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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DEL PIEMONTE
ORIENTALE
“AMEDEO AVOGADRO”
FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA
CORSO DI LAUREA IN FILOSOFIA
TESI DI LAUREA
IN
ESTETICA
L’ESTETICA DI CARLO MICHELSTAEDTER
RELATORE: CANDIDATO:
PROFESSOR LIVIO BOTTANI PAOLO PULCINA
Anno Accademico 2001-2002
1

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ELENCO E SIGLE DELLE OPERE UTILIZZATE DI
CARLO MICHELSTAEDTER (Gorizia 3 giugno 1887, ivi 17 ottobre 1910):
Op= Opere Complete, Sansoni Firenze 1958, pp. 899.
PeR= La Persuasione e la Rettorica , Adelphi Milano 1982, pp. 212.
DDS= Dialogo della Salute, Adelphi Milano 1988, pp. 140.
Po= Poesie, Adelphi Milano 1987, pp. 112.
Ep= Epistolario, Adelphi Milano 1983, pp. 588.
La persuasione e la rettorica – Appendici critiche, Vallecchi, Firenze 1922, pp.
333.
“Carducciana” e “Reminiscenze dei funerali del Carducci – Impressioni – La
veglia”, in Corriere Friulano del 22 febbraio 1907.
“Più che l’amore di Gabriele D’Annunzio, al teatro di società”, in Corriere
Friulano del 6 maggio 1908.
“Tolstoj”, in Corriere Friulano del 18 settembre 1909.
2

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INDICE DELL’OPERA
Introduzione 4
I) Trattazione tematica della persuasione e della rettorica 7
II) Sulla f ???????a , il possesso e l’angoscia 9
III) L’adattamento sociale e religioso 23
IV) Su giustizia e dovere 35
V) L’ultimo presente 41
VI) Su religione persuasa e religione sociale 45
VII) Sul dolore, la colpa e la malinconia 52
VIII) Sul silenzio e la parola 60
IX) Sull’amore come legame 64
X) Sul dualismo insanabile della vita 70
XI) Sull’inevitabile destino dell’uomo 80
XII) Breve raffronto fra persuasione michelstaedteriana, atarassia
epicurea e apatia stoica 85
XIII) Componenti estetiche del pensiero di Michelstaedter 94
Conclusione 107
Bibliografia 109
3

itrovarsi». 1
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INTRODUZIONE
«Se l’uomo non si fosse perduto nascendo, non dovrebbe cercarsi e
Quest’aforisma di Otto Weininger, giovane filosofo contemporaneo di
Michelstaedter, e suicida come lui a soli ventitre anni, ci permette di iniziare a
spiegare il senso di questo lavoro sull’Autore Goriziano, spesso dimenticato dalla
speculazione filosofica e soltanto recentemente recuperato dalla critica letteraria.
L’opera michelstaedteriana, infatti, è classificabile in due differenti settori: la
letteratura e la filosofia, ma più sovente l’Autore viene annoverato fra i letterati
piuttosto che fra i filosofi. Michelstaedter cresce e produce nel panorama italiano
dei primi anni del Novecento, in un periodo dominato senza dubbio dal
neoidealismo di Benedetto Croce, ma non ne viene particolarmente influenzato.
La sua riflessione, i concetti di persuasione e rettorica, si può definire inattuale.
Egli segue il magistero degli antichi greci, che sente in particolar modo vicini,
sulla scia del pensiero di Nieztsche, che scrive: «solo in quanto allievo di epoche
passate, specie di quella greca, giungo ad esperienze così inattuali su di me come
figlio dell’epoca moderna». 2 Si tenga presente che l’Autore recupera dal mondo
ellenico due fondamentali elementi culturali/speculativi: da un lato la ratio
socratica, ossia la fiducia nella conoscibilità del mondo (cosa che, in verità,
Nietzsche rifiuta come illusione dettata da un cieco ottimismo, e che
1 Otto Weininger, Delle cose Ultime, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1992, p. 83.
2 Friedrich Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, Milano 1983, p. 4.
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Michelstaedter recupera invece come limite della conoscenza stessa); dall’altro il
senso del tragico, così bene rilevato da Michelstaedter sin dagli inizi, il cui
pensiero tende a rappresentare in definitiva la completa fenomenologia dell’
esistenza umana, le dimensioni esistenziali della sofferenza dell’uomo. La
ragione e il tragico si fondono e compenetrano nella sua indagine filosofica sotto
il segno del dolore, ambito senza dubbio fondamentale per la comprensione della
tesi di laurea dell’Autore (La Persuasione e la Rettorica). Il dolore, frutto della
vuota rincorsa al soddisfacimento dei bisogni, si pone come un appello alla
ragione: dolore e ragione devono ricomporsi per permettere all’uomo il recupero
della sensibilità e dell’autenticità della vita. Questo è per l’Autore il vero senso
della tragedia umana: essa c’è in quanto la vita non è, poiché la vita manca di
essere, non si compone mai, va ad infrangersi contro un mondo governato da
necessità e bisogni.
La speculazione michelstaedteriana trae però materia di riflessione, oltre
che dai tragici e dai lirici (come Sofocle, Euripide, Simonide, ecc.) e dai filosofi
greci (su tutti Platone, Aristotele, Eraclito e Parmenide), anche da autori a lui
cronologicamente più vicini (come Ibsen, Schopenhauer e Nietzsche). Ed è
specialmente il concetto di noluntas, recuperato da Schopenhauer, a farsi strada
nel pensiero di Michelstaedter: l’uomo della rettorica, l’illuso, il bisognoso, vuole
in base alle sue necessità, è schiavo delle cose e teme ciò che gliele toglierà
inevitabilmente, ovvero la morte. Il persuaso, per converso, è disilluso, non nutre
falsi desideri, non vuole nulla perché è, e non ha bisogno di volere alcunché. Egli
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non teme la morte, perché è libero, sicuro di ritrovare la dimensione che vivendo
nella società dei retori ha dovuto smarrire: il persuaso vede solo nella morte il
perseguimento della totalità della vita. In questo punto si situa l’indagine della
nostra tesi. Infatti, alcuni critici hanno sostenuto che il suicidio attuato da
Michelstaedter il 17 ottobre 1910 fosse frutto più di una combinazione di eventi
sfortunati, piuttosto che la drammatica ma inevitabile conclusione di una vita,
seppur breve, spesa nella lotta contro la vita inautentica. Quest’analisi non ci
sembra per niente corretta, e tutto il pensiero di Michelstaedter sta a testimoniare
l’erroneità. Quantunque Michelstaeder condivida il pensiero di Weininger,
quando scrive che «il suicidio non è segno di coraggio, ma di viltà, sebbene esso
sia di tutte le viltà la più piccola» 3 , egli reputa in fondo che la morte sia l’unica
scelta che rimanga all’uomo che non voglia abbandonarsi alla rettorica. La
dimensione della persuasione è irrealizzabile nella vita, impossibile nella società:
il persuaso è compiutamente tale nel momento della morte, che così rappresenta
l’unica vera scelta di libertà dell’uomo.
3 Otto Weininger, Delle cose ultime, cit., p. XXXII.
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I
TRATTAZIONE TEMATICA DELLA PERSUASIONE E DELLA
RETTORICA
Per cogliere la complessità che La Persuasione e la Rettorica 4 rappresenta,
bisogna fare una considerazione preliminare: la tesi di laurea in cui tale opera
s’innesta, ha attraversato un lungo periodo di incertezza, derivante dall’incapacità
di Michelstaedter di prevederne limiti e dimensioni, tanto che essa alla fine
risulterà un lavoro quasi assurdo da discutere in sede universitaria. L’opera
appare sempre sul punto di essere conclusa, ma la stesura si amplia via via
allontanandosi dal progetto originario. A conferma di questo fatto ci sono le
parole dell’Autore indirizzate all’amico Gaetano Chiavacci 5 in data 15 ottobre
1909:
Io lavoro solo da due settimane e non posso aver finito prima della fine di
novembre. Informati, senza capire che lo fai per me, se posso ignorare i termini e
consegnar la mia qualunque tesi alla fine di novembre (Op. 584).
La tesi in realtà sarà pronta soltanto dopo un altro anno, in realtà: le parole sopra
citate sono il segnale di un incerto dominio delle pagine e del materiale da
4 Questo è il titolo della principale opera di Michelstaedter, iniziata nell’autunno del 1909. Essa è la sua
tesi di laurea, che l’Autore mai discusse, e che spedì a Firenze, città dove studiava letteratura e filosofia.
Michelstaedter si suicidò il 17 ottobre 1910, il giorno seguente aver terminato le Appendici Critiche alla
tesi.
5 Ricordo che Chiavacci sarà il curatore di tutta la produzione letteraria di Michelstaedter, e raccoglierà
tutti i suoi scritti nel volume Opere, edito da Sansoni, Firenze 1958, mio punto di riferimento per la
stesura di questa tesi.
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inserirvi. Circa un mese più tardi, il 28 novembre, Michelstaedter scriverà ancora
all’amico Chiavacci:
Oggi però non sono molto più prossimo alla fine di quanto fossi allora (il
riferimento è ad una precedente lettera datata 27 ottobre). La mia tesi è un mostro
informe che crescit eundo et quod crescit non it. Ma io la lascio fare di suo
capo…(Op 592).
La tesi di laurea è la vita stessa, e razionalizzarla per esporla non è assolutamente
facile, anzi: è gravoso per la mente e l’animo, e procede inevitabilmente a rilento.
Michelstaedter non riesce e non può rettificare le trasformazioni e le
modificazioni, poiché il processo di creazione della Persuasione è inizialmente
sotterraneo, quasi subliminale, evolvente a sua stessa insaputa, cosicché pare
lecito affermare che l’idea primigenia (di una trattazione storico-filologico-
filosofica dei concetti di persuasione e rettorica) va smarrita. L’Autore si è spinto
ben oltre, ha travalicato i limiti imposti, e lo scorrere delle settimane di lavoro
rende traballante l’orizzonte entro cui Michelstaedter tenta di muoversi: il
risultato non è più uno scritto destinato ad essere valutato da docenti universitari,
ma un saggio di argomento universale, trattato come sistema della vita in toto.
«Michelstaedter non ha il tempo, forse la voglia di fermarsi, continua, tutto si
concentra e rischia di esplodere, assistiamo alla sua formazione, una pagina
attraversa più veli» 6 .
L’intento di questa tesi è, così, quello di mettere in chiaro tutti gli
argomenti filosofici ed estetici trattati da Michelstaedter, dividendoli e
correlandoli allo stesso tempo, al fine di mostrare l’unità/unicità del suo pensiero.
6 Pier Andrea Amato, L’attimo persuaso: filosofia e letteratura in C. Michelstaedter – estratto ricavato
dal sito internet www.michelstaedter.it/amato.html.
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II
SULLA FILOPSICHIA, IL POSSESSO E L’ANGOSCIA
Filopsichia: “amar la vita” – è amare una cosa non perché sia un valore ma
seguendo la necessità, equivale a non amare la libertà, rinunciare ad una vera
essenza. – Ma finché uno suppone nella vita valor i assoluti senza chiedersene
ragione, egli crede d’essere nella libertà e nell’essenza quando ama queste tali cose
nella vita, e per queste la vita. Così nella lingua amor della vita non ha per se un
senso cattivo (Op 717).
Si può affermare che la filopsichia (f ???????a) si presenta come la diretta
ed acerrima rivale della filosofia, in quanto rappresentante il motore che spinge
l’uomo a comportarsi secondo rettorica: l’amore viscerale per la vita (qualunque
vita sia) dimostra un attaccamento alla propria esistenza tale da offuscare
qualunque riflessione profonda sul senso stesso della vita e dell’essere. Questo
attaccamento all’esistere, dovuto ad una tanto congenita quanto misteriosa paura
della morte (che è, poi, paura di perdere il senso di se stessi), stimola l’individuo
alla ricerca del piacere, impossessandosi della sua volontà ed offuscando la sua
coscienza. L’uomo rettorico si ritrova così a dover vivere tentando di ripetere il
presente nel futuro, continuandosi, nella ricerca di una stabilità e di una sicurezza
impossibili da traguardare a causa del timore della morte. L’angoscia che
scaturisce da questa paura non dà scampo alla vita umana: l’uomo s’impiega nei
suoi lavori al fine di non dover pensare al suo inevitabile destino, intorpidisce il
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suo spirito, oblia il suo essere e si abbandona alla illusione della rettorica. Accade
così che «i segni del presente diventano previsioni per l’avvenire; il presente si
svuota di significato per ravvisare in un futuro sempre di là da venire la pienezza
della propria sicurezza. Non c’è presente, per l’uomo della rettorica, se non in
vista di un qualche futuro» 7 .
La filopsichia induce così l’uomo all’aggregazione sociale, con lo scopo di
trovare una sicurezza ed una protezione comuni capaci di proteggere l’identità
della vita dal sopraggiungere del sentimento della morte: la rettorica falsifica
l’autenticità di ognuno, e l’uomo rettorico (che capiterà di chiamare
semplicemente retore) non avrà coscienza di cercare la vera salvezza 8 .
.
Così muovendosi nel giro delle cose che gli fanno piacere, l’uomo (retore) si gira
sul pernio che dal dio gli è dato (…) e cura la propria continuazione senza
preoccuparsene, perché il piacere preoccupa il futuro per lui. Ogni cosa ha per lui
questo dolce sapore, ch’egli la sente sua perché utile alla sua continuazione, e in
ognuna con la sua potenza affermandosi egli ne ritrae sempre l’adulazione ‘tu sei’
(PeR 51).
Da queste parole si ravvisa la nascita dell’uomo sufficiente, un tipo di individuo
profondamente illuso nella riuscita dei propri progetti proiettati nel futuro: ecco,
dunque, che i retori «chiedono di essere per qualcuno, per qualcosa, ché di fronte
alla richiesta del possesso si sentivano mancare» (PeR 93).
Il tema del possesso è molto caro a Michelstaedter, ed è possibile
accostarlo al concetto più profondo di vita proposto da Søren Kierkegaard, per
7 Giorgio Brianese, L’arco e il destino, Francisci Editore, Abano Terme 1985, p. 46.
8 Michelstaedter in luogo della parola salvezza usa molto più sovente la parole salute, compresa nel titolo
di un’importante sua opera: il Dialogo della Salute.
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cui essa è definibile come vita perlustrata nel suo intimo dall’angoscia, che mette
ognuno di fronte alle proprie ansie e paure 9 . Il possesso rettorico, similmente,
viene a determinare l’angoscia nell’uomo della società, poiché egli sente di voler
possedere qualcosa ma non lo può fare in maniera autentica, a causa della sua
medesima inautenticità: il retore non possiede se stesso, il suo spirito, il suo
essere-uno, e perciò è condannato ad una vita di inganni ed illusioni. Accade così
che la vita della società si manifesta come un insieme di coscienze sommamente
infelici (il riferimento, ovviamente, riporta al concetto di coscienza infelice di
Hegel). Il retore vive una vita spersonalizzata, insulsa ed insapore 10 , abbandonata
alle usanze e alle convenzioni che la storia ha provveduto a fornire alle società: è
bisognoso, nutre in continuazione desideri e ansie di realizzazione, è
manchevole, perennemente insoddisfatto, perché avverte, nella sua più recondita
intimità, di esistere in maniera errata. Il persuaso michelstaedteriano
interverrebbe ammonendolo che «esser vivi si fa abitudine – e – chi incontra la
vita deve morire – e ancora – chi teme la morte è già morto» (PeR 69).
Michelstaedter porta a testimonianza del suo pensiero un esempio tanto
semplice quanto magistrale: l’esempio del peso.
So che voglio e non ho cosa io voglia. Un peso pende ad un gancio, e per pender
soffre che non può scendere: non può uscire dal gancio, poiché quant’è peso pende
e quanto pende dipende. Lo vogliamo soddisfare: lo liberiamo dalla sua
9 «L’angoscia […] era il momento della vita individuale», (S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, BiT,
Milano 1995, p. 63). L’uomo della critica kierkegaardiana è privo di consapevolezza del peccato, ed è
sconvolto quando gli si parano davanti quegli aspetti tremendi legati al timore della morte. Per
Michelstaedter accade che la rettorica stordisca la coscienza umana, rendendola infelice e falsificata,
protesa alla realizzazione di obiettiv i comuni inutili al fine del recupero della propria dimensione
essenziale. La vita rettorica è basata sul dualismo manicheo vita-morte (onticità-ontologicità).
10 Nei lavori di Michelstaedter spesso la parola sapore è utilizzata in luogo di sapere (vedasi: DDS 46).
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dipendenza; lo lasciamo andare, che sazi la sua fame del più basso, e scenda
indipendente fino a che sia contento di scendere. – Ma in nessun punto raggiunto
fermarsi lo accontenta e vuol pur scendere, ché al prossimo punto supera in
bassezza quello che esso ogni volta tenga. E nessuno dei punti futuri sarà tale da
accontentarlo, che necessario sarà alla sua vita , fintanto che lo aspetti più basso;
ma ogni volta fatto presente, ogni punto gli sarà fatto vuoto d’ogni attrattiva non
più essendo più basso; così che in ogni punto esso manca dei punti più bassi e
vieppiù questi lo attraggono: sempre lo tiene un’ugual fame del più basso, e infinita
gli resta pur sempre la volontà di scendere. Che se in un punto gli fosse finita e in
punto potesse possedere l’infinito scendere dell’infinito futuro – in quel punto esso
non sarebbe più quello che è: un peso. La sua vita è questa mancanza della sua vita.
[…] Il peso non può mai esser persuaso. (PeR 39)
L’esempio sopra citato è emblematico e tagliente: il peso ha per sua natura la
tendenza a scendere, per poter saziare il suo bisogno. Il suo anelito essenziale che
lo spinge verso il basso spera di riuscire a saziare la sua volontà. Ma il desiderio
di giungere alla realizzazione definitiva del suo stimolo non verrà mai saziato,
perché altrimenti il peso farebbe di se stesso fiamma, nel momento in cui
cogliesse la persuasione (senza contare che il picco più basso non si potrà
comunque raggiungere). Il peso non può mai raggiungere l’attimo della
persuasione: il peso è sempre rettorico.
Con questa metafora viene descritta la condizione umana di singoli
‘volenti’, sempre in cerca di un determinato oggetto, di una determinata realtà,
incapaci però di conquistarli sinceramente a causa del desiderio angoscioso di
colmare qualche altro abituale bisogno: l’uomo non può mai smettere di volere,
perché la sua natura in vita è di vivere nel suo stato di mancanza, nella sua
insoddisfazione.
Questa è la struttura irreversibile della vita rettorica, quella vita che non si
interessa del momento (nella concezione artistica di Michelstaedter il momento è
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il tempo dell’arte) attuale e della sua intensità, ma programma tutto
riverberandosi scioccamente ed ingenuamente nel futuro prossimo, che sembra di
primo acchito il tempo più vicino, mentre, in realtà, risulta essere il più remoto.
L’uomo insegue il suo progetto nel ‘dopo’, non nel ‘qui ed ora’, e non realizza
mai se stesso.
È bene, però, rendersi conto della paradossale conclusione a cui si giunge se
si segue il monito dell’Autore. Una vera società non esisterebbe mai, o, per lo
meno, dovrebbe essere una società di persuasi. Ma, se così fosse, il persuaso non
sarebbe più effettivamente persuaso, poiché la società gli imporrebbe il vincolo
della sicurezza e del bisogno. Nel contesto michelstaedteriano, il persuaso è tale
soltanto nell’attimo in cui coglie la totalità di sé e del mondo, dell’essere e della
sua perfezione: potrebbe, di conseguenza, mantenere salda la sua vita anche dopo
questo momento? Si può reputare che sia davvero irrealizzabile: ecco il motivo
del suicidio. Michelstaedter accusa i suicidi di codardia e vigliaccheria, ma è
ovvio che si riferisca a chi non sopporta più il peso del bisogno, non potendolo
soddisfare secondo la direttiva social-rettorica:
Rettorica del suicidio: la rivoltella, i veleni, perché l’uomo possa andarsene dalla
vita a sangue freddo, senza misurare nemmeno nell’istante estremo la profondità
della vita, del suo attaccamento alla vita, come sente il suicida che si mette in
posizioni dove la morte appare nella forma di mortale pericolo che il corpo
istintivamente ha sempre sfuggito: pugnale, fuoco, salto precipitoso, ecc. […] Il
pessimista muore d’inerzia quando vi giunge attraverso l’attività, non si suicida
(Op 761).
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Si può affermare che la morte sia invece l’ultima necessità di una vita
desiderante: essa si muove sul limite su cui sta il mondo dell’essere e
dell’assoluto, e la chiave per poter compenetrarsi in esso nell’istante è la
persuasione. Si potrebbe sostenere che in fondo la società rettorica serva a
Michelstaedter come elemento di massima contrapposizione all’autenticità della
vita del saggio, tanto che se l’umanità potesse essere un insieme di persuasi,
allora l’umanità attuale non esisterebbe più.
Ma è giusto rilevare che «se pur pensi, ben miserevole cosa sei, che volgi
le spalle ad ogni forma di vita più forte, per illanguidirti nelle piccole gioie della
tua solitudine: non l’amore, non la lotta, non la gloria: hai distrutto in te ogni
umanità» (Op 664). In questo caso umanità è da intendersi come spirito
dell’uomo (Menschheit). La cosa è catastrofica alla massima potenza, ma il
messaggio dell’Autore sembra essere racchiuso proprio in questo concetto: la
persuasione è uno stato di coscienza superiore a quello in cui l’uomo sta vivendo
(ecco perché Michelstaedter asserisce che la persuasione è incosciente: perché
l’uomo rettorico non la può concepire come suo grado di coscienza).
La società rappresenta, potremmo dire, il sostrato da cui emergono coloro
che sentono nel profondo la trasformazione della coscienza verso il recupero
della totalità e dell’autenticità: senza di essa non c’è neppure la rettorica. È
questo, pertanto, il motivo per cui i concetti di persuasione e rettorica sono
sempre inseparabili, tranne che nell’attimo che anticipa la morte; tanto più che
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l’uomo, volendo conseguire la propria autenticità, deve darsi un compito preciso:
deve incontrare l’assoluto/morte e con-penetrarsi nell’unità-totalità.
Si può asserire che il persuaso ed il retore sono il medesimo personaggio,
mossi dalla stessa necessità di riunificazione, «solo che per il rettorico essa
maschera la volontà di vivere sempre ulteriormente, al di là dell’unificazione
presente, per il persuaso non nasconde più nulla, ma si traduce invece
nell’immediata e concreta attuazione dell’unità» 11 .
Ritornando al discorso precedente, risulta chiaro che vivere nella
preoccupazione del futuro è uccidere la vera essenza del tempo che lo spirito
dell’uomo (spirito della coscienza dell’uomo) concepisce. L’uomo rettorico crede
di agire ed invece patisce, non si possiede, non si controlla e perde la sua
autenticità: è l’assassino della coscienza. Le tendenza a nutrirsi del e nel futuro,
programmando la propria vita nel tempo a venire, è, secondo Michelstaedter,
un’operazione inadeguata alla vera vita, perché fondata sul mantenimento del
vuoto a livello del presente, cioè a livello del tempo della vita persuasa. Si nota
bene qui l’influsso della filosofia di Nietzsche, secondo cui il significato ultimo
della vita e delle cose sta nel presente: «In ogni istante ha principio l’essere;
intorno ad ogni ‘qui’ ruota la sfera ‘là’. Dappertutto è il centro. Curvo è il
sentiero dell’eternità» 12 .
L’uomo della retorica vive mancando di vita, sfugge volontariamente al
presente per tentare una realizzazione di sé nel futuro, s’illude di possedere ed è
11 Giorgio Brianese, L’arco e il destino, cit. pp. 61-62.
12 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Newton Economici, Roma 1997, p. 163.
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in verità posseduto dal suo stesso progettare; egli è colui che ha volontà di
possesso, mentre in realtà non possiede nulla e non può possedere nulla, perché
in primo luogo non possiede se stesso, e cerca dunque di possedere qualcosa e
qualcuno al fine di ‘darsi un senso’, inevitabilmente non frivolo e manchevole,
lucido specchio della sua vita inautentica.
L’esempio del cloro e dell’idrogeno rafforza maggiormente la riflessione di
Michelstaedter sulla vita, tendendo a concepire il mondo come un affastellato e
farraginoso sovrapporsi di intenzioni e determinazioni di affermazioni fasulle.
La loro vita è il suicidio.
Per esempio, il cloro è sempre stato così ingordo che è tutto morto, ma se noi lo
facciamo rinascere e lo mettiamo in vicinanza dell’idrogeno, esso non vivrà che per
l’idrogeno. L’idrogeno sarà per lui l’unico valore del mondo: il mondo; la sua vita
sarà unirsi all’idrogeno. E questo sarà luce a ognuno degli atomi del cloro nella
breve vita alla vicina via della compenetrazione. Ma soddisfatto l’amore, la luce
anche essa sarà spenta, e il mondo sarà finito per l’atomo di cloro. Poiché la
presenza dell’atomo d’idrogeno avrà fatto palpebra all’occhio dell’atomo di cloro,
che non vedeva che idrogeno, e gli avrà chiuso l’orizzonte, che era tutto idrogeno.
Il loro amore non è per la vita soddisfatta, per l’essere persuaso, bensì pel
vicendevole bisogno che ignora la vita altrui. I loro due mondi erano diversi ma
correlativi così che dall’amplesso mortale avesse d’attender poi e soffrir la sua vita:
l’acido cloridrico (PeR 46).
Gli individui si scaricano addosso le proprie insicurezze ed i propri timori
facendo presuntuose affermazioni di se stessi. L’angoscia di non saper
raggiungere la vita, a causa dell’affanno perdurante di poter perdere quest’unica
occasione concessa, determina un vano inseguimento nel tentativo di farla
propria. Questa rincorsa va pertanto a costituire una alienazione: l’uomo retorico,
non potendo trattenere la vita (perché intrattenibile), si espone alle angosce di
nuovi bisogni e desideri, per cercare di immobilizzare la sua esistenza che fugge.
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La rettorica spinge l’uomo verso la ricerca incessante della soddisfazione del
desiderio, della volontà, ed il soggetto (o, assecondando Michelstaedter,
l’oggetto) agente accumula giorno dopo giorno angosce su angosce.
È proprio questa la vita senza vita di cui parla l’Autore, attingendo questa
tematica anche dal pensiero di un grande letterato a lui contemporaneo: Lev
Nikolaijevic Tolstoj 13 . Quest’ultimo aveva spesso espresso nelle sue opere (che
tanto affascinavano Michelstaedter) un profondo senso di repulsione per la
moltitudine degli arrivati, per coloro che si credono sulla giusta strada che
conduce ad un utile sicuro. Secondo Tolstoj, l’abitudine sociale (cioè il
complesso di usanze e costumi determinato dall’altro-da-sè) diviene in tali
uomini una sorta di precetto morale che cristallizza la loro anima: chi deraglia dai
binari dell’abitudine (da intendere, in tal caso, alla stregua della moda) viene
bollato come eretico. La moltitudine degli arrivati è un gruppo di anime indurite
e sopite, i cui singoli componenti non possono accorgersi d’aver perso
l’autenticità della propria individualità. Questa società è frutto di un ottimismo
forzato, scaturente dall’angoscia accumulata, e dà corpo a quello che appare un
mondo di cadaveri: «cadaveri che mangiano, bevono, dormono, parlano, ma non
per ciò cessano di essere cadaveri» (Op 651).
Il mondo michelstaedteriano della rettorica è del tutto scentrato, non c’è
salvezza al suo interno perché non è dato l’orizzonte soteriologico che soltanto la
13 Michelstaedter scrive di Tolstoj: «C’è un’evoluzione nell’arte del Tolstoj. Dall’arte esuberante dei
primi romanzi all’arte sobria degli ultimi c’è quel caratteristico processo di purificazione che avviene
negli uomini di pensiero. Quanto più il pensiero s’approfondisce tanto meno l’arte divaga in
rappresentazioni inutili, ma incide forme classiche in rapporto a un’intuizione più vasta e più perfetta», da
“Tolstoj”, in Corriere Friulano, n°218 di venerdì 18 settembre 1908.
17

