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La bella galiana - Pier Isa Della Rupe Racconti e poesia

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1<br />

PIER ISA DELLA RUPE<br />

LA BELLA GALIANA


Non sa la nuvola dove la porta il vento, né il papavero sa dove<br />

cadrà il suo polline.<br />

In tempi antichissimi, sulle rive del Paradosso, torrente che<br />

scorre a Viterbo, c’era un masso enorme nel quale era piantata una<br />

lunga catena. I nostri barbari padri, che erano venuti da Troia<br />

assieme con Enea, per ricordo della patria lontana, mantenevano<br />

lungo le rive di quel torrente una troia bianca, la quale era<br />

considerata Sacra, perché dedicata alla <strong>bella</strong> Elena. Ogni anno, un<br />

certo giorno, era legata nuda a quella catena una fanciulla<br />

viterbese tratta a sorte dai sacerdoti, affinché fosse divorata<br />

dalla troia come vittima offerta alla dea Elena.<br />

Ma un giorno nacque a Viterbo la più <strong>bella</strong> creatura che si<br />

fosse vista al mondo, le fu dato il nome di Galiana…<br />

3


E' il giorno avanti la domenica, la campana di Santa Maria in<br />

Gradi, chiama i fedeli a raccolta per i vespri. I lenti rintocchi<br />

risuonano fino al lontano quartiere di Piano Scarano. E’ l’ora del<br />

crepuscolo e mentre sta abbuiando, tira un leggero vento da nord –<br />

est.<br />

Dal suo bellissimo e signorile palazzo, il conte Andrea Galiano<br />

dell'Acqua Zita quasi non respira ascoltando i ripetuti, ossessivi<br />

tocchi che sembrano un annuncio di morte.<br />

Lentamente passa una mano nervosa sui capelli grigi, arricciati<br />

e scapigliati, la barba pure essa grigia e ricciuta, è incolta. <strong>La</strong><br />

fronte corrucciata, le labbra livide quasi che tutta la stanchezza<br />

della vita si fosse riversata all’improvviso sulle sue spalle<br />

curve, solo il volto rimane immobile, duro, bianco come fosse<br />

scolpito nel marmo. Indossa una candita tunica di lino<br />

splendidamente ricamata, dalle spalle fino ai calcagni gli scende<br />

4


morbida un’ampia sopravveste scarlatta. In mano tiene un libro<br />

sacro e raro: chiuso da una serratura cesellata, scritto con una<br />

calligrafia arcana, ha il frontespizio disegnato con figure<br />

d’animali, ma il conte, non riesce ad aprirlo, non riesce a<br />

scrivere né a leggere né a pensare, per tutto il giorno ha vagato<br />

come uno spettro di salone in salone frugando ogni stanza, ogni<br />

angolo, ogni nicchia dell’antico e vasto palazzo senza sapere in<br />

realtà cosa cercare e adesso, tutte le incertezze lo hanno<br />

ripreso. Pure se vorrebbe urlare: tace. Ma la sua mitezza è solo<br />

un’ingannevole apparenza, il conte Andrea Galiano, pronipote del<br />

grande Enea, quando vuole qualcosa, sa bene come ottenerla. Alto e<br />

maestoso, nasconde i suoi accessi di collera formidabile sotto un<br />

velo di calma apparente. Per un momento solo, siede sopra l’ampio<br />

scanno con lo schienale scolpito e il sedile ricoperto da una<br />

pelle d’orso, ma poi, nervoso, con un forte ronzio nelle orecchie,<br />

subito si rialza, versa dell’altro vino nella coppa, ma non beve,<br />

come in trance, lentamente attraversa per l’ennesima volta il<br />

grande salone affrescato fino al soffitto con scene mitologiche e<br />

pastorali. Andrea Galiano, che s’intende molto di pittura, non le<br />

guarda neanche, inseguendo la sua pena, s’avvicina alla finestra,<br />

posa il libro sopra il tavolo di legno di bosso intarsiato<br />

d’avorio e, con la coppa in mano, resta ritto dietro i vetri<br />

appannati sentendosi morire. Fissa disperato lo stipite del<br />

balcone ricoperto di bava di ragno e, mentre contempla l'insetto<br />

che immobile aspetta la preda appeso al filo della sua tela, non<br />

può fare a meno di pensare che quella ragnatela d’argento, così<br />

elegante e tanto <strong>bella</strong>, pure essa altro non è che una trappola di<br />

morte. Poi, subito dimentico del ragno e della ragnatela, rientra<br />

5


disperato in quell'uragano che lo sconvolge strappandogli l'anima,<br />

così torna a guardare con occhi sbarrati senza vederlo il<br />

paesaggio di sempre.<br />

Anche se l'inverno col suo gelo se ne sta andando, anche se<br />

l’ape rossa già s’è svegliata, il conte si sente raggelare come<br />

sotto un cumulo di neve, forti brividi lo colgono, ma non<br />

s’accosta al camino che pure scoppietta allegro, non bada alle<br />

fiamme rosa – azzurre che ardono danzando. Lui va e viene sempre<br />

con la stessa andatura monotona e lugubre che rimbomba sul<br />

pavimento di marmi neri e bianchi. I suoi passi ripetuti e<br />

interminabili, echeggiano per tutto il palazzo come il gemito<br />

incessante della ruota del vicino mulino.<br />

L’unico svago della mente è tornare a guardare lo splendido<br />

giardino che si allunga dall’ampia loggia del salone aperta a<br />

levante, degradando fino ai piedi del pendio.<br />

6


A quell’ora, il giardiniere e il fontaniere, dopo aver potano i<br />

cespugli del roseto, del melograno nano e le altre mille intrigate<br />

siepi, dopo aver curato tutte le aiuole ricche di peonie e gigli<br />

pronti a fiorire, dopo aver pulito le grotte e le nicchie del<br />

ninfeo con la monumentale fontana delle carpe, la vasca di<br />

conserva delle acque con al centro la testa bifronte di Giano,<br />

salendo e scendendo all’infinito l’enorme scenografica scalea per<br />

accudire come sempre ogni terrazza, ogni angolo del parco, riposti<br />

gli attrezzi di lavoro, finalmente i servi ritornano a casa.<br />

Rannicchiato nel suo dolore, il conte continua ad osservare lo<br />

sgorgare dell’acqua dalle bocche delle tante figure in pietra,<br />

potesse anche lui come quell’acqua che zampillando fugge, potesse<br />

anche lui scappare via dal suo dolore. Invece, dalla paura non<br />

riesce a muovere neanche un‘unghia, quella paura che gli volteggia<br />

intorno come un avvoltoio sopra un cadavere, segue i suoi passi<br />

senza mai abbandonarlo.<br />

Immobile dietro i vetri, contempla e ricontempla l’ultimo<br />

raggio di sole che brilla da sotto le nuvole bordando d’oro ogni<br />

tenero germoglio dell’unica pianta di mandorlo che, già in fiore,<br />

s’arrampica sulla loggia e pare ricamata soprapposta a<br />

quell'incantevole selva di torri e campanili di pietra vulcanica<br />

che sbordano oltre la folta parete verde di bosso e tasso. Dentro<br />

i boccioli rigogliosi e rigonfi del mandorlo, se ne stanno<br />

pigramente affondati i pistilli dal colore della terra appena<br />

arata e, mentre si offrono al sole, sorridono beffardi alla neve<br />

che ancora ammanta la catena dei monti Cimini, dondolando<br />

oziosamente il capo pare sussurrino: presto, prima di presto<br />

arriverà la primavera. Intanto nell’aria, dentro un cielo terso,<br />

7


teso come una tela di pittore senza un’ombra, senza una nuvola,<br />

dove tutto sembra immobile, alcuni petali del fiore del mandorlo<br />

galleggiano nell’aria volando come le foglie di una sibilla ad<br />

urlare la verità nascosta.<br />

Forse sanno i candidi fiori che la prima stagione porta con sé<br />

il rito infame e quella primavera sarà la più terribile di tutte.<br />

Anche se nessuno ha osato comunicargli l'orribile notizia, il<br />

conte ha capito: dal silenzio silente della servitù, dagli occhi<br />

perennemente rossi di pianto della fidata nutrice Rachele,<br />

dall'incedere mesto del suo vecchio stalliere Meleagro di Pelacane<br />

che, rannicchiato nella giubba nera, pare nascondersi un palmo<br />

sotto terra. Da questi segni, ma, soprattutto da una fredda<br />

occhiata lanciatagli a piazza del Duomo dal grande saggio, da<br />

quell’occhiata, il conte, mentre sentiva scorrere un brivido<br />

freddo lungo la schiena e il sangue raggelarsi, ha capito: non<br />

deve attendere oltre l’annuncio del corvo, l’angoscia era scritta<br />

chiaramente negli occhi di ognuno e, a poco a poco, ha dovuto<br />

arrendersi alla tremenda realtà.<br />

nata.<br />

<strong>La</strong> sorte lo vuole derubare di sua figlia, la prima ed unica<br />

Il boia sta già forgiando le catene e la morte, batte col suo<br />

martello sull’incudine il nome della vergine diciottenne destinata<br />

dal fato tra le più belle e virtuose fanciulle della città.<br />

Galiana: è quello il nome che la morte cesella col fuoco. Sarà lei<br />

la martire, lei sarà braccata come un cerbiatto per poi essere<br />

sbranata dalla famelica troia bianca nell'orribile rito del pasto<br />

Sacro.<br />

8<br />

Ogni anno i grandi saggi, nel giorno degli idi di marzo,


sorteggiano una giovane; una volta prescelta, la fanciulla è<br />

considerata Sacra e il suo destino non può più essere modificato.<br />

<strong>La</strong> troia bianca è una gigantesca creatura orribilmente<br />

fantastica: ha il corpo tozzo e corto, le zampe di cavallo, gli<br />

zoccoli pelosi di capra, cammina sia ritta sia carponi sferzando<br />

continuamente la lunga coda. <strong>La</strong> pelle: squamata per tutto il<br />

corpo, è bianca come latte, la testa camusa ricorda un'infinità<br />

d'animali senza esserne alcuno. <strong>La</strong> bocca crudele, è contorta in<br />

un'orribile perpetua smorfia, gli occhi ricordano le fiamme dei<br />

dannati e, quando essa corre, trema la terra, l'erba smette di<br />

respirare, si fermano le nuvole nel cielo.<br />

Nel momento supremo del sacrificio, quell’animale, più che<br />

complice del boia, è il boia stesso. Parrebbe che capisca, che<br />

abbia una fantasia malefica, non solo ingoia, divora la carne<br />

della vittima bevendo il suo sangue, ma sembra vivere d’attesa.<br />

Una lunga spaventosa attesa fatta di stagioni, settimane, giorni,<br />

un'attesa per portare puntualmente la tragica morte. Per il resto<br />

dell’anno quel demonio sparisce inghiottito dal nulla per poi<br />

riapparire nel preciso istante del sacrificio.<br />

Già da due lune il conte sfogliando nervosamente il calendario,<br />

si fermava inorridito sulla pagina di marzo. Provava un forte<br />

terrore presagendo come ogni anno il ritorno di quel rito così<br />

barbaro. Quel rito che gli pesava sul petto eguale ad un macigno,<br />

oramai era solo un avanzo di storia dove lui non si riconosceva.<br />

Ogni volta soffriva in quel maledetto giorno e ogni volta tentava<br />

di opporsi, ma i grandi saggi pretendevano di mandare regolarmente<br />

al supplizio il fiore più bello del giardino, il fiore appena<br />

sbocciato per quietare l'essere orrendo e venerare così la<br />

9


ellissima dea Elena. Lui aveva sempre pensato che fosse solo una<br />

favola la storia della dea Elena: nata da un uovo di cigno e poi<br />

trasformata in stella. Quando era piccolo, l’aveva sentita narrare<br />

mille volte e adesso, per quella leggenda, sua figlia Galiana deve<br />

morire. Come a cercare aiuto, si volta a guardare con gli occhi<br />

verdi, dilatati dalla paura, un cimelio antico situato al centro<br />

della stanza, quell’arnese di guerra, ricordo del passato,<br />

poggiato sopra un cuscino di seta come una reliquia, tramandato<br />

gelosamente dalla madre al primo figlio da generazione in<br />

generazione, è l’elmo con cui Enea ha combattuto il nemico.<br />

Aveva amato ogni granello di polvere di quell’elmo. In preda<br />

all’emozione dei ricordi, con gli occhi lucidi, si lascia<br />

scivolare sul pavimento dell’antico salone che si apre sul<br />

loggiato e, tremando, s’inginocchia avanti a quel frammento<br />

d’armatura. Contempla e accarezza ogni foro, ogni angolo, la mano<br />

vola leggera sulla superficie appuntita, le dita tremanti palpano<br />

i rilievi corrosi dalla ruggine scarlatta. Al conte Andrea<br />

Galiano, basta appena socchiudere un poco le palpebre stanche per<br />

vedere Enea: principe di Troia, figlio di Anchise e di Afrodite,<br />

avanzare con l’elmo adorno di candide piume di cigno.<br />

Il grande condottiero assediato tra le mura e il fossato,<br />

avanza incontro al nemico con il pennacchio che ondeggia<br />

fiammeggiando sul capo divino. Risplende di luce la criniera e,<br />

mentre solleva con la mano sinistra lo scudo d’oro per ripararsi<br />

dai dardi, questo, rimanda bagliori accecanti... Enea, guerriero<br />

di stirpe divina, dotato di straordinaria forza e ardimento, in<br />

una superba giornata, mentre il cuore gli schianta dentro la<br />

corazza infuocata, avanza con furore incontro al nemico con gli<br />

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occhi fiammeggianti eguale a Marte, eguale al dio della guerra. Il<br />

conte lo vede intanto che allertato da un coro di Ninfe, veglia al<br />

timone, governa la nave, allenta le scotte delle vele e, mentre il<br />

carro della luna si alza nel cielo, lui, già solca il mare con la<br />

prora di bronzo volando sulle onde impazzite… Lo rivede quando<br />

uccide Emonide sacerdote di Febo. Emonide con l’infula sacra sul<br />

capo, la veste splendente, le armi scintillanti, fugge per la<br />

scarpata nel vano tentativo di salvarsi. Enea l’insegue, quando il<br />

sacerdote sdrucciola e cade, lo raggiunge, l’assalta, l’aiuta a<br />

rialzarsi e, mulinando la spada sguainata che scintilla nel sole,<br />

subito inizia una lotta furibonda all’ultimo sangue finché Enea,<br />

copre per sempre il nemico con l’ombra immensa della cresta<br />

piumosa del suo elmo.<br />

Quanto aveva amato la storia dei suoi antichi padri forti e<br />

valorosi, dalle divine origini, venuti dalla lontana, mitica città<br />

di Troia che, dopo un lungo assedio, era stata occupata e<br />

distrutta. Erano fior di guerrieri che avevano perduto tutto<br />

durante la battaglia, così cadute le mura dell'antica città,<br />

mentre questa era divorata dalle fiamme, gli eroi superstiti<br />

l'abbandonarono e protetti dalla pietà della splendente Elena<br />

incominciarono le peregrinazioni.<br />

Nell’isola di Creta, ai piedi del monte Ida i compagni si<br />

radunarono, costruirono una flotta, spiegarono le vele e andarono<br />

errando, sospinti dal vento del destino per la via del mare in<br />

cerca di una nuova patria verso occidente. Per sette anni con le<br />

navi sballottate, sconquassate dalle onde vagarono per i mari del<br />

Mediterraneo. Nel lungo viaggio, delle venti navi salpate, molte<br />

si dispersero, alcune spinte dalle negre tempeste, con i remi<br />

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ormai spezzati e le vele ridotte a brandelli, furono scagliate<br />

contro le rupi dei Ciclopi dal vento e dalle onde impazzite,<br />

altre, flagellate dal furore di Scilla, si arenarono nella<br />

scogliera calabra. Solo poche toccarono le insidiose isole Eolie<br />

dove all’improvviso, di giorno e di notte, il mare bollente,<br />

apriva le sue mille e più bocche infernali vomitando a tradimento<br />

fiamme e fumo, finché, sfiniti dalle terribili navigazioni, con le<br />

vele lacerate da cavalloni inferociti, le navi superstiti,<br />

approdarono finalmente sulle tranquille spiagge della Tuscia.<br />

Non seppe mai nessuno, quale ragione avesse spinto le navi dei<br />

fieri Troiani, ad entrare in quel lido. Sia stato un errore di<br />

rotta, una tempesta o una stella benigna, non vi fu mai la<br />

risposta, ma, appena i Dardanidi con le ossa rotte dalle fatiche<br />

scesero a terra, la prima cosa che cercarono con gli occhi<br />

infiammati, offesi, bruciati dal riverbero del sole sull’acqua del<br />

profondo mare, dopo aver passato tanto tempo senza aver visto<br />

neanche un filo d’erba, la prima cosa che cercarono fu il verde<br />

delle colline lontane che chiudevano la vallata all'orizzonte.<br />

Sullo sfondo di un cielo blu - oro, spuntava una linea di montagne<br />

trasparenti e, avanti la selva, una fertile pianura di terra rossa<br />

con immense, bionde distese di grano che ardevano nel sole. Quel<br />

paesaggio nobile e grandioso, avvolto in un silenzio senza tempo,<br />

era rotto di tanto in tanto solo dal tintinnio di una campanella<br />

al collo di un montone. Agli antichi padri esiliati, provenienti<br />

da spiagge barbare, dopo che avevano tratto a riva la flotta<br />

sconquassata, con i cento remi che avevano percosso le onde<br />

spumeggianti consumandosi fino all’inverosimile: ormai quei pezzi<br />

di legno erano solo un opaco ricordo della splendida selva nel<br />

12


cuore del Sacro bosco dell’Ida dove erano stati scolpiti, agli<br />

antichi padri; quella terra di tufi dorati, di nenfro e peperino<br />

bigio, terra ricca di macchie negre di lecci, quella terra dove<br />

regnava un paesaggio senza tempo con le colline di sogno, calme e<br />

tacite, sembrò molto più <strong>bella</strong> del paradiso!<br />

Sognando già di mordere con le labbra esiliate: more, uva e<br />

miele selvatico, offerte da Faune e Ninfe che certamente abitavano<br />

quei boschi, sognando poi di sdraiarsi assieme a loro sull’erba<br />

tenera con le braccia incrociate sotto la testa a contare le<br />

stelle, gli antichi, felici come fanciulli, s’inoltrarono in<br />

quella madre terra. Attraversarono un boschetto di cornioli, dove<br />

in fondo alla valle serpeggiava un fiume sormontato da un vecchio<br />

ponte a dorso. Il fiume, era costeggiato da una fitta macchia di<br />

maestose querce gigantesche. Appena si fermarono, prima<br />

d’incontrare le tribù indigene del <strong>La</strong>zio, alcune delle quali erano<br />

ancora selvagge creature che non sapevano attaccare i bovi<br />

all’aratro, gli antichi, appena si fermarono, in un subito da<br />

sotto la macchia videro sbucare come se fosse stata partorita dai<br />

tronchi durissimi di quercia, videro sbucare un’enorme bestia<br />

bianca, così candida che abbagliava la vista. Tanto mostruosa e<br />

terrificante da apparire agli occhi dei naufraghi stanchi il segno<br />

che aspettavano!<br />

Più volte Enea, durante il lungo viaggio, mentre contemplava le<br />

stelle che servivano a regolare la navigazione, aveva avuto delle<br />

visioni. Una volta, erano le prime ore della notte quando si<br />

svegliò di soprassalto e vide il disco della luna nel suo massimo<br />

splendore, emergere dai flutti del mare e, subito accanto, candida<br />

come la luna gli apparve una gigantesca bestia dal vello bianco<br />

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che gli indicava il sito dove riposarsi dopo le tante fatiche sul<br />

mare e dove, finalmente, al riparo di tutto, poteva costruire una<br />

grande città. In quel luogo la stirpe di Enea: i suoi figli, i<br />

figli dei suoi figli, avrebbero dominato un impero dentro uno<br />

spazio immenso di terra e di mare. Sì! Avrebbero costruito una<br />

città forte, protetta da altissime e spesse mura, con<br />

centonovantasette superbe torri che dovevano competere e<br />

gareggiare con le altezze del cielo. Insomma, una città fra tutte<br />

le città della terra la cui fama sarebbe arrivata alle stelle.<br />

Confondendo quell'animale con il gigante leggendario del<br />

sogno, gli antenati Troiani, sfiniti dal lunghissimo viaggio e<br />

dalle migrazioni, presero a venerarlo come fosse un dio, finché il<br />

grande sacerdote lo consacrò nominandolo guardiano Sacro di quel<br />

sito, dedicandolo alla <strong>bella</strong> Elena. Infine Enea, osservando le<br />

tremende sferzate della coda di quel mostro, decise di costruire<br />

la nuova città all’ombra delle sue fauci spalancate.<br />

Scattò così, come nella tela del ragno, la trappola della<br />

morte. Posata la prima pietra, per quietare quella bestia ormai<br />

Sacra, l'oracolo suggerì di saziarla con carne umana offrendo il<br />

sacrificio alla dea Elena. Gli antichi scelsero una vergine, la<br />

più <strong>bella</strong> tra tutte le fanciulle: la denudarono, la incatenarono<br />

ad un masso e la lasciarono alla bestia. Quello fu solo il primo<br />

anello della terribile catena, poiché ogni anno nel medesimo<br />

giorno, essa ritorna fuori della selva e con la sua voce roca,<br />

colma di tracotanza, reclama con ululati orribili una giovane<br />

vittima in un perpetuo allucinante.<br />

Quella storia terribile dalle pagine tarlate, strappata a<br />

forza alla polvere dell’antico oblio, il conte la ripudia, per la<br />

14


prima volta si sente straniero nella sua città, forestiero tra la<br />

sua gente. A cosa è servito scampare al flagello della guerra di<br />

Troia, fuggire attraverso le fiamme dei greci, superare tanti<br />

pericoli sul mare e sulla terra alla ricerca del <strong>La</strong>zio? A che<br />

serve essere potente: avere rendite, cavalli, carrozze, servitori<br />

e tutte le cose più belle della vita? Che serve aiutare i poveri,<br />

gli orfani, se mentre lui continuerà a vivere onorato e<br />

rispettato, la carne della sua carne sarà trascinata a forza dal<br />

boia in un bagno di sangue? Non sarebbe stato meglio se gli<br />

antenati, fossero rimasti sui campi di Troia sulle ultime ceneri<br />

della patria tanto amata piuttosto che quel supplizio continuo di<br />

vergini innocenti? A qualsiasi idea si appiglia, inevitabilmente<br />

vede avanti a sé la morte venire all’appuntamento. I grandi saggi<br />

hanno deciso: una parte di lui deve morire. In segno di lutto, il<br />

suo bel palazzo che si erge sul poggio come un castello, presto<br />

sarà ammantato da lenzuola funebri, drappi viola copriranno ogni<br />

angolo, ogni mobile, ogni quadro, ogni statua, si spegneranno le<br />

candele e per tutto il palazzo non ci sarà altro che odore di<br />

morte. Il profumo acre e forte dell’incenso assieme ai gemiti<br />

lugubri dell’organo accompagneranno ogni ora della sua vita.<br />

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Il conte, dovunque si volta, vede un sepolcro, un’agonia. In un<br />

momento solo, con un salto nel buio perderà miseramente il suo<br />

unico amore, la sua unica figlia adorata e la voglia di vivere.<br />

Più ci pensa e più gli si drizzano i capelli, può il destino<br />

essere così crudele e cattivo quasi quanto una creatura<br />

intelligente e diventare mostruoso come il cuore umano? Quell’elmo<br />

che ancora contempla, gli ricorda che i suoi antenati gli hanno<br />

insegnato che morire in battaglia è bello, ma, è altrettanto bello<br />

morire dilaniati da una belva mostruosa ancora prima di aver<br />

vissuto? Per ore, lo sventurato, si dibatte in quel dilemma<br />

angoscioso, per ore si ripete che ogni giorno si perde qualcosa,<br />

ogni giorno c’è da pagare un pegno per attraversare questa valle,<br />

finché, finalmente, infiammato di collera, con il volto più duro<br />

delle vette rocciose dei Cimini, rimette il cimelio al suo posto<br />

e, d’un colpo, si alza deciso ad allontanare da sé quel calice<br />

spaventoso traboccante di tenebre e sangue. Disperato, chiude i<br />

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pugni, più volte colpisce il vetro appannato e come impazzito dal<br />

dolore, vorrebbe urlare con tutte le sue forze, ma il grido rimane<br />

sepolto dentro di lui, fermo, aggrovigliato in un'oscura radice e,<br />

per quanto può urlare un moribondo, con un tenue filo di voce, il<br />

conte Andrea Galiano dell’Acqua Zita, urla:<br />

"No! No! No! <strong>La</strong> mia Galiana no!"<br />

Col volto rigato di lacrime amare cerca di scacciare dall’anima<br />

e dalla mente quella visione orribile: attraverso un velo di<br />

nebbia, vede Galiana fuggire inseguita dalla bestia. Deve<br />

assolutamente trovare un mezzo per salvarla, deve pure esserci un<br />

modo per allontanare da lei Azrael, l’angelo della morte che<br />

aspetta fuori il palazzo con la spada sguainata e le ali dalle<br />

piume azzurre già aperte. Solo uccidendo il “ragno” e distruggendo<br />

per sempre la ragnatela, farà tornare addietro quell’angelo. Nel<br />

suo libro Sacro c’è scritto a lettere di fuoco, che un buon<br />

pastore, deve essere pronto a tutto per proteggere il suo gregge<br />

minacciato dai lupi della notte. Un buon pastore, oltre a rendere<br />

17


forti le pecore deboli, curare quelle malate, fasciare le bestie<br />

ferite, cercare le perdute, deve essere pronto a sacrificare la<br />

vita per ognuna di esse. Se un pastore può fare tutto questo per<br />

delle semplici pecore, che non può fare un padre per salvare sua<br />

figlia? Così pazzo di dolore, mentre il cielo sta abbuiando, ad un<br />

tratto si ricorda che il suo vecchio stalliere Meleagro gli ha<br />

raccontato di una tribù di misteriosi nomadi accampati fuori la<br />

porta delle mura. Non erano dei saltimbanchi – mangiafuoco, né<br />

danzatori di piazza poveri e disperati che si guadagnavano la vita<br />

arrangiandosi, magari spaccando bambù e intrecciando canestri, né<br />

falsi profeti che predicavano l'avvenire alla gente e neanche<br />

vivevano ai margini della strada qui o là, morendo poi sulla nuda<br />

terra dove capita capita. L'anziano servo sosteneva che quei<br />

nomadi erano i Figli della Luce, custodivano una tradizione magica<br />

e possedevano poteri soprannaturali. Lui stesso aveva visto una<br />

bellissima giovane eseguire un rito strano e, mentre tutta la<br />

tribù le tamburellava attorno, la giovane innalzava una piccola<br />

pietra al cielo. Certamente quel rito serviva a catturare<br />

l'energia. Meleagro, fermandosi di nascosto, aveva osservato da<br />

vicino la pietra che, riscaldata dai raggi del sole,<br />

straordinariamente sprigionava una sottile misteriosa nuvola di<br />

fumo, mentre i bellissimi capelli della giovane, dal colore delle<br />

foglie d'acacia appena nate, al contatto di quel fumo cangiavano.<br />

Cos’era realmente quella strana pietra? Aveva poteri magici? Il<br />

conte non sa spiegarsi ma, pensando a quei nomadi, sente una tenue<br />

speranza riscaldargli il cuore, come un’attesa per qualcosa che<br />

non sa definire, forse spera che quel popolo misterioso, magari<br />

con un incantamento, possa salvare Galiana in cambio di monete<br />

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d'oro. Nemmeno per un attimo pensa al sacrilegio: i saggi<br />

attendono la vergine Sacra perché è lei e solo lei l'unico pane<br />

per saziare la bestia. Per il conte Andrea, la cosa più importante<br />

è salvare Galiana con qualsiasi mezzo! Non ha in mente che<br />

un’immagine: sua figlia e la bestia, tutto il resto è nero. Più<br />

lui fissa quel pensiero, più sente avvicinarsi fatalmente l'orrore<br />

della fine. Con la stessa angoscia del pastore che, spinto fuori<br />

del letto barcolla alla cieca tra la nebbia e la bufera cercando<br />

disperatamente di recuperare la pecora smarrita, il conte,<br />

conclusa un’alleanza con se stesso, decide di lasciare il palazzo.<br />

Da Rachele manda a chiamare Meleagro, poi ordina al suo<br />

cocchiere, Pippo di Pancotto, di tenere pronti i cavalli e la<br />

carrozza chiusa.<br />

E' buio profondo quando la vecchia carrozza rossa, con le<br />

tendine abbassate, si perde nella notte. Dopo aver percorso<br />

velocemente i vicoli ormai bui, attraversa la piazza con la<br />

Fontana del Sepale, passa avanti la chiesa di San Pietro<br />

19


dell’Olmo, sorpassa il pulpito di Santa Maria Nuova dove ha<br />

predicato Tommaso d’Aquino, s’inoltra per Valle Cupa ed infine<br />

esce dall'antica Porta di Valle, la porta che sorregge col suo<br />

grande arco una delle centonovantasettte torri in difesa della<br />

città.<br />

A quell’ora, i pastori, tutta la gente delle grotte hanno già<br />

rimesso le lucerne e, quando Andrea lasciata Viterbo alle spalle,<br />

lesto, scende dalla carrozza per subito scomparire inghiottito<br />

dalla foschia ovattata è completamente solo. Tutto ravvolto in un<br />

mantello nero, s'inoltra nel colle di Vico Squarano che conduce<br />

all’attendamento dov’è accampata la carovana di nomadi.<br />

Arrivato in cima al colle, procede ancora per cinquanta passi<br />

poi, indeciso, si ferma sotto un albero di ligustro ai bordi della<br />

rupe del Sordo. Contempla a lungo pensoso la sua città: guarda le<br />

mura, i tetti, le imponenti torri merlate che s’innalzano come<br />

giganti preistorici, i campanili che si rizzano fino alle stelle<br />

per poi sprofondare nella notte in un gorgo di nebbia. A quella<br />

vista, uno strano languore cupo e sinistro, avvolge la sua<br />

coscienza, un senso di colpa gli trapassa l’anima al pensiero che,<br />

mentre dentro le case la gente onesta già dorme, lui, fugge<br />

nascondendosi come un ladro. Per un momento pensando alle gesta<br />

eroiche dei suoi antenati, si sente piccolo e sporco. Che cosa sta<br />

accadendo dentro di lui? Cosa spera di trovare da quei nomadi? E’<br />

scivolato nell’oscura caverna dell’ignoto e pure se non ha ancora<br />

deciso nulla, continua a ripetersi che deve andare avanti. Fa<br />

ancora pochi passi poi si ferma di nuovo e, mentre la sua anima<br />

vaga disperata dentro la brezza pungente della notte, chiude per<br />

un attimo gli occhi, poi subito li riapre, indeciso non sa quale<br />

20


sentiero, quale decisione prendere. In realtà il conte Galiano se<br />

potesse, si lascerebbe volentieri scivolare sull’erba umida e<br />

resterebbe lì, raggomitolato per tutta la notte. Intanto che<br />

osserva la silenziosa veste di nebbia che come un manto avvolge le<br />

ore, si aggrappa all’idea che nessuna forza sulla terra può<br />

decidere il destino degli altri, così continua a combattere la sua<br />

battaglia personale ed è ancora al punto di partenza, quando la<br />

campana della torre batte l’ora dei morti. Dopo quel suono tetro e<br />

solitario, il silenzio incalza così pesante che si potrebbe<br />

tagliare con una falce affilata, finché, in quel buio fitto,<br />

dentro quella calma apparente e misteriosa, dalla pianura si alza<br />

soffiando un vento gelido che conficca i suoi aghi nei polmoni e<br />

fa arrestare il cuore.<br />

21


I vicini boschi diventano subito tenebrosi, un fremito leggero<br />

scuote le foglie, la ramaglia si rizza stranamente lugubre, pure i<br />

cespugli d’erba bassa sibilano contorcendosi come tante anguille.<br />

L’oscurità attorno è paurosa. L’uomo, come ogni altra creatura<br />

vivente, ha bisogno di luce, chiunque si sprofondi nell’eclissi<br />

nera della notte, chiunque provi a penetrare le tenebre<br />

indistinte, è preda di un vago terrore, basta il fremito delle ali<br />

di una farfalla a scatenare l’agonia nel cuore. Il conte guardando<br />

da sopra il colle di Vico Squarano che di notte, appare più<br />

spaventoso di una foresta, si chiede: questo, è un luogo deserto<br />

dove qualcuno vive, o è un luogo abitato che sembra deserto?<br />

Mentre si pone la domanda, all’improvviso, vede sfrecciare una<br />

stella filante e, subito, dalla vicina necropoli ad occidente, si<br />

sollevano avanti ai suoi occhi esterrefatti, alcuni cespugli<br />

d’eriche secche che, spinte dal vento, rotolano come se fuggissero<br />

da qualcosa di spaventoso e, in un subito, dentro quella notte<br />

negra come pece, si alzarono, eguali a grandi radici, grossi<br />

grappoli di nuvole livide e basse. <strong>La</strong> voce del vento che spinge<br />

