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Sophias
NUMERO 1
LUGLIO 2008
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI
CULTURA FILOSOFICA
EDITORIALE
di Chiara Colombo
SAGGI
di Elio Guerriero,
Angelo Bertuletti,
Marco Sgarbi,
Luigi de Blasi,
Ilaria Ramelli
CONTRIBUTI KANTIANI
INTERVISTA
a Hans Albert
LA BORSA DI DIOGENE
tratto da R. Casati-A. Varzi
ISSN 1973-2929

p. 3
p. 5
p. 8
p. 16
p. 25
p. 31
p. 48
p. 52
p. 60
INDICE
EDITORIALE
di Chiara Colombo
SAGGI
Ricordo di Hans Urs Von Balthasar
di Elio Guerriero
Dire Dio. Fenomenologia e teologia a confronto
Jean-Luc Marion, Angelo Bertuletti
La distinzione aristotelica Kat’anthropon-Kat’Aletheian
in Kant
di Marco Sgarbi
Platone tra Verità e Distorsione
Rivisitazione filosofica del mito della caverna
DI Luigi De Blasi
L’Apocatastasi nel cristianesimo tra Sei e Settecento
di Ilaria Ramelli
CONTRIBUTI KANTIANI
INTERVISTA
a Hans Albert
LA BORSA DI DIOGENE
tratto da R. Casati-A. Varzi
EDITORIALE
ETÀ DELL’INFORMAZIONE.
Il titolo non ci è nuovo, anzi, ci appartiene: l’età dell’informazione è la
nostra età, internet è la sua base tecnologica.
Di fronte alla sua inarrestabile flessibilità il contenuto ha dovuto cedere
il passo all’informazione sul contenuto espressa nel link. Vittoria del titolo
sul testo, del nome sull’oggetto.
L’esserci si è tramutato nell’essere-presenti-online, all’interno di una logica
della rete che non conosce altro sistema se non quello binario: 1 o
0, sì o no, acceso o spento, incluso o escluso.
Ci troviamo nel luogo di affermazione di un nuovo pensiero dominante,
il pensiero della connessione, capace di rimandare continuamente,
inarrestabile fra cinquanta milioni di siti, settantacinque milioni di blog
e quasi due milioni di libri pubblicati.
Quello stesso pensiero, oggi si autodefinisce videogame dell’auto-coscienza
e sale in cattedra per ammonirci: siamo affetti da una nuova sindrome,
la sindrome dell’attenzione-parziale-continua. Intrappolati nella
logica della rete non siamo più capaci di comprendere, di relazionarci
profondamente alle cose e alle persone.
Se è nell’affermazione di questo deficit che viene esaurendosi la potenzialità
intrinseca della logica della rete, forse il progetto sottostante il
numero uno di Sophias è destinato a fallire in partenza.
Von Balthasar e Adrienne von Speyr, l’uomo e la verità nel mito platonico
della caverna, il pensiero cristiano e Origene, Kant e le categorie
aristoteliche.
E ancora: Marion e Bertuletti, Fossati e Albert, lo studioso e il testo, fino
al Lui e alla Lei di una favola filosofica i cui modi giocosi non riescono
a nascondere la profondità dei contenuti.
Contributi diversi, certo, ma tutti accumunati dalla stessa logica di fondo:
una logica dell’incontro come esperienza profonda, esperienza di
vita ed esperienza teoretica che non ammette indifferenza ma esige
confronto e partecipazione.
Che spazio c’è per una logica di questo tipo all’interno di una pervasività
distruttiva come quella della rete?
La domanda è, a mio avviso, assolutamente sbagliata, o meglio, essa nasce
da un fraintendimento di fondo delle potenzialità della rete stessa.
Si pensi alla modalità di funzionamento del link: non si tratta affatto di
una riduzione del contenuto all’informazione, del testo al titolo, bensì
di una separazione, una differenziazione netta; tale differenziazione, se
non richiede alcuna fatica, alcun impegno, nella ricerca dell’informazione,
esige, invece volontà di partecipazione laddove si intenda accedere
ai contenuti che quella stessa informazione rappresenta.
In questa prospettiva, la rete ci pone continuamente di fronte, non all’in-
3

formazione sterile, bensì alla possibilità di accesso al contenuto.
Nel momento stesso in cui decidiamo di attualizzare quell’accesso, scegliamo
consapevolmente di incontrare quel determinato contenuto, di
metterci in gioco, di relazionarci, non solo a esso, ma anche alla rete di
ulteriori relazioni che reca con sé.
La logica della rete, rilancia quella dell’incontro su scala individuale e
globale, la ricomprende e le fornisce nuova linfa, ulteriori mondi di proliferazione.
4
DIRETTORE RESPONSABILE
Chiara Colombo
REDAZIONE
(redazione.sophias@ilmondodisofia.it)
Francesco Baucia
Beatrice Collarini
Elena Colombo
Francesco Di Martino
Fabio Fumagalli
Elisa Grimi
Enrico Marra
PROGETTO GRAFICO
NetPhilo S.R.L.
EDITORE
Associazione Culturale "Il Mondo di Sofia"
Via G. Piolti de' Bianchi, 2
I-20129 - Milano
Tel. +39 02 91704026
Fax +39 02 700538335
Email acilmondodisofia@tiscali.it
www.ilmondodisofia.it
ISSN 1973-2929

di Elio Guerriero
SAGGI
RICORDO DI HANS URS VON BALTHASAR
Al ricordo di Hans Urs von Balthasar (1905-1988)
a 20 anni dalla morte ritengo doveroso associare
la memoria della figura di Adrienne von
Speyr di cui lo scorso anno ricorreva, invece il
quarantesimo della morte. Il volume che meglio
evidenzia l’intensità teologica sviluppatasi
dall’incontro tra queste due grandi figure
dello spirito cristiano nel XX secolo è Il cuore
del mondo, Jaca Book, Milano di cui, per gentile
concessione dell’autore, riproduciamo qui
un invito alla lettura1 . Nell’opera, scritta subito
dopo il loro incontro negli anni della seconda
guerra mondiale, la mistica e il teologo si
immergono nel mondo di Dio, anzi lasciano
che Lui inondi la loro anima, venendo permeati
dalla vita trinitaria. Hanno così la possibilità,
come Mosè al Sinai o come i 3 apostoli
sul monte della trasfigurazione, di contemplare
per un attimo la gloria di Dio. Di qui il lirismo e
l’entusiasmo che pervade l’opera. Era l’inizio di
un’avventura teologica che nel Cuore del mondo
viene intravista mentre giungeva a compimento
nei 15 volumi della trilogia di Gloria,
Teodrammatica e Teologica.
Il Cuore del mondo, un libro scritto a Lucerna
nell’estate del 1945, andrebbe letto insieme a
Primo sguardo su Adrienne von Speyr2 , nel quale,
per la prima volta, von Balthasar raccontava
del suo incontro con la dottoressa in medicina
di qualche anno più anziana di lui, e insieme
a Il nostro compito3 , una sorta di testamento
con il quale il teologo cercava di respingere a
priori ogni «tentativo di separare la mia opera
da quella di Adrienne von Speyr» 4 . Come dire
che nel volume che qui viene presentato sia-
mo all’origine di una avventura ecclesiale e teologica di rara intensità.
Guardando e meditando, immergendosi nel mondo di Dio, anzi lasciando
che Lui inondi la loro anima, la mistica e il teologo vengono
condotti in prossimità della vita trinitaria, hanno modo di vedere per
un attimo, come Mosè al Sinai o come i tre discepoli al momento della
trasfigurazione, la gloria di Dio. Edotti da Gesù che rifiuta le tre tende
e, subito dopo la trasfigurazione, invita i discepoli a scendere dal
monte, Adrienne e Hans Urs comprendono che non vi è salto dialettico,
bensì continuità tra eternità e tempo. Quest’ultimo è la corrente
che scorre dalla sorgente purissima dell’amore trinitario. È una prigione
senza uscita il tempo, come l’acqua per i pesci. Se ne esce solo con
la morte. Ma è una prigione che nasce da amore e può condurre ad
amore. Per questo «fidati del tempo. Il tempo è musica; e lo spazio da
cui la musica suona è il futuro. Suono dopo suono la sinfonia si crea in
una dimensione che inventa se stessa» 5 .
Ma perché la creazione e perché il tempo? Gli uomini ne sono la
spiegazione nel momento in cui prendono coscienza dell’habitat in
cui si trovano e soprattutto di se stessi. Lo sguardo, tuttavia, è spesso
distolto e non percepisce il valore della luce finché non giungono le
tenebre; i polmoni non si tendono allo spasimo finché l’aria li inonda
generosa. Eppure la corrente d’amore continua a scorrere senza
fare mai mancare il tempo che è «la scuola superiore dell’amore» 6 .
Il tempo deriva allora dall’eternità, dall’amore trinitario, anzi a manifestare
questa origine, il Verbo, il principio di razionalità e comprensione,
varcò la soglia e si inserì a sua volta nella corrente senza fine. Ma
come parlare d’amore a chi non ne ha esperienza, a chi si lascia volentieri
distrarre da mille occupazioni insensate, da passioni intricate e
confuse al punto che nessuno riesce a coglierne l’origine e l’approdo?
Dio non si arrende e concepisce un piano che è come un cavallo di
Troia issato al centro del mondo. Egli stesso prenderà un cuore d’uomo,
esperto di tutti i grovigli e vagabondaggi. Fu, però, un errore fatale.
Perché un cuore è indifeso e la sua fragilità attira tutte le frecce e
le lance pronte a colpire. «La vita eterna si scelse il luogo di un cuore
umano. Decise di abitare in questa tenda tremante, le piacque di lasciarsi
colpire. Così la sua morte fu cosa decisa. Perché inerme è la
fonte della vita. Dio nella sua eterna fortezza, nella sua inaccessibile
5

luce, era inespugnabile (...). Ma Dio nell’abitacolo di un cuore, come
era facile da raggiungere» 7 . Nel momento dell’incarnazione, era presa
anche la decisione della morte del Figlio di Dio, anzi veniva decretato
anche il tipo di morte perché Egli doveva venire issato in mezzo al
campo come il serpente di bronzo di Mosè. Egli venne dunque nel
mondo. Ma l’impresa si rivelò ancora più ardua di come appariva agli
occhi di Dio. In Dio il Figlio vedeva l’ingratitudine e la dispersione della
creatura; ora, tuttavia, doveva confrontarsi con l’odore nauseabondo
del peccato, con l’accanimento omicida di passioni inconfessate, con
la meschineria che ambisce a restare nascosta mentre, per essere eliminata,
deve essere scoperta e portata alla luce. E, in questo viaggio
nella profondità della creatura e del peccato, il Figlio si allontana dal
Padre, dall’origine dell’amore. E più egli discende, più si carica dei
peccati del mondo come Atlante e capro espiatorio, più egli è solo,
lontano dall’origine dell’amore, dal Padre che nulla può per alleviare
le sue pene e la sua solitudine, a meno di rendere vano il suo viaggio
d’amore. «Adesso egli poggia il piede nel fondo senza fondo, nella
melma del mondo, nella palude del peccato. Le onde della tentazione
lo assalgono: il regno si potrebbe ancora salvare! Credi nella tua potenza!
Confida nella stella dei magi» 8 . Ma è appunto una tentazione!
Nella realtà il regno al quale Egli è venuto a dare inizio sembra sgretolarsi
da ogni parte, mentre rende il Suo spirito nella solitudine. Il Suo
spirito, tuttavia, è anche l’amore dell’origine, l’amore suo e del Padre
che ora avvolge il mondo in un abbraccio unico dall’alto e dal basso.
È questa la resurrezione e la storia della salvezza, la grande sfida e
battaglia di Dio combattuta dall’inizio alla fine nell’amore, perchè Dio
è amore. A questo punto davanti alla parentesi del mondo è posto il
segno più, capace di abbracciare ogni dolore e sofferenza; ma sulla
scena del mondo Dio non vuole delle marionette, bensì dei protagonisti.
La storia procede, allora, apparentemente immutata. La morte
è ancora il termine obbligato della vita alla quale, tuttavia, è offerta
la possibilità reale di prendere parte al piano di Dio. A questo punto,
però, l’amore diventa legge più esigente di ogni tavola scolpita o incisa.
Perché lo stesso Spirito che guidava il Figlio a scendere sempre
più a fondo nella melma del peccato urge sull’amante spingendolo a
oltrepassare ogni limite posto da decalogo o elenco di virtù. E questo
il luogo dei consigli evangelici, dell’invito alla santità da Gesù rivolto
non a una categoria particolare di discepoli (i religiosi), ma ad ogni
uomo che si vuole mettere sulle sue tracce9 . La costante, tuttavia, che
accompagnerà la presenza cristiana nel mondo sarà la debolezza, che
si rivelerà in tutta la sua impotenza proprio quando la Chiesa cercherà
di ergere valli e bastioni protettivi. Il cuore del mondo non può essere
difeso da baluardi, bensì mostrato nel suo incessante movimento di
amore. Questa la parabola de Il cuore del mondo, che, in fondo, ripropone
la dottrina cristiana della redenzione. Tuttavia i numerosi accenti
nuovi presenti nella riproposizione di Adrienne e di Hans Urs permettono
di riscoprire una freschezza che sembrava ormai inattingibile.
Al primo posto vi è lo sguardo nuovo ed entusiasmante portato sulla vita
di Dio Trinità. Lì dove la scolastica parlava di Motore immobile e di re-
6
lazione tra le persone, von Balthasar vede una
corrente d’amore irrefrenabile, in movimento
fin dall’eternità. Da principio il Padre, l’origine
dell’amore, si dona al Figlio e da principio il
Figlio non erge steccati a contenere la divinità
ricevuta in dono, ma restituisce l’onda d’amore
sì che tra Padre e Figlio si muove perennemente
il comune Spirito d’amore. In seconda istanza
il movimento d’amore si sposta verso la creatura.
L’amore trinitario, infatti, non si arresta in
un circuito chiuso, ma crea sempre forme nuove
d’amore e di donazione come in una sinfonia di
un musicista perennemente all’opera. Tra le forme
espressive dell’amore di Dio vi è il consiglio
e la decisione di creare il cosmo e gli uomini.
Il Figlio che riceve l’onda prima dell’amore del
Padre è anche Colui nel quale il mondo e gli
uomini sono creati. È l’immagine prima, specchio
della sostanza del Padre, riprodotta su ogni
forma di vita nell’universo. Come suo dono particolare
egli avvolge le creature e gli uomini nel
tempo perché abbiamo l’occasione di percepire
e trasmettere l’amore. Ma non con la donazione
e la generosità risponde l’uomo, bensì con l’arresto
egoistico, con lo sguardo portato sul proprio
piccolo essere percependo sempre meno il
battito d’amore del cuore di Dio e minacciando
di porvi termine erigendo continui argini lì dove
l’amore tende a scorrere e a comunicarsi.
Ne risulta, al terzo punto, il dramma dell’amore
ferito e tradito, il mysterium iniquitatis, la gramigna
che il nemico invidioso semina a piene
mani nel campo dove il padrone aveva seminato
solo semente preziosa. Ma non il no della
creatura, bensì il sì di Dio, per usare un’espressione
di Karl Barth, con il quale von Balthasar
collaborò attivamente negli anni ’40, doveva
essere a questo punto l’ultima parola sulla creazione.
Di qui l’incarnazione del Figlio in un
gesto di donazione e di espropriazione totale
che riproduceva in forma umana la sua chenosi
prima. Era la premessa della morte in croce,
dell’effusione dello Spirito cui segue come
quinto punto l’invio dello Spirito sui discepoli e
la chiamata degli stessi a partecipare alla corredenzione,
alla sequela e alla santificazione
nei consigli di povertà, castità e obbedienza.
Questi i temi balthasariani enunciati ne Il cuore
del mondo, dove dal punto di vista dottrinale

l’elemento in qualche modo nuovo è l’insistenza
sull’universalità della salvezza che era presente
già in Origene, con il quale von Balthasar
si era confrontato sin dagli anni di Fourvière10 ,
e nel già ricordato Karl Barth, per il quale tutta
la realtà della creazione è eletta in Gesù Cristo,
l’unico avvenimento centrale della rivelazione11
. Von Balthasar ritornò più volte su questi
temi e li sviluppò ampiamente nelle sue opere
successive. Ricordiamo quelle più direttamente
collegate con Il cuore del mondo: Abbattere
i bastioni (Borla, Torino 1966) in cui l’autore
esortava la Chiesa a liberarsi dai baluardi edificati
nel corso dei secoli per far vedere la fonte
originaria da cui l’amore scaturisce; Teologia
della storia (Morcelliana, Brescia 1964) e Il tutto
nel frammento (Jaca Book, Milano 1970) che
riflettono sul tempo come dono assicurato e
garantito dal Figlio di Dio agli uomini; Teologia
dei tre giorni (Queriniana, Brescia 1971) dove
l’attenzione viene concentrata sul descensus
di Cristo agli inferi con l’annuncio della liberazione
portato fin dentro e oltre le tenebre del
peccato e della distanza da Dio; i volumi conclusivi
di Gloria, nei quali viene approfondita la
cristologia drammatica; i volumi III, Le persone
del dramma, IV, L’azione, e V, L’ultimo atto, della
Teodrammatica, dove in uno sforzo senza precedenti
il grande teologo, ormai al culmine della
sua opera, cerca di approfondire le implicazioni
trinitarie della discesa e del sacrificio del Figlio
a lode della Gloria del Padre nell’amore senza
riserva dello Spirito.
Il cuore del mondo è, dunque, solo lo squillo
di tromba che annuncia la grande impresa.
Eppure l’entusiasmo dell’autore che si annuncia
incontenibile ad ogni pagina è gioiosa fiducia
che ancora oggi coinvolge il lettore invitato
a giocare un ruolo da protagonista sulla
scena del mondo e del tempo che muovono
dall’eternità e ad essa tendono a tornare.
1 Introduzione a Hans Urs von Balthasar, Il cuore
del mondo, Jaca Book, Milano 2006.
2 Il volume venne scritto da von Balthasar nel
1967, l’anno della morte della von Speyr.
Pubblicato una prima volta come introdu-
zione a Mistica oggettiva, lo si può leggere ora in Nella preghiera di
Dio, Jaca Book, Milano 1997, pp. 273-336.
3 L’edizione tedesca con il titolo Unser Auftrag è del 1984; la traduzione
italiana presso Jaca Book, Milano, è del 1991.
4 Ibidem. p. 9.
5 Cfr. infra, p. 20.
6 Cfr. infra, p. 21.
7 Cfr. infra, p. 34.
8 Cfr. infra, p. 49.
9 Su questo tema von Balthasar ritornò più volte in quegli anni. Qui
ricordo in particolare: Der Laie und der Ordensstand, Johannes
Verlag, Einsiedeln 1948, e la raccolta di regole Die grossen Ordensregeln,
Benziger, Einsiedeln 1948, di cui ho curato in Italia un’edizione
ridotta, dal titolo La vocazione cristiana. Un percorso attraverso
la Regola di san Basilio, Jaca Book, Milano 2003, contenente
l’introduzione generale di von Balthasar, la sua introduzione alle
Regole di san Basilio e la scelta del testo delle regole del padre
cappadoce fatta dallo stesso von Balthasar.
10 Frutto di questo studio fu l’antologia Origenes. Geist und Feuer, lo
scritto patristico più impegnativo di von Balthasar, pubblicato presso
l’editrice Otto Muller di Salisburgo nel 1938.
11 Cfr. H.U. von Balthasar, La teologia di Karl Barth, Jaca Book, Milano
1985.
7

DIRE DIO.
FENOMENOLOGIA E TEOLOGIA A CONFRONTO
Jean-Luc Marion
Prima di tutto vorrei ringraziare gli organizzatori di questo incontro.
Sono lieto di essere qui a Bergamo ad affrontare una discussione così
importante, e voglio ringraziare in modo particolare mons. Bertuletti per
la sua lucida, simpatica e intelligente presentazione delle mie posizioni,
e per i suoi suggerimenti per migliorare o completare il mio lavoro. Prima
di rispondere alle sue considerazioni però, ritengo utile affrontare
direttamente il tema che dà il titolo a questa serata: Dire Dio.
Prima di discutere sulla possibilità di considerare la fenomenologia
come l’interlocutore moderno o post moderno della teologia, vorrei
presentare tre punti utili per un approccio alla questione della possibilità
di dire Dio oggi, così avremo in seguito un terreno comune per
una discussione più precisa sulla metodologia della fenomenologia a
confronto con la teologia.
a) Contraddizione e idolatria della formulazione dire Dio.
Mi sembra molto importante sottolineare che quando parliamo di Dio,
sia dal punto di vista del credente, sia dal punto di vista dell’ateo o
dell’agnostico, abbiamo già detto troppo. Dire Dio, dire qualcosa riguardo
a Dio, è già dire troppo rispetto alle cose che saremmo autorizzati
a dire. Dire Dio significa prima di tutto che non possiamo parlare di
Dio così come parleremmo di altri enti, di altri oggetti o delle cose del
mondo, perchè vogliamo parlare di una realtà che, per definizione, è e
deve essere al di là del mondo. Certo, potremmo al limite sostenere che
Dio e il mondo siano la stessa cosa, ma in questo caso, anche il mondo
dovrà essere compreso secondo il modo infinito degno di Dio. Quando
parliamo di Dio dunque, siamo già entrati in contraddizione, perchè
facciamo di Dio un oggetto del linguaggio come tutti gli altri oggetti.
Se siamo d’accordo su questo punto, la conseguenza è molto chiara e
inevitabile: non stiamo parlando di Dio. Non è possibile parlare di Dio
perchè innanzitutto devo ridurre Dio ad un oggetto delle parole di cui io
sono l’autore, inoltre mi approprio di quella prerogativa propria di Dio
che è la parola (se Dio parla, Egli è colui che parla per primo). Dunque,
quando diciamo parlo di Dio, anche con un punto interrogativo, cadiamo
già in una doppia contraddizione: parlando per primi prendiamo il
posto di Dio, inoltre parliamo di una cosa che, secondo la sua posizione
nel processo del linguaggio, non può più essere Dio.
Questa doppia contraddizione deve essere analizzata molto seriamente,
perchè costituisce il punto comune tra coloro che parlano di Dio
8
di Jean-Luc Marion e Angelo Bertuletti
Bergamo, 10 Marzo 2008
Testo e note a cura di Marina Olwen Fogarty
per dire che esiste, e coloro che ne parlano per
dire che non esiste.
Cosa intendono dire infatti, coloro che affermano
che Dio non esiste? Intendono ad esempio che
Dio non merita di esistere se è l’autore o la causa
del male nel mondo, se permette l’ingiustizia
etc.; in questo caso, l’argomento è molto semplice
razionale: si dice che per definizione Dio è
imperfetto perchè Dio permette l’imperfezione
del male. Questa definizione di Dio ne nega la
perfezione e permette di concludere che, essendo
Dio imperfetto, non merita di esistere.
Questo argomento, preso seriamente, non è
debole, però è contraddittorio. Non è debole
perchè se Dio fosse soltanto un ente imperfetto,
di certo non meriterebbe di esistere. Il risultato
dell’argomento non è però che Dio non esiste:
il risultato è che questa definizione non è una
definizione di Dio. La definizione di un ente
imperfetto infatti esiste, ma è precisamente la
definizione di una cosa che non è Dio.
Il risultato dell’ateismo concettuale è dunque
molto chiaro: l’ateismo, se è razionale e procede
rigorosamente, può giungere soltanto ad
una posizione provvisoria; e può solo giungere
alla conclusione che non abbiamo la definizione
del vero Dio. Si potrà forse sostenere
che tale definizione non esiste, ma non si potrà
positivamente concludere che non c’è un ente
che sia Dio. Se dunque l’ateismo è razionale,
deve restare provvisorio.
La stessa critica però può essere mossa nei confronti
del credente che sostiene l’esistenza di
Dio, adducendo l’argomento ontologico che
considera l’esistenza come una delle perfezioni
divine. La sua convinzione si basa su alcune
determinazioni che egli stima essere perfezioni
divine appropriate a Dio, elaborando una definizione
positiva della sua essenza che non è

esente da difficoltà. Anche in questo caso, è
il credente a pensare che sia possibile definire
l’essenza di Dio, dire qualcosa su Dio, a proposito
di Dio. Dal punto di vista strettamente
formale, il credente e il non credente partono
dallo stesso presupposto: che si possa dire qualcosa
circa l’essenza di Dio. Da un lato si dirà
che questa essenza non è sufficiente a giustificare
la pretesa di Dio a esistere, dall’altro lato
invece si affermerà che questa definizione giustifica
pienamente la pretesa di Dio a esistere
senza condizioni. In entrambi i casi, ci troviamo
di fronte ad un’idolatria intellettuale, un’idolatria
del concetto.
Per idolatria, intendo la nostra pretesa di poter
parlare di Dio così come parliamo di tutte le
altre cose. Non si tiene conto del fatto che, se
si dà un ente come Dio, bisogna considerare
che, almeno per definizione, esso non è come
tutti gli altri enti: un Dio sottomesso alle caratteristiche
di tutte le altre cose del mondo, non
sarebbe più Dio.
Il dibattito sull’esistenza o non esistenza di Dio
è dunque molto importante, ma non è fondamentale,
e occorre usare prudenza e scetticismo
di fronte a dibattiti dove si crede di parlare
di Dio ma che, dal punto di vista critico, non
vengono condotti in modo serio (come certi
dibattiti sull’evoluzionismo, il big bang etc.).
Quando parliamo di Dio dunque, dobbiamo
tenere presente la questione dell’idolatria, che
consiste nella presunzione di poter avere o
produrre una qualsiasi rappresentazione di Dio
(sia essa sensibile, concettuale, astratta etc.).
In che senso allora la filosofia è coinvolta in
questo dibattito? Essa è coinvolta precisamente
perchè, nella figura della metafisica, ha ritenuto
possibile offrire le condizioni per un
discorso su Dio. E lo ha fatto attraverso molte
figure, per esempio pensando Dio secondo
tutte le categorie dell’essere (sostanza, causalità,
finalità etc.).
Tutti questi concetti possono certamente essere
utilizzati per elaborare una rappresentazione
concettuale dell’essenza di Dio, ma hanno
un prezzo da pagare. Possiamo infatti pensare
Dio in accordo con questi concetti ma, in tal
modo, essi fissano le condizioni della pensabilità
stessa di Dio.
b) Possibilità e impossibilità in rapporto a Dio.
In questo frangente, la metafisica (pre-kantiana e post-kantiana) si è
trovata nella posizione di dover decidere non soltanto della propria
possibilità o impossibilità e dei propri limiti. Essa si è dovuta occupare
anche dei limiti di tutti i suoi oggetti possibili, compresi, ad esempio, i
limiti del pensiero di Dio, di cui abbiamo un esempio molto chiaro e
ben conosciuto. Non si tratta né della dimostrazione positiva delle prove
dell’esistenza di Dio, in cui la metafisica ne stabilisce la possibilità,
e neppure della dimostrazione opposta, in cui la metafisica sentenzia
l’impossibilità dell’esistenza di Dio. Questi infatti sono solo i due estremi
del dibattito, all’interno dei quali è possibile scegliere una posizione
più ragionevole: la posizione critica di Kant, nella sua opera La religione
entro i limiti della semplice ragione, 1 e la posizione di primo Fichte,
nel Saggio di una critica di ogni rivelazione. 2
Esistono due figure del pensiero in cui è possibile distinguere la questione
di Dio. La prima è una possibilità di rivelazione fuori dai limiti
fissati dalla metafisica e al di là dei limiti della ragione: Dio viene considerato
come un fenomeno empirico che si dà a vedere nell’esperienza
sensibile. Se la metafisica non può ammettere una conoscenza nella
sensibilità e nell’empiricità della presenza di Dio, essa può però ammettere
una conoscenza di Dio come forma, per esempio dell’esperienza
della moralità.
L’esperienza della moralità è un’esperienza che tutti possono fare e,
sulla base di tale fatto della ragione (del fatto che si danno il bene,
il male, il dovere etc.), tutti hanno una chiara coscienza di cosa sia
il dovere, il male e il bene etc. (anche se poi è possibile agire senza
tenerne conto). Allo stesso modo, possiamo dire che ci sono anche
un’esperienza, una coscienza e una scienza di Dio, e proprio in questo
contesto entra in gioco ciò che secondo Kant la metafisica deve considerare
come il più alto concetto, cioè la differenza tra la possibilità e
l’impossibilità dell’oggetto.
Applicando a Dio questa distinzione, possiamo distinguere un’accezione
di Dio dove Egli è un oggetto possibile del pensiero, e un’accezione
di Dio dove Egli è un oggetto impossibile per il pensiero. Ciò che
vorrei sottolineare, è che comunque la metafisica fino alla fine tenta di
sottomettere Dio alla questione delle condizioni di possibilità e di impossibilità
(e su questo punto, poco importa la differenza tra credenti
e non credenti). Cosa significa dire che non abbiamo la possibilità di
accettare questa forma di manifestazione di Dio, o che non abbiamo
la possibilità di pensare Dio nei limiti della nostra ragione? Siamo esattamente
di fronte all’idolatria! Dire che la distinzione tra il possibile e
l’impossibile può essere applicata a Dio, per quanto possa sembrare
ragionevole, di fatto è una contraddizione da un punto di vista logico
e, in questo caso, teo-logico.
Riformuliamo ora l’argomento in un altro modo. Ammesso che esista
Dio, che differenza ci sarebbe fra Lui e noi? La differenza consiste nel
fatto che, per noi, si danno cose possibili e cose impossibili, mentre
per Dio, per definizione, tutto è possibile, e questa definizione dell’essenza
di Dio è condivisa da tutte le grandi tradizioni della storia del
9

pensiero umano, dalle tragedie greche fino ai nostri giorni. Nel pensiero
medievale ad esempio, Dio era definito come colui che poteva
realizzare tutti gli impossibili, nel Vangelo si dice che nulla è impossibile
a Dio (Lc 1, 37) a proposito del concepimento verginale di Maria,
così come nell’Antico Testamento lo si dice a proposito della nascita
di Isacco (Gn 18, 14).
Se dunque la definizione di Dio è che, se esiste un ente come Dio, sicuramente
Egli è l’ente per cui nulla è impossibile, allora cosa diciamo
quando affermiamo che è impossibile pensare Dio? Diciamo Dio!
Se nulla è impossibile a Dio, per definizione Dio non è impossibile.
Forse sarà impossibile per noi concepirlo, ma si tratta di un’impossibilità
per noi! Niente è impossibile per Dio per definizione, e se c’è
una cosa impossibile, non c’è Dio. Se dunque per definizione c’è Dio,
niente è impossibile, inclusa l’impossibilità che Dio esista, l’impossibilità
di pensare Dio etc.. Si tratta di un’impossibilità per noi, non per
Dio. Per definizione, c’è un’impossibilità dell’impossibilità di Dio. Con
questo non voglio affermare che abbiamo la certezza dell’istanza di
Dio. Voglio solo dire che per definizione è impossibile che Dio sia
impossibile, perchè la definizione della possibilità di un Dio è precisamente
che niente sia per Lui impossibile.
Questo paradosso è un paradosso per noi, ed è la dimostrazione del
nostro limite, ma dal punto di vista della definizione di Dio non c’è
nessun paradosso.
c) Anonimità di Dio.
Esiste poi un ultimo significato dell’espressione dire Dio. Abbiamo
dimostrato che, di fatto, dire Dio non è una formulazione corretta,
poiché contiene una contraddizione. Con spirito critico, abbiamo
mostrato che per dire Dio occorre prescindere da ogni condizione di
possibilità, arrivando così a stabilire l’impossibilità dell’impossibilità di
Dio come punto sicuro per iniziare una riflessione su tale questione,
perché se rimaniamo nell’orizzonte che presuppone la distinzione tra il
possibile e l’impossibile, non siamo ancora in un ambito in cui la questione
di Dio può essere aperta. L’impossibilita dell’impossibilità non è
certo l’orizzonte della nostra razionalità ma, se Dio potrà mai abitarla,
è precisamente il luogo ove Egli potrebbe trovare la sua dimora.
Posto questo, è possibile ora toccare l’ultimo punto circa il nominare
Dio, che si pone in relazione con una questione molto studiata da
mons. Bertuletti: l’anonimità.
L’anonimità, nella nostra esperienza quotidiana dell’alterità e della vita
nella comunità umana, sembra potersi definire come il contrario della
conoscenza dell’altro. Conoscere l’altro infatti (amare, odiare o trattare
con l’altro), implica l’uso del nome dell’altro: nell’ascoltare e rispondere
alla chiamata, l’altro ammette che il nome che sto utilizzando è
il suo, dunque conoscere l’altro significa dirgli il suo nome all’interno
della dinamica ambigua del chiamare. Io mi chiamo Marion, e questo
significa che Marion è il mio nome e che quando qualcuno dice “Marion!”
io ascolto e penso di essere colui che è chiamato. Il mio nome è
dunque il mio modo di essere sottomesso agli altri.
10
Ma cosa succede nel caso di Dio? Tutte le
grandi religioni sono concordi su questo punto:
ci sono molti nomi che possono essere usati
per chiamare la divinità e, nel caso della teologia
cristiana, non si tratta solo di una pluralità,
ma di una lista infinita e indefinita; addirittura
esiste una teologia dei nomi di Dio. Tra i grandi
di questa tradizione, possiamo ricordare lo
Pseudo-Dionigi, che parla di Dio come polynomos
e anonymos: Dio ha una molteplicità
di nomi e al contempo è senza nome, ma non
c’è alcuna contraddizione. Il fatto che abbiamo
bisogno di tutti i nomi possibili, includendo
quelli molto inappropriati (pietra, animale
etc.) significa che Dio è al di là di ogni nome
proprio. Il nome di Dio rimane sempre improprio
e noi non abbiamo il potere di chiamare
Dio nel senso di fare in modo che Dio debba
rispondere alla nostra chiamata: l’anonimità si
presenta così come una delle figure dell’alterità
assoluta di Dio. Agostino ha scelto come nome
di Dio una formulazione molto strana: in latino
è id ipsum, in greco è to auto, che possiamo
tradurre come come questo. La traduzione
questa cosa aggiunge già un elemento indebito,
bisognerebbe tradurre questo questo, precisamente
questo, senza il bisogno di aggiungere
cosa. Trovo curioso che in alcune traduzioni
moderne si traduca questa espressione con
l’essere stesso, come se Agostino avesse scritto
ipsum esse, secondo la formulazione che invece
è propria di Tommaso d’Aquino. Nel caso
di Agostino, non c’è l’espressione essere stesso,
c’è soltanto ipsum, lo stesso, senza una definizione
più precisa: non c’è essere, non c’è cosa,
non c’è niente; è id ipsum, questo.
Questo questo è forse l’unica cosa che possiamo
dire di Dio e quando usiamo la formula id
ipsum in questo senso?
A tutti sarà capitato di non conoscere il nome
di un oggetto o di una persona e, per spiegarsi,
di indicarlo con un gesto della mano dicendo
“questo” o “quello”. In questo caso, non conosciamo
il nome di ciò di cui parliamo, ma
sappiamo che esso è lì, che lo abbiamo di fronte
a noi, face à face. L’altro non ci è dunque
del tutto sconosciuto, ma rimane altro da noi, e
questa è precisamente la situazione in cui noi
siamo di fronte a Dio.

