma vi partecipò anzi attivamente
come dimostra il numero
dei combattenti valtellinesi nelle
guerre d’indipendenza, che si aggirò
tra i quattro e i cinquemila uomini,
quasi tutti volontari.
L’Irlanda d’Italia
Del resto la Valtellina non
aveva certo di che essere soddisfatta
del governo lombardo-veneto.
Le strade dello Stelvio, dello
Spluga e dell’Aprica, fatte essenzialmente
per motivi militari, non
avevano per nulla incrementato il
traffi co commerciale della provincia.
I comuni, obbligati a far fronte
a proprie spese a quasi tutti i servizi,
compresi quelli della manutenzione
delle strade, erano carichi di
debiti cui cercavano di far fronte
con la vendita dei boschi dove da
secoli gli abitanti esercitavano
quegli usi civici (legnatico, raccolta
di frutti selvatici, allevamento del
maiale, ecc.) che erano un potente
integratore economico del magro
bilancio della famiglia contadina.
La privatizzazione dei boschi aveva,
a sua volta, favorito il forte diboscamento
che era all’origine
delle frequenti alluvioni, mentre le
opere di sistemazione idraulica del
corso dell’Adda sul fondovalle era-
no procedute con esasperante
lentezza, come del resto tutta la
macchina amministrativa del governo
lombardo-veneto, che mirava
più all’ordine pubblico e al controllo
sociale che allo sviluppo del
territorio.
Tutte le inchieste condotte
dopo il 1830, dalla Topografi a statistico-medica
della Valtellina
(1834) del dottor Lodovico Balardini,
regio medico provinciale, alla
Descrizione statistica della provincia
di Valtellina (1835) di Pietro
Rebuschini, alle Notizie statistiche
sulla Valtellina (1844) di Francesco
Visconti Venosta, alle Osservazioni
sulla condizione presente della Valtellina
(1845) di Luigi Torelli, ne
avevano messo in risalto l’endemica
povertà e il desolante sottosviluppo
che aveva nel gozzo e nel
cretinismo la sua piaga più evidente.
Ma nel 1859, alla vigilia del
The Risorgimento and Valtellina
The inhabitants of Valtellina and Valchiavenna actively participated in the Risorgimento,
and involved all social classes and the clergy as well, guided by Sondrio archpriest Antonio
Maffei who, compare to the rest of Italy, was liberal and pro-Unitarist. The patriotic
dedication of the people of Valtellina was not limited solely to the provincial territory and
the Stelvio and del Tonale fronts. In fact, it covered the entire national scenario with men of
the likes of Luigi Torelli, Giovanni and Emilio Visconti Venosta, Maurizio Quadrio and Ulisse
Salis, exponents of the two sides of the Risorgimento, the liberal-moderate side and the
democratic-Mazzinian side which, in the decisive moments, were reunited with the mutual
objective of uniting Italy. Starting in 1860, the new provincial establishment, together with
the reconstruction of the farming economy, concentrated on creating a modern scholastic
system and a solid fabric of cultural structures with the foundation, in Sondrio and
Chiavenna, with newspapers, libraries and workers companies. 1871, ten years after the
Unification, marked the founding of the Banca Popolare di Sondrio,
the expression of the valley’s economic revival.
Biglietto della
“Lotteria pei poveri
di Valtellina”,
promossa nel 1858
dal Governo del
Lombardo-Veneto per
venire incontro allo
stato di indigenza
della valle.
Ticket of the
“Lottery for the poor
of Valtellina”, held by
the Government of
Lombardy-Veneto
in 1858 to help the
state of need in
the valley.
NOTIZIARIO
Italia 150
crollo del Lombardo-Veneto, la situazione
di indigenza della provincia,
conosciuta per la sua povertà
in tutt’Europa come “l’Irlanda d’Italia”,
era diventata talmente preoccupante
da indurre il governo austriaco
a indire una “Lotteria dei
poveri di Valtellina” e a promuovere
due grandi inchieste, una affi data
a Stefano Jacini (che la pubblicherà
nel 1858 a proprie spese),
Sulle condizioni economiche della
Provincia di Sondrio, e l’altra, rimasta
inedita, condotta da Diego
Guicciardi, nipote e omonimo del
più famoso Guicciardi morto nel
1837. In entrambe le inchieste si
indicavano rimedi radicali per alleviare
il peso del fi sco, stimolare il
commercio e migliorare la
condizione dei contadini,
che restava quella più
drammatica, insieme a
provvedimenti di carattere
apertamente liberale, come
quelli reclamati nel corso
di tutto il Risorgimento,
rimedi che avrebbero richiesto
un governo ben più
indipendente e risoluto di
quello allora insediato a
Milano. Le due inchieste
erano state volute da Massimiliano
I, fratello dell’imperatore
Francesco Giuseppe, che
nel 1857 era stato nominato viceré
del Lombardo-Veneto, in sostituzione
del maresciallo Radetzky,
nel disperato tentativo di arginare
il movimento risorgimentale. Ma
alla fama di liberale e di progressista,
Massimiliano I univa, purtroppo,
un carattere debole e velleitario
che nel 1859, dopo il trattato
di Villafranca che ne provocò la
destituzione e il congedo da Milano,
lo portò ad accettare la corona
imperiale del Messico; dove qualche
anno dopo, malgrado le riforme
liberali attuate, verrà fucilato,
suscitando una forte ondata di
emozione in Europa, di cui il celebre
quadro di Manet sulla sua
esecuzione e la marcia funebre di
Liszt inserita nei suoi Années de
pèlerinage, non sono che le testimonianze
più note.
Ma nel 1859 non era più il
governo austriaco che poteva determinare
il futuro della Valtellina,
perché questa, proprio quell’anno,
insieme a tutta la Lombardia si
univa al Piemonte e da lì a poco
sarebbe entrata a far parte dell’Italia
unita, per cui si era battuta fi n
dal 1848.
Le aspirazioni patriottiche
di una nuova classe dirigente
Sarebbe però sicuramente
fuorviante cercare i motivi dell’adesione
della Valtellina al moto
risorgimentale solo nelle sue condizioni
economico-sociali durante
il Lombardo-Veneto, separate dalle
più generali aspirazioni di libertà
e di indipendenza che animarono
gran parte di quegli esponenti
giovani e meno giovani della nobil-
12 ITALIA 150
Pio IX. Le speranze
suscitate tra i
patrioti italiani dalla
sua elezione nel
1846 e l’appoggio
inizialmente dato
all’insurrezione del
’48 furono decisivi
per l’orientamento
filorisorgimentale del
clero valtellinese.
Pius IX. The hopes
raised amongst the
Italian patriots by his
election in 1846 and
the support initially
given to the 1848
uprising were
decisive for the
pro-Risorgimento
orientation of the
Valtellina clergy.
tà e della borghesia terriera
e commerciale locale, quei
medici, giuristi, avvocati e
uomini di scienza – Luigi Torelli,
Maurizio Quadrio, Romualdo
Bonfadini, Francesco
ed Enrico Guicciardi, Giovanni
e Emilio Visconti Venosta,
Ulisse e Giovanni Salis, Carlo
ed Enrico Sertoli, Aristide e
Pietro Caimi, Giacomo Merizzi,
ecc. – formatisi nelle università
di Pavia, di Padova o
addirittura, come nel caso di
Torelli, Caimi e Giacomo Merizzi,
al Teresianum di Vienna, ma
vissuti poi negli ambienti liberali di
Milano o, come Maurizio Quadrio,
in giro per l’Europa a stretto contatto
con le idee di libertà e di indipendenza
che ovunque vi si respiravano.
Erano uomini animati da forti
aspirazioni ideali e ambizioni
personali e molti di essi, durante
e dopo il Risorgimento, avrebbero
avuto un ruolo importante nella
società e nella politica italiana,
ma tutti rimasero sempre ben
radicati nel tessuto provinciale
che ne costituì il costante punto
di riferimento.
Torelli, ad esempio, non riuscendo
a sopportare il lavoro di
funzionario pubblico del governo
austriaco, fi n dal 1836 aveva preferito
tornare a vivere a Tirano,
dove nel 1846 scriverà i Pensieri
sull’Italia di un anonimo lombardo
– ripubblicati nel 1853 col proprio
nome – con cui si inserisce nel
dibattito sull’unità nazionale sulla
scia dell’idea federalista.
Maurizio Quadrio, allievo di G.
Domenico Romagnosi a Pavia,
dopo aver partecipato ai moti del
1820-21 nel Napoletano e in Piemonte
e combattuto per le libertà
costituzionali in Spagna e in Polonia
nel 1831, era fuggito in Crimea
dove aveva insegnato lingue straniere
a Odessa, ma nel 1835 era
tornato in Italia e, scontati i sei
mesi di prigione in cui gli era stata
commutata la pena capitale, si era
stabilito nella sua casa di Chiuro,
sorvegliato a vista dalla polizia
austriaca. Sia Torelli sia Maurizio
Quadrio si distingueranno in Valtellina
per l’opera di infaticabile aiuto
che svolgeranno nell’epidemia di
colera del 1836, guadagnandosi a
Tirano e a Chiuro una grande popolarità
che, nel caso di Maurizio
Quadrio lo porterà a tenere a battesimo,
tra il 1836 e il 1848, ben
34 bambini, tutti fi gli di contadini,
falegnami, muratori, fabbri e calzolai,
come si ricava dai Registri
parrocchiali di Chiuro.
Anche nei più giovani valtellinesi
allora studenti a Milano, come
i fratelli Giovanni ed Emilio Visconti
Venosta, un tale radicamento
nella realtà popolare della provincia
è in quegli anni altrettanto
sentito.
Come narra Giovanni Visconti
Venosta nei suoi Ricordi di gioventù
(Milano, Tipografi a Editrice L. F.
Cogliati, 1904), ancora nel ’47
essi trascorrevano i loro mesi di
vacanza scolastica in Valtellina,
girando per la valle insieme agli
amici milanesi e valtellinesi «fermandoci
in tutti i paesi e paeselli
che si attraversavano, entrando
nei casolari dei contadini, conversando,
spiegando all’ingrosso la
quistione italiana, e distribuendo a
profusione certe medaglie con
l’effi gie di Pio IX e col motto viva
l’Italia. Poi, se nessuno ci vedeva,
armati di un pezzo di carbone si
scriveva su qualche muro: viva
l’Italia, viva Pio IX».
Appena eletto nel 1846 al
soglio pontifi cio, papa Mastai Ferretti,
già noto per le sue idee liberali,
aveva, infatti, promulgato per
prima cosa l’amnistia per i reati
politici e acceso in tutta Italia le
speranze che avevano portato Gioberti
a teorizzare quella federazione
italiana di Stati sotto la presidenza
del papa, passata alla storia
col nome di neoguelfi smo, cui
molti liberal-moderati, compreso
Torelli, credettero fi no dal 1859 e
che costituì anche la base dell’adesione
del clero valtellinese al moto
risorgimentale.
Il 1848 e la libera Repubblica
di Stelvio e Tonale
E così, grazie al clero e all’azione
di questi intellettuali e
notabili, tutti esponenti dell’aristocrazia
possidente locale, il malcontento
verso l’Austria si era venuto
lentamente colorando anche in
Valtellina delle idealità proprie
dell’età risorgimentale.
Non c’è da meravigliarsi, perciò,
se il 18 marzo 1848, alla notizia
dell’insurrezione milanese
delle Cinque giornate, anche la
Valtellina insorgeva schierandosi
subito a fi anco del governo provvisorio
costituitosi sotto la presidenza
di Gabrio Casati. Già la mattina
del 19 marzo, a Chiavenna, Francesco
Dolzino e i suoi amici disarmavano
i gendarmi austriaci e la
guardia doganale con l’appoggio
della folla che quella sera stessa
dava vita a una grande festa popolare.
A Sondrio il podestà G. B.
Botterini de’ Pelosi costituiva immediatamente
la guardia civica,
divenuta poi guardia nazionale,
nelle cui mani si consegnava la
polizia austriaca. A Morbegno i
250 uomini della nuova guardia
civica avevano in breve tempo ragione
del reggimento austriaco del
capitano Prosch. A Tirano Giuseppe
Guicciardi già il 21 marzo formava
una sorta di governo provvisorio.
E mentre sullo Stelvio, a difesa
del confi ne con l’Austria, cominciavano
ad affl uire volontari da
ogni angolo della Valtellina e della
Lombardia, a Milano un’altra fetta
Cortesia MVSA, Sondrio - Foto Pollini
On the left: Antonio
Caimi, Portrait of
Luigi Torelli, oil on
canvas, 1848
(Sondrio, Valtellina
Museum of History
and Art).
On the right: Carlo
Bossoli, Luigi Torelli
raises the tricolour
on the Duomo of
Milan, watercolour.
The episode was
reconstructed by
Torelli in his Memoirs
around the Five Days
of Milan (Milan,
Hoepli, 1876).
Antonio Caimi,
Ritratto di Francesco
Guicciardi, olio su
tela (Sondrio Museo
valtellinese di storia
e arte).
Antonio Caimi,
Portrait of Francesco
Guicciardi, oil on
canvas (Sondrio,
Valtellina Museum
of History and Art).
A sinistra: Antonio
Caimi, Ritratto di
Luigi Torelli, olio su
tela, 1848 (Sondrio,
Museo valtellinese di
storia e arte).
A destra: Carlo
Bossoli, Luigi Torelli
alza il tricolore sul
duomo di Milano,
acquerello. L’episodio
è stato ricostruito
dallo stesso Torelli
nei suoi Ricordi
intorno alle cinque
giornate di Milano
(Milano, Hoepli,
1876).
di Valtellina si batteva sulle barricate.
Qui c’era Luigi Torelli, capo
del Consiglio di guerra cittadino,
che si conquistava il suo quarto
d’ora di celebrità issando il tricolore
sul pinnacolo più alto del Duomo,
e c’erano Maurizio Quadrio, i
due fratelli Visconti Venosta, Romualdo
Bonfadini, Ulisse Salis,
Enrico Guicciardi, il giovanissimo
tiranese (aveva solo undici anni)
Pietro Pievani insieme ai fratelli,
Giuseppe Parravicini De Picchi e
Foto Pollini
Stefano Parravicini di Morbegno,
che a Milano diventerà capitano
della guardia nazionale. Presto
sarebbero arrivati anche i cento
chiavennaschi di Francesco Dolzino,
posti di stanza a Erba a presidiare
il versante brianzolo del capoluogo
lombardo. La Valtellina
entrava così nell’orbita della sollevazione
lombarda contro gli austriaci
e al plebiscito del 29 maggio,
svoltosi contemporaneamente
in tutta la Lombardia, votava l’annessione
al Piemonte con soli tre
voti contrari su 20.186 votanti. Il
sondriese Azzo Carbonera veniva
perciò chiamato a far parte del
Governo provvisorio lombardo in
rappresentanza della provincia,
mentre Francesco Guicciardi veniva
nominato presidente della nuova
Congregazione provinciale e
Maurizio Quadrio diventava commissario
per la difesa militare della
linea Stelvio-Tonale, che Ulisse
Salis si era per primo incaricato di
organizzare.
Abolita la censura austriaca,
nasceva in quei giorni, ad opera di
Francesco Romegialli, Vincenzo
Quadrio e Giuseppe Pedrazzini, il
primo giornale locale, Il Libero Valtellinese,
un settimanale il cui ricavato
fu destinato alle famiglie dei
ITALIA 150 13
volontari dello Stelvio. Sullo Stelvio,
dopo i primi successi contro gli
austriaci, ai primi di luglio c’erano
già 750 volontari valtellinesi, ma
ad agosto tra Stelvio e Tonale i
valtellinesi erano circa 1.600 sul
totale dei circa 3.500 uomini di cui
si componevano i due corpi d’ar-
14 ITALIA 150
mata agli ordini del generale D’Apice.
Ma più aumentavano i volontari
più crescevano la disorganizzazione
e l’improvvisazione della
macchina militare che in quei mesi
precipitava nel caos, malgrado gli
sforzi del Torelli che avrebbe dovuto
sovrintendervi. Dopo le speran-
IL PITTORE DEL
RISORGIMENTO VALTELLINESE
È forse esagerato defi nire Antonio Caimi (1811-78) il pittore del
Risorgimento valtellinese e certamente egli stesso avrebbe rifi utato una
simile etichetta, sia perché non si conosce nessuna sua diretta partecipazione
alle vicende risorgimentali, sia perché dai suoi scritti non
traspare alcuna convinzione su queste vicende.
Egli, piuttosto, «la sua politica non la fece che con l’arte» come
disse Camillo Boito nella commemorazione funebre dell’artista. E dunque
nella sua arte vanno ricercate le sue convinzioni. Non tanto nei
soggetti religiosi e negli affreschi, di cui rimangono molte testimonianze
in Valtellina, ma che non sono certo le sue cose migliori, quanto nei
suoi ritratti, in cui, senza brillare per originalità, egli ci dà però uno
spaccato della classe dirigente valtellinese di metà ’800, con quel suo
castigato romanticismo in cui affi ora una certa vicinanza all’Hayez, di
cui fu ammiratore e amico e che gli dedicò un ritratto, rimasto incompiuto,
e un’incisione.
Tra i suoi ritratti spiccano quelli di alcuni dei maggiori protagonisti
del Risorgimento valtellinese, come Luigi Torelli, Francesco Guicciardi,
che fu nel ’48 il presidente della Congregazione provinciale insediato
dal Governo provvisorio di Lombardia dopo la cacciata di Radetzky, G.
B. Botterini de’ Pelosi, podestà di Sondrio nel ’48 e organizzatore della
prima guardia nazionale, e l’arciprete Antonio Maffei, capofi la del clero
fi lorisorgimentale e cronista del Risorgimento valtellinese, che con Caimi
condivideva la comune passione artistica avendo anch’egli studiato
pittura all’Accademia di Brera. Non manca, peraltro, anche il ritratto di
una donna, Teresa Calvi, moglie del conte e patriota mazziniano Ulisse
Salis, esposto nella bella mostra allestita, in occasione del 150° dell’Unità,
al Palazzo Salis di Tirano (Una famiglia nella storia: i Salis Zizers
dal 1797 all’Unità d’Italia). Come ha scritto Valerio Della Ferrera, che di
Caimi è il maggiore studioso, «questi ritratti interessano per l’importanza
storica dei personaggi [...] che si pongono alla guida della lotta risorgimentale
in Valtellina» e «si collegano in un’ideale celebrazione di
questo momento di lotta politica e più precisamente di una linea moderata
nello schieramento risorgimentale. E poiché il ritratto attesta solitamente,
al di là della semplice commissione, un rapporto diretto di amicizia,
o di conoscenza e di stima tra il pittore e l’effi giato, possono fare
luce sulle convinzioni politiche del Caimi». (V. Della Ferrera, Antonio
Caimi 1811/1878. L’arte del ritratto, cat. della mostra di Sondrio, Bergamo,
Bolis Edizioni, 1996)». Il pittore sondriese, insomma, fu partecipe
in qualche modo con la propria arte del moderatismo liberal-patriottico
risorgimentale valtellinese, come sembrerebbe anche confermare Camillo
Boito per il quale Caimi «amava ogni libertà giudiziosa, ma non si
sentiva inclinato ai chiassi delle discussioni pubbliche, né alle febbri
dell’azione violenta». E certo questo suo orientamento non dovette essere
estraneo alla nomina nel 1860 a segretario dell’Accademia di Brera,
una carica che fi no al 1854 era stata di un altro artista sondriese, Pietro
Martire Rusconi, che di Caimi era lo zio. Fu in qualità di segretario di
Brera che Caimi scrisse nel 1862, in occasione dell’Esposizione di Londra,
la sua opera più importante, Delle arti del disegno e degli artisti
nelle province della Lombardia dal 1777 al 1862.
F. Hayez, Ritratto di
A. Caimi, olio su
tela, 1877
(collezione privata
Cortese, Sondrio).
F. Hayez, Portrait
of A. Caimi, oil on
canvas, 1877 (the
Cortese private
collection, Sondrio).
ze suscitate dalla vittoria di Carlo
Alberto a Pastrengo e dalla caduta
di Peschiera con cui si era aperta
la Prima guerra d’Indipendenza, il
confl itto con l’Austria si era arenato
nel lento tallonamento delle
truppe di Radetzky che a giugno
riuscivano a passare all’offensiva
e a battere i piemontesi a
Custoza e a Milano, costringendo
Carlo Alberto
alla resa. Il 9 agosto con
la fi rma dell’armistizio di
Salasco, la guerra era
perduta. Abbandonati da
mesi a se stessi e privi di
rifornimenti i 3.500 volontari
sullo Stelvio e sul Tonale
si erano venuti così
a trovare improvvisamente
stretti nella morsa delle
truppe austriache che avanzavano
contemporaneamente dal Tirolo
e da Colico dove erano giunte
l’11 agosto. Anziché arrendersi,
Maurizio Quadrio e il generale
D’Apice avevano risposto proclamando,
a Tirano, la Repubblica di
Stelvio e Tonale, «strana ed arrischiatissima
risoluzione» scrive il
Maffei, presa in segno di sfi da a
Carlo Alberto e alla monarchia
piemontese che aveva tradito le
speranze della Lombardia.
Resisteranno fi no al 21 agosto,
poi, nella stanchezza e nello
scoramento generale, «la questione
della pulenta prevalse a quella
dell’onore» scrisse il generale
D’Apice. E così «i volontari D’Apice,
che da quattro mesi difendevano i
varchi alpestri onde scendono l’Adda
e l’Adige, ebbero a disperdersi
per manco di vestimenta e di pane»,
notava amaramente Carlo
Cattaneo nella sua ricostruzio ne
storica degli avvenimenti di
quell’anno (Dell’insurrezione di Milano
nel 1848 e della successiva
guerra, Bruxelles, 1849).
Collezione privata Cortese, Sondrio - Foto Pollini
La Repubblica di Chiavenna
e la battaglia di Verceia
Quadrio e D’Apice, attraverso
Poschiavo, ripareranno in Svizzera,
raggiungendo infi ne Lugano dove
era giunto anche Francesco Dolzino
e dove, insieme a Mazzini e al
generale Medici, braccio destro di
Garibaldi, ritesseranno una nuova,
ardita quanto velleitaria tela insurrezionale
tra la Val d’Intelvi, la
Valchiavenna, la Valtellina e le
valli bergamasche. Sia Emilio Visconti
Venosta – allora fervente
mazziniano, che dopo la liberazione
di Milano aveva seguito Garibaldi
a Bergamo per ritrovarsi qualche
mese dopo anch’egli lacero, affamato
e febbricitante in una stalla
di Lugano – sia Enrico Guicciardi,
dopo aver tastato il polso degli
umori popolari, si erano rifi utati di
partecipare a quell’impresa che si
sarebbe esaurita nel nulla senza
l’intraprendenza e l’audacia di
Francesco Dolzino.
Rioccupata Chiavenna con
una ventina di volontari, Dolzino vi
aveva proclamato subito la repubblica.
La sua popolarità era allora
altissima nella cittadina, di cui era
stato sindaco durante i mesi esaltanti
della rivoluzione lombarda, e
la sua stessa, imponente fi gura
fi sica era una leggenda per i giovani
che lo vedevano girare per le vie
sul suo nero, grande cavallo. Non
fece dunque fatica a radunare subito
attorno a sé un piccolo battaglione
e nell’ottobre del ’48, con
200 uomini e un fi nto cannone,
nella vana attesa dei rinforzi valtellinesi
e dell’insurrezione delle valli
comasche e bergamasche, tenne
testa per una settimana agli 800
croati del generale Haynau. Solo
grazie a un traditore questi poté
aver ragione di quell’audacissima
resistenza che il generale austriaco
fece pagare cara all’infame
Chiavenna con una durissima taglia
di 36 mila lire, cui si accompagnò
la confi sca dei beni del Dolzino,
fi glio di agiati commercianti, e
della sua casa trasformata in caserma.
L’episodio di Verceia – cantato
anche da Carducci e ricostrui to
nel 1896 da Carlo Pedretti nel suo
A destra dall’alto:
Emilio Visconti
Venosta (1829-1914).
Giovanni Visconti
Venosta (1831-1906).
Maurizio Quadrio
(1800-76).
Decreto del Governo
provvisorio della
Lombardia del 7
luglio 1848 con cui
Maurizio Quadrio
viene nominato
Commissario
governativo per la
Valtellina (Sondrio,
Biblioteca civica Pio
Rajna).
Decree of the
Provisional
government of
Lombardy of 7th July
1848 which
appointed Maurizio
Quadrio Government
Commissioner for the
Valtellina (Sondrio,
Pio Rajna Civic
Library).
ITALIA 150 15
scritto su Gli avvenimenti di Chiavenna
del 1848 (in: Ferruccio Pedretti,
Ricordi chiavennaschi, Chiavenna,
Giovanni Ogna, 1929) – è
giustamente una delle pagine più
celebri e controverse di tutto il Risorgimento
valtellinese. L’arciprete
Maffei, ad esempio, lo giudicò subito
una «sciagurata impresa condotta
con soverchia fi ducia e precipitazione»
e Giovanni Visconti
Venosta, nei suoi Ricordi di gioventù,
lo liquidò come frutto di un
gruppo di «avventati e illusi», mentre
G. B. Crollalanza nella sua
Storia del contado di Chiavenna
(1867) e Ulrico Martinelli, che nel
1899 ne riesumò il ricordo, ne
esaltarono il signifi cato. Più recentemente
Luigi Festorazzi lo ha defi
nito «un moto di popolo», mentre
Giulio Spini nella sua Storia della
Valtellina, pur ritenendolo un episodio
«improvviso e temerario sul
piano militare e politico» lo giudica
comunque «un fatto idealmente
positivo, che arricchì la partecipazione
del Chiavennasco al Risorgimento,
integrando il panorama
moderato provinciale con una idealistica
impennata mazziniana» (E.
Mazzali, G. Spini, Storia della Valtellina,
vol. III, Sondrio, Bissoni,
1979).
È vero che nel ’48 in Valtellina,
come nel resto d’Italia e in
Europa, tutti i tentativi insurrezionali,
comprese le due effi mere repubbliche
mazziniane, si erano
conclusi con una sconfi tta, ma è
16 ITALIA 150
Il Libero valtellinese,
il settimanale di cui
uscirono solo quattro
numeri tra il 10
luglio e il 4 agosto
del 1848.
Le pubblicazioni
cessarono con il
ritorno degli austriaci
a Milano il 7 agosto
di quell’anno
(Sondrio, Biblioteca
civica Pio Rajna).
Il Libero valtellinese,
the weekly of which
only four issues were
published between
10th July and 4th
August, 1848.
Publication ceased
with the return of the
Austrians to Milan on
7th August of the
same year
(Sondrio, Pio Rajna
Civic Library).
Sebastiano
De Albertis, Carica
di carabinieri nella
battaglia di
Pastrengo, tempera
e puntasecca su tela
(collezione Banca
Popolare di Sondrio).
Sebastiano De
Albertis, Charge of
the carabinieri at the
Battle of Pastrengo,
tempera and dry
point engraving on
canvas (Banca
Popolare di Sondrio
collection).
anche vero che proprio grazie alla
radicalità di quei moti rivoluzionari
si capì che da quel momento in
Europa nulla avrebbe più potuto
essere come prima. Del resto,
anche la guerra condotta dal Piemonte
e l’organizzazione militare
del governo provvisorio lombardo
dopo le Cinque giornate erano
state, a dir poco, un disastro.
Al di là del giudizio storico,
resta comunque il fatto che fra
l’agosto e l’ottobre del ’48, con i
coraggiosi tentativi di Maurizio
Quadrio e di Francesco Dolzino, si
consumava anche in Valtellina la
frattura tra i democratico-repubblicani,
fedeli a Mazzini e alla sua
incondizionata fi ducia nel popolo
come protagonista dell’indipen-
denza italiana, e i liberal-moderati
che vedevano nella monarchia piemontese
l’unica forza su cui far
leva per liberare l’Italia dagli austriaci,
premessa militare di ogni
discorso sull’Unità.
I primi si concentreranno soprattutto
a Chiavenna, dove il mito
di Francesco Dolzino continuerà
ad alimentare, anche dopo l’Unità,
le aspirazioni democratico-repubblicane
all’autogoverno e a una
maggiore giustizia sociale, i secondi
domineranno soprattutto la scena
politica a Sondrio e in Valtellina
e avranno in Luigi Torelli, in Aristide
e Pietro Caimi, nell’arciprete Maffei
e, quindi, in Guicciardi e nei
fratelli Visconti Venosta i loro maggiori
esponenti.
Foto Pollini
QUANTI FURONO I COMBATTENTI
VALTELLINESI E VALCHIAVENNASCHI
NEL RISORGIMENTO?
Diverse fonti hanno cercato di calcolare il numero dei valtellinesi
che parteciparono alle diverse campagne militari per l’indipendenza
italiana tra il 1848 e il 1866, ma una cifra esatta è ancora oggi impossibile
stabilirla.
Un primo, approssimativo quadro numerico e nominativo ce lo
fornisce l’Elenco degli individui della Provincia di Sondrio che fecero
parte della Campagne Nazionali dal 1848 in avanti, predisposto nel
1885 e pubblicato nel 1960 dalla Società storica valtellinese nel suo
Bollettino, in occasione del centenario della spedizione dei Mille. Vi si
trovano 2.353 nomi divisi per comune, con le date delle campagne cui
parteciparono. Ma quanto è attendibile questo elenco? Poco, molto
poco. Vi mancano, ad esempio, molti nomi da noi ricordati in questo
saggio, fra cui quelli di Carlo Pedretti, di Antonio Pescialli, di Nicola
Mevio, di Antonio Cederna o di Antonio Pievani che sicuramente presero
parte alla spedizione dei Mille. Se si scorrono poi le pagine del
Sommario delle vicende politiche della Valtellina dal marzo 1848 a
tutto il 1859 del Maffei, salta subito all’occhio che parecchi nomi mancano
ancora all’appello. L’Elenco del 1885, in realtà, sembra più attendibile
per la campagna del 1866 (oltre 2.100 combattenti) che per
quelle più lontane del ’59 e soprattutto del ’48-49. Lo dimostra la scrupolosa
ricostruzione fatta nel 1899 da Luigi Credaro nel suo saggio su
I veterani valtellinesi del ’48-49, pubblicato nel volume collettivo Peregrinazioni
(Milano, Tip. Confalonieri, 1899, pp. 136-170). Sulla base
delle fonti militari, Credaro ha calcolato che alla data del 9 luglio 1848
i valtellinesi presenti sullo Stelvio erano circa 750, ma che un mese
dopo, tra volontari e bersaglieri, il loro numero era salito a 1.110 sullo
Stelvio e a 500 volontari sul Tonale, in tutto 1.610 combattenti. Ad essi
vanno aggiunti anche i 430/450 bersaglieri valtellinesi che combatterono
nel ’49 a Novara nella compagnia guidata da Enrico Guicciardi, che
portano a oltre duemila i combattenti nel solo ’48-49, un numero ben
diverso da quello prospettato dall’Elenco del 1885 dove i combattenti
del ’48-49 sono circa 320. Se uniamo gli oltre 2.100 valtellinesi del ’59-66,
ai 2.000 circa del ’48-49 e ai garibaldini della spedizione dei Mille, otteniamo
una cifra di circa 4.200 combattenti.
Ma in quale elenco troveremmo mai il chirurgo di Morbegno
Carlo Cotta (vedi scheda Un medico valtellinese a Solferino), medico
militare a Magenta e a Solferino, che fu in Italia tra i pionieri della
Croce Rossa internazionale? O Pietro Mossini di Grosotto, un altro
medico militare che morì in Crimea al seguito del battaglione piemontese
inviatovi da Cavour? O il giovane Paolo Mariani di Morbegno,
morto coi volontari lombardi di Luciano Manara nella difesa della Repubblica
romana del ’49? O i nomi dei cento e cento valchiavennaschi
che seguirono Francesco Dolzino a Milano durante le Cinque giornate
e gli furono poi accanto a Verceia? Senza contare i coscritti regolari che
nel solo ’48 furono in Valtellina 584.
Ci sembra corretto, perciò, ipotizzare un numero approssimativo
fi nale di non meno 5.000 combattenti valtellinesi nel corso del Risorgimento.
Una cifra molto alta per una provincia che al primo censimento
dopo l’Unità, nel 1861, contava 106.040 abitanti, di cui 52.855 maschi
che, escludendo i 17.655 fi no a 15 anni, si riducono a 35.200 compresi
gli anziani. Ciò vuol dire che, insieme ai fi gli dell’aristocrazia agraria
e della borghesia commerciale locale, anche molti giovani contadini
parteciparono alle campagne militari del Risorgimento, malgrado queste
si svolgessero proprio nei mesi estivi e autunnali dove si concentravano
quasi tutti i lavori agricoli. Sono poche, insomma, le famiglie
valtellinesi che non possano vantare tra i propri antenati un combattente
per l’Unità d’Italia nel Risorgimento.
A sinistra: Giuseppe
Mazzini (1805-72).
A destra: Camillo
Benso conte di
Cavour (1810-61).
On the left: Giuseppe
Mazzini (1805-72).
On the right: Camillo
Benso, Count of
Cavour (1810-61).
I valtellinesi nel Risorgimento
nazionale dopo il ’48-49
Ma intanto alla fi ne del ’48 il
sipario risorgimentale calava mestamente
sullo scenario valtellinese
e per molti dei suoi protagonisti
esso si riapriva su quello nazionale.
Luigi Torelli, cui era toccato
l’amaro compito di scrivere e di
leggere ai milanesi il proclama di
resa di Carlo Alberto, inseguito dal
mandato di cattura austriaco, si
era rifugiato in Piemonte, dove era
entrato nel Parlamento subalpino
diventando anche ministro dell’Agricoltura
e del Commercio. Fautore
di una politica estera più mediterranea
da parte del Piemonte,
nel 1854 entrerà nella direzione
del Comitato per il Canale di Suez,
grazie all’amicizia con l’imprenditore
e diplomatico francese Ferdinand
de Lesseps, concessionario
dei lavori per la sua costruzione.
Enrico Guicciardi, che era stato
fi no all’ultimo a fi anco di Maurizio
Quadrio nell’eroica difesa dello
Stelvio e del Tonale, fuggendo attraverso
Poschiavo, aveva anch’egli
trovato riparo in Piemonte, dove
nel gennaio del 1849, in vista
della ripresa delle ostilità contro
l’Austria, era stato nominato capitano
dell’esercito regolare. In questa
veste prenderà parte nel marzo
del 1849 alla battaglia di Novara
al comando di un battaglione di
430 volontari valtellinesi, tutti
quelli che era riuscito a raccogliere
dopo la disastrosa avventura dello
Stelvio, inquadrati nella brigata
Solaroli, in cui ritroviamo come
capo di stato maggiore Luigi Torelli.
Un terzo di quei volontari valtellinesi
resterà sul campo di batta-
ITALIA 150 17
Fototeca Gilardi
glia di Novara in quel 23 marzo
1849 che vide la sconfi tta defi nitiva
dell’esercito piemontese e l’abdicazione
di Carlo Alberto a favore
di Vittorio Emanuele II.
Maurizio Quadrio, che a Lugano
si era strettamente legato a
Mazzini, aveva poi seguito
quest’ultimo a Roma. Qui Pio IX,
dopo aver partecipato accanto al
Piemonte alla Prima guerra d’indipendenza,
all’indomani della
sconfi tta di Custoza aveva ritirato
le truppe pontifi cie e cominciato a
prendere le distanze dalla causa
italiana. Per sedare eventuali disordini
aveva, tuttavia, nominato
alla guida del governo pontifi cio
Pellegrino Rossi, aperto alle istanze
patriottiche e liberali. Ma dopo
l’assassinio di quest’ultimo nel
novembre del ’48, il papa era fuggito
da Roma rifugiandosi nella
fortezza di Gaeta. I liberali, dichiarandolo
decaduto dal potere temporale,
avevano allora proclamato
la Repubblica romana in soccorso
della quale, dopo la battaglia di
Novara, erano subito accorsi Garibaldi
e Mazzini. Eletto deputato di
Ferrara, Mazzini, insieme ad Aurelio
Saffi , deputato di Forlì, e Carlo
Armellini, deputato di Roma, aveva
quindi dato vita al Triumvirato,
di cui Maurizio Quadrio era stato
nominato segretario.
La Repubblica romana, che
nel ’49 si era data la Costituzione
più democratica d’Europa in cui si
garantiva l’autorità spirituale del
papa, fi niva, com’è noto, nel luglio
del ’49 soffocata dalle armi francesi,
dopo una disperata difesa in cui
persero la vita più di 3.000 volontari,
tra cui, a soli 21 anni, Goffredo
Mameli, che nel ’47 aveva composto
Fratelli d’Italia, e il giovanissimo
valtellinese Paolo Mariani di
Morbegno, al seguito del battaglione
lombardo di Luciano Manara.
Abbandonata Roma, il Quadrio
riprendeva con Mazzini la sua
vita randagia di cospirazione che
lo porterà prima in Svizzera, poi a
Londra, quindi ancora a Losanna
(dove salvò Mazzini da un attentato)
e infi ne in Italia dove, a partire
dal 1855, si diede a un’intensa,
quanto ricercatissima attività giornalistica,
fondando anche due
18 ITALIA 150
Lettera di Giuseppe
Mazzini al popolo di
Chiavenna spedita a
Francesco Dolzino
nell’ottobre del ’48
durante i giorni della
Repubblica di
Chiavenna.
Letter from Giuseppe
Mazzini to the people
of Chiavenna sent to
Francesco Dolzino in
October 1848 during
the days of the
Republic of
Chiavenna.
giornali Dio e Popolo e Pensiero e
Azione.
