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Serge Latouche e Didier Arpages – Il tempo della ... - Solideco

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2


<strong>Serge</strong> <strong>Latouche</strong> - <strong>Didier</strong> Harpagès<br />

<strong>Il</strong> <strong>tempo</strong> <strong>della</strong> decrescita<br />

Introduzione alla frugalità Felice<br />

prefazione di Marco Aime<br />

elèuthera<br />

3


Titolo originale: Le temps de la décroissance<br />

Traduzione dal francese di Guido Lagomarsino<br />

© 2010 <strong>Serge</strong> <strong>Latouche</strong> e <strong>Didier</strong> Harpagès<br />

© 2011 Elèuthera<br />

Progetto grafico di Riccardo Falcinelli<br />

<strong>Il</strong> nostro sito é www.eleuthera.it<br />

e-mail: eleuthera@eleuthera.it<br />

4


Indice<br />

PREFAZIONE<br />

di Marco Aime 7<br />

INTRODUZIONE<br />

È giunto il <strong>tempo</strong> 21<br />

UNO<br />

La fine del <strong>tempo</strong>: necessità <strong>della</strong> rottura 31<br />

1. <strong>Il</strong> <strong>tempo</strong> schiacciato dal produttivismo 31<br />

2. Condannati alla velocità 36<br />

3. L’ obsolescenza programmata 38<br />

4. L’eternità al presente: lo sviluppo sostenibile 40<br />

5. <strong>Il</strong> <strong>tempo</strong> del virtuale 45<br />

6. Vendere il <strong>tempo</strong> 50<br />

DUE<br />

Riabilitare il <strong>tempo</strong> 57<br />

1. Rimo<strong>della</strong>re lo spazio-<strong>tempo</strong> 58<br />

5


2. Lavorare meno per vivere meglio 65<br />

3. Ridurre le distanze, ritrovare la lentezza 72<br />

4. Ritrovare il locale 80<br />

5. <strong>Il</strong> <strong>tempo</strong> a ritroso 86<br />

CONCLUSIONE<br />

Vivere in altro modo lo stesso mondo 95<br />

Lessico 99<br />

Bibliografia essenziale 109<br />

6


Prefazione<br />

di Marco Aime*<br />

1. Quasi tutte le sere, quando accendiamo la televisione, vediamo<br />

uno speaker dal volto cupo annunciare il fatto che non abbiamo<br />

raggiunto gli obiettivi di crescita previsti, che lo sviluppo è fermo<br />

o va troppo piano e cosi via. Dopodiché si passa la parola a<br />

qualche economista, che ci ammonisce e ci spiega che sviluppo e<br />

crescita sono necessari per il progresso del paese e del pianeta.<br />

Sviluppo e crescita: ecco le parole chiave, legate a filo doppio da<br />

un legame apparentemente indissolubile.<br />

Se andiamo appena al di là degli slogan politico-economici che<br />

dominano la comunicazione, ci accorgiamo, per esempio, che la<br />

maggior parte delle definizioni dello sviluppo sono basate sul<br />

modo in cui una o più persone immaginano una condizione<br />

ideale di vita. Se lo sviluppo è soltanto un termine comodo per<br />

riassumere l’insieme delle virtuose aspirazioni umane, si può<br />

concludere immediata-<br />

* Docente di Antropologia culturale nell’Università di Genova.<br />

7


mente che esso non esiste in alcun luogo e che non esisterà<br />

probabilmente mai! Le definizioni oscillano tra due estremi:<br />

quelle dettate dal desiderio e quelle legate alla molteplicità delle<br />

azioni intraprese nella convinzione che portino alla felicità.<br />

L’idea di sviluppo dominante nella nostra cultura intende<br />

mostrare quello che distingue le società moderne da quelle che le<br />

hanno precedute. Lo sviluppo è costituito da un insieme di<br />

pratiche a volte apparentemente contraddittorie, le quali, per<br />

assicurare la riproduzione sociale, costringono a trasformare e a<br />

distruggere, in modo generalizzato, l’ambiente naturale e i<br />

rapporti sociali in vista di una produzione crescente di merci<br />

(beni e servizi) destinate, attraverso Io scambio, alla domanda<br />

solvibile. Letto in questi termini, lo sviluppo, come lo concepiamo<br />

noi, non è altro che l’espansione planetaria del sistema di<br />

mercato.<br />

2. Con un’analisi raffinata e originale, Gilbert Rist sostiene che<br />

il concetto di sviluppo svolge per la società occidentale la stessa<br />

funzione dei miti nelle società cosiddette primitive1. Lo sviluppo<br />

è il mito fondante <strong>della</strong> nostra società, senza di esso tutto il<br />

sistema crollerebbe, e poiché stiamo imponendo a tutti il nostro<br />

sistema, imponiamo anche il vangelo dello sviluppo. Sviluppo,<br />

quindi, come elemento <strong>della</strong> moderna religione economicistica:<br />

un’ideologia si discute, una fede no. La credenza nello sviluppo è<br />

paragonabile, dunque, ai miti delle società non occidentali. L’atto<br />

di credere è performativo e se si deve far credere è per far fare.<br />

Come ogni credenza, anche lo sviluppo ha i suoi rituali, fatti di<br />

incontri tra i grandi <strong>della</strong> Terra, i G8 e i G20 che continuano a<br />

tenere accesa la fiamma <strong>della</strong> speranza in un futuro migliore al di<br />

la di ogni logica conclusione.<br />

Un esempio di come l’idea di sviluppo si avvicini più a<br />

8


una fede che all’espressione di una presunta razionalità e dato<br />

dal fatto che, se un politico fa affermazioni che vengono<br />

regolarmente smentite, alla lunga perde di credibilità. Nel campo<br />

dello sviluppo, invece, le promesse sono instancabilmente<br />

ripetute e gli esperimenti costantemente riprodotti. Come<br />

spiegare allora che ogni fallimento diventa l’occasione di nuove<br />

dilazioni?<br />

Appare quindi evidente che la problematica dello sviluppo è<br />

inscritta nell’immaginario occidentale e ne costituisce il mito<br />

fondante.<br />

3. <strong>Il</strong> concetto di sviluppo affonda le sue radici nella filosofia di<br />

Aristotele e di sant’Agostino, ma i suoi veri padri sono<br />

l’<strong>Il</strong>luminismo e l’evoluzionismo sociale. <strong>Il</strong> primo, con la sua fede<br />

incrollabile nell’uomo e nella sua capacità di creare un progresso<br />

infinito, ha gettato solide basi sulle quali appoggiare i pilastri<br />

<strong>della</strong> credenza «sviluppistica». La spinta verso la «modernità»<br />

doveva per forza prevedere che le conoscenze dei<br />

con<strong>tempo</strong>ranei si sarebbero aggiunte a quelle dei loro<br />

predecessori, escludendo pertanto ogni eventualità di declino.<br />

Tale era la fede dei Lumi nelle potenzialità del genere umano,<br />

che si ipotizzava in tempi piuttosto brevi il raggiungimento<br />

dell’uguaglianza delle nazioni, in quanto l’Occidente avrebbe<br />

esportato nei paesi più remoti quell’idea di democrazia e<br />

uguaglianza nata dalla Rivoluzione francese. Si andava<br />

formulando in questo periodo una concezione dello sviluppo<br />

come un processo naturale che prima o poi avrebbe coinvolto<br />

tutto e tutti.<br />

Storpiando le teorie di Darwin, applicate dall’autore al regno<br />

animale e basate non sull’evoluzione, ma sulla selezione naturale,<br />

gli evoluzionisti sociali del secolo scorso assimilarono lo sviluppo<br />

umano a quello naturale: il cam-<br />

9


mino verso la civiltà e uno solo ed è composto da gradini, sul più<br />

alto siedono gli occidentali, poi via via a calare gli altri popoli (o<br />

razze come si diceva allora). Con il <strong>tempo</strong> e con l’aiuto<br />

dell’Occidente, tutti avrebbero risalito la scala, fino a diventate<br />

dei perfetti «europei».<br />

La storia non ha dato ragione né ai Lumi né agli evoluzionisti.<br />

L’Occidente ha esportato prima violenza e sfruttamento, più che<br />

democrazia e uguaglianza, e oggi esporta sviluppo, credendo di<br />

esportare benessere. L’obiettivo di elevare tutti gli esseri umani<br />

al tenore di vita di noi occidentali è materialmente irrealizzabile,<br />

se teniamo conto che noi consumiamo 4/5 delle risorse del<br />

pianeta, lasciando al rimanente 80% <strong>della</strong> popolazione mondiale<br />

solo il 20% dell’energia disponibile. <strong>Il</strong> mondo non può<br />

sopportare che l’India diventi come l’Inghilterra, sosteneva<br />

Gandhi intuendo la débacle ambientale che ne sarebbe seguita.<br />

Gandhi, infatti, voleva cacciare gli inglesi per permettere all’India<br />

di essere più indiana, Nehru voleva l’indipendenza per rendere<br />

l’India più occidentale.<br />

Eppure, per sostenere la nostra fede nell’inevitabilità del<br />

progresso, inteso come aumento di produzione e accumulo di<br />

beni, cioè di occidentalizzazione del mondo, occorre fare «come<br />

se» tutto ciò fosse realizzabile.<br />

4. <strong>Il</strong> termine «sviluppo» come lo concepiamo noi appartiene al<br />

mondo <strong>della</strong> natura, e la metafora di un processo naturale, che<br />

noi applichiamo ai fenomeni sociali, facendo come se quel che è<br />

vero dell’uno dovesse esserlo necessariamente dell’altro. In<br />

questo modo si compie un’operazione simile a quella degli<br />

evoluzionisti culturali, i quali, applicando le teorie che Darwin<br />

aveva formulato esclusivamente in riferimento a fenomeni<br />

naturali, diedero vita a una scala di valori fondata sulla<br />

superiorità delle «razze civilizzate».<br />

10


L’evoluzionismo sociale consentiva cosi, sul piano teorico, di<br />

giustificare le diversità delle società e, sul piano politico, di<br />

giustificare schiavismo e colonizzazione.<br />

Nel caso dello sviluppo la metafora naturalistica viene<br />

deformata a uso e consumo degli autori. Infatti, un qualsivoglia<br />

organismo naturale nasce, cresce fino a raggiungere un apice e<br />

poi inizia inevitabilmente a declinare fino a terminare<br />

irrimediabilmente la sua vita. Quest’ultima parte viene<br />

dimenticata nella trasposizione <strong>della</strong> metafora dalla natura alla<br />

società. Lo sviluppo, cosi com’e concepito dai suoi sostenitori,<br />

non finisce mai.<br />

Lo sviluppo biologico e quello sociale possono apparire simili,<br />

ma tale metafora non tiene conto <strong>della</strong> storia, che non segue<br />

affatto criteri regolari, come invece fa la natura. Già Aristotele<br />

distingueva la scienza, cioè tutto ciò che è prevedibile, dalla<br />

storia, l’arte dell’accidentale.<br />

Nessuna legge naturale prevede infatti che un villaggio debba<br />

per forza diventare una grande città. Naturalizzare la storia<br />

significa non tenere conto di tutti gli eventi di natura umana<br />

(guerre, migrazioni, conquiste) che determinano cambiamenti di<br />

rotta nelle strategie delle società umane.<br />

5. Lo sviluppo non è un aspetto inevitabile <strong>della</strong> storia. Se<br />

osserviamo il passato, possiamo riscontrare lunghissimi periodi<br />

quasi stazionari e forse il particolare dinamismo <strong>della</strong> nostra era<br />

costituisce più un’eccezione storica di quanto non rappresenti<br />

una norma dominante. In ogni caso, la moderna teoria dello<br />

sviluppo economico si fonda saldamente su modelli basati sulla<br />

crescita esponenziale.<br />

Sviluppo e crescita sembrano fare parte di un binomio<br />

indissolubile e in effetti, rivolgendo ancora una volta lo sguardo<br />

alla storia, possiamo dire che lo sviluppo ha solitamente indotto<br />

la crescita e che c’e stata crescita solo in<br />

11


connessione con lo sviluppo. Si tratta quindi <strong>della</strong> stessa cosa<br />

oppure di due concetti legati, ma diversi tra di loro?<br />

Per crescita si intende l’aumento di produzione pro capite dei<br />

beni già esistenti e conseguentemente un maggiore consumo di<br />

risorse.<br />

Lo sviluppo prevede l’introduzione di una serie di<br />

innovazioni, che possono essere positive e razionali e potrebbero<br />

costituire un buon elemento per ridurre (vista l’impossibilita di<br />

azzerare) l’impatto sull’ambiente e sulle risorse, se non fossero<br />

condizionate dal germe dell’accumulo capitalista. Visto l’imporsi<br />

ovunque del modello capitalistico - occidentale, ogni eventuale<br />

innovazione viene utilizzata per produrre di più in minor <strong>tempo</strong>,<br />

aumentando così il tasso di distruzione delle risorse planetarie.<br />

A livello teorico è quindi possibile ipotizzare uno sviluppo<br />

senza crescita, cosa che hanno fatto gli ecologisti, che per questo<br />

sono stati attaccati da molti economisti, i quali sostenevano che<br />

essere contro l’inquinamento significava anche essere contro la<br />

crescita economica. La realtà, però, ci porta a tenere conto di<br />

numerosi fattori e pertanto, se su un piano puramente logico si<br />

può ottenere una crescita economica addirittura con una<br />

diminuzione del tasso di esaurimento delle risorse, la crescita<br />

non può superare un determinato limite, a meno che non<br />

avvenga in modo concomitante una diminuzione di popolazione,<br />

cosa alquanto improbabile viste le prospettive attuali.<br />

6. «Se devo andare da Roma a Napoli, non posso prendere un<br />

treno che va a Torino e farlo andare piano. Per quanto rallenti,<br />

non arriverà mai a Napoli». Sono parole pronunciate da <strong>Serge</strong><br />

<strong>Latouche</strong> in una conferenza a Genova, per denunciare come<br />

spesso si ricorra a una politica dell’aggettivazione per attenuare<br />

gli effetti negativi di un’a-<br />

12


zione, come nel caso delle celebri «guerre umanitarie». Negli<br />

ultimi tempi, di fronte ai palesi fallimenti delle politiche di<br />

sviluppo, si è tentato di restaurarne la facciata dipingendogli<br />

sopra nuove etichette come durevole, sostenibile, umano,<br />

compatibile, al fine di dare nuovo respiro a un concetto<br />

palesemente in debito d’ossigeno. Tale operazione di cosmesi<br />

non ha, però, intaccato la visione dello sviluppo come di un<br />

processo in continua crescita, indifferente al fatto che le risorse<br />

rimangono costanti.<br />

L’idea dello sviluppo durevole è un invito a fare durare la<br />

crescita e non la capacita dell’ecosistema Terra a sostenerlo.<br />

Come afferma Wolfgang Sachs: «In principio ci si appellava<br />

all’ambiente come elemento dell’atto d’accusa contro la crescita.<br />

Oggi si utilizza il concerto di ambiente come bandiera di un<br />

nuovo sviluppo» 2.<br />

Nicholas Georgescu-Roegen, economista rumeno, provocatore<br />

per natura e padre <strong>della</strong> cosiddetta «economia ecologica», mette<br />

spietatamente in luce il paradosso su cui si fonda il dogma del<br />

tecnicismo moderno e il conseguente modello di sviluppo che ne<br />

deriva. Tale modello, figlio del pensiero economico occidentale,<br />

continua a ruotare in un sistema chiuso che tiene conto<br />

solamente <strong>della</strong> produzione e del consumo, dice Georgescu-<br />

Roegen, senza mai mettere tale processo in connessione con la<br />

biosfera. Un esempio per tutti: continuiamo a studiare e a<br />

ripetere da decenni le parole di Lavoisier, per il quale nulla si<br />

crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma.<br />

Ciò, però, è vero solo sotto un profilo puramente teorico. Un<br />

pezzo di carbone contiene una certa quantità di energia<br />

combustibile da noi utilizzabile. Una volta bruciato, tale energia<br />

si trasformerà in calore, fumo e ceneri, che conterranno la stessa<br />

quantità di energia iniziale, non più sfruttabile, però, dall’uomo<br />

in quanto è diventata energia vincolata 3.<br />

13


Anche il riciclaggio, sebbene si proponga come un’arma per<br />

controbattere il dispendio di materia che caratterizza<br />

inevitabilmente ogni processo di trasformazione, non può evitare<br />

l’irreversibile tendenza al declino delle nostre risorse.<br />

Sebbene l’idea che la vita di tutti gli esseri che popolano<br />

questo pianeta possa violare qualche legge naturale sia<br />

considerata un’eresia da parte <strong>della</strong> scienza ufficiale, occorre<br />

prendere atto che anche questa concezione si rivela essere una<br />

sorta di dogma davanti al quale non è lecito porsi dubbi. <strong>Il</strong> fatto<br />

che «consumo perché esisto» non viene preso in esame nelle<br />

concezioni economiche dominanti.<br />

Occorre quindi chiedersi, quando aggettiviamo il termine<br />

sviluppo, cosa intendiamo veramente. L’espressione sviluppo<br />

durevole (o sostenibile) indica che un determinato volume di<br />

produzione sia sopportabile per l’ecosistema e che pertanto<br />

possa durare a lungo. Sarebbe pertanto la capacità di<br />

riproduzione a determinare la produzione e la durevolezza, e<br />

questa è legata alle condizioni ambientali. In questa prospettiva,<br />

che potrebbe essere paragonata a un viaggio, occorre ipotizzare<br />

un punto di partenza e uno di arrivo. Se li collochiamo sull’asse<br />

del <strong>tempo</strong> (e quindi <strong>della</strong> durevolezza), viene naturale pensare<br />

che non sia tanto importante la velocità del viaggio, quanto<br />

piuttosto la sicurezza di arrivare alla meta. Se invece si segnano i<br />

punti sull’asse verticale dello sviluppo, allora è necessario<br />

incrementare progressivamente la velocità (cioè la produzione)<br />

incidendo assai più profondamente sulle risorse disponibili.<br />

Questa è, però, l’interpretazione dominante, che vede nello<br />

sviluppo durevole un invito a fare durare lo sviluppo, cioè la<br />

crescita. Come dice ancora Rist: «Dopo avere reso lo sviluppo<br />

universale, bisogna renderlo eterno» 4.<br />

<strong>Serge</strong> <strong>Latouche</strong> bolla come ipocrite le aggettivazioni<br />

14


dello sviluppo e offre un brillante paragone al proposito: nessuno<br />

può mettere in dubbio la buona fede e gli alti ideali di chi ha<br />

teorizzato il socialismo come dottrina di uguaglianza, ma<br />

dobbiamo oggi constatare che la pratica di tale ideologia ha dato<br />

risultati ben lontani da quelli sognati dai padri fondatori. L’unico<br />

socialismo esistente è quello reale. Analogamente, si può dire che<br />

al di là delle aspirazioni dei teorici dello sviluppo, dopo una<br />

cinquantina d’anni di esperienze l’unico sviluppo esistente è<br />

quello reale, cioè l’espansione del modello occidentale 5.<br />

Presentando lo sviluppo e la modernizzazione come un modo<br />

per moltiplicare le scelte offerte alla popolazione, si rischia di<br />

dimenticare ciò che è andato perduto.<br />

7. Siamo di fronte a una svolta, ci dicono <strong>Serge</strong> <strong>Latouche</strong> e<br />

<strong>Didier</strong> Harpagès, e se non ci dimostriamo saggi, potremmo<br />

esserci giocata l’ultima chance di vivere meglio. <strong>Il</strong> primo<br />

problema é quello di decolonizzare il nostro immaginario, che ci<br />

induce a pensare che questo sia l’unico mondo possibile. Uscire<br />

dall’ideologia mercantile e ripensare alle relazioni che abbiamo<br />

instaurato con lo spazio e con il <strong>tempo</strong>. Queste due coordinate,<br />

infatti, sono ormai incardinate nell’ordine del mercantilismo,<br />

assoggettate alle esigenze <strong>della</strong> produzione. Le nostre città sono<br />

concepite in funzione dell’automobile e dell’industria.<br />

Un’automobile che finisce per muoversi alla media di 6 km/h, più<br />

o meno l’andatura di un buon pedone. Perché allora non<br />

muoversi a piedi o in bicicletta, che oltre a risparmiare, inquinare<br />

di meno, ci aiuterebbe anche a recuperare quella che Ivan <strong>Il</strong>lich<br />

chiamava la convivialità 6.<br />

Sul muro <strong>della</strong> stazione di Sestri Ponente c’era una scritta, il<br />

cui effetto risultava ancora maggiore al mattino presto, quando<br />

davanti a quel muro passavano rapide e fret-<br />

15


tolose decine di persone che correvano a prendere il treno per<br />

recarsi al lavoro. La scritta diceva: il <strong>tempo</strong> non esiste, gli orologi<br />

sì. Gli orologi sono diventati la condanna dell'uomo occidentale,<br />

perché segnano non il trascorrere del <strong>tempo</strong>, ma il denaro che<br />

guadagniamo o perdiamo. La monetizzazione del <strong>tempo</strong> lo ha<br />

reso una merce, condannando le nostre esistenze a una sempre<br />

maggiore velocità, che a sua volta causa angosce e paure.<br />

Come uscire da questa spirale? Con la frugalità che<br />

caratterizza un'idea di decrescita, questo ci dicono <strong>Latouche</strong> e<br />

Harpagès. Decrescita che non significa perdita, ma<br />

razionalizzazione e scelte consapevoli che tengano conto del<br />

benessere di tutti. Oggi le tecnologie consentono di lavorare di<br />

meno, eppure, proprio in queste settimane, abbiamo visto, con il<br />

plauso dei più, presentare come moderno un accordo, quello Fiat,<br />

che prevede maggior lavoro senza neppure un aumento di<br />

salario.<br />

Ciò che occorre cambiare è anche l'idea di «beni», che non<br />

devono essere intesi solo come merci. Beni sono anche e sempre<br />

di più i valori relazionali, quelli che tengono insieme una società,<br />

che stanno alla base <strong>della</strong> solidarietà comune. L'individualismo e<br />

l'accumulo di beni materiali hanno condotto a quella società<br />

dell'incertezza di cui parla Zygmunt Bauman, in cui gli individui<br />

si rinchiudono in una fortezza, stritolati dalla paura di perdere<br />

ciò che hanno accumulato 7. Una sana frugalità può contribuire a<br />

una maggiore distribuzione delle risorse e a una conseguente<br />

maggiore pace sociale. È antimoderno questo?<br />

La decrescita non è antimoderna, al contrario è un segno di<br />

modernità, se per modernità si intende saper gestire al meglio le<br />

risorse e i mezzi a propria disposizione nella propria epoca.<br />

16


8. Mi siano infine concessi una riflessione da antropologo e un<br />

ricordo personale.<br />

La presunta naturalezza dell'idea che bisogna svilupparsi<br />

viene messa in crisi se si esce dal nostro guscio etnocentrico e ci<br />

si confronta con altre culture. Scopriamo allora che presso molte<br />

società non esiste neppure un termine linguistico che definisca<br />

tale concetto. Vediamo alcuni casi: presso i Bubi <strong>della</strong> Guinea<br />

Equatoriale per definire lo sviluppo si indica un termine che<br />

significa allo stesso <strong>tempo</strong> «crescere» e «morire», mentre in<br />

