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<strong>Etruschi</strong><br />

a tavola<br />

Dalla cultura gastronomica<br />

etrusca alcuni piatti<br />

della tradizione umbra


M. Luciana Buseghin<br />

<strong>Etruschi</strong><br />

a tavola<br />

Dalla cultura gastronomica etrusca<br />

alcuni piatti della tradizione umbra


Soprintendenza<br />

per i Beni Archeologici<br />

dell’Umbria<br />

Progetto cofinanziato<br />

con i fondi della L135/01<br />

© 2003 by Futura Soc. Coop.<br />

Tutti i dir<strong>it</strong>ti riservati


3<br />

Nella gastronomia d’Umbria,<br />

Toscana, Emilia, Valle<br />

Padana, Lazio e Campania<br />

emergono delle costanti:<br />

possiamo ipotizzare che trovino la<br />

loro origine negli usi gastronomici<br />

e nelle ab<strong>it</strong>udini alimentari del popolo<br />

etrusco che ab<strong>it</strong>ò e lasciò la<br />

sua impronta in queste terre ormai<br />

migliaia d’anni fa.<br />

In particolare, se consideriamo l’a- ta da Italo Arieti, appassionato sturea<br />

compresa tra la riva destra del dioso di tradizioni gastronomiche po-<br />

Tevere e quella sinistra dell’Arno e il polari, a propos<strong>it</strong>o della cucina la-<br />

mare Tirreno – il cui nome deriva ziale della Tuscia, identificabile con<br />

proprio dagli <strong>Etruschi</strong>, così chiama- l’antica Etruria meridionale, <br />

tanto c’è di comune o quanto me- poiché <br />

Genova; dalla Cassia, strada consolare<br />

romana che da Roma conduceva<br />

a Luni nell’Etruria settentrionale,<br />

attraverso Chiusi (Clusium)<br />

– da cui si poteva dirottare, verso est,<br />

per Volsinii e Perusia – Arezzo, Fiesole<br />

e Pistoia. Significativa, a questo<br />

riguardo, la considerazione fat- 1 Arieti, 2001, p. 7.<br />

1.<br />

Considerando poi, ancora più specificatamente,<br />

l’odierna Umbria –


oggi “cuore verde” d’Italia ma allora<br />

dell’Etruria interna, con i suoi<br />

boschi, le sue colline, le sue fertili<br />

pianure – possiamo affermare<br />

che la cultura, anche culinaria e<br />

gastronomica, si è integrata, nel<br />

tempo e nello spazio, a quella delle<br />

popolazioni locali: Umbri, Osci,<br />

ma anche Sabini, Piceni ed altri popoli<br />

confinanti.<br />

Mancando, però, una consistente<br />

documentazione<br />

archeologica di settore,<br />

possiamo ricostruire la gastronomia<br />

etrusca sostanzialmente dall’iconografia<br />

– che si tratti di urne cinerarie,<br />

di vasi f<strong>it</strong>tili o di affreschi in necropoli,<br />

tra cui Tarquinia, Velletri,<br />

Chiusi e Volterra – o da quanto raccontano<br />

autori della letteratura greca<br />

e latina, spesso, specialmente<br />

quest’ultimi, piuttosto cr<strong>it</strong>ici verso lo<br />

stile di v<strong>it</strong>a etrusco, presentato come<br />

troppo gaudente, per intemperanze<br />

ed eccessi di varia natura, che si traducevano<br />

in banchetti di lusso, addir<strong>it</strong>tura<br />

con presenza di donne che<br />

bevevano e mangiavano, distese sul<br />

triclinio e al suono dei musicanti, al-<br />

4<br />

trettanto quanto gli uomini. In una<br />

parola, gli storici greci e romani, almeno<br />

dal IV-III secolo a.C., hanno<br />

prevalentemente stigmatizzato gli<br />

<strong>Etruschi</strong> come un popolo lussurioso<br />

e molle, attuando una chiara opera<br />

di propaganda: solo Posidonio e Diodoro<br />

Siculo, del II-I secolo a.C., ci<br />

hanno lasciato un giudizio più m<strong>it</strong>e<br />

ed obiettivo. In particolare, Diodoro<br />

ci tramanda l’immagine di popolo forte,<br />

conquistatore e dotato di notevole<br />

ingegno pratico: 2. A questo propos<strong>it</strong>o, ricordo<br />

fuggevolmente che divin<strong>it</strong>à suprema<br />

per gli <strong>Etruschi</strong> era Tinia, armato<br />

di fulmine, sposo di Uni; importanti<br />

ed autoctone anche Turan,<br />

2 Tra i più “malalingua” degli storici e poeti<br />

greci e romani, Pezzella c<strong>it</strong>a Teopompo e<br />

Timeo tra il IV e il III sec. a.C.: Pezzella,<br />

1989, pp. 101-103; in particolare la c<strong>it</strong>azione<br />

da Diodoro è V, 1 e sgg.


dea dell’amore, e Nortia, cultuata a<br />

Volsinii (Orvieto) in relazione allo scorrere<br />

del tempo e al destino – secondo<br />

quanto riferisce Livio 3 –, da cui<br />

deriva forse il nome della c<strong>it</strong>tà di<br />

Norcia, “cap<strong>it</strong>ale” di quell’antico<br />

mondo magico dei Sibillini tra terr<strong>it</strong>orio<br />

umbro e piceno e r<strong>it</strong>enuta<br />

espressione locale del m<strong>it</strong>o della<br />

“Grande Madre”, proprio come la<br />

Cupra degli Umbri e dei Piceni.<br />

Continuava Diodoro Siculo: 4.<br />

La bellezza e varietà dei tessuti etruschi<br />

saltano agli occhi anche osservando<br />

le p<strong>it</strong>ture murali delle note<br />

tombe di Tarquinia in cui compaiono<br />

coperte da triclinio e da tavola,<br />

oltre ad interessanti capi d’abbigliamento:<br />

i primi sono decorati<br />

con motivi a rombo e a scacchiera,<br />

passati poi in ered<strong>it</strong>à alle opere<br />

tessili per arredamento prodotte nelle<br />

manifatture tessili umbre d’epoca<br />

medievale e rinascimentale.<br />

Jacques Heurgon, autore di un testo<br />

sulla v<strong>it</strong>a quotidiana degli <strong>Etruschi</strong><br />

ed<strong>it</strong>o nel 1961 e divenuto ormai<br />

un classico, scrive che sull’organizzazione<br />

della giornata dell’etrusco<br />


ta che ci è stata trasmessa sull’impiego<br />

del tempo a sua disposizione<br />

concerne il regime alimentare di<br />

due pasti al giorno> 5 e chiarisce<br />

che si trattava di un vero pasto, con<br />

tanto di apparecchiatura e triclini,<br />

mentre i Romani – che pur mangiavano<br />

ben tre volte al giorno – facevano<br />

un solo pranzo, a partire dalle<br />

due o dalle tre del pomeriggio, e<br />

per il resto si accontentavano di<br />

spuntini e colazioni, anche in piedi.<br />

Scriveva Diodoro nel I secolo<br />

a.C.: 6.<br />

Salvatore Pezzella – paleografo<br />

e paleobotanico, appassionato<br />

studioso ed esperto di<br />

gastronomia storica – scriveva nel<br />

1985 che per capire come si nutrivano<br />

gli <strong>Etruschi</strong> bisogna rifarsi al v<strong>it</strong>-<br />

6<br />

to dei Romani, poiché l’agricoltura<br />

romana non è altro che una applicazione<br />

dell’insegnamento etrusco.<br />

Suggeriva inoltre di considerare le p<strong>it</strong>ture<br />

murali delle tombe collocate nelle<br />

zone di Chiusi, Cerveteri, Tarquinia<br />

ed Orvieto. A quest’ultima appartiene<br />

la fondamentale Tomba di<br />

Settecamini, presso Porano, scoperta<br />

nel 1863 da Domenico Golini, da<br />

cui prese il nome. Costru<strong>it</strong>a nel IV secolo<br />

per la famiglia Leine, nel tramezzo<br />

che separa in due parti la camera<br />

quadrangolare si trovano raffigurate<br />

sia la dispensa delle carni e<br />

della selvaggina – un bue, una lepre,<br />

un cerbiatto, due anatre e un ghiro 7<br />

5 Heurgon, 1992, p. 256.<br />

6 Diodoro, V, 40 c<strong>it</strong>ato in Heurgon, 1992,<br />

p. 257.<br />

7 Le p<strong>it</strong>ture, staccate nel 1950 e restaurate<br />

nel laboratorio del Museo Archeologico Nazionale<br />

di Firenze, dal 1982 sono esposte al<br />

Museo Archeologico Nazionale nel Palazzo<br />

Papale d’Orvieto. Cfr. Cenciaioli, 2002, p. 23.<br />

Cfr. anche: Pezzella, 1989, pp. 100-101 e<br />

Heurgon, 1992, pp. 258-263.


– sia il banchetto funebre dei due fratelli<br />

Lenii che si svolge alla presenza<br />

di A<strong>it</strong>a (Ade) e Phersipnai (Proserpina),<br />

divin<strong>it</strong>à degli Inferi comuni<br />

a <strong>Etruschi</strong>, Romani e Greci, presumibilmente<br />

approdati in Etruria<br />

grazie ai fruttuosi scambi commerciali<br />

e culturali col mondo ellenico<br />

consolidatisi proprio in quel periodo.<br />

Sono raffigurati 11 servi, di cui solo<br />

2 donne e un suonatore di flauto<br />

doppio – gli <strong>Etruschi</strong>, infatti, solevano<br />

cucinare a r<strong>it</strong>mo di musica – che<br />

svolgono le diverse funzioni di cucina:<br />

chi taglia la carne, chi la fa arrostire,<br />

chi è impegnato a frantumare<br />

con pestelli in un ampio mortaio con<br />

beccuccio, forse per preparare scrive Heurgon 8. Sulle tavole<br />

rettangolari a tre piedi, di forma<br />

equina – secondo la moda greca<br />

diffusasi in Etruria – la maggior<br />

parte dei commentatori hanno r<strong>it</strong>enuto<br />

di poter individuare mucchiet-<br />

7<br />

ti di focacce, uova, grappoli d’uva nera,<br />

melagrane e piccole piramidi, presumibilmente<br />

di dolciumi 9. Comunque,<br />

sia in questo caso, che in<br />

altri – come per esempio nella famosa<br />

Tomba degli Scudi, attribu<strong>it</strong>a<br />

al III-II secolo a.C. e conosciuta anche<br />

come “Velcha” o in quella detta<br />

del Triclinio, entrambe di Tarquinia<br />

– l’individuazione degli alimenti<br />

è quanto mai aleatoria, eccezion<br />

fatta per alcuni: focacce, frutta, ecc.<br />

Quanto alle varietà di frutta, Arieti afferma<br />

che 10; noccioline intere ed<br />

8 Heurgon, 1992, pp. 259-260.<br />

9 Heurgon, 1992, pp. 260-261.<br />

10 Arieti, L’alimentazione al tempo degli<br />

<strong>Etruschi</strong>, dattiloscr<strong>it</strong>to, s.d.


