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Perché toscano?<br />

Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

I L M IELE TOSCAN O<br />

Il miele è un prodotto naturale che le api elaborano esclusivamente a partire dal nettare delle piante<br />

o dalla melata che raccolgono sulla vegetazione. L’uomo si limita a prelevarlo dai nidi.<br />

Da ciò deriva che il miele non è una prerogativa esclusiva di un unico ambito geografico o di una<br />

specifica cultura: ovunque ci siano stati fiori ed api esso è sempre stato disponibile per l’uomo, a<br />

qualunque civiltà appartenesse ed in qualunque tempo.<br />

Sono infatti documentate straordinarie convergenze fra le più antiche immagini “apistiche” riportate<br />

nelle incisioni rupestri neolitiche spagnole e le tecniche di raccolta ancora in uso in paesi africani ed<br />

asiatici 1 . Così come alveari e tecniche riprodotte in manufatti dell’antico Egitto sono facilmente<br />

assimilabili a quanto ancora oggi viene praticato comunemente.<br />

Date queste premesse come può essere possibile caratterizzare il “Miele Toscano”? È possibile<br />

perché la sua specificità deriva dal territorio inteso come sommatoria di fatti naturali ed umani<br />

ovvero dalla continuità colturale-culturale legata all’ambiente geografico ed alla presenza<br />

dell’uomo. E questo è ciò che accade per l’apicoltura in Toscana: una tradizione che continua da<br />

almeno 3.000 anni.<br />

Il territorio: Etruria, Tuscia, Toscana – Una regione naturale?<br />

Gli attuali confini della Toscana non identificano un contesto bioclimatico omogeneo, tuttavia<br />

circoscrivono il “cuore” di una realtà geopolitica sostanzialmente ben definita da millenni e quindi<br />

ben caratterizzata culturalmente.<br />

La sequenza storico letteraria Etruria – Tuscia – Toscana, o di più probabile derivazione secondo la<br />

sequenza Etruscus (Etrusci)-Tuscus o anche Tuscus (Tusci)-Tuscanus (Tuscani) 2 , trae la sua<br />

origine da radici legate alla popolazione più nota che si insediò nel territorio, gli Etruschi, ed<br />

altrettanto certi sono i confini est ed ovest della regione, ovvero il crinale appenninico e la costa<br />

tirrenica.<br />

Incerti o comunque variabili nel corso del tempo sono invece i confini nord e sud. E’ opinione<br />

diffusa che l’Arno a nord ed il Tevere a sud rappresentassero i limiti dell’Etruria preromana, per<br />

quanto la scoperta di insediamenti etruschi in Versilia tenda a far coincidere maggiormente l’antico<br />

limite settentrionale con l’attuale.<br />

Solo a sud si registra una netta variazione nel tempo, così che il successivo spostamento più a nord<br />

del primigenio confine meridionale differenzia, più da un punto di vista amministrativo che<br />

ambientale, la Maremma toscana da quella laziale.<br />

In conclusione si può affermare che gli attuali confini amministrativi della Toscana definiscono una<br />

realtà geopolitica consolidata in seguito ad una continuità storica e culturale tale da risultare una<br />

specificità caratterizzante individuabile nel “paesaggio toscano” che non è quindi la risultante di<br />

caratteri biotici e abiotici omogenei ed esclusivi (altimetria, clima, vegetazione), ma è 3<br />

“costruito dalla storia, ove le componenti antropiche, fuse in una fitta trama di ineguagliabile<br />

complessità, hanno probabilmente creato quell’unità regionale che non risulta dalle componenti<br />

naturali.”<br />

Poiché il miele non è altro che la “fotografia” dell’ambiente da cui proviene, ne consegue che<br />

il Miele Toscano è il prodotto del paesaggio toscano<br />

1<br />

Eva CRANE, 1983 – The Archaeology of Beekeeping. Duckworth, London, 360 p.; pagg.19-33<br />

2<br />

Maurilio ADRIANI, 1980 - «Marginalia» alla voce Toscana. In: Ernesto Sestan, Studi di storia medievale e moderna. I.<br />

Medioevo. Firenze Olschki, pagg. 21-29<br />

3<br />

Berardo CORI., Paolo Roberto FEDERICI., 1991 - Etruria, Tuscia, Toscana – Una regione naturale? In: Michele<br />

LUZZATI. (a cura), Etruria, Tuscia, Toscana – L’identità di una regione attraverso i secoli. Atti della prima Tavola<br />

Rotonda, 15 dicembre 1990, Pisa, Pacini Editore, 78 p.; pagg. 15-33<br />

1


Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

Gli etruschi, i romani ed il miele<br />

Per quanto lo stesso Cicerone confermi 4 l’esistenza di una produzione letteraria allorché racconta di<br />

«quanto si legge nei libri degli etruschi», a noi non sono arrivati sufficienti documenti scritti per<br />

ricostruire con esattezza i loro usi e costumi. Tuttavia possiamo desumerli dalle testimonianze<br />

ricavate dai manufatti e dai molti testi di scrittori latini, pur con la consapevolezza che quanto ci è<br />

giunto è stato “filtrato” da occhi non sempre benevoli.<br />

DIODORO SICULO, contemporaneo di Cesare, riporta le testimonianze raccolte del filosofo<br />

POSIDONIO d’Apamea (135-51 ac) durante i suoi viaggi di studio in occidente 5 e ricorda che la<br />

maggior parte delle conoscenze etrusche furono assimilate dai romani e costituirono le basi della<br />

loro civiltà. Inoltre tramanda che:<br />

“gli etruschi risiedono in una terra fertile di frutti di ogni sorta, che diligentemente coltivano,<br />

godono di un’abbondanza di prodotti agricoli che non soltanto bastano al loro mantenimento,<br />

ma li spingono ad un lusso eccessivo e alla mollezza. Si fanno apparecchiare due volte al giorno<br />

tavole sontuose, con tutto ciò che contribuisce ad una vita raffinata…”.<br />

Ma non c’è solo questa testimonianza ad avvalorare una simile fertilità. VARRONE narra che<br />

venivano raccolte produzioni maggiori che altrove; LIVIO individua fra Fiesole ed Arezzo una delle<br />

zone più ubertose d’Italia; “ubertosa” è anche l’attributo che usa STRABONIO per definire l’Etruria,<br />

confermato da MARZIANO CAPELLA; COLUMELLA narra delle alte produzioni di vino e PLINIO il<br />

GIOVANE non trova differenza nei raccolti di valle o di pianura della sua villa in Etruria 6 .<br />

Da questo parole si comprende come l’ambiente fosse di per sé così favorevole che certe produzioni<br />

erano da considerarsi come “naturali”, spontanee. E questo doveva accadere anche per la raccolta<br />

del miele.<br />

Era dunque l’ambiente l’elemento primario che ne favoriva la disponibilità, proprio per il clima,<br />

nonché per la ricchezza e la varietà della vegetazione. Ambiente che sempre DIODORO SICULO così<br />

descrive<br />

“L’Etruria è in realtà fertilissima, consistendo in generale in pianure che separano colline dai<br />

pendii coltivabili ed è moderatamente umida, non soltanto nella stagione invernale, ma anche<br />

nel periodo estivo.”<br />

Della produzione di miele in epoca romana le notizie sono molteplici e tutti gli scrittori latini di<br />

cose agrarie ne danno ampie notizie, ma se la documentazione riguardo all’Etruria è scarsa 7 ,<br />

tuttavia non è meno convincente ciò che tramanda Marco Terenzio VARRONE (116-27 ac) riguardo<br />

alla sua importanza economica 8 :<br />

… fratres Veianos ex agro Falisco locupletis … hos circum villa totam alvaria fecisse, et hortum<br />

habuisse, ac relicum tymo et cytiso observisse et apiastro… Hos numquam minus, ut pereaque<br />

ducerent, dena milia sextertia ex melle recipere esse solitos…<br />

Si viene così a sapere che nelle campagne di Faleria, una delle 12 principali città etrusche, da un<br />

piccolo appezzamento di meno di un iugero (2.400 mq circa) tenuto a orto e con piante mellifere,<br />

due fratelli traevano un guadagno di più di 10.000 sesterzi l’anno, cifra tanto considerevole che<br />

Varrone conclude domandando dove mai si possa fare altrettanto:<br />

… ubi et cuiusmodi me facere oporteat alvarium, ut magnos capiam fructus<br />

Siamo dunque in terre propizie all’apicoltura e gli etruschi, evidentemente, erano in grado di trarne<br />

il massimo profitto. Condizioni ambientali e tradizione che ancor oggi sono presenti.<br />

4 CICERONE, De Divinatione, lib. II, XXIII<br />

5 DIODORO SICULO, v. 40; su Posidonio, fonte di Diodoro, F. Jacoby F.Gr. Hist. II, A 87, 119 e C p. 154 e segg. In:<br />

Jacques HEURGON, Vita quotidiana degli Etruschi. Milano, il Saggiatore, 1963, 407 p.<br />

6 Giovannangelo CAMPOREALE, 2000 - Gli Etruschi. Storia e civiltà. Torino, UTET, 630 pp.; pag. 46<br />

7 A. BONACELLI, 1967 - La natura e gli etruschi. «Studi etruschi», II, pag. 511<br />

8 VARRONE, De re rustica, lib. III, cap. 16<br />

2


Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

Il “paesaggio toscano” è dunque il presupposto della produzione del miele di cui gli etruschi erano<br />

consumatori assidui come si deduce dalle testimonianze degli scrittori latini, da reperti e da<br />

tradizioni ancor oggi vive.<br />

Tuttavia non si deve dimenticare che l’apicoltura non era solo finalizzata alla produzione di miele,<br />

quanto a quella della cera, materia prima di enorme importanza economica per i molteplici usi a cui<br />

era devoluta. In particolare per gli etruschi era considerata fonte di notevoli proventi fiscali 9 così da<br />

farne oggetto di importazione e commercio tanto che DIOSCORIDE (I sec. AC) ricorda il potere<br />

medicamentoso di una cera detta “Tirrenica” 10 .<br />

Lo sviluppo di una tale attività commerciale è evidenziato dai racconti di molti altri scrittori romani<br />

che ci tramandano come fra gli scambi più frequenti con altre terre, ad esempio Sardegna e Corsica,<br />

ci fossero cera e miele in copiosa quantità.<br />

Ma il miele, e il “Miele Toscano” non fa eccezione, ha sempre avuto anche un ruolo simbolico. Non<br />

a caso nella tomba etrusca “Regolini Galassi” rinvenuta a Cerveteri e attribuita alla pricipessa o<br />

sacerdotessa LARTHI 11 , fra gli innumerevoli reperti, oggetti preziosi e superbi monili, si annovera<br />

un’anafora in cui se ne sono trovate tracce.<br />

Sappiamo anche di un’offerta di “melecraticces”, il greco “melìkraton”, ovvero latte e miele 12 :<br />

Laris Pullenio figlio di Larce, nipote di Larth (zio)/ nipote di Uelthur (nonno), pronipote di Laris<br />

Pullio Greco […] procurò un bacile per miele e latte dono a Culsu Leprinia nel tempietto di lei<br />

Così la stessa fonte 13 registra un “Larth Apiastronio console della gioventù” (“latrhial apaiatrus<br />

zileterias” o “lathial apiatrus zileteriais”) dove il gentilizio “apaiatru” o “apiatru” corrisponde al<br />

latino “apiastrum”, termine con cui si indicava probabilmente non la Melissa (Melissa officinalis),<br />

labiata erroneamente ritenuta per antonomasia pianta di grande interesse apistico ma poco visitata,<br />

bensì la Bocca di lupo (Melittis melissophyllum) nettarifera presente in molti mieli e ricercata da<br />

molti imenotteri.<br />

È altresì nota la tradizione degli aruspici etruschi 14<br />

… Alcuni [generi di divinazione ] sono basati sui documenti e sulla dottrina, qual è esposta nei<br />

libri aruspicini, fulgorali e rituali degli etruschi<br />

ed in particolare quanto fosse stata tenuta in considerazione dai romani 15 :<br />

al tempo dei nostri antenati, quando il nostro Stato era fiorente, il senato decretò che dieci figli<br />

di famiglie eminenti, scelti ciascuno da una delle genti etrusche, fossero fatti istruire<br />

nell'aruspicìna, per evitare che un'arte di tale importanza, a causa della povertà di quelli che la<br />

praticavano, scadesse da autorevole disciplina religiosa a oggetto di traffico e di guadagno.<br />

È altresì nota la tradizione degli aruspici etruschi di trarre auspici non solo dal volo degli uccelli ma<br />

anche delle api e, non a caso, sempre CICERONE 16 ricorda questo particolare trattando di vaticini:<br />

Atque in apium fortasse examine nos ex Etruscorum scriptis haruspices ut a servitio caveremus<br />

monerent.<br />

Si sa anche che la tradizione delle immagini votive, ampiamente recepita prima dalla cultura<br />

romana poi da quelle successive, trova radici nelle tradizioni etrusche e per questo scopo era usata<br />

proprio la cera, materiale troppo prezioso ma anche troppo “delicato” perché potessero giungere<br />

fino a noi dei reperti significativi.<br />

9 A. BONACELLI, ibidem, pag. 465<br />

10 DIOSCORIDE, Materia medica, I, 79, 145; II, 69, 158<br />

11 ANONIMO, 1998 - Anche gli etruschi erano ghiotti di miele. Apitalia, 25(10-11) , pag. 48<br />

12 Massimo PITTAU, 1990 – Testi etruschi. Bulzoni, Roma, 303 p.; pag. 66-67<br />

13<br />

Ivi, pag. 62<br />

14<br />

CICERONE, De Divinatione, lib. I, XXXIII, 72<br />

15<br />

ibidem, lib. I, XLI 90<br />

16<br />

CICERONE, De haruspicum responso 12, 25<br />

3


Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

Gli Etruschi “apparecchiavano la tavola due volte al giorno”<br />

Può stupire l’affermazione di DIODORO SICULO che gli etruschi «Si fanno apparecchiare due volte<br />

al giorno tavole sontuose», ma tanto la prima colazione del mattino che il pranzo a metà del giorno<br />

in epoca greca e romana erano occasioni di frugalità in cui spesso si consumava in piedi un veloce<br />

spuntino e solo alla sera, almeno chi poteva, si concedeva una cena davanti ad una tavola<br />

apparecchiata.<br />

Ecco dunque il miele tornare più volte al giorno nell’alimentazione sia come “additivo” al vino che<br />

come condimento o come base per altre preparazioni. La sua presenza nella quotidianità è<br />

confermata dal rinvenimento durante i vari scavi di numerose “ollette”, vasi a bocca molto larga<br />

adatti per contenere e prelevare sostanze come il miele 17 .<br />

Riguardo proprio al vino merita riportare quanto ricordato da PLINIO 18 sulla preferenza degli<br />

etruschi per alcune varietà di moscato, le Apianae, che davano un vino tanto dolce da essere,<br />

secondo una vulgata, prediletto dalle api (Apes). Ovviamente queste produzioni erano limitate, ma<br />

la ricerca generalizzata della dolcezza veniva normalmente conseguita con l’aggiunta di miele ai<br />

vari tipi di vino.<br />

Fra l’altro i prodotti della vendemmia, come ricordano ORAZIO e MARZIALE, non è che fossero<br />

particolarmente gradevoli: il vino risultava denso, molto aromatico e di alta gradazione alcolica.<br />

Era possibile bere senza altre aggiunte solo il primo mosto, ma il restante, lasciato riposare e<br />

schiumato per sei mesi, solo a primavera poteva essere filtrato e versato nelle anfore. A questo<br />

punto però per renderlo bevibile era indispensabile mescolarlo con acqua (spesso calda) e miele<br />

(vino mulso).<br />

L’usanza di diluire il vino con l’acqua (normalmente 1 a 2 o 1 a 3) veniva da lontano, non a caso il<br />

vino che Marone procura ad Ulisse per ubriacare il Ciclope era tanto forte da dover essere diluito 1<br />

a 20 19 e perdurerà per molti secoli ancora:<br />

E quando bevevano quel vino rosso, docelzza di miele, riempiva una sola tazza e in venti misure<br />

d’acqua mischiava.<br />

Sempre PLINIO fornisce dei consigli per ottenere un buon mulsum 20 , ovviamente non portentoso<br />

come quello omerico. In particolare si raccomanda di usare vino vecchio perché incorpara meglio il<br />

miele e non crea problemi di pesantezza:<br />

Semper mulsum ex vetere vino utilissimum, facillimeque cum melle concorporatur, et quod in<br />

dulci numquam evenit. Ex austero factum non implet stomachum, neque ex decocto melle,<br />

minusque inflat, quod fere event; adpetendi quoque revocat aviditatem cibi.<br />

aggiungendo che era un toccasana per la salute, non per nulla il centenario ROMILIO POLLIONE,<br />

interrogato da AUGUSTO sul segreto della sua vetustà, affermava:<br />

“Intus mulso, foris oleo”.<br />

Ma tutto ciò non è esclusivo patrimonio della latinità, bensì retaggio delle contaminazioni con altre<br />

culture precedenti, non ultima quella etrusca e questa, a sua volta, probabile portatrice di usanze<br />

greche come si può desumere anche dal melitide, il greco melitinos, ottenuto bollendo 5 “cogni” 21<br />

di vin brusco, 1 di miele e 1 ciato di sale 22 . Il risultato era un giulebbe gradito anche ai bambini, ma<br />

da tempo, si direbbe molti secoli, abbandonato dai romani 23 :<br />

Seculis iam fieri non arbitror hoc genus, inflationibus obnoxium.<br />

17<br />

Giovannangelo CAMPOREALE, op. cit, pag. 177<br />

18<br />

PLINIO, Naturalis Historia, XIV, 67<br />

19<br />

OMERO, Odissea. Lib. IX, vv .207 e seg.; trad. Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, 1963, pag. 239<br />