Rwanda lo stesso concetto viene espresso con il verbo<br />

«marciare», «spostarsi», senza che però venga indicata alcuna<br />

direzione prestabilita. In wolof l'equivalente di sviluppo è stato<br />

identificato dai membri di molti villaggi con «la voce del capo»; i<br />

camerunesi di lingua eton lo traducono, con inconscio sarcasmo,<br />

con «il sogno del bianco», mentre in moré non si è trovato un<br />

equivalente per descrivere il concetto in questione. I Sara del<br />

Chad ritengono che quel che si trova dietro ai loro occhi e che<br />

essi non possono vedere sia il futuro, mentre il passato si trova<br />

davanti, perché è noto 8.<br />

Ciò che emerge da questa breve e insufficiente rassegna<br />

etnografica è che al riguardo del concetto di sviluppo registriamo<br />

diverse lacune nelle lingue considerate. Ciò sta a significare che<br />

altre società non considerano affatto che la loro sopravvivenza<br />

dipenda da un'accumulazione continua di beni e saperi, capaci di<br />

rendere per forza il futuro migliore del passato.<br />

Poiché il nostro sviluppo si fonda su principi<br />

fondamentalmente economici occorre anche prendere in esame<br />

le economie degli altri. Karl Polanyi, economista e antropologo,<br />

analizzando le diverse forme di economia presso società definite<br />

«semplici», ha formulato l'espressione di economia embedded,<br />

cioè incorporata nelle strutture sociali,<br />

17


politiche e religiose. Ciò significa che l'economia è legata a<br />

doppio filo alla vita e non isolata in una sfera autonoma in grado<br />

di imporre le proprie regole e i propri ritmi all'interno <strong>della</strong><br />

società. Solo nel mondo occidentale l'economia rappresenta un<br />

copione al quale tutti si adeguano<br />

Pertanto, la visione di certe società non si concilia con quella<br />

degli economisti: terra e lavoro non sono per loro semplici fattori<br />

di produzione che aspettano di essere combinati in maniera<br />

naturale, come invece viene espresso nel pensiero economico<br />

dominante.<br />

C'era la luna piena una sera sulle colline di Seseirhà, piccolo<br />

villaggio nel Benin del nord. Parlavo da un po' con alcuni uomini<br />

del posto, quando all'improvviso uno mi chiese: «Ma è vero che<br />

da voi si paga per dimagrire?». Avrei voluto essere ovunque,<br />

tranne che lì, e mentre rispondevo mio malgrado di sì, mi<br />

rendevo conto di quanto fosse assurdo non solo agli occhi di<br />

quegli amici africani, ma anche ai miei. Con la sua ingenua<br />

curiosità quella domanda metteva a nudo l'incredibile<br />

irrazionalità di molte nostre azioni, di cui spesso non ci rendiamo<br />

conto.<br />

Se non introduciamo dei principi etici nel nostro modo di<br />

pensare l'economia, se lasciamo fare alla legge del profitto, noi<br />

occidentali, razionali e «civilizzati», continueremo a correre per<br />

settimane dietro a un piccolo pollo. Ma non per molto ancora.<br />

18


Note alla Prefazione<br />

1. Gilbert Rist, Lo sviluppo. Storia di una credenza occidentale, Bollati<br />

Boringhieri, Torino, 1997.<br />

2. Wolfgang Sachs, Archeologia dello sviluppo, Macro Edizioni, Forlì, 1992, p. 33.<br />

3. Nicholas Georgescu-Roegen, Energia e miti economici, Bollati Boringhieri,<br />

Torino, 1998.<br />

4. Rist, Lo sviluppo, cit., p. 195.<br />

5. <strong>Serge</strong> <strong>Latouche</strong>, L'altra Africa. Tra dono e mercato, Bollati Boringhieri, Torino,<br />

1997, p. 103.<br />

6. Ivan <strong>Il</strong>lich, La convivialità, Mondadori, Milano, 1973.<br />

7. Zygmunt Bauman, La società dell'incertezza, il Mulino, Bologna, 1999.<br />

8. Gilbert Rist, Le développement, une notion occidentale, «Interculture», n. 95,<br />

1987, p. 17.<br />

19


INTRODUZIONE<br />

È giunto il <strong>tempo</strong><br />

Osservava l'umorista Pierre Dac negli anni Sessanta del secolo<br />

scorso: «È ancora troppo presto per dire che ormai è troppo<br />

tardi». Oggi, purtroppo, non è più così. Dopo il quarto rapporto<br />

del GIEC-IPPC (Gruppo intergovernativo sull'evoluzione del<br />

clima) del 2007 e ancor più dopo l'aggiornamento dei climatologi<br />

alla riunione di Copenaghen del marzo 2009, sappiamo che<br />

ormai è troppo tardi. Anche se bloccassimo da un giorno all'altro<br />

tutto ciò che provoca un superamento delle capacità di<br />

rigenerazione <strong>della</strong> biosfera (emissione di gas serra,<br />

inquinamento e devastazione di tutta la natura), se, in altre<br />

parole, riducessimo la nostra impronta ecologica 1 fino a<br />

raggiungere un livello sostenibile, avremmo due gradi in più<br />

prima <strong>della</strong> fine del secolo. <strong>Il</strong> che significa: zone costiere<br />

sott'acqua, decine se non centinaia di milioni di profughi<br />

dell'ambiente 2, gravi problemi alimentari, scarsità di acqua<br />

potabile per molte popolazioni 3 e altri disastri<br />

21


ancora. Per dirla in modo più prosaico: «C'è da temere che<br />

l'espressione ‘respirare all'aria aperta’ per i nostri figli finisca<br />

confinata tre le formule di una lingua morta» 4. Nel mese di<br />

dicembre 2009 si è tenuto a Copenaghen il vertice dell'ONU sul<br />

clima, alla cui conclusione si sarebbe dovuto trovare un accordo<br />

tra i vari Stati per mettere un freno alla crescita globale delle<br />

temperature. È stato, una volta di più, il vertice dell'incoerenza. I<br />

governi navigano a vista, privilegiano il breve termine e restano<br />

ancorati all'ideologia <strong>della</strong> crescita. Le gare verbali al rilancio, gli<br />

annunci a effetto diffusi a inizio di conferenza, le sarabande<br />

mediatiche alla fine hanno partorito impegni insufficienti o poco<br />

vincolanti che non potranno impedire la realizzazione di progetti<br />

dubbi, come, per esempio, lo sviluppo <strong>della</strong> rete autostradale<br />

francese abbinato a un rilancio dell'industria automobilistica,<br />

platealmente sostenuto dai nostri dirigenti politici. In questo<br />

modo non si potrà evitare il peggio!<br />

Già nel 1974 René Dumont, agronomo e candidato ecologista<br />

alle presidenziali francesi, ci aveva ammonito: «Se manterremo il<br />

tasso di espansione attuale <strong>della</strong> popolazione e <strong>della</strong> produzione<br />

industriale fino al prossimo secolo, questo non potrà chiudersi<br />

senza il crollo totale <strong>della</strong> nostra civiltà» 5. A sua volta il filosofo<br />

André Gorz ribadiva nuovamente nel 1977: «Sappiamo che il<br />

nostro stile di vita attuale non ha futuro, che mari e fiumi si<br />

isteriliranno, le terre perderanno la fertilità naturale, l'aria nelle<br />

città si farà soffocante e la vita sarà un privilegio al quale<br />

avranno diritto solo gli esemplari selezionati di una nuova razza<br />

umana» 6.<br />

Oggi la catastrofe è arrivata. Stiamo vivendo la sesta<br />

estinzione in massa di specie 7. La quinta, che si era ve-<br />

22


ificata nel Cretaceo, sessantacinque milioni di anni fa, aveva<br />

visto la fine dei dinosauri e di altri grandi animali, probabilmente<br />

in seguito all'urto con un asteroide. Questa sesta, però, presenta<br />

tre differenze non trascurabili rispetto alla precedente. Innanzi<br />

tutto, le specie (vegetali e animali) scompaiono a una velocità tra<br />

le cinquanta e le duecento al giorno 8, pari a un ritmo da mille a<br />

trentamila volte superiore rispetto a quello delle ecatombi delle<br />

ere geologiche passate 9. Nel regno animale, si è passati a un<br />

ritmo di estinzione delle specie da una ogni quattro anni, prima<br />

dell'era industriale, a circa mille all'anno! 10 Così, l'uomo è<br />

direttamente responsabile di questa «deplezione» <strong>della</strong> vita. Ma<br />

alla fine potrebbe esserne proprio l'uomo la vittima principale...<br />

A dare retta a qualcuno, la fine dell'umanità dovrebbe addirittura<br />

arrivare prima del previsto, verso il 2060, a causa di una sterilità<br />

generalizzata dello sperma maschile, per effetto dei pesticidi e di<br />

altri inquinanti organici persistenti, cancerogeni, mutageni o<br />

reprotossici 11.<br />

«<strong>Il</strong> ritmo di estinzione delle specie si è fatto più<br />

rapido»<br />

La sesta estinzione delle specie sarà provocata dall'eccessivo<br />

sfruttamento degli ambienti naturali, dall'inquinamento, dal<br />

frazionamento degli ecosistemi, dall'invasione di nuove specie<br />

predatrici e dal cambiamento climatico. <strong>Il</strong> nostro modo di<br />

produzione porta a un'accelerazione di questo fenomeno.<br />

L'agricoltura produttivista, orgoglio dei nostri uomini politici, è<br />

guidata<br />

23


soprattutto dalla preoccupazione <strong>della</strong> redditività. La<br />

monocoltura, le manipolazioni genetiche, la brevetta-bilità del<br />

vivente al servizio degli interessi delle multinazionali<br />

dell'agribusiness ne rappresentano gli aspetti più evidenti.<br />

Risultato: nel corso dell'ultimo secolo, secondo la FAO, sono<br />

andati perduti circa i tre quarti delle diversità genetiche delle<br />

colture.<br />

Più in generale, chi è responsabile di tutto questo? Gli esperti<br />

di economia ci hanno dimostrato che lo sviluppo aveva permesso<br />

di nutrire milioni di persone, ma si sono guardati bene dal dire<br />

che questa macchina ha continuato la sua corsa, diventata<br />

infernale, fino a provocare oggi un sovrasviluppo o, per dirla<br />

altrimenti, uno sviluppo parassitario. Più che di crescita si può<br />

addirittura parlare di es-crescenza, paragonabile alle metastasi<br />

del cancro. L'es-crescenza è la crescita che travalica l'impronta<br />

ecologica sostenibile e che, per l'Europa, è il preciso corrispettivo<br />

dell'iperconsumo, cioè di un livello di produzione che supera<br />

globalmente quello in grado di permettere il soddisfacimento dei<br />

bisogni «ragionevoli» di tutti. Oltre una data soglia, il costo<br />

marginale <strong>della</strong> crescita supera largamente i benefici.<br />

Paradossalmente, è come se la prospettiva di un suicidio<br />

collettivo ci sembrasse meno insopportabile <strong>della</strong> rimessa in<br />

discussione delle nostre pratiche e del cambiamento dei nostri<br />

stili di vita.<br />

«Si può parlare di es-crescenza paragonabile alle<br />

metastasi del cancro»<br />

«I figli che metteremo al mondo» sottolinea ancora<br />

24


Gorz, «nella loro età matura non utilizzeranno più né l'alluminio<br />

né il petrolio; [...] nel caso di una realiz-zazione dei programmi<br />

nucleari attuali, i giacimenti di uranio saranno allora esauriti» 12.<br />

L'Occidente, imboccando verso la metà del diciannovesimo<br />

secolo la strada «termo-industriale», ha po-tuto concretizzare il<br />

proprio desiderio di sposare la ragione geometrica, ovvero la<br />

crescita infinita, sogno che si era andato sviluppando almeno dal<br />

1750, con la nascita del capitalismo e dell'economia politica. Solo<br />

verso il 1950, però, con l'invenzione del marketing e la<br />

conseguente nascita <strong>della</strong> società dei consumi, si rea-lizza<br />

pienamente l'utopia e il sistema può liberare tutto il proprio<br />

potenziale creativo e distruttivo. Così facendo, costruisce le<br />

strutture <strong>della</strong> catastrofe. <strong>Il</strong> 2050 potrà segnare la fine <strong>della</strong><br />

società <strong>della</strong> crescita. <strong>Il</strong> sogno si trasformerà in un incubo.<br />

L'astronomo reale sir Martin Rees dà una possibilità su due<br />

all'umanità di sopravvivere al ventunesimo secolo 13.<br />

I limiti dello sviluppo fu il titolo italiano, imperfettamente<br />

tradotto, di The Limits of Growth (i limiti <strong>della</strong> crescita), il primo<br />

rapporto del Club di Roma, pubblicato nel 1972. Nelle<br />

conclusioni questo testo precisava che la crescita illimitata in<br />

tutte le sue forme era impossibile, perché il pianeta è un mondo<br />

finito. Trent'anni dopo un nuovo rapporto, realizzato dagli stessi<br />

ricercatori, ha lanciato un appello rigorosamente identico.<br />

Certo, si può essere scettici riguardo agli studi di futurologia,<br />

ma questi hanno il merito di essere infinitamente più seri e<br />

documentati delle solite proiezioni (che si limitano a prolungare<br />

le tendenze in atto) alle quali si ispirano i nostri governanti e gli<br />

organismi<br />

25


internazionali. Sulla base di un modello semplificato che<br />

rappresenta il funzionamento del sistema, gli autori del rapporto<br />

del 2004 hanno esaminato un certo numero di scenari<br />

corrispondenti ad altrettante ipotesi di evoluzione delle variabili.<br />

Tranne quello ancorato a una fede nell'esistenza <strong>della</strong><br />

cornucopia (fondata sul mito del corno dell'abbondanza e<br />

dell'assenza di limiti), gli altri scenari, che non hanno messo in<br />

discussione i principi fondamentali <strong>della</strong> società <strong>della</strong> crescita, ne<br />

prevedono il collasso in relazione a tre principali variabili. La<br />

prima lo colloca verso il 2020, in seguito alla crisi delle risorse<br />

non rinnovabili, la seconda verso il 2040, in seguito alla crisi<br />

dell'inquinamento, la terza verso il 2070, in seguito alla crisi<br />

alimentare.<br />

Un unico scenario appare insieme credibile e sostenibile:<br />

quello <strong>della</strong> frugalità, che corrisponde ai fondamentali <strong>della</strong> via<br />

alla decrescita.<br />

La decrescita! La parola è apparsa per la prima volta nel 1979,<br />

nella traduzione dell'opera principale dell'economista rumeno<br />

Nicholas Georgescu-Roegen 14. Ma l'appello per la costruzione di<br />

un progetto politico con questa etichetta in realtà è stato lanciato<br />

solo nel 2002! La decrescita è ormai rivendicata senza complessi.<br />

<strong>Il</strong> movimento degli obiettori di crescita, nato negli anni Settanta<br />

con il rapporto del Club di Roma e la conferenza di Stoccolma<br />

sull'ambiente, ha così trovato la sua parola d'ordine<br />

provocatoria. La decrescita intriga, inquieta, ma ispira anche un<br />

numero sempre maggiore di persone, che oggi osano farsi<br />

chiamare «obiettori di crescita» o «dimissionari <strong>della</strong> crescita».<br />

<strong>Il</strong> <strong>tempo</strong> <strong>della</strong> decrescita è dunque arrivato! La società <strong>della</strong><br />

frugalità per scelta, che deve emergere dal<br />

26


suo solco, avrà come presupposto quello di lavorare meno per<br />

vivere meglio, di consumare meno ma meglio, di produrre meno<br />

rifiuti, di riciclare di più. Insomma, ritrovare il senso <strong>della</strong> misura<br />

e un'impronta ecologica sostenibile.<br />

«La società <strong>della</strong> frugalità per scelta avrà come<br />

presupposto lavorare meno per vivere meglio»<br />

Ma questo non sarà possibile senza rompere con le nostre<br />

abitudini e quindi con le nostre convinzioni, con la nostra<br />

mentalità. Inventare la felicità a partire dalla convivialità, e non<br />

dall'accumulazione frenetica, presuppone una seria<br />

decolonizzazione dei nostri immaginari, ma le circostanze<br />

possono aiutarci a fare questo passo.<br />

Per realizzare la rottura, è necessario prima di tutto<br />

comprenderne la necessità e capire perché siamo arrivati a<br />

questo punto. E soprattutto, occorre delineare il contenuto<br />

possibile di una società <strong>della</strong> decrescita, perché i tempi nuovi<br />

non appaiano catastrofici e traumatizzanti.<br />

27


Note all'Introduzione<br />

1. L'impronta ecologica (vedi Lessico) è un indice statistico utilizzato per<br />

misurare la richiesta umana nei confronti <strong>della</strong> natura. Essa mette in relazione<br />

il consumo umano di risorse naturali con la capacità <strong>della</strong> Terra di rigenerarle<br />

[N.d.T.].<br />

2. Cinquanta milioni nel 2030, duecento milioni nel 2050 e fino a due miliardi<br />

alla fine del ventunesimo secolo, secondo l'ultimo rapporto del GIEC/IPCC.<br />

3. L'Unesco stima che nel 2050 soffriranno per mancanza d'acqua tra due<br />

(ipotesi minima) e sette (ipotesi massima) miliardi di per-sone.<br />

4. Hervé-René Martin, Éloge de la simplicité volontaire, Flammarion, Paris, 2007,<br />

p. 46.<br />

5. René Dumont, À vous de choisir. L’écologie ou la mort, Pauvert, Paris, 1974<br />

(trad. it.: L'utopia o la morte, Laterza, Bari 1974).<br />

6. André Gorz, Écologie et liberté, Galilée, Paris, 1977, p. 13 (trad. it.: Sette tesi<br />

per cambiare la vita, Feltrinelli, Milano, 1977).<br />

7. Richard Leakey, Roger Levin, The Sixth Extinction, Doubleday, New York,<br />

1995 (trad. it.: La sesta estinzione. La complessità <strong>della</strong> vita e il futuro dell'uomo,<br />

Bollati Boringhieri, Torino, 1998).<br />

8. Edward O. Wilson valuta che ogni anno siamo responsabili <strong>della</strong> scomparsa<br />

di un numero di specie tra le ventisettemila e le sessantatremila. The Diversity<br />

of Life, Belknap Press, Harvard, 1972 (trad. it.: La diversità <strong>della</strong> vita. Per una<br />

nuova etica ecologica, BUR, Milano, 2009).<br />

9. François Ramade, Le Grand Massacre. L'avenir des especès vivantes, Hachette,<br />

Paris, 1999.<br />

10. Giorgio Ruffolo, <strong>Il</strong> capitalismo ha i secoli contati, Einaudi, Torino, 2008, p.<br />

174. È vero che per lo più si tratta di specie meno appariscenti dei mammut, ma<br />

oggi una minaccia molto seria incombe per esempio sulle api.<br />

11. Dominique Belpomme, Bernard Pascuito, Ces maladies créées<br />

28


par l'homme: comment la dégradation de l 'environnement met en péril notre<br />

santé, Albin Michel, Paris, 2004.<br />

12. Gorz, Écologie et liberté, cit., p. 13.<br />

13. Martin J. Rees, Notre dernier siècle?, J.C. Lattès, Paris, 2004 (trad. it.: <strong>Il</strong> secolo<br />

finale. Perché l'umanità rischia di autodistruggersi nei prossimi cento anni,<br />

Mondadori, Milano, 2005).<br />

14. Nicholas Georgescu-Roegen, La Décroissance. Entropie-Écologie-Économie,<br />

Editions Pierre-Marcel Favre, Lausanne, 1979; nuova edizione, Editions Sang de<br />

la terre, Paris, 1995 (raccolta di numerosi saggi di Georgescu-Roegen a cura di<br />

Jacques Grinevald).<br />

29


UNO<br />

La fine del <strong>tempo</strong>: necessità<br />

<strong>della</strong> rottura<br />

<strong>Il</strong> Rinascimento, insieme alla generalizzazione dell'economia di<br />

mercato, ha aperto la strada al capitalismo produttivista e ha così<br />

stravolto il nostro rapporto con il <strong>tempo</strong>, il quale, scandito<br />

artificialmente dall'orologio meccanico, contato e ricontato,<br />

diventa l'elemento centrale dell'economia. Bisogna produrre<br />

sempre di più in un <strong>tempo</strong> dato. Bisogna accelerare i ritmi<br />

dell'esistenza e abbreviare la durata (anche quella di vita degli<br />

oggetti). <strong>Il</strong> presente svanisce in un'eternità virtuale. Certo,<br />

viviamo più a lungo (in media), ma senza avere mai il <strong>tempo</strong> di<br />

vivere.<br />

1. <strong>Il</strong> <strong>tempo</strong> schiacciato del produttivismo<br />

Nell'età moderna gli uomini avevano manifestato una fede cieca<br />

nel progresso spontaneo. Ognuno, con vinto che il <strong>tempo</strong><br />

dell'innovazione non potesse in-<br />

31


terrompere il suo volo, affermava autorevolmente quello che era<br />

tanto un fatto evidente quanto una certezza: «Non si può fermare<br />

il progresso!». E chi osava ostacolarne il cammino era bollato<br />

come un orribile reazionario.<br />

«Radersi più in fretta per avere più <strong>tempo</strong> per<br />

progettare un apparecchio che rada ancora più<br />

in fretta»<br />

Sempre più lontano, sempre più in alto, sempre più<br />

rapidamente! Questo motto era penetrato nell'immaginario<br />

collettivo. Gli uomini dovevano essere produttivi e partecipare<br />

ogni giorno a una corsa folle contro l'orologio. A suo <strong>tempo</strong>,<br />