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persuasione può offrire al ‘morto’ (intendo per morto, nel senso più autentico
secondo Michelstaedter, colui che vive senza saper d’essere vivo, temendo la
morte e discostandosi sommamente dall’essere che dovrebbe animargli la
coscienza). La salvezza offerta dalla persuasione è la salute della coscienza e
dell’anima, salute che interviene soltanto nell’istante che anticipa la morte: il
momento fulmineo della persuasione. «La vita – egli aggiunge – è un’infinita
correlatività di coscienze. Il senso della vita (appare): ‘se mi è possibile qualche
speranza c’è qualcosa per me’» (PeR 45).
La correlatività è il risultato proveniente da quel sentimento di sicurezza
che l’uomo retorico tenta di ricreare nella società: è, perciò, un falso sentimento
interpersonale, più vicino alla politica che alla morale. La correlazione delle
coscienze è propria della vita retorica, perché proveniente dalla filopsichia,
l’amore incondizionato per la vita, che Michelstaedter chiama anche ‘viltà’ (PeR
50): «egli (il persuaso) deve sentir in sé l’insufficienza e rispettar in loro quello
che essi stessi in sé non rispettano; perché dal suo amore attratti essi prendano la
persona ch’egli ama in loro: allora i ciechi vedranno» (PeR 84). Il sentimento
della filopsichia, pertanto, guida l’uomo verso ed attraverso l’esistenza retorica,
illudendo l’individuo di vivere la miglior vita possibile perché vita propria. È
vero, per l’Autore, proprio il contrario. L’assoluto valore, l’assoluto giudizio,
l’assoluta felicità e l’assoluta conoscenza sono proprie dell’essere persuaso, ma
«bisogna essere morti per essere nelle condizioni postulate» (Op 715).
18

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La volontà, accompagnata dalla filopsichia – si è accennato poco sopra – è
una volontà ingannevole, subdola, perché generatrice di bisogni: avere volontà
significa avere bisogno, ovvero ripetersi nel futuro a vuoto, senza colmarsi mai.
Dunque la singole passioni soddisfatte non danno mai un possesso: l’uomo che
sfoga le passioni si determina in uno o nell’altro modo, entra in una ‘relazione’
verso una cosa, non l’’ha’, crede di affermare liberamente la sua indiv idualità e
questa non è altro che complesso di necessità, crede la sua individualità l’essere
indiscutibile assoluto, ed essa non è che un complesso di relazioni: cioè un nonente.
La volontà d’un possesso vero è insieme volontà di libertà: l’eros platonico; e la
relazione di possesso sarebbe philia di due anime nude nell’assoluto (idem velle
atque idem nolle).
Nella vita ogni cosa ‘è’ in riguardo a un’altra.
La vita è un complesso di ‘correlazioni’ (koinonia kakon) (Op 819).
Questo tipo di condotta è il non-essere dell’essere: l’uomo si crede di essere
pienamente vivo, mentre è un ‘cadavere che vive’. Egli ricerca sempre e
comunque il possesso delle cose: è trascinato da un impulso connaturato verso il
controllo di sé e del tempo che lo investe. Ma, comunque, si accorge che non
riesce ad attuare il suo programma di possesso: non possiede nulla in modo reale,
ma solo in modo fittizio ed illusorio. Per di più, Michelstaedter sostiene che
l’uomo retorico è posseduto dagli eventi e dalle cose come se anch’esso fosse un
oggetto.
In questa maniera nasce la correlatività delle coscienze, cioè una sorta di
accordo subliminale fra uomini inautentici che tentano di creare attorno a sé un
mondo sicuro ed ordinato. I sentimenti e le passioni sono i cardini che danno le
direttive di questa società: non si ricerca mai il senso profondo delle cose e della
19

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vita, ma ci si abbandona ad atteggiamenti abituali che obliano tutto l’essere della
realtà.
La vita risultante è una sorta di fantasma della vita persuasa. La rettorica
prende possesso dell’esistenza, ed indirizza l’uomo verso la ricerca di fini
aleatori e banali: si può dire che l’uomo rettorico agisce perché deve agire
all’interno della società, ma da una prospettiva critica (senza dubbio più consona
a colui che sia indirizzato verso la persuasione) egli, in verità, patisce (addirittura
si potrebbe affermare che è agito dalle cose, dagli altri e dagli eventi). Il retore si
abbandona alla spersonalizzazione a causa della sua inarrestabile inautenticità, e,
pur di non sentirsi come dovrebbe (manchevole e vuoto), afferma di esser se
stesso il centro della propria vita, di avere controllo su di sé e sulle cose, di poter
programmare la propria esistenza futura.
È corretto asserire che la società sia un ambiente malsano, per
Michelstaedter, secondo il quale «la società realizza una evoluzione, ma
piuttosto nel senso di un progressivo aggravarsi di talune sue premesse
negative» 14 . Tale comunità non è certo composta da persuasi, per i quali «egli
prevede, come sappiamo, un’esperienza ininterrotta di autocreazione ed
autoliberazione; si tratta, all’opposto, della società nata dalla ‘paura della morte’,
scaturita cioè […] da una precisa ricerca di sicurezza, da un’esigenza, dunque,
eminentemente rettorica» 15 .
14 Marco Cerruti, Carlo Michelstaedter, Mursia, Milano 1967, p. 86.
15 M. Cerutti, ivi, p. 86.
20

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Il retore vede esclusivamente se stesso e si inorgoglisce per essersi trovato nella
società dei rettorici come lui, che faranno lo stesso. Come già citato, «l’esser vivi
si fa un’abitudine» (PeR 57). Il retore è quello che si permette di dire ‘io sono’,
perché sente profondamente di non essere nulla, di essere perennemente
insoddisfatto, e per tentare di risolvere la sua ignavia, la sua manchevolezza, la
sua indigesta fame continuata di necessità si abbandona ad un’esistenza
programmata sulla ‘scelta dei fini’, su un teleologismo senza senso.
Dice a tal proposito Michelstaedter:
Perciò le cose non gli sono indifferenti ma giudicabili riguardo a un fine. Questo
fine che è nella sua coscienza gli è indiscutibile, fermo, luminoso fra le cose
indifferenti; quello che egli ogni volta fa, non è fatto a caso, ma certo e
ragionevolmente subordinato a fine. Come egli dice ‘io sono’, così dice ‘io sono
quello che fo perché lo fo; non agisco a caso ma con piena coscienza e
persuasione’. – È così che ciò che vive si persuade esser vita la qualunque vita che
vive (PeR 52).
Il dio supremo della vita della rettorica è – come già detto – la filopsichia, che fa
smarrire l’uomo, allontanandolo dal suo essere assoluto, angosciandolo di non
poter ottenere certezze e stabilità dai propri futili impegni sociali. Michelstaedter
descrive l’uomo sociale così come descrive l’uomo rettorico: essi, in fin dei conti
sono la medesima figura, possiedono i medesimi connotati. Il rettorico è uomo
della società, perché non saprebbe stare altrimenti (mancando di personalità
indipendente ed autentica); l’uomo sociale è rettorico proprio perché vive in
quella società; egli sente comunque di esser morto, ma continua a vivere perché
teme profondamente la morte, e vuole a tutti i costi dare un senso, qualunque
21

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questo senso sia, alla propria anonima ed inutile esistenza. Il suo tempo è il
futuro, mentre il tempo della persuasione (e dell’arte) è il presente, il momento.
Primo fra gli atteggiamenti dell’uomo sociale è l’attività (energia), che l’Autore
vorrebbe sostituita dall’inerzia (argia). Le attività rettoriche si adoperano tutte,
con taglio di presunzione e spocchia, ad offrire il proprio contributo «alla grande
opera di civiltà in pro dell’umanità» 16 . L’uomo della retorica si mette in moto per
mostrare le proprie capacità ai suoi simili e occupando il suo tempo tenta di
scansare il monito inconscio della persuasione. Il retore è impotente, vuole a tutti
i costi la perpetuazione o la reiterazione del presente nel futuro; è debole, e ne
diviene consapevole, ma il timore dell’angoscia dello smarrimento e della morte
lo inducono a volere vivere comunque, accettando qualsiasi compromesso: è
l’adattamento (kolakeia).
16 M. Cerruti, ivi, p. 87.
22

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III
L’ADATTAMENTO SOCIALE SCIENTIFICO E RELIGIOSO
Si potrebbe iniziare da un aforisma di Otto Weininger, in accordo con la
tematica michelstaedteriana: «‘Storia’ e ‘società’: le persone riunite in una stanza
formano sempre una comunità che si oppone ai nuovi venuti» 17 .
Michelstaedter sostiene che l’adattamento alla società è causato dalla
debolezza: essa induce tutti i miserabili di coscienza ad aggregarsi nella
macchina che ‘istupidisce’, nella società. Il retorico teme la morte perché teme di
dover perdere quello che possiede nella sua vita inautentica, ma questo è del tutto
erroneo, poiché il retorico nella sua esistenza non ha mai posseduto alcunché, per
via dell’incapacità primaria di possedere se stesso. Il retorico è senza scampo:
non possiede nulla, nemmeno la sua identità. E allora che cosa potrebbe temere
se nulla possiede? Il retorico è illuso fino al midollo, non si accorge di nulla
perché è così che la sua volontà si muove: è ignorante (‘tutti hanno ragione,
nessuno ha la ragione’).
Dice Michelstaedter:
Non portate la croce ma siete tutti crocefissi al legno della vostra sufficienza, che
v’è data, che più v’insistete e più sanguinate: vi fa comodo dire che portate la croce
come un sacro dovere, mentre pesate col peso inerte delle vostre necessità. –
Abbiate il coraggio di non ammetterle quelle necessità, di sollevarvi per voi
stessi…
17 Otto Weininger, Delle cose ultime, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1992, p. 104.
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Ma su quelle è misurato il vostro possibile e l’impossibile, il sopportabile e
l’insopportabile dei doveri da compiere per guadagnarvi in pace la vita; quando
v’adattate ai modi del corpo, della famiglia, della città, della religione, dite: ‘faccio
i miei doveri d’uomo, di figlio, di cittadino, di cristiano’ e a questi doveri
commisurate i diritti. Ma il conto non torna (PeR 74).
La filopsichia è l’amore per la vita qualunque, che Michelstaedter chiama anche
dio del piacere, ingannatore principe dell’uomo a cui fa credere di essere in
grado di poter ottenere qualunque cosa desideri (conseguimento del piacere,
soddisfacimento completo dei propri bisogni, perseguimento e realizzazione di
un ideale ipotetico).
L’uomo è qui posto fuori di sé: si adatta ed è violento. «La retorica vale in
quanto azione, capacità determinata di modificare lo stato preesistente
dell’uditorio. Ciò che conta è l’effettiva forza del discorso» 18 , e l’adulazione di se
stessi si sfoga nella supremazia sugli altri: si potrebbe dire che oggi questa
situazione si chiama arrivismo. L’importante è adattarsi al gioco-giogo della
società, e sapersi districare nella selva delle correlazioni per poter emergere: la
retorica pretende forza ed efficacia, è violenta e chi non si adatta ai suoi
parametri è tagliato fuori. Michelstaedter è di certo escluso dalle false
rivendicazioni di potere propinate dalla retorica.
Si può affermare tale concetto proprio in virtù della inorganicità professata
dall’Autore. Egli reputa che violenza ed organicità di fondo siano accordate da
un piano d’azione ben preciso, che ha il compito di legare le singole entità della
comunità. Michelstaedter, nel suo discorrere piuttosto a-sistematico, evita
18 Giorgio Brianese, “Michelstaedter e la Retorica”, in Dialoghi intorno a Michelstaedter, Biblioteca
Statale Isontina, Gorizia 1988, p. 129.
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violenza e forzature, specialmente nel linguaggio, e tenta di esprimere in parole
tutta l’evasività della persuasione 19 .
L’istinto violento che regge tutto l’apparato sociale è la sopravvivenza, non
dunque la realizzazione dell’uomo: l’illusione dell’affermazione sociale in una
vita timorata ed insensata.
E rassicurati rifanno l’oscurità […] Egli (l’uomo retorico) sente d’esser già morto
da tempo e pur vive e teme di morire. Di fronte al tempo che viene lento
inesorabile, egli si sente impotente come un morto a curar la sua vita, e soffre ogni
attimo il dolore della morte. Questo dolore accomuna tutte le cose che vivono e
non hanno in sé la vita, che vivono senza persuasione, che come vivono temono la
morte (PeR 58-59).
L’uomo della retorica accetta passivamente il dolore che il sentimento della certa
ed inequivocabile morte gli provoca, proprio per il fatto che egli non possiede ma
è posseduto. L’uomo persuaso, viceversa, è libero dall’illusione dei fini e dal
timore reverenziale della morte, perché incontrando la vita egli si accorge che
deve senza pretese morire per sublimare la sua essenza. La morte dell’uomo
persuaso è ‘disarmata’, perché affrontata con coraggio si trasforma nel
trampolino di lancio verso l’essere assoluto dell’uomo: il ritorno tanto anelato
all’Unità della coscienza.
Tutti gli aspetti della società retorica sono deplorevoli per Michelstaedter,
comprese la scienza e la religione. Quest’ultima è per Lui un'altra modalità di
fuga dalla natura assoluta ed unitaria dell’uomo, una elegante e apparentemente
19 Per l’argomento si veda la trattazione di G. Brianese: «Il pazzo (colui che è considerato tale dalla
società) parla una lingua che non ha un riconoscimento intersoggettivo, in quanto tradisce gli stereotipi ed
i modelli precostituiti […] Il persuaso michelstaedteriano è l’individuo. Il suo linguaggio parla, non
ripete», G. Brianese. op. cit., p. 122 sg.
25

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rispettabile maniera di affidarsi ad altro per non dover patire il tormento del
possesso di sé. Prendendo a prestito alcune parole da un altro filosofo suicida
contemporaneo dell’Autore, si può dire che «non pochi uomini credono di
sbarazzarsi del Dio unico, votandosi a parecchi altri» 20 . La religione rientra così
fra le dimensioni più problematiche ed illusorie, perché anch’essa nega
l’autenticità del singolo di fronte alla morte, una morte sua e soltanto sua (a
questo proposito si può ricollegare il suo pensiero alla filosofia di Kierkegaard, il
quale ravvisava nella individualità singola il nucleo dell’esistenza e della vita,
indirizzate all’atto di purificazione dell’angoscia 21 e della fede, sebbene si possa
scorgere quanto Michelstaedter si discosti qui dall’apertura alla fede).
Affidandosi al credo religioso, i retori perdono, così, la possibilità di rendere
propria ed irripetibile persino la loro stessa morte: si abbandonano, senza mai
potersi ritrovare.
Anche la scienza e tutto l’apparato scientifico che la correda sono
estremamente dissuasivi nei confronti della ricerca del sé. Il mondo della scienza
è passibile anch’esso dell’accusa della continuazione filopsichica: la scienza
obiettiva e comune ha la vanagloriosa propensione a garantire l’illusione del
raggiungimento della verità oggettiva, ed è uno dei mezzi con i quali l’uomo
intende alleviare la condizione angosciosa del proprio vivere, procurandosi, con
la minor fatica possibile, ciò di cui crede di necessitare per la continuazione
20 Otto Weininger, Delle cose ultime, cit. p. 105.
21 Afferma Kierkegaard: «L’angoscia (Angst) era il momento della vita individuale. Una categoria di cui
si fa continuamente uso nella filosofia moderna , tanto nelle ricerche logiche quanto in quelle storicofilosofiche,
è la categoria del ‘passaggio’ […] Questa manifestazione (la trasparenza unita all’intuibilità)
rivolta all’interno dovrebbe costituire l’essenza del sistema» (Søren A. Kierkegaard, Il concetto
dell’angoscia, cit. p. 63).
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dell’esistenza. «E però procurare all’uomo ciò ch’egli vuole significa mantenerlo
nella sua illusione, imprigionarlo sempre di più e sempre di nuovo alla catena
della dipendenza» 22 . Michelstaedter non accetta quest’atteggiamento distruttivo
dell’unità e dell’unicità irripetibile della persona: la dicotomia antagonista fra
soggettività ed oggettività è manifestamente foriera di quella dualità che dilania
senza scampo l’uomo posseduto dalla filopsichia.
«L’uomo agisca in modo che in ogni singolo istante sia presente l’‘intera’
sua individualità» 23 . La scienza è strutturata secondo il tempo della progettualità,
secondo un presente funzionalizzato al futuro: mentre s’è detto che per
Michelstaedter il tempo unico della vita persuasa è solo il presente momentaneo:
Chi vuol aver un attimo solo sua la sua vita, esser un attimo solo persuaso di ciò
che fa, deve impossessarsi del presente; vedere ogni presente come l’ultimo, come
se fosse certa dopo la morte: e nell’oscurità crearsi da sé la vita (PeR 69).
Il mondo scientifico distrugge anche la concezione letteraria ed artistica del
linguaggio: le formule, i simboli e la simbologia in generale, non fanno altro che
affinare la lama del coltello dell’inautenticità della retorica. Lo scienziato è uno
specialista, un esperto che può saper tutto del suo ambito di ricerca, ma resta un
illuso: illuso del fatto che il mondo e la sua esistenza si risolvano in quello che fa,
senza accorgersi che la sua vita è inghiottita dalla retorica, dalla falsità, che non
ha l’energia per prendere possesso di sé condannandosi a farsi possedere.
22 G. Brianese, L’Arco e il destino, cit. p. 94.
23 Otto Weininger, Delle cose ultime, cit. p. 75.
27

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Nel mondo contemporaneo dell’occidente, è indubbio che ognuno diventi
una sorta di tecnico specializzato. La tendenza della civiltà scientifico-
tecnologica, che si sviluppa oramai da alcuni secoli e si concretizza sempre più,
non ha fatto altro che condurre a questa maturazione: la società occidentale è
tutta strutturata sulla logica e la tecnologia, ogni forma di sapere è razionalizzato.
Questa forma di conoscenza contribuisce in maniera deleteria e vigorosa alla
spersonalizzazione, all’oggettività, all’offuscamento delle pulsioni individuali,
incatenando l’uomo agli schemi predefiniti dell’attività produttiva.
Questo aspetto della nostra cultura occidentale ha un duplice significato: si
è prigionieri inevitabilmente del meccanismo delle specializzazioni dei vari
settori d’impiego, e si consegue (altrettanto inevitabilmente) un ‘titolo’ da
specialista, ispiratore di gesti e comportamenti. Il mondo del progresso e della
tecnica (che Michelstaedter avrebbe voluto veder arrestarsi senza sconto) è una
comunità in cui si appianano le differenze all’interno delle categorie, ma si
acuiscono fra le varie competenze. Si può, a questo punto, dire che l’uomo
contemporaneo diviene sempre più identico alla propria funzione (a sua volta
sempre più limitata/delimitata), e sa sempre meno quello che sta facendo 24 ; «altri,
forse, sanno: lui agisce, obbedisce agli ordini, esegue e via dicendo. È l’uomo
pronto a diventare strumento irresponsabile del potere costituito» 25 . Lo scopo che
la comunità si prefigge è l’educazione di funzionari ordinati ed inquadrati,
24 Michelstaedter scrive a tal proposito: «Ma qui troviamo questi individui ridotti a meccanismi […] La
loro degenerazione è detta educazione civile, la loro fame è attività di progresso, la loro paura è la morale,
la loro violenza, il loro odio egoistico […] È il regno della rettorica» (PeR 144).
25 G. Brianese, L’arco e il destino, cit. p. 104.
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uomini che compiono il proprio dovere senza domandarsi il perché di quel
dovere e delle conseguenti azioni. È un mondo palesemente rettorico, secondo il
pensiero dell’Autore. L’uomo rettorico è il virtuoso, lo specialista, una specie di
«uomo-macchina nel quale l’abilità meccanica ha soppiantato la sensibilità, la
ripetizione (ha soppiantato) l’originalità: l’uomo ideale del mondo tecnico-
scientifico contemporaneo» 26 .
Il mondo moderno è il mondo della violenza e dell’efficacia sulle cose:
l’uomo violenta le cose e le consuma, tanto che uno dei problemi odierni è
l’esaurimento dei materiali violentabili. Ogni soluzione prospettata da una buona
intenzione per la salvaguardia del mondo (in senso lato) è comunque sempre una
violenza manifestata sotto altra forma, così che l’era della scienza e della tecnica
ha il definitivo sopravvento, e l’uomo s’impegna al miglioramento della propria
vita proprio incentivando il potere che la distrugge.
Il più grande male dell’uomo tecnologico è che «usa la scienza senza
coscienza» 27 , e questo non può che trascinare l’umanità verso la più profonda
retorica michelstaedteriana. Ciò che il mondo della tecnica-rettorica chiede
all’uomo è il compimento del proprio dovere/ordine 28 nel miglior modo
possibile, senza spazio per una riflessione/ribellione all’organizzazione globale
della distribuzione dei suddetti. Il mondo contemporaneo è proprio di una
suddivisione settoriale sempre più esasperata, e le conoscenze del singolo si
26 G. Brianese, ivi, p. 104.
27 L. Powels J. Bergier, Il mattino dei maghi, Mondatori, Milano 1997, p. 267.
28 Il termine dovere, in questo caso, è usato sotto il profilo giuridico e non secondo quello morale. È
questa l’accusa di Michelstaedter: la morale (individuale ed assoluta) è soppiantata dalla giurisprudenza
(logica e sistematica). Si può concludere dicendo che il dovere si identifica con l’esecuzione del compito
specifico all’interno dell’organismo sociale complessivo.
29