Meno cosmopolita di Quadrio
e più ostinatamente legato alla
sua dimensione chiavennasca,
Francesco Dolzino, dopo la sfortunata
impresa di Verceia, si era rifugiato
in Svizzera da dove, ai primi
sentori di ripresa della guerra contro
l’Austria nel marzo del 1849,
era rientrato in Valtellina attraverso
la Bregaglia, tentando la sollevazione
di Morbegno e poi di Sondrio,
nel quadro di un più vasto
piano insurrezionale mazziniano
che vedrà le contemporanee rivolte
di Como e di Brescia. Quest’ultima
resisterà dieci giorni, dal 23
marzo al 1° aprile, meritandosi il
titolo di “Leonessa d’Italia”, prima
di arrendersi alla ferocia del generale
Haynau, la “iena di Brescia”.
Ma la Valtellina non era Brescia e
l’indifferenza, se non l’ostilità, con
cui venne allora accolto Francesco
Dolzino lo costrinsero a rientrare
precipitosamente in Svizzera. Deluso,
si trasferì defi nitivamente a
Genova, patria del mazzinianesimo,
dove visse povero lavorando
come portuale e dove morì di colera
nel 1855.
1849-1859:
il decennio di preparazione
Con la caduta della Repubblica
romana comincia in Italia quel
“decennio di preparazione” in cui i
liberal-moderati, sotto la guida di
Cavour, puntano tutto sull’azione
politico-diplomatica internazionale
attorno alla causa italiana, mentre
Mazzini dalla Svizzera non cessa
di contare sulla sollevazione popolare
a colpi di tentativi insurrezionali.
La frontiera con la Svizzera,
che fi n dal ’48 si era rivelata provvidenziale
per i patrioti italiani, diventava
in quegli anni un caso internazionale
in Europa. L’Austria
accusava la Confederazione di
essere la sentina di tutti i rivoluzionari
europei e ne minacciava l’invasione.
Radetzky espelleva dalla
Lombardia i ticinesi che vi lavoravano,
chiudendo le frontiere nel
tentativo di forzare la mano alle
autorità elvetiche sull’espulsione
dei rifugiati italiani. Per allentare la
tensione le autorità di Berna avevano
concentrato tutti i rifugiati
politici in luoghi lontani dalle frontiere,
ma quella misura non era
valsa a fermare Mazzini che, all’inizio
del ’53, tornava a ordire un’insurrezione
a Milano, fi nita con decine
di arresti e una stretta repressiva
e poliziesca in cui rientrarono
anche la confi sca in Valtellina dei
beni di tutti i rifugiati in Piemonte,
fra cui Filippo Caimi, Gerolamo
Guicciardi, Bernardo Parravicini e
Luigi Torelli.
Maturava in quegli anni anche
la svolta moderata di Emilio
Visconti Venosta e il suo defi nitivo
distacco da Mazzini. Questi, dopo
il fallimento dell’insurrezione milanese
del 6 febbraio 1853, era
tornato a immaginare un altro piano
insurrezionale che prevedeva la
discesa su Milano attraverso le
valli alpine, alla cui potenzialità rivoluzionaria
Mazzini e Quadrio non
smetteranno mai di credere. Aveva
quindi inviato una lettera a Emilio
Visconti Venosta pregandolo di
assumersene il comando, ma questi
gli aveva risposto declinando
l’invito e disegnando uno scenario
della situazione europea e di quella
dei partiti italiani in cui dimostra-
va come, dopo l’ondata rivoluzionaria
degli anni precedenti, conveniva
ora tentare per via diplomatica
di impedire all’Austria di
go vernare in attesa di un nuovo
risveglio rivoluzionario che non sarebbe
mancato. A 24 anni Emilio
Visconti Venosta, lavorando a
stretto contatto con Cavour di cui
sposerà una parente, Maria Luisa
Alfi eri di Sostegno, ragionava già
con la mentalità del ministro degli
Esteri, che presto sarebbe diventato.
Il conte Ulisse Salis
Venuto meno l’appoggio di
Visconti Venosta, Mazzini, stabilitosi
a Torino in casa del patriota
dalmata Mirkovic, aveva allora
affi dato il suo piano a Pietro Fortunato
Calvi, che nel ’48 aveva
guidato con successo l’insurrezione
in Cadore. Calvi avrebbe dovuto
raggiungere il Cadore attraverso
la Valtellina, Bormio e il Trentino,
avvalendosi, in caso di necessità,
dell’appoggio di tre
mazziniani valtellinesi, il conte
Ulisse Salis di Tirano, e due bormini,
Antonio Zanetti e Gervaso
Stoppani per i quali gli aveva dato
lettere di presentazione. I Salis
Zizers di Tirano, ramo valtellinese
di una delle più antiche e ramifi -
cate famiglie aristocratiche d’Europa
di origine grigione, erano
stati fi n dagli anni ’40 fi lorisorgimentali
e mazziniani.
Dopo aver combattuto nel
’48 a Milano e sullo Stelvio, insieme
al fratello Giovanni, l’ingegnere
Ulisse Salis, stretto amico dei Visconti
Venosta e di Maurizio Quadrio,
era stato dapprima esule in
Piemonte e in Toscana, ma alla fi -
ne del ’49 era rientrato a Tirano
dove aveva assecondato i progetti
insurrezionali di Mazzini, frenando
quelli più azzardati, come aveva
fatto all’inizio del ’53, quando aveva
tenuto fuori la Valtellina dall’insurrezione
di Milano. Alpinista,
cacciatore, «d’aspetto bello e virile»
e «dal carattere risoluto e deciso»,
come lo descrive Giovanni Visconti
Venosta, Ulisse Salis era il
tipo del perfetto cospiratore. Come
narra egli stesso nelle sue
Memorie (ristampate nel 1955 sul
n. 9 del “Bollettino della Società
storica valtellinese”), «io era provvisto
di una chiave che apriva uno
scrittoio del Commissario di Tirano,
ove la notte io ispezionava la
corrispondenza della polizia segreta
per essere al corrente delle sue
trame». È, appunto, in una di queste
furtive ispezioni che il Salis
scopre come la polizia fosse a
conoscenza del piano del Calvi,
grazie a una spia, una donna
amante del Mirkovic nella cui casa
torinese era stato discusso il piano.
Ma quando era riuscito ad avvertire
della trappola il Quadrio,
Calvi era già stato arrestato con le
tre lettere in tasca che porteranno
all’arresto del Salis e degli altri due
valtellinesi. Tradito da uno di questi,
lo Zanetti, Ulisse Salis sarà
processato a Mantova e rinchiuso
nella fortezza austriaca di Kufstein,
al confi ne con la Germania, da cui
sarebbe uscito nel 1857 grazie a
un’amnistia. Dopo l’Unità diventerà
ingegnere capo a Milano.
Il 1859 e i Cacciatori delle Alpi
Era stato questo l’ultimo,
clamoroso episodio cospiratorio
in Valtellina prima della Seconda
guerra di indipendenza nell’aprile
del 1859, che vide Napoleone III
accanto al Piemonte in cambio
della promessa di Nizza e della
Savoia. In vista della guerra, Cavour
aveva incaricato Garibaldi di
organizzare i Cacciatori delle Alpi
per favorire l’arruolamento dei
Ambrogio Correnti,
Il conte Ulisse Salis in
prigione a Mantova,
acquerello su carta,
1854 (Tirano, coll.
conti Sertoli Salis).
Il Correnti fu
compagno di prigionia
del Salis durante il
processo di Mantova.
A sinistra: frontespizio
delle Memorie di Ulisse
Salis pubblicate nel
1910 a cura della
figlia, la contessa Rita
Sertoli Salis (Tirano,
coll. conti Sertoli
Salis).
Ambrogio Correnti,
Count Ulisse Salis in
prison in Mantua,
watercolour on paper,
1854 (Tirano, coll. of
the Sertoli Salis
counts). Correnti was a
fellow prisoner of Salis
during the Mantua
trial. On the left:
frontispiece of the
Memoirs of Ulisse
Salis published in 1910
by his daughter,
Countess Rita Sertoli
Salis (Tirano, coll. of
the Sertoli Salis
counts).
fuorusciti dal Lombardo-Veneto,
ma gli aveva messo al fi anco come
commissario politico Emilio
Visconti Venosta. Insieme, Garibaldi
e Visconti Venosta incontreranno
a Como i rappresentanti
della Valtellina per spingerli a insorgere,
avvertendoli che, almeno
per i primi tempi, avrebbero
dovuto cavarsela da soli. E così il
29 maggio la Valtellina insorgeva,
ma l’insurrezione si fermava alle
porte di Bormio. L’Alta Valtellina
rimaneva, infatti, saldamente nelle
mani degli austriaci e né l’arrivo
di Giovanni Visconti Venosta,
come commissario straordinario
alla guida del battaglione di volontari
valtellinesi, né quello successivo
di Enrico Guicciardi come
prefetto, riusciranno a scalzarli e
a sbloccare la situazione di stallo
militare. Anche dopo l’arrivo di
Garibaldi e del generale Medici
con un migliaio di Cacciatori delle
Alpi non si sarebbe andati oltre
l’occupazione di Bormio. Solo
l’armistizio di Villafranca il 12 luglio,
dopo le vittorie di Solferino e
San Martino, riuscirà a far sloggiare
gli austriaci dai Bagni e
dallo Stelvio.
ITALIA 150 19
Non è dunque sul piano militare
che va ricercato il rilievo storico
di quanto avvenne in Valtellina
nell’estate del ’59, quanto nel fatto
che, in quei mesi, moderati e
mazziniani, divisi nei mezzi e negli
obiettivi per tutto il lungo decennio
di preparazione, si ritrovavano nuovamente
uniti ai piedi dello Stelvio
e dell’Aprica nella comune battaglia
contro gli austriaci.
L’opera di Torelli, di Guicciardi,
dei due Visconti Venosta e degli
altri liberal-moderati rifugiati in
Piemonte, era riuscita a preparare
le condizioni politiche per la ripresa
della guerra contro l’Austria, ma
i seguaci di Mazzini, nel loro ostinato
idealismo, avevano mantenuto
vivi nell’opinione pubblica gli
ideali che ora tornavano a scaldare
i cuori di tutti. Dopo la dura
Carlo Pedretti (1836-1909) (Foto Francesco
Prevosti).
20 ITALIA 150
sconfi tta del ’48, scrisse Ulisse
Salis nelle sue Memorie, «sola in
mezzo a tanto accasciamento sorgeva
la bandiera di Mazzini, che
pareva l’unica àncora di salvezza,
l’unica via che potesse condurre
alla meta agognata; e così pure
nella Valtellina, si sperò in quella
bandiera e le fi le sparpagliate si
riunirono nel concetto di Mazzini e
gli animi cominciarono a confortarsi
ritenendo tutto non ancora perduto».
Si doveva anche a questo
se nel ’59 in Valtellina tornavano a
ripetersi le scene della rivoluzione
del ’48.
A Chiavenna Carlo Pedretti,
raccogliendo l’eredità di Dolzino,
all’inizio della guerra aveva disarmato
la gendarmeria austriaca e
con decine di volontari era corso
sul fronte dello Stelvio. Come nel
’48 a decine arriveranno da ogni
parte della valle i volontari per i
quali però, ancora una volta, sarebbero
mancate armi e divise. E
dovranno perciò essere rispolverate
– e non basteranno – le vecchie
carabine del ’48 che, dopo la ritirata
dallo Stelvio, Ulisse Salis e il
fratello prete Giuseppe avevano
prudentemente raccolto e sistemato
in alcune casse custodite in
tutti quegli anni dalle suore agostiniane
del convento di Poschiavo,
insieme al cannone austriaco che
avevano sotterrato in un proprio
campo.
Ma, rispetto al ’48, ciò che
maggiormente colpiva nel ’59 era
il clima di entusiasmo popolare
Autografo di
Garibaldi nella
campagna militare
del 1859.
In basso: manifesto
con cui Emilio
Visconti Venosta,
Commissario regio
straordinario, rende
pubblica nel 1859 la
nomina del fratello
Giovanni Visconti
Venosta a proprio
rappresentante per
la provincia di
Sondrio (Archivio
storico del Comune
di Sondrio).
Autograph of
Garibaldi in the
military campaign
of 1859.
Below: the bill with
which Emilio Visconti
Venosta,
Extraordinary Royal
Commissioner,
announced, in 1859,
the appointment
of his brother
Giovanni Visconti
Venosta as his
representative for the
province of Sondrio
(Sondrio, Municipal
archives).
che ovunque accoglieva volontari
e piemontesi. «Da per tutto – racconta
Giovanni Visconti Venosta
– si trovava gente in festa che ci
veniva incontro con bandiere, musiche,
coi municipi e coi curati alla
testa, i quali erano pressoché tutti
patrioti». Il compassato colonnello
piemontese SanFront, aiutante
di campo di Vittorio Emanuele II,
non riesce a fare a meno di esprimere
in una lettera tutto il suo
stupore per l’avanzata del proprio
attaglione tra «campane che suonano
a festa», «balconi addobbati
coi tre colori, bandiere sul campanile,
case e luoghi pubblici» e
«mazzi di fiori perfino all’ultimo
soldato» (Renzo Sertoli Salis,
I Sardo-piemontesi in Valtellina in
una lettera inedita del 1859, “Bollettino
della Società storica valtellinese”,
n. 12, anno 1958). Lo
stesso arciprete Maffei, mai tenero
coi mazziniani, si lascia prendere
dall’entusiasmo al passaggio di
Garibaldi, “il prode guerriero” che
«veniva in mezzo a quattromila e
più giovani e valenti soldati, e giungeva
al chiarore d’improvvisa luminaria».
Col ’59, del resto, tramontava
l’idea dell’unità come federazione
di Stati sotto la presidenza
onoraria del papa, che era stata
propria di tutto lo schieramento liberal-moderato
e che, ancora nel
’58, era stata sottoscritta dallo
stesso Cavour con gli accordi di
Plombières come condizione per
l’intervento della Francia a fi anco
del Piemonte. L’andamento della
guerra aveva portato, però, non
alla cacciata degli austriaci dalla
penisola, come prevedevano que-
Copertina delle
Memorie di un
volontario di Nicola
Mevio (nella foto
a lato), uno dei
numerosi valtellinesi
che seguì Garibaldi
nella spedizione
dei Mille.
Cover of the Memoirs
of a volunteer by
Nicola Mevio (in the
photo alongside) one
of the Valtellina men
who followed
Garibaldi in the
expedition of One
Thousand.
Il manifesto con cui
Luigi Torelli,
Governatore della
Valtellina, annuncia
l’annessione dell’Italia
centrale al Regno di
Sardegna (Tirano,
Archivio Torelli).
The bill in which Luigi
Torelli, Governor of
Valtellina, announced
the annexation of
central Italy to the
Kingdom of Sardinia
(Tirano, Torelli
archive).
gli accordi, ma alla sola unione
della Lombardia al Piemonte. Cavour,
perciò, ritenendosi sciolto da
quegli accordi, si convinceva che
solo la monarchia sabauda, attraverso
una sapiente tessitura diplomatica,
avrebbe potuto condurre a
termine l’unifi cazione del Paese.
Sfi dando una fortissima impopolarità,
aveva perciò ceduto Nizza (la
patria di Garibaldi) e Savoia alla
Francia per averne il via libera
all’annessione di Parma, Modena,
Emilia, Romagna e Toscana, dove
le rivolte popolari avevano cacciato
i sovrani e dichiarato l’unione al
Piemonte. Ma non sarebbe mai
riuscito ad avere per via diplomatica
il Regno delle due Sicilie, il più
vasto dell’intera penisola, senza
l’audacia e la forza di mobilitazione
di Mazzini e di Garibaldi cui, obtorto
collo e sotto la spinta della
stessa opinione pubblica liberale,
dovette alla fi ne affi darsi. L’anima
liberal-moderata del Risorgimento
tornava così a riunirsi, per un momento,
a quella democratico-mazziniana
e insieme le due anime
avrebbero portato a termine nel
1860 il disegno unitario.
Le Memorie
di un garibaldino valtellinese
Quell’anno saranno moltissimi
i giovani valtellinesi fra i Mille
che seguiranno Garibaldi in Sicilia,
nell’impresa che Maurizio Quadrio,
travestito da commesso viaggiatore,
aveva segretamente preparato
insieme a Francesco Crispi e Ro-
solino Pilo. Di alcuni di questi valtellinesi
conosciamo anche i nomi:
il chiavennasco Carlo Pedretti, il
giovanissimo Antonio Cederna di
Ponte, il tiranese Antonio Pievani
di cui Giuseppe Cesare Abba ci ha
lasciato un curioso profi lo nelle
sue Noterelle di uno dei Mille.
Nel nutrito gruppo di giovani
garibaldini che il 30 luglio partiva
da Sondrio, c’era anche un ragazzo,
Nicola Mevio, che scriverà il
dettagliato racconto di quell’avventura
nelle Memorie di un volontario
(Bissoni, Sondrio, 1973), dove ci
dà preziose informazioni su altri
giovani valtellinesi che si imbarcarono
con lui a Genova sul Bizantino.
«La lontana Valtellina – nota
Nicola Mevio – come nel ’48, ’49
e ’59, anche nel ’60 si scuote e
fornisce alla madre patria il suo
contingente. […] Dove adunque si
deve rintracciare – si chiede – la
cagione di tale manifestazione di
patriottismo» in una valle «situata
all’estremo lembo settentrionale
della Penisola, chiusa in mezzo ai
monti» dove «entrar non potrebbero
che a stento le idee di progresso,
di patria, di civiltà?». Ripercorrendo
la sua personale esperienza,
Mevio ne indicava la ragione
nelle scuole e specialmente nel
Ginnasio di Sondrio, da lui frequentato,
«dove anche in tempi di oppressione
straniera […] i precettori
Romegialli, lo storico, Gualzetti,
Miotti e Polatti ed altri ancor viventi
[…] sfi dando le austriache segrete
ci parlarono più e più volte di
ITALIA 150 21
22 ITALIA 150
UN MEDICO VALTELLINESE A SOLFERINO
Fra le personalità valtellinesi del Risorgimento italiano, merita senza dubbio di essere
ricordato il chirurgo di Morbegno Carlo Cotta, anche se la sua attività patriottica si svolse
quasi tutta al di fuori della Valle. Era nato a Morbegno il 14 dicembre 1809 e si era laureato
a Pavia in medicina e chirurgia diventando subito assistente del professor Porta. Nel 1839 era
già primario chirurgo all’ospedale di Lodi e nel 1847 vinceva la cattedra di chirurgia all’università
di Padova dove pubblicava i suoi studi di anatomia microscopica sulle “malattie della
mammella”. Allo scoppio delle Cinque giornate a Milano nel marzo del ’48, anche Padova
insorse dandosi un governo provvisorio di cui Carlo Cotta, per la sua popolarità, fu messo a
capo. Al ritorno degli austriaci, rimosso dall’insegnamento universitario, fuggì a Milano, dove
continuò ad esercitare clandestinamente la sua professione di medico, «liberissima – come
scrisse – da ogni infl uenza governativa». All’inizio di giugno del 1859 lo ritroviamo a Magenta,
nei giorni della battaglia, capo chirurgo e direttore dell’ospedale militare del Monastero
maggiore dove furono concentrati i feriti. Poche settimane dopo è sul campo di San Martino
e di Solferino a curare senza distinzione di nazionalità i 25.000 feriti della battaglia, una
delle più sanguinose di tutta la storia del Risorgimento (29.000 morti, di cui 14.000 francopiemontesi
e 15.000 austriaci). Alla battaglia aveva assistito per caso anche l’uomo d’affari
svizzero Henri Dunant, venuto per incontrare Napoleone III e che, impressionato dalla carnefi
cina e dall’abbandono dei feriti, di ritorno a Ginevra, darà vita al “Comitato dei cinque”
da cui sarebbe nata nel 1864 la Croce Rossa internazionale.
Della stessa battaglia a favore dei feriti in guerra di ogni nazionalità si fece in quegli
stessi anni promotore in Italia Carlo Cotta, accanto al chirurgo napoletano Ferdinando Palasciano,
che per primo nel 1861 aveva proclamato in Europa le tesi che nel 1864 sarebbero
state alla base della Convenzione di Ginevra e della Croce Rossa internazionale. Morì improvvisamente
a Milano il 10 luglio 1866, mentre era in pieno svolgimento la Terza guerra
d’indipendenza.
questa amabil terra, de’ suoi personaggi,
delle sue vicende, de’
patimenti suoi» e «ci rivelarono la
loro ferma credenza in un miglior
avvenire, e nella patria redenzione».
Questo giovane garibaldino –
che in seguito avrebbe chiamato
uno dei suoi fi gli col nome di tre
campioni di libertà, Bruto Cristo
Washington – metteva a nudo così
un’altra delle componenti, la scuola,
che, insieme al clero e alla sua
classe dirigente aristocratica e
borghese, aveva determinato
l’orientamento fi lorisorgimentale
della Valtellina. Ma egli sottolineava,
allo stesso tempo, come lo
studio della storia e delle vicende
della piccola patria locale avesse
preparato nel cuore dei giovani
l’attaccamento alla grande patria
nazionale.
Gli esordi dell’Unità
in provincia di Sondrio
Non è perciò un caso che
proprio la scuola, l’istruzione e la
cultura siano stati alcuni dei primi
compiti che si sarebbe prefi ssata
in Valtellina la nuova classe dirigente
provinciale all’indomani della
proclamazione del Regno d’Ita-
lia il 17 marzo 1861, quando la
ricostruzione dell’economia – stremata
dalla crittogama che dal
1852 aveva azzerato la produzione
vinicola provinciale e dalla pebrina
che aveva dimezzato quella
dei bozzoli del baco da seta – si
confi gurava da sola come un compito
immane. «Figurati, mio caro,
che la miseria è a tal grado di
spaventevole eccesso che vi sono
centinaia di famiglie che vivono di
erba cotta senza sale», scriveva
Torelli a Bettino Ricasoli. Eppure lo
stesso Torelli, nel 1859, non appena
nominato da Cavour governatore
della Valtellina per guidare
la fase di transizione, insieme alla
diffusione tra i contadini dei nuovi
metodi di solforazione della vite
per combattere la crittogama e ai
primi provvedimenti di alleggerimento
del peso fi scale e dei debiti
dei Comuni, aveva subito avviato
il riordino delle scuole elementari
comunali e aveva affi ancato al
Regio Ginnasio di Sondrio una
scuola per maestri e un istituto
tecnico.
Nello stesso tempo, proprio
uno dei professori del Ginnasio di
Sondrio, Luciano Sissa, pubblica-
va da Vallardi nel 1860 una nuova
Storia della Valtellina in cui, a riprova
di quanto scritto da Nicola Mevio,
il passato della provincia veniva
riletto e reinterpretato alla luce
del suo esito storico nazionale. Ma
fra le primissime iniziative cui Torelli,
l’arciprete Maffei e altri esponenti
locali diedero allora vi ta a
Sondrio ci fu, l’8 aprile 1861, la
fondazione della Biblioteca civica,
per cui lo stesso Maffei donò settanta
volumi, mise a disposizione
i locali della propria casa di famiglia,
e ci fu l’uscita, il 28 giugno
dello stesso anno, di un nuovo
giornale, La Valtellina, come palestra
di discussione dei problemi di
interesse pubblico della provincia
e di formazione di una coscienza
civica nazionale. C’era, insomma,
un intento profondamente pedagogico
nell’azione della classe dirigente
liberal-moderata di Sondrio,
unito alla coscienza dei problemi
sociali che presto si sarebbero
aperti. Non a caso nel primo numero
del giornale La Valtellina appariva
un appello, Agli operaj, in cui
Torelli e Maffei indicavano nell’associazionismo
uno degli strumenti
per l’esercizio della libertà in una
società democratica e incitavano
alla fondazione di una Società
operaia, che a Sondrio sarebbe
nata nel 1864.
A Chiavenna, invece, essa
era sorta già nel 1862, in contrapposizione
con l’orientamento mo-
derato dell’amministrazione cittadina,
ad opera di Carlo Pedretti,
come espressione del movimento
mazziniano che nell’Unità nazionale
non vedeva solo il compimento
di un ideale politico, ma l’inizio di
un rinnovamento sociale di cui le
classi popolari avrebbero dovuto
Luigi Torelli (foto
Alinari). Il primo
numero del
settimanale La
Valtellina. Fondato
nel giugno 1861 il
giornale vivrà per
oltre un secolo, con
la parentesi del
ventennio fascista,
fino agli anni
Settanta del ’900.
(Sondrio, Biblioteca
civica Pio Rajna).
Luigi Torelli (photo
Alinari). The first
issue of the weekly
La Valtellina.
Founded in June
1861 the magazine
was to live for over a
century, with the
parenthesis of the
twenty years under
the Fascist regime,
until the 1970s.
(Sondrio, Pio Rajna
Civic Library).
diventare in prima persona protagoniste.
Chiavenna, del resto, aveva
una vivacità economica e commerciale
che a Sondrio mancava.
Se nella Sondrio liberal-moderata
il movimento risorgimentale era
stato opera soprattutto della vecchia
aristocrazia terriera, nella
Chiavenna mazziniana, dov’era
nato Maurizio Quadrio, esso era
stato innanzitutto espressione della
nuova borghesia imprenditoriale
e commerciale. Commerciante era
Francesco Dolzino, commerciante
anche Carlo Pedretti e commercianti
e imprenditori erano tutti
quelli che, insieme a lui, avevano
dato vita alla Società operaia.
Nasce proprio da questa diversità
economica e politica la
battaglia che nel 1862 i chiaven-
naschi conducono in Consiglio provinciale
per la separazione dalla
Valtellina e l’aggregazione alla provincia
di Como – di cui il territorio
chiavennasco si è sempre sentito
il naturale retroterra alpino – trovando
allora un muro invalicabile
negli esponenti della destra storica
provinciale.
L’ultimo atto del Risorgimento:
la guerra del 1866 sullo Stelvio
Queste divisioni, però, avrebbero
perso di colpo peso nel 1866,
allo scoppio della Terza guerra di
indipendenza, quando mazziniani
e liberal-democratici valtellinesi si
sarebbero trovati ancora una volta
uniti sullo Stelvio a difendere il
confi ne con l’Austria.
La guerra del ’66, nata da un
ITALIA 150 23
pasticcio diplomatico, fu condotta
ancor peggio sul piano militare.
Mancava Cavour, morto nel 1861
pochi mesi dopo l’Unità, e la sua
assenza si faceva sentire. L’Italia,
alleata della Prussia di Bismarck in
cambio della promessa del Veneto
che avrebbe potuto pacifi camente
avere per via diplomatica dall’Austria
e del tutto impreparata alla
guerra, fu pesantemente sconfi tta
prima a Custoza e poi anche sul
mare a Lissa. Solo la vittoria del
generale prussiano von Moltke a
Sadowa riuscì a farle avere il Veneto,
non dalle mani dell’Austria, cui
l’Italia dovette anzi pagare un duro
risarcimento bellico, ma da quelle
di Napo leone III, cui l’impero austriaco
lo aveva uffi cialmente ceduto.
Non così disastrosa fu, invece,
la guerra sul fronte alpino dove
combatterono i 30.000 Cacciatori
delle Alpi di Garibaldi. Vittoriosi a
Bezzecca, i volontari garibaldini
erano stati fermati sulla via del
Trentino dal telegramma del comando
supremo, cui Garibaldi rispose
col celebre «Obbedisco».
Anche in Valtellina nel ’66 l’esercito
piemontese non si fece vedere
e la guardia nazionale, immediata-
24 ITALIA 150
Pietro Pedranzini e,
a destra, il
colonnello Enrico
Guicciardi con un
gruppo di ufficiali e
soldati della Legione
nazionale sullo
Stelvio durante la
Terza guerra
d’indipendenza del
1866.
Pietro Pedranzini
and, on the right,
Colonel Enrico
Guicciardi with a
group of officers and
soldiers of the
National Legion on
the Stelvio during the
Third War of
Independence in
1866.
Il capitano Giovanni
Salis e, a destra,
Romualdo Bonfadini
(1831-99).
Captain Giovanni
Salis and, on the
right, Romualdo
Bonfadini (1831-99).
mente allestita da Enrico Guicciardi
coi volontari locali per fermare
la discesa dei 1.200 austriaci
dallo Stelvio, fu anch’essa più volte
sul punto di restare isolata e
accerchiata fra Tresenda e il Ponte
del Diavolo dalle forze austriache
che avanzavano a tenaglia dallo
Stelvio e dal Tonale, favoriti dalla
nuova strada dell’Aprica che Radetzky
aveva fortemente voluto. A
risolvere allora la diffi cile situazione,
causata anche dai tentennamenti
dell’autorità militare e prefettizia,
fu la geniale azione del
comandante Pietro Pedranzini, segretario
comunale di Bormio, che
con la sua colonna Zambelli, fatta
per lo più di guardie forestali, riuscì
a risalire per un diffi cile canalone
la Reit e a catturare in un colpo
solo, alla I cantoniera dello Stelvio,
una settantina di austriaci, mettendo
fuori combattimento l’intero
schieramento avversario.
Sullo Stelvio nel ’66 c’erano,
tra gli altri, il cinquantatreenne
veterano Enrico Guicciardi, Romualdo
Bonfadini, Aristide Caimi,
che dirigeva a Sondrio il giornale
nazionale della Società di tiro a
segno, La Palestra, G. B. Caimi,
presidente dell’amministrazione
provinciale, Enrico Sertoli, il futuro
scopritore delle “cellule Sertoli”
fresco della specializzazione in
biologia a Vienna, il giovanissimo
avvocato di Sondrio Carlo Sertoli,
il notaio Noali di Morbegno, il chiavennasco
Emilio Ploncher, il conte
Giovanni Salis con una compagnia
bene equipaggiata di volontari tiratori
scelti raccolti a Milano.
Gli altri protagonisti valtellinesi
del Risorgimento erano allora
sparsi per l’Italia. Luigi Torelli, dopo
essere stato ministro dell’Agricoltura,
era stato nominato nel 1866
Ufficiali di Stato maggiore della Legione nazionale di Enrico Guicciardi sul fronte dello Stelvio
nel 1866. Da sinistra in piedi: il luogotenente Pietro Pedranzini, il sottotenente delle Guardie
doganali Enrico Panci, il sergente Giuseppe Colombo, il sergente Cesare Beruto, il dott. Innocente
Regazzoni (medico della Legione), Bertolini, il sergente di artiglieria Giovanni Baiotto, il
sergente maggiore Romualdo Bonfadini, il sottotenente Guido Parravicini. In primo piano seduti:
il capitano Aristide Caimi, il colonnello Enrico Guicciardi, il capitano Giovanni Morelli.
Officers of the General Staff of the national Legion of Enrico Guicciardi on the front of the
Stelvio in 1866. From the left, standing: Lieutenant Pietro Pedranzini, Second Lieutenant of the
Customs Guards Enrico Panci, Sergeant Giuseppe Colombo, Sergeant Cesare Beruto, Dr. Innocente
Regazzoni (the Legion’s doctor), Bertolini, the artillery Sergeant Giovanni Baiotto, Sergeant-major
Romualdo Bonfadini, Second Lieutenant Guido Parravicini. In the foreground, seated:
Captain Aristide Caimi, Colonel Enrico Guicciardi and Captain Giovanni Morelli.
prefetto di Palermo, Giovanni Visconti
era a Modena, ed Emilio Visconti
Venosta, all’inizio della guerra
“ministro del re” a Costantinopoli,
dopo la sconfi tta di Custoza era
stato frettolosamente richiamato
al ministero degli Esteri dal nuovo
governo di Bettino Ricasoli.
Dopo la parentesi bellica del
’66, in provincia l’attenzione tornava
a focalizzarsi sui problemi economici,
di cui il nuovo prefetto,
Giacinto Scelsi, aveva fornito l’anno
prima un quadro esaustivo in
una relazione al Consiglio provin-
ciale che costituisce anche la
maggiore fonte conoscitiva della
realtà sociale dell’epoca (G. Scelsi,
Statistica generale della Provincia
di Sondrio, 1866, ristampa
anastatica Sondrio, Amministrazione
provinciale, 1999). In essa,
il prefetto Scelsi, auspicava, tra le
altre misure, anche la nascita di
una banca popolare in grado di
incanalare verso lo sviluppo provinciale
l’alta capacità del risparmio
dei valtellinesi che allora, attraverso
gli unici tre sportelli esistenti
della Cassa di Risparmio delle
A destra: lapide
posta sulla
I Cantoniera dello
Stelvio in memoria
della vittoria sugli
austriaci nel 1866.
In basso: i cannoni
Varese e Calatafimi
al Museo del
Risorgimento di
Milano sotto il
grande dipinto della
battaglia di
Bezzecca. I due
cannoni, di proprietà
del Comune di
Sondrio, fanno parte
dei sei utilizzati dai
volontari della
Legione nazionale
di Enrico Guicciardi
sullo Stelvio nel
1866.
On the right: the
memorial stone on
the I Cantoniera
(roadman’s house)
of the Stelvio in
memory of the
victory over the
Austrians in 1866.
Below: the Varese
and Calatafimi
cannons in the
Risorgimento
Museum, Milan,
under the large
painting of the Battle
of Bezzecca. The two
cannons, owned by
the city of Sondrio,
are part of the six
used by the
volunteers of the
National Legion of
E. Guicciardi on the
Stelvio in 1866.
Cortesia Museo del Risorgimento di Milano - Photo Saporetti Immagini d’Arte
Province Lombarde, andava ad
alimentare il credito fuori provincia.
Cinque anni dopo, nel 1871
nasceva la Banca Popolare di Sondrio,
con cui iniziava la rinascita
economica della valle nel quadro
dell’Italia unita.
A dar vita alla Banca Popolare
di Sondrio erano stati, del resto,
diversi protagonisti del Risorgimento
in Valtellina – fra cui lo
stesso arciprete Antonio Maffei –
e molti esponenti dell’imprenditoria
agraria locale che avevano attivamente
partecipato alle vicende
risorgimentali e combattuto da ultimo
sullo Stelvio nel ’66 come
volontari fra i legionari del colonnello
Enrico Guicciardi.
Sullo Stelvio quell’anno, insieme
ai due battaglioni della Legione
nazionale, Guicciardi aveva
potuto disporre anche di otto cannoni
la cui storia è stata recentemente
ricostruita da Enrico G. Arrigoni
(I cannoni di Sondrio, Centro
studi alpini di Isolaccia-Valdidentro,
2003). Di sei di questi cannoni
conosciamo anche i nomi garibaldini
con cui erano stati battezzati:
Varese, Calatafi mi, Marsala,
Palermo, Como e Milazzo. Dei
primi quattro, oggi di proprietà del
Comune di Sondrio, due, il Marsala
e il Palermo, si trovano nel Palazzo
Pretorio del capoluogo valtellinese,
e due, il Varese e il Calatafi
mi, in una sala del Museo del
Risorgimento a Milano, sotto la
grande tela della battaglia di Bezzecca,
testimoni ormai muti del
contributo della Valtellina e della
Valchiavenna al Risorgimento italiano.
ITALIA 150 25
A 150 anni dagli inizi dell’Unità Nazionale
26 ITALIA 150
Tre umili preti
che hanno fatto grande l’Italia
Don Luigi Sturzo – Don Primo Mazzolari – Don Lorenzo Milani
MONS. DANIELE ROTA
Canonico Onorario della
Papale Basilica di San Pietro in Vaticano
Premessa
«La storia ha plasmato l’Italia in
mille modi, dando a ciascuna zona
la sua personalità, la sua caratteristica,
una e multipla nello stesso
tempo». (Don Luigi Sturzo)
Quando, il 17 marzo 1861, a
Torino, venne proclamato il Regno
d’Italia 1 e Vittorio Emanuele II, acclamato
suo re «per la grazia di Dio
e la volontà della Nazione», 2 evento
storico che il prossimo anno
s’intende commemorare, 3 unico
elemento certo di unità nazionale
era la religione cattolica, 4 da secoli
ben radicata fra le diverse popolazione
italiche. 5 Una religione che
per la sua forte incidenza etica e
assoluta trascendenza 6 aveva
Three humble priests
who made Italy magnificent
The Church has always been a clear reference in our national
history. And even politics has delineated precise boundary lines: a
free Church in a free State, Cavour said. When then Rome is
“conquered” the “Roman issue” pops out and who wants to
support the usurped Pope invokes political abstention. But at the
end of the Great War everyone believes that the line-up of
Catholics as a political party is indispensable: and don Luigi
Sturzo’s participation in the Popular Party ratifies this intention.
In the turbulent years of Fascism and the ruthless post-war
contrasts don Primo Mazzolari foreshadows with his preaching
some perspectives of the Second Vatican Council. And don
Lorenzo Milani in his new idea of education attempts to compose
the evangelical message that only truth sets free.
esaltato Roma e l’Italia. Innumerevoli
missionari del Vangelo hanno
iniziato in epoche ben più remote
di quelle risorgimentali e continuano
nei tempi presenti la loro tenace
e costruttiva azione nel segno
dell’unica identità cristiana. 7 Un
impegno che viene da lontano: si
fa risalire ai tempi di Costantino il
Grande (275-337), che, con il noto
editto di Milano (313), aprì uffi cialmente
le porte dell’Italia imperiale
a quella Croce gloriosa che gli
aveva dato vittoria. Nei secoli immediatamente
successivi, san Benedetto
(480-547), fra i tanti, e il
suo intrepido ordine monastico ne
divennero gli antesignani: il loro
generoso impegno apostolico in
Italia e in Europa attraversa tutto
il Medioevo, tracima ai vertici
dell’Età Moderna, lambisce, senza
soluzione di continuità, la Contemporanea.