incorrotte si possono ammirare nelle<br />

bacheche del Museo della Civiltà<br />

Villanoviana di Verucchio (Forlì),<br />

oltre a tantissimi eccezionali reperti<br />

che documentano la v<strong>it</strong>a quotidiana<br />

degli <strong>Etruschi</strong> conservatisi grazie<br />

a condizioni particolari di hab<strong>it</strong>at.<br />

Un valido aiuto è arrivato, a partire<br />

dagli anni Ottanta, da ricerche<br />

archeologiche più focalizzate e dalla<br />

paleobotanica che ha permesso<br />

di risalire con maggiore precisione,<br />

grazie a pollini e resti sia di flora che<br />

di fauna, 11.<br />

<strong>Etruschi</strong> (e Romani) erano più<br />

carnivori dei Greci: prefer<strong>it</strong>o,<br />

pare, fosse il porco, offerto<br />

anche agli dei, arrost<strong>it</strong>o allo spiedo<br />

o sulla griglia, cond<strong>it</strong>o con erbe aromatiche<br />

e con il suo stesso grasso<br />

(come del resto anche altri tipi di<br />

carne): secondo un’antica usanza riportata<br />

da Varrone, cost<strong>it</strong>uiva il pasto<br />

r<strong>it</strong>uale delle occasioni solenni,<br />

specialmente i matrimoni. I maiali<br />

erano gli animali più frequentemente<br />

allevati, come attestato dallo<br />

stesso Varrone e da Polibio: a testimonianza<br />

di questa pratica ci rimane<br />

la s<strong>it</strong>ula d’argento del VII secolo<br />

a.C. rinvenuta a Chiusi, in cui<br />

8<br />

è raffigurato un porcaro che conduce<br />

una mandria di verri. Al secondo posto<br />

veniva l’allevamento di ovini e<br />

caprini, da cui si ricavava latte, formaggi<br />

e lana, filata e tessuta dalle<br />

signore dell’Etruria sin dall’età del<br />

bronzo, epoca dello sviluppo della<br />

civiltà etrusca che si fa risalire almeno<br />

al XIII secolo a.C. ma, alcuni<br />

secoli più tardi, anche dalle matrone<br />

romane poiché gli <strong>Etruschi</strong> furono<br />

anche grandi esportatori di lana<br />

greggia 12, oltre che di vele di robustissimo<br />

lino per le navi, prodotte<br />

specialmente a Tarquinia.<br />

Plinio e Marziale parlano di un formaggio<br />

che dovrebbe corrispondere<br />

al nostro pecorino e si sa che gli<br />

<strong>Etruschi</strong> conoscevano già l’uso della<br />

grattugia, per cui è assai probabile<br />

usassero pecorino grattugiato<br />

sulla puls o polenta, di farro o di<br />

altri cereali 13 e pare anche di semi<br />

11 Arieti, s.d.: l’autore c<strong>it</strong>a, in quanto fece il<br />

punto sulla questione, la mostra sull’Alimentazione<br />

nel mondo antico, presentata alla<br />

Rocca degli Albornoz a V<strong>it</strong>erbo nel 1987.<br />

12 Giovenale, VI, 287-290.<br />

13 Arieti, s.d.


di lino. Producevano anche formaggi<br />

freschi, tra cui la ricotta, di<br />

cui è forse erede la ricercata ricotta<br />

affumicata di tutta l’area della<br />

dorsale appenninica, salata una<br />

volta che si è asciugata, fatta riposare<br />

per una settimana e tenuta in<br />

un ambiente chiuso dove viene bruciato<br />

legno di ginepro.<br />

Agnelli, capretti, montoni, pecore, castrati,<br />

ma anche altre carni venivano<br />

in genere boll<strong>it</strong>e prima della cottura<br />

sulla griglia o allo spiedo, uso<br />

rimasto ancora in alcune tradizioni<br />

regionali <strong>it</strong>aliane soprattutto per<br />

sgrassare e togliere l’odore di selvatico;<br />

odori utilizzati per insaporire le<br />

carni erano prezzemolo, finocchio,<br />

aglio, alloro, rosmarino e timo serpillo.<br />

Gli <strong>Etruschi</strong> apprezzavano assai anche<br />

gli animali da cortile, di cui utilizzavano<br />

anche le uova: galli, galline,<br />

faraone, oche, colombi; e ancor<br />

più la cacciagione – cinghiali, lepri,<br />

cervi, caprioli, uccelli di palude, anatre,<br />

fagiani e pernici – tutte carni alla<br />

cui cottura, presentazione e distribuzione<br />

in tavola erano addette anche<br />

le donne, che in Grecia potevano<br />

al massimo preparare il pane.<br />

Molto praticata l’attiv<strong>it</strong>à venatoria,<br />

in particolare la caccia al cinghiale,<br />

di ottima qual<strong>it</strong>à ma anche molto<br />

pericoloso tanto che veniva tenuto<br />

in vaste “riserve” e catturato con le<br />

reti, soprattutto dai nobili. L’importanza<br />

della caccia e la frequenza del-<br />

9<br />

le “riserve” in questo amb<strong>it</strong>o terr<strong>it</strong>oriale<br />

