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PREMIO LETTERARIO LICEO VITTORIO EMANUELE II

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<strong>PREMIO</strong> <strong>LETTERARIO</strong><br />

<strong>LICEO</strong> <strong>VITTORIO</strong> <strong>EMANUELE</strong> <strong>II</strong><br />

V<strong>II</strong>I EDIZIONE ANNO 2009


INTRODUZIONE<br />

Il prestigio del Premio letterario, ormai giunto alla sua ottava edizione, è cresciuto di anno<br />

in anno, come testimoniano il numero sempre crescente di adesioni e la qualità delle opere<br />

premiate. Il Premio è diventato ormai un punto di riferimento per gli alunni del nostro Liceo, che si<br />

sentono così invitati a prendere parte al mondo della letteratura, scoprendo gli aspetti creativi del<br />

linguaggio.<br />

È, dunque, un’occasione offerta ai giovani per pensare alla lingua come a una realtà viva con<br />

cui “giocare”. Ma è opportuno sottolineare che per i partecipanti, se scrivere è un gioco, è però un<br />

gioco serio. “Non si scrive per dire qualcosa, si scrive perché si ha qualcosa da dire”(1): è questa<br />

l’unica “regola”su cui si basa il “gioco” del Premio. I nostri allievi sanno che la scrittura per esistere<br />

ha bisogno di un’ “anima”, perché scrivere è creare, dando ad una parte di sé il diritto di costruirsi<br />

uno spazio per farsi sentire, e perché scrivere è anche conoscere, implicando un confronto schietto<br />

con se stessi e con il mondo. È pur vero che la “tecnica”deve seguire l’ “anima”, e che talvolta gli<br />

esiti di questo connubio nei lavori a noi presentati sono incerti. Tuttavia, in ogni lavoro dei<br />

partecipanti percepiamo la consapevolezza della necessità profonda di tale connubio, e ciò<br />

rappresenta per noi Docenti di Materie letterarie uno straordinario traguardo della attività didattica<br />

quotidiana, nella quale cerchiamo di spiegare ai nostri allievi che le regole sono strumenti che<br />

permettono di essere creativi e non gabbie che impediscono di esprimersi, che l’impiego corretto<br />

delle parole significa l’uso corretto del pensiero e comporta la consapevole articolazione di un<br />

discorso che non è ovvio, che sa raccontarsi, che sa andare oltre, che genera cambiamento.<br />

Per questo amiamo definire il Premio come un’esperienza di scrittura, di scrittura e basta,<br />

senza cedere alla moda di aggiungervi l’aggettivo “creativa”, perché crediamo che la scrittura sia in<br />

sé sempre creativa. Se è vero, infatti, come sostiene il matematico Henri Poincaré (2), che la<br />

creatività è l’unione di elementi preesistenti in combinazioni nuove e utili, possiamo intendere lo<br />

scrivere (e ovviamente anche il parlare), con il suo destreggiarsi tra i sintagmi e i paradigmi, con il<br />

suo montaggio di parole in uno fra gli innumerevoli discorsi possibili, come un gesto in sé sempre<br />

creativo, perché sempre assolutamente originale e portatore di senso.<br />

Qualche volta, presi dagli ingranaggi di una comunicazione essenziale e veloce,<br />

dimentichiamo tale valore e non consideriamo con la dovuta attenzione le potenzialità e, dunque, le<br />

responsabilità che l’atto di scrivere – ma questa stessa riflessione vale anche per l’atto di parlare –<br />

comporta: quando diciamo o non diciamo una singola frase, quando inseriamo quella frase in un<br />

contesto o in un altro, compiamo una scelta che produce nuovo senso. E tale scelta è da noi<br />

compiuta creativamente.<br />

È pur vero che la nostra epoca ama forme di comunicazione in cui le parti verbali e le parti<br />

visive appaiono sempre più frequentemente mescolate tra loro, dal powerpoint all’impaginazione di<br />

un quotidiano, dalla schermata web alla pubblicità. Ormai abbiamo l’abitudine di leggere e guardare<br />

contemporaneamente, o meglio: di leggere attraverso le immagini, immagini che hanno la capacità<br />

di farsi percepire in modo rapido e sintetico, di catturare l’attenzione, di trasmettere con<br />

immediatezza emozioni. Non possiamo né vogliamo di certo sottovalutare l’immediatezza e<br />

l’efficacia comunicative di questi strumenti, ma dobbiamo riflettere su un loro aspetto peculiare,<br />

che, a nostro avviso, permette di apprezzare ancora di più l’esperienza del Premio: la caratteristica<br />

fondamentale della scrittura affidata alla “schermata” è la sua non-autosufficienza, non solo perché<br />

le parole sono uno dei tanti elementi che costituiscono questa nuova forma di comunicazione, ma<br />

anche perché esse, interagendo con le immagini, ne vengono spesso modificate o addirittura<br />

2


ibaltate nel senso. Il pregio più significativo del Premio consiste, invece, nel permettere ai nostri<br />

giovani di recuperare proprio l’autosufficienza comunicativa della parola che si affida ancora alla<br />

pagina.<br />

Prof.ssa Ida Crispino<br />

Dipartimento di Italianistica<br />

Prof. Giovanni Accardo<br />

Responsabile del Premio<br />

(1) F. S. Fitzgerald, in B. Nugnes, Invito alla lettura di Fitzgerald, Mursia, Milano 1977.<br />

(2) H. Poincaré, Scienza e metodo, 1906.<br />

3


PREMESSA<br />

Sono otto anni che il rapporto fra il Premio Letterario “Vittorio Emanuele <strong>II</strong>” e la Libreria<br />

Guida va avanti tenendo fede allo spirito dell’Associazione Alfredo Guida Amici del Libro Onlus il<br />

cui fine principale è appunto quello di dare spazio alla creatività dei ragazzi, offrendo spazi adeguati<br />

all’universo adolescenziale soprattutto attraverso concorsi organizzati nella scuola. E ciò spiega<br />

perché la nostra Associazione ha fatto suo il Premio Letterario “V. Emanuele <strong>II</strong>”, alla sua V<strong>II</strong>I<br />

edizione, che tanto successo gode tra gli studenti del Liceo.<br />

L’Associazione è perciò fiera di contribuire a divulgare testi che consentono di penetrare<br />

nella realtà quotidiana di tanti giovani che, senza mediazioni, esprimono ciò che appartiene al loro<br />

macrocosmo adolescenziale, i loro sentimenti e le loro riflessioni manifestando, tra l’altro, tanta<br />

attenzione verso il sociale.<br />

Un plauso agli organizzatori di questa manifestazione che consentono agli studenti di<br />

confrontarsi e di arricchirsi reciprocamente, testimoniando con il loro impegno, ancora una volta,<br />

l’importanza della comunicazione scritta e quindi della letteratura.<br />

Dott. Mario Guida<br />

Presidente onorario<br />

Associazione Alfredo Guida<br />

Amici del Libro Onlus<br />

4


COMUNICAZIONE<br />

Nel presentare il premio letterario Vittorio Emanuele <strong>II</strong> voglio innanzitutto ringraziare<br />

coloro che da anni realizzano questo progetto con volontà e passione: il Dirigente Scolastico, i<br />

docenti e gli allievi.<br />

Siamo all’ottava edizione del premio e nei precedenti anni ho constatato l’entusiastica<br />

partecipazione dei ragazzi, “entusiasmo”trasmesso, anche, dai professori attraverso il lavoro<br />

quotidiano.<br />

Il concorso, articolato nelle sezioni di poesia, narrativa e saggistica e lingua inglese, “è<br />

inteso a sviluppare il senso poetico e creativo degli alunni, sensibilizzando così le nuove<br />

generazioni ai valori dell’Arte e del Bello”recita il progetto approvato dal Collegio dei docenti.<br />

Il premio è solo una delle tante iniziative culturali promosse dal Liceo Vittorio Emanuele,<br />

storico liceo della nostra città, e grazie alle diverse esperienze, i ragazzi acquisiscono competenze e<br />

conoscenze che li aiuteranno nelle scelte future.<br />

E in loro sarà sempre presente un forte senso di identità e appartenenza all’Istituto!<br />

Anche quest’anno leggeremo con interesse ciò che i ragazzi hanno scritto esprimendosi in<br />

libertà, dando spazio ai sentimenti e alle considerazioni sulla società che li circonda e grazie ai loro<br />

scritti entreremo un po’ di più nel loro mondo.<br />

Angela Cortese<br />

Assessore alle Politiche Scolastiche<br />

5


MANIFESTAZIONE PER LA PREMIAZIONE<br />

Libreria Guida Port’Alba – Saletta Rossa<br />

Napoli - 22 Maggio 2009<br />

Saluto dott. Mario Guida, Editore<br />

Saluto prof.ssa Angela Cortese, Assessore alle Politiche Formative, Provincia di Napoli<br />

Saluto prof. Ida Crispino, Dipartimento di Italianistica<br />

Saluto prof. Francesco Di Vaio, Dirigente Scolastico<br />

Studenti del Laboratorio Teatrale<br />

Presentatori Francesco Accardo e Viviana Annunziata<br />

Declamazione di poesie e prose Federica Di Biase, Cristina Serena Iannibelli, Gjada Criscuolo,<br />

Elena Trani, Nadia De Falco, Silvia Savoia, Cristina Rita Di Giusto, Martina Saviano, Ludovica<br />

Manfredonia, Virgen del Rocio Lupo, Talitha Giaquinto, Dourmas Fedra, Tailakh Yasmin<br />

Intermezzi musicali Morena Sassone, Francesco Perrone, Francesca Morgante, Cecilia Montella,<br />

Marta Amendola<br />

Ospite d‟onore dott. Ermanno Corsi, Giornalista<br />

Ospite d‟onore prof.ssa Angela Cortese, Assessore alle Politiche Formative, Provincia di Napoli<br />

6


PREMIAZIONE<br />

SEZIONE IN LINGUA ITALIANA – PROSA<br />

I CLASS. I bambini delle pietre, Tailakh Yasmin, IV F, con la seguente motivazione: “per<br />

aver raccontato, con originalità di stile e attraverso un susseguirsi di pensieri e sensazioni, il<br />

cammino sofferto di un popolo desideroso di pace, alla ricerca della propria identità e del proprio<br />

spazio geografico. Una tragedia esistenziale che si riflette nella drammatica esperienza di alcuni<br />

bambini la cui vita si muove in un sentiero sinuoso e pieno di insidie”.<br />

<strong>II</strong> CLASS. Cuori spezzati, Alessia Aiello, <strong>II</strong>I E, con la seguente motivazione: “per aver<br />

saputo raccontare con profonda sensibilità e in modo incisivo il dramma struggente di un ragazzo<br />

dipendente dalla droga che vive la sua vita nella più profonda solitudine, lacerato da mille tormenti<br />

e da un vuoto esistenziale a cui non sa sottrarsi”.<br />

<strong>II</strong>I CLASS. ex aequo, Foglie morte, Gianluca Nativo, <strong>II</strong>I C, con la seguente motivazione:<br />

“per aver saputo descrivere, con stile fluido e vivo, il disagio esistenziale di una ragazza sconvolta<br />

dalla morte del padre; un evento tragico che determina in lei la consapevolezza della precarietà<br />

della vita spesso travolta da fragili illusioni” e Ancora tanto, Giulia Giuranna, <strong>II</strong>I A, con la seguente<br />

motivazione “per aver raccontato, con fresca e spontanea originalità, il disagio umano e psicologico<br />

di un equilibrista che, smessi gli abiti dell’artista, è costretto, ogni giorno, ha cercare nel ginepraio<br />

della vita nuove forme di equilibrio ben più complesse”.<br />

MENZIONE SPECIALE La mia terra, Rita Di Giusto, I G, con la seguente motivazione<br />

“per aver descritto, con suggestioni significative, Napoli, delineandone gli annosi problemi, ma<br />

anche i colori infiniti di una città variegata e dalle mille sfaccettature. Il racconto sembra quasi<br />

azzerare la dimensione spazio-temporale conferendo alla città sfumature emotive di notevole<br />

effetto”.<br />

SEZIONE IN LINGUA ITALIANA - POESIA<br />

I CLASS. Nottetempo, Marco Di Vivo, V B, con la seguente motivazione “per aver<br />

descritto, con raffinata sensibilità, le variegate sfaccettature dell’universo adolescenziale proiettato<br />

verso un futuro carico di aspettative, ma, al contempo, profondamente radicato nei ricordi che<br />

ancora colorano i paesaggi dell’anima. Uno spaccato esistenziale in cui gli stereotipi del passato<br />

sono messi in crisi da un nuovo e prorompente bisogno di essere”.<br />

<strong>II</strong> CLASS. Silice, Miriam Di Nardo, <strong>II</strong> E, con la seguente motivazione: “per avere descritto,<br />

con profonda sensibilità e delicatezza di immagini, la solitudine nella sua continua ricerca di<br />

un’anima in cui incarnarsi per calpestare insieme il deserto della vita”.<br />

<strong>II</strong>I CLASS. Riluttanza, Fulvia Bergamo, V B, con la seguente motivazione “per aver<br />

descritto, con suggestioni significative ed incisive, le immagini interiori di un’adolescente che si<br />

avvicina al mondo dei grandi con il timore di chi va verso l’ignoto, ma anche con quella curiosità<br />

esistenziale che è parte vitale della storia umana”.<br />

MENZIONE SPECIALE Alza gli occhi, Riccardo Balzano, IV A, con la seguente<br />

motivazione “per avere trattato con notevole sensibilità il tema dello stupro quale profonda<br />

7


utalizzazione dell’amore; una tragedia che lascia nel tessuto esistenziale femminile profonde<br />

lacerazioni che difficilmente potranno essere risanate”.<br />

SEZIONE IN LINGUA INGLESE<br />

I CLASS. Change, Anna Troncone, <strong>II</strong>I G, con la seguente motivazione: “per avere descritto,<br />

con notevole padronanza linguistica, i sentimenti di un’adolescente che, nel suo percorso di vita,<br />

scopre le radici del suo legame con la madre trasformando una ordinaria storia d’amore filiale in un<br />

rapporto profondo che ogni giorno acquista sfumature sempre più ricche”.<br />

<strong>II</strong> CLASS. The moment to say goodbye”, Lucia Fabaro, I B, con la seguente motivazione:<br />

“per aver descritto, con notevole accuratezza linguistica, il tema dell’addio quale metafora della vita<br />

fatta per incontrarsi e perdersi”.<br />

<strong>II</strong>I CLASS. Your shining presence, Francesco Perrone, <strong>II</strong> F, con la seguente motivazione:<br />

“per aver descritto, con espressività e con padronanza linguistica, l’amore quale unica incredibile<br />

grandezza dell’universo capace di dare colori sempre nuovi all’esistenza umana”.<br />

MENZIONE SPECIALE Earthquake, Ludovica Manfredonia, V D, con la seguente<br />

motivazione: “per aver descritto, con sensibilità linguistica, gli attimi devastanti di un terremoto<br />

che cancella vite e annulla ricordi in una tensione emotiva dove vita e morte si intersecano”.<br />

Sponsors: Libreria Guida, Regione Campania, Provincia di Napoli, Officina Teatrale<br />

(Centro Studi Teatro), Cambridge School, Napoli, Teatro Stabile Mercadante, Associazione Lions<br />

di Napoli, Proteg Spa di Salvatore Papa, Radio Kiss Kiss, De Agostani ed., Istituto di Studi sulle<br />

Società del Mediterraneo, CNR Napoli, Agenzia di viaggi “Relaxing Tour”, Napoli, Agenzia di<br />

viaggi “TTI” di Leonetti & Gallucci, Salerno, Tg3 Campania, University of Cambridge,<br />

Associazione Stampa Estera, Osservatorio di Monteporzio Catone, Cinema “Modernissimo”,<br />

Sheraton Hotel, Roma, Domus Park Hotel, Frascati, Artcard Campania, Agenzia di viaggi<br />

“Emmeci”, Napoli.<br />

Gli sponsor hanno offerto agli alunni finalisti i seguenti premi: coppe, pubblicazione<br />

contenente i lavori selezionati, un abbonamento al teatro Mercadante, un corso di lingua inglese<br />

presso l‟Istituto Cambridge School (Piazza Leonardo), un corso di recitazione presso l‟Officina<br />

Teatrale Centro Studi per il Teatro, due viaggi ad Atene, un campus estivo Lions per due settimane,<br />

due abbonamenti a Speak up, due viaggi a Cambridge (in collaborazione con l‟università locale,<br />

Faculty of Medieval and Modern Languages, Department of Italian), tessere Campania Art Card,<br />

uno stage presso l‟Istituto di Studi sulle Società del Mediterraneo, CNR Napoli, uno stage presso<br />

Radio Kiss Kiss (servizi giornalistici), uno stage per presso la redazione Rai Tg3 Campania, una<br />

visita notturna all‟Osservatorio di Monteporzio Catone, un incontro con la Stampa Estera a Roma,<br />

quattro abbonamenti al cinema “Modernissimo”.<br />

Responsabile del Progetto: prof. Giovanni Accardo<br />

8


SEZIONE IN LINGUA ITALIANA<br />

PROSA<br />

9


I BAMBINI DELLE PIETRE<br />

“Arrivò una famiglia e disse: Abbiamo le carte<br />

dimostrano che la casa è nostra.<br />

– No, no, disse il vecchio. Il mio popolo ha sempre vissuto qui,<br />

Mio padre, mio nonno... e guarda in giardino:<br />

un mio avo lo piantò.<br />

– No, no, disse la famiglia, guarda i documenti.<br />

Ve ne era una catasta.<br />

– Da dove comincio? disse l‟uomo.<br />

– Non c'è bisogno di leggere l'inizio, gli dissero,<br />

Vai alla pagina su cui è scritto „Terra Promessa‟.<br />

– Ma sono legali?, disse l‟uomo. Chi li ha scritti?<br />

– Dio, dissero loro. Li ha scritti Dio. Guarda!<br />

Stanno arrivando i Suoi carri armati”.<br />

Promised Land, di Michael Rosen, poeta ed attivista ebreo inglese.<br />

Stava calando il sole, in un tripudio di colori che andavano dal più cupo rosso allo sfumato<br />

violetto, quando passi incerti e scoordinati riempirono il grigio vicolo cieco coperto da una sferzata<br />

giallastra di sabbia.<br />

Si affrettava ad accertarsi che fosse tutto al proprio posto, senza il minimo cambiamento e,<br />

per quanto possibile, sperava fossero tutti vivi.<br />

Era una speranza vaga e disperata, ma il terreno sabbioso e inviolato le diede una<br />

soddisfacente testimonianza di salvezza. Scorse la vecchia baracca, accatastata insieme a tante<br />

vecchie casette diroccate, dietro un muro cedevole, colorato dai graffiti sbiaditi dall’imminente<br />

oscurità serale.<br />

Affannata Naima si diresse verso l’uscio e sospinse lentamente, desiderando solo vedere<br />

quel viso liscio e malinconico che costituiva, ormai da anni, la sua unica ragione di vita.<br />

“Rahyan?”<br />

Il sussurro si disperse, balzando sulle pareti che emanavano una puzza indescrivibile di<br />

muffa e di chiuso. Un odore che, nonostante ci avesse fatto l’abitudine, non smetteva di farle<br />

lacrimare gli occhi ogni volta che varcava la soglia di casa.<br />

Non era stata una scelta facile, stanziarsi lì, e aspettare, aspettare ed aspettare ancora.<br />