Non si tratta qui di decidere, positivamente o
negativamente, di non poter accedere a questo
id ipsum, addirittura potremmo anche avere
delle buone ragioni per non voler avvicinarlo,
resta però il fatto che facciamo l’esperienza di
sapere che c’è id ipsum e di non potere o non
volere dire il suo nome: siamo precisamente di
fronte all’esperienza della Trinità.
Questa esperienza che facciamo nei confronti
di Dio, è anche un’esperienza che ricorre nelle
relazioni umane serie e profonde: la situazione
erotica, amorosa, è precisamente una situazione
in cui è chiaro che l’amato è esattamente
questo, ma l’amante capisce di non potere e
di non volere dire il suo nome. Non c’è alcuna
contraddizione, e tutti noi lo sappiamo bene.
La questione non è più quindi quella di dire una
cosa a proposito di Dio, così come non si tratta
di dire una cosa a proposito dell’altra persona,
ad esempio della donna che amo. Il problema
non è dire una cosa su questa donna, il problema
è dire una cosa a questa donna, non è parlare
di questa donna, ma parlare a questa donna.
Parallelamente, il problema non è il parlare di
Dio, il problema serio è il parlare a Dio. Il significato
di parlare è molto diverso nel caso di
parlare di e di parlare a qualcuno. Se dunque la
formulazione dire Dio non è una formulazione
appropriata, più corretta sarebbe dire a Dio: in
questa situazione, sorge la questione dell’anonimità,
sia nel senso del non voler parlare a
(anonimità dell’altro), sia nel senso del non voler
essere chiamato da qualcuno (mia anonimità).
In conclusione, vorrei evidenziare che è proprio
anonimità fondamentale, centrale nella questione
di Dio, il punto su cui ritengo possibile
un confronto fra la filosofia e la teologia. Se la
metafisica classica non ha elaborato una dottrina
della parola e del discorso come discorso
a, ma come discorso su, possiamo invece guardare
alla fenomenologia come quella filosofia
che ha prediletto la dottrina del parlare a. A mio
parere, questa è la ragione per cui, se la teologia
vuole essere una teologia del parlare a Dio, la
fenomenologia può offrire il suo contributo.
Seconda parte.
Grazie. Condivido pienamente questa osservazione
di Mons. Bertuletti. In effetti ci sarebbe
un ultimo punto che non ho approfondito, approfitto del suo riferimento
per fare un breve accenno. Abbiamo trattato del parlare di Dio
e del parlare a Dio, ma prima di tutto c’è il fatto che Dio ha parlato per
primo e che, naturalmente, il parlare a Dio ha si configura innanzitutto
come una riposta, che può essere data solo dopo una chiamata. Può
anche darsi il caso in cui io non voglia dare una risposta alla chiamata
di Dio, ma se decido di rispondere e di iniziare a parlare a Dio, non c’è
più anonimato, né di Dio, né di me stesso. L’anteriorità della chiamata
di Dio è evidente, ed è anche il luogo dove assume importanza il ruolo
del concetto: il concetto non deve sparire, esso ha il suo ruolo nella
comunità delle parole, nella chiamata e nella risposta. Siamo dunque
completamente d’accordo.
Angelo Bertuletti
La riflessione critica che proporrò intende onorare la presenza fra noi
di Jean-Luc Marion, la vostra presenza e la vostra attenzione.
L’opera di Marion è nella sua interezza una difesa dell’appartenenza
della questione di Dio all’interrogazione filosofica o, se volete, della
competenza della filosofia nei confronti della questione di Dio. Contro
la tendenza dominante nel dibattito filosofico contemporaneo che,
con Ricoeur, potremmo genericamente definire un agnosticismo teologico
della filosofia, Marion ritiene che la questione di Dio interpelli
la filosofia nel cuore stesso della sua interrogazione fondamentale: la
filosofia prima.
Dio non solo si dice, ma il dire di Dio può e deve essere pensato. Ciò
non comporta per Marion in nessun modo di riproporre il modello
classico (prima aristotelico, poi medievale e moderno) che fa della teologia
una determinazione della metafisica (la cosiddetta teologia naturale
distinta dalla teologia rivelata, formula con la quale intendiamo
la teologia cristiana). Per un paradosso solo apparente, in Marion la
ragione per cui la questione di Dio riguarda la filosofia prima è la stessa
per la quale la teologia non è possibile se non come teologia della
Rivelazione: per Marion la filosofia prima è la fenomenologia. Ora,
la fenomenologia, la quale esercita una funzione critica nei confronti
della teologia metafisica, non può disinteressarsi della teologia rivelata,
poiché nessuna rivelazione può intervenire senza una forma di fenomenalità.
Questa formulazione però, è troppo debole per designare
la posizione di Marion; più precisa è la seguente: la fenomenologia
non può non interessarsi della teologia rivelata poiché il fenomeno di
Rivelazione costituisce la realizzazione massimale del concetto fondamentale
della fenomenologia.
A giudizio di Marion, la fenomenologia non diviene pienamente se stessa
se non realizza le potenzialità racchiuse nel suo nuovo inizio, facendo
propria e riformulando la questione della metafisica: la fenomenologia
è la vera erede della metafisica. Ci sono pertanto due ingressi nel
pensiero di Marion, quello che parte dalla ripetizione della storia della
metafisica e quello che interpreta ed esegue la portata speculativa del
nuovo principio della fenomenologia. I due percorsi sono perfettamente
convergenti perché accomunati da una stessa intuizione, da una stessa
11

idea direttrice che formulerò cominciando dalla sua interpretazione della
storia della metafisica per poi occuparmi della fenomenologia.
Marion adotta il dispositivo heideggeriano circa la struttura onto-teologica
della metafisica, secondo cui l’unica instaurazione del fondamento
si esercita nell’incrocio di una duplice fondazione: la fondazione
concettuale nell’ente mediante l’essere e la fondazione causale
degli enti nel loro essere mediante l’ente supremo: quod omnes dicunt
esse Deum. Secondo Heidegger, questa struttura circoscrive, occultandola,
la vera questione della metafisica: quella concernente il senso
dell’essere, risolvendolo in una fondazione causale. La metafisica sottomette
Dio a un concetto quindi, in ultima istanza, al soggetto conoscente
che lo produce e che lo esercita, rendendo possibile in questo
modo l’oggetto della metafisica. La critica di Nietzsche, il concetto di
ente vuoto, l’idea di un Dio fondatore irricevibile, smaschera l’assenza
di fondamento della metafisica e della teologia che essa produce. Si
deve dunque riformulare la questione della metafisica liberandola dal
dispositivo della causalità.
Ora, è qui che la questione della metafisica converge con il progetto della
fenomenologia di definire un nuovo inizio, non più condizionato dal
concetto di essere: la metafisica dell’ente cede il posto a una fenomenologia
della donazione, la quale è più fondamentale della stessa questione
dell’essere. Essa comanda quella che, con Heidegger, possiamo definire
una distruzione del concetto metafisico di causa: il fenomeno non
offre solo il fatto di essere, ma anche la sua fonte di essere, il suo perché,
il fatto di non essere un mero effetto di una causa trascendente.
È importante sottolineare che per Marion esiste una rigorosa corrispondenza
fra l’istanza fenomenologica, che restituisce al fenomeno l’iniziava
della sua propria manifestazione, e l’indipendenza del fenomeno
da qualsiasi condizione. Il suo progetto consiste quindi nella deduzione
sistematica di quella che oserei definire l’identità delle due istanze.
La mia ipotesi di lettura, critica in senso kantiano, è che fra esse sussista
una tensione, la quale attraversa tutta l’elaborazione del progetto fino a
condurlo, nella sua conclusione, alla teorizzazione della loro divaricazione.
Precisamente in ciò, ravviso l’interesse del progetto per la teologia.
Il suo risultato è un inveramento che da un lato conferma la pertinenza
dell’intenzione che lo ispira, e dall’altro apre a una diversa prospettiva.
L’argomentazione di Marion (sviluppata nel suo saggio più sistematico,
Étant Donné3 ), si sviluppa con un grande movimento circolare volto alla
messa in opera del concetto di donazione, che egli istituisce nel primo
libro come il concetto fondamentale della fenomenologia.
La donazione è, secondo Marion, il concetto fondamentale e ultimo4 della fenomenologia, poiché esso non designa solo la dimensione originaria
del fenomeno della struttura sintetica dell’intenzionalità, ma
anche l’origine del fenomeno stesso. Questa riduzione, 5 lungi dal trasformare
la donazione in un principio metafisico, (facendo di essa una
causa del fenomeno), sanziona l’intrascendibilità del piano di immanenza
del fenomeno. Per definizione la donazione non ha altra realtà
che l’effettività nella quale essa si esplica: la determinazione della portata
del concetto rinvia alla dimostrazione della sua attitudine a ren-
12
dere ragione della totalità del fenomeno, salvaguardandone
l’immanenza, senza introdurre
una causa trascendente. Ora, dei due processi
nei quali Marion esegue questa dimostrazione
la riduzione del dono alla donazione e la
riduzione della fenomenalità alla donazione, 6
ritengo che quello decisivo sia la seconda riduzione,
non quella del dono, in cui l’autore si
concede troppo nelle premesse.
Marion ritiene possibile stabilire un’equivalenza
fra i due registri concettuali della donazione
e del fenomeno, perché la fenomenalità della
donazione non è una fenomenalità fra le altre,
ma è l’origine. È chiaro che la tesi di Marion è
molto complessa, ma ritengo che si possa riassumere
al meglio nel concetto di fenomeno
saturo, 7 soprattutto se ci poniamo nell’ottica di
colui che vuole occuparsi del fenomeno, cioè
di un fenomeno in cui non è l’intenzione di
significazione (l’a priori) che misura l’intuizione,
ma al contrario l’intuizione compie l’intenzione
eccedendola. La topica del fenomeno
saturo (l’evento imprevedibile, l’opera d’arte
o idolo che abbaglia la carne, l’icona che mi
guarda etc.) costituisce, insieme al tentativo del
terzo libro di pensare l’accadere come il venire
della donazione al fenomeno, uno dei contributi
a mio giudizio più significativi del dibattito
contemporaneo, in ordine all’elaborazione
di un pensiero della trascendenza alternativo
a quello della causalità, un pensiero della trascendenza
come la verità dell’immanenza (secondo
la nota formula di Husserl, la trascendenza
immanente). Al fenomeno saturo, come
già è stato anticipato, si collega il fenomeno di
rivelazione, che è il luogo fenomenologico del
discorso su Dio. Esso è introdotto come quinto
tipo, non già perché esso fa numero con
gli altri, ma perché ne satura la fenomenalità
al secondo grado, come l’icona (emblema del
rapporto con l’altro, del volto), ma esso riunisce
le proprietà degli altri tipi, e tuttavia lo fa
a un nuovo livello, in una saturazione raddoppiata.
Questo è di un’importanza decisiva per
il discorso che farò perché appunto l’icona è
un’esperienza universale.
Assolutamente indeducibile, il fenomeno di
Rivelazione può essere pensato solo se e perché
si dà. Marion si riferisce alla rivelazione

cristologica, che solo la fenomenologia della
donazione è in grado di pensarle, poiché la
sua peculiarità consiste non nel porre condizioni
al fenomeno, ma nel liberare il fenomeno
distruggendo tutte le condizioni prerequisite.
La fenomenologia tematizza la possibilità, ma
non decide della realtà, e l’insistenza di Marion
sulla distinzione tra possibilità e realtà secondo
me non risponde solo a una preoccupazione
teologica - quella di salvaguardare l’indeducibilità
della Rivelazione cristiana e la sua
soprannaturalità -, ma pone un problema che
riguarda il processo nel suo tenore filosofico,
poiché il fenomeno di Rivelazione costituisce
il compimento della fenomenalità in generale,
è il suo grado massimo che deve essere in qualche
modo implicato in ogni fenomeno. Solo a
questa condizione la tesi che Marion persegue
dell’equivalenza tra donazione e fenomenalità
può dirsi raggiunta e, con essa, l’appartenenza
della questione “Dio” alla filosofia.
Secondo l’ispirazione più profonda di Marion, e
penso anche più vera, il fenomeno saturo non riguarda
una regione di fenomeni, che sarebbero,
accanto a quelli comuni, ordinari, ma riguarda
la dimensione veritativa dell’ordinario. Ha scritto
un saggio che ha un titolo un po’ paradossale8 in
cui parla di banalità della saturazione, dove per
banalità intendete l’ordinario: il simbolico non è
un’aggiunta, la dimensione veritativa dell’esperienza
è la dimensione di ogni esperienza. E
come non citare qui il grandioso Agostino: hoc
est grandius enigma, ut nos non videmus quod
non videre non possumus 9 (questo è il più grande
enigma, che noi non vediamo ciò che non
possiamo non vedere).
Da qui nasce un interrogativo: qual è il significato
della distinzione fra la possibilità e l’effettività,
nel caso specifico (ma si dovrebbe dire unico) del
fenomeno di Rivelazione? Esso è forse destinato
a scomparire in una fenomenologia compresa
come un empirismo radicale come si domanda
Lévinas? Io ritengo che questo interrogativo
ci possa ricondurre al problema di fondo della
proposta di Marion: il rapporto fra le due istanze
che definiscono il concetto di donazione (l’istanza
di immanenza e l’istanza di assolutezza intesa
come indipendenza da qualsiasi condizione).
Le condizioni del fenomeno tradizionalmente
sono due: l’essere e l’io, ma poiché l’essere è in quanto condizione
a priori di ogni conoscenza, in definitiva le due condizioni sono una
sola: l’Io (il soggetto, come insegna Kant).
Ecco dunque l’ultima tappa del processo di Marion, che consiste precisamente
nella determinazione dello statuto del soggetto. Tale tappa,
lungi dal costituire un corollario di un processo in sé già compiuto,
contiene l’ultima risposta di Marion al problema che lo impegna
dall’inizio alla fine, e cioè il problema del rapporto fra la donazione e
la fenomenalità. Lo strumento concettuale di cui egli si serve consiste
nella coppia concettuale appello-risposta (appel-réponse), che desume
dal fenomeno saturo dell’icona, il quale aveva il carattere sintetico
di tutti i fenomeni saturi. Ogni fenomeno saturo esercita una chiamata,
un appello, poiché esso produce un’inversione dell’intenzionalità
e sottomette il destinatario (ma occorrerebbe dire l’attributario), alla
presenza di un’istanza che lo consegna a se stesso prima di donargli
qualsiasi cosa. La chiamata è la prima parola, parola inaugurale e invisibile,
inudibile la definisce Marion, la quale non è preceduta da nulla,
sorge senza nessun a priori e accede alla visibilità attraverso la via
della risposta, riconoscendosi come destinatario della chiamata. L’adonato10
le apre un campo di manifestazione prestandosi a riceverne e
ritenerne l’impatto, ma come si produce l’incontro, come e dove? La
forma originaria della réponse caratterizzata dalla sorpresa di prestare
attenzione a un appello, a una chiamata che si donava già prima che
l’attributario ne prendesse coscienza. A questo livello originario non
si può parlare di decisione: la scelta o il rifiuto della donazione si gioca
nell’oscurità fenomenologica e pre-razionale della coscienza, ma il
soggetto che conferisce la visibilità viene dopo, la risposta conclude
l’appello e ritarda il suo mostrarsi.
Con la tematica della risposta, Marion teorizza lo scarto insuperabile
fra la donazione e la fenomenalità, non si tratta di una la risposta del
soggetto all’appello, ma è l’effetto, la ripercussione della chiamata nel
soggetto. Questa soluzione è certamente compatibile con l’immanenza
della donazione, e Marion ne è convinto, tuttavia esso le conferisce
una determinazione decisiva della sua qualità teorica: essa infatti
sospende la totalità del fenomeno a un istanza, la quale ne garantisce
l’autonomia, ma dall’esterno, poiché essa è e deve restare fenomenologicamente
anonima, senza volto. 11
La prospettiva di Marion potrebbe essere caratterizzata come una fondazione
fenomenologica della metafisica dell’esteriorità che Scoto, nel
cuore della scolastica, aveva formulato a partire da una rigorosa determinazione
del concetto, che è proprio l’altro del fenomeno. Le formule
di Marion non lasciano dubbi su questa affinità, da questa tradizione
egli recepisce la tesi della precedenza della volontà sulla conoscenza,
e addirittura la tesi del carattere originario dell’indifferenza cartesiana
come forma originaria della libertà. Nella genesi di questa figura di
metafisica, la questione della teologia rivelata è decisiva. Essa spiega
quella sorta di torsione operata da Scoto sul concetto aristotelico di
causa che ne modifica il senso (s’intende qui la causa assoluta, non
la causa sui Aristotelica), poiché la comprende come la garanzia della
13

positività del finito, cioè della contingenza.
Secondo Marion, l’anonimato della chiamata è del tutto compatibile
con la teologia, perché la teologia a suo modo ne costituisce la realizzazione
massima. Nel fenomeno di Rivelazione, l’eccesso della donazione
comporta che essa non si affermi nel visibile se non attraverso la
negazione delle condizioni comuni della fenomenalità, che addirittura
ha nel paradosso la sua figura tipica.
Concludo con una riflessione che vi propongo: nel campo della fenomenologia,
il confronto critico non risponde alla logica dimostrativa ben
retta dalla necessità logica - questo andrebbe indirizzato a chi pretende
di dimostrare che Dio non esiste -, ma consiste nell’ostensione di una
prospettiva eventualmente più comprendente.
Nella formulazione dell’ipotesi di lettura che ho proposto del progetto
di Marion, ho parlato di una tensione fra due istanze, quella dell’immanenza
della donazione del fenomeno e quella della sua indipendenza
da qualsiasi condizione. A mio giudizio, la coerenza con la quale Marion
ha sviluppato il suo progetto e lo ha condotto fino al suo inveramento
ci permette di delineare un’altra via, la quale ne esegue l’intento
fenomenologico, poiché sostituisce all’istanza dell’assolutezza - intesa
come indipendenza da qualsiasi condizione - quella della relazione.
La donazione si scarta dalla logica metafisica della causalità, poiché la
sua legge immanente è la reciprocità. Quest’ultima è la forma compiuta
della relazione, irriducibile allo scambio, perché la sua qualità non
è l’indipendenza dal donatario, dal donatore o dal dono come oggetto.
La sua qualità è l’unicità.
La reciprocità appartiene all’originario della donazione, alla donazione
come origine, poiché sin nell’origine essa implica l’intenzione della risposta,
la anticipa in qualche modo come costitutiva dell’essenza stessa
della chiamata. L’intenzione della risposta iscritta nella donazione
è la fondazione della libertà del destinatario che è posto in relazione
con l’origine nella sua unicità. La chiamata non è accessibile se non
nella risposta, ma non perché la risposta accusi un ritardo rispetto
alla chiamata, preservando così l’inconoscibilità dell’origine (e quale
ritardo! lo chiama peccato la Bibbia, ma non è inteso ab origine), ma
perché essa compie l’intenzione della chiamata proprio perché ne assicura
la manifestazione. Ritengo che questa sia la figura cristologica
della Rivelazione.
L’interesse dell’opera di Marion per la lavorazione di quella che ho
chiamato altra prospettiva è che essa può istruirsi ed appropriarsi di
tutto il suo percorso, delle sue finissime e acute analisi per conferire ad
ogni tappa però una diversa orientazione.
Seconda Parte:
La relazione del prof. Marion ha illustrato bene la differenza, se così
si può chiamare, delle due prospettive. La conclusione è molto interessante,
perché Marion esclude il parlare di Dio nel modo in cui lo
faceva una certa metafisica. Il problema metafisico però va oltre all’elaborazione
di un linguaggio su Dio: penso che non solo il cuore del
problema non sia parlare di Dio o su Dio (anche se questo problema
14
esiste), ma non ritengo nemmeno sufficiente il
parlare a Dio, altrimenti si rischia di cadere in
un certo pragmatismo radicale che esclude il
ruolo del concetto. È chiaro che il parlare a Dio
costituisce la risposta, e quindi è uno dei poli
della relazione, ma appunto resta una risposta
che non deve mettere in ombra l’aspetto positivo
del criterio dell’indipendenza da qualsiasi
condizione, che io definisco la precedenza assoluta
dell’origine: di Dio si può parlare solo se
Dio si mostra, in definitiva si dice, ma il dire di
Dio è l’appello, è originariamente l’appello.
Naturalmente, per significare l’alterità posso benissimo
parlare di anonimato, come ha detto
bene Marion, e l’anonimato vale appunto nei
confronti del discorso su Dio, o della pretesa
in generale di un discorso isolato e idolatrico. I
suoi tre punti però si muovono a livello in una
logica della contraddizione che resta esterna al
problema, ed è questo il motivo per cui tendenzialmente
una tale teoria del concetto approda
a una inconsistenza del concetto nella teologia,
che io non sposo. Ritengo che il concetto abbia
un ruolo anche in teologia, ed è questo lo spazio
per l’apporto grandioso della fenomenologia,
che ci riporta all’esperienza, e quindi alla genesi
esperienziale dei concetti, non per eliminarli, ma
per porli nel loro vero ambito. Ecco allora l’esperienza
che è all’origine dell’affermazione di Dio:
il dirsi di Dio; l’uomo viene poi in seconda battuta,
e in questo senso ritengo ambigua la questione
dell’anonimato, perché un anonimato totale
impedirebbe di dire che l’origine è Dio. Grazie
per questa brillantissima esposizione che ha permesso
un confronto delle nostre posizioni.
1 I. Kant, La religione entro i limiti della semplice
ragione, tr. it. di V. Cicero, Rusconi, Milano
1996.
2 J. G. Fichte, Saggio di una critica di ogni
rivelazione, a cura di M. Olivetti, Laterza,
Roma-Bari 1998.
3 Jean-Luc Marion, Étant donné, P.U.F., Paris
1997; tr. it. di Rosaria Caldarone, Dato che,
S.E.I., Torino 2001.
4 Marion si ricollega qui direttamente a E.
Husserl, Die Idee der Phänomenologie,

Husserliana II, p. 61, «[...] absolute Gegebenheit
ist ein Letztes»; cfr. Jean-Luc Marion,
Réduction et donation, P.U.F., Paris
1989, pp. 28-54.
5 Bertuletti introduce qui il termine che Marion
utilizza nei suoi scritti per indicare l’operazione
fenomenologica per eccellenza.
6 La riduzione del dono alla donazione è trattata
in Étant donné, cap. 2; la riduzione della
fenomenalità alla donazione è trattata in
Étant donné, cap. 3.
7 Étant donné, cap. IV, § 21 e ss.; cfr. inoltre
De surcroît. Études sur les phénomènes
saturés, P.U.F., Parigi 2001; Le visible et le
révélé, Cerf, Paris 2005, pp. 35-37.
8 Jean-Luc Marion, «La banalité de la saturation»,
in F. Bousquet e P. Capelle (ed.), Dieu
et la raison. L’intelligence de la foi parmi les
rationalités contemporaines, Paris 2005; ripreso
in Jean-Luc Marion, Le visible et le
révélé, Cerf, Paris 2005, cap. 6; tr. it. a cura
di Carla Canullo, Il visibile e il rivelato, Jaca
Book, Milano 2007, cap. 6.
9 Agostino, De Trinitate, 15, 9. 16.
10 Adonato è il termine che Marion usa per
indicare il soggetto inteso secondo le proprietà
che lo caratterizzano alla luce della
riduzione della fenomenalità alla donazione;
cfr. Étant donné, cap. 5.
11 Bertuletti precisa, con un inciso, che questa
istanza è il luogo di Dio, dell’origine.
15

LA DISTINZIONE ARISTOTELICA KAT’ANTHROPON-
KAT’ALETHEIAN IN KANT
«Ein Beweis aber, der auf Überzeugung angelegt ist, kann wiederum
zwiefacher Art sein, entweder ein solcher, der, was der Gegenstand
an sich sei, oder was er für uns (Menschen überhaupt), nach den uns
notwendigen Vernunftprinzipien seiner Beurteilung, sei (ein Beweis
kat’aletheian, oder kat’anthropon, das letzer Wort in allgemeiner Bedeutung
fur Menschen überhaupt genommen)». KGS IV, p. 446.
1. Il problema del metodo in Kant
Uno dei problemi centrali della speculazione kantiana è sicuramente
quello del metodo. In generale, sulla scia di Giorgio Tonelli, è possibile
dire che la Kritik der reinen Vernunft sia un’opera di metodologia
per i continui e insistenti riferimenti alla Kritik come sicher Gang, sicher
Weg, Königlicher Weg, Heeresstrasse, Heeres-Weg, Fusssteig che
ricordano la radice etimologica della parola “methodus” 1 . Non solo,
all’interno del corpus kantiano, ma soprattutto nell’opera del 1781, è
possibile rintracciare una serie di concetti che collegano la critica ad
una logica applicata intesa come metodo2 . L’importanza del metodo
all’interno del sistema critico è testimoniata anche dal fatto che ognuna
delle tre critiche conclude con una Methodenlehre e che il suo ruolo
conclusivo è tutt’altro che estrinseco e peregrino, ma è fondamentale
e decisivo nella costruzione di un sapere scientifico. È significativo notare
anche che gli ultimi due capoversi della Kritik der reinen Vernunft
trattano del problema del metodo e definiscono che cosa esso sia,
cioè un procedimento per principi. Ma se tutto questo non bastasse
a persuadere che la Kritik der reinen Vernunft sia un’opera di metodologia,
interpretazione contrastata dalla maggior parte degli studiosi
kantiani che ancora continuano a leggere il testo come uno scritto o
di metafisica o di teoria della conoscenza3 , Kant stesso scrive nella
seconda Vorrede che la «die Kritik der reinen spekulativen Vernunft
ist ein Traktakt von der Methode» 4 . La Kritik der reinen Vernunft è un
trattato sul metodo; questo è e null’altro. Il problema è determinare che
genere di metodo sia, quale sia il suo oggetto, il suo fine e in che modo
esso proceda. Quale è l’oggetto del metodo? Ci sia concesso affermare
provvisoriamente che l’oggetto del metodo è la metafisica. Il metodo
vuole stabilire la via sicura attraverso la quale la metafisica, dall’essere
un campo di lotte senza fine diventi una scienza. Il fine della metodologia
è invece quello di determinare, all’interno dei limiti della ragione,
una conoscenza epistemica.
La trattazione kantiana della natura e delle argomentazioni del metodo
non hanno una collocazione ben precisa e definita all’interno della Kritik
der reinen Vernunft, ma esse sono lo sfondo, la tela sulla quale tutta
16
di Marco Sgarbi
l’opera è intessuta. Temi concernenti la metodologia
sono quelli dell’analisi, della sintesi,
della prospettiva epistemica, della soggettività,
dell’oggettività, tuttavia il presente contributo si
concentra non tanto su questi specifici concetti
fondamentali, quanto, in modo più generale,
sulla prospettiva di Kant sul metodo che si può
riassumere nella distinzione aristotelica fra ciò
che è primo per l’uomo e ciò che è primo per
sé, che nel corpus kantiano è espressa con i
termini greci kat’anthropon e kat’aletheian.
La questione del metodo della scienza è posta
per la prima volta in tutta la sua problematicità
da Aristotele nel tentativo di formulare un
procedimento logico corretto per ottenere una
conoscenza certa e stabile. Aristotele, tuttavia,
non scrive alcun trattato specifico sul metodo
ma si limita a trattare il problema in vari luoghi,
specialmente nelle introduzioni dei suoi scritti5
. Il testo che più si avvicina ad una scienza
del metodo è, tuttavia, il trattato sulla dimostrazione
scientifica, cioè gli Analytica posteriora.
Nel Medio Evo, partendo dagli Analytica
posteriora, il problema assunse la sua formulazione
definitiva nel pensiero di Averroè con
la distinzione fra nobis notiora e natura notiora
che Wilhelm Risse ha messo in luce più di un
quarto di secolo fa e che una decina di anni fa
Riccardo Pozzo ha approfondito6 . La distinzione
fu ripresa e sistematizzata da Jacopo Zabarella
nei suoi scritti di logica, il quale la diffuse
in tutta la Germania raggiungendo Königsberg
e la filosofia di Kant.
L’obiettivo del presente contributo è di dimostrare
l’origine aristotelica del problema del
metodo in Kant per quanto riguarda la distinzione
di ciò che è primo per l’uomo e ciò che è
primo per natura. La prima parte dello studio è
dedicata alle linee essenziali della metodologia
di Aristotele e alla controversa interpretazione
che ne fornisce Wolfgang Wieland. La seconda

parte analizza la questione in Averroè, Zabarella
e nella tradizione dell’Aristotelismo puro di
Königsberg. La conclusione tratta la distinzione
kat’anthropon-kat’aletheian nella Kritik der reinen
Vernunft e nella sua seconda formulazione
nella Kritik der Urteilskraft.
2. Il distinzione emin gnorimoteron - physei
gnorimoteron in Aristotele
La distinzione fra più noto per l’uomo e più
noto per sé è presente in molti passi aristotelici
e nonostante la sua importanza per la ricerca
di un metodo della scienza è stata spesso trascurata
dalla critica o trattata in modo rapido e
fugace7 . Nel corpus aristotelico la distinzione si
incontra per la prima volta in Topica VI.4, 141
b 3-22 nella trattazione del problema della definizione.
La definizione, secondo Aristotele, è
composta o da elementi meno noti a noi o da
elementi meno noti in senso assoluto. Più noto
per sé, in senso assoluto è ciò che è anteriore,
aggiunge lo Stagirita, rispetto a ciò che è posteriore.
Gli elementi semplici sono più noti per
sé degli elementi composti. Gli esempi di Aristotele
sono il punto rispetto la linea e la lettera
rispetto la sillaba. Aristotele afferma che tuttavia
agli uomini accade più spesso di afferrare prima
la linea e poi per scomposizione il punto, prima
la sillaba o la parola e poi per scomposizione
la lettera. Questo perché, secondo Aristotele,
all’uomo è più vicino ciò che proviene dai sensi;
solo alla mente più acuta è concesso di cogliere
gli elementi più noti in senso assoluto. Il metodo
più scientifico da seguire sarebbe quindi
quello di rendere noto ciò che è primo per l’uomo
attraverso ciò che è primo per sé, cioè ciò
che è posteriore attraverso ciò che è anteriore.
Questo metodo è sicuramente il più scientifico
nell’ordine della dimostrazione ma non è tuttavia
facile e chiaro nell’ordine dell’esposizione.
Per coloro che non sono capaci di una conoscenza
di ciò che è primo per sé, è necessario
procedere dagli elementi più vicini e noti
all’uomo. Questo metodo presenta però gravi
svantaggi per Aristotele e non si può considerare
scientifico ma conduce ad una conoscenza
solo probabile. Se l’ordine dell’esposizione dovesse
coincidere con l’ordine della dimostrazione
rispetto a ciò che è più noto a noi, è evidente
che gli elementi più noti a noi possano differire da uomo a uomo e
questo comporterebbe argomentazioni logiche differenti ed espressioni
definitore diverse. Non solo, Aristotele aggiunge che oltre a ciò,
rispetto al medesimo uomo, in diversi tempi, risultano più noti alcuni
elementi rispetto che altri8 . All’inizio, per gli uomini saranno più note le
cose sensibili mentre una volta acquisita molta esperienza saranno più
note le cose intelligibili9 . Per Aristotele è quindi chiaro che in una dimostrazione
scientifica l’espressione definitoria deve partire da ciò che è
più noto per sé in senso assoluto. Ciò che è più noto in senso assoluto,
è bene chiarirlo, per Aristotele non è qualcosa di ontologicamente differente
da ciò che è noto per l’uomo. Egli afferma, infatti, che ciò che è
noto per sé in senso assoluto è identico a ciò che è noto a chi abbia una
mente acuta e ben costituita10 . Questo è un elemento molto importante
perché segna da una parte l’isomorfismo tra linguaggio, pensiero e
realtà e dall’altra segna la possibilità di indagare la realtà da prospettive
differenti; apre quindi le porte al problema della soggettività. Chi non
ha ben chiaro quale sia il modo migliore per procedere nella scienza
rischia di fare molta confusione, come è stato il caso per Aristotele dei
filosofi a lui precedenti. In Physica I.5, egli scrive che «alcuni partono
da ciò che è anteriore, altri da ciò che è posteriore; alcuni ciò che è più
conoscibile secondo il pensiero, altri ciò che è più conoscibile secondo
la sensazione sicché, in un certo senso, essi parlano di cose identiche
e pur diverse» 11 . Le cose che sono più conoscibili secondo il pensiero
sono gli universali, le cose che sono più conoscibili secondo la sensazione
sono i particolari 12 .
La distinzione ricorre nella sua formulazione più nota proprio nel capitolo
introduttivo della Physica, nel quale Aristotele tratta i principi della
scienza della natura. Conoscere, ribadisce Aristotele, significa avere
conoscenza delle cause prime, dei principi primi e degli elementi originari
e perciò anche la fisica deve ricercarli. Aristotele afferma che «è
naturale che si proceda da ciò che è più noto e chiaro per noi verso
quello che è più chiaro e noto per natura; infatti non sono la medesima
cosa il conoscibile per noi e il conoscibile in senso assoluto» 13 . Il
procedimento da adottare, afferma Aristotele, è quello di partire da ciò
che è meno chiaro per natura ma più chiaro per noi al fine di conoscere
ciò che è più chiaro per natura. La ricerca di ciò che è più chiaro
e conoscibile per natura corrisponde in Aristotele alla ricerca della
verità. Ricercare la verità, scrive Aristotele in Metaphysica II.1, non è
facile perché ciò che è più noto per natura è per noi più oscuro. Gli
uomini si comportano con la verità come gli occhi delle nottole nei
confronti della luce del sole; di fronte alle cose più evidenti per natura
essi si confondono14 . Ciò che è più noto per noi è ciò che deriva dalla
sensazione e ciò che è per noi più chiaro ed evidente sono le cose
nel loro insieme. Aristotele sta parlando dell’induzione imperfetta discussa
in Analytica Posteriora II.19, attraverso la quale dopo molteplici
sensazioni, molta esperienza e la ritenzione delle immagini della
memoria si ottiene un concetto generale15 . In Physica I.1, Aristotele
aggiunge che «solo in un secondo momento l’analisi consente di individuare
gli elementi e i principi. Perciò bisogna procedere dal generale
17

al particolare» 16 . Per la sensazione, infatti, è più conoscibile l’intero
che è il generale. In questo senso per risoluzione è possibile avere una
conoscenza rispetto a ciò che è più noto a noi dei primi principi. La
conoscenza di questi primi principi però non è realmente scientifica,
cioè non è dimostrativa perché è fondata su un’induzione imperfetta
che sarà provata solo a posteriori. Una dimostrazione scientifica dei
principi primi come ciò che è primo per natura non è possibile fornirla
per Aristotele, e tuttavia essi sono necessari per l’indagine scientifica,
cioè sono delle ipotesi. Da una parte, i principi primi devono essere
anteriori e più noti in senso assoluto perché essi sono ciò su cui si
basa la dimostrazione scientifica, anche se la loro conoscenza non è
scientifica. Al contrario, una dimostrazione scientifica dei principi non
potrebbe essere principio di un’altra dimostrazione e in questo senso
i principi non sono dimostrati ma sono colti intuitivamente secondo
l’intellezione17 . È presente in Aristotele una ground-theory dei principi
secondo la quale essi sono anteriori epistemologicamente e ontologicamente
per natura e sono il fondamento di ogni nostra conoscenza
scientifica e pertanto anche se non li conosciamo perché a noi sono
meno noti, dobbiamo supporli come tali.
Il valore dei principi primi come ipotesi immediate è trattato nei primi
due capitoli del primo libro degli Analytica Posteriora. Per conoscere
scientificamente è necessario, secondo Aristotele, procedere da
premesse vere, prime, immediate, più note, anteriori e principio delle
conclusioni18 . I principi come premesse devono essere più noti e anteriori
delle conclusioni. Le cose sono anteriori e più note in due sensi,
afferma Aristotele. In un caso sono anteriori e più note le cose che
sono più vicine alla percezione e anteriori e più note in senso assoluto
quelle che sono più lontane. Le cose più universali sono in generali
quelle più lontane a noi, mentre quelle singolari sono quelle più vicine19
. È esclusa quindi ogni circolarità della dimostrazione perché la conoscenza
dei principi che si ha all’inizio è immediata e le conclusioni,
«essendo costruite a partire da ciò che è più noto a noi, non formano
una dimostrazione in senso proprio» 20 . Dopo aver raggiunto le conclusioni
con la pseudo-dimostrazione, per analisi, si dimostra la validità
dei principi, che quindi potranno essere riutilizzati come premesse per
dimostrazioni che non sono più solo “secondo noi” ma in modo assoluto
“secondo natura”.
Sulla distinzione esposta nella Physica, Wieland innesca un’accesa polemica
sulle varie possibili interpretazioni, non sempre corretta, ma
che aiuta a capire la decisiva importanza di questo presupposto metodologico
e come esso sarà sviluppato successivamente nella tradizione
aristotelica. Wieland chiarisce la distinzione affermando che essa tratta
ciò che è conosciuto e chiaro in senso assoluto, nella sostanza, per
natura, e ciò che è conosciuto e chiaro per noi21 . Questa distinzione
è divenuta a tal punto ovvia e popolare nella tradizione aristotelica
che, secondo Wieland, essa fu interpretata come un’affermazione
dogmatica dell’incongruenza tra ordine dell’essere e ordine della conoscenza22
. Tuttavia non è questa la posizione di Aristotele, afferma
giustamente l’autore. Tutta la conoscenza parte dal presupposto che
18
quando conosciamo qualche cosa, la conosciamo
per mezzo di qualcosa d’altro, cioè ci
si interroga sulla cosa attraverso qualcosa che
è già noto. Non si può perciò conoscere immediatamente
una cosa da se stessa. Si deve sempre
presupporre qualcosa che è già conosciuto.
Per Wieland, questo già noto non è necessario
che sia un sapere nel senso più rigoroso del
termine23 . Ogni conoscenza partirebbe perciò
da una pre-conoscenza, specialmente tutte le
dottrine e gli insegnamenti fondati sul pensiero
discorsivo sarebbero sviluppati a partire da una
conoscenza preesistente.
Il principale monito di Wieland è quello di non
cadere nell’errore palese di interpretare la differenza
tra ciò che è più conosciuto per noi e
ciò che è più conosciuto per natura come una
differenza tra una sfera soggettiva e una sfera
oggettiva. In questa forma, afferma Wieland,
rientrano i concetti e le distinzioni che sono
stati coniati soltanto dopo Aristotele. Wieland
ha ragione ma, come si vedrà, questa sarà l’interpretazione
che ne darà buona parte della
tradizione aristotelica e dell’aristotelismo puro
sino a Kant. Wieland afferma che la divisione
fra soggettivo-oggettivo necessita di una teoria
metafisica per spiegare perché l’ordine della
conoscenza sia contrario a quell’essere. Tuttavia,
non sono questi gli intenti di Aristotele per
Wieland, infatti con la distinzione si vuole far
comprendere soltanto ciò che si è presuppone
quando si vuole conoscere qualcosa d’altro.
L’analisi condotta da Wieland è corretta e giustifica
proprio quello che egli vorrebbe negare.
Esistono due vie per la conoscenza della cosa,
indipendentemente dal fatto che si possano
attuare entrambe: 1) quella con presupposti o
soggettiva; e 2) quella nella quale i presupposti
sono dimostrati o oggettiva24 . La cosa è sempre
la stessa; si tratta invece di due metodi d’indagine
differenti. Wieland poi afferma che il sapere
non è per Aristotele nulla che possa essere ricondotto
a una soggettiva sfera della coscienza
perché il concetto di sapere non si riferisce tanto
all’agente, ma al suo contenuto cosicché ciò
che è più conosciuto prima per noi e più tardi
per natura si riferisce alla medesima cosa solo
che essa è conosciuta la prima volta in base a
principi e la seconda non ancora. La mia in-