sono elementi testimoniati<br />

dalla stessa loro permanenza fino a<br />

noi ma già da Virgilio e da Plinio,<br />

oltre che dalla iconografia degli affreschi<br />

di varie tombe tarquiniesi: la<br />

“scrofa nera”, la “querciaiola” e quella<br />

della “caccia e pesca”, quest’ultima<br />

importante per la caccia ai volatili<br />

oltre che per la pesca di pesci<br />

di lago e di mare che si fossero ab<strong>it</strong>uati<br />

all’acqua dolce, come scrive<br />

Columella a propos<strong>it</strong>o dei laghi di<br />

Bolsena e Bracciano 14, informazione<br />

senz’altro applicabile anche all’umbro<br />

Trasimeno: avanotti o latterini<br />

o bianchetti (neonati di pesce),<br />

rombi, lucci, spigole, orate, ostriche<br />

con salse a base di menta, ruta, senape,<br />

miele e melograno 15.<br />

Sembra che gli <strong>Etruschi</strong> già preparassero<br />

boll<strong>it</strong>i, speziati con erbe, e<br />

avessero una propria versione del-<br />

14 Arieti, s.d.<br />

15 Pezzella, 1989, p. 108.


10<br />

la “zuppa nera” di carne siciliana e<br />

ateniese del V secolo a.C. 16. Forse<br />

possiamo r<strong>it</strong>rovarne un’eco nelle<br />

tante zuppe e spezzatini di carni miste<br />

o specialmente di cinghiale, soprattutto<br />

dell’Amerino, dell’Orvietano<br />

e della Maremma?<br />

Tracce, ormai ignorate, della<br />

cucina etrusca sono passate<br />

– attraverso la mediazione prima<br />

di quella romana e poi di quella<br />

medievale e rinascimentale – nella<br />

nostra cultura gastronomica, com’è<br />

dettagliatamente dimostrato da<br />

Clotilde Vesco, autrice di un volume<br />

significativamente int<strong>it</strong>olato Cucina<br />

etrusca. 2685 anni dopo e curatrice<br />

di un’edizione dell’Arte coquinaria<br />

di Apicio. Tra i tanti usi e preparazioni<br />

ered<strong>it</strong>ate: il consiglio di scottare<br />

cervelli e fegatini e di frollare la<br />

carne prima della cottura e la ricetta<br />

della lepre farc<strong>it</strong>a con le ghiande.<br />

Gli <strong>Etruschi</strong> furono i primi importatori,<br />

intorno all’VIII secolo, di spezie<br />

e raffinati condimenti, tra cui il pepe,<br />

segu<strong>it</strong>i poi dai Greci che impiantarono<br />

dopo poco le prime colonie<br />

greche nel Sud d’Italia. Il pepe<br />

sost<strong>it</strong>uì, o si accompagnò, alle<br />

bacche di mirto nell’insaporire le carni;<br />

fu presto segu<strong>it</strong>o dalla cannella<br />

– nelle sue qual<strong>it</strong>à di cinnamomo e<br />

cassia – già c<strong>it</strong>ata nella Bibbia nel<br />

VI secolo a.C. e che furoreggiò almeno<br />

fino a tutto il Medioevo. Conoscevano<br />

bene anche il cumino o<br />

comino – pianta dalle molte varietà,<br />

originaria del Medio Oriente ma<br />

usatissima anche dai Romani come<br />

sost<strong>it</strong>uto del più costoso pepe –; il<br />

coriandolo, dal forte sapore aromatico<br />

– che è tuttora usato nella preparazione<br />

dei salumi e in genere come<br />

condimento delle carni, ma anche<br />

sotto forma di confettini rivest<strong>it</strong>i<br />

di zucchero – e il nardo dall’odore<br />

intenso, cioè l’erba c<strong>it</strong>ronella, e<br />

quello selvatico o asaro, da usare negli<br />

arrosti, specialmente di capretto,<br />

uso ripreso poi da Apicio. Già conosciuti<br />

anche i semi di sesamo, importato<br />

dall’Oriente, in segu<strong>it</strong>o usati<br />

assai anche nella cucina romana,<br />

tostati, sugli arrosti o su pani e dolci:<br />

uso quest’ultimo diffusissimo in<br />

tutta l’area med<strong>it</strong>erranea e anche nella<br />

gastronomia del nostro meridione<br />

e in quella ebraica.<br />

Tante le insalate cond<strong>it</strong>e con foglie<br />

aromatiche – come quelle della<br />

pimpinella o salvastrella – o con er-<br />

16 Pezzella, 1989, ibidem.


11<br />

be come il silfio o assafetida, erba<br />

dal sapore acre aglioso, originaria<br />

del Medio Oriente, usata frequentemente<br />

dai Romani 17. Conferivano<br />

un sapore inconfondibile già alle<br />

pietanze etrusche i tartufi, di molte<br />

varietà tra cui quelle di Norcia e<br />

di Libia, e per la cui cottura Apicio<br />

ci ha lasciato ben 6 ricette 18.<br />

Nutrimento base, specialmente delle<br />

popolazioni rurali, il farro o spelta,<br />

che coltivavano già dal V secolo<br />

a.C. nella regione Tirrena in quattro<br />

qual<strong>it</strong>à e trasformavano in farina, semolino<br />

grosso, ecc., con cui preparavano<br />

un pane basso tipo focaccia<br />

e polente. Coltivavano anche l’orzo<br />

comune e l’orzo bianco, il panico o<br />

miglio, graminacea originaria dell’India<br />

ma già in terr<strong>it</strong>orio <strong>it</strong>alico in<br />

epoca preistorica, con cui pure si preparavano<br />

pane, focacce e polente,<br />

con latte e formaggio di capra, ma<br />

anche zuppe, misti a legumi, la cui<br />

coltivazione pare avessero appreso<br />

dai Greci 19. Polenta di farina di far-<br />

ro o di alica, un semolino grosso, ma<br />

anche di semi di lino, focacce di farina,<br />

impastate anche con formaggio<br />

fresco, pani bassi e ben cotti troviamo<br />

anche nella gastronomia romana.<br />

E anche torte rustiche come la<br />

scribl<strong>it</strong>a, fatta di una sfoglia esterna<br />

e strati di sfoglia sottile alternata a ricotta.<br />

Con la sfoglia sottile si faceva<br />

anche una sorta di lasagne che, una<br />

volta seccata e spezzata, si utilizzava<br />

come pasta secca. Anche gli <strong>Etruschi</strong><br />

conoscevano la sfoglia come testimoniano<br />

spianatoia, matterello e<br />

sacchetto di farina raffigurati nella<br />

Tomba Bella di Cerveteri 20.<br />

Gli <strong>Etruschi</strong> bonificarono molti terreni<br />

paludosi e trasformarono zone<br />

già allora tristemente note per la malaria<br />

in scrive<br />

Santini 21: prima fra tutti la cipolla,<br />

diffusa in tutto il Med<strong>it</strong>erraneo ma<br />

pare originaria dell’Asia centrale, che<br />

troviamo chiaramente affrescata<br />

nella Tomba degli Stucchi a Cerveteri.<br />

I contadini della Maremma to-<br />

17 di Corato, 1978, p. 47.<br />

18 Apicio (aut.) - Vesco (cur.), 1994.<br />

Quanto ad Apicio, si tratta, come è noto, di<br />

un nome-simbolo assai discusso che riporta<br />

a personaggi diversi e lontani nel tempo:<br />

il ricettario dovrebbe essere di un Celio (nome<br />

etrusco) o Claudio (nome romano) cuoco,<br />

detto perciò Apicio (che era passato a significare<br />

tale professione) che lo avrebbe<br />

compilato nel 230 d.C. rifacendosi a una<br />

prima edizione di Marco Gavio Apicio, vissuto<br />

sotto Augusto e Tiberio nel I secolo d.C.<br />

19 Pezzella, 1989, pp. 104-105 e di Corato,<br />

1979, p. 174 e p. 227.<br />

20 Vesco, 1985, pp. 153-154.<br />

21 Santini, 1991, p. 148.


12<br />

scana di un tempo solevano dire che<br />

le zuppe si mangiano con il cucchiaio<br />

in una mano e la cipolla nell’altra<br />

22 e comunissime sono le preparazioni<br />

con la cipolla in tutto il terr<strong>it</strong>orio<br />

umbro-toscano-laziale: famosa<br />

la cipolla di Certaldo e quella<br />

di Cannara, entrambe note soprattutto<br />

nella variante rossa, più<br />

dolce e digeribile, e perciò consumabile<br />

cruda. Ingrediente fondamentale<br />

perché conferisce un sapore<br />

inconfondibile a zuppe e fr<strong>it</strong>tate,<br />

ma anche alla “panzanella” che<br />

si vuol far risalire alle offerte sacrificali<br />

sulle antiche are cui alluderebbero<br />

anche le “Tavole eugubine”:<br />

la patenata fatta con pane bagnato<br />

con olio, aceto e menta 23.<br />

Note agli <strong>Etruschi</strong> anche navone<br />

e rape (famose quelle<br />

di Norcia), due radici delle<br />

Crocifere – come il ben più diffuso<br />

cavolo, già coltivato 2000 anni<br />

prima di Cristo – utilizzate poi mol-<br />

to anche dai Romani. E ancora: carote<br />

selvatiche, zucche a fiasca, bietola,<br />

porri <strong>it</strong>alici, cetrioli, carciofi selvatici<br />

o cardi, di cui in alcune zone<br />

ancora oggi si consuma il cuore lesso<br />

con olio e aceto: verdure ed ortaggi<br />

che si mescolavano anche alle<br />

polente di cereali, uso di cui rimane<br />

traccia sia nella cucina toscana<br />

24 che in quella umbra, che<br />

prevede diverse varianti di polente di<br />

grano duro o di mais mescolate a vari<br />

tipi di leguminose già usate in Etruria<br />

e, secondo Pezzella, autoctone 25:<br />

la fava (una delle piante alimentari<br />

più importanti dell’antich<strong>it</strong>à, origi-<br />

22 Santini, 1988, p. 159 e 1991, pp. 59-60.<br />

23 Fabbi, 1971, p. 81.<br />

24 Petroni, 1989, pp. 140, 145 e 192.<br />

25 Pezzella, 1989, p. 105; non tutti gli autori<br />

sono d’accordo su questa origine locale:<br />

Di Corato, per esempio, sostiene la provenienza<br />

del lupino dal Medio Oriente anche se ne conferma<br />

una presenza precocissima in suolo <strong>it</strong>alico:<br />

cfr. Di Corato, 1979, p. 171.


13<br />

naria del bacino del Med<strong>it</strong>erraneo,<br />

già coltivata nell’età del bronzo e particolarmente<br />

diffusa presso Egizi e<br />

Greci, almeno dal 2500 a.C.) che<br />

veniva consumata lessa, tostata o<br />

cotta nel lardo, sia come cibo quotidiano<br />

che come offerta sacrificale<br />

ai defunti da placare; la lenticchia,<br />

originaria dell’Asia centrale e già coltivata<br />

2000 anni prima di Cristo; i<br />

ceci, il cui seme gli <strong>Etruschi</strong> avevano<br />

importato da Cartagine – ma che<br />

si dice originario dell’Himalaya – e<br />

con cui preparavano polentine semidolci,<br />

il cui uso permane tra Liguria<br />

e Toscana; la veccia, pianta<br />

spontanea, i cui semi rotondi, scuri<br />

o chiari, sono stati oggetto di raccolta<br />

alimentare sin dalla preistoria<br />

ed utilizzati anche recentemente per<br />

la panificazione in tempi di magra:<br />

“in tempo di carestia è buono il pan<br />

di vecce”; il lupino (ottimo per i buoi<br />

da lavoro, se cotto e macerato) che<br />

era il cibo dei poveri, commerciato<br />

per strada e distribu<strong>it</strong>o nelle feste; il<br />

dolico o fagiolino dall’occhio, conosciuto<br />

in Umbria come fagiolina<br />

o risina, originario delle regioni tropicali<br />

dell’Asia e dell’Africa, arrivato<br />

in suolo <strong>it</strong>alico dalla Grecia e molto<br />

usato anche dai Romani 26; infine, il<br />

pisello, legume autoctono, sicuramente<br />

pre-romano, alimento tipico<br />

dei ceti romani popolari che sembra<br />

lo consumassero solo secco.<br />

Cristina Bindi, in un bel volume che<br />

presenta anche alcuni testi di autori<br />

classici latini, scrive che gli <strong>Etruschi</strong><br />

spesso consumavano le verdure<br />

boll<strong>it</strong>e e cond<strong>it</strong>e con solo olio e che<br />

pasto assai diffuso era un minestrone<br />

preparato con orzo boll<strong>it</strong>o, pinoli, uva<br />

passa, semi di melograno, cond<strong>it</strong>o<br />

con vino e miele, chiamato satura 27,<br />

denominazione che a noi ricorda<br />

piuttosto il noto genere poetico latino<br />

di cui fu maestro Orazio, protetto<br />

dall’etrusco Mecenate 28.<br />

d’oliva era conosciuto<br />

come condimento, ma so-<br />

L’olio<br />

prattutto come unguento<br />

per lenire e profumare corpo e capelli<br />

e come combustibile per le<br />

lampade delle are e delle tombe:<br />

26 Il fagiolo più diffuso oggi è originario, invece,<br />

dell’America tropicale e arriva in Europa<br />

nel Cinquecento: cfr. di Corato, 1979,<br />

pp. 121-124.<br />

27 Bindi, 1993, p. 90: l’autrice c<strong>it</strong>a la ricetta<br />

da Varrone Diomede.<br />

28 Salza Prina Ricotti, 1993, p. 104 e più in<br />

generale: Orazio ed i suoi tempi, pp. 90-116.