A volte, nell’oscurità, avvolta in un lenzuolo, guardava la notte scura attraverso le grate<br />

della finestra e ripensava alla sua vita, o meglio alla sua vecchia vita. L’esistenza che era stata<br />

cancellata per sempre da numerosi spari in cielo, dal rombo di un motore.<br />

Era finita. E le mancava.<br />

Era come se le avessero detto “Sai, Naima la tua vita si conclude qui, ora vai a cercare di<br />

sopravvivere da qualche altra parte”<br />

Entrando in quella casa, Naima faceva l’ ennesimo ingresso nella sua falsa esistenza.<br />

10


La vita dei profughi, NO… a lei proprio non si addiceva, pensò, osservando il soffitto<br />

gocciolante.<br />

“Mamma, sei tu?”<br />

Il cuore di Naima sobbalzò, e si riempì di sollievo.<br />

“Sia ringraziato Dio, Rahyan, dov’è il nonno?”<br />

“Sta riposando.”<br />

Si notava, nella voce del bambino, la nota tremolante di chi ha aspettato tanto tempo senza<br />

sapere. Una nota di quell’attesa terrorizzante tipica del giovedì sera.<br />

Naima posò una busta nera sul tavolo traballante e si precipitò nella camera adiacente alla<br />

cucina-salone.<br />

“C’è del cibo, Rahyan. È poco ma meglio di nulla”<br />

Scartando il pacchetto contenuto nella busta, Rahyan trovò due pezzi di pane raffermo,<br />

troppo secco e duro per i denti di jidd Muhammad. Sotto, chiusi in uno strato di cellophane<br />

trasparente, facevano bella mostra due piattini bassi decorati in maniera tradizionale, pieni di riso<br />

bollito. Doveva essercene più o meno cento grammi, molto di più delle volte precedenti.<br />

Da quando era cominciato l’inverno, in casa si gelava, pensò Rahyan con un brivido che lo<br />

scosse da testa a piedi. Dispose il cibo su un vassoio, e stando attento a non rovesciare tutto, entrò<br />

nella stanza del nonno; Naima era seduta sul letto, con le mani intrecciate a quelle del vecchio<br />

Muhammad.<br />

“Salamu alaykum, la pace sia su di voi”<br />

“Alaykum salam, sia su di te la pace, figlio mio, vieni accomodati qui” lo salutò il nonno<br />

sdraiato sul letto, con una leggera coperta grigia che gli copriva le gambe.<br />

“La cena, jidd”<br />

“Grazie, figliolo”<br />

Fu in quel momento che, come se non lo avesse mai guardato davvero, Rahyan si sedette al<br />

giaciglio del nonno, e lo osservò. Vide la vecchia kefiah stinta e sgualcita che incorniciava il viso<br />

del vecchio, solcato da profonde rughe orizzontali. Gli occhi stretti e scuri si muovevano da un lato<br />

all’altro della stanza, e la figura magra e ricurva era appoggiata allo schienale del letto come una<br />

foglia secca adagiata su un ramo, in attesa di una folata di vento che la spazzasse via.<br />

“Allora Naima, figlia mia, cos’è successo?”<br />

La giovane donna si tolse il leggero velo che le copriva i capelli scuri, e si premette le dita<br />

sugli occhi. Sospirò stanca.<br />

“Il solito, jidd. Quello che succede più o meno tutti i giovedì. Il mercato si riempie e chi può<br />

comprare compra. Ci si accontenta di quel che c’è, molto poco, ma, quando scoppiano le liti,<br />

arrivano i soldati e…”<br />

Ci fu una breve pausa, interrotta ogni tanto dallo scricchiolio dei denti di jidd che tentavano<br />

coraggiosamente di spezzare un pezzo di pane. Poi Naima continuò a parlare:<br />

“Io… io avevo paura che venissero qui” si coprì il viso con le mani “… e che se non<br />

avessero trovato i documenti…”.<br />

Il nonno stava per interromperla, quando tutti sobbalzarono al bussare della porta. Si<br />

guardarono senza dire una parola.<br />

Soldati? Forse non sarebbero stati così gentili da annunciarsi in maniera tanto cortese.<br />

“Vado…vado ad aprire io” disse il ragazzino, precipitandosi fuori dalla stanza.<br />

Aveva paura che, aprendo la porta, si sarebbe trovato un fucile puntato addosso come quel<br />

giorno. Aveva paura degli spari, e anche dei rumori che facevano i soldati quando camminavano.<br />

Ma, più di qualunque altra cosa, Rahyan aveva paura che i soldati avrebbero portato via sua madre e<br />

suo nonno, e lui sarebbe rimasto da solo in quella squallida casupola a guardare con occhi sbarrati il<br />

11


osso cremisi di un liquido che conosceva bene, inalando insieme odore di ruggine e quello speziato<br />

del tè vecchio. Respirò a fondo, e decise di sospingere la porta.<br />

Tirando un sospiro di sollievo che sembrò lunghissimo, scorse il viso di qualcuno che nelle<br />

vesti di militare avrebbe fatto ridere. Era il figlio di Abu Bilal, il vicino di casa.<br />

Noor aveva all’incirca la stessa età di Rahyan, se non di qualche mese più grande. Aveva il<br />

viso chiaro, i capelli scuri che gli cadevano a ciuffi sulla fronte e gli occhi erano di un chiaro<br />

brillante. La cosa più particolare di quel ragazzo erano le sopracciglia leggermente inclinate che gli<br />

conferivano un’aria perennemente triste anche quando si lasciava andare a lunghe risate. Qualcuno<br />

lo chiamava “figlio delle lacrime”ma, visto che Rahyan non l’aveva mai visto piangere, preferiva di<br />

gran lunga chiamarlo “guerriero degli agnelli”, a causa del volto docile che nascondeva una forte<br />

personalità. Per tutta risposta Noor lo aveva soprannominato “lanciatore di cotone”.<br />

“Che fine hai fatto? Ti aspettavamo a pranzo oggi” sussurrò attraverso lo spioncino della<br />

porta.<br />

“Non potevo lasciare il nonno da solo, mi dispiace”<br />

“Perché non apri?”<br />

Rahyan spalancò la porta per lasciarlo passare. Entrò avanzando con in mano una pila di<br />

piatti che sembravano proprio sul punto di cadere. Noor tirò su con il naso.<br />

“Avevamo messo questi da parte”<br />

Dall’altra stanza Naima chiamava suo figlio. Rahyan fece un cenno con la mano, esortando<br />

Noor ad entrare in casa. Quando entrò nella camera, Rahyan si vergognò di come fosse ridotta.<br />

L’intonaco delle pareti cadeva sempre più frequentemente. Sul soffitto una macchia verdognola si<br />

allargava vistosamente e la finestra era così piccola che sembrava non passasse neanche un filo<br />

d’aria. Nel complesso aveva un aspetto umido, cupo.<br />

Malsano, forse.<br />

Naima e jidd Muhammad salutarono calorosamente Noor, che offrì loro i piatti pieni di<br />

quello che doveva essere capse, riso accompagnato da verdure.<br />

“Grazie ragazzo, che Dio ti benedica!”. Prima di andarsene Noor baciò tre volte le mani del<br />

vecchio. Rahyan lo seguì nel salotto-cucina.<br />

“Hey, Noor aspetta”. L’altro si voltò.<br />

“Puoi…puoi dire a tua madre che mi dispiace di non essere venuto?” gli chiese sentendosi<br />

arrossire dall’imbarazzo. Per fortuna era buio.<br />

“Sì, certo che glielo dico” rispose l’altro facendo l’occhiolino. “Allora ci si sente<br />

dopodomani alle 7.00 in punto, va bene?” Rahyan lo guardò come se lo avesse schiaffeggiato.<br />

“Dopodomani?”<br />

“Certo, non dirmi che te ne sei dimenticato!” esclamò Noor contrariato. Aveva sempre<br />

sopportato la memoria labile di Rahyan, ma dimenticarsi di un appuntamento tanto importante…<br />

“No, no! È che…mia madre dice che ci sono i soldati giù e…”<br />

“ Non me ne importa niente dei soldati! Noi abbiamo le fionde”<br />

“…sarà pericoloso!”<br />

Noor sospirò, deluso e abbassò lo sguardo. Non se lo aspettava, Rahyan lo aveva capito. E<br />

forse non era stata neanche una buona idea dirglielo. Aveva mostrato le sua qualità, bravo Rahyan.<br />

“Se vuoi rimanere un lanciatore di cotone, fai pure…” disse scrollando le spalle e<br />

andandosene senza degnarlo di uno sguardo.<br />

Rahyan si sentì molto piccolo. Ancora una volta si era mostrato nelle sue vere vesti. Una<br />

persona incapace di lottare contro la realtà. Cercò di scacciare alcune voci maligne che gli<br />

risuonavano nel cervello.<br />

Ma tanto lui, la fionda, non sapeva comunque usarla.<br />

12


A volte capita che gli occhi, nonostante il sonno, sembrino non volersi chiudere. Quando, ad<br />

esempio, non vorresti fare altro che calare il sipario, e porre fine ad una giornata piena di flussi<br />

negativi. Però non ci riesci. Oppure quando sei attraversato da pensieri illogici e non fai altro che<br />

aspettare l’alba, per ricominciare di nuovo. Ma spesso, molto più spesso, sono gli incubi che non ti<br />

fanno dormire. Se hai paura del buio non dormirai al pensiero dell’ignota oscurità che ti circonda. E<br />

se hai paura dei ragni avrai un incubo con insetti enormi che cercano di divorarti.<br />

Se sei un bambino di Jabaliya, probabilmente, i tuoi incubi sono popolati dai cadaveri dei<br />

tuoi genitori. Se sei un profugo i tuoi sogni sono venati di rabbia.<br />

Per la patria rubata. Per i tuoi figli, e per i tuoi nipoti. Per la tua vita. Per i tuoi diritti e per la<br />

tua libertà. Per l’ingiustizia e per la tua terra. Non vogliono chiudersi le palpebre.<br />

I profughi non dormono. I bambini nemmeno.<br />

Il giorno seguente era venerdì quello che un tempo era il giorno delle riunioni nelle moschee<br />

e dei regali. Di solito, quando c’era un bel sole, il nonno, Naima e Rahyan uscivano dalla baracca<br />

per far prendere un po’ di aria al vecchio Muhammad. Se pioveva, se ne stavano tutti insieme ad<br />

ascoltare le vecchie e buffe storie che raccontava il nonno, come quella in cui lui aveva combattuto<br />

e vinto contro un colono americano che voleva rubargli una busta di pane. Rahyan rimaneva sempre<br />

a bocca aperta quando il nonno gli narrava tali episodi, ma aveva la sensazione che nei suoi racconti<br />

ci fosse sempre una gran bella dose di immaginazione. Il che non guastava.<br />

Quel giorno, invece, Muhammad voleva andare alla spiaggia. “Per ricordare i vecchi tempi”<br />

aveva detto, insistendo sui tentativi di Naima di dissuaderlo.<br />

Nel primo pomeriggio sfidarono il vento carico di sabbia e uscirono da soli, nonno e nipote,<br />

avvolti nelle sciarpe, il vecchio con la kefiah che gli copriva la testa e il naso.<br />

Non aveva ancora nevicato, ma il ghiaccio era nell’aria. Sicuramente, come aveva detto il<br />

nonno, era uno degli inverni più freddi degli ultimi dieci anni. E la sabbia poi…andava negli occhi,<br />

nei capelli, nei vestiti…<br />

Dovettero camminare un bel po’ prima di arrivare alla spiaggia. Alla vista del mare,<br />

Muhammad sospirò, poggiò entrambe le mani sul bastone e lasciò cadere lo sguardo all’orizzonte.<br />

Gli occhi stretti e cerchiati da ragnatele di rughe si perdevano tra i ricordi di una terra verde e<br />

fertile, priva di qualsiasi rancore e odio.<br />

Rahyan si sedette sulla sabbia, con le mani nelle tasche, cercando di riscaldarsele, ma più le<br />

fregava contro il tessuto ruvido più le sentiva intorpidite dal gelo. Vide il nonno avanzare verso il<br />

mare agitato e decise di seguirlo.<br />

“Jidd, dove vai?”<br />

L’odore salmastro riempiva le narici ed era un sollievo per chi viveva da anni in un tugurio<br />

dall’odore di muffa. Il vecchio Muhammad si sedette poco lontano dal punto in cui l’onda moriva<br />

bagnando la spiaggia. Il ragazzo lo imitò sedendosi accanto a lui, con il mento poggiato alle<br />

ginocchia.<br />

“Sai Rahyan, quando avevo la tua età, ogni venerdì, io e la mia famiglia andavamo a fare<br />

una gita al mare. Ci divertivamo come matti, facevamo bagni lunghi ore, stavamo a lungo sotto il<br />

sole e tornavamo a casa distrutti con la sabbia che cadeva dai vestiti. Avevamo una bella casa, mio<br />

padre possedeva un aranceto, e si sentiva sempre odore di agrumi in cucina. Ricordo che un giorno<br />

mia sorella prese il raffreddore e consumammo le arance rosse di un albero intero. Un arancio<br />

intero, capisci?” rise tra sé e sé. Una risata senza allegria.<br />

13


“Jaffa era una città stupenda. Si respirava pace ovunque, musulmani, cristiani, ebrei.<br />

Camminavamo uno al fianco dell’altro, con il pieno rispetto non solo religioso, ma umano.<br />

Eravamo palestinesi, non importava nulla la religione. Ci bastava guardare i nostri campi di<br />

pompelmo e sapere che un giorno sarebbero cresciuti, i frutti dei nostri alberi.”<br />

“Fu terribile quando ci portarono via dalla città. Cominciò lì il nostro massacro. Nel 1948.<br />

Iniziarono a distruggere le case e a sradicare i nostri alberi d’arancio, ci mostrarono dei documenti<br />

che dicevano che la casa non ci apparteneva più e ci fecero preparare una valigia. La nostra casa ora<br />

apparteneva a persone venute da ogni parte del mondo che si contendevano ciò che era sempre stata<br />

tutta la nostra vita. Un’ingiustizia che non ha fine e non ha giustificazioni. Mia madre svenne<br />

quando ci caricarono nel furgone che ci avrebbe portato fino a Jabaliya. Fu costretta a lasciare la<br />

città in cui erano vissuti i suoi antenati. Un colpo dal quale non si riprese mai più. Io avevo dieci<br />

anni. Non ricordo molto altro, solo che il viaggio fu duro e scandito dai singhiozzi dei miei genitori.<br />

Seppi che molti abitanti di Jaffa in quell’anno erano stati spinti in mare. Noi, invece, diventammo<br />

profughi. Nel campo di rifugiati riconobbi qualche amico di Jaffa, tra cui i nonni di Noor, un<br />

vecchio compagno di scuola e tre fratelli scampati al massacro del King David Hotel di<br />

Gerusalemme. E passarono gli anni, il rumore del tempo soffocato dai boati delle bombe. Io non<br />

dimenticherò mai quel suono. Mi perseguita notte e giorno.<br />

Fu nel campo che conobbi tua nonna. Una donna stupefacente…ci sposammo giovani, e la<br />

ricordo con il suo abito ricamato dalle mani esperte della madre. Punto a croce per creare le<br />

decorazioni colorate dei frutti. Ti ricordi vero, Rahyan?”<br />

Il bambino annuì energicamente sentendo all’improvviso la mancanza della donna energica<br />

e giovanile che era stata sua nonna, Mariam.<br />

“A settant’anni aveva ancora voglia di combattere per i suoi diritti! E quando nacque tuo<br />

padre nel 1967. Sayyef…”<br />

Rahyan non fu più tanto sicuro di voler sentire il resto del racconto di jidd Muhammad.<br />

Perché all’improvviso si sentì un nodo che gli bloccava la gola e il petto, e sentì bruciare gli angoli<br />

degli occhi.<br />

“Era un bambino vivace fin troppo. Molto intelligente. Avrei voluto che diventasse un<br />

dottore, perché un giorno combattesse da uomo di cultura. Preferiva scrivere poesie. È un uomo dal<br />

cuore buono tuo padre, Rahyan.”<br />

E lui, il figlio, lo ricordava bene. Ricordava alla perfezione il viso sempre allegro di Sayyef,<br />

nonostante le sofferenze, le privazioni e la povertà. Ricordava quando,<br />

prendendolo in braccio e chiamandolo “luce dei miei occhi”, lo faceva ridere,<br />

dimenticandosi della fame. E ricordava quel giorno, quando i soldati entrarono, buttando giù la<br />

porta, con i loro scarponi dal rumore metallico, i fucili puntati alla testa del bambino. Poi ricordava<br />

le urla e i pianti, e ancora le urla e i pianti. Accusavano di terrorismo, Sayyef, che terrorista non era<br />

mai stato. Lo avevano picchiato, legato, gli avevano bendato gli occhi con una fascia scura e lo<br />

avevano portato in carcere, nelle orecchie ancora il pianto di suo figlio.<br />

Erano passati quasi cinque anni da allora, ma la spina dolorosa che era apparsa il giorno<br />

dell’arresto di Sayyef era ancora nascosta insidiosamente nella mente e nei ricordi di chi l’aveva<br />

visto strappato con violenza alla propria identità.<br />

Muhammad si mise una mano nella tasca destra del suo lunghissimo pastrano, e ne trasse dei<br />

fogli ingialliti ripiegati su se stessi. Dopo averli dispiegati si inumidì la punta dell’indice e iniziò a<br />

sfogliarli uno ad uno.<br />

“Questi sono i documenti della nostra casa” ed iniziò a leggere le lunghissime parole che si<br />

susseguivano con una fretta palpabile. Rahyan riuscì a cogliere le frasi piene di dolore del vecchio:<br />

“Hanno venduto la Palestina” e “Come si può tradire la propria patria?”<br />

14


A parecchi metri di distanza il rombo del motore di una nave da guerra sbuffava nel mare in<br />

agitazione. Rahyan alzò gli occhi al cielo per scorgere le eliche di un elicottero militare che volava<br />

poco sopra il mercato.<br />

“E questa è la chiave…”<br />

Il nonno baciò la grande chiave arrugginita, che sembrava essere rimasta in quella tasca per<br />

anni, secoli, millenni, eppure era l’unico contatto vero con il passato.<br />

Alla domanda del ragazzo sul perché ancora la conservasse, il vecchio rispose che sperava di<br />

poter tornare un giorno dalle sue arance.<br />

“E se non potrò tornarci io, ci tornerai tu” aggiunse con la voce incrinata dalla tosse.<br />

“Loro possono mostrarci i carri armati, e le bombe e gli elicotteri. Ma noi gli mostreremo la<br />

carta e la penna e ci sarà giustizia per tutti, inshallah. Hanno detto che i vecchi moriranno e i<br />

giovani dimenticheranno. È vero, i vecchi sono morti. Ma i giovani non dimenticheranno. Non si<br />

può dimenticare. Il mondo ci ha abbandonato, siamo stati lasciati soli. Voglio mostrarti una cosa,<br />

ragazzo.”<br />

Sempre dallo stesso tascone da cui sembrava potesse uscire di tutto, il nonno tirò fuori una<br />

vecchia ipsilon di legno, con un elastico che pendeva dai lati. Una fionda. Una di quelle tanto<br />

vecchie e ruvide quanto precise ed efficienti.<br />

Rahyan passò lo sguardo dall’oggetto al mare e di nuovo a suo nonno. Avrebbe voluto<br />

saperla usare. Avrebbe voluto che suo padre gli avesse insegnato la posizione corretta delle mani<br />

prima ancora di spronarlo a camminare. Avrebbe voluto avere il coraggio di Noor, e di tutti gli altri<br />

ragazzi, e avrebbe voluto saper tirare la pietre. Niente cotone, solo pietre.<br />