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restringono all’apprendimento totale degli elementi del proprio settore: più
questo sarà limitato, meno l’uomo avrà da conoscere ed imparare, e sempre
meglio potrà affinare la ripetizione dei propri gesti. Tale condotta ripetitiva
conferisce all’illuso retore maggior sicurezza, poiché il singolo si sente più
tranquillo con meno competenze, ma meglio sperimentate. Solo che,
Michelstaedter lo sa bene, lo scotto da pagare è «la dipendenza, l’inautenticità, la
nullità infine della propria esistenza attuale» 29 .
Ciò che viene di conseguenza da pensare del mondo (inteso come terra
fisica) è che esso sia un insieme di elementi ed entità disponibili al servizio del
progresso, violentabili in nome dell’operatività della scienza. Il risultato è
l’inevitabile insorgere di frotte di specialisti:
Virtuosità è identico con specialità : io ripeto, esagero, svolgo mostruosamente un
dato atto, una tal serie d’atti – ed ho già una persona cospicua. Ho educato in me
una macchina eccezionale. E la fatica bruta oscura della minima vita ha il nome e il
diritto d’esistere del postulato della massima vita (PeR 130).
E’ legittimo ritenere che, secondo Michelstaedter, in un futuro poco lontano e
prevedibile, già innestatosi nel presente, gli uomini si trasformeranno in automi,
saranno robotizzati ed potranno relazionare solo in maniera fredda, meccanica,
senza sentimento né pathos; quando, poi, ogni azione avrà raggiunto la massima
efficienza, «la lingua di questa volontà di vivere, quasi inorganica, che è l’uomo
29 G. Brianese, L’arco e il destino, cit., p. 105.
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sociale, attingerà infine il silenzio» 30 . Questa è la violenza generale e sociale
della rettorica.
Una sua forma di attuazione efficiente è quella operata ai danni del
linguaggio, veicolo di espressione dello spirito. Esso è diventato, secondo
Michelstaedter, una combinazione di segni che rappresentano la violenza
scientifica; esso non ha più potenzialità persuasiva, e finisce per languire nella
melma della retorica. Il linguaggio si è trasformato in simbologia, ed il simbolo
ha capacità del tutto limitate e limitanti. Il simbolo imbriglia la natura essenziale
dello spirito e l’essere delle cose stesse. Il linguaggio fisico-matematico, ad
esempio, è esclusivamente simbolico, e manifesta freddamente la retorica della
formulazione scientifica, perché non concede spazio alcuno all’individualità
dello scienziato.
In realtà, pare che lo scienziato sia coinvolto dalla scienza stessa: egli
perde tutto il suo bagaglio di autenticità in nome della verità oggettiva ed
oggettivata che lo richiama. Questo è il punto criticato da Michelstaedter: non c’è
personalità nell’essere specialisti, perché si è giunti ad una condizione per cui la
scienza è un oggetto a sé stante, indipendente, autonomo. La derivata modalità di
uso del linguaggio è violenta proprio per via della sua inautenticità di fondo. La
terminologia tecnico-scientifica viene a rappresentare la tendenza alla ricerca
della oggettività assoluta, quella realtà incontestabile che si vuole delineare come
verità. Quest’atteggiamento ermeneutico nella considerazione del ‘vero’ è
30 Marco Cerruti, Carlo Michelstaedter, cit. p. 94.
31

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inaccettabile per Michelstaedter, che crede fermamente nella verità soggettiva
della propria irripetibile ed ineguagliabile esistenza.
Lo scopo reale della ricerca è l’unità ontologica che va ricreata
nell’individuo, non la verità oggettiva che sta fuori dall’uomo stesso. L’Autore
immagina che uno scienziato, che sentisse le obbiezioni mossegli e rivolte al suo
metodo di essere/agire, possa sostenere che la scienza riporta il sapere filosofico
sulla strada della positività e non si perde in inutili e vaneggianti meditazioni
metafisiche. Michelstaedter vuole mostrare che lo scienziato nutre l’idea che lo
stretto contatto con la realtà possa condurre allo svelamento progressivo della
verità (conoscenza assoluta). A tal punto, l’Autore ha pronta la replica lapidaria
«immediata e decisiva: basterebbe chiedere che differenza ci sia fra realtà e
verità, per la quale, pur essendo in contatto con la realtà, si debba ancora fare via
per giungere alla verità» 31 . La ricerca scientifica è dannosa: essa è portatrice di
progresso tutto esteriorizzato, che non fa altro che annichilire l’uomo nella
convenzione della retorica; «tutti i progressi della società sono regressi
dell’individuo» (PeR 156), afferma Michelstaedter: più l’umanità si affida alle
mani del progresso, più nell’uomo muore la sua peculiare essenza.
Il massimo della specializzazione collima inevitabilmente con il massimo
dell’efficacia pratica e col minimo della conoscenza, tanto che alla fine si giunge
a non capir più nulla nemmeno del proprio settore, si giunge al gesto, al silenzio
dell’esecuzione pura e semplice. L’autenticità dell’esistenza viene sempre più a
mancare, e soltanto la radicalità del silenzio può far in modo che l’uomo ritrovi la
31 M. Cerruti, ivi p. 83.
32

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sua strada. Il silenzio persuaso è radicalmente differente dal silenzio gesticolante
della rettorica, che è «la falsa apparenza dell’autentico silenzio, miracoloso, della
persuasione» 32 .
La scienza gira indefinitivamente nel cerchio della causalità e del
bisogno, senza ottenere niente di positivo; la concatenazione delle cause, su cui è
imperniata tutta la struttura portante della ricerca scientifica, offre solo un sapere
inesaustivo e spersonalizzato, «non già il possesso pieno di se stessi nel quale
Michelstaedter ravvisa l’unica possibile autenticità per l’uomo che non voglia
restare prigioniero dello specialismo. Perché lo specialista è il retore del mondo
contemporaneo» 33 . La scienza sopprime la vitalità del linguaggio, e il mondo
tecnico-rettorico è il mondo dei servi.
Prosegue Michelstaedter:
Quello non c’è (dasein) poiché tutto ciò che è qui, c’è per causa di qualche cosa ed ha
bisogno di qualche altra (l’esistenza delle cose nel tempo è correlativa). C’è ciò che non è
– e che è non c’è […] Giusto è chi ha in sé la ragione poiché assoluto (Op 740).
Parlando di da-sein, viene spontaneo rifarsi per un momento alla filosofia di
Heidegger 34 , in cui si nota come il silenzio sia realmente ed effettivamente una
dimensione priva di qualunque rumore, dove risuonano solo le parole perfette
della poesia accompagnate dai tratti dell’arte figurativa. Questo silenzio sembra,
32
G. Brianese, L’arco e il destino, cit., p. 120.
33
Ivi, p. 110.
34
«Alla chiamata della coscienza corrisponde un sentire possibile […] Inoltre non dobbiamo dimenticare
che il discorso, e quindi anche la chiamata, non implicano necessariamente la comunicazione verbale.
Quando la l’interpretazione quotidiana parla di una ‘voce’ della coscienza non intende alludere a una
comunicazione verbale che, di fatti, non ha luogo; qui ‘voce’ significa ‘dare a comp rendere’» (M.
Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1970, sez. II, pp. 54-55).
33

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dunque, la soglia sulla quale l’uomo possa ‘risvegliarsi’ e riprendere il cammino
verso la propria autenticità, riaffermando la sua coscienza abbandonata nella
retorica:
Il senso delle cose, il sapore del mondo è solo pel continuare, esser nati non è che
voler continuare: gli uomini vivono per vivere: per non morire. La loro persuasione
è la paura della morte, esser nati non è che temere la morte. Così che se si fa loro
certa la morte in un certo futuro – si manifestano già morti nel presente. Tutto ciò
che fanno e che dicono con ferma persuasione, per un certo fine, con evidente
ragione non è che paura della morte – ‘infatti temere la morte altro non è che
credere d’esser saggio senza esserlo’ (PeR 69 35 ).
35 Si veda anche la citazione di Michelstaedter in PeR 198 tratta dalla Apologia di Socrate.
34

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IV
SU GIUSTIZIA E DOVERE
La vita persuasa è descritta da Michelstaedter come un’iperbole asintotica
alle linee cartesiane della giustizia. La giustizia è forse l’elemento cardine per la
vera realizzazione della vita autentica, poiché essa appare come una sorta di
entità sovrastante ogni altro tipo di realtà, raggiungibile soltanto sulla via della
persuasione. È per tale motivo che Michelstaedter asserisce che nella vita vissuta,
di qualunque persona si tratti, la giustizia non può essere né trovata né tanto
meno vissuta. La giustizia è il dovere della persuasione, lo stimolo
all’eliminazione della violenza operata dalla rettorica:
“Umano sei, non giusto” dice Parini. Quando l’uomo giudica cosa che non abbia
per lui alcun valor effettivo, giudica secondo la propria misura e accorda giusto
l’effetto ad ogni motivo, che egli, perché tale lo ammetterebbe per sé, chiama
umano. “E’ umano – dice – è giusto”.
Ma invero quanto è umano tanto è ingiusto, né umano criterio può giudicare il
Giusto cosa sia.
‘Uomo giusto’ è colui cui nessun umano argomento implica. Questi è l’‘Uomo’,
che nulla ha più in sé di umano (Op 713).
Sembrano rivivere le parole di ammonizione del Buddha: «Un uomo non è giusto
perché si occupa di una questione con violenza, ma quel saggio che discrimina
fra le due cose: ciò che è reale e ciò che è irreale» 36 .
36 Buddha, Aforismi e discorsi, Newton&Compton, Roma 1994, p. 74.
35

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La giustizia viene rappresentata secondo un preciso schema all’interno de
La Persuasione e la Rettorica. Essa è inserita in un sistema a piano cartesiano,
con i due assi coordinati secondo precisi valori di riferimento: sull’asse delle
ascisse (x) sta tutto l’insieme di cose che l’uomo ritiene giuste per sé; sull’asse
delle ordinate (y), l’attività umana, il compimento del suo presunto dovere. Tutto
lo spazio geometrico definito dalla moltiplicazione di X ed Y è lo spazio costante
della vita dell’uomo retorico nel mondo della retorica, lo spazio dell’incapacità di
affermazione dell’uomo misero che si crede potente, «mentre vive cosa fra le
cose» (PeR 79).
Questo schema illustrativo, esplica perfettamente l’idea di Michelstaedter
che la sublimazione della vita umana, nel compimento estatico della persuasione,
non potrà mai e poi mai realizzarsi nella vita vissuta, che sempre resta uno
scoglio insormontabile composto da volontà, bisogni, desideri e false
soddisfazioni. In fondo bisogna confessare che la retorica è quasi inaggirabile: la
condizione di illusione è insuperabile nella vita sociale, tanto che «abituarsi a una
parola è come prendere un vizio» (PeR 101). Solo con il completo possesso di sé,
effettuato grazie alla persuasione, si potrà tendere alla Giustizia:
La giustizia, la persona giusta, l’individuo che ha in sé la ragione, è un iperbole –
dicono tutti, e tornano a vivere come se già l’avessero – ma iperbolica è la via della
persuasione che a quella conduce. Poiché come infinitamente l’iperbole s’avvicina
all’asintoto, così infinitamente l’uomo che vivendo voglia la sua vita s’avvicina
alla linea retta della giustizia; e come per piccola che sia la distanza d’un punto
dell’iperbole dall’asintoto, infinitamente deve prolungarsi la curva per giungere al
contatto, così per poco che l’uomo vivendo chieda come giusto per sé, infinito gli
resta il dovere verso la giustizia (PeR 78).
36

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La concezione del dovere è conseguente: il dovere proprio è quello della persona
persuasa, mentre il retorico non può che continuare l’esistenza in falsi ed illusori
doveri. «A toglier questa (la giustizia) dalle radici deve andar tutta la tua attività:
tutto dare e niente chiedere: questo è il dovere – dove sono i doveri e i diritti io
non so» ( PeR 80). La giustizia, come ogni valore assoluto, è costitutivamente
irraggiungibile, ed il persuaso interiorizza questa impossibilità e il dovere di
raggiungerla, e in base a quel contrasto, istituisce la sua vita, «consapevole tanto
della necessità di una vita autentica quanto dell’inevitabilità dello scacco» 37 .
L’unico vero dovere che sia degno di tale definizione nell’ambito della vita
rettorica è l’anelito al superamento incondizionato della medesima, visto che
l’intera attività umana non concretizza in realtà nulla di buono secondo
Michelstaedter. Essa è attività nulla facente, languente verso una presunta
soddisfazione che non potrà giungere mai nella vita quotidiana:
Quando (il retore) tradisce la natura compie contro se stesso il più alto tradimento.
Gli uomini dicono che le bestie, ecc. – L’uomo nella posizione conoscitiva è cieco
del tutto. – Ma questo nel mondo, ma questo con le parole che sono soltanto della
domanda della persuasione (Op 728).
È per questo che Michelstaedter asserisce che si deve passare «dall’attività
all’inerzia» (PeR 89), ovvero bisogna riconoscere la fallimentare disposizione
della vita retorica per poter rendersi effettivamente conto della propria colpa. La
vita rettorica è morte della vita, o perpetuazione dello sforzo sciocco volto ad
37 G. Brianese, L’arco e il destino, cit., p. 150.
37

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eludere il sentimento del dolore e del timore della morte. La persuasione ha il
compito di trasformare l’uomo, di annullarlo nel dolore della salute, al fine di
ottenere quel ‘beneficio’ assoluto che consiste nel superamento della dualità
apparente: «La persuasione è il possesso presente della propria vita» (Op 728).
Non si pensi mai, però, ad una sorta di percorso iniziatico della
persuasione: essa non si raggiunge secondo un cammino, un iter evolutivo
particolare o predestinato. Essa è un dono: è il risveglio immediato
dell’immanenza. Non c’è spazio per il concetto di mediazione nella filosofia di
Michelstaedter, poiché essa è la peculiare caratteristica dello sviluppo sociale e
scientifico, della società illusa.
La persuasione è un regalo, un dono che soltanto il persuaso sa
riconoscere, perché ha annullato la propria volontà bisognosa e desiderosa. La
persuasione non può essere raggiunta da alcuna azione di stampo intenzionale, da
alcuna volontà: è completamente estranea ed indifferente al mondo della logica
storica, che, al contrario, è retta da una impostazione evolutiva di progresso
sganciata da qualunque ricerca dell’essere di carattere scientifico. Il vivere
persuaso è invece per Michelstaedter una rianimazione della pienezza originaria,
proveniente da un sapere mistico pre-socratico, totalmente avverso alla logica
dissipatrice cresciuta ed affermatasi infine nel massimo esponente della retorica:
Aristotele.
Volendo iniziare la trattazione della rettorica, Aristotele «deve intender di
far la teoria della rettorica, egli dovrebbe voler rifar l’etica e la politica, seppur è
38

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giusta la loro vicendevole relazione quale Aristotele stesso la stabilisce» 38 . Si
viene a delineare così il quadro dell’essere della comunità rettorico-scientifica.
Lo spirito di una tale società è prigioniero dell’illusione della propria capacità di
realizzare qualcosa: è l’inganno per non dover pensare alla reale destinazione
dell’esistenza, ovvero la morte. Lo spirito non è libero, e Michelstaedter nota
bene che la società tenta una vana autoprotezione, sacrificando la singola
individualità, irripetibile, irrisolvibile, ineguagliabile:
Libertà? quale è la libertà dell’uomo in natura? è la libertà che tutte le parti
dell’universo hanno: in quanto vivono secondo la loro legge senza averne
coscienza. Ma se ne acquistano coscienza hanno nello stesso tempo la conoscenza
che questa legge è la loro e che tanto sono schiave quanto dura la loro vita […]
Dov’è allora la libertà per l’uomo? E’ nel suo pensiero, perdio, il quale per cerchi
che s’allargano come l’onda dall’individuo attraverso tutti i gradi dell’umanità,
fino all’universalità, giunge alla contemplazione dell’infinito (Op 665 sg).
Il tentativo di risvegliare l’uomo per elevarlo alla condizione della persuasione
potrebbe far pensare ad una riscoperta dell’Übermensch nietzschiano, ma così
non deve essere:
Il valore della conoscenza è soltanto negativo. Poiché questo ‘io’ divino è il nostro
‘io’ vivente nella sua esistenza libera ed assoluta, verso il quale tendiamo e di
fronte al quale sentiamo la nullità della nostra vita relativa e che sappiamo di non
poter raggiungere che nel momento che rinunciamo al nostro ‘io’
nell’annullamento della nostra vita (Op 829).
38 Carlo Michelstaedter, Appendici Critiche alla Persuasione e la Rettorica, Vallecchi Editore, Firenze
1922, p. 275.
39

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In Nietzsche esiste il mito della natura ritornante e rigeneratrice, c’è la teoria
dell’eterno ritorno a far respirare lo spirito soffocato dall’avvilimento 39 . Per
Michelstaedter, invece, questo non accade, perché l’anelito della libertà dello
spirito verso l’assoluto, verso la risoluzione nell’unità, è incalcolabile, non
quantificabile: è pertanto immediato ed assoluto istantaneamente. Non c’è
nessuna traccia di ciclicità dell’essere e dello spirito: l’immanenza è del tutto
istantanea.
Il dominio della persuasione risulta così inequivocabile, non travisabile: è una
grazia, e la sua idea si può definire ‘impossibile’. La vita dell’uomo della persuasione è
la vita a-cronica, la vita che non si può calcolare secondo il tempo suddiviso nelle sue
tre fasi storicamente conosciute: passato, presente e futuro. Liberandosi radicalmente
da questa concezione agostiniana del tempo, Michelstaedter avverte che per la via alla
salute è necessario trasmutare il tempo composto in tempo unico, si potrebbe dire uni-
fluente: l’attimo.
39 «Anch’io parlo di ‘ritorno alla natura’, benché ciò sia propriamente non un regredire, bensì un arrivare
in alto – in alto nella natura e nella naturalità elevata, libera, persino terribile, che gioca, può giocare, con
grandi compiti… Per dirlo con un paragone: Napoleone fu un frammento di ‘ritorno alla natura’ come
l’intendo io» (F. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, Newton&Compton, Roma 1994, p. 88).
40

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V
L’ULTIMO PRESENTE 40
L’attimo è il tempo della sensazione, dell’estasi, della propria autenticità e
del possesso. I giorni, in fin dei conti non ci sono: si deve vivere il presente come
se fosse sempre irrinunciabilmente ‘l’ultimo presente’:
domani è finito tutto; il tuo corpo, la tua famiglia, i tuoi amici, la tua patria, quello
che fai, quello che ancora puoi fare, il bene, il male, il vero, il falso, le tue idee, la
tua parte, iddio ed il suo regno, il paradiso, l’inferno, tutto, tutto, domani è finito
tutto – fra 24 ore è la morte (PeR 68).
L’ultimo presente è riconoscibile e vi vibile soltanto dal persuaso, perché è il
momento del possedimento assoluto: il persuaso ha tutto ed offre tutto: «esser
persuaso e persuadere, avere nel possesso del mondo il possesso di se stesso –
esser uno egli e il mondo» (PeR 82).
È proprio la dimensione temporale della vita che garantisce la
differenziazione su cui si regge l’insieme della correlazione delle coscienze; il
tempo medesimo è un’appendice non trascurabile della retorica stessa: «Sono
creditori (i retori) miserabili che non hanno un soldo ma hanno una cambiale: il
presente è vuoto, ma contiene la promessa della gioia. La vita è il debitore
40 Una buona immagine del senso del tempo in questione è offerta dal filosofo francese Schwaller de
Lubicz: «Sappi che nell’azione il pendolo che oscilla da un lato risale dall’altro, e qualunque sia la sua
ampiezza esso batte sempre lo stesso tempo. Il Saggio non considera che questa uguaglianza del tempo, e
lascia che l’insensato venga affascinato ora della salita, ora dalla discesa» (R. A. Schwaller de Lubicz,
Verbo natura, Editori Tre, Roma 1998, p. 57).
41

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insolvente – le scadenze sono corte […]» (DDS 67). Per questo motivo il tempo è
il luogo della rettorica, mentre il suo superamento viene attuato soltanto con la
‘illuminazione’ della persuasione.
La rettorica, non essendo in grado di superare la dimensione cronologica
dell’esistere, resta imbrigliata in essa, e per dare sfogo al suo istinto di
sopravvivenza si espande nello spazio:
Egli (il retore) crede reale quell’aspetto che le cose hanno nel momento attuale, e vi
s’affida – mentre esso non appartiene che all’arbitrio del nemico che lo insidia. –
L’aspetto sufficiente perch’egli presuma di sé d’esser padrone delle cose […] Gli
uomini s’affidano l’un l’altro il lavoro che ognuno dovrebbe compiere per avere in
sé la sicurezza di se stesso. Essi invece speculano sulla comune debolezza per
creare una sicurezza fatta di reciproca convenzione (DDS 66).
Ecco la vera e propria natura del falso possesso: l’uomo rettorico presume di
possedere tutte le cose diverse che lo circondano, mentre anch’egli è diversa cosa
fra le cose medesime, e ne è posseduto. Tale è la radice della inautenticità. Nel
caso della persuasione non potremo, allora, parlare di ‘mondo’, come accaduto
per la rettorica, ma soltanto di ‘stato’: la persuasione è una sorta di quiescenza
nell’assoluto essere. «La Persuasione è l’atto puro dell’essere nel suo stato di
perfezione» 41 : lo status della persuasione è la luminosa aura che avvolge colui a
cui si fa dono. Ne discende che la determinazione autentica del persuaso (proprio
per il carattere di staticità e totalità perfetta della persuasione) si manifesti come
affermazione della propria essenza, che è affermazione della volontà di non
volere, di non continuare, di interrompere l’inganno.
41 Gianni Carchia, Retorica del sublime, Laterza, Bari 1990, p. 22.
42

