La bella galiana - Pier Isa Della Rupe Racconti e poesia
La bella galiana - Pier Isa Della Rupe Racconti e poesia
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PIER ISA DELLA RUPE<br />
LA BELLA GALIANA
Non sa la nuvola dove la porta il vento, né il papavero sa dove<br />
cadrà il suo polline.<br />
In tempi antichissimi, sulle rive del Paradosso, torrente che<br />
scorre a Viterbo, c’era un masso enorme nel quale era piantata una<br />
lunga catena. I nostri barbari padri, che erano venuti da Troia<br />
assieme con Enea, per ricordo della patria lontana, mantenevano<br />
lungo le rive di quel torrente una troia bianca, la quale era<br />
considerata Sacra, perché dedicata alla <strong>bella</strong> Elena. Ogni anno, un<br />
certo giorno, era legata nuda a quella catena una fanciulla<br />
viterbese tratta a sorte dai sacerdoti, affinché fosse divorata<br />
dalla troia come vittima offerta alla dea Elena.<br />
Ma un giorno nacque a Viterbo la più <strong>bella</strong> creatura che si<br />
fosse vista al mondo, le fu dato il nome di Galiana…<br />
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E' il giorno avanti la domenica, la campana di Santa Maria in<br />
Gradi, chiama i fedeli a raccolta per i vespri. I lenti rintocchi<br />
risuonano fino al lontano quartiere di Piano Scarano. E’ l’ora del<br />
crepuscolo e mentre sta abbuiando, tira un leggero vento da nord –<br />
est.<br />
Dal suo bellissimo e signorile palazzo, il conte Andrea Galiano<br />
dell'Acqua Zita quasi non respira ascoltando i ripetuti, ossessivi<br />
tocchi che sembrano un annuncio di morte.<br />
Lentamente passa una mano nervosa sui capelli grigi, arricciati<br />
e scapigliati, la barba pure essa grigia e ricciuta, è incolta. <strong>La</strong><br />
fronte corrucciata, le labbra livide quasi che tutta la stanchezza<br />
della vita si fosse riversata all’improvviso sulle sue spalle<br />
curve, solo il volto rimane immobile, duro, bianco come fosse<br />
scolpito nel marmo. Indossa una candita tunica di lino<br />
splendidamente ricamata, dalle spalle fino ai calcagni gli scende<br />
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morbida un’ampia sopravveste scarlatta. In mano tiene un libro<br />
sacro e raro: chiuso da una serratura cesellata, scritto con una<br />
calligrafia arcana, ha il frontespizio disegnato con figure<br />
d’animali, ma il conte, non riesce ad aprirlo, non riesce a<br />
scrivere né a leggere né a pensare, per tutto il giorno ha vagato<br />
come uno spettro di salone in salone frugando ogni stanza, ogni<br />
angolo, ogni nicchia dell’antico e vasto palazzo senza sapere in<br />
realtà cosa cercare e adesso, tutte le incertezze lo hanno<br />
ripreso. Pure se vorrebbe urlare: tace. Ma la sua mitezza è solo<br />
un’ingannevole apparenza, il conte Andrea Galiano, pronipote del<br />
grande Enea, quando vuole qualcosa, sa bene come ottenerla. Alto e<br />
maestoso, nasconde i suoi accessi di collera formidabile sotto un<br />
velo di calma apparente. Per un momento solo, siede sopra l’ampio<br />
scanno con lo schienale scolpito e il sedile ricoperto da una<br />
pelle d’orso, ma poi, nervoso, con un forte ronzio nelle orecchie,<br />
subito si rialza, versa dell’altro vino nella coppa, ma non beve,<br />
come in trance, lentamente attraversa per l’ennesima volta il<br />
grande salone affrescato fino al soffitto con scene mitologiche e<br />
pastorali. Andrea Galiano, che s’intende molto di pittura, non le<br />
guarda neanche, inseguendo la sua pena, s’avvicina alla finestra,<br />
posa il libro sopra il tavolo di legno di bosso intarsiato<br />
d’avorio e, con la coppa in mano, resta ritto dietro i vetri<br />
appannati sentendosi morire. Fissa disperato lo stipite del<br />
balcone ricoperto di bava di ragno e, mentre contempla l'insetto<br />
che immobile aspetta la preda appeso al filo della sua tela, non<br />
può fare a meno di pensare che quella ragnatela d’argento, così<br />
elegante e tanto <strong>bella</strong>, pure essa altro non è che una trappola di<br />
morte. Poi, subito dimentico del ragno e della ragnatela, rientra<br />
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disperato in quell'uragano che lo sconvolge strappandogli l'anima,<br />
così torna a guardare con occhi sbarrati senza vederlo il<br />
paesaggio di sempre.<br />
Anche se l'inverno col suo gelo se ne sta andando, anche se<br />
l’ape rossa già s’è svegliata, il conte si sente raggelare come<br />
sotto un cumulo di neve, forti brividi lo colgono, ma non<br />
s’accosta al camino che pure scoppietta allegro, non bada alle<br />
fiamme rosa – azzurre che ardono danzando. Lui va e viene sempre<br />
con la stessa andatura monotona e lugubre che rimbomba sul<br />
pavimento di marmi neri e bianchi. I suoi passi ripetuti e<br />
interminabili, echeggiano per tutto il palazzo come il gemito<br />
incessante della ruota del vicino mulino.<br />
L’unico svago della mente è tornare a guardare lo splendido<br />
giardino che si allunga dall’ampia loggia del salone aperta a<br />
levante, degradando fino ai piedi del pendio.<br />
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A quell’ora, il giardiniere e il fontaniere, dopo aver potano i<br />
cespugli del roseto, del melograno nano e le altre mille intrigate<br />
siepi, dopo aver curato tutte le aiuole ricche di peonie e gigli<br />
pronti a fiorire, dopo aver pulito le grotte e le nicchie del<br />
ninfeo con la monumentale fontana delle carpe, la vasca di<br />
conserva delle acque con al centro la testa bifronte di Giano,<br />
salendo e scendendo all’infinito l’enorme scenografica scalea per<br />
accudire come sempre ogni terrazza, ogni angolo del parco, riposti<br />
gli attrezzi di lavoro, finalmente i servi ritornano a casa.<br />
Rannicchiato nel suo dolore, il conte continua ad osservare lo<br />
sgorgare dell’acqua dalle bocche delle tante figure in pietra,<br />
potesse anche lui come quell’acqua che zampillando fugge, potesse<br />
anche lui scappare via dal suo dolore. Invece, dalla paura non<br />
riesce a muovere neanche un‘unghia, quella paura che gli volteggia<br />
intorno come un avvoltoio sopra un cadavere, segue i suoi passi<br />
senza mai abbandonarlo.<br />
Immobile dietro i vetri, contempla e ricontempla l’ultimo<br />
raggio di sole che brilla da sotto le nuvole bordando d’oro ogni<br />
tenero germoglio dell’unica pianta di mandorlo che, già in fiore,<br />
s’arrampica sulla loggia e pare ricamata soprapposta a<br />
quell'incantevole selva di torri e campanili di pietra vulcanica<br />
che sbordano oltre la folta parete verde di bosso e tasso. Dentro<br />
i boccioli rigogliosi e rigonfi del mandorlo, se ne stanno<br />
pigramente affondati i pistilli dal colore della terra appena<br />
arata e, mentre si offrono al sole, sorridono beffardi alla neve<br />
che ancora ammanta la catena dei monti Cimini, dondolando<br />
oziosamente il capo pare sussurrino: presto, prima di presto<br />
arriverà la primavera. Intanto nell’aria, dentro un cielo terso,<br />
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teso come una tela di pittore senza un’ombra, senza una nuvola,<br />
dove tutto sembra immobile, alcuni petali del fiore del mandorlo<br />
galleggiano nell’aria volando come le foglie di una sibilla ad<br />
urlare la verità nascosta.<br />
Forse sanno i candidi fiori che la prima stagione porta con sé<br />
il rito infame e quella primavera sarà la più terribile di tutte.<br />
Anche se nessuno ha osato comunicargli l'orribile notizia, il<br />
conte ha capito: dal silenzio silente della servitù, dagli occhi<br />
perennemente rossi di pianto della fidata nutrice Rachele,<br />
dall'incedere mesto del suo vecchio stalliere Meleagro di Pelacane<br />
che, rannicchiato nella giubba nera, pare nascondersi un palmo<br />
sotto terra. Da questi segni, ma, soprattutto da una fredda<br />
occhiata lanciatagli a piazza del Duomo dal grande saggio, da<br />
quell’occhiata, il conte, mentre sentiva scorrere un brivido<br />
freddo lungo la schiena e il sangue raggelarsi, ha capito: non<br />
deve attendere oltre l’annuncio del corvo, l’angoscia era scritta<br />
chiaramente negli occhi di ognuno e, a poco a poco, ha dovuto<br />
arrendersi alla tremenda realtà.<br />
nata.<br />
<strong>La</strong> sorte lo vuole derubare di sua figlia, la prima ed unica<br />
Il boia sta già forgiando le catene e la morte, batte col suo<br />
martello sull’incudine il nome della vergine diciottenne destinata<br />
dal fato tra le più belle e virtuose fanciulle della città.<br />
Galiana: è quello il nome che la morte cesella col fuoco. Sarà lei<br />
la martire, lei sarà braccata come un cerbiatto per poi essere<br />
sbranata dalla famelica troia bianca nell'orribile rito del pasto<br />
Sacro.<br />
8<br />
Ogni anno i grandi saggi, nel giorno degli idi di marzo,
sorteggiano una giovane; una volta prescelta, la fanciulla è<br />
considerata Sacra e il suo destino non può più essere modificato.<br />
<strong>La</strong> troia bianca è una gigantesca creatura orribilmente<br />
fantastica: ha il corpo tozzo e corto, le zampe di cavallo, gli<br />
zoccoli pelosi di capra, cammina sia ritta sia carponi sferzando<br />
continuamente la lunga coda. <strong>La</strong> pelle: squamata per tutto il<br />
corpo, è bianca come latte, la testa camusa ricorda un'infinità<br />
d'animali senza esserne alcuno. <strong>La</strong> bocca crudele, è contorta in<br />
un'orribile perpetua smorfia, gli occhi ricordano le fiamme dei<br />
dannati e, quando essa corre, trema la terra, l'erba smette di<br />
respirare, si fermano le nuvole nel cielo.<br />
Nel momento supremo del sacrificio, quell’animale, più che<br />
complice del boia, è il boia stesso. Parrebbe che capisca, che<br />
abbia una fantasia malefica, non solo ingoia, divora la carne<br />
della vittima bevendo il suo sangue, ma sembra vivere d’attesa.<br />
Una lunga spaventosa attesa fatta di stagioni, settimane, giorni,<br />
un'attesa per portare puntualmente la tragica morte. Per il resto<br />
dell’anno quel demonio sparisce inghiottito dal nulla per poi<br />
riapparire nel preciso istante del sacrificio.<br />
Già da due lune il conte sfogliando nervosamente il calendario,<br />
si fermava inorridito sulla pagina di marzo. Provava un forte<br />
terrore presagendo come ogni anno il ritorno di quel rito così<br />
barbaro. Quel rito che gli pesava sul petto eguale ad un macigno,<br />
oramai era solo un avanzo di storia dove lui non si riconosceva.<br />
Ogni volta soffriva in quel maledetto giorno e ogni volta tentava<br />
di opporsi, ma i grandi saggi pretendevano di mandare regolarmente<br />
al supplizio il fiore più bello del giardino, il fiore appena<br />
sbocciato per quietare l'essere orrendo e venerare così la<br />
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ellissima dea Elena. Lui aveva sempre pensato che fosse solo una<br />
favola la storia della dea Elena: nata da un uovo di cigno e poi<br />
trasformata in stella. Quando era piccolo, l’aveva sentita narrare<br />
mille volte e adesso, per quella leggenda, sua figlia Galiana deve<br />
morire. Come a cercare aiuto, si volta a guardare con gli occhi<br />
verdi, dilatati dalla paura, un cimelio antico situato al centro<br />
della stanza, quell’arnese di guerra, ricordo del passato,<br />
poggiato sopra un cuscino di seta come una reliquia, tramandato<br />
gelosamente dalla madre al primo figlio da generazione in<br />
generazione, è l’elmo con cui Enea ha combattuto il nemico.<br />
Aveva amato ogni granello di polvere di quell’elmo. In preda<br />
all’emozione dei ricordi, con gli occhi lucidi, si lascia<br />
scivolare sul pavimento dell’antico salone che si apre sul<br />
loggiato e, tremando, s’inginocchia avanti a quel frammento<br />
d’armatura. Contempla e accarezza ogni foro, ogni angolo, la mano<br />
vola leggera sulla superficie appuntita, le dita tremanti palpano<br />
i rilievi corrosi dalla ruggine scarlatta. Al conte Andrea<br />
Galiano, basta appena socchiudere un poco le palpebre stanche per<br />
vedere Enea: principe di Troia, figlio di Anchise e di Afrodite,<br />
avanzare con l’elmo adorno di candide piume di cigno.<br />
Il grande condottiero assediato tra le mura e il fossato,<br />
avanza incontro al nemico con il pennacchio che ondeggia<br />
fiammeggiando sul capo divino. Risplende di luce la criniera e,<br />
mentre solleva con la mano sinistra lo scudo d’oro per ripararsi<br />
dai dardi, questo, rimanda bagliori accecanti... Enea, guerriero<br />
di stirpe divina, dotato di straordinaria forza e ardimento, in<br />
una superba giornata, mentre il cuore gli schianta dentro la<br />
corazza infuocata, avanza con furore incontro al nemico con gli<br />
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occhi fiammeggianti eguale a Marte, eguale al dio della guerra. Il<br />
conte lo vede intanto che allertato da un coro di Ninfe, veglia al<br />
timone, governa la nave, allenta le scotte delle vele e, mentre il<br />
carro della luna si alza nel cielo, lui, già solca il mare con la<br />
prora di bronzo volando sulle onde impazzite… Lo rivede quando<br />
uccide Emonide sacerdote di Febo. Emonide con l’infula sacra sul<br />
capo, la veste splendente, le armi scintillanti, fugge per la<br />
scarpata nel vano tentativo di salvarsi. Enea l’insegue, quando il<br />
sacerdote sdrucciola e cade, lo raggiunge, l’assalta, l’aiuta a<br />
rialzarsi e, mulinando la spada sguainata che scintilla nel sole,<br />
subito inizia una lotta furibonda all’ultimo sangue finché Enea,<br />
copre per sempre il nemico con l’ombra immensa della cresta<br />
piumosa del suo elmo.<br />
Quanto aveva amato la storia dei suoi antichi padri forti e<br />
valorosi, dalle divine origini, venuti dalla lontana, mitica città<br />
di Troia che, dopo un lungo assedio, era stata occupata e<br />
distrutta. Erano fior di guerrieri che avevano perduto tutto<br />
durante la battaglia, così cadute le mura dell'antica città,<br />
mentre questa era divorata dalle fiamme, gli eroi superstiti<br />
l'abbandonarono e protetti dalla pietà della splendente Elena<br />
incominciarono le peregrinazioni.<br />
Nell’isola di Creta, ai piedi del monte Ida i compagni si<br />
radunarono, costruirono una flotta, spiegarono le vele e andarono<br />
errando, sospinti dal vento del destino per la via del mare in<br />
cerca di una nuova patria verso occidente. Per sette anni con le<br />
navi sballottate, sconquassate dalle onde vagarono per i mari del<br />
Mediterraneo. Nel lungo viaggio, delle venti navi salpate, molte<br />
si dispersero, alcune spinte dalle negre tempeste, con i remi<br />
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ormai spezzati e le vele ridotte a brandelli, furono scagliate<br />
contro le rupi dei Ciclopi dal vento e dalle onde impazzite,<br />
altre, flagellate dal furore di Scilla, si arenarono nella<br />
scogliera calabra. Solo poche toccarono le insidiose isole Eolie<br />
dove all’improvviso, di giorno e di notte, il mare bollente,<br />
apriva le sue mille e più bocche infernali vomitando a tradimento<br />
fiamme e fumo, finché, sfiniti dalle terribili navigazioni, con le<br />
vele lacerate da cavalloni inferociti, le navi superstiti,<br />
approdarono finalmente sulle tranquille spiagge della Tuscia.<br />
Non seppe mai nessuno, quale ragione avesse spinto le navi dei<br />
fieri Troiani, ad entrare in quel lido. Sia stato un errore di<br />
rotta, una tempesta o una stella benigna, non vi fu mai la<br />
risposta, ma, appena i Dardanidi con le ossa rotte dalle fatiche<br />
scesero a terra, la prima cosa che cercarono con gli occhi<br />
infiammati, offesi, bruciati dal riverbero del sole sull’acqua del<br />
profondo mare, dopo aver passato tanto tempo senza aver visto<br />
neanche un filo d’erba, la prima cosa che cercarono fu il verde<br />
delle colline lontane che chiudevano la vallata all'orizzonte.<br />
Sullo sfondo di un cielo blu - oro, spuntava una linea di montagne<br />
trasparenti e, avanti la selva, una fertile pianura di terra rossa<br />
con immense, bionde distese di grano che ardevano nel sole. Quel<br />
paesaggio nobile e grandioso, avvolto in un silenzio senza tempo,<br />
era rotto di tanto in tanto solo dal tintinnio di una campanella<br />
al collo di un montone. Agli antichi padri esiliati, provenienti<br />
da spiagge barbare, dopo che avevano tratto a riva la flotta<br />
sconquassata, con i cento remi che avevano percosso le onde<br />
spumeggianti consumandosi fino all’inverosimile: ormai quei pezzi<br />
di legno erano solo un opaco ricordo della splendida selva nel<br />
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cuore del Sacro bosco dell’Ida dove erano stati scolpiti, agli<br />
antichi padri; quella terra di tufi dorati, di nenfro e peperino<br />
bigio, terra ricca di macchie negre di lecci, quella terra dove<br />
regnava un paesaggio senza tempo con le colline di sogno, calme e<br />
tacite, sembrò molto più <strong>bella</strong> del paradiso!<br />
Sognando già di mordere con le labbra esiliate: more, uva e<br />
miele selvatico, offerte da Faune e Ninfe che certamente abitavano<br />
quei boschi, sognando poi di sdraiarsi assieme a loro sull’erba<br />
tenera con le braccia incrociate sotto la testa a contare le<br />
stelle, gli antichi, felici come fanciulli, s’inoltrarono in<br />
quella madre terra. Attraversarono un boschetto di cornioli, dove<br />
in fondo alla valle serpeggiava un fiume sormontato da un vecchio<br />
ponte a dorso. Il fiume, era costeggiato da una fitta macchia di<br />
maestose querce gigantesche. Appena si fermarono, prima<br />
d’incontrare le tribù indigene del <strong>La</strong>zio, alcune delle quali erano<br />
ancora selvagge creature che non sapevano attaccare i bovi<br />
all’aratro, gli antichi, appena si fermarono, in un subito da<br />
sotto la macchia videro sbucare come se fosse stata partorita dai<br />
tronchi durissimi di quercia, videro sbucare un’enorme bestia<br />
bianca, così candida che abbagliava la vista. Tanto mostruosa e<br />
terrificante da apparire agli occhi dei naufraghi stanchi il segno<br />
che aspettavano!<br />
Più volte Enea, durante il lungo viaggio, mentre contemplava le<br />
stelle che servivano a regolare la navigazione, aveva avuto delle<br />
visioni. Una volta, erano le prime ore della notte quando si<br />
svegliò di soprassalto e vide il disco della luna nel suo massimo<br />
splendore, emergere dai flutti del mare e, subito accanto, candida<br />
come la luna gli apparve una gigantesca bestia dal vello bianco<br />
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che gli indicava il sito dove riposarsi dopo le tante fatiche sul<br />
mare e dove, finalmente, al riparo di tutto, poteva costruire una<br />
grande città. In quel luogo la stirpe di Enea: i suoi figli, i<br />
figli dei suoi figli, avrebbero dominato un impero dentro uno<br />
spazio immenso di terra e di mare. Sì! Avrebbero costruito una<br />
città forte, protetta da altissime e spesse mura, con<br />
centonovantasette superbe torri che dovevano competere e<br />
gareggiare con le altezze del cielo. Insomma, una città fra tutte<br />
le città della terra la cui fama sarebbe arrivata alle stelle.<br />
Confondendo quell'animale con il gigante leggendario del<br />
sogno, gli antenati Troiani, sfiniti dal lunghissimo viaggio e<br />
dalle migrazioni, presero a venerarlo come fosse un dio, finché il<br />
grande sacerdote lo consacrò nominandolo guardiano Sacro di quel<br />
sito, dedicandolo alla <strong>bella</strong> Elena. Infine Enea, osservando le<br />
tremende sferzate della coda di quel mostro, decise di costruire<br />
la nuova città all’ombra delle sue fauci spalancate.<br />
Scattò così, come nella tela del ragno, la trappola della<br />
morte. Posata la prima pietra, per quietare quella bestia ormai<br />
Sacra, l'oracolo suggerì di saziarla con carne umana offrendo il<br />
sacrificio alla dea Elena. Gli antichi scelsero una vergine, la<br />
più <strong>bella</strong> tra tutte le fanciulle: la denudarono, la incatenarono<br />
ad un masso e la lasciarono alla bestia. Quello fu solo il primo<br />
anello della terribile catena, poiché ogni anno nel medesimo<br />
giorno, essa ritorna fuori della selva e con la sua voce roca,<br />
colma di tracotanza, reclama con ululati orribili una giovane<br />
vittima in un perpetuo allucinante.<br />
Quella storia terribile dalle pagine tarlate, strappata a<br />
forza alla polvere dell’antico oblio, il conte la ripudia, per la<br />
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prima volta si sente straniero nella sua città, forestiero tra la<br />
sua gente. A cosa è servito scampare al flagello della guerra di<br />
Troia, fuggire attraverso le fiamme dei greci, superare tanti<br />
pericoli sul mare e sulla terra alla ricerca del <strong>La</strong>zio? A che<br />
serve essere potente: avere rendite, cavalli, carrozze, servitori<br />
e tutte le cose più belle della vita? Che serve aiutare i poveri,<br />
gli orfani, se mentre lui continuerà a vivere onorato e<br />
rispettato, la carne della sua carne sarà trascinata a forza dal<br />
boia in un bagno di sangue? Non sarebbe stato meglio se gli<br />
antenati, fossero rimasti sui campi di Troia sulle ultime ceneri<br />
della patria tanto amata piuttosto che quel supplizio continuo di<br />
vergini innocenti? A qualsiasi idea si appiglia, inevitabilmente<br />
vede avanti a sé la morte venire all’appuntamento. I grandi saggi<br />
hanno deciso: una parte di lui deve morire. In segno di lutto, il<br />
suo bel palazzo che si erge sul poggio come un castello, presto<br />
sarà ammantato da lenzuola funebri, drappi viola copriranno ogni<br />
angolo, ogni mobile, ogni quadro, ogni statua, si spegneranno le<br />
candele e per tutto il palazzo non ci sarà altro che odore di<br />
morte. Il profumo acre e forte dell’incenso assieme ai gemiti<br />
lugubri dell’organo accompagneranno ogni ora della sua vita.<br />
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Il conte, dovunque si volta, vede un sepolcro, un’agonia. In un<br />
momento solo, con un salto nel buio perderà miseramente il suo<br />
unico amore, la sua unica figlia adorata e la voglia di vivere.<br />
Più ci pensa e più gli si drizzano i capelli, può il destino<br />
essere così crudele e cattivo quasi quanto una creatura<br />
intelligente e diventare mostruoso come il cuore umano? Quell’elmo<br />
che ancora contempla, gli ricorda che i suoi antenati gli hanno<br />
insegnato che morire in battaglia è bello, ma, è altrettanto bello<br />
morire dilaniati da una belva mostruosa ancora prima di aver<br />
vissuto? Per ore, lo sventurato, si dibatte in quel dilemma<br />
angoscioso, per ore si ripete che ogni giorno si perde qualcosa,<br />
ogni giorno c’è da pagare un pegno per attraversare questa valle,<br />
finché, finalmente, infiammato di collera, con il volto più duro<br />
delle vette rocciose dei Cimini, rimette il cimelio al suo posto<br />
e, d’un colpo, si alza deciso ad allontanare da sé quel calice<br />
spaventoso traboccante di tenebre e sangue. Disperato, chiude i<br />
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pugni, più volte colpisce il vetro appannato e come impazzito dal<br />
dolore, vorrebbe urlare con tutte le sue forze, ma il grido rimane<br />
sepolto dentro di lui, fermo, aggrovigliato in un'oscura radice e,<br />
per quanto può urlare un moribondo, con un tenue filo di voce, il<br />
conte Andrea Galiano dell’Acqua Zita, urla:<br />
"No! No! No! <strong>La</strong> mia Galiana no!"<br />
Col volto rigato di lacrime amare cerca di scacciare dall’anima<br />
e dalla mente quella visione orribile: attraverso un velo di<br />
nebbia, vede Galiana fuggire inseguita dalla bestia. Deve<br />
assolutamente trovare un mezzo per salvarla, deve pure esserci un<br />
modo per allontanare da lei Azrael, l’angelo della morte che<br />
aspetta fuori il palazzo con la spada sguainata e le ali dalle<br />
piume azzurre già aperte. Solo uccidendo il “ragno” e distruggendo<br />
per sempre la ragnatela, farà tornare addietro quell’angelo. Nel<br />
suo libro Sacro c’è scritto a lettere di fuoco, che un buon<br />
pastore, deve essere pronto a tutto per proteggere il suo gregge<br />
minacciato dai lupi della notte. Un buon pastore, oltre a rendere<br />
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forti le pecore deboli, curare quelle malate, fasciare le bestie<br />
ferite, cercare le perdute, deve essere pronto a sacrificare la<br />
vita per ognuna di esse. Se un pastore può fare tutto questo per<br />
delle semplici pecore, che non può fare un padre per salvare sua<br />
figlia? Così pazzo di dolore, mentre il cielo sta abbuiando, ad un<br />
tratto si ricorda che il suo vecchio stalliere Meleagro gli ha<br />
raccontato di una tribù di misteriosi nomadi accampati fuori la<br />
porta delle mura. Non erano dei saltimbanchi – mangiafuoco, né<br />
danzatori di piazza poveri e disperati che si guadagnavano la vita<br />
arrangiandosi, magari spaccando bambù e intrecciando canestri, né<br />
falsi profeti che predicavano l'avvenire alla gente e neanche<br />
vivevano ai margini della strada qui o là, morendo poi sulla nuda<br />
terra dove capita capita. L'anziano servo sosteneva che quei<br />
nomadi erano i Figli della Luce, custodivano una tradizione magica<br />
e possedevano poteri soprannaturali. Lui stesso aveva visto una<br />
bellissima giovane eseguire un rito strano e, mentre tutta la<br />
tribù le tamburellava attorno, la giovane innalzava una piccola<br />
pietra al cielo. Certamente quel rito serviva a catturare<br />
l'energia. Meleagro, fermandosi di nascosto, aveva osservato da<br />
vicino la pietra che, riscaldata dai raggi del sole,<br />
straordinariamente sprigionava una sottile misteriosa nuvola di<br />
fumo, mentre i bellissimi capelli della giovane, dal colore delle<br />
foglie d'acacia appena nate, al contatto di quel fumo cangiavano.<br />
Cos’era realmente quella strana pietra? Aveva poteri magici? Il<br />
conte non sa spiegarsi ma, pensando a quei nomadi, sente una tenue<br />
speranza riscaldargli il cuore, come un’attesa per qualcosa che<br />
non sa definire, forse spera che quel popolo misterioso, magari<br />
con un incantamento, possa salvare Galiana in cambio di monete<br />
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d'oro. Nemmeno per un attimo pensa al sacrilegio: i saggi<br />
attendono la vergine Sacra perché è lei e solo lei l'unico pane<br />
per saziare la bestia. Per il conte Andrea, la cosa più importante<br />
è salvare Galiana con qualsiasi mezzo! Non ha in mente che<br />
un’immagine: sua figlia e la bestia, tutto il resto è nero. Più<br />
lui fissa quel pensiero, più sente avvicinarsi fatalmente l'orrore<br />
della fine. Con la stessa angoscia del pastore che, spinto fuori<br />
del letto barcolla alla cieca tra la nebbia e la bufera cercando<br />
disperatamente di recuperare la pecora smarrita, il conte,<br />
conclusa un’alleanza con se stesso, decide di lasciare il palazzo.<br />
Da Rachele manda a chiamare Meleagro, poi ordina al suo<br />
cocchiere, Pippo di Pancotto, di tenere pronti i cavalli e la<br />
carrozza chiusa.<br />
E' buio profondo quando la vecchia carrozza rossa, con le<br />
tendine abbassate, si perde nella notte. Dopo aver percorso<br />
velocemente i vicoli ormai bui, attraversa la piazza con la<br />
Fontana del Sepale, passa avanti la chiesa di San Pietro<br />
19
dell’Olmo, sorpassa il pulpito di Santa Maria Nuova dove ha<br />
predicato Tommaso d’Aquino, s’inoltra per Valle Cupa ed infine<br />
esce dall'antica Porta di Valle, la porta che sorregge col suo<br />
grande arco una delle centonovantasettte torri in difesa della<br />
città.<br />
A quell’ora, i pastori, tutta la gente delle grotte hanno già<br />
rimesso le lucerne e, quando Andrea lasciata Viterbo alle spalle,<br />
lesto, scende dalla carrozza per subito scomparire inghiottito<br />
dalla foschia ovattata è completamente solo. Tutto ravvolto in un<br />
mantello nero, s'inoltra nel colle di Vico Squarano che conduce<br />
all’attendamento dov’è accampata la carovana di nomadi.<br />
Arrivato in cima al colle, procede ancora per cinquanta passi<br />
poi, indeciso, si ferma sotto un albero di ligustro ai bordi della<br />
rupe del Sordo. Contempla a lungo pensoso la sua città: guarda le<br />
mura, i tetti, le imponenti torri merlate che s’innalzano come<br />
giganti preistorici, i campanili che si rizzano fino alle stelle<br />
per poi sprofondare nella notte in un gorgo di nebbia. A quella<br />
vista, uno strano languore cupo e sinistro, avvolge la sua<br />
coscienza, un senso di colpa gli trapassa l’anima al pensiero che,<br />
mentre dentro le case la gente onesta già dorme, lui, fugge<br />
nascondendosi come un ladro. Per un momento pensando alle gesta<br />
eroiche dei suoi antenati, si sente piccolo e sporco. Che cosa sta<br />
accadendo dentro di lui? Cosa spera di trovare da quei nomadi? E’<br />
scivolato nell’oscura caverna dell’ignoto e pure se non ha ancora<br />
deciso nulla, continua a ripetersi che deve andare avanti. Fa<br />
ancora pochi passi poi si ferma di nuovo e, mentre la sua anima<br />
vaga disperata dentro la brezza pungente della notte, chiude per<br />
un attimo gli occhi, poi subito li riapre, indeciso non sa quale<br />
20
sentiero, quale decisione prendere. In realtà il conte Galiano se<br />
potesse, si lascerebbe volentieri scivolare sull’erba umida e<br />
resterebbe lì, raggomitolato per tutta la notte. Intanto che<br />
osserva la silenziosa veste di nebbia che come un manto avvolge le<br />
ore, si aggrappa all’idea che nessuna forza sulla terra può<br />
decidere il destino degli altri, così continua a combattere la sua<br />
battaglia personale ed è ancora al punto di partenza, quando la<br />
campana della torre batte l’ora dei morti. Dopo quel suono tetro e<br />
solitario, il silenzio incalza così pesante che si potrebbe<br />
tagliare con una falce affilata, finché, in quel buio fitto,<br />