Ogni terra, dal Nord al
Sud d’Italia, conobbe operatori del
culto cattolico che si distinsero per
la loro opera di pacifi cazione e di
libertà in nome del Vangelo, anche
a prezzo della vita. Attorno al Crocifi
sso e all’altare nacquero e prosperarono
i Comuni e le Repubbliche
marinare, le università e gli
ospedali, le cattedrali e gli orfanotrofi
, tutte o quasi tutte le realtà
civili, umanitarie e culturali che
onorarono e onorano il Vecchio
Continente. Pure durante le ende-
miche calamità delle pesti, delle
guerre e carestie, la loro azione
caritativa, unica sul territorio, fu per
intere generazioni la salvezza. 8
Nell’anno sacerdotale (2009-10)
In tale contesto di antiche
tradizioni cristiane e di ininterrotte
presenze assistenziali del clero,
l’attuale Pontefi ce, che volle chiamarsi
Benedetto, ha proclamato il
primo anno sacerdotale nella storia
della Chiesa, anticipando signifi
cativamente le celebrazioni nazionali
unitarie. L’occasione furono i
centocinquant’anni dalla morte del
santo Curato d’Ars, patrono dei
parroci; lo scopo: richiamare l’attenzione
e la devozione dei credenti
all’apostolicità dei ministri dell’altare.
Le vocazioni al sacerdozio in
Europa sono in calo, gli stessi ministri
vengono sottoposti in massa
a un quotidiano tiro mediatico,
senza esclusione di colpi, per cancellarne
credibilità e fi ducia. Sembra
pertanto tempestivo il ricordo
di questi tre umili preti che, come
tanti confratelli del loro e di altri
tempi, hanno grandemente nobilitato
la Chiesa e la Patria, la religione
e la cultura, l’esilio, i campi di
concentramento e l’Olocausto. 9
Per rimanere negli ambiti storici
del secolo scorso nel quale
l’unità nazionale è andata consolidandosi
dopo le precedenti guerre
di indipendenza, 10 i loro tre nomi
s’iscrivono in realtà nazionali differenti,
ma tra loro complementari,
al Sud: don Luigi Sturzo; al Centro:
don Lorenzo Milani; al Nord: don
Primo Mazzolari. Per non dire di
altri ecclesiastici contemporanei,
parimenti benemeriti come, ad
esempio, don Giovanni Calabria,
don Carlo Gnocchi, padre Agostino
Gemelli, padre David Maria Turoldo,
per tacere degli innumerevoli
preti-cappellani militari caduti in
trincea, a fi anco dei loro battaglioni;
ai quali si aggiungono i non
pochi sacerdoti in cura d’anime,
arrestati, deportati e mai più ritornati,
talvolta per il semplice sospetto
che avessero favorito le
opposte fazioni, 11 oltre ai preti uccisi
durante e dopo la Resistenza
per il solo motivo di essere preti,
in odio a quella religione di cui
erano ministri. 12 Semplici preti,
senza titoli e senza aureola, sparsi
su tutto il territorio nazionale, artefi
ci silenziosi della composita grandezza
d’Italia. Senza di loro, la
nostra storia unitaria, preunitaria e
postunitaria, sarebbe diversa, meno
fulgida.
Nella seguente, rapida rivisitazione
dei tre ecclesiastici prescelti
a titolo esemplifi cativo, nulla
di nuovo si aggiunge a quanto già
si conosce di loro: s’intende qui
ulteriormente evidenziarne quel
decisivo loro ministero che, dalla
Sicilia alla Lombardia, passando
attraverso la Toscana, ha reso
grande onore alla Chiesa e alla
Nazione. Chi scrive ebbe la ventura
di conoscerli: intende ora devotamente
commemorarli, dedicando
loro questa umile fatica.
Il precedente Risorgimento
tra auspici e realtà
«Una d’arme, di lingua, 13 d’altar»,
così il Manzoni avrebbe voluto
l’Italia unita nella sua nota ode
Marzo 1821, composta durante i
moti piemontesi appunto del
1821, allorquando parve, ma così
non fu, che il giovane Carlo Alberto
varcasse defi nitivamente il Ticino.
14 Ancor più esplicito il sacerdote
piemontese Vincenzo Gioberti:
«Una di lingua, di lettere, di religione,
di genio nazionale, di pensiero
Il generoso impegno
di San Benedetto
(480-547) e del suo
intrepido ordine
monastico contribuì
a creare un’unica
identità cristiana in
Italia e in Europa.
The generous
commitment made
by St Benedetto
(480-547) and his
intrepid monastic
order helped create
a unique Christian
identity in Italy
and Europe.
1) Sembra, infatti, improprio fare
riferimento all’Unità d’Italia in un momento
storico, appunto il 1861, in cui
nel Lazio era ancora in essere a tutti gli
effetti lo Stato Pontifi cio e alla completezza
territoriale della nazione mancavano
le cosiddette terre irredente di
Trento e Trieste, aggregate con la Prima
Guerra mondiale. Il giorno dopo tale
proclamazione, Pio IX emanava l’allocuzione
Iandudum cernimus, in cui condannava
la «vandalica spoliazione» del
suo Stato, riferendosi alle recenti annessioni
delle Marche e dell’Umbria.
Con quella stessa allocuzione il papa
deprecava anche la «laicizzazione forzata»
degli occupanti, denunciando, fra
l’altro, la lotta agli ordini religiosi, alle
opere pie, ai tanti vescovi costretti ad
abbandonare le loro diocesi. Il segretario
di Stato, cardinal Giacomo Antonelli,
il 15 aprile dello stesso anno, inviò nota
di protesta a tutte le rappresentanze
delle potenze straniere accreditate
presso la Santa Sede. Con il Breve poi
del 26 marzo 1861, su tutti coloro che
avevano (o che avrebbero) cooperato in
qualsiasi modo alla spoliazione dello
Stato della Chiesa, veniva comminata
la più severa sanzione ecclesiastica, la
scomunica maggiore.
2) L’espressione “per la grazia di
Dio”, inserita nella proclamazione, fu
oggetto di aspra contesa alla Camera
dei deputati. Solo a seguito dell’intervento
diretto di Cavour fu approvata con
174 voti favorevoli e ben 58 contrari. Cfr.
Luigi FENAROLI, Stato e Chiesa: dallo Stato
Liberale agli accordi di Villa Madama, tesi
di laurea, Università Studi di Milano,
anno accademico 2009-2010.
Fototeca Gilardi
3) Il mondo delle istituzioni, a partire
dal presidente della Repubblica, per la
ricorrenza, sta preparando la mobilitazione
della nazione; all’iniziativa anche
la Conferenza episcopale italiana ha
dato il suo assenso con le parole del
presidente, il cardinal Angelo Bagnasco:
«L’unità d’Italia è un bene comune…
un tesoro che è nel cuore di tutti
a cui spero tutti vogliano contribuire» (v.
Oss. Rom., 4 maggio 2010). Il dibattito
storico, tuttavia, sulla “questione risorgimentale”
sta vivendo anche momenti
di qualche vivacità e controversia, almeno
a livello politico e mediatico.
4) Le disuguaglianze tra le sparse
popolazioni italiche erano profonde,
dalla lingua alle tradizioni, dalla cultura
alla fi nanza, dai costumi alle aspettative,
tali e tante che un secolo e mezzo
di storia non è ancora riuscito a sopire.
5) Vero è che nel processo unitario
poterono infi ltrarsi anche elementi di
ispirazione eterogenea, ma ciò non ha
minimamente intaccato la fede cattolica
e la pratica religiosa delle genti italiche.
6) Pur non essendo religione dell’evasione,
come il buddismo o l’islamismo
e molte altre di origine orientale,
il cristianesimo sottende a una dottrina
di alta spiritualità, che però riconosce
anche alla storia e al tempo presente
decisivo valore.
7) «Un solo Signore, una sola fede,
uno solo battesimo, una sola vocazione
alla quale siete stati chiamati» (Ef. 4,4).
8) Vedi la mitica fi gura di padre Cristoforo
nei Promessi Sposi: personalità
emblematica della tradizione e della
storia.
9) Basti citare anche per tanti altri
meno noti, padre Massimiliano Kolbe,
polacco, frate minore conventuale, che
durante l’occupazione tedesca della
sua terra, nascose e salvò più di duemila
ebrei, poi lui stesso fu internato
ad Auschwitz, ove, il 14 agosto 1941
chiese e ottenne di essere giustiziato
in sostituzione di un socio di prigionia,
padre di numerosa famiglia.
10) Durante il Risorgimento innumerevoli
furono i sacerdoti che si distinsero
fi no all’eroismo, basti ricordare, per
tutti, don Enrico Tazzoli (1812-52), mazziniano
convinto, primo tra i martiri di
Belfi ore. Un eroe di straordinaria grandezza.
11) Vasta e documentata bibliografi a
testimonia il sacrifi cio di una schiera
ancora non quantifi cata di preti, immolati
per motivi politici. Vedi anche: don
Primo MAZZOLARI, I Preti sanno morire,
Edizione Presbyterium, Padova 1958.
12) Si contano almeno centotrenta
sacerdoti assassinati durante la Resistenza
semplicemente perché sacerdoti,
a partire dall’8 settembre 1943, e
non solo fi no al 25 aprile 1945, ma
addirittura sino al 1951. Si sa di pattu-
ITALIA 150 27
scientifi co, di costume cittadino, di
accordo pubblico e privato tra i varii
Stati e abitanti…». 15 A sua volta,
Massimo d’Azeglio, già presidente
del Consiglio dei Ministri, avvertiva
che: «Fatta l’Italia, occorre fare gli
Italiani». A tutti sembra dar seguito,
in tempi relativamente recenti,
Giovanni Spadolini, presidente del
Senato della prima Repubblica
italiana, con una delle sue più fortunate
pubblicazioni, che già nel
titolo vuol essere una chiara proposta
storica: Gli uomini che han fatto
l’Italia. 16 L’insigne studioso e uomo
politico vi discorre da par suo,
presentando i protagonisti della
prima stagione unitaria italiana, in
cui emergono personalità d’indubbio
rilievo storico, quali Camillo
Benso conte di Cavour, Giuseppe
Garibaldi, Giuseppe Mazzini. Poco
vi si concede alla componente
cattolica, anche perché, a seguito
del discusso Non expedit di Pio IX,
i credenti, in quegli anni decisivi,
furono tagliati fuori dalla politica
attiva. Non rimasero, tuttavia, inerti
o estranei al divenire nazionale:
basti accennare ai fondamentali
contributi di pensiero e di proposte
in ambito unitario, avanzati con
lungimiranza e lucidità, anche allora
da due sacerdoti passati alla
storia: Antonio Rosmini (1797-
1855) 17 e Vincenzo Gioberti (1801-
52) 18 le cui analisi e ipotesi di futuro
nazionale rimangono esemplari
nelle diatribe del tempo. 19
Sembra pertanto indubbio
che nel suo profi lo ideale, il Risor-
28 ITALIA 150
gimento italiano, almeno agli inizi,
ebbe vocazione pluralista, fi glio di
più “padri” che si fecero portatori
di progetti unitari differenti, tra i
quali il pensiero e le ipotesi attuative
dei cattolici, guidati da un
clero illuminato, occupano una
posizione di rilievo. 20
Oltre l’unifi cazione nazionale
I fatti e gli eventi che portarono
all’Unità d’Italia sono sostanzialmente
noti; la loro decodifi cazione
storica e ideale, un po’ meno.
Certo è che fi n dai primi moti
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L’Italia prima
dell’Unità, in un
atlante del 1858.
A sinistra: la presa
di Porta Pia che per
alcuni significò la
volontà di annullare
anche l’influenza del
Vangelo sulla civiltà
contemporanea.
A destra: Pio IX
(1792-1878) nel 1874
promulgò il Non
expedit con il quale
vietava ai cattolici la
partecipazione alla
vita politica.
Italy before Unity,
in a 1858 atlas.
To the left: the
taking of Porta Pia
which, for some, even
meant the will to
cancel Gospel
influence on modern
civilisation.
To the right: Pio IX
(1792-1878) in 1874
enacted the Non
expedit which
forbade the Catholics
to take any part
in politics.
piemontesi e lombardi apparve
chiaro come l’aspirazione degli insorti
fosse quella di una patria
unita, con capitale Roma. Pure le
brigate garibaldine si mossero al
grido «O Roma o morte». 21 Il teorema
di Roma capitale divenne evidente
nel settembre 1860, con
l’occupazione militare delle Marche
e dell’Umbria. La gravità dei
fatti e diffusi episodi di violenza,
quali quelli che passarono alla
storia con le Memorie dei Martiri di
Castelfi dardo, 22 colpirono la sensibilità
dei cattolici, suscitando sdegno
e disapprovazione. Il presidente
del Consiglio, tuttavia, il conte
Camillo Benso di Cavour, abile
“tessitore”, sperava di superare
per via diplomatica le diffi coltà internazionali
della insorgente “Questione
Romana” e quelle opposte
direttamente dalla Santa Sede,
sostenuta dalla stragrande maggioranza
dei cattolici di tutto il
mondo. Preso poi atto delle persi-
stenti contrarietà, lo stratega piemontese,
appellandosi al principio
da lui abilmente declinato: “Libera
Chiesa in libero Stato”, 23 elaborò il
noto discorso del 25 marzo 1861
alla Camera di Torino, concludendo
che, in qualunque modo, per via
di accordi o senza di essi, il Regno
d’Italia sarebbe giunto a Roma e
ne avrebbe fatto la sua capitale.
Tali affermazioni per i cattolici suonarono
come un chiaro intendimento
di portare fino alle sue
estreme conseguenze la guerra di
aggressione in atto contro lo Stato
Pontifi cio, privando di fatto il Papa
della sua sovranità e autonomia.
Anche altri convincimenti e
timori andavano insorgendo nella
sensibilità di taluni osservatori,
cioè che l’astiosa lotta unilaterale
dichiarata al Papato in
ciò che storicamente lo
rappresentava, le sue
terre, potesse nascondere
intendimenti meno
nobili, tesi ad annientare
la Chiesa visibile,
identifi cata appunto
nello Stato Pontifi cio,
per cancellare con esso
la presenza del Vangelo
dalla civiltà contemporanea.
Sullo sfondo,
l’ombra lunga della riforma
protestante e
quella più recente della
rivoluzione francese.
Ipotesi che stanno
avendo qualche seguito
tra ricercatori appassionati
i quali si propongono
di ricostruire e rivelare
L’altro Risorgimento,
24 cioè non quello uffi
ciale che si legge sui
manuali scolastici e divulgativi,
giudicati retorici
e reticenti, ma quello
reale, meno laudativo,
quale si evince da
documentazioni, a loro
dire, certe e volutamente sottaciute
o travisate. 25
È indubbio che anche all’epoca
dei fatti il disorientamento era
profondo nelle coscienze non solo
dei cattolici e si diffondeva soprattutto
tra le popolazioni direttamente
interessate agli accadimenti di
occupazione. I così detti Plebisciti
popolari, si sa, furono improvvisazioni
fi n troppo evidentemente illusorie.
26 Nel contempo, le leggi
piemontesi di laicizzazione, con il
loro carico di durezze, furono applicate
su tutto il territorio nazionale
per limitare l’infl usso che la Chiesa
esercitava sulla real tà sociale, occupando
“spazi pubblici”, come la
scuola, l’ordinamento della famiglia,
l’assistenza sanitaria, che il
nuovo Stato liberale intendeva rivendicare
a sé.
In questo clima di precarietà
e sconcerto, per avviare i cattolici
su una linea di condotta comune
e coerente, scese in campo, fra gli
altri, don Giacomo Margotti (1823-
87) 27 il quale mutando il giornale
Armonia che già dirigeva, in L’unità
Fototeca Gilardi Photo Oilime
Antonio Rosmini
(1797-1855) e
Vincenzo Gioberti
(1801-52) diedero
fondamentali
contributi di pensiero
e di proposte al
divenire nazionale.
Antonio Rosmini
(1797-1855) and
Vincenzo Gioberti
(1801-52) made
fundamental thought
and proposal
contributions to
becoming a nation.
glie esecutive che si proponevano di
eliminare almeno un prete per notte. È
incomprensibile il muro di infastidito
silenzio con cui si cerca di sottacere la
diffusione del fenomeno. Sull’argomento
si possono leggere le documentate
pagine di Roberto BERRETTA, Storia dei
Preti uccisi dai partigiani, Piemme, Casale
M., 2005. Pure la popolare narrazione,
ora anche in celluloide, di G.
GUARESCHI: Don Camillo e l’onorevole Peppone,
è indicativa della presenza radicata
del prete nella vicenda nazionale
italiana.
13) È noto che le armate sabaude
parlavano francese: chi ha combattuto
per l’Italia unita, dunque, non sapeva
l’italiano, di qui, ma non solo, la preoccupazione
del convinto e dotto italianista
Alessandro Manzoni.
14) L’apporto non solo letterario del
Manzoni all’unità nazionale fu notevole
anche se divergente dalle strategie
politiche poste in atto, ad esempio, da
Cavour. Egli poteva apprezzare e condividere
l’aspirazione unitaria, ma restava
sgomento all’idea che la patria
si plasmasse attraverso l’aggressione,
la violenza e la forza, specie se
mercenaria. Rinunciò, non senza ripensamenti,
alle tradizioni linguistiche
della sua terra lombarda per cercare
in Arno un punto di comune
confl uenza letteraria, perseguita con
tenacia e talento, che gli valsero alti
encomi. Nel 1859, su proposta di
Massimo d’Azeglio, che in prime nozze
aveva sposato la primogenita di Manzoni,
Giulia, e che fu poi presidente
del Consiglio, indi Governatore a Milano,
Vittorio Emanuele II gli decretava,
a titolo di riconoscimento nazionale,
l’annua pensione di lire dodicimila.
L’anno seguente veniva nominato senatore
del Regno. Egli, tuttavia, non
partecipò mai in Roma alle sedute del
Senato, nonostante le sollecitazioni
dello stesso Garibaldi durante la visita
di omaggio che gli rese a casa sua,
passando da Milano.
15) Del primato morale e civile degli
italiani, vol. I, Milano, Allegranza, 1944,
p. 323.
16) Monografi a edita da Longanesi
nel 1993.
17) Nel 1848 propugnò il costituirsi
di una confederazione italiana sotto la
presidenza del papa, retta da istituti
liberali (cfr. la sua pubblicazione: La
costituzione secondo la giustizia sociale,
1948). Nello stesso anno ebbe da Carlo
Alberto l’incarico di una missione
diplomatica presso Pio IX per trattare
l’adesione del papa alla lega degli Stati
italiani e alla guerra di indipendenza.
Il pontefi ce lo trattenne in Vaticano per
nominarlo cardinale, ma l’uccisione di
Pellegrino Rossi e il ritiro del papa a
Gaeta interruppero bruscamente la già
avanzata procedura.
18) Esponente tra i maggiori del cosiddetto
neoguelfi smo risorgimentale,
conobbe l’esilio e, successivamente,
occupò posizioni di rilievo in ambito politico.
Nel suo noto trattato: Il Primato
morale e civile degli Italiani (1843), anch’egli
auspica una confederazione degli
Stati italiani, con a capo il pontefi ce.
Punto costante di riferimento e di forza:
la gloriosa Roma dei papi, vanto e onore
dell’intera nazione italiana e di tutto
l’Occidente.
19) Sulla loro ipotesi si mosse poi
Napoleone III, che aveva assunto l’impegno
di difendere con le armi la persona
del papa. Egli, il 14 luglio 1859,
propose uffi cialmente a Pio IX di accettare
la presidenza dell’erigenda confederazione
italiana, mettendosi a capo
del processo di unifi cazione nazionale.
Una profferta che non ebbe, né poteva
avere seguito.
20) Che neppure Cavour, Mazzini e
Garibaldi avessero le stesse idealità
politiche, è noto. Cfr. Alfonso SCIROCCO,
In difesa del Risorgimento, Bologna, il
Mulino, 1998; “Civiltà Cattolica”, n.
3839, 5 giugno 2010, L’unità d’Italia,
pp. 423-429.
21) Il motto fu inciso pure nella base
del monumento equestre di Garibaldi
sul Gianicolo, anche se nella notte precedente
l’inaugurazione del 1895, la
scritta venne ironicamente ridotta in «O
Roma o Orte», immediatamente ricomposta.
22) Cfr. edizione con pari titolo a cura
della Tecnostampa di Recanati, giugno
2009.
23) In realtà, l’espressione era stata
assai precedentemente elaborata dai
cattolici francesi per difendere la libertà
della Chiesa dalle indebite ingerenze
dello Stato secolare. Cavour la usurpò,
stravolgendone il senso originale.
24) A titolo esemplifi cativo si possono
citare gli studi e gli approfondimenti
in tal senso condotti da Angela PELLICIA-
RI, tra i quali: L’Altro Risorgimento, Edizione
Piemme, collana Le Cattedrali del
tempo. In apertura si legge: «Una guerra
di religione dimenticata, se si guarda
alla storiografi a uffi ciale, quella insegnata
nelle scuole…» come pure l’altra
sua pubblicazione: Risorgimento da riscrivere,
liberali e massoni contro la
Chiesa, Ares, 1998.
25) Sembra, infatti, evidente che,
almeno fi no al 1859 gli insuccessi furono
notevoli: le Cinque Giornate di
Milano fallirono; a Curtatone e Montanara
i volontari vennero dispersi; i Comitati
insurrezionali a Belfi ore furono
sgominati. Bisogna attendere la battaglia
di Solferino e San Martino del 24
giugno 1859, l’anno della Seconda
Guerra d’Indipendenza, con l’ausilio
della consistente armata francese,
perché le lotte risorgimentali volgano
al meglio.
ITALIA 150 29
cattolica, intese dar voce unitaria
alla reazione dei fedeli al pontefi -
ce. Correva l’anno 1863, poco
dopo cioè la proclamazione del
Regno Italico, in una nutrita serie
di articoli lanciò e sostenne la tesi
di una doverosa astensione di
protesta dei cattolici italiani dalla
vita politica, anche per non rendersi
conniventi della violenta azione
usurpatrice e settaria in atto, decisamente
condannata dalla morale
cristiana e non solo. Quindi «Né
eletti, né elettori» fu la sua conclusione.
Porre in atto una resistenza
attiva, a fronte delle prevaricazioni
dilaganti, appariva non solo ineffi -
cace, ma controproducente.
Le affermazioni di don Margotti,
le quali convinsero ben presto
le coscienze dei suoi lettori,
non potevano avere che valore di
opinione personale o di consiglio
morale, ma soprattutto a seguito
della enfatizzata presa di Roma
del 1870 divennero convincimento
diffuso. In quello stesso anno
alcuni deputati particolarmente
sensibili e noti, con gesto di vasta
risonanza, rinunciarono al
mandato parlamentare. Primi fra
essi, il barone palermitano Vito
d’Ondes Reggio e poi il marchese
emiliano Ottavio di Canossa. La
linea astensionista andava decisamente
consolidandosi a fronte
delle sempre più audaci sopraffazioni
nei confronti del pontefi ce e
delle sovrane prerogative correlate
al libero svolgimento del suo
supremo ministero.
Il Magistero
e la “Questione Romana”
La Santa Sede, tuttavia, fedele
alla sua vocazione di paziente
attesa, scelse di temporeggiare
nella mai perduta speranza di un
ripensamento da parte del potere
invasore e di una soluzione concordata
dell’aperta vertenza. I suoi
interventi, tutti di principio, mai
personalistici, furono misurati, graduali
e dilazionati negli anni. 28
Per una prima presa di posizione
esplicita occorre attendere
il decreto della Santa Penitenzieria
Apostolica del 10 settembre
1874, che, nella sostanza, faceva
proprie le tesi astensionistiche di
30 ITALIA 150
I pontificati di
Leone XIII
(1810-1903),
Pio X (1835-1914)
e Benedetto XV
(1854-1922) videro
nascere nuovi
orientamenti che
favorirono la revoca
dell’astensionismo
politico dei cattolici.
The pontificates of
Leone XIII (1810-
1903), Pio X
(1835-1914) and
Benedetto XV
(1854-1922) led to
new orientation
favouring cancellation
of political nonparticipation
by
Catholics.
don Margotti. Ne seguirono, tra i
cattolici, discussioni e diatribe
anche accese, sembrando a qualcuno
che il Non expedit proposto
significasse inopportunità, ma
non assoluto divieto; vi furono
anzi diffusi tentativi di spingere i
cattolici alle urne nell’imminenza
delle elezioni politiche e, fra l’altro,
dai più irriducibili si faceva osservare
che il Papa non si era mai
direttamente pronunciato in proposito.
Intervenne allora Pio IX, il
quale, con un Breve del 29 gennaio
1877 al Consiglio Superiore
della Gioventù Cattolica, riprovava
il tentativo di indurre i cattolici alle
urne, mentre la Santa Sede non
aveva ancora defi nito se fosse
lecito e a quali condizioni prendervi
parte. L’autorevole intervento
troncò l’azione interventista diretta,
ma non la discussione circa
l’opportunità di agire in opposizione
alle evidenti violenze e infl uenze
settarie in atto, nell’interesse
stesso della Santa Sede.
Soltanto il 30 giugno 1888
un Decreto della Congregazione
del Sant’Uffi zio, approvato da Leone
XIII, 29 sentenziò che, per ragioni
di ordine superiore, il Non expedit
includeva una vera e propria proibizione,
trasformando quindi l’astensione
in comando. Nella comune
coscienza cattolica, tuttavia,
pur mostrando rispetto alla
disposizione papale, si fece strada
il convincimento che, a causa
del prevalere di correnti eversive,
si rendeva sempre più doverosa
una presenza attiva dei cattolici
sullo scenario politico nazionale.
Venne così alla ribalta, tra le altre,
una personalità di singolare rilie-
vo: Filippo Meda (1869-1939), 30
oratore convincente ed erudito,
avvocato cattolico di rara coerenza
e di pari modestia, che si mosse
con accortezza e abilità, puntando
decisamente ai vertici dell’azione
politica. Fu, infatti, eletto
deputato nel 1909: non ebbe né
esitazione, né dubbi a candidarsi
con la espressa volontà di raggiungere
poi posizioni di massima
responsabilità nella futura compagine
governativa, mostrando così
all’evidenza e in concreto che il
preoccupante “sistema” nazionale
si può e si deve migliorare dal
di dentro, più che dal di fuori. Tale
sua persuasione, soprattutto il
suo esempio e la sua autorevolezza,
in un contesto ormai avanzato,
fecero strada a nuovi orientamenti.
La morte di Leone XIII nel 1903
e l’elezione di Pio X 31 portarono
all’auspicato mutamento del Magistero.
L’attesa tra i cattolici era
viva, anche in vista delle elezioni
politiche indette per il novembre
del 1904. Pio X, d’animo mite e
sommamente dedito al bene spirituale
dei fedeli, confermò le precedenti
proteste per l’usurpazione
dello Stato Pontifi cio e, in linea di
massima, anche il divieto ai cattolici
di prendere parte alla politica
attiva, ma concesse ampie deroghe
in molti casi segnalati dai vescovi.
Fu l’anticipo di quanto poi
egli dispose con l’enciclica Il fermo
proposito dell’11 agosto 1905
nella quale, per riguardo ai suoi
predecessori, ancora non abolì
espressamente il Non expedit,
ma, di fatto, aperse ai cattolici
l’adito alla vita politica, a modo di
dispensa, tutte le volte che la loro
partecipazione fosse riconosciuta
dai vescovi, autorizzati a concederla
per il bene supremo della
Chiesa e della società. Così egli,
lasciando impregiudicata la “Questione
Romana”, con gesto coraggioso
e lungimirante, si faceva
carico del l’interesse morale non
solo della Chiesa, ma dell’intera
nazione italiana. Dopo più di un
trentennio, si ebbero elettori cattolici
e, se non deputati cattolici,
sicuramente cattolici deputati. 32
Pio X preparò così il terreno al suo
successore Benedetto XV che, nel
1919, consentendo ai credenti di
aderire al Partito Popolare di don
Luigi Sturzo, di fatto revocò ogni
precedente imposizione di astensionismo
politico.
Bisogna, tuttavia, aspettare il
radiomessaggio natalizio di Pio XII
del 1942 su l’“Ordine interno delle
nazioni” perché il magistero pontifi
cio riconosca elementi valoriali al
principio della democrazia rappresentativa
che legittimino l’impegno
cattolico diretto nel l’agone
politico. Il Concilio Vaticano II e il
conseguente Magistero degli ultimi
papi 33 hanno certamente incoraggiato
i cattolici ad impegnarsi
senza ambiguità nel l’ambito delle
attuali democrazie politiche, sempre
però sottolineando che è solo
il riconoscimento e la tutela dei
“valori forti” (quelli della persona
umana e quelli riguardanti la giustizia
sociale) che fondano un autentico
ordinamento politico e sociale
in cui si giustifi chi l’impegno diretto
dei credenti. 34
Anche le tragedie della Prima
e della Seconda Guerra mondiale,
con il loro immane carico di sofferenze
e di morti da tutte le terre
italiane e, negli anni del secondo
dopoguerra, la nascita di nuove e
grandi democrazie europee, il bisogno
incontenibile di libertà e di una
sempre maggiore partecipazione
politica, impressero, all’azione dei
cattolici italiani, vigore e determinazione,
preludio alla formazione
di partiti di massa a ispirazione
cristiana.
Questi, in breve, i precedenti
storici ed etici che fanno da presupposto
all’azione dei tre sacerdoti
in esame.
DON LUIGI STURZO
Alla frontiera di due mondi:
democrazia popolare
o totalitarismo ateo
«Il partito popolare di don Sturzo
è l’avvenimento più notevole e tipico
della storia italiana di questo
secolo» (Federico Chabod)
L’ingresso compatto e determinante
dei cattolici nella politica
dell’Italia unita si ebbe, in realtà,
con l’azione decisiva di don Luigi
Sturzo, sacerdote siciliano che
raccolse con intelligenza e lungimiranza
le precedenti aspirazioni e le
potenzialità del mondo cristiano,
realizzandole efficacemente. In
particolare, attinse al patrimonio
ideale di un altro sacerdote, parimenti
sensibile, meno fortunato
per l’asprezza del carattere e
l’estremismo ideologico: don Romolo
Murri, 35 egli pure assertore
convinto della partecipazione attiva
dei cattolici a tutti i livelli della
vita politica nazionale, in tempi in
cui tali convincimenti erano giudicati
con sospetto.
Don Sturzo, una vita e una
vocazione al sacerdozio come tante;
i dati anagrafi ci e biografi ci so-
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L’azione di don Luigi
Sturzo (1871-1959),
fondatore del Partito
Popolare, favorì
l’ingresso ufficiale e
determinante dei
cattolici nella vita
politica italiana.
The actions of don
Luigi Sturzo
(1871-1959), founder
of the Popular Party,
favoured official,
decisive involvement
of Catholics in the
Italian political life.
26) La partecipazione popolare agli
accadimenti politici fu assai ristretta:
all’inizio era chiamato alle urne solo il
due-tre per cento della popolazione maschile.
Soprattutto il ceto rurale notoriamente
di militanza cattolica, veniva
emarginato. Si cercò poi di blandirlo
abilmente promettendogli l’assegnazione
delle terre che lavorava a mezzadria
o in affi tto (Cfr. Idee di rappresentanza
e sistemi elettorali in Italia tra Otto e
Novecento, a cura di Pier Luigi BELLINI,
Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed
Arti, 1997).
27) La sua vita è legata a quella del
giornale L’armonia della religione con la
civiltà, che egli fondò e diresse dal
1848 al 1863. Organo dell’opposizione
cattolica al liberalismo cavouriano, difese
con decisione i diritti della Santa
Sede. La politica interna ed estera del
Regno di Sardegna dettò a don Margotti,
tempra eccezionale di polemista,
violenti articoli, affrontando e denunciando
i continui sequestri del giornale
e le personali vessazioni, giunte più
d’una volta all’arresto per vilipendio delle
costituzioni. Leale avversario di Cavour,
il quale personalmente nutriva per
lui sincera ammirazione, dedicò alla
immatura scomparsa dell’uomo politico,
avvenuta il 6 giugno 1861, un commosso
necrologio, letto, ammirato e
condiviso in Italia e in tutte le corti europee.
Eletto deputato nel 1857, non
poté sedere alla Camera perché canonico,
avendo il governo dichiarato non
eleggibili gli ecclesiastici in cura d’anime.
Per espresso desiderio di Pio IX,
nel 1863, lasciò la direzione dell’Armonia,
si trasferì a Firenze, per fondare e
dirigere, con maggiore moderazione,
L’unità cattolica.
28) I gravi documenti pontifi ci di condanna
dell’aggressione allo Stato della
Chiesa non contengono nomi o riferimenti
personali, mai citato Vittorio
Emanuele II o Cavour, Garibaldi, Mazzini.
La questione non era personale, ma
di principio.
29) Con l’elezione di Leone XIII, dopo
il lungo Pontifi cato di Pio IX, i cattolici
moderati attendevano cambiamenti
nell’indirizzo politico circa il nuovo Stato
unitario. I suoi primi interventi ne palesarono
l’orientamento: fermezza sui
principi, attenzione alle nuove emergenze
sociali, per le quali soprattutto il
laicato cattolico era chiamato a operare;
nessuna ostilità nei confronti del
nuovo Stato italiano, semmai dare alle
questioni in atto un contenuto nuovo,
non meramente rivendicativo, senza
nulla rinnegare di quanto il suo predecessore
aveva disposto.
30) Filippo Meda, presidente dell’Azione
Cattolica milanese, diede all’astensione
dei cattolici dalle urne il valore di
un semplice divieto pontifi cio, che non
aveva carattere né dogmatico, né asso-
ITALIA 150 31
no noti per cui possono bastare
brevi cenni di riferimento. Nacque
a Caltagirone di Catania il 26 novembre
1871 da genitori ferventi
cattolici, modesti proprietari terrieri,
fi eri della loro atavica nobiltà e
militanza in ambito ecclesiale. 36
Dopo un regolare cursus studiorum
seminaristico, fu sacerdote il 19
maggio 1894. Continuò gli studi a
Roma con il diploma in fi losofi a e
la laurea in teologia; nel contempo
coltivò anche altre di scipline a lui
care, quali la giurisprudenza, la
sociologia e la musica, dando
prova di notevole duttilità e apertura
intellettuale.
Durante il soggiorno romano
incontrò personalità cattoliche
convintamente votate al bene comune,
quali Giuseppe Toniolo 37 e
lo stesso don Romolo Murri, che
lo avviarono ai problemi sociali di
carattere nazionale e politico. Per
cui la realtà italiana interessò fi n
dall’inizio il suo ministero e magistero.
Fondò circoli e riviste, pubblicò
articoli e libri, si prodigò in
conferenze e congressi. In tal modo,
ancor giovane, si affermò come
personalità politica di spicco
nel mondo cattolico. Con il consenso
della Santa Sede, nel 1904 fu
nominato Commissario prefettizio
di Caltagirone e l’anno dopo ne
divenne pro-sindaco; conservò
tale incarico per quindici
anni, fi no al 1920, procurando
alla sua città benefi -
ci e progressi considerevoli,
soprattutto per i ceti
meno abbienti. Nel frattempo,
entrò a far parte
del Consiglio provinciale
di Catania; nel 1915 divenne
vicepresidente
dell’Associazione fra i
comuni d’Italia (ANCI),
che lui stesso aveva
contribuito a fondare.
Negli anni
1915-17, chiamato
da Benedetto XV, fu
segretario generale
della giunta direttivadell’Azione
Cattolica. Nel
contempo la
scena politica
italiana muta-
32 ITALIA 150
Nel 1952 don Luigi
Sturzo venne
nominato senatore
della Repubblica
Italiana con
l’esplicito assenso di
Pio XII (1876-1958).
In 1952 don Luigi
Sturzo became a
senator of the Italian
Republic with the
explicit consent of
Pio XII (1876-1958).
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va profondamente: il dopoguerra si
presentava problematico e incerto,
carico di rischi e di pericoli,
primo fra tutti, il fascismo prorompente.
Don Sturzo comprese che
era giunta l’ora di agire. Il 18 gennaio
1919, da una stanza dell’albergo
S. Chiara in Roma, lanciava
il suo appello «a tutti gli uomini liberi
e forti» per dar vita al Partito
Popolare, fondato «sulla morale
cristiana e sulla libertà», ispirato al
pensiero sociale della Chiesa, ma
con un programma aconfessionale,
così da non coinvolgere responsabilità
ecclesiastiche. Frattanto
l’ascesa del fascismo sembrava
inarrestabile e il conseguente assolutismo
politico di Benito Mussolini
andava affermandosi senza
esclusione di strategie, anche
violente. 38 Chi non era con lui, era
un nemico da eliminare. In questo
clima dittatoriale, don Sturzo, segretario
di un partito popolare non
allineato, era evidentemente un
elemento di forte disturbo. Sui
giornali cominciarono ad apparire
attacchi diretti e vignette caricaturali
della sua persona; gli appellativi
più benevoli: uomo nefasto,
visionario, rimbambito… 39 Il 25
ottobre 1924, don Sturzo, a 53
anni, con un passaporto della
Santa Sede, salì sul treno per
Londra, facendo breve tappa a
Parigi. Prese alloggio in un sobborgo
londinese ove rimase fi no
al 1940, quando, dichiarata guerra
dall’Italia alla Gran Bretagna,
dovette riparare negli Stati Uniti
d’America. 40 Il 9 novembre 1926
Mussolini d’autorità sciolse il Partito
Popolare Italiano. 41
Finita la guerra, dopo due
rinvii forzati, il 27 agosto 1946,
poté fi nalmente imbarcarsi sulla
nave Vulcania per il ritorno in patria.
