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Testo - Azienda Ospedaliera S.Camillo-Forlanini

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ANNALI DEGLI OSPEDALI<br />

San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong><br />

Volume 11, Numero 4, Ottobre - Dicembre 2009<br />

Direttore<br />

FRANCO SALVATI<br />

Comitato di Redazione<br />

ALFONSO ALTIERI, FRANCESCO BELLI (Redattore capo),<br />

MAURO CALVANI, GIUSEPPE CARDILLO, PAOLO MATTIA,<br />

GIOVANNI MINARDI (Coordinatore), MAURIZIO MORUCCI, FABRIZIO NESI,<br />

BRUNO NOTARGIACOMO, SERGIO PILLON, ELIO QUARANTOTTO, PIETRO SACCUCCI,<br />

MICHELE SCOPPIO, GIANDOMENICO SEBASTIANI, ALESSANDRO SEVERINO<br />

Segreteria di Redazione:<br />

RITA VESCOVO, ALMERINDA ILARIA<br />

Comitato Scientifico-Editoriale<br />

Coordinatore ROBERTO CANOVA<br />

LOREDANA ADAMI, MARIO GIUSEPPE ALMA, CATERINA AMODDEO, DONATO ANTONELLIS,<br />

GIANLUCA BELLOCCHI, FRANCO BERTI, FRANCO BIANCO,<br />

ELSA BUFFONE, PIO BUONCRISTIANI, ALESSANDRO CALISTI, ILIO CAMMARELLA,<br />

ALBERTO CIANETTI, ENRICO COTRONEO, FRANCESCO CREMONESE,<br />

ALBERTO DELITALA, FILIPPO DE MARINIS, SALVATORE DI GIULIO,<br />

CLAUDIO DONADIO, VITTORIO DONATO, GIUSEPPE MARIA ETTORRE, ALDO FELICI,<br />

LAURA GASBARRONE, CLAUDIO GIANNELLI, EZIO GIOVANNINI, LUCIA GRILLO,<br />

MASSIMO LENTINI, ANNA LOCASCIULLI, IGNAZIO MAJOLINO, CARLO MAMMARELLA,<br />

LUCIO MANGO, EMILIO MANNELLA, LAURO MARAZZA, MIRELLA MARIANI,<br />

MASSIMO MARTELLI, ANTONIO MENICHETTI, GIOVANNI MINISOLA, CINZIA MONACO,<br />

FRANCESCO MUSUMECI, REMO ORSETTI, PAOLO ORSI, GIOVACCHINO PEDICELLI,<br />

VINCENZO PETITTI, LUCA PIERELLI, ROBERTO PISA, LUIGI PORTALONE, GIOVANNI PUGLISI,<br />

SANDRO ROSSETTI, ENRICO SANTINI, EUGENIO SANTORO, GIOVANNI SCHMID,<br />

CIRIACO SCOPPETTA, CORA STERNBERG, GIUSEPPE STORNIELLO,<br />

PIERO TANZI, ROBERTO TERSIGNI, ANNA RITA TODINI, CLAUDIO TONDO,<br />

MIRELLA TRONCI, ROBERTO VIOLINI<br />

ROMA<br />

Segreteria:<br />

GIOVANNA DE PAOLA<br />

Società Editrice Universo


<strong>Azienda</strong> <strong>Ospedaliera</strong> San <strong>Camillo</strong>-<strong>Forlanini</strong><br />

Roma<br />

Direttore Sanitario:<br />

Diamante Pacchiarini<br />

ROMA<br />

Direttore Generale:<br />

Luigi Macchitella<br />

Società Editrice Universo<br />

Direttore Amministrativo:<br />

Antonino Giliberto<br />

Abbonamenti 2009<br />

Italia: istituzionali € 100,00; privati € 73,00<br />

Estero: istituzionali € 200,00; privati € 146,00<br />

Il prezzo di ogni fascicolo (solo per l'Italia) è di € 20,00, se arretrato € 40,00<br />

Per la richiesta di abbonamenti e per la richiesta di inserzioni pubblicitarie<br />

rivolgersi a Società Editrice Universo s.r.l., Via G.B. Morgagni, 1, 00161 Roma, Italia<br />

Tel. +39.06.44231171 - 4402054 - 64503500; Fax +39.06.4402033; E-mail: amministrazione@seu-roma.it<br />

Garanzia e riservatezza per gli abbonati<br />

L’editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e la possibilità di richiederne<br />

gratuitamente la rettifica o la cancellazione scrivendo a:<br />

Società Editrice Universo s.r.l., Via G.B. Morgagni, 1, 00161 Roma, Italia<br />

Le informazioni custodite nell’archivio elettronico della Società Editrice Universo s.r.l., verranno utilizzate<br />

al solo scopo di inviare agli abbonati vantaggiose proposte commerciali (legge 675/96).<br />

Direttore responsabile: Franco Salvati<br />

Iscrizione al registro della Stampa n. 176/98 con ordinanza del Tribunale di Roma in data 6/5/1998<br />

© Copyright Società Editrice Universo s.r.l.,<br />

Finito di stampare nel mese di Dicembre 2009<br />

dalla Tipostampa s.rl. - Lama di S. Giustino (PG)<br />

I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo<br />

(compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i paesi.


Contenuto<br />

ANNALI DEGLI OSPEDALI<br />

San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong><br />

Volume 11, Numero 4, Ottobre - Dicembre 2009<br />

EDITORIALE<br />

Il cammino di una idea ambiziosa "I Primi tre anni 2005-2008"<br />

F. SALVATI 195<br />

An ambitious idea in progress "The first three years 2005-2008"<br />

ARTICOLI ORIGINALI<br />

Basi biologiche ed applicazioni terapeutiche delle cellule "cytokine-induced killer"<br />

A. PERILLO, G. BONANNO. G. SCAMBIA, L. PIERELLI 197<br />

Biological bases and therapeutic applications of "cytokine-induced killer cells"<br />

Il trapianto di cellule staminali da sangue di cordone ombelicale<br />

M.B. PINAZZI, B. MONTANTE, A. LOCASCIULLI, I. MAJOLINO 203<br />

Umbilical cord blood stem cell transplantation<br />

Genetica della emocromatosi ereditaria<br />

S. MAJORE, F. BINNI, P. GRAMMATICO 214<br />

Genetic hereditary hemochromatosis<br />

FOCUS: SARCOIDOSI<br />

Introduzione<br />

C. RAIMONDI 224<br />

La sarcoidosi: quadri radiologici<br />

F. QUAGLIARINI 225<br />

Aspetti istopatologici della sarcoidosi polmonare<br />

P. GRAZIANO 229<br />

La sarcoidosi: ruolo della fisiopatologia respiratoria<br />

F. ARIENZO 231<br />

Sarcoidosi polmonare: la diagnostica broncoscopica<br />

G. GALLUCCIO, G. LUCANTONI, P. BATTISTONI, S, BATZELLA, V. LUCIFORA, R. DELLO IACONO 232<br />

Il BAL nello studio della sarcoidosi<br />

R. GASBARRA, A. DI LORENZO, M. BRONZINI 237<br />

Esperienza di un ambulatorio per la sarcoidosi<br />

C. RAIMONDI, A.M. ALTIERI, M. CICCARELLI, S. D'ANTONIO, M.G. ALMA 240<br />

Terapia della sarcoidosi con anti-TNFα<br />

P. ROTTOLI, C. OLIVIERI, E. BARBAGLI 244<br />

GESTIONE E ORGANIZZAZIONE SANITARIA<br />

Salute globale: i determinanti della salute e le conclusioni del rapporto dell'OMS<br />

a cura della Commissione sui determinanti sociali della salute<br />

C. RESTI 250<br />

Global health: health determinants and the final report by who's Commission on<br />

social determinants of health


“La Rivista è stata selezionata da<br />

ELSEVIER BV BIBLIOGRAPHIC DATABASES<br />

per l’indicizzazione nei databases EMBASE, SCOPUS,<br />

COMPEDEX, GEOBASE, EMBIOLOGY, ELSEVIER BIOBASE,<br />

FLUIDEX E WORLD TEXTILES<br />

www.scamilloforlanini.rm.it


Editoriale<br />

IL CAMMINO DI UNA IDEA AMBIZIOSA<br />

“I Primi tre anni 2005 - 2008”<br />

Sotto svariati profili è stato di grande rilevanza<br />

per l’<strong>Azienda</strong> <strong>Ospedaliera</strong> San <strong>Camillo</strong>-<br />

<strong>Forlanini</strong> il triennio 2005-2008 e ben lo delinea<br />

il Volume ad esso dedicato, curato da Alberto<br />

Bersani (marzo 2009, pagg. 84). Nella Presentazione<br />

del Dott. Luigi Macchitella, Direttore<br />

Generale, viene resa con grande chiarezza la<br />

filosofia e le strategie ispiratrici del percorso<br />

che ha portato - tra l’altro - alla riformulazione<br />

del “Atto <strong>Azienda</strong>le” e alla ridefinizione sia<br />

degli assetti organizzativi che delle regole e<br />

delle procedure. Nel Volume questo percorso<br />

si snoda attraverso 16 capitoli in cui vengono<br />

illustrati i dettagli relativi ai singoli settori.<br />

In particolare nel capitolo “Formazione e<br />

Governo Clinico: anni 2005-2006-2007” viene<br />

sottolineato l’impegno nel campo dell’aggiornamento,<br />

della formazione e dell’educazione<br />

continua ed al riguardo viene rimarcata altresì<br />

la funzione della Biblioteca dell’<strong>Azienda</strong> soprattutto<br />

per quel che concerne l’obbiettivo di<br />

creare una rete di servizi che siano di supporto<br />

alla ricerca, alla didattica ed alla crescita della<br />

vita culturale degli Operatori della Sanità,<br />

trattandosi di Biblioteca specializzata in campo<br />

biomedico e dotata di materiale periodico<br />

con la finalità di facilitare l’accesso all’informazione<br />

scientifica.<br />

In questo contesto è da sottolineare che la<br />

Biblioteca è sede della Direzione della Rivista<br />

Scientifica “Annali degli Ospedali San <strong>Camillo</strong><br />

e <strong>Forlanini</strong>” (nata nel 1999) e del Comitato di<br />

AN AMBITIOUS IDEA IN PROGRESS<br />

“The first three years 2005-2008”<br />

FRANCO SALVATI*<br />

ANNALI DEGLI OSPEDALI<br />

San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong><br />

Volume 11, Numero 4, Ottobre - Dicembre 2009<br />

Redazione della Rivista stessa la quale nell’arco<br />

temporale 2005-2008 ha ricevuto e pubblicato<br />

(attualmente edita dalla prestigiosa<br />

Società Editrice Universo S.E.U.) numerosi lavori<br />

scientifici molti dei quali nella parte dedicata<br />

a “Gestione e Organizzazione Sanitaria”,<br />

lavori tutti provenienti anche da Autori stranieri<br />

e da Autori esterni all’<strong>Azienda</strong> operanti<br />

in qualificate Istituzioni sia Ospedaliere che<br />

Universitarie dislocate – per quanto concerne<br />

quelle italiane – su tutto il territorio nazionale<br />

ma anche rivolti con visus internazionale alle<br />

attività di Cooperazione <strong>Ospedaliera</strong> ai Paesi<br />

in via di sviluppo.<br />

Il percorso degli Annali degli Ospedali San<br />

<strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong> nel triennio in questione<br />

ha in un certo qual modo accompagnato parallelamente,<br />

di pari passo, tutte le numerose<br />

realizzazioni che sono state puntualmente dettagliate<br />

nel Volume, tra le quali quelle relative<br />

al “Bilancio Sociale” (Curare prendendosi<br />

cura, Le Giornate dell’etica della cura, Dialogo<br />

e Solidarietà, ecc.). Un altro capitolo di grande<br />

rilievo è quello nel cui ambito va collocato il<br />

“Numero Unico” della Rivista dedicato esclusivamente<br />

all’istituzione ed all’attività del<br />

Centro per i Trapianti d’Organo.<br />

Inserita nel circuito internazionale dell’ELSEVIER<br />

BV Bibliographic Databases<br />

e pertanto indicizzata nei databases<br />

EMBASE,SCOPUS,COMPEDEX, GEOBA-<br />

SE, EMBRIOLOGY, ELSEVIER BIOBASE,<br />

* Primario Pneumologo Emerito, Direttore della Rivista “Annali degli Ospedali San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong>”


196 Annali degli Ospedali San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong> 11, 4, 2009<br />

FLUIDEX, WORLD TEXTILES, la Rivista<br />

si integra pienamente con quegli obbiettivi<br />

dell’<strong>Azienda</strong> <strong>Ospedaliera</strong> che hanno – come<br />

prima sottolineato – la finalità di promuovere<br />

l’aggiornamento e di favorire la crescita culturale<br />

in ambito sanitario multiprofessionale<br />

corrispondendo in tal modo all’auspicio espresso,<br />

come pubblicato sulla Rivista stessa, dal<br />

Dott. Luigi Macchitella al momento del suo<br />

insediamento quale Direttore Generale:realiz-<br />

zare “anche attraverso gli Annali e all’impegno<br />

di quanti vi collaborano” la idea ambiziosa di<br />

fare dell’<strong>Azienda</strong> un prestigioso edificio, centro<br />

propulsore e polo di attrazione.<br />

La pubblicazione, che qui segue di articoli<br />

sulle cellule staminali, in cui è riportata l’esperienza<br />

e la progettualità di altrettanti gruppi<br />

di ricerca della nostra <strong>Azienda</strong>, a valenza internazionale,<br />

sono una ulteriore testimonianza<br />

di quanto sopra auspicato.


Articoli originali<br />

ANNALI DEGLI OSPEDALI<br />

San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong><br />

Volume 11, Numero 4, Ottobre- Dicembre 2009<br />

BASI BIOLOGICHE ED APPLICAZIONI TERAPEUTICHE<br />

DELLE CELLULE “CYTOKINE-INDUCED KILLER”<br />

BIOLOGICAL BASES AND THERAPEUTIC APPLICATIONS<br />

OF “CYTOKINE-INDUCED KILLER CELLS”<br />

ALESSANDRO PERILLO 1 , GIUSEPPINA BONANNO 1,2 , GIOVANNI SCAMBIA 1 , LUCA PIERELLI 2*<br />

1 Dipartimento per la Tutela della Salute della Donna e della Vita Nascente,<br />

Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma; 2 Dipartimento di Medicina Trasfusionale,<br />

Laboratorio “Cellule Staminali e Terapie Cellulari”, Az. Osped. “S.<strong>Camillo</strong>-<strong>Forlanini</strong>”, Roma<br />

Parole chiave: Cellule CIK. Terapia cellulare. Immunoterapia<br />

Key words: CIK cells. Cell-therapy. Immunotherapy<br />

Riassunto – Le cellule “cytokine-induced killer” (CIK) rappresentano una popolazione di cellule T citotossiche<br />

con caratteristico fenotipo CD3 + CD56 + , identificata in tessuti sia umani che murini, da Lanier et al.<br />

nel 1986. Tali cellule sono dotate di notevole attività citotossica contro un’ampia varietà di cellule tumorali.<br />

La loro azione citotossica non è ristretta per il sistema maggiore di istocompatibilità (MHC) né è il risultato<br />

di una citotossicità cellulare anticorpo-dipendente (ADCC), ma dipende dal contatto cellula CIK/cellula bersaglio,<br />

coinvolgendo le molecole di adesione e l’esocitosi del contenuto di granuli citotossici. Le cellule CIK<br />

possono essere derivate da sangue periferico umano dopo espansione ex vivo in presenza di interferon-γ, di<br />

anticorpi monoclonali diretti contro il CD3, e di interleuchina-2. Le cellule CIK hanno dimostrato in studi<br />

preclinici e clinici promettenti effetti antitumorali contro diverse neoplasie, come le leucemie, l’epatocarcinoma,<br />

il cancro polmonare, renale, gastrico, ovarico e cervicale.<br />

Abstract – Cytokine-induced killer (CIK) cells are a population of cytotoxic T cells with typical CD3 + CD56 +<br />

phenotype, identified in both human and murine tissues by Lanier et al. in 1986. These cells are endowed<br />

with a high cytotoxic activity against a wide variety of cancer cells. Their cytotoxicity is not major histocompatibility<br />

complex (MHC)-restricted, neither antibody-dependent cellular cytotoxicity (ADCC)-dependent,<br />

but is due to CIK cell/target cell contact with the involvement of adhesion molecules and exocytosis<br />

of cytotoxic granules. CIK cells can be derived from human peripheral blood after ex vivo expansion with<br />

interferon-γ, anti-CD3 antibodies and interleukin-2. CIK cells showed promising antitumor effects against<br />

various cancers, including leukemia, hepatic, lung, renal, gastric, ovarian and cervical cancer, in preclinical<br />

and clinical studies.<br />

Aspetti biologici<br />

Negli ultimi 20 anni, sono state esplorate<br />

varie strategie per attivare cellule effettrici<br />

del sistema immune in grado di distruggere<br />

cellule tumorali residue o resistenti dopo trattamenti<br />

oncologici convenzionali.<br />

In questo contesto, i linfociti con fenotipo<br />

CD3 - CD56 + coltivati in presenza di alte con-<br />

centrazioni di interleuchina-2 (IL-2) danno<br />

origine a cellule “lymphokine-activated killer”<br />

(LAK). Tuttavia le cellule LAK presentano<br />

una bassa attività citotossica antitumorale,<br />

ed una difficoltà di espansione per poter essere<br />

utilizzate in ambito clinico; inoltre la<br />

loro attività necessita una somministrazione<br />

continua in vivo di IL-2 alla quale è associata<br />

tossicità.


198 Annali degli Ospedali San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong> 11, 4, 2009<br />

Un’altra possibilità è quella basata sui<br />

linfociti che infiltrano le neoplasie, denominati<br />

“tumor-infiltrating lymphocytes” (TIL),<br />

con fenotipo CD3 + CD8 + CD56 + , che esercitano<br />

una citotossicità contro le cellule tumorali<br />

autologhe ristretta per il sistema maggiore di<br />

istocompatibilità (MHC). Tali cellule possono<br />

essere espanse in vitro con concentrazioni<br />

medio-basse di IL-2 per poi essere infuse nel<br />

paziente. I TIL riconoscono il tumore attraverso<br />

meccanismi mediati dal “T-cell receptor”<br />

(TcR); tuttavia risulta difficile la loro espansione<br />

in vitro e non possono essere isolati da<br />

tumori di piccole dimensioni. Alte dosi di TIL<br />

possono essere infuse senza tossicità, ma la<br />

loro efficacia è legata alla contemporanea somministrazione<br />

di alte dosi di IL-2 alla quale è<br />

invece associata una significativa tossicità 1 .<br />

Una strategia alternativa è invece basata<br />

sulla possibilità di espandere cellule mononucleate<br />

di sangue periferico in presenza di<br />

interferon-γ (IFN-γ), IL-2 ed un anticorpo monoclonale<br />

contro l’antigene di superficie CD3<br />

(OKT3). Come risultato, si ottiene una popolazione<br />

cellulare con fenotipo e proprietà sia<br />

delle cellule T che delle cellule “natural killer”<br />

(NK). Tali cellule sono state denominate “cytokine-induced<br />

killer” (CIK) da Schmidt-Wolf<br />

e Negrin 2,3 per distinguerle da quelle NK. Le<br />

cellule CIK rappresentano dunque una popolazione<br />

di cellule T con caratteristico fenotipo<br />

CD3 + CD56 + ; esse costituiscono circa il 3% dei<br />

linfociti circolanti e sono state identificate in<br />

tessuti sia umani che murini da Lanier et al. nel<br />

1986 4 . Tali cellule, alla colorazione di Giemsa,<br />

sono morfologicamente simili ai grandi linfociti:<br />

hanno un diametro di 16-20μ, abbondante<br />

citoplasma e numerosi granuli citoplasmatici.<br />

Le cellule CIK sono dotate di notevole attività<br />

citotossica e sono in grado di lisare un’ampia<br />

varietà di cellule tumorali. La loro citotossicità<br />

non è MHC-ristretta e, dal momento che non<br />

esprimono il CD16 (recettore Fcγ), non sono<br />

in grado di attivare una “antibody-dependent<br />

cellular cytotoxicity” (ADCC). La loro citotossicità<br />

è invece mediata dal contatto cellula CIK/<br />

cellula bersaglio, coinvolgendo le molecole di<br />

adesione con esocitosi del contenuto di granuli<br />

citotossici 5 . Tali granuli citotossici contengono:<br />

(i) proteine “pore-forming”, denominate<br />

perforine o citolisine; (ii) granzimi (una famiglia<br />

di serin-esterasi); (iii) enzimi lisosomiali;<br />

(iv) molecole di proteoglicano. Le cellule CIK<br />

effettrici riconoscono le cellule tumorali bersaglio<br />

e rilasciano i loro granuli citotossici nello<br />

spazio extracellulare nel punto di contatto con<br />

le cellule bersaglio stesse; a questo punto le<br />

perforine lisano le cellule bersaglio e i granzimi<br />

ne inducono l’apoptosi. Sono stati descritti<br />

due meccanismi di degranulazione. Il primo,<br />

mediato dal “lymphocyte function-associated<br />

antigen” (LFA-1), determina una citolisi indotta<br />

dai granuli. Il secondo, TcR-dipendente,<br />

agisce invece attraverso la stimolazione dei<br />

recettori CD3 e CD3-simili sulle cellule CIK,<br />

determinando una citolisi mediata dai granuli.<br />

Entrambi i meccanismi sono sensibili<br />

agli aumenti intracellulari dei livelli di “cyclic<br />

adenosine monophosphate” (cAMP). Il primo<br />

meccanismo è dominante; infatti gli anticorpi<br />

anti-LFA-1 e anti-“intercellular adhesion molecule<br />

1” (ICAM-1) bloccano la lisi delle cellule<br />

tumorali mediata dalle cellule CIK, mentre gli<br />

anticorpi diretti contro le molecole del sistema<br />

“human leukocyte antigen” (HLA) di I e II<br />

classe, espresse dalle cellule bersaglio, o quelli<br />

diretti contro TcRα/β, CD3, CD4, CD8 e CD56<br />

non bloccano l’attività citolitica delle cellule<br />

CIK. Le cellule CIK posseggono anche un<br />

alto livello di attività citotossica contro linee<br />

cellulari tumorali resistenti agli agenti chemioterapici<br />

e, per tale motivo, possono essere<br />

utili nell’aggredire malattie caratterizzate da<br />

resistenza farmacologica. Infatti anticorpi monoclonali<br />

contro la glicoproteina-P (Pgp), responsabile<br />

della “multi-drug resistance”, non<br />

bloccano la lisi, da parte delle cellule CIK, di<br />

cellule tumorali resistenti alla chemioterapia.<br />

Questo indica che la Pgp, non è direttamente<br />

coinvolta nell’interazione fra cellula bersaglio<br />

tumorale e cellule CIK effettrici. Recentemente<br />

è stato dimostrato che l’azione citotossica<br />

delle CIK è mediata anche dal recettore NK<br />

di gruppo 2D (NKG2D); infatti anticorpi che<br />

bloccano l’espressione del NKG2D inibiscono<br />

la citotossicità delle cellule CIK. Le cellule<br />

CIK hanno attività antitumorale, sia in vitro<br />

che in vivo, nei riguardi di un ampio spettro<br />

di linee cellulari neoplastiche: OCI-Ly8, SU-<br />

DHL-4 (due differenti linee di linfoma umano<br />

a cellule B), K562, blasti di leucemia mieloide<br />

cronica di origine sia autologa che allogenica,<br />

e linee cellulari “multidrug resistant”. Nello<br />

stesso tempo, non è stato dimostrato alcun<br />

effetto tossico delle cellule CIK sui normali<br />

progenitori emopoietici CD34 + .


A. Perillo et al.: Immunoterapia con cellule CIK 199<br />

Le cellule CIK possono essere espanse in<br />

vitro 6000 volte dopo 21 giorni di coltura in<br />

presenza di IFN-γ. Quest’ultimo stimola i<br />

monociti a produrre IL-12, che porta le cellule<br />

ad esprimere il fenotipo Th1, e ha un’azione<br />

sinergica con l’anticorpo monoclonale anti-<br />

CD3, inducendo la proliferazione delle cellule<br />

T. L’anticorpo monoclonale anti-CD3 agisce<br />

inoltre come stimolo mitogenico per tutte le<br />

cellule T, che possono espandersi in presenza<br />

di IL-2. Dopo tre settimane di coltura, le cellule<br />

T si differenziano in due popolazioni: cellule<br />

CD3 + CD56 + e CD3 + CD56 - che possono essere<br />

ottenute da pazienti con varie patologie emopoietiche,<br />

e, per la loro attività in vivo dopo<br />

trapianto, non necessitano di somministrazione<br />

esogena di IL-2. Nel contesto allogenico, le<br />

cellule CIK, grazie alla produzione di IFN-γ,<br />

hanno dimostrato di determinare, a fronte<br />

di un’attività “graft-versus-leukemia” (GvL),<br />

scarso o assente effetto “graft-versus-host disease”<br />

(GvHD) 6 .<br />

Applicazioni terapeutiche:<br />

l’immunoterapia adottiva<br />

Per alcune tipologie di tumore, l’uso della<br />

chemioterapia e della radioterapia convenzionali,<br />

insieme alla resezione chirurgica, non<br />

sempre garantiscono un’efficacia terapeutica.<br />

Per tale motivo, nell’ultimo decennio, la<br />

ricerca oncologica ha concentrato il suo interesse<br />

anche sullo studio delle interazioni<br />

che intercorrono tra il sistema immunitario<br />

e la neoplasia, con l’obiettivo di identificare<br />

un meccanismo che possa essere adeguatamente<br />

sfruttato per eliminare specificamente<br />

le cellule neoplastiche, in particolare quelle<br />

esprimenti antigeni immunogenici sulla loro<br />

superficie. Infatti, nonostante gli straordinari<br />

progressi registrati nel trattamento delle<br />

malattie tumorali, sia nella chirurgia radicale<br />

che nella chemioterapia e radioterapia, l’insorgenza<br />

della resistenza ad ognuna delle ultime<br />

due, o ad entrambe, rappresenta ancor oggi<br />

uno dei problemi di più difficile gestione nella<br />

cura del paziente oncologico.<br />

Uno degli strumenti più efficaci per evitare<br />

o attenuare lo sviluppo della farmacoresistenza,<br />

oltre a potenziare l’attività citotossica di<br />

nuovi chemioterapici, e, in ultima analisi,<br />

migliorare la risposta terapeutica, è quello di<br />

esaltare le competenze del sistema immunitario<br />

del paziente che viene così messo in grado<br />

di eliminare completamente le cellule tumorali<br />

che comunque residuano. Tuttavia, sia a<br />

causa della malattia stessa che per l’azione<br />

di molte delle molecole ad attività antineoplastica,<br />

il sistema immunitario del paziente oncologico<br />

risulta depresso. Lo sviluppo attuale<br />

delle conoscenza della moderna immunologia<br />

consente oggi di intravedere la concreta possibilità<br />

di prevenire e curare le neoplasie con gli<br />

stessi criteri che hanno condotto con successo<br />

alla cura e prevenzione delle malattie infettive,<br />

sviluppando metodologie terapeutiche in<br />

grado di uccidere la cellula tumorale senza<br />

indurre effetti collaterali incidenti sulla qualità<br />

di vita. È opinione concorde che il sistema<br />

immunitario non riesce a combattere efficacemente<br />

lo sviluppo dei tumori perché questi<br />

ultimi mettono in atto una serie di meccanismi<br />

di elusione che solo da poco tempo si riesce a<br />

definire e comprendere con sufficiente chiarezza<br />

nella loro complessità 7 . Infatti, nonostante<br />

esista una chiara evidenza che la progressione<br />

della malattia nei pazienti neoplastici avvenga<br />

sotto il diretto controllo del sistema immunitario,<br />

è ugualmente evidente che le cellule<br />

neoplastiche sono in grado, a loro volta, di<br />

selezionare raffinati meccanismi per sfuggirne<br />

il controllo tra cui la crescita del tumore in<br />

spazi privilegiati, la secrezione di fattori immunosoppressivi,<br />

la selezione di varianti neoplastiche<br />

resistenti e l’induzione di tolleranza<br />

immunitaria. È quindi necessario adottare<br />

strategie in grado di aggirare le difese messe<br />

in atto dal tumore e rendere quest’ultimo<br />

suscettibile all’azione antitumorale. Una di<br />

queste strategie consiste nell’utilizzare contro<br />

il tumore cellule del sistema immunitario dello<br />

stesso paziente “educate” a combattere le<br />

cellule tumorali fuori dall’organismo. Questa<br />

procedura, variamente definita come immunoterapia<br />

adottiva o immunoterapia cellulare<br />

fa parte del più vasto quadro delle terapie<br />

cellulari. L’immunoterapia (cellulare) adottiva<br />

(detta anche passiva) si pratica infondendo<br />

direttamente nel paziente gli effettori cellulari<br />

specifici dell’immunità antitumorale generati<br />

ex vivo. A differenza di quanto avviene nell’immunoterapia<br />

attiva, il vantaggio dell’immunoterapia<br />

adottiva risiede nella possibilità di<br />

evitare gli impedimenti generati dalla parziale<br />

immuno-incompetenza dei pazienti portatori


200 Annali degli Ospedali San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong> 11, 4, 2009<br />

di tumore, che potrebbero ostacolare la generazione<br />

di una efficace risposta antitumorale<br />

in vivo. È noto infatti che nel paziente oncologico<br />

la sorveglianza del sistema immunitario<br />

sul tumore è stata soppressa o elusa a seguito<br />

dell’incapacità dell’ospite di riconoscere gli<br />

antigeni tumorali, della tolleranza verso il<br />

“self”, della produzione di sostanze immunosoppressive,<br />

della generazione di varianti da<br />

parte del tumore primitivo, od altro. Aspetti<br />

critici sono la necessità di isolare ed espandere<br />

un numero di cellule effettrici sufficiente ad<br />

indurre una risposta efficace e persistente nel<br />

tempo, e l’adozione di terapie adiuvanti mirate<br />

a migliorare la funzione e la sopravvivenza<br />

delle cellule reinfuse o a promuovere l’induzione<br />

di un “milieu” (es: infiammatorio) favorente<br />

l’attivazione delle cellule stesse. E comunque,<br />

anche l’immunoterapia cellulare adottiva non<br />

è esente dall’influenza negativa di fattori di<br />

immunosoppressione (es: le cellule T-regolatorie).<br />

In ultima analisi, l’immunoterapia<br />

cellulare adottiva è una strategia terapeutica<br />

che ha come obiettivo il riconoscere le cellule<br />

tumorali ed indurre una risposta immune specifica<br />

in grado di causare la lisi delle cellule<br />

neoplastiche; il suo potenziale effetto antitumorale<br />

è stato già ampiamente documentato<br />

in studi condotti su modelli animali ed in sperimentazioni<br />

cliniche 2,3,8,9 .<br />

In questo contesto, le cellule CIK hanno<br />

dimostrato in studi preclinici e clinici promettenti<br />

effetti antitumorali contro diverse<br />

neoplasie ematologiche, come le leucemie 10 , o<br />

solide quali l’epatocarcinoma 11 , il cancro polmonare<br />

12 , renale 13 , gastrico 14 e ovarico 15 . Un<br />

recente studio ha inoltre evidenziato un effetto<br />

inibitorio delle cellule CIK sulla crescita del<br />

cervicocarcinoma umano sia in vitro che in<br />

vivo dopo xenotrapianto nel modello murino 16 .<br />

Sono inoltre disponibili in letteratura dati<br />

clinici preliminari ottenuti utilizzando cellule<br />

CIK in casistiche ancora limitate di pazienti.<br />

Per quanto riguarda i risultati ottenuti mediante<br />

utilizzo di cellule CIK di derivazione allogenica,<br />

in pazienti affetti da neoplasie ematologiche<br />

recidivanti dopo trapianto allogenico<br />

(leucemie, linfomi, mielodisplasie), Introna<br />

et al. hanno dimostrato che la produzione di<br />

cellule CIK è fattibile e la loro reinfusione ben<br />

tollerata ed in grado di contribuire ad una<br />

risposta clinica. In particolare, su 11 pazienti<br />

arruolati, sono state osservate 1 stabilizzazio-<br />

ne di malattia, 1 miglioramento ematologico<br />

e 3 risposte cliniche complete 6 . Per quanto<br />

riguarda invece l’uso di cellule CIK autologhe,<br />

i risultati di un recente studio pilota di Olioso<br />

et al. hanno evidenziato che l’immunoterapia<br />

adottiva con tali cellule è, anche in questo<br />

caso, sicura e dotata di un promettente livello<br />

di efficacia terapeutica sia in neoplasie ematologiche<br />

avanzate (6 casi di linfoma) che in<br />

tumori solidi metastatici (5 casi di carcinoma<br />

renale e 1 caso di epatocarcinoma). Su un totale<br />

di 12 pazienti arruolati sono state ottenute<br />

3 risposte complete (in 1 linfoma, 1 carcinoma<br />

renale e 1 epatocarcinoma) e 2 stabilizzazioni<br />

di malattia con una mediana di follow-up di<br />

33 mesi 5 .<br />

Progetto di studio<br />

Nell’ambito dei tumori solidi ginecologici, il<br />

carcinoma della cervice uterina è caratterizzato,<br />

in caso di diagnosi precoce, da una buona<br />

prognosi dopo trattamento con chirurgia radicale<br />

o radiochemioterapia. La radiochemioterapia<br />

concomitante è fortemente consigliata<br />

nei casi di carcinoma localmente avanzato;<br />

tuttavia, le pazienti con malattia metastatica<br />

o recidivante ottengono risultati terapeutici<br />

scadenti con opzioni di trattamento limitate.<br />

Nelle recidive di cervicocarcinoma, sono ragionevolmente<br />

candidate ad un secondo tentativo<br />

di cura solo quelle pazienti con malattia a<br />

localizzazione centrale nella pelvi e che non<br />

mostrino segni clinici di metastatizzazione<br />

linfonodale o a distanza. Tranne rare eccezioni,<br />

in tutti gli altri casi si può realisticamente<br />

parlare solo di terapie palliative. Prescindendo<br />

dalla modalità di trattamento, le pazienti<br />

con carcinoma cervicale recidivante mostrano<br />

globalmente una sopravvivenza a 24 mesi del<br />

10-15%, la quale scende drammaticamente<br />

al di sotto del 5% a 5 anni. Il trattamento<br />

suggerito per le pazienti con recidiva pelvica<br />

dopo chirurgia radicale è la radioterapia<br />

o, in particolari circostanze, l’eviscerazione<br />

pelvica. Globalmente, i risultati terapeutici<br />

sono comunque insoddisfacenti con tassi di<br />

cura generalmente inferiori al 5%. I migliori<br />

risultati si rilevano nei casi di recidiva pelvica<br />

isolata di piccolo volume, con sopravvivenze a<br />

5 anni comunque non superiori al 20-30%. Gli<br />

studi sull’efficacia della chemioterapia nella


A. Perillo et al.: Immunoterapia con cellule CIK 201<br />

malattia recidivante o metastatica con farmaci<br />

citotossici a dosi standard, da soli o in combinazione,<br />

condotti su un numero adeguato di<br />

pazienti, sono concordi nell’indicare basse percentuali<br />

di attività terapeutica e percentuali<br />

di risposta molto variabili (10-25%), che solo in<br />

alcune casistiche superano il 40%. Raramente<br />

si sono registrate risposte complete, che sono<br />

comunque di breve durata. Fino ad oggi non è<br />

stato ancor identificato un trattamento innovativo<br />

in grado di migliorare ulteriormente la<br />

sopravvivenza nel cancro metastatico o recidivante<br />

della cervice uterina, ed in questo contesto<br />

sono necessari nuovi approcci terapeutici<br />

per diminuire la mortalità e la morbidità nelle<br />

pazienti.<br />

A tale scopo, nell’ambito di una Convenzione<br />

stipulata tra l’<strong>Azienda</strong> <strong>Ospedaliera</strong> “San<br />

<strong>Camillo</strong>-<strong>Forlanini</strong>” e l’Università Cattolica del<br />