“Finché non riusciremo a mostrare libri e calamaio, puoi provare con questa” disse il nonno<br />

porgendogliela “Era di tuo padre”.<br />

Il ragazzino la prese riluttante, e si sentì ancora una volta un fastidioso groppo poco più sotto<br />

della lingua. Tenendola tra le mani, cercò di immaginare Sayyef da ragazzo che combatteva<br />

l’Intifada, utilizzando con fierezza quello strumento che era diventato il simbolo della resistenza dei<br />

bambini, dei giovani e degli anziani.<br />

“Io… non so usarla” disse Rahyan con voce strozzata.<br />

Muhammad la riprese, e la osservò per una manciata di minuti.<br />

“Non c’è nulla di particolarmente difficile, devi solo stare attento al pollice”.<br />

Prese con due dita l’elastico, tendendolo al massimo e con una pietruzza piccola quanto una<br />

mosca prese la mira verso uno scoglio solitario. Ritrasse il pollice e lasciò andare la presa sulla<br />

molla, permettendo alla pietra di saettare ad una velocità e precisione spettacolare.<br />

“Se stai attento è semplice. E ti assicuro che lanciarsi la molla sulle dita è un’esperienza<br />

tutt’altro che piacevole” disse restituendo la fionda al nipote.<br />

Aveva annotato mentalmente ogni gesto del nonno, dalla piccola ruga in mezzo agli occhi<br />

allo schioccare delle dita, ma c’era qualcosa che comunque mancava. La forza?<br />

All’orizzonte il tramonto sembrava una vecchia cupola di un grigio circo mal organizzato in<br />

cui i pagliacci posseggono mitra e fanno i giocolieri con bombe a grappolo. Il tutto, però, ben<br />

scandito dai rumori meccanici del borbottio contrariato dell’oceano. Se all’improvviso fosse<br />

scattato il coprifuoco loro non lo avrebbero saputo. E allora cosa sarebbe successo? Li avrebbero<br />

giustiziati come assassini di fronte ad una strada vuota che non avrebbe portato da nessuna parte?<br />

“Andiamo, jidd” lo esortò Rahyan, una mano ancora stretta al legno scheggiato della fionda,<br />

l’altra dietro la schiena del vecchio, che però con voce tremula gli chiese un ultimo favore:<br />

“Devi promettermi solo una cosa, figlio mio…”<br />

Il ragazzo si sentì trapassare dallo sguardo penetrante del nonno, da quegli occhi stretti e<br />

scurissimi che aveva ereditato. Occhi che imprigionavano tristezza.<br />

15


“Con tutte le probabilità io morirò da rifugiato. Tuo padre da prigioniero. Ma tu, tu figlio di<br />

questa terra martoriata, promettimi che farai di tutto per vivere e morire da uomo libero. Da<br />

palestinese libero. Promettimelo, Rahyan”.<br />

Il tassello mancante del rompicapo che era stata la sua guerra interiore era stato riparato da<br />

quella frase stentata e supplichevole. Sentì all’improvviso tutto quello che era successo, sentì le<br />

gambe bagnarsi del sangue dei morti, e sentì la pelle del padre marcire in carcere. Sentì le urla dei<br />

sassi e delle madri, e i pianti dei bambini come lui, di quei bambini che scavavano la terra per<br />

cercare l’acqua, quando la razione settimanale finiva. E riversò sulle sue spalle la meticolosa<br />

ingiustizia di cui tutti loro erano stati vittime. Annuì con la vista appannata dalle lacrime.<br />

“Te lo prometto, jidd.”<br />

Mentre tornavano per la stradina disastrata del campo, Rahyan ricordò una frase che aveva<br />

visto scritta su un muro a Gaza, o forse a Gerusalemme, o forse negli occhi di sua madre, e di cui<br />

solo ora capiva il significato: “Welcome to apartheid”.<br />

“Non ci credo”<br />

“Ma ti dico che è vero…”<br />

“Sì, ma non ci credo lo stesso”<br />

“Pensi che ti direi mai una bugia così grande?”<br />

Noor spalancò le braccia, guardandolo sottecchi, quasi avesse paura di leggere il dolore nei<br />

suoi occhi. Eppure ciò che diceva non era una menzogna. Il maestro Jamil l’avevano ammazzato<br />

davvero. L’avevano tirato fuori dall’aula vuota, che stava pulendo, e gli avevano sparato alla<br />

schiena. Passando per quella scuola che era chiusa da più di due mesi, il ragazzo si era ricordato di<br />

dover assolutamente riferire a Rahyan ciò di cui si parlava ininterrottamente da una settimana.<br />

Una folata della brezza gelida mattutina li coprì di sabbia, e li costrinse a chiudere gli occhi<br />

per ripararsi. Era sabato, e quel momento era arrivato. Rahyan, messi da parte gli artigli della paura,<br />

aveva lavato i piatti sporchi rimasti dalla sera prima con la poca acqua restante per risparmiare<br />

lavoro a Naima e, kefiah sul capo, fionda in mano, si era catapultato fuori dalla baracca.<br />

Aveva aspettato più di venti minuti fuori la porta della casa di Noor, sperando che non<br />

uscisse Umm Bilal o, peggio, Abu Bilal, le cui gambe se le era portate via una mina anti-uomo. E<br />

mentre il disco di metallo fuso del sole faticava a sorgere dalle lontane montagne, quei minuti<br />

arrivarono e passarono.<br />

Ed ora erano lì, ad amareggiarsi sul sangue del maestro.<br />

“L’hanno ucciso…” ripeteva ogni tanto a voce bassa Rahyan, incapace di poter credere che<br />

un uomo tanto onesto e gentile fosse stata ucciso all’improvviso, in modo barbaro, mentre ancora<br />

una volta si dedicava alla scuola che aveva allestito con sacrifici immensi. Un’altra persona che se<br />

ne andava via così, silenziosamente, come piaceva a loro. Una lavata di sangue che cancellava per<br />

sempre la minaccia dell’anima che liberava dalla prigione del terrore i pensieri dei suoi alunni.<br />

Così… silenziosamente.<br />

Rahyan lacrimò a causa di un prurito fastidioso al naso e di piccoli spilli che gli pungevano<br />

l’occhio. Non voleva piangere. L’assassinio del maestro gli diede un’ondata di forza che lo investì<br />

da capo a piedi, convincendolo che ciò che stava facendo era giusto. Più che giusto. Legittimo.<br />

Quando le scuole erano chiuse, i bambini di Jabaliya giocavano a nascondino tra le macerie<br />

del campo. E, chissà, forse si divertivano anche. Il paesaggio fatto di mura diroccate ed enormi<br />

buche per terra offriva un ottimo posto per giocare<br />

16


A volte il gioco durava mattinate intere.<br />

Ma se non si giocava a nascondino, beh, c’erano dei giochi più pericolosi. Ti spingevi, tu ed<br />

il tuo gruppo, fino ai limiti del campo, e poi quello che doveva succedere succedeva. E se non stavi<br />

attento, potevi perfino rimanerci secco.<br />

Qualche volta i bambini andavano vicino al presidio militare con degli striscioni, oppure<br />

gridavano qualcosa ai soldati. Ma il gioco più bello di tutti era prendere una bandiera e piantarla<br />

proprio di fronte ad un carro armato, e poi correre e correre per non farsi sparare nelle gambe.<br />

Il silenzio del campo era rotto da quei piccoli passi trascinati per la strada sabbiosa. L’aria<br />

era densa del freddo gelido della notte.<br />

“Dove sono gli altri?” chiese Rahyan guardandosi intorno.<br />

“Ci aspettano presso la moschea, hanno anche tre bandiere nuove!” Noor sembrava esaltato<br />

dalla cosa, ed un bagliore gli illuminava gli occhi chiari. Rahyan si coprì la bocca con la kefiah e<br />

camminò con lo sguardo sulle scarpe scucite. Una frase lo stava perseguitando come un’ombra da<br />

circa una decina di minuti, una frase che però gli infondeva coraggio, più di quanto ne volesse.<br />

L’aveva detto il maestro Jamil.<br />

I martiri vanno in Paradiso.<br />

“I martiri vanno in Paradiso, luce dei miei occhi.” glielo aveva detto anche suo padre.<br />

Il respiro si condensava in nuvolette di aria fredda, e camminarono così i due amici, l’uno<br />

accanto all’altro, a testa bassa, ognuno perso nei propri pensieri.<br />

Quando arrivarono alla moschea, il sole non aveva ancora illuminato le rocce di Jabaliya, e<br />

il minareto faceva da custode a quel luogo costituito quasi completamente dai resti dei<br />

bombardamenti. Ma i bambini erano lì, all’appuntamento, e non mancava nessuno.<br />

Ne erano circa una decina, chi più grande, chi con le stampelle, chi con la kefiah avvolta sul<br />

viso come i fedayn. Tutti lanciatori di pietre. Si sentì quasi a disagio, Rahyan, pensando che,<br />

dopotutto, lui era ancora un misero lanciatore di cotone.<br />

E guardali, guardali come ridono con i loro sassi. Ognuno avvolto in un vecchio giubbotto.<br />

Si voltarono verso i due, e uno di essi, forse il più grande, sancì che quello era il momento giusto.<br />

Rahyan si accorse che gli tremavano un po’ le gambe mentre si affrettava per stare al passo con il<br />

resto del gruppo. Sperò che fosse il freddo. Nonostante l’aria del primo mattino, i tiepidi raggi di un<br />

sole appena sorto tracciarono la strada desolata che guidava fino al centro del campo, dove,<br />

attraverso una scorciatoia disastrata dalla guerra, si scorgeva il limite del Refugee Camp of Jabaliya.<br />

Ed era tutt’altro che spiacevole, camminare stretti stretti per creare calore, il cuore riscaldato<br />

dall’inno della patria.<br />

Rahyan si rese conto, guardando uno a uno i ragazzi, delle poche persone che conosceva al<br />

campo. Da quando era nato, aveva fatto sì e no amicizia con due o tre bambini, escluso Noor e i<br />

suoi fratelli. Quest’ultimo, invece, sembrava conoscerli tutti. Rahyan notò che uno di essi aveva un<br />

piccolo crocifisso di legno al collo e camminava mano nella mano con un ragazzo dai capelli scuri e<br />

ricci, entrambi intonarono in modo approssimativo una vecchia canzone popolare. Cominciarono a<br />

cantare anche tutti gli altri.<br />

Quando arrivarono alla scorciatoia, però, trattennero il fiato. Vi era un ammasso di macerie<br />

che ostruivano persino la vista del cielo striato di rosso. Una casa demolita nella notte. Rahyan, con<br />

un piede in una buca, si alzò sulle punte, ma si accorse che era impossibile cercare di scavalcare. Si<br />

guardarono preoccupati, voltando lo sguardo da muro a muro, per trovare una via alternativa.<br />

“Dobbiamo passare dal retro”<br />

“No… ci sono i cecchini”<br />

“E se andassimo per la strada che porta alla spiaggia?”<br />

“Pessima idea”<br />

17


Un vociare di proposte cominciò pian piano a farsi discussione, senza che nessuno trovasse<br />

un’idea che li portasse fuori di lì.<br />

Noor tirò la manica del giubbotto di Rahyan.<br />

“Mio fratello Bilal dice che c’è un sottopassaggio per arrivare vicino al presidio, dove c’è il<br />

tunnel”<br />

Era la soluzione estrema, ma furono tutti concordi nel proseguire il cammino attraverso il<br />

passaggio sotterraneo. O almeno così sembrava. Era una zona vuota e priva di abitazioni, ma, nel<br />

paesaggio desolato, spiccava il tunnel, stretto quanto bastava per far passare un bambino magro e<br />

agile, che avrebbe sopportato senza troppe lamentele la terribile puzza di marcio che impregnava<br />

l’area. Si disposero a fila indiana, i più piccoli avanti e quelli che sarebbero usciti fuori con<br />

maggiori difficoltà, dietro. Quando fu il suo turno, Rahyan non si voltò indietro, fece una breve<br />

preghiera e si infilò nel buco cercando di farsi il più piccolo possibile. Aveva lasciato il giubbino<br />

fuori, così sarebbe stato più facile. Ma appena un po’ più dentro si sentì prendere dal panico. Non<br />

vedeva nulla, e nonostante fosse della misura giusta per scivolare fino in fondo, si sentì comprimere<br />

il petto a ridosso della parete di plastica del tubo.<br />

Adesso muoio pensò. Non sapeva come uscire, aveva i gomiti bloccati, e si sentì mancare il<br />

fiato. Sudava freddo. Dio aiutami!<br />

Si sentì afferrare le ginocchia e qualcuno cercò di tirarlo giù. Il sudore gli scivolava sul<br />

mento, e la richiesta di ossigeno aumentava di secondo in secondo. Si accorse di aver raggiunto<br />

terraferma nel momento in cui una boccata di aria fredda gli fece stringere gli occhi doloranti.<br />

Quando vide la luce del sole, inspirò profondamente. Fino ad allora si era reso conto poche volte di<br />

quanto fosse importante respirare. Ringraziò sommessamente.<br />

“Sei un vero disastro, Rahyan” disse quasi divertito Noor sporco di polvere. Anche gli altri<br />

ragazzi stavano ridendo. Girandosi intorno, il paesaggio desertico offriva una vista assai misera di<br />

cumuli di sabbia, e qualche roccia. Era dietro ad una di queste che se ne stavano i ragazzini,<br />

nascosti, aspettando che anche gli altri uscissero dal passaggio.<br />

In lontananza, il territorio era delimitato dalla prigione del filo spinato, che incarcerava<br />

dolorosamente ogni speranza, ogni ambizione e desiderio. Rimanevano confinati in un luogo<br />

circoscritto e sotto perenne minaccia, senza possibilità di uscire.<br />

Poco più avanti, si ergeva con un’imponenza terrificante un enorme carro armato, almeno<br />

dieci volte più alto di tutti loro, la corazza verde militare, con una bandiera in alto, sventolante.<br />

Rahyan sentì un moto di amarezza nel petto.<br />

Eccoli… Sparano, sparano, sparano. Bombardano, sparano.<br />

L’ultimo ad arrivare, affannato e dolorante, fu il ragazzo con i capelli ricci. Giunti nel bel<br />

mezzo del gioco, nessuno poteva tornare indietro. O meglio, nessuno voleva tornare indietro. Le<br />

bandiere erano legate intorno ai fianchi di un paio di loro e le aste erano state fatte cadere dal<br />

sottopassaggio.<br />

“Finalmente ci siamo! Ora non ci resta che andare lì e fare il più presto possibile. Siamo in<br />

tanti, ci dividiamo in gruppi da tre, se ne avanza uno, viene con me così c’è meno probabilità che<br />

colpiscano uno di noi. Quando sentite urlare “correte”voi dovete correre, intesi? Rispettate gli<br />

ordini se non volete finire con un proiettile nel cervello”. “Questo è parlare chiaro” commentò un<br />

bambino che ogni due minuti si girava per guardare il filo spinato. Forse per vedere cosa ci fosse<br />

oltre quel posto. O per trovare una via per portare più acqua.<br />

Rahyan e Noor capitarono in gruppo con il ragazzo cristiano. Si chiamava George, e aveva<br />

raccolto una decina di pietre da utilizzare nel caso ce ne fosse stato bisogno. Continuava a ripetere<br />

che non bisognava aver paura.<br />

“Al massimo ti ammazzano” aggiunse con sarcasmo.<br />

18


Dopo un po’ Rahyan sentì Noor sussurrare: “Hey, se ti fanno fuori, giuro che gliela faccio<br />

pagare.”<br />

Rahyan rise nervosamente, ma non era sicuro che il guerriero degli agnelli stesse<br />

scherzando. Era un continuo correre e nascondersi, sbirciare e controllare, mentre il posto di blocco<br />

si faceva sempre più vicino e minaccioso. Il cerchio di metallo bollente nel cielo cominciava a<br />

riscaldare la terra e ad illuminare i profili delle colline lontane, quelle colline meravigliose su cui i<br />

ragazzini dei campi profughi si ponevano tante domande senza risposte, osavano sogni mai esauditi<br />

e mai dichiarati. Tutti soppressi dal carcere a chiusura ermetica di ferro e spine. Quando George<br />

fece un gesto con la mano, capirono che era arrivato il momento di raccogliere quanto più coraggio<br />

avessero nell’anima e farsi avanti.<br />

Presero la bandiera, la attaccarono all’asta. Di fronte vi era solo il carro armato, che li<br />

guardava con il suo occhio cieco e minaccioso. Scavarono fino a quando non crearono una piccola<br />

buca nella quale, poi, fu facile piantare il simbolo. Quella stoffa santa. Un triangolo rosso ruotato a<br />

90° che sovrastava tre strisce di colore, una verde, una bianca e una nera. Colline, latte e resistenza.<br />

Anche gli altri due gruppi di bambini si avvicinarono alla bandiera, unendo le loro mani nel cercare<br />

una postazione buona perché loro vedessero. Rahyan baciò un lembo del tessuto, e stringendo la sua<br />

fionda alzò lo sguardo sulla bandiera bianca e azzurra, indisponente sulla corazza militare del carro.<br />

Era una sfida, e loro avevano vinto. Guardò gli occhi di Noor e vi lesse la stessa soddisfazione di<br />

tutti gli altri ragazzi. Chissà, forse anche il suo sguardo traboccava della contentezza di quel<br />

momento. Una sensazione che faceva spuntare sorrisi allegri sui visetti smunti.<br />

L’imprevisto accadde in pochi minuti. Rahyan sentì qualcuno urlare di correre, e un soldato<br />

che gridava ai commilitoni di “dare una lezione a quei piccoli selvaggi”. Corse, e udì qualcuno<br />

lanciare urla di dolore. Non voleva voltarsi, ma gli sembrò di avere le gambe incollate al terreno.<br />

Poi iniziarono gli spari. Mitragliate.<br />

“Scappate!” Quell’ordine fu ripetuto innumerevoli volte tra i rumori assordanti delle armi.<br />

Rahyan sentì la saliva salirgli alla gola, e aveva delle fitte lancinanti ai fianchi. Vide un soldato<br />

picchiare George. Noor non c’era. Si voltò alla ricerca dell’amico.<br />

“Scappa, Rahyan! Ci penso io! “ gli gridò un ragazzo dal volto coperto che cominciò a<br />

lanciare pietre in direzione di un soldato alle prese con un corpo di cui Rahyan non riusciva ad<br />

identificare il volto. I muscoli delle gambe sembravano strapparsi ad ogni passo.<br />