dentro quella calma apparente e misteriosa, dalla pianura si alza<br />
soffiando un vento gelido che conficca i suoi aghi nei polmoni e<br />
fa arrestare il cuore.<br />
21
I vicini boschi diventano subito tenebrosi, un fremito leggero<br />
scuote le foglie, la ramaglia si rizza stranamente lugubre, pure i<br />
cespugli d’erba bassa sibilano contorcendosi come tante anguille.<br />
L’oscurità attorno è paurosa. L’uomo, come ogni altra creatura<br />
vivente, ha bisogno di luce, chiunque si sprofondi nell’eclissi<br />
nera della notte, chiunque provi a penetrare le tenebre<br />
indistinte, è preda di un vago terrore, basta il fremito delle ali<br />
di una farfalla a scatenare l’agonia nel cuore. Il conte guardando<br />
da sopra il colle di Vico Squarano che di notte, appare più<br />
spaventoso di una foresta, si chiede: questo, è un luogo deserto<br />
dove qualcuno vive, o è un luogo abitato che sembra deserto?<br />
Mentre si pone la domanda, all’improvviso, vede sfrecciare una<br />
stella filante e, subito, dalla vicina necropoli ad occidente, si<br />
sollevano avanti ai suoi occhi esterrefatti, alcuni cespugli<br />
d’eriche secche che, spinte dal vento, rotolano come se fuggissero<br />
da qualcosa di spaventoso e, in un subito, dentro quella notte<br />
negra come pece, si alzarono, eguali a grandi radici, grossi<br />
grappoli di nuvole livide e basse. <strong>La</strong> voce del vento che spinge<br />
quelle nuvole, assomiglia ad un pianto di fanciullo, a nitriti di<br />
cavalli che passano correndo nella notte, allo stridere di catene<br />
strascinate, a gemiti di morti.<br />
Sbiancato in faccia, vestito di terrore con un freddo brivido<br />
che gli corre nella schiena, il conte, che si è fatto di pietra,<br />
più marmo del marmo, nell’immobilità profonda di tutto il suo<br />
corpo, guarda stralunato, quasi che in lui vivessero soltanto gli<br />
22
occhi, guarda quelle strane nuvole di schiuma che indugiano un<br />
istante sul volto del cielo, poi, come spinte da una bruma leggera<br />
che si alzasse dalla superficie di un lago, volano, eguali a<br />
grandi uccelli fuori della specie e dalla legge di natura. Volano<br />
ammantando stranamente l’orizzonte, finché, a dieci braccia da<br />
lui, come fossero cresciuti all’improvviso nella sua anima, le<br />
nuvole, si aprono piangendo eguali ad oscuri papaveri e, da essi,<br />
fuoriescono soprapposti ai neri profili degli alberi, fuoriescono,<br />
materializzandosi dal nulla, per poi avanzare verso di lui in una<br />
lunga e lenta processione, figure senza sostanza, freddi fantasmi,<br />
ombre vagabonde senza corpo. Sono le martiri, le anime defunte<br />
delle giovanissime fanciulle morte assassinate durante il<br />
terribile rito Sacro, nemmeno nell’aldilà, nemmeno nella morte<br />
quelle anime hanno trovato requie al dolore.<br />
Gli spettri di quella processione, maschere oscure senza occhi,<br />
vengono avanti lentamente dentro un bianco serpente di nuvole.<br />
Vestite di veli candidi e luminosi, le teste inghirlandate di<br />
fiori di campo. Il conte crede di riconoscere, tra la lunga fila<br />
che sorge dalle nubi: Claudica figlia di Menedonte, Oleina di Cola<br />
di Iancane e poi Ropa di Pitruccio di ser Giovanni, Andreuccia di<br />
Paulo di Cavaterra e tante altre vergini tutte scelte negli idi di<br />
marzo dai grandi saggi.<br />
Galiano vede quelle povere ombre piegarsi come le spighe del<br />
grano sulla bocca del vento. Le “spighe”, si accalcano attorno a<br />
lui, a sinistra a destra avanti, dietro, pronte a graffiargli<br />
l’anima, pronte a perdersi dentro di lui come i prigionieri si<br />
perdono dietro le sbarre di ferro.<br />
23<br />
Quelle ombre terrificanti, senza forza, ombre sottili, fatte di
nebbia in figura di fanciulle, avanzano con le braccia spalancate,<br />
braccia che paiono di madreperla trasparente. Braccia che forse,<br />
vorrebbero stringerlo nella morsa della fine. Per tre volte<br />
passano avanti ai suoi occhi atterriti, per tre volte svolazzano<br />
consunti dalla morte attorno a lui finché, Galiano, superato<br />
l’orrore, guardandole con occhi luccicanti riesce a chiedere:<br />
“Perché creature innocenti, siete tornate dal mondo degli<br />
spiriti? Per dividere con me l’amarezza del vostro inutile<br />
sacrificio o per rimproverare la mia debolezza? Io come tanti<br />
altri ho lasciato morire angeli come voi in nome di niente.<br />
Potrete mai perdonarmi, potranno mai le mie lacrime saziare il<br />
vostro dolore?”<br />
Per tutta risposta le anime finalmente s’infrangono come onde<br />
del mare sul suo petto per poi lentamente arrampicarsi al suo<br />
dolore come tralci d’edera, ma prima d’annidarsi nella bruma della<br />
notte per disperdersi assieme al soffio del vento, prima di<br />
scomparire nella notte buia, con una voce debole senza respiro,<br />
una voce simile all’eco che ritorna da valli lontane, le ombre,<br />
sussurrarono in coro al suo orecchio:<br />
“Se è vero che vuoi essere perdonato, se hai pena di noi,<br />
diventa il nostro pastore e vendicaci! Non permettere alla bestia<br />
feroce di divorare ancora le pecore del tuo gregge. Vendica ogni<br />
lacrima versata dai nostri occhi vuoti. Vendicaci! Vendicaci”<br />
Vendicaci! Quella parola da sola, basta a scavare pozzi<br />
profondi e tremendi.<br />
Il conte Galiano, pure se non crede ai presagi, infatti, fino<br />
ad ora non aveva mai prestato fede ai prodigi, ma in quella notte<br />
dove manco il cielo e la terra sembrano trovare pace, in quella<br />
24
notte dove le tombe vomitano i loro morti, ha paura.<br />
Immobile resta come liquefatto dal terrore. Il sangue gelato, i<br />
capelli dritti, mentre continua a toccarsi il petto come fosse<br />
stato trafitto da uno stormo di frecce avvelenate, si chiede: cosa<br />
sono queste apparizioni? Angeli, demoni, attimi d’eternità che<br />
ritornano? Ma se non è stata la mia stanchezza a creare quelle<br />
forme, la vita terrena e tutto quello che essa racchiude dunque è<br />
solo un sogno, un sogno nell'attesa del risveglio. Nient’altro che<br />
quello che noi chiamiamo morte. Se così è, quel formicaio di Mani,<br />
quelle povere anime di fanciulle defunte che camminavano<br />
nell’oscurità, non erano solo un leggero soffio d’aria, bocche<br />
spalancate che riaffioravano dal passato nascondendosi nel<br />
labirinto della mia mente. Esse erano e sono, realtà.<br />
Se il conte potesse afferrare quelle ombre capaci di<br />
offuscargli la ragione, ombre che corrono senza lasciare impronte<br />
sull’erba ma lo fanno vacillare, se solo potesse inseguire il<br />
flutto che le ha risucchiate, forse, potrebbe farsi indicare da<br />
loro la strada da seguire perché… non invano le tombe restano<br />
vuote, non invano i minuscoli spiriti appaiono alla luce della<br />
luna, non invano i morti, avvolti nei loro sudari, si rizzano per<br />
vagare gemendo come nel giorno del giudizio.<br />
Galiano, conosce abbastanza il mondo da sapere che sia i<br />
paurosi sia i vigliacchi, muoiono mille volte al giorno, sa pure<br />
che a quell’ora della notte, può accadere di tutto: le terribili<br />
streghe del Montecchio, capaci persino di fermare la luna e fare<br />
alzare o abbassare la marea, se vogliono, possono compiere<br />
qualsiasi sortilegio e, mille e più prodigi. Sa pure che ogni<br />
notte ha i suoi spettri, spettri che illudono i sensi addormentati<br />
25
e forse, quella bianca schiuma che viaggiava col vento, senza<br />
sostanza e peso, più leggera delle orme dei gabbiani sulla<br />
spiaggia, quella schiuma livida che ronzava nel suo orecchio<br />
incitandolo alla vendetta, forse non è esistita altro che nella<br />
sua mente. Ma se aveva bisogno di un segno per convincersi a<br />
continuare la sua battaglia, adesso, dopo aver assistito alla<br />
processione degli spiriti erranti, completamente sconvolto, con un<br />
sudore gelido che gli bagna la fronte si decide: deve<br />
assolutamente cavarsi da quell’incubo spaventoso, deve<br />
assolutamente distruggere per sempre la bestia malefica.<br />
Barcollando, rischiando più volte di precipitare nel fondo<br />
della rupe scoscesa del Sordo, fugge e, nel farlo, intruppa ad<br />
ogni più piccolo ostacolo. Fugge il conte Galiano, fugge<br />
disperato, quasi fosse inseguito dalla morte stessa e nel farlo si<br />
chiede:<br />
“Dove vado? Perché fuggo, da chi? Quale sorte mi aspetta? Se<br />
quelle ombre erano delle bolle d’aria, dove sono svanite? Sono<br />
state veramente qui, oppure ho mangiato la radice insana che fa<br />
prigioniera la mente? ”<br />
Piangendo giunge le mani implorando le stelle: “Voi stelle, che<br />
tutto vedete, che tutto potete, abbiate pietà di me, sbattetemi<br />
pure contro le rupi, lasciatemi morire abbracciato ad uno scoglio,<br />
ma prima fatemi salvate mia figlia, prima di morire devo salvare<br />
Galiana.”<br />
Con occhi cechi, attraversa a guado il fosso, entra negli orti,<br />
nei campi, si trascina bocconi sotto una densa fratta, trapassa la<br />
macchia di cerri, percorre la profonda inquietante Tagliata<br />
Etrusca, scavalca delle staccionate e finalmente vede in<br />
26
lontananza, una sottile colonna di fumo torcersi nell’aria, quando<br />
infine arriva in un terreno abbandonato circondato da un canneto,<br />
con un forte batticuore s’accorge d’essere arrivato nella tana dei<br />
nomadi.<br />
Più silenzioso degli spettri delle fanciulle, il conte,<br />
s’avvicina al pittoresco bivacco: un grande fuoco e basse<br />
costruzioni ricavate da bambù ricoperte di foglie di canne e pezzi<br />
di stoffa. Per tradizione i nomadi vivono all’aperto, niente case,<br />
niente grotte, niente di niente, solo la notte sgusciano sotto<br />
quei fragili ripari per dormire. Andrea arriva fino a pochi passi<br />
dal fuoco dove la piccola tribù è in contemplazione: un fumo denso<br />
e livido si contorce serpeggiando in una lenta spirale mentre un<br />
odore acre emana dalle erbe che bruciano in un braciere. Protetto<br />
dal buio, il conte si nasconde dietro un grande albero d'ulivo e<br />
resta a guardare quei nomadi che adorano il sole: signore delle<br />
tenebre e centro di tutto.<br />
<strong>La</strong> tribù è seduta in cerchio attorno ad una grande vecchia che<br />
ha un enorme cespuglio di bianchi capelli inanellati. Poggiato a<br />
terra, uno scrigno di quercia rivestito di ferro colmo di semi di<br />
papavero e chicchi di melograno. <strong>La</strong> vecchia accanto al fuoco in<br />
contemplazione astrale, ha sulla fronte un sole tatuato, indossa<br />
una tunica di pelle color paglia. Sul petto tiene una montagna<br />
d'amuleti e, poggiato sopra le cosce, un grande bacile di coccio<br />
in cui sono sparpagliati semi di papavero e chicchi di melograno.<br />
Uno strano alone divino corre sul volto di quella donna anziana:<br />
Grande Madre Vergine della tribù e Signora della Luce nella forma<br />
vivente.<br />
27<br />
I nomadi guardano estasiati i suoi occhi colore della notte
dove corrono stupendi cavalli bianchi. Occhi neri, selvaggi, che<br />
hanno visto i candidi gigli crescere ignari di tutto sulla sabbia<br />
del mare, hanno visto l’erica marina ridere al sole offrendo alla<br />
brezza i suoi delicati fiori a corolla. Quegli occhi che hanno<br />
visto tutto, raccontano pure che, sia i candidi gigli, come i<br />
fiori dell’erica non vivono che qualche ora.<br />
Passato lo stupore iniziale, il conte decide di cercare la<br />
bellissima giovane, quella che danzando nel sole di mezzogiorno ha<br />
incantato così tanto Meleagro; è sicuro che saprà riconoscerla: il<br />
servo gli ha descritto il colore dei capelli e la veste che<br />
indossa.<br />
Non la vede subito, c'è molto fumo, ma testardo continua a<br />
cercare e mentre gli occhi si abituano sempre più all'oscurità, ad<br />
un tratto, dal nulla emerge una figura fantastica… <strong>La</strong> riconosce<br />
all’istante! E’ lei! E’ suo quel bellissimo volto dall’ovale<br />
perfetto: i grandi occhi dal taglio leggermente a mandorla,<br />
risplendono ai guizzi della fiamma.<br />
<strong>La</strong> giovane, sdraiata sopra una pelle di caprone è più addietro<br />
degli altri, fuori del cerchio magico. Guarda la grande vecchia<br />
con pupille brucianti. Indossa la veste colore arancio, guarnita<br />
con nastri di velluto nero descritta così bene da Meleagro, sotto<br />
la veste, fa capolino un indumento bianco orlato di merletti<br />
ricamati e, sopra i seni rotondi: niente. Le ciocche disordinate<br />
dei capelli dall’incredibile colore delle foglie d’acacia appena<br />
nate, le ricadono arricciandosi attorno alle tempie, alcune<br />
sfiorano le sopracciglia, altre, scendono sul collo mentre si<br />
accendono di bagliori al riflesso della luna. Una fascia<br />
scarlatta, ricamata con disegni astrali, legata a lato della<br />
28
fronte, cerca invano di fermare quei riccioli che danzano liberi<br />
nell'aria sospinti dal fumo. Il conte perso dentro quel mondo<br />
misterioso che lo attira come un magnete, è pronto per iniziare un<br />
viaggio forse senza ritorno dove il tempo potrebbe fermarsi, anzi,<br />
già s’è fermato se lui, dimentico di tutto si è smarrito solo<br />
guardando la fanciulla. Il poco fumo che ha respirato, come fosse<br />
una droga subito gli dà le vertigini: la testa gli gira, fatica a<br />
deglutire. Il profumo fortissimo delle erbe bruciate è inebriante<br />
e sensuale, sta vivendo una realtà o un’immaginazione? Incantato,<br />
mentre osserva tutto, vede un giovane con i capelli intrecciati in<br />
mille piccole trecce che alzatosi, stacca delle foglie da un<br />
albero d'alloro e, masticandole, comincia a girare vorticosamente<br />
come fosse posseduto da un’energia divina, finché sfinito, si<br />
sdraia in terra e dopo un attimo di quiete inizia a suonare la<br />
lira.<br />
Al suono seducente di quello strumento ricavato dal guscio di<br />
tartaruga, altri giovani prendono a suonare finché, lenti e gravi<br />
colpi di tamburo rullando, entrano nel petto di ognuno sovrastando<br />
ogni cosa. Per tutta la terra, per il mondo intero, non c’è nulla,<br />
non si sente null’altro che il ritmo di quei tamburi, mentre quel<br />
rullare trascina con sé tutto, grave e lenta si alza una voce. E'<br />
la Signora della Luce che dopo aver gettato manciate d’erbe sulle<br />
braci infuocate, con le braccia spalancate come per abbracciare la<br />
notte, inizia a pregare in un modo strano, dolcissimo e<br />
lamentevole, poi, mentre il fumo profumato riempie l’aria di una<br />
foschia dorata, intercalati ai colpi di tamburo, anche gli altri<br />
iniziati prendono a cantare:<br />
29<br />
“Amo il sole, la luna, le stelle,
i boschi, gli alberi di melo,<br />
il volo degli uccelli, l'ululato del vento.<br />
Amo la terra dove riposa il grano,<br />
il silenzio che accompagna il tuono,<br />
la rugiada che bagna la felce.<br />
Amo ogni filo d'erba della prateria,<br />
il mormorio del fosso, i semi di papavero,<br />
l'arcobaleno che insegue la tempesta.<br />
Sono il serpente che ingoia la notte,<br />
sono la terra scarlatta illuminata dal sole.<br />
Vado dove mi porta la divina luna<br />
e dove corre la mia ombra alzo un altare.”<br />
Quell’invocazione nella notte negra, pare uscire dalle fronde<br />
dell'albero d'ulivo, dal fumo, dalla brace. Il suo eco assordante<br />
è più di un mana, la preghiera è rivolta al sole, alla luna,<br />
all'universo, ma soprattutto alla terra. Terra preziosa che<br />
custodisce il grano prima di marcire e poi lo fa tornare<br />
misteriosamente dall'aldilà dentro la spiga rigonfia di nuova<br />
vita.<br />
Ecco, il tamburo lentamente zittisce, solo un altro colpo, un<br />
ultimo sussulto, poi il silenzio. Tutto parrebbe finito ma il<br />
conte è ancora incollato all'albero. Povero Andrea! Ha sentito i<br />
nomadi salmodiare, ha sentito la terra vibrare sotto i suoi piedi,<br />
pure, non saprà mai cosa ha realmente evocato la grande vecchia,<br />
non saprà mai quali inimmaginabili misteri racchiude quella<br />
preghiera al Dio Sole portatore di vita. Certamente nasconde in sé<br />
delle verità che a lui, piccolo mortale, non saranno mai svelate,<br />
tutta la sua arroganza non serve a niente, ma forse neanche ha il<br />
30
tempo di rendersene conto, perché la magia non si spegne, continua<br />
a galleggiare nell’aria, così, mentre resta immobile a guardare,<br />
un’invocazione si leva su tutti gli altri suoni, il popolo dei<br />
nomadi grida un nome solo: "Almenia! Almenia!"<br />
Quella invocazione corale, è ritmata dal movimento delle spalle<br />
e della testa, presto la notte si trasforma; quel grido<br />
penetrante, pare voglia squarciare il buio livido e fare apparire<br />
il sole, forse serve proprio a questo la preghiera, affinché esso<br />
l'indomani torni ancora a risplendere generato dal Sacro Fuoco. I<br />
nomadi continuano a dondolarsi picchiando ad intervalli regolari i<br />
pugni sopra un rozzo strumento a percussione che ognuno tiene<br />
legato alla vita. Quell’attesa strana di qualcosa che deve<br />
accadere, fa rabbrividire il conte, finché finalmente un altro<br />
giovane esce dal cerchio magico: si copre le spalle e la testa con<br />
una pelliccia di leone e, imitando le movenze di quell’animale in<br />
lotta nella stagione degli amori, si avvicina strisciando sinuoso<br />
alla fanciulla. Quando finalmente è avanti a lei, apre con le sue<br />
possenti braccia di maschio il vello e, mostrando il petto<br />
tatuato, solleva la testa, chiude gli occhi e resta proteso. <strong>La</strong><br />
bellissima nomade è ancora sdraiata sopra la pelle di caprone, i<br />
capelli magnetizzati continuano a volare galleggiando leggeri<br />
nell'aria. Poi, dopo un tempo infinito, lentamente si alza. E’<br />
molto più giovane di quanto gli era sembrata in un primo momento,<br />
piccola di statura, pure è perfetta quando a piedi scalzi inizia<br />
il rito volteggiando leggera attorno alla grande vecchia. No, non<br />
è la solita danza sensuale e appassionata, ma un susseguirsi di<br />
movimenti morbidi e melanconici che via via si trasformano in<br />
gesti tumultuosi, incalzanti, sfrenati, finché vola gonfiandosi<br />
31
nell'aria la veste con i nastri neri, volano i merletti ricamati,<br />
si alzano i seni nudi, ondeggia e si contorce quel corpo in una<br />
pantomima serpeggiante. <strong>La</strong> giovane inizianda balla selvaggiamente<br />
seguendo un rito animalesco e segreto forse imbevuto dallo spirito<br />
divino e, mentre tutti zittiscono guardandola, lei balla con i<br />
capelli scapigliati, balla, balla, balla, quella danza Sacra al<br />
ritmo di un canto che non c'è più.<br />
Chi è mai quella creatura meravigliosa?Un fantasma, un angelo,<br />
una creazione poetica, oppure una fanciulla, una donna di carne,<br />
sangue e argilla?<br />
Non si ode più il canto, o forse il conte non riesce più a<br />
percepirlo. Abbracciato al tronco dell’albero d’ulivo si lascia<br />
scivolare a terra. <strong>La</strong> danza, il rullo dei tamburi, l’odore agro<br />
-dolce delle erbe gettate sul fuoco, tutto lo sconvolge, tutto è<br />
nuovo per lui, tutto serve a trasportarlo in mondi sconosciuti.<br />
Pure se non ha mai assistito a niente di simile, sa bene che<br />
quella scena gli rimarrà per sempre dipinta negli occhi. Quando la<br />
danza intrigante finisce, a stento riesce a dominare l’emozione.<br />
Il rogo fiammeggiante oramai si è ridotto a semplici tizzoni<br />
ardenti, un nido di fumo smorzato galleggia pallido sopra la<br />
cenere, un’occhiata alle stelle rivela ad Andrea che è quasi<br />
mezzanotte, la luna è ormai alta.<br />
Dov’è volato il tempo, dove sono volate le ore? Il conte si<br />
volta come a guardarsi intorno e, facendo molta attenzione a non<br />
farsi vedere, lentamente si rizza e inizia a tornare addietro alla<br />
carrozza. Adesso la sua mente è una ragnatela di dubbi: vedere i<br />
nomadi da vicino, sentirne il respiro, assaporare la magia bianca,<br />
ha sconvolto i suoi progetti, l'idea che aveva di convincerli ad<br />
32
aiutarlo offrendo loro un pugno di monete d'oro è svanita. Un<br />
popolo così libero che possiede la Pietra della Luce certamente<br />
non sa che farsene del suo oro. In ogni caso non può permettersi<br />
di sbagliare, deve trovare un'idea più audace. Quando arriva nella<br />
carrozza dove sono ad attenderlo Meleagro e Pippo, ha già<br />
progettato un nuovo piano: appena nell'accampamento sarà sceso il<br />
silenzio, rapiranno la giovane nomade.<br />
Passa altro tempo, finalmente i nomadi vanno a riposare, nel<br />
campo resta solo un avanzo di fuoco e una piccola fiaccola accesa,<br />
poi il silenzio finalmente arriva. I servi del conte, hanno<br />
memorizzato la tenda dove la giovane è andata a dormire e quando<br />
il momento è propizio, entrano silenziosi come ladri, come<br />
vendicatori, come assassini: la sorprendono nel sonno, la<br />
imbavagliano, le legano i polsi dietro la schiena, gettano sul<br />
giaciglio un borsello pieno di monete d'oro, poi Pippo di Pancotto<br />
che è molto più giovane, più forte e più grosso di Meleagro, con i<br />
bicipiti di bronzo, l'afferra alla vita e, issandola sulle spalle,<br />
la tiene stretta stretta conducendola a forza nella carrozza.<br />
Quando arrivano, la campana della torre suona tre colpi. Pippo,<br />
lesto, salta a cassetta, inforca il cappello e via…<br />
Il conte Andrea rimasto di guardia, aspettava preoccupato e<br />
ansioso. Vedendo la giovane che pure se legata, pure se ansimante,<br />
con le guance accese, non dimostra un filo di paura, anzi, ha gli<br />
occhi colmi d’ira che mandano scintille, mentre i bellissimi<br />
riccioli scarmigliati continuano a galleggiare nell'aria,<br />
vedendola, intenerito, si commuove: quella creatura gli pare così<br />
lontana dalla terra e dal cielo. A stento trattiene la voglia di<br />
accarezzarle il capo per consolarla. Vorrebbe tempestarla di<br />
33
domande ma il frastuono dei cavalli lanciati al galoppo copre la<br />
sua voce, nella notte risuonano solo le imprecazioni sorde di<br />
Pippo il cocchiere che continua ad incitare i cavalli al galoppo.<br />
Tra lo stridere dei ferri dei zoccoli dei cavalli, lo sferragliare<br />
delle ruote cerchiate di metallo che barcollano sopra la terra<br />
sassosa, la carrozza procede a gran carriera. Prima che gli arrivi<br />
addosso l’alba, devono assolutamente cavarsi dalla valle. Ma<br />
appena sono entrati nelle mura della città e Pippo scende da<br />
cassetta con la lanterna accesa per chiudere con la spranga di<br />
ferro la porta della torre alle loro spalle, allora Andrea, lesto,<br />
le toglie il bavaglio dalla bocca e le corde dai polsi.<br />
Perduta in lui l'aria da padrone, dimentico d'essere conte,<br />
come un innamorato al primo appuntamento inizia a raccontarle<br />
tutto, persino l’apparizione dei Mani, le anime delle martiri<br />
laggiù, alla necropoli. Le racconta la leggenda di Elena e tutte<br />
le storie terribili di quelle fanciulle sacrificate al mostro<br />
orrendo. Più parla, più si convince che la bestia bisogna<br />
sconfiggerla subito, senza attesa!<br />
"Sulle nostre teste” sussurra, “nelle feritoie delle mura<br />
della nostra città, vive da millenni un ragno mostruoso, una vite<br />
parassita che non dà frutti, si nutre e cresce succhiando il<br />
sangue più giovane. I nostri antenati hanno piantato quella vite.<br />
D’allora essa si arrampica con i suoi tentacoli sempre più in<br />
alto, avvinghiata alle pietre delle torri vive bevendo la nostra<br />
linfa e, con i suoi lunghi tralci soffoca ogni altra forma di<br />
vita. Se vero che tu conosci l’arte degli indovini e dei magi, se<br />
l’essenza del nostro io atavico non ti è ignota, se sai palpare la<br />
resistenza del filo con cui siamo tessuti, se puoi parlare con gli<br />
34
spiriti dell'acqua, se puoi interpretare il volo degli uccelli,<br />
saprai pure comunicare con gli animali del bosco e con le piante.<br />
Aiutaci! Vendica le nostre vergini. Solo la magia del tuo genio<br />
può uccidere quel ragno e recidere per sempre la vite parassita,<br />
tu, tu sola e nessun altro! Ti prego, fa questo miracolo, diventa<br />
la nostra vergine guerriera, fa che questa missione sia lo scopo<br />
della tua vita, l’avventura più grande di tutta la tua esistenza.<br />
Insieme, possiamo demolire questo rito barbaro. Se ci riesci, in<br />
molti ti loderanno per aver distrutto un tale mostro."<br />
Almenia, a testa alta lo guarda bucandolo con occhi infiammati<br />
di rabbia! Grandi, bellissimi occhi neri spalancati colmi di<br />
domande mute. Lo fissa disinvolta, inchiodandolo al suo posto,<br />
indipendente e libera, senza paura né soggezione. Sì! Fiera e<br />
libera, come sanno essere fieri e liberi soltanto i nomadi pure se<br />
incatenati. Ma, a poco a poco, sentendo il suo racconto, sentendo<br />
la sua voce smarrita così piena di dolore, a poco a poco sembra<br />
acquietarsi. All'improvviso, nel vedere quell'uomo ricco e<br />
potente, proteso verso di lei con le mani giunte a mendicare<br />
aiuto, straordinariamente sparisce in lei ogni voglia di lottare.<br />
Così, senza quasi volerlo inizia a parlare:<br />
“Tu piccolo mortale, pretendi da me un miracolo? Non sai ancora<br />
che i miracoli sono nell’aria che respiri, nella natura, nelle<br />
stagioni, nelle minuscole e grandi storie d'ogni giorno? Hai i<br />
sensi intorpiditi che non riesci a guardare il creato? Tendi le<br />
orecchie ma non senti, protendi le mani ma non riesci ad afferrare<br />
nulla, pure se tutto l’incenso dell’Africa bruciasse attorno a te,<br />
non sentiresti alcun profumo. Non ti pare un miracolo la luce del<br />
tramonto? <strong>La</strong> radice di un ranuncolo, il fiore del nespolo, il<br />
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suono di un'arpa, lo zufolo di un pastore che conduce le capre<br />
all’ovile, il mietitore che rincasa stracco la sera, non sono<br />
forse tutti miracoli? Ogni cosa bisogna saperla guardare con gli<br />
occhi giusti. Prendi una ghianda, è talmente inerte da sembrare<br />
inutile buona solo per i porci, ma se la nascondi sotto terra,<br />
metterà radici fino a diventare una quercia protesa verso il sole.<br />
Questo non è un miracolo che si ripete migliaia e migliaia di<br />
volte?<br />
I tuoi antenati avrebbero dovuto uccidere in guscio quell’uovo<br />
di serpente, invece lo hanno covato per anni ed ora è cresciuto<br />
così tanto che non riuscite più a fermarlo. Allora? Secondo te,<br />
adesso io dovrei fare il miracolo? Forse dovrei ordinare alle<br />
volpi e agli sciacalli di smettere di ululare e uccidere per te,<br />
quella bestia maledetta? Vuoi estirpare la gramigna e l’ortica<br />
pungente con le mani altrui? Se vuoi far crescere la tua ghianda,<br />
la devi nascondere da solo sotto terra. Non sai che noi nomadi<br />
siamo creature libere? Nessuno può comandare la mia gente.”<br />
“ Se è vero che siete liberi come agnelli e vagate per gli<br />
spazi senza paura del leone della foresta né della vipera della<br />
valle. Se avete un cuore grande sgombro dalle tenebre del buio,<br />
vorrei scandagliare quel cuore, chiedergli consiglio, scoprire i<br />
suoi segreti. Noi che ci nascondiamo spaventati per ogni piccola<br />
cosa, ti chiediamo aiuto. Pure se nessuno può comandare la tua<br />
gente…”<br />
“… E’ vero! Nessuno può comandare la mia gente. Nella mia<br />
tribù, non esiste la legge dove il povero semina e il ricco miete.<br />
Tu non vedrai mai un nomade, farsi schiavo, avviarsi a testa bassa<br />
al campo del padrone con una pesante vanga sulle spalle per<br />
36
agnare la terra con il sudore e renderla fertile affinché il<br />
potente, diventi sempre più potente. Quel potente che è libero<br />
d’incatenare il corpo del debole e distruggergli l’anima per<br />
sempre.<br />
Invero, ripensando a quello che mi racconti… ogni anno,<br />
all’arrivo della primavera, la mia tribù ritorna in questa valle,<br />
c’è un piccolo bosco di sughero presso il torrente dove gli<br />
innamorati in aprile vanno a cogliere viole e ciclamini, ma… ogni<br />
primavera abbiamo visto la tristezza avvolgere l’anima di ognuno<br />
di voi. Finalmente ho capito il perché, ma tu, nel tuo stolto<br />
delirio riesci a sorprendermi, possibile non sai ancora che nessun<br />
delitto è commesso da un uomo solo? Ogni crimine sulla terra è<br />
commesso da tutti gli uomini assieme pure se adesso il tuo<br />
tormento, serve solo a pagare gli sbagli di ognuno. Ma dimmi<br />
piccolo uomo, questa bestia bianca che tanto ti spaventa, fosse<br />
anche un animale grande e possente, pure essa sarà impastata di<br />
carne e sangue. Non sarà mica invulnerabile come Achille: il<br />
leggendario eroe re dei Mirmidoni che pure aveva il suo punto<br />
debole. Dunque, se questa bestia non è un pensiero incorporeo<br />
della mente, se non è un’idea affacciatasi alla fantasia di voi<br />
uomini di questa città, se non è un sogno sognato da migliaia e<br />
migliaia di creature un istante prima che sorga il sole nella più<br />
profonda delle caverne, questa bestia bianca resta sempre e solo<br />
un animale di carne e sangue. Allora sono certa che se noi lo<br />
vogliamo veramente, prima che l'ultima stella sia andata a<br />
dormire, una torcia di luce si accenderà nel cielo negro.<br />
Una volta, nei pressi di Baalbek, l’antica città della Luce, in<br />
una bellissima oasi, dove sorgevano templi maestosi sparsi in<br />
37
mezzo agli ulivi e verdi allori, viveva un Gran Sacerdote puro di<br />
cuore: si chiamava Aronne. Una sera quando era già vecchio e<br />
incurvato dagli anni, entrò come sempre nel tempio recando una<br />
torcia nelle mani tremanti e, mentre tutta la natura si preparava<br />
al sonno, bruciò incenso e mirra finché l’aroma raggiunse ogni<br />
albero, ogni pietra, ogni creatura vivente, poi, s’inginocchiò<br />
avanti l’altare d’avorio intarsiato e tempestato di gemme. <strong>La</strong><br />