quelle nuvole, assomiglia ad un pianto di fanciullo, a nitriti di<br />

cavalli che passano correndo nella notte, allo stridere di catene<br />

strascinate, a gemiti di morti.<br />

Sbiancato in faccia, vestito di terrore con un freddo brivido<br />

che gli corre nella schiena, il conte, che si è fatto di pietra,<br />

più marmo del marmo, nell’immobilità profonda di tutto il suo<br />

corpo, guarda stralunato, quasi che in lui vivessero soltanto gli<br />

22


occhi, guarda quelle strane nuvole di schiuma che indugiano un<br />

istante sul volto del cielo, poi, come spinte da una bruma leggera<br />

che si alzasse dalla superficie di un lago, volano, eguali a<br />

grandi uccelli fuori della specie e dalla legge di natura. Volano<br />

ammantando stranamente l’orizzonte, finché, a dieci braccia da<br />

lui, come fossero cresciuti all’improvviso nella sua anima, le<br />

nuvole, si aprono piangendo eguali ad oscuri papaveri e, da essi,<br />

fuoriescono soprapposti ai neri profili degli alberi, fuoriescono,<br />

materializzandosi dal nulla, per poi avanzare verso di lui in una<br />

lunga e lenta processione, figure senza sostanza, freddi fantasmi,<br />

ombre vagabonde senza corpo. Sono le martiri, le anime defunte<br />

delle giovanissime fanciulle morte assassinate durante il<br />

terribile rito Sacro, nemmeno nell’aldilà, nemmeno nella morte<br />

quelle anime hanno trovato requie al dolore.<br />

Gli spettri di quella processione, maschere oscure senza occhi,<br />

vengono avanti lentamente dentro un bianco serpente di nuvole.<br />

Vestite di veli candidi e luminosi, le teste inghirlandate di<br />

fiori di campo. Il conte crede di riconoscere, tra la lunga fila<br />

che sorge dalle nubi: Claudica figlia di Menedonte, Oleina di Cola<br />

di Iancane e poi Ropa di Pitruccio di ser Giovanni, Andreuccia di<br />

Paulo di Cavaterra e tante altre vergini tutte scelte negli idi di<br />

marzo dai grandi saggi.<br />

Galiano vede quelle povere ombre piegarsi come le spighe del<br />

grano sulla bocca del vento. Le “spighe”, si accalcano attorno a<br />

lui, a sinistra a destra avanti, dietro, pronte a graffiargli<br />

l’anima, pronte a perdersi dentro di lui come i prigionieri si<br />

perdono dietro le sbarre di ferro.<br />

23<br />

Quelle ombre terrificanti, senza forza, ombre sottili, fatte di


nebbia in figura di fanciulle, avanzano con le braccia spalancate,<br />

braccia che paiono di madreperla trasparente. Braccia che forse,<br />

vorrebbero stringerlo nella morsa della fine. Per tre volte<br />

passano avanti ai suoi occhi atterriti, per tre volte svolazzano<br />

consunti dalla morte attorno a lui finché, Galiano, superato<br />

l’orrore, guardandole con occhi luccicanti riesce a chiedere:<br />

“Perché creature innocenti, siete tornate dal mondo degli<br />

spiriti? Per dividere con me l’amarezza del vostro inutile<br />

sacrificio o per rimproverare la mia debolezza? Io come tanti<br />

altri ho lasciato morire angeli come voi in nome di niente.<br />

Potrete mai perdonarmi, potranno mai le mie lacrime saziare il<br />

vostro dolore?”<br />

Per tutta risposta le anime finalmente s’infrangono come onde<br />

del mare sul suo petto per poi lentamente arrampicarsi al suo<br />

dolore come tralci d’edera, ma prima d’annidarsi nella bruma della<br />

notte per disperdersi assieme al soffio del vento, prima di<br />

scomparire nella notte buia, con una voce debole senza respiro,<br />

una voce simile all’eco che ritorna da valli lontane, le ombre,<br />

sussurrarono in coro al suo orecchio:<br />

“Se è vero che vuoi essere perdonato, se hai pena di noi,<br />

diventa il nostro pastore e vendicaci! Non permettere alla bestia<br />

feroce di divorare ancora le pecore del tuo gregge. Vendica ogni<br />

lacrima versata dai nostri occhi vuoti. Vendicaci! Vendicaci”<br />

Vendicaci! Quella parola da sola, basta a scavare pozzi<br />

profondi e tremendi.<br />

Il conte Galiano, pure se non crede ai presagi, infatti, fino<br />

ad ora non aveva mai prestato fede ai prodigi, ma in quella notte<br />

dove manco il cielo e la terra sembrano trovare pace, in quella<br />

24


notte dove le tombe vomitano i loro morti, ha paura.<br />

Immobile resta come liquefatto dal terrore. Il sangue gelato, i<br />

capelli dritti, mentre continua a toccarsi il petto come fosse<br />

stato trafitto da uno stormo di frecce avvelenate, si chiede: cosa<br />

sono queste apparizioni? Angeli, demoni, attimi d’eternità che<br />

ritornano? Ma se non è stata la mia stanchezza a creare quelle<br />

forme, la vita terrena e tutto quello che essa racchiude dunque è<br />

solo un sogno, un sogno nell'attesa del risveglio. Nient’altro che<br />

quello che noi chiamiamo morte. Se così è, quel formicaio di Mani,<br />

quelle povere anime di fanciulle defunte che camminavano<br />

nell’oscurità, non erano solo un leggero soffio d’aria, bocche<br />

spalancate che riaffioravano dal passato nascondendosi nel<br />

labirinto della mia mente. Esse erano e sono, realtà.<br />

Se il conte potesse afferrare quelle ombre capaci di<br />

offuscargli la ragione, ombre che corrono senza lasciare impronte<br />

sull’erba ma lo fanno vacillare, se solo potesse inseguire il<br />

flutto che le ha risucchiate, forse, potrebbe farsi indicare da<br />

loro la strada da seguire perché… non invano le tombe restano<br />

vuote, non invano i minuscoli spiriti appaiono alla luce della<br />

luna, non invano i morti, avvolti nei loro sudari, si rizzano per<br />

vagare gemendo come nel giorno del giudizio.<br />

Galiano, conosce abbastanza il mondo da sapere che sia i<br />

paurosi sia i vigliacchi, muoiono mille volte al giorno, sa pure<br />

che a quell’ora della notte, può accadere di tutto: le terribili<br />

streghe del Montecchio, capaci persino di fermare la luna e fare<br />

alzare o abbassare la marea, se vogliono, possono compiere<br />

qualsiasi sortilegio e, mille e più prodigi. Sa pure che ogni<br />

notte ha i suoi spettri, spettri che illudono i sensi addormentati<br />

25


e forse, quella bianca schiuma che viaggiava col vento, senza<br />

sostanza e peso, più leggera delle orme dei gabbiani sulla<br />

spiaggia, quella schiuma livida che ronzava nel suo orecchio<br />

incitandolo alla vendetta, forse non è esistita altro che nella<br />

sua mente. Ma se aveva bisogno di un segno per convincersi a<br />

continuare la sua battaglia, adesso, dopo aver assistito alla<br />

processione degli spiriti erranti, completamente sconvolto, con un<br />

sudore gelido che gli bagna la fronte si decide: deve<br />

assolutamente cavarsi da quell’incubo spaventoso, deve<br />

assolutamente distruggere per sempre la bestia malefica.<br />

Barcollando, rischiando più volte di precipitare nel fondo<br />

della rupe scoscesa del Sordo, fugge e, nel farlo, intruppa ad<br />

ogni più piccolo ostacolo. Fugge il conte Galiano, fugge<br />

disperato, quasi fosse inseguito dalla morte stessa e nel farlo si<br />

chiede:<br />

“Dove vado? Perché fuggo, da chi? Quale sorte mi aspetta? Se<br />

quelle ombre erano delle bolle d’aria, dove sono svanite? Sono<br />

state veramente qui, oppure ho mangiato la radice insana che fa<br />

prigioniera la mente? ”<br />

Piangendo giunge le mani implorando le stelle: “Voi stelle, che<br />

tutto vedete, che tutto potete, abbiate pietà di me, sbattetemi<br />

pure contro le rupi, lasciatemi morire abbracciato ad uno scoglio,<br />

ma prima fatemi salvate mia figlia, prima di morire devo salvare<br />

Galiana.”<br />

Con occhi cechi, attraversa a guado il fosso, entra negli orti,<br />

nei campi, si trascina bocconi sotto una densa fratta, trapassa la<br />

macchia di cerri, percorre la profonda inquietante Tagliata<br />

Etrusca, scavalca delle staccionate e finalmente vede in<br />

26


lontananza, una sottile colonna di fumo torcersi nell’aria, quando<br />

infine arriva in un terreno abbandonato circondato da un canneto,<br />

con un forte batticuore s’accorge d’essere arrivato nella tana dei<br />

nomadi.<br />

Più silenzioso degli spettri delle fanciulle, il conte,<br />

s’avvicina al pittoresco bivacco: un grande fuoco e basse<br />

costruzioni ricavate da bambù ricoperte di foglie di canne e pezzi<br />

di stoffa. Per tradizione i nomadi vivono all’aperto, niente case,<br />

niente grotte, niente di niente, solo la notte sgusciano sotto<br />

quei fragili ripari per dormire. Andrea arriva fino a pochi passi<br />

dal fuoco dove la piccola tribù è in contemplazione: un fumo denso<br />

e livido si contorce serpeggiando in una lenta spirale mentre un<br />

odore acre emana dalle erbe che bruciano in un braciere. Protetto<br />

dal buio, il conte si nasconde dietro un grande albero d'ulivo e<br />

resta a guardare quei nomadi che adorano il sole: signore delle<br />

tenebre e centro di tutto.<br />

<strong>La</strong> tribù è seduta in cerchio attorno ad una grande vecchia che<br />

ha un enorme cespuglio di bianchi capelli inanellati. Poggiato a<br />

terra, uno scrigno di quercia rivestito di ferro colmo di semi di<br />

papavero e chicchi di melograno. <strong>La</strong> vecchia accanto al fuoco in<br />

contemplazione astrale, ha sulla fronte un sole tatuato, indossa<br />

una tunica di pelle color paglia. Sul petto tiene una montagna<br />

d'amuleti e, poggiato sopra le cosce, un grande bacile di coccio<br />

in cui sono sparpagliati semi di papavero e chicchi di melograno.<br />

Uno strano alone divino corre sul volto di quella donna anziana:<br />

Grande Madre Vergine della tribù e Signora della Luce nella forma<br />

vivente.<br />

27<br />

I nomadi guardano estasiati i suoi occhi colore della notte


dove corrono stupendi cavalli bianchi. Occhi neri, selvaggi, che<br />

hanno visto i candidi gigli crescere ignari di tutto sulla sabbia<br />

del mare, hanno visto l’erica marina ridere al sole offrendo alla<br />

brezza i suoi delicati fiori a corolla. Quegli occhi che hanno<br />

visto tutto, raccontano pure che, sia i candidi gigli, come i<br />

fiori dell’erica non vivono che qualche ora.<br />

Passato lo stupore iniziale, il conte decide di cercare la<br />

bellissima giovane, quella che danzando nel sole di mezzogiorno ha<br />

incantato così tanto Meleagro; è sicuro che saprà riconoscerla: il<br />

servo gli ha descritto il colore dei capelli e la veste che<br />

indossa.<br />

Non la vede subito, c'è molto fumo, ma testardo continua a<br />

cercare e mentre gli occhi si abituano sempre più all'oscurità, ad<br />

un tratto, dal nulla emerge una figura fantastica… <strong>La</strong> riconosce<br />

all’istante! E’ lei! E’ suo quel bellissimo volto dall’ovale<br />

perfetto: i grandi occhi dal taglio leggermente a mandorla,<br />

risplendono ai guizzi della fiamma.<br />

<strong>La</strong> giovane, sdraiata sopra una pelle di caprone è più addietro<br />

degli altri, fuori del cerchio magico. Guarda la grande vecchia<br />

con pupille brucianti. Indossa la veste colore arancio, guarnita<br />

con nastri di velluto nero descritta così bene da Meleagro, sotto<br />

la veste, fa capolino un indumento bianco orlato di merletti<br />

ricamati e, sopra i seni rotondi: niente. Le ciocche disordinate<br />

dei capelli dall’incredibile colore delle foglie d’acacia appena<br />

nate, le ricadono arricciandosi attorno alle tempie, alcune<br />

sfiorano le sopracciglia, altre, scendono sul collo mentre si<br />

accendono di bagliori al riflesso della luna. Una fascia<br />

scarlatta, ricamata con disegni astrali, legata a lato della<br />

28


fronte, cerca invano di fermare quei riccioli che danzano liberi<br />

nell'aria sospinti dal fumo. Il conte perso dentro quel mondo<br />

misterioso che lo attira come un magnete, è pronto per iniziare un<br />

viaggio forse senza ritorno dove il tempo potrebbe fermarsi, anzi,<br />

già s’è fermato se lui, dimentico di tutto si è smarrito solo<br />

guardando la fanciulla. Il poco fumo che ha respirato, come fosse<br />

una droga subito gli dà le vertigini: la testa gli gira, fatica a<br />

deglutire. Il profumo fortissimo delle erbe bruciate è inebriante<br />

e sensuale, sta vivendo una realtà o un’immaginazione? Incantato,<br />

mentre osserva tutto, vede un giovane con i capelli intrecciati in<br />

mille piccole trecce che alzatosi, stacca delle foglie da un<br />

albero d'alloro e, masticandole, comincia a girare vorticosamente<br />

come fosse posseduto da un’energia divina, finché sfinito, si<br />

sdraia in terra e dopo un attimo di quiete inizia a suonare la<br />

lira.<br />

Al suono seducente di quello strumento ricavato dal guscio di<br />

tartaruga, altri giovani prendono a suonare finché, lenti e gravi<br />

colpi di tamburo rullando, entrano nel petto di ognuno sovrastando<br />

ogni cosa. Per tutta la terra, per il mondo intero, non c’è nulla,<br />

non si sente null’altro che il ritmo di quei tamburi, mentre quel<br />

rullare trascina con sé tutto, grave e lenta si alza una voce. E'<br />

la Signora della Luce che dopo aver gettato manciate d’erbe sulle<br />

braci infuocate, con le braccia spalancate come per abbracciare la<br />

notte, inizia a pregare in un modo strano, dolcissimo e<br />

lamentevole, poi, mentre il fumo profumato riempie l’aria di una<br />

foschia dorata, intercalati ai colpi di tamburo, anche gli altri<br />

iniziati prendono a cantare:<br />

29<br />

“Amo il sole, la luna, le stelle,


i boschi, gli alberi di melo,<br />

il volo degli uccelli, l'ululato del vento.<br />

Amo la terra dove riposa il grano,<br />

il silenzio che accompagna il tuono,<br />

la rugiada che bagna la felce.<br />

Amo ogni filo d'erba della prateria,<br />

il mormorio del fosso, i semi di papavero,<br />

l'arcobaleno che insegue la tempesta.<br />

Sono il serpente che ingoia la notte,<br />

sono la terra scarlatta illuminata dal sole.<br />

Vado dove mi porta la divina luna<br />

e dove corre la mia ombra alzo un altare.”<br />

Quell’invocazione nella notte negra, pare uscire dalle fronde<br />

dell'albero d'ulivo, dal fumo, dalla brace. Il suo eco assordante<br />

è più di un mana, la preghiera è rivolta al sole, alla luna,<br />

all'universo, ma soprattutto alla terra. Terra preziosa che<br />

custodisce il grano prima di marcire e poi lo fa tornare<br />

misteriosamente dall'aldilà dentro la spiga rigonfia di nuova<br />

vita.<br />

Ecco, il tamburo lentamente zittisce, solo un altro colpo, un<br />

ultimo sussulto, poi il silenzio. Tutto parrebbe finito ma il<br />

conte è ancora incollato all'albero. Povero Andrea! Ha sentito i<br />

nomadi salmodiare, ha sentito la terra vibrare sotto i suoi piedi,<br />

pure, non saprà mai cosa ha realmente evocato la grande vecchia,<br />

non saprà mai quali inimmaginabili misteri racchiude quella<br />

preghiera al Dio Sole portatore di vita. Certamente nasconde in sé<br />

delle verità che a lui, piccolo mortale, non saranno mai svelate,<br />

tutta la sua arroganza non serve a niente, ma forse neanche ha il<br />

30


tempo di rendersene conto, perché la magia non si spegne, continua<br />

a galleggiare nell’aria, così, mentre resta immobile a guardare,<br />

un’invocazione si leva su tutti gli altri suoni, il popolo dei<br />

nomadi grida un nome solo: "Almenia! Almenia!"<br />

Quella invocazione corale, è ritmata dal movimento delle spalle<br />

e della testa, presto la notte si trasforma; quel grido<br />

penetrante, pare voglia squarciare il buio livido e fare apparire<br />

il sole, forse serve proprio a questo la preghiera, affinché esso<br />

l'indomani torni ancora a risplendere generato dal Sacro Fuoco. I<br />

nomadi continuano a dondolarsi picchiando ad intervalli regolari i<br />

pugni sopra un rozzo strumento a percussione che ognuno tiene<br />

legato alla vita. Quell’attesa strana di qualcosa che deve<br />

accadere, fa rabbrividire il conte, finché finalmente un altro<br />

giovane esce dal cerchio magico: si copre le spalle e la testa con<br />

una pelliccia di leone e, imitando le movenze di quell’animale in<br />

lotta nella stagione degli amori, si avvicina strisciando sinuoso<br />

alla fanciulla. Quando finalmente è avanti a lei, apre con le sue<br />

possenti braccia di maschio il vello e, mostrando il petto<br />

tatuato, solleva la testa, chiude gli occhi e resta proteso. <strong>La</strong><br />

bellissima nomade è ancora sdraiata sopra la pelle di caprone, i<br />

capelli magnetizzati continuano a volare galleggiando leggeri<br />

nell'aria. Poi, dopo un tempo infinito, lentamente si alza. E’<br />

molto più giovane di quanto gli era sembrata in un primo momento,<br />

piccola di statura, pure è perfetta quando a piedi scalzi inizia<br />

il rito volteggiando leggera attorno alla grande vecchia. No, non<br />

è la solita danza sensuale e appassionata, ma un susseguirsi di<br />

movimenti morbidi e melanconici che via via si trasformano in<br />

gesti tumultuosi, incalzanti, sfrenati, finché vola gonfiandosi<br />

31


nell'aria la veste con i nastri neri, volano i merletti ricamati,<br />

si alzano i seni nudi, ondeggia e si contorce quel corpo in una<br />

pantomima serpeggiante. <strong>La</strong> giovane inizianda balla selvaggiamente<br />

seguendo un rito animalesco e segreto forse imbevuto dallo spirito<br />

divino e, mentre tutti zittiscono guardandola, lei balla con i<br />

capelli scapigliati, balla, balla, balla, quella danza Sacra al<br />

ritmo di un canto che non c'è più.<br />

Chi è mai quella creatura meravigliosa?Un fantasma, un angelo,<br />

una creazione poetica, oppure una fanciulla, una donna di carne,<br />

sangue e argilla?<br />

Non si ode più il canto, o forse il conte non riesce più a<br />

percepirlo. Abbracciato al tronco dell’albero d’ulivo si lascia<br />

scivolare a terra. <strong>La</strong> danza, il rullo dei tamburi, l’odore agro<br />

-dolce delle erbe gettate sul fuoco, tutto lo sconvolge, tutto è<br />

nuovo per lui, tutto serve a trasportarlo in mondi sconosciuti.<br />

Pure se non ha mai assistito a niente di simile, sa bene che<br />

quella scena gli rimarrà per sempre dipinta negli occhi. Quando la<br />

danza intrigante finisce, a stento riesce a dominare l’emozione.<br />

Il rogo fiammeggiante oramai si è ridotto a semplici tizzoni<br />

ardenti, un nido di fumo smorzato galleggia pallido sopra la<br />

cenere, un’occhiata alle stelle rivela ad Andrea che è quasi<br />

mezzanotte, la luna è ormai alta.<br />

Dov’è volato il tempo, dove sono volate le ore? Il conte si<br />

volta come a guardarsi intorno e, facendo molta attenzione a non<br />

farsi vedere, lentamente si rizza e inizia a tornare addietro alla<br />

carrozza. Adesso la sua mente è una ragnatela di dubbi: vedere i<br />

nomadi da vicino, sentirne il respiro, assaporare la magia bianca,<br />

ha sconvolto i suoi progetti, l'idea che aveva di convincerli ad<br />

32


aiutarlo offrendo loro un pugno di monete d'oro è svanita. Un<br />

popolo così libero che possiede la Pietra della Luce certamente<br />

non sa che farsene del suo oro. In ogni caso non può permettersi<br />

di sbagliare, deve trovare un'idea più audace. Quando arriva nella<br />

carrozza dove sono ad attenderlo Meleagro e Pippo, ha già<br />

progettato un nuovo piano: appena nell'accampamento sarà sceso il<br />

silenzio, rapiranno la giovane nomade.<br />

Passa altro tempo, finalmente i nomadi vanno a riposare, nel<br />

campo resta solo un avanzo di fuoco e una piccola fiaccola accesa,<br />

poi il silenzio finalmente arriva. I servi del conte, hanno<br />

memorizzato la tenda dove la giovane è andata a dormire e quando<br />

il momento è propizio, entrano silenziosi come ladri, come<br />

vendicatori, come assassini: la sorprendono nel sonno, la<br />

imbavagliano, le legano i polsi dietro la schiena, gettano sul<br />

giaciglio un borsello pieno di monete d'oro, poi Pippo di Pancotto<br />

che è molto più giovane, più forte e più grosso di Meleagro, con i<br />

bicipiti di bronzo, l'afferra alla vita e, issandola sulle spalle,<br />

la tiene stretta stretta conducendola a forza nella carrozza.<br />

Quando arrivano, la campana della torre suona tre colpi. Pippo,<br />

lesto, salta a cassetta, inforca il cappello e via…<br />

Il conte Andrea rimasto di guardia, aspettava preoccupato e<br />

ansioso. Vedendo la giovane che pure se legata, pure se ansimante,<br />

con le guance accese, non dimostra un filo di paura, anzi, ha gli<br />

occhi colmi d’ira che mandano scintille, mentre i bellissimi<br />

riccioli scarmigliati continuano a galleggiare nell'aria,<br />

vedendola, intenerito, si commuove: quella creatura gli pare così<br />

lontana dalla terra e dal cielo. A stento trattiene la voglia di<br />

accarezzarle il capo per consolarla. Vorrebbe tempestarla di<br />

33


domande ma il frastuono dei cavalli lanciati al galoppo copre la<br />

sua voce, nella notte risuonano solo le imprecazioni sorde di<br />

Pippo il cocchiere che continua ad incitare i cavalli al galoppo.<br />

Tra lo stridere dei ferri dei zoccoli dei cavalli, lo sferragliare<br />

delle ruote cerchiate di metallo che barcollano sopra la terra<br />

sassosa, la carrozza procede a gran carriera. Prima che gli arrivi<br />

addosso l’alba, devono assolutamente cavarsi dalla valle. Ma<br />

appena sono entrati nelle mura della città e Pippo scende da<br />

cassetta con la lanterna accesa per chiudere con la spranga di<br />

ferro la porta della torre alle loro spalle, allora Andrea, lesto,<br />

le toglie il bavaglio dalla bocca e le corde dai polsi.<br />

Perduta in lui l'aria da padrone, dimentico d'essere conte,<br />

come un innamorato al primo appuntamento inizia a raccontarle<br />

tutto, persino l’apparizione dei Mani, le anime delle martiri<br />

laggiù, alla necropoli. Le racconta la leggenda di Elena e tutte<br />

le storie terribili di quelle fanciulle sacrificate al mostro<br />

orrendo. Più parla, più si convince che la bestia bisogna<br />

sconfiggerla subito, senza attesa!<br />

"Sulle nostre teste” sussurra, “nelle feritoie delle mura<br />

della nostra città, vive da millenni un ragno mostruoso, una vite<br />

parassita che non dà frutti, si nutre e cresce succhiando il<br />

sangue più giovane. I nostri antenati hanno piantato quella vite.<br />

D’allora essa si arrampica con i suoi tentacoli sempre più in<br />

alto, avvinghiata alle pietre delle torri vive bevendo la nostra<br />

linfa e, con i suoi lunghi tralci soffoca ogni altra forma di<br />

vita. Se vero che tu conosci l’arte degli indovini e dei magi, se<br />

l’essenza del nostro io atavico non ti è ignota, se sai palpare la<br />

resistenza del filo con cui siamo tessuti, se puoi parlare con gli<br />

34


spiriti dell'acqua, se puoi interpretare il volo degli uccelli,<br />

saprai pure comunicare con gli animali del bosco e con le piante.<br />

Aiutaci! Vendica le nostre vergini. Solo la magia del tuo genio<br />

può uccidere quel ragno e recidere per sempre la vite parassita,<br />

tu, tu sola e nessun altro! Ti prego, fa questo miracolo, diventa<br />

la nostra vergine guerriera, fa che questa missione sia lo scopo<br />

della tua vita, l’avventura più grande di tutta la tua esistenza.<br />

Insieme, possiamo demolire questo rito barbaro. Se ci riesci, in<br />

molti ti loderanno per aver distrutto un tale mostro."<br />

Almenia, a testa alta lo guarda bucandolo con occhi infiammati<br />

di rabbia! Grandi, bellissimi occhi neri spalancati colmi di<br />

domande mute. Lo fissa disinvolta, inchiodandolo al suo posto,<br />

indipendente e libera, senza paura né soggezione. Sì! Fiera e<br />

libera, come sanno essere fieri e liberi soltanto i nomadi pure se<br />

incatenati. Ma, a poco a poco, sentendo il suo racconto, sentendo<br />

la sua voce smarrita così piena di dolore, a poco a poco sembra<br />

acquietarsi. All'improvviso, nel vedere quell'uomo ricco e<br />

potente, proteso verso di lei con le mani giunte a mendicare<br />

aiuto, straordinariamente sparisce in lei ogni voglia di lottare.<br />

Così, senza quasi volerlo inizia a parlare:<br />

“Tu piccolo mortale, pretendi da me un miracolo? Non sai ancora<br />

che i miracoli sono nell’aria che respiri, nella natura, nelle<br />

stagioni, nelle minuscole e grandi storie d'ogni giorno? Hai i<br />

sensi intorpiditi che non riesci a guardare il creato? Tendi le<br />

orecchie ma non senti, protendi le mani ma non riesci ad afferrare<br />

nulla, pure se tutto l’incenso dell’Africa bruciasse attorno a te,<br />

non sentiresti alcun profumo. Non ti pare un miracolo la luce del<br />

tramonto? <strong>La</strong> radice di un ranuncolo, il fiore del nespolo, il<br />

35


suono di un'arpa, lo zufolo di un pastore che conduce le capre<br />

all’ovile, il mietitore che rincasa stracco la sera, non sono<br />

forse tutti miracoli? Ogni cosa bisogna saperla guardare con gli<br />

occhi giusti. Prendi una ghianda, è talmente inerte da sembrare<br />

inutile buona solo per i porci, ma se la nascondi sotto terra,<br />

metterà radici fino a diventare una quercia protesa verso il sole.<br />

Questo non è un miracolo che si ripete migliaia e migliaia di<br />

volte?<br />

I tuoi antenati avrebbero dovuto uccidere in guscio quell’uovo<br />

di serpente, invece lo hanno covato per anni ed ora è cresciuto<br />

così tanto che non riuscite più a fermarlo. Allora? Secondo te,<br />

adesso io dovrei fare il miracolo? Forse dovrei ordinare alle<br />

volpi e agli sciacalli di smettere di ululare e uccidere per te,<br />

quella bestia maledetta? Vuoi estirpare la gramigna e l’ortica<br />

pungente con le mani altrui? Se vuoi far crescere la tua ghianda,<br />

la devi nascondere da solo sotto terra. Non sai che noi nomadi<br />

siamo creature libere? Nessuno può comandare la mia gente.”<br />

“ Se è vero che siete liberi come agnelli e vagate per gli<br />

spazi senza paura del leone della foresta né della vipera della<br />

valle. Se avete un cuore grande sgombro dalle tenebre del buio,<br />

vorrei scandagliare quel cuore, chiedergli consiglio, scoprire i<br />

suoi segreti. Noi che ci nascondiamo spaventati per ogni piccola<br />

cosa, ti chiediamo aiuto. Pure se nessuno può comandare la tua<br />

gente…”<br />

“… E’ vero! Nessuno può comandare la mia gente. Nella mia<br />

tribù, non esiste la legge dove il povero semina e il ricco miete.<br />

Tu non vedrai mai un nomade, farsi schiavo, avviarsi a testa bassa<br />

al campo del padrone con una pesante vanga sulle spalle per<br />

36


agnare la terra con il sudore e renderla fertile affinché il<br />

potente, diventi sempre più potente. Quel potente che è libero<br />

d’incatenare il corpo del debole e distruggergli l’anima per<br />

sempre.<br />

Invero, ripensando a quello che mi racconti… ogni anno,<br />

all’arrivo della primavera, la mia tribù ritorna in questa valle,<br />

c’è un piccolo bosco di sughero presso il torrente dove gli<br />

innamorati in aprile vanno a cogliere viole e ciclamini, ma… ogni<br />

primavera abbiamo visto la tristezza avvolgere l’anima di ognuno<br />

di voi. Finalmente ho capito il perché, ma tu, nel tuo stolto<br />

delirio riesci a sorprendermi, possibile non sai ancora che nessun<br />

delitto è commesso da un uomo solo? Ogni crimine sulla terra è<br />

commesso da tutti gli uomini assieme pure se adesso il tuo<br />

tormento, serve solo a pagare gli sbagli di ognuno. Ma dimmi<br />

piccolo uomo, questa bestia bianca che tanto ti spaventa, fosse<br />

anche un animale grande e possente, pure essa sarà impastata di<br />

carne e sangue. Non sarà mica invulnerabile come Achille: il<br />

leggendario eroe re dei Mirmidoni che pure aveva il suo punto<br />

debole. Dunque, se questa bestia non è un pensiero incorporeo<br />

della mente, se non è un’idea affacciatasi alla fantasia di voi<br />

uomini di questa città, se non è un sogno sognato da migliaia e<br />

migliaia di creature un istante prima che sorga il sole nella più<br />

profonda delle caverne, questa bestia bianca resta sempre e solo<br />

un animale di carne e sangue. Allora sono certa che se noi lo<br />

vogliamo veramente, prima che l'ultima stella sia andata a<br />

dormire, una torcia di luce si accenderà nel cielo negro.<br />

Una volta, nei pressi di Baalbek, l’antica città della Luce, in<br />

una bellissima oasi, dove sorgevano templi maestosi sparsi in<br />

37


mezzo agli ulivi e verdi allori, viveva un Gran Sacerdote puro di<br />

cuore: si chiamava Aronne. Una sera quando era già vecchio e<br />

incurvato dagli anni, entrò come sempre nel tempio recando una<br />

torcia nelle mani tremanti e, mentre tutta la natura si preparava<br />

al sonno, bruciò incenso e mirra finché l’aroma raggiunse ogni<br />

albero, ogni pietra, ogni creatura vivente, poi, s’inginocchiò<br />

avanti l’altare d’avorio intarsiato e tempestato di gemme. <strong>La</strong><br />

notte passava lenta, lui era sempre là a contemplare la luna che<br />

riversava i suoi raggi argentati sulle bianche colonne di marmo<br />

baciando l’altare del Dio Sole dove in passato, la dea bruciava la<br />

torcia della vita. All’improvviso Aronne vide, come fosse la prima<br />

volta, il cortile scavato dai solchi profondi delle tenebre e,<br />

come un ceco che riacquista la vista s‘accorse che quel tempio era<br />

ormai tutto in rovina e le colonne che avrebbero dovuto fare la<br />

guardia alla pietra Sacra, svettavano nel silenzio della notte,<br />

simili a giganti mutilati.<br />

In un lampo comprese che le ossa dei suoi antenati che<br />

giacevano sepolte sotto terra, nulla avevano lasciato delle loro<br />

usanze. Tutta la sua gente, era passata col fluire dei fiumi senza<br />

lasciare al mondo né un nome né un profeta. Pensando a questo, la<br />

stessa notte, mentre giaceva sulla stuoia col viso a terra nella<br />

polvere, prima di cedere alla seduzione del sonno, sospirò<br />

amaramente poi, in preda al dolore, pianse battendosi il petto con<br />

le mani. Oramai era uno straniero tra la sua gente, estraneo<br />

persino a se stesso, la sua famiglia non esisteva più, la sua<br />

stirpe si era completamente estinta e lui era solo un albero<br />

secco. Così decise di andare a morire lontano dal tempio e<br />

dall’abitato, fuori d'ogni strada, d'ogni sentiero. Scelse per<br />

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eremo una profonda forra sperduta in un angolo selvaggio della<br />

catena montuosa dell’Antilibano, sopra il deserto della Siria dove<br />

all’ombra sempre cresce il fiore della solitudine. Nell’attesa di<br />

trovare una caverna oscura e profonda che potesse coprire per<br />

sempre le sue stanche ossa con una maschera di terra, tra crepacci<br />

aridi, spalancati come la bocca di un mostro incatenato ai ceppi,<br />

tra gole che mostravano lo strato permeabile del calcare simile ad<br />

argilla umida e scarlatta, si scavò un riparo dalle fiere. Era una<br />

specie di fossa, poco più grande di un buco, presto abitato da<br />

pipistrelli e ragni.<br />

Avanti a quel rifugio non passavano neanche le capre, era<br />

sempre talmente solo che la mulattiera che conduceva alla grotta,<br />

oramai era completamente sepolta da sterpi secchi arsi dal sole<br />

arido del deserto. <strong>La</strong> sua tana era più nascosta della casa del<br />

boia, nessuno l’avrebbe mai più trovato, né da vivo, né da morto.<br />

Ma un caldo giorno d'agosto, intanto che stava girando la macina<br />

del grano e meditava sul suo doloroso isolamento, senza vederle<br />

fissava contemplandole con occhi cechi, le belle torri del Libano<br />

che si rizzavano nelle colline lontane, subito gli cadde sul piede<br />

scalzo una piccola pietra, forse fuggita vagabonda dalla<br />

moltitudine dei semi. Aronne sentì quella pietra grossa come una<br />

noce bruciargli il piede, tanto forte scottava. Preso da stupore,<br />

raccolse quella scintilla di fuoco caduta dal cielo, la strinse<br />

forte nel palmo della mano, poi chiuse il pugno e… si sentì vicino<br />

al suo Dio!<br />

Io so, che quella scintilla divina che dorme profondamente<br />

dentro ognuno di noi, presto, prima di presto si può risvegliare,<br />

può avvenire questo miracolo, solo, bisogna credere! <strong>La</strong> volontà fa<br />