Altri spari, i bambini scappavano. Qualcuno urlava. Rahyan aveva voglia di vomitare. Si<br />

piegò in due, scosso da un conato e dal dolore al fianco, ma soprattutto da un terrore che lo<br />

devastava. Chiamò il suo amico, ma non ottenne risposta alcuna. Cominciò a gridare, ma l’eco<br />

dispettoso gli fece il verso, sovrastato dai colpi ad intermittenza.<br />

La voce si incrinò, ma non smise di gridare neanche quando le gambe cedettero, gettandolo<br />

in ginocchio sulla terra fredda.<br />

Caduti… agnelli… colline… pietre… patria… bandiera… spari…. libertà... cotone…<br />

nonno… mamma… papà…<br />

Coprì il viso con le mani. Non era vero, non avevano vinto. Non avevano vinto proprio<br />

nulla. Se Noor era stato ammazzato da un soldato, Rahyan avrebbe preferito farsi freddare dai<br />

proiettili piuttosto che piangere sulla sua tomba. Se avevano ucciso chiunque altro, la loro vittoria<br />

era stata soffocata nel sangue. E si trattava, quindi, di palese sconfitta. Avresti dovuto fare qualcosa,<br />

avresti dovuto alzare la fionda, si disse, strofinandosi le mani sugli occhi bagnati. “O mia patria,<br />

mia patria, mia patria, mio popolo, popolo dell'eternità.” Era così che iniziava l’inno, vero? Popolo<br />

dell’eternità…<br />

“Rahyan!” Qualcuno stava urlando il suo nome. Una voce allegra, che non aveva nulla a che<br />

fare con le cupe grida di pochi minuti prima. Forse era un’illusione dettata dall’orrore. Gli spari<br />

19


erano finiti. Il bambino non si voltò: non voleva sapere chi doveva essere aggiunto alla lista dei<br />

martiri bianchi innocenti caduti in guerra. Non voleva saperlo. Sentì di nuovo il suo nome<br />

echeggiare per tutto il campo, per tutta la regione e per tutto il paese. Spostò la mano dagli occhi, e<br />

si costrinse audacemente a guardare.<br />

Noor correva verso di lui con il volto striato di sangue, la mano alzata. Stava ridendo.<br />

Rahyan si alzò e strabuzzò gli occhi. Rise. Rise perché Noor era vivo, perché stava ridendo,<br />

e perché era sudicio di polvere e sangue. Vide anche George che era riuscito a liberarsi dalle botte<br />

del soldato, scappava anche lui, sorridente.<br />

“Visto che abbiamo vinto?” gli urlò Noor divertito.<br />

Rahyan annuì, senza smettere di ridere tra le lacrime, e risero fino a quando non gli venne<br />

mal di pancia.<br />

“Lo sai… ho… ho pensato che tu… mi dispiace Noor… però sembrava impossibile, eh? Hai<br />

visto come erano spaventati nonostante tutte le loro armi! Tanto alla fine lo sanno che ritorneremo.<br />

Lo sanno che torneremo… Lo sanno che siamo pronti a morire per questa terra” disse Rahyan<br />

prendendo nel pugno un po’ di terreno sabbioso che gli scivolò tra le dita.<br />

Dal presidio sventolavano ancora le bandiere, muovendosi fiere di fronte al cancello di ferro.<br />

Rahyan vide un soldato con il mitra sotto l’ascella che mirava qualche birillo pronto a cadere. Il<br />

ragazzo sapeva cosa fare. Tirò fuori dalla tasca una pietra che gli aveva dato George, e tirò<br />

l’elastico della fionda più che poteva. Ritrasse il pollice, il nonno glielo aveva raccomandato.<br />

Guardò il suo amico, che gli sorrise ammirato.<br />

Torneremo.<br />

Capì, lo sguardo puntato all’orizzonte, che era quello il suo destino: avrebbe tirato elastici e<br />

lanciato pietre per tutto il resto della sua vita, fino a quando non gli sarebbero cadute le mani.<br />

Lasciò andare la presa e la pietra sfrecciò velocemente. Non avrebbe colpito nessuno, ma<br />

Noor batté le mani e si congratulò per il lancio. Quella pietra stava andando a riferire un messaggio.<br />

Quella pietra stava dicendo che sarebbero tornati lì, e che non si sarebbero piegati mai. Stava<br />

parlando della loro storia, del loro passato, del presente e del futuro. Stava narrando il racconto che<br />

aveva consumato fiumi d’inchiostro e lacrime. Quella pietra stava gridando sotto il segno della<br />

libertà. Una libertà che profumava di pompelmi e limoni, che aveva la voce di una bambina che<br />

cantava specchiandosi nel fiume, che aveva occhi colmi di speranza e non di dolore.<br />

Una libertà che aveva un nome. Palestina.<br />

Yasmin Tailakh, IV F<br />

20


CUORI SPEZZATI<br />

Eravamo amici, Stefano ed io. Buoni amici, e a volte, quando capitava, anche qualcosa di<br />

più.<br />

Agli occhi degli altri sembravamo inseparabili, e, in effetti, a volte anch’io pensavo che<br />

fosse così.<br />

A volte. Quando non c’era lei a portarmelo via.<br />

Mi piaceva pensare che noi due eravamo stati uniti dalle difficoltà che la vita ci aveva<br />

riservato; entrambi dei reietti, esclusi dal mondo; quel mondo che ci aveva voltato le spalle, che ci<br />

faceva sentire maledettamente diversi – che mi faceva sentire maledettamente diversa perché non<br />

ero abbastanza bella o abbastanza magra –, perché volevamo ancora continuare a sognare dopotutto;<br />

quel mondo nel quale non c’era spazio per noi, così com’eravamo, nel quale dovevamo adeguarci a<br />

degli stupidi stereotipi. Avremmo dovuto essere perfetti se volevamo che ci fosse un posticino<br />

anche per noi. Ma non lo eravamo.<br />

Stefano ed io ce l’avevamo con quel mondo, combattevamo la stessa guerra e allo stesso<br />

tempo ci facevamo compagnia. Lui accarezzava il mio cuore, leniva le ferite della mia anima, a suo<br />

modo si prendeva cura di me, ed io facevo lo stesso con lui.<br />

Eravamo soli in due. E quella era la nostra guerra, ed era la mia guerra: una guerra contro<br />

me stessa, contro quelle favole che mi avevano illusa, contro quel corpo che non sentivo più mio.<br />

Peccato che combattevamo contro il nemico sbagliato.<br />

Ricordo benissimo la prima volta che lo incontrai. Non aveva ancora oltrepassato la via di<br />

non ritorno e mi piaceva pensare che i nostri destini si fossero incrociati proprio per evitare ciò.<br />

Ero appena uscita da un locale, uno di quei posti all’ultima moda, con ragazze alte, belle e<br />

sorridenti che sembrano uscite dalla copertina di una rivista e ragazzi altrettanto perfetti; ed io ero<br />

stanca di quei sorrisi finti; stanca di non sentirmi abbastanza per loro.<br />

Lui era lì fuori, nascosto dall’oscurità. Capelli corti, rasati, un tatuaggio sul braccio destro,<br />

un nome o qualcosa del genere, ed occhi che sembravano spiritati, estraniati dal mondo. Era intento<br />

a rollare una canna.<br />

Mi fermai a pochi centimetri da lui. Non sapevo se avere paura o cosa. Ora però riuscivo a<br />

leggere il nome che si era fatto tatuare sul braccio: Pain.<br />

Dolore.<br />

Lo guardai a lungo, scrutandolo con discrezione. Sembrava che non si fosse accorto della<br />

mia presenza, poi ad un tratto alzò la testa e mi guardò. I miei occhi si persero nei suoi.<br />

Un viaggio in terre inesplorate, isole solitarie, abbandonate, ombre di morte, perse in un<br />

mare di dolore. Ecco cosa vidi: il mio dolore che si rispecchiava nel suo. Rabbrividii.<br />

– Vuoi? – disse porgendomi la canna.<br />

Scossi la testa: – Io non mi drogo.<br />

Lui sorrise e, poggiandosi la canna alle labbra, tirò una boccata. Un odore d’erba bruciata ci<br />

avvolse.<br />

Continuai a fissarlo e più lo fissavo, più qualcosa mi diceva che sarei dovuta andarmene.<br />

Avrei dovuto, ma restai lì, accanto a lui.<br />

– Che ci fa una ragazza come te qui da sola di notte? – mi chiese, tirando un’altra boccata e<br />

lanciandomi uno sguardo misto tra lo sprezzante e l’indifferente.<br />

21


Mi strinsi nelle spalle.<br />

– So cavarmela – dissi con un filo di voce.<br />

Lui rise e poi mi porse la mano.<br />

– Sono Stefano.<br />

Gliela strinsi.<br />

– Alice.<br />

Cadde di nuovo il silenzio. Stefano tornò a fumare la sua canna. Io mi immersi nei miei<br />

pensieri.<br />

Iniziammo a frequentarci quasi per caso.<br />

In quel periodo nemmeno io sapevo chi ero, cosa volevo e mi faceva paura guardarmi allo<br />

specchio e non riconoscermi. Quella che vedevo riflessa nello specchio non ero io; quel corpo non<br />

mi apparteneva; quel visetto che mi fissava corrucciato non era il mio…<br />

Ma chi ero io?<br />

Avrei potuto essere chiunque, quello che volevo o semplicemente decidere di non essere<br />

nessuno. In fondo c’era così tanta gente che non era nessuno, tanta gente che si nascondeva dietro<br />

una maschera. Oppure potevo lasciare decidere agli altri che cosa avrei dovuto essere; sarebbe stato<br />

più facile mischiarsi tra la folla, smettere di pensare con la propria testa ed aspettare che lo<br />

facessero gli altri per me, che dessero anche a me un’etichetta. Ma io la mia già sapevo di averla e<br />

mi stava stretta. Ero quella cicciona, fin dall’asilo. I bambini mi additavano e ridevano, facevano<br />

battutine idiote ed io tornavo a casa in lacrime. I miei non volevano che piangessi per queste<br />

stupidaggini: noi eravamo la famiglia perfetta. A volte sembrava addirittura che si vergognassero di<br />

avere una figlia come me. Ero un mostro. Troppo brutta e grassa per meritare di essere amata.<br />

Mi sentivo diversa dagli altri e non volevo; volevo fare come gli altri, divertirmi, smettere di<br />

pensare alle conseguenze. Non volevo più avere problemi, responsabilità, sensi di colpa; non volevo<br />

più sentire il peso del mondo sulle spalle; non volevo più sentirmi un’idiota, una che non sa tenersi<br />

un ragazzo perché non è abbastanza per lui. Cercavo emozioni forti che mi facessero dimenticare di<br />

essere “me”, di essere sbagliata.<br />

Iniziai a digiunare. Se mangiavo qualcosa, correvo subito in bagno, mi ficcavo due dita in<br />

gola e vomitavo. Persi una dozzina di chili. Non ero più una cicciona, eppure dentro di me sentivo<br />

un grosso vuoto, che credevo niente avrebbe mai potuto riempire completamente. Niente. Neanche<br />

tutte le sedute di psicoterapia cui mia madre mi costringeva a sottopormi. Niente.<br />

Con Stefano riuscivo ad essere me stessa. A volte mi sembrava che solo lui avrebbe potuto<br />

colmare il mio grande vuoto esistenziale. Forse perché eravamo uguali, perché sentivo che non mi<br />

avrebbe mai giudicata; o forse semplicemente perché lo amavo, perché credevo che lui fosse<br />

un’estensione della mia anima, una parte di me.<br />

Percepivo la sua presenza anche quando era assente. Anche quando lei me lo portava via.<br />

Perché io e lui eravamo una cosa sola: lui conosceva tutto di me ed io sapevo tutto di lui.<br />

Suo padre se ne era andato quando lui aveva poco più di sette anni. Da allora non lo aveva<br />

più visto o sentito. Per lui era come morto.<br />

Sua madre si era risposata dopo un anno. Stefano odiava il patrigno.<br />

Mi raccontava che spesso quando era ubriaco alzava le mani su sua madre, mentre lui<br />

aspettava nascosto sotto il tavolo che venisse il suo turno. Questo fino a quando lui non divenne<br />

abbastanza grande da ribellarsi e andare via di casa. Implorò sua madre di venire con lui, ma lei si<br />

limitò a sorridergli debolmente alzando le spalle. Non l’avrebbe mai più rivista.<br />

22


Stefano andò alla deriva; non aveva nessuno, niente in cui credere, qualcosa cui aggrapparsi<br />

per sopravvivere, solo tanta voglia di vendicarsi contro chi gli aveva fatto del male; tanta voglia di<br />

riprendersi quello che gli avevano tolto.<br />

Prese a vivere per strada, come un barbone. Ogni tanto dormiva da qualche amico, non<br />

aveva un parente che potesse ospitarlo. Passava le giornate a fare lavori umili, a chiedere<br />

l’elemosina; tutto pur di racimolare qualche soldo. Ogni giorno era una tortura, una porta sbattuta in<br />

faccia, un pugno nello stomaco. Faceva male, bruciava dentro quel bisogno d’affetto, di un po’<br />

d’amore e quella sensazione di non avere futuro, di meritarsi tutto quel dolore. Si chiedeva perché<br />

dovesse essere tutto così difficile per uno come lui.<br />

Non c’era un domani nel quale fare questo, quello e quell’altro; un domani nel quale<br />

scegliere di essere diverso; un domani che fosse stato un altro giorno. Sapeva che domani lui<br />

sarebbe stato lo stesso, uguale ad ieri, che non ci sarebbe stata alcuna scelta da fare. Perché lui la<br />

sua scelta l’aveva già fatta e non poteva, o meglio non voleva, tornare indietro.<br />

Così la sua unica, fallace, consolazione divenne la droga.<br />

Bastava uno spinello, una pasticca, un po’ di quella polvere bianca e si sentiva un dio. Era<br />

onnipotente.<br />

Attorno a sé tutto diventava liquido, fluttuante, evanescente: non c’erano brutti pensieri o<br />

ricordi o paure; non esisteva tempo, né spazio, né dolore. Vi era solo oblio. E lui era il dio di<br />

quell’oblio, il creatore.<br />

Solo in quel momento di follia estatica riusciva a sentirsi vivo. Poteva costruirsi un mondo<br />

parallelo fatto di eterna voluttà, dare forma ai sogni senza temere che venissero infranti, essere<br />

finalmente felice. Ma la sua era una felicità effimera, che giorno dopo giorno lo intrappolava, lo<br />

rendeva schiavo.<br />

Ed era duro vederlo uccidersi per lei e sapere di non poter far nulla. Il potere che esercitavo<br />

su di lui, se mai lo avessi esercitato, non era nemmeno la metà di quello che aveva lei. Lei era la<br />

sola, unica, sua ragione di vita, il suo pensiero fisso; veniva sempre prima di tutti e tutto. Aveva<br />

l’effetto di riuscire a mandarlo alla deriva. Gli faceva perdere del tutto la concezione del tempo che<br />

scorreva. I giorni non avevano più senso per lui: ieri era uguale ad oggi e così via. Era lei a scandire<br />

le sue ore. Lo teneva stretto a sé giorno e notte. Lui era il suo amante insaziabile; lei il suo paradiso<br />

infernale. E lei sapeva avvolgerlo con le sue braccia avide, ad intrappolarlo nella spirale del vizio,<br />

senza che io potessi fare nulla per impedirglielo.<br />

Stefano arrivò al punto in cui doveva farsi più volte al giorno, ogni giorno. Sempre. Al punto<br />

in cui non aveva più percezione né di sé, né della vita, né della morte.<br />

La morte.<br />

Per lui la morte era qualcosa d’estraneo, che non lo riguardava. Non aveva paura di morire,<br />

Stefano. Egli viveva in un mondo in cui la morte non esisteva; viveva come in un sogno, nel quale<br />

non esisteva nulla al di fuori di lui, e dal quale niente poteva svegliarlo. Quel sogno io lo definirei<br />

più propriamente un incubo.<br />

Eppure non era sempre stato così. C’erano periodi in cui Stefano stava bene, sembrava<br />

addirittura felice; periodi in cui lei era solo un lontano ricordo; in cui c’eravamo solo noi due. In<br />

quei brevi periodi la speranza sembrava rifiorirgli sul viso, dare un colore diverso alle sue giornate.<br />

Ed era proprio in quegli attimi che vedevo uno spiraglio di salvezza, credevo che niente era perduto,<br />

che se solo avesse voluto sarebbe potuto uscirne. Ma forse lui non voleva.<br />

– Ma è mai possibile che stai sempre a scarabocchiare? – mi disse un giorno, mentre<br />

eravamo seduti in un bar a fare colazione.<br />

– Io non scarabocchio – risposi con un’aria saccente.<br />

23


– Oh scusami! E cos’è che fai, se è lecito saperlo?<br />

– Sei un cretino, sai? Io disegno.<br />

– E cosa disegni?<br />

Mi strinsi nelle spalle: – Quello che vedo.<br />

– Fammi dare un’occhiata…<br />

Si sporse cercando di sbirciare il mio foglio.<br />

– No, sono cose personali… – cercai di dire io, ma lui era già riuscito a strapparmi la<br />

cartellina da mano.<br />

– Niente male – osservò – Sei davvero brava.<br />

Arrossii fino alla punta dei capelli.<br />

– Dico sul serio, dovresti frequentare un’Accademia o qualcosa del genere. Secondo me hai<br />

del talento.<br />

– Figurati, sono solo schizzi, roba da niente.<br />

– Tentare non ti costa nulla, no?<br />

Annuii pensierosa.<br />

Nei giorni seguenti Stefano non smise di incoraggiarmi. Ricordo quant’era felice quando gli<br />

dissi che ero riuscita a convincere i miei genitori a farmi coltivare quella passione.<br />

Mi accorsi che amavo disegnare.<br />

Disegnando riuscivo a dare una forma ai miei pensieri, a plasmare il dolore che avevo<br />

dentro, a dargli un’immagine. Come per magia le emozioni uscivano dal mio corpo e prendevano<br />

vita su un foglio bianco, e su quel foglio vedevo il mondo da una prospettiva che non era più la mia,<br />

lo vedevo più bello, lo sentivo più mio, perché in un certo senso ero io a dargli un volto, il volto che<br />

io volevo. Anche i sentimenti più distruttivi diventavano costruttivi.<br />

Non m’importava affatto se fossi brava o meno, ma volevo crederci. Avevo bisogno di<br />

credere in qualcosa, di provare a realizzare un sogno che avevo messo nel cassetto. Mi dissi che<br />

forse non sarebbe stato facile, che magari avrei rinunciato, ma che dovevo provare, che dovevo<br />

darmela io una possibilità, senza aspettare che fossero gli altri a farlo. Avevo bisogno di incanalare<br />

tutte le energie negative che usavo per farmi del male, in qualcosa di positivo che mi facesse sentire<br />

meglio.<br />

Mi accorgevo che funzionava; mi sentivo più forte, sentivo di aver trovato la mia strada. E<br />

non mi importava se un giorno avessi scoperto che era quella sbagliata. Avevo bisogno di<br />

aggrapparmi a qualcosa che non mi si torcesse contro. Ero stanca di affogare. Allora perlomeno<br />

avevo trovato un pezzo di legno che mi tenesse a galla. E tutto per merito suo, di Stefano. Sì, perché<br />

io avevo anche lui cui aggrapparmi.<br />

Passarono mesi da quel giorno. Mesi nei quali Stefano si avvicinava sempre più a quella che<br />

sarebbe stata la via di non ritorno. Le pasticche, diceva, non gli facevano più nulla, erano acqua<br />

fresca; doveva provare qualcosa di più forte, e così iniziò a spararsi dosi sempre più pesanti di<br />

eroina nelle vene. Ogni giorno era sempre peggio. Ed io avevo paura; paura per lui, che lei lo<br />

uccidesse; e paura per me. Non poteva lasciarmi proprio in quel momento, non doveva morire, non<br />

era giusto, non ora che avevo trovato qualcuno che mi volesse bene. Ma ogni cosa che io facessi per<br />

allontanarlo da lei era vana. Era più il tempo in cui era fatto, che quello in cui era lucido.<br />