terpretazione, al contrario di quella Wieland,
sottolinea l’importanza del conoscente rispetto
la cosa conosciuta altrimenti non sarebbe spiegabile
l’esistenza di due vie della conoscenza.
Concedo a Wieland che in Aristotele non c’è
una sfera della coscienza, questo è noto ed è
risaputo. Tuttavia il fatto che la medesima cosa
possa essere conosciuta in due modi differenti
non può riguardare “la cosa stessa” ma riguarda
il punto di vista del soggetto, cioè la
sua soggettività. Se non ci fosse una sfera della
soggettività non sarebbe possibile indagare in
modi differenti le cose. Ci sarebbe solo una conoscenza
univoca della cosa che negherebbe
l’esperienza quale fattore determinate nella formazione
dell’abito della scienza nei vari individui.
Si tratta del problema che nella tradizione
aristotelica sarà definito “seconda natura”. Ciò
è confermato dal passo di Ethica Nicomachea
I.2, 1095b 2-4, nel quale Aristotele afferma che
bisogna partire da ciò che è più noto per noi e
per questo occorre essere stati ben guidati «nei
costumi per ascoltare con profitto le lezioni su
ciò che è moralmente bello e su ciò che è giusto
e in generale sugli argomenti di politica» 25 . Solo
acquisendo questa “seconda natura” è possibile
«possedere i principi e coglierli facilmente» 26 .
Ciò che non bisogna fare è confondere soggettività
con arbitrarietà. C’è un oggetto della conoscenza
o se si preferisce un tema della conoscenza
che implica l’esistenza di qualcuno che
conosce. Il modo attraverso il quale uno conosce
esprime la soggettività del conoscente rispetto il
conosciuto. La via soggettiva della soggettività
è quella che parte da ciò che è più noto a noi,
mentre quella oggettiva parte da ciò che più
noto per natura. Ciò è confermato dal fatto che
la seconda è quella propriamente scientifica, la
quale però non può aver luogo senza la prima.
Deve essere chiaro però che ciò che è noto per
noi e ciò che è noto in senso assoluto non sono
due oggetti o temi differenti ma sono la stessa
cosa vista da due punti di vista differenti.
Wieland aggiunge poi che non è nemmeno
consentito interpretare la distinzione come ciò
che è primo tra l’uomo da un lato e la cosa
stessa dall’altro perché in questo modo non
solo l’ordine della conoscenza sarebbe diverso
dall’ordine dell’essere ma anche gli oggetti del-
la conoscenza sembrerebbero essere diversi. Wieland in questo caso
ha torto e dalle sue stesse analisi si possono trarre conclusioni opposte.
Ciò che è primo per noi è, infatti, ciò che riguarda l’uomo, cioè il conoscente.
Chi altro potrebbe mai essere se solo l’uomo è capace di un
discorso dimostrativo? La “cosa in se stessa” non deve essere concepita
in contrapposizione alla “cosa in altro”. La cosa in quanto oggetto
della conoscenza è sempre "cosa in altro", cioè è sempre rispetto al
soggetto che conosce. La “cosa stessa” è da intendere nel senso che
nella dimostrazione non si parte più dai presupposti soggettivi, dalle
ipotesi del soggetto, cioè dalla linea di ciò che è primo per l’uomo, ma
è come se ci si ponesse dal punto di vista dell’oggetto per conoscerlo,
cioè sulla linea di ciò che è primo per natura. Lo stesso Wieland poi
conferma la mia interpretazione affermando che «ciò che è conosciuto
per natura non è, sostanzialmente nient’altro che ciò che è più conosciuto
per noi, solo che ora lo si conosce in modo diverso» 27 . È proprio
in questa modalità d’accesso differente che ha origine la soggettività e
la differenza fra soggettivo e oggettivo, che quindi Wieland non sembra
avere ben chiara nel suo tentativo di confutazione. La distinzione
fra ciò che è primo per noi e ciò che è primo per natura assume un
ruolo fondamentale nella storia dell’aristotelismo proprio per la sua
relazione con la coppia concettuale soggettivo-oggettivo.
In Analytica Priora II 23, 68 b 35-37 Aristotele tratta proprio la differenza
fra questi due procedimenti conoscitivi. Il primo quello “soggettivo”
è per induzione, mentre quello “oggettivo” è secondo sillogismo. Egli
scrive che «il sillogismo che si costituisce attraverso il medio è anteriore
per natura e più evidente; l’induzione invece è più chiara per noi» 28 .
Già in Topica I.12, 104 a 16-19, Aristotele affermò che l’induzione è la
via che conduce dagli oggetti particolari agli oggetti universali e che
essa è più persuasiva, chiara e conoscibile per la sfera della sensazione.
Essa è più adatta alla maggioranza delle persone mentre il sillogismo
è più efficace e convincente fra i conoscitori della logica29 . La
formulazione definitiva della distinzione fra ciò che è più conoscibile
a noi e ciò che è più conoscibile per natura si trova in Metaphysica
VII.3, nel quale Aristotele tratta dell’indagine delle sostanze sensibili.
Aristotele scrive che «è molto utile procedere per gradi verso ciò che è
più conoscibile per natura» 30 . Il conoscere procede, infatti, attraverso
le cose che sono meno conoscibili per natura ma più conoscibili per
noi verso quello che sono più conoscibili per natura ma meno per noi.
Aristotele esemplifica il procedimento della nostra conoscenza affermando
che «come nelle azioni dobbiamo partire da quelli che sono
beni per l’individuo e fare in modo che il bene universale diventi bene
per l’individuo, così, anche nel sapere, dobbiamo partire dalle cose
che sono più conoscibili all’individuo e far in modo che ciò che è più
conoscibile per natura diventi conoscibile anche per l’individuo» 31 . La
struttura argomentativa di Aristotele è molto semplice, da delle premesse
generali ed immediate si guadagna una conoscenza universale
determinata che successivamente è applicata per conoscenze particolari
e determinate. Le cose più conoscibili per l’uomo sono, come ho
notato, quelle che derivano dalla sensazione. La sensazione fornisce
19

delle conoscenze particolari ma generali sulla cosa, dove per generale
si deve intendere non determinato. Nella sensazione, per esempio
nella vista, l’oggetto è un uomo in generale indeterminato anche se
si vede quel preciso particolare uomo. Non si ha ancora una conoscenza
determinata del singolare, infatti, non si sa che l’uomo che si
sta vedendo è Callia32 . Le cose che sono più conoscibili e prime per
l’individuo sono sovente poco conoscibili per natura e colgono poco
o nulla di ciò che riguarda l’essere della cosa33 . Nonostante la provvisorietà
delle premesse e l’oscurità della conoscenza di ciò che è primo
per noi, è necessario per Aristotele partire da queste «per giungere a
conoscere le cose che sono conoscibili in senso assoluto» 34 .
In conclusione per Aristotele ci sono due modi preliminari per indagare
un oggetto in generale. La prima via porta dal conoscente alla cosa
da conoscere, la seconda via porta dalla cosa da conoscere al conoscente.
Solo il primo è possibile anche se solo il secondo è realmente
quello scientifico. La distinzione fra ciò che è più noto per noi e ciò
che è più noto per natura è uno dei nuclei centrali della riflessione di
Aristotele e della tradizione aristotelica: è la radice della soggettività
della conoscenza epistemica.
3. La distinzione nella tradizione aristotelica
La discussione sull’ordine epistemico fra “ciò che è primo per l’uomo”
e “ciò che è primo per natura” diviene centrale nella storia della tradizione
aristotelica nel sedicesimo presso l’Università di Padova, in
particolare nella figura di Jacopo Zabarella, riprendendo le opere di
Averroé. Consolidato il fatto che il sapere per Aristotele è sempre un
sapere di oggetti dell’esperienza e non una pura costruzione del pensiero,
il metodo dimostrativo applicabile agli oggetti dell’esperienza
ha, come spiega Wilhelm Risse, un duplice fondamento: da un lato il
sistema delle proposizioni e dall’altro l’ordinamento degli oggetti35 . Il
sapere è, come ha sostenuto Wieland, conoscenza a partire da principi
che bisogna già possedere all’inizio della ricerca. Per possederli,
Aristotele propone un duplice metodo: da una parte l’induzione analitica
dell’universale dal particolare e dall’altra la deduzione sintetica del
particolare dall’universale. Nella prima dai casi concreti particolari per
generalizzazione è raggiunta la conoscenza dei principi. Nella seconda,
i principi sono presupposti e la conclusione è verificata nell’esperienza.
L’induzione analitica nella tradizione aristotelica è chiamata
anche demonstratio quia mentre la deduzione sintetica demonstratio
propter quid. Accanto a questi due tipi di inferenze logiche ovviamente
è presente anche il sillogismo deduttivo, il quale però è semplicemente
analitico e non sintetico. Il problema dell’ordine della dimostrazione
è ripreso anche da Averroè, secondo il quale esistono tre specie di
dimostrazioni. La prima dimostrazione procede dai notiora natura e
deduce da principi universali i fatti particolari. La seconda dimostrazione
procede dai notiora nobis, la quale induce dai particolari una
conoscenza universale. Il terzo tipo di dimostrazione, quello matematico,
è basato su enti fittizi e perciò l’universale e il particolare coincidono.
In questo dibattito si inserisce l’analisi di Jacopo Zabarella sul
20
metodo e sull’ordine. Per Zabarella, così come
per Aristotele, “ciò che è primo per natura” è
ultimo nell’ordine della conoscenza dell’uomo
sebbene sia il vero oggetto della conoscenza
scientifica. Dall’altra parte “ciò che è primo per
l’uomo” è ciò che è più chiaro e immediato ma
non è dimostrato e perciò non è un sapere epistemico.
È possibile così individuare secondo
Zabarella due tipi di ordine, l’ordo analyticus e
l’ordo synteticus, i quali, come ha ben sottolineato
Risse, non indicano ordinamenti di cose
in sé esistenti, ma modi di procedere all’ordinamento
dei fatti, cioè indicano un ordine razionale
del soggetto36 . L’ordine sintetico, in particolar
modo, è l’ordine della metafisica, della
matematica e della fisica. Esso parte nell’esposizione
della dimostrazione logica da ciò che
è soggettivamente più noto all’uomo, cioè gli
oggetti sensibili o i primi principi immediati, a
ciò che è oggettivamente più noto per natura,
cioè l’universale. Si tratta sempre, come ricorda
Risse, di un ordine espositivo; infatti, dal punto
di vista conoscitivo, metafisica, matematica e
fisica rimangono sempre scienze analitiche.
La distinzione fra “ciò che è primo per l’uomo”
e “ciò che è primo per natura” assume un ruolo
cruciale nel capitolo secondo del commento di
Zabarella al primo libro degli Analytica Posteriora.
Ciò che è primo afferma Zabarella si dice
in due modi: ciò che è più noto per l’umana
natura (humana conditio) che sono gli oggetti
sensibili e ciò che è più noto per natura che
sono gli universali37 . Negli universali c’è una
ulteriore differenza. Ci sono quelli prodotti
dall’uomo attraverso l’induzione e predicabili
a molti singolari. Questi non sono gli universali
primi per natura. Ci sono invece quegli
universali che non sono opera della mente e
sono quelli primi per natura che l’uomo può
conoscere solo posteriormente38 . Ciò che è primo
e immediato per l’uomo nella conoscenza
scientifica sono i principi. Tuttavia questi principi
sono ipotetici, nel senso greco del termine,
e devono essere dimostrati come tali non solo
come primi per l’uomo, ma dopo la dimostrazione
anche primi per natura39 . La cognizione
di questi principi immediati, afferma Zabarella,
non è connata nell’uomo ma acquisita40 .
Zabarella sottolinea la priorità di “ciò che è pri-

mo per l’uomo” e della sua acquisizione attraverso
l’esperienza anche nel commento all’ultimo
capitolo del secondo libro degli Analytica
Posteriora. Il generale formato per induzione
sul quale si basa la dimostrazione scientifica,
è un tipo di universalità che è più vicino alla
natura umana, kat’anthropon, rispetto all’universalità
della conclusione post-dimostrazione.
Per universale kat’anthropon significa, precisa
Zabarella, ciò che vale per tutta la natura umana
come se fosse una, non come qualcosa che
è distribuito in vario modo in tutti gli individui41
. L’espressione greca "kat’anthropon" per
Zabarella corrisponde a quella italiana “ogni
huomo”. L’universalità di “ciò che è primo per
l’uomo” riguarda non tutti gli uomini, ma un
uomo in generale42 .
Contrapposta all’universalità kat’anthropon dei
primi immediati principi c’è per Zabarella l’universalità
delle proposizioni necessarie, le quali
da una parte sono state dimostrate come universali
e necessarie da un’altra dimostrazione, e
dall’altra sono il fondamento di ogni nuova dimostrazione
scientifica. L’universalità di queste
proposizioni necessarie è espressa in tre modi:
1) omni (kata pantos); 2) per se (kat’auto); 3) universale
(katholou) 43 . L’ultimo tipo di universalità
si distingue dall’universalità kat’anthropon perché
prima di tutto essendo post-dimostrazione
non è più immediata e perché anche ne è stata
provata la necessità. Quest’ultima universalità
è la sola che può essere veramente detta “prima
per natura” ed è la meta della conoscenza
epistemica come espressione della verità.
Il passaggio dall’universalità kat’anthropon
all’universalità kat’aletheian è descritta da Zabarella
all’interno delle dinamiche della logica epistemica
e della logica delle facoltà nel De ordine
intelligendi 44 . Il problema per Zabarella riguarda
l’ordine ella conoscenza. La conoscenza prima
per l’uomo, anche se fosse anche universale, sarebbe
più confusa rispetto alla conoscenza universale
avuta dopo la dimostrazione. La conoscenza
che proviene dai sensi e che è prima per
l’uomo è confusa ma nel progredire secondo un
ordine artificioso dipendente dalla nostra mente,
cioè non secondo natura, ma kat’anthropon,
da una conoscenza sensibile confusa si passa ad
una conoscenza intellettuale distinta. 45
Le riflessioni di Zabarella sulla distinzione fra “ciò che è primo per
natura” e “cioè che è primo per natura”, e che perciò è assolutamente
necessariamente vero, godettero dell’immensa fortuna che l’Opera logica
ebbe in Germania nel diciassettesimo secolo. In particolar modo,
ritroviamo la distinzione kat’anthropon-kat’aletheian in un manuale
aristotelico ben conosciuto da Kant, la Dialectica et Analytica di Paul
Rabe. Esso fu il testo di logica e retorica ufficiale del Collegium Fridericianum,
obbligatorio per chi volesse conseguire il diploma46 . Esso fu
composto da Rabe proprio quando egli era ispettore al Collegium. L’aristotelismo
di Rabe ha profonde radici nella tradizione di Königsberg. Il
suo maestro fu Andreas Hedio, autore di un voluminoso commentario
all’Organon aristotelico. Rabe stesso si cimentò nel più esaustivo e
completo commentario al libro delle Categorie di Aristotele del diciottesimo
secolo, il quale non fu molto diffuso, sebbene sia probabilmente
la fonte kantiana della dottrina della categorie e dello schematismo47 .
Nel capitolo dedicato agli elementi essenziali della dimostrazione to
dioti, Rabe individua tre specie di proposizioni immediate universali:
1) assiomi; 2) ipotesi; 3) definizione. La definizione è una «oratio explicans
essentiam rei» 48 . Un assioma è una «propositio immediata, quam
praecognitam jam haber debe is qui discere aliquid vult» 49 . Esempi
di assiomi sono il principio di non-contraddizione, il principio che
afferma che nulla è causa di se stesso e che non si può progredire
all’infinito. Gli elementi più interessanti della dimostrazione sono le
ipotesi. Un’ipotesi è «propositio immediata quam praecognitam habere
necessum non est, sed quam ponit docens ut ex ea aliquid demostret»
50 . Sono queste ipotesi le proposizioni kat’anthropon perché, pur
non essendo necessarie, esse sono assunte come principi universali e
veri per la dimostrazione rispetto a ogni uomo.
Rabe contrappone alle proposizione immediate della dimostrazione
to dioti le proposizioni necessarie. Esse sono caratterizzate dal fatto
che sono vere, kat’aletheian, in modo necessario. Seguendo Zabarella,
Rabe le classifica secondo tre gradi di necessità: 1) kata pantos; 2)
kat’auto; 3) katholou 51 . Anche Rabe, come Zabarella, pone l’accento
sul terzo modo di necessità, il quale sarebbe la sintesi delle prime due.
La proposizione katholou, ovvero universale, è quello «quod inest
omni et per se et qua tali» 52 .
È dal compendio di Rabe, l’unico a trattar questi argomenti nel diciottesimo
secolo, che sicuramente Kant trae la distinzione kat’anthroponkat’aletheian.
4. La distinzione kat’anthropon-kat’aletheian in Kant
Nel corpus kantiano i termini kat’anthropon e kat’aletheian assumono
due significati princiali. In un senso kat’anthropon coincide con l’argumentum
ad hominen ed è opposto a kat’aletheian, cioè ad un’argomentazione
che parte da presupposti ritenuti veri53 . In questo primo
senso i termini occorrono spesso isolati fra loro54 . Il secondo senso
assunto dalla distinzione kat’anthropon-kat’aletheian in Kant è proprio
quello delineato dalla tradizione aristotelica.
La distinzione kat’anthropon-kat’aletheian, in senso aristotelico, com-
21

pare per la prima volta nelle opere pubblicate da Kant nella Methodenlehre
della Kritik der reinen Vernunft. Un esame delle riflessioni e degli
appunti delle lezioni, tuttavia, dimostra che la distinzione inizia a occorrere
nella fase ypsilon-phi, a partire dagli anni 1776-1779, periodo
nel quale Kant si interessò più sistematicamente della logica aristotelica.
Nella riflessione 5103, datata fra il 1776-1778, Kant accenna per la
prima volta alla dimostrazione kat’anthropon proprio nello stesso modo
che egli userà più tardi nel 1790 nella Kritik der Urteilskraft. Per stesso
modo intendo nello stesso contesto, con le stesse parole, spiegando
lo stesso argomento, quasi che quel passo della Kritik der Urteilskraft
fosse stato concepito più di dieci anni prima, poi ripreso e rielaborato
in maniera sistematica nell’opera a stampa. Kant scrive che il mondo
intelligibile ha le sue leggi, così come il mondo sensibile. Esso ha un
principium constitutivum che è Dio e un principium regulativum che è
la legge morale55 . Le leggi del mondo intellegibile non sono oggetto di
intuizione e perciò ogni fisico-teleologia è impossibile. Esse sono oggetto
di fede e riguardano l’utilizzo riflettente dell’intelletto56 . L’uomo
può conoscere Dio solo attraverso i principi morali. La connessione
del mondo intelligibile con quello sensibile è possibile concepirla solo
attraverso inferenze logiche di tipo analogico. Le inferenze analogiche
e gli argumenta practica kat’anthropon permettono di concepire il transitum
da un mondo all’altro57 . Il tipo di prova dell’esistenza di Dio e
del mondo intellegibile è kat’anthropon secondo Kant, cioè attraverso
un argumentum ad modulum humanitatis58 . Questa argomentazione,
riprendendo le tesi esposte anche da Zabarella, è secundum assumta
humanae naturae e non hominis singularis 59 . Esso cioè non vale per
l’uomo in quanto individuo ma come uomo in generale secondo la sua
natura morale e razionale.
In una riflessione dello stesso periodo, la 5508, Kant afferma, sempre
parlando della prova dell’esistenza di Dio, che essa può essere
solo kat’anthropon e non apodittica, cioè può essere solo fondata sulle
condizioni soggettive del pensiero 60 . Kant contrappone, come Rabe,
la dimostrazione fondata kat’anthropon ad una di tipo apodittico e
necessario. Non solo Dio è dimostrabile kat’anthropon ma, secondo
quanto Kant scrive nella riflessione 6428, anche la libertà e l’immortalità
dell’anima. Queste tre idee non sono conoscibili dal punto di vista
teoretico dogmatico, ma sono necessarie dal punto di vista pratico, a
priori rispetto al soggetto61 .
La distinzione kat’anthropon-kat’aletheian occorre nella Methodenlehre
nel capitolo dedicato alla Die Disziplin der reinen Vernunft in Ansehung
ihres polemischen Gebrauchs. Kant spiega l’uso polemico della
ragion pura come disciplina utilizzando la metafora del corpo politico.
Kant afferma che ad ogni sua impresa la ragione deve sottomettersi
alla critica e non gli è concesso proibire la libertà della critica senza
danneggiare se stessa e attirare su di sé dannosi sospetti62 . Sulla libertà
della critica si fonda l’esistenza della ragione, la quale non ha alcuna
autorità dittatoriale poiché il suo decreto è l’accordo di liberi cittadini.
Se la ragione non ha a che fare con la censura del giudice, cioè con la
critica, ma con le pretese dei suoi cittadini, le cose stanno diversamen-
22
te. Tali pretese sono dogmatiche e offrono una
giustificazione kat’anthropon, la quale assicura
la ragione da ogni danno e preserva la sua autonomia,
sebbene tale giustificazione non sia
valida in senso assoluto, kat’aletheian63 . Ciò
che Kant vuol dire è che sciolti dalla critica,
l’uso della ragione nella sua autonomia produce
prove solo kat’anthropon, valide per ogni essere
razionale in quanto tale, le quali non sono
necessariamente valide in sé necessariamente,
kat’aletheian, ma sono prove solo soggettive.
Il tipo di prova assicurata dalla giustificazione
kat’anthropon è quello indagato nel § 90 della
Krtik der Urteilskraft, cioè una prova teleologica
soggettiva dell’esistenza di Dio. Kant per
spiegare la legittimità di una tale prova ricorre
ancora una volta alla distinzione kat’anthropon-kat’aletheian
così come l’aveva già esposta
nella riflessione 5103, tredici anni prima. Kant
afferma che una prova che miri a produrre una
convinzione può essere di due specie. La prima
specie di prova, quella kat’aletheian, stabilisce
come è l’oggetto in sé64 . Una tale prova,
riguardo Dio, per la ragione speculativa è però
impossibile. La seconda specie di prova, quella
kat’anthropon, stabilisce «ciò che l’oggetto è
per noi (uomini in generale), secondo i principi
razionali che ci sono necessari per valutarlo» 65 .
Kant ribadisce che kat’anthropon significa l’accezione
universale di uomo in generale66 . La
prova kat’anthropon considera semplicemente
la maniera in cui qualcosa può essere oggetto
della conoscenza per un uomo in generale, secondo
la costituzione soggettiva delle sue forze
cognitive. I concetti prodotti dalla ragione non
sono perciò messi a confronto con gli oggetto,
ma soltanto con le nostre facoltà conoscitive e
con l’uso che queste possono fare della rappresentazione
data. La prospettiva kat’anthropon
è l’unica possibile per la filosofia trascendentale;
essa ha come obiettivo quello di sapere
se qualcosa è o non è un essere conoscibile,
non rispetto se stesso bensì, rispetto le facoltà
conoscitive umane67 .
Negli anni immediatamente successivi Kant riprende
la distinzione kat’anthropon-kat’aletheian
nello scritto Über die Fortschritte der Metaphysik
per elucidare la prova morale dell’esistenza
di Dio. Egli scrive che l’argomento mora-

le potrebbe chiamarsi «argumentum kat’anthropon
valido per uomini in quanto enti razionali
del mondo in generale, e non come semplice
modo di pensare ammesso in modo contingente
di questo o di quell’uomo» 68 . Esso deve essere
distinto «dall’argomento teoretico-dogmatico
kat’aletheian che dà per certo assai più di quello
che l’uomo può veramente sapere» 69 .
Kant ritorna sull’impossibilità di fornire una
prova kat’aletheian nello scritto Die Religion innerhalb
der Grenzen der bloßen Vernunft pubblicato
nel 1794. In una nota di questo scritto
afferma che una limitatezza insuperabile della
ragione umana è che non è possibile attribuire
un valore morale soprasensibile alle azioni di
una persona senza rappresentarci essa nello
spazio e nel tempo. In tal modo, afferma Kant,
non possiamo conoscere le azioni come esse
sono in sé (kat’aletheian), infatti, per accedere
ai caratteri soprasensibili è necessaria sempre
una certa analogia con gli esseri della natura,
cioè partire da ciò che è più vicino alla natura
umana (kat’anthropon) 70 .
In Der Streit der Fakultäten del 1798 Kant ricorre
per l’ultima volta alla distinzione per spiegare
il metodo didattico della predicazione degli
apostoli. Kant afferma che il metodo espositivo
fu scelto dagli apostoli e non era derivato dalla
rivelazione divina. Esso era valido in rapporto
alla mentalità di quei tempi kat’anthropon
e non era un elemento in se stesso dottrinale,
cioè kat’aletheian71 .
5. Conclusione
La distinzione kat’anthropon-kat’aletheian diviene
fondamentale nella filosofia critica di Kant per
mostrare i due possibili prospettive d’indagine.
Solo la prospettiva kat’anthropon, cioè rispetto a
ciò che è più conosciuto e vicino all’uomo è possibile
secondo la filosofia trascendentale kantiana.
Si può anche affermare che l’obiettivo della
filosofia trascendentale di Kant sia proprio quello
di investigare ciò che è kat’anthropon. Ho dimostrato
che la distinzione kantiana riposa su quella
più antica emin gnorimoteron-physei gnorimoteron
di origine aristotelica. Essa è stata contestualizzata
prima da Averroé e poi da Zabarella.
La disseminazione delle opere zabarelliane in
Germania ha permesso la diffusione della dot-
trina nelle diverse correnti dell’aristotelismo tedesco, fra le quali quella
di Königsberg. In particolar modo la distinzione è tematizzata da Paul
Rabe nella sua Dialetica et analytica, testo utilizzato nel corso di logica al
Collegium Fridericianum. Kant riprende la dottrina proprio da Rabe verso
la fine degli anni settanta, periodo nel quale egli stava concludendo
la stesura della Kritik der reinen Vernunft. La presenza sistematica della
distinzione è prova che Kant fosse estremamente interessato alla logica
aristotelica e all’appropriazione di alcune delle sue dottrine per la formulazione
di una dottrina del metodo della filosofia trascendentale.
1 Giorgio Tonelli, Kant’s Critique of Pure Reason within the Tradition
of Modern Logic, Olms, Hildesheim 1994, p. 4.
2 KGS III, A 708/B 736.
3 Giorgio Tonelli, Kant’s Critique of Pure Reason within the Tradition of
Modern Logic, cit., p. 1-2.
4 KGS III, B XXII.
5 Cfr. Athanasius Weisheipl, Aristotelian Methodology. A Commentary
on Posterior Analytics of Aristotle, River Forest, Pontifical Institute of
Philosophy 1958.
6 Cfr. Wilhelm Risse, Zabarellas Methodenlehre, in Luigi Olivieri (a
cura di), Aristotelismo veneto e scienza moderna, Padova, Antenore
1983, p. 160; Riccardo Pozzo, Res considerata and modus consideransi
rem: Averroes, Aquinas, Jacopo Zabarella, and Cornelius
Martin on Reduplication, «Medioevo. Rivista di storia della filosofia
medievale», 24 (1998), pp. 157-159.
7 Cfr. Suzanne Mansion, «Plus connu en soi», «plus connu pour nous».
Une distinction epistemologique importante chez Aristote, «Pensamiento»,
35 (1979), pp. 161-170; Robert Bolton, Aristotle’s Method in
Natural Science: Physics I, in Lindsay Judson (a cura di), Aristotle’s Physics:
A Collection of Essay, Clarendon Press, Oxford 1991, pp. 1-29.
8 Aristotele, Topica VI.4, 142 a 1-2.
9 Aristotele, Topica VI.4, 142 a 3-4.
10 Aristotele, Topica VI.4, 142 a 9-10.
11 Aristotele, Physica I.5, 188 b 30-35.
12 Aristotele, Physica I.5, 189 a 6-9.
13 Aristotele, Physica I.1, 184 a 16-18.
14 Aristotele, Metaphysica II.1, 993 b 7-11.
15 Aristotele, Analytica Posteriora II.19, 99 b 35-100 b 5.
16 Aristotele, Physica I.1, 184 a 21-b 1.
17 Aristotele, Analytica Posteriora II.19, 100 b 6-17.
18 Aristotele, Analytica Posteriora I.2, 71 b 21-22.
19 Aristotele, Analytica Posteriora I.2, 72 a 1-5.
20 Aristotele, Analytica Posteriora I.3, 72 b 32-35.
21 Wolfgang Wieland, Die aristotelische Physik: Untersuchungen
über die Grundlegung der Naturwissenschaft und die sprachlichen
Bedigungen der Prinzipienforschung bei Aristoteles, Vandenhoeck
& Ruprecht, Göttingen 1962, pp. 69-70.
23

22 Ivi, p. 70.
23 Ibidem.
24 Utilizzo il termine generale di “cosa” al posto del più comune “oggetto”
per non applicare una concettualità assente in Aristotele.
Tuttavia il concetto aristotelico di antikeimenon è traducibile correttamente
con obiectum e perciò oggetto.
25 Aristotele Ethica Nicomachea I.2, 1095b 5-6.
26 Aristotele Ethica Nicomachea I.2, 1095b 6-7.
27 Wolfgang Wieland, Die aristotelische Physik: Untersuchungen über
die Grundlegung der Naturwissenschaft und die sprachlichen Bedigungen
der Prinzipienforschung bei Aristoteles, cit., p. 74.
28 Aristotele, Analytica Priora II 23, 68 b 35-37.
29 Cfr. Aristotele, Topica VIII.1, 156 a 4-7.
30 Aristotele, Metaphysica VII.4, 1029 b 3.
31 Aristotele, Metaphysica VII.4, 1029 b 5-8.
32 Aristotele, Analytica posteriora II.19, 100 b 1.
33 Aristotele, Metaphysica VII.4, 1029 b 8-10.
34 Aristotele, Metaphysica VII.4, 1029 b 10-12.
35 Wilhelm Risse, Zabarellas Methodenlehre, cit., p. 157.
36 Ivi, p. 162.
37 Jacopo Zabarella, In duos Aristotelis libros posteriores analyticos
commentarii, in Id., Opera logica, Zetzner, Köln 1597, 663f.
38 Ivi, 664d.
39 Ivi, 667a-670f.
40 Ivi, 672b.
41 Ivi, 1271e.
42 Ivi, 1271f.
43 Jacopo Zabarella, De propositionibus necessariis libri duo, in Id.,
Opera logica, Zetzner, Köln 1597, 345c.
44 Cfr. Marco Sgarbi, Kant, Aristotle and the facultative logic, in Ennio
De Bellis (cur.), Nuovi studi su Aristotele e la tradizione aristotelica,
Saveria Mannelli, Rubettino 2008, pp. 97-108.
45 Jacopo Zabarella, De ordine intelligendi, in Id., De rebus naturalibus
libri triginta, Zetzner, Frankfurt 1607, 1060a-1063b.
46 Cfr. Riccardo Pozzo, Catalogus prealectionum academiae regiomontanae
1719-1804, «Studi Kantiani» 4 (1991), p. 176.
47 Marco Sgarbi, L’origine aristotelica della dottrina delle categorie e
dello schema in Kant, «Bollettino della Società Filosofica Italiana»
193 (2008), pp. 11-25.
48 Paul Rabe, Dialectica et analytica, Schlechtiger, Berlin 1703, p. 59.
49 Ibidem.
50 Ibidem.
51 Ivi, p. 61.
52 Ivi, p. 63.
53 Anche in Rabe kat’anthropon è utilizzato a volte per designare l’argumentum
ad hominem. Sulla tradizione che riconduce kat’anthropon
all’argumentum ad hominem cfr. Gabriel Nuchelmans, On the fourfold
root of the argumentum ad hominem, in Id., Studies on the History of
Logic and Semantics, Variorum, Aldershot 1996, pp. 37-47.
24
54 Cfr. KGS XII, p. 40, KGS XVI, p. 850. Nuchelmans
rintraccia nel wolffiano Samuel Christian
Hollmann la prima occorenza della distinzione
kat’anthropon-kat’aletheian, scritta
in greco, come rispettivo della distinzione argumentum
ad hominem e come argomento i
cui principi della dimostrazione sonoritenuti
come veri. Il passo in questione è in Samuel
Christian Hollmann, Philosophia rationalis
quae logica vulgo dicitur, Vandenhoeck, Göttigen
1767, p. 650. Cfr. Gabriel Nuchelmans,
On the fourfold root of the argumentum ad
hominem, cit., p. 42. Kant utilizza la stessa distinzione
di Hollmann almeno due volte nei
suoi scritti. La prima commentando l’Auszug
di Meier (KGS XVI, p. 850), mentre la seconda
riferendosi all’Essay di John Locke nella
Logik Hechsel. Cfr. Tillmann Pinder, Logik-
Vorlesungen: Unveröffentliche Nachschriften
II, Meiner, Hamburg 1998, p. 478. Ringrazio
Piero Giordanetti per avermi segnalato questo
passo. Kant era sicuramente a conoscenza
dello scritto di Hollmann, il quale può essere
stato la fonte kantiana della distinzione intesa
in questo senso. Cfr. KGS I, p. 471.
55 KGS XVIII, p. 88.
56 Ibidem.
57 Ibidem.
58 Ibidem.
59 Jacopo Zabarella, In duos Aristotelis libros
posteriores analyticos commentarii, cit.,
1271e.
60 KGS XVIII, p. 203.
61 KGS XVIII, p. 713.
62 KGS III, A 738/B 766.
63 KGS III, A 739/B 767.
64 KGS V, p. 462.
65 KGS V, p. 463.
66 Ibidem.
67 KGS V, p. 467.
68 KGS X, p. 306.
69 Ibidem.
70 KGS VI, p. 64.
71 KGS VII, p. 37.