notte passava lenta, lui era sempre là a contemplare la luna che<br />
riversava i suoi raggi argentati sulle bianche colonne di marmo<br />
baciando l’altare del Dio Sole dove in passato, la dea bruciava la<br />
torcia della vita. All’improvviso Aronne vide, come fosse la prima<br />
volta, il cortile scavato dai solchi profondi delle tenebre e,<br />
come un ceco che riacquista la vista s‘accorse che quel tempio era<br />
ormai tutto in rovina e le colonne che avrebbero dovuto fare la<br />
guardia alla pietra Sacra, svettavano nel silenzio della notte,<br />
simili a giganti mutilati.<br />
In un lampo comprese che le ossa dei suoi antenati che<br />
giacevano sepolte sotto terra, nulla avevano lasciato delle loro<br />
usanze. Tutta la sua gente, era passata col fluire dei fiumi senza<br />
lasciare al mondo né un nome né un profeta. Pensando a questo, la<br />
stessa notte, mentre giaceva sulla stuoia col viso a terra nella<br />
polvere, prima di cedere alla seduzione del sonno, sospirò<br />
amaramente poi, in preda al dolore, pianse battendosi il petto con<br />
le mani. Oramai era uno straniero tra la sua gente, estraneo<br />
persino a se stesso, la sua famiglia non esisteva più, la sua<br />
stirpe si era completamente estinta e lui era solo un albero<br />
secco. Così decise di andare a morire lontano dal tempio e<br />
dall’abitato, fuori d'ogni strada, d'ogni sentiero. Scelse per<br />
38
eremo una profonda forra sperduta in un angolo selvaggio della<br />
catena montuosa dell’Antilibano, sopra il deserto della Siria dove<br />
all’ombra sempre cresce il fiore della solitudine. Nell’attesa di<br />
trovare una caverna oscura e profonda che potesse coprire per<br />
sempre le sue stanche ossa con una maschera di terra, tra crepacci<br />
aridi, spalancati come la bocca di un mostro incatenato ai ceppi,<br />
tra gole che mostravano lo strato permeabile del calcare simile ad<br />
argilla umida e scarlatta, si scavò un riparo dalle fiere. Era una<br />
specie di fossa, poco più grande di un buco, presto abitato da<br />
pipistrelli e ragni.<br />
Avanti a quel rifugio non passavano neanche le capre, era<br />
sempre talmente solo che la mulattiera che conduceva alla grotta,<br />
oramai era completamente sepolta da sterpi secchi arsi dal sole<br />
arido del deserto. <strong>La</strong> sua tana era più nascosta della casa del<br />
boia, nessuno l’avrebbe mai più trovato, né da vivo, né da morto.<br />
Ma un caldo giorno d'agosto, intanto che stava girando la macina<br />
del grano e meditava sul suo doloroso isolamento, senza vederle<br />
fissava contemplandole con occhi cechi, le belle torri del Libano<br />
che si rizzavano nelle colline lontane, subito gli cadde sul piede<br />
scalzo una piccola pietra, forse fuggita vagabonda dalla<br />
moltitudine dei semi. Aronne sentì quella pietra grossa come una<br />
noce bruciargli il piede, tanto forte scottava. Preso da stupore,<br />
raccolse quella scintilla di fuoco caduta dal cielo, la strinse<br />
forte nel palmo della mano, poi chiuse il pugno e… si sentì vicino<br />
al suo Dio!<br />
Io so, che quella scintilla divina che dorme profondamente<br />
dentro ognuno di noi, presto, prima di presto si può risvegliare,<br />
può avvenire questo miracolo, solo, bisogna credere! <strong>La</strong> volontà fa<br />
39
smuovere le montagne, fa nascere un albero senza seme, fa<br />
accendere il fuoco senza legna.”<br />
Finita di narrare la parabola di Aronne, Almenia, promette al<br />
conte l’aiuto richiesto e, in un subito, per tutto, si sente alto<br />
e forte il canto del gallo! L’urlo stridulo annuncia l’arrivo del<br />
sole, per mare e per terra tutti gli spiriti erranti ritornano a<br />
riposare in pace. Almenia ascoltando quel canto, quasi sfinita<br />
dalla decisione presa, lascia andare dolcemente la testa sullo<br />
schienale, socchiude gli occhi come a voler riprendere il filo dei<br />
suoi sogni e, s’addormenta di un sonno profondo ricco di rugiada e<br />
miele, un sonno eguale a quello di una bambina. Intanto il conte<br />
Andrea Galiano dell’Acqua Zita, imprigionato con lei nello scrigno<br />
sigillato della carrozza che continua la sua folle corsa dentro i<br />
vicoli bui, resta incantato a guardare quel volto così lontano dai<br />
fantasmi e dagli affanni che ha visto e sofferto la sua mente<br />
stracca.<br />
Il giorno settimo del quarto mese della prima stagione,<br />
proprio il giorno sinistro e maledetto, Almenia, che era rimasta<br />
nascosta per tutto il tempo nell’elegante palazzo del conte, si<br />
prepara a sostituire Galiana per la grande cerimonia come<br />
promesso.<br />
Prima di tutto aiutandosi col pettine d’avorio, nasconde i<br />
folti riccioli costringendoli a fatica in una sola grossa treccia:<br />
acconciatura abituale di Galiana. Poi, sparpagliati per la stanza<br />
40
i suoi indumenti: la veste arancio, i nastri di velluto, i<br />
merletti; prende un vasetto di terra cotta colmo d’unguento e, con<br />
trucchi da zingara, inizia a spalmarsi con molta cura il corpo,<br />
affinché la sua pelle scura di nomade appaia di un pallore lunare,<br />
così come bianca e lunare è la pelle di Galiana. Intanto poggiata<br />
sul letto come fosse un vestito da sposa, c’è la veste di neve<br />
verginale che un servo le ha portato: una candida, leggera,<br />
bellissima veste di seta lunga fino a terra, completamente<br />
ricamata con fiordalisi d'oro. E' quello l’abito che i grandi<br />
saggi mandano in dono alla predestinata, confezionato per<br />
l'occasione, ha una grande apertura sul petto. Il carnefice, nel<br />
momento supremo del sacrificio, lo lascerà scivolare dalle spalle.<br />
Frattanto la tenda della porta della camera di Almenia, ondeggia<br />
timidamente, subito fa capolino il volto stravolto di Rachele. <strong>La</strong><br />
vecchia nutrice, ha le palpebre livide per il troppo pianto. Tiene<br />
il candeliere a tre braccia in una mano e, con altra, si comprime<br />
il petto, finché, tra i singhiozzi le chiede:<br />
“Mia dolce signora ti senti bene? Posso aiutarti a vestirti?”<br />
“Vecchia Rachele, Come mai ti sei alzata a quest’ora? Non fa<br />
bene alla tua salute esporti così debole al freddo vento del<br />
mattino.”<br />
“Mia signora, è giunto il tempo…è quasi ora…”<br />
Poi guardandola con gli occhi colmi di lacrime sussurra:<br />
“ Dio ti salvi dolce creatura!” e continuando a piangere,<br />
inizia a pregare sottovoce.<br />
”Padre Eterno, Signore degli uomini. Tu che guidi lo straniero<br />
presso un caldo rifugio, Abbi pietà di noi, mostra compassione nei<br />
nostri confronti. Dio di tutti gli eserciti, Dio possente e<br />
41
terribile, ascoltaci, Signore della vita e della morte, Tu che<br />
arresti gli influssi maligni delle stelle, Tu che allontani le<br />
tempeste della vita. Tu che schiudi il giorno e comandi la notte,<br />
Tu che tieni il Tartaro sotto i Tuoi piedi, a Te obbediscono gli<br />
astri, per Te si rinnovano le stagioni. Ad un Tuo cenno soffiano i<br />
venti, si gonfiano le nubi, germogliano i semi, Tu che tieni nelle<br />
mani la bianca fiaccola dell’amore, dacci la forza. Se è vero<br />
com'è vero che tremano avanti la Tua maestà, i rettili che<br />
strisciano, ascolta la voce di noi disperati, liberaci dal mostro<br />
malvagio, liberaci da quest'agonia, aiutaci. E così sia, O<br />
Signore”<br />
Almenia intenerita, accarezza dolcemente la testa canuta della<br />
povera vecchia che non sa darsi pace e, tra un gemito e l’altro,<br />
tra un sussulto e una preghiera, continua a tremare disperata<br />
mentre con le dita che sembrano di cera, tenta invano di aiutare<br />
la giovane ad indossare la veste e gli ornamenti.<br />
Contemporaneamente arrivano a palazzo, percotendosi il petto con<br />
le mani, due donne con le chiome disciolte: recano il prezioso<br />
mantello della dea Elena tessuto dalle donne iliache, mantello<br />
scampato miracolosamente alla rovina di Troia. Per tradizione il<br />
bianco indumento, pesante per i ricami di perle e gemme rare,<br />
copre ogni anno la vergine predestinata dalla testa ai piedi.<br />
Almenia lo avvolge attorno al corpo, rialza la cappa fino alla<br />
fronte, così emblematica e misteriosa, con simulata mollezza,<br />
aspetta poggiata al muro, finta Galiana e finta vergine, aspetta<br />
l'arrivo dei carcerieri.<br />
<strong>La</strong> cerimonia avveniva sempre a mezzogiorno. Quando il sole<br />
comincia a riscaldare il cielo, puntuali arrivano i carnefici:<br />
42
sono due. Nascondono il volto sotto un cappuccio nero, le mani<br />
vuote, né corde né catene, non faticano molto a prenderla, lei è<br />
già pronta.<br />
In un subito, dopo l’arrivo dei carcerieri, si materializza dal<br />
nulla, un lento corteo di fanciulle tutte vestite di una veste<br />
preziosa candida come neve: un leggero velo ombreggia<br />
misteriosamente ogni volto, i capelli sciolti lunghi sulle spalle,<br />
i piedi scalzi sul selciato umido. Sono le diciottenni di Viterbo<br />
risparmiate dalla sorte. Intonano un miserere funebre e, in fila a<br />
due a due, s’inoltrano nelle vie del borgo. Almenia lascia il<br />
palazzo e le segue: anche lei come le vergini avanza a piedi nudi<br />
sul duro lastricato con un’andatura lenta e solenne. Rachele al<br />
suo fianco tiene sollevato il pesante ampio mantello che la<br />
nasconde alla folla. Dietro la vittima il conte Andrea Galiano<br />
smarrito e pallidissimo, il dolore ha incurvato il suo corpo magro<br />
e, nella tensione del grave momento strascina a fatica i piedi<br />
quasi che questi fossero di marmo, cammina barcollando eguale ad<br />
un bimbo che incomincia ad andare da solo. Al suo fianco, Pippo e<br />
il vecchio stalliere Meleagro, non riescono a smettere di<br />
piangere. Presto, prima di presto la processione s’ingrossa sempre<br />
più, nelle strade il popolo s’ammassa per vedere la vergine<br />
predestinata. Le onde della folla continuano ad aumentare, battono<br />
contro gli spigoli delle case e le case pare che ondeggino come la<br />
folla. In mezzo a quel frastuono, tutti spingono per vederla,<br />
sempre più forte si sente il tintinnare delle alabarde e, mentre<br />
gli arcieri allontanano inutilmente la gente con il calcio della<br />
balestra, urlando di lasciare sgombra la strada per il passaggio<br />
del Sacro corteo, porte, finestre, abbaini formicolano di migliaia<br />
43
di facce che guardano. <strong>La</strong> folla arrampicata sulle mura, sui<br />
bastioni, sulle torri, in cima ai comignoli coi bimbi in braccio,<br />
si va facendo sempre più fitta. Intanto accoccolate all'ombra dei<br />
gradini, le vecchie, al passaggio della vergine, piangono in<br />
silenzio.<br />
Strada facendo, prima che la vittima con i carnefici arrivano<br />
alla valle presso il fiume Paradosso, sono raggiunti da un’altra<br />
colonna che serpeggia tra le torri e le fontane di Viterbo. Sono i<br />
grandi saggi, gli iniziati ai misteri: il capo rasato e rilucente,<br />
le vesti di puro lino scendono lunghe fino ai piedi. Con sistri di<br />
rame e argento mentre camminano, producono in acuto tintinnio. In<br />
testa alla processione dei saggi, un fanciullo con i boccoli dal<br />
colore delle spighe del grano maturo, simboleggia il giovane<br />
Ascanio figlio di Enea che avanza tenendo nella mano una palma.<br />
Subito dopo, arrivano dalle campagne donne e uomini d’ogni età,<br />
d’ogni ceto che hanno abbandonato i campi, la vigna; molti hanno<br />
lasciato l'aratro, la vanga, dimentichi del solco nuovo,<br />
dimentichi dei semi che dormono ancora dentro grandi sacchi di<br />
tela dura. Contadini, bifolchi, pastori, tagliaboschi, cavapietre,<br />
bottai, carbonai, artigiani, ciabattini, calzolai, tutti hanno<br />
lasciato i monti, il piano e la città, per correre incontro<br />
disperati a Galiana, con lei ormai c'è tutta Viterbo.<br />
Intanto un falegname con il grembiale di cuoio e il regolo in<br />
mano, piangendo esce dal branco e, singhiozzando disperato,<br />
s’inginocchia avanti alla fanciulla. Bacia ed accarezza più volte<br />
la veste di neve soffermandosi a palpare con le dita i ricami del<br />
mantello.<br />
44<br />
E’ Italo di Sonio della <strong>Rupe</strong>, padre di una vergine assassinata,
l’uomo impazzito dal dolore, ancora non riesce a darsi pace. Sul<br />
volto d’ognuno guardando quella scena drammatica che strappa il<br />
cuore, si legge la pena, il dolore e la paura.<br />
Ma non c’è molto tempo, la folla spingendo, attraversa il ponte<br />
e in silenzio si raduna sul prato, tutti vogliono assistere al<br />
martirio che pure odiano.<br />
Finalmente la vittima e i carcerieri sono arrivati accanto al<br />
grande masso, quest’ultimi, prima d’incatenarla, devono spogliarla<br />
per il supplizio, ma al momento di toglierle il mantello scompare<br />
in loro ogni spavalderia, appaiono stranamente esitanti, come<br />
pieni di paura, qualcosa li ferma. Si guardano attorno, inquieti,<br />
forse pregano in silenzio affinché un miracolo l’allontani e<br />
magari piuttosto che toccarla preferirebbero vagare moribondi per<br />
i sentieri più irti. Certamente accarezzerebbero il cielo con le<br />
dita se all’improvviso si trovassero altrove. Uno dei grandi<br />
saggi, quello che tutti chiamavano Scriba, accortosi del disagio,<br />
avanza severo verso di loro: l’uomo, famoso per essere un rigido<br />
osservante della sacra disciplina, fissa i carcerieri con occhi di<br />
ghiaccio, non servono parole! Come risvegliatosi dal torpore, uno<br />
dei due, lesto, con uno strattone allontana Rachele, poi slaccia<br />
il mantello strappandolo dalle spalle di Almenia; subito l'altro,<br />
le scioglie la treccia lasciando così volare liberi i capelli<br />
arruffati. Lei resta con la veste aperta sui seni nudi come<br />
bianche colombe e, mentre i riccioli dal colore misterioso delle<br />
foglie d’acacia, s’accendono nella luce di mezzogiorno<br />
d'incredibili bagliori galleggiando nell'aria, i suoi occhi<br />
diventano fiaccole di fuoco, stelle fiammanti.<br />
45<br />
Almenia Figlia della Luce è magnifica!
A quella vista la folla smette di respirare, i carnefici<br />
indietreggiano confusi e sbigottiti, vacillano a fronte di tanta<br />
incredibile bellezza, ora dovrebbero continuare a spogliarla per<br />
poi incatenarla al masso, ma chi oserà ancora alzare la mano su<br />
quella creatura limpida come acqua di fonte che solo a toccarla si<br />
può macchiare?<br />
Almenia, che il popolo crede Galiana, risplende come una dea<br />
quasi fosse una meravigliosa creatura d'altri mondi. Mentre la<br />
folla silente contempla ammutolita quella visione perfetta, per<br />
tutta la valle non si ode il più piccolo rumore, non cantano le<br />
cicale, non canta il vento, non corrono le nuvole nel cielo, pure<br />
l'acqua del fiume s’è fermata. Dentro quel silenzio assordante,<br />
improvvisamente musici invisibili modulano un canto struggente e<br />
doloroso, i loro fiati fanno tremare ogni anima. Sono flauti,<br />
zampogne, arpe? Da dove esce mai quella musica misteriosa? Dal<br />
cielo, dall’aria, da sotto terra?<br />
Essa accompagna la morte stessa. E’ la morte che intona il<br />
canto funebre!<br />
Intanto che ogni cuore trema, le campane delle<br />
centonovantassette torri della città, sparpagliano nell’aria i<br />
lenti, interminabili rintocchi di morte.<br />
E’ il segnale dell'ora del sacrificio!<br />
<strong>La</strong> gente tutta, nell'ascoltare i lugubri tocchi a martello, è<br />
percorsa da un brivido gelido e, spinta da una forza ignota, si<br />
volge a guardare verso la macchia colma di rovi.<br />
Proprio allo scoccare del dodicesimo colpo, mentre si spegne<br />
quell'ultima vibrazione, tutte le teste prendono ad ondeggiare<br />
come ondeggia il mare, guardando dalla fanciulla alla macchia,<br />
46
dalla macchia alla fanciulla.<br />
Preceduta da un rantolo sordo e da terribili ululati capaci di<br />
fare tremare pure il mondo sotterraneo, ridestando le anime dalle<br />
tenebre e dai lugubri silenzi dove regna Acheronte, ecco sbucare<br />
da sotto la profonda foresta, la troia dal vello bianco!<br />
Avanza inquieta dondolando il capo gigantesco, si ferma solo<br />
un attimo, poi, decisa, alza il collo e il muso da cane in alto<br />
come a fiutare l’aria e, correndo, si dirige verso la vittima<br />
decisa ad attaccarsi con le sue ingorde mascelle alle viscere<br />
della preda. Almenia come un bianco cerbiatto, è ancora accanto al<br />
masso nell'attesa di essere denudata e incatenata. Nel preciso<br />
istante che vede la bestia, eguale al gladiatore nell’arena quando<br />
si accinge a colpire, spicca un balzo, diventa gigantesca, poi,<br />
lesta, solleva le braccia in alto offrendo con tutte e due le<br />
mani, la misteriosa Pietra della Luce al suo Dio e, pregando,<br />
urla:<br />
“Luce e Fuoco per il mio amore!”<br />
In un subito, nelle sue bianche mani nasce il sole!<br />
<strong>La</strong> Pietra, in un attimo, forse meno di un attimo, come fosse<br />
pasta di pane, inizia a lievitare spandendo nell'aria fitte nuvole<br />
di fumo e bianca schiuma, poi, come un uccello prigioniero in<br />
gabbia e all’improvviso liberato, vola in alto accendendosi di una<br />
luce abbagliante. Frattanto, la bestia continua la sua folle corsa<br />
saltando sopra i cespugli di more, sulla ginestra, sulle viti di<br />
vitalba, la bocca orrendamente spalancata, oramai solo pochi<br />
sterpi rinsecchiti di rovi la separano dalla vittima.<br />
Il popolo tutto sussulta vedendola arrivare, ad ogni balzo è<br />
un colpo forte al cuore. <strong>La</strong> belva continua a saltare. Poi<br />
47
all'improvviso, a poche braccia da Almenia, accecata dalla luce,<br />
si blocca come statua di sale e resta ritta: gli zoccoli pelosi di<br />
capra piantati nella terra rossa, gli occhi fissi sulla luce. In<br />
quel momento tremendo, la moltitudine che si accalca per meglio<br />
vedere è schiacciata, calpestata, soffocata, finché risoluta<br />
finalmente, quella moltitudine smette di tremare. Respirando la<br />
magia bianca, diventa una persona sola che soffre, prega, piange<br />
per la figlia più <strong>bella</strong> e la vuole salvare, la deve salvare!<br />
Compatta la folla decide che non può più assistere inerte a<br />
quel rito malvagio, che allunga la triste lista degli orrori!<br />
Così, ad occhi chiusi tutti assieme, pregano con l'anima finché si<br />
alza forte nel cielo un grido di dolore; quel lamento disperato<br />
che commuove angeli e nuvole, è di più, molto di più di una<br />
semplice preghiera: è un amore grandissimo che trasforma quella<br />
folla in un gigante, un gigante che decide di uccidere la bestia<br />
pure se Sacra.<br />
E la preghiera si materializza!<br />
Prendendo forme e sembianze precise, quella preghiera diventa<br />
un leone enorme e furioso che, con un ruggito tremendo, sbuca dal<br />
fitto della boscaglia e subito inizia una corsa. Quasi vola con la<br />
stupenda criniera nel vento, vola con il suo manto d'oro<br />
scarlatto, vola e senza toccare terra arriva alle spalle della<br />
bestia. <strong>La</strong> lotta è terribile, per quattro volte il leone assalta<br />
la troia finché, scagliandola in alto, l'uccide dilaniandola in<br />
quattro parti!<br />
48
Quando tutto è finito, un’improvvisa, leggera folata di vento<br />
come sul mare in bonaccia, s’intrufola nei mantelli dei presenti:<br />
risveglia la folla portandola fuori del sogno. Storditi,<br />
increduli, al colmo della felicità, restano donne, uomini,<br />
fanciulli, pure se non riescono a spiegarsi l'evento straordinario<br />
cui hanno assistito, scolpiti nei silenzi dell'anima di ognuno,<br />
intrigati nei capelli della memoria, restano quei lunghissimi<br />
attimi magici che non potranno mai più dimenticare. Non potranno<br />
mai più dimenticare la visione fantastica del leone vittorioso.<br />
Per sempre ricorderanno con immensa gratitudine, la stupenda belva<br />
con la criniera coronata di luce scarlatta, apparsa come il sole<br />
all’alba nel fitto negro della macchia, volando più leggera di una<br />
piuma, è apparsa lasciando in terra, immersa in una pozza di<br />
sangue, col ventre squartato, la bestia immonda!<br />
A memoria riconoscente, il popolo viterbese fece scolpire sul<br />
masso del sacrificio la scena dell’evento e, da quel giorno il<br />
leone è diventato simbolo e stemma della città.<br />
49
<strong>La</strong> folla brulicante, entusiasta, urlando di gioia, si accalca<br />
festosa addosso alla fanciulla e, mentre un poderoso tagliapietre<br />
solleva la giovane issandola sul suo cavallo, le donne ridono,<br />
piangono e gridano tutte assieme: "Galiana <strong>bella</strong> ha fatto il<br />
miracolo! Galiana <strong>bella</strong> ha sconfitto la fiera!”<br />
Un’immensa processione si apre ad ala, donne e uomini, d'ogni<br />
ceto ed età, contemplano ammirati lo spettacolo memorabile e<br />
straordinario offerto da una fanciulla che celebra il trionfo<br />
della vita sulla morte in groppa ad un cavallo.<br />
In quello scompiglio, nella confusione incredibile che segue<br />
nessuno si accorge che Galiana non è Galiana! Solo il conte Andrea<br />
e i servi sanno, ma non parleranno mai, non possono parlare!<br />
Così tra le grida, le risa, lo scalpiccio di migliaia di<br />
piedi, la folla esultante e felice, intona un canto di vittoria e,<br />
come resuscitata, fa a ritroso quel percorso che solo poco prima<br />
aveva fatto con la morte nel cuore.<br />
Intanto un segnale partito dal cielo colpisce le campane che<br />
come fossero frutti di un albero solo trasaliscono e, tutte<br />
assieme iniziano a suonare a distesa. Mentre le bocche di bronzo,<br />
cantano dentro antiche torri e campanili di pietra facendo tremare<br />
i tetti, un coro di gioia immensa trasforma quel giorno di lutto<br />
in un giorno di festa grande.<br />
Al suono di centonovantasette campane che cantano come una<br />
fornace di musica e, al chiacchiericcio di mille e più fontane,<br />
inizia la leggenda di Galiana <strong>bella</strong>.<br />
<strong>La</strong> veloce Fama alata diffonde rapidamente la notizia. Il<br />
racconto di quelle gesta si spande in fretta: nelle campagne<br />
attorno, la portano i carrettieri, i venditori ambulanti, nelle<br />
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città lontane, gli ambasciatori, i mercanti girovaghi, i<br />
pellegrini e, persino gli uccelli dell’aria. Per tutto parlano di<br />
lei, della bellissima vergine che ha vinto la bestia.<br />
Nella piazza del mercato affollatissima nei giorni di festa e,<br />
all'ombra delle torri, nelle chiese, ammassati nelle piazze, donne<br />
e uomini raccontano di lei. Chi l'ha vista o chi soltanto ne ha<br />
sentito narrare, pure nei campi quando rivoltano la terra con la<br />
vanga, premendo forte il piede sulla staffa per poi spezzare la<br />
zolla erbosa, mentre il sudore scende libero e copioso sui volti<br />
consunti, finanche allora, parlano sempre e solo di lei. Nelle<br />
taverne, mentre bevono vino attorno ad una candela accesa, quando<br />
giocano a dati tenendo tra le gambe gli attrezzi di lavoro che<br />
luccicano sotto il tavolo e sopra le panche, non è difficile<br />
indovinare dalle espressioni dei volti e dalle gesta cosa<br />
raccontano, ed è così per ogni dove, siano lavatoi, bettole,<br />
locande, palazzi e castelli, parlano sempre e solo di lei, a volte<br />
la paragonano ad un angelo, ad una maga incantatrice, altre volte,<br />
ad una strega. Persino nelle fiere, ciarlatani - saltimbanchi,<br />
mercanti di colombe, dentisti, cantastorie, scrivani pubblici:<br />
mimano, cantano, parlano e scrivono di Galiana <strong>bella</strong>. <strong>La</strong> sera,<br />
mentre il buio apre le sue ali sulla città e il vento freddo<br />
spinge ognuno a lasciare in fretta piazze e mercati per rifugiarsi<br />
nelle case attorno ad un caldo fuoco, intanto che sotto la cenere<br />
arrostiscono ceci e castagne, i nonni, accovacciati avanti la<br />
fiamma che arde, con i nipoti che premono sulle cosce e non<br />
vorrebbero mai andare a dormire, pure loro, raccontano ai<br />
fanciulli come fosse una favola antica, raccontano la storia di<br />
quella dolce, strana creatura dalle carni bianche come alabastro,<br />
51
trasparenti come seta e...tutto diventò leggenda!<br />
Allora cominciarono le peregrinazioni. In molti vennero da<br />
lontano con la speranza di vederla. Principi e cavalieri per<br />
chiederla in sposa affrontarono viaggi lunghissimi, spesso<br />
rischiando persino la vita, finché sfiniti arrivavano finalmente<br />
alle porte della città. Una volta giunti, l'aspettava l'amara<br />
sorpresa: la bellissima fanciulla che aveva sconfitto la bestia,<br />
la vergine meravigliosa di cui tutti cantano le lodi, quella<br />
vergine oramai Sacra, non è più libera. <strong>La</strong> sorte ha segnato il suo<br />
destino per sempre e nessuno lo può modificare. Ma, né principi,<br />
né cavalieri venuti da tanto lontano vogliono arrendersi. In molti<br />
restano fuori le mura a bivaccare disordinatamente per giorni e<br />
giorni senza concludere nulla, alla fine, alcuni stracchi e<br />
rassegnati risolvono di andarsene, ma i più tignosi restano:<br />
urlano, bestemmiano, minacciano di mettere a ferro e fuoco la<br />
città.<br />
Questi disordini convincono il conte Andrea nottetempo e in<br />
gran segreto, con la sola complicità di Pippo e del vecchio<br />
Meleagro, a nascondere Galiana nel suo casale del procoio a<br />
Bagnaia sotto i monti Cimini e intanto supplica Almenia di<br />
rimanere ancora un poco a palazzo. Ormai è lei il vanto della<br />
città, la fama della sua splendida bellezza: i suoi poteri<br />
occulti, corrono di bocca in bocca. Nessuno si è accorto della<br />
sostituzione, neanche i grandi saggi sanno.<br />
Povero conte! Spera ardentemente che le acque si calmino e la<br />
gente dimentichi. Sogna di riportare sua figlia a casa e lasciare<br />
libera per sempre Almenia, ma può il fiume dimenticarsi di<br />
scorrere e la rondine di volare? Così nessuno ormai poteva più<br />
52
fermare l’intrigato destino di Almenia - Galiana.<br />
Il destino di Almenia, il suo destino, è già fuori la porta<br />
delle mura che aspetta l’alba: si chiama Frisigello.<br />
Rannicchiato in un cantuccio di porta di Valle, Frisigello,<br />
ascolta assonnato, il rotolare lamentoso dell’acqua che correndo<br />
s’infrange sulle rocce. L’oscuro concerto del fosso dell’Urcionio<br />
è un brontolio costante e continuo, ma il giovane, non lo nota più<br />
di tanto. Per trarre qualche accordo dal suo strumento, cerca di<br />
tenere aperti ancora un poco gli occhi stanchi.<br />
Alto, portamento nobile e modesto, il corpo ben fatto modellato<br />
dalla calzamaglia: occhi chiari, carnagione bianchissima, riccioli<br />
biondi tendenti al rosso che gli scendono morbidi sulle spalle<br />
coperte da un mantello vermiglio. Quel giovane, con i suoi<br />
trent’anni, un fiore scarlatto in bocca, la barba incolta che gli<br />
ombra appena un poco le guance, incarna alla perfezione il tipo<br />
del menestrello – sognatore, sempre affamato e infreddolito, che<br />
stringe nelle mani nervose una viella ad arco. Quel giovane, non è<br />
come gli altri cantastorie, poeti - girovaghi venuti in città<br />
semplicemente perché incuriositi dai racconti su Galiana, lui,<br />
insegue un sogno affascinante e inquieto che lo accompagna ormai<br />
da molto tempo ed è diventato la sua prigione.<br />
Ogni sera, nel dormiveglia, un attimo prima di addormentarsi, o<br />
forse, quando è ancora sveglio, gli appare maestosa e superba,<br />
così reale che la può toccare, gli appare la città di Viterbo con<br />
tutte le sue alte torri e, sopra di una come fosse stata pitturata<br />
da un pittore pazzo, vola ammantata da una luce dorata una<br />
bellissima, misteriosa fanciulla con i capelli verdi, gli occhi<br />
grandi e la pelle di mela. Per lei è venuto! Per stringere tra le<br />
53
accia il suo corpo di creta bianca.<br />
Non sa il candido cantastorie, che quella fanciulla dai capelli<br />
verdi, che lui sogna d’incontrare, proprio quella fanciulla<br />
meravigliosa, che lui tiene scolpita nell’anima quasi che l’avesse<br />
incisa nel legno di bosso con le unghie delle sue mani, quella<br />
fanciulla, gli cambierà irrimediabilmente la vita e persino la<br />
morte.<br />
Non sa la spora mentre vola dove la porta il vento, solo, si<br />
lascia portare. Così anche lui, come la spora, resta appiccicato<br />
al legno di porta Di Valle e, prima di dormire canta,<br />
accompagnandosi con la viella, canta, che cantare è il suo pane:<br />
"Voglio ancora un amore!<br />
Un nuovo amore che mi sollevi dal pozzo profondo scavato dalla<br />
mia solitudine.<br />
morte.<br />
54<br />
Per amore torneranno morbidi i miei capelli.<br />
Tremeranno ancora le mani e le ginocchia.<br />
Arrossirò per un bacio.<br />
Correrò ancora nel bosco sopra un letto di morbide foglie.<br />
Ancora mi stenderò sopra i lunghi capelli della terra,<br />
nel verde lenzuolo tessuto di notte.<br />
Voglio ancora un amore!<br />
Un nuovo amore la sera mi prenderà la mano e davanti al camino<br />
racconterà di streghe, di fate, di magi e di nani.<br />
Insieme scopriremo castelli nella cenere d'oro.<br />
Per amore dimenticherò la vecchiezza che avanza insieme alla<br />
Per amore, ancora...sfiderò la vita!"<br />
E’ quella l’ora in cui gli uccelli notturni, beccano e raspano
le tegole di argilla rossa nel tentativo di catturare le lucciole<br />
e mentre Viterbo è profondamente addormentata, il canto d’amore<br />
del menestrello, gli accordi melanconici della sua viella,<br />
spezzano assieme alle grida degli uccelli, il silenzio in cui sono<br />
immersi i tetti, le torri, gli orti, i giardini e le tante<br />
bellissime fontane della città. Tra le mura e le case lontane,<br />
tremano le fiammelle di qualche lanterna, non trema però la voce<br />
del giovane che, chino sullo strumento, fa scivolare adagio,<br />