Sacro Cuore, che prevede una diversificata<br />

gamma di collaborazioni scientifiche e cliniche<br />

tra il Dipartimento di Medicina Trasfusionale<br />

(DMT) “Roma Ovest” Direttore il prof. Luca<br />

Pierelli, il Dipartimento Materno Infantile<br />

Direttore il prof. Claudio Donadio, dell’<strong>Azienda</strong><br />

<strong>Ospedaliera</strong> San <strong>Camillo</strong>-<strong>Forlanini</strong> e il<br />

Dipartimento Tutela della Salute della Donna<br />

e della Vita Nascente Direttore prof. Giovanni<br />

Scambia dell’Università Cattolica del Sacro<br />

Cuore è stato elaborato un progetto di studio.<br />

Tale progetto di fase I/II si propone di valutare<br />

la fattibilità e l’attività di una immunoterapia<br />

adottiva con cellule CIK autologhe in tumori<br />

ginecologici a prognosi molto sfavorevole quali<br />

i carcinomi metastatici o recidivanti della<br />

cervice uterina non responsivi ai trattamenti<br />

convenzionali.<br />

La produzione delle cellule CIK avverrà<br />

presso il laboratorio “Cellule Staminali e<br />

Terapie Cellulari” sito nel Dipartimento di<br />

Medicina Trasfusionale dell’<strong>Azienda</strong> “San <strong>Camillo</strong>-<strong>Forlanini</strong>”,<br />

in seguito all’autorizzazione<br />

ottenuta dall’Agenzia Italiana del Farmaco<br />

(AIFA), che ha riconosciuto alla Struttura i<br />

requisiti richiesti per la produzione di medicinali<br />

per terapia cellulari e al direttore del Dipartimento<br />

suddetto i titoli e l’esperienza per<br />

svolgere tale attività sotto la propria responsabilità<br />

e direzione tecnica (in base al Decreto<br />

Legislativo 6 novembre 2007, n. 200).<br />

L’espansione delle cellule CIK verrà effettuata<br />

a partire da linfociti raccolti, mediante<br />

procedura di leucoaferesi, dalla stessa pazien-<br />

te che riceverà il trattamento. La terapia con<br />

cellule CIK verrà effettuata su singole pazienti<br />

in mancanza di valida alternativa terapeutica,<br />

nei casi di urgenza ed emergenza che pongono<br />

la paziente in pericolo di vita o di grave<br />

danno alla salute, nonché nei casi di grave<br />

patologia a rapida progressione. Tale terapia<br />

cellulare sarà effettuata sotto la responsabilità<br />

professionale del medico, in esecuzione di<br />

una prescrizione medica individuale per un<br />

prodotto specifico destinato ad un determinato<br />

paziente, in ottemperanza al Regolamento<br />

(CE) N. 1394/2007 del Parlamento Europeo<br />

e del Consiglio del 13 novembre 2007. Le<br />

preparazioni cellulari saranno effettuate nel<br />

rispetto dei requisiti di qualità farmaceutica<br />

approvati dall’Istituto Superiore di Sanità.<br />

I materiali utilizzati per la produzione ed<br />

espansione delle cellule CIK dovranno essere<br />

prodotti in “good manufacturing practice”<br />

(GMP); le citochine utilizzate (IFN-γ, IL-2,<br />

OKT3) saranno quelle per utilizzo clinico,<br />

fornite dalla farmacia ospedaliera di appartenenza<br />

della paziente. La procedura di raccolta<br />

ed espansione, con relativo cambio di terreno<br />

di coltura e aggiunta delle citochine, avverrà<br />

in un sistema chiuso mediante l’utilizzo di apposite<br />

sacche. Ogni settimana verrà effettuata<br />

la conta emocromocitometrica, l’analisi citofluorimetrica<br />

del fenotipo cellulare, i controlli<br />

microbiologici per endotossine e batteri, e lo<br />

studio citogenetico per la valutazione di alterazioni<br />

cromosomiche. Alla paziente verranno<br />

somministrate 1x10 7 cellule CIK per kg, ad<br />

intervalli di 3 settimane, e verrà valutata la<br />

tossicità locale e sistemica durante e dopo il<br />

trattamento. Prima del trattamento e durante<br />

il follow-up verranno effettuate le opportune<br />

valutazioni clinico-strumentali.<br />

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Corrispondenza e richiesta estratti:<br />

Prof. Luca Pierelli,<br />

e-mail lpierelli@scamilloforlanini.rm.it


ANNALI DEGLI OSPEDALI<br />

San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong><br />

Volume 11, Numero 4, Ottobre- Dicembre 2009<br />

IL TRAPIANTO DI CELLULE STAMINALI DA SANGUE<br />

DI CORDONE OMBELICALE<br />

UMBILICAL CORD BLOOD STEM CELL TRANSPLANTATION<br />

MARIA BEATRICE PINAZZI, BARBARA MONTANTE, ANNA LOCASCIULLI 1 , IGNAZIO MAJOLINO<br />

Unità Operativa di Ematologia e Trapianto di Cellule Staminali, 1 Unità Operativa di Pediatria<br />

ed Ematologia Pediatrica, <strong>Azienda</strong> <strong>Ospedaliera</strong> S.<strong>Camillo</strong>-<strong>Forlanini</strong>, Roma<br />

Introduzione<br />

Le cellule staminali emopoietiche (CSE)<br />

sono elementi presenti nel midollo osseo capaci<br />

di riprodurre interamente l’emopoiesi<br />

dopo trapianto e dotate pertanto di capacità<br />

di auto-rinnovamento e di differenziazione 1 .<br />

Il trapianto allogenico di cellule staminali<br />

emopoietiche (HSCT: hematopoietic stem cell<br />

transplantation) rappresenta il trattamento<br />

di scelta per numerose condizioni neoplastiche<br />

e non, sia ematologiche che non-ematologiche.<br />

Esso consiste nell’infondere al ricevente, solitamente<br />

per via endovenosa, un numero adeguato<br />

di CSE precedentemente prelevate da<br />

un donatore sano HLA-compatibile. L’HSCT<br />

è preceduto da un trattamento immuno-mieloablativo<br />

(regime di condizionamento) ed è<br />

seguito da una terapia immunosoppressiva<br />

che ha il fine di favorire l’attecchimento e di<br />

prevenire la complicanza più frequente: la<br />

graft-versus-host disease (GVHD, malattia da<br />

trapianto contro l’ospite) nelle sue forme acuta<br />

e cronica. Gli scopi del trapianto sono:<br />

1. sostituire con un tessuto ematologicamente<br />

ed immunologicamente normale il midollo<br />

osseo del paziente<br />

2. sfruttare l’effetto “graft-versus-leukemia”<br />

(GvL: reazione del trapianto contro la leucemia),<br />

sostenuto dai linfociti T del donatore.<br />

L’effetto GvL si basa sull’alloreattività<br />

nei confronti dei tessuti del ricevente e<br />

quindi anche della popolazione leucemica<br />

e rappresenta la terapia immuno-mediata<br />

peculiare del trapianto allogenico.<br />

Le cellule staminali sono residenti nel midollo<br />

osseo ma possono essere spinte a migrare<br />

nel torrente circolatorio sotto appropriati stimoli;<br />

si trovano normalmente anche nel cordone<br />

ombelicale del neonato come espressione<br />

di una fase precoce (fetale) dell’emopoiesi. Col<br />

tempo si è giunti ad impiegare correntemente<br />

le seguenti sorgenti di cellule staminali emopoietiche:<br />

a. midollo osseo<br />

b. sangue venoso periferico<br />

c. sangue di cordone ombelicale<br />

caratteristiche e vantaggi sono riassunti<br />

nella tabella 1.<br />

Le principali indicazioni all’HSCT sono<br />

rappresentate da:<br />

a. Malattie ematologiche acquisite: leucemia<br />

acuta, anemia aplastica, leucemia mieloide<br />

cronica, mieloma multiplo e patologie linfoproliferative<br />

in fase avanzata.<br />

b. Malattie congenite ematologiche e non:<br />

anemia di Fanconi, anemia di Blackfan-<br />

Diamond, talassemia, drepanocitosi, osteopetrosi,<br />

errori congeniti del metabolismo.<br />

c. Tumori solidi: neuroblastoma e sarcoma dei<br />

tessuti molli.<br />

Il limite principale che si pone all’esecuzione<br />

del trapianto è rappresentato dalla disponibilità<br />

di un donatore HLA-compatibile. Nella<br />

pratica quotidiana, più di un terzo dei pazienti<br />

in cui vi sarebbe indicazione al trapianto non


204 Annali degli Ospedali San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong> 11, 4, 2009<br />

Tabella 1. Confronto tra le sorgenti di cellule staminali<br />

Midollo Osseo PBSC mobilizzate con G-CSF Cordone Ombelicale<br />

• raccolta in anestesia generale<br />

• numero di cellule raccolte:<br />

N. medio di MNC: 2 x10^8 /kg<br />

N. medio CD34+: 2x10^6 /kg<br />

N. medio linfociti T: 2.2x10^7<br />

/kg<br />

• Raccolta semplice, non anestesia<br />

generale<br />

• Possibili effetti collaterali del fattore<br />

di crescita granulocitario (G-<br />

CSF)<br />

• numero di cellule raccolte:<br />

N. medio di MNC: 9 x10^8 /kg<br />

N. medio CD34+: 7 x10^6 /kg<br />

N. medio di linfociti T: 27 x10^7 /kg<br />

dispone di un donatore familiare. In questi<br />

casi si può ricorrere ai registri internazionali<br />

di donatori volontari ma, a causa del polimorfismo<br />

del sistema HLA, la ricerca non porta<br />

all’identificazione di un potenziale donatore in<br />

una percentuale dei casi superiore al 30%. Oltre<br />

a ciò i tempi di ricerca sono spesso troppo<br />

lunghi in rapporto all’urgenza del trapianto: la<br />

mediana è infatti di 3-4 mesi dall’avvio della<br />

procedura 2 . Per ovviare a questo inconveniente<br />

si può ricorrere all’impiego di donatori con<br />

una compatibilità solo parziale, sia consanguinei<br />

che non; tali trapianti sono però gravati da<br />

una più elevata mortalità trapianto-correlata<br />

(transplant related mortality, TRM).<br />

Il trapianto di cellule staminali da cordone<br />

ombelicale (UCB, umbilical cord blood) non<br />

correlato rappresenta una possibile soluzione<br />

ad alcune di queste limitazioni. Le cellule<br />

staminali di UCB trapiantate in soggetti di<br />

basso peso corporeo, cioè sostanzialmente in<br />

età pediatrica, sono in grado di ricostituire<br />

l’emopoiesi dopo terapia di condizionamento<br />

mieloablativo e, essendo immunologicamente<br />

meno mature di quelle adulte, rendono<br />

accettabile una maggiore disparità HLA tra<br />

donatore e ricevente. Con gli anni, dopo i<br />

primi successi clinici e le numerose esperienze<br />

di laboratorio, l’uso del cordone è andato<br />

estendendosi da una popolazione costituita<br />

esclusivamente da pazienti pediatrici 3 anche a<br />

pazienti adulti. Occorre precisare tuttavia che<br />

nell’adulto l’utilizzo di UCB è reso problemati-<br />

• Raccolta semplice e senza rischi<br />

• Immediata disponibilità dell’unità e basso<br />

rischio di malattie trasmissibili<br />

• Parziale mismatches HLA: consentito<br />

• numero di cellule raccolte:<br />

N. medio MNC: 0.3 x10^8 /kg<br />

N. medio CD34+: 0.2x10^6 /kg<br />

N. medio di linocitif T: 0.4 x10^7 /kg<br />

co dal basso contenuto di cellule emopoietiche<br />

e progenitori staminali in relazione al peso<br />

corporeo. Per ovviare a questo problema si è<br />

ricorsi a due modalità innovative:<br />

1. l’uso di due o più UCB per uno stesso paziente<br />

2. l’infusione di UCB direttamente nelle cavità<br />

midollari delle creste iliache.<br />

Il cordone ombelicale come sorgente<br />

di cellule staminali emopoietiche<br />

Il primo trapianto di CSE da cordone è stato<br />

eseguito con successo nel 1988 in un bambino<br />

affetto da anemia di Fanconi utilizzando sangue<br />

di cordone ombelicale del neonato fratello<br />

HLA-identico 4 . Da allora si sono susseguite<br />

numerose segnalazioni in letteratura, prevalentemente<br />

in ambito pediatrico, che hanno<br />

sancito l’efficacia e la fattibilità della procedura<br />

utilizzando cordoni da donatori familiari<br />

HLA-identici, familiari HLA-mismatched e<br />

donatori non consanguinei e l’utilizzo di questa<br />

sorgente di CSE è andato aumentando nel<br />

corso degli ultimi anni 5 (Tabella 2).<br />

Nel 1992 sono sorte le prime banche di<br />

cordone ombelicale a New York, Parigi, Milano<br />

e Düsseldorf, ed altre se ne sono aggiunte<br />

successivamente. Attualmente vi sono nel<br />

mondo 46 banche in 23 paesi, e 33 di queste<br />

contribuiscono al data-base mondiale BMDW<br />

(Bone Marrow Donors Worldwide). Secondo<br />

dati IBMDR (Italian Bone Marrow Donor<br />

Tabella 2. Trapianti da donatore non familiare e sorgente di cellule staminali, anni 2000-2008<br />

(dati IBMDR Italian Bone Marrow Donor Registry)<br />

Sorgente di CSE per trapianto 2000<br />

anno<br />

2005 2008<br />

Cordone 10% 13% 19%<br />

Sangue venoso periferico 4% 42% 49%<br />

Midollo osseo 86% 45% 32%


M.B. Pinazzi et al.: Il trapianto di cellule staminali da sangue di cordone ombelicale 205<br />

Registry), aggiornati al 31 dicembre 2008,<br />

nel mondo le unità cordonali criopreservate<br />

sono circa 400.000 e vengono raccolte circa<br />

40.000 unità all’anno. In Italia abbiamo 18<br />

banche con 43.542 unità bancate di cui 20.112<br />

sono state tipizzate ed inserite nel data-base<br />

IBMDR. Di queste ne sono state rilasciate 887<br />

a scopo di trapianto, distribuite come segue:<br />

Italia 34%, Europa 32%, USA 24%, Sud America<br />

4%, Canada 2%, Australia 2%, Israele 1%,<br />

Asia 1% . (Dati IBMDR/istituto Superiore di<br />

Sanità 31/12/2008, www.ibmdr.galliera.it).<br />

La ricerca e l’identificazione di una UCB<br />

per un potenziale trapianto hanno tempi piuttosto<br />

brevi dal momento che le unità di cordone<br />

vengono sistematicamente tipizzate per i<br />

loci HLA -A, -B a bassa risoluzione e -DRB1 ad<br />

alta risoluzione prima della criopreservazione:<br />

in uno studio è stato calcolato che per l’identificazione<br />

e la disponibilità di un cordone occorrono<br />

in media 13,5 giorni 6 . Anche le modalità<br />

di consegna delle unità selezionate dal centro<br />

richiedente sono veloci e ben programmabili;<br />

tutto questo si traduce nel vantaggio di limitare<br />

l’attesa per il trapianto, fattore di primaria<br />

importanza in pazienti senza un donatore<br />

familiare HLA-identico e con malattia ad alto<br />

rischio di recidiva.<br />

Caratteristiche del sangue cordonale<br />

I vasi placentari e del cordone ombelicale<br />

contengono elementi cellulari staminali con<br />

caratteristiche simili a quelle del soggetto<br />

adulto, ma con alcune importanti differenze<br />

che le rendono del tutto peculiari anche per<br />

la finalità del trapianto: il sangue placentare<br />

contiene un numero di progenitori sufficienti<br />

a determinare la ricostituzione emopoietica<br />

nell’animale letalmente irradiato; anche nel<br />

sangue placentare umano sono presenti progenitori<br />

emopoietici capaci di formare colonie in<br />

vitro (CFU, CFU-Bl e LTC-IC) 7, 8 , esse sono in<br />

numero superiore al midollo osseo e al sangue<br />

periferico 9 ed hanno una maggiore capacità di<br />

auto-rinnovamento ed una maggiore capacità<br />

proliferativa 10 . Il loro livello di immaturità e<br />

la ridotta reattività immunologica comportano<br />

una ridotta incidenza e severità della GvHD 11 .<br />

Le cellule staminali cordonali possono essere<br />

considerate delle cellule somatiche “unrestricted”<br />

in quanto non solo sono in grado di<br />

ricostituire il compartimento emopoietico ma<br />

possono dare origine ad altri tessuti. Infatti il<br />

sangue cordonale contiene: cellule staminali<br />

mesenchimali, cellule staminali endoteliali,<br />

cellule CD34+ CD11b+ che hanno capacità differenziativa<br />

verso cellule endoteliali, ed infine<br />

cellule VEGF-R3+ CD34+ che hanno elevata<br />

capacità di espansione e mantenimento della<br />

funzione angiogenetica in vivo 12 .<br />

Processazione e criopreservazione<br />

del sangue cordonale<br />

Il sangue placentare e cordonale viene prelevato<br />

dalla vena ombelicale, che subito dopo<br />

la nascita viene incannulata con apposito ago;<br />

viene raccolto in una sacca con anticoagulante,<br />

vengono prelevate le aliquote per gli esami di<br />

legge e si procede a centrifugazione del campione<br />

con separazione del supernatante ricco di<br />

leucociti che viene trasferito in una sacca più<br />

piccola. I leucociti sedimentati sono risospesi<br />

nel plasma ottenendo un volume totale di circa<br />

20 ml che viene sottoposto a criopreservazione<br />

in azoto liquido con aggiunta di dimetilsulfossido<br />

13 . La procedura non comporta rischi né<br />

per la madre né per il neonato (Fig. 1).<br />

Selezione dell’unità di sangue<br />

cordonale<br />

Tre importanti caratteristiche distinguono<br />

il trapianto di cellule staminali da cordone<br />

da quello di cellule staminali da midollo e da<br />

sangue periferico (Tabella 3):<br />

Fig. 1. Raccolta del sangue del cordone ombelicale


206 Annali degli Ospedali San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong> 11, 4, 2009<br />

Tabella 3. Benefici e limiti del trapianti di CSE da cordone ombelicale<br />

Vantaggi Svantaggi<br />

• Rapida disponibilità<br />

• Minore compatibilità HLA richiesta<br />

• GVHD meno frequente e meno severa<br />

• Nessun rischio per il donatore<br />

• per le minoranze etniche: maggiore probabilità di<br />

trovare UCB con identità HLA almeno 4/6 e con dose<br />

cellulare adeguata<br />

1. il minor grado di compatibilità HLA richiesto;<br />

2. il minor numero di cellule staminali;<br />

3. la disponibilità pressoché immediata dell’unità<br />

selezionata.<br />

La selezione dell’unità cordonale avviene in<br />

primo luogo sulla base del grado di compatibilità<br />

per il sistema HLA. Lo standard attuale per<br />

la selezione di un’unità è rappresentato dalla<br />

tipizzazione a bassa o intermedia risoluzione<br />

per i loci A e B e ad alta risoluzione (livello<br />

allelico) per il DRB1. Il grado di disparità consentito,<br />

che nei trapianti standard di midollo<br />

è (massimo) di 1 antigene, in questo caso può<br />

essere anche di 3 (consigliato max 2). Secondo<br />

gli standard IBMDR una UCB viene considerata<br />

utilizzabile quando le disparità antigeniche<br />

sono al massimo due in prima classe (HLA<br />

A,B) ovvero una in classe I (HLA A,B) e una<br />

al locus DRB1 a livello allelico. Ciò consente<br />

una maggiore frequenza di assegnazione delle<br />

UCB al potenziale candidato rispetto a quanto<br />

avviene per i campioni di midollo osseo 6 .<br />

Il fattore limitante più importante per l’assegnazione<br />

di un’UCB è rappresentato dal numero<br />

totale delle cellule mononucleate (CMN):<br />

la dose adeguata, calcolata sulla base del peso<br />

corporeo, è difficile da raggiungere quando il<br />

ricevente è un soggetto adulto 14 o comunque di<br />

peso superiore a 40 kg. Sebbene il potenziale<br />

rigenerativo e la capacità di ripopolare il compartimento<br />

emopoietico da parte delle CSE di<br />

cordone siano più spiccati rispetto alle CSE<br />

da sangue midollare o periferico, rimane il<br />

fatto che il numero totale di CMN di un’unita<br />

di sangue cordonale è mediamente 10 volte (1<br />

log) inferiore a quello contenuto in un campione<br />

di midollo osseo.<br />

Gluckman e coll. hanno dimostrato un<br />

recupero più rapido della conta dei polimorfonucleati<br />

neutrofili quando l’UCB infusa conteneva<br />

un numero di CMN > 3.7 x 10 7 /kg 5 .<br />

In generale il numero minimo di CMN per<br />

effettuare un trapianto da cordone dovrebbe<br />

• Bassa cellularità<br />

• Possibile variabilità nella qualità dell’UCB allo scongelamento<br />

• Ritardato attecchimento<br />

• Ritardato recupero immunologico<br />

• Aumentato rischio infettivo<br />

essere >2.0-2.5 x 10 7 /kg 15 . Anche il numero di<br />

progenitori emopoietici CD34+ (cellule staminali<br />

emopoietiche pluripotenti determinabili<br />

in citometria a flusso) ha un impatto significativo<br />

sull’attecchimento e sulla sopravvivenza<br />

globale (overal survival, OS): OS a 5 anni del<br />

60% nei pazienti che hanno ricevuto una dose<br />

di cellule CD34+ >2.3 x 10 5 /kg a confronto con<br />

un’OS a 5 anni del 30% nei pazienti che hanno<br />

ricevuto una dose inferiore (p 0.010) 16 .<br />

Le raccomandazioni EUROCORD per la<br />

scelta di una unità di sangue cordonale sono<br />

attualmente:<br />

I. nelle malattie neoplastiche: ≤2 differenze<br />

HLA e cellule nucleate >2.5x10 7 /kg o CD34<br />

≥2x10 5 /kg<br />

II. nelle malattie non-neoplastiche (dove è<br />

maggiore il rischio di rigetto, la dose cellulare<br />

dovrebbe essere incrementata e migliorata<br />

la compatibilità HLA) dovrebbero<br />

essere escluse le unità con incompatibilità<br />

HLA ≥ 2 e cellule nucleate < 3.5x10 7 /kg<br />

III.se non ci sono singole unità di sangue<br />

cordonale con queste caratteristiche ci si<br />

può orientare verso l’utilizzo di due unità<br />

provenienti da donatori diversi che non<br />

presentino possibilmente più di 1 differenza<br />

HLA tra loro e con il paziente e con una<br />

dose totale di cellule nucleate ≥ 3x10 7 /kg 17 .<br />

Effetto della compatibilità HLA<br />

Da un’analisi delle casistiche emerge che la<br />

maggior parte delle unità di sangue cordonale<br />

trapiantate presentava delle disparità HLA<br />

tra donatore e ricevente di grado variabile<br />

da 1 a 2 loci. Non vi è concordanza di opinioni<br />

relativamente all’effetto di tali disparità<br />

su attecchimento ed outcome del trapianto.<br />

L’analisi del National Cord Blood Program al<br />

New York Blood Center (NYCB) che esamina<br />

pazienti che hanno ricevuto UCB con grado di<br />

compatibilità variabile da 6/6 a 3/6 dimostra<br />

un effetto avverso del grado di incompatibilità


M.B. Pinazzi et al.: Il trapianto di cellule staminali da sangue di cordone ombelicale 207<br />

su attecchimento, incidenza di GVHD, TRM,<br />

e sopravvivenza libera da malattia (DFS: disease<br />

free survival) indipendentemente dalla<br />

dose cellulare; mentre la dose cellulare non ha<br />

nessun impatto nel trapianto con compatibilità<br />

6/6 può significativamente compensare l’impatto<br />

negativo del mismatch nei trapianti con<br />

compatibilità inferiore a 6/6 18-20 . Secondo i dati<br />

riportati da Gluckman e coll. 6 nel 2004, l’incompatibilità<br />

HLA sembra non avere impatto<br />

sulla sopravvivenza, mentre ha impatto negativo<br />

sull’attecchimento in concordanza con i<br />

risultati del NYCB 18-20 . L’analisi dell’Eurocord<br />

del 2006 21 dimostra che sebbene una maggiore<br />

incompatibilità HLA abbia un effetto avverso<br />

sull’attecchimento, può comportare una riduzione<br />

del rischio di recidiva nelle malattie<br />

neoplastiche (effetto GvL). La sopravvivenza<br />

al contrario è ridotta nelle malattie non-neoplastiche.<br />

Le tabelle 4 e 5 illustrano i risultati<br />

riportati relativamente all’attecchimento e<br />

alla sopravvivenza.<br />

Nel trapianto da cordone non correlato l’incidenza<br />

di GVHD acuta varia complessivamente<br />

tra il 33% e il 44% (grado II-IV) e tra l’11%<br />

ed il 22% per il grado severo (III-IV), mentre<br />

l’incidenza di GVHD cronica complessiva (forma<br />

limitata + estesa) viene riportata tra lo 0<br />

e il 25% 15 . Si consideri che la maggior parte<br />

delle UCB trapiantate presenta almeno una<br />

singola disparità sui loci HLA. Nello studio pediatrico<br />

COBLT 23 , l’incidenza di GVHD acuta<br />

era significativamente superiore nei riceventi<br />

di UCB con compatibilità 4/6 a confronto con<br />

5/6 o 6/6. L’influenza della disparità HLA sull’incidenza<br />

di GVHD dopo trapianto con UCB è<br />

comunque inferiore rispetto a quanto riportato<br />

nel trapianto di cellule midollari da donatore<br />

volontario 20 .<br />

Ricostituzione immunologica e rischio<br />

infettivo<br />

La ritardata ricostituzione immunologica<br />

rimane una delle più importanti cause di morbidità<br />

e mortalità del trapianto da cordone ombelicale<br />

in quanto associata a rischio infettivo<br />

soprattutto nelle prime fasi post-trapianto. In<br />

uno studio del gruppo spagnolo 24 di confronto<br />

tra CSE da cordone, sangue periferico e midollo<br />

si è evidenziato per il cordone una più elevata<br />

e significativa frequenza di infezioni severe<br />

nei primi 3 anni che giunge all’85% rispetto<br />

al 67-69% (p 0.009), con un trend di maggiore<br />

incidenza nei primi 30 giorni. Le infezioni sono<br />

per il 55% batteriche, 14% fungine, 32% virali.<br />

L’uso del siero antilinfocitario (ATG) per la<br />

profilassi della GVHD e la linfopenia correlano<br />

con il maggior rischio di sviluppare infezione<br />

da citomegalovirus (CMV), che comunque ha<br />

una maggiore incidenza nei pazienti CMVsieropositivi<br />

prima del trapianto. La GVHD<br />

aumenta il rischio di malattia da CMV in tutti<br />

i gruppi, e di infezioni fatali anche dopo i primi<br />

100 giorni. Tuttavia, proprio il basso rischio di<br />

GVHD cronica (cGVHD) nel trapianto da cordone<br />

può spiegare il minor rischio di infezioni<br />

tardive specialmente fungine 24 .<br />

Tabella 4. HLA: effetto del mismatch sull’attecchimento (definito come Neutrofili ≥500)<br />