Io soffrivo. Lo guardavo mentre consumava la sua vita e soffrivo. Ero impotente e mi<br />

sentivo terribilmente inutile. Niente riusciva a distoglierlo dal pensiero di lei. Lei era tutto, e lui per<br />

lei era pronto a tutto, anche a sacrificare la sua vita. Cominciai ad odiarlo per questo. Anche io<br />

stavo male, ma Stefano non si accorgeva più di nulla, neanche delle lacrime che versavo in silenzio,<br />

mentre lo guardavo drogarsi. Era diventato un estraneo; quel demone si era completamente<br />

24


impossessato di lui e lo divorava, lo dilaniava dall’interno. Ma mi ostinavo a credere ancora che lì<br />

in un angolo nascosto ci fosse il mio Stefano, e che aspettasse solo un mio gesto per uscire fuori dal<br />

baratro in cui era precipitato. Non avrei mai abbandonato quella speranza.<br />

Una mattina lo affrontai. Gli tolsi di mano la siringa e lo guardai negli occhi. Non<br />

dimenticherò mai la sua espressione. Quasi non mi vedeva; il suo sguardo cercava lei, avidamente.<br />

Sarebbe stato capace di passare sul mio cadavere pur di riaverla.<br />

– Che cavolo vuoi? – esclamò con un tono duro che mi penetrò dentro al cuore come una<br />

lancia affilata.<br />

Gli dissi che doveva smetterla, che così non avrebbe risolto nulla, ma non lo vedeva come si<br />

era ridotto?<br />

– E a te che frega di come mi sono ridotto? – mi rispose – Pensa a te, no? che se ci pensi<br />

bene, non stai tanto meglio di me. Ma guardati: non fai altro che ingozzarti e vomitare. E poi credi<br />

di poter decidere cosa sia meglio per me, ma se non sai neanche quello che è meglio per te.<br />

– Non parlarmi così, so che non lo pensi – risposi tra le lacrime.<br />

– Bene, ora vorresti anche dirmi cosa pensare?! Ma chi ti credi di essere? Sei solo una<br />

povera illusa!<br />

Gli dissi che forse aveva ragione: ero una povera illusa, perché solo una povera illusa poteva<br />

ancora aver fame di un mondo diverso, d’autenticità, e fregarsene se non ci sarebbe stato mai posto<br />

per gente come lei; gente che continua a sognare qualcosa di differente, che è stanca di un mondo<br />

piccolo e superficiale; che non si accontenta come faceva lui di una felicità sterile, momentanea. Gli<br />

affermai che volevo crederci, provarci, mentre lui si era già arreso da qualche tempo.<br />

Rispose che anche lui ci aveva provato, aveva combattuto, che non gli aveva regalato mai<br />

niente nessuno. Ma lui a differenza di me aveva imparato troppo presto che il nostro era un mondo<br />

incompleto, senza verità, senza valori; il mondo del “momento”, dove noi eravamo solo cose, da<br />

usare e poi gettare. Mi disse che era tutto inutile, non c’erano sogni, né speranze per noi, e che non<br />

capiva perché avrebbe dovuto sfinirsi alla ricerca di non so cosa per vivere bene, se poteva vivere<br />

benissimo così, di una felicità “usa e getta”.<br />

Gli risposi che era solo un altro stupidissimo bluff:<br />

– L’ennesimo bluff! Ti costringono ad essere quello che loro vogliono che tu sia, o che tu<br />

credi debba essere, piuttosto che mostrarti come sei. Ti riempiono il cervello di bisogni effimeri, di<br />

stupidaggini come quella che bisogna sballarsi per sentirsi forti, per essere qualcuno. Ti vogliono<br />

far credere che tutto giri alla rovescia, che la droga è l’unica via di uscita, una scorciatoia per la<br />

felicità, ma non è così, Stefano.<br />

Lui continuava a scuotere la testa, a dire che non sapevo quello che dicevo, di smetterla di<br />

fare il grillo parlante.<br />

E invece in un certo senso io capivo cosa provava, perché anche per me era lo stesso. Anche<br />

per me recitare era meno scomodo, non mi faceva sentire inadeguata, nascondeva le mie<br />

insicurezze, le mie fragilità. Fingere era più facile; bere un bicchiere di troppo per dimenticarsi<br />

quello che si è, ingozzarsi di schifezze o lasciarsi morire di fame, imbottirsi di pasticche per sentirsi<br />

il re del mondo…era facile. Ma davvero era questo che lui voleva? Quella roba lo stava uccidendo e<br />

lui non si accorgeva di essere solo una marionetta nelle sue mani. Glielo dissi; glielo spiegai in tutti<br />

i modi.<br />

Stefano mi guardava. Mi guardò a lungo e nei suoi occhi in quel momento scorsi la morte.<br />

Lo pervadeva tutto e non era più solo ombra. Vedevo follia e desolazione, solitudine e devastazione,<br />

pazzia e rassegnazione. E morte.<br />

Non riuscii a trattenere una lacrima. Sentivo che era troppo tardi. Si riprese la siringa dalle<br />

mie mani. Non feci alcuna resistenza e, mentre si iniettava una dose extra di eroina nelle vene, pur<br />

25


sapendo che avrebbe potuto non risvegliarsi mai più, mi alzai, gli diedi un bacio sulla guancia e me<br />

ne andai.<br />

Guardo l’orologio. Mia madre è stranamente in ritardo, non è da lei. Sospiro e approfitto del<br />

suo ritardo per restare ancora qualche minuto persa nei miei pensieri. È passato tanto tempo, ma i<br />

ricordi sono più vivi che mai; non sempre è vero che il tempo li sbiadisce, e non so se questo sia un<br />

bene o un male. Prendo a fissare i fiocchi di neve, mentre la mia mente torna a vagare. Le sedute<br />

dallo psicoterapeuta, la voglia di farcela a tutti i costi, i momenti di sconforto, la rabbia, i sensi di<br />

colpa e… Stefano. Sempre e solo lui.<br />

Deglutisco a fatica. Non riesco a togliermi dalla testa l’immagine di lui, accovacciato dietro<br />

un cespuglio, che si lega il laccio emostatico al braccio e si “spara” una, due, tre dosi di eroina nelle<br />

vene. Mi alzo e vado alla finestra. Ho un improvviso bisogno d’aria. La spalanco. Respiro a pieni<br />

polmoni. Scorgo l’auto di mia madre che imbocca il vialetto. Mi sorride, salutandomi con la mano.<br />

Ricambio il saluto, limitandomi ad un cenno della testa, mentre la osservo parcheggiare e scendere<br />

dall’auto. Sospiro e mi decido ad andare ad aprirle la porta.<br />

Mia madre entra con un sorriso smagliante. Ha in mano una busta, me la mostra: – È per<br />

Stefano – dice. Io annuisco e poso la busta sul tavolo.<br />

– Come va oggi? – mi chiede.<br />

Non rispondo e abbozzo un debole sorriso che assomiglia più ad una smorfia.<br />

– E Stefano? Come sta?<br />

– Bene, mamma. È di là che riposa.<br />

– Ma è quasi ora di pranzo! – osserva lei.<br />

– Non ha dormito bene questa notte.<br />

Mia madre annuisce, guardandomi a lungo negli occhi.<br />

– Ma fa un freddo terribile, qui! Prima o poi ti beccherai una polmonite con questa tua<br />

mania di lasciare le finestre aperte. Ogni volta che vengo stai alla finestra, ma che avrai mai da<br />

guardare lì fuori? – esclama e con un solo gesto chiude le imposte.<br />

– Niente, mamma – taglio corto.<br />

Chissà, penso, forse spero che i miei pensieri possano uscire dalla mia mente e disperdersi<br />

più facilmente tra le nuvole se trovano le finestre belle spalancate.<br />

– Qualcosa non va? – chiede mia madre.<br />

Mi stringo nelle spalle. Nulla, penso, in fondo va tutto bene, eppure non posso fare a meno<br />

di sentire un grosso peso sul cuore che non mi abbandona mai. Ci sono quasi abituata.<br />

– Sono passati più di due anni ormai – esclama mia madre come se mi avesse letto nel<br />

pensiero.<br />

– Lo so – rispondo semplicemente, mentre mi rivedo come ero allora, sola e fragile.<br />

Lei mi sorride teneramente, poi si avvicina e mi cinge le spalle con un braccio.<br />

– Passerà, Alice. Prima o poi.<br />

– Grazie, mamma, lo spero.<br />

Lei mi stampa un bacio sulla fronte.<br />

– Vieni da me più tardi? Ho preparato una torta ed invitato un paio di amici per il<br />

compleanno di Stefano.<br />

– Verrò – prometto.<br />

– A dopo, allora. Guarda che ci conto – mi dice dirigendosi verso la sua auto.<br />

La osservo mentre mette in moto e fa retromarcia. Sparisce dietro l’angolo. Resto per un<br />

attimo sull’uscio a guardare i fiocchi di neve che cominciano a cadere e non riesco a trattenere una<br />

lacrima. Mi ritorna in mente, come se fosse stata scritta su quel manto di neve, una frase letta per<br />

26


caso in un libro: non si possono aggiustare due cuori spezzati cucendoli insieme. Rabbrividisco nel<br />

cogliere la veridicità di quelle parole. Le sento così mie, così nostre.<br />

Un mugugno mi distoglie dai miei pensieri. Rientro in casa e mi dirigo verso la sua stanza.<br />

Stefano si è appena svegliato e reclama le mie attenzioni. Lo prendo in braccio e lo stringo<br />

teneramente al petto. Lui spalanca gli occhioni azzurri e mi sorride, ed io non posso fare a meno di<br />

pensare che è tutto ciò che mi rimane di Stefano, l’altro Stefano.<br />

Ricordo quel giorno come se fosse ieri. Dovevamo incontrarci di fronte al bar dove<br />

andavamo spesso a fare colazione. Mi aveva promesso che sarebbe venuto con me in una comunità<br />

per tossicodipendenti. Voleva disintossicarsi, mi disse, era stanco di quella vita, se così la si poteva<br />

definire.<br />

Lo aspettai ore ed ore, ma non si fece vivo. Me ne andai delusa e triste.<br />

Il giorno dopo provai a cercarlo per parlargli, per chiedergli perché non fosse venuto. Non<br />

riuscii a trovarlo, nessuno sembrava vederlo da un po’ di giorni. Andai a casa di un suo amico, uno<br />

che gli dava la roba e che a volte lo ospitava; non lo vedeva da due, tre giorni. Lo cercai<br />

dappertutto, poi finalmente lo trovai, in un vicolo, tra i cassonetti della spazzatura.<br />

La siringa ancora tra le mani, gli occhi aperti, vitrei, spenti rivolti al cielo, il viso contratto in<br />

una smorfia di dolore, quel dolore che neanche la morte aveva saputo dissipare da quel volto.<br />

Lo seppellirono il giorno dopo, quando era ormai morto da quattro giorni.<br />

La settimana seguente scoprii di essere incinta.<br />

Scendo dall’auto e mi dirigo verso la sua tomba. Vengo spesso qui a trovarlo, ed ormai<br />

venirci il giorno del compleanno di Stefano è diventato quasi un rituale.<br />

Resto a fissare la sua tomba, senza avere neanche la forza per piangere o per parlare e me ne<br />

vado come sono venuta, con il cuore stretto in una morsa. Ma oggi no, mi dico, oggi non andrà così.<br />

Oggi voglio raccontargli delle storie diverse dalla sua, voglio parlargli di tutti quelli che ho visto<br />

salvarsi, di tutti quelli che non sono caduti sotto il fascino di lei, ma già so che non ci riuscirò.<br />

Vorrei raccontargli anche la mia di storia, di quanto ho combattuto, di quando ho vinto.<br />

Forse vorrei semplicemente ringraziarlo.<br />

Sospiro. Non posso non pensare che forse se non lo avessi conosciuto non sarei qui, ora, e<br />

allo stesso tempo non sentirmi in colpa perché lui non è qui con me. Mi stringo nel cappotto. Vorrei<br />

anche parlargli di suo figlio, di come cresce sano e forte, di quanto gli assomiglia, ma non ce la<br />

faccio.<br />

Gli occhi mi si riempiono di lacrime. Mi volto a guardare Stefano che dorme sul sedile<br />

posteriore dell’auto. La sua immagine tremolante si confonde con quella più sbiadita dei ricordi che<br />

mi si affacciano alla mente, ed i suoi occhi diventano quelli di suo padre, il suo viso quello di lui, e<br />

per un attimo torno lì, a quella sera di un paio d’anni fa. E lo vedo lì davanti a me.<br />

Lo vedo correre, correre, correre. La testa inizia a girargli vorticosamente, ma lui continua a<br />

correre. Il respiro diventa sempre più affannoso, ma lui continua a correre. Spasmodicamente.<br />

Lo vedo mentre cerca di fuggire da se stesso, da quello che non avrebbe mai voluto essere,<br />

da suo padre, da tutto quello che l’ ha ridotto così, da lei.<br />

Lo vedo ansimare, mentre tenta di aggrapparsi all’unica speranza di salvezza, di lasciarsi<br />

dietro tutto il resto.<br />

Ma non può sfuggirgli.<br />

Non si può scappare per sempre da qualcosa: tocca fermarsi prima o poi. E anche lui si<br />

ferma.<br />

27


E lo vedo soccombere, mischiarsi con la terra e il fango, ricadere in quel baratro, nel quale<br />

non sarebbe voluto ripiombare mai più, mentre i suoi occhi invocano quel cielo, quel Dio, che non<br />

sa se esista o meno. Lo vedo pregare, piangere, ridere, odiare ed amare, con gli occhi rivolti verso il<br />

cielo, con gli occhi che vedono al di là di quel cielo, mentre l’ombra di lei lo avvolge<br />

completamente. E per la prima volta vedo anche lei, burattinaia che manovra i fili di migliaia di<br />

burattini nel mondo. Ride, ride ed il suo riso mi entra dentro, mi scuote tutta. Ha vinto lei. È riuscita<br />

ad averlo. Non solo il suo corpo, ma anche la sua anima, la sua mente, tutto.<br />

Ma io sento di non avere perso. Perché anche lì dove la vita aveva fatto spazio alla morte, la<br />

morte aveva dovuto cedere il passo alla vita; perché sentivo che Stefano non mi avrebbe<br />

abbandonato mai, sarebbe continuato a vivere dentro di me, nei miei ricordi, negli occhi di suo<br />

figlio o in quelli di un ragazzo che venerava la sua stessa dea e che io avrei aiutato. Ed è così e lo<br />

sarà sempre.<br />

Mi asciugo gli occhi pieni di lacrime e resto per un attimo immobile persa ancora nei miei<br />

pensieri. Poi poso un fiore sulla tomba di Stefano e torno all’auto. Prima di mettere in moto, mi<br />

volto indietro. Solo un secondo, il tempo di dirgli addio.<br />

Alessia Aiello, <strong>II</strong>I E<br />

28


FOGLIE MORTE<br />

Un bacio sulle labbra asciutte, sfiorandosi appena, poi, come ad ogni intervallo la prese per<br />

mano e la portò in fondo al cortile, sotto l’albero le cui foglie si erano tutte adagiate al suolo.<br />

“Non mi hai ancora detto nulla di ieri sera.”<br />

“Mi sono fatta una striscia. Ecco”<br />

Sbuffò.<br />

“Dì la verità. Non ho voglia di aprire un caso su una cosa inventata qui su due piedi”<br />

Cloe sembrava non ascoltarlo, guardava un gruppetto di ragazze tra i finestrini di un auto.<br />

Carlo aspettava una risposta sperando di non aver bisogno di un’altra domanda per ottenerla. Ma<br />

sapeva che era inutile.<br />

Respirò profondamente.<br />

“Rispondimi, ti prego”<br />

Era una preghiera.<br />

“Se non mi credi puoi chiedere a Giulia”<br />

“Sei uscita con lei ieri sera?”<br />

“C’erano anche i suoi amici?”<br />

Tutto inutile, ma non diede importanza al suo silenzio e si diresse dritto tra la folla in cerca<br />

di Giulia.<br />

Di solito stava col suo gruppo di amiche sulla panchina di cemento ai lati del cortile, e<br />

lanciando lo sguardo oltre un gruppo di ragazzi la vide al centro tutta intenta a raccontare chissà<br />

cosa.<br />

La chiamò in disparte.<br />

“Dove sei stata ieri?”<br />

Giulia lo guardò sospettosa.<br />

“Perché ci tieni a saperlo?”<br />

“Che domande fai? Eri con Cloe giusto?”<br />

Giulia abbassò lo sguardo.<br />

“Te lo ha detto?”<br />

Carlo annuì.<br />

“Io ho cercato in tutti i modi di non fargliela provare ma in un attimo di distrazione si è<br />

allontanata e...”<br />

Non la stava più ascoltando, si voltò in direzione dell’albero con lo sguardo offuscato.<br />

Le prese il mento con le dita costringendola a guardarlo negli occhi.<br />

“Vuoi vedere se ho gli occhi rossi?”<br />

“Giulia mi è sembrata sincera, ma non voglio crederle. Dimmi che non è vero”<br />

Ma Cloe sembrava non sentirlo.<br />

Carlo appoggiò il mento sui pugni cercando di mantenere la calma e aspettare che fosse lei a<br />

parlare, ma Cloe continuava a fissare quel gruppetto al di là dell’auto : prime liceali, brutte e<br />

occhialute, che di rado si lasciavano vedere in cortile tra gli altri.<br />

Eppure sembrava mostrare un certo interesse per loro.<br />

Carlo avrebbe voluto piangere per la rabbia, urlare fino a perdere la voce.<br />

Avrebbe voluto prendere la testa di Cloe, fracassarla al suolo per poter vedere cosa ci fosse<br />

all’interno, quale fosse la parte marcia, estirparla e buttarla via.<br />

29


Avrebbe voluto domandarle il perché della cocaina, o di tutto quell’interesse per quelle<br />

ragazzine anonime, ma le domande sono frasi lanciate in aria, sospese al loro punto interrogativo e<br />

richiedono una basa su cui atterrare, delle risposte.<br />

Lei invece parlava di rado e le sue poche parole erano l’unica fessura da cui poter osservare<br />

il suo stato d’animo.<br />

Di scatto si girò verso di lui e i loro sguardi si incrociarono. I suoi occhi di pietra<br />

mostravano un nuovo volto, sincero, del tutto vuoto, esausto.<br />

Il suono della campanella pose fine a quello spettro improvviso che si dileguò tra la folla<br />

diretta verso il portone dell’edificio.<br />

Carlo se ne andò in classe e mentre saliva le scale si rese conto che la rabbia e lo stupore lo<br />

facevano respirare a fatica, gli opprimevano il petto, e i polmoni non riuscivano a riempirsi del tutto<br />

d’aria.<br />

“Che hai?” Gli chiese Aldo dal banco accanto al suo.<br />

Carlo scosse la testa.<br />

“È per Cloe, vero?”<br />

“Se già lo sai perché diamine me lo chiedi?”<br />

“Lasciala.” esclamò “Non è possibile che ogni mattina ti vedo entrare in cortile col sorriso<br />

sulla faccia e poi ritornare dall’intervallo col muso lungo, arrabbiato e inavvicinabile.”<br />

