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De Gregori - Università degli studi di Pavia

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IL LINGUAGGIO IN CANZONE E LA RIVOLUZIONE<br />

LESSICALE, FORMALE E TEMATICA DI FRANCESCO DE<br />

GREGORI<br />

Corso <strong>di</strong><br />

"Forme della poesia per musica"<br />

anno accademico 2002-2003<br />

<strong>Università</strong> <strong>degli</strong> <strong>stu<strong>di</strong></strong> <strong>di</strong> Torino<br />

Docente: prof. Roberto Vecchioni


Alla ricerca <strong>di</strong> una fisionomia specifica e <strong>di</strong> un'autonomia artistica<br />

La canzone tra colto e popolare.<br />

Una canzone è un tratto minimo significativo sintetico e ripetitivo <strong>di</strong> rappresentazione<br />

musicale a stretta forma melo<strong>di</strong>ca.<br />

Questa ritualità melo<strong>di</strong>ca si è evoluta lentamente raccogliendo le inclinazioni <strong>di</strong> tempi e<br />

luoghi e mutando modello a seconda <strong>di</strong> tanti fattori: l’origine (popolare o colta), la<br />

geografia (regni o contado), la società e le sue variazioni e l’apporto continuo <strong>di</strong> altre<br />

forme musicali che son venute via via mo<strong>di</strong>ficandola.<br />

Sta <strong>di</strong> fatto che questo scampolo <strong>di</strong> musica (una fotografia, uno schizzo) è subito stato,<br />

e necessariamente, ospite <strong>di</strong> parole, <strong>di</strong> idee. Si può <strong>di</strong>re anzi che nella sua imme<strong>di</strong>atezza<br />

e trasparenza melo<strong>di</strong>ca sia nato proprio a questo scopo: ritagliare dal gran mare <strong>di</strong><br />

vivere un momento unico, un’impressione subitanea, un tema minimalista <strong>di</strong> foggia ora<br />

sentimentale, ora narrativa, con tutte le possibili coloristiche (paro<strong>di</strong>a, sbeffeggio,<br />

dramma, trage<strong>di</strong>a, etc..).<br />

Nella lunga storia della “forma” canzone in Italia tutto ciò è apparso sempre chiaro. I<br />

versi lirici greci, le “canso” me<strong>di</strong>evali, le arie <strong>di</strong> corte, i madrigali, gli strambotti, le<br />

cacce, le frottole, le villanelle <strong>di</strong> corte, le melo<strong>di</strong>e colte del ’700 (Napoli compresa) e<br />

poi la canzone popolare e d’autore a Napoli, le romanze, i canti all’italiana, le<br />

importazioni ed i recuperi da Francia e America, la canzone d’autore in Italia, tutte<br />

queste strutture rispondono nei mo<strong>di</strong> più <strong>di</strong>sparati all’assunto fondamentale: sono uno<br />

spaccato rapido e reiterativo (su canoni alla moda)<strong>di</strong> un sentimento e <strong>di</strong> una narrazione.<br />

In gran parte simile è il <strong>di</strong>scorso se l’oggetto in questione <strong>di</strong>venta la canzone popolare<br />

(e naturale?). A parte le ovvie <strong>di</strong>visioni regionali e la forte <strong>di</strong>versificazione tra nord e<br />

sud nelle presenze <strong>di</strong> temi civici e sentimentali, l’assetto della melo<strong>di</strong>a “povera” è<br />

parimenti sintetico, reiterativo, imme<strong>di</strong>ato. Se mai la <strong>di</strong>fferenza sostanziale va ricercata<br />

nella parte letteraria che è fortemente archetipica: tende a mutare pochissimo nel<br />

tempo. L’ottocento e il novecento con la rivoluzione industriale e le guerre offrono<br />

novità essenziali e operano uno “scarto <strong>di</strong> norma”. C’è poi nei testi, anche più antichi,<br />

2


della canzone popolare, una propensione al fantastico, al favolesco, al ripetitivo<br />

magico, in una parola al “romantico” tout-court, che la canzone colta (nel senso <strong>di</strong><br />

civile, con autori precisi) percepisce solo molto più tar<strong>di</strong>. 1<br />

A conti fatti nella canzone colta si perpetua l’amore sommo, alto, spesso pura<br />

pantomima <strong>di</strong> idealizzazione, in quella popolare l’amore è dolore, è gioia, ma è anche<br />

ben presente (pur tra mille sottintesi) è , vale a <strong>di</strong>re, terrestre.<br />

Nella canzone colta l’amore ha i contorni mai persi del tutto della narrazione da<br />

mitologia , da epica, e bisognerà aspettare tanto perché scenda su questa terra e si renda<br />

cre<strong>di</strong>bile, visibile.<br />

Altrove ho scritto che per seguire le fila e le trasformazioni che hanno portato in Italia<br />

ad una canzone nazional-popolare è opera vana tuffarsi nello sterminato patrimonio<br />

popolare così ben indagato da Ley<strong>di</strong>, Calvino, Liberovici e altri.<br />

Una canzone popolare italiana, tutta italiana, non esiste (la fatica <strong>di</strong> Cantacronache e<br />

Nuovo canzoniere italiano a questo riguardo è stata sovrumana). Non esiste perché noi<br />

posse<strong>di</strong>amo soltanto tra<strong>di</strong>zione regionale, e anche nelle <strong>di</strong>verse regioni, tra<strong>di</strong>zioni<br />

vieppiù sparpagliate e sconosciute l’una all’altra. Cioè , come rimarca <strong>De</strong> Mauro , la<br />

“canzone popolare” italiana non ha avuto nella storia “potere <strong>di</strong> scambio”, non si è<br />

trasferita geograficamente, è rimasta nei suoi confini senza valicarli. Ma questa è una<br />

vecchia storia: la sorte della canzone non è che una conseguenza strutturale della<br />

generale <strong>di</strong>visione sociale e politica dell’Italia, senza possibilità <strong>di</strong> ricuciture.<br />

Questo non significa (anzi!) che le decine e decine <strong>di</strong> mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> rappresentarsi in faccia<br />

alla vita all’amore e alla società delle regioni sia segno <strong>di</strong> subcultura, <strong>di</strong> sottovalore. Il<br />

patrimonio musicale e letterario <strong>di</strong>alettale è l’immenso e <strong>di</strong> primissimo piano: ma non<br />

possiamo farne un SISTEMA. Possiamo catalogare somiglianze e <strong>di</strong>fferenze tra mo<strong>di</strong><br />

1 È opportuno ricordare che quando <strong>di</strong>stinguiamo tra “colto” e “popolare” non inten<strong>di</strong>amo la cultura come una etichetta <strong>di</strong><br />

superiorità intellettiva, concessa a chi ha <strong>stu<strong>di</strong></strong>ato, a chi sa, ma neppure come una sorta <strong>di</strong> modalità riflessa e puramente<br />

razionale tipica solo dei ceti privilegiati; bensì come indagine sentimentale ed etica in <strong>di</strong>venire nella struttura sociale.<br />

Allo stesso modo il canto popolare non è casuale invenzione <strong>di</strong> beceri sconosciuti e operazione <strong>di</strong> ingenui o <strong>di</strong>lettanti, ma<br />

espressione originale, influenza <strong>di</strong> tensioni e pulsioni primarie.<br />

La connotazione fondamentale della “canzone colta” è la ricerca <strong>di</strong> moduli e forme: il suo crescere o cedere o sbandare<br />

nella lezione della cronaca e della storia. La connotazione del “canto popolare” è la sua fissità, la sua massima spontaneità,<br />

quel suo essere “alle ra<strong>di</strong>ci”. Ma è altresì chiaro che anche il canto popolare ha a che fare col “nuovo” e gli si pone contro<br />

e gli va incontro con un’antica saggezza che gli fa da regolamento.<br />

3


<strong>di</strong> <strong>di</strong>re ed espressioni gergali: possiamo notare nel tempo passaggi tematici a seconda<br />

del nome nuovo che prendono antichi nemici come la miseria, la fame, a seconda dei<br />

nuovi padroni.<br />

Ma a parte che ancora tutto ciò resterebbe un <strong>di</strong>scorso circoscritto ai singoli <strong>di</strong>aletti, ai<br />

singoli luoghi (canzone d’uso), e quin<strong>di</strong> un lavoro infinito e con risultati poco<br />

plausibili, quel che non è mutato, quel che è rimasto intatto nel tempo è proprio il<br />

significante verbale della canzone regionale e il nostro lavoro vuole invece proprio<br />

ricercare come la storia del nostro paese ha portato alla trasformazione del linguaggio<br />

in canzone (oltre che <strong>di</strong> tematiche). Vogliamo cioè tentare <strong>di</strong> scoprire come lentamente,<br />

inesorabilmente si è andata costruendo una POETICA TESTUALE per brani in musica<br />

con scarti <strong>di</strong> norme, cioè con passaggi che superino l’immutabile, l’ovvio, il normale<br />

appunto.<br />

La forma letteraria della canzone regionale è <strong>di</strong>rei “perfetta” dall’inizio. Resta quin<strong>di</strong><br />

quasi immutata nel tempo. 2<br />

La forma letteraria della canzone italiana nazional-popolare è al principio ibrida,<br />

incerta, retrò, <strong>di</strong>fficoltosa, e opera come vedremo tar<strong>di</strong>vi e non sempre proficui salti <strong>di</strong><br />

norma, pescando qua e là ma soprattutto e per troppi anni restando ancorata ad<br />

apparenti schemi poetici anti<strong>di</strong>luviani.<br />

Come si è potuto per tanti anni mantenere un linguaggio poetico in canzone sempre<br />

così datato, recintato, uguale a sé stesso?<br />

Al contrario ,cos’è avvenuto e quando e in quali e quante maniere, perché questo<br />

linguaggio assumesse altri aspetti e prendesse coscienza <strong>di</strong> sé e della sua modernità?<br />

Quando e come si è tentato <strong>di</strong> costruire uno (o più) linguaggi poetici in<strong>di</strong>ssolubilmente<br />

legati alla melo<strong>di</strong>a e <strong>di</strong>fferenti, sciolti, <strong>di</strong>stanti dalla poesia più o meno ufficiale?<br />

2 E ancora una volta ciò non significa sottovalutazione. È che nell’assunto del nostro <strong>stu<strong>di</strong></strong>o noi stiamo cercando quando<br />

come e per che vie dall’italiano unificato si sia giunti ai nuovi linguaggi <strong>di</strong> italiano in canzone.<br />

Non penso nemmeno che nella canzone popolare, tutto sia rimasto cristallizzato, fermo ai primor<strong>di</strong> come ho scritto prima.<br />

Anche il modo <strong>di</strong> esprimersi in <strong>di</strong>aletto cambia, ma questi infiniti <strong>di</strong>aletti <strong>di</strong> infinite regioni non rientrano nello <strong>stu<strong>di</strong></strong>o che<br />

stiamo intraprendendo. Noi vogliamo scoprire dall’italiano unito in poi come la canzone si sia inventata una sua semantica<br />

<strong>di</strong>versa ovviamente da pittura e scultura ma soprattutto da poesia e musica.<br />

4


Quando la canzone è <strong>di</strong>ventata un genere a sé, non vassallo o servo <strong>di</strong> altre arti, ma<br />

in<strong>di</strong>pendente e autosufficiente, con una sua precisa semantica, una sua personale,<br />

inconfon<strong>di</strong>bile soggettività artistica? Ed è poi questo veramente avvenuto ?<br />

Tenteremo <strong>di</strong> rispondere a queste domande.<br />

Lento passaggio da struttura ibrida a compatta. Mancanzaa <strong>di</strong> forme "Nazional-<br />

npopolari " in Italia. Gioie e dolori della derivazione dal Melodramma.<br />

Per secoli la poesia ha ucciso la canzone. Cioè per secoli si è pensato che per una<br />

piccola opportuna melo<strong>di</strong>a servissero versi altissimi, altisonanti, protagonisti.<br />

Abbiamo ascoltato i trovatori, l’ars nova italiana, Petrarca e Bembo, il rinascimento: su<br />

linee musicali apparentemente povere, svettavano versi che uno si deve leggere a casa:<br />

trasmessi con ridondante euforia (mono<strong>di</strong>ci o polifonici) oggi sembrano esercizi ginnici<br />

del cuore.<br />

La rivoluzione dell’ultimo madrigale, che pretendeva <strong>di</strong> far sentire gli accenti ritmici<br />

delle parole, <strong>di</strong> ascoltare il tessuto letterario, ha prodotto meravigliose gemme fredde,<br />

nonostante le teorie <strong>di</strong> Bembo e gli sforzi <strong>di</strong> Montever<strong>di</strong>.<br />

Per secoli (ma già da Saffo, da Alceo) si è pensato che musica e parole fossero due cose<br />

da unire per una sorta <strong>di</strong> atmosfera, senza mai far caso alle loro capacità <strong>di</strong><br />

congiunzione, <strong>di</strong> “tutt’uno”.<br />

E infatti la musica greca era composta su nòmoi, cioè schemi fissi su cui raccontare. E<br />

infatti tutti i trovatori a parte due o tre occasioni si assomigliano rovinosamente in<br />

quella testardaggine <strong>di</strong> accoppiare una nenia incolore a versi presunti altissimi sulla<br />

purezza della donna.<br />

L’equivoco universale (che non è della canzone popolare*) è stato quello <strong>di</strong> musicare<br />

versi, accompagnare versi, sublimare versi con note. 3<br />

3 Nella forma <strong>di</strong>alettale (stornelli, villanelle, etc.) ciò non avviene, perché le parole nascono in quella data melo<strong>di</strong>a e quella<br />

melo<strong>di</strong>a (nonché il ritmo o il tempo) è consustanziale alle parole: non esiste cioè un esercizio letterario a cui adattare una<br />

musica, né una musica a cui sovrapporre in un secondo tempo dei versi. Ma è pur vero che queste strutture <strong>di</strong>alettali sono e<br />

restano come nascono: non sviluppano variazioni. In altro campo sono come un vaso o una capanna, una lenza, un arco.<br />

Restano fedeli alla loro origine perché così devono essere e un mutamento corrisponderebbe ad uno snaturamento.<br />

5


La “forma canzone” non ha mai trovato nel tempo, nei secoli una sua identità precisa<br />

che non fosse musica più parole, che identità non è.<br />

Questo perché in Italia non si è mai assistito ad un incontro serio e paritario fra<br />

musicisti e letterati: a volta a volta era l’uno dei gruppi a dover prevalere sull’altro e a<br />

considerare l’altra arte (quella non sua) un semplice commento, uno sfondo, un<br />

completamento (leggi polifonie, madrigali, libretti d’opera, etc.).<br />

Le due gran<strong>di</strong> madri <strong>di</strong> un nuovo pensare “canzone”, cioè <strong>di</strong> scrivere un tutto compiuto<br />

in sé senza parti giustapposte, sono la chanson francaise del ‘700 e la napoletana<br />

popolaresca.<br />

La chanson francaise deve la sua compattezza alla sua nascita per lo “spettacolo”<br />

(salotti e saloni) e ad una tra<strong>di</strong>zione che la lega in<strong>di</strong>ssolubilmente a ballate e a virelais<br />

colte e popolari.<br />

Ad un certo punto vengono espressi l’amore e la beffa (temi più ricorrenti) in un<br />

linguaggio che non è più quello della poesia canonica e che anzi volutamente se ne<br />

<strong>di</strong>scosta assumendo una ben propria fisionomia. Così in Francia si estingue per<br />

inadempienza, per inadattabilità al gusto comune, la canzone come genere “colto” su<br />

cui avevano influito sia il madrigale italiano <strong>di</strong> O. Di Lasso, sia l’operazione successiva<br />

<strong>di</strong> Ronsard e de “La Pleiade” tutta tesa a rendere intelligibili le parole, su ritmi più<br />

classici e stantii.<br />

Nasce uno stile fortemente sillabico e volutamente semplificato (l’AIR DE COUR)<br />

chiaramente improntato a modelli popolari. Da qui lo straripare nel ‘700 e ‘800 della<br />

“chanson de varietè” e dei caffè concerto.<br />

Lo stratagemma fu quello <strong>di</strong> considerare la canzone popolare come modello. Là tutto<br />

era compatto e cantabile, non esistevano forzature <strong>di</strong> composizione.<br />

Per la canzone napoletana non è neppure esistito un processo <strong>di</strong> <strong>di</strong>versificazione. La<br />

canzone napoletana è un tutt’uno <strong>di</strong> testo e musica già dalle origini, perché è sempre<br />

stata nazional-popolare. Non esiste, non è mai esistita a Napoli un’alienità, una non<br />

corrispondenza tra musica e parole, perché il <strong>di</strong>aletto era lingua <strong>di</strong> un regno già dal<br />

6


‘500 e il popolare coincideva perfettamente col “colto”. La canzone napoletana è già<br />

alla sua origine canzone, non sovrapposizione: le culture angioine, aragonesi, spagnole<br />

erano cioè in linea perfetta col canto popolare: la canzone non pretendeva <strong>di</strong> avere una<br />

lingua letteraria a sé, perché nasceva come lingua <strong>di</strong> canzone e basta. Tantovero che<br />

l’impatto col popolaresco (rifacimento del popolare) e la canzone d’autore risultano<br />

indolori alla “napoletanità” perché sintomo <strong>di</strong> un “idem sentire”.<br />

Molto più tribolata la nascita <strong>di</strong> un linguaggio per musica in Italia. Bisogna premettere<br />

che l’Italia non aveva nell’ ‘800 una lingua. Non esisteva come a Napoli, come in<br />

Francia un modo <strong>di</strong> esprimere comune che si tramutasse in melo<strong>di</strong>a. Nel 1899 il 70%<br />

<strong>degli</strong> italiani sono analfabeti e il 90% non conoscono una lingua comune.<br />

Il sillogismo è presto fatto: solo chi possiede una lingua comune può:<br />

1) parlare a tutti<br />

2) parlare del presente rifuggendo le astrazioni<br />

3) far nascere musica e testo l’uno per l’altra.<br />

Francia e Napoli potevano. L’Italia no. E aggiungiamo per l’ennesima volta che Francia<br />

e Napoli potevano pescare nel “popolare” fino a sollevarlo a me<strong>di</strong>o-colto (per Napoli<br />

era ad<strong>di</strong>rittura naturale). L’Italia non possedeva invece un popolare comune cui far<br />

riferimento. Non è compito nostro evidenziare tutti i motivi <strong>di</strong> questo ritardo. Essi<br />

vanno dalla <strong>di</strong>sintegrazione politica e sociale all’influenza <strong>di</strong> <strong>di</strong>verse dominazioni, al<br />

labile senso nazionale, etc, etc. Sta <strong>di</strong> fatto che per trovare le prime parvenze <strong>di</strong> un<br />

parlare comune dobbiamo rifarci al 1910-12 e precisamente all’epoca del governo<br />

Giolitti. Fu l’accentramento industriale, l’inurbamento in <strong>di</strong>verse città (del nord) a<br />

favorire la mutua comprensione fra gente venuta da luoghi <strong>di</strong>sparatissimi.<br />

Il raggiungimento <strong>di</strong> una lingua comune fu comunque lento e <strong>di</strong>spersivo.<br />

Il ritardo sul resto dell’Europa è ancor più sensibile se lo si considera nella lingua<br />

letteraria. L’Italia resta per tutto l’800 ancorata a moduli classici o rinascimentali,<br />

colmando con grande lentezza il gap che la <strong>di</strong>vide dall’intender popolare del<br />

Romanticismo, prove ne siano la semiseria <strong>di</strong> Berchet, l’epistolario tra Manzoni e<br />

Scott, la lettera <strong>di</strong> Madame <strong>De</strong> Stael. Avviene cioè che in un mondo dove a fine secolo<br />

7


Mallarmè e soci scoprono l’espressionismo, il linguaggio dell’anima tradotto in segni e<br />

simboli <strong>di</strong> nuova poesia, Pascoli piange ancora cavalline storne, Carducci rifà il verso<br />

ad Orazio e D’Annunzio esalta il superfluo, lo snob, privilegiando i sensi ai doni della<br />

psiche.<br />

È pur vero sì che nel novecento la poesia in Italia compie passi da gigante inventando<br />

la furia futurista e riconoscendo l’espressionismo tedesco e il surrealismo francese. Ma<br />

per operare quello “scarto <strong>di</strong> norma” auspicato in canzone è ormai troppo tar<strong>di</strong>.<br />

Troppo tar<strong>di</strong> perché sulla nascente canzone italiana , non avendo potuto influire il<br />

linguaggio popolare (e si è visto perché), né quello <strong>di</strong> una lingua comune (per ovvii<br />

ritar<strong>di</strong>) né tantomeno quello letterario in evoluzione, influì a dosi massicce la<br />

letterarietà del melodramma (e vedremo perché), antica e datata, spesso manierata e<br />

melensa e che si rifà ad un italiano in versi <strong>di</strong> due e fin tre secoli prima.<br />

Il melodramma (del cui successo, dello straor<strong>di</strong>nario peso che ha per gli italiani me<strong>di</strong>,<br />

della sua nascita fiorentina, del suo partir dall’alto per poi popolarizzarsi abbiamo a<br />

lungo trattato nella tesi “dall’opera alla canzone all’italiana”) era lo spettacolo totale in<br />

cui tutti si rivedevano, specchiavano, perfino identificavano. La trama d’amore e morte,<br />

l’aneddotica storica, le gran<strong>di</strong> passioni, erano proprie, connaturate al carattere <strong>degli</strong><br />

italiani. Alto e retorico ma facilmente comprensibile entrò subito nell’immaginario<br />

collettivo e contribuì ad accomunare la borghesia nazionale in uno stesso “slang”<br />

accettabile nell’arte, fittizio nella realtà.<br />

L’opera cioè costituì un “italiano comune” letterario, prima che gli italiani avessero una<br />

lingua corrente da parlare tutti i giorni. “Sospiri”, “aneliti”, “guiderdoni”, “aere” e<br />

migliaia <strong>di</strong> termini simili dedotti dalla poesia pseudorinascimentale, marinista ed<br />

arca<strong>di</strong>ca furono presto compresi da tutti alla stessa maniera. Non solo: l’opera lirica<br />

nata colta, alta, me<strong>di</strong>o-borghese si trasmise come un incen<strong>di</strong>o anche alle classi inferiori,<br />

si popolarizzò in un istante, proprio per la sua natura nazional-popolare e per le<br />

emozioni, le tensioni che il popolo non meno che la borghesia vi avvertiva dentro.<br />

A lungo si pensò che questo fosse l’unico linguaggio poetico consistente da seguire e<br />

ascoltare; ragione questa (ma non l’unica) del ritardo che accusa il primo novecento<br />

italiano in poesia sia da parte <strong>di</strong> chi scrive che da parte <strong>di</strong> chi legge. Ma l’opera <strong>di</strong> per<br />

8


sé era macchinario troppo imponente, <strong>di</strong>fficile da allestire e rappresentare e troppo<br />

richiesto per sod<strong>di</strong>sfare contemporaneamente la passione <strong>di</strong> tutti.<br />

Ecco che tutto l’armamentario linguistico retrò, fantasioso, datato, si trasmette allora ad<br />

una sorta <strong>di</strong> opera in se<strong>di</strong>cesimo, infinitamente più breve. Una trama <strong>di</strong> tre ore <strong>di</strong>venta<br />

storia <strong>di</strong> 3-4 minuti, cantata con la stessa ridondanza ed effetto dell’opera vera. Anzi<br />

più ridondanza, maggiore identificazione coi fatti contemporanei, con le storie <strong>di</strong> tutti i<br />

giorni. I miti, i paesi d’oltremare, i fenomeni storici, <strong>di</strong>ventano attualità: i protagonisti<br />

(che parlano e agiscono in modo altisonante e mitico) sono uomini e donne del<br />

novecento con le loro piccole vicende che, cantate, <strong>di</strong>ventano quasi immortali. Questa<br />

riduzione ai minimi termini si chiama “romanza” e simula alle sue origini l’andamento<br />

melo<strong>di</strong>co delle “arie” operistiche, le più orecchiabili e sentimentali.<br />

La “romanza” (ma anche le “arie” estrapolate dal contesto del melodramma)<br />

presentano il vantaggio <strong>di</strong> poter essere eseguite ovunque (sale, saloni, case private,<br />

piazze etc.) e non aver bisogno <strong>di</strong> apparati scenici particolari o teatri ad hoc. In più<br />

potevano cantarle tenori anche meno bravi o tenori improvvisati. Tutto ciò portò ad una<br />

<strong>di</strong>ffusione straripante del genere. La “romanza” è la prima canzone italiana. Come ogni<br />

mito piccolo o grande non si trasforma più , resta, deve restare uguale a se stesso pena<br />

la non cre<strong>di</strong>bilità. E quin<strong>di</strong> i temi, le storie, i protagonisti, l’amore, la morale si<br />

cristallizzano: ma quel che è peggio si cristallizza il linguaggio che non permette<br />

invasioni <strong>di</strong> nuovi termini o mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> <strong>di</strong>re per decenni.<br />

In effetti qualche variazione in cinquant’anni <strong>di</strong> storia ci sarà. Grazie all’apporto <strong>di</strong><br />

certe filastrocche e serenate popolari, ma soprattutto della melo<strong>di</strong>a napoletana, la<br />

romanza attenuerà le esagerazioni melo<strong>di</strong>che, il canto spianato, il virtuosismo voluto e<br />

si assesterà su posizioni più narrative, persino più semplici. Ma, a parte rare eccezioni<br />

che andremo a vedere, la forma lessicale, la terminologia, infarcita <strong>di</strong> arcaismi, la<br />

propensione al verso tronco, il finale ad effetto non cambieranno mai.<br />

Ragioni <strong>di</strong> un ritardo storico,culturale,linguistico.<br />

9


Il decennio giolittiano apre all’italiano parlato. Poco dopo i crepuscolari (Gozzano per<br />

primo) sterzano <strong>di</strong> brutto dal passato, inventando il verso colloquiale, perfino<br />

minimale, ma attinente alla realtà. Il proliferare <strong>di</strong> locali da ascolto e ballo facilita<br />

l’approccio dell’italiano me<strong>di</strong>o con la canzone e <strong>di</strong> lì a poco la ra<strong>di</strong>o completerà la<br />

popolarità <strong>di</strong> tale forma.<br />

Ma se l’Italia compie SCARTI DI NORMA sia nel linguaggio parlato che in quello<br />

poetico, resta ferma al palo nel campo canzonettiero: cioè non pende né <strong>di</strong> qua ne <strong>di</strong> là.<br />

Così il linguaggio in canzone risulta sì <strong>di</strong>verso, <strong>di</strong>fferenziato da quello letterario<br />

(nonché dal parlar comune), ma anche fine a sé stesso, fittizio, autopromosso,<br />

antiquato, in una parola FALSO. Vedremo che per arrivare a quello vero (i liguri,<br />

Mogol, <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong>, e per altre vie il canzoniere italiano) ci vorrà tempo e fatica.<br />

Voglio <strong>di</strong>re che sì la “canzone italiana” è un genere che si <strong>di</strong>scosta da altre espressioni<br />

artistiche, ma lo fa con una terminologia e una forma appiccicata, giustapposta, non<br />

congrua, non attenta alle cose, al vero, all’espressione che cambia, alla società che<br />

cambia. E quin<strong>di</strong> questa forma non può essere assolutamente accettabile come “a sé”,<br />

propria <strong>di</strong> un’arte. È un prestito, un furto, un rabberciamento, una collection <strong>di</strong><br />

anticaglie, non una costruzione originale, Naturale, come vedremo, che anche le storie,<br />

le trame resteranno ancorate ad un simile linguaggio che altrove non può portare se non<br />

alla retorica, al moralismo intensivo, all’effetto scenico etc.<br />

Assistiamo così fra le due guerre ad un proliferare <strong>di</strong> brani (quasi una clonazione) dove<br />

l’iperbole, l’immaginifico puro, l’inverosimile <strong>di</strong>ventan storie <strong>di</strong> tutti. Di queste trame,<br />

dei personaggi, del concetto <strong>di</strong> donna e amore abbiamo costruito già un’analisi<br />

capillare sulla <strong>di</strong>spensa “dall’opera alla canzone”, e non insisteremo qui. Abbiamo<br />

altresì sezionato una parte antologica riassuntiva, ma rappresentativa e anche quella è a<br />

<strong>di</strong>sposizione nella citata <strong>di</strong>spensa. Trame e modo <strong>di</strong> esprimerle van <strong>di</strong> pari passo<br />

(purtroppo), s’è detto; traggo da T. <strong>De</strong> Mauro alcuni esaltanti esempi: “qual seduzione<br />

ognun prova” [ ALCOVA 1921] – “ Beffa atroce dell’uman dolor” [ADDIO TABARIN<br />

1922] – “Hanno la chioma bruna/ hanno la febbre in cor/ chi va a cercar fortuna/ vi<br />

troverà l’amor” [TANGO DELLE CAPINERE 1922] – “Un desio d’ebbrezza e nulla<br />

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più” [RE DI CUORI 1929] “Occhi a mandorla che invan/ tenti <strong>di</strong> tener lontan”<br />

[SCIANGAI – LILL 1932].<br />

Ma chie<strong>di</strong>amoci: <strong>di</strong> là dei ritar<strong>di</strong> culturali, dei contrattempi vari; <strong>di</strong> là dell’influsso<br />

(croce e delizia) delle “arie operistiche” e della <strong>di</strong>ffusa esterofobia (che fatica ad<br />

ascoltare altri ritmi, che scempio a ridurre tango e fox-trot in formulette casalinghe, con<br />

poche eccezioni!) al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> tutto questo, perché i parolieri italiani perpetuano per anni<br />

lo stesso schema formale?<br />

Per PIGRIZIA, INCAPACITà, CALCOLO, INTERESSE,e , pure, PER DIRETTIVE<br />

POLITICHE, IDEOLOGICHE.<br />

Pigrizia: inutile andare a costruire il “nuovo”, se col vecchio (più richiesto) si fa meno<br />

fatica. Ormai gli italiani si erano abituati a “quel” linguaggio poetico in canzone.<br />

Provare variazioni sarebbe stato un rischio.<br />

Incapacità: la stragrande maggioranza dei parolieri <strong>di</strong> quegli anni (ma anche <strong>degli</strong> anni<br />

’50 e ’60) non era attrezzata per compiere rivoluzioni, per innovare. Non ne aveva,<br />

oltre alla volontà, neppure appunto la capacità artistica.<br />

Calcolo e interesse: la canzone comincia ad essere un “business” (e dagli anni ’30 lo<br />

sarà sempre <strong>di</strong> più). Il consumo (spartiti, orchestrine, <strong>di</strong>ffusione ra<strong>di</strong>o) produce <strong>di</strong>ritti<br />

d’autore elevati e la canzonetta “rosa confetto” si rivela una miniera d’oro. Perché<br />

cambiarla?<br />

Direttive politiche: quieto vivere coi regimi e coi governi in genere. Prima <strong>di</strong> tutti il<br />

Fascismo e la Chiesa. Ottemperare all’asse <strong>di</strong>o – patria – famiglia nello strapaese<br />

italiano fu quasi d’obbligo, per quanto in verità il Fascismo non fu mai così tanto<br />

intransigente, a meno che non si toccasse la sua politica.<br />

Più pesante è il <strong>di</strong>scorso per gli anni del secondo dopoguerra: qui, come <strong>di</strong>ce Borgna, è<br />

proprio il governo, la democrazia cristiana a cavalcare la canzone come tampone, “a<br />

usarla a fini <strong>di</strong> retroguar<strong>di</strong>a, per allinearla alla concomitante restaurazione economica e<br />

politica”. In un periodo in cui cinema, teatro e letteratura operano in opposizione non<br />

controllabile, la canzone <strong>di</strong> larga <strong>di</strong>ffusione popolare <strong>di</strong>venta un’arma straor<strong>di</strong>naria<br />

attraverso i canali <strong>di</strong> promozione (ra<strong>di</strong>o e poi televisione) che sono completamente in<br />

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mano al governo: ecco allora il fiorire (o rifiorire) dei buoni sentimenti, delle storielle<br />

consolatorie, del quieto vivere, della rassicurazione sociale, del premio ai buoni e del<br />

castigo ai cattivi etc.<br />

È il solito fine: la gente, il popolo voleva quelle canzoni (e quelle parole) perché a<br />

quelle era abituata: chiudeva gli occhi e assaporava una realtà mai vista, del tutto<br />

onirica e improbabile come una rivincita alla propria esistenza terra-terra. Quin<strong>di</strong><br />

sgombriamo una volta per tutte l’equivoco: non è popolare ciò che si fa piacere al<br />

popolo, ma ciò che viene dal popolo e assomiglia veramente al popolo. La <strong>di</strong>ffusione,<br />

pur immensa, <strong>di</strong> qualsiasi forma d’arte non è tout-court “popolarità”. Questo avevano<br />

capito nel loro titanico e impossibile tentativo il CANTACRONACHE e il NCI. Ma<br />

erano ormai Davide (e senza fionda) contro Golia.<br />

Il testo <strong>di</strong> una canzone, quando “spaccia”, o “falsifica” o “illude senza proporre” o<br />

comunque “esalta” “alza i toni, il tiro”, “sopisce il contrasto”, “celebra vizi nazionali o<br />

li giustifica come valori <strong>di</strong> popolo” non è popolare è solo facilmente ammiccante,<br />

consolatorio, buonista e colpisce chi ascolta, rende falsamente euforici e contenti come<br />

il me<strong>di</strong>co fa felice l’ammalato mentendogli sulla gravità della sua salute.<br />

Vero,verosimile,non vero. Proposta <strong>di</strong> una traccia estetica.<br />

Alcune considerazioni su "popolare" e successo popolare.<br />

Ma non basta: la verità, principio fondamentale nella canzone popolare (verità che è<br />

anche probabilità che i sogni si avverino) non deve per forza corrispondere alla totalità<br />

<strong>di</strong> una popolazione. Possono esistere cioè verità più limitate (a certi gruppi, singoli), e<br />

non per questo meno vere. Sto <strong>di</strong>cendo cioè che il valore esistenziale e sociale <strong>di</strong> un<br />

testo <strong>di</strong> canzone non è <strong>di</strong>rettamente proporzionale alla sua <strong>di</strong>ffusione, all’accettazione<br />

totale. E nemmeno alla sua imme<strong>di</strong>ata comprensibilità. Sto cioè intraprendendo una<br />

strada minata che dal vero porta al bello.<br />

Fermo restando che la canzone all’italiana ha per gran tempo perpetuato un “non vero”<br />

spacciandolo per popolare quando popolare non era; anche dove le parole si attengono<br />

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al “vissuto” e l’autore non bara, la canzone può restare un piacevole o interessante<br />

documentario; ma per arrivare al “bello” ci vogliono ben altri requisiti. Ma sul concetto<br />

<strong>di</strong> “bello” (in canzone) torneremo in seguito, quando saremo più in argomento.<br />

La canzone all’italiana, dunque, esprime un “non vero”. Ma tutta la canzone<br />

all’italiana? Tutta per cinquant’anni? Direi proprio <strong>di</strong> no. Il periodo giolittiano e<br />

l’avvento <strong>di</strong> Gozzano da qualcuno sono stati certamente recepiti, Armando Gill ad<br />

esempio. Canzoni come “Come pioveva” e “Cara piccina” a giu<strong>di</strong>zio <strong>di</strong> Borgna<br />

operano la scelta <strong>di</strong> raccontare un episo<strong>di</strong>o svolgendolo completamente in un italiano<br />

finalmente depurato dagli arcaismi e dai moduli letterari, colloquiale fino alla tecnica <strong>di</strong><br />

inserire nei versi il <strong>di</strong>alogo (!), alla maniera dei crepuscolari. “Queste canzoni sono le<br />

prime con frasi melo<strong>di</strong>che più brevi, adatte alla danza. Sono moderne” e, aggiungo io,<br />

le storie in esse raccontate sono cre<strong>di</strong>bili, <strong>di</strong> quelle che possono capitare a tutti, e quin<strong>di</strong><br />

“vere”. Siamo ben oltre la romanza.<br />

Negli anni trenta non c’è solo manierismo, ripetitività, gusto del sorprendente e del<br />

“non vero”: ma “appaiono anche Spadrero e <strong>De</strong> Angelis, lo swing e il sincopato, il<br />

surrealismo <strong>di</strong> Mascheroni e <strong>di</strong> Kramer. E poi Rabagliati, Natalino Otto e il Trio<br />

Lescano. Gli autori (pochi in verità) <strong>di</strong> versi escono dal confine, si sbizzarriscono, si<br />

<strong>di</strong>vertono: “ma le gambe” è del 1938. “La gelosia non è più <strong>di</strong> moda del ’39,<br />

“Preferisco il ‘900 del ’37 e del ’38 ancora “Signorina gran<strong>di</strong> firme”.<br />

Questa attenzione ai ritmi, ai suggerimenti esteri (in pieno fascismo!) è già una prima<br />

evoluzione; essa va a colmare l’ansia, la sete <strong>di</strong> novità in quella sezione <strong>di</strong> popolazione<br />

(giovani soprattutto) che ne han piene le tasche <strong>di</strong> amori eterni, amorazzi e amorucoli,<br />

ed è la prima corrente (sotterranea ma nemmeno troppo), la prima crepa che s’insinua<br />

nel muro granitico della vecchia canzone-litania.<br />

Il fenomeno “all’italiana”, non s’acquieterà per un bel pezzo ancora, la farà da padrone,<br />

ma intanto eventi sociali e culturali cominciano ad essere avvertiti da un bel po’ <strong>di</strong><br />

gente e fanno capolino qua e là musicisti e versificatori coraggiosi.<br />

Fino a Modugno, fino ai cantautori genovesi (ma anche agli apporti rock americani),<br />

questo “nuovo che avanza” non farà mai il botto, ma sarà pur vivo ed operante<br />

(Buscagione, Bruno Martino, Carosone etc.).<br />

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Come sempre, per una rivoluzione totale, ci vorrà un forte, fortissimo segnale <strong>di</strong><br />

mutamento nai costumi, nelle scelte e perfino nei valori. I figli della seconda guerra<br />

mon<strong>di</strong>ale, quasi rinascendo dal niente, da una “tabula rasa” opereranno in vari mo<strong>di</strong><br />

questo scarto <strong>di</strong> norma, questo approccio al “vero” e in molti casi al “bello”.<br />

Comincerà da quegli anni la storia del linguaggio per la canzone che taglierà i ponti col<br />

passato e cercherà <strong>di</strong> proporsi una fisionomia poetica originale e autonoma, <strong>di</strong>fferente<br />

da quella della poesia scritta.<br />

Prima <strong>di</strong> passare ad esaminare questo “Rinascimento” della canzone in Italia,<br />

riassumiamo alcuni punti e completiamoli con qualche osservazione.<br />

1) Non esistendo nella tra<strong>di</strong>zione una canzone nazional-popolare, questo genere è nato<br />

in Italia dall’alto (dal Melodramma) e non dal basso (canzone popolare) come<br />

altrove.<br />

2) La canzone ha imitato (a scendere, a peggiorare) tutte le caratteristiche delle “arie”<br />

da opera lirica e ha elaborato un linguaggio arcaico (petrarchismi, leopar<strong>di</strong>smi,<br />

romanzo d’appen<strong>di</strong>ce) mantenendolo intatto e immutato per quasi mezzo secolo.<br />

3) La stragrande “popolarità” <strong>di</strong> questo tipo <strong>di</strong> canzone, non <strong>di</strong>pende dal suo essere<br />

“specchio <strong>degli</strong> italiani” ma “specchio <strong>di</strong> come vorrebbero essere gli italiani”. I temi<br />

e i testi trattati non si rifanno al “vero” ma all’”illusorio” allo “pseudomitico”.<br />

Questo modello non può avere crescita, perché non descrive una società reale e non<br />

può quin<strong>di</strong> adattarsi alle mutazioni della stessa. Questo modello è archetipico,<br />

immutabile (pseudomitico) e “non vero”.<br />

4) Solo ciò che descrive “il vero” è realmente popolare. Non è fondamentale che sia un<br />

“vero” per tutti, ma riconoscibile da tutti. È corretto in canzone (e a suo modo<br />

popolare) anche ciò che descrive un “vero” <strong>di</strong> una parte <strong>di</strong> in<strong>di</strong>vidui o <strong>di</strong> un<br />

in<strong>di</strong>viduo solo.<br />

5) Alcuni (pochi) autori <strong>degli</strong> anni ’20 e ’30, seguendo la lezione crepuscolare e<br />

leggendo meglio tra le pieghe dei mutamenti sociali, sono riusciti ad esprimere una<br />

forma <strong>di</strong> canzone “vera”, che si è attenuta a sentimenti cre<strong>di</strong>bili e a situazioni non<br />

“border line”.<br />

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6) Si precisa che il concetto <strong>di</strong> vero non corrisponde ad un’elaborazione, ad un testo<br />

necessariamente realista, fotografico. Esiste anche un “vero” nei temi che trattano i<br />

sogni. Esiste un “vero” anche nell’elaborazione comica e farsesca ed esiste un<br />

“vero” anche nel modo <strong>di</strong> trattare il surreale (come <strong>di</strong>ceva Calvino). Il “vero” in<br />

canzone non ha niente da spartire con il “vero” manzoniano o col concetto filosofico<br />