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Questo concetto michelstaedteriano di persuasione è talvolta accomunato
alla illuminazione di cui tratta Arthur Schopenhauer nei suoi testi 42 , ma vi è una
sostanziale differenza di fondo. Il ‘risveglio’ schopenhaueriano è frutto di un
processo di riconoscimento della propria volontà limitata e limitante che pian
piano si trasforma in una vera e propria noluntas, nella rinuncia graduale alla
ricerca delle soddisfazioni transitorie al fine di imboccare la via della pace ed
eliminare ogni forma di dolore. È l’ascesi.
Dice Schopenhauer:
L’adolescente crede che sia una cosa meravigliosa ciò che va colto nel mondo, se
solo egli potesse sapere dove; il vecchio invece è pervaso dalla massima
dell’Ecclesiaste ‘tutto è vano’, e sa che tutte le noci sono vuote, per quanto possono
essere dorate. Nella vecchiaia, dunque, ogni cosa si è placata […] Ora si conosce
dunque ogni cosa in un modo più giusto e più chiaro e la si prende per quella che è,
essendo inoltre più o meno convinti della nullità di tutti i fenomeni terreni 43 .
La persuasione, invece, non è il risultato di un processo evolutivo progressivo, di
un viaggio scientemente attuato verso l’emancipazione dal sentimento del
bisogno, del desiderio, dell’insufficienza insanabile, ma è un semplice atto:
l’estasi istantanea in cui tutto è tutto, in cui l’uomo dà tutto e nulla chiede, in cui
non esiste manchevolezza perché è assente del tutto la volontà 44 :
42
Per l’argomento vedasi Paolo Bernardini, “Dell’attimo come K? ???S”, in Dialoghi intorno a
Michelstaedter, cit., pp. 99-100.
43
Arthur Schopenhauer, La saggezza della vita – Aforismi, Newton&Compton, Roma 1994, p. 194.
44
«È da Schopenhauer – forse il primo filosofo studiato dal giovane – che Michelstaedter trae il concetto
di volontà, che diviene per lui strumento d’analisi privilegiato del mondo in quanto rettorico» (Maddalena
Dalla Mura, “Persuasione, tragico ed arte in C. Michelstaedter”, in Itinerari (rivista quadrimestrale di
filosofia), n°1/2001, Lanciano, p. 30).
43

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Non ci sono soste sulla via della persuasione.
La vita è tutta una dura cosa.
Egli deve aver il coraggio di sentirsi ancora solo, di guardar ancora in faccia il
proprio dolore, di sopportarne tutto il peso (PeR 83).
Questo è il falso percorso denunciato da Michelstaedter: chi gode del dono
supremo della persuasione è irrimediabilmente solo, ed è già persuaso, poiché
solamente il persuaso sa riconoscere quando la persuasione fa dono di se stessa,
altrimenti essa è fasulla, ovvero retorica:
La realtà è dunque il contenuto d’ogni mio piacere: è la ‘mia coscienza’, è
l’‘illusione’ della mia ‘individualità’ […] Colui che chiede veramente un Valore,
l’‘essere’, […] non potrà volere ciò che non ha valore. Sarà libero da bisogni e
insoddisfatto al tempo stesso. Riconosciuto il non valore dei valori in quanto tutti
relativi solo a una volontà e al non valore della coscienza in quanto contenente solo
non valori, egli giungerà all’incoscienza: indifferenza: inerzia (Op 759-760).
Non è un caso che Michelstaedter ammonisca che lo scopo della vita è di
calibrare la propria condotta spostandola verso quella che lui chiama ‘argia’ (si
ricordi anche che Argia era il nome della donna amata dall’Autore), l’inerzia:
Ogni suo attimo (di vita persuasa) è un secolo della vita degli altri, – finché egli (il
persuaso) faccia di se stesso fiamma e giunga a consistere nell’ultimo presente. In
questo egli sarà persuaso – ed avrà nella persuasione la pace. – ‘Dall’attività
all’inerzia’ (PeR 89).
44

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VI
SU RELIGIONE PERSUASA E RELIGIONE SOCIALE
Lo stato perfetto di persuasione non è, ribadiamolo, un premio
conseguibile alla fine di un’educazione pratico-teoretica, come poteva richiedere
la morale stoica. Non è permesso in Michelstaedter il presentarsi di un rituale
cerimonioso che consenta l’adesione alla persuasione. Essa è un atto, uno stato
(anzi, lo stato) di elezione suprema cui si viene chiamati e che non si può
assolutamente scegliere in base al proprio desiderio o a propri arbitrari precetti.
Sono queste caratteristiche di completa privazione di volontà, di totale
presenza non intenzionale, di immediatezza che rendono la grazia della
persuasione il massimo dono, capace di levare all’uomo le briglie della rettorica
autoconservatrice. Per questo la vita persuasa non è paragonabile alla vita
‘autarchica’ del saggio che ha raggiunto l’ascesi, anzi ne è piuttosto
l’interpretazione contraria.
Tutto questo discorso chiarificatore sulla ‘via verso la salute’ mostra in
maniera lucida che Michelstaedter, pensava alla persuasione come «pratica del
beneficio (che) diventa qui via mistica di salvezza. Al di qua della religione
prometeica del sacrificio, che sancì l’ineliminabile distanza fra gli uomini e gli
45

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dèi, Michelstaedter ritrova il cammino delle antiche religioni misteriche
presocratiche» 45 .
I culti misterici indirizzavano l’adepto verso un cammino secondo cui
l’unica modalità per ritrovare il «vero sé coincide con l’atto dell’indiarsi» 46 . La
persuasione si rivela così essere quello stato ontologico che consente una
comunione col divino, e per ottenerla non servono (e nemmeno basterebbero) né
volontà né tangibilità di buone azioni, argomento della religione rettorica.
La religione ‘sociale’ e popolare rientra, di conseguenza, nel dominio della
logica della rettorica, perché si articola su compromessi di scambio e presunte
stabilità dogmatiche. La logica della rettorica è quella della ‘significazione
sufficiente’, dello scambio relazionale correlato e finalizzato ad uno scopo,
sottomesso al perseguimento dei fini di cui sopra s’è detto. La vita rettorica si
articola secondo uno schema semplice e preciso: l’alterità (la sfera dell’altro-da-
sé) diviene il motore della conduzione della vita, la cui causa motrice è costituita
dal bisogno, dalla necessità del desiderio, dal soddisfacimento della volontà:
qualunque cosa uno dica non dice, ma attribuendosi voce a parlare si adula. […]
Così (fanno) gli uomini, che nel mancare, s’affermano inadeguatamente fingendosi
il segno della persona che non hanno, ‘il sapere’ come già in loro mano. […] Cerca
ognuno la mano del compagno e dice: ‘io sono, tu sei, noi siamo’, perché l’altro gli
faccia da specchio e gli dica: ‘tu sei, io sono, noi siamo’; ed insieme ripetono: ‘noi
siamo, noi siamo, perché sappiamo, perché possiamo dirci le parole del sapere,
della conoscenza libera ed assoluta’. – Così si stordiscono l’un l’altro (PeR 99).
45 G. Carchia, Retorica del sublime, cit., p. 24.
46 G. Carchia, ivi, p. 24.
46

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È la vita scandita dalla manchevolezza, dal torpore della coscienza, dalla illusoria
conoscenza, dalla dualità insanabile, tanto che ci pare lecito citare le appropriate
parole di un grande letterato:
Il genere umano e, dal solo individuo in fuori, qualunque minima porzione di esso,
si divide in due parti: gli uni usano prepotenza, e gli altri la soffrono. Né legge né
forza alcuna, né progresso di filosofia né civiltà potendo impedire che uomo nato
da nascere non sia degli uni o degli altri, resta che chi può eleggere, elegga 47 .
La persuasione opera in totale contrasto alla rettorica: la sua logica è
‘comunicativa’, non si adatta a schemi rigidi e prefissati, perché per sua
medesima natura non consente l’ammissione degli ‘schemi di vita’. La logica
della persuasione si presenta come «una sorta di simbolica naturale
immediata» 48 , una dirompente forza dell’essere che si sente ‘obliato’ (mutuando
il termine da Heidegger). Essa è preposta ad un movimento senza sosta di
annullamento della oggettività del valore, al superamento completo dei vincoli
della convenzione della società. «Tentiamo di vantarci di quei difetti che non
vogliamo correggere», afferma il letterato francese del XVII secolo François de
La Rochefoucauld 49 .
La società, secondo Michelstaedter, è così subdola che offre a tutti
l’illusione di poter produrre insieme qualcosa, mentre essa distrugge
silenziosamente l’interiorità del singolo; ecco perché la forza della persuasione è
47 G. Leopardi, Pensieri, Garzanti, Milano 1995, p. 21.
48 G. Carchia, Retorica del sublime, cit. p. 25.
49 F. de la Rochefoucauld, Massime, Newton&Compton, Roma 1993, p. 54.
47

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rivolta allo sgretolamento di ogni qualsivoglia oggettività delle relazioni
interpersonali.
Uno dei sentimenti su cui è incardinata la società è l’adulazione (kolakeia).
Chi ha tutto da sé – l’uomo in natura – non conosce la rabbia impotente – la
conosce chi ha bisogno dell’opera altrui, di singoli o di istituzioni; e che se questi
anche d’un poco sgurlano, è in loro balia, dipende da loro e non può che con la
rabbia sfogare la sua impazienza e l’insopportabile senso della dipendenza (DDS
69).
Essa è frutto di una vita che chiede la vita, di un desiderio che pur di non
annullarsi si continua in falsi soddisfacimenti.
Il tema della sicurezza impotente della società ritorna prepotentemente
anche in questo caso: gli uomini avviliti dalla retorica cercano un vano riparo
nella costituzione di un gruppo compatto, che possa sfuggire al destino della
morte. L’adulazione entra in gioco perché il movimento verso la compattazione,
scandito dal «principio della debolezza» (PeR 176), è guidato da coloro che
socialmente occupano posizioni prestigiose, e che pertanto si reputano i più forti.
Questi personaggi, figli primogeniti della retorica, sono gli scienziati ed i giudici.
Questo tipo di persone è sommamente convinto di poter cambiare la società e di
garantirne lo sviluppo etico, di mantenerne l’ordine e di guidare l’uomo verso il
progresso, mentre «illudendosi di propugnare idee proprie sono inconsci
strumenti della società» (PeR 181).
La società ha una funzione organica e organizzatrice di se stessa: è la
‘officina dei valori assoluti’. Qui Michelstaedter mette bene in luce la tematica
della nullità del valore della posizione sociale, della inautenticità dell’adulazione,
48

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per far risaltare invece quello della sfera individuale, della conoscenza e della
persuasione:
Due individualità uguali si negano vicendevolmente, non s’identificano. Dunque
identità equivale a ‘unità’ e presuppone la liberazione da ogni determinazione:
unica – libera – essenza dello spirito assoluto. […] Ma se uno non ha più alcuna
necessità (intendo ‘alcuna determinazione di volontà’ i.e. alcuna volontà) che
cos’è? Qual è la sua coscienza? Quale la sua soddisfazione? Quando non sente, non
vuole più alcuna cosa, qual è il contenuto della sua vita, quale il ‘portatore’ della
libertà? essere = essere libero, ma ‘esser libero’ = non esser più (Op 818).
La gente comune si abbandona (così come accade in ambito religioso) a quello
che le viene propinato dalla scienza e dalla legge, non si presta ad un
approfondimento personale delle tematiche. La gente comune viene trascinata
dalle indicazioni scientifiche e legali, e non si preoccupa di assumere su di esse
un atteggiamento critico e personalizzato. Questo è indice di indubbia
spersonalizzazione e palese impossibilità di ricerca della propria autenticità.
È il trionfo della volontà che vuole vivere perché non ha la vita. «La vita
sarebbe se il tempo non le allontanasse l’essere costantemente nel prossimo
istante» (PeR 43). E prosegue l’Autore: «Ma io, e con me il divino Eresia, il
Persuasore di morte, faremmo cori benevoli a quest’ultimo tuo monito, dicendo
che la vita non ha altro scopo se non la vita stessa» (DDS 140).
L’uomo persuaso non è coinvolto nella correlazione delle coscienze, ma è
un ‘con-penetratore’ di coscienze, è colui che ritrova il primordiale coraggio di
ritornare all’Uno, all’immanenza assoluta senza mezzi termini, è colui che crea
da se stesso il mondo (ritorna ancora l’eco schopenhaueriana), colui che possiede
tutto perché possiede se stesso, colui che da tutto perché tutto ha: «dare è fare
49

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l’impossibile: dare è avere» (PeR 82). Michelstaedter sta professando l’ideale
romantico della Menschheit 50 , sepolto da anni di stordimento della coscienza:
Nell’universale egli (il persuaso) arriva a possedere se stesso; egli perde compito,
attività, piacere e dolore: vita, egli muore. Infatti, se ci fosse un Dio egli sarebbe
morto di ‘noia’ (Op 776).
Egli professa una sorta di comunicazione assolutamente libera fra le anime
umane, fra le coscienze persuase.
Si colloca bene in questa parte di discorso una breve chiarificazione del
termine ‘persuasione’, che probabilmente fu ripreso da Michelstaedter proprio
per il suo significato primigenio scomparso da tempo. Il significato della
persuasione è di stampo pre-metafisico, misticheggiante, appartenente ai culti
misterici delle filosofie presocratiche, alla mitologia olimpica: è la riscoperta
della divinità Peitho. Essa è la persuasione divinizzata, sovente presente nei
cortei delle divinità secondarie che accompagnano Afrodite (la dea dell’amore), e
spesse volte ritenuta la figlia di Ate (l’‘errore’). Molto più spesso, però, Peitho si
colloca come sorella di Tiche (il ‘caso’) ed Eumonia (il ‘buon ordine’).
Essa è riscoperta da Michelstaedter in qualità di supremo stato dell’unità
dell’essere, di estremo e perfetto momento della comunicazione, antecedente in
maniera obbligata la sfera della ‘positività’ della vita umana, in cui l’uomo vive
morendo giorno dopo giorno, nell’abbandono ad una scissura insanabile fra
ragione e passione, fra freddo calcolo scientifico e potenza emotivo-emozionale.
50 Voglia considerarsi il termine Umanità come la qualità dell’uomo di porsi in relazione con
l’universalità dello spirito. Il sentimento di umanità è da un lato il sentimento della simpatia universale,
dall’altro è la facoltà di poter comunicare intimamente ed universalmente con l’assoluto. Esso è la
disposizione dell’individuo all’universalità della vita.
50

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«L’assoluto della persuasione michelstaedteriana è, dunque, qualcosa di
radicalmente differente dall’assoluto della tradizione metafisica» 51 , poiché per
Michelstaedter esso è proprio un momento perdurante di perfezione divinamente
completa, totale ed esauriente.
Ecco perché per l’uomo persuaso non è importante tanto vedere e
riconoscere il bene, quanto invece lo è il farlo e farlo senza la minima
intenzionalità, involontariamente, perché è proprio la sua natura di uomo graziato
dalla persuasione ad indirizzarlo verso tali comportamenti.
51 G. Carchia, Retorica del sublime, cit., p. 26.
51

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VII
SUL DOLORE, LA COLPA E LA MALINCONIA
L’elemento fondante dell’autonomia assoluta dell’azione persuasa è l’idea
di ‘dolore’:
Allora il dolore muto e cieco di tutte le cose che in ciò che vogliono esser non
sono, avrà per lui (il retore), che ne avrà presa la persona, la parola eloquente e la
vista lontana, poiché nel piacere grigio, nei dolori finiti di tutte le cose, che, per la
paura della morte, sempre lo riempiono, egli lo sentirà parlare e lo vedrà ‘guardare
in attesa’ a un bene che quelle non hanno il coraggio di volere. […] Egli soffrirà
nello stesso punto della propria deficienza e della loro: parlando la voce del proprio
dolore egli parlerà loro la voce ad essi lontana del loro stesso dolore; come nella
sua attività intensa egli sarà vic ino a saziar il proprio dolore, così a loro metterà
vicina una vita, per la quale essi vedranno sciogliersi la trama di ciò che li preme,
di ciò che via via li distrae (PeR 85-86).
Il dolore è il sentimento principale e non ha i classici connotati negativi di
malessere, di cattiva disposizione del corpo o dello spirito. Il dolore
michelstaedteriano è energia, è una fustigata istantanea e violenta che spezza la
catena della correlazione retorica, permettendo di riconoscere la falsità e la
‘sufficienza’ della vita sociale: «Il dolore fino a che non è equivalente alla
volontà di vivere non annienta la vita. I supremi dolori sono la morte in ogni
punto (morire: significa la perdita di tutto il contenuto dell’illusione) e la noia
(cioè io voglio vivere ma voglio: niente)» (Op 789).
In maniera tragica, il dolore è la rappresentazione parabolica (discendente)
dell’impossibilità dell’affermazione del bene in questo mondo. «La sua chiusa e
52

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fonda naturalità è, però, anche il solo segno che abbiamo, nell’esperienza
catartica della persuasione, di una realtà spirituale suprema» 52 . Il dolore è il
sangue del risvegliato che non ha seguito alcun corso di preparazione alla
riscoperta della propria autenticità, avendo invece ricevuto istantaneamente la
scossa dall’essere. «Il dolore è l’unica iniziazione a questo assoluto» 53 , perché
l’idea misticheggiante della persuasione, intesa come proprietà della
comunicazione (comunicabilità) suprema e perfetta, si può ben intendere come
l’attività catartica del dolore, la funzione ineffabile dell’emendamento dalla
retorica sulla via verso l’unità e l’assolutezza.
È il dolore la chiave di volta che spiana la strada a Michelstaedter anche
nella interpretazione della società trasposta sul piano della letteratura classica, in
particolare nella tragedia greca, dove Sofocle è portavoce della persuasione 54 ed
Euripide della retorica. L’uomo sociale e retorico per l’Autore è l’uomo che sente
e patisce fortemente il dolore, ma lo tiene apposta represso per fingere di
eluderlo, abbandonandosi alla supposizione religiosa che qualche dio possa
sobbarcarsi i patimenti al posto suo: «Il dio che ti teneva in piedi, che ti faceva
chiaro il giorno, e dolce il cibo, che ti dava la famiglia la patria, il paradiso –
quello ti tradisce ora e t’abbandona, poiché è rotto il filo della filopsichia» (PeR
68). Ma la forza prorompente del dolore non tace mai, e per quanto si tenti di
52 G. Carchia, ivi, p. 28.
53 G. Carchia, ivi, p. 28.
54 Insieme a Sofocle, il drammaturgo della persuasione, ovviamente fuori del contesto greco classico, è
Henrik Ibsen, che scrive: «Sì, sì, così! Scendere in sé. Questa è la vita. Questo il cammino. Il nostro
cuore» (H. Ibsen, “Brand”, in Drammi, Einaudi, Torino 1994, p. 570).
53

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oscurarla essa non scende mai sotto un certo limite, garantendo a chiunque il suo
ineliminabile tormento:
Che v’importa di vivere se rinunciate alla vita in ogni presente per la cura del
possibile. Se siete nel mondo e non siete nel mondo, prendete le cose e non le
avete, mangiate e siete affamati, dormite e siete stanchi, amate e vi fate violenza, se
siete voi e non siete voi. – Dare è fare l’impossibile: dare è avere (PeR 82).
Assieme a questa manifestazione di potenza angosciante e malinconica,
«intuizione più o meno nitida della precarietà del non essere, […] ‘dolore’
significa per Michelstaedter anche condizione universale del tutto nel suo
perpetuo correlarsi, dato in cui si troverebbero accomunate, insieme con l’uomo,
tutte le cose che vivono» 55 .
L’uomo social-retorico è così sempre più angosciato, come già detto, ed è il
tormento procurato dalla sua incapacità di possesso ad infastidirlo sempre più,
tanto che «si sente dissolvere, impotente, già morto e pur ancora vivo» 56 .
E vogliono (i retori sociali) – prosegue Michelstaedter – continuare così come sono
perché si credono d’esser persone vive: la loro scienza della vita è loro sufficiente.
Questa è la loro sicurezza e la loro pace, la loro coscienza e la loro gioia – questo il
loro sguardo fidente volto al futuro […] E un lieve soffio basta a far vedere
com’era malsicuro il loro fondamento di fronte alla necessità che s’illudevano
d’aver superata, quanto inadeguata la loro sicurezza (PeR 175-176).
Parafrasando anche le parole di una famosa canzone di Franco Battiato, può
essere corretto affermare che Michelstaedter abbia voluto «emanciparsi
dall’incubo delle passioni» 57 , proprio perché la continua (o sarebbe meglio dire
55 M. Cerruti, Carlo Michelstaedter, cit., pp. 62-63.
56 Maddalena Dalla Mura, in Itinerari, cit. p. 36.
57 Franco Battiato, “E ti vengo a cercare”, in Fisionomica, EMI, Milano 1988.
54

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‘continuata’) opposizione fra sfera razionale e sfera emozionale determina
l’incessante patimento della dualità retorica, dell’illusione della realizzazione. Si
può senza problema affermare che il dolore trattato, vissuto e patito dall’Autore
«appartiene ad ogni cosa che vive appunto e solo per il fatto stesso che essa è
viva» 58 , e di tale dolore l’uomo della persuasione dovrà necessariamente farsi
carico, seguendo una sua propria ed autonoma opera redentrice, allo scopo di
riscattare le sofferenze dettate dalla piaga della rettorica.
Il dolore di Michelstaedter, però, si badi bene, non segue minimamente
l’idea cristiana del dolore inteso come purificatore, figlio della penitenza, per la
colpa originale, né è una sorta di ‘nirvana’ buddistico, luogo della
contemplazione perfetta. Il dolore si esprime dicendo «ora vengo io, da te che ti
credevi sicuro, e non sei niente» (PeR 62). Sembra corretto affermare, a questo
punto della trattazione, che per Michelstaedter il dolore sia uno stato in cui vive
l’uomo indirizzato alla rettorica, stato che rappresenta il limite ultimo fra la vita
secondo coscienza (sociale) e vita secondo incoscienza (persuasione):
Vera coscienza è la coscienza della nullità, cioè quella che cessa di essere
coscienza 59 […] Anche l’ultimo compagno serio s’annulla: il ‘dolore’. Il dolore che
è stato il fondamento sicuro in ogni istante della via, quello che ho sempre ritrovato
al di sotto di ogni vana illusione, che io sentivo come l’essenza della mia vita ,
come la forza che mi faceva crescere e fiorire, anch’esso s’annulla poiché anche la
sua ragione d’essere altro non era che il voler essere – insoddisfatto (Op 779).
58 G. Brianese, L’arco e il destino, cit. p. 50.
59 Michelstaedter prosegue altrove sulla coscienza, dicendo: «Il nulla non è la coscienza del nulla.
Coscienza del nulla come verità assoluta non esiste, in quanto implica la nullità di questa stessa facoltà di
riconoscere l’assoluto. Per me il nulla è la cessazione della mia coscienza, è l’incoscienza» (Op 798).
55

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Esso è più propriamente il momento fulmineo e fulminante del riconoscimento di
una colpa: «tutti hanno ragione di vivere…che hanno avuto il torto di nascere»
(PeR 77). Tale colpa può essere emendata esclusivamente nella e dalla vita
persuasa (è visibile qui la ripresa del concetto di dolore che l’Autore riscontrava
nell’antica tragedia classica 60 , e rilevante, in tempi a noi più vicini, nell’arte
nordica della pittura di Munch, della musica di Beethoven, della letteratura di
Tolstoj 61 ed Ibsen).
Allora – prosegue Michelstaedter – il dolore muto e cieco di tutte le cose che in ciò
che vogliono esser non sono, avrà per lui , che ne avrà presa la persona, la parola
eloquente e la vista lontana, poiché nel piacere grigio, nei dolori finiti di tutte le
cose, che, per la paura della morte, sempre lo reprimono, egli lo sentirà parlare e lo
vedrà ‘guardare in attesa’ a un bene che quelle non hanno il coraggio di volere
(PeR 85).
È così che la società continua per la sua inconcludente strada, si illude nella
speranza dell’abbandono definitivo del senso del bisogno: il retore è un morto
che dice agli altri morti di essere vivo, come questi si fregiano con lui del
medesimo titolo di ‘esser qualcuno’. Il persuaso, invece, è ‘liberato’, ‘scarcerato
dalla prigione della necessità’, colui che si è svincolato da ogni legame per poter
guardare in faccia l’entità della propria insufficienza, rispondendole a tono che
essa non ha più la forza di avvilirlo: «Nell’abio? bio? (vita che non è vita) la
potenza e l’atto sono la stessa cosa, poiché l’Atto trascendentale, ‘l’eternità
60 Michelstaedter parla, a tal proposito, di ‘catarsi tragica’, Op 770.
61 «Tolstoj non chiede soltanto lotta, ma anche devozione: potrebbe essere questo il pensiero
michelstaedteriano più illuminante e chiarificatore […] L’uomo deve saper resistere alle seduzioni della
società che egli giudica bastata sul falso e sulla prepotenza; egli deve uscirne ed abbandonarne tutto il
sistema di vita» (Alberto Cavaglion, “Una giovinezza Immortale”, in Dialoghi intorno a Michelstaedter,
op. cit. p. 78).
56