di Luigi DeBlasi
a Rita e Franco
Per Platone, l’uomo è chiamato a predisporsi
per la verità che si presenta come evento donativo,
in grado di guidare gli schiavi verso una
realtà più autentica e originaria. L’uomo avverte
l’ansia di verità, il cui fondamento, tuttavia è
oltre l’incatenato, nel senso che all’uomo non
si può ascrivere qualsivoglia atto creativo. Durante
il percorso di liberazione, dalla caverna
alla luce della verità, tutto ciò che accade negli
stadi in salita (primo, secondo e terzo stadio) e
nella discesa (quarto stadio) non dipende dalla
umana volontà. L’enigma avvolge l’ascensione,
niente sa circa la condizione di uomo incatenato
e nulla può predire riguardo a ciò che si
presenterà nei gradi successivi. La sua situazione
è quella dell’errante che dispone di un’unica
certezza: la possibilità che possa esserci qualcosa
di diverso nell’eccedenza, rispetto alla
condizione precedente di uomo legato con catene,
immerso nella finzione umbratile. L’uomo
che si scioglie dalle catene riproduce tutto il
pensiero occidentale, in cui coesistono due domande
fondamentali: è più reale ciò che sta al
di qua o al di là, nell’oltre-passamento? L’al-diqua
non indica soltanto il buio e\o la possibilità
di discernere la realtà degli enti, ma anche
l’eventualità di poter accogliere, nell’ombra, il
chiarore nella condizione umbratile che può
rappresentare la possibilità del bagliore.
1. Il senza accesso e l’anima.
L’essere, nell’accezione aristotelica, inteso come
ciò che in antico ed ora viene cercato e senza
accesso (Aristotele, Metafisica, libro VII), è in
rapporto con l’uomo che si mostra disponibile
ad accogliere la verità. Il cercatore è l’uomo,
l’inaccessibile è l’essere stesso, cui non si può
non ascrivere, comunque, la ricerca. Da parte
sua, Platone scorge nell’anima la parte origina-
PLATONE TRA VERITÀ E DISTORSIONE
RIVISITAZIONE FILOSOFICA DEL
MITO DELLA CAVERNA
riamente incline alla ricerca, al giuoco paradossale dell’in sé e dell’altro
da sé. Nel suo essere dentro e fuori, l’anima si caratterizza nella
distensione: un rapportamento ad altro (fuor di sé) per poter essere,
autenticamente, se stessa. Il rapporto tra l’anima e la verità non implica
la bramosia, in quanto tendere equivale a non avere, cioè mettersi nella
condizione di dis-porsi nella direzione di un qualcosa. Il concetto
platonico di anima si esplica, paradossalmente, nel voler essere oltrein-se-stessa,
un passaggio «in sé, in quanto tale, ‘estesa’ verso altro» 1 .
Infatti nel Teeteto si esplicita «l’anima mi si mostra come ciò che nel
passaggio attraverso se stessa prende di mira» 2 . L’uomo è quell’ente
che non si conserva nella verità come se gli appartenesse. Nell’ermeneutica
heideggeriana trova ampia risonanza, specie nel testo L’essenza
della verità, la definizione di avere-davanti-a-sé il cui significato
indica l’aspetto donativo della verità e il suo donarsi si rende possibile
a condizione che l’uomo possa liberarsi dalle catene dei pregiudizi.
Se l’uomo disponesse dell’essere della verità cesserebbe di appellarsi
all’essere-altro e l’anima secondo Platone convalida di fatto l’in sé assente
– il non-avere-ancora. Esisterebbero così due tensioni: una non
autentica e l’altra autentica. Tendere in modo inautentico comporta
una propensione verso qualcosa di cui si può entrare in possesso, per
cui questa tensione si consuma nel bene posseduto, non in grado di
avvalorare quell’essere di più dell’eccedenza. Tale condizione pone
l’uomo in un sentimento di mero soddisfacimento della propria identità
soggettiva. Tendere autenticamente non equivale a possedere una verità
come se si possedesse una cosa, ma ha lo stesso valore di un andar
via da sé per ritornarci in modo più pieno. Tale aspetto è stato poco
sviluppato dalla critica filosofica, e si può ben dimostrare che invece
un pensatore come Martin Heidegger si è saputo spendere più di ogni
altro nell’approfondimento di tale problematica, che trova vasta risonanza
in molte sue opere, soprattutto nel capolavoro – Nietzsche.
In Platone c’è un rapporto di coappartenenza tra sentimento di privazione
e di pienezza, in quanto il sussulto a voler esser di più sottende
la miseria umana per non essere ancora. Non c’è traccia di un’identificazione
esaustiva con un’idea o il mondo delle idee, ma un voler
essere pre-disposto alla giustizia, all’amore …, pertanto l’idea di …
si compie nella continua tensione verso un archetipo, cui non si attribuisce
un possesso. Pertanto, la volontà ad essere felici non consiste
quindi nel possedere l’oggetto del desiderio, ma nel desiderare la
bellezza, solo che chi si espone e anela al bello è dotato di bellezza
25

di grado maggiore e nel Fedro l’anima, addirittura, si espone al desiderio
del bello anche senza essere innamorati3 . Nella sezione XXIV
del Fedro l’anima è immortale; perché ciò che da sempre si muove è
immortale (Fedro, p. 235). Ciò che si muove da sé può rivolgersi verso
l’alto (l’anima spazia nell’alto) o verso il basso (qui l’anima perde le ali),
appigliandosi, in quest’ultima direzione, a qualcosa di solido (l’anima
si accasa). Il movimento dell’anima, orientato verso il basso, viene preso
dall’inerzia e quindi finisce per essere risucchiato dalla gravità delle
cose. Al contrario, nel tendere verso l’alto, l’anima partecipa del divino,
perfezionandosi attraverso la contemplazione della bellezza, poi della
sapienza, bontà e ogni virtù affine. Ancora, quando si fa riferimento al
divino, si deve ammettere l’esposizione alla verità, in considerazione
del fatto che lo spaziare nell’alto, nel sito sopraceleste, concede alle
anime, che sono chiamate immortali (Fedro, p. 238), la possibilità di
esporsi alla luce della verità. In questa dimora non si parla più di idea,
né di sapienza, né di bellezza, ma solo di essenza incolore, informe,
intangibile che è pilota dell’anima e scaturigine della vera scienza. L’essere
della verità consiste in una veduta, scevra di determinazioni e
rappresentazioni e quell’essenza informe è il limite a tutto ciò che può
essere detto, è l’eterno essere altro rispetto ai molteplici tentativi di impigliare,
superficialmente la verità in questa o quell’altra ideologia.
2. L’essere tra le ombre e le cose.
Il Mito della Caverna rappresenta un chiaro esempio sul modo di percepire
la verità. È indubbio che il rivolgersi alle cose rappresenta il primo
atto liberatorio, specie se comparato alle ombre, le quali non possono
rappresentare la negazione assoluta della verità, in quanto esse
rappresentano, nella fase della prigionia, ciò che può essere credibile.
Considerando il Secondo stadio, riferibile alla liberazione dell’uomo
all’interno della caverna, vengono sviluppati alcuni passaggi che chiariscono
il senso del superamento delle cose stesse. La conoscenza degli
enti parrebbe l’autentica liberazione dalle ombre, cui subentrano le
cose in carne ed ossa 4 , anche se la inautentica disposizione dell’esseregià-stato
nel regno delle ombre risulterebbe più vera. Per tale aspetto,
Platone cerca di rispondere alla domanda portante: che cos’è la verità?
La verità non si nasconde in una coscienza soggettiva, nell’oggettività
in sé. Platone ha molte perplessità circa l’eventualità che l’uomo possa
essere esposto autenticamente alla verità e l’affermazione esposta nel
libro VII del La Repubblica è altamente emblematica, nel senso che
solitamente si è portati ad assegnare più verità alle cose che vedeva
prima (le ombre) rispetto a quelle reali5 . Tuttavia, la verità non è solo in
rapporto all’uomo, ma soprattutto all’essere. Ciò che si presenta nel secondo
stadio (il mondo degli enti) risulta essere più svelato, vale a dire
che si mostra di più, senza però che si possa parlare ancora di verità.
Tra le cose che si rappresentano nel primo stadio e quelle dello stadio
successivo, la differenza consiste nel fatto che le cose del secondo
livello si presentano con più essere, ossia possiedono un qualcosa in
più, in quanto risultano più esposte alla luce. Platone raccoglie l’attenzione
verso qualcosa che è più manifesto, tuttavia, ciò che precedeva
26
il secondo stadio non può essere considerato
non-verità o errore (in rapporto magari al terzo
stadio). Se da una parte, il cammino verso lo
stadio successivo può ammettere il ritorno o la
regressione in uno stadio precedente, dall’altra,
il più-svelato non indica che da un lato c’è la
verità e dall’altro solo la menzogna. Il prigioniero
delle ombre non ha il dolore (negli occhi),
non si affatica in quanto non rivolge lo sguardo
alla luce, non è colpito dal bagliore; quell’uomo
della caverna può su tutto ed ogni cosa gli
sembra più facile. L’uomo, nel secondo stadio,
anche se dispone della cosiddetta realtà, non
riesce ad aggiungere alcunché, riguardo all’autentica
comprensione dell’essere. Le domande
da porsi a questo punto sono: perché il prigioniero
si libera senza riuscire a comprendere la
natura della liberazione? Quale il movente che
spinge il prigioniero ad intraprendere il cammino
verso la libertà? Perché l’essere tra gli enti
non può bastare?
Nella situazione in cui si trovava prima
dell’ascesa al Sole, l’uomo era un’ombra di se
stesso e scambiava gli oggetti con le immagini.
Ma l’ombra è tale in considerazione di una luce
(la luce del fuoco all’interno della caverna) di
grado inferiore e che comunque permette già il
primo discernimento. Si può parlare di ombra
a condizione che sia presente una luce seppur
fioca. Questa luce è la verità mondana, l’esistenza
normale che non accetta l’atto violento
della liberazione e la citazione «se ora uno
lo trascinasse per forza su per l’ascesa» (p.64)
convalida l’idea secondo cui l’essere lontano
dalla luce non è una condizione innaturale.
L’atto violento dell’ascesa sottende un’azione
morale, oppure un accadimento casuale o al
contrario un evento avvinto nell’enigma? Durante
lo svolgimento verso l’alto, si viene a sapere
solo che dalla luce non originaria della
spelonca si transita alla luce autentica, nella
direzione del Sole, in cui si è presi dal bagliore.
In presenza della luce che senso possono avere
il primo e il secondo stadio? Tutti gli stadi non
sono superati, stanno lì e all’interno ci sono i
mondi diversi e le verità celate, le mezze verità,
non a caso Heidegger è dell’avviso che tutti gli
altri stadi, anche se sopravanzati, «dobbiamo
sempre tenerli presente» 6 , tuttavia si è chiamati

a qualcosa di diverso rispetto agli enti. A tal
punto, viene spontanea una domanda: perché
l’uomo è chiamato a dirigersi oltre l’ente? Qual
è la natura di tale chiamata? A tutto ciò Platone
non risponde se con una generica curiosità per
la conoscenza. Ciò a cui si può rispondere è
dato dalla condizione dell’uomo, la cui prigionia
è tale non solo per il primo stadio, ma anche
per il secondo: un imprigionamento legato
agli enti, alle cose che comunemente chiamiamo
realtà. Nel primo stadio si scambia l’ombra
con la cosa, nel secondo la realtà con la verità.
Bisogna quindi uscire dalla spelonca per non
essere presi dalla non-realtà: la verità è sempre
in cammino, pressante è l’ascesa! Solo che il
chiarore della luce, in Platone è il non-tematizzabile,
l’inafferrabile, il non-detto, in quanto la
luce è ciò che fa vedere, senza essere vista – è
l’incognita, il senza accesso. Non coincide con
le idee, gli archetipi ideali, non rappresenta
neppure la pura moralità, né ha una caratterizzazione
meramente gnoseologica.
Il venir meno delle ombre si concretizza con
il chiarore della luce, che in Platone assume
l’aspetto di idea, in Heidegger diventa l’essenza
fondamentale della luce, attraverso cui
la veduta è possibilitata a partire dall’essere7 .
Veduta, disvelatezza lasciano intendere l’apertura
di una possibile comprensione, per mezzo
della quale si viene a ritenere che qualcosa è
vera. Rispetto al primo stadio, la veduta è data
dal chiarore fievole, certo non paragonabile
alla luce degli stadi successivi (terzo e quarto).
L’abbaglio, che rende cechi e\o dormienti
i protagonisti del primo stadio, non dipende
dal trattenersi nelle ombre, ma dallo scambiare
la realtà (che va oltre l’insieme degli enti) con
l’ombra. Oltretutto, nell’ambito in cui regnano
le ombre, gli incatenati vorrebbero attribuire
un di più, più realtà, senza prendere coscienza
che tutto ciò che è svelato nel primo stadio
ha un valore transitorio. L’errore degli schiavi
non consiste tanto nel permanere tra le ombre,
ma nel pensare che non possa esserci – al di
là – un qualcosa in più. Gli incatenati quando
pensano al loro mondo se lo raffigurano in
modo naturale e spontaneo. Il secondo stadio
apre un livello, per cui si può dire che la verità
si rappresenta nella significazione di più-ente.
Rispetto alle questioni fin qui svolte deve essere chiaro che: 1. Le idee
non sono modelli universali, ma rappresentano la possibilità del vedere.
La questione delle idee è estremamente complessa e le diverse
definizioni concettuali dimostrano che tale problematica doveva essere
complicata per lo stesso Platone. Le idee non possono essere intese
come visioni dell’intelletto, né possono essere pensate nella maniera di
modelli universali ed eterni, qualsivoglia interpretazione volta a concepirle
come archetipi originari non considera adeguatamente lo spunto
platonico, diretto ad invalidare i presupposti della cultura sofistica 8 .
2. Ciò che si dà spontaneamente è l’ombra, ciò che si svela autenticamente
è l’ente e nel secondo stadio, considerare l’ente è come pensare
l’essere, senza tuttavia scambiare l’insieme degli enti con l’essere stesso.
3. Rimane la natura fortemente problematica delle idee, soprattutto in
riferimento alla loro essenza che non deve coincidere con tutto ciò che
viene espresso nel secondo e se vogliamo anche nel terzo stadio9 . 4. La
svelatezza libera dalle catene, produce la libertà, ma l’essere svelativo
è al di là dell’uomo. L’uomo è un cercatore della verità, ma non può essere
egli stesso il fondatore, a meno a che non si voglia rappresentarlo
come misura di tutte le cose. La verità non ha un valore né soggettivo
né oggettivo – è un andare sempre oltre l’uomo e il mondo.
3. L’uomo tra verità e l’ombra.
C’è sempre stato lungo il faticoso cammino verso la verità una condizione
in cui ha regnato la filosofia della spelonca non certo ascrivibile
al non-senso. La mancanza di luce non implica per nessun motivo
l’apparenza delle ombre o delle false immagini. L’ombra indica la
metafora anti-paradigmatica della verità, in quanto essa è la possibile
rappresentazione dell’ente. Nel giuoco delle ombre fanno parte tutti
quegli erramenti che, nel corso della storia dell’Occidente, hanno determinato
il corso delle verità secondo la visione dei filosofi. Dopo Platone,
non è possibile pensare all’uomo senza la problematizzazione
della verità, avvolta nel mistero ed abitualmente ci si mostra propensi
a proferire il non-senso quando si ha a che fare con ciò che è ascrivibile
all’enigma.
Le ombre rappresentano l’evento, la verità velata che dimora nella spelonca,
un accaduto verificatosi nella storia dell’uomo e parte fondamentale
per lo svolgimento della verità stessa. Avendo poi veduto gli
oggetti, l’uomo ha pensato di attribuire loro più verità, finché si rimane
all’interno della logica per cui esistono solo le cose non si può tematizzare
la questione verità nella sua più intrinseca essenzialità. Quell’uomo
non è riuscito a liberarsi nel primo, né nel secondo e nemmeno
nel terzo stadio; l’unica cosa certa è che si è venuto a sapere che
c’è qualcosa oltre le ombre e solo questo è dato da considerare. La
possibilità che un qualcosa possa mostrarsi è sempre misteriosamente
connesso all’eventualità del nascondimento, dell’ombra. Essere in
vicinanza della verità comporta uscire dall’oscurità, pertanto il buio e
il dirigersi verso la luce rappresentano, unitamente, sia l’aspetto sconcertante,
sia l’unica ed autentica possibilità. Per tale aspetto, non solo
gli ultimi, ma anche i primi due stadi possono rappresentare, parados-
27

salmente, il senso profondo della verità, in quanto il buio è sempre
gravido di verità. Soltanto nel quarto stadio – il ritorno alla caverna
– l’uomo, dopo aver contemplato nella luminosità, ha potuto raggiungere
un livello superiore di perfezionamento – è un essere in più, in
quanto conosce il significato di ombra a partire dalla luce. Anche nel
quarto stadio, comunque, si assiste ad un’altra amarezza, non tanto per
l’incomprensione dei suoi simili, quanto per un successo a metà che
permette solo di stabilire ciò che si era prima dell’assurgere verso l’alto.
Ma è sbagliato pensare che nel primo stadio regni il male o l’assoluto
nulla: l’essere velato è l’altra parte della verità e a partire da tale assunto
va interpretata la citazione di Heidegger «alla parvenza e il falso appartiene
la verità» 10 . Il ritorno riscatta gli uomini, dimoranti nel regno
delle ombre, offrendo loro dignità. Dopo essere stato esposto alla luce,
l’uomo si accinge a percorrere nuovamente un altro percorso, stavolta
nella direzione opposta a quella che abbiamo notato nei primi stadi
dal basso vero l’alto. Ora, scende verso il basso, ma in questa fase non
è più l’uomo di prima, anche se non ci è dato di conoscere in che cosa
può definirsi uomo nuovo. L’unico indizio può essere offerto da una
manifestazione o meglio da un sigillo, non certo presente nel cammino
verso l’alto: il sentimento di commiserazione nei confronti di coloro
che continuano a dimorare nella dispersione11 . L’essere della verità si
è svelato nella compassione: sentimento che sottende il rapporto di
vicinanza con ciò che in sé (il sole in sé). Il percorso dall’alto verso
il basso permette di incontrare i suoi simili senza che l’uomo libero
possa essere preso dalla superbia. Aleggia anche in questa fase, ancora
una volta, un qualcosa che ha a che fare con il mistero, in quanto non
si conosce il movente per cui quell’uomo avverte il desiderio impellente
di consegnarsi alla discesa. Sente di essere felice, avverte pietà,
sentimento, quest’ultimo, non prodotto da una sua ristrettezza o da
un appello etico e nemmeno intellettualistico, ma da qualcosa di più.
L’amarezza, che sembra improntare la chiusura del mito della caverna
(per l’incomprensione degli altri), finisce con l’inchiodare l’uomo,
proprio dopo l’esposizione alla luce. Tuttavia, non essere compreso
dai suoi simili deve rappresentare il momento più alto all’interno del
mondo delle ombre. Il sentimento di tristezza deriva dalla decisione di
raccontare la sua esperienza e dalla incomprensibilità per tutto ciò che
l’uomo libero racconta su aspetti che vanno ben oltre la portata degli
incatenati, presi solo dalle apparenze e dalla mondanità. Forse non era
quello il momento giusto per esporre ciò che aveva visto, bisognava
che quell’uomo si consegnasse al non-detto, al silenzio di chi si esposto
alla vicinanza del vero.
L’ultimo stadio offre, oltre all’amaro destino di chi si immola per la
libertà e la verità, il contenuto della svelatezza, in un’accezione per la
quale l’essere è un uscir fuori da ciò che si sottrae alla pura visione.
Ciò che si sottrae alla luce non rappresenta l’assoluta negatività, l’ombra
non può essere semplicemente il non, il nulla. Nella dimensione
umbratile c’è un manifestarsi del vero nella distorsione, che non ha
niente a che vedere con la contraffazione, nel senso che ciò che si
presenta nell’alterazione è sempre suscettibile di essere ri-compreso
28
all’interno della vera visione. Contro Platone, la
mancanza di senso (vacuità), la parte non illuminata
sono l’indizio di un rimando a qualcosa
di altro che non coincide con le idee, perché
esse sono solo essenze-presenze che risultano
insufficienti allo svelamento, senza il gioco di
reciprocità tra l’ombra e la luce.
4. Verità e non-verità
Per meglio comprendere il concetto di verità
in Platone bisogna porsi la domanda: che
cos’è la non-verità? Ciò che non è vero non
coincide con il falso, che erroneamente è stato
considerato come il contrario di vero. Ciò che
si enuncia come falso, altro non è che la degenerazione
o l’alterazione di ciò che si svela
come vero. Si dice comunemente falso ciò che
si spaccia per vero, pertanto se un qualcosa si
presenta artificialmente, si suole affermare che
esso è solo apparentemente vero. Il falso non
ha un’effettiva identità, un qualcosa risulta falso
solo in rapporto a ciò che si dice, si qualifica
come vero. La tematizzazione sulla nonverità
viene assunta da Platone soprattutto nel
Teeteto che oltretutto è un dialogo intorno al
sapere. A tal proposito, l’ermeneutica heideggeriana
muove dalla premessa centrale della
verità da intendere alla maniera di sottrazione
o privazione, pertanto la non-verità coincide
con l’affermazione e quindi con la positività.
La valenza affermativa del non-vero dipende
dalla immediatezza e dal suo essere alla portata
di tutti a buon mercato. In ogni modo, non
deve essere confusa la velatezza con la falsità.
Se il non-vero non coincide con il falso, allora
che cos’è la negazione della verità? Il rapporto
tra verità e non-verità è paradossale: il vero
affonda le sue radici sull’essenza del non-vero
che rappresenta un qualcosa in più12 e ricalca
la stretta correlazione tra ciò che si manifesta
e ciò che si cela. La risposta alla domanda che
cos’è la verità? chiama in causa il nascondimento,
ossia ciò che si rappresenta nell’ombra.
Alla domanda sull’essenza della verità si deve
rispondere con la domanda sulla velatezza,
sulla non-verità in generale. Solo che bisogna
nuovamente chiedersi se l’essere di più della
non verità (interpretazione heideggeriana) non
sia altro che il contrario della essenzialità del

vero. Il non vero è un di più, perché si presenta
nella distorsione, nella dispersione e nell’alterazione
di un qualcosa, un di più rispetto a
ciò che si presenta semplicemente nella verità,
nel senso che l’essere semplicemente vero è
così come deve essere. Il vero è il manifestarsi
dell’evento, la negazione di ciò che si annuncia
non può essere un non-evento. Il non accadere
è un non senso e quando si afferma che il
niente è, come sostenevano i sofisti, la negazione
non toglie né aggiunge alcunché a tutto
ciò che si manifesta, anzi il niente altro non
è che la verità che si compie appunto come
niente, in quanto non si dice che qualcosa non
è, ma che il niente è. Il contrario del niente è il
qualcosa che non può mai identificarsi o addirittura
surclassare l’essere della verità. La verità
è ciò che si mostra nella sua presenzialità e sotto
questo aspetto, l’essere percepito equivale
ad avere una veduta-su. Una certa veduta può
aver senso attraverso la distensione dell’anima,
originaria sede dell’unità, in quanto una veduta
si compie nel raccogliere questa e quell’altra
cosa. In Platone si attua l’immanenza e la trascendenza,
e nell’anima si compie quell’essere
in sé e il fuor di sé – una tensione infinita verso
l’altro da se stessa.. Per poter essere pienamente
non può non andare oltre il sé. Le manca
quell’in più che non può avere, anzi il di più
dell’eccedenza è la negazione dell’avere e del
potere: il suo volere essere di più alla fine prende
forma nel suo non potere assolutamente.
Platone quando specula sull’anima non pensa
in termini soggettivistici, né sostanzialistici, anzi
nel Teeteto non c’è alcuna traccia che richiami
qualcosa che ha a che fare con lo spirito «l’anima
mi si mostra come ciò che nel passaggio
“attraverso se stessa” prende di mira questo alcunché
comune a tutto» 13 . Un distendersi per
poter cogliere l’unità che è l’autentico sapere
(l’essere), che è «ciò a cui l’anima tende» 14 . Se
l’anima è l’unità fondante, ciò che è comune a
tutto non può essere logos, né la ragione, neanche
la soggettività (nell’accezione umanistica).
Nell’unità e nel tendere verso ciò che è uno è
possibile scorgere l’impostazione classica che
attribuisce alla ragione la risoluzione in unità
del molteplice. Non la ragione è eletta all’unità,
ma l’anima che, per non-avere-ancora, vie-
ne esposta dall’immagine dell’auriga che raffigura la condizione della
soggettività, il cui sforzo consiste nel non disperdersi, nel suo sentirsi
sospesa in una condizione di precarietà ed instabilità. L’auriga non è
la Ragione, ma l’anima che cerca di tenersi nell’unità con il rischio di
perdersi nella caduta, quindi nella dispersione. Nell’atto della tensione
si può incorrere al rischio di rimanere vittima del tendere, perdendo
di vista il sé oppure alienandosi con il via-da-se-stesso. L’andare oltre
se stesso deve sottendere sempre il ritorno in sé, il via da sé oltrepassa
l’in sé per ritornarvi ancora più ricco, per essere di più. Altra cosa è
l’alienazione che è un uscire senza ritorno. L’assunto eracliteo della
via all’in su e all’in giù viene ripensato nel Teeteto nell’ambito della
reciprocità nel disporsi su e giù nel senso che l’anima si mostra nel
prendere di mira l’essere, in modo tale che essa raccoglie presso di sé e
per sé, andando su e giù. La domanda fondamentale sull’essere, assunto
preliminare da cui ci si è mossi, trova legittimazione in Platone, in
genere nel pensiero greco, nell’essere della non-sussistenza, pertanto
il significato originario della verità si coglie nell’andare oltre se stesso,
che non implica idealismo, assoluta trascendenza o alienazione – la
verità è quindi tensione ontologica che probabilmente ha fatto mettere
in moto il prigioniero alla ricerca della luce.
1 M. HEIDEGGER, L’essenza della verità, (ed. it. a cura di F. Volpi),
Adelphi, Milano 2003, p. 229.
2 Ibi, (Teeteto), p. 227.
3 PLATONE, Fedro, trad. di P. Pucci, Biblioteca universale Laterza,
Bari 1984, p. 225.
4 M. HEIDEGGER, cit., p. 55. «e che così facendo provasse dolore
e il barbaglio lo rendesse incapace di scorgere quegli oggetti di
cui prima vedeva le ombre. Che cosa credi che risponderebbe, se
gli dicesse che prima vedeva vacuità prive di senso, ma che ora,
essendo più vicino verso oggetti aventi più essere, può vedere meglio?
E se, mostrandogli anche ciascuno degli oggetti che passano,
gli si domandasse e lo si costringesse a rispondere che cosa è? Non
credi che rimarrebbe dubbioso e giudicherebbe più vere le cose
che vedeva prima di quelle che gli fossero mostrate adesso? Certo
rispose» in PLATONE, La Repubblica, (da Opere Complete, trad. it.
di F. Sartori, Laterza, Bari 1983, p. 230).
5 PLATONE, cit., p. 250.
6 M. HEIDEGGER, L’essenza della verità, cit., p. 72.
7 «Noi vediamo solo a partire dall’essere [...]. L’essere, l’idea sono ciò
che lascia passare la luce» (M. HEIDEGGER, L’essenza della verità,
cit., p. 82).
8 Per tale aspetto F. Adorno è dell’avviso che: «Esse (le idee) almeno in
principio, sono state poste da Platone di contro il metodo dei fisici
e dei sofisti, come condizione perché sia possibile la scienza [...]
(con) un rintraccio di termini universali» (F. ADORNO, Introduzione
a Platone, Laterza, Bari 1978, p. 76.
29

9 Per tale aspetto, Heidegger infatti afferma «che cosa esse siano,
come esse siano, anzi, se esse in generale ‘siano’ è fino ad oggi una
questione aperta» (M. HEIDEGGER, cit., p. 97).
10 M. HEIDEGGER, L’essenza della verità, cit., p.118.
11 «non credi che si sentirebbe felice del mutamento e proverebbe
pietà per loro?»
(PLATONE, La Repubblica, cit., p. 231).
12 «Nella non-verità non c’è in fondo qualcosa “di più” del semplice
non-essere-presente della verità?» (M. HEIDEGGER, cit., p. 159).
13 Ibi, (Teeteto) p. 227.
14 Ibi, p. 236.
30

di Ilaria Ramelli
L’APOCATASTASI NEL CRISTIANESIMO TRA SEI
E SETTECENTO
Nel periodo successivo alla Riforma, a partire
dall’avanzato Seicento, incomincia a trovarsi
un maggiore influsso diretto – quantunque non
sempre esplicito e riconosciuto – del pensiero
di Origene su alcuni teologi universalisti. Ciò
fu dovuto alla possibilità di leggere direttamente
questo autore, in quanto le sue opere
superstiti godettero di una diffusione maggiore
che in passato. Origene, insieme con S. Panfilo
Martire, S. Gregorio di Nissa, Didimo di
Alessandria, S. Evagrio Pontico, S. Giovanni di
Gerusalemme, Rufino di Aquileia, S. Isacco di
Ninive, S. Giovanni di Dalyatha e molti altri teologi
e filosofi cristiani prevalentemente greci e
siriaci1 , è il principale esponente patristico della
dottrina dell’apocatastasi, ossia della restaurazione
finale di tutte le creature razionali in Dio
annunciata fra l’altro da S. Pietro in At 3:20-21,
ove sono preconizzati «i tempi dell’apocatastasi
universale2 di cui Dio ha parlato per bocca
dei suoi santi profeti da tempo immemorabile»,
«i tempi del sollievo proveniente dal volto del
Signore», e da S. Paolo in 1 Cor 15:28, ove è
profetizzata l’evizione finale delle potenze del
male e della morte, la sottomissione di tutte le
creature a Cristo e la presenza escatologica di
Dio «tutto in tutti».
Alcuni importanti sostenitori di teorie soteriologiche
universalistiche si situano tra i cosiddetti
Platonici di Cambridge, filosofi del XVII secolo
connessi all’università di Cambridge, molto
interessati a Origene – un Platonico cristiano
– e al Neoplatonismo3 . Accanto alla tradizione
platonica, essenzialmente Platone e Plotino,
i Platonici di Cambridge informarono il loro
pensiero su numerose altre fonti filosofiche,
soprattutto Aristotele e gli Stoici per quanto
concerne i pensatori antichi, ma anche filosofi
recenti e contemporanei, quali Cartesio, Spinoza,
Hobbes, Bacone, Boyle. More, Cudworth,
Culverwell e Smith furono tra i primi inglesi a
leggere Cartesio, e i Platonici di Cambridge furono i primi a usare l’inglese
come lingua filosofica. Essi tendevano a vedere la continuità del
pensiero platonico attraverso le epoche, quale philosophia perennis,
una concezione sostenuta nell’Umanesimo italiano, ad esempio da
Ficino, e poi ripresa da Leibniz. Essi, invece, non amavano l’impostazione
scolastica propria della filosofia accademica, e si interessarono
alle novità apportate dalla rivoluzione scientifica.
A differenza dei maggiori filosofi dell’epoca, e a somiglianza invece
di Origene e dei filosofi patristici, essi avevano tutti una preparazione
anche teologica, non ritenendola in contrasto con la ricerca filosofica.
Erano convinti della compatibilità di fede e ragione, a cui essi assegnavano
un grande valore. In generale, essi applicarono le loro competenze
filosofiche a problemi teologici ed etici, difendendo l’esistenza di Dio e
l’immortalità dell’anima e teorie escatologiche quale quella dell’apocatastasi.
Sostenevano l’esistenza di principi morali eterni e verità eterne,
e la presenza di principi razionali ed etici nell’intelletto umano, nonché
il libero arbitrio, contro ogni forma di determinismo. Questo del libero
arbitrio era stato un caposaldo anche di Origene, che lo aveva sostenuto
strenuamente in funzione soprattutto anti-gnostica. Ho anzi cercato di
dimostrare come la dottrina stessa dell’apocatastasi in Origene emerga
quale risposta polemica, sul piano della teodicea, al predestinazionismo
gnostico, in difesa del libero arbitrio delle creature razionali4 . Il loro indirizzo
platonico li conduceva ad un dualismo intelligibile-sensibile in
cui l’intelligibile era concepito come anteriore e superiore al sensibile, a
livello sia ontologico sia gnoseologico, una linea ben presente anche nel
Platonismo cristiano di Origene e del Nisseno.
L’ispirazione origeniana nella dottrina dell’apocatastasi e della salvezza
universale in questi pensatori risulta evidente ed esplicita nella anonima
Letter of Resolution Concerning Origen and the Chiefs of His
Opinions (1661). Quest’opera è oggi usualmente attribuita a George
Rust († 1670), che fu allievo del Platonico di Cambridge Henry More e
poi divenne vescovo anglicano di Dromore, in Irlanda. In essa è difesa
la teoria della salvezza universale in base all’argomento che Dio creò
tutte le realtà esistenti per amore, e «per il bene e la felicità delle creature
stesse». Queste premesse, secondo l’autore, rendono impossibile
pensare che Dio abbia creato individui che soffriranno eternamente
pene meramente retributive. Ispirandosi evidentemente a Origene,
l’autore sostiene infatti che le punizioni, sia terrene sia ultraterrene, siano
esclusivamente educative e catartiche. Come Origene – che contro
Gnostici e Marcioniti negava la scissione di giustizia e bontà in Dio –,
l’autore è convinto che la salvezza universale non sia in contrasto con
31

la giustizia di Dio, che in Esso coincide con la misericordia. Rust si
inserisce nel dibattito a lui contemporaneo sul significato e sul valore
dell’opera redentrice di Cristo: egli respinge la teoria della redenzione
come pena sostitutiva, scontata da Cristo in luogo dei peccatori.
Piuttosto, egli la vede come un mezzo, messo a disposizione dalla
Provvidenza, per riportare i peccatori a Dio. Così, le pene dell’inferno
non sono eterne, dato che perseguono lo scopo di far convertire
il peccatore; tuttavia, come Origene e il Nisseno, Rust ammette che,
per ottenere questo scopo, esse devono essere «molto lunghe, grandi
e insopportabili»: solo così anche i peccatori più invischiati nel male
potranno tornare a rivolgersi a Dio. Rust attacca ironicamente coloro
che sostengono l’eternità delle pene infernali solo perché possono facilmente
assicurarsi che non toccheranno a loro5 .
Non è un caso, in effetti, che Rust fosse molto vicino a Henry More, il
quale conosceva bene Origene e dimostra forti influssi delle sue teorie.
More fu autore di opere filosofiche, tra cui una contro l’ateismo –
usò la filosofia contro l’ateismo dei razionalisti 6 – e una sull’immortalità
dell’anima dedicata a Lord Conway, marito di Ann Conway, discepola
e amica di More e convinta sostenitrice dell’apocatastasi7 ; dei Poemi
filosofici (1647), in cui si rivela l’impostazione neoplatonica del suo pensiero,
e di opere teologiche ed esegetiche8 . Scrisse An Explanation of
the Grand Mystery of Godliness: or a True and Faithful Representation
of the Everlasting Gospel of our Lord and Saviour Jesus Christ (1660 e
1664), dove polemizzò contro la visione pessimistica calvinista, proponendo
un provvidenzialismo etico e razionale che insiste sulla bontà e
la giustizia di Dio quali inscindibili, come le aveva presentate Origene.
More, di famiglia calvinista, presto si era sentito a disagio di fronte alla
dottrina della predestinazione, così come Origene si era sentito a disagio
di fronte al predestinazionismo gnostico. In quest’opera More recupera
la dottrina origeniana, o meglio platonica e plotiniana, della preesistenza
dell’anima 9 . Egli dichiara che «Nessun filosofo che abbia ritenuto l’anima
spirituale e immortale ha mai mancato di ritenerla anche preesistente».
More insiste anche sulla dimostrazione dell’esistenza e della natura
provvidenziale di Dio, laddove la Provvidenza di Dio è fortemente ordinata
alla salvezza. Come già Origene, anch’egli è un deciso assertore
del libero arbitrio e della facoltà di auto-determinazione umana: dal
greco usato anche da Origene, au jtexousiva, trae autoexousy, impiegato
anche da un altro Platonico di Cambridge, Ralph Cudworth. In effetti,
alle basi del pensiero di More si pone il Neoplatonismo, specialmente
di Plotino, al cui studio egli si dedicò in modo approfondito dopo la
laurea insieme alle opere di Marsilio Ficino e di Platone, e il Platonismo
cristiano di Origene. Anche la Theologia Germanica, opera di teologia
mistica, esercitò un profondo influsso sul suo pensiero. Nella sua esegesi
della Genesi, More interpreta che il primo essere umano fu creato come
puro spirito e solo a causa della caduta fu dotato di un corpo materiale
pesante, un’idea che ricorda l’antropologia origeniana. Come Origene,
More, nell’opera dedicata a dimostrare l’immortalità dell’anima, divide
gli spiriti in animali, umani e angelici, oltre alle idee o forme germinali.
Nella Spiegazione del grande mistero della Divinità, ove fra l’altro re-
32
cupera l’argomento ontologico per la dimostrazione
dell’esistenza di Dio, More afferma che
la verità della Provvidenza divina fu mantenuta
viva dal Platonismo, e insiste sulla libertà di
coscienza e la consapevolezza che deve caratterizzare
l’adesione alla fede cristiana. Egli
suggerisce una visione aperta alla possibilità
dell’apocatastasi: non sorprende che due dei
suoi allievi, Rust e Lady Conway, fossero decisi
sostenitori di questa dottrina. Rust strinse
amicizia con Lord Edward Conway, un amico
di Henry More, e con sua moglie Lady Anne
Finch, viscontessa di Conway (1630/31-1679) 10 .
Quest’ultima ricevette in casa un’istruzione accurata:
sapeva il greco, il latino e l’ebraico, e
aveva letto molte opere filosofiche, teologiche
e mistiche. Il platonico Henry More fu maestro
di uno dei suoi fratelli al Christ’s College di
Cambridge, il che facilitò la sua corrispondenza
con lei sulla filosofia di Cartesio. More, a sua
volta, aveva tenuto un epistolario con Cartesio,
e aveva esordito in filosofia come difensore del
pensiero cartesiano, anche se con riserve, che
si aggravarono. La corrispondenza tra lui ed
Anne11 continuò anche dopo il matrimonio della
giovinetta nel 1651: More dichiarò che non
aveva pressoché mai incontrato una persona intellettualmente
meglio dotata di lei per natura.
Anche Anne, partita dalla filosofia cartesiana, se
ne distaccò; studiò la Qabbalah di Lurja e infine
si convertì al movimento dei Quaccheri12 . Oltre
a fornire una valutazione critica del pensiero di
Hobbes, Spinoza e dello stesso Cartesio, nonché
di More, Lady Conway influì anche su Leibniz,
che ne apprezzò l’opera, suggerendogli
forse anche il termine «monade» 13 . Un fattore
che sembra avere influito sulla sua concezione
della salvezza universale è una grave forma di
cefalea che la afflisse per tutta la vita, refrattaria
ad ogni tipo di cura, anche il più drastico: l’unica
spiegazione che ella poteva darsene e che
fosse conciliabile con l’idea di un Dio buono e
amorevole era che ella dovesse avere peccato
gravemente in una vita precedente, così da aver
bisogno di incarnarsi nuovamente in una vita
di profonda sofferenza per purificarsi. Questo
denuncia una forte ispirazione platonica, specialmente
in quanto implica l’ammissione della
reincarnazione, che Origene invece aveva