HLA-A,B,DRB1:<br />

grado di compatibilità<br />

Rubinstein<br />

1998 22<br />

Attecchimento<br />

Gluckman 20046 Eapen 200720 Kurtzberg 200823 6/6 100% 83% 85% Favorevole p 0.04<br />

5/6 78% Ridotto 80%<br />

4/6 82% Ridotto 76% Sfavorevole<br />

≤ 3/6 69% p 0.01 53.2% p


208 Annali degli Ospedali San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong> 11, 4, 2009<br />

L’analisi della ricostituzione immunologica<br />

mostra che nelle fasi successive al condizionamento<br />

il numero di linfociti-T CD4+ e CD8+<br />

è ridotto ed il normale rapporto CD4+/CD8+<br />

è invertito. Viceversa, il numero assoluto dei<br />

linfociti-B (CD19+) è normale ed il numero<br />

di linfociti-NK (CD16+/56+) è lievemente aumentato<br />

25 . A 30 giorni dal trapianto il numero<br />

di CD4+/CD8+ è ancora estremamente basso<br />

e tale si mantiene per almeno 6 mesi, dopo di<br />

che si assiste ad un aumento del loro numero<br />

assoluto fino a valori normali ad 1 anno dal<br />

trapianto; tuttavia già dopo i primi 100 giorni<br />

vi è la capacità, da parte dei linfociti “naive”<br />

(linfociti che non hanno mai incontrato l’antigene)<br />

di avviare una precoce risposta immune<br />

primaria ai patogeni. Il deficit della timopoiesi<br />

caratterizza la ricostituzione immunologica<br />

post-trapianto di cordone ed è associato ad un<br />

ritardato recupero dell’attività T-memoria 26 .<br />

Pur in presenza di queste alterazioni, l’effetto<br />

GVL non appare compromesso; non è stato osservato<br />

un aumentato rischio di recidiva dopo<br />

trapianto di cordone e, come per il trapianto<br />

con CSE adulte, l’incidenza di recidiva correla<br />

più con il tipo e lo stato della malattia al<br />

momento del trapianto che con l’immaturità<br />

immunologia del cordone.<br />

Trapianto di CSE da cordone e da<br />

midollo a confronto<br />

In letteratura non vi sono studi prospettici<br />

di confronto tra trapianto di cellule staminali<br />

cordonali e trapianto di cellule staminali adulte<br />

da donatore non-consanguineo. Gli studi<br />

retrospettivi più recenti di confronto sono dell’International<br />

Bone Marrow Transplant Registry<br />

(IBMTR/NYCB) 27 e dell’ EBMT 28 ,oltre ad<br />

uno studio monocentrico giapponese 29 .<br />

Il confronto mostra un attecchimento più<br />

lento nel gruppo che riceve cordone, mentre<br />

non vi sono differenze significative in termini<br />

di GVHD acuta (aGVHD) nonostante la maggior<br />

parte delle unità di cordone trapiantate<br />

presenti almeno 1 incompatibilità. Anche l’incidenza<br />

di recidiva e l’OS a 2 anni sono sovrapponibili<br />

nei due gruppi (Tabella 6). Una migliore<br />

sopravvivenza globale è stata registrata<br />

dopo trapianto di cordone nella popolazione<br />

giapponese: ciò è verosimilmente in relazione<br />

al basso peso corporeo ed alla maggiore omogeneità<br />

genetica.<br />

Anche nei pazienti pediatrici affetti da leucemia<br />

acuta e sottoposti a trapianto di CSE da<br />

cordone (N=99 di cui 89% con disparità HLA<br />

da 1 a 3 loci) a confronto con quelli di CSE da<br />

midollo (N=416, di cui 262 hanno ricevuto midollo<br />

non manipolato e 180 midollo T-depleto),<br />

i risultati evidenziano un aumento del tempo<br />

di attecchimento della linea mieloide e piastrinica<br />

nel gruppo cordone. Nello stesso gruppo<br />

appaiono ridotte sia l’incidenza di GVHD<br />

acuta (33% CB vs 56% BM senza T-deplezione)<br />

che cronica (25% CB vs 46% BM senza<br />

T-deplezione). Inoltre la velocità di recupero di<br />

neutrofili e piastrine correla con la dose totale<br />

di cellule infuse (cut-off 3.7 x 10 7 /kg) ma non<br />

Tabella 6. Studi di confronto: trapianto da cordone e da donatore non correlato nell’adulto<br />

Autore Laughlin 200427 (IBMTR+NYBC)<br />

Periodo di<br />

osservazione<br />

Rocha 2004 28<br />

(Eurocord + EBMT)<br />

Takahashi 2004 29<br />

1996-2001 1998-2002 1996-2003<br />

Sorgente di CSE Cordone Midollo Cordone Midollo Cordone Midollo<br />

N pazienti 150 367 98 584 68 45<br />

Compatibilità 6/6 0<br />

5/6 23 %<br />

4/6 77%<br />

No mismatch<br />

100%<br />

6/6 6%<br />

5/6 51%<br />

4/6 39%<br />

3/6 4%<br />

No mismatch<br />

100%<br />

6/6 0<br />

5/6 21 %<br />

4/6 54%<br />

3/6 25%<br />

No mismatch<br />

87%<br />

1 mismatch<br />

13%<br />

CNT x107 /kg 2,2 24 2,3 29 2,5 33<br />

PMN<br />

>500/mm3 27 (25- 18 (18-19) 26 (14-80) 19 (5-72) 22 (16-41) 18 (12-33)<br />

(giorni) 29)<br />

aGvHD II-IV 40% 48% 26% 39% 50% 66%<br />

cGvHD 50% 35% 30% 46% 77% 74%<br />

TRM 63% 46% 44% 2 aa 38% 2aa 9% 1-2 aa 29% 1-2 aa<br />

OS 26% 3 aa 35% 3 aa 36% 2 aa 42% 2 aa 74% 2 aa 44% 2 aa<br />

Recidiva 2 aa n.a. n.a. 23% 23% 16% 25%


M.B. Pinazzi et al.: Il trapianto di cellule staminali da sangue di cordone ombelicale 209<br />

con la disparità HLA, come invece osservato<br />

per il trapianto da donatore non correlato di<br />

CSE, la sopravvivenza a 2 anni è comparabile<br />

fra i diversi gruppi 40 .Questi risultati sono stati<br />

confermati dal recente studio IBMTR/ NYCB,<br />

in cui 503 bambini affetti da leucemia acuta<br />

sono stati trapiantati con cordone (221) o con<br />

midollo (282). La TRM nel gruppo che ha ricevuto<br />

cordone con 1 o 2 differenze indipendentemente<br />

dalla dose cellulare, appare maggiore<br />

nei pazienti che ricevono meno di 3 x 10 7 /kg<br />

cellule mononucleate. La sopravvivenza libera<br />

da leucemia (leukemia free survival, LFS) non<br />

è significativamente differente nel gruppo che<br />

ha ricevuto cordone con 1 o 2 mismatch rispetto<br />

al gruppo che ha ricevuto midollo HLA-genotipicamete<br />

identico 20 .<br />

In nessuno degli studi riportati è stato<br />

osservato un aumento del rischio di recidiva<br />

dopo HSCT con cordone, al contrario è stato<br />

ipotizzato che l’elevata frequenza di disparità<br />

HLA tra donatore e ricevente possa giocare<br />

un ruolo, potenziando l’attività anti-leucemica<br />

delle cellule implicate nell’effetto GVL (T-linfociti<br />

e NK).<br />

Trapianto di CSE da CB nell’adulto<br />

Il limite principale per l’applicazione del<br />

trapianto da CB nell’adulto è costituito dalla<br />

bassa dose di progenitori emopoietici in rapporto<br />

al peso corporeo del ricevente. Tuttavia<br />

vari studi hanno dimostrato che la procedura<br />

è fattibile anche nell’adulto. Dati recenti dell’Eurocord<br />

Registry 30 in 171 pazienti adulti con<br />

malattie ematologiche neoplastiche trapiantati<br />

dopo il 1997, mostrano che la DFS a 2 anni<br />

dal trapianto è significativamente influenzata<br />

dalla fase di malattia. La TRM a 2 anni è del<br />

51% ma raggiunge il 68% nei primi 100 giorni.<br />

Le principali cause di morte sono rappresentate<br />

da infezioni (36%), recidiva (23%) e GVHD<br />

(11%). Il numero di cellule mononucleate alla<br />

raccolta o al congelamento e l’uso del fattore<br />

di crescita granulocitario (G-CSF) a partire da<br />

una settimana dopo l’infusione sono i fattori<br />

associati al recupero dei neutrofili. L’incidenza<br />

cumulativa di aGVHD a 100 giorni è 32%<br />

(grado I 21%, II 16%, III 9%, IV 7%), mentre la<br />

cGVHD è stata rilevata nel 36% dei pazienti a<br />

2 anni. La TRM si è ridotta rispetto al periodo<br />

precedente al 1997, verosimilmente a causa di<br />

una migliore selezione delle UCB in termini di<br />

compatibilità e di cellularità. La TRM elevata<br />

nei primi 100 giorni è verosimilmente da attribuire<br />

al più lento attecchimento rispetto al<br />

trapianto di cellule staminali adulte. I migliori<br />

risultati sono stati registrati nei pazienti che<br />

hanno ricevuto una dose di cellule mononucleate<br />

> 2x 10 7 /kg 6,30 .<br />

Trapianto di due o più unità di<br />

sangue cordonale<br />

I risultati sono riportati prevalentemente in<br />

studi del gruppo dell’Università del Minnesota<br />

che per primo ha sperimentato la possibilità di<br />

inoculare nello stesso paziente due UCB allo<br />

scopo di migliorare l’attecchimento. In uno di<br />

questi studi 31 venivano selezionate unità di sangue<br />

cordonale con una compatibilità 4-6/6 verso<br />

il ricevente e con compatibilità 5-6/6 delle UCB<br />

tra loro. A confronto con il gruppo storico di controllo<br />

che aveva ricevuto una singola unità, l’attecchimento<br />

era più precoce con doppio cordone,<br />

con mediana di 23 giorni (range 15-41) rispetto<br />

a 27 giorni del gruppo storico, si osservava una<br />

bassa frequenza di fallimento (0-22%), una<br />

maggiore incidenza di aGVHD (44-65% grado<br />

II-IV, 13% III-IV rispetto al 40% grado II-IV<br />

del gruppo storico) ma cGVHD sovrapponibile<br />

(21-25%). La sopravvivenza libera da malattia<br />

ad 1 anno dal trapianto era del 72% nei pazienti<br />

trapiantati in remissione completa.<br />

È interessante osservare che di regola una<br />

delle due unità cordonali infuse predomina<br />

sull’altra. Con lo studio del chimerismo si osserva<br />

come, dopo una fase in cui si evidenzia<br />

l’attecchimento di ambedue le unità, approssimativamente<br />

dal giorno +100 il paziente mostra<br />

un’emopoiesi che deriva solo da una delle<br />

due unità trapiantate; la ragione di questo<br />

fenomeno non è nota né si conoscono fattori<br />

predittivi della predominanza di una unità<br />

sull’altra. L’unico fattore significativo sembra<br />

il numero di linfociti T CD3+: attecchisce definitivamente<br />

l’unità che ne contiene il maggior<br />

numero. Questo avvalora l’ipotesi che il meccanismo<br />

di prevalenza di un’unità sull’altra<br />

sia di tipo immuno-mediato e che lo stesso<br />

meccanismo sostenga nel tempo l’attecchimento<br />

dell’unità predominante 31 . La procedura è<br />

fattibile e sicura, l’attecchimento precoce e la<br />

bassa incidenza di GVHD acuta severa (III-IV)<br />

comportano una relativa riduzione della mortalità<br />

trapianto-correlata.


210 Annali degli Ospedali San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong> 11, 4, 2009<br />

Trapianto di cellule staminali<br />

emopoietiche per via intra-ossea<br />

Nel trapianto di cellule cordonali la percentuale<br />

di fallimenti per mancato o ritardato<br />

attecchimento si avvicina al 20%. Dopo inoculazione<br />

per via endovenosa una larga parte<br />

dei precursori emopoietici viene catturata dai<br />

filtri fisiologici (fegato e polmone). Nel topo solo<br />

il 20% delle cellule staminali ematopoietiche<br />

inoculate si insedia stabilmente nel midollo<br />

osseo 32 . L’inoculo per via intraossea sembra<br />

dunque un’interessante alternativa a quello<br />

per via sistemica. Nel modello NOD/SCID il<br />

confronto tra l’inoculo di CSE cordonali per<br />

via intrafemorale rispetto a quella endovenosa<br />

mostra un grado di attecchimento dopo inoculo<br />

intraosseo da 6 a 12 volte superiore a quello<br />

ottenuto per via endovenosa 33 . Le altre sedi di<br />

emopoiesi fisiologica presentano un grado di attecchimento<br />

di poco inferiore a quello osservato<br />

in sede femorale, confermando la capacità delle<br />

CSE di migrare attraverso il torrente circolatorio<br />

anche dopo infusione per via intraossea.<br />

Uno stesso livello di ripopolamento del midollo<br />

emopoietico può essere ottenuto con un numero<br />

di progenitori emopoietici 10 volte inferiore<br />

a quello richiesto per via endovenosa 34 .<br />

In uno studio pioneristico del Karolinska<br />

Institut 35 venivano arruolati pazienti candidati<br />

a trapianto allogenico HLA-identico o con<br />

un singolo antigene mismatched da donatore<br />

familiare dopo condizionamento mieloablativo.<br />

Trentotto pazienti con diverse patologie ematologiche<br />

venivano randomizzati in tre bracci per<br />

ricevere rispettivamente: cellule staminali da<br />

midollo osseo di cui metà del volume endovena<br />

e metà per via intra-ossea (gruppo 1); l’intero<br />

volume di midollo osseo per via intra-ossea<br />

(gruppo 2); infine l’intero volume di midollo<br />

osseo endovena (gruppo 3). Il midollo osseo<br />

trapiantato per via intra-ossea attecchiva in<br />

tutti con tempi e modalità sovrapponibili senza<br />

differenze significative in termini di mortalità<br />

correlata al trapianto, GVHD acuta e cronica,<br />

sopravvivenza libera da malattia e recidiva. In<br />

particolare nel gruppo 2 non venivano osservati<br />

episodi infettivi locali o sistemici riconducibili<br />

alla procedura. La somministrazione di<br />

cellule staminali midollari per via intra-ossea<br />

si dimostra pertanto fattibile, sicura ed efficace<br />

ma non superiore alla convenzionale somministrazione<br />

per via endovenosa. Diversi sembrano<br />

i risultati se si impiegano cellule cordonali:<br />

un recente studio dell’Eurocord 36 confronta un<br />

gruppo selezionato di adulti trapiantati con<br />

cordone per via endovenosa con 50 pazienti che<br />

hanno ricevuto cordone per via intraossea. Non<br />

vi erano differenze tra i due gruppi in termini<br />

di diagnosi, numero di cellule, regime di condizionamento,<br />

precedente autotrapianto, stato<br />

di malattia. I risultati mostrano un vantaggio<br />

della somministrazione intraossea: in particolare<br />

un attecchimento delle piastrine più<br />

precoce (piastrine >20000/mm 3 a 60 giorni nell’<br />

82% vs il 40%), minore incidenza di aGVHD<br />

grado II-IV (12% vs 38%) e di aGVHD grado<br />

III-IV (2% vs 18%), mortalità correlata al trapianto<br />

a 90 giorni inferiore (27% vs 34%) e migliore<br />

sopravvivenza globale a 1 anno (67% vs<br />

43%) (Tabella 7). L’attecchimento dei neutrofili<br />

tuttavia era sovrapponibile nei due gruppi. Un<br />

follow-up più lungo è necessario per valutare<br />

con certezza i vantaggi di questa modalità di<br />

somministrazione.<br />

Impiego delle cellule staminali da<br />

cordone nelle malattie non ematologiche<br />

Nel sangue cordonale sono presenti anche<br />

cellule staminali non emopoietiche. Grazie ad<br />

una grande plasticità esse possono differenziare<br />

secondo diverse linee maturative dando<br />

origine a tessuti diversi. Tuttavia il potenziale<br />

terapeutico di queste cellule è tutto da esplo-<br />

Tabella 7. Studio comparativo eurocord: confronto tra infusione intraossea ed endovena di cellule<br />

staminali cordonali<br />

PMN+60 PLT +60 aGVHD<br />

II-IV<br />

aGVHD III-<br />

IV<br />

TRM +90 OS +365<br />

UCB I.O 70% 82% 12% 2% 27% 67%<br />

UCB e.v. 80% 40% 38% 18% 34% 43%<br />

p 0.27


M.B. Pinazzi et al.: Il trapianto di cellule staminali da sangue di cordone ombelicale 211<br />

rare e può essere collegato principalmente alla<br />

loro capacità di riparare il danno tissutale, ad<br />

esempio la riparazione del danno neuronale<br />

possibilmente attraverso la secrezione di fattori<br />

di crescita neurotropi. In studi preclinici è<br />

stato valutato il loro utilizzo nel trattamento di<br />

malattie neurodegenerative e nella riparazione<br />

del danno cerebrale traumatico e ischemico 37 .<br />

Sono in corso studi in vitro ed in vivo<br />

nell’animale sull’uso delle cellule staminali<br />

cordonali nel trattamento del diabete di tipo I.<br />

Infatti le cellule cordonali esprimono marcatori<br />

dei progentitori pancreatici ed hanno la capacità<br />

di generare cellule insulino-secernenti e<br />

strutture simili alle isole pancreatiche 38 ; il loro<br />

comportamento in vivo rimane tuttavia ancora<br />

sconosciuto.<br />

In ambito cardiologico sono in corso studi<br />

sull’uso delle cellule staminali nella riparazione<br />

del danno miocardico da infarto. L’efficacia<br />

della terapia cellulare con cellule staminali<br />

adulte è incerta mentre il cordone ombelicale<br />

potrebbe rappresentare un’alternativa valida<br />

essendo una sorgente di cellule giovani, immature<br />

e in grado di differenziare. Nell’animale<br />

il trapianto di cellule cordonali nel tessuto<br />

miocardico ischemico porta ad miglioramento<br />

funzionale del miocardio sede di infarto legato<br />

ad una neo-cardiomiogenesi e vasculogenesi 39 .<br />

Conclusioni<br />

L’uso delle cellule staminali da cordone<br />

ombelicale rappresenta una valida alternativa<br />

per quei pazienti candidati a trapianto che<br />

non dispongono di un donatore familiare o<br />

volontario compatibile. Il suo principale limite<br />

è rappresentato dalla bassa dose di cellule<br />

staminali contenute nell’unità: ciò comporta,<br />

specie nell’adulto, un ritardo nell’attecchimento,<br />

che di conseguenza espone il paziente ad un<br />

maggior rischio infettivo.<br />

L’immaturità del sistema immunitario del<br />

cordone consente di infondere unità con un<br />

grado variabile di incompatibilità HLA, ma ritarda<br />

la ricostituzione immunologica. Questa<br />

stessa immaturità riduce il rischio e la severità<br />

della GVHD acuta. La sopravvivenza a<br />

lungo termine è sovrapponibile a quanto osservato<br />

nel trapianto di cellule staminali adulte<br />

anche se la mortalità registrata nei primi 100<br />

giorni dal trapianto è superiore.<br />

Questi risultati giustificano la contemporanea<br />

ricerca di donatore vivente e cellule<br />

staminali da cordone a scopo di trapianto ma<br />

la scelta sarà poi basata sulla cellularità dell’unità<br />

cordonale, sul grado di compatibilità<br />

HLA e sull’urgenza del trapianto.<br />

Le prospettive future per migliorare l’outcome<br />

del trapianto di cordone ombelicale sono<br />

rappresentate da<br />

• incremento del numero di unità bancate<br />

per migliorare la probabilità di reperire<br />

unità con matching 6/6 (migliore attecchimento,<br />

GVHD ridotta, sopravvivenza apparentemente<br />

migliore);<br />

• trapianto con doppio cordone: capace di migliori<br />

risultati in termini di attecchimento e<br />

minore incidenza di recidiva<br />

• infusione intra-ossea delle cellule staminali<br />

cordonali che mostra migliori risultati in<br />

termini di attecchimento piastrinico e minore<br />

incidenza e severità dalla GVHD acuta;<br />

• in corso di studio è l’espansione in vitro delle<br />

cellule staminali cordonali con l’ausilio di<br />

citochine e fattori di crescita.<br />

L’uso delle cellule staminali cordonali nei<br />

trapianti non emopoietici rappresenta, inoltre,<br />

una possibile novità per il trattamento di varie<br />

patologie ma al momento gli studi clinici in<br />

corso non consentono di esprimere un giudizio<br />

sull’efficacia in vivo delle terapie cellulari al di<br />

fuori dell’ambito ematologico.<br />

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Corrispondenza e richiesta estratti:<br />

Dott.ssa Maria Beatrice Pinazzi,<br />

E-mail:mpinazzi@scamilloforlanini.rm.it


ANNALI DEGLI OSPEDALI<br />

San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong><br />

Volume 11, Numero 4, Ottobre- Dicembre 2009<br />

GENETICA DELLA EMOCROMATOSI EREDITARIA<br />

GENETIC HEREDITARY HEMOCHROMATOSIS<br />

SILVIA MAJORE, FRANCESCO BINNI, PAOLA GRAMMATICO<br />

U.O.C. Laboratorio di Genetica Medica, “Sapienza”, Università di Roma,<br />

<strong>Azienda</strong> <strong>Ospedaliera</strong> S. <strong>Camillo</strong>-<strong>Forlanini</strong>, Roma<br />

Parole chiave: Emocromatosi ereditaria. Eterogeneità genetica. Metabolismo del ferro. Epcidina<br />

Key words: Hereditary hemochromatosis. Genetic heterogeneity. Iron metabolism. Hepcidin<br />

Riassunto – L’emocromatosi ereditaria, una delle più frequenti malattie mendeliane, è stata considerata a<br />

lungo come un’unica entità clinica e genetica. Questa condizione patologica, caratterizzata da sovraccarico<br />

di ferro nell’organismo conseguente ad alterato assorbimento intestinale di questo metallo, è, di fatto, nella<br />

maggior parte degli individui di discendenza nord-europea, associata alla stessa mutazione biallelica del<br />

gene HFE. I notevoli avanzamenti delle conoscenze sul metabolismo del ferro compiuti negli ultimi anni<br />

hanno permesso di comprendere molti dei meccanismi coinvolti nella regolazione dell’omeostasi marziale<br />

e, allo stesso tempo, di identificare molteplici nuove forme genetiche di emocromatosi ed iperferritinemie<br />

ereditarie. In questo scenario il numero e la complessità delle indagini molecolari che possono essere offerte<br />

ai pazienti con alterazione degli indici di sovraccarico del ferro e ai loro familiari hanno subito un drammatico<br />

aumento. La programmazione e l’interpretazione di questi esami genetici dovrebbe essere affidata allo<br />

specialista in Genetica medica nell’ambito di una Struttura in grado di effettuare indagini molecolari di II<br />

livello.<br />

Abstract – Hereditary hemochromatosis, one of the most frequent mendelian disorders, has been regarded<br />

for a long time as a unique clinical and genetic entity. This affection, characterized by body iron overload<br />

due to abnormal absorption of the metal by the intestinal mucosa, in the majority of Northern European<br />

ancestry patients, is associated with the same biallelic mutation of the HFE gene. In the latest years, our<br />

knowledge of iron metabolism has much improved allowing us to understand many of the mechanisms acting<br />

in the regulation of iron homeostasis, and, at the same time, to identify several new genetic forms of<br />

hereditary hemochromatosis and hereditary hyperferritnemia. In this scenario, the number and complexity<br />

of molecular analysis that can be offered to patients with abnormal iron indices and to their relatives, have<br />

dramatically increased. Therefore, the Medical Genetist, operating for a Medical Genetics Department able<br />

to perform molecular studies of II level, should be responsible for the planning and interpretation of such<br />