14<br />

era una varietà molto dolce, inizialmente<br />

ottenuta solo dalla varietà<br />

murta, simile alla mortella.<br />

Cura speciale ebbero anche per le<br />

api il cui miele usavano in cucina<br />

e nella farmacopea 29.<br />

Sembra che nella nostra penisola<br />

gli <strong>Etruschi</strong> siano stati i primi a produrre<br />

vino – la stessa parola vinum<br />

sarebbe etrusca – e ad importarlo<br />

anche in Grecia, secondo Ateneo,<br />

sin dal tempo di Alessandro Magno<br />

30, mentre la coltivazione della<br />

v<strong>it</strong>e si dovrebbe ai Greci delle colonie<br />

meridionali: ma in Sicilia sono<br />

stati trovati vasi da vino già del<br />

2000 a.C. e si sa che i Romani appresero<br />

le tecniche v<strong>it</strong>ivinicole dai<br />

sacerdoti etruschi. Comunque, è<br />

certo che gli <strong>Etruschi</strong> producevano<br />

ottimo vino e ne usavano in grandi<br />

quant<strong>it</strong>à sia nei conv<strong>it</strong>i allietati<br />

da musiche e danze che in cucina,<br />

per esempio irrorando la carne<br />

arrost<strong>it</strong>a allo spiedo, ad im<strong>it</strong>azione<br />

della cucina omerica 31, uno dei tan-<br />

ti usi rimasti nella tradizione gastronomica<br />

dell’Italia centrale.<br />

Intorno all’VIII secolo a.C. in Etruria<br />

si cominciano anche a produrre<br />

conten<strong>it</strong>ori per vino derivati da<br />

modelli greci: tazze, brocche e bicchieri,<br />

segno di una coltura intensiva<br />

della v<strong>it</strong>e e di un largo consumo<br />

di vino che veniva impiegato<br />

miscelato ad acqua, come bevanda<br />

ben oltre i pasti. Nel corso dei<br />

simposi si praticavano molti giochi,<br />

tra cui il kottabos in cui si 32.<br />

29 Pezzella, 1989, pp. 107-108.<br />

30 Arieti, s.d.<br />

31 Pezzella, 1989, p. 108.<br />

32 Cenciaioli, 2002, pp. 20-22 e pp. 26-27.


INDICE DELLE RICETTE<br />

17 Crostoni all’etrusca<br />

17 Crostini alle fave<br />

17 Animelle e fave<br />

17 Minestrone di castagne<br />

18 Zuppa di ceci e castagne<br />

alla piegarese<br />

18 “Acqua cotta” coi “lupari”<br />

19 Minestra d’orzo perlato<br />

e funghi porcini<br />

19 Minestra di farro e fagioli borlotti<br />

19 Macco coi dolici<br />

21 Ciriole di Passignano<br />

21 Umbrichelli con i “maghetti”<br />

alla pievese<br />

21 Fegato di v<strong>it</strong>ello alla pasta d’olive<br />

22 Agnello arrosto alla casciana<br />

22 Castrato allesso<br />

23 Anatra arrosto alla perugina<br />

24 “Oca delle feste” alla nursina<br />

24 V<strong>it</strong>ello perugino alla ghiotta<br />

25 Cinghiale in salsa di Guardea<br />

25 Colombo “accompagnato”<br />

alla perugina<br />

25 Fagiano “sorpresa” alla tiberina<br />

26 Faraona al ginepro<br />

26 Brustico<br />

26 Pane alle olive<br />

27 Pagnottelle al farro<br />

27 Brustengolo d’Amelia<br />

28 Torta di castagne


RICETTE<br />

Avvertenza alle Ricette: le dosi, salvo<br />

indicazione contraria, s’intendono<br />

da 4 a 6 persone.<br />

Crostoni all’etrusca<br />

pane integrale; olive nere<br />

denocciolate; aglio; prezzemolo;<br />

pinoli; formaggio; gherigli di noci<br />

Dorare le fette di pane in forno e dividerle<br />

in due gruppi: sulle prime, strofinare<br />

appena con uno spicchio d’aglio;<br />

coprire quindi prima con un tr<strong>it</strong>o d’olive<br />

nere, poi di prezzemolo ed infine di<br />

pinoli; sulle altre, spalmare il raveggiolo<br />

e cospargere con i gherigli interi.<br />

■ Queste ricette cost<strong>it</strong>uiscono due delle<br />

tante interessanti e gustose reinterpretazioni<br />

della cucina storica (in questo<br />

caso etrusca ma anche medievale<br />

e rinascimentale) ideate e realizzate da<br />

Salvatore Pezzella 33.<br />

Crostini alle fave<br />

fave secche g 300; 1/2 cipolla; 1<br />

carota; 1 costola di sedano; un<br />

pizzico di semi di finocchio; 1<br />

spicchio d’aglio; olio d’oliva di<br />

frantoio; sale; pepe; pane raffermo<br />

affettato<br />

17<br />

Selezionate le fave e mettetele a bagno<br />

in acqua fresca tenendole una notte.<br />

Lessatele in acqua salata con mezza<br />

cipolla, una costola di sedano, una carota<br />

ed un pizzico di semi di finocchio.<br />

Abbrustol<strong>it</strong>e le fette di pane e strusciatevi<br />

uno spicchio d’aglio: mettetele sul<br />

fondo del piatto e versatevi sopra le fave<br />

con poca acqua di cottura ed abbondante<br />

olio di frantoio; sale e pepe<br />

a piacere.<br />

■ Ricetta di Giulio Pinco di Narni, registrata<br />

da Bonacina 34.<br />

Animelle e fave<br />

400 g di fave secche; animelle<br />

di maiale; 1 cipolla; olio d’oliva; sale;<br />

pepe<br />

Lessate le fave precedentemente ammollate<br />

con l’aggiunta di solo sale; poco<br />

prima di servirle, togliete loro la<br />

buccia e tenetele in caldo; fate rosolare<br />

la cipolla tr<strong>it</strong>ata in olio ed aggiungete<br />

le animelle; una volta cotte, serv<strong>it</strong>ele<br />

con le fave, condendo con olio, sale<br />

e pepe.<br />

■ Ricetta di Orazio Falchi di Giano dell’Umbria<br />

raccolta da Bonacina 35 che<br />

commenta: ,<br />

ma eravamo ancora nella seconda<br />

metà degli anni Settanta; dosi e stesura<br />

sono mie.<br />

Minestrone di castagne<br />

400 g di castagne fresche; 200 g di<br />

pasta corta da minestrone; 1 rametto<br />

di rosmarino; 1 spicchio d’aglio; olio<br />

d’oliva; sale<br />

Ponete nella pentola l’acqua necessaria<br />

alla minestra e fatevi bollire il rosmarino<br />

(tr<strong>it</strong>ato o contenuto in un sacchetto<br />

di garza, se vorrete poi levarlo),<br />

l’aglio, un poco d’olio, il sale: il sapore<br />

del brodo non dovrà risultare troppo<br />

marcato. Nel frattempo incidete la<br />

buccia delle castagne e fatele arrostire<br />

nell’appos<strong>it</strong>a padella forata; sbucciatele<br />

ancora calde, tagliatene alcune a<br />

pezzetti e, lasciando le altre intere, gettatele<br />

nella pentola della minestra.<br />

Cuocete infine la pasta e serv<strong>it</strong>e in<br />

scodelle di terraglia.<br />

33 Pezzella, 1999, pp. 35-36.<br />

34 Bonacina, 1978, p. 147.<br />

35 Bonacina, 1978, pp. 163-164.


18<br />

■ Ricetta di Agostino Tabarrini, uno<br />

dei collaboratori di Bonacina nella stesura<br />

di una guida enogastronomica<br />

dell’Umbria di circa 30 anni fa, sempre<br />

interessante: ho volutamente<br />

omesso l’uso di un cucchiaio di concentrato<br />

di pomodoro nella preparazione<br />

del brodo per motivi di coerenza<br />

storica, essendo arrivato in Europa il<br />

pomodoro solo dopo la scoperta dell’America<br />

e quindi ben dopo la scomparsa<br />

della civiltà etrusca 36.<br />

Zuppa di ceci e castagne<br />

alla piegarese<br />

qualche cucchiaio d’olio; 2 spicchi<br />

d’aglio; 1 rametto di rosmarino;<br />

300 g di ceci lessati; 150 g di<br />

castagne arrost<strong>it</strong>e; crostini di pane;<br />

sale<br />

Fate soffriggere l’aglio con un rametto<br />

di rosmarino (legato perché non perda<br />

le foglie), sale, pepe o peperoncino;<br />

un<strong>it</strong>e i ceci lessati ed infine acqua calda.<br />

Dopo qualche minuto, aggiungete<br />

le castagne arrost<strong>it</strong>e e sbucciate e lasciate<br />

bollire il tutto per circa 30-40<br />

minuti. A cottura ultimata, versate in<br />

piatti dove siano stati preparati crostini<br />

di pane casareccio abbrustol<strong>it</strong>o.<br />

■ Questa zuppa, sostanziosa e sapor<strong>it</strong>a,<br />

è della tradizione gastronomica di<br />

Piegaro ma preparazioni a base di castagne,<br />

fagioli e ceci si possono reperire<br />

anche in altre local<strong>it</strong>à dell’area trasimenica;<br />

a Preggio, sulle colline tra il<br />

Lago e l’Alta Valle del Tevere, si possono<br />

gustare alcune varianti, tra cui un<br />

contorno di fagioli, freschi o secchi,<br />

con castagne e fr<strong>it</strong>telle di farina di ca-<br />

stagne, arricch<strong>it</strong>e da gherigli di noce,<br />

uva passa e buccia di limone grattugiata<br />

37.<br />

“Acqua cotta” coi “lupari”<br />

4/6 fette di pane casereccio; 150 g<br />

di germogli di luppolo; 1 cipolla<br />

media; 1 spicchio d’aglio; 2 cucchiai<br />

di pecorino grattugiato; olio d’oliva;<br />

sale; pepe<br />

Fate soffriggere aglio e cipolla tr<strong>it</strong>ati<br />

nell’olio ed un<strong>it</strong>evi le cime di luppolo,<br />

dopo averle fatte sbollentare per qualche<br />

minuto in acqua salata; dopo circa<br />

10 minuti aggiungete l’acqua e fate<br />

cuocere per una mezz’oretta, a tegame<br />

coperto. Disponete le fette di pane<br />

sul fondo delle scodelle, cospargetele<br />

col pecorino e versate l’“acqua cotta”<br />

ben calda.<br />

■ Ricetta della tradizione di Scheggino<br />

nella Valnerina spoletina 38: dosi e stesura<br />

sono mie. Si tratta della variante<br />

più semplice di questo piatto, in questo<br />

caso caratterizzato dal gusto inconfondibile<br />

dei “lupari”, sorta di asparagi<br />

selvatici, con cui si preparano anche<br />

squis<strong>it</strong>e fr<strong>it</strong>tate. In tutte le altre versioni,<br />

l’acqua insapor<strong>it</strong>a anche da grasso<br />

di prosciutto, pomodori o bietole, viene<br />

versata su fette di pane abbrustol<strong>it</strong>e<br />

e solo dopo cosparsa di pecorino<br />

grattugiato e cond<strong>it</strong>a con una spolverata<br />

di pepe nero macinato al momento<br />

39. Alcune delle infin<strong>it</strong>e varianti possibili,<br />

diffuse in tutta l’Italia centrale e<br />

derivate dalla cultura agro-pastorale:<br />

braccianti agricoli e guardiani di mandrie<br />

e greggi portavano con sé, nel “tascapane”<br />

di pelle o di stoffa, l’essen-<br />

36 Bonacina, 1978, p. 124.<br />

37 Coppini, 1983, p. 132 e p. 185.<br />

38 Umbria. Sapori e saperi, 1999, p. 221.<br />

39 Cardillo Violati - Majnardi, 1990, pp.<br />

45-46.


19<br />

ziale “cibo quotidiano” che utilizzavano<br />

diversamente in relazione alla lunghezza<br />

del periodo di assenza da casa.<br />

“Acqua cotta”, “pan cotto”, varie “pappe”,<br />

soprattutto toscane, tutte preparazioni<br />

a base di pane bagnato con acqua<br />

calda semplicemente insapor<strong>it</strong>a<br />

da erbe locali e cond<strong>it</strong>a (quando andava<br />

bene…) con un pugno di pecorino<br />

o di ricotta salata affumicata, oppure<br />

“riboll<strong>it</strong>o” e cond<strong>it</strong>o anche con uva<br />

passa e prugne secche. Clotilde Vesco,<br />

studiosa di gastronomia etrusca, ricollega<br />

la diffusione dell’“acqua cotta” nei<br />

terr<strong>it</strong>ori di Umbria, Lazio e Toscana, un<br />

tempo Etruria, all’importanza e alla sacral<strong>it</strong>à<br />

che l’acqua aveva per gli <strong>Etruschi</strong>,<br />

famosi per le opere d’ingegneria<br />

idraulica e che si autodefinivano Rasenna:<br />

“coloro che ab<strong>it</strong>ano vicino alle<br />

rive dei corsi d’acqua” 40.<br />

Minestra d’orzo perlato<br />

e funghi porcini<br />

300 g d’orzo perlato; 1/2 l<strong>it</strong>ro di<br />

brodo vegetale (o anche 3/4 di l<strong>it</strong>ro,<br />

per una minestra più brodosa); 300<br />

g di porcini freschi (o 100 g di quelli<br />

secchi); 1 cipolla; 1/2 cucchiaio di<br />

timo; olio d’oliva; sale; pepe<br />

Rosolate in olio la cipolla affettata finemente<br />

ed un<strong>it</strong>e i funghi tr<strong>it</strong>ati grossolanamente;<br />