Carlo si coprì gli occhi con le mani.<br />

“Non capisco cosa c’è in lei che ti ha fatto perdere la testa. E bella, indubbiamente, e anche<br />

parecchio, ma se per lei devi stare così...”<br />

Il vocione del professore, infastidito dai loro bisbigli pose fine alla discussione.<br />

Le ultime due ore trascorsero lente e le parole di Aldo suonavano sempre più convincenti,<br />

quasi ovvie.<br />

Ma Aldo non sapeva quanto era stato difficile far nascere la loro storia, non l’aveva mai<br />

sentita discutere, e forse nemmeno ridere, e quelle parole erano superficiali, troppo razionali e<br />

logiche, magari ovvie, ma solo per sé stesse perché se avvicinate a Cloe non avevano appigli, si<br />

perdevano nel vuoto.<br />

La solita fiumana di ragazzi urlanti sfociava allegramente nel cortile, e mentre una parte<br />

continuava il suo percorso disperdendosi in strada, un’altra invece preferiva trattenersi ancora un<br />

po’ nel cortile con qualche amico.<br />

Con una sigaretta tra le dita di una mano tremante, Cloe fumava con lo sguardo perso,<br />

mentre Giulia le parlava animatamente. Forse voleva dei chiarimenti sul litigio nell’intervallo.<br />

Carlo uscì defilato dal cortile in direzione della fermata dell’autobus.<br />

Su un viscido sedile di plastica chiuse gli occhi; i rumori della città prorompevano nei suoi<br />

timpani con forza crescente, le auto viaggiavano veloci come saette, una sirena in lontananza<br />

stordiva l’attenzione di chiunque le si trovasse vicino, gruppetti di ragazzine urlanti si fiondavano<br />

negli autobus.<br />

Cloe non resisterebbe a lungo.<br />

Tornò nel cortile, le si avvicinò e tenendole il braccio con forza la costrinse a seguirlo, senza<br />

darle spiegazioni anche se Cloe non le aveva neppure chieste.<br />

Oltrepassarono una piccola piazzetta e dopo essersi inoltrati in un labirinto di stradine e<br />

scalinate si fermarono fuori una piccola pizzeria.<br />

“Avverti tua madre che non torni a pranzo.”<br />

“Non ce n’è bisogno. Mamma è al lavoro.”<br />

30


Presero un tavolino all’esterno, di fianco all’ingresso.<br />

Il cameriere non si fece attendere a lungo.<br />

“Cosa prendete?”<br />

“Due margherite.”<br />

Ancora dovevano scambiarsi una parola ma Carlo sapeva che quel silenzio era un flusso<br />

lenitivo che stava smaltendo la rabbia e la stupidità di quella mattina.<br />

Cercavano di non incrociare i loro sguardi, puntando la loro attenzione su piccoli particolari<br />

come una forchetta o il cestino del pane.<br />

Carlo sperava che lei stesse capendo il significato di quella pizza, che quel silenzio riuscisse<br />

a tirarle da bocca qualche parola o magari anche solo un gesto o una semplice smorfia.<br />

Anche se avesse solo pianto, senza parole o spiegazioni. Qualsiasi cosa capace di alterare<br />

l’inespressività di quel viso esausto, vuoto, quasi inquietante.<br />

Le pizze arrivarono emanando sottili volute di vapore profumato.<br />

Carlo sfogò tutta l’insostenibilità di quel silenzio sulla sua margherita.<br />

Cloe invece spulciava da quella massa indistinta di olio, pomodoro e mozzarella, le<br />

foglioline di basilico e le parti leggermente abbrustolite del cornicione.<br />

Ne mangiò appena due fette, poi la abbandonò lasciando che il freddo le sottraesse la sua<br />

fragranza.<br />

Carlo pagò il conto e vide con la coda dell’occhio che Cloe si era accesa una sigaretta.<br />

Sapeva che non le piaceva fumare in cammino, e così finse di mostrare interesse per il telegiornale<br />

trasmesso dalla piccola TV, dandole il tempo necessario per godersela.<br />

Fumava con calma, lasciando trascorrere più tempo del solito tra una boccata e un’altra.<br />

Una volta sua madre gli disse che il fumo faceva male non per l’alto contenuto di catrame,<br />

ma perché era l’unico momento in cui l’uomo permetteva di far penetrare all’interno di sé il gusto<br />

amaro della realtà.<br />

Carlo ricordò che a quelle parole rise a crepapelle, e non smetteva di prendere in giro sua<br />

madre per l’orribile gusto patetico di quella frase.<br />

Eppure in quel momento voleva con tutte le sue forze che quelle parole dicessero la verità;<br />

che la nicotina sciogliesse il masso enorme che le soffocava l’anima.<br />

Quando lasciò cadere il mozzicone ai suoi piedi schiacciandolo con la punta dello stivaletto,<br />

Carlo la raggiunse e si allontanarono.<br />

Seguivano il percorso che portava alla fermata dell’autobus.<br />

Ancora avvolti dal silenzio, l’uno accanto all’altra, aspettavano.<br />

Cloe aveva lo sguardo rivolto verso il basso, concentrato, come se cercasse delle risposte o<br />

dei consigli dall’asfalto bagnato.<br />

“Sai,” disse “penso che non dimenticherò mai il Natale dei miei undici anni”<br />

Carlo sospirò, ma lentamente senza farsi notare.<br />

“Durante gli anni ho cercato di ritornare a quel momento ma non è stato mai facile.”<br />

Silenzio.<br />

Carlo era teso non sapeva a cosa stesse alludendo, ma non voleva interrompere quel discorso<br />

che stava tenendo più con sé stessa che con lui.<br />

“Mio padre morì pochi giorni prima di quel Natale.”<br />

Gli si gelò il sangue. Da quel che sapeva non aveva mai nominato il padre dopo la morte.<br />

“Ci furono la veglia, le condoglianze, il funerale poi il silenzio nutrito dal dolore. Eppure<br />

Natale era alle porte”<br />

Rallentò leggermente il passo.<br />

“Ho sempre amato il Natale...” Sospirò nostalgica.<br />

31


“Amavo soprattutto fare l’albero, ornarlo con le luci, le palline, e poi il puntale che<br />

mettevamo alternandoci, un Natale io, l’altro mio fratello.<br />

L’attesa durante la notte e poi la mattina lo scarto dei regali. Ero sempre convinta che<br />

mentre li aprivo fuori stesse nevicando... che stupida. Però era bello.”<br />

“Quell’anno ovviamente decisero di non fare l’albero. Il lutto non ce lo permetteva.”<br />

Si fermò del tutto e si guardò in giro. Cercava la forza di andare avanti.<br />

“Il pomeriggio della vigilia, mia madre uscì di casa. Io in effetti fingevo di condividere<br />

quella decisione, perché non riuscivo ad accettare che quell’anno il Natale non l’avremmo<br />

festeggiato, in special modo quando spettava a me il compito del puntale. Così, come una ladra<br />

preparai in fretta l’albero: le luci, i fiocchi rossi che scelsi con mia madre, le palline blu e ocra e<br />

ovviamente anche il puntale.”<br />

Muoveva nervosamente le dita facendole scivolare l’una contro l’altra.<br />

“Una volta finito sapevo che qualcosa non andava. Non era come prima.”<br />

Carlo era stato tutto il tempo in silenzio, senza perdere una parola.<br />

“Sentivo freddo, una sensazione viscida strisciava sulla mia pelle, e lentamente assorbiva i<br />

miei undici anni di totale immunità.”<br />

“Lo smontai in fretta e mi ritirai in camera. Ero straziata, non sapevo in che modo<br />

comportarmi di fronte a quella rivelazione. Avevo sbattuto contro qualcosa e aspettavo il dolore<br />

dopo il colpo, ma non arrivava, non riuscivo a sentirlo. Quella sera feci un sogno strano, che fino a<br />

qualche anno fa veniva ancora a farmi visita.”<br />

Tirò fuori dalla borsa il pacchetto di sigarette e ne prese una.<br />

“Mi trovo sempre in salotto, di fronte al nostro albero tutto addobbato. Mi giro e vedo la<br />

bara di mio padre al centro e tutti i parenti attorno, avvolti da un alone di dolore.”<br />

La appoggiò alla fiammella.<br />

“Mia madre in disparte viene colta all’improvviso da un impeto di rabbia e si scaglia contro<br />

tutto e tutti. Gli altri reagiscono e inizia una vera e propria zuffa. Mi avvicino alla bara, passando<br />

immune tra la folla, il ciliegio è liscio e da una bella sensazione al tatto. Gioco con le dita tra le<br />

scanalature, ricalco le conche. Eppure lì sotto c’era mio padre, che nonostante fosse Natale, se ne<br />

era andato via. Capisci?”<br />

Aspirò violentemente, schiacciando il filtro.<br />

“C’è un grande caos, non so dove ripararmi. Poi in lontananza vedo brillare qualcosa. Mi<br />

avvicino, e lentamente si delineano i contorni dell’albero. Ma tutte le sue foglie sono appassite, le<br />

luci spente, il puntale spezzato, e i rami spogli.”<br />

Gettò la sigaretta in una piccola pozza d’acqua sporca.<br />

“Già era stato difficile accettare che non esistesse Babbo Natale...”<br />

Sorrise.<br />

“Forse avevo esagerato, ci avevo creduto troppo, e la morte di mio padre è stato un colpo<br />

basso, che ancora devo smaltire del tutto.”<br />

Carlo si fece più vicino e le cinse una spalla.<br />

Lei si gettò con violenza sul suo petto, come volesse soffocare.<br />

Restarono così a lungo, mentre la città correva ignara intorno a loro.<br />

Solo il fragore della pioggia venuta giù all’improvviso riuscì a staccarla, e finalmente a<br />

incrociare lo sguardo di Carlo.<br />

Appoggiò delicatamente la punta del naso sulla sua bocca, poi risalì sulla guancia, e deviò<br />

verso il suo orecchio, e piano gli sussurrò:<br />

“Grazie.”<br />

32


Si allontanò leggermente da lui, abbassò lo sguardo e se ne andò con la sua andatura da<br />

cerbiatto, sfiorando la gente, fino a disperdersi tra la folla.<br />

Gianluca Nativo, <strong>II</strong>I C<br />

33


ANCORA TANTO<br />

«E un altro giorno è andato<br />

la sua musica ha finito<br />

quanto tempo è ormai passato e passerà;<br />

tu canti nella strada<br />

frasi a cui nessuno bada<br />

il domani come tutto se ne andrà…<br />

Ti guardi nelle mani e stringi il vuoto,<br />

se guardi nelle tasche troverai<br />

gli spiccioli che ieri non avevi ma<br />

il tempo andato non ritornerà»<br />

Immaginate.<br />

Chiudete gli occhi e lasciate andare i pensieri guidati dalle mie parole.<br />

Immaginate.<br />

Immaginate di essere ad uno spettacolo, in un circo. La folla in platea vociante ed allegra, i<br />

bambini che ridono aspettando frementi l'inizio del nuovo numero, venditori di pop-corn e<br />

caramelle che cercano di sovrastare a sprazzi il rumore intenso, il calore della gente.<br />

No, non siete seduti in platea, siete lì, a dodici metri dal suolo, sulla piattaforma a cui è<br />

agganciato un capo della fune argentea che risplende ai vostri piedi, colpita dalla luce dei riflettori.<br />

Vi vedete lì sopra?<br />

Lì, fasciati nel costume di scena, il buio sotto di voi, i riflettori colorati che illuminano solo<br />

la vostra figura e che danno al resto un connotato di irrealtà.<br />

Ed ecco, equilibristi. Muovete i primi passi sul percorso così chiaramente delineato dinnanzi<br />

alle vostre scarpette di stoffa.<br />

Sicuri, veloci, incoscienti.<br />

Ripetete movimenti già provati, e perché no, improvvisate, ma va bene così.<br />

Va bene così.<br />

Non avvertite fatica, non conoscete timore, i vostri sensi inebriati dalle esclamazioni di<br />

meraviglia che provengono dal pubblico; siete guidati da una musica solo vostra, che si è<br />

impossessata di ogni fibra del vostro essere.<br />

Finisce la fune.<br />

Siete di nuovo sulla piattaforma, quella opposta.<br />

Adesso potete chiudere gli occhi e lasciarvi andare agli applausi. È un attimo.<br />

In quell'istante vivete più di una vita, ardete consumando l'effimero del momento.<br />

E finisce.<br />

Oh, ma non vi rendete conto di quanto sia poco quello di cui vi accontentate, quanto sia<br />

labile ma indispensabile ciò di cui una creatura di circo si nutre.<br />

Scenderete da quella scaletta migliaia e migliaia di volte, per risalirci sempre con lo stesso<br />

fervore, sempre con la stessa voglia di mostrare la violenza e la bellezza del vostro io più nascosto.<br />

Quanto durerà?<br />

34


Dovrete respirare i fumi colorati, avvertire il solletico dei costumi di scena, accecarvi con le<br />

luci che esaltano i vostri movimenti, per apprezzare quanto tutto sia illusorio osservandolo andare in<br />

fumo davanti ai vostri occhi.<br />

Ebbene, io l'odore di quei fumi pirotecnici l'ho sentito, i miei capelli ed il mio corpo ne sono<br />

pregni; i costumi di scena mi fanno da prima e seconda pelle, scintillanti involucri in cui è facile<br />

nascondersi; le luci hanno incantato tanto i miei occhi da non poter più distinguere un corpo da<br />

un'ombra.<br />

Adesso però siete scesi, lo spettacolo deve continuare, ed in punta di piedi correte dietro le<br />

quinte, assistiti dal breve intervallo.<br />

Contatevi i passi state entrando nel mio mondo…<br />

Una delle esibizioni che mi è piaciuta di più è quella della tournée primaverile del 1992,<br />

quella volta interpretavo il ciclo di una farfalla.<br />

Durava poco, due giri di fune, ma era caratterizzata da un'intensità tale da stregare il<br />

pubblico.<br />

Scesi dalla piattaforma precipitandomi dietro le quinte: arrivai nell'angolo relativamente<br />

calmo, tra i camerini e la strumentazione del tecnico delle luci, dove come al solito li trovai ad<br />

aspettare. Due ragazzi, lui assorto nella lettura e lei che tormentava le frange del cuscino su cui era<br />

seduta.<br />

La ragazza si alzò venendomi incontro.<br />

«Brava! Eccezionale! La tripla capriola che hai inserito a metà era il dettaglio che mancava!<br />

Abbiamo fatto un ottimo lavoro!»<br />

Stefania.<br />

Sceneggiatrice ed in parte coreografa dei brani. Scriveva i pezzi che interpretavo ballando<br />

sulla fune, dava il suo parere sulla musica e mi dirigeva in alcuni passi dell'esecuzione.<br />

Potevamo discutere per ore del movimento che ben si accordava con le sue parole; metteva<br />

su carta la sua idea di mondo e non sempre era propensa a vedersela modificare.<br />

Stefania era passione e rigidità fuse assieme, un'esasperata voglia di vivere combinata ad<br />

un'assurda paura del futuro, fuggiva da un passato che voleva dimenticare, e ciò si rifletteva sul suo<br />

lavoro, ma soprattutto sul suo modo di vivere. Sulla nostra amicizia.<br />

Dopo qualche altro commento sul numero si congedò da noi stampandomi un bacio sulla<br />

guancia: «Corro da Vittoria, aveva bisogno di me per un'ultima revisione del pezzo!» disse, e si<br />

affrettò verso il camerino di una delle contorsioniste, sua metà simbiotica ed antitesi per eccellenza,<br />

l'unica, nella compagnia, che riuscisse a condividere i timori ed i problemi di Stefania facendoli<br />

propri.<br />

Mi gettai sul cuscino che era rimasto vuoto, osservando il libro del ragazzo che avevo<br />

davanti.<br />

«Che leggi?» chiesi con curiosità.<br />

«Ovidio» fu la laconica risposta di Giacomo.<br />

«Minira e Cirra?» sorrisi conoscendo già la risposta. Da quando aveva letto "Le<br />

metamorfosi" lo aveva eletto a suo mito preferito.<br />

«Già» fece, non mi sfuggì il sorriso di rimando.<br />

Tacemmo per un po’, a quell'epoca non avevamo problemi a nutrirci di silenzio.<br />

«Due volte!» esordì con aria noncurante.<br />

«Che cosa?» Feci finta di non capire.<br />

«Sei scivolata due volte improvvisando, a metà del primo giro ed alla fine!» esclamò<br />

petulante. Sì, ero scivolata impercettibilmente, ma in pochi se ne erano accorti, forse solo lui. Lo<br />

guardai sorridendo.<br />

35


«Già!» dissi.<br />

Finalmente abbassò il libro ed incrociò il mio sguardo: «Incosciente!» abbaiò con aria<br />

severa.<br />

Scoppiammo a ridere.<br />

Sì, riteneva davvero che fossi un'incosciente, vedeva davvero dietro ad ogni mia<br />

improvvisazione un atto di infantilismo incontrollato, ma lo accettava perché mi conosceva, forse<br />

più di tutti. Mio coetaneo, figlio del proprietario del circo, potrei dire fratello. Preferisco chiamarlo<br />

Giacomo.<br />

La prima volta che ebbi un assaggio della sua eccezionalità avevamo sì e no dieci anni in<br />

due. La bambina dei miei ricordi forse intontita dal caos e dalla frenesia che sembrava contagiare<br />

tutti gli altri membri della compagnia cercò riparo in un angolo lontano dall'arena, il ripostiglio dei<br />

costumi. Lì, tra scampoli di stoffe colorate e abiti luccicanti, trovai Giacomo. Leggeva un libro di<br />

Sepùlveda, Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare; non sembrò disturbato<br />

dalla mia invasione in quello che avrei scoperto essere il suo rifugio, anzi, continuò a leggere. Io mi<br />

sedetti in disparte e lo osservai con attenzione, sembrava così assorto nella lettura da non accorgersi<br />

di nulla. D'un tratto, però, alzò lo sguardo.<br />

«Vuoi sentire cosa sto leggendo?» chiese. Ed ebbe inizio una storia fatta di parole e silenzi,<br />

luci ed ombre. Da quel giorno lui acquistò un nuovo orecchio, ed io una nuova voce, una voce che<br />

da molto non riesco più a sentire.<br />

In ogni caso, una volta scesa dalla scaletta c'era lui, c'era Stefania, c'erano Bea e Fortuna,<br />

c'era Roberto. C'era un mondo che mi riaccoglieva ogni qualvolta mi allontanassi.<br />

Il mio vero atto di equilibrio.<br />

Ognuno di noi aveva la sua storia, i suoi "costumi" ed il suo "numero" da interpretare,<br />

perché il vero spettacolo era quello che si svolgeva dietro le quinte; era Fortuna che ci raccontava le<br />

peripezie dei cani che addestrava e Bea che ne rideva a crepapelle facendo ridere anche noi; era<br />

Vittoria, che faceva la forte per tutti, ma poi si lasciava consolare una volta toltasi la maschera ed<br />

era Roberto, che riusciva ad incantarci con i suoi assoli al pianoforte e per poi richiudersi in un<br />

mondo diverso dal nostro; ancora erano i timori di Giacomo sulla vita ed i suoi contorni, ed i<br />

momenti bui di Stefania.<br />

Eravamo tutti noi, con i diversi modi di metterci in gioco e stare sotto i riflettori.<br />