pacatamente le lunghe, belle, bianche mani affusolate mentre la<br />
sua voce calda vibra di tenerezza e, quasi cullandosi come un<br />
bimbo abbracciato al petto della madre, canta sottovoce finché<br />
s’addormenta sopra un giaciglio che non c'è. Quella canzone, dolce<br />
e melanconica, struggente e appassionata, più forte di un grido<br />
d'amore, passa attraverso i pori del legno della porta chiusa,<br />
accarezza i chiodi di ferro battuto, penetra dentro le vecchie<br />
pietre di lava vulcanica, arriva fino ai merli della torre<br />
illuminando la notte buia.<br />
Per un momento solo, forse, la sente anche Almenia: indossa<br />
gli abiti di Meleagro, i capelli nascosti sotto un grosso<br />
cappellaccio dalla tesa larga che, calcato fin sopra le orecchie,<br />
le ricopre completamente la fronte, il bellissimo corpo<br />
infagottato e nascosto dentro una vecchia giubba di saia nera<br />
logorata dal tempo. Col bavero alzato, se ne sta addossata ad una<br />
delle feritoie della torre e guarda attentamente di là delle mura,<br />
non vede il menestrello nascosto dalle profonde rientranze del<br />
portale ad arco. Sicura che non ci sia nessuno, Almenia si prepara<br />
ad uscire.<br />
55<br />
Come ogni sera a quell'ora, dopo aver aspettato che le
finestre illuminate come fiori di brace siano spente, assorbite<br />
dal buio silenzio, dopo che tutte le porte sono state sprangate e<br />
la città dorme, lei Figlia della Luce, raggiunge i suoi compagni<br />
all'accampamento in tempo per pregare assieme alla Signora della<br />
Luce, pregare e danzare attorno al Sacro Fuoco. Non può mancare a<br />
quell'appuntamento che è di più, molto di più di un semplice rito.<br />
Selvaggia, libera come ogni creatura senza memoria del<br />
peccato, libera persino più degli uccelli del cielo, abituata a<br />
vivere in un turbine continuo la sua vita errabonda, seguendo le<br />
nuvole, toccando continuamente nuove terre per catturare lembi di<br />
storia, di canti e di cultura, la bellissima libellula dalle ali<br />
invisibili, non è fatta per la vita a palazzo, la trattiene solo<br />
la promessa al conte, per questo ogni sera fugge e ogni alba,<br />
ritorna dentro le mura.<br />
56
Come un funambolo, con pochi salti, scavalca la piccola<br />
finestra della torre accanto alla porta di Valle e, in un subito,<br />
è sopra le grosse radici d’edera che coprono il terreno. Libera e<br />
felice, Almenia, respira profondamente l'aria fredda di quella<br />
notte di luna, ascolta il silenzio rotto dal gracidare delle rane,<br />
dal canto della civetta e da lontano lontano, dai monti, le<br />
arrivano ovattati i latrati dei cani dei pastori che abbaiano alla<br />
luna. Gli occhi presto si abituano all'oscurità, così inizia a<br />
camminare senza fretta quasi danzando sopra una corda invisibile,<br />
al ritmo di quella canzone che le pare di aver sentito come in<br />
sogno. Distrattamente, s’avvicina di troppo al bordo del fossato<br />
che costeggia le mura, un piede le scivola sul muschio che ammanta<br />
il fianco del greppo. <strong>La</strong> giovane, istintivamente tende le mani per<br />
aggrapparsi a qualcosa, ma non trovando nessun appiglio, cade<br />
sopra la fratta di canne e rovi che ricopre l'impervia scoscesa<br />
per poi finire rotolando, dentro il fosso in un mare di fango.<br />
Ricoperta di melma, cerca di risalire aggrappandosi a pietre e<br />
felci, ma il fango non le permette la presa, ancora scivola sul<br />
fondo, ancora, ancora e ancora. Ogni volta che tenta la risalita,<br />
non fa altro che scorticarsi mani e ginocchia contro la roccia,<br />
peggiorando la situazione di molto. Oramai è solo un ammasso<br />
informe di melma scivolosa. Scorata, le sfugge un lamento, un<br />
gemito di dolore.<br />
Quel gemito e lo scricchiolio delle canne rotte, attirano<br />
Frisigello che, mezzo addormentato, pigramente si decide ad<br />
alzarsi avvicinandosi al fosso. Nell'acqua luccicante, subito gli<br />
appare in mezzo al pantano, una massa nera, poi, col chiarore<br />
della luna e il bagliore di una lucerna di bronzo a tre becchi<br />
57
dimenticata accesa sopra una finestra vicino alla torre, quella<br />
sagoma vagamente prende forma e finalmente la vede.<br />
Immersa nell'acqua melmosa, con il fango che le arriva alle<br />
cosce, per com'è vestita e per la sua statura, la scambia per un<br />
ragazzo. Vedendolo così mal ridotto: una poltiglia che continua a<br />
scivolare sopra la rupe ammantata di muffa, senza riuscire a<br />
spostarsi, al menestrello, passato di colpo il sonno, gli viene da<br />
ridere. Rovescia la testa all’indietro e scoppia in una fragorosa<br />
risata che lo fa piegare in due e pare che non riesca più a<br />
calmarsi, troppo comica è la scena vista dall'alto della sponda.<br />
Poi appena riesce a prendere un po’ di fiato, quanto basta per<br />
parlare, inizia a canzonarlo:<br />
"Ehi piccolo giovane! Non riuscivi a dormire e sei venuto a<br />
fare il diavolo a quatto nel canneto? O sei solo un sonnambulo in<br />
cerca dell’alba e nel camminare sui tetti sei finito nel fosso? Ma<br />
forse eri solo venuto a vedere la tua <strong>bella</strong> e invece lei, ti ha<br />
buttato nell'Urcionio. Non mi dirai che volevi fare un bagno di<br />
melma e fango come amano fare i licantropi nelle notti di luna<br />
piena, abbaiando come i cani sperduti fra i monti?"<br />
Almenia, sentendo che c'è qualcuno lassù sulla strada che può<br />
aiutarla, tira un sospiro di sollievo. Per un momento aveva avuto<br />
paura di rimanere nella culla del fossato tutta la notte, sola e<br />
intirizzita dal freddo. Con un'espressione da cane bastonato, le<br />
brache ridotte a brandelli, la casacca completamente inzuppata che<br />
sgocciola miseramente fango e melma nera, aspetta paziente che lui<br />
si calmi dal ridere.<br />
Dopo aver tanto riso, Frisigello, vedendo quello che crede un<br />
ragazzo così malconcio, immerso in quell'acqua putrida, se ne<br />
58
vergogna e subito cerca di rimediare aiutandolo a risalire.<br />
Velocemente taglia col coltello una lunga canna, svelto la porge<br />
come appiglio al giovane che, aggrappato a quella presa, in un<br />
subito arriva sulla sponda accanto al suo salvatore. Adesso sono<br />
tanto vicini che si sfiorano, ma il "ragazzo" non apre bocca, pare<br />
anchilosato senza nessuna capacità di movimento, Frisigello lo<br />
vede rabbrividire di freddo, allora sollecito, gli passa la mano<br />
sulla fronte. Quella fronte è così ardente che deve pesargli come<br />
un macigno. Per guardarlo meglio, gli solleva il volto, subito si<br />
rende conto che è molto più giovane di quanto avesse immaginato,<br />
quel ragazzo fangoso, affogato nel pantano, quel piccolo<br />
adolescente, bagnato fradicio come un pulcino, è così malridotto<br />
che neanche sua madre lo riconoscerebbe. Le uniche cose che la<br />
melma gli ha risparmiato e che a malapena sbordano da sotto quel<br />
cappellaccio, sono due grandi occhi luccicanti di febbre simili a<br />
pezzi di brace.<br />
Il menestrello fissando quegli occhi ardenti, resta stranamente<br />
soggiogato. Almenia sentendosi osservata tanto da vicino, sente le<br />
fiamme salire al volto e, nel tentativo di nascondersi dallo<br />
sguardo indagatore di lui, china la testa e abbassa le palpebre,<br />
tuttavia dalle sue lunghe ciglia nere, scaturisce un'ineffabile<br />
luce che colpisce Frisigello fino al cuore e una grande<br />
inspiegabile tenerezza lo invade.<br />
Chi è mai questo giovane sconosciuto? Si chiede e, mentre prova<br />
uno strano desiderio di proteggerlo, tenta di burlarsi della<br />
propria emozione. Ma non c’è tempo per porsi molte domande perché,<br />
il ragazzo con le labbra livide per il freddo, oramai trema<br />
notevolmente, allora il cantastorie si slaccia il pesante mantello<br />
59
che lo ricopre e, facendolo roteare, l'appoggia sulle spalle del<br />
giovane dicendo: “Prendi pulcino, con questo ti sentirai subito<br />
meglio.” Poi, si guarda attorno ma non vede né legna né fascine,<br />
così s’avvicina di nuovo alle canne e questa volta per fare più in<br />
fretta, le spezza con le mani. Rapidamente le ammucchia, poi<br />
raccoglie delle foglie secche e, sprigionata dalla pietra focaia<br />
la fiamma, accende il fuoco. Mentre le fiamme danzano in un gioco<br />
di luci e di ombre cesellando il buio, il menestrello rimane<br />
impalato senza parlare a guardare quello strano, enigmatico<br />
giovane che, infreddolito fin dentro le ossa, resta muto accanto<br />
alla fiamma ad asciugarsi finché, piano piano, al contatto di quel<br />
dolce tepore, smette di tremare e finalmente pare rinfrancato.<br />
Ancora non ha aperto bocca neanche per ringraziarlo, perciò<br />
Frisigello resta sorpreso quando all'improvviso si sente chiedere:<br />
"Chi sei foresto, da quale paese vieni, a che tribù appartieni?<br />
Sei forse un’ospite inatteso che l’imbrunire ha lasciato fuori la<br />
porta della città? Ma se non sei un viaggiatore indesiderato, se<br />
non sei un audace avventuriero, dimmi, come mai sei rimasto fuori<br />
le mura in un’ora così fredda della notte?"<br />
Sentendo quella voce fresca e leggera nascere dal mucchio di<br />
fango, il menestrello rimane meravigliato e non può impedirsi di<br />
rispondere con un'altra domanda:<br />
"Quanti anni hai piccolo giovane? <strong>La</strong> tua è quasi una voce di<br />
pulzella!"<br />
Poi, rendendosi conto di averlo forse offeso, subito si<br />
corregge e con un bellissimo sorriso continua:<br />
"Non ti preoccupare, anch'io quando ero un ragazzo come te<br />
avevo una vocina da niente, ma un bel mattino mi sono svegliato<br />
60
con questo vocione che neanche io mi riconoscevo. Non aver paura<br />
di me ragazzo, non sono un avventuriero. <strong>La</strong> mia discendenza è<br />
nobile e antica, vengo da terre felici, immortalate in canti<br />
ancora più felici, laggiù, nella mia patria lontana, già dalla<br />
primissima infanzia imparai da mia madre a suonare la viella, il<br />
mio prezioso strumento, è il primo dono che lei mi ha fatto.<br />
Il mio nome è Frisigello, sono menestrello e poeta epico,<br />
cantore di narrazioni mitologiche e favole antiche. Come ogni<br />
poeta sono creatore di genio, portavoce di Dio, fermo nello spazio<br />
e nel tempo la storia e le gesta dei grandi eroi. Se nella notte<br />
livida tenderai l’orecchio, mi sentirai cantare. Io sono come le<br />
foglie che, appena il vento le scuote, cantano. Sì! Mi sentirai<br />
cantare ragazzo, racconterò le storie dell’Asino d’Oro di Apuleio,<br />
racconterò della luna errante, canterò le fatiche d'Ercole,<br />
dell’intrepido cavaliere che uccide il drago, dell’audace<br />
cacciatore sperduto nella foresta nera, canterò la pazienza di<br />
Giobbe, racconterò dell’origine delle bestie, delle piante,<br />
dell’uomo. Canterò perché, cantare è il mio pane, quindi da subito<br />
ti chiedo scusa se da rozzo parlatore come sono, casomai nel mio<br />
discutere con te, mi capitasse di usare qualche espressione troppo<br />
popolare… ma se invece, vuoi cantare assieme a me ragazzo, non ho<br />
problemi, basterà prendere un’arpa, un tamburo o un esile flauto<br />
di canna. Sì! L’esile incavo di una canna basterà per cantare<br />
l’amore. Insieme racconteremo della tempesta che spinge la radice<br />
ad annidarsi nel ventre della terra, racconteremo dei fulmini,<br />
della pioggia, della neve, oppure se preferisci, possiamo<br />
raccontare le favole del Cervo e del Leone, della Formica e lo<br />
Scarabeo, del Ranocchio e la Volpe, Tutte favole di Esopo: il<br />
61
deforme schiavo frigio dotato di grande intelligenza e saggezza,<br />
ma se non vuoi venire con me ragazzo, lo stesso mi sentirai<br />
cantare appena la notte è livida, perché, come ti ho già detto<br />
cantare è il mio unico pane.<br />
Quando sono arrivato la porta era già chiusa, per questo sono<br />
rimasto fuori le mura. Dunque, vuoi sapere la mia pianeta? Ero<br />
poeta nella corte di Francia, componevo versi ed ero il cantore<br />
preferito del principe erede alla corona. Spesso, con la mia<br />
viella, accompagnavano Maeri, la danzatrice più famosa di Francia.<br />
Maeri è una vera stella, bravissima nella danza delle spade, nella<br />
danza dei fiori e del vento ma più di tutte a me piace la sua<br />
danza delle fiamme. Amavo suonare e cantare per lei, ma sono<br />
dovuto partire per venire qua, chissà se la mia danzatrice, se la<br />
mia regina e tutta la corte mi sentiranno ancora cantare.<br />
Ma adesso parlami di te, che ci facevi nel fossato?"<br />
"Ero sopra i tetti ad aspettare lo spuntare della solitaria<br />
luna, intanto che guardavo le lucciole accendersi, ho visto cadere<br />
una stella dal cielo, subito, mi è sembrato di sentire<br />
singhiozzare una musica dolce tra gli sterpi della notte, forse<br />
era solo il coro degli angeli. Per cercare a chi appartenesse quel<br />
sospiro d’amore, sono sceso dai tetti e, nel farlo, sono scivolato<br />
nel fosso.”<br />
Risponde velocemente Almenia che all'improvviso ha una gran<br />
voglia di parlare e per guardarlo meglio, si sporge con tutto il<br />
corpo oltre la fiamma, oramai è solo ad un respiro dal suo volto<br />
quando ancora gli chiede:<br />
"Veramente foresto sei un poeta vero? Per caso non sarai solo<br />
un bravo mercante di parole? Perché, mi pare assai strano che un<br />
62
menestrello, un cortigiano autentico, dallo spirito cavalleresco,<br />
sensibile a tutte le forme artistiche come la <strong>poesia</strong>, la danza, la<br />
musica, un cantore che ha la fortuna di frequentare la fastosa<br />
reggia del sovrano di Francia, un artista che ha l’accesso a tutti<br />
i segreti che agitano l’anima del re, mi pare assai strano che<br />
quel poeta dopo aver consultato tutte le intrigate mappe del<br />
mondo, decida di abbandonare ogni strada, ogni altro sentiero per<br />
scegliere di venire a portare il suo fardello proprio qui. Tu non<br />
racconti tutta la verità, dimmi, se non sei un mangiatore di<br />
locuste venuto dal deserto, che altro ambasciatore sei, cos’è che<br />
cerchi esattamente in questa città?"<br />
"No ragazzo! Non vengo dal deserto, sono solo ambasciatore di<br />
me stesso. Non sono venuto a portare conforto né a dividere pane e<br />
vino con tutti coloro che sono scalzi, neanche sono arrivato fin<br />
qui solo per affrontare una tenzone con i cantori locali e vivere<br />
vagabondo come loro.”<br />
“Allora straniero, non sarai mica come quelle pietre che a<br />
furia di cadervi la rugiada diventano molli e sopra ci cresce il<br />
muschio, quell’erba bassa bassa che nessun animale mangia neanche<br />
quando si adorna di piccolissimi fiori a primavera. Non sarai<br />
anche tu un poeta per burla come quelli che appena uno spruzzo di<br />
pioggia li bagna, chiudono le finestre e smettono di fare <strong>poesia</strong><br />
rintanandosi ad asciugare le penne avanti al fuoco. Dimmi, forse<br />
ti lisci anche tu le piume come le anatre dopo che hanno tuffato<br />
il collo sottacqua?”<br />
“Ragazzo bada come parli, io sono un artista vero, sono come un<br />
melo che germoglia e fiorisce un giorno prima degli altri alberi<br />
del frutteto. Avrei potuto trascorrere i miei anni nei giardini<br />
63
incantati del re vestendo di scarlatto dal mantello alle scarpe<br />
finché la vecchiaia non fosse venuta a bussare alla mia porta<br />
sussurrandomi all’orecchio che era finito il mio tempo, ma come<br />
ognuno a questo mondo, ho da portare la mia croce e, pure se la<br />
mia ti parrà grande come una montagna, oramai ci sono affezionato<br />
e ti giuro ragazzo, che non potrei portarla altro che qui, qui o<br />
direttamente all’inferno. Dunque vuoi proprio sapere perché sono<br />
venuto dalla lontana Francia? Ma prima rispondi, te ne intendi di<br />
sogni? Perché da un po’ di tempo, un sogno occupa tutte le mie<br />
notti, ed è stata proprio la fanciulla di quel sogno a portarmi<br />
qui.”<br />
“E’ bene dirigere i passi dove porta il sentiero, ma…<br />
rinunciare a cantare avanti a sua Maestà il re di Francia per<br />
inseguire una fanciulla incontrata solo in un sogno, non è in po’<br />
troppo anche per un poeta - menestrello?”<br />
Almenia torna a guardare le fiamme, poi, ripensandoci, con uno<br />
scatto si volta di nuovo verso di lui e fissandolo con i suoi<br />
grandi occhi, riprende:<br />
“Pure se ogni creatura vivente è impastata con l’acqua e la<br />
terra dei suoi sogni, pure se la vita stessa a volte è solo un<br />
lungo sonno, io so che, se non si possiede la seconda vista, un<br />
sogno resta sempre e in ogni caso, solo un semplice sogno.”<br />
“Il mio, non è certo un semplice sogno ragazzo. Per<br />
realizzarlo, sono partito convinto che è mille volte meglio morire<br />
ammazzato per strada, piuttosto che continuare a vivere col sangue<br />
marcio. Così da solo ho attraversato tutte le belle vigne della<br />
Francia, ma anche terreni incolti e sassosi dove ho incontrato<br />
schiere di donne che lottavano in ginocchio, combattevano contro<br />
64
le malerbe, le ortiche, i cardi spinosi che bucavano le loro<br />
braccia, combattevano per liberare un lembo sottile di terra da<br />
un’infinità di pietre che affioravano come funghi. Premendo i<br />
calcagni contro i fianchi del mio candido cavallo, l’ho spronato<br />
fino a fargli venire la febbre dentro ombrose foreste, impervie<br />
montagne, umidi valli, fresche radure, ricche campagne, sconfinate<br />
praterie e, quando anch’esso oramai era allo stremo delle forze,<br />
per levargli da dosso la stanchezza del mio peso, sono sceso da<br />
cavallo, gli ho tolto il morso, gli ho asciugato il sudore e,<br />
tenendogli la briglia, mentre lui col muso sul fango brucava tutto<br />
quello che gli capitava a tiro, intanto che da lontano arrivavano<br />
ovattate le grida dei gabbiani, abbiamo camminato negli stagni,<br />
pigiando la melma rossa ai margini dell’acqua dove gli uccelli<br />
acquatici migratori, sempre pronti a rubare il pesce dalle reti<br />
dei pescatori, emettevano un suono smorzato che ricordava una<br />
musica strana.<br />
Quel mio viaggio attorno al lago lo ricorderò sempre: l’aria<br />
satura d’umidità odorava di melma e di salmastro e il silenzio<br />
della sera era interrotto solo dal gracidare dei corvi e dal<br />
frinire delle cicale. Intanto che la foschia e l’umidità mi<br />
penetravano fin dentro le ossa, sono arrivato all’Isola segreta<br />
delle Vergini. Quell’isola, è molto più di un luogo Sacro,<br />
sott’acqua ci sono caverne abitate solo da giovani vergini che,<br />
isolate da tutto, apprendono tradizioni segretissime, compresa le<br />
parola misteriosa del Potere e, dopo che avranno imparato gli<br />
incantesimi e le arti risanatrici, una di loro diventerà la nuova<br />
Grande Sacerdotessa Guaritrice. Appena l’anziana Sacerdotessa<br />
delle Acque Sacre sentirà prossima la sua morte, le fanciulle,<br />
65
vestite di neve, si riuniranno attorno ad una grossa tavola di<br />
quercia a forma di ruota. Tutte assieme vi gireranno attorno e,<br />
mentre mille tamburi prenderanno a rullare, l’anziana<br />
Sacerdotessa, con occhi bendati, sceglierà la nuova vergine. Con<br />
un bacio d’addio sulle labbra, trasmetterà a lei poteri, saggezza<br />
e sapere. Una volta consacrata l’eletta, è subito trattata come<br />
una regina: immediatamente è incoronata avanti ad un grande fuoco,<br />
con una ghirlanda intrecciata col fiore segreto; il fiore del<br />
sapere che non appassisce mai e cresce solo in una grotta nel<br />
profondo del lago, solo allora la fanciulla, nuova Sacerdotessa,<br />
col fiore Sacro nei capelli, andrà a vivere per sempre nella Casa<br />
delle Acque Sacre.<br />
Un mattino, mentre attraversando il lago e la schiuma pitturava<br />
una tela sull’acqua verde dove danzavano le carpe, ho visto il<br />
riflesso tremolante di alcune di quelle fanciulle isolane.<br />
Stavano ritte sulla rupe dell’isola, raccoglievano la rugiada<br />
con penne di gabbiano, poi, sollevando delicatamente le piume<br />
all’orizzonte, le scrutavano a lungo. Pure in quei gesti rituali e<br />
misteriosi, o forse proprio in virtù di essi, apparivano tutte<br />
talmente fragili e stupende. Nelle prime ore del meriggio, lo<br />
stesso giorno, le ho riviste che attingevano acqua in una ciotola<br />
di bronzo ornata di un fregio: con le trecce brune che sfioravano<br />
la superficie del lago restavano a pregare per ore e, mentre a<br />
turno fissavano immobili l’acqua nella ciotola, alcune<br />
impallidivano come morte, finché, la superficie dell’acqua si<br />
annebbiava e, in un turbine livido, appariva la faccia che ognuna<br />
di loro aveva chiamato mentalmente. Forse cercavano nella ciotola<br />
soltanto il volto della nuova vergine predestinata, poi subito<br />
66
dopo, le ho viste sdraiarsi sui fianchi delle sponde: si<br />
scioglievano le lunghe trecce, passavano il pettine di corno<br />
intagliato sui capelli ricci e folti che brillavano di riflessi<br />
rossi alla luce del sole infuocato, infine, affinché la pelle<br />
brillasse di freschezza, si massaggiavano i corpi ammantati solo<br />
da una camicia di brina, si massaggiavano con unguenti ricavati da<br />
petali di ninfea, il bellissimo fiore stellato che cresce<br />
fluttuando sull’acqua. Pure se quelle fanciulle erano belle,<br />
bellissime, tanto belle che quando mi offrirono le loro focacce<br />
dolci e mi diedero a bere dell’unico corno di toro dove anch’esse<br />
avevano bevuto, per non guardare oltre i loro fianchi di luna, le<br />
labbra carnose e scarlatte che si ficcavano come spine nella mia<br />
testa facendo diventare nero il mio sangue, per non continuare a<br />
guardarle mi accecavo con la sabbia.<br />
Che ci posso fare ragazzo? Fra tutte le fanciulle della terra,<br />
io amo solo la fanciulla del mio sogno. <strong>La</strong> luna di notte disegna<br />
la sua ombra sull’acqua, il sole di giorno disegna la sua ombra<br />
sulla sabbia. Per me c’è solo lei al mondo, lei è lei sola è la<br />
Sacerdotessa della mia anima, lei il mio respiro, lei la musa<br />
ispiratrice della mia <strong>poesia</strong>. Senza di lei, la mia arte si<br />
annulla, devo trovarla, sarà la compagna della mia vita, con lei<br />
scoprirò nuovi orizzonti, nuovi cieli, nuove terre. Non posso<br />
continuare a tenere per sempre il suo fantasma piantato nel mio<br />
petto. Se la desidero così tanto, se amo solo lei, non è mia la<br />
colpa, ma…del profumo che emanano i suoi seni, i suoi fianchi, i<br />
suoi capelli. Nessuna donna che ho incontrato sulla mia strada,<br />
proprio nessuna per quanto è durato il mio viaggio, è riuscita a<br />
sostituire la fanciulla del mio sogno.”<br />
67
“A quanto racconti menestrello, devi averle incontrate<br />
parecchie di fanciulle.”<br />
“In particolare una di nome Lenia cui devo la vita. Durante il<br />
viaggio, per arrivare più in fretta possibile, mentre attraversavo<br />
la foresta, ho abbandonato il sentiero ed ho preso una<br />
scorciatoia, una lepre o quello che era, ha tagliato la strada<br />
spaventando il mio cavallo e, in un momento di disattenzione, le<br />
redini mi sono sfuggite di mano, così ho perso l’equilibrio e sono<br />
caduto a terra semistordito.<br />
Quando mi sono ripreso, era già buio: gli uccelli del bosco si<br />
erano messi al sicuro tra le fronde dei rami. Sentivo solo il<br />
battere sordo delle ali della civetta cieca, tutt’attorno, un<br />
odore ripugnante e fetido: ero disteso in una sudicia fossa, un<br />
palo appuntito mi era penetrato nel braccio facendomi perdere i<br />
sensi, l’urto era stato così violento che una caviglia mi si era<br />
slogata ed era gonfia. Al momento del risveglio, in un subito mi è<br />
venuto in mente la lepre e il mio scivolone improvviso, poi, mi<br />
sono anche ricordato del rumore agghiacciante dei rami spezzati e<br />
delle foglie schiacciate dal mio peso. Senza neanche provare ad<br />
alzarmi, dentro quel nero pesto, mi sono reso conto d’essere<br />
finito in fondo ad una grossa trappola per cinghiali. Giacevo a<br />
più di cinque braccia dal suolo, in condizioni normali sarei<br />
uscito dalla fossa arrampicandomi come un gatto selvatico, ma ero<br />
troppo debole anche solo per muovermi, così, per due giorni e due<br />
notti, rimasi laggiù: solo, ferito, completamente ricoperto di<br />
sangue, affogato dentro una fossa lercia, puzzolente per lo sterco<br />
e l’orina degli animali che vi erano caduti, maledicendo la mia<br />
follia che mi aveva spinto ad abbandonare il sentiero. Avevo solo<br />
68
la fievole speranza che qualche anima buona, vedendo il mio<br />
cavallo vagare senza cavaliere, mi cercasse. In principio sentivo<br />
i suoi zoccoli ferrati stritolare i rami secchi mentre i nitriti<br />
galleggiavano nell’aria, poi, ho sentito solo i grilli e le rane,<br />
il mio cavallo, forse alla ricerca di biade, era sparito senza<br />
lasciare la minima traccia. Oramai ero più morto che vivo, quasi<br />
completamente disidratato, ero una brocca vuota, un torrente<br />
asciutto, da solo non potevo farcela, per ore avevo gridato aiuto<br />
fino a perdere la voce. Pensai che se proprio dovevo morire, sarei<br />
morto da poeta, così, chiusi gli occhi e, aspettando la fine,<br />
incominciai a cantare le mie canzoni, ma forse già deliravo, però,<br />
all’improvviso dentro quel profondo negro, udii proprio sul mio<br />
capo, un levriero ululare subito seguito dall’abbaiare di altri<br />
cani e suoni di trombe.<br />
Ero morto? Era mezzogiorno, mezzanotte?<br />
Pensando che forse c’era qualcuno là sopra che poteva sentirmi,<br />
nel tentativo disperato di sollevarmi, mi attaccai ad un palo,<br />
affondai le dita nella terra e, riuscii a mettermi in ginocchio,<br />
infine concentrai tutte le mie forze lanciando un ultimo urlo.<br />
Improvvisamente, un calpestio ritmico di passi leggeri, di sandali<br />
sulle foglie secche si arrestò sul mio capo. Subito un raggio di<br />
sole penetrò la fratta accecandomi, sbattei le palpebre e, in cima<br />
alla buca, tra i rami della fratta, attorniata da eleganti<br />
levrieri che, con narici frementi e occhi assassini giravano in<br />
tondo attorno alla buca scambiandomi per una cerva pronta da<br />
sbranare, m’apparve la testa di una giovane che mi guardava: i<br />
boccoli, i ciuffi biondi dei suoi capelli sfuggivano ai nastri e<br />
formavano una schiuma, un alone di soffici ricci. Gli occhi grigi<br />
69
- celesti cangianti e i teneri lineamenti del volto, incorniciati<br />
da quell'alone luminoso, pareva galleggiassero nell’aria. Per un<br />
attimo ho creduto di essere morto: dalla fossa puzzolente, avevo<br />
saltato a piedi pari i gradini del paradiso, perché, quel giovane<br />
volto che catturava la luce del sole, poteva essere solo di un<br />
angelo.<br />
Quella creatura angelica, era una giovane donna che assieme al<br />
padre ed altri cacciatori, inseguiva una cerva. Quando i suoi cani<br />
mi hanno scovato, si è fermata incredula al bordo della fossa<br />
esclamando con una voce ricca e musicale: in nome degli dei<br />
straniero, come sei riuscito a cadere lì dentro?<br />
<strong>La</strong> sua voce e soprattutto le sue parole, mi giunsero famigliari<br />
come affiorassero da un luogo profondo oltre la memoria cosciente.<br />
Parole lontane eppure vicinissime come le bramate frasi di un<br />
Oracolo. <strong>La</strong> giovane, vedendo che sanguinavo e stavo per perdere i<br />
sensi, lesta, chiamò a gran voce il padre, poi continuò a parlare<br />
con me in maniera molto disinvolta: non svenire ti prego, stringi<br />
i denti, non svenire, lascia che la mia voce sia una corda che ti<br />
lega alla vita, riesci a sentirmi? Sta arrivando mio padre lui è<br />
un gigante, può abbattere un toro con una spallata, in un subito,<br />
ti aiuterà a risalite. Mi senti, puoi parlare? In due riusciremo a<br />
tirarti fuori, stai tranquillo, appena sarai all’aperto, con i<br />
rami costruiremo una barella, mio padre è guaritore, vedrai ti<br />
salverà.<br />
Arrivato il padre, saltò dentro la fossa, legò il mio braccio<br />
ferito ad un ramo per farlo stare fermo, poi guardata la caviglia<br />
gonfia, mi caricò sulle spalle e mi portò fuori. Intanto che i<br />
miei salvatori tagliavano i rami per costruire la barella, nel<br />
70
tentativo di sollevarmi da terra, con il gomito pesto e<br />
sanguinante, urtai violentemente contro una radice sporgente, per<br />
il dolore lancinante, all’improvviso il mondo si oscurò.<br />
Quando tornai in me, avevo addosso una strana sensazione: come<br />
di essere rimasto svenuto per molto tempo, dovevo aver dormito un<br />
sonno inquieto e nel sonno, mi pareva che qualcuno mi toccasse le<br />
tempie con un fiore. Sbattei a lungo le palpebre per cercare di<br />
capire dov’ero finito. Sentivo l’odore del fumo e della legna<br />
bruciata, lentamente mi guardai attorno: dritti avanti i miei<br />
occhi, alla luce di una torcia di canna, vidi poggiati sopra una<br />
cassa di quercia intagliata, costruita con grossi chiodi di legno,<br />
i miei indumenti lavati e piegati con cura e vicino, la mia<br />
viella. Girai un poco il capo e, seduta accanto a me sopra uno<br />
sgabello a tre gambe, semiaddormentata, c’era la giovanissima<br />
donna che mi aveva salvato la vita. Ad intervalli regolari,<br />
tenendo gli occhi semichiusi, mi bagnava la fronte e le labbra con<br />
acqua intrisa di petali di gigli. Le braci del focolare erano<br />
quasi spente, doveva essere notte fonda. Cercai di sollevarmi ma<br />
ero sfinito, il braccio mi bruciava, avevo sete e ogni muscolo del<br />
corpo era indolenzito. Non volevo disturbare oltre la mia ospite,<br />
così, rimasi in silenzio a guardarla dormire sdraiato sulla mia<br />
branda di legno e cuoio. Più tardi quando inavvertitamente toccai<br />
le mie ferite che erano state fasciate con candide bende di lino,<br />
mi uscì un lamento soffocato. <strong>La</strong> giovane nell’accorgersi che<br />