versate il brodo e cond<strong>it</strong>e<br />

con timo, sale e pepe; a metà cottura<br />

un<strong>it</strong>e l’orzo perlato messo a bagno la<br />

sera precedente e fate cuocere ancora<br />

una mezz’oretta.<br />

■ Ricetta di Pezzella 41: dosi, stesura e<br />

suggerimento dell’alternativa dei porcini<br />

secchi sono miei.<br />

Minestra di farro e fagioli<br />

borlotti<br />

300 g di farro; 150 g di fagioli<br />

borlotti; 1 osso di prosciutto;<br />

1 gambo di sedano; 1 carota;<br />

1 cipolla piccola; sale; pepe<br />

Tenete a bagno in acqua tiepida l’osso<br />

di prosciutto dopo averlo ben lavato;<br />

segu<strong>it</strong>e lo stesso procedimento per<br />

farro e fagioli borlotti, ma in acqua<br />

fredda e in conten<strong>it</strong>ori separati. Fate<br />

bollire per 15 minuti l’osso in acqua<br />

che poi getterete; rimettete sul fuoco<br />

con 2 l<strong>it</strong>ri circa d’acqua bollente, aggiungete<br />

odori, fagioli, sale e pepe e<br />

fate bollire per circa 1 ora e mezza<br />

(ma nella ricetta tradizionale di un<br />

classico della cucina umbra la Corsi<br />

suggerisce 3 ore): alla fine della cottura<br />

dovrà risultare circa 1 l<strong>it</strong>ro e mezzo<br />

di brodo. Rimettetelo sul fuoco e, appena<br />

staccherà il bollore, versatevi a<br />

pioggia il farro e dopo 20 minuti scodellatelo<br />

servendolo con pecorino<br />

grattugiato.<br />

■ Questa ricetta è una reinterpretazione<br />

della cucina etrusca di Pezzella<br />

che ho integrato, quanto al procedimento<br />

di cottura, con indicazioni della<br />

Corsi 42; dosi e stesura sono mie.<br />

Macco coi dolici<br />

300 g di farina di granturco; 200 g<br />

di fagioli dall’occhio; 1 l<strong>it</strong>ro e mezzo<br />

d’acqua; olio d’oliva; sale; pepe<br />

Mettete in una pentola capace l’acqua<br />

leggermente salata; appena ha alzato<br />

il bollore, buttate “a sparpaglio” la farina<br />

– che dev’essere di produzione<br />

40 Vesco, 1985, p. 125.<br />

41 Pezzella, 1999, p. 36.<br />

42 Pezzella, 1999, p. 36 e Corsi, 1976,<br />

p. 60.


20<br />

recente – e mescolate continuamente<br />

con un mestolo di legno: la polenta<br />

verrà tanto più fina e senza grumi,<br />

quanto più lentamente verrà gettata la<br />

farina. Fate bollire a fuoco non eccessivo,<br />

sempre rimaneggiando, per circa<br />

40 minuti. Intanto, fate bollire i fagioli<br />

– tenuti a bagno dalla sera precedente<br />

– in acqua fredda, “sbrodateli”,<br />

quindi rimetteteli al fuoco con acqua<br />

tiepida, ripetete l’operazione e rimetteteli<br />

al fuoco, in altra acqua tiepida, fino<br />

a cottura ultimata. Preparate un<br />

soffr<strong>it</strong>to di olio e cipolla tagliata finemente,<br />

versatelo, insieme ai fagioli,<br />

nella pentola della polenta, mescolando<br />

lentamente.<br />

■ scrivono<br />

Pierluigi e Luciana Menichetti, ma il<br />

“macco” – la cui ricetta-base consiste<br />

nel versare pian piano in acqua bollente<br />

salata farina di grano o di granturco,<br />

cond<strong>it</strong>a poi con solo olio d’oliva<br />

– è diffuso anche in tutto il terr<strong>it</strong>orio<br />

perugino che ne contende la primogen<strong>it</strong>ura,<br />

come risulta anche da un testo<br />

classico sugli usi e la cucina perugina<br />

di Cerasa Mariotti che, per dimostrare<br />

quanto fosse apprezzata a Perugia<br />

questa pietanza, riporta il detto locale<br />

. L’autrice<br />

registra anche altre varianti arricch<strong>it</strong>e<br />

con fagioli, ceci, fave e una particolare<br />

versione col sugo di battuto (lardo)<br />

e conserva, allungato con acqua e<br />

versato a pioggia nella farina di granturco<br />

43. Nessuno degli autori precisa<br />

la qual<strong>it</strong>à dei fagioli usati: ho perciò<br />

indicato l’uso dei dolici, meglio conosciuti<br />

come fagioli dall’occhio, alla cui<br />

famiglia appartiene anche la “fagiolina”<br />

o “risina” del lago Trasimeno. I<br />

Menichetti propongono anche una<br />

versione del “macco” con 200 g di cotiche<br />

di maiale fresche, ben sgrassate,<br />

soffr<strong>it</strong>te in tegame, con lardo battuto,<br />

rosmarino, aglietto, sale e pepe, a cui<br />

si aggiungono 200 g di fave, già lessate,<br />

per poi mescolare il tutto alla polenta,<br />

ancora in fase di cottura. Sempre<br />

attribu<strong>it</strong>a a Gubbio è una ricetta<br />

antichissima di polenta con farina di<br />

grano cotta lentamente nel latte, che<br />

si condisce con olio d’oliva e un pizzico<br />

di sale, conosciuta come “mazzapicchio”<br />

44, che nel perugino si preparava<br />

semplicemente con acqua bollente<br />

salata e si credeva favorisse la<br />

“scesa del latte” alle puerpere 45. Si<br />

tratta comunque di pietanze che ricordano<br />

la puls fabacia o fabata, polentina<br />

fatta con farina di fave largamente<br />

utilizzata da <strong>Etruschi</strong> e Romani, o la<br />

semplice puls, pappa di frumento rinvenuto<br />

nell’acqua, che era il cibo ordinario<br />

dei poveri e di cui rimane il ricordo<br />

nel “Grano boll<strong>it</strong>o”, minestra<br />

delle campagne perugine preparata<br />

tenendo a bagno il grano per circa 6<br />

ore nell’acqua in cui verrà cotto per<br />

10 minuti, quindi versato in acqua<br />

nuova salata e cond<strong>it</strong>o solo con olio<br />

d’oliva crudo 46.<br />

43 Cerasa Mariotti, s.d., pp. 21-22.<br />

44 Menichetti – Menichetti Panfili, 1976,<br />

pp. 28-29.<br />

45 Cerasa Mariotti, s.d., p. 22.<br />

46 (Nonna cosa mangiavi?, dattiloscr<strong>it</strong>to,<br />

Scuola Media Inferiore Petrignano).