Nicholas Georgescu-Roegen aveva denunciato questa frenesia<br />

con la parabola <strong>della</strong> «sindrome circolare del rasoio elettrico»,<br />

che «consiste nel radersi più in fretta per avere più <strong>tempo</strong> per<br />

progettare un apparecchio che rada ancora più in fretta, e così<br />

via all'infinito» 1. Questo processo in apparenza irreversibile<br />

aveva provocato già qualche guasto nel mondo del lavoro verso<br />

la fine del diciannovesimo secolo, quando si era introdotto in<br />

fabbrica il cronometro del taylorismo. L'enorme aumento <strong>della</strong><br />

potenza produttiva dei lavoratori è descritta in termini elogiativi<br />

dal suo ideatore, Frederick W. Taylor, e il salario «a cottimo»,<br />

versato a chi fino a quel momento restava inopportunamente a<br />

gingillarsi, prefigura già il famoso slogan liberista del<br />

ventunesimo secolo: «Lavorare di più per guadagnare di più». <strong>Il</strong><br />

fordismo ha amplificato questo vasto movimento di<br />

dequalificazione del lavoro.<br />

32


I ritmi di produzione, divenuti infernali nella seconda metà del<br />

ventesimo secolo, hanno prodotto all'interno <strong>della</strong> fabbrica<br />

disfunzioni (assenteismo, incremento dei tassi di turnover, pezzi<br />

difettosi mandati allo scarto, calo <strong>della</strong> qualità dei prodotti...)<br />

nocive per la sacrosanta produttività. È a questo punto<br />

necessario rompere la monotonia di un lavoro frammentato,<br />

parcellizzato, devitalizzato. Negli ambienti padronali si invoca<br />

allora un allargamento e arricchimento delle mansioni, e il<br />

toyotismo è ben presto presentato come il rimedio alla crisi del<br />

sistema taylorista-fordista. Ma non cambia niente, perché il<br />

lavoratore, ridiventato in apparenza più responsabile, rimane<br />

subordinato alle ingiunzioni del cronometro. <strong>Il</strong> just-in-time<br />

permette di ridurre le scorte e i costi di produzione, ma lascia la<br />

porta aperta alla flessibilità del lavoro e quindi alla precarietà.<br />

Una ricerca dell'OMD Worldwide, commissionata da Yahoo!, è<br />

addirittura arrivata alla conclusione che, sfruttando il<br />

multitasking tipico di una gioventù ultrarapida, sarebbe possibile<br />

indurre questa nuova generazione a svolgere fino a<br />

quarantaquattro ore di attività al giorno! 2<br />

Anche il prolungamento <strong>della</strong> durata <strong>della</strong> vita è percepito<br />

come uno dei vantaggi dello sviluppo economico occidentale. I<br />

notevoli progressi <strong>della</strong> medicina hanno accresciuto dovunque la<br />

speranza di vita, che è notevolmente aumentata anche nei paesi<br />

del Sud. In quelli sviluppati, dal diciannovesimo al ventesimo<br />

secolo si è passati con decisione da circa trent'anni a circa<br />

settant'anni di vita media. Tuttavia, certi spiriti tormentati, le cui<br />

riserve non sono sinonimo di oscurantismo, non si rassegnano ad<br />

accettare con simpatia i progressi <strong>della</strong> medicina. Non si fidano<br />

di una ricerca il<br />

33


cui disinteresse è stato soppiantato da fini ben precisi, dato che i<br />

ricercatori sono più spesso al servizio dei poteri economici e<br />

politici che dei cittadini. Per fare un esempio, solo il 10% degli<br />

stanziamenti per le ricerche mediche è investito per trovare la<br />

cura delle malattie che colpiscono il 90% <strong>della</strong> popolazione più<br />

povera 3. È d'altronde vero che, tra il 1945 e il 1975 (il trentennio<br />

definito «glorioso» da alcuni rinomati economisti), la torta <strong>della</strong><br />

crescita si è fatta più grande e la sua spartizione è apparsa meno<br />

disuguale; ed è vero che gli uomini vivono più a lungo, e il merito<br />

va ai ricercatori.<br />

Tuttavia, proprio questo porta a un inedito problema<br />

demografico, che Jacques Ellul ha illustrato così: «La società si fa<br />

carico di una massa notevole di vecchi che bisogna mantenere e<br />

curare. Si avvia allora una rincorsa folle: per compensare la gran<br />

quantità di vecchi, bisogna fare ancora più figli, perché la<br />

piramide delle età non poggi sulla punta. Ma questa mi pare una<br />

colossale mancanza di lungimiranza! Infatti, una tale esigenza di<br />

raddoppiare o triplicare il numero dei bambini per assicurare la<br />

produzione necessaria al mantenimento dei vecchi finirà per<br />

produrre un numero doppio di lavoratori entro vent'anni! Ma tra<br />

sessant'anni avremo così un numero doppio o triplo di vecchi... è<br />

necessario continuare? Vorrebbe dire che in cinquant'anni la<br />

popolazione di un paese si sarebbe moltiplicata circa per dieci!<br />

Semplicemente assurdo!» 4.<br />

Questa torta, gonfiata artificialmente grazie al lievito del<br />

progresso tecnico, è ormai impregnata di veleni nocivi. Di fatto la<br />

qualità (puramente fisiologica) <strong>della</strong> vita si sta riducendo. È<br />

aumentato il numero degli handicap, la salute è diventata più<br />

fragile. Proprio la modernizzazione è ritenuta responsabile di ta-<br />

34


lune pandemie generalmente attribuite alla vita selvaggia.<br />

L'anofele <strong>della</strong> malaria, che in origine era un parassita delle<br />

scimmie, è destinata a convivere con gli esseri umani in seguito<br />

alla distruzione delle foreste. Secondo Edward Goldsmith 5,<br />

«l'abbattimento delle foreste amazzoniche ha messo l'uomo in<br />

contatto con la leishmaniosi, che una volta colpiva i bradipi e gli<br />

armadilli». Alcuni ricercatori, come il dottor Dominique<br />

Belpomme, hanno lanciato l'allarme, evidenziando con forza il<br />

legame tra la diffusione del cancro (soprattutto tra i bambini) e<br />

la proliferazione dei prodotti tossici che avvelenano la terra e<br />

l'acqua. «Oggi» arriva a concludere Ellul, «abbiamo più<br />

opportunità di vita, viviamo più a lungo, ma viviamo un'esistenza<br />

più limitata e non abbiamo la stessa energia vitale. Siamo<br />

continuamente costretti a compensare nuove carenze» 6. Siamo<br />

sempre più dipendenti da protesi e trattamenti che ci tengono in<br />

vita, ma riducono le nostre possibilità di gustarla.<br />

È nato così un consumo sfrenato di prodotti medici e<br />

farmaceutici e il budget dei servizi sociali non basta più a farsi<br />

carico dei bambini e degli adulti disabili, né a curare tutti i malati<br />

che necessitano di terapie costose, come il ricorso alla dialisi. In<br />

realtà, la politica sanitaria non può che essere una mostruosità. E<br />

le menti più avvedute ritengono che, prima di lanciarsi in nuove<br />

imprese, sarebbe giudizioso trovare soluzioni sociali accettabili<br />

per questi problemi. Non sarebbe stato decisamente più<br />

ragionevole impegnarsi nella lotta all'inquinamento invece di far<br />

proliferare i tumori e costruire poi, con costi esorbitanti, nuovi<br />

centri di cura? Peraltro, si ritiene che la stessa speranza di vita<br />

abbia ormai imboccato la via del declino.<br />

35


2. Condannati alla velocità<br />

Sapevamo che per sua natura il capitalismo non è mai statico<br />

e non può diventarlo, perché l'impulso principale di questa<br />

macchina spaventosa è la ricerca ossessiva di un profitto<br />

immediato sempre più grande. Rinserrato in una logica<br />

evoluzionista, per non scomparire è condannato a crescere e poi<br />

a fare in modo di espandere ulteriormente questa crescita. La<br />

storia accelera. «Oggi viviamo sotto il giogo di un <strong>tempo</strong><br />

standardizzato, un <strong>tempo</strong> industriale che ci viene imposto,<br />

qualsiasi cosa si faccia, dovunque ci si trovi. Un <strong>tempo</strong> unico che,<br />

come la moneta unica, ha un unico scopo: metterci tutti in<br />

concorrenza, da un capo all'altro del pianeta. Per sopravvivere<br />

dentro questo <strong>tempo</strong> unico, dobbiamo correre più svelti degli<br />

altri. Ci siamo fatti rubare il <strong>tempo</strong>!» 7. Se la bicicletta del<br />

capitalismo non continua ad andare avanti, cade ed è la<br />

catastrofe!<br />

«<strong>Il</strong> capitalismo è condannato a crescere e poi a<br />

fare in modo di espandere ulteriormente questa<br />

crescita»<br />

In effetti, il semplice rallentamento <strong>della</strong> crescita fa<br />

precipitare le nostre società nello sconforto, a causa <strong>della</strong><br />

disoccupazione, dell'allargamento <strong>della</strong> forbice tra ricchi e<br />

poveri, degli attacchi al potere d'acquisto dei meno abbienti e<br />

dell'abbandono dei programmi sociali, sanitari, educativi,<br />

culturali e ambientali che assicurano un minimo di qualità <strong>della</strong><br />

vita. La crescita ha incontestabilmente permesso, grazie alle lotte<br />

so-<br />

36


ciali, di strappare qualche miglioramento delle condizioni<br />

materiali per le classi popolari dei paesi del Nord, a spese <strong>della</strong><br />

natura e dei paesi del Sud. Un tasso di crescita negativo<br />

rappresenta una spaventosa minaccia! Ma questa regressione<br />

sociale e civile è appunto ciò che ci aspetta se non cambiamo<br />

strada. Oggi quel colossale meccanismo si è imballato. La crisi<br />

finanziaria, cominciata nel 2007-2008 negli Stati Uniti a causa di<br />

un'offerta intossicata di crediti ipotecari a categorie sociali<br />

finanziariamente fragili, ha invaso lo spazio economico mondiale.<br />

E si estende come una crisi economica e sociale che a qualcuno<br />

ricorda il periodo doloroso degli anni Trenta, quando la<br />

recessione mondiale aveva condannato alla disoccupazione, in<br />

brevissimo <strong>tempo</strong>, circa venti milioni di lavoratori.<br />

In una conferenza di qualche <strong>tempo</strong> fa, André Gorz aveva già<br />

osservato: «Questo calo <strong>della</strong> crescita e <strong>della</strong> produzione, che in<br />

un altro sistema avrebbe potuto essere un bene (meno<br />

automobili, meno rumore, più aria, giornate lavorative più brevi<br />

ecc.), avrà conseguenze completamente negative: i prodotti<br />

inquinanti diventeranno beni di lusso, inaccessibili alla massa,<br />

pur restando alla portata dei privilegiati; le disuguaglianze si<br />

faranno più profonde; i poveri diventeranno relativamente più<br />

poveri e i ricchi più ricchi» 8. Questa decrescita subita non ha<br />

chiaramente niente a che vedere con una decrescita voluta. <strong>Il</strong><br />

progetto di una società <strong>della</strong> decrescita è radicalmente diverso<br />

dalla decrescita negativa. <strong>Il</strong> primo è paragonabile a una dieta<br />

intrapresa volontariamente per migliorare il nostro benessere<br />

quando un consumo eccessivo ci presenta un rischio di obesità.<br />

La seconda è una dieta forzata che può portare alla morte per<br />

inedia.<br />

37


«Questa decrescita subita non ha chiaramente<br />

niente a che vedere con una decrescita voluta»<br />

3. L 'obsolescenza programmata<br />

I discorsi politici del Sessantotto avevano dato grande<br />

rilevanza alla critica <strong>della</strong> società dei consumi. Ma stranamente il<br />

nostro attaccamento alla democrazia, alla libertà di espressione,<br />

al «godimento senza limiti», al libero fiorire delle nostre<br />

personalità, alla completa realizzazione delle nostre identità<br />

individuali, non sarebbe riuscito a sottrarci alle influenze del<br />

mercato e del consumo, trasformandoci in vittime consenzienti<br />

dell'acquisto forzato.<br />

Siamo così finiti incastrati in un circolo vizioso: compriamo<br />

perché la società possa continuare a produrre e garantirci quel<br />

lavoro che ci è necessario per pagare quello che abbiamo<br />

comprato. La pubblicità, la cui funzione principale avrebbe<br />

dovuto essere quella di informare, ha fornito l'energia per questa<br />

spirale infinita, passando rapidamente dall'informazione alla<br />

«persuasione occulta». <strong>Il</strong> nostro impiego del <strong>tempo</strong>, prigioniero<br />

di un condizionamento totalitario, è stato organizzato,<br />

pianificato, regolato, ritmato dall'utilizzazione di prodotti,<br />

«prodotti, sempre prodotti, che scandiscono, ritualizzano<br />

l'esistenza quotidiana», ha osservato François Brune 9. Avidi di<br />

pubblicità, i grandi media hanno preso il controllo dei nostri<br />

ritmi di vita, mentre i nostri comportamenti gregari hanno gene-<br />

38


ato una «felicità conforme» ai codici stabiliti, scelti, imposti<br />

dall'ideologia pubblicitaria. «A forza di veder fare, si fa come si<br />

vede» 10.<br />

Poiché questo messaggio pubblicitario insistente, ripetitivo,<br />

ha iniziato a provocare nel consumatore un inizio di resistenza, è<br />

stato allora indispensabile avviare di nuovo la pompa<br />

dell'iperconsumo per ridare vita alla pulsione all'acquisto. E i<br />

commercianti hanno colto perfettamente il vantaggio che<br />

avrebbero potuto ricavare dalla riduzione <strong>della</strong> durata degli<br />

oggetti. Si sono così occupati di noi, dei nostri desideri, per<br />

mantenere intatto il meccanismo dell'acquisto.<br />

«È stato allora indispensabile avviare di nuovo la<br />

pompa dell'iperconsumo»<br />

L'obsolescenza calcolata, programmata, ha trovato così un<br />

complice nella pubblicità. Sono diventati prodotti a perdere non<br />

solo fazzoletti, rasoi, accendini, piatti, bicchieri, ma anche tutti i<br />

beni definiti durevoli dagli economisti appassionati di tipologia,<br />

finiti rapidamente fuori uso perché diventava inconcepibile<br />

ripararli. L'effimero ha cominciato a farla da padrone, generando<br />

costantemente novità e alimentando la frenesia acquisitiva.<br />

Qualche <strong>tempo</strong> fa (maggio 2008) in una caserma dei pompieri<br />

di New York si è scoperta una lampada a filamento di carbonio<br />

che era in funzione dal 1896! L'ex presidente Bush ha celebrato il<br />

fatto come una prova <strong>della</strong> superiorità <strong>della</strong> tecnologia<br />

americana.<br />

39


Avrebbe fatto meglio invece a denunciare il cartello dei<br />

produttori di lampadine che ha deciso di limitarne la durata a<br />

duemila ore, a danno dei consumatori e dell'ambiente.<br />

D'altronde, è difficile opporre resistenza quando<br />

l'obsolescenza rimanda all'ordine simbolico, quando la<br />

propaganda pubblicitaria ci persuade che i prodotti sono andati<br />

fuori moda prima ancora di essere danneggiati nelle loro funzioni<br />

vitali. Televisori, computer, telefoni portatili non hanno più<br />

bisogno di rompersi per finire in discarica. Basta l'uscita di un<br />

nuovo modello per spingerci ad abbandonare quello che è<br />

diventato improvvisamente vecchio, soprattutto se lo fanno<br />

anche i vicini. Si cambia l'apparecchio proprio come le signore<br />

eleganti cambiano il guardaroba, in ossequio agli imperativi <strong>della</strong><br />

moda. <strong>Il</strong> mimetismo e la rivalità ostentata diventano complici di<br />

un mostruoso meccanismo per produrre rifiuti. E il trionfo <strong>della</strong><br />

colonizzazione dell'immaginario da parte dell'ideologia<br />

consumista.<br />

4. L’eternità al presente: lo sviluppo sostenibile<br />

La norvegese Go Harlem Brundtland è stata primo ministro<br />

del suo paese negli anni Ottanta e ha presieduto la commissione<br />

mondiale dell'ONU per l'ambiente e lo sviluppo, che nel 1987<br />

pubblicò un rapporto nel quale si definiva il concetto di sviluppo<br />

sostenibile. Si trattava di una modalità di sviluppo economico che<br />

avrebbe permesso di soddisfare i bisogni presenti senza<br />

compromettere la possibilità delle generazioni future di<br />

soddisfare i propri.<br />

40


<strong>Il</strong> concetto di sviluppo sostenibile ha incontrato in brevissimo<br />

<strong>tempo</strong> un enorme successo. Chi parlava di sviluppo sostenibile<br />

era subito inquadrato tra i difensori <strong>della</strong> natura. È una<br />

valutazione giustificata?<br />

In nome dello sviluppo sostenibile, alcuni fautori <strong>della</strong><br />

preservazione del pianeta erano indubbiamente pronti a<br />

condurre azioni individuali o collettive finalizzate ad allertare<br />

quanti ancora ritenevano che la crisi ecologica fosse solo una<br />

simpatica fantasia. Stranamente, sono stati proprio questi ultimi<br />

che si sono poi impadroniti in massa di quello slogan. In realtà, il<br />

«concetto» di sviluppo sostenibile conteneva fin dall'origine<br />

un'ambiguità. <strong>Il</strong> termine «sostenibile» si riferiva alla natura, che<br />

era così preservata in modo durevole, oppure indicava<br />

esclusivamente lo sviluppo economico, che non potrebbe<br />

sostenersi all'infinito essendo il pianeta, per definizione, finito?<br />

Ci siamo trovati in presenza dell'unione di due termini dal<br />

significato opposto. Sviluppo sostenibile è un ossimoro, una<br />

figura retorica che stimola la nostra attenzione mentre<br />

anestetizza il nostro senso critico.<br />

«<strong>Il</strong> «concetto» di sviluppo sostenibile conteneva<br />

fin dall'origine un'ambiguità»<br />

<strong>Il</strong> discorso del futuro presidente <strong>della</strong> Repubblica francese,<br />

nel settembre 2006, intriso di una certa doppiezza, ne è stato un<br />

bell'esempio: «Lo sviluppo sostenibile» affermava, «non è la<br />

crescita zero, è la crescita durevole». In realtà, si trattava di farci<br />

inghiottire la<br />

41


pillola amara dello sviluppo e di indorarcela attribuendoci una<br />

buona coscienza ecologica!<br />

Quando, il 20 gennaio 1949, pronunciò il tradizionale discorso<br />

sullo stato dell'Unione, il presidente americano Harry Truman<br />

dava il via a un programma economico audace, destinato a<br />

mettere i vantaggi del primato tecnologico e del progresso<br />

industriale degli Stati Uniti «al servizio del miglioramento e <strong>della</strong><br />

crescita delle regioni sottosviluppate». Si poteva mettere in<br />

discussione una prospettiva del genere che mirava al benessere<br />

universale? La pace e la libertà erano pro-messe per l'eternità a<br />

tutte le nazioni povere (non comuniste), a condizione che<br />

aderissero al tipo di sviluppo occidentale, il quale diventava la<br />

regola, il modello che era opportuno riprodurre e generalizzare.<br />

Quello sviluppo presentava incontestabilmente una dimensione<br />

etnocentrica, e gli Stati Uniti, non senza una certa arroganza,<br />

instauravano allora un nuovo imperialismo culturale ed<br />

economico.<br />

È facile vedere come in realtà quello sviluppo sia ancora lo<br />

sviluppo del capitalismo, un passo ulteriore verso<br />

l'occidentalizzazione del mondo che Marx aveva preannunciato e<br />

denunciato. Quarant'anni dopo, nel 1989, sempre in nome dello<br />

sviluppo, gli Accordi di Washington raccomandavano agli Stati di<br />

abbassare le tasse, liberalizzare il commercio, favorire le<br />

privatizzazioni e attuare una deregulation finanziaria. Venivano<br />

di conseguenza presentati ai paesi poveri, in cambio dei prestiti<br />

concessi dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca<br />

mondiale, piani di adeguamento strutturale che facevano proprie<br />

quelle raccomandazioni. Così facendo, il mondo occidentale<br />

avrebbe inflitto sofferenze inaudite a popoli che non avevano<br />

mai<br />

42


espresso il desiderio di essere convertiti al suo modello. Lo<br />

sviluppo era anche lo sviluppo delle disuguaglianze sociali.<br />

L'ideologia neoliberale, che aveva conquistato il mondo verso la<br />

fine degli anni Settanta con l'ascesa di Ronald Reagan e di<br />

Margaret Thatcher alla guida degli Stati Uniti e <strong>della</strong> Gran<br />

Bretagna, si basava sull'esasperazione <strong>della</strong> concorrenza<br />

economica. In nome <strong>della</strong> crescita che alimentava lo sviluppo, i<br />

prodotti, tutti i prodotti (compresi i servizi), dovevano essere<br />

competitivi. Conveniva a quel punto comprimere tutto il<br />

comprimibile, a partire dal costo del lavoro. Si è così ridotta la<br />

quota dei salari nel PIL. In Francia, secondo l'INSEE (Institut<br />

National de la Statistique et des Etudes Economiques), questa<br />

quota, che raggiungeva il 74% nei primi anni Ottanta, si è<br />

attestata al 65% all'inizio del ventunesimo secolo. Gli utili da<br />

capitale si sono dunque sviluppati più rapidamente dei redditi da<br />

lavoro, e le famiglie francesi materialmente più favorite hanno<br />

ottenuto dai propri risparmi finanziari (azioni, obbligazioni)<br />

redditi in progressione costante. In questo contesto, i manager<br />

responsabili <strong>della</strong> strategia di crescita del proprio impianto di<br />

produzione sono stati costretti a cercare un compromesso con gli<br />

azionisti e non hanno esitato a effettuare quelli che qualcuno ha<br />

chiamato i licenziamenti borsistici. A sua volta, l'impiego<br />

precarizzato in ragione <strong>della</strong> fles-sibilità del lavoro è diventato la<br />

regola. <strong>Il</strong> salariato ha dovuto adattarsi, piegare la schiena,<br />

accettare condizioni di lavoro e di orario dettate dalla logica<br />

produttivistica dell'impresa. E la stessa cosa è accaduta in tutti i<br />

paesi «sviluppati», che di conseguenza hanno visto il proprio<br />

equilibrio sociale pesantemente scosso.<br />

Come sempre, il capitalismo si è confermato deva-<br />

43


stante, portatore di ingiustizia, malessere e disuguaglianza:<br />

crescita e sviluppo ne hanno favorito l'espansione. <strong>Il</strong> «glorioso<br />

trentennio» (1945-1975), più che un autentico miglioramento<br />

generalizzato del benessere, è stato l'occasione per mettere un<br />

freno al dilagare delle frustrazioni, che sarebbero diventate<br />

insostenibili verso la fine degli anni Settanta, ai primi segnali<br />

<strong>della</strong> crisi sociale, economica e culturale. <strong>Il</strong> malessere delle<br />

periferie allo sfascio si è profondamente radicato nella società<br />

francese. La competizione e la concorrenza, valori dominanti<br />

nella società <strong>della</strong> crescita, hanno prodotto carenze, esclusioni,<br />

rifiuti, e una certa condiscendenza nei confronti di chi non ha<br />

potuto o saputo adattarsi all'implacabile modernità. La crescita si<br />

è rivelata il problema e non la soluzione: ha generato squilibri di<br />

ogni sorta (disoccupazione, precarietà, mancanza di abitazioni)<br />

che hanno colpito soprattutto le giovani generazioni. La<br />

pressione sull'ambiente non mancherà di provocare nuove<br />

disparità, le cui prime vittime sono destinate a essere i meno<br />

abbienti.<br />

«La crescita si è rivelata il problema e non la<br />

soluzione»<br />

Quale sguardo, se non quello dell'indignazione, si può peraltro<br />

posare su una società, sedicente democratica, dove certi manager<br />

di grandi gruppi percepiscono ogni anno redditi talora pari a<br />

cinquecento annualità di un salario minimo? Tanto più che<br />

costoro hanno messo in mostra la loro oscena sete di potere<br />

ostentando consumi tanto lussuosi quanto superflui e<br />

44


per giunta inquinanti! Che sia umano, sostenibile o durevole, che<br />

rappresenti agli occhi di qualcuno una nobile ambizione, lo<br />

sviluppo resta comunque intriso di un'ideologia, quella<br />

dell'Occidente, che ambisce a imporre le proprie regole, i propri<br />

valori, il proprio stile di vita, che vuole promuovere dappertutto<br />

l'efficienza, la redditività, la razionalità economica. Mentre l'ONU<br />

ha continuato ad auspicare uno sviluppo che fosse sostenibile, le<br />

emissioni di gas serra, lo sconvolgimento climatico (ormai un<br />

dato di fatto), le manipolazioni biologiche, le varie forme di<br />

inquinamento, lo sfruttamento delle risorse naturali, le violenze,<br />

l'insicurezza sociale, la precarietà, il malessere, le disuguaglianze<br />

hanno assunto un'ampiezza senza precedenti al Nord come al<br />

Sud.<br />

5. <strong>Il</strong> <strong>tempo</strong> del virtuale<br />

Lo schiacciamento del <strong>tempo</strong> è stato un aspetto essenziale<br />

<strong>della</strong> distruzione del mondo concreto, di quella «perdita dei<br />

sensi», provocata dalla rivoluzione dei tempi moderni, che già<br />

Ivan <strong>Il</strong>lich denunciava. <strong>Il</strong> processo di trasformazione degli esseri<br />

e delle cose in atomi numerici è nello stesso <strong>tempo</strong> un immenso<br />

lavoro intellettuale di astrazione e una mostruosa impresa di<br />

alienazione dell'uomo e <strong>della</strong> natura. Tutto, grazie al pensiero,<br />

deve ridursi a numeri, diventare calcolabile, in pratica<br />

trasformarsi in merce scambiabile.<br />

Si è osservato a ragione che l'invenzione dell'orologio in<br />

Occidente, in pieno Medio Evo, ha segnato il punto di partenza di<br />

questa rivoluzione dei tempi moderni, cioè la nascita <strong>della</strong><br />

società <strong>della</strong> crescita.<br />

45


La leggenda che ne attribuisce la messa a punto o il<br />

perfezionamento a Gerberto d'Aurillac, il papa dell'anno mille<br />

sospettato di stregoneria, fa trasparire un giusto presentimento<br />

sulla natura diabolica di questo strumento che impone la sua<br />

regola al mondo. Si è spesso visto in Silvestro II, una figura dotata<br />

di un'intelligenza fuori del comune, un prototipo del dottor<br />

Faust, una prefigurazione del progetto moderno di resa<br />

artificiale del mondo e quindi <strong>della</strong> sua desacralizzazione. Non a<br />

torto gli ortodossi non hanno mai voluto introdurre l'orologio<br />

nelle loro chiese.<br />

«Tutto deve ridursi a numeri, diventare<br />

calcolabile, in pratica trasformarsi in merce<br />

scambiabile»<br />

<strong>Il</strong> <strong>tempo</strong>, fattosi meccanico e reversibile, comincia a perdere la<br />

sua concretezza. Non è più legato ai cicli solari e lunari, al ritmo<br />

delle stagioni e delle mietiture, degli eventi e degli avventi. I<br />

riferimenti al vissuto non sono più dati dalle mansioni (seminare,<br />

falciare, raccogliere, potare gli alberi da frutta... ), né ritmati dalle<br />

feste religiose o profane, bensì rispondono a un meccanismo<br />

astratto. <strong>Il</strong> <strong>tempo</strong> diventa una grandezza omogenea che non ha<br />

più un legame con il vissuto, a sua volta trasformato in una<br />

poltiglia inconsistente. Tutte le attività si fondono nel lavoro,<br />

tutti i valori nel denaro. Lavoro, <strong>tempo</strong>, denaro sono una sola e<br />

identica sostanza monetizzabile, sulla quale può speculare il<br />

mercante. Tutti i giorni di festa sono soppressi, si introduce il<br />

lavoro di domenica, il lavoro di notte e, ov-<br />

46


viamente, il lavoro di donne e bambini. L'economia del <strong>tempo</strong> è<br />

anche la sua economicizzazione. Conti-nuando a risparmiare sul<br />

<strong>tempo</strong>, contabilizzandolo fino al nanosecondo per approfittarne<br />