39


smuovere le montagne, fa nascere un albero senza seme, fa<br />

accendere il fuoco senza legna.”<br />

Finita di narrare la parabola di Aronne, Almenia, promette al<br />

conte l’aiuto richiesto e, in un subito, per tutto, si sente alto<br />

e forte il canto del gallo! L’urlo stridulo annuncia l’arrivo del<br />

sole, per mare e per terra tutti gli spiriti erranti ritornano a<br />

riposare in pace. Almenia ascoltando quel canto, quasi sfinita<br />

dalla decisione presa, lascia andare dolcemente la testa sullo<br />

schienale, socchiude gli occhi come a voler riprendere il filo dei<br />

suoi sogni e, s’addormenta di un sonno profondo ricco di rugiada e<br />

miele, un sonno eguale a quello di una bambina. Intanto il conte<br />

Andrea Galiano dell’Acqua Zita, imprigionato con lei nello scrigno<br />

sigillato della carrozza che continua la sua folle corsa dentro i<br />

vicoli bui, resta incantato a guardare quel volto così lontano dai<br />

fantasmi e dagli affanni che ha visto e sofferto la sua mente<br />

stracca.<br />

Il giorno settimo del quarto mese della prima stagione,<br />

proprio il giorno sinistro e maledetto, Almenia, che era rimasta<br />

nascosta per tutto il tempo nell’elegante palazzo del conte, si<br />

prepara a sostituire Galiana per la grande cerimonia come<br />

promesso.<br />

Prima di tutto aiutandosi col pettine d’avorio, nasconde i<br />

folti riccioli costringendoli a fatica in una sola grossa treccia:<br />

acconciatura abituale di Galiana. Poi, sparpagliati per la stanza<br />

40


i suoi indumenti: la veste arancio, i nastri di velluto, i<br />

merletti; prende un vasetto di terra cotta colmo d’unguento e, con<br />

trucchi da zingara, inizia a spalmarsi con molta cura il corpo,<br />

affinché la sua pelle scura di nomade appaia di un pallore lunare,<br />

così come bianca e lunare è la pelle di Galiana. Intanto poggiata<br />

sul letto come fosse un vestito da sposa, c’è la veste di neve<br />

verginale che un servo le ha portato: una candida, leggera,<br />

bellissima veste di seta lunga fino a terra, completamente<br />

ricamata con fiordalisi d'oro. E' quello l’abito che i grandi<br />

saggi mandano in dono alla predestinata, confezionato per<br />

l'occasione, ha una grande apertura sul petto. Il carnefice, nel<br />

momento supremo del sacrificio, lo lascerà scivolare dalle spalle.<br />

Frattanto la tenda della porta della camera di Almenia, ondeggia<br />

timidamente, subito fa capolino il volto stravolto di Rachele. <strong>La</strong><br />

vecchia nutrice, ha le palpebre livide per il troppo pianto. Tiene<br />

il candeliere a tre braccia in una mano e, con altra, si comprime<br />

il petto, finché, tra i singhiozzi le chiede:<br />

“Mia dolce signora ti senti bene? Posso aiutarti a vestirti?”<br />

“Vecchia Rachele, Come mai ti sei alzata a quest’ora? Non fa<br />

bene alla tua salute esporti così debole al freddo vento del<br />

mattino.”<br />

“Mia signora, è giunto il tempo…è quasi ora…”<br />

Poi guardandola con gli occhi colmi di lacrime sussurra:<br />

“ Dio ti salvi dolce creatura!” e continuando a piangere,<br />

inizia a pregare sottovoce.<br />

”Padre Eterno, Signore degli uomini. Tu che guidi lo straniero<br />

presso un caldo rifugio, Abbi pietà di noi, mostra compassione nei<br />

nostri confronti. Dio di tutti gli eserciti, Dio possente e<br />

41


terribile, ascoltaci, Signore della vita e della morte, Tu che<br />

arresti gli influssi maligni delle stelle, Tu che allontani le<br />

tempeste della vita. Tu che schiudi il giorno e comandi la notte,<br />

Tu che tieni il Tartaro sotto i Tuoi piedi, a Te obbediscono gli<br />

astri, per Te si rinnovano le stagioni. Ad un Tuo cenno soffiano i<br />

venti, si gonfiano le nubi, germogliano i semi, Tu che tieni nelle<br />

mani la bianca fiaccola dell’amore, dacci la forza. Se è vero<br />

com'è vero che tremano avanti la Tua maestà, i rettili che<br />

strisciano, ascolta la voce di noi disperati, liberaci dal mostro<br />

malvagio, liberaci da quest'agonia, aiutaci. E così sia, O<br />

Signore”<br />

Almenia intenerita, accarezza dolcemente la testa canuta della<br />

povera vecchia che non sa darsi pace e, tra un gemito e l’altro,<br />

tra un sussulto e una preghiera, continua a tremare disperata<br />

mentre con le dita che sembrano di cera, tenta invano di aiutare<br />

la giovane ad indossare la veste e gli ornamenti.<br />

Contemporaneamente arrivano a palazzo, percotendosi il petto con<br />

le mani, due donne con le chiome disciolte: recano il prezioso<br />

mantello della dea Elena tessuto dalle donne iliache, mantello<br />

scampato miracolosamente alla rovina di Troia. Per tradizione il<br />

bianco indumento, pesante per i ricami di perle e gemme rare,<br />

copre ogni anno la vergine predestinata dalla testa ai piedi.<br />

Almenia lo avvolge attorno al corpo, rialza la cappa fino alla<br />

fronte, così emblematica e misteriosa, con simulata mollezza,<br />

aspetta poggiata al muro, finta Galiana e finta vergine, aspetta<br />

l'arrivo dei carcerieri.<br />

<strong>La</strong> cerimonia avveniva sempre a mezzogiorno. Quando il sole<br />

comincia a riscaldare il cielo, puntuali arrivano i carnefici:<br />

42


sono due. Nascondono il volto sotto un cappuccio nero, le mani<br />

vuote, né corde né catene, non faticano molto a prenderla, lei è<br />

già pronta.<br />

In un subito, dopo l’arrivo dei carcerieri, si materializza dal<br />

nulla, un lento corteo di fanciulle tutte vestite di una veste<br />

preziosa candida come neve: un leggero velo ombreggia<br />

misteriosamente ogni volto, i capelli sciolti lunghi sulle spalle,<br />

i piedi scalzi sul selciato umido. Sono le diciottenni di Viterbo<br />

risparmiate dalla sorte. Intonano un miserere funebre e, in fila a<br />

due a due, s’inoltrano nelle vie del borgo. Almenia lascia il<br />

palazzo e le segue: anche lei come le vergini avanza a piedi nudi<br />

sul duro lastricato con un’andatura lenta e solenne. Rachele al<br />

suo fianco tiene sollevato il pesante ampio mantello che la<br />

nasconde alla folla. Dietro la vittima il conte Andrea Galiano<br />

smarrito e pallidissimo, il dolore ha incurvato il suo corpo magro<br />

e, nella tensione del grave momento strascina a fatica i piedi<br />

quasi che questi fossero di marmo, cammina barcollando eguale ad<br />

un bimbo che incomincia ad andare da solo. Al suo fianco, Pippo e<br />

il vecchio stalliere Meleagro, non riescono a smettere di<br />

piangere. Presto, prima di presto la processione s’ingrossa sempre<br />

più, nelle strade il popolo s’ammassa per vedere la vergine<br />

predestinata. Le onde della folla continuano ad aumentare, battono<br />

contro gli spigoli delle case e le case pare che ondeggino come la<br />

folla. In mezzo a quel frastuono, tutti spingono per vederla,<br />

sempre più forte si sente il tintinnare delle alabarde e, mentre<br />

gli arcieri allontanano inutilmente la gente con il calcio della<br />

balestra, urlando di lasciare sgombra la strada per il passaggio<br />

del Sacro corteo, porte, finestre, abbaini formicolano di migliaia<br />

43


di facce che guardano. <strong>La</strong> folla arrampicata sulle mura, sui<br />

bastioni, sulle torri, in cima ai comignoli coi bimbi in braccio,<br />

si va facendo sempre più fitta. Intanto accoccolate all'ombra dei<br />

gradini, le vecchie, al passaggio della vergine, piangono in<br />

silenzio.<br />

Strada facendo, prima che la vittima con i carnefici arrivano<br />

alla valle presso il fiume Paradosso, sono raggiunti da un’altra<br />

colonna che serpeggia tra le torri e le fontane di Viterbo. Sono i<br />

grandi saggi, gli iniziati ai misteri: il capo rasato e rilucente,<br />

le vesti di puro lino scendono lunghe fino ai piedi. Con sistri di<br />

rame e argento mentre camminano, producono in acuto tintinnio. In<br />

testa alla processione dei saggi, un fanciullo con i boccoli dal<br />

colore delle spighe del grano maturo, simboleggia il giovane<br />

Ascanio figlio di Enea che avanza tenendo nella mano una palma.<br />

Subito dopo, arrivano dalle campagne donne e uomini d’ogni età,<br />

d’ogni ceto che hanno abbandonato i campi, la vigna; molti hanno<br />

lasciato l'aratro, la vanga, dimentichi del solco nuovo,<br />

dimentichi dei semi che dormono ancora dentro grandi sacchi di<br />

tela dura. Contadini, bifolchi, pastori, tagliaboschi, cavapietre,<br />

bottai, carbonai, artigiani, ciabattini, calzolai, tutti hanno<br />

lasciato i monti, il piano e la città, per correre incontro<br />

disperati a Galiana, con lei ormai c'è tutta Viterbo.<br />

Intanto un falegname con il grembiale di cuoio e il regolo in<br />

mano, piangendo esce dal branco e, singhiozzando disperato,<br />

s’inginocchia avanti alla fanciulla. Bacia ed accarezza più volte<br />

la veste di neve soffermandosi a palpare con le dita i ricami del<br />

mantello.<br />

44<br />

E’ Italo di Sonio della <strong>Rupe</strong>, padre di una vergine assassinata,


l’uomo impazzito dal dolore, ancora non riesce a darsi pace. Sul<br />

volto d’ognuno guardando quella scena drammatica che strappa il<br />

cuore, si legge la pena, il dolore e la paura.<br />

Ma non c’è molto tempo, la folla spingendo, attraversa il ponte<br />

e in silenzio si raduna sul prato, tutti vogliono assistere al<br />

martirio che pure odiano.<br />

Finalmente la vittima e i carcerieri sono arrivati accanto al<br />

grande masso, quest’ultimi, prima d’incatenarla, devono spogliarla<br />

per il supplizio, ma al momento di toglierle il mantello scompare<br />

in loro ogni spavalderia, appaiono stranamente esitanti, come<br />

pieni di paura, qualcosa li ferma. Si guardano attorno, inquieti,<br />

forse pregano in silenzio affinché un miracolo l’allontani e<br />

magari piuttosto che toccarla preferirebbero vagare moribondi per<br />

i sentieri più irti. Certamente accarezzerebbero il cielo con le<br />

dita se all’improvviso si trovassero altrove. Uno dei grandi<br />

saggi, quello che tutti chiamavano Scriba, accortosi del disagio,<br />

avanza severo verso di loro: l’uomo, famoso per essere un rigido<br />

osservante della sacra disciplina, fissa i carcerieri con occhi di<br />

ghiaccio, non servono parole! Come risvegliatosi dal torpore, uno<br />

dei due, lesto, con uno strattone allontana Rachele, poi slaccia<br />

il mantello strappandolo dalle spalle di Almenia; subito l'altro,<br />

le scioglie la treccia lasciando così volare liberi i capelli<br />

arruffati. Lei resta con la veste aperta sui seni nudi come<br />

bianche colombe e, mentre i riccioli dal colore misterioso delle<br />

foglie d’acacia, s’accendono nella luce di mezzogiorno<br />

d'incredibili bagliori galleggiando nell'aria, i suoi occhi<br />

diventano fiaccole di fuoco, stelle fiammanti.<br />

45<br />

Almenia Figlia della Luce è magnifica!


A quella vista la folla smette di respirare, i carnefici<br />

indietreggiano confusi e sbigottiti, vacillano a fronte di tanta<br />

incredibile bellezza, ora dovrebbero continuare a spogliarla per<br />

poi incatenarla al masso, ma chi oserà ancora alzare la mano su<br />

quella creatura limpida come acqua di fonte che solo a toccarla si<br />

può macchiare?<br />

Almenia, che il popolo crede Galiana, risplende come una dea<br />

quasi fosse una meravigliosa creatura d'altri mondi. Mentre la<br />

folla silente contempla ammutolita quella visione perfetta, per<br />

tutta la valle non si ode il più piccolo rumore, non cantano le<br />

cicale, non canta il vento, non corrono le nuvole nel cielo, pure<br />

l'acqua del fiume s’è fermata. Dentro quel silenzio assordante,<br />

improvvisamente musici invisibili modulano un canto struggente e<br />

doloroso, i loro fiati fanno tremare ogni anima. Sono flauti,<br />

zampogne, arpe? Da dove esce mai quella musica misteriosa? Dal<br />

cielo, dall’aria, da sotto terra?<br />

Essa accompagna la morte stessa. E’ la morte che intona il<br />

canto funebre!<br />

Intanto che ogni cuore trema, le campane delle<br />

centonovantassette torri della città, sparpagliano nell’aria i<br />

lenti, interminabili rintocchi di morte.<br />

E’ il segnale dell'ora del sacrificio!<br />

<strong>La</strong> gente tutta, nell'ascoltare i lugubri tocchi a martello, è<br />

percorsa da un brivido gelido e, spinta da una forza ignota, si<br />

volge a guardare verso la macchia colma di rovi.<br />

Proprio allo scoccare del dodicesimo colpo, mentre si spegne<br />

quell'ultima vibrazione, tutte le teste prendono ad ondeggiare<br />

come ondeggia il mare, guardando dalla fanciulla alla macchia,<br />

46


dalla macchia alla fanciulla.<br />

Preceduta da un rantolo sordo e da terribili ululati capaci di<br />

fare tremare pure il mondo sotterraneo, ridestando le anime dalle<br />

tenebre e dai lugubri silenzi dove regna Acheronte, ecco sbucare<br />

da sotto la profonda foresta, la troia dal vello bianco!<br />

Avanza inquieta dondolando il capo gigantesco, si ferma solo<br />

un attimo, poi, decisa, alza il collo e il muso da cane in alto<br />

come a fiutare l’aria e, correndo, si dirige verso la vittima<br />

decisa ad attaccarsi con le sue ingorde mascelle alle viscere<br />

della preda. Almenia come un bianco cerbiatto, è ancora accanto al<br />

masso nell'attesa di essere denudata e incatenata. Nel preciso<br />

istante che vede la bestia, eguale al gladiatore nell’arena quando<br />

si accinge a colpire, spicca un balzo, diventa gigantesca, poi,<br />

lesta, solleva le braccia in alto offrendo con tutte e due le<br />

mani, la misteriosa Pietra della Luce al suo Dio e, pregando,<br />

urla:<br />

“Luce e Fuoco per il mio amore!”<br />

In un subito, nelle sue bianche mani nasce il sole!<br />

<strong>La</strong> Pietra, in un attimo, forse meno di un attimo, come fosse<br />

pasta di pane, inizia a lievitare spandendo nell'aria fitte nuvole<br />

di fumo e bianca schiuma, poi, come un uccello prigioniero in<br />

gabbia e all’improvviso liberato, vola in alto accendendosi di una<br />

luce abbagliante. Frattanto, la bestia continua la sua folle corsa<br />

saltando sopra i cespugli di more, sulla ginestra, sulle viti di<br />

vitalba, la bocca orrendamente spalancata, oramai solo pochi<br />

sterpi rinsecchiti di rovi la separano dalla vittima.<br />

Il popolo tutto sussulta vedendola arrivare, ad ogni balzo è<br />

un colpo forte al cuore. <strong>La</strong> belva continua a saltare. Poi<br />

47


all'improvviso, a poche braccia da Almenia, accecata dalla luce,<br />

si blocca come statua di sale e resta ritta: gli zoccoli pelosi di<br />

capra piantati nella terra rossa, gli occhi fissi sulla luce. In<br />

quel momento tremendo, la moltitudine che si accalca per meglio<br />

vedere è schiacciata, calpestata, soffocata, finché risoluta<br />

finalmente, quella moltitudine smette di tremare. Respirando la<br />

magia bianca, diventa una persona sola che soffre, prega, piange<br />

per la figlia più <strong>bella</strong> e la vuole salvare, la deve salvare!<br />

Compatta la folla decide che non può più assistere inerte a<br />

quel rito malvagio, che allunga la triste lista degli orrori!<br />

Così, ad occhi chiusi tutti assieme, pregano con l'anima finché si<br />

alza forte nel cielo un grido di dolore; quel lamento disperato<br />

che commuove angeli e nuvole, è di più, molto di più di una<br />

semplice preghiera: è un amore grandissimo che trasforma quella<br />

folla in un gigante, un gigante che decide di uccidere la bestia<br />

pure se Sacra.<br />

E la preghiera si materializza!<br />

Prendendo forme e sembianze precise, quella preghiera diventa<br />

un leone enorme e furioso che, con un ruggito tremendo, sbuca dal<br />

fitto della boscaglia e subito inizia una corsa. Quasi vola con la<br />

stupenda criniera nel vento, vola con il suo manto d'oro<br />

scarlatto, vola e senza toccare terra arriva alle spalle della<br />

bestia. <strong>La</strong> lotta è terribile, per quattro volte il leone assalta<br />

la troia finché, scagliandola in alto, l'uccide dilaniandola in<br />

quattro parti!<br />

48


Quando tutto è finito, un’improvvisa, leggera folata di vento<br />

come sul mare in bonaccia, s’intrufola nei mantelli dei presenti:<br />

risveglia la folla portandola fuori del sogno. Storditi,<br />

increduli, al colmo della felicità, restano donne, uomini,<br />

fanciulli, pure se non riescono a spiegarsi l'evento straordinario<br />

cui hanno assistito, scolpiti nei silenzi dell'anima di ognuno,<br />

intrigati nei capelli della memoria, restano quei lunghissimi<br />

attimi magici che non potranno mai più dimenticare. Non potranno<br />

mai più dimenticare la visione fantastica del leone vittorioso.<br />

Per sempre ricorderanno con immensa gratitudine, la stupenda belva<br />

con la criniera coronata di luce scarlatta, apparsa come il sole<br />

all’alba nel fitto negro della macchia, volando più leggera di una<br />

piuma, è apparsa lasciando in terra, immersa in una pozza di<br />

sangue, col ventre squartato, la bestia immonda!<br />

A memoria riconoscente, il popolo viterbese fece scolpire sul<br />

masso del sacrificio la scena dell’evento e, da quel giorno il<br />

leone è diventato simbolo e stemma della città.<br />

49


<strong>La</strong> folla brulicante, entusiasta, urlando di gioia, si accalca<br />

festosa addosso alla fanciulla e, mentre un poderoso tagliapietre<br />

solleva la giovane issandola sul suo cavallo, le donne ridono,<br />

piangono e gridano tutte assieme: "Galiana <strong>bella</strong> ha fatto il<br />

miracolo! Galiana <strong>bella</strong> ha sconfitto la fiera!”<br />

Un’immensa processione si apre ad ala, donne e uomini, d'ogni<br />

ceto ed età, contemplano ammirati lo spettacolo memorabile e<br />

straordinario offerto da una fanciulla che celebra il trionfo<br />

della vita sulla morte in groppa ad un cavallo.<br />

In quello scompiglio, nella confusione incredibile che segue<br />

nessuno si accorge che Galiana non è Galiana! Solo il conte Andrea<br />

e i servi sanno, ma non parleranno mai, non possono parlare!<br />

Così tra le grida, le risa, lo scalpiccio di migliaia di<br />

piedi, la folla esultante e felice, intona un canto di vittoria e,<br />

come resuscitata, fa a ritroso quel percorso che solo poco prima<br />

aveva fatto con la morte nel cuore.<br />

Intanto un segnale partito dal cielo colpisce le campane che<br />

come fossero frutti di un albero solo trasaliscono e, tutte<br />

assieme iniziano a suonare a distesa. Mentre le bocche di bronzo,<br />

cantano dentro antiche torri e campanili di pietra facendo tremare<br />

i tetti, un coro di gioia immensa trasforma quel giorno di lutto<br />

in un giorno di festa grande.<br />

Al suono di centonovantasette campane che cantano come una<br />

fornace di musica e, al chiacchiericcio di mille e più fontane,<br />

inizia la leggenda di Galiana <strong>bella</strong>.<br />

<strong>La</strong> veloce Fama alata diffonde rapidamente la notizia. Il<br />

racconto di quelle gesta si spande in fretta: nelle campagne<br />

attorno, la portano i carrettieri, i venditori ambulanti, nelle<br />

50


città lontane, gli ambasciatori, i mercanti girovaghi, i<br />

pellegrini e, persino gli uccelli dell’aria. Per tutto parlano di<br />

lei, della bellissima vergine che ha vinto la bestia.<br />

Nella piazza del mercato affollatissima nei giorni di festa e,<br />

all'ombra delle torri, nelle chiese, ammassati nelle piazze, donne<br />

e uomini raccontano di lei. Chi l'ha vista o chi soltanto ne ha<br />

sentito narrare, pure nei campi quando rivoltano la terra con la<br />

vanga, premendo forte il piede sulla staffa per poi spezzare la<br />

zolla erbosa, mentre il sudore scende libero e copioso sui volti<br />

consunti, finanche allora, parlano sempre e solo di lei. Nelle<br />

taverne, mentre bevono vino attorno ad una candela accesa, quando<br />

giocano a dati tenendo tra le gambe gli attrezzi di lavoro che<br />

luccicano sotto il tavolo e sopra le panche, non è difficile<br />

indovinare dalle espressioni dei volti e dalle gesta cosa<br />

raccontano, ed è così per ogni dove, siano lavatoi, bettole,<br />

locande, palazzi e castelli, parlano sempre e solo di lei, a volte<br />

la paragonano ad un angelo, ad una maga incantatrice, altre volte,<br />

ad una strega. Persino nelle fiere, ciarlatani - saltimbanchi,<br />

mercanti di colombe, dentisti, cantastorie, scrivani pubblici:<br />

mimano, cantano, parlano e scrivono di Galiana <strong>bella</strong>. <strong>La</strong> sera,<br />

mentre il buio apre le sue ali sulla città e il vento freddo<br />

spinge ognuno a lasciare in fretta piazze e mercati per rifugiarsi<br />

nelle case attorno ad un caldo fuoco, intanto che sotto la cenere<br />

arrostiscono ceci e castagne, i nonni, accovacciati avanti la<br />

fiamma che arde, con i nipoti che premono sulle cosce e non<br />

vorrebbero mai andare a dormire, pure loro, raccontano ai<br />

fanciulli come fosse una favola antica, raccontano la storia di<br />

quella dolce, strana creatura dalle carni bianche come alabastro,<br />

51


trasparenti come seta e...tutto diventò leggenda!<br />

Allora cominciarono le peregrinazioni. In molti vennero da<br />

lontano con la speranza di vederla. Principi e cavalieri per<br />

chiederla in sposa affrontarono viaggi lunghissimi, spesso<br />

rischiando persino la vita, finché sfiniti arrivavano finalmente<br />

alle porte della città. Una volta giunti, l'aspettava l'amara<br />

sorpresa: la bellissima fanciulla che aveva sconfitto la bestia,<br />

la vergine meravigliosa di cui tutti cantano le lodi, quella<br />

vergine oramai Sacra, non è più libera. <strong>La</strong> sorte ha segnato il suo<br />

destino per sempre e nessuno lo può modificare. Ma, né principi,<br />

né cavalieri venuti da tanto lontano vogliono arrendersi. In molti<br />

restano fuori le mura a bivaccare disordinatamente per giorni e<br />

giorni senza concludere nulla, alla fine, alcuni stracchi e<br />

rassegnati risolvono di andarsene, ma i più tignosi restano:<br />

urlano, bestemmiano, minacciano di mettere a ferro e fuoco la<br />

città.<br />

Questi disordini convincono il conte Andrea nottetempo e in<br />

gran segreto, con la sola complicità di Pippo e del vecchio<br />

Meleagro, a nascondere Galiana nel suo casale del procoio a<br />

Bagnaia sotto i monti Cimini e intanto supplica Almenia di<br />

rimanere ancora un poco a palazzo. Ormai è lei il vanto della<br />

città, la fama della sua splendida bellezza: i suoi poteri<br />

occulti, corrono di bocca in bocca. Nessuno si è accorto della<br />

sostituzione, neanche i grandi saggi sanno.<br />

Povero conte! Spera ardentemente che le acque si calmino e la<br />

gente dimentichi. Sogna di riportare sua figlia a casa e lasciare<br />

libera per sempre Almenia, ma può il fiume dimenticarsi di<br />

scorrere e la rondine di volare? Così nessuno ormai poteva più<br />

52


fermare l’intrigato destino di Almenia - Galiana.<br />

Il destino di Almenia, il suo destino, è già fuori la porta<br />

delle mura che aspetta l’alba: si chiama Frisigello.<br />

Rannicchiato in un cantuccio di porta di Valle, Frisigello,<br />

ascolta assonnato, il rotolare lamentoso dell’acqua che correndo<br />

s’infrange sulle rocce. L’oscuro concerto del fosso dell’Urcionio<br />

è un brontolio costante e continuo, ma il giovane, non lo nota più<br />

di tanto. Per trarre qualche accordo dal suo strumento, cerca di<br />

tenere aperti ancora un poco gli occhi stanchi.<br />

Alto, portamento nobile e modesto, il corpo ben fatto modellato<br />

dalla calzamaglia: occhi chiari, carnagione bianchissima, riccioli<br />

biondi tendenti al rosso che gli scendono morbidi sulle spalle<br />

coperte da un mantello vermiglio. Quel giovane, con i suoi<br />

trent’anni, un fiore scarlatto in bocca, la barba incolta che gli<br />

ombra appena un poco le guance, incarna alla perfezione il tipo<br />

del menestrello – sognatore, sempre affamato e infreddolito, che<br />

stringe nelle mani nervose una viella ad arco. Quel giovane, non è<br />

come gli altri cantastorie, poeti - girovaghi venuti in città<br />

semplicemente perché incuriositi dai racconti su Galiana, lui,<br />

insegue un sogno affascinante e inquieto che lo accompagna ormai<br />

da molto tempo ed è diventato la sua prigione.<br />

Ogni sera, nel dormiveglia, un attimo prima di addormentarsi, o<br />

forse, quando è ancora sveglio, gli appare maestosa e superba,<br />

così reale che la può toccare, gli appare la città di Viterbo con<br />

tutte le sue alte torri e, sopra di una come fosse stata pitturata<br />

da un pittore pazzo, vola ammantata da una luce dorata una<br />

bellissima, misteriosa fanciulla con i capelli verdi, gli occhi<br />

grandi e la pelle di mela. Per lei è venuto! Per stringere tra le<br />

53


accia il suo corpo di creta bianca.<br />

Non sa il candido cantastorie, che quella fanciulla dai capelli<br />

verdi, che lui sogna d’incontrare, proprio quella fanciulla<br />

meravigliosa, che lui tiene scolpita nell’anima quasi che l’avesse<br />

incisa nel legno di bosso con le unghie delle sue mani, quella<br />

fanciulla, gli cambierà irrimediabilmente la vita e persino la<br />

morte.<br />

Non sa la spora mentre vola dove la porta il vento, solo, si<br />

lascia portare. Così anche lui, come la spora, resta appiccicato<br />

al legno di porta Di Valle e, prima di dormire canta,<br />

accompagnandosi con la viella, canta, che cantare è il suo pane:<br />

"Voglio ancora un amore!<br />

Un nuovo amore che mi sollevi dal pozzo profondo scavato dalla<br />

mia solitudine.<br />

morte.<br />

54<br />

Per amore torneranno morbidi i miei capelli.<br />

Tremeranno ancora le mani e le ginocchia.<br />

Arrossirò per un bacio.<br />

Correrò ancora nel bosco sopra un letto di morbide foglie.<br />

Ancora mi stenderò sopra i lunghi capelli della terra,<br />

nel verde lenzuolo tessuto di notte.<br />

Voglio ancora un amore!<br />

Un nuovo amore la sera mi prenderà la mano e davanti al camino<br />

racconterà di streghe, di fate, di magi e di nani.<br />

Insieme scopriremo castelli nella cenere d'oro.<br />

Per amore dimenticherò la vecchiezza che avanza insieme alla<br />

Per amore, ancora...sfiderò la vita!"<br />

E’ quella l’ora in cui gli uccelli notturni, beccano e raspano


le tegole di argilla rossa nel tentativo di catturare le lucciole<br />

e mentre Viterbo è profondamente addormentata, il canto d’amore<br />

del menestrello, gli accordi melanconici della sua viella,<br />

spezzano assieme alle grida degli uccelli, il silenzio in cui sono<br />

immersi i tetti, le torri, gli orti, i giardini e le tante<br />

bellissime fontane della città. Tra le mura e le case lontane,<br />

tremano le fiammelle di qualche lanterna, non trema però la voce<br />

del giovane che, chino sullo strumento, fa scivolare adagio,<br />

pacatamente le lunghe, belle, bianche mani affusolate mentre la<br />

sua voce calda vibra di tenerezza e, quasi cullandosi come un<br />

bimbo abbracciato al petto della madre, canta sottovoce finché<br />

s’addormenta sopra un giaciglio che non c'è. Quella canzone, dolce<br />

e melanconica, struggente e appassionata, più forte di un grido<br />

d'amore, passa attraverso i pori del legno della porta chiusa,<br />

accarezza i chiodi di ferro battuto, penetra dentro le vecchie<br />

pietre di lava vulcanica, arriva fino ai merli della torre<br />

illuminando la notte buia.<br />

Per un momento solo, forse, la sente anche Almenia: indossa<br />

gli abiti di Meleagro, i capelli nascosti sotto un grosso<br />

cappellaccio dalla tesa larga che, calcato fin sopra le orecchie,<br />

le ricopre completamente la fronte, il bellissimo corpo<br />

infagottato e nascosto dentro una vecchia giubba di saia nera<br />

logorata dal tempo. Col bavero alzato, se ne sta addossata ad una<br />

delle feritoie della torre e guarda attentamente di là delle mura,<br />

non vede il menestrello nascosto dalle profonde rientranze del<br />

portale ad arco. Sicura che non ci sia nessuno, Almenia si prepara<br />

ad uscire.<br />

55<br />

Come ogni sera a quell'ora, dopo aver aspettato che le


finestre illuminate come fiori di brace siano spente, assorbite<br />

dal buio silenzio, dopo che tutte le porte sono state sprangate e<br />

la città dorme, lei Figlia della Luce, raggiunge i suoi compagni<br />

all'accampamento in tempo per pregare assieme alla Signora della<br />

Luce, pregare e danzare attorno al Sacro Fuoco. Non può mancare a<br />

quell'appuntamento che è di più, molto di più di un semplice rito.<br />

Selvaggia, libera come ogni creatura senza memoria del<br />

peccato, libera persino più degli uccelli del cielo, abituata a<br />

vivere in un turbine continuo la sua vita errabonda, seguendo le<br />

nuvole, toccando continuamente nuove terre per catturare lembi di<br />

storia, di canti e di cultura, la bellissima libellula dalle ali<br />

invisibili, non è fatta per la vita a palazzo, la trattiene solo<br />

la promessa al conte, per questo ogni sera fugge e ogni alba,<br />

ritorna dentro le mura.<br />

56


Come un funambolo, con pochi salti, scavalca la piccola<br />

finestra della torre accanto alla porta di Valle e, in un subito,<br />

è sopra le grosse radici d’edera che coprono il terreno. Libera e<br />

felice, Almenia, respira profondamente l'aria fredda di quella<br />

notte di luna, ascolta il silenzio rotto dal gracidare delle rane,<br />

dal canto della civetta e da lontano lontano, dai monti, le<br />

arrivano ovattati i latrati dei cani dei pastori che abbaiano alla<br />

luna. Gli occhi presto si abituano all'oscurità, così inizia a<br />

camminare senza fretta quasi danzando sopra una corda invisibile,<br />

al ritmo di quella canzone che le pare di aver sentito come in<br />

sogno. Distrattamente, s’avvicina di troppo al bordo del fossato<br />

che costeggia le mura, un piede le scivola sul muschio che ammanta<br />

il fianco del greppo. <strong>La</strong> giovane, istintivamente tende le mani per<br />