Ciriole di Passignano<br />

g 600 di farina 0; 1/2 bicchiere<br />

d’olio; g 100 di pecorino; basilico;<br />

aglio; maggiorana; olio d’oliva; sale<br />

21<br />

Impastate la farina soltanto con acqua<br />

e sale e spianatela in una sfoglia liscia<br />

dello spessore di circa 2 mm; tagliatela<br />

a striscioline sottili di dieci centimetri<br />

di lunghezza che farete cuocere in<br />

abbondante acqua salata. Fate soffriggere<br />

in olio d’oliva un battuto di basilico,<br />

aglio e maggiorana: cond<strong>it</strong>e con<br />

questo sugo la pasta cui avrete aggiunto,<br />

appena scolata, abbondanti<br />

manciate di pecorino grattugiato.<br />

■ Ricetta raccolta a Passignano sul<br />

Trasimeno da Bonacina 47.<br />

Umbrichelli con i “maghetti”<br />

alla pievese<br />

Per la pasta: 500 g di farina bianca;<br />

1 uovo; sale; acqua; per il sugo: 500<br />

g circa di “maghetti” (duroni) di oca,<br />

pollo, tacchino ecc.; 200 g di polpa<br />

di v<strong>it</strong>ello; olio; burro; pepe; sale;<br />

funghi freschi o secchi; 1 cipolla<br />

piccola<br />

Impastate la farina con il sale, l’uovo e<br />

l’acqua necessaria a tirare una sfoglia<br />

spessa mezzo millimetro. Fatela asciugare<br />

un poco e ricavatene dei tagliolini<br />

sottilissimi, simili a fili. Il sugo è un ragù<br />

tradizionale all’umbra: su un soffr<strong>it</strong>to<br />

di poca cipolla tr<strong>it</strong>ata fate rosolare i<br />

maghetti e la carne a pezzettini con<br />

sale e pepe: cottura lenta e tegame coperto<br />

per almeno due ore, in relazione<br />

alla durezza dei “maghetti”; aggiungete<br />

quindi i funghi a pezzetti e termina-<br />

te la cottura, bagnando se necessario<br />

con brodo. Fate cuocere la pasta in acqua<br />

moderatamente salata, scolatela<br />

al dente e cond<strong>it</strong>ela rimescolando ripetutamente.<br />

■ Ricetta registrata a C<strong>it</strong>tà della Pieve<br />

48, la Salapia dell’Etruria: ho eliminato<br />

dal sugo l’uso dei pomodori pelati<br />

(2 o 3 che si mettono a cuocere<br />

insieme alla carne) per motivi di coerenza<br />

storica – anche se i sughi di<br />

carne della cucina popolare tradizionale<br />

sono quasi sempre “rossi” – poiché,<br />

come è noto, il pomodoro è arrivato<br />

in Europa dal Nuovo Mondo tra<br />

Cinque e Seicento ed è stato utilizzato<br />

in medicina prima ancora che in<br />

culinaria 49. Si può genericamente affermare,<br />

comunque, che tutte le preparazioni<br />

culinarie in cui il pomodoro,<br />

a pezzi o in forma di salsa, viene<br />

aggiunto alla fine, hanno origini antiche,<br />

naturalmente nella versione “in<br />

bianco”.<br />

Fegato di v<strong>it</strong>ello<br />

alla pasta d’olive<br />

4 fettine di fegato di v<strong>it</strong>ello; 50 g<br />

d’olive nere o 1 cucchiaino e mezzo<br />

di pasta d’olive; salvia; odore di aglio;<br />

4 fettine di limone; olio d’oliva; burro;<br />

sale; 1/2 bicchiere di vino bianco<br />

Snocciolate le olive e frullatele con 2<br />

cucchiai d’olio; spalmate le fette di fegato<br />

con la pasta ottenuta e fatele cuocere<br />

in padella con olio, burro e gli odori:<br />

a metà cottura ponete su ciascuna<br />

fetta una rondella di limone e spruzzate<br />

di vino, abbassate il fuoco e fate evaporare.<br />

Salate e serv<strong>it</strong>e immediatamente.<br />

47 Bonacina, 1978, p. 139.<br />

48 Bonacina, 1978, pp. 101-102.<br />

49 Buseghin, s.d. (1994).


22<br />

■ Ricetta pubblicata da Bonacina nella<br />

sua guida sistematica alle attiv<strong>it</strong>à<br />

enogastronomiche e alimentari della<br />

regione umbra realizzata a cavallo tra<br />

gli anni Settanta ed Ottanta del Novecento<br />

50: l’autore propone nella ricetta<br />

precisamente la “polpoliva”, definizione<br />

di marketing con cui si indicava già<br />

allora la pasta di olive che è stato uno<br />

dei primi cavalli di battaglia nella promozione<br />

e commercializzazione della<br />

gastronomia umbra.<br />

Agnello arrosto alla casciana<br />

1200 g circa di coscio o lombo<br />

d’agnello; aglio; limone; vino bianco;<br />

aceto bianco; 1 limone; olio d’oliva;<br />

pepe nero in grani e/o bacche di<br />

peperoncino<br />

Fate insaporire la carne per almeno<br />

mezz’ora in una marinata di aceto, vino,<br />

sale, pepe, peperoncino, aglio<br />

schiacciato, succo di limone. Preparate<br />

la brace, appoggiatevi la griglia e<br />

disponevi la carne, rigirandola di tanto<br />

in tanto e bagnandola con il liquido<br />

della marinata.<br />

■ Ricetta di Poggiodomo nella Valnerina<br />

casciana 51; dosi e stesura sono<br />

mie. La cottura più antica e tradizionale<br />

dell’agnello è allo spiedo, uno dei<br />

primi strumenti di caccia e di cucina:<br />

l’animale intero, o parti consistenti di<br />

esso, vengono incise e steccate con un<br />

battuto di lardo, rosmarino, aglio, sale<br />

e pepe, infilate sullo spiedo girevole e<br />

cotte, per circa 1 ora e mezza, con<br />

l’aiuto di olio d’oliva o un tempo piuttosto<br />

il “pilotto” che si scioglie<br />

quando si dà fuoco alla carta 52.<br />

Castrato allesso<br />

anca e coscio di castrato con la coda<br />

(circa 2 kg); acqua; sale; pepe in<br />

grani; 1/2 bicchiere di vino bianco;<br />

1 pizzico di zafferano; 1 ciuffetto di<br />

prezzemolo con le radici o 1 cipolla<br />

(facoltative)<br />

Prendete il tocco di carne già frollato e<br />

lasciatelo a bagno un’ora; quindi, lavatelo<br />

stropicciandolo sotto l’acqua fredda,<br />

rilavate con acqua calda e mettete<br />

il pezzo in una pignatta con acqua già<br />

tiepida, aggiungendo il sale. Quando<br />

avrà raggiunto l’ebollizione e sarà stato<br />

schiumato, togliete il coscio dal brodo e<br />

mettetelo sulla brace, condendo con<br />

pepe acciaccato, vino bianco e zafferano<br />

per dare colore e lasciate cuocere<br />

lentamente. Desiderando insieme delle<br />

radici di prezzemolo o della cipolla è<br />

questo il momento per metterle, ma se<br />

volete solo le foglie del prezzemolo, esse<br />

si metteranno quando la carne sarà<br />

quasi giunta a cottura.<br />

■ scrive l’estensore della<br />

ricetta, trascr<strong>it</strong>ta da Giuseppe Maria<br />

Nardelli in un interessante volume dedicato<br />

alla tavola del monaco 53: si tratta<br />

di una preparazione registrata da un<br />

anonimo autore piemontese che risale<br />

al Settecento ma la r<strong>it</strong>engo significativa<br />

anche in relazione alla gastronomia<br />

etrusca poiché indica una modal<strong>it</strong>à di<br />

50 Bonacina, 1978, p. 96.<br />

51 Umbria. Sapori e saperi, 1999, p. 203.<br />

52 Cardillo Violati - Majnardi, 1990, p. 107.<br />

53 Nardelli, 1998, pp. 183-184: l’autore<br />

mi ha confermato in un recente colloquio<br />

che la ricetta è tratta da un ricettario di<br />

anonimo: Il cuoco piemontese perfezionato<br />

a Parigi, ed<strong>it</strong>o a Venezia nel 1789.


23<br />

cottura documentata per la cucina romana<br />

e medievale – e quindi quasi<br />

certamente praticata anche dagli <strong>Etruschi</strong><br />

– legata allo stato coriaceo delle<br />

carni di animali generalmente vecchi,<br />

perché usati per i lavori agricoli o per<br />

la produzione di lana e formaggio. Ancora<br />

oggi in Barbagia, la terra simbolo<br />

della pastorizia sarda, si usa lessare la<br />

pecora in acqua con odori, prima di<br />

cuocerla a stufato, servendosi dello<br />

stesso brodo – piatto tradizionale preparato<br />

soprattutto in occasione di matrimoni<br />

– e in Abruzzo la pecora “alla<br />

cottora” è lessata in acqua e vino 54.<br />

Anatra arrosto alla perugina<br />

anatra di circa 1,500 g; finocchio<br />

selvatico; 1 spicchio d’aglio;<br />

rosmarino; salvia; sale; pepe; olio<br />

d’oliva o lardo<br />

Pul<strong>it</strong>e e fiammeggiate l’anatra, prima<br />

di lavarla ed asciugarla con cura; fate<br />

un battuto con lardo, abbondante finocchio<br />

selvatico, aglio, rosmarino,<br />

salvia, sale, pepe e spalmatevi l’interno<br />

dell’anatra, oltre a farcirvi piccoli tagli<br />

che farete sul petto e nella zona tra<br />

coscia e sopracoscia dell’animale.<br />

Quindi, mettetela a cuocere sulla griglia<br />

appoggiata su brace di legno di<br />

quercia, per circa 1 ora e mezza; salarla<br />

solo a fine cottura e tagliarla iniziando<br />

dalle cosce, per poi passare al<br />

petto, che va tagliato a fette parallele<br />

orizzontali ed infine le ali.<br />

■ Ricetta presentata da Clotilde Vesco<br />

come tipica della zona di Perugia 55;<br />

anatra od oca arrosto cost<strong>it</strong>uiscono il<br />

piatto forte di tante occasioni festive le-<br />

gate al “ciclo della v<strong>it</strong>a” o a quello calendariale:<br />

battesimi, comunioni e matrimoni<br />

ma anche feste della trebbiatura<br />

o della vendemmia, in tutta l’Umbria,<br />

ed in particolare del terr<strong>it</strong>orio un<br />

tempo sottoposto alla giurisdizione di<br />

Perugia, nel IV e III secolo una dei<br />

membri più forti della dodecapoli etrusca,<br />

confederazione pol<strong>it</strong>ico-religiosa<br />

che riuniva 12 c<strong>it</strong>tà-stato, tra cui anche<br />

Cortona e Chiusi. L’influenza di Perugia<br />

si estendeva anche alla zona del Lago<br />

Trasimeno, in particolare a Salapia,<br />

l’attuale C<strong>it</strong>tà della Pieve, dove era fortemente<br />

contrastata da Chiusi 56: non<br />

poche tracce di tale competizione hanno<br />

attraversato indenni secoli di storia<br />

ed affiorano anche nella culinaria,<br />

spesso evidentemente affine a quella<br />

della vicina Toscana, circostanza verificabile<br />

anche per l’orvietano, altra importante<br />

zona etrusca. Anatre ed oche<br />

arrosto speziate si cucinano in diverse<br />

local<strong>it</strong>à del terr<strong>it</strong>orio dell’antica Volsinii:<br />

da Parrano – noto per il profondo canyon<br />

di Fosso del Bagno, ma anche per<br />

il suo sugo d’oca – a Porano, s<strong>it</strong>o reso<br />

famoso dal r<strong>it</strong>rovamento, in local<strong>it</strong>à<br />

Settecamini, delle Tombe Golini con il<br />

loro straordinario ciclo di affreschi 57. Il<br />

trattamento dell’anatra col battuto di<br />

lardo mi è stato indicato da Marcella<br />

Tosi Chiacchella, di Panicarola sulle rive<br />

del Trasimeno: si tratta di un metodo<br />

utilizzato per insaporire anche altre<br />

carni ma particolarmente adatto per<br />

quella dell’oca che tende ad essere<br />

piuttosto dura e stopposa e che così acquista<br />

sapore e tenerezza.<br />

54 Molinari Pradelli, 2003, p. 191 e 2003,<br />

p. 265.<br />

55 Vesco, 1985, p. 132.<br />

56 Terre d’Etruria, 2003, p. 10.<br />

57 Umbria. Sapori e saperi, 1999, pp. 182-<br />

183; pp. 90-191 e pp. 206-207.