(nel senso di trarne un profitto), lo si è letteralmente perso.<br />

Perso per voler guadagnare troppo.<br />

La rarefazione del <strong>tempo</strong> da vivere è rigorosamente<br />

proporzionale all'allungamento <strong>della</strong> durata <strong>della</strong> vita, così<br />

ridotta a una sopravvivenza prolungata, come l'ha definita Guy<br />

Debord. <strong>Il</strong> fatto che si traduca in un'accumulazione sfrenata di<br />

occupazioni, o di <strong>tempo</strong> libero consumato, non cambia per niente<br />

le cose. La vita rimane solo consumo e consumazione di <strong>tempo</strong>,<br />

di lavoro, di denaro. L'uomo con<strong>tempo</strong>raneo non vive più nel<br />

<strong>tempo</strong>, e così il <strong>tempo</strong> libero è diventato un nonsenso, una cosa<br />

insopportabile. «Incarnata in un ethos che infantilizza» dice<br />

Benjamin Barber, «questa liberazione nei confronti del <strong>tempo</strong> ha<br />

spinto a trascurare la storia e a ignorare stupidamente la nostra<br />

mortalità […]. I prodotti di consumo che compriamo ci<br />

garantiscono l'immunità dall'invecchiamento: siamo<br />

allegramente installati in un presente a<strong>tempo</strong>rale, quindi<br />

provvisoriamente immortali» 11.<br />

Anche in questo caso l'automobile, oggetto emblematico <strong>della</strong><br />

modernità, svolge un ruolo non trascurabile. «Con l'ipotetica<br />

rapidità dell'automobile» scrive Yves Cochet, «si verifica un<br />

esaurimento del <strong>tempo</strong>: quanto più si va veloci, tanto meno<br />

contano il passato e il futuro. <strong>Il</strong> <strong>tempo</strong> del trasferimento è un<br />

<strong>tempo</strong> perso tra due presenti, tra il da dove si viene e il dove si<br />

va. La velocità che si fa concreta attraverso l'automobile fa<br />

credere che sia abolita la durata del passaggio tra punto di<br />

partenza e punto di arrivo.<br />

47


Muoversi rapidi significa eliminare l'attesa, il senso <strong>della</strong> durata.<br />

Al con<strong>tempo</strong>, lo spazio attraversato viene abolito come spazio<br />

singolo, vivo, sensibile: diventa spazio puro, senza significato. Nei<br />

trasporti rapidi perdiamo l'esperienza sensibile del movimento.<br />

Resta soltanto un vago passaggio virtuale attraverso un<br />

paesaggio anonimo, come la proiezione di una pellicola sullo<br />

schermo. La prospettiva fantasmatica dello spostamento<br />

produttivistico è il teletrasporto istantaneo, senza frapposizioni<br />

di <strong>tempo</strong> e di spazio. [...] Dopo il <strong>tempo</strong> e lo spazio, è il corpo<br />

stesso che tende a scomparire» 12. Parallelamente, anche le nuove<br />

tecnologie (computer, internet, telefoni portatili, posta<br />

elettronica), senza le quali non sarebbe stata possibile la<br />

costruzione di un mercato finanziario globale, hanno favorito<br />

l'immersione nel virtuale, destrutturando il <strong>tempo</strong> e lo spazio.<br />

«L'informatizzazione del mondo spinge la<br />

società <strong>della</strong> crescita verso l'assurdità più<br />

estrema»<br />

Nel 2009 erano in funzione 1,1 miliardi di computer e 3,3<br />

miliardi di telefoni portatili. <strong>Il</strong> computer più potente era in grado<br />

di fare 280.000 miliardi di operazioni al secondo. Una cifra che<br />

dà le vertigini! I fan del virtuale vorrebbero addirittura farci<br />

vivere in una «etere-sfera» alla quale chiunque potrebbe<br />

collegarsi. Saremmo così tutti agganciati a una rete<br />

«telecosmica» virtuale, anche se i nostri contatti reali con una<br />

popolazione reale andrebbero perduti. In cambio, questa<br />

48


informatizzazione del mondo sarebbe l'ambiente adatto a far<br />

sopravvivere una società <strong>della</strong> crescita e contribuirebbe a<br />

sospingerla verso l'assurdità più estrema. La mercificazione del<br />

mondo ha divorato tutto: il lavoro, il <strong>tempo</strong> libero, l'amicizia,<br />

l'amore, il sesso, la cultura, la droga, la violenza, la politica. Un<br />

semplice clic elettronico permette transazioni istantanee da un<br />

capo all'altro del globo, con il trasferimento di somme colossali,<br />

decidendo le sorti di interi popoli.<br />

Peraltro, a causa del gioco terrorista degli interessi composti,<br />

la logica <strong>della</strong> crescita ha smarrito qualsiasi principio di realtà,<br />

distaccandosi dai limiti fisici del mondo vissuto. Con un tasso<br />

annuo di crescita del 2%, il minimo indispensabile secondo tutti i<br />

responsabili, in duemila anni il PIL si moltiplicherebbe per 160<br />

milioni di miliardi! Nello stesso lasso di <strong>tempo</strong>, ma con un tasso<br />

di crescita del sette per mille all'anno, considerato ridicolo dalle<br />

persone serie, il PIL si moltiplicherebbe comunque per 1 milione<br />

di volte, e nel corso di un solo secolo raddoppierebbe, superando<br />

già così quello che gli ecosistemi possono sopportare 13.<br />

«Con un tasso annuo di crescita del 2% in<br />

duemila anni il PIL di moltiplicherebbe per<br />

160 milioni di miliardi!»<br />

Resta solo poco <strong>tempo</strong> per liberarci dall’ossessione <strong>della</strong><br />

velocità e per muoverci alla riconquista del <strong>tempo</strong> e quindi delle<br />

nostre vite.<br />

49


6. Vendere il <strong>tempo</strong><br />

<strong>Il</strong> filosofo e sociologo Jean Baudrillard, in alcune delle sue<br />

opere più importanti, ha puntato il suo sguardo iconoclasta sul<br />

funzionamento simbolico del mondo occidentale. In particolare,<br />

si è messo a osservare il miracolo dell'acquisto, davanti al quale<br />

si prosternano i consumatori. <strong>Il</strong> credito, che sembra avere<br />

un'assonanza con il magico, ha sconvolto la percezione e la<br />

gestione del nostro <strong>tempo</strong>. Prima <strong>della</strong> sua comparsa, l'acquisto<br />

era preceduto dal risparmio, per cui doveva trascorrere un<br />

periodo di faticoso lavoro, spesso lungo e doloroso, prima che<br />

fosse possibile disporre dei mezzi finanziari atti a soddisfare i<br />

bisogni seri, per esempio l'acquisto dei mobili. Bisognava<br />

produrre prima di consumare! Con la monetizzazione delle<br />

economie e lo sviluppo del credito, la logica si è invece ribaltata e<br />

l'immediatezza è stata innalzata a nuovo imperativo sociale:<br />

«Non si deve più rimandare il piacere!».<br />

«<strong>Il</strong> credito ha sconvolto la percezione e la<br />

gestione del nostro <strong>tempo</strong>»<br />

I nuovi oggetti hanno imposto il proprio ritmo agli esseri<br />

umani, mentre prima era l'uomo che imponeva il proprio agli<br />

oggetti. «Per secoli» ha scritto Baudrillard, «si sono succedute<br />

generazioni in un ambiente stabile di oggetti, mentre oggi sono le<br />

generazioni di oggetti che si succedono a un ritmo accelerato in<br />

una stessa esistenza individuale» 14. E conclude così: «<strong>Il</strong> si-<br />

50


stema del credito porta al colmo l'irresponsabilità dell'uomo nei<br />

confronti di se stesso: chi acquista aliena chi paga, anche se si<br />

tratta <strong>della</strong> stessa persona; ma attraverso il suo scarto di <strong>tempo</strong> il<br />

sistema fa sì che non se ne prenda coscienza» 15. D'altronde, il<br />

credito si era già conquistato altri territori, fino a quel momento<br />

protetti dalle tradizioni. Una feroce «selezione artificiale» è<br />

infatti avvenuta tra gli agricoltori e gli allevatori: i più forti, i più<br />

atti a sopravvivere, vittime consenzienti di un nascente<br />

produttivismo, si sono lanciati verso un illusorio arricchimento<br />

abbondantemente alimentato dai debiti, mentre sono scomparsi i<br />

più deboli, ancora legati a pratiche ancestrali.<br />

Le banche commerciali invece detenevano da <strong>tempo</strong> il potere<br />

esorbitante di creare denaro ex nihilo. «Sono i crediti a fare i<br />

depositi» affermavano orgogliosamente i banchieri! Valutando<br />

insufficienti, per far funzionare la macchina dei consumi, le<br />

risorse messe a disposizione dal risparmio, avevano infatti<br />

ribaltato a proprio vantaggio la relazione iniziale, nella quale<br />

erano i depositi che alimentavano i crediti. La quantità di denaro<br />

circolante, determinante per le fluttuazioni dell'attività<br />

economica e l'andamento dei prezzi, dipendeva da decisioni<br />

private prese al di fuori di ogni dibattito democratico. «Tout pour<br />

le peuple, rien par le peuple!» (tutto per il popolo, niente dal<br />

popolo) aveva denunciato Bernard Charbonneau, pensatore e<br />

filosofo, precursore dell'ecologia politica 16. La moltiplicazione<br />

degli scambi commerciali su scala planetaria, che annunciava la<br />

globalizzazione, non era dunque intralciata da alcuna scarsità di<br />

denaro. La macchina capitalista si stava dotando di un nuovo<br />

strumento, un motore potente per la sua irresistibile<br />

51


espansione. La crescita veniva così stimolata grazie a una<br />

proliferazione di debiti riconosciuti e sottoscritti da popoli le cui<br />

capacità di resistenza erano ormai anestetizzate, ma le cui<br />

risorse non dovevano sfuggire alla megamacchina. La spirale<br />

infinita <strong>della</strong> compulsione e del miracolo dell'acquisto<br />

perseverava nella sua instancabile opera di trasformazione del<br />

denaro in feticcio.<br />

La moneta, in origine strumento di intermediazione negli<br />

scambi e unità di conto, era fin lì servita a facilitare le relazioni<br />

commerciali tra gli uomini. Questa funzione primaria era ora<br />

messa seriamente in discussione dall'ampliamento delle<br />

disparità sociali. <strong>Il</strong> sistema finanziario autorizzava infatti i più<br />

audaci e i meno scrupolosi a fare soldi con i soldi. Se in certe aree<br />

del mondo c'erano esseri umani che vivevano con uno o due<br />

dollari al giorno, in altre c'era chi accumulava notevoli ricchezze,<br />

abbondantemente irrorate con stock options o fornite di<br />

paracaduti dorati. Ricchezze riciclate esclusivamente in bolle<br />

speculative che scoppiavano al minimo inciampo <strong>della</strong><br />

congiuntura, provocando crisi spaventose del sistema e<br />

spingendo l'economia mondiale sull'orlo dell'abisso.<br />

La rinuncia al controllo dei movimenti di capitale, favorito<br />

dalla regola ultraliberale delle tre D (deregulation,<br />

disintermediation, decompartmentalization), ci costringeva ad<br />

ammettere che non poteva esistere capitalismo senza crisi<br />

finanziaria. <strong>Il</strong> baco <strong>della</strong> delinquenza finanziaria era penetrato<br />

nella mela capitalista e la rodeva inesorabilmente fino a farla<br />

marcire. Gli scandali finanziari a ripetizione (Enron, Parmalat e<br />

più di recente Bernard Madoff... ), la compravendita di società<br />

(LBO, sistema di leverage buy-out), trasformavano le im-<br />

52


prese in puri strumenti finanziari atti al rapido arricchimento dei<br />

loro proprietari.<br />

«<strong>Il</strong> baco <strong>della</strong> delinquenza finanziaria era<br />

penetrato nella mela capitalista»<br />

Davanti alla sterminata potenza <strong>della</strong> finanzia internazionale,<br />

le «risorse umane» (gli esseri umani trasformati in strumenti di<br />

lavoro) erano ridotte alla voce semplice e volgare di costo di<br />

produzione. Veri imprenditori si trasformavano in delinquenti<br />

dal colletto bianco, insolenti macchine per calcolare i profitti<br />

distribuiti agli azionisti. Qualcuno si è allora ricordato delle<br />

parole di John Maynard Keynes a proposito del denaro: «L'amore<br />

per i soldi come mezzo per procurarsi i piaceri e i beni <strong>della</strong> vita<br />

sarà riconosciuto per quello che è: uno stato morboso piuttosto<br />

ripugnante, una di quelle inclinazioni a metà criminali e a metà<br />

patologiche per curare le quali ci si affida, rabbrividendo, agli<br />

specialisti di malattie mentali» 17. Keynes, uno dei rarissimi<br />

economisti che aveva letto Freud, aveva capito bene quali segnali<br />

mortiferi dell'inconscio si celassero dietro all'attaccamento per il<br />

denaro.<br />

1967: la petroliera Torrey Canyon naufraga al largo <strong>della</strong><br />

Cornovaglia. Diversi milioni di tonnellate di petrolio viscoso<br />

ricoprono le coste inglesi e quelle <strong>della</strong> Bretagna. La marea nera<br />

provoca uno shock e risveglia una nuova coscienza ecologica, che<br />

sarà rafforzata dal progetto di ampliare un campo militare nella<br />

piana di Larzac nel 1974 e dall'inquinamento alla diossina di<br />

Seveso nel 1976. In questo contesto, il potere politico<br />

53


francese presenta l'energia nucleare come il rimedio alla crisi<br />

energetica. I francesi non hanno petrolio, ma qualche idea se la<br />

sono fatta! <strong>Il</strong> nucleare fa paura e preoccupa la parola «centrale»,<br />

alla quale è sempre più spesso accoppiato. Tuttavia, la<br />

tecnocrazia impone la propria decisione senza alcuna<br />

consultazione democratica.<br />

Sulla scena fa così la sua comparsa un'ecologia politica<br />

sovversiva. Nonostante la loro prossimità semantica, ecologia ed<br />

economia si scontrano vigorosamente e, malgrado la sconfitta del<br />

Maggio ‘68, il capitalismo non è forse così invulnerabile come<br />

sembra. I sociologi analizzano scrupolosamente la nuova<br />

contestazione di stampo antiproduttivista, che è ben distante,<br />

come la sua cugina femminista, dalla contraddizione tra capitale<br />

e lavoro; e parlano con entusiasmo di quei «nuovi movimenti<br />

sociali», alternativi, creativi, il cui modello culturale volta le<br />

spalle al vecchio mondo.<br />

«La crisi sociale e la crisi ambientale ci<br />

colpiscono come un boomerang alla fine del<br />

ventesimo secolo»<br />

A metà degli anni Settanta, però, si apre una parentesi: si<br />

ripresenta la crisi economica e la curva <strong>della</strong> disoccupazione si<br />

impenna. <strong>Il</strong> sogno deve cedere il passo al realismo, al<br />

pragmatismo. Con una fuga in avanti in un mondo finanziario<br />

sempre più virtuale dopo l'abbandono dell'ultimo rapporto tra<br />

dollaro e oro nel 1971, il sistema riesce a prolungare l'illusione<br />

statistica <strong>della</strong> crescita. In questo periodo, l'ideologia neolibe-<br />

54


ale traccia inesorabilmente il proprio solco: meno Stato, più<br />

concorrenza, meno regole, più libertà selvaggia, meno tutele e<br />

protezionismo, più scambi. Trionfa la globalizzazione, mostrando<br />

ben presto il proprio volto autentico: maggiore sfruttamento<br />

dell'uomo e <strong>della</strong> natura, finanziarizzazione dell'economia,<br />

deregulation, delocalizzazioni, esclusioni, deterioramento dei<br />

legami sociali, uniformazione culturale, occidentalizzazione del<br />

mondo, degrado del clima e del suolo, deforestazione,<br />

desertificazione... La crisi sociale e quella ambientale ci<br />

colpiscono come un boomerang alla fine del ventesimo secolo. <strong>Il</strong><br />

<strong>tempo</strong> che ci resta è ormai contato e l'umanità si trova davanti a<br />

un muro. <strong>Il</strong> motore dell'economia si è imballato: siamo andati<br />

troppo in fretta e troppo avanti. <strong>Il</strong> fiume dell'economia è<br />

tracimato dagli argini e minaccia di travolgere ogni cosa. Una<br />

decelerazione è più che auspicabile: è indispensabile per la<br />

sopravvivenza. Dobbiamo rallentare, modificare il nostro<br />

rapporto con il <strong>tempo</strong>, cambiare ritmo. È suonata l'ora <strong>della</strong><br />

decrescita!<br />

Note al capitolo<br />

1. Georgescu-Roegen, La décroissance, cit., p. 107.<br />

2. «In una cultura improntata all'infantilismo, il <strong>tempo</strong> stesso è elastico, perché i<br />

gadget elettronici come i TiVo e gli iPod, permettono ai consumatori di sfasare<br />

nel <strong>tempo</strong> il consumo dei contenuti. Così i giovani possono guardare una<br />

pubblicità dell'abbigliamento su uno schermo televisivo (Home Shopping<br />

Network) mentre cercano di confrontare i prezzi su un altro canale (tipo<br />

Google) e segnalare gli abiti agli amici con un terzo (tipo instant messenger), con<br />

una forma di marketing bocca-a-orecchio (buzz): questo modo di operare mul-<br />

55


titasking tre-in-uno permette di comprimere in venti minuti un'ora di lavoro da<br />

consumatore». Benjamin Barber, Comment le capitalisme nous infantilize,<br />

Fayard, Paris, 2007, p. 317 (trad. it.: Consumati. Da cittadini a clienti, Einaudi,<br />

Torino, 2010).<br />

3. Guy Roustang, Le Dictionnaire de l 'autre économie, Folio Actuel, Paris, 2008,<br />

p. 146.<br />

4. Jacques Ellul, Le Bluff technologique, Hachette, Paris, 1988, p. 63.5. Edward<br />

Goldsmith, Le Défi du XXe siècle. Une vision écologique du monde, Editions du<br />

Rocher, Monaco, 1994, p. 262.<br />

G. Ellul, Le Bluff technologique, cit., p. 64.<br />

7. Hervé-René Martin, Claire Cavazza, Nous réconcilier avec la Terre,<br />

Flammarion, Paris, 2009, p. 25.<br />

8. André Gorz, Leur écologie et la notre, conferenza pubblicata sulla rivista «Le<br />

Sauvage» nell'aprile 1974 e poi ripresa come introduzione a Écologie et<br />

politique, Galilée, Paris, 1975 (trad. it.: Ecologica, Jaca Book, Milano, 2009).<br />

9. François Brune, Le Bonheur conforme, Gallimard, Paris, 1996, p. 167.<br />

10. Ibid., p. 242.<br />

11. Barber, Comment le capitalisme nous infantilize, cit., p. 150. 12. Yves Cochet,<br />

Antimanuel d 'écologie, Bréal, Paris, 2009, p. 246. 13. André Lebeau,<br />

L'Engrenage technique, essai sur une menace planétaire, Gallimard, Paris, 2005,<br />

pp. 154-155.<br />

14. Jean Baudrillard, Le Système des objets, Denoel, Paris, 1988, p. 188 (trad. it.:<br />

<strong>Il</strong> sistema degli oggetti, Bompiani, Milano, 2003).<br />

15. Ibid., p. 192.<br />

16. Daniel Cérézuell, Écologie et liberté. Bernard Charbonneau, précurseur de<br />

l'écologie politique, Parangon, Paris, 2006.<br />

17. John Maynard Keynes, Essais sur la monnaie et l 'économie, Payot, Paris,<br />

1990 (trad. it.: Trattato sulla moneta, Feltrinelli, Milano, 1971), citato in Patrick<br />

Viveret, Pourquoi ça ne va pas plus mal, Fayard, Paris, p. 148; Gilles Dostaler,<br />

Bernard Maris, Capitalisme et pulsion de mort, Albin Michel, Paris, 2008, p. 59.<br />