these genetic exams.<br />

.<br />

Introduzione<br />

Il ferro è il metallo contenuto in maggiore<br />

quantità nell’organismo umano. Grazie alle<br />

sue proprietà chimiche questo elemento svolge<br />

un ruolo unico in una serie di processi metabo-<br />

lici, quali il trasporto dell’ossigeno nel sangue,<br />

il legame dell’ossigeno nella mioglobina e la<br />

respirazione cellulare. Catalizza inoltre numerose<br />

reazioni ossidative ed è necessario per<br />

la crescita e per la proliferazione cellulare 1 .<br />

Nonostante sia quindi un elemento essenziale


S. Majore et al: Genetica della emocromatosi ereditaria 215<br />

per la vita, il ferro può essere dannoso se presente<br />

in eccesso. La tossicità del ferro è in gran<br />

parte dovuta alla sua capacità di catalizzare<br />

la formazione di radicali che danneggiano le<br />

macromolecole cellulari promuovendo la morte<br />

cellulare ed il danno tessutale 1 .<br />

Tutti gli esseri viventi hanno perciò sviluppato<br />

sistemi più o meno raffinati per assumere<br />

il ferro dall’ambiente, immagazzinarlo all’interno<br />

delle cellule e ridistribuirlo nei vari comparti<br />

ma anche per controllare il contenuto di<br />

ferro dell’organismo e rendere tale metallo innocuo.<br />

Diviene sempre più evidente che i fattori<br />

coinvolti nella regolazione dell’omeostasi del<br />

ferro sono numerosissimi e che il non corretto<br />

funzionamento di ciascuno di questi può avere<br />

conseguenze patologiche che si traducono in<br />

quadri clinici associati a carenza, eccesso o<br />

alterata redistribuzione del metallo 1 .<br />

Negli ultimi anni le conoscenze sul metabolismo<br />

del ferro hanno compiuto notevoli<br />

progressi e ciò ha permesso di caratterizzare<br />

le basi molecolari di molte di queste condizioni<br />

e di comprendere i meccanismi fisiopatologici<br />

che le determinano. Tutto ciò ha contribuito ad<br />

un migliore inquadramento dell’emocromatosi<br />

ereditaria (EE) 2 , la più frequente patologia<br />

associata a sovraccarico di ferro.<br />

Assorbimento ed omeostasi del ferro<br />

Nell’organismo umano il ferro è presente<br />

nelle due forme ferrosa (Fe++) e ferrica<br />

(Fe+++), entrambe estremamente reattive,<br />

per cui in massima parte legate a proteine di<br />

trasporto e di deposito. L’intestino tenue, ed<br />

in particolare il duodeno, è la sede principale<br />

dell’assorbimento del ferro che avviene con<br />

diversa modalità a seconda che questo venga<br />

introdotto con la dieta in forma organica oppure<br />

inorganica.<br />

L’uomo ingerisce complessivamente circa<br />

13-18 mg di ferro al giorno, assorbendone<br />

mediamente solo 1,5 mg, ma, a seconda delle<br />

necessità dell’organismo, in quantità variabile<br />

da 0,5 mg a 4 mg.<br />

Prima di essere assorbito dalle cellule intestinali,<br />

il ferro inorganico presente allo stato<br />

ossidato (ferrico) viene ridotto a ione ferroso<br />

ad opera di una reduttasi espressa dall’orletto<br />

a spazzola delle cellule dell’epitelio duodenale.<br />

Il ferro bivalente viene quindi trasportato attraverso<br />

la superficie cellulare apicale dal così<br />

detto trasportatore “divalente dei metalli 1”<br />

(DMT1), proteina in grado di svolgere la sua<br />

funzione anche nei confronti di altri metallo-ioni.<br />

La maggior parte del Fe++ assorbito<br />

dagli enterociti, resta all’interno di queste<br />

cellule sotto forma di ferritina (ed eliminato<br />

con l’enterocita senescente), mentre solo quello<br />

necessario all’organismo viene trasferito<br />

alla membrana basolaterale da una proteina<br />

denominata ferroportina. Ossidato quindi a<br />

ferro trivalente dalla ferro-ossidasi efaestina,<br />

il metallo viene immesso nei vasi del sistema<br />

portale e legato alla transferrina.<br />

L’emoglobina, la mioglobina e le altre proteine<br />

alimentari caratterizzate dalla presenza<br />

di un gruppo ferro prostetico (ferro organico)<br />

subiscono, all’interno del lume intestinale,<br />

scissione enzimatica in anello metallo-porfirinico<br />

e globina. La ferro-porfirina viene<br />

successivamente veicolata in forma integra<br />

all’interno della membrana apicale dei duodenociti<br />

da uno o più trasportatori ad oggi non<br />

noto/i (è ancora ipotetico il possibile ruolo di<br />

HCP1 individuato da Shayeghi et al nel 2005)<br />

3 . Una volta all’interno delle cellule duodenali,<br />

l’eme viene scisso in ione ferroso e biliverdina<br />

dall’enzima eme-ossigenasi. In seguito, il<br />

ferro derivato dall’eme viene, al pari del ferro<br />

inorganico, trasportato dalla ferroportina alla<br />

membrana basolaterale e riversato nel circolo<br />

sanguigno dove, previa ossidazione, viene legato<br />

alla transferrina.<br />

Dai vasi del circolo portale, il ferro legato<br />

alla transferrina, giunge ai vari organi, in<br />

primo luogo al fegato, principale sito di deposito<br />

di questo metallo (ferritina). Gli epatociti<br />

internalizzano il complesso transferrina-ferro<br />

tramite il recettore 1 della transferrina (TFR1)<br />

ed, in misura minore, per mezzo del recettore<br />

2 della transferrina (TFR2). Il principale sito<br />

di utilizzo del ferro è invece il midollo osseo,<br />

dove il metallo viene assunto dai precursori<br />

eritroidi, tramite il TFR1.<br />

Il ferro legato all’eme viene riciclato grazie<br />

all’ingestione degli eritrociti senescenti da parte<br />

dei macrofagi reticolo-endoteliali. I macrofagi<br />

immagazzinano il ferro sotto forma di ferritina<br />

o lo riversano nel plasma, utilizzando il trasportatore<br />

ferroportina, dove questo viene ossidato<br />

dalla ceruloplasmina e legato dalla transferrina<br />

per venire riutilizzato. Il fegato ed il sistema<br />

reticoloendoteliale rappresentano quindi i principali<br />

siti di deposito mobilizzabile del ferro.<br />

L’organismo umano contiene complessivamente<br />

circa 3-5 g di ferro. Il 50-60% di questo


216 Annali degli Ospedali San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong> 11, 4, 2009<br />

è contenuto all’interno dell’emoglobina nei<br />

globuli rossi circolanti. Approssimativamente<br />

il 20-30% del ferro dell’organismo è contenuto<br />

negli epatociti e nei macrofagi del sistema reticolo-endoteliale,<br />

all’interno della ferritina e<br />

del suo prodotto di degradazione, emosiderina.<br />

I muscoli contengono, all’interno della mioglobina,<br />

circa 300 mg di ferro.<br />

Un individuo sano assorbe mediamente 1,5<br />

mg di ferro introdotto dalla dieta, che compensa<br />

le perdite non specifiche che avvengono<br />

per desquamazione cellulare nella cute e nelle<br />

mucose. Non esiste alcun meccanismo che<br />

regoli l’eliminazione del ferro dall’organismo.<br />

L’omeostasi del ferro è quindi modulata a livello<br />

dell’assorbimento e della redistribuzione<br />

tessutale e vede in gioco numerosi fattori che<br />

hanno come effetto finale quello di segnalare ai<br />

duodenociti l’entità del fabbisogno marziale del<br />

sistema eritropoietico e del contenuto di ferro<br />

nei depositi. La principale molecola in grado di<br />

modulare l’entità dell’assorbimento marziale e<br />

la sua redistribuzione è un piccolo polipeptide<br />

costituito da 25 residui aminoacidici, denominato<br />

epcidina 4-5 . Alti livelli di epcidina inibiscono<br />

l’assorbimento enterico del ferro ed il suo<br />

rilascio da parte dei macrofagi. Al contrario,<br />

l’assorbimento intestinale e la fuoriuscita dalle<br />

cellule del sistema reticolo-endoteliale subiscono<br />

un notevole incremento quando la concentrazione<br />

di epcidina è bassa 5,7 .<br />

Epcidina è in grado di svolgere le sue azioni<br />

in quanto interagisce, a livello delle membrane<br />

cellulari, con la proteina ferroportina<br />

causando l’internalizzazione e la degradazione<br />

di quest’ultima. 6 Epcidina regola quindi l’assorbimento<br />

di ferro esercitando un controllo<br />

post-traduzionale della concentrazione di ferroportina,<br />

modulando quindi l’esportazione di<br />

ferro da parte dell’unica molecola in grado di<br />

trasportare il ferro al di fuori delle cellule. Le<br />

molecole che convergono in questa ed in altre<br />

pathway regolative sono numerose (Figura 1)<br />

e la lista dei componenti che hanno un ruolo<br />

nel metabolismo del ferro soggette a continuo<br />

aggiornamento 7 .<br />

Emocromatosi ereditaria: definizione<br />

e cenni storici<br />

L’emocromatosi ereditaria (EE) è una patologia<br />

multisistemica ereditaria del metabolismo<br />

del ferro che si trasmette, nella maggior<br />

parte dei casi, con modalità autosomica reces-<br />

Fig. 1. Forme alternative dell’emocromatosi<br />

ereditaria di tipo 4<br />

siva ed è causata da un eccessivo assorbimento<br />

marziale da parte della mucosa intestinale che<br />

consegue in un progressivo sovraccarico del<br />

metallo nell’organismo. Il ferro, a causa del<br />

suo ruolo lesivo, può quindi provocare danni,<br />

che con il tempo diventano irreversibili, a<br />

molti organi e tessuti, quali fegato, cuore,<br />

pancreas e articolazioni. Le complicanze della<br />

malattia possono però essere prevenute o, se<br />

già comparse, in parte trattate, ottenendo una<br />

drastica riduzione dell’entità dei depositi di<br />

ferro dell’organismo per mezzo della rimozione<br />

periodica di sangue periferico.<br />

La prima descrizione dell’EE fu di Trousseau<br />

che, nel 1865 8 notò, al riscontro autoptico<br />

di un soggetto diabetico deceduto per cirrosi<br />

epatica, una peculiare colorazione bronzina<br />

della cute e la consistenza del fegato notevolmente<br />

aumentata. Nel 1889 von Recklinghausen<br />

9 definì “emocromatosi” l’entità morbosa<br />

identificata da Trousseau e caratterizzata<br />

dalla presenza di cirrosi epatica, diabete e cute<br />

bronzina.<br />

L’eziologia genetica dell’emocromatosi idiopatica<br />

fu ipotizzata da Sheldon nel 1935 10 a seguito<br />

del rilievo di alcuni casi familiari e confermata<br />

solo nel 1974 quando ne fu dimostrata<br />

la trasmissione autosomica rececessiva 11 .<br />

Alcuni anni dopo, Simon et al (1976) 12 rilevarono<br />

l’esistenza di una significativa associazione<br />

tra l’EE e l’allele A3 del sistema maggiore<br />

di istocompatibiltà (MHC). Divenne quindi<br />

evidente che il gene causativo dell’emocromatosi<br />

ereditaria mappava sul braccio corto del<br />

cromosoma 6 in prossimità del locus HLA-A<br />

(6p21) e che nella maggior parte dei soggetti


S. Majore et al: Genetica della emocromatosi ereditaria 217<br />

con EE di origine caucasica era presente una<br />

regione di linkage disequilibrium associata ad<br />

una mutazione ancestrale. Il principale gene<br />

responsabile dell’EE, inizialmente denominato<br />

HLA-H, e poi HFE, venne identificato solo 20<br />

anni dopo da Feder et al (1996) 13 . Questi ricercatori<br />

isolarono una regione di 250 kb, localizzata<br />

3 Mb circa a valle dal complesso maggiore<br />

di istocompatibilita, all’interno della quale un<br />

segmento trascritto conteneva, nell’85% dei<br />

pazienti con EE, una transizione in omozigosi,<br />

c.845G→A, che produceva una sostituzione<br />

aminoacidica (p.C282Y) in un dominio fondamentale<br />

della proteina codificata. Un' altra<br />

mutazione missenso, p.H63D (c.187C→G), che<br />

converte una istidina in posizione 63 ad aspartato,<br />

fu rilevata nel 21% dei cromosomi in cui<br />

non era presente la mutazione p.C282Y. Fu<br />

in seguito confermato che HFE è responsabile<br />

dell’EE nella maggior parte dei pazienti di<br />

origine nord-europea e che p.C282Y è la mutazione<br />

presente nella quasi totalità di quei<br />

soggetti 14 . Venne quindi ipotizzato che la variante<br />

p.C282Y, che è generalmente associata<br />

ad un aplotipo comune a tutti i pazienti, sia<br />

originata circa 2000 anni prima nella popolazione<br />

celtica e si sia diffusa seguendo il flusso<br />

migratorio di questa etnia 15 . La frequenza della<br />

mutazione si rivelò notevolmente inferiore<br />

nel sud rispetto al nord dell’Europa e praticamente<br />

nulla in Africa, Asia, Polinesia e tra gli<br />

aborigeni australiani 16 . La mutazione p.H63D<br />

venne rilevata in una piccola percentuale dei<br />

cromosomi dei pazienti con forme attenuate di<br />

EE 16-17 , mentre altre mutazioni in HFE sono<br />

state identificate successivamente, perlopiù<br />

in singole famiglie 17-18 . Se da una parte, l’identificazione<br />

di HFE, della mutazione p.C282Y<br />

e delle ulteriori varianti patogenetiche fu di<br />

grande utilità ai fini diagnostici e di ricerca,<br />

divenne progressivamente evidente che EE è,<br />

in realtà, una condizione geneticamente eterogenea<br />

e che ulteriori geni, oltre ad HFE, sono<br />

coinvolti, seppur più raramente, nel determinismo<br />

di diversi quadri clinici con sovraccarico<br />

primitivo di ferro. Fu inoltre progressivamente<br />

compreso che la patologia non viene sempre<br />

ereditata con modalità autosomica recessiva<br />

e che a volte l’emocromatosi non si comporta<br />

come pura malattia mendeliana 2,17 .<br />

Dal 2000 al 2004 sono stati quindi progressivamente<br />

identificati 4 nuovi geni coinvolti<br />

in altrettante forme di EE, clinicamente distinguibili<br />

tra loro 19-21 . Tra queste, una forma<br />

atipica della malattia (EE tipo 4), si trasmette<br />

con modalità autosomica dominante.<br />

La descrizione di alcuni casi con EE che<br />

seguono il modello di ereditarietà digenico o<br />

di tipo multifattoriale 2,21 ha infine confermato<br />

la notevole varietà e complessità eziologica di<br />

questa affezione, modificando profondamente<br />

l’opinione che per molti anni ha visto l’emocromatosi<br />

come una malattia geneticamente<br />

omogenea.<br />

Classificazione dell’emocromatosi<br />

ereditaria<br />

Il termine EE è stato a lungo riferito alla<br />

forma più comune e per prima caratterizzata di<br />

sovraccarico primitivo di ferro causata da mutazioni<br />

in omozigosi o in eterozigosi composta<br />

nel gene HFE. I progressi scientifici compiuti<br />

nell’ultimo decennio hanno fatto sì che oggi<br />

vengano riconosciuti almeno quattro sottotipi di<br />

EE (Tabella 1). Il termine di emocromatosi classica<br />

(EE di tipo 1), viene riservato alla forma<br />

correlata al gene HFE, mentre per EE di tipo 2,<br />

EE di tipo 3 e EE di tipo 4 si definiscono alcuni<br />

quadri clinici ad ereditarietà mendeliana, ritenuti<br />

rari, associati a mutazioni in geni di più<br />

recente individuazione 2-19-21 . È inoltre noto che<br />

esistono anche svariati casi in cui l’EE mostra<br />

una ereditarietà più complessa, che vede nel<br />

suo determinismo l’azione combinata di più geni<br />

coinvolti nel metabolismo del ferro 2,19,21-22 .<br />

L’effetto finale delle mutazioni in tutti geni<br />

causativi noti è una diminuzione della sintesi<br />

o dell’attività di epcidina la cui inadeguata<br />

funzione determina un amento dell’assorbimento<br />

del ferro intestinale È stato infatti<br />

dimostrato che i prodotti proteici dei geni<br />

responsabili delle EE di tipo 1, di tipo 2A e di<br />

tipo 3 operano nella stessa complessa pathway<br />

che regola l’espressione di quest’ultimo polipeptide<br />

(codificato dal gene responsabile dell’EE<br />

di tipo 2B), e che ferroportina (EE di tipo<br />

4) viene invece a sua volta regolata, a livello<br />

post-traduzionale, dalla stessa epcidina 5-7 .<br />

La molteplicità delle molecole coinvolte<br />

nell’omeostasi del ferro e, al tempo stesso,<br />

l’esistenza di molti individui con sovraccarico<br />

marziale ad eziologia ancora sconosciuta, rendono<br />

assai probabile che, nel prossimo futuro,<br />

la classificazione delle EE includerà nuove<br />

forme causate da geni che giocano un ruolo nel<br />

controllo della funzione di epcidina o in cascate<br />

regolative alternative.


218 Annali degli Ospedali San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong> 11, 4, 2009<br />

Tabella 1. Classificazione dell’emocromatosi ereditaria<br />

Classificazione Gene Proteina Trasmissione N° Omim<br />

Emocromatosi tipo 1 HFE HFE AR 235200<br />

Emocromatosi tipo 2A<br />

(emocromatosi giovanile)<br />

Emocromatosi tipo 2B<br />

(emocromatosi giovanile)<br />

Emocromatosi ereditaria di tipo 1<br />

(forma classica)<br />

Rappresenta la forma più comune di EE ed<br />

è dovuta a mutazioni del gene HFE, localizzato<br />

nella regione 6p21.3. Il prodotto di HFE<br />

è una proteina transmembrana, HFE, simile<br />

alle molecole MHC di classe I, che, al pari di<br />

quest’ultime, si lega alla β2-microglobulina<br />

(B2-M) 13 . Si riteneva, fino a qualche tempo fa,<br />

che la funzione di questa proteina fosse quella<br />

di inibire l’assorbimento di ferro e che questa<br />

funzione si espletasse in prevalenza a livello<br />

delle cellule delle cripte intestinali. È invece<br />

ora noto che HFE, agisce prevalentemente nel<br />

fegato come regolatore positivo della sintesi di<br />

epcidina 5,7 .<br />

La mutazione più comune in HFE, denominata<br />

p.C282Y è presente in omozigosi nella<br />

maggior parte dei pazienti con sovraccarico<br />

primitivo di ferro originari dal nord-Europa<br />

14,17-18 . La variante p.H63D del medesimo gene<br />

è, in ordine di frequenza, la seconda mutazione<br />

riscontrata nei soggetti affetti da EE di tipo<br />

1 14,17-18 . È stato da prima ipotizzato che questa<br />

sostituzione aminoacidica potesse essere in<br />

realtà un polimorfismo, privo di effetto funzionale<br />

sulla proteina HFE 21 . p.H63D mostra<br />

infatti la medesima frequenza nei pazienti con<br />

HH e nella popolazione generale ed è presente<br />

solo in una piccola percentuale dei casi con EE<br />

clinicamente accertata. Inoltre, la maggior parte<br />

degli individui omozigoti per questa variante<br />

o eterozigoti composti p.C282Y/p.H63D non<br />

mostra alcun segno o sintomo di sovraccarico<br />

di ferro 2,17,18 . Si è infine giunti alla conclusione<br />

che p.H63D sia una mutazione causativa a<br />

bassa penetranza 22 . Oltre alle due mutazioni<br />

HJV Emojuvelina AR 602390-608374<br />

HAMP Epcidina AR 602390-606464<br />

Emocromatosi tipo 3 TFR2 TFR2 AR 604250<br />

Emocromatosi tipo 4 SLC40A1 Ferroportina AD 606069<br />

HFE/HAMP HFE/Epcidina Digenica<br />

HFE/TFR2 HFE/TFR2 Digenica<br />

principali, sono state identificate ulteriori 20<br />

mutazioni puntiformi in HFE 2,17-18,21 . Tra queste,<br />

l’unica rilevata con discreta frequenza è la<br />

variante (p.S65D), implicata in una forma lieve<br />

di HH e presente nel 1,5% della popolazione<br />

Europea 23 . Tutte le altre varianti di HFE sono<br />

molte rare o sono state addirittura descritte<br />

solo in forma “privata” (unico nucleo familiare).<br />

È stata tuttavia recentemente rilevata, in più<br />

di una famiglia originaria dalla Sardegna, la<br />

presenza di una delezione di 32.744 paia di<br />

basi, comprendente l’intero gene HFE 24 . Questo<br />

riarrangiamento genomico ricorrente, verosimilmente<br />

generatosi per crossing-over ineguale<br />

ed indagabile solo in laboratori di genetica medica<br />

di II livello, potrebbe essere responsabile<br />

di una significativa parte di quei casi di EE nei<br />

quali la diagnosi clinica di EE non è stata ad<br />

oggi confermata dagli studi molecolari 24 .<br />

L’EE di tipo 1 è una malattia con frequenza<br />

variabile, nelle diverse popolazioni di origine<br />

caucasica, da 1 caso su 100 abitanti in Irlanda<br />

ad 1 su 400 in Francia 2,13,16-17 . In Italia, la<br />

prevalenza della malattia è soggetta ad ampie<br />

differenze tra gli individui originari dal nord,<br />

in cui la prevalenza è più alta (1 caso su 500<br />

abitanti), e quelli di provenienza centro-meridionale<br />

(probabilmente meno di un caso su<br />

2000). Inoltre, in Italia, ed in particolare nel<br />

centro sud e nelle isole, solo il 30-66% dei casi<br />

con EE è correlabile a mutazioni di HFE 15-16<br />

La penetranza (la probabilità che un genotipo<br />

si renda clinicamente evidente) della malattia<br />

nei soggetti con genotipo omozigote p.C282Y<br />

è oggi considerata come pari al 50% circa nel<br />

maschio e di grado inferiore nella donna 2,17-18,21 .<br />

L’EE classica mostra poi, un ampio spettro in<br />

termini di gravità, in quanto le manifestazioni


S. Majore et al: Genetica della emocromatosi ereditaria 219<br />

cliniche variano dalla semplice alterazione biochimica<br />

degli indici del ferro a quadri gravi con<br />

compromissione multiorgano. La variabilità<br />

fenotipica viene attribuita all’azione sinergica<br />

di geni modulatori e di fattori ambientali 2,17,21 .<br />

La storia naturale della patologia è caratterizzata<br />

dalla precoce comparsa di parametri<br />

biochimici indicativi di sovraccarico ematico<br />

di ferro (incremento dei valori dell’indice di<br />

saturazione della transferrina), seguita da un<br />

progressivo aumento dei valori della ferritina<br />

ematica (come indice indiretto di sovraccarico<br />

tissutale di ferro). In un’alta percentuale dei<br />

casi le alterazioni biochimiche evolvono nello<br />

sviluppo di segni e sintomi correlati a danno<br />

degli organi interessati. L’esordio clinico varia<br />

da individuo a individuo anche se mediamente<br />

la fase sintomatica ha inizio nella IV-V decade<br />

di vita nell’uomo e dopo la menopausa nella<br />

donna. I primi segni relativi a danno d’organo<br />

sono generalmente quelli epatici. La compromissione<br />

epatica si manifesta con sintomi<br />

aspecifici, lieve rialzo dei livelli serici degli<br />

indici di necrosi epatica ed aumento di volume<br />

del fegato. Il corrispettivo quadro istologico è<br />

quello di una fibrosi, che è, fino ad un certo<br />

grado, reversibile. In fase più avanzata, ed in<br />

stretta relazione con la quantità di ferro accumulato<br />

negli epatociti, è possibile l’evoluzione<br />

in cirrosi ed eventualmente in epatocarcinoma.<br />

Segni di disfunzione delle ghiandole endocrine<br />

(diabete mellito, ipogonadismo ipogonadotropico,<br />

ipotirodismo) e di danno cardiaco (aritmie<br />

o scompenso cardiaco), possono comparire più<br />

tardivamente e, in genere, solo quando i valori<br />

della ferritinemia hanno raggiunto la soglia<br />

di 1000 µg/L. Tali complicanze non mostrano<br />

specifiche peculiarità. Il coinvolgimento in un<br />

individuo di più di uno dei sopra menzionati<br />

organi dovrebbe però sempre suggerire l’ipotesi<br />

diagnostica di EE. L’iperpigmentazione<br />

cutanea, manifestazione anch’essa tardiva e<br />

correlata all’entità dei depositi cutanei è, al<br />

contrario, piuttosto patognomonica per sovraccarico<br />

di ferro 2,17-18 .<br />

Manifestazione di frequente riscontro nell’EE<br />

è anche una artropatia cronica che colpisce<br />

in particolare le articolazioni metacarpofalangee<br />

raffigurando un quadro radiologico<br />

piuttosto caratteristico 20 . La presentazione<br />

clinica più comune di tale complicanza è quella<br />

di un’artrite cronica spesso multiarticolare<br />

e dolente che provoca rigidità e tumefazione<br />

delle articolazioni interessate È ancora fonte<br />

di dibattito se questa complicanza sia funzione<br />

o meno del grado di accumulo marziale dell’organismo<br />

20 .<br />

Il trattamento dell’EE classica, come anche<br />

delle altre forme della malattia, prevede la<br />

rimozione del ferro in eccesso per mezzo di flebotomie<br />

periodiche. Lo stato di ferrodeplezione<br />

o di normalizzazione del contenuto di ferro<br />

dell’organismo viene in genere raggiunto con<br />

la iniziale rimozione settimanale di 350-400 ml<br />

di sangue intero e successivamente mantenuto<br />

con poche sedute salassoterapeutiche all’anno.<br />

Nei pazienti con EE la salassoterapia è<br />

solitamente ben tollerata senza che i pazienti<br />

sviluppino alcun grado di anemia. Nelle rare<br />

condizioni in cui sussiste una controindicazione<br />

assoluta alla salassoterapia sono invece<br />

indicati i chelanti del ferro 2,17 .<br />

Emocromatosi ereditaria di tipo 2<br />

(emocromatosi giovanile)<br />

L’EE tipo 2 (EE giovanile) comprende in<br />

realtà due forme di sovraccarico primitivo di<br />

ferro clinicamente simili ma geneticamente<br />

distinte 2,17,19 : l’EE di tipo 2A e l’ EE di tipo 2B.<br />

Il gene HJV, mappato nella regione 1q21 e<br />

costituito da 3 esoni codificanti, è responsabile<br />

del sottotipo di più frequente riscontro (EE di<br />

tipo 2A). L’ EE di tipo 2B, più rara, è causata<br />

da mutazioni in un gene di 3 esoni, denominato<br />

HAMP, localizzato in 19q13.1.<br />

Entrambi i geni codificano molecole con<br />

ruolo centrale nel metabolismo del ferro: l’ormone<br />

epcidina (HAMP), il principale regolatore<br />

dell’emostasi marziale ed emojuvelina<br />

(HJV), a sua volta regolatrice di epcidina.<br />

L’emocromatosi giovanile è caratterizzata<br />

da un quadro clinico molto più grave rispetto<br />

a quello dell’EE classica e da un’età di esordio<br />

precoce in entrambi i sessi. La maggioranza<br />

dei soggetti manifesta i primi segni clinici<br />

relativi a danno d’organo verso i 20 anni e, in<br />

alcuni casi, anche in età infantile.<br />

La sintomatologia clinica iniziale è generalmente<br />

a carico dell’asse ipofisi-gonadi (amenorrea<br />

secondaria nella donna, impotenza nell’uomo)<br />

e del cuore (cardiopatia dilatativa e scompenso<br />

cardiaco). La malattia può anche esordire<br />

con diabete mellito insulino-dipendente. In tutti<br />

i casi è anche interessato il fegato con frequente<br />

sviluppo di cirrosi epatica. L’iperpigmentazione<br />

cutanea è precocemente evidente e l’artropatia<br />

presente in quasi tutti i pazienti.


220 Annali degli Ospedali San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong> 11, 4, 2009<br />

Le due forme di EE di tipo 2 sono a trasmissione<br />

autosomica recessiva e comportano<br />

un massivo accumulo sistemico di ferro. Si manifestano<br />

in uguale proporzione ed alla stessa<br />

età nei maschi e nelle femmine.<br />

L’emocromatosi giovanile, seppur rara, viene<br />

più frequentemente riscontrata nei paesi<br />

del centro-sud Europa 2,17,19,21 .<br />

Emocromatosi ereditaria di tipo 3<br />

Questa forma di EE, ritenuta estremamente<br />

rara (22 casi ad oggi riportati in letteratura),<br />

è di prevalente appannaggio della popolazione<br />

italiana 20 . Nonostante lo scarso numero dei<br />

casi descritti non abbia reso possibile tracciarne<br />

con precisione la storia naturale, è ormai<br />

noto che il fenotipo associato all’EE di tipo 3<br />

mostra mediamente una gravità intermedia<br />

tra quello della EE classica e quello della EE<br />

giovanile. Le manifestazioni cliniche sono le<br />

stesse della forma classica ma l’età d’inizio dei<br />

segni di sovraccarico marziale tende ad essere<br />

più precoce ed il decorso della malattia più rapido.<br />

Allo stesso tempo, l’esordio clinico in età<br />

infantile è insolito e l’evoluzione dei sintomi è<br />

meno rapida rispetto all’ EE tipo 2 20-21,25 .<br />

L’EE tipo 3 è causata da mutazioni bialleliche<br />

del gene TFR2, clonato, mappato e sequenziato<br />

nel 1999 19 . Esso mappa sul cromosoma<br />

7q22 ed è costituito da 18 esoni. Il suo prodotto<br />

proteico è il recettore 2 della transferrina<br />

(TFR2). Si ritiene che questa molecola, espressa<br />

prevalentemente nel fegato, sia in grado di<br />

percepire i livelli serici di ferro e di indurre,<br />

quando complessata con la proteina HFE, la<br />

sintesi del polipeptide epcidina 7 .<br />

Emocromatosi ereditaria di tipo 4<br />

L’emocromatosi di tipo 4 è la forma più comune<br />

di EE non correlata al gene HFE e, per<br />

quanto ad oggi noto, la sola ad ereditarietà<br />

autosomica dominante 17,19,21 . È dovuta a mutazioni<br />

eterozigoti di SLC40A1, gene costituito<br />

da 8 esoni che mappa nella regione 2q32. SL-<br />

C40A1 codifica per la proteina ferroportina,<br />

l’unico esportatore cellulare di ferro presente<br />

nell’organismo 1 . Caratteristica aggiuntiva<br />

dell’EE di tipo 4 è che essa si manifesta, a<br />

seconda del tipo di mutazione che ne è alla base,<br />

con due fenotipi clinici alternativi tra loro<br />

alquanto dissimili (figura 2) 17,26-27 . Di fatto, un<br />

primo gruppo di pazienti con EE di tipo 4 (EE<br />

di tipo 4a) mostra, come prima manifestazione<br />

biochimica, un incremento dei livelli sierici<br />

della ferritina, ma, contrariamente a tutte<br />

le altre forme, valori normali o bassi della<br />

saturazione della transferrina. In questi casi,<br />

l’accumulo di ferro avviene principalmente<br />

nelle cellule del sistema reticoloendoteliale ed<br />

è quindi spesso presente una lieve splenomegalia.<br />

È inoltre facile, a differenza di quanto<br />

avviene nelle altre forme, lo sviluppo di anemia<br />

nel corso del programma flebotomico. Responsabili<br />

di questo quadro clinico sono mutazioni<br />

eterozigoti di SLC40A1 che causano diminuzione<br />

o perdita di funzione alla proteina ferroportina.<br />

Un secondo gruppo di pazienti con EE<br />

di tipo 4 (EE di tipo 4b) presenta, invece, un<br />

fenotipo clinico molto simile a quello dell’emocromatosi<br />

classica, e, al pari di quest’ultima,<br />

precoce aumento dei livelli di saturazione della<br />

transferrina ed accumulo di ferro prevalentemente<br />

nelle cellule parenchimali.<br />

In questi soggetti le mutazioni in SLC40A1<br />

determinano, invece, acquisizione di funzione<br />

al prodotto genico, conferendo a ferroportina<br />

resistenza alla degradazione (Figura 2).<br />

Fig. 2. Pathway regolativo di epcidina<br />

Rappresentazione parziale del complesso pathway che modula<br />

l’espressione del principale regolatore dell’omeostasi del ferro; il<br />

polipeptide epcidina, codificato dal gene HAMP. L’induzione dell’espressione<br />

di HAMP è mediata dalle proteine “bone morfogenetic”<br />

(BMPs) che si legano ai loro recettori (BMPR) sulla superficie<br />

cellulare degli epatociti causando la fosforilazione di SMAD1/5/8.<br />

HJV, nella sua forma non solubile, amplifica questo segnale.<br />

SMAD1/5/8 fosforilato forma un complesso con SMAD4 che trasloca<br />

nel nucleo dove lega il promotore di HAMP stimolando l’espressione<br />

di quest’ultimo. Il ruolo di HFE e TFR2 quali regolatori positivi<br />

di HAMP non è ancora ben chiaro ma è probabile che entrambi<br />

funzionino come sensori dei livelli della transferrina diferrica.<br />

TMPRSS6, gene responsabile di IRIDA, è un regolatore negativo<br />

di HAMP in quanto taglia il complesso BMP/BMPR/HJV.


S. Majore et al: Genetica della emocromatosi ereditaria 221<br />

Approccio al paziente con sospetta<br />

malattia da alterato metabolismo<br />

del ferro<br />

L’EE, benché codificata tra le malattie rare,<br />

è una delle patologie genetiche più frequenti ed<br />

una delle poche che si avvale di una terapia, la<br />

flebotomia periodica, capace di prevenire tutte<br />

le complicanze. Riconoscerne l’esistenza prima<br />

della comparsa di qualsiasi danno da accumulo<br />

di ferro è dunque un obiettivo doveroso. La<br />

diagnosi di EE viene formulata sulla base di<br />

criteri clinici ed, eventualmente, di valutazioni<br />

di natura genetica 2,17-19 . Il parametro biochimico<br />

che si rivela più precocemente alterato e<br />

che è più specifico per un iperassorbimento di<br />

ferro alimentare non è l’iperferritinemia (che<br />

non ha valore di specificità), ma piuttosto la<br />

percentuale di saturazione della transferrina<br />

che corrisponde al rapporto tra la sideremia e<br />

la capacità totale della transferrina di legare<br />

il ferro (TIBC). Un valore di saturazione della<br />

transferrina ripetutamente uguale o superiore<br />

al 45% è generalmente indicativo di un sovraccarico<br />

marziale a livello ematico e deve quindi<br />

far sospettare la EE. Al contrario, nella EE,<br />

l’aumento della ferritina è relativamente tardivo.<br />

La concentrazione sierica di tale proteina<br />

è di fatto direttamente correlata all’entità del<br />

sovraccarico globale di ferro dell’organismo<br />

e mostra, quindi, nei pazienti con EE, un<br />

incremento progressivo nel corso degli anni.<br />

Vengono considerati anomali valori >200 µg/L<br />

nella donna e >300 µg/L nell’uomo. Qualora<br />

secondario ad eccesso di ferro, un valore di<br />

ferritinemia ≥1000 µg/L suggerisce, invece, la<br />

presenza di danno epatico.<br />

D’altro canto, bisogna sempre tener conto<br />

che un’iperferritinemia può essere osservata<br />

in molte affezioni, alcune delle quali, come ad<br />

esempio la sindrome dismetabolica e l’epatopatia<br />

alcolica, di frequente riscontro. Pertanto,<br />

tale reperto, quando non associato ad aumento<br />

significativo della percentuale di saturazione<br />

della transferrina, richiede, in prima istanza,<br />

una diagnosi differenziale per altre patologie<br />

che possono associarsi ad iperferritinemia<br />

(Tabella 2). Va comunque considerato che la<br />

causa di iperferritinemia persistente è spesso<br />

benigna e che questa rimane sconosciuta in<br />

un’alta percentuale dei casi. È però possibile<br />

che il recente riscontro, in circa il 50% dei casi<br />

con iperferritinemia benigna familiare, di una<br />

mutazione ricorrente nella regione codificante<br />

Tabella 2. Cause di iperferritinemia<br />

(non associate a significativo sovraccarico<br />

di ferro)<br />

Sindrome iperferritinemia-cataratta ereditaria<br />

Iperferritinemia benigna<br />

EE di tipo 4A<br />

Sindrome dismetabolica<br />

Infezioni<br />

Infiammazioni acute e croniche<br />

Patologie autoimmuni<br />

Neoplasie<br />

Abuso alcoolico<br />

Epatopatie acute e croniche<br />

Sindrome emofagocitica<br />

del gene L-ferritina, consentirà la caratterizzazione<br />

molecolare di molti di quei pazienti<br />

con iperferritinemia “idiopatica” 28 .<br />

Il percorso diagnostico nei casi in cui gli<br />

indici biochimici suggeriscono piuttosto la<br />

presenza di sovraccarico marziale, prevede<br />

che il sospetto venga in ogni caso confermato<br />

da una biopsia epatica (d’obbligo nei casi con<br />

ferritinemia >1000 µg/L) o mediante una metodologia<br />

non invasiva (risonanza magnetica,<br />

SQUID o MID) in grado di definire l’entità del<br />

contenuto in ferro del parenchima epatico. In<br />

caso di esito positivo di un tale approfondimento<br />

vanno valutate, oltre all’EE, anche le<br />

altre cause di sovraccarico marziale (Tabella<br />

3). A causa delle possibili difficoltà diagnostiche<br />

e delle conseguenze multisistemiche di un<br />

sovraccarico cronico di ferro, l‘approccio clinico<br />

Tabella 3. Principali patologie associate a sovraccarico<br />

di ferro<br />

Sovraccarico primitivo<br />

EE di tipo 1(classica)<br />

EE giovanile<br />

di tipo 2A<br />

di tipo 2B<br />

EE di tipo 3<br />

EE di tipo 4b<br />

Aceruloplasminemia<br />

Ipotransferrinemia congenita<br />

Mutazioni del gene DMT1<br />

Sovraccarico secondario<br />

Anemie con eritropoiesi inefficace<br />

Anemie emolitiche<br />

Trasfusioni<br />

Somministrazione di ferro parenterale<br />

Epatopatie croniche<br />

Sindrome dismetabolica


222 Annali degli Ospedali San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong> 11, 4, 2009<br />

del paziente che mostra una qualsivoglia alterazione<br />

degli indici biochimici del ferro, può<br />

comportare il coinvolgimento di più specialisti<br />

(ematologo, epatologo, oncologo, infettivologo,<br />

endocrinologo) 2,17,19 .<br />

La valutazione genetica si inserisce nell’ottica<br />

di una diagnosi differenziale con altre<br />

cause di sovraccarico marziale/iperferritinemia,<br />

nella gestione (prevalentemente a<br />

carattere preventivo) della famiglia e nella<br />

valutazione dell’opportunità di eseguire test<br />

genetici di conferma. Una delle peculiarità<br />

della genetica medica, infatti, è che essa pone<br />

la massima attenzione non solo al paziente<br />

inteso come singolo individuo, ma alla intera<br />

famiglia, muovendosi principalmente nell’ambito<br />

della prevenzione e, quando opportuno,<br />

della diagnosi prenatale. Nella medicina<br />

moderna, sempre più attenta alla diagnosi<br />

precoce come strumento principale per il<br />

miglioramento della qualità e delle attese di<br />

vita della popolazione e sempre più orientata<br />

alla razionalizzazione dei costi della spesa<br />

sanitaria, tale approccio è assolutamente<br />

imprescindibile da quello terapeutico della<br />

medicina classica.<br />

Nello specifico, la consulenza genetica può<br />

essere di ausilio per un corretto inquadramento<br />

diagnostico di quei casi che mostrano alterazioni<br />

persistenti degli indici del ferro e per<br />

individuare in fase presintomatica i familiari<br />

con genotipo a rischio di patologia.<br />

Le indagini molecolari per EE che possono<br />

essere oggi effettuate sono molteplici e soggette<br />

a progressivo ampliamento grazie alle<br />

nuove conoscenze che si rendono man mano<br />

evidenti. Il livello di approfondimento degli<br />

esami genetici è variabile e solo pochi laboratori<br />

di genetica medica sono in grado di eseguire<br />

studi di II livello.<br />

La mutazione p.C282Y del gene HFE è<br />

la causa più frequente di EE ed è rilevabile<br />

allo stato omozigote nella maggior parte dei<br />

pazienti del Nord Europa. Tale mutazione,<br />

originata nella popolazione celtica, mostra<br />

una distribuzione secondo un gradiente negativo<br />

nord-sud. In Italia, il genotipo p.C282Y/<br />

p.C282Y è presente in circa il 65% dei pazienti<br />

con diagnosi certa di EE ed, in particolare, solo<br />

nel 40% circa dei casi nell’Italia del centro-sud<br />

ed in percentuale ancor minore in quella insulare.<br />

p.H63D, variante a bassa penetranza<br />

e a frequenza polimorfica, mostra invece una<br />

distribuzione ubiquitaria. L’indagine moleco-<br />

lare di I livello per EE prevede generalmente<br />

la ricerca di queste due mutazioni e di p.S65C,<br />

un’ulteriore mutazione del gene HFE riscontrata<br />

in una percentuale significativa dei<br />

pazienti..<br />

L’eventualità di procedere in casi selezionati<br />

ad un secondo livello d’indagine necessita,<br />

tra l’altro, di una attenta valutazione del<br />

rapporto costo/beneficio e della probabilità<br />

di ottenere un esito positivo. A seconda delle<br />

caratteristiche del singolo paziente e della<br />

sua famiglia è possibile approfondire l’esame<br />

di HFE mediante lo studio di tutta la sua<br />

sequenza e/o la ricerca di delezione dell’intero<br />

gene. In altri casi, è invece indicato esaminare<br />

dapprima uno o più geni tra HJV, HAMP o<br />

SLC40A1 nell’intera sequenza codificante e<br />

nelle giunzioni esone-introne.<br />

La recente identificazione di una forma<br />

grave di EE nel topo associata al gene Bmp6 29<br />

e, nell’uomo, di una nuova molecola regolatrice<br />

di epcidina (TMPRSS6) 30 , rendono altamente<br />

verosimile che a breve sarà possibile studiare<br />

nuovi geni responsabili di sovraccarico primitivo<br />

di ferro. Infine, grazie ai recenti avanzamenti<br />

delle conoscenze sarà possibile avere a<br />

disposizione nuovi strumenti per la diagnosi<br />

e la terapia delle patologie da alterato metabolismo<br />

del ferro. Di fatto, il dosaggio della<br />

forma attiva dell’ epcidina sierica o urinaria si<br />

sta già rilevando un parametro discriminante<br />

nella diagnostica differenziale delle condizioni<br />

associate ad eccesso o a carenza di ferro. Si ipotizza<br />

allo stesso tempo che la stessa epcidina<br />

e/o altre molecole che con essa interagiscono<br />

potranno essere presto utilizzate per la cura di<br />

alcune tra queste condizioni patologiche 5 .<br />

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Corrispondenza e richiesta estratti:<br />