espinto decisamente. Inoltre, è chiaro che la
Conway condividesse con Rust la convinzione
che la sofferenza fosse necessaria per la salvezza.
Ella scrive nella sua unica opera propria14 :
«Ogni sofferenza, ogni tormento suscita o provoca
uno spirito attivo e la vita in qualsiasi essere
che stia soffrendo [...] attraverso la sofferenza
e la sua sopportazione [...] e in tal modo lo spirito
è reso più spirituale, e di conseguenza più
attivo e operativo, attraverso la sofferenza».
Nel suo libro è sostenuta la dottrina della salvezza
universale, fondata su due principi che
erano già chiari in S. Gregorio di Nissa: l’infinità
del Bene, che è Dio, e la finitezza del male,
che dunque cesserà prima o poi, cosicché ogni
anima potrà tornare a volgersi verso Dio, in
un’ascesa infinita che richiama manifestamente
la e jpe vktasi" senza fine del Nisseno. Origene
stesso mostra di avere avuto un influsso
sul suo pensiero, certamente attraverso Henry
More, che lo ammirava fortemente. Il male è da
lei spiegato come una mancanza – secondo il
principio platonico condiviso da Origene e dal
Nisseno –, un allontanamento dalla perfezione
di Dio, e la sofferenza come parte di un processo
di reintegrazione spirituale. Ella ricusa apertamente
l’eternità dell’inferno, poiché sarebbe una
punizione infinita per un peccato comunque finito:
idea incompatibile non solo con la bontà
di Dio, ma anche con la sua giustizia. Le sofferenze
ultramondane saranno esclusivamente
purificatrici e finalizzate all’apocatastasi. Uno
dei dottori che assisteva Anne era Francis Van
Helmont (fiorito nel 1670-79), anch’egli amico
di Henry More. Egli pure in uno scritto propugnava
la salvezza universale, fondandosi sulla
necessità di concepire tutte le pene imposte da
Dio come correttive e non punitive. Per evitare
che l’idea della salvezza universale incoraggiasse
l’immoralità garantendo comunque la salvezza
a tutti, l’autore insistette molto sulla lunghezza
e asprezza di queste sofferenze, come Rust e
come già Origene e il Nisseno.
Similmente legati ai Platonici di Cambridge erano
Peter Sterrey (1613-1707) e Jeremiah White (1613-
1672), suo allievo, entrambi ministri indipendenti
e cappellani al tempo di Cromwell, e influenzati
dal pensiero del luterano tedesco Jakob Boehme
(1575-1624). Questi, dedito alla teosofia, aveva
criticato le dottrine riformate relative alla predestinazione di eletti e dannati
come incompatibili con l’idea di un Dio che si rivela e si dona universalmente,
quale emerge dalle Scritture. Anche se non si può definire
con certezza Boehme un universalista 15 , certamente fu letto da pensatori
che ne impiegarono le idee in senso universalista, come Sterrey, che ne
inserì le idee entro uno schema di redenzione universale, e il suo discepolo
White.
Quest’ultimo affermò con maggiore decisione la teoria soteriologica
universalistica, fondandosi anch’egli sul valore catartico che ogni punizione
deve avere, se ad infliggerle è un Dio che è amore, e che non
ritirerà il suo amore da nessuna sua creatura16 . Anch’egli, come van
Helmont, si preoccupò che le sue tesi non incoraggiassero a peccare
e non incentivassero un certo lassismo morale, cosicché l’ultimo capitolo
del suo libro, il cui titolo The Restoration of All Things (London
1712) si ispira evidentemente al concetto di apocatastasi, s’intitola significativamente
Being a Warning to Sinners. Anch’egli parte dal presupposto
della perfetta unità tra giustizia e amore nella natura divina,
e ne deduce che ogni punizione stabilita da Dio è buona in se stessa,
poiché ogni cosa che Dio faccia è buona, e buona per chi la subisce,
poiché Dio ama le sue creature. Più complesso appare il tentativo di
conciliare la dottrina della apocatastasi con quella di una duplice predestinazione:
per questo egli afferma che la divisione tra eletti e dannati
è destinata ad essere temporanea e finalizzata alla manifestazione
della Grazia di Dio. Per conseguenza, White insiste meno sul libero
arbitrio umano, che invece Origene aveva enfatizzato, dedicandogli
il terzo libro del De Principiis e molti altri passi anche di altre opere.
Come Origene, invece, White si fonda continuamente sulle Scritture,
cui dedica lunghi brani esegetici: anch’egli è convinto che l’apocatastasi
trovi supporto innanzitutto nella Bibbia. Inoltre, nella prefazione
egli cita alcuni autori antichi che furono sostenitori della dottrina della
salvezza universale: Origene, ovviamente, ma anche Clemente Alessandrino,
il quale ritengo infatti che abbia fornito importanti spunti a
Origene per la sua teoria delle punizioni terapeutiche, dell’onnipresenza
della misericordia di Dio e dell’apocatastasi17 .
In Inghilterra, la teoria della salvezza universale fu sostenuta nello stesso
periodo anche da Jane Lead (1623/4-1704), autrice di numerose opere18 .
Nel 1681 ella scrisse The Revelation of Revelations, trattato sull’apertura
e il disvelamento dei sette sigilli, sulla Nuova Gerusalemme e le sue dodici
porte. Del 1694 è The Laws of Paradise, contenente alcune prescrizioni
comunicatele dalla Sapienza durante una rivelazione. The Wonders
of God’s Creation (1695) è similmente una rivelazione relativa agli
otto mondi o regioni assegnate alle anime umane, in conformità con i
loro diversi gradi di ascesa o discesa. Dello stesso anno è A Message to
the Philadelphian Society e del 1696 A Second Message to the Philadelphian
Society. Nel 1696, abbiamo un terzo messaggio alla Società del
Filadelfi, The Messenger of a Universal Peace. Nel 1698 ella scrisse The
Tree of Faith, relativo all’albero della vita che spunta nel Paradiso, da
cui devono procedere tutte le meraviglie della nuova creazione. Come
un supplemento a quest’opera si presenta The Ark of the Faith. Jane ten-
33

ne anche un diario degli incontri spirituali a partire dal 1670, pubblicato
successivamente, in tre volumi, nel 1696, 1697 e 1700: A Fountain of
Gardens. Nel 1697 si colloca The Ascent to the Mount of Vision, con
rivelazioni relative alla prima resurrezione, alla condizione delle anime
separate; alla vita dei patriarchi, e al Regno di Cristo. Nel 1699 abbiamo
altre due opere, The Signs of the Times e The Wars of David and
the Peaceable Reign of Solomon. Nel 1701 ella pubblicò l’ossimorico
A Living Funeral Testimony, che spiega «la sconfitta e la sommersione
della morte nella vita di Cristo, con una ulteriore descrizione dei vari
stati delle anime separate riguardo a ciò che esse possono attendersi
che segua dopo la morte, in Cristo o fuori da Cristo». Nel 1702 uscirono
le Sessanta proposizioni, note anche, in forma modernizzata, come la
Profezia del 1679: è la fonte da cui furono tratte molte versioni della
profezia, originariamente estratta dal Messaggio alla Società dei Filadelfi
dai seguaci della Lead e pubblicata nel 1697.
L’opera di maggiore rilievo dal punto di vista dell’apocatastasi è The
Enochian Walks with God (1694), che si riferisce a Gen 5:24, «Ed Enoch
camminò con Dio, e non fu (più), poiché Dio lo prese» 19 . Il sottotitolo
è eloquente: «trovate da un viaggiatore spirituale il cui viso era rivolto
verso il monte Sion, con un resoconto di prima mano di quanto fu
conosciuto, visto e udito là. Saggio per una ulteriore rivelazione di
un’ampiezza immensa e infinita dell’Amore di Dio, fino all’apocatastasi
della sua intera creazione, e come, e in che modo e maniera dobbiamo
cercare e attendere quest’ultima manifestazione e venuta del
nostro Dio potente e Salvatore Gesù Cristo». Si tratta della terza opera
profetica pubblicata da Jane Lead per l’edificazione dei suoi, a proposito
del rinnovamento della mente e del cuore necessario per ottenere
una “passeggiata con Dio” come Enoch ebbe; sul ruolo della Vergine
nella nascita di Gesù nell’intimo di ciascuno; sui fattori che ostacolano
tale processo e impediscono all’anima di progredire. È anche rivelato
– come dichiara espressamente l’antica presentazione – «il primo
barlume del meccanismo della apocatastasi universale in Dio di tutti
gli spiriti e le creature che hanno apostatato». L’opera è il resoconto di
un’esperienza mistica in cui l’autrice apprese la natura delle punizioni
ultramondane; è meno filosofica di quelle degli autori che ho presentato
in precedenza e mostra uno stile “biblico”, con inserzioni poetiche.
Le premesse sono sempre l’amore di Dio e la concezione delle pene
in senso catartico e terapeutico, da sempre capisaldi del pensiero dei
sostenitori dell’apocatastasi. Anche la Lead, tuttavia, come Origene e il
Nisseno, per evitare di incoraggiare l’immoralità insisteva sulla severità
e sulla lunghezza di queste sofferenze20 .
Riporto qui soltanto alcuni passi salienti, da cui emerge la vicinanza di
argomenti con Origene e con il Nisseno; i corsivi sono miei.
Amici miei, che dimorate nell’amore universale del Dio dell’amore, io
non dubito che la materia di questo discorso possa trovare accoglienza
presso di voi, poiché si tratta di un messaggio dall’alto, un messaggio
di bene e di liete novelle per l’intera creazione, dall’inizio del tempo
fino al termine ultimo e alla sua massima estensione, poiché la munifi-
34
ca Grazia di Dio giunge fino a quel punto. Ma
questo amore si esprime non soltanto salvando
e liberando da una punizione eterna – quale
avrebbe giustamente meritato la trasgressione
e la disobbedienza proclamata all’intera stirpe
di Adamo decaduta – per opera di Colui
che si offerse in sacrificio per il peccato, ma
si sappia che l’amore di Dio non è così chiaramente
visto o illustrato, se dovesse fermarsi
qui in questa modalità visibile della redenzione
per opera di Cristo, ma deve andare molto più
in profondità, nel cercare di portare alla luce
nell’anima una nuova somiglianza rispetto a
Dio21 . Che quello che era diminuito e sparito
possa essere ristabilito e restaurato dalla nascita
dello Spirito Santo, che è concepito e che sorge
nell’intimo, per un completo rinnovamento in
ogni parte dell’anima: questo troverete che è
l’intero fine e l’intento di quanto sta scritto qui
[...]. Quindi, a questo scopo, tutti i pastori e gli
insegnanti pubblici e privati dovrebbero sapere
come procedere, e che cosa proclamare, e dovrebbero
esaltare il ministero dello Spirito per
rendere pronte tutte le nazioni, le popolazioni
e le lingue a chiamarli in aiuto, in virtù del potere
del Vangelo eterno, il cui possente suono
possa giungere, nello Spirito di Cristo, ai liberi
e ai prigionieri, siano essi nel corpo o fuori dal
corpo22 . Questo Vangelo, infatti, si estenderà
così ampiamente, al di là dei limiti del tempo,
fino a creature in età ancora remote, e nel presente
volume troverete proclamata questa ampiezza
dell’amore redentivo: si tratta anche di
una verità rivelata, che non ho potuto tenere
nascosta al mondo.
E per quanto riguarda quei passi scritturali che
potrebbero essere addotti contro di essa, mi
sono stati interpretati, in modo da conciliarli con
il contenuto della rivelazione, e così mi è stato
spiegato che quando il Signore Cristo andò a
predicare agli spiriti imprigionati che erano stati
disobbedienti nei giorni di Noè, o anche prima,
coloro che erano in catene erano rimasti nelle
regioni inferiori, ma all’apparire di Gesù furono
liberati: a che scopo avrebbe predicato loro, altrimenti?
Potete trovare e leggere questo passo
(nelle lettere) di Pietro23 . E così avverrà ancora
alla Sua seconda e ultima apparizione, quando
verrà a giudicare i vivi e i morti, allorché

emetterà una sentenza giusta e retta secondo
l’operato di ciascuno; tuttavia, questo Giudice
si riserverà la libertà di rilasciare e di concedere
la remissione a tutti coloro che sono passati nelle
pene purificatrici del fuoco e sono stati in tal
modo mortificati. Prendete nota di quello che
dice l’apostolo Paolo a questo proposito: «saranno
salvati, ma come attraverso il fuoco» 24 .
Quanto alla grave obiezione sollevata in base
alle parole di Cristo, «Andàtevene, maledetti,
alla punizione eterna», questa si oppone ai ristretti
limiti temporali di questo mondo, e ammette
soltanto un gran numero di periodi temporali,
in cui possano ancora darsi sofferenze e
punizioni25 ; tuttavia non sarà oltre il tempo di
Cristo, quando il Signore completerà il Regno
e lo rimetterà a Suo Padre26 , poiché Dio era,
è e ha così stabilito di riconciliare a Se stesso,
in Cristo, tutto quello che era in contrasto con
Lui, poiché non si deve minimamente dubitare
dell’efficacia di Cristo, il secondo Adamo, per
merito del Suo sangue versato (sulla croce) e
del Suo Spirito effuso e donato in quell’occasione,
che renderà di nuovo buono tutto quello
che il primo Adamo aveva reso cattivo27 . Potrei
soffermarmi a dire molto di più, ma spero che
posa bastare prendere in considerazione quel
passo della Scrittura nella Lettera ai Romani,
capitolo 5, versetti 14-1628 , che è sufficiente a
chiarire e a persuadere che l’impacco curativo
che è stato fornito è molto più ampio del danno
che la ferita del peccato aveva procurato.
Chiunque tu sia, o Lettore, sappi questo: da un
potere celeste sono stata indotta a fare chiarezza
e a rivendicare la bontà regale e generosa
della Santa Trinità, che concorda nell’unità, per
la riconciliazione e la riconduzione ad Essa di
tutti gli esseri spirituali, di qualsiasi tipo29 , che
sono finiti dispersi e divisi da Essa, il che sarà
reso manifesto nella dispensazione della pienezza
del tempo, suscitando ammirato stupore,
perché l’intera creazione di Dio ami, lodi, esalti
e adori il suo misericordioso Creatore, che ha
compiuto tale redenzione universale.
Soltanto, tollera questa parola di avvertimento
e di consiglio: che nessuno presuma di volgere
questa Grazia di Dio in una condotta di vita
viziosa e trascurata30 , poiché angoscia e terrore
dell’anima, e sofferenza, graveranno su simili
persone, qui e nell’al di là: possa tutto questo essere evitato nel tempo
di questa vita per mezzo di una circoncisione interiore, nello spirito, e
di una mortificazione della natura malvagia, che la conduca a sottomettersi
alla legge dello Spirito di Santità. Io, infatti, devo solennemente
dichiarare a tutti coloro che vivono in maniera dissoluta e vana che
essi non avranno parte nella prima resurrezione31 [...]. Questa è la vera
festa dei Tabernacoli, che io vi ho descritto32 . Nessuno, infatti, può
salire fin qui senza indossare il suo corpo-tabernacolo, che è il cuore
fiammeggiante dello Spirito Santo.
Allora conoscerete un nuovo stato di vita che non avete mai conosciuto
prima, poiché farà uscire dalla porta del cuore l’amore per tutte le
creature mortali. Questo sarà conosciuto nei fatti [...]. Cristo, il Signore,
brama ardentemente di vedere l’anima viaggiatrice pervenire sana e
salva al suo grembo d’amore, molto più di quanto l’anima stessa non
desideri di apparire al Suo cospetto. Così, grazie a questo reciproco
patto d’amore, il sempiterno vincolo dell’amore sponsale sarà contratto,
una volta che l’anima sia giunta lassù.
Questo viaggio, durante il secondo giorno, è più agevole e ristoratore.
Le strade emanano un dolce profumo, in base alle promesse del
Vangelo, assicurando, grazie al sangue riparatore dell’Alleanza, che la
colpa del peccato è cancellata, dal che l’anima è incoraggiata e consolata
[...]. Nessuna applicazione esterna di Cristo giova tanto quanto
la presenza di Cristo nell’intimo, che effonde come un unguento il Suo
nome di salvezza, che si prende efficacemente cura della condizione
decaduta dell’anima, poiché una malattia interiore deve ricevere una
medicina interiore, che possa penetrare attraverso le parti interne, perché
tutte possano essere rese integre. È questa la promessa redenzione
operata da Cristo, e senz’altro reintegrerà l’anima nei suoi diritti33 , così
da donarle l’ardire di venire a presentarsi al cospetto di quella grande
assemblea di spiriti perfetti nel Regno del monte Sion.
Preghiera dell’anima di fronte al Signore: Oh, per sempre trova posto,
spazio per me, e per tutti i Tuoi che amano la Tua manifestazione.
VederTi come sei sicuramente ci muterà nella stessa somiglianza d’immagine
con Te34 .
Mentre si è ancora qui, si fa conoscenza con questa regione celeste,
prima di lasciare la propria spoglia mortale in questo basso mondo.
È un alto e straordinario privilegio vedere e conoscere in anticipo il
proprio luogo e la propria compagnia, poiché Cristo nostro Signore
è molto generoso nel mostrare i Principati, le Dominazioni, e le Virtù
[sc. ordini angelici] che sono nel Suo Regno a quanti sono spiritualmente
disposti, e a garantire loro con sicurezza che essi sono coeredi
della stessa gloria insieme con Lui, come si può constatare nel Vangelo
di Giovanni, cap. 17, e nella Lettera di S. Paolo ai Romani, cap. 8.
Questione [sulla salvezza universale finale]
Ma a questo punto mi si presenta un interrogativo. Che cosa avverrà
delle vergini stolte che vengono trovate addormentate, e delle altre
categorie e qualità di persone che sono morte e sono state sepolte
nelle colpe e nei peccati, quando la famosa ultima tromba squillerà
per annunciare la Sua apparizione? Sicuramente, non sarà un giorno
35

desiderabile per persone tali quali sono costoro, i quali vissero senza
un Dio e senza Cristo, e sono completamente stranieri rispetto a questa
regione celeste, poiché amarono e abbracciarono questo mondo,
e fecero di esso il loro Dio. Davvero una grande afflizione attende
queste persone, mentre una gioia indicibile attende il sollevarsi del
capo di tutti coloro che sono liberati dalla terra: è giunto il loro giorno
beato, che essi hanno aspettato a lungo, per poter volare come colombe
a Cristo, loro Vita. Ma mi è stato rivelato qualcosa di più riguardo
a quella moltitudine di anime che sono uscite da questa vita in una
condizione cattiva e non rigenerata, oppure stanno ancora procedendo
in un’avventura disperata, senza preoccuparsi di che cosa avverrà
di quella scintilla immortale che è la loro anima. Quanto sarà terribile
e degno di compianto che essi abbiano sciupato e dissipato ciò in
cui essi avrebbero potuto guadagnare i privilegi e i doni d’amore che
sono stati menzionati qui; se solo avessero migliorato il proprio talento,
infatti, il progresso sarebbe stato molteplice: gioia qui, nel tempo
presente, e molto di più quando essi non avranno ormai più tempo a
disposizione. Mi sia consentito di dire loro che il loro danno e la loro
sofferenza è tanto grande, e l’angoscia delle loro anime così profonda,
che nessuna lingua è in grado di esprimerlo. Quindi, a quanti sono ancora
in vita, possa suonare la tromba ammonitrice, sia per coloro che
sono rigenerati soltanto parzialmente, sia per coloro che non hanno
neppure incominciato nulla in questo senso [...]. Voi non siete destinati
ad essere esclusi dal cospetto di Dio e ad essere cacciati fuori dal gregge
del Pastore regale, mentre, addolorati, vedrete coloro che vissero
insieme con voi nella stessa regione piena di tentazioni, che essi tuttavia
hanno superato, e saranno come vincitori assisi con il Signore Gesù
sul suo trono, laddove invece voi sarete obbligati ad andarvene in un
luogo di prigionia e di tenebra fittissima. Ma ammettete che ci sarà una
liberazione da questo luogo, alla fine di tutte le generazioni e di tutti i
tempi. Eppure, per quanti anni potreste dover rimanere in queste fornaci
che purificano e che mettono alla prova! Un solo giorno qui, durante
la vita nel corpo, avrebbe fatto progredire il vostro lavoro più di anni
interi in quei centri in cui dovrete essere confinati. Pertanto, sia questo
un lavoro accettabile e provvidenziale per tutte le persone di questo
tipo e di questo genere, che tanto poco si curano della felicità della
loro anima, ossia della condizione di beatitudine presente e futura.
[...] Che sarà di coloro che non hanno la possibilità di andare avanti,
ma muoiono presto, dato che milioni di anime ogni giorno lasciano
questo mondo senza essersi rivestite di Cristo, veste senza la quale
non si può pervenire direttamente ad essere con Lui nei tre cieli? 35
In risposta a questa domanda, si sappia che diverse dimore e regioni
sono state predisposte, nella Sua sapienza, provvidenza e grazia, da
Dio, il quale sapeva che cosa sarebbe accaduto, sotto questo aspetto,
al più gran numero degli esseri creati da Lui stesso. Così, Egli ha proclamato
una redenzione voluta per amore, per tutti, per opera di Cristo,
manifestato nella carne, al fine di distruggere e di purificare il peccato,
eliminandolo dalla carne, cosa che, come possiamo constatare, si verifica
molto raramente durante il tempo di questa vita, dove, per uno
36
che raggiunge questo scopo, mille lo mancano.
Perciò, per quanto riguarda coloro i quali furono
generati dal Logos eterno e stanno andando
avanti, con tutta la loro buona volontà, nel
loro progresso spirituale, morendo poco prima
di terminare questo cammino, ebbene, costoro
saranno ammessi a stare nella regione del Paradiso,
per esercitare le loro facoltà spirituali allo
scopo di realizzare appieno quello che erano
stati ostacolati e impediti dal realizzare qui in
questa vita, e così proseguono nel perfezionare
quello stato di perfezione, che li farà riuscire a
compiere le ultime e più alte tappe che ancora
mancano al raggiungimento dello stato del
monte Sion, che è ancora più glorioso36 .
E, benché questo non sia stato compreso o creduto,
tuttavia è una verità che ho ricevuto da
buona mano: per questo ho l’ardire di farla conoscere,
poiché tutte le anime devono passare
attraverso le regioni del raffinamento e della
riduzione in cenere, poiché così sono preparate
alla loro purificazione. E questo avverrà in
conformità con le misure e i livelli che esse raggiungono
qui in questa vita. Così, tanto meno
esse avranno da fare nella vita a venire, che
sarà molto più agevole e tranquilla. Quindi, è
senz’altro mio compito incitarle a progredire,
che, mentre sono ancora nel corpo, possano
correre in modo tale da raggiungere il traguardo
della resurrezione, poiché ciò procurerà, già
al presente, un frutto di pace, gioia e gloria.
Ma abbiamo ancora qualcos’altro da proclamare,
riguardo all’aperta dichiarazione e affermazione
dell’amore infinito e insondabile del
nostro Dio per l’intera stirpe decaduta, per gli
angeli che hanno trascorso il loro tempo nel
cercare di ingannare e tentare tutta l’umanità,
il che giungerà a un termine e a una fine, poiché
tutti devono essere redenti e ricostituiti nella
loro condizione originaria37 , all’arrotolarsi e
allo scomparire di tutti i vari scenari che erano
finalizzati a manifestare le meraviglie della sapienza
di Dio in amore, potenza e giustizia.
Ma perché non abbiate a fare affidamento
esclusivamente sulla mia mera testimonianza,
ricordatevi che la Scrittura, nella Lettera agli
Efesini, capitolo 1, versetto 10, afferma: «Nella
pienezza dei tempi, Egli possa ricapitolare in
Cristo tutte le realtà che sono in cielo e in ter-

a, pienamente realizzate in Lui, che il Padre
ha segnato con il sigillo per la restaurazione
di quello che il peccato aveva portato ad una
confusione disordinata» 38 . E potrei addurre,
a questo punto, anche alcuni altri passi della
Scrittura che sono da me citati brevemente altrove,
sebbene non qui.
Oh, amici miei! Quali notizie più gioiose potrebbero
giungere alle nostre orecchie se non
quella relativa a questa età che durerà per sempre,
la quale inghiottirà tutte queste età in cui
hanno regnato il peccato e la morte,con tutti
quegli effetti deplorevoli che ci sono sempre
stati, fin dalla la creazione di questo mondo?
Ma Dio arrecherà un modello nuovo e meraviglioso
in uno stato appena creato: Ecco – dice il
Signore – Io farò nuove tutte le cose; la fine tornerà
al suo modo d’essere originario e primario.
Nessuno si risenta del fatto che la Grazia
di Dio è di un’ampiezza tale da compiere una
apocatastasi completa, poiché, come all’inizio
non c’era né peccato né fulcro su cui esso potesse
fare leva, così dev’essere ancora, quando
verrà l’ora del giudizio di Dio, ad emettere una
sentenza definitiva su tutto questo, a gettare tutto
in quel lago e abisso senza fondo, dove tutto
ciò che è peccato, morte, dolore e maledizione
diverrà una non-entità39 . Allora non ci sarà più
nessuno spirito diabolico, nessuno che offenda
Dio e che disturbi e tormenti le Sue creature.
Tutto questo sarà conosciuto nella profezia
dell’eternità, e per questo si gioirà per sempre;
e precursore di questo giubilo colmo di beatitudine
sarà la tromba del Vangelo eterno, lieta
novella d’amore, di pace e di riconciliazione
per ogni creatura capace di questo, nella carne
e fuori dalla carne, che non sia ancora completamente
redenta.
Ma può darsi che venga domandato: Quando
si avrà una apocatastasi generale e universale,
tale che tutti gli spiriti e le creature che avevano
apostatato ritornino a godere del favore e
dell’amicizia del loro Dio e Creatore? Ora, in
risposta a questo quesito: per quanto riguarda il
tempo, esso è noto soltanto a Dio, nella camera
segreta del Suo consiglio; per ora, mi è stato
rivelato soltanto che sarà alla fine del grande
Mistero, quando tutte le anime saranno passate
attraverso la loro purificazione, nei loro diversi
gradi, nella misura in cui qui ancora mancava. In tutti i luoghi, infatti, si
trovano anime che saranno portate ad uno stato purificato, per mezzo
di una completa umiliazione per tutte le loro cattive azioni. E anche
quando la generazione secondo la nascita carnale cesserà in questo
mondo, allora questa redenzione universale sarà completata, e il compito
di mediazione del nostro sommo sacerdote [sc. Cristo] perverrà al
termine, cosicché Egli non avrà più nulla da fare, se non consegnare
il Regno, così completo ormai, al Padre suo, perché Dio possa essere
«tutto in tutti», possedendo, in pieno appagamento, tutto ciò che appartiene
a questa sua nuova creazione, che sarà una gioia perpetua,
senza fine, grazie alle varie meraviglie e diletti che riempiranno l’eternità,
con strumenti armonizzati nelle lodi della Santa Trinità nella Sua
unità, come era dal principio.
Anche nel seguente titolo e sottotitolo di un’opera del 1696 si ripresenta
in nuce la dottrina dell’apocatastasi, compresa quella della reintegrazione
dei dèmoni nel Bene: A Revelation of the Everlasting Gospel
Message, «che non cesserà mai di essere predicato fino all’ora in cui
verrà il giudizio eterno di Cristo, quando sarà proclamato il giubileo
dell’amore definitivo per l’apocatastasi dell’intera creazione decaduta,
umana o angelica che sia, quando tutti i prigionieri saranno liberati in
virtù del sangue dell’eterna alleanza», versato da Gesù sulla croce.
A differenza dei filosofi trattati in precedenza, la Lead predicò anche le
proprie teorie raccogliendo una piccola congregazione a Londra, che
prese il nome di Philadelphians: le convinzioni dei Filadelfi, «coloro
che amano i loro fratelli», erano per certi aspetti di tipo millenaristico,
sebbene essi non aspirassero a dividersi dalla Chiesa anglicana; infatti,
rimasero sempre al suo interno. La congregazione vera e propria dei
Filadelfi ebbe presto fine, nel 1730, ma le idee della Lead trovarono
più durevole séguito in Europa, specialmente in Germania e in Olanda,
anche grazie al suo discepolo e promotore Francis Lee (1661-1719) 40 .
Non solo filosofi come i Platonici di Cambridge o mistici e carismatici
come Jeane Lead sostennero in questo torno di tempo la dottrina
dell’apocatastasi: a Londra, ad esempio, negli anni ‘90 del Seicento lo
fece anche un barbiere, Thomas Moor, in opere come la Clavis Aurea
(London 1695) 41 . Egli si fondava principalmente su Rm 11:11-33, ove è
preannunciata la reintegrazione finale e la salvezza di tutti i gentili e
di tutti gli Israeliti: «Forse inciamparono per cadere per sempre? Certamente
no, ma grazie alla loro caduta la salvezza [swthriva] è giunta ai
pagani... Se dunque il loro fallimento è stato la ricchezza dei pagani,
quanto più lo sarà la loro partecipazione totale [po vsw / ma 'llon to;
plh vrwma aujtw 'n][...]. Se il loro rifiuto ha segnato la riconciliazione
[katallagh v] del mondo, che cosa sarà mai la loro ammissione [pro vslhmyi"],
se non una resurrezione dai morti [zwh ; ejk nekrw 'n]? Ma
se la primizia è santa, lo sarà anche tutta la massa [fu vrama]; se la
radice è santa, lo saranno anche i rami [...]. L’indurimento di una parte
di Israele è in atto fino a che non sarà entrata la totalità dei pagani, e
allora tutto Israele sarà salvato [to ; plh vrwma tw 'n e jqnw 'n eijse vlqh /,
kai; ou {tw" pa '" jIsrah ;l swqh vsetai] [...] avete ottenuto misericordia
[h jlehvqhte] per la loro disobbedienza, così anch’essi ora sono divenuti
37

disobbedienti ai fini della misericordia verso di voi, affinché anch’essi
ottengano misericordia [e jlehqw 'si]. Dio ha infatti la potenza di innestarli
di nuovo [...] Dio ha rinchiuso tutti [tou ;" pa vnta"] nella disobbedienza
per usare a tutti misericordia [tou ;" pa vnta" e jlehvsh /]». Si
tratta di un passo che già Origene nel suo commento alla Lettera ai
Romani interpretava come annuncio dell’apocatastasi42 . Osservo però
che la negazione del libero arbitrio umano da parte di Moor lo allontana
decisamente da Origene, che del resto egli, molto probabilmente,
non conosceva. Moor negava recisamente l’inferno, tutti i riferimenti al
quale nel Nuovo Testamento egli intendeva piuttosto indicanti le sofferenze
in questo mondo. Moor è uno dei pochi sostenitori dell’apocatastasi
a negare qualsiasi punizione ultramondana, ben diversamente
da Origene, da Gregorio di Nissa, dalla Lead e da molti altri. Su una
base argomentativa molto simile a quella di Moor, ossia la sostanziale
negazione o forte limitazione del libero arbitrio umano, nell’Ottocento
gli Unitariani e gli Universalisti avranno ampio spazio e guadagneranno
numerosi Calvinisti, osservando che i peccati spesso sono dovuti
a circostanze storiche, sociali, biologiche, più che a una libera scelta.
Moor non era preoccupato degli effetti morali di questo: a suo avviso,
l’amore per Dio incoraggia la buona condotta molto più del timore
dell’inferno (convinzione, questa, propria anche di Origene, il quale
tuttavia riteneva che ciò valesse soltanto per quanti sono avanzati spiritualmente,
mentre per i più immaturi, come per i bambini, il principio
del timore prevale: per questo, Origene aveva qualche preoccupazione
a parlare apertamente dell’apocatastasi a tutti). Il contemporaneo
di Moor, e da questi citato, John Tillotson, arcivescovo di Canterbury,
in un sermone del 1690 sostenne che Dio avrebbe potuto risparmiare
tutti gli esseri umani dall’inferno senza violare le sue promesse.
In area tedesca, tra i sostenitori dell’universalismo escatologico tra Sei
e Settecento si possono ricordare alcuni pietisti, ad esempio il critico
biblico Johannes Albrecht Bengel (1687-1752), autore dello studio esegetico
Gnomon Novi Testamenti, che fu molto consultato e ammirato
da Wesley43 : Bengel, pur professando pubblicamente la dottrina luterana
ortodossa in fatto di soteriologia, privatamente inclinava a una teoria
della riconciliazione universale. Egli non divulgò tuttavia questa teoria,
convinto com’era che non tutti fossero pronti per essa, e che, se fosse
stata interpretata in modo errato, in senso fatalistico, avrebbe potuto
avere effetti devastanti 44 . La stessa dialettica tra ortodossia pubblica e
universalismo privato sembra avere caratterizzato il gruppo pietista tedesco
moderato fondato nel 1708 da Alexander Mack e noto con il
nome di Nuovi Battisti, o Brethren, specialmente in quella parte del
gruppo che si stabilì in America a partire dal 1719 45 . L’universalismo
escatologico non fu mai ufficialmente predicato dai Brethren per tema
che esso contrastasse con la loro insistenza sui temi della conversione,
della santificazione personale e dell’attivismo sociale 46 ; i Brethren tuttavia
incoraggiarono probabilmente la predicazione di queste dottrine
da parte di esponenti di un pietismo più radicale, cui appartennero ad
esempio Johann Petersen (1649-1727), Ernst Cristoph Hochmann von
Hochenau (1670-1721) e George de Benneville (1703-1793). Costoro
38
erano favorevoli all’idea di un’apocatastasi cosmica
finale, un’idea che sarebbe divenuta un
tratto distintivo del pietismo radicale 47 .
De Benneville, in particolare, emigrò in America
e fondò una Chiesa indipendente ad Oley,
in Pennsylvania; fu un convinto sostenitore della
missione evangelica: riteneva che chiunque
credesse nella riconciliazione universale finale
avesse il dovere di proclamare a tutti «il Vangelo
Universale che restaurerà, a suo tempo, tutta
la specie umana senza eccezione»; lasciare le
persone all’oscuro di questo avrebbe significato
privarle di una grande gioia. Egli affermava:
«La mia felicità sarà incompleta fin tanto che
una sola creatura rimarrà infelice» 48 . Perciò egli
predicò in Germania, Olanda, Francia, Pennsylvania,
Maryland, Delaware e Virginia. A questa
corrente pietistica radicale appartenne anche lo
scrittore tedesco George Klein-Nicolai, il quale
nel 1700 scrisse, sotto pseudonimo, un trattatello
intitolato Il Vangelo eterno, che sembra
essere stato portato con sé dai primi Brethren
emigrati in America, e che in effetti fu il primo
opuscolo universalistico ivi reso pubblico 49 .
Nel XVIII secolo, tendenze universalistiche
sembrano essere state proprie anche del già
ricordato John Wesley (1703-1791), sacerdote
anglicano che, insieme con suo fratello Charles,
fu uno dei fondatori del Metodismo, vissuto
tra Oxford, dove studiò, la Georgia, e Londra,
quando ritornò in Inghilterra, e altre zone inglesi;
fu un instancabile viaggiatore e predicatore50 .
Conosceva bene l’ebraico, i Padri della Chiesa,
soprattutto quella orientale, Macario d’Egitto
etc. Una delle sue omelie più celebri tenute a
Londra fu sulla salvezza personale presente tramite
la fede, e un’altra sulla Grazia di Dio, «libera
in tutti, e libera per tutti»; dal punto di vista teologico,
insisteva grandemente sull’importanza
della fede ai fini della salvezza. Predicò spesso
anche all’aria aperta, poiché a motivo delle sue
dottrine tante volte gli erano chiuse le porte delle
chiese; subì forti osteggiamenti di vario tipo.
Permise la predicazione e lo svolgimento delle
opere pastorali anche da parte di laici. La sua
prima regola generale era: «Non fare mai del
male, di nessun tipo», la seconda «fare del bene
in tutti i modi possibili, e possibilmente a tutti».
Un ramo della Chiesa metodista si espanse

presto anche negli Stati Uniti. Wesley, cui tale
Chiesa si ispira ancor oggi, fu molto polemico
soprattutto con la dottrina della predestinazione
calvinista, che a suo avviso presentava «Dio
come peggiore del diavolo»; egli insisteva sulla
dichiarazione di 1Tm 2:4-5: «Dio vuole che tutti
gli uomini siano salvi» e piuttosto della predestinazione
preferiva la dottrina di Pelagio. Non
solo, ma credeva in una vita ultraterrena anche
per le creature irrazionali. La Scrittura è a suo
avviso la base di tutto, interpretata attraverso
la tradizione dei Padri, la ragione e l’esperienza
personale51 . Lo Spirito dice a ciascuno dei
credenti che sono figli di Dio; la santificazione
è possibile sin d’ora, anche se non significa perfezione
totale. Scrisse più di duecento opere, tra
omelie, commentari – specialmente le Notes on
the New Testament (1754-5) e on the Old Testament
– ed inni52 , grammatiche, dizionari e altri
testi scolastici e trattati. Si disse «sacerdote della
Chiesa universale»; alla morte sua e del fratello
lasciò 359 cappelle metodiste53 .
Mary Bosanquet Fletcher (1739-1815) appartiene
alla rinascita wesleyana. In Watchword:
The Names of Christ54 , insiste sulla redenzione
e la giustificazione portata da Cristo a tutti i
credenti, sulla sovrabbondanza della grazia rispetto
al peccato, sull’essere Cristo vita eterna,
scudo alla giustizia divina, che riforma e purifica
gli esseri umani, come medico e fuoco
che raffina, spada che separa il peccatore dal
peccato (68) e salva tutti coloro che vengono
ad esso: «c’è posto per tutti; tutti sono invitati»
(52). La sua bontà è «non solo al di sopra
dei nostri meriti, ma anche di quanto possiamo
concepire [...] onnipotente nel salvare» (63).
Una creatura finita non potrebbe sopportare il
peso del peccato per l’eternità (78); dalla condanna
eterna ha salvato gli uomini la morte di
Cristo (89). Alla fine saranno soddisfatte sia la
giustizia, nel sacrificio di Cristo, sia la misericordia,
nel perdono dei peccatori (94). Conseguenza
della fede (che è dono di Dio, come il
pentimento: 82-84) «sarà la restaurazione a tutto
ciò che Adamo aveva perduto» (67): l’essere
umano «ritornerà come in principio [...] questo
Purificatore restaurerà tutte le cose».s
Tra i pietisti universalisti sono Johann e Johanna
Petersen, che tra la fine del XVIII secolo e
l’inizio del successivo predicarono e scrissero in favore della dottrina
soteriologica universalistica, fondandosi anch’essi sulla concezione
catartica delle pene, e partendo dalla dottrina della giustificazione per
fede, per sostenere che i fedeli non avessero un ruolo attivo nella loro
salvezza, dato quello molto più efficace della Grazia divina55 . A loro
volta, i Petersen influenzarono sia i nobili loro protettori sia altri gruppi
pietistici successivi, tra cui alcuni emigrarono in America e poterono
così diffondere le loro idee anche là56 . Questi gruppi non erano settari,
non si opponevano alla Chiesa né intendevano uscirne: si distinguevano
soltanto per le loro convinzioni universalistiche, ora professate e
predicate apertamente.
Le congregazioni universalistiche si moltiplicarono e si diffusero nel
corso del XVIII e XIX secolo, e ad esse si affiancarono importanti teologi
di vario orientamento i quali tutti esposero apertamente, rivisitandola,
l’antica dottrina della salvezza universale57 .
Rowell58 distingue due forme di universalismo all’epoca e quattro fattori
principali che concorsero a queste tesi. Il primo fattore è costituito
da un ideale teologico ed etico influenzato dalla Patristica greca e
dall’Arminianesimo e caratterizzato dalla bontà di Dio, dalla libertà
umana e dalla concezione terapeutica ed educativa delle pene. Il secondo
fattore sarebbe il misticismo, di stampo talora neoplatonico,
talora anche apocalittico; il terzo fattore è la reazione alla dottrina
calvinista della doppia predestinazione, il quarto sarebbe dato da convinzioni
sociologiche e politiche egualitarie, come l’istanza dell’abolizione
della schiavitù. La prima forma di teorizzazione della salvezza
universale individuata da Rowell, e alimentata soprattutto dai primi
due fattori citati, è denominata «universalismo purgatoriale», in quanto
propugna la necessità di una purificazione, perché tutti possano, alla
fine, essere riconciliati con Dio. La seconda è una sorta di iper-Calvinismo,
in quanto accetta la dottrina della redenzione e della predestinazione
tipiche del Calvinismo, ma sostenendo che la redenzione e la
predestinazione al bene siano estese a tutte le persone umane, e non
soltanto a un gruppo di eletti. A sostenere questa forma modificata di
Calvinismo furono anche certi Calvinisti non soddisfatti della dottrina
della doppia predestinazione; altri Calvinisti, parimenti insoddisfatti, si
rivolsero alla prima forma di universalismo. Ovviamente, anche le posizioni
egualitarie potevano essere influenzate dalla convinzione che
Dio ami tutti allo stesso modo, il che a sua volta poteva avere un peso
sulle concezioni universalistiche escatologiche.
Per ricordare soltanto alcune figure di universalisti afferenti a ciascuno
dei due gruppi, si possono includere nel primo gruppo l’americano Elhanan
Winchester (1758-1816), che scrisse i Dialogues on the Universal
Restoration (1788), e William Vidler, il quale si convertì all’universalismo
in seguito alla predicazione del primo in Inghilterra, durante
un viaggio missionario in cui Winchester fondò una congregazione a
Londra. Quando ritornò in America, Vidler gli succedette nella guida
della congregazione, abbracciando poi, insieme con i confratelli,
l’Unitarianesimo, sempre comunque nel mantenimento delle concezioni
escatologiche universalistiche.
39