finalmente ero rinvenuto, lesta, saltò giù dallo sgabello e subito<br />
andò ad attizzare il fuoco, mise a bollire nel paiolo acqua,<br />
camomilla, verbena, fiori di sambuco e altre droghe. Appena il<br />
decotto fu pronto, si chinò su di me, accostò la tazza alle mie<br />
71
labbra mormorando gentilmente: devi essere sfinito. Bevi, oltre a<br />
scaldarti, questa bevanda, ti farà subito molto bene. Dopo aver<br />
bevuto il liquido bollente, avrei tanto voluto toccarle le ciocche<br />
dei capelli che nella notte, erano sfuggite alla treccia: anche i<br />
capelli di mia madre erano così… ma restai fermo e, senza parlare,<br />
calcai meglio i piedi sotto le calde pelli di pecora e i soffici<br />
tappeti di lana, mentre un forte odore d'unguento appiccicoso<br />
riempiva la piccola stanza con le mura d’argilla ricoperte da un<br />
tetto rivestito di paglia spiovente fino a terra. Fissando le<br />
braci rosse del fuoco, mi abbandonai tranquillo e felice sul mio<br />
morbido pagliericcio e, in un subito, m’addormentai di nuovo.<br />
Sentire il respiro regolare di quella giovane donna che<br />
vegliava accanto al mio letto, mi faceva stare bene, mi ricordava<br />
mia madre quando da bambino ero malato. Mia madre mi curava con<br />
amore senza mai andare a dormire ed io trattenevo il fiato per<br />
sentirla quando silenziosamente si muoveva nella stanza accanto.<br />
Anche Lenia, eguale a mia madre, dopo avermi lavato e medicato,<br />
era rimasta ad assistermi vegliando per tutto il tempo, infatti,<br />
era scapigliata, aveva l’aria stanca, la sua tunica di lana, era<br />
sgualcita e macchiata d’erbe. <strong>La</strong> mia ospite, sarebbe piaciuta<br />
moltissimo a mia madre, perché, oltre ad essere generosa, aveva i<br />
fianchi larghi ed era di buona stirpe.<br />
I giorni seguenti, non riuscivo ancora ad alzarmi, non riuscivo<br />
neanche a muovere le mani per mangiare, la fanciulla, passò ore e<br />
ore a medicare le mie ferite e ad imboccarmi con un cucchiaio di<br />
corno. Per tutto il tempo che restai ferito in casa sua, lei,<br />
tenne acceso il fuoco per me giorno e notte e quando la scorta di<br />
legna tagliata e accatastata sotto la tettoia della casa finì,<br />
72
subito mandò il padre nel bosco a recidere altri alberi.<br />
Per sempre serberò nella memoria l’immagine di quella generosa<br />
fanciulla che mi bagnava la fronte con petali di giglio, per<br />
sempre ricorderò quei fiori impigliati nella mia fronte. Lenia,<br />
era una creatura dolcissima, avrei voluto amarla, fermarmi e<br />
vivere per sempre con lei, con lei che con tanto amore ha curato<br />
le mie piaghe, prima che s’infettassero, ma, nonostante le devo la<br />
vita e per questo le sarò eternamente grato, pure se mi sento<br />
onorato d'averla conosciuta, devo confessare che, quando me ne<br />
sono andato e lei piangeva disperata guardandomi oltre le ciglia<br />
abbassate… Mi guardava con occhi scintillanti che cangiando, da<br />
grigi – verdi, diventavano nocciola. Sbatteva continuamente le<br />
palpebre per reprimere un fitto velo di lacrime e, quello sguardo<br />
appassionato, incorniciato da fuggevoli, luminosi, riccioli<br />
biondi. Voglio essere onesto con te piccolo giovane, pure se nel<br />
salutare Lenia, con un bacio delicato sugli occhi, ho sentito un<br />
nodo che mi stringeva la gola e le parole, uscivano spezzate dai<br />
frequenti singhiozzi, non mi disperai quanto avrei dovuto. Quasi<br />
provai più dolore nell’abbracciare suo padre che oramai sentivo<br />
come mio padre. Mi attaccai disperato al suo collo baciandolo<br />
sette volte sulla bocca come insegna il divino Pitagora. Il numero<br />
sette è sacro e propizio, l’unico, adatto a ringraziare la persona<br />
cui si deve la vita. Dopo averli salutati, restai ancora un poco<br />
sulla porta indeciso, m’intrattenei come era mio dovere, forse<br />
avrei dovuto chiedere perdono per non poterli ricompensare<br />
adeguatamente dei tanti benefici ricevuti. Ero turbato al pensiero<br />
di rompere quel legame che mi univa a loro. Per un momento solo,<br />
mi sentii tra l’incudine e il martello, per un momento solo<br />
73
ischiai di perdere la testa, ma poi, lo sguardo appassionato di<br />
Lenia, i suoi riccioli biondi, non mi hanno sconvolto più di<br />
tanto, non provavo molto dolore lasciandola, anzi, all’improvviso,<br />
mi resi conto che non vedevo l’ora di rimettermi in viaggio.<br />
Lesto, raccolsi i miei pochi bagagli e sgusciai fuori. Una volta<br />
in strada, misi i piedi in spalla e via…Da quel momento niente mi<br />
stava più a cuore che salpare verso Viterbo. Che ci posso, fare?<br />
Nonostante quella creatura fosse incantevole più di un angelo,<br />
tanto <strong>bella</strong> da togliere il respiro, ad un passo da lei, non voglio<br />
dire che era come se fosse morta ma… ad un passo da lei, è stato<br />
come se non l’avessi mai incontrata. Lenia non è riuscita ha farmi<br />
dimenticare la donna del mio sogno, è solo tra le braccia di<br />
madreperla della fanciulla del mio sogno che s’intrigano le stelle<br />
più belle.”<br />
“ Parrebbe che quella fanciulla ti abbia seguito per tutto il<br />
lungo viaggio.”<br />
“Sì” Lei era con me ad ogni angolo, ad ogni incrocio. Sulla<br />
mia strada ho incontrato di tutto: il buono e il cattivo, il bello<br />
e il brutto, dolore, fame, sete, freddo, caldo, ma anche carità,<br />
generosità. Sono stato esposto alla furia degli elementi: alla<br />
rabbia degli uomini, delle bestie e, nonostante l’angelo della<br />
morte mi ronzasse spesso attorno, ho persino varcato la soglia di<br />
Proserpina, ma la mia musa ispiratrice mi ha sempre protetto e,<br />
soprattutto, mi ha guidato, o forse sarebbe meglio affermare che<br />
mi ha trascinato tirandomi per i capelli, fino al lungo sentiero<br />
che serpeggiando mi ha condotto qui a Viterbo. Però, se per<br />
trovarla fosse necessario viaggiare ancora, per lei ragazzo, sono<br />
disposto a ricominciare tutto da capo. Per trovarla, farei come<br />
74
Diogene di Sinope che di notte alloggiava in una botte e in pieno<br />
giorno andava errando per le vie di Atene con la lanterna accesa,<br />
cercando l’uomo. Per lei vagherei come i monelli di Parigi che<br />
girano mezzi nudi per i tuguri della città ai bordi della Senna,<br />
senza scarpe ai piedi, vestiti solo di cenci. <strong>La</strong> vita ha abituato<br />
quelle strane creature a resistere a lungo mangiando poco e<br />
dormendo dove capita. Quei monelli: magri, gracili, lentigginosi,<br />
sempre pesti, eternamente ricoperti di vistose chiazze di lividi,<br />
riescono a scalare qualsiasi muro, s’arrampicano sugli alberi,<br />
scendono dai camini, si tuffano a testa bassa nella Senna,<br />
s’infilano nelle chiaviche, nelle fogne, in ogni buco. Pescano<br />
indifferentemente, sia negli stagni, sia negli orti e, rivoltando<br />
il letame della spazzatura, quei piccoli eroi, scotendo i capelli<br />
come fossero la criniera di un leone, dalla spazzatura riescono a<br />
cogliere rossi papaveri e, in un attimo solo, il monello diventa<br />
gigante, suddito e re di se stesso.<br />
Prima di entrare a corte, ho bighellonato come un filosofo<br />
vagabondando a lungo per respirare tutti i confini di Parigi, quel<br />
periodo per me, è un pozzo di ricordi profondi. In quei giorni,<br />
tristi - allegri, dove ho dormito sotto gli archi dei ponti,<br />
accanto alla ruota di un mulino a vento o più spesso sul grande<br />
sacrato della cattedrale di Notre – Dame; ho incontrato bande,<br />
schiere intere di quei simpatici monelli: tumultuosi, fetidi,<br />
impolverati, stracciati, arruffati, che impastati di fango dopo<br />
aver giocato a lungo con lucertole, rospi, ragni e pipistrelli, a<br />
sera, al calar della notte, mi insegnavano i nomi delle stelle<br />
grandi e piccole che rispendono nel cielo di Parigi, poi, si<br />
accartocciavano per terra come dentro un nido immaginario e<br />
75
dormivano beati. A volte li ho sentiti zufolare, cantare,<br />
borbottare, spesso intonavano un miserere e pure se l’intento loro<br />
era di scimmiottare tutto e tutti, mentre motteggiavano, senza<br />
avvedersene salmodiavano il loro Dio. Anche se non hanno casa, non<br />
hanno pane, non hanno fuoco, non hanno amore, anche se hanno meno<br />
di nulla, quelle creature, quelle anime innocenti sono felici:<br />
allegri e liberi, percorrono in lungo e in largo tutti i confini<br />
della città con un vecchio cappello che gli cala sopra le<br />
orecchie, fischiando, cantando e ballando per strade e vicoli. Sì!<br />
Per trovare la fanciulla del mio sogno, viaggerei a piedi come<br />
quei monelli trascinando la mia viella sopra un dorso di mulo o su<br />
carri improvvisati, per lei andrei all’infinito per monti, terra e<br />
mare, Per lei dormirei sopra la paglia, in sudice locande assieme<br />
a viaggiatori in quarantena. Per trovarla, striscerei per il mondo<br />
vagando giorno e notte, finché dal buio attraverso spazi<br />
sconosciuti non affiori la scia luminosa di una stella caduta dal<br />
firmamento, sarà la coda vaporosa di quella cometa ad indicarmi la<br />
strada fino ai confini della terra e…anche oltre. Lo giuro<br />
ragazzo, per la giovane del mio sogno, per addormentarmi tra le<br />
sue braccia di neve come un’ape sul fiore. Per specchiarmi nel<br />
candore dei suoi seni e bere dalle sue labbra il succo dolce delle<br />
more per poi finalmente mischiare il mio sangue col suo, per lei,<br />
per lei, per lei e… per lei sola, se fosse necessario, andrei<br />
anche oltre i confini della nostra vecchia, amata terra.”<br />
“Deve essere molto bello un amore così forte. Non so se<br />
invidiarti di più quest’amore, o il tuo bellissimo viaggio<br />
vagabondo.”<br />
76<br />
“Ragazzo, noi uomini siamo vagabondi per natura, ognuno giunge
da qualche luogo. Viaggiare è un’arte astratta. E’ come tentare di<br />
acchiappare una rondine nel deserto, è fuggire per poi subito<br />
ritornare, morire per rinascere. Viaggiare è soffocare l’occhio<br />
nell’ebbrezza di mille paesaggi che s’inseguono, si rincorrono,<br />
sfuggono per restare per sempre dentro di te, è tendere le mani<br />
quasi ad acchiappare l’attimo fuggente che passa perché, quando è<br />
passato è passato. Viaggiare è dovere di ognuno, affinché non ci<br />
si ritrovi vecchi e si debba scendere dal cavallo della vita senza<br />
aver visto il mondo oltre la siepe nera, viaggiare ragazzo, è<br />
tutto questo e molto altro ancora, ma l’amore, l’amore ragazzo,<br />
l’amore, è come un’ape ubriaca di miele che contorcendosi ti ronza<br />
nell’anima. L’amore è come rinchiudere il sole in una lanterna, è<br />
come un parto…dà molto dolore, molte doglie, ma poi… L’amore<br />
ragazzo è una strada senza fine, un viaggio verso l’infinito e, le<br />
parole, le parole ragazzo mio, non bastano per descriverlo.”<br />
“Io straniero, ho sempre pensato che l’amore è solo specchiarsi<br />
negli occhi dell’amato, bere un fiotto d’acqua dalla sua stessa<br />
bocca. Forse l’amore è solo questo, ma per te parrebbe che sia<br />
come un fiume in piena che ti trascina. Un fiume che porta con sé<br />
l’odore dei giunchi, il canto di centinaia d’uccelli che fanno il<br />
nido su quei giunchi e, anche se ti legassero ai ceppi con catene<br />
di ferro e se tua madre e tuo padre ti tenessero per i capelli,<br />
quel fiume, menestrello, ti trascinerebbe ancora e ancora e<br />
ancora, come…<br />
“…Un’onda anomala del mare. Perché un uomo senza amore ragazzo<br />
mio, è come una donna sterile senza figli: inutile più del cardo<br />
spinoso e secco che non è buono neanche per il fuoco. “<br />
77<br />
“Ascolta menestrello, ho sentito narrare che l’uomo innamorato
che osa vagare da solo da un capo all’altro dell’Universo senza<br />
riuscire a trovare una pietra dove poggiare il capo, alla continua<br />
ricerca della sua donna, oltre ad essere solitario per natura, è<br />
anche un po’ folle. Si racconta che quell’uomo folle, a<br />
mezzanotte, sempre incontra i fantasmi del passato, loro penetrano<br />
nelle crepe della sua grotta e lui ci parla e tenta di afferrarli<br />
e, all’alba, quando riapre gli occhi insonni, l’uomo folle, si<br />
trova imprigionato nella sua tana dove al posto degli spettri,<br />
dall’alto pendono scorpioni e vipere. Dimmi che queste storie non<br />
sono vere menestrello, convincimi che sono solo racconti cattivi<br />
di gente invidiosa che non ha mai amato, dimostrami che l’uomo<br />
innamorato è una creatura solitaria nascosta dietro una maschera<br />
di vento…solo perché è molto più fragile degli altri, specialmente<br />
quando come te, insegue un amore sognato, ma…se non puoi<br />
convincermi di questo, allora permettimi di darti un consiglio<br />
menestrello. Non cercare più quella fanciulla, a meno che tu non<br />
voglia pensare seriamente ad un incontro con qualche saggio<br />
indovino capace di leggere nell’infinito libro dei segreti della<br />
natura e magari possa aiutarti a svelare il tuo strano sogno.<br />
Io menestrello, ho conosciuto un vecchio profeta di nome<br />
Achille, giaceva ogni notte sotto un pergolato nella<br />
contemplazione di grappoli d’uva e di stelle. Bastava mostrargli<br />
la mano del cuore e lui sapeva leggerla, conosceva pure i segreti<br />
racchiusi nei sogni e molto spesso riusciva persino ad<br />
interpretarli...”<br />
“…Veramente ragazzo hai incontrato sul tuo cammino un uomo<br />
capace di svelare tali misteri occulti? Racconta come lo hai<br />
conosciuto? Che dovrei fare per incontrarlo? Parla: che posso<br />
78
fare? Pensi che potrei venire con te a parlargli un giorno di<br />
questi?”<br />
“No! Nemmeno le sirene né le ninfe che lui amava tanto possono<br />
incontrarlo più a questo mondo. Achille che adorava raccogliere i<br />
fiori del bosco, spesso l’ho visto seduto tra papaveri e orchidee<br />
selvagge: affondava il volto tra i petali come a respirare<br />
l’essenza stessa della vita, amava pure vivere libero come gli<br />
uccelli dell’aria, per questo un giorno i cacciatori l’uccisero<br />
con le loro frecce.<br />
Achille era un giovane semplice, viveva nella zona montuosa del<br />
piccolo pago di Bangaria. Era nato in una piccola casa poco più di<br />
una capanna, trascorreva la primavera della sua vita pascolando le<br />
pecore sulle verdi alture. Spesso sostava sulla sponda del fosso,<br />
all’ombra del noce e del sambuco: suonava la zampogna o stava in<br />
tranquilla contemplazione dell’acqua che scorreva. Era ancora un<br />
ragazzo quando incominciò a sentire una voce senza corpo che gli<br />
frusciava intorno chiamandolo nel vento. Di chi era quella voce?<br />
Da dove veniva, dal cielo, dalla terra o da sottoterra? Cosa<br />
voleva da un piccolo pastore imprigionato tra le rocce? Era forse<br />
un seme inconsapevole che volava nell’aria, un raggio di luce che<br />
avrebbe illuminato per sempre la sua vita, o un demone apparso<br />
dalle crepe della terra per renderlo ridicolo tra gli uomini della<br />
sua tribù?<br />
Un giorno Achille, mentre riposava sotto un’acacia fiorita,<br />
ascoltò di nuovo la voce, allora si gettò in ginocchio tese le<br />
braccia come un mendicante e, mentre l’emozione soffocava la sua<br />
parola esclamò: che vuoi da me destino? Dov’è il Divino che vive<br />
in te? Io sono un semplice uccello che fischia la sua canzone, una<br />
79
farfalla che vola leggera sulle corolle dei fiori. Ma tu, tu chi<br />
sei? Rispondi, tu che mi parli e mi chiami senza farti vedere,<br />
senza farti toccare, dimmi chi sei. Se non sei il mio destino,<br />
parla, dimmi, sei forse uno spettro venuto dall’eternità o il mio<br />
stesso passato che ritorna? Soltanto il silenzio rispose. Achille<br />
pensò che lo spirito lo aveva abbandonato. Solo e disperato, restò<br />
per molto tempo in ginocchio sullo scoglio finché, volse lo<br />
sguardo attorno e vide il ranuncolo, la verbena, le felci e<br />
l’ortica crescere a fianco a fianco, poi, sentì l’upupa e il merlo<br />
cantare assieme; allora, nell’abbandono della sua solitudine,<br />
pianse.<br />
In quel momento da dietro i giunchi, i salici e i ligustri del<br />
fosso, si materializzò una creatura di soprannaturale bellezza.<br />
Aveva la testa avvolta in una nuvola di gigli che le cingevano la<br />
chioma vermiglia. Dove trascinava il manto della sua veste,<br />
trattenuto da un tralcio di vite, nascevano papaveri rosa. <strong>La</strong><br />
Ninfa, si fermò accanto a lui, le sue labbra avevano il sorriso<br />
degli angeli e nei suoi occhi si nascondevano gli arcani della<br />
vita.<br />
<strong>La</strong> figlia dei boschi, lentamente, con dita di bruma, gli chiuse<br />
le palpebre affinché il pastore potesse vederla solo con gli occhi<br />
dell’anima, infine, dopo aver posato le mani delicate sul capo di<br />
Achille, dopo avergli accarezzato la fronte che scottava, lo<br />
attrasse a sé baciandolo a lungo sulle labbra.<br />
Il giovane a quel contatto, udì una musica celeste levarsi<br />
leggera nell’aria. Quella musica, placò le onde del suo dolore,<br />
restò ad ascoltarla per tutta la notte e, all’alba del giorno<br />
dopo, prima che il sole comparisse all’orizzonte, era ancora<br />
80
adagiato sull’erba sotto l’acacia fiorita in comunione con il<br />
creato. Cercava di scoprire in tutto quello che vedeva e sentiva,<br />
la verità delle cose e, quando il suo spirito si avvicinò ai<br />
meravigliosi segreti della natura, subito si sentì sollevare da<br />
terra come se due ali invisibili gli portassero via l’anima.<br />
Intanto la voce continuava a sussurrargli nel vento: vai, vai pure<br />
tranquillo, non temere le spine lungo il sentiero. Così Achille<br />
decise di lasciare per sempre la sua casa, il padre e la sorella<br />
per stabilirsi da solo in una caverna sul monte Nibbio a meditare<br />
lontano da tutto e da tutti.<br />
Presto imparò a conoscere la magia delle erbe, Achille amava<br />
sedersi sulle rocce a contemplare la natura: ascoltava rapito<br />
l’eco che saliva dal profondo delle gole, fissava le lunghe ombre<br />
del tramonto, sapeva carpire la fugace attenzione di un istante.<br />
<strong>La</strong> gente dei dintorni, cominciò a ricorrere alle sue cure quando<br />
cadeva malata. Lui, con erbe, radici, ma soprattutto con le foglie<br />
strappate prima dell’alba dagli steli delle piante di artemisia,<br />
piante magiche dall’odore pungente che stordisce, Achille, con i<br />
petali dei fiori di quelle piante che metteva ad essiccare sotto<br />
pietre bollenti e poi macinava a lungo, riusciva a guarire tutti.<br />
Molti per questo, lo consideravano un veggente, un profeta, ma<br />
c’era anche chi lo chiamava stregone e aveva paura.<br />
L’estate volgeva alla fine quando lo incontrai la prima volta.<br />
Poggiato ad un alto, nodoso bastone, ricavato dal tronco di un<br />
arbusto di corniolo, Achille, seguito dalla sua capra bianca,<br />
risaliva lento il sentiero del monte Nibbio dove viveva eremita in<br />
perpetuo. Era quasi buio e lui sembrava sfinito, infatti, si fermò<br />
a riposare sul ciglio della sua caverna senza entrare. Subito una<br />
81
miriade d’uccelli, uno stormo intero gli si strinse attorno, erano<br />
così tanti che molti non riuscivano a trovare posto sui rami per<br />
posarsi. Io che ero lì a cercare il legno per costruire un flauto,<br />
vedendo quello spettacolo incredibile, m’avvicinai. Achille stava<br />
tranquillamente masticando un ciuffo di finocchio selvatico che<br />
aveva appena colto dal lato soleggiato del macigno dove si era<br />
seduto, i lunghi, candidi capelli, gli ricadevano sulle spalle e<br />
sul petto. Senza parlare, gli offrii l’acqua del mio otre e un<br />
pezzo di pane che tenevo nella sacca di cuoio, lui, in cambio mi<br />
diete un pugno di noci che prese dalla sua scarsella. Diventammo<br />
subito amici il vecchio Achille ed io. Dopo quella sera, sono<br />
andato molte volte alla sua caverna, spesso restavamo svegli tutta<br />
la notte a guardare il corso delle stelle e mentre aspettavamo il<br />
giorno, lui mi raccontava di uomini d’altre terre che sapevano i<br />
segreti delle profondità marine, parlava di perle splendenti che<br />
riposano nel profondo di mari a noi sconosciuti, raccontava delle<br />
stelle che splendono in cieli invisibili. Quante volte<br />
ascoltandolo mi pareva di camminare sulle vette dove solo le<br />
aquile costruiscono i nidi. Sì! Il mio amico Achille era un poeta!<br />
Ogni notte giaceva sotto un pergolato di stelle e grappoli di<br />
luce. Lui m’insegnò come spezzare le catene della schiavitù della<br />
mente, per essere libero finanche dai ricordi del passato,<br />
m’insegnò che un uomo ferito nell’anima è come un animale braccato<br />
e sanguinante, quell’uomo, come l’animale, se si vuole salvare,<br />
deve assolutamente nascondere al mondo il suo tormento. Il mio<br />
amico Achille, concludeva ogni suo racconto con<br />
quest'avvertimento: ricordati figlio mio, come un vero leone sa<br />
nascondere bene i suoi cuccioli e mai costruirebbe la sua tana tra<br />
82
felci o dune di sabbia, così pure le bianche colombe non si curano<br />
dei serpenti aggrovigliati dentro gli antri oscuri. Quei serpenti<br />
aggrovigliati, per Achille, erano tutti gli uomini stolti, uomini<br />
capaci d’azioni ignobili e distruttive.”<br />
“Quell’uomo saggio, ti ha insegnato veramente tanto, ma se ti<br />
ha svelato pure l’arte rara degli indovini, se ti ha fatto toccare<br />
con mano l’intimo palpito della sacra vite, se tu hai potuto<br />
toccare la linfa che nutre i tralci della conoscenza della mente<br />
durante il sonno, allora ragazzo, proverò a raccontarti il mio<br />
sogno fin dal principio.<br />
Alcuni giorni prima di andare in Francia, ero con la mia viella<br />
a cantare ad un banchetto nuziale. Mentre gli invitati mangiavano<br />
e i coppieri mescevano vino senza sosta, recitai antiche commedie,<br />
vecchie leggende e, solo nel meriggio sul tardi, in onore alla<br />
giovane moglie, intonai i cantici d’amore del re Salomone. Cantai<br />
dello sposo che condusse l’amata nella sua tenda, del giovane<br />
vignaiolo che amava la figlia del padrone e la portò nella capanna<br />
della vecchia madre, del principe che incontrata una vergine<br />
mendica la condusse con sé al castello incoronandola regina.<br />
Cantai anche delle meraviglie del paradiso, dei fiori delle stelle<br />
che si schiudono solo di notte e dei fiori del cielo che non hanno<br />
bisogno del sole per vivere. Continuai fino al calare delle<br />
tenebre e anche più tardi, augurando loro ogni bene fino alla<br />
terza, quarta, quinta generazione. Pure se cantare è il mio pane,<br />
alla fine mi bruciava la gola ma solo quando non ci fu più vino,<br />
la festa finì. Allora stracco morto, finalmente tornai alla mia<br />
casa. Mi fermai al giardino di mia madre e dopo aver bevuto<br />
dell’acqua dal pozzo, senza entrare, mi sdraiai presso il cancello<br />
83
sotto una pergola di gelsomini bianchi, subito piombai in un sonno<br />
profondo.<br />
Verso l’alba, o forse nell’ora più tranquilla della notte,<br />
mentre giacevo addormentato sul medesimo giaciglio d’erba e terra,<br />
sentii mille strumenti risuonare, erano dolcissime armonie che mi<br />
rimbombavano nelle orecchie. Forse aprii gli occhi o forse no, ma<br />
tra le nubi che mi apparvero e pareva che stessero per cadere sul<br />
mio capo, si aprì uno squarcio e scese, con una grazia infinita,<br />
eguale ad un angelo dalle bianche piume, scese una creatura dal<br />
volto divino che si muoveva leggera, mentre attorno a lei, si<br />
sfogliavano le costellazioni del cielo bagnando di rugiada le<br />
foglie nuove e i boccioli dei fiori.<br />
Mi sforzerò ragazzo per descrivere la sua straordinaria<br />
bellezza, ma credimi, non sarà un’impresa facile: la lunga<br />
foltissima chioma scendeva morbidamente sul collo, sulla sommità<br />
del capo portava una corona di luce e anche dietro la testa era<br />
tutta una raggiera colore del grano. Pure la veste di neve che<br />
saliva dal fianco destro alla spalla sinistra formando un nodo per<br />
poi ricadere in mille pieghe, era ricamata con fiordalisi colore<br />
del sole. Quei fiori d’oro, simili ai fiori di croco, brillavano<br />
come stelle, sparse qua e là sul tessuto di seta. Ai piedi calzava<br />
sandali di foglie di palma. Così <strong>bella</strong> e maestosa m’apparve<br />
ragazzo.<br />
In principio non diedi molto peso a quella visione, ma poi,<br />
quella creatura, incominciò a visitarmi anche di giorno, stava<br />
ritta sopra una delle centonovantasette torri di questa città.<br />
Quando essa arriva, mi trascina trasporta l’anima mia in mondi<br />
remoti e sconosciuti. Dall’ora, se passa una notte o un solo<br />
84
giorno senza che la fanciulla fantastica dai capelli dal colore<br />
delle foglie d’acacia appena nate, capelli che profumano<br />
d’ambrosia, mi venga a trovare, ad ogni risveglio mi prende una<br />
paura folle e, ogni volta, muoio dal desiderio di cercarla. Senza<br />
di lei mi sento come un campo sterile, non arato, come un frutto<br />
acerbo che non potrà mai più essere colto e, altro non possiedo<br />
che la voglia di baciare la sua bocca bagnata dal crepuscolo.”<br />
“Strano, parli come se quella fanciulla che viene a visitarti<br />
in sogno, ti abbia preso l’anima. Forse non è mentre dormi che lei<br />
ti appare, parrebbe che tu la veda avanti a te, viva, reale,<br />
presente, con tanto di chiome sciolte. Ma forse vi siete già<br />
incontrati in una vita lontana, magari in una vita precedente,<br />
avete mangiato ciliegie nello stesso campo di grano, forse siete<br />
stati i petali della stessa rosa o magari vi siete nascosti dentro<br />
la stessa lacrima…”<br />
”Nascosti dentro la stessa lacrima? Non avevo mai sentito<br />
un’espressione così surreale, però, mi sembra molto <strong>bella</strong>, certo,<br />
se ci fermiamo a pensare al misterioso scorrere dei secoli…Ascolta<br />
piccolo giovane, voglio aprirti il mio cuore fino in fondo. Quando<br />
ero alla mia isola natia e correvo sempre sulla <strong>bella</strong> spiaggia<br />
bianca, pensavo che i sentieri che portavano alla mia casa, gli<br />
alberi del giardino, il mare, le strida dei gabbiani attorno al<br />
vulcano della mia isola, la mia casa stessa, erano solo case,<br />
montagne, alberi, sentieri e, i gabbiani, erano uccelli come ci<br />
sono dappertutto e… mia madre, era solo mia madre. Ma poi, quando<br />
arrivai a corte, ripensando a lei…”<br />
“Anche quando bighellonavi dormendo sotto gli archi dei ponti<br />
di Parigi sentivi la mancanza di tua madre, menestrello?”<br />
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Frisigello scosso dal flusso dei ricordi, si sente precipitare<br />
nell’abisso degli anni e, mentre s’interrompe bruscamente, guarda<br />
a lungo Almenia con diffidenza infine sospira e, dopo un silenzio<br />
riprende a narrare con voce esitante e le parole, gli escono dalle<br />
labbra come fosse preda di un incantesimo.<br />
“Che strano potere, che magia nascondi ragazzo per evocare<br />
questi miei ricordi? Parlare con te è come parlare a me stesso.<br />
Certo che mi mancava mia madre, più di un braccio o di una gamba<br />
mi mancava, più dell’aria che respiravo, ancora oggi mi pareva di<br />
sentire nel vento il suo profumo che sapeva di salsedine, di<br />
alghe, perfino adesso, in questo preciso momento, l’odore di<br />
questo fuoco, il fumo che brucia la gola e questo buio negro mi<br />
parlano di lei. I primi giorni che abitai a corte, pensando alla<br />
nostra casa, a tutte le piccole grandi cose che avevo lasciato,<br />
sentivo un incanto doloroso. Spesso mi ritornava alla mente<br />
l’immagine di mia madre con uno dei miei fratelli sempre attaccato<br />
al seno, ed io che gli tiravo la veste quando macinava l’orzo,<br />
ogni cosa mi ritornava alla mente così vivida da farmi piangere e,<br />
la malinconia si piantava come un pugnale arrugginito sul mio<br />
petto, ma quel pugnale ragazzo, quel pugnale non è niente rispetto<br />
alla montagna che mi schiaccia quando vedo gli occhi ardenti della<br />
mia fanciulla, perché, bada bene ragazzo, i suoi occhi, che mi<br />
sembra di conoscere dall’inizio del mondo, i suoi occhi, li vedo<br />
anche da sveglio. Ogni volta che mi chino in una fontana, in una<br />
sorgente mi appaiono come dentro uno specchio. Scintillano<br />
nell’acqua come stelle nel cielo tempestoso ma quando cerco di<br />
scrutare tra le nebbie profonde della mia visione per vedere il<br />
resto del volto di quella creatura, esso sparisce avvolto nel<br />
86
negro della tenebra. E’ come se quella fanciulla si nascondesse<br />
per rendermi poeta, quasi che fosse lei la <strong>poesia</strong> stessa. <strong>La</strong><br />
<strong>poesia</strong> che mi chiama incarnando la sua voce, in due occhi<br />
bellissimi. Sì! E’ vero, nella sua voce c’è il sussurro delle<br />
lacrime della pioggia, la danza degli alberi assetati del deserto.<br />
Tu credi sia possibile ragazzo che lo spirito dissotterrato della<br />
<strong>poesia</strong> venga a bussare alla mia porta affinché mi svegli, lasci il<br />
letto e correndo… “<br />
“Calmati, ascoltami straniero, per quanto poco io abbia<br />
assaporato i grappoli della conoscenza, per quanto poco io abbia<br />
libato il dolce nettare degli acini schiacciati sotto il torchio<br />
del sapere lassù sul monte Nibbio assieme al mio amico eremita,<br />
anche se non è molto quello che posso dirti, una cosa è certa:<br />
Achille affermava che, ogni mille anni, il sole, la luna e questa<br />
terra con tutti i pianeti fratelli, si allineano per salutarsi per<br />
qualche istante. In quell’istante magico, anche le anime degli<br />
innamorati che si sono imbarcati sull’arca dello spirito<br />
raggiungendo l’eternità prima di godere delle dolcezze dell’amore,<br />
possono riunirsi nel tempio invisibile e decidere di lasciare il<br />