Dr.ssa Silvia Majore<br />

Az. <strong>Ospedaliera</strong> S. <strong>Camillo</strong>-<strong>Forlanini</strong>, Roma


Focus<br />

SARCOIDOSI<br />

SARCOIDOSIS: A FOREWORD<br />

CARMELO RAIMONDI<br />

ANNALI DEGLI OSPEDALI<br />

San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong><br />

Volume 11, Numero 4, Ottobre - Dicembre 2009<br />

Ambulatorio della Sarcoidosi - U.O.C. di Broncopneumologia e Tisiologia,<br />

<strong>Azienda</strong> <strong>Ospedaliera</strong> S. <strong>Camillo</strong>-<strong>Forlanini</strong>, Roma<br />

Parole chiave: Sarcoidosi<br />

Key words: Sarcoidosis<br />

La sarcoidosi è, tutt’ora, una malattia di<br />

origine sconosciuta. La teoria oggi prevalente<br />

la vuole come il risultato dell’esposizione ad<br />

uno o più agenti ambientali (talco, pollini,<br />

insetticidi, ecc.) microbici (Propionibacterium<br />

acnes, Mycobatteri, ecc.), virali (Retrovirus,<br />

Cytomegalovirus, ecc.) che agendo su un organismo<br />

geneticamente predisposto (in causa<br />

sembra essere il complesso maggiore di istocompatibilità<br />

HLA) innescano il relativo processo<br />

patologico.<br />

La mortalità è stimata tra l’1 ed il 5% ed è<br />

dovuta quasi esclusivamente all’insufficenza<br />

respiratoria.<br />

In questo Focus abbiamo volutamente evitato<br />

di trattare l’etiologia della sarcoidosi<br />

in quanto è stato nostro intendimento porre<br />

l’accento sulla identificazione diagnostica e<br />

sul trattamento terapeutico di tale malattia:<br />

aspetti che, pensiamo, possano più immediatamente<br />

interessare gli specialisti nella loro<br />

pratica clinica quotidiana.<br />

Poiché si tratta di una patologia spesso<br />

multi sistemica che può interessare più organi<br />

e apparati risulta necessaria la cooperazione<br />

tra diversi specialisti.<br />

In quest’ottica Franco Quagliarini sviluppa<br />

gli aspetti radiologici evidenziando il ruolo<br />

della TC torace ad alta risoluzione (HRCT) e<br />

della scintigrafia polmonare con gallio, Francesco<br />

Arienzo tratta dei patterns di fisiopatologia<br />

respiratoria, Paolo Graziano descrive<br />

accuratamente i caratteri anatomo-patologici,<br />

Giovanni Galluccio e Gabriele Lucantoni (con<br />

Paolo Battistoni, Sandro Batzella, Vito Lucifora<br />

e Raffaele Dello Iacono) con sintetica<br />

ma esaustiva trattazione ci illustrano le varie<br />

tecniche broncoscopiche, Rita Gasbarra (con<br />

Angela Di Lorenzo e Monica Bronzini) ci mostrano<br />

in dettaglio l’importanza del Liquido<br />

di Lavaggio Broncoalveolare (BAL), Carmelo<br />

Raimondi (con Alfonso Maria Altieri, Marcello<br />

Ciccarelli, Salvatore D’Antonio e Mario Giuseppe<br />

Alma) ci descrivono l’esperienza di un<br />

ambulatorio dedicato alla sarcoidosi ponendo<br />

l’accento sulla diagnostica, la terapia e la modalità<br />

di follow-up, chiude il Focus la Prof.ssa<br />

Paola Rottoli dell’Università di Siena che,<br />

dopo un breve excursus sulla terapia tradizionale<br />

tratta (insieme con C. Olivieri ed E. Bargagli)<br />

delle nuove frontiere aperte dall’impiego<br />

dell’anti TNFα nel combattere la Sarcoidosi.<br />

Corrispondenza: Dott. C. Raimondi, Ambulatorio della Sarcoidosi, Az. <strong>Ospedaliera</strong> S. <strong>Camillo</strong>-<strong>Forlanini</strong>,<br />

Roma, UOC Broncopneumologia e Tisiologia, P.zza <strong>Forlanini</strong>, 1, Roma


C. Raimondi et al.: Sarcoidosi 225<br />

LA SARCOIDOSI: QUADRI RADIOLOGICI<br />

SARCOIDOSIS: RADIOLOGIC FEATURES<br />

FRANCO QUAGLIARINI<br />

U.O.C. Radiologia <strong>Forlanini</strong><br />

<strong>Azienda</strong> <strong>Ospedaliera</strong> S. <strong>Camillo</strong> <strong>Forlanini</strong>, Roma<br />

Parole chiave: Sarcodosi. Tomografia Computerizzata ad alta risoluzione<br />

Key words: Sarcoidosis. High Resolution Computed Tomography<br />

Riassunto – La sarcoidosi è una malattia multi sistemica che può coinvolgere più organi.<br />

L’interessamento polmonare è la forma più frequente ed è quella che coinvolge direttamente il radiologo.<br />

La stadiazione radiologica della sarcoidosi toracica è diffusamente accettata e costituisce un importante<br />

riferimento fra i vari specialisti che si interessano di questa malattia.<br />

Il radiologo attualmente può offrire un grosso contributo al clinico, grazie alle possibilità diagnostiche della<br />

TC ad alta risoluzione.<br />

La Tc ad alta risoluzione oltre a mostrare le alterazioni interstiziali (noduli, opacità lineari), evidenzia la loro<br />

distribuzione peribroncovascolare e lungo le limitanti pleuriche, particolarmente a livello delle scissure.<br />

La peculiarità dei quadri radiologici, permette di porre sia il sospetto di malattia che lo stadio.<br />

Abstract – The sarcoidosis is a multisystemical disease which can involve numerous organs.<br />

The pulmonary involvement is the most frequent form and is the one which concerns directly the radiologist.<br />

The radiological staging of thoracic sarcoidosis is accepted everywhere and constitutes an important reference<br />

for the numerous specialist who are interested in this illness.<br />

The radiologist currently can offer a big contribution to the clinical, thanks to the diagnostic possibilities<br />

that the use of the High Resolution CT offers.<br />

The High Resolution CT shows interstial alterations (nodules, linears opacitys), underlines their distribution<br />

peribronchial and perivascular along the limiting pleura, particularly at the level of scissures.<br />

The pecuriality of radiological pictures allows to suspect both the illness and the stage.<br />

La sarcoidosi è una malattia cronica, ad<br />

eziologia ignota, che si localizza in tutte le<br />

sedi dove è presente il sistema istiocitario; è<br />

caratterizzata dalla formazione negli organi<br />

colpiti di granulomi non caseosi (e per questo<br />

che viene anche definita granulomatosi sistemica)<br />

e determina sovvertimento della normale<br />

architettura. Si tratta di una malattia<br />

multi sistemica a patogenesi immunologica<br />

che colpisce pazienti giovani o di media età, interessando<br />

vari organi: prevalentemente polmoni,<br />

linfonodi mediastinici, cute, occhi e più<br />

raramente altri distretti corporei quali fegato,<br />

milza (Fig.1), cuore, reni, apparato oste-muscolare<br />

e sistema nervoso.<br />

Le varie manifestazioni della malattia assumono<br />

caratteri diversi in rapporto con l’età,<br />

il sesso, la razza e l’area geografica 1.<br />

Il radiologo, nell’esecuzione di un occasionale<br />

esame radiografico del torace, può<br />

sospettare la presenza di sarcoidosi e quindi<br />

richiedere l’esecuzione di una TC ad alta risoluzione<br />

(HRCT) 2,3 .<br />

Per l’accertamento diagnostico della sarcoidosi<br />

è necessaria una sintesi fra aspetti<br />

clinici, radiologici, istologici, biochimici ed<br />

immunologi.<br />

Nella sarcoidosi polmonare, che interessa<br />

circa il 90% dei pazienti, il medico radiologo,<br />

pur intervenendo in seconda istanza in base al<br />

sospetto clinico di malattia, può offrire tuttavia<br />

un contributo fondamentale per confermare<br />

la diagnosi, grazie alla presenza di alcuni<br />

segni semeiologi caratteristici della malattia<br />

evidenziabili solo con l’ HRCT 4,5 .<br />

L’HRCT è un esame che va eseguito secondo<br />

precisi parametri tecnici (Tab 1).


226 Annali degli Ospedali San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong> 11, 4, 2009<br />

Fig. 1 - Donna di 70 anni con sarcoidosi al III Stadio e con granulomi epatici e splenici<br />

Tabella 1<br />

Parametri Tecnici HRCT<br />

Collimazione mm 1-1,5<br />

KV 120<br />

Ma 200<br />

Tempo di scansione 1-2sec<br />

Matrice 512x512<br />

Algoritmo di ricostruzione frequenza spaziale alta<br />

(filtro per osso)<br />

Livello medio della finestra fra -500 e -700 UH<br />

Ampiezza finestra 1700<br />

Con le TC di ultima generazione TCms (Tomografi<br />

computerizzati multistrato) tali problematiche<br />

sono state in parte superate poiché<br />

lo stesso esame può essere ricostruito in post<br />

processing con differenti algoritmi in base alle<br />

esigenze diagnostiche del radiologo.<br />

Nelle TCms più moderne è possibile impostare<br />

automaticamente alcuni parametri<br />

tecnici in modo da limitare al massimo la dose<br />

di radiazioni ai pazienti.<br />

Convenzionalmente la stadiazione della<br />

sarcoidosi intratoracica prevede 5 quadri radiologici:<br />

– Stadio 0: Radiografia toracica negativa;<br />

– Stadio I: Linfoadenopatia ilare;<br />

– Stadio II: Linfoadenopatia ilare ed infiltrazione<br />

polmonare;<br />

– Stadio III: Infiltrazione polmonare senza<br />

linfoadenopatia ilare;<br />

– Stadio IV: Fibrosi polmonare.<br />

La classificazione radiologica è grossolana<br />

ma, per la sua semplicità ed immediatezza,<br />

viene di fatto riconosciuta e compresa in tutto<br />

il mondo.<br />

Lo stadio 0 comprende quei pazienti che<br />

non mostrano alterazioni al controllo radiologico<br />

del torace, pur presentando manifestazioni<br />

cliniche di sarcoidosi in altri organi<br />

(5%-10% dei casi).<br />

Lo Stadio I è quello che raggruppa in maggior<br />

numero di pazienti (50% dei casi): si tratta<br />

di pazienti che mostrano uno slargamento simmetrico<br />

del mediastino e un incremento volumetrico<br />

delle regioni ilari legati alla presenza di<br />

adenopatie; in questi casi va posta una diagnosi<br />

differenziale nei confronti dei linfomi Hodgkin<br />

e non Hodgkin (dirimente l’esame istologico),<br />

della TBC (spesso monolaterale ed associata ad<br />

alterazioni parenchimali caratteristiche) e delle<br />

linfoadenopatie infettive non specifiche (che in<br />

genere mostrano un quadro emato-chimico che<br />

indirizza verso la diagnosi corretta).<br />

La diagnosi differenziale nei confronti delle<br />

pneumoconiosi silicotiche può essere posta in<br />

base ad alcuni aspetti radiologici caratteristici<br />

(calcificazioni “a guscio d’uovo”) e sulla positività<br />

dell’esposizione lavorativa.<br />

Nello Stadio II l’associazione di tumefazioni<br />

linfonodali e di lesioni parenchimali impegna<br />

notevolmente il radiologo, ma la valutazione accurata<br />

dei segni semiologici presenti all’ HRCT 4,5<br />

pur nella loro molteplicità e variabilità, possono<br />

indirizzare correttamente la diagnosi (Tab.<br />

2), tenendo sempre conto dell’importanza dell’anamnesi<br />

(Fig. 2).<br />

Le aree di “air-trapping”, apprezzabili<br />

nell’ HRCT eseguita in fase espiratoria sono<br />

un segno abbastanza aspecifico poiché possono<br />

presentarsi anche in presenza di altre patologie<br />

che interessano le piccole vie aeree: esse<br />

sono conseguenti alla presenza di granulomi<br />

sarcoidei all’interno della mucosa del bronchiolo<br />

terminale, siano essi in fase attiva o in<br />

evoluzione fibrotica.<br />

La diagnosi differenziale va posta con la<br />

TBC miliare, la silicosi, la paracoccidiosi,<br />

l’alveolite allergica e con altre interstiziopatie<br />

fibrosanti immunologiche.<br />

Nello Stadio III le alterazioni parenchimali<br />

sono analoghe a quelle del II stadio senza la<br />

presenza di linfonodi in sede mediastinica<br />

(Fig.3).


C. Raimondi et al.: Sarcoidosi 227<br />

Tabella 2<br />

•Noduli a margini netti ed irregolari (Ø 1-5 mm)<br />

•Situati lungo l’interstizio peri-bronco-vascolare (sia<br />

centrale che periferico), a livello dei setti interlobulari,<br />

delle superfici pleuriche e lungo le scissure: distribuzione<br />

perilinfatica<br />

•Distribuzione simmetrica, prevalente nei campi polmonari<br />

medio-superiori<br />

•Aree di aumentata densità parenchimale con aspetto<br />

“a vetro smerigliato”<br />

•Coesistenza di noduli di dimensioni maggiori di 1-2<br />

cm<br />

•Distribuzione irregolare per la contemporanea presenza<br />

di aree di parenchima sano e di aree di consolidazione<br />

di forma e dimensioni irregolari<br />

•Presenza di aree di “air trapping” nelle scansioni<br />

assunte in fase espiratoria<br />

•Slargamento del mediastino per la presenza di tumefazioni<br />

linfonodali bilaterali<br />

Fig. 2A - Maschio 37a<br />

sarcoidosi II stadio<br />

Il IV Stadio è sicuramente lo stadio più difficile<br />

da diagnosticare poiché le alterazioni sono<br />

a prevalente carattere fibrosante aspecifico,<br />

caratterizzate dalla distorsione del parenchima<br />

polmonare (conseguente a lesioni parenchimali<br />

di tipo reticolare), da un ispessimento irregolare<br />

dei setti interlobari con dislocazione dei bronchi.<br />

L’eventuale presenza di polmone ad alveare è<br />

rara e sicuramente esprime una condizione di<br />

fibrosi irreversibile. In tale fase il polmone può<br />

andare incontro ad una riduzione di volume che<br />

interessa soprattutto i lobi superiori.<br />

In fase tardiva si possono creare delle<br />

masse conglobate a prevalente localizzazione<br />

parailare conseguenti alla confluenza di più<br />

addensamenti adiacenti, con associate alterazioni<br />

di tipo bronchiettasico e bronchioloectasico<br />

da trazione con bolle<br />

ed aree di enfisema paracicatriziale.<br />

La sarcoidosi, come del<br />

resto tutte le fibrosi polmonari,<br />

può causare un<br />

quadro di insufficienza<br />

respiratoria e una condizione<br />

di cuore polmonare<br />

cronico con ipertensione<br />

polmonare.<br />

Poiché il quadro della<br />

fibrosi polmonare è l’evoluzione<br />

finale di molte patologie<br />

polmonari (infettive,<br />

da esposizione professionale,<br />

neoplastiche, immunologiche),<br />

la diagnosi differenziale<br />

è possibile soltan-<br />

Fig. 2B - Maschio 53a micronoduli<br />

diffusi da metastasi da ADK polmonare<br />

Fig. 3 - RX 2p donna di anni 41 Sarcoidosi III stadio<br />

to quando si hanno tracce<br />

della patologia iniziale.<br />

I quadri radiologici della<br />

sarcoidosi possono essere<br />

estremamente complessi<br />

poiché si può andare<br />

incontro a riprese di malattia e<br />

quindi alla comparsa di nuove<br />

ondate di noduli (Fig.4) che<br />

possono localizzarsi sia su polmoni<br />

completamente guariti o<br />

sommarsi ad alterazioni fibrosanti<br />

precedenti.<br />

La medicina nucleare permette<br />

di ottenere altre informazioni<br />

valide ai fini della diagnosi<br />

e sullo stato di attività


228 Annali degli Ospedali San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong> 11, 4, 2009<br />

Fig. 4 - Giovane donna di 36 anni che dopo una prima<br />

fase di remissione completa presenta a distanza<br />

di 3 anni, una ripresa di malattia caratterizzata<br />

dalla comparsa di micronodulia diffusa<br />

della sarcoidosi. La metodica più utilizzata<br />

è la scintigrafia con Gallio marcato che<br />

può essere altamente diagnostica come<br />

ad esempio quando si rileva la caratteristica<br />

immagine del “Panda” a livello del<br />

cranio 6 , che permette di visualizzare le<br />

aree di attività interessanti le ghiandole<br />

lacrimali e le parotidi. Tale segno sebbene<br />

non specifico e molto sensibile soprattutto<br />

nel I e II stadio (Fig. 5).<br />

Recentemente l’introduzione della Pet-<br />

TC con (18)FDG ha stimolato molti studi<br />

nella sarcoidosi, sia per la diagnosi che<br />

nel follow-up dei pazienti in terapia 7 .<br />

Bibliografia<br />

Fig. 5 - Segno del Panda: Scintigrafia con Ga 67: a livello del cranio<br />

si evidenziano le aree di attività che interessano le ghiandole<br />

lacrimali e le ghiandole parotidee<br />

1. Agostini C, Semenzato G. La sarcoidosi.<br />

Giorn It Allergol Immunol Clin 2003;13:51-65<br />

2. Costabel U, Ohshimo S, Guzman J. Diagnosis<br />

of sarcoidosis. Curr Opin Pulm Med.<br />

2008 Sep; 14(5): 455-61<br />

3. Miller BH, Rosado-de-Christenson ML, Mc<br />

Adams HP, et al. Thoracic Sarcoidosis: Radiologic-Pathologic<br />

Correlation. RadioGraphics<br />

1995; 15 :42 l-43’<br />

4. Webb W R, Muller N L .Naidich DP et al.<br />

Of The Lung Philadelphia Lippincott Willlams<br />

& Wilkins 2001<br />

5. Maffessanti M, Dalpiaz G. Pneumopatie<br />

Infiltrative Diffuse: Clinica ,Anatomia Patologica,<br />

HRCT Milano Springer-Verlag 2004<br />

6. Karen A. Kurdziel, MD The Panda Sign<br />

Radiol 2000; 215: 884-5<br />

7. Prager E, Wehrschuetz M,<br />

Bisail B, Woltsche M et al. Comparison<br />

of 18F-FDG and 67Gacitrate<br />

in sarcoidosis imaging<br />

Nuklearmedizin. 2008; 47: 18-<br />

23


C. Raimondi et al.: Sarcoidosi 229<br />

ASPETTI ISTOPATOLOGICI DELLA SARCOIDOSI POLMONARE<br />

HISTOPATHOLOGIC FEATURES OF PULMONARY SARCOIDOSIS<br />

Parole chiave: Sarcodosi. Granulomatosi. Polmone<br />

Key words: Sarcoidosis. Granulomatosis. Lung<br />

La sarcoidosi è una malattia cronica granulomatosa<br />

multisistemica ad eziologia sconosciuta<br />

caratterizzata dalla formazione di<br />

granulomi epitelioidi. In un appropriato contesto<br />

clinico-radiologico, l’esame broncoscopico<br />

e l’acquisizione di multipli campioni bioptici<br />

consentono generalmente di raggiungere la<br />

diagnosi di sarcoidosi. La caratteristica morfologica<br />

maggiormente significativa della sarcoidosi<br />

è rappresentata dalla presenza di granulomi<br />

ben definiti, non necrotizzanti, tipicamente<br />

confluenti (Fig. 1). I granulomi sono costituiti<br />

da aggregati di istiociti epitelioidi, talora commisti<br />

a cellule giganti multinucleate e ad una<br />

minor quota di elementi infiammatori e linfociti.<br />

I granulomi possono andare incontro ad<br />

un processo evolutivo che comporta parziale<br />

o totale sostituzione dei granulomi stessi ad<br />

opera di tessuto fibroso ialino. Il pattern di<br />

distribuzione dei granulomi è una delle caratteristiche<br />

maggiormente utili per il riconoscimento<br />

della sarcoidosi e per la sua distinzione<br />

da altre forme di granulomatosi polmonare.<br />

I granulomi della sarcoidosi si distribuiscono<br />

lungo le vie linfatiche (Fig. 2) e di<br />

conseguenza coinvolgono i setti interstiziali<br />

disponendosi lungo le arterie, le vene e i bronchi,<br />

sino ad interessare la pleura. I granulomi<br />

possono anche interessare la parete delle<br />

strutture vascolari, coinvolgendone la tonaca<br />

media ed intima e configurando aspetti di<br />

PAOLO GRAZIANO<br />

U.O.C. di Anatomia ed Istologia Patologica<br />

<strong>Azienda</strong> <strong>Ospedaliera</strong> S. <strong>Camillo</strong> <strong>Forlanini</strong>, Roma<br />

Riassunto - La sarcoidosi è una malattia cronica granulomatosa multisistemica ad eziologia sconosciuta.<br />

Gli aspetti istopatologici ed il caratteristico pattern di distribuzione perilinfatico dei granulomi, integrati<br />

ad un approfondito studio clinico-radiologico, permettono di differenziare la sarcoidosi dalle altre malattie<br />

granulomatose polmonari.<br />

Abstract - Sarcoidosis is a chronic multisystemic granulomatous disease of unknown etiology. The histopathologic<br />

features and the characteristic perilymphatic distribution of granulomas, joined to an accurate<br />

clinical and radiological analysis, allow to differentiate sarcoidosis from the other granulomatous diseases<br />

of the lung.<br />

vasculite granulomatosa in assenza di necrosi<br />

del vaso. È opportuno rammentare come una<br />

minima quota di necrosi fibrinoide sia osservabile<br />

in circa il 20-30% dei granulomi rinvenuti<br />

in corso di sarcoidosi e che, nel parenchima<br />

polmonare circostante i granulomi, non sia<br />

usualmente osservabile una significativa quota<br />

di infiltrato infiammatorio. La coesistenza<br />

di un’abbondante quota flogistica e di granulomi<br />

mal definiti, deve suggerire ipotesi<br />

diagnostiche alternative quali la polmonite da<br />

ipersensibilità, da aspirazione od un’eziologia<br />

infettiva. Le cellule giganti dei granulomi possono<br />

contenere inclusioni citoplasmatiche non<br />

specifiche, rappresentate da corpi asteroidi e<br />

corpi di Schaumann o cristalli di ossalato di<br />

calcio birifrangenti alla luce polarizzata. Il<br />

pattern di distribuzione e le caratteristiche<br />

morfologiche descritte, se integrate ad un<br />

approfondito quadro clinico-radiologico, sono<br />

usualmente caratteristiche e coerenti con la<br />

diagnosi di sarcoidosi, ma non sono di per sé<br />

diagnostiche. Le principali condizioni patologiche<br />

che devono essere poste in diagnosi differenziale<br />

con la sarcoidosi includono le forme<br />

infettive, la berilliosi, le pneumoconiosi e la<br />

polmonite da ipersensibilità. Ogni volta che si<br />

rileva la presenza di un processo granulomatoso<br />

polmonare, soprattutto necrotizzante, è<br />

mandatorio lo studio colturale microbiologico<br />

ed il patologo deve necessariamente eseguire


230 Annali degli Ospedali San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong> 11, 4, 2009<br />

Fig. 1 - Caratteristici granulomi epitelioidei<br />

gigantocellulari non necrotizzanti<br />

colorazioni istochimiche volte alla ricerca di<br />

eventuali forme microbiche che possano comprovarne<br />

l’eziologia infettiva.<br />

Gli aspetti istopatologici in corso di berilliosi<br />

sono del tutto sovrapponibili a quelli<br />

evidenziabili nella sarcoidosi. La diagnosi di<br />

berilliosi è pertanto essenzialmente di pertinenza<br />

clinica e si basa principalmente sull’accertamento<br />

di una storia di esposizione.<br />

Un’accurata anamnesi patologica può sempre<br />

facilitare il corretto inquadramento di un<br />

processo granulomatoso polmonare ed accertare<br />

un’eventuale eziologia da esposizione a<br />

polveri. La presenza di cristalli nelle cellule<br />

giganti e nei granulomi può suggerire anche la<br />

possibilità di una malattia da inalazione, che<br />

però, usualmente, non mostra la caratteristica<br />

distribuzione perilinfatica osservata nella sarcoidosi.<br />

Anche la polmonite da ipersensibilità<br />

(alveolite estrinseca allergica) può mostrare<br />

punti di somiglianza con la sarcoidosi.<br />

A differenza della sarcoidosi, nella polmonite<br />

da ipersensibilità i granulomi appaiono<br />

usualmente mal definiti e non ben circoscritti.<br />

Inoltre, nella sarcoidosi non si rileva quel<br />

prominente infiltrato infiammatorio bronchiolocentrico<br />

che coinvolge l’interstizio polmonare<br />

e si associa ad aspetti di bronchiolite obliterante<br />

e di polmonite in via di organizzazione<br />

(BOOP) presenti invece nell’alveolite allergica<br />

estrinseca.<br />

In conclusione, il patologo può sospettare,<br />

prospettare od avere elementi morfologici coerenti<br />

con la diagnosi di sarcoidosi.<br />

Fig. 2 - Caratteristica distribuzione perilinfatica<br />

e subpleurica dei granulomi<br />

Le sole caratteristiche morfologiche, seppur<br />

suggestive, non sono patognomoniche di per sé<br />

e necessitano dell’usuale integrazione con le<br />

informazioni cliniche, radiologiche e dei dati<br />

di laboratorio, in modo da escludere le altre<br />

forme di granulomatosi polmonare a differente<br />

eziologia ed a diverso trattamento terapeutico,<br />

che possono presentare aspetti sovrapponibili<br />

a quelli osservati in corso di sarcoidosi.<br />

Bibliografia essenziale<br />

Gilman MJ, Wang KP. Transbronchial lung biopsy<br />

in sarcoidosis. An approach to determine the<br />

optimal number of biopsies. Am Rev Respir Dis<br />

1980; 122: 721-4<br />

Hunninghake GW, Costabel U, Ando M, et al. ATS/<br />

ERS/WASOG statement on sarcoidosis. American<br />

Thoracic Society/European Respiratory Society/World<br />

Association of Sarcoidosis and other<br />

Granulomatous Disorders. Sarcoidosis Vasc Diffuse<br />

Lung Dis; 1999; 16: 149-73<br />

Hsu RM, Connors AF Jr, Tomashefski JF Jr. Histologic,<br />

microbiologic, and clinical correlates of<br />

the diagnosis of sarcoidosis by transbronchial<br />

biopsy. Arch Pathol Lab Med 1996; 120: 364-8<br />

Leslie KO, Gruden JF, Parish JM, Scholand MB.<br />

Transbronchial biopsy interpretation in the patient<br />

with diffuse parenchymal lung disease. Arch<br />

Pathol Lab Med. 2007; 131: 407-23. Review<br />

Sundaram B, Gross BH, Oh E, et al. Reader accuracy<br />

and confidence in diagnosing diffuse<br />

lung disease on high-resolution computed tomography<br />

of the lungs: impact of sampling frequency.<br />

Acta Radiol 2008; 49: 870-5


C. Raimondi et al.: Sarcoidosi 231<br />

LA SARCOIDOSI: RUOLO DELLA FISIOPATOLOGIA RESPIRATORIA<br />

SARCOIDOSIS: SIGNIFIANCE OF RESPIRATORY PHISIOPHATOLOGY<br />

La Fisiopatologia respiratoria(FR) ha un<br />

ruolo limitato nella definizione diagnostica<br />

della Sarcoidosi ma diventa determinante per<br />

la valutazione del grado di impegno funzionale<br />

e quindi del decorso della malattia e della efficacia<br />

del trattamento terapeutico.<br />

È bene, dunque, affiancare sin dall’inizio<br />

lo studio funzionale a quello clinico così da<br />

avere poi (la Sarcoidosi necessita spesso di<br />

trattamenti assai lunghi) un sicuro punto di<br />

riferimento.Ci si può avvalere del contributo<br />

della FR nelle diverse fasi della respirazione:<br />

ventilatoria, della diffusione alveolo-capillare,<br />

circolatoria,della respirazione tissutale. La fase<br />

ventilatoria viene studiata essenzialmente con<br />

la Spirometria e la Pletismografia corporea;<br />

la fase della diffusione col il test della DLCO;<br />

la fase circolatoria con la Emogasanalisi e la<br />

Saturimetria dinamica. La fase della respirazione<br />

tissutale si può indagare indirettamente<br />

con il test da sforzo cardiorespiratorio completo<br />

della parte metabolica. Come è noto la<br />

Sarcoidosi viene distinta in quattro stadi anatomo-clinico-radiologici:<br />

lo stadio zero,quello<br />

dell’adenopatia ilomediastinica isolata, quello<br />

parenchimale e quello della fibrosi.Questa<br />

suddivisione non deve intendersi come assoluta<br />

perché in diversi casi può essere presente<br />

l’interessamento parenchimale senza che sia<br />

documentabile quello linfonodale. Lo stesso interessamento<br />

parenchimale può non essere visibile<br />

radiologicamente ma rivelato dall’esame<br />

istologico o dalla captazione scintigrafica .La<br />

fase della fibrosi può essere caratterizzata da<br />

diverso impegno funzionale anche con quadri<br />

radiologici simili.È proprio questa complessità<br />

anatomoclinica che può essere meglio definita<br />

dallo studio funzionale.<br />

FRANCESCO ARIENZO<br />

U.O. di Fisiopatologia Respiratoria<br />

<strong>Azienda</strong> <strong>Ospedaliera</strong> S. <strong>Camillo</strong> <strong>Forlanini</strong>, Roma<br />