aggrapparsi a qualcosa, ma non trovando nessun appiglio, cade<br />

sopra la fratta di canne e rovi che ricopre l'impervia scoscesa<br />

per poi finire rotolando, dentro il fosso in un mare di fango.<br />

Ricoperta di melma, cerca di risalire aggrappandosi a pietre e<br />

felci, ma il fango non le permette la presa, ancora scivola sul<br />

fondo, ancora, ancora e ancora. Ogni volta che tenta la risalita,<br />

non fa altro che scorticarsi mani e ginocchia contro la roccia,<br />

peggiorando la situazione di molto. Oramai è solo un ammasso<br />

informe di melma scivolosa. Scorata, le sfugge un lamento, un<br />

gemito di dolore.<br />

Quel gemito e lo scricchiolio delle canne rotte, attirano<br />

Frisigello che, mezzo addormentato, pigramente si decide ad<br />

alzarsi avvicinandosi al fosso. Nell'acqua luccicante, subito gli<br />

appare in mezzo al pantano, una massa nera, poi, col chiarore<br />

della luna e il bagliore di una lucerna di bronzo a tre becchi<br />

57


dimenticata accesa sopra una finestra vicino alla torre, quella<br />

sagoma vagamente prende forma e finalmente la vede.<br />

Immersa nell'acqua melmosa, con il fango che le arriva alle<br />

cosce, per com'è vestita e per la sua statura, la scambia per un<br />

ragazzo. Vedendolo così mal ridotto: una poltiglia che continua a<br />

scivolare sopra la rupe ammantata di muffa, senza riuscire a<br />

spostarsi, al menestrello, passato di colpo il sonno, gli viene da<br />

ridere. Rovescia la testa all’indietro e scoppia in una fragorosa<br />

risata che lo fa piegare in due e pare che non riesca più a<br />

calmarsi, troppo comica è la scena vista dall'alto della sponda.<br />

Poi appena riesce a prendere un po’ di fiato, quanto basta per<br />

parlare, inizia a canzonarlo:<br />

"Ehi piccolo giovane! Non riuscivi a dormire e sei venuto a<br />

fare il diavolo a quatto nel canneto? O sei solo un sonnambulo in<br />

cerca dell’alba e nel camminare sui tetti sei finito nel fosso? Ma<br />

forse eri solo venuto a vedere la tua <strong>bella</strong> e invece lei, ti ha<br />

buttato nell'Urcionio. Non mi dirai che volevi fare un bagno di<br />

melma e fango come amano fare i licantropi nelle notti di luna<br />

piena, abbaiando come i cani sperduti fra i monti?"<br />

Almenia, sentendo che c'è qualcuno lassù sulla strada che può<br />

aiutarla, tira un sospiro di sollievo. Per un momento aveva avuto<br />

paura di rimanere nella culla del fossato tutta la notte, sola e<br />

intirizzita dal freddo. Con un'espressione da cane bastonato, le<br />

brache ridotte a brandelli, la casacca completamente inzuppata che<br />

sgocciola miseramente fango e melma nera, aspetta paziente che lui<br />

si calmi dal ridere.<br />

Dopo aver tanto riso, Frisigello, vedendo quello che crede un<br />

ragazzo così malconcio, immerso in quell'acqua putrida, se ne<br />

58


vergogna e subito cerca di rimediare aiutandolo a risalire.<br />

Velocemente taglia col coltello una lunga canna, svelto la porge<br />

come appiglio al giovane che, aggrappato a quella presa, in un<br />

subito arriva sulla sponda accanto al suo salvatore. Adesso sono<br />

tanto vicini che si sfiorano, ma il "ragazzo" non apre bocca, pare<br />

anchilosato senza nessuna capacità di movimento, Frisigello lo<br />

vede rabbrividire di freddo, allora sollecito, gli passa la mano<br />

sulla fronte. Quella fronte è così ardente che deve pesargli come<br />

un macigno. Per guardarlo meglio, gli solleva il volto, subito si<br />

rende conto che è molto più giovane di quanto avesse immaginato,<br />

quel ragazzo fangoso, affogato nel pantano, quel piccolo<br />

adolescente, bagnato fradicio come un pulcino, è così malridotto<br />

che neanche sua madre lo riconoscerebbe. Le uniche cose che la<br />

melma gli ha risparmiato e che a malapena sbordano da sotto quel<br />

cappellaccio, sono due grandi occhi luccicanti di febbre simili a<br />

pezzi di brace.<br />

Il menestrello fissando quegli occhi ardenti, resta stranamente<br />

soggiogato. Almenia sentendosi osservata tanto da vicino, sente le<br />

fiamme salire al volto e, nel tentativo di nascondersi dallo<br />

sguardo indagatore di lui, china la testa e abbassa le palpebre,<br />

tuttavia dalle sue lunghe ciglia nere, scaturisce un'ineffabile<br />

luce che colpisce Frisigello fino al cuore e una grande<br />

inspiegabile tenerezza lo invade.<br />

Chi è mai questo giovane sconosciuto? Si chiede e, mentre prova<br />

uno strano desiderio di proteggerlo, tenta di burlarsi della<br />

propria emozione. Ma non c’è tempo per porsi molte domande perché,<br />

il ragazzo con le labbra livide per il freddo, oramai trema<br />

notevolmente, allora il cantastorie si slaccia il pesante mantello<br />

59


che lo ricopre e, facendolo roteare, l'appoggia sulle spalle del<br />

giovane dicendo: “Prendi pulcino, con questo ti sentirai subito<br />

meglio.” Poi, si guarda attorno ma non vede né legna né fascine,<br />

così s’avvicina di nuovo alle canne e questa volta per fare più in<br />

fretta, le spezza con le mani. Rapidamente le ammucchia, poi<br />

raccoglie delle foglie secche e, sprigionata dalla pietra focaia<br />

la fiamma, accende il fuoco. Mentre le fiamme danzano in un gioco<br />

di luci e di ombre cesellando il buio, il menestrello rimane<br />

impalato senza parlare a guardare quello strano, enigmatico<br />

giovane che, infreddolito fin dentro le ossa, resta muto accanto<br />

alla fiamma ad asciugarsi finché, piano piano, al contatto di quel<br />

dolce tepore, smette di tremare e finalmente pare rinfrancato.<br />

Ancora non ha aperto bocca neanche per ringraziarlo, perciò<br />

Frisigello resta sorpreso quando all'improvviso si sente chiedere:<br />

"Chi sei foresto, da quale paese vieni, a che tribù appartieni?<br />

Sei forse un’ospite inatteso che l’imbrunire ha lasciato fuori la<br />

porta della città? Ma se non sei un viaggiatore indesiderato, se<br />

non sei un audace avventuriero, dimmi, come mai sei rimasto fuori<br />

le mura in un’ora così fredda della notte?"<br />

Sentendo quella voce fresca e leggera nascere dal mucchio di<br />

fango, il menestrello rimane meravigliato e non può impedirsi di<br />

rispondere con un'altra domanda:<br />

"Quanti anni hai piccolo giovane? <strong>La</strong> tua è quasi una voce di<br />

pulzella!"<br />

Poi, rendendosi conto di averlo forse offeso, subito si<br />

corregge e con un bellissimo sorriso continua:<br />

"Non ti preoccupare, anch'io quando ero un ragazzo come te<br />

avevo una vocina da niente, ma un bel mattino mi sono svegliato<br />

60


con questo vocione che neanche io mi riconoscevo. Non aver paura<br />

di me ragazzo, non sono un avventuriero. <strong>La</strong> mia discendenza è<br />

nobile e antica, vengo da terre felici, immortalate in canti<br />

ancora più felici, laggiù, nella mia patria lontana, già dalla<br />

primissima infanzia imparai da mia madre a suonare la viella, il<br />

mio prezioso strumento, è il primo dono che lei mi ha fatto.<br />

Il mio nome è Frisigello, sono menestrello e poeta epico,<br />

cantore di narrazioni mitologiche e favole antiche. Come ogni<br />

poeta sono creatore di genio, portavoce di Dio, fermo nello spazio<br />

e nel tempo la storia e le gesta dei grandi eroi. Se nella notte<br />

livida tenderai l’orecchio, mi sentirai cantare. Io sono come le<br />

foglie che, appena il vento le scuote, cantano. Sì! Mi sentirai<br />

cantare ragazzo, racconterò le storie dell’Asino d’Oro di Apuleio,<br />

racconterò della luna errante, canterò le fatiche d'Ercole,<br />

dell’intrepido cavaliere che uccide il drago, dell’audace<br />

cacciatore sperduto nella foresta nera, canterò la pazienza di<br />

Giobbe, racconterò dell’origine delle bestie, delle piante,<br />

dell’uomo. Canterò perché, cantare è il mio pane, quindi da subito<br />

ti chiedo scusa se da rozzo parlatore come sono, casomai nel mio<br />

discutere con te, mi capitasse di usare qualche espressione troppo<br />

popolare… ma se invece, vuoi cantare assieme a me ragazzo, non ho<br />

problemi, basterà prendere un’arpa, un tamburo o un esile flauto<br />

di canna. Sì! L’esile incavo di una canna basterà per cantare<br />

l’amore. Insieme racconteremo della tempesta che spinge la radice<br />

ad annidarsi nel ventre della terra, racconteremo dei fulmini,<br />

della pioggia, della neve, oppure se preferisci, possiamo<br />

raccontare le favole del Cervo e del Leone, della Formica e lo<br />

Scarabeo, del Ranocchio e la Volpe, Tutte favole di Esopo: il<br />

61


deforme schiavo frigio dotato di grande intelligenza e saggezza,<br />

ma se non vuoi venire con me ragazzo, lo stesso mi sentirai<br />

cantare appena la notte è livida, perché, come ti ho già detto<br />

cantare è il mio unico pane.<br />

Quando sono arrivato la porta era già chiusa, per questo sono<br />

rimasto fuori le mura. Dunque, vuoi sapere la mia pianeta? Ero<br />

poeta nella corte di Francia, componevo versi ed ero il cantore<br />

preferito del principe erede alla corona. Spesso, con la mia<br />

viella, accompagnavano Maeri, la danzatrice più famosa di Francia.<br />

Maeri è una vera stella, bravissima nella danza delle spade, nella<br />

danza dei fiori e del vento ma più di tutte a me piace la sua<br />

danza delle fiamme. Amavo suonare e cantare per lei, ma sono<br />

dovuto partire per venire qua, chissà se la mia danzatrice, se la<br />

mia regina e tutta la corte mi sentiranno ancora cantare.<br />

Ma adesso parlami di te, che ci facevi nel fossato?"<br />

"Ero sopra i tetti ad aspettare lo spuntare della solitaria<br />

luna, intanto che guardavo le lucciole accendersi, ho visto cadere<br />

una stella dal cielo, subito, mi è sembrato di sentire<br />

singhiozzare una musica dolce tra gli sterpi della notte, forse<br />

era solo il coro degli angeli. Per cercare a chi appartenesse quel<br />

sospiro d’amore, sono sceso dai tetti e, nel farlo, sono scivolato<br />

nel fosso.”<br />

Risponde velocemente Almenia che all'improvviso ha una gran<br />

voglia di parlare e per guardarlo meglio, si sporge con tutto il<br />

corpo oltre la fiamma, oramai è solo ad un respiro dal suo volto<br />

quando ancora gli chiede:<br />

"Veramente foresto sei un poeta vero? Per caso non sarai solo<br />

un bravo mercante di parole? Perché, mi pare assai strano che un<br />

62


menestrello, un cortigiano autentico, dallo spirito cavalleresco,<br />

sensibile a tutte le forme artistiche come la <strong>poesia</strong>, la danza, la<br />

musica, un cantore che ha la fortuna di frequentare la fastosa<br />

reggia del sovrano di Francia, un artista che ha l’accesso a tutti<br />

i segreti che agitano l’anima del re, mi pare assai strano che<br />

quel poeta dopo aver consultato tutte le intrigate mappe del<br />

mondo, decida di abbandonare ogni strada, ogni altro sentiero per<br />

scegliere di venire a portare il suo fardello proprio qui. Tu non<br />

racconti tutta la verità, dimmi, se non sei un mangiatore di<br />

locuste venuto dal deserto, che altro ambasciatore sei, cos’è che<br />

cerchi esattamente in questa città?"<br />

"No ragazzo! Non vengo dal deserto, sono solo ambasciatore di<br />

me stesso. Non sono venuto a portare conforto né a dividere pane e<br />

vino con tutti coloro che sono scalzi, neanche sono arrivato fin<br />

qui solo per affrontare una tenzone con i cantori locali e vivere<br />

vagabondo come loro.”<br />

“Allora straniero, non sarai mica come quelle pietre che a<br />

furia di cadervi la rugiada diventano molli e sopra ci cresce il<br />

muschio, quell’erba bassa bassa che nessun animale mangia neanche<br />

quando si adorna di piccolissimi fiori a primavera. Non sarai<br />

anche tu un poeta per burla come quelli che appena uno spruzzo di<br />

pioggia li bagna, chiudono le finestre e smettono di fare <strong>poesia</strong><br />

rintanandosi ad asciugare le penne avanti al fuoco. Dimmi, forse<br />

ti lisci anche tu le piume come le anatre dopo che hanno tuffato<br />

il collo sottacqua?”<br />

“Ragazzo bada come parli, io sono un artista vero, sono come un<br />

melo che germoglia e fiorisce un giorno prima degli altri alberi<br />

del frutteto. Avrei potuto trascorrere i miei anni nei giardini<br />

63


incantati del re vestendo di scarlatto dal mantello alle scarpe<br />

finché la vecchiaia non fosse venuta a bussare alla mia porta<br />

sussurrandomi all’orecchio che era finito il mio tempo, ma come<br />

ognuno a questo mondo, ho da portare la mia croce e, pure se la<br />

mia ti parrà grande come una montagna, oramai ci sono affezionato<br />

e ti giuro ragazzo, che non potrei portarla altro che qui, qui o<br />

direttamente all’inferno. Dunque vuoi proprio sapere perché sono<br />

venuto dalla lontana Francia? Ma prima rispondi, te ne intendi di<br />

sogni? Perché da un po’ di tempo, un sogno occupa tutte le mie<br />

notti, ed è stata proprio la fanciulla di quel sogno a portarmi<br />

qui.”<br />

“E’ bene dirigere i passi dove porta il sentiero, ma…<br />

rinunciare a cantare avanti a sua Maestà il re di Francia per<br />

inseguire una fanciulla incontrata solo in un sogno, non è in po’<br />

troppo anche per un poeta - menestrello?”<br />

Almenia torna a guardare le fiamme, poi, ripensandoci, con uno<br />

scatto si volta di nuovo verso di lui e fissandolo con i suoi<br />

grandi occhi, riprende:<br />

“Pure se ogni creatura vivente è impastata con l’acqua e la<br />

terra dei suoi sogni, pure se la vita stessa a volte è solo un<br />

lungo sonno, io so che, se non si possiede la seconda vista, un<br />

sogno resta sempre e in ogni caso, solo un semplice sogno.”<br />

“Il mio, non è certo un semplice sogno ragazzo. Per<br />

realizzarlo, sono partito convinto che è mille volte meglio morire<br />

ammazzato per strada, piuttosto che continuare a vivere col sangue<br />

marcio. Così da solo ho attraversato tutte le belle vigne della<br />

Francia, ma anche terreni incolti e sassosi dove ho incontrato<br />

schiere di donne che lottavano in ginocchio, combattevano contro<br />

64


le malerbe, le ortiche, i cardi spinosi che bucavano le loro<br />

braccia, combattevano per liberare un lembo sottile di terra da<br />

un’infinità di pietre che affioravano come funghi. Premendo i<br />

calcagni contro i fianchi del mio candido cavallo, l’ho spronato<br />

fino a fargli venire la febbre dentro ombrose foreste, impervie<br />

montagne, umidi valli, fresche radure, ricche campagne, sconfinate<br />

praterie e, quando anch’esso oramai era allo stremo delle forze,<br />

per levargli da dosso la stanchezza del mio peso, sono sceso da<br />

cavallo, gli ho tolto il morso, gli ho asciugato il sudore e,<br />

tenendogli la briglia, mentre lui col muso sul fango brucava tutto<br />

quello che gli capitava a tiro, intanto che da lontano arrivavano<br />

ovattate le grida dei gabbiani, abbiamo camminato negli stagni,<br />

pigiando la melma rossa ai margini dell’acqua dove gli uccelli<br />

acquatici migratori, sempre pronti a rubare il pesce dalle reti<br />

dei pescatori, emettevano un suono smorzato che ricordava una<br />

musica strana.<br />

Quel mio viaggio attorno al lago lo ricorderò sempre: l’aria<br />

satura d’umidità odorava di melma e di salmastro e il silenzio<br />

della sera era interrotto solo dal gracidare dei corvi e dal<br />

frinire delle cicale. Intanto che la foschia e l’umidità mi<br />

penetravano fin dentro le ossa, sono arrivato all’Isola segreta<br />

delle Vergini. Quell’isola, è molto più di un luogo Sacro,<br />

sott’acqua ci sono caverne abitate solo da giovani vergini che,<br />

isolate da tutto, apprendono tradizioni segretissime, compresa le<br />

parola misteriosa del Potere e, dopo che avranno imparato gli<br />

incantesimi e le arti risanatrici, una di loro diventerà la nuova<br />

Grande Sacerdotessa Guaritrice. Appena l’anziana Sacerdotessa<br />

delle Acque Sacre sentirà prossima la sua morte, le fanciulle,<br />

65


vestite di neve, si riuniranno attorno ad una grossa tavola di<br />

quercia a forma di ruota. Tutte assieme vi gireranno attorno e,<br />

mentre mille tamburi prenderanno a rullare, l’anziana<br />

Sacerdotessa, con occhi bendati, sceglierà la nuova vergine. Con<br />

un bacio d’addio sulle labbra, trasmetterà a lei poteri, saggezza<br />

e sapere. Una volta consacrata l’eletta, è subito trattata come<br />

una regina: immediatamente è incoronata avanti ad un grande fuoco,<br />

con una ghirlanda intrecciata col fiore segreto; il fiore del<br />

sapere che non appassisce mai e cresce solo in una grotta nel<br />

profondo del lago, solo allora la fanciulla, nuova Sacerdotessa,<br />

col fiore Sacro nei capelli, andrà a vivere per sempre nella Casa<br />

delle Acque Sacre.<br />

Un mattino, mentre attraversando il lago e la schiuma pitturava<br />

una tela sull’acqua verde dove danzavano le carpe, ho visto il<br />

riflesso tremolante di alcune di quelle fanciulle isolane.<br />

Stavano ritte sulla rupe dell’isola, raccoglievano la rugiada<br />

con penne di gabbiano, poi, sollevando delicatamente le piume<br />

all’orizzonte, le scrutavano a lungo. Pure in quei gesti rituali e<br />

misteriosi, o forse proprio in virtù di essi, apparivano tutte<br />

talmente fragili e stupende. Nelle prime ore del meriggio, lo<br />

stesso giorno, le ho riviste che attingevano acqua in una ciotola<br />

di bronzo ornata di un fregio: con le trecce brune che sfioravano<br />

la superficie del lago restavano a pregare per ore e, mentre a<br />

turno fissavano immobili l’acqua nella ciotola, alcune<br />

impallidivano come morte, finché, la superficie dell’acqua si<br />

annebbiava e, in un turbine livido, appariva la faccia che ognuna<br />

di loro aveva chiamato mentalmente. Forse cercavano nella ciotola<br />

soltanto il volto della nuova vergine predestinata, poi subito<br />

66


dopo, le ho viste sdraiarsi sui fianchi delle sponde: si<br />

scioglievano le lunghe trecce, passavano il pettine di corno<br />

intagliato sui capelli ricci e folti che brillavano di riflessi<br />

rossi alla luce del sole infuocato, infine, affinché la pelle<br />

brillasse di freschezza, si massaggiavano i corpi ammantati solo<br />

da una camicia di brina, si massaggiavano con unguenti ricavati da<br />

petali di ninfea, il bellissimo fiore stellato che cresce<br />

fluttuando sull’acqua. Pure se quelle fanciulle erano belle,<br />

bellissime, tanto belle che quando mi offrirono le loro focacce<br />

dolci e mi diedero a bere dell’unico corno di toro dove anch’esse<br />

avevano bevuto, per non guardare oltre i loro fianchi di luna, le<br />

labbra carnose e scarlatte che si ficcavano come spine nella mia<br />

testa facendo diventare nero il mio sangue, per non continuare a<br />

guardarle mi accecavo con la sabbia.<br />

Che ci posso fare ragazzo? Fra tutte le fanciulle della terra,<br />

io amo solo la fanciulla del mio sogno. <strong>La</strong> luna di notte disegna<br />

la sua ombra sull’acqua, il sole di giorno disegna la sua ombra<br />

sulla sabbia. Per me c’è solo lei al mondo, lei è lei sola è la<br />

Sacerdotessa della mia anima, lei il mio respiro, lei la musa<br />

ispiratrice della mia <strong>poesia</strong>. Senza di lei, la mia arte si<br />

annulla, devo trovarla, sarà la compagna della mia vita, con lei<br />

scoprirò nuovi orizzonti, nuovi cieli, nuove terre. Non posso<br />

continuare a tenere per sempre il suo fantasma piantato nel mio<br />

petto. Se la desidero così tanto, se amo solo lei, non è mia la<br />

colpa, ma…del profumo che emanano i suoi seni, i suoi fianchi, i<br />

suoi capelli. Nessuna donna che ho incontrato sulla mia strada,<br />

proprio nessuna per quanto è durato il mio viaggio, è riuscita a<br />

sostituire la fanciulla del mio sogno.”<br />

67


“A quanto racconti menestrello, devi averle incontrate<br />

parecchie di fanciulle.”<br />

“In particolare una di nome Lenia cui devo la vita. Durante il<br />

viaggio, per arrivare più in fretta possibile, mentre attraversavo<br />

la foresta, ho abbandonato il sentiero ed ho preso una<br />

scorciatoia, una lepre o quello che era, ha tagliato la strada<br />

spaventando il mio cavallo e, in un momento di disattenzione, le<br />

redini mi sono sfuggite di mano, così ho perso l’equilibrio e sono<br />

caduto a terra semistordito.<br />

Quando mi sono ripreso, era già buio: gli uccelli del bosco si<br />

erano messi al sicuro tra le fronde dei rami. Sentivo solo il<br />

battere sordo delle ali della civetta cieca, tutt’attorno, un<br />

odore ripugnante e fetido: ero disteso in una sudicia fossa, un<br />

palo appuntito mi era penetrato nel braccio facendomi perdere i<br />

sensi, l’urto era stato così violento che una caviglia mi si era<br />

slogata ed era gonfia. Al momento del risveglio, in un subito mi è<br />

venuto in mente la lepre e il mio scivolone improvviso, poi, mi<br />

sono anche ricordato del rumore agghiacciante dei rami spezzati e<br />

delle foglie schiacciate dal mio peso. Senza neanche provare ad<br />

alzarmi, dentro quel nero pesto, mi sono reso conto d’essere<br />

finito in fondo ad una grossa trappola per cinghiali. Giacevo a<br />

più di cinque braccia dal suolo, in condizioni normali sarei<br />

uscito dalla fossa arrampicandomi come un gatto selvatico, ma ero<br />

troppo debole anche solo per muovermi, così, per due giorni e due<br />

notti, rimasi laggiù: solo, ferito, completamente ricoperto di<br />

sangue, affogato dentro una fossa lercia, puzzolente per lo sterco<br />

e l’orina degli animali che vi erano caduti, maledicendo la mia<br />

follia che mi aveva spinto ad abbandonare il sentiero. Avevo solo<br />

68


la fievole speranza che qualche anima buona, vedendo il mio<br />

cavallo vagare senza cavaliere, mi cercasse. In principio sentivo<br />

i suoi zoccoli ferrati stritolare i rami secchi mentre i nitriti<br />

galleggiavano nell’aria, poi, ho sentito solo i grilli e le rane,<br />

il mio cavallo, forse alla ricerca di biade, era sparito senza<br />

lasciare la minima traccia. Oramai ero più morto che vivo, quasi<br />

completamente disidratato, ero una brocca vuota, un torrente<br />

asciutto, da solo non potevo farcela, per ore avevo gridato aiuto<br />

fino a perdere la voce. Pensai che se proprio dovevo morire, sarei<br />

morto da poeta, così, chiusi gli occhi e, aspettando la fine,<br />

incominciai a cantare le mie canzoni, ma forse già deliravo, però,<br />

all’improvviso dentro quel profondo negro, udii proprio sul mio<br />

capo, un levriero ululare subito seguito dall’abbaiare di altri<br />

cani e suoni di trombe.<br />

Ero morto? Era mezzogiorno, mezzanotte?<br />

Pensando che forse c’era qualcuno là sopra che poteva sentirmi,<br />

nel tentativo disperato di sollevarmi, mi attaccai ad un palo,<br />

affondai le dita nella terra e, riuscii a mettermi in ginocchio,<br />

infine concentrai tutte le mie forze lanciando un ultimo urlo.<br />

Improvvisamente, un calpestio ritmico di passi leggeri, di sandali<br />

sulle foglie secche si arrestò sul mio capo. Subito un raggio di<br />

sole penetrò la fratta accecandomi, sbattei le palpebre e, in cima<br />

alla buca, tra i rami della fratta, attorniata da eleganti<br />

levrieri che, con narici frementi e occhi assassini giravano in<br />

tondo attorno alla buca scambiandomi per una cerva pronta da<br />

sbranare, m’apparve la testa di una giovane che mi guardava: i<br />

boccoli, i ciuffi biondi dei suoi capelli sfuggivano ai nastri e<br />

formavano una schiuma, un alone di soffici ricci. Gli occhi grigi<br />

69


- celesti cangianti e i teneri lineamenti del volto, incorniciati<br />

da quell'alone luminoso, pareva galleggiassero nell’aria. Per un<br />

attimo ho creduto di essere morto: dalla fossa puzzolente, avevo<br />

saltato a piedi pari i gradini del paradiso, perché, quel giovane<br />

volto che catturava la luce del sole, poteva essere solo di un<br />

angelo.<br />

Quella creatura angelica, era una giovane donna che assieme al<br />

padre ed altri cacciatori, inseguiva una cerva. Quando i suoi cani<br />

mi hanno scovato, si è fermata incredula al bordo della fossa<br />

esclamando con una voce ricca e musicale: in nome degli dei<br />

straniero, come sei riuscito a cadere lì dentro?<br />

<strong>La</strong> sua voce e soprattutto le sue parole, mi giunsero famigliari<br />

come affiorassero da un luogo profondo oltre la memoria cosciente.<br />

Parole lontane eppure vicinissime come le bramate frasi di un<br />

Oracolo. <strong>La</strong> giovane, vedendo che sanguinavo e stavo per perdere i<br />

sensi, lesta, chiamò a gran voce il padre, poi continuò a parlare<br />

con me in maniera molto disinvolta: non svenire ti prego, stringi<br />

i denti, non svenire, lascia che la mia voce sia una corda che ti<br />

lega alla vita, riesci a sentirmi? Sta arrivando mio padre lui è<br />

un gigante, può abbattere un toro con una spallata, in un subito,<br />

ti aiuterà a risalite. Mi senti, puoi parlare? In due riusciremo a<br />

tirarti fuori, stai tranquillo, appena sarai all’aperto, con i<br />

rami costruiremo una barella, mio padre è guaritore, vedrai ti<br />

salverà.<br />

Arrivato il padre, saltò dentro la fossa, legò il mio braccio<br />

ferito ad un ramo per farlo stare fermo, poi guardata la caviglia<br />

gonfia, mi caricò sulle spalle e mi portò fuori. Intanto che i<br />

miei salvatori tagliavano i rami per costruire la barella, nel<br />

70


tentativo di sollevarmi da terra, con il gomito pesto e<br />

sanguinante, urtai violentemente contro una radice sporgente, per<br />

il dolore lancinante, all’improvviso il mondo si oscurò.<br />

Quando tornai in me, avevo addosso una strana sensazione: come<br />

di essere rimasto svenuto per molto tempo, dovevo aver dormito un<br />

sonno inquieto e nel sonno, mi pareva che qualcuno mi toccasse le<br />

tempie con un fiore. Sbattei a lungo le palpebre per cercare di<br />

capire dov’ero finito. Sentivo l’odore del fumo e della legna<br />

bruciata, lentamente mi guardai attorno: dritti avanti i miei<br />

occhi, alla luce di una torcia di canna, vidi poggiati sopra una<br />

cassa di quercia intagliata, costruita con grossi chiodi di legno,<br />

i miei indumenti lavati e piegati con cura e vicino, la mia<br />

viella. Girai un poco il capo e, seduta accanto a me sopra uno<br />

sgabello a tre gambe, semiaddormentata, c’era la giovanissima<br />

donna che mi aveva salvato la vita. Ad intervalli regolari,<br />

tenendo gli occhi semichiusi, mi bagnava la fronte e le labbra con<br />

acqua intrisa di petali di gigli. Le braci del focolare erano<br />

quasi spente, doveva essere notte fonda. Cercai di sollevarmi ma<br />

ero sfinito, il braccio mi bruciava, avevo sete e ogni muscolo del<br />

corpo era indolenzito. Non volevo disturbare oltre la mia ospite,<br />

così, rimasi in silenzio a guardarla dormire sdraiato sulla mia<br />

branda di legno e cuoio. Più tardi quando inavvertitamente toccai<br />

le mie ferite che erano state fasciate con candide bende di lino,<br />

mi uscì un lamento soffocato. <strong>La</strong> giovane nell’accorgersi che<br />