mondo delle ombre per incarnarsi di nuovo e tornare da chi tanto<br />
hanno amato in passato. Quelle anime s’incontrano ancora e, dal<br />
pozzo dell’amore, mentre bevono insieme la brina dell’alba nelle<br />
piccole coppe della ghianda del leccio, stringono arcobaleni nel<br />
cavo della mano. Però dopo quell’istante, le anime degli amanti,<br />
tornano ancora a separarsi e aspettano il trascorrere d'altri<br />
mille anni per incontrarsi di nuovo. Tuttavia non sempre le nostre<br />
orecchie possono sentire il passo del nostro io più grande che è<br />
come una musica impalpabile dentro un velo di nebbia, né i nostri<br />
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poveri occhi mortali riescono a vedere quel prodigio. Chissà<br />
quante volte hai già attraversato questo mondo menestrello, chissà<br />
quante terre hai già percorso, ma sai tu dirmi in quali di esse<br />
sei stato considerato straniero o pazzo? Quante volte avrai<br />
camminato nei crocicchi dell’India, nella terra dei Magi. Quante<br />
volte avrai seguito le carovane sulle sabbie infuocate d’Egitto e,<br />
nelle oasi, avrai contemplato il bellissimo fiore di loto, così<br />
tanto amato da Cleopatra. Quante volte pregando la dea Iside,<br />
avrai suonato il sistro e, presso le tombe dei faraoni, mille<br />
volte il tuo sandalo avrà calpestato il velenoso serpente del<br />
Nilo, ma sai tu dirmi chi ti ha offerto da bere ai pozzi? Sono<br />
sicuro che non ricordi neanche più la bellissima nomade della<br />
steppa, la beduina che t’indicò le fonti d’acqua dolce, i pozzi<br />
avvelenati, i luoghi sterili e quelli fecondi. Spesso avrai<br />
cantato alla corte del re Mitra e della regina Didone, l’errabonda<br />
fondatrice di Cartagine, forse per quella grande ed infelice<br />
regina hai cantato più volte il famoso Cantico dei Cantici del re<br />
Salomone che ti piace tanto. Magari sarai stato al seguito della<br />
regina di Saba quando si recò a Gerusalemme per incontrare proprio<br />
lui: il saggio Salomone. Potresti aver suonato durante la danza di<br />
Salomè figlia d‘Erode. Forse sei stato giullare nella vecchia<br />
Inghilterra magari al servizio delle figlie del leggendario re<br />
Lear o in un lontanissimo passato, vivevi con i seguaci di<br />
Zoroastro il grande profeta. Anche il grande Zoroastro, si destò<br />
dal suo lungo sonno e si fermò presso il letto di un sognatore.<br />
Può darsi benissimo che tu abbia amato in passato quella creatura<br />
straordinaria che adesso ti cerca. Sono sicuro che hai dormito con<br />
lei nei giardini incantati dell’amore dove il vento ammucchia gli<br />
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arcobaleni prima della tempesta e, se il vostro amore è stato così<br />
forte da sopravvivere ai secoli, giustamente ora lei, destata dal<br />
suo lungo sonno, si è fermata presso il tuo letto affinché tu la<br />
riconosca.”<br />
“I giardini incantati dell’amore? Che ragazzo strano sei.<br />
Veramente il tuo Achille ti ha insegnato che le anime degli amanti<br />
possono ritornare ad incontrare di nuovo sulla terra coloro che<br />
tanto hanno amato nelle altre vite? Sarebbe mai possibile tutto<br />
questo?”<br />
“Certo menestrello, tutti noi viviamo più vite. L’infinito non<br />
serba nulla all’infuori dell’amore, nulla resta oltre gli atomi<br />
d’amore.”<br />
” Dunque, se il tuo profeta affermava questo, è vero che spesso<br />
l’uomo saggio nasconde la sua saggezza sotto un manto di follia e,<br />
solo raramente ...”<br />
“…il folle, nasconde la sua follia sotto un manto di saggezza.”<br />
“Chissà che avrebbe pensato Achille di me sapendo che per<br />
sognare la mia fanciulla, mi addormento pure sui sassi e, non solo<br />
quei sassi, per me, sono più soffici di un tappeto di rose, ma mi<br />
sveglio col desiderio di sognare ancora. Quella creatura mi<br />
trascina e io non posso fare altro che seguirla. E’ talmente <strong>bella</strong><br />
che…”<br />
“Ricominci da capo menestrello? Oramai ho capito, lei è di una<br />
bellezza più che divina. Cento volte hai cercato invano di<br />
abbracciare il tuo sogno alato e cento volte l’immagine ti è<br />
sfuggita come un vento leggero perdendosi per sempre nella sua<br />
strana luce dorata, in quell’azzurro livido che la circonda. E’<br />
giusto?”<br />
89
“Bravo! Però, quando succede, la mia anima si riduce uno<br />
straccio, sì! <strong>La</strong> mia anima diventa una serva stracciona che<br />
mendica nella tana del lupo per poi trasformarsi in una<br />
principessa che danza nel giardino del re. Forse non me ne curerei<br />
più di tanto, se oltre ad essere così <strong>bella</strong> e intrigante,<br />
quell'angelica figura senza ali che da sopra la torre m'invita a<br />
seguirla e non mi lascia dormire, non me ne curerei, se ogni notte<br />
non uscisse dal sogno per entrare dentro di me incatenandomi a lei<br />
con quegli strani riccioli dal colore delle foglie d’acacia appena<br />
nate.”<br />
Almenia che si è riconosciuta nel ritratto del menestrello,<br />
calca il più possibile il suo cappello per non fargli vedere<br />
l’inconfondibile colore dei suoi capelli e, intanto risponde:<br />
“Talmente forte e inquietante è il tuo sogno che se ho ben<br />
capito, ti segue pure da sveglio. Dalla foga con cui lo narri,<br />
parrebbe che non te ne vuoi scordare nemmeno per un attimo.”<br />
“Solo gli ipocriti mentono sapendo di mentire, ed io non posso<br />
certo mentire a me stesso. Per seguire il mio sogno, ho lasciato i<br />
meravigliosi giardini del re, colmi d’arance e melegrane, giardini<br />
stupendi dove nel parco, ogni mattina si esibiva il mangiatore di<br />
spade, giardini dalle mille fontane zampillanti di giochi d’acqua,<br />
fontane che durante le rappresentazioni del mistero, gettano dalle<br />
mille bocche: vino, latte e miele dove chiunque, può bere a<br />
volontà fino all’alba. Per quella fanciulla che non riesco a<br />
sradicarmi dal cuore e dalla mente, non solo lascerei ancora la<br />
Francia ma abbandonerei altre cento volte mia madre. Per svelare<br />
quella visione che per me è come un avvoltoio, sono diventato una<br />
creatura della strada. Sì! Il mio sogno è un avvoltoio che<br />
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volteggia nell’aria guardandomi da sopra la rupe con gli artigli<br />
tesi, pronto a rapirmi, ma io amo quell’avvoltoio come amo da<br />
morire il mio sogno che non mi lascia dormire. Oramai è la mia<br />
dolce prigione…”<br />
“Prigione? L’amore vero, non può essere mai una prigione.<br />
Quando una creatura ama con tutto il cuore, non deve avere dubbi<br />
né paure, altrimenti quel cuore, è solo un piccolo schiavo chiuso<br />
in una galera, uno schiavo che sogna col suo remo in mano la<br />
libertà ma ha paura di essa e, pure se continua a sognare, lo<br />
risveglierà presto la frusta del padrone.”<br />
“ Ma io credo nelle lusinghiere illusioni della mia prigione,<br />
devo credere. Per togliermi ogni dubbio sono venuto. Di certo non<br />
lascerò la città, senza aver prima incontrato la mia musa<br />
ispiratrice. Ogni giorno andrò dall’alba al tramonto e dal<br />
tramonto all’alba, cercandola ma…se non la dovessi trovare, giuro<br />
che getterò alle ortiche la mia viella, mi vestirò di sacco e<br />
andrò errando di torre in torre, notte dopo notte all'infinito!<br />
Non so cosa mi aspetta, però, se è vero com’è vero che, il vecchio<br />
Achille ti ha insegnato a leggere i sogni nascosti nelle mani di<br />
ognuno, vuoi leggere la mia?”<br />
“No! Non mostrarmi la tua mano, pure se sapessi leggerla, non<br />
la leggerei. Forse non ti ho già risposto abbondantemente? Non sai<br />
ancora menestrello che il futuro deve rimanere per tutti un<br />
mistero? Il contadino che ne sa, quando ara e zappa la terra,<br />
strappando via le erbacce, che ne sa, mentre fa cadere i grani,<br />
come sarà il raccolto. Non sa se sarà un anno sterile o fecondo,<br />
non sa se la spiga stringerà il suo grano o arriveranno freddi<br />
chicchi di grandine oppure cavallette. Non si chiede, mentre<br />
91
combatte la cicuta velenosa e l'ortica pungente, quante covoni<br />
verranno.”<br />
“Non avrei mai creduto che sotto questo cappellaccio potesse<br />
nascondersi una risposta così sibillina. In te, si racchiude la<br />
saggezza dei vecchi. Parrebbe che tu conosca profondamente la<br />
vita. Ma dimmi, se la fanciulla del mio sogno esiste, come sono<br />
certo che esiste, perché credi che non la debba cercare se quando<br />
penso a lei, tutto quello che in me è argilla, tutto quello che in<br />
me è respiro la invoca disperatamente? E’ solo per lei che sono<br />
venuto.”<br />
“Fossi in te, penserei alla fanciulla senza pensarci, la<br />
cercherei senza cercarla.”<br />
“Le tue parole sembrano rubare il miele alle api, all’inizio<br />
cadono dalle labbra tenere e dolci come gocce di rugiada per poi<br />
trasformarsi in un subito in cristalli di ghiaccio taglienti come<br />
lame che bruciano e, eguali a colombe di fuoco scivolano lente<br />
nell’orecchio, ma dimmi ragazzo, che ci faceva un piccolo oracolo<br />
come te, questa notte nella torre, oltre ad ascoltare il mio<br />
canto?”<br />
Almenia che per tutta la notte ha sentito il freddo brivido<br />
del presagio, sa molto bene che il destino non si può fermare né<br />
modificare, tutto è già stato scritto nel cielo da molto tempo,<br />
quindi risponde con la grande saggezza della sua gente:<br />
"Oscura e aspra a volte sembra la vita! Ognuno di noi insegue<br />
quello che crede di non avere. Io vado per un sentiero, tu vieni<br />
da esso. Tu dentro queste mura cerchi un sogno, io, scappo da qui<br />
appena annotta. Vedi? L’antica luna, da dietro quei monti si<br />
solleva e mi chiama. Così mentre tutti dormono, io mi sveglio dal<br />
92
sonno, salgo sul tetto con le orecchie tese e, come quando infuria<br />
la tempesta e si risveglia il soffio del vento che trascina nel<br />
vortice gli alberi, i rami spezzati, i covoni di grano, la sabbia<br />
e le pietre, così forte e impetuosa la luna, trascina anche me.<br />
Allora io fuggo da qui!”<br />
“Per questo sei saltato dalla finestra della torre? Perché ti<br />
ha chiamato la luna? Tanta baldanza ti viene forse dalla stirpe<br />
ribelle e indomita dei Troiani dai quali discendi? Che altre<br />
favole puoi raccontarmi ancora ragazzo?”<br />
“Sì! Ogni notte inseguo la luna. Senza far rumore e senza<br />
scale, cammino sui vasi di gerani, sopra gli alberi di fico, sopra<br />
i tetti delle case, sopra i comignoli sporchi di fumo, sopra i<br />
terrazzi. Cammino, o forse…volo! Volo, sopra i cornicioni delle<br />
finestre, sopra i balconi, sopra le fontane, sopra le piazze,<br />
sopra i vicoli, finché arrivo ai merli di questa vecchia torre, da<br />
qui mi volto a guardare quelle povere piccole case, sprangate da<br />
lunghi, inutili paletti di ferro neri. Neri, come quella catena di<br />
monti che ammanta castagni e faggi, nascondendo la luna fino a<br />
sera, ammanta pure giardini d’arance meravigliosi e boschi, dove i<br />
papaveri sono molto più alti delle case e s’innalzano a sovrastare<br />
gli alberi per essere più vicini al sole.”<br />
“Troppo breve la notte per ascoltarti, nelle tue parole c’è la<br />
voce del mare, la voce del vento, il canto degli uccelli e pure se<br />
non vorrei interromperti, una domanda mi brucia la gola: è stato<br />
sempre quel vecchio profeta di nome Achille ha narrarti tanto?”<br />
“Non fu lui solo. Io so, che oltre quella selva di vulcani<br />
spenti, tutti gli esseri viventi sono liberi. I cavalli senza<br />
sella corrono dentro immense praterie dove l'erba è sempre verde,<br />
93
non esiste la notte e, all'orizzonte, lontano lontano, sempre vola<br />
un carro splendente trainato da un favoloso cavallo alato che va<br />
errando per i cieli. E' quello il carro giallo della Luce! Che<br />
importa se per salirvi bisogna morire! Morire, non è forse<br />
dissolversi nel sole per poi tornare a vivere, come ritorna il<br />
seme sepolto dalla neve? Ma ora dimmi menestrello, la vedi anche<br />
tu quella piccola luce lassù sopra i monti? Sta nascendo Lucifero<br />
la stella del mattino, adesso devo proprio andare, è arrivata<br />
l’ora di tacere, perché con la luce del sole, il silenzio è più<br />
vicino alla verità delle cose ed ha molte più risposte.”<br />
“Ascoltami ragazzo, anche se laggiù ad oriente, sta spuntando<br />
il giorno, anche se quelle strisce livide che strofinano le nuvole<br />
sono le messaggere dell’alba e ci raccontano che tra poco<br />
sentiremo il canto dell’allodola e noi dovremo andare, pure se<br />
abbiamo parlato per tutta la notte, non posso tacere ora, devo e<br />
voglio confessarti che, con te, ho provato e provo una strana<br />
sensazione, come ci fossimo avventurati fuori del tempo, questo mi<br />
accade spesso con la fanciulla del mio sogno, ma… con te è<br />
accaduto stanotte. All’improvviso mi è sembrato di conoscerti<br />
dall’inizio del mondo. Ma ora dimmi, ti rivedrò ancora piccolo,<br />
dolce poeta della notte?”<br />
“Non sa la nuvola dove la porta il vento, né il papavero sa<br />
dove cadrà il suo polline. Ma…forse un giorno c’incontreremo<br />
ancora menestrello. Forse.”<br />
Con quel forse, tanto amato da oracoli e poeti, un forse,<br />
sussurrato a fior di labbra con una voce soffocata, finisce il<br />
racconto di Almenia. E’ tutta in quelle parole la filosofia dei<br />
nomadi Figli della Luce che vanno errando per il mondo inseguendo<br />
94
la luna, inseguendo una libertà tutta surreale, condannati a non<br />
fermarsi mai, così come non si ferma la luna, né mai si ferma il<br />
sole, perché fermarsi è come un po’ morire.<br />
Frisigello, ascoltando il forse, di Almenia, è rimasto muto,<br />
strane emozioni si fondono e si confondono.<br />
Frattanto, sebbene il sole non sia ancora spuntato, lentamente<br />
si sta facendo giorno, una leggera tinta rosata incomincia a<br />
rallegrare una foresta di comignoli che svettano sulle tegole di<br />
coccio rosso. Intanto che le merlature delle torri e delle mura<br />
sono ancora avviluppate da una soffice cappa di nebbia, qualche<br />
finestra più mattiniera già si apre allegramente sopra i tetti.<br />
Subito cominciano ad arrivare i contadini: chi trasporta dei<br />
mucchi di fieno sui carri, chi dei sacchi di mandorle sulle<br />
spalle, le erbivendole hanno sul capo e sui fianchi ceste con<br />
frutta e verdura da vendere al mercato. Le fanciulle vanno<br />
cantando con canestri colmi di fichi neri ed erbe aromatiche, i<br />
ragazzi più piccoli trascinano stagnate di latte e cestini di<br />
vimini con la ricotta. In quel cicaleccio assordante qualcheduno<br />
da dentro apre finalmente la porta, tutti lesti, s’infilano sotto<br />
i portici.<br />
niente!<br />
<strong>La</strong> notte è finita, il fuoco è ormai spento e, sotto la cenere,<br />
Non è più tempo di parole, ognuno deve seguire la sua strada.<br />
Il menestrello, ancora seduto a terra con le braccia serrate<br />
attorno alle ginocchia, sbatte più volte le palpebre come per<br />
risvegliarsi poi, lentamente, impone ai muscoli irrigiditi di<br />
sollevarsi e, vacillando, con uno sguardo che non fissa più<br />
niente, si alza, ancora stordito, raccoglie la sua viella ad arco<br />
95
imasta silente, dimenticata per tutta la notte accanto alla<br />
porta. Anche Almenia si alza, calca il cappello fin sugli occhi,<br />
restituisce il mantello al giovane e, assieme, varcano porta di<br />
Valle.<br />
Senza guardarsi, s’inoltrano sulle pendici del colle del Duomo,<br />
passano avanti l’abbeveratoio: è vicino il tempo dell’uva, tempo<br />
di vendemmia, tutta la fonte è circondata da bigonci, botti e<br />
barili messi a mollo. Frisigello e Almenia affiancati, costeggiano<br />
le mura della chiesa di Santa Maria della Cella, quando arrivano<br />
all’annesso convento delle monache cistercensi, avanti il portone<br />
con la ruota, rallentano il passo, quasi trattengono il respiro<br />
nell’ascoltare il suono di un organo che accompagna un coro<br />
struggente. Dalla cappella, quel coro, scavalca le spesse mura del<br />
chiostro. E’ il mattutino, cantato dalle suore. L’inno degli<br />
angeli, serve a ricacciare l’oscurità nel profondo. Forse per un<br />
momento solo i giovani, immaginano le donne che hanno rinunciato<br />
al mondo per passare tutta la vita in ginocchio contemplando la<br />
propria ombra: una piccola folla di strane creature velate che, in<br />
castigo, si nascondono dietro la gabbia del coro, dormono sopra<br />
sacchi di paglia, dentro una cella livida, vestite solo di lana e<br />
rozza tela. Quelle creature innocenti, sono state condannate a<br />
vita a mangiare tutte assieme, alla medesima ora, lo stesso pane<br />
nero e, alla medesima ora si flagellano i fianchi col cilicio, si<br />
distendono sulla nuda pietra scorticandosi le ginocchia nel<br />
tentativo di fare ammenda di tutti i peccati del mondo, infine<br />
muoiono senza aver vissuto, dietro nere sbarre di ferro con una<br />
corda annotata intorno ai reni.<br />
96<br />
Una volta superato il portale con la ruota, passata l’emozione,
i giovani riprendono l’andatura lesta e leggera e, salito l’ultimo<br />
tratto di strada, si voltano a guardare alta come una cattedrale,<br />
la cima verde dell’abete che svetta al centro delle spesse mura<br />
del chiostro tra la cucina e il refettorio delle monache.<br />
Proseguendo, sorpassano il lavatoio con le vasche scavate dentro<br />
enormi blocchi di pietra grigia, finché arrivano sotto il ponte<br />
del Duomo avanti piazza della Morte e, quando finalmente sono<br />
all’incrocio dove la bottega di Berto, il vecchio cestaio di<br />
vimini, fa angolo con la celebre osteria del Boia che resta aperta<br />
tutta la notte, quello sarebbe il momento giusto per gli addii, ma<br />
sotto l’insegna della bettola tenuta su da una catena ciondolante,<br />
un vecchio conosciuto come l’Orbo, gesticolando li ferma.<br />
97<br />
In passato l’uomo, era stato maestro di scherma e un giorno
durante l’addestramento aveva perduto un occhio. Vedendo i<br />
giovani, esce correndo e, brandendo uno scalpello col manico di<br />
legno come fosse una spada, in un subito, inizia a gridare in<br />
direzione di Almenia:<br />
“Fermati ragazzo! Dove vai, chi ti chiama? A quale silenzio<br />
popolato di echi rispondi? Fermati, vuoi essere tu il mio piccolo<br />
dio Bacco? Quando il crepuscolo si sarà crocifisso sulle labbra<br />
del giorno e i campanili, le donne e le fontane riprenderanno a<br />
cantare, io e te scolpiremo margherite sulle ruote del tempo.<br />
Fermati ti prego, lasciati ritrarre dal lamento delle mie dita,<br />
lasciati partorire dal mio scalpello. <strong>La</strong> voglia di creare mi morde<br />
le carni come un cane rabbioso, il tuo ritratto sboccerà tra le<br />
mie mani come il frutto nel fiore. Fermati! Non proseguire, dimmi,<br />
sei venuto perché hai sentito il mio richiamo legato alla criniera<br />
di un cavallo? Hai sentito il mio dolore che ulula come un folle<br />
precipitato nel pozzo dei ricordi? <strong>La</strong> mia pena ti ha raggiunto<br />
attraverso la notte di gelide stelle? Forse hai sentito la mia<br />
anima ferita danzare tra lucciole di fuoco? Se resti con me<br />
ragazzo, ti coprirò di pampini e d’uva acerba, ti condurrò dove<br />
crescono le aspre, selvagge mele cotogne, aspre e selvagge ma…<br />
gialle e dorate come il sole. Per te ragazzo, scaverò la pietra e<br />
pescherò le stelle, per te, scoprirò i frutti gustosi nascosti nel<br />
nido dell’aquila, per te ruberò le more dal becco dei corvi.<br />
Fermati! Nel mondo, tutto è destinato a perdersi, a cancellarsi,<br />
tutto si rompe e passa, ma se ti lascerai ritrarre ragazzo, quando<br />
sulla terra non ci sarà più nulla, tu resterai per sempre nel<br />
sogni di ognuno. Resta con me, per te, coglierò dal cielo pesche<br />
dolci, per te e per te solo, ruberò campanili di bruma, comete di<br />
98
ugiada e se vuoi, ruberò persino i buchi neri della luna e poi…”<br />
Eccitatissimo, l’Orbo, attraversa la piazza correndo e nel<br />
farlo, si aggancia la giubba logora, ad una trave che poggiata di<br />
traverso sopra una carretta tiene fermo il carico durante il<br />
trasporto. Sopra il carro: tre barili di calce spenta e una fila<br />
di mattoni d’argilla scarlatta. Uno dei barili in equilibrio<br />
precario, nell’urto, si capovolge lasciando cadere una parte del<br />
contenuto sul disgraziato che, senza fermarsi continua a gridare<br />
alcune parole incomprensibili finché, rovescia gli occhi e crolla<br />
a terra svenuto. Ubriaco, satollo di vino e di parole, impiastrato<br />
di calce dalla testa al calcagno, il povero disgraziato rimane<br />
steso avanti a loro, più bianco e stecchito di un morto vero.<br />
Frisigello e Almenia nel tentativo di soccorrerlo, entrano a<br />
cercare aiuto nell’osteria ma questa, a quell’ora del mattino,<br />
appare deserta. Solo quando s’avvicinano all’angolo del camino,<br />
vedono seduta sopra una tavolaccia con i piedi nudi infilati nella<br />
cenere, una giovane serva che, mezza addormentata giace con una<br />
creatura in braccio. Sotto le cosce tiene uno scaldino di terra<br />
cotta colmo di tizzoni quasi spenti. Dal vetro rotto della<br />
finestra, entra un soffio d’aria che alimenta un fumo biancastro e<br />
fiammeggiante, mentre l’odore acre ed aspro del carbone inonda<br />
tutta la stanza, ad intervalli regolari risuonano le urla di<br />
bambini nascosti in qualche parte della casa.<br />
Intanto che i giovani assieme alla serva cercano di ripulire il<br />
malcapitato, il rumore e le grida hanno richiamato l’attenzione di<br />
un uomo che con un aspetto addormentato, finalmente emerge dal<br />
buco quadrato della finestra di una camera sopra l’osteria.<br />
L’uomo, è l’oste soprannominato Boia che, vedendo la scena<br />
99
dall’alto, aggrotta la fronte, poi, imprecando tra i denti, di<br />
malavoglia scende con infinita lentezza le scale borbottando:<br />
“Corpo di un cane! <strong>La</strong> spugna lercia velenosa più di una vipera<br />
ha ricominciato tutto daccapo. Brutto fagotto inutile come una<br />
lanterna rotta che non è buona manco per un ferrivecchi... ”<br />
L’oste, un omone con un naso spaventosamente enorme, il volto<br />
tutto butterato dal vaiolo sempre borbottando s’avvicina e, unite<br />
le forze, i quattro tutti assieme, riescono a riportare l’Orbo,<br />
poeta - folle, nella bettola. Lo adagiano sopra una specie di<br />
panca: una sbilenca, grossolana traversa di legno tutta tarlata<br />
poggiata sopra due file di mattoni. Piano piano per non sporcare<br />
il tavolo di calce, gli poggiano la testa alla parete, vicino ad<br />
una nicchia dove una candela arde dentro una bugia di rame.<br />
L’oste, che conosce quell’uomo molto bene, per farlo rinvenire,<br />
dopo avergli ripulito le labbra e i denti dalla calce, versa del<br />
vino dalla brocca di stagno, poi mette il bicchiere di creta<br />
bionda stracolmo fino all’orlo, sotto il naso del maestro di<br />
scherma, ma questo, non muove neanche una ciglia, allora il Boia<br />
ordina alla serva di prendere un altro bicchiere e poi un'altro<br />
ancora, ma solo quando i bicchieri sono cinque, lo sventurato<br />
sembra riprendersi. Dopo avergli svuotati uno dopo l’altro senza<br />
interruzione, poggia i gomiti sulla tavola, la testa<br />
all’inferriata della rozza scala a chiocciola e, quando Almenia,<br />
porgendogli la mano per aiutarlo ad alzarsi, gli chiede<br />
cortesemente:<br />
“Potete alzarvi adesso? Vi sentite meglio ora?”<br />
Il vecchio, stringendo quella mano la guarda attraverso un velo<br />
di lacrime.<br />
100
Per un momento, mentre risuona la dolce voce della giovane, la<br />
sua sbornia sembra scomparsa nel nulla. Poi, fissando con infinita<br />
tenerezza i delicati lineamenti di lei, rizza le orecchie come un<br />
puledro, serra le ciglia, alza il muso come a fiutare quella dolce<br />
musica e, affascinato, in un subito, riprende il suo scalpello in<br />
mano e ricomincia il vaniloquio interrotto.<br />
“Un tempo, mentre vagavo con la figlia del beduino, ti ho visto<br />
nei suoi occhi ragazzo. Piccolo dio del vino, dolce farfalla senza<br />
nome che sboccia all’improvviso sulla foglia notturna, è te che<br />
vedrò quando le mie pupille si riempiranno di terra. Prima<br />
d’incontrarti, il giorno era morto all’improvviso ed io ero<br />
condannato ad errare senza riposo alla ricerca di creature non<br />
ancora create ma adesso finalmente, se ti lascerai ritrarre dal<br />
mio scalpello che è più soffice della piuma d’argento di un<br />
gabbiano, andremo assieme dove gli abbronzati mietitori armati di<br />
falce con i cappelli di paglia intrecciati di fiori, danzano<br />
assieme alle ninfe del grano e, quando dallo zenit soffierà il<br />
vento, avrò fatto di te, quello che la vendemmia fa con l’uva,<br />
quello che il fabbro fa con il ferro e il pittore con la tela.<br />
Sì! Voglio immortalarti e immortalarmi. Tu ed io c’incontreremo<br />
ancora, è scritto, c’incontreremo sulla strada di neve. Quando<br />
ritornerai, segui il vicolo, due portoni dopo il carbonaio<br />
troverai la mia cantina. Là, c’è già la pietra, i chiodi, il<br />
martello, Vedi ragazzo? Sto già sanguinando, prega per me, prega<br />
ragazzo. Se tu ed io c’incontreremo ancora, se così sarà, prima<br />
che il pipistrello diventi rondine, prima che la neve si sciolga<br />
in figure danzanti, prima che una tromba di vento bollente passi<br />
cantando, farò uscire dalla mia pietra un'anima sola, ferita e<br />
101
selvaggia.<br />
Tu cupa speranza, tu sogno, tu chimera, tu rassomigli e macini<br />
la mia malinconia. Due grappoli di brina, una corona di perle di<br />
rugiada, quattro foglie di pampini basteranno per incoronarti<br />
piccolo dio Bacco, e dopo, nessun arcobaleno triste ucciderà più<br />
le lucciole. Se ti lasci incoronare il capo con una cesta d’oro<br />
piena di piume a colori, colmeremo i granai d'uva, e poi berremo<br />
il nettare della vite nel calice del narciso e quando la botte del<br />
vino sarà secca…dopo che avremo raccolto il miele e dormito con le<br />
stelle, berremo il succo del fieno tagliato e poi…”<br />
<strong>La</strong> testa gli cade pesantemente sulla tavola finché, lentamente,<br />
l’uomo scivola a terra e s‘addormenta sopra la botola che conduce<br />
alla cantina sottostante. L’abisso si era nuovamente spalancato<br />
avanti a lui. L’oste, rassegnato, intanto che alza le spalle e<br />
storce la bocca disgustato, gli mette sotto il capo uno straccio<br />
e, mentre a passo lento sale le scale della stamberga per<br />
ritornare nella sua camera, all’ultimo gradino si volta gridando<br />
ai giovani:<br />
“Ragazzi, potete andate via tranquilli. Questo vecchio<br />
lunatico, è tutta apparenza, in realtà non è cattivo, solo un po’<br />
strambo, ha un cervello tanto eccitabile e una fantasia così<br />
feconda che è peggio degli innamorati: vede assai più cose di<br />
quante in realtà ci siano. E’ solo un poveraccio innocuo: certe<br />
volte nelle ciglia di una zingara vede un angelo biondo, altre, in<br />
un cespuglio d’erica spinto dal vento vede il diavolo, allora<br />
incomincia ad urlare per lo spavento. Ma a parte questo, posso<br />
assicurarvi che non è per nulla pericoloso, è stato il vino ha<br />
ridurlo così. Però adesso che un sonno di morte lo ha preso,<br />
102
colpendolo con la sua mazza di piombo proprio in mezzo alla<br />
fronte, potete andare via tranquilli, quando gli casca la testa in<br />
questo modo, nessuno può fargli il dispetto di svegliarlo.<br />
<strong>La</strong>sciate pure che questo povero folle, questo illuso, insegua la<br />
sua chimera dormendo fino alla morte. Quando ha il gargarozzo<br />
stracolmo di vino, si sente artista e pretende di liberare dalla<br />
pietra mostruose figure, scorpioni, aborti, sgorbi orrendi che,<br />
secondo me, sarebbe mille volte meglio se restassero sepolti per<br />
sempre dove sono. Tempo fa, si era messo in capo di scolpire un<br />
Pegaso, per mesi, ha tormentato fino a sfregiarla, una <strong>bella</strong><br />
pietra di nenfro. Il risultato di tante fatiche è stato uno<br />
scarabocchio, una maschera che somiglia vagamente ad un somaro con<br />
le ali attaccate sul dorso.”<br />
L’artista mancato, lo scultore folle, non lo ascolta, non vede<br />
e sente nessuno, adagiato a terra, sembra sorridere come un<br />
fanciullo felice, quasi che invece di essere sdraiato sopra una<br />
negra botola dentro una schifosa locanda ingombra di sudici<br />
sgabelli zoppi e tavoli sgangherati con bicchieri di terra cotta<br />
scocciati e sparpagliati per tutto, dove l’odore acre del vino<br />
fuoriesce persino dai pori dei muri che, in un lontano passato<br />
dovevano essere stati imbiancati a calce ma che ora hanno le<br />
pareti nere, sia per il fumo del fuoco, sia per le candele che<br />
restano accese anche di giorno, il povero vecchio sorride quasi<br />
fosse adagiato sopra un invisibile soffice guanciale di piume.<br />
Forse è proprio in quella bettola con pochissima luce che vive,<br />
beve, mangia e, persino sogna e certe volte, certe volte forse,<br />
riesce anche ad essere felice.<br />
103<br />
<strong>La</strong>sciato il meraviglioso ubriaco, il bevitore di sogni a
colori, al suo folle destino, i giovani, sempre più taciturni,<br />
ritornano all’aperto, ma arrivati sotto la Torre del Borgognone,<br />
senza una parola di saluto, né una promessa, silenziosamente si<br />
separano e, voltandosi le spalle, spariscono prendendo vicoli<br />
diversi.<br />
In quella notte di luna piena avanti una porta chiusa, intanto<br />
che il buio attorno a loro con acqua e farina impastava il giorno,<br />
mentre nelle mani della terra crescevano piante di mele<br />
selvatiche, si sono incontrate due creature che si cercavano con<br />
l’anima. Sono rimasti avanti al fuoco fino al crepuscolo dell’alba<br />
con la strana sensazione di conoscersi dall’inizio del mondo, pure<br />