Parole chiave: Spirometria. Capacità di diffusione polmonare dell’ossido di carbonio (DLCO), Sarcoidosi<br />

Key words: Spirometry. Diffusing Lung Capacity Carbon Oxide (DLCO). Sarcoidosis<br />

Nello stadio zero lo studio funzionale deve<br />

escludere in assenza di anomalie radiologiche<br />

del torace un eventuale interessamento funzionale.<br />

Nella fase dell’adenopatia le prove di<br />

funzionalità respiratoria sono normali e solo<br />

raramente vi è un interessamento spirometrico<br />

che mostra un lieve deficit restrittivo quando<br />

l’impegno mediastinico è considerevole. La<br />

spirometria correlata con lo studio del volume<br />

residuo e dei parametri da questo derivabili è<br />

determinante negli stadi III e IV della malattia.<br />

Il danno funzionale principale caratteristico<br />

della Sarcoidosi florida è l’ Insufficienza<br />

Ventilatoria Restrittiva.Il deficit restrittivo<br />

è in rapporto all’interessamento interstiziale<br />

ed allo sviluppo della fibrosi come in tutte le<br />

malattie fibrosanti.<br />

Lo stadio IV, caratterizzato da fibrosi irreversibile,<br />

può portare allo sviluppo di enfisema<br />

bolloso. Negli stadi piu’ conclamati si potra’ allora<br />

registrare una Insufficienza Ventilatoria<br />

Mista con componente ostruttiva non reversibile<br />

con broncodilatatore. Sempre nella Sarcoidosi<br />

florida l’altro parametro caratteristico rilevabile<br />

nella fase della diffusione dei gas è la<br />

diminuzione della DLCO. Molti autori hanno<br />

però dimostrato che la diminuzione della diffusione<br />

del monossido di carbonio può essere<br />

presente in alcuni casi anche nelle fasi iniziali<br />

della malattia quando l’interessamento parenchimale<br />

interstiziale non è visibile all’esame<br />

RX torace e poco visibile anche all’HRTC.<br />

È bene ricordare l’importanza della membrana<br />

alveolo-capillare come unita’ morfofunzionale<br />

costituita da living alveolare,membrana<br />

alveolare,liquido interstiziale,endotelio capillare,<br />

plasma, membrana eritrocitaria. Quando<br />

la membrana alveolo-capillare si ispessisce


232 Annali degli Ospedali San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong> 11, 4, 2009<br />

subito lo scambio di O2 si riduce mentre quello<br />

della CO2 rimane inizialmente inalterato poiche’<br />

questo gas nei liquidi biologici è 24 volte<br />

più solubile e 20 volte piu’ diffusibile dell’ossigeno.<br />

È con l’Emogasanalisi che possiamo indagare<br />

sul trasporto dei gas nel sangue.L’emogasanalisi<br />

si presenta inizialmente normale<br />

ma può mostrare anche una alcalosi respiratoria<br />

con una p O2 normale. Questo quadro è<br />

indotto dalla iperventilazioone che può caratterizzare<br />

clinicamente le primissime fasi della<br />

malattia e può arrivare sino ad uno scompenso<br />

con un valore del ph superiore ai 7,45: alcalosi<br />

respiratoria scompensata. Nelle fasi successive<br />

si potrà avere prima una ipossiemia normocapnica<br />

e solo successivamente, per quanto<br />

abbiamo gia’ detto,negli stadi avanzati della<br />

fibrosi polmonare, una ipossiemia con ipercapnia:<br />

acidosi respiratoria compensata o scompensata.<br />

Gli studi di molti autori sono stati<br />

indirizzati, naturalmente, all’inquadramento<br />

funzionale nelle primissime fasi della Sarcoidosi.<br />

Accanto ai lavori già citati sulla possibile<br />

diminuzione della DLCO molti autori hanno<br />

dimostrato, sia pure in un numero ridotto di<br />

casi, un “esordio” della malattia con un Deficit<br />

Ventilatorio Ostruttivo. Ma ancora oggi non<br />

vi è una spiegazione chiara ed univoca di questa<br />

situazioni come per altro del riscontro,sia<br />

pur raro,di un aumento dell’Iperreattività<br />

Bronchiale. Il test da sforzo cardiorespiratorio<br />

può permettere di individuare precocemente<br />

deficit che qualche volta non correlano con il<br />

quadro clinico. È importante ricordare, a tal<br />

proposito, che la Sarcoidosi è una malattia<br />

sistemica che può anche interessare il cuore e<br />

gli stessi muscoli respiratori.<br />

Per la loro semplicità di esecuzione sono<br />

assai utili il test del cammino (6mWT) e la<br />

saturimetria delle 24 ore che possono mostrare<br />

desaturazioni poco o non sospettate.<br />

Sinteticamente i risultati caratteristici<br />

dello studio funzionale nella Sarcoidosi sono<br />

i seguenti:<br />

– Danno restrittivo con riduzione della capacità<br />

vitale (CV) e della capacità polmonare<br />

totale (CPT).<br />

– Flusso d’aria normale.<br />

– Ridotta capacità di diffusione del monossido<br />

del carbonio (DLCO).<br />

– Ipossiemia arteriosa che peggiora con lo<br />

sforzo fisico e nelle fasi più avanzate ipossiemia<br />

ed ipercapnia.<br />

Studi recenti mostrano correlazioni solo limitate<br />

tra lo studio funzionale e quello clinico<br />

condotto anche con biopsie.<br />

Concludendo tutto lo studio funzionale,<br />

iniziale e ripetuto nel tempo, permette un monitoraggio<br />

della patologia che è indispensabile<br />

affiancare allo studio clinico e biologico.<br />

Bibliografia essenziale<br />

Cardaci G: Fisiopatologia Cardiorespiratoria.Biomedicainternazionale,<br />

Roma 1995<br />

Hamid Q, Shannon J, Martin J: Le basi fisiologiche<br />

delle patologie respiratorie, ed. it. Momento Medico,<br />

Salerno 2007<br />

SARCOIDOSI POLMONARE: LA DIAGNOSTICA BRONCOSCOPICA<br />

PULMONARY SARCOIDOSIS: THE BRONCHOSCOPIC DIAGNOSIS<br />

GIOVANNI GALLUCCIO, GABRIELE LUCANTONI, PAOLO BATTISTONI,<br />

SANDRO BATZELLA, VITO LUCIFORA, RAFFAELE DELLO IACONO<br />

U.O.C. Endoscopia Toracica, <strong>Azienda</strong> <strong>Ospedaliera</strong> S. <strong>Camillo</strong> <strong>Forlanini</strong>, Roma<br />

Parole chiave: Lavaggio Broncoalveolare. Biopsia Transbronchiale. Agoaspirato Transbronchiale. Agobiopsia<br />

Transbronchiale<br />

Key words: Bronchoalveolar Lavage. Transbronchial Biopsy. Transbronchial Needle Aspiration. Transbronchial<br />

Needle Biopsy<br />

Riassunto - Con lo sviluppo e le evoluzione tecnologiche delle strumentazioni endoscopiche sia rigide che<br />

flessibili la broncoscopia ha assunto una diffusione vastissima, tanto da rappresentare oggi l’esame principe<br />

nella diagnostica di una vasta gamma di patologie del torace.


C. Raimondi et al.: Sarcoidosi 233<br />

La patologia immunologia dell’interstizio polmonare si avvale in modo determinate, a fini diagnostici e studiativi,<br />

di numerose metodiche endoscopiche come il lavaggio bronco-alveolare, la biopsia transbronchiale,<br />

l’agoaspirato transbronchiale e l’agobiopsia transbronchiale.<br />

Abstract - The development and technological evolution of both rigid and flexible endoscopic instruments<br />

has widened so much that, at present time, the bronchoscopy is considered one of the most important exam<br />

in the diagnosis of thoracic diseases.<br />

For the diagnosis and study of the immunologic interstitial lung diseases there are many endoscopic techniques<br />

such as the broncoalveolar lavage, the transbronchial biopsy, the transbronchial needle aspiration and<br />

the transbronchial needle biopsy.<br />

Definizione<br />

La sarcoidosi è una malattia infiammatoria<br />

cronica, ad eziologia sconosciuta, che può colpire<br />

qualsiasi organo con predilezione per il distretto<br />

toracico. È una patologia caratterizzata<br />

dalla presenza di granulomi non caseificanti,<br />

da una aumentata risposta dei linfociti helper<br />

tipo1 (Th1) e dei fagociti mononucleati in sede<br />

di malattia e da un incremento nella produzione<br />

di numerose citochine e chemochine infiammatorie.<br />

A livello polmonare è presente una<br />

reazione immunitaria linfocitaria che interessa<br />

gli spazi aerei e l’interstizio polmonare, denominata<br />

alveolite; questa è caratterizzata da<br />

essudazione alveolare, dall’espansione delle<br />

cellule infiammatorie,sia a livello degli spazi<br />

alveolari che dell’interstizio,dei linfociti T e dei<br />

macrofagi alveolari evidenziabili nel liquido di<br />

lavaggio alveolare (BAL).<br />

Tecniche Diagnostiche<br />

L’approccio diagnostico per i pazienti affetti<br />

da sarcoidosi comprende metodiche come<br />

il lavaggio broncoalveolare (BAL), la biopsia<br />

transbronchiale (TBB), l’agoaspirato transbronchiale<br />

(TBNA), la biopsia transcarenale<br />

con ago rigido (TBNB) ed eventuali tecniche<br />

chirurgiche più invasive mediante VATS, mediastionoscopia<br />

e toracotomia.<br />

LAVAGGIO BRONCOALVEOLARE (BAL)<br />

Il lavaggio broncoalveolare (BAL) consiste<br />

nella instillazione di soluzione fisiologica in<br />

piccole quote ripetute nelle vie aeree distali<br />

e nel recupero dell’aspirato per l’analisi delle<br />

componenti cellulari e non cellulari.<br />

Si tratta di una tecnica che differisce concettualmente<br />

dal semplice aspirato bronchiale<br />

in quanto la instillazione ed il recupero di<br />

materiale riguardano il tratto bronchiolo-al-<br />

veolare le cui cellule e i vari componenti non<br />

cellulari sono rappresentativi del sistema infiammatorio<br />

ed immunitario di tutto il tratto<br />

respiratorio inferiore.<br />

Tecnica<br />

Il BAL va eseguito dopo una esplorazione<br />

routinaria di tutto l’albero bronchiale, prima<br />

di manovre quali biopsie o brushing che potrebbero<br />

contaminare con sangue il materiale<br />

recuperato. Usualmente si preferiscono il<br />

bronco lobare medio o la lingula per l’effettuazione<br />

dell’esame al fine di sfruttare per quanto<br />

possibile l’effetto della gravità per migliorare<br />

il recupero in relazione alla posizione anatomica<br />

dei suddetti lobi. La punta del broncoscopio<br />

viene fatta avanzare fino a farla incuneare in<br />

un bronco subsegmentario, ciò produce una<br />

aderenza tra la parete bronchiale e lo strumento<br />

e limita il reflusso di liquido (e quindi la<br />

perdita di materiale) durante la aspirazione.<br />

Successivamente si instilla un totale di almeno<br />

100ml di soluzione fisiologica pre-riscaldata<br />

a 37° (il riscaldamento riduce la tosse e il<br />

broncospasmo). La instillazione si effettua in<br />

boli ripetuti di 20-50ml. Dopo ogni bolo e una<br />

attesa di circa 30 secondi si aspira il liquido.<br />

Normalmente il recupero è intorno al 40-60%<br />

con variazioni legate soprattutto alla tendenza<br />

al collasso bronchiale in pazienti affetti da<br />

BPCO. Una eccessiva pressione di aspirazione<br />

può comunque causare un collasso bronchiale<br />

e ridurne il recupero. Durante la manovra di<br />

aspirazione è importante mantenere il canale<br />

operativo del fibroscopio al centro del bronco<br />

e quindi non preoccuparsi di vedere completamente<br />

il lume stesso in quanto in questo caso<br />

il canale operativo potrebbe aderire alla parete,<br />

più che vedere è importante posizionarsi<br />

in base al liquido che si riesce ad aspirare. La<br />

quantità totale di liquido di lavaggio dovrebbe


234 Annali degli Ospedali San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong> 11, 4, 2009<br />

essere tra i 100 e 150 ml, volumi maggiori non<br />

modificano le concentrazioni di cellule recuperate<br />

e sono associate a maggiore morbilità.<br />

Quale che sia il volume dei boli di lavaggio<br />

in genere la prima aliquota viene utilizzata<br />

per esami di tipo batteriologico e citodiagnostico<br />

ma non per la valutazione della concentrazione<br />

di cellule o per le sottopopolazioni<br />

linfocitarie in quanto il recupero della prima<br />

aliquota rappresenta un lavaggio di cellule e<br />

materiale non cellulare proveniente da bronchi<br />

distali e non da bronchioli o alveoli.<br />

Effetti collaterali<br />

In pratica corrispondono a quelli della fibrobroncoscopia<br />

eseguita in anestesia locale.<br />

I più frequenti effetti collaterali comprendono<br />

infiltrazione alveolare, broncospasmo, febbre,<br />

ipossia lieve.<br />

Complicanze gravi si possono verificare<br />

nello scompenso cardiaco grave (edema polmonare)<br />

o nei pz con insufficienza respiratoria<br />

grave (peggioramento della ipossiemia). Il sanguinamento<br />

è assolutamente infrequente anche<br />

in caso di coagulopatia o trombocitopenia.<br />

Fattori di rischio<br />

Estesi addensamenti polmonari, ipossiemia<br />

(PaO2


C. Raimondi et al.: Sarcoidosi 235<br />

pinza e la si spinge perifericamente sino alla<br />

zona subpleurica; a questo punto si ritira<br />

lievemente la pinza e la si chiude per eseguire<br />

il prelievo di parenchima polmonare.<br />

Agoaspirato transbronchiale (TBNA)<br />

L’impiego di aghi flessibili (Fig. 3) attraverso<br />

il canale operativo del broncoscopio flessibile<br />

consente di prelevare materiale citologico o<br />

anche istologico (a seconda del tipo di ago) da<br />

quasi tutte le stazioni linfoghiandolari peribronchiali.<br />

In caso di masse linfonodali (linfoadenopatie<br />

infiammatorie o neoplastiche) in sede<br />

paratracheale destra e sinistra, precarenale, in<br />

finestra aorto-polmonare, sottocarenale, oppure<br />

localizzate sotto gli speroni di divisione<br />

dei grossi bronchi, il prelievo transbronchiale<br />

è possibile, grazie al rapporto di contiguità<br />

con l’albero bronchiale. Le uniche stazioni non<br />

raggiungibili sono le mediastiniche anteriori e<br />

posteriori e le sotto-sottocarenali. I rapporti fissi<br />

fra le singole stazioni linfonodali e trachea e<br />

bronchi hanno consentito di stabilire una vera e<br />

propria mappa dei punti da pungere per l’agoaspirato.<br />

In questo<br />

modo è possibile<br />

non solo caratterizzare<br />

eventuali<br />

linfoadenopatie,<br />

ma anche ottenere<br />

una stadiazione<br />

preoperatoria<br />

in caso di neoplasie<br />

polmonari. È<br />

comunque sempre<br />

opportuna una<br />

accurata localizzazionetopografica<br />

effettuata con<br />

esame TAC con<br />

contrasto, anche<br />

al fine di escludere<br />

la presenza di<br />

una vascolarizzazione<br />

anomala o<br />

di laghi sanguigni<br />

nel contesto del<br />

tessuto. La penetrazione<br />

dell’ago è<br />

limitata a 1,5 cm<br />

e l’esame TAC de-<br />

Fig. 3<br />

ve informare della<br />

disponibilità di questo spazio di sicurezza nel<br />

contesto della massa. La metodica è sicura e<br />

le complicanze (sanguinamento, pnx, pneumomediastino)<br />

molto rare, vanno evitate stazioni<br />

troppo vicine a grossi vasi.<br />

Agobiopsia transbronchiale (TBNB)<br />

Dopo l’introduzione di un tracheoscopio rigido<br />

in anestesia generale si usa un ago rigido,<br />

retto, a ghigliottina (Flexitemno). Si tratta di<br />

uno strumento caratterizzato da una camicia<br />

metallica, ed un ago rigido al suo interno (16-19<br />

G). Quest’ultimo, dietro la punta, ha una scanalatura<br />

di circa 1 cm per la raccolta del frustolo<br />

di tessuto è collegato ad un dispositivo a molla<br />

tramite un bottone<br />

che permette di<br />

caricare e far scattare<br />

la camicia sopra<br />

di esso a mo’<br />

di saracinesca di<br />

ghigliottina (Fig.<br />

4). L’ago viene introdotto<br />

nel canale<br />

del broncoscopio<br />

rigido e la punta<br />

inserita nel sito del<br />

prelievo (Fig. 5).<br />

Fig. 4<br />

Fig. 5<br />

Dopo aver penetrato<br />

interamente la<br />

parete tracheale o<br />

bronchiale, si ottiene<br />

la resezione di<br />

una carota di tessuto<br />

mediante lo<br />

scatto della saracinesca<br />

della ghigliottina.<br />

Il frustolo<br />

viene fissato in formaldeide<br />

e quindi<br />

incluso per l’esame<br />

istologico (Fig. 6). Sono raggiungibili con questa<br />

metodica le stazioni linfonodali sottocarenali<br />

(N7 sec. Naruke), paratracheali destre, ilari.<br />

Il materiale ricavato<br />

è abbondante e<br />

consente una precisazione<br />

istologica<br />

anche in patologie<br />

ematologiche o immunologichecom-<br />

Fig. 6<br />

plesse.


236 Annali degli Ospedali San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong> 11, 4, 2009<br />

Tabella 1 - Controindicazioni dell’agobiopsia<br />

transcarenale<br />

Assolute Relative<br />

Diatesi emorragica Ipertensione polmonare<br />

Trombocitopenia<br />

Uremia<br />

Ostruzione vena cava superiore<br />

Controindicazioni e complicanze<br />

Le controindicazioni assolute (Tabella 1)<br />

comprendono la diatesi emorragica, per trombocitopenia<br />

e uremia, mentre tra quelle relative<br />

sono da annoverare l’ipertensione polmonare e<br />

l’ostruzione della vena cava superiore la quale,<br />

causando un circolo collaterale attraverso<br />

l’emiazygos, ne determina un aumento dimensionale<br />

che, in caso di puntura accidentale dell’ago<br />

in questa sede, può provocare un’emorragia<br />

paratracheale ed ematomi. Fatta eccezione<br />

per questo caso, la regione carenale è priva<br />

di strutture vascolari importanti, e quindi il<br />

rischio di emorragia è minimo.Le complicanze<br />

(Tabella 2) sono rare e sono rappresentate da<br />

piccola emorragia alla rimozione dell’ago dalla<br />

parete tracheo-bronchiale, saltuaria comparsa<br />

di febbricola con emocoltura negativa, ed infine<br />

qualche rarissimo caso di pneumotorace o<br />

pneumomediastino.<br />

Processi della più svariata natura possono<br />

colpire i linfonodi mediastinici: infettivi, granulomatosi,<br />

linfoproliferativi, neoplastici. La<br />

metodica endoscopica più efficace prevede il<br />

posizionamento preliminare di un broncoscopio<br />

rigido avente un calibro sufficientemente<br />

ampio. In tal modo sarà possibile introdurre<br />

nel lume dello strumento aghi rigidi taglienti,<br />

con o senza parte terminale a ghigliottina, di<br />

grosso calibro (inferiore ai 20 G), che consentono<br />

il prelievo di carote di tessuto adeguate alla<br />

lavorazione istologica. L’importanza di poter<br />

effettuare un prelievo sufficientemente grande<br />

sono intuitive secondo il giusto principio che<br />

maggiore è la quantità di tessuto patologico<br />

asportata migliori sono le probabilità per il pa-<br />

Tabella 2 - Complicanze dell’agobiopsia transcarenale<br />

Poco frequenti Rare<br />

Emorragia paratracheale Pneumotorace<br />

Febbricola Pneumomediastino<br />

Fig. 7<br />

tologo di fare una corretta diagnosi istologica.<br />

È evidente inoltre che l’utilizzo del broncoscopio<br />

rigido consente anche un adeguato controllo<br />

dell’emostasi in caso di sanguinamento<br />

nel punto del prelievo ( e questa rappresenta<br />

l’unica vera complicanza di tale esame diagnostico).<br />

Il limite tecnico della procedura è legato<br />

alle dimensioni della massa sottocarenale in<br />

rapporto alla lunghezza della parte penetrante<br />

dell’ago; è buona norma pertanto una valutazione<br />

preliminare caso per caso delle masse<br />

sottocarenali mediante TAC del torace (Fig. 7)<br />

onde esser certi di avere tessuto bioptizzabile<br />

sufficiente attorno alla all’ago stesso e non<br />

rischiare di penetrare in mediastino.<br />

Quanto detto non esclude tuttavia la possibilità<br />

di un approccio diagnostico endoscopico<br />

diverso nella diagnostica delle masse sottocarenali<br />

e non solo. Più semplicemente l’esame<br />

può essere eseguito con broncoscopio flessibile<br />

ed utilizzare aghi flessibili che generalmente<br />

hanno un calibro inferiore a quelli utilizzati<br />

in broncoscopia rigida. In tal caso il patologo<br />

è in grado di analizzare uno striscio citologico<br />

che, inevitabilmente, per quanto detto sopra,<br />

ha una minore sensibilità diagnostica.<br />

Bibliografia<br />

1. American Thoracic Society. Statement on Sarcoidosis.<br />

Am J Respir Crit Care Med 1999; 160:<br />

736-755<br />

2. Prakash UBS. Broncoscopia. Mayo Foundation<br />

Ed. 1994. Raven Press<br />

3. European Respiratory Monograph 2001. Endoscopia<br />

Polmonare e tecniche bioptiche. Vol. 5<br />

Monografia 3 Dicembre 2001. EdiAIPO Scientifica


C. Raimondi et al.: Sarcoidosi 237<br />

IL BAL NELLO STUDIO DELLA SARCOIDOSI<br />

BAL IN SARCOIDOSIS<br />

RITA GASBARRA, ANGELA DI LORENZO, MONICA BRONZINI<br />

U.O.C. di Anatomia ed Istologia Patologica, <strong>Azienda</strong> <strong>Ospedaliera</strong> S. <strong>Camillo</strong> - <strong>Forlanini</strong>, Roma<br />

Parole chiave: BAL. Citofluorimetria. Rapporto CD4/CD8. Sarcoidosi<br />

Key words: BAL. Flow cytometry. CD4/CD8 ratio. Sarcoidosis<br />

Riassunto - La metodologia di studio del BAL, semplice nell’esecuzione e tollerabile per il paziente, fornisce<br />

informazioni per la diagnosi differenziale delle alveoliti. Nel nostro laboratorio viene eseguita sia l’immunofenotipizzazione<br />

della popolazione linfocitaria del pellet, sia l’analisi citologica e il citogramma. Un rapporto<br />

CD4/CD8 uguale o superiore a 4 ha una sensibilità superiore al 50% ed una specificità del 94-96% per la<br />

diagnosi di sarcoidosi, e comunque, per valori inferiori, un aumento della quota linfocitaria e un relativo<br />

aumento della quota di CD4, può rivelarsi utile al supporto della diagnosi clinica. Di particolare interesse<br />

risulta inoltre l’apporto del BAL nel follow-up delle sarcoidosi.<br />

Abstract - The bronchoalveolar lavage (BAL) analysis, a procedure of easy performance and good tolerance<br />

for the patient, gives useful information in the differential diagnosis of alveolitis. In our laboratory, lymphocyte<br />

immunophenotyping on the pellet obtained by BAL centrifugation, cytological examination and<br />

cytogram are routinely performed. In sarcoidosis a CD4/CD8 ratio of 4 or more has respectively a sensitivity<br />

over 50% and a specificity of 94-96%. Anyway, lower values together with increased number of lymphocytes<br />

and CD4 amounts might be helpful in supporting clinical diagnosis of sarcoidosis. In follow-up of patients<br />

affected by sarcoidosis, BAL study seems to be of great interest.<br />

La metodologia di studio del BAL, proposta<br />

nel 1974 da Reynords e Newball, è stata paragonata<br />

ad una “finestra sul polmone”. Essa<br />

infatti consente di studiare la componente cellulare<br />

dell’alveolite e di monitorare i fenomeni<br />

immunologici che hanno luogo in sede polmonare.<br />

Sulla esecuzione ed sulla interpretrazione<br />

dei risultati del BAL sono oggi disponibili<br />

linee guida formulate dall’American Thoracic<br />

Society, dall’European Respiratory Society e<br />

dal Gruppo di studio di “Endoscopia Toracica”<br />

dell’AIPO sulla esecuzione del broncoaspirato<br />

e sulla interpretrazione dei risultati. La<br />

semplicità di esecuzione dell’indagine e la sua<br />

ottima tollerabilità anche nei pazienti critici,<br />

ha portato allo sviluppo e all’applicazione della<br />

metodica nella pratica clinica, anche se con<br />

alterne vicende di critiche ed entusiasmi.<br />

In ogni caso lo studio delle cellule recuperate<br />

con il BAL ha dato luogo ad una nuova<br />

semiologia cellulare del polmone profondo che<br />

ha dimostrato come le risposte infiammatorie<br />

polmonari siano differenti rispetto a quelle<br />

dell’organismo.<br />

Le informazioni di rilevanza clinica che si<br />

ottengono dalla processazione del liquido recuperato<br />

sono:<br />

– Valutazione della cellularità totale a livello<br />

broncoalveolare<br />

– Analisi morfologica cellulare<br />

– Tipizzazione immunofenotipica citofluorimetrica<br />

– Indagini batteriologiche<br />

– Indagini chimiche<br />

I principali problemi che il laboratorio deve<br />

affrontare nello studio del BAL riguardano la<br />

standardizzazione di alcuni passaggi chiave<br />

quali: la sede del lavaggio, la tipologia del<br />

fluido impiegato, le fasi della processazione del<br />

liquido recuperato, la definizione dei valori di<br />

normalità. Nella nostra esperienza il campione<br />

del lavaggio broncoalveolare viene accettato<br />

entro 1 ora dal prelievo, affinché la vitalità<br />

cellulare rimanga entro limiti accettabili,che<br />

abbiamo fissato intorno al 60%. In caso di<br />

tempi prolungati, si consiglia il trasporto ed<br />

il mantenimento in ghiaccio, fino al momento<br />

della lavorazione. Dopo un filtraggio su doppio


238 Annali degli Ospedali San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong> 11, 4, 2009<br />

strato di garza inumidita in PBS, per allontanare<br />

muco e detriti macroscopici, il BAL<br />

viene centrifugato a 1000/1200g per 10’. Delle<br />

due fasi ottenute, quella liquida, o sovranatante,<br />

viene utilizzata per indagini chimiche<br />

(dosaggio di citochine,proteinosi ecc) mentre<br />

quella solida o pellet, che contiene la frazione<br />

cellulata, viene impiegata per l’esame citofluorimetrico.<br />

Il pellet, risospeso in una quantità<br />

di PBS tale da ottenere una concentrazione<br />

approssimativa di 1x 10 6 cellule/ml, viene utilizzato<br />

per la immunofenotipizzazione.<br />

La determinazione dell’immunofenotipo<br />

linfocitario si esegue nel nostro laboratorio<br />

con un citofluorimetro FACScan BD impiegando<br />

triplette di anticorpi, secondo lo schema<br />

seguente:<br />

– CD45/CD3/CD4 linfociti T helper<br />

– CD45/CD3/CD8 linfociti T suppressor<br />

– CD45/CD3/CD19 linfociti T e B totali<br />

– CD45/CD3/CD16+56 linfociti Natural Killer (NK)<br />

Per l’acquisizione e l’elaborazione dei dati<br />

viene impiegato il programma Multiset della<br />

Becton Dickinson, che impiega provette<br />

dedicate per la conta assoluta e identifica e<br />

quantizza i diversi subsets. Mediante l’anticorpo<br />

CD45, infatti, si identifica la popolazione<br />

linfocitaria, che servirà per definire il ‘Gate’ di<br />

interesse, e all’interno del ‘gate’ così definito,<br />

gli altri anticorpi classificheranno le diverse<br />

sottopopolazioni in percentuale numerica.<br />

Almeno 3000 eventi riconosciuti dal citofluorimetro<br />

come appartenenti alla serie linfocitaria<br />

vengono analizzati per singolo test.<br />

Il volume di liquido inviato al laboratorio, il<br />

recupero cellulare ottenuto (cell/ml) e la quantità<br />

di emazie totali vengono registrati come<br />

parte integrante del referto.<br />

I vetrini per l’esame citologico ed il citogramma<br />

alveolare vengono allestiti su citocentrifugati<br />

colorati in MGG. L’esame morfologico<br />

contiene informazioni rilevanti il citotipo e le<br />

sue caratteristiche (tipico, atipico, benigno<br />

o maligno) e la presenza di eventuali forme<br />

batteriche e/o fungine. L’osservazione alla luce<br />

polarizzata può evidenziare presenza di corpi<br />

birifrangenti (silicati) e l’eventuale presenza<br />

di fibre o manubri quali i corpi dell’asbesto.<br />

La presenza di un’eccessiva quota epiteliale<br />

(> 3%) indica un prelievo in sede bronchiale e<br />

quindi non rappresentativo del reale ambiente<br />

alveolare.<br />

In casi particolari possono essere eseguiti<br />

esami immunoistochimici mirati ad identificare<br />

citotipi specifici quali le cellule del Langherans<br />

(CD1a+).<br />

Nel soggetto normale non fumatore il citogramma,<br />

seppure con ampie variazioni, si<br />

attesta su un range come sottoriportato:<br />

– 90-97% di macrofagi<br />

– 3-8% di linfociti<br />

– 0,5-3% di neutrofili<br />

La sensibile variazione di queste percentuali<br />

orienta verso diagnosi differenziali ad<br />

es. un’alveolite linfocitaria accompagna una<br />

sarcoidosi o una polmonite da ipersensibilità<br />

mentre un’alveolite eosinofila differenzia una<br />

polmonite eosinofila o un’alveolite macrofagica<br />

accompagna un’istiocitosi X o una sarcoidosi al<br />

1° stadio). In ambito clinico acquista particolare<br />

significato la valutazione della quota B e T<br />

linfocitaria e delle cellule T a fenotipo CD4+ o<br />

CD8+. Sono riportati di seguito valori di normalità,<br />

non confrontabili con quanto ottenibile<br />

con lo studio sul sangue periferico:<br />

CD3 pan T 77% del “gate” linfocitario (65-88%)<br />

CD4 helper 49% “ “ (36-62%)<br />

CD8 suppressor 27% “ “ (15-40%)<br />

CD19 pan B 7% “ “ (3-12%)<br />

CD16+56 NK 5% “ “ (1-14%)<br />

È possibile l’invio di campioni per esami<br />

microbiologici (batteri, virus, miceti, protozoi,<br />

ecc.) o citologici, in base al contesto clinico<br />

specifico. Oltre alla valutazione dell’intensità<br />

e del tipo di alveolite e al monitoraggio<br />

della infiammazione durante il trattamento,<br />

le possibilità diagnostiche possono essere<br />

risolutive solo in un numero limitato di malattie,<br />

quali la già citata Istiocitosi X CD1a<br />

positiva, la proteinosi alveolare, la berilliosi,<br />

la polmonite lipoidea esogena (polmonite da<br />

aspirazione).<br />

In un ampio gruppo di patologie il pattern<br />

cellulare del BAL, pur non fornendo elementi<br />

di sufficiente specificità da risultare diagnostici,<br />

può essere di supporto alla diagnosi clinica<br />

ed orientarla più correttamente.<br />

È questo il caso della sarcoidosi. La malattia,<br />

ad interessamento polmonare, nella<br />

fase iniziale presenta un quadro citologico<br />

al BAL con aumento della cellularità totale<br />

rappresentato dalla popolazione linfocitaria<br />

attivata, che risulta prevalentemente di tipo<br />

helper (CD4+). Il rapporto CD4/CD8 uguale o


C. Raimondi et al.: Sarcoidosi 239<br />

Fig.1a Fig.1b Fig.1c Fig.1d<br />

Fig. 1a – L’area R1 identifica il campo; Fig. 1b – UR: linfociti CD45+/CD3+ (linf.T) di analisi,<br />