Nel secondo gruppo, quello dell’universalismo “iper-calvinista”, si può
far rientrare James Relly (1722-1788), il quale, nativo del Pembrokeshire,
si convertì nei primi anni Quaranta del Settecento e dal 1746 predicò
come metodista calvinista. Progressivamente, tuttavia, abbracciò
teorie universalistiche che lo fecero staccare dal metodismo nel 1751,
fondando una setta indipendente, detta «dei Rellyani». Egli fondava le
proprie tesi soprattutto sulla dichiarazione paolina di Rm 5:18 secondo
cui, come il peccato di un solo uomo, Adamo, portò alla condanna
di tutti, così l’atto di giustizia di un unico uomo, Cristo, conduce alla
giustificazione e alla vita per tutti. Cristo, insomma, con il suo glorioso
sacrificio avrebbe salvato il genere umano nella sua interezza, come
costitutivo di una unità ontologica. Analogamente, anche 1Cor 15:22
era da lui interpretato nel senso che la morte di Cristo ha già effettivamente
riscattato e salvato tutti. Secondo Relly, avendo Cristo già
pagato il debito per i peccati di tutti, parrebbe addirittura che non ci
debba essere nessuna punizione dopo la morte, per alcuno59 . Come
si vede, questa concezione si discosta dalla linea origeniana, secondo
cui invece le punizioni terapeutiche post mortem ci saranno, nella misura
necessaria a ciascuno; soltanto, non saranno eterne per nessuno,
ma prima o poi tutti si ricongiungeranno al divino Bene.
Le idee di Relly furono mantenute e sviluppate dal suo allievo John
Murray (1741-1815), il quale era anch’egli, dapprima, un predicatore
metodista; poi, nei primi anni Sessanta del Settecento, a Londra, in
una delle riunioni dei Rellyani, abbracciò le idee di Relly e fu escluso
dai metodisti. Murray entrò anche in polemica con l’ “universalismo
purgatoriale” di Winchester, sostenendo che esso rendesse vana la
redenzione operata da Cristo – senza tenere conto che proprio tale
redenzione rendeva possibile pensare a un valore terapeutico della punizione
e a pene destinate a cessare, come è chiaro anche dal testo di
Jeane Lead che ho citato in precedenza. A loro volta, gli universalisti di
indirizzo “iper-calvinista” furono spesso accusati di essere antinomiani,
ossia di non tenere nel debito conto la legge morale, in quanto ritenevano
la giustificazione già avvenuta, indipendentemente dal comportamento
di ciascuno: in tal modo, il libero arbitrio e la responsabilità
di ciascuno verrebbero a rivestire una portata assai minore60 . Nel 1770
Murray si recò in America, nel New England, dove, nello stesso anno,
a Barnegat Light, tenne un’omelia che aprì la strada alla fondazione
della prima Chiesa chiamata esplicitamente Universalistica, che egli
contribuì a fondare nel 1793 sotto forma della «Società Universalistica
di Boston» e che presto, per così dire, si mise in concorrenza con l’altro
filone universalistico, quello “purgatoriale”. Secondo la suddetta accusa
di antinomianesimo, infatti, gli scritti di Murray furono criticati, negli
Stati Uniti, precisamente da un universalista di indirizzo “purgatoriale”
come Charles Chauncy (nato nel 1704), il quale li tacciò di incoraggiamento
al libertinismo, sostenendo piuttosto la necessità di una pena
purificatrice e terapeutica nell’al di là61 .
Ben presto, in terra americana, dal 1817 al 1831 circa si ebbero dissapori
di maggiore portata, noti sotto la denominazione di Restoration
Controversy, che ebbe luogo tra Hosea Ballou (1771-1852), un ex bat-
40
tista di orientamento calvinista che fu ordinato
ministro della Chiesa Universalista nel 1794, e
i suoi oppositori, seguaci di Winchester e dunque
assertori della necessità di una pena ultramondana
di tipo correttivo ai fini del ritorno dei
peccatori a Dio, secondo la convinzione che
era stata già di molti Padri sostenitori dell’apocatastasi,
da Origene al Nisseno a Diodoro di
Tarso 62 . Tra questi “universalisti purgatoriali”
uno degli esponenti principali fu Edward Turner
(1776-1853). L’accusa mossa da Ballou a
questo indirizzo universalistico nel suo Short
Essay on Universalism (1849) 63 , dove egli combatte
il predestinazionismo calvinista e traccia
una breve tassonomia e storia dell’universalismo
nei tempi per lui recenti, è simile a quella
di pelagianesimo: essi, prestando troppo credito
alla «filosofia greca» e troppo poco alla sacra
Scrittura, avrebbero finito per credere alla possibilità
di salvarsi grazie a un comportamento
virtuoso e null’altro. Ciò non sembra del tutto
fondato, dato che i suoi avversari, a differenza
dei Pelagiani, non negavano certo la grazia e
l’azione di Cristo, che avrebbe appunto permesso
alle pene post mortem di essere soltanto
purgatoriali e non infernali. A sua volta, nel suo
breve trattato Ballou addirittura non accetta il
dogma trinitario, definendolo come «involving
most palpable absurdity», e la divinità di Cristo,
oltre a criticare la dottrina della sofferenza vicaria
di Cristo in luogo degli uomini per la loro
redenzione come mancante di fondamento sia
scritturale sia razionale.
Prima di Ballou, gli appartenenti alla Chiesa
Universalista erano ortodossi nella fede, a
parte la questione escatologica, mentre la sua
predicazione fece spesso deviare gli universalisti
dall’ortodossia64 . La sua argomentazione
contro l’eternità delle pene infernali è la stessa
già svolta da Macrina nel De anima et resurrectione
di S. Gregorio di Nissa: i peccati non
sono infiniti, altrimenti sarebbero tutti uguali,
ma hanno ciascuno una misura e una gravità, a
cui è commisurata la punizione65 . Egli, tuttavia,
non nega soltanto che le pene ultramondane
saranno eterne, ma nega anche che ci saranno:
Dio ricompensa e punisce le persone nella vita
presente, e dopo la morte trasforma ciascuno
in modo tale che tutti possano aver parte del

Regno dei cieli. Questa teoria fu chiamata, specialmente
dai suoi oppositori, Ultra-Universalism,
o Death and Glory, e attrasse molti seguaci
durante la vita di Ballou, ma dopo la sua morte
perse vigore e verso la fine dell’Ottocento la
quasi totalità degli universalisti in America sarà
propensa a sostenere, piuttosto, la necessità di
una pena catartica ed educativa dopo la morte,
in linea con la maggior parte dei sostenitori patristici
della dottrina dell’apocatastasi.
Nel 1869-70 uno dei segretari onorari della
World’s Evangelical Alliance, il sacerdote anglicano
T.R. Birks, che fu noto per la sua opposizione
al darwinismo, pubblicò a Londra uno
studio esoterico intitolato The Victory of Divine
Goodness. Non si trattava di un’opera propriamente
universalistica; l’autore tuttavia vi sosteneva
che anche i dannati potevano ancora ravvedersi
e trovare la salvezza; per questo, egli fu
costretto a dimettersi dalla sua carica di segretario,
anche se non fu censurato pubblicamente
come alcuni membri dell’Alleanza avrebbero
invece voluto. Essi, per protesta, abbandonarono
il consesso dell’Alleanza 66 . La maggioranza
degli Evangelici era ostile a visioni universalistiche
o anche soltanto quasi-universalistiche.
Anche alcuni Evangelici, tuttavia, sostennero
tesi universalistiche in àmbito soteriologico, a
dispetto della concezione invalsa secondo cui
l’universalismo soteriologico e l’impostazione
evangelica non sarebbero compatibili 67 . Del resto,
sia Lutero sia Calvino avevano rifiutato l’universalismo
soteriologico, eppure tra i Protestanti
varie voci si levarono in favore delle ipotesi
universalistiche. Oltre a Birks, in effetti, un altro
evangelico che nell’Ottocento sostenne, e in
maniera anche meno sfumata, la teoria della salvezza
universale fu F.W. Roberston (1816-1853),
di Brighton. Egli, fondandosi sulla tesi che l’intero
universo si muove in un continuo progresso,
si mostrò favorevole all’idea di una purificazione
oltremondana e della possibilità di un miglioramento
anche dopo la morte68 . Successivamente
egli si staccò dalle posizioni evangeliche.
Ma una forma veramente piena di universalismo
tra gli evangelici sembra essere stata sostenuta
in quel periodo soltanto da Thomas Erskine
(1788-1870). Originario di Linlathen, contribuì
notevolmente alla dogmatica, insieme con
il suo amico John MacLeod Campbell, e soprattutto fu uno dei pochi
universalisti dichiarati del XIX secolo che tentarono tuttavia di rimanere
evangelici69 . In gioventù lesse i saggi del teologo battista John Foster
(1770-1843), un evangelico che considerava ingiusta la punizione eterna
e preferiva pensare a una redenzione universale progressiva di tutti
gli uomini, fatti a immagine di Dio, e da Dio stesso educati e portati alla
salvezza70 . Erskine, a diciassette anni, lesse il libro di Foster On a Man
Writing Memoirs of Himself e ne fu influenzato e indotto a pensare alla
vita nei termini di un continuo processo educativo che dura per l’eternità,
secondo una concezione di continuità tra vita presente e futura
propria dei Padri che sostennero l’apocatastasi ed evidente in Origene
e in Gregorio di Nissa. Anche William Law influì sulla formazione del
pensiero soteriologico di Erskine, che lo lesse assiduamente e lo citò71 .
Attraverso Law, fu portato a studiare anche J. Boehme, nell’originale
tedesco, il quale contribuì a rafforzare in lui l’idea di un processo continuativo
di purificazione. Alla fine delle guerre napoleoniche, Erskine
intraprese viaggi in Europa, durante uno dei quali assorbì l’influsso di
alcuni teologi tedeschi seguaci di Schleiermacher72 . Secondo Erskine,
il processo di educazione e di purificazione di ciascuno culmina con
la sconfitta definitiva del male e il trionfo finale dell’intento di Dio di
salvare tutti, rivelato in 1Tm 2:4, «Dio nostro Salvatore vuole che tutti
gli esseri umani siano salvi e arrivino alla conoscenza della verità», e
confermato in 2Pt 3:9: «Dio non vuole che alcuno perisca, ma che tutti
pervengano alla conversione».
Infatti, Erskine, come i suddetti Padri, vedeva una profonda continuità
tra la vita presente e quella futura, per cui il viaggio verso la salvezza,
nella sua prospettiva, continua per tutti oltre la morte. Ispirandosi a
Law, Erskine citava Rm 5:18 e 1Cor 15:22 per affermare che l’umanità
nel suo complesso va intesa in rapporto al suo capo, Adamo o Gesù,
di cui ciascun essere umano partecipa: Adamo è la sorgente corrotta,
che va rifiutata; Cristo è la sorgente rinnovata, che va eletta73 . Egli fu
indotto ad assumere la teoria della salvezza universale, negli anni Venti
e Trenta dell’Ottocento, dal problema della teodicea, lo stesso che,
a mio avviso, aveva spinto Origene, in polemica contro gli Gnostici,
a formulare il proprio pensiero protologico ed escatologico. Poiché il
processo educativo divino nei riguardi delle persone non è evidente,
in genere, nella vita quotidiana, è necessario supporre l’estensione di
questo processo per un periodo determinato dopo la morte74 . Si tratta
di un’idea che è ritornata nella teologia evangelica dell’ultimo quarantennio
sotto forma del concetto di «seconda scelta» o «evangelizzazione
post-mortem», sostenuto ad esempio da George Beasley Murray,
Charles Cranfield, Donald Bloesch, Clark Pinnock, Gabriel Fackre
e Nigel Wright75 . L’influsso di Erskine fu notevole sul movimento di
santità del tardo Ottocento che era radicato nel pietismo tedesco e i
cui esponenti mostrano di avere spesso tendenze universalistiche. Le
sue opere furono lette e discusse dai partecipanti alle conferenze di
Broadlands che incominciarono poco dopo la sua morte, nel 1874, e
continuarono fino al 1888. Alla diffusione delle idee e degli scritti di
Erskine in questa sede furono specialmente due organizzatrici di quel-
41

le conferenze e sue discepole, che lo visitarono spesso a Linlathen:
Emelia Russell Gurney e Julia Wedgwood76 . Le suddette riunioni erano
ospitate da Lord e Lady Mount-Temple e presiedute dai Quaccheri
evangelici Robert e Hannah Pearsall Smith: la simpatia di quest’ultima
per la teoria della salvezza universale risulta chiaramente dai dialoghi
e dalla corrispondenza privata pubblicata dopo la sua morte: come
Lady Mount-Temple, anch’ella non credeva che Dio, il quale è amore,
avrebbe consegnato a un tormento eterno alcuna delle sue creature77 .
1 Von Balthasar non è certo l’ultimo esponente della riflessione
sull’apocatastasi. Negli ultimi decenni il dibattito si è ampliato e
arricchito ulteriormente, sia sul versante filosofico sia su quello biblico
e teologico260 .
Ciò che emerge dallo studio della concezione dell’apocatastasi negli
autori qui considerati, e complessivamente in tutti i pensatori
cristiani che fin dall’età patristica hanno sostenuto questa dottrina261
, è che questa, lungi dall’essere il prodotto di un personaggio
isolato ed eccessivamente influenzato dalle teorie greche – quale è
stato troppo spesso considerato Origene, le cui condanne sorsero
da molti fraintendimenti –, ha una tradizione assai più ampia, che
si rivela importante, continuativa e antichissima nella storia del Cristianesimo,
e soprattutto fondata in Cristo stesso. Non è una teoria
non cristiana che affondi le radici nelle concezioni greche e che sia
stata sovrapposta artificialmente al Cristianesimo, ma si riconnette
strettamente, alle origini, al Nuovo Testamento, dove molti passi,
specialmente paolini e petrini, ma anche evangelici, possono ben
suggerirla e sostenerla, e a scritti per molto tempo ritenuti ispirati e
facenti parte di esso, come l’Apocalissi di Pietro e numerosi altri262 .
Prima di Origene ne troviamo chiare avvisaglie in Clemente, che
riteneva ispirati i suddetti scritti, e un’ancor più chiara formulazione
in Bardesane, e dopo Origene la si ravvisa manifestamente nel
Nisseno, ma di certo anche in Didimo, in Evagrio e in molti altri
autori, per continuare attraverso il Medioevo fino all’età moderna e
contemporanea, anche tramite rivelazioni (ad es. Jane Lead).
È molto significativo che i primi e massimi assertori di questa teoria,
Origene e il Nisseno, l’abbiano sostenuta a difesa dell’ortodossia e
contro le eresie del loro tempo: Origene contro lo gnosticismo e
S. Gregorio contro l’arianesimo263 . L’idea dell’apocatastasi, in essi
come negli autori analizzati nel presente studio, è frutto della riflessione
sulla proporzionalità delle pene alla nostra natura finita, e ancor
più della fede e della speranza nell’efficacia dell’incarnazione e
del sacrificio di Cristo e nella grazia di Dio, il quale «vuole che tutti
gli uomini siano salvi» e intende «usare misericordia a tutti», cosicché
alla fine dei tempi, quando tutti si saranno purificati e il male
sarà stato eliminato, e tutti i nemici si saranno sottomessi, fino alla
distruzione dell’ultimo nemico, la morte, Dio sarà «tutto in tutti».
Per una storia dell’apocatastasi, la prima che indaghi lo sviluppo di
42
questa dottrina dalle origini cristiane ai nostri
giorni, rinvio al mio Apocatastasi, Vita e
Pensiero, Milano, in pubblicazione. Origene
è il primo teorizzatore sistematico e coerente
dell’apocatastasi cristiana, ma non è
il primo in assoluto, e ancor meno l’ultimo.
La teoria dell’apocatastasi costituisce un filone
estremamente ricco e ininterrotto, che
percorre tutta la storia del pensiero cristiano.
La continuazione di questo articolo –
L’Apocatastasi nel Cristianesimo tra Otto e
Novecento – come la seconda parte di un
dittico, verrà pubblicata in «Sophias», 3.
2 Nell’originale greco compare precisamente
il termine “apocatastasi”: crovnoi ajpokatastavsew”
pavntwn, «tempi della restaurazione
/ reintegrazione di tutti» o «di tutte le
cose». Anche il verbo corradicale ajpokaqivsthmi,
“restauro”, “reintegro”, “ristabilisco”,
si trova nel Nuovo Testamento, e precisamente
in riferimento ai tempi escatologici:
in Mt 17:11, subito dopo la Trasfigurazione,
Gesù, dopo aver raccomandato ai discepoli
di non parlarne fino alla resurrezione del
Figlio dell’Uomo, alla loro domanda se Elia
dovrà venire prima del Messia alla fine dei
tempi, predice: «Elia verrà e restaurerà, reintegrerà
tutti gli esseri», ajpokatasthvsei pavnta.
Così nel parallelo sinottico di Mc 9:12.
3 I più importanti di essi furono Henry More
(1614-1687) e Ralph Cudworth (1617-1689),
entrambi fellows al Christ’s College di Cambridge.
Altri furono Benjamin Whichcote
(1609-1683), Peter Sterry (1613-1672), John
Smith (1618-1652), Nathaniel Culverwell
(1619-1651), John Worthington (1618-1671),
tutti fellows all’Emmanuel College di
Cambridge; tra i più giovani, John Norris
(1657-1711) e George Rust ed Anne Conway,
sui quali ritornerò a breve. Cfr. F.J. Powicke,
The Cambridge Platonists: A Study, Linnet,
Hamden, Conn. 1971; J. Tulloch, Rational
Theology and Christian Philosophy in
England in the Seventeenth Century, Doubleday,
New York 1972; M. Sina, L’avvento
della ragione, Vita e Pensiero, Milano 1976;
G.R. Cragg, The Cambridge Platonists, Rowman
& Littlefield, Lanham 1985; R.W.F. Kroll
- R. Ashcraft - P. Zagorin, edd., Philosophy,

Science, and Religion in England, 1640-1700,
University Press, Cambridge 1992; S. Weyer,
Die Cambridge Platonists, Lang, Frankfurt-
Bern 1993; M. Baldi, ed., Mind Senior to the
World: Stoicismo e Origenismo nella filosofia
platonica del Seicento Inglese, F. Angeli,
Milano 1996; C. Taliaferro, Cambridge
Platonist Spirituality, ed. A.J. Teply, Paulist
Press, New York 2004; T.E. Jones, ed., The
Cambridge Platonists: A Brief Introduction.
with Eight Letters of Dr. Antony Tuckney and
Dr. Benjamin Whichcote, University Press of
America, Lanham 2005.
4 In La coerenza della soteriologia origeniana:
dalla polemica contro il determinismo gnostico
all’universale restaurazione escatologica,
in Pagani e cristiani alla ricerca della
salvezza: Atti del XXXIV Incontro di Studiosi
dell’Antichità Cristiana, Roma, Augustinianum,
5-7 maggio 2005, Roma 2006, pp.
661-688.
5 «Having easie wayes of assuring themselves
that it shall not be their portion».
6 More fu parimenti un deciso avversario della
filosofia materialistica, ad esempio di
Hobbes. E si allontanò progressivamente
dal pensiero dualistico cartesiano, che, pur
ammettendo certo la res cogitans accanto
alla res extensa, non lasciava però spazio
all’azione della prima, ossia dello spirito,
nel mondo fisico.
7 Rispettivamente An Antidote against Atheism:
or, An Appeal to the Natural Faculties of the
Mind of Man, whether there be not a God
(1653; seconda edizione con appendice,
1655) e The Immortality of the Soule, so farre
forth as it is demonstrable from the Knowledge
of Nature and the Light of Reason (1659).
8 Interpretò la Genesi alla luce della qabbalah
giudaica in Conjectura cabbalistica or a
Conjectural Essay of interpreting the Mind
of Moses, in the first three chapters of Genesis,
according to a threefold Cabbala,
viz. Literal, Philosophical, Mystical (1653).
Studiò anche i libri profetici della Bibbia e
l’Apocalissi.
9 Mantengo qui questa denominazione per
praticità, ma per Origene si tratta di una definizione
estremamente imprecisa: egli soste-
neva la preesistenza delle creature razionali (no ve", logika v), e non
di “nude anime” prive di corpi, al mondo sensibile presente. More
esprime questa dottrina anche in alcune poesie, come A Platonick
Song of the Soul, treating of the Life of the Soul, her Immortalitie,
Sleep, Unitie, and Memorie after Death (Cambridge 1647): «I would
sing the Prae-existency / Of humane souls, and live once o’er again /
By recollection and quick memory / All that is past since first we all
began. / But all too shallow be my wits to scan / So deep a point and
mind too dull to clear / So dark a matter». È lo stesso atteggiamento
problematico di Origene nei confronti delle materie più oscure da
indagare. Rivolgendosi a Plotino, nella stessa poesia, More aggiunge:
«Tell what we mortals are, tell what of old we were. / A spark or ray
of the Divinity / Clouded in earthly fogs [...] / A precious drop sunk
from Aeternitie, / Spilt on the ground, or rather slunk away». More
cita tra i sostenitori di questa dottrina Ermete Trismegisto, all’epoca
ampiamente noto ai Cristiani e usato da loro.
10 Cfr. J. Duran, Anne Viscountess Conway: A Seventeenth Century
Rationalist, «Hypatia» 40 (1989), pp. 64-79; J.A. Kourany, ed., Philosophy
in a Feminist Voice. Critiques and Reconstructions, University
Press, Princeton 1998; S. Hutton, Lady Anne Conway, in The Stanford
Encyclopedia of Philosophy Stanford University, Ca. [plato.stanford.
edu/]; Ead., Anne Conway: A Woman Philosopher, University Press,
Cambridge 2004.
11 Edizione: The Conway Letters: The Correspondence of Anne, Viscountess
Conway, Henry More, and Their Friends, 1642-1684, ed.
M.H. Nicolson - S. Hutton, University Press, Oxford 1992.
12 Cfr. C. Merchant, Anne Conway: Quaker and Philosopher, «Guil-
ford Review», Spring 1986, pp. 2-10.
13 Cfr. rispettivamente S. Hutton, Anne Conway critique de Henry
More: l’esprit et la matière, «Archives de Philosophie» 58 (1995),
pp. 371-384 e C. Merchant, The Vitalism of Anne Conway: Its Impact
on Leibniz’s Concept of the Monad, «Journal of the History of
Philosophy» 17, 3 (1979), pp. 255-269.
14 A vari altri scritti ella collaborò insieme con altre persone. La sua
opera fu scritta in inglese tra il 1671 e il 1675, ma pubblicata postuma
in versione latina nel 1690, e quindi in inglese nel 1692 come
ri-traduzione della verione latina, essendo andato perduto nel frattempo
l’originale. A. Conway, Principia philosophiae antiquissimae
et recentissimae de Deo, Christo et Creatura id est de materia et spiritu
in genere. Amsterdam 1690; The Principles of the most Ancient
and Modern Philosophy (1692), p. 193: cfr. P.C. Almond, Heaven and
Hell in Enlightenment England, University Press, Cambridge 1994,
p. 23. Edizione: A. Conway, The Principles of the Most Ancient and
Modern Philosophy, translated and edited by A.P. Coudert and T.
Corse, University Press, Cambridge 1996 (con traduzione in inglese
moderno, con introduzione e note).
15 M. Ludlow, Universal Salvation and a Soteriology of Divine Punishment,
«Scottish Journal of Theology» 53,4 (2000), pp. 449-471,
part. p. 459.
43

16 Cfr. J. White, The Restoration of All Things or, A Vindication of the
Goodness and Grace of God to be Manifest in the Recovery of his
Whole Creation Out of Their Fall (1712), London 1779, part. pp. 9-10;
D.P. Walker, The Decline of Hell: Seventeenth Century Discussions
of Eternal Torment, University Press, Chicago 1964, p. 111.
17 Dimostrazione in I. Ramelli, Gregorio di Nissa Sull’anima e la resurrezione,
Bompiani, Milano 2007, Saggio Integrativo I. Per i Platonici
di Cambridge e l’apocatastasi cfr. Walker, The Decline, pp. 104-155.
18 C. Smith, Mysticism and Feminism: Jacob Boehme and Jane Lead,
in D.V. Hiller - R.A. Sheets, edd., in Women and Men: The Consequences
of Power, University Office of Women’s Studies, Cincinnati
1977; Ead., Jane Lead: The Feminist Mind and Art of a Seventeenth-Century
Protestant Mystic, in Women of Spirit: Female
Leadership in the Jewish and Christian Traditions, edd. R. Ruether
- E. McLaughlin, Simon & Schuster, New York 1979; Ead., Jane
Lead: Mysticism and the Woman Cloathed with the Sun, in Shakespeare’s
Sisters, edd. S. Gilbert-S. Gubar, Indiana UP, Bloomington
1979; Ead., A Note on Jane Lead with Selections from Her Writings,
«Studia Mystica» 3,4 (1980), pp. 79-82; Ead., Three Guineas:
Virginia Woolf’s Prophecy, in Virginia Woolf and Bloomsbury: A
Centenary Celebration, Indiana UP, Bloomington 1987; P. McDowell,
The Women of Grub Street: Press, Politics and Gender in the
London Literary Marketplace 1678-1730, University Press, Oxford
1997.
19 Così traduco il testo ebraico; la Septuaginta rende invece: kai;
eu jh-re vsthsen Enwc tw ' / Qew ' / kai; ou jc hu Jrivsketo, o {ti metevqhken
aujto ;n o J Qeov", «Ed Enoch fu gradito a Dio, e non fu (più)
trovato, poiché Dio lo trasferì (in un altro luogo)». La Vulgata è
più rispettosa dell’originale ebraico, almeno quale ci è dato di conoscerlo
oggi: Ambulavitque cum Deo et non apparuit, quia tulit
eum Deus. Sulla tradizione enochica, espressasi anche in forme
apocrife, rinvio alla documentazione nel mio La “colpa antecedente”
come ermeneutica del male in sede storico-religiosa e nei
testi biblici, in XIV Convegno di Studi Veterotestamentari. Origine
e fenomenologia del male: le vie della catarsi veterotestamentaria,
Sassone-Ciampino/Roma, 5-7 Settembre 2005, ed. I. Cardellini,
«Ricerche Storico-Bibliche» 19 (2007), pp. 11-64. Da questa tradizione,
conservatasi principalmente nell’Enoch etiopico (1Enoch) e
nell’Enoch slavo (2Enoch), emerge sostanzialmente che Enoch, da
vivo, fu trasportato in cielo, passeggiò con Dio, vide i segreti del
cielo e della terra, poi tornò presso la sua famiglia, narrò quanto
aveva visto, e fu nuovamente assunto in cielo; intercedette anche
per gli angeli decaduti che con le donne avevano generato i giganti,
secondo Gen 6, 1-4.
20 La prima traduzione italiana dall’antico inglese del trattato della
Lead è offerta integralmente da Ramelli, Gregorio di Nissa, Appendice
II. Il manoscritto del XVII secolo dei Walks rimase non stampato
per molto tempo, e normalmente inaccessibile al vasto pubblico;
il testo originale contiene termini e frasi normalmente esclusi dalle
44
edizioni moderne. Il testo da me tradotto riproduce
l’antica edizione del 1694 e incorpora
le note dell’autrice, che erano stampate
in margine nell’originale. Qui non riprendo
la traduzione integrale, ma mi limito a
riportare i passi più significativi rispetto alla
tematica dell’apocatastasi.
21 La nozione della restaurazione dell’immagine
di Dio in ognuno e dell’acquisizione
della somiglianza con Dio, in base a Gen
1:26 (per cui l’essere umano fu creato come
eijkw vn e oJmoivwsi" di Dio), è uno dei più
cari a Origene in relazione all’apocatastasi
finale.
22 Anche Origene rifletté sull’eu jagge vlion aijw vnion
che secondo l’Apocalisse sarà rivelato in
sede escatologica. Pensava che, come l’Antico
Testamento sta al Nuovo, così il Nuovo
sta al “Vangelo del mondo a venire”, che
sarà reso manifesto nell’aijw vn futuro. In Princ.
III 6, 3 e 6, 7 Origene lega la meditazione
sull’eujaggevlion aijwvnion a quella sull’acquisizione
escatologica della somiglianza di
Dio, con la stessa connessione che la Lead
istituisce qui. Ciò mi fa pensare che ella fosse
ispirata precisamente da Origene.
23 Il riferimento al descensus ad inferos di Cristo
in 1Pt 3:19-21 è uno dei fondamenti preferiti
da molti Padri che sostennero l’apocatastasi,
da Origene a Efrem, fino a teologi
contemporanei come von Balthasar (cfr. qui
infra il mio L’apocatastasi nel Cristianesimo
tra Otto e Novecento). Vi è dichiarata la predicazione
della salvezza da parte di Cristo
ai prigionieri negli inferi (toi '" e jn fulakh ' /
pneu vmasin), coloro che un tempo avevano
rifiutato di credere (a jpeiqh vsasivn pote) ed
erano periti nel diluvio, in cui gli otto salvati
sull’arca (dieswvqhsan) sono figura dei
Cristiani che vengono salvati attraverso il
battesimo. Ma Pietro dice appunto che Cristo
va a salvare anche gli altri. H. Pietras,
L’escatologia della Chiesa, Augustinianum,
Roma 2006, p. 38, considera questo passo
come allusione alla salvezza universale.
Questa nozione di salvezza universale è
presente in varî scritti cristiani antichi, tutti
di tradizione petrina, come mostro in Apocatastasi,
cap. I.