finalmente ero rinvenuto, lesta, saltò giù dallo sgabello e subito<br />

andò ad attizzare il fuoco, mise a bollire nel paiolo acqua,<br />

camomilla, verbena, fiori di sambuco e altre droghe. Appena il<br />

decotto fu pronto, si chinò su di me, accostò la tazza alle mie<br />

71


labbra mormorando gentilmente: devi essere sfinito. Bevi, oltre a<br />

scaldarti, questa bevanda, ti farà subito molto bene. Dopo aver<br />

bevuto il liquido bollente, avrei tanto voluto toccarle le ciocche<br />

dei capelli che nella notte, erano sfuggite alla treccia: anche i<br />

capelli di mia madre erano così… ma restai fermo e, senza parlare,<br />

calcai meglio i piedi sotto le calde pelli di pecora e i soffici<br />

tappeti di lana, mentre un forte odore d'unguento appiccicoso<br />

riempiva la piccola stanza con le mura d’argilla ricoperte da un<br />

tetto rivestito di paglia spiovente fino a terra. Fissando le<br />

braci rosse del fuoco, mi abbandonai tranquillo e felice sul mio<br />

morbido pagliericcio e, in un subito, m’addormentai di nuovo.<br />

Sentire il respiro regolare di quella giovane donna che<br />

vegliava accanto al mio letto, mi faceva stare bene, mi ricordava<br />

mia madre quando da bambino ero malato. Mia madre mi curava con<br />

amore senza mai andare a dormire ed io trattenevo il fiato per<br />

sentirla quando silenziosamente si muoveva nella stanza accanto.<br />

Anche Lenia, eguale a mia madre, dopo avermi lavato e medicato,<br />

era rimasta ad assistermi vegliando per tutto il tempo, infatti,<br />

era scapigliata, aveva l’aria stanca, la sua tunica di lana, era<br />

sgualcita e macchiata d’erbe. <strong>La</strong> mia ospite, sarebbe piaciuta<br />

moltissimo a mia madre, perché, oltre ad essere generosa, aveva i<br />

fianchi larghi ed era di buona stirpe.<br />

I giorni seguenti, non riuscivo ancora ad alzarmi, non riuscivo<br />

neanche a muovere le mani per mangiare, la fanciulla, passò ore e<br />

ore a medicare le mie ferite e ad imboccarmi con un cucchiaio di<br />

corno. Per tutto il tempo che restai ferito in casa sua, lei,<br />

tenne acceso il fuoco per me giorno e notte e quando la scorta di<br />

legna tagliata e accatastata sotto la tettoia della casa finì,<br />

72


subito mandò il padre nel bosco a recidere altri alberi.<br />

Per sempre serberò nella memoria l’immagine di quella generosa<br />

fanciulla che mi bagnava la fronte con petali di giglio, per<br />

sempre ricorderò quei fiori impigliati nella mia fronte. Lenia,<br />

era una creatura dolcissima, avrei voluto amarla, fermarmi e<br />

vivere per sempre con lei, con lei che con tanto amore ha curato<br />

le mie piaghe, prima che s’infettassero, ma, nonostante le devo la<br />

vita e per questo le sarò eternamente grato, pure se mi sento<br />

onorato d'averla conosciuta, devo confessare che, quando me ne<br />

sono andato e lei piangeva disperata guardandomi oltre le ciglia<br />

abbassate… Mi guardava con occhi scintillanti che cangiando, da<br />

grigi – verdi, diventavano nocciola. Sbatteva continuamente le<br />

palpebre per reprimere un fitto velo di lacrime e, quello sguardo<br />

appassionato, incorniciato da fuggevoli, luminosi, riccioli<br />

biondi. Voglio essere onesto con te piccolo giovane, pure se nel<br />

salutare Lenia, con un bacio delicato sugli occhi, ho sentito un<br />

nodo che mi stringeva la gola e le parole, uscivano spezzate dai<br />

frequenti singhiozzi, non mi disperai quanto avrei dovuto. Quasi<br />

provai più dolore nell’abbracciare suo padre che oramai sentivo<br />

come mio padre. Mi attaccai disperato al suo collo baciandolo<br />

sette volte sulla bocca come insegna il divino Pitagora. Il numero<br />

sette è sacro e propizio, l’unico, adatto a ringraziare la persona<br />

cui si deve la vita. Dopo averli salutati, restai ancora un poco<br />

sulla porta indeciso, m’intrattenei come era mio dovere, forse<br />

avrei dovuto chiedere perdono per non poterli ricompensare<br />

adeguatamente dei tanti benefici ricevuti. Ero turbato al pensiero<br />

di rompere quel legame che mi univa a loro. Per un momento solo,<br />

mi sentii tra l’incudine e il martello, per un momento solo<br />

73


ischiai di perdere la testa, ma poi, lo sguardo appassionato di<br />

Lenia, i suoi riccioli biondi, non mi hanno sconvolto più di<br />

tanto, non provavo molto dolore lasciandola, anzi, all’improvviso,<br />

mi resi conto che non vedevo l’ora di rimettermi in viaggio.<br />

Lesto, raccolsi i miei pochi bagagli e sgusciai fuori. Una volta<br />

in strada, misi i piedi in spalla e via…Da quel momento niente mi<br />

stava più a cuore che salpare verso Viterbo. Che ci posso, fare?<br />

Nonostante quella creatura fosse incantevole più di un angelo,<br />

tanto <strong>bella</strong> da togliere il respiro, ad un passo da lei, non voglio<br />

dire che era come se fosse morta ma… ad un passo da lei, è stato<br />

come se non l’avessi mai incontrata. Lenia non è riuscita ha farmi<br />

dimenticare la donna del mio sogno, è solo tra le braccia di<br />

madreperla della fanciulla del mio sogno che s’intrigano le stelle<br />

più belle.”<br />

“ Parrebbe che quella fanciulla ti abbia seguito per tutto il<br />

lungo viaggio.”<br />

“Sì” Lei era con me ad ogni angolo, ad ogni incrocio. Sulla<br />

mia strada ho incontrato di tutto: il buono e il cattivo, il bello<br />

e il brutto, dolore, fame, sete, freddo, caldo, ma anche carità,<br />

generosità. Sono stato esposto alla furia degli elementi: alla<br />

rabbia degli uomini, delle bestie e, nonostante l’angelo della<br />

morte mi ronzasse spesso attorno, ho persino varcato la soglia di<br />

Proserpina, ma la mia musa ispiratrice mi ha sempre protetto e,<br />

soprattutto, mi ha guidato, o forse sarebbe meglio affermare che<br />

mi ha trascinato tirandomi per i capelli, fino al lungo sentiero<br />

che serpeggiando mi ha condotto qui a Viterbo. Però, se per<br />

trovarla fosse necessario viaggiare ancora, per lei ragazzo, sono<br />

disposto a ricominciare tutto da capo. Per trovarla, farei come<br />

74


Diogene di Sinope che di notte alloggiava in una botte e in pieno<br />

giorno andava errando per le vie di Atene con la lanterna accesa,<br />

cercando l’uomo. Per lei vagherei come i monelli di Parigi che<br />

girano mezzi nudi per i tuguri della città ai bordi della Senna,<br />

senza scarpe ai piedi, vestiti solo di cenci. <strong>La</strong> vita ha abituato<br />

quelle strane creature a resistere a lungo mangiando poco e<br />

dormendo dove capita. Quei monelli: magri, gracili, lentigginosi,<br />

sempre pesti, eternamente ricoperti di vistose chiazze di lividi,<br />

riescono a scalare qualsiasi muro, s’arrampicano sugli alberi,<br />

scendono dai camini, si tuffano a testa bassa nella Senna,<br />

s’infilano nelle chiaviche, nelle fogne, in ogni buco. Pescano<br />

indifferentemente, sia negli stagni, sia negli orti e, rivoltando<br />

il letame della spazzatura, quei piccoli eroi, scotendo i capelli<br />

come fossero la criniera di un leone, dalla spazzatura riescono a<br />

cogliere rossi papaveri e, in un attimo solo, il monello diventa<br />

gigante, suddito e re di se stesso.<br />

Prima di entrare a corte, ho bighellonato come un filosofo<br />

vagabondando a lungo per respirare tutti i confini di Parigi, quel<br />

periodo per me, è un pozzo di ricordi profondi. In quei giorni,<br />

tristi - allegri, dove ho dormito sotto gli archi dei ponti,<br />

accanto alla ruota di un mulino a vento o più spesso sul grande<br />

sacrato della cattedrale di Notre – Dame; ho incontrato bande,<br />

schiere intere di quei simpatici monelli: tumultuosi, fetidi,<br />

impolverati, stracciati, arruffati, che impastati di fango dopo<br />

aver giocato a lungo con lucertole, rospi, ragni e pipistrelli, a<br />

sera, al calar della notte, mi insegnavano i nomi delle stelle<br />

grandi e piccole che rispendono nel cielo di Parigi, poi, si<br />

accartocciavano per terra come dentro un nido immaginario e<br />

75


dormivano beati. A volte li ho sentiti zufolare, cantare,<br />

borbottare, spesso intonavano un miserere e pure se l’intento loro<br />

era di scimmiottare tutto e tutti, mentre motteggiavano, senza<br />

avvedersene salmodiavano il loro Dio. Anche se non hanno casa, non<br />

hanno pane, non hanno fuoco, non hanno amore, anche se hanno meno<br />

di nulla, quelle creature, quelle anime innocenti sono felici:<br />

allegri e liberi, percorrono in lungo e in largo tutti i confini<br />

della città con un vecchio cappello che gli cala sopra le<br />

orecchie, fischiando, cantando e ballando per strade e vicoli. Sì!<br />

Per trovare la fanciulla del mio sogno, viaggerei a piedi come<br />

quei monelli trascinando la mia viella sopra un dorso di mulo o su<br />

carri improvvisati, per lei andrei all’infinito per monti, terra e<br />

mare, Per lei dormirei sopra la paglia, in sudice locande assieme<br />

a viaggiatori in quarantena. Per trovarla, striscerei per il mondo<br />

vagando giorno e notte, finché dal buio attraverso spazi<br />

sconosciuti non affiori la scia luminosa di una stella caduta dal<br />

firmamento, sarà la coda vaporosa di quella cometa ad indicarmi la<br />

strada fino ai confini della terra e…anche oltre. Lo giuro<br />

ragazzo, per la giovane del mio sogno, per addormentarmi tra le<br />

sue braccia di neve come un’ape sul fiore. Per specchiarmi nel<br />

candore dei suoi seni e bere dalle sue labbra il succo dolce delle<br />

more per poi finalmente mischiare il mio sangue col suo, per lei,<br />

per lei, per lei e… per lei sola, se fosse necessario, andrei<br />

anche oltre i confini della nostra vecchia, amata terra.”<br />

“Deve essere molto bello un amore così forte. Non so se<br />

invidiarti di più quest’amore, o il tuo bellissimo viaggio<br />

vagabondo.”<br />

76<br />

“Ragazzo, noi uomini siamo vagabondi per natura, ognuno giunge


da qualche luogo. Viaggiare è un’arte astratta. E’ come tentare di<br />

acchiappare una rondine nel deserto, è fuggire per poi subito<br />

ritornare, morire per rinascere. Viaggiare è soffocare l’occhio<br />

nell’ebbrezza di mille paesaggi che s’inseguono, si rincorrono,<br />

sfuggono per restare per sempre dentro di te, è tendere le mani<br />

quasi ad acchiappare l’attimo fuggente che passa perché, quando è<br />

passato è passato. Viaggiare è dovere di ognuno, affinché non ci<br />

si ritrovi vecchi e si debba scendere dal cavallo della vita senza<br />

aver visto il mondo oltre la siepe nera, viaggiare ragazzo, è<br />

tutto questo e molto altro ancora, ma l’amore, l’amore ragazzo,<br />

l’amore, è come un’ape ubriaca di miele che contorcendosi ti ronza<br />

nell’anima. L’amore è come rinchiudere il sole in una lanterna, è<br />

come un parto…dà molto dolore, molte doglie, ma poi… L’amore<br />

ragazzo è una strada senza fine, un viaggio verso l’infinito e, le<br />

parole, le parole ragazzo mio, non bastano per descriverlo.”<br />

“Io straniero, ho sempre pensato che l’amore è solo specchiarsi<br />

negli occhi dell’amato, bere un fiotto d’acqua dalla sua stessa<br />

bocca. Forse l’amore è solo questo, ma per te parrebbe che sia<br />

come un fiume in piena che ti trascina. Un fiume che porta con sé<br />

l’odore dei giunchi, il canto di centinaia d’uccelli che fanno il<br />

nido su quei giunchi e, anche se ti legassero ai ceppi con catene<br />

di ferro e se tua madre e tuo padre ti tenessero per i capelli,<br />

quel fiume, menestrello, ti trascinerebbe ancora e ancora e<br />

ancora, come…<br />

“…Un’onda anomala del mare. Perché un uomo senza amore ragazzo<br />

mio, è come una donna sterile senza figli: inutile più del cardo<br />

spinoso e secco che non è buono neanche per il fuoco. “<br />

77<br />

“Ascolta menestrello, ho sentito narrare che l’uomo innamorato


che osa vagare da solo da un capo all’altro dell’Universo senza<br />

riuscire a trovare una pietra dove poggiare il capo, alla continua<br />

ricerca della sua donna, oltre ad essere solitario per natura, è<br />

anche un po’ folle. Si racconta che quell’uomo folle, a<br />

mezzanotte, sempre incontra i fantasmi del passato, loro penetrano<br />

nelle crepe della sua grotta e lui ci parla e tenta di afferrarli<br />

e, all’alba, quando riapre gli occhi insonni, l’uomo folle, si<br />

trova imprigionato nella sua tana dove al posto degli spettri,<br />

dall’alto pendono scorpioni e vipere. Dimmi che queste storie non<br />

sono vere menestrello, convincimi che sono solo racconti cattivi<br />

di gente invidiosa che non ha mai amato, dimostrami che l’uomo<br />

innamorato è una creatura solitaria nascosta dietro una maschera<br />

di vento…solo perché è molto più fragile degli altri, specialmente<br />

quando come te, insegue un amore sognato, ma…se non puoi<br />

convincermi di questo, allora permettimi di darti un consiglio<br />

menestrello. Non cercare più quella fanciulla, a meno che tu non<br />

voglia pensare seriamente ad un incontro con qualche saggio<br />

indovino capace di leggere nell’infinito libro dei segreti della<br />

natura e magari possa aiutarti a svelare il tuo strano sogno.<br />

Io menestrello, ho conosciuto un vecchio profeta di nome<br />

Achille, giaceva ogni notte sotto un pergolato nella<br />

contemplazione di grappoli d’uva e di stelle. Bastava mostrargli<br />

la mano del cuore e lui sapeva leggerla, conosceva pure i segreti<br />

racchiusi nei sogni e molto spesso riusciva persino ad<br />

interpretarli...”<br />

“…Veramente ragazzo hai incontrato sul tuo cammino un uomo<br />

capace di svelare tali misteri occulti? Racconta come lo hai<br />

conosciuto? Che dovrei fare per incontrarlo? Parla: che posso<br />

78


fare? Pensi che potrei venire con te a parlargli un giorno di<br />

questi?”<br />

“No! Nemmeno le sirene né le ninfe che lui amava tanto possono<br />

incontrarlo più a questo mondo. Achille che adorava raccogliere i<br />

fiori del bosco, spesso l’ho visto seduto tra papaveri e orchidee<br />

selvagge: affondava il volto tra i petali come a respirare<br />

l’essenza stessa della vita, amava pure vivere libero come gli<br />

uccelli dell’aria, per questo un giorno i cacciatori l’uccisero<br />

con le loro frecce.<br />

Achille era un giovane semplice, viveva nella zona montuosa del<br />

piccolo pago di Bangaria. Era nato in una piccola casa poco più di<br />

una capanna, trascorreva la primavera della sua vita pascolando le<br />

pecore sulle verdi alture. Spesso sostava sulla sponda del fosso,<br />

all’ombra del noce e del sambuco: suonava la zampogna o stava in<br />

tranquilla contemplazione dell’acqua che scorreva. Era ancora un<br />

ragazzo quando incominciò a sentire una voce senza corpo che gli<br />

frusciava intorno chiamandolo nel vento. Di chi era quella voce?<br />

Da dove veniva, dal cielo, dalla terra o da sottoterra? Cosa<br />

voleva da un piccolo pastore imprigionato tra le rocce? Era forse<br />

un seme inconsapevole che volava nell’aria, un raggio di luce che<br />

avrebbe illuminato per sempre la sua vita, o un demone apparso<br />

dalle crepe della terra per renderlo ridicolo tra gli uomini della<br />

sua tribù?<br />

Un giorno Achille, mentre riposava sotto un’acacia fiorita,<br />

ascoltò di nuovo la voce, allora si gettò in ginocchio tese le<br />

braccia come un mendicante e, mentre l’emozione soffocava la sua<br />

parola esclamò: che vuoi da me destino? Dov’è il Divino che vive<br />

in te? Io sono un semplice uccello che fischia la sua canzone, una<br />

79


farfalla che vola leggera sulle corolle dei fiori. Ma tu, tu chi<br />

sei? Rispondi, tu che mi parli e mi chiami senza farti vedere,<br />

senza farti toccare, dimmi chi sei. Se non sei il mio destino,<br />

parla, dimmi, sei forse uno spettro venuto dall’eternità o il mio<br />

stesso passato che ritorna? Soltanto il silenzio rispose. Achille<br />

pensò che lo spirito lo aveva abbandonato. Solo e disperato, restò<br />

per molto tempo in ginocchio sullo scoglio finché, volse lo<br />

sguardo attorno e vide il ranuncolo, la verbena, le felci e<br />

l’ortica crescere a fianco a fianco, poi, sentì l’upupa e il merlo<br />

cantare assieme; allora, nell’abbandono della sua solitudine,<br />

pianse.<br />

In quel momento da dietro i giunchi, i salici e i ligustri del<br />

fosso, si materializzò una creatura di soprannaturale bellezza.<br />

Aveva la testa avvolta in una nuvola di gigli che le cingevano la<br />

chioma vermiglia. Dove trascinava il manto della sua veste,<br />

trattenuto da un tralcio di vite, nascevano papaveri rosa. <strong>La</strong><br />

Ninfa, si fermò accanto a lui, le sue labbra avevano il sorriso<br />

degli angeli e nei suoi occhi si nascondevano gli arcani della<br />

vita.<br />

<strong>La</strong> figlia dei boschi, lentamente, con dita di bruma, gli chiuse<br />

le palpebre affinché il pastore potesse vederla solo con gli occhi<br />

dell’anima, infine, dopo aver posato le mani delicate sul capo di<br />

Achille, dopo avergli accarezzato la fronte che scottava, lo<br />

attrasse a sé baciandolo a lungo sulle labbra.<br />

Il giovane a quel contatto, udì una musica celeste levarsi<br />

leggera nell’aria. Quella musica, placò le onde del suo dolore,<br />

restò ad ascoltarla per tutta la notte e, all’alba del giorno<br />

dopo, prima che il sole comparisse all’orizzonte, era ancora<br />

80


adagiato sull’erba sotto l’acacia fiorita in comunione con il<br />

creato. Cercava di scoprire in tutto quello che vedeva e sentiva,<br />

la verità delle cose e, quando il suo spirito si avvicinò ai<br />

meravigliosi segreti della natura, subito si sentì sollevare da<br />

terra come se due ali invisibili gli portassero via l’anima.<br />

Intanto la voce continuava a sussurrargli nel vento: vai, vai pure<br />

tranquillo, non temere le spine lungo il sentiero. Così Achille<br />

decise di lasciare per sempre la sua casa, il padre e la sorella<br />

per stabilirsi da solo in una caverna sul monte Nibbio a meditare<br />

lontano da tutto e da tutti.<br />

Presto imparò a conoscere la magia delle erbe, Achille amava<br />

sedersi sulle rocce a contemplare la natura: ascoltava rapito<br />

l’eco che saliva dal profondo delle gole, fissava le lunghe ombre<br />

del tramonto, sapeva carpire la fugace attenzione di un istante.<br />

<strong>La</strong> gente dei dintorni, cominciò a ricorrere alle sue cure quando<br />

cadeva malata. Lui, con erbe, radici, ma soprattutto con le foglie<br />

strappate prima dell’alba dagli steli delle piante di artemisia,<br />

piante magiche dall’odore pungente che stordisce, Achille, con i<br />

petali dei fiori di quelle piante che metteva ad essiccare sotto<br />

pietre bollenti e poi macinava a lungo, riusciva a guarire tutti.<br />

Molti per questo, lo consideravano un veggente, un profeta, ma<br />

c’era anche chi lo chiamava stregone e aveva paura.<br />

L’estate volgeva alla fine quando lo incontrai la prima volta.<br />

Poggiato ad un alto, nodoso bastone, ricavato dal tronco di un<br />

arbusto di corniolo, Achille, seguito dalla sua capra bianca,<br />

risaliva lento il sentiero del monte Nibbio dove viveva eremita in<br />

perpetuo. Era quasi buio e lui sembrava sfinito, infatti, si fermò<br />

a riposare sul ciglio della sua caverna senza entrare. Subito una<br />

81


miriade d’uccelli, uno stormo intero gli si strinse attorno, erano<br />

così tanti che molti non riuscivano a trovare posto sui rami per<br />

posarsi. Io che ero lì a cercare il legno per costruire un flauto,<br />

vedendo quello spettacolo incredibile, m’avvicinai. Achille stava<br />

tranquillamente masticando un ciuffo di finocchio selvatico che<br />

aveva appena colto dal lato soleggiato del macigno dove si era<br />

seduto, i lunghi, candidi capelli, gli ricadevano sulle spalle e<br />

sul petto. Senza parlare, gli offrii l’acqua del mio otre e un<br />

pezzo di pane che tenevo nella sacca di cuoio, lui, in cambio mi<br />

diete un pugno di noci che prese dalla sua scarsella. Diventammo<br />

subito amici il vecchio Achille ed io. Dopo quella sera, sono<br />

andato molte volte alla sua caverna, spesso restavamo svegli tutta<br />

la notte a guardare il corso delle stelle e mentre aspettavamo il<br />

giorno, lui mi raccontava di uomini d’altre terre che sapevano i<br />

segreti delle profondità marine, parlava di perle splendenti che<br />

riposano nel profondo di mari a noi sconosciuti, raccontava delle<br />

stelle che splendono in cieli invisibili. Quante volte<br />

ascoltandolo mi pareva di camminare sulle vette dove solo le<br />

aquile costruiscono i nidi. Sì! Il mio amico Achille era un poeta!<br />

Ogni notte giaceva sotto un pergolato di stelle e grappoli di<br />

luce. Lui m’insegnò come spezzare le catene della schiavitù della<br />

mente, per essere libero finanche dai ricordi del passato,<br />

m’insegnò che un uomo ferito nell’anima è come un animale braccato<br />

e sanguinante, quell’uomo, come l’animale, se si vuole salvare,<br />

deve assolutamente nascondere al mondo il suo tormento. Il mio<br />

amico Achille, concludeva ogni suo racconto con<br />

quest'avvertimento: ricordati figlio mio, come un vero leone sa<br />

nascondere bene i suoi cuccioli e mai costruirebbe la sua tana tra<br />

82


felci o dune di sabbia, così pure le bianche colombe non si curano<br />

dei serpenti aggrovigliati dentro gli antri oscuri. Quei serpenti<br />

aggrovigliati, per Achille, erano tutti gli uomini stolti, uomini<br />

capaci d’azioni ignobili e distruttive.”<br />

“Quell’uomo saggio, ti ha insegnato veramente tanto, ma se ti<br />

ha svelato pure l’arte rara degli indovini, se ti ha fatto toccare<br />

con mano l’intimo palpito della sacra vite, se tu hai potuto<br />

toccare la linfa che nutre i tralci della conoscenza della mente<br />

durante il sonno, allora ragazzo, proverò a raccontarti il mio<br />

sogno fin dal principio.<br />

Alcuni giorni prima di andare in Francia, ero con la mia viella<br />

a cantare ad un banchetto nuziale. Mentre gli invitati mangiavano<br />

e i coppieri mescevano vino senza sosta, recitai antiche commedie,<br />

vecchie leggende e, solo nel meriggio sul tardi, in onore alla<br />

giovane moglie, intonai i cantici d’amore del re Salomone. Cantai<br />

dello sposo che condusse l’amata nella sua tenda, del giovane<br />

vignaiolo che amava la figlia del padrone e la portò nella capanna<br />

della vecchia madre, del principe che incontrata una vergine<br />

mendica la condusse con sé al castello incoronandola regina.<br />

Cantai anche delle meraviglie del paradiso, dei fiori delle stelle<br />

che si schiudono solo di notte e dei fiori del cielo che non hanno<br />

bisogno del sole per vivere. Continuai fino al calare delle<br />

tenebre e anche più tardi, augurando loro ogni bene fino alla<br />

terza, quarta, quinta generazione. Pure se cantare è il mio pane,<br />

alla fine mi bruciava la gola ma solo quando non ci fu più vino,<br />

la festa finì. Allora stracco morto, finalmente tornai alla mia<br />

casa. Mi fermai al giardino di mia madre e dopo aver bevuto<br />

dell’acqua dal pozzo, senza entrare, mi sdraiai presso il cancello<br />

83


sotto una pergola di gelsomini bianchi, subito piombai in un sonno<br />

profondo.<br />

Verso l’alba, o forse nell’ora più tranquilla della notte,<br />

mentre giacevo addormentato sul medesimo giaciglio d’erba e terra,<br />

sentii mille strumenti risuonare, erano dolcissime armonie che mi<br />

rimbombavano nelle orecchie. Forse aprii gli occhi o forse no, ma<br />

tra le nubi che mi apparvero e pareva che stessero per cadere sul<br />

mio capo, si aprì uno squarcio e scese, con una grazia infinita,<br />

eguale ad un angelo dalle bianche piume, scese una creatura dal<br />

volto divino che si muoveva leggera, mentre attorno a lei, si<br />

sfogliavano le costellazioni del cielo bagnando di rugiada le<br />

foglie nuove e i boccioli dei fiori.<br />

Mi sforzerò ragazzo per descrivere la sua straordinaria<br />

bellezza, ma credimi, non sarà un’impresa facile: la lunga<br />

foltissima chioma scendeva morbidamente sul collo, sulla sommità<br />

del capo portava una corona di luce e anche dietro la testa era<br />

tutta una raggiera colore del grano. Pure la veste di neve che<br />

saliva dal fianco destro alla spalla sinistra formando un nodo per<br />

poi ricadere in mille pieghe, era ricamata con fiordalisi colore<br />

del sole. Quei fiori d’oro, simili ai fiori di croco, brillavano<br />

come stelle, sparse qua e là sul tessuto di seta. Ai piedi calzava<br />

sandali di foglie di palma. Così <strong>bella</strong> e maestosa m’apparve<br />

ragazzo.<br />

In principio non diedi molto peso a quella visione, ma poi,<br />

quella creatura, incominciò a visitarmi anche di giorno, stava<br />

ritta sopra una delle centonovantasette torri di questa città.<br />

Quando essa arriva, mi trascina trasporta l’anima mia in mondi<br />

remoti e sconosciuti. Dall’ora, se passa una notte o un solo<br />

84


giorno senza che la fanciulla fantastica dai capelli dal colore<br />

delle foglie d’acacia appena nate, capelli che profumano<br />

d’ambrosia, mi venga a trovare, ad ogni risveglio mi prende una<br />

paura folle e, ogni volta, muoio dal desiderio di cercarla. Senza<br />

di lei mi sento come un campo sterile, non arato, come un frutto<br />

acerbo che non potrà mai più essere colto e, altro non possiedo<br />

che la voglia di baciare la sua bocca bagnata dal crepuscolo.”<br />

“Strano, parli come se quella fanciulla che viene a visitarti<br />

in sogno, ti abbia preso l’anima. Forse non è mentre dormi che lei<br />

ti appare, parrebbe che tu la veda avanti a te, viva, reale,<br />

presente, con tanto di chiome sciolte. Ma forse vi siete già<br />

incontrati in una vita lontana, magari in una vita precedente,<br />

avete mangiato ciliegie nello stesso campo di grano, forse siete<br />

stati i petali della stessa rosa o magari vi siete nascosti dentro<br />

la stessa lacrima…”<br />

”Nascosti dentro la stessa lacrima? Non avevo mai sentito<br />

un’espressione così surreale, però, mi sembra molto <strong>bella</strong>, certo,<br />

se ci fermiamo a pensare al misterioso scorrere dei secoli…Ascolta<br />

piccolo giovane, voglio aprirti il mio cuore fino in fondo. Quando<br />

ero alla mia isola natia e correvo sempre sulla <strong>bella</strong> spiaggia<br />

bianca, pensavo che i sentieri che portavano alla mia casa, gli<br />

alberi del giardino, il mare, le strida dei gabbiani attorno al<br />

vulcano della mia isola, la mia casa stessa, erano solo case,<br />

montagne, alberi, sentieri e, i gabbiani, erano uccelli come ci<br />

sono dappertutto e… mia madre, era solo mia madre. Ma poi, quando<br />

arrivai a corte, ripensando a lei…”<br />

“Anche quando bighellonavi dormendo sotto gli archi dei ponti<br />

di Parigi sentivi la mancanza di tua madre, menestrello?”<br />

85


Frisigello scosso dal flusso dei ricordi, si sente precipitare<br />

nell’abisso degli anni e, mentre s’interrompe bruscamente, guarda<br />

a lungo Almenia con diffidenza infine sospira e, dopo un silenzio<br />

riprende a narrare con voce esitante e le parole, gli escono dalle<br />

labbra come fosse preda di un incantesimo.<br />

“Che strano potere, che magia nascondi ragazzo per evocare<br />

questi miei ricordi? Parlare con te è come parlare a me stesso.<br />

Certo che mi mancava mia madre, più di un braccio o di una gamba<br />

mi mancava, più dell’aria che respiravo, ancora oggi mi pareva di<br />

sentire nel vento il suo profumo che sapeva di salsedine, di<br />

alghe, perfino adesso, in questo preciso momento, l’odore di<br />

questo fuoco, il fumo che brucia la gola e questo buio negro mi<br />

parlano di lei. I primi giorni che abitai a corte, pensando alla<br />

nostra casa, a tutte le piccole grandi cose che avevo lasciato,<br />

sentivo un incanto doloroso. Spesso mi ritornava alla mente<br />

l’immagine di mia madre con uno dei miei fratelli sempre attaccato<br />

al seno, ed io che gli tiravo la veste quando macinava l’orzo,<br />

ogni cosa mi ritornava alla mente così vivida da farmi piangere e,<br />

la malinconia si piantava come un pugnale arrugginito sul mio<br />

petto, ma quel pugnale ragazzo, quel pugnale non è niente rispetto<br />

alla montagna che mi schiaccia quando vedo gli occhi ardenti della<br />

mia fanciulla, perché, bada bene ragazzo, i suoi occhi, che mi<br />

sembra di conoscere dall’inizio del mondo, i suoi occhi, li vedo<br />

anche da sveglio. Ogni volta che mi chino in una fontana, in una<br />

sorgente mi appaiono come dentro uno specchio. Scintillano<br />

nell’acqua come stelle nel cielo tempestoso ma quando cerco di<br />

scrutare tra le nebbie profonde della mia visione per vedere il<br />

resto del volto di quella creatura, esso sparisce avvolto nel<br />

86


negro della tenebra. E’ come se quella fanciulla si nascondesse<br />

per rendermi poeta, quasi che fosse lei la <strong>poesia</strong> stessa. <strong>La</strong><br />