Rivide Napoli, non senza
commozione, il 6 settembre, di
sera. Aveva settantacinque anni,
di cui ventidue passati in
esilio. Incominciò un interminabile
pellegrinaggio alle soglie di
casa sua, soglie che videro alternarsi,
fra gli altri illustri, Benedetto
Croce, Finocchiaro
Aprile, Nenni e Togliatti. Vi si
recò anche monsignor Montini,
poi Paolo VI, allora prose-
gretario di Stato di Sua Santità Pio
XII; vi sarebbe ritornato appositamente
da Milano il giorno del suo
funerale. I frequentatori più assidui
erano però i poveri e i bisognosi
della sua terra, che il confl itto
violento e l’occupazione straniera
avevano ridotto in miseria. Presso
l’Istituto “Luigi Sturzo” in via delle
Coppelle a Roma sono conservati
lunghi scaffali di cartelle che raccolgono
missive di varia forma e
dimensione, inviategli per lo più,
da povera gente, che lui aveva
benefi ciato. 42
L’Italia stava vivendo una stagione
di storici cambiamenti: dalla
monarchia alla repubblica, al sorgere
dei partiti nazionali, suddivisi
nei loro interni schieramenti, in fi -
loamericani e fi lorussi, rispettivamente
la Democrazia Cristiana
(DC) e il Partito Comunista Italiano
(PCI). Il confronto apparve subito
aspro e decisivo: la mobilitazione
non solo politica e partitica, fu
ampia e diffusa; lo stesso Pio XII
e il Vaticano seguivano con preoccupazione
l’evolversi del quadro
politico italiano, consapevoli delle
conseguenze negative di un’affermazione
del Fronte Popolare, che
vedeva uniti socialisti e comunisti,
i quali si andavano caratterizzando
come forze politiche anticlericali e
antireligiose, oltre che fi losovietiche.
Per fronteggiare il pericolo,
don Sturzo, con intuizione geniale,
non rievocò il Partito Popolare,
espressione politica d’altri tempi e
da taluni giudicato di stampo prettamente
meridionalista, ma, con
altri fi dati collaboratori, tra i primi,
Alcide De Gasperi, diede vita alla
Democrazia Cristiana come partito
del l’Italia cattolica e moderata,
strumento di coesione sociale intorno
ai valori cristiani da immettere
nella democrazia parlamentare.
Il 18 aprile 1948 la nuova formazione
politica vinse le elezioni, fi ssando
la collocazione netta dell’Italia
nella zona politica occidentale
e cristiana.
Don Sturzo poteva ritenersi
appagato delle sue sofferenze e
fatiche. La sua impostazione dell’Italia
unita aveva trionfato, scongiurato
anche il pericolo di un’egemonia
sovietica sul nostro Paese.
Nessuna sorpresa
pertanto suscitò
la sua nomina
a senatore da
parte del primo
presidente della
Repubblica Italiana,
Luigi Einaudi,
il 18 settembre
1952, previo assenso
esplicito di
Pio XII e del vescovo
di Caltagirone,
richiesti dallo
stesso don Luigi.
A seguito di tale nomina, entrò
a far parte della V Commissione
“Finanze e Tesoro” del Senato.
Nell’aula di Palazzo Madama si
contano una ventina di suoi interventi,
tutti marcatamente di carattere
programmatico per la rinascita
del l’Italia unita. Non mancarono
dissensi e non solo fra l’opposizione,
ma la sua linea rimase coerente
ai principi cristiani e il suo pensiero
sempre volto al bene e al
progresso della nazione.
Portata così a termine la sua
storica missione, anche la sua
giornata terrena volse al termine.
Il 23 luglio 1959 celebrò la sua
ultima Messa, al termine della
quale fu colpito da collasso. L’agonia
si protrasse per sedici giorni,
durante i quali ebbe il conforto
della benedizione di Giovanni
XXIII. 43 Sabato 8 agosto, alle ore
16,45, spirò. Aveva da poco varcato
la soglia degli ottantotto anni. I
funerali segnarono il vertice della
sua popolarità. Un’incontenibile
folla rese devoto omaggio al venerando
patriarca dei nostri tempi,
Mosè redivivo, guida di una nazione
pericolante che egli seppe traghettare
oltre il Mar Rosso del
comunismo ateo e il deserto arido
di una rovinosa guerra perduta. Le
sue spoglie deposte temporaneamente
nella cripta della basilica di
San Lorenzo al Verano, il 3 giugno
1962 vennero traslate a Caltagirone,
vicino alla casa paterna, in un
monumentale mausoleo realizzato
su proposta dei suoi discepoli,
dalla Presidenza del Consiglio dei
Ministri nella chiesa del SS. Salvatore,
ove aveva celebrato la sua
prima Messa, nel 1894.
Don Luigi Sturzo nel
suo studio.
Don Luigi Sturzo in
his office.
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luto, la cui sopravvivenza era legata
esclusivamente alla volontà “privata”
del pontefi ce. Di qui le sue decise e
decisive iniziative politiche.
31) Eletto in un conclave piuttosto
agitato a seguito del veto dell’Austria
nei confronti del noto cardinale Raffaele
Mèrry del Val, nominato poi segretario
di Stato, Giuseppe Sarto, trevisano
di Riese, assunse come motto,
l’espressione di san Paolo: «Instaurare
omnia in Christo» e si diede con tutte
le forze al governo spirituale della
Chiesa. D’animo mite e conciliante,
cercò sempre la pacifi cazione e l’intesa,
ispirandosi esclusivamente allo
spirito evangelico.
32) Un primo ingresso signifi cativo
dei cattolici in politica si ebbe con il
noto Patto Gentiloni dal nome del presidente
dell’Unione Elettorale cattolica,
stipulato nel 1913, in occasione delle
prime elezioni politiche a suffragio universale
maschile. L’avanzare delle sinistre
rappresentava un pericolo reale
per una loro totale occupazione del Parlamento.
Pio X, consapevole del pericolo,
temendo un inasprimento della
“Questione Romana”, acconsentì che
Gentiloni diramasse una circolare ai
dirigenti delle associazioni cattoliche in
cui si enucleavano i sette punti che i
candidati ministeriali, per lo più di fede
giolittiana, dovevano accettare per ricevere
il sostegno cattolico. Tra le richieste
più signifi cative fi gurava la tutela
della scuola privata, l’istruzione religiosa
nelle scuole pubbliche, un trattamento
non discriminatorio delle organizzazioni
cattoliche. I candidati liberali
accettarono, contando sull’appoggio
della rete capillare e organizzativa delle
parrocchie. L’accordo, pur non arrestando
l’avanzata della formazione socialista,
che raddoppiò quasi i propri deputati,
riuscì a garantire la stabilità ai
governanti. Il patto aveva retto e funzionato,
lasciando ben sperare anche per
il futuro.
33) Il Concilio Vaticano II, nel Decreto
Gaudium et spes, così si esprime: «Tutti
i cristiani devono prendere coscienza
della propria speciale vocazione nella
comunità politica […] affi nché tutti i
cittadini possano svolgere il loro ruolo
nella vita della comunità» (n. 75). Paolo
VI, parimenti nell’enciclica Octogesima
advenies (1971), afferma che «la politica
è una maniera esigente […] di vivere
l’impegno cristiano al servizio degli altri»
(46).
34) In effetti, esistono Paesi che formalmente
si dichiarano democratici,
ma nei fatti non tutelano né i diritti
fondamentali delle persone, né attuano
politiche di giustizia sociale. La recente
enciclica sociale di Benedetto XVI, Caritas
in veritate, che si muove nel solco
tracciato nel post Concilio dalla costituzione
apostolica Populorum progressio
di Paolo VI, è un’ulteriore prova del cammino
compiuto dal Magistero Pontifi cio
in ambito sociale e politico.
35) Figura poco nota e spesso fraintesa,
ma degna di attenzione in merito
all’inserimento dei cattolici in politica.
Visse tra il 1870 e il 1944, ordinato
sacerdote nel 1893, studiò lettere
all’università di Roma e con acuta intelligenza
si diede all’apostolato sociale.
Fondò circoli e riviste, si prodigò in conferenze
e congressi. Nel 1909 fu eletto
deputato. Il suo pensiero riformista raggiunse
punte d’estremismo esasperato,
in contrasto con lo spirito evangelico,
per cui venne scomunicato da Pio
X. Si ravvide poi e morì in comunione
con la Chiesa.
36) A causa della sua fragilità, essendo
nato gemello, si ebbe cura di amministrargli
subito il battesimo. Prima di
lui erano nati Mario, primogenito, futuro
vescovo di Piazza Armerina; Margherita,
pia e attiva, alla sua morte lasciò
un consistente legato per fondare la
parrocchia di Maria SS.ma del Ponte;
Remigia, consacrata al Signore tra le
Figlie della Carità, e Rosa, che morì
bambina. La gemella, Emanuela, fu il
suo angelo tutelare, rimanendogli sempre
accanto e accudendolo sino alla
fi ne. Nell’ambito familiare vanno pure
ricordati due zii paterni, i padri Luigi e
Franco, entrambi gesuiti di singolari
virtù, ai quali si associa lo zio materno,
il padre benedettino Salvatore.
37) Nacque a Treviso nel 1845, morì
a Pisa nel 1918, sta per concludersi la
sua causa di beatifi cazione. Sociologo
ed economista di spicco in ambito cattolico,
insegnò nelle università di Venezia,
Modena e Pisa. Fautore della scuola
etico-cristiana contro la concezione
utilitaristico-liberale, ispirandosi alla
dottrina di Leone XIII ideò una società
di tipo collaborativo per assicurare a
tutti i lavoratori un degno tenore di vita.
Pio X, trevisano come lui, appena giunto
al Soglio Pontifi cio, gli affi dò la riorganizzazione
e direzione politica del
movimento cattolico sociale, dopo lo
scioglimento della nota Opera dei Congressi
e dei Comitati Cattolici, istituita
da Pio IX. In tal modo il nuovo pontefi ce,
che tenne una linea intransigente contro
il modernismo, sul terreno socialpolitico,
fi n dall’inizio, stimolò la nascita
e lo sviluppo di un movimento sindacale
cattolico, che conobbe una notevole
diffusione e di cui il Toniolo elaborò le
linee programmatiche alle quali s’ispireranno
(come implicitamente continuano
ad ispirarsi) i sindacalisti cristiani
(Cfr. Giovanni ZALIN, Economisti, po litici,
fi lantropi nell’Italia liberale, Padova, Cedam,
1997).
38) Il caso di Giacomo Matteotti testimonia
tragicamente il clima persecutorio
instaurato dal fascismo. Segretario
del Partito Socialista, egli il 30
ITALIA 150 33
DON PRIMO MAZZOLARI
«Voglio svegliare l’aurora» (Salmo 56)
«Tromba dello Spirito Santo in terra
mantovana» (Giovanni XXIII)
«Custos, quid de nocte?». 44
«Adhuc aurora est». 45 Il Concilio
Vaticano II è di certo tra gli avvenimenti
più signifi cativi del secolo
scorso e non solo in ambito ecclesiale.
Spinse l’universo cattolico
ad andare al fondo di tutte le
sue principali problematiche, a
varcare soglie note e ignote per
giungere a una visione globale,
positiva e propositiva del Vangelo
nell’oggi, dopo venti secoli di storia.
Ebbe ampie ripercussioni a
livello mondiale e, come una nuova
Pentecoste, cui viene di sovente
ricondotto, segnò per la cattolicità
una delle tappe più innovatrici
della sua storia. La Chiesa
si rivelò al mondo, spalancò le
porte perché ogni uomo, 46 di tutte
le civiltà, razze e religioni, vi
trovasse accoglienza fraterna;
casa tra le case, famiglia di famiglie.
Non fu certo un’improvvisazione
o un evento casuale: vi
giunsero a maturazione germi di
bene riposti nel cuore della Chiesa
da mani generose e profetiche
attraverso una lunga stagione
preparatoria. Tra i precursori più
tempestivi e coraggiosi è sicuramente
don Primo Mazzolari che,
con la sua azione pastorale, ne
prefi gurò lo spirito e ne anticipò
le riforme. Una missione d’avanguardia
disseminata di diffi coltà,
che le parole di Paolo VI, ricevendo
in Vaticano la sorella con un
gruppo di parrocchiani di Bozzolo,
pochi anni dopo la morte del fratello,
ben riassumono: «Hanno
detto che non abbiamo voluto
bene a don Primo. Non è vero.
Anche noi gli abbiamo voluto bene.
Ma voi sapete come andavano
le cose. Lui aveva il passo
troppo lungo e noi si stentava a
stargli dietro. Così ha sofferto lui
e abbiamo sofferto noi. Questo è
il destino dei profeti». 47 Un passo,
il suo, troppo lungo per gli altri,
troppo lento per lui e ne soffriva.
Molte ed esaurienti le biografi
e di studiosi che lo hanno
34 ITALIA 150
Don Primo Mazzolari
(1890-1959), con la
sua azione pastorale
innovatrice – diffusa
con gli scritti,
oralmente e
fattivamente – si
distinse come la
sentinella del
mattino che
annuncia cieli nuovi
e terre nuove.
Don Primo Mazzolari
(1890-1959), with his
first innovative
ministerial action
– circulated through
writings, orally and
actively – who stood
out as a morning
sentinel announcing
new skies and lands.
Nella pagina
a fianco: don Primo
Mazzolari non vide
l’apertura del
Concilio Vaticano II,
ma ne prefigurò lo
spirito e le riforme.
On the opposite
page: don Primo
Mazzolari did not see
the opening of the II
Vatican Council, but
prefigured both its
spirit and the
reforms.
conosciuto e amato, ma sono
soprattutto i suoi scritti e la sua
predicazione a dare la misura di
un nuovo profetismo che va oltre
ogni umano orizzonte. Le pubblicazioni
e le omelie registrate di
don Primo sono una biblioteca
immensa, un mare di rifl essioni,
sensazioni, esperienze tutte volte
al futuro, animate da un ottimismo
cristiano che vede la Chiesa
come una divina realtà in cammino,
sospinta dalla sua vocazione
all’universalità; un luogo d’incontro
per costruire insieme il Regno
di Dio già presente in mezzo a noi,
nel quale i privilegiati sono i lontani
e gli ultimi.
I dati anagrafici di questo
profeta senza diaframmi, acuto
veggente innamorato del Cristo
universale e dei fratelli lontani, ripropongono
la semplicità dei Vangeli
quando parlano della chiamata
degli Apostoli. Vive in un’epoca
di crisi: tra il tramonto del modernismo
e il primo sorgere del Concilio
Vaticano II, che egli però non
vide: morì, infatti, a Cremona il 12
aprile 1959. La figura di Mosè
anche in lui rivive e si ripropone:
dopo aver guidato il suo popolo nel
deserto infuocato dell’Esodo, giunto
in prossimità della terra promessa,
morì sul monte Nebo, donde
poté semplicemente intravedere la
patria promessa. I profeti e i condottieri,
nell’antichità come nei
nuovi tempi, sembrano accomunati
da un’identica sorte che si arresta
sulle soglie della promessa.
Taluni biografi di don Mazzolari,
per amore di semplifi cazione,
ne suddividono la vita in tre essenziali
tappe. La nascita il 13 gennaio
1890 a Boschetto, frazione di
Cremona, in una famiglia contadina,
che viveva alla giornata, sui
lavori dei campi cui il padre era
dedito. 48 L’infanzia e la prima giovinezza,
con l’esperienza in seminario
a Cremona, trascorsero relativamente
serene. Alla sua ordinazione
sacerdotale, il 25 agosto
1912, 49 fecero seguito le prime
esperienze pastorali: servizio mili-
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tare; 50 al termine, in cura d’anime,
mentre l’Italia viveva il
travaglio del primo dopoguerra.
Segue il ventennio
fascista che sfocia nella
Seconda Guerra mondiale.
La Chiesa reagisce al
modernismo, mentre
don Mazzolari vive come
parroco l’esperienza pastorale
sul campo, prima
a Bozzolo, poi a Cicognara,
poi nuovamente
a Bozzolo (1922-45).
Dalla fine della
guerra alla morte, oltre
alla sua missione di parroco,
partecipa con convinzione
alla nascita e
alla affermazione della
democrazia. Esprime il
suo pensiero attraverso varie
pubblicazioni e, più compiutamente,
sul discusso quindicinale
Adesso, che gli procura qualche
amarezza, 51 ma anche ampi consensi.
La predicazione, appassionata
e vibrante, si rivela la sua
missione e lo porta a peregrinare
dal Nord al Sud: ovunque le sue
parole giungono come voce di rinnovamento,
di fratellanza e profezia
di futuro (1945-59).
A Bozzolo, il parroco don Primo
imposta la sua pastorale su
direttrici inusuali. Organizza in ca-
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Giovanni XXIII
concludeva il suo
discorso di apertura
del Concilio
paragonandolo
all’aurora di una
nuova era nella
storia della Chiesa.
Giovanni XXIII
ended his opening
speech for the
Council by
comparing it to the
dawn of a new era
for the Church.
maggio 1924, in un accorato discorso
alla Camera dei deputati denunciò le
violenze e i brogli dei fascisti per vincere
le elezioni del 6 aprile. Fu l’ultimo
suo intervento: dieci giorni dopo venne
rapito, pugnalato e abbandonato in
aperta campagna, dove il suo cadavere
venne rinvenuto due mesi dopo.
39) Don Luigi Sturzo non si presentò
mai come candidato al Parlamento, ma
il Partito Popolare raccolse via via consensi
sempre più vasti. Caduto nel febbraio
del 1922 il governo Bonomi, Giolitti
si dimostrò incapace di formarne
uno nuovo e Mussolini ebbe via libera
per l’ascesa al potere. Don Luigi, costretto
a partecipare con due suoi uomini
al nuovo Gabinetto Mussolini, non
ebbe cedimenti di sorta e, poco dopo,
passò all’opposizione.
40) Di questo periodo in esilio di don
Sturzo viene ricordata in special modo
la carità nei confronti degli altri esuli
politici, ai quali devolveva i proventi dei
diritti d’autore per le sue numerose e
redditizie pubblicazioni. Il cardinale
John Wright, già egli stesso suo penitente
quando don Luigi era a New York,
rivela quanto fosse ricercato dai sacerdoti
e dai fedeli per il ministero della
confessione e della direzione spirituale:
il miglior elogio per il suo sacerdozio e
per la dimensione essenzialmente spirituale
del suo ininterrotto ministero.
41) In tutto questo periodo dell’esilio,
don Sturzo, pur conservando corrispondenza
con l’Italia, sempre rigorosamente
controllata dalla censura fascista,
esercitò prevalentemente l’attività a lui
congeniale di pubblicista e scrisse le
sue opere più importanti di carattere
storico, politico e sociologico, tra le
Olycom
quali The true life (tradotta in italiano
con il titolo La vera vita. Sociologia del
Soprannaturale) che si può considerare
la sintesi di tutto il suo pensiero.
42) Anche per queste sue benemerenze
assistenziali, universalmente note
in Sicilia, il 27 agosto 1947 fu eletto
all’unanimità dall’Assemblea Regionale
Siciliana membro dell’Alta Corte per la
Sicilia.
43) Testimoni oculari riferiscono che
quando gli riferirono le parole con cui
Sua Santità gli impartiva la benedizione,
s’illuminò in volto e la gioia fu tale
che i medici notarono come quel giorno
stesse inspiegabilmente meglio.
44) Isaia, 21,11. L’interrogativo è nella
prima parte del libro di Isaia, probabilmente
scritta nel 711 a.C., ove si
legge: «Mi gridano da Seir: Sentinella,
quanto resta della notte? La sentinella
risponde: Viene il mattino…».
45) È l’espressione con cui Giovanni
XXIII, l’11 ottobre 1962, nella basilica
di San Pietro, alla presenza di 2.500
vescovi di tutto il mondo, concludeva il
suo discorso di apertura del Concilio
Vaticano II, paragonandolo all’aurora
dei tempi nuovi.
46) Giovanni Paolo II, erede del Concilio,
iniziò il suo pontifi cato con la nota
esortazione: «Aprite le porte a Cristo!»
47) A. CHIODI, Primo Mazzolari, un testimone
“in Cristo” con l’anima del profeta,
Centro Ambrosiano, Milano 1998,
p. 90.
48) I Mazzolari erano una famiglia
socialista di piccoli fi ttavoli. Al Boschetto
avevano poca terra. La nascita di
altri fi gli, e quindi le maggiori necessità,
obbligarono il padre Luigi a cercare più
terra altrove. L’11 novembre 1900 partirono,
su due carri, con le poche cose
che possedevano, per Verolanuova, un
grosso centro bresciano.
49) Non poté essere ordinato sacerdote
con i condiscepoli il 1° giugno
1912, perché troppo giovane, non aveva
l’età canonica. Fu consacrato dal
vescovo di Brescia Giacinto Gaggia,
nella parrocchiale di Verolanuova, ove
abitava con la famiglia.
50) Il 24 maggio 1915 l’Italia entra in
guerra. Don Primo viene arruolato e destinato
all’ospedale militare di Genova.
Mentre stava raggiungendo il reparto,
gli giunge la notizia della morte del fratello
Peppino, sul monte Sabotino, il 25
novembre 1915. Dopo i tre mesi di
addestramento, viene trasferito al l’ospedale
militare di Cremona, dislocato
in Seminario. Ricevuto il grado di caporale,
rimase a Cremona quasi due anni.
Dopo Caporetto, chiese di essere nominato
cappellano militare. Il 26 aprile
1918 fu destinato, come cappellano
con il grado di tenente, in Francia, sul
fronte con la Germania. Vi rimase sino
alla fi ne della guerra. Il 23 luglio 1920
fu congedato.
ITALIA 150 35
nonica una scuola serale di agricoltura,
di zootecnia e di formazione
civile. Iniziarono in otto e fi nirono
in cinquanta. Istituisce e cura
personalmente una pubblica biblioteca,
abolisce le tariffe dei
servizi religiosi, proponendo celebrazioni
indifferenziate per tutti i
parrocchiani, senza più distinzioni
di classi; inventa le feste del grano
(in occasione del Corpus Domini),
e dell’uva (per la sagra di settembre).
In ambito sociale, cercando
più ciò che unisce di ciò che divide,
52 riesce a stabilire rapporti non
conflittuali con i socialisti, che
erano la gran maggioranza dei
suoi parrocchiani, tutti o quasi
tutti fi ttavoli. In ambito politico,
condivide l’impostazione sociopolitica
di don Sturzo. Intrattiene rapporti
anche con il giovane don Lorenzo
Milani, che pure scrive su
Adesso.
La vigilia di Natale del 1921
riceve l’ordine di lasciare immediatamente
Bozzolo per Cicognara,
un piccolo paese di circa mille
abitanti, a quindici chilometri da
Bozzolo, sull’argine del Po. Il parroco
di quel paese era scappato di
notte, contestato violentemente
dai parrocchiani per contrasti circa
gli affi tti delle terre della parrocchia.
Fu una scelta quasi obbligata
quella del vescovo di Cremona. Ma
in chiesa al Vangelo, quando si
voltò, non c’erano più di venti persone.
Parlò a quei pochi, col cuore
oltre, verso la grande Chiesa dei
lontani. La sua vocazione veniva
così segnata nella sua anima di
sacerdote, in quel mattino di Circoncisione,
53 nel gelido deserto
della sua chiesa. Sarebbe stato il
parroco dei lontani. Qualcosa incominciava.
L’attesa. Il suo dinamismo
pastorale trovò a breve fertile
terreno. Nell’estate del 1922 annegarono
nel Po due bambini: un
triste lutto parrocchiale che egli
cercò di lenire e prevenire istituendo
immediatamente una colonia
fl uviale per insegnare a nuotare e
a scongiurare così altre disgrazie.
Era solo l’inizio di un apostolato
dinamico, innovatore, attento all’attualità,
rivolto a tutti, per la redenzione
dell’uomo, di ogni uomo,
di tutto l’uomo, e così vivere inte-
36 ITALIA 150
gralmente il Vangelo. Stabilì poi
una giornata d’incontro con i reduci
della Grande Guerra, il 4 novembre,
per rifl ettere sul martirio dei
caduti e sui doveri dei reduci. Senza
mai trascurare le nuove leve; la
giornata dei coscritti diciottenni,
ogni anno, era la festa della primavera
cristiana tra la sua gente:
giovani e ragazze, li portava solennemente
in chiesa, celebrava per
loro la Messa durante la quale
benediva il tricolore che essi avrebbero
custodito e riportato l’anno
dopo davanti all’altare a salutare la
nuova classe che sopraggiungeva.
Congiuntamente all’apostolato
di rottura in campo aperto, don
Primo affi da il suo messaggio di
redenzione universale agli scritti e
alla predicazione. Le pubblicazioni
si susseguono a ritmo incalzante
e vengono accolte ovunque con
entusiasmo: La Pieve sull’argine,
L’uomo di nessuno, Il Compagno
Cristo, Preti così, La più bella avventura
(Sulla traccia del Prodigo), Tra
l’argine e il bosco, Il samaritano,
Tempo di credere, Anch’io voglio
bene al Papa, Diario di una primavera
– 1945, Lettera sulla Parrocchia…
54 Un florilegio dal soffio
ispirato, una sequenza di immagini
e di idee, di proposte e di provocazioni
per il credente e per il non
credente, per i vicini e i lontani, per
tutti. La sua attività di scrittore
profetico diventa sempre più incisiva
e inquietante. In ogni suo intervento
è evidente lo sforzo crescen-
La casa natale di
don Primo Mazzolari
al Boschetto.
The birthplace of
don Primo Mazzolari
in Boschetto.
te di portare il fermento evangelico
nelle strutture terrestri e le strutture
terrestri a dia logare con l’eterno.
Diviene così il portavoce di un laicato
adulto, vivo e attivo nella
Chiesa e nella società. Formatosi,
come egli stesso afferma, alla
scuola dei classici della letteratura
europea e dei cattolici francesi
d’avanguardia, sempre più innamorato
di un Vangelo senza frontiere,
aperto sull’infi nito, riesce a
fondere nei suoi scritti la violenza
della verità con uno stile semplice
e vivace che cattura anche il lettore
meno incline. Cultura e vita,
poesia e dogma non sono mai disgiunti
e nessun compiacimento
letterario lo distrae dalla problematica
religiosa, soprattutto dei non
credenti. Giunge a considerare la
presenza del sacerdote scrittore
«in sostituibile», quando è «spiritualità
penitente, sicura e audace».
Ha presentato al mondo una Chiesa,
madre e maestra, 55 che è la
casa di ciascuno, dove c’è sempre
un fratello sulla porta e un posto
che attende. Il vuoto di chi manca
è incolmabile e risucchia all’indietro
tutto l’apparato. Pensieri e sentimenti
tumultuanti nel suo cuore
di precursore, che troveranno ampia
eco e adeguata sistemazione
nei lucidi e programmatici sillogismi
del Concilio Vaticano II. Aprendo
il quale, a qualche anno dalla
morte di don Primo, 56 Giovanni
XXIII esordì esclamando: «Gaudet
Mater Ecclesia!». La Chiesa è in
festa per i tempi nuovi che si annunciano,
quelli che don Mazzolari
aveva auspicato e anticipato. Papa
Roncalli, come già asserito, concludeva
il suo dire inaugurale con
una affermazione pure passata
alla storia e alla profezia: «Adhuc
aurora est!». Quell’aurora cui il Papa
buono alludeva, ebbe un astro
mattutino che l’annunciò quando
tutt’intorno era ancora buio: don
Primo Mazzolari. Un esperto del
Concilio, padre Ernesto Balducci,
lo afferma esplicitamente: «Mazzolari
rimane una fi gura unica nella
storia del cattolicesimo del XX
secolo. Senza retorica, io sono
convinto che egli è l’unico vero
“profeta” del Vaticano II che abbia
avuto l’Italia di questo secolo».
Olycom
LORENZO MILANI
«In principio era la Parola»
(Inizio del Vangelo di Giovanni)
«Turpe est ignorare quod omnibus
scire convenit» 57
(Aristotele, Rhetorica, 11)
Mentre le realtà associative,
dalla famiglia ai vari circoli di diversa
aggregazione, compresi quelli
cattolici, sembrano dileguarsi, la
scuola rimane e si afferma come
punto di aggregazione e di riferimento,
pietra sicura su cui posare
il piede, soprattutto per le nuove
generazioni. In tale prospettiva,
l’istruzione con le sue multiformi
infrastrutture educative, dalle elementari
alla università, assume
anche il ruolo vicario di colmare il
vertiginoso vuoto delle istituzioni
tradizionali che va accumulandosi
alle sue spalle. Un compito educante
di enorme portata, senza
precedenti nella storia della cultura
e della civiltà. A don Lorenzo
Milani il merito d’averlo intuito in
anticipo, attribuendo alla scuola
popolare rinnovata una centralità
sociale determinante. «Dimmi
quanti vocaboli conosci e ti dirò il
grado di libertà che possiedi», era
uno dei suoi ricorrenti aforismi.
La vita di questo precursore
e profeta della nuova missione e
dimensione del sapere scolastico
si dispiega in paradigmi inusuali
alla tradizione presbiterale. 58 Nasce
il 27 maggio 1923, nella Firenze
colta, da una famiglia della
borghesia, secondogenito di Albano
e di Alice Weiss, di origine
ebrea. Il bisnonno è un illustre
studioso di linguistica comparata.
Il nonno, un archeologo di fama.
Da parte paterna, quindi, un vissuto
molto dotto, da parte materna
eredita una cultura ebraica che
affonda nel mondo mitteleuropeo
le proprie radici.
Adolescente versatile, attratto
da mille interessi, rischia la dispersione
e il profi tto scolastico
dei primi tempi è piuttosto deludente
per cui rischia anche la
bocciatura, in quel severo liceo
Berchet di Milano, ove cresce, accanto
a studenti parimenti votati
ad un avvenire d’impegno, come
quell’Oreste Del Buono, 59 che in
Don Lorenzo Milani
(1923-67) si prodigò
per una scuola che
risvegliasse nelle
coscienze la verità
che è in esse, e che
le rendesse capaci di
ragionare da sé,
di giudicare e di
farsi libere.
Don Lorenzo Milani
(1923-67) did his
best to create a
school which could
reawaken the truth
in our awareness,
make it able to
reason, judge and
become free.
51) La sua pubblicazione verrà sospesa
d’autorità dal cardinale di Milano
Idelfonso Schuster nel 1951. Vi compaiono
anche contributi di Lorenzo Milani.
52) È uno degli aforismi più ricorrenti
nel Pontifi cato di Giovanni XXIII, prima
e durante il Concilio.
53) Era, infatti, il 2 febbraio del 1922,
in cui la liturgia commemora appunto
la circoncisione di Gesù al tempio.
54) L’elenco completo e ragionato
delle pubblicazioni di don Primo Mazzolari
è reperibile nelle innumerevoli sue
biografi e. Vedi, ad esempio: Giuseppe
MASSONE, Don Primo Mazzolari, Milano,
Gribaudi 2008, pp. 163 ss.
55) Mater et magistra è l’incipit di una
nota enciclica di Giovanni XXIII, che già
recepisce taluni dei più incisivi e innovativi
messaggi di don Mazzolari.
56) Il 5 aprile 1959, Domenica in Albis,
alla Messa solenne delle 11,15,
don Primo, mentre teneva l’omelia, è
colpito da ictus cerebrale nella sua
chiesa di S. Pietro in Bozzolo, ove era
ritornato dopo la breve esperienza pastorale
di Cicognara. Ricoverato alla
Clinica S. Camillo di Cremona, moriva
dopo otto giorni di agonia, il 12 aprile
1959.
57) «È turpe ignorare ciò che tutti dovrebbero
sapere», una delle massime più
care al sommo fi losofo dell’antichità.
58) Per una rivisitazione aggiornata e
in parte innovativa, della figura e
dell’opera di don Milani cfr. Marcello
MANCINI-Giovanni PALLANTI, La preghiera
spezzata. I cattolici fi orentini nella seconda
metà del ’900, Libreria Ed. Fiorentina,
2010.
59) Narratore e giornalista tra i più
noti del suo tempo, fu prigioniero nei
lager tedeschi ai quali è ispirata molta
della sua effi cace produzione memorialista.
L’ amicizia con Lorenzo durò negli
anni.
60) Monsignor Mario Trapani, che aveva
una concezione piuttosto militaresca
del proprio uffi cio. Sembra pertanto non
corrispondere al vero l’interpretazione
dei fatti secondo cui don Milani sarebbe
stato confi nato a Barbiana quasi per
relegarlo in esilio, addossandone la responsabilità
al coadiutore del cardinale,
monsignor Er menegildo Florit, il quale,
quando nel dicembre del 1954 giunse
a Firenze, neppure conosceva don Milani,
che in effetti, si rese noto alla sua
diocesi e alla Chiesa solo nel 1957 con
la pubblicazione Esperienze pastorali.
Vero è invece che qualche anno dopo
monsignor Florit propose a don Milani
una parrocchia suburbana, ricevendone
però un cortese rifi uto, motivato
principalmente dal grande affetto verso
i suoi ragazzi di Barbiana e dalla volontà
di portare a compimento quel progetto
scolastico che con loro stava coltivando.
ITALIA 150 37
un suo scritto memorialistico, defi
nirà l’amico di sempre «ortodosso
fi no all’eresia». L’Italia sta precipitando
verso il secondo confl itto
mondiale. Il giovane Lorenzo lo sa
e si rifugia idealmente nell’arte,
che gli è congeniale. Tra il 1941 e
il 1943 coltiva la pittura, studiando
prima in privato, poi nell’Accademia
Brera a Milano. Seguendo
questo suo talento, nell’estate del
1942, durante le vacanze estive,
a Gigliola di Montespertoli, non
lontano da Firenze, decide di affrescare
una cappella dismessa.
Durante il lavoro di ripulitura, gli
capita in mano un vecchio messale
che gli rivela un universo fi no
allora sconosciuto: il Vangelo. Era
cresciuto in una famiglia avversa
alla religione cristiana; i fi gli furono
battezzati solo per timore della
rappresaglia fascista, essendo la
madre ebrea. Il vecchio messale
lo appassiona, lo convince. Nel
1943 è seminarista a Firenze.
Sono gli anni duri della guerra,
della fame e del freddo. In seminario
una disciplina severa e condivisa
lo tempra interiormente. E
quando, il 13 luglio 1947, il cardinale
Elia Della Costa lo ordina
sacerdote, la sua scelta degli ultimi
è matura. A Firenze è la stagione
del sindaco La Pira, di don
Enzo Mazzi, di don Divo Barsotti,
di monsignor Facibeni: tutta una
città scalpitante, a ridosso del
Concilio Vaticano II, che fa da
sfondo e da sponda al ministero
di don Lorenzo.
Dotato di una sensibilità che
oggi defi niremmo interrazziale e
intersoggettiva, viene inserito come
coadiutore nella parrocchia di
San Donato di Calenzano. Immediatamente
si rivela come un precursore
di tempi nuovi con una
serie di iniziative pastorali avanzate,
elogiate da alcuni, molto criticate
da altri. Qualcuno lo vorrebbe
subito parroco, ma il Vicario Generale
dell’archidiocesi 60 ne decise il
trasferimento, seguendo sia la
prassi che un viceparroco non
succede mai al proprio parroco,
sia le direttive del cardinale Elia
Della Costa, che voleva un parroco
fi sso anche nelle parrocchie più
piccole e isolate. Sul finire del
38 ITALIA 150
Fototeca Gilardi
1954 a don Lorenzo viene proposto
di scegliere fra una di queste.
Opta per Barbiana che non conosceva,
semplicemente perché era
la prima in ordine alfabetico della
lista, fi dando nella Provvidenza. 61
Un minuscolo e sperduto paesino
di montagna, pesantemente condizionato
da isolamento e povertà.
Per giungervi, occorreva un fuoristrada
che non temesse gli urti, i
dislivelli e i ciottolati. Il 1° gennaio
1955 don Lorenzo vi fece l’ingresso
e ne divenne il Priore. Tiepida
l’accoglienza, deserta la chiesa,
fatiscente la canonica. L’impatto lo
temprò alla preghiera e alla rifl essione.
Non si perse né nei meandri
della depressione, né in quelli
della rassegnazione. A breve uscì
la sua prima, sorprendente, discussa
pubblicazione: Esperienze
Pastorali, 62 un saggio d’enorme
interesse, che va alle radici delle
realtà ecclesiali. Fecero seguito
altri scritti parimenti provocatori e
innovativi: Lettera ai cappellani
militari toscani, sull’obiezione di
coscienza, 63 e la conseguente Lettera
ai Giudici, sull’educazione alla
pace. 64
Nel contempo approfondiva
le problematiche di Barbiana.
L’emigrazione e l’evasione scolastica
vi regnavano sovrane e mietevano
vittime. Comprese che occorreva
partire da lì, da quei mali
endemici e oscuri della sua povera
gente: fu un’intuizione profetica.
Alla luce del Vangelo che mette al
centro l’uomo, maturò il suo piano
Frontespizio di
Lettera a una
professoressa
(I edizione).
Title page
of Letter to a
teacher (I edition).
Una fotografia
giovanile di don
Lorenzo Milani.
Photo of don
Lorenzo Milani
as a young man.
Olycom
d’intervento nella convinzione che
il peggior limite anche morale di
una società è l’ignoranza e la disinformazione.