“Oca delle feste” alla nursina<br />

1 oca grossa ed il suo fegato; 4/5<br />

fegatini di pollo; 2 salsicce fresche;<br />

500 g di marroni lessati; 1 bicchiere<br />

di vino bianco; 2 tartufi; sale; pepe<br />

24<br />

Fate marinare per una nottata intera i<br />

marroni lessati, il fegato dell’oca, i fegatini<br />

di pollo e i tartufi in un bicchiere<br />

di vino bianco. Il giorno dopo scaldate<br />

il vino col suo contenuto e tr<strong>it</strong>are fegatini,<br />

tartufi e fegato d’oca; un<strong>it</strong>evi le salsicce<br />

e riemp<strong>it</strong>e con l’impasto l’oca. Su<br />

una gratella fate rosolare l’animale sul<br />

fuoco; poi, infornate e lasciatela cuocere<br />

per un paio d’ore sempre sulla gratella<br />

in modo che il grasso coli. Durate<br />

la cottura pungete l’animale con la forchetta<br />

e spennellatelo spesso con il vino<br />

bianco della marinata avanzata.<br />

■ Ricetta dell’<br />

scrive la Vesco precisando che<br />

gli <strong>Etruschi</strong> la consumavano spesso<br />

anche . Quanto<br />

alla conservazione, il suo grasso si<br />

manteneva a lungo e la carne veniva<br />

salata e affumicata come quella del<br />

maiale 58. Sulle rive del Lago Trasimeno<br />

(ma non solo), l’“oco arrosto” veniva<br />

cotto in teglia, nel forno a legna, farc<strong>it</strong>o<br />

con un misto di orecchio di maiale,<br />

interiora, “busicchio” (stomaco) e<br />

fegato, collo e punta delle ali dell’oca,<br />

rosolati in olio e cond<strong>it</strong>i con un battuto<br />

di lardo, finocchio selvatico, salvia,<br />

rosmarino, aglio (ricetta di Marcella<br />

Tosi Chiacchella di Panicarola). Quanto<br />

all’“etrusch<strong>it</strong>à” di Norcia, si tratta di<br />

questione assai discussa in relazione<br />

sia alla provenienza che all’epoca dell’arrivo<br />

in suolo <strong>it</strong>alico, e specificatamente<br />

umbro-sabino, delle popolazioni<br />

identificate come Tirreni o proto-<br />

<strong>Etruschi</strong> dagli studiosi otto-novecenteschi,<br />

tra i quali alcuni fanno appello a<br />

T<strong>it</strong>o Livio per sostenere la derivazione<br />

del nome della c<strong>it</strong>tà di San Benedetto<br />

da Norsa, dea della Fortuna, adorata<br />

in Etruria 59.<br />

V<strong>it</strong>ello perugino alla ghiotta<br />

800 g di fettine di v<strong>it</strong>ello; 500 g di<br />

fegatini ed interiora di pollo; 50 g<br />

circa di prosciutto tagliato in una sola<br />

fetta; 25 g di funghi secchi; 1/2<br />

cipolla; 1 spicchio d’aglio; il sugo di<br />

1/2 limone; un quarto di carota<br />

media; 8/10 foglie di salvia; sale e<br />

pepe; circa 1/2 l<strong>it</strong>ro di vino bianco;<br />

olio d’oliva; crostini di pane integrale<br />

o nero<br />

Mettete le interiora del pollo in un tegame<br />

di terraglia con olio, prosciutto a<br />

pezzetti, cipolla tr<strong>it</strong>ata, aglio schiacciato,<br />

carota e salvia; fate rosolare ed aggiungete<br />

sale, pepe, 1/2 bicchiere di<br />

vino e i funghi precedentemente ammollati.<br />

Macinate tutto grossolanamente<br />

e rimettete nel tegame con olio<br />

crudo e un bel bicchiere di vino: fate<br />

bollire dolcemente per almeno tre<br />

quarti d’ora a pentola scoperta, aggiungendo<br />

man mano che la salsa si<br />

restringe altro olio e vino. A cottura ultimata,<br />

bagnate con il sugo di mezzo<br />

limone. Tostate il pane tagliato a crostini;<br />

passate in tegame la carne affettata<br />

sottile. Scaldate una fiamminga<br />

ed accomodateci la carne che avrete<br />

58 Vesco, 1985, pp. 172-173.<br />

59 Falzetti, 1963, pp. 66-70.


25<br />

passato nella salsa, decorate con i crostini<br />

caldi e versate su tutto il rimanente<br />

della salsa.<br />

■ Ricetta registrata da Bonacina a Perugia<br />

nella seconda metà degli anni<br />

Settanta 60.<br />

Cinghiale in salsa di Guardea<br />

1 kg di cinghiale; olio d’oliva; sale;<br />

peperoncino; 2/3 spicchi di aglio;<br />

1 rametto di rosmarino; 1 cipolla;<br />

4/5 bacche di ginepro; 1 cucchiaio<br />

di capperi; 1 cucchiaio di pasta salsa<br />

di olive verdi o nere; vino nero; aceto<br />

Tr<strong>it</strong>ate finemente aglio, rosmarino e<br />

capperi e metteteli in una tazza riemp<strong>it</strong>a<br />

con metà vino e metà aceto, lasciandoli<br />

a macerare un po’ di tempo.<br />

Tagliate il cinghiale in tanti pezzi piuttosto<br />

piccoli e mettetelo a bagno per<br />

almeno dodici ore in una marinata<br />

d’acqua, aceto, vino, rosmarino e salvia.<br />

Quindi, scolate lo spezzatino e<br />

mettetelo in padella a cuocere molto<br />

lentamente, eliminando l’acqua che si<br />

forma via via: una volta tolta tutta l’acqua,<br />

un<strong>it</strong>e al cinghiale abbondante<br />

olio, bacche di ginepro, salvia, sale e<br />

peperoncino. Quasi a fine cottura, aggiungete<br />

la pasta di olive.<br />

■ Ricetta tradizionale del terr<strong>it</strong>orio di<br />

Guardea, area di antichissime origini<br />

testimoniate da tracce di presenza<br />

umana del Paleol<strong>it</strong>ico e da famose mura<br />

megal<strong>it</strong>iche: dei suoi boschi il cinghiale<br />

è storico frequentatore, fatto che<br />

ha avuto come logica conseguenza<br />

una consistente pratica di caccia e una<br />

gastronomia specializzata 61. Ho volutamente<br />

tolto da questa ricetta l’indica-<br />

zione, peraltro facoltativa, d’aggiungere<br />

un cucchiaio di passata di pomodoro<br />

verso fine cottura, per motivi di coerenza<br />

storica, già più sopra accennati.<br />

Colombo “accompagnato”<br />

alla perugina<br />

1 colombo con il suo fegato e<br />

“cipolla”; 50 g di carne macinata di<br />

manzo; fettine di tartufo; sale; olio<br />

d’oliva<br />

Condire la carne col sale e il tartufo e<br />

riempirvi il colombo, ben lavato e pul<strong>it</strong>o;<br />

quindi, metterlo a cuocere nel tegame<br />

coll’olio, insieme al fegato ed alla<br />

“cipolla” che, una volta cotti, dovranno<br />

essere tr<strong>it</strong>ati e spalmati su crostini<br />

di pane: l’“accompagnamento”<br />

del colombo.<br />

■ Ricetta registrata dalla Vesco nella<br />

zona di Perugia 62; dosi e stesura sono<br />

mie. La “cipolla” non è altro che il ventriglio<br />

o stomaco tr<strong>it</strong>uratore degli animali<br />

da cortile che, essendo granivori,<br />

è molto sviluppato: utilizzato, come i<br />

fegatini e le altre interiora, in molte ricette<br />

della tradizione popolare contadina<br />

soprattutto nella preparazione di<br />

sughi “rossi”.<br />

Fagiano “sorpresa”<br />

alla tiberina<br />

1 fagiano; olio d’oliva; 1 rametto di<br />

dragoncello; 1/4 di cipolla; 6 mele;<br />

1/2 l<strong>it</strong>ro di vino bianco secco; brodo;<br />

sale<br />

Fate rosolare nell’olio il fagiano dopo<br />

avergli messo all’interno il dragoncello<br />

e qualche fetta di cipolla e averlo sala-<br />

60 Bonacina, 1978, p. 133.<br />

61 Umbria. Sapori e saperi, 1999, p. 143.<br />

62 Vesco, 1985, pp. 148-149.


26<br />

to; prendete le mele tagliate a tocchetti<br />

e marinate dalla sera precedente nel<br />

vino ed adagiatele sul fondo del tegame.<br />

Mettetevi sopra il fagiano e bagnate<br />

col vino rimasto un<strong>it</strong>o a poco<br />

brodo. Fate cuocere per un’oretta<br />

sempre girando.<br />

■ Ricetta attribu<strong>it</strong>a alla zona di Castello<br />

dalla Vesco 63; dosi e stesura sono mie.<br />

Faraona al ginepro<br />

1 faraona; 1/2 l<strong>it</strong>ro circa di vino<br />

bianco; salvia; 5 bacche di ginepro;<br />

mollica di pane; brodo; sale<br />

Fin dalla sera prima mettete la faraona,<br />

pul<strong>it</strong>a e lavata, nel vino bianco e<br />

abbondante salvia. La mattina, schiacciate<br />

le bacche di ginepro e mescolatele<br />

a poca mollica di pane e bagnate<br />

il tutto con una piccola parte del vino<br />

della marinata. Riemp<strong>it</strong>e con questo<br />

impasto la faraona, copr<strong>it</strong>ela con il vino<br />

rimanente ed infornate per circa<br />

cinquanta minuti: ogni tanto spennellatela<br />

con un ramoscello di salvia imbevuto<br />

d’olio. Quando è cotta, toglietela<br />

dalla teglia e mettete il tegame sul<br />

fuoco con un poco di brodo per sciogliere<br />

“l’attaccaticcio”: quindi, versate<br />

il sapor<strong>it</strong>o fondo di cottura sulla gallina<br />

con qualche bacca di ginepro tr<strong>it</strong>ato.<br />

■ Ricetta registrata dalla Vesco nella zona<br />

di Sansepolcro 64; dosi e stesura mie.<br />

Brustico<br />

800 g di filetti di persico o di luccio;<br />

aglio; olio; aceto; sale; pepe;<br />

finocchio selvatico<br />

Abbrustol<strong>it</strong>e il pesce sulla fiamma, pre-<br />

feribilmente del focolare, spellandolo<br />

con l’aiuto di uno straccio, liberate i filetti<br />

e adagiateli sulle fette di pane leggermente<br />

tostate e strofinate con l’aglio.<br />

Cond<strong>it</strong>e con sale, pepe, olio, aceto<br />

e una spolverata di finocchio selvatico.<br />

Se grad<strong>it</strong>o, le fette di pane possono<br />

essere velocemente intinte in vino rosso<br />

o bianco (e l’aceto, ovviamente, dovrà<br />

essere della stessa qual<strong>it</strong>à).<br />

■ La ricetta è una mia interpretazione<br />

del “brustico”, piatto tipico popolare<br />

tradizionale delle rive dei laghi di Chiusi<br />

e del Trasimeno, probabilmente<br />

un’ered<strong>it</strong>à di una modal<strong>it</strong>à di cottura<br />

del pesce antichissima, che possiamo<br />

agevolmente attribuire anche alla nazione<br />

etrusca dell’area trasimenica.<br />

Anche in epoca medieval-rinascimentale,<br />

il pesce, arrosto o boll<strong>it</strong>o, veniva<br />

cond<strong>it</strong>o con una salsa a base di liquido<br />

acido (vino e/o aceto) e/o “sapa” (o<br />

“saba”), cond<strong>it</strong>o con sale 65: il pesce,<br />

pescato e cotto per 3/4 minuti per parte<br />

su un fuoco in riva al lago, veniva<br />

cond<strong>it</strong>o con olio e acetello, vino annacquato<br />

con acqua che serviva come<br />

bevanda leggera e dissetante anche<br />

durante lo svolgimento dei lavori nei<br />

campi 66.<br />

Pane alle olive<br />

500 g di farina n. 2; 350 cc<br />

d’acqua; 200 g di olive; 20 g di<br />

liev<strong>it</strong>o di birra; 1 panetto di liev<strong>it</strong>o<br />

madre: per cui sono necessari 1<br />

mela, poca farina ed acqua<br />

Per ottenere il liev<strong>it</strong>o madre, mettete a<br />

macerare una mela acerba grattugiata<br />

per tre giorni (dopo 48 ore deve co-<br />

63 Vesco, 1985, p. 160.<br />

64 Vesco, 1985, p. 158.<br />

65 Redon - Sabban - Serventi, 1995, pp.<br />

154-156; Toaff, 2000, pp. 80-82.<br />

66 Pesce del lago Trasimeno, 1994, p. 21.


27<br />

minciare a inacidire), mescolatela con<br />

un po’ di farina, fatene un panetto e lasciatela<br />

riposare tutta una notte, coperta<br />

con un telo e in luogo riparato.<br />

Impastate farina e pasta acida, aggiungendo<br />

il liev<strong>it</strong>o di birra e l’acqua;<br />