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raccolta e intera’, la persuasione, nega il tempo e la volontà in ogni tempo
deficiente» (PeR 44).
L’uomo persuaso potrà allora dire agli altri che «non c’è niente da temere,
niente da cercare, niente da fuggire» (PeR 86), perché ha ritrovato quello che,
sotto mentite spoglie, il retore cerca e non può trovare: la sua essenza, la sua
natura, la sua autenticità. L’uomo persuaso è costantemente equilibrato nella sua
umanità (Menschheit), perché ha ottenuto quello stato benefico involontario che
gli permette di non aver incertezze su nulla: il dolore, che fa rabbrividire il retore
e lo angoscia, è invece vissuto integralmente in ogni suo punto dal persuaso:
Amico io guardo ancora all’orizzonte
dove il cielo ed il mare
la vita fondon infinitamente.
Guardo e chiedo la vita
la vita della mia forza selvaggia
perch’io plasmi il mio mondo e perché il sole
di me possa narrar l’ombra e le luci –
la vita che mi dia pace sicura
nella pienezza dell’essere» (Po 53).
La filopsichia non trova più terreno fertile nella vita persuasa, perché il
sentimento incontrollato di devozione per la vita, qualunque essa sia, non può più
attecchire: «Ma tu non vivi-morrai di ciò e per ciò (del mondo delle cose e degli
eventi) – ma ti creerai da te, e in te ‘la vita’; rinato da te stesso non ti muoverai a
differenza delle cose sognate; ma in uno sarai tu stesso e la vita: e farai di te
stesso fiamma. Poiché tu sei il primo e l’ultimo» (Op 744).
57

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Si può dire che nella filosofia di Michelstaedter proprio a questo punto la
filopsichia si trasforma in filo-sofia, una filosofia, però, totalmente involontaria.
È necessario lasciare ancora una volta la parola all’Autore:
Ogni suo attimo (ogni attimo della vita del persuaso) è un secolo della vita degli altri, –
finché egli faccia di se stesso fiamma e giunga a consistere nell’ultimo presente. In questo
egli sarà persuaso – ed avrà nella persuasione la pace. – ‘Dall’attività all’inerzia’ (PeR
89).
Proprio questa dicitura, nel testo scritta in greco, si legge ai piedi del ritratto che
Michelstaedter dedica a Schopenhauer.
La frase ‘far di se stesso fiamma’ funge da didascalia ad uno dei suoi
ultimi disegni, raffigurante una lampada accesa con l’olio che l’alimenta quasi
esaurito, posta sull’angolo di un tavolo in un ambiente scuro e tetro 62 . La fiamma
di Michelstaedter è simbolo rappresentativo della vita autentica, che per esser
tale ha necessità impellente di esaurirsi nell’istante dell’estasi momentanea,
nell’intuizione onto-soteriologica della ‘salute’. La salvezza è scandita dal tempo
della persuasione e dell’arte: l’istante.
È lecito affermare, quindi, che la fiamma che arde nell’anima del persuaso
sia effettivamente la forza propulsiva più intima della natura umana, capace di
bruciare in un solo momento di profonda incoscienza tutta l’energia dell’essere
dell’uomo. L’essere dell’uomo viene esaurito in una sorta di ‘eroico furore’ 63
62 Per l’argomento si veda L’immagine irraggiungibile – Dipinti e disegni di Carlo Michelstaedter,
Edizioni della Laguna, Gorizia 1992, p. 441.
63 Il riferimento è ovviamente all’opera di Giordano Bruno del 1585 dal titolo De gli eroici furori.
58

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della fiamma, ed una volta consumato la sua vita finisce, proprio in quell’istante
in cui la Menschheit attinge il suo apogeo: la persuasione.
E sentii la mia vita fiammeggiare
ed il deserto farsi popoloso,
credetti fosse giunto il luminoso
mio giorno nella notte e consumare
quella fiamma mi parve la mia vita (Po 93).
La fiamma michelstaedteriana rappresenta anche la disponibilità dell’uomo
persuaso al silenzio, il più elevato mezzo della comunicazione:
Spenta ogni luce allora ed ogni via
sbarrata, allor più presso la tenebra
mi stringe sì che il cuor ignoto orrore
m’invade, non per me se nella notte
solo io soccomba, ma per te, o compagna
forte e sicura – […] (Po 86).
Confermando un meccanismo che verrà svelato da un altro grande filosofo
contemporaneo, Henri Bergson 64 , si può asserire che l’Autore si accorga anche
che il tempo spazializzato non assicura nessuna tipologia di possesso autentico
all’uomo, ma consegna il possesso stesso all’angoscia (Angst).
Il passato viene ripescato dalla memoria e riproposto coscientemente, e
l’uomo si rende consapevole del fatto di non aver realmente vissuto la ‘propria’
vita: ecco l’angoscia e la malinconia. «La malinconia […] è un punto cruciale
64 «Cos’è il presente? La caratteristica del tempo è di scorrere; il tempo già trascorso è il passato, e
chiamiamo presente l’istante in cui scorre. Ma qui non si può trattare di un istante matematico […] La
materia, in quanto estesa nello spazio, deve essere definita, a nostro avviso, un presente che ricomincia
incessantemente, e, inversamente, il nostro presente è la materialità stessa della nostra esistenza, cioè un
insieme di sensazioni e movimenti, e nient’altro che questo» (H. Bergson, Materia e memoria, Laterza,
Bari 1996, p. 247 sg).
59

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per la filosofia di Michelstaedter e per la sua stessa esistenza, specularmente:
grazie ad essa, senza avvedersene, egli riesce a porsi in questa prospettiva di
salvezza» 65 .
65 Paolo Bernardini, in Dialoghi intorno a Michelstaedter, cit. p. 107.
60

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VIII
SUL SILENZIO E LA PAROLA
Non si deve innanzitutto dimenticare che La Persuasione e la Rettorica
nasce da un ambito di studio prettamente linguistico, essendo i due concetti
chiave dell’opera due fondamentali modi della comunicazione. La parola, per
Michelstaedter, è importante in quanto veicolo imprescindibile del pensiero al
monito alla vita persuasa. Allo stesso tempo, però, egli si rende conto che questo
mezzo di comunicazione resta innegabilmente immerso all’interno della vita
retorica, perché il linguaggio è solamente un veicolo dello spirito, dell’essere,
non lo spirito stesso. Lo stato della persuasione non è quello in cui si possa dar
credito e spazio al linguaggio che viene usato nella vita di tutti i giorni, né tanto
meno a quel linguaggio scientifico 66 responsabile principale della manifestazione
dell’oggettività della vita, della spersonalizzazione dell’uomo, della inautenticità
dell’indivi duo:
Infatti abituarsi a una parola è come prendere un vizio. […] Il primo segno che
uno dà della sua rinuncia a impossessarsi delle cose – per ‘amor del sapere’, è
l’accontentarsi al segno convenzionale che nasconde l’oscurità per ognuno in vario
modo inafferrabile. […] Il sistema dei nomi tappezza la stanza della miseria
individuale, pei quali mille volte e sempre avanti infinitamente la stessa luce delle
stesse cose in infiniti modi è riflessa (PeR 101).
66 «Nel linguaggio lo specialista rispecchia la violenza esercitata sulle cose», G. Brianese, L’arco e il
destino, op. cit. p. 113.
61

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Il persuaso è colui che ascolta nel silenzio della liberazione dal bisogno.
Avendo perso questo status retorico di desiderio e necessità, non sente neppure
l’anelito alla parola verbalizzata: il persuaso sa, conosce, interpreta il pensiero e
l’essere: «La stessa cosa è il mio vivere e il mondo che vivo . Così dice
Parmenide: ‘una cosa è il pensiero e la cosa ch’io penso’» (PeR 53).
Per mezzo della verbalizzazione del linguaggio l’uomo del mondo della
tecnica tenta di comunicare, conferendo spessore al compimento della rettorica.
In realtà il tecnico si illude di poter comunicare, ma non dice niente di autentico e
finge la comunicazione, tanto più che gli scienziati, in definitiva, non producono
nulla di autentico; «o meglio, combinano in infiniti modi le medesime cose
separate, che non per questo perdono la loro condizione di separatezza. È la
rettorica fatta sistema» 67 . La vita del retore è, in termini parmenidei, la vita del
divenire (via della doxa), mentre quella del persuaso è senza dubbio l’autentica
vita dell’essere (via della aletheia).
Mentre l’uomo retorico è destinato alla morte nella vita, in essa l’uomo
persuaso è destinato al silenzio ed alla solitudine. In buona sostanza, è lecito
affermare che il messaggio dell’Autore costituisce una denuncia radicale contro
la incapacità di vera affermazione da parte dell’essere dell’uomo; l’individuo
della società, l’uomo comune schiavo dell’abitudine e della moda, si affida a
termini tecnici (come fa lo specialista-scienziato) che non si differenziano mai
l’uno dall’altro se non per via del loro impiego.
67 G. Brianese. ivi p. 115.
62

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La denuncia di Michelstaedter si rivolge a questo: non si bada all’essenza e
all’entità prodotta dalle parole, ma solo al loro utilizzo occasionale, al
simbolismo de-ontologizzato della scienza e della tecnica. Si perde l’autenticità
del significato, in favore dell’asservimento alla consuetudine, alla continuazione.
Pare proprio che il tentativo di Michelstaedter sia quello di rivendicare i diritti
alienati dell’individualità, da salvare sottraendoli ad un’epoca storico-sociale in
cui si sviluppa un linguaggio indifferente alla massima potenza, e per questo ci
sembra appropriato e corretto asserire che secondo l’Autore «tutti parlano oramai
la stessa lingua perché nessuno ha più nulla di personale da dire» 68 .
L’uomo della persuasione, al contrario, si esprime in maniera essenziale,
non si mescola alla ripetizione dei luoghi comuni; il suo parlare agisce così da
esprimere in ogni istante il senso della totalità dell’essere delle cose. In sostanza,
il persuaso, quando parla, dice sempre la Perfezione, il ‘medesimo’, perché non
c’è altro da dire, mentre il retorico dice sempre le medesime cose perché non
hanno nulla di autentico da dire: «la lingua internazionale sarà la lingua dei
termini tecnici» (PeR 135).
L’Autore, in fin dei conti, anela ad una specie di significativa ma
assolutamente incomunicabile individualità del persuaso, che si rivela essere
sempre inevitabilmente solo. Tornando, per tanto, al tema della solitudine, esso è
estremamente caro a Michelstaedter, che più e più volte ha denunciato, nelle sue
lettere alla famiglia e maggiormente nelle sue poesie, la impossibilità statutaria
dell’uomo (che volga alla persuasione) di poter relazionare con i rettorici:
68 G. Brianese, ivi, p. 116.
63

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[…] sta sotto il cielo sulla buona terra
questo ch’io chiamo ‘io’, ma ch’io non sono.
No, non son questo corpo, queste membra
Prostrate qui fra l’erbe sulla terra,
più ch’io non sia gli insetti o l’erbe o i fiori
o i falchi su nell’aria o il vento o il sole.
Io son solo, lontano, io son diverso –
Altro sole , altro vento e più superbo
volo per altri cieli è la mia vita… (Po 69).
Ritorna ancora una volta la discussione sulla correlazione delle coscienze propria
della retorica in contrapposizione all’autentica com-penetrazione del sentire del
persuaso.
64

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IX
SULL’AMORE COME LEGAME
In questo contesto si inserisce anche la breve riflessione sull’amore che si
presenta nella Persuasione e la Rettorica, dove Michelstaedter spiega che la
volontà di ognuno instrada l’individuo, all’interno della società, a volersi fregiare
di una propria orgogliosa identità singolare: è la presunta affermazione di sé (la
determinazione), che non può far altro che accrescere la miseria spirituale
dell’uomo. Così, ci si ritrova ad osservare che i più vogliono far prevalere la
propria affermazione/individualità su quella degli altri, per il bisogno di
esorcizzare tutti i timori e le angosce che affliggono la massa.
Questo bisogno conduce alle logiche di opportunità (o meglio di
opportunismo) e di teleologismo 69 sufficiente: ognuno si propone uno scopo
(fallimentare comunque) ed utilizza gli altri al fine di raggiungere il suo
traguardo prefisso. È tale critica alla progettualità, all’organizzazione della vita
nel futuro, quella che Michelstaedter chiama «l’affermazione della individualità
illusoria, che violenta le cose in ciò che s’afferma senza persuasione, poiché le
informa al proprio fine illusorio come al fine dell’individuo assoluto che avesse
in sé la ragione» (PeR 63).
69 Con teleologismo si vuole indicare la tendenza dell’uomo rettorico alla progettazione del proprio
futuro, senza vivere realmente la dimensione del presente (propria del persuaso): è un emblema della
continuazione della vita illusa (si veda PeR 146 sg.).
65

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Il bisogno reciproco che governa questa logica di vicendevole necessità si
manifesta sotto l’apparenza dell’amore, che in realtà è αντερο? (amore
ricambiato) e non ερο? (l’amore per definizione, il legame). L’amore ricambiato
è l’amore rettorico, il falso legame che si fonda irrimediabilmente sul νεικο? (la
discordia di origine empedoclea contrapposta alla φιλια, l’armonia). D’altronde
pare proprio verosimile il detto secondo cui «la vita è terribile. Essa ci domina;
non siamo a dominarla» 70 . L’amore ‘anteros’
è il doppio convergere della mutazione nel pensiero di tutti e due gli enti, in pro’
della continuazione di tutti e due i nuclei di potenzialità […] Amare, finché si
riguarda all’individuo finito, è sempre per un ‘suo’ bene. Se egli lo trova
nell’amico, l’amico glielo rappresenta; egli non ama l’amico ma, per sé, quel bene
in lui. Questa la universale forma d’‘amore nella vita’; determinazioni di un
individuo verso un altro individuo, cioè bisogni individuali soddisfatti da un altro
(Op 820 e 826).
Di qui sorge inesorabilmente quello che è stato precedentemente chiamato
adattamento, ovvero quella volontà di dover comunque obbedire senza conoscere
il significato dell’obbedienza, cosicché «col lavoro dell’individualità inferiore
s’hanno i frutti dell’individualità superiore: questo è il significato rettorico
dell’ottimismo sociale» (PeR 172). L’uomo retorico non può far altro che
sottomettersi alla presunta relazione cogente con i suoi simili, perché così vuole
quella società formatasi sulla debolezza dello spirito dell’umanità:
La piccola volontà ignara di tutto che non sia quell’oscuro senso delle sue
necessità, che per queste nega, ignorandola, ogni altra volontà che ‘per parte sua’
ucciderebbe tutto quanto vive, per continuare a vivere essa stessa, acquista così per
70 Oscar Wilde, Aforismi, Newton&Compton, Roma 1993, p. 31.
66

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mezzo della società forza intelligente e sicura contro ogni altra volontà, acquista
potere su tutto ciò che i secoli passati hanno fatto, che il secolo presente produce
(PeR 152).
I retori si trovano ad agire senza ragione, senza coscienza, con superficialità e
sufficienza, disperati, nascostamente, nel profondo, per l’impossibilità di
possedere la loro vita, tanto che non è difficile sposare le parole dell’Autore,
secondo cui «colui che non vive con persuasione non può non obbedire perché ha
già obbedito. “Proteso alla vita assume ogni forma obbedendo alla paura della
morte chi agisca senza persuasione” 71 » (PeR 66).
Si può dire senza ombra di dubbio che la vita qualunquista della gente è in
realtà una mera sopravvivenza, e Michelstaedter la taccia di quel dualismo
colpevole che non consente di recuperare la dimensione primordiale dell’unità-
totalità. Quest’appunto critico è plausibilmente recuperato dalla cultura filosofica
dell’antica Grecia, avendo ben presente specialmente quel Parmenide che gli fu
tanto caro per la sua devozione alla ricerca dell’essere, alla sfera della perfezione.
La vita effettiva-affettiva è retta da una duplicità non ricomponibile: da un lato
c’è la gretta retorica, dall’altro l’impossibile attività della persuasione; ma
sebbene appaia che la retorica sia ineliminabile, la persuasione come dono e
grazia può liberare l’individuo dalla sua inautenticità, può condurlo per mano
verso la direzione della ricomposta esistenza, in cui teoria e prassi si
congiungono in sublime compenetrazione.
71 Vedere nota PeR 198, in cui Michelstaedter riporta solo la traduzione, senza citare la fonte.
Sospettiamo possa essere un’espressione tratta da Empedocle, Simonide o Platone, autori subito in
precedenza citati nella tesi di laurea.
67

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Questa realizzazione della vita è però paradossale alla massima potenza,
poiché Michelstaedter più e più volte ripete nei suoi testi che al fine di incontrare
la vita (ovvero la vita persuasa, autentica, la vita del possesso di sé) è necessario
terminare la vita, cioè morire: «[…] vedo che la felicità è una vana parola e la
vita una dura necessità per ogni nato» (DDS 93). La vera vita è esplicabile
esclusivamente con la negazione assoluta di ogni volontà: la morte.
È dunque la nascita il caso mortale per cui gli uomini muoiono ad ogni istante in
tutto ciò che vogliono […] e male è certo ad ognuno l’esser nato. Ma se via c’è che
possa in qualche modo liberarci dalla nebbia, è quella che insegna a non chiedere
ciò che non può esser dato (DDS 72-73). 72
La via alla persuasione sembra estendersi senza appello alla rinuncia alla vita 73 ,
perché solo la sua cessazione garantirebbe la concretizzazione effettiva della
persuasione stessa; in questa maniera tutta la filosofia michelstaedteriana sembra
riassumersi in una irrisolvibile rincorsa verso lo stato perfetto, che in verità è
irrealizzabile nella vita biologica concessaci: ecco il motivo per cui si può
72 Se trasposte all’ambito qui studiato, possono essere utili anche le parole di Nietzsche: «L’uomo non é
più un artista, è divenuto opera d’arte: la potenza artistica dell’intera natura, con il massimo appagamento
estatico dell’unità originaria, si rivela qui fra i brividi dell’ebbrezza. Qui s’impasta e si leviga l’argilla più
nobile, il marmo più prezioso, l’uomo, e ai colpi di scalpello del cosmico artista dionisiaco risuona la
voce dei misteri eleusini: ‘Vi prosternate milioni? Senti il creatore, mondo?’» (F. Nietzsche, La nascita
della tragedia, Newton&Compton, Roma 1995, p. 123).
73 Pare più che legittimo citare anche le parole di Schopenhauer: «Mediante codesto fenomeno (il
manifestarsi della malvagità a causa della volontà) e per sua affermazione egli ha preso su di sé tutti
dolori, che da tale volontà promanano; e giustamente li soffre fin quando egli è quella volontà. Da questa
conoscenza muove il veggente poeta Calderón in La vita è sogno: “Poiché il delitto maggiore dell’uomo è
l’esser nato”. Come non dovrebbe essere una colpa, poi che per una eterna legge sopra v’incombe la
morte?» (Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Bari 1991, p. 466).
68

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definire la riflessione di Michelstaedter come un ‘sistema problematico
dell’esistenza’ (s’intenda problematico in senso kantiano) 74 .
È proprio il concetto di problema quello su cui si deve riflettere, poiché
esso pare l’unico aggettivo che possa profondamente qualificare in sintesi la
profondità e la genuinità del sentimento di Michelstaedter. Molti critici
dell’Autore hanno infatti sostenuto che il suo suicidio non è legato alla visione
che struttura la filosofia della persuasione 75 ; ma questo è, a mio avviso, veritiero
solamente in parte. È proprio il bisogno, il desiderio che Michelstaedter aveva di
possedere la sua vita singola ed irripetibile che lo fece indirizzare, passo dopo
passo, verso l’emendamento della vita, della volontà, del desiderio e della
necessità stesse, tant’è vero che il suo gesto estremo si compì subito dopo un
litigio con la madre, nel giorno del compleanno della medesima, e subito dopo la
conclusione delle Appendici Critiche della tesi. Sembra, così, corretto dire che in
questo caso «il suicidio (sia) il modo perfetto di dimostrare la propria
indipendenza» 76 , dove indipendenza si legga come maturata persuasione.
Probabilmente era totalmente maturo per la decisione:
Non chieder più nulla,
sappi goder del tuo stesso dolore,
non adattarti per fuggir la morte;
anzi da te la vita nel deserto
74 I. Kant parla di concetto problematico in riferimento al noumeno, limite della conoscenza umana: esso
è un concetto a cui non si può assegnare un oggetto della nostra intuizione. In definitiva il senso di tale
concetto è che esso è inconoscibile teoreticamente, ed esperibile solo moralmente. L’aggettivo
‘problematico’ si inserisce in un contesto teoretico in cui egli descrive la impossibilità della sua totale
applicazione o totale eliminazione: è indispensabile ed irrisolvibile al medesimo tempo. Vedasi I. Kant,
Critica della ragion pura, Laterza, Bari 1996, p. 228.
75 Vedasi Maddalena Dalla Mura, in Itinerari, op. cit. pp. 28-36.
76 F. Nietzsche, Sammelsurium, Edizioni Quid, Santa Marinella (Rm) 1993, p. 15.
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fatti – che sia per gli altri nuova vita;
non disperare, ma rinuncia ai vani
aspetti della vita, e nel deserto
sarai tranquillo: dalla tua rinuncia
rifulgerà il tuo atto vittorioso,
ΑΡΓΙΑ sarà il tuo posto ΔΙ’ΕΝΕΡΓΗΕΙΑΣ (PO 93).
Queste sono le parole che Michelstaedter fa recitare alla dea Senia (la ‘straniera’)
nella composizione intitolata appunto A Senia, redatta poco meno di un mese
prima del suicidio. L’ideale della persona persuasa che si evince dalla lettura
compare ancora più forte ed eloquente nella parte finale della poesia intitolata
‘Onda per onda batte sullo scoglio’, che recita:
Al mio sole, al mio mar per queste strade
della terra o del mar mi volgo invano,
vana è la pena e vana la speranza,
tutta è la vita arida e deserta,
finché in un punto si raccolga in porto,
di se stessa in un punto faccia fiamma (PO 74).
Si avverte in un certo senso una specie di recupero della dimensione religiosa nel
suo più profondo significato; infatti la potenza dello spessore religioso viene
raggiunta nel capolavoro poetico dedicato ai due Figli del mare Itti e Senia, dove
Itti è appunto rappresentazione del Pesce simbolo del Cristo e del suo venerabile
insegnamento (dall’Autore il Cristo era reputato uno dei più grandi persuasi della
storia umanità 77 , ed il suo insegnamento era realizzabile non seguendolo, ma
accostandosi alla sua persona e alla sua condotta. Non è rilevante ascoltare e
copiare il maestro, ma ascoltare e rivivere il maestro medesimo: «Cristo ha
77 Dice inoltre l’Autore: «Cristo è certo un ottimista, poiché visse finché ebbe fede, ma di fronte alla
adattabilità giudaica, non solo, ma di fronte alla serenità mondana della vita classica, Cristo è pessimista»
(Op 825).
70