56


DUE<br />

Riabilitare il <strong>tempo</strong><br />

<strong>Il</strong> destino dell'uomo sulla Terra è in tutto e per tutto spirituale e<br />

morale; il regime che questo destino gli impone è un regime di<br />

frugalità. Rispetto alle sue possibilità di consumo, all'infinità dei<br />

suoi desideri, allo splendore dei suoi ideali, le risorse materiali<br />

dell'umanità sono molto limitate: essa è povera, e bisogna che lo<br />

sia, perché altrimenti, a causa dell'illusione dei sensi e <strong>della</strong><br />

seduzione del suo spirito, ricade nell'animalità, si corrompe<br />

nell'anima e nel corpo e perde, proprio per il godimento, i tesori<br />

<strong>della</strong> sua virtù e del suo genio. Tale è la legge che c'impone la<br />

nostra condizione terrestre e che si dimostra nello stesso <strong>tempo</strong><br />

con l'economia politica, con la statistica, con la storia e con la<br />

morale. Le nazioni che perseguono come bene supremo la<br />

ricchezza materiale e i piaceri che essa procura sono quelle che<br />

declinano. <strong>Il</strong> progresso o il perfezionamento <strong>della</strong> nostra specie è<br />

interamente nella giustizia e nella filosofia. [...] Se vivessimo<br />

come raccomanda il Vangelo, in uno spirito di gioiosa povertà,<br />

sulla Terra regnerebbe l'ordine più perfetto.<br />

57<br />

Pierre-Joseph Proudhon 1


È appunto perché il momento del crollo si approssima<br />

pericolosamente che questo è il <strong>tempo</strong> <strong>della</strong> decrescita! La<br />

società <strong>della</strong> frugalità per scelta che emergerà dal suo solco avrà<br />

come presupposto un rapporto diverso con il <strong>tempo</strong>. Non<br />

resteremo più ingabbiati nella sola concezione lineare del <strong>tempo</strong><br />

che ha dominato l'Occidente almeno dal Rinascimento.<br />

Ripristinare un rapporto «sano» con il <strong>tempo</strong> significa, molto<br />

semplicemente, imparare nuovamente ad abitare il mondo e,<br />

quindi, affrancarsi dalla dipendenza dal lavoro per ritrovare la<br />

lentezza, riscoprire i sapori <strong>della</strong> vita legati ai territori, alla<br />

prossimità e al prossimo. In tutto questo non c'è tanto un ritorno<br />

a un mitico passato perduto, quanto l'invenzione di una<br />

tradizione rinnovata. Gli squilibri e gli sconvolgimenti provocati<br />

dallo sviluppo <strong>della</strong> società industriale avevano prodotto per<br />

reazione una proliferazione incredibile di progetti correttivi o<br />

alternativi, archiviati sotto l'etichetta di socialismo utopico<br />

(Fourier, Cabet, Morris...) che ora sarà utile riabilitare.<br />

1. Rimo<strong>della</strong>re lo spazio-<strong>tempo</strong><br />

Una città ecologica composta da villaggi urbani, dove ciclisti e<br />

pedoni utilizzeranno un'energia rinnovabile, è verosimilmente<br />

destinata a sostituire le<br />

odierne megalopoli. La città produttivista, pensata e strutturata<br />

in funzione dell'automobile, in forme che si pretendono razionali<br />

(basti pensare alla Cité radieuse di Le Corbusier), con gli spazi<br />

segregati, le zone industriali, i quartieri residenziali senza vita,<br />

appartiene probabilmente al passato 2. Nei grandi complessi<br />

58


e nei quartieri standardizzati, i nostri con<strong>tempo</strong>ranei stanno<br />

davanti al televisore tra una spedizione e l'altra all'ipermercato,<br />

il tutto inframmezzato da autostrade che collegano un<br />

parcheggio all'altro. Abbiamo smarrito il contatto con il nostro<br />

carattere originale. L'organico, il vegetale, l'animale sono in<br />

massima parte sostituiti dal meccanico, dall'elettronico, dal<br />

digitale e dal robotico. Dobbiamo riapprendere ad abitare il<br />

mondo superando l'universo artificiale in cui l'abbiamo<br />

trasformato. Proudhon, a modo suo, l'aveva già intuito.<br />

Espressioni di uno sviluppo urbano più o meno selvaggio, le<br />

metropoli tentacolari, circondate da autostrade, riversano e<br />

risucchiano instancabilmente una marea crescente di automobili.<br />

Lo spazio vitale è stato frammentato. Le persone dispongono di<br />

un luogo di residenza più o meno confortevole a seconda del<br />

reddito, ma hanno bisogno anche di altri spazi: quelli per il<br />

<strong>tempo</strong> libero e gli spettacoli, quelli del lavoro, <strong>della</strong> scuola, degli<br />

acquisti. L'automobile si è inscritta nell'ordine delle cose.<br />

Dobbiamo possederla per poter raggiungere tutti quei posti e<br />

così, ogni giorno, ci muoviamo da un parcheggio all'altro.<br />

La mobilità automobilistica, nuovo elemento di distinzione<br />

sociale, nei conglomerati urbani è illusoria, dato che<br />

l'abbondanza di veicoli ha offerto a chi cammina sulle proprie<br />

gambe un vantaggio non trascurabile. Questo sistema di<br />

trasporto è senza dubbio il più inefficiente tra tutti quelli<br />

inventati dagli esseri umani. Oggi a Pechino, per esempio,<br />

l'automobilista non riesce a superare in media gli otto chilometri<br />

all'ora. Ivan <strong>Il</strong>lich e Jean-Pierre Dupuy hanno già dimostrato che<br />

se si sommano al <strong>tempo</strong> di effettivo trasferimento il<br />

59


<strong>tempo</strong> in cui si resta immobilizzati in coda e quello passato al<br />

lavoro per guadagnare i soldi necessari ad acquistare la vettura,<br />

a pagare la benzina, gli pneumatici, i pedaggi, l'assicurazione, le<br />

multe (per non parlare degli incidenti...), la cosiddetta velocità<br />

generalizzata dell'automobilista non supera i sei chilometri<br />

all'ora, cioè all'incirca la velocità di un pedone 3. In queste<br />

condizioni la bicicletta è molto meglio dell'automobile!<br />

Oltretutto, questa bagnarola rumorosa, puzzolente e inquinante<br />

ha reso invivibili le città e per questo i suoi abitanti, ogni fine<br />

settimana, imboccano le autostrade, intasate di vacanzieri in<br />

cerca di un'aria meno fetida. E al ritorno si ritrovano sulle stesse<br />

strade asfaltate, in mezzo alle rituali code divoratrici di <strong>tempo</strong>.<br />

«La velocità generalizzata dell'automobilista non<br />

supera i sei chilometri all'ora, cioè all'incirca<br />

quella di un pedone»<br />

Taluni, poi, gelosi <strong>della</strong> propria tranquillità e indifferenti agli<br />

altri, si rifugiano in una residenza ermeticamente chiusa che li<br />

metta al riparo da un mondo indesiderabile e si dotano di sistemi<br />

di videosorveglianza per meglio preservare la propria intimità.<br />

<strong>Il</strong>lich sottolinea come sia urgente che l'uomo con<strong>tempo</strong>raneo<br />

comprenda «che l'accelerazione dei suoi desideri aumenterà il<br />

suo imprigionamento e che le sue rivendicazioni, una volta<br />

realizzate, segneranno la fine <strong>della</strong> sua libertà, dei suoi svaghi e<br />

<strong>della</strong> sua indipendenza» 4. Nelle città in decrescita, invece, gli<br />

abitanti<br />

60


itroveranno il piacere <strong>della</strong> flânerie, di quel «fare flanella» caro a<br />

Charles Baudelaire e Walter Benjamin.<br />

Riapprendere ad abitare il mondo è dunque un imperativo.<br />

Nel Larzac, qualche decennio fa, si è coniato lo slogan: «Vivere<br />

e abitare in campagna». Sarebbe salutare ispirarsi a questo<br />

appello anche per vivere in una zona urbana. Diventa quindi una<br />

necessità disporre di trasporti collettivi di facile accesso, rapidi e<br />

poco costosi. Ma soprattutto la città abitabile, e non solo<br />

percorribile in auto, deve costituire l'elemento cardine di<br />

un'autentica politica urbana. È <strong>tempo</strong> che «il quartiere o il<br />

comune ridiventino il microcosmo mo<strong>della</strong>to da e per tutte le<br />

attività umane, dove la gente lavora, abita, si riposa, si istruisce,<br />

comunica e gestisce insieme lo spazio dell'esistenza in comune» 5.<br />

Nel diciannovesimo secolo un'idea analoga era germinata<br />

nella mente fertile e generosa di Jean-Baptiste André Godin, figlio<br />

di un fabbro, discepolo del socialista utopico Charles Fourier, poi<br />

diventato industriale (le «stufe Godin»), ma anche sindaco e<br />

deputato. Verso il 1860 aveva avviato la costruzione del primo<br />

padiglione del suo falansterio fourierista, Le Palais social, offerto<br />

ai dipendenti cooperatori <strong>della</strong> sua fonderia di Guise, nell'Aisne.<br />

Quella «città democratica» accolse in alloggi spaziosi, luminosi e<br />

riscaldati alcuni esponenti <strong>della</strong> classe operaia. In prossimità<br />

<strong>della</strong> fabbrica e del Palais si trovavano un asilo d'infanzia, un<br />

lavatoio con piscina (con acqua riscaldata grazie al calore che<br />

veniva dalla fonderia), orti, un chiosco per la musica, un teatro,<br />

una scuola e uno spaccio dove si potevano fare gli acquisti<br />

quotidiani a prezzi convenienti. Nasceva una vita collettiva fatta<br />

61


di fiducia, di intesa, di aiuto reciproco, di condivisione e di<br />

complementarità, nonostante la promiscuità talora fastidiosa.<br />

Una bella utopia, che scompare proprio nel 1968! 6<br />

Altrove, per esempio in Danimarca, nel magico decennio degli<br />

anni Sessanta numerose famiglie manifestarono il desiderio di<br />

vivere e lavorare in modo diverso, di rompere l'isolamento delle<br />

megalopoli e condividere alcune attività domestiche ed<br />

educative. Sia in Europa sia negli Stati Uniti si sono nel <strong>tempo</strong><br />

realizzati diversi progetti che andavano sotto le denominazioni<br />

di «habitat di gruppo», «co-vicinato», «co-housing»,<br />

«ecoquartiere» 7. Le realizzazioni più note, nate poco prima del<br />

2000, sono quelle del quartiere Vauban di Freiburg im Breisgau<br />

(in Germania) e del BedZED (Beddington zero energy<br />

development) nella città di Sutton, a sud di Londra. L'esperienza<br />

inglese è probabilmente la meglio riuscita, perché l'impatto<br />

sull'ambiente in quella località è considerevolmente diminuito:<br />

all'interno di un unico spazio coesistono abitazioni che<br />

rispettano la commistione sociale, luoghi di lavoro, centri di<br />

servizio e per il <strong>tempo</strong> libero che riducono il ricorso<br />

all'automobile, privilegiando altre modalità di trasferimento.<br />

In queste esperienze, come nei progetti di città «in<br />

decrescita», l'habitat individualizzato, isolato, anche se ben<br />

concepito ecologicamente, è considerato un'eresia urbanistica,<br />

perché ogni anno sotto il cemento e l'asfalto spariscono così<br />

ettari di terreno agricolo. <strong>Il</strong> fatto di edificare e abitare in modo<br />

collettivo consente un'efficienza energetica maggiore e collettivo<br />

un'alternativa alla fragilità del singolo attore davanti a una scelta<br />

troppo spesso determinata dal mercato. Ricercare un<br />

62


alloggio significa quindi definire un modo di vivere che coniughi<br />

concezioni personalizzate e pratiche cooperative. Questi habitat<br />

conciliano il rispetto dei valori ecologici e sociali, la convivialità,<br />

e abbattono il muro dell'individualismo evitando le trappole del<br />

collettivismo e del comunitarismo.<br />

«<strong>Il</strong> fatto di edificare e abitare in modo collettivo<br />

consente un efficienza energetica maggiore»<br />

Lo stesso vale per il movimento delle «città lente» (Slow City).<br />

Questo movimento integra quello dello Slow Food, al quale<br />

aderiscono in tutto il mondo centomila produttori, agricoltori,<br />

artigiani e pescatori che lottano contro l'omogenizzazione dei<br />

prodotti alimentari, per ritrovare il gusto e i sapori 8. Si può anche<br />

menzionare l'esperienza di Correns, un villaggio del Var dove<br />

tutti i viticoltori hanno deciso di passare all'agricoltura biologica,<br />

o quelle di Mouans-Sartoux e di Barjac 9. In quest'ultimo caso si<br />

vede come l'introduzione dell'alimentazione biologica nelle<br />

mense scolastiche, decisa da un sindaco coraggioso e creativo,<br />

possa poco a poco modificare in profondità la vita intera di un<br />

villaggio. <strong>Il</strong> Transition Towns Movement, nato in Irlanda (a<br />

Kinsale, vicino Cork) e poi diffusosi anche in Gran Bretagna, è<br />

forse la forma di costruzione dal basso che più si avvicina a una<br />

società <strong>della</strong> decrescita. Queste città, secondo lo statuto <strong>della</strong><br />

rete, puntano in primo luogo all'autosufficienza energetica, in<br />

previsione <strong>della</strong> fine delle energie fossili, e più in<br />

63


generale alla resilienza. Tale concetto, mutuato dall'ecologia<br />

scientifica, può essere definito come la permanenza qualitativa<br />

<strong>della</strong> rete di interazioni di un ecosistema, o la capacità di un<br />

ecosistema di assorbire le perturbazioni e di riorganizzarsi<br />

conservando sostanzialmente le proprie funzioni, struttura,<br />

identità e retroazioni 10. Là resilienza designa più semplicemente<br />

la capacità di un ecosistema di resistere ai cambiamenti del<br />

proprio ambiente. Per esempio, come riusciranno i grandi<br />

agglomerati urbani ad affrontare l'esaurimento del petrolio,<br />

l'aumento <strong>della</strong> temperatura e tutte le catastrofi prevedibili? La<br />

risposta dell'esperienza ecologica è che la specializzazione, se<br />

permette di accrescere le prestazioni in un ambito, incide<br />

negativamente sulla resilienza dell'insieme. Viceversa, la<br />

diversità rafforza la resistenza e le capacità di adattamento. La<br />

reintroduzione di orti urbani, <strong>della</strong> policoltura, di un'agricoltura<br />

di prossimità, di piccole unità artigianali, e la moltiplicazione<br />

delle fonti di energia rinnovabili rafforzano la resilienza.<br />

Sul piano politico, tra democrazia diretta e bilanci<br />

partecipativi si sperimentano forme di autogoverno per la difesa<br />

dei beni comuni, riprendendo l'idea del «villaggio urbano» o<br />

quella dell'ecomunicipalismo libertario di Murray Bookchin 11.<br />

L'autorganizzazione di «bioregioni» si colloca nel solco di queste<br />

varie iniziative e ne rappresenta lo sbocco. Queste «città di città»<br />

o «città di villaggi», costituite da un insieme complesso di sistemi<br />

territoriali locali, dotate di una grande capacità di<br />

autosostenibilità ecologica, puntano alla riduzione delle<br />

diseconomie esterne e dei consumi energetici. Una gestione<br />

nuova dello spazio e dell'abitare che segna già una rivoluzione<br />

nell'uso del <strong>tempo</strong>.<br />

64


«Anticipare la decrescita forzata<br />

e ineluttabile preparando<br />

una transizione serena»<br />

Tutte queste esperienze rappresentano altrettanti laboratori<br />

di un'alternativa e sono parte di quei «monasteri del terzo<br />

millennio» che preparano la civiltà di domani. Si tratta di<br />

anticipare la decrescita forzata e ineluttabile preparando una<br />

transizione serena. Richard Heinberg, nella sua lettera scritta dal<br />

futuro, descrive in modo sorprendente questo apprendimento<br />

dell'autonomia sotto l'impero <strong>della</strong> necessità: «La maggior parte<br />

dei sopravvissuti ne hanno tratti utili lezioni. Hanno imparato a<br />

conservare con cura i terreni fertili, i cereali vitali, l'acqua pulita,<br />

l'aria non inquinata e gli amici sui quali si può contare. Hanno<br />

imparato ad assumersi la gestione delle proprie esistenze e non<br />

aspettare che qualche governo o qualche corporazione si occupi<br />

di loro» 12.<br />

2. Lavorare meno per vivere meglio<br />

È possibile immaginare anche per un solo istante un politico<br />

francese, <strong>della</strong> maggioranza come dell'opposizione, che si<br />

presenti alle elezioni con lo slogan: «Consumare di più per<br />

spendere di meno»? Tutti i professori di economia e gli esperti di<br />

ogni sorta si sbellicherebbero davanti a proclami così assurdi, in<br />

contraddizione con la sacrosanta legge <strong>della</strong> domanda e<br />

dell'offerta. E a ragione! Come se, a inizio 2008, da-<br />

65


vanti al malcontento manifestato dai pescatori per l'aumento del<br />

prezzo a barile del petrolio, la risposta dei governi interpellati<br />

fosse stata: «Basta che bruciate più nafta per far abbassare il<br />

prezzo alla pompa!».<br />

Si narra che Irving Fisher, il grande economista di Yale, avesse<br />

insegnato al suo pappagallo a rispondere con la frase «è la legge<br />

<strong>della</strong> domanda e dell'offerta» a tutte le domande che gli venivano<br />

poste dai suoi studenti. Se esiste un briciolo di buon senso nel<br />

guazzabuglio matematico <strong>della</strong> pseudoscienza economica, è<br />

proprio questa «legge». Eppure, è esattamente questo slogan<br />

blasfemo (lavorare di più per guadagnare di più), lanciato con<br />

successo durante la campagna presidenziale francese del 2007,<br />

che funge da bussola per il governo, senza provocare la minima<br />

protesta da parte degli esperti.<br />

Si tratta indubbiamente di uno slogan iconoclasta perché, a<br />

differenza dei fautori <strong>della</strong> decrescita e <strong>della</strong> gente comune, per<br />

la maggioranza degli economisti o per il Medef, la Confindustria<br />

francese, il lavoro è una merce come un'altra. È dunque del tutto<br />

paragonabile al petrolio e deve essere trattato allo stesso modo.<br />

Per questo il suo prezzo, chiamato salario, tende a scendere<br />

quando aumenta l'offerta di manodopera rispetto alla domanda;<br />

per esempio, se i lavoratori già occupati si offrono volontari per<br />

lavorare di più. Con grande rigore teorico, in un mercato<br />

caratterizzato da una sovrabbondanza di ore di lavoro offerte e<br />

dalla ricerca spasmodica di un'occupazione, rispetto a una<br />

domanda (cioè al numero di posti di lavoro offerti) molto<br />

insufficiente (circa il 10% <strong>della</strong> popolazione attiva è costretta alla<br />

disoccupazione, e questo secondo le statistiche ufficiali,<br />

manipolate, ovvero molto al di sotto<br />

66


<strong>della</strong> realtà), c'è solo da aspettarsi un crollo dei corsi (tradotto,<br />

dei salari). Invece il salario tenderà ad aumentare se cala<br />

l'offerta. Ci si potrebbe dunque attendere un qualche<br />

miglioramento del livello di vita da un rifiuto in massa delle ore<br />

straordinarie e più ancora da una riduzione dell'orario di lavoro.<br />

«Lavorare di più è oltretutto ancora<br />

più assurdo in quanto questa scelta<br />

può solo affrettare il momento<br />

<strong>della</strong> catastrofe ecologica»<br />

Si sa che i fautori <strong>della</strong> decrescita non tengono in grande<br />

considerazione le cosiddette leggi dell'economia e, se trovano<br />

osceno lo slogan dell'attuale presidente francese, è soprattutto<br />

perché l'orario di lavoro è già eccessivo. E questo fa sì, in modo<br />

diretto o indiretto (per le tante attività strutturate su questa<br />

scansione <strong>tempo</strong>rale: istruzione, formazione, <strong>tempo</strong> libero, cura<br />

<strong>della</strong> salute), che la vita ne venga divorata, che lo spirito civico ne<br />

rimanga soffocato, che stress e sofferenza dilaghino. Alcuni<br />

impiegati sono arrivati a suicidarsi, mentre il consumo di<br />

antidepressivi ha superato ogni record. Lavorare di più è<br />

oltretutto ancora più assurdo in quanto, in assenza di un diverso<br />

orientamento, questa scelta può solo affrettare il momento <strong>della</strong><br />

catastrofe ecologica. Per questo, seppur, in via eccezionale, gli<br />

obiettori <strong>della</strong> crescita non si farebbero alcuno scrupolo a<br />

dichiararsi d'accordo con gli economisti eterodossi e affermare:<br />

«Lavorare meno, lavorare tutti», o addirittura, con quelli più<br />

conse-<br />

67


guentemente ortodossi: «Lavorare meno, guadagnare di più».<br />

Tuttavia il nostro slogan è piuttosto questo: «Lavorare meno per<br />

vivere meglio!». Meglio promuovere l'otium del popolo che<br />

l'oppio dei media.<br />

Una condivisione degli incrementi di produttività a favore del<br />

lavoro permetterebbe di ridurne la durata. Quando la capacità<br />

produttiva del lavoro aumenta, perché questo sforzo deve<br />

favorire prioritariamente la riduzione dei costi di produzione, il<br />

calo del prezzo dei prodotti e l'aumento dei profitti? I salariati,<br />

principali attori dell'aumento di produttività, dovrebbero anche<br />

loro esserne ricompensati e in un modo più gratificante: lavorare<br />

meno per vivere meglio e così consentire l'accesso al lavoro a<br />

nuovi attivi.<br />

«<strong>Il</strong> nostro slogan è piuttosto questo:<br />

‘Lavorare meno per vivere meglio!’ »<br />

Rimane la necessità di ridare senso al <strong>tempo</strong> liberato. Dato<br />

l'economicismo dominante, capita purtroppo molto spesso che il<br />

<strong>tempo</strong> non lavorativo, quando non è divorato dalle costrizioni<br />

<strong>della</strong> vita moderna (trasporti, burocrazia ecc., in breve quello che<br />

Ivan <strong>Il</strong>lich definisce lavoro fantasma), è convertito in un'attività<br />

commerciale (lavoro nero) o nel consumo di servizi commerciali.<br />

L'allungamento <strong>della</strong> durata <strong>della</strong> vita in Occidente, a partire dal<br />