Perciò al primo posto
della gerarchia dei valori formativi
occorre mettere l’insegnamento,
la scuola, che è un diritto-dovere
per tutti, non solo per i fi gli dei
ricchi o dei professionisti (i cosiddetti
“Pierini”). Soprattutto gli indigenti
e gli ultimi ne hanno necessità
perché sono i più indifesi, i più
esposti. Una scuola che favorisca
la crescita integrale dell’uomo.
Quindi una scuola per gli alunni,
non gli alunni per la scuola. Nell’attuarla
occorre evitare che divenga
il letto di Procuste, 65 che cioè faccia
parti eguali tra ineguali: la peggior
ingiustizia sociale. Alunni diversi
per nascita, per tenore di vita,
per livelli di partenza, non possono
essere prima indottrinati e
poi esaminati alla stessa stregua.
E quindi il miglior maestro è chi fa
avanzare ciascun alunno con il
proprio passo, senza tarpare le ali
ai migliori, senza perdere i meno
dotati. Come in una cordata in cui
ciascuno ha il suo posto e svolge
il proprio compito. O tutti insieme
salgono, movendo dal proprio livello,
o l’impresa fallisce. Una scuola
che sia vissuta dagli alunni, non da
essi sopportata, che li coinvolga, li
renda protagonisti, mai spettatori
annoiati e distratti. Di qui anche la
tendenza di don Milani all’azione di
gruppo: pure le sue interviste, la
elaborazione delle sue pubblicazio-
ni, i suoi vari interventi pubblici per
la trasmissione del sapere collettivo,
erano sempre partecipati e
condivisi da tutti i suoi alunni: o si
cresce insieme o non si cresce
affatto. La società che vive, che
progetta il futuro, ha bisogno che
tutte le sue componenti interagiscano,
diversamente vengono violati
gli equilibri fondamentali del
vivere civile e si ha il disordine, in
cui si afferma la legge della giungla
e il più violento prevale. Idee e
principi che don Milani sintetizza e
riesce a divulgare magistralmente
nella più nota delle sue pubblicazioni:
Lettera ad una professoressa
del 1967. Né si tratta semplicemente
di un rinnovamento formale
della realtà scolastica: don Lorenzo
giunge al cuore del problema:
una scuola che semplicemente
istruisce e non educa non ha ragion
d’essere; l’educazione vera poi non
consiste semplicemente nell’aggiornare
la cultura e nel trasmetterla
con effi cacia, perpetuandone il
vizio intimo che è l’asservimento
delle coscienze a un’unica verità:
quella delle classi dominanti, ma è
risvegliare nelle coscienze la verità
che è in esse, in modo che diven-
Barbiana:
la chiesa e la scuola
dove viveva
don Lorenzo Milani.
Barbiana:
the church and
school where don
Lorenzo Milani lived.
«[…] Ma se è vero che Gesù voleva la Chiesa autorevole,
perché ci vuole una verità oggettiva e non soggettiva, allora io
non lascio la Chiesa a nessun prezzo al mondo: perché mi ricordo
che cos’era vivere fuori dalla Chiesa. Così un disgraziato studentello
che tenta di trovare la verità con il Vangelo in mano, si trova
davanti a un’infi nità di parole che possono essere interpretate in
mille maniere e non sa dove sbattere la testa. La religione consiste
nell’accettare la verità dall’alto e non credere che la verità si costruisca
con la nostra testa: la verità va ricevuta dall’alto, dalla
rivelazione, da un libro sacro, da una Chiesa. Quando uno entra
in quest’ordine di idee, se è un po’ coerente, non c’è pagina del
Vangelo in cui non gli verrà continuamente il dubbio: “Ma questa
è la mia interpretazione che fa comodo a me…”. Uno è religioso
solo se nell’interpretazione del testo, che crede sia cascato dal
cielo, ha qualcosa che casca dal cielo, non una sua scelta personale.
Sennò siamo al punto di Capitini quando ci diceva che del
Vangelo lui accettava in pieno il discorso della montagna… invece
quell’altra pagina no… Questa è una fi losofi a qualsiasi, cioè
con la propria mente si sceglie cosa è vero e cosa non è vero.
Se tu ammetti che la defi nizione della religione è l’accettare
le cose dall’alto, non c’è religione più rigorosa di quella cattolica…
perché qui c’è il libro che viene dall’alto e l’interpretazione del
libro che viene dall’alto. Prendi questo è il mio Corpo, questo è
il mio Sangue! Se uno l’affronta da solo? [...] la Chiesa dice che
Gesù faceva sul serio.
Uno che affronta il Vangelo con la mentalità critica di oggi,
lo leggerebbe in un modo, uno, con un’altra mentalità, in un altro;
così in un Paese o in un altro, in un’epoca o in un’altra, con men-
61) In una lettera, indirizzata ai ragazzi
di Piadena, dei ragazzi di Barbiana
– in cui la si descrive in quello stile che
è tipico di don Milani – il paesino è
così presentato: «Barbiana è sul fi anco
nord del monte Giovi, a 470 metri sul
mare; vediamo, sotto di noi, tutto il Mugello
che è la valle della Sieve, affl uente
dell’Arno, dall’altra parte del Mugello
vediamo la catena dell’Appennino. Barbiana
non è nemmeno un villaggio, perché
la chiesa e le case sono sparse nei
boschi e nei campi. I posti di montagna
come questo sono rimasti disabitati, se
non ci fosse la nostra scuola a tener
fermi i nostri genitori, anche Barbiana
sarebbe un deserto».
DON MILANI IN DIRETTA
62) Libreria Editrice Fiorentina, Firenze
1957.
63) A seguito dei suoi interventi in
difesa dell’obiezione di coscienza, in cui
si stacca decisamente dall’opinione comune,
venne citato in giudizio, ma morì
prima che fosse emessa la sentenza.
64) L. MILANI, L’obbedienza non è più
una virtù, Libreria Editrice Fiorentina,
Firenze 1965.
65) Secondo l’antica leggenda, il noto
furfante dell’Attica assassinava i
viandanti che gli chiedevano ospitalità
facendoli prima coricare su un apposito
letto a ciò predisposto e poi troncando
loro le gambe se erano troppo lunghe,
stirandole se erano più corte.
talità tutta diversa. Questa Chiesa è quella che possiede i sacramenti.
L’assoluzione dei peccati non me la dà mica l’Espresso.
L’assoluzione dei peccati me la dà il prete. E se uno vuole il perdono
dei suoi peccati, si rivolge al più stupido e più arretrato dei
preti per averla, non si rivolge mica al borghese moderno, intellettuale,
colto, che si crede mio amico e mio simile. Io non sono
affatto simile a quella gente…
Se dovessi scegliere una religione, sceglierei quella cattolica,
perché tra le altre cose importantissime, fondamentali, c’è il sacramento
della confessione, per il qual solo quasi, per quello solo,
sono cattolico: per poter avere continuamente il perdono dei
peccati e darlo. Il più piccolo litigio con la Chiesa mi toglie questo
potere. E chi me lo rende? Benedetti, Falconi? E la comunione e
la Messa me la danno loro? Se si mettessero nello stato d’animo
di chi crede che la Chiesa ha il deposito delle fondamentali verità,
non delle piccole verità politiche locali, ma di quelle fondamentali
– se Dio esiste, se Gesù era il fi glio di Dio, se quando diceva
“questo è il mio corpo” faceva sul serio o faceva per dire, se risorgeremo,
se c’è la vita eterna o no – se ci mettessimo in mente
che la Chiesa è dalla parte del vero in queste cose e ha i mezzi
per arrivarci, la dottrina e i sacramenti per arrivarci… allora
perché vengono a domandarmi: “Perché non vieni via dalla ditta
dove tu ti puoi salvare, visto che la pensi come noi?”. Dove la
penso come voi? In qualche piccolissimo particolare esterno della
vita politica e sociale. Questo è il motivo per cui ci penso neanche
lontanamente di venire con voi…». (Conversazione registrata
avventurosamente e riportata in Don Milani! chi era costui? di
Pecorini Giorgio, ed. Baldini e Castoldi, Milano 1996).
Olycom
tino capaci di ragionare da sé, di
giudicare, di farsi libere in un mondo
in cui la libertà è un rischio, una
quotidiana conquista, direttamente
correlata al sapere, secondo
l’affermazione evangelica: «...e la
verità vi farà liberi». 66 Il sapere
dunque come conoscenza della
verità; una verità da vivere e da
partecipare con coerenza e convinzione,
affi nché ogni uomo abbia un
futuro di libertà, un futuro migliore.
Purtroppo queste illuminate
intuizioni e lucide rivelazioni che
sconvolgevano le tradizioni non
solo didattiche, ma anche educative
e formative della scuola istituzionale,
incapparono nella temperie
del 1968, che, come è noto, ne
fece motivo di speculazione politica,
stravolgendole. 67 Superato il
momentaneo travisamento, il teorema
didattico di don Milani ha ri-
40 ITALIA 150
preso il suo interiore e spirituale
slancio a livello planetario.
Barbiana, quando don Lorenzo
vi arrivò, contava 39 persone;
dirla parrocchia signifi cava usare
un eufemismo: era semplicemente
una località irreperibile nelle
mappe e che probabilmente doveva
scomparire anche dalla geografi
a ecclesiastica. Quasi a sorpresa
vi giunse don Lorenzo, in un isolamento
accentuato che avrebbe
spento in chiunque ogni pur nobile
aspirazione. Non fu così. Don Milani,
incompreso e minato dal cancro,
in quella situazione impossibile,
operò l’impossibile. Raggranellati
i ragazzi sperduti nei loro casolari,
dispersi nei boschi e remoti
nella campagna, fi gli di sottoproletari
agricoli, realizzò con loro un
organismo pensante che sta conquistando
il mondo. È il miracolo
Olycom
Don Lorenzo Milani
a Barbiana
con i suoi ragazzi.
Don Lorenzo Milani
at Barbiana with his
children.
di Barbiana, la cui forza sta nella
fedeltà alla propria vocazione, ben
convinti che ogni realtà, quindi
anche la Chiesa, si rinnova restandoci
e partendo dagli ultimi.
La grandezza e la gloria d’Italia
unita sono anche qui, in questo
sperduto fazzoletto di arida terra
fi orentina, ove un giovane sacerdote,
giuntovi sulle ali del mistero che
circonda le grandi opere di Dio,
edifi cò la prima cattedrale del sapere
giovane e popolare: ha per
altare appunto la cattedra e i fedeli
furono, sono e saranno tutti gli
alunni di buona volontà, sparsi nel
mondo. Nati liberi per vivere in liberà.
Sottratti alla peggior schiavitù:
l’ignoranza. Redenti dalla Parola.
La Parola rivelata e la parola
imparata, compitando sui banchi
di scuola.
***
La religione cristiana, del l’amore
e della fraternità, della verità
tutta intera, vissuta e predicata da
tanti suoi apostoli più o meno noti,
di ieri e di oggi, ancora si conferma
come l’unico cemento attivo dei
popoli, senza il quale, anche a distanza
di decenni, gli agglomerati
umani, pur compresi entro i medesimi
perimetri nazionali, rischiano
di rimanere estranei a sé e confl ittuali
agli altri.
Parafrasando una nota affermazione
di Francisco Goya, si può
ben asserire che pure «il sonno
della religione genera i mostri». Gli
errori e gli orrori della laicizzazione
in atto ne sono la riprova.
Don Luigi Sturzo, don Primo
Mazzolari, don Lorenzo Milani: tre
umili preti, tre pietre miliari dell’Italia
unita.
66) Vangelo di Giovanni, 8,32.
67) È noto che una delle espressioni
care e programmatiche di don Milani
era: “I care”, letteralmente signifi ca: “Io
mi prendo cura” (in dichiarata opposizione
al “Me ne frego” fascista); il motto
era scritto su un cartello ben visibile
all’ingresso della scuola di Barbiana e
intendeva riassumere le sue fi nalità
educative, orientate alla presa di coscienza
civile e sociale dei suoi frequentatori.
Il Partito Democratico della
Sinistra (DS), nel suo primo convegno
del 2000 ancora lo utilizzava come slogan
propagandistico (vedi l’intervento di
Luigi Berlinguer).
NOTIZIARIO
Economia-Finanza
ALESSANDRO BOLOGNESI
Il listino azionario
è in vendita
Il risparmiatore attento, o che gestisca
direttamente il suo portafoglio
titoli, oppure che segua,
attraverso le gestioni l’andamento
della Borsa, diffi cilmente riesce ad
avere un quadro esatto del valore del
suo possesso azionario in un determinato
momento. Se un comparto sale,
favorito dai sintomi di ripresa che si
vanno manifestando in un settore produttivo,
resta incerto un altro settore,
ove il risparmiatore ha investito buona
parte dei suoi risparmi; e pertanto
l’investimento azionario è rappresentato
dagli indici di Borsa, che riassumono
i valori di gran parte dei titoli presenti
nel listino azionario o meglio dai
cosiddetti Etf-Excange trade fund, che
riassumono in sé le caratteristiche
proprie di un fondo o di una azione,
consentendo così di contenere i rischi
delle oscillazioni di mercato.
Per meglio conoscere questo strumento
di investimento, va sottolineato
come altri ancora sono i vantaggi di chi
utilizza gli Etf; come ad esempio le
commissioni, che possono raggiungere
la metà rispetto alle normali spese
per acquisto di titoli, oppure di altri
contratti che riguardano l’acquisto diretto
di azioni ed obbligazioni.
Ma la caratteristica preminente
di questo strumento fi nanziario è quella
di realizzare l’identica performance
dell’indice di Borsa: l’Etf consente di
ottenere un rendimento pari a quello
del benchmark di riferimento, in virtù
di una “gestione totalmente passiva”
perché rifl ette, al suo interno, l’esatta
composizione ed i pesi relativi dell’in-
dice, al quale si riferisce. Da tenere
presente soltanto l’espressione del
prezzo, qualora la valuta di riferimento
dell’indice sia diversa da quella di
negoziazione (che per i nostri Etf resta
sempre l’euro), e pertanto solo in questo
caso, occorre tenere presente
l’eventualità di una svalutazione, od
apprezzamento, dell’Etf, rispetto
all’euro.
Tra gli altri vantaggi nell’investimento
in Etf, rispetto all’acquisto diretto
di azioni, vi è pure quello di una riduzione
del costo rispetto ad un portafoglio
titoli diversifi cato, perché non è
prevista alcuna commissione extra,
ma solo una commissione totale annua
(Ter) ridotta rispetto alle normali spese
bancarie per acquisto di titoli, ed
applicata automaticamente con riferimento
al periodo di detenzione.
Nulla cambia invece rispetto ai
proventi, o benefi ci, che provengono
dall’investimento: i dividendi che l’Etf
incassa, a fronte delle azioni possedute
nel proprio portafoglio, possono venire
distribuiti periodicamente all’investitore,
oppure capitalizzati stabilmente
nel patrimonio dell’Etf, e sempre a
disposizione dell’investitore.
Resta poi da considerare il rischio
di possibili insolvenze cui va soggetto
The share-list is for sale
The only real indicator that can sound out our
stock investment are the Stock Market indexes,
which show the value of the majority of the listed
securities, or better the ETF (Exchange Trade Fund).
This investment instrument summarizes the
characteristics of a fund or of a stock, and allows
keeping the oscillations of the market under
control. A further advantage is that of a reduced
cost compared to a diversified stock portfolio.
un investimento diretto in titoli azionari,
ciò che non può accadere per gli
Etf, in quanto hanno un patrimonio
separato da quello della Società emittente,
e pertanto non sono esposti a
situazioni critiche che invece sono
sempre possibili per altre forme societarie.
L’unica penalizzazione potrebbe
derivare dal rischio che le azioni, le
obbligazioni e gli altri strumenti che
compongono il loro patrimonio, possano
perdere valore.
Vi è poi da considerare l’aspetto
fi scale, che risulta essere chiaro e semplice:
la ritenuta fi scale a titolo di impresa
del 12,5% è applicata sui redditi
derivanti dall’Etf in possesso, e viene
operata automaticamente dall’intermediario.
Perciò nessun provento deve
essere riportato nella propria dichiarazione
dei redditi.
Il risultato ottenuto da questo
strumento fi nanziario è evidente: dalla
loro prima apparizione gli Etf quotati
hanno raggiunto dimensioni ragguardevoli,
come appare del resto dai listini
pubblicati dai maggiori quotidiani, a
conferma del loro gradimento ottenuto
presso i risparmiatori, e che attualmente
sfi orano le 400 voci.
Per quanto riguarda l’attività, gli
scambi si sono consolidati negli ultimi
anni. Di fronte ad un volume di 46.594
milioni realizzati nel 2008, lo scorso
anno si sono registrati affari in ulteriore
crescita ad oltre 54 miliardi. Una
conferma del crescente interesse degli
scambi in Etf è venuta di recente da
parte di istituti stranieri che hanno instaurato
fl ussi di domanda ed offerta
sul mercato italiano. A sostegno di una
operatività non più casuale e che si
accentra su un numero sempre più
vasto di titoli.
ECONOMIA-FINANZA 41
Indagine conoscitiva
sui mercati
degli strumenti fi nanziari
Introduzione
Nell’area dell’euro il peso dell’intermediazione
creditizia nella gestione
delle passività delle imprese è preponderante
rispetto all’esperienza dei Paesi
anglosassoni. Se da un lato ciò, come
imprese bancarie, ci rende fi eri e ci
carica di responsabilità, dall’altro indica
un percorso che soprattutto in Italia
possiamo e dobbiamo ancora compiere
verso uno sviluppo armonico dell’insieme
del mercato fi nanziario e di alcuni
suoi segmenti in particolare, segmenti
su cui peraltro le stesse banche
svolgono spesso un ruolo rilevante (ad
esempio quotazione delle imprese).
Nella presente audizione cercheremo
di fornire qualche valutazione
delle ragioni sottostanti ad un certo
sottodimensionamento del mercato
azionario e suggeriremo qualche possibile
opzione per superare gli elementi
di criticità e favorire un maggiore ricorso
da parte delle imprese a tale ca-
Fact-finding investigation on the
markets of financial tool
In Italy, banks are the main players in the field of
financial intermediation: from savings in fields with
positive financial balances such as the family, on
to those with a negative balance such as
businesses. This virtuous mechanism today,
however, shows several critical elements: the share
market is of modest size indeed; businesses are not
able to quote on the markets easily, also due to
significant operating costs; there are very few
domestic institutional investors; and there are
deficiencies in the approval procedures of the offer
profiles and admission to negotiation. The limited
size of Italian businesses is a significant factor,
which impacts research, technological innovation,
export and productivity.
42 ECONOMIA-FINANZA
nale di fi nanziamento. L’intervento è
sostanzialmente strutturato in tre parti:
nella prima forniremo qualche dato
macro di inquadramento; nella seconda
ci concentreremo su vari aspetti del
listing del mercato azionario (criticità,
servizi, intermediari specializzati, competenze),
nella terza trarremo qualche
breve conclusione.
1. Quadro macro:
modalità di fi nanziamento
delle imprese e limiti
del mercato azionario italiano
Nella media dell’Eurozona, la percentuale
degli strumenti di fi nanziamento
diretto sui mercati (obbligazioni
e azioni quotate) sul complesso delle
risorse fi nanziarie utilizzate dalle imprese
è pari a meno della metà di quanto
si registra per i prestiti, mentre le
due fonti di fi nanziamento tendono ad
equivalersi nell’esperienza britannica.
All’interno di questa caratterizzazione
dell’Unione, estrema risulta la situazione
italiana in cui la somma di obbligazioni
e azioni quotate supera appena il
12% delle passività totali, contro un
Italia
Germania
Francia
Spagna
Euro Area
UK (**)
GIUSEPPE MUSSARI
Presidente dell’ABI
valore prossimo al 50% per i prestiti.
A partire da questi dati non deve dunque
sorprendere che nel confronto
europeo le dimensioni del mercato
azionario italiano si collochino nella
fascia bassa della classifi ca come incidenza
della capitalizzazione di Borsa
sul prodotto interno lordo: con una incidenza
di poco superiore al 27%, la
Borsa italiana denuncia un divario di
quasi 40 punti rispetto alla media europea
e di oltre 100 punti percentuali rispetto
all’esperienza media di Uk e
Usa. In valori assoluti, a fi ne 2010 la
capitalizzazione complessiva delle società
quotate sui mercati gestiti da
Borsa Italiana si è attestata a circa 430
miliardi di euro (di cui oltre il 20% rappresentata
da banche), contro i circa
4.400 miliardi di euro di capitalizzazione
delle società quotate sul London
Stock Exchange.
Che tale ristrettezza del mercato
azionario italiano non sia un effetto
solo di una sfavorevole congiuntura
delle quotazioni è evidente se si considera
il numero delle società quotate
nelle principali piazze europee.
Struttura del passivo delle imprese non fi nanziarie
(in % del totale; dati al 2008)
Crediti
Obbligazioni Prestiti di cui a breve Azioni quotate commerciali
2,5 49,4 22,1 9,7 1,7
3,4 37,0 9,9 17,6 3,4
9,2 30,9 11,8 19,1 4,6
1,0 53,8 10,0 10,3 3,1
3,3 37,1 11,9 12,9 3,2
11,4 37,3 22,3 25,5 3,1
Altro (*)
36,6
38,4
36,2
31,8
43,5
22,7
(*) fondi di quiescenza ed altro (comprese azioni non quotate) (**) dati non consolidati
Fonte: Eurostat
250,00
200,00
150,00
100,00
50,00
0,00
Svizzera
Fonte: Eurostat
Capitalizzazione di Borsa in quota del prodotto interno lordo (dati ad agosto 2010)
Lussemburgo
Regno Unito
Stati Uniti
Spagna
Giappone
In questo caso si può notare come
non solo il numero di imprese quotate
in Borsa risulti decisamente basso
(296 imprese contro le 783 della Borsa
tedesca e le oltre 600 della Borsa francese
e per non parlare delle quasi 3.000
della Borsa inglese), ma anche come
nel quadriennio 2006-2009 il numero
delle imprese quotate sia diminuito di
15 unità.
Accanto al numero contenuto di
imprese quotate, è importante evidenziare
che il divario più rilevante rispetto
ad altri listini europei si concentra
nel numero di società di minori dimensioni
quotate, che nel nostro Paese
erano, a fi ne 2008, appena 39.
2. Trend di quotazione sui
principali mercati azionari
negli ultimi anni
La quotazione sui mercati azionari
è un’attività caratterizzata da elevata
ciclicità perché infl uenzata, tra l’altro,
da una serie di variabili esterne alle
imprese, quali ad esempio l’andamento
del ciclo economico e la situazione dei
mercati fi nanziari.
Se si considera il triennio prima
dell’inizio della crisi fi nanziaria (2005-
2007), si rileva ad esempio che le società
neoquotate su Borsa Italiana sono
state in media oltre 20 all’anno, rispetto
al totale di 17 operazioni di quotazione
(IPO - Initial Public Offers) dell’ultimo
triennio (2008-2010) attraversato dalla
crisi fi nanziaria.
Francia
Norvegia
Turchia
Malta
Polonia
Germania
Anche recenti studi internazionali
1 hanno messo in luce che in Europa
negli ultimi 10 anni (1999-2009) c’è stato
un andamento ciclico di quotazioni
di nuove imprese sul mercato, con un
generalizzato calo del numero medio
di operazioni di IPO nell’ultimo biennio
Exchange
Athens Exchange
BME Spanish Exchanges
Borsa Italiana
Budapest SE
Cyprus SE
Deutsche Börse
Irish SE
Istanbul SE
Ljubljana SE
London SE
Luxembourg SE
Malta SE
MICEX
Nasdaq OMX Nordic Exchange
NYSE Euronext (Europe)
Oslo Børs
SIX Swiss Exchange
Warsaw SE
Wiener Börse
Cipro
Austria
End 2006
290
3.378
311
41
141
760
70
316
100
3.256
260
14
193
791
1.210
229
348
265
113
Fonte: World Federation of Exchanges members
Irlanda
Italia
Numero delle imprese quotate
End 2007
283
3.537
307
41
124
73
319
87
3.307
261
16
207
851
1.155
248
341
375
119
Unione europea (EU 27) = 64,7
Grecia
Repubblica Ceca
Ungheria
paragonabile all’analoga fase di crisi
dei listini azionari, dovuta alla cosiddetta
bolla dei titoli hi-tech (2000).
La crisi fi nanziaria ha dunque giocato
negli anni più recenti un ruolo
negativo nello sviluppo del listino italiano
(così come in quello degli altri
End 2008
292
3.576
300
43
119
832
68
317
84
3.096
262
19
233
824
1.238
259
323
458
118
Slovenia
Bulgaria
Romania
End 2009
288
3.472
296
46
115
783
64
315
76
2.792
267
20
234
797
1.160
238
339
486
115
Slovacchia
Var. %
2009 vs 2006
-1
3
-5
12
-18
3
-9
0
-24
-14
3
43
21
1
-4
4
-3
83
2
ECONOMIA-FINANZA 43
Paesi), interrompendo un trend positivo
di accesso delle imprese al mercato
dei capitali, avviato successivamente
alla crisi di inizio decennio.
3. Le principali criticità del listing
nel mercato azionario italiano
Il mercato azionario italiano presenta
da sempre limiti strutturali e
culturali che impediscono di raggiungere
livelli dimensionali paragonabili a
quelli dei maggiori listini europei.
a) Diffi coltà culturali delle imprese a
quotarsi sui mercati
Per un’impresa, il processo di
quotazione rappresenta un momento
strategico, ma allo stesso tempo critico:
richiede un cambio di mentalità
soprattutto da parte degli azionisti,
che devono accettare l’effetto diluitivo
sul capitale della propria azienda, il
confronto con altri azionisti e stakeholders,
la diffusione di informazioni (contabili,
fi nanziarie, di business) al mercato,
su base continuativa.
Lo sforzo richiesto per effettuare
questo cambio culturale è tanto più
elevato quanto minori sono le dimensioni
dell’impresa che vuole accedere
al mercato. Nel nostro Paese oltre il
90% delle imprese sono caratterizzate
da ridotte dimensioni (meno di 50 dipendenti).
A ciò si aggiunge una forte concentrazione
della proprietà a livello
familiare ed un elevato livello di indebitamento,
anche a causa della ridotta
dotazione di mezzi propri. 2 L’incidenza
dello stock di debiti bancari rispetto al
patrimonio raggiunge valori superiori
al 100% (104,2%) per le imprese manifatturiere
italiane con fatturato inferiore
ai 10 milioni di euro. In Germania,
Francia e Spagna tale incidenza è in
media del 48%.
La concentrazione della proprietà
a livello familiare, le resistenze di tipo
culturale legate prevalentemente al timore
di perdere il controllo della società
determinano una scarsa propensione
all’apertura del capitale.
Il carattere familiare delle imprese
italiane non dovrebbe rappresentare
peraltro, di per sé, un ostacolo alla
quotazione, considerato che le imprese
controllate da una famiglia hanno
dimostrato negli anni scorsi di essere
apprezzate dalla Borsa 3 e che la variazione
degli assetti proprietari dopo la
44 ECONOMIA-FINANZA
quotazione non porta, nella maggior
parte dei casi, a perdere il controllo
dell’impresa. 4
È importante pertanto, far crescere
il mercato italiano dei capitali, mettendo
in campo iniziative che favoriscano
un’inversione di tendenza dal
punto di vista culturale ed una crescita
complessiva della dimensione del sistema
imprenditoriale italiano.
Un primo passo potrebbe essere
quello di introdurre misure volte a
correggere alcune distorsioni nelle
scelte di fi nanziamento delle imprese
motivate dall’esistenza di un favore fi -
scale per le forme di indebitamento rispetto
al capitale proprio: in tal senso,
potrebbero essere previste, ad esempio,
forme di agevolazione fi scale degli
utili destinati alla patrimonializzazione
che consentano alle imprese di ottenere
risparmi di imposta, parametrati
alla quota di utile netto non distribuito.
Resta peraltro di fondamentale
importanza superare la tradizionale
resistenza ad aprirsi al mercato attraverso
la quotazione. In tale ottica, nel
gennaio 2010, ABI e Borsa Italiana hanno
siglato un accordo nell’ambito del
quale sono state avviate specifiche
iniziative (tra cui la previsione di una
linea di credito dedicata ad imprese
neoquotate per fi nanziare i programmi
di crescita).
b) Elevati oneri di quotazione e permanenza
sul listino
Un altro elemento che costituisce
tradizionale ostacolo al ricorso alla
quotazione è rappresentato dai costi
diretti ed indiretti che le imprese sostengono
per realizzarla.
Tali costi dipendono, fra l’altro,
dalla complessità aziendale e dall’importanza
del mercato di quotazione
(diversa a seconda che si tratti del
Mercato Telematico Azionario [MTA] o
dell’Alternative Investment Market [AIM]
Italia, ecc.).
In via approssimativa, secondo
Borsa Italiana, è possibile stimare che
in Italia per emittenti che ricorrono
all’MTA i costi complessivi di quotazione
ammontano a circa 800/900 mila
euro, tra il 2% e il 5% dell’ammontare
raccolto in sede di IPO. Tali costi si
aggirano invece attorno a 200-300 mila
euro nel caso di quotazione sul listino
delle piccole e medie imprese (l’AIM
Italia), corrispondente mediamente al
5-6% dell’ammontare raccolto in sede
di IPO.
Va sottolineato che alcuni di questi
costi (come ad esempio la pubblicità
obbligatoria sui quotidiani dei fattori
di rischio presenti nei prospetti di offerta)
non gravano sulle società che si
quotano all’estero, non essendo previsti
dalla normativa europea: se ne potrebbe
valutare dunque la loro eliminazione.
Naturalmente, il problema dei costi
di quotazione è particolarmente
sentito dalle imprese medio-piccole.
L’esperienza degli anni scorsi in Italia
ha fornito evidenti prove di ciò e della
conseguente scarsa attrazione dei mercati
regolamentati 5 per le PMI. 6
Di qui l’avvio nel 2008 del Mercato
Alternativo del Capitale (MAC) e nel
2009 dell’AIM Italia per facilitare la
quotazione delle PMI grazie a costi di
quotazione complessivi inferiori a
quelli previsti per un mercato regolamentato
nonché a procedure di ammissione
semplifi cate e più rapide ed a
requisiti di informativa per gli emittenti
più snelli.
Il tema della semplifi cazione delle
procedure di quotazione delle PMI è
stato di recente oggetto di una iniziativa
di carattere normativo a livello europeo,
promossa dal Governo francese
e da esperti della materia, fi nalizzata
ad individuare alcune ipotesi di
semplifi cazione della disciplina concernente
le piccole e medie imprese a
vari livelli. 7
In tale iniziativa di snellimento,
che l’ABI condivide, potrebbe rientrare
anche l’eliminazione o la riduzione di
alcuni adempimenti critici tipici della
disciplina italiana, quali gli obblighi di
comunicazione al mercato al raggiungimento
da parte degli investitori della
soglia minima del 2%, che nel caso di
IPO di imprese di piccole dimensioni,
determinano rilevanti criticità.
Non va dimenticato inoltre che gli
oneri connessi alla quotazione non
esauriscono quelli che un’impresa quotata
deve affrontare per permanere nel
listino. Lo status di emittente quotato
nei mercati regolamentati comporta,
infatti, l’applicazione di un plesso di
norme, per buona parte di derivazione
comunitaria, la cui compliance è particolarmente
onerosa. Si fa riferimento,
tra gli altri, agli obblighi di trasparenza
e segnalazione al mercato, agli obblighi
140%
120%
100%
80%
60%
40%
20%
0%
65%
% capitalizzazione detenuta da investitori domestici ed esteri*
su capitalizzazione totale
% capitalizzazione detenuta da investitori istituzionali
domestici ed esteri* /PIL
76%
65%
42%
USA Unione europea
(27)
(*) banche incluse tra gli investitori istituzionali; i dati sulla capitalizzazione si riferiscono al main market al
31/8/2010; i dati sulla percentuale di capitalizzazione detenuta da investitori istituzionali si basano su elaborazioni
ABI su dati di Borsa Italiana (dati 2008 per Italia e dati 2005 per altri Paesi; nel 2005 i dati italiani
erano pari a 37% e 10%, al 2008 risultano pari a 28% e 7%); i dati del PIL si riferiscono al 31/12/2009.
di segnalazione alla Consob, nonché
alla predisposizione dell’informativa
fi nanziaria periodica.
c) Carenza di investitori istituzionali
In Italia il ruolo degli investitori
istituzionali domestici sul mercato
azionario è molto contenuto. Dal grafi -
co riportato sopra emerge che la quota
di capitalizzazione di Borsa detenuta
da investitori istituzionali (banche incluse)
rispetto alla capitalizzazione totale
del mercato è pari al 28%. Il confronto
con la realtà europea ed internazionale
mostra che negli Usa e nell’Unione
europea tale rapporto è pari
al 65% mentre nel Regno Unito raggiunge
l’81%. Il grafi co mostra che anche
rispetto al Pil, la capitalizzazione detenuta
dagli investitori istituzionali è più
bassa in Italia rispetto alle altre piazze
fi nanziarie ed all’Europa nel suo complesso.
In tale scenario si riscontra in
particolare una specifi ca carenza di
fondi specializzati in imprese a ridotta
capitalizzazione. Al momento, infatti,
solo otto fondi di diritto italiano sono
dedicati in prevalenza alle small cap
(investendo peraltro signifi cative quote
del patrimonio in imprese di dimensioni
medio-grandi negoziate sull’MTA).
Dall’analisi dell’asset allocation di detti
fondi emerge infatti che la capitalizza-
28%
7%
81%
Italia UK
128%
zione di mercato media dei primi cinque
titoli in cui gli stessi investono è
sempre superiore al miliardo di euro.
La carenza di investitori small
cap, determina difficoltà di collocamento
di titoli in sede di mercato primario
nonché ridotti scambi sul mercato
secondario (con conseguente riflesso
sul corso dei prezzi dei titoli
stessi) e costituisce anche un disincentivo
per le stesse imprese a quotarsi.
Occorrono quindi strumenti che
incentivino nel nostro Paese lo sviluppo
di tali investitori istituzionali e aiutino
a colmare il divario attualmente
esistente sul nostro mercato rispetto
ad altre piazze fi nanziarie europee.
Una strada perseguibile, ad esempio,
è quella di introdurre agevolazioni
di carattere fi scale per le persone fi siche
e le imprese che sottoscrivono
quote di veicoli specializzati nell’investimento
in società small cap quotate
su mercati non regolamentati quali
l’AIM Italia e il MAC.
Su tale strumento, peraltro già
previsto in altri Paesi europei, l’ABI ha
sviluppato una proposta concreta, che
intende portare nelle sedi competenti,
anche con la condivisione degli altri
stakeholder. Lo sviluppo di fondi di investimento
specializzati in PMI potrebbe
anche essere attuato utilizzando
strumenti esistenti, quale ad esempio
il Fondo Italiano di Investimento (FII),
che potendo anche investire indirettamente
nelle imprese tramite altri fondi
(agendo come fondo di fondi), potrebbe
creare un effetto leva con benefi ci
sull’attività e lo sviluppo dei fondi specializzati
in imprese small cap.
Nell’ottica di favorire lo sviluppo
di investitori istituzionali emerge poi
l’esigenza di rimediare agli attuali squilibri
nella tassazione dei fondi comuni,
in particolare tra fondi di diritto italiano
(tassati per maturazione) e quelli di
diritto estero (tassati per cassa), nonché
alle conseguenti incertezze normative
sulla classifi cazione dei rendimenti
da essi generati (redditi di capitale o
redditi diversi).
A tal proposito, potrebbe fra l’altro
essere valutata l’opportunità di una
sostituzione del regime di tassazione
per maturazione dei fondi di diritto
italiano con il regime della tassazione
per cassa secondo uno schema analogo
a quello attualmente seguito per i
fondi esteri armonizzati UE, nonché di
apposite norme di diritto transitorio
per la sistemazione dei risparmi d’imposta
accumulati dai fondi, trasformandoli
in tempi brevi in nuova liquidità
da investire, a vantaggio della
performance del fondo.
4. L’offerta dei servizi di listing
da parte delle società mercato
in Italia
Il processo di modernizzazione
dei mercati italiani prende avvio con la
legge n. 1/1991, che da un lato scioglie
i Comitati direttivi delle sedi della Borsa
e costituisce il Consiglio di Borsa, dall’altro
impone la concentrazione degli
scambi in Borsa.
Il passo successivo viene compiuto
con l’emanazione nel 1998 del Testo
Unico della Finanza (TUF) che sancisce
la privatizzazione del mercato, con
la trasformazione di un soggetto pubblico,
il Consiglio di Borsa, in un soggetto
privato. Nasce così la Borsa Italiana,
società per azioni a carattere imprenditoriale,
partecipata dai principali
operatori del mercato, cui scopo è
l’organizzazione, la gestione e lo sviluppo
dei mercati italiani.
Non si può non riconoscere alla
Borsa Italiana di aver svolto negli ultimi
dieci anni un compito importante,
gestendo il delicato passaggio da un
modello basato su mercati di natura
ECONOMIA-FINANZA 45
pubblica ad un modello, più moderno
ed in linea con le principali esperienze
estere, di mercati gestiti da soggetti
imprenditoriali.
In questo compito, un ruolo importante
è stato certamente svolto
dall’obbligo della concentrazione degli
scambi sul mercato regolamentato,
che ha garantito uno sviluppo ordinato
e solido del mercato azionario, prevenendo
una frammentazione della liquidità
degli scambi e delle informazioni.
Tale principio ha tuttavia evitato
che la Borsa Italiana fosse esposta alla
competizione di altri mercati, confi gurando,
almeno nei fatti, una situazione
di esclusività nella offerta di servizi di
listing. Anche le esperienze di mercati
regolamentati alternativi a Borsa Italiana
hanno riguardato principalmente il
mondo dei mercati non azionari (titoli
di Stato e obbligazioni).