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salvato se stesso poiché dalla sua vita mortale ha saputo creare il dio: l’individuo;
ma nessuno è salvato da lui che non segua la sua vita: ma seguire non è imitare,
mettersi col proprio qualunque valore nei modi nelle parole della via della
persuasione, colla speranza d’aver in quella la verità» PeR 104), il simbolo
rinnovato della possibilità di poter salvare se stessi, mentre Senia osserva la vita
e sostiene di voler morire:
Senia, il porto è la furia del mare,
è la furia nel nembo più forte,
quando libera ride la morte
a chi libero la sfidò (Po 84).
La morte libera da ogni presunzione, da ogni patologia filopsichica, da ogni
necessità: ma essa resta sempre e comunque cessazione della vita.
Uscire dal mondo senza conoscere la morte così come vivesti senza conoscere la
vita – ed è giusto. – pronuncia Rico, uno dei due protagonisti – Poiché la morte è
detta solo in riguardo alla vita. – La vita è il bisogno – la morte la negazione del
bisogno. Chi muore come tu dici vuole ancora ingannar il destino con un calcolo –
ma inganna se stesso. – Poiché la morte di fronte alla domanda non risponde con
una realtà libera dal bisogno – ma con l’incoscienza. – La morte appare
desiderabile a chi vive, soltanto perché gli appare come coscienza senza bisogno
(DDS 74).
Per questo, probabilmente, molti critici hanno voluto intendere la sua morte come
eccesso della ricerca della persuasione, perché con essa nessuna essenza della
vita è rinvenibile, e dunque nessuna esistenza persuasa. In effetti Michelstaedter
propone una filosofia assolutamente irrealizzabile, autodistruttiva nella ricerca
della completezza, che lo porta a formulare un’espressione tanto drastica quanto
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tragica (come ripercussione radicale del pensiero sulla condotta di vita vissuta):
«Nella vita c’è la necessità della morte» (Op 819).
Si può, inoltre, giungere alla conclusione che «il suo pensiero fondamentale
indica la duplicità incomponibile» 78 fra la rettorica e l’attività impossibile della
persuasione. Il pensiero dell’Autore tende ad esprimere il concetto che il picco
massimo della vita vissuta si riduca ad un punto:
poiché il mondo non è che il mio mondo e se lo posseggo ho me stesso. “Reagisci
al bisogno d’affermare l’individualità illusoria, abbi l’onestà di negare la tua stessa
violenza, il coraggio di vivere tutto il dolore della tua insufficienza in ogni punto –
per giungere ad affermare la persona che ha in sé la ragione, per comunicare il
valore individuale : ed esser in uno persuaso tu e il mondo” 79 (PeR 85).
Lo ‘slancio dell’essere’ verso la sua autenticità è assoluto, e la sensibilità che lo
accompagna è quasi clinicamente insostenibile: non si può reggere, sembra, la
violenza della potenza verso la dimensione dell’unità assoluta, ma la persuasione
è la sola strada che possa salvarci dalla morte nella vita, dalla retorica. Cade qui a
pennello la riflessione sulla individualità come identità, che viene espressa
dall’Autore nel modo seguente: «Dunque identità equivale a ‘unità’ e presuppone
la liberazione da ogni determinazione: unica – libera – essenza dello spirito
assoluto» (Op 819).
Pare che Michelstaedter segua quasi una legge fisica legata all’impeto ed
al culmine della potenza dell’energia: non è un caso, credo, che egli affermi che
si deve passare dall’attività (energia) all’inerzia (argia) se si rincorre la
78 G. Brianese, L’arco e il destino, cit., p. 17.
79 Michelstaedter in questo brano cita le parole dell’Oracolo di Delfo (vedasi PeR 200).
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persuasione. Si potrebbe continuare, citando ancora Weininger, osservando che
movimento e staticità si armonizzano in uno stato unitario: «spiritismo e
materialismo sono una cosa sola, e due diverse fasi attraversate successivamente
dalla stessa persona. Ciò che è spirituale perderebbe tutta la sua dignità se si
materializzasse» 80 , ove per spiritismo 81 si può intendere la manifestazione della
potenza dell’essere (la staticità perfetta e compiuta), e per materialismo la sua
fenomenologia (il movimento, l’azione transitoria).
La spinta potentissima della vita che improvvisamente si risveglia,
dell’energia repentina dell’essere che rivuole la sua primordiale unità perfetta
sfocia in un turbine dalla forza dirompente, tanto che sopportarla è praticamente
impossibile: la morte coglie colui che ha raggiunto la cuspide dell’attività, non
colui che si spegne poco a poco: «La massima ενεργεια crea l’αργια» (Op 786).
Come precedentemente ricordato, la via alla persuasione non è in verità un
processo, una iniziazione misterica, una graduale educazione da impartire al
neofita, ma è una specie di folgorazione, una grazia inattesa ma intuita in
sottofondo.
Questo è proprio il motivo per cui il compimento massimo della vita
persuasa sta proprio nell’annullamento della vita: perché essa non è attuabile
essenzialmente nella vita dei fatti e degli eventi. Questo atteggiamento filosofico
ed esistenzialistico è straordinariamente paradossale, poiché è assolutamente
irrisolvibile: il vivo muore, mentre colui che vive nella vana ricerca del
80 Otto Weininger, Delle cose ultime, cit., p. 107.
81 «Un posto speciale è occupato, infine, dalla teosofia e dallo spiritismo» (A. Cavaglion , in Dialoghi
intorno a Michelstaedter, cit., p. 77).
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soddisfacimento è ben morto, tanto che lo slancio garantito dal dono divino della
persuasione obbliga il persuaso allo spegnimento immediato della realtà.
La potenza inarrestabile dell’essere che risveglia all’improvviso la
coscienza conduce il persuaso al parossismo della pienezza della vita, tanto che
non può tollerarne la foga investitrice: la morte è la conseguente ed unica
soluzione: «La volontà d’un possesso vero è insieme volontà di libertà:
l’ερο? platonico; e la relazione di possesso sarebbe la φιλια di due anime nude
nell’assoluto» (Op 819).
Non può essere ammesso in alcun modo, nel pensiero michelstaedteriano,
il concetto di affievolimento della vita persuasa: questo tipo di vita è sempre
ontologicamente al massimo livello, altrimenti non sarebbe qualificata come
persuasa. La vita che si spegne passo dopo passo, giorno dopo giorno è soltanto
quella dell’uomo prigioniero della retorica, ingabbiato in una trama falsificatrice,
prodotta dalla realtà dualistica e convenzionale, inficiata dal coma profondo della
coscienza che tenta d’ignorare la sua provenienza e la sua destinazione di ritorno.
74

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X
SUL DUALISMO INSANABILE DELLA VITA
Così Michelstaedter fa parlare l’uomo (persuaso) nel Dialogo fra la folla,
l’uomo e il singolo: «Diritto ha colui che vive; quello che afferma il diritto di
vivere – non vive ancora e non ha alcun diritto» (DDS 127). L’uomo sociale e
scientifico reputa di possedere le cose in generale, si sente potente su di esse, ma
così non può essere. Ricordando che il possesso primario è il possesso di se
stessi, l’uomo retorico è illuso e prepotente perché sa che non si possiede, ma lo
pretende: così le cose che lui pensa di possedere in realtà possiedono lui
medesimo.
Il rettorico è in balia di fatti, cose ed eventi, ed è ovviamente preda di tutti
gli altri retori, che singolarmente si comportano come lui: da qui sorge la
vergogna della correlazione delle coscienze che oblia tutto l’essere della
singolarità dell’individuo:
Dunque le singole passioni soddisfatte non danno mai un possesso: l’uomo che
sfoga le passioni si determina in uno o nell’altro modo, entra in una ‘relazione’
verso una cosa, non l’‘ha’ […] Ogni cosa è dominatrice e schiava, possiede ed è
posseduta, nel tempo stesso. L’universale ‘correlazione’ è fatta dalle vicendevoli
negazioni delle individualità determinate e del loro vicendevole possesso (Op 819).
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Lo stato sociale di coscienze correlate determina l’aspetto assolutamente
dualistico della realtà della vita retorica: l’uomo viene così scisso in se medesimo
ed altro-da-sé, non è capace di raccogliere in sé la sua vita:
Possesso è identità: tanto posso possedere quanto vengo posseduto: cioè: il
possesso non è in me né nel correlativo, ma nel principio che determina la nostra
vicendevole relazione […] Ma l’uomo riposa nella ‘coscienza’ dell’‘io’ e gode
nella relazione presente la potenzialità delle relazioni future (Op 816-817).
Questo gretto destino colpisce senza scampo tutti i membri della farraginosa
società, in cui la correlazione delle coscienze si rivela null’altro che un innato
accordo convenuto, al fine di poter mantenere un certo ordinamento strutturale.
La sua essenziale incapacità di fornire al singolo la propria autenticità fa della
comunità rettorica uno scoglio ben arduo da superare.
Sembra appropriato aggiungere che se «comprendere totalmente un uomo
vuol dire superarlo» 82 , allora Michelstaedter ha colto perfettamente nel segno: la
sua ricerca filosofico-sociale è complessivamente volta alla disassuefazione dalla
banalità e dall’impersonalità, dalla falsità e dall’illusione. Ma il dualismo della
vita pende indiscutibilmente dalla parte della rettorica, poiché essa rimane
inaggirabile, insuperabile se non nel momento folgorante che sta sul limite fra
vita e morte: il retore (uomo comune e qualunque) è incapace di arrestare il
flusso del divenire dei fenomeni, poiché intriso di abitudine. Il retore trascorre il
suo tempo spazializzato ad inseguire gli eventi, tentando di crearli e disporli a
proprio piacere, senza rendersi conto che tutto il suo operato è guidato
82 Otto Weininger, Delle cose ultime, cit., p. 107.
76

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dall’illusione, senza accorgersi che non potrà essere salvato dall’angoscia che
patisce. Soltanto il contatto con la totalità dell’essere, plausibilmente
riscontrabile nel punto critico del momento della morte, può trasformare la
rettorica in persuasione, agendo istantaneamente. Soltanto in quell’attimo il
retore riconosce la potenza di quella persuasione che nella vita abituale ha
sempre ignorato.
Non troviamo, comunque, in Michelstaedter, un’analisi esistenziale
analoga a quella esaminata dallo scrittore francese Albert Camus, perché la morte
per l’Autore ha quasi la caratteristica dell’imprimatur. Per Camus, altrimenti, la
vita era il riconoscimento del fatto che siamo scaraventati nell’esistenza
coscienziale e cosciente da un destino che vuole punirci per una qualche colpa:
noi stiamo nel ‘qui ed ora’, e non possiamo sottrarci alla nostra vanagloriosa vita
perché non dobbiamo essere impotenti 83 . È scopo dell’uomo, secondo Camus,
riconoscere la vanità e la vacuità dei rimedi propinati al fine di trovare la
salvezza, la presunzione della giustificazione della propria condotta: non c’è
salvezza, ma c’è un fortissimo sentimento dell’assurdo che governa la vita di chi
si accorge della vita stessa. Il ‘persuaso’ camusiano è l’uomo che prende
coscienza del suo cammino in una specie di inferno reale, tangibile, da cui
comunque non può scappare, perché deve lottare (anche se sa di non avere
possibilità di vittoria): la vita deve continuare.
83 «Al meriggio del pensiero, l’uomo in rivolta rifiuta così la divinità per condividere le lotte e la sorte
comune. Sceglieremo Itaca, la terra fedele, il pensiero audace e frugale, l’azione lucida, la generosità
dell’uomo che sa. Nella luce, il mondo resta il nostro primo e ultimo amore» (A. Camus, L’uomo in
rivolta, Bompiani, Milano 1998, p. 334. All’interno della stessa opera vedasi inoltre il capitolo “Il rifiuto
della salvezza”, pp. 65-73).
77

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Michelstaedter, abbiamo sin qui visto, la pensava in maniera radicalmente
differente, poiché il suo persuaso si accorge per una specie di folgorazione
(grazie alla concessione inattesa del dono) del risveglio della coscienza, e non
può sopportare la potenza assoluta e dirompente dell’essere per molto tempo: il
momento della totale immersione nella completezza dell’essere, nell’unità
estatica, nell’autenticità del sé coincide senza rimedio con il termine della vita
stessa: «L’uomo è il nucleo individuale più vasto, in lui la materia (tutto il tempo
e tutto lo spazio) vede se stessa […] Il dialogo dell’anima con se stessa ‘enuclea’
tutto quanto si può conoscere» (Op 808).
Pare quasi che Michelstaedter voglia in definitiva comunicarci che il
segreto della vita, il raggiungimento dell’inarrivabile profondità dell’essere, sta
in un punto adimensionale, un momento ineffabile. Per tale motivo, credo che si
possa intendere questo istante divino e mistico come quel punto che nella fisica
matematica raccoglie e fonde ogni dimensione: il punto di singolarità 84 , dove le
tre dimensioni, le forze conosciute e la struttura informata sullo spazio-tempo
non hanno più valore corrente. A tale proposito, critici come Giorgio Brianese
hanno voluto considerare l’interpretazione persuasa della vita alla stregua di un
ribaltamento del suo lato rettorico, cosicché per Brianese, ad esempio, la rettorica
è una fortissima negazione della vita a causa di una violenza verso di essa: tale
concetto si è ben visto essere pienamente considerato da Michelstaedter.
84 In matematica si dice singolare un punto, una funzione o un altro ente matematico che abbia un
comportamento genericamente autonomo il termine viene anche usato per indicare un comportamento
matematico anomalo, ma pur sempre riconducibile ad una funzione.
78

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Ma le discordanze iniziano quando l’interpretazione di Brianese si spinge ad
asserire che anche la persuasione è una forma di negazione della vita dovuta alla
violenza:
anche la persuasione è una forma di dominio; anzi, la forma di dominio
massimamente efficace che, mettendo in gioco la totalità stessa, è in grado di non
parlare più di violenza solo nella misura in cui ha già violentato la totalità del
violentabile, non lasciando sussistere più nulla oltre la propria affermazione
totalizzante. Il persuaso non partecipa più alla lotta fra le determinazioni solo
perché è rimasto l’unico a potersi affermare, ambizione soddisfatta di assoluta
potenza 85 .
Brianese sembra dunque essere estremamente convinto del fatto che un vero
superamento della illusione e della falsità della vita inautentica non sia mai
effettivamente realizzabile.
Reputo che questo sia vero solamente in parte, mentre sembra più
evidente, al contrario, che dalle parole dell’Autore si possa evincere una
fortissima convinzione della realizzazione del momento della persuasione. Va
rilevato, però, che tale momento è perseguibile esclusivamente superando la
propria coscienza della società e soltanto nell’attimo che separa la vita dalla
morte. Non è caso, pertanto, che per Michelstaedter la vita rettorica sia quella
della volontà e della continuazione obbligata, mentre quella persuasa sia il
momento della ‘fiamma’ che deve ardere tutta se stessa in un istante 86 . La
possibilità di cogliere la vera essenza della vita è un prezioso dono, e per goderlo
85 G. Brianese, L’arco e il destino, cit., p. 37.
86 «È il coraggio di vivere senza nulla sperare, senza nulla attendersi […] Così soltanto l’oscurità si fende
in una scia luminosa» [Mario Gabriele Giordano, “Il pensiero e l’arte di Michelstaedter”, in Riscontri n°4
(rivista trimestrale di cultura ed attualità), Sabatia, Avellino 1979, p. 19].
79

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l’uomo deve rinunciare alla sua esistenza, «venire a ferri corti colla propria vita
(filopsichia)» (DDS 85).
Comunque, si tenga sempre ben presente il fatto che «l’Autore […]
respinge l’idea del suicidio come rimedio estremo per questa tragica condizione
dell’uomo» 87 , ed il togliersi la vita viene considerato un gesto affine alla
rettorica, tanto più che Michelstaedter ribadisce sovente, come detto, che la
persuasione è la vera autentica vita, e per meritarsi questa qualifica la vita deve
incontrare la morte, entrando in connubio con essa:
Poiché questo ‘io’ divino è il nostro ‘io’ vivente nella sua esistenza libera e
assoluta, verso il quale tendiamo e di fronte al quale sentiamo la nullità della nostra
vita relativa e che sappiamo di non poter raggiungere che nel momento che
rinunciamo al nostro ‘io’ nell’annullamento della nostra vita (Op 829).
Esclusivamente in questo senso si può affermare con Brianese che la persuasione sia
una negazione della vita, ma non si può asserire che persuasione e rettorica neghino
entrambe la pulsione vitale allo stesso grado sebbene da due prospettive diametralmente
opposte. Questo perché non c’è alcun diametro separatore: la retorica è un modus
vivendi che inficia di morte l’uomo e la sua individualità, mentre la persuasione è
l’attimo fuggente della grazia, l’istante fulmineo dell’assolutezza della conoscenza (che
si identifica con la morte): «Non è più innanzi a noi una determinata forma ma un fluire
d’atomi» (DDS 50). Dunque, mi sembra evidente che si possa davvero essere persuasi,
ma solamente nello spazio limitato di un istante: l’istante che precede appena la morte.
87 Mario G. Giordano, ivi, pp. 18-20.
80

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XI
SULL’INEVITABILE DESTINO DELL’UOMO
L’uomo che vive per il futuro perde se stesso: bisogna lasciare le lusinghe
del futuro per dedicarsi al tempo della persuasione, il presente. Il futuro è la
morte, e lo si avverte nell’ultimo presente della vita: la morte, meta sicura della
sorte, ci perseguita ben prima del suo effetto cosicché l’uomo si trova, esistente,
a temere sempre la morte. Non è dunque il passato (con il suo apparato di
tradizioni) a rendere meccanico l’agire umano, ma il futuro, che a seconda delle
società e dei periodi storici calza vesti diverse guidate dal medesimo sentimento:
il timore ineludibile della morte.
È molto chiaro che non si può trascinarsi in questa vita retorica secondo i
‘dettami’ della persuasione:
ma ognuno deve trovarsi la via da sé, – e da sé batterla passo per passo – ché non ci
sono né carte né mezzi di trasporto; chi non sente di doverla, di saperla, di volerla
fare, non è buono a farla e in vano spera l’aiuto altrui, invano altri vorrebbe aiutarlo
– la può batter colui che già è sano – e la salute è un dono di Dio […] Allora
convien guardar in faccia la morte e sopportar con gli occhi aperti l’oscurità e
scender nell’abisso della propria insufficienza: venire a ferri corti con la propria
vita (DDS 94 e 84).
L’esistenza del persuaso, nella sua dimensione atemporale di ultimo presente,
non può definirsi come un continuo perpetuarsi nell’ultimo presente, poiché
81

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assumerebbe inequivocabilmente i connotati della continuazione della vita
retorica. La persuasione non lascia scampo tanto quanto la retorica, e su questo
aveva strutturalmente visto bene Brianese, ma la retorica si muove nello spazio
della continuazione del tempo, mentre il soggetto della persuasione «si contrae in
un punto inesteso e resta la realtà ad esso coordinata» 88 : esso non può che
consumare in un istante tutto l’olio della lampada.
La vita sarebbe una, immobile, informe se potesse consistere in un punto. La
necessità della fuga nel tempo implica la necessità della dilatazione nello spazio: la
perpetua mutazione: onde l’infinita varietà delle cose (PeR 43).
L’estasi momentanea della persuasione è la totalità del mondo e del tempo: nella
dimensione della persuasione il momento è l’intera vita. Non ci sono, pertanto, in
questo stato, qualitative differenziazioni delle esistenze e degli individui: il
singolo supera totalmente la sua dialettica di identità-alterità e si fonde nella
perfezione dell’essere, nella suprema soddisfazione della coscienza,
nell’immanenza dell’autenticità della vita ontologica. Prendendo a prestito da
Goethe alcune parole, si può tranquillamente asserire che il persuaso
michelstaedteriano ha il coraggio di dire «ho tante cose in me e ciò che sento per
lei divora tutto; ho tante cose e senza di lei non ho più nulla» 89 , dove questa ‘lei’
non può che essere la persuasione.
Nella lettura delle opere di Michelstaedter si delinea sempre più il quadro
della vita persuasa, ma il concetto intrinseco di persuasione resta definitivamente
88 L. Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus, Einaudi, Torino 1998, p.90.
89 J. W. Goethe, I dolori del giovane Werther, Einaudi Bilingue, Torino 1998, 193.
82

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ineffabile: «La volontà dell’assoluto si riduce alla negazione di me stesso,
all’αργια». Questa radicale ed insolvibile difficoltà di offrire una definizione
sistematica e scientifica della persuasione è stata una intuizione geniale e
rispettosa di Michelstaedter allo scopo di conferire la massima coerenza alla sua
filosofia.
Si tenga presente che, sul piano generale, l’oggettività del valore di
un’entità è frutto dell’atteggiamento rettorico del falso possedimento, della
inautenticità, e quindi l’espressione che rappresenta quel dato concetto
scientifico-sociale è speculare della sua rettoricità. La persuasione, viceversa, è
inesprimibile proprio perché è inesprimibile il sentimento potentissimo che
alberga nell’individuo persuaso: la verità che si porta dentro il messaggio della
persuasione scatena quello che si può descrivere come lo slancio dell’essere
dell’esserci 90 verso la sua autenticità. «Ma esser qui non è ‘vero’ essere: ma è
‘voler essere’ che per l’illusione soddisfatta ha l’apparenza dell’essere» (Op
787). Ed ancora:
Mi scroscia il tuono che
m’assorda… io vivo
e famelico aspetto ancor la vita.
Altri lampi, altri tuoni, ed il
mistero
in benefica pioggia si dissolve
(Po 68).
90 Il riferimento va indubbiamente alla filosofia di Martin Heidegger: «C’è verità solo perché e fin che
l’Esserci è» (M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 335).
83

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Michelstaedter aveva pochi amici, a cui amava ripetere che lui era comunque
diverso 91 . Detto ciò, credo non si possa in alcun modo definire positivamente la
persuasione: è molto più facile e verosimile affermare ciò che essa non è,
piuttosto che tentare di esplicare cosa essa sia essenzialmente. Inoltre lo stato del
persuaso non può certo accomunarsi al rifiuto della compassione inteso in senso
schopenhaueriano. Per quest’ultimo, infatti, la compassione è un sentimento
simpatetico ambivalente, perché si dimostra inadeguato al fine di una vita privata
del dolore (la compassione, infatti, fa partecipe l’uomo del dolore altrui), ma è
comunque una tappa spirituale/filosofica sulla via che conduce al misticismo,
all’ascesi (perché inizia a spogliare l’individuo della sua corazza caratteriale,
logorando il principium individuationis). 92
Questo è impossibile in Michelstaedter: la persuasione è annullamento di
ogni volontà, di ogni bisogno, di ogni desiderio, al fine del raggiungimento
dell’unità estatica oltre lo spazio ed il tempo della vita, tanto che possiamo
sostenere che
91 In una lettera alla madre Emma, Michelstaedter scrive: «Mi sento ingiusto in questa sosta forzata, mi è
amaro ogni boccone che mangio […] Tu guardi gli altri giovani che sono al caffè con le loro famiglie e
pensi a me con tristezza: essi hanno vuota la vita, e l’avranno sempre vuota – e la riempiono delle
preoccupazioni per la carriera data agli altri, e la riempiono di vani piaceri che lasciano loro la bocca
amara; stirano la loro noia attraverso tutti gli anni e tutti i giorni della loro vita, attraverso i loro lavori
oscuri ed insensati, i loro piaceri insipidi, le loro relazioni familiari, o di amicizia, o di patria, ottuse e
vuote» (Op 619).
92 Per meglio chiarire l’argomento è necessario riportare le parole di Schopenhauer: «Ogni amore (a?ap?,
caritas) è compassione […] Il puro amore è, per sua natura, compassione, sia pur grande o piccolo (è tra
questi ogni desiderio inappagato) il dolore ch’esso lenisce […] Egoismo è l’e???; compassione è l’a?ap?.
I due si trovano spesso frammisti. Perfino la vera amicizia è sempre mescolanza di egoismo e
compassione […] Solo il guardar di là da questo (oltre il principium individuationis) sopprime la
distinzione tra l’individuo nostro e gli altri, e rende possibile e spiega la perfetta bontà dell’animo, fino al
più disinteressato amore e al più generoso sacrificio di sé» (Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà
e rappresentazione, cit., pp.490-495).
84