<strong>di</strong> “vero”.<br />

Vero è la rappresentazione <strong>di</strong> cose, persone, sentimenti reali o verosimili nella ragione<br />

o nella fantasia. Per la ragione la risposta è imme<strong>di</strong>ata. Per la fantasia occorre<br />

<strong>di</strong>stinguere: il “vero fantastico” è propositivo, allegorico (si riconnette ad un vero<br />

reale), <strong>di</strong>namico: non è fine a sé stesso, non nasconde fole, non racchiude<br />

sottosignificati illusori o devianti. Importante questa <strong>di</strong>visione, perché IN CANZONE,<br />

come il reale si attiene imme<strong>di</strong>atamente alla plausibilità <strong>di</strong> sentimenti e concetti<br />

quoti<strong>di</strong>ani (che siano o non siano universali), così il fantastico ha valenza “me<strong>di</strong>ata” <strong>di</strong><br />

messaggio racchiuso in un simbolo che sia traducibile più o meno “imme<strong>di</strong>atamente”<br />

in immagini vive o messaggi plausibili o comunque in sensazioni forti ed evocative,<br />

come una piccola sfida ad aprire veli sottili (ci ritorneremo per <strong>De</strong> Andrè, <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong>,<br />

Fossati). Quest’ultima caratteristica è la più vicina alla poesia pura, ma se ne <strong>di</strong>stingue<br />

per l’assoluta semplicità e maneggevolezza, nonché per una costruzione più<br />

intelligibile <strong>di</strong> metafore: vale a <strong>di</strong>re che le figure <strong>di</strong> pensiero in canzone vanno costruite<br />

con pezzi (termini, parole) comprensibili anche se la struttura finale non risulta in sé,<br />

subito, meccanicamente chiara: chi ascolta deve prima avvertire un “senso”, poi, se è il<br />

caso (ma non sempre lo è), tradurlo. La metafora in poesia invece parte già spesso da<br />

termini singoli oscuri per approdare ad una figura <strong>di</strong> pensiero certamente più complessa<br />

e da affrontare con altro spirito. La <strong>di</strong>fferenza è dettata da tempo, spazio e musica. La<br />

canzone non ha spazio che non sia quello dell’estensione musicale e si trova così ad<br />

avere due “significanti” da accordare tra loro, laddove la poesia ne ha uno solo.<br />

Tre strade italiane <strong>di</strong> rottura.L'"io",il remake popolare,l'irrompere dei "me<strong>di</strong>a".<br />

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Il rinascimento della canzone italiana parte dal “ground zero” del dopoguerra. Fa leva<br />

sulle totali mutazioni del tessuto sociale, politico, intellettuale dagli anni ’50 in poi.<br />

Abbiamo già indagato tutto questo nella <strong>di</strong>spensa sulla canzone italiana (capitolo<br />

finale) e sulla canzone d’autore (primo capitolo).<br />

Ci limitiamo a considerare che la prima generazione del dopoguerra è, come si <strong>di</strong>ce, “<strong>di</strong><br />

rottura”. Non si riconosce cioè negli obiettivi, negli ideali, nella realtà dei padri; è<br />

povera <strong>di</strong> certezze e “universali”, conosce sentimenti nuovi come l’angoscia, la noia, la<br />

solitu<strong>di</strong>ne, l’impotenza e altresì la rabbia: vuole cambiare, trasformare, ricostruire, ma<br />

non sempre ha chiaro come farlo. Questo “spleen”, questa dubbiosità <strong>di</strong>lagante, questa<br />

scontentezza generalizzata si rivelano in gra<strong>di</strong> e forme <strong>di</strong>verse a seconda dei ceti,<br />

dell’educazione, della collocazione geografica e trovano sfogo in canoni del tutto<br />

<strong>di</strong>fferenti che vanno dall’esistenziale al politico, allo sfogo <strong>di</strong>simpegnato. Ciò è<br />

avvertibile in ogni campo dell’arte (cinema, teatro, pittura, narrativa, poesia), e per<br />

ragioni strutturali (perché ogni società è struttura e tutto cresce, cala, si sposta assieme),<br />

in canzone e nel linguaggio della canzone.<br />

Le nuove generazioni conoscono Eliot, Pound, Neruda, leggono gli italiani<br />

contemporanei, ascoltano la grande stagione <strong>di</strong> chansonniers francesi, s’innamorano del<br />

grande jazz, paragonano le dubbiosità, le paure, le angosce e le gioie dei gran<strong>di</strong> maestri<br />

alle proprie. Alcuni provano una grande ansia <strong>di</strong> esprimere: se stessi per prima cosa,<br />

come misura involontaria del mondo esterno, dal mondo dentro. Per farlo si accorgono<br />

della assoluta necessità <strong>di</strong> creare musica e parole tutte e due insieme, senza demandare<br />

ad altri l’uno o l’altro supporto. La canzone d’autore nasce da questo malessere e<br />

<strong>di</strong>sagio interpretativo della inderogabile unità <strong>di</strong> segni (musica e parole), non alienabili<br />

e strettamente personali. È questa la risposta che chiamiamo esistenziale.<br />

Altri, non tutti giovani per la verità, sentiranno l’esigenza <strong>di</strong> riscoprire le fonti più<br />

autentiche della canzone indagando nell’universo dei canti regionali popolari. Schifati e<br />

inveleniti dal “non vero” , dal “finto popolare” della canzone all’italiana, sempre più<br />

costruita e commerciale, si lanceranno in quest’impresa romantica e un po’ utopica.<br />

Non solo, alla ricerca e raccolta (opera più da intellettuali) accoppieranno la ri-<br />

composizione. Cioè tenteranno <strong>di</strong> scrivere canzoni popolari italiane sui canoni <strong>di</strong> quelle<br />

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egionali. È questo l’in<strong>di</strong>rizzo che chiameremo social-politico. Altri ancora si<br />

accontenteranno <strong>di</strong> proposte, novità, cambiamenti a forte matrice estetica, formale,<br />

privilegiando cioè una sorta <strong>di</strong> sfogo lu<strong>di</strong>co, <strong>di</strong> appagamento emotivo imme<strong>di</strong>ato a<br />

scapito <strong>di</strong> contorcimenti interiori e ricerche intellettuali. Per costoro fondamentale sarà<br />

la scoperta del rock americano. È questo il genere che chiameremo <strong>di</strong> sfogo<br />

<strong>di</strong>simpegnato.<br />

In tutto questo bailamme non è che la vecchia canzone scompaia, assolutamente no. Ma<br />

cambia spesso veste formale; rinnova in parte il linguaggio, propagando però sempre,<br />

anche se in <strong>di</strong>verso modo gli stessi temi ritriti e snocciolando retorica come se niente<br />

fosse stato. Non è nostro scopo un’analisi particolareggiata delle <strong>di</strong>verse semantiche<br />

linguistiche <strong>di</strong> questo “rinascimento”. Ci basterà in<strong>di</strong>viduare alcuni punti salienti.<br />

<strong>De</strong>nominatore comune dei <strong>di</strong>versi generi (o scuole o strade) è l’attinenza al vero, a<br />

cominciare dal linguaggio che elimina ogni tipo <strong>di</strong> arcaismo e qualsiasi sintagma in<br />

odore <strong>di</strong> poesia. L’espressione è sempre più equiparabile al “parlato”, <strong>di</strong>rei alla prosa,<br />

pur se in <strong>di</strong>verse maniere. Questo “parlato” è nei primi cantautori semplice ed<br />

essenziale, a volte volutamente un po’ rude, persino non sintatticamente<br />

consequenziale, come se i pensieri uscissero in modo <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>nato, istintivamente. Sarà<br />

maestro in questo proprio F. <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong>. Volontariamente vengono eliminate frasi ad<br />

effetto, ori e orpelli, spesso pure la rima. I versi sono spezzati, sciolti, le parole<br />

travalicano e forzano la melo<strong>di</strong>a che è quasi sempre semplicissima, perché in fin dei<br />

conti opera <strong>di</strong> <strong>di</strong>lettanti, <strong>di</strong> improvvisatori. In Paoli, Tenco, Lauzi, si nota una ricerca<br />

straor<strong>di</strong>naria <strong>di</strong> termini mai usati in canzone (perché considerati poveri o inadatti, o<br />

antipoetici) che marcano la plasticità delle immagini cantate (Sassi, camerieri<br />

maleducati, soffitto viola, mi sono innamorato perché non avevo niente da fare,<br />

scopare, mani gran<strong>di</strong>, donne e motori, via Broletto numero 34, alle <strong>di</strong>eci <strong>di</strong> mattina con<br />

l’abito da sera).<br />

Questa terminologia è perfettamente consona, in linea con la tematica (d’amore o<br />

sconforto, <strong>di</strong> provvisorietà o inquietu<strong>di</strong>ne) che viene espressa con assoluto<br />

minimalismo: niente è universale, ma quel che capita a me è <strong>di</strong> tutti. Non c’è mito, non<br />

esiste soluzione. Conclusione: la risposta “alta” non viene nemmeno cercata (“Tutto è<br />

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qui nelle tue mani”) e appaga o rimanda ad altro sempre in una catena <strong>di</strong> apparenti<br />

piccole cose. Gli ambienti cambiano (bar, soffitte, strade, tram), la storia è ferma dal<br />

principio alla fine, non ha quasi mai svolgimento (come succedeva nella romanza),<br />

proprio perché è un pensiero, un sentimento <strong>di</strong> un attimo a proporla. Evidentissimo<br />

tutto ciò in Tenco, per il quale tutto è già segnato, determinato da principio (Ragazzo<br />

mio/ lontano, lontano) in una sorta <strong>di</strong> impotenza sdegnata e rabbiosa, con nessuna<br />

apertura alla “prassi politica”. La donna, l’amore sono in genere sofferenza, ma per il<br />

proprio equilibrio, non per l’amore in sé, non per una qualsiasi ricerca d’armonia <strong>di</strong><br />

coppia.<br />

E l’amore è delirio <strong>di</strong> un attimo non prolungabile oppure appagamento forte ma scisso<br />

dal tempo, da considerazioni d’eternità (“senza fine”). Paoli, Tenco, Lauzi, Endrigo ma<br />

persino il primo <strong>De</strong> Andrè aprono la strada al primo vero linguaggio in canzone, forse<br />

anche più <strong>di</strong> Modugno che ne è il capostipite.<br />

Significa che con loro la canzone finisce <strong>di</strong> essere un genere ibrido, <strong>di</strong> consolazione o<br />

comunque “minore” che per darsi una voce deve ricorrere ad altre arti (poesia o<br />

musica). Significa che con loro la “forma canzone” <strong>di</strong>venta veramente genere artistico<br />

a sé perché non copia, non approfitta, non fa il verso: si <strong>di</strong>stingue. Parla ed esprime<br />

come melo<strong>di</strong>a vuole in 3/4 minuti e questa sua espressione non ha niente in comune<br />

con la versificazione colta e neppure con le litanie popolari.<br />

È come se da qui il linguaggio in canzone cominciasse a costruirsi su se stesso senza<br />

andare a pescare in altre forme letterarie che non gli appartengono, e a furia <strong>di</strong><br />

costruirsi troverà varianti provvisorie e più o meno definitive anche semanticamente<br />

agli antipo<strong>di</strong> come le accadrà per i due gran<strong>di</strong> <strong>di</strong>vergenti caposcuola Mogol e <strong>De</strong><br />

Gregari.<br />

Altro grande linguaggio colloquiale, vivo, importantissimo è quello che nasce nel 1957<br />

a Torino per merito <strong>di</strong> Calvino, Liberovici, Fortini. L’operazione non ha svicoli, è a<br />

muso duro e si ripromette ”<strong>di</strong> riportare nella canzone italiana il duro contenuto della<br />

cronaca quoti<strong>di</strong>ana”. Verità vera, prassi, nessun (o pochi) coinvolgimento personale,<br />

nessun egocentrismo. Un neo-realismo soffocante intriso <strong>di</strong> immagini e <strong>di</strong> metafore<br />

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ingenue, naif, come verrebbero in mente al popolo minuto, <strong>di</strong> primo acchito. È canzone<br />

<strong>di</strong> protesta e <strong>di</strong> analisi sociologica, fortemente avvinghiata al <strong>di</strong>sastro dell’Italia minore,<br />

prevaricata e illusa in quegli anni.<br />

L’intento è <strong>di</strong> sciorinare una prosa rabbiosa e propositiva in poesia: ban<strong>di</strong>re ogni<br />

astrazione e parlar chiaro: considerare la canzone non come un possesso personale, ma<br />

cumulativo <strong>di</strong> tutti gli italiani per illustrare con sentimenti primor<strong>di</strong>ali, soprusi, <strong>di</strong>sagi,<br />

voglia <strong>di</strong> riscossa, <strong>di</strong> chi è stato beffato, <strong>di</strong> chi è emarginato. Nel ’62 a rafforzare questo<br />

gruppo denominato “cantacronache” interverrà il N.C.I. (Bosio e Ley<strong>di</strong>) che ha in<br />

Giovanna Marini e Ivan <strong>De</strong>lla mea Mea i cantori più alti.<br />

La notevole <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> linguaggio rispetto alla canzone d’autore (asciutto, preciso,<br />

con nomi e cognomi, senza tremiti d’amore perduto ecc) è ovviamente conseguenza del<br />

<strong>di</strong>verso proposito <strong>di</strong> questi intellettuali in canzoni: Cantacronache e N.C.I. sono lontani<br />

mille miglia dai dubbi esistenziali, dal <strong>di</strong>sagio <strong>di</strong> vivere dei cantautori: il loro<br />

messaggio è <strong>di</strong> lotta, <strong>di</strong> prassi, <strong>di</strong> azione e deve necessariamente passare attraverso una<br />

denuncia, una testimonianza forte, appassionata, <strong>di</strong> stampo politico. Non poco spazio<br />

avranno quin<strong>di</strong> le fabbriche occupate, la pietà per i popoli in guerra (“Piccolo An”), e<br />

per la nostra guerra; i partigiani e i fascisti, le ban<strong>di</strong>ere rosse, i treni affollati <strong>di</strong> povera<br />

gente. Ma altresì (Dario Fo, Laura Betti, la Vanoni seguiranno a ruota), il degrado<br />

citta<strong>di</strong>no, le con<strong>di</strong>zioni delle prostitute dei “rochetè”, dei morti <strong>di</strong> fame e dei poveri<br />

cristi (Iannacci).<br />

Questo linguaggio in canzone rappresenta come una costruzione improvvisa e tutta<br />

insieme <strong>di</strong> qualcosa che nella storia italiana non è mai esistita e cioè quasi una<br />

ricostruzione postuma della canzone nazional-popolare.<br />

Si è voluto immaginare come avrebbero scritto oggi gli italiani le loro canzoni popolari<br />

se avessero avuto una tra<strong>di</strong>zione popolare unitaria, cosa mai successa. Naturalmente<br />

rimase (e rimane) uno straor<strong>di</strong>nario esercizio, un appassionato grido <strong>di</strong> verità, ma non<br />

colpì nessuna maggioranza e non riuscì a competere, fuori, né coi cantautori, né coi<br />

rokkettari.<br />

Ma il linguaggio <strong>di</strong> “cantacronache” è un altro grande esempio <strong>di</strong> ricerca <strong>di</strong> libertà<br />

semantica in canzone (o <strong>di</strong> ripresa , perché nella canzone popolare <strong>di</strong> altri paesi e<br />

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egionale in Italia questa libertà già esisteva). Ed ebbe come vedremo importanti<br />

influssi su gran parte della ricerca linguistica nei cantautori <strong>degli</strong> anni ’70 da Guccini a<br />

Bennato, da Ven<strong>di</strong>tti a <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong>.<br />

Tutt’altra vicenda quella della canzone italiana, <strong>di</strong>ciamo così “<strong>di</strong>simpegnata” o<br />

comunque <strong>di</strong> “svago”, “d’ascolto” da fine anni ’50 in poi.<br />

Anche qui il linguaggio cambia, e fortemente, rispetto al passato, ma va fatta una<br />

<strong>di</strong>stinzione. Da una parte la vecchia canzone all’italiana non muore del tutto, pur<br />

tenendo sempre in primo piano l’assetto melo<strong>di</strong>co più o meno tra<strong>di</strong>zionale, si<br />

modernizza fortemente, si semplifica, esce spesso dalla retorica, abbrevia i tempi,<br />

attualizza comunque il modo <strong>di</strong> esprimere parole e temi.<br />

Dall’altra parte irrompe l’emulazione <strong>di</strong> generi rock e country d’oltreoceano. E qui le<br />

parole subiscono fortemente il potere della melo<strong>di</strong>a, la primogenitura dei ritmi e dei<br />

tempi, fino a doversi modellare in ogni maniera, stingersi, allargarsi, collocarsi come<br />

meglio possono in un <strong>di</strong>segno già costruito, sia che i brani siano originali italiani (o<br />

imitazioni) sia che si tratti <strong>di</strong> “cover”.<br />

Nell’uno e nell’altro caso fondamentale sarà l’apporto dei “parolieri”, brutto termine<br />

per definire un professionista cui viene consegnata una melo<strong>di</strong>a bell’e che fatta perché<br />

la rivesta <strong>di</strong> un senso e <strong>di</strong> una storia.<br />

Nell’uno e nell’altro caso comunque sia la canzone che il linguaggio son già mirati in<br />

partenza dovendo sod<strong>di</strong>sfare precisi target (e <strong>di</strong>versi) d’ascolto. Più “festivaliero”<br />

leggermente più anziano il pubblico della evoluta canzone italiana; più giovane, spesso<br />

in erba quello dei “venti” americani.<br />

Il personaggio del “paroliere” (brutto termine, confermo) svolge negli anni 60/70 un<br />

compito primario, vario, complicato da un nugolo <strong>di</strong> esigenze commerciali e<br />

d’immagine per cui si trova spesso a dover mettere d’accordo se stesso, l’autore della<br />

musica e l’e<strong>di</strong>tore (con tutti i suoi interessi), senza perdere <strong>di</strong> vista l’imme<strong>di</strong>atezza del<br />

linguaggio e (se si tratta <strong>di</strong> cover), la fedeltà almeno apparente delle traduzioni. I<br />

Parolieri, chiamati poeti per la verità hanno riempito tutta la storia dei primi 50 anni<br />

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della canzone italiana: ma là eravamo nel campo del “non vero”; dell’imitativo, del<br />

ripetitivo, a parte le poche citate occasioni. Il “paroliere-poeta” poteva usar la retorica<br />

che voleva, ma non poteva trasgre<strong>di</strong>re alle norme del bon-ton, della morale asfissiante,<br />

<strong>degli</strong> stereotipi in auge (sesso-tabù, donna-madre, donna-per<strong>di</strong>zione, casetta-città,<br />

amore-eternità).<br />

Il “paroliere” <strong>degli</strong> anni 60/70 invece viaggia tra libertà e affanno cercando<br />

generalmente più del “vero”, il “possibile” a volte il caso-limite, l’astruso, che però<br />

siano già desideri, sogni nell’immaginario collettivo: deve cioè quasi sempre ricoprire<br />

una funzione adulatoria e accattivante sul pubblico, cercando <strong>di</strong> sputtanarsi il meno<br />

possibile. La canzone deve “prendere” subito, non esistono preamboli o sottigliezze:<br />

bisogna trovare un’idea vincente che resti, buchi l’ascolto, <strong>di</strong>venti proverbio o simbolo.<br />

La battaglia col “vero” <strong>di</strong> cui parlavamo, qui si fa pesante ed incerta e non sempre<br />

definibile. “Vero” ma ammiccante è “Il ragazzo della via Gluck”: “vero” ma<br />

“strapaese” “Sarà quel che sarà”; “vero” ma ovvio “Piove” o “Ad<strong>di</strong>o, ad<strong>di</strong>o” <strong>di</strong><br />

Modugno. “Vero” a guardar bene anche “L’italiano” <strong>di</strong> Minellono ma forzato sui toni<br />

più scontati, molto, molto vicino alla retorica del passato. Eppur tutte queste e altre<br />

mille canzoni del rinnovato melo<strong>di</strong>smo italiano han già una lingua <strong>di</strong>fferente, fatta <strong>di</strong><br />

cose e <strong>di</strong> immagini quoti<strong>di</strong>ane, senza voli pindarici inutili e retrò. Nel loro strizzar<br />

l’occhio alla commerciabilità, alle ven<strong>di</strong>te, al mercato che ormai la fa da padrone,<br />

risultano spesso ovvie ma non malefiche, a parte i casi in cui la trappola del<br />

sentimentalismo appare più che evidente.<br />

Perché questo è il grande salto: nascono i me<strong>di</strong>a. Si comunicano sentimenti con una<br />

facilità incre<strong>di</strong>bile. Si vendono sentimenti. Direi a conti fatti che la nuova “canzone<br />

italiana” muta ra<strong>di</strong>calmente nel linguaggio che si fa finalmente <strong>di</strong>scorsivo e attuale, ma<br />

tende ancora a catturare l’attenzione con sentimenti e sogni datati, facili da esprimere e<br />

da leggere, ancora parecchio falsamente consolatori.<br />

È il caso <strong>di</strong> “Fin che la barca va”, <strong>di</strong> “Taxi”, <strong>di</strong> “Non ho l’età”, perfino <strong>di</strong> “Una lacrima<br />

sul viso” e <strong>di</strong> “Zingara” e via <strong>di</strong>cendo.<br />

Io ho vissuto quel tempo, ero giovane <strong>di</strong> bottega, prima dell’impegno, prima <strong>di</strong><br />

conoscere <strong>De</strong> Andrè e Guccini. Non si pensava nemmeno per un secondo al male o al<br />

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ene, al brutto o al bello, al messaggio, a meno che non fosse descritto in modo<br />

scontato o per la rivoluzione o per la reazione. C’era una gran frenesia tra noi parolieri<br />

<strong>di</strong> trovare l’idea strabiliante, il giro <strong>di</strong> parole che prendesse tutti, la storia d’amore in<br />

cui ci fosse perfetta identificazione del pubblico. Tutto ciò era sicuramente per molti<br />

dettato dalla richiesta commerciale, dalle ven<strong>di</strong>te, dall’allineamento con l’industria: un<br />

paroliere vincente era un paroliere ricercato e spesso usato. Io non l’ho mai vissuta<br />

così, tantovero che non ho mai scritto gran<strong>di</strong> successi, anzi spesso spiazzavo i <strong>di</strong>rigenti<br />

<strong>di</strong> case <strong>di</strong>scografiche a cui sembravo un pazzo con improbabili continui tentativi <strong>di</strong><br />

successo. Sta <strong>di</strong> fatto che io mi <strong>di</strong>vertivo a cercare idee anche semplici, anche<br />

<strong>di</strong>sincantate: vivevo questa schizofrenia tra l’impegno smisurato delle canzoni che mi<br />

scrivevo in segreto e il gioco cialtronesco delle canzonette <strong>di</strong> consumo. Vero è che né<br />

io, né altri più bravi <strong>di</strong> me in questo gioco vivevamo <strong>di</strong> frasi fatte: tutti noi cercavamo<br />

un’occasione, una frase mai detta, una trama <strong>di</strong>versa dalla norma.<br />

Non sto nemmeno a catalogare i mestieranti, i “nostalgici”, gli “ovvii”, i fasulli, i<br />

ripetitivi: erano la maggior parte. Ma molti, i più geniali, pur strizzando l’occhio<br />

all’effetto, costruivano comunque un linguaggio secco, alternativo, facile, da canzone<br />

moderna <strong>di</strong> <strong>di</strong>simpegno.<br />

In molti casi questo tipo <strong>di</strong> linguaggio rispettava il “vero” era cioè cronaca, se pur<br />

spicciola, almeno verosimile <strong>di</strong> sentimenti. Questa ricerca <strong>di</strong> accessibilità a tutti,<br />

barando il meno possibile portò alla scoperta <strong>di</strong> un “nuovo popolare” (pop), in cui lo<br />

sfondo <strong>di</strong> campagna, lavoro e “rimette” varie veniva sostituito da uno scenario <strong>di</strong> città<br />

post-industriale e me<strong>di</strong>o-borghese, e le conseguenti ripercussioni sull’amore, la gelosia,<br />

il <strong>di</strong>stacco, l’innamoramento.<br />

In molti brani <strong>di</strong> Mina, Zanicchi, ma anche <strong>di</strong> Michele, Patty Pravo, Tessuto, Ranieri,<br />

Fontana e altri tutto ciò è molto evidente.<br />

Qui non stiamo facendo (ancora) un <strong>di</strong>scorso sul “bello”, ma sul “cre<strong>di</strong>bile”,<br />

sull’”atten<strong>di</strong>bile”, sulla riproduzione non alterata e “fumettosa” della vita e, ripeto,<br />

anche se gran parte dei parolieri purtroppo prosegue per quella strada, un bel manipolo<br />

invece contribuisce ad una tematica e a una letterarietà importante per il linguaggio in<br />

canzone. Potrei far nomi: uno su tutti è Mogol, ovvero Giulio Rapetti, <strong>di</strong> cui parleremo<br />

22


a lungo. Ma anche altri come Testa e Calabrese sono sulla via giusta.E con Calabrese<br />

nasce anche la grande via alla traduzione <strong>di</strong> sensibilità straniere.<br />

Quarta strada (o terza bis ?)<br />

Il linguaggio del “progressive” italiano merita un cenno a parte. Si è detto che imitando<br />

schemi e melo<strong>di</strong>e americane questa forma-canzone lasciava molto poco spazio alle<br />

parole. Vero e no. Diciamo che costringeva i parolieri a giochi <strong>di</strong> prestigio e acrobazie<br />

non da poco. Si sa che l’inglese è “slang” rapido, molto sonoro (gutturali e me<strong>di</strong>e in<br />

genere), monosillabico, tronco negli accenti, sintetico negli elementi della<br />

proposizione: tutto ciò mancava e manca nella lingua italiana. Molto spesso quello che<br />

il rocker americano <strong>di</strong>ceva in quattro parole era intraducibile in meno <strong>di</strong> sette o otto. Si<br />

doveva quin<strong>di</strong> stringare fino all’inverosimile, rinunciare a qualcosa, trovare un termine<br />

che ne significasse due o tre insieme, racchiudere in un verbo solo il senso <strong>di</strong> una frase<br />

e usare una miriade <strong>di</strong> “zeppe” per tappare i buchi (più, giù, così, ma, però, là, etc);<br />

nonché, dove risultava impossibile l’uso <strong>di</strong> tronche (poche in italiano) rendere piana<br />

l’ultima parola del verso, con la conseguente aggiunta <strong>di</strong> una nota semimuta.<br />

Tutto ciò se da una parte richiedeva mestiere ed abilità, dall’altra capitava a fagiolo,<br />

perché questa forma-canzone era rivolta soprattutto ai giovani che ritrovavano in quella<br />

scheletricità verbale il proprio “slang”, il proprio modo <strong>di</strong> comunicare.<br />

Anche in questo genere esisteva del “non-vero” e del “vero” o meglio verosimile. Certo<br />

che si attizzavano ideali e sogni (in modo generalizzato, non politico stretto) fino<br />

all’utopia e si rendevano importantissimi flirt amorosi <strong>di</strong> un momento, ma questo tipo<br />

<strong>di</strong> esagerazione non era più propaganda né retorica, riproduceva abbastanza fedelmente<br />

gli eccessi dell’animo giovanile, contrario alla “normalità", così propenso al “tutto o<br />

niente”.<br />

Fu soprattutto il linguaggio dei “gruppi” <strong>di</strong> quegli anni (Camaleonti, Dick Dick, Corvi,<br />

New Trolls e anche se pur meno attenti Nuovi Angeli, Neanderthalmen, etc).<br />

23


Svago e <strong>di</strong>simpegno, s’è detto, quin<strong>di</strong> nessuna ricerca profonda, almeno fino ad un<br />

certo punto. Ma riba<strong>di</strong>sco che qui non stiamo facendo un <strong>di</strong>scorso <strong>di</strong> valori né ci<br />

proponiamo un trattato estetico. Stiamo solo verificando dove le parole in canzone<br />

siano state linguaggio a sé e testimoni <strong>di</strong> un modo <strong>di</strong> vivere, <strong>di</strong> una cultura.<br />

In molti casi sia l’evoluzione della canzone leggera, sia l’elaborazione del <strong>di</strong>segno<br />

americano presentano questi crismi e non restano inascoltate dai successori.<br />

Si va formando cioè un bagaglio <strong>di</strong> espressioni, mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> <strong>di</strong>re, schemi; si va<br />

specificando un vocabolario <strong>di</strong> segni <strong>di</strong>retti o evocativi che <strong>di</strong>venteranno patrimonio<br />

comune del significare in musica e questo resta importante e storico.<br />

Tre filoni anzi quattro, quin<strong>di</strong>, con varianti, è ovvio ,e intersecazioni, sorpassi e ritorni,<br />

ma in generale tre (o quattro) filoni <strong>di</strong> lingua e linguaggio in canzone. Nessuno <strong>di</strong><br />

questi può essere accomunato alla poesia tra<strong>di</strong>zionale, classica. Nessuno alle anticaglie<br />

dei secoli precedenti. Tutti e quattro in <strong>di</strong>verse maniere procedono dal linguaggio<br />

parlato, sono esplicativi (chiari) e momentanei (rapi<strong>di</strong>). Tutti e quattro hanno un<br />

vocabolario sempre più specializzato. Tutti si attengono alla tematica del reale e del<br />

quoti<strong>di</strong>ano: laddove irrompono i sogni, sono sogni d’oggi; se la costruzione è<br />

favolistica adombra comunque contemporaneità e ricerca <strong>di</strong> valori aperti, <strong>di</strong> libertà<br />

espressiva ed affettiva.<br />

Le storie <strong>di</strong>ventano segmenti <strong>di</strong> storia; piccoli apologhi: più spesso al posto della storia<br />

c’è un’autoconfessione, un ritratto, un incontro fuori dal tempo. L’io (e non solo nella<br />

canzone d’autore) tende ad essere protagonista, perché più vivo, più emotivo. La<br />

metafora è rara e semplice nei termini da congiungere; più frequente (e questo viene dal<br />

folk) la similitu<strong>di</strong>ne.<br />

La canzone si fa specchio della contemporaneità: sia che questa comporti dubbi e<br />

<strong>di</strong>segni esistenziali, sia che proponga <strong>di</strong>lemmi sociali e prassi politiche, sia che mostri<br />

l’aspetto imme<strong>di</strong>ato, semplificato delle cose e dell’amore.<br />

<strong>De</strong> Andrè,Guccini<br />

24


Discorsi eccezionali <strong>di</strong> lì a poco inventeranno <strong>De</strong> Andrè e Guccini. Tutte proposizioni<br />

extra-norma <strong>di</strong> due genialità molto <strong>di</strong>fferenti e per questo veramente inimitabili.<br />

L’invenzione letteraria <strong>di</strong> <strong>De</strong> Andrè è presentata sulla <strong>di</strong>spensa 2000-2001. Siamo in un<br />

campo in cui lo scarto tra poesia e canzone è inavvertibile. Siamo all’estremo della<br />

ricerca. Nel regno del “bello”. <strong>De</strong> Andrè gode della libertà <strong>di</strong> cucirsi la musica sui versi<br />

a metà tra aedo, cantore lirico e trovatore, ma costruisce un mondo <strong>di</strong> idee in parole che<br />

gli derivano dalla straripante cultura e dal sapiente filtro nell’esporla in canzone. Come<br />

già scritto (cfr. <strong>di</strong>spensa 2000-2001) <strong>De</strong> Andrè taglia tutti i ponti con l’ovvio, il banale,<br />

il fotografico, costruisce una sintassi e una semantica filmica (Piero, Marinella, Michè,<br />

Il Pescatore, etc) ed evocativa (accenni, sprazzi, colori), <strong>di</strong>pinge a penna, eleva la<br />

metafora a perfezione assoluta. E tutto questo in un contesto finalizzato a messaggi<br />

fondamentali sulla natura dell’uomo, con quella straor<strong>di</strong>naria capacità <strong>di</strong> farsi<br />

comprendere che è dei gran<strong>di</strong>ssimi. Da lui hanno imparato in molti, non escluso <strong>De</strong><br />

<strong>Gregori</strong>.<br />

Guccini è volutamente letterario, volutamente prolisso, preciso, pignolo nella ricerca<br />

del termine. Ma non è filmico (a parte la Locomotiva e poco altro), è “libresco”. In lui<br />

le parole crescono sulle parole e rimandano ad altre parole: a volte lo stesso concetto<br />

viene ripetuto più volte visto da angolazioni <strong>di</strong>verse; su tutto troneggia la sua imperiosa<br />

personalità Egli riempie la scena e i versi, non si limita a raccontare, ma partecipa come<br />

se vivesse nel momento in cui scrive e sprizza rabbia vera, dubbi veri, verissimi,<br />

malinconia universale. Il suo linguaggio è un fiume in piena, perfino ridondante,<br />

eccessivo, pieno <strong>di</strong> parentesi e ritorni, con frequenti salti <strong>di</strong> scena e d’umore, una prosa<br />

lirica senza fine. In lui la lezione americana è colta molto <strong>di</strong>versamente dai gruppi<br />

“progressive” italiani, se si escludono i Noma<strong>di</strong>. Guccini guarda a Dylan, ma va<br />

perfino oltre, gli altri pensavano a Presley, ai Mama’s and Papa’s, ai Clearence, e pur<br />

raramente, ai Beatles.<br />

<strong>De</strong> Andrè e Guccini rappresentano forse e tutt’oggi il più alto grado raggiunto dal<br />

linguaggio in canzone. Si deve dunque scrivere così una canzone? La domanda è mal<br />

posta. Come se chiedessi: “Si deve per forza <strong>di</strong>pingere come Leonardo o Rembrandt?”<br />

No. I capolavori in ogni campo sono e restano pochi, van seguiti e <strong>stu<strong>di</strong></strong>ati, vanno<br />

25


collezionati, anche fin dove è possibile (e quasi mai è possibile) imitati, ma chiusa lì.<br />

Al nostro <strong>di</strong>scorso non interessa che esistano picchi <strong>di</strong> inaccessibilità, valori sopra la<br />

norma. A noi interessa la norma, che cioè esista in modo più generale, un linguaggio<br />

originale, proprio specifico della forma-canzone che non debba essere servo o figlio <strong>di</strong><br />

altri generi letterari. Certo più questo linguaggio è alto più ne siamo fieri, ma noi<br />

dobbiamo guardare alla “me<strong>di</strong>età”, dobbiamo scoprire cioè se una particolare tecnica,<br />

una particolare “ispiratività” permettano l’esistenza <strong>di</strong> una POETICA della canzone.<br />

E cre<strong>di</strong>amo <strong>di</strong> sì.<br />

La canzone si costruisce un linguaggio suo ,proprio, in<strong>di</strong>pendente.<br />

La grande stagione <strong>di</strong> Mogol .Concetto <strong>di</strong> "me<strong>di</strong>età".<br />

La vera grande (forse perfetta) “me<strong>di</strong>età” nel linguaggio in canzone è raggiunta da<br />

Giulio Rapetti, in arte Mogol.<br />

Inten<strong>di</strong>amoci su questo concetto <strong>di</strong> “me<strong>di</strong>età”:<br />

me<strong>di</strong>età significa essere accessibile a tutti non perché costruisci <strong>di</strong>scorsi che tutti<br />

si aspettano e sanno già prima, ma perché racconti quello che gli altri sentono in<br />

sé e o non ci fanno caso, o non lo sanno esprimere.<br />

me<strong>di</strong>età significa saper conciliare un <strong>di</strong>scorso alto e un <strong>di</strong>scorso basso. Avere cioè<br />

eleganza, sottigliezza, intuizioni sorprendenti e far arrivare tutto ciò a chi ascolta<br />

<strong>di</strong> primo acchito, senza bisogno <strong>di</strong> me<strong>di</strong>azioni.<br />

me<strong>di</strong>età significa rappresentare la gente com’è in generale, le cose come sono,<br />

senza fronzoli o contorsioni retoriche: significa interpretare i sentimenti comuni e<br />

non eccezionali, rileggere i pensieri <strong>di</strong> tutti e non <strong>di</strong> pochi.<br />

me<strong>di</strong>età è arrivare ovunque, parlando sì d’amore, ma in modo che a ognuno<br />

quello sembri il suo amore.<br />

26


me<strong>di</strong>età è usare un vocabolario minimo e farlo sembrare sterminato, grazie alla<br />

genialità <strong>di</strong> incroci <strong>di</strong> unioni <strong>di</strong> termini. Come possedere un temperino svizzero<br />

milleusi.<br />

me<strong>di</strong>età è saper raccontare la stessa storia in mille mo<strong>di</strong> <strong>di</strong>versi<br />

non copiare mai, non lasciarsi prendere dalla voglia <strong>di</strong> strafare; <strong>stu<strong>di</strong></strong>are per anni<br />

con intelligenza il mercato, i riflessi del sociale, cosa richiede la gente.<br />

e me<strong>di</strong>età è infine perfino “poesia”, <strong>di</strong> quella che arriva, quando si capisce che<br />

non è costruita apposta, ma è naturale, istintiva.<br />

Ora Mogol non sempre è rientrato in questi canoni. Esiste una valanga <strong>di</strong> sue canzoni<br />

(ne ha scritte migliaia) dove la “me<strong>di</strong>età” viene sopraffatta dalla ruffianeria, dal<br />

mestiere, dall’interesse. Ma ci furono delle scusanti e oltretutto in quelle canzoni si<br />

<strong>di</strong>mostra comunque un grande professionista del verso e del senso. E poi era molto<br />

giovane.<br />

Ma da un certo momento in poi Mogol inventa e propone una particolare tecnica <strong>di</strong><br />

versificazione che non mi vergogno <strong>di</strong> definire la vera poetica in musica, sicuramente<br />

quella che assomiglia <strong>di</strong> più al modello popolare , a sé stante, originale, <strong>di</strong> linguaggio<br />

in canzone. Mogol è il linguaggio in canzone.<br />

Nel corso <strong>degli</strong> ultimi 40 anni Mogol ha scritto tra le più belle canzoni italiane. Ha fatto<br />

uso <strong>di</strong> questa me<strong>di</strong>età (attenzione il termine è positivo) per rivestire <strong>di</strong> versi<br />

perfettamente idonei, centrati , melo<strong>di</strong>e cantate da tutti i gran<strong>di</strong>, Mina, Celentano,<br />

Cocciante, Moran<strong>di</strong>, etc. e da emergenti dottissimi. Ma il suo nome, il suo lavoro, la<br />

sua opera è in<strong>di</strong>ssolubilmente legata all’incontro con Battisti.<br />

Connubio strano, stranissimo, unico. Unico perché <strong>di</strong>versissimi erano i personaggi:<br />

romano, popolareccio, chiuso l’uno; nor<strong>di</strong>co, febbrile, scatenato l’altro: grande<br />

musicista in senso internazionale Battisti, capace <strong>di</strong> unire la pensosità dei primi<br />

27


cantautori al grande “song” orchestrale americano senza <strong>di</strong>menticare né la canzone<br />

“all’italiana” né i Beatles. Una miniera <strong>di</strong> idee e motivi, ma parole zero.<br />

Estroverso, illimitato, giocoliere del verso Mogol non si fece scappare questa occasione<br />

che era poi l’occasione della sua vita, perché il vero “cantautore” tra i due in fondo<br />

risulta lui che in quegli anni e in quegli album ha riversato tutto se stesso, tutta la sua<br />

personalità. È Battisti che canta, ma canta Mogol, non se stesso; Mogol che è una<br />

specie <strong>di</strong> Cyrano nell’ombra (nemmeno tanto poi) e mette in bocca a chi le sa <strong>di</strong>r<br />

meglio parole sue.<br />

Battisti era geniale: sapeva trovare soluzioni melo<strong>di</strong>che e giri d’accor<strong>di</strong> impensabili;<br />

non raramente univa pezzi <strong>di</strong> melo<strong>di</strong>e <strong>di</strong>verse ma necessarie l’una all’altra, svariava sul<br />

polifonico, sapeva creare le attese, aveva “refrain” da pelle d’oca. Ma questo si sa e non<br />

è <strong>di</strong> lui che dobbiamo parlare.<br />

Erano due forze della natura, a volte mi chiedo come riuscissero a sopportarsi, come<br />

riuscissero a convincersi l’un l’altro. Ma <strong>di</strong> certo so, che nonostante la gran musica,<br />

nonostante il grande impatto popolare Battisti non sarebbe stato Battisti senza i versi <strong>di</strong><br />

Mogol.<br />

Cos’hanno <strong>di</strong> speciale queste canzoni? Tutto. Lo stravolgimento <strong>degli</strong> schemi narrativi,<br />

l’invenzione del <strong>di</strong>alogo a due e con sé stessi, l’introduzione <strong>di</strong> due tempi <strong>di</strong>versi<br />

(memoria e presente) nello stesso brano, la rappresentazione scenica, a quadro, spesso<br />

<strong>di</strong>alogata; la città e la natura come protagonisti e cose vive; l’uso <strong>di</strong> improvvise,<br />

inaspettate metafore e similitu<strong>di</strong>ni (come può lo scoglio…), tutte popolarissime,<br />

semplicissime; l’eufonia <strong>di</strong> quasi tutte le parole; la concentrazione miracolosa del tema<br />