24 1Cor 3:14-15 è un altro dei passi neotestamentarî
che depone a favore dell’apocatastasi:
nel giudizio finale vertente sulle
opere di ciascuno e che si configura come
una prova del fuoco, «se l’opera che uno
costruì sul fondamento resisterà, costui riceverà
una ricompensa; se invece l’opera
finirà bruciata, egli patirà danno: tuttavia,
si salverà, però come attraverso il fuoco».
Non si parla un terzo caso in cui il peccatore
stesso non si salvi.
25 Si tratta degli aijw 'ne" di Origene e dei lunghi
cicli temporali per le punizioni di cui
parlava Gregorio di Nissa. Il punto è che il
pu 'r aijw vnion di cui parlano i Vangeli non è
un “fuoco eterno”, ma il fuoco del mondo
a venire, dell'aijw 'ne" futuro. Infatti, aijw 'nio"
nella Bibbia significa strettamente “eterno”
solo quando si riferisce a Dio. Cfr. il mio
Origene ed il lessico dell’eternità, «Adamantius»
14 (2008), pp. 100-128.
26 1Cor 15:24-28, dove s. Paolo annuncia l’evizione
escatologica delle potenze del male e
della morte, la sottomissione di tutte le creature
a Cristo, la consegna di queste a Dio Padre
e la presenza finale di Dio «tutto in tutti»,
è il passo preferito di Origene in assoluto in
favore dell’apocatastasi. Cfr. il mio Christian
Soteriology and Christian Platonism. Origen,
Gregory of Nyssa, and the Biblical and Philosophical
Basis of the Doctrine of Apokatastasis,
«Vigiliae Christianae» 61 (2007), pp.
313-356.
27 Anche per la Lead, come per Origene e il
Nisseno, l’apocatastasi è resa possible in
primissimo luogo da Cristo e dal suo sacrificio,
sulla cui efficacia salvifica universale ed
eterna Origene insisteva soprattutto basandosi
sulla Lettera agli Ebrei. Cfr. I. Ramelli,
The Universal and Eternal Validity of Jesus’s
High-Priestly Sacrifice. The Epistle to the
Hebrews in Support of Origen’s Theory of
Apokatastasis, in Aa.Vv., A Cloud of Witnesses:
The Theology of Hebrews in Its Ancient
Contexts, T&T Clark, London 2008, cap. 16.
28 Anche questo è un passo che Origene, commentatore
della Lettera ai Romani, poneva
al centro della sua riflessione sull’apocatastasi.
29 Tipica di Origene è l’idea che l’apocatastasi non riguarderà soltanto
gli esseri umani, ma tutte le creature razionali, compresi angeli e
dèmoni.
30 Preoccupazione espressa in più punti anche da Origene, e da Macrina
nel dialogo De anima et resurrectione di s. Gregorio Nisseno.
31 Cioè (con linguaggio tratto dall’Apocalisse), saranno salvati solo
dopo essere passati attraverso molte sofferenze.
32 Nella parte finale del De anima et resurrectione di Gregorio è precisamente
la festa dei Tabernacoli ad essere interpretata come allegoria
prefigurativa dell’apocatastasi – il cui primo grado sarà la
resurrezione – e della salvezza universale.
33 È precisamente il significato etimologico di “apocatastasi”: reintegrazione,
restaurazione. L’efficacia terapeutica infallibile di Cristomedico
è in Origene uno dei motivi principali in supporto dell’apocatastasi
di tutti.
34 Il riferimento è di nuovo a Gen 1:26 e alla “teologia dell’immagine”
di Origene e di Gregorio di Nissa.
35 Anche questo è un problema che stava a cuore al Nisseno, il quale
vi dedicò il De infantibus praemature abreptis, dove egli ribadisce
con decisione la dottrina dell’apocatastasi.
36 La Lead, come Origene e il Nisseno, vede una profonda continuità
tra la vita presente e quella futura.
37 Un altro caposaldo dell’apocatastasi secondo Origene e secondo
Gregorio di Nissa (che aveva ancor meno ripensamenti di Origene
su questo punto) è la salvezza finale di tutti i demoni e del diavolo
stesso.
38 È questo un altro dei passi biblici più importanti in sostegno
dell’apocatastasi.
39 La nozione del male come non-essere, che sarà annientato alla fine
e non potrà sussistere, è perfettamente conforme alla linea di Origene
e di Gregorio di Nissa. Il lago cui la Lead fa cenno è il lago di
fuoco dell’Apocalisse, che è detto essere la seconda morte, ma dove
finiranno la morte stessa e le potenze del male. Anche la sparizione
di ogni maledizione (katavqema) è annunciata nell’Apocalisse.
40 Cfr. G. Rowell, Hell and the Victorians, University Press, Oxford
1974, p. 40.
41 Per un profilo di questo personaggio cfr. W.E. Burns, London’s
Barber-Elijah, «Harvard Theological Review» 95,3 (2002), pp.
277-290.
42 In C. Rom. IV 2-3 vede in questo passo profetizzato il compimento
della promessa fatta ad Abramo di ereditare tutte le genti tramite
la fede, che coinciderà con l’apocatastasi e con la salvezza di tutti
per fede.
43 Cfr. R.P. Heitzenrater, Wesley and the People Called Methodists,
Abingdon Press, Nashville 1995, p. 188; Bengel, Johannes Albrecht,
in F.L. Cross - E.A. Livingstone, edd., The Oxford Dictionary of the
Christian Church, University Press, Oxford 1983, p. 158.
44 H. Thielicke, The Evangelical Faith, III, Eerdmans, Grand Rapids
1982, p. 455.
45

45 Il gruppo si chiama oggi The Church of the Brethren. Cfr. D. Hilborn
- D. Horrocks, Universalistic Trends in the Evangelical Tradition: A
Historical Perspective, in R. Parry - C. Partridge, edd., Universal
Salvation? The Current Debate, Paternoster, Carlisle 2003, pp. 219-
244, in particolare 223-224.
46 D.F. Durnbaugh, Meet the Brethren, The Brethren Press, Elgin, Ill.
1984, p. 9.
47 Così C.D. Ensign, Radical German Pietism, Diss. Boston 1955, pp.
285-286.
48 Cfr. A.D. Bell, The Life and Times of Dr. George de Benneville,
Universalist Church of America, Boston 1953, p. 62 per la citazione
e l’intero volume per la persona.
49 NJ. Alexander, Universalism Among the Early Brethren, «Brethren
Life and Thought» 32 (1987), pp. 25-32, part. p. 29.
50 Dati biografici ad es. in V.H.H. Green, John Wesley, T&T Clark,
London-Edinburgh 1964; H. Abelove, The Evangelist of Desire: John
Wesley and the Methodists, University Press, Stanford, Ca. 1990.
51 T. Källstad, John Wesley and the Bible: a Psychological Study, Uppsala-Stockholm
1974; K.J. Collina, The Theology of John Wesley,
Abingdon Press 2007.
52 Cfr. ad es. B.L. Manning, The Hymns of Wesley and Watts: Five
Papers, The Epworth Press, London 1942.
53 M. Piette, La réaction Wesléyenne dans l’évolution protestante:
étude d’histoire religieuse, Dewit, Bruxelles 1925; H. Davies, Worship
and Theology in England from Watts and Wesley to Maurice,
1690-1850, University Press, Princeton 1961; R. Maddox, Responsible
Grace: John Wesley’s Practical Theology, Abingdon Press, Nashville,
Tenn. 1994; T. Oden, John Wesley’s Scriptural Christianity: A
Plain Exposition of His Teaching on Christian Doctrine, Zondervan,
Grand Rapids, Mich. 1994; F. Baker, John Wesley and the Church of
England, Epworth Press, London 1970; 20002 . Ulteriori indicazioni
in B.M. Jarboe, John and Charles Wesley: a Bibliography, Scarecrow
Press, Metuchen, NJ - London 1987.
54 Ed. in «Asbury Journal» 61,2 (2006), pp. 13-94: 19, 24, 27-29, 39,
51-52, 54-55, 63-64, 66, 75-76, 78, 80, 83, 86-87. I numeri tra parentesi
tonde nel testo si riferiscono alle pagine di questa edizione.
55 Cfr. Walker, The Decline, p. 240.
56 Sugli sviluppi americani cfr. C. Wright, The Beginning of Unitarianism
in America, Starr King Press, Boston 1955, cap. 8, e The Dictionary
of Unitarian and Universalist Biography all’indirizzo www.
uua.org/uuhs/duub.
57 Un breve quadro dell’universalismo è tracciato da T. Talbott, Universalism,
in The Oxford Handbook of Eschatology, ed. J.L. Walls,
University Press, Oxford 2007, pp. 446-461.
58 G. Rowell, The Origins and History of Universalist Societies in Britain
1750-1850, «Journal of Ecclesiastical History» 22 (1971), pp. 35-56.
59 Cfr. J. Relly, Union: Or a Treatise of the Consanguinity and Affinity
Between Christ and His Church, London 1759.
60 Cfr. J. Murray, The Life of Rev. John Murray, Preacher of Universal
46
Salvation, Written by Himself, With a Continuation
by Judith Saargent Murray, Universalist
Publishing House, Boston 1870.
61 Cfr. Wright, The Beginning of Unitarianism,
p. 191.
62 Per Diodoro e gli altri Padri rinvio a Ramelli,
Apocatastasi, cap. I.
63 Egli vi definisce la tesi universalistica come la
convinzione di «the final end of all sin in the
human family, and the consequent holiness
and happiness of all men» (§ 1). Questa convinzione
è basata sulle Scritture e «has its origin
in the nature of God, and is a necessary
result flowing from all the Divine attributes,
which harmonize in infinite, unchangeable
love» (§ 2-3).
64 H. Skilton, s.v. Ballou, Hosea, in The New International
Dictionary of the Christian Church,
ed. J.D. Douglas, Eerdmans, Grand Rapids
1978, p. 98. In particolare, egli influenzò i
suoi adepti in direzione dell’unitarianismo:
molto tempo dopo, nel 1961, fu fondata la
Unitarian Universalist Association.
65 «If sin be infinite, there can be no difference
or degrees in criminality, while the Scriptures
clearly teach a comparative distinction,
and that while one offender is justly liable
to many stripes, another is exposed to but a
few. As to the justice of endless punishment,
minds enjoying the liberty of free inquiry
could easily detect the diabolical character
of such justice, as it is the exact opposite of
the Divine nature, which is love».
66 Cfr. I. Randall - D. Hilborn, One Body in
Christ: The History and Significance of the
Evangelical Alliance, Paternoster Press, Carlisle
2001, pp. 122-133.
67 Cfr. ad es. R. Bauckham, Universalism. A
Historical Survey, «Themelios» 4,2 (1979),
pp. 48-54; J.D. Hunter, Evangelicalism:
The Coming Generation, University Press,
Chicago 1987, p. 47; D.J. Tidball, Who are
the Evangelicals? Tracing the Roots of Today’s
Movements, Harper Collina, London
1994, pp. 151-152; A. McGrath, A Passion
for Truth: The Intellectual Coherence of
Evangelicalism, Apollos, Leicester 1996, pp.
236-240; D.R. Dunavant, s.v. Universalism,
in Evangelical Dictionary of World Missions,

ed. A.S Moreau, Baker, Grand Rapids 2000,
pp. 988-989; D. Strange, The Possibility of
Salvation Among the Unevangelized: An
Analysis of Inclusivism in Recent Evangelical
Theology, Paternoster, Carlisle 2002, p.
31. Per una breve storia dei sostenitori della
salvezza universale tra gli evangelici cfr.
Hilborn-Horrocks, Universalistic Trends,
pp. 219-244, con mia recensione dell’intero
volume in «Stylos» 14 (2005), pp. 206-208.
68 A.B. Stopford, Life and Letters of Fred W.
Robertson, II, London 1882, pp. 155-156.
69 Cfr. Hilborn - Horrocks, Universalistic Trends,
pp. 227-229; N.R. Needham, Thomas
Erskine of Linlathen: His Life and Theology
(1788-1837), Rutherford House, Edinburgh
1990; D. Horrocks, Laws of the Spiritual Order:
Innovation and Reconstruction in the
Soteriology of Thomas Erskine of Linlathen,
Paternoster, Carlisle 2003.
70 Needham, Thomas Erskine, p.29; L.E. Froome,
The Conditionalist Faith of Our Forefathers,
II, Washington 1966, pp. 318-320.
71 Horrocks, Laws, p. 180ss.
72 Horrocks, Laws, p. 230ss.
73 T. Erskine, The Doctrine of Election, London
1837, p. 305. Altre sue opere importanti sono
l’Essay on Faith, Edinburgh 1822, e quelle raccolte
in The Spiritual Order and Other Papers
Selected from the Manuscripts of the Late
Thomas Erskine of Linlathen, Edinburgh 1871.
74 Erskine, The Spiritual Order and Other Papers,
pp. 69-70, 75.
75 Cfr. Hilborn-Horrocks, Universalistic Trends,
p. 229 e alcuni testi di riferimento di ciascuno
di questi teologi: G.R. Beasley Murray,
Baptism in the New Testament, Macmillan,
London 1962, p. 258; C.E.B. Cranfield, The
Interpretation of First Peter 3:19 and 4:6, «Expository
Times» 69 (1958), pp. 369-372, part.
p. 372; D. Bloesch, Essentials of Evangelical
Theology: Life, Ministry, and Hope, II, HarperCollins,
San Francisco 1978, pp. 226-228;
C.H. Pinnock, The Finality of Jesus Christ in
A World of Religions, in Christian Faith and
Practice in the Modern World, edd. M. Noll
- D.F. Wells, Eerdmans, Grand Rapids 1988,
pp. 152-168, part. 165-167; G. Fackre, Divine
Perseverance, in What About Those Who
Have Never Heard?, ed. J. Sanders, InterVarsity Press, Downers Grove,
Ill. 1995, pp. 71-95; N.G. Wright, The Radical Evangelical: Seeking
a Place to Stand, SPCK, London 1996, pp. 99-102.
76 La prima tenne un interessante epistolario che fu pubblicato: Letters
of Emelia Russell Gurney, London 1902.
77 Cfr. L. Pearsall Smith, ed., A Religious Rebel: The Letters of Hannah
Pearsall Smih, London 1949, pp. 27-28; lettera di Erskine a Mrs.
Gurney, 14 maggio 1862, in W. Hanna, ed., Letters of Thomas Erskine
of Linlathen, Edinburgh 1877, pp. 253-254.
47

CONTRIBUTI KANTIANI
1) Spazio e tempo come rapporti di contiguità e successione
KGS, III, A39-40/B56-57: Testo in originale: «Nehmen sie die zweite
Partei (von der einige metaphysische Naturlehrer sind), und Raum und
Zeit gelten ihnen als von der Erfahrung abstrahierte, obzwar in der Absonderung
verworren vorgestellte, Verhältnisse der Erscheinungen (neben
oder nach einander) […]». Testo in italiano: «Se invece prendono
il secondo partito (quello di alcuni fisici metafisici), e valutano spazio
e tempo come rapporti (di contiguità e di successione) tra i fenomeni,
astratti dall’esperienza e pur tuttavia confusamente rappresentati in
tale separazione […]». Fonti: «Je tenois l’Espace comme quelque chose
de purement relatif, comme le Temps; pour un ordre des Coexistences,
comme le temps est un ordre de successions […]». G.W.F. Leibniz,
PhS, VII, p. 363; «Denn der wahre Begriff von Raume liegt schon unter
der Worte, neben einander», «So wird der Begriff von der Succesion
oder der Folge der Dinge hinter einander übrig bleiben». C.A. Crusius,
Entwurf der nothwendigen Vernunft-Wahrheiten, Gledtisch, Leipzig
[1745], 1766 3 , pp. 86-87, 99. Commento: Il testo di Leibniz è stato letto
da Kant in Samuel Clarke, A collection of papers, which passed between
the late learned Mr. Leibnitz, and Dr.Clarke, in the years 1715 and
1716: relating to the principles of natural philosophy and religion, Knapton,
London 1717, p. 56. Vedi anche KGS, X, p. 108, KGS, XVII, p. 699,
KGS, XVII, p. 700, KGS, XVIII, p. 514, KGS, XVIII, p. 552, KGS, XVIII, p.
564 per gli altri luoghi in cui le dottrine di Samuel Clarke sono citate.
Per tutta la discussione sui concetti leibniziani di spazio e tempo come
rapporti dei fenomeni di contiguità e successione vedi C.A. Crusius,
Entwurf der nothwendigen Vernunft-Wahrheiten, Gledtisch, Leipzig
[1745], 1766 3 , pp. 85-101. Crusius non utilizza “nach einander”, bensì
“hinter einander” che ha comunque lo stesso significato. Il riferimento
a Crusius è giustificato all’attribuzione kantiana della teoria al “partito
dei leibniziani”, così come era attribuita nell’Entwurf. L’opera Entwurf
der nothwendigen Vernunft-Wahrheiten, pubblicata a Leipzig nel 1745,
fu oggetto di una lettura, o forse meglio dire rilettura, particolarmente
impegnata intorno la primavera estate del 1760, come testimonia
una lettera del 6 giugno 1760 a Ludwig Ernst Borowski: «Des Crusius
Metaph: wage noch ein paar Tage zu behalten alsdenn denke meine
eigene zu besitzen ich werde es in Ihrer Eltern Hause abliefern laßen»
(KGS, X, p. 32). Kant probabilmente acquistò qualche tempo dopo la
48
Fonti della Kritik der reinen Vernunft
a cura di Piero Giordanetti, Massimo Marassi, Riccardo Pozzo
seconda edizione pubblicata nel 1753, come
si evince da Warda (Arthur Warda, Immanuel
Kants Bücher, Martin Breslauer, Berlin 1922, p.
47). Autore: Marco Sgarbi
2) Determinabile e determinazione nell’Amphibolie
KGS, III, A261/B317: Testo in originale: «endlich
des Bestimmbaren und der Bestimmung (
Materie und Form) […]». Testo in italiano: «infine
il determinabile e la determinazione (materia
e forma) […]». Fonte: «Si ens concipitur ut
determinabile, MATERIA […]». A.G. Baumgarten,
Metaphysica, § 344. Commento: Il passo
KGS, XXVIII, p. 575, riporta: «Transscendentale
Materie ist das determinabile, transscendentale
Form aber die Determination, oder der actus
determinandi. Die transscendentale Materie ist
die Realität oder das datum zu allen Dingen.
Die Einschränkung aber der Realität macht die
transscendentale Form aus. Alle Realitäten der
Dinge liegen gleichsam in der unendlichen Materie,
wo man alsdann zu einem Dinge einige
Realitäten absondert, welches die Form ist. Die
Materie wird unterschieden in Materia ex qua,
in qua, und circa quam. Materia ex qua ist das
determinabile selbst; ein Ding, welches schon
determinirt ist. Materia circa quam bedeutet die
Materie in ipso determinationis actu; z.B. der
Text einer Predigt ist nicht Materia ex qua, sondern
circa quam aliquis versatur. Materia in qua
bedeutet das Subject der Inhärenz. Eigentlich
bedeutet materia circa quam die Gedanken,
wodurch einer Sache die Form gegeben wird.
Z.B. der Plan eines Gebäudes ist materia circa
quam; aber die Steine, Holz u.s.w. sind die
Materia ex qua». Esso è la trascrizione e spie-

gazione del paragrafo § 344 della Metaphysica
di Baumgarten e dimostra che è la fonte della
Kritik der reinen Vernunft: «Si ens concipitur ut
determinabile, MATERIA, EX QUA [der Stoff,
der Zeug], in ipso determinationis actu, MATE-
RIA CIRCA QUAM (obiectum, subiectum occupationis)
[der Gegenstand], facta determinatione
MATERIA IN QUA, et haec cum materia ex qua,
SUBIECTUM vocatur». Autore: Marco Sgarbi.
3) Il concetto di essentialia
KGS, III, A266/B323: Testo in originale: «In jedem
Wesen sind die Bestandstücke desselben
(essentialia) […]». Testo in italiano: «In ogni
ente le parti costitutive (essentialia) […]». Fonti:
«Ea, quae constater insunt, quorum tamen
unum per alterum per alterum non determinatur,
essentialia appello». C. Wolff, Philosophia
rationalis sive logica, Renger, Frankfurt-Leipzig
1740, p. 146. «Jene heißen die wesentlichen
Stücke (essentialia)». G.F. Meier, Auszug aus
der Vernunftlehre, Gebauer, Halle 1752, p. 31.
Autore: Marco Sgarbi.
4) Il concetto di sensazione
KGS, III, A 320/B 376: Testo in originale: «Eine
Perzeption, die sich lediglich auf das Subjekt,
als die Modifikation seines Zustandes bezieht,
ist Empfindung (sensatio)». Testo in italiano:
«Una percezione che si riferisce unicamente al
soggetto, come la modificazione del suo stato,
è una sensazione (sensatio)». Fonti: «Perceptiones,
quorum ratio continetur in mutationis,
in organis corporis nostri qua talibus contigentibus,
dicuntur Sensationes». C. Wolff, Psychologia
empirica, Renger, Frankfurt am Main
1732, p. 37. «Sensationes sunt perceptiones,
quorum ratio continetur in mutationibus, in
organis corporis nostri, qua talibus, contingentibus».
F.C. Baumeister, Philosophia definitiva,
Ahlfeld, Wittenberg 1735, p. 127. Autore: Marco
Sgarbi.
5) La sostanza e la sua distinzione dai predicati
e dalle determinazioni delle cose
KGS, III, A 349: Testo in originale: «Von jedem
Dinge überhaupt kann ich sagen, es sei Substanz,
so fern ich es von bloen Prädicaten und
Bestimmungen der Dinge unterscheide». Testo
in italiano: «Riguardo ad ogni cosa in generale, posso dire che si tratta
di sostanza, in quanto io la distingua dai semplici predicati e determinazioni
delle cose». Fonte: «Ein Ding kan nicht vor sich selbst bestehen,
wenn es unmöglich anders würklich seyn kan, als eine Bestimmung,
oder als ein Prädicat und ein Merkmal eines andern Dinges. [...] Eine
Substanz ist ein jedwedes vor sich bestehendes Ding. [...] Zu gleicher
Zeit ist klar, da alle mögliche Dinge entweder Substanzen oder Accidenzien
sind» (G.F. Meier, Metaphysik, § 154). Autore: Manuela Mei
6) I pensieri come accidenti della propria esistenza e determinazioni
del proprio stato
KGS, III, A 349: Testo in originale: «Also mu jedermann [...] das Denken
aber nur als Accidenzen seines Daseins und Bestimmungen seines
Zustandes ansehen». Testo in italiano: «Ciascuno deve considerare
[...] i pensieri soltanto come accidenti della propria esistenza e come
determinazioni del proprio stato». Fonti: «Die Gedanken sind nichts
anders als Accidenzien. [...] weil ein Gedanke nicht anders gedacht
werden kan, als eine Bestimmung und ein Prädicat eines andern Dinges.
Ja, die Erfahrung überzeugt uns stündlich, daß unsere Gedanken
auf einander folgen, und da sie also nichts anders als Veränderungen
unserer Seele sind. So können sie auch um dieser Ursach willen nichts
anders, als Accidenzien unserer Seele, seyn» (G.F. Meier, Metaphysik,
§ 482); «Ergo cogitationes sunt accidentia animae meae, quarum aliquae
saltim rationem sufficientem habent in anima mea» (A.G. Baumgarten,
Metaphysica, § 505). Autore: Manuela Mei
7) La sostanza come aggregato di altre sostanze
KGS, III, A 351: Testo in originale: «Eine jede zusammengesetzte
Substanz ist ein Aggregat vieler». Testo in italiano: «Ogni sostanza
composta è un aggregato di parecchie sostanze». Fonte: «Substantia
[...] composita autem, quae est substantiarum simplicium aggregatum»
(C. Wolff, Ontologia, § 794). Autore: Manuela Mei
8) Il senso interno come strumento della rappresentazione del
nostro soggetto pensante
KGS, III, A 357: Testo in originale: «[...] können wir mit Recht sagen,
daß unser denkendes Subject [...] als Gegenstand des inneren Sinnes
von uns vorgestellt wird». Testo in italiano: «[...] noi possiamo dire a
buon diritto, che il nostro soggetto pensante […] è rappresentato da noi
come oggetto del senso interno». Fonti: «Mens etiam sibi conscia est
eorum, quae in ipsa contingunt, si non omnium, saltem quorundam,
atque sic veluti seipsam percipit sensu quodam interno» (C. Wolff, Logica
Latina, § 31); «[...] ich die Vorstellung von meinem Ich niemals ohne
das begleitende Selbstgefühl in mir habe» (J.N. Tetens, Philosophische
Versuche über die menschliche Natur und ihre Entwicklung, parte I, 7,
IV, § 12). Autore: Manuela Mei
9) Il concetto di persona
KGS, III, A 361: Testo in originale: «Was sich der numerischen Identi-
49

tät seiner selbst in verschiedenen Zeiten bewußt ist, ist so fern eine Person».
Testo in italiano: «Ciò che è cosciente dell’identità numerica di
se stesso in tempi diversi, è in questo senso una persona». Fonti: «Thus
we see the Substance, whereof personal self consisted at one time,
may be varied at another, without the change of personal Identity».
(J.Locke, An Essay concerning human Unterstanding, libro II, cap. XX-
VII, § 11); «Da man nun eine Person nennet ein Ding, das sich bewust
ist, es sey eben dasjenige, was vorher in diesem oder jenem Zustande
gewesen» (C. Wolff, Deutsche Metaphysik, § 924); «Persona dicitur
ens, quod memoriam sui conservat, hoc est, meminit, se esse idem
illud ens, quod ante in hoc vel isto fuit statu» (C. Wolff, Psychologia
rationalis, § 741). Autore: Manuela Mei
10) La percezione di ciò che è in noi stessi come percezione
“immediata”
KGS, III, A 367: Testo in originale: «[...] daß nur dasjenige, was in uns
selbst ist, unmittelbar wahrgenommen werden könne». Testo in italiano:
«[…] solo ciò che è in noi stessi può essere percepito immediatamente».
Fonti: «[…] every Substance being as apt, […] to produce in us
those simple Ideas, which we receive immediately from it ». (J.Locke,
An Essay concerning human Unterstanding, libro II, cap. XXIII, § 7);
«[...] ich denke, ich fühle, ich will, es kommt mir so vor, es scheint mir
u.s.s. Die sind Urtheile über einzelne Veränderungen von mir selbst,
unmittelbare Empfindungsurtheile» (J.N. Tetens, Philosophische Versuche
über die menschliche Natur und ihre Entwicklung, I, 7, II § 11).
Autore: Manuela Mei
11) La propria esistenza come oggetto di una semplice percezione
KGS, III, A 367: Testo in originale: «[…] und da meine eigene Existenz
allein der Gegenstand einer blossen Wahrnehmung seine könne».
Testo in italiano: «[…] la mia propria esistenza può essere oggetto
di una semplice percezione». Fonti: «Nos esse nostri [...] conscios
quovis momento experimur» (C. Wolff, Psychologia empirica, § 11).
Autore: Manuela Mei
12) La “deduzione” dell’esistenza degli oggetti fuori di noi
KGS, III, A 367: Testo in originale: «Also ist das Dasein eines wirklichen
Gegenstandes außer mir […] niemals gerade zu in der Wahrnehmung
gegeben, sondern kann nur zu dieser, welche eine Modification
des inneren Sinnes ist, als äußere Ursache derselben hinzu gedacht
und mithin geschlossen werden». Testo in italiano: «L’esistenza di un
oggetto reale fuori di me […] non potrà quindi mai essere data immediatamente
nella percezione, ma potrà soltanto venir pensata in aggiunta
alla percezione – che è una modificazione del senso interno
– come causa esterna di essa, e di conseguenza, potrà soltanto essere
dedotta». Fonte: «[…] nam cum mihi nunc notum sit ipsamet corpora
non proprie a sensibus, vel ab imaginandi facultate, sed a solo intellectu
percipi, nec ex eo percipi quod tangantur aut videantur, sed tantum
ex eo quod intelligantur, aperte cognosco nihil facilius aut evidentius
50
mea mente posse a me percipi» (R. Descartes,
Meditationes de prima philosophia, II, 31). Autore:
Manuela Mei
13) L’esistenza dell’io come ente pensante
KGS, III, A 367-368: Testo in originale: «Daher
auch Cartesius mit Recht alle Wahrnehmung
in der engsten Bedeutung auf den Satz
einschränkte: Ich (als ein denkend Wesen) bin».
Testo in italiano: «Anche Cartesio limitò quindi
giustamente ogni percezione – nel senso più
stretto – alla proposizione: io (come ente pensante)
sono». Fonte: «ego sum, ego existo, quoties
a me profertur, vel mente concipitur, necessario
esse verum […] Sed quid igitur sum? Res
cogitans» (R. Descartes, Meditationes de prima
philosophia, II, 18, 23). Autore: Manuela Mei
14) La deduzione delle cose “esterne” per
mezzo di percezioni “interne”
KGS, III, A 368: Testo in originale: «Ich kann
also äußere Dinge eigentlich nicht wahrnehmen,
sondern nur aus meiner inneren Wahrnehmung
auf ihr Dasein schließen». Testo in
italiano: «Propriamente dunque io non posso
percepire cose esterne, ma posso soltanto dedurre
la loro esistenza dalla mia percezione interna».
Fonte: «Nempe ea dem quam video,
quam tango, quam imaginor, eadem denique
quam ab initio esse arbitrabar. Atqui, quod notandum
est, ejus perceptio non visio, non tactio,
non imaginatio est, nec unquam fuit, quamvis
prius ita videretur, sed solius mentis inspectio»
(R. Descartes, Meditationes de prima philosophia,
II, 28). Autore: Manuela Mei
15) La “invenzioni“ dell’immaginazione e la
mancanza di un loro corrispettivo empirico
KGS, III, A 374: Testo in originale: «Ist Empfindung
einmal gegeben [...], so kann durch die
Mannigfaltigkeit derselben mancher Gegenstand
in der Einbildung gedichtet werden, der
außer der Einbildung im Raume oder der Zeit
keine empirische Stelle hat». Testo in italiano:
«Una volta data la sensazione […], mediante
la molteplicità di essa si potranno inventare
nell’immaginazione parecchi oggetti, che non
trovano – al di fuori dell’immaginazione – alcuna
posizione empirica nello spazio o nel tem-

po». Fonte: «Si ea componimus, quae sibi mutuo
repugnant, vel nature vi in eodem subjecto
conjungi nequeunt, phantasma ens fictum repraesentat»
(C. Wolff, Psychologia empirica, §
146). Autore: Manuela Mei
16) La dipendenza dell’immaginazione dalla
percezione
KGS, III, A 377: Testo in originale: «[…] ohne
Wahrnehmung selbst die Erdichtung und der
Traum nicht möglich seien». Testo in italiano:
«[…] senza percezione non sono possibili neppure
la fantasia e il sogno». Fonte: «Sine praevia
sensatione nullum in anima phantasma oriri
potest» (C. Wolff, Psychologia empirica, § 106).
Autore: Manuela Mei
17) Tuttò ciò che è nell’anima è continuamente
in cambiamento
KGS, III, A 381: Testo in originale: «Denn in
dem, was wir Seele nennen, ist alles im continuirlichen
Flusse».Testo in italiano: «In ciò
che chiamiamo anima, difatti, tutto è in continuo
mutamento». Fonte: «Status animae continuo
mutatur» (C. Wolff, Psychologia rationalis,
§ 58). Autore: Manuela Mei
51

INTERVISTA
NOI TUTTI SIAMO QUI SOLO PROVVISORIAMENTE!
Questa intervista risale a qualche anno fa, al 5 dicembre 2001, quando
andai a trovare il Professor Hans Albert nella sua casa di Heidelberg,
ed è stata pubblicata prima in tedesco, poi in italiano1 . Naturalmente
il testo non è stato cambiato, ma ho integrato le note con alcuni riferimenti
bibliografici spero non inutili. A distanza di tempo, oltre agli
aspetti personali legati al ricordo della disponibilità e della cortesia di
Albert, resta in me forte la convinzione che il suo pensiero e il razionalismo
critico di matrice popperiana continuino a costituire un nodo
interessante della riflessione filosofica recente2 . Ritengo probabile che,
prima o poi, verrà ridimensionata la centralità di Popper nella filosofia
del ‘900 che alcuni sostengono, e che prevarranno i motivi di continuità
tra il suo pensiero e il Neopositivismo su quelli di discontinuità;
del resto sono anche convinto che un’adeguata prospettiva storica su
questo movimento e sulla filosofia analitica in genere non sia ancora
riuscita a prendere piede, nonostante i molti importanti contributi in
tal senso giunti da cespiti differenti e tuttavia convergenti (mi vengono
in mente, in allegro ordine sparso, le preziose pagine di Parrini, Benoist,
Dummett e Haller). In ogni caso, sia o non sia Popper un «gigante»
o un «neopositivista» (magari eretico), il dibattito filosofico che le sue
tesi hanno aperto e le implicazioni che hanno saputo trarne autori a
lui vicini, quale appunto Albert, sono un buon banco di prova per le
idee personali (ed eventualmente per le concezioni teoriche) del lettore
volenteroso: il tema della giustificazione delle nostre conoscenze
(o più semplicemente delle nostre convinzioni), quello dei rapporti tra
ragione e fede, o tra linguaggio e realtà, rientrano tutti nel novero delle
«eterne questioni» su cui sembra auspicabile in filosofia avere un proprio
punto di vista. Se incontrassi Albert oggi, gli porrei senz’altro altre
domande e alcune domande le formulerei diversamente, se non altro
per lo stimolo al «pensiero critico» che grazie alla lezione albertiana
ho cercato di applicare innanzitutto a me stesso. Ma è così che è andata…
e se eventualmente quelle che ora mi sembrano mie ingenuità
suscitassero in chi legge una migliore impressione dell’intervistato, ne
sarei comunque contento e potrei considerare la mia una felix culpa.
La prima cosa che vorrei chiederLe è naturalmente questa: in che
modo è arrivato al razionalismo critico?
52
Intervista di Lorenzo Fossati a Hans Albert
Sino alla fine della seconda guerra mondiale
aderivo alla visione pessimistica della storia
della filosofia di Oswald Spengler. La mia
concezione del mondo cambiò poi completamente.
Dapprima lessi Benedetto Croce,
trovandolo convincente; in seguito lessi altri
filosofi, per esempio Kant, Russell, Hartmann,
Scheler, Gehlen, Carnap, Bergson e Heidegger.
Alla fine mi sentivo davvero confuso, perché
ciascuno aveva apparentemente buoni argomenti,
ma le loro concezioni erano inconciliabili
l’una con l’altra. Al tempo dei miei studi
di economia incontrai il positivismo logico del
«Circolo di Vienna», che era stato utilizzato da
Hutchison per criticare l’economia neoclassica3
. Io accettai questa critica, ma nel frattempo
mi ero costruito una concezione filosofica
che si ricollegava al pragmatismo tedesco: alla
dottrina dell’azione di Arnold Gehlen, alla sociologia
del sapere di Max Scheler, al convenzionalismo
e alla teoria della fondazione ultima
di Hugo Dingler. Esposi questa concezione
nella mia dissertazione di dottorato, dal titolo
Rationalität und Existenz. Politische Arithmetik
und politische Anthropologie, in cui criticavo
radicalmente l’economia pura4 . Nel frattempo
mi resi conto che, per poter andare avanti, dovevo
imparare la logica moderna. Lessi Tarski
e scoprii il libro di Victor Kraft, Mathematik,
Logik und Erfahrung5 , che conteneva una convincente
confutazione della teoria dingleriana.
Kraft aveva scritto anche un libro sul Circolo
di Vienna6 , nell’ambito del quale annoverava
anche sé stesso e Karl Popper. Lessi così la Logik
der Forschung di Popper7 e i lavori del Circolo
di Vienna, e passai quindi al positivismo

logico, al quale in un primo tempo associavo
anche la concezione popperiana: accettavo la
teoria della scienza di Popper e la collegavo
alla convinzione positivistica, secondo cui la
metafisica sarebbe priva di significato. Tutto
mi appariva dunque molto semplice, finché
non scoprii che la critica di Popper alle idee
del Circolo di Vienna si spingeva molto più
avanti di quanto non avessi pensato, e che la
tesi dell’assenza di significato della metafisica
non è accettabile, e questo già per il fatto che
si danno nessi logici tra le asserzioni metafisiche
e le asserzioni delle scienze empiriche, per
esempio tra il principio generale di causalità, le
leggi causali e le singole asserzioni causali. Dover
superare la mia concezione antimetafisica
fu per me molto doloroso, ma inevitabile. Passai
così al razionalismo critico di Popper. Conobbi
poi personalmente Karl Popper nel 1958
in Tirolo, in occasione del «Forum Europeo
di Alpbach». Da allora iniziammo a scriverci
e diventammo amici8 . Quando nel 1968 uscì
il mio Traktat über kritische Vernunft9 , egli mi
scrisse che si trattava della migliore presentazione
globale della sua concezione filosofica.
Tuttavia in questo libro sono contenute anche
idee non rintracciabili in Popper, per esempio
la critica delle fondazioni ultime con l’aiuto del
Trilemma di Münchausen, la possibilità della
critica delle concezioni etiche per mezzo dei
principi-ponte e la mia critica delle concezioni
teologiche di Bultmann e di altri teologi.
Anche Bartley ha sostenuto in modo personale
il criticismo popperiano.
E anche Bartley l’ho poi conosciuto e mi ha
influenzato. Ha proposto una versione della filosofia
popperiana che Popper in seguito ha riconosciuto
solo fino a un certo punto10 . A causa
delle grosse differenze, tuttavia, non ebbe nessun
contatto con Popper per circa dieci anni.
Che cosa ha da dire sul Positivismusstreit –
la polemica tra il razionalismo critico e la
scuola di Francoforte?
Il punto di partenza di questa controversia fu
notoriamente la relazione di Karl Popper sulla
logica delle scienze sociali al Convegno di
Tübingen della Società tedesca di Sociolo-
gia nell’ottobre del 1961 e la correlazione di Theodor W. Adorno. In
quell’occasione però non ci fu un autentico dibattito; esso iniziò solo
quando Jürgen Habermas attaccò Popper in un articolo, definendolo
«positivista» 11 . Popper stesso non vi ha quasi preso parte. Mi mise
anzi in guardia dal «cacciarmi in quel pantano». Ma io non mi sono
lasciato dissuadere dall’analizzare criticamente le concezioni di Habermas,
Apel, Gadamer, Heidegger ecc. Karl Popper si dedicava ad
altri problemi; si occupava di Kant, della fisica moderna, della teoria
evoluzionistica della conoscenza, dei presocratici. Posso ben capire
che non volesse sprecare il suo tempo con altre questioni.
Ha conosciuto personalmente anche Habermas?
Naturalmente! Quando venni chiamato a Mannheim nel 1963, Habermas
era professore all’Università di Heidelberg. Ci siamo incontrati
nel 1964 al Congresso su Max Weber ad Heidelberg. In quel periodo
venne a trovarmi e gli prestai il libro di Bartley, The Retreat to Commitment.
Gli dissi che stavo scrivendo una risposta alla sua critica a
Popper. Anche in seguito ci siamo visti qualche volta. Mi sono sempre
sforzato di comprenderlo e di venire incontro alle sue idee. Lui ha
sempre discusso con pensatori americani e francesi. Ha tenuto poco
conto dei critici tedeschi e delle loro obiezioni.
Lei ha criticato aspramente anche Karl-Otto Apel.
Il Signor Apel è un uomo cordiale ed è solito rispondere anche alle
critiche aspre in modo cordiale. Egli ritiene di aver confutato il mio fallibilismo
conseguente 12 . E io sono convinto di aver ridotto all’assurdo
la sua posizione «fondata in modo ultimo» 13 . Altri si sono pronunciati
sulla questione, per esempio ultimamente Nilsson nel suo libro The
Revisability of Cognitive Standards, che sta dalla mia parte14 .
Adesso arriviamo alla sua controversia con la «pragmatica trascendentale».
La domanda d’obbligo, in questo caso, è la seguente:
perché si deve attribuire al fallibilismo una validità generale?
Potrebbe infatti già essere sufficiente sostenere il fallibilismo
solo in relazione al nostro sapere scientifico o fattuale,
mentre nella logica si potrebbe vedere un’eccezione.
La domanda dovrebbe piuttosto essere formulata così: perché mai si
dovrebbe fare un’eccezione? Come si fa a sapere che una determinata
soluzione di un problema non potrà mai essere rivista? Legga il libro
di Bertrand Russell My Philosophical Development 15 . Da qualche parte
dice di avere prima considerato la matematica come l’ultima provincia
della certezza, ma di aver poi abbandonato questa posizione, una volta
scoperti i paradossi della teoria degli insiemi. Più tardi Imre Lakatos ha
mostrato come sia accettabile una concezione fallibilista del pensiero
matematico16 . Chi l’avrebbe mai detto? Del resto anche in logica ci sono
controversie, per esempio sulla legge del terzo escluso. E vengono anche
proposte logiche paraconsistenti.
La sua concezione è sicuramente molto coerente. Al contrario di
53

quanto ritengono alcuni suoi critici, non si può dire che contenga
contraddizioni.
Sì, ma naturalmente una concezione coerente può pure essere falsa!
Naturalmente, per essere conseguente, devo applicare il mio fallibilismo
anche alla mia propria concezione. Non posso cioè escludere,
da un punto di vista logico, la possibilità che ci siano eccezioni. Chi
critica la mia posizione deve però provare queste eccezioni.
Il problema potrebbe essere esposto in questo modo: dal punto
di vista empirico è certo che una cosa abbia molte proprietà, di
cui noi possiamo parlare e in merito alle quali possiamo sbagliarci;
potremmo però affermare di avere a disposizione qualcosa
su cui non possiamo sbagliarci, e cioè la proprietà di avere molte
proprietà. Posso, per esempio, sbagliarmi sul colore dei miei
pantaloni, ma non sul fatto che i miei pantaloni debbano avere
un colore. Che un colore ci sia non potrebbe essere dunque materia
di dubbio.
A questo proposito bisogna dire innanzitutto che molto è quello che
di solito si considera certo e indubitabile. Ma questa certezza non è
un criterio di verità. Che i Suoi pantaloni abbiano un colore potrebbe
infatti essere un’illusione. Il colore potrebbe essere un mero fenomeno
della sua coscienza. Potrebbe, allora, obiettarmi che almeno ci sono
colori nella sua coscienza. Ma addirittura l’esistenza di questi viene talvolta
messa in discussione, seppure non da me. Anche qui il fallibilista
conseguente ingaggerà una discussione e non si richiamerà alla certezza
come criterio di verità. Popper sarebbe forse stato d’accordo con lei
in merito alle cosiddette «verità banali». Ma è possibile che anche queste
siano false: il senso comune può infatti sbagliarsi, anche se talvolta
ha ragione rispetto alle concezioni filosofiche. Che ci siano cose che
sembrano avere proprietà, potrebbe tra l’altro essere una conseguenza
della nostra grammatica, alla quale non possiamo rinunciare, nonostante
che in questo caso ci induca in errore. Ai problemi ontologici
si danno notoriamente soluzioni molto diverse. Se si ha abbastanza
fantasia speculativa, molte ovvietà diventano problematiche.
Verità e certezza non vanno dunque d’accordo?
Verità e certezza sono comunque due cose diverse. Tra l’altro, di solito,
vengono tenute distinte anche dal senso comune ed è addirittura ovvio,
nella vita quotidiana, non considerare la certezza un indizio sicuro della
verità. Tuttavia crediamo di conoscere con certezza molte cose, per
esempio le semplici verità dell’aritmetica imparate a scuola. Per esempio
sembra ovvio che 1 + 1 = 2. Se però ci chiediamo se davvero ci sia un
numero «1», un numero «2» e una somma di numeri, o se ci siano forse
solo segni di numeri, con i quali riusciamo a fare praticamente le operazioni,
allora magari incontriamo delle difficoltà. Mi ricordo come, in relazione
a questi problemi, mi ha tra l’altro influenzato Ungewissheit und
Wagnis di Peter Wust 17 , il filosofo esistenzialista cattolico oggi del tutto
dimenticato. Lo lessi da studente, molto prima di scoprire Popper, ed è
stato per me molto più interessante di Heidegger, per fare un esempio.
54
Per Lei ed Apel il principio di non contraddizione
deve essere riconosciuto, altrimenti sarebbe
possibile trarre qualsiasi conseguenza.
Rispetto al Apel, Lei dà una diversa fondazione
di questo principio, ma, al pari di lui, gli
attribuisce un ruolo meramente «pratico».
In effetti accetto, come Apel, il principio di
non contraddizione. Solo non affermo di averlo
fondato. E la tesi che, non riconoscendolo,
sarebbe possibile trarre qualsiasi conseguenza,
vale solo se si accettano certe regole logiche.
Un dialettico potrebbe obiettare che si potrebbero
utilizzare altre regole al loro posto, cosicché
non sarebbe più possibile trarre qualsiasi
conseguenza. Della possibilità di logiche paraconsistenti
ho già detto. Io resto fedele alla
logica classica. La considero accettabile e mi
sono occupato poco di questi sviluppi. In ogni
caso finora non ho ancora sentito nulla che mi
potesse far cambiare idea.
Finora! Sempre solo provvisoriamente.
Certo! Perché no? Del resto noi tutti siamo qui
solo provvisoriamente! Dobbiamo rivedere
costantemente le nostre concezioni. Al razionalismo
critico appartiene il revisionismo metodologico.
Lei ha parlato spesso della «ideologia tedesca».
È una concezione che domina tuttora?
Con quell’espressione mi riferivo alle correnti ermeneutiche
e dialettiche. Se le si chiama ideologie,
non le si è con questo naturalmente ancora
tolte di mezzo! Io però non mi sono limitato a
caratterizzarle in questo modo, ma ho argomentato
contro di esse. È chiaro che Lei vuole che io
dica qualcosa dello stato attuale del pensiero in
Germania. Al contrario del periodo subito dopo
la Seconda Guerra mondiale, c’è oggi, nell’ambito
linguistico tedesco, una grande varietà di
posizioni filosofiche. E ci sono discussioni tra
le diverse correnti alle quali io stesso ho preso
parte. Non si può parlare della predominanza di
certe concezioni. La situazione era diversa subito
dopo la seconda guerra mondiale, quando
su tutti dominavano Heidegger e i suoi allievi.
Poi vennero la «Scuola di Francoforte» di Max
Horkheimer e Theodor W. Adorno e la «Scuola
di Erlangen» di Paul Lorenzen; infine, Wolfgang