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per Michelstaedter la persuasione è un atto, non un processo; essa dunque non è un
itinerario dell’emancipazione quale si configura in Schopenhauer l’ascesi, fino allo
stato d’illuminazione 93 .
Non c’è diretto riscontro, quindi, della nolontà/volontà di Arthur Schopenhauer,
se non nel principio più generale della eliminazione assoluta del dolore umano:
93 G. Carchia, Retorica del sublime, cit., p. 22.
È il piacere un dio pudico
fugge da chi l’invocò;
ai piaceri egli è nemico,
fugge da chi lo cercò.
Egli ama quei che non lo
invoca,
egli ama quei che non lo sa;
e dona la sua luce fioca
a chi per altra luce va (Po 77).
85

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XII
BREVE RAFFRONTO FRA PERSUASIONE MICHELSTAEDTERIANA,
ATARASSIA EPICUREA E APATIA STOICA.
Il superamento della situazione dolorosa e drammatica in cui versa la vita
umana è stato oggetto di molte correnti filosofiche, fra le quali si annoverano,
come più note quella epicurea e quella stoica.
Epicuro parlava dell’atarassia come supremo traguardo da raggiungere,
senza che l’uomo debba troppo preoccuparsi della morte e di ciò che la segue, né
delle divinità che conducono la loro esistenza beata nel mondo celeste, distaccato
per intero da quello umano.
La parola atarassia (in greco αταραξια) significa propriamente
imperturbabilità, cioè quello stato di coscienza in cui non è possibile che si venga
frastornati, grazie al grado di spiritualità e di conoscenza raggiunto, di modo che
per l’epicureo questa condizione si raggiunga con la sopportazione del dolore e la
ricerca del piacere. Il saggio epicureo non ha dunque un sistema troppo
complesso di ricerca del bene: l’atarassia è un piacere catastematico dello spirito,
che si accompagna all’aponia (απονια, il piacere catastematico del corpo). Il
‘Bene’ dell’epicureo è sempre identificato con il piacere, e l’etica epicurea, di
derivazione cirenaica, è imperniata sull’eudemonismo. La felicità consiste
indubbiamente nel piacere, e, a differenza dei cirenaici, Epicuro sostiene che i
86

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piaceri e i dolori psichici siano superiori a quelli di natura fisica. Il piacere risulta
in tale maniera essere il criterio della scelta e dell’avversione, e la felicità
«consiste soltanto nel piacere stabile o negativo, nel non soffrire e nel non
agitarsi, ed è quindi definita come atarassia (assenza di turbamento) e aponia
(assenza di dolore)» 94 .
S’inserisce, poi, in maniera perentoria il tema della morte, che secondo
Epicuro è un male psicologico che affligge, tramite la paura e l’angoscia, la vita
umana. La risoluzione del problema è semplice: essa è un male solamente per chi
nutre false opinioni su di essa, e non ne abbia una conoscenza approfondita. Dato
che l’uomo è un ‘composto anima’ in un ‘composto corpo’, la morte risulta
essere solo la dissoluzione dei due composti, in cui gli atomi (elementi
indivisibili componenti ogni entità) si dileguano per ogni dove; «la coscienza e
la sensibilità cessano totalmente, e così dell’uomo non restano che macerie che si
disperdono, cioè nulla» 95 . La morte, quindi non è paurosa di per sé, perché non
appena essa sopraggiunga noi non abbiamo più sentore alcuno che possa turbarci:
non sentiremo più nulla, non ci sarà nessun ‘dopo’.
Nello stoicismo, invece, la ricerca della vita beata coincide con la ricerca
della vita del saggio, del sapiente, che ha evoluto ad un livello quasi divino la
propria mente, guidata dal supremo Logos. Il perseguimento della vita perfetta
secondo saggezza e sapienza, perseguibile ma non conseguibile del tutto in
94
Cito da Nicola Abbagnano, Storia della filosofia – La filosofia Antica, vol. 1°, Tea, Milano 1995, p.
227.
95
Cito da Giovanni Reale/Dario Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi vol. 1°, Editrice La
Scuola, Brescia, 1983, p. 184 .
87

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questa vita terrena, si può praticare, secondo la dottrina stoica, solamente
emendando il proprio spirito da tutte le passioni e da ogni prospettiva soggettiva,
tendendo al conseguimento dell’apatia. Questo termine (απατηεια in greco)
significa appunto ‘privazione di passioni’, ed è solo grazie a questo stato che si
potrà approdare alla serenità dell’anima. La virtù è veramente l’unico bene per
gli stoici, e, come per gli epicurei, lo scopo è il raggiungimento della felicità,
conducendo una vita secondo natura. Di conseguenza, il male peggiore è il vizio,
opposto di quella virtù che costituisce la realizzazione nell’uomo dell’ordine
razionale del mondo. Tutte quelle cose che invece sono relative al corpo (sia che
gli siano benefiche, sia che possano nuocergli) sono considerate ‘indifferenti’
(adiáphora), o per meglio dire ‘indifferenti dalla prospettiva morale’.
Fa, poi, parte integrante dell’etica stoica la negazione totale del valore
dell’emozione (pathos). Essa infatti non ha lacuna funzione nell’economia
generale del cosmo, perché le emozioni sono reputate «vere e proprie malattie
che affettano lo stolto, ma da cui il sapiente è immune. La condizione del
sapiente è quindi l’indifferenza ad ogni emozione, l’apatia» 96 . Il concetto di
apatia si contrappone a quello dell’atarassia epicurea perché secondo la Stoà era
importantissimo che l’uomo fosse attivo ed agisse nella ricerca della conoscenza,
mentre la dottrina del ‘giardino’ professava la rinuncia all’agire nel mondo.
L’apatia stoica serviva da metabolizzante per le passioni dell’uomo, e avrebbe
liberato i singoli individui dall’eccesso disordinato di sentimenti.
96 N. Abbagnano, Storia della filosofia, cit., p. 218.
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Nella scuola scettica, invece, questa atarassia è una conseguenza della
presa di posizione secondo la sospensione del giudizio (epoché). Visto e
considerato, affermano gli scettici, che non è possibile avere una reale e profonda
conoscenza di tutto ciò che ci circonda e presumiamo ci riguardi, allora la
situazione migliore per l’uomo è l’atarassia come sospensione completa del
proprio giudizio in senso generale. La tranquillità di spirito, in cui consiste la
felicità, si raggiunge secondo gli scettici, non già affiliandosi ad una qualche
scuola di pensiero, ma rifiutando qualsiasi dottrina. L’indagine (skepsis) è il solo
ed unico mezzo per giungere a questo rifiuto, e quindi all’atarassia.
Ritornando a Michelstaedter, si può dire che la sua persuasione non sia
paragonabile a nessuna delle tre suddette opzioni della filosofia dell’antica
Grecia, ma che attinga ecletticamente qualche elemento da ciascuna di esse. La
sua tesi di laurea prende avvio dallo studio della filosofia platonica e aristotelica.
Per il concetto di persuasione egli attinge dal pensiero di Epicuro l’idea che gli
dei non abbiano alcun tipo di rapporto con l’uomo e l’umanità. Infatti, nella
filosofia dell’Autore non si trovano tracce di implicazione religiosa di carattere
dottrinale o fideistico; anzi, una pesante accusa che egli rivolge all’uomo
rettorico è quella di fare troppo affidamento sulla voce rasserenante del proprio
dio. Quest’ultimo funge da voce della coscienza, che giustifica la maggior parte
delle azioni compiute in nome di una qualche illusoria ‘universale benevolenza’:
credo si possa dire che il dio rettorico è una neoplasia dello spirito dell’uomo.
Massima inautenticità. La voce della coscienza della società retorica è obliata
89

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cantilena della religione: l’uomo retorico si affida alla competenza di un dio
qualunque che al posto suo gli risolva il problema della vita e della morte:
‘Dio m’aiuti’ – perché io non ho il coraggio d’aiutarmi da me (afferma il retore)
[…] I primi cristiani – prosegue Michelstaedter – facevano il segno del pesce e si
credevano salvi; avessero fatto più pesci e sarebbero stati salvi davvero (PeR 103).
Questo è lo squallore dell’aspetto religioso della società che Michelstaedter
segnala nei suoi scritti; egli rimase sempre estraneo a qualunque osservanza
religiosa in termini pratici: mentre la famiglia era molto osservante, egli sentiva il
vigore dell’essere autentico indicargli la via verso la salute e il disgusto per
attività para-carnevalesche. La persuasione ricercata, però, non è mera ricerca del
piacere e fuga dal dolore: «il piacere è il fiore del dolore, il dolce è il fiore
dell’acerbo» (PeR 105).
Chi lo cerca non lo trova,
chi lo trova non lo sa;
il suo nome mette a prova
questa fiacca umanità. –
È il piacere l’Iddio pudico
Ch’ama quello che non lo sa:
se lo cerchi se’ già mendico,
t’ha già vinto l’oscurità (Po 77).
Si è visto che il dolore è in fondo il motore che alimenta la coscienza dell’uomo
verso il risveglio, verso il riappropriamento di se stessi, e dunque il dolore è
paradossalmente salutare: solo che la salute non è fatta per il futuro:
90

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Niente da aspettare
niente da temere
niente da chiedere – e tutto dare
non andare
ma permanere. –
Non c’è premio – non c’è posa.
La vita è tutta una dura cosa
Ma la salute è di quello che in mezzo a queste (le cose) consiste – che il proprio
bisogno la propria fame lascia fluire attraverso a sé e consiste – che se mille
braccia l’afferrino e con sé lo vogliano trascinare, consiste e per la propria
fermezza rende gli altri fermi. – Non ha niente da difendere dagli altri e niente da
chieder loro poiché per lui non c’è futuro, che nulla spetta (DDS 85).
Infatti, chi davvero raggiunga lo stato della salute, della persuasione, ed incontri
la vita, dovrà necessariamente eliminare le necessità e la volontà: deve morire.
Quindi, in questo caso, l’atarassia potrà essere soltanto istantanea: è nel momento
della salute che, prima di morire, il persuaso è perfettamente imperturbabile.
Per quanto riguarda il rapporto con la posizione stoica, credo si possa
affermare che la persuasione possa in qualche modo paragonarsi ad uno stato di
apatia, scaturente però da una situazione diametralmente contraria a quella della
Stoà:
Poiché in quanto virtus – dice Diogene nel ‘Dialogo fra Diogene e Napoleone’ –
essa (la virtù stessa) è disposizione ad una cosa (possibilità), in quanto tua virtus è
bisogno di questa cosa anche in rapporto alle virtutes negative degli stoici che sono
negative in riguardo ai bisogni ma positive riguardo alla vita, cioè esser felici senza
quei bisogni: gli stoici avevano d’accorgersi che esistevano anche senza quei
bisogni, essi esistevano e credevano d’essere solo in quanto negavano l’una cosa e
l’altra e affermavano così in rapporto a queste cose della vita la loro individualità.
Dunque gli Stoici hanno possibilità di vivere senza bisogni ma bisogno di viver
come tali (DDS 107).
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Infatti, il persuaso è colui che riappropriatosi di se stesso non teme più nulla,
nemmeno la morte, perché la potenza assoluta dell’essere che fluisce in lui
annulla ogni volontà ed ogni sistematico desiderio di necessità: il persuaso è
completamente e perfettamente distaccato da qualunque relazione, da qualunque
elemento effettivo ed affettivo della vita.
Questa condizione assomiglia molto, a mio avviso, alla posizione del
saggio stoico, sebbene, ribadisco, il metodo da seguire sia incompatibile al
massimo grado, perché la persuasione scaturisce da una sorta di dono divino,
mentre l’apatia è il risultato di un grande lavoro di educazione di se stessi: la
prima la si possiede immediatamente, la seconda va costruita passo dopo passo.
Ecco il motivo per cui, secondo Michelstaedter, non ci si deve porre un obiettivo,
una base solida da cui partire per il suo raggiungimento: perché questo è il
percorso illusorio della rettorica.
Si è detto che la persuasione è un dono, una grazia, e non è il risultato di
una preparazione spirituale a sfondo ascetico o ritualistico. Non c’è spazio
dunque, come nel pensiero stoico, per il programmatico iter evolutivo secondo
l’apprendimento e l’azione nel mondo: Michelstaedter ripete più volte che
l’ultima necessità è quella di non avere necessità, quella di passare dalla attività
all’inerzia. In quest’ambito è possibile ravvisare, secondo il mio punto di vista,
una minima presenza di stoicismo nel pensiero dell’Autore, seppur solo dal punto
di vista formale: nell’istante dell’ultimo presente la persuasione assomiglia molto
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all’apatia, mentre nel programma etico di ricerca della beatitudine la differenza
fra Michelstaedter e la Stoà è abissale.
Fa bene a notare Carchia che lo stoicismo, alla fine dei conti, è più che
altro una sorta di etica della sensibilità prospettata da una visuale negativa del
valore: «dal punto di vista morale (essa è) soprattutto una sorta di paradossale
‘etica della sensibilità’, il cui proposito è la realizzazione, per una via negativa
assai più che non attraverso la pura potenza del bene, di una vita conciliata, in cui
le istanze dell’individuo siano capaci di scegliere e trovare giusti punti
d’inserzione con l’Intero, sia naturale che storico» 97 .
L’ossessionante ricerca della oggettività è inconciliabile con il sentimento
dell’individualità e dell’acosmicità michelstaedteriani, cosicché lo stoicismo si
rivela ben presto una specie di spoglio praticantato della virtù obiettiva e
insensibile, lasciando spazio a quella correlatività delle coscienze tanto
indesiderata dalla persuasione, che mira all’autentica compenetrazione. La
morale degli stoici è inevitabilmente strutturata sulla legge-logos che governa
l’intero universo, e la pratica della virtù secondo questa legge non si può sposare
con l’istantaneità dell’ultimo presente michelstaedteriano.
La legge degli stoici non reprime la natura ma tenta di ordinarla; la salute
di Michelstaedter non ordina nulla, ma tenta di riportare all’unità extramondana e
immanente dell’essere come totalità. Il persuaso michelstaedteriano, in definitiva,
possiede se stesso e il mondo in un istante, e fa di se stesso fiamma nel momento
97 G. Carchia, Retorica del sublime, cit., p. 23.
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in cui può toccare l’essere: sul punto della morte, in cui la coscienza è
incosciente.
La coscienza del saggio stoico è, invece, ancora coscienza sociale, mentre
quella del persuaso è coscienza ontologica individuale. La legge stoica vuole
ordinare il cosmo; la legge di Michelstaedter vuole il possesso dell’autenticità e
dell’assolutezza dell’essere. Ciò ci porta ad asserire che la prima è un percorso da
sviluppare nella vita, maturando se stessi da stolti a saggi; la seconda, per
converso, è una specie di folgorazione che permette di accorgersi della falsità
della vita sociale e dei sui ritmici preconcetti.
94

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XIII
COMPONENTI ESTETICHE DEL PENSIERO DI MICHELSTAEDTER
Considerando tutto ciò che è stato fin qui detto, possiamo asserire che
l’estetica di Michelstaedter è un momento acuto, imbevuto di reazione al
positivismo, al naturalismo e al razionalismo, «ma non si inserisce nell’estetica
neoidealistica mediatrice fra le sorgenti kantiane e quelle hegeliane» 98 . L’Autore
conserva, nel suo aspetto più significativo, «elementi estremoromantici, ossia
attivistici, irrazionalistici, mistici, la cui componente trasgressiva, con apparente
paradosso, afferisce per altro con energia alla dominante dimensione etica». 99
Michelstaedter era fortemente attratto dall’arte e dalle sue svariate modalità
di rappresentazione, tanto che giunto a Venezia, in piazza San Marco, sulla strada
verso Firenze, egli annotò:
Mi sembra d’essere un altro, ad ogni istante, ho perduto il sentimento della
continuità del mio ‘io’. Solo il dolore tenace, profondo, mi congiunge al passato. È
il dolore l’ultimo anello che mi lega alla vita. Io credo che impazzirò (Op 419).
98
Vittorio Stella, “La riflessione sull’arte in Michelstaedter”, in Dialoghi intorno a Michelstaedter, cit., p.
158.
99
Per quello che riguarda l’etica, nell’arte dell’Autore essa traspare in maniera vigorosa, e potremmo dire
che essa serve a Michelstaedter per denunciare ed evidenziare la decadenza spirituale che caratterizza la
società dei rettorici. La morale è un punto focale della sua produzione filosofico-artistica, e in senso
profondo l’Autore intende ripercorrere abbastanza fedelmente uno dei capisaldi della filosofia kantiana:
l’autonomia dell’etica. A tal proposito riportiamo le parole di Kant: «A coloro che deridono ogni moralità
come pura fantasticheria di una umana immaginazione che, presuntuosamente, pretenda di sollevarsi al di
sopra di se stessa, non si può del resto rendere servizio più gradito se non quello di accordare che i
concetti del dovere debbano essere tratti soltanto dall’esperienza» (I. Kant, Fondazione della metafisica
dei costumi, Laterza, Bari 1997, p. 47).
95

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Queste parole racchiudono in nuce l’intera concezione estetica di Michelstaedter:
l’istantaneità che produce smarrimento nella coscienza, ed il dolore inguaribile
che lega l’esteta al ricordo. La tesi è confermata nel giorno dell’arrivo a Firenze,
quando Michelstaedter «in rabdomantico abbandono raggiunge Santa Maria del
Fiore e il Campanile di Giotto, dove, nella luce del tramonto, le costruzioni gli
sembrano non opera di uomini, ma cose messe lì per incanto, diafane,
immateriali» 100 .
La ricerca artistica di Michelstaedter procedette sempre e comunque di pari
passo con la speculazione filosofica: in ogni creazione artistica si possono
riscontrare i tratti ben delineati della filosofia de La Persuasione e la Rettorica.
Le opere d’arte suscitano nell’Autore un forte senso di inquietudine che fa
smarrire l’orientamento, ed è proprio riguardo ai concetti di sensazione, dolore e
libertà che si sviluppa la sua riflessione estetica. Egli desiderava diventare un
affermato pittore; era attratto fortemente dalla plasticità, dal candore, dalla
perfezione e dalla nobiltà dell’arte classica, mentre invece sono lo schizzo a
matita, la caricatura ed il ritratto i capisaldi della sua opera grafica:
Lo schizzo doveva diventare popolare tra gli artisti espressionisti, proprio per la
sua natura antiretorica. La vita è spesso abitata dal dolore e dalla noia; la bella
faccia esteriore è solo una pietosa illusione. Gli schizzi di questi artisti (fra cui
inseriamo a pieno titolo anche Michelstaedter, sebbene non sia ufficialmente
annoverato fra i pittori/ritrattisti della corrente espressionista) furono un’opera
polemica contro una tradizione di idealizzazione; il loro fine esprime quello che sta
dietro all’armoniosa apparenza della superficie. 101
100 Alessandro Arbo, Carlo Michelstaedter, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1996, p. 31.
101 Daniela Bini, in L’immagine irraggiungibile – Dipinti e disegni di Carlo Michelstaedter, Edizioni
della Laguna, Gorizia 1992, pp. 20-21.
96

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Riprendendo il discorso da un punto di vista più teorico, è bene chiarire quale sia,
per Michelstaedter, il meccanismo che determina il movimento della
rappresentazione artistica: il suo motore è il dolore austero, che mette a nudo le
pretese illusioni dei retori, e che denuncia violentemente l’impossibilità di un
vero e reale possesso della vita, delle cose e degli eventi. Tenendo ben presente
che «l’artista (esteta/filosofo, in Michelstaedter sono sinonimi) […] è una carta
topografica di fronte ad una carta geografica», considerando quest’ultima come
la società umana in generale, l’esteta/artista ha il ruolo di spogliare da ogni
presunzione e vanagloriosa illusione le necessità ed i desideri della società
rettorica: l’esteta, dunque, è l’equivalente artistico del filosofo, ed ha il compito
di combattere la rettorica, in nome della persuasione, con la raffigurazione che
più si presta a questo ruolo, ovvero la caricatura. 102 Questa forma di
rappresentazione consentiva all’Autore di trascrivere in termini di linee, segni,
tratti e colori tutto quello che era espresso con le parole nella Persuasione e la
Rettorica. Il circolo che si determina fra raffigurazione segnica ed espressione
letteraria è virtuoso, e le tematiche della filosofia michelstaedteriana sono sempre
presenti: il sentimento del persuaso (che, come citato sopra, è comunque il dolore
,insieme alla repulsione per la vita insipida e meccanica della rettorica) induce
obbligatoriamente alla denuncia degli aspetti in cui l’inautenticità dei retori si
manifesta. Nella caricatura è possibile ridicolizzare una ‘forma sociale’ di
102 «La disinvoltura con cui Michelstaedter delineava i suoi personaggi dimostra una pronunciata capacità
di adeguare lo strumento espressivo all’immagine secondo una sollecitazione interiore che lo portava a
decifrare gli aspetti peculiari dell’uomo e della società contemporanea» (Fulvio Monai, “Michelstaedter
anticipatore in arte”, in Dialoghi intorno a Michelstaedter, cit., p. 160).
97

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rettorica (ad esempio, la caricatura del docente, membro della comunella di
malvagi, evidenzia sempre lo sguardo assonnato nascosto dietro gli occhiali ed il
capo chino, elementi che suscitano facilmente noia e spocchia), facendo risaltare
i tratti retorici delle vittime. Il persuaso mette a nudo qui la vita delle forme
sociali. L’espressione caricaturale, pertanto, offre la possibilità di deformare la
logica e l’ordine falsificatori della società dei retori. 103
Bisogna sottolineare, però, che le sensazioni che suscitano le opere
artistiche servono, per l’Autore, a superare l’illusione e le necessità, dettate dalla
rettorica, in modo individualizzato. Ovvero, il persuaso/artista/esteta coglie
intuitivamente le forme artistiche, poiché è instradato verso l’autenticità ed il
possesso della vita. Dovendo districarsi fra la moltitudine dei retori, non produce
alcuna realizzazione statica o idealistica, ma si limita ad una produzione che
denunci la presenza della rettorica, in forma quasi surreale. Ognuna di tali
rappresentazioni artistiche è comunque fortemente soggettiva/soggettivizzata,
perché è l’individuo a fare della persuasione (assoluta) la sua vita (singolare): il
dono della persuasione, in fin dei conti, si esprime in ogni persuaso secondo i
medesimi canoni, ma con forme e manifestazioni personalizzate. Non è un caso
che Michelstaedter asserisca che «l’arte ci presta una individualità» (Op 745).
103 «La bruttezza fisica che la caricatura ritrae è chiaramente espressione della bruttezza spirituale che
l’osservatore, in questo caso l’artista/esteta, condanna. Quelli che hanno riconosciuto in Michelstaedter
solo una vena giocosa sono lontani dalla realtà. L’incomprensione delle sue caricature preclude una
valutazione equilibrata di Michelstaedter, il filosofo della persuasione. Con pochissime eccezioni, infatti,
nei suoi dipinti non c’è alcun tocco leggero, ma un severo giudizio moralistico su una società che egli
disprezzava profondamente, la koinonia kakon de La persuasione e la rettorica» (Daniela Bini,
L’immagine irraggiungibile, cit., p. 33).
98