spianate un poco la pasta, mettetevi<br />

sopra le olive ed impastate come per<br />

fare un rotolo; lasciate liev<strong>it</strong>are 1<br />

ora/1ora e 15 minuti e infornate per<br />

35/40 minuti a 220°, eventualmente<br />

abbassando la temperatura del forno a<br />

190-200° a metà cottura: la cottura è<br />

una fase delicata perché dipende dal<br />

tipo di forno e dall’esperienza del cuoco<br />

che giudica anche dal colore della<br />

superficie del pane.<br />

■ La ricetta è dei Fratelli Cruciani,<br />

fornai dell’Antico Molino di Azzano<br />

presso Campello sul Cl<strong>it</strong>unno, il cui<br />

pane ha un gusto particolare e si<br />

mantiene anche per una settimana,<br />

perché preparato con farina macinata<br />

da loro, di grano coltivato nelle loro<br />

terre e cotto nel forno a legna tradizionale.<br />

La cottura nel forno a legna<br />

prevede una procedura, ovviamente,<br />

del tutto diversa da quella più sopra<br />

indicata: il pane viene infornato dopo<br />

che il forno è stato infuocato con le<br />

fascine e ripul<strong>it</strong>o dalla brace; in questa<br />

fase la temperatura all’interno del<br />

forno è di circa 400° ma cala rapidamente<br />

proprio a causa dell’introduzione<br />

dei pani (da 100 a 120 per infornata),<br />

si mantiene sui 300° per le<br />

prime ore e poi comunque a un calore<br />

tale da permettere la cottura di dolci<br />

e biscotti durante il giorno, operazione,<br />

quest’ultima, che compete alle<br />

donne.<br />

Pagnottelle al farro<br />

300 g di farina di farro; 150 g di<br />

farina 0; 100 di farina integrale;<br />

30 g di liev<strong>it</strong>o di birra; 100 ml di olio<br />

extravergine d’oliva; acqua; 3 prese<br />

di sale<br />

Versate sulla spianatoia le farine ed<br />

amalgamatele col liev<strong>it</strong>o sciolto in una<br />

tazza d’acqua tiepida e tutti gli altri ingredienti;<br />

lavorate a lungo ed energicamente,<br />

copr<strong>it</strong>e e fate riposare per circa<br />

2 ore. Formate delle pagnottelle e fatele<br />

liev<strong>it</strong>are ancora una mezz’oretta; infornatele<br />

a 190° per circa 40/50 minuti.<br />

■ Ricetta di Tina Pulcinelli di C<strong>it</strong>tà di<br />

Castello. Il farro, da cui deriva la stessa<br />

parola farina, pare fosse già coltivato<br />

in Medio Oriente ed Eg<strong>it</strong>to intorno al<br />

7000 a.C. e dal 3000 circa anche dai<br />

Greci, cui si deve, secondo alcuni studiosi,<br />

l’introduzione nella nostra penisola,<br />

attraverso la mediazione degli<br />

<strong>Etruschi</strong>, che lo utilizzarono per polente<br />

e focacce azzime, mentre i Romani<br />

ne fecero anche pani liev<strong>it</strong>ati. Secondo<br />

altri – tra cui Salvatore Pezzella – gli<br />

<strong>Etruschi</strong> non hanno importato questo<br />

cereale né dalla Grecia né dall’Asia Minore<br />

e neppure dalla Sicilia perché autoctono<br />

in ben quattro qual<strong>it</strong>à 67.<br />

Brustengolo di Amelia<br />

400 g di farina di granoturco; 100 g<br />

di zucchero; 1 pizzico di sale; 100 g<br />

di fichi secchi; 1/2 bicchiere di olio<br />

d’oliva; 150 g di uvetta sultanina;<br />

2 mele<br />

Portate ad ebollizione una pentola d’acqua<br />

salata e versatevi la farina come<br />

67 Pezzella, 1989, pp. 104-105.


28<br />

per fare una polenta; un<strong>it</strong>e l’olio e fate<br />

cuocere per una ventina di minuti,<br />

mescolando di tanto in tanto: quindi,<br />

aggiungete le mele tagliate a spicchi<br />

piccoli, l’uvetta sultanina, i fichi secchi<br />

tagliuzzati a pezzi e lo zucchero. Togliete<br />

dal fuoco e stendete l’impasto,<br />

che deve risultare piuttosto rustico, duro<br />

e di altezza non superiore a 2 cm;<br />

disponetelo sulla placca del forno preventivamente<br />

unta con una noce di<br />

burro ed infornate a 180° per circa 1<br />

ora.<br />

■ Di questa ricetta dell’amerino 68,<br />

che è l’unica ad incorporare i fichi,<br />

esistono varianti documentate in varie<br />

parti dell’Umbria, generalmente arricch<strong>it</strong>e<br />

da pinoli, gherigli di noce, buccia<br />

grattugiata di limone, come a Bettona<br />

o a Piegaro: in particolare, ad Attigliano,<br />

c<strong>it</strong>tadina di origine etrusca<br />

che osp<strong>it</strong>ò le prime popolazioni, si aggiunge<br />

1 cucchiaio di semi d’anice 69<br />

che nell’etrusca Perugia diventano 3<br />

cucchiai di “mistrà”, liquore all’anice<br />

70. L’uso di questa spezia caratterizza<br />

pani e biscotti r<strong>it</strong>uali devozionali<br />

umbri (e non solo, poiché di “anicini”<br />

è costellata la pasticceria tradizionale<br />

regionale <strong>it</strong>aliana). Ma non abbiamo<br />

elementi per ipotizzare una derivazione<br />

dalla cucina etrusca, benché fosse<br />

già usato da Greci, Egizi e Romani,<br />

come testimoniano il ricettario di Apicio<br />

e i testi di Teofrasto e di Plinio che<br />

precisa il suo impiego in sost<strong>it</strong>uzione<br />

del levistico o sedano di montagna 71.<br />

Di certo, invece, gli <strong>Etruschi</strong> conoscevano<br />

l’abbinamento cereali-frutta secca<br />

che Pezzella fa risalire agli Ebrei<br />

dei tempi biblici che preparavano fo-<br />

cacce addolc<strong>it</strong>e con fichi secchi, miele<br />

ed uva passa 72. Gli ultimi due ingredienti<br />

hanno insapor<strong>it</strong>o anche i<br />

“nastri panes” degli antichi romani 73<br />

e, avendo attraversato Medioevo e Rinascimento<br />

con qualche perd<strong>it</strong>a (poiché<br />

il miele è stato talvolta rimpiazzato<br />

dallo zucchero, prima di canna e<br />

poi bianco), hanno lasciato consistenti<br />

tracce nella cucina regionale. Nella<br />

Media Valle del Tevere, per esempio,<br />

ancora è in uso la pizza di granturco<br />

cotta sul testo e cond<strong>it</strong>a con uva passa<br />

e zucchero. E forse possiamo almeno<br />

ipotizzare che queste preparazioni<br />

cost<strong>it</strong>uiscano l’ered<strong>it</strong>à, decerimonializzata<br />

e ormai senza più l’antico<br />

senso, delle offerte r<strong>it</strong>uali di focacce –<br />

libum/liba – a base di farina, miele ed<br />

olio, cond<strong>it</strong>e con semi, noci e spezie,<br />

comuni in tutte le antiche culture med<strong>it</strong>erranee<br />

74.<br />

Torta di castagne<br />

400 g di castagne sbucciate;<br />

un pizzico di sale; 1 foglia di alloro;<br />

100 g di burro ammorbid<strong>it</strong>o;<br />

200 g di zucchero; 4 uova; buccia<br />

grattugiata di un limone;<br />

100 g di mandorle dolci<br />

Lessate le castagne con alloro e sale,<br />

scolatele, togliete la pellicola e passatele,<br />

ancora calde, col passaverdure.<br />

Spellate le mandorle dopo averle tenute<br />

in acqua bollente e tr<strong>it</strong>atele. In una<br />

terrina lavorate il burro con lo zucche-<br />

68 Rangoni, 2001, pp. 68-69.<br />

69 Umbria. Sapori e saperi, 1999, pp. 79,<br />

87, 197, 199.<br />

70 Grassetti - Breschi, s.d., p. 67.<br />

71 di Corato, 1978, p. 43.<br />

72 Pezzella, 1989, p. 105.<br />

73 Arieti, 1999, p. 73.<br />

74 Marinoni (aut.) - Contini (cur.), 1988,<br />

p. 55-56.


29<br />

ro, aggiungete i tuorli, uno alla volta, la<br />

buccia del limone e mescolate; un<strong>it</strong>e<br />

le mandorle, le castagne e gli albumi<br />

montati a neve. Versate in una tortiera<br />

imburrata e infornate a 210° per circa<br />

40 minuti.<br />

■ Questa ricetta pone un ques<strong>it</strong>o ormai<br />

di difficile soluzione: in un testo<br />

ed<strong>it</strong>o nel 1999 a cura dell’Assessorato<br />

Agricoltura e Foreste, Caccia e Pesca<br />

della Regione dell’Umbria, viene attribu<strong>it</strong>a<br />

a Piegaro, c<strong>it</strong>tadina d’area etrusca<br />

prossima all’antica Salapia (C<strong>it</strong>tà<br />

della Pieve), mentre Grassetti e Breschi,<br />

circa 20 anni fa, l’attribuirono a<br />

Spoleto 75. Del resto, castagne arrosto<br />

stufate con vino, sale, pepe, chiodi di<br />

garofano ed acqua di rose – e serv<strong>it</strong>e<br />

calde cosparse di zucchero – cost<strong>it</strong>uiscono<br />

una delle ricette più intriganti di<br />

Suor Maria V<strong>it</strong>toria della Verde<br />

(1555?-1622), nata Porzia figlia di<br />

Fieravante, priore del Comune dell’etrusca<br />

Perugia nell’ultimo quarto del<br />

Cinquecento. Fattasi monaca domenicana<br />

nel 1576 – prima “pannucciaia”<br />

e poi “camerlenga” del Monastero di<br />

San Tommaso, sulle mura medievali<br />

della c<strong>it</strong>tà – redasse un libro delle Ricordanze<br />

e due taccuini-quaderni di<br />

cui uno – compilato tra il 1583 e il<br />

1607 – con 170 ricette di cucina che<br />

documentano ingredienti e tecniche di<br />

preparazione e cottura tipiche della<br />

cultura alimentare dell’epoca, pur<br />

adattate alle esigenze della comun<strong>it</strong>à<br />

monastica: tra queste, minestra di fagioli<br />

e castagne e ceci e castagne 76<br />

ma anche una quant<strong>it</strong>à e varietà di ricette<br />

con lo zafferano veramente<br />

straordinaria: piccioni stufati, gallina<br />

ripiena al forno, taglierini gialli alle noci,<br />

fr<strong>it</strong>tate per convento e fr<strong>it</strong>tatine arrotolate,<br />

uova strapazzate, tortella di<br />

zucca, mostarda di mele cotogne o<br />

, fegatelli<br />

di capretto e per convento, cervello,<br />

gelatina di maiale, funghi soffr<strong>it</strong>ti, tinca<br />

e luccio cucinati in vari modi, minestra<br />

di fagioli e castagne, ceci e castagne,<br />

ecc. 77. Significativa questa abbondanza<br />

di ricette insapor<strong>it</strong>e dallo<br />

zafferano per una c<strong>it</strong>tà etrusca come<br />

Perugia se si accetta la tesi di Clotilde<br />

Vesco, secondo cui questa solare spezia,<br />

importata dalla Frigia, fu largamente<br />

usata, appunto, nella cucina<br />

etrusca 78.<br />

75 Umbria. Sapori e saperi, 1999, p. 199;<br />

Grassetti - Breschi, s.d., p. 101.<br />

76 Casagrande, 1988, pp. 256-257, 297-<br />

297, 316-317.<br />

77 Cfr. Giacchè (cur.), 2001, per l’attenta<br />

selezione delle ricette con lo zafferano nel<br />

taccuino di Suor Maria V<strong>it</strong>toria della Verde.<br />

78 Vesco, 1985, p. 123.


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Referenze fotografiche:<br />

Le immagini sono state gentilmente concesse<br />

dalla Soprintendenza Archeologica<br />

per l’Umbria<br />

e sono tratte da:<br />

Anna Eugenia Feruglio, Porano. Gli <strong>Etruschi</strong><br />

Luana Cenciaioli e Marco Saioni, Ipogeo dei<br />

Volumni e necropoli del Palazzone di Ponte<br />

San Giovanni. Il banchetto degli <strong>Etruschi</strong><br />

Fin<strong>it</strong>o di stampare nel mese di novembre 2008<br />

presso la tipol<strong>it</strong>ografia Petruzzi (C<strong>it</strong>tà di Castello)


Soprintendenza<br />

per i Beni Archeologici<br />

dell’Umbria<br />

Progetto cofinanziato<br />

con i fondi della L135/01

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