<strong>poesia</strong> che mi chiama incarnando la sua voce, in due occhi<br />

bellissimi. Sì! E’ vero, nella sua voce c’è il sussurro delle<br />

lacrime della pioggia, la danza degli alberi assetati del deserto.<br />

Tu credi sia possibile ragazzo che lo spirito dissotterrato della<br />

<strong>poesia</strong> venga a bussare alla mia porta affinché mi svegli, lasci il<br />

letto e correndo… “<br />

“Calmati, ascoltami straniero, per quanto poco io abbia<br />

assaporato i grappoli della conoscenza, per quanto poco io abbia<br />

libato il dolce nettare degli acini schiacciati sotto il torchio<br />

del sapere lassù sul monte Nibbio assieme al mio amico eremita,<br />

anche se non è molto quello che posso dirti, una cosa è certa:<br />

Achille affermava che, ogni mille anni, il sole, la luna e questa<br />

terra con tutti i pianeti fratelli, si allineano per salutarsi per<br />

qualche istante. In quell’istante magico, anche le anime degli<br />

innamorati che si sono imbarcati sull’arca dello spirito<br />

raggiungendo l’eternità prima di godere delle dolcezze dell’amore,<br />

possono riunirsi nel tempio invisibile e decidere di lasciare il<br />

mondo delle ombre per incarnarsi di nuovo e tornare da chi tanto<br />

hanno amato in passato. Quelle anime s’incontrano ancora e, dal<br />

pozzo dell’amore, mentre bevono insieme la brina dell’alba nelle<br />

piccole coppe della ghianda del leccio, stringono arcobaleni nel<br />

cavo della mano. Però dopo quell’istante, le anime degli amanti,<br />

tornano ancora a separarsi e aspettano il trascorrere d'altri<br />

mille anni per incontrarsi di nuovo. Tuttavia non sempre le nostre<br />

orecchie possono sentire il passo del nostro io più grande che è<br />

come una musica impalpabile dentro un velo di nebbia, né i nostri<br />

87


poveri occhi mortali riescono a vedere quel prodigio. Chissà<br />

quante volte hai già attraversato questo mondo menestrello, chissà<br />

quante terre hai già percorso, ma sai tu dirmi in quali di esse<br />

sei stato considerato straniero o pazzo? Quante volte avrai<br />

camminato nei crocicchi dell’India, nella terra dei Magi. Quante<br />

volte avrai seguito le carovane sulle sabbie infuocate d’Egitto e,<br />

nelle oasi, avrai contemplato il bellissimo fiore di loto, così<br />

tanto amato da Cleopatra. Quante volte pregando la dea Iside,<br />

avrai suonato il sistro e, presso le tombe dei faraoni, mille<br />

volte il tuo sandalo avrà calpestato il velenoso serpente del<br />

Nilo, ma sai tu dirmi chi ti ha offerto da bere ai pozzi? Sono<br />

sicuro che non ricordi neanche più la bellissima nomade della<br />

steppa, la beduina che t’indicò le fonti d’acqua dolce, i pozzi<br />

avvelenati, i luoghi sterili e quelli fecondi. Spesso avrai<br />

cantato alla corte del re Mitra e della regina Didone, l’errabonda<br />

fondatrice di Cartagine, forse per quella grande ed infelice<br />

regina hai cantato più volte il famoso Cantico dei Cantici del re<br />

Salomone che ti piace tanto. Magari sarai stato al seguito della<br />

regina di Saba quando si recò a Gerusalemme per incontrare proprio<br />

lui: il saggio Salomone. Potresti aver suonato durante la danza di<br />

Salomè figlia d‘Erode. Forse sei stato giullare nella vecchia<br />

Inghilterra magari al servizio delle figlie del leggendario re<br />

Lear o in un lontanissimo passato, vivevi con i seguaci di<br />

Zoroastro il grande profeta. Anche il grande Zoroastro, si destò<br />

dal suo lungo sonno e si fermò presso il letto di un sognatore.<br />

Può darsi benissimo che tu abbia amato in passato quella creatura<br />

straordinaria che adesso ti cerca. Sono sicuro che hai dormito con<br />

lei nei giardini incantati dell’amore dove il vento ammucchia gli<br />

88


arcobaleni prima della tempesta e, se il vostro amore è stato così<br />

forte da sopravvivere ai secoli, giustamente ora lei, destata dal<br />

suo lungo sonno, si è fermata presso il tuo letto affinché tu la<br />

riconosca.”<br />

“I giardini incantati dell’amore? Che ragazzo strano sei.<br />

Veramente il tuo Achille ti ha insegnato che le anime degli amanti<br />

possono ritornare ad incontrare di nuovo sulla terra coloro che<br />

tanto hanno amato nelle altre vite? Sarebbe mai possibile tutto<br />

questo?”<br />

“Certo menestrello, tutti noi viviamo più vite. L’infinito non<br />

serba nulla all’infuori dell’amore, nulla resta oltre gli atomi<br />

d’amore.”<br />

” Dunque, se il tuo profeta affermava questo, è vero che spesso<br />

l’uomo saggio nasconde la sua saggezza sotto un manto di follia e,<br />

solo raramente ...”<br />

“…il folle, nasconde la sua follia sotto un manto di saggezza.”<br />

“Chissà che avrebbe pensato Achille di me sapendo che per<br />

sognare la mia fanciulla, mi addormento pure sui sassi e, non solo<br />

quei sassi, per me, sono più soffici di un tappeto di rose, ma mi<br />

sveglio col desiderio di sognare ancora. Quella creatura mi<br />

trascina e io non posso fare altro che seguirla. E’ talmente <strong>bella</strong><br />

che…”<br />

“Ricominci da capo menestrello? Oramai ho capito, lei è di una<br />

bellezza più che divina. Cento volte hai cercato invano di<br />

abbracciare il tuo sogno alato e cento volte l’immagine ti è<br />

sfuggita come un vento leggero perdendosi per sempre nella sua<br />

strana luce dorata, in quell’azzurro livido che la circonda. E’<br />

giusto?”<br />

89


“Bravo! Però, quando succede, la mia anima si riduce uno<br />

straccio, sì! <strong>La</strong> mia anima diventa una serva stracciona che<br />

mendica nella tana del lupo per poi trasformarsi in una<br />

principessa che danza nel giardino del re. Forse non me ne curerei<br />

più di tanto, se oltre ad essere così <strong>bella</strong> e intrigante,<br />

quell'angelica figura senza ali che da sopra la torre m'invita a<br />

seguirla e non mi lascia dormire, non me ne curerei, se ogni notte<br />

non uscisse dal sogno per entrare dentro di me incatenandomi a lei<br />

con quegli strani riccioli dal colore delle foglie d’acacia appena<br />

nate.”<br />

Almenia che si è riconosciuta nel ritratto del menestrello,<br />

calca il più possibile il suo cappello per non fargli vedere<br />

l’inconfondibile colore dei suoi capelli e, intanto risponde:<br />

“Talmente forte e inquietante è il tuo sogno che se ho ben<br />

capito, ti segue pure da sveglio. Dalla foga con cui lo narri,<br />

parrebbe che non te ne vuoi scordare nemmeno per un attimo.”<br />

“Solo gli ipocriti mentono sapendo di mentire, ed io non posso<br />

certo mentire a me stesso. Per seguire il mio sogno, ho lasciato i<br />

meravigliosi giardini del re, colmi d’arance e melegrane, giardini<br />

stupendi dove nel parco, ogni mattina si esibiva il mangiatore di<br />

spade, giardini dalle mille fontane zampillanti di giochi d’acqua,<br />

fontane che durante le rappresentazioni del mistero, gettano dalle<br />

mille bocche: vino, latte e miele dove chiunque, può bere a<br />

volontà fino all’alba. Per quella fanciulla che non riesco a<br />

sradicarmi dal cuore e dalla mente, non solo lascerei ancora la<br />

Francia ma abbandonerei altre cento volte mia madre. Per svelare<br />

quella visione che per me è come un avvoltoio, sono diventato una<br />

creatura della strada. Sì! Il mio sogno è un avvoltoio che<br />

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volteggia nell’aria guardandomi da sopra la rupe con gli artigli<br />

tesi, pronto a rapirmi, ma io amo quell’avvoltoio come amo da<br />

morire il mio sogno che non mi lascia dormire. Oramai è la mia<br />

dolce prigione…”<br />

“Prigione? L’amore vero, non può essere mai una prigione.<br />

Quando una creatura ama con tutto il cuore, non deve avere dubbi<br />

né paure, altrimenti quel cuore, è solo un piccolo schiavo chiuso<br />

in una galera, uno schiavo che sogna col suo remo in mano la<br />

libertà ma ha paura di essa e, pure se continua a sognare, lo<br />

risveglierà presto la frusta del padrone.”<br />

“ Ma io credo nelle lusinghiere illusioni della mia prigione,<br />

devo credere. Per togliermi ogni dubbio sono venuto. Di certo non<br />

lascerò la città, senza aver prima incontrato la mia musa<br />

ispiratrice. Ogni giorno andrò dall’alba al tramonto e dal<br />

tramonto all’alba, cercandola ma…se non la dovessi trovare, giuro<br />

che getterò alle ortiche la mia viella, mi vestirò di sacco e<br />

andrò errando di torre in torre, notte dopo notte all'infinito!<br />

Non so cosa mi aspetta, però, se è vero com’è vero che, il vecchio<br />

Achille ti ha insegnato a leggere i sogni nascosti nelle mani di<br />

ognuno, vuoi leggere la mia?”<br />

“No! Non mostrarmi la tua mano, pure se sapessi leggerla, non<br />

la leggerei. Forse non ti ho già risposto abbondantemente? Non sai<br />

ancora menestrello che il futuro deve rimanere per tutti un<br />

mistero? Il contadino che ne sa, quando ara e zappa la terra,<br />

strappando via le erbacce, che ne sa, mentre fa cadere i grani,<br />

come sarà il raccolto. Non sa se sarà un anno sterile o fecondo,<br />

non sa se la spiga stringerà il suo grano o arriveranno freddi<br />

chicchi di grandine oppure cavallette. Non si chiede, mentre<br />

91


combatte la cicuta velenosa e l'ortica pungente, quante covoni<br />

verranno.”<br />

“Non avrei mai creduto che sotto questo cappellaccio potesse<br />

nascondersi una risposta così sibillina. In te, si racchiude la<br />

saggezza dei vecchi. Parrebbe che tu conosca profondamente la<br />

vita. Ma dimmi, se la fanciulla del mio sogno esiste, come sono<br />

certo che esiste, perché credi che non la debba cercare se quando<br />

penso a lei, tutto quello che in me è argilla, tutto quello che in<br />

me è respiro la invoca disperatamente? E’ solo per lei che sono<br />

venuto.”<br />

“Fossi in te, penserei alla fanciulla senza pensarci, la<br />

cercherei senza cercarla.”<br />

“Le tue parole sembrano rubare il miele alle api, all’inizio<br />

cadono dalle labbra tenere e dolci come gocce di rugiada per poi<br />

trasformarsi in un subito in cristalli di ghiaccio taglienti come<br />

lame che bruciano e, eguali a colombe di fuoco scivolano lente<br />

nell’orecchio, ma dimmi ragazzo, che ci faceva un piccolo oracolo<br />

come te, questa notte nella torre, oltre ad ascoltare il mio<br />

canto?”<br />

Almenia che per tutta la notte ha sentito il freddo brivido<br />

del presagio, sa molto bene che il destino non si può fermare né<br />

modificare, tutto è già stato scritto nel cielo da molto tempo,<br />

quindi risponde con la grande saggezza della sua gente:<br />

"Oscura e aspra a volte sembra la vita! Ognuno di noi insegue<br />

quello che crede di non avere. Io vado per un sentiero, tu vieni<br />

da esso. Tu dentro queste mura cerchi un sogno, io, scappo da qui<br />

appena annotta. Vedi? L’antica luna, da dietro quei monti si<br />

solleva e mi chiama. Così mentre tutti dormono, io mi sveglio dal<br />

92


sonno, salgo sul tetto con le orecchie tese e, come quando infuria<br />

la tempesta e si risveglia il soffio del vento che trascina nel<br />

vortice gli alberi, i rami spezzati, i covoni di grano, la sabbia<br />

e le pietre, così forte e impetuosa la luna, trascina anche me.<br />

Allora io fuggo da qui!”<br />

“Per questo sei saltato dalla finestra della torre? Perché ti<br />

ha chiamato la luna? Tanta baldanza ti viene forse dalla stirpe<br />

ribelle e indomita dei Troiani dai quali discendi? Che altre<br />

favole puoi raccontarmi ancora ragazzo?”<br />

“Sì! Ogni notte inseguo la luna. Senza far rumore e senza<br />

scale, cammino sui vasi di gerani, sopra gli alberi di fico, sopra<br />

i tetti delle case, sopra i comignoli sporchi di fumo, sopra i<br />

terrazzi. Cammino, o forse…volo! Volo, sopra i cornicioni delle<br />

finestre, sopra i balconi, sopra le fontane, sopra le piazze,<br />

sopra i vicoli, finché arrivo ai merli di questa vecchia torre, da<br />

qui mi volto a guardare quelle povere piccole case, sprangate da<br />

lunghi, inutili paletti di ferro neri. Neri, come quella catena di<br />

monti che ammanta castagni e faggi, nascondendo la luna fino a<br />

sera, ammanta pure giardini d’arance meravigliosi e boschi, dove i<br />

papaveri sono molto più alti delle case e s’innalzano a sovrastare<br />

gli alberi per essere più vicini al sole.”<br />

“Troppo breve la notte per ascoltarti, nelle tue parole c’è la<br />

voce del mare, la voce del vento, il canto degli uccelli e pure se<br />

non vorrei interromperti, una domanda mi brucia la gola: è stato<br />

sempre quel vecchio profeta di nome Achille ha narrarti tanto?”<br />

“Non fu lui solo. Io so, che oltre quella selva di vulcani<br />

spenti, tutti gli esseri viventi sono liberi. I cavalli senza<br />

sella corrono dentro immense praterie dove l'erba è sempre verde,<br />

93


non esiste la notte e, all'orizzonte, lontano lontano, sempre vola<br />

un carro splendente trainato da un favoloso cavallo alato che va<br />

errando per i cieli. E' quello il carro giallo della Luce! Che<br />

importa se per salirvi bisogna morire! Morire, non è forse<br />

dissolversi nel sole per poi tornare a vivere, come ritorna il<br />

seme sepolto dalla neve? Ma ora dimmi menestrello, la vedi anche<br />

tu quella piccola luce lassù sopra i monti? Sta nascendo Lucifero<br />

la stella del mattino, adesso devo proprio andare, è arrivata<br />

l’ora di tacere, perché con la luce del sole, il silenzio è più<br />

vicino alla verità delle cose ed ha molte più risposte.”<br />

“Ascoltami ragazzo, anche se laggiù ad oriente, sta spuntando<br />

il giorno, anche se quelle strisce livide che strofinano le nuvole<br />

sono le messaggere dell’alba e ci raccontano che tra poco<br />

sentiremo il canto dell’allodola e noi dovremo andare, pure se<br />

abbiamo parlato per tutta la notte, non posso tacere ora, devo e<br />

voglio confessarti che, con te, ho provato e provo una strana<br />

sensazione, come ci fossimo avventurati fuori del tempo, questo mi<br />

accade spesso con la fanciulla del mio sogno, ma… con te è<br />

accaduto stanotte. All’improvviso mi è sembrato di conoscerti<br />

dall’inizio del mondo. Ma ora dimmi, ti rivedrò ancora piccolo,<br />

dolce poeta della notte?”<br />

“Non sa la nuvola dove la porta il vento, né il papavero sa<br />

dove cadrà il suo polline. Ma…forse un giorno c’incontreremo<br />

ancora menestrello. Forse.”<br />

Con quel forse, tanto amato da oracoli e poeti, un forse,<br />

sussurrato a fior di labbra con una voce soffocata, finisce il<br />

racconto di Almenia. E’ tutta in quelle parole la filosofia dei<br />

nomadi Figli della Luce che vanno errando per il mondo inseguendo<br />

94


la luna, inseguendo una libertà tutta surreale, condannati a non<br />

fermarsi mai, così come non si ferma la luna, né mai si ferma il<br />

sole, perché fermarsi è come un po’ morire.<br />

Frisigello, ascoltando il forse, di Almenia, è rimasto muto,<br />

strane emozioni si fondono e si confondono.<br />

Frattanto, sebbene il sole non sia ancora spuntato, lentamente<br />

si sta facendo giorno, una leggera tinta rosata incomincia a<br />

rallegrare una foresta di comignoli che svettano sulle tegole di<br />

coccio rosso. Intanto che le merlature delle torri e delle mura<br />

sono ancora avviluppate da una soffice cappa di nebbia, qualche<br />

finestra più mattiniera già si apre allegramente sopra i tetti.<br />

Subito cominciano ad arrivare i contadini: chi trasporta dei<br />

mucchi di fieno sui carri, chi dei sacchi di mandorle sulle<br />

spalle, le erbivendole hanno sul capo e sui fianchi ceste con<br />

frutta e verdura da vendere al mercato. Le fanciulle vanno<br />

cantando con canestri colmi di fichi neri ed erbe aromatiche, i<br />

ragazzi più piccoli trascinano stagnate di latte e cestini di<br />

vimini con la ricotta. In quel cicaleccio assordante qualcheduno<br />

da dentro apre finalmente la porta, tutti lesti, s’infilano sotto<br />

i portici.<br />

niente!<br />

<strong>La</strong> notte è finita, il fuoco è ormai spento e, sotto la cenere,<br />

Non è più tempo di parole, ognuno deve seguire la sua strada.<br />

Il menestrello, ancora seduto a terra con le braccia serrate<br />

attorno alle ginocchia, sbatte più volte le palpebre come per<br />

risvegliarsi poi, lentamente, impone ai muscoli irrigiditi di<br />

sollevarsi e, vacillando, con uno sguardo che non fissa più<br />

niente, si alza, ancora stordito, raccoglie la sua viella ad arco<br />

95


imasta silente, dimenticata per tutta la notte accanto alla<br />

porta. Anche Almenia si alza, calca il cappello fin sugli occhi,<br />

restituisce il mantello al giovane e, assieme, varcano porta di<br />

Valle.<br />

Senza guardarsi, s’inoltrano sulle pendici del colle del Duomo,<br />

passano avanti l’abbeveratoio: è vicino il tempo dell’uva, tempo<br />

di vendemmia, tutta la fonte è circondata da bigonci, botti e<br />

barili messi a mollo. Frisigello e Almenia affiancati, costeggiano<br />

le mura della chiesa di Santa Maria della Cella, quando arrivano<br />

all’annesso convento delle monache cistercensi, avanti il portone<br />

con la ruota, rallentano il passo, quasi trattengono il respiro<br />

nell’ascoltare il suono di un organo che accompagna un coro<br />

struggente. Dalla cappella, quel coro, scavalca le spesse mura del<br />

chiostro. E’ il mattutino, cantato dalle suore. L’inno degli<br />

angeli, serve a ricacciare l’oscurità nel profondo. Forse per un<br />

momento solo i giovani, immaginano le donne che hanno rinunciato<br />

al mondo per passare tutta la vita in ginocchio contemplando la<br />

propria ombra: una piccola folla di strane creature velate che, in<br />

castigo, si nascondono dietro la gabbia del coro, dormono sopra<br />

sacchi di paglia, dentro una cella livida, vestite solo di lana e<br />

rozza tela. Quelle creature innocenti, sono state condannate a<br />

vita a mangiare tutte assieme, alla medesima ora, lo stesso pane<br />

nero e, alla medesima ora si flagellano i fianchi col cilicio, si<br />

distendono sulla nuda pietra scorticandosi le ginocchia nel<br />

tentativo di fare ammenda di tutti i peccati del mondo, infine<br />

muoiono senza aver vissuto, dietro nere sbarre di ferro con una<br />

corda annotata intorno ai reni.<br />

96<br />

Una volta superato il portale con la ruota, passata l’emozione,


i giovani riprendono l’andatura lesta e leggera e, salito l’ultimo<br />

tratto di strada, si voltano a guardare alta come una cattedrale,<br />

la cima verde dell’abete che svetta al centro delle spesse mura<br />

del chiostro tra la cucina e il refettorio delle monache.<br />

Proseguendo, sorpassano il lavatoio con le vasche scavate dentro<br />

enormi blocchi di pietra grigia, finché arrivano sotto il ponte<br />

del Duomo avanti piazza della Morte e, quando finalmente sono<br />

all’incrocio dove la bottega di Berto, il vecchio cestaio di<br />

vimini, fa angolo con la celebre osteria del Boia che resta aperta<br />

tutta la notte, quello sarebbe il momento giusto per gli addii, ma<br />

sotto l’insegna della bettola tenuta su da una catena ciondolante,<br />

un vecchio conosciuto come l’Orbo, gesticolando li ferma.<br />

97<br />

In passato l’uomo, era stato maestro di scherma e un giorno


durante l’addestramento aveva perduto un occhio. Vedendo i<br />

giovani, esce correndo e, brandendo uno scalpello col manico di<br />

legno come fosse una spada, in un subito, inizia a gridare in<br />

direzione di Almenia:<br />

“Fermati ragazzo! Dove vai, chi ti chiama? A quale silenzio<br />

popolato di echi rispondi? Fermati, vuoi essere tu il mio piccolo<br />

dio Bacco? Quando il crepuscolo si sarà crocifisso sulle labbra<br />

del giorno e i campanili, le donne e le fontane riprenderanno a<br />

cantare, io e te scolpiremo margherite sulle ruote del tempo.<br />

Fermati ti prego, lasciati ritrarre dal lamento delle mie dita,<br />

lasciati partorire dal mio scalpello. <strong>La</strong> voglia di creare mi morde<br />

le carni come un cane rabbioso, il tuo ritratto sboccerà tra le<br />

mie mani come il frutto nel fiore. Fermati! Non proseguire, dimmi,<br />

sei venuto perché hai sentito il mio richiamo legato alla criniera<br />

di un cavallo? Hai sentito il mio dolore che ulula come un folle<br />

precipitato nel pozzo dei ricordi? <strong>La</strong> mia pena ti ha raggiunto<br />

attraverso la notte di gelide stelle? Forse hai sentito la mia<br />

anima ferita danzare tra lucciole di fuoco? Se resti con me<br />

ragazzo, ti coprirò di pampini e d’uva acerba, ti condurrò dove<br />

crescono le aspre, selvagge mele cotogne, aspre e selvagge ma…<br />

gialle e dorate come il sole. Per te ragazzo, scaverò la pietra e<br />

pescherò le stelle, per te, scoprirò i frutti gustosi nascosti nel<br />

nido dell’aquila, per te ruberò le more dal becco dei corvi.<br />

Fermati! Nel mondo, tutto è destinato a perdersi, a cancellarsi,<br />

tutto si rompe e passa, ma se ti lascerai ritrarre ragazzo, quando<br />

sulla terra non ci sarà più nulla, tu resterai per sempre nel<br />

sogni di ognuno. Resta con me, per te, coglierò dal cielo pesche<br />

dolci, per te e per te solo, ruberò campanili di bruma, comete di<br />

98


ugiada e se vuoi, ruberò persino i buchi neri della luna e poi…”<br />

Eccitatissimo, l’Orbo, attraversa la piazza correndo e nel<br />

farlo, si aggancia la giubba logora, ad una trave che poggiata di<br />

traverso sopra una carretta tiene fermo il carico durante il<br />

trasporto. Sopra il carro: tre barili di calce spenta e una fila<br />

di mattoni d’argilla scarlatta. Uno dei barili in equilibrio<br />

precario, nell’urto, si capovolge lasciando cadere una parte del<br />

contenuto sul disgraziato che, senza fermarsi continua a gridare<br />

alcune parole incomprensibili finché, rovescia gli occhi e crolla<br />

a terra svenuto. Ubriaco, satollo di vino e di parole, impiastrato<br />

di calce dalla testa al calcagno, il povero disgraziato rimane<br />

steso avanti a loro, più bianco e stecchito di un morto vero.<br />

Frisigello e Almenia nel tentativo di soccorrerlo, entrano a<br />

cercare aiuto nell’osteria ma questa, a quell’ora del mattino,<br />

appare deserta. Solo quando s’avvicinano all’angolo del camino,<br />

vedono seduta sopra una tavolaccia con i piedi nudi infilati nella<br />

cenere, una giovane serva che, mezza addormentata giace con una<br />

creatura in braccio. Sotto le cosce tiene uno scaldino di terra<br />

cotta colmo di tizzoni quasi spenti. Dal vetro rotto della<br />

finestra, entra un soffio d’aria che alimenta un fumo biancastro e<br />

fiammeggiante, mentre l’odore acre ed aspro del carbone inonda<br />

tutta la stanza, ad intervalli regolari risuonano le urla di<br />

bambini nascosti in qualche parte della casa.<br />

Intanto che i giovani assieme alla serva cercano di ripulire il<br />

malcapitato, il rumore e le grida hanno richiamato l’attenzione di<br />

un uomo che con un aspetto addormentato, finalmente emerge dal<br />

buco quadrato della finestra di una camera sopra l’osteria.<br />

L’uomo, è l’oste soprannominato Boia che, vedendo la scena<br />

99


dall’alto, aggrotta la fronte, poi, imprecando tra i denti, di<br />

malavoglia scende con infinita lentezza le scale borbottando:<br />

“Corpo di un cane! <strong>La</strong> spugna lercia velenosa più di una vipera<br />

ha ricominciato tutto daccapo. Brutto fagotto inutile come una<br />

lanterna rotta che non è buona manco per un ferrivecchi... ”<br />

L’oste, un omone con un naso spaventosamente enorme, il volto<br />

tutto butterato dal vaiolo sempre borbottando s’avvicina e, unite<br />

le forze, i quattro tutti assieme, riescono a riportare l’Orbo,<br />

poeta - folle, nella bettola. Lo adagiano sopra una specie di<br />

panca: una sbilenca, grossolana traversa di legno tutta tarlata<br />

poggiata sopra due file di mattoni. Piano piano per non sporcare<br />

il tavolo di calce, gli poggiano la testa alla parete, vicino ad<br />

una nicchia dove una candela arde dentro una bugia di rame.<br />

L’oste, che conosce quell’uomo molto bene, per farlo rinvenire,<br />

dopo avergli ripulito le labbra e i denti dalla calce, versa del<br />

vino dalla brocca di stagno, poi mette il bicchiere di creta<br />

bionda stracolmo fino all’orlo, sotto il naso del maestro di<br />

scherma, ma questo, non muove neanche una ciglia, allora il Boia<br />

ordina alla serva di prendere un altro bicchiere e poi un'altro<br />

ancora, ma solo quando i bicchieri sono cinque, lo sventurato<br />

sembra riprendersi. Dopo avergli svuotati uno dopo l’altro senza<br />

interruzione, poggia i gomiti sulla tavola, la testa<br />

all’inferriata della rozza scala a chiocciola e, quando Almenia,<br />

porgendogli la mano per aiutarlo ad alzarsi, gli chiede<br />

cortesemente:<br />

“Potete alzarvi adesso? Vi sentite meglio ora?”<br />

Il vecchio, stringendo quella mano la guarda attraverso un velo<br />

di lacrime.<br />

100


Per un momento, mentre risuona la dolce voce della giovane, la<br />

sua sbornia sembra scomparsa nel nulla. Poi, fissando con infinita<br />

tenerezza i delicati lineamenti di lei, rizza le orecchie come un<br />

puledro, serra le ciglia, alza il muso come a fiutare quella dolce<br />

musica e, affascinato, in un subito, riprende il suo scalpello in<br />

mano e ricomincia il vaniloquio interrotto.<br />

“Un tempo, mentre vagavo con la figlia del beduino, ti ho visto<br />

nei suoi occhi ragazzo. Piccolo dio del vino, dolce farfalla senza<br />

nome che sboccia all’improvviso sulla foglia notturna, è te che<br />

vedrò quando le mie pupille si riempiranno di terra. Prima<br />

d’incontrarti, il giorno era morto all’improvviso ed io ero<br />

condannato ad errare senza riposo alla ricerca di creature non<br />

ancora create ma adesso finalmente, se ti lascerai ritrarre dal<br />

mio scalpello che è più soffice della piuma d’argento di un<br />

gabbiano, andremo assieme dove gli abbronzati mietitori armati di<br />

falce con i cappelli di paglia intrecciati di fiori, danzano<br />

assieme alle ninfe del grano e, quando dallo zenit soffierà il<br />

vento, avrò fatto di te, quello che la vendemmia fa con l’uva,<br />

quello che il fabbro fa con il ferro e il pittore con la tela.<br />

Sì! Voglio immortalarti e immortalarmi. Tu ed io c’incontreremo<br />

ancora, è scritto, c’incontreremo sulla strada di neve. Quando<br />

ritornerai, segui il vicolo, due portoni dopo il carbonaio<br />

troverai la mia cantina. Là, c’è già la pietra, i chiodi, il<br />

martello, Vedi ragazzo? Sto già sanguinando, prega per me, prega<br />

ragazzo. Se tu ed io c’incontreremo ancora, se così sarà, prima<br />

che il pipistrello diventi rondine, prima che la neve si sciolga<br />

in figure danzanti, prima che una tromba di vento bollente passi<br />

cantando, farò uscire dalla mia pietra un'anima sola, ferita e<br />

101


selvaggia.<br />

Tu cupa speranza, tu sogno, tu chimera, tu rassomigli e macini<br />

la mia malinconia. Due grappoli di brina, una corona di perle di<br />

rugiada, quattro foglie di pampini basteranno per incoronarti<br />

piccolo dio Bacco, e dopo, nessun arcobaleno triste ucciderà più<br />

le lucciole. Se ti lasci incoronare il capo con una cesta d’oro<br />

piena di piume a colori, colmeremo i granai d'uva, e poi berremo<br />

il nettare della vite nel calice del narciso e quando la botte del<br />

vino sarà secca…dopo che avremo raccolto il miele e dormito con le<br />

stelle, berremo il succo del fieno tagliato e poi…”<br />

<strong>La</strong> testa gli cade pesantemente sulla tavola finché, lentamente,<br />

l’uomo scivola a terra e s‘addormenta sopra la botola che conduce<br />

alla cantina sottostante. L’abisso si era nuovamente spalancato<br />

avanti a lui. L’oste, rassegnato, intanto che alza le spalle e<br />

storce la bocca disgustato, gli mette sotto il capo uno straccio<br />

e, mentre a passo lento sale le scale della stamberga per<br />

ritornare nella sua camera, all’ultimo gradino si volta gridando<br />

ai giovani:<br />

“Ragazzi, potete andate via tranquilli. Questo vecchio<br />

lunatico, è tutta apparenza, in realtà non è cattivo, solo un po’<br />

strambo, ha un cervello tanto eccitabile e una fantasia così<br />

feconda che è peggio degli innamorati: vede assai più cose di<br />

quante in realtà ci siano. E’ solo un poveraccio innocuo: certe<br />

volte nelle ciglia di una zingara vede un angelo biondo, altre, in<br />

un cespuglio d’erica spinto dal vento vede il diavolo, allora<br />

incomincia ad urlare per lo spavento. Ma a parte questo, posso<br />

assicurarvi che non è per nulla pericoloso, è stato il vino ha<br />

ridurlo così. Però adesso che un sonno di morte lo ha preso,<br />

102


colpendolo con la sua mazza di piombo proprio in mezzo alla<br />

fronte, potete andare via tranquilli, quando gli casca la testa in<br />

questo modo, nessuno può fargli il dispetto di svegliarlo.<br />

<strong>La</strong>sciate pure che questo povero folle, questo illuso, insegua la<br />

sua chimera dormendo fino alla morte. Quando ha il gargarozzo<br />

stracolmo di vino, si sente artista e pretende di liberare dalla<br />

pietra mostruose figure, scorpioni, aborti, sgorbi orrendi che,<br />

secondo me, sarebbe mille volte meglio se restassero sepolti per<br />

sempre dove sono. Tempo fa, si era messo in capo di scolpire un<br />

Pegaso, per mesi, ha tormentato fino a sfregiarla, una <strong>bella</strong><br />

pietra di nenfro. Il risultato di tante fatiche è stato uno<br />

scarabocchio, una maschera che somiglia vagamente ad un somaro con<br />

le ali attaccate sul dorso.”<br />

L’artista mancato, lo scultore folle, non lo ascolta, non vede<br />

e sente nessuno, adagiato a terra, sembra sorridere come un<br />

fanciullo felice, quasi che invece di essere sdraiato sopra una<br />

negra botola dentro una schifosa locanda ingombra di sudici<br />

sgabelli zoppi e tavoli sgangherati con bicchieri di terra cotta<br />

scocciati e sparpagliati per tutto, dove l’odore acre del vino<br />

fuoriesce persino dai pori dei muri che, in un lontano passato<br />

dovevano essere stati imbiancati a calce ma che ora hanno le<br />

pareti nere, sia per il fumo del fuoco, sia per le candele che<br />

restano accese anche di giorno, il povero vecchio sorride quasi<br />

fosse adagiato sopra un invisibile soffice guanciale di piume.<br />

Forse è proprio in quella bettola con pochissima luce che vive,<br />

beve, mangia e, persino sogna e certe volte, certe volte forse,<br />

riesce anche ad essere felice.<br />

103<br />

<strong>La</strong>sciato il meraviglioso ubriaco, il bevitore di sogni a


colori, al suo folle destino, i giovani, sempre più taciturni,<br />

ritornano all’aperto, ma arrivati sotto la Torre del Borgognone,<br />

senza una parola di saluto, né una promessa, silenziosamente si<br />

separano e, voltandosi le spalle, spariscono prendendo vicoli<br />

diversi.<br />

In quella notte di luna piena avanti una porta chiusa, intanto<br />

che il buio attorno a loro con acqua e farina impastava il giorno,<br />

mentre nelle mani della terra crescevano piante di mele<br />

selvatiche, si sono incontrate due creature che si cercavano con<br />

l’anima. Sono rimasti avanti al fuoco fino al crepuscolo dell’alba<br />

con la strana sensazione di conoscersi dall’inizio del mondo, pure<br />

se una sognava di varcare la porta e l'altra, d’andare via, erano<br />

strettamente unite da mille e più catene.<br />

Due giorni dopo, il menestrello non aveva ancora finito di<br />

comporre il famoso lamento degli Amanti Erranti, separati dagli<br />

dei e condannati a non incontrarsi mai: lamento, rimasto<br />

incompiuto per sempre, quando, i colpi lugubri delle campane<br />

suonate a martello e, gli squilli della tromba di un soldato<br />

nemico accampato sulla spianata di porta di Valle, annunciavano<br />

che Viterbo, era stata presa d'assedio.<br />

Fra tutti gli stranieri venuti da lontano per rendere omaggio a<br />

Galiana <strong>bella</strong> e chiederla in sposa, più ostinato degli altri: il<br />