Tale situazione, tuttavia, è in fase
di cambiamento, da quando è stata introdotta
in Europa la Direttiva sui Mercati
di Strumenti Finanziari (Mifi d) che
ha rappresentato per l’Italia un’ulteriore
ed importante rivoluzione in tema di
mercati fi nanziari.
La Mifi d ha infatti messo al bando
defi nitivamente la possibilità per gli
Stati membri di prorogare l’obbligo
della concentrazione degli scambi.
Questo sta determinando in Europa un
passaggio, seppur graduale, degli
scambi dei titoli quotati sul mercato
azionario italiano su mercati alternativi.
Si tratta soprattutto di un mero e
prevedibile fenomeno di migrazione
del trading e non del listing.
Per quanto riguarda poi l’offerta
di mercati per le PMI, occorre ricordare,
oltre all’avvio del mercato AIM Italia
sulla base dell’esperienza inglese
dell’AIM UK, la recente acquisizione da
parte di Borsa Italiana della società di
promozione del Mercato Alternativo
del Capitale (ProMAC).
Sul tema va altresì segnalata la
recente costituzione di un Advisory
Board dedicato ai mercati delle piccole
e medie imprese – promosso da Borsa
Italiana a cui partecipano tutte le categorie
di soggetti coinvolti nel mercato
– con l’obiettivo di ristrutturare i mercati
italiani delle PMI e favorire l’offerta
di quotazione dedicata a tali imprese
nel contesto italiano, attraverso specifi
che iniziative e strategie di sviluppo
dei suddetti mercati, che prevedono
46 ECONOMIA-FINANZA
anche una revisione del ruolo dei diversi
attori coinvolti.
In defi nitiva, sembra potersi valutare
positivamente l’operato di Borsa
Italiana negli anni precedenti (dall’ampliamento
dei listini e la diversifi cazione
dei segmenti alla telematizzazione
degli scambi, al passaggio a meccanismi
più effi cienti di regolamento delle
transazioni, alla privatizzazione del
mercato).
5. Gli intermediari specializzati
nel listing azionario
Nel processo di quotazione di
azioni intervengono diversi intermediari
con specifi che funzioni. In Italia
c’è un numero ristretto di operatori
specializzati nel listing azionario (al
momento circa 20 intermediari fi nanziari,
inclusi quelli esteri): a questi
vanno poi aggiunte alcune società di
consulenza e revisione che offrono
servizi di corporate fi nance. Tale carenza
può essere attribuita, fra l’altro:
– ad una ridotta domanda di quotazione
da parte delle imprese, per i
motivi già ricordati in precedenza;
– al fatto che i servizi relativi alla
quotazione sono servizi ad alta specializzazione
con una forte componente
di consulenza/assistenza, per cui,
anche in considerazione della scarsa
domanda di cui sopra, non tutti gli
intermediari sono in grado di svolgere
tale attività;
– al fatto che gli stessi intermediari,
nell’ambito del processo di quotazione
di un’impresa, possono ricoprire più
ruoli (sponsor, specialist, responsabile
del collocamento, ecc.).
Nelle operazioni di IPO effettuate
negli ultimi anni emerge infatti, tra
l’altro, una stretta coincidenza tra gli
incarichi di sponsor e responsabile del
collocamento. Ciò costituisce un limite
alla nascita di nuovi operatori.
Tra i vari ruoli svolti dagli intermediari
nel processo di quotazione sul
mercato, le attività dello sponsor e del
responsabile del collocamento sono
quelle che recano le maggiori criticità
in quanto soggetti ad una specifi ca disciplina
normativa, che attribuisce loro
compiti e responsabilità.
Lo sponsor, in particolare, collabora
con l’emittente nella procedura di
ammissione a quotazione degli strumenti
fi nanziari ai fi ni di un ordinato
svolgimento della stessa. Esso è tenuto
a rilasciare una serie di attestazio ni/
dichiarazioni relative, fra l’altro, alla
presenza di un adeguato sistema di
controllo di gestione.
Si tratta di un incarico che richiede
competenze diverse rispetto a quelle
degli intermediari che effettuano
collocamenti, la cui attività si focalizza
su valutazioni del business plan e su
valutazioni di carattere economico/fi -
nanziario e patrimoniale dell’emittente.
Ciò ha quindi un impatto sull’attività
degli intermediari in termini di
maggiori responsabilità e, di conseguenza,
in termini di maggiori costi di
due diligence legale che si ripercuotono
sugli emittenti.
In tale prospettiva, è auspicabile
un intervento sulla regolamentazione
del l’attività dello sponsor nell’ottica di
circoscrivere le sue funzioni alle attività
su cui lo stesso ha una competenza
specifi ca e, dunque, le relative responsabilità.
L’attività del responsabile del collocamento
dell’offerta pubblica assume
rilievo nei rapporti con la Consob
in quanto tale intermediario, in base al
regolamento Emittenti, è tenuto a rilasciare,
fra l’altro, una dichiarazione in
cui attesta, al pari degli altri sottoscrittori
del prospetto e per le parti di propria
competenza, che il prospetto stesso
«è conforme agli schemi applicabili e
che, avendo essi adottato tutta la ragionevole
diligenza a tale scopo, le informazioni
in esso contenute sono, per
quanto a loro conoscenza, conformi ai
fatti e non presentano omissioni tali da
alterarne il senso».
Su tale intermediario grava altresì,
ai sensi dell’art. 94, comma nono, del
TUF, una presunzione di responsabilità
per le informazioni false o le omissioni
idonee ad infl uenzare le decisioni di un
investitore ragionevole.
Detta previsione non è peraltro in
linea con la direttiva n. 2003/71/CE in
tema di prospetti – che non prevede né
la fi gura del responsabile del collocamento
né alcuna presunzione legale di
responsabilità a carico di un solo intermediario
per informazioni false o per
omissioni nel prospetto – né con le
prassi degli altri Paesi europei, in base
alle quali gli intermediari che effettuano
la due diligence dei prospetti rilasciano
generalmente attestazioni solo
nella forma di negative assurance (dichiarando,
ad esempio, che dalle veri-
fi che svolte non sono emersi elementi
signifi cativi da far ritenere che nel prospetto
siano contenute informazioni
false od omissioni).
Anche in tali casi si è in presenza
di una elevata responsabilità per l’intermediario
rispetto a quanto si riscontra
a livello europeo, responsabilità
che si traduce in un aumento dei
costi di due diligence legale per l’intermediario
stesso e, di conseguenza, per
l’emittente.
6. La ripartizione
delle competenze in tema
di ammissione a quotazione
tra Consob e Borsa Italiana
Con la privatizzazione dei mercati,
attuata con il Testo Unico della Finanza,
le competenze in tema di ammissione a
quotazione (cosiddetto listing) tra la
Consob e la società di gestione del
mercato (la Borsa Italiana) sono state
ripartite: la Consob approva il prospetto
di offerta dei titoli, mentre Borsa
Italiana delibera l’ammissione a quotazione
del l’emittente, subordinatamente
al l’approvazione da parte della Consob
del prospetto di offerta e di una attenta
attività di analisi e valutazione
dell’impresa quotanda.
La scelta operata da Borsa
Italiana, responsabile
dell’attività di ammissione a
quotazione, è stata quella di
subordinare l’ammissione a
quotazione a concrete verifi -
che di merito (due diligence) e
non solo all’esistenza di requisiti
formali dell’emittente. 8
Ad avviso dell’ABI, la suddivisione
dei ruoli tra Borsa
Italiana e Consob non ha mostrato
in questi anni particolari
criticità. La criticità principale
nel processo di ammissione
a quotazione riguarda invece i
tempi lunghi di approvazione
dei prospetti da parte di
quest’ultima.
La direttiva europea n.
2003/71/EC prevede che le Autorità
di vigilanza approvino i
prospetti entro dieci giorni lavorativi
dalla presentazione
della documentazione completa
all’Autorità. Il termine è esteso
a venti giorni ove l’emittente,
come nel caso delle IPO,
non abbia già strumenti fi nan-
ziari ammessi alla negoziazione in mercati
regolamentati e non abbia offerto
strumenti fi nanziari al pubblico in precedenza.
Tale tempistica, peraltro, viene
frequentemente disattesa, anche a causa
della ponderosità della documentazione
di offerta da approvare. Un’analisi
pubblicata nel 2008 dal Centre for
Strategy & Evaluation Services per conto
della Commissione europea ha evidenziato
ad esempio che in Europa, in
31 IPO effettuate nel periodo gennaiogiugno
2007 il tempo medio di approvazione
è stato di cinque settimane
circa. Lo studio evidenzia poi il caso
eccezionale dell’Italia in cui i prospetti
sono divenuti sempre più ponderosi e
costosi con una signifi cativa dilatazione
dei tempi medi di approvazione che
variano tra i 60 ed i 90 giorni.
Tale circostanza ha creato uno
svantaggio competitivo, nel processo
di ammissione a quotazione, per il
mercato italiano rispetto ai mercati di
quotazione degli altri Stati UE, che si
ripercuote negativamente sulla competitività
delle imprese italiane rispetto a
quelle europee.
Va tuttavia segnalato che nel 2009,
nell’ambito delle modifi che al Regolamento
Emittenti Consob volte a completare
il recepimento della direttiva in
tema di prospetti, è stato fra l’altro
previsto un limite temporale massimo
per la procedura di approvazione dei
prospetti. 9
Resta ancora aperto il tema del
ruolo svolto dalla Consob nell’iter di
approvazione dei prospetti, che negli
ultimi anni ha rappresentato una delle
cause della sua lunga tempistica. Le
attività poste in essere dalla Consob
continuano infatti ad essere più pervasive
rispetto alle verifi che di completezza,
coerenza e comprensibilità delle
informazioni contenute nel prospetto
previste dalla direttiva comunitaria.
Sarebbe opportuno, nell’ottica di
snellire il processo di quotazione delle
imprese, individuare criteri e modalità
che consentano di circoscrivere e garantire
maggiori certezze in merito ai
tempi di approvazione dei prospetti
nel rispetto di elevati standard qualitativi
di protezione degli investitori. Sarebbe
altresì utile che i tempi medi di
approvazione, che rappresentano
un’informazione importante
per gli operatori, fossero resi
noti da parte della Consob, ad
esempio nella propria relazione
annuale.
Fotolia
7. Conclusioni
Nel nostro Paese la funzione
di intermediazione fi nanziaria
(raccolta del risparmio
dai settori con saldo fi nanziario
positivo – tipicamente le
famiglie – e trasferimento ai
settori con saldo negativo – tipicamente
le imprese) viene
esercitata prevalentemente
dalle banche, mentre è relativamente
scarso il ricorso diretto
al mercato da parte delle
imprese sia attraverso strumenti
obbligazionari sia azionari.
Modesto è in particolare
il ruolo della Borsa nel fi nanziamento
delle imprese.
L’industria bancaria, nel
sottolineare con orgoglio il
ruolo decisivo che essa svolge,
e che ha consentito di attutire
gli effetti della crisi fi nanziaria
prima ed economica poi (anche
grazie ad un ricco insieme
ECONOMIA-FINANZA 47
di iniziative specifi che a favore di famiglie
e imprese) evidenzia l’esigenza che
il sistema fi nanziario italiano superi
alcune criticità che lo connotano ormai
da molto tempo, tal che mercato creditizio
e mercato finanziario in senso
stretto possano assicurare assieme
maggiori possibilità di sviluppo delle
imprese e dell’economia.
In estrema sintesi, il mercato fi -
nanziario italiano presenta oggi le
seguenti caratteristiche, in relazione
alle quali sono necessarie azioni di policy
volte al superamento di alcune fragilità:
– Dimensioni modeste del mercato
azionario italiano: tale mercato è caratterizzato
da dimensioni modeste se
rapportato ai principali Paesi europei
(296 società quotate alla fi ne del 2009
contro, ad esempio, le quasi 3.000 del
London Stock Exchange), anche in
considerazione del rilevante ruolo del
canale bancario nelle passività delle
imprese (la somma di obbligazioni e
azioni quotate supera appena il 12%
delle passività totali delle imprese,
contro un valore prossimo al 50% per i
prestiti). La quotazione resta comunque
un’opzione rilevante per la crescita
delle imprese, valorizzata anche dalle
banche che, nel processo di listing,
svolgono ruoli importanti.
– Diffi coltà strutturali e culturali delle
imprese a quotarsi sui mercati, tenuto
conto fra l’altro, dei limiti dimensionali,
della concentrazione della proprietà a
livello familiare e delle resistenze di tipo
culturale nei confronti dell’apertura del
capitale a terzi: far crescere il mercato
italiano dei capitali e mettere in campo
iniziative che favoriscano un’inversione
di tendenza dal punto di vista culturale
ed una crescita complessiva della
dimensione del sistema imprenditoriale
italiano. Al riguardo, un primo passo
potrebbe essere quello di ridurre alcune
distorsioni nelle scelte di fi nanziamento
delle imprese motivate dall’esistenza
di un favore fi scale per le forme
di indebitamento rispetto al capitale
proprio.
– Elevati costi per la quotazione: favorire
lo sviluppo dei mercati dedicati
alle PMI per consentire alle imprese di
minori dimensioni la quotazione a costi
inferiori e con procedure più snelle
facendo tra l’altro ricorso ad iniziative
di semplifi cazione del quadro normativo
e procedurale.
48 ECONOMIA-FINANZA
– Carenza di investitori istituzionali
domestici sul mercato azionario: introdurre
strumenti che incentivino lo
sviluppo di tali investitori nell’ottica di
colmare il “gap” attualmente esistente
sul nostro mercato rispetto ad altre
piazze europee, ad esempio introducendo
agevolazioni di carattere fi scale
per i sottoscrittori di quote di veicoli
specializzati nell’investimento in società
a ridotta capitalizzazione quotate su
mercati quali l’AIM Italia. In tale ottica,
dovrebbe essere operata altresì una
revisione della disciplina della tassazione
dei fondi comuni, che possa rimediare
agli squilibri attualmente esistenti
tra i fondi di diritto italiano e
quelli di diritto estero.
– Responsabilità degli intermediari:
intervenire sulla regolamentazione
dell’attività degli intermediari coinvolti
nel processo di quotazione, in particolare
sponsor e responsabile del collocamento,
nell’ottica di meglio bilanciare il
rapporto tra le attività sulle quali gli
stessi hanno competenze specifi che e
le responsabilità attribuite dalla normativa;
in tal modo si potrebbero ridurre
anche i costi a carico degli emittenti.
– Carenze nei processi di approvazione
dei prospetti di offerta ed ammissione
a negoziazione: individuare criteri
e modalità che consentano alla Consob
di effettuare le verifi che previste
maggiormente in linea con la normativa
e le prassi europee, garantendo
maggiori certezze sui tempi di approvazione
dei prospetti, nel rispetto di
elevati standard qualitativi di protezione
degli investitori.
Su molte delle caratteristiche
menzionate incide signifi cativamente
l’aspetto della scarsa dimensione delle
imprese italiane. È questo tema molto
rilevante anche sotto il profi lo macroeconomico,
date le evidenti e provate
correlazioni tra il fattore dimensionale
e la propensione alla ricerca, all’innovazione
tecnologica, all’export e, in ultima
istanza, all’aumento della produttività,
aspetto quest’ultimo che l’industria
bancaria considera cruciale per
vincere la vera sfi da che il Paese ha di
fronte; una maggiore crescita quantitativa
e qualitativa del prodotto interno
lordo.
NOTE
1) Evaluation of the Economic Impact of
the Financial Services Action Plan (FSAP)
CRA International, March 2009; and Study of
the cost of compliance with selected FSAP
measures, Europe Economics, January 2009.
2) Riguardo alla concentrazione della
proprietà, nel periodo 2004-06, il capitale
sociale detenuto in media dal socio di maggioranza
oscillava tra 50% e l’80%.
3) Nel 76% dei casi relativi a società industriali
quotate dal 1985 al 2005, la famiglia di
riferimento deteneva mediamente, al momento
della quotazione, circa il 77% dei diritti
di voto (dati Borsa Italiana).
4) Secondo dati di Borsa Italiana dello
stesso periodo, a seguito della IPO la famiglia
di riferimento ha continuato infatti a detenere
il controllo della società con il 54% dei
diritti di voto dopo tre anni dalla quotazione
e con il 52% dopo dieci anni.
5) Quelli individuati dall’art. 4, comma 1,
punto 14 della direttiva Mifi d n. 2004/39/EC.
6) Alla fi ne del 2008, dopo circa quattro
anni dall’avvio del mercato Expandi – il comparto
del mercato di Borsa creato per dare
impulso alla quotazione di imprese di minori
dimensioni poi accorpato con l’MTA – risultavano
quotate su detto mercato soltanto
39 società, fra cui due banche (aventi entrambe
una capitalizzazione di mercato superiore
a due miliardi di euro).
7) L’iniziativa denominata “listing SME”
prevede di: I) favorire il private placement
attraverso soglie più elevate di esenzione
dalla predisposizione dei prospetti; II) snellimento
dei prospetti stessi, nell’ottica di richiedere
requisiti informativi proporzionati
alla dimensione d’impresa; III) maggiore fl essibilità
per gli aumenti di capitale; un regime
IFRS7 proporzionato per la pubblicazione
delle informazioni fi nanziarie; IV) favorire
l’attività dei liquidity provider per incrementare
la liquidità dei titoli sul mercato; V)
creare fondi UCITS (Undertakings Collective
Investment Transferable Securities) specializzati
nell’investimento in PMI; VI) creare una
piattaforma di mercato per le PMI a livello
europeo.
8) L’attività di Borsa si sostanzia, ad e -
sempio, nell’esame del cosiddetto QMAT
(Quotation Management Admission Test) –
vale a dire il documento preliminare che
deve essere predisposto dalla società quotanda
per illustrare fra l’altro il business model
della società stessa – nonché nelle verifi -
che sul sistema di controllo di gestione e sul
business plan dell’emittente.
9) Rimane tuttavia dubbio se tale termine
debba essere inteso come perentorio (e
quindi se il prospetto debba essere comunque
approvato entro i 40 o 70 giorni) ovvero
come ordinatorio (nel qual caso la Consob
stessa potrebbe approvare il prospetto anche
successivamente).
Si ringrazia l’avvocato Giuseppe Mussari, presidente dell’Associazione Bancaria Italiana,
che ha concesso la pubblicazione del testo dell’Audizione tenuta il 12 gennaio 2011 alla VI
Commissione Finanze della Camera dei Deputati.
GIANCARLO GALLI
Scrittore economico-fi nanziario
ed editorialista di Avvenire
ACrans-Montana, nelle Alpi
svizzere, tradizionale e secolare
luogo d’incontro degli
gnomi della fi nanza dell’emisfero
capitalista, di fronte ai problemi
che attanagliano il mondo, accade
spesso di udire una frase, accompagnata
da un interrogativo: «Che avrebbe
fatto André?». Il riferimento è all’ormai
mitico banchiere André Meyer,
leggendario tycoon che qui aveva una
casetta dove, ad agosto, era uso ricevere
la sua “miglior clientela”: dagli Agnelli
ai Rockefeller, da Enrico Cuccia a
François Michelin, da Jacqueline Kennedy
allo Scià di Persia. Per poi ripartire,
senza passare dalla Parigi in cui era
nato il 3 settembre 1898, alla volta di
New York. Al dodicesimo piano del
grattacielo di Wall Street, sede della
Lazard Frères della quale era il dominus
assoluto, ancora più potente dei
Weill-Lazard, fondatori ed azionisti di
maggioranza.
André Meyer
banchiere leggendario (e scorbutico)
André Meyer, legendary
(and cantankerous) banker
In the world of high finance, it’s not enough to be
unpleasant to be respected, it’s better to be
loathsome. So said A. Meyer. Naturally that’s not
enough to be a great figure: you also need a
specific genius, which he had shown since his
adolescence, when he began with the modest role
of procuring business. Then his capacity and his
infallible intuition made him an appetizing
consultant for many companies. He began to fly
high and demanded becoming a “partner” of the
financial battleship of the Lazards. During the
Second World War he also took on the role of
political mediator and allowed a young Enrico
Cuccia to relay to the American ambassador the
proposals of Italian non-Communist anti-Fascism.
He was also the “muse” who inspired Cuccia to
create Mediobanca.
André Benoit Mathieu Meyer (1898-1979) in una foto
che lo ritrae all’apice della sua carriera (da: André
Meyer, il genio della Finanza, Sperling & Kupfer Editori).
André Benoit Mathieu Meyer (1898-1979) in a photograph
showing him at the peak of his career (from:
André Meyer, Il genio della Finanza, Sperling & Kupfer
Editori).
Cerchiamo allora di capire chi è
stato e cosa abbia rappresentato André
Meyer, per mezzo secolo autentico
protagonista e regista della fi nanza su
entrambe le sponde dell’Atlantico: Europa
ed Usa.
* * *
Figlio di modesti commercianti
ebraici che, da “liberi pensatori”, non
frequentano la sinagoga, il piccolo André,
anziché la Torah s’appassiona ai
listini di Borsa. A tredici anni (siamo
nel 1910), abbandonata la scuola, trova
un posto da fattorino presso un agente
di cambio israelita parigino. Autodidatta,
apprende inglese, tedesco, italiano.
Avendo compreso che la fi nanza non
Richard Knapp
ha confi ni, ogni mattino prima di entrare
negli uffi ci della “Bauer et Fils”, fa il
giro delle redazioni per ritirare non i
giornali ma sottrarre i dispacci con le
quotazioni estere. Prende di nascosto
ad offrire suggerimenti (retribuiti) ai
clienti della ditta. Monsieur Bauer, anziché
indignarsi, vedendo il fatturato
aumentare lo promuove procacciatore
d’affari.
La Francia entra in guerra. Nel
1917 la patria dissanguata lo chiama
alle armi. È di bassa statura, grassoccio,
occhialuto, con un vizio cardiaco,
ma probabilmente a favorire l’esonero
è qualche relazione privilegiata al Ministero
della Guerra. Detto brutalmente,
“un imboscato”.
Inidoneo alle trincee eppure dotato
sia di un’eccezionale capacità lavorativa
(anche venti ore quotidiane), sia di
una irrefrenabile esuberanza sessuale.
L’enfant prodige della Bauer provoca
l’attenzione di Pierre David-Weill,
coetaneo di André. Il rampollo della
dinastia Lazard (ebrei boemi riparati in
Francia nel 1792) gli propone un’assunzione
facendo ponti d’oro. Stipendio e
provvigioni. L’astuto André rilancia,
pretendendo di venire “associato”. Lo
trattano da folle, da arrogante, da presuntuoso.
Eppure dopo un paio di stagioni
ci ripensano. Pare che nell’occasione
André Meyer abbia pronunciato
una delle frasi più taglienti del suo irriverente
repertorio: «Perché essere antipatici
quando, con un minimo di sforzo,
si può essere odiosi?». Per inciso: è
assai diffuso a Parigi, ancorché inverifi
cabile, il convincimento che il matrimonio
Meyer-Lazard sia stato propiziato
dal Grande Oriente di Francia. Di
certo, quello dei Lazard è ambiente
chiuso e particolarissimo. Secondo la
biografa Anne Sabouret, «ebrei, banchieri
di sinistra, radical-socialisti, patrioti,
anticlericali, visceralmente anticomunisti».
André, sposatosi senza
ECONOMIA-FINANZA 49
amore con Bella Lehman (altra
dinastia di gnomi), reciterà da
primattore su questo palcoscenico.
Il primo colpo che mette a
segno è da manuale. Nel 1934,
la Citroën in piena crisi pare
destinata al fallimento. È Meyer
ad occuparsi del salvataggio in
extremis: fa rilevare dai Michelin,
esposti per oltre sei milioni
di dollari, la società. Quindi realizza
la fusione con Peugeot.
Gloria e danaro per tutti!
«Arricchirsi è un imperativo
morale», proclamò sino alla fi ne
dei suoi giorni André Meyer.
Arriva la Seconda Guerra
mondiale. Pierre David-Weill,
comandante di un reggimento di cavalleria
corazzato, riesce a sottrarsi ai
panzer tedeschi ripiegando nel Midi.
Nessuno peraltro, fra i membri della
grande famiglia Lazard, crede alle persecuzioni
razziali. André la pensa diversamente.
Subito dopo l’invasione
hitleriana della Polonia ha cominciato
a trasferire segretamente capitali personali
a New York. Alla vigilia dell’occupazione
di Parigi, raggiunge Londra,
stringe rapporti col generale Charles
De Gaulle, ripara in America da dove
dirige un circuito di sostegno alla Resistenza,
mantenendo un “presidio” nella
neutrale Lisbona. E qui...
Nella primavera del 1942, nonostante
le sorti del confl itto ormai planetario
appaiano ancora favorevoli all’Asse
Berlino-Roma-Tokyo (le nostre truppe
riconquistano Tobruk ed affi ancate
dall’Afrika Korps di Rommel marciano
verso il Cairo; le armate tedesche avanzano
verso Stalingrado ed il Caucaso
ricco di petrolio; i giapponesi dilagano
nel Pacifi co), la Resistenza italiana si
organizza. Il Partito d’Azione clandestino
guidato da Ferruccio Parri, Ugo La
Malfa ed Adolfo Tino, appoggiato dal
dominus della Banca Commerciale Raffaele
Mattioli, decide di prendere contatto
con gli angloamericani. Per la
“missione” viene scelto un funzionario
della Comit, aggregato alla “sezione
estera” che gode di passaporto diplomatico:
Enrico Cuccia.
Strabilianti gli esiti. Cuccia, poco
più che trentenne, sposato con Idea,
fi glia prediletta di Alberto Beneduce,
presidente dell’Iri, al tempo stesso 33
massonico ed intimo di Mussolini, già
50 ECONOMIA-FINANZA
Il banchiere André Meyer fu “padrino” di due eroi del capitalismo: Margaret
Thatcher e Ronald Reagan.
The financier André Meyer was the “godfather” of two of capitalism’s
heroes: Margaret Thatcher and Ronald Reagan.
s’era distinto in operazioni ad alto rischio,
come la scoperta del traffi co di
valute in Africa Orientale che provocò
il siluramento di Rodolfo Graziani, Viceré
dell’Impero, sostituito dal Duca
d’Aosta. Raggiunta la capitale lusitana
in un avventuroso viaggio attraverso la
Francia di Vichy e la Spagna, Cuccia
trova nel fi nanziere André Meyer la
persona che lo introduce presso l’ambasciatore
americano George Kennan
cui consegna il “messaggio” dell’antifascismo
italiano non comunista. Si conoscevano
Enrico ed André? Sulla questione
s’è a lungo dibattuto. Posso in
questa sede riferire una confidenza
fattami dallo stesso Cuccia, dopo che
ne avevo scritto la biografi a (non autorizzata):
«Meyer l’avevo incontrato a
Parigi, nel ’38». Non una parola in più.
Fra Cuccia e Meyer è sintonia totale.
Sbocciata a Parigi, cementata a
Lisbona. Le vicende belliche anziché
spezzarla, la rafforzano. Liberata Roma
mentre al Nord ancora si combatte,
nell’ottobre del ’44 Cuccia, nessuno
capisce con quali credenziali, è aggregato
alla delegazione del governo di
Ivanoe Bonomi (succeduto a Badoglio)
che deve discutere con gli americani le
modalità della Ricostruzione.
I “nostri”, per dirla con Raffaele
Mattioli partecipe della missione, a
Washington e New York vengono «trattati
quali cani in chiesa». Eccetto Cuccia.
Fattosi lupo solitario, si rintana
presso Meyer: all’Hotel Carlyle, al 120
di Broadway, sede della Lazard Usa. Da
quella postazione privilegiata tesse
relazioni (dai Rockefeller ai Kennedy,
dal sindaco Fiorello La Guardia all’arci-
vescovo Joseph Spellman),
poiché Meyer dopo averlo investito
del titolo di “proconsole
per l’Italia” della grande fi -
nanza internazionale, gli ispira
la crea zione di Mediobanca.
L’istituto, nonostante le diffi -
denze di Mattioli, verrà alla luce
in via Filodrammatici a Milano
nell’aprile 1946. Al battesimo
i soci sono le tre banche
d’interesse nazionale (Commerciale,
Credito Italiano, Banca
di Roma). Dopo un decennio
l’azionariato s’aprirà ai privati:
Agnelli, Pirelli, Lazard, Lehman,
Sofi na (fi nanziaria belga),
Berliner Handel. Con appena il
3,75 per cento del capitale, regista
Cuccia, saranno gli artefi ci del
“Miracolo Mediobanca”, che non si sarebbe
però realizzato senza il sostegno
di Meyer.
Sarà André (1973) a propiziare
l’operazione Euralux. La holding lussemburghese,
costituita da Meyer e
dall’attuale presidente onorario delle
Assicurazioni Generali Antoine Bernheim,
che acquisì dalla Montedison di
Eugenio Cefi s un robusto pacchetto di
azioni della compagnia triestina. Quei
titoli, sommatisi ad altri custoditi da
Euralux per conto di un mai identifi cato
con certezza grande imprenditore italiano,
confl uirono infi ne in Mediobanca,
facendone la “padrona” delle Generali.
Tre anni più tardi Meyer è il tramite
fra Cuccia e la famiglia Agnelli in
gravissime diffi coltà fi nanziarie. In Fiat
entrano i capitali libici della Lafi co.
Va da sé che per André Meyer
l’Italia costituisce solo una “provincia”
dell’impero fi nanziario della Lazard,
sebbene da Mediobanca siano transitate
anche operazioni di respiro sovrannazionale.
Ad esempio il portage delle
azioni della Hartford assicurazioni da
parte dell’americana ITT gestito da
Felix Rohatyn della Lazard (ribattezzato
“Il gatto Felix”), delfi no di Meyer. La
vicenda ITT mise in diffi coltà lo stesso
presidente Richard Nixon per un fi nanziamento
al Partito Repubblicano, dopo
che la stessa ITT era già stata indiziata
per avere avuto un ruolo nel golpe
cileno contro Salvador Allende.
Fu Meyer a, letteralmente, “inventare”
le Conglomerate, enormi “contenitori”
di aziende comprate-vendute di
cui l’ITT, all’origine società telefonica,
fu un esempio negli anni ’60-70. Fra le
operazioni più geniali che fecero di
Meyer il mito di Wall Street, l’acquisto
dell’Avis (numero uno nel noleggio auto)
per sette milioni di dollari e rivenduta
per venti. La gigantesca speculazione
sulla texana Matador, proprietaria
di sterminati ranch. Attraverso la
lottizzazione, guadagni milionari.
Di André Meyer, famoso per l’avidità,
esiste tuttavia un coté umano poco
esplorato, e per il quale il suo nome
è ricordato come “inimitabile ed insostituibile”
ai piani alti della politica e
della fi nanza. Pur trasferitosi negli States,
l’Europa restò sempre nel suo cuore:
consulente personale del presidente
francese Georges Pompidou, di Jean
Monnet alla nascente Comunità europea,
ed intimo di Jacqueline Kennedy,
della quale era segretamente innamorato.
Nell’autunno del ’68, a cinque anni
dall’assassinio di John Kennedy e poco
dopo l’uccisione di Robert, Jacqueline
comunicò a Meyer, “tesoriere di famiglia”,
la decisione di sposare Aristotele
Onassis. La reazione fu violenta, scomposta.
Fallito il tentativo di convincere
Jackie a non condividere il talamo con
un miliardario giudicato very rough,
rozzo e privo di standing, stese di suo
pugno un contratto matrimoniale per
garantire la pupilla. Oltre alle penali
(cento milioni di dollari) in caso di divorzio,
una serie di clausole a disciplinare
la vita intima. Col diritto di Jackie
a vivere lontana dal marito per lunghi
periodi. Onassis, accettò, rivelandosi
gran gentiluomo: alla morte (1975) lasciò
alla donna un’eredità favolosa.
Recuperando la fi gura del fi nanziere,
è opinione diffusa che alle gesta
di Meyer, molto infl uente negli ambienti
della stampa economico-fi nanziaria,
vada attribuito il merito di avere nel
dopoguerra “risvegliato” Wall Street
dando l’avvio ad un ritorno dell’azionariato
di massa, ancora sotto shock dopo
la Grande Depressione degli anni
Trenta. Due cifre. L’indice Dow Jones
nel 1946 era di poco sopra “Quota 100”.
Alla sua morte, s’avvicinava a “Quota
1.000”. Successivamente, l’ulteriore
grande balzo in avanti, sino a “Quota
11-12 mila”. Pressappoco l’attuale, fermo
da quasi un lustro.
Nella Grande Mela che lo volle
cittadino onorario e benemerito, ancora
si ricorda la sobrietà del banchiere
che disdegnava i ristoranti alla moda,
costringendo anche convitati illustri
ad accontentarsi in più di un’occasione
di un hamburger nei McDonald’s. Ne
fece le spese pure Gianni Agnelli che
ebbe a raccontarmi in questo modo la,
a dir poco, bizzarra avventura. In sintesi:
con gli stabilimenti occupati e la
contestazione dilagante (siamo a metà
degli anni Settanta), l’Avvocato è tentato
di “gettare la spugna” (parole sue).
Ugo La Malfa gli ha proposto di accettare
la carica di ambasciatore in Usa.
Cuccia, indignato, pronuncia la
sferzante frase: «Lei è stato un uffi ciale,
e gli uffi ciali muoiono in trincea ma non
s’arrendono». Sbollita l’ira, suggerisce:
«Vada da Meyer!». L’Avvocato, che ha
per Cuccia stima incondizionata, obbedisce.
Racconta: «In un postaccio divertentissimo,
dove si mangiava solo carne,
tritata o ai ferri, insalata, birra e
Coca Cola, Meyer mi disse di star tranquillo.
In politica e fi nanza tutto era
sotto controllo...».
Infatti Meyer propiziò l’ingresso
dei libici in Fiat. Quanto alla politica,
anticipò cambiamenti epocali.
Aggredito da un carcinoma prostatico,
Meyer spese le ultime stagioni
terrene facendo la spola fra Londra e
l’America, “padrino” di due eroi del
capitalismo: “Maggie” Thatcher e Ronald
Reagan. La signora con la falce gli
impedirà di godere pienamente il trionfo
della “Lady di ferro” e dell’ex divo di
Hollywood entrato trionfalmente alla
Casa Bianca. La stessa Lazard, rimasta
orfana e tornata sotto il controllo totale
dei David-Weill attraverso Michel,
sarà chiamata a durissime prove con la
conquista dell’Eliseo da parte del socialista
François Mitterrand. Certo la
Lazard di boulevard Haussmann andrà
incontro ad un lento declino ma, sotto
la pressione dell’establishment statunitense,
Mitterrand la esclude dal piano
di nazionalizzazione. È l’ultimo, postumo,
“miracolo” di André Meyer.
Morto il 9 settembre 1979, accudito
sino all’ultimo da Bella Lehman dimentica
delle passate infedeltà, ha lasciato
un testamento olografo in cui
chiede di poter tornare in Francia, evitando
cerimonie, discorsi. Si sussurra
abbia scritto in un toccante addio: «Sia
rispettato quel silenzio che m’ha accompagnato
dalla nascita alla morte».
Verità o leggenda, comunque è la più
alta espressione del pensiero di un
adepto della confraternita dei sacerdoti
del dio danaro.
e prezioso consigliere dei Kennedy oltre che amico, confidente e cavaliere di Jacqueline.
Endowed with an uncanny talent for financial success, André Meyer was also the Kennedy “ family treasurer”
and valued advisor, as well as friend, confidant and escort to Jacqueline.
Getty Images Dotato di uno spaventoso talento per il successo finanziario, André Meyer fu, tra l’altro, “tesoriere di famiglia”
ECONOMIA-FINANZA 51
La Cina e i Fondi sovrani:
la crescita
di una potenza geo-economica
ALBERTO QUADRIO CURZIO
Presidente della Classe di Sc.m.s.f.,
Accademia dei Lincei
Presidente Centro di Ricerche in Analisi
Economica Cranec dell’Università Cattolica
VALERIA MICELI
Ricercatore e Membro del Comitato Scientifi co del
Centro di Ricerche in Analisi Economica Cranec,
Università Cattolica; Visiting scholar alla University
of Cambridge, UK.
Con un Pil che sfiora quota
5.750 miliardi di dollari correnti
secondo le previsioni
del Fondo Monetario per il
2010 e che ha dunque superato persino
l’economia giapponese così piazzandosi
come seconda economia mondiale,
che continua a crescere a ragguardevoli
tassi che non sono mai scesi negli
ultimi anni sotto il 9% neanche in conseguenza
della crisi economica globale,
con una bilancia delle partite correnti
cronicamente in avanzo prevista
per il 2010 (sempre secondo le stime
del FMI) a 270 miliardi di dollari ovvero
il 4,7% del Pil, con un ammontare di
riserve valutarie che a giugno 2010
sfi orava quota 2.500 miliardi di dollari,
infi ne, dato più scontato, ma non per
questo meno rilevante, con una popolazione
di più di 1,3 miliardi di persone
che rappresenta un bacino di manodopera
ed un potenziale mercato di pressoché
infi nite dimensioni, la Cina è oggi
la potenza geo-economica emergente
che lambisce da vicino il primato americano.
52 ECONOMIA-FINANZA
Per questo motivo, la nascita dei
Fondi sovrani (o Fos) cinesi ha rappresentato
un fatto nuovo in quanto gli
stessi, più che per ogni altro Paese
proprietario di Fos, si collocano al crocevia
tra economia, fi nanza e geo-politica.