1950, corrisponde a circa tre ore in più per ogni giorno, ma<br />

questo coincide più o meno con il <strong>tempo</strong> medio che un europeo<br />

passa davanti al televisore ed è pari al doppio del <strong>tempo</strong> che un<br />

francese passa al volante o su un mezzo di tra-<br />

68


sporto! 13 <strong>Il</strong> buon uso del <strong>tempo</strong> liberato, guadagnato sul <strong>tempo</strong><br />

di lavoro, non è così scontato in una società logorata dal<br />

produttivismo. Se sono diventate droghe non solo il consumo ma<br />

anche il lavoro (workaholics, dicono gli americani), questa nuova<br />

libertà può essere causa di angoscia. Siamo disposti,<br />

spontaneamente, a riflettere con determinazione e in profondità<br />

sul senso <strong>della</strong> nostra esistenza, quel lungo fiume tanto spesso<br />

conformista che fino a quel momento scorreva in modo così<br />

tranquillo? L'uscita dal sistema produttivistico e lavoristico<br />

comporta un'organizzazione completamente diversa, in cui si<br />

devono valorizzare, accanto al lavoro, il <strong>tempo</strong> libero e il gioco, e<br />

in cui le relazioni sociali vengono prima <strong>della</strong> produzione e del<br />

consumo di inutili, se non dannosi, prodotti a perdere.<br />

Riscoprire la qualità fuori delle logiche del mercato farà calare<br />

i valori economici. È evidente che producendo da sé fuori<br />

mercato si riducono insieme la pressione sull'ambiente e 'il PIL,<br />

rafforzando al con<strong>tempo</strong> una certa forma di soddisfazione<br />

personale. La divisione del lavoro, diceva Marx, è l'assassinio di<br />

un popolo. Abbiamo spinto troppo oltre questo processo di<br />

razionalizzazione disumanizzante, governato dalla ricerca del<br />

profitto. La riscoperta dell'opera, questa attività creativa<br />

dell'artigiano e del contadino non soggetta alla pressione di una<br />

concorrenza esasperata, può costituire un buon antidoto alla<br />

frammentazione delle mansioni. E l'autoproduzione rappresenta<br />

di conseguenza il mezzo più adatto a ridurre i costi ecologici del<br />

trasporto, a limitare gli imballaggi e a facilitare il riciclaggio.<br />

69


«La riscoperta dell'opera può costituire<br />

un buon antidoto alla frammentazione<br />

delle mansioni»<br />

L'orticoltura, per esempio, può offrire a una famiglia frutta e<br />

verdura sane tutto l'anno (sarebbe stupido autoavvelenarsi!),<br />

consentendo anche di pianificare saggiamente, in base alle<br />

stagioni, la produzione e il consumo dei propri alimenti.<br />

L'autoristrutturazione degli alloggi e l'autoproduzione assistita<br />

(orti, cucina) possono essere soluzioni parziali ai guasti del<br />

sistema 14.<br />

La gestione delle proprie risorse porta così all'autonomia, alla<br />

frugalità e alla riduzione degli sprechi. Molti atti quotidiani sono<br />

stati trasferiti a professionisti, a commercianti che sanno<br />

benissimo come farci pagare il costo dei loro servizi. Non<br />

consumiamo più quello che produciamo noi e non produciamo<br />

più quello che consumiamo. Non siamo forse incapaci di<br />

concepire e preparare quotidianamente, in modo autonomo, un<br />

semplice pasto, di cuocere qualche dolcetto per i nostri figli, di<br />

riparare un elettrodomestico, di gestire in modo conveniente il<br />

nostro ambiente di vita, di isolare come si deve la nostra<br />

abitazione, di farci un maglione o una sciarpa, di far crescere una<br />

verdura o un frutto? Tutto questo implica evidentemente che<br />

dobbiamo recuperare l'uso delle nostre dieci dita. E anche in<br />

questo caso è necessario riappropriarsi del <strong>tempo</strong>. Gli obiettori<br />

<strong>della</strong> crescita sono dalla parte del «consumare meno».<br />

La riduzione del carico di lavoro può a sua volta dare impulso<br />

alla «produzione» di beni relazionali.<br />

70


Questi rientrano in quelli che gli economisti e i giuristi chiamano<br />

«beni comuni», realtà tra loro diverse come le strade,<br />

l'illuminazione pubblica, le emissioni radiotelevisive, l'aria, la<br />

luce del sole, la sicurezza pubblica, la Costituzione, internet e così<br />

via; e si potrebbero aggiungere anche la lingua e le culture. I beni<br />

comuni rispondono a questi due criteri: la «non rivalità» (la<br />

quantità di bene disponibile non è ridotta dal fatto che altri ne<br />

godano) e la «non esclusione» (l'accesso a quel bene è libero). I<br />

beni relazionali sono inoltre beni comuni «vissuti», che esistono<br />

solo se siamo in tanti a goderne, e immateriali, come per esempio<br />

il piacere che nasce da una conversazione.<br />

«I beni relazionali rientrano<br />

in quelli che gli economisti e i giuristi<br />

chiamano ‘beni comuni’»<br />

Per tutti questi beni, come l'amicizia e la conoscenza, il mio<br />

«consumo» non riduce la disponibilità, anzi l'accresce. Se ci<br />

scambiano un'idea, alla fine dello scambio avremo entrambi<br />

un'idea in più... Gli scambi di opinioni, convinzioni, ideali<br />

accompagnati da una buona emulazione, l'impegno civile, le<br />

parole d'amore, la frequentazione di persone simpatiche, tutto<br />

ciò che obbedisce alla logica del dono e del dono ricambiato sono<br />

il sale <strong>della</strong> vita 15. Possiamo così ritrovare il <strong>tempo</strong> per<br />

discorrere con i nostri figli, con i genitori, i parenti e i vicini, e<br />

riscoprire il «gusto degli altri»! Osserva Giorgio Ruffolo, già<br />

ministro per l'Ambiente in Italia: «Non dovrebbe essere<br />

necessario spie-<br />

71


gare per quale ragione migliorare la qualità <strong>della</strong> scuola o dei<br />

servizi sanitari, oppure incoraggiare la partecipazione a eventi<br />

culturali, sia più importante, nell'ottica del benessere collettivo,<br />

di promuovere la diffusione di telefoni cellulari sempre più<br />

sofisticati o di motociclette sempre più potenti» 16.<br />

Questa riconquista del <strong>tempo</strong> «libero» è una condizione<br />

necessaria per la decolonizzazione dell'immaginario. Riguarda gli<br />

operai, i lavoratori dipendenti, ma anche i quadri intermedi<br />

stressati, gli imprenditori incalzati dalla concorrenza, i liberi<br />

professionisti stretti nella morsa <strong>della</strong> compulsione alla crescita.<br />

Da avversari possono convertirsi in alleati nella costruzione di<br />

una società <strong>della</strong> decrescita. Liberarsi dalla schiavitù volontaria è<br />

probabilmente il mezzo migliore per liberarsi dalla schiavitù<br />

involontaria imposta dal sistema.<br />

3. Ridurre le distanze, ritrovare la lentezza<br />

Negli anni Novanta del secolo scorso, due ricercatori<br />

universitari canadesi, Mathis Wackernagel e William Rees, erano<br />

arrivati a definire il primo indicatore ambientale incentrato sui<br />

rapporti tra uomo e natura: l'impronta ecologica. <strong>Il</strong> principio era<br />

semplice: si trattava di mettere in relazione la superficie di un<br />

territorio naturale e i bisogni dei suoi abitanti. Tutto quello di cui<br />

necessitiamo per vivere (ciò che produciamo, consumiamo,<br />

buttiamo via) si traduce nell'uso di una certa quantità di terra:<br />

campo di grano per nutrirci, campo di cotone per vestirci, boschi<br />

per riscaldarci e riciclare l'anidride carbonica emessa dalle<br />

nostre vet-<br />

72


ture ecc. La superficie «bioproduttiva» media disponibile per<br />

ogni persona nel mondo era allora di 1,8 ettari, ma erano<br />

evidenti notevoli disparità regionali. L'impronta ecologica di un<br />

americano era di 9,6 ettari, quella di un francese di 5,26, quella di<br />

un africano o di un asiatico di 1,4 17. Pertanto, se le società umane<br />

adottassero lo stile di vita americano, non negoziabile secondo<br />

l'opinione degli ex presidenti Bush padre e figlio, l'umanità<br />

avrebbe bisogno di cinque pianeti 18. In altri termini, se le<br />

popolazioni del Nord possono aumentare spudoratamente la<br />

propria produzione e i propri consumi, consumando le riserve<br />

del pianeta, ciò è possibile solo grazie alle più frugali popolazioni<br />

del Sud. Oggi le cose sono peggiorate. Stando alle ultime cifre<br />

disponibili, che si basano sulle statistiche del 2005, noi abbiamo<br />

oltrepassato le capacità di rigenerazione del pianeta del 30-40%.<br />

Com'è possibile? Perché, come il figliol prodigo <strong>della</strong> Bibbia, noi<br />

per vivere consumiamo il patrimonio e non solo il reddito. E così<br />

in un anno bruciamo l'equivalente di quello che la fotosintesi<br />

sull'insieme <strong>della</strong> sfera terrestre produce in centomila anni!<br />

Perché la Francia ritrovi un livello sostenibile è ormai<br />

necessaria una riduzione dell'impatto di circa il 75%. Come<br />

possiamo farlo senza tornare all'età <strong>della</strong> pietra? Se riflettiamo<br />

sul fatto che l'impennata <strong>della</strong> nostra impronta ecologica risale<br />

soltanto agli anni Sessanta del Novecento, che non sono proprio<br />

il neolitico, ci possiamo facilmente rendere conto che non si<br />

tratta tanto di tirare la cinghia quanto di produrre in modo<br />

diverso.<br />

Una contrazione massiccia dei consumi intermedi in senso<br />

lato (trasporti, energia), che sono esplosi con<br />

73


la globalizzazione, permetterebbe di conservare i consumi finali<br />

a un livello soddisfacente. La priorità va data ai circuiti brevi di<br />

distribuzione, alla rilocalizzazione delle attività produttive e<br />

soprattutto al ripristino di un'agricoltura contadina. La<br />

rivitalizzazione dell'economia locale esige una drastica riduzione<br />

dei trasporti internazionali. Pensiamo a un vasetto di yogurt alla<br />

fragola che, invece di percorrere 9.115 chilometri per arrivare<br />

sulla nostra tavola, potrebbe essere preparato nella nostra<br />

cucina, proprio come facevano le nostre nonne! I gamberetti<br />

danesi sono spediti nel Maghreb per essere sgusciati da mani<br />

«esperte», e soprattutto meno costose, prima di risalire<br />

nell'Europa del nord e tornare nei suoi mercati. Frutta e verdura<br />

prodotte in coltivazioni idroponiche o in serra, nella regione di<br />

Almería in Spagna, ricevono le cure e i trattamenti chimici da una<br />

manodopera straniera sfruttata come poteva esserlo il<br />

proletariato industriale nel diciannovesimo secolo. Un vestito,<br />

per essere confezionato, attraversa normalmente una decina di<br />

paesi e sessantamila chilometri, lasciando lungo la strada<br />

inquinamenti di ogni sorta. <strong>Il</strong> problema è che il trasporto<br />

marittimo ha un costo quasi nullo e perfino il trasporto su<br />

gomma attraverso tutta l'Europa rappresenta una percentuale<br />

infima del prezzo delle derrate che ritroviamo tutto l'anno nei<br />

nostri piatti.<br />

«Un vasetto di yogurt alla fragola<br />

percorre 9.115 chilometri<br />

per arrivare sulla nostra tavola»<br />

74


La globalizzazione ha trasformato il regime alimentare dei<br />

consumatori meno avveduti, più disattenti o semplicemente<br />

sedotti dalle apparenze, ben contenti di consumare fuori<br />

stagione frutti e ortaggi di bell'aspetto (ma spesso insipidi e<br />

velenosi) provenienti dall'estremo opposto del pianeta. Tutto<br />

questo è sensato e necessario?<br />

Uno scambio conviviale di frutta e verdura, fondato su un<br />

impegno reciproco tra attori economici caratterizza l’AMAP<br />

(Association pour le mantien d'une agriculture paysanne), creata<br />

in Francia nel 2001. Ma le prime forme associative di questo<br />

genere sono nate in Giappone nel 1971, con il nome di Teikei 19. È<br />

un'idea pratica che ha spinto produttori e consumatori ad<br />

allearsi, unirsi e collegarsi. In quello stesso periodo, in Svizzera,<br />

alcune fattorie comunitarie hanno sviluppato un'identica<br />

interazione. <strong>Il</strong> concetto ha raggiunto dapprima gli Stati Uniti e il<br />

Canada, e poi la Francia. Una produzione locale (entro un raggio<br />

di cento chilometri), stagionale, fresca, tradizionale, agroecologica<br />

può rimpiazzare ottimamente l'offerta essenzialmente<br />

commerciale <strong>della</strong> grande distribuzione, spesso poco scrupolosa<br />

verso i piccoli produttori. Le AMAP permettono non solo il<br />

radicamento in aree periurbane di un'economia sociale solidale,<br />

ma anche l'attività di giovani agricoltori che vogliono sottrarsi<br />

alle dubbie tentazioni dell'agro industria e nello stesso <strong>tempo</strong><br />

conservare o riconquistare un'attività agricola. La parola<br />

d'ordine dell'associazione dei consumatori italiani collegati a<br />

Slow Food è «chilometro zero» 20. Ed effettivamente occorre<br />

orientarsi verso consumi senza trasporto, a zero emissioni di gas<br />

serra, zero rifiuti e, a conti fatti, zero stress.<br />

75


Rifiuto del produttivismo, riterritorializzazione dell'attività e<br />

priorità ai circuiti a breve raggio restituiscono alle persone una<br />

prevalenza su quelle macchine superpotenti, fortemente<br />

inquinanti, la cui energia è entrata con tutto il suo peso in<br />

concorrenza con il lavoro umano. Questa nuova prospettiva apre<br />

a una critica <strong>della</strong> crescita ossessiva dei rendimenti agricoli e, più<br />

in generale, degli aumenti di produttività. Notiamo per inciso che<br />

quei rendimenti in realtà da vari decenni sono in calo, a causa<br />

dell'esaurimento dei terreni legato all'uso eccessivo di<br />

fertilizzanti chimici che distruggono la materia organica del<br />

suolo.<br />

«Le AMAP permettono il radicamento<br />

di un'economia sociale solidale»<br />

Secondo gli economisti, una relazione naturale lega<br />

produttività, crescita <strong>della</strong> produzione e occupazione. Senza<br />

produttività non c'è crescita, e senza crescita non c'è<br />

occupazione. È tuttavia immaginabile, anzi auspicabile, la<br />

creazione di posti di lavoro senza crescita e di conseguenza la<br />

riduzione delle esternalità negative (inquinamento dell'aria, del<br />

suolo e dell'acqua in primo luogo), sacrificando l'apparente<br />

produttività.<br />

In Francia, l'eccessiva meccanizzazione dell'agricoltura ha<br />

prodotto effetti perversi. Per esempio, ha fatto precipitare il<br />

numero degli occupati in agricoltura: nel 1962 si contavano<br />

ancora tre milioni di agricoltori, alla svolta del millennio ne<br />

restavano seicentomila. Oggi in Europa ogni tre minuti scompare<br />

un'azienda agricola. Un ritorno alle campagne sarà possibile se si<br />

76


iduce la produttività del lavoro agricolo, com'è probabile con la<br />

fine del petrolio a basso costo. La sostituzione di un'agricoltura<br />

industriale con una contadina, molto più ricca di posti di lavoro,<br />

orientata esclusivamente verso i mercati di prossimità, può<br />

diventare il nuovo modello capace di ispirare i produttori del<br />

Nord come quelli del Sud. Davanti alle ripetute crisi alimentari<br />

che infuriano in un notevole numero di paesi dell'Africa e<br />

dell'Asia, la FAO ha finito per riconoscere il ruolo determinante<br />

dell'agricoltura contadina e familiare nel ristabilire la sovranità<br />

alimentare, questo diritto fondamentale di tutti i popoli davanti<br />

al capitalismo globalizzato e predatore.<br />

Liberarsi dall'ossessione degli aumenti di produttività: è<br />

questa ormai una delle missioni dell'obiettore di crescita. Si<br />

tratta di una strategia che non deve limitarsi al mondo agricolo.<br />

Bisogna infatti produrre anche beni industriali guidati dallo<br />

stesso imperativo. Dato che la più grande concorrente del lavoro<br />

è stata l'energia, un'economia improntata alla frugalità sarà in<br />

grado di ricreare possibilità lavorative manuali e locali.<br />

L'impiego delle energie fossili ha messo a disposizione degli<br />

occidentali, mediamente, l'equivalente di qualcosa tra i cinquanta<br />

e i cento schiavi a persona. L'ingegnosità tecnica non sarà mai in<br />

grado di compensare gli effetti di questa predazione.<br />

<strong>Il</strong> terziario, da parte sua, è diventato il principale<br />

procacciatore di nuove attività. E non è ragionevole farlo<br />

sottostare a criteri produttivistici. A meno che non si sia<br />

posseduti dal demone dell'ideologia liberale, si può anche solo<br />

immaginare che un medico, un'infermiera, un insegnante, un<br />

paramedico, un artista possano migliorare la qualità delle loro<br />

prestazioni ri-<br />

77


ducendone il <strong>tempo</strong>? I servizi di prossimità hanno senso solo se<br />

sono erogati con cura e attenzione, e la loro lentezza, lungi dal<br />

rivelare una presunta irrilevanza, ne mette al contrario in luce<br />

tutta l'importanza. Qualche scorbutico potrebbe denunciare il<br />

carattere impopolare di queste modalità a causa del costo<br />

elevato, in un primo <strong>tempo</strong>, di quei prodotti che si sono affrancati<br />

dalla logica produttivistica e tecnicista. Ma nulla impedisce allo<br />

Stato di manifestare la propria presenza dando sostegno a coloro<br />

il cui reddito rimanga disperatamente insufficiente. L'ecologia<br />

non è «roba da ricchi»!<br />

La modernità, traviata dall'ideologia <strong>della</strong> crescita, non poteva<br />

che apparentarsi alla velocità, sinonimo di autorità, audacia,<br />

progresso, prestazioni, record, controllo del <strong>tempo</strong> e dello spazio.<br />

La macchina economica planetaria è andata avanti a un ritmo<br />

infernale, con un processo irreversibile nel quale si sono<br />

integrati solo i più adatti a sostenerlo. I sognatori, gli indolenti, i<br />

flemmatici, gli incuranti, i moderati, gli ingenui non<br />

completamente sottomessi alla forza delle cose, ma anche i più<br />

fragili, hanno cercato un posto per sé e alcuni di loro si sono<br />

ritrovati, senza sapere come, al bordo <strong>della</strong> strada. Adesso è il<br />

momento di riaffermare la buona reputazione <strong>della</strong> lentezza. Non<br />

sarebbe affatto assurdo riproporre quella flânerie combattuta da<br />

Taylor. La scomparsa dei «tempi morti» è in realtà la morte del<br />

<strong>tempo</strong>.<br />

«L'ecologia non è ‘roba da ricchi’! »<br />

78


<strong>Il</strong> movimento Slow Food, già citato, mira appunto a prendere<br />

in contropiede questa ossessione <strong>della</strong> velocità e <strong>della</strong><br />

ristorazione rapida (fast food). Occuparsi di gastronomia può<br />

sconcertare, in quanto questa disciplina sembra ispirare attori<br />

sociali che amano distinguersi. Invece mangiare è diventato «un<br />

atto agricolo» 21, ovvero un atto politico. Interrogarsi sul<br />

contenuto del proprio piatto rivela certo una decisa inclinazione<br />

per i piaceri del palato, ma anche un interesse evidente per<br />

«tutto ciò che ha un rapporto con l'uomo», perché la gastronomia<br />

tocca tutti gli aspetti <strong>della</strong> vita sociale. Un gastronomo che non<br />

sia anche un ecologista è un imbecille, ma un ecologista che non è<br />

un gastronomo è un triste figuro, come ama ripetere Carlo<br />

Petrini, l'inventore dello slow food. «Ci saranno alimenti buoni<br />

quando tutti i consumatori, ricchi o poveri, saranno diventati<br />

degli intenditori ed esigeranno la qualità», diceva già Charles<br />

Fourier. «L'umanità deve essere gastronoma prima di diventare<br />

agronoma» 22.<br />

Lo sappiamo da <strong>tempo</strong>: i metodi scandalosi <strong>della</strong> produzione<br />

agricola intensiva hanno tolto ogni sapore ai cibi e trasformato<br />

certi alimenti in prodotti tossici. I membri di Slow Food, armati<br />

di robuste convinzioni ecologiche, sono schierati contro<br />

l'alimentazione industriale e l'uniformazione culturale indotte<br />

dalla globalizzazione (non si parla forse di cocacolonizzazione o<br />

ancora di macdonaldizzazione, ovvero di una colonizzazione<br />

culturale orchestrata dalle grandi aziende transnazionali?), e<br />

invece si battono per la salvaguardia <strong>della</strong> biodiversità, per la<br />

sovranità alimentare e per il rispetto delle differenze culturali.<br />

Vero e proprio manifesto contro la follia <strong>della</strong> velocità e del<br />

produttivi-<br />

79


smo, questo movimento autenticamente sociale, cui aderiscono<br />

consumatori «co-produttori» attenti alle condizioni in cui<br />

vengono prodotti gli alimenti, che assaporano a fondo e<br />

lentamente, può vantaggiosamente condividere il cammino con i<br />

partigiani di una decrescita serena e conviviale.<br />

4. Ritrovare il locale<br />

L'autonomia economica locale implica la necessità di<br />

orientarsi non solo verso la ricerca dell'autosufficienza<br />

alimentare ed energetica, ma anche verso un'autonomia<br />

finanziaria che permetta la realizzazione di progetti locali in<br />

ambito artigianale, industriale e dei servizi. Per questo è<br />

necessario riappropriarsi progressivamente del denaro, il quale<br />

deve servire e non asservire. Occorre impegnarsi per inventare<br />

una vera politica monetaria locale. Per conservare il potere<br />

d'acquisto degli abitanti, i flussi monetari dovranno restare il più<br />

possibile all'interno <strong>della</strong> regione, proprio come dovranno essere<br />

prese il più possibile a livello regionale anche le decisioni<br />

economiche.<br />

«Occorre impegnarsi per inventare una<br />

vera politica monetaria locale»<br />

Parola di esperto (nella fattispecie, uno degli inventori dell'euro):<br />

«Incoraggiare lo sviluppo locale o regionale conservando il<br />

monopolio <strong>della</strong> moneta nazionale è come cercare di<br />

disintossicare un alcolizzato<br />

80


con il gin» 23. <strong>Il</strong> ruolo delle monete locali, sociali o complementari<br />