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Come potrebbe essere altrimenti, visto che l’oggettività (logico-scientifica) è
figlia della rettorica, opponendosi all’autenticità del singolo uomo?
Le sensazioni suscitate, in definitiva, collimano con il dolore/motore
dell’arte, e, determinando un forte sentimento malinconico, consentono il
superamento della dimensione rettorica e di esse stesse: l’arte, perciò, è una
specie di filosofia delle sensazioni, che si spoglia di queste allorché il dolore
mette a nudo la verità della vita 104 . La fusione fra bellezza artistica e singolarità
consente di trovare un modo di espressione «rappresentando la forma assoluta
dell’‘io’» (Op 716). A questo punto sembra appropriato citare la distinzione che
Michelstaedter sancisce fra due tipi di artista: il debole (quello che vive nel
mondo della rettorica e rappresenta la realtà secondo i suoi canoni: illusorietà,
falso possesso, falsa sicurezza) e l’autentico (quello che nelle sue opere
manifesta la dimensione della persuasione, per quanto sia possibile, e che non si
affilia ad alcuna corrente artistica riconosciuta, proprio per sfuggire alle
classificazioni della società):
Lo scrittore forte (si può intendere, in questo caso, lo scrittore anche
semplicemente come l’artista in senso generale) sente che o la cosa la dice sempre
in ogni punto tutta o non la dice mai affatto, e non teme che un’impressione gli
sfugga poiché con tutta la sua vita egli (la) contende alla verità, e l’intuizione
creatrice si rinnova con forza inesauribile cercando nel masso la forma perfetta. Gli
artisti deboli ‘si sfruttano’, si adagiano nelle loro impressioni, ricercano le
contingenze che possono produrle, temono pel proprio organismo ‘creatore’ e si
vuotano. L’artista forte non vuole essere artista ma ‘vuole essere’, e dalla lotta e dal
dolore trae la salute e la gioia (Op 707).
104 Michelstaedter reputa che l’artista e l’esteta/filosofo siano effettivamente più che compatibili, anzi
compenetrabili ed identificabili; per ques to scrive che «chi sente il bello ha l’anima d’artista, chi ne sa le
ragioni è filosofo» (C. Michelstaedter, in L’immagine irraggiungibile, cit., p 81).
99

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Ecco che la figura dell’artista autentico, persuaso, si spinge oltre la dimensione
del reale, alla ricerca di quell’unità/totalità che l’accomuna al filosofo:
Ma chi vuole la vita veramente, rifiuta di vivere in rapporto a quelle cose che fanno
la vana gioia e il vano dolore degli altri – e non accontentandosi d’alcun possesso
illusorio chiede il vero possesso, così che in lui prende forma e si rivela il muto e
oscuro dolorare di tutte le cose.
La sua vita è il rifiuto e la lotta contro tutte le tentazioni degli illusori
soddisfacimenti, e non disperdendosi nell’atto delle continue correlazioni (possessi
illusori) si afferma e prende forma e si crea da se stessa: questa è l’arte.
L’arte è dunque il più forte dolore e la più forte vita e dà la più forte gioia
nell’affermazione di se stessa (Op 705).
Come detto in precedenza, l’esteta michelstaedteriano, per le sue peculiarità, è
annoverabile, a nostro avviso, fra gli espressionisti: egli non ricerca mai
l’idealizzazione dell’arte/pensiero, ma la sua totalità/autenticità 105 . Egli, come fa
proprio l’Autore nelle sue opere (grafiche e letterarie), sente il bisogno di
scomporre i personaggi presi a tema, perché il suo scopo unico è di afferrare la
vita nuda, spogliare la natura e mostrarla senza ordine, contraddittoria quale è.
Non è affatto un caso che l’Autore sia fortemente attratto da un quadro intenso e
violento come l’Urlo di Edvard Munch 106 . In quest’opera Michelstaedter ravvisa
105 Sembra corretto citare ancora le parole della Bini: «Tra i molti disegni, Michelstaedter ha lasciato
varie caricature, che sono state praticamente ignorate della maggior parte dei critici, forse perché ritenute
incoerenti con la serietà della sua dissertazione e del suo gesto finale. Tale giudizio non può ovviamente
soddisfare. Carlo era altrettanto serio come filosofo che come caricaturista […] Umorista alla maniera
pirandelliana, le sue caricature rendono concreto il ‘senso del contrario’ che costringe l’artista a
rappresentare una realtà nuda, spogliata dalla rettorica delle apparenze. Dal punto di vista filosofico la
scelta della caricatura segna la fase della negatività, della distruzione delle belle apparenze. Momento
rivoluzionario, grido di protesta, ma anche grido di Angst, come quello agghiacciante di Munch» (Daniela
Bini, L’immagine irraggiungibile, cit., p. 25).
106 Lo statuto dell’artista, secondo Munch, è la separazione: dall’impossibile integrazione nel mondo
nasce l’opera d’arte, e l’artista sta in una regione al limite dello smarrimento e della malattia. Dice
Munch: «La mia arte ha le sue radici nelle riflessioni sul perché non sono uguale agli altri, sul perché ci fu
una maledizione sulla mia culla, sul perché sono stato gettato nel mondo senza poter scegliere […] Ho
dovuto seguire un sentiero lungo un precipizio, una voragine senza fondo. Ho dovuto saltare da una pietra
all’altra. Qualche volta ho lasciato il sentiero per buttarmi nel vortice della vita. Ma sempre ho dovuto
100

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il più profondo senso di angoscia (Angst) che destabilizza la illusoria sicurezza
della società rettorica: il violento amalgama di tratti e colori rendono l’opera di
Munch un perfetto esempio di persuasione, agli occhi di Michelstaedter.
La possibilità di afferrare la vita nella sua immediatezza, come nuda e
spoglia dagli abiti della falsità, rimanda direttamente al concetto, trattato nei
capitoli precedenti, del tempo del persuaso/artista. Ma qual è, allora, il tempo in
cui l’opera artistica va ad inserirsi? Come può, in termini di tempo, l’artista
(come il persuaso) denunciare ai retori la loro rettoricità? Il tempo dell’artista è il
tempo del persuaso, ossia l’attimo, l’istante, che consente di cogliere il carattere
di acosmicità ed ultimità delle rappresentazioni: questo accade in virtù del punto
di singolarità (di cui si è parlato a p. 73), in cui l’essere che si cela dietro le
apparenze (ovvero l’essere autentico) pare venir colto:
Nell’operazione che consente la riappropriazione del se stesso nel e attraverso il
dispiegarsi del tempo, l’istante svolge un ruolo essenziale: esso non è più il mero
tramite per un futuro che si risolve ogni volta di nuovo, però, in istanti inessenziali
in sé e non vissuti se non, a loro volta all’infinito, come strumenti per un avvenire
che non esiste; bensì, diviene il momento in cui la stessa eternità è vissuta appieno,
e per cui si annulla ogni altra aspettativa e ogni rimando che falsifichi e renda
puramente per sé, inessenziale, il vivere presente, l’istantaneità in cui si presenta
ogni avvenimento umano 107 .
La sensazione della profondità artistica è istantanea, repentina, così come lo è il
dono della persuasione: la vita autentica è tutta raccolta in un punto, dove si trova
anche l’autenticità della rappresentazione. L’istante è il tempo dell’arte e della
ritornare su questo sentiero sul ciglio d’un precipizio» (in Munch, di Eva Di Stefano, Giunti Art Dossier,
Brescia 1994, p. 8).
107 Paolo Bernardini, “Dell’attimo come ?????S”, in Dialoghi intorno a Michelstaedter, cit., p. 115.
101

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persuasione; in esso si ravvisa la perfetta oggettività (non rettorica) che non si
può apprezzare nella vita sociale. L’oggettività si fonde con la soggettività per
ricreare il mondo perduto della unità-totalità, quella dimensione dell’essere-
autenticità che si nasconde dietro il paravento rettorico della società. Sembra che,
secondo Michelstaedter, l’artista ed il fruitore d’arte debbano smarrirsi in una
sorta di stato di grazia, in cui soggetto ed oggetto si recuperano nella forma
immobile e perfetta dell’assoluto; in quei momenti si coglie la perfezione
dell’essere, ma non si può esserne coscienti:
in quegli istanti noi siamo partecipi della verità oggettiva ed unica ma non ne siamo
coscienti. Quando le impressioni prime vengono ed arrivano alla nostra coscienza
assumono la forma speciale della nostra individualità. E similmente
nell’ispirazione produttiva freme nell’animo l’immagine irraggiungibile del vero e
il labbro canta ed il pennello scorre inconscio. 108
La creazione dell’opera d’arte è prodotta da una intuizione formale soggettiva di
una entità oggettiva trascendente, cosicché l’opera d’arte è la soggettiva
riproduzione dello spirito delle cose, riproduzione completamente spontanea ed
ispirata:
E dicendo spirito voglio dire che il pittore non ci darà il suo oggetto linea per linea,
il poeta non si affaticherà a parlarci con dettagli infiniti, ma ambedue daranno alla
loro opera quel fascino di linee e di parole che loro detta il cuore e che è atto a
risvegliare in noi il sentimento che li anima. 109
108 Carlo Michelstaedter, riportato ne L’immagine irraggiungibile, cit., p. 81.
109 AA VV, ivi, p. 81.
102

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La produzione artistica, a causa della propria e peculiare forma di individuazione
del singolo, è scandita dai ritmi della individualizzazione, dallo stigma
dell’individuo. Questo è l’intimo scopo dell’artista michelstaedteriano: la
soggettivazione dell’oggettività della perfezione artistica. Secondo l’Autore,
un’opera d’arte è la produzione necessariamente soggettiva dello spirito delle
cose, e il compito dell’artista è sentire, provare sentimento, individualizzare le
proprie sensazioni ed emozioni, riproducendo l’oggettività in modo individuale.
È una sorta di processo alchimistico e metabolico. Infatti in alchimia, per
giungere alla perfezione della materia metallica, è indispensabile conoscere lo
‘spirito’ del metallo, farlo digerire dal fuoco curato dall’operatore, e poi far
rinascere la materia ‘morta’ tramite una coagulazione di forme e sostanze
oggettive e soggettive. Non è un caso che l’alchimia sia definita dai filosofi
chimici l’‘Arte’ per eccellenza 110 .
L’artista michelstaedteriano si comporta in maniera intuitiva: egli
intuisce 111 la perfezione e l’assolutezza delle concezioni del bello, le interiorizza,
le metabolizza e, infine, le esteriorizza con le proprie capacità secondo
determinate forme. È specialmente per questo motivo che l’Autore può affermare
che «l’arte, l’arte…..l’arte non si definisce» (DDS 59). È necessario però prestare
molta attenzione al concetto stesso dell’artista: si può dire tale solo chi sia un
110 Per questo argomento si veda Titus Burckhardt, L’alchimia, Guanda, Parma 1996, (in maniera speciale
i capitoli “Le nozze chimiche” a p. 121, e “La Tavola Smeraldina” di Ermete Trismegisto a p. 169).
111 In questa occasione si può intendere l’intuizione alla stessa maniera che poi penserà Henri Bergson,
cioè come l’organo della metafisica. Nella riflessione post-idealistica, l’intuizione designa un tipo di
conoscenza sui generis; Bergson la concepisce, appunto, come una conoscenza immediata e non
razionale, come una simpatia attraverso cui il soggetto può inserirsi nell’interiorità di un oggetto, al fine
di entrare in connubio con la sua singolarità intima. Per approfondire l’argomento è consigliabile la
lettura di H. Bergson, Materia e memoria, cit., pp. 178-195.
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esteta (in questo caso sinonimo di filosofo) persuaso, perché quelli che fanno, o
si credono, o sono dalla società stimati artisti, sono falsi esteti, secondo l’Autore,
essendo retori e perciò illusi della conoscenza dell’arte:
Ogni attimo – è Rico che parla ironicamente – della sua vita è prezioso a questo
artista, egli sa che basta che lo scriva, lo dipinga, lo canti, e l’ha reso immortale;
perciò in ogni cosa egli non vive volgarmente come un uomo che soffre e gioisce,
vuole, o rifiuta, che ha affetti, passioni, speranza, melanconia – disperazione –
come sarebbe volgare tutto ciò! Ma egli vive da artista, egli è al di fuori di tutto
questo (DDS 61).
Solo colui che davvero intuisce la bellezza e le sue sfaccettature sa rappresentare
le sensazioni che prova tramite determinate forme, e non se ne fa vanto: egli
esprime la coscienza di se stesso. Le impressioni prime che colpiscono la
sensibilità dell’artista hanno bisogno, però, per essere comprese e fruite, di una
riorganizzazione che solo l’intelletto può offrire; cosicché l’opera d’arte esprime
la più intima profondità dell’autore, e l’esteta deve poter comprenderla. Lo può
fare grazie alla facoltà dell’intelletto: «l’intelligenza è quella facoltà che serve a
riordinare, a rievocare, a stabilire il nesso fra le impressioni ricevute e quindi è
opera della matematica meccanica tirarne le conseguenze» 112 .
La figura dell’esteta è perciò quella di un uomo persuaso che sappia
cogliere la persuasione dalle prospettive di arte e filosofia, e le sappia unificare,
coagulare, per reimpossessarsi dell’autenticità di sé e delle cose: il
filosofo/artista è dunque un individuo capace di intuire e riordinare la bellezza:
112 AA VV, L’immagine irraggiungibile, cit., p. 81.
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La mente d’un filosofo dunque è un complesso di sentimento d’arte (intendendo
con arte l’essenza di tutte le cose) e d’intelligenza. 16+16= 32. 113
Come detto in precedenza, la persuasione è il momento in cui ragione ed istinto
si fondono. Nella vita vissuta, invece, tale atteggiamento è irrealizzabile: la
rettorica della società rimane inaggirabile. La rappresentazione artistica
michelstaedteriana ha sempre ricercato di mettere bene in luce questa verità: la
dicotomia fra mente e cuore è insanabile. La massima espressione di questi
sentimenti contrastanti sono rintracciabili, secondo lui, nell’arte norvegese di
Munch, per quello che riguarda la pittura, e di Ibsen per la letteratura.
Specialmente nella pittura violenta del norvegese Michelstaedter ritrova la triade
di componenti del mistero della vita terrena: il male, l’istinto e l’inconscio 114 .
Questi tre elementi sembrano molto cari a Michelstaedter, tanto che nei suoi
disegni e ritratti essi si porranno in primo piano all’attenzione del fruitore.
Nell’arte nordica emerge l’angoscia stessa, e Michelstaedter trova in questa
modalità di espressione tutti quegli elementi che affliggono la natura decaduta
dell’uomo nella vita vissuta, ossia la paura della morte, il timore dell’ignoto.
Svegliato dall’incoscienza e messo colla coscienza nello spazio e nel tempo nel
mezzo delle contingenze, il filosofo non cerca che di liberarsene […] L’assoluto sta
nell’assenza dell’ombra, nell’incoscienza (Op 691).
113 AA VV, ivi, p. 81. A mio modo di vedere il commento 16+16=32 è solo una maniera di manifestare la
relazione omotetica (intendendo con omotetia matematica proprio la omologia fra due piani o spazi) che
insiste fra i due piani dell’arte e della filosofia.
114 «A volte – scrive Edvard Munch – gli argini saltano e l’angoscia oscura la mente, si è nudi nel proprio
malessere mentre attorno si svolge una lotta di cui non si ha il controllo […] Un uccello da preda si è
fissato dentro di me. I suoi artigli sono penetrati nel mio cuore, il suo becco ha trafitto il mio petto, e il
battito delle ali ha offuscato il mio cervello» (in Munch, di Eva Di Stefano, Art Dossier, Giunti, Firenze
1994, pp. 9-11).
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La concezione estetica dell’Autore è pertanto volta ad offrire una visione del
bello come una specie di flusso canalizzato, capace di esteriorizzarsi in varie
raffigurazioni: nei ritratti e nelle caricature, in special modo, con ruvidezza e
spigolosità. Per l’autore l’idea di bellezza ha a che fare con un forte impulso
all’espressione del sentimento artistico soggettivo, che «l’anima dell’artista
imprime [a] suggello della sua individualità» 115 , di modo che i mezzi della
rappresentazione e gli elementi della tecnica siano strettamente dipendenti dalla
particolare ed irripetibile condizione del suo spirito, immerso nella realtà ma
trascinato verso il mondo dell’essere assoluto. Ecco dunque, a conferma di
quanto detto precedentemente, che il contenuto di denuncia e manifestazione
mantiene una netta priorità sulla tecnica e sulla forma; ma «ammessa (questa)
priorità e quindi l’irrilevanza del concetto di un linguaggio innovatore, è
sintomatico il fatto che nelle sue ultime opere e specificamente negli autoritratti
degli ultimi due anni il comico si dissolve del tutto e l’immagine si trasferisce in
una dimensione tragica, dove non c’è contestazione ma profetica intuizione di un
epilogo inevitabile» 116 .
Inoltre, un passo della Persuasione conferma quanto l’Autore non si
riconoscesse nel concetto comune di artista (cioè in quell’artista «impegnato
[presumibilmente] in un’attività destinata a manifestarsi pubblicamente e a
115 C. Michelstaedter, Scritti scolastici, Istituto per gli Incontri M itteleuropei, Gorizia 1976, pp. 3-4.
116 Fulvio Monai, in Dialoghi intorno a Michelstaedter, cit. p. 167.
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procurare vantaggi economici» 117 ), ammettendo, per di più, la sua totale
estraneità alla massa degli artisti, che definiva vanitosi, presuntuosi e subdoli:
Così gli artisti impotenti […] cercano l’‘impressione’ mettendosi e rimettendosi
nelle posizioni note, che come la cercano così non l’hanno, ma hanno solo la
propria volontà d’averla e sfruttano invano nella pietosa rettorica il loro prezioso
organismo dalle sensazioni raffinate (PeR 107). 118
Il bello michelstaedteriano sta in stretto rapporto con l’essenzialità di una
personalità autonoma che, volendosi emancipare da ogni legame dettato dalla
consueta analisi stilistica della storia, «si propone come un frutto atipico di
un’atmosfera culturale avvertita attraverso i filtri di una sensibilità tutta personale
e di un’intelligenza anticipatrice». 119 Il sentimento dell’artista persuaso è dunque
intriso di libertà, e la bellezza è essenzialmente coordinata da un atteggiamento
esistenziale; ecco perché possiamo concludere, servendoci ancora delle parole del
Monai, che in Michelstaedter «lo schizzo, il disegno immediato, l’aforisma
figurativo si può considerare una traduzione visiva della via verso la persuasione.
La linea, secondo una grammatica preespressionista, si spezza in segmenti, si
anima in curve ed evoluzioni, si condensa con insistenze e ripetizioni in alcuni
passaggi per poi sfumarsi ed annullarsi in altri». 120
117 F. Monai, ivi, p. 168.
118 Prosegue l’Autore in nota: «Che della stessa impressione di questo vuoto si può far dell’arte, il nostro
tempo c’insegna. Qualunque cosa io dica, poiché io sono l’artista, l’ho detta, dunque è arte per forza»
(PeR 107).
119 Fulvio Monai, in Dialoghi intorno a Michelstaedter, cit., p. 171.
120 Fulvio Monai, ivi, p. 173.
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In conclusione, finiamo con un’ultima citazione significativa, capace
probabilmente di sintetizzare appieno tutta una breve vita trascorsa ai limiti
estremi dell’esistenza:
Il falco vola prima lato – poi piomba sulla preda. Del resto si può prendere dove si
vuole, il volo è sempre quello e in questo la sua qualunque forza, quanto possa, in
ogni (suo) punto manifesta (Op 729).
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CONCLUSIONE
L’esposizione del pensiero di Michelstaedter, svolto nei capitoli di questa
tesi, ci conduce inevitabilmente a pensare che la dimensione della persuasione sia
irrealizzabile, come effettivamente è. La filosofia dell’Autore sembra un
compendio del nichilismo nietzschiano e della noluntas schopenhaueriana,
riassunte in un breve lasso temporale. L’unica salvezza per l’uomo che voglia
davvero approfondire la propria umanità è la rinuncia a tutto, l’annullamento
della volontà e del desiderio, l’emancipazione dalle passioni e dalle necessità.
Abbiamo sostenuto sin dall’inizio che il suicido dell’Autore fu dettato
principalmente da questo intento, e non, come alcuni erroneamente credono, da
una situazione di occasionale debolezza. Michelstaedter comincia a concepire le
ragioni della sua tesi quando ha appena 19 anni: non ci sembra un caso che la sua
maturazione si svolga sempre sotto il segno dell’inseguimento della persuasione.
Il suo gesto è la sublimazione del suo pensiero e della sua arte, non un gesto di
debolezza nei confronti della sopportazione della vita. La vita non va sopportata,
ma vissuta, approfondita, e dopo ciò va ripulita del suo stato materiale per
ricongiungersi all’essere/totalità/unità. Concludiamo affermando che solo nel
momento finale, trattato nel corso del nostro lavoro, in cui la decisione della
morte sta prendendo il sopravvento, il persuaso si qualifica completamente come
tale, tanto che ci sembra corretto asserire che la morte è, per Michelstaedter,
l’elemento completante sotto il cui segno sta la vita autentica: questa fu la sorte
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che, secondo lui, toccò liberamente anche al Cristo. Questi (accomunato a
Socrate) attesta il male di vivere, il dolore e la sofferenza cui l’essere umano è
condannato; al contempo, però, spiega quale possa essere l’unica possibilità della
vita (potremmo dire della persuasione): «Per loro (i retori) disse Cristo:
“chiunque cerchi di assicurarsi la conservazione della propria persona – la
porterà al dissolvimento” […] Cristo ha salvato se stesso poiché dalla sua vita
mortale ha saputo creare il dio: l’individuo» (PeR 114-145).
Secondo Michelstaedter, Cristo non ha la pretesa di salvare l’uomo con il
suo messaggio, perché l’approdo alla persuasione è un’operazione
esclusivamente individuale (proprio come accade per la realizzazione della
Grande Opera alchemica, cui si è accennato nell’ultimo capitolo). Il Cristo
dell’Autore è l’uomo forte (viene richiamato, secondo noi, lo stesso concetto di
artista forte, di cui sopra, a p. 94), che porta sulle spalle tutto il peso del dolore
senza soccombere, almeno fino al compimento del proprio percorso individuale.
Cristo rappresenta, pertanto, l’affermazione della vita singola, l’assenso al
dolore, in opposizione alla religione istituzionalizzata che vive nella speranza
della redenzione. Ma anche Cristo, in fin dei conti, decide di suicidarsi: non
volendo rinunciare al suo messaggio di autenticità egli si è condannato a morte.
Compie il suo destino di persuaso.
Ma può esistere, forse, un altro ‘luogo’ in cui il persuaso possa realizzarsi?
La solitudine e la malinconia non trovano concretizzazione nella vita effettiva?
La risposta può probabilmente essere positiva, considerando specialmente le
110

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poesie dell’Autore: «Per rendere la persuasione un’alternativa vivibile […]
Michelstaedter indica all’uomo persuaso il suo luogo: il mare. […] Il mare è lo
spazio del persuaso, il mare è l’ou-topia, il suo mai luogo privo di confini dove
sempre si è stranieri, presenti solo a se stessi». 121 Il mare simboleggia lo spazio
senza leggi, senza limiti, luogo sconfinato dove la comunella dei malvagi non
può inoltrarsi, dove ci si può autenticamente affermare, dove non vigila la falsa
organizzazione degli illusi retori. Questo è il solo posto dove il persuaso si possa
sentire libero dalla propria sofferenza, e possa comportarsi come il solo gestore
della propria individualità: nessun contatto sociale, nessuna ombra di rettorica.
Ogni azione è risolutiva, finale, ultima, estrema: è l’ultimo presente.
Lasciami andare, Paula, nella notte
a crearmi la luce da me stesso,
lasciami andare oltre il deserto, al mare
perch’io ti porti il dono luminoso
… molto più che non credi mi sei cara (Po 72)
Questo mare è il luogo della definitiva libertà che Michelstaedter sogna per tutta
la sua vita, dispensata dal soffocante giogo dell’agire che la società pretende: «la
via della persuasione è terribile, perché non ammette deroghe». 122
Ma, in ultima istanza, è plausibilmente realizzabile questo tipo di vita? Il
risultato del nostro lavoro è che per il persuaso nessuna vita è davvero vita se non
incontra la morte, come l’Autore ripete spesso ne La Persuasione e la Rettorica.
121 Pier Andrea Amato, L’attimo persuaso: filosofia e letteratura in C. Michelstaedter, estratto ricavato
dal sito internet www.michelstaedter.it/amato.html.
122 Pier Andrea Amato, ivi.
111

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