se una sognava di varcare la porta e l'altra, d’andare via, erano<br />
strettamente unite da mille e più catene.<br />
Due giorni dopo, il menestrello non aveva ancora finito di<br />
comporre il famoso lamento degli Amanti Erranti, separati dagli<br />
dei e condannati a non incontrarsi mai: lamento, rimasto<br />
incompiuto per sempre, quando, i colpi lugubri delle campane<br />
suonate a martello e, gli squilli della tromba di un soldato<br />
nemico accampato sulla spianata di porta di Valle, annunciavano<br />
che Viterbo, era stata presa d'assedio.<br />
Fra tutti gli stranieri venuti da lontano per rendere omaggio a<br />
Galiana <strong>bella</strong> e chiederla in sposa, più ostinato degli altri: il<br />
principe romano Gottifredo Adriano Scipione.<br />
104
Gottifredo si dimostrerà oltre che spergiuro, anche feroce e<br />
spietato. Con un atteggiamento insolente lascia intendere che<br />
prima di arrendersi al rifiuto di Galiana, farà vedere i sorci<br />
verdi a tutta la città. Testardo, prepotente e spaccone, continua<br />
ad offrire ricchi doni, doni che gli sono puntualmente restituiti,<br />
finché sentendosi definitivamente ignorato, indispettito, con<br />
seimila uomini armati di tutto punto, prende d'assedio Viterbo.<br />
Le prime deboli luci dell’alba salgono da oriente quando la<br />
carica dei romani si scatena: la soldataglia preme contro tutte le<br />
porte, massacra i guerrieri, circonda le mura di fiamme.<br />
<strong>La</strong> voce del comandante: Gottifredo Adriano Scipione che avanza<br />
superbo sul suo cavallo di battaglia, echeggia roca attraverso la<br />
nebbia invocando la collera dei cieli.<br />
Quel ruggito spaventoso, i colpi di spada che rimbalzano sugli<br />
scudi, le trombe nemiche che squillano nella battaglia, non<br />
spaventano il popolo di Viterbo che è deciso a resistere<br />
eroicamente.<br />
Avanti a tutti, ritto sulla Porta di Valle, il nobile: Tadio di<br />
Duccio del Cechino, grosso come un gigante, pure se è poco più di<br />
un fanciullo, con le guance imbiondite dalla prima peluria,<br />
combatte come un leone selvaggio falciando file intere di soldati<br />
con la sua formidabile clava. Tadio, è stato ferito più volte al<br />
volto con lance di quercia dalla punta d’acciaio: dalla bocca<br />
insanguinata e dal collo gli cola sangue fresco, ma lui continua a<br />
combattere senza sosta, poi, un soldato scaglia contro di lui una<br />
lancia micidiale, ma Tadio, agile e astuto, si china e l’asta lo<br />
trasvola vibrando. Le sentinelle di guardia alle porte e alle<br />
torri, vedendo il giovane gigante, forte come uno scoglio, proteso<br />
105
nell’immenso mare di pericolo che resiste inarrestabile contro la<br />
furia del nemico, moltiplicano gli sforzi, si scatenano armati di<br />
tutto il loro odio per i romani: distribuiscono una pioggia di<br />
dardi e con la spada sguainata mietono chiunque tenti di<br />
avvicinarlo.<br />
Tutti resistono eroicamente, tutti lottando fino all’ultimo<br />
sangue per difendere gli spalti delle mura. Gli arcieri di Viterbo<br />
con la faccia stravolta, mentre combattono alla ceca falciando il<br />
nemico ad uno ad uno, rafforzano la guardia, preparano gli<br />
agguati, aguzzano le frecce, imbottiscono di ferri la faretra. Le<br />
donne e i fanciulli, per esorcizzare la paura, mentre dai merli<br />
delle alte mura vomitano fascine in fiamme e olio bollente, tra<br />
una preghiera e l’altra al Signore, Dio degli eserciti, alzano<br />
stridenti ululati. Ma anche i romani ululano, le armi d’acciaio<br />
lampeggiano assieme agli scudi, la prima fila brandendo la lancia,<br />
avanza sull’erba umida a ridosso delle mura, presto alcuni soldati<br />
romani con i mantelli rossi, lasciata la scala a pioli riescono a<br />
mettere piede tra i merli pronti a piombare sui nemici, ma prima<br />
devono scontrarsi con una corona di strane combattenti: in prima<br />
fila, le donne che tengono le torce accese in mano come fossero<br />
corde ardenti e, con i capelli al vento alla luce di quel lume,<br />
quelle donne coraggiose, paiono giganti, mostri preistorici,<br />
vergini amazzone, sacerdotesse pronte ad incendiare questo mondo e<br />
l’altro.<br />
In seconda fila, le fanciulle non inferiori alle madri,<br />
appostate sopra le torri, nonostante tossiscano con la gola sempre<br />
più indolenzita per le urla e per il fumo che penetra nelle<br />
narici, quelle vergini, non arretrano di un passo: fronteggiano il<br />
106
nemico scagliando pietre, rotolando sassi, mortai, mattoni,<br />
tronchi d’alberi; anzi, scagliano dalle mura, una foresta intera.<br />
Nessun nemico riuscirebbe a sfondare quella fratta umana ammantata<br />
di nebbia e fumo. Mentre i grandi combattono l’aspra battaglia, i<br />
fanciulli: maschi e femmine, fanno a gare per portare quello che<br />
serve sulle torri e sulle mura. Tutta la città di Viterbo resiste<br />
compatta, decisa a crepare piuttosto che cedere Galiana <strong>bella</strong> al<br />
foresto.<br />
Quanto tempo è passato in quella feroce battaglia? Un’ora, un<br />
giorno, una vita?<br />
Il fumo puzza di carne bruciata. Il fosso dell’Urcionio<br />
trabocca di sangue, per terra sotto le mura, mucchi enormi di<br />
cadaveri romani, corpi squartati ammantati da sassi e cataste di<br />
legna mordono la terra nemica. Finalmente il principe, mentre<br />
tentava di fuggire sul suo cavallo che volava come il vento, è<br />
colpito alla tempia da una pietra di selce lanciata da una fionda<br />
dall’alto della torre. Con l’osso della fronte fracassato, tutto<br />
pesto e sanguinante, sfinito dalla battaglia, in preda ad un<br />
conato di vomito di sangue, Gottifredo, decide di venire a patti:<br />
è pronto a ritirarsi togliendo definitivamente l'assedio ma, in<br />
cambio chiede che gli sia concessa la grazia di vedere almeno una<br />
volta Galiana. Se la fanciulla si mostrerà, fosse pure dall'alto<br />
dei merli di una torre, giura che lascerà per sempre Viterbo.<br />
Inizia così la tregua, si sciolgono le campane, si aprono le<br />
porte, la folla impazzita di gioia getta in terra la falce<br />
ricurva, la verga, i magli, forconi, fionde, roncole, rastrelli,<br />
mazze e clave, armi con cui combatteva il nemico e al grido: “<br />
viva Galiana <strong>bella</strong>, alla torre alla torre, “ le mute vie si<br />
107
animano all’improvviso, tutti lanciano in aria i berretti e<br />
trionfanti, corrono incontro alla vergine che si affaccerà dai<br />
merli delle mura.<br />
Sospinta da quella marea umana in movimento, una giovane donna<br />
dal profilo selvaggio e intelligente, con un figlio piccolo in<br />
braccio: alta, i capelli rossi arruffati e bruciacchiati, una<br />
vistosa ferita al collo, tenta invano di aprirsi un varco nella<br />
viuzza che si snoda tra le mura grigie delle case.<br />
Quell’ombrosa creatura pure se abbastanza carnosa, ma più agile<br />
di un gatto selvatico, fatica a districarsi, perché, come per<br />
incanto, dalle tante stradine strette e buie che si allungano a<br />
dismisura in un imbuto spaventoso, si è materializzata una folla<br />
di contadini, artigiani ma soprattutto, una miriade di mendicanti<br />
miserabili e sfaccendati che di notte vivono nelle grotte, dormono<br />
sotto le logge, sotto i profferli, sotto gli archi rampanti dei<br />
portici. Quei miserabili, avendo sentito il baccano che si<br />
propagava fino ai piedi della Palanzana in un tumulto<br />
ininterrotto, sono usciti dalle viscere della terra, come sorci<br />
dalle tane resuscitando a se stessi, e adesso, si muovono in tutte<br />
le direzioni: dai sagrati delle numerose chiese, ai vicoli ciechi<br />
senza uscita.<br />
Frisigello, inchiodato al muro, ad un incrocio di strade, il<br />
passaggio sbarrato, perso dentro quelle urla assurde, mentre il<br />
sole lo acceca e il calore afoso e umido delle piccole vie lo<br />
soffoca, è letteralmente investito dalla donna col bambino.<br />
“Fermati donna raccontami, sai tu dirmi cosa succede? Che sono<br />
queste grida, questo frastuono improvviso? Perché la città si<br />
muove? Dove correte tutti così sciamannati?”<br />
108
“Non senti le campane suonare a festa foresto? Porto mio figlio<br />
sotto la Torre del Branca dove si affaccerà Galiana <strong>bella</strong>. Questo<br />
è un momento storico e, anche se mio figlio ti parrà troppo<br />
piccolo per capire, lo stesso ricorderà questo giorno finché vive.<br />
Quando racconterà di Galiana ai figli dei suoi figli, potrà dire<br />
con orgoglio: il giorno che il romano tolse l’assedio, c’ero<br />
anch’io sotto la Torre del Branca a festeggiare Galiana, ero in<br />
braccio a mia madre. Ma tu foresto se non capisci perché corriamo<br />
tanto, forse non sai ancora la nuova. Gottifredo Adriano Scipione,<br />
quell’uccello del malaugurio che pretendeva di sposare Galiana<br />
<strong>bella</strong>, ha perduto le penne, per quanto si è battuto, come sempre<br />
succede al pavone, non è riuscito a volare e, assieme alla sua<br />
armata: un branco di cani ringhiosi, dopo aver sgombrando il<br />
campo, si sono affidati alle calcagna.”<br />
“Ho capito bene? Vorresti dire che il romano ha abbandonato<br />
l’assedio?”<br />
“Insomma, non ci senti foresto? Sei qui che mi ascolti o<br />
cavalchi le nuvole sopra un carro trainato da bianche colombe? Ho<br />
appena detto che il romano se ne ritorna ai Sette Colli. Ha<br />
chiesto che gli si conceda di seppellire i suoi morti, poi se ne<br />
torna a casa. Invero, neanche io volevo crederci. All’alba, prima<br />
ho sentito gracchiare dei corvi alle mie spalle, poi, col sole<br />
alto, la notturna civetta si è posata lugubre e lamentosa sopra la<br />
torre di Porta di Valle…il suo canto stridulo, di giorno è sempre<br />
presagio di sventura, quasi un annuncio di morte, ma parrebbe<br />
proprio che per fortuna, stavolta la civetta si è sbagliata,<br />
perché quel lazzarone, si è arreso veramente, senza aspettare<br />
rinforzi freschi, batte la ritirata, così non offende più la<br />
109
nostra vista e forse...”<br />
Mentre parlano concitati e la gente che li circonda impedisce<br />
loro di avanzare, il bambino, per la fame o per la calca<br />
soffocante, comincia a piangere disperato. Ad un tratto, quando la<br />
via si fa troppo stretta e la folla pigiandosi s’incastra, la<br />
donna per impedire che il figlio sia schiacciato, con tutte e due<br />
le mani lo solleva in alto sopra le teste. Frisigello nel<br />
tentativo di aiutare la giovane madre, per un po’ continua ad<br />
arrancare al suo fianco cercando di fare largo, finché, è<br />
bruscamente separato da loro da un forte spintone. Solo in fondo<br />
alla via si ricongiungono ma, per poi subito riperdersi di vista,<br />
infine, quando la strada biforca: da un lato il quartiere di San<br />
Pellegrino e, dall’altro, la chiesa di San Pietro dell’Olmo, si<br />
ritrovano sopra la scalinata del profferlo dell’elegante palazzo<br />
del visconte Raniero Gatti.<br />
110
<strong>La</strong> giovane donna col seno scoperto, è seduta sulle scale sotto<br />
lo stemma ad allattare il figlio e, Frisigello, per pigliare un<br />
po’ di fiato, siede anche lui, intanto che il bambino succhia il<br />
latte, la donna riprende il discorso interrotto:<br />
“Parrebbe che finalmente abbiamo finito di tenerci quella<br />
vipera sotto il letto. Per non ingrassare la Valle di Faul andando<br />
bruciacchiati all’altro mondo, schiere intere di disgraziati<br />
soldati, nel pieno delle forze, senza fermarsi a contare né a<br />
111
accogliere i loro feriti, sono fuggiti con la coda tra le cosce,<br />
hanno fatto fagotto ancora prima che finisse la battaglia e, la<br />
poca feccia che è rimasta: quattro scalcinati mezzi scorticati,<br />
più morti che vivi, indietreggiano come ranocchie avanti la serpe.<br />
Quel bel garofano in fregola del principe romano, si era messo<br />
l’elmo in capo pensando ad una guerricciola da poveri contadini,<br />
ma noi, prima lo abbiamo condito, poi, dopo avergli tenuto il<br />
cervello in mezzo ai fumi, col nostro olio bollente l’abbiamo<br />
fritto così bene che anche campassimo altri cento anni di sicuro<br />
non vedremmo più le sue bandiere sventolare insultando il nostro<br />
cielo. Per questo ringraziamo Dio centomila e più volte, non so se<br />
ridere o piangere dalla contentezza straniero. Finalmente quel<br />
romano si è deciso a levare le tende, ritorna a Roma dai suoi<br />
sorci e dalla sua strombazzata stirpe. Ha giurato su Ercole suo<br />
antenato, ed io mi chiedo quanto ci possiamo fidare del suo<br />
giuramento a fior di labbra, ha giurato, che se gli facciamo<br />
vedere almeno una volta Galiana <strong>bella</strong>, lui, se ne andrà per<br />
sempre.<br />
Ma poi che c’entra Ercole, che significa giurare, che vuol<br />
dire? Che giurino i vili, gli schiocchi, i folli, i cuori di<br />
paglia, noi di Viterbo siamo abituati a dare la nostra parola che<br />
basta e avanza, altro che disturbare Ercole. Il conte Galiano, a<br />
proposito di quel giuramento, ha mandato a dire di stare molto<br />
accorti perché, è col sole pieno che la vipera esce dalla tana.<br />
Certo è che se io fossi anche per un momento solo la strega<br />
Malassunta, che gli anni e le troppe malie avevano incurvato come<br />
un uncino, sulla strada del ritorno, trasformerei quella “vipera”<br />
e quei quattro soldati rimasti, in maiali o scimmie senza<br />
112
cervello, poi, li disperderei nelle paludi infette finché il vento<br />
caldo – umido che arriva dalla Libia non li ricopra di piaghe, in<br />
modo che Gottifredo resti solo come un cane rognoso che poi è<br />
quello che è. <strong>La</strong> peste lo colga a lui e alla sua stramaledetta<br />
armata di straccioni e… spero tanto che tardino molto a morire. Se<br />
a quei figli di puttana gli arriva anche una sola delle mie<br />
maledizioni, soffriranno parecchio prima d’imputridire sotto un<br />
marciume d'ulcere e piaghe, diventeranno tanto ripugnanti che una<br />
volta arrivati alle porte di Roma, con la bocca piena di formiche<br />
come i morti insepolti, resteranno chiusi fuori le mura finché il<br />
boia, prendendoli con la forcina di ferro, non li butterà sopra<br />
una catasta di legna e, una volta acceso il rogo, diventeranno<br />
cenere, concime per i ceci, loro e gli stracci puzzolenti che<br />
indossano.”<br />
“Donna, sei sicura di quello che racconti? Se ne vanno? Proprio<br />
ora che ho deciso di unirmi al popolo per combattere i romani,<br />
questi se ne vanno? Ma se solo ieri il generale col suo esercito<br />
pareva volesse scoperchiare e poi stritolare tutta la città. Da<br />
quando sono arrivato, non ho sentito altro che il sordo rombo dei<br />
tamburi. Pareva il gigantesco flauto di un incantatore al cui<br />
ritmo ondeggiavano centinaia e centinaia di teste di serpenti a<br />
sonagli. Quel tamburo non ha smesso un istante di rullare,<br />
chiamando continuamente le schiere all’adunata, quasi volessero<br />
scaricare torri e mura, frantumando tutta la città per poi aprire<br />
a forza le porte. Sul serio se ne vanno per sempre donna? Non è<br />
possibile che ti sbagli?”<br />
“Stai morendo di sonno o sei ancora col naso tra le nuvole,<br />
straniero? Proprio non vuoi capire che a me non capita mai di<br />
113
sbagliare e poi non sono mai stata più seria di così, parola mia.<br />
Vuoi capire sì o no che quelle che ascolti dalle mie labbra, sono<br />
le ultimissime notizie della battaglia? Ho visto con i miei occhi<br />
il suo alfiere vigliacco, voltare le spalle alla lotta, l’ho visto<br />
fuggire con l’insegna abbassata. Vedi questo braccio e questi<br />
capelli? Non crederai che li abbia bruciati allattando mio figlio<br />
o ricamando merletti? Non so se mi basterà il fiato per<br />
raccontarti tutta la storia.<br />
Quel macellaio di romano… che una femmina di calabrone lo punga<br />
sulla lingua, pure se sei forestiero, lo saprai anche tu che nelle<br />
sue vene scorre il sangue delle iene che hanno scannato il Sacro<br />
popolo Etrusco…”<br />
“ …Io non so nulla! Non ho mai sentito questa storia.”<br />
“Ma se questa storia antica la conoscono pure i sassi…<br />
Veramente straniero, non sai che l’Etruria ricchissima d’acque e<br />
di tesori era una coppa d’oro destinata ad inebriare tutta la<br />
terra quando i romani erano ancora dei selvaggi e si nutrivano<br />
solo di ghiande? Ma poi quei selvaggi, piombarono su di loro come<br />
cavallette impazzite, si sono bevuti tutto il vino etrusco fino a<br />
diventare folli. Veramente non sai proprio nulla di quello che<br />
accadde quando i romani maestri di delitti, dopo aver attraversato<br />
la Selva Cimina scesero a conquistare l’Etruria?”<br />
“ Io arrivo dalla lontana Francia, lo ripeto, non ho mai<br />
sentito questa storia. E’ la prima volta che vengo in questa città<br />
dalle torri alte e dalle donne misteriose”<br />
“Allora sta in ascolto, lascia pure che l’orrore per quello che<br />
andrò a dire esca come una bianca colomba dalle tue labbra e che<br />
le sue ali ammantino pietosamente il silenzio tra noi. In<br />
114
principio ti riuscirà strano credere che io, riesca a conservare<br />
la memoria che dovrebbe essere sepolta nella polvere dei secoli,<br />
ma certe volte, mi pare di essere seduta sotto le colonne di un<br />
tempio millenario e, mentre una bruma carica di profumi e voci<br />
antiche mi sfiora, riesco a ricordare tutto il passato. Dopo che<br />
avrai ascoltato i miei ricordi, non stupirti troppo se non parlo<br />
bene di quel popolo dannato.<br />
Quei vigliacchi romani, entrando di prepotenza nella pacifica<br />
Etruria, sì, pacifica, perché per gli etruschi, era un’infamia<br />
bruciare un albero secolare, come uccidere una cerva gravida e,<br />
quei vigliacchi invece, entrarono di prepotenza come un grosso<br />
branco di lupi affamati, facendo una strage. Un gruppo di<br />
sacerdoti, cercarono disperatamente di salvare alcuni oggetti<br />
Sacri. Velocemente, formarono una carovana preceduta da donne e<br />
bambini, bestiame e bagagli. Mentre si allontanavano, un<br />
comandante e i suoi l’inseguirono urlando finché li trucidarono,<br />
poi, non ancora soddisfatti, si sono abbandonati al saccheggio,<br />
non riuscendo a portarsi tutto appresso, hanno persino osato<br />
profanare gli oggetti sacri seppellendoli per riprenderli con<br />
tutta calma, negli antichi boschi di sughero dove i Lucumoni nei<br />
magici cerchi Sacri di pietra bianca, conservavano i segreti per<br />
comunicare con l’Eterno. Tutto il loro mondo antico è andato<br />
sottosopra, tutto è stato distrutto, è rimasto solo il caos. I<br />
grandi fuochi durarono per giorni e giorni, le colline erano<br />
avvolte dalle fiamme, il fumo si levava sulle cime delle aquile<br />
finché il Dio degli Etruschi fece uscire una bianca schiuma dalla<br />
terra infuocata. Dove ora non ci sono che stagni infetti, prima<br />
che arrivassero i romani, c’erano dei templi meravigliosi con<br />
115
oschi ricchi d’acque ribollenti. Ma dal giorno che arrivarono le<br />
legioni, tutto è finito perché, fecero quello che sempre fanno i<br />
razziatori: distrussero completamente il bosco, saccheggiarono i<br />
templi, le case, rubarono i tesori, violentarono le donne. I<br />
guerrieri Etruschi nostri antenati fatti prigionieri, sono stati<br />
legati e rotolati come pietre precipitandoli dal dirupo roccioso,<br />
altri, li hanno trucidati con le loro stesse spade e, agli ultimi<br />
rimasti, hanno tagliato la gola con l’accetta, proprio come i<br />
taglialegna recidono gli alberi del bosco, poi hanno gettato nella<br />
polla bollente del Bulicame i bambini, maschi e femmine, nessuno è<br />
rimasto vivo. Hai capito adesso foresto? Riesci a vedere con i<br />
tuoi occhi queste scene? Dimmi mi ascolti?”<br />
“Il tuo racconto donna, farebbe rabbrividire anche i sordi.”<br />
“Non si è trattato solamente di rubare e assassinare innocenti.<br />
E’ stato un sacrilegio tra i più terribili: massacrare i grandi<br />
Sacerdoti, i Lucumoni, profanare gli oggetti sacri del tempio, le<br />
tombe. Come hanno potuto osare tanto? Come hanno potuto<br />
distruggere un popolo intero e la sua cultura? Che siano mille<br />
volte maledetti per quello che hanno fatto. Ora dimmi straniero,<br />
ho ragione dunque a ripetere che la maledizione della Fanciulla<br />
Velca deve ricadere su tutti loro? Senti anche tu queste grida? E’<br />
l’anima della Fanciulla Velca balzata dall’Ade, che urla vendetta.<br />
Sì! Prima di morire assassinata, lei scagliò una profezia: per<br />
quello che hanno osato i romani, una maledizione consumerà le loro<br />
membra, lotte furibonde e guerre civili strazieranno intere<br />
legioni, sangue e rovine saranno così famigliari che le madri non<br />
piangeranno più i loro figli, ogni pietà sarà spenta<br />
dall’abitudine al raccapriccio dilagante degli artigli della<br />
116
guerra.<br />
Quella profezia si sta avverando straniero perché, quei<br />
diavoli, quei Luciferi – Belzebù, quei Satanassi, tu chiamali pure<br />
come ti pare tanto non si offendono, ma sempre demoni rimangono,<br />
sono ogni giorno più deboli. Anche se la loro debolezza non deve<br />
far dimenticare che quei demoni discendono tutti dallo stesso ramo<br />
marcio di Marco Fabio e sono gli eredi naturali del feroce<br />
condottiero che per primo ha attraversato la terribile Selva<br />
Cimina facendo poi la strage degli innocenti. Ma ritorniamo ad<br />
oggi: oggi, questo maledetto, grazie a Dio, dopo l’ultimo attacco<br />
alle mura, dall’elmo allo sprone, intendimi bene straniero, sto<br />
affermando che questo maledetto, dalla cima della fronte<br />
fracassata, fino all’unghia del dito mignolo del piede, era tutta<br />
una crosta di sangue, sangue suo beninteso. Sai che arrivo a dire<br />
straniero? Se per caso fossi stata un uomo, parola mia, mi sarebbe<br />
piaciuto scontrarmi con lui a spada a spada per aprirlo<br />
dall’ombellico alle mascelle. Sì! Avrei voluto combattere con lui<br />
fino a chiudergli nella morte infinita le brutte ciglia e poi<br />
lasciarlo lì, in terra straniera, cibo per gli uccelli rapaci, o<br />
nel mare, sommerso dalle onde selvagge, finché i pesci affamati<br />
non avessero leccato tutto il suo sangue.<br />
Che ci posso fare? Non riesco a starmene zitta, lo devo proprio<br />
dire: odio quell’uomo e tutta la sua stirpe sopra ogni cosa al<br />
mondo, ogni volta che ci penso o nomino il suo nome, è sempre la<br />
stessa zuppa, mi ribolle il sangue, mi bruciano gli occhi e<br />
perfino le punte dei capelli, mi si riempie la bocca di fango e<br />
devo sputare. Sì! Per non soffocare, devo sputare e risputare e,<br />
mentre sputo, un odio intenso cresce a dismisura nell’anima mia.<br />
117
Se mai veramente un giorno, in questa o in un’altra vita, riuscirò<br />
a scontrarmi ancora con uno o tanti di loro, una volta sconfitti,<br />
continuerei a battermi e se dopo la battaglia, mi trovassi sola e<br />
ferita con la fame alle calcagna, per sopravvivere sarei capace di<br />
bere la mia stessa urina o l’acqua putrida degli stagli infetti e<br />
come un cervo brucherei le bacche dai rovi selvaggi e spinosi,<br />
divorerei le ghiande, le radici, la dura scorza degli alberi pur<br />
di combattere ancora. Tu non mi conosci straniero, ma, chiedi in<br />
giro di me, chiedi pure a tutti chi è Melisandra, figlia di<br />
Andreuccio del Rosso. Chiedi dov’ero durante l’assedio e… non<br />
dimenticare il mio nome. Quando domanderai della donna che ha<br />
fracassato la fronte del romano colpendolo con una pietra della<br />
fionda dall’alto della torre, ricorda il mio nome straniero,<br />
perché è proprio esso che sentirai. Tutta Viterbo lo sta gridando<br />
e questo bambino è il figlio della donna che con una pietra di<br />
selce, ha fatto abbassare la cresta al bastardo romano e di colpo<br />
e la città di Viterbo, è passata in un baleno, dal sepolcro al<br />
paradiso. Hai capito adesso chi sono io? Capisci perché posso<br />
sopportare tutto quello che ho appena detto? Sì! Tutto tutto,<br />
posso sopportare tutto e se voglio, anche molto di più affinché la<br />
città di Roma dopo essere stata inzuppata nel suo stesso sangue<br />
affoghi nel letto del Tevere alzando il margine del suo flutto<br />
fino a straripare. Così finalmente, come Veio, la nostra vecchia<br />
amata città ormai scomparsa, anch'essa, riposi in pace eguale ad<br />
un bianco scheletro al sole.”<br />
“Melisandra di Andreuccio del Rosso, non infiammarti così…<br />
Possibile che una piccola donna con l’anima molle, possa essere<br />
tanto feroce? Solitamente le donne riescono a provare compassione<br />
118
anche per un rospo e tu invece…Veramente hai dentro di te, tutto<br />
questo fuoco e coraggio?”<br />
“Una piccola donna con l’anima molle, straniero? Che ne sai tu<br />
delle donne, che ne sai quando in fondo ai seni già nasce il dolce<br />
latte? Che ne sai tu di me? Sai forse quante volte di notte mi<br />
sono alzata e dalla torre guardavo l’accampamento? Sai tu quante<br />
volte sono stata tentata di entrare nella tenda del romano e<br />
strozzarlo con queste mani? Credi forse che dovrei cedere il passo<br />
avanti le sue spavalderie o magari spaventarmi per i suoi occhi da<br />
folle? Dovrei cedere io? Aver soggezione di lui ed accucciarmi in<br />
terra avanti il capriccio delle sue spacconate? Per tutti gli dei,<br />
dovrà consumare da solo il veleno della sua rabbia. Se questo mio<br />
sesso ti mette qualche dubbio, straniero, per tutte le statue cui<br />
si prostrano i romani, rinnego all’istante la mia femminilità che<br />
tu come un esorcista hai evocato. Dimmi ora: credi ci voglia più<br />
coraggio a distribuire frecce avvelenate, a lanciare sassi con la<br />
fionda o a partorire? Intendi bene uomo, perché, partorire,<br />
significa fare uscire dal tuo corpo un altro essere.”<br />
“Il dolore del parto, i cardi e le spine che hai sopportato<br />
ieri, domani saranno per te una dolce corona d’alloro.”<br />
“Quale figlio ha mai incoronato sua madre? Se esiste una donna<br />
che ha colto pure un solo fiore dal giardino del figlio, io,<br />
quella donna, non l’ho mai incontrata. Però posso dirti che dentro<br />
ogni madre, vive e respira un eroe. Ogni donna prima di partorire,<br />
indossa l’armatura, l’elmo, imbraccia lo scudo e le tribù degli<br />
uomini sempliciotti, hanno ragione ad avere paura di lei. Forse<br />
tu, menestrello, puoi affermare il contrario? Voi uomini, volete<br />
avere le armi, il potere, i meglio strumenti musicali, tutto<br />
119
tutto, tranne la sofferenza del parto, le fatiche della casa e del<br />
telaio, ma una piccola donna con l’anima molle, se vuole<br />
veramente, può…”<br />
“ …fare tutto quello che hai appena detto. ”<br />
“E anche di più. Certo! Giuro che rifarei tutto quello che ho<br />
fatto, ancora lo farei! Ancora indosserei l’armatura, l’elmo, lo<br />
scudo. Lo farei, lo farei, lo farei e ancora lo rifarei.<br />
Sai una cosa straniero? Fino ad ora, non avevo mai combattuto<br />
una battaglia sugli spalti, invece avresti dovuto vedermi sopra le<br />
mura, avanti le porte. In principio pensavo che avrei provato<br />
orrore di fronte alla morte, ma, pur di salvare mio figlio…Sì! Per<br />
salvare mio figlio, passerei attraverso una grandine di fuoco, per<br />
lui posso diventare forte come Sansone che, con una mascella<br />
d’asino uccise mille uomini. Per mio figlio sarei capace di<br />
spiaccicare chiunque contro il muro per poi sotterrarlo con le mie<br />
stesse unghie. Qualcuno alla fine doveva pure vendicare i nostri<br />
antichi morti. Vedi queste mani scorticate, bruciate con le unghia<br />
sanguinanti straniero? Non sono le mie mani, sono le mani di tutti<br />
i miei antenati Etruschi morti ammazzati. Questi capelli bruciati<br />
e strappati, le ferite sulle braccia, sul collo, quelle che si<br />
vedono e quelle che non si vedono, sono tutte delle sacerdotesse,<br />
delle vergini violentate, delle donne incinte assassinate. Queste<br />
mani sono dei Lucumoni, dei bambini, dei neonati, dei vecchi, dei<br />
re uccisi con la mannaia. Non senti anche tu straniero le grida<br />
delle vedove, degli orfani, delle fanciulle abbandonate? In queste<br />
piccole - grandi mani di donna, c’è ancora tanta forza da<br />
sradicare una foresta intera. Il mio sangue etrusco che scorre<br />
pullulando in queste vene, da sempre chiede vendetta.”<br />
120
“Per carità, calma l’ardore dei tuoi sensi donna, questa tua<br />
frenesia, rischia di passare la misura e può diventare molto<br />
pericolosa, ascolta il mio saggio consiglio, se il romano…”<br />
“Pericolosa dici? Per tutti gli dei degli inferi, sai tu dirmi<br />
che vuol dire pericolosa? Ascolta, non ti ho ancora raccontato<br />
tutto. Quando i romani entrarono in Etruria, prima sterminarono i<br />
Sacerdoti, poi violentarono le Sacerdotesse ma non osarono<br />
ucciderle, queste, vissero abbastanza a lungo per partorire i<br />
bastardi dei romani, poi, dopo aver consegnato i neonati a tribù<br />
selvagge di pastori che ormai si consideravano sottomesse, si<br />
uccisero gettandosi in massa nella polla bollente del Bulicame.<br />
Adesso straniero dimmi: che ci può essere più pericoloso di<br />
questo?”<br />
“Ma se il romano ha veramente deciso di ritirarsi, forse<br />
sarebbe più saggio non provocarlo oltre, forse sarebbe ora di<br />
finirla con questa lotta sanguinosa, poiché appare impossibile un<br />
patto d’alleanza tra Viterbo e Roma, la vostra discordia sembra<br />
destinata a non avere più fine, ora che il fato vi è propizio, non<br />
ti pare inutile donna continuare ancora a gareggiare nell’odio? Io<br />
direi che basta, non insistete oltre, lasciatelo andare in pace<br />
anche perché, ho sentito che è molto potente: ha eserciti, schiavi<br />
incatenati al remo delle sue galere. E se è abituato a<br />
sottomettere intere popolazioni…”<br />
“Di che hai paura foresto? Dovrei forse augurargli che l’alloro<br />