CD45+ (gate) UL: linfociti CD45+/CD19+ (linf.B); Fig. 1c – UR: linfociti CD3+/CD4+ (T-Helper);<br />

Fig. 1d – UR: linfociti CD3+/CD8+ (T-Suppressor)<br />

Fig. 1 - Studio citofluorimetrico delle sottopopolazioni linfocitarie<br />

Legenda: UL = quadrante superiore sinistro; UR= quadrante superiore destro;<br />

LL = quadrante inferiore sinistro; LR = quadrante inferiore destro<br />

superiore a 4 ha una sensibilità superiore al<br />

50% ed una specificità del 94-96% per la diagnosi<br />

di sarcoidosi. Interessante è il confronto<br />

dello studio delle sottopopolazioni linfocitarie<br />

eseguito su liquido di lavaggio broncoalveolare<br />

con quello su sangue periferico. In quest’ultimo<br />

infatti è presente una quota normale<br />

o lievemente diminuita di linfociti CD4+, a<br />

fronte dell’aumento descritto nell’ambiente<br />

alveolare.<br />

È sottoriportato un esempio di referto di<br />

BAL fornito dal nostro laboratorio riferito ad<br />

un paziente affetto da sarcoidosi (Figg. 1-2).<br />

Nello studio si evidenzia il forte aumento della<br />

quota linfocitaria (55%) e il valore del rapporto<br />

H/S > 4 (15,5), in questo caso altamente diagnostico<br />

per sarcoidosi.<br />

Volume accettato ml: 23<br />

Cellule esaminate: 826.000/ml<br />

Vitalità: 90%<br />

Rapporto H/S = 15.5<br />

CD3 = 98%<br />

CD19 = / %<br />

CD4 = 92%<br />

CD8 = 6%<br />

CD16+56 = 2%<br />

CD45 = 100% = 61% degli eventi totali<br />

Formula<br />

Macrofagi = 23%<br />

Linfociti = 55%<br />

Neutrofili = 20%<br />

Eosinofili = 2%<br />

Fig. 2 - Referto relativo allo studio delle sottopopolazioni<br />

linfocitarie e citogramma in<br />

paziente affetto da sarcoidosi


240 Annali degli Ospedali San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong> 11, 4, 2009<br />

Conclusioni<br />

Nella diagnostica delle pneumopatie infiltrative<br />

diffuse il BAL può risultare diagnostico in<br />

un numero limitato di patologie; tuttavia spesso<br />

può rivelarsi utile al supporto della diagnosi<br />

clinica o può orientarla più correttamente.Di<br />

particolare interesse risulta l’apporto del BAL<br />

nella diagnosi e nel follow-up delle sarcoidosi.<br />

Bibliografia essenziale<br />

AIPO – Gruppo di Studio Lavaggio Broncoalveolare<br />

ed Indagini Biologiche in Pneumologia. Standard<br />

tecnico-operativo del Lavaggio Broncoalveolare.<br />

Rassegna di Patologia dell’Apparato<br />

Respiratorio 1998, 13: 160-64<br />

American Thoracic Society (a). Clinical role of<br />

bronchoalveolar lavage in adults with pulmo-<br />

nary disease.Am Rev Respir Dis 1990; 142:<br />

481-86<br />

American Thoracic Society (b). Medical section of<br />

the American Lung Association.Statement on<br />

Sarcoidosis.Am J Respir Crit Care Med 1999;<br />

160: 736-55<br />

Clinical guidelines and indications for bronchoalveolar<br />

lavage (BAL). Report of the European<br />

Society for Pneumology Task group on BAL. Eur<br />

Resoir J 1990; 3: 937-74<br />

Costabel U. Diagnostic problems: bronchoalveolar<br />

lavage (BAL) – The Menarini Series on Pneumology,<br />

2000; 16-7<br />

Ghio P et al. La gestione del lavaggio bronco-alveolare<br />

nel laboratorio di citometria a flusso.<br />

Lettere GIC 2000; 3: 75-80<br />

Marruchella A, Fiorenzano G, Dottorini M. L’applicazione<br />

clinica del Lavaggio Broncoalveolare<br />

nell’adulto. Rassegna di Patologia dell’Apparato<br />

Respiratorio 2001; 16: 281-89<br />

Reynolds HY. Bronchoalveolar lavage. Am Rev<br />

Respir Dis 1985; 135: 250-63<br />

ESPERIENZA DI UN AMBULATORIO PER LA SARCOIDOSI<br />

TRIAL OF AMBULATORY FOR SARCOIDOSIS<br />

CARMELO RAIMONDI, ALFONSO MARIA ALTIERI,<br />

MARCELLO CICCARELLI, SALVATORE D’ANTONIO, MARIO GIUSEPPE ALMA<br />

Unità operativa complessa di Broncopneumologia e Tisiologia,<br />

<strong>Azienda</strong> <strong>Ospedaliera</strong> S. <strong>Camillo</strong> - <strong>Forlanini</strong>, Roma<br />

Parole chiave: Sarcoidosi. Steroidi. Diagnosi differenziale<br />

Key words: Sarcoidosis. Steroids. Differential diagnosis<br />

Riassunto - Gli autori presentano 151 casi di Sarcoidosi nei loro aspetti diagnostici e terapeutici.<br />

Abstract - The Authors, introduce 151 cases of Sarcoidosis with their diagnostic and therapeutic expressions.<br />

La Sarcoidosi è caratterizzata da infiltrati infiammatori<br />

granulomatosi non caseificanti che possono<br />

interessare ogni organo ed apparato anche se<br />

il polmone è l’organo più colpito (nel 90% dei casi)¹;<br />

seguono il sistema linfatico (30%), la cute(25%), il<br />

sistema muscolo-scheletrico (25-39%), il fegato (50-<br />

80%), l’occhio (11-83%), il sistema nervoso centrale<br />

periferico (10%), il cuore (5%), le parotidi, la milza,<br />

l’apparato gastro-enterico, la tiroide, il rene e così<br />

via. La Sarcoidosi può simulare molte altre malattie<br />

granulomatose (berilliosi, istoplasmosi, ecc.) ma,<br />

in primis, la tubercolosi: è quindi necessario effettuare<br />

una corretta diagnosi differenziale.<br />

Nella nostra <strong>Azienda</strong> <strong>Ospedaliera</strong> esiste l’Ambulatorio<br />

dedicato alla Sarcoidosi presso la U.O.C.<br />

di Broncopneumologia e Tisiologia. A tale ambula-


C. Raimondi et al.: Sarcoidosi 241<br />

Tabella 1<br />

Numero<br />

pazienti<br />

Età<br />

media<br />

Età alla<br />

diagnosi<br />

DONNE 87 57 54<br />

UOMINI 64 52 48<br />

GLOBALE 151 56 52<br />

Rapporto donne/uomini = 1,35<br />

torio hanno avuto accesso, a tutt’oggi, 151 pazienti<br />

affetti sicuramente da tale malattia.<br />

Nella Tabella 1 sono riportati l’età media di tali<br />

pazienti e l’età media in cui è stata posta la diagnosi.<br />

La diagnosi posta attorno ai 50 anni di età è da<br />

imputare probabilmente, a nostro avviso, ad una<br />

ancora non adeguata conoscenza della malattia da<br />

parte di molti operatori sanitari e contemporaneamente,<br />

al carattere spesso sfumato e non sempre<br />

persistente dei primi sintomi che così vengono presi<br />

in considerazione talora solo a distanza di anni dalla<br />

loro prima presentazione.<br />

All’ambulatorio accedono pazienti spesso inviati<br />

da altre strutture anche per il solo sospetto clinico<br />

di malattia.<br />

Noi procediamo nel seguente modo:<br />

a) Per i pazienti con diagnosi istologica ci avvaliamo<br />

della revisione dei preparati istologici da<br />

parte dei nostri colleghi del Servizio di Anatomia<br />

Patologica dell’<strong>Azienda</strong>, allenati a confrontarsi<br />

quotidianamente con questa patologia; con<br />

tale iter i preparati istologici di due pazienti<br />

hanno portato ad escludere la sarcoidosi.<br />

b) Per i casi di sospetta malattia procediamo alla<br />

esecuzione o al completamento degli accertamenti<br />

radiologici, strumentali e clinici.<br />

In ambulatorio vengono seguiti pure i pazienti<br />

dimessi dal nostro reparto con diagnosi di Sarcoidosi:<br />

interessante notare che ben 26 di essi erano stati<br />

avviati al ricovero per altre patologie che potevano<br />

simulare la Sarcoidosi.<br />

Tabella 2<br />

Da questo punto di vista ci troviamo in una<br />

posizione privilegiata in quanto, ricoverando e<br />

trattando malati di pertinenza tisiologica, il personale<br />

medico del reparto è abituato costantemente a<br />

formulare diagnosi differenziale tra TBC ed altre<br />

malattie granulomatose.<br />

Nella Tabella 2 sono riportati i dati inerenti ai<br />

casi ricoverati nel reparto, poi transitati nell’ambulatorio,<br />

ed i casi di accesso diretto all’ambulatorio.<br />

La Tabella 3 mostra le sedi e la metodica di prelievo<br />

per la diagnosi istologica.<br />

Nella Tabella 4 riportiamo la classificazione in<br />

stadi della Sarcoidosi polmonare basati sulla radiografia<br />

standard del torace; anche se la TC torace<br />

ad alta risoluzione (HRCT) talora ci mostra una<br />

stadiazione non corrispondente a quella ricavata<br />

Tabella 3<br />

Sede e metodica di prelievo per<br />

diagnosi istologica<br />

Pazienti<br />

Mediastinoscopia o Toracoscopia<br />

video assistita (biopsia linfonodi<br />

toracici)<br />

46<br />

Biopsia trans-bronchiale o transcarenale<br />

in corso di fibrobroncoscopia<br />

29<br />

Biopsia linfonodi periferici 17<br />

Biopsia della cute 16<br />

Biopsia del fegato 5<br />

Biopsia della milza 2<br />

Biopsia altre sedi (parotidi, labbra) 7<br />

Totale 122<br />

Diagnosi istologica su un totale di 122 pazienti<br />

Tabella 4<br />

Stadio Radiografia del Torace<br />

0 Normale<br />

I Linfoadenopatie ilari bilaterali (LIB)<br />

II LIB più infiltrati polmonari<br />

III Infiltrati polmonari<br />

IV Fibrosi polmonare<br />

Diagnosi di accesso Diagnosi<br />

confermata<br />

TIPO Numero<br />

Sospetta TB polmonare 15 0<br />

In reparto<br />

TB polmonare 5 0<br />

Altre diagnosi 6 0<br />

Sospetta Sarcoidosi 8 6<br />

In ambulatorio<br />

Sarcoidosi su base clinica 29 26<br />

Sarcoidosi su base istologica 97 95<br />

Totale di prima diagnosi di sarcoidosi confermata su base clinica o istologica effettuata ambulatorialmente ed in regime<br />

di ricovero: 58


242 Annali degli Ospedali San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong> 11, 4, 2009<br />

Tabella 5<br />

Stadio Pazienti<br />

0 25<br />

I 27<br />

II 29<br />

III 49<br />

IV 21<br />

dalla radiografia, è norma internazionalmente riconosciuta<br />

continuare a basarsi sulla radiografia<br />

standard. Nella Tabella 5, quindi, è possibile osservare<br />

la distribuzione in stadi dei pazienti affetti<br />

dalla forma polmonare. Corre l’obbligo di precisare<br />

che la maggior parte dei pazienti con malattia allo<br />

stadio IV soffriva già da diversi anni della patologia<br />

quando è pervenuta alla nostra osservazione; di<br />

questi pazienti tre erano affetti da grave insufficienza<br />

respiratoria (si trovavano in ossigenoterapia<br />

continua) ed erano non responders ai farmaci: due<br />

di essi sono successivamente deceduti ed uno è stato<br />

inviato per essere sottoposto, con successo, a doppio<br />

trapianto di polmone. La localizzazione della malattia<br />

nei vari organi ed apparati è mostrata nella<br />

Tabella 6 dove abbiamo, fra l’altro, differenziato<br />

l’interessamento polmonare da quello anche polmonare.<br />

Alla voce “altri organi” sono riportati solo<br />

5 casi e ciò si identifica nell’interessamento prevalente<br />

di tali organi, anche se, ad esempio, fegato e<br />

milza sono interessati in percentuale maggiore, ma<br />

molto secondariamente negli altri casi.<br />

Le patologie preesistenti alla diagnosi di sarcoidosi<br />

erano numerose e varie; da notare (Tab. 7) le<br />

oculopatie, le discrasie ematiche, le cardiopatie, i<br />

distiroidismi, patologie tutte riportate in letteratura<br />

come manifestazioni di accompagnamento o anche<br />

come manifestazioni prodromiche della sarcoidosi.<br />

Tabella 6<br />

Tipo di sarcoidosi Pazienti<br />

Polmonare 86<br />

Polmonare e linfonodi periferici 17<br />

Linfonodi periferici 9<br />

Polmonare e altri organi 21<br />

Cutane 9<br />

Altri organi 5<br />

Polmonare e pleurica 2<br />

Midollare 1<br />

Muscolare 1<br />

Tabella 7<br />

Patologie preesistenti Pazienti<br />

Ipertensione arteriosa 30<br />

Distiroidismi 27<br />

Ernie iatali con reflusso GE 15<br />

Cardiopatie 15<br />

Discrasie ematiche 14<br />

Diabete mellito 12<br />

Oculopatie 13<br />

Ansia depressione 11<br />

Pregressi K operati 10<br />

Gastriti croniche 10<br />

Cisti renali 8<br />

Cisti epatiche 6<br />

Litiasi renali 6<br />

Diverticolosi coliche 6<br />

Gammapatie monoclonali 5<br />

Litiasi biliari 5<br />

cerebropatie 4<br />

ipoalbuminemie 3<br />

Cisti spleniche 2<br />

Litiasi parotidee 2<br />

Insufficienza renale cronica 2<br />

Ulcera duodenale 2<br />

Diabete insipido 1<br />

Deficit fattore XII 1<br />

Nella Tabella 8 sono riportati i sintomi e le manifestazioni<br />

di esordio della patologia sarcoidea che<br />

presentano maggiore rilevanza statistica; abbiamo<br />

omesso le manifestazioni percentualmente minori<br />

Tabella 8<br />

Sintomi di esordio<br />

Tosse 29%<br />

Dispnea 18%<br />

Toracoalgie 7%<br />

Astenia 24%<br />

Mialgie 12%<br />

Artralgie 11%<br />

Febbricola 10%<br />

Linfonodi superficiali 9%<br />

Eritema nodoso 9%<br />

Noduli sottocutanei 8%<br />

Lesioni cutanee 6%<br />

}54% (33-50%)<br />

}23% (25-39%)<br />

}23% (25%)