è di mettere in relazione i bisogni insoddisfatti con risorse che<br />

altrimenti resterebbero non sfruttate. Una moneta<br />

complementare permette di mobilizzare beni disponibili, che<br />

senza di questa rimarrebbero inutilizzati, per soddisfare una<br />

domanda non solvibile. È il caso, per esempio, dei posti rimasti<br />

invenduti negli alberghi, nella ristorazione e nei trasporti.<br />

Lo sviluppo di monete alternative, locali, bioregionali,<br />

complementari (con varie formule da sperimentare e adattare:<br />

credito mutuo a rotazione, tasso di interesse negativo... )<br />

rappresenta una leva potente per la rilocalizzazione, cioè<br />

riappropriarsi del territorio in cui si vive, riabitare il mondo 24<br />

per reagire ai nonluoghi, ai fuori-posto e fuori-<strong>tempo</strong> del<br />

produttivismo globalizzato.<br />

La scala adeguata per un sistema monetario regionale si<br />

colloca in una forbice tra diecimila e un milione di persone, che<br />

corrisponde a una bioregione (o a una ecoregione) e rappresenta<br />

un punto di equilibrio tra resistenza e resilienza. L'efficienza<br />

comporta una centralizzazione per beneficiare delle economie di<br />

scala (ma con il rischio di fragilità dovuto alla monofunzionalità e<br />

all'iperspecializzazione), mentre la resilienza (la capacità di<br />

adattarsi al cambiamento) presuppone una scala ridotta e la<br />

multifunzionalità. La diversità necessaria per la resilienza degli<br />

ecosistemi (naturali o umani) implica una certa<br />

«frammentazione degli spazi». Nell'immediato, per stroncare la<br />

crisi e rimediare alla proliferazione finanziaria, converrebbe<br />

rimettere barriere al mercato finanziario mondiale e<br />

riframmentare gli spazi monetari. Per questo occorrerebbe<br />

81


delimitare rigorosamente le attività delle banche e <strong>della</strong> finanza e<br />

fare, senza complessi, qualche passo indietro, per esempio<br />

riguardo alla trasformazione in valori mobiliari dei crediti<br />

(cartolarizzazione) o all'eccesso degli effetti di leverage<br />

(aumentando i tassi di copertura) 25. E molto probabile che sia<br />

necessario sopprimere i mercati a termine e ritornare a sistemi<br />

più classici di assicurazione delle attività di import-export (le cui<br />

operazioni, d'altra parte, dovrebbero essere ricondotte a livelli<br />

più ragionevoli dalla necessaria messa in discussione degli<br />

eccessi del libero scambio e <strong>della</strong> rilocalizzazione).<br />

Ma riappropriarsi del denaro significa anche riacquistare una<br />

certa padronanza sul <strong>tempo</strong>, allentando la morsa nella quale<br />

l'ossessione del suo prezzo imprigiona la nostra vita.<br />

Riappropriarsi <strong>della</strong> moneta comporta forse riscoprire<br />

consapevolmente qualche cosa delle sue origini. Secondo<br />

l'antropologo William S. Desmonde, infatti, la moneta primitiva<br />

«simbolizzava la reciprocità tra le persone, era ciò che le legava<br />

emotivamente alla comunità. La moneta era in origine un<br />

simbolo <strong>della</strong> loro anima» 26.<br />

«Riappropriarsi del denaro significa anche<br />

riacquistare una certa padronanza sul <strong>tempo</strong>»<br />

Ci sono state diverse esperienze in questa direzione che<br />

vanno estese e alle quali occorre ispirarsi. Si sono visti circolare i<br />

creditos argentini in occasione <strong>della</strong> grave crisi monetaria del<br />

decennio 2000. Queste mo-<br />

82


nete complementari, che si sono sostituite al peso in caduta<br />

libera, hanno permesso a più di sei milioni di persone, per lo più<br />

povere, di effettuare gli scambi quotidiani e assicurarsi la<br />

sopravvivenza. È stato così possibile rimettere in movimento le<br />

capacità inutilizzate dei singoli a vantaggio di tutti.<br />

In Baviera, un'iniziativa identica, avviata in un clima più<br />

tranquillo, ha compattato una comunità regionale che aspirava a<br />

superare, grazie all'aiuto reciproco e al mutuo sostegno, le<br />

fragilità economiche provocate del commercio globale. <strong>Il</strong><br />

chiemgauer 27, in un primo <strong>tempo</strong> emesso da studenti liceali sotto<br />

la supervisione dei loro insegnanti, si è poi esteso a tutta la<br />

regione e ha cominciato a circolare allegramente di mano in<br />

mano a un ritmo addirittura più sostenuto dell'euro (+ 30%),<br />

anche perché «penalizzato» se non utilizzato a breve. Infatti, un<br />

buono d'acquisto espresso in chiemgauer è valido per tre mesi,<br />

dopodiché scade e perde il 2% del suo valore nominale. Per<br />

circolare nuovamente, gli deve essere apposto un timbro che lo<br />

convalida per un altro trimestre. Quella leggera perdita di valore<br />

spinge il proprietario a utilizzarlo anziché cercare di risparmiare.<br />

<strong>Il</strong> piccolo commercio e l'artigianato smaltiscono così localmente i<br />

propri prodotti, grazie a questo mercato limitato, e resistono alla<br />

potenza devastante delle multinazionali.<br />

Nella città inglese di Gloucester, dal 1998 una banca del<br />

<strong>tempo</strong> ripara ai disastri provocati dalla politica ultraliberale di<br />

Margaret Thatcher. Per esempio, alcune ore di presenza accanto<br />

a una persona anziana possono essere scambiate con lavori<br />

domestici. «Ciò che se ne va, ritorna!». Così, una rete civica<br />

collega famiglie monoparentali, pensionati, carcerati, disabili,<br />

83


minorati mentali. All'individualismo, alla corsa per i primi posti<br />

coltivata dal governo conservatore, sono seguite la fiducia e la<br />

convivialità, in grado di reinventare le comunità di un <strong>tempo</strong>. E si<br />

superano le contraddizioni del sistema monetario ufficiale: il<br />

<strong>tempo</strong> vale più del denaro! E le competenze umane, illimitate,<br />

ritrovano uno spazio di scelta.<br />

I sistemi locali di scambio funzionano secondo un principio<br />

analogo, perché è possibile scambiare i lavori di ristrutturazione<br />

di un appartamento con il baby-sitting, la confezione di abiti, o<br />

anche corsi di lingue, massaggi, prestito di attrezzi per<br />

l'orticoltura... Ricompare la trilogia del dono: il triplice obbligo di<br />

donare, ricevere e rendere che, secondo l'antropologo Marcel<br />

Mauss, è alla base di ogni vita sociale. Una forma di debito<br />

simbolico collega così i diversi soggetti, che insieme costruiscono<br />

una storia comune, e la moneta («gettoni», «noci di cocco»,<br />

«passeri», «ranocchie» ... ) è solo un mezzo di scambio stimato di<br />

volta in volta, essendo più rare le banche del <strong>tempo</strong> egualitarie<br />

(un'ora di stiratura contro un'ora di lezione di inglese, per<br />

esempio).<br />

La ricchezza di cui si parla qui non è per nulla assimilabile a<br />

quella che i contabili fanno abitualmente rientrare nel PIL.<br />

Ognuno apporta la propria disponibilità, il proprio dinamismo, la<br />

propria creatività. La propria generosità. E se l'indebitamento<br />

non è seguito da un'offerta in compensazione, il colpevole si<br />

espone logicamente alla riprovazione degli altri. Questa<br />

alternativa evidenzia l'importanza del sociale, incoraggia la<br />

produzione locale in un contesto allo stesso <strong>tempo</strong> legale e<br />

informale, e pone limiti alla pressione sull'ambiente.<br />

84


Le esperienze alternative di economia solidale, parallela,<br />

plurale, sociale, ovvero esterne allo stretto ambito economico (e<br />

in grado, al limite, di coinvolgere l'intera vita associativa), sono<br />

innumerevoli. Si potrebbero anche citare le reti di scambio dei<br />

saperi, gli orti familiari, quelli condivisi, le Mense del cuore e<br />

quelle di Emmaus, l'esperienza di Ithaca e del time dollar, o<br />

quella <strong>della</strong> banca svizzera WIR che opera da settant'anni come<br />

ammortizzatore delle crisi finanziarie e monetarie, ma tutto<br />

questo rientra più o meno nel vasto campo <strong>della</strong> filantropia.<br />

«Le esperienze alternative di economia<br />

solidale sono innumerevoli»<br />

Più rare, e perciò più significative, sono invece le esperienze<br />

che riguardano vere e proprie aziende di produzione.<br />

Ricordiamone due 28. La società cooperativa di produzione<br />

Ardelaine, con sede a Saint-Pierre-ville in Ardèche, e la società<br />

anonima a partecipazione operaia Ambiance Bois, situata<br />

nell'altopiano di Millevaches, sono da molti anni la<br />

dimostrazione di una riscossa dell'economia locale, che va di pari<br />

passo con quel «vivere e lavorare in un altro modo» ben noto ai<br />

movimenti alternativi. Ardelaine produce materassi e piumoni,<br />

ma anche una gamma completa di indumenti per adulti e<br />

bambini in pura lana. Ambiance Bois propone materiali durevoli<br />

e salubri nel settore dei rivestimenti in legno, dei parquet, <strong>della</strong><br />

falegnameria in generale. Queste due aziende pongono l'accento<br />

su una gestione collettiva e trasparente <strong>della</strong><br />

85


propria attività e mettono sullo stesso piano il capitale e il lavoro.<br />

La scala salariare è ridotta all'espressione più semplice, ovvero<br />

l'orario di lavoro, deciso liberamente; il che consente<br />

un'organizzazione autonoma <strong>della</strong> sfera privata e la possibilità di<br />

un impegno civile nella vita locale, municipale o associativa.<br />

In Ardèche o nella Creuse, tutte le fasi <strong>della</strong> filiera di<br />

produzione sono gestite in modo diretto, si stringono solidi<br />

legami con gli allevatori del dipartimento o le cooperative<br />

forestali regionali e si dà, fin dall'avvio dei progetti,<br />

un'attenzione prioritaria al rispetto per le norme ambientali.<br />

L'economia e la moneta si pongono al servizio dell'uomo, che<br />

così non è più completamente soggetto alla spaventosa logica del<br />

profitto.<br />

5. <strong>Il</strong> <strong>tempo</strong> a ritroso<br />

Una delle critiche più comuni rivolte ai fautori <strong>della</strong> decrescita<br />

li accusa di voler far tornare l'umanità, a scelta, all'età delle<br />

caverne, all'epoca <strong>della</strong> candela o ai tempi bui del Medio Evo.<br />

Chiariamo bene: l'arretramento di certi consumi e di certe<br />

produzioni è indispensabile. Ma si tratta di una ritirata o di un<br />

ripiego tattico? Chi sta davanti e chi sta dietro? Quando un<br />

plotone si trova davanti a una strada sbarrata e deve fare<br />

un'inversione a U, la retroguardia si trova improvvisamente in<br />

prima fila... Non si tratta tanto di percorrere in senso inverso il<br />

cammino forzato <strong>della</strong> crescita illimitata, quanto di inventarsi un<br />

altrove. Se ci si svincola dalla concezione lineare del <strong>tempo</strong>, non<br />

ci sono più solo un avanti e un indietro, ma anche tutte le altre<br />

direzioni. In ogni modo, ritrovare un impronta<br />

86


ecologica sostenibile, come si è visto, riporterebbe la Francia,<br />

ceteris paribus, al livello degli anni Sessanta, che non era<br />

certamente quello dell'età <strong>della</strong> pietra...<br />

Ma la questione non sta qui: è piuttosto quella <strong>della</strong> filosofia<br />

sottesa al progetto. Noi lo inscriviamo completamente nella<br />

tradizione dell'<strong>Il</strong>luminismo, richiamandoci a quanto di meglio (e<br />

non di peggio) ha espresso, ovvero l'emancipazione dell'umanità<br />

e la realizzazione di una società autonoma. Certo, è necessario<br />

fare un inventario critico <strong>della</strong> modernità. <strong>Il</strong> progetto illuminista<br />

aveva in sé una pericolosa ambivalenza. Se da un lato mirava ad<br />

affrancare l'uomo dalla sudditanza nei confronti <strong>della</strong><br />

trascendenza, <strong>della</strong> tradizione e <strong>della</strong> rivelazione, numi tutelari<br />

dell'Ancien Régime, uno dei mezzi che usava per farlo era la<br />

volontà di dominare razionalmente la natura attraverso<br />

l'economia e la tecnica. È così che la società moderna è diventata<br />

la società più eteronoma <strong>della</strong> storia, soggetta alla dittatura dei<br />

mercati finanziari e alla mano invisibile dell'economia, come alle<br />

leggi <strong>della</strong> tecnoscienza. Questa artificializzazione del mondo è<br />

addirittura arrivata a compromettere l'identità dell'umano.<br />

L'esito di questo progetto di autonomia segnato da una fuga in<br />

avanti di tipo tecnoscientifico si è infatti risolto in una perdita di<br />

identità da parte dell'uomo stesso sfociata nel transumanismo. Si<br />

è arrivati a pensare di potersi affrancare dai vincoli propri al<br />

nostro condizionamento genetico. Ma perché voler oltrepassare<br />

le barriere biologiche che ci limitano, se non per un rifiuto <strong>della</strong><br />

stessa condizione umana? Un tale progetto tecnoeconomico si<br />

basa sulla visione pessimista <strong>della</strong> natura umana, vista come<br />

peccatrice e dominata dalle passioni tristi <strong>della</strong> tradizione<br />

agostiniana, che rifiuta l'a-<br />

87


nimalità dell'uomo e dubita del potere <strong>della</strong> ragione. A conti fatti,<br />

quella che l'ideologia del progresso propone è una vera e propria<br />

redenzione attraverso la tecnica. Nello stesso <strong>tempo</strong>, però,<br />

questo rifiuto <strong>della</strong> condizione umana è un'abdicazione e una<br />

sottomissione ai diktat delle prestazioni tecnoscientifiche. E<br />

quella volontà di potenza già individuata traspare ancora oggi<br />

nel rifiuto del dibattito democratico sulla ricerca scientifica e<br />

tecnica.<br />

La decrescita intende riprendere con rinnovato vigore il<br />

programma di emancipazione politica <strong>della</strong> modernità,<br />

affrontando tutte le difficoltà poste dalla sua realizzazione.<br />

Un'esperienza autenticamente democratica instaura infatti<br />

un'esperienza <strong>della</strong> trascendenza dell'uomo nell'uomo che<br />

permette di uscire dalle aporie dell'egualitarismo.<br />

«La decrescita intende riprendere<br />

con rinnovato vigore il programma<br />

di emancipazione politica <strong>della</strong><br />

modernità»<br />

Se la decrescita e il progetto di costruzione di una società<br />

autonoma possono realizzare il sogno di emancipazione<br />

dell'<strong>Il</strong>luminismo e <strong>della</strong> modernità, che rimane un contributo<br />

fondamentale <strong>della</strong> cultura occidentale, questo non potrà<br />

avvenire negando la nostra inclusione nella natura e il nostro<br />

radicamento nella storia, ma al contrario assumendo il duplice<br />

lascito <strong>della</strong> nostra naturalità e <strong>della</strong> nostra storicità. Siamo<br />

completamente partecipi <strong>della</strong> natura, dalla quale<br />

88


siamo generati e nella quale viviamo. Pur vivendo nella natura e<br />

<strong>della</strong> natura, abbiamo tuttavia la particolarità di potercela<br />

rappresentare e di poterci rappresentare la nostra vita come<br />

un'avventura che si svolge nel <strong>tempo</strong>. Siamo dunque costruiti<br />

dalla storia che noi stessi creiamo. Negare l'evidenza dei limiti<br />

fisici, dimenticare la terra, il acqua, il clima, la funzione<br />

insostituibile delle api e, più in generale, <strong>della</strong> biodiversità: ecco<br />

che cosa fanno gli economisti. <strong>Il</strong> guaio è che ormai siamo<br />

diventati, più o meno, tutti economisti.<br />

La decolonizzazione dell'immaginario passa anche dallo<br />

sguardo diverso che rivolgiamo ai «poveri» del Sud. È <strong>tempo</strong> di<br />

considerare che da molti punti di vista le comunità resistenti<br />

dell'Africa e <strong>della</strong> Papuasia non sono in ritardo, ma in anticipo, e<br />

che dobbiamo ascoltarle per ridare senso alle nostre società alla<br />

deriva. Dobbiamo recuperare quella «potenza dei poveri», quella<br />

capacità di autonomia che viene dall'energia interiore 29. L'<br />

ignoranza, l'indifferenza, la noncuranza, la superficialità sono le<br />

modalità che servono a preservare l'ideologia <strong>della</strong> crescita, e<br />

così facendo noi ci assumiamo il rischio di vivere tragicamente<br />

una catastrofe ecologica e sociale avviata da vari decenni.<br />

Occorrerà disfarsi dell'impronta economica per non dimenticare<br />

la nostra impronta ecologica.<br />

«Non possiamo più venerare la santa<br />

crescita ‘facendo come se’»<br />

Non possiamo più riprodurre all'infinito il nostro modello di<br />

consumo e di produzione, «facendo come<br />

89


se» l'inquinamento di ogni genere non fosse che una proiezione<br />

mentale e lo sconvolgimento climatico uno spot elettorale. Non<br />

possiamo più continuare a produrre aerei, automobili, centrali<br />

nucleari, «facendo come se» le riserve di petrolio e di uranio<br />

fossero inesauribili. Non possiamo più credere ciecamente nella<br />

tecnoscienza, «facendo come se» i ricercatori fossero in grado,<br />

prima o poi, di trovare, al riparo dai giochi politici ed economici,<br />

soluzioni miracolose e senza rischi a fronte di problemi sempre<br />

più complessi. Non possiamo più venerare la santa crescita,<br />

«facendo come se» grazie a lei scomparissero una volta per tutte<br />

la disoccupazione, la precarietà, la disuguaglianza. Non possiamo<br />

più continuare ad arricchirci, noi popoli del Nord, «facendo come<br />

se» i popoli del Sud potessero seguire le nostre orme, mentre si<br />

allarga il gap tra noi e loro e il Nord si arricchisce a spese del Sud,<br />

approfittando soprattutto del rimborso del debito. Non possiamo<br />

più ignorare e sottrarci al dibattito politico, dimenticare<br />

l'urgenza di una riappropriazione delle sfide democratiche,<br />

«facendo come se» l'impegno civile e responsabile fosse una<br />

faccenda riservata agli eletti.<br />

Note al capitolo<br />

1. Pierre-Joseph Proudhon, La Guerre et la Paix, tome II, pp. 145-148, citato da<br />

Eugène Fournière, 1904, e ripreso nella «Revue du Mauss», n. 31, 1°semestre<br />

2008, p. 88.<br />

2. Cochet, Antimanuel d’ écologie, cit., p. 247.<br />

3. Ivan <strong>Il</strong>lich, Énergie et équité, Seuil, Paris, 1977 (trad. it.: Elogio <strong>della</strong> bicicletta,<br />

Bollati Boringhieri, Torino, 2006); Jean-Pierre Dupuy, La Trahison de l’opulence,<br />

PUF, Paris, 1976.<br />

90


4. <strong>Il</strong>lich, Énergie et équité, cit., p. 80.<br />

5. Gorz, Écologie et liberté, cit., p. 86. 6. Vedi Jean-François Draperi, Godin,<br />

inventeur de l'économie sociale, Editions Repas, Valence, 2008.<br />

7. «La Décroissance», n. 39, maggio 2007.<br />

8. Carlo Petrini, Militants de la gastronomie, «Le Monde diplomatique», luglio<br />

2006. Dello stesso autore vedi anche Slow Food Revolution. Da Arcigola a Terra<br />

Madre. Una nuova cultura del cibo e <strong>della</strong> vita, Rizzoli, Milano, 2005.<br />

9. Celebre grazie al film Nos enfants nous accuseront di Jean-Paul Jaud.<br />

10. Rob Hopkins, The Transition Handbook. From Oil Dependancy to Local<br />

Resilience, Green Books, Dartington, 2008.<br />

11. Murray Bookchin, Pour un municipalisme libertaire, Atelier de création<br />

libertaire, Lyon, 2003 (ediz. it.: Democrazia diretta, Elèuthera, Milano, 1993).<br />

12. Richard Heinberg, Peak Everything, New Society Publishers, 2007, citato da<br />

Cochet, Antimanuel d 'écologie, cit., p. 229.<br />

13. «<strong>Il</strong> consumo di televisione rappresenta l'occupazione più importante del<br />

<strong>tempo</strong> libero nel mondo, con una media di 217 minuti in Europa occidentale e<br />

di 290 minuti negli Stati Uniti». Luigino Brini, La ferita dell'altro. Economia e<br />

relazioni umane, <strong>Il</strong> Margine, Trento, 2007, p. 172.<br />

14. Si veda l'esperienza del PADES (Programme autoproduction et<br />

développement social), Autoproduire pour se reconstruire, «Silence», n. 360,<br />

settembre 2008.<br />

15. François Flahaut, Le Crépuscule de Prométhée. Contribution à une histoire de<br />

la démesure humaine, Mille et une nuits, Paris, 2008, p. 262.<br />

16. Giorgio Ruffolo, <strong>Il</strong> capitalismo ha i secoli contati, Einaudi, Torino, 2008, p.<br />

206.<br />

17. L'evoluzione e il perfezionamento dei calcoli hanno modificato queste cifre,<br />

ma non in modo significativo.<br />

91


18. Vedi Jean Gadrey, Florence Jany-Catrice, Les Nouveaux indicateurs de<br />

richesse, La Découverte, Paris, 2005, p. 69 (trad. it.: No PIL! Contro la dittatura<br />

<strong>della</strong> ricchezza, Castelvecchi, Roma, 2005).<br />

19. A Kobe, in Giappone, nei primi anni Settanta un gruppo di donne che voleva<br />

alimentarsi con cibo non contaminato da sostanze chimiche e che assisteva<br />

all'aumento considerevole delle importazioni di prodotti alimentari dall'estero,<br />

con la conseguente chiusura delle fattorie locali, decise di costituire<br />

un'associazione che unisse ricercatori agrari, contadini e acquirenti per creare<br />

una distribuzione che dalle campagne rifornisse direttamente le città. Questo<br />

movimento prese inizialmente il nome di Teikei, una parola che in giapponese<br />

significa pressappoco «il cibo che porta la faccia dell'agricoltore». II successo fu<br />

tale che in pochi anni l'iniziativa associò oltre milletrecento persone. Oggi<br />

questo movimento, che ha preso il nome di JOAA (Japanese Organic Agriculture<br />

Association), rimane una delle maggiori associazioni al mondo per la vendita<br />

diretta, meritando anche l'ambìto premio Nobel alternativo per l'ecologia<br />

[N.d.T.].<br />

20. In reazione ai fast food, la cui formula è così illustrata da Yves Cochet:<br />

«Produttori mal pagati + energia a poco prezzo + bassi costi di trasporto +<br />

trasformazione fatta da proletari stranieri + impatto ambientale e sulla salute<br />

non contabilizzato = un'alimentazione `moderna' a buon mercato per<br />

consumatori occidentali che hanno fretta». Pétrole apocalypse, Fayard, Paris,<br />

2005, p. 66.<br />

21. Vedi Petrini, Militants de la gastronomie, cit.<br />

22. Charles Fourier, La Fausse Industrie, VIII, vol. t, p. 38.<br />

23. Bernard Lietaer, Des monnaies pour les communautés et les régions<br />

biogéographiques: un outil décisif pour la redynamisation régionale au XXIe<br />

siècle, in Jérome Blanc, Exclusion et liens financiers, Monnaies sociales, Rapport<br />

2005-2006, Economica, p. 76.<br />

24. Vedi Bernard Lietaer, Margrit Kennedy, Monnaies régionales, Editions<br />

Charles Léopold Mayer, Paris, 2008. Si potrà inoltre visionare il film La Double<br />

Face de la monnaie di Vincent Gaillard e Jérome Polidor, TINA Film, La Mare aux<br />

canards.<br />

92


25. Con 100 dollari, per esempio, è possibile averne 1.000 da una banca<br />

d'investimento e questo permette di posizionarsi sul mercato dei derivati<br />

(Futurs) con 375.000 dollari.<br />

26. Citato da Lietaer e Kennedy, Monnaies régionales, cit., p. 204.<br />

27. È il nome di una valuta regionale creata nel 2003 nella cittadina bavarese di<br />

Prien am Chiemsee. Prende il nome dall'area dell'Alta Baviera intorno al lago<br />

Chiemsee. <strong>Il</strong> chiemgauer opera con un tasso di cambio fisso: 1 chiemgauer = 1<br />

euro [N.d.T.].<br />

28. Entrambe fanno parte del REPAS (Réseau d'échange et de pratiques<br />

alternatives et solidaires). Vedi Béatrice Barras, Marc Bourgeois, Elisabeth<br />

Bourguignat, Michel Lulek, Quand l'entreprise apprend à vivre, Editions Charles<br />