principe romano Gottifredo Adriano Scipione.<br />

104


Gottifredo si dimostrerà oltre che spergiuro, anche feroce e<br />

spietato. Con un atteggiamento insolente lascia intendere che<br />

prima di arrendersi al rifiuto di Galiana, farà vedere i sorci<br />

verdi a tutta la città. Testardo, prepotente e spaccone, continua<br />

ad offrire ricchi doni, doni che gli sono puntualmente restituiti,<br />

finché sentendosi definitivamente ignorato, indispettito, con<br />

seimila uomini armati di tutto punto, prende d'assedio Viterbo.<br />

Le prime deboli luci dell’alba salgono da oriente quando la<br />

carica dei romani si scatena: la soldataglia preme contro tutte le<br />

porte, massacra i guerrieri, circonda le mura di fiamme.<br />

<strong>La</strong> voce del comandante: Gottifredo Adriano Scipione che avanza<br />

superbo sul suo cavallo di battaglia, echeggia roca attraverso la<br />

nebbia invocando la collera dei cieli.<br />

Quel ruggito spaventoso, i colpi di spada che rimbalzano sugli<br />

scudi, le trombe nemiche che squillano nella battaglia, non<br />

spaventano il popolo di Viterbo che è deciso a resistere<br />

eroicamente.<br />

Avanti a tutti, ritto sulla Porta di Valle, il nobile: Tadio di<br />

Duccio del Cechino, grosso come un gigante, pure se è poco più di<br />

un fanciullo, con le guance imbiondite dalla prima peluria,<br />

combatte come un leone selvaggio falciando file intere di soldati<br />

con la sua formidabile clava. Tadio, è stato ferito più volte al<br />

volto con lance di quercia dalla punta d’acciaio: dalla bocca<br />

insanguinata e dal collo gli cola sangue fresco, ma lui continua a<br />

combattere senza sosta, poi, un soldato scaglia contro di lui una<br />

lancia micidiale, ma Tadio, agile e astuto, si china e l’asta lo<br />

trasvola vibrando. Le sentinelle di guardia alle porte e alle<br />

torri, vedendo il giovane gigante, forte come uno scoglio, proteso<br />

105


nell’immenso mare di pericolo che resiste inarrestabile contro la<br />

furia del nemico, moltiplicano gli sforzi, si scatenano armati di<br />

tutto il loro odio per i romani: distribuiscono una pioggia di<br />

dardi e con la spada sguainata mietono chiunque tenti di<br />

avvicinarlo.<br />

Tutti resistono eroicamente, tutti lottando fino all’ultimo<br />

sangue per difendere gli spalti delle mura. Gli arcieri di Viterbo<br />

con la faccia stravolta, mentre combattono alla ceca falciando il<br />

nemico ad uno ad uno, rafforzano la guardia, preparano gli<br />

agguati, aguzzano le frecce, imbottiscono di ferri la faretra. Le<br />

donne e i fanciulli, per esorcizzare la paura, mentre dai merli<br />

delle alte mura vomitano fascine in fiamme e olio bollente, tra<br />

una preghiera e l’altra al Signore, Dio degli eserciti, alzano<br />

stridenti ululati. Ma anche i romani ululano, le armi d’acciaio<br />

lampeggiano assieme agli scudi, la prima fila brandendo la lancia,<br />

avanza sull’erba umida a ridosso delle mura, presto alcuni soldati<br />

romani con i mantelli rossi, lasciata la scala a pioli riescono a<br />

mettere piede tra i merli pronti a piombare sui nemici, ma prima<br />

devono scontrarsi con una corona di strane combattenti: in prima<br />

fila, le donne che tengono le torce accese in mano come fossero<br />

corde ardenti e, con i capelli al vento alla luce di quel lume,<br />

quelle donne coraggiose, paiono giganti, mostri preistorici,<br />

vergini amazzone, sacerdotesse pronte ad incendiare questo mondo e<br />

l’altro.<br />

In seconda fila, le fanciulle non inferiori alle madri,<br />

appostate sopra le torri, nonostante tossiscano con la gola sempre<br />

più indolenzita per le urla e per il fumo che penetra nelle<br />

narici, quelle vergini, non arretrano di un passo: fronteggiano il<br />

106


nemico scagliando pietre, rotolando sassi, mortai, mattoni,<br />

tronchi d’alberi; anzi, scagliano dalle mura, una foresta intera.<br />

Nessun nemico riuscirebbe a sfondare quella fratta umana ammantata<br />

di nebbia e fumo. Mentre i grandi combattono l’aspra battaglia, i<br />

fanciulli: maschi e femmine, fanno a gare per portare quello che<br />

serve sulle torri e sulle mura. Tutta la città di Viterbo resiste<br />

compatta, decisa a crepare piuttosto che cedere Galiana <strong>bella</strong> al<br />

foresto.<br />

Quanto tempo è passato in quella feroce battaglia? Un’ora, un<br />

giorno, una vita?<br />

Il fumo puzza di carne bruciata. Il fosso dell’Urcionio<br />

trabocca di sangue, per terra sotto le mura, mucchi enormi di<br />

cadaveri romani, corpi squartati ammantati da sassi e cataste di<br />

legna mordono la terra nemica. Finalmente il principe, mentre<br />

tentava di fuggire sul suo cavallo che volava come il vento, è<br />

colpito alla tempia da una pietra di selce lanciata da una fionda<br />

dall’alto della torre. Con l’osso della fronte fracassato, tutto<br />

pesto e sanguinante, sfinito dalla battaglia, in preda ad un<br />

conato di vomito di sangue, Gottifredo, decide di venire a patti:<br />

è pronto a ritirarsi togliendo definitivamente l'assedio ma, in<br />

cambio chiede che gli sia concessa la grazia di vedere almeno una<br />

volta Galiana. Se la fanciulla si mostrerà, fosse pure dall'alto<br />

dei merli di una torre, giura che lascerà per sempre Viterbo.<br />

Inizia così la tregua, si sciolgono le campane, si aprono le<br />

porte, la folla impazzita di gioia getta in terra la falce<br />

ricurva, la verga, i magli, forconi, fionde, roncole, rastrelli,<br />

mazze e clave, armi con cui combatteva il nemico e al grido: “<br />

viva Galiana <strong>bella</strong>, alla torre alla torre, “ le mute vie si<br />

107


animano all’improvviso, tutti lanciano in aria i berretti e<br />

trionfanti, corrono incontro alla vergine che si affaccerà dai<br />

merli delle mura.<br />

Sospinta da quella marea umana in movimento, una giovane donna<br />

dal profilo selvaggio e intelligente, con un figlio piccolo in<br />

braccio: alta, i capelli rossi arruffati e bruciacchiati, una<br />

vistosa ferita al collo, tenta invano di aprirsi un varco nella<br />

viuzza che si snoda tra le mura grigie delle case.<br />

Quell’ombrosa creatura pure se abbastanza carnosa, ma più agile<br />

di un gatto selvatico, fatica a districarsi, perché, come per<br />

incanto, dalle tante stradine strette e buie che si allungano a<br />

dismisura in un imbuto spaventoso, si è materializzata una folla<br />

di contadini, artigiani ma soprattutto, una miriade di mendicanti<br />

miserabili e sfaccendati che di notte vivono nelle grotte, dormono<br />

sotto le logge, sotto i profferli, sotto gli archi rampanti dei<br />

portici. Quei miserabili, avendo sentito il baccano che si<br />

propagava fino ai piedi della Palanzana in un tumulto<br />

ininterrotto, sono usciti dalle viscere della terra, come sorci<br />

dalle tane resuscitando a se stessi, e adesso, si muovono in tutte<br />

le direzioni: dai sagrati delle numerose chiese, ai vicoli ciechi<br />

senza uscita.<br />

Frisigello, inchiodato al muro, ad un incrocio di strade, il<br />

passaggio sbarrato, perso dentro quelle urla assurde, mentre il<br />

sole lo acceca e il calore afoso e umido delle piccole vie lo<br />

soffoca, è letteralmente investito dalla donna col bambino.<br />

“Fermati donna raccontami, sai tu dirmi cosa succede? Che sono<br />

queste grida, questo frastuono improvviso? Perché la città si<br />

muove? Dove correte tutti così sciamannati?”<br />

108


“Non senti le campane suonare a festa foresto? Porto mio figlio<br />

sotto la Torre del Branca dove si affaccerà Galiana <strong>bella</strong>. Questo<br />

è un momento storico e, anche se mio figlio ti parrà troppo<br />

piccolo per capire, lo stesso ricorderà questo giorno finché vive.<br />

Quando racconterà di Galiana ai figli dei suoi figli, potrà dire<br />

con orgoglio: il giorno che il romano tolse l’assedio, c’ero<br />

anch’io sotto la Torre del Branca a festeggiare Galiana, ero in<br />

braccio a mia madre. Ma tu foresto se non capisci perché corriamo<br />

tanto, forse non sai ancora la nuova. Gottifredo Adriano Scipione,<br />

quell’uccello del malaugurio che pretendeva di sposare Galiana<br />

<strong>bella</strong>, ha perduto le penne, per quanto si è battuto, come sempre<br />

succede al pavone, non è riuscito a volare e, assieme alla sua<br />

armata: un branco di cani ringhiosi, dopo aver sgombrando il<br />

campo, si sono affidati alle calcagna.”<br />

“Ho capito bene? Vorresti dire che il romano ha abbandonato<br />

l’assedio?”<br />

“Insomma, non ci senti foresto? Sei qui che mi ascolti o<br />

cavalchi le nuvole sopra un carro trainato da bianche colombe? Ho<br />

appena detto che il romano se ne ritorna ai Sette Colli. Ha<br />

chiesto che gli si conceda di seppellire i suoi morti, poi se ne<br />

torna a casa. Invero, neanche io volevo crederci. All’alba, prima<br />

ho sentito gracchiare dei corvi alle mie spalle, poi, col sole<br />

alto, la notturna civetta si è posata lugubre e lamentosa sopra la<br />

torre di Porta di Valle…il suo canto stridulo, di giorno è sempre<br />

presagio di sventura, quasi un annuncio di morte, ma parrebbe<br />

proprio che per fortuna, stavolta la civetta si è sbagliata,<br />

perché quel lazzarone, si è arreso veramente, senza aspettare<br />

rinforzi freschi, batte la ritirata, così non offende più la<br />

109


nostra vista e forse...”<br />

Mentre parlano concitati e la gente che li circonda impedisce<br />

loro di avanzare, il bambino, per la fame o per la calca<br />

soffocante, comincia a piangere disperato. Ad un tratto, quando la<br />

via si fa troppo stretta e la folla pigiandosi s’incastra, la<br />

donna per impedire che il figlio sia schiacciato, con tutte e due<br />

le mani lo solleva in alto sopra le teste. Frisigello nel<br />

tentativo di aiutare la giovane madre, per un po’ continua ad<br />

arrancare al suo fianco cercando di fare largo, finché, è<br />

bruscamente separato da loro da un forte spintone. Solo in fondo<br />

alla via si ricongiungono ma, per poi subito riperdersi di vista,<br />

infine, quando la strada biforca: da un lato il quartiere di San<br />

Pellegrino e, dall’altro, la chiesa di San Pietro dell’Olmo, si<br />

ritrovano sopra la scalinata del profferlo dell’elegante palazzo<br />

del visconte Raniero Gatti.<br />

110


<strong>La</strong> giovane donna col seno scoperto, è seduta sulle scale sotto<br />

lo stemma ad allattare il figlio e, Frisigello, per pigliare un<br />

po’ di fiato, siede anche lui, intanto che il bambino succhia il<br />

latte, la donna riprende il discorso interrotto:<br />

“Parrebbe che finalmente abbiamo finito di tenerci quella<br />

vipera sotto il letto. Per non ingrassare la Valle di Faul andando<br />

bruciacchiati all’altro mondo, schiere intere di disgraziati<br />

soldati, nel pieno delle forze, senza fermarsi a contare né a<br />

111


accogliere i loro feriti, sono fuggiti con la coda tra le cosce,<br />

hanno fatto fagotto ancora prima che finisse la battaglia e, la<br />

poca feccia che è rimasta: quattro scalcinati mezzi scorticati,<br />

più morti che vivi, indietreggiano come ranocchie avanti la serpe.<br />

Quel bel garofano in fregola del principe romano, si era messo<br />

l’elmo in capo pensando ad una guerricciola da poveri contadini,<br />

ma noi, prima lo abbiamo condito, poi, dopo avergli tenuto il<br />

cervello in mezzo ai fumi, col nostro olio bollente l’abbiamo<br />

fritto così bene che anche campassimo altri cento anni di sicuro<br />

non vedremmo più le sue bandiere sventolare insultando il nostro<br />

cielo. Per questo ringraziamo Dio centomila e più volte, non so se<br />

ridere o piangere dalla contentezza straniero. Finalmente quel<br />

romano si è deciso a levare le tende, ritorna a Roma dai suoi<br />

sorci e dalla sua strombazzata stirpe. Ha giurato su Ercole suo<br />

antenato, ed io mi chiedo quanto ci possiamo fidare del suo<br />

giuramento a fior di labbra, ha giurato, che se gli facciamo<br />

vedere almeno una volta Galiana <strong>bella</strong>, lui, se ne andrà per<br />

sempre.<br />

Ma poi che c’entra Ercole, che significa giurare, che vuol<br />

dire? Che giurino i vili, gli schiocchi, i folli, i cuori di<br />

paglia, noi di Viterbo siamo abituati a dare la nostra parola che<br />

basta e avanza, altro che disturbare Ercole. Il conte Galiano, a<br />

proposito di quel giuramento, ha mandato a dire di stare molto<br />

accorti perché, è col sole pieno che la vipera esce dalla tana.<br />

Certo è che se io fossi anche per un momento solo la strega<br />

Malassunta, che gli anni e le troppe malie avevano incurvato come<br />

un uncino, sulla strada del ritorno, trasformerei quella “vipera”<br />

e quei quattro soldati rimasti, in maiali o scimmie senza<br />

112


cervello, poi, li disperderei nelle paludi infette finché il vento<br />

caldo – umido che arriva dalla Libia non li ricopra di piaghe, in<br />

modo che Gottifredo resti solo come un cane rognoso che poi è<br />

quello che è. <strong>La</strong> peste lo colga a lui e alla sua stramaledetta<br />

armata di straccioni e… spero tanto che tardino molto a morire. Se<br />

a quei figli di puttana gli arriva anche una sola delle mie<br />

maledizioni, soffriranno parecchio prima d’imputridire sotto un<br />

marciume d'ulcere e piaghe, diventeranno tanto ripugnanti che una<br />

volta arrivati alle porte di Roma, con la bocca piena di formiche<br />

come i morti insepolti, resteranno chiusi fuori le mura finché il<br />

boia, prendendoli con la forcina di ferro, non li butterà sopra<br />

una catasta di legna e, una volta acceso il rogo, diventeranno<br />

cenere, concime per i ceci, loro e gli stracci puzzolenti che<br />

indossano.”<br />

“Donna, sei sicura di quello che racconti? Se ne vanno? Proprio<br />

ora che ho deciso di unirmi al popolo per combattere i romani,<br />

questi se ne vanno? Ma se solo ieri il generale col suo esercito<br />

pareva volesse scoperchiare e poi stritolare tutta la città. Da<br />

quando sono arrivato, non ho sentito altro che il sordo rombo dei<br />

tamburi. Pareva il gigantesco flauto di un incantatore al cui<br />

ritmo ondeggiavano centinaia e centinaia di teste di serpenti a<br />

sonagli. Quel tamburo non ha smesso un istante di rullare,<br />

chiamando continuamente le schiere all’adunata, quasi volessero<br />

scaricare torri e mura, frantumando tutta la città per poi aprire<br />

a forza le porte. Sul serio se ne vanno per sempre donna? Non è<br />

possibile che ti sbagli?”<br />

“Stai morendo di sonno o sei ancora col naso tra le nuvole,<br />

straniero? Proprio non vuoi capire che a me non capita mai di<br />

113


sbagliare e poi non sono mai stata più seria di così, parola mia.<br />

Vuoi capire sì o no che quelle che ascolti dalle mie labbra, sono<br />

le ultimissime notizie della battaglia? Ho visto con i miei occhi<br />

il suo alfiere vigliacco, voltare le spalle alla lotta, l’ho visto<br />

fuggire con l’insegna abbassata. Vedi questo braccio e questi<br />

capelli? Non crederai che li abbia bruciati allattando mio figlio<br />

o ricamando merletti? Non so se mi basterà il fiato per<br />

raccontarti tutta la storia.<br />

Quel macellaio di romano… che una femmina di calabrone lo punga<br />

sulla lingua, pure se sei forestiero, lo saprai anche tu che nelle<br />

sue vene scorre il sangue delle iene che hanno scannato il Sacro<br />

popolo Etrusco…”<br />

“ …Io non so nulla! Non ho mai sentito questa storia.”<br />

“Ma se questa storia antica la conoscono pure i sassi…<br />

Veramente straniero, non sai che l’Etruria ricchissima d’acque e<br />

di tesori era una coppa d’oro destinata ad inebriare tutta la<br />

terra quando i romani erano ancora dei selvaggi e si nutrivano<br />

solo di ghiande? Ma poi quei selvaggi, piombarono su di loro come<br />

cavallette impazzite, si sono bevuti tutto il vino etrusco fino a<br />

diventare folli. Veramente non sai proprio nulla di quello che<br />

accadde quando i romani maestri di delitti, dopo aver attraversato<br />

la Selva Cimina scesero a conquistare l’Etruria?”<br />

“ Io arrivo dalla lontana Francia, lo ripeto, non ho mai<br />

sentito questa storia. E’ la prima volta che vengo in questa città<br />

dalle torri alte e dalle donne misteriose”<br />

“Allora sta in ascolto, lascia pure che l’orrore per quello che<br />

andrò a dire esca come una bianca colomba dalle tue labbra e che<br />

le sue ali ammantino pietosamente il silenzio tra noi. In<br />

114


principio ti riuscirà strano credere che io, riesca a conservare<br />

la memoria che dovrebbe essere sepolta nella polvere dei secoli,<br />

ma certe volte, mi pare di essere seduta sotto le colonne di un<br />

tempio millenario e, mentre una bruma carica di profumi e voci<br />

antiche mi sfiora, riesco a ricordare tutto il passato. Dopo che<br />

avrai ascoltato i miei ricordi, non stupirti troppo se non parlo<br />

bene di quel popolo dannato.<br />

Quei vigliacchi romani, entrando di prepotenza nella pacifica<br />

Etruria, sì, pacifica, perché per gli etruschi, era un’infamia<br />

bruciare un albero secolare, come uccidere una cerva gravida e,<br />

quei vigliacchi invece, entrarono di prepotenza come un grosso<br />

branco di lupi affamati, facendo una strage. Un gruppo di<br />

sacerdoti, cercarono disperatamente di salvare alcuni oggetti<br />

Sacri. Velocemente, formarono una carovana preceduta da donne e<br />

bambini, bestiame e bagagli. Mentre si allontanavano, un<br />

comandante e i suoi l’inseguirono urlando finché li trucidarono,<br />

poi, non ancora soddisfatti, si sono abbandonati al saccheggio,<br />

non riuscendo a portarsi tutto appresso, hanno persino osato<br />

profanare gli oggetti sacri seppellendoli per riprenderli con<br />

tutta calma, negli antichi boschi di sughero dove i Lucumoni nei<br />

magici cerchi Sacri di pietra bianca, conservavano i segreti per<br />

comunicare con l’Eterno. Tutto il loro mondo antico è andato<br />

sottosopra, tutto è stato distrutto, è rimasto solo il caos. I<br />

grandi fuochi durarono per giorni e giorni, le colline erano<br />

avvolte dalle fiamme, il fumo si levava sulle cime delle aquile<br />

finché il Dio degli Etruschi fece uscire una bianca schiuma dalla<br />

terra infuocata. Dove ora non ci sono che stagni infetti, prima<br />

che arrivassero i romani, c’erano dei templi meravigliosi con<br />

115


oschi ricchi d’acque ribollenti. Ma dal giorno che arrivarono le<br />

legioni, tutto è finito perché, fecero quello che sempre fanno i<br />

razziatori: distrussero completamente il bosco, saccheggiarono i<br />

templi, le case, rubarono i tesori, violentarono le donne. I<br />

guerrieri Etruschi nostri antenati fatti prigionieri, sono stati<br />

legati e rotolati come pietre precipitandoli dal dirupo roccioso,<br />

altri, li hanno trucidati con le loro stesse spade e, agli ultimi<br />

rimasti, hanno tagliato la gola con l’accetta, proprio come i<br />

taglialegna recidono gli alberi del bosco, poi hanno gettato nella<br />

polla bollente del Bulicame i bambini, maschi e femmine, nessuno è<br />

rimasto vivo. Hai capito adesso foresto? Riesci a vedere con i<br />

tuoi occhi queste scene? Dimmi mi ascolti?”<br />

“Il tuo racconto donna, farebbe rabbrividire anche i sordi.”<br />

“Non si è trattato solamente di rubare e assassinare innocenti.<br />

E’ stato un sacrilegio tra i più terribili: massacrare i grandi<br />

Sacerdoti, i Lucumoni, profanare gli oggetti sacri del tempio, le<br />

tombe. Come hanno potuto osare tanto? Come hanno potuto<br />

distruggere un popolo intero e la sua cultura? Che siano mille<br />

volte maledetti per quello che hanno fatto. Ora dimmi straniero,<br />

ho ragione dunque a ripetere che la maledizione della Fanciulla<br />

Velca deve ricadere su tutti loro? Senti anche tu queste grida? E’<br />

l’anima della Fanciulla Velca balzata dall’Ade, che urla vendetta.<br />

Sì! Prima di morire assassinata, lei scagliò una profezia: per<br />

quello che hanno osato i romani, una maledizione consumerà le loro<br />

membra, lotte furibonde e guerre civili strazieranno intere<br />

legioni, sangue e rovine saranno così famigliari che le madri non<br />

piangeranno più i loro figli, ogni pietà sarà spenta<br />

dall’abitudine al raccapriccio dilagante degli artigli della<br />

116


guerra.<br />

Quella profezia si sta avverando straniero perché, quei<br />

diavoli, quei Luciferi – Belzebù, quei Satanassi, tu chiamali pure<br />

come ti pare tanto non si offendono, ma sempre demoni rimangono,<br />

sono ogni giorno più deboli. Anche se la loro debolezza non deve<br />

far dimenticare che quei demoni discendono tutti dallo stesso ramo<br />

marcio di Marco Fabio e sono gli eredi naturali del feroce<br />

condottiero che per primo ha attraversato la terribile Selva<br />

Cimina facendo poi la strage degli innocenti. Ma ritorniamo ad<br />

oggi: oggi, questo maledetto, grazie a Dio, dopo l’ultimo attacco<br />

alle mura, dall’elmo allo sprone, intendimi bene straniero, sto<br />

affermando che questo maledetto, dalla cima della fronte<br />

fracassata, fino all’unghia del dito mignolo del piede, era tutta<br />

una crosta di sangue, sangue suo beninteso. Sai che arrivo a dire<br />

straniero? Se per caso fossi stata un uomo, parola mia, mi sarebbe<br />

piaciuto scontrarmi con lui a spada a spada per aprirlo<br />

dall’ombellico alle mascelle. Sì! Avrei voluto combattere con lui<br />

fino a chiudergli nella morte infinita le brutte ciglia e poi<br />

lasciarlo lì, in terra straniera, cibo per gli uccelli rapaci, o<br />

nel mare, sommerso dalle onde selvagge, finché i pesci affamati<br />

non avessero leccato tutto il suo sangue.<br />

Che ci posso fare? Non riesco a starmene zitta, lo devo proprio<br />

dire: odio quell’uomo e tutta la sua stirpe sopra ogni cosa al<br />

mondo, ogni volta che ci penso o nomino il suo nome, è sempre la<br />

stessa zuppa, mi ribolle il sangue, mi bruciano gli occhi e<br />

perfino le punte dei capelli, mi si riempie la bocca di fango e<br />

devo sputare. Sì! Per non soffocare, devo sputare e risputare e,<br />

mentre sputo, un odio intenso cresce a dismisura nell’anima mia.<br />

117


Se mai veramente un giorno, in questa o in un’altra vita, riuscirò<br />

a scontrarmi ancora con uno o tanti di loro, una volta sconfitti,<br />

continuerei a battermi e se dopo la battaglia, mi trovassi sola e<br />

ferita con la fame alle calcagna, per sopravvivere sarei capace di<br />

bere la mia stessa urina o l’acqua putrida degli stagli infetti e<br />

come un cervo brucherei le bacche dai rovi selvaggi e spinosi,<br />

divorerei le ghiande, le radici, la dura scorza degli alberi pur<br />

di combattere ancora. Tu non mi conosci straniero, ma, chiedi in<br />

giro di me, chiedi pure a tutti chi è Melisandra, figlia di<br />

Andreuccio del Rosso. Chiedi dov’ero durante l’assedio e… non<br />

dimenticare il mio nome. Quando domanderai della donna che ha<br />

fracassato la fronte del romano colpendolo con una pietra della<br />

fionda dall’alto della torre, ricorda il mio nome straniero,<br />

perché è proprio esso che sentirai. Tutta Viterbo lo sta gridando<br />

e questo bambino è il figlio della donna che con una pietra di<br />

selce, ha fatto abbassare la cresta al bastardo romano e di colpo<br />

e la città di Viterbo, è passata in un baleno, dal sepolcro al<br />

paradiso. Hai capito adesso chi sono io? Capisci perché posso<br />

sopportare tutto quello che ho appena detto? Sì! Tutto tutto,<br />

posso sopportare tutto e se voglio, anche molto di più affinché la<br />

città di Roma dopo essere stata inzuppata nel suo stesso sangue<br />

affoghi nel letto del Tevere alzando il margine del suo flutto<br />

fino a straripare. Così finalmente, come Veio, la nostra vecchia<br />

amata città ormai scomparsa, anch'essa, riposi in pace eguale ad<br />

un bianco scheletro al sole.”<br />

“Melisandra di Andreuccio del Rosso, non infiammarti così…<br />

Possibile che una piccola donna con l’anima molle, possa essere<br />

tanto feroce? Solitamente le donne riescono a provare compassione<br />

118


anche per un rospo e tu invece…Veramente hai dentro di te, tutto<br />

questo fuoco e coraggio?”<br />

“Una piccola donna con l’anima molle, straniero? Che ne sai tu<br />

delle donne, che ne sai quando in fondo ai seni già nasce il dolce<br />

latte? Che ne sai tu di me? Sai forse quante volte di notte mi<br />

sono alzata e dalla torre guardavo l’accampamento? Sai tu quante<br />

volte sono stata tentata di entrare nella tenda del romano e<br />

strozzarlo con queste mani? Credi forse che dovrei cedere il passo<br />

avanti le sue spavalderie o magari spaventarmi per i suoi occhi da<br />

folle? Dovrei cedere io? Aver soggezione di lui ed accucciarmi in<br />

terra avanti il capriccio delle sue spacconate? Per tutti gli dei,<br />

dovrà consumare da solo il veleno della sua rabbia. Se questo mio<br />

sesso ti mette qualche dubbio, straniero, per tutte le statue cui<br />

si prostrano i romani, rinnego all’istante la mia femminilità che<br />

tu come un esorcista hai evocato. Dimmi ora: credi ci voglia più<br />

coraggio a distribuire frecce avvelenate, a lanciare sassi con la<br />

fionda o a partorire? Intendi bene uomo, perché, partorire,<br />

significa fare uscire dal tuo corpo un altro essere.”<br />

“Il dolore del parto, i cardi e le spine che hai sopportato<br />

ieri, domani saranno per te una dolce corona d’alloro.”<br />

“Quale figlio ha mai incoronato sua madre? Se esiste una donna<br />

che ha colto pure un solo fiore dal giardino del figlio, io,<br />

quella donna, non l’ho mai incontrata. Però posso dirti che dentro<br />

ogni madre, vive e respira un eroe. Ogni donna prima di partorire,<br />

indossa l’armatura, l’elmo, imbraccia lo scudo e le tribù degli<br />

uomini sempliciotti, hanno ragione ad avere paura di lei. Forse<br />

tu, menestrello, puoi affermare il contrario? Voi uomini, volete<br />

avere le armi, il potere, i meglio strumenti musicali, tutto<br />

119


tutto, tranne la sofferenza del parto, le fatiche della casa e del<br />

telaio, ma una piccola donna con l’anima molle, se vuole<br />

veramente, può…”<br />

“ …fare tutto quello che hai appena detto. ”<br />

“E anche di più. Certo! Giuro che rifarei tutto quello che ho<br />

fatto, ancora lo farei! Ancora indosserei l’armatura, l’elmo, lo<br />

scudo. Lo farei, lo farei, lo farei e ancora lo rifarei.<br />

Sai una cosa straniero? Fino ad ora, non avevo mai combattuto<br />

una battaglia sugli spalti, invece avresti dovuto vedermi sopra le<br />

mura, avanti le porte. In principio pensavo che avrei provato<br />

orrore di fronte alla morte, ma, pur di salvare mio figlio…Sì! Per<br />

salvare mio figlio, passerei attraverso una grandine di fuoco, per<br />

lui posso diventare forte come Sansone che, con una mascella<br />

d’asino uccise mille uomini. Per mio figlio sarei capace di<br />

spiaccicare chiunque contro il muro per poi sotterrarlo con le mie<br />

stesse unghie. Qualcuno alla fine doveva pure vendicare i nostri<br />

antichi morti. Vedi queste mani scorticate, bruciate con le unghia<br />

sanguinanti straniero? Non sono le mie mani, sono le mani di tutti<br />

i miei antenati Etruschi morti ammazzati. Questi capelli bruciati<br />

e strappati, le ferite sulle braccia, sul collo, quelle che si<br />

vedono e quelle che non si vedono, sono tutte delle sacerdotesse,<br />

delle vergini violentate, delle donne incinte assassinate. Queste<br />

mani sono dei Lucumoni, dei bambini, dei neonati, dei vecchi, dei<br />

re uccisi con la mannaia. Non senti anche tu straniero le grida<br />

delle vedove, degli orfani, delle fanciulle abbandonate? In queste<br />

piccole - grandi mani di donna, c’è ancora tanta forza da<br />

sradicare una foresta intera. Il mio sangue etrusco che scorre<br />

pullulando in queste vene, da sempre chiede vendetta.”<br />

120


“Per carità, calma l’ardore dei tuoi sensi donna, questa tua<br />

frenesia, rischia di passare la misura e può diventare molto<br />

pericolosa, ascolta il mio saggio consiglio, se il romano…”<br />

“Pericolosa dici? Per tutti gli dei degli inferi, sai tu dirmi<br />

che vuol dire pericolosa? Ascolta, non ti ho ancora raccontato<br />

tutto. Quando i romani entrarono in Etruria, prima sterminarono i<br />

Sacerdoti, poi violentarono le Sacerdotesse ma non osarono<br />

ucciderle, queste, vissero abbastanza a lungo per partorire i<br />

bastardi dei romani, poi, dopo aver consegnato i neonati a tribù<br />

selvagge di pastori che ormai si consideravano sottomesse, si<br />

uccisero gettandosi in massa nella polla bollente del Bulicame.<br />

Adesso straniero dimmi: che ci può essere più pericoloso di<br />

questo?”<br />

“Ma se il romano ha veramente deciso di ritirarsi, forse<br />

sarebbe più saggio non provocarlo oltre, forse sarebbe ora di<br />

finirla con questa lotta sanguinosa, poiché appare impossibile un<br />

patto d’alleanza tra Viterbo e Roma, la vostra discordia sembra<br />

destinata a non avere più fine, ora che il fato vi è propizio, non<br />

ti pare inutile donna continuare ancora a gareggiare nell’odio? Io<br />

direi che basta, non insistete oltre, lasciatelo andare in pace<br />

anche perché, ho sentito che è molto potente: ha eserciti, schiavi<br />

incatenati al remo delle sue galere. E se è abituato a<br />

sottomettere intere popolazioni…”<br />

“Di che hai paura foresto? Dovrei forse augurargli che l’alloro<br />

della vittoria sia sulla sua spada? O magari che la fortuna gli<br />

stenda sotto il calcagno un soffice tappeto di fiori? Io mi<br />

stupisco che finora non ci sia stato un solo cristiano capace di<br />

ficcargli i denti sul collo. Però hai ragione straniero, quel<br />

121


pirata che spadroneggia sul mare con chiglie d’ogni stazza, non si<br />

dovrebbe ammazzare né coi denti né con le mani nude, ma con uncini<br />

di ferro, con sassi di selce per poi finirlo con la roncola fino a<br />

spezzargli tutte le ossa. E’ vero, il nostro nemico adesso come<br />

allora, ha navi zeppe di schiavi incatenati al remo, navi che<br />

hanno solcato i sette mari. E’ abituato a giocarsi a dati ogni<br />

cosa, conclude baratti sia con sultani e re, sia con truffatori,<br />

imbroglioni e prostitute d'ogni sorta, ma qui siamo in terra<br />

d’Etruria: la Sacra terra di Enea, stirpe divina, ed è tutta<br />

un’altra storia. Ti sei accorto anche tu delle spacconate del<br />

romano no? Appena ieri, gonfio d’orgoglio solo perché la guerra<br />

gli era favorevole e la fortuna sorrideva alla sua causa<br />

maledetta, avanzava baldanzoso con la bandiera di battaglia al<br />

vento. Pareva volesse sfasciare e strappare via tutta intera la<br />

porta della città: cardini, stipiti, battenti e sbarre di ferro<br />

comprese. Tutto, avrebbe portato via tutto pur di praticare una<br />

breccia in modo da scaricare le mura e tirare giù le nuvole del<br />

cielo e pure gli angioletti dai troni del paradiso, invece ogni<br />

suo gesto s’è risolto in una ridicola bolla di sapone. <strong>La</strong> dea<br />