I Fondi sovrani, infatti, oltre ad
essere grandi attori della fi nanza internazionale,
possono trasformarsi in
grandi attori della geo-economia mondiale
se posseduti da potenze globali.
Ed è proprio questo il caso cinese, come
vedremo più approfonditamente
nel seguito di questo articolo, non prima
però di avere fornito le principali
coordinate relative al fenomeno dei
Fondi sovrani a livello globale.
La situazione mondiale
dei Fondi Sovrani
Presenteremo brevemente in questa
sezione alcuni concetti chiave necessari
per capire cosa sono i Fondi
Sovrani, quali Paesi li possiedono e che
strategie di investimento seguono nei
mercati fi nanziari. Per ulteriori approfondimenti
rimandiamo il lettore ai
nostri più estesi lavori in materia (in
particolare ai volumi I Fondi Sovrani di
Alberto Quadrio Curzio e Valeria Miceli
pubblicato dal Mulino nel 2009 e Sovereign
Wealth Funds. A complete guide
to state-owned investment funds pubblicato
nel 2010 da Harriman House nel
Regno Unito). Successivamente tratteremo
dei fondi sovrani cinesi evidenziando
la rilevanza non solo economica,
ma anche geo-politica di tali attori.
I Fos cinesi infatti arrivano ad un totale
di attività gestite che supera i 1.000
miliardi di dollari.
I Fos sono fondi di investimento
di proprietà statale che gestiscono
portafogli di attività finanziarie, in
parte denominate in valuta estera,
derivanti dalla vendita del petrolio e
altre materie prime (Fos commodity) o
da surplus valutari della bilancia dei
pagamenti (Fos non-commodity). Si
tratta di un universo molto variegato
in cui si delineano diverse tipologie di
Fos che si differenziano per fi nalità,
strategie, operatività sui mercati fi -
nanziari, strutture legali, livelli di trasparenza.
È possibile identifi care un totale
di 53 Fos per un attivo complessivo
che, a fi ne 2009, oscilla tra i 3.386 miliardi
di dollari e i 4.042 miliardi di
dollari a seconda delle stime più o meno
prudenziali che si adottano per i
fondi più opachi (esistono infatti Fos
che non rendono pubblico neanche
l’ammontare totale del loro attivo).
Di seguito si fornisce la lista dei
principali dieci Fos aggiornata a fi ne
2009 con l’indicazione del Paese di
appartenenza, dell’attivo totale gestito
(di cui si forniscono gli estremi del
range di stime esistenti), dell’anno di
creazione nonché della fonte della sua
ricchezza se di tipo commodity o noncommodity.
Come si evince dalla tabella 1, i
Paesi ai quali i Fos appartengono sono
principalmente emergenti e la maggior
parte di essi è di proprietà di governi
che possono considerarsi autoritari
o semi-autoritari. Tra i primi
dieci Fos solo quello norvegese appartiene
ad una democrazia di tipo occidentale.
Tab. 1)
I PRINCIPALI FONDI SOVRANI A FINE 2009
(per alcuni fondi indicati con asterisco che non pubblicano rapporti con cadenza annuale le stime risalgono a inizio 2009)
Paese Nome Fondo
EAU Abu Dhabi Investment Authority (ADIA)*
Norvegia Norwegian Government Pension Fund Global (GPFG)
I Fondi sovrani cinesi
Nella lista di tabella 1 è evidente
il ruolo notevole della Cina che, con i
suoi quattro Fos per un ammontare
totale di attivo che supera i mille miliardi
di dollari a fi ne 2009 (oscilla a
seconda delle stime tra 1.007 e 1.086
miliardi), è uno degli attori dominanti.
Anche solo considerando il China Investment
Corporation o Cic, con la
sua dotazione di attivo di 332 miliardi
di dollari, esso rappresenta il quarto
fondo per totale attivi dopo quello di
Abu Dhabi (le cui dimensioni non sono
certe vista l’opacità che lo caratterizza),
quello norvegese e dopo i fondi
dell’Arabia Saudita che però diffi cilmente
possono configurarsi come
unico fondo sovrano. Inoltre il Cic è il
primo Fos non-commodity per dimensione
del suo attivo.
Il Fos cinese per defi nizione è il
Cic che è riconosciuto come tale anche
dallo stesso governo cinese. Tuttavia la
Cina può contare anche su una serie di
altri veicoli di investimento assimilabili
a Fos per l’operatività sui mercati fi -
nanziari, anche se non defi niti uffi cialmente
tali dal Governo.
Possibili fattori di rischio
Il caso cinese è particolarmente
interessante non solo per le impressionanti
dimensioni fi nanziarie dei suoi
veicoli di investimento statali, ma anche,
e forse soprattutto, per lo status di
grande potenza emergente che la Cina
riveste oggi nello scacchiere globale.
Proprio questa considerazione accompagnata
da un’iniziale opacità del fondo
cinese aveva contribuito a suscitare
notevoli preoccupazioni presso i governi
dei Paesi occidentali ed in particolare
presso gli Usa. Nei confronti dei
fondi sovrani cinesi si erano palesate
varie riserve. Si temeva innanzitutto
per la sicurezza nazionale nei settori
considerati sensibili, ritenendo che il
Cic fosse animato più che da fi nalità
commerciali, da fi nalità geopolitiche,
mirando ad acquisire partecipazioni di
controllo/maggioranza in settori strategici
quali trasporti, infrastrutture,
China and Sovereign Wealth Funds:
the growth of a
geo-economic power
Sovereign Wealth Funds (SWF) are state-owned
investment funds that deal with financial activity
portfolios. There are many different types of SWF
with various aims, strategies, legal frameworks, and
levels of transparency. Their particular nature
makes them a crossroads of economy, finance and
geopolitics, giving their role an international
breadth. Placed on the market in 2007, Chinese
Investment Corporation funds are of notable
interest. Their declared goals include maximizing
long-term returns on investments with a balanced
portfolio of foreign titles and recapitalising state
banking institutions, thereby contributing to
reforming the national financial system.
Attivo (miliardi USD) Anno di creazione Tipologia
282 627 1976 Commodity
432 432 1990 Commodity
Arabia Saudita Various funds within Saudi Arabian Monetary Agency (SAMA) 365 415
- Commodity
Cina China Investment Corporation (CIC) 332 332
2007 Non-commodity
Cina SAFE Investment Company 300 347
1997 Non-commodity
Cina - HK Hong Kong Monetary Authority - Investment Portfolio 228 260
1998 Non-commodity
Singapore Government Investment Corporation (GIC)* 180 248
1981 Non-commodity
Kuwait Kuwait Investment Authority (KIA)*
169 228 1953
Commodity
Cina National Social Security Fund (NSSF) 147 147
2000 Non-commodity
Singapore Temasek Holdings 133 133
1974 Non-commodity
Fonte: Quadrio Curzio, Miceli, 2010; Sovereign Wealth Fund Institute, accesso settembre 2010; Rapporti dei Fondi Sovrani ove esistenti (Norwegian Government Pension
Fund, China Investment Corporation, National Social Security Fund [NSSF], Temasek Holdings).
telecomunicazioni, energia, difesa,
high-tech.
In secondo luogo, si paventavano
pratiche quasi-monopolistiche sui
mercati in due direzioni. Da un lato, si
temeva che il Cic puntasse ad incrementare
le quote di mercato globale di
campioni nazionali cinesi a scapito di
aziende di altri Paesi attraverso acquisizioni
mirate o che tentasse di bloccare
indesiderate fusioni/acquisizioni tra
competitors per sostenere i propri campioni
nazionali. Da un altro lato, si temeva
che il Cic potesse garantire vantaggi
competitivi nell’accesso al proprio
mercato alle aziende partecipate a
scapito di aziende concorrenti ma non
partecipate.
Senza contare le preoccupazioni
di tipo geo-politico determinate dallo
status della Cina di grande creditore
degli Usa. La debolezza fi nanziaria del
debitore può infatti diventare, in alcuni
casi, vulnerabilità strategica e politica
del suo soft power. Il potere statunitense
si riduce nei confronti degli altri
Paesi nella misura in cui questi si approvvigionano
di risorse fi nanziarie
dalla Cina (o da altri Paesi detentori di
Fos). E anche le scelte Usa, per esempio
nei confronti di Taiwan, potrebbero
essere condizionate dai rapporti di
forza fi nanziari. Lo stesso problema si
pone per le istituzioni fi nanziarie sovrannazionali
le cui stabilità e credibilità
potrebbero essere vulnerate.
ECONOMIA-FINANZA 53
La risposta
della comunità internazionale:
i Principi di Santiago del Fmi
In risposta a queste preoccupazioni
riguardanti non solo i Fos cinesi,
ma quelli di tutti i Paesi non occidentali,
preoccupazioni peraltro allo stato
attuale non supportate da dati empirici,
il Fmi ha istituito, nell’aprile 2008, un
gruppo di lavoro internazionale (IWG)
di cui fanno parte i rappresentanti di
26 governi dotati di Fos (tra cui la Cina),
dei Paesi riceventi e di alcune istituzioni
internazionali. Nell’ottobre 2008,
l’IWG ha pubblicato 24 principi guida
(Generally Accepted Principles and Practices,
Gapp) detti anche Principi di
Santiago, dal nome della capitale cilena
dove lo IWG li ha approvati, ai quali i
Fos dovrebbero attenersi. Poiché ai
principi citati si aderisce volontariamente,
ci vorrà del tempo per valutarne
l’effi cacia.
Dopo avere delineato lo sfondo di
riferimento, ci apprestiamo a descrivere
la storia del principale fondo sovrano
cinese, China Investment Corporation
e a fornire alcune informazioni
sugli altri Fos cinesi (cfr. anche l’articolo
pubblicato sul n. 50 di Aspenia
dell’ottobre 2010 degli stessi Autori dal
titolo “I Fondi Sovrani del Paese di
Mezzo”).
Genesi del
China Investment Corporation
La creazione del Cic è il risultato
di un dibattito andato avanti per circa
due anni in Cina e riguardante l’utilizzo
delle enormi e crescenti riserve valutarie
accumulate nell’ultimo decennio ad
un tasso di crescita mensile oscillante
tra il 2% e il 4%. Secondo la Banca Centrale
cinese a fi ne 2009 le riserve valutarie
ammontavano a 2.399 miliardi di
dollari e a fi ne giugno 2010 a 2.454 miliardi.
L’accumulo di tali riserve è stato
reso possibile soprattutto grazie ai
surplus di bilancia commerciale verifi -
catisi già dalla fi ne degli anni ’90. La
Cina ha sempre investito gran parte
delle sue riserve in titoli del debito
pubblico americano caratterizzati da
bassi rischi, ma anche da bassi rendimenti.
È stato stimato che il loro rendimento
tra il 2001 e il 2007 si attestasse
tra il 3% e il 6% (Federal Reserve, 2008),
un ritorno modesto per un’economia
che cresce al 10% medio annuo e che
garantisce agli investimenti esteri in
54 ECONOMIA-FINANZA
entrata un rendimento che la Banca
Mondiale ha stimato pari al 22% nel
2005. Questo gap rappresenta per la
Cina l’elevato costo opportunità di tenere
enormi riserve di valuta e di investirle
in titoli del Tesoro americano.
L’obiettivo della Cina di tenere il renmimbi
agganciato al dollaro aveva cioè
determinato un meccanismo monetario-valutario
molto costoso sia dal punto
di vista economico-fi nanziario sia
politico. La polemica tra ministero delle
Finanze e Banca Centrale si era inasprita
proprio intorno all’incapacità di
utilizzare meglio la ricchezza valutaria
del Paese. Inoltre il possibile deprezzamento
del dollaro comporta la svalutazione
della ricchezza valutaria cinese e
poiché dal 2005, a parte la parentesi
della crisi, il renmimbi ha iniziato gradualmente
ad apprezzarsi, il rischio di
vedere la propria ricchezza perdere
drasticamente valore è oggi molto concreto.
Tra le molte ipotesi elaborate per
individuare un migliore utilizzo delle
riserve valutarie cinesi il Governo ha
deciso per un Fos, annunciato nel marzo
2007, con l’obiettivo di investire la
valuta in eccedenza direttamente all’estero.
Nel settembre 2007, quando il Cic
è stato creato, il ministro delle Finanze
ha emesso 200 miliardi di debito in
buoni del tesoro cinese (con date di
scadenze tra dieci e quindici anni e
tassi di interesse al 4,5%) che ha conferito
in dotazione al Cic e che quest’ultimo
ha utilizzato per acquistare valuta
dalla Banca Centrale.
Il Cic è interamente posseduto
dal Governo cinese e riporta direttamente
al Consiglio di Stato, il maggior
organo esecutivo ed amministrativo
del Paese, e al premier. Questa soluzione
sembra essere stata ideata per
risolvere il confl itto determinatosi tra
la Banca Centrale e il ministero delle
Finanze a proposito dell’autorità che
dovesse avere il mandato di gestire il
nuovo fondo. Tuttavia, la composizione
del comitato direttivo e di quello di
gestione lasciano intendere che il Cic
sia un’emanazione più del ministero
delle Finanze che di altri enti. Il presidente
è Lou Jiwei, ex ministro delle
fi nanze cinese ed ex vice-segretario
generale del Consiglio di Stato, personalità
di alto profi lo. Il comitato direttivo
costituito da undici membri si
compone di personalità politiche afferenti
sia i ministeri coinvolti nell’attivi-
Shutterstock
tà del Cic sia la Banca Centrale. I suoi
membri devono essere approvati dal
Consiglio di Stato. Invece il comitato
di gestione è composto per lo più da
tecnocrati dotati di rilevante esperienza
nella gestione di investimenti
pubblici e privati. Il comitato direttivo
defi nisce le strategie e le linee guida
per l’attività di investimento. Il comitato
di gestione le implementa. Infi ne
un terzo organo, il comitato di supervisione,
ha poteri di controllo. Dal
punto di vista della vigilanza, il Cic
non è sottoposto ad alcuna autorità di
regolazione ed è sullo stesso piano
della Banca Centrale cinese.
Obiettivi e strategie
di investimento del Cic
Obiettivi dichiarati del Fondo sovrano
cinese sono sia massimizzare i
ritorni di lungo termine sugli investimenti
servendosi di un portafoglio di
titoli esteri ben bilanciato, sia ricapitalizzare
importanti istituzioni bancarie
domestiche di proprietà statale contribuendo
a riformare il sistema fi nanziario
nazionale.
La strategia di investimento del
Cic si svolge pertanto lungo un duplice
binario: domestico ed estero. Per quanto
riguarda gli investimenti domestici
il Cic ha utilizzato un terzo all’incirca
della sua iniziale dotazione per acquistare
la Central Huijin Investment Company
(Chic) subentrando in tutte le
partecipazioni detenute da questa
(China Development Bank, Industrial
and Commercial Bank of China, Agricultural
Bank of China, Bank of China,
China Construction Bank).
Il Cic è dunque di fatto proprietario
di una gran parte del sistema bancario
e fi nanziario cinese.
Per quanto riguarda le partecipazioni
estere bisogna distinguere due
diverse fasi. La prima che va dalla creazione
nel 2007 alla prima metà del 2009,
è il periodo in cui si manifesta la crisi
fi nanziaria. Questa fase è caratterizzata
da alcuni investimenti iniziali (nel
fondo Blackstone Group e in Morgan
Stanley ad esempio) che avevano determinato
alcune perdite e dunque un
successivo atteggiamento di cautela e
un rallentamento nell’attività di investimento.
A ciò si sommavano altri due
fattori. Innanzitutto gli stimoli fi scali
domestici che hanno assorbito risorse
per 600 miliardi di dollari.
In secondo luogo si è dato avvio
ad un ripensamento delle strategie di
investimento e ad una riorganizzazione
interna che ha prodotto una nuova
struttura organizzativa e determinato
assunzioni di numerose nuove fi gure
professionali. A partire dal 2009 il Cic
ha reso pubblica la sua nuova organizzazione
interna che prevede quattro
divisioni. Con la ripresa dei mercati
fi nanziari e l’accumulo di risorse umane
e cognitive, a partire dalla seconda
metà del 2009 il Cic ha ripreso l’attività
di investimento. Del resto il Cic iniziava
il 2009 con una enorme dotazione
di risorse fi nanziarie ancora da investire.
A fi ne anno lo stock di investimenti
in titoli esteri sia di Paesi avanzati sia
emergenti ammontava a 81 miliardi di
dollari (escludendo le partecipazioni
bancarie di Chic) di cui 60 effettuati nel
solo 2009. Il portafoglio era allocato
per il 36% in titoli azionari, per il 32% in
liquidità immediata, per il 26% in titoli
a reddito fi sso e infi ne per il 6% in investimenti
alternativi. Dal punto di vista
geografi co, il portafoglio azionario è
allocato per il 44% nel Nord America,
per il 28% in Asia, per il 20% in Europa,
mentre la percentuale rimanente va
all’America Latina. L’Africa è praticamente
assente da questo portafoglio in
quanto esistono in Cina veicoli di investimento
specifici per il continente
africano. L’allocazione geografi ca dei
titoli a reddito fisso vede una netta
predominanza di titoli del debito pubblico.
Non è invece nota l’allocazione
del portafoglio per valute. Tra gli investimenti
diretti all’estero di tipo azionario
la nuova strategia privilegia i settori
energetico e delle risorse naturali,
delle rinnovabili, delle infrastrutture e
dei servizi fi nanziari. Questo trend è
confermato dai dati sugli investimenti
del 2009 e del 2010 presentati in tabella
2 che vedono il prevalere di target appartenenti
a settori reali, in particolare
energetici e delle materie prime.
A seguire si riporta la lista delle
più signifi cative transazioni del periodo
2009-2010 in ordine cronologico inverso:
Tab. 2) PRINCIPALI INVESTIMENTI DEL CIC NEL PERIODO 2009-2010
Target Data Settore Valore (milioni USD)
Penn West Energy Trust mag-2010 Petrolifero
1.020
Chesapeake Energy Corporation mag-2010 Petrolifero e gas 2.600
Changsha Zoomlion Heavy
Industry Science & Technology
Development Co.
feb-2010 Industriale
815
GCL-Poly Energy Holdings Ltd. nov-2009 Energie rinnovabili 717
The AES Corporation nov-2009 Energia
1.581
Iron Mining International Ltd. ott-2009 Estrattivo
700
South Gobi Energy Resources Ltd. ott-2009 Estrattivo
500
Oaktree Capital Management set-2009 Finanziario
1.000
Noble Group Ltd. set-2009 Materie prime
858
CJSC Nobel Oil set-2009 Petrolifero
270
PT Bumi Resources set-2009 Carbonifero
1.900
Songbird Estates ago-2009 Immobiliare
450
Goodman Group ago-2009 Immobiliare
460
CITIC Capital Holdings Limited lug-2009 Finanziario
258
KazMunaiGas Exploration
and Production
Teck Resources Limited lug-2009 Estrattivo
1.500
Fonte: Capital IQ (Financial Database)
lug-2009 Petrolifero e gas 940
ECONOMIA-FINANZA 55
A fi ne 2009 Cic riportava nel suo
rapporto annuale un utile pari a 42
miliardi di dollari e un totale attivo di
332 miliardi con un rendimento annuo
dell’11,7% sul portafoglio di titoli esteri.
Si tratta di cifre che rappresentano un
successo se comparate alle performance
dei principali operatori fi nanziari
mondiali per lo stesso periodo. La valutazione
dell’attività e delle prospettive
del fondo è dunque molto positiva.
Ed infatti sembra che presto il Cic sia
in grado di ottenere un’altra tranche di
riserve dalla banca centrale cinese.
Infi ne va segnalato riguardo al Cic
che, a seguito della sua partecipazione
ai lavori dell’IWG, esso ha fatto notevoli
progressi in termini di trasparenza.
Nell’agosto 2009 il Fos cinese ha infatti
pubblicato il suo primo rapporto annuale
sulle attività relative all’anno
2008 seguito, a luglio 2010, dal secondo
rapporto relativo alle attività dell’anno
2009. Inoltre il Cic è uno dei partecipanti
al Forum dei Sovereign Wealth Funds
(IFSWF) istituito nel 2009 per dare seguito
alla redazione dei Principi di
Santiago. E proprio la Cina ospita
nell’aprile 2011 a Pechino il meeting
annuale del Forum.
Gli altri Fondi sovrani cinesi
Il Cic si inserisce in un più ampio
disegno elaborato dal governo cinese
al fi ne di organizzare e incoraggiare i
fl ussi di investimenti diretti all’estero.
Vi sono infatti almeno altri tre soggetti
fi nanziari operanti come Fos in Cina,
come visto in tabella 1.
Tra gli enti autorizzati ad investire
all’estero vi è infatti la Safe Investment
Company, sussidiaria dello State Administration
of Foreign Exchange (SAFE)
che gestisce le riserve uffi ciali della
Banca Centrale cinese. La Safe Investment
Company, creata nel 1997 e
dotata di un attivo di circa 347 miliardi
di dollari, è diventata investitore attivo
all’estero nella ricerca di più profi cui
rendimenti per quella quota di riserve
in valuta non necessarie alla politica
monetaria. Il livello di trasparenza è
molto basso e, non trattandosi uffi cialmente
di un fondo sovrano, il Safe non
è tenuto ad adeguarsi agli standard di
Santiago. Vista la sua implicita natura
di Fos, è ragionevole immaginare una
forte rivalità tra Cic e Safe. Tuttavia, se
come si prevede, verrà assegnata al Cic
un’altra tranche di riserve, ciò potreb-
56 ECONOMIA-FINANZA
be marcare uffi cialmente il ruolo del
Cic come principale investitore cinese
all’estero.
Un altro Fos cinese è il National
Social Security Fund, fondo pensione
dotato di 147 miliardi di dollari derivanti
da privatizzazioni di imprese pubbliche
e da altri proventi fi scali, istituito
nel 2000, che solo nel 2006 ha ricevuto
l’autorizzazione ad investire il 20% delle
proprie dotazioni all’estero. Essendo
un fondo pensioni, anche se sui generis,
il livello di trasparenza è più elevato
che nel caso del Safe ed infatti il NSSF
redige annualmente un rapporto periodico
sulle proprie attività. Nel 2008 ha
riportato la sua prima perdita dalla
costituzione, ma le stime per il futuro
vedono un incremento del valore degli
asset.
Sempre in ambito cinese menzioniamo
un ultimo Fos, ovvero la divisione
denominata Investment Portfolio
della Hong Kong Monetary Authority,
dotata di 260 miliardi di dollari: è un
fondo di proprietà dell’Autorità Monetaria
di Hong Kong autorizzato ad investire
i propri asset all’estero anche in
titoli azionari. Il livello di trasparenza è
il più elevato tra i fondi cinesi.
Infi ne anche le molteplici ex aziende
di Stato cinesi hanno suffi cienti risorse
per fare acquisizioni all’estero,
oltre a poter attingere a ulteriori fi nanziamenti
pubblici. Senza contare che le
banche cinesi, godendo di un regime
Shutterstock
protetto e accumulando notevoli profitti,
sono in grado di investire tali
profi tti all’estero come ad esempio ha
fatto l’Industrial and Commercial Bank
of China comprando il 20% di Standard
Chartered Bank. Non è un caso che il
Cic si sia premurato di acquisire notevoli
partecipazioni nelle principali banche
cinesi, in modo tale da essere in
grado di agire anche per via indiretta,
inducendo le banche a fi nanziare acquisizioni
estere o a supportare gli investimenti
esteri da parte di aziende
cinesi.
In questa congerie di interventi,
alcuni ravvisano, più che un piano
strategico, la sovrapposizione di poteri
politici diversi e la disputa di lunga
data tra il ministero delle Finanze e la
Banca Centrale per l’aggiudicazione
della supremazia nella gestione delle
riserve. Prova ne sarebbe il tentativo di
Safe di espandere i propri investimenti
esteri occupando così gli stessi spazi di
investimento del Cic. A nostro avviso
tuttavia, al di là delle possibili diffi coltà
interpretative, l’insieme delle iniziative
sembra porsi come lo stadio iniziale di
un’ampia strategia di investimenti esteri
che potrebbe portare la Cina a divenire,
nei prossimi anni, uno dei principali
investitori mondiali.
Conclusioni
La precedente rifl essione ha voluto
dare una sintetica rappresentazione
dei Fos cinesi. Per concludere, noi pensiamo
che, con questa nuova strategia
di investimenti all’estero, la Cina potrebbe
inaugurare due nuove tendenze.
Da un lato una nuova era di cooperazione
per la governance globale sui
mercati finanziari mondiali in cui
all’egemonia dei Paesi occidentali si
affi anca la presenza del colosso asiatico
oltre che di altri Paesi emergenti.
Dall’altro una nuova fase di collaborazione
tra Nord e Sud del mondo per lo
sviluppo a lungo termine che vede il
suo baricentro spostato ad Est.
Siamo consapevoli che i fenomeni
economici si solidifi cano solo nel lungo
termine e perciò non si può ancora dire
con certezza quale sarà lo sviluppo cinese
nel corso del mezzo secolo che ci
attende anche perché la struttura istituzionale
e sociale di quel grande Paese
è davvero un unicum la cui transizione
verso forme più democratiche presenta
numerose incognite.
Peter Peter
Quando
NOTIZIARIO
il palato
si mette in viaggio
Testo e foto di
ALESSANDRO MELAZZINI
alessandro@melazzini.com
www.melazzini.com
Ma Monaco è davvero la città
italiana più a Nord, come amano
dire i suoi abitanti?
Senz’altro è la città tedesca
più infl uenzata dall’Italia. I motivi
sono numerosi, innanzi tutto per il
suo forte cattolicesimo, tanto che
viene considerata la Roma tedesca.
Poi basta guardare gli edifi ci
per trovare ovunque citazioni italiane:
la Feldherrenhalle riprende la
Loggia dei Lanzi di Firenze, al suo
fi anco l’imponente chiesa dei Tea-
Personaggi
È di casa tanto nella natale Monaco, quanto a Roma, Palermo o
Torino. Da anni, nei suoi articoli sulla Frankfurter Allgemeine
Zeitung e nei suoi numerosi libri, svela al lettore tedesco la storia
e le prelibatezze della cucina italiana, raccontando una nazione,
la nostra, che ormai conosce a menadito ma sempre continua
ad affascinarlo. Da qualche tempo l’amore per la cucina
nostrana ha innescato in lui il desiderio di riscoprire i sapori
della propria Germania, a maggior vantaggio di chi ama seguirlo
nei suoi viaggi gastronomici all’insegna del binomio tra cucina
e cultura. È lo scrittore enogastronomico Peter Peter, premio
Enit per la miglior guida sull’Italia in lingua tedesca, che incontriamo
seduto al tavolo della sua cucina, nel cuore della capitale
bavarese.
tini, non molto distante il Palazzo
Reale che ricorda in una facciata
Palazzo Pitti.
Un’altra ragione è lo stile di
vita dei suoi abitanti, il loro modo
di comportarsi. Già negli anni Sessanta
Monaco era famosa per la
Leopoldstrasse, l’ampio boulevard
che parte dal centro e costeggia il
grande parco del Giardino Inglese.
In quell’epoca la Leopoldstrasse
era l’unico viale della Germania
dove la gente sedeva in strada per
gustarsi un gelato, come fosse
una piccola Piazza Navona. Ormai
questo si fa dappertutto, ma per
primo accadde a Monaco. In questa
città si respira una certa leggerezza
della vita, un brio più italiano
che tedesco.
È sempre stato così?
No, no. Fino agli anni Sessanta
la Baviera era la regione più
“regionale” della Germania, basta
guardare le foto degli anni Cinquanta.
Era una società ancora
molto ancorata alle tradizioni bavaresi,
ai costumi alpini rustici e fortemente
localisti. Certo, la Monaco
cattolica ha sempre nutrito un
Peter Peter, in
viaggio tra i sapori.
Peter Peter, travelling
through flavours.
Peter Peter, when the palate goes travelling
That cuisine is an integral part of a country’s spirit is nothing new.
If we are to believe the insiders, eating Italian food for Germans
means taking on the spirit of the Bel Paese. Some might even call
Munich the most Italian city in the north, because Italy in Teutonic
territory enjoys undisputed success. This explains how an
enogastronomic writer could fall in love with a trattoria in
Trastevere, then with Tuscany and Sicily’s culinary heritage.
Food is good everywhere in Italy. In Germany, a certain austerity
and the Protestant ethic of self-sacrifice have over the centuries
given a secondary role to cuisine. It comes as no surprise that we
have the perfect conditions for a fatal attraction.
PERSONAGGI 57
forte legame con l’Italia, ma questa
leggerezza della vita prima si
godeva tutt’al più bevendo birra.
Ora invece assaporando in ogni
dove un caffè espresso.
Come mai è cambiata?
Senz’altro per il fenomeno
degli immigrati italiani, che hanno
aperto centinaia di trattorie e pizzerie,
anche piccoli espresso-bar.
Non bisogna poi dimenticare che il
cittadino di Monaco trascorre
spesso le vacanze nel Norditalia.
Da noi si dice che i prussiani vanno
in ferie nel Sud della Baviera,
gli Olandesi in Austria e i Bavaresi
in Alto Adige o sul Lago di Garda:
un lago che si potrebbe considerare
il più meridionale della Germania,
quasi un gemello del nostro
Starnberger See. La classica socializzazione
di un bavarese, i suoi
primi incontri amorosi, non di rado
nascono durante un “grand Tour”
sul Lago di Garda.
La tua vita studentesca però l’hai
trascorsa a Vienna...
Sì, ho studiato letteratura
comparata e filologia classica,
anche se in realtà ho studiato poco
e letto come un pazzo. Quasi
ogni sera andavo all’opera o al teatro,
mi sono letteralmente immerso
in una città profondamente
culturale come era Vienna negli
anni Settanta.
Monaco di Baviera, invece, a
quell’epoca era una città ancora
provinciale, che avendo appena
ospitato le Olimpiadi si era fatta
prendere dal culto della modernizzazione
architettonica. Io personalmente
non ho mai amato lo stile
edilizio degli anni Settanta.
A Vienna invece trovai quello
che amavo: la storia, l’eleganza, il
ballo, le donne che si vestivano
con le gonne e non con i jeans e i
parka. In quell’epoca Vienna era
decisamente più elegante di Monaco.
Ora il divario si è certamente
colmato.
Come mai capitasti a fare il fotomodello
per Bravo, la più nota rivista
tedesca per adolescenti?
Il tutto fu organizzato dai miei
genitori: accadde quattro-cinque
58 PERSONAGGI
volte, ma ero troppo timido a
quell’epoca per approfi ttarne. Bravo
era la rivista su cui tutte le star
si facevano fotografare, ed ebbe
un ruolo importante nell’educazione
sessuale dei miei coetanei di
quell’epoca. I ragazzi scrivevano a
degli esperti su temi che in casa
non si potevano trattare.
Come sei diventato scrittore enogastronomico?
Per diversi motivi. Il primo è
che viaggiando molto ho sempre
provato un forte interesse per la
storia dell’arte, della letteratura,
ma ho anche sempre amato visitare
i posti dove mangiano gli autoctoni,
perché lo considero un avvicinamento
alla cultura locale. Nel
vedere come una città funziona,
partire dalla cucina è sempre mol-
to fruttuoso. In questo vi è certo
una curiosità, un minimo di voyeurismo,
ma una trattoria in un Paese
straniero spesso può essere
un teatro interessantissimo. Prima
ho iniziato a frequentare locali a
Vienna; allora la vita costava molto
poco e nella capitale austriaca la
cucina era decisamente più ricca
e variegata di Monaco, grazie al
patrimonio culinario lasciato in
eredità dalla monarchia asburgica.
Poi alla fi ne degli anni Settanta ho
scoperto l’Italia, ho imparato l’italiano
a Perugia e viaggiando per il
vostro Paese ho capito molto presto
che mangiare bene è identità.
Senza contare l’emozione di trovarsi
di fronte all’enorme varietà di
piatti regionali, di gusti, sapori,
aromi e abbinamenti presenti in
Italia. Nello scoprire la cucina ita-
In Germania il
fascino della cucina
italiana è secondo
solo a quello per
l’arte del Belpaese.
In Germany, the
appeal of Italian
cuisine is second
only to that for
Italian art.
liana, dove il nome della pasta
cambia da paese a paese, posso
anche tenere allenati i miei studi
di fi lologia.
Ti ricordi la prima trattoria italiana
in cui hai pranzato?
Quando studiavo a Perugia
avevo un’amica viennese che faceva
la ragazza alla pari a Roma.
Andavo ogni fi ne settimana a trovarla
con la mia guida rossa per
vedere tutte le chiese. Avevo pochissimi
soldi, ma ricordo ancora
adesso la trattoria “Mario” a Trastevere.
L’anno scorso ci sono
tornato dopo anni di assenza. Costa
ancora poco, è specializzata in
cibi tradizionali come le lumache o
la pajata... ci sono ancora gli stessi
quadri di beoni irsuti che bevono
dal fiasco di Chianti. Con tutta
l’esperienza accumulata in trent’anni
di scoperta delle regioni
italiane, posso ancora raccomandarla:
vicolo del Moro, se non mi
sbaglio.
Dopo Roma come hai proseguito
nella tua scoperta culinaria della
cucina italiana?
Studiando a Perugia ho incontrato
la cucina umbra. Era una
sensazione spettacolare per un
tedesco studiare a Perugia a fi ne
anni Settanta. A quell’epoca nelle
mense universitarie tedesche si
mangiava roba orrenda. Si arrivava
al bancone, era pieno di manifesti
politici, e sopra ti scodellavano un
piatto di spaghetti scotti.
A Perugia c’era una mensa
universitaria dove potevo trovare
insalata fresca, un bicchiere di vino,
già in queste piccole cose si
poteva notare una differenza enorme
con la Germania. Senza contare
che la cucina umbra, ancora
oggi, è eccellente.
Ricordo di aver frequentato
tante sagre e feste dell’Unità. Durante
il fi ne settimana, spiantato
com’ero, riuscivo anche con pochi
soldi a degustare ottime specialità
del posto.
Poi ho scoperto la Sicilia,
grazie anche al mio interesse per
l’antichità. Laggiù c’è una cucina,
forse non tanto borghese, ma raffi
natissima grazie alle sue primizie
agricole. Passeggiare per i mercati
di Palermo e Siracusa? Fantastico!
Senza contare Napoli.
Una cosa che mi ha sempre
impressionato è l’intelligenza culinaria
anche degli italiani di basso
ceto sociale. Da noi in Germania
mangiare bene è quasi diventato
un fattore accademico: più eruditi
si è, meglio si mangia. In Italia invece
confesso che sono stati gli
autisti dei pullman a segnalarmi
posti fantastici. Se lo fai con un
loro collega tedesco, al massimo
ti consiglia arrosto di maiale e
cinque canederli.
Mi ha sempre affascinato il
legame tra storia e cucina. Parlando
della Sicilia, avevo studiato bene
la storia e la letteratura, le dominazioni
spagnole, greche e così
via, e trovare che tutte queste po-
polazioni hanno lasciato ricette
ancora vive e utilizzate per me è
stata una scoperta meravigliosa.
In Sicilia si può fare un viaggio
gastronomico lungo duemila anni.
Così ho cominciato a scrivere
libri su questo argomento: il primo,
appunto, sulla cucina siciliana,
perché in quel tempo in Germania
si parlava solo della cucina toscana,
che è certo buonissima ma
non così ricca dal punto di vista
culinario come lo è la Sicilia. Dopo
ho scritto un libro sulle trattorie
della Toscana, uno sulle trattorie
del Lago di Garda per i miei connazionali
bavaresi, uno sulle Stuben
dell’Alto Adige. Quest’ultimo mi ha
aiutato molto, perché solo scrivendo
di Alto Adige ho cominciato a
muovermi anche nell’ambito tedesco
della buona ristorazione.
Anche gli studi
classici tornano utili
per decifrare ricette
antiche.
Even the classics
come in handy to
decipher old recipes.
Ormai in Germania si assiste a un
fl orilegio di trasmissioni culinarie
e a un crescente interesse per il
cibo locale, prova ne è che tu
stesso hai pubblicato una storia
culturale della cucina tedesca.
Non è sempre stato così, tanto
che ancora molti italiani non hanno
consapevolezza del fermento
culinario d’oltralpe. Quando e perché
è cominciata questa riscoperta
della cucina tedesca?
Fino a qualche tempo fa si
mangiava molto male in Germania.
Per via di un certo carattere militaresco
o militante, e anche per un
motivo religioso legato al protestantesimo
e al suo ethos di rinuncia:
meglio pensare che mangiare
bene.
Un altro motivo era la società
tedesca, molto ugualitaria, dove
tutti, avvocati, politici, ricchi o poveri,
mangiavano male e modestamente,
insieme. Poi negli anni
Settanta ci sono stati i primi ribelli,
molto spesso viaggiatori che si
sono chiesti come mai i comunisti
francesi mangiano bene mentre
noi tedeschi no a causa di motivi...
ideologici?
A quel tempo nacque l’amore
tedesco verso la cucina mediterranea
e negli anni Ottanta chi voleva
mangiare bene andava in esilio in
Toscana.
Emblematica è la storia di
Slow Food Germania. I primi convivi
non facevano altro che imitare
l’Italia: si visitavano e frequentavano
soltanto le trattorie italiane in
Germania. Questo fi no agli anni
Novanta. Poi a un certo momento
è sopraggiunta la noia, perché ormai
la Germania è strapiena di ristoranti
italiani. E così la dimenticatissima
cucina tedesca ha ricominciato
a fi orire e fare furore. Una
riscoperta di qualcosa che è stato
dimenticato dai tempi della Prima
Guerra mondiale. Da cinque o sei
anni si è sviluppata la moda di riscoprire
vecchie erbe, antiche preparazioni
e usanze.