Léopold Mayer, Paris, 2002; Béatrice Barras, Moutons rebelles. Ardelaine, la<br />

fibre développement local, Editions REPAS, Valence, 2003.<br />

29. Majid Rahnema, Jean Robert, La Puissance des pauvres, Actes Sud, Arles,<br />

2008 (trad. it.: La potenza dei poveri, Jaca Book, Milano, 2010).<br />

93


CONCLUSIONE<br />

Vivere in altro modo lo stesso mondo<br />

Siamo arrivati a un bivio decisivo, sostiene Woody Allen. Una<br />

strada ci porta all'estinzione <strong>della</strong> specie, l'altra alla<br />

disperazione. E aggiunge: «Spero che saremo capaci di fare la<br />

scelta giusta... ». La prima strada è quella che stiamo seguendo.<br />

La seconda è quella <strong>della</strong> crescita negativa che provoca carestie,<br />

guerre, pandemie. E che rischia di essere gestita da un potere<br />

totalitario che imporrebbe con la violenza un razionamento<br />

drastico delle risorse limitate, a vantaggio di un piccolo numero<br />

di privilegiati e a scapito <strong>della</strong> maggioranza. Sebbene la società<br />

<strong>della</strong> crescita si sia sviluppata molto dopo la nascita del<br />

capitalismo, quest'ultimo potrebbe sopravvivere al crollo <strong>della</strong><br />

prima. Ciò significa che un'economia capitalista potrebbe<br />

continuare a funzionare anche in una situazione di scarsità delle<br />

risorse naturali, di sconvolgimento climatico ecc. È la parte di<br />

verità sostenuta dai difensori dello sviluppo durevole e dai<br />

fautori del capitalismo<br />

95


immateriale. Le imprese (alcune almeno) potrebbero continuare<br />

a crescere, a incrementare il proprio fatturato e i propri utili,<br />

mentre le carestie, le pandemie e le guerre sterminerebbero i<br />

nove decimi dell'umanità. Le risorse, sempre più rare,<br />

aumenterebbero più che in proporzione al loro valore. E la<br />

scarsità di petrolio non farebbe male, anzi tutt'altro, alla salute<br />

delle compagnie petrolifere. Se non accade lo stesso per la pesca,<br />

è perché esistono alternative al pesce, il cui prezzo non può<br />

crescere in proporzione alla sua scarsità. In sostanza, il suo<br />

consumo si ridurrà, mentre il valore continuerà ad aumentare.<br />

Qui e là vediamo già delinearsi le premesse di quest'ordine<br />

ecofascista o ecototalitario.<br />

La decrescita rappresenta una terza via, quella <strong>della</strong> frugalità<br />

per scelta. Per questo dobbiamo inventarci un altro modo di<br />

relazionarci con il mondo, con la natura, con le cose e con gli<br />

esseri viventi, un modo che abbia la facoltà di rendersi universale<br />

a scala umana. Questa prospettiva non è triste. Le società che<br />

autolimitano le proprie capacità di produzione hanno in cambio<br />

una socialità festosa. Quando diciamo che c'è un altro mondo già<br />

presente in questo, vogliamo dire che si può e si deve vivere il<br />

presente in altro modo. E accogliamo di buon grado questa<br />

apertura che ci consente di uscire dall'economia, questa via di<br />

fuga verso una società e una civiltà emancipate e autonome.<br />

L'utopia è una visione immaginaria del futuro, una visione che<br />

non è del tutto fantasmatica, che non è pura creazione, ma<br />

un'affermazione che parte dalla negatività del presente,<br />

dall'aberrazione di una società <strong>della</strong> crescita senza limiti. <strong>Il</strong><br />

riferimento a nuovi ideali poggia già sulla realtà, mentre esplora<br />

le possibilità og-<br />

96


gettive di una loro attuazione. Senza l'ipotesi di un altro mondo<br />

possibile, semplicemente non c'è politica. Resta solo una gestione<br />

amministrativa e tecnocratica degli uomini e delle cose.<br />

«La decrescita rappresenta una terza<br />

via, quella <strong>della</strong> frugalità per scelta»<br />

Si può certamente essere preoccupati per la radicalità dei<br />

cambiamenti preannunciati dalla decrescita, che comporta una<br />

rottura con le nostre abitudini e i nostri comportamenti. E<br />

tuttavia, grazie alle pratiche innovatrici che propone, noi<br />

possiamo costruire un progetto di solidarietà vera con le<br />

generazioni future e prospettare per l'umanità un futuro più<br />

sereno.<br />

97


Lessico<br />

Beni relazionali: servizi commerciabili (e più spesso non<br />

commerciabili) a forte contenuto interpersonale, che vanno dal<br />

baby-sitting all'accompagnamento alla morte, passando<br />

dall'amicizia e dall'amore, ma che comprendono anche il<br />

massaggio e la psicoanalisi.<br />

Bioregioni: la bioregione o ecoregione può essere definita<br />

un'entità spaziale coerente che traduce un'entità geografica,<br />

sociale e storica. Può avere caratteristiche più o meno rurali o<br />

urbane. La bioregione urbana, costituita da un insieme<br />

complesso di sistemi territoriali locali dotati di forti capacità di<br />

autosostenibilità ecologica, mira alla riduzione delle diseconomie<br />

esterne e del consumo di energia.<br />

Chiemgauer. una delle ventotto monete regionali che circolano<br />

con successo in Germania. Ne esistono di simili anche in<br />

Giappone e nella Confederazione Elvetica. L'economista belga<br />

Bernard Lietaer ha detto di loro: «Le mo-<br />

99


nete regionali non faranno evitare la crisi, ma sono sicuro che<br />

potranno ridurne la durata e la gravità. Con una moneta<br />

regionale le imprese potranno prestarsi denaro tra loro e<br />

mantenere al lavoro i dipendenti» («Politis», n. 1031, dicembre<br />

2008).<br />

Consumi finali: sono quelli del consumatore che così soddisfa un<br />

proprio bisogno. <strong>Il</strong> chilo di pomodori comprato al mercato è un<br />

consumo finale.<br />

Consumi intermedi: l'insieme dei beni e servizi commerciali<br />

azzerati (incorporati) nel corso <strong>della</strong> produzione realizzata da<br />

un'impresa. La tonnellata di pomodori acquistata da un<br />

produttore di concentrato di pomodoro è un consumo<br />

intermedio.<br />

Diseconomie esterne: vedi Esternalità.<br />

Ecomunicipalismo: progetto organizzativo di società ecologica<br />

proposto dal pensatore anarchico Murray Bookchin. Questa<br />

sarebbe strutturata come una municipalità composta da tanti<br />

piccoli municipi, ognuno dei quali sarebbe una «comune delle<br />

comuni», tutte di dimensioni minori e in grado di vivere in<br />

perfetta armonia con il proprio ecosistema.<br />

Economicismo: forma di analisi marxista secondo la quale tutti i<br />

fatti trovano spiegazione nell'esistenza materiale degli uomini. I<br />

modi di pensare, i valori, i sentimenti si spiegherebbero<br />

attraverso l'economia e la continua avanzata del progresso<br />

tecnico. In senso generale, l'economicismo pone i fatti economici<br />

al centro delle spiegazioni dei comportamenti politici e sociali.<br />

«Ammettere come verità as-<br />

100


solute le affermazioni degli economisti significa passare<br />

dall'economia, disciplina scientifica tra le altre, all'economicismo,<br />

un integralismo devastante come l'integralismo religioso»<br />

(Albert Jacquard).<br />

Es-crescenza: la crescita che oltrepassa l'impronta ecologica<br />

sostenibile. Corrisponde appunto all'iperconsumo, cioè a un<br />

livello di produzione che travalica globalmente quello in grado di<br />

assicurare il soddisfacimento dei bisogni «ragionevoli» di tutti.<br />

Esternalità: relazione tra agenti economici (il più sovente dal<br />

produttore verso il consumatore) che ha un'influenza negativa o<br />

positiva sul loro benessere, senza che tra loro ci sia una<br />

mediazione del sistema dei prezzi. Le esternalità fanno parte<br />

delle «falle del mercato» (market failures). Si parla anche di<br />

effetto esterno. Quando è positivo (per esempio, la pubblica<br />

istruzione dà ai futuri lavoratori una formazione che va bene alle<br />

imprese), si tratta di un'economia esterna; quando è negativo (lo<br />

scarico di prodotti inquinanti in un fiume da parte di una<br />

fabbrica), si fa ricorso all'espressione diseconomia esterna.<br />

FAO: Food and Agriculture Organization, l'organismo<br />

internazionale per l'agricoltura e l'alimentazione delle Nazioni<br />

Unite con sede a Roma.<br />

Flessibilità del lavoro: per gli economisti neoclassici, la flessibilità<br />

dei prezzi permette di realizzare un equilibrio tra la domanda e<br />

l'offerta dei prodotti. Analogamente, a loro avviso la flessibilità<br />

dei salari sul mercato del lavoro favorirà l'equità tra l'offerta e la<br />

domanda di lavoro. Così, in periodi di disoccupazione, la<br />

riduzione dei salari permette di<br />

101


assorbire più disoccupati. In generale, la flessibilità consente di<br />

adattarsi alle evoluzioni <strong>della</strong> situazione globale dell'economia.<br />

Anche il lavoro, dunque, secondo la teoria classica deve essere<br />

flessibile. <strong>Il</strong> salariato, per esempio, dovrà essere polivalente e<br />

accettare una modulazione degli orari in base all'andamento<br />

delle attività dell'impresa, la quale potrà assumere e licenziare<br />

liberamente o ridurre il trattamento previsto per talune<br />

mansioni.<br />

Impronta ecologica: «L'impronta ecologica di una popolazione<br />

rappresenta la superficie terrestre produttiva di suolo e di oceani<br />

necessaria a fornire le risorse consumate da quella popolazione e<br />

ad assimilarne i rifiuti e gli altri scarti» (Mathis Wackernagel). A<br />

titolo di esempio, le attività francesi di produzione e consumo<br />

utilizzavano, nel 1999, un po' più di trecento milioni di ettari<br />

(Jean Gadrey Florence Jany-Catrice, Les nouveaux indicateurs de<br />

richesse, La Découverte, Paris, 2005).<br />

Iperconsumo: è un consumo smodato, eccessivo, che si sviluppa<br />

oltre il ragionevole, in particolare provocato dal<br />

condizionamento pubblicitario e dall'obsolescenza programmata<br />

degli oggetti di consumo.<br />

LBO: acronimo dell'inglese leverage buy-out. Un'impresa viene<br />

acquistata grazie a un mutuo bancario che rappresenta una<br />

quota importante (per esempio il 70%) del suo valore d'acquisto.<br />

<strong>Il</strong> debito sarà coperto dagli utili realizzati dall'impresa<br />

acquistata. <strong>Il</strong> suddetto LBO permette così alla società di<br />

finanziare la propria acquisizione. L'esigenza di raggiungere in<br />

breve <strong>tempo</strong> un'elevatissima redditività finanziaria da parte dei<br />

nuovi proprietari influirà negativamente sui dipendenti, vittime<br />

di licenziamenti in ragione<br />

102


<strong>della</strong> compressione dei costi salariali, con la delocalizzazione<br />

dell'attività produttiva, prassi ormai corrente.<br />

Mano invisibile: Adam Smith ha citato in due casi la famosa mano<br />

invisibile. La prima volta nella Teoria dei sentimenti morali<br />

(1759). I ricchi, dato il loro benessere materiale, la loro avidità e<br />

il loro egoismo, desiderano avere accesso a beni di consumo rari,<br />

che faranno produrre da salariati poveri. Così la ricchezza<br />

accumulata egoisticamente da alcuni servirà anche gli interessi<br />

di altri meno abbienti, offrendo loro un posto di lavoro salariato.<br />

La seconda volta è citata nella Indagine sulla natura e le cause<br />

<strong>della</strong> ricchezza delle nazioni (1776). <strong>Il</strong> produttore (un macellaio,<br />

per esempio), pur perseguendo soltanto il proprio tornaconto<br />

personale (l'arricchimento), serve vantaggiosamente i propri<br />

clienti, offrendo loro i prodotti migliori in un mercato<br />

concorrenziale. In entrambe le situazioni, un meccanismo<br />

anonimo, provvidenziale (la mano invisibile), orienterà gli<br />

interessi individuali verso l'interesse generale. Pertanto, secondo<br />

i liberali, gli automatismi del mercato permetterebbero di<br />

coniugare il progresso economico con il benessere sociale.<br />

PIL: prodotto interno lordo. È l'indicatore definito dalla<br />

contabilità nazionale e utilizzato per illustrare il fenomeno <strong>della</strong><br />

crescita economica. <strong>Il</strong> PIL è pari alla somma dei valori aggiunti. In<br />

altri termini, è l'insieme delle ricchezze economiche prodotte,<br />

ovvero l'insieme dei beni e dei servizi prodotti e venduti che<br />

sono stati oggetto di un lavoro remunerato. <strong>Il</strong> concetto di<br />

ricchezza così espresso è discutibile, perché tiene conto solo di<br />

ciò che è misurabile. Certi atti gratuiti (la visita di un amico, di un<br />

parente, i gesti di tenerezza e di affetto del proprio partner...)<br />

sono esclusi da<br />

103


questa contabilità, pur essendo preziosi e dotati di una loro<br />

ricchezza! Quando parliamo di crescita, dovremmo precisare che<br />

si parla <strong>della</strong> crescita del PIL. Se la crescita è forte, moderata,<br />

fiacca, esponenziale, è sempre e solo in discussione la<br />

percentuale di variazione del PIL.<br />

Produttivismo: aumento indefinito <strong>della</strong> forza produttiva allo<br />

scopo di soddisfare le esigenze del benessere sociale. <strong>Il</strong><br />

produttivismo si fonda perciò sulla necessità di produrre sempre<br />

di più. È una concezione che accomuna liberali e marxisti. Per i<br />

primi, la crescita illimitata sarà assicurata dalla dinamica dei<br />

meccanismi del mercato e del capitalismo, eliminando gli ostacoli<br />

al loro funzionamento. Per i secondi, lo sarà grazie alla logica<br />

dello sviluppo delle forze produttive, liberate dalla proprietà<br />

privata e messe al servizio del proletariato.<br />

Resilienza: concetto, mediato dall'ecologia scientifica, che misura<br />

la capacità di un ecosistema di resistere ai cambiamenti del suo<br />

ambiente. La si può definire permanenza qualitativa <strong>della</strong> rete di<br />

interazioni di un ecosistema o, in termini più generali, capacità di<br />

un sistema di assorbire le perturbazioni e di riorganizzarsi, pur<br />

conservando in sostanza le funzioni, la struttura, l'identità e le<br />

retroazioni che gli sono proprie.<br />

Slow City: si tratta di una rete mondiale, costituitasi sulla scorta<br />

di quella fondata da Slow Food, di città di medie dimensioni che<br />

limitano volontariamente la propria crescita demografica per<br />

non superare i sessantamila abitanti. Oltre quella cifra non<br />

sarebbe più possibile parlare di «locale» e di «lentezza».<br />

104


Società autonoma: è la società che istituisce da sé le proprie leggi.<br />

Cornelius Castoriadis spiega che nella società autonoma «i<br />

cittadini hanno pari possibilità effettive di partecipare alla<br />

legislazione, al governo, alla giurisdizione, insomma<br />

all'istituzione <strong>della</strong> società». In questa società gli individui sono<br />

liberi e sovrani, la loro autonomia si coniuga con quella <strong>della</strong><br />

società, che così diventa autenticamente democratica. Al<br />

contrario, una società eteronoma riceve dall'esterno le leggi che<br />

governano la sua organizzazione. Oggi, in uno spazio<br />

globalizzato, il politico si assoggetta all'economico. I mercati<br />

finanziari, la libera concorrenza incontrollata, la ricerca<br />

ossessiva <strong>della</strong> redditività sottraggono agli Stati nazionali<br />

qualsiasi margine autonomo di manovra.<br />

Società termo-industriale: Alain Gras dimostra come gli uomini,<br />

all'inizio <strong>della</strong> rivoluzione industriale, avessero fatto «la scelta<br />

del fuoco» e avessero così trascurato l'acqua, il vento e la terra<br />

nell'organizzare la produzione. Essi hanno infatti sfruttato<br />

principalmente la combustione delle energie fossili (carbone,<br />

petrolio) e trascurato le energie rinnovabili. In nome di un<br />

evoluzionismo tecnologico persistente (e discutibile: si pretende<br />

che non sia possibile fermare il progresso), oggi utilizzano il<br />

calore dell'energia nucleare.<br />

Tecnoscienza: secondo Jacques Testart, stiamo avanzando verso<br />

«la realizzazione di un progetto di alienazione <strong>della</strong> scienza e<br />

<strong>della</strong> tecnologia». La ricerca scientifica è ormai finalizzata. <strong>Il</strong><br />

ricercatore dipende nella maggioranza dei casi dai poteri forti<br />

economici, politici e industriali. Per esempio, le piante<br />

geneticamente modificate sono il frutto di ricerche scientifiche<br />

finanziate da grandi multinazionali. Come ha detto Olivier Rey:<br />

«La scienza non è più qui per spiegare il mondo, ma per<br />

servirlo».<br />

105


Termo-industriale: vedi Società termo-industriale.<br />

Toyotismo: metodo di lavoro proposto negli anni Cinquanta<br />

dall'ingegnere giapponese Taichi Ohno, <strong>della</strong> Toyota, ispirato ai<br />

principi del supermercato americano. L'operaio deve disporre di<br />

«merci» preparate in anticipo (le componenti da montare) per<br />

produrre secondo le esigenze a valle e non più secondo quelle a<br />

monte, come nel sistema taylorista-fordiano. Gli stock sono<br />

ridotti, si lancia il just-in-time e l'attenzione maggiore viene data<br />

alla qualità dei prodotti. A1 lavoratore non si affida un'unica<br />

mansione: è polivalente e può addirittura interrompere il ritmo<br />

<strong>della</strong> catena. I metodi di razionalizzazione sono, però, più spinti e<br />

provocano molto spesso stress, per cui il toyotismo può essere<br />

apparentato a un neotaylorismo.<br />

Transumanismo: per definizione, ciò che si colloca al di là<br />

dell'umano. Convinzione secondo la quale è possibile e<br />

addirittura desiderabile oltrepassare l'umanità fabbricando una<br />

specie superiore (cyberantropica o di altra natura). Un uomo<br />

geneticamente modificato, per esempio, avrebbe caratteristiche<br />

transumane.<br />

Velocità generalizzata: «La velocità generalizzata di un mezzo di<br />

trasporto tiene conto <strong>della</strong> quantità di lavoro necessaria a chi lo<br />

utilizza per acquisire i mezzi che consentono di essere<br />

trasportato. Si calcola dividendo il chilometraggio annuo<br />

effettuato con quella specifica modalità di trasporto per il <strong>tempo</strong><br />

passato nell'anno su quel mezzo di trasporto e al suo esterno, per<br />

esempio per guadagnare quanto serve a pagarlo. Jean-Pierre<br />

Dupuy ha calcolato che, per tutte le classi `medie', la velocità<br />

generalizzata <strong>della</strong> bicicletta è uguale o maggiore a quella<br />

dell'automobile;<br />

106


solo le persone molto ricche ricavano veramente un guadagno<br />

dal <strong>tempo</strong> trascorso in auto. Gli altri si limitano a tradurre <strong>tempo</strong><br />

di lavoro in <strong>tempo</strong> di trasporto e viceversa» (Jean Robert, Le<br />

temps qu'on nous vole, Seuil, Paris, 1980, p. 64, citato da Alain<br />

Gras, La Choix du feu, Fayard, Paris, 2007, p. 218).<br />

107


108


Bibliografia essenziale<br />

François Brune, De l'idéologie aujourd'hui, Parangon, Paris, 2004.<br />

Yves Cochet, Antimanuel d'écologie, Bréal, Paris, 2009.<br />

André Gorz, Écologíe et politique, Seuil, Paris, 1978 (trad. it.:<br />

Ecologica, Jaca Book, Milano, 2009).<br />

Alain Gras, Le Choix du feu, Fayard, Paris, 2007.<br />

Hervé Kempf, Pour sauver la planète, sortez du capitalisme, Seuil,<br />

Paris, 2009 (trad. it.: Per salvare il pianeta bisogna farla finita col<br />

capitalismo, Garzanti, Milano, 2010).<br />

<strong>Serge</strong> <strong>Latouche</strong>, Le Pari de la décroissance, Fayard, Paris, 2006<br />

(trad. it.: La scommessa <strong>della</strong> decrescita, Feltrinelli, Milano, 2007).<br />

<strong>Serge</strong> <strong>Latouche</strong>, Petit traité de la décroissance sereine, Mille et<br />

une nuits, Paris, 2007 (trad. it.: Breve trattato <strong>della</strong> decrescita<br />

serena, Bollati Boringhieri, Torino, 2008).<br />

Bernard Legros, Jean-Noel Delplanque, L'Enseignement face à<br />

l’urgence écologique, Aden, Bruxelles, 2009.<br />

Majid Rahnema, Jean Robert, La Puissance des pauvres, Actes Sud,<br />

Arles, 2008 (trad. it.: La potenza dei poveri, Jaca Book, Milano,<br />

2010).<br />

109


110


Finito di stampare nel mese di maggio 2011<br />

presso Monotipia cremonese, Cremona<br />

per conto di Elèuthera, via Rovetta 27, Milano<br />

111


elèuthera | caienna<br />

Gli orologi sono diventati la condanna dell'uomo occidentale,<br />

perché segnano non il trascorrere del <strong>tempo</strong>, ma il denaro<br />

che guadagniamo o perdiamo. La monetizzazione del <strong>tempo</strong><br />

lo ha reso una merce, condannando le nostre esistenze<br />

a una velocità sempre maggiore.<br />

112<br />

Marco Aime<br />

Da due secoli abbiamo sviluppato una civiltà materiale e una potenza produttiva mai<br />

prima conosciute. Questa civiltà si scontra oggi con i limiti al suo sviluppo: sono i limiti<br />

del pianeta stesso. II pianeta è in pericolo e gli scenari più pessimistici sembrano<br />

superati da processi irreversibili di distruzione dell'ambiente.<br />

L'emergenza ecologica esige trasformazioni radicali dei nostri modi di vita, ma questi<br />

mutamenti non possono concepirsi che in un nuovo rapporto con il <strong>tempo</strong>.<br />

Reintrodurre la vicinanza e la lentezza nei processi di produzione e di consumo,<br />

ridurre i tempi di lavoro, disalienarci dalla nostra condizione di lavoratori e consumatori<br />

forsennati... queste sono le poste in gioco essenziali. Bisogna trasformare i nostri ritmi<br />

sociali per ritrovare il <strong>tempo</strong> di vivere.<br />

<strong>Serge</strong> <strong>Latouche</strong>, filosofo ed economista, è professore emerito all'Università di<br />

Paris XI e all'Institut d'Etudes du Devoloppement Economique et Social. Tra i<br />

suoi libri più recenti pubblicati in Italia: Come si esce dalla società dei consumi<br />

(2011), L'invenzione dell'economia (2010), La scommessa dello decrescita<br />

(2009). Con elèuthera ha inoltre pubblicato La fine del sogno occidentale<br />

(nuova edizione 2010).<br />

<strong>Didier</strong> Harpagès è professore di scienze economiche e sociali in un liceo di<br />

Parigi.<br />

ISBN 978-88-96904-01-5

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