Stegmüller con la filosofia analitica e il razionalismo
critico di Karl Popper. Ora il quadro è diventato
ancora più complesso.
Ha parlato dei marxisti. Anche se spesso
Popper viene considerato una sorta di «anti-
Marx», nel suo libro The Open Society si
legge una valutazione parzialmente positiva
dell’opera marxiana18. Si potrebbe dire
che Popper si esprime positivamente sugli
obbiettivi di Marx e negativamente sui suoi
metodi. Marx avrebbe certo sostenuto una
teoria della scienza problematica, ma la sua
analisi della società resterebbe comunque
interessante.
Su questo ha completamente ragione. Anche
per me Karl Marx è uno dei sociologi ed economisti
tedeschi più significativi. Gli siamo debitori
di penetranti intuizioni, anche se in certi
punti si è sbagliato. E i suoi errori hanno talvolta
avuto effetti che di sicuro egli non avrebbe auspicato.
Soprattutto è stato un grave errore dagli
effetti catastrofici l’idea che si potesse costruire
una società libera attraverso l’eliminazione della
proprietà privata dei mezzi di produzione, del
mercato e del denaro. La dogmatizzazione del
marxismo è però imputabile soprattutto a Lenin.
Ci si può, tra l’altro, facilmente immaginare che
un uomo come Marx sarebbe stato liquidato in
Unione Sovietica.
In Germania i revisionisti – soprattutto Eduard
Bernstein – hanno invece affrontato criticamente
Marx. Bernstein è stato un revisionista non solo
dal punto di vista politico, ma anche da quello
teorico: ha sottoposto la concezione marxiana
alla critica e l’ha rivista 19 .
Lei ha scritto che «in una società libera i
partiti politici possono votarsi difficilmente
ad una determinata convinzione filosofica»20.
Il razionalismo critico ha però avuto
un influsso importante sui programmi della
Socialdemocrazia tedesca. Lei è socialdemocratico?
Al giorno d’oggi una risposta affermativa a questa
domanda avrebbe scarso significato. Ralf
Dahrendorf ha detto a ragione che in Europa,
dopo la seconda guerra mondiale, si è imposto
qualcosa come «un compromesso socialdemo-
cratico», che tutti i grandi partiti avrebbero sottoscritto. Innanzitutto è
stata la CDU a introdurre in Germania un tipo di riforme che andava in
questa direzione, in nome di una «economia sociale di mercato». Più
tardi gli altri partiti hanno incluso nei loro programmi molto di quello
cui aspiravano i Verdi. Per quanto riguarda il razionalismo critico, ci
sono state personalità di tutti i grandi partiti che si sono rifatte alle idee
di Karl Popper, soprattutto Helmut Schmidt, ma anche Helmut Kohl e
addirittura Franz Josef Strauß. Popper si è autodefinito liberale e così
vorrei classificarmi anch’io. Ho imparato molto da Adam Smith e da
John Stuart Mill, che ha scritto un libro eccellente sulla libertà21 , ma anche
da Karl Marx e da Max Weber, uno dei suoi critici più agguerriti.
John Stuart Mill era un filosofo molto amato anche dal suo amico
Paul Feyerabend22. A questo proposito Lei ha contrapposto
«anarchia» e «anomia», sostenendo che Feyerabend di fatto penserebbe
più alla seconda che alla prima.
Sì, entrambi abbiamo scritto positivamente di Mill, che ha il merito di
aver introdotto il fallibilismo nella filosofia politica. Per quanto riguarda
l’anarchia, si tratta senz’altro di una situazione di assenza di potere,
che però non esclude affatto, in modo automatico, ogni forma di diritto.
Ma, nelle società moderne, senza uno stato che detenga il monopolio
dell’uso della forza, probabilmente non si potrebbe, di fatto, reggere
nessun ordinamento giuridico. Anche il potere stesso può essere
giuridicamente addomesticato, e questo è parzialmente avvenuto negli
stati moderni sotto l’influsso dell’Illuminismo. Questo ha certamente
contribuito all’addomesticamento dello Stato e, per impulso della secolarizzazione,
anche all’addomesticamento della religione23 .
Oggi viviamo in una crisi mondiale e sorge spontanea la domanda
se sia possibile fare un confronto tra la concezione del mondo europea
e le altre. Per esempio, si fa notare che finora l’Islam non ha
conosciuto alcuna secolarizzazione.
Di fatto è problematico che nell’Islam la religione stabilisca l’ordinamento
giuridico. Questo può condurre a grosse difficoltà. In Europa
la prima separazione dei poteri si ebbe già con le lotte tra Papa e
Imperatore, con grandi conseguenze per gli ordinamenti giuridici europei.
Evidentemente un tale tipo di separazione dei poteri non c’è
nell’ambito dell’Islam. Per quanto riguarda l’attuale crisi internazionale,
auspicherei che col tempo si riuscisse ad affermare un ordinamento
giuridico internazionale, pressappoco nel senso dell’ideale a suo tempo
delineato da Immanuel Kant. Ma questo sembra difficile senza un
monopolio della forza centralizzato e un tale monopolio è difficile da
realizzare. Per essere accettabile, un tale ordinamento giuridico dovrebbe
includere un forte elemento federale. A mio avviso, sul lungo
periodo, non è escluso che si riesca ad individuare un quadro giuridico
generale che possa risultare accettabile nei diversi contesti culturali.
Ci sono già molti stati nei quali i seguaci di religioni diverse vivono
insieme in modo pacifico. Anche gli appartenenti all’Islam sembrano
talvolta potersi abituare ad un ordinamento giuridico del nostro tipo.
55

Talvolta si ha l’impressione che Lei usi come sinonimi religione,
intolleranza, dogmatismo e teologia.
Questo naturalmente non è corretto: sono convinto che vi siano religioni
più o meno tolleranti e concezioni teologiche più o meno dogmatiche.
Un classico dell’intolleranza era Paolo, come ha notato un
noto teologo, e anche Lutero e Calvino possono essere caratterizzati in
questo modo. Si può sostenere invece il contrario di Albert Schweitzer.
Ma certamente vi sono tolleranza ed intolleranza anche in concezioni
del mondo secolarizzate. Non vorrei essere inteso in questo modo,
come se identificassi la teologia con l’intolleranza o il dogmatismo.
Lei ha contrapposto il fallibilismo all’Offenbarungsmodell der Erkenntnis,
al «modello della conoscenza come rivelazione», che
però non è una categoria epistemologica, bensì teologica.
Il mio «Offenbarungsmodell» corrisponde pressappoco a quello che
Popper chiama «manifestation theory of knowledge», cioè «teoria manifestativa
della conoscenza». Sul fatto che questa sia una buona traduzione,
si possono naturalmente nutrire dubbi. Ma considero problematica
la netta distinzione che Lei pone tra le categorie epistemologiche
e quelle teologiche. Dio gioca notoriamente un ruolo importante nella
teoria della conoscenza prekantiana, come Röd ha mostrato nel suo
libro Der Gott der reinen Vernunft24 . Anche Popper ha mostrato il significato
epistemologico della «veracitas dei».
Forse ci siamo lasciati sedurre troppo dalla «magia delle parole»
e ci siamo spinti troppo in là. In ogni caso la Sua critica al pensiero
religioso è molto forte. Secondo Lei il razionalismo critico
e la religione sono inconciliabili?
Albert Schweitzer si è definito una volta un «razionalista critico», anche
se l’ha fatto quando questo non era ancora il nome di una precisa corrente.
Egli ha però affermato con insistenza che il pensiero critico deve
trovare cittadinanza anche all’interno della religione; lo vorrei quindi
volentieri includere nella mia versione del razionalismo critico. Egli
stesso si è comportato in questo modo nella sua Geschichte der Leben
Jesu-Forschung 25 , in cui ha mosso critiche addirittura all’etica di Gesù.
Non si può dire che il razionalismo critico, come moderna concezione
del mondo, non abbia bisogno di Dio?
Ci sono diverse versioni del razionalismo critico, cosicché la risposta a
questa domanda deve risultare molto differenziata. Karl Popper non si
considerava ateo, ma agnostico. Altri razionalisti critici sono atei come
me. Ci sono, però, ad esempio, altri sostenitori del razionalismo critico
che si riconoscono nel cattolicesimo. Non voglio obbligare nessuno
di loro a sottoscrivere la mia critica alla religione o alla teologia. Essa
non segue logicamente dal razionalismo critico, ma si basa su ulteriori
presupposti che essi possono non condividere affatto. La tesi dell’esistenza
di Dio è un’ipotesi metafisica che io non posso accettare per
certi motivi, soprattutto perché non si armonizza con la moderna immagine
del mondo ampiamente improntata alle conoscenze scientifiche:
56
qui non si tratta di un rifiuto della metafisica in
generale, ma di quello di una determinata tesi.
Bartley era d’accordo con Lei. Si potrebbe
considerare il razionalismo critico come
un’espressione paradigmatica dello spirito
contemporaneo su questo punto – uno spirito
che «sta bene» senza uno Spirito più alto.
Qui non si tratta di star bene, ma di come si
possa decidere sulle ipotesi metafisiche: un
problema difficile, come si sa. Esse non possono
direttamente essere confermate con la
ricerca empirica. Chi riconosce che le ipotesi
metafisiche sono difficili da giudicare, può naturalmente
cercare motivi a suffragio della tesi
che ci sia un Dio di un certo tipo, cioè il Dio in
cui credono i cristiani. Finora io di buoni motivi
non ne ho trovati, e anzi ne ho trovati per
credere il contrario, per esempio in riferimento
al problema della teodicea. Per quanto riguarda
l’«immagine scientifica del mondo», il suo stesso
riconoscimento come concezione adeguata
di nessi reali oggettivi porta a sostenere un
realismo metafisico. Per questo motivo coloro
che credono in Dio sono spesso soliti interpretare
strumentalisticamente le teorie scientifiche,
cioè come meri strumenti, privi di reale significato,
utili a far fronte alle esigenze della vita.
La metafisica non è quindi un non senso,
ma le teorie metafisiche restano inconfutabili.
Come si possono trovare allora buoni
motivi per sostenere il realismo?
Innanzitutto il realismo è il punto di partenza del
senso comune. E a questo punto ci si potrebbe
chiedere piuttosto perché mai si dovrebbe
abbandonare questa posizione. Certamente la
scienza ha sempre sottoposto a critica componenti
del senso comune e lo ha rivisto in molti
punti; però esso resta completamente conciliabile
con il realismo. Le alternative al realismo finora
proposte si sono mostrate molto artificiose
e hanno comportato eccessive difficoltà. Oggi
è per esempio di moda il costruttivismo radicale,
il quale sostiene che la realtà sia una nostra
costruzione. Ci si può allora chiedere di chi sia
costruzione. E la risposta che sarebbe una costruzione
del nostro cervello, conduce alla domanda
se questo cervello stesso sia anche solo

una nostra costruzione. Arriviamo quindi molto
in fretta a conseguenze assurde. Se questa posizione
naufraga in mezzo alle difficoltà, i suoi
sostenitori ripiegano spesso sulla tesi che le nostre
teorie riguardo alla realtà sarebbero nostre
costruzioni – una tesi che praticamente nessuno
contesta e che è conciliabile con il realismo. In
metafisica abbiamo da scegliere tra concezioni
alternative e per far questo è bene tener conto
anche dei risultati delle scienze. Questo esige
considerazioni che non possono essere riferite
in due righe. In tal caso il diavolo sta certamente
nel dettaglio. Come Popper una volta disse,
è possibile che il mondo sia troppo complicato
per noi, di modo che non potremmo mai spingerci
ad una conoscenza delle sue caratteristiche
che sia del tutto priva di errori. Possiamo in
ogni caso fare alcuni progressi conoscitivi che ci
conducano forse un po’ più vicino alla verità.
L’idea dell’approssimazione alla verità è improntata
alla scienza. Si può dire che la conoscenza
autentica sia quella della scienza?
Assolutamente no, perché anche il nostro senso
comune sembra essere spesso del tutto accettabile.
Ma dalla ricerca scientifica si ottengono
sempre miglioramenti – correzioni spesso radicali,
approfondimenti e ampliamenti – che noi
dovremmo accettare.
La metafisica ha quindi per il razionalismo
critico un significato per così dire «secondario»?
Anche questo sarebbe un fraintendimento. Già
i programmi conoscitivi delle scienze empiriche
contengono assunzioni metafisiche, come
Popper ha cercato di mostrare. Così l’atomismo
presocratico, al pari di altre concezioni di quel
periodo, è diventato un programma di ricerca
delle scienze empiriche destinato al successo.
Se si riconosce che tali programmi conoscitivi
giocano un ruolo importante nelle scienze, si
deve ammettere che non può esserci un netto
confine tra scienza e metafisica. E se si sostiene
che ci sono tipi particolari di conoscenza oltre
al sapere scientifico, bisogna discutere questa
affermazione. Le tesi di Gadamer sul problema
della comprensione, per esempio, si possono
così discutere in relazione allo sviluppo della
scienza26 . Ed emerge allora, tra l’altro, che egli non ha considerato i
contributi offerti da Karl Bühler, Heinrich Gomperz e Max Weber alla
soluzione di questo problema, e non ha quindi tenuto conto delle importanti
distinzioni operate da questi e da altri teorici: la sua visione
unilaterale della situazione problematica gli ha impedito di considerare
la possibilità di una spiegazione del comprendere, quale è stata intravista
già nei primi abbozzi di una ermeneutica generale elaborati nel
XVIII secolo. Il suo tentativo di ricondurre ogni possibile tipo di conoscenza
immediata (Einsicht) sotto un concetto generale del «comprendere»
non funziona affatto.
Non c’è forse il rischio che anche Lei, in relazione allo «spiegare»
(Erklären), avanzi una pretesa esattamente speculare rispetto
a quella sostenuta da Gadamer nei confronti del «comprendere»
(Verstehen)? In ciascuno dei due casi, cioè, si pretenderebbe di
esaurire ogni approccio cognitivo, riducendolo o alla spiegazione
o alla comprensione.
Assolutamente no! Io accetto per esempio un comprendere nel senso
di una interpretazione dei segni, e questo non può essere descritto
come uno spiegare. Certo la percezione e l’interpretazione dei segni
non sono in sé uno spiegare, ma possono però, a certe condizioni, essere
spiegati da una teoria del comprendere. Per riuscirci, occorre trovare
le regolarità del comprendere. Lo stesso vale per la comprensione
dei motivi, per la spiegazione della quale vi sono interessanti contributi
nel pensiero psicologico. Martin Heidegger, la cui filosofia assegna
grande valore al linguaggio e al comprendere, non ha in genere tenuto
conto della funzione rappresentativa del linguaggio, messa in luce
soprattutto da Karl Bühler27 . È certo che egli parla ininterrottamente,
come noi tutti, «su» qualcosa, rendendolo così oggetto della sua rappresentazione;
però si comporta come se egli potesse superare l’oggettivismo.
Alla fine approda ad un espressionismo filosofico e usa il
linguaggio solo come «musica dei vocaboli». Questo tipo di filosofia è
un abuso della ragione. Quando Richard Rorty mette insieme Heidegger,
Wittgenstein e Dewey come i tre più importanti filosofi moderni,
suppongo, per non essere scortese nei suoi confronti, che egli abbia
valutato eccessivamente la sua conoscenza della lingua tedesca.
Anche Carnap aveva duramente criticato Heidegger28. Alcuni
oppositori del razionalismo critico hanno scritto che esso sosterrebbe
la stessa «ontologia fattuale» (Tatsachenontologie) del
Circolo di Vienna29.
La critica carnapiana di Heidegger posso capirla molto bene. Per quanto
riguarda però il Circolo di Vienna, in esso si sostenevano diverse concezioni.
Nel suo libro Der logische Aufbau der Welt30 , Carnap ha de facto
sostenuto una metafisica fenomenistica, che per esempio Karl Popper
ha duramente criticato. Il fenomenismo, con il suo ricorso ai dati di
senso, è un erede dell’empirismo classico, che deve essere considerato
superato sulla base dello sviluppo della psicologia della percezione. In
seguito, Carnap è passato al fisicalismo. Ma né il fenomenismo né il
57

fisicalismo sono accettabili per il razionalismo critico. L’uso dell’espressione
«fatti» (Tatsachen) non è connesso a nessuna ontologia.
Oggi si parla di filosofia «continentale» e di filosofia «analitica».
Qual’è la posizione del razionalismo critico in questo dibattito?
Questa suddivisione grossolana delle correnti filosofiche non è secondo
me molto fruttuosa. Nello sviluppo della filosofia analitica sono
riemersi quasi tutti i problemi filosofici e quasi tutte le precedenti posizioni,
per così dire, nella forma di una «mascherata analitica». Ora
essi vengono trattati solo con i mezzi della logica moderna. Nell’ambito
della filosofia analitica si può essere oggi neoempiristi, kantiani o
addirittura esistenzialisti. La filosofia continentale ha rinunciato per un
lungo periodo non solo all’uso degli strumenti della logica moderna,
ma talvolta ha addirittura abbandonato del tutto l’argomentazione logicamente
stringente. Concezioni di questo tipo sono diventate però
sempre più rare. Di sicuro il razionalismo critico appartiene più alla
cerchia del pensiero analitico, ma considera fra i suoi precursori, per
esempio, Oswald Külpe, un kantiano che passò al realismo trascendentale
e che non ha utilizzato la logica moderna.
Per la filosofia analitica è essenziale l’analisi del linguaggio. Si
potrebbe dire che questo vale anche per il razionalismo critico.
Per esempio, è il linguaggio il mezzo con cui vengono formulate
le teorie che poi verranno criticate. Anche il Trilemma di Münchausen
si riferisce a proposizioni. Il linguaggio si delineerebbe
così come il punto filosofico di partenza per trattare il pensiero
e la conoscenza.
Ci sono molti punti di partenza. In relazione al problema della conoscenza,
un fautore dell’empirismo deve soprattutto parlare anche della
percezione. Per esempio egli utilizza percezioni per criticare le teorie.
Naturalmente esse devono essere trasformate in proposizioni. Se si tiene
conto delle ricerche in corso sulle scimmie più altamente evolute, si
deve giungere alla concezione che ci sono conoscenze anche in questi
animali, senza che essi dispongano di un linguaggio. Anche le recenti
ricerche sull’apprendimento dei bambini piccoli conducono a conseguenze
analoghe: essi sono chiaramente in grado di conoscere qualcosa
e di rivedere le proprie conoscenze prima di disporre di strumenti
linguistici. Certo il linguaggio gioca un ruolo significativo per la conoscenza
quotidiana e per quella scientifica, ma credo che dovremmo
pensarci bene prima di definire, all’inizio, il concetto di conoscenza in
modo tale che siano escluse conoscenze prelinguistiche.
Infine: Lei si considera un allievo di Popper?
Ho stretto amicizia con Popper e, se devo indicare il nome di un filosofo
cui sono debitore in modo decisivo per il mio pensiero, allora devo
fare il suo. Ma ho imparato molto anche da Max Weber, da Victor Kraft,
da Albert Schweitzer e da molti altri, che non posso nominare tutti.
58
1 Versione italiana in L. Fossati, Ragione e
dogma. Hans Albert critico della teologia,
premessa di H. Albert, Guida, Napoli 2003,
pp. 194-207; versione tedesca su «Aufklärung
und Kritik», 9/2 (2202), pp. 6-18;
http://www.gkpn.de/fossati.pdf
2 Per rimanere in Italia, vorrei qui segnalare almeno
un altro paio di studiosi che nel frattempo
vi si sono dedicati, e cioè Edoardo
Fittipaldi con la sua monografia Scienza del
diritto e razionalismo critico. Il programma
epistemologico di Hans Albert per la scienza
e la sociologia del diritto, Giuffrè, Milano
2003; e Giuseppe Franco, che ha curato
una «intervista doppia» ad Hans Albert e
a Dario Antiseri, L’ermeneutica è scienza?,
Rubbettino, Soveria Mannelli 2006, e l’antologia
albertiana Sapere, fede e certezza.
Saggi su razionalismo critico e religione, di
imminente pubblicazione presso Barbieri
Selvaggi Editori di Taranto.
3 T.W. Hutchison, The Significance and Basic
Postulates of Economic Theory, Macmillan,
London 1938.
4 H. Albert, Rationalität und Existenz, Mohr
Siebeck, Tübingen 2006.
5 V. Kraft, Mathematik, Logik und Erfahrung,
Springer, Wien 1947.
6 Id., Der Wiener Kreis. Der Ursprung des
Neupositivismus, Springer, Wien 1950; tr. it.
di N. De Domenico, Il circolo di Vienna,
Peloritana Editrice, Messina 1969.
7 K.R. Popper, Logik der Forschung, Julius
Springer, Wien 1935; ed. in. The Logic of
Scientific Discovery, Hutchinson, London
1959; tr. it. di M. Trinchero, Logica della
scoperta scientifica, Einaudi, Torino 1970.
8 H. Albert - K.R. Popper, Briefwechsel, a cura
di M. Morgenstern e R. Zimmer, Fischer,
Frankfurt a. M. 2005.
9 H. Albert, Traktat über kritische Vernunft,
Mohr Siebeck, Tübingen 1969, 1991 5 ; tr.
it. di E. Picardi, Per un razionalismo critico,
intr. di G.E. Rusconi, il Mulino, Bologna
1973.
10 W.W. Bartley III, The Retreat to Commitment,
Open Court, La Salle - London, 1962,
1984 2 ; tr. it. di A. Rainone, Ecologia della
razionalità, Armando, Roma 1990.

11 T.W. Adorno, K.R. Popper, R. Dahrendorf,
J. Habermas, H. Albert, H. Pilot, Der Positivismusstreit
in der deutschen Soziologie, a
cura di H. Maus, F. Fürstenberg e F. Benseler,
Luchterhand, Neuwied/Berlin 1969; tr.
it. di A. Marietti Solmi, Dialettica e positivismo
in sociologia, Einaudi, Torino 1972.
12 Cfr. p. es. K.-O. Apel, Das Problem der philosophischen
Letztbegründung im Lichte
einer transzendentalen Sprachpragmatik.
Versuch einer Metakritik des “kritischen Rationalismus”,
in Sprache und Erkenntnis, a
cura di B. Kanitscheider, AMOE, Innsbruck
1976, pp. 55-82; Id. - H. Albert, Ist eine philosophische
Letztbegründung moralischer
Normen möglich?, in Funkkolleg Praktische
Philosophie/Ethik: Dialoge, II, Fischer, Frankfurt
a. M. 1984, pp. 82-122.
13 H. Albert, Transzendentale Träumereien.
Karl-Otto Apels Sprachspiele und sein hermeneutischer
Gott, Hoffman und Campe,
Hamburg 1975.
14 J. Nilsson, Rationality in Inquiry. On the
Revisability of Cognitive Standards, Umeå
Studies in Philosophy, Umeå 2000.
15 B. Russell, My Philosophical Development,
Allen & Unwin, London 1959.
16 I. Lakatos, Proofs and Refutations. The Logic
of Mathematical Discovery, a cura di J.
Worrall - E. Zahar, Cambridge University
Press, Cambridge 1976; ed. it. a cura di G.
Giorello, Dimostrazioni e confutazioni, Feltrinelli,
Milano 1979.
17 P. Wust, Ungewissheit und Wagnis, Anton
Pustet, Salzburg 1937; tr. it. di E. da Ascoli,
Incertezza e rischio, Morcelliana, Brescia
1943, 1985 3 .
18 K.R. Popper, The Open Society and Its Enemies,
Routledge and Kegan Paul, London
1945; tr. it. di D. Antiseri, La società aperta
e i suoi nemici, Roma 1974, 19962 .
19 H. Albert, Das Gewissheitsbedürfnis und
die Suche nach Wahrheit. Ideologisches
Denken zwischen Fundamentalismus und
Pragmatismus, in Pragmatismus versus Fundamentalismus,
a cura di F. Schneider, R.
Strasser, K. Vodrazka, Orac, Wien 1993.
20 H. Albert, Kritische Vernunft und menschliche
Praxis, . Mit einer autobiografischen
Einleitung, Reclam, Stuttgart 1977, 19842 , pp. 30-31.
21 J. Stuart Mill, On Liberty, Parker & Son, London 1859; tr. it. di S.
Magistretti, Saggio sulla libertà, Il Saggiatore, Milano 1981.
22 H. Albert, P.K. Feyerabend, Briefwechsel, a cura di W. Baum, Fischer,
Frankfurt a. M. 1997.
23 H. Albert, Europa und die Zähmung der Herrschaft. Der europäische
Sonderweg zu einer offenen Gesellschaft, in Freiheit und
Ordnung, Mohr (Siebeck), Tübingen 1986, pp. 9-59.
24 W. Röd, Der Gott der reinen Vernunft. Die Auseinandersetzung
um den ontologischen Gottesbeweis von Anselm bis Hegel, Beck,
München 1992.
25 A. Schweitzer, Geschichte der Leben-Jesu Forschung, Mohr (Siebeck),
Tübingen 19062 ; tr. it. di F. Coppellotti, Storia della ricerca
sulla vita di Gesù, Paideia, Brescia 1986.
26 H. Albert, Kritik der reinen Hermeneutik. Der Antirealismus und
das Problem des Verstehens, Mohr (Siebeck), Tübingen 1994
27 H. Albert, Heidegger, la scienza e il linguaggio, «Rivista di filosofia»,
83 (1991), pp. 163-192.
28 R. Carnap, Überwindung der Metaphysik durch logische Analyse
der Sprache, «Erkenntnis», 2 (1931), pp. 219-241; tr. it. di E. Melandri,
Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del
linguaggio, in Il Neoempirismo, a cura di A. Pasquinelli, Torino
1969, pp. 504-532.
29 H. Hempelmann, Kritischer Rationalismus und Theologie als Wissenschaft.
Zur Frage nach dem Wirklichkeitsbezug des Christlichen
Glaubens, Brockhaus, Wuppertal 1980.
30 R. Carnap, Der logische Aufbau der Welt, Weltkreis, Berlin 1928;
tr. it. di E. Severino, La costruzione logica del mondo, Fabbri, Milano
1966.
59

LA BORSA DI DIOGENE
IL DISORDINE INVISIVILE
60
R. Casati-A. Varzi, Semplicità insormontabili. 39 storie filosofiche,
Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 51-54.
R. Casati-A. Varzi, Semplicità insormontabili. 39 storie filosofiche, Laterza,
Roma-Bari 2004, pp. 51-54.
LEI Diciamo che 1 è testa e 0 è croce. Supponi di lanciare una moneta
quattro volte di seguito. Potrebbe uscire 1111, ovvero testa-testatesta-testa.
LUI Sarebbe strano però. È un esito troppo regolare. Improbabile.
LEI Non vedo la differenza rispetto a 0000, croce-croce-croce-croce.
LUI Infatti. Sono sequenze egualmente improbabili.
LEI Prendi allora 0011.
LUI Anche questa è una sequenza troppo ordinata (e anche 1100). Tutti
gli zero sono andati a finire da una parte, tutti gli uno dall’altra.
LEI Che cosa mi dici di 0110?
LUI Troppo ordine anche qui (e anche in 1001, il suo gemello). C’è una
simmetria perfetta tra gli uno e gli zero.
LEI Vediamo: 1010?
LUI Siamo da capo. C’è un’alternanza perfetta di uno e zero (come in
0101, del resto).
LEI Che cosa posso proporti? 1000, per esempio.
LUI Stiamo perdendo il nostro tempo. Come i suoi cugini 0111, 1110 e
0001, si tratta di una configurazione semplice e ordinata, non trovi? La
regola è: una cifra-unita-a-tre-ripetizioni-dell’altra.
LEI Diresti qualcosa di simile anche per la famiglia 1011, 1101, 0100,
0010?
LUI Certamente: la-sola-cifra-diversa-si-trova-lontano-dagli-estremi,
Più ordine di così…
LEI Eri partito dicendo che una sequenza come 1111 è improbabile
perché è troppo regolare. Ma adesso mi dici che tutte le sequenze
che ti ho proposto sono ben organizzate. Tutte rispettano una qualche
regola e nessuna sembra essere dettata dal caso. Dovresti dunque dire
che sono tutte improbabili. Ma qui ti ritrovi con un problema.
LUI Quale?
LEI Le sequenze che ti ho presentato e di cui abbiamo discusso sono
tutte e sole le sedici sequenze di risultati di quattro lanci successivi di
una moneta. Non ce ne sono altre.
LUI Questo significa che se lancio una moneta quattro volte di fila,
otterrò necessariamente una di queste sedici
sequenze?
LEI Sì. E qui sta il punto. Se la moneta non è truccata,
il risultato del lancio della moneta è sicuramente
dettato dal caso. Quindi tutte le sequenze
di cui abbiamo discusso sono dettate dal caso.
Invece secondo te sono tutte infuse da un ordine
di qualche tipo. E l’ordine esclude il caso.
LUI Chiunque sarebbe d’accordo con me
sull’ordine. Basta guardare le regole cui ciascuna
di queste sequenze obbedisce: simmetrie,
ripetizioni…
LEI Ma la sequenza è creata dal caso, come fa
a obbedire a una regola? No, le “regole” di cui
mi parli sono un’illusione. L’ordine sta tutto nella
nostra mente, non nella realtà della sequenza.
Le regole testimoniano solo la tua abilità:
sai scovare strutture dappertutto. Sei costantemente
all’erta, alla ricerca di simmetrie, configurazioni,
ripetizioni, figure. E inevitabilmente
le trovi, se vuoi.
LUI D’accordo, supponiamo che l’ordine sia
imposto solo a posteriori. Potrei anche dire che
tutte le sequenze sono egualmente ordinate e
che quindi hanno tutte le stesse probabilità di
uscita. Comunque la tua obiezione vale soltanto
per le sequenze di quattro lanci. Se mi
chiedessi di valutare l’aspetto di una sequenza
di sei lanci, sarei d’accordo nel trovare 010110
meno ordinata di 000000 o anche di 000111.
LEI Mi stupisce che abbandoni così’ presto la
tua ricerca di un ordine, Mi era parso di capire
che tu la pensassi come Wittgenstein: datemi
una sequenza qualsivoglia e vi troverò una regola
di qualche tipo cui la sequenza obbedi-

sce. (Magari poi la regola sembra strana, ma è
comunque una regola). Tuttavia ti concedo che
l’effetto disordine viene amplificato dalla lunghezza
della sequenza. Gli studi di psicologia
dimostrano in effetti che tendiamo a considerare
010110 più probabile di 000111 e suggeriscono
che questo dipende dal fatto che 010110
sembra più simile all’immagine che ci facciamo
di una sequenza disordinata. (E di nuovo si
tratta di un’illusione: 010110 è altrettanto probabile
di 000111).
LUI E per quale motivo saremmo così ossessionati
dal’ordine?
LEI È il nostro modo di semplificare i dati, e in
moltissimi casi questa semplificazione ci permette
di tenere sotto controllo l’enorme flusso
di informazioni che ci bombarda a ogni istante.
D’altro canto dobbiamo essere coscienti del
fatto che il meccanismo che ricerca un ordine
è per così dire sempre acceso, anche quando
non c’è nessun ordine da trovare. Pensa a come
funzionano bene le profezie di Celestino o di
Nostradamus: troppo bene, col senno di poi,
il che significa che qualcuno ha selezionato le
cosiddette predizioni in modo da far tornare
i conti. Pensa alla ricerca ossessiva (e perfettamente
inutile, come abbiamo già visto) dei
cosiddetti ritardi nel Lotto. Pensa al modo in
cui riscriviamo la nostra vita mettendo in luce
dei fatti che confermano l’immagine elegante
che ci piace avere di noi stessi e dimenticando
quelli che non ci fanno onore. Pensa all’idea
che la storia si ripeta, che è anche una delle
idee più ripetute della storia. In tutti questi casi
imponiamo un ordine a dei fatti di cui abbiamo
invece ragione di pensare che siano ampiamente
dominati dal caso. Credimi: la realtà,
la vita, e la storia sono infinitamente più complesse
delle immagini che ci pare di scorgere
nella loro figura.
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