C. Raimondi et al.: Sarcoidosi 243<br />

Tabella 9<br />

Quando iniziare il trattamento<br />

•Pazienti sintomatici (tosse, dispnea, astenia, ecc.)<br />

•Linfonodi ilo-mediastinici aumentati di volume<br />

•Interstiziopatia polmonare in evoluzione<br />

•Interessamento oculare, cutaneo, cardiaco, neurologico<br />

•Linfonodi retroperitoneali iperplastici<br />

•Ipercalcemia/ipercalciuria<br />

(ad esempio idrartro al ginocchio); tra parentesi<br />

abbiamo riportato le percentuali riferite dalla WA-<br />

SOG¹ (World Association of Sarcoidosis and Other<br />

Granulomatous Disorders); notiamo come le nostre<br />

osservazioni siano sostanzialmente coincidenti con<br />

tali dati. Una questione che non sempre trova<br />

unanimità di consensi fra gli studiosi ed i clinici<br />

consiste nell’individuare il momento in cui iniziare<br />

il trattamento terapeutico. Noi concordiamo con<br />

quanto specificato nella Tabella 9 e sui relativi<br />

fattori che, anche singolarmente, autorizzano<br />

l’intervento terapeutico. La terapia, d’altronde, è<br />

tuttora prevalentemente basata sugli steroidi come<br />

farmaci di prima scelta. Il dosaggio indicato (Tab.<br />

10) è puramente orientativo in quanto, ovviamente,<br />

deve essere adattato al peso corporeo del paziente,<br />

alla sua tollerabilità ed alla dose comunque efficace<br />

caso per caso; tale terapia deve essere iniziata a dosaggi<br />

pieni che vanno poi ridotti gradualmente fino<br />

alla cessazione della stessa nell’arco di nove-dodici<br />

mesi, valutandone già dopo i primi tre-quattro mesi<br />

l’efficacia e regolandosi di conseguenza in un attento<br />

follow-up nei mesi successivi.<br />

I pazienti vengono preventivamente informati<br />

sui possibili effetti collaterali della terapia ed educati<br />

a coglierne in tempo i primi segni con controllo<br />

periodico della glicemia, della pressione arteriosa,<br />

degli elettroliti sierici, controllando nel contempo<br />

la densitometria ossea con MOC e ponendoli sotto<br />

costante protezione gastrica preferibilmente con<br />

inibitori di pompa protonica. Quando lo steroide<br />

presenta controindicazioni (diabete non ben con-<br />

Tabella 10<br />

Farmaci usati nella sarcoidosi<br />

Prednisone-metilprednisolone 25-40 mg/die<br />

Metotrexate 7,5-20 mg/sett.<br />

Azatioprina 50-150 mg/die<br />

Ciclofosfamide 50/150 mg/die<br />

Idrossiclorochina 200 mg/die<br />

Infliximab 50/150 mg/die<br />

Altri farmaci utilizzati:<br />

Minociclina, Doxiciclina, Pentossifilina, Talidomide, ecc.<br />

trollato, scarsa compliance, ecc.) si possono adoperare<br />

con discrete possibilità di successo farmaci<br />

di seconda linea come metrotessato, azatioprina e<br />

gli altri elencati sempre nella Tabella 10, da soli<br />

o meglio associati a basse dosi di steroidi quando<br />

possibile.<br />

I farmaci suddetti sono stati da noi impiegati<br />

come specificato nella Tabella 11.<br />

Non sono stati trattati 24 pazienti che, a nostro<br />

avviso non rientravano nei criteri richiedenti terapia.<br />

Negli altri pazienti, in tre casi lo steroide ha<br />

evidenziato un diabete latente (comunque sempre<br />

in pazienti con uno od entrambi i genitori già diabetici)<br />

in un caso l’assunzione di metotressato, già solo<br />

nell’arco di una settimana, è coincisa con anomalie<br />

ematiche che, indagate, hanno condotto ad identificare<br />

un linfoma non Hodgkin sulla preesistente sarcoidosi;<br />

in altri due casi si è imposta la sospensione<br />

del farmaco per innalzamento persistente dei valori<br />

degli enzimi epatici; a parte queste tre situazioni il<br />

metotressato si è rivelato ben tollerato ed efficace<br />

soprattutto nel ridurre le tumefazioni dei linfonodi<br />

mediastinici che avevano resistito al solo steroide;<br />

molto efficace anche l’idrossiclorochina per le manifestazioni<br />

cutanee talora deturpanti (specie al viso)<br />

di pazienti ovviamente monitorati dai colleghi oculisti<br />

prima, durante e dopo tale terapia per cui non<br />

abbiamo mai dovuto registrare i possibili temuti<br />

effetti collaterali a carico dell’apparato visivo.<br />

A tutt’oggi, 23 pazienti necessitano attualmente<br />

di terapia di mantenimento in quanto la sospensione<br />

della stessa è coincisa con la ripresa dei segni di<br />

malattia (aumento delle tumefazioni linfonodali in<br />

dimensioni e numero, ripresa della ipercalciuria,<br />

ecc.); intendiamo come terapia di mantenimento un<br />

dosaggio di prednisone di 5-15 mg o di metilprednisolone<br />

di 4-12 mg.<br />

Possiamo pertanto affermare che l’armamentario<br />

terapeutico di cui disponiamo oggi ci permette<br />

se non di guarire almeno di poter mantenere sotto<br />

accettabile controllo la malattia, tenendo però<br />

Tabella 11<br />

Terapia<br />

Farmaco pazienti<br />

Steroide 99<br />

Steroide + Metotrexate 15<br />

Steroide + idrossiclorochina 9<br />

Steroide + ciclofosfamide 1<br />

Steroide + idrossiclorochina+azatioprina 1<br />

Steroide + azatioprina 3<br />

Nessuna terapia 24


244 Annali degli Ospedali San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong> 11, 4, 2009<br />

Tabella 12<br />

Responder alla terapia<br />

Stabili dopo fine della terapia da un minimo 25<br />

di sei mesi ad un massimo di 4 anni<br />

Tuttora in terapia di mantenimento 23<br />

Attualmente in trattamento 71<br />

Recidive poi rispondenti alla ripresa della 5<br />

terapia a dosaggi inizialmente maggiori del<br />

trattamento iniziale<br />

Totale 124<br />

Non responder alla terapia<br />

Decessi per insufficienza respiratoria 2<br />

Doppio trapianto polmonare con successo 1<br />

Totale 3<br />

sempre ben presente che la sarcoidosi è, per definizione,<br />

una malattia “capricciosa”, che mostra un<br />

atteggiamento spesso imprevedibile con improvvise<br />

riaccensioni che possono presentarsi da pochi mesi<br />

a molti anni dopo la fase terapeutica.<br />

Introduzione<br />

Per tale motivo, nella Tabella 12, abbiamo<br />

preferito definire “stabili” e non “guariti” coloro<br />

che avevano completato con successo la terapia,<br />

poiché se vera guarigione sarà intervenuta, lo si<br />

potrà affermare solo dopo un congruo numero di<br />

anni.<br />

I pazienti che avevano presentato localizzazioni<br />

polmonari (ormai asintomatici), vengono controllati<br />

ambulatorialmente in follow-up con il seguente<br />

programma:<br />

– radiografia standard del torace con dosaggio della<br />

calciuria delle 24 ore ed esami ematochimici<br />

di routine ogni 6 mesi e per 3 anni.<br />

– TC torace con cadenza annuale per i primi 3<br />

anni.<br />

– radiografia standard del torace con periodicità<br />

annuale dal 4° anno in poi.<br />

Bibliografia essenziale<br />

ATS/ERS/WASOG Statement on Sarcoidosis. Sarcoidosis<br />

Vasc Diffuse Lung Dis 1999; 16: 149-73<br />

TERAPIA DELLA SARCOIDOSI CON ANTI-TNFα<br />

THERAPY FOR SARCOIDOSIS WITH ANTI-TNFα<br />

P. ROTTOLI, C. OLIVIERI, E. BARGAGLI<br />

Dipartimento di Medicina Clinica e Scienze Immunologiche,<br />

Sezione Malattie Respiratorie, Università di Siena, Siena-Italia<br />

Parole chiave: Sarcoidosi. Terapia. Anti-TNFα<br />

Key words: Sarcoidosis. Therapy, Anti-TNFα<br />

La terapia della sarcoidosi è tuttora oggetto di<br />

dibattito, anche se non vi sono stati cambiamenti<br />

essenziali negli ultimi vent’anni relativamente ai<br />

farmaci di prima scelta e agli schemi terapeutici impiegati<br />

1,2 . Le ultime linee guida internazionali sulla<br />

malattia risalgono al Consensus dell’ ATS/ERS del<br />

1999 3 , ma una revisione delle raccomandazioni<br />

terapeutiche non è stata ancora formulata, anche<br />

se sono uscite numerose reviews sull’argomento 4,5 .<br />

Indubbiamente i corticosteroidi restano il cardine<br />

della terapia nel trattamento iniziale del paziente,<br />

pur con il limite di non pochi effetti collaterali, seb-<br />

bene negli ultimi dieci anni siano stati condotti vari<br />

studi, controllati e osservazionali, volti alla ricerca<br />

di nuovi farmaci mirati più a modificare la storia<br />

naturale della malattia che al solo controllo dei sintomi<br />

6 . Infatti la mancata conoscenza dell’eziologia<br />

della sarcoidosi ha condizionato pesantemente il<br />

trattamento e la notevole variabilità dell’esordio e<br />

dell’andamento clinico creano non poche difficoltà<br />

nelle scelte terapeutiche per la esigenza sia di<br />

controllare la sintomatologia che di prevenire la<br />

progressione della malattia.<br />

Altri punti non ancora completamente definiti<br />

sono l’indicazione al trattamento e il timing al trattamento,<br />

cioè stabilire con esattezza quali pazienti


C. Raimondi et al.: Sarcoidosi 245<br />

devono ricorrere alla terapia, quando iniziare il trattamento<br />

e quanto proseguirlo nel tempo. Infatti non<br />

tutti i pazienti con sarcoidosi devono essere trattati,<br />

ad esempio se sono asintomatici o hanno una sarcoidosi<br />

polmonare al primo stadio o una sindrome di<br />

Lofgren secondo le linee ATS/ERS non necessitano<br />

di terapia 2 . Se i pazienti sono sintomatici o hanno<br />

una forma polmonare progressiva o coinvolgimento<br />

extrapolmonare con compromissione funzionale di<br />

organi vitali devono effettuare terapia sistemica.<br />

In particolare la terapia è indispensabile in caso di<br />

coinvolgimento cardiaco, neurologico, muscolare,<br />

oculare, se c’è ipercalcemia o se la malattia persiste<br />

in un arco di tempo variabile da due a cinque<br />

anni 3 . Quest’ultima condizione è definita sarcoidosi<br />

cronica ed è caratterizzata dalla persistenza della<br />

malattia con un quadro di infiammazione cronica<br />

che richiede una terapia a lungo termine 5 . Questi<br />

sono criteri generali ma mancano parametri precisi<br />

e condivisi che permettano di stabilire con sufficiente<br />

certezza che la malattia è attiva e progressiva 7 .<br />

In genere la terapia comunemente utilizzata<br />

si basa sull’impiego di corticosteroidi alla dose di<br />

attacco di 20-40mg/die (0,5 mg/kg di peso corporeo),<br />

a scalare fino a raggiungere un dosaggio di<br />

mantenimento in grado di conservare nel tempo il<br />

miglioramento ottenuto con la terapia, 5-15mg/die.<br />

Il trattamento non si interrompe prima di 9-12 mesi<br />

e, se vi è evidenza di ripresa della malattia, si valuta<br />

la possibilità di riprenderlo.<br />

Un attento monitoraggio del paziente si rende<br />

necessario non solo per valutare la risposta alla<br />

terapia, ma anche per la tossicità legata ad un<br />

trattamento a lungo termine con steroidi o nel caso<br />

siano stato utilizzati farmaci immunosoppressori<br />

quali il metotrexate o l’azatioprina. Spesso, infatti,<br />

il paziente non rimane aderente a cicli protratti di<br />

terapia, come quelli che si rendono necessari in questa<br />

malattia, a causa dei frequenti effetti collaterali<br />

e delle complicazioni legate al trattamento, da qui<br />

la necessità di avere a disposizione varie opzioni terapeutiche<br />

che siano basate sulle nuove conoscenze<br />

dei meccanismi patogenetici della sarcoidosi e sul<br />

fenotipo dei pazienti 4,8 .<br />

Poichè la sarcoidosi è una malattia infiammatoria<br />

granulomatosa cronica, le ricerche verso nuovi<br />

approcci terapeutici hanno preso spunto dallo studio<br />

delle citochine coinvolte nei complessi processi<br />

immuno-infiammatori che portano alla formazione<br />

del granuloma epitelioide senza necrosi caseosa,<br />

elemento patognomonico della malattia 2,9 . Tra queste,<br />

particolare interesse è stato rivolto verso il TNF<br />

α, una potente citochina proinfiammatoria prodotta<br />

principalmente dai monociti e dai macrofagi alveolari.<br />

È stato dimostrato che colture di macrofagi<br />

alveolari ricavati dal liquido ottenuto con il lavaggio<br />

broncoalveolare in pazienti con sarcoidosi attiva<br />

rilasciano spontaneamente elevati livelli di TNF α 10<br />

e, confrontando i livelli di questa citochina tra pazienti<br />

con sarcoidosi e controlli sani, sono emersi<br />

valori significativamente più alti nei malati rispetto<br />

ai controlli 11 .<br />

A conferma del ruolo chiave del TNFα nella sarcoidosi<br />

attiva Ziegenhagen et al. riportavano che i<br />

pazienti affetti da sarcoidosi che peggiorava nell’arco<br />

di sei mesi presentavano valori iniziali maggiori di<br />

TNFα rispetto ai pazienti con sarcoidosi stabile 12 .<br />

Tutte queste osservazioni hanno creato una<br />

base razionale per l’impiego di molecole in grado<br />

di bloccare il TNFα prima che si leghi con il suo recettore<br />

e determini l’attivazione cellulare che porta<br />

alla cascata di citochine infiammatorie. I farmaci<br />

con azione specifica verso il TNFα attualmente disponibili<br />

sono l’infliximab, l’etanercept e l’adalimumab,<br />

comunemente utilizzati nella cura delle malattie<br />

infiammatorie croniche reumatiche. Attività<br />

antiTNF α è attribuita anche ad altri farmaci come<br />

la talidomide o la pentossifillina. Pertanto sarà<br />

considerata la letteratura disponibile sull’utilizzo di<br />

queste molecole nella sarcoidosi.<br />

Infliximab<br />

È un anticorpo monoclonale chimerico che lega<br />

sia il TNF α libero che quello presente sulla superficie<br />

delle cellule e, attivato il complemento, porta alla<br />

lisi cellulare 13 . Viene utilizzato nel trattamento dell’artrite<br />

reumatoide, della spondilite anchilosante,<br />

dell’artrite psoriasica e del morbo di Crohn.<br />

Il primo studio che parla dell’utilizzo dell’infliximab<br />

nella sarcoidosi resistente ad altri trattamenti<br />

risale al 2001 14 ; da allora in letteratura sono<br />

comparsi diversi case reports che descrivono il suo<br />

impiego nel trattamento della sarcoidosi 15- 17 , in particolare<br />

nelle localizzazioni cutanee 18, 56 , oculari 19 ,<br />

neurologiche 20-22 e polmonari 23 . Sulla base di questi<br />

studi è stato effettuato uno studio di fase II in doppio<br />

cieco, randomizzato, multicentrico, placebo-controllo<br />

effettuato su 138 pazienti affetti da sarcoidosi<br />

polmonare cronica sottoposti a terapia con due diverse<br />

dosi di infliximab 16 . Lo studio, iniziato nel settembre<br />

2003 e conclusosi nell’agosto 2004, prevedeva<br />

la somministrazione di infliximab endovena alla<br />

dose di 3 o 5 mg/kg oppure placebo alle settimane<br />

0, 2, 6, 12, 18, 24. I pazienti sono stati selezionati in<br />

base al coinvolgimento polmonare della sarcoidosi,


246 Annali degli Ospedali San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong> 11, 4, 2009<br />

provata istologicamente ed a valori di FVC compresi<br />

tra il 50% e l’85% del valore predetto.<br />

L’end point primario era la variazione dei valori<br />

di FVC dopo 24 settimane. I pazienti trattati con<br />

infliximab presentavano un miglioramento, peraltro<br />

modesto (2,5%), della capacità vitale forzata rispetto<br />

ai controlli dopo 24 settimane di terapia. La risposta<br />

alla terapia con infliximab risultava nella analisi post<br />

hoc più significativa per quei pazienti che presentavano<br />

un quadro più grave di malattia, evidenziato<br />

da un volume corrente più basso e da una durata<br />

maggiore del quadro clinico. Successivamente l’efficacia<br />

dell’infliximab è stata indagata nel trattamento<br />

della sarcoidosi extrapolmonare dimostrando una<br />

significativa riduzione del grado di interessamento<br />

extrapolmonare nei pazienti trattati con infliximab<br />

(3 o 5 mg/kg) rispetto al gruppo placebo 24 . Judson et<br />

al. dimostravano che la terapia con infliximab migliorava<br />

la sarcoidosi extrapolmonare, sebbene tutti i<br />

pazienti arruolati nello studio continuassero a prendere<br />

una dose di corticosteroidi e non avessero una<br />

diagnosi istologica di sarcoidosi extrapolmonare 24 .<br />

Questo dato ha portato gli autori ad affermare che<br />

l’infliximab può apportare benefici nei pazienti con<br />

sarcoidosi extrapolmonare già in terapia con corticosteroidi.<br />

Questi risultati in realtà sono stati oggetto<br />

di critica (in particolare l’impiego di un nuovo score<br />

per quantificare il coinvolgimento extrapolmonare<br />

chiamato Extrapulmonary Physician Organ Severity<br />

Tool) e la reale efficacia dell’infliximab nella sarcoidosi<br />

extrapolmonare resta ancora da definire 25 .<br />

Etanercept<br />

È un recettore solubile del TNFα che, legatosi<br />

a questa molecola, ne inibisce competitivamente il<br />

legame con il suo recettore presente sulla superficie<br />

cellulare. È utilizzato per il trattamento dell’artrite<br />

reumatoide, della spondilite anchilosante, dell’artrite<br />

psoriasica e della psoriasi 26 .<br />

Ad oggi, gli studi clinici condotti per provare<br />

l’efficacia del farmaco nel trattamento della sarcoidosi<br />

non hanno provato nessuna evidenza di<br />

miglioramento, anzi aumenta il numero dei case<br />

report che parlano dell’insorgenza della sarcoidosi<br />

in pazienti affetti da malattie reumatiche e trattati<br />

con questo farmaco. Il primo case report sull’utilizzo<br />

dell’etanercept nella sarcoidosi con coinvolgimento<br />

cutaneo ed articolare risale al 2003 27 . Nello stesso<br />

anno Utz et al. provarono l’utilizzo dell’etanercept<br />

nei pazienti con sarcoidosi polmonare in stadio II<br />

e III, ma furono costretti ad interrompere lo studio<br />

perché i pazienti svilupparono una progressione<br />

della malattia 28 . Successivamente è stato condotto<br />

un secondo studio in doppio cieco randomizzato<br />

sull’utilizzo dell’etanercept in 18 pazienti affetti da<br />

sarcoidosi cronica oculare, refrattari alla terapia con<br />

methotrexate 29 . Ai pazienti venivano somministrati<br />

25 mg di etanercept per via sottocutanea due volte a<br />

settimana. Sebbene il farmaco venisse ben tollerato<br />

dai pazienti, il suo utilizzo non è stato associato ad<br />

un miglioramento effettivo dei pazienti considerati<br />

né fu raggiunto l’end point primario dello studio<br />

che era la riduzione della terapia steroidea con<br />

l’etanercept. Alcuni reports hanno evidenziato che<br />

la somministrazione intraarticolare di etanercept<br />

è stata usata con successo per trattare un paziente<br />

affetto da artrite cronica sarcoidea 30 e con vasculite<br />

sarcoidea refrattaria ad altri trattamenti 31 .<br />

Adalimumab<br />

Anticorpo monoclonale umanizzato diretto contro<br />

il TNFα 32 e utilizzato nell’artrite reumatoide e<br />

psoriasica. Si somministra sottocute piuttosto che<br />

per via endovenosa come l’infliximab. Attualmente<br />

in letteratura esistono soli pochi case reports che<br />

descrivono il suo utilizzo in pazienti affetti da sarcoidosi<br />

cronica. Due case report presentano dei pazienti<br />

con sarcoidosi cutanea resistente alla terapia<br />

con altri farmaci, ma responsiva all’adalimumab 33, 34 .<br />

Callejas-Rubio et al. 35 descrivono il primo caso di<br />

sarcoidosi polmonare che risponde con successo al<br />

trattamento con adalimumab quando nessun altro<br />

trattamento era risultato efficace. Gli autori riportano<br />

che dopo la somministrazione di 40 mg di adalimumab<br />

per due settimane il paziente presentava<br />

una riduzione della tosse e della dispnea oltre che<br />

una regressione della linfoadenopatia ilare. Attualmente<br />

si è concluso un trial volto a verificare la sicurezza<br />

e l’efficacia dell’adalimumab in 11 pazienti<br />

con sarcoidosi polmonare cronica, sintomatici. I dati<br />

non sono stati ancora pubblicati.<br />

Reazioni avverse associate alla<br />

terapia con anti TNFα<br />

L’impiego di questi farmaci richiede molta attenzione<br />

specialmente perché possono aumentare il<br />

rischio infettivo, in particolare è stato segnalata, specialmente<br />

per infliximab, la possibilità di riattivare la<br />

tubercolosi dovuta all’azione soppressiva sull’immunità<br />

cellulo-mediata. Uno screening accurato del paziente<br />

da trattare con esclusione di soggetti ad alto rischio<br />

e in casi selezionati una profilassi antibiotica possono<br />

minimizzare questa possibile complicazione 36,37 .


C. Raimondi et al.: Sarcoidosi 247<br />

In modo analogo appare aumentato il rischio<br />

di contrarre infezione da Listeria monocytogenes,<br />

sebbene i casi riportati in letteratura ricevessero<br />

farmaci immunosoppressivi contemporaneamente<br />

alla terapia con anti TNFα 38 .<br />

Vari disordini immunologici sono stati riferiti<br />

come effetti collaterali attribuiti all’utilizzo di questi<br />

farmaci 39 e, tra questi, dobbiamo segnalare anche<br />

casi di sarcoidosi insorta durante il trattamento con<br />

anti TNF α utilizzati per la cura di malattie croniche<br />

infiammatorie, specialmente per l’artrite reumatoide.<br />

Si tratta di case reports che evidenziano questo<br />

strano effetto paradosso, dovuto probabilmente al<br />

disequilibrio citochinico che ha portato alla comparsa<br />

di sarcoidosi polmonare durante il trattamento<br />

con infliximab 40,41 , adalimumab 42 ed etanercept 43 e<br />

che si è risolto dopo l’interruzione della terapia.<br />

Tra le reazioni avverse è stato segnalato un aumentato<br />

rischio di sviluppare tumori linfoproliferativi,<br />

soprattutto linfomi non Hodgkin, e scompenso<br />

cardiaco 44, 45 .<br />

Risulta pertanto fondamentale una accurata<br />

valutazione iniziale ed un attento follow up dei<br />

pazienti in trattamento ad intervalli regolari, con<br />

grande attenzione verso i parametri di laboratorio.<br />

L’impiego di questi farmaci va limitato a Centri<br />

Specialistici competenti.<br />

Purtroppo interrotta la terapia i pazienti possono<br />

presentare riattivazioni della malattia quindi<br />

per un corretto e sicuro utilizzo di questi farmaci<br />

si rendono necessari trials clinici prospettici, randomizzati,<br />

in doppio cieco, con un gran numero<br />

di pazienti, in modo da poter stabilire il dosaggio<br />

ottimale e la durata della terapia a lungo termine,<br />

valutandone anche la possibile tossicità.<br />

Ad oggi l’evidenza ricavata da trials clinici dotati<br />

di queste caratteristiche per supportare l’uso di<br />

questi farmaci risulta ancora limitata, gli studi in<br />

corso sono piccoli, con un numero esiguo di pazienti<br />

arruolati e con la segnalazione di numerosi eventi<br />

avversi 46 .<br />

Altri farmaci che inibiscono la produzione<br />

di TNF alpha: thalidomide<br />

e pentossifillina<br />

Insieme a farmaci che agiscono legandosi al<br />

TNF già formato inattivandolo, vi sono altre molecole<br />

che invece ne inibiscono la produzione e che<br />

sono state oggetto di studi .<br />

La talidomide agisce sopprimendo il rilascio di<br />

TNF da parte dei macrofagi alveolari 47,48 , ma sembra<br />

possedere anche attività anti-infiammatorie e<br />

anti-angiogenetiche che rendono il suo meccanismo<br />

d’azione ancora non del tutto chiaro. È stata usata<br />

con successo nella terapia della sarcoidosi cutanea<br />

cronica (49,50) ad un dosaggio di 100 mg/die mentre<br />

non è risultata efficace nel trattamento della sarcoidosi<br />

polmonare (51). Inoltre non possono essere<br />

omessi gli effetti collaterali legati all’uso del farmaco,<br />

per lo più dose correlati, come lo sviluppo di sonnolenza,<br />

costipazione, rash, neuropatia periferica e<br />

la ben nota teratogenicità (52).<br />

La pentossifillina è una metilxantina che agisce<br />

aumentando i livelli di cAMP e determinando come<br />

conseguenza una ridotta espressione del gene del<br />

TNF quindi una minore produzione di TNF α da<br />

parte dei fagociti mononucleati ed in particolare<br />

dei macrofagi alveolari 53,54 . In uno studio clinico<br />

del 1997 su un numero limitato di casi, 23 pazienti<br />

affetti da sarcoidosi, la pentossifillina sembrava<br />

promettere una buona risposta nella terapia della<br />

sarcoidosi polmonare progressiva ad un dosaggio di<br />

25 mg/kg al giorno 55 . Gli effetti avversi riferiti erano<br />

di natura gastrointestinale fatta eccezione per qualche<br />

raro caso di pancitopenia o epatite tossica. Nel<br />

1999 è iniziato un nuovo studio randomizzato, in<br />

doppio cieco, in pazienti con sarcoidosi polmonare<br />

già in terapia con corticosteroidi. L’obiettivo dello<br />

studio era di valutare l’efficacia della pentossifillina<br />

nei pazienti con sarcoidosi polmonare. Lo studio<br />

non è ancora concluso 57 .<br />

Conclusioni<br />

Sulla base dei dati della letteratura risulta che<br />

pur avendo i farmaci ad attività anti TNF α un<br />

rationale per il loro impiego basato sul coinvolgimento<br />

del TNF α nella patogenesi della malattia,<br />

non abbiamo ad oggi una dimostrazione chiara<br />

della loro efficacia basata su evidenze indiscutibili<br />

. I pochi studi clinici controllati non hanno dato i<br />

risultati sperati, questo può dipendere da vari fattori<br />

e non necessariamente dalla scarsa attività di<br />

queste molecole nella sarcoidosi. Infatti potrebbe<br />

essere dovuto alla scelta di casistiche non adeguate<br />

o eterogenee (pazienti con sarcoidosi non particolarmente<br />

attiva o scarsamente progressiva), ai<br />

dosaggi impiegati, agli intervalli e ai tempi di somministrazione<br />

non sufficienti, alla mancata associazione<br />

con altri farmaci (steroidi o metotrexate). Gli<br />

studi osservazionali portano a sperare nell’efficacia<br />

in casistiche selezionate o in forme resistenti alla<br />

terapia standard. Inoltre è emerso che vi è una variabilità<br />

di risposta legata al tipo di molecola. Con


248 Annali degli Ospedali San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong> 11, 4, 2009<br />

queste considerazioni che ne limitano fortemente<br />

l’uso (non solo quindi per gli alti costi), si evince che<br />

si tratta di una terapia di seconda o meglio di terza<br />

scelta da impiegare solo in casi particolari in Centri<br />

specializzati e con l’approvazione dei comitati etici<br />

nonché con il consenso informato del paziente.<br />

Bloccare il TNFα non sembra rappresentare la risposta<br />

definitiva alla richiesta di una terapia per la<br />

sarcoidosi cronica o refrattaria ad altri trattamenti,<br />

ma costituisce uno strumento in più da approfondire<br />

ulteriormente per raggiungere l’obiettivo di bloccare<br />

definitivamente la progressione della malattia e non<br />

soltanto ridurre i sintomi. È necessario continuare<br />

con la ricerca e con studi clinici prospettici ben<br />

disegnati che dimostrino un aumento di efficacia,<br />

una ridotta tossicità e una migliorata qualità di vita<br />

legati all’utilizzo di questi nuovi farmaci, nonché<br />

sarebbe opportuna una riduzione dei costi. Inoltre<br />

portare avanti gli studi sulla patogenesi della malattia<br />

permetterà di rendere la terapia sempre più<br />

mirata verso un preciso bersaglio.<br />

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Gestione e organizzazione sanitaria<br />

ANNALI DEGLI OSPEDALI<br />

San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong><br />

Volume 11, Numero 4, Ottobre - Dicembre 2009<br />

SALUTE GLOBALE: I DETERMINANTI DELLA SALUTE E LE<br />

CONCLUSIONI DEL RAPPORTO DELL’OMS A CURA DELLA<br />

COMMISSIONE SUI DETERMINANTI SOCIALI DELLA SALUTE<br />

GLOBAL HEALTH: HEALTH DETERMINANTS AND THE FINAL REPORT<br />

BY WHO’S COMMISSION ON SOCIAL DETERMINANTS OF HEALTH<br />

CARLO RESTI<br />

U.O Sanità Internazionale e Cooperazione Direzione Generale,<br />

<strong>Azienda</strong> <strong>Ospedaliera</strong> S. <strong>Camillo</strong>-<strong>Forlanini</strong>, Roma<br />

Parole chiave: Salute Globale. Determinanti della salute. Diseguaglianze in salute. Politiche<br />

socio-sanitarie<br />

Key words: Global health. Determinants of health. Inequalities in health. Social and health<br />

system policies<br />

«Le disuguaglianze di salute sono una<br />

questione di vita e di morte, ma i sistemi<br />

sanitari non tendono per loro natura all’uguaglianza.<br />

L’assistenza primaria è la<br />

cornice migliore in cui agire per fare in<br />

modo che tutti gli attori, anche al di fuori<br />

del settore sanitario, esaminino il loro impatto<br />

sulla salute». Così ha commentato<br />

Margareth Chan, direttore dell’Organizzazione<br />

Mondiale della Sanità (OMS/WHO)<br />

alla presentazione del rapporto finale della<br />

commissione dell’OMS sui determinanti<br />

sociali della salute, composta da “decision<br />

makers”, accademici, ex-capi di Stato ed<br />

ex-ministri della salute. La commissione<br />

ha lavorato per tre anni sul tema dei determinanti<br />

sociali della salute, e ad agosto<br />

2008 ha pubblicato i suoi risultati in un<br />

rapporto di 246 pagine (Fig.1) intitolato<br />

“Closing the Gap in a Generation: Health<br />

Equity through Action on the Social Determinants<br />

of Health”. 1<br />

La Commissione ha descritto e documentato<br />

senza reticenze come l’ingiustizia<br />

sociale “uccide su larga scala”, con toni<br />

più in uso da parte di sociologi e politici<br />

che da parte di professionisti della salute,<br />

invitando la comunità internazionale ad<br />

annullare questo divario sociale nel corso<br />

di una generazione.<br />

Fig.1


C. Resti: Salute globale 251<br />

Ma ci pare evidente come questo messaggio,<br />

che mette in luce le ingiustizie e le<br />

diseguaglianze in salute e nell’accesso ai<br />

servizi sanitari dei Paesi ricchi come dei<br />

Paesi poveri, non può non toccare le coscienze<br />

e l’operato di chi si dedica all’assistenza<br />

e alle cure dei malati nell’ospedale<br />

e sul territorio.<br />

Lo stato di salute di un individuo e più<br />

estesamente di una comunità o di una popolazione<br />

è influenzato, determinato, da<br />

molteplici fattori.<br />

Lo studio dei determinanti della salute<br />

costituisce la base e la sostanza della<br />

sanità pubblica, perché consente di analizzare<br />

e possibilmente modificare attraverso<br />

opportune politiche di contrasto, i fattori<br />

che influenzano l’insorgenza e l’evoluzione<br />

delle malattie.<br />

Per descriverli in modo sintetico, ma<br />

comprensivo, si può fare riferimento a tre<br />

diversi modelli 2,3,4 .<br />

Un primo modello, che rispecchia l’enfasi<br />

che negli Stati Uniti viene posta nella<br />

responsabilità individuale nei confronti<br />

della salute e delle malattie, attribuisce<br />

per il 50% lo stato di salute delle persone<br />

ai loro comportamenti e stili di vita (vedi<br />

“slide 1”), dando molto meno importanza<br />

ad altri fattori.<br />

Un secondo modello, di scuola nord europea,<br />

è un modello molto più articolato e<br />

complesso del precedente. Parte dai determinanti<br />

più prossimi ed individuali che si<br />

esprimono nel genoma: età, sesso, fattori<br />

costituzionali e genetici che si trovano al<br />

centro di uno schema “a cipolla”. Poi vi<br />

sono i fattori relativi agli stili di vita dell’individuo<br />

che possono influire sulla sua<br />

salute. Qui si possono considerare sia i<br />

consumi voluttuari (alcool, droghe, tabacco,<br />

etc.) sia i comportamenti individuali<br />

(sessuali, alimentari, di esercizio fisico,<br />

di mobilità nell’ambiente, di personalità,<br />

etc.). Poi, mano a mano più distali, ma<br />

non per questo meno influenti, vi sono i<br />

“networks” sociali e di comunità che un<br />

individuo si sceglie oppure subisce. Ad<br />

esempio hanno una importanza crescente<br />

secondo gli studi i primi anni di vita, la<br />

cosiddetta “early life”. Poi si incontrano<br />

fattori più facilmente individuabili e studiabili<br />

anche singolarmente, che possono<br />

essere: il reddito; il livello di istruzione;<br />

l’accesso ai servizi sanitari di base, l’abitazione<br />

e i luoghi di vita; l’ambiente di<br />

lavoro come salubrità fisica e come “clima”<br />

entro cui si svolgono tutte le attività lavorative;<br />

la disoccupazione; l’acqua potabile;<br />

le disponibilità alimentari. Infine occorre<br />

tener conto di determinanti relativi al contesto<br />

generale socioeconomico e culturale<br />

nel quale si vive e all’ambiente nel quale<br />

si nasce e si cresce anche all’interno della<br />

stessa città (vedi “slide 2”).<br />

Il terzo modello è proposto in una<br />

originale cornice concettuale proprio dalla<br />

Commissione sui Determinanti Sociali<br />

della Salute e comprende non solo i fattori<br />

che influenzano lo stato di salute degli<br />

individui e delle comunità, ma anche i fattori<br />

coinvolti nella distribuzione diseguale<br />

della salute all’interno di una popolazione<br />

(vedi “slide 3”).<br />

Slide 1. Determinanti della salute (USA) Slide 2. Determinanti della salute (Europa)


252 Annali degli Ospedali San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong> 11, 4, 2009<br />

Slide 3. Commission on Social Determinants of<br />

Health conceptual framework<br />

Si evidenziano tutti i fattori che a diverso<br />

titolo hanno un impatto sulla distribuzione<br />

di benessere e salute: da sinistra a destra<br />

nello schema, il contesto politico e socioeconomico,<br />

la posizione sociale (determinanti<br />

strutturali) e le condizioni di vita e di lavoro,<br />

i comportamenti individuali, i fattori<br />

biologici e l’influenza su questi del sistema<br />

sanitario (determinanti intermedi).<br />

In sanità pubblica vi sono dunque due<br />

orientamenti nell’approccio ai problemi<br />

di salute della collettività: un approccio<br />

socio-strutturale, di tipo “politico”, che<br />

studia argomenti come le disuguaglianze,<br />

le povertà, con finalità di integrare il più<br />

possibile gli interventi con gli altri settori<br />

che hanno influenza sulla salute e un approccio<br />

agli stili di vita di tipo “tecnico”,<br />

che analizza i rischi individuali causati<br />

dai differenti stili di vita con finalità di<br />

prevenzione dei gruppi a rischio.<br />

In particolare la scuola inglese, ha sviluppato<br />

l’approccio socio-strutturale studiando<br />

i vari aspetti della povertà. Secondo<br />

questa scuola 5 la carenza di reddito,<br />

considerata come povertà (economica e di<br />

mezzi) presenta due facce: “carenti condizioni<br />

materiali” e “mancanza di partecipazione<br />

sociale”. In sostanza, oltre una<br />

certa soglia di reddito procapite, non sono<br />

più le differenze nelle condizioni materiali<br />

(strutturali) come acqua pulita, adeguata<br />

nutrizione, accesso ai servizi di base, etc.<br />

che si correlano con differenze nello stato<br />

di salute, bensì entrano in gioco diversi<br />

fattori “sociali” che potrebbero causare disuguaglianze<br />

nella salute all’interno della<br />

stessa nazione (esempio dei paesi ricchi)<br />

in relazione ad opportunità differenti che<br />

favoriscono la partecipazione sociale, la<br />

soddisfazione di una vita in “pienezza”, un<br />

controllo maggiore sulla propria esistenza.<br />

In conlusione si può affermare che<br />

secondo la teoria socio-strutturale, circostanze<br />

economiche e sociali possono avere<br />

influenza sullo stato di salute attraverso<br />

effetti fisiologici derivanti da moventi<br />

emozionali e sociali, sia da effetti diretti<br />

causati da circostanze strutturali (materiali).<br />

Le disuguaglianze all’interno dei<br />

Paesi<br />

Le disuguaglianze sanitarie fra i Paesi<br />

sono studiate da tempo, ma la commissione<br />

evidenzia ora anche quelle presenti<br />

all’interno dei singoli Paesi: c’è un legame<br />

diretto fra reddito e salute, chiamato gradiente<br />

sociale, presente non solo nei Paesi<br />

in via di sviluppo, ma anche nei più ricchi.<br />

Il gradiente sociale può essere più o meno<br />

marcato, ma è un fenomeno universale.<br />

Per esempio:<br />

• in Indonesia la mortalità materna nelle<br />

fasce povere è 3-4 volte maggiore rispetto<br />

alle fasce ricche;<br />

• la mortalità infantile negli slum di<br />

Nairobi è 2,5 volte superiore rispetto ad<br />

altre zone della città;<br />

• l’aspettativa di vita di un aborigeno<br />

maschio australiano è minore di 17<br />

anni rispetto a un maschio australiano<br />

non aborigeno;<br />

• negli Stati Uniti, fra il 1991 e il 2000,<br />

886.202 morti si sarebbero potute evitare<br />

se gli afroamericani avessero avuto<br />

lo stesso tasso di mortalità dei bianchi<br />

(nello stesso periodo, le vite salvate negli<br />

Stati Uniti grazie ai progressi della<br />

medicina sono state in tutto 176.633).<br />

Il benessere non è necessariamente<br />

un determinante<br />

La crescita economica, in atto in molti<br />

Paesi, da sola non sempre basta a migliorare<br />

la salute della popolazione: senza<br />

un’equa distribuzione dei benefici, la<br />

crescita economica può anzi esacerbare le


C. Resti: Salute globale 253<br />

disuguaglianze. D’altra parte, alcuni Paesi<br />

a basso reddito hanno raggiunto buoni<br />

livelli sanitari: per esempio Cuba, Costa<br />

Rica, Cina, Sri Lanka e lo Stato indiano<br />

del Kerala.<br />

La commissione ha sottolineato che il<br />

benessere deve essere usato con giudizio e<br />

ha portato, come esempio di eccellenza da<br />

seguire in tutto il mondo, i Paesi dell’Europa<br />

settentrionale, che hanno sviluppato<br />

politiche per l’uguaglianza dei benefici e<br />

dei servizi, la piena occupazione e l’integrazione<br />

di una società multietnica per<br />

eccellenza, la parità fra i sessi e un basso<br />

livello di emarginazione sociale.<br />

Secondo la commissione, buona parte<br />

del lavoro di riduzione delle disuguaglianze<br />

è al di là delle possibilità del settore<br />

sanitario: la causa di molte malattie non<br />

è la mancanza di antibiotici, ma di acqua<br />

pulita, e le malattie cardiache non dipendono<br />

tanto dalla scarsità di unità coronariche,<br />

quanto dagli stili e dagli ambienti di<br />

vita. Di conseguenza, il settore sanitario<br />

deve attirare l’attenzione sulle cause alla<br />

radice delle disuguaglianze.<br />

«Ci affidiamo troppo agli interventi<br />

medici. Un modo migliore per aumentare<br />

l’aspettativa di vita e migliorare la qualità<br />

della vita sarebbe l’adozione, da parte<br />

di ogni governo, di politiche e programmi<br />

per la salute e l’uguaglianza sanitaria», ha<br />

commentato Michael Marmot, presidente<br />

della Commissione.<br />

Le raccomandazioni della Commissione<br />

La Commissione ha formulato tre raccomandazioni<br />

generali per contrastare gli<br />

effetti delle disuguaglianze:<br />

• migliorare le condizioni della vita quotidiana.<br />

In particolare, la Commissione<br />

richiama gli Stati ad agire e collaborare<br />

per l’infanzia, i rifornimenti di acqua<br />

pulita e la copertura universale dei sistemi<br />

sanitari;<br />

• contrastare, a livello globale, nazionale<br />

e locale, la distribuzione ingiusta del<br />

potere, del denaro e delle risorse, che<br />

sono i determinanti strutturali delle<br />

condizioni di vita. Ai Paesi più ricchi<br />

la commissione chiede di onorare l’impegno<br />

di dedicare lo 0,7% del prodotto<br />

nazionale lordo agli aiuti. A livello globale,<br />

raccomanda l’adozione dell’equità<br />

sanitaria come obiettivo centrale dello<br />

sviluppo, e dei determinanti sociali della<br />

salute come indice del progresso;<br />

• misurare e analizzare il problema e verificare<br />

l’impatto dell’azione. Per questo<br />

è necessario innanzitutto investire in sistemi<br />

di registrazione e nella formazione<br />

di decisori e professionisti sanitari.<br />

«Un crimine non agire»<br />

«Un mondo più giusto sarebbe un mondo<br />

più sano. I servizi sanitari e gli interventi<br />

medici sono solo uno dei fattori che<br />

influenzano la salute della popolazione.<br />

L’aumento delle disuguaglianze sanitarie<br />

è un fenomeno presente nei Paesi a medio-basso<br />

reddito ma anche in Europa. Sarebbe<br />

un crimine non intraprendere tutte<br />

le azioni possibili per contrastarlo», ha<br />

affermato Giovanni Berlinguer, membro<br />

della commissione, deputato al Parlamento<br />

europeo ed ex-componente del Comitato<br />

internazionale di bioetica dell’Unesco.<br />

Un altro membro della Commissione,<br />

Amartya Sen, professore di Economia e di<br />

Filosofia ad Harvard e premio Nobel per<br />

l’Economia nel 1998, ha invece dichiarato:<br />

«L’obiettivo primario dello sviluppo, per<br />

ogni singolo Paese e per il mondo in generale,<br />

è l’eliminazione delle limitazioni che<br />

impoveriscono la vita delle persone e ne riducono<br />

la durata. La causa fondamentale<br />

della deprivazione umana è l’impossibilità<br />

di vivere vite lunghe e in salute, e questo<br />

è molto più che un problema medico: è<br />

legato agli svantaggi che hanno profonde<br />

radici sociali».<br />

Conclusioni<br />

Anche se si avverte la necessità di ulteriori<br />

studi, le conoscenze attuali sono<br />

sufficienti per avviare l’azione. In 30 anni<br />

l’Egitto ha ridotto la mortalità infantile dal<br />

235 per mille al 33 per mille, e la Grecia e<br />

il Portogallo dal 50 per mille sono arrivati<br />

quasi ai livelli di Svezia, Islanda e Giappo-


254 Annali degli Ospedali San <strong>Camillo</strong> e <strong>Forlanini</strong> 11, 4, 2009<br />

ne. Nel 2000, Cuba ha raggiunto una copertura<br />

del 99% dei servizi per l’infanzia.<br />

La Commissione ha già messo in moto<br />

azioni concrete in diverse parti del mondo:<br />

Brasile, Canada, Svezia, Regno Unito,<br />

Kenya, Iran, Mozambico, Cile e Sri Lanka<br />

sono diventati “Paesi partner” della Commissione<br />

impegnandosi a far progredire<br />

l’equità sanitaria, e stanno già sviluppando<br />

politiche in proposito. Questi esempi<br />

dimostrano che se c’è la volontà politica<br />

il cambiamento è possibile. La strada da<br />

fare è ancora lunga ma, secondo la Commissione,<br />

la direzione è stata fissata e il<br />

percorso è chiaro. L’Oms metterà il rapporto<br />

a disposizione degli Stati membri,<br />

che decideranno come le rispettive Agenzie<br />

sanitarie dovranno rispondere.<br />

Bibliografia<br />

1. CSDH (2008) Closing the gap in a generation:<br />

health equity through action on the social determinants<br />

of health. Final Report of the Commission<br />

on Social Determinants of Health. Geneva,<br />

World Health organization<br />

2. Institute for the future (IFTF), Health and<br />

Health care 2010. The forecast, The challenge.<br />

Jossey-Bass, Princeton 2003<br />

3. Dahlgren G, Whitehead M, Policies and strategy<br />

to promote social equity in health. Stockholm:<br />

Institute of Future Studies, 1991<br />

4. CSDH. A conceptual framework for Action on<br />

the Social Determinants of Health. Discussion<br />

paper (Final Draft), April 2007<br />

5. Marmot M , The influence of income on health:<br />

views of an epidemiologist, Health Affairs March/April<br />

2002<br />

Per corrispondenza e richiesta estratti:<br />

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