Detto questo la Germania ha
ancora una società culinaria molto
divisa. Una parte della popolazione
coltiva un amore e un gusto
speciali verso il cibo, l’altra si nutre
di pizze surgelate.
PERSONAGGI 59
I tuoi libri più recenti sono soprattutto
una storia culturale: uno per
la cucina italiana, uno per quella
tedesca. Quando ti è venuta l’idea
di questo approccio all’alimentazione?
Ho iniziato a scrivere piccoli
articoli sulla nascita della pizza a
Napoli, ma l’idea vera e propria mi
è venuta a Roma nel museo della
pasta alimentare vicino alla fontana
di Trevi. Sono entrato, ho visto
una bellissima fotografi a di Sophia
Loren che con erotica eleganza
mangiava spaghetti, una fotografi a
non molto conosciuta, e mi sono
detto: devo scrivere un libro con
questa fotografia. Prima volevo
fare una cosa semplice, raccontare
che i ravioli forse venivano dalla
Liguria, il baccalà mantecato da
Venezia e così via, sono andato da
un editore e questi mi ha proposto
di lavorare a un’opera più densa, e
allora ne ho approfi ttato, anche
perché in passato ho pubblicato
libri di storia e d’arte e guide su
molte regioni dell’Italia. Occupandomi
di storia culinaria mi sono
stati molto utili gli studi di letteratura
antica. La satira, ad esempio,
ha un profondo legame con il cibo,
nel teatro antico il cuoco è un protagonista
della commedia, il vegetarianesimo
è nato in Magna Grecia.
E così nel libro sulla storia
della cucina italiana ho trattato
l’antichità, il cristianesimo, poi la
60 PERSONAGGI
rappresentazione dei banchetti rinascimentali,
lo sfarzo barocco, la
crisi dell’Ottocento e il successo
mondiale degli ultimi decenni.
Mi piace anche molto poter
raccontare a voce di tutto questo,
e spesso tengo conferenze in Germania.
Se qualche associazione
italiana fosse interessata sarei
contento di entrare in contatto,
basta scrivermi a pietropietro@
web.de.
© Museo Nazionale Paste Alimentari, Roma
La foto di Sophia
Loren che ha ispirato
Peter a scrivere un
libro sulla cultura
culinaria del
Belpaese.
The photo of Sophia
Loren that inspired
Peter to write a book
on the culinary
culture of Italy.
La storia culturale
della cucina italiana
e quella della cucina
tedesca, editi dalla
Beck Verlag di
Monaco.
The cultural histories
of Italian and
German cuisines,
published by Beck
Verlag, Munich.
Sei “costretto” a mangiare tutto
quello di cui racconti nei tuoi libri?
Ogni critico gastronomico ha
le sue tecniche, quella migliore è
cenare in compagnia di una bella
signora che ti permetta di assaggiare
il doppio delle pietanze. A
volte se sei proprio convinto della
bontà di un luogo puoi anche parlare
con l’oste e chiedergli un assaggio
di vari piatti, altrimenti dovresti
venire cinque volte per provare
tutto il menù.
Comunque in Italia è molto
diffi cile mangiare male, mentre in
Germania mi capita di girare decine
di locande prima di trova re
quella dove davvero cucinano un
buon stinco di maiale con canederlo.
A tutto svantaggio della
linea...
Pensa ai lettori italiani che non
conoscono alcunché della cucina
tedesca: cosa diresti loro per
convincerli a lanciarsi in esplorazioni
gastronomiche oltre le Alpi?
La prima cosa è che è molto
diversa da quella italiana, ha delle
tecniche e delle combinazioni differenti,
e questo può incuriosirli.
Una ricchezza della Germania sono
le storiche osterie: basta arrivare
in un qualsiasi paesino e si
trova un antico ristorante con salette
perlinate, insegne in ferro e
un’atmosfera accogliente. Poi ci
sono certe cose in cui la Germania
è ancora campione, come la varietà
delle sue salsicce. In Italia non
si ha nessuna idea – a meno che
non si abiti a Cortina d’Ampezzo
– di cosa possa essere un würstel.
Al massimo lo si liquida come
qualcosa da mettere sulla pizza:
una cosa orrenda.
Ma come ogni paese italiano
ha la sua pasta, ogni paese tedesco
in realtà ha il suo würstel, da
quello bianco di Monaco, a quello
affumicato o con fegato del Nord
e così via. Un’altra cosa affascinante
della cucina tedesca è il
nostro pane, da quello bianchissimo
a quello integrale. Ci sono dei
panifi ci che fanno ancora pani di
tre o quattro chili che sembrano
dinosauri, ma sono opere d’arte.
La Germania è famosa per la sua
selvaggina e naturalmente, per le
sue birre. Ci sono regioni come la
Franconia in cui ogni piccola osteria
produce la sua propria birra, un
fenomeno conosciuto di solito
solamente dalle zone vinicole.
Ancora da scoprire direi sono certi
sapori nordici come una buona
senape, certi legumi, la preparazione
del cavolo rosso, dei cetrioli,
tutti alimenti un po’ esotici per gli
italiani.
Infi ne, una caratteristica amabile
della cucina tedesca è la sua
semplicità. Si può andare in un ristorante
e ordinare anche solo
una minestra e un bicchiere di
birra o di vino. Mangi bene, stai
comodo e non paghi molto.
La “Gemütlichkeit”, lo stare bene
in un luogo, è una caratteristica
tipica delle atmosfere culinarie
tedesche. Come la spiegheresti
ai lettori italiani?
È un fenomeno senz’altro
settentrionale. Signifi ca trascorrere
ore in osteria, ma non giocando
a carte o imprecando, bensì stando
seduti senza fretta e al caldo
di una stufa. Un tempo la gente
quasi abitava in osteria. In Italia
invece si va al ristorante, un cameriere
elegante ti serve e poi te
ne vai. In Germania c’è più il gusto
del vivere comodo, che si rifl ette
anche nei caffè. Mentre da voi di
solito il bar è un luogo dove bevi
in piedi un caffè di fretta, in Germania
hai poltrone vellutate, giornali,
puoi passare ore a sfogliarli,
sorseggiando bevande calde e
gustando torte monumentali.
Un’esperienza che i viaggiatori
italiani in Germania dimostrano di
apprezzare.
Molti italiani si stupiscono però
dell’importanza che la birra riveste
nella cultura del tuo Paese.
Quali sono secondo te i motivi
storici e psicologici di questo
amore tedesco per la bevanda
bionda?
Sono motivi storici e religiosi:
il cattolicesimo in Baviera ha sostenuto
il costume della birra, e
molti conventi la producevano,
come tuttora succede per il monastero
di Andechs. I protestanti,
Per chi voglia
scoprire i vini
tedeschi Peter Peter
consiglia di iniziare
con il Riesling
Renano.
To discover German
wines, Peter Peter
recommends starting
with a Reisling from
the Rhine.
che erano più ricchi, potevano
mangiare ogni giorno carne, mentre
i cattolici, che spesso vivevano
loro accanto, dovevano digiunare.
Così per dare un conforto nutriente
ai digiunatori si è creato il culto
della birra, che esiste da circa 300
anni. Storicamente, infatti, il vino
tedesco, tranne il famoso Riesling
del Reno, è un vino acido e non
buono, a differenza della birra maltata
dal colore dell’ambra, che è
dolce e che sazia.
E poi in fondo il tedesco non
ama l’eleganza, ama la convivialità.
Bere birra è una cosa popolare,
in grado di trasmettere un ideale
sociale di unità tra le classi, bere
vino invece è un atteggiamento
raffi nato, che implica più distinzione.
Non dimentichiamo infi ne il
fascino della festa della birra di
Monaco. Questa festa fantastica,
coi costumi popolari e un pubblico
tanto locale quanto internazionale,
è diventata il simbolo culinario non
solo della Germania, ma anche
della gioia della vita.
E poi, se mi permetti questa
punta di campanilismo, la birra
bavarese è semplicemente fantastica.
Che cosa ne pensi dei nuovi birrifi
ci italiani, che fanno birre sofi sticate
in bottiglie da vino?
Un fenomeno interessante.
Da noi esiste la stessa cosa, ma
questi birrifi ci non sono costosi,
perché conta più l’interesse a vedere
come si fa la birra che produrre
una bevanda di lusso. Penso
che il fenomeno in Italia nasca dal
fatto che da circa vent’anni gli italiani
viaggiano moltissimo e le loro
mete preferite, se non vanno sul
Mar Rosso, sono la Scozia, l’Irlanda
e la Baviera, Paesi dove si beve
molta birra. Farlo per un italiano
signifi ca vacanze e rilassamento.
Un fascino che si rifl ette nell’amore
degli italiani per le birre nostrane
in confezioni antiche, esotiche,
piene di etichette e con forti percentuali
d’alcol, un fenomeno che
fa sorridere i tedeschi perché è
solo ad uso e consumo dei turisti
italiani.
Anche la moda dilagante in
Italia dei pub irlandesi contribuisce
a diffondere l’interesse verso la
birra. E poi se sei giovane e non
devi spendere soldi per la cena
puoi anche permetterti una birra
costosa.
PERSONAGGI 61
Per contro ultimamente il vino sta
prendendo sempre più piede in
Germania, anche a discapito della
birra... è un bene o un male?
Per le birrerie un male. La
birra, come hanno detto i monaci
della Controriforma, è nutrimento,
il vino non tanto. Quando ero giovane
la birra per gli operai tedeschi
era considerata quasi un alimento,
era normale bere birra già alle nove
di mattina se ti svegli alle cinque.
Ora non lo è più, anche per
motivi dietetici. Un tempo invece
bere molto era un’abitudine rispettata
e considerata anche virile,
segno di cultura e integrazione
sociale. Ora è tutto cambiato, viviamo
in un mondo d’igiene, dove
anche sul mondo del lavoro occorre
essere sempre presenti, una
e-mail ti può raggiungere in ogni
minuto. Piccole dosi di vino sono
più adeguate. Senza contare che
in Germania i sogni di una vacanza
perfetta non sono quelli di bere
una birra in Irlanda, ma di stare su
una terrazza italiana, portoghese o
spagnola di fronte al mare e sorseggiare
un buon rosso.
Quali vini consiglieresti a un palato
italiano curioso di stappare
qualche turacciolo tedesco?
Se vai all’estero consiglio di
non cercare cose simili al sapore
di casa. Quindi direi di iniziare provando
il vino bianco più famoso del
mondo, ovvero il Riesling Renano,
quello della vendemmia tardiva,
non troppo secco, capace di una
raffi nata asprezza unita a una dolcezza
fl oreale. Continuando si potrebbero
assaggiare ad esempio il
Müller-Thurgau del Lago di Costanza,
l’Erbacher Marcobrunn, il Sommeracher
Katzenkopf e il Rivaner.
Con il vino si accompagna bene il
formaggio, peccato solo che in un
Land come la Baviera, nonostante
il suo carattere tuttora molto
attento alla cultura contadina,
non esista una vera cultura di
questo alimento.
Uhm... parlerei piuttosto di
industria contadina. Comunque è
vero, la situazione del formaggio in
Germania è una tragedia. Il motivo
va ricercato nella “superigiene” e
62 PERSONAGGI
Dopo anni di cucina
italiana ora i
tedeschi cominciano
a riscoprire la loro
cucina locale.
After years of Italian
cuisine, the Germans
are now beginning
to rediscover their
local cuisine.
nella razionalizzazione tipicamente
tedesche. Negli anni Settanta si è
vietato tutto il formaggio fatto da
latte crudo, con la piccola eccezione
dell’Algovia. Poi hanno rovinato
i piccoli caseifi ci che fanno la ricchezza
del formaggio, con il risultato
di costituire una decina di
megalatterie che producono un
prodotto standardizzato. Inutile
sprecare un buon vino con questi
formaggi castrati.
Oltre a ciò vi è anche da considerare
il fatto che storicamente
il contadino bavarese è un contadino
ricco, che si poteva permettere
di ammazzare la vacca mangiandone
la carne anziché tenerla
per farne formaggio. Per tutti questi
motivi purtroppo la cultura del
formaggio non è fortemente radicata
in Germania. Ultimamente
tuttavia stanno rispuntando dei
piccoli caseifi ci. Insomma, diventiamo
un po’ più globali... anche
nella riscoperta delle tipicità locali.
Come capo guida turistica sei
spesso in Italia con viaggi a metà
tra cucina e cultura. Che tipo
di clienti intraprendono queste
e scursioni nel nostro Paese?
Da noi esiste il termine “Studienraise”,
viaggio di studi, che
non è l’escursione di una parrocchia
o quella di una bocciofila,
bensì un viaggio in cui si visitano
chiese, musei e templi con spiegazioni
culturali, qualcosa di semiaccademico
senza diventare troppo
serio. Ma i viaggi che organizzo io
sono tuttavia più specializzati, non
porto il mio gruppo a Roma per
mostrare loro i Musei Vaticani o
San Pietro in Vincoli, tutte cose
che ha già visto. Viaggio con gente
che già conosce molto bene l’Italia
e che ha frequentato già molti
musei. Cerco di trasmettere un
rapporto più intimo e profondo con
il vostro Paese, alla ricerca di un
contatto più diretto con la terra
visitata. Ultimamente sono stato
in Sicilia, e ho portato un mio gruppo
dai pastori per mangiare nel
loro rifugio la ricotta appena fatta.
Tutte esperienze vivide ed estremamente
interessanti per un tedesco.
Insomma, cerco di combinare
l’avventura del mangiare con lo
sfondo storico e culturale. Lo faccio
anche per altre nazioni in giro
per il mondo, ma in questo l’Italia
è il Paese ideale.
Quali mete vanno per la maggiore?
Il turismo culinario ha ridefi nito
la pianta dell’Italia. Per esempio
fi no a qualche anno fa nessuno
viaggiava per motivi di studi culturali
in Piemonte, mentre ora basta
menzionare tartufo e Barolo e i
viaggiatori vi ci si fi ondano. Venezia
invece non approfi tta ancora
del turismo culinario, sebbene abbia
anche ottime locande.
Con il turismo culinario mi
capita di andare in paesi sperduti
della montagna calabrese, dove
esiste tuttora una cucina arcaica,
ma la meta più apprezzata è la
Sicilia con i suoi prodotti biologici,
l’Umbria e certe zone come il Friuli,
con il suo eccellente vino bianco.
Sono forse le destinazioni poco
conosciute a giovarsi di più di
questo tipo di turismo. Un viaggio
in Valtellina per far scoprire ai tedeschi
lo Sfursat, la bresaola e i
pizzoccheri ancora non l’ho organizzato,
ma penso proprio che lo
farò.
Nonostante i tuoi viaggiatori, negli
ultimi tempi si sente parlare di
un raffreddamento dei rapporti
italo-tedeschi. Qual è la tua opinione?
Secondo me, almeno da parte
tedesca, il rapporto è stato così
intenso che è diffi cile aumentare
questa affi nità. Però è vero, l’Italia
è diventata un po’ noiosa. Dovunque
vai in Germania ti danno pizza
e cappuccino. E poi questa Italia
idilliaca tanto amata dai tedeschi,
dove i pescatori cantano “O sole
mio” e le donne ballano la tarantella
esiste ancora, ma solo in pochi
nascondigli. L’Italia è diventata un
Paese moderno, con una politica
che molti da noi criticano aspramente,
con dei brutti fenomeni
come il rumore ovunque, la troppa
musica dappertutto. Ormai conosciamo
troppo bene l’Italia per
coltivare ancora troppe illusioni.
Peter mostra con
orgoglio la targa del
premio Enit per la
migliore guida
sull’Italia.
Peter proudly shows
the plaque awarded
by Enit, the Italian
Tourist Board, for the
best guidebook
on Italy.
L’Italia per secoli è stata una
fascinosa amante, adesso noi tedeschi
scopriamo che è una tranquilla
casalinga.
Per contro la Germania va sempre
più di moda tra i giovani italiani
Per molto tempo il mio Paese
è stato un libro chiuso con sette
sigilli nei confronti degli italiani.
Pochissimi conoscevano la Germania,
tranne gli sfortunati che
sono stati arrestati durante la
guerra, o i professori di lingua tedesca
e i Gastarbeiter.
Negli ultimi tempi però sempre
più italiani scoprono il romanticismo
della Germania, pensiamo
ai mercatini di Natale, che senza
di loro potrebbero chiudere. E così
scoprono anche il buon rapporto
prezzo-qualità degli alberghi tedeschi
e l’affi dabilità dei servizi di ristorazione,
compresa una struttura
di prezzi limpida e piuttosto affi
dabile.
Per i giovani, nello specifi co,
una cosa molto importante è la
vita notturna. Correggetemi se
sbaglio, ma la mia impressione è
che l’Italia non abbia vita notturna.
Si va a cenare, poi c’è qualche
mega discoteca sull’autostrada,
ma la normalità con cui a
Berlino si va in un club è poco
conosciuta. Da noi non importa
spendere molti soldi per fare bella
fi gura, è tutto un po’ più rilassato.
È facile uscire in una città
tedesca senza spendere un capitale,
senza impegnarsi troppo
con un fl irt, senza vestirsi troppo
elegantemente: tutti motivi che
per i giovani possono costituire
un fattore d’interesse.
Divertirsi a Berlino tutto sommato
è più facile che a Roma.
Goethe di esperienze bizzarre in
Italia ne ha fatta più d’una. Nei
tuoi viaggi nel nostro Paese quale
aneddotto ti è rimasto particolarmente
caro?
Un vigile urbano in Umbria mi
ha fatto una contravvenzione perché
ho sorpassato con il semaforo
rosso.
Cosa c’è di strano?
Ero a piedi!
PERSONAGGI 63
Gianrico Tedeschi
o della
vitalità geniale
GIANCARLO ZIZOLA
Scrittore, vaticanista de Il sole-24 Ore
Gianrico Tedeschi ne L’opera da tre soldi di Bertolt Brecht, regia di
Giorgio Strehler, stagione 1972/73 (cortesia “Piccolo Teatro di Milano”).
Gianrico Tedeschi in The Threepenny Opera by Bertolt Brecht, directed
by Giorgio Strehler, 1972/73 season (courtesy of “Piccolo Teatro of Milan”).
Gianrico Tedeschi or rather, ingenious vitality
As an accomplished actor moves on in age, it is normal to praise
what he was able to achieve. We can always expect something new
from Gianrico Tedeschi, elderly yet still performing onstage. Because
he is theatre and is ready to challenge himself with something that
will unsettle consciousness. His career began when he fell in love with
Ibsen’s “Ghosts”. Then, a solid cultural education and the war caused
a miracle to take place. His magnificent personality as a normal
person blossomed, enabling him to give extraordinary
interpretations. He says he possesses an effective recipe for
happiness at 90 years of age: risking, trying and venturing into new
activities; he does not want to be a teacher and intends to remain a
pupil. And when he is tired, he flees to his house on Lake Orta to
admire the “Monte Rosa” mountain from his garden.
64 PERSONAGGI
EDGARDA FERRI
Scrittrice e giornalista
Nel secondo atto dello
spettacolo La compagnia
degli uomini di
Edward Bond, andato
in scena all’inizio dello scorso inverno
al “Piccolo Teatro Grassi” di
Milano con la regia di Luca Ronconi,
ci sono stati quindici minuti in
cui il gesto, la voce, la parola, le
scene, le luci, gli attori, gli spettatori,
insomma, “il teatro”, dipendevano
esclusivamente, spasmodicamente
da Gianrico Tedeschi.
Luigi Ciminaghi
Fragile e feroce vecchietto impeccabilmente
vestito di grigio, l’industriale
Oldfi eld si liberava fi nalmente
dell’atroce segreto del giorno in
cui sua moglie fi ngeva di partorire
un fi glio, in realtà abbandonato
dalla madre sui gradini della loro
casa e da loro adottato. Accasciato
su una poltrona, le braccia abbandonate,
il capo riverso, gli occhi
svuotati dall’orrore, Tedeschi
era l’immagine stessa di un dolore
represso per tutta la vita, la dichiarazione
di un fallimento totale, la
nostalgia di un amore paterno
calpestato e sconvolto dalla passione
per il potere, il successo, il
denaro. «Ho dato qualcosa da pensare
a chi è venuto ad ascoltarmi?
Marcello Norberth
– domanda alla fi ne, stremato e
ansante, ma ancora vispo e vivace
–. Che senso avrebbe, altrimenti,
questo mio star sulle scene a
novant’anni compiuti? (91 il 20
aprile 2011). Alla mia età, potrei
starmene benissimo nella mia casa
sul lago d’Orta. Ho una famiglia
che adoro, mia moglie, le mie fi -
glie, i miei nipotini. Una marea di
ricordi. Un pubblico che non ha
mai smesso di amarmi. Ma se c’è
un testo capace di mettere in guardia
la coscienza, che la induce a
rifl ettere, la scuote, la cambia, allora
io sono pronto. Ho fatto anche
molto ridere, nel mio passato. Ho
persino cantato e ballato. Ma arrivato
fi n qui, e incredibilmente felice
di vivere tanto a lungo, penso di
non avere altro compito oltre a
quello di contribuire all’esame, alla
rifl essione, alla meditazione sul
senso della vita».
È molto elegante; lungo cardigan
giallo senape, camicia di spesso
cotone color antracite, pantaloni
di velluto a coste marrone: un
gentiluomo di campagna cui manca
soltanto la pipa. È anche molto
bello. Il volto gloriosamente segnato
dagli anni, il naso forte, la pelle
chiarissima, i capelli bianchi lunghi
e spettinati: come un artista, un
architetto, un pittore. Ha una voce
calda, suadente, avvolgente; e uno
sguardo vivace, arguto, curioso,
soprattutto attento, come oramai
raramente succede in una società
che parla, che parla, e non ascolta
mai. E per fi nire, è fantasticamente
educato: senza piaggerie, me-
Un cast tutto
maschile per
La compagnia degli
uomini di Edward
Bond, regia di Luca
Ronconi. In questo
dramma Tedeschi
veste i panni di un
grande finanziere
(cortesia “Piccolo
Teatro di Milano”).
An all-male cast for
In the company of
men by Edward
Bond, directed by
Luca Ronconi. In this
drama, Tedeschi
plays the role of an
important financier
(courtesy “Piccolo
Teatro of Milan”).
Marcello Norberth
lensaggini, complimenti superfl ui.
Un’educazione solida, di fondo,
non raccattata lungo la strada,
basata sul rispetto della persona,
sulla misura di sé, sulla moderata
ironia, la gestualità leggera: in un
mondo di tronfi e tromboni, una
splendida, esemplare persona
normale.
Novantun anni tutti da raccontare.
«Dove c’entra, e molto,
anche molta fortuna – ammette
con un sorriso che ancora sa di
sorpresa –. Ho sempre pensato a
tutto quello che è accaduto nella
mia lunga vita guardando anche
dalla sua opposta visuale. E se,
per esempio, a nove anni non fossi
rimasto folgorato dagli Spettri di
Ibsen, avrei tanto amato il teatro?
Mio padre era un commesso di
negozio tipicamente e borghesemente
milanese, che lavorava sodo
per migliorare la posizione sociale
dei fi gli mandandoli a scuola.
Ero il più piccolo di quattro fratelli,
lui sognava che diventassi geometra,
o ragioniere. Si era istruito da
solo, amava leggere e andare a
teatro. Ogni domenica pomeriggio
ci faceva vestire tutti in ordine e ci
portava all’“Olimpia”, di fi anco al
Castello Sforzesco. Mi sono mortalmente
annoiato fi no a quando
PERSONAGGI 65
non ho visto Ermete Zacconi interpretare
quella tremenda tragedia
che è Spettri. Una rivelazione. Da
quel momento, ho incominciato ad
andare a teatro da solo. Sgusciavo
al mio posto, solitamente in loggione,
e col fi ato sospeso mi preparavo
a quel magico, incomparabile
incanto che è la lenta e silenziosa
apertura del sipario. Per molto
tempo ho amato il teatro come
spettatore. Capivo che attraverso
la sua parola imparavo a vivere e
diventavo grande. Intanto studiavo
magistero, e per un paio d’anni ho
insegnato: scuola “Schiaparelli”
per periti industriali; e guarda il
caso, esattamente dove adesso
troneggia la gran mole rossa del
“Piccolo Teatro Strehler”. Nel
1940 è scoppiata la guerra. Nel
1941 mi hanno mandato sulle
montagne greche a scovare i partigiani
ribelli. Iscritto alla facoltà di
Filosofi a all’Università Cattolica,
avevo messo nello zaino tre libri:
“la fi losofi a medievale”, la “fi losofi
a greca”, la “fi losofi a moderna”
nella speranza di trovare il tempo
per prepararmi a un esame».
E la fortuna?
«La fortuna si presenta in un
modo bizzarro. Dopo l’armistizio
dell’8 settembre 1943, i tedeschi
ci catturarono a Volos. Dopo averci
fatto passare per due lager, ci
hanno chiuso defi nitivamente in
66 PERSONAGGI
L’attore ne Arlecchino
servitore di due
padroni di Carlo
Goldoni, regia di
Giorgio Strehler,
stagione 1972/73
(cortesia “Piccolo
Teatro di Milano”).
The actor in
Harlequin Servant of
two masters by Carlo
Goldoni, directed by
Giorgio Strehler,
1972/73 season
(courtesy “Piccolo
Teatro of Milan”).
quello di Sandbostel, in Germania.
Avevo ventitré anni, l’uffi ciale più
giovane del campo. I maggiori e i
colonnelli che mi guardavano come
se fossi un bambino. Divisi dai
soldati, ci hanno messo davanti a
una scelta: lavorare per loro scavando
trincee o aggiustando le
strade, o iscriverci alla Repubblica
Sociale di Salò. Soltanto pochi dei
nostri sono tornati in Italia come
“repubblichini”. Quasi tutti abbiamo
preferito non “collaborare” con
i tedeschi; e come punizione, una
baracca recintata col fi lo spinato,
insulti e maltrattamenti, brodaglia
e freddo, inattività forzata, paura e
fame. Soprattutto fame».
A questo punto, gli occhi di
Gianrico Tedeschi diventano due
piccoli, vivi, abbaglianti punti di
luce. I prigionieri non hanno niente
altro da fare che rattoppare i loro
vestiti e leggere i libri che si sono
portati da casa. A qualcuno viene
in mente di vuotare gli zaini e formare
una biblioteca. I prigionieri
sono medici, avvocati, insegnanti,
pittori, musicisti, poeti, scrittori. La
biblioteca si arricchisce delle voci
più disparate: medicina, diritto,
scienza, letteratura, arte, fi losofi a.
Un racconto bellissimo: la biblioteca
nel lager. I prigionieri hanno
tanto tempo. Quando hanno fi nito
di leggere, non sanno più che cosa
dirsi: si sono già detti tutto. Qual-
Luigi Ciminaghi
cuno propone di mettere in piedi
una compagnia teatrale. Fanno
tutto da soli: il palcoscenico, le
scene, i costumi. E fanno di tutto:
prosa seria, varietà, farsa, commedia,
barzellette, satira contro i
tedeschi. Quando se ne accorgono,
i tedeschi incominciano a fare
irruzioni ordinando di sospendere
lo spettacolo e punendo i responsabili.
Ma i responsabili hanno
imparato l’antifona: mettono fuori
dalla baracca uno dei loro, che
lancia l’allarme quando li vede arrivare;
e il programma cambia di
colpo. Una volta, mettono in scena
Enrico IV di Pirandello. Ruolo diffi -
cile, in bilico fra la pazzia e la ragione.
Gianrico Tedeschi si offre:
ama il teatro di Pirandello più di
ogni altra cosa, e solo per poche
sere ha provato l’emozione di stare
sulla scena. Aveva dodici anni.
Recitava nella sala parrocchiale
sotto casa, in via Redi. Sulla strada,
i ragazzini gridavano: «Gent,
gent, vegnì a vedè el teater». Gente,
gente, venite a vedere il teatro.
Dopo Enrico IV, il piccolo uffi ciale
prigioniero interpreta anche L’uomo
dal fi ore in bocca. Poi, torna a
Spettri di Ibsen, il suo primo grandissimo
amore. Poi, commedie
scritte sul momento dal compagno
di prigionia Giovannino Guareschi.
Nella baracca del lager trasformata
in un palcoscenico, la sua formidabile
vena grottesca, il suo misurato
ma profondissimo senso del
tragico, la sua irresistibile arguzia
lombarda inchiodano gli spettatori
che, seduti per terra e avvolti di
stracci, dimenticano per un paio
d’ore la fame. Il poeta Clemente
Rebora, che lo segue con attenzione,
alla fi ne gli dice: «Fossi in te,
una volta tornato, proverei a fare
l’attore. La “stoffa” ce l’hai».
Infatti. Una carriera strepitosa.
Successi in ogni genere e categoria
dello spettacolo. Irresistibile
sul palcoscenico, al cinema, in
televisione, nella pubblicità. Irresistibile
pedante in My fair Lady
nella parte del professor Higgins
che insegna a parlare decentemente
all’impertinente fi oraia. Problematicamente
sottile ne La rigenerazione
di Svevo. Beffardo ne Il
maggiore Barbara di Shaw. Memo
abile nel fi lm di Salce Il federale,
nei panni del poeta fascista creduto
morto eroicamente al fronte, e
invece nascosto in soffi tta. Impareggiabile
nella commedia musicale
Enrico ’61 di Garinei e Giovannini.
Grandi registi teatrali: da Visconti,
Strehler, Squarzina «a Luca
Ronconi, mi mancava, e che ammiro
tantissimo perché affronta e
sperimenta tutto ciò che è nuovo
e “diverso”. Quando mi ha offerto
la parte di protagonista ne La compagnia
degli uomini gli ho risposto:
eccomi, fai di me quello che vuoi»
ridacchia, ilare e quieto. «Io sono
un vecchio signore con delle care
abitudini nella vita privata, ma con
gli occhi rivolti al futuro e la curiosità
intellettuale per quello che è
nuovo, non sperimentato, non già
scontato. Del resto, alla mia età,
cercare di accontentare il gusto
del pubblico solo per poter stare
ancora sul palcoscenico, sarebbe
come non aver dato un senso alla
propria vita. E io so come fare per
vivere bene a novant’anni passati:
non devo andare per strade sulle
quali ho già camminato, ma rischiare,
provare, avventurarmi per
quelle nuove. Questo signifi ca non
aggrapparsi nostalgicamente al
passato, ma progettare il futuro
come se la vita dovesse durare
ancora a lungo. Non devo fare il
maestro, ma continuare a fare
l’allievo».
Quarant’anni fa si era promesso:
«Quando sarò vecchio reciterò
I dialoghi di Platone». Scuote
la testa, ma non perde il sorriso:
«Promessa mancata per ragioni di
carattere pratico, perché solo i
Teatri Stabili possono garantire la
messa in scena di un testo fi losofi
co per un pubblico di gusti e palato
fi ni. Nella mia lunga carriera,
però, quasi sempre ho lavorato in
compagnie di giro, dove si cambia
piazza quasi ogni sera e non si fa
in tempo a prepararsi il pubblico
giusto per offrirgli qualcosa che io
chiamo “un cibo per l’anima”. Ma
oggi, questo sarebbe il momento.
E io sono pronto». Allarga un poco
le braccia, alza le spalle: «Altrimenti,
l’alternativa è il riposo. Che comunque
mi manca. Ho sempre
lavorato tantissimo. Anche in estate.
Anzi, soprattutto d’estate nei
grandi meravigliosi teatri all’aperto
Gianrico Tedeschi
con la moglie
Marianella Laszlo e
Walter Mramor in
un’immagine di
scena de Le ultime
lune di Furio Bordon.
Lo spettacolo – una
produzione di a.
ArtistiAssociati di
Gorizia – ha girato
per diversi anni
toccando moltissime
piazze italiane.
Gianrico Tedeschi
with his wife
Marianella Laszlo
and Walter Mramor
in a stage shot from
Le ultime lune by
Furio Bordon. The
performance
– produced by
a.ArtistiAssociati
of Gorizia – was on
tour for several years
and was staged in
very many squares
thoughout Italy.
di Taormina, Ostia, Siracusa. Da
qualche anno lavoro solo se mi fa
piacere, godendomi finalmente
lunghi e beati momenti di ozio
nella mia casa sul lago d’Orta insieme
a mia moglie, al mio camino,
ai miei cani. Sono stato un
grande camminatore, amo la montagna
e fi nché ho potuto l’ho attraversata
palmo a palmo. Adesso mi
accontento di ammirare il Rosa dal
giardino di casa mia, di passeggiare
nei prati e di bere un buon bicchiere
di vino con Marianella, la
mia moglie meravigliosa». Marianella
Laszlo è una signora molto
più giovane di lui, molto bella e dai
modi squisiti. Un’attrice brillante e
di lunga carriera che da qualche
anno ha rinunciato al teatro per
non lasciare il marito nemmeno un
momento. Lo segue come un’ombra
fi no a quando non entra in
scena, lo difende dalle fatiche, gli
compera i libri da leggere, lo aspetta
in camerino. Amorosamente e
discretamente. «Oggi – sussurra
Gianrico Tedeschi – Marianella è la
mia vita». E solo qui, per un attimo,
la commozione gli fa tremare la
voce.
a.ArtistiAssociati di Gorizia
PERSONAGGI 67
Nel secondo centenario della nascita
Franz e il suo doppio:
i gemelli Liszt
MELANIA G. MAZZUCCO
Scrittrice
Alti, snelli, la pelle trasparente,
gli occhi chiari,
lunghi capelli biondi,
incarnazione ideale
del la bellezza romantica, Franz
Liszt e Marie d’Agoult sembravano
gemelli a tutti coloro che li conobbero
nei loro anni di pellegrinaggio,
per parafrasare il titolo delle composizioni
musicali che lui scrisse in
quel periodo. La defi nizione impropria
li lusingava: si sentivano complementari,
speculari e indispensabili
l’uno all’altra. In effetti, non
solo non erano gemelli, ma fi no al
giorno in cui si incontrarono, in un
salotto di Parigi, non avrebbero
potuto essere più diversi.
Una sera di dicembre del
1832 la marchesa du Vayer diede
un ricevimento. Marie, che si proclamava
stanca del bel mondo,
non voleva andarci. L’attrazione
era il giovane pianista che incantava
le platee d’Europa: salutato agli
esordi come “il nuovo Mozart”, era
ormai considerato il Paganini del
pianoforte per la sua tecnica prodigiosa
– alcuni dicevano demoniaca.
Era l’immagine stessa del musicista
romantico. All’ultimo minuto,
Marie cambiò idea e si presentò
al ricevimento, al braccio dello
scrittore Eugène Sue. Liszt si esibì,
e fu esibito come un “cane sapiente”
da salotto (così, crudamente,
lui stesso si defi niva). I
nobili lo applaudivano, ma lo consideravano
un diamante grezzo,
stravagante e malvestito, e sorri-
68 PERSONAGGI
devano della sua conversazione
astrusa e delle sue pretese fi losofi
che. Cinque o sei uomini follemente
innamorati della contessa
la corteggiarono tutta la sera, e lei,
pur tenendoli a bada, li incoraggiò
perché era, secondo una testimone,
una “feroce civetta”. Ma benché
fl irtasse con gli altri, rimase
colpita da Liszt, «la persona più
straordinaria che avessi mai visto»
– come scrisse poi. «Alto, eccessivamente
magro, il volto pallido,
grandi occhi verdi, una fi sionomia
sofferente e vigorosa, l’aria distratta,
inquieta, come un fantasma
che aspettasse il rintocco dell’ora
in cui doveva tornare tra le ombre».
Ma anche Liszt notò lei. Gli parve
bellissima, come una Lorelei, slanciata,
portamento aristocratico,
affascinante, modi e toilette di
raffi nata eleganza, la testa orgogliosa
coperta da una cascata di
capelli biondi che le ricadevano
sulle spalle come una doccia
d’oro, un profi lo da dea greca, che
contrastava in modo curioso con
la sognante malinconia impressa
sul suo volto. Alla fi ne del ricevimento,
Marie d’Agoult uscì dalla
porta principale, e Franz Liszt, incassato
il suo onorario, dalla porta
della servitù. Così imponevano le
abitudini e i pregiudizi dell’epoca,
l’abisso sociale che separava una
contessa e un musicista.
Quella sera, Franz Liszt aveva
ventun anni. Era nato nel 1811
a Raiding, cittadina dell’Impero
Austroungarico. È noto come il più
famoso musicista ungherese, ma
il padre era di origine tedesca e la
madre austriaca, e Raiding oggi si
Ritratto giovanile di
Franz Liszt, opera di
Jean Auguste
Dominique Ingres.
Questi, direttore
dell’Accademia di
Francia, aiutò il
compositore a
inserirsi nell’ambiente
romano.
A youthful portrait of
Franz Liszt, by Jean
Auguste Dominique
Ingres. The latter,
director of the
Academy of France,
helped the composer
settle into Roman
circles.
trova in Austria. Adam Liszt era
amministratore al servizio dei principi
Esterházy, ma avrebbe voluto
essere musicista ed era un buon
dilettante: insegnò al fi glio a suonare
il piano fi n dai sei anni e poiché
il bambino, nonostante la salute
cagionevole, era straordinariamente
dotato, vide la possibilità di
fare di lui l’artista che non aveva
potuto essere. Lo sottopose a un
duro addestramento e già a nove
anni lo fece esibire in pubblico. Gli
procurò una borsa di studio per
perfezionarsi a Vienna, con Carl
Czerny e Antonio Salieri. Il bambino
prodigio aveva interrotto la carriera
concertistica per approfondire
la sua cul