Uno dei momenti che preferivo di più era quello di pausa dalle prove o dagli allenamenti,<br />

quando ci disponevamo per mangiare. Vittoria ed io sulla trave da ginnastica, Beatrice e Fortuna<br />

sugli scalini colorati dei domatori, Roberto sullo sgabello davanti al pianoforte, i due giocolieri, il<br />

trio di trapezisti ed il lanciatore di coltelli, chi seduto sul muretto che delimitava l'arena, chi su<br />

sgabelli improvvisati.<br />

I posti erano sempre gli stessi; a volte, tenendo fede a piccole abitudini, fuggivamo la<br />

precarietà emozionante, ma estenuante del nostro vivere.<br />

Potevamo per un po’ bearci dell'allegria contagiosa di Bea, il pagliaccio della compagnia,<br />

potevamo sentirla litigare con Fortuna o discutere con Roberto. Ascoltavamo gli avvincenti racconti<br />

di Luigi, il lanciatore di coltelli che aveva girato il mondo ma che teneva per sé ciò che aveva visto<br />

e vissuto. Luigi è sempre stato caratterizzato da una personalità enigmatica, solo raramente ci dava<br />

un assaggio di ciò che gli apparteneva, ma era sempre un successo. A ripensarci adesso, non ha mai<br />

tradito se stesso, sempre trincerato dietro uno sguardo senza confini. Se non era occupato a narrarci<br />

i suoi pezzi di vita, discuteva in disparte con Giacomo, con cui aveva legato molto anche in virtù<br />

della profonda ammirazione che l'altro aveva nei confronti del suo atteggiamento di pseudo<br />

estraneazione dalla realtà, atteggiamento con cui riusciva, apparentemente, a non compromettersi<br />

mai. Anche il vederli confabulare tra loro faceva parte della giostra frenetica che occupava le nostre<br />

36


giornate. Così come capitava che si avvicinasse, con i soli occhi a far da tramite con il suo animo<br />

turbato, Stefania, alla silenziosa ricerca di un orecchio allenato ai suoi sfoghi.<br />

Non avrei saputo immaginare qualcosa di bello ed intenso come l'amicizia che mi legava a<br />

Bea, Vittoria e Stefania; non avrei saputo descrivere qualcosa di rassicurante e gioioso come il<br />

rapporto che avevo con Giacomo… Ma d'altronde, se me lo avessero chiesto, non sarei stata<br />

nemmeno capace di profetizzare la fine di tutto.<br />

… Un sorriso involontario mi ha increspato le labbra. Sono così brava a descrivere gli altri<br />

da non riuscire ancora a focalizzare me stessa. Marialuna. Equilibrista e donna, amica e sorella,<br />

maestra ed allieva, punto fermo e sorgente di dubbi. Affetta da grave carenza di personalità. Sono<br />

sempre stata un sacco di cose, ma mai veramente qualcuno.<br />

A quell'epoca ero una sola cosa, ben definita: colpevole.<br />

Vivendo unicamente per quella realtà che credevo mia, mi facevo partecipe di qualsiasi<br />

cosa; aiutavo, ideavo, cercavo di essere al centro di tutto, c'ero per chiunque. Atteggiamento,<br />

questo, che iniziò a dar fastidio. Ebbero luogo i primi screzi con Edoardo, il proprietario del circo,<br />

uomo dalla molteplice natura. Non avevo paura; chi, al mio posto, credendo di poter contare sulle<br />

persone che mi circondavano, ne avrebbe mai avuta?<br />

Non mi sembrava necessario prestare attenzione ai richiami che si facevano più frequenti;<br />

ero convinta che i difetti che mi venivano sottolineati non esistessero, nessuno di coloro a cui<br />

tenevo me li aveva mai fatti notare.<br />

Nel mio cieco non prevedere né accettare i cambiamenti, non mi guardai le spalle, come una<br />

bambina ingenua ero convinta che nulla potesse turbare la mia quiete.<br />

La prima avvisaglia la ebbi quando Stefania si fece ostile nei miei confronti, quando iniziò<br />

a seguire Edoardo, quando si trasformò in spietata giudice di ciò che le era sempre parso<br />

indifferente, ma io, ottimista, non volli coglierla. Preferii di gran lunga convincermi che fosse solo<br />

un periodo di passaggio.<br />

Fu poi la volta di Giacomo che, al contrario di Stefania, non esprimeva davvero il suo<br />

giudizio; si limitava ad una mansueta coesistenza con le due dimensioni. Mi ascoltava, in qualche<br />

modo mi comprendeva. Fui io a non voler sentire ciò che aveva dentro. Egoisticamente trasformai<br />

la nostra amicizia in un rapporto univoco, a mio personale uso e consumo. Probabilmente fu perché<br />

era l'unico appiglio rimastomi che sfogai su di lui la paura che mi cresceva dentro ogni giorno di<br />

più. La paura di cadere.<br />

In quel periodo fondamentale fu l'amicizia di Bea. Il nostro pagliaccio sapeva essere più che<br />

serio in certi momenti, quasi fatalista. Non credo di aver mai conosciuto una persona così incline a<br />

difendere le proprie idee a qualsiasi prezzo come Beatrice.<br />

Ci fu un giorno in cui, stanca dei miei timori e dei miei patemi d'animo, mi guardò con aria<br />

severa e chiese: «Davvero il tuo universo inizia e finisce in questo limitato spicchio di realtà?» Non<br />

ebbi il coraggio di risponderle.<br />

A lei che non vedeva l'ora di andar via da lì, che sapeva perfettamente che c'era il tempo per<br />

qualsiasi cosa e che aveva intenzione di spendere nella maniera migliore quello che stava vivendo<br />

per poi proiettarsi in un mondo sconosciuto e diverso, sarebbe parso incomprensibile l'attaccamento<br />

che avevo nei confronti della mia realtà.<br />

Anche se non mi capiva, in ogni caso Bea c'era sempre. C'era quando crollò tutto.<br />

Dopo una furiosa lite con Stefania, nel corso della quale mi aveva rimproverato<br />

l’impossibile, dato colpe inverosimili e revocato la sua fiducia nei miei confronti che pensavo<br />

indiscutibile, ero in uno stato di shock emozionale. Una volta in camerino mi vestii in fretta del<br />

luccicante abito che avrei dovuto indossare di lì a poco. Un peso indescrivibile mi opprimeva il<br />

37


petto tanto da rendermi difficile il respirare. Cercai di calmarmi, di ritrovare la concentrazione, ma<br />

fu del tutto inutile. Non riuscivo neanche a piangere, nonostante ne avessi un bisogno disperato.<br />

Salita sulla piattaforma ero ancora presa dalla discussione.<br />

«Perlomeno io non vivo in un mondo fatto di illusioni come il tuo!» Le parole di Stefania mi<br />

rimbombavano nella testa.<br />

A metà della fune scoppiai in lacrime. Attorno a me il buio; un buio che mi aveva sempre<br />

abbracciata con calore, ora era diventato estraneo, spaventoso.<br />

Caddi.<br />

Di solito eseguivo i numeri senza rete; quella volta, per motivi che Stefania avrebbe definito<br />

Destino, erano rimasti, sotto la fune, i cuscini elastici adoperati da Fortuna per il numero<br />

precedente. Attutirono la caduta.<br />

Una volta a terra avvertii un dolore lancinante alla caviglia destra, dolore che si sarebbe<br />

rivelato essere rottura della caviglia e lesione di due tendini, ma che in quel momento funse<br />

unicamente da stimolo per la confusione di poco prima.<br />

Ritenni fosse lucidità lo stato d’animo in cui versavo in quel momento. Vidi arrivare di corsa<br />

Vittoria, Giacomo e Beatrice, seguiti da Luigi e Roberto con una barella, li vidi sollevarmi con<br />

cautela, affannarsi attorno a me. Stranamente mi sentii sola, smarrita, mi resi conto del fiasco che<br />

era stato il mio numero, di non essere riuscita a conservare il mio equilibrio. Cercai uno sguardo in<br />

cui ritrovarmi, degli occhi che non fossero quelli terrorizzati di Vittoria e Bea. Guardai Giacomo, lo<br />

vidi aiutare Roberto nel compormi sulla barella senza farmi male, l’aria preoccupata ed in parte<br />

delusa.<br />

Lo odiai.<br />

Erano giorni che discutevamo sulla situazione complessiva dell’intera compagnia, non ero<br />

soddisfatta di come si asteneva dal dare giudizi. Non capivo come facesse ad accettare due<br />

situazioni così diverse. Accecata dalla rabbia, dall’insoddisfazione di me stessa e dal forte dolore<br />

alla gamba e alle costole, non persi tempo a riflettere. Appena mi fu abbastanza vicino gli sussurrai<br />

all’orecchio con tono amareggiato: «Sono stufa della tua pietà. Allontanati da me! » E voltai la<br />

testa. Non tanto per nascondergli le lacrime, ma per sfuggire al suo sguardo.<br />

Nonostante fossero stati in tre ad aver alzato la barella, solo due mi portarono dietro le<br />

quinte. Mi aveva preso in parola. Era rimasto indietro, dando il tempo ad una distanza incolmabile<br />

di frapporsi fra noi due.<br />

Passarono i giorni; in qualche modo le costole incrinate ripresero il loro posto e la caviglia<br />

andò migliorando. Era il resto che andava a rotoli. Giacomo si astenne dal rivolgermi la parola, ciò<br />

che avevo fatto lo aveva colpito, e non positivamente. Seppur stanco dei continui miei capricci da<br />

bambina, aveva sopportato a lungo, nascondendomi ciò che covava dentro di sé, ciò che lo<br />

infastidiva. In Stefania aveva trovato un’ottima valvola di sfogo.<br />

Dal mio canto provai a chiedergli scusa, tentai di ritornare indietro. Alternavo momenti di<br />

profonda auto colpevolizzazione ad istanti di ribellione. Al mio fianco Bea, Fortuna e Roberto; sugli<br />

altri era difficile dire di poter contare. Luigi mantenne sempre la solita distanza, ma, pur sfoggiando<br />

un atteggiamento più che amichevole, era chiaro da che parte fosse schierato. Vittoria, anche nella<br />

sua unicità, aveva sempre costituito la metà simbiotica di Stefania; fortunatamente, in virtù<br />

dell’amicizia che ci aveva legato non alzò mai muri invalicabili, ed anzi, le sono grata tuttora per la<br />

sincerità dimostratami.<br />

Ed io?<br />

Io ero ben consapevole che ciò che dovevamo temere non era il giudizio di un pubblico a noi<br />

estraneo, ma quello che ci attendeva dietro il sipario. Le stesse persone che ti avevano sostenuto<br />

fino a pochi minuti prima potevano trasformarsi nella giuria più esigente e spietata.<br />

38


Iniziai a scolorire. A vivere silenziosa dietro le quinte, nei punti meno luminosi.<br />

Non sono più salita lassù, in un primo momento adducendo la scusa della caviglia, in seguito<br />

trovandomi da sola con le mie paure.<br />

Eppure la vita è continuata, me ne rendo conto adesso. Per me è andata avanti su di un<br />

traballante sostegno di ricordi e rimpianti, ma ha continuato il suo corso.<br />

Abbiamo raggiunto la maggiore età, ci siamo divisi. Con Bea e Fortuna il viaggio è<br />

continuato in parallelo, gli altri hanno assunto forme e colori confusi, sino a sparire.<br />

O meglio, riducendosi a restare qui, nella mia testa, afflitti da un’incurabile sindrome di<br />

Peter Pan, destinati a rimanere ragazzini.<br />

Oggi ricorre una scadenza particolare, a cui ho deciso di non mancare. Ci eravamo promessi<br />

di rivederci una volta compiuti i trent’anni. Qui. Dove le nostre storie si sono separate. Pensavo di<br />

essere sola, ma mi sono ritrovata ad osservare un uomo ormai adulto che libera da quel pianoforte<br />

note rimaste rinchiuse a lungo. Troppo a lungo.<br />

Roberto non ha mai perso quel suo sguardo indisponente, lo stesso con cui mi ha convinto a<br />

risalire queste scalette e ad arrivare sulla piattaforma. Un’ultima volta.<br />

«Balla solo per te stessa, non perché sono gli altri a deciderlo.» Sono state le sue uniche<br />

parole.<br />

E quindi ho intenzione di riprovarci, sì. Questa volta però, non guarderò giù.<br />

Questa volta mi farò bastare l’odore di pioggia del pomeriggio primaverile, perché il tempo<br />

è andato. Ma ne ho ancora tanto davanti a me.<br />

Giulia Giuranna, I A<br />

39


LA MIA TERRA<br />

Le onde bagnano delicate la riva, a tratti aggressive nell’infrangersi sigli scogli, creando una<br />

leggera e bianca schiuma. La spiaggia deserta sembra un miraggio, l’ultimo sole incendia<br />

l’orizzonte, e tutt’intorno risplende dei caldi colori di un tramonto di fine estate. Una leggera brezza<br />

mi muove i capelli, come se fossero spighe di grano dorato mosse dal vento in una lontana<br />

campagna. Sposto il mio sguardo su una piccola figura che corre a piedi nudi sulla sabbia ancora<br />

calda. Le piccole orme di bambino lasciate sul bagnasciuga vengono cancellate dal mare, mentre il<br />

piccolo pallone colorato che rincorre continua la sua folle fuga; e rotola, rotola, senza sosta, sempre<br />

inseguita dalle dolci mani del bambino.<br />

Decido di scendere; tolgo le scarpe, e il contatto della pelle con la sabbia scura e calda mi<br />

procura un brivido. L’odore del mare si fa più forte, quasi m’inebria; respiro a fondo. Inizio a<br />

passeggiare sulla riva, ho perso di vista il piccolo ometto con la palla; l’acqua conserva ancora il<br />

dolce calore del sole che invece sta calando, e questo calore infonde dentro di me una bellissima<br />

sensazione di pace. Il calore dai piedi s’irradia in tutto il corpo e mi scalda il cuore.<br />

Ho gli occhi chiusi e le braccia strette attorno a me.<br />

A un tratto qualcosa mi colpisce, la sento rimbalzare via. Apro gli occhi e guardo in basso.<br />

È una piccola palla colorata. La raccolgo e la guardo. Il rosso acceso della palla le dà<br />

l’aspetto di una sfera incandescente; con una mano tolgo la sabbia che vi si è attaccata.<br />

“Ciao, puoi darmi la mia palla?”<br />

Sento una piccola vocina e alzo gli occhi: è quel piccolo ometto che ho visto correre.<br />

Ha un visino tondo, dorato, i capelli un po’ lunghi e castani, il mare deve averli schiariti,<br />

perchè sembra che quel bambino riccioluto abbia dei raggi di sole tra i capelli.<br />

Le guance più rosee e gli occhioni verdi e profondi si spostano di continuo dalla palla al mio<br />

viso.<br />

Sembra un piccolo cherubino. Mi guarda insistentemente, così gli porgo la palla e lui<br />

sorride, mostrando così tante piccole perle.<br />

“Tieni” gli dico e gli sorrido; poi mi allontano andandomi a sedere un po’ più lontano.<br />

Lo guardo ancora giocare, ma poi anche il resto scompare, mi perdo in un mondo diverso,<br />

lontano, tra visi che conosco e persone senza volto, sento ridere, parlare, piangere.<br />

Emozioni opposte si alternano dentro di me alla velocità di un battito d’ali; poi ancora quella<br />

vocina.<br />

“Come mai stai piangendo?” mi chiede.<br />

Alzo improvvisamente gli occhi e lo vedo, un’espressione preoccupata e curiosa gli si è<br />

dipinta sul volto, ha il capo leggermente inclinato verso destra e i suoi occhi ora sono più scuri,<br />

come velati da una nube. Poi mi passo una mano sul viso e sento le lacrime che non so di aver<br />

versato; sorrido.<br />

Il bambino mi si siede accanto e continua a scrutarmi con quei suoi occhioni indagatori.<br />

“Come mai sei qui da solo?” gli chiedo dolcemente.<br />

“Perché non vogliono giocare con me” mi dice, “... i miei cuginetti non possono giocare la<br />

loro mamma non vuole. Lei dice che qui non è sicuro, che ha sentito troppe cose brutte… e urla<br />

sempre alle zie che non vede l’ora di tornarsene a casa e che non capisce il motivo peri il quale sono<br />

qui. Continua a ripetere alla mia mamma che mi ha cresciuto come un selvaggio…ma io non so<br />

nemmeno cosa significa… Continua a ripetere che dove abita lei i bambini sono tutti adorabili e non<br />

delle bestiole come qui...”<br />

40


Guardo quel bambino e il cuore mi si riempie di tenerezza.<br />

“Posso giocare io con te, se vuoi.” gli propongo alla fine.<br />

E lui come se non stesse aspettando altro che questo mi sorride ancora, e questa volta quasi<br />

non credo possibile come possa esserci tanta gioia in un solo sorriso; la sensazione che ho è come di<br />

beatitudine, e non posso fare a meno di ridere anch’io.<br />

Così ci mettiamo a giocare con la palla rossa, lui ride, io sono felice.<br />

Sono attimi, ma a me sembrano vite intere trascorse in un paradiso di cui non conosco<br />

ancora l’esistenza.<br />

Una voce di donna chiama un nome da lontano e il mio compagno di giochi sorridendomi<br />

prende la palla e corre via.<br />

“Ciao signora bionda, la mia mamma mi chiama” mi dice e svanisce come se fosse stato un<br />

sogno.<br />

Lo vedo correre portato dal vento; quella piccola sagoma riccioluta, e non posso far altro che<br />

sorridere, ripensando a quel visino angelico.<br />

Ma una sensazione strana all’improvviso mi coglie, e inizia a stringermi il cuore.<br />

Selvaggio. Come si può dare del selvaggio a un bambino del genere?<br />

Come se fosse cresciuto con i gorilla nella foresta; quanta insensibilità e quanti pregiudizi<br />

albergano nei cuori di molte persone. Queste situazioni mi fanno sempre andare su tutte le furie.<br />

Buttano giudizi così, a caso, senza né pensare né tanto meno preoccuparsene.<br />

Sputano veleno con le loro sentenze.<br />

Sono strane forme di odio queste, che anche indirettamente forse fanno più male di offese<br />

dirette e più pesanti. Offendono la terra, e offendendo lei offendono noi come esseri umani<br />

appartenenti a questa terra.<br />

Come possono dire che questa città è brutta, malata. Questa è la città più bella del mondo;<br />

ma forse il mio giudizio non conta, sono troppo di parte.<br />

Ma svegliarmi e vedere il mare, sentire il sole sulla pelle, le voci caotiche e i volti sorridenti;<br />

per me non esiste al mondo cosa più bella.<br />

Vedere d’inverno il Vesuvio imbiancato di candida neve, e sperare fin all’ultimo momento<br />

di poterla vedere cadere anche qui, una speranza sempre vana; e poi alla fine ringraziare sempre il<br />

cielo per non aver esaudito quel desiderio.<br />

Ho imparato ad amare i bambini che giocano a pallone in campetti improvvisati tra la gente<br />

nelle piazze e nei vicoli; ho imparato ad amare anche i suoi difetti.<br />

È questo che nessuno capisce. Amo la mia terra per quello che è, per le sue meraviglie e per<br />

i suoi orrori, che è vero, non sono né pochi né lievi; ma lo amo comunque: l’amo, l’ho amata e lo<br />

amerò sempre.<br />

Mi sento come un genitore che ama il figlio, tutti qui amano la propria terra, chi per motivi<br />

chi per altri; proprio come i genitori amano i figli incondizionatamente, ma sanno anche aiutarli nei<br />

momenti difficili, e sanno dare loro una seconda possibilità.<br />

Ma non tutti i genitori riescono sempre nel loro intento; non riescono ad essere sempre equi<br />

o giusti.<br />

D’altronde nessuno può esserlo realmente fino in fondo.<br />

In fondo Amare significa anche non permettere che l’altro cada, si ferisca o sia umiliato. E<br />

la mia terra viene buttata giù, viene ferita, viene umiliata incessantemente, con immagini terribili<br />

ma reali purtroppo; e in questa situazione io non posso fare altro che reprimere la rabbia e stringere<br />

i denti, cercando di non arrendermi, cercando di trovare ancora la forza per andare avanti e<br />

dimostrare che non è così.<br />

41


Perché non è vero che a nessuno importa, perché non sono l’unica che sta male se sente<br />

parlare male della propria città, non sono l’unica che si domanda costantemente per quale motivo<br />

molti provano questo senso di superiorità nei nostri confronti…<br />

La gente di cui parlano gli altri, quelli non sono come me, non sono come noi; loro non<br />

amano la loro terra, loro amano solo se stessi.<br />

Ogni volta che loro cadono noi cadiamo con loro, e la nostra terra sprofonda sempre più giù.<br />