bendata della fortuna, lo ha baciato per poco, perché, il nostro<br />

coraggioso eroe, Tadio di Duccio del Cechino, se lo merita proprio<br />

quel ragazzo di essere chiamato eroe. Il giovane Tadio, sdegnando<br />

la fortuna del romano, pure se ferito, è rimasto piantato a gambe<br />

aperte, ritto come un gigante, avanti Porta di Valle e non ha<br />

fatto entrare né vivi, né morti. Con la sua formidabile clava e<br />

più spesso impugnando la spada fumante, pareva un uragano pronto<br />

ad ingoiare uomini e navi. Solo la sua determinazione ha impedito<br />

a quei farabutti di scavarsi un passaggio.”<br />

122


“Dunque e vero che spesso i destini cambiano in fretta. E’ vero<br />

che fortuna e sfortuna sono sorelle gemelle, anche gli oracoli a<br />

volte, forgiandole al buio, le confondono.<br />

Le sorelle, tutte e due di notte riescono a biancheggiare gli<br />

alberi, tutte e due sono vanitose e civette. Una vecchia leggenda<br />

racconta che quando si svestirono per nuotare nell’acqua del mare,<br />

un genio marino, per accontentare una sirena, cambiò i loro<br />

vestiti, così ognuna se ne andò per la sua strada con il vestito<br />

dell’altra e, da quel giorno, gli uomini non riuscirono più a<br />

riconoscerle. Per questo la fortuna e la sfortuna cambiano spesso<br />

di posto, invero, basta poco per farle sparire, basta un leggero<br />

colpo di vento, una goccia di stagno mista a rugiada, un soffio<br />

che cada o non cada per offenderle e... “<br />

“ …se poi quella goccia di stagno cade proprio sui sandali<br />

d’oro della fortuna, lei, infuriata, fugge sostituita subito dalla<br />

sorella. Deve essere andata così menestrello, perché ieri, durante<br />

la mischia, pure se la casa di mio padre è situata un luogo<br />

appartato, protetto da un fitto bosco d'allori e da immense querce<br />

e lecci, arrivavano fin lassù i galoppi dei corsieri con le urla e<br />

le bestemmie della soldataglia. Gli squilli d’assalto delle trombe<br />

poi, erano come le folate bollenti del vento di scirocco del<br />

Sahara, tutto fumo e niente arrosto. Quanta vana gloria. Chissà<br />

cosa si credevano. Le nostre torri e le nostre porte non sono mica<br />

tenute su con lo sputo come le capanne degli Etruschi, magari il<br />

romano si provava a passare. In principio, credeva di mettere in<br />

ginocchio la città, invece deve tornarsene a Roma ed indossare la<br />

scalcinata tunica dell’umiltà com’è costume di chi è stato<br />

sconfitto, perché noi, gli abbiamo schiacciato il collo sotto il<br />

123


calcagno. Invero non ci sperava più nessuno che quella calamità,<br />

quel flagello di Dio se n'andasse per davvero. Vuoi sapere il mio<br />

pensiero? Io, il suo esercito, non lo avrei fatto accampare<br />

nemmeno dentro una fratta d’uva spina. Lo ripeto per l’ennesima<br />

volta, non mi sono mai piaciuti i romani, non c’è da fidarsi,<br />

specialmente quando portano doni, quell’uomo poi, non si è mai<br />

curato di apparire simpatico, non gli è mai importato d'essere<br />

benvoluto. Con la sua nobile strafottenza, avanzava tempestoso<br />

sopra il suo cavallo eguale a Giove in mezzo ai terremoti. Forse<br />

si aspettava che c’inchinassimo avanti a lui come avanti la statua<br />

di Venere. Nella sua arroganza, pretendeva di comprare Galiana<br />

come si usa a Roma. Abituato a mettere sul trono prostitute e<br />

cortigiane come Messalina, lui che nelle sue orge è il trastullo<br />

di femmine lussuriose, femmine dalle labbra e seni appassiti,<br />

sempre pronto a sdraiarsi con le sue schiave svuotando a turno il<br />

bicchiere con tutte le donne impudiche della sua città, lui che è<br />

il divertimento, il ventaglio delle zingare in calore, perché lo<br />

sanno tutti che le femmine romane che discendono da favolosi<br />

ranghi… cedono come la creta nelle mani del vasaio. Non c’è mica<br />

bisogno di fare il disegno delle puttane di Babilonia per capirlo.<br />

Basta seguire i mariti di quelle matrone baldracche: raccontano<br />

che quei mariti, quando sono nel bosco durante le battute di<br />

caccia, con le loro corna, staccano persino le ghiande dagli<br />

alberi di quercia. Dunque il romano: piccolo uomo dal seme marcio,<br />

pretendeva di scambiare la nostra Galiana <strong>bella</strong>, la nostra stella,<br />

con qualche miserabile forziere di cedro intagliato. Mio padre che<br />

quel giorno era nelle stalle del conte Galiano a ferrare gli<br />

zoccoli dei suoi cavalli, c’era quando i dodici carri stipati di<br />

124


casse contenenti i regali per Galiana sfilarono lentamente per le<br />

strade. I carri, transitavano uno per ogni lato: prima salirono la<br />

strada di S. Clemente, attraversarono piazza del Gesù,<br />

proseguirono per la via che conduce alla chiesa di S. Lorenzo e,<br />

una volta arrivati al palazzo, quei brutti grugni dei soldati sono<br />

scesi dai carri ed hanno incominciato a scaricare le casse con gli<br />

angioletti cesellati su ogni frontespizio. Le hanno tirate dentro<br />

passando dalla porta bassa fino ad arrivare al primo salone,<br />

quello al pianterreno. Mio padre ha raccontato che il conte Andrea<br />

Galiano dell’Acqua Zita, era livido di collera a mala pena<br />

trattenuta. Tremava solo a vedere quei brutti ceffi muoversi nella<br />

sua casa. Seduto nel suo scanno, avanti lo scrittoio ricolmo di<br />

statuine di cera, mentre i servi gli versavano invano il vino<br />

nella coppa, il conte, con un aculeo d’istrice in mano fingeva di<br />

scrivere sul suo rotolo di pergamena, invece, aspettava con<br />

impazienza che aprissero le casse e poi sparissero lesti.<br />

Quando finalmente i soldati hanno fatto saltare i coperchi<br />

delle casse: da alcune, nascosti nel profondo, uscirono montagne<br />

d’oro coniato e in verghe, in altre, talenti d’argento cesellato.<br />

Il conte a quella vista, alzatosi di scatto, prese in mano la<br />

coppa, la posò sul camino con tanta violenza che mancò poco si<br />

frantumasse e, mentre il vino schizzava contro il muro, in un<br />

subito era diventato una bestia. Posò il pugno robusto sullo<br />

schienale dello scanno e con un piglio terribile, in quella<br />

postura da belva che sta per mordere, iniziò ad ululare e, mentre<br />

arrotolava l’elenco dei regali che un soldato gli aveva<br />

consegnato, ordinò che riportassero via ogni cosa poi, s’avvicinò<br />

al comandante avanzando più che poteva e mentre quello<br />

125


indietreggiava, gli sputò in faccia queste parole:<br />

“Dì pure al tuo padrone che serbi per i suoi figli futuri, se<br />

mai ne avrà, questo tesoro, a noi non serve, Galiana non è in<br />

vendita.“ Poi, prima che scemasse il suo furore, scagliò un pugno<br />

sullo scrittoio e parlando a se stesso disse:<br />

“Perdio! Prima o poi dovrà pure scomparire questo spaccone<br />

causa di tutte le nostre disgrazie.”E, nell'attesa che se<br />

n'andassero, camminava irrequieto avanti e indietro per le stanze,<br />

era così inferocito che i suoi passi oltre a far tremare i vetri<br />

delle finestre spegnevano persino i lumi dei candelabri. Tra i<br />

tanti oggetti regalati a Galiana, svettava una foresta di statue<br />

alcune addirittura senza braccia e senza testa: strane,<br />

fantomatiche divinità, col corpo gnudo… ma quel che più ha fatto<br />

imbestialire il conte facendolo avvampare per il furore, è che, in<br />

una delle casse, c’era un inconfondibile velo orlato di rare,<br />

pregiate foglie d’acanto. Mio padre sostiene che quel velo era<br />

spiccicato, preciso, paro paro a quello della divina Elena. Lo ha<br />

riconosciuto perché, solo le donne iliache erano capaci di tessere<br />

con tanta maestria. Quel velo era scampato miracolosamente alle<br />

fiamme di Troia, alle tempeste del mare, ma non ai saccheggi<br />

infami, per questo non è mai più stato ritrovato.<br />

Gottifredo, voleva regalarci ogni cosa, persino un candido<br />

corsiero ornato di porpora e gualdrappe ricamate che mordeva un<br />

freno d’oro. Sul petto del cavallo pendevano quattro collane d’oro<br />

e, in testa aveva una corona pur’essa d’oro. Tutta roba rubata!<br />

Quante creature ha fatto piangere con i suoi saccheggi nei bottini<br />

di guerra, ma che ci possiamo fare, l’essere feroci è nella natura<br />

dei romani. Questo citrullo – spaccone, non si rende conto di<br />

126


stare a Viterbo, nella terra Etrusca, pure ci presentasse il<br />

tesoro di Priamo, noi lo respingeremmo col piede guardando<br />

schifati quegli oggetti di valore come vili rifiuti del mondo.<br />

Dare Galiana a lui, a quel bastardo, codardo? Sarebbe come<br />

prestagli l’anima per arrecarci danno a suo talento. <strong>La</strong> nostra<br />

gente, non lascerà mai la stella più <strong>bella</strong> in balia del barbaro<br />

nemico. L’importante adesso è levarsi per sempre di torno<br />

quest’impiastro e i suoi schifosi manigoldi. Non voglio sentire<br />

più neanche il ricordo del calpestio dei suoi sandali sulle nostre<br />

belle strade lastricate di pietra. Ma, adesso che ho finito di<br />

allattare mio figlio, prima che ricominci di nuovo a piangere per<br />

la fame, lesto, vieni con me sotto la Torre del Branca, potrai<br />

vedere con i tuoi occhi che stella, che fiore di neve è Galiana<br />

nostra.”<br />

“Quanto c’è da qui alla torre?”<br />

“Se prendiamo la scorciatoia, non saranno manco mille passi,<br />

altrimenti il doppio. Su avanti, andiamo, sbrighiamoci ti<br />

accompagno io. Dopo che avremo festeggiato Galiana, se vuoi, puoi<br />

venire con me alla casa di mio padre dove l’ospite e sempre sacro.<br />

Stasera per festeggiare la fine dell’assedio, ammazzeremo un<br />

agnello e poi, dopo che avrai fatto un caldo bagno alle Terme, per<br />

te ci sarà un morbido pagliericcio ricoperto di lino, la nostra<br />

casa è abbastanza grande da offrire riparo a molti viandanti. Al<br />

tramonto, quando avremo attinto in abbondanza il dolce mosto dai<br />

tini, ci metteremo a tavola avanti il fuoco e più tardi, intanto<br />

che le torce di canna intrise di sego finiranno di bruciare, se<br />

vuoi, potrai suonare la tua viella o magari ci racconterai del tuo<br />

vagabondare perché, dal tuo mantello consunto e dal tuo bastone,<br />

127


si vede che hai percorso molta strada e, chi molto ha viaggiato,<br />

recita un saggio proverbio popolare, chi molto ha viaggiato, molto<br />

ha da raccontare. Ricorda: se non puoi venire oggi, vieni un altro<br />

giorno, da noi troverai sempre un buon bicchiere di vino, un pezzo<br />

di formaggio e un fuoco fiammeggiante. Non dimenticare di arrivare<br />

un po’ prima del tramonto, per strada affretta il passo, non<br />

aspettare che la luna col suo faro accenda le lucciole e le stelle<br />

spuntino nel cielo negro, per tradizione, a Viterbo, non riceviamo<br />

ospiti dopo il calare del sole. Appena arrivi al portone, picchia<br />

tre volte al battente di ferro, io o mio padre, verremo subito ad<br />

aprirti. Per non sbagliare, chiedi di Andreucco del Rosso, il<br />

maniscalco. <strong>La</strong> nostra casa è situata vicino alla foresta,<br />

dall’altra parte del fossato, una casa grande col fontanile<br />

adiacente al vecchio mulino ad olio, conosciuta da sempre come: la<br />

Casa del finto Vagabondo… “<br />

“Hai detto nella parte più alta della città, dove si trova la<br />

concia delle pelli? Dunque sarebbe proprio l’ultima costruzione<br />

che s’incontra, quella attaccata a Porta Bove.”<br />

“Esatto, proprio essa.”<br />

“Perché finto Vagabondo?”<br />

“<strong>La</strong> sua nomea risale a tanto tempo fa. Mio nonno Ianni del<br />

Rosso, una fredda sera, mentre la neve cadeva mulinando nel cielo<br />

verde e faceva sembrare i campi e le colline, un paesaggio<br />

spettrale, ritornava a casa in groppa al suo cavallo. <strong>La</strong> tempesta<br />

gemeva nel cielo furioso, per le strade non si vedeva anima viva,<br />

la gente era rintanata nelle case e gli animali nelle stalle,<br />

fuori c’era solo il freddo pungente. Ad un incrocio di strade,<br />

nonno Ianni, vide un vecchio macilento. Pure se l’uomo, aveva il<br />

128


cappello coperto di neve gelata calcato fin sull’orecchie e metà<br />

della faccia sepolta sotto il bavero imbiancato, mio nonno ha<br />

riconosciuto nel suo volto, il colore della fame, della solitudine<br />

e della paura. Quell’uomo che a prima vista poteva sembrare solo<br />

un vecchio vagabondo, indossava un lungo mantello: vecchio,<br />

macchiato, strappato, con cento bocche aperte ad ogni piega, così<br />

tanto lungo che trascinava in terra. Il malcapitato, teneva la<br />

testa tristemente poggiata ad un albero ghiacciato e il corpo<br />

piegato sul suo bastone e, negli occhi, aveva un velo di dolore.<br />

Ianni, guardando quel cencio d’uomo, solo, infreddolito e<br />

infelice, provò tanta tenerezza. Così scese da cavallo e<br />

salutandolo lo tirò scherzosamente per il mantello dicendo: vieni<br />

amico, salta sul mio cavallo, onorami della tua compagnia, se<br />

vuoi, andremo insieme nella mia casa, sarai mio ospite. L’uomo<br />

accettò volentieri l’invito. Mia nonna, che aspettava da tempo,<br />

ritta sulla soglia l’arrivo del marito, vedendolo in compagnia,<br />

gli andò incontro festosa tenendo i ceri accesi dentro un<br />

candeliere coperto da una patina di verderame.<br />

Quando furono tutti al sicuro dentro la casa, la neve che aveva<br />

smesso per un momento di cadere, ricominciò daccapo, scatenando<br />

una terribile bufera. Una luce verde illuminò i cipressi ammantati<br />

di neve. Il vento divenne tanto impetuoso da scuotere le mura e<br />

persino le travi del soffitto. Mio padre e i suoi fratellini,<br />

impauriti, si avvicinarono alla madre che prese a baciarli<br />

stringendoli uno per uno al petto, ma i fanciulli si calmarono<br />

solo quando lo straniero disse loro: non abbiate paura bambini, la<br />

tempesta con i suoi chicchi di neve, protegge la vita che dorme<br />

sotto gli strati della terra, la natura col suo mantello gelato,<br />

129


la neve e il vento freddo, escono dalle buie caverne per giocare a<br />

nascondino con i semi. Da questo gioco, nasceranno stupendi frutti<br />

che potrete cogliere in primavera. Nessun fiore ritorna alla vita<br />

senza questo gioco crudele e, nei boschi selvaggi, senza le<br />

tempeste, nessun’ape potrebbe posarsi più sui fiori. Per questo<br />

motivo, quando vedete cadere la neve e sentite il vento ululare,<br />

dovete essere contenti perché, è sempre e solo il gioco della<br />

vita. Allora i fanciulli, rasserenati, si sedettero attorno alla<br />

tavola di legno, per consumare il pasto giacché, quell’uomo, aveva<br />

saputo parlare ai loro cuori ed egli stesso era un piacevole<br />

mistero, infatti, dopo cena, accanto al dolce tepore del fuoco<br />

l’ospite, raccontò molte altre storie bellissime, poiché in<br />

realtà, quell’uomo, pure se era vestito come un vagabondo con le<br />

braghe e il mantello a brandelli, era un asceta in cerca di un<br />

rifugio dal mondo e dai suoi tanti affanni.<br />

Dall’ora chiunque bussa alla nostra casa, siano falsi profeti,<br />

monaci, eremiti, pellegrini, mendicanti, vagabondi, saltimbanchi –<br />

mangiafuoco, contrabbandieri - ladri che passano da queste parti,<br />

per loro, ci sarà sempre la porta aperta, il fuoco acceso, un<br />

bicchiere di vino e una fetta di marzapane caldo.<br />

Frisigello insieme alla donna col bambino ormai sazio,<br />

riprendono la strada per la Torre del Branca. Una volta lasciati i<br />

vicoli dietro le spalle, proseguono la discesa e incontrano sul<br />

gomito della strada, la chiesuola di Santa Maria in Carbonara, con<br />

le sue belle decorazioni in coppe di maiolica e, subito dopo,<br />

finalmente, sbucano sotto le mura.<br />

Sono appena arrivati quando Almenia, <strong>bella</strong> come una Ninfa del<br />

paradiso, accompagnata dai servi e protetta dal Conte Andrea<br />

130


Galiano appare tra i merli della torre.<br />

Indossa la sua veste di seta bianca ricamata con fiordalisi<br />

d'oro. Sul collo candido come latte ricadono i riccioli di quel<br />

misterioso colore delle foglie d'acacia appena nate.<br />

Una corona di gelsomini intrecciata con un cerchio flessibile<br />

d’oro, cerca di trattenere quei lunghi capelli che, scendono<br />

sciolti sulle belle spalle di seta. In un attimo solo, forse meno<br />

di un attimo, cadono di colpo tutti i veli dalla mente del giovane<br />

e subito la riconosce. E' lei la fanciulla del sogno, quella che<br />

sta ancora disperatamente cercando. Bella, come una rosa tra gli<br />

ulivi, bellissima, tanto <strong>bella</strong> che si può morire solo a guardarla<br />

e, contemporaneamente, la vede anche nei panni del piccolo,<br />

giovane filosofo dagli occhi ardenti che, ricoperto di fango, gli<br />

aveva raccontato di inseguire ogni notte un carro giallo<br />

splendente di luce. In quell'attimo lunghissimo, Frisigello si<br />

maledice per non aver riconosciuto i suoi occhi laggiù al fosso e<br />

per non aver capito.<br />

131


Il carro giallo spendente di Luce, non è forse identico<br />

all’alone dorato che avvolge la fanciulla del sogno? Pure quella<br />

notte attorno al fuoco lei aveva cercato di svelarsi, ma lui non<br />

aveva compreso!<br />

Vorrebbe urlare, chiamarla, farsi vedere, dirle che ora che<br />

l'ha trovata non la lascerà più. Ma sotto la torre dove pullula<br />

un'armata intera, una soldataglia in tumulto, c’è pure un pigia<br />

pigia di plebaglia. C’é chi schiumando dalla bocca, steso in terra<br />

si fa prendere dal mal caduco, chi elegantissimo getta fiori, chi<br />

vestito di stracci butta per aria la berretta consunta, chi<br />

piange, chi canta, chi gridando scimmiotta con motti osceni i<br />

soldati romani. Un ingorgo gigantesco, un formicaio in delirio.<br />

Galiana è sulla bocca di tutti, i fanciulli si spellano le mani<br />

negli applausi urlando il suo nome fino a soffocarsi, gente d’ogni<br />

specie si strugge per vederla.<br />

Stordito da quella turbolenza, da quella frenesia assurda,<br />

Frisigello pensa al modo di raggiungerla, nel frastuono generale,<br />

tenta di riprendere la conversazione con Melisandra, magari lei<br />

può consigliarlo, forse conosce un passaggio segreto. Intanto che<br />

si volta a cercare la donna, s’avvede di un arciere che, ad un<br />

segnale preciso di un comandante, questo, tutto abbigliato nella<br />

maestà di Roma, con una vistosa benda sulla tempia: in quella<br />

ferita fasciata di fresco, descritta così bene nel racconto di<br />

Melisandra, il menestrello, riconosce il principe Gottifredo<br />

Adriano Scipione.<br />

L’arciere, eseguendo il suo ordine, estrae lesto dalla faretra<br />

una freccia lucente puntandola verso la torre. In un attimo il<br />

menestrello capisce l’atroce inganno. Il principe come un serpe<br />

132


nascosto tra gli spini, si è drizzato all’improvviso gonfiando il<br />

collo squamoso. <strong>La</strong> sua falsa tregua, la tregua dell’infame<br />

spergiuro, serve solo per assassinare Galiana. Non potendola<br />

avere, il miserabile, vigliacco romano, accecato dal desiderio, ha<br />

deciso di ucciderla!<br />

Senza esitare Frisigello, getta lontano la viella ad arco: le<br />

cinque corde dello strumento toccando terra emettono un suono<br />

struggente, quasi un ultimo lamento, poi la musica s’interrompe.<br />

Con un balzo il giovane, lanciando un urlo terribile che sale fino<br />

alle stelle, tende le mani al cielo e, come una belva ferita si<br />

para avanti al soldato.<br />

<strong>La</strong> freccia mortale destinata a Galiana gli trafigge il petto!<br />

Raggomitolato su se stesso il menestrello, con un fiotto di<br />

sangue che, zampillando, dipinge di papaveri insanguinati la<br />

camicia, cade a terra, ai piedi dell’arciere.<br />

Non canterà mai più la sua favola antica. Pure, gli occhi<br />

rimasti ancora ostinatamente aperti, guardano in alto, incatenati<br />

a Galiana, incatenati alla sua prigione!<br />

Sentendo quell'urlo straziante, la fanciulla dall'alto della<br />

torre, aggrappata ad una pietra, guarda giù tra la folla e subito<br />

riconosce il suo menestrello, il giovane cantastorie che l'ha<br />

salvata nella notte di luna, lo stesso che è venuto dalla lontana<br />

Francia solo per cercarla. Barcollando, rimane a contemplarlo<br />

inorridita, con il terrore stampato sul bellissimo volto, resta<br />

impietrita allo scoperto tra i merli della torre, in balia del<br />

nemico traditore. Un attimo dopo, la mano dello stesso arciere<br />

assassino, pesca nella faretra ancora brulicante di frecce e dallo<br />

stesso arco infame, in un subito, parte un altro ferro avvelenato<br />

133


che trafigge la giovane alla gola.<br />

L'acqua diventa fredda!<br />

Senza un lamento, Almenia, che tutti credono Galiana, bianca<br />

come un fiore cresciuto all’ombra, gira su se stessa prima di<br />

cadere, poi, lentamente scivola tra i merli della torre.<br />

Mai più i suoi occhi vedranno grappoli di luce alzarsi dai<br />

tetti del cielo, mai più sentirà le rondini picchiettare sui vetri<br />

dell’abbaino, mai più s’affaccerà dalle mura flagellate dalla<br />

pioggia a cercare una voce nella tempesta. Adesso Almenia, vola<br />

con il suo corpo di madreperla, vola incontro a quella voce, vola<br />

come un cigno sul fiume.<br />

Il vento disperde la corona di gelsomini bianchi e mentre<br />

galleggia la sua veste di seta con i fiordalisi d'oro, volano pure<br />

le ciocche spettinate e gli incredibili riccioli dal colore delle<br />

foglie d'acacia appena nate!<br />

Tutto eguale al sogno di Frisigello!<br />

Il menestrello con la porta della morte già spalancata la<br />

guarda volare e, con un ultimo sforzo, inarca le braccia al cielo<br />

come ali pronte ad abbracciarla e mentre la contempla sussurra:<br />

“Vieni amore mio, mia compagna, sorella, vieni. Ora so perché<br />

sono venuto in questo mondo. Insieme seguiremo le orme delle<br />

rondini, assieme a loro, saliremo sulla cima degli alberi a<br />

contemplare le verdi pianure.<br />

Senti? <strong>La</strong> mia anima ti chiama, ti cerca, ti aspetta da sempre<br />

come il solco aspetta il seme, come la notte aspetta il giorno.<br />

Risorgi dal passato amore mio, ricordi, quando io ero la radice e<br />

tu i petali dello stesso fiore? Il Creatore con l’argilla ci ha<br />

plasmato, tu ed io eravamo una creta sola, insieme ci<br />

134


arrampicavamo sulle alte vette delle montagne. Ricordi anima mia<br />

quando le nostre ali aperte battevano contro le stelle? <strong>La</strong> sete di<br />

te, la sete di quel tempo perfetto, cresce sul mio cuore come<br />

muschio sulle rovine.<br />

Vieni amore mio, insieme torneremo nei giardini incantati<br />

dell’amore eterno dove non esiste melodia più dolce, dove il vento<br />

del sud forgia col sole del deserto il sapore dell’uva mentre<br />

quello del nord, ammucchia gli arcobaleni prima della tempesta.<br />

Vieni, piccolo, dolce poeta della notte, prendi un’arpa, un<br />

tamburo, un flauto di canna. Sì! L’incavo esile di una canna<br />

basterà per cantare il nostro amore. Se non vieni, tra mille anni,<br />

ritornerò ancora a cercarti, ti spierò attraverso le ragnatele<br />

della notte, ti seguirò come una spora segue il vento perché, la<br />

voglia di stare con te mi trascina come il vento trascina un filo<br />

d’erba. Sì! Tra mille anni ritornerò ancora a raccontarti dei<br />

fulmini, della pioggia, della neve, della bufera che spinge le<br />

radici ad annidarsi nel ventre della terra. Tra mille anni ti dirò<br />

ancora: vieni amore mio, vieni presto, piccolo, dolce poeta della<br />

notte, prendi un’arpa, un tamburo, un flauto di canna e insieme<br />

andiamo alla vigna. Pigeremo l’uva dai tini poi, raccoglieremo il<br />

frutto distillato e prima di andare, riempiremo la brocca di vino<br />

e berremo le ultime lacrime di pioggia dal calice del giglio.<br />

Vedi? Si fa sera, il fiore chiude i petali e dorme. Sta<br />

arrivando il buio e gli uccelli del giorno lasciano i tetti con la<br />

zolla erbosa per ritornare al nido. Vieni, riempi la lampada<br />

d'olio, poiché la luce si sta spegnendo e non riesco più a<br />

vederti, accosta la fiamma al tuo volto amore mio e abbracciami,<br />

non lasciare che il vento gelido separi i nostri corpi.<br />

135


Sento freddo, abbracciami amore, il lume si è spento.<br />

Abbracciami, non lasciare che il profondo oceano del sonno<br />

affatichi i nostri occhi. Abbracciami, l’erba sarà il nostro<br />

giaciglio e le stelle, la nostra coperta.<br />

Tu gelida morte, lascia per un momento ancora libere le mie<br />

mani, svegliale dal profondo sonno, la tua fame antica può<br />

aspettare ancora un poco. Aspetta il tempo che i torrenti correndo<br />

tra le rocce arrivino al mare e le acque del mare si trasformino<br />

in vapore per diventare nuvole e le nuvole, scendano piangendo ad<br />

irrigare i campi e, nell’attesa, lascia che queste dita possano<br />

scorrere leggere per una volta sulle sue labbra di creta bianca!<br />

Dopo, appena mi sarò unito al mio amore, vieni pure a prendermi o<br />

morte, anzi, affrettati. Vieni a liberarmi, spezza i vincoli della<br />

materia perché oramai sono stanco di trascinarli. Non voglio più<br />

stare in questa terra dove le spine soffocano i fiori. Quando sarò<br />

stretto al mio amore, sorgi pure o dolce morte, non avrò più paura<br />

dei tuoi occhi vuoti, potrò guardarti dritto in faccia poiché<br />

l’eternità, con la mia donna al fianco, sarà soave.”<br />

Oramai anche l’ultimo bagliore di luce si sta spegnendo negli<br />

occhi del dolce cantore. Lui che, con la bellezza dei suoi versi<br />

ha scritto il suo nome sulla porta del Paradiso, muore senza<br />

sapere che il suo canto non smetterà mai di seminare l’amore nei<br />

cuori degli uomini. Mentre la sua vista si oscura, un sorriso<br />

illumina ancora le labbra già sbiancate. Quel sorriso è come<br />

polvere di stelle sulle ali degli angeli, è come brezza lieve che<br />

arriva assieme alla primavera quando l’inverno è ormai morto,<br />

quella brezza sottile che fa sciogliere le trecce agli alberi<br />

mentre accarezza i rami ancora spogli ed è pegno e promessa<br />

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insieme. Con quell’ultimo sorriso pitturato sul volto, il giovane<br />

moribondo, sbatte le palpebre e guarda la fanciulla dei suoi sogni<br />

volare, e quando lei finalmente lo raggiunge, un’inaudita,<br />

entusiasmante gioia illumina il suo volto!<br />

Chi potrà descrivere quel tragico momento, terribile e magico<br />

insieme? Quante parole e quante lacrime dovrebbe versare il poeta<br />

per raccontare di quei fiori che muoiono in silenzio, calpestati<br />

in mezzo al giardino dell’amore da un nemico spergiuro?<br />

Come narrare di quelle creature poetiche, spiriti nobili e<br />

liberi, venuti al mondo per rallegrare il cuore degli uomini, uno<br />

con incantevoli versi e l’altro, con la sua bellezza? Creature<br />

straordinarie, lasciate in terra prima che l’umanità abbia avuto<br />

modo di apprezzarle. Come narrare di Azrael l’angelo della morte<br />

che, nel momento supremo, eguale ad un grande uccello dalle mille<br />

piume azzurre, apre le immense ali e, con le sue mani di osso e di<br />

muschio, come un mietitore con la lunga falce recide per sempre<br />

quei gigli e poi si curva pietoso a suggellare con le sue labbra<br />

gelide quelle labbra ancora frementi di vita e, nel farlo, pure<br />

esso piange amare lacrime di rugiada bagnando quei petali di neve<br />

che in un subito si fanno di pietra, più fredde delle colombe<br />

d’avorio.<br />

Il loro tempo ha chiuso il suo cerchio, tornano da dove sono<br />

partiti. Chi oserà più dividere Frisigello e Almenia uniti per<br />

sempre nella brezza della morte?<br />

L’uno chino sull’altro, le labbra riescono a sfiorarsi, non c'è<br />

bisogno di parole, tutto è svelato. Intanto che mille e mille<br />

uccelli cantano fuori del nido; loro, finalmente abbracciati,<br />

formano una nuvola sola, sono già in fuga, oltre le mura del<br />

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dolore, più in alto della torre, dove un carro splendente di Luce,<br />

trainato da un magnifico cavallo alato li aspetta per condurli là<br />

da dove sono partiti.<br />

Che importa se per salirvi bisogna morire! Morire non è forse<br />

dissolversi nel sole?<br />

Morire! Per ritornare a vivere, come ritorna il seme sepolto<br />

dalla neve!<br />

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