della vittoria sia sulla sua spada? O magari che la fortuna gli<br />
stenda sotto il calcagno un soffice tappeto di fiori? Io mi<br />
stupisco che finora non ci sia stato un solo cristiano capace di<br />
ficcargli i denti sul collo. Però hai ragione straniero, quel<br />
121
pirata che spadroneggia sul mare con chiglie d’ogni stazza, non si<br />
dovrebbe ammazzare né coi denti né con le mani nude, ma con uncini<br />
di ferro, con sassi di selce per poi finirlo con la roncola fino a<br />
spezzargli tutte le ossa. E’ vero, il nostro nemico adesso come<br />
allora, ha navi zeppe di schiavi incatenati al remo, navi che<br />
hanno solcato i sette mari. E’ abituato a giocarsi a dati ogni<br />
cosa, conclude baratti sia con sultani e re, sia con truffatori,<br />
imbroglioni e prostitute d'ogni sorta, ma qui siamo in terra<br />
d’Etruria: la Sacra terra di Enea, stirpe divina, ed è tutta<br />
un’altra storia. Ti sei accorto anche tu delle spacconate del<br />
romano no? Appena ieri, gonfio d’orgoglio solo perché la guerra<br />
gli era favorevole e la fortuna sorrideva alla sua causa<br />
maledetta, avanzava baldanzoso con la bandiera di battaglia al<br />
vento. Pareva volesse sfasciare e strappare via tutta intera la<br />
porta della città: cardini, stipiti, battenti e sbarre di ferro<br />
comprese. Tutto, avrebbe portato via tutto pur di praticare una<br />
breccia in modo da scaricare le mura e tirare giù le nuvole del<br />
cielo e pure gli angioletti dai troni del paradiso, invece ogni<br />
suo gesto s’è risolto in una ridicola bolla di sapone. <strong>La</strong> dea<br />
bendata della fortuna, lo ha baciato per poco, perché, il nostro<br />
coraggioso eroe, Tadio di Duccio del Cechino, se lo merita proprio<br />
quel ragazzo di essere chiamato eroe. Il giovane Tadio, sdegnando<br />
la fortuna del romano, pure se ferito, è rimasto piantato a gambe<br />
aperte, ritto come un gigante, avanti Porta di Valle e non ha<br />
fatto entrare né vivi, né morti. Con la sua formidabile clava e<br />
più spesso impugnando la spada fumante, pareva un uragano pronto<br />
ad ingoiare uomini e navi. Solo la sua determinazione ha impedito<br />
a quei farabutti di scavarsi un passaggio.”<br />
122
“Dunque e vero che spesso i destini cambiano in fretta. E’ vero<br />
che fortuna e sfortuna sono sorelle gemelle, anche gli oracoli a<br />
volte, forgiandole al buio, le confondono.<br />
Le sorelle, tutte e due di notte riescono a biancheggiare gli<br />
alberi, tutte e due sono vanitose e civette. Una vecchia leggenda<br />
racconta che quando si svestirono per nuotare nell’acqua del mare,<br />
un genio marino, per accontentare una sirena, cambiò i loro<br />
vestiti, così ognuna se ne andò per la sua strada con il vestito<br />
dell’altra e, da quel giorno, gli uomini non riuscirono più a<br />
riconoscerle. Per questo la fortuna e la sfortuna cambiano spesso<br />
di posto, invero, basta poco per farle sparire, basta un leggero<br />
colpo di vento, una goccia di stagno mista a rugiada, un soffio<br />
che cada o non cada per offenderle e... “<br />
“ …se poi quella goccia di stagno cade proprio sui sandali<br />
d’oro della fortuna, lei, infuriata, fugge sostituita subito dalla<br />
sorella. Deve essere andata così menestrello, perché ieri, durante<br />
la mischia, pure se la casa di mio padre è situata un luogo<br />
appartato, protetto da un fitto bosco d'allori e da immense querce<br />
e lecci, arrivavano fin lassù i galoppi dei corsieri con le urla e<br />
le bestemmie della soldataglia. Gli squilli d’assalto delle trombe<br />
poi, erano come le folate bollenti del vento di scirocco del<br />
Sahara, tutto fumo e niente arrosto. Quanta vana gloria. Chissà<br />
cosa si credevano. Le nostre torri e le nostre porte non sono mica<br />
tenute su con lo sputo come le capanne degli Etruschi, magari il<br />
romano si provava a passare. In principio, credeva di mettere in<br />
ginocchio la città, invece deve tornarsene a Roma ed indossare la<br />
scalcinata tunica dell’umiltà com’è costume di chi è stato<br />
sconfitto, perché noi, gli abbiamo schiacciato il collo sotto il<br />
123
calcagno. Invero non ci sperava più nessuno che quella calamità,<br />
quel flagello di Dio se n'andasse per davvero. Vuoi sapere il mio<br />
pensiero? Io, il suo esercito, non lo avrei fatto accampare<br />
nemmeno dentro una fratta d’uva spina. Lo ripeto per l’ennesima<br />
volta, non mi sono mai piaciuti i romani, non c’è da fidarsi,<br />
specialmente quando portano doni, quell’uomo poi, non si è mai<br />
curato di apparire simpatico, non gli è mai importato d'essere<br />
benvoluto. Con la sua nobile strafottenza, avanzava tempestoso<br />
sopra il suo cavallo eguale a Giove in mezzo ai terremoti. Forse<br />
si aspettava che c’inchinassimo avanti a lui come avanti la statua<br />
di Venere. Nella sua arroganza, pretendeva di comprare Galiana<br />
come si usa a Roma. Abituato a mettere sul trono prostitute e<br />
cortigiane come Messalina, lui che nelle sue orge è il trastullo<br />
di femmine lussuriose, femmine dalle labbra e seni appassiti,<br />
sempre pronto a sdraiarsi con le sue schiave svuotando a turno il<br />
bicchiere con tutte le donne impudiche della sua città, lui che è<br />
il divertimento, il ventaglio delle zingare in calore, perché lo<br />
sanno tutti che le femmine romane che discendono da favolosi<br />
ranghi… cedono come la creta nelle mani del vasaio. Non c’è mica<br />
bisogno di fare il disegno delle puttane di Babilonia per capirlo.<br />
Basta seguire i mariti di quelle matrone baldracche: raccontano<br />
che quei mariti, quando sono nel bosco durante le battute di<br />
caccia, con le loro corna, staccano persino le ghiande dagli<br />
alberi di quercia. Dunque il romano: piccolo uomo dal seme marcio,<br />
pretendeva di scambiare la nostra Galiana <strong>bella</strong>, la nostra stella,<br />
con qualche miserabile forziere di cedro intagliato. Mio padre che<br />
quel giorno era nelle stalle del conte Galiano a ferrare gli<br />
zoccoli dei suoi cavalli, c’era quando i dodici carri stipati di<br />
124
casse contenenti i regali per Galiana sfilarono lentamente per le<br />
strade. I carri, transitavano uno per ogni lato: prima salirono la<br />
strada di S. Clemente, attraversarono piazza del Gesù,<br />
proseguirono per la via che conduce alla chiesa di S. Lorenzo e,<br />
una volta arrivati al palazzo, quei brutti grugni dei soldati sono<br />
scesi dai carri ed hanno incominciato a scaricare le casse con gli<br />
angioletti cesellati su ogni frontespizio. Le hanno tirate dentro<br />
passando dalla porta bassa fino ad arrivare al primo salone,<br />
quello al pianterreno. Mio padre ha raccontato che il conte Andrea<br />
Galiano dell’Acqua Zita, era livido di collera a mala pena<br />
trattenuta. Tremava solo a vedere quei brutti ceffi muoversi nella<br />
sua casa. Seduto nel suo scanno, avanti lo scrittoio ricolmo di<br />
statuine di cera, mentre i servi gli versavano invano il vino<br />
nella coppa, il conte, con un aculeo d’istrice in mano fingeva di<br />
scrivere sul suo rotolo di pergamena, invece, aspettava con<br />
impazienza che aprissero le casse e poi sparissero lesti.<br />
Quando finalmente i soldati hanno fatto saltare i coperchi<br />
delle casse: da alcune, nascosti nel profondo, uscirono montagne<br />
d’oro coniato e in verghe, in altre, talenti d’argento cesellato.<br />
Il conte a quella vista, alzatosi di scatto, prese in mano la<br />
coppa, la posò sul camino con tanta violenza che mancò poco si<br />
frantumasse e, mentre il vino schizzava contro il muro, in un<br />
subito era diventato una bestia. Posò il pugno robusto sullo<br />
schienale dello scanno e con un piglio terribile, in quella<br />
postura da belva che sta per mordere, iniziò ad ululare e, mentre<br />
arrotolava l’elenco dei regali che un soldato gli aveva<br />
consegnato, ordinò che riportassero via ogni cosa poi, s’avvicinò<br />
al comandante avanzando più che poteva e mentre quello<br />
125
indietreggiava, gli sputò in faccia queste parole:<br />
“Dì pure al tuo padrone che serbi per i suoi figli futuri, se<br />
mai ne avrà, questo tesoro, a noi non serve, Galiana non è in<br />
vendita.“ Poi, prima che scemasse il suo furore, scagliò un pugno<br />
sullo scrittoio e parlando a se stesso disse:<br />
“Perdio! Prima o poi dovrà pure scomparire questo spaccone<br />
causa di tutte le nostre disgrazie.”E, nell'attesa che se<br />
n'andassero, camminava irrequieto avanti e indietro per le stanze,<br />
era così inferocito che i suoi passi oltre a far tremare i vetri<br />
delle finestre spegnevano persino i lumi dei candelabri. Tra i<br />
tanti oggetti regalati a Galiana, svettava una foresta di statue<br />
alcune addirittura senza braccia e senza testa: strane,<br />
fantomatiche divinità, col corpo gnudo… ma quel che più ha fatto<br />
imbestialire il conte facendolo avvampare per il furore, è che, in<br />
una delle casse, c’era un inconfondibile velo orlato di rare,<br />
pregiate foglie d’acanto. Mio padre sostiene che quel velo era<br />
spiccicato, preciso, paro paro a quello della divina Elena. Lo ha<br />
riconosciuto perché, solo le donne iliache erano capaci di tessere<br />
con tanta maestria. Quel velo era scampato miracolosamente alle<br />
fiamme di Troia, alle tempeste del mare, ma non ai saccheggi<br />
infami, per questo non è mai più stato ritrovato.<br />
Gottifredo, voleva regalarci ogni cosa, persino un candido<br />
corsiero ornato di porpora e gualdrappe ricamate che mordeva un<br />
freno d’oro. Sul petto del cavallo pendevano quattro collane d’oro<br />
e, in testa aveva una corona pur’essa d’oro. Tutta roba rubata!<br />
Quante creature ha fatto piangere con i suoi saccheggi nei bottini<br />
di guerra, ma che ci possiamo fare, l’essere feroci è nella natura<br />
dei romani. Questo citrullo – spaccone, non si rende conto di<br />
126
stare a Viterbo, nella terra Etrusca, pure ci presentasse il<br />
tesoro di Priamo, noi lo respingeremmo col piede guardando<br />
schifati quegli oggetti di valore come vili rifiuti del mondo.<br />
Dare Galiana a lui, a quel bastardo, codardo? Sarebbe come<br />
prestagli l’anima per arrecarci danno a suo talento. <strong>La</strong> nostra<br />
gente, non lascerà mai la stella più <strong>bella</strong> in balia del barbaro<br />
nemico. L’importante adesso è levarsi per sempre di torno<br />
quest’impiastro e i suoi schifosi manigoldi. Non voglio sentire<br />
più neanche il ricordo del calpestio dei suoi sandali sulle nostre<br />
belle strade lastricate di pietra. Ma, adesso che ho finito di<br />
allattare mio figlio, prima che ricominci di nuovo a piangere per<br />
la fame, lesto, vieni con me sotto la Torre del Branca, potrai<br />
vedere con i tuoi occhi che stella, che fiore di neve è Galiana<br />
nostra.”<br />
“Quanto c’è da qui alla torre?”<br />
“Se prendiamo la scorciatoia, non saranno manco mille passi,<br />
altrimenti il doppio. Su avanti, andiamo, sbrighiamoci ti<br />
accompagno io. Dopo che avremo festeggiato Galiana, se vuoi, puoi<br />
venire con me alla casa di mio padre dove l’ospite e sempre sacro.<br />
Stasera per festeggiare la fine dell’assedio, ammazzeremo un<br />
agnello e poi, dopo che avrai fatto un caldo bagno alle Terme, per<br />
te ci sarà un morbido pagliericcio ricoperto di lino, la nostra<br />
casa è abbastanza grande da offrire riparo a molti viandanti. Al<br />
tramonto, quando avremo attinto in abbondanza il dolce mosto dai<br />
tini, ci metteremo a tavola avanti il fuoco e più tardi, intanto<br />
che le torce di canna intrise di sego finiranno di bruciare, se<br />
vuoi, potrai suonare la tua viella o magari ci racconterai del tuo<br />
vagabondare perché, dal tuo mantello consunto e dal tuo bastone,<br />
127
si vede che hai percorso molta strada e, chi molto ha viaggiato,<br />
recita un saggio proverbio popolare, chi molto ha viaggiato, molto<br />
ha da raccontare. Ricorda: se non puoi venire oggi, vieni un altro<br />
giorno, da noi troverai sempre un buon bicchiere di vino, un pezzo<br />
di formaggio e un fuoco fiammeggiante. Non dimenticare di arrivare<br />
un po’ prima del tramonto, per strada affretta il passo, non<br />
aspettare che la luna col suo faro accenda le lucciole e le stelle<br />
spuntino nel cielo negro, per tradizione, a Viterbo, non riceviamo<br />
ospiti dopo il calare del sole. Appena arrivi al portone, picchia<br />
tre volte al battente di ferro, io o mio padre, verremo subito ad<br />
aprirti. Per non sbagliare, chiedi di Andreucco del Rosso, il<br />
maniscalco. <strong>La</strong> nostra casa è situata vicino alla foresta,<br />
dall’altra parte del fossato, una casa grande col fontanile<br />
adiacente al vecchio mulino ad olio, conosciuta da sempre come: la<br />
Casa del finto Vagabondo… “<br />
“Hai detto nella parte più alta della città, dove si trova la<br />
concia delle pelli? Dunque sarebbe proprio l’ultima costruzione<br />
che s’incontra, quella attaccata a Porta Bove.”<br />
“Esatto, proprio essa.”<br />
“Perché finto Vagabondo?”<br />
“<strong>La</strong> sua nomea risale a tanto tempo fa. Mio nonno Ianni del<br />
Rosso, una fredda sera, mentre la neve cadeva mulinando nel cielo<br />
verde e faceva sembrare i campi e le colline, un paesaggio<br />
spettrale, ritornava a casa in groppa al suo cavallo. <strong>La</strong> tempesta<br />
gemeva nel cielo furioso, per le strade non si vedeva anima viva,<br />
la gente era rintanata nelle case e gli animali nelle stalle,<br />
fuori c’era solo il freddo pungente. Ad un incrocio di strade,<br />
nonno Ianni, vide un vecchio macilento. Pure se l’uomo, aveva il<br />
128
cappello coperto di neve gelata calcato fin sull’orecchie e metà<br />
della faccia sepolta sotto il bavero imbiancato, mio nonno ha<br />
riconosciuto nel suo volto, il colore della fame, della solitudine<br />
e della paura. Quell’uomo che a prima vista poteva sembrare solo<br />
un vecchio vagabondo, indossava un lungo mantello: vecchio,<br />
macchiato, strappato, con cento bocche aperte ad ogni piega, così<br />
tanto lungo che trascinava in terra. Il malcapitato, teneva la<br />
testa tristemente poggiata ad un albero ghiacciato e il corpo<br />
piegato sul suo bastone e, negli occhi, aveva un velo di dolore.<br />
Ianni, guardando quel cencio d’uomo, solo, infreddolito e<br />
infelice, provò tanta tenerezza. Così scese da cavallo e<br />
salutandolo lo tirò scherzosamente per il mantello dicendo: vieni<br />
amico, salta sul mio cavallo, onorami della tua compagnia, se<br />
vuoi, andremo insieme nella mia casa, sarai mio ospite. L’uomo<br />
accettò volentieri l’invito. Mia nonna, che aspettava da tempo,<br />
ritta sulla soglia l’arrivo del marito, vedendolo in compagnia,<br />
gli andò incontro festosa tenendo i ceri accesi dentro un<br />
candeliere coperto da una patina di verderame.<br />
Quando furono tutti al sicuro dentro la casa, la neve che aveva<br />
smesso per un momento di cadere, ricominciò daccapo, scatenando<br />
una terribile bufera. Una luce verde illuminò i cipressi ammantati<br />
di neve. Il vento divenne tanto impetuoso da scuotere le mura e<br />
persino le travi del soffitto. Mio padre e i suoi fratellini,<br />
impauriti, si avvicinarono alla madre che prese a baciarli<br />
stringendoli uno per uno al petto, ma i fanciulli si calmarono<br />
solo quando lo straniero disse loro: non abbiate paura bambini, la<br />
tempesta con i suoi chicchi di neve, protegge la vita che dorme<br />
sotto gli strati della terra, la natura col suo mantello gelato,<br />
129
la neve e il vento freddo, escono dalle buie caverne per giocare a<br />
nascondino con i semi. Da questo gioco, nasceranno stupendi frutti<br />
che potrete cogliere in primavera. Nessun fiore ritorna alla vita<br />
senza questo gioco crudele e, nei boschi selvaggi, senza le<br />
tempeste, nessun’ape potrebbe posarsi più sui fiori. Per questo<br />
motivo, quando vedete cadere la neve e sentite il vento ululare,<br />
dovete essere contenti perché, è sempre e solo il gioco della<br />
vita. Allora i fanciulli, rasserenati, si sedettero attorno alla<br />
tavola di legno, per consumare il pasto giacché, quell’uomo, aveva<br />
saputo parlare ai loro cuori ed egli stesso era un piacevole<br />
mistero, infatti, dopo cena, accanto al dolce tepore del fuoco<br />
l’ospite, raccontò molte altre storie bellissime, poiché in<br />
realtà, quell’uomo, pure se era vestito come un vagabondo con le<br />
braghe e il mantello a brandelli, era un asceta in cerca di un<br />
rifugio dal mondo e dai suoi tanti affanni.<br />
Dall’ora chiunque bussa alla nostra casa, siano falsi profeti,<br />
monaci, eremiti, pellegrini, mendicanti, vagabondi, saltimbanchi –<br />
mangiafuoco, contrabbandieri - ladri che passano da queste parti,<br />
per loro, ci sarà sempre la porta aperta, il fuoco acceso, un<br />
bicchiere di vino e una fetta di marzapane caldo.<br />
Frisigello insieme alla donna col bambino ormai sazio,<br />
riprendono la strada per la Torre del Branca. Una volta lasciati i<br />
vicoli dietro le spalle, proseguono la discesa e incontrano sul<br />
gomito della strada, la chiesuola di Santa Maria in Carbonara, con<br />
le sue belle decorazioni in coppe di maiolica e, subito dopo,<br />
finalmente, sbucano sotto le mura.<br />
Sono appena arrivati quando Almenia, <strong>bella</strong> come una Ninfa del<br />
paradiso, accompagnata dai servi e protetta dal Conte Andrea<br />
130
Galiano appare tra i merli della torre.<br />
Indossa la sua veste di seta bianca ricamata con fiordalisi<br />
d'oro. Sul collo candido come latte ricadono i riccioli di quel<br />
misterioso colore delle foglie d'acacia appena nate.<br />
Una corona di gelsomini intrecciata con un cerchio flessibile<br />
d’oro, cerca di trattenere quei lunghi capelli che, scendono<br />
sciolti sulle belle spalle di seta. In un attimo solo, forse meno<br />
di un attimo, cadono di colpo tutti i veli dalla mente del giovane<br />
e subito la riconosce. E' lei la fanciulla del sogno, quella che<br />
sta ancora disperatamente cercando. Bella, come una rosa tra gli<br />
ulivi, bellissima, tanto <strong>bella</strong> che si può morire solo a guardarla<br />
e, contemporaneamente, la vede anche nei panni del piccolo,<br />
giovane filosofo dagli occhi ardenti che, ricoperto di fango, gli<br />
aveva raccontato di inseguire ogni notte un carro giallo<br />
splendente di luce. In quell'attimo lunghissimo, Frisigello si<br />
maledice per non aver riconosciuto i suoi occhi laggiù al fosso e<br />
per non aver capito.<br />
131
Il carro giallo spendente di Luce, non è forse identico<br />
all’alone dorato che avvolge la fanciulla del sogno? Pure quella<br />
notte attorno al fuoco lei aveva cercato di svelarsi, ma lui non<br />
aveva compreso!<br />
Vorrebbe urlare, chiamarla, farsi vedere, dirle che ora che<br />
l'ha trovata non la lascerà più. Ma sotto la torre dove pullula<br />
un'armata intera, una soldataglia in tumulto, c’è pure un pigia<br />
pigia di plebaglia. C’é chi schiumando dalla bocca, steso in terra<br />
si fa prendere dal mal caduco, chi elegantissimo getta fiori, chi<br />
vestito di stracci butta per aria la berretta consunta, chi<br />
piange, chi canta, chi gridando scimmiotta con motti osceni i<br />
soldati romani. Un ingorgo gigantesco, un formicaio in delirio.<br />
Galiana è sulla bocca di tutti, i fanciulli si spellano le mani<br />
negli applausi urlando il suo nome fino a soffocarsi, gente d’ogni<br />
specie si strugge per vederla.<br />
Stordito da quella turbolenza, da quella frenesia assurda,<br />
Frisigello pensa al modo di raggiungerla, nel frastuono generale,<br />
tenta di riprendere la conversazione con Melisandra, magari lei<br />
può consigliarlo, forse conosce un passaggio segreto. Intanto che<br />
si volta a cercare la donna, s’avvede di un arciere che, ad un<br />
segnale preciso di un comandante, questo, tutto abbigliato nella<br />
maestà di Roma, con una vistosa benda sulla tempia: in quella<br />
ferita fasciata di fresco, descritta così bene nel racconto di<br />
Melisandra, il menestrello, riconosce il principe Gottifredo<br />
Adriano Scipione.<br />
L’arciere, eseguendo il suo ordine, estrae lesto dalla faretra<br />
una freccia lucente puntandola verso la torre. In un attimo il<br />
menestrello capisce l’atroce inganno. Il principe come un serpe<br />
132
nascosto tra gli spini, si è drizzato all’improvviso gonfiando il<br />
collo squamoso. <strong>La</strong> sua falsa tregua, la tregua dell’infame<br />
spergiuro, serve solo per assassinare Galiana. Non potendola<br />
avere, il miserabile, vigliacco romano, accecato dal desiderio, ha<br />
deciso di ucciderla!<br />
Senza esitare Frisigello, getta lontano la viella ad arco: le<br />
cinque corde dello strumento toccando terra emettono un suono<br />
struggente, quasi un ultimo lamento, poi la musica s’interrompe.<br />
Con un balzo il giovane, lanciando un urlo terribile che sale fino<br />
alle stelle, tende le mani al cielo e, come una belva ferita si<br />
para avanti al soldato.<br />
<strong>La</strong> freccia mortale destinata a Galiana gli trafigge il petto!<br />
Raggomitolato su se stesso il menestrello, con un fiotto di<br />
sangue che, zampillando, dipinge di papaveri insanguinati la<br />
camicia, cade a terra, ai piedi dell’arciere.<br />
Non canterà mai più la sua favola antica. Pure, gli occhi<br />
rimasti ancora ostinatamente aperti, guardano in alto, incatenati<br />
a Galiana, incatenati alla sua prigione!<br />
Sentendo quell'urlo straziante, la fanciulla dall'alto della<br />
torre, aggrappata ad una pietra, guarda giù tra la folla e subito<br />
riconosce il suo menestrello, il giovane cantastorie che l'ha<br />
salvata nella notte di luna, lo stesso che è venuto dalla lontana<br />
Francia solo per cercarla. Barcollando, rimane a contemplarlo<br />
inorridita, con il terrore stampato sul bellissimo volto, resta<br />
impietrita allo scoperto tra i merli della torre, in balia del<br />
nemico traditore. Un attimo dopo, la mano dello stesso arciere<br />
assassino, pesca nella faretra ancora brulicante di frecce e dallo<br />
stesso arco infame, in un subito, parte un altro ferro avvelenato<br />
133
che trafigge la giovane alla gola.<br />
L'acqua diventa fredda!<br />
Senza un lamento, Almenia, che tutti credono Galiana, bianca<br />
come un fiore cresciuto all’ombra, gira su se stessa prima di<br />
cadere, poi, lentamente scivola tra i merli della torre.<br />
Mai più i suoi occhi vedranno grappoli di luce alzarsi dai<br />
tetti del cielo, mai più sentirà le rondini picchiettare sui vetri<br />
dell’abbaino, mai più s’affaccerà dalle mura flagellate dalla<br />
pioggia a cercare una voce nella tempesta. Adesso Almenia, vola<br />
con il suo corpo di madreperla, vola incontro a quella voce, vola<br />
come un cigno sul fiume.<br />
Il vento disperde la corona di gelsomini bianchi e mentre<br />
galleggia la sua veste di seta con i fiordalisi d'oro, volano pure<br />
le ciocche spettinate e gli incredibili riccioli dal colore delle<br />
foglie d'acacia appena nate!<br />
Tutto eguale al sogno di Frisigello!<br />
Il menestrello con la porta della morte già spalancata la<br />
guarda volare e, con un ultimo sforzo, inarca le braccia al cielo<br />
come ali pronte ad abbracciarla e mentre la contempla sussurra:<br />
“Vieni amore mio, mia compagna, sorella, vieni. Ora so perché<br />
sono venuto in questo mondo. Insieme seguiremo le orme delle<br />
rondini, assieme a loro, saliremo sulla cima degli alberi a<br />
contemplare le verdi pianure.<br />
Senti? <strong>La</strong> mia anima ti chiama, ti cerca, ti aspetta da sempre<br />
come il solco aspetta il seme, come la notte aspetta il giorno.<br />
Risorgi dal passato amore mio, ricordi, quando io ero la radice e<br />
tu i petali dello stesso fiore? Il Creatore con l’argilla ci ha<br />
plasmato, tu ed io eravamo una creta sola, insieme ci<br />
134
arrampicavamo sulle alte vette delle montagne. Ricordi anima mia<br />
quando le nostre ali aperte battevano contro le stelle? <strong>La</strong> sete di<br />
te, la sete di quel tempo perfetto, cresce sul mio cuore come<br />
muschio sulle rovine.<br />
Vieni amore mio, insieme torneremo nei giardini incantati<br />
dell’amore eterno dove non esiste melodia più dolce, dove il vento<br />
del sud forgia col sole del deserto il sapore dell’uva mentre<br />
quello del nord, ammucchia gli arcobaleni prima della tempesta.<br />
Vieni, piccolo, dolce poeta della notte, prendi un’arpa, un<br />
tamburo, un flauto di canna. Sì! L’incavo esile di una canna<br />
basterà per cantare il nostro amore. Se non vieni, tra mille anni,<br />
ritornerò ancora a cercarti, ti spierò attraverso le ragnatele<br />
della notte, ti seguirò come una spora segue il vento perché, la<br />
voglia di stare con te mi trascina come il vento trascina un filo<br />
d’erba. Sì! Tra mille anni ritornerò ancora a raccontarti dei<br />
fulmini, della pioggia, della neve, della bufera che spinge le<br />
radici ad annidarsi nel ventre della terra. Tra mille anni ti dirò<br />
ancora: vieni amore mio, vieni presto, piccolo, dolce poeta della<br />
notte, prendi un’arpa, un tamburo, un flauto di canna e insieme<br />
andiamo alla vigna. Pigeremo l’uva dai tini poi, raccoglieremo il<br />
frutto distillato e prima di andare, riempiremo la brocca di vino<br />
e berremo le ultime lacrime di pioggia dal calice del giglio.<br />
Vedi? Si fa sera, il fiore chiude i petali e dorme. Sta<br />
arrivando il buio e gli uccelli del giorno lasciano i tetti con la<br />
zolla erbosa per ritornare al nido. Vieni, riempi la lampada<br />
d'olio, poiché la luce si sta spegnendo e non riesco più a<br />
vederti, accosta la fiamma al tuo volto amore mio e abbracciami,<br />
non lasciare che il vento gelido separi i nostri corpi.<br />
135
Sento freddo, abbracciami amore, il lume si è spento.<br />
Abbracciami, non lasciare che il profondo oceano del sonno<br />
affatichi i nostri occhi. Abbracciami, l’erba sarà il nostro<br />
giaciglio e le stelle, la nostra coperta.<br />
Tu gelida morte, lascia per un momento ancora libere le mie<br />
mani, svegliale dal profondo sonno, la tua fame antica può<br />
aspettare ancora un poco. Aspetta il tempo che i torrenti correndo<br />
tra le rocce arrivino al mare e le acque del mare si trasformino<br />
in vapore per diventare nuvole e le nuvole, scendano piangendo ad<br />
irrigare i campi e, nell’attesa, lascia che queste dita possano<br />
scorrere leggere per una volta sulle sue labbra di creta bianca!<br />
Dopo, appena mi sarò unito al mio amore, vieni pure a prendermi o<br />
morte, anzi, affrettati. Vieni a liberarmi, spezza i vincoli della<br />
materia perché oramai sono stanco di trascinarli. Non voglio più<br />
stare in questa terra dove le spine soffocano i fiori. Quando sarò<br />
stretto al mio amore, sorgi pure o dolce morte, non avrò più paura<br />
dei tuoi occhi vuoti, potrò guardarti dritto in faccia poiché<br />
l’eternità, con la mia donna al fianco, sarà soave.”<br />
Oramai anche l’ultimo bagliore di luce si sta spegnendo negli<br />
occhi del dolce cantore. Lui che, con la bellezza dei suoi versi<br />
ha scritto il suo nome sulla porta del Paradiso, muore senza<br />
sapere che il suo canto non smetterà mai di seminare l’amore nei<br />
cuori degli uomini. Mentre la sua vista si oscura, un sorriso<br />
illumina ancora le labbra già sbiancate. Quel sorriso è come<br />
polvere di stelle sulle ali degli angeli, è come brezza lieve che<br />
arriva assieme alla primavera quando l’inverno è ormai morto,<br />
quella brezza sottile che fa sciogliere le trecce agli alberi<br />
mentre accarezza i rami ancora spogli ed è pegno e promessa<br />
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insieme. Con quell’ultimo sorriso pitturato sul volto, il giovane<br />
moribondo, sbatte le palpebre e guarda la fanciulla dei suoi sogni<br />
volare, e quando lei finalmente lo raggiunge, un’inaudita,<br />
entusiasmante gioia illumina il suo volto!<br />
Chi potrà descrivere quel tragico momento, terribile e magico<br />
insieme? Quante parole e quante lacrime dovrebbe versare il poeta<br />
per raccontare di quei fiori che muoiono in silenzio, calpestati<br />
in mezzo al giardino dell’amore da un nemico spergiuro?<br />
Come narrare di quelle creature poetiche, spiriti nobili e<br />
liberi, venuti al mondo per rallegrare il cuore degli uomini, uno<br />
con incantevoli versi e l’altro, con la sua bellezza? Creature<br />
straordinarie, lasciate in terra prima che l’umanità abbia avuto<br />
modo di apprezzarle. Come narrare di Azrael l’angelo della morte<br />
che, nel momento supremo, eguale ad un grande uccello dalle mille<br />
piume azzurre, apre le immense ali e, con le sue mani di osso e di<br />
muschio, come un mietitore con la lunga falce recide per sempre<br />
quei gigli e poi si curva pietoso a suggellare con le sue labbra<br />
gelide quelle labbra ancora frementi di vita e, nel farlo, pure<br />
esso piange amare lacrime di rugiada bagnando quei petali di neve<br />
che in un subito si fanno di pietra, più fredde delle colombe<br />
d’avorio.<br />
Il loro tempo ha chiuso il suo cerchio, tornano da dove sono<br />
partiti. Chi oserà più dividere Frisigello e Almenia uniti per<br />
sempre nella brezza della morte?<br />
L’uno chino sull’altro, le labbra riescono a sfiorarsi, non c'è<br />
bisogno di parole, tutto è svelato. Intanto che mille e mille<br />
uccelli cantano fuori del nido; loro, finalmente abbracciati,<br />
formano una nuvola sola, sono già in fuga, oltre le mura del<br />
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dolore, più in alto della torre, dove un carro splendente di Luce,<br />
trainato da un magnifico cavallo alato li aspetta per condurli là<br />
da dove sono partiti.<br />
Che importa se per salirvi bisogna morire! Morire non è forse<br />
dissolversi nel sole?<br />
Morire! Per ritornare a vivere, come ritorna il seme sepolto<br />
dalla neve!<br />
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