20<br />

PLINIO, op. cit., XXII, 53<br />

21<br />

1 cogno=3.5 l (circa); il cogno era circa 1/8 dell’anfora; 1 ciato= 48 gr (circa); il ciato era un piccolo bicchiere pari<br />

alla dodicesima parte di un sestario (1 sestario= 580 gr)<br />

22 Ivi, XIV, 2<br />

23 Ivi, XXII, 54<br />

4


Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

Evidentemente questa antica usanza, probabilmente desunta dagli etruschi, non si era poi<br />

consolidata nelle consuetudini romane più propense ad usare il miele come “antagonista” di gusti<br />

ben più marcati. Non a caso l’aqua mulsa, si direbbe la semplice acqua mielata, era indicata per i<br />

malati che si tengono a cibi “leggeri” (in cibo aegrotantium levi) come, per esempio, insipide<br />

farinate di farro (... hoc est, alicae elutae...). Ma il suo uso era ritenuto un toccasana per molteplici<br />

usi a cominciare dalla tosse fino ad essere considerata un antidoto contro alcuni avvelenamenti<br />

specialmente se mescolata ad olio o a latte di asina, ma anche efficace contro le otiti o,<br />

somministrata come cataplasma, contro le fistole sui genitali 24 .<br />

Dunque l’alica e l’aqua mulsa erano considerate adatte a chi doveva mangiare “in bianco” né più né<br />

meno del semolino ed il the dei nostri giorni. Usi e costumi che variano nel corso del tempo ed<br />

esempio di come le differenti culture modifichino la propria sensibilità verso i cibi e i loro sapori e<br />

così anche il miele, pur rimanendo centrale nella composizione degli alimenti, ha assunto ruoli via<br />

via diversi 25 .<br />

La mancanza di ricette culinarie originali viene compensata dagli scritti di alcuni autori latini che le<br />

tramandano come tratte dalla tradizione etrusca. La satura era un piatto semplice, composto da orzo<br />

bollito, uva passa, pinoli e semi di melograno condito con vino e miele. Nel De Re Coquinaria,<br />

attribuito ad APICIO, le ricette che troviamo sono innumerevoli, ma non è possibile datarle<br />

correttamente in quanto il testo che ci è giunto è stato sicuramente ampliato nel IV sec d.c. e dello<br />

stesso APICIO sappiamo solo che può essere vissuto fra il I sec. a.c ed il IV d.c. ovvero più<br />

personaggi riconducibili a lui si sono succeduti nel tempo 26 .<br />

Il De Re Coquinaria è quindi un possibile esempio di alta cucina romana, presumibilmente di<br />

periodo imperiale, con manipolazioni dei cibi sicuramente molto più raffinate di quelle in uso in<br />

epoca repubblicana, ma certamente ancora di derivazione etrusca. Fra i suggerimenti per rendere<br />

più saporito il pollo lesso, si ricorda una salsa a base di spezie triturate (semi di finocchio, menta<br />

essiccata, radice di silpium) irrorata di aceto, qualche goccia di garum, senape ed infine olio, vino<br />

cotto e miele cosiddetto di dattero (cosiddetto perché la Phoenix dactylifera è un’anemofila che dà<br />

molto polline).<br />

Questa notazione, al di là delle perplessità espresse sul “miele di dattero”, è importante in quanto ci<br />

permette di evidenziare da un lato la capacità dei nostri antenati, e quindi anche degli etruschi, di<br />

differenziare i vari tipi di miele in funzione del loro uso, dall’altro la consuetudine a farne oggetto<br />

di usuali commerci, importandoli anche da paesi lontani.<br />

Si può ragionevolmente supporre che una tale sensibilità organolettica sia la conseguenza di<br />

un’educazione al gusto sviluppata grazie alle numerose varietà dei miele fin da allora<br />

“naturalmente” disponibili in Toscana, regione che non a caso è ancora oggi quella in grado di<br />

produrre forse il più ampio panorama di mieli uniflorali italiani.<br />

Per quanto POSIDONIO si meravigli che gli Etruschi si mettessero a tavola due volte al giorno,<br />

tuttavia essi avevano un'alimentazione relativamente semplice a base di cereali, lenticchie, ceci e<br />

fave, carne di maiale e pecora, pesce salato, olive e fichi secchi. Ovviamente solo chi se lo poteva<br />

permettere trasformava questi alimenti base da semplici pappe e farinate di farro in zuppe più o<br />

meno elaborate, ed integrava con salse al miele, latticini cagliati, dolci con mandorle e frutta secca.<br />

Insomma, la qualità dell’alimentazione era sicuramente definita dal censo, ma una sufficiente<br />

24 Ivi, XXII, 51<br />

25 È opportuno qui accennare che non tutti gli autori sono concordi nell’usare la stessa nomenclatura per le bevande o<br />

per i cibi a base di miele. Del resto una panoramica che copre decine di secoli deve tener conto delle modificazioni<br />

progressive che subisce la manipolazione degli alimenti, delle contaminazioni culturali che si susseguono e modificano<br />

la composizione dei cibi, della stessa vitalità della lingua che tende ad utilizzare termini diversi per indicare prodotti<br />

analoghi o, all’opposto, termini analoghi per prodotti diversi. Non ultimo, almeno per quanto riguarda il miele ed i suoi<br />

derivati, vale ricordare che i testi classici sono stati tradotti da cultori della lingua poco esperti riguardo al miele, così<br />

come spesso capita di trovare interpretazioni fornite da cultori del miele ma privi della necessaria familiarità per le<br />

lingue classiche.<br />

26 Clotilde VESCO, 1990 – Apicio, l’arte della cucina. Scipioni, 174 p.; pagg. 5-10<br />

5


Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

quantità, vista la facilità e ricchezza delle produzioni, doveva essere assicurata anche alle classi<br />

sociali più basse dal momento che il “toscano medio” veniva descritto da Catullo con “obesus<br />

Etruscus” e da Virgilio con “pinguis… Tyrrhenus” 27 .<br />

Il medioevo - Un periodo illuminato dalle api<br />

Con la caduta dell’impero romano la storia si fa più ingarbugliata per la grande frammentazione del<br />

territorio ed il susseguirsi di innumerevoli vicende. Delle api si perde quella visione unitaria offerta<br />

fino ad allora dalla cultura romana, ma se ne continuano a trovare tracce sparse in numerosi<br />

documenti.<br />

Nella prassi quotidiana si può ragionevolmente supporre, visto il degrado che le campagne<br />

conobbero, che oltre al mantenimento di bugni rustici di varia natura, la forma di apicoltura più<br />

comunemente praticata fosse quella più antica ovvero la cosiddetta apicoltura di foresta in cui la<br />

semplice raccolta dei prodotti degli sciami naturali si integrava con la “mappatura” e la “segnatura”<br />

della loro posizione in modo da permettere di rivendicare una qualche forma di priorità.<br />

La legislazione e i documenti<br />

Lex Romana Visigothorum<br />

Se dunque si continuava con ritmi ormai consolidati a coltivare le api, un freno a questa attività<br />

venne dal progressivo inurbamento delle popolazioni. Infatti, con l’espandersi delle strutture urbane<br />

nasce la necessità di impedire che entro le mura si perpetuino abitudini non più compatibili con la<br />

densità abitativa. Quindi anche le api sono coinvolte in questa rivoluzione e si registrano i primi<br />

contrasti fra campagna e città.<br />

Non è un caso che la Lex Romana Visigothorum 28 , promulgata da RECESVINDO attorno al 654,<br />

preveda sanzioni per i danni provocati da appiaria, alveari, a uomini o animali.<br />

Lex Salica<br />

Con i Franchi le api tornano ad essere considerate una ricchezza degna di essere protetta. Infatti,<br />

nella sua ultima redazione all'epoca di CARLO MAGNO, la Lex Salica 29 prevedeva una penale di 45<br />

soldi per chi compiva il furto di un'ape in un alveare chiuso con chiave o posto sub tecto.<br />

Analogamente si ritrovano vincoli per il commercio e la distruzione di bugni o alveari (bulium sive<br />

alveum apium) 30 .<br />

Contratti medievali<br />

Sulle contrattazioni agrarie del Medio Evo si annoverano numerosi documenti, atti notarili, rogiti,<br />

testamenti, atti catastali ed in particolare inventari di conventi, dove si trovano notazioni riguardo al<br />

miele ed in particolare alla cera.<br />

Fra i documenti se ne ricordano alcuni lucchesi 31 del 748 secondo cui<br />

Auriberto de Munatiana fu livellario del Vescovado di Lucca per uno staio annuo di miele. I<br />

Massari di Germiniana lo furono per il Diacono Gallo per uno staio di miele ed una libbra di<br />

cera.<br />

27<br />

Giovannangelo CAMPOREALE, op. cit, pag. 176<br />

28<br />

Paola GALETTI, Le strutture insediative nelle legislazioni "barbariche", nota 9<br />

http://192.167.112.135/NewPages/EDITORIA/SAP/04/04-01.pdf.<br />

29<br />

Ivi, nota 26<br />

30<br />

Laura BERTONCINI, 1996 - Il mondo rurale pontremolese nel XV secolo. Università di Firenze. Tesi di Laurea in<br />

Storia Medievale, Anno accademico 1995/96<br />

31<br />

Mario TOTERO, Amedeo VENTURELLI, Antonio ZAPPI RECORDATI, 1937 - Legislazione apistica, In: Prima Inchiesta<br />

apistica nazionale, cap. XIV, pag. 287-361<br />

6


Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

Un contratto del basso medioevo nel Pontremolese 32 testimonia di un accordo fra “Antonio del fu<br />

Ferrari di Casucho, villa di Bratto e Giovanni del fu Maraffi olim Sagramoro” per comprare dei<br />

bugios. Antonio, per divenire socio di 4 bugni, pagò a Giovanni 8 lire. Il contratto prevedeva che in<br />

caso di perdita dei bugni Antonio avrebbe dovuto rimborsare Giovanni con 20 soldi per ognuno e<br />

altrettanto per ogni alveare morto. Inoltre, se avessero rispettato i patti, dopo 5 anni si sarebbero<br />

divisi il prodotto ricavato.<br />

La cera illumina il miele<br />

Per condensare in un solo flash una conoscenza che da ARISTOTELE arriverà praticamente inalterata<br />

fino al ‘600 basta citare ciò che BRUNETTO LATINI, fiorentino, scrive nella sua enciclopedia, uno dei<br />

primi esempi di documentazione scientifica volgarizzata 33 :<br />

Api son quelle, che fanno il mele, e la cera, e nascono senza piedi, e sanza ale, e poi le mettono,<br />

quando son grandi.<br />

Da questa ingenua descrizione, basata su un’approssimativa quanto essenziale cognizione delle api,<br />

emerge come a miele e cera fosse attribuita analoga rilevanza: due prodotti ugualmente importanti<br />

per l’epoca. Anzi, il medioevo è il momento di massimo splendore della cera e con l’espansione del<br />

potere ecclesiale l’apicoltura entra fra le attività monastiche. Accade così che ogni convento<br />

possiede normalmente degli alveari da cui trae sì il miele per il consumo interno, ma mai<br />

abbastanza cera per gli usi cerimoniali. In particolare diventa sempre maggiore la richiesta di cera<br />

per la produzione di candele, la cui fattura deve garantire precisi requisiti, fra i quali la “verginità”<br />

della cera stessa.<br />

Le api degli Exultet<br />

La prova più decisiva riguardo all’importanza che assume la cera si individua negli Exultet, rotoli<br />

liturgici mirabilmente miniati a contenuto devozionale, databili fra il X ed il XIV secolo.<br />

Una particolarità da segnalare riguarda il fatto che fra i 32 Exultet conosciuti, dei tre conservati a<br />

Pisa due siano stati prodotti in Toscana fra il XII ed il XIII secolo, mentre il terzo, come tutti gli<br />

altri noti, proviene dall’Italia del sud ed essendo antecedente ai due, è sicuramente servito da<br />

modello 34 .<br />

A li di là della differente fattura, merita ricordare come negli Exultet abbiano un ruolo centrale le<br />

api quali produttrici di cera, materia prima per la fattura del cero pasquale, durante la cui offerta<br />

venivano appunto intonati gli Exultet nei quali il Laus Apium occupa una parte molto importante:<br />

Apis ceteris, quae subiecta sunt homini animantibus antecellit.<br />

Questa centralità delle api, oltre che nel testo, la si ritrova anche nelle miniature di scene apistiche<br />

che riguardano le api e l’apicoltura con immagini di sciami e di smielatura, ma il tutto in funzione<br />

della produzione di cera. Infatti il cero è “ frutto dell’operosità delle api (cerei […] de operibus<br />

apum)” e la fiamma “si alimenta dalle molli cere che madre ape ha prodotto per formare la materia<br />

di questa preziosa lampada”<br />

alitur liquantibus ceris quas in substantiam pretiosae huius lampadis apis mater eduxit<br />

Ecco dunque che la cera, già fondamentale per le culture precedenti, raggiunge vette d’importanza<br />

ancora maggiori e sempre più sono i dispositivi legislativi che ne regolamentano la lavorazione, la<br />

vendita nonché l’uso.<br />

Le candele e la cera<br />

Le tipologie di candele erano merceologicamente ben definite ed il loro prezzo era “calmierato” per<br />

cui ogni libbra “candellarum, seu candellotorum, seu torcinorum” non doveva costare più di tre<br />

soldi e due denari imperiali.<br />

32 Laura BERTONCINI, 1996, op. cit.<br />

33 BRUNETTO LATINI, Volgarizzamento del Tesoro di Ser Brunetto Latini fatto da Bono Giamboni. in 8°, lib. 5, cap. 17.<br />

34 Medieval Art in Pisa, www2.alfea.it/indice_opere_miniatura.html<br />

7


Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

Per garantire il corretto consumo del lucignolo questo doveva essere di pura bambagia, per cui era<br />

vietato vendere “candellas sive candellotos de cera, nisi cum stopolo de bambasio” sotto pena di<br />

dieci soldi imperiali, escluse le candele lunghe “quae tenetur a Speciariis ad aspam” che, per la<br />

loro dimensione, necessitavano di stoppini intrecciati di fattura differente.<br />

Inoltre doveva essere garantita la purezza delle candele per cui alla cera, “vel candellotis, vel cereis,<br />

sive torcitiis”, non era consentito che si mescolasse altra sostanza (seppum vel fabbas) 35 .<br />

Normative severe riguardo alla produzione di candele seguirono anche in periodo granducale e<br />

furono emanati numerosi bandi per tutelare dalle frodi e per vincolare gli speziali a precise norme 36 .<br />

La cera era considerata un bene così importante che a Pisa, nel Camposanto medievale, per secoli<br />

continuerà l’usanza di raccoglierla per realizzare candele votive 37 . Il fatto stesso che il loro uso<br />

venisse regolato da veri e propri rituali codificati a seconda delle occasioni, spiega come le candele,<br />

e quindi la cera, possano essere state alla base di un’economia di così grande rilevanza da risultare il<br />

motore trainante dell’apicoltura in tutto il medioevo. Ne è un esempio il fatto che le innumerevoli<br />

compagnie e confraternite religiose basarono proprio sulla cera la loro principale fonte di entrate.<br />

Il medioevo è il momento in cui si ha la massima dimensione spettacolare della liturgia con lo<br />

sviluppo della teatralità drammatica, della musicalità e del relativo impianto scenico in cui la luce<br />

delle candele assumeva un ruolo preciso. Non a caso lo “splendore” del rito, garantito dalla cera<br />

vergine, era ritenuto un viatico per le intercessioni richieste a favore dei defunti, per ringraziamento<br />

dei favori concessi o per richiesta di protezione nei casi di qualche gravità.<br />

È ben documentato 38 come a Firenze queste compagnie fondassero il loro ruolo sul fatto di essere<br />

esentate dal rispetto delle leggi suntuarie miranti a limitare il lusso durante le varie manifestazioni<br />

religiose, non ultimi i funerali per i quali le famiglie non potevano ricorrere a più di due candele da<br />

20 libbre ciascuna.<br />

Poiché la quantità della luce denotava lo status del defunto e della sua famiglia, le compagnie<br />

allestivano scenografie funebri con figuranti (penitenti, flagellanti, ecc..) e addobbi luminosi di<br />

grande efficacia (“cera infinita in su l’arca della chiesa”), garantendo analogo trattamento anche<br />

per i meno abbienti.<br />

Questa opera di intercessione per le anime dei defunti e l’acquisto di indulgenze rappresentarono<br />

per l’intero medioevo una delle più importanti operazioni politico-economiche, utile sì a creare<br />

legami di solidarietà fra gli aderenti alle varie comunità, ma anche oggetto di illeciti visto che viene<br />

anche ricordato come “il fuoco del purgatorio fa bollire la pentola dei monaci”, intendendo come il<br />

mercato delle indulgenze si sviluppasse in larga parte attraverso il commercio delle candele e delle<br />

immagini votive.<br />

Dai libri contabili della maggior parte delle compagnie fiorentine si ricava che se l’acquisto di cera<br />

riguardava mediamente un terzo delle uscite, questa voce contribuiva ad oltre il 90% delle entrate<br />

grazie ad un ricarico fra acquisto e vendita ai postulanti oscillante fra il 300 ed il 400 %.<br />

35<br />

Laura BERTONCINI, 1996, op. cit.<br />

36<br />

FIRENZE, 20 Agosto 1552 – Legge sopra gli Speziali. Cantini, vol. 2 (1547-1555), p: 292<br />

FIRENZE, 24 Luglio 1556 – Ordini – Previsioni, Capitoli, Statuti & Additioni attenenti alli Medici, & Speziali.<br />

Cantini, vol. 3 (1556-1559), pp: 95-102 [candele: 97-101]<br />

FIRENZE, 15 Novembre 1574 – Bando De’ Consoli dell’Arte, & Università de’ Medici, & Speziali della Città di<br />

Fiorenza sopra li Merciai, & altri esercitanti… Cantini, vol. 8 (1572-1577)<br />

FIRENZE, 18 Maggio 1583 - Sopra le Cere bianche del dì 18 Maggio 1583. Cantini, vol. 10 (1580-1584), pp: 263-<br />

264<br />

FIRENZE, anno 1644 - Riforma Di alcuni Negozi attenti all’arte dei medici, e speziali e altri sottoposti all’arte del<br />

dì 30 Settembre 1644. Cantini, vol. 17 (1644-1651), p: 200<br />

37<br />

Laura BERTOLACCINI, 2000 - Diritto d’asilo e sepolture nelle città medievali, in: «I servizi funerari», n. 4, Rimini,<br />

ottobre-dicembre 2000, pagg. 59-63<br />

38<br />

John HENDERSON, 1998 - Pietà e carità nella Firenze del Basso Medioevo. Firenze, Le Lettere, 545 p. [se altrimenti<br />

non segnalato, tutte le notizie relative all’uso della cera da parte delle compagnie sono tratta da questa opera]<br />

8


Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

È interessante notare come l’Oratorio di Orsanmichele consistesse in un semplice drappo appeso<br />

alla loggia del grano ed immediatamente sotto sedesse un incaricato della compagnia con il compito<br />

di vendere candele e di raccogliere elemosine 39 .<br />

Per dare un’idea dell’ingente quantità di cera richiesta in questo periodo, basta ricordare come la<br />

sola compagnia di Orsanmichele, che aveva codificato “Come si debbia fare luminaria della<br />

laude”, celebrasse 35 delle principali festività religiose con riti che prevedevano un folto concorso<br />

di partecipanti tutti muniti di candele per una prolungata ostensione di fronte alle immagini sacre.<br />

La compagnia di S. Gilio, oltre alle consuete celebrazioni, ne prevedeva una in cui era previsto un<br />

tale quantitativo di cera da fornire un unico cero in grado di bruciare per otto mesi:<br />

Et questi capitani debbiano procurare sì che si faccia uno ciero buono e orrevole, lo quale<br />

debbia offerere per Sancta Maria di febraio, nostra festa principale, e basti questo cero di ffino<br />

al’ottava di Sancta Maria di septembre.<br />

Altre compagnie organizzavano reiterate veglie notturne, feste e celebrazioni con processioni o altre<br />

pratiche paraliturgiche, ma sempre con la luce delle candele quale elemento tanto più distintivo<br />

quanto più diffuso e intenso.<br />

La ceroplastica<br />

Come già anticipato la cera non fu oggetto di importanza esclusivamente per la produzione di<br />

candele, ma anche per la manifattura di immagini votive, altra occasione di lucroso commercio.<br />

L’arte della ceroplastica, esercitata già dagli etruschi e comune nel periodo romano, decadde per<br />

tornare poi in auge nel Medioevo quando fin dal XIII secolo vennero prodotte opere notevoli di<br />

carattere votivo. In particolare a Firenze il primo importante tabernacolo per gli ex voto in cera fu<br />

Orsanmichele e, nonostante l’incendio che nel 1304 fuse tutta la cera, si ha ancora notizia di questa<br />

usanza fino al 1408 40<br />

In seguito all’incendio del 1304 la chiesa della SS. Annunziata cominciò a raccogliere nuovi ex<br />

voto, fino a diventare il luogo dedicato per eccellenza tanto che fu necessario costruire una<br />

Cappella dei Voti (“boti” in volgare) per contenere gli innumerevoli modelli in cera fra cui<br />

immagini a grandezza naturale, finché nuovi incendi, nel ‘600 e nel ‘700, portarono alla completa<br />

distruzione di tutto il patrimonio votivo.<br />

L’importanza di questa consuetudine è confermata dal fatto che i principali ceraiuoli (o<br />

«fallimagini») avevano bottega in via dei Servi, nelle immediate vicinanze della chiesa della SS.<br />

Annunziata, e la loro attività era normata da uno specifico bando 41 :<br />

Ceraiuoli della via de’ Servi possono tenere le loro botteghe mezze aperte, & vendere tutto dì<br />

imagini, & candele di cera, & non altre mercantie<br />

Fra i più noti ceraioli si ricordano ORSINO dei BENINTENDI, allievo del VERROCCHIO, autore delle<br />

immagini che LORENZO DEI MEDICI volle in seguito alla scampata congiura dei Pazzi, ma<br />

lentamente quest’arte assunse un carattere sempre più laico, molti artisti si dedicarono alla<br />

ritrattistica con medaglioni e lo stesso CELLINI realizzò un’effige di ALESSANDRO DEI MEDICI.<br />

Nel ‘600 e nel ‘700 la ceroplastica assunse un ruolo descrittivo ed ebbe la sua massima espressione<br />

nelle “cere anatomiche” per merito di Gaetano Giulio ZUMBO che nell’ambiente scientifico<br />

fiorentino la trasformò in un’arte «scientifica».<br />

Inizialmente lo ZUMBO si rese famoso per i “teatrini” ovvero rappresentazioni realistiche, come<br />

“La Peste”, “La corruzione dei corpi” “La Sifilide”, attualmente al Museo della Specola di Firenze<br />

dove si trova anche la raccolta di cere anatomiche di Clemente SUSINI, allievo di Felice FONTANA<br />

altro grande ceroplasta, con la stupefacente “Donna scomponibile”.<br />

39<br />

Il mercato in Piazza Orsanmichele durante la carestia del 1329, dal Libro del Biadaiolo di Domenico Lenzi,<br />

Biblioteca Mediceo Laurenziana, Firenze, Tempi 3, c. 79 r<br />

40<br />

John HENDERSON, op. cit., nota 90, pag. 103<br />

41<br />

Firenze, 15 Ottobre 1547 – Bando delle Feste da Riguardarsi. Nota di quegli a chi si permette per giustificate cause<br />

vendere il dì delle Feste Comandate, & in che modo, & quando.. Cantini, vol. 2 (1547-1555), p: 292<br />

9


Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

Testimoninaza di questa produzione artistica nonché scientifica la ritroviamo nelle parole del<br />

REPETTI 42 .<br />

Cera: LII<br />

Intorno alla cera s’è già dato un cenno superiormente, tanto come prodotto agrario che<br />

manifatturato. Ma, considerandola ora come materia plastica, dobbiamo aggiungere alcune<br />

poche parole. La ceroplastica è un’arte che fino dal secolo XIV si praticava in Firenze, e serviva<br />

a fare le figure votive che si mettevano nelle chiese formando al naturale e coloriti i ritratti delle<br />

persone. Nel che, a testimonianza del Vasari e del Baldinucci, molti valenti artisti si distinsero<br />

in varj tempi, non escluso Benvenuto Cellini. Ma più tardi vi ebbe anche un maggiore sviluppo<br />

a più utili applicazioni; Come lo attestano le numerose preparazioni anatomiche e le più belle<br />

piante che si ammirano nell’I. e R. Museo di Fisica e Storia Naturale di Firenze. Di consimili<br />

preparati anatomici e fitologici ne sono stati spediti in America, in Inghilterra, in Germania, non<br />

solamente nei tempi passati, ma eziandio recentemente; tanta è la fama che oramai si sono<br />

acquistata.<br />

La fusione a cera persa<br />

Prima ancora di accennare all’uso della cera in metallotecnica vale segnalare che anche il miele,<br />

forse, trovò utilizzo nella creazione dei gioielli. È stato infatti ipotizzato che le microgranulazioni<br />

d’oro che ornano innumerevoli monili etruschi possano essere ottenute proprio con il miele come<br />

legante che veniva «disposto sulla lamina in modo da creare degli elementi figurati o delle<br />

decorazioni geometriche, quindi sulla superficie aurea si sarebbero sparsi i granuli o il pulviscolo<br />

d'oro, che avrebbero aderito solo nelle zone così trattate e sul resto della lamina si sarebbe potuta<br />

recuperare la granulazione inutilizzata.» 43<br />

Riguardo alla cera è noto che è sempre servita agli scultori per modellare figure od oggetti da<br />

fondere in metallo e per abbozzare opere da sviluppare poi in proporzioni maggiori.<br />

In particolare la metallotecnica etrusca ricorreva già con maestria alla pratica di fusione a cera persa<br />

e nel Rinascimento fu usata largamente anche da scultori come LUCA della ROBBIA e GHIBERTI.<br />

Numerosi sono i bozzetti in cera arrivati a noi come il “David” di MICHELANGELO ed il “Perseo” di<br />

CELLINI. Sempre in Toscana, a Doccia (Sesto Fiorentino), è ancora presente presso il Museo<br />

Richard Ginori, una rara collezione di cere preparatorie per sculture in gran parte di G.B. FOGGINI.<br />

Da quanto fin qui accennato ad alcuni dei molteplici usi della cera deriva un’importanza<br />

merceologica che ne fa un prodotto molto richiesto, tanto che nel 1647 la gabella che gravava sulla<br />

cera gialla era più del doppio rispetto al quelle sul miele già di per sé esosa ed analoga a quanto era<br />

richiesto per il riso, il sapone da panno, la trementina, lo zolfo e molti minerali, ovvero sostanze di<br />

un certo pregio 44 .<br />

Ovviamente la continua richiesta di cera andò a scapito dell’incremento della produzione di miele e<br />

dello sviluppo di tecniche apistiche più “razionali”, in quanto veniva favorito l’apicidio come<br />

mezzo per impadronirsi sia del miele immagazzinato sia di tutti i favi del nido in modo da<br />

raccogliere quanta più cera possibile.<br />

Tuttavia ciò non sembra abbia minimamente comportato una rarefazione delle colonie che, in<br />

condizioni di naturalità, sciamavano copiosamente e permettevano agli apicoltori di ricostituire ogni<br />

anno i propri apiari o, quanto meno, di ritrovare rinnovate naturalmente le fonti selvatiche di<br />

approvvigionamento.<br />

42<br />

Emanuele REPETTI, 1855 - Dizionario Corografico-Universale dell’Italia. Volume terzo, parte seconda, Granducato<br />

di Toscana. Milano, Civelli, 1878 pp.<br />

43<br />

Giandomenico SPINOLA, Saggi Critici - L'arte orafa nel mondo classico. [www.akelo.it/ita/centro7a.htm]<br />

44<br />

Firenze, anno 1647 - Tariffa di quello che si deve pagare alle Porte e per le Mercanzie che entrano e escono dalla<br />

città di Arezzo, riformata l’anno 1647. Cantini, vol. 23 (1723-1736 con integrazioni 1542-1734), p: 321-343<br />

10


Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

Anche il Rinascimento del miele parte dalla Toscana<br />

Un altro aspetto da evidenziare per rivendicare alla Toscana un’antica tradizione apistica deriva<br />

dalle testimonianze letterario-editoriali, molto utili, assieme ai dispositivi legislativi, per ricostruire<br />

il percorso dell’apicoltura toscana.<br />

Il primo indizio letterario circa la stretta relazione fra etruschi ed api, lo si può desumere dal fatto<br />

che VIRGILIO si rivolge nel IV libro delle Georgiche, quello dedicato alle api, all’etrusco<br />

MECENATE.<br />

Ma per venire a documenti più recenti, in Toscana è stato scritto il primo manoscritto conosciuto<br />

sull’allevamento delle api, toscana è la prima monografia a stampa, forse è toscano il primo bando<br />

contro l’apicidio così come in Toscana prende avvio l’ingente produzione manualistica prodotta su<br />

sollecitazione dall’Accademia dei GEORGOFILI di Firenze, fino a giungere al periodo<br />

postrisorgimentale che vedrà sempre apicoltori e scienziati toscani particolarmente attivi nel<br />

contribuire allo sviluppo di un’apicoltura moderna, quale sintesi del nuovo che avanza, con<br />

l’introduzione di tecniche “razionali” e loro diffusione in uno spirito di ricerca di unità nazionale.<br />

Dal ‘400 in poi<br />

Il primo manoscritto apistico<br />

Il più antico testo di apicoltura in volgare finora conosciuto è il manoscritto “Trattatello di<br />

Apicoltura. Trattato volgare della meravigliosa generazione delle pecchie di ANONIMO”, databile fra<br />

il 1469 ed il 1473. È contenuto in una raccolta senza data intestata a Marco Antonio MARINO nella<br />

sua “Agricoltura e segreti d’Agricoltura e d’incesto e della trasmutazione de’ metalli” 45 e trascritto<br />

a mano dal mugellano Agnolo DELLA CASA fra il 1592 ed il 1618.<br />

Dal contesto si evince chiaramente che l’ANONIMO tratta dell’apicoltura in Toscana, ma la cosa più<br />

interessante deriva dal fatto che tracce della sua primigenia schedatura lo vedono presente nella<br />

Libreria Strozziniana, ovvero era appartenuto, probabilmente fin dai primordi, a quella nobile<br />

famiglia dalla quale discenderà Bernardo STROZZI a cui nel 1745 verrà concesso il titolo di<br />

Appaltatore Generale delle Api in Toscana.<br />

La prima monografia a stampa – Le api del Rucellai<br />

Come il primo trattato manoscritto conosciuto, anche il primo testo a stampa, “Le Api”, riguarda<br />

l’apicoltura toscana. Fu stilato da Giovanni RUCELLAI 46 , umanista e monsignore, forse il più noto<br />

scrittore fiorentino del '500 di cose animali, fra l’altro anche pioniere della microscopia in quanto<br />

per studiare le sue api, le ingrandiva utilizzando sistemi di specchi 47 .<br />

“Le Api” è un poemetto composto dal RUCELLAI nel 1524 nella sua villa di Quaracchi (FI) e fu<br />

pubblicato per la prima volta postumo a Venezia per cura del fratello PALLA nel 1539. In seguito<br />

comparve anche in francese tradotto prima da PINGERON nel 1770 e poi da ORIGNON nel 1786 48 .<br />

Tradizionalmente è edito assieme a “La Coltivazione” di Luigi ALAMANNI 49 , testo di agricoltura in<br />

cui si trovano però solo rari accenni alle api.<br />

Da notare che per quanto di impronta essenzialmente letteraria, essendo una trasposizione del IV<br />

libro delle Georgiche, e quindi fin troppo“lirico”:<br />

45<br />

Baccio BACCETTI., 1965 - Trattatello di Apicoltura del porre i mori e del porre i bigatti. «Atti Acc. Naz. it. Entom.»,<br />

Memorie, s. I, n. 1, pagg. 5-34<br />

46<br />

Giovanni RUCELLAI, 1539 - Le Api di m. Giouanni Rucellai gentil’huomo fiorentino, le quali compose in Roma,<br />

del’anno 1524 essendo quivi castellano di Castel Sant’Angelo. Firenze, Giunti, 80 p.<br />

47<br />

Baccio BACCETTI.,1989 - La zoologia fiorentina e la nascita dell’entomologia. «Atti Acc. Naz. Ent., Rend.», pagg. 1-<br />

49<br />

48<br />

Luigi PASSERINI, 1861 - Genealogia e Storia della Famiglia Rucellai. Tip. Celllini e C., Firenze, pag. 139-142.<br />

49<br />

Luigi ALAMANNI, 1546 - La Coltivazione al Christianissimo Re Francesco Primo. Parigi, Ruberto Stephano Regio<br />

Stampatore, I ed., in 8°, 154 carte<br />

11


Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

… verginette caste, vaghe angelette de le erbose rive…<br />

tuttavia denota anche un’attenta osservazione del comportamento delle api, tanto da notare che in<br />

caso di tempo incerto si allontanavano poco dal nido:<br />

… caute se ne vanno intorno casa a pigliar l’acqua a i più propinqui fonti…<br />

Per lungo tempo è stata considerata la prima monografia italiana sulle api così che a tutt’oggi risulta<br />

il testo più ristampato di tutta la letteratura apistica ed il più diffuso in tutte le nostre biblioteche.<br />

I MEDICI e le api<br />

Queste produzioni tecnico-letterarie non nascono a caso in Toscana dato che in questo periodo si<br />

assiste ad un lungo periodo di rivalutazione di ogni attività umana e i MEDICI contribuiranno alla<br />

rinascita dell’apicoltura.<br />

LORENZO IL MAGNIFICO<br />

LORENZO (1449-1492) dedica alle api un particolare interesse dimostrando di conoscere a fondo la<br />

loro vita, i loro costumi nonché le loro esigenze 50 :<br />

Quando raggio di sole,<br />

per picciola fessura<br />

dell’ape entrando nella casa oscura,<br />

al dolce tempo le riscalda e desta,<br />

escono accese di novella cura<br />

per la vaga foresta,<br />

predando disiose or quella or questa<br />

spezie di fior’, di che la terra è adorna.<br />

Qual esce fuor, qual torna<br />

carca di bella ed odorata preda;<br />

qual sollecita e strigne,<br />

se avvien che alcuna oziosa all’opra veda;<br />

altra il vil fuco spigne,<br />

che ‘nvan l’altrui fatica goder vuole.<br />

Così, di varii fior’, di fronde e d’erba<br />

saggia e parca fa il mèl, qual dipoi serba,<br />

quando il mondo non ha rose o viole.<br />

Non è un caso infatti che nella villa di Poggio a Caiano gli alveari ebbero un luogo di elezione e<br />

divennero anche un tema presente nelle composizioni poetiche di Agnolo POLIZIANO 51 a elogio di<br />

LORENZO per quello che aveva saputo creare nei poderi annessi: gli allevamenti, i vivai, gli orti e gli<br />

alveari 52 , questi ultimi tanto considerati che al centro del gran fregio del frontone della villa 53<br />

“occhieggiano le sei bianche arnie, attorniate da gialle api ronzanti”<br />

Al di là dei significati simbolici attribuibili alla rappresentazione, è evidente il riferimento ad una<br />

attività agricola ben nota e tenuta in gran considerazione dallo stesso LORENZO. Inoltre, dalla foggia<br />

delle arnie, cassette regolari e non bugni, si può intuire anche quanto fosse ben gestita.<br />

50 LORENZO IL MAGNIFICO, Canzoniere, canzone 165, versi 1-17<br />

51 Agnolo POLIZIANO, Sylva cui titulus Ambra, risalente agli anni 1485-86<br />

52 Maria MEDRI LITTA, 1992 - Il mito di Lorenzo il Magnifico nelle decorazioni della villa di Poggio a Caiano. Edizioni<br />

Medicea, Firenze, 100 pp.; pag. 38<br />

53 Ivi, pag. 52<br />

12


BANDI granducali<br />

Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

Da un’indagine sui 32 libri della “Legislazione toscana” del CANTINI 54 sono stati estratti 14<br />

dispositivi legislativi relativi alle api e ai loro prodotti inerenti il periodo 1532-1775, da COSIMO I a<br />

PIETRO LEOPOLDO di LORENA.<br />

Da notare che innumerevoli sono i bandi, qui non riportati, relativi alle “grasce”, ovvero quanto<br />

attiene ai prodotti che riguardano l’alimentazione, e in questo termine generico il miele rientra a<br />

pieno titolo.<br />

MEDICI<br />

Cosimo I (1537-1574)<br />

• 15 Ottobre 1547 – Bando delle Feste da Riguardarsi. Cantini, vol. 2 (1547-1555), p: 292<br />

• 20 Agosto 1552 – Legge sopra gli Speziali. Cantini, vol. 2 (1547-1555), p: 292<br />

• 24 Luglio 1556 – Ordini – Previsioni, Capitoli, Statuti & Additioni attenenti alli Medici, & Speziali.<br />

Cantini, vol. 3 (1556-1559), pp: 95-102 [candele: 97-101]<br />

• 31 Gennaio 1561 – Deliberazione De’ Medici, & Speziali sopra gli Sciroppi, e Robbi. Cantini, vol. 4<br />

(1560-1562), p: 380<br />

Francesco (1574-1587)<br />

• 15 Novembre 1574 – Bando De’ Consoli dell’Arte, & Università de’ Medici, & Speziali della Città<br />

di Fiorenza sopra li Merciai, & altri esercitanti…Cantini, vol. 8 (1572-1577),<br />

• 4 Marzo 1579 – Delle dogane di Firenze, Che forma la Seconda Parte di quello del 1577,<br />

pubblicato il dì 4 Marzo 1579. Cantini, vol. 9 (1578-1579), pp: 265<br />

• 18 Maggio 1583 – Sopra le Cere bianche del dì 18 Maggio 1583. Cantini, vol. 10 (1580-1584), pp:<br />

263-264 (Illustrazione)<br />

Ferdinando II (1620-1670)<br />

• 30 Settembre 1644 – Riforma Di alcuni Negozi attenti all’arte dei medici, e speziali e altri sottoposti<br />

all’arte. Cantini, vol. 17 (1644-1651), p: 200<br />

• 1647 – Tariffa di quello che si deve pagare alle Porte e per le Mercanzie che entrano e escono dalla<br />

città di Arezzo, riformata l’anno 1647. Cantini, vol. 23 (1723-1736 con integrazioni 1542-1734), p:<br />

321-343<br />

LORENA<br />

Francesco Stefano e la “Reggenza” (1737-1765)<br />

• 1739 – Editto per concessione d’appalto dell’api. Cantini, vol. 24 (1737-1741), pp: 189-190<br />

(Illustrazione)<br />

• 10 aprile 1745 – Bando sopra la concessione dell’apiario dell’Api. Cantini, vol. 25 (1742-1747), pp:<br />

172-174<br />

• 18 Agosto 1747 – Dichiarazione del Bando del 10 Aprile 1745 concernente la privativa concesa<br />

alla Compagnia degl’Appaltatori dell’Api. Cantini, vol. 26 (1747-1752), pp: 28 (Illustrazione)<br />

• 2 Agosto 1748 – Per la gabella degli zuccheri raffinati. Cantini, vol. 26 (1747-1752), pp: 77-78<br />

(Illustrazione)<br />

Pietro Leopoldo (1765-1790)<br />

• 21 gennaio 1772 – Di un Rescitto relativo alla libertà che si accorda a tutti di lavorare e<br />

imbianchire la cera Cantini, vol. 30: 1770-1772, pp: 223. (llustrazione)<br />

54 Lorenzo CANTINI, 1800-1808 - Legislazione toscana raccolta e illustrata da Lorenzo Cantini. Firenze ; nella Stamp.<br />

Albizziniana da S. Maria in Campo : per Pietro Fantosini e figlio, 32 v. ; fol. Dal v. 15: Per Giuseppe Fantosini.<br />

13


COSIMO I, FRANCESCO e FERDINANDO II<br />

Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

Nei loro bandi si trovano cenni essenzialmente sulla cera, la sua produzione e vendita. Il miele,<br />

assieme alla cera è invece menzionato solo in relazione ai preparati degli speziali.<br />

Ferdinando I<br />

Di FERDINANDO I (1549-1609) non si sono trovati bandi di interesse apistico, ma egli mostrò una<br />

chiara predilezione per le api prendendole a simbolo della sua operosità sintetizzata in un motto,<br />

Maiestate tantum, impresso in un bronzo presente sul suo monumento equestre eretto a Firenze - in<br />

piazza SS. Annunziata - su cui è riprodotta un’ape regina attorniata da 90 operaie.<br />

Api come simbolo di nobiltà<br />

Ma non fu solo casa MEDICI a privilegiare le api, queste infatti campeggiano nello stemma dei<br />

BARBERINI che a loro sono simbolicamente legati.<br />

La famiglia, originaria di Barberino in Val d’Elsa (FI), inizialmente si connotava col cognome<br />

TAFANI che cambiò agli inizi del ‘400 mantenendo però nell’antico stemma i tafani che si portò a<br />

Roma alla fine del ‘500. Bisogna aspettare il ‘600 allorché MAFFEO, papa nel 1623 col nome di<br />

URBANO VIII, ormai poco soddisfatto di essere rappresentato da un simbolo così “fastidioso”,<br />

modificò la raffigurazione araldica sostituendo i tafani con le api.<br />

Fu così che le api di Toscana, chiamate a nobilitare MAFFEO e la sua casata, regnarono su Roma<br />

diventando però “le api dei Barberini”. Infatti il comportamento del papa compromise la loro<br />

“immagine” dal momento che dopo la loro “sciamatura” a Roma i cittadini, riferendosi all’esosità<br />

delle tasse papali, constatarono che<br />

le api dei Barberini invece di produrre il miele se lo succhiano.<br />

Il ‘700 e il miele dei LORENA<br />

I LORENA e la Reggenza<br />

È interessante notare come nel primo periodo della presenza dei LORENA, il periodo della<br />

“Reggenza” (1737-1765), quando la “cosa pubblica” fu in gran parte orientata secondo gli<br />

intendimenti dall’intelligenza fiorentina, si hanno i maggiori contributi per l’apicoltura che viene<br />

sempre più vista come un’opportunità produttiva e retributiva. Non a caso fu istituito un Appalto<br />

Generale delle Api, posto presso le Logge del Mercato Nuovo di Firenze, e fu riconfermata la<br />

legislazione esistente a tutela delle api 55 :<br />

Ricordando finalmente a chiunque terrà le Api di averne diligente cura, sì per benefizio proprio,<br />

sì pure del Pubblico; astenendosi sopra tutto dal disperderle, o ammazzarle, per non incorrere<br />

nelle pene, che contro chiunque attentasse, sono prescritte dalla Legge.<br />

Merita attenzione l’editto promulgato su consiglio delle Finanze 56 che concedeva<br />

con diversi patti a favore d’Angelo Di Simone Cantarini e Compagni la facoltà di introdurre e<br />

rispettivamente mantenere a loro conto tutta quella quantità di api in bugni, cassette o sciami<br />

che gli piacerà in qualunque possessione, tenuta o luogo del Gran Ducato<br />

Lo scopo era di integrare le produzioni dello Stato, visto che la cera era disponibile in quantità<br />

insufficiente e un’eventuale superproduzione di miele avrebbe potuto essere oggetto di<br />

esportazione. Ma non meno importante è l’Illustrazione del bando, ad opera di Camillo SPRETTI,<br />

che contiene un sintetico vademecum apistico.<br />

55 Giuseppe FALCHINI, 1747 - Nuova e vaga istruzione per lo governo, ed accrescimento delle api da mele e da cera<br />

descritta da Giuseppe Falchini fiorentino; opera compilata, e divisa dal detto Autore in diversi capitoli, ed assai<br />

utile, e necessaria per chi vuole applicare a tenere, conservare ed accrescere tal genere di utilissimi animali …,<br />

Firenze, Paperini Bernardo, in 8°, XLVI+48 p., 1 tav.; pag. 48<br />

56 1739, Editto per la concessione d’appalto dell’api<br />

14


Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

Il Bando sopra la concessione dell’apiario dell’Api 57 segue la concessione del precedente contratto<br />

sottoscritto dal CANTARINI a favore di Bernardo STROZZI. Da notare che, al fine di prevenire<br />

controversie, nella descrizione dell’appalto e delle tutele del caso si invitano tutti i<br />

“Padroni, Fittuari, Lavoratori o Detentori di tutti i luoghi del Gran Ducato, che vorranno tener in<br />

proprio l’Api...”<br />

a denunciarne la presenza e la consistenza e le autorità competenti a darne gratuitamente riscontro<br />

scritto. In pratica siamo alla denuncia annuale degli alveari.<br />

E’ da rimarcare che a Bernardo STROZZI, quale Appaltatore Generale delle Api in Toscana, viene<br />

dedicata da Giuseppe FALCHINI, Visitatore Generale di campagna per l’appalto delle api in<br />

Toscana, la “Nuova e vaga istruzione per lo governo, ed accrescimento delle api da mele e da cera”<br />

58<br />

, ovvero un manuale ragionato con la proposta di un nuovo alveare a dimostrazione del fervore<br />

che animava il settore.<br />

Che l’apicoltura dovesse essere redditizia, lo si intuisce dalla necessità di dover regolare con un<br />

apposito bando 59 i rapporti fra l’Appaltatore e coloro che gestivano gli alveari. Evidentemente si<br />

ritiene di dover normare questo aspetto per contenere gli screzi al momento della valutazione degli<br />

utili e questo è indice che doveva esserci una produzione tale da giustificare un contenzioso.<br />

Una guerra “mondiale”: miele contro zucchero<br />

Merita qui fare un cenno al fatto che almeno fino alla metà del ‘700 il consumo “dolce” era sì un<br />

obiettivo ambito, ma perseguito con grande parsimonia. In particolare il miele, fin dai tempi più<br />

antichi, al pari delle spezie, ha rivestito più il ruolo di additivo o di componente che di alimento<br />

vero e proprio. Questo almeno fino al Rinascimento, allorché cominciò una fase di “splendore<br />

gastronomico” rivolto alla ricerca di raffinatezze estetiche nonché del gusto “dolce” quale elemento<br />

distintivo sociale che comunque privilegiò sempre lo zucchero, allora raro, ma proprio perché<br />

insapore e facilmente manipolabile più adatto del miele a interpretare in tavola ruoli differenti.<br />

Fra l’altro la “naturalità” del miele, rispetto all’artificiosità dello zucchero variamente raffinato e<br />

colorato, fu, al contrario di quanto succede oggi, un ostacolo alla sua promozione. In pratica<br />

consumare zucchero era indice di un alto status sociale e ciò ne favorì la diffusione. Da notare che<br />

se il commercio del miele poteva essere anche di libero mercato, la produzione dello zucchero era<br />

appaltata con grande oculatezza e la vendita monopolio esclusivo degli speziali 60 .<br />

Altrettanto avveniva per la lavorazione ed il commercio delle candele per le quali erano in vigore<br />

regolamentazioni specifiche a seconda della materia prima: sego o cera. Quest’ultima, in<br />

particolare, era sottoposta a rigidi controlli già nella sua fase di “imbianchimento” e, come lo<br />

zucchero, era appalto esclusivo degli speziali.<br />

Tornando al miele, già precedentemente gli etruschi e poi i romani lo avevano usato per rendere<br />

“bevibile” il vino o come componente accessorio di molte vivande, come condimento o spezia, e<br />

mentre non si trovano tracce importanti del miele come alimento tal quale, notevole è sempre stato<br />

il suo uso come matrice di bevande e come conservante.<br />

Il melimelum, composta di cotogne e miele, o l’attuale Panforte di Siena rappresentano tipici<br />

esempi di abbinamento con la frutta al fine di conservarla per consumarla in tempi successivi.<br />

Molto diffuso fu il suo uso per la produzione di idromele e altri prodotti derivati della<br />

fermentazione: l’acqua mielata o aqua mulsa dei latini, oenomel e mulsum miscele di vino col<br />

miele, o l’idromele, il melomeli miscela di idromele con succo di frutta, l’oximel con l’aceto.<br />

57<br />

1745 – Bando sopra la concessione dell’apiario dell’Api<br />

58<br />

Giuseppe FALCHINI, 1747, op. cit.<br />

59<br />

Dichiarazione del Bando del 10 Aprile 1745 concernente la privativa concessa alla Compagnia degl’Appaltatori<br />

dell’Api<br />

60<br />

Firenze, 31 Gennaio 1561 – Deliberazione De’ Medici, & Speziali sopra gli Sciroppi, e Robbi. Cantini, vol. 4 (1560-<br />

1562), p: 380<br />

15


Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

Abbastanza frequente è invece il suo uso quale coformulante nelle pozioni alchemiche e medicinali<br />

o come componente nella confezione di alcuni dolci. In entrambi i casi si può pensare di essere di<br />

fronte ad un uso metaforico del miele in quanto si entra in una sfera, per i tempi antichi, del “non<br />

conoscibile”: medicina, religione e magia sono sempre state strettamente connesse ed il miele è fra i<br />

doni tipici da offrire alle divinità.<br />

Come elemento per la farmacopea trova in Toscana la sua massima celebrazione nelle pagine del<br />

“Ricettario fiorentino” fin dalla prima edizione del 1499 e anche nell’ultima del 1820 stampata a<br />

Venezia mantiene un ruolo insostituibile. Il miele lo troviamo usato nella preparazione nei vari tipi<br />

di condito, di ossimiele, di elettuario e ovviamente nei mieli medicati come il miele d’erba<br />

mercuriale, il miele pettorale, il miele violato usuale componente dei clisteri o quello rosato<br />

arrivato fino a noi ed ancor oggi usato per alleviare i disagi della dentizione infantile. Lo zucchero<br />

invece, altra specialità afferente alla farmacopea, era usato per la confezione di pasticche e sciroppi,<br />

mentre la cera trovava utilizzo diffuso nei cerotti (da cui il nome), nelle pomate e negli unguenti.<br />

Quanto ai “dolci” vale ricordare che nascono come elemento cerimoniale da utilizzare nei riti di<br />

omaggio e di sottomissione ad un’autorità, sia essa di tipo religioso sia laico. Quindi è naturale<br />

trovare del miele, il “cibo degli dei”, in molti prodotti da pasticceria tipici nella celebrazione delle<br />

festività, originariamente di tipo agreste o comunque naturalistico, a cui sono stati sovrapposti i riti<br />

delle varie religioni, politeiste come monoteiste, avvicendatesi nel tempo.<br />

Comunque l’esplosione della ricerca del gusto “dolce” è un fenomeno “moderno”, nato nel<br />

medioevo ma esploso nel ‘700, e rappresenta la prima debolezza sociale aggredita<br />

dall’industrialesimo nascente e dello sviluppo del consumismo. Questo grande cambiamento è<br />

conseguente all’avvento di tecnologie e di sistemi di produzione innovativi che ribaltarono anche<br />

l’economia agricola aprendo la concorrenza fra la produzione dei beni primari e quelli trasformati<br />

dalla nascente industria. Scontro che ebbe ripercussioni a catena, quindi anche fra gli stessi beni<br />

primari e fra l’agricoltura e l’industria. Insomma, un rivoluzione.<br />

Una rivoluzione che travolge anche il mondo dei costumi, dei consumi e quindi delle produzioni.<br />

Lo zucchero come progenitore della produzione industriale, monopolizzabile, tassabile, sembra sia<br />

stato il primo prodotto promosso da una “campagna pubblicitaria” proprio perché fiscalmente<br />

produttivo. Con lo zucchero prende avvio un nuovo modo di sfruttare le popolazioni e il “dolce”,<br />

inizialmente finalizzato ad usi devozionali nonché consolatori e rassicurativi, una volta promosso a<br />

oggetto di consumo rivestirà sempre più un significato esplicitamente “oppressivo”.<br />

Il “dolce” come matrice del colonialismo, dello schiavismo, della globalizzazione delle produzioni<br />

di una materia prima, la canna, semilavorata nei paesi di origine, raffinata e commercializzata dai<br />

paesi consumatori. Dunque quella del gusto è una rivoluzione “indotta” da scelte politico-industriali<br />

e sostenuta dalla creazione di un mercato prima inesistente. Al miele rimane il mercato locale, la<br />

tradizione. E ovunque il suo uso è sempre stato parsimonioso.<br />

È interessante notare come a metà del ‘700 la raffinazione dello zucchero sia oggetto di monopolio<br />

e quanto in Toscana tale industria sia limitata 61 .<br />

Ne consegue che anche i consumi erano in linea con la ridotta disponibilità. Infatti, cambiando<br />

prospettiva, oggi che consumiamo quasi 30 kg di zucchero a testa all’anno, ci rimane difficile<br />

immaginare che ancora nell’800 potessero fare praticamente a meno di questo bene oggi tanto<br />

diffuso da rappresentare un rischio per la salute.<br />

Per dare una consistenza alle parole si pensi che ai primi dell’800 si producevano nel mondo circa<br />

250 mila tonnellate di saccarosio, a metà del secolo si era saliti a quasi 4 milioni di tonnellate per<br />

arrivare, fra la fine dell’800 ed il periodo antecedente alla prima guerra mondiale, a 16 milioni di<br />

61 Per la gabella degli zuccheri raffinati del di 2 Agosto 1748<br />

16


Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

tonnellate 62 . E nonostante questo vertiginoso aumento la disponibilità di zucchero nell’Italia del<br />

1861 era di circa 2,3 kg ed il consumo all’inizio del ‘900 raggiungeva appena i 3 kg pro capite 63 !<br />

Cosa stava succedendo? Senza entrare nei dettagli che meriterebbero una trattazione a sé, basta<br />

ricordare che la barbabietola, grazie al blocco dei porti europei da parte di Napoleone e quindi dello<br />

zucchero di canna inglese, usciva dagli orti per entrare in “fabbrica”, ma per far questo andava<br />

coltivata su grandi superfici, ovvero bisognava trovarle un posto negli avvicendamenti colturali.<br />

Il miele, in queste fasi di aumento della richiesta e di penuria dell’offerta, ebbe un rilancio di tipo<br />

autarchico, inizialmente timido ed inefficace, dalla metà del ‘700 ai primi dell’800, più consistente<br />

verso la metà del secolo quando ancora si era consapevoli che lo zucchero di bietola era solo una<br />

scelta politica, essendo altamente antieconomica sia perché necessitava di molta energia per essere<br />

trasformato sia per il fatto che immobilizzava terreni di grande qualità per produrre bietole a scapito<br />

di coltivazioni ben più importanti per l’alimentazione umana.<br />

Vale la pena ricordare che al momento dell’unità d’Italia, zucchero 64 e miele avevano ancora prezzi<br />

simili, circa 1 Lira al chilogrammo, e quindi era ragionevole pensare che con un’adeguata<br />

campagna promozionale anche il miele sarebbe potuto diventare sempre più competitivo. Fra<br />

l’altro, almeno allora, non si capiva perché si dovessero immobilizzare terreni ricchi per produrre un<br />

qualche cosa che le api riuscivano a trarre dai “rifiuti” della natura (polline e nettare).<br />

Fu per questo che in Italia, ma non solo, si tentò un rilancio dell’apicoltura con l’obiettivo di<br />

arrivare a produzioni di miele massicce che garantissero un approvvigionamento di “dolce” senza<br />

dover dipendere da economie straniere né sacrificando i terreni migliori. In tempi di fame si<br />

facevano ancora queste valutazioni. E la Toscana fu in prima linea con l’Accademia dei<br />

GEORGOFILI in questa guerra “mondiale” fra zucchero e miele.<br />

La manualistica e l’Accademia dei GEORGOFILI<br />

Fondata il 4 giugno 1753, l’Accademia dei GEORGOFILI di Firenze rappresenta in Europa il primo<br />

esempio di una “associazione di ingegni” tesi al perfezionamento ed al rilancio dell’agricoltura 65 e<br />

quando si trattò di affrontare il problema dell’approvvigionamento di miele fu pronta ad intervenire<br />

in modo razionale bandendo nel 1783 un concorso incentrato sull’analisi dell’apicoltura toscana e<br />

sul come renderla più produttiva.<br />

In verità non è tanto che l’apicoltura fosse negletta, quanto il fatto che solo in pochi casi era<br />

sviluppata in modo intensivo, come ad esempio avveniva alla fattoria CORSINI di Spedaletto, sulla<br />

collina pistoiese, dove il principe aveva un apiario di oltre duecento alveari 66 .<br />

Gaetano Harasti<br />

Fra le 8 relazioni presentate, fu premiata quella del CASTELLI 67 per la pertinenza del tema<br />

sviluppato, ma fu menzionato 68 e dato alle stampe il “Catechismo sulla più utile educazione delle<br />

62<br />

Sidney W. MINTZ, 1985 – Storia dello zucchero tra politica e cultura. Einaudi, 255 p.; pagg. 107 e segg.<br />

63<br />

ISTAT, 1958 - Sommario di Statistiche Storiche italiane 1861-1955. tav. 121<br />

64<br />

Ivi, tav. 93<br />

65<br />

Lucia e Luciana BIGLIAZZI, 1997 - I Georgofili e il mondo delle api. Monsummano Terme (PT), Comune di<br />

Monsummano e Accademia dei Georgofili, in 8° (24 cm), 15 p., 14 tav.<br />

66<br />

ANONIMO, 1784(?) - Dissertazione n 6. "Fecit opes parcaeque sagax industria vitae sedula apes vero vires industria<br />

firmat". (Concorso bandito il 2 aprile 1783), Firenze, Accademia Economico Agraria dei Georgofili, busta 107.16f<br />

67<br />

Carlo CASTELLI (don), 1784 - Dissertazione n 7. "O fortunatos nimium sua si bona norint agricolas", (Concorso<br />

bandito il 2 aprile 1783), Firenze, Accademia Economico Agraria dei Georgofili, busta 107.16g<br />

68<br />

Gaetano HARASTI (padre), 1784 - Dissertazione n 8. "Hinc artes recentes excundut ceras et mella tenacia fingunt".<br />

(Concorso bandito il 2 aprile 1783), Firenze, Accademia Economico Agraria dei Georgofili, busta 107.16h<br />

17


Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

api nel Gran Ducato di Toscana” 69 di Gaetano HARASTI ritenuto degno di essere divulgato in<br />

quanto risultava un vero e proprio moderno trattato sulle api e sul loro allevamento.<br />

Questo testo risulterà in seguito fondamentale per l’apicoltura italiana sia per i contenuti sia per<br />

l’impostazione, costituita da “domande e risposte”, tanto da risultare come base di riferimento per<br />

principali manuali apistici successivi.<br />

Infatti il “Catechismo” dell’HARASTI è l’opera da cui Carlo AMORETTI deriva prima la<br />

“Coltivazione delle api per la Lombardia” del 1788 e poi la “Coltivazione delle api per il regno<br />

d’Italia” del 1811, opera che risulterà fondamentale per tutto l’800.<br />

Nel testo, ancora una volta, si ritrova la conferma della tradizione apistica toscana caratterizzata da<br />

una consuetudine con le api all’insegna di una spontaneità di allevamento favorita da condizioni<br />

ambientali particolarmente favorevoli 70 :<br />

.. anni sono viaggiai per la Toscana, e.. sono stato accertato.. che in alcuni luoghi di codesto<br />

medesimo clima, come sarebbe nelle Maremme, nell’Isola d’Elba, e del Giglio, dove le Api son<br />

ben custodite, e governate benissimo, e rendono un frutto ordinario…<br />

Marco Lastri<br />

Quanto i GEORGOFILI abbiano stimolato la ricerca e lo studio dei temi apistici lo si evince non solo<br />

dagli innumerevoli contributi scritti che continuarono ad essere prodotti dopo la chiusura del<br />

concorso, ma anche dal fatto che la prima bibliografia apistica italiana apparve nel 1787 proprio a<br />

Firenze per opera del LASTRI 71 , georgofilo fra i promotori del bando del 1783, che nella sua opera<br />

individua oltre 80 titoli sull’argomento.<br />

Il Lastri non si limitò solo a recensire lo scibile apistico, ma si impegnò concretamente pubblicando<br />

un “Calendario dell'apiajo o custode delle api” 72 , promovendo un’arnia 73 ed offrendo<br />

suggerimenti tramite specifiche lezioni 74 .<br />

La sua azione era motivata da una forte convinzione verificata nella pratica 75 :<br />

Perché i proprietari de’ fondi non incoraggiano questa innocente cultura?<br />

Il defunto Sig. Cav. Francesco Maggio Commissario del Regio spedale di S. Maria Nuova<br />

introdusse e moltiplicò talmente gli Alveari negli effetti di detto Spedale, che, pel bisogno del<br />

medesimo non fu necessario provvedere altro mele; ed è notabile che quello della Fattoria di<br />

Majano vicino a Firenze, non cedeva al più odoroso di Spagna e di Provenza.<br />

Da queste notazioni emerge come in realtà l’apicoltura non fosse diffusa solo nelle campagne o né<br />

fosse esclusiva attività delle aziende agricole a scopo commerciale, ma era esercitata anche nelle<br />

immediate vicinanze della città e con scopi di autoapprovigionamento da parte di istituzioni per così<br />

dire “pubbliche”.<br />

69<br />

Gaetano HARASTI (padre), 1785 - Catechismo sulla più utile educazione delle api nel Gran Ducato di Toscana,<br />

presentato al concorso dell’anno 1784 dal padre Gaetano Harasti da Buda. Firenze, Cambiagi Gaetano , in 8° (19<br />

cm), 211 p., 12 fig.<br />

70<br />

Ivi, pag. 17<br />

71<br />

Marco LASTRI, 1787 - Biblioteca Georgica ossia Catalogo Ragionato degli Scrittori di Agricoltura,Veterinaria,<br />

Agrimensura, Meteorologia, Economia Pubblica, Caccia, Pesca, ec. Spettanti all’Italia. Firenze, Stamperia<br />

Mouecke, in 8°, 152 p.<br />

72<br />

Marco LASTRI, 1788 - Calendario dell'apiajo o custode delle api - In: Corso di Agricoltura pratica o ristampa dei<br />

lunari pei contadini della Toscana, ecc . Firenze, Pagani G. e C., in 12°, 5 vll., 1787-90; v. II 1788; pagg. 194-201<br />

73<br />

Marco LASTRI, 1788 - Nuovo alveare o cassa per le pecchiee - In: Corso di Agricoltura pratica ecc., pagg. 254-263,<br />

3 fig.<br />

74<br />

Marco LASTRI, 1821 - Lezione sulle api. XVII lezione - In: Lezioni di Agricoltura con aggiunte e note del priore<br />

Jacopo Ricci. Firenze, Pagani G.G., IV ed., in 16°, con aggiunte e note, 6 vll.; v. V, pagg. 182-238<br />

75<br />

Marco LASTRI, 1794 - Per custodia delle Pecchie. In: Regole e macchine per ben eseguire le faccende principali di<br />

ciaschedun Mese mentovate ne’ dodici Calendarj. Venezia, Graziosi a Santa Apollinare,119 p., 10 tavv; pag. 25<br />

18


Giacomo Sardini<br />

Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

Forse la prima azione specificatamente promozionale del “Miele Toscano” la si deve alla fine del<br />

‘700 a Giacomo SARDINI, un altro georgofilo che, a fronte delle continue e sempre più consistenti<br />

importazioni di zucchero, ha un moto d’orgoglio e prova a rilanciare il miele nell’alimentazione 76 .<br />

L’800 in Toscana<br />

L’impegno dei GEORGOFILI continuò a fornire contributi per una maggiore diffusione<br />

dell’apicoltura, tuttavia ancora in pieno Risorgimento in Toscana si continuava una conduzione<br />

secondo criteri “spontanei”, non sentendo ancora la necessità di dover ricorrere a pratiche e tecniche<br />

di allevamento particolari data la facilità produttiva derivante dall’ambiente.<br />

Testimonianze in proposito le ritroviamo nelle relazioni sulla situazione dell’agricoltura toscana da<br />

parte di numerosi autori. Riguardo all’Isola d’Elba così scrive il PULLÈ 77 :<br />

Gli alveari sono piuttosto numerosi, contandosene oltre 1.970: ma le api sono mal custodite,<br />

anzi quasi abbandonate a se stesse; quindi non è raro il caso d’incontrare nei boschi sciami di<br />

api inselvatichite.<br />

Sogliono raccogliersi annualmente oltre 10.500 libbre di miele; ottima è la sua qualità, bianco<br />

cioè di gusto soavissimo. Molto se ne consuma nell’Isola, il resto si esporta; la cera suole<br />

ammontare a libbre 1.600 e questa vendesi a Livorno.<br />

Non mi fu mai dato incontrare presso alcun proprietario un alveare di sistema perfezionato, ed<br />

altro non vidi mai presso le case, oppure in gran numero nelle macchie che tronchi d’albero<br />

vuotati, e coperti con sassi, esposti in luogo per nulla assicurato dagli animali vaganti o dal<br />

disturbo dei venti.<br />

Da altre fonti 78 apprendiamo che:<br />

Scarsissimi in tutta la Toscana gli alveari si incontrano numerosi nella provincia di Siena e nelle<br />

colline Volterrane (Crete) ove abbondano erbe aromatiche gradite alle api<br />

e dove sono presenti, così come nella zona di Montepulciano, anche le poche arnie a favo mobile<br />

rare nel resto della regione; comunque la situazione è tale che<br />

Nel complesso può dirsi poco diffusa e poco importante l’apicoltura in Toscana.<br />

Queste osservazioni, giustamente critiche per la mancanza di una apicoltura intesa come moderna<br />

industria produttiva, non tengono però conto della cultura diffusa nelle campagne legata ad una<br />

convivenza si direbbe naturale, spontanea, con le api. Ma svelano anche la scarsa preparazione di<br />

certi autori che si sbilanciano in commenti che sconfinano nella banalità dei luoghi comuni<br />

denunciando l’inadeguatezza della loro analisi 79 :<br />

Non si conosce infine alcuno dei buoni precetti dell’apicoltura, o gli agricoltori nostri non<br />

debbono mai aver letto il Rucellai, che scrisse nelle sue Api: Prima sceglier convien all’api un<br />

sito..<br />

e la loro ignoranza riguardo alle potenzialità produttive della Toscana e del miele stesso 80 :<br />

… I migliori mieli sono quelli dell’anice, del tiglio, dell’arancio, dell’acacia, ecc..; i meno buoni<br />

sono quelli del brugo e del grano saraceno; ma tutti senza eccezione valgono infinitamente più<br />

che la mielata od il sugo di moscerino<br />

In realtà, in quel mondo di analfabetismo generalizzato, se gli agricoltori avessero saputo leggere<br />

probabilmente avrebbero anche fatto notare agli eruditi e ai critici che certe loro “conoscenze”<br />

76<br />

Giacomo SARDINI, 1796 - Della dolcezza nella composizione degli alimenti. Memoria del Sig. Giacomo Sardini…<br />

letta il dì 2 aprile 1794. Atti dell’Accademia dei Georgofili, 3, pag. 160-183<br />

77<br />

Giulio PULLÈ, 1881 – Monografia agraria dell’isola d’Elba. In. Atti della Giunta per l’inchiesta Agraria e sulle<br />

condizioni della classe agricola. Roma, Forzani e C., vol. V, fasc. II: 547-622; pag. 579<br />

78<br />

Carlo Massimiliano MAZZINI, 1884 – La Toscana agricola. Firenze, Giani, 448 p.; pag. 139<br />

79<br />

Giulio PULLÈ, 1881, op. cit<br />

80<br />

Antonio BALBIANI, 1871 – Le api. In: Tesoro delle campagne. Milano, Politti, 2 voll., 1118 p.; pagg. 1035-1085<br />

19


Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

agronomiche nonché apistiche erano fin troppo letterarie e poco compatibili con la fame e la miseria<br />

che allora dilagava nelle campagne.<br />

La cera<br />

Se il miele entrava con parsimonia nell’alimentazione quotidiana, abbiamo già visto come la cera<br />

avesse sempre avuto un ruolo prioritario.<br />

A questo proposito merita ricordare un bando 81 che da un lato rimarca la penuria di cera in Toscana<br />

rispetto alle esigenze dei consumi, dall’altro evidenzia l’esistenza di un largo mercato legato<br />

all’importazione.<br />

Interessanti due notazioni, una di carattere economico, ovvero con questo bando, per promuovere il<br />

settore, si toglie ogni privativa che per secoli aveva monopolizzato la lavorazione della cera; l’altra<br />

riguarda ancora una volta la famiglia STROZZI che in Alessandro, l’ex beneficiario di questa<br />

esclusività, aveva ancora un componente legato al mondo dell’apicoltura.<br />

Nel bando non manca però, anche in questo caso, un’ennesima denuncia di come a condizioni<br />

ambientali ottimali non corrisponda lo sviluppo di un’apicoltura adeguatamente produttiva. Il<br />

problema, che come abbiamo già visto è comune a tutto l’800, è chiaramente documentato nel<br />

Dizionario Corografico-Universale dell’Italia 82 del REPETTI, il quale denuncia come in Toscana,<br />

ad un’antica tradizione nella lavorazione della cera e ad un ambiente altamente redditizio per<br />

l’allevamento delle api, non corrisponda un riscontro produttivo adeguato.<br />

Miele e cera: XXVI<br />

Le api sono assai neglette, sebbene il prodotto sia di gran lunga superiore alla tenue fatica e<br />

spesa ch’esse richieggono. Il clima della Toscana è favorevolissimo a questi insetti, che vi<br />

prosperano spontanei, in specie nelle Maremme, ove il loro prodotto forma un articolo di rendita<br />

assai cospicua. Ma i metodi usati per lavorare il miele e la cera, oltre al distruggere quasi<br />

costantemente le api, danno anche i prodotti di cattiva qualità, mentre con lievi cure si<br />

potrebbero ottenere perfetti.<br />

Cera: XLVII<br />

Fra questi [prodotti animali] è la cera, che imbiancata serve a far candele d’ogni maniera, delle<br />

quali diverse fabbriche hannosi in Toscana.<br />

Da quanto sopra derivano alcune considerazioni a conferma di quanto già anticipato, ovvero che la<br />

facilità di approvvigionamento del miele e della cera non stimolava lo sviluppo di particolari<br />

tecniche. L’apicidio, usanza sicuramente poco evoluta, deriva dalla grande facilità di reperire a<br />

primavera nuovi sciami da mettere ogni anno in produzione evitando così l’obbligo di dover<br />

accudire le api in periodo invernale.<br />

Anche la poca cura messa nella smielatura può essere interpretata da una parte come la conseguenza<br />

della disponibilità di prodotti di per sé già buoni, ovvero mieli “maturi” derivanti da sciami<br />

continuamente rinnovati, quindi da favi non particolarmente sporchi, d’altra parte siamo in un<br />

periodo in cui i consumi alimentari di miele sono ancora ridotti, mentre il maggior interesse è<br />

rivolto alla produzione di cera.<br />

Ciò è anche confermato dalla diffusa presenza di fabbriche di candele e dal grande sviluppo che la<br />

ceroplastica ebbe in Toscana nel corso dei secoli, elementi che denotano una tradizione<br />

nell’approvvigionamento della materia prima ed una grande familiarità con le tecniche di utilizzo e<br />

di trasformazione della cera.<br />

Tuttavia dopo l’unità d’Italia i tempi sono ormai maturi e, vuoi per l’impulso ricevuto attraverso i<br />

continui contatti con le altre regioni italiane, vuoi per il logico ammodernamento di un’antica<br />

disciplina, vuoi per le innovazioni tecnologiche che nel frattempo si stavano diffondendo (telaio<br />

mobile, foglio cereo, smielatore radiale), anche in Toscana si dette avvio al percorso che vedrà il<br />

81 Firenze 21 gennaio 1772 - Di un Rescitto relativo alla libertà che si accorda a tutti di lavorare e imbianchire la cera<br />

82 Emanuele REPETTI, 1855, op. cit.<br />

20


Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

trapasso dall’apicoltura villica (o fissista: a favo fisso) a quella razionale (mobilista: a favo mobile)<br />

con il passaggio progressivo dal bugno all’alveare razionale e l’abbandono definitivo della pratica<br />

dell’apicidio.<br />

L’arnia toscana: primi passi<br />

E’ da notare come le arnie descritte dall’ANONIMO della fine del ‘400 siano del tutto simili sia a<br />

quelle, appena poco più tarde, raffigurate nel fregio di Poggio a Caiano, e non molto diverse da<br />

quelle descritte successivamente dal FALCHINI e dall’HARASTI: sono passati quasi 300 anni, eppure<br />

non si nota molta differenza in quanto la struttura costruttiva rimane praticamente inalterata.<br />

“Le chasse per le pecchie uogliono essere d’assi di ciriegio o d’albero […] e non piallate<br />

excietto che il fondo […] e quali fondo e coperchio uogliono essere più botighi e avanzare le<br />

dette teste al coperchio per meglio difendere la chassa dall’acqua et al fondo per fare una<br />

passatura alle pecchie quando tornano.” [ANONIMO, 1469/73]<br />

“A misura di un braccio Fiorentino, de essere lunga un braccio, ed un terzo: Larha mezzo<br />

braccio: Alta mezzo braccio: il Coperchio di sopra dovrà essere più largo, e più lungo soldi<br />

cinque di braccio..” [FALCHINI, 1747: nella figura]<br />

alveari<br />

riprodotti nel<br />

frontone della<br />

villa medicea<br />

di Poggio a<br />

Caiano (ante<br />

1494)<br />

Fior di virtù<br />

Sec. XV<br />

(1487);<br />

Firenze,<br />

Antonio di<br />

Niccolò<br />

Fior di virtù<br />

Sec. XV<br />

(1487);<br />

Firenze,<br />

Antonio di<br />

Niccolò.<br />

FALCHINI<br />

(1747)<br />

Fra l’altro, come si apprende anche da un’altra Dissertazione in concorso 83 , queste arnie avevano<br />

generalmente una lunghezza inferiore a 20 once e non misuravano più di 8 sia in larghezza che<br />

altezza. La soffitta, raramente mobile per la smielatura, avendo funzione di tetto era più larga del<br />

corpo della cassetta.<br />

Tutte le casse sono generalmente a sviluppo orizzontale ed apertura frontale, la differenza più<br />

marcata sta nel fatto che le più antiche sono più lunghe che larghe (tipo ferula), e quindi i favi sono<br />

paralleli all’apertura, mentre le più tarde hanno i favi perpendicolari (tipo pugliese) cosa che facilita<br />

l’osservazione delle colonie e la smielatura.<br />

Inoltre quest’ultima descrizione conferma quella minuziosa offerta quasi 200 anni prima da<br />

Agostino GALLO il quale definisce addirittura questa tipologia di alveari come “toscani” 84 :<br />

83 ANONIMO, 1783 - Dissertazione n 3. "Satis est id prestare quod possumus". (Concorso bandito il 2 aprile 1783),<br />

Firenze, Accademia Economico Agraria dei Georgofili, busta 107.16c<br />

84 Agostino GALLO, 1596, Del Governar le api. Quintadecima giornata aggiunta dell’agricoltura di M. Agostino Gallo<br />

nella quale si tratta del governare le Api, In: Le vinti giornate dell’Agricoltura et de’ piaceri della Villa, Venezia,<br />

Imberti Domenico, in 8°, 8+434 p., 10 tav.; pag. 291<br />

21


Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

Ma non è da tacere la forma de’ vasi che tengono i Toscani, la quale non pur le api nò sono<br />

offese da gli animali, che facilmente entrano ne gli altri alveari: ma ancora non patiscono per<br />

cagione del freddo gràde, & màco per il Sole al tèpo del gran caldo. I quali alveari sono come<br />

una cassetta quadra d’assi, non più lunga di oncie vinti, ne larga più di otto, & altrottanto alta,<br />

hauendo il coperchio che sopra l’asse dinanzi in coltello, come farebbero due dita, il qual<br />

coperchio per lungo non tocca detta asse dinanzi, poer tanto spatio, che le api da l’un capo<br />

all’atro entrino, & escano a loro commodo. La qual parte fanno stare verso all’Austro, ò al<br />

sirocco, & è senza altri Suchi. Serrano poi insieme queste quattro assi con le due teste, con tai<br />

modi, che commodamente le possono levare, & vindemiare i favi ad ogni lor piacere.<br />

Visto che il GALLO non fa riferimento ai sistemi di apicoltura diffusi nell’Italia meridionale, non<br />

sembra opportuno avvalorare una specificità “toscana” di un sistema costruttivo altrove già adottato<br />

(Puglia), inoltre non si può disconoscere questa notazione critica dell’HARASTI:<br />

“Le arnie di cui si fa uso in Toscana formate di quattro pezzi d’assi, ed un coperchio, benché<br />

sieno semplicissime, nulladimeno questa loro semplicità porta seco tanti difetti che tutti quelli<br />

che ameranno le Api, dovranno riformarle.” [HARASTI, 1784]<br />

Merita invece rimarcare che la citazione del GALLO evidenzia l’esistenza di un’apicoltura tanto<br />

sviluppata da essere nota al di fuori dei confini regionali.<br />

Il passo avanti proposto dall’HARASTI risiede nella sovrapposizione di più corpi d’arnia. Manca<br />

ancora qualunque proposta di telaio e tanto meno di favo mobile limitandosi a consigliare l’uso di<br />

listelli. Diciamo che si arriva al massimo della razionalizzazione del bugno rustico. La cosa<br />

interessante risiede nella conferma dell’apertura dall’alto. Niente di nuovo, ma un po’<br />

“controcorrente” per i tempi in cui il modello con apertura frontale era il più diffuso.<br />

Poiché bisogna persuadersi, che l’Alveare il più semplice, e in conseguenza il men dispendioso,<br />

sarà sempre quello, che verrà prescelto dalla gente di campagna. Onde tra tante forme d’Alveari<br />

… parmi che la più acconcia, e migliore si questa.<br />

Si prendano quattro o cinque cassette fatte d’asse alta un soldo e mezzo circa… Queste cassette<br />

mancanti di fondo, e di coperchio, ed aventi tredici soldi di vuoto, ed un palmo d’altezza, si<br />

pongano l’una sopra l’altra…<br />

Dette cassette vanno collocate sopra un banco ben forte, e saldo, alto due piedi e mezzo da terra,<br />

e al di sopra ricoperte con un coperchio di tavolone.<br />

Sarà inoltre bene, che … siano incrociate al di dentro con bacchette di legno, alle quali le Api<br />

possano attaccare i loro lavori, e al di fuori abbiano due comode maniglie..<br />

…ogni qual volta si sovrappone una cassetta vuota ad un’all'altra, bisogna sempre turare la<br />

porticciula…lasciando solamente l’ingresso ed egresso alle Api, aperto nell’ultima cassetta<br />

inferirmente collocata.<br />

Nel 1794 il LASTRI promuove in Toscana l’alveare dello svizzero Giovanni de’ GELIEU 85 che<br />

da un Nobile possessore … introdotto sule sue terre nel Volterrano … è stato riconosciuto<br />

vantaggioso..<br />

Consiste in una cassa di tavole, che misurata nel di dentro ha dodici soldi di altezza, nove di larghezza,<br />

e da quindici in diciotto di lunghezza … Le tavole … tornerà bene che siano grosse di circa un soldo e<br />

mezzo… Tutto è inchiodato o inchiavicchiato fuori ch’ il fondo ch’è una tavola alquanto più larga e<br />

lunga del vuoto della cassa.<br />

Nel mezzo di una delle facce più lunghe … si pratica un taglio tre soldi lungo, e alto circa mezzo<br />

soldo, che deve servir di porta.<br />

Questo Alveare o Cassa, che fin qui rassomiglia gli ordinarj, è però segato nel mezzo dai due lati<br />

maggiori in due parti uguali …<br />

85 Marco LASTRI, 1794 - Nuovo Alveare o Cassa. In: Regole e macchine per ben eseguire le faccende principali di<br />

ciaschedun Mese mentovate ne’ dodici Calendarj. Venezia, Graziosi a Santa Apollinare,119 p., 10 tavv; pagg. 25-31,<br />

tav. III<br />

22


Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

In pratica si creano due mezzi alveari comunicanti per mezzo di una finestra chiudibile di forma<br />

quadrata di “circa 3 soldi”. Ciò consente di avere un corpo in cui le api possono espandersi e di<br />

conseguenza consentire il controllo della sciamatura. Nel contempo risulta utile alla smielatura, in<br />

quanto, spinte le api col fumo in una delle due metà, quella spopolata la si sostituisce con una nuova<br />

mezza cassa vuota.<br />

Quest’arnia, sempre ispezionabile dall’alto, presenta l’innovazione di una “modularità” garantita dal<br />

rispetto delle misure che preannuncia l’adozione di un nido/melario standard.<br />

Per avere una proposta nuova bisogna aspettare che Camillo SPRETI, già “consulente” granducale<br />

per l’apicoltura avendo illustrato il bando del 1739, dia alle stampe nel 1802 poche pagine in cui<br />

propone un nuovo alveare 86 .<br />

Ormai sono decenni che lo SPRETI si occupa di apicoltura ed eccolo continuare con la sua opera di<br />

promozione sostenendo un’arnia verticale con apertura laterale, proposta che andrà per la maggiore<br />

nel Lombardo-veneto risentendo della contaminazione della cultura apistica tedesca. Naturalmente<br />

ne offre anche la versione orizzontale.<br />

Tuttavia il modello che persiste sul territorio più per tradizione che per altro è quello già indicato<br />

dall’HARASTI che a distanza di anni viene ancora riproposto da Romualdo SCIARELLI, un altro<br />

georgofilo che profuse un grande impegno per valorizzare e sostenere l’apicoltura toscana.<br />

Basti notare che lo SCIARELLI fu autore di un “Trattato pratico sulla cultura delle api” 87 , ma i suoi<br />

maggiori contributi sono da annoverare fra le Memorie e gli articoli pubblicati sugli «Atti<br />

dell’Accademia Economico Agraria dei GEORGOFILI».<br />

Il suo fu quindi un impegno di “ricerca” più che di pubblicistica a dimostrazione di come<br />

nell’Accademia continuava una ben radicata tradizione apistica toscana.<br />

Ebbene, sulla scorta della sua esperienza, lo SCIARELLI, a distanza di 50 anni, ripropone il modello<br />

“HARASTI” con le cassette sovrapposte e il tetto mobile:<br />

Questi alveari sono i più adatti per le Api... mentre si possono ingrandire, e diminuire a<br />

volontà… Offrono una gran facilità di far raccolta, s’impedisce… che le Api gettino sciami,<br />

infine procurano la facilità di osservarle dall’interno..<br />

Ogni quadro, o cassetta è composto di quattro assi alte soldi tre e due quattrini, e della grossezza<br />

di due quattrini, e mezzo, dimodoché la larghezza quadrata interna di ciascheduna cassetta sarà<br />

di soldi nove.<br />

Sul davanti… e inferiormente… vi si fa un’apertura … di soldi tre, alta un quattrino.<br />

All’interno consiglia ancora l’uso delle traverse, questa volta specificando modalità costruttive e<br />

dimensioni; inoltre propone la creazione sul lato posteriore di un’apertura vetrata oscurabile per il<br />

controllo dello stato della famiglia e ricorda che il coperchio deve essere forato per permettere la<br />

risalita delle api al corpo superiore. Dedica poi molto spazio ai particolari costruttivi, ma la cosa più<br />

interessante riguarda la raccomandazione a non discostarsi dalle misure proposte in quanto le<br />

motivazioni derivano da precise osservazioni eco-etologiche.<br />

È evidente che in anche Toscana l’apicoltura si sta modernizzando, ma non certo con la<br />

proposizione di tecniche originali e particolarmente innovative, bensì attraverso l’armonizzazione<br />

delle tecniche tradizionali con le contaminazioni provenienti da più parti, grazie all’opera di ricerca<br />

e divulgazione dei GEORGOFILI.<br />

86<br />

Camillo SPRETI, 1802 - Agli Amatori delle Cose Georgiche: spiegazione di una particolare foggia di arnia, ecc.<br />

Firenze, Regia Stamperia, in 8°, 15 p., 1 tav.<br />

87<br />

Romualdo SCIARELLI, 1823 - Trattato pratico sulla cultura delle api di un socio corrispondente dell’Imp. e Regia<br />

Accademia de’ Georgofili di Firenze, Firenze, Piatti Guglielmo per Regia Accademia Economico Agraria dei<br />

Georgofili, in 8°, 115 p.<br />

23


L’apicoltura razionale in Toscana<br />

Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

Il passaggio all’apicoltura razionale fu oggetto di interesse del “reciproco insegnamento” ed il<br />

Marchese Cosimo RIDOLFI le dedicò grande attenzione.<br />

A Firenze Adolfo TARGIONI TOZZETTI, tra i promotori e primo presidente della Società<br />

Entomologica Italiana ancor oggi vitale, dette vita nel 1869 al «Bullettino della Società<br />

Entomologica italiana» che fino al 1893 accolse fra le discipline entomologiche anche l’apicoltura a<br />

riprova dell’importanza economica che le si attribuiva.<br />

Vale ricordare anche l’apicoltore mugellano don Giotto ULIVI, pievano prima a Gricignano (Borgo<br />

San Lorenzo) poi a Campi Bisenzio (Firenze), promotore di una sorta di “risorgimento apistico.<br />

Cosimo RIDOLFI<br />

Marchese, politico, patriota, filantropo, agricoltore, botanico, fisico, chimico e, perché no, anche<br />

naturalista, Cosimo RIDOLFI (Firenze 1794 – 1865) con Raffaele LAMBRUSCHINI si impegnò<br />

nell'opera pedagogica svolta a favore della gioventù di campagna. Entrambi crearono nei propri<br />

possedimenti due Istituti per l'educazione dei giovani sul modello delle Scuole di Mutuo<br />

Insegnamento (l'Istituto Agrario di Meleto e San Cerbone).<br />

Dal '40 presiede l'Accademia dei GEORGOFILI e nel '41 il Congresso degli Scienziati Italiani;<br />

insegna agronomia a Pisa nel '49; nel '59 è ministro degli affari esteri del Governo di Toscana e<br />

finalmente nel 1860, senatore, diventa direttore del museo fiorentino di fisica e storia naturale.<br />

Spirito inquieto girò per l'Europa per poi far ritorno alle sue radici:<br />

Son tornato in villa, sono tornato a essere campagnuolo.<br />

Anche il LAMBRUSCHINI, che sapeva di apicoltura, la promosse a San Cerbone:<br />

La pioggia d'agosto giova alle viti e mantiene in fiore le piante d'onde le pecchie cavano il miele<br />

ma il RIDOLFI fece ancora di più promovendo l'apicoltura fra le attività agrarie da coltivare con<br />

attenzione.<br />

Le sue “Lezioni orali di agraria” 88 rappresentarono per il tempo un contributo culturale molto<br />

importante, non a caso ebbero ben tre edizioni (1858, 1862, 1868). Nel testo il RIDOLFI analizza<br />

tutte le possibilità produttive agricole e suggerisce soluzioni talvolta le più semplici, tal’altra molto<br />

innovative. Alle api dedicò la 47^ lezione 89 , “Delle Api, del miele, della cera”, razionalizzando lo<br />

stato dell’arte ed offrendolo in maniera piana e ben comprensibile.<br />

Lorenzo RIDOLFI<br />

Lorenzo, il figlio di Cosimo, continuerà l’opera del padre facendo però un “salto di qualità” 90<br />

ovvero passando a mettere in pratica le indicazioni paterne dedicandosi quasi a tempo pieno<br />

all’apicoltura:<br />

…dividendo i tre piani dell'Arnia Sartori, in modo che si possano tenere uniti un sopra l'altro, o<br />

a piacere separatamente levare, mentre poi colla corrispondente divisione dello sportello, si<br />

possono esplorare, quando sono in sito, le camere rispettive, ha costruito una forma di Arnia, la<br />

quale col suo nome viene descritta e disegnata nelle Effemeridi del Comizio agrario di Firenze,<br />

anno V p. 93.<br />

don Giotto ULIVI<br />

L’opera di proselitismo apistico messa in atto da don Giotto ULIVI di Borgo San Lorenzo, per<br />

quanto fin troppo spesso oggetto di giustificate critiche, sfociò nella pubblicazione di circa un<br />

88 Cosimo RIDOLFI, 1858 - Lezioni orali di agraria pubblicate ad utilità dei Campagnoli per cura dell’Accademia<br />

Empolese. Firenze, Tip. Galileiana di M. Cellini e C., I ed., in 8° (20,5x14), 2 vll., 524, 552, ill.<br />

89 Ivi, v. II, pagg. 438-458, lez. 47^<br />

90 «Bull. Soc. Entom. It.», 1873, Firenze, a. V, pag. 67<br />

24


Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

centinaio di note a stampa, di un manuale edito in italiano in ben 6 edizioni 91 , di cui una tradotta in<br />

francese 92 , e di una sua versione ridotta ad uso divulgativo 93 ; inoltre dette vita ad un periodico 94<br />

che diresse fino alla morte.<br />

Forse però il suo maggior merito sta nella proposizione di un’arnia, appunto l’Arnia poliforme o<br />

Arnia Giotto, fin troppo avveniristica per poter allora essere compresa e che solo dopo oltre 100<br />

anni è stata presentata nel 1982 in Israele come un’invenzione “originale”.<br />

La sua arnia compendiava la semplicità delle più antiche arnie a listelli con la modernità della<br />

modularità e con la semplicità costruttiva, il tutto con la facilità di gestione ed il basso costo dei<br />

materiali. L’intento dell’ULIVI era di offrire anche alle classi meno abbienti la possibilità di<br />

dedicarsi alla produzione del miele seguendo i nuovi principi dell’apicoltura razionale.<br />

Ma l’ULIVI, come anticipato, utilizzò l’apicoltura, è il caso di dirlo, come strumento di lotta<br />

“risorgimentale” sostenendo tecniche di allevamento basate su presupposti antitetici rispetto alla<br />

scuola “milanese” ritenuta troppo dipendente dalla scuola apistica tedesca, ovviamente<br />

diversamente impostata anche per le differenze climatiche. La sua azione ed il suo pensiero si<br />

ritrovano sintetizzati nel titolo di uno dei suoi articoli apistici, quasi un’invettiva contro Andrea de'<br />

RAUSCHENFELS, uno dei principali collaboratori della rivista apistica milanese «l’Apicoltore»,<br />

Ripassin l’Alpi e tornerem fratelli<br />

in cui fonde la promozione di un modello di apicoltura razionale italiano, modello che, liberato dai<br />

retaggi culturali di stampo straniero, propagandò con un certo successo in giro per l’Italia nel<br />

desiderio di contribuire alla formazione di una coscienza nazionale.<br />

Un altro merito dell’ULIVI, e questo per lo più ignoto ma di grande valore culturale, fu quello di<br />

aver coinvolto nel mondo dell’apicoltura don Lorenzo CIULLI, priore di Galciana (PO), umanista di<br />

grande sensibilità che, affascinato dall’ULIVI e dalle api, in molti anni di studio raccolse e tradusse<br />

tutti i principali testi degli scrittori latini sull’apicoltura dando così alle stampe la più completa<br />

summa apistica sull’argomento. 95<br />

All’ULIVI si deve l’interesse per le api anche di un altro personaggio toscano che scese in campo in<br />

contrasto e non certo per emulazione del prete mugellano. Niccolò JOZZELLI da Pistoia, anch’egli<br />

curato e umanista, studiò a lungo le api a cui dedicò la maggior parte delle pagine di un saggio 96 ,<br />

oggi si direbbe di bioetica, rivolto alla “Sconfitta del materialismo.”<br />

Singolare e godibile lo scambio di astiosi e virulenti attacchi, pieni di reciproche offese ed epiche<br />

castronerie apistiche. Ma se per lo JOZZELLI le motivazioni di un simile comportamento sono da<br />

ricercarsi nell’adesione profonda a certe convinzioni, per l’ULIVI rimarrà sempre il dubbio che<br />

talune uscite apisticamente poco credibili possano trovare una ragion d’essere in quel suo anelito<br />

risorgimentale da irriducibile “bastian contrario”. Chissà.<br />

Giuseppe GIUSTI<br />

I proverbi potranno sembrare di importanza minimale, ma non si deve dimenticare che per lungo<br />

tempo hanno rappresentato una delle principali forme di espressione popolare. A questo proposito, a<br />

91 Giotto ULIVI - Compendio teorico pratico di Apicoltura razionale, I ed. 1869, II 1873; III 1879; IV e V 1882; VI<br />

1883<br />

92 traduzione della III ed. in francese dell'abate C. CANSEN nel «Boll. della Soc. apistica dell'Aube», 1880/1881<br />

93 Giotto ULIVI, 1894 - Manualino di apicoltura ad uso dei contadini e delle scuole agrarie. Torino, Casanova, in 16°<br />

(19 cm), 79 p., 18 fig. (opera postuma)<br />

94 «Apicoltura razionale risorta in Italia mediante l'arnia poliforme - Periodico mensile per il maggior sviluppo della<br />

razionale ed economica coltura delle api », annate 1885-1892<br />

95 Lorenzo CIULLI (sac.), 1903 - Le Api dai georgici latini: brani originali e traduzioni. Prato, Tip. successori Vestri, I<br />

ed., in 16° (18 cm), XVII+372 p.<br />

96 Niccolò JOZZELLI (don), 1882 - Sconfitta del materialismo. Esame analitico e sintetico intorno ai rapporti fra la vita<br />

degli animali bruti e la vita dell’uomo. Trent’anni di osservazioni nell’aperta campagna. Pistoia, Tip. del Popolo<br />

pistoiese, II ed., 151+3 p.<br />

25


Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

riprova della familiare presenza nella vita quotidiana delle api e dei loro prodotti, se ne segnala una<br />

scelta dalla “Raccolta dei proverbi toscani” di Giuseppe Giusti la cui prima edizione risale al 1852.<br />

L’ape impegnava poco e dava la soddisfazione al contadino di raccogliere il prodotto finale; ma<br />

bisognava prendere anche le dovute precauzioni per non disperderne neppure una goccia visto che<br />

poi andava venduto per sbarcare il lunario:<br />

Chi pon mèle in vaso nuovo, provi se tiene acqua<br />

Il miele infatti era un aiuto alla scarna economia mezzadrile e non lasciava mai a mani “vuote”<br />

Chi maneggia il mèle si lecca le dita<br />

Chi ha fatto il saggio del mèle non può dimenticare il lecco<br />

né, tanto meno, con l’amaro in bocca<br />

Il mèle si fa leccare, perché è dolce.<br />

Inoltre rappresentava anche una consolazione alle noie, alle grane, alle disgrazie che<br />

quotidianamente accompagnavano una vita grama, piena solo di fame<br />

Non si può avere il mèle senza le mosche<br />

ma è anche vero che<br />

Si pigliano più mosche in una gocciola di mèle che in un barile d'aceto<br />

A conferma del ruolo del “dolce” nella società del tempo è interessante evidenziare come mentre sia<br />

evidente la sua funzione consolatoria:<br />

Una gocciola di mèle concia un mar di fiele<br />

Amore è una pillola inzuccherata.<br />

non trovi posto nell’alimentazione corrente se non quando incide in maniera poco marcata sul<br />

gusto. Infatti l’apprezzamento si basa essenzialmente sulla mancanza di sapidità, tipica appunto<br />

dello zucchero<br />

Zucchero non guastò mai vivanda<br />

Zucchero e acqua rosa, non guastò mai alcuna cosa.<br />

Ma qualora le dosi non siano più “modiche”, il giudizio sul “dolce” si ribalta e diventa negativo<br />

Il troppo zucchero guasta le vivande<br />

Il troppo dolce stomaca.<br />

A proposito di proverbi e modi di dire, curiosa la notazione di Giovanni Maria CECCHI, poeta e<br />

commediografo fiorentino del ‘500, a riprova di come si possa usare metaforicamente il miele per<br />

ribaltare un giudizio non proprio edificante e giungere ad un’attribuzione di ardita “bontà” e grande<br />

socievolezza 97 :<br />

Zugo. Sono i zughi una sorta di frittelle fatte di pasta avvolta in tondo sur un fuscello, e cotte<br />

con l’olio nella padella; e perché molte volte s’immelano di sopra, si dicono zughi melati; e<br />

perché hanno qualche somiglianza col membro maschile, si piglia zugo spesso per quello; onde<br />

quando si dice a uno, tu sei zugo, si vuol dire che sia uno di quelli; e si usa di dire di certi che<br />

son piacevoli e buon compagni, ma piuttosto che no, semplici, egli è il più dolce zugo del<br />

mondo.<br />

1874 Il Congresso Apistico di Firenze<br />

Gli apicoltori toscani organizzarono a Firenze il secondo Congresso degli apicoltori italiani nel<br />

1874 come risposta al primo tenuto a Milano nel 1871 e promosso dalla locale scuola apistica di<br />

stampo “straniero”. Gli iscritti furono 87 di cui ben 59 provenienti da varie parti d’Italia.<br />

L’organizzazione fu a carico del Comitato Apistico di Firenze il cui presidente era il professor<br />

Adolfo TARGIONI TOZZETTI e annoverava 91 soci. Fra i principali nomi dell’aristocrazia merita un<br />

97 Giovanni Maria CECCHI, Dichiarazione di molti proverbi, detti, e parole della nostra lingua fatta da M. Gio. Maria<br />

Cecchi a un forestiero che ne mandò a chiedere l’esplicazione. In : Luigi FIACCHI, 1820 – Dei Proverbi Toscani.<br />

Lezione di Luigi Fiacchi con la dichiarazione de’ proverbi di Gio. Maria Cecchi. Firenze, Piatti, 103 p.<br />

26


Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

cenno il principe Andrea CORSINI, non a caso principale azionista del Comitato, dal momento che<br />

già alla fine del ‘700 la sua famiglia era indicata dal CASTELLI come esempio da seguire per la<br />

conduzione apistica.<br />

Ma ancor più significativa è la presenza di Ferdinando e Antonietta STROZZI appartenenti a quello<br />

stesso casato che più di un secolo prima aveva ottenuto l’Appalto delle Api e che già nella seconda<br />

metà del ‘400 aveva fra gli scaffali della propria Libreria Strozziniana il “Trattatello di Apicoltura.<br />

Trattato volgare della meravigliosa generazione delle pecchie di ANONIMO”.<br />

Quale miglior testimonial del legame delle api con la Toscana se non la famiglia STROZZI con i suoi<br />

400 anni di continuità apistica!<br />

Le api elbane<br />

Fra le tante versioni che riguardano i rapporti fra Napoleone e<br />

l’Elba, uno riguarda l’origine del simbolo che ancor oggi<br />

campeggia nell’emblema dell’isola: una fascia rossa in campo<br />

bianco con tre api dorate.<br />

Sembra che durante il viaggio in mare verso l’esilio, Napoleone<br />

abbia ordinato al sarto di bordo di cucire su un drappo proprio le<br />

api, perché non solo erano un simbolo familiare agli isolani, ma<br />

anche perché era una forma di riconoscimento per la laboriosità<br />

delle tre marinerie elbane.<br />

Studi e contributi sull’apicoltura<br />

L’interesse dei GEORGOFILI per l’apicoltura non si ferma certo al concorso indetto, ma è un tema<br />

che verrà continuamente sviluppato nel tempo e, al 1915, si annoverano 34 contributi a stampa 98 .<br />

Parallelamente a Firenze in particolare, ma la cosa è comune in tutta la Toscana, l’argomento trova<br />

interesse anche al di fuori dell’Accademia e nello stesso periodo si contano innumerevoli<br />

pubblicazioni sulle api.<br />

Il ‘900 e la protezione delle api in Toscana<br />

Le api e la lotta biologica<br />

Oggi si parla comunemente della lotta biologica contro le specie di insetti dannosi alle piante<br />

agrarie, ma pochi ricordano che questa tecnica fitosanitaria rispettosa dell’ambiente è nata a Firenze<br />

agli inizi del ‘900 grazie alla lungimiranza del professor Antonio BERLESE. Ancora meno noto è il<br />

contributo, del tutto involontario, dato dalle api, ma che nasce dal rispetto nutrito nei loro confronti.<br />

Correva l’anno 1906 e con l'avvio dell'intensa campagna antidacica per mezzo di esche avvelenate<br />

(miscela De Cillis a base di arseniati) sembrava di aver finalmente risolto il problema del Dacus, la<br />

mosca delle olive.<br />

BERLESE, allora direttore della Regia Stazione di Entomologia Agraria di Firenze (oggi Istituto<br />

Sperimentale per la Zoologia Agraria), raccolse immediatamente la notizia delle innumerevoli<br />

morie di api per avvelenamento e lanciò l’allarme 99 :<br />

Perché, oltre alla distruzione od almeno alla ingente ecatombe di api, che avverrà senza dubbio<br />

nelle località dove gli olivi saranno trattati col metodo ora ricordato, si affaccia ancora un grave<br />

quesito.<br />

98<br />

Marco Accorti, 2000 – Le api di carta. Bibliografia della letteratura italiana sull’ape e sul miele – Firenze, Olschki<br />

ed., Biblioteca di Bibliografia italiana CLXIII, 283 pp.<br />

99<br />

Antonio BERLESE., 1906 - Notizie sugli esperimenti attuali per combattere la mosca delle olive. Boll. Soc. Agr. it., 5.<br />

pagg. 3-21<br />

27


Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

[...] Queste larghe irrorazioni venefiche interverranno certo come un coefficiente nuovo e per<br />

plaghe molto estese nel complesso dei rapporti fra endofagi e forme ospiti, tra le quali molte<br />

nocive. Non è possibile misurare a priori l'influenza di un fatto così rilevante, ma è certo che<br />

una perturbazione profonda nel vigente equilibrio deve accadere senza dubbio<br />

Le api infatti erano state il campanello che aveva fatto scattare l’attenzione del mondo scientifico e<br />

con la loro morte avevano immediatamente prefigurato quello scenario, la “Primavera silenziosa”,<br />

che noi oggi, ahimè, ben conosciamo.<br />

Immediatamente scese a fianco del BERLESE un altro personaggio toscano, l'avvocato Ippolito<br />

PESTELLINI della Scuola Agraria di Scandicci (FI), anch’egli oggi dimenticato ma benemerito per<br />

l’educazione, per l’agricoltura e per l’apicoltura che curava con particolare interesse non solo<br />

istruendo gli allievi della scuola, ma portando contributi tecnici come la proposta di un nuovo<br />

alveare 100 e continuando a lungo l’attività di promozione apistica 101 .<br />

Per farla breve sulle pagine del «Coltivatore di Ottavi», il principale periodico agricolo del tempo,<br />

si scatenò l’interesse sul problema e PESTELLINI intervenne con autorità 102 . Dal dibattito a più voci<br />

scaturì quello che oggi è chiamato il “monitoraggio ambientale con le api” 103 :<br />

.. pensiamo alle nostre api ed a tanti altri utili insetti la cui distruzione sarebbe un disastro per<br />

l'agricoltura!<br />

Illustri sperimentatori! ponete in vicinanza degli oliveti che trattate delle semplici arnie d'api:<br />

studiate gli effetti della vostra miscela sulle medesime e se la riconoscete innocua allora sta<br />

bene, ma se fosse micidiale fermatevi: se no farete come l'orso della favola il quale per liberare<br />

un dormiente dalla mosca che lo infastidiva gli schiacciò la testa.<br />

I tempi, purtroppo, non erano maturi perché la sensibilità verso l’ecosistema potesse fare fronte alla<br />

innovazioni della chimica nascente e le tecniche di lotta biologica messe a punto da BERLESE fecero<br />

la fine delle api.<br />

Ma se oggi la lotta biologica è in auge e le api, finalmente rispettate, sono considerate a pieno titolo<br />

le “sentinelle dell’ambiente”, be’, tutto questo prese il via quasi cent’anni fa in Toscana grazie ad<br />

una sensibilità che trova le sue origini in una consuetudine che viene da lontano.<br />

Ancora i GEORGOFILI<br />

Un aspetto apparentemente disgiunto dalla produzione di miele, ma predominante per ribadire la<br />

tradizione apistica toscana, riguarda la loro protezione come “bene ambientale”.<br />

Da più parti d’Italia ritorna periodicamente l’accusa alle api di essere dannose alla frutta. Anche<br />

Aristotele ne aveva già sancita l’innocuità, ma certe dicerie sono dure a morire. Siamo ormai nel<br />

‘900 e certe maldicenze non possono più essere tollerate, così si mobilita ancora l’Accademia dei<br />

GEORGOFILI che per ben due volte in questo secolo scende in campo per dimostrare l’inconsistenza<br />

e la falsità di tele addebito.<br />

Una prima volta, nell’adunanza del 11 aprile 1915, l'Accademia dei GEORGOFILI approva la<br />

relazione stilata da una Commissione costituita ad hoc dai principali entomologi dell’epoca,<br />

dimostrando con prove sperimentali che non solo le api non danneggiano la frutta, ma sono<br />

particolarmente utili all’agricoltura e conclude 104 :<br />

VII. Si esprime il voto che nelle eventuali modificazioni alla vigente legislazione agraria, il<br />

principio dell'innocuità delle api, ora implicito, venga espressamente dichiarato; e si fa voti<br />

altresì che lo Stato incoraggi gli apicultori e promuova quanto può lo sviluppo dell'apicultura.<br />

100 Ippolito PESTELLINI, 1906 - Illustrazione dell'arnia Pestellini a soffitto mobile. Firenze, Tip. Benducciana, 9 p.<br />

101 Ippolito PESTELLINI, 1918 - L'Apicoltura nei poderi. Firenze, Ramella, 7 p.<br />

102<br />

Ippolito PESTELLINI, 1907 - La Lotta contro la mosca olearia e la distruzione delle api. «Il Coltivatore di Ottavi»,<br />

Casale Monferrato, a. 53, v. 97, pagg. 337-338<br />

103<br />

J.AUGET, 1907 - Ancora della lotta contro la mosca olearia. «Il Coltivatore di Ottavi», LIII, pagg. 586-590<br />

104<br />

Guelfo CAVANNA, 1915 - Se le api siano oppur no dannose alla produzione delle frutta, Firenze, Ricci per Regia<br />

Accademia Economica Agraria dei Georgofili, in 8°, 22 p.<br />

28


Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

Dopo nemmeno 40 anni il problema riaffiora ancora in Italia e l’Accademia si fa nuovamente carico<br />

di fare chiarezza nel 1953 dando ospitalità, in occasione del suo bicentenario della nascita, al<br />

Convegno nazionale di Apicoltura. Anche in questo caso le prove sperimentali messe in atto<br />

daranno conferma non solo dell’innocuità delle api per l’agricoltura, ma anche della loro incredibile<br />

utilità 105 .<br />

Ancora un’arnia<br />

Alla prima Fiera Esposizione Internazionale di Apicoltura, a Bucarest nel 1965, proprio un toscano,<br />

il fiorentino Giovanni PAOLETTI, presentò l’arnia “AVIE” interamente in poliesterene con<br />

intercapedini di polistirolo espanso: la struttura era modulare ed anche i telaini da assemblare ad<br />

incastro. Un’arnia leggera, indistruttibile, economica con un sistema di aerazione che escludeva i<br />

problemi di umidità. Eravamo in piena “era Moplen” e la cosa destò scalpore, curiosità e interesse.<br />

Tuttavia la proposta non trovò seguito per la diffidenza tipica del mondo apistico verso le novità ed<br />

il brevetto decadde. Oggi, arnie in materiale plastico o almeno parti di esse sono nel catalogo di tutti<br />

i produttori più importanti.<br />

Ancora api e uva!<br />

Questo scendere in campo della Toscana a favore delle api è ormai una tradizione tanto ricorrente<br />

che prima nel 1993 l’ARPAT promuove un incontro coi viticoltori in occasione del “Toscanello<br />

d’oro” a Pontassieve (FI), poi nel 1997 l’Accademia dei GEORGOFILI e le associazioni toscane di<br />

apicoltura (ARPAT e Toscana Miele) tornano ancora in campo organizzando a Monsummano<br />

Terme (PT) una manifestazione per valorizzare l’apicoltura toscana 106 e per difendere ancora le api<br />

da un nuovo rigurgito delle solite accuse 107 .<br />

Montalcino e la “Settimana del miele”<br />

Dalla Toscana dunque, grazie ad una tradizione millenaria di convivenza con le api, vengono<br />

numerose iniziative a difesa ed a promozione dell’apicoltura, non ultima, da Montalcino, la<br />

"Settimana del miele - Mostra mercato nazionale dei prodotti dell'alveare, attrezzature apistiche<br />

apicosmesi”, che si tiene ogni secondo fine settimana di settembre. Non risulta che in Italia altra<br />

mostra sui prodotti apistici abbia altrettanta notorietà e continuità, così che oggi, giunta alla XXVII<br />

edizione, si può considerare il più importante appuntamento italiano del settore riunendo operatori<br />

provenienti da tutto il paese e rappresentando nel contempo la principale e più completa vetrina del<br />

miele toscano.<br />

105 Atti Convegno Nazionale di Apicoltura, 1953 - Prima manifestazione del bicentenario dell'Accademia dei<br />

Georgofili, Firenze 2-3 maggio 1953. - Vallecchi, Firenze, in 8°, 143 p.<br />

106 Lucia e Luciana BIGLIAZZI, 1997, op. cit.<br />

107 Marco ACCORTI, 1997 - Ti odio, sorella ape. Picche, ripicche, accuse, calunnie, assoluzioni: una storia senza<br />

memoria. Monsummano Terme (PT), Comune di Monsummano e Accademia dei Georgofili, in 8° (24 cm), 57 p.<br />

29


Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

Il miele in tavola<br />

Innumerevoli sono in Toscana i cibi nella cui preparazione compare il miele, in particolare fra i<br />

dolci.<br />

Qui se ne ricordano solo alcuni con differente significato storico e culturale come traghettatori della<br />

cultura etrusca attraverso la storia della Toscana: l’Alica divenuta una consuetudine tipicamente<br />

latina, la Puls che manterrà la sua integrità fino al Medioevo, il Miele nucato antichissimo connubio<br />

arrivato fino a noi sotto forme diverse e soprattutto come primigenia matrice degli Sfratti di Sorano,<br />

esempio di contaminazione interculturale, infine il Panforte di Siena, modello di plasticità per la<br />

capacità di esprimere le differenti condizioni socioeconomiche succedutesi nel tempo, passando da<br />

prodotto quasi di scarto fino alla tavola regale<br />

Alica<br />

Sono giunte fino a noi notizie dell’alica presente nell’alimentazione dei latini come farinata,<br />

focaccia e bevanda. Si tratta di una tradizione etrusca confermata dalla stessa origine del nome. Il<br />

termine “al(i)cu” o “al(i)qu” in etrusco indicava il binomio “dono-donatore”, nella fattispecie era<br />

riferito ad un dolce, ovviamente reso tale dal miele, quindi l’alica sembra nascere come oggetto di<br />

omaggio, ritualità e veicolo di prosperità secondo la credenza consolidata che nel miele risiedessero<br />

proprietà miracolistiche 108 .<br />

La base è sempre una miscela di farro - non a caso con alica o halica i latini indicavano proprio la<br />

spelta - e orzo con destinazioni distinte in funzione del tipo di manipolazione. Mentre le farine<br />

vengono impastate con acqua per ottenere la farinata e con vino e miele per dare una focaccia, dai<br />

grani, sottoposti a fermentazione, deriva una bevanda analoga alla birra che veniva poi dolcificata<br />

col miele o, più a buon mercato, col sidro.<br />

Puls<br />

Plinio il Vecchio ci ha lasciato scritto che “Pulte non pane, longo tempore Romani vixerunt” quasi<br />

a ricordare l’origine etrusca dei cibi dei romani. Infatti un alimento base della cucina etrusca e di<br />

sostentamento per la maggior parte della popolazione, era una farinata di fave, chiamata in seguito<br />

“puls fabacia” o “fabata”, così come “puls” era anche una pappa di farina di grano messa a<br />

rinvenire nell’acqua. Ebbene, nonostante la povertà di questo alimento base, il miele è l’ingrediente<br />

che lo nobilita e lo rende appetibile.<br />

La puls, cotta nell’acqua o nel latte, era un corrispettivo dell’odierna polenta e nella cucina popolare<br />

compariva come base alimentare molto più povera come varietà e quantità di ingredienti.<br />

La puls subirà numerose rivisitazioni a seconda della tavola su cui viene presentata e CATONE 109<br />

ce ne offre una ricetta “nobile” (suggerisce anche di arricchire con della semola) che per i ricchi non<br />

rappresentava una base alimentare, bensì serviva ad accompagnare carni molto condite 110 :<br />

Pultem Punicam sic coquito. Libram alicae in aquam indito, facito uti bene madeat.<br />

Id infundito in alveum purum, eo casei recentis P. III, mellis P. S, ovum unum, omnia una<br />

permisceto bene. Ita insipito in aulam novam.<br />

La puls nel Medioevo diventerà quel pulmentum con cui si indicano genericamente zuppe e farinate<br />

(da cui probabilmente l’albionico porridge), ma presenterà ancora il miele, almeno come opzione,<br />

nelle “Fave infrante” e comparirà in una delle ricette del “Libro della cocina” di Anonimo Toscano<br />

del XIV secolo 111 :<br />

108<br />

Riccardo BERTANI., 1988 - Un cibo da dei. Apitalia, 15(1) , pag. 18<br />

109<br />

CATONE, De Agricoltura, 85<br />

110<br />

J.L. Flandrin, M. Montanari (a cura di), Storia dell’alimentazione, Roma-Bari, Laterza, 1997, 738 p.; pag. 167, 170<br />

111<br />

Emilio Faccioli (a cura di), L'arte della cucina in Italia. Libri di ricette e trattati sulla civiltà della tavola dal XIV al<br />

XIX secolo. Torino : Einaudi, 1987, 878 p.<br />

30


Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

Togli le fave, bene infrante, mundate e sciolte e nette, e falle bullire uno bullore; e, gittatane via<br />

l’acqua, lavale molto bene, e mettile in uno altro vaso con poca acqua e sale, che siano<br />

solamente coperte con l’acqua, e volgile speso con la mescola: e, cotte che le siranno spesse,<br />

amaccale con la mescola fortemente. Poi le distempera con uno poco d’acqua aggiunta, e fa’<br />

scudelle, e metti mele, ovvero oglio fritto con cipolle, ovvero lardo fritto.<br />

Miele nucato<br />

Miele e frutta secca (noci, mandorle e nocciole) sono comuni nell’alimentazione degli antichi ed il<br />

loro connubio è arrivato fino a noi in varie formulazioni.<br />

Sempre nel “Libro della cocina” si trova il Miele nucato o Del miele bullito con le noci:<br />

Togli mele bullito e schiumato, con le noci un poco peste e spezie, cotte insieme: bàgnati la<br />

palma de la mano coll’acqua et estendilo: lassa freddare e da’ a mangiare. E poi ponere<br />

amandole e avellane in luogo di noci.<br />

Oggi il Miele nucato si è perso tal quale; rimangono però a testimoniare un’origine comune i vari<br />

tipi di croccante (nocciolato e mandorlato) in cui il miele è stato sostituito dalla zucchero e le<br />

confezioni di vari tipi di frutta secca affogata nel miele di acacia.<br />

Sfratti di Sorano<br />

Sono “bastoni” di pasta con un ripieno a base di miele e gherigli di noci in pari quantità. Non è<br />

chiaro se sia un dolce di origine etrusca rivisitato dagli ebrei giunti in Maremma, oppure un dolce<br />

ebraico contaminato dalla cucina etrusca.<br />

In origine, per la festività ebraica del Rosh ha-shanah che cade circa a metà settembre ed è il<br />

corrispettivo del Capodanno, gli ebrei si scambiavano fette di mela ricoperte di miele come dolce<br />

augurio per l’anno che ha inizio 112 col significato di fecondità, moltiplicazione dei meriti e<br />

dolcezza. Nella Tuscia (Pitigliano, Savana, Sorano) sono invece una tradizione natalizia e, a<br />

secondo di chi li rivendica, mutuano il nome da differenti derivazioni pur convergendo sempre sul<br />

significato di sfrattare ovvero scacciare.<br />

Essendo infatti modellati a forma di bastone, per gli ebrei, almeno secondo una vulgata locale,<br />

avrebbero perso l’originario significato augurale simbolizzando la verga con cui sarebbero stati<br />

percossi qualora avessero perso la fiducia della comunità in cui vivevano.<br />

Per i maremmani abbiamo invece due diverse interpretazioni. Una, analoga a quella ebraica e come<br />

quella più di significato apotropaico che realmente descrittiva di una realtà diffusa, indicherebbe le<br />

bastonate con cui i proprietari scacciavano i contadini morosi dai loro possessi;l’altra invece<br />

riconduce il nome a “fratta”, cioè macchia intricata, da cui andava “sfrattato” a bastonate il<br />

bestiame. Quest’ultima interpretazione ben si concilia con l’appoderamento maremmano dove la<br />

“siepe viva” a rovo, marruca, spino bianco, pungitopo, ginepro e frammista ad altri arbusti e ad<br />

alberi «sì boschivi che fruttiferi», in passato era talvolta rafforzata dalla “siepe secca”, formando<br />

così una barriera impenetrabile a difesa del “domestico”, ovvero del terreno rimesso a coltura dopo<br />

il riposo, per impedire il pascolo degli animali liberi 113 .<br />

Panforte<br />

L’antenato del panforte era una semplicissima focaccia a base di farine e di frutta dolce perché<br />

normalmente guasta o troppo matura. Era un modo per conservare, nobilitare ed utilizzare<br />

piacevolmente prodotti di scarto ed era detto “forte”, perché col passare dei giorni inacidiva ovvero<br />

prendeva un gusto “forte”. In seguito con l’aggiunta di spezie, con la canditura della frutta per<br />

mezzo del miele e l’aggiunta di altra frutta secca è stato diversamente interpretato attraverso<br />

varianti locali. Dal “pan melato” e dal “melatello” (panes melatos) attraverso il “panpepato” (panes<br />

pepatos) si è giunti alla più nota attuale versione, dove ormai lo zucchero ha spodestato il miele,<br />

112 Glazer PHYLLIS, 1995 - Mense e cibi ai tempi della Bibbia. Ed. Piemme, Casale Monferrato, 272 p.<br />

113 Carlo Pazzagli, 1973 – L’Agricoltura toscana nella prima metà dell’800. Olshki, Firenze, 572 p.; pagg. 34-35<br />

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Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

ovvero al panforte di Siena e in particolare al panforte Margherita, dedicato alla regina Margherita<br />

di Savoia allorché nel 1879 si recò a Siena per assistere al Palio.<br />

L’apicidio e la pena di morte<br />

Nel cercare di ricostruire i rapporti fra la Toscana e le api è venuto alla luce un aspetto controverso,<br />

quasi un “giallo” misteriosamente tramandato fino ad oggi senza uno minimo di riscontro: in<br />

Toscana sembra sia stato emesso il primo bando italiano contro l’apicidio. Addirittura ci sono anche<br />

un nome e una data:<br />

G. GASTONE DE’ MEDICI proibì l’apicidio con una grida nel 1725.<br />

Chi lo svela è il boss per antonomasia dell’apicoltura italiana, Antonio ZAPPI RECORDATI 114 . Non<br />

meraviglierebbe certo il fatto che GIAN GASTONE avesse avuto una simile iniziativa. Del resto<br />

sarebbe anche ora che la sua sensibilità, il suo amore per la vita e per la natura, il suo<br />

anticlericalismo, i suoi tormenti omosessuali gli venissero finalmente riconosciuti come pregi e non<br />

come laidi difetti. Non dimentichiamo poi che nel 1737 aveva avuto addirittura il coraggio civile di<br />

“sdoganare” la salma di GALILEO dandole finalmente un degno spazio in Santa Croce.<br />

Dunque ben venga GIAN GASTONE, ma non si può ignorare che lo ZAPPI è però anche noto, ebbene<br />

sì, per l’approssimazione con cui era solito maneggiare i dati bibliografici; per cui è stato necessario<br />

sottoporre a verifica questa sua affermazione.<br />

E così, andando a spulciare la “Legislazione Toscana” del CANTINI 115 , 32 volumi contenenti leggi e<br />

decreti emessi dal 1532 al 1775, si scopre che del bando non c’è traccia. Certo è pur vero che anche<br />

il CANTINI non brillò per rigore e del resto i dispositivi legislativi granducali sono talmente<br />

numerosi che qualche cosa può essergli sfuggita.<br />

Lo ZAPPI ha partorito un nuovo fantasma bibliografico? Mah. Era una persona troppo concreta, si<br />

direbbe talmente priva di fantasia, da poter pensare che si sia inventato di sana pianta una favoletta<br />

del genere. E da questa (s)fiducia condizionata ha preso avvio un’indagine a ritroso che ha portato<br />

ad una prima possibile fonte da cui può aver attinto la notizia secondo la quale:<br />

… nel secolo passato il governo di Giangastone de’ Medici vietava l’apicidio 116 .<br />

Non c’è il riferimento ad una data, ma solo la conferma del fatto. Evidentemente anche il<br />

CHIAPPETTI si rifaceva ad altre fonti. Spulciando ancora ecco che l’HARASTI dà nuova conferma del<br />

fatto ma questa volta né dell’autore né dell’anno 117 :<br />

perché ne’ tempi andati, l’educazioni delle Api nella Toscana, era senza dubbio di maggior<br />

impegno di quello che sia presentemente. Ciò vien dimostrato dalle sagge precauzioni prese a<br />

tal uopo dal Gran-Duca di Toscana, il quale al riferire del Sig. Reaumur, sotto pena di severo<br />

gastigo proibì l’insensata, e barbara pratica di bruciare le Api per qualunque motivo.<br />

in compenso offre un prezioso riferimento bibliografico 118 che tuttavia, una volta consultato,<br />

riserva la sorpresa di un ulteriore balzo all’indietro 119 :<br />

114 Antonio ZAPPI RECORDATI, Amedeo VENTURELLI, 1935 - Storia dell’apicoltura italiana. In: I Inchiesta apistica<br />

nazionale. S.A.I. C.N.F.A., Trento, Scotoni, in 8° (24 cm), cap. I, pagg. 1-19; pag. 4<br />

115 Lorenza CANTINI, op. cit.<br />

116 Alessandro CHIAPPETTI, L’apicoltura presso gli antichi greci e romani. «Le api e i fiori», pag. 117, da «Nuova<br />

Antologia», Roma, Barbera, v. XXII (15 settembre 1880), pagg. 293-316<br />

117 Gaetano HARASTI (padre), 1785, op. cit.<br />

118 Rene-Antoine Ferchault de REAUMUR, 1740 - Suite de l'histoire des mouches a deux ailes, & l'histoire de plusieurs<br />

mouches a quatre ailes, scavoir, des mouches a scies, des cigales, & des abeilles. A Paris : de l'Imprimerie royale,<br />

[4], XLIV, v. 5, 728 p., 38 c. di tav. : ill. In : Memoires pour servir a l'histoire des insectes. Par M. de Reaumur ...<br />

tome 1 [-6]. A Paris : de l'Imprimerie royale, 1734-1742, 6 v. : ill. ; 4 o ; tomo V, pag. 666<br />

119 Alexandre de MONTFORT, 1649 - Les printemps de la mouche à miel où on joint la description curieuse véritable et<br />

nouvelle de la conduite admirabile et naturelle de l’abeille faite de la seule main de l’experience. Anverse<br />

32


Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

Alexandre de Montfort dans son Printemps des abeilles, dont nous avons déjà parlé, cite une loi<br />

faite par un Grand-Duc de Toscane, qui défend de faire ainsi mourir les abeilles, sous peine du<br />

punition arbitraric.<br />

E’ evidente che in un libro del 1649, ahimé finora introvabile, non ci può essere traccia di un<br />

avvenimento del 1725 né, tanto meno, di GIAN GASTONE che deve ancora nascere. Dunque lo ZAPPI<br />

ci ha raccontato una balla? Non del tutto. Infatti Giuseppe FALCHINI nel 1747 120 così ci fa sapere:<br />

Ricordando finalmente a chiunque terrà le Api di averne diligente cura, sì per benefizio proprio,<br />

sì pure del Pubblico; astenendosi sopra tutto dal disperderle, o ammazzarle, per non incorrere<br />

nelle pene, che contro chiunque attentasse, sono prescritte dalla Legge.<br />

Dunque una legge esiste. Ma qual’è? Purtroppo FALCHINI non ce lo dice, tuttavia lui non è uno<br />

qualunque, un incompetente o uno che parla per sentito dire. No, come abbiamo avuto modo di<br />

vedere, lui è Visitatore Generale di campagna per l’appalto delle api in Toscana, e dunque, sempre<br />

che non abbia voluto prendere in giro Bernardo STROZZI, Appaltatore Generale delle Api in<br />

Toscana, merita la nostra fiducia se non altro per aver mandato a stampa in un bando granducale<br />

affermazioni facilmente verificabili dai suoi contemporanei.<br />

Tutto questo fa pensare che almeno fin dalla metà del ‘600 in Toscana si sia cercato di mettere un<br />

freno all’apicidio. In quel periodo, fra il 1620 ed il 1670, fu Granduca FERDINANDO II, pessimo<br />

amministratore, succube del diffuso clericalismo e dell’Inquisizione, ma intellettuale colto e<br />

raffinato, sensibile alle scienze e alle arti. Se fu un convinto - ma pavido - difensore di GALILEO,<br />

niente vieta di pensare che possa aver difeso con maggior successo la vita delle api. Tuttavia,<br />

almeno per ora, non si è trovata traccia di un suo specifico bando contro l’apicidio.<br />

Poterlo comprovare avrebbe un significato simbolico di grande importanza in quanto non solo<br />

rappresenterebbe una forma di riguardo nei confronti delle api, e quindi un’ulteriore conferma del<br />

loro stretto legame con la Toscana, ma avrebbe ancor più significato come atto di rispetto per la vita<br />

stessa: un’anticipazione all’abolizione della pena di morte per gli uomini sancita in Toscana il 30<br />

novembre 1786 con l’approvazione della Riforma Penale da parte del granduca PIETRO LEOPOLDO<br />

di LORENA.<br />

Ancora una volta le api avrebbero aperto una strada di civiltà. E la Toscana, primo Stato al mondo,<br />

l’avrebbe percorsa.<br />

Un filo rosso<br />

Ma per tirare le fila di questo viaggio nell’apicoltura toscana merita tornare a raffrontare i due testi<br />

citati fin dall’inizio di questa disamina, il Trattatello di Apicoltura di ANONIMO e il Catechismo<br />

dell’HARASTI, perché c’è una ricorrenza che merita rimarcare<br />

Alchuni fanno questi bugni di scorza di suneri; questi sono buoni perché molto chonservano dal<br />

chaldo e dal freddo …” [Anonimo]<br />

Ricorderò solo, che molti con poca avvedutezza … sovente le fabbricano con scorze di Sughera<br />

[Harasti]<br />

E’ interessante sottolineare la continuità d’uso anche di questo tipo di arnie, infatti secondo la<br />

"Prima inchiesta apistica nazionale" 121 le arnie in scorza di sughero ancora negli anni '30<br />

(l’inchiesta fu svolta fra il 1936 ed il 1937) erano le più comuni:<br />

"… specie in provincia di Livorno e di Pisa, ove appunto essendo l'apicoltura villica di gran<br />

lunga più diffusa di quella razionale specie nella zona meridionale, le "arnie sugherine"<br />

rappresentano tuttora una forte maggioranza. Nei boschi di queste località si trovano apiari<br />

villici in sughero che spesso superano le 50 colonie."<br />

120 Giuseppe FALCHINI, 1747, op. cit.<br />

121 Vincenzo LANCINI, Giuseppe ADAMI, Giovanni DI BENE, Pietro Armando VAGLIASINDI, 1935 - Apicoltura villica<br />

Apicoltura razionale, In: I Inchiesta apistica nazionale, S.A.I. C.N.F.A., Trento, Scotoni, in 8° (24 cm), cap. II e III,<br />

pagg. 21-67; cap. II, pag. 36<br />

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Marco ACCORTI - Il “Miele toscano”: cenni storici<br />

Sembra dunque ragionevole ritenere che l’arnia in sughero possa rappresentare quel legame quasi<br />

trimillennario, quel filo rosso che ha permesso all’apicoltura di svilupparsi nell’ambito del<br />

“paesaggio toscano”, mirabile sintesi di clima, ambiente e cultura.<br />

Se infatti a sud ed a nord della Toscana ritroviamo tracce di arnie tipiche e di differente foggia, ciò è<br />

essenzialmente dovuto a fattori climatici limitativi per lo svernamento o per l’estivazione delle api.<br />

Da ciò era nata la necessità di sviluppare ricoveri idonei a riparare le api dagli eccessi del freddo<br />

invernale o del caldo estivo. Da qui la tradizione delle “case delle api” in legno o in pietra ed i<br />

diversi tipi di arnie adottate alle varie latitudini del nostro paese.<br />

In Toscana invece non si ritrova alcun tipo di manufatto specifico. Ma ciò non è indice di mancanza<br />

di tradizione apistica, bensì è conseguenza di un ambiente tanto clemente da non indurre lo sviluppo<br />

di particolari tecniche per il mantenimento delle api e per la loro protezione nelle varie stagioni.<br />

Questa situazione bioclimatica favorevole ha fatto sì che in Toscana l’apicoltura sia stata<br />

considerata per lungo tempo talmente “naturale” da essere assimilabile alle comuni pratiche di<br />

“raccolta” di un prodotto “spontaneo”.<br />

Il miele toscano è dunque il prodotto naturale del “paesaggio” e la mancanza di particolari tecniche<br />

di allevamento delle api si può far risalire a ciò che DIODORO SICULO individua come causa della<br />

decadenza del popolo etrusco ovvero la munificenza dell’ambiente:<br />

“Ma ciò che ha concorso di più a spingerli alla rilassatezza fu la qualità del loro territorio, in<br />

quanto, abitando in un paese che è di una fertilità illimitata per ogni genere di produzione,<br />

possono mettere da parte frutti abbondanti di tutte le specie”.<br />

Catullo con “obesus Etruscus”, Virgilio con “pinguis… Tyrrhenus” e DIODORO SICULO vedono la<br />

“rilassatezza” dei nostri antenati con gli occhi dei vincitori: come una carenza, un limite, una<br />

debolezza. Non possono certo concedere ai nostri lontani antenati che quel senso di grande civiltà e<br />

di rispetto siano stati il dono più grande che un ambiente così ospitale potesse offrire.<br />

È vero che questa sensibilità non ha potuto fare nulla contro la rozzezza dei “vincitori”, ma a noi è<br />

arrivata come senso del bello e di amore per la nostra terra; una sensibilità che attraverso i secoli si<br />

è perpetuata attraverso il lavoro e la cura della terra fino a consegnare oggi a noi proprio questo<br />

“paesaggio” ancora così ricco di sfumature.<br />

È sicuramente vero 122 che la nostra<br />

unità regionale .... non risulta dalle componenti naturali<br />

ma è anche vero che un ambiente così clemente, così vario e munifico ha senz’altro influenzato, si<br />

direbbe addomesticato, i popoli che vi hanno abitato dando vita a quell’armonia che oggi è il<br />

“paesaggio toscano”, esempio di come l’uomo e la natura possono plasmarsi armonicamente a<br />

vicenda.<br />

Non è quindi un caso che a distanza di 3000 anni la Toscana sia la regione italiana che ha<br />

conservato la maggior superficie boschiva, come non è un caso che la Toscana sia la regione più<br />

ricca di beni artistici e quella che produce il maggior numero di varietà di miele.<br />

Il miele infatti è il frutto della sintesi collaborativa fra tutte le forme di vita, animali e vegetali,<br />

l’ambiente fisico ed il clima: è per questo che il miele toscano rappresenta una continuità culturale<br />

e colturale millenaria.<br />

Ecco perché in ogni barattolo del nostro miele c’è la storia della nostra terra e delle generazioni che<br />

ci hanno preceduto.<br />

il Miele Toscano è il prodotto del nostro paesaggio<br />

122 Berardo CORI., Paolo Roberto FEDERICI., 1991, op. cit.<br />

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