<strong>di</strong> tutta la canzone in un solo verso (I giar<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> marzo, pensieri e parole, mi ritorni in<br />

mente, voglio Anna, Balla Linda, Non sarà un’avventura etc.): l’assoluta assenza <strong>di</strong><br />

moralismi e giu<strong>di</strong>zi: la rappresentazione del dolore con i fatti, con gli acca<strong>di</strong>menti e<br />

non con le parole del protagonista; e tanto ancora. All’ascolto il coinvolgimento è<br />

pressochè totale anche dove e quando Mogol svaria e gioca (Motocicletta, la gallina<br />

coccodè). Ecco che dalla sua timidezza salta fuori a ventaglio tutto quel che voleva <strong>di</strong>re<br />

e non ha mai detto, come in “Emozioni” forse la sua prova più intensa, dove quattro o<br />

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cinque immagini straor<strong>di</strong>narie definiscono l’anima <strong>di</strong> un uomo, le sue contrad<strong>di</strong>zioni e<br />

solitu<strong>di</strong>ni.<br />

Mai come con Battisti Mogol deve essere stato libero <strong>di</strong> inventare. Nella sua mente c’è<br />

la vita che scorre, e non solo nella <strong>di</strong>mensione <strong>di</strong> chi canta, ma <strong>degli</strong> altri che lo<br />

circondano, <strong>di</strong> tutti (si pensi a 29 settembre dell’Equipe), quasi la canzone fosse la<br />

cattura <strong>di</strong> un momento contemporaneo <strong>di</strong> persone e cose che s’incontrano (fiori rosa<br />

etc.) e non solo la descrizione monotona <strong>di</strong> un amore.<br />

A questo sfavillio <strong>di</strong> piani che s’intersecano Mogol mette a supporto descrizioni chiare<br />

intercalate da improvvise figure <strong>di</strong> pensiero, o da oggetti apparentemente fuori luogo<br />

che interrompono il flusso (il melo, il carretto <strong>di</strong> gelati, la bocca coi piselli), ma che ci<br />

schiacciano nella realtà, perché, attenzione, è come se <strong>di</strong>cesse io invento, ma invento<br />

tra cose che esistono.<br />

L’apparire <strong>di</strong> frasi o termini semplici ma spiazzanti ci consegna la magia <strong>di</strong> Mogol.<br />

Altra magia è l’apparente impersonalità. Battisti canta in prima persona ma risulta<br />

<strong>di</strong>fficilmente autobiografico. In realtà rappresenta il ragazzo, l’uomo me<strong>di</strong>o cui<br />

quell’avvenntura può realmente capitare: si rilegga l’andamento <strong>di</strong> “Marenero” per<br />

convincersene. “Marenero” è una versione italiana contemporanea <strong>di</strong> “Reginella” o <strong>di</strong><br />

“Voce è notte”. La storia della bambina che percorre l’innocenza parallelamente al<br />

protagonista fino ad una certa età poi si fa donna (e prima che lui <strong>di</strong>venti uomo: “ferma<br />

ti prego la mano”) è ad<strong>di</strong>rittura un archetipo junghiano e psicologia dell’età evolutiva, è<br />

comune a me, a te, a tutti. Ma è un’idea comune scavata e liberata dai meandri<br />

dell’essere uomo o donna, trova una giustificazione nelle realtà, è “verso”, è tendente, a<br />

<strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> mille storie d’amore dozzinali che si adagiano sulle superfici,<br />

sull’esteriore e non motivano le ragioni, le cause <strong>di</strong> una storia.<br />

L’impersonalità è ancor più forte nella descrizione <strong>degli</strong> oggetti “scarpette rosse, arance<br />

ancor più rosse” dove non essendo <strong>di</strong> nessuno un ricordo del genere, finisce per essere<br />

favola e quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> tutti.<br />

29


Si è prodotto dunque durante gli ultimi 50 anni un vero e proprio linguaggio poetico in<br />

canzone? Un linguaggio autonomo? La risposta è si. Anzi <strong>di</strong>rei che (come in poesia o in<br />

prosa) un linguaggio unico non esiste, esistono principi <strong>di</strong> base, modalità d’uso su cui<br />

formarlo ma da qui si <strong>di</strong>partono secondo le sensibilità o il momento dell’autore molte<br />

variazioni <strong>di</strong>sponibili o sottolinguaggi. E così Vasco Rossi o Ligabue avranno il loro<br />

“stile”, la loro impronta e lo stesso sarà per Carmen Consoli o Alice o Silvestri o i<br />

gruppi <strong>di</strong> ogni estrazione e specie dal rap, al punk, al rock duro, alla protesta politica. Il<br />

fine tematico o morale della forma canzone non influirà sugli strumenti grammaticali e<br />

sintattici più <strong>di</strong> tanto, né sulla costruzione poetica o prosastica, né sulle regole basilari<br />

della versificazione e dell’espressione in generale. Pertanto dalla “me<strong>di</strong>età” mogoliana<br />

(in senso estetico, esterno, semantico), si potranno prendere molte strade,<br />

intensificando o sintetizzando la forma e le parti linguistiche per esplicarla.<br />

Ma quella lontananza, quella estraneità ai mo<strong>di</strong> e alle movenze della “poesia scritta” si<br />

è ormai verificata ed è ben ra<strong>di</strong>cata. La canzone è un significante tout-court, <strong>di</strong>retto, sia<br />

che operi in modo chiaro sia che usi allegorie o simboli. La sua percezione deve essere<br />

imme<strong>di</strong>ata. Il valore del testo, delle parole, la loro pregnanza, il loro messaggio non<br />

van mai presi isolandoli dalla melo<strong>di</strong>a (tranne rari casi). La signifacazione <strong>di</strong> un testo è<br />

valutabile solo e soltanto in quella melo<strong>di</strong>a: una struttura quin<strong>di</strong>. La melo<strong>di</strong>a giustifica<br />

“quella” terminologia, “quella” lunghezza <strong>di</strong> versi e strofe, “quel” contenuto,<br />

“quell”’uso d’immagini e non <strong>di</strong> altre. La collocazione nello spazio e nel tempo, la<br />

necessità <strong>di</strong> una navigazione “a vista”, <strong>di</strong> una narrazione che <strong>di</strong>a subito le coor<strong>di</strong>nate<br />

<strong>di</strong>fferenziano sempre <strong>di</strong> più la POETICA in canzone dalla POETICA in poesia.<br />

Laddove la poesia vive <strong>di</strong> libertà assoluta ed altri segni non ha se non la parola (a parte<br />

gli spazi, la punteggiatura che contribuiscono parecchio), la canzone è tutt’uno con le<br />

note che la penetrano e rinforzano o alterano, scolpiscono, determinano, suggeriscono<br />

come ricevere e in che tipo <strong>di</strong> emozioni tradurre le parole che le riempiono.<br />

Ed è naturale a questo punto che i due <strong>di</strong>scorsi poetici debbano far uso <strong>di</strong> strumenti<br />

<strong>di</strong>versi e percorrere spesso vie <strong>di</strong>verse, ma l’emozione, la tensione, l’appagamento<br />

finale che possono produrre sarà lo stesso; la qualità connotativa non <strong>di</strong>pende dal segno<br />

30


in sé, ma dalla sua potenza significante e la poetica in canzone, in canzone “vera”, ne<br />

ha da vendere.<br />

Il "bello" in canzone e le maniere d'intenderlo (doppio salto mortale con triplo<br />

avvitamento).<br />

E veniamo al “bello” che è il punto ultimo e più complesso <strong>di</strong> tutta la questione.<br />

Complesso perché qui la valutazione danza tra soggettivo e oggettivo, con pericolose<br />

possibilità <strong>di</strong> errore. E infatti gran parte dei rilievi che suggerirò sul “bello” in canzone<br />

sono fortemente personali e pure <strong>di</strong>scutibili. Insisto a <strong>di</strong>re “bello in canzone”, perché<br />

non voglio introdurre <strong>di</strong>scorsi estetico-filosofici universali, né invadere categorie <strong>di</strong><br />

altre arti, perché il “bello” in canzone fa parte sì della famiglia ideale <strong>di</strong> altre arti, ma<br />

per motivi contingenti e storici e d’uso spesso se ne <strong>di</strong>scosta. Intanto il “bello” deve<br />

essere “vero”, secondo la definizione <strong>di</strong> “vero” che abbiamo dato prima e cioè non<br />

necessariamente “reale”, ma “cre<strong>di</strong>bile”, “autentico”, “naturale”. “Vero” quin<strong>di</strong> può<br />

essere un sogno, una favola, un <strong>di</strong>scorso surreale (ve<strong>di</strong> VOLARE). È ovvio però che<br />

tutto ciò che è “vero” non è necessariamente “bello”. È pur evidente che <strong>di</strong> “bello” non<br />

ce n’è uno solo: esistono gradazioni orizzontali e verticali.<br />

Esiste cioè un “bello” per tutti o per pochi o per molti o per chi lo compenetra<br />

(orizzontale); esiste un bello che va dal ben fatto al sublime (verticale). E anche qui<br />

avverto che la propria storia, la propria immedesimazione soggettiva può giocare brutti<br />

scherzi. Bisognerebbe saper uscire dalla propria “retorica” personale, e tentare <strong>di</strong><br />

valutarlo da fuori per quel che è. Le categorie più a rischio sono i romantici, i giovani<br />

in genere, i vecchi nostalgici, tutti quelli che purtroppo hanno pochi parametri <strong>di</strong><br />

riferimento. La cultura del bello s’impara a poco a poco sollecitando la piccola<br />

possibilità <strong>di</strong> ricezione che abbiamo dentro, allenandola a continui confronti,<br />

osservazioni, ascolti e colloqui. Ma anche così non basta. C’è chi pur provandoci<br />

all’infinito non ci arriva. Perché il bello (in canzone) è misura, organizzazione, tenuità,<br />

in una parola armonia, dove niente sopraffà, niente è in più, niente è inutile o<br />

31


esageratamente utile. Il bello è imme<strong>di</strong>ato, istintivo, evocativo e squarciante, è una<br />

sorta <strong>di</strong> rivelazione: luce da una porta quando è semplice, chiave per aprire se<br />

complesso; e allora solo allora <strong>di</strong>venta go<strong>di</strong>bile e immaginifico, incanta, dà i brivi<strong>di</strong>.<br />

Bello è quando leggi parole che paiono nate e finite in quella posizione<br />

spontaneamente, non attaccate l’una all’altra sia pur con perizia; bello è quando non<br />

leggi, non ascolti una parola alla volta, ma tutta la frase insieme e alla fine tutta la frase<br />

ti sembra una parola sola. Bello è quando le parole suonano da sole, danzano e sono<br />

vive: quando la frase gira intorno al termine chiave, posto nel momento più emotivo del<br />

canto.<br />

Il bello in canzone (e qui è <strong>di</strong> tutte le arti) lascia traccia, non scompare nel tempo, non è<br />

generazionale, non partecipa delle mode ed è trasversale alle età: vale più o meno per<br />

tutte.<br />

Infine, e questa è proprio personale, il “bello” in canzone <strong>di</strong>pende parecchio dalla<br />

cultura, dalla <strong>di</strong>screzione (oltre che dall’ispirazione <strong>di</strong> chi scrive): ma non è una<br />

notazione snob; perché esiste cultura e <strong>di</strong>screzione anche nel popolare oltre che nel<br />

colto. Dove queste qualità mancano è nella larga fascia commerciale: lì le parole<br />

<strong>di</strong>ventano specchietti per le allodole e le emozioni prefabbricate non giungono a<br />

pathos, catturano si ma con l’inganno ai danni dei più deboli e dei più vulnerabili.<br />

L’amore costruito in provetta può essere simile a quello vissuto o descritto con vera<br />

sofferenza, ma brucia il tempo <strong>di</strong> un attimo e non fa la storia <strong>di</strong> una gente , <strong>di</strong> un<br />

popolo.<br />

Insomma l’autore deve conoscere, essere all’altezza: deve avere <strong>di</strong>ecimila parole da<br />

scartare per usarne <strong>di</strong>eci, venti, sapere le <strong>di</strong>fferenze ed evitare le cadute <strong>di</strong> stile, le<br />

tautologie, le enormità <strong>di</strong> ogni senso. E quando può, se ce l’ha come un dono, l’autore<br />

deve sapere variare un’elaborazione con qualche guizzo, qualche sorpresa verbale,<br />

qualche intromissione spiazzante, non perché va a cercarsele, ma perché gli vengono<br />

naturali, ad intuito nella costruzione formale.<br />

Il “bello”, un certo bello è anche originalità, che non significa scrivere quel che<br />

nessuno ha mai scritto, il che è impossibile; ma, preso un contenuto usuale (ad esempio<br />

il <strong>di</strong>stacco d’amore), saperlo vedere da un angolo mai visitato, magari invertendone i<br />

32


termini, o esporlo in un ambiente, in una forma, in una situazione del tutto nuova:<br />

(“Sassi”, “Non andare via”, “Via Broletto”, Tu no” <strong>di</strong> Ciampi, “La filanda”. “29<br />

settembre”, “Fiori rosa fiori <strong>di</strong> pesco”, “Rimmel” e “Renoir” <strong>di</strong> <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong>, “Bella<br />

senz’anima”, “Io no” <strong>di</strong> Vasco, “<strong>De</strong>ntro il replay” <strong>di</strong> Bersani, etc).<br />

E il “bello” è sincerità sempre e comunque. Per questo è così presente nelle storie naif<br />

popolari e regionali; per questo esiste nella canzone autobiografica, in quella d’autore,<br />

dove chi scrive ha vissuto in prima persona. La sincerità a lungo andare paga, sempre.<br />

La falsità, anche ben vestita perde.<br />

Ma nessuna <strong>di</strong> queste cose presa isolatamente ci può dare la certezza del “bello”. Non<br />

ce la danno neppure se prese insieme, alcune o tutte.<br />

C’è qualcosa nel “bello” che non è una somma, un’alchimia <strong>di</strong> parti, una ricetta. C’è<br />

qualcosa che è come un soffio magico, un’anima che a volte è presente a volte no. E<br />

stranamente questo soffio si riconosce più <strong>di</strong> tante altre cose perché ha una<br />

concordanza primor<strong>di</strong>ale con l’essere uomini <strong>di</strong> là <strong>di</strong> sovrastrutture, pseudovalori o<br />

mode. Bisogna però essere attentissimi a non lasciarselo sfuggire, questo soffio perché<br />

intasati come siamo <strong>di</strong> fiction pseudo-sublimi, potremmo non riconoscerlo.<br />

Popolare 1-2-3 ovvero popolare, surpopolare ,criptopopolare<br />

Ve<strong>di</strong>amo <strong>di</strong> tirare qualche conclusione.<br />

Popolare: <strong>di</strong> per sé definisce un tipo <strong>di</strong> canzone nata dal basso, dal popolo, senza<br />

interferenze colte. Popolaresco o popolareggiante si applica ad una canzone scritta alla<br />

maniera del popolo. “Popolare” va visto in senso romantico, o anche vichiano: tutto ciò<br />

che non ha un autore preciso ma è dell’anima primor<strong>di</strong>ale <strong>di</strong> una gente, <strong>di</strong> una nazione.<br />

L’applicazione del termine “popolare” a ciò che va più in voga, che vende <strong>di</strong> più, che è<br />

più ascoltato, visto, letto è del tutto errata. In canzone ancora <strong>di</strong> più: non può essere<br />

“popolare”ciò che non nasce dal basso, ma è imposto da un modo <strong>di</strong> vivere me<strong>di</strong>o (o<br />

me<strong>di</strong>atico) <strong>di</strong> una certa epoca. Ciò che va per la maggiore, ad esempio oggi, non è<br />

“popolare” ma “surpopolare”, nell’assurda pretesa che una cultura con<strong>di</strong>visa per valori<br />

me<strong>di</strong> <strong>di</strong> interesse, effetto, gratificazione, successo, possa essere definita “popolare”<br />

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quando invece è “surpopolare” e cioè solo <strong>di</strong> maggioranza casuale, momentanea,<br />

cronachistica, rispetto al “popolare” vero che è storico e universale.<br />

Esistono tre livelli <strong>di</strong> inten<strong>di</strong>mento nel linguaggio <strong>di</strong> una canzone: il “popolare”, il<br />

“surpopolare” e il “criptopopolare”. Il popolare e il surpopolare li abbiamo già definiti.<br />

Il “criptopopolare” è un linguaggio apparentemente colto, esteticamente ricercato,<br />

spesso non imme<strong>di</strong>ato ma con lo stesso intento del “popolare” <strong>di</strong> cogliere attraverso<br />

simboli, astrazioni, translitterazioni, il senso dell’uomo, della vita, delle cose.<br />

Ciò riguarda la poesia e il linguaggio in canzone: falso pensare che Neruda o Cavafis<br />

non siano popolari. Altrettanto falso che non lo siamo <strong>De</strong> Andrè, Guccini e <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong><br />

soprattutto.<br />

“Popolare” trova senso nel suo intento, nella sua ricerca <strong>di</strong> finalità, nel suo messaggio.<br />

Che questo messaggio venga da una tiritera, da una tirata a chiare parole contro la<br />

guerra e da una serie <strong>di</strong> immagini evocative, traslate, non <strong>di</strong>rette cambia poco. Il<br />

“criptopopolare” può essere esercizio colto, ma mai fine a se stesso e intende andar<br />

oltre, muovere il pensiero stagnante e perfetto in sé del “popolare” naturale, naif.<br />

Intendo <strong>di</strong>re che “Generale” o “Rimmel” sono canzoni che sotto una forma ricercata e<br />

attuale e viva, riproducono sentimenti <strong>di</strong> tutti al pari <strong>di</strong> “Porta romana” o “Morti <strong>di</strong><br />

Reggio Emilia”. Lo scarto è (è stato) nell’intransigenza <strong>di</strong> una critica miope e ottusa e<br />

perfino interessata. Dico che lo scarto è in chi intende, in chi ascolta, perché costui,<br />

costoro non sono stati educati ad altro linguaggio, e non sono capaci <strong>di</strong> cogliere<br />

politica, realtà, società, esistenza, <strong>di</strong>etro parole che non siano le solite facili facili.<br />

Abbiamo detto che “popolare” <strong>di</strong> per sé è solo quello che nasce dal popolo, dal<br />

sentimento <strong>di</strong> un gruppo, <strong>di</strong> una nazione. Verissimo. Ma dobbiamo anche guardare gli<br />

effetti, dobbiamo anche considerare che una nazione, i suoi rapporti intrasociali, le sue<br />

battaglie tra essere e avere, cambiano nel tempo. Non possiamo fermarci a pensare che<br />

esiste un unico “popolare” fissato in un tempo mitico e immutabile, incontrovertibile.<br />

Oggi è popolare (e <strong>di</strong>co oggi più che mai), anche ciò che il popolo non avverte ancora,<br />

o, fuorviato da me<strong>di</strong>ocri esempi, non vuol nemmeno ascoltare. Oggi è popolare, è<br />

dell’animo <strong>di</strong> tanti o <strong>di</strong> tutti, anche quel che sembra spesso descritto con un linguaggio<br />

34


per pochi: è solo questione <strong>di</strong> tempo e lo capiremo. Tutto ciò che parte dal “vero” senza<br />

ammiccamenti o finzioni, tutto ciò che oggi è casualmente patrimonio <strong>di</strong> pochi, per<br />

colpa <strong>di</strong> una miopia letteraria e <strong>di</strong> pseudo- cultura <strong>di</strong>lagante, o per altro, ha comunque<br />

<strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> essere definito popolare. Ovvero, e per l’ultima volta, la patente <strong>di</strong> “popolare”<br />

non la dà la maggioranza <strong>di</strong> consensi, ma l’intima essenza della poesia in canzone. Non<br />

è solo la casualità storica del momento a dar patenti <strong>di</strong> “popolare”, ma l’autenticità<br />

verificabile nel tempo.<br />

Fermo restando (e qui non ci piove) che tutta la canzone regionale e popolaresco-<br />

nazionale italiana merita questo titolo, non è detto che ciò che va oggi vada sempre<br />

(Lisa dagli occhi blu, Zingara, Piange il telefono, Fin che la barca va, L’italiano), ma è<br />

sicuro che ciò che è criptopopolare e <strong>di</strong> valore oggi, resterà. (O Piscespada, Vecchio<br />

frack, Azzurro, La donna cannone, Caruso, etc).<br />

Linguaggio<br />

Alla ricerca o sulle orme <strong>di</strong> questo “popolare” possiamo <strong>di</strong>re che il linguaggio in<br />

canzone percorre 4 vie:<br />

1) Quella <strong>di</strong> riconoscerlo nella sua autenticità e <strong>di</strong> ritrasmetterlo in forme identiche<br />

a se stesse.<br />

2) Quella <strong>di</strong> applicarlo a moti e movenze dell’animo e <strong>degli</strong> eventi contemporanei<br />

non turbandone l’autenticità.<br />

3) Quello <strong>di</strong> usarlo come specchietto per le allosole cammuffando una way of life<br />

o<strong>di</strong>erna (stortata da pseudovalori <strong>di</strong> tutti i tipi) ,fino a spacciarlo come il<br />

“popolare” moderno.<br />

4) Quello <strong>di</strong> sottintenderlo nella ricerca <strong>di</strong> un linguaggio più alto a livello estetico e<br />

trasmetterlo in forme totali, parziali e personali. È ovvio che linguaggio e<br />

contenuti vanno <strong>di</strong> pari passo.<br />

Tutto ciò ci avvicina alla seconda parte della nostra indagine. La canzone da almeno tre<br />

decenni ad oggi ha cercato una via poetica sua attraverso un abbellimento espressivo e<br />

semantico, e una sorta <strong>di</strong> nobilità letteraria a significare. Il linguaggio criptopopolare<br />

che a prima vista sembra una significazione per pochi, più sensibili o con maggior<br />

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cultura è invece una via allo span<strong>di</strong>mento totale dell’animo e del suo modo più<br />

espressionistico e moderno <strong>di</strong> comunicarsi: pretende uno sforzo immaginativo e<br />

percettivo a cui bisogna abituarsi perché lo esige il tempo, lo vuole l’intelligenza, lo<br />

reclama la sensibilità: ascoltare è spesso come vagare e cogliere colori e impressioni;<br />

esiste cioè un realismo anche in ciò che non si capisce imme<strong>di</strong>atamente, in ciò che è al<br />

secondo piano della nostra facile, me<strong>di</strong>ocre attenzione. Esiste un realismo che va capito<br />

in altro modo, non col meccanismo <strong>di</strong> botta e risposta dell’”intelligere”, non attraverso<br />

un collegamento naturale tra parola (o frase, o storia) e l’inten<strong>di</strong>mento, ma attraverso<br />

una sensazione globale, un sentire allargato ed emozionante <strong>di</strong> quel che si ascolta,<br />

perché a volte capire parola per parola è ininfluente, secondario, nemmeno richiesto.<br />

La poesia moderna (ma tutta l’arte del novecento) ci ha abituato a questo. Trasferire in<br />

canzone una significazione <strong>di</strong> tal genere era inevitabile e importante allo stesso tempo.<br />

Averlo fatto mantenendo i connotati <strong>di</strong> “testo in canzone” senza cedere alle meccaniche<br />

della poesia è stato <strong>di</strong>fficile ma necessario.<br />

Il testo “espressionistico”, in canzone ha cioè rimbalzo subitaneo, capacità <strong>di</strong> coglierti<br />

più facilmente, e un buon livello <strong>di</strong> possibile immedesimazione. Resta più piccolo, più<br />

circoscritto <strong>di</strong> quello in "poesia", ma non per questo meno alto, meno moderno, meno<br />

appagante a livello emotivo.<br />

Questa <strong>di</strong>fesa è necessaria non tanto a livello critico-artistico-letterario quanto politico<br />

e sociale. Tutte una scuola <strong>di</strong> pensiero <strong>degli</strong> anni sessanta che presumeva valida una<br />

canzone solo se lineare, “popolare” nella accezione più precisa e comunque<br />

programmatica, propositiva a livello lotta <strong>di</strong> classe o giù <strong>di</strong> lì, mi sembra riduttiva,<br />

spuria o miope. Insomma, la canzone da sentire, da avvertire, da godere anche nella sua<br />

finezza, nella sua ricercatezza <strong>di</strong> lingua e immagine ha una collocazione altissima non<br />

solo nella storia evolutiva dal linguaggio e dall’educazione a tale linguaggio, ma anche<br />

nel suo personalissimo modo <strong>di</strong> intraprendere la lotta, comunicare messaggi, specchiare<br />

l’umanità <strong>di</strong> oggi e <strong>di</strong> sempre, perfino al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> contingenti attimi storici.<br />

MEDIETA' e TRANSMEDIETA'. Arriva <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong>.<br />

36


Tutto ciò ci porta alla seconda parte del nostro corso. Noi inten<strong>di</strong>amo indagare<br />

attraverso le canzoni <strong>di</strong> uno dei più gran<strong>di</strong> cantautori, questa chiave criptopopolare,<br />

questo linguaggio che chiameremmo “transme<strong>di</strong>ale”, e valutarne se possibile l’apporto<br />

al linguaggio tipico in canzone, nonché lo sforzo per attenersi non solo al “vero”, ma<br />

soprattutto al “bello”, alla bellezza.<br />

Ci rifaremo anzi, non a uno dei tanti, che tanti sono, ma al primo, al capostipite,<br />

all’inventore <strong>di</strong> questa “transme<strong>di</strong>età”, Francesco <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong>.<br />

Ma c’è <strong>di</strong> più: noi vogliamo <strong>di</strong>mostrare che questa “trasme<strong>di</strong>età” in canzone non è né<br />

parente povera, né conseguenza scontata dell’espressionismo poetico novecentesco. È<br />

un’altra applicazione dell’espressionismo, legata solo apparentemente agli schemi<br />

poetici del secolo. Partendo cioè da un’espressione libera, atemporale, spesso aspaziale<br />

<strong>di</strong> un contenuto da esprimere, il testo in canzone sviluppa da <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> in poi, un<br />

linguaggio tutto suo dove simboli, allegorie, metafore non appartengono al mondo della<br />

“poetica” in poesia, ma <strong>di</strong>stinguono una precisa “poetica” in canzone.<br />

Spieghiamoci meglio e così arriveremo ai principi basilari <strong>di</strong> <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong>.<br />

Il “novecento” artistico opera in tutti i campi una sorta <strong>di</strong> rivoluzione copernicana; che<br />

porta a descrivere più quello che si SENTE <strong>di</strong> quel che si VEDE o si TOCCA. Il metro,<br />

l’unità <strong>di</strong> misura <strong>di</strong> questo “SENTIRE” è la psiche, l’anima molto più della ragione e a<br />

volte del semplice sentimento.<br />

Il linguaggio dell’anima in letteratura, teatro, pittura, musica classica, sconvolge i<br />

parametri dei secoli precedenti perché le “opere” concepite in tal modo non presentano<br />

più quei caratteri fotografici, oggettivi, temporali <strong>di</strong> prima, e non hanno neppure una<br />

precisa collocazione spaziale. L’”Io” è una misura strana della realtà e opera con regole<br />

tutte sue, che lo portano a riprodurre oggetti, suoni, colori, mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> <strong>di</strong>re, non in<br />

evoluzione schematica, precisa e <strong>di</strong>retta, ma dando priorità a ciò che colpisce <strong>di</strong> più la<br />

persona, l’artista, provocando sbalzi improvvisi <strong>di</strong> temi e terminologie delegate ad<br />

esprimerli senza troppa cura per l’intellegibilità imme<strong>di</strong>ata. Si pensi a come un<br />

bambino <strong>di</strong>segna una casa: non c’è proporzione <strong>di</strong> parti reali, ma privilegio per i<br />

particolari a cui la sua immaginazione annette maggior importanza (finestre gran<strong>di</strong> e<br />

sghimbesce, camini che fumano, porte aperte o chiuse, figure umane che sono alte<br />

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come la casa). Questa istintività infantile è un po’ alla base <strong>di</strong> tutta la comunicazione<br />

poetica da Rimbaud, Van Gogh, Bela Bartok, Bergson in poi. Non è compito nostro<br />

spiegare come si è arrivati in pochi decenni a tale “espressionismo” pressochè totale.<br />

La storia, il pensiero, l’economia hanno influito pesantemente sulla nascita <strong>di</strong> tale<br />

comunicazione (decadente, incerta, dubbiosa, imperfetta); ma soprattutto c’è alla base<br />

una sorta <strong>di</strong> delusione per le scienze esatte, per l’ottimismo collettivo <strong>di</strong> conoscere e<br />

possedere il mondo: un ottimismo che si rivela sopravvalutato e incapace <strong>di</strong> dare<br />

spiegazioni plausibili (dall’Illuminismo al Positivismo).<br />

La canzone italiana si avvicina tar<strong>di</strong>ssimo a questa <strong>di</strong>mensione pressochè universale,<br />

per tante ragioni, molte delle quali già descritte: resta cioè imprigionata, ingabbiata in<br />

uno schema semantico narrativo (o sentimental-realista) molto più a lungo delle altre<br />

arti, e della canzone stessa in altri contesti e nazioni.<br />

Il problema vero è che non si prende sul serio e non si fa prendere sul serio. Nata da<br />

una costola del melodramma (che non è né astrattista, né espressionista), reitera<br />

sentimenti – stereotipi in terza persona e in una cornice oggettiva accessibile ad ogni<br />

lettura. La canzone insomma non produce al suo interno uno scarto “novecentesco”<br />

perché non si sente forma d’avanguar<strong>di</strong>a o <strong>di</strong> esperimento, ma baluardo <strong>di</strong> retroguar<strong>di</strong>a<br />

spesso imitativa. Abitua per decenni gli Italiani ad essere ascoltata come vezzo,<br />

miniatura, proverbialità scontata; cronaca contraffatta ad uso <strong>di</strong> emozioni facilistiche<br />

provocate ad arte: non si avventura cioè sulla pista nuova delle altre arti, continua a<br />

scimmiottare la vecchia, più sicura, più affidabile e fruibile.<br />

Commette cioè l’errore <strong>di</strong> perpetrare l’equazione POPOLARE = SCONTATO = GIÀ<br />

SENTITO, considerandosi forma troppo piccola e inadatta a esprimere rivolgimenti<br />

così profon<strong>di</strong>.<br />

Tutto ciò crea un effetto valanga, dalla palla <strong>di</strong> neve all’ammasso <strong>di</strong> ghiaccio<br />

<strong>di</strong>fficilmente scalfibile: la gente, il popolo si abitua così tanto a questa forma<br />

immutabile, uguale a se stessa, da non poterne fare più a meno, fino a maturare la<br />

certezza che quella sia la canzone e nessun’altra al fuori <strong>di</strong> quella sia possibile o<br />

accettabile.<br />

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Mentre le arti, tutte le altre arti abituano cioè gradatamente il pubblico a leggere se<br />

stesso e la vita secondo le lenti delle mutate con<strong>di</strong>zioni storiche e <strong>di</strong> pensiero (l’io,<br />

l’angoscia e la loro descrizione espressionistica), la canzone non lo fa, non lo sa fare,<br />

non pensa <strong>di</strong> esserne in grado, e spesso proprio non lo è.<br />

Così mentre altrove la gente, il pubblico riesce a leggere sia la sublime me<strong>di</strong>età <strong>di</strong><br />

Raffaello o Manzoni o Shakespeare, sia la trasme<strong>di</strong>età <strong>di</strong> Chagall, Picasso, Kafka,<br />

Ionesco; in canzone non si sogna nemmeno <strong>di</strong> avvertire la stessa duplice necessità e si<br />

lascia trasportare (ancor oggi e tanto) dall’impatto con l’ovvio (che a volte è<br />

meraviglioso, ve<strong>di</strong> Mogol, più spesso orripilante).<br />

L’esigenza <strong>di</strong> trasmettere in canzone come veramente siamo fatti, tutti, dentro;<br />

l’interferenza delle nostre paure; i segni che ci suscitano instabilità o armonia;<br />

l’accorgersi <strong>di</strong> un mondo <strong>di</strong> piccole variazioni, deja vù, parole, atteggiamenti,<br />

ripercussioni sull’anima doveva necessariamente trovare prima o poi una voce. Il<br />

nostro impianto affettivo (dare e ricevere sentimenti) agisce secondo un filtro <strong>di</strong><br />

memorie: tagliamo e aggiungiamo, manteniamo o ribaltiamo le interferenze nell’io,<br />

tutti in maniera <strong>di</strong>ssimile, ma paradossalmente gli scopi finali sono uguali per tutti:<br />

capirci, capire, tenere intatto un sogno, sperare, amare, o<strong>di</strong>are.<br />

Ognuno, ogni artista segnatamente, ogni poeta in canzone per esser più precisi, ha un<br />

suo filtro <strong>di</strong> memorie e le sue parole, le sue espressioni chiave per maneggiarlo: questi<br />

termini spesso non assomigliano ai nostri, ma han la forza <strong>di</strong> evocare, suggerirci,<br />

passaggi <strong>di</strong> fantasia e sentimento; da quei piccoli “input”, iniziali, ci vengono isomma<br />

sollecitati e “fabbricati” come dei “link” emotivi che si espandono a raggiera in più<br />

<strong>di</strong>rezioni nella nostra anima pre<strong>di</strong>sponendoci a vedere meglio e <strong>di</strong> più, a “sentire”<br />

qualcosa <strong>di</strong> sepolto o solo dormiente in noi: superiamo, riassettiamo il filtro della<br />

memoria. Facciamo un esempio: io posso cantare in modo me<strong>di</strong>ale “SONO<br />

DISPERATO, BEVO COME UN DISPERATO” ma posso anche cantare in modo<br />

transme<strong>di</strong>ale “CONSERVO SOTTO IL LETTO UN BARATTOLO DI BIRRA<br />

DISPERATA”.<br />

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La prima frase è <strong>di</strong> lettura imme<strong>di</strong>ata: può provocare immedesimazione (un ad<strong>di</strong>o, una<br />

pena d’amore), ma tutto finisce lì.<br />

La seconda frase è un romanzo. Intanto CONSERVO, il che significa che non ho<br />

smesso <strong>di</strong> soffrire, o ad<strong>di</strong>rittura, voglio soffrire. Poi SOTTO IL LETTO, cioè “non<br />

voglio vederlo” oppure “ lo voglio a portata <strong>di</strong> mano” e anche “ormai vivo in camera da<br />

letto”. E ancora UN BARATTOLO, non una bottiglia, un bicchiere, proprio la lattina<br />

da bere a canna, senza vedere o sapere la quantità <strong>di</strong> birra che ancora rimane (quanta ne<br />

avrò ancora per sopire il dolore?) e poi la splen<strong>di</strong>da metafora <strong>di</strong> attribuire alla birra la<br />

propria <strong>di</strong>sperazione, quasi un transfert, quasi come <strong>di</strong>re “no, non sono io a soffrire, è la<br />

birra, la sua presenza in me che soffre”.<br />

Questa frase <strong>di</strong> “Atlantide” è perfetta per intendere quel che stiamo <strong>di</strong>cendo: il<br />

linguaggio transme<strong>di</strong>ale non ti permette, non permette a chi ascolta <strong>di</strong> sentire alla<br />

sfuggita e immagazzinare una facile, riconosciuta sensazione paragonabile al proprio<br />

filtro della memoria. No. Ti incatena alla tua immensità <strong>di</strong> sensazioni, costringe la tua<br />

anima, se sta attenta, a passare (ecco i “link”) da uno stimolo, da un pungolo all’altro e<br />

riconoscerti in quel che sei e fai: ricostruisce dal niente la tua persona e te la mette<br />

davanti.<br />

<strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> non scatta una foto <strong>di</strong>retta, nella quale rive<strong>di</strong> ad esempio un volto amato e<br />

basta. Gran cosa anche questa sì, ma limitativa. Nella sua foto il volto c’è e non c’è, o<br />

muta o cambia a seconda <strong>di</strong> come quelle foto le pieghi o le giri. Non solo, nella sua<br />

foto ci sono ombre e accenni <strong>di</strong> oggetti, o nuvole che assomigliano a qualcosa, che<br />

puoi associare a qualcosa: anche a cose <strong>di</strong>verse a seconda <strong>di</strong> quanto te la guar<strong>di</strong> e<br />

riguar<strong>di</strong> e <strong>di</strong> come. Quin<strong>di</strong> la parola, la figura <strong>di</strong> pensiero, la frase comunicante non è<br />

monosenso: non corrisponde ad un solo frettoloso rinvio ad un unico altrettanto<br />

frettoloso sentire: spazia, allarga, ti consegna una mappa, ti colllega ad altre mappe<br />

vicine e lontane, non chiude il circuito, lo apre e a tuo piacimento fin che vuoi.<br />

“Evocare” è il verbo esatto per questa maniera <strong>di</strong> comunicare. Evocare è <strong>di</strong>fficile per<br />

chi scrive e per chi ascolta, ma è il livello <strong>di</strong>rettamente superiore a “rappresentare” a<br />

“descrivere”. Chi non è abituato (per cultura, assenteismo, pigrizia, noia , ignoranza) a<br />

evocare resta al palo, si confonde col già detto, gira intorno a sé e si mangia la coda. Il<br />

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meccanismo dell’evocazione presenta uno sproposito <strong>di</strong> libertà; si può perfino uscire<br />

dalla canzone e andar via per fatti propri (penso a Carroll in “Alice”). Per saper<br />

evocare negli altri è in<strong>di</strong>spensabile un gran dono naturale e la naturale inclinazione a<br />

non fermarsi mai al primo significato delle cose. Evocare negli altri è magia, magia<br />

benefica. Chi <strong>degli</strong> altri, <strong>di</strong> quelli che ascoltano, leggono, sa cogliere come in un<br />

co<strong>di</strong>ce, in un libro <strong>di</strong> arcani (semplici in verità) i segni su cui spaziare <strong>di</strong> fantasia , sa<br />

anche cosa significa essere uomo a 360 gra<strong>di</strong>.<br />

Per una teoria minima sulla "creatività" in canzone.<br />

Evocare è un comunicare <strong>di</strong>verso. Ma chie<strong>di</strong>amoci ora: DA CHE COSA è DATO<br />

TUTTO QUESTO FASCINO EVOCATIVO? QUAL È LA FORMULA CHE LO<br />

COMPONE E PERMETTE A NOI ASCOLTATORI, Dì Là DELLE STRAVOLTE<br />

REGOLE DI COMUNICAZIONE DI SENTIRLO E CAPIRE LO STESSO?<br />

Per tentare <strong>di</strong> spiegarlo mi rifaccio a due saggi: il primo <strong>di</strong> A. KOESTLER (1964) 4 il<br />

secondo <strong>di</strong> N. CHOMSKY(1965) 2 .<br />

Koestler in<strong>di</strong>vidua nell’atto creativo una duplice possibile percorrenza. Nella prima<br />

modalità (che chiama SINGLE-MINDED) le ASSOCIAZIONI prodotte in chi ascolta<br />

da uno stimolo (parola o immagine o suono) vengono da un’unica <strong>di</strong>rezione. Nella<br />

seconda (DOUBLE -MINDED) procedono invece da più <strong>di</strong>rezioni spesso in contrasto<br />

tra loro o apparentemente estranee una all’altra. Questa modalità (detta<br />

BISOCIAZIONE) permette all’artista <strong>di</strong> DEVERGERE, creare un pensiero <strong>di</strong>vergente,<br />

che è alla base della creatività laddove invece il “pensiero” convergente sta alla base<br />

della scienza. Mi spiego meglio: mentre la scienza raggruppa dati per arrivare ad<br />

un’unica soluzione possibile, l’ARTE mette in conflitto dati per ottenere una soluzione<br />

nuova e neppure unica. Pescare associazioni inusuali è alla base dello SCHEMA<br />

BISOCIATO e il suo effetto in chi legge o ascolta è <strong>di</strong> provocare tensione, sconcerto,<br />

meraviglia che durano fin quando non ne trova un nesso e ricompone un senso reale.<br />

4 “L’ATTO DELLA CREAZIONE” – UBALDINI – ROMA<br />

2 “ASPETTI DI UNA TEORIA DEL LINGUAGGIO” – BORINGHIERI – TORINO<br />

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Chomsky chiarisce meglio l’atto creativo: anche per lui esistono due modalità: la prima<br />

(creatività governata da regole) 3 produce il “nuovo” combinando pezzi già esistenti<br />

(simile all’intelligenza scientifica). La seconda 4 sovverte i canoni e le regole<br />

(grammaticali, <strong>di</strong> comunicazione <strong>di</strong>retta) introducendo variabili “eversive” e non<br />

<strong>di</strong>rettamente connesse al comune senso <strong>di</strong> significante-significato.<br />

Chomsky fa due esempi: “MONITORAGGIO” è un neologismo preso da prestiti<br />

esistenti (MONITOR e AGGIO), la novità c’è ed è in linea con le regole, siamo nella<br />

RULE GOVERNED CREATIVITY.<br />

“Metti un tigre nel motore” si avvale invece <strong>di</strong> un uso improprio del verbo, <strong>di</strong> un<br />

inusitato “maschile” del nome “tigre” e <strong>di</strong> un accostamento paradossale tra un animale<br />

e un’auto. Siamo nel RULE CHANGING CREATIVITY. Ma attenzione, questo<br />

sconquasso me<strong>di</strong>atico non avrebbe nessun valore se la sua lettura finale non fosse<br />

COMPRENSIBILE. Ed è questo il segreto della libera creatività: sconvolgere le regole<br />

ma lasciare intatta la forza <strong>di</strong> comunicazione.<br />

Queste due teorie (KOESTLER e CHOMSKY) spiegano in gran parte tutto il nostro<br />

<strong>di</strong>scorso precedente sull’EVOCAZIONE e i possibili LINKS mentali che produce.<br />

Applicate alla tecnica e alla poetica in canzone ci fanno comprendere quanto segue:<br />

1) la canzone ha perseguito per decenni una concezione SIMPLE-MIND (mente<br />

univoca) dove le associazioni sono governate da un solo stimolo (parola, nota).<br />

Siamo nel campo della MEDIETA’ ELEMENTARE.<br />

2) La canzone ha scoperto tar<strong>di</strong> la RULE GOVERNED CREATIVITY (creatività<br />

regolamentata) dove si creano nuove associazioni partendo da altre vecchie e già<br />

collaudate. Siamo nel campo della MEDIETA’ COMPLESSA, dove Mogol è<br />

maestro.<br />

3 RULE GOVERNED CREATIVITY<br />

4 RULE CHANGING CREATIVITY<br />

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3) La canzone con <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> inverte il canone, cambia gioco (CHANGING<br />

CREATIVITY), dove il nuovo si produce per associazioni apparentemente<br />

assurde o in conflitto tra loro, o ad<strong>di</strong>rittura usando sì il “vecchio”, ma in un<br />

contesto che non gli appartiene per niente e producendo un nuovo tipo <strong>di</strong><br />

comunicazione (penso alla “pop art”). Siamo nel campo della<br />

TRANSMEDIETA’ che analizzeremo appunto nei testi <strong>di</strong> <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong>.<br />

L'universo espressivo <strong>di</strong> <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong><br />

In <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> il modo <strong>di</strong> "esprimer canzone " ha precise caratteristiche.<br />

DG innanzitutto colloca chi ascolta in un luogo riconoscibile ma assolutamente aereo,<br />

poco precisato, mai perfettamente a fuoco (il treno <strong>di</strong> “Generale”, la tenda <strong>di</strong> “La donna<br />

cannone”, il bosco de “La casa <strong>di</strong> Hilde”, Salò de “Il cuoco <strong>di</strong> Salò”, la stanza <strong>di</strong><br />

“Buonanotte fiorellino”). A volte il luogo è solo immaginabile o intercambiabile (“I<br />

muscoli del capitano”, “Rimmel”), spazio largo, proiezione mentale (“Bufalo Bill”,<br />

“Atlantide”, “La storia”, “Pablo”, e un po’ tutti i brani <strong>di</strong> “rimmel”): a volte ancora non<br />

c’è proprio, è inesistente perché composto <strong>di</strong> luoghi o meglio spazi interiorizzati e<br />

mischiati tra surrealismo e dada (“niente da capire”, “Al lupo”, “Alice”). Altre volte<br />

infine il luogo esiste ed è chiaro, soprattutto nelle tematiche a sfondo politico.<br />

Seconda notazione :l’andamento temporale è sovvertito, mischiato o nemmeno preso in<br />

considerazione: capita come in certi racconti <strong>di</strong> Borges dove troveresti più giusta la fine<br />

come inizio e viceversa. Anche questo corrisponde al fatto che laddove la canzone non<br />

è perfettamente narrativa (una storia), l’”io” <strong>di</strong> <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> si muove col suo “tempo<br />

interno” che non ha niente a che vedere con quello esterno. “Renoir” e “Generale”<br />

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seguono apparentemente un filo cronologico, ma che <strong>di</strong>re <strong>di</strong> “Piccola mela”, “il signor<br />

Hood”?<br />

A volte il tempo è fermo a bella posta, come nelle favole o nei miti: non succede niente,<br />

è tutto un girare attorno a un pensiero ad un’analisi <strong>di</strong> rapporto col mondo:<br />

(“Arlecchino”, “Informazioni <strong>di</strong> Vincent”, “Bellamore”, etc.).<br />

Gli “Incipit”, sono quasi tutti “in me<strong>di</strong>as res”, presumono cioè che noi conosciamo già<br />

la storia. E in verità <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> non comincia mai da dove comincia la storia (che non<br />

ha mai veramnte inizio), ma dall’impressione più forte, dalla persona o dalla parola che<br />

vuole subito mettere in primo piano (che spesso è anche il titolo).<br />

Non ci dà poi informazioni chiarificatrici su questa persona se non in seguito e anche<br />

qui non sempre.<br />

Spesso nei primi album il personaggio sbattuto nel primo verso è <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> stesso,<br />

mascherato sotto nomi, soprannomi, caratteristiche <strong>di</strong> vario tipo (l’uomo che cammina<br />

sui pezzi <strong>di</strong> vetro, il signor Hood, Arlecchino, il Lupo): questa autobiografia<br />

mascherata fa parte <strong>di</strong> un gioco normale: risistemare la propria personalità davanti<br />

all’irrompere del successo (cosa vendo <strong>di</strong> me? Cosa tengo?). Più avanti non si<br />

conferisce più eponimi. Sa che gli altri sanno che è lui a parlare anche se lo fa in terza<br />

persona (Atlantide) dopo aver usato la prima in “Bene” e in “Rimmel”. <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> ha<br />

una certa ritrosia antiretorica a parlare <strong>di</strong> se stesso e ci torneremo su. Così chiaro,<br />

persino tagliente, impietoso in termini sociali e politici, tende sempre a coprire <strong>di</strong> veli e<br />

veli le sue storie personali.<br />

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Quando non si riferisce alla sua vita privata, l’incipit ripete il titolo o ha qualcosa a che<br />

fare col titolo (avviene in Titanic), più spesso spiazza e mette in attesa (Adelante,<br />

Adelante; Viaggi e miraggi; Pablo; la valigia dell’attore).<br />

L’incipit in <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> è fondamentale. Di solito è preceduto da note <strong>di</strong> piano o da<br />

lunghe schitarrate ed è un macigno: non si tratta mai <strong>di</strong> una frase qualunque (Alice<br />

guarda i gatti e i gatti guardano nel sole / le stelle sono tante, milioni <strong>di</strong> milioni) ma <strong>di</strong><br />

un grande amo per catturarti e portarti in giro: quel che verrà poi potrà essere in<br />

sintonia o no, ma è l’inizio che caratterizza “il filtro della memoria”.<br />

Il racconto, la trama, il <strong>di</strong>panarsi della storia è spaventosamente vario, ma rispetta<br />

generalmente qualche principio:<br />

1) Accavallarsi autonomo <strong>di</strong> immagini dell’anima apparentemente slegate una<br />

dall’altra (Rimmel, Non c’è niente da capire).<br />

2) Accavallarsi <strong>di</strong> due (o più) impressioni, tra personali ed esterne che hanno in<br />

comune il riassunto <strong>di</strong> una emozione uguale (Pablo).<br />

3) Voluta confusione tra realtà e fantasia (La valigia dell’attore)<br />

4) politica, società, mondo che si intrecciano col favolistico o il personale senza<br />

interpunzione o soluzione <strong>di</strong> continuità (Adelante, adelante; <strong>di</strong>sastro aereo sul<br />

canale <strong>di</strong> Sicilia, L’agnello <strong>di</strong> <strong>di</strong>o) quasi tutto fosse unito, mischiato e<br />

in<strong>di</strong>ssolubile.<br />

A ciò si aggiungano, soprattutto nella maturità, continui riferimenti a personaggi –<br />

simbolo, più o meno riconoscibili, che sono il bene o il male, l’avverso o l’amico, la<br />

speranza o il <strong>di</strong>sastro in proiezione sociale, umanitaria, totale del senso del vivere (la<br />

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storia,la leva calcistica, l’agnello <strong>di</strong> <strong>di</strong>o, i muscoli del capitano, le storie <strong>di</strong> ieri,<br />

Generale, Il cuoco <strong>di</strong> Salò, etc.).<br />

Il linguaggio formale <strong>di</strong> <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> è intessuto <strong>di</strong> allegorie, simboli e figure <strong>di</strong> pensiero<br />

<strong>di</strong> ogni tipo che tenteremo <strong>di</strong> classificare in un capitolo a parte. Bastino qui due<br />

chiarimenti:<br />

1) questi accorgimenti stilistici assomigliano solo lontanamente a quelli della poesia<br />

scritta. Sono pensati in canzone e per la canzone, quin<strong>di</strong> <strong>di</strong>fferenti.<br />

2) Non sono mai casuali o riempitivi o puramente estetici: essi fanno parte della<br />

canzone, sono la canzone: a volte non significano altro che se stessi oppure<br />

coprono un senso che è meno importante del simbolo.<br />

Per vedere come si muove <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> ed esemplificare in modo vivo un po’ tutto ciò<br />

che siamo andati <strong>di</strong>cendo, proviamo a smantellare e ricomporre un suo testo – cult:<br />

RIMMEL.<br />

Prima cosa: l’ascolto totale. Si deve sempre partire dal tutto per scendere alle parti, si<br />

deve cioè recepire la forma totale dell’opera (gestalt) e ascoltare dentro <strong>di</strong> noi la<br />

sensazione finale, generale che ci dà senza preoccuparci <strong>di</strong> capire o tradurre.<br />

In Rimmel questa forma ci è data dall’incalzare “country” <strong>di</strong> armonie e melo<strong>di</strong>a,<br />

melo<strong>di</strong>a <strong>di</strong> una semplicità schematica <strong>di</strong>sarmante, primaria, tendente a non <strong>di</strong>sturbare la<br />

narrazione. Questa forma ci è data da picchi <strong>di</strong> immagini apparentemente slegati: ci<br />

troviamo stor<strong>di</strong>ti e meravigliati, senza un punto d’appoggio: non riusciamo ad associare<br />

<strong>di</strong>rettamente e subito quel che ascoltiamo a quel che abbiamo visto e siamo. Ma<br />

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sentiamo una tensione <strong>di</strong>lagante in tutta la canzone, avvertiamo che i veli e le maschere<br />

sottintendono <strong>di</strong> più <strong>di</strong> una semplice storia d’amore. Questa forma non ci spara niente<br />

addosso <strong>di</strong> imme<strong>di</strong>atamente masticabile, niente che non siano stimoli o curiosità, o<br />

stato febbrile d’attesa, o persino voglia <strong>di</strong> lasciarsi andare tra i versi senz’altro voler<br />

sapere, perché la sensazione generale è così intensa che basta da sola.<br />

È un po’ come lasciarsi portare dal mare senza chiedersi che mare sia, se sia veramente<br />

mare, se ci sia una riva da qualche parte o no.<br />

Poi, lentamente emergono come da un naufragio dei relitti, dei pezzi d’immagine, delle<br />

parole. Soprattutto quelle che lì non dovrebbero mai esserci, non han ragione <strong>di</strong> starci:<br />

QUATTRO ASSI DI UN COLORE SOLO – COLLO DI PELLICCIA – SPEDIRE LE<br />

LABBRA – etc.<br />

Se teniamo gli occhi ben chiusi, il quadro tende ad assumere una sua illogica logicità. I<br />

frammenti colti ci danno la misura <strong>di</strong> un dolore contenuto, mascherato, <strong>di</strong> una passione<br />

espressa in centimetri, mai sollecitata, mai magnificata, antiretorica.<br />

È sì certamente una storia d’amore ma non abbiamo il luogo, non conosciamo i<br />

protagonisti, non sappiamo il motivo, non percepiamo la quantità del dolore. Eh, si<br />

perché <strong>di</strong> un ad<strong>di</strong>o si parla: questa è l’unica cosa chiara. Rileggiamo, riascoltiamo.<br />

Ancora non ci interessano i particolari; ci affascinano ma non ce le spieghiamo tutte<br />

quelle metafore: eppure cogliamo il cuore dell’esternazione, una rassegnazione<br />

apparente, un voler nascondersi, un senso <strong>di</strong> sconfitta legata alle cose della vita più che<br />

alle colpe <strong>di</strong> qualcuno, una capacità straor<strong>di</strong>naria <strong>di</strong> ricordare a salti, a sbalzi, senza<br />

fermarsi e crogiolarsi su un unico quadro e scenario, quasi bruciassero a raccontarli<br />

troppo a lungo: tocca e fuggi. E al fondo un po’ <strong>di</strong> cinismo amaro, nessuna traccia <strong>di</strong><br />

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autoconsolazione a cui siamo fin troppo abituati; in fondo gli errori e gli sbagli come<br />

occasioni perse, ma perse e basta, inutile rivangare. Non c’è un “Ti amo”, un “Ti ho<br />

amato”, non c’è una stella, una luna, una lacrima, non esiste una concessione al<br />

sentimentalismo, perché tutto questo mischiarsi senza tempo <strong>di</strong> ricor<strong>di</strong> è <strong>di</strong> per sé<br />

stesso sentimento latente, sotterraneo, stretto all’intenzione, inespresso, ma chiarissimo.<br />

È una cronaca. <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> ci dà l’essenziale impersonandolo in oggetti e posti,<br />

situazioni e cambi <strong>di</strong> campo che sono l’equivalente delle confessioni che non fa in<br />

modo <strong>di</strong>retto, per non delimitare la cronaca facendola storia letta e consumata.<br />

Ecco, questo ci basta perché questo trascende personaggi, motivi, dolore. Si è sempre<br />

in due a lasciarsi in fondo e sempre gli stessi sono i motivi, inutile descriverli. Questo<br />

ci basta per capire che grande canzone evocativa dell’anima, leggibile a tutti i livelli<br />

abbiamo davanti. La transme<strong>di</strong>alità è lampante. Il conflitto tra termini e versi provoca<br />

un nugolo <strong>di</strong> BISOCIAZIONI che vanno oltre il già detto, il già sentito. Sta a noi , sta a<br />

chi ascolta congiungere i poli dei due contingui significanti. Ma la tensione che<br />

proviamo nel non riuscirci del tutto razionalmente è molto più <strong>di</strong> capire è “sentire” in<br />

“toto” il nugolo <strong>di</strong> stimoli che ha portato l’autore a costruire quella e non altra<br />

BISOCIAZIONE, perché là dentro c’è molto <strong>di</strong> più <strong>di</strong> un significato solo: ci sono<br />

riferimenti (links) alla sua vita personale che si acculìmulano in un verso,e quelli non<br />

potremo mai scoprirli ma, per il miracolo della creatività, sentiamo che comunque quei<br />

riferimenti sono o potrebbero anche appartenere a noi: riconosciamo nostra<br />

quell'universalità del sentire umano che non si può ridurre a un behavior <strong>di</strong> stimolo-<br />

risposta <strong>di</strong> un solo tipo, ma implica passaggi e fughe e ritorni <strong>di</strong> molti tipi. Non serve<br />

nient’altro, ho detto. Rimmel come tante altre canzoni <strong>di</strong> <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> canta per<br />

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quell’emozione misteriosa generalizzata che ci coglie in pieno. Non serve altro ma altro<br />

c’è, perché comunque il lessico, lo stile non sono un bluff.<br />

L’incipit è il solito:dar per scontato che si è detto qualcosa prima, ed entrare nella<br />

storia quando è già cominciata.<br />

QUALCOSA RIMANE, non tutto, non una <strong>di</strong>sperazione eterna o piagnistei simili,<br />

“qualcosa”, un tratto intravisto a momenti, un segno che comunque non ti levi <strong>di</strong> dosso.<br />

E la vita <strong>di</strong> tutti i giorni che è fatta <strong>di</strong> gioie e <strong>di</strong> dolori (METAFORA DA CANZONE<br />

NON DA POESIA) scorre, va per i fatti suoi. Come lui stesso fosse un negozio, una<br />

grande casa <strong>di</strong> idee da regalare e da vendere, <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> cambia insegna al portone: il<br />

motivo del <strong>di</strong>stacco è espresso in un lampo: “Io accampavo scuse, fuggivo, tu avevi<br />

ragione. Ma senza autoflagellazione, senza masochismo, buttato là come un dato <strong>di</strong><br />

fatto.<br />

Ammirato da tutti, coccolato, convinto <strong>di</strong> essere un vincente, si accorge che gli affetti e<br />

gli amici ingannano spesso in buona fede. Nello ZINGARO c’è una morfologia tutta<br />

degregoriana: questo ciarlatano che è poi il destino lo ha illuso per “mazzoliarlo” al<br />

momento giusto promettendogli un FUTURO INVADENTE che a lui così riservato e<br />

nemico del chiasso e della notorietà non doveva nemmeno star tanto bene. Zingaro e<br />

futuro non è stato capace <strong>di</strong> contenerli ed è perfetto che <strong>di</strong>a colpa all’età (che età fisica<br />

non è, ma atteggiamento <strong>di</strong> libertà infantile).<br />

In sei versi ha scritto la sua infanzia, l’impatto col successo, ha accennato, solo<br />

accennato al grande amore. La sintesi è perfetta. Poi arriva il presente : lei non c’è, è<br />

una sineddoche (le labbra), l’altro uomo non c’è, è ancora una sineddoche (in<strong>di</strong>rizzo<br />

nuovo), lui, Francesco, anche lui è una sineddoche (la mia faccia), ma si permette dopo<br />

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la vaga confessione <strong>di</strong> colpa dei primi versi <strong>di</strong> tirarle una sottile stilettata: hai barato<br />

parecchio con me (“quattro assi <strong>di</strong> un colore solo”) e le carte <strong>di</strong> colpo <strong>di</strong>ventan persone,<br />

perché questo era il senso, perché lei non bara solo con le carte, ma con gli uomini, coi<br />

sentimenti.<br />

Il finale è un film tra Renoir e Casablanca. Lui la ricorda truccata (ma il “rimmel” è<br />

anche quello che cola col pianto) introducendo il colpo <strong>di</strong> genio dell’attimo dell’ad<strong>di</strong>o<br />

con un botta e risposta <strong>di</strong> una sintesi allucinante ma più espressivo <strong>di</strong> tutto un romanzo.<br />

Lei domanda “hai ancora quella mia foto?”, Glielo domanda mentre sono fuori e il<br />

vento sta lì a far capire che niente è come prima, che qualcosa drammaticamente si<br />

muove. E si muove su <strong>di</strong> lei che non è più un amore ma una “persona”, un corpo, una<br />

fisicità qualunque sulla strada: si muove su <strong>di</strong> lei che è un’ultima annoiata sineddoche<br />

(“collo <strong>di</strong> pelliccia”).<br />

Lui non capisce il senso della domanda o forse sì ne ha un certo sentore e risponde<br />

senza pensarci “Si, ho ancora quella foto”.<br />

“Bene, tientela, perché da oggi in poi è l’unica cosa che ti resta <strong>di</strong> me”. È un ad<strong>di</strong>o<br />

asettico, tagliente, spietato, comico, <strong>di</strong>retto, impietoso, originalissimo tutt’insieme. Mai<br />

nella canzone italiana si era vista una descrizione simile <strong>di</strong> un abbandono: non una<br />

lacrima, una carezza, un gesto, una spiegazione, un moto <strong>di</strong> rabbia, un senso <strong>di</strong><br />

compassione, un ultimo ricordo. Niente. E nemmeno una confessione <strong>di</strong>retta; nessun “ti<br />

lascio”, nessun “è finita”. Solo quell’improvviso tragicomico giro <strong>di</strong> parole per non<br />

infierire (ma sarà vero poi?), più secco <strong>di</strong> qualsiasi no.<br />

Questo colpo <strong>di</strong> genio narrativo, e altri, altri ancora, sono alla base <strong>di</strong> tutto il<br />

rinnovamento comunicativo nonché lessicale <strong>di</strong> <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong>, <strong>di</strong> cui parleremo ancora. E<br />

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non sono semplicemente una “veste”, una “forma” come abbiamo detto già, ma una<br />

parte integrante del messaggio dell’esternazione; non solo un “modo”, ma anche “il<br />

corpo”, la “sostanza”, a volte il contenuto stesso. E nonostante ciò non smetterò mai <strong>di</strong><br />

ripetere che un’operazione capillare sul significato dei simboli e delle metafore delle<br />

sue canzoni è un lavoro perfino inutile. Quello che conta è “sentire” la forza delle<br />

evocazioni e goderne la bellezza, l’opportunità, la collocazione. Quello che conta è<br />

lasciarsi prendere, sempre, dalla totalità della canzone, perché smembrarla in parti<br />

come abbiamo testè fatto può essere un esercizio interessante ma non aggiunge niente<br />

alla bellezza della canzone. E a volte è persino (come detto) impossibile, perché tante e<br />

tali sono le alternative che bisognerebbe avere una stanza nella sua testa e nella sua<br />

memoria per capirle.<br />

“Rimmel” (l’album, tutto l’album) è stato un giro <strong>di</strong> boa per tutta la letteratura in<br />

canzone, una vera rivoluzione copernicana, una esplorazione me<strong>di</strong>ale e transme<strong>di</strong>ale<br />

che non ha quasi pari nella storia recente della canzone (se si eccettua Vasco).<br />

Ma Rimmel è già un’opera, per così <strong>di</strong>re, matura, successiva. Come è giunto, per che<br />

gra<strong>di</strong>, con quale esperienza F. <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> ad un linguaggio, ad una narratività, ad uno<br />

stile così esclusivo e scatenante? Che storia c’è alle spalle <strong>di</strong> Rimmal? Da dove è<br />

partito tutto?<br />

Chiarisco subito che per la biografia, gli aneddoti vari, il profilo psicologico, l’iter<br />

evolutivo della persona vi rimando al bel libro <strong>di</strong> Pino Casamassimo “LA VALIGIA<br />

DEL CANTANTE” e<strong>di</strong>z. DE FERRARI. Per assurdo in questa <strong>di</strong>spensa parlo <strong>di</strong><br />

linguaggi e secondariamente <strong>di</strong> persone. È ovvio che mi dovrò rifare qua e là al<br />

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carattere <strong>di</strong> <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> alle sue scelte, al suo rinnovarsi, ma tutto ciò sarà secondario e<br />

sempre in funzione dell’opera.<br />

Gli esor<strong>di</strong>. Alice oltre Lewis Carroll<br />

Dunque tutto nasce al folk-<strong>stu<strong>di</strong></strong>o, uno dei tanti luoghi chiave dove si cerca il nuovo<br />

nella canzone. Però un luogo speciale, perché intanto è a Roma, patria della <strong>di</strong>scografia<br />

a fine anni ’60, poi perché frequentato da un élite <strong>di</strong> rampolli borghesi (e meno)<br />

intellettuali <strong>di</strong> seconda (o terza?) generazione dopo le osterie <strong>di</strong> Genova e quella<br />

“delle” dame a Bologna.<br />

Lì si esibiscono, confessano, lì parteggiano, costruiscono <strong>di</strong>scorsi teorici sia Francesco<br />

che Antonello Ven<strong>di</strong>tti (così <strong>di</strong>versi in tutto) ma anche Lo Cascio, Locasciulli, Rino<br />

Gaetano, Stefano Rosso. Lì si fa tutta la musica che non sia allineata: per assurdo e<br />

contro le schematizzazioni <strong>di</strong> certa critica convivono cantautori e cantastorie popolari:<br />

ti può capitare <strong>di</strong> ascoltare persino la Marini, Otello Profazio, ma soprattutto la grande<br />

Bueno: anarchia, maremma amara, canti dei lavoratori e confessioni autobiografiche<br />

strazianti, articolate, pseudoletterarie. Il comune denominatore è un’appartenenza varia<br />

alla sinistra. Qui dall’incontro un po’ casuale tra Ven<strong>di</strong>tti e <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> nasce un album<br />

“Theorius Campus” (che è tutto un programma) voluto da Melis, <strong>di</strong>rettore artistico<br />

dell’allora RCA. I due sono <strong>di</strong>versissimi: sanguigno, estroverso, passionale, naif<br />

Ven<strong>di</strong>tti; ritroso, cupo, esistenziale, <strong>di</strong>fficilmente comprensibile <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong>. Ven<strong>di</strong>tti<br />

avrà un successo imme<strong>di</strong>ato e meritatissimo. Canzoni come “Sora rosa”, “Ciao uomo”,<br />

ma soprattutto “Roma capoccia” lo proiettano in alto grazie a quella sua straor<strong>di</strong>naria<br />

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capacità <strong>di</strong> essere popolare, moderno, convincente, e grazie a una voce che ancor oggi<br />

ne ha poche alla pari. Non fu così per Francesco. La sua strada era più silenziosa, meno<br />

illuminata ed era altrettanto evidente che tra Dylan e altri fantasmi stava ancora<br />

ricercandosi. Ancor oggi sento un po’ a fatica le sue canzoni in “Theorius Campus”, ne<br />

adoro le potenzialità che poi saranno espresse, ma personalmente non lo considero il<br />

suo primo <strong>di</strong>sco, perché non c’è lui, ma l’esercizio, la prova, il noviziato.<br />

<strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> si rivela con “Alice non lo sa”. E devo <strong>di</strong>re che qui segna un punto fermo.<br />

In “Alice” il suo modo <strong>di</strong> esprimere è tecnicamente già risolutivo: saprà migliorarlo,<br />

allargarlo, variarlo, ma è in<strong>di</strong>scutibile che il marchio della genialità nasca qui e da qui<br />

si <strong>di</strong>pani. Due sono le canzoni emblematiche del nuovo corso che vale la pena <strong>di</strong><br />

sottolineare “Alice” e “la casa <strong>di</strong> Hilde”. Le due canzoni sono al primo ascolto<br />

totalmente incomprensibili, tanto che allora mi chiesi più volte se Francesco c’era o ci<br />

faceva. E invece sono il primo vero effluvio esistenziale e politico <strong>di</strong> un uomo che non<br />

ci sta a comunicare con idee fatte e propone sfide all’intelligenza e al cuore. Perché<br />

questo sarà per tutta la carriera <strong>di</strong> Francesco il leit-motiv: incrociare umanità politica,<br />

società, vicenda personale in oscuro e impreve<strong>di</strong>bile modo <strong>di</strong> porre e <strong>di</strong> porsi, non<br />

<strong>di</strong>menticando mai che <strong>di</strong> per sé l’arte <strong>di</strong> stare insieme o da soli sono misteri a volte così<br />

indecifrabili che il modo <strong>di</strong> comunicarli per conseguenza risente <strong>di</strong> questa<br />

indecifrabilità.<br />

“Alice non lo sa” è due canzoni in una. Io ho sempre pensato che Francesco seduto da<br />

qualche parte si lasciasse andare a pensieri liberi su persone e cose del suo presente, io<br />

io ho sempre pensato che Alice fosse <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> con un piccolo obbiettivo dell’anima<br />

pronto a riprendere e ripercorrere fatti e visi minimali <strong>di</strong> questo suo esser ragazzo.<br />

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E ho sempre pensato che “l’altra” canzone, quella che introduce lo sposo fosse una<br />

proiezione nel futuro, un grido <strong>di</strong> libertà <strong>di</strong> fronte al convenzionalismo (gli invitati),<br />

agli obblighi sociali (sposarsi), all’obbligo <strong>di</strong> essere padroni <strong>di</strong> se stessi (lo sposo è<br />

impazzito). Ho sempre pensato così, con varianti <strong>di</strong> <strong>di</strong>verso tipo. Probabile che lo sposo<br />

(l’uomo costretto dalle regole) non sia Francesco, ma tutti gli uomini. Ma ho sempre<br />

pensato <strong>di</strong> là <strong>di</strong> tutto che non ha importanza chi sia Lilì Marlene (un poster?), o Cesare<br />

(un amico? Pavese?) o chi altri. Ho sempre pensato che questo linguaggio corrisponde<br />

a un frammentare la vita e cogliere un ricordo al volo, senza volerlo determinare più <strong>di</strong><br />

tanto: perché è così che facciamo quando ci se<strong>di</strong>amo a pensare: oggetti e cose sono<br />

lampi e perfino <strong>di</strong>ssociati l’uno dall’altro, ma nostri, ed evocativi.<br />

Ma <strong>di</strong> là <strong>di</strong> tutte queste fantasie quel che mi attanaglia è la incongruente, inaccettabile<br />

serie <strong>di</strong> figure reali che fan cose <strong>di</strong> nessun conto (come sempre nella vita), la incapacità<br />

<strong>di</strong> Irene, del men<strong>di</strong>cante arabo che illude se stesso (tra l’altro grande squarcio politico,<br />

senza far politica); quel che mi attanaglia e mi ha sempre innamorato <strong>di</strong> “Alice” è che<br />

<strong>di</strong>ce cose vere e minime <strong>di</strong> persone molto più reali <strong>di</strong> quelle delle canzonette sanremesi<br />

(finte, epiche, border-line), senza voler provocare sconquassi e mozionali, ma soltanto<br />

descrivere tout-court una sequenza nella memoria per la gloria della “ normalità”<br />

dell’esistere che sembra anormale in canzone, perché in canzone siamo abituati a<br />

paradossi e iperboli.<br />

<strong>De</strong>vo <strong>di</strong>re che questa lezione del “minimale” è già nella scuola <strong>di</strong> Genova e in <strong>De</strong><br />

Andrè, ma mentre là l’andamento era dettato dall’”io” in amore e da una descrizione<br />

realistica e consequenziale (si pensi alla “Gatta” e “Via Broletto”, a “Lontano,<br />

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lontano”), qui la realtà, i tempi <strong>di</strong> questa realtà sono pure licenze dell’animo, del “come<br />

viene viene”, senza nessuna preoccupazione <strong>di</strong> <strong>di</strong>re cose importanti o che siano<br />

premesse ad altre. C’è in Alice una certa propensione alle associazioni libere e la<br />

convinzione che l’arte non debba essere per forza “entusiasmante” o “stringente”, ma<br />

comunque vera, perché Alice alla faccia <strong>di</strong> chi la taccia <strong>di</strong> ermetismo è una canzone<br />

“verista”, chiara, non permette confusioni. Anche qui siamo in un “RULE CHANGING<br />

CREATIVITY” come <strong>di</strong>ce Chomsky: interviene continuamente un’immagine<br />

inaspettata o fuori posto per farci riconsiderare l’immagine precedente.<br />

Più narrativa (apparentemente narrativa) risulta “La casa <strong>di</strong> Hilde”. Qui i personaggi<br />

sono tanti e con nome e cognome ma è del tutto inutile sapere se corrispondono alla<br />

realtà, come è inutile sapere chi sia Hilde (un concetto, un punto <strong>di</strong> arrivo, un sogno <strong>di</strong><br />

essere se stessi e in armonia?).<br />

Stabilito che “la casa <strong>di</strong> Hilde” è un’iniziazione, una falsariga <strong>di</strong> educazione<br />

sentimentale, un’antropofizzazione <strong>di</strong> un modo <strong>di</strong> vivere, tutto il resto è personale,<br />

intercambiabile, giocoso. Il padre grande (ombra doppia), la sua testimonianza, la<br />

<strong>di</strong>sponibilità ad accompagnare Francesco nella vita; e il suo sonno, durante il quale<br />

Francesco tocca finalmente la luna, capisce i valori e i sentimenti, <strong>di</strong>venta<br />

in<strong>di</strong>pendente. Il doganiere come mondo <strong>di</strong> regali e soprusi, come controparte (qualsiasi<br />

controparte) incapace però <strong>di</strong> trovare accuse specifiche tanto da andarsene “desolato”<br />

per non esserne stato capace. E infine Hilde (una Circe al contrario), che al ragazzo,<br />

libero dall’ombra del padre e dalla paura della repressione sociale (il doganiere), fa<br />

finalmente vedere il <strong>di</strong>amante, la verità. Poi ecco la “changing creativity”: appare una<br />

capra. Papà e figlio la legano ad una corda e se la portano a spasso. Finale<br />

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impreve<strong>di</strong>bile e serissimo: fare insieme una cosa semplice e antichissima: catturare cioè<br />

oltre il confine (dove non crescono gli stessi fiori della casa <strong>di</strong> Hilde) una capra,<br />

un’idea libera, una bellezza naturale senza parole, senza controsensi, sentire che<br />

l’insegnamento della cetra <strong>di</strong> Hilde è proprio questo appartenere alle cose che vivono,<br />

si muovono e sono con gli uomini da sempre.<br />

Anche in Hilde, <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> perpetua un’inclinazione già rodata: non concedere nulla.<br />

È una ribellione alla canzone muscolosa e ridondante che impegna il mondo<br />

<strong>di</strong>scografico <strong>degli</strong> anni ’70. Ma è anche una ritrosia, una presa <strong>di</strong> posizione che<br />

<strong>di</strong>fenderà sempre. È una concessione al pensar politico del ’68 e <strong>di</strong>ntorni: mai<br />

sentimentalismi, mai trucchi retorici, mai frasi falso-popolari per catturare l’ascolto. 5<br />

"<strong>De</strong> <strong>Gregori</strong>" (con pecora in copertina) : la lezione dopo l'appren<strong>di</strong>stato.<br />

L’album " Francesco <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong>" del 1974 costituisce una sorta <strong>di</strong> prova generale per<br />

Rimmel. Siamo ben oltre Alice: i brani si fanno compatti, sintetici, le sproporzioni si<br />

attenuano, la casualità <strong>di</strong> composizione scompare. Ogni canzone ha un suo preciso<br />

(anche se oscuro) centro focale, c’è la tendenza a stringere non ad allargare, a<br />

sparpagliare. E si può anche parlare <strong>di</strong> primo concept-album, perché il protagonista<br />

(non sempre in 1° persona) è lui, non altri. Disco dell’io, <strong>di</strong>sco da vero cantautore<br />

quin<strong>di</strong> necessario, quasi in<strong>di</strong>spensabile per tirare le somme su un’adolescenza che se ne<br />

va e la vita che irrompe. Direi che “La casa <strong>di</strong> Hilde” in “Alice” è un po’ il tramite tra<br />

5 La “rule changing creativity” si basa sulla bisociazione (associazione <strong>di</strong>vergente). Questa consiste nell’introduzione <strong>di</strong> un<br />

elemento (coro, persona, situazione, parola astratta) in conflitto col termine cui è legata, ma dalla cui unione emerge un<br />

particolare messaggio comunicativo.<br />

L’opposizione <strong>di</strong> termini non implica che l’uno sia contrario all’altro come nell’ossimoro, n6 implica che un termine<br />

(traslato) muti il senso dell’altro o crei una figura <strong>di</strong> pensiero <strong>di</strong>versa dai due elementi costitutivi, come nella metafora. La<br />

metafora è in realtà una piccola bisociazione, ma fortemente grammaticale. Per esemplificare: ghiaccio bollente è un<br />

ossimoro; una catena <strong>di</strong> monti è una metafora; tra il telefono e il cielo è una bisociazione vera e propria.<br />

In quest’ultimo caso i due stimoli (TELEFONO e CIELO) vengono da <strong>di</strong>rezioni <strong>di</strong>verse e stanno sul foglio in equilibrio<br />

precario, producono quin<strong>di</strong> una collisione tra un punto <strong>di</strong> vista chiaro, abituale e uno insolito: oppure sono tout-court<br />

entrambi insoliti rispetto a qualcosa detto o scritto prima, perché questa è la variante più spettacolare e più allargata: es. gli<br />

aerei stanno al cielo come le navi al mare come il sole all’orizzonte la sera come è vero che non voglio tornare.<br />

56


passato e presente." F.G." (ribattezzato “la pecora”), è sofferto e appassionato in una<br />

misura che troveremo <strong>di</strong> rado nel prossimo <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong>. Anche qui le maschere sono<br />

molte (Arlecchino, Lupo) a sottolineare una ritrosia, una delicatezza, una caratteriale<br />

incapacità a spararsi fuori del tutto, muscoli e nervi. Ma l’amore e il dolore sono ben<br />

presenti e insieme alle idee politiche spesso serpeggianti, costituiscono il centro delle<br />

tematiche. Non è un <strong>di</strong>ario Wertheriano, perché sono ban<strong>di</strong>te tutte le sdolcinerie, non<br />

c’è ombra <strong>di</strong> piagnistei e s<strong>di</strong>linquimenti, la rabbia è tenue e la sofferenza solo suggerita,<br />

mai sbattuta in faccia. C’è critica, autoanalisi, paura <strong>di</strong> scelte sbagliate; c’è una sorta <strong>di</strong><br />

refrattarietà al chiaro, allo spettacolare e quin<strong>di</strong> alla logica del successo, del consumo.<br />

Disco vero da cantautore, <strong>di</strong>cevamo, perché Francesco si misura e si conosce attraverso<br />

simbologie sempre più <strong>di</strong>rette, sempre più da canzone (l’angelo senza spada,<br />

Arlecchino sul filo, Lupo anima pura) e anche fuor <strong>di</strong> simbolo, laddove è chiaro e <strong>di</strong> chi<br />

si sta parlando (Bene, Festival).<br />

L’eccessivo uso <strong>di</strong> “oscurità” si ammortizza, le bisociazioni si fanno più precise e più<br />

congrue, adatte al momento, senza gli eccessi precedenti.<br />

<strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> risente fortemente <strong>di</strong> Dylan, in tutti gli arrangiamenti e in parecchi motivi<br />

(Bene e più “Coheniano”), ma non è il Dylan dell’apice, della grande protesta, della<br />

marcia sociale: è un Dylan contenuto, sussurrante, intimo. Anche nel buttar là le frasi,<br />

nello smangiucchiare le finali, nello strascicare il canto Francesco è <strong>di</strong>versissimo<br />

dall’autore <strong>di</strong> blowin’ in the wind. Quanto questo è secco, spietato, sgraziato, tanto<br />

quello è imperturbabile, neutro, un po’ onirico, quasi cantasse appena sveglio o in uno<br />

stato <strong>di</strong> calma apparente. In fondo l’unica canzone legata fortemente alla tecnica <strong>di</strong><br />

Alice è “Niente da capire”, quasi un programma, con cui l’album si apre.<br />

Anche qui si tratta <strong>di</strong> una serie <strong>di</strong> considerazioni (notturne) che si accavallano l’un<br />

l’altra con passaggi spesso azzardati, inaspettati. Che si <strong>di</strong>a da fare in giro o se ne stia<br />

57


per i fatti i fatti suoi (seduto o non seduto) F. non pare scontento <strong>di</strong> sé (faccio sempre la<br />

mia parte), ma sente <strong>di</strong> essere in una situazione <strong>di</strong> stallo (il cuore che non parte).<br />

Primo rivolgimento: Giovanna, un flash, un viso che interrompe la me<strong>di</strong>tazione<br />

(attenzione a quel “però”). È passata è stata, si è incrociata con lui, è andata. Giovanna<br />

come tutto quel che verrà poi è un pretesto, un esempio per considerare che ti sbatti,<br />

vivi, ti esalti, muori, ma non c’è altro senso a tutto questo, non c’è altra lezione, altra<br />

lettura, se non lo sbattersi in sé, il vivere in sé.<br />

Secondo balzo: il quadro della moglie e della sua delusione, dello sconforto mattutino<br />

all’accorgersi che nessun amore o amorazzo vero o presunto toglie lo spleen, la noia.<br />

Ma anche questo era tutto previsto, come per niente casuale è quel “forse mi tra<strong>di</strong>sce”,<br />

(dato che l’ha già detta prima). Sì ci sono <strong>degli</strong> uomini, ma è tra<strong>di</strong>mento il suo? O è<br />

qualcos’altro? Terza donna, o la moglie ancora , più probabilmente. La canzone si alza,<br />

il dolore si fa gioco illusorio, le parole sfiorano lo scherzo, danno sul grottesco (è<br />

giusto quel che <strong>di</strong>ci), chiariscono il <strong>di</strong>sagio (i tuoi calci) fino all’improvvisa,<br />

impenetrabile bisociazione “se i tuoi occhi fossero ciliegie, io non ci troverei niente da<br />

<strong>di</strong>re”. Un tormento per chi ascolta, un salto mortale con triplo avvitamento, un colpo<br />

mortale alla logica consequenziale. Certo può significare <strong>di</strong> tutto (ma anche niente),<br />

non è questo quel che conta: conta il “raptus”, l’impennata comunicativa che questa<br />

frase dà al contesto. Noi avvertiamo vagamente, solo vagamente, che F. l’accetterebbe<br />

comunque, mentre lei non lo fa. Ma è un avvertire flebile, incerto, non un senso vero e<br />

proprio. Sta qui la sfida, la peculiarità creativa delle bisociazioni o ancor più delle “rule<br />

changing creativity” che son figura ancor più ampie.<br />

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Quarta donna: sì ora sappiamo che è la stessa <strong>di</strong> prima e <strong>di</strong> prima ancora. La metafora è<br />

scopertissima. Ma non fa altro che proseguire e concludere le due <strong>di</strong>verse modalità con<br />

cui lui e la moglie hanno preso questo rapporto: lei gioca a scacchi sul serio e per<br />

vincere, lui no. Lei prende tutto sul serio e in maniera tremendamente competitiva, lui<br />

no. Lei lo vuole in un preciso modo, a lui andrebbe bene anche se avesse delle ciliegie<br />

al posto <strong>degli</strong> occhi.<br />

“Riportami i tuoi occhi e il mio fucile” è una bisociazione finale sontuosa ad<strong>di</strong>rittura<br />

tra una sineddoche (occhi) e un traslato (fucile). Riportami la tenerezza <strong>di</strong> una volta e la<br />

mia fiducia in me, la mia combattività che ho perso. “Non c’è niente da capire” non è<br />

assolutamente in<strong>di</strong>fferenza. Si tratta un po’ <strong>di</strong> una ripicca, <strong>di</strong> uno spernacchio a tutti<br />

quelli che chiosano e vogliono trovare un senso a tutti i costi e in tutte le cose. Ed è<br />

come già detto, anche una regola <strong>di</strong> fondo; tutto va e scorre e il senso è insito in ciò che<br />

va mentre va e scorre mentre scorre, non esula, non esce, non deborda dal momento<br />

della sua attualità, del suo accadere.<br />

La miniparafrasi biblica <strong>di</strong> “Cercando un altro Egitto” ci porta a due considerazioni.<br />

Primo: Francesco deve sentire in modo traumatico l’approccio col mondo reale.<br />

Secondo Francesco unisce politico e privato in modo quasi in<strong>di</strong>ssolubile. Ma il risultato<br />

è uno solo: a tutte queste novità fuori dalla sua stanza, che siano amore o lotta non è<br />

preparato, le sente a mo' <strong>di</strong> <strong>di</strong>sagio e violenza quasi lo <strong>di</strong>stogliessero da un sogno che<br />

sta facendo ad occhi aperti: “amore, naviga via, devo ancora svegliarmi”. Di certo c’è<br />

che anche al più caro amico ( che ben lo conosce) questa canzone sembra un incubo,<br />

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volutamente forzato nei toni. Ma io vorrei mettere l’accento su alcune espressioni<br />

veramente nuove e illuminanti:<br />

MI DICONO “FRANCESCO TI VOGLIONO AMMAZZARE!” IO DOMANDO<br />

“CHI?” LORO FANNO “COSA?”.<br />

Straor<strong>di</strong>naria <strong>di</strong>versità <strong>di</strong> vedute. O forse <strong>di</strong> incomprensione acustica. Francesco (che è<br />

un bel po’ paranoico) usa l’iperbole perché si sente minacciato da qualcuno. Gli amici<br />

(che chissà cos’altro gli avevano detto) non sanno cosa rispondergli.<br />

E VEDO SOPRA IL TETTO MIA MADRE INGINOCCHIATA IN EQUILIBRIO<br />

SUL CAMINO. Psicoanalitica questa precarietà aerea dell’affetto materno che però<br />

<strong>di</strong>venta presenza rasserenante quando la strada si riempie <strong>di</strong> gente (ostile?<br />

Sconosciuta?) LA STRADA ADESSO è PIENA DI PERSONE, MIA MADRE è QUI<br />

VICINO.<br />

AL POSTO DEL POSTO DOVE VA IL FRANCOBOLLO C’è UN BUCO PER<br />

APPENDERLO: DOVE, DICO IO? INTORNO AL MONDO. Da notare che questo<br />

“RULE CHANGING” capita nella canzone dopo tutt’altra immagine (il poeta che<br />

vende fotografie), producendo un salto comunicativo tostissimo.<br />

Questa frase mi ha sempre affascinato: niente parte senza francobollo, senza una<br />

garanzia fiscale, sociale, economica. Eppure le lettere della nostra anima non c’è<br />

bisogno <strong>di</strong> spe<strong>di</strong>rle: basta farle combaciare col mondo. Anarchia? Libertà <strong>di</strong><br />

espressione, magari minacciata (come si intuisce dall’inizio della canzone)?<br />

Ai poliziotti che agitano i manganelli fra la gente: E IO DICO: “NON PUO’ ESSERE<br />

VERO”, E LORO DICONO: “NON E’ PIU’ VERO NIENTE”. Questa sintesi <strong>di</strong> lotta<br />

giovanile e repressione è una gemma verbale. Le due mentalità (Francesco e i<br />

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poliziotti) esprimono il loro “back-ground” in due pennellate. E non c’è niente da<br />

capire.<br />

L’UFFICIALE UNCINATO che lo segue da sempre è un fantasma <strong>di</strong> repressione ben<br />

chiaro, molto molto meno chiara è la “RULE CHANGING CREATIVITY” che segue:<br />

LE GRANDI GELATERIE DI LAMPONE CHE FUMANO LENTE, I BAMBINI<br />

SON TUTTI A GIOCARE”. E i bambini glieli ha in<strong>di</strong>cati l’ufficiale uncinato quasi a<br />

<strong>di</strong>rgli “sono tutte paranoie tue che non esistono più bambini, come ve<strong>di</strong> son tutti in giro<br />

a giocare “. Ma non erano quelli i bambini che intendeva <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong>, non quelli<br />

ingannati dai dolci <strong>di</strong> lampone.<br />

“Bene” è un’altra canzone. È una lettera dal contenuto chiaro, fin da principio. È un<br />

dopo-ad<strong>di</strong>o, è una concessione (rarissima in D.G.) alla nostalgia, a quel che poteva<br />

essere, al sentimento frustrato. Ma anche qui il nostro tira la palla e ritira la mano in<br />

sintonia con la sua viscerale ritrosia a concedersi a farsi vedere del tutto. Eppure<br />

“Bene” commuove, prende eccome: ci restituisce un poeta con un volto e uno scorrer <strong>di</strong><br />

sangue, un vibrar <strong>di</strong> nervi.<br />

Su “Bene” potrei <strong>di</strong>re e vorrei <strong>di</strong>re un milione <strong>di</strong> cose, perché fa parte <strong>di</strong> un mondo a<br />

me molto vicino, ma mi tengo. È così facilmente autoespressiva che ognuno può<br />

sentirla come vuole. Mi piace quell’aria <strong>di</strong>messa ma non sconfitta, quell’orgoglio delle<br />

proprie azioni qualsiasi siano state, dei propri amici, della propria strada imboccata da<br />

self-made-man (le navi <strong>di</strong> Pierino erano carta <strong>di</strong> giornale…), quel <strong>di</strong>sgustoso sentire il<br />

passaggio del tempo e la debolezza finale dolcissima <strong>di</strong> quel “ma puoi chiamarmi<br />

ancora amore mio”. E mi piace l’immagine rassicurante che non lo può più rassicurare.<br />

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Grande lirica minimale e <strong>di</strong> tutti (come Renoir, la donna cannone), <strong>di</strong> cui stranamente<br />

F. <strong>De</strong> G. si vergogna un po’ (o non stranamente?).<br />

“Chissà dove sei” suona come chiosa a “Bene”, però a testa ben alta, giocata sul<br />

grottesco, lo sfottò, il <strong>di</strong>vertissement. Quasi ad avvisarci che <strong>di</strong>etro la nostalgia c’è<br />

anche il <strong>di</strong>sincanto. In “chissà dove sei” la donna è connotata con le stesse strategie <strong>di</strong><br />

“Niente da capire”, che poi saran Quelle <strong>di</strong> Rimmel. Mi sembrano notevoli certe<br />

BISOCIAZIONI improvvise come: COL TUO TRUCCO INFAME E LA GIACCA DA<br />

BANDITO / IL MIO VISO ANGELICO PERCOSSO DAI FATTI / CON LA TUA<br />

SIGARETTA COME UNA MATITA / IO TI HO ACCETTATO COME UNA BELLA<br />

CALLIGRAFIA / MA IL MIO INDIRIZZO è “VIA DEL SOPRACCIGLIO<br />

DESTRO”, CON RISPETTO PARLANDO E ALTRE PARTI DI ME. Quel<br />

sopracciglio è un’iperbole <strong>di</strong> sineddoche: il cuore sta al viso secondo come si muovono<br />

i muscoli facciali. Nessun altro lo fa come lui.<br />

“A lupo” e “Arlecchino” hanno moltissimi punti in comune. Si tratta <strong>di</strong> due autoritratti<br />

<strong>di</strong>versi nella forma, uguali nelle conclusioni.<br />

In “A lupo” è notevole il canone <strong>di</strong> versificazione: l’ultima o le ultime parole <strong>di</strong> un<br />

verso <strong>di</strong>ventano le prime <strong>di</strong> quello successivo. Te le aspetteresti melo<strong>di</strong>camente prima e<br />

invece <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> le sposta sotto, ottenendo un effetto <strong>di</strong> corsa e rincorsa piuttosto<br />

unico. Anche qui si parte da “lei” che aveva “tasche troppo strette e otto, nove, <strong>di</strong>eci<br />

mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> vivere” che sono un po’ eccessivi anche per lui che aveva “dei gerani proprio<br />

dove la strada si <strong>di</strong>vide” col risultato <strong>di</strong> non fargli nemmeno sentire il campanile che<br />

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suona per avvertirlo che qualcosa non va. O almeno al momento. Perché subito o quasi<br />

si accorge che quella non è casa sua e i ricor<strong>di</strong> (brutto segno) si affollano troppo in<br />

fretta, per Lupo, anima pura.<br />

Straor<strong>di</strong>naria l’autoironia della seconda strofa: quella dell’incanto. Francesco si<br />

autodefinisce “poeta in affari”, pieno <strong>di</strong> nastri colorati, un giocoliere che affascina, che<br />

bara per ottenere lo scopo. Paradossale poi che lei sia al principio dell’amore tale e<br />

quale alla “piccola fiammiferaia” in<strong>di</strong>fesa, fragile, bisognosa d’amore, quando da altri<br />

contesti abbiamo visto cosa <strong>di</strong>venta poi. Eppure tutto finisce: vengono accerchiati dai<br />

“quaranta ladroni” (il mondo, gli altri, le consuetu<strong>di</strong>ni) e non c’è più tempo, la favola<br />

svapora, va in frantumi (la Renault <strong>di</strong>venta una zucca). E “Lupo”, anima pura se la<br />

prende in saccoccia. Ma con quale e quanta eleganza <strong>di</strong>staccata riesce a raccontarlo!<br />

“Arlecchino” è l’alter ego più semplice e imme<strong>di</strong>ato dell’album. Anche qui, in altro<br />

modo è riba<strong>di</strong>to il contrasto tra la propria libertà artistica, esistenziale e il dubbio, il<br />

sospetto <strong>di</strong> infrangerla lasciandosi irretire da pseudovalori, non ultimo il successo. Non<br />

a caso gli amici veri sono “gli eroi della friggitoria chantan” (eroi è ironico e<br />

paradossale insieme). Sono proprio loro a chiedergli “dove stai andando sul filo,<br />

mascherato a quella maniera”. Ma in realtà questo è un altro Arlecchino a cui<br />

Francesco non vuole affatto assomigliare (la sua cella, che pur cella è, sta un po’ più in<br />

là).il gioco che <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> vuol portare a termine è quello <strong>di</strong> restar sospeso senza fili,<br />

senza dovere niente a nessuno come l’altro Arlecchino a cui qualcuno lo accomuna ma<br />

non ha niente a che vedere con lui (quanti sol<strong>di</strong> ti hanno dato….quanti anni hai). È un<br />

bel proclama <strong>di</strong> in<strong>di</strong>pendenza, sognante, vagamente surreale, ma esplicito.<br />

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Sulla falsariga <strong>di</strong> “Chissà dove sei” si muove quel gioiello <strong>di</strong> ironia che è “souvenir”.<br />

Premessa e conclusione così <strong>di</strong>stanti e così inimparentabili l’una all’altra mi ricordano<br />

“Via Broletto” <strong>di</strong> Endrigo. Lontana, lontanissima, da un’altra stanza o vita sembra<br />

provenire questa lenta, lamentosa, astratta ricordanza. Le volute citazioni <strong>di</strong> celebri<br />

brani all’italiana (Niente luna sopra i tetti / sul campanile nevica) suonano a<br />

sbeffeggiamento: quelli erano gran<strong>di</strong> epici amori finti; il suo è minimale ma vero, tanto<br />

minimale che l’autodefinizione <strong>di</strong> Francesco suona come masochismo (io sono un<br />

ven<strong>di</strong>tore <strong>di</strong> risate al circo che si tiene il lunedì). Ma la grande impennata è in agguato:<br />

ecco che con un’improvvisa “changing rule” saltano fuori i denti, quello che manca e il<br />

ricordo <strong>di</strong> dove è finito. È il risvolto, la rivincita, la spiegazione totale.<br />

Per tutto "F.d.G." (la pecora), dove più dove meno, le canzoni sono costruite con alcune<br />

tecniche similari.<br />

1) la “changing rule creativity”, come detto, che permette <strong>di</strong> passare da una<br />

situazione ad un’altra inaspettata e contraria, sostituendo la comunicazione ovvia<br />

con un’altra meno ovvia<br />

2) la bisociazione (unità <strong>di</strong> misura della C.R.C.) che accosta termini lontanamente<br />

parenti tra loro, uno logico e consequenziale, l’altro inaspettato e momentaneo:<br />

anche da questo conflitto il raggio <strong>di</strong> comunicazione si allarga permettendo a chi<br />

ascolta <strong>di</strong>versi livelli mentali<br />

3) l’impressionismo descrittivo: le storie sono costruite a pennellate: il quadro, la<br />

scena, la situazione cambia spesso, per tornare poi o non tornare affatto. Spesso<br />

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ciascun periodo sembra separato e per niente accostabile al successivo. Ma il<br />

segreto (come per gli impressionisti in pittura) è guardar da lontano tutta la<br />

canzone per intero. E allora i “particolari” si fondono e assumono un senso<br />

comune. È la globalità dalla canzone (come già detto) a cantare, non la sua<br />

vivisezione.<br />

4) <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> non imita o maneggia l’ermetismo o altre scuole poetiche come<br />

suggerito da qualcuno. I suoi verbi, sostantivi, aggettivi, sono del tutto<br />

comprensibili, “me<strong>di</strong>ali”, non esiste ricerca del raro o prezioso. Se mai è il modo<br />

<strong>di</strong> unirli che costituisce la grande novità perché inusitato, incalcolabile anche se a<br />

ben leggere comunque logico (metafore e bisociazioni). <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> non si<br />

preoccupa <strong>di</strong> usare iati ,sfalsature tra note e sillabe o ripetizioni, se gli servono, e<br />

vede con gli occhi <strong>di</strong> un ragazzo, <strong>di</strong> un giovane senza artifici metrici. La<br />

melo<strong>di</strong>a, per quanto scarsa, qua e là nervosa è <strong>di</strong> primaria importanza, il testo<br />

non la prevalica più del dovuto. Ognuno <strong>di</strong> questi testi letto senza musica è<br />

orfano, non basta a se stesso, come avviene invece in poesia.<br />

5) Infine <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong>, a sua maniera, è chiaro, <strong>di</strong>scorsivo, reale, col velo simbolico<br />

che usa qua e là non si sogna nemmeno <strong>di</strong> replicare l’incomprensibilità del<br />

mondo (Montale, Campana), ma <strong>di</strong> attenuare l’inespressività, la retoricità e la<br />

durezza <strong>di</strong> un linguaggio totalmente realistico, per cose in fondo così minime.<br />

RIMMEL, il capolavoro<br />

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L’apparente semplicità melo<strong>di</strong>ca, la monotonia ritmica, il metaforizzare ancora<br />

faticoso, l’ingenuità vocale, la tendenza qua e là a strafare in immagini spariscono<br />

completamente nell’album del ’74: RIMMEL. In rimmel appaiono melo<strong>di</strong>e (alcune<br />

straor<strong>di</strong>narie) dallo schermo chiaro, si moltiplicano i ritmi, si passa dalle ballate folk,<br />

alle filastrocche, alle canzoni all’italiana fino a toccare armonie del tutto nuove (Pezzi<br />

<strong>di</strong> vetro, quattro cani). In “rimmel” come vedremo si co<strong>di</strong>fica, quasi si canonizza<br />

l’esatto impiego delle figure <strong>di</strong> pensiero in canzone, <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> risulta assoluto<br />

padrone <strong>di</strong> quel che canta, non ripetendosi mai e giunge alla stilizzazione, alla sintesi,<br />

abolendo ogni “<strong>di</strong> più”, ogni concessione allo stupore che non sia giustificata.<br />

Quando si parla <strong>di</strong> “Rimmel” bisogna starci attenti, perché siamo <strong>di</strong> fronte all’album<br />

più rivoluzionario (ancor oggi) <strong>di</strong> tutto il periodo. Rivoluzionario per l’assoluta novità<br />

che propone nel linguaggio in canzone e rivoluzionario per l’inversione che attua nel<br />

modo <strong>di</strong> comunicare fino a renderlo popolarissimo. Rivoluzionario per gli autori e per<br />

il pubblico quin<strong>di</strong>.<br />

Ma cos’è che rende così particolare “Rimmel” (a parte ciò che abbiamo già detto) tanto<br />

da farlo considerare già alla sua uscita un cult?<br />

Innanzitutto il momento: c’è una gioventù (e non solo) già da tempo stanca e scazzata<br />

<strong>di</strong> motivi e motivetti, pur carini ma limitati, e nemmeno paga <strong>di</strong> ascoltare a chiari<br />

termini oggettivi rimostranze sociali e politiche, sempre con le stesse parole e<br />

immagini. C’è una gioventù che a fine anni cinquanta aveva detto basta alla canzone<br />

all’italiana. Cultura, lettura, amore per il novecento espressionista sono cose ben<br />

mature in Italia.<br />

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C’è una gioventù che, se si eccettua Guccini ( ma per altri versi), non trova una voce in<br />

cui identificare e scatenare la propria voglia del nuovo, e <strong>di</strong>ciamolo, dell’intelligenza,<br />

da <strong>De</strong> Andrè (12 anni prima) in poi.<br />

Poi c’è l’uomo, anzi il ragazzo <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong>. Misterioso, nascosto, inimmaginabile,<br />

testardo, ombroso: un po’ Byron, un po’ Campana, un po’ Kafka, un po’ Jonesco, un po’<br />

Musil ha lanciato da due anni una sfida al piacere, al gusto, al privilegio <strong>di</strong> essere<br />

sentito e capito senza pubblicità, chiasso, allettamenti, specchi per allodole; ha<br />

volutamente evitato musiche insinuanti o melo<strong>di</strong>e aeree (volutamente perché le sa fare,<br />

ve<strong>di</strong> “la leva calcistica” “la valigia dell’attore” “la donna cannone”), è portaban<strong>di</strong>era <strong>di</strong><br />

chi sente “sottile” e “personale”, <strong>di</strong> chi avverte nelle parole un mondo magico da usare<br />

finalmente in altri mo<strong>di</strong> (e costoro son tanti).<br />

Cancella ogni retorica, ogni forzatura, persino dure e coinvolgenti esternazioni<br />

personali (come Guccini), rifugge ogni sentimentalismo, ogni pietismo e buonismo,<br />

ogni paternalismo (nemici giurati <strong>degli</strong> studenti <strong>di</strong> allora) e non propone mon<strong>di</strong>, non dà<br />

soluzioni, non moralizza, non <strong>di</strong>vide <strong>di</strong> netto bene e male, giusto e sbagliato, non canta<br />

inni epici, ma piccole piccolissime serie <strong>di</strong> sensazioni su <strong>di</strong> sé su <strong>di</strong> chi gli assomiglia o<br />

che gli è parente in umano sentire (Pablo).<br />

In più è unico: nessuno è stato così prima <strong>di</strong> lui, nessuno è giunto al suo livello <strong>di</strong> ar<strong>di</strong>re<br />

letterario , nemmeno i gran<strong>di</strong> francesi Brel, Brassens, Becaud. È unico e bravo: sa<br />

usare le parole non come un mago incantatore, ma come un mago che fa il fabbro e il<br />

ramista, o il pittore miniaturista. È bravo perché canta come sente e come pensa, senza<br />

mai calcare i toni per ottenere un effetto. È bravo perché naviga in questo folk, in<br />

67


questo country reinventato all’italiana tenendo sul filo sospesi nell’attesa della<br />

prossima nota, <strong>di</strong> dove vuole arrivare, andare a parare.<br />

Tutto questo e tante altre cose ancora hanno decretato il successo <strong>di</strong> Rimmel, in<br />

maniera naturale, come se un’area culturale <strong>di</strong> persone sparse per l’Italia si fosse<br />

trovata all’improvviso congiunta in un denominatore comune e atteso. Perché fu come<br />

un tam tam rapi<strong>di</strong>ssimo e felice.<br />

Le canzoni <strong>di</strong> “Rimmel” brevi, essenziali, sono una galleria fantastica <strong>di</strong> “rule changing<br />

creativity” e sinceramente non mi prenderò la briga <strong>di</strong> spiegarle parola per parola<br />

(come ho già detto per “Rimmel”) perché a <strong>di</strong>re il vero anche a me risultano qua e là<br />

indecifrabili, ma soprattutto perché non ha importanza. Importante è l’ammasso <strong>di</strong><br />

stimoli evocativi che in <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> si riferivamo certo a qualcosa <strong>di</strong> preciso, ma che<br />

trascendono questa unicità <strong>di</strong> interpretazione. Importante è in verità che agiscano nel<br />

nostro sistema emotivo e logico lasciandoci una sensazione generalizzata ma piena <strong>di</strong><br />

un sentimento della vita e delle cose. Spiegarle sarebbe come se dopo aver assistito ad<br />

un tramonto dovessimo chiederci quante e quali sfumature <strong>di</strong> colore c’erano, e se il<br />

rosso dava sul giallo o viceversa, impossibile. D’altronde “Rimmel” ha contenuti<br />

semplici, molti dei quali già affrontati prima: autoritratti in onore della propria libertà<br />

(“Pezzi <strong>di</strong> vetro”, “il signor Hood”), quadri politici che van dall’elegia (Pablo), al<br />

giambo (le storie <strong>di</strong> ieri); intrusioni nell’io amoroso (Rimmel) in quello più profondo<br />

(Piccola mela) e in quello più lampante (Buonanotte fiorellino); frammenti <strong>di</strong> vita<br />

sociale (quattro cani) e invettiva personale (Piano bar). Saputo questo, che è poi il<br />

meno, la cosa più importante è scoprire l’originalità dell’elaborazione formale,<br />

stilistica, l’angolazione (quasi mai centrale) da cui è raccontata la storia, i colpi <strong>di</strong><br />

68


teatro, le allusioni, le impreviste follie, la tensione emotiva che <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> sa costruire.<br />

Tutto questo è il “nuovo”, il “mai sentito” nella canzone italiana che fa <strong>di</strong> lui e <strong>di</strong><br />

Rimmel parte <strong>di</strong> storia <strong>di</strong> tutta la nostra cultura.<br />

“Pezzi <strong>di</strong> vetro” è una delle più riuscite ,non solo per la ricchezza d’immagini-<br />

contrasto, ma anche e <strong>di</strong> più per la sincerità assoluta dell’autoconfessione e l’ostinata<br />

voglia <strong>di</strong> <strong>di</strong>fferenziare poeti e buffoni: ma anche per la sincerità dell’approccio<br />

d’amore.<br />

Singolare già l’”incipit”; che è , come al solito, una descrizione <strong>di</strong> sé fatta da altri<br />

(<strong>di</strong>cono…). A parte il (casuale?) “angolo retto <strong>di</strong> una stella” l’autoritratto è "<br />

riflettente." A camminare sui pezzi <strong>di</strong> vetro si paga del proprio, c’è del masochismo,<br />

s’intravede una sfida impari: sesso e cuore sono un ramo duro e vengono unificati<br />

nell’immagine. Ma costui non è un ciarlatano qualsiasi (niente a che vedere…), paga<br />

del proprio (come detto) sui pezzi <strong>di</strong> vetro che fanno male (lo straor<strong>di</strong>nario è che con le<br />

cose della vita costui non si ferisce, non si taglia), e ha una “sua” vita a cui tiene più<br />

che ad ogni altra cosa. Se niente <strong>di</strong> contingente può ferirlo, neanche a pensarlo è<br />

possibile morire.<br />

Da qui scatta l’incontro e descrizione della notte come “un ombrello teso tra la terra e il<br />

cielo”, “che è un letto e un tetto <strong>di</strong> capanna utile: la notte dell’amore. Va da <strong>di</strong>re che in<br />

questo engagement d’amore convivono due anime: il mistero (l’ombrello) e la<br />

primor<strong>di</strong>alità (la capanna). Autoironia anche nell’approccio impacciato a parole (è<br />

quattro giorni che ti amo): adolescenza che cammina sul vetro e non sa <strong>di</strong>chiarare<br />

l’amore.<br />

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E poi finale senza finale (però stai bene dove stai), che è nella linea del “lasciato lì”, del<br />

“non c’è niente da capire”. Quello che contava era definirsi e provarci. Il resto se<br />

<strong>di</strong>venta o non <strong>di</strong>venta amore qui non conta non fa parte del tema.<br />

Tentare <strong>di</strong> razionalizzare “Il signor Hood” mi sembra sinceramente fatica sprecata. Si<br />

tratta <strong>di</strong> un ban<strong>di</strong>to galantuomo o forse <strong>di</strong> un teorico sessantottino, o più semplicemente<br />

<strong>di</strong> un incompreso (“regalò le sue parole ai sor<strong>di</strong>” 6 ). Ad<strong>di</strong>rittura forse è in gran parte <strong>De</strong><br />

<strong>Gregori</strong> stesso: “la strada <strong>di</strong> Pescara” potrebbe essere quella dell’ RCA; “il canestro <strong>di</strong><br />

parole nuove” potrebbe alludere al suo impegno letterario 7 . Ma l’una, l’altra o l’altra<br />

versione ancora non cambiano sostanzialmente le cose 8 . <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> voleva un<br />

“western” (non solo nei ritmi e nell’armonia) e lo ha ottenuto ritagliando un misterioso<br />

(illuso?incompreso?) vagabondo semintellettuale che nessuno sa bene chi sia a partire<br />

dal nome (“tutti lo chiamavano signor Hood, ma il suo vero nome era “lisca <strong>di</strong> pesce”).<br />

Sfida <strong>di</strong> grande intelligenza, vigorosa sonorità, e grande parafrasi retroamericana.<br />

“Pablo” è una canzone car<strong>di</strong>ne, anima emblematica <strong>di</strong> tutto “Rimmel” dove si riba<strong>di</strong>sce<br />

per chi non avesse inteso prima che privato e politico in <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> coincidono e<br />

s’intrecciano e nell’uno c’è sempre qualcosa dell’altro. Questa professione <strong>di</strong> umanità e<br />

uguaglianza, questo <strong>di</strong>sprezzo per la prepotenza e il privilegio non ha l’andamento<br />

simbolico <strong>di</strong> <strong>De</strong> Andrè o il rabbioso realismo <strong>di</strong> Guccini, ma è sfondo continuo, è<br />

insinuato nelle pieghe <strong>di</strong> molte canzoni, è leggibile nelle metafore. <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> si sente<br />

6 Molto accre<strong>di</strong>tata l’identificazione con Pannella.<br />

7 La de<strong>di</strong>ca “a M.” allude a Melis, <strong>di</strong>rettore artistico.<br />

8 Quel che conta è che Hood, privato o politico che sia (o le due cose insieme) non “muore lì” come molti credono.<br />

Prelu<strong>di</strong>o alla ben altra temperie <strong>di</strong> “Pablo”, ma soluzione simile: libertà e fantasia non le ammazzi mai.<br />

70


parente della terra, della semplicità, perfino della povertà, oltre che (come già visto)<br />

pala<strong>di</strong>no <strong>di</strong> tutte le libertà e fantasie.<br />

Pablo è una storia minima, fragile, quasi due righe <strong>di</strong> cronaca. Due emigranti uno<br />

italiano, uno spagnolo s’incontrano sul treno che li porta in Svizzera; là <strong>di</strong>ventano<br />

amici nonostante siano così <strong>di</strong>verse lingua e cultura, fino alla morte <strong>di</strong> uno dei due, lo<br />

spagnolo. Su questo filo così esile e così pericolosamente in bilico sulla retorica (la<br />

sceneggiata napoletana, partono i bastimenti), <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> costruisce con pennellate<br />

brevissime, quasi dei punti, delle macchie invisibili una canzone <strong>di</strong> verità e forza<br />

politica che non ha eguali in passato. Niente lacrime, effusioni, mamme, lettere, niente<br />

stereotipi degradanti. Sogni e realtà comunicati l’un l’altro attraverso pezzi, lembi <strong>di</strong><br />

ricor<strong>di</strong> appena accennati e progetti chiusi in una parola, non più. Ne deriva una<br />

fratellanza che trascende il “letterario”, un parlar a gesti e sorrisi perché le lingue sono<br />

incomprensibili a vicenda, un capirsi <strong>di</strong> là <strong>di</strong> modelli inconsueti e sconosciuti (il gallo<br />

<strong>di</strong> battaglia), una naturale complicità tra uomini semplici (il vino, il pane, il fumo<br />

<strong>di</strong>viso, ma anche la moglie tra<strong>di</strong>ta). Ne deriva una convergenza d’illusioni (“il padrone<br />

non era poi cattivo”) e <strong>di</strong> speranza (“e la latteria <strong>di</strong>venta terra”), un determinismo<br />

prepolitico d’ingenuità sconcertante (se è caduto, è caduto per caso). <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> è<br />

vicinissimo alle intenzioni, agli schemi dell’antico “cantacronache”, ma se ne<br />

<strong>di</strong>fferenzia, rinunciando al suo commento esterno, rinunciando a <strong>di</strong>videre il giusto<br />

dall’ingiusto e costruendo alla maniera <strong>di</strong> Verga, <strong>di</strong> Campana, ma ancor più <strong>di</strong> Zola<br />

(“Germinal”). Ne deriva una grande tensione emotiva, così palpabile da tagliarla col<br />

coltello. Ne deriva una grande sincera pietà per le con<strong>di</strong>zioni umane, per le sconfitte, il<br />

dolore.<br />

71


A questa espressività nuda, essenziale, nulla toglie il ritornello, piuttosto coinvolgente e<br />

spettacolare (voluto da Dalla) “hanno pagato Pablo etc.”. Anzi il passaggio quasi<br />

violento del chiaroscuro narrativo al grido politico, ripetuto, reiterato, lascia finalmente<br />

libero sfogo all’emotività che chi ascolta ha mantenuto nei confini dell'animo, fino a<br />

quel momento.<br />

Che “Pablo” sia de<strong>di</strong>cata a Neruda è una favola metropolitana: un inganno romantico<br />

che viene dal nome del protagonista e dall’oscurità della sua fine (“caduto” “hanno<br />

ammazzato Pablo, Pablo è vivo”), nonché da una certa consuetu<strong>di</strong>ne (all’epoca) <strong>di</strong><br />

ascoltare Intillimani o chi per essi che usavano formule simili. Neruda non c’entra, o<br />

c’entra come uomo, perché questa è la storia <strong>di</strong> un lavoratore, <strong>di</strong> un uomo qualunque.<br />

L’imput iniziale <strong>di</strong> “buonanotte fiorellino” è <strong>di</strong> una semplicità pazzesca. Un ragazzo,<br />

tornato a casa, sdraiatosi a letto, ricorda la giornata passata con la sua ragazza. Le idee,<br />

i pensieri, le situazioni si accavallavano, si mischiano: ne consegue un misto <strong>di</strong><br />

adolescenziale e intellettuale, un libero sfogo <strong>di</strong> immagini, tutte dettate da una<br />

tenerezza presumibilmente dovuta all’intimo incontro. Star soli e sentirsi vicini a chi<br />

hai lasciato da poco è miracolamente felice. In questa festa del ringraziamento<br />

(Francesco è a posto con sé stesso), oggetti, situazioni, francobolli <strong>di</strong> minimalismo,<br />

<strong>di</strong>ventano interpreti <strong>di</strong> una sicurezza momentanea, <strong>di</strong> una rassicurazione erotica ed<br />

emotiva : da qui la favola , il ZUMPAPA-ZUMPAPA a imitazione <strong>di</strong>laniana, nella<br />

gioia <strong>di</strong> chi sta per addormentarsi sapendo che a tutto il mondo può augurare la stessa<br />

buonanotte che sta vivendo. Lei l’ha salutato facendolo sentire grande, o importante, o<br />

72


soltanto amato e ogni oggetto <strong>di</strong> quella sera vive la stessa gioia la stessa partecipazione<br />

emotiva.<br />

“Buonanotte Fiorellino” è un esercizio <strong>di</strong> grande “alterità” emotiva.<br />

Colgo fra le bisociazioni che determinano sbalzi interni affettivi, ed esterni<br />

incomprensibili all'apparenza:<br />

1) “buonanotte tra il TELEFONO E IL CIELO”<br />

Se telefona è come essere in cielo. Il telefono sono parole, il cielo è quello che più ci<br />

assomiglia stasera<br />

2) “Il granturco nei campi è maturo, ed io ho tanto bisogno <strong>di</strong> te”.<br />

Il mondo stasera va come deve andare e corrisponde al bisogno che ho <strong>di</strong> te<br />

3) “buonanotte tra le STELLE e la STANZA”<br />

La stanza è mia, le stelle le ve<strong>di</strong> anche tu<br />

4)“per sognarti devo averti vicino ,e vicino non è mai abbastanza". Straor<strong>di</strong>naria<br />

contrad<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> tempo e spazio. Se sei qui vicino a me posso sognarti anche in altri<br />

mo<strong>di</strong>.<br />

4) “un raggio <strong>di</strong> sole si è fermato / sopra il mio biglietto scaduto”. Credevo <strong>di</strong> essere<br />

meno <strong>di</strong> me o poco o nessuno, questo raggio <strong>di</strong> sole ha cambiato tutto.<br />

5) “Buonanotte monetina, buonanotte tra il mare e la pioggia”. Sul como<strong>di</strong>no. La<br />

monetina è lì. Ma a Francesco va <strong>di</strong> salutare, prima <strong>di</strong> addormentarsi anche cose<br />

piccole e inutili che sono state nella sua giornata, con lei.<br />

6) “la tristezza passerà domattina, e l’anello resterà sulla spiaggia ". Se lo sono persi lì?<br />

È solo un ricordo? Quale tristezza deve passare? Quella <strong>di</strong> non vederla per una<br />

notte? O più facilmente l'anello è un patto, una parola data davanti al mare ?<br />

73


Questa straor<strong>di</strong>naria serie <strong>di</strong> “bisociazioni” parlano <strong>di</strong> una gran<strong>di</strong>ssima illusione<br />

d’amore, del momento in cui l’amore ti prende e ti mette al muro, ti fa perfino<br />

<strong>di</strong>menticare le tue in<strong>di</strong>pendenze, la sua libertà personale, inventiva, costruttiva: è<br />

l’ingenuità del trasporto, la voglia <strong>di</strong> essere a posto, terribilmente quadrato coi<br />

sentimenti, ed è la più bella ninna nanna a se stesso sulla possibile, presumibile felicità.<br />

<strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> confessa <strong>di</strong> aver imitato Dylan: ma, Dylan, non poteva mai scrivere una<br />

canzone simile.<br />

Allo scoperto, spaventosamente allo scoperto è il <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> de “le storie <strong>di</strong> ieri”. Qui<br />

la favola crolla, il ragazzo la smette <strong>di</strong> chiedersi se ci si può librare su un filo e vivere<br />

con gli altri. Qui il ragazzo è una generazione <strong>di</strong> ragazzi , dai padri dolci e amati, ma<br />

confusi e irriducibili. Da “Le storie <strong>di</strong> ieri” ci si rende conto <strong>di</strong> quanto sia cambiato e<br />

maturato in tutto <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> nell’arco <strong>di</strong> un solo anno, o come <strong>di</strong>ce Casamassima<br />

“Francesco con questo <strong>di</strong>sco abbandonò definitivamente il modello dell’adolescenza ed<br />

entrò nel mondo adulto, dove ogni cosa è maledettamente seria”. Siamo alla riesamina<br />

<strong>di</strong> un’utopia e <strong>di</strong> una follia <strong>di</strong>ttatoriale attraverso gli occhi <strong>di</strong> un padre incolpevole, pure<br />

lui beffato. Grande canzone politica che si muove tra antefatti (una storia comune<br />

con<strong>di</strong>visa dalla sua generazione); ironie <strong>di</strong> una sintesi terrificante (troppi morti lo<br />

hanno smentito, tutte gente che aveva capito) e conclusioni beffarde ed eterne (I cavalli<br />

a Salò sono morti <strong>di</strong> noia / a giocare col nero per<strong>di</strong> sempre), il tutto esaltato da<br />

quell’antinomia che pare il titolo <strong>di</strong> un tema in classe “Mussolini ha scritto anche<br />

poesie, i poeti che brutte creature, ogni volta che parlano è una truffa”.<br />

74


Francesco sente pesantemente quest’ere<strong>di</strong>tà mai sopita del fascismo italiano che è<br />

fascismo della storia, <strong>di</strong> ogni tempo e sa perfino familiarizzarla senza intaccarne<br />

l’assur<strong>di</strong>tà: “Mio padre è un ragazzo tranquillo…<strong>di</strong>ce <strong>di</strong> avere delle idee…e suo figlio è<br />

una nave pirata” (ribelle del suo, come da canonico gap generazionale). Ma il tempo si<br />

sovrappone al tempo: anche ora che pare tutto finito, niente è veramente finito. Sopra il<br />

muro davanti a casa sua una scritta <strong>di</strong>ce ancora “Il movimento vincerà”, “I nuovi capi<br />

hanno facce tranquille” (lupi vestiti da agnelli), <strong>di</strong>o che previsione azzeccata, che<br />

pro<strong>di</strong>gio drammatico <strong>di</strong> mantica !<br />

Eppure c’è sempre un bambino, alla fine. Quelli passati per le gelaterie <strong>di</strong> lamponi <strong>di</strong><br />

"Cercando un altro Egitto", questo che guarda il muro, quella scritta orribile, nemica<br />

dell’uomo e subito dopo si guarda le mani, perché con quelle mani lavorerà e amerà o<br />

farà a botte contro il senso delle scritte nere sul muro.<br />

Andamento <strong>di</strong> strambotto, canto popolare, libertà vaneggiante, e inspiegabili salti <strong>di</strong><br />

senso caratterizzano PICCOLA MELA.<br />

Piccola mela è un “<strong>di</strong>vertissement” colto su vari tempi e con due scenari<br />

apparentemente <strong>di</strong>stinti. Non c’è tempo, spazio, non ci sono coor<strong>di</strong>nate: appaiono e<br />

scompaiono due donne (ma son proprio due?) ombre <strong>di</strong> ceppi e catene per la prima<br />

(delusione?) con andamento similme<strong>di</strong>evale, Omero e quant’altro <strong>di</strong> cultura<br />

obbligatoria (“sa cantare”) per l’altra (borghesia, borghesia?). Qui siamo nel delirio<br />

della “rule changing creativity”. Né possiamo sinceramente <strong>di</strong>panare il contenuto. Ma<br />

l’originalità, il grande gioco sta negli sbalzi improvvisi, nella posizione <strong>di</strong> presunto<br />

sempliciotto che assume Francesco (mi metto in tasca una mela…un fiore…) e nel<br />

75


tratto oltre il comprensibile per tracciare due universali caratteri femminili: la<br />

combattente, in<strong>di</strong>vidualista, passionaria, amante <strong>di</strong> sé e la allineata, bonina bonina, pura<br />

e casta, che segue le tracce della tra<strong>di</strong>zione e non si smolla <strong>di</strong> un passo.<br />

“Uomo <strong>di</strong> poca malinconia”. Una frase così <strong>di</strong>struggerebbe chiunque. Ma chi è il<br />

protagonista <strong>di</strong> Piano bar? Alcuni, molti <strong>di</strong>cono Ven<strong>di</strong>tti, forse per la sua tendenza ad<br />

esagerare i toni a farsi vedere più e meglio <strong>di</strong> quello che era. Io penso che Ven<strong>di</strong>tti sia<br />

un pretesto, però <strong>di</strong> certo l’invettiva non è generalizzata: troppo sarcastica per non<br />

essere <strong>di</strong>retta a qualcuno <strong>di</strong> preciso. Pensiamo alla serie delle frasi “Vende a tutti tutto<br />

quel che fa / non sperare <strong>di</strong> farlo piangere / perché piangere non sa”. “Sulla punta delle<br />

<strong>di</strong>ta poco jazz, poche ombre nella vita” (con straor<strong>di</strong>nario CHIASMO) “Suonerà e<br />

canterà senza <strong>di</strong>sturbarti” (che contrappasso dantesco!). “Ama se stesso senza allegria”<br />

(!). un falso, un fintone, un profittatore, un arrivista (ma <strong>di</strong> che poi? <strong>De</strong>l successo?), un<br />

uomo che s’inventa la commozione a parole e note, una figura meschina, inimitabile.<br />

La passione violenta, coerentissima, non sempre comunicabile <strong>di</strong> <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> esplode<br />

qui in tutte le sfumature ironiche possibili. Qualcuno forse sta ottenendo seguito,<br />

successo, qualcuno sta facendo scalpore nel nuovo mondo musicale, senza meritarlo,<br />

contraffacendo se stesso, vendendosi oltre il dovuto, oltre il lecito. Invece <strong>di</strong> <strong>di</strong>fendere<br />

a parole chiare la sua coerenza <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> (ritroso come sempre) ci dà un ritratto <strong>di</strong><br />

come non dovrebbe essere mai un artista. O <strong>di</strong> come lo vogliono critica e pubblico<br />

nella loro frequente faciloneria.<br />

Bufalo bill ,nostalgia , impotenza ,rabbia e bellezza <strong>degli</strong> uomini<br />

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Nell’arco <strong>di</strong> soli tre anni (’73-’75) Francesco <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> compie una parabola artistica,<br />

esistenziale, politica, ispirativa che vale una vita. Distingue e collega in tre album<br />

consecutivi tutto ciò che altri riescono ad organizzare e confessare in decenni.<br />

Tratteggia incide e graffia ne “La pecora” tutte le contrad<strong>di</strong>zioni tra “Lupo anima pura”<br />

e il mondo, si stupisce con attenuato dolore <strong>degli</strong> ad<strong>di</strong>i, ascolta la sua adolescenza<br />

come un privilegio e una condanna, ma sempre guardando dalla sua torre personale,<br />

facendo leggi delle sue paranoie, <strong>di</strong>fendendo la sua <strong>di</strong>versità come bellezza incompresa<br />

e neppure con troppo fasti<strong>di</strong>o. Ferma bocce, pallino e biliardo in Rimmel ed è più<br />

grande <strong>di</strong> sé, concepisce la freddezza, la riflessione come trasformazione positiva della<br />

timidezza, del non esserci con gli altri: vede da vecchio se stesso nell’amore, nella<br />

politica, squadra gli uomini e le compagnucce fino all’ironia, inverte l’equilibrio del<br />

dolore, il punto fisso da cui guardare senza morirne, ama i suoi simili, li <strong>di</strong>fende: è<br />

sicuro <strong>di</strong> sé, sicuro delle idee, penosamente astratto nel ritrarsi in Rimmel, determinato,<br />

deciso, antiretorico in Pablo. Poi, in un anno, in un solo anno, arriva Bufalo Bill. Forse<br />

avevano ragione Brel e Fo e il vecchio Rimbaud a <strong>di</strong>re che si scrive fino a vent’anni. Il<br />

resto è in più o inutile.<br />

Bufalo Bill (che per me resta a tutt’oggi il suo <strong>di</strong>sco più completo, umano, pensoso,<br />

vero) introduce lo sconforto, la soluzione impossibile, la paura del tempo e <strong>degli</strong><br />

uomini, l’ipocrisia, il mondo com’è (dopo due anni <strong>di</strong> mondo come lo vedo), il <strong>di</strong>sagio<br />

e la fatica, l’o<strong>di</strong>o travestito da amore, la terza età in cui spaventa il dubbio e a volte più<br />

del dubbio, la certezza <strong>di</strong> un mondo che và lentamente a rotoli.<br />

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<strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> esaurisce l’uomo, la sua parabola, la sua storia in tre episo<strong>di</strong>: infanzia,<br />

sicurezza apparente, delusione mai vinta. Tutto quello che scriverà poi sarà corollario o<br />

variazione, o gioiosità momentanea, o rabbia più dura, ma niente uscirà dalle tematiche<br />

espresse nel trittico La pecora – Rimmel – Bufalo bill. Bufalo Bill non è solo America,<br />

anche se la metafora, ampia già dall’inizio lì ci colloca: è un mondo che scompare e<br />

non è più lo stesso, è un uomo eroe a 20 anni e buffone a 50, è un conflitto natura /<br />

industria, natura / progresso, finalmente descritto senza gli usuali stereotipi <strong>di</strong><br />

fabbriche, operai o via <strong>di</strong>cendo (lo han fatto in 10.000).<br />

L’aria aperta, il tempo lungo, l’incipit straor<strong>di</strong>nario ci assettano in un mondo che non è<br />

questo o un altro o un altro ancora: è il mondo. C’è un paese felice, <strong>di</strong>o che lo guarda<br />

dall’alto, i soldati che lo <strong>di</strong>fendono, e davanti ad una situazione simile c’è da<br />

scommettersi che un ragazzo parteggierebbe per questo. Perché? O, <strong>di</strong>o, la civiltà, la<br />

ragione, la locomotiva dai binari segnati, ma (attenzione il ragazzo è romantico), il<br />

bufalo non va mai per percorsi <strong>di</strong>retti, è mo<strong>di</strong>ficabile, il bufalo è poesia. Dio, che<br />

miscuglio <strong>di</strong> cose belle che ci stanno dando e <strong>di</strong> cose bellissime che an<strong>di</strong>amo perdendo:<br />

qualcuno riuscirà mai a metterle insieme? No. O scegli il bufalo o la ferrovia. E io,<br />

Bufalo Bill, eroe per niente, non avevo ‘sti gran<strong>di</strong> ideali: uccidevo per giocare, per<br />

essere il più bravo.<br />

Tutto ciò è primor<strong>di</strong>ale, perfino mistico “il cacciatore uccide sempre per giocare”.<br />

Allora è un gioco, allora è una sorpresa, allora è un inizio <strong>di</strong> felicità:”mia madre una<br />

conta<strong>di</strong>na, mio padre un guar<strong>di</strong>ano <strong>di</strong> mucche, io unico figlio biondo quasi come<br />

Gesù”. Allora Bufalo Bill non è bene né male, è inizio, è primor<strong>di</strong>o, è America <strong>di</strong><br />

semplici cullate illusioni: trovarlo a cinquant’anni in un circo dà l’esatta <strong>di</strong>mensione <strong>di</strong><br />

78


mille fallimenti, ma il più grave è quello <strong>di</strong> un paese che non ha saputo mettere insieme<br />

due semplicità quella in<strong>di</strong>ana e quella yankee; non guardando mai in<strong>di</strong>etro e<br />

frantumando ogni ostacolo per il suo passaggio al futuro, alla globalizzazione<br />

strisciante.<br />

Bufalo Bill è una canzone epica, elegiaca, chi riesce a capire capisca. Nemmeno <strong>De</strong><br />

Andrè coi suoi in<strong>di</strong>ani è così dolcemente tristemente uomo deluso.<br />

Bufalo Bill è un testo bellissimo, per respiro, ampiezza (già dall’esor<strong>di</strong>o ci sembra <strong>di</strong><br />

essere in una prateria), bellissimo per un inconsapevole ruolo <strong>di</strong> un eroe, che eroe non è<br />

da giovane e tantomeno da vecchio, uomo piuttosto che crede ai suoi spazi, ai suoi<br />

colpi <strong>di</strong> fucile come norme, regole ancestrali <strong>di</strong> vita. Uomo <strong>di</strong> grande <strong>di</strong>gnità tanto da<br />

<strong>di</strong>sperdersi e annullarsi nei circhi d’Europa. Che sia venuto in mente un personaggio<br />

simile a <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> e che lo abbia trattato così, fuor <strong>di</strong> morale (in un’epoca <strong>di</strong>lagante <strong>di</strong><br />

morale e moralismi) è un miracolo. Ognuno può cogliere l’universale che trascende da<br />

questa piccola epica storia western, metafora lunga della vita <strong>di</strong> tutti noi.<br />

Di noi? Sì <strong>di</strong> noi intesi come collettività infantile che s’ingrippa e s’irrigi<strong>di</strong>sce nel<br />

crescere sociale: l’icona della libertà (verde brillante delle praterie, il bufalo che può<br />

scartare e cadere) non si incastra, non riesce a fare tutt’uno con il progresso, il futuro, la<br />

società industriale (la locomotiva ha la strada segnata), restiamo bimbi in quella<br />

illusione (vent’anni sembran pochi) sperando che tutto passi e tutto resti: poi<br />

all’improvviso ci voltiamo e non troviamo più niente, <strong>di</strong>minuiscono i cavalli, aumenta<br />

l’ottimismo <strong>di</strong> tutti e resta solo l’amico dal culo <strong>di</strong> gomma a guardare con William<br />

Cody, a contemplare ,fin dove l’occhio porta , un’America che non c’è più, scomparsa<br />

così da un momento all’altro per il gesto <strong>di</strong> chissà che mago: tutti belli, tutti a casa.<br />

79


Per capire a fondo questo spleen, questo tarlo assurdo e ingannevole del benessere<br />

bisogna leggere e ascoltare tutte le canzoni dell’album, e l’album è pieno <strong>di</strong> questa<br />

nuova borghesia, insonnolentita, appagata, straniante, che tale è e tali alleva i figli: c’è<br />

la grande restaurazione alle porte, il grande modello americano che non annette replica<br />

e tranquillizza . Su questa trage<strong>di</strong>a a venire (Titanic), latente, quasi inavvertita anche<br />

<strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> si fa più “lungo”, “analitico” non gli basta più buttar là metafore a secchi. E<br />

l’amore stesso in “B.B.” è ferita dolorosissima, inquietante, va ben oltre l’autoparo<strong>di</strong>a<br />

<strong>di</strong> Rimmel.<br />

Su tutto, come vedremo, e a conclusione, a rimescolamento <strong>di</strong> tutto, quasi a<br />

giustificazione <strong>di</strong> un genere umano che sta “sballando” o tenta solo <strong>di</strong> capire la sua<br />

solitu<strong>di</strong>ne, ecco allora quel capolavoro che è “Santa Lucia”, non a caso preghiera (alta)<br />

per chi non vede, non sa, oppure vede ma non sa lo stesso. Di colpo gli uomini<br />

ritornano uomini <strong>di</strong> sempre, né americani, né altro, né felici, né vinti, soltanto uomini<br />

con una grande luce nascosta nell’animo e <strong>di</strong>sperato bisogno d’amore e considerazione<br />

(Festival).<br />

Già un’avvisaglia minimal-grottesca del post-sessantotto, e del “come siamo tutti<br />

buoni” si ha in quel quadretto deamicisiano che è “Giovane esploratore Tobia”.<br />

Tobia è regre<strong>di</strong>to agli anni ’50: fa tutto quel che gli <strong>di</strong>cono maestre e genitori. Tobia (15<br />

anni) non è mai stato se stesso, sempre quel che gli hanno detto <strong>di</strong> essere un “padre<br />

d’acciaio” e “una madre <strong>di</strong>stratta” (nel concepirlo?) da cui “un’infanzia perfetta:<br />

morbillo, tristezza e nessun’altra malattia” dove qualche altra malattia sarebbe stata un<br />

gran vantaggio se si chiamava coscienza o ribellione. E Tobia è quel che gli <strong>di</strong>ce <strong>di</strong><br />

80


essere la maestra, cioè la copia, <strong>di</strong> una copia, <strong>di</strong> una copia (scrive il suo nome – come<br />

tutti – nella grotta del bue marino). Ma attenzione, il destino è all’angolo. Tobia vede<br />

del fumo, tira l’allarme salva il treno (non un amico, non una persona, il treno, cioè un<br />

oggetto sociale) e <strong>di</strong>venta un eroe. Chi sa leggere legga, io trovo in questa storia<br />

l’influsso <strong>di</strong>sneyano <strong>di</strong> “Pluto salva la nave” cartoon classico anni ’40 perfettamente in<br />

linea con “l’americano fai da te, per la tua civiltà”. La canzone è “igienicamente<br />

perfetta” come Tobia e non tira ovvie conclusioni, ma nella sua fotograficità è<br />

tremenda.<br />

Ben più complessa, melliflua, insinuante, è l’ ”uccisione <strong>di</strong> Babbo Natale”. Qui il<br />

messaggio va oltre il messaggio e l’accusa si fa ben più violenta che nella realtà, perché<br />

questo è un gioco <strong>di</strong> pensiero e sa<strong>di</strong>smo e incapacità <strong>di</strong> intendere è un gioco <strong>di</strong> noie e<br />

preteso giustizialismo. Insomma qui non c’è un rivoluzionario (?) “il figlio del figlio<br />

dei fiori” che uccide la borghesia (Babbo Natale), ma un borghese strafatto che cancella<br />

per protagonismo una convenzione (il Natale) senza esserne affatto convinto: e <strong>di</strong> fatti<br />

se ne torna bel bello nella calda cuccia dei genitori appena finito tutto. Sarebbe persino<br />

semplice e lineare se tutto si riducesse a questo, ma non è così, perché l’altra interprete<br />

della storia, Dolly, è figlia <strong>di</strong> proletari, e segue pe<strong>di</strong>ssequamente “il figlio del figlio dei<br />

fiori” assecondandolo in tutto (colpa della droga?) perfino nel pulirgli le mani dal<br />

sangue.<br />

Cerco <strong>di</strong> capire. Cosa vuol <strong>di</strong>re <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong>? Che gli assembramenti, i tribunali<br />

popolari, i sit-in del sessantotto erano solo riti, feste d’iniziazione? Vuol <strong>di</strong>re che<br />

eliminata una metafora perbenistica, i ragazzi non potevano protrarre la ribellione fino<br />

81


alla fuga completa e tornavano nel “fortino” <strong>di</strong> casa propria? O vuol <strong>di</strong>re che<br />

l’incoscienza della personalità, il bisogno <strong>di</strong> sentirsela vincente presuppone un giu<strong>di</strong>zio<br />

unico e inappellabile, sempre contro la tra<strong>di</strong>zione, salvo poi accorgersi che da soli<br />

senza tra<strong>di</strong>zioni non si vive?<br />

Io penso che “l’uccisione <strong>di</strong> Babbo Natale” sia molto, molto <strong>di</strong> più <strong>di</strong> una canzone.<br />

Penso ai fatti <strong>di</strong> Novi Ligure e ad altri consimili. E penso soprattutto (e qui son certo<br />

che è così) alla ribellione dell’Adamo <strong>di</strong> Kierkegaard nell’ ”out-out”: la libertà<br />

(l’uccisione <strong>di</strong> Babbo Natale) pre<strong>di</strong>spone all’angoscia (sono libero ma non ho più<br />

sicurezza); e l’angoscia pre<strong>di</strong>spone al ritorno della norma ( non son più libero ma son<br />

curato ed amato). Interminabile sarebbe la serie <strong>di</strong> esempi letterari e cinematografici e<br />

teatrali che potremmo trovare sull’argomento a partire dall’Amleto, per arrivare alla<br />

Monaca <strong>di</strong> Monza etc. etc.<br />

Mi resta solo <strong>di</strong> far notare il ruolo della natura nella storia: luna e stelle sono attonite,<br />

impaurite, l’unico grillo morto è un punto <strong>di</strong> riferimento e <strong>di</strong> passaggio, la neve cade<br />

per pietà dopo il delitto, per coprire tutto.<br />

L’establishment NATO, viva l’America, è promessa lontana e come al solito sognante<br />

<strong>di</strong> “Disastro aereo etc.”. Canzone <strong>di</strong> situazioni suggerite, <strong>di</strong> imput buttati là a partire dal<br />

grande coro iniziale che magnifica una storia apparentemente piccola. Il giovane pilota<br />

americano <strong>di</strong> stanza a Verona è l’esatto corrispondente del “giovane esploratore Tobia”,<br />

non sa quel che fa, ma lo fa. Canzone senza definizioni definitive (tutti sanno tutto<br />

dell’inizio, nessuno niente della fine), canzone <strong>di</strong> verità mafio-papali-americane buttate<br />

82


là (“solo la tomba <strong>di</strong> un giornalista ancora <strong>di</strong>fficile da ritrovare”): misteri inespressi e<br />

impossibili da risolvere, ma così, così lontani dal Bufalo e dalla sua casa nella prateria.<br />

Lunghissimo, insolubile, spettrale e limpido come un ricordo che torna e fa male anche<br />

se non lo vuoi ammettere: lui una terza persona per non farsi male, lui che ha imparato<br />

ad amare <strong>di</strong> nuovo, ma <strong>di</strong> nuovo non si può anche se si deve.<br />

Atlantide è ovviamente un mondo scomparso o mai esistito, o solo un sogno d’infanzia<br />

o un concepir l’amore che fosse perfetta sintonia con la propria meraviglia <strong>di</strong> vivere:<br />

così non è stato. “Lui vive adesso in California, sotto una veranda ad aspettare le<br />

nuvole” e <strong>di</strong>ce (<strong>di</strong>ce) <strong>di</strong> stravedere per una certa Lisa. La verità è tutto l’esatto<br />

contrario, pur nella consapevolezza che “lei” è <strong>di</strong>strutta (“ha la faccia che ricorda il<br />

crollo <strong>di</strong> una <strong>di</strong>ga”), perché il “vizio” dell’amore solo quella volta “lo portò lontano”.<br />

È straor<strong>di</strong>nario in “Atlantide” (mondo sommerso e perduto) la concessione che <strong>De</strong><br />

<strong>Gregori</strong> fa ad un TOPOS della canzone letteraria: riferirsi a qualcuno, chiedere per<br />

interposta persona un messaggio alla donna che ha amato. Ma è straor<strong>di</strong>nario anche<br />

come lo fa: due versi e niente più: “<strong>di</strong>tele che l’ho perduta quando l’ho capita / <strong>di</strong>tele<br />

che la perdono per averla tra<strong>di</strong>ta”, due versi che sono due contrad<strong>di</strong>zioni in termini per<br />

chi vive <strong>di</strong> norme. Ma a pensarci bene è così sempre e per quasi tutti. E Allora i versi<br />

suonano così: “Ditele che dopo aver vissuto per me stesso, e troppo, e oltre il limite,<br />

quando ho cominciato a capire lei non c’era più tempo” “Ditele che la comprendo,<br />

perché da egoista quale sono, ora solo ora la perdono, la comprendo per i miei<br />

atteggiamenti <strong>di</strong>fensivi, nei momenti in cui con me stesso e la mia priorità l’avevo<br />

tra<strong>di</strong>ta”.<br />

83


C’è un grande afflato in tutta “Atlantide” <strong>di</strong> riacquisizione <strong>di</strong> sentimenti. Anche la<br />

tristezza che non era mai apparsa in nessuna canzone <strong>di</strong> <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong>. C’è la<br />

retrospettiva che per la prima volta si fa sincera e povera, oltre la sopravvalutazione <strong>di</strong><br />

se stesso e c’è amore, tra piccole polveri e briciole, ma tanto, tanto ripercorso.<br />

Tralascio l’ipersensibile “Stomp” “ultimo <strong>di</strong>scorso registrato” bello, ma che non serve a<br />

<strong>di</strong>rci niente <strong>di</strong> nuovo sul nostro <strong>di</strong>scorso. L’altro stomp “Festival” è <strong>di</strong> una chiarezza<br />

<strong>di</strong>sarmante, <strong>di</strong> un vai e vieni <strong>di</strong> oleografie obbligatorie precise e scioccanti: tutto un<br />

mondo <strong>di</strong> fans, stars, me<strong>di</strong>a, profittatori, intriganti, amici dell’ultimo momento,<br />

moralisti, buffoni perbenisti, creatori <strong>di</strong> scandali finti da copertina dei giornali a ven<strong>di</strong>ta<br />

inverosimile. La morte <strong>di</strong> Luigi Tenco vista come un “affaire” pubblicitario,<br />

pseudosociale, pseudopsichiatrico, quando la verità parla solo <strong>di</strong> un “giovane angelo<br />

che girava senza spada”, un ingenuo, un puro senza armi da opporre ad un mondo<br />

scafato e coinvolgente, cinico e fuorviante.<br />

<strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> li mette in fila tutti: quelli che si appropriano <strong>di</strong> una pietà me<strong>di</strong>atica (“lo<br />

portarono via in duecento, peccato solo quando se ne andò”), quelli che costruiscono la<br />

pietà (“e l’uomo della televisione <strong>di</strong>sse, nessuna lacrima vada sprecata”), quelli che<br />

cianciano <strong>di</strong> motivi e cause per giustificare il suici<strong>di</strong>o (“aveva dei debiti”, “era pieno <strong>di</strong><br />

tranquillanti”, però “non era un ragazzo cattivo” (?)), quelli che ne fecero epoca e mito<br />

(“l’inviato della pagina musicale scrisse: TUTTO è STATO PAGATO), quelli che dopo<br />

averlo convinto ad esibirsi a Sanremo tra lacrime false balbettano “io sono stato suo<br />

padre”, e quelli infine che lo hanno eletto, lo hanno innalzato a chissà quale simbolo<br />

“per <strong>di</strong>menticare un po’ più in fretta”. In questa serie <strong>di</strong> ruffiani, falsificatori, critici<br />

84


illusi, cialtroni c'è tutta l’umanità <strong>di</strong> un compromesso, del non aver capito che niente,<br />

niente <strong>di</strong> tutto ciò aveva determinato la fine <strong>di</strong> Tenco. E che la fine <strong>di</strong> Tenco non si<br />

poteva nemmeno lontanamente accostare ad un fallimento pubblico, ad un inganno<br />

pseudo-popolare come Sanremo. La fine <strong>di</strong> Tenco era in lui e nella <strong>di</strong>sperazione <strong>di</strong><br />

essere arrivato prima del tempo, <strong>di</strong> aver sbattuto sulla <strong>di</strong>sattenzione morale ed<br />

esistenziale <strong>di</strong> spettatori mal preparati dai “me<strong>di</strong>a”. E <strong>di</strong> “me<strong>di</strong>a” me<strong>di</strong>ocri, piccini,<br />

leccaculo, noncuranti nei riguar<strong>di</strong> <strong>di</strong> una canzone che c’era già e loro pretendevano<br />

inutile o <strong>di</strong> poco conto nel panorama tranquillizzante della musica italiana.<br />

<strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> fa <strong>di</strong> “Festival” una canzone d’accusa totale, prima che <strong>di</strong> pietà. Smette la<br />

veste lirica per scendere all’invettiva e in questo si <strong>di</strong>fferenzia dallo stesso tema trattato<br />

da <strong>De</strong> Andrè.<br />

Capolavoro assoluto <strong>di</strong> “Bufalo Bill” è “Santa Lucia”. È come se D.G. richiedesse<br />

dall’alto una protezione per gli uomini tutti, i <strong>di</strong>sperati per primi, ma anche gli<br />

ignoranti, i supponenti, i “regolari” che <strong>di</strong>fendono casa e averi, per tutti quelli insomma<br />

che “non vedono” o perché non possono o perché non vogliono. Santa Lucia è<br />

preghiera breve, altissima <strong>di</strong> compassione e coraggio, <strong>di</strong> fronte ad un mondo che non<br />

dà scampo né a chi non può reggerlo, né a chi può reggerlo, è lucida considerazione<br />

dell’universo me<strong>di</strong>ocre e <strong>di</strong>fensivo in cui ci siamo cacciati, senza possibilità <strong>di</strong><br />

contrastarlo più e quin<strong>di</strong> “per chi beve <strong>di</strong> notte e <strong>di</strong> notte muore, e cade sul suo ultimo<br />

metro”, ma anche “per le persone facili che non hanno dubbi mai”. “Per gli amici…<br />

che hanno perduto l’anima e le ali”, perché uguale nel nostro essere contro o coinvolti è<br />

“la nostra corona <strong>di</strong> spine, la nostra paura del buio”. Sappiamo per chi parteggia <strong>De</strong><br />

85


<strong>Gregori</strong>, ma fantastico è questo affratellamento nel dolore e nell’inconsapevolezza che<br />

ci propone. Capita a tutti, non solo ai <strong>di</strong>seredati <strong>di</strong> vivere “all’incrocio dei venti” e<br />

bruciarsi vivo. Ma inizio e fine sono fulmini <strong>di</strong> grande interpretazione esistenziale.<br />

Inizio : “Per tutti quelli che hanno occhi e un cuore che non basta agli occhi”, chi vede<br />

e non sopporta e o si fa vittima o ribelle a oltranza. Fine : “un ragazzino che canta ride<br />

e stona perché vada lontano / fa che gli sia dolce anche la pioggia nelle sue scarpe”<br />

aiutaci a sentire importanti fasti<strong>di</strong>o, dolore, inspiegabilità, aiutaci a sopportare perché<br />

da soli non ce la facciamo. Di là dei Vangeli e della Bibbia Santa Lucia non colpisce,<br />

non perdona. Nei suoi occhi chiusi sa benissimo (che meravigliosa metafora) che la<br />

musica dell’umanità (il violino dei poveri) non porta in nessun luogo (è una barca<br />

sfondata), nella sua cecità è l’unica a cui chiedere una pietà che esuli dal considerare il<br />

bene o il male, che non <strong>di</strong>scenda da un inspiegabile, inaccertabile perdono.<br />

Qualche considerazione<br />

Il trittico “Francesco <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong>”, “Rimmel”, “Bufalo Bill” è il nucleo fondamentale <strong>di</strong><br />

tutte le evoluzioni e scoperte artistiche del nostro. Questo corso si è limitato e si limita<br />

all’indagine tematica e linguistica <strong>di</strong> quegli anni, non perché <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> dopo non<br />

abbia prodotto più nulla <strong>di</strong> nuovo o originale, ma per semplicità, per sintesi, per<br />

rispondere alle premesse del titolo e non correre il rischio <strong>di</strong> buttar giù un trattato.<br />

Seguiremo e commenteremo d’ora in poi alcuni brani sparsi della produzione<br />

successiva, scegliendoli tra quelli più innovativi e più particolari, perché se è vero che<br />

con “Bufalo Bill” la rivoluzione è già bell’e attuata, è altrettanto vero che dal ’75 in poi<br />

86


<strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> ha scritto cose bellissime e incomparabili che non van passate sotto<br />

silenzio.<br />

Quello che ci premeva era l'epoca (3-4 anni) dell’innovazione, dell’”innamoramento”<br />

insomma <strong>di</strong>rebbe Alberoni più dell’”amore” che proseguirà comunque negli anni a<br />

venire. Ci premeva constatare il “salto <strong>di</strong> norma” singolarissimo attuato da questo<br />

autore sia nello svolgimento dei temi, sia nell’unicità linguistica e grammaticale, sia<br />

soprattutto nella semantica, nel modo <strong>di</strong> usare i significanti , quel felice ping-pong tra<br />

espressionismo e impressionismo che <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> inventa traendo stimoli da sé, dal suo<br />

vissuto e dalle sue idee, quel groviglio <strong>di</strong> sensazioni inconsce, miste <strong>di</strong> spazi e tempi<br />

alternati e mischiati come propone la voce dell’anima al contrario della ragione. Ci<br />

premeva sottolineare in lui l’apporto <strong>di</strong> parecchia arte del novecento e quel suo<br />

coraggioso incedere sulle vie tipiche della poesia scritta senza mai confondersi con la<br />

stessa, anzi tenendo ben presente l’equilibrio fra parole e melo<strong>di</strong>a e armonia.<br />

Tutto ciò nei primi quattro <strong>di</strong>schi è più che evidente, perfino a volte esagerato e quin<strong>di</strong><br />

sufficiente a mostrare il nostro assunto.<br />

Premesso che, come già notato altrove (1) <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> procede collegando immagini<br />

(non sempre ricollegabili però l’una all’altra) usando rapi<strong>di</strong> tocchi, a volte minimali;<br />

che (2) la corretta lettura <strong>di</strong> una canzone parte dalla sua globalità e non dai particolari;<br />

che (3)D.G. segue d’istinto le cose che via via gli passan per la testa, non curando<br />

cronologie, non in<strong>di</strong>cando nomi reali, non fermandosi mai più <strong>di</strong> tanto su un’immagine<br />

o su un concetto; che (4) non moraleggia, non filosofeggia, non conclude quasi mai in<br />

senso definitivo; che (5) non provoca a faccia aperta lacrime o risate, ma le suggerisce<br />

87


attraverso sottosensi; che (6) ha <strong>degli</strong> “incipit” per niente <strong>di</strong>dascalici, spesso comincia<br />

“in me<strong>di</strong>as res”, altre volte con un pensiero occasionale apparentemente astruso; che<br />

(7) nasconde simboli a volte tutti suoi, a volte identificabili solo ad una terza o quarta<br />

lettura; che (8) rompe la sintassi usando verbi inusuali per alcuni complementi,<br />

mischiando il “parlato” al “colto”, con molte parentetiche; che (9) passa con facilità<br />

dalla prima alla terza persona e viceversa, con conseguente <strong>di</strong>fficoltà a scoprire dov’è<br />

finito lui; che (10) soprattutto, politico, personale, sociale sono in lui tutt’uno e un<br />

tutt'uno ben chiaro nonostante le metafore ; premesso dunque tutto ciò an<strong>di</strong>amo ad<br />

in<strong>di</strong>viduare l’uso innovativo e costante delle sue “figura <strong>di</strong> pensiero” della sua<br />

“transme<strong>di</strong>età” della sua changing creativity basata sull’introduzione <strong>di</strong> un elemento<br />

inaspettato vicino ad altri “normali”, semanticamente monosignificativi.<br />

Prospetto e funzioni delle "Figure <strong>di</strong> pensiero" più ricorrenti in <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong><br />

LA SIMILITUDINE è la più importante tra le figure retoriche e stabilisce un rapporto<br />

<strong>di</strong> somiglianza esplicito me<strong>di</strong>ante avverbi <strong>di</strong> paragoni. Es. bella come una rosa.<br />

LA METAFORA (trasferimento) è <strong>di</strong> <strong>di</strong>versi tipi.<br />

LA METAFORA SEMPLICE o analogica è una similitu<strong>di</strong>ne abbreviata, ovvero<br />

paragona due entità senza avverbi <strong>di</strong> paragone, es: tu sei una rosa.<br />

LA METAFORA propriamente detta accosta invece due termini Uno traslato, l’altro<br />

reale) per definire visivamente, sensorialmente qualcosa.<br />

Es.: una catena <strong>di</strong> monti, il nocciolo del problema.<br />

88


LA METAFORA ALLEGORICA è un sintagma più esteso, chiaro per tutti, che ne<br />

sottintende un altro più personale o esistenziale<br />

Es: è molto tempo amore che noi giochiamo a scacchi (che ci <strong>stu<strong>di</strong></strong>amo, ci sfi<strong>di</strong>amo).<br />

Quest’ultima non va confusa con l’”allegoria” che è <strong>di</strong> solito rapportabile ad un’opera<br />

intera (breve o lunga) con significati morali o esistenziali (la <strong>di</strong>vina comme<strong>di</strong>a, la<br />

metamorfosi <strong>di</strong> Kafka).<br />

CHIASMO: si ha un chiasmo quando l’espressione finale <strong>di</strong> una frase viene ripetuta<br />

all’inizio della successiva per rafforzarla<br />

Es: e dal buio non chiama nessuno e nessuno ci chiama dal buio.<br />

SINEDDOCHE (accolgo insieme) quando un termine è usato per significarne un altro<br />

più ampio e più specifico<br />

Es; focolare per casa, guadagnarsi il pane (per guadagnarsi il cibo) o anche peggio: “e<br />

gli occhi <strong>di</strong>ssero” invece della voce.<br />

METONIMIA: scambio tra due termini che hanno un rapporto <strong>di</strong> vicinanza<br />

Es: ho bevuto un bicchiere <strong>di</strong> vino (invece del vino <strong>di</strong> un bicchiere). Ho visto Van Gogh<br />

(invece dei quadri <strong>di</strong> Van Gogh) detto tra noi sinceramente, a volte non riesco a capire<br />

la <strong>di</strong>fferenza tra metonimia e sineddoche.<br />

L’IPERBOLE è invece chiara, si tratta <strong>di</strong> un’esagerazione in più o in meno <strong>di</strong> un<br />

concetto.<br />

Es: l’esame è durato un’eternità. Di quel vino ne ho bevuto solo un goccio.<br />

L’iperbole confina con l’ADYNATON (impossibile) che è però ben riconoscibile: es.<br />

“ci sposammo il 31 <strong>di</strong> febbraio”.<br />

89


LA SINESTESIA è la figura più complessa. Si tratta dell’accostamento <strong>di</strong> due termini<br />

che tra loro non hanno niente in comune, ma da questo accostamento vien fuori un<br />

significato nuovo e ben chiaro. La sinestesia è un’invenzione <strong>di</strong> Arthur Rimbaud.<br />

Es: il silenzio verde della campagna. Un barattolo <strong>di</strong> birra <strong>di</strong>sperata.<br />

L’ANAFORA è la ripetizione delle stesse parole (o <strong>di</strong> più parole) all’inizio <strong>di</strong> versi<br />

successivi.<br />

L’ALLUSIONE è un evidente rimando ad un’opera o ad una situazione conosciuta da<br />

tutti.<br />

IL SIMBOLO è qualcosa <strong>di</strong> preciso e imme<strong>di</strong>atamente riconducibile al significato<br />

reale. Di solito, in poesia, sottintende concetti importanti (“Il libro <strong>di</strong> Pascoli che sta<br />

per “La verità”, “Il teschio” <strong>di</strong> Baudelaire etc.)<br />

L’ANASTROFE è l’inversione <strong>di</strong> parole in una frase contro la normale successione<br />

logica.<br />

Es: <strong>di</strong> quella pira l’orrendo fuoco.<br />

Alice<br />

Presenta due chiasmi:<br />

“Alice guarda i gatti e i gatti guardano nel sole”<br />

“Alice guarda i gatti e i gatti muoiono nel sole”<br />

Una sineddoche azzardatissima<br />

“Tutti pensarono <strong>di</strong>etro ai cappelli”<br />

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Una sinestesia semplice<br />

“il suo amore ballerina”<br />

Ma anche alcune R.C.C. notevoli<br />

1)“i gatti guardano nel sole / mentre il mondo sta girando senza fretta”<br />

2)“sorride e non ti <strong>di</strong>ce la sua età / ma tutto questo Alice…”<br />

3)“e Cesare perduto nella pioggia”.<br />

La casa <strong>di</strong> Hilde<br />

Tre “anafore”<br />

“oltre…oltre…oltre”<br />

Una “sinestesia” con primo elemento verbale:<br />

“ad ascoltare il tramonto”<br />

un’”iperbole”:<br />

“dalla finestra potevo toccarla” (la luna)<br />

un “adynaton” con seconda parte allegorica.<br />

“Hilde aprì la sua cetra e tirò fuori i <strong>di</strong>amanti”<br />

un’altra “iperbole”:“bevemmo del vino, ma io solo mezzo bicchiere”.Dove "mezzo<br />

bicchiere" è anche una classica "metonimia".<br />

Molte le bisociazioni. C’è la R.C.C. del doganiere che minaccia col fucile prima e<br />

stringe la mano poi. C’è il doganiere che trova in tasca al padre “una foto ricordo” (!) e<br />

soprattutto l’arrivo inaspettato e straniante della capra.<br />

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Sembra a volte <strong>di</strong> essere in una comme<strong>di</strong>a <strong>di</strong> Jonesco (soprattutto per Hilde e il<br />

doganiere).<br />

Niente da capire<br />

Contrad<strong>di</strong>zione (tipica in <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong>) che ha la forza <strong>di</strong> un chiasmo: “seduto o non<br />

seduto”.<br />

Una doppia sinestesia (ma la prima è più metafora) “l’anima in riserva e il cuore che<br />

non parte”.<br />

Una “prolessi”: “Però Giovanna io…”<br />

Un’iperbole: “un ricordo che vale 10 lire”<br />

Tre metafore <strong>di</strong> seguito<br />

“ognuno (ogni uomo) è una scommessa”<br />

“nello specchio del caffè”<br />

“un cuore da fornaio”<br />

un’anafora breve:<br />

“se tu fossi <strong>di</strong> ghiaccio e io fossi <strong>di</strong> neve”<br />

una sineddoche:<br />

“i tuoi calci fanno male”.<br />

un altro chiasmo, potentissimo:<br />

“io non t’invi<strong>di</strong>o niente, non ho niente <strong>di</strong> speciale”.<br />

un “adynaton” metaforico:<br />

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“se i tuoi occhi fossero ciliegie”.<br />

una metafora allegorica breve:<br />

“che noi giochiamo a scacchi”<br />

una sineddoche (ma forse più una metonimia):<br />

“riportami i miei occhi e il tuo fucile”.<br />

Qualche R.C.C. : “<strong>di</strong>cono che stai vincendo e ridono da matti”: “posso dartela vinta e<br />

tenermi la mia vita”; “se tornerai da queste parti riportami i miei occhi etc…” “Però<br />

Giovanna”.<br />

Cercando un altro Egitto<br />

Qui appare per la prima volta una figura semantica larga composta da più elementi non<br />

necessariamente contigui, e appare per tre volte. Sono TRE RULE CHANGING<br />

CREATIVITY basate non solo sulla contrad<strong>di</strong>zione fra gli elementi costitutivi, ma<br />

anche su una interruzione <strong>di</strong> comunicazione. Ci troviamo cioè <strong>di</strong> fronte a delle<br />

domande a cui seguono risposte non inerenti le domande stesse ,quasi il protagonista<br />

rispondesse a se stesso o a qualcosa che aveva già in mente prima :<br />

Es. 1) MI DICONO “FRANCESCO, TI VOGLIONO AMMAZZARE”<br />

IO DOMANDO “CHI?”<br />

LORO FANNO “COSA?”<br />

Es. 2) E AL POSTO DEL POSTO DOVE VA IL FRANCOBOLLO<br />

C’è UN BUCO PER APPENDERLO<br />

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“DOVE?” DICO IO “INTORNO AL COLLO”.<br />

Es. 3) E IO DICO “NON Può ESSERE VERO!”<br />

E LORO DICONO CHE NON è Più VERO NIENTE<br />

(<strong>di</strong>alogo coi celerini).<br />

Altro R.C.C. molto simile a questi è quello finale:<br />

“MA DIMMI, SOGNI SPESSO LE COSE CHE HAI SCRITTO?<br />

OPPURE LE HAI INVENTATE SOLO PER SCANDALIZZARE?”<br />

“AMORE, AMORE, NAVIGA VIA<br />

DEVO ANCORA SVEGLIARMI”.<br />

“Cercando un altro Egitto” è una metafora allegorica così come un’”iperbole<br />

allegorica” è “mia madre inginocchiata in equilibrio sul camino” (GRANDE<br />

BISOCIAZIONE). C’è pure una “similitu<strong>di</strong>ne”: “gente come un fiume”, figura rara in<br />

<strong>De</strong> <strong>Gregori</strong>.<br />

“dagli occhi del tramonto” è una metafora inversiva (il tramonto che guarda noi da<br />

chissà dove) ed è pure metafora (oscura): “le gran<strong>di</strong> gelaterie <strong>di</strong> lampone che fumano<br />

lente” (un inganno nazista?).<br />

Bene<br />

In "BENE” appare una figura (un trittico) sintattica <strong>di</strong> polisemiotica. Il verbo<br />

“prendere” è usato per due complementi oggetti e un complemento <strong>di</strong> tempo con<br />

significati <strong>di</strong>versissimi “ho preso qualche nave, qualche sogno, qualche tempo fa”. Già<br />

94


una nave e un sogno presuppongono una ricezione <strong>di</strong>fferente del verbo "prendere"<br />

.Ancor più esula dalla quadratura sintattica (non è più complemento oggetto ) il tempo.<br />

“Mia madre si nasconde <strong>di</strong>etro i muri” è insieme metafora e iperbole. Gli amici con<br />

“sciarpe nere ed occhi chiari” formano contrasto e bisticcio. Ripetizione straor<strong>di</strong>naria è<br />

“ancora mille volte, mille anni”, mentre classica è la sinestesia “sorriso ladro”.<br />

Metafora larga e chiarissima risulta “le navi <strong>di</strong> pierino erano carta <strong>di</strong> giornale…sono<br />

andate via”. Qui ancora una volta si <strong>di</strong>mostra che il parlar figurato in canzone è<br />

imme<strong>di</strong>ato, fulmineo, rapidamente significante rispetto alla poesia.<br />

A Lupo<br />

Due iperboli iniziali “tasche troppo strette” “e otto, nove, <strong>di</strong>eci mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> vivere”. Ma<br />

sono anche metafore analogiche.<br />

Ancora un verbo (avere) usato con due significati per due oggetti <strong>di</strong>versi: “lui aveva un<br />

grosso cervello e dei gerani proprio dove la strada si <strong>di</strong>vide” (ve<strong>di</strong> "BENE ").<br />

Una metafora “le parole erano neve”. E un’allusione: “la piccola fiammiferaia presa<br />

dal gioco…”.<br />

Altra metafora sui ricor<strong>di</strong>: “è un libro cominciato la mattina etc.”<br />

Bellissima metafora allegorica, nonché allusione è “quaranta ladroni usciti dalla favola<br />

senza permesso”, come allusione evidente è il successivo “la Renault <strong>di</strong>ventava una<br />

zucca”.<br />

“I ricor<strong>di</strong> si affollano” è una sinestesia facile ma riuscitissima.<br />

A Lupo è pieno <strong>di</strong> R.C.C. lascio a voi per questa volta trovarle.<br />

95


Arlecchino<br />

“Fiori falsi e sogni veri” è un’antitesi un po’ particolare in verità, “gli eroi” della<br />

friggitoria sono un’iperbole , ma anche un'ironia. Attenzione: “Arlecchino è già sul<br />

filo” per quanto simbolico è un fatto reale: un attore della comme<strong>di</strong>a dell’arte sul filo ci<br />

sta eccome, ma “il filo corre sopra la città” è una metafora pesantissima.<br />

Anche qui appare il verbo “dare” con significati <strong>di</strong>versi a seconda <strong>degli</strong> oggetti “quanti<br />

sol<strong>di</strong>” “quanti fiori” “quanti anni”.( ve<strong>di</strong> "BENE",più su).<br />

Metafora (e grande BISOCIAZIONE) “la mia cella è un po’ più in alto e pagano <strong>di</strong> più.<br />

Quando <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> si sostituisce all’Arlecchino vero ogni espressione<br />

lu<strong>di</strong>co/spettacolare <strong>di</strong>venta esistenziale.<br />

Rimmel<br />

Tutta Rimmel è così piena <strong>di</strong> “changing creativity” e scarti <strong>di</strong> senso che non vale<br />

nemmeno la pena <strong>di</strong> segnalare dove.<br />

L’inizio è un valzer <strong>di</strong> metafore allegoriche con una bella sineddoche (“il tuo nome”<br />

invece <strong>di</strong> “te”). Non è <strong>di</strong>scorso figurato invece “I miei dubbi e le tue ragioni” ripetuto<br />

due volte.<br />

“Un futuro invadente” è una grande sinestesia.<br />

96


“L’avrei <strong>di</strong>strutto/stracciato” e due volte a capoverso, potente anafora.<br />

Anche “le tue labbra” è una sineddoche, mentre non lo è “la mia faccia” perché proprio<br />

<strong>di</strong> “faccia” si parla.<br />

“I quattro assi <strong>di</strong> un colore solo” sono una metafora chiarissima (tu bari). Divertente il<br />

rimando criptico alcuni versi sotto: “Come Quando Fuori Pioveva”. Le quattro iniziali,<br />

come si sa, sono quelle dei semi delle carte: Cuori, Quadri, Fiori, Picche. Tale rimando<br />

è anche uno scarto <strong>di</strong> senso impensabile, rispetto alla situazione precedente.<br />

Ancora <strong>di</strong>alogo a non capirsi (come in “cercando un altro Egitto”): “senza capire ho<br />

detto sì / hai detto “è tutto quel che hai <strong>di</strong> me” / è tutto quel che ho <strong>di</strong> te”. Dove la<br />

seconda parte dell’anafora è una riflessione <strong>di</strong> <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> tra sé e sé.<br />

Appaiono alcune figure simboliche (zingaro, rimmel, collo <strong>di</strong> pelliccia), abbastanza<br />

facili.<br />

RIMMEL è una parola industriale, neome<strong>di</strong>atica che significa qualcosa <strong>di</strong> preciso e ne<br />

sottintende altre più “evocative”. C’è il “trucco”, nel senso “cosmetico” e nel senso<br />

“esistenziale”, ma c’è anche il “trucco che cola” nel senso <strong>di</strong> pianto, <strong>di</strong> dolore. È<br />

quest’ultimo un “sottosignificato” non detto e non voluto dall’autore, ma chi legge<br />

coglie subito per associazione.<br />

Pezzi <strong>di</strong> vetro<br />

“Pezzi <strong>di</strong> vetro” è una metafora leggibilissima.<br />

“Di ramo duro il cuore” è un’ “ANASTROFE” la prima che mi capita <strong>di</strong> leggere.<br />

97


Anche qui c’è il verbo avere usato con complementi oggetti <strong>di</strong>versissimi per campi<br />

semantici: due anime / un sesso / il cuore / una luna / dei giochi.<br />

“La linea che gira”, “l’acqua corrente” sono metafore associative. “Visitate la notte” è<br />

una sinestesia con primo elemento verbale, “come ombrello teso” una similitu<strong>di</strong>ne<br />

semplice. Metafora allegorica è “la sua ultima carta” cui fan seguito due “changing<br />

creativity” situazionali (due cambi <strong>di</strong> scenario, <strong>di</strong> <strong>di</strong>scorso), particolarmente improvvisa<br />

l’ultima (“però stai bene dove stai”).<br />

Il Signor Hood<br />

“Ispirato dal sole” (verità, ottimismo, etc.), “due pistole caricate a salve” (pacifista, ma<br />

tosto), “un canestro <strong>di</strong> parole” (teorico, oratore) sono tutte metafore, la prima<br />

analogica, le altre due allegoriche.<br />

Molte le serie anaforiche quasi <strong>di</strong> seguito: “ E che fosse…” “e scaricò le sue pistole”,<br />

“E qualcuno ha pensato…” “con un canestro <strong>di</strong>…” “calpestare nuove aiuole”. “E tutti<br />

lo chiamavano signor Hood”. Tutta la canzone si regge emotivamente su anafore a<br />

coppie.<br />

“Parenti ingor<strong>di</strong>” è metafora allegorica, come “spalle al sole” e come d’altronde<br />

“calpestare nuove aiuole”.<br />

“E che fosse un ban<strong>di</strong>to, negare non si può” è un’ “anastrofe”.<br />

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Pablo<br />

“E il treno io l’ho preso” è una splen<strong>di</strong>da “anastrofe”, cui fa seguito logico un’altra<br />

anastrofe (quasi un IPERBATO) “spago sulla mia valigia non ce n’era”. “Solo un po’,<br />

solo un po’” sono anafore, come pure gli “hanno pagato Pablo” <strong>di</strong> seguito.<br />

Anche qui si consuma una costruzione sintattica tipica in <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> e cioè collegare<br />

con un verbo o un complemento soggetti ed oggetti <strong>di</strong>stanti tra loro:<br />

“con le mani, io posso fare castelli, costruire autostrade e parlare (?) con Pablo”. E più<br />

sotto: “tra<strong>di</strong>sce la moglie con le donne, e il vino e la Svizzera verde (?)”. In tutti e due<br />

casi il terzo elemento ("parlare","Svizzera verde"), è del tutto sconnesso con gli altri,<br />

in maniera voluta e spiazzante..<br />

Infine un chiasmo: “e se un giorno è caduto, è caduto per caso”.<br />

Buonanotte fiorellino<br />

Tre immagini <strong>di</strong> bisociazione (associazione tra termini che apparentemente non hanno<br />

nulla in comune):<br />

1) “buonanotte tra il telefono e il cielo”<br />

2) “buonanotte tra le stelle e la stanza”<br />

3) “tra i tuoi fiocchi <strong>di</strong> neve e le tue foglie <strong>di</strong> thè”<br />

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nella prima l’attesa del cuore (mi telefoni?) è intervallata dagli sguar<strong>di</strong> fuori dalla<br />

finestra, al cielo.<br />

Nella seconda c’è un ritorno generalizzato. Da fuori al luogo dov’è Francesco.<br />

Nella terza due casuali visioni <strong>di</strong> lei. Fiocchi <strong>di</strong> neve (un inverno? Un piacere per il<br />

freddo?) e foglie <strong>di</strong> thè (una mania? Una particolare ricerca?).<br />

Le storie <strong>di</strong> ieri<br />

“La mascella al cortile parlava” è una sineddoche, figura usatissima da <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong>.<br />

“Tutta gente che aveva capito” è un’ironia (da EIRONEIA cioè <strong>di</strong>ssimulazione,<br />

finzione, cioè <strong>di</strong>re l’esatto contrario <strong>di</strong> quel che si vuole <strong>di</strong>re).<br />

“I cavalli a Salò sono morti <strong>di</strong> noia” è insieme un’allusione (Salò) e un’iperbole: “a<br />

giocare col nero per<strong>di</strong> sempre” è un’allusione molto semplice.<br />

“Suo figlio è una nave pirata” è una metafora analogica.<br />

Piccola mela<br />

“Mi metto in tasca una piccola mela” è un’allegoria breve <strong>di</strong> cui conosce il significato<br />

solo <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong>. Propendo per un gesto usuale, popolare, normale, l’in<strong>di</strong>spensabile per<br />

affrontare la giornata.<br />

100


Tutto quel che accade poi è “changing creativity”.<br />

Lo è il riferimento alla prima donna: “ti portassero in piazza tra chio<strong>di</strong> e catene”, lo è<br />

quello alla figlia del dottore.<br />

Chio<strong>di</strong> e catene e “quercia più vecchia” sono riman<strong>di</strong> metaforici; cioè “soffri, devi<br />

soffrire se non mi ami, se non mi capisci”.<br />

Piano bar<br />

“Uno scudo bianco in campo azzurro è la sua fotografia” è la frase per cui escluderei<br />

Ven<strong>di</strong>tti, quello è il simbolo della Lazio e Ven<strong>di</strong>tti è romanista, però…<br />

“ama se stesso senza allegria” è un’antitesi, una contrad<strong>di</strong>zione straor<strong>di</strong>naria. Ed è<br />

un’ironia delle più riuscite.<br />

“Non sperare <strong>di</strong> farlo piangere, perché piangere non sa” è un chiasmo, figura<br />

frequentissima in <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong>.<br />

Bufalo Bill<br />

“Io unico figlio biondo quasi come Gesù” è una similitu<strong>di</strong>ne. “L’amico culo <strong>di</strong> gomma”<br />

è una metafora analogica, lampante. “Sul ciglio <strong>di</strong> una strada” è una metafora vera e<br />

propria.<br />

Diminuisce straor<strong>di</strong>nariamente il <strong>di</strong>scorso figurato da “Rimmel” a “Bufalo Bill”.<br />

101


Giovane esploratore Tobia<br />

Altro esempio <strong>di</strong> rarità figurata.<br />

“Nato da un padre d’acciaio” è una metafora pura.<br />

L’uccisione <strong>di</strong> Babbo Natale<br />

“Il cadavere del grillo”. Oscuro ma simbolico. Loro sanno dov’era la morte.<br />

“La luna impaurita” è una “personificazione” (attribuire ad oggetti inanimati qualità<br />

umane) e una bella sinestesia.<br />

“Le stelle sono punte <strong>di</strong> spillo” è una metafora analogica.<br />

Atlantide<br />

“Lui adesso vive ad Atlantide” è una metafora scopertissima: in un luogo sommerso,<br />

sconosciuto, forse anche sconosciuto da lui.<br />

“Un cappello (e non la testa) pieno <strong>di</strong> ricor<strong>di</strong>” è una sineddoche stravolta. Forse è<br />

proprio il cappello (e non la testa) ad essere pieno <strong>di</strong> ricor<strong>di</strong>.<br />

“Barattoli <strong>di</strong> birra <strong>di</strong>sperata” è una delle più belle sinestesie che abbia letto. Non è la<br />

birra ad essere <strong>di</strong>sperata, ovviamente, ma è lui che la beve.<br />

102


“E adesso lui vive nel terzo raggio” è metafora allegorica: come in prigione.<br />

“La cui faccia ricorda il crollo <strong>di</strong> una <strong>di</strong>ga” è una metafora precisissima e<br />

in<strong>di</strong>menticabile.<br />

“Ditele che l’ho perduta etc.” è un’antitesi, elaboratissima ma vera.<br />

Festival<br />

“Dalla città dei fiori” è un’allusione (nonché soprannome), come allusione è “Marylin<br />

Monroe”. “Presero il vino e ci lavarono la strada” è un’iperbole con sottosignificato<br />

reale.<br />

“Chi ha ucciso quel giovane angelo etc.” è una metafora pura ed anche <strong>di</strong> evidente<br />

lettura. <strong>De</strong>finirei “antitesi ironica” la serie: “era pieno <strong>di</strong> tranquillanti ma non era un<br />

ragazzo cattivo. Altra metafora iperbolica è “presero le sue mani e le usarono etc.”.<br />

Bellissima l’allusione, quasi casuale, quasi inavvertibile del capoverso “E lontano,<br />

lontano” (canzone <strong>di</strong> Tenco).<br />

Torna una magistrale sinestesia: “gli occhi sudati” che introduce la metafora “le mani<br />

in tasca” (impotenza? In<strong>di</strong>fferenza? Fatti propri?). Particolare ( ma molto particolari<br />

sono le metafore <strong>di</strong> <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> ) è “deporre una rosa sulla cronaca nera”. Coabitano<br />

nella frase una sinestesia (cronaca nera), un contrasto (rosa-nera), una metonimia a<br />

trasposizione <strong>di</strong> senso (la rosa sta per parole d'ad<strong>di</strong>o) e un adynaton (l'operazione è<br />

puramente immaginaria). “Altri ne hanno fatto un monumento, per <strong>di</strong>menticare un po’<br />

più in fretta” è molto più <strong>di</strong> ironia, <strong>di</strong>rei sarcasmo.<br />

103


Santa Lucia<br />

“Un cuore che non basta agli occhi”: cuore sta per un sentimento imprecisato tra<br />

pazienza, coraggio, speranza, ed è quin<strong>di</strong> una metonimia, mentre è più sineddoche “sul<br />

tuo vestito” che in<strong>di</strong>ca tutta la persona <strong>di</strong> Santa Lucia. Facile metafora (con due<br />

metonimie) è “l’anima e le ali”. “All’incrocio dei venti” sta per “bersagliati <strong>di</strong> tutte le<br />

sorti”.<br />

Ed è variante personale de “in mezzo alla tempesta” ,più modo <strong>di</strong> <strong>di</strong>re (quasi<br />

proverbiale), mentre metafora vera e propria è “corona <strong>di</strong> stelle e <strong>di</strong> spine” (con<br />

bellissima antitesi interna): il successivo “paura del buio” è forma abbreviata <strong>di</strong> “paura<br />

dei pensieri che vengono al buio” quin<strong>di</strong> metonimica.<br />

Luci<strong>di</strong>ssima e sublime metafora è “Il violino dei poveri è una barca sfondata” bella<br />

così, da non tradurre, da non traslare perché <strong>di</strong>ce tutto da sola, la poca straziante<br />

musica <strong>di</strong> chi non ha niente e il suo dover andar per il mondo senza mezzi adatti.<br />

E’ ancor più bella perché apre sull’immagine del ragazzino che dall’alto spinge la barca<br />

con la speranza del canto, l’unica cosa che gli resta.<br />

Il silenzio e il ritorno .La grande stagione dell'"io" politico.<br />

La nave che affonda e i topi che ballano.<br />

Due anni intercorrono tra “Bufalo Bill” e il successivo “<strong>De</strong> <strong>Gregori</strong>” (1978). Molti<br />

sono i motivi <strong>di</strong> questo ritardo, biografici ed esistenziali in primis, come ben riporta<br />

Pino Casamassima nel suo “la valigia del cantante”, che consiglio a tutti <strong>di</strong> andarsi a<br />

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leggere, perché è si vero (e più volte l’ho ripetuto) che qui si fa analisi semantica e<br />

creativa, ma a volte non si può prescindere dal vissuto per capire trasformazioni e<br />

superamenti.<br />

In breve <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> avverte come un senso <strong>di</strong> “picco”, <strong>di</strong> limite, <strong>di</strong> ascesa conclusa e<br />

un vuoto <strong>di</strong> cose e <strong>di</strong> desideri. Contribuisce a calarlo in questa situazione la grave<br />

contestazione che subisce a Milano, dove é processato da un manipolo <strong>di</strong> intransigenti,<br />

ciechi d’arte e <strong>di</strong> politica. <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> non si sente affatto in colpa per il suo modo <strong>di</strong><br />

scrivere e comunicare che gli altri vorrebbero più politicizzato, più chiaro, più in linea<br />

con la prassi. Non si sente in colpa no, ci mancherebbe, ma l’asse<strong>di</strong>o è traumatico,<br />

lascia il segno, come un brusco risveglio. Erano tempi (ricordo bene anch’io che ho<br />

provato un’esperienza simile a Bologna) in cui da parte <strong>di</strong> Bertoncelli e Giaime Pintor<br />

(in modo <strong>di</strong>verso per la verità) si tuonava contro la fiacchezza borghese <strong>di</strong> certi<br />

cantautori, la loro fragilità programmatica, lo star fuori dal “reale” rifugiandosi in<br />

“ermetismi” e “favolette” senza costrutto. Un deja vù (in piccolo) se si ripensa alla<br />

“querelle” Vittorini-Togliatti sul ruolo dell’artista.<br />

<strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> (come me d’altronde) credeva <strong>di</strong> essere nel giusto e che non esistono<br />

canzoni facili o <strong>di</strong>fficili, ma vere o false. Ma <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> (come me d’altronde) aveva e<br />

ha una sensibilità enorme che provoca sogni notturni, vaghi sensi <strong>di</strong> colpa e tutto il<br />

repertorio <strong>di</strong> autoindagine che può scatenare un’emotività così in<strong>di</strong>fesa. Per giunta<br />

teneva tutto dentro: il suo era uno sfogo implosivo e per niente benefico. In questo<br />

periodo tutto <strong>di</strong>venta più aspro e la memoria si fa un’assassina. Da qui il ricordar<br />

d’amore e <strong>di</strong> una gioventù così a due passi e così lontana ormai, nonché la paura che<br />

105


qualcosa si sia spezzato nel <strong>di</strong>alogo con la libertà e che il gioco <strong>di</strong> Rimmel e Bufalo<br />

Bill fosse per il momento irripetibile.<br />

Come lui <strong>di</strong>ce grande tutto ciò si trasforma in solitu<strong>di</strong>ne, fascio <strong>di</strong> giornali sotto il<br />

braccio, camminate per le vie <strong>di</strong> Roma, inerzia, non voglia, entusiasmo da recuperare.<br />

E lo recupera eccome, uscendo con un <strong>di</strong>sco che già dal titolo (<strong>De</strong> <strong>Gregori</strong>) <strong>di</strong>mostra la<br />

fermezza <strong>di</strong> anteporre a tutto se stesso. “<strong>De</strong> <strong>Gregori</strong>” è un bellissimo <strong>di</strong>sco, <strong>di</strong>verso<br />

formalmente dai precedenti, molto meno “oscuro” a tratti solare, persino <strong>di</strong>vertito, più<br />

spesso naturalistico, descrittivo, ricco <strong>di</strong> ambienti. Ma la sua principale caratteristica è<br />

comunque un’intensità, una profon<strong>di</strong>tà politica esplicita, senza mezzi termini, giocata<br />

tra l’ironia drammatica e la denuncia antimilitare; maturazione che porta “ciccio” a<br />

incanalare il suo io-persona e il suo io politico in un’identica <strong>di</strong>rezione e ad usare per se<br />

stesso una “prudherie” minimale, sintetica, sì, ma, come detto, convinta, netta, definita.<br />

Questo partecipare, questo esser con gli altri, coi deboli, con la parte giusta e spesso<br />

perdente della storia è sentimento che si ritroverà in modo squassante soprattutto in uno<br />

<strong>degli</strong> album successivi, “Titanic” (con piglio tutt’altro che minimale), ma attraverserà<br />

anche quel gioiellino che fa da trait d’union, “viva l’Italia”.<br />

W l’Italia è una lunga serie anaforica <strong>di</strong> versi brevi spezzettati, <strong>di</strong> concetti fulminanti,<br />

racchiusi in due, tre parole spesso in antitesi tra loro a formare un balletto <strong>di</strong> ironie e<br />

commiserazioni, <strong>di</strong> partecipazioni e <strong>di</strong>stacchi, <strong>di</strong> bufale e moti d’orgoglio, con continuo<br />

alternarsi <strong>di</strong> vero-falso-vero. Filastrocca, piccola ballata melo<strong>di</strong>camente ridottissima, si<br />

arrampica però sull’arrangiamento <strong>di</strong> una frase portante ad alto effetto epico,<br />

trascinante proprio per il contrasto con le parti cantate. E così ad un’Italia piccola (ma<br />

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non sempre colpevole) dei “valzer” e dei “caffè”, ad un’Italia da <strong>di</strong>menticare, metà<br />

galera com’è, sempre <strong>di</strong>sperata, credulona, in balia della “fortuna” fa da controcoro<br />

un’Italia colpita al cuore a destra e a manca, un’Italia che pur presa a tra<strong>di</strong>mento non si<br />

arrende e non muore, non piange nella notte scura, è pur sempre per metà un giar<strong>di</strong>no e<br />

nonostante il massacro della stampa e del cemento, lavora, s’innamora, sa cos’è il<br />

dovere; un’Italia che nuda, sola, in<strong>di</strong>fesa è capace <strong>di</strong> alzar la ban<strong>di</strong>era il 12 <strong>di</strong>cembre, <strong>di</strong><br />

non chiudere gli occhi anche se la notte è triste e <strong>di</strong> resistere sempre.<br />

Non è un panegirico, una sviolinata, nemmeno un atto <strong>di</strong> accusa: è così come deve<br />

essere, un ritratto nitido, antiretorico, <strong>di</strong> fede, <strong>di</strong> speranza. <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> non è incline alle<br />

smargiassate, ai colpi d’effetto (e qui il rischio c’era) e rimane dall’inizio alla fine in<br />

perfetto equilibrio tra realtà nuda e cruda e realtà demandata al cuore, senza mai uscire<br />

dal limite e propinare l’inverosimile. Bell’atto d’amore, <strong>di</strong> nostalgia, <strong>di</strong> rabbia,<br />

d’orgoglio.<br />

Ma torniamo a “<strong>De</strong> <strong>Gregori</strong>”, album dell’anno prima, che come detto segna un ritorno e<br />

una svolta. Se “W l’Italia” non lascia dubbi sul senso della misura del “nostro”,<br />

“Generale” non ne concede alcuno su da che parte stare, con chi partecipare, e <strong>di</strong> più<br />

sulle ra<strong>di</strong>ci in fondo semplici, popolari, del pensiero <strong>di</strong> <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong>: la conta<strong>di</strong>na curva<br />

sul tramonto, i bambini <strong>di</strong> campagna che aspettano il Natale, la terra, i funghi gli aghi<br />

<strong>di</strong> pino sono la vita, la vita contro la morte.<br />

Perché questo è “Generale”, <strong>di</strong> là del suo lampante antimilitarismo: una gran canzone<br />

<strong>di</strong> pace. E gran canzone è già nella fusione inscin<strong>di</strong>bile <strong>di</strong> musica e testo, con<br />

quell’incalzare battuto che non lascia un attimo <strong>di</strong> respiro, con quell’accavallarsi<br />

d’immagini che sfumano una nell’altra, con il “rif”, il solito “rif” trascinante in cui è<br />

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come se scoppiasse, parlasse, si facesse sentire tutta la gioia <strong>di</strong> chi torna a casa, alla vita<br />

vera, dopo mesi <strong>di</strong> finta guerra. In mezzo a tutto questo c’è un mare <strong>di</strong> immagini <strong>di</strong><br />

altissimo “linguaggio poetico in canzone”, violente, esplosive, imme<strong>di</strong>ate, da non starci<br />

a pensare su, proprio il contrario <strong>di</strong> certa concelebrata “poesia scritta”. E allora ve<strong>di</strong>.<br />

Ve<strong>di</strong> il treno e chi ci sta dentro, il paesaggio dal finestrino, ve<strong>di</strong>, perfino, i pensieri, i<br />

desideri, i sogni <strong>di</strong> chi sta tornando, ve<strong>di</strong> come se fossi tu stesso protagonista, immerso<br />

nel testo, nella storia, come deve essere, come dovrebbe essere sempre per un testo, per<br />

una storia messa in musica.<br />

C’è “la notte crucca e assassina”, “la conta<strong>di</strong>na CURVA SUL TRAMONTO (un quadro<br />

<strong>di</strong> Fattori), “Il treno che portava al sole e non fa fermate neanche per pisciare” (in<br />

fretta, in fretta!), le infermiere che fanno l’amore; c’è quel rotolante triplice participio<br />

passato “scappato, vinto, battuto” e poi “funghi buoni da mangiare, da seccare, da farci<br />

il sugo” triplice infinito con cambio repentino <strong>di</strong> quadro, <strong>di</strong> ambiente; ci sono “bambini<br />

che piangono e a dormire non ci vogliono andare” e “cinque stelle, cinque lacrime sulla<br />

mia pelle” che non han più senso, ora sulla via del ritorno, come non hai senso tu caro<br />

generale, come ha senso solo la vita.<br />

Raramente tanta poesia si agita in una sola canzone, ma è poesia in musica, <strong>di</strong>stinta,<br />

neamente universale, <strong>di</strong> tutti e per sempre.<br />

Tutt’altro tema quello <strong>di</strong> “Renoir”: tutt’altro tema e tutt’altro treno. Lei parte, lui se ne<br />

va, è un ad<strong>di</strong>o, forse lo stesso <strong>di</strong> Rimmel ma rivisto con altri occhi. <strong>De</strong>tto così<br />

sembrano banali sia l’argomento sia l’ambientazione, e invece in questa sintesi<br />

108


fotografica piena <strong>di</strong> considerazioni a tempo scaduto, ogni cosa è nel posto dove non te<br />

l’aspetti, ma dove deve essere, secondo le regole della bisociazione.<br />

Si parte con una rapida successione <strong>di</strong> cose e oggetti paragonati (“come”) tra loro, nelle<br />

loro funzioni. Solo che le prime due volte i paragoni sono ovvi anche se originali, ma<br />

nella terza appare come 2° termine non più un oggetto, ma tutta una considerazione.<br />

Ve<strong>di</strong>amo questa costruzione sintattica particolarissima perché “sghimbescia”,<br />

“isoscele”: una classica “changing creativity”:<br />

GLI AEREI STANNO AL CIELO COME LE NAVI AL MARE<br />

(gli aerei stanno al cielo) COME IL SOLE ALL’ORIZZONTE LA SERA<br />

(gli aerei stanno al cielo) COME È VERO CHE NON VOGLIO TORNARE<br />

L’autore prepara un terreno <strong>di</strong> concetti che esprimono un or<strong>di</strong>ne naturale delle cose e ci<br />

fa rientrare (quasi un sillogismo) un suo pensiero personale (“se gli aerei volano, è vero<br />

che io non voglio tornare da te”).<br />

Tornare dove? In quella stanza <strong>di</strong> ragazzo, <strong>di</strong> primo folle amore e angosciate attese<br />

(“mi pettino 9 i pensieri col bicchiere nella mano”) stile Atlantide.<br />

Lei vista dagli altri non era poi ‘sto gran che (“che straccione era”) ma chi se ne frega.<br />

L’importante è che gli amici le <strong>di</strong>cano se era triste o allegra, se i capelli si muovevano<br />

al vento.<br />

9 Sinestesia: mettere in or<strong>di</strong>ne i pensieri.<br />

109


Questo successe tanto tempo fa, roba appunto da Atlantide, da ricordo sommerso: prese<br />

il treno per andare più lontano possibile (“vide l’Italia passare ai suoi pie<strong>di</strong>”), prese il<br />

treno giocando un azzardo particolare ma forse necessario.<br />

Non una connotazione fisica, non una parola, non una risposta, solo i “suoi” pensieri<br />

(quali poi?) per chilometri solo immaginabili.<br />

Gran gesto nel finale: vabbè è andata così, “da qualche parte c’è un uomo migliore” e<br />

un lapidario, epigrammatico, succinto finale: non parlo più <strong>di</strong> lei ma non l’ho<br />

<strong>di</strong>menticata.<br />

Anche in “Rimmel” <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> fa poco per scoprirsi, getta il sasso e tira via la mano;<br />

ma è il suo modo <strong>di</strong> non lasciarsi invischiare, <strong>di</strong> non dar da vedere tutto. Sta <strong>di</strong> fatto che<br />

per “<strong>di</strong>vertissement” sull’album ci sono due versioni <strong>di</strong> “Renoir” una triste, lenta;<br />

l’altra scatenata da festa del paese, quasi liberatoria. Altra magia: positivo e negativo<br />

fotografico che si ribaltano a seconda <strong>di</strong> come li si guarda. È così, l’amore, dopo anni<br />

che se n’è andato?<br />

Titanic è la grande allegoria: la nave è in festa, non pensa, non può pensare a pericoli<br />

imminenti e va verso la rovina : non bisogna mai fidarsi troppo <strong>di</strong> una nave invincibile<br />

e del suo capitano troppo ottimista. Lezione chiara, che però non risulterà opprimente e<br />

prolissa nell’album; infatti solo tre brani fanno <strong>di</strong>rettamente riferimento alla trage<strong>di</strong>a <strong>di</strong><br />

una società che sguazza nel benessere e pensa <strong>di</strong> non dover mai affondare.<br />

Per Titanic vale quel che è stato detto nella parte finale dell’introduzione a “<strong>De</strong><br />

<strong>Gregori</strong>”. Anzi qui siamo pure oltre. <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> non maschera, opera allo scoperto,<br />

accusa, ironizza, non le manda a <strong>di</strong>re, con tutti i mezzi espressivi a sua <strong>di</strong>sposizione,<br />

110


dalla popolareggiante e polemica verve <strong>di</strong> “San Lorenzo” e “Centocinquanta stelle”,<br />

alla parabola lunga, assillante <strong>di</strong> “Titanic”, all'ironia celebrativa de “I muscoli del<br />

capitano”. Si sente (e non solo da “Caterina”, de<strong>di</strong>cata alla Bueno) l’esigenza<br />

fortissima che ha <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> <strong>di</strong> prender posizioni popolari e usare sberleffo e rabbia<br />

senza troppi <strong>di</strong>aframmi: si avverte in lui come il bisogno del ritorno ad un’infanzia del<br />

cantare che non ha mai avuto e ha solo sfiorato (con la Bueno, appunto). E’ <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong><br />

da battaglia, convinto <strong>di</strong> ogni parola, <strong>di</strong> ogni concetto, è anche il <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> che sa<br />

rendere poema epico lo scontro rionale fra un ragazzo e un gioco, fra una generazione e<br />

un fallimento già avvenuto ,quello della "leva calcistica".<br />

“La leva calcistica del ‘68” è percorsa da simboli imme<strong>di</strong>ati, è collocabile in un<br />

momento della cronaca e della storia, ma è anche per sempre, perché non basta un<br />

errore, qualsiasi errore a mortificare la <strong>di</strong>gnità della speranza umana.<br />

Periferia, quasi pasoliniana, i palazzi devono ancora essere costruiti, ma c’è il sole. E<br />

c’è un campo <strong>di</strong> pallone pieno <strong>di</strong> vento e polvere, un rettangolo insomma senz’erba, né<br />

prato, un limite. Nino in questo campo che è il suo mondo, il nostro mondo, va a<br />

giocare con il continuo presentimento <strong>di</strong> tirar male, <strong>di</strong> sbagliare nei momenti cruciali,<br />

perché non ha la forza, non ha avuto la fortuna <strong>di</strong> altri. Chi sono quelli come Nino?<br />

“Giocatori tristi che non hanno vinto mai” “che hanno appeso le scarpe a qualche tipo<br />

<strong>di</strong> muro” “e ridono dentro un bar”, e da <strong>di</strong>eci anni stanno con una donna mai veramente<br />

amata. Ecco. Mezza Italia. Gente che al primo rigore sbagliato si è data per spersa:<br />

gente che quel rigore comunque non gliel’avrebbero fatto tirare una seconda volta, che<br />

cambia scena e quadro e si trova all’ammasso nell’illudersi collettivo, compagnesco,<br />

sempre meno cre<strong>di</strong>bile (ex-sessantottini? Proletari? <strong>De</strong>boli?).<br />

111


Ma Nino è l’eccezione, senza saperlo è l’eccezione. Nino esce dal ghetto grazie ad uno<br />

straor<strong>di</strong>nario allenatore, Nino prende coraggio, e con la palla incollata al piede arriva in<br />

porta e segna (o lo fanno segnare?). O lo fanno segnare.<br />

Entrerà in una squadra, sarà uno del gruppo, seguirà un programma, una linea<br />

prestabilita: sarà libero? Sarà un numero (il 7) e basta? Vincerà veramente o crederà <strong>di</strong><br />

vincere? E così la società crea due tipi d’uomini: lo sconfitto, perché non serve, non<br />

produce, non dà quanto basta (“ridono nei bar”) e il vincente, vincente alle sue regole,<br />

se sta ai patti. Ma un vero giocatore <strong>di</strong> pallone non è né questo, né quello, non si<br />

giu<strong>di</strong>ca, non si può giu<strong>di</strong>care da particolari come un rigore segnato o sbagliato, da un<br />

errore (spesso <strong>di</strong> altri) pagato, o da un merito sublimato: un giocatore si giu<strong>di</strong>ca dal<br />

coraggio, dall’altruismo, dalla fantasia e non <strong>di</strong> un momento, <strong>di</strong> tutta la vita, e non in<br />

seguito a vittorie o sconfitte, ma sempre, in qualsiasi caso, perché coraggio, altruismo,<br />

fantasia sono terminali unici ed in<strong>di</strong>spensabili del suo valore, del suo essere uomo.<br />

Tre, si è detto, sono i brani che attengono più allegoricamente al Titanic e al suo<br />

affondamento. Il più proletario, il più innocente, il più “destinato” è “l’abbigliamento<br />

del fuochista”. Qui tutto è giocato sulla trovata scenica <strong>di</strong> un figlio che lavora alle<br />

caldaie, con la madre lontana (“Ma mamma, qui mi rubano la vita, quando mi mettono<br />

a faticare per pochi dollari nelle caldaie sotto il livello del mare”). Il pathos è creato dal<br />

contrasto stridente tra un uomo “reale”, emarginato, ma verosimile con l’”Uomo” dei<br />

ponti superiori , quello che si crede invincibile a cavallo com’è dell’infallibile<br />

modernismo, della tecnologia del novecento.<br />

112


Emblema a tutto tondo <strong>di</strong> questa presunzione, <strong>di</strong> questa protervia sprezzante è il<br />

capitano della nave. Anche “I muscoli del capitano” è un <strong>di</strong>alogo, ravvicinato però, tra<br />

il mozzo e il capitano appunto, ovvero tra due mon<strong>di</strong>, tra due idee <strong>di</strong> mondo: la verità<br />

dettata dalla fatica e dalla miseria del primo, l’illusione sfrenata, il cieco ottimismo del<br />

secondo. Nel suo andamento oleografico, “I muscoli del capitano” è sicuramente il<br />

centro del concept-album, il cuore, il nocciolo <strong>di</strong> tutta l’avventura allegorica e cioè il<br />

viaggio, il senso dell’umanità, l’origine e lo sviluppo della prevaricazione, il senso<br />

della ragione e delle idee, una nu<strong>di</strong>tà vestita <strong>di</strong> seta d’oro. Al pari <strong>di</strong> “Generale” è,<br />

questa, una canzone folgorante e inimitabile ed è insieme una storia gnomica, un atto <strong>di</strong><br />

sublime <strong>di</strong>sperazione umana. Tutto il mondo illuminista da Swift a <strong>De</strong>foe, su su per i<br />

Russeau, i d’Alambert; tutto il mondo positivista Darwin, Comte e soci, l’imprudente,<br />

fracassante sfida futurista <strong>di</strong> Marinetti e contubernali, si accartoccia, svapora qui in tre<br />

minuti e poco più: l’orgoglio smisurato dell’uomo padrone va a incocciare e a<br />

frantumarsi nella sua UBRIS, in stato <strong>di</strong> trance, sonnolenza lu<strong>di</strong>ca, rincoglionimento da<br />

stupefacenza.<br />

L’andamento della narrazione è magico: il capitano è lui stesso una macchina perfetta<br />

(“<strong>di</strong> plastica e metano”), libero da passioni e sentimenti (“non tiene mai paura”,<br />

volutamente alla napoletana); per iperbole è lui stesso la nave (“si leva l’ancora dai<br />

pantaloni”), innamorato perso, in overdose <strong>di</strong> narcisismo per quel se stesso-nave (“la<br />

nave è fulmine, torpe<strong>di</strong>ne, miccia, scintillante bellezza, fosforo fantasia, molecole<br />

d’acciaio, pistone rabbia, guerra lampo e poesia”), fino al delirio <strong>di</strong> poter raggiungere<br />

l’irraggiungibile (Icaro, Ulisse) e cioè il futuro, che per la sua velocità è “una palla <strong>di</strong><br />

cannone acceso”. Al soliloquio, sproloquio dell’”Uomo”, il mozzo può opporre soltanto<br />

113


ingenuamente la verità : lui sì che l’iceberg l’ha visto e tenta <strong>di</strong> dare l’allarme (“In<br />

mezzo al mare c’è una donna bianca”). Il mozzo ha un cuore e un’immaginazione, è<br />

arte contro scienza, per cui quell’ammasso <strong>di</strong> ghiaccio si trasfigura, <strong>di</strong>venta poesia<br />

(“una donna bianca, così enorme alla luce delle stelle, così bella che <strong>di</strong> guardarla uno<br />

non si stanca”).<br />

Il finale è naturalmente scontato: il capitano non può nemmeno lontanamente<br />

sospettare, nella sua presunta invincibilità, <strong>di</strong> andare verso la fine, e risponde con la<br />

stessa cecità <strong>di</strong> tutti gli inquisitori della storia (“giovanotto, io non vedo niente, c’è solo<br />

un po’ <strong>di</strong> nebbia… an<strong>di</strong>amo avanti tranquillamente”).<br />

Festaiola, irriverente, metà rumba, metà fox trot, intrisa della stessa falsa allegria che<br />

circola fra i saloni del “Titanic” è la canzone che dà titolo all’album. Anche qui si<br />

procede per contrasti evidenti, anche qui due sono le umanità rappresentate, quella <strong>di</strong><br />

3^ classe e quella <strong>di</strong> lusso. Gran parte della narrazione è occupata dai pensieri liberi del<br />

“cafone”, dell’emigrante che in felice ironia, quasi non si accorge del trattamento<br />

spaventoso che sta subendo, emozionato com’è per cose che non ha mai visto e per la<br />

prospettiva <strong>di</strong> un futuro migliore (“Ma chi l’ha detto che in terza classe si viaggia<br />

male? Questa cuccetta sembra un letto a due piazze ci si sta meglio che in ospedale”);<br />

più la descrizione va avanti e più appare fantozziana, grottesca da un lato, patetica<br />

dall’altro (“A noi cafoni ci hanno sempre chiamato, ma qui ci trattano da signori, che<br />

quando piove si può star dentro, ma col bel tempo veniamo fuori”), tanto che quel<br />

<strong>di</strong>sastro <strong>di</strong> sistemazione in terza classe (“sudore dal boccaporto e odore <strong>di</strong> mare<br />

morto”) finisce col sembrare a tutti una vacanza.<br />

114


Ma “Titanic” è uno spaccato <strong>di</strong> classi sociali e ovviamente non può mancare il<br />

borghese arricchito, il “pervenu” che sventola ad<strong>di</strong>rittura sotto il naso del capitano le<br />

mille lire per aver <strong>di</strong>ritto alla prima classe, così come sban<strong>di</strong>era sua figlia quin<strong>di</strong>cenne<br />

(con cappello parigino), per essere invitato al tavolo del comando, anche lui per motivi<br />

<strong>di</strong>versi da quelli dei “cafoni”, elettrizzato, entusiasta per lo champagne, il panorama<br />

lunare e le meraviglie del viaggio. Non è da meno sua figlia, ovviamente “innamorata<br />

del proprio cappello”, così da non vedere altro che se stessa, non pensare ad altro che<br />

alla sua bella figura in un delirio <strong>di</strong> vanità ed egocentrismo, non senza lasciarsi tentare<br />

dal fascino del marconista.<br />

A questi due <strong>di</strong>versi tipi <strong>di</strong> allegria fittizia, provocata, illusoria (la proletaria e la<br />

borghese), fa da termine <strong>di</strong>scriminante, da chiosa morale, l’immensa <strong>di</strong>versità <strong>di</strong><br />

obiettivi che si propongono l’uno e l’altro ceto: secondo i “cafoni” <strong>di</strong> terza classe “per<br />

non morire si va in America”, secondo la ragazza <strong>di</strong> “prima” “per sposarsi si va in<br />

America”.<br />

L’assoluta originalità <strong>di</strong> tutta la canzone, sta, come si è detto, nell’incoscienza<br />

pressochè totale <strong>di</strong> chi viaggia, nel non vedere, non accorgersi, non capire, lasciarsi<br />

trasportare dal clima festaiolo e credere (i cafoni soprattutto) <strong>di</strong> essere lontano dal<br />

passato, in una nuova <strong>di</strong>mensione onirica: nel non riconoscere cioè che sempre nello<br />

stesso mondo sono, sempre nel passato, anche se cammuffato da sogno.<br />

Da ultimo un particolare inquietante. La parola “ghiaccio” ricorre nella canzone un<br />

sacco <strong>di</strong> volte e con significati sempre <strong>di</strong>versi, ma premonitori.<br />

Tre capolavori<br />

115


Come già detto, anche se l’intento <strong>di</strong> questo nostro <strong>stu<strong>di</strong></strong>o è soffermarci sui primi album<br />

<strong>di</strong> <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> per comprendere la genesi e l’assestamento della sua rivoluzione<br />

linguistica e concettuale, non possiamo esimerci dal considerare alcune delle canzoni<br />

successive, artisticamente forti, sicuramente importanti nel panorama compositivo del<br />

nostro autore.<br />

Parlare de “La donna cannone” (1983) significa per molti versi entrare in un altro <strong>De</strong><br />

<strong>Gregori</strong>, o lo stesso, a piacere, ma visto da <strong>di</strong>versa prospettiva. Intanto la canzone è<br />

scritta per un film (o meglio <strong>di</strong>rei il film è scritto per la canzone). Poi, e per la prima<br />

volta in maniera così eclatante si esce dallo schema “ballata” o “piccolo motivo<br />

melo<strong>di</strong>co” o “musica che sta <strong>di</strong>etro le parole”, perché “La donna cannone" è<br />

innanzitutto una grande, gran<strong>di</strong>ssima canzone <strong>di</strong> prelu<strong>di</strong>o-appressamento-sfogo<br />

musicale”, una lezione moderna, modernissima, inimitabile <strong>di</strong> “canzone all’italiana”.<br />

Il <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> “dadaista”, il “<strong>De</strong> <strong>Gregori</strong>” stravagante e libero fino all’anarchia <strong>degli</strong><br />

esor<strong>di</strong> è qui irriconoscibile. La partitura <strong>di</strong> questa canzone segue in andamento binario<br />

una falsariga popolare <strong>di</strong> effetto imme<strong>di</strong>ato e progressivo e prorompente. Non si può<br />

nemmeno pensare <strong>di</strong> esaminare (o gustare) una canzone simile se non si parte per prima<br />

cosa dall’impianto melico, costruito (o intuito?) in una serie crescente d’incastri fino<br />

allo sbottare conclusivo (da brivi<strong>di</strong>, ma non roboante); una tessitura che per alcuni versi<br />

rimanda al primo Paoli, gregoriana essenziale de “Il cielo in una stanza”, per altri versi<br />

all’imput delle arie pucciniane (“Tosca” soprattutto), colto e tradotto in <strong>di</strong>mensione<br />

lieve, non leggera.<br />

116


Ma la musica, la melo<strong>di</strong>a presa in sé non è tutto, perché voce e spirito come risultano<br />

infuse da <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong>, “snormalizzano anche una melo<strong>di</strong>a quadrata e consequenziale,<br />

facendola volare a mezzo cielo, in <strong>di</strong>mensione onirica”. Più chiaramente: “La donna<br />

cannone è il frutto <strong>di</strong> esperienze decennali in aree variegate, ma è al contempo una<br />

straor<strong>di</strong>naria rivisitazione della canzone “all’italiana” (strofa.ponte-ritornello);<br />

straor<strong>di</strong>naria perché pur riproducendo uno schema antico e consolidato, lo porta avanti,<br />

lo supera, lo assottiglia e vaporizza, rendendolo aereo, indeterminato, spirituale.<br />

Ciò significa che la strofa all’italiana <strong>di</strong>venta un recitar cantando dai versi lunghi e<br />

colloquiali (solo le ultime note dei versi cambiano)dove la lezione <strong>di</strong> Dylan, Cohen,<br />

Dire Straits, ma anche quella francese snelliscono l’endecasillabo stretto della vecchia<br />

romanza.<br />

Ciò significa che il ritornello (o motivo) risulta d’ una consequenzialità perfetta<br />

all’intro: mentre cioè la “canzone all’italiana” interrompe seccamente una fase<br />

melo<strong>di</strong>ca per proporne un’altra, qui invece sull’onda, sull’abbrivio dell’intro ci<br />

ritroviamo quasi senza accorgercene nel corpo centrale, in piena naturalezza. E questo<br />

“ritornello” non ha niente della maestosità inizio-secolo; anzi, giocato com’è su piccole<br />

variazioni su e giù <strong>di</strong> note ci dà sì l’idea <strong>di</strong> essere mosso, incisivo, piccante, ma è solo<br />

un’illusione ricettiva, perché in realtà è contenuto, non pirotecnico; è tenero, non<br />

grintoso, è crescente non prorompente, è immaginifico, impalpabile, <strong>di</strong> uno scorrere<br />

limpi<strong>di</strong>ssimo.<br />

Su questo sfondo attraente, trascinante, <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> organizza un tema testuale che non<br />

è poi così facile come si pensa. Certo l’immagine della donna, della creatura umana<br />

fisicamente infelice, ma destinata a trovare una sua felicità è la cosa che colpisce <strong>di</strong> più.<br />

117


La bruttezza esteriore che cede alla bellezza interna, la virtù nascosta che prevale<br />

sull’evidente vizio creativo; lo spirito che è più della materia. È il mito della bella e la<br />

bestia, raddolcito, rimpicciolito. È “l’ultimo canto <strong>di</strong> Saffo” leopar<strong>di</strong>ano, rivisitato e<br />

reso leggibile a tutti. Ma non c’è solo questo.<br />

Quel che intriga nella stesura formale della storia è l’accavallarsi tra prima e terza<br />

persona a far da soggetto, senza “virgolettati” o cambi <strong>di</strong> carattere. Qui sta l’originalità<br />

testuale. La donna c. parla <strong>di</strong> sé dal dentro e dal fuori sdoppiandosi in una sorta <strong>di</strong><br />

viaggio io-mondo, mondo-io.<br />

Avviene cioè come se <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> si identificasse non nella donna in sé, ma nel suo<br />

gesto epico <strong>di</strong> andare oltre la tenda oltre il cielo finalmente tenendo per mano<br />

qualcuno/a che veramente lo capisce, lo comprende in toto. Noi non avvertiamo questa<br />

dualità, questo passaggio dall’io al “lei” questo alternarsi <strong>di</strong> maschile e femminile e qui<br />

sta il piccolo miracolo della canzone.<br />

La formula è parente alla lontana <strong>di</strong> “cercando un altro Egitto” e altre cose simili <strong>di</strong><br />

quel periodo, ma qui il quadro è in equilibrio perfetto , né si presentano “bisociazioni”<br />

o “salti <strong>di</strong> significato” nonché tematici a complicarlo. L’inizio è un sogno: “capiterà<br />

anche a me <strong>di</strong> uscire da questo spazio, da questa prigione <strong>di</strong> tenda e volare fra le stelle,<br />

capiterà perché lo vorrò (GIURO CHE LO FARò)”. E qui è come se sottintendesse:<br />

“MI CHIEDETE QUANDO?” per rispondersi “quando io, che sono la donna cannone,<br />

sarò d’oro e d’argento, non sarò costretta ad aspettare treni, fermerò il tempo (IL<br />

GIORNO SI BLOCCHERA'), avrò il consenso <strong>di</strong> tutti, <strong>di</strong> quelli che contano (IL<br />

PUBBLICO PAGANTE) e finalmente avrò te amore, oltre la tenda, oltre il cielo, là<br />

dove non servono parole e non serve essere belli o brutti: ma saremo veri, reali in carne<br />

118


e ossa, non spiriti: reali, veri, innamorati e senza bisogno <strong>di</strong> aria e cibo, uniti per<br />

sempre”.<br />

Ed è con questo pensiero, con questo sogno, con questa certezza che ad occhi chiusi<br />

travalica il mistero del tendone: in quest’attimo preciso avviene il<br />

CAPOVOLGIMENTO e l’immaginazione supera la costante quoti<strong>di</strong>ana realtà <strong>di</strong><br />

compiere solo un esercizio da circo. Questa volta non è solo un’esibizione per<br />

raccogliere applausi: questa volta la donna-cannone sparisce per sempre lasciando tutti<br />

costernati e increduli, beffati o solo allibiti.<br />

La canzone rimodella una favola antica, un modello culturale mitico-esistenziale che è<br />

più volte stato riprodotto in pittura, musica, letteratura. Si tratta in verità <strong>di</strong> un<br />

“archetipo”, presente ovunque nel tempo e nello spazio a livello inconscio e conscio<br />

negli esseri umani. Inappartenenza a un tipo <strong>di</strong> mondo, conflitto tra realtà e sogno,<br />

necessità <strong>di</strong> strappare l’amore, il proprio amore agli altri e averlo solo per sé, libertà<br />

assoluta e indolore.<br />

Ma “La donna cannone” non è, per fortuna, un trattato o un saggio. È soltanto una<br />

poesia <strong>di</strong> rara bellezza, e come ogni grande poesia non spiega e non sottolinea, ma<br />

coglie e porge, senza normalismi, senza necessità <strong>di</strong> conclusioni definitive.<br />

Sarebbe bello, anche troppo, iniziare ogni anno scolastico, a qualsiasi livello e in<strong>di</strong>rizzo<br />

con la lettura de “La Storia”. “La Storia” (Scacchi e Tarocchi 1985) è una delle più alte<br />

e popolari ricerche del senso comune, del vivere assieme che la canzone d’autore abbia<br />

mai prodotto. E non solo quella. “La Storia” parte da un ottimismo della ragione e del<br />

cuore, da una sicurezza escatologica, da un preciso stretto manicheismo bene-male<br />

119


(non solo etico, ma politico, poliumano), che trascende ogni errore, ogni castroneria,<br />

ogni interpretazione parziale del passato, per assicurarci che gli uomini, noi tutti,<br />

protetti da un “elan vital”, da un “pandemismo” (non panlogismo, pandemismo, uomini<br />

sopra le idee) percorreremo <strong>di</strong> sconfitta in sconfitta una vicenda universale che ci<br />

porterà alla verità. “La Storia” è canzone-denuncia <strong>di</strong> falsi contingentismi, <strong>di</strong> totem<br />

momentanei, <strong>di</strong> approssimazioni, <strong>di</strong> attimi, <strong>di</strong> entusiasmi facili, <strong>di</strong> sirene e superfici,<br />

orpelli, credulità; ed è monito secco, intransigente, definitivo a chiunque voglia fare<br />

della vicenda <strong>di</strong> una intera umanità un caso <strong>di</strong> interessi particolari e personali e <strong>di</strong> porte<br />

e <strong>di</strong> potere. “La Storia” è tutto questo perché s’identifica con l’umanità e la sua<br />

avventura incompresa e sempre demandata ai vertici che l’hanno determinata: ovvero<br />

la storia è la ruota e la fame, la paura e il bisogno <strong>di</strong> libertà e non Napoleone o Bismark<br />

o Hitler o Saddam Hussein. Questo identificare la storia con la gente, con tutta la gente,<br />

ha ra<strong>di</strong>ci antiche, ma anche qui <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> prende le misure: non c’è niente <strong>di</strong><br />

rivoluzionario, <strong>di</strong> sovversivo in quel che <strong>di</strong>ce. Non c’è niente o quasi (a parte le masse<br />

iniziali) <strong>di</strong> vichiano o idealistico, forse, un po’ più, ma nemmeno tanto <strong>di</strong> marxista.<br />

Questo afflato <strong>di</strong> partecipazione totale è movimento o stasi, perché siamo sì “onde del<br />

mare” ma anche “foglie sotto il cielo” a coprire il prato, siamo a momenti rumore o<br />

lotte, a momenti silenzio e ripensamento e quiete e analisi. Siamo prassi e teoria. E la<br />

storia è un opporsi continuo a chi ti vuole fermo magari “chiuso dentro casa quando<br />

viene la sera”: ri<strong>di</strong>colo, non è il portone che trattiene gli uomini. E c’è al fine <strong>di</strong> tutto,<br />

<strong>di</strong> questa presenza allucinante e oppressiva che la storia ha nelle stanze <strong>degli</strong> uomini, la<br />

certezza che “la gente (perché è la gente che fa la storia) quando si tratta <strong>di</strong> scegliere e<br />

<strong>di</strong> andare, te la ritrovi con gli occhi aperti che sanno benissimo che cosa fare” sia i colti<br />

120


che gli ignoranti, non è questa la <strong>di</strong>scriminante. E un’altra più spaventosa certezza: che<br />

la storia non si ferma mai e la puoi eludere o evitare per un attimo, la puoi interpretare<br />

e consegnarla spuria, falsa a chi ascolta per poco più <strong>di</strong> un attimo, ma lei ritorna forte,<br />

vera, a sbeffeggiare le tue piccolezze, le tue prevaricazioni, perché è impossibile<br />

vincere la sua fiumana, la sua verità semplice come il pane <strong>degli</strong> uomini, come un<br />

piatto <strong>di</strong> grano.<br />

Canzone bellissima per alternanze melo<strong>di</strong>che semplici e progressive, canzone<br />

manifesto <strong>di</strong> una con<strong>di</strong>zione umana universale, non particolare. Oltre, molto oltre il<br />

lavoro, la fabbrica, la miseria, il dolore proletario che pur non contemplati, “La Storia”<br />

<strong>di</strong>pana la storia stessa dell’uomo nei tempi, nei secoli e per il futuro. L’insolubilità<br />

apparente <strong>di</strong> armonia tra gli uomini <strong>di</strong>venta contingenza, casualità; come a <strong>di</strong>re: non si<br />

è mai trovato, per ora, il modo, il momento. L’accusa verso chi approfitta della storia a<br />

suo vantaggio <strong>di</strong>venta pietà e vergogna come a <strong>di</strong>re bisogna riscrivere il vocabolario tra<br />

la parola “vincere” e la parola “perdere”.<br />

Come? “Perdere” è momentanea, illusoria inferiorità rispetto a chi <strong>di</strong>storce la storia.<br />

“Vincere” è essere nella storia, nell’euforia e negli errori <strong>degli</strong> uomini, nel loro <strong>di</strong>ritto<br />

ad ogni religione ed idea per essere liberi e artefici.<br />

“Il cuoco <strong>di</strong> Salò” (Amore nel pomeriggio, 2001) è una canzone inimmaginabile e fuori<br />

da ogni canone.<br />

Primo straor<strong>di</strong>nario coupe de theatre è il “corner storico” da cui viene guardata la<br />

vicenda, perché <strong>di</strong> vicenda storica si tratta e così recente che la ferita fa ancora male. La<br />

121


trovata del “corner” per raccontare un “grand affair” non è nuova in arte. Il personaggio<br />

minore, angolare, che fa da protagonista e racconta dal suo punto <strong>di</strong> vista un evento più<br />

grande <strong>di</strong> lui c’è già in Shakespeare, c’è in molto cinema (“La Tunica”, “Ben Hur”, “Il<br />

mondo nuovo”, etc.), esiste in parecchie opere letterarie.<br />

Nella canzone in esame il trucco <strong>di</strong> lasciar descrivere gli ultimi giorni del fascismo da<br />

un personaggio ignaro, a <strong>di</strong>giuno <strong>di</strong> politiche e intrighi, ingenuo quel che basta,<br />

permette a <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> una descrizione non solo imparziale, quasi naturalistica (i fatti<br />

son desunti da rumori, voci, pettegolezzi) ma perfino più <strong>di</strong>sincantata, lontana e nel<br />

contempo paradossalmente più vera e tragica.<br />

Il cuoco pensa a sé, alla sua vita, al suo lavoro: è lui nella sua piccola <strong>di</strong>mensione il<br />

centro: tutto il resto che è “la storia” fa da sfondo e risulta ai suoi occhi come<br />

occasionale incidente, ininfluente. Il cuoco “vede” soltanto i riflessi esterni del grande<br />

dramma che si sta compiendo, e in questo fiume in piena, in questo mondo che si<br />

sconvolge e cambia, continua quasi imperturbato a pensare come il giorno prima, come<br />

sempre, alla sua professione, al suo quoti<strong>di</strong>ano. Ma, e qui sta la trovata, quando si<br />

spinge a giu<strong>di</strong>care oltre il suo orto non ha, non conosce pensieri <strong>di</strong> parte, torti o ragioni,<br />

e accomuna nel delirio <strong>di</strong> una sola morte tutti, anche quelli che stanno “dalla parte<br />

sbagliata”.<br />

L’espe<strong>di</strong>ente della voce esterna narrante permette a <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> <strong>di</strong> fermare le bocce e<br />

provare un’umana, universale pietà per tutti i nemici, rivali compresi. Quel che gli<br />

sarebbe stato più ostico in prima persona (ve<strong>di</strong> “Le storie <strong>di</strong> ieri”), in questa falsariga <strong>di</strong><br />

svolgimento a tema gli risulta semplice, non contrad<strong>di</strong>ttorio e soprattutto coerente. Non<br />

è il <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> <strong>di</strong> “Bella ciao”, il ragazzo che “guarda il muro e si guarda le mani” a<br />

122


accontare. Non è il <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> passionario e comunista, il populista contro ogni<br />

potere: partendo da sé e dal suo vissuto non avrebbe mai potuto scrivere una canzone<br />

simile. E allora ecco il “cuoco” <strong>di</strong> Salò, creatura in una tempesta più grande <strong>di</strong> lui che<br />

appena avverte e non può capire in tutte le sfumature, se non nell’unica che gli risulta<br />

leggibile: la morte, lo sfascio, la fine. L’aggiramento dello scoglio ideologico è molto<br />

più apparente che reale. <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> si avvale <strong>di</strong> uno schermo per permettere a se stesso<br />

uno sfogo <strong>di</strong> dolore universale che altrimenti non potrebbe esprimere in una libertà così<br />

assoluta, e non potrebbe permettersi senza suscitare contrad<strong>di</strong>zioni o dover elargire<br />

spiegazioni o precisazioni al suo pensiero. Perché anzitutto “Il cuoco <strong>di</strong> Salò” non è<br />

una giustificazione né totale né minima al fascismo e ai suoi <strong>di</strong>sastri. Non è e non vuol<br />

essere un accumunare morti <strong>di</strong> un tipo ad altri morti in una specifica contingenza<br />

storica. È semplicemente un grido muto, da espressionismo tedesco, un grido lacerante<br />

e silenzioso sull’inutilità, sull’occasione perduta, sull’insensatezza <strong>di</strong> un periodo<br />

evitabilissimo e non evitato, sull’esaltazione pilotata, ingannevole e incolpevole <strong>di</strong><br />

alcuni, <strong>di</strong> molti giovani.<br />

E allora siamo ben oltre i primi anni quaranta: siamo in tutte le guerre, in tutte le<br />

irruzioni <strong>di</strong> morte nella storia, perché <strong>di</strong> questo si tratta, del confronto cioè tra la<br />

bellezza della vita (del sole, dei giorni, della luce) e il <strong>di</strong>sfacimento della morte, una<br />

morte melliflua, ingannatrice, subdola nell’apparente meraviglia delle sue promesse <strong>di</strong><br />

vittoria e potere. Il cuoco è ragazzo, è infante: le ballerine venute da Venezia, il<br />

frusciare dei loro vestiti, le musiche notturne, le porte che sbattono, le scale salite e<br />

ri<strong>di</strong>scese la mattina spargendo ovunque profumo, lo colpiscono molto <strong>di</strong> più <strong>degli</strong> spari<br />

che vengono da fuori. Quando le ragazze scendono a far colazione il primo pensiero è<br />

123


alla vita che va, che continua (“se quest’acqua <strong>di</strong> lago fosse acqua <strong>di</strong> mare, quanti pesci<br />

potrei cucinare…”). Il primo pensiero è quello <strong>di</strong> aggrapparsi ai giorni, alle abitu<strong>di</strong>ni e<br />

<strong>di</strong> sentirsi in qualche modo importante: “anche un cuoco può essere utile…” “anche in<br />

mezzo a un naufragio si deve mangiare”.<br />

Ma il secondo pensiero, oppressivo, alto e incombente come un nuvolone è la morte,<br />

quel che sta accadendo fuori: “Che qui si fa l’Italia e si muore, dalla parte sbagliata, in<br />

una grande giornata si muore…”. Non è un approccio critico, né <strong>di</strong> parte, è solo come<br />

un titolone letto su un giornale al bar o dal barbiere. Così lo prende , così lo fa suo il<br />

“cuoco”, che neppure sa se sian ban<strong>di</strong>ti, eroi o americani quelli che stan sparando sui<br />

monti. È la <strong>di</strong>sinformazione tipica dell’uomo <strong>di</strong> tutti i giorni, che ha un solo attimo <strong>di</strong><br />

apparente dolore nella riflessione davanti alle ballerine sculettanti: “quante storie potrei<br />

raccontare stasera, quin<strong>di</strong>cenni sbranati dalla primavera”. Ma attenzione, non è pietà<br />

vera e propria, bensì una sorta <strong>di</strong> fatalismo, <strong>di</strong> impotenza, <strong>di</strong> “cosa ci posso fare io” <strong>di</strong><br />

fronte a cose così imponenti. E infatti prevale nel suo piccolo modo <strong>di</strong> ragionare da<br />

Abbon<strong>di</strong>o coraggioso un “sense of humor” perfino irresponsabile: “Io mi chiedo che<br />

faccia faranno (I PARTIGIANI) a trovarmi in cucina e se vorranno qualcosa per cena”.<br />

Attraverso questo magistrale “fool”, cui tutto nella sua astoricità è permesso, <strong>De</strong><br />

<strong>Gregori</strong> <strong>di</strong>ce il non detto, molto più che se lo <strong>di</strong>cesse espressamente. E lui sì, lui dalla<br />

sua anima con la sua voce, <strong>di</strong>stinto se pur ben mascherato nella inattualità del cuoco,<br />

piazza quella stridente contrad<strong>di</strong>zione tra illusione e realtà, errore e verità, sole o morte,<br />

che sono pianto per l’inspiegabile catastrofe del destino umano dove colpe e torti per<br />

una volta tanto non entrano in scena.<br />

124


Lo scopo della nostra <strong>di</strong>spensa era quello <strong>di</strong> scoprire le innovazioni tecniche e artistiche<br />

apportate da <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> al linguaggio in canzone, e così abbiamo fatto. Ma risulta<br />

ovvio che quella <strong>di</strong> <strong>De</strong> <strong>Gregori</strong> è solo una delle strade possibili, pur se rivoluzionaria e<br />

antesignana. Prima, insieme e dopo <strong>di</strong> lui i “poeti” in canzone hanno usato e usano altre<br />

forme, altre semantiche, altre trame non meno giuste, importanti, consone alla veste<br />

musicale. Queste forme non possiamo percorrerle tutte; ne abbiamo delineate le linee<br />

essenziali e più importanti nelle pagine introduttive, non <strong>di</strong> più, perché questo non è e<br />

non vuol essere un trattato totale ed esaustivo sul linguaggio poetico in canzone; ci<br />

mancherebbe. Però, a questo punto, è fondamentale che riassumiamo e completiamo<br />

per maggiore chiarezza alcune <strong>di</strong> queste linee, il perché della loro genesi, l’importanza<br />

che hanno pur nel loro <strong>di</strong>verso comunicare e ciò che le <strong>di</strong>stanzia o le accomuna al<br />

linguaggio poetico in poesia “scritta”.<br />

L'atto creativo del linguaggio in canzone. Tipologie.<br />

Processi d'inten<strong>di</strong>mento.<br />

Partiamo ovviamente dall’atto creativo. Abbiamo grosso modo due filoni <strong>di</strong> possibilità<br />

creative: o<br />

1) ATTRAVERSO ASSOCIAZIONI CONVERGENTI prodotte da un solo stimolo<br />

e che producono un unico inten<strong>di</strong>mento (“single minded” secondo Koestler)<br />

oppure<br />

125


2) ATTRAVERSO ASSOCIAZIONI DIVERGENTI (BISOCIAZIONI) prodotte da<br />

<strong>di</strong>rezioni <strong>di</strong>stinte e tendenti a trovare un equilibrio e un significato che non<br />

appartengono più soltanto alla prima o alla seconda (“double minded” sempre<br />

secondo Koestler).<br />

Se io ad esempio scrivo (1) “Acqua azzurra, acqua chiara, con le mani posso finalmente<br />

bere” 10 sono nell’ambito del “simple mind”; la metafora è lieve, lo stimolo e<br />

l’inten<strong>di</strong>mento sono univoci e imme<strong>di</strong>ati.<br />

Ma se io scrivo (2) “ora che la mia vita è una roccia <strong>di</strong> gri<strong>di</strong>” 2 lascio aperto il circuito<br />

dell’inten<strong>di</strong>mento perché i termini che uso sono in apparente conflitto tra loro e l’uno<br />

non spiega l’altro. Bisogna trovare una sintesi.<br />

Più semplicemente ancora (1) “una campana dorata” è associazione convergente. “Un<br />

silenzio azzurro” è <strong>di</strong>vergente (in grammatica una “sinestesia”). In questo secondo caso<br />

non essendoci rapporto logico tra i termini dobbiamo compiere uno sforzo ulteriore<br />

(razionale e intuitivo) per scoprire il senso della sintesi.<br />

La strategia “simple minded” è tipica della scienza, ma è presente anche in tutta la<br />

storia dell’arte, e in letteratura ha prodotto capolavori immensi. L’associazione<br />

<strong>di</strong>vergente, pur largamente rappresentata nei secoli, è tipica dai simbolisti francesi<br />

(Rimbaud principalmente) in poi.<br />

LE ASSOCIAZIONI CONVERGENTI O DIVERGENTI STANNO ALLA BASE DEI<br />

DUE GRANDI SISTEMI DI CREATIVITA’, IN OGNI CAMPO:<br />

10 Battisti - Mogol<br />

2 G. Ungaretti<br />

126


1) LA CREATIVITA’ GOVERNATA DA REGOLE (rule governed creativity ,o<br />

RGC ) che accumula, mette insieme elementi più o meno dello stesso ambito per<br />

creare un risultato nuovo, originale, talvolta sorprendente (come ad esempio da<br />

<strong>di</strong>versi colori una sfumatura mai vista prima)<br />

2) LA CREATIVITA’ CHE CAMBIA LE REGOLE (rule changing creativity ,o<br />

RCC) parte invece da elementi che non hanno niente in comune per approdare<br />

ad un risultato nuovo, originale, spesso estraneo agli elementi iniziali.<br />

In poesia, nei testi delle canzoni la prima forma <strong>di</strong> creatività accorpa quin<strong>di</strong> parole,<br />

frasi già esistenti per crearne nuove e inusitate (i neologismi ad esempio come<br />

MONITORAGGIO: da un prestito straniero + un suffisso italiano). La seconda forma<br />

<strong>di</strong> creatività è invece “eversiva”, viola regole grammaticali, sintattiche, <strong>di</strong> cre<strong>di</strong>bilità e<br />

attesa logica producendo qualcosa con un senso tutto suo, che non ha nulla in comune<br />

con le singole parole o le frasi messe insieme. Es: “metti un tigre nel motore 11 ” dove<br />

non c’è attinenza né tra il verbo METTERE e l’oggetto TIGRE, né c’è associazione<br />

convergente tra l’articolo UN e il nome TIGRE e neppure tra tutto il resto e il<br />

MOTORE.<br />

LA CREATIVITA’ GOVERNATA DA REGOLE può esprimersi sia in una parte <strong>di</strong><br />

un’opera che nell’opera intera. LA CREATIVITA’ CHE CAMBIA LE REGOLE può a<br />

sua volta esprimersi in tutta l’opera, oppure (come abbiamo già visto e rivedremo), in<br />

una parola, in un passo, in un brano che stride e contrasta col contesto precedente.<br />

11 Questo e l’altro esempio sono tratti da: LA CREATIVITA’ TRA REGOLE E CONFLITTI <strong>di</strong> Massimo Prampolini su<br />

“Prometeo” anno 20 numero 79.<br />

127


Per chiarire i meccanismi che regolano questo duplice modo <strong>di</strong> intendere l’atto<br />

creativo, partiamo dal triangolo semantico base dei due linguisti OGDEN e<br />

RICHARDS:<br />

PENSIERO DI RIFERIMENTO<br />

SIMBOLO REFERENTE<br />

(significante) (significato)<br />

Questo è uno schema rapportabile alla comunicazione in generale. Se ora lo<br />

applichiamo a quella artistica avremo, per quanto riguarda la “creazione governata da<br />

leggi” la seguente configurazione:<br />

PENSIERO DI RIFERIMENTO<br />

(conosco il re, l’aria, il cielo)<br />

Significante Significato<br />

se cioè ad esempio leggo la parola<br />

CAMMELLO (significante) e possiedo già il<br />

concetto <strong>di</strong> CAMMELLO (pensiero <strong>di</strong><br />

riferimento) ne comprendo il significato.<br />

FELICE COME UN RE UN RE E’ CERTAMENTE FELICE<br />

L’ARIA è PURA, PERCHE’ HA TUTTO:<br />

SPLENDIDO IL CIELO SI RESPIRA BENE, LA<br />

(Baudelaire) GIORNATA E’ MAGNIFICA.<br />

128


Cioè tutti i “significanti” espressi da Baudelaire son già nel nostro bagaglio logico e<br />

non facciamo fatica a comprenderne il significato.<br />

Lo stesso avviene anche dove l’atto creativo assembla termini che posse<strong>di</strong>amo separati<br />

nelle nostre cognizioni logiche ma possiamo facilmente ricongiungere (tipico<br />

della“creatività governata da leggi”). Ma proviamo adesso a considerare questo nuovo<br />

schema desunto da Rimbaud :<br />

pensiero <strong>di</strong> riferimento<br />

NESSUNO<br />

Significante Significato<br />

UNA FONTANA LUSTRALE NESSUNO<br />

LAVA I CIELI<br />

VERDE – CAVOLO<br />

Le parole ci sembreranno senza senso. Al massimo coglieremo il suono, la ritmica, la<br />

musicalità (spostamento). Il normale processo conoscitivo non ci permette <strong>di</strong> intendere<br />

l’eversione creativa.<br />

Per arrivarci, per intendere, per apprezzare o anche soltanto per catturare<br />

un’evanescenza del senso, l’evocazione che trasmette, dobbiamo in gran misura lasciar<br />

perdere i legami logici e spaziare liberamente nel nostro panorama lirico interiore,<br />

perché questa operazione è istintiva, connotativa, basata sulla sensibilità. Dobbiamo<br />

quin<strong>di</strong> cambiare l’apice del triangolo in questo modo:<br />

SENTIMENTO DEL CONCETTO<br />

INTERRUZIONE<br />

SIGNIFICANTE SIGNIFICATO<br />

Spostamento <strong>di</strong><br />

significato<br />

129


L’inten<strong>di</strong>mento <strong>di</strong> una “rule changing creativity” segue il percorso del SENTIRE molto<br />

più e prima del CAPIRE laddove quello della “goberned creativity” li segue tutt’e due.<br />

Certo, questo inten<strong>di</strong>mento non è né alla portata <strong>di</strong> tutti, né <strong>di</strong> tutti allo stesso modo.<br />

Dipende da tanti fattori: dalla quantità <strong>di</strong> sensibilità che si possiede, dall’educazione<br />

all’arte che significa anche educare la sensibilità che ci siamo costruiti (esperienza),<br />

dalle nostre capacità <strong>di</strong> spaziare, saltare mentalmente da un campo cognitivo all’altro,<br />

da un processo emotivo ad un altro più lontano, etc.<br />

Se ci limitiamo a collegare i termini e i concetti semplici e confinanti del nostro<br />

bagaglio logico usuale e abitu<strong>di</strong>nario, senza sforzarci <strong>di</strong> uscirne, potremmo sentire e<br />

godere dell’arte fino ad un certo punto ma lo “scarto” <strong>di</strong> qualità non si produrrà mai.<br />

Senza questo tipo <strong>di</strong> creatività non avremmo mai avuto Buster Keaton, Copernico,<br />

Picasso, Kafka, non avremmo mai avuto Godel, Strawinsky, Jonesco.<br />

Autonomia e nobiltà artistica ,liricità esclusiva ,espressività particolare del linguaggio<br />

in canzone , come parte in<strong>di</strong>ssolubile rispetto alla forma "canzone" presa "in toto".<br />

Tornando al nostro <strong>di</strong>scorso, al campo specifico del nostro <strong>stu<strong>di</strong></strong>o, la canzone, rileviamo<br />

che “la creatività governata” sta alla base <strong>di</strong> quella che abbiamo chiamato “me<strong>di</strong>età”<br />

testuale mentre la “creatività che cambia” è tipica della “transme<strong>di</strong>età” testuale.<br />

“Me<strong>di</strong>età” e “transme<strong>di</strong>età” (che abbiamo precedentemente definite), non contengono<br />

in sé né il concetto <strong>di</strong> “bello”, né quello <strong>di</strong> “brutto”, sono due tecniche artistiche. Il<br />

130


<strong>di</strong>scorso parte da molto lontano, perché già nei trovatori avevamo <strong>di</strong>stinto un “trobar<br />

plan” (me<strong>di</strong>età) e un “trobar clou” (transme<strong>di</strong>età).<br />

Possiamo trovare testi “me<strong>di</strong>ali” veri, originali, molto belli (quasi tutti quelli <strong>di</strong> Mogol),<br />

e testi “me<strong>di</strong>ali” scontati, grossolani, falso – popolari. Possiamo altresì imbatterci in<br />

gran<strong>di</strong> canzoni “transme<strong>di</strong>ali” e in altrettante arruffate, sconclusionate, inutili<br />

composizioni dello stesso genere; <strong>di</strong>pende dagli autori e dai momenti.<br />

Non è raro poi che un autore generalmente “me<strong>di</strong>ale” abbia guizzi transme<strong>di</strong>ali in tutto<br />

un brano o in parti <strong>di</strong> un brano (“Pensieri e parole” ne è un esempio); come non è raro<br />

che un autore transme<strong>di</strong>ale scriva canzoni “me<strong>di</strong>ali” (“Generale”, “La donna cannone”)<br />

riservandosi però all’interno delle stesse lampi <strong>di</strong> “changing creativity”.<br />

La “me<strong>di</strong>età” corrisponde ad un intendere figurativo che è stato alla base <strong>di</strong> tutte le arti<br />

fino al tardo ottocento; la “transme<strong>di</strong>età” riflette la crisi dell’ “oggettivo” dal<br />

decadentismo in poi e si attiene all’espressionismo letterario dell’inquietu<strong>di</strong>ne<br />

novecentesca. Essendo stata la canzone per lungo tempo specchio <strong>di</strong> sentimenti<br />

semplici e <strong>di</strong> sociologia spicciola, la testualità “me<strong>di</strong>ale” è stata, e per abitu<strong>di</strong>ne<br />

rimane, prerogativa dominante, perché ancor oggi la sua caratteristica principale è<br />

quella <strong>di</strong> “arrivare subito”, comunicare senza <strong>di</strong>aframmi. Ciò non vuol assolutamente<br />

<strong>di</strong>re che la nobiltà (e la bellezza) <strong>di</strong> un brano si misuri sulla scelta dell’una o dell’altra<br />

tecnica. In poesia è lo stesso. “La quiete dopo la tempesta” è un capolavoro “me<strong>di</strong>ale”,<br />

così come “la passeggiata” <strong>di</strong> Palazzeschi è uno splen<strong>di</strong>do esempio <strong>di</strong> “transme<strong>di</strong>età”.<br />

In canzone il <strong>di</strong>scorso è simile, ma per sua natura la canzone pretende significazioni<br />

ben <strong>di</strong>verse dalla poesia lirica. Il “figurativo” e il “non figurativo” in canzone fanno i<br />

131


conti con una <strong>di</strong>versa origine, una <strong>di</strong>versa storia, una <strong>di</strong>versa finalità rispetto alla<br />

“poesia” e, come più volta detto, devono inserirsi, non debordare, rispettare il connubio<br />

con l’altro significante non letterario che è la musica, la melo<strong>di</strong>a.<br />

Ne consegue che mentre in “poesia” la parola è “forte” e “padrona” è perfino più<br />

importante del senso e deve contenere in sé (e da sé sprigionare) musicalità, ritmo,<br />

emozione (“quando trovo in questo mio silenzio una parola, scavata è nella mia vita<br />

come un abisso” 12 ); la parola in canzone è metà del tutto, è una parte: non le si chiede e<br />

non le si può chiedere la totalità semantica ed emozionale della poesia, perché ciò<br />

romperebbe l’armonia, l’equilibrio che essa parola deve mantenere con la musica. Mi<br />

spiego: se la musica fosse una mera aggiunta, un accompagnamento non ci sarebbe più<br />

CANZONE, avremmo una “poesia” mascherata. E invece no; la musica, la melo<strong>di</strong>a in<br />

particolare possiede un suo compito <strong>di</strong> trasmissione emozionale che non è lo stesso<br />

della parte letteraria ma è proprio, esclusivamente suo, e la parola (in canzone) non può<br />

invaderlo, perché avremmo una comunicazione doppia <strong>di</strong> un’identica emozione, una<br />

TAUTOLOGIA COMUNICATIVA.<br />

Ecco quin<strong>di</strong> la <strong>di</strong>fferenza essenziale tra la parola (la frase, la <strong>di</strong>sposizione dei termini,<br />

la trama) in “poesia” scritta e quella in canzone.<br />

Là l’unico suono comunicante che riceviamo è pregno <strong>di</strong> tutto quel che dobbiamo<br />

ricevere: qui due suoni si <strong>di</strong>vidono i compiti e la trasmissione <strong>di</strong> idee e <strong>di</strong> emozioni.<br />

Quin<strong>di</strong> non è che la parola in canzone sia più “povera”, perché il paragone con la<br />

“poesia” scritta è improponibile, siamo in due campi <strong>di</strong>versi, in due forme d’arte<br />

12 Ungaretti.<br />

132


<strong>di</strong>verse. Sarebbe come paragonare la trage<strong>di</strong>a greca al teatro dell’assurdo solo perché<br />

entrambe le cose avvengono su un palcoscenico.<br />

Il linguaggio in canzone risponde alla sua origine <strong>di</strong> significazione binaria; alla sua<br />

propensione a narrare una storia imme<strong>di</strong>ata o comunque intellegibile; alla sua<br />

<strong>di</strong>sponibilità a chiarire spazio e tempo come scenari della stessa; alla necessità che<br />

talune frasi si ripetano o ritornino, a specchio della melo<strong>di</strong>a; a svolgere un vocabolario<br />

non illimitato, trovando più accoppiamenti <strong>di</strong> termini sempre nuovi; e proponendo<br />

figure <strong>di</strong> pensiero imme<strong>di</strong>ate, ma soprattutto sempre collegate col contesto (sintesi,<br />

metafore analogiche).<br />

La sua apparente semplicità, se staccata dalla musica, la sua elementarietà in confronto<br />

alla “poesia scritta”, trova spiegazione, corposità, ricchezza, se ascoltata nell’unico<br />

modo in cui deve essere letta e ascoltata e cioè inserita nella melo<strong>di</strong>a, perché è tutt’uno<br />

con questa.<br />

La forza poetica del linguaggio in canzone non sta nell’anarchia letteraria, nella libertà<br />

smisurata da qualsiasi regola o confine, ma nella coerenza, nella adesione armonica alla<br />

parte melica, nella straor<strong>di</strong>naria sensazione che dà <strong>di</strong> nascita comune e contemporanea<br />

con la stessa: è questo equilibrio, è questa avvertibile fusione che provoca la ricezione<br />

emotiva <strong>di</strong> chi ascolta; non siamo cioè <strong>di</strong> fronte ad un’ad<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> significanti ma<br />

quasi ad una moltiplicazione. Se una canzone è bella non avvertiamo confine tra parole<br />

e melo<strong>di</strong>a: ci sembrano miracolosamente, quasi per magia nate per stare insieme, nate<br />

insieme.<br />

133


La poesia scritta è come un uomo, una persona: ci comunica tutto quel che ha dentro, si<br />

strappa anima e cuore per denudare il suo “io”, ci sbatte in faccia a ruota libera i suoi<br />

sogni, deliri, le sue cadute, le sue resurrezioni, la sua solitu<strong>di</strong>ne. È lui, è l’uomo, la<br />

creatura <strong>di</strong> angoscia esistenziale da sempre.<br />

La canzone è come un uomo e una donna che si alleano insieme. Nessuno dei due è più<br />

soltanto se stesso, totalità esistenziale <strong>di</strong> sé. Per chi guarda da fuori sono “loro due”,<br />

una coppia inscin<strong>di</strong>bile e a nessuno verrebbe in mente <strong>di</strong> pensare che ciò che l’uno ha<br />

perso <strong>di</strong> sé per concedere all’altra sia uno sca<strong>di</strong>mento, un deterioramento, una<br />

penalizzazione alla propria libertà: “loro” sono un’altra cosa da sé stessi <strong>di</strong>visi, e <strong>di</strong>visi<br />

non sarebbero più gli stessi.<br />

Bibliografia<br />

STEPHEN ULLMANN – PRINCIPI DI SEMANTICA – EINAUDI<br />

JOHN LYONS – INTRODUZIONE ALLA LINGUISTICA TEORICA – LATERZA<br />

N. CHOMSKY – ASPETTI DI UNA TEORIA DEL LINGUAGGIO – BORINGHIERI<br />

A.KOESTLER – L’ATTO DELLA CREAZIONE – UBALDINI<br />

PALAZZESCHI – TUTTE EL POESIE – I MERIDIANI MONDADORI<br />

GIANNI BORGNA – STORIA DELLA CANZONE ITALIANA – OSCAR MONDADORI<br />

JEAN GUICHARD – LA CHANSON DANS LA CULTURE ITALIENNE – HONORE’ CHAMPION – PARIS<br />

PAOLO JACHIA – LA CANZONE D’AUTORE ITALIANA – FELTRINELLI<br />

PINO CASAMASSIMA – FRANCESCO DE GREGORI – DE FERRARI<br />

CARROZZO – CIMAGALLI – STORIA DELLA MUSICA OCCIDENTALE – ED. ARMANDO<br />

MASSIMO PRAMPOLINI – LA CREATIVITA’ TRA REGOLE E CONFLITTI – su “PROMETEO” ANNO 20 N° 79<br />

134


J. PREVERT – POESIE D’AMORE E LIBERTA’ – LE FENICI<br />

M. BONANNO – CERCANDO UN ALTRO EGITTO – BASTOGI<br />

JAIME PINTOR – DE GREGORI NON E’ NOBEL, E’ RIMMEL – LO CASCIO 1990<br />

BOVIO B. – DE GREGORI E LA POESIA – LO CASCIO 1990<br />

CERI L. – LUCIO BATTISTI PENSIERI E PAROLE – TARAB EDIZ.<br />

V. PALIOTTI – STORIA DELLA CANZONE NAPOLETANA – NEWTON COMPTON<br />

COVERI E ALTRI – PAROLE IN MUSICA – INTERLINEA<br />

SALVATORE G. – MOGOL-BATTISTI, L’ALCHIMIA DEL VERSO CANTATO – ED. CASTELVECCHI<br />

LEYDI R. – I CANTI SOCIALI ITALIANI – ED. AVANTI<br />

ANKLI – BURRI – CANTAUTORE REPUBLIC – LENOS<br />

DE MAURO – STORIA LINGUISTICA DELL’ITALIA UNITA – LATERZA<br />

DE MAURO – NOTA LINGUISTICA AGGIUNTIVA IN BORGNA – DESSI’ 1977<br />

135

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