E questa rabbia impotente mi stringe sempre di più in cuore nella sua morsa, e non posso far<br />

altro che urlare il mio dolore e la mia frustrazione al cielo, che bagna il mio viso con le sue fredde<br />

lacrime.<br />

Ho mille cicatrici sull’anima, per ogni volta che mi hanno chiamato “camorrista”, per ogni<br />

volta che mi hanno riso in faccia, per ogni volta che mi hanno trattato con sufficienza, per ogni<br />

volta che mi hanno negato il saluto, per ogni volta che mi hanno trattato come se fossi stata una<br />

nullità.<br />

E ogni volta io incassavo il colpo e in qualche modo cercavo di far cambiare loro opinione,<br />

dimostrando che Napoli non è solo quella che fanno vedere attraverso i telegiornali.<br />

Ma il disprezzo spesso è troppo radicato negli animi.<br />

Ma come posso io far cambiare idea a persone che vivono Napoli tutti i giorni e che sono in<br />

fondo i suoi primi antagonisti?<br />

Come si può voltare le spalle e disprezzare così tanta bellezza, così tanta bontà?<br />

Spesso mi hanno detto che “certe cose” succedono solo qui…io non sono proprio d’accordo;<br />

“certe cose”, se non peggio, succedono ovunque, solo che altrove vengono insabbiate, non si<br />

vogliono vedere.<br />

Nonostante tutte queste situazioni al limite della sopportazione, non ho mai avuto vergogna<br />

di quello che sono, l’ho sempre detto con serenità. Perché io sono Napoletana.<br />

Perché noi siamo Napoletani; e non solo tifosi di una squadra di calcio.<br />

Io sento di appartenere a questa terra meravigliosa che amo con tutta l’anima e il corpo,<br />

senza condizioni né secondi fini; forse saranno antichi valori, ma io ci credo ancora.<br />

Sarà per questo che non riesco a capire quelli che provano quasi gusto a farci cadere, loro<br />

non hanno una terra, ne hanno mille e nessuna, o almeno nessuna in cui buttarci l’anima perché<br />

divenga migliore, ma in cui fare semplicemente i propri comodi; distruggendo speranze e certezze,<br />

senza che nemmeno il minimo sentimento di vergogna o rimorso per quello che hanno fatto e che<br />

stanno continuando a fare li sfiori; senza arrivare a comprendere di star danneggiando se stessi per<br />

primi.<br />

Immagino ora quel bambino, nella sua casa, con i suoi cugini; lo immagino triste seduto sul<br />

divano, con la palla ancora sporca di sabbia, dopo aver ricevuto l’ennesimo “no” dalla zia.<br />

Lo immagino a chiedersi i perché di quello strano comportamento; di quello strano<br />

comportamento che alla fine molti “grandi” assumono.<br />

Ma poi lo immagino scollare le spalle, far scivolare tutte le preoccupazioni, e tutte le<br />

domande alle quali non sa ancora dare una risposta, fare un gran sorriso, riprendere quella sua palla<br />

rossa e uscire in strada, certo di trovare qualcuno disposto a giocare con lui.<br />

E non posso fare altro che provare un po’ di malinconia ripensando a quando veramente<br />

bastava poco per essere felici, quando bastava una palla rossa e un compagno di giochi, quando non<br />

t’importava di cercare tutte le risposte o quando certe domande non te le ponevi affatto.<br />

La vita dovrebbe essere vista davvero con gli occhi di un bambino.<br />

Allora mi guardo introno, e vedo il mare, le stelle, la luna, le luci della strada da lontano.<br />

I rumori del mondo mi avvolgono improvvisamente, è calata la sera ed io sono ancora qui,<br />

ho passato tante ore a pensare, persa in un sogno senza fine.<br />

42


Mi alzo e con una strana lentezza come se stessi ancora sognando mi dirigo verso la strada.<br />

Mentre cammino incrocio tanti volti indaffarati, preoccupati, tristi, felici, arrabbiati…<br />

Non vedo selvaggi, né malfattori, né spietati serial killer; vedo solo tante persone che vivono<br />

la loro vita nella loro città. E non voglio credere che nessuno di quei volti nasconde un’anima vuota,<br />

anzi voglio credere che dietro a ognuno di quei volti batta un cuore che ama la propria città e che<br />

vuole proteggerla da chi non vede l’ora di vederla al collasso, da chi è deciso a non darle nemmeno<br />

una sola possibilità di riscatto; ma vedo soprattutto napoletani che tutti nel profondo vogliono<br />

proteggerla da chi ogni giorno la usa e poi la getta via: perché nessuno riesce a subire passivamente,<br />

senza nemmeno la minima reazione, un’offesa del genere.<br />

È questo il pensiero che mi scalda il cuore ogni volta che non vedo altra via d’uscita che<br />

lasciar perdere…<br />

E mi sento felice.<br />

Mi rendo conto che sono appena in tempo per prendere l’ultimo autobus; predo gli auricolari<br />

dalla borsa e premo play.<br />

Mentre aspetto, rivedo quell’ometto riccioluto dagli occhi verdi e la sua palla rossa che<br />

gioca con tanti bambini. Lui mi guarda e si ferma un solo istante, i suoi occhi verdi ora sono lo<br />

specchio delle stelle, e di nuovo compaiono quelle bellissime perle, mi sorride; ma è un attimo, poi<br />

come se non mi avesse mai incontrata si volta e incomincia a correre con la sua palla rossa,<br />

lasciandosi il mondo alle spalle.<br />

Sorrido, il cuore mi si riempie inaspettatamente di gioia, senza motivo gli occhi mi si velano<br />

di lacrime.<br />

L’autobus è vuoto e mi siedo in fondo, scivolo sul sediolino.<br />

La musica continua a scorrere via come il tempo, ma io non la sento, sono altrove… sono<br />

con quel bambino e rincorro anche io quella palla rossa.<br />

Rita Di Giusto, I G<br />

43


SEZIONE IN LINGUA ITALIANA<br />

POESIA<br />

44


Frenetico è il mondo<br />

in ogni momento<br />

e ti ruba il giorno<br />

e uccide il silenzio.<br />

Un suono assordante<br />

ti assilla la mente<br />

ma poi finalmente<br />

arriva la sera<br />

leggera.<br />

E tu nottetempo<br />

sei colto sul fatto<br />

sei colto a pensare<br />

ai giorni<br />

ai minuti<br />

alle futili ore<br />

che passano piano<br />

sfuggendo di mano<br />

sfumando.<br />

E tu nottetempo<br />

rimani smarrito<br />

se sfogli di nuovo<br />

quell’album ingiallito<br />

di foto lontane<br />

occasioni mancate<br />

speranze ormai vane.<br />

NOTTETEMPO<br />

Marco Di Vivo, VB<br />

45


Storia da raccontare,<br />

storia di noi,<br />

diversi nella folla,<br />

ognuno<br />

a calpestare il suo deserto.<br />

Granello in granello,<br />

la piccolezza di ogni nostro gesto,<br />

perso in altri mille,<br />

mischiati ad altra sabbia.<br />

Cosa provi<br />

quando svanisce un’oasi?<br />

Tutto torna strada,<br />

nuovo asfalto,<br />

col tuo cammello di sogni<br />

combatti le ferrari consumistiche,<br />

loro veloci,<br />

tu ritardi la sconfitta.<br />

Pensando,<br />

a quell’aurora boreale,<br />

ricordando,<br />

i colori limpidi,<br />

l’azzurro sconfinato<br />

di un posto solitario.<br />

Cerchi un’altra ombra<br />

come te,<br />

l’impronta accanto,<br />

una goccia in più<br />

sulla nuvola di Socrate.<br />

SILICE<br />

Miriam Di Nardo, <strong>II</strong> E<br />

46


Giorni che passano, come le onde<br />

che s’infrangono sulla roccia dura.<br />

Mentre nella mia mente quel tempo<br />

Incessante di già s’è arrestato.<br />

RILUTTANZA<br />

Fulvia Bergamo, V B<br />

47


Solleva il mento<br />

alza gli occhi<br />

raddrizza la schiena.<br />

Guardala in faccia<br />

questa vita<br />

bastarda.<br />

Che ti hanno fatto,<br />

dimmi,<br />

quella sera maledetta?<br />

Cosa hanno fatto al tuo corpo, alla tua anima,<br />

alla tua vita?<br />

Ti senti sporca<br />

che ti laverebbe il fuoco più dell’acqua,<br />

ti senti puttana<br />

che ti si può prendere senza il tuo permesso…<br />

… e ti senti sola,<br />

che pure la luce è un’amica di troppo.<br />

Ma quale corpo, dimmi, hanno violato,<br />

quale anima, quale vita<br />

se tu non sei tutta<br />

in quella sera maledetta?<br />

Tu sei in cento, mille altre sere,<br />

di risate amici e canzoni,<br />

di noia buona davanti alla televisione,<br />

di regali scartati a Natale,<br />

di attese d’amore,<br />

di sogni.<br />

E non sei meno bella,<br />

adesso,<br />

e non hai meno futuro davanti.<br />

Solleva il mento<br />

alza gli occhi<br />

raddrizza la schiena.<br />

Guardala in faccia<br />

ALZA GLI OCCHI<br />

48


questa vita<br />

straordinaria.<br />

Riccardo Balzano, IV A<br />

49


SEZIONE IN LINGUA INGLESE<br />

50


CHANGE<br />

What would it be like if I finally made a choice? If I finally decided to change, to be a better<br />

person, to stop being so silly and selfish. If I just managed to see something else than myself<br />

reflected in the windows. I‟m self-centred, I know. Actually you wouldn‟t believe it watching me:<br />

I‟m a mess. Maybe my life‟s always been too easy, maybe what I really need is a sort of<br />

CATASTROPHE, something to make me understand we don‟t have all the time we think, that things<br />

slip away before we can even notice it. After all, what do you think that happened? I let go. I<br />

drowned in careless. Of myself. And when you stop caring about your own self for the other people<br />

there is no time left. Shouldn‟t it be the opposite? Maybe. But if you don‟t want to take care of your<br />

self, how could you even see who‟s around you? You can‟t. you don‟t. at all. You don‟t even notice<br />

it.<br />

That was damn true. She had become a ghost. At home it was like she wasn’t even there.<br />

Closed in her room, all the time. Closed in her world… world! Stupid, foolish things that don’t exist<br />

in real life. Or maybe they do. In some girls’ lives, but not in hers, that’s for sure. She doesn’t have<br />

time. The girl needs to study! She’s got too many thoughts, music all the time. Seems like her life<br />

has a soundtrack: in the shower, going to school and coming back home. She doesn’t live her life.<br />

The morning she’s like a robot. She goes to school because she has to, that’s what everybody does,<br />

right? And then, as it is to be done, she goes down for the break, and she is the only one happy at<br />

the sound of the bell ringing. Better if there is someone else in the middle of the attention. Better a<br />

teacher. And what a pain coming back home...<br />

They‟re staring at me. I don‟t know what they want, but they keep doing it. And I‟m more<br />

and more hidden in the doors of this damn train. I want to go home, there I‟ll finally…<br />

She’ll finally hide in her house’s walls, here she can be happy. The pain disappears and<br />

turns into bore and indifference, the embarrassment of before goes away, it doesn’t matter anymore.<br />

She’s ready to start, she knows how. Because after all.. does it matter? They already know the way<br />

she looks, and tomorrow… tomorrow it’ll all be different. Tomorrow is always different , till she<br />

realizes it’s the same shit. She’s just lost a day of life. Another day of life. And people? People<br />

around her live, why shouldn’t they?<br />

Who am I to stop someone else‟s life? They say you look fine, they tell you “c‟mon why do<br />

you care? So many problems…” sometimes you‟d like to see them in your place, and not for<br />

naughtiness but to let them see that it‟s not true that it doesn‟t matter, that it is not true that just<br />

once in a while doesn‟t change things. But they don‟t see that. And you pray to God for them never<br />

to find out. And the person that most hurts you, the one that sometimes you‟d want out of your life<br />

for ever…you end up to realise that‟s the only person that really loves you. The only one that really<br />

cares. “CHI TI VO‟ BEN TI FA CHIAGNERE, CHI TI VO‟ MALE TI FA RIDERE” and you never<br />

noticed? How is that possible?<br />

Who likes to feel judged? Who likes to feel accused and responsible for his own pain?<br />

Here’s the answer. She couldn’t understand because she wouldn’t see beyond. It’s too easy to say<br />

Yes all the time, because after all .. it’s not your problem, your life, your youth slipping away...<br />

51


people get bored, don’t waste time with a girl that hasn’t decided yet what to do with her life.<br />

Friends have their own lives. They can only say she’s right, that what that woman says is wrong.<br />

That a mother shouldn’t be saying those things… Sure. Maybe if our little girl told things the way<br />

they are.. if she didn’t leave her mistakes out.. maybe things would go differently.<br />

What would they say if I were completely honest? If I said that thousands and thousands of<br />

time the same scene has repeated. Two women, one still young, again with other request to make,<br />

what if I said we‟ve bought things and that it‟s only MY fault? No... they‟d probably still find a way<br />

to agree with me. They‟d keep treating me as a stupid, which I am after all…<br />

She doesn’t hurt just herself, she knows now. There’s who suffers for her pain, cries for her<br />

tears, who really cares. And that will never get tired of telling her she’s stupid, that she’s ruining her<br />

own life. Someone who loves her, really.<br />

I love you too, mom. Really.<br />

Anna Troncone, <strong>II</strong>I G<br />

52


This is the moment to say goodbye,<br />

When you look up and can’t see the sky<br />

When you feel the winter in your mind<br />

This is the moment to say bye-bye<br />

Put in your suitcase all your memories,<br />

An old lipstick, a gift from your relatives<br />

Your first kiss, too many tears<br />

A lava lamp, a Bible: sixteen years<br />

You must remember that nothing is forever<br />

Suddenly you can become a stranger<br />

Don’t panic, but pay attention to your shoulder<br />

Also your brother can become your murderer.<br />

THE MOMENT TO SAY GOODBAY<br />

Lucia Fabaro, I B<br />

53


I watch you with my lonely corrupted heart<br />

thinkin’ of the million shining stars,<br />

terrified by the incredible universe depth<br />

where your own light is my only rest.<br />

So I shout, cry and swear,<br />

thinkin’ of my unuseful plain<br />

of an incredible and terrible mankind,<br />

because the perfect image is only in your mind.<br />

No one place deserves your sweet presence,<br />

full of dark clouds and deadly disease<br />

so far from my defence:<br />

and I know my high position can’t have more,<br />

but now you shine my ghost<br />

with your perfect power of love.<br />

YOUR SHINING PRESENCE<br />

Francesco Perrone, <strong>II</strong> F<br />

54


Trembling earth<br />

strong tremors<br />

shouting babies<br />

yelling women…<br />

Panic!<br />

Panic!<br />

That’s the power of the earth…<br />

Houses falling,<br />

cars crashing,<br />

men saving their families…<br />

shaking ground…<br />

Panic!<br />

Panic!<br />

That’s the power of the earth…<br />

Losing all you created,<br />

A whole life flashes by<br />

as fast as the wind blows…<br />

Memories, photos, moments<br />

the safety of your home<br />

last, gone, vanishing in front of your eyes<br />

helpless, powerless…<br />

Panic!<br />

Panic!<br />

Lives lost, buried under the rubble!<br />

EARTHQUAKE<br />

Ludovica Manfredonia, V D<br />

55


CONCLUSIONI<br />

La sfida della scrittura<br />

Constatare che tanti giovani scrivono, fuori dallo stretto obbligo scolastico e quindi per<br />

libera scelta, è già di per sé un bel successo. Scrivono per raccontare e raccontarsi evidentemente<br />

convinti anche loro, come Luigi Pirandello, che “la vita la si vive o la si scrive”. Certo sono tante le<br />

considerazioni che si possono fare: che la nostra società ama più parlare che scrivere (forse perché<br />

“scripta manent” e “verba volant”, quindi ci si compromette di meno?); che quando si scrive si è<br />

troppo veloci e sintetici; che i giovani, per via di computer, internet e posta elettronica, usano un<br />

lessico più tecnologico che letterario. Al di là delle forme e dei “mezzi” impiegati, contano tuttavia i<br />

contenuti. “Scrivere è il mio destino”, diceva Matilde Serao. Scrivere è la verifica più importante e<br />

la sfida più impegnativa che una persona possa accettare. Ognuno, senza doversi giustificare,<br />

utilizza però gli strumenti del proprio tempo. Appare perciò sterile incolpare la tecnologia della<br />

comunicazione che oggi ha raggiunto livelli molto alti di sofisticazione.<br />

Sembrerebbe scandaloso pensare a una Divina Commedia non scritta a mano, ma “digitata”<br />

da Dante? Sicuramente forma e contenuto dovrebbero coincidere sempre. Ma se si dovesse fare una<br />

scelta? Probabilmente verrebbe “opzionato” di più il contenuto. Importante è esercitare un rigoroso<br />

autocontrollo per evitare sciatterie, inutili violenze lessicali, contaminazioni non necessarie. Un<br />

significativo passo in avanti è stato certamente compiuto quando è stata data la possibilità, agli<br />

esami di maturità, di scrivere non più soltanto secondo la forma tradizionale del “tema”, ma<br />

secondo la innovativa forma dell’articolo di giornale o del servizio radiotelevisivo. Una bella prova<br />

di semplificazione e di liberazione della creatività individuale. È ormai del resto acquisito che la<br />

mobilità del linguaggio non è un arbitrio, ma un’esigenza reale che nasce dalla nostra quotidianità.<br />

Non è un caso che ogni edizione dello Zingarelli, anche se a distanza di qualche anno, venga<br />

arricchita di non meno trecento/quattrocento vocaboli nuovi. La spiegazione ci viene da uno dei<br />

Pensieri di Giacomo Leopardi: “Una lingua non avrà più mestieri di accrescimento solo quando o<br />

essa o il mondo sarà finito”. I giovani che scrivono rappresentano il miglior segno di continuità e la<br />

più incoraggiante apertura verso il futuro.<br />

Ermanno Corsi<br />

